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Il presente volume eÁ stato pubblicato

grazie all'erogazione di un contributo


della Fondazione Europa Occupazione: Impresa e SolidarietaÁ,
istituita dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Roma

ISBN 88 222 5236 5


Alla memoria di mio padre
A mia madre
PREMESSA

Questo libro delinea il tentativo, messo in atto dalle Congregazioni del-


l'Inquisizione e dell'Indice nel corso del XVI secolo e dei primi decenni del
secolo successivo, di depurare alcuni testi devozionali in volgare italiano da
elementi eterodossi e da incrostazioni superstiziose, imponendo una rigida
uniformitaÁ nelle pratiche liturgiche e devozionali. In particolar modo, la ri-
cerca prende in esame una serie di opere di argomento religioso, non ne-
cessariamente di carattere teologico o liturgico, indirizzate all'accrescimen-
to e al mantenimento della devozione del fedele, laico o ecclesiastico che
fosse; 1 trattati o anche semplici operette devozionali su cui gli organi eccle-
siastici preposti al controllo dell'ortodossia romana esercitarono la loro
azione, impedendone la circolazione o intervenendo chirurgicamente per
eliminarne le parti a loro avviso piuÁ dannose. Il tema dell'orazione, scelto
come filo conduttore del lavoro, consente di seguire coerentemente l'evo-
luzione dei contenuti e delle forme assunte nel corso dei decenni da questa
letteratura spirituale o di pietaÁ, cosõÁ come offre la possibilitaÁ di analizzare
parallelamente l'evoluzione delle strategie censorie ecclesiastiche nei con-
fronti di questo importante settore della produzione libraria dell'epoca.
Il tentativo romano di imporre una rigida uniformitaÁ nelle pratiche li-
turgiche e devozionali dei fedeli prende avvio dalla diffusione delle dottrine
protestanti nella penisola italiana e dalla conseguente condanna nell'indice
del 1559 di diversi testi dedicati alla preghiera. In questi scritti gli estensori
dell'indice paolino trovarono o credettero di trovare chiare tracce di etero-

1 Oltre al classico G. DE LUCA , Introduzione alla storia della pieta


Á, Roma, Edizioni di Storia
e Letteratura, 1962, vedi il recente saggio di E. BARBIERI, Tradition and change in the spiritual
literature of the Cinquecento, in Church, Censorship and Culture in early modern Italy, ed. by
G. Fragnito, Cambridge, Cambridge University Press, 2001, pp. 111-133, pubblicato in una ver-
sione piuÁ ampia anche in ID. - D. ZARDIN, Libri, biblioteche e cultura nell'Italia del Cinque e Sei-
cento, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pp. 3-61. Per una introduzione generale al tema resta fon-
damentale U. ROZZO, Linee per una storia dell'editoria religiosa in Italia (1465-1600), Udine, Fo-
rum, 1993, e ora, Il libro religioso, a cura dello stesso Rozzo e di Rudj Gorian, Milano, S. Bon-
nard, 2002.

Ð VII Ð
PREMESSA

dossia, assimilando talvolta arbitrariamente al messaggio dei Riformatori


istanze di una religiositaÁ interiore e spirituale che affondava le proprie ra-
dici in una ricca tradizione medievale, ancora viva nel tardo '400 e nei pri-
mi decenni del '500. La battaglia intrapresa contro il pericolo protestante
sarebbe proseguita, seppur con urgenza meno pressante, anche nei decenni
seguenti, coinvolgendo ambiti dottrinali relativamente distanti. Trattati mi-
stici dedicati al tema della preghiera sarebbero stati sottoposti a censura,
ovvero a significativa autocensura, spesso in ragione di una forzata assimi-
lazione, da parte dei difensori dell'ortodossia romana, del tema della misti-
ca spropriazione della volontaÁ umana (e conseguente abbandono totale alla
volontaÁ divina) alla dottrina luterana del servo arbitrio.
Solo dopo aver posto, con l'indice del 1559, un primo solido argine alle
infiltrazioni luterane le autoritaÁ ecclesiastiche si impegnarono in un'opera
di purificazione della preghiera e della liturgia dalle incrostazioni supersti-
ziose e apocrife che si erano sedimentate nel corso dei secoli. Questa ope-
razione traeva linfa vitale dalle istanze riformatrici ancora presenti in seno
alla Curia romana, ma certamente doveva molto alle incalzanti critiche dei
protestanti sull'esterioritaÁ delle pratiche religiose cattoliche. In altre parole
essa rispondeva sia ad un piuÁ vasto progetto di riforma interna della Chiesa
e di restauro filologico della tradizione ecclesiastica che alla necessitaÁ di
sottrarre argomenti alla polemica protestante.
In effetti, il progetto di ridefinizione e purificazione del patrimonio or-
todosso ed il recupero, ad esso correlato, di una dimensione interiore ed
intimistica della religione, che la contrapposizione frontale della prima me-
taÁ del secolo aveva unilateralmente ascritto al nemico protestante, era de-
stinato ad affievolirsi insieme con il tramonto di quella generazione di ec-
clesiastici che lo aveva promosso e soprattutto insieme con la graduale
estinzione del pericolo protestante.
Obiettivo primario dell'azione ecclesiastica divenne ben presto quello
della conquista e del controllo sociale e religioso delle masse di fedeli incol-
ti. La preoccupazione censoria nei confronti delle piuÁ diverse espressioni
culturali e religiose dell'universo dei «senza lettere» crebbe negli ultimi
due decenni del '500 in maniera inversamente proporzionale all'attenzione
dedicata dagli organi repressivi romani a quel filone devozionale dell'ora-
zione mistica che, volto a condurre «monache e gentildonne» fino alle so-
glie dell'impeccabilitaÁ, si contraddistingueva per il suo carattere fisiologica-
mente elitario.
Il controllo della religiositaÁ dei «semplici» divenne la prioritaÁ strategica
della Chiesa della Controriforma e la lotta all'utilizzo della lingua volgare
divenne il simbolo e lo strumento di quella prioritaÁ. In nome di un'offen-

Ð VIII Ð
PREMESSA

siva volta ad imporre la mediazione ecclesiastica come unico canale di pro-


duzione e fruizione culturale molti testi che negli ultimi decenni avevano
alimentato la devozione dei «semplici», introducendoli ad una religiositaÁ
interiore ed intimistica, vennero tolti dalla circolazione. In questo contesto
la lotta alla superstizione perse molto del suo significato e della sua effica-
cia. La necessitaÁ di coinvolgere emotivamente i fedeli, la volontaÁ di far pre-
sa sulla massa di devoti, unitamente alla diffusa sensazione di aver defini-
tivamente allontanato lo spettro dell'eresia dalla penisola italiana, fecero sõÁ
che quegli elementi superstiziosi che erano stati bersaglio di un progetto di
purificazione del patrimonio ortodosso, divennero utili strumenti di con-
trollo in mano alle gerarchie ecclesiastiche. Quell'armamentario devoziona-
le che fino ai primissimi anni del Seicento era stato oggetto di un'azione
censoria dotata di prospettiva storica e scrupolo filologico venne strumen-
talmente utilizzato per suscitare la fantasia e l'emotivitaÁ dei devoti nell'am-
bito di un disegno culturale che rinunciava definitivamente a promuovere il
senso di responsabilitaÁ individuale del fedele e la sua capacitaÁ di discerni-
mento. Rispetto alle lucide e combattive dichiarazioni di guerra contro ogni
commistione tra sacro e profano lanciate dai banchi tridentini si trattava di
un radicale capovolgimento d'intenti.
In assenza di una rigida regolamentazione e di un'azione di conteni-
mento delle forme superstiziose, l'ambizioso progetto di uniformazione li-
turgica e devozionale finõÁ col rivelarsi velleitario. Ai non pochi ostacoli le-
gati alla difficoltaÁ di funzionamento della macchina repressiva e alle resi-
stenze localistiche si aggiungeva l'atteggiamento ambiguo delle gerarchie
ecclesiastiche che formalmente mantenevano in vigore rigide norme proi-
bitive e prescrittive mentre di fatto smentivano e violavano quelle stesse
norme piegandole alle superiori esigenze del loro progetto di conquista
delle masse. Il decreto del 1601 sulle litanie e le orazioni ± pur inizialmen-
te concepito in un'ottica parzialmente diversa ± divenne presto, oltre che
il simbolo del fallimento di quel progetto di uniformazione, anche il sim-
bolo di una sempre piuÁ definita strategia ecclesiastica: esso prevedeva, in-
fatti, un doppio registro normativo che regolamentava la recita delle lita-
nie in pubblico ma lasciava ampi spazi privati a usi liturgici e devozionali
non «ufficiali». Queste concessioni non facevano che riflettere l'allenta-
mento della tensione censoria nei confronti delle `superstizioni', sancendo
formalmente l'avvenuto scollamento tra norma e prassi. Si trattava di una
deliberata rinuncia, da parte delle autoritaÁ romane, a colmare uno iato
sempre piuÁ evidente tra dottrina e pratiche religiose. Una rinuncia, e
ad un tempo una strategia, nella quale sembra di sentire il lontano pro-
fumo di quella profonda divaricazione tra religione ufficiale e coscienze

Ð IX Ð
PREMESSA

dei fedeli che oggi caratterizza in modo evidente il rapporto tra Chiesa e
laicato.2
Il punto di vista scelto per la conduzione di questa ricerca eÁ quello del-
l'attivitaÁ interna ai dicasteri romani. L'analisi dunque verte principalmente
sulle direttive e sulle politiche censorie elaborate all'interno delle due con-
gregazioni, sugli orientamenti censori delle autoritaÁ romane e sui presuppo-
sti ideologici che li sottendevano. La lettura della corrispondenza epistolare
tra uffici locali e congregazioni centrali ovvero l'analisi dei documenti cen-
sori che dalla periferia giungevano sui tavoli dei cardinali romani ha con-
sentito, poi, in alcuni casi, di analizzare le modalitaÁ di ricezione in sede lo-
cale di quelle direttive centrali offrendo, per quanto possibile, completezza
al quadro tracciato. L'evidente e consapevole sottovalutazione del ruolo dei
vescovi trova la sua parziale giustificazione, oltre che nel taglio dato alla ri-
cerca ovvero nella scelta delle fonti, anche nella condivisione del giudizio
secondo cui «non fu ai vescovi tridentini che appartenne il compito di gui-
dare il popolo sulle vie lecite e di insegnar loro quali fossero quelle illecite.
La pedagogia negativa della religione fu messa nelle mani dell'Inquisizione,
alla quale spettoÁ decidere cosa fosse corretto e cosa sospetto o decisamente
ereticale nella vita sociale e nei pensieri delle persone; quali libri si potes-
sero leggere; con chi si potesse avere rapporti [...]; quali devozioni fossero
lecite e quali no».3

Una prima stesura di questo lavoro eÁ stata discussa come tesi di dottorato in
Storia della formazione dell'Europa moderna presso l'UniversitaÁ ``La Sapienza'' di
Roma sotto la direzione di Paolo Simoncelli. A lui, che segue i miei studi sin dai
primi anni di universitaÁ, devo un ringraziamento particolare per gli stimoli e le in-
dicazioni che mi ha sempre fornito e per la fiducia che mi ha accordato anche in
momenti non facili della ricerca. A Gigliola Fragnito devo molto, non solo percheÂ
questa ricerca si inserisce nel filone di studi da lei tracciato, ma anche perche ha
seguito con generositaÁ e disponibilitaÁ tutte le fasi di questo lavoro, migliorandolo

2 L'espressione piu Á efficace al proposito mi sembra quella utilizzata dal filosofo cattolico Pie-
tro Prini che ha parlato di uno «scisma sommerso» (Lo scisma sommerso. Il messaggio cristiano, la so-
cietaÁ moderna e la Chiesa cattolica, Milano, Garzanti, 1999).
3 A. PROSPERI , Il Concilio di Trento: una introduzione storica, Torino, Einaudi, 2001, p. 152

(corsivo mio). Ma cfr. anche ID., Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, To-
rino, Einaudi, 1996, pp. 370-371. Una consistente raccolta di documenti sinodali intorno al tema
della superstizione eÁ quella curata da C. CORRAIN e P. ZAMPINI, Documenti etnografici e folklori-
stici nei sinodi diocesani italiani, Bologna, Forni editore, 1970; tuttavia, come avverte lo stesso
Prosperi (ivi, p. 370, nota 6), occorre tenere presente che si dovette trattare di inviti e non di
ordini tassativi.

Ð X Ð
PREMESSA

con i suoi suggerimenti e le sue osservazioni critiche. Ringrazio Mario Rosa per
aver letto con grande attenzione il dattiloscritto e per aver accolto il presente la-
voro in questa prestigiosa collana. Un ringraziamento devo anche a Franco Bolgia-
ni che per primo ha considerato benevolmente questo testo in vista della sua pub-
blicazione. Elena Bonora ha contribuito a migliorare il testo con osservazioni sem-
pre utili e pertinenti. Agostino Borromeo mi ha dimostrato un'amicizia e una stima
del tutto particolari, contribuendo in modo decisivo alla pubblicazione del volu-
me. Alberto Aubert ha costantemente incoraggiato i miei studi con manifestazioni
di stima e affetto difficili da dimenticare. Infine, mi piace ringraziare mons. Ale-
jandro Cifres, direttore dell'Archivio della Congregazione per la dottrina della fe-
de, Giovanni Recchia, Fabrizio De Sibi e Massimo Giusti che con la loro collabo-
razione e la loro disponibilitaÁ hanno reso piuÁ facili le mie ricerche d'archivio.

G. C.

Le ricerche esposte in questo volume sono state effettuate con un contributo


ministeriale sui fondi MURST (40%) per la ricerca nell'ambito del progetto
``Chiesa e intolleranza nell'etaÁ moderna''.

Ð XI Ð
CAPITOLO PRIMO

DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO


E CENSURA ECCLESIASTICA
NELLA PRIMA METAÁ DEL XVI SECOLO

1. IL «PATER NOSTER» DA SAVONAROLA A SERIPANDO

Nel 1513, nel Libellus ad Leonem X, Pietro (Vincenzo) Querini e Paolo


(Tommaso) Giustiniani ponevano ± per la prima volta in maniera chiara e
puntuale ± il problema del rapporto tra religio e superstitio al centro di un
articolato progetto di riforma dei costumi della Chiesa.1 Dopo avere luci-
damente inquadrato il concetto di superstizione 2 e dopo essersi soffermati
a lungo sugli usi impropri delle cerimonie cristiane che finivano per svalu-
tare il loro originario significato, i due eremiti camaldolesi ricavavano dalla
loro accurata diagnosi due ordini di «terapie».
Da un lato, una volta appurato che l'utilizzo delle pratiche magiche e
divinatorie di origine pagana era alimentato dall'«ignoranza delle lingue»,
l'unico rimedio possibile risultava quello di tradurre in volgare almeno le
parti della Bibbia che venivano lette in chiesa durante la liturgia: 3 solo
in questo modo il coinvolgimento dei fedeli nelle cerimonie religiose sareb-

1 J.B. MITTARELLI e A. COSTADONI , Annales Camaldulenses Ordinis Sancti Benedicti quibus

plura interseruntur tum ceteras Italico-monasticas res, tum historiam ecclesiasticam remque diploma-
ticam illus, Venetiis, Pasquali Giambattista, 1755-1773, tomo IX, Venetiis 1773, ff. 612-719. Di
recente eÁ stata approntata una traduzione italiana: Lettera al Papa. Paolo Giustiniani e Pietro Qui-
rini a Leone X, a cura di G. Bianchini, presentazione di F. Cardini, Modena, Artioli, 1995.
2 La definizione offerta, come vedremo, avrebbe mantenuto una sorprendente attualita Á
lungo tutto il corso del secolo, e anche oltre: «Quicquid aliud, quam quod secundum naturam
suam sanitatem inducere valeat, tenetur id superstitiosum, et proinde impium ac criminosum
esse», Ivi, ff. 685-86; («Qualunque espediente in quanto presuma di procurare la salute per virtuÁ
della sua propria natura, tale cosa eÁ ritenuta superstizione e quindi eÁ malvagia e delittuosa», Let-
tera al Papa, cit., p. 109).
3 Annales Camaldulenses, cit., f. 683.

Ð 1 Ð
CAPITOLO PRIMO

be potuto passare per un ruolo attivo di partecipazione e comprensione dei


misteri celebrati, evitando che l'immancabile distacco provocato dall'in-
comprensione dei testi liturgici alimentasse le loro fantasie.
Dall'altro lato, a fronte dell'infinita ed incontrollabile varietas delle pra-
tiche superstiziose, o presunte tali, l'unica soluzione che potesse restituire
alla Chiesa un rinnovato e purificato concetto di religio era quella di ribadire
prepotentemente il principio dell'autoritaÁ ecclesiastica in materia di cerimo-
nie e pratiche religiose tout court. Il suggerimento dei due veneziani a papa
Leone X suonava al riguardo perentorio. Solo le cerimonie e le pratiche so-
lennemente istituite dalla santa Chiesa erano considerate legittime, tutte le
altre erano da condannare: «ea omnia cerimoniarum genera, quae a sancta
Ecclesia instituita non sint, diabolicas esse observationes declarabis».4 Non
solo quindi «illas omnes [orationes] praecipue manifesto edicto condemna-
bis, quae propriis titulis, seu rubricis hanc aut illam sanitatis, aut consolatio-
nis gratiam, aut infortunii liberationem promittunt»,5 ma «nullas orationes
neque deferri, neque scribi neque dici consenties, nisi quae a sancta Eccle-
sia, a sanctis ab Ecclesia approbatis doctoribus sunt institutae».6 La mede-
sima modalitaÁ di intervento doveva essere applicata ai salmi, alle immagini
sacre, alle statue votive, e persino a tutte le rappresentazioni sia pagane che
cristiane.7 Tutto cioÁ che non fosse esplicitamente approvato dall'autoritaÁ
ecclesiastica doveva dunque essere combattuto con durezza e determina-
zione. Se le cerimonie antiche erano sinonimo di ortodossia, «fare riti et
cerimonie nuove» diventava cosõÁ sicuro sinonimo di scelta eterodossa.8
Mentre quest'ultima terapia sarebbe diventata nel corso del XVI secolo
il principio cardine della strategia ecclesiastica e inquisitoriale in materia

4 Ivi, f. 687 («Dichiarerai diabolici tutti i generi di quelle cerimonie che non sono state isti-

tuite dalla Santa Chiesa», Lettera al Papa, cit., p. 112).


5 Ibid. In particolar modo i due autori indirizzavano le loro critiche contro alcune forme

«miracolose» di preghiera rivolte ai santi, pur senza arrivare a mettere in discussione il principio
dell'intercessione delle anime celesti: «Si rivolgono preghiere a singoli Santi per singole malattie
come se nel cielo dei Santi fossero stati assegnati particolari compiti a ciascuno di essi ed a cia-
scuno di essi fosse stata affidata la cura delle singole membra del corpo umano. Pertanto eÁ venuta
meno la consuetudine di invocare il Signore Padre di tutte le creature, il solo capace di guarire
tutte le infermitaÁ». E ancora: «Si eÁ arrivati a un punto in cui l'immagine di un santo qualunque eÁ
accolta da molti, e quasi da tutti con maggiore amore e devozione e venerazione dello stesso san-
tissimo Corpo del Signore GesuÁ Cristo» (Lettera al Papa, cit., pp. 110 e 112).
6 Annales Camaldulenses, cit., f. 687.

7 Ivi, f. 688.

8 Cfr. A. PROSPERI , Intellettuali e Chiesa all'inizio dell'eta


Á moderna, in Storia d'Italia, Annali
4, Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1981, pp. 159-252, in partic. p. 176;
e ID., Il monaco Teodoro: note su un processo fiorentino del 1515, in «Critica storica», XII, 1975,
p. 91.

Ð 2 Ð
DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

liturgico-devozionale,9 la proposta di traduzione in volgare della Scrittura


come antidoto alla «ignoranza delle lingue» andava incontro, come vedre-
mo, ad un destino decisamente meno fortunato.10
L'esigenza (implicita in quest'ultima istanza avanzata da Querini e Giu-
stiniani) di una partecipazione piuÁ sentita ed interiorizzata del fedele all'at-
to devozionale, in antitesi alla formalistica ed esteriore adesione che sem-
brava prevalere nel mondo cattolico di fine '400 - inizio '500, veniva da
lontano.11
Nei primi anni novanta del '400 Girolamo Savonarola 12 aveva dedicato

9 Cfr. infra, cap. II.


10 Il differente destino di queste due terapie «consigliate» da Querini e Giustiniani ci offre
una testimonianza della fragilitaÁ (o comunque dell'ambivalenza) di categorie storiografiche come
quella di Riforma cattolica, cui il Libellus eÁ stato ripetutamente ascritto. Se, per un verso, la prima
delle due terapie si affermeraÁ ± nel corso del XVI secolo ± come principio cardine della politica
ecclesiastica controriformistica in materia di testi liturgici e religiosi la seconda, invece, verraÁ di-
sattesa in toto dalla progressiva affermazione del binomio lingua volgare-eresia seguita alla diffu-
sione delle dottrine luterane nella penisola italiana. Per un verso dunque, un'affermazione di
principio che tanto feconda si riveleraÁ nel processo di costruzione di quella ideologia per un altro,
invece, una testimonianza della soccombente «riforma cattolica» a fronte della imperante ideo-
logia controriformistica. Cfr. su queste tematiche G. FRAGNITO, Gasparo Contarini. Un magistrato
veneziano al servizio della CristianitaÁ, Firenze, Olschki, 1988, pp. 221 sgg.; sul confluire di molte
istanze proprie della «riforma cattolica» nella «mistica» inquisitoriale, cfr. P. SIMONCELLI, Inqui-
sizione romana e Riforma in Italia, in «Rivista storica italiana», C (1988), pp. 3-125. Sul concetto
di «riforma cattolica» cfr. il classico H. JEDIN, Riforma cattolica o Controriforma? Tentativo di
chiarimento dei concetti con riflessioni sul Concilio di Trento, Brescia, Morcelliana, 1987 (IV
ed.; I ed. 1957).
11 Sin dal Duecento la spiritualita Á francescana prima, quella domenicana, poi, avevano po-
sto ± con le debite differenze che derivano da diverse tradizioni ± il tema della preghiera interiore
al centro del discorso religioso. Sulle orme di San Francesco, sia Santa Chiara che Sant'Antonio
avevano indicato «le fondamenta della vita contemplativa nello spirito di orazione», mentre San
Bonaventura aveva indicato la pratica dell'«orazione perfetta» come passaggio imprescindibile
della mistica ascesa verso Dio. La tradizione domenicana del Trecento, sviluppando la conce-
zione spirituale di Tommaso d'Aquino, soprattutto con Domenico Cavalca pose l'orare della
mente come essenza della pratica contemplativa dell'ascesi mistica; dopo di loro la stessa Caterina
da Siena indicoÁ nell'«orazione umile, continua, fedele e disinteressata» lo strumento attraverso
cui l'anima acquista ogni virtuÁ, affermando la superioritaÁ dell'orazione mentale su quella vocale.
CosõÁ attraverso i grandi spirituali del Quattrocento come Sant'Antonino e Ludovico Barbo, il
tema dell'orazione mentale arrivoÁ fino alle soglie del Cinquecento trovando in Savonarola l'ul-
timo epigono di una ricchissima tradizione medievale. Per un primo approccio a questi temi
cfr. M. PETROCCHI, Storia della spiritualitaÁ italiana, vol. I, Il Duecento, il Trecento e il Quattro-
cento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1978. Vedi anche G. GETTO, Letteratura religiosa
dal Duecento al Novecento, Firenze, Sansoni, 1967, da integrare con ID., Letteratura religiosa del
Trecento, Firenze, Sansoni, 1967.
12 Sul noto predicatore domenicano esiste una vasta bibliografia; sia sufficiente qui rinviare

alla recentissima rassegna critica di C. VASOLI, Da un centenario all'altro. Bilancio degli studi sa-
vonaroliani, in Una cittaÁ e il suo profeta. Firenze di fronte al Savonarola. Atti del Convegno inter-
nazionale (Firenze, 10-13 dicembre 1998), a cura di G.C. Garfagnini, Firenze, Edizioni del Gal-
luzzo (Savonarola e la Toscana, 15), 2001, pp. 3-35. Sulle vicende inquisitoriali e censorie di Sa-
vonarola cfr. infra, nota 41.

Ð 3 Ð
CAPITOLO PRIMO

al tema della preghiera ben due operette spirituali, il Sermone dell'oratio-


ne 13 e il Trattato in difensione e commendazione dell'orazione mentale.14
Anche per il predicatore ferrarese lo spunto iniziale era una critica ± piuÁ
esplicita di quanto apparisse nello scritto di Querini e Giustiniani ± delle
cerimonie e pratiche devozionali esteriori messe in atto dai fedeli in osse-
quio ai precetti della Chiesa di Roma.
Individuando nell'orazione vocale come pratica fine a se stessa il sim-
bolo di tale sterile devozionalitaÁ, Savonarola si scagliava contro la meccani-
ca recitazione di paternostri e salmi: «Questo vediamo per esperienzia chia-
ra: che molti uomini e donne, domandati spirituali, sono perseverati molti
anni nella orazione vocale e in queste cerimonie esteriore, e nientedimeno
sono quel medesimo che prima. Noi gli veggiamo essere senza spirito, sen-
za gusto, amatori delle cose terrene, sensuali nel vivere; cicalono volentieri
e massimamente de' fatti d'altri, e fannosi beffe dell'altri, dileggiando li
semplici e retti di core; non si compungono de' loro peccati; partigiani
de' religiosi di diversi ordini; vanagloriosi, invidiosi e superbi, e piuÁ duri
di core che tutti gli altri uomini; portano loro la trave nell'occhio e vanno
guardando la festuca del compagno».15 In altre parole, costoro «credono
ch' el divino culto non stia in altro se non in cantare salmi e dire parole,
e non possono pensare che altre orazioni si possino fare se non queste vo-
cale, non avendo mai provato cose spirituali».16 Le cerimonie esteriori,
continuava Savonarola, hanno invece ± sin dalle origini della «primitiva
Chiesa» ± la sola funzione di aiutare l'«infermo» popolo cristiano a ridurre
la distanza che lo separa da Dio: «lo Spirito Santo [...] quanto piuÁ ha visto
gravar la infirmitaÁ del spirito nel populo cristiano, tanto piuÁ ha fatto multi-
plicare le cerimonie della Chiesa, accioccheÂ, occupato in quelle, in qualche
modo si diletti delle cose divine».17 Lo stato di salute della Chiesa eÁ andato
peggiorando con il passare dei secoli: la «corruzione de' tempi» eÁ tale che

13 Il Trattato o vero sermone dell'orazione, Firenze Miscomini, 20 ottobre 1492, e Á stato ri-
pubblicato in G. SAVONAROLA, Operette spirituali, a cura di M. Ferrara, vol. I, Roma, Angelo Be-
lardetti editore, 1976, pp. 189-224, cfr. anche la nota critica a pp. 395-407. Le citazioni sono
tratte da questa edizione. Sul Sermone e sul Trattato (cfr. nota seguente) di Savonarola, cfr.
M. PETROCCHI, Storia della spiritualitaÁ italiana, vol. I, cit., pp. 117 sgg. e A.J. SCHUTTE, Printed
Italian vernacular religious Books 1465-1550. A finding List, GeneÂve, Droz, 1983, pp. 339-340 e
342-343.
14 Il Trattato in difensione e commendazione dell'orazione mentale, Firenze Miscomini,

1492, eÁ in G. SAVONAROLA, Operette spirituali, cit., vol. I, pp. 157-185, nota critica a pp. 385-
394. Le citazioni sono tratte da questa edizione.
15 G. SAVONAROLA , Trattato in difensione e commendazione dell'oratione, cit., pp. 184-185.

16 Ivi, p. 161.

17 Ivi, p. 177.

Ð 4 Ð
DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

«ora, essendo mancato tutto el spirito, le cerimonie sieno loro poco utile o
quasi nulla, cosõÁ come quando all'infermo eÁ mancata la virtuÁ naturale non
giovono piuÁ le medicine».18 Occorre dunque tornare a quei sani principi
ispiratori della «Chiesa primitiva», ricordando sempre che «Dio cerca da
noi el culto interiore senza tante cerimonie».19
Il contenuto implicitamente radicale di queste ultime parole avrebbe
potuto allarmare le gerarchie ecclesiastiche se il discorso savonaroliano si
fosse spinto fino a mettere in discussione il ruolo di intermediazione reli-
giosa che la Chiesa di Roma si assegnava ormai da secoli. Savonarola, inve-
ce, non intendeva proclamare l'inutilitaÁ assoluta delle cerimonie esteriori;
esse dovevano riprendere la loro funzione originaria di stimolo devozionale
e di passaggio intermedio nel cammino dell'uomo verso Dio: «Gli cristiani
cosõÁ religiosi come laici si debbono transferire, quanto possono e quanto gli
eÁ concesso dalla grazia dello Spirito Santo, alle orazioni mentali, non con-
dennando peroÁ per questo la orazione vocale, la quale eÁ tanto necessaria e
utile quanto la deserve alla orazione della mente».20 L'orazione vocale deve
essere per il predicatore domenicano in altri termini «ordinata alla [orazio-
ne] mentale»; 21 essa deve creare le condizioni «accioche l'uomo levi la
mente a Dio e s'accenda del divino amore e delle sante contemplazioni»; 22
nel momento stesso in cui l'uomo raggiunge questo stato di «ascesi» le pa-
role non solo non servono piuÁ ma spesso possono risultare d'intralcio alla
comunicazione con Dio.23
CosõÁ, introducendo una distinzione tra i diversi gradi di «attenzione»
raggiungibili durante l'orazione vocale (fino ad arrivare al livello di atten-
zione proprio dell'orazione mentale), Savonarola finiva per proporre un
giudizio diametralmente opposto rispetto a quello avanzato di lõÁ a poco
da Querini e Giustiniani riguardo alla «ignoranza delle lingue» come causa

18 Ivi, p. 177.
19 Ivi, pp. 176.
20 Ivi, p. 160.

21 Ivi, p. 171.

22 Ibid.

23 Nel Trattato o vero sermone dell'orazione Savonarola scriveva: troppi cristiani ancora

«aranno alcuna volta diterminato di dire un certo numero di salmi o di altre orazioni e, per
non le lassare, molte volte impediscono la visitazione che fa Iddio alla loro mente dandogli qual-
che dolcezza spirituale, conciossiacosache doverebbono piuttosto lassare ogni sua orazione vocale
per stare in quella consolazione, la quale molto nutrisce l'amore, e accende la mente alle cose
divine assai piuÁ, senza comparazione, che le parole» (Trattato o vero sermone, cit., p. 218). E an-
cora: «...errono molti li quali hanno ordinato uno certo numero di paternostri e di salmi e, non
volendo lasciargli, aggravono la mente e non lasciano mai contemplare, e peroÁ non hanno poi mai
sapore ne gusto delle cose divine» (Trattato in difensione e commendazione dell'oratione, p. 172).

2
Ð 5 Ð
CAPITOLO PRIMO

principale della superstizione popolare. Se per i due camaldolesi chi non


comprendeva cioÁ che leggeva non poteva pregare correttamente, per Savo-
narola, invece, il valore di riferimento restava quello dell'interioritaÁ della
devozione: l'attenzione alle parole era relegata nel suo discorso a semplice
(pleonastico) corollario. Le prime due forme di attenzione messe a fuoco
dal domenicano, infatti, quella rivolta alla corretta articolazione delle paro-
le e al suo significato letterale, ricevevano una connotazione sostanzialmen-
te negativa. Da una parte, gli «scrupolosi» che «attendono ad esplicare ben
le parole e sono molto intenti a non lasciare alcuna particula della loro ora-
zione» 24 non raggiungono, secondo l'autore del Trattato, il vero scopo del-
la preghiera perche «desviano la loro mente da Dio e continuamente sono
vaghi».25 Dall'altra la «concentrazione» sul senso delle parole «non eÁ al tut-
to laudata» 26 «perche fa discorrere la mente in molte cose per la varietaÁ
delle sentenzie d'esse parole che si dicono nella orazione vocale»: 27 assomi-
glia piuÁ ad «uno studiare che orare».28
La terza ed ultima attenzione eÁ rivolta a Dio. Solo chi (anche attraverso
l'orazione vocale) riusciraÁ ad elevare la mente «sopra di seÁ», arrivando fino
a dimenticarsi «tutte le cose umane e se medesima» 29 potraÁ restare «con
tutto lo affetto del suo core [...] fisso dinanzi a lui [Dio]»; 30 egli, allora,
reciteraÁ correttamente le parole della preghiera e ne comprenderaÁ piena-
mente il senso, ma questo non saraÁ che un riflesso condizionato dello «sta-
to» raggiunto. «[E]tiam gli ignoranti» possono raggiungere questo livello
di attenzione, anche coloro «e' quali non intendono quello che dicono,
ma proferiscono le parole de'salmi e dell'altre orazioni con riverenzia a
Dio, al qual sono uniti con la mente».31 Essi, infatti, «benche non intendi-
no, hanno alcuna volta piuÁ gusto e piuÁ consolazione nella salmodia della
Chiesa che non hanno e' dotti, non per le parole, le quali loro intendono,
ma per la unione della mente con Dio».32 La «sentenza» conclusiva del Sa-
vonarola era molto chiara: «E peroÁ, senza parole si puoÁ elevare la mente a
Dio e fare orazione».33 La comprensione delle parole ± su cui avrebbero

24 Ivi, p. 167.
25 Ibid.
26 Ibid.
27 Ibid.
28 Ibid.
29 Ibid.
30 Ibid.
31 Ibid.
32 Ivi, p. 168.
33 Ibid.

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DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

focalizzato l'attenzione, di lõÁ a qualche anno, i due autori del Libellus ± non
era per Savonarola condizione necessaria ne sufficiente ad un sincero e
fruttuoso atto devozionale. La questione del dialogo interiore con Dio si
esauriva nella capacitaÁ del fedele di elevare la mente verso l'alto.
Seppure giunti a conclusioni differenti su tale importante questione, la
diagnosi dalla quale muovevano (Querini e Giustiniani da una parte, Savo-
narola dall'altra) era comunque la stessa: atteggiamento fortemente critico
nei confronti di una meccanica adesione alle forme devozionali propugnate
dalla Chiesa, necessitaÁ di un pieno coinvolgimento emotivo e razionale del
fedele nel momento di preghiera e devozione.
Appare chiaramente da questa breve esposizione che entrambe le po-
sizioni, pur muovendo da punti di vista critici, non uscivano dai confini
dell'ortodossia cattolica.34 Si trattava piuttosto di un richiamo all'ordine
che poteva forse infastidire alcuni rappresentanti delle gerarchie romane,
ma non poteva certo essere considerato (di per seÂ) come un pericolo per
la dottrina e l'istituzione cattolica.
Analoghe considerazioni valgono anche per l'Espositione sul Pater no-
ster, pubblicata a Firenze dal domenicano nel 1494, appena due anni dopo
i due sermoni sull'orazione,35 traduzione in volgare di una versione mano-
scritta latina che avrebbe visto la luce solo sei anni dopo.36 Come emerge
chiaramente dalla lettura del «Proemio», infatti, l'Espositione non era altro
che un'«applicazione» concreta della sua riflessione sui diversi gradi di «at-
tenzione» alla preghiera piuÁ diffusa nel mondo religioso dell'epoca, il Pater
noster appunto. Lettura, meditazione, orazione e contemplazione, erano
questi i quattro «livelli» ai quali la preghiera doveva essere recepita dal fe-
dele.37 Un discorso che, come giaÁ visto nelle due precedenti opere savona-

34 EÁ chiaro, per esempio, che nel Libellus l'appello al volgare ai fini di una migliore com-
prensione della preghiera da parte del fedele non conteneva neppure l'ombra di un messaggio
religiosamente eversivo: esso prendeva certo spunto da un'analisi pessimistica dei costumi della
Chiesa e sottendeva certo una critica alle usanze delle gerarchie ecclesiastiche, ma il tutto si ri-
solveva in un quadro perfettamente ortodosso in cui, come abbiamo accennato sopra, il fine ul-
timo era la riaffermazione del principio dell'unicitaÁ e dell'esclusivitaÁ del magistero ecclesiastico.
35 Espositione sopra il Pater noster, Firenze, 1494; cfr. anche A.J. SCHUTTE , Printed Italian

vernacular religious Books 1465-1550, cit., pp. 338-339.


36 Expositio orationis dominicae, Firenze Antonio Tubini, 1500, anche in G. SAVONAROLA ,

Operette spirituali, cit., pp. 225-277; cfr. anche la nota critica a pp. 409-426. La versione mano-
scritta secondo quanto riferisce il Ferrara risale al 1484 (Ivi, p. 411; e U. ROZZO, La cultura ita-
liana nelle edizioni lionesi di S. Gryphe (1591-1541), in «La Bibliofilia», XC, 1988, pp. 161-195,
in partic. p. 188). Sull'operetta savonaroliana cfr. anche A. PROSPERI, Les commentaires du Pater
noster entre XV et XVI sieÁcles, in Aux origines du cateÂchisme en France, DescleÂe, Relais-DescleÂe,
1989, pp. 87-105, in partic. p. 89.
37 A San Bonaventura si deve la famosa suddivisione della «via della perfezione» in purga-

tiva, illuminativa e perfettiva; a ciascuno di questi tre stadi corrispondeva, secondo il francescano,

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CAPITOLO PRIMO

roliane, non prescindeva da una chiara affermazione della funzione stru-


mentalmente necessaria degli atti esteriori: i sacramenti della Chiesa, le lau-
di e tutto cioÁ che riguarda le cerimonie sono ordinati «ad interiora mentis
aedificanda».38 Fatta eccezione per gli Indici spagnoli del 1559 e del 1583
che condannarono la traduzione spagnola di quell'operetta savonaroliana,
la Exposicion sobre el Pater noster,39 queste tre operette non furono mai
espressamente contemplate dagli indici romani. Eppure, quel filone che
era stato inaugurato da Savonarola avrebbe ricevuto negli indici di metaÁ
cinquecento un'attenzione ed uno spazio di rilievo.40 L'Indice romano
del 1559 e successivamente l'Indice tridentino, oltre a molti Sermones e
Prediche del domenicano ferrarese (condannati nel primo Indice con una
proibizione totale, nel secondo quamdiu expurgantur),41 proibirono la Do-
minicae precationis explicatio, impressa Lugduni, per Gryphium, et alios,42

un «mezzo» con cui il fedele poteva passare allo stadio successivo: tramite la «meditazione»
l'uomo giunge alla pace percorrendo la via purgativa; per mezzo dell'«orazione» arriva alla fiac-
cola della sapienza e della veritaÁ (via illuminativa) e tramite la «contemplazione» l'anima aderisce
con Dio in forza del Suo amore (via perfettiva). San Bonaventura indicava, inoltre, tre cose indi-
spensabili affinche l'orazione fosse perfetta: il pensiero rivolto con pentimento a tutte le miserie
umane, il rendimento di grazia e l'attenzione rivolta solo all'oggetto della propria preghiera; cfr.
M. PETROCCHI, Storia della spiritualitaÁ italiana, vol. I, cit., pp. 19-21.
38 Expositio, cit., p. 228.
39 Index des livres interdits, directeur J.M. De Bujanda, Centre d'E Â tudes de la Renaissance,
EÂditions de l'Universite de Sherbrooke - Libraire Droz, Sherbrooke - GeneÁve, voll. I-X, 1985-
1996, vol. V, Index de l'Inquisition espagnole, 1551, 1554, 1559, 1984, p. 477 e vol. VI, Index
de l'Inquisition espagnole, 1583, 1584, p. 594. I due Indici spagnoli comprendevano anche la Do-
minicae precationis explanatio (su cui cfr. infra n. 00): Index, vol. V, p. 347 e vol. VI, p. 515.
40 Per un quadro generale di questo filone vedi A. PROSPERI , Les commentaires du Pater no-

ster, cit.
41 Index des livres interdits, cit., vol. VIII, Index de Rome 1557, 1559, 1564. Les premiers

index romains et l'index du Concile de Trente, a cura di J.M. De Bujanda, Sherbrooke-GeneÁve,


Centre d'EÂtudes de la Reinaissance-Librairie Droz, 1990, pp. 501-505. Nella condanna erano
compresi: «Hieronymi Savonarolae Ferrariensis in Exodum sermo primus... sermo tertius ....
sermo VI ... sermo X ... sermo XII ... sermo XX ...», l'«Exhortatio habita ad populum», «...in
concionibus ... concio VII super Ruth», «in concionibus super Amos et Zachariam», «Concio
XIIII ...», «in Ezechielem sermo XXI ... sermo XXXII ... sermo XLI ...», «Concio tertia in octava
epiphaniae», ed infine il «liber inscriptus: Dialogo della veritaÁ» (Ivi, pp. 501-505). Per gli inter-
venti censori cui furono sottoposte le opere savonaroliane cfr. il saggio di G. FRAGNITO, La cen-
sura ecclesiastica e Girolamo Savonarola, in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», 35 (1999),
pp. 501-529, e U. ROZZO, Savonarola nell'Indice dei libri proibiti, in Girolamo Savonarola: da Fer-
rara all'Europa, Atti del convegno internazionale (Ferrara, 30 marzo-3 aprile 1998), a cura di G.
Fragnito e M. Miegge, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo (Savonarola e la Toscana, 14), 2001,
pp. 239-268. Sulle vicende inquisitoriali di Girolamo Savonarola, cfr. M. FIRPO - P. SIMONCELLI, I
processi inquisitoriali contro Savonarola (1558) e Carnesecchi (1566-67): una proposta di interpre-
tazione, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», XVII (1982), pp. 200-252; R. KLEIN, Il pro-
cesso di Savonarola, prefazione di A. PROSPERI, Ferrara, Corbo, 1998; e ora I processi di Girolamo
Savonarola (1498), a cura di Ida G. Rao, P. Viti, R.M. Zaccaria, Firenze, Edizioni del Galluzzo
(Savonarola e la Toscana, 13), 2001.
42 Index des livres interdits, vol. VIII, cit., pp. 484-85, 638, 660. Lo scritto savonaroliano era

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DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

nonche un'anonima Espositione dell'oratione del Signore in volgare, compo-


sta per un padre non nominato.43 Nel primo caso si trattava della nota edi-
zione lionese stampata «forse giaÁ prima del 1530 e poi ripubblicata ivi al-
meno 15 volte entro il 1546», comprendente, oltre ai commenti savonaro-
liani ai salmi, le anonime Dominicae precationis explanatio e Alia Dominicae
orationis expositio.44 Nel secondo caso la genericitaÁ della dizione non con-
sente di procedere ad un'identificazione certa. Si tratta comunque di regi-
strare un mutamento di clima che, se non coinvolse in modo diretto le ci-
tate opere savonaroliane, accese tuttavia i riflettori su scritti a quelle affini.
Perche questo mutamento di atteggiamento? A cosa si puoÁ ricondurre?
Una delle ragioni piuÁ evidenti di questo interessamento era senz'altro la
diffusione della versione volgare del commento di Lutero alla medesima
preghiera.45 In seguito alla pubblicazione di quel breve testo, in effetti, il
genere che da Savonarola era stato inaugurato divenne ± non foss'altro
che per la comunanza di iniziativa e per la simile veste editoriale (ma certo
non solo per questo) ± altamente sospetto, ovvero degno di censura.
Il commento di Lutero, infatti, riproponeva molti degli argomenti
avanzati da Savonarola, inserendoli tuttavia in un contesto dottrinalmente
eterodosso.46 Il punto di avvio del discorso del Riformatore tedesco era

stato giaÁ condannato negli Indici veneziani del 1549 e del 1554, cfr. Index des livres interdits, vol.
III, cit., Index de Venise, 1549, et de Venise et Milan, 1554, Sherbrooke-GeneÁve, 1987, pp. 182,
333; cfr. anche U. ROZZO, La cultura italiana nelle edizioni lionesi di S. Gryphe (1531-1541), cit.,
pp. 188-192.
43 L'opera compariva gia Á negli Indici veneziani del 1549 e del 1554 (Index des livres inter-
dits, vol. III, cit., rispettivamente pp. 203-204 e 271) e continuoÁ ad essere compresa anche negli
indici non promulgati del 1590 e del 1593 (Ivi, vol. IX, p. 433). Per quanto riguarda l'indice pao-
lino e quello tridentino vedi Index des livres interdits, vol. VIII, cit., pp. 258-259.
44 In riferimento alla Dominicae precationis explanatio Mario Ferrara, con argomenti piut-

tosto convincenti, ha confutato l'attribuzione savonaroliana compiuta dallo Schnitzer (Operette


spirituali, cit., vol. I, pp. 417-419). Ugo Rozzo tornando su questa edizione lionese del Gryphe
sembra accogliere la posizione del Ferrara laddove non esclude una «callida iunctura» a propo-
sito del «tentativo di far passare tutto il libro come opera del famoso frate» (U. ROZZO, La cultura
italiana nelle edizioni lionesi, cit., p. 188).
45 M. LUTERO , Il «Padre nostro» spiegato nella lingua volgare ai semplici laici, in ID., Scritti

religiosi, a cura di V. Vinay, Torino, Utet, 1967, pp. 205-278. PiuÁ recentemente il testo eÁ stato
pubblicato in edizione autonoma sempre da Valdo Vinay per i tipi della Claudiana (M. LUTERO,
Il Padre nostro spiegato ai semplici laici, Torino, 1982): da questa edizione sono tratte le citazioni.
Per la diffusione del testo nella penisola italiana vedi S. SEIDEL MENCHI, Le traduzioni italiane di
Lutero nella prima metaÁ del Cinquecento, in «Rinascimento», vol. 17, 1977, pp. 31-108, in partic.
pp. 40 e sgg. Per un'introduzione al tema della preghiera nell'etaÁ della Riforma eÁ fondamentale il
saggio di A. PROSPERI, Penitenza e Riforma, in Storia d'Europa, vol. IV, L'etaÁ moderna. Secoli XVI-
XVIII, a cura di M. Aymard, Torino, Einaudi, 1995, pp. 183-257, in partic. pp. 210-229.
46 Sul nesso dottrinale (e politico) Savonarola-Lutero, formulato per la prima volta dalla

controversistica cattolica dell'epoca (in particolare da Ambrogio Catarino Politi), oltre a D. CAN-

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CAPITOLO PRIMO

(come anche nei testi savonaroliani) una netta presa di distanza dalle prati-
che devozionali diffuse tra i cattolici. Alla preghiera «apparente» e «mec-
canica», al «mormorare esteriore e il balbettare con la bocca senza atten-
zione» 47 veniva contrapposta la «preghiera in ispirito», il «desiderio inte-
riore, il sospiro, e la richiesta dal profondo del cuore».48 La differenza
«qualitativa» tra i due tipi di orazione era visibile negli effetti che essi pro-
ducono nel fedele: il primo [...] rende ipocriti e falsi [...] l'altro fa santi e
figliuoli timorati di Dio».49 Da una parte, uno sterile e vuoto atto esteriore
che rende falsamente «sicuri di se» i fedeli, i quali «ricerca[no] piuÁ la no-
stra volontaÁ e il nostro onore che la volontaÁ e l'onore di Dio»,50 dall'altra
una pratica interiore che consente un effettivo contatto tra l'uomo e Dio.
Una contrapposizione frontale i cui toni Lutero ± forse perche al momento
della stesura del testo la rottura con la Chiesa di Roma non si era ancora
definitivamente consumata ± ammorbidiva subito dopo. Prima di passare
ad esaminare le «sette richieste» contenute nel testo della preghiera, infatti,
egli teneva a specificare che non respingeva completamente l'armamentario
devozionale della Chiesa di Roma, le «quindici preghiere di Santa Brigida,
rosari, corone salteri e simili forme devozionali».51 Lutero si affrettava a
chiarire: «Non disapprovo la preghiera pronunciata con le labbra o espres-
sa con parole, ne alcuno deve disapprovarla, ma accettarla con viva grati-
tudine come particolare, grande dono di Dio».52 Solamente, egli riteneva
che la fiducia riposta in queste preghiere fosse eccessiva. Lutero ripropo-
neva cosõÁ l'idea savonaroliana della preghiera orale come strumento neces-
sario e preliminare alla preghiera mentale, come passaggio intermedio che

TIMORI, Incontri italo-germanici nell'etaÁ della Riforma, in «Rivista di studi germanici», III, 1938,
pp. 63-89, ora in ID., Umanesimo e religione nel Rinascimento, Torino, Einaudi, 1975, pp. 112-
141, in partic. p. 118, vedi P. SIMONCELLI, Evangelismo italiano del Cinquecento. Questione reli-
giosa e nicodemismo politico, Roma, Istituto Storico Italiano per l'etaÁ moderna e contemporanea,
1979, pp. 1 sgg.; e ID., Preludi e primi echi di Lutero a Firenze, in «Storia e politica», XXII (1983),
fasc. IV, pp. 674-744; e ora L. LAZZERINI, Nessuno eÁ innocente. Le tre morti di Pietro Pagolo Bo-
scoli, Firenze, Olschki, 2002. Sul rapporto tra savonarolismo e luteranesimo si eÁ soffermato re-
centemente anche M. FIRPO, Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo. Eresia, politica e cultura
nella Firenze di Cosimo I, Torino, Einaudi, 1997, pp. 339 sgg., il quale ± ponendo l'attenzione
sulle tensioni esistenti tra Cosimo I e Roma, nonche sull'alleanza stipulata tra i frati di San Marco
e la Curia romana in funzione antimedicea ± mette in rilievo i «precoci esiti controriformistici del
savonarolismo», muovendosi in una direzione diversa da quella del nesso eterodossia religiosa-
dissidenza politica formulato da Simoncelli.
47 M. LUTERO , Il Padre nostro spiegato ai semplici laici, cit., p. 10.
48 Ibid.
49 Ibid.
50 Ivi, pp. 10 e 12.
51 Ivi, p. 12.
52 Ivi, p. 16.

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DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

precede la «meditazione del cuore»: «Tali preghiere fatte oralmente vanno


considerate solo come un incitamento e una commozione dell'anima, la
quale medita sul senso e sui desideri espressi dalle parole».53 Esse sono
da condannare solo quando non «vengono usate [...] secondo la loro fun-
zione e in vista del loro frutto che eÁ di commuovere il cuore, ma per riporre
in esse una falsa fiducia, quando le si sono mormorate con le labbra o bal-
bettate, senza alcun frutto o miglioramento, anzi con deterioramento mo-
rale del cuore».54 Il «compromesso» tentato da Lutero, peraltro, si spinge-
va oltre. Dopo aver statuito il carattere strumentale, ma dunque necessario,
della preghiera orale, egli procedeva ad un'ulteriore distinzione, giungendo
fino a valorizzare ± in nome del sacro principio dell'obbedienza ± le pre-
ghiere dei «sacerdoti et frati». Le orazioni fatte solo per «amor di denaro,
di onore o di lode» sono decisamente da «tralasciare».55 Quelle, invece,
che «cantano e leggono i sacerdoti e i frati, come pure quelli che compiono
una penitenza loro imposta o recitano preghiere per adempiere un voto» 56
hanno comunque (persino senza reale partecipazione da parte del fedele)
un loro effetto benefico, per il semplice fatto di essere praticate nell'osser-
vanza del principio dell'obbedienza: 57 «Anche quando la si pronuncia con
la bocca per obbedienza, senza meditazione, eÁ una preghiera che porta
frutto e fa male al diavolo».58 L'obbedienza, dunque, veniva ad assumere
un valore addirittura superiore a quello dell'intimitaÁ del rapporto con Dio.
Questo atteggiamento «conciliante» veniva, tuttavia, di fatto sconfessa-
to in corso d'opera. Scorrendo le pagine della «explicatione» delle «sette
richieste» contenute nella preghiera domenicale emergeva chiaramente l'in-
tero nucleo della dottrina luterana: svalutazione delle opere umane ed esal-
tazione della grazia salvifica di Dio. Ogni «brano» del Pater riceveva un'in-

53 Ivi, p. 11.
54 Ivi, pp. 16-17.
55 Ivi, p. 10.

56 Ibid.

57 Si tratta, come noto, di un principio centrale nell'impianto dottrinale luterano; un prin-

cipio che molta importanza avraÁ anche nei suoi sviluppi politico-dottrinali. Per un primo approc-
cio a questo genere di considerazioni cfr. R.H. MURRAY, The political consequences of the Refor-
mation, New York, Roussel and Roussel, 1960 (I ed. 1926); L. FIRPO, Il pensiero politico del Ri-
nascimento e della Controriforma, in Grande Antologia Filosofica, vol. X, Milano, Marzorati,
1964, pp. 179-803; S.E. OZMENT, The Reformation in the Cities. The Appeal of Protestantism
to Sixteenth Century Germany and Switzerland, New Haven-London, Yale University Press,
1975; H.A. OBERMAN, I maestri della Riforma. La formazione di un nuovo clima intellettuale in
Europa, Bologna, Il Mulino, 1982; ID., La Riforma protestante da Lutero a Calvino, Roma-Bari,
Laterza, 1989.
58 M. LUTERO, Il Padre nostro, cit., p. 10.

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CAPITOLO PRIMO

terpretazione in senso rigidamente predestinazionistico, caratterizzata da


un costante richiamo alla miseria dell'uomo e dall'immancabile invito a ri-
mettersi alla grazia di Dio, secondo un consolidato schema che vedeva l'in-
vito all'autodenigrazione seguito dall'invocazione dell'esaltazione della po-
tenza divina.59
Accanto a queste argomentazioni dottrinali di segno inequivocabilmen-
te eterodosso compariva poi un elemento destinato ad essere identificato a
lungo come una delle piuÁ temibili minacce per l'apparato devozional-litur-
gico cattolico: l'affermazione della superioritaÁ del Pater rispetto alle altre
preghiere. L'appello luterano a considerare «sospette tutte le altre preghie-
re [rispetto al Pater] che non intendono o non racchiudono in se quanto
dice e significa questa preghiera» 60 minava alla base le fondamenta della
liturgia cattolica, che considerava il Pater come una preghiera importante
certo, ma da praticare al pari di molte altre. L'insistenza su di una singola
preghiera era, in altre parole, potenzialmente distruttiva per un sistema che
si reggeva sulla recitazione (rigidamente regolamentata) di un numero ele-
vato di orazioni, ciascuna assegnata ad uno specifico momento della gior-
nata.61 L'invito che Cristo aveva rivolto ai suoi fedeli chiedendo loro di
«pregare continuamente», aggiungeva l'eresiarca tedesco, non era certo
un incitamento a sfogliare continuamente i libri devozionali, oppure a re-

59 Ciascuna delle sette richieste produce dunque, secondo Lutero, due effetti: da un lato

umilia l'uomo, dall'altro lo risolleva. Lo umilia perche lo fa riflettere sulla nostra miseria, lo ri-
solleva perche lo fa riflettere sulla grandezza di Dio. Le parole «Sia santificato il tuo nome», per
esempio, sono da lui cosõÁ interpretate: «Io confesso che spesso ho profanato il tuo nome e che
ancora con il mio orgoglio e con il mio proprio onore e con il mio nome bestemmio il tuo
nome. PercioÁ soccorrimi con la tua grazia si ch'io rinunci in me al mio nome e io sia ridotto
a nulla, affinche tu soltanto sia e il tuo nome, ed esso in me» (Ivi, p. 30). E, ancora, le parole
«Venga il tuo regno» erano interpretate come un messaggio di umiliazione in quanto gli fanno
confessare apertamente che «il regno di Dio non eÁ ancora giunto sino a noi» (Ivi, p. 31). Allo
stesso modo, il «Sia fatta la tua volontaÁ come in cielo cosõÁ anche in terra» era innanzitutto un
segnale del nostro autoaccusarci «con le nostre parole di essere disubbidienti a Dio e di non
fare la sua volontaÁ, perche se facessimo la volontaÁ di Dio, questa preghiera sarebbe inutile»
(Ivi, p. 37).
60 Il «Pater noster» era, secondo il predicatore tedesco, l'unica preghiera veramente neces-

saria perche «in esso v'eÁ in sovrabbondanza ogni indulgenza, ogni beneficio, ogni benedizione e
tutto cioÁ di cui l'uomo ha bisogno per il corpo e per l'anima, quaggiuÁ e lassuÁ» (Ivi, p. 12). L'ef-
ficacia assoluta di questa preghiera era tale, per Lutero, che la sola recitazione mnemonica di essa
risultava fruttuosa, anche senza una reale comprensione del significato letterale e allegorico delle
parole: «Possan dunque ripetere questa preghiera tutte le persone affaticate e quelle che neppure
sanno cioÁ che le parole significano, [...] poiche allora il cuore parla piuÁ della bocca» (Ivi, p. 14).
61 O. NICCOLI , La vita religiosa nell'Italia moderna, Roma, Carocci, 1998, pp. 13 sgg.; e A.

PROSPERI, Preghiere di eretici: Stancaro, Curione e il Pater noster, in Querdenken. Dissens und To-
leranz im Wandel der Geschichte. Festschrift zum 65. Geburtstag von Hans R. Guggisberg, he-
raugegeben von M. Erbe, H. Fuglister, K. Furrer, A. Staehelin, R. Wecker und C. Windler, Pa-
latium Verlag im J & J Verlag, Mannheim, 1996, pp. 203-221, in partic. p. 205.

Ð 12 Ð
DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

citare senza soluzione di continuitaÁ paternostri e avemarie, a riempire, in


altri termini, la giornata del fedele con continui atti devozionali esteriori;
era invece da leggere come un'esortazione a non interrompere la preghiera
spirituale ed interiore neanche durante le attivitaÁ lavorative, a non allonta-
nare mai il proprio pensiero da Dio.62
Da quel momento in avanti, per le autoritaÁ cattoliche, l'incitamento alla
preghiera «spirituale» e «mentale» e l'insistenza sul Pater noster come uni-
ca preghiera fruttuosa sarebbero diventati evidenti sintomi di un messaggio
dottrinalmente e socialmente pericoloso. Viceversa, secondo un meccani-
smo di reciprocitaÁ facilmente comprensibile, le numerose «Espositioni so-
pra il Pater» pubblicate in quegli anni avrebbero utilizzato il richiamo alla
orazione mentale e alla preghiera domenicale per diffondere, in modo piuÁ o
meno velato, posizioni ostili alla Chiesa romana.63

La piuÁ significativa opera di questo filone inaugurato da Savonarola eÁ


un'anonima Espositione utilima sopra il Pater noster, che Adriano Prosperi
ha attribuito all'ebraista mantovano Francesco Stancaro.64 Essa non eÁ l'u-
nica «espositione» anonima del genere, ma non eÁ da escludere che i censori
incaricati di redigere gli Indici dei libri proibiti di metaÁ cinquecento pen-
sassero proprio a questa operetta, nel momento in cui stabilivano di proi-
bire La espositione dell'oratione del Signore ... composta per un padre non
nominato.65
L'Espositione utilima riprendeva i toni e gli argomenti utilizzati da Lu-
tero nel suo commento al Pater. Essendo uno degli ultimi scritti pubblicati
da Stancaro in volgare prima della fuga dall'Italia,66 eÁ molto plausibile
± come eÁ stato giaÁ osservato ± che anche il messaggio contenuto nella breve
premessa «al lettore»,67 in cui lo scrivente presenta l'opera che sta per pub-

62 M. LUTERO , Il Padre nostro, cit., p. 15. Perche  , spiegava Lutero, «l'essenza e la natura
della preghiera non eÁ altro che una elevazione dell'anima o del cuore a Dio» (Ivi, p. 16).
63 A. PROSPERI , Les commentaires du Pater noster, cit., p. 101.

64 A. PROSPERI , Preghiere di eretici, cit., pp. 207-208. Su Francesco Stancaro, vedi F. RUF-

FINI, Francesco Stancaro. Contributo alla storia della Riforma in Italia, Roma, 1935; e Th.
WOTSCHKE, Francesco Stancaro. Ein Beitrag zur Reformationgeschichte des Ostens, in «Altpreussi-
sche Monatschrift», 47 (1910), pp. 465-98, 570-613. Cfr. anche la voce Stancaro, Francesco, in J.
TEDESCHI, The Italian Reformation of the Sixteenth Century and the Diffusion of Renaissance Cul-
ture. A Bibliography of the Secondary Literature (ca. 1750-1996), compiled by J. Tedeschi in as-
sociation with James M. Lattis, Historical Introduction by M. Firpo, pp. 470-472.
65 Cfr. anche supra, p. 9.

66 A. PROSPERI , Preghiere di eretici, cit., p. 207.

67 Espositione utilima sopra il Pater noster, con duoi devotissimi trattati, uno in che modo Dio

esaudisce le orationi nostre, l'altro di penitentia, Venetia, 1539, c. 565v.

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CAPITOLO PRIMO

blicare come «pervenutagli» da un imprecisato mittente, fosse un «artificio


retorico per deresponsabilizzarsi»: 68 un doppio accorgimento dunque
(anonimato e falsa attribuzione) di un uomo che aveva acquistato piena
consapevolezza del cambiamento di clima ormai sopraggiunto e che di lõÁ
a poco avrebbe dovuto ammettere a se stesso anche l'inutilitaÁ (e l'imprati-
cabilitaÁ) di questi sottili stratagemmi, scegliendo di allontanarsi clandesti-
namente dall'Italia.
Che la pratica nicodemitica 69 iniziasse a stargli stretta si poteva giaÁ intui-
re leggendo le righe dedicate alla «nuova» categoria di uomini accusati di
contribuire alla svalutazione del vero significato dell'orazione: accanto, in-
fatti, ad una dura invettiva rivolta contro coloro che si comportavano come
i «gentili, [...] che pensavano Iddio non esaudire, se non quegli che facessino
longhissime orationi»,70 e che pensavano che la quantitaÁ di salmi recitati
avrebbe garantito loro chissaÁ quale beneficio,71 Stancaro puntava il dito
contro l'«hipocresia pharisaica».72 Coloro i quali, secondo l'antica usanza
dei Farisei, pregavano pubblicamente «ne le piaze, et ne li cantoni», e ad-
dirittura «non oravano se non in luogo dove era frequentia di gente», so-
lamente per essere «tenuti boni christiani, et laudati da quegli»,73 e non per

68 P. SIMONCELLI , Evangelismo italiano del Cinquecento. Questione religiosa e nicodemismo

politico, Roma, Istituto storico italiano per l'etaÁ moderna e contemporanea, 1979, p. 101.
69 A. ROTONDO Á , Atteggiamenti della vita morale italiana del Cinquecento. La pratica nicode-
mitica, in «Rivista storica italiana», LXXIX (1967), pp. 991-1030. Sul nicodemismo esiste una
vasta bibliografia che ha tratto alimento dai pioneristici studi di Delio Cantimori; sia sufficiente
qui rimandare alla voce Nicodemismo, in J. TEDESCHI, The Italian Reformation of the Sixteenth
Century, cit., pp. 969-972.
70 «Nel errore de gentili, una gran parte del christianesimo e Á immersa, pensando di orare
egregiamente, quando ha detto un gran numero de pater nostri, overo di corone, gran stultitia
eÁ certamente pensare, anci persuadersi che Iddio ci rimetta li peccati, et ci guardi da pericoli,
peste, fame, guerre, et altre tribulationi del mondo per una grande quantitaÁ, et certo numero
di parole recittate senza spirito, senza affetto alcuno verso il padre, ma solamente per usanza,
overo per beneficio peculiare, non risguardando prima a la gloria del padre, et a la commune
utilitaÁ de frategli, secondo eÁ la intentione de la oratione, per tanto vi admonisse il Signore che
quando fate oratione, non parlate molto (queste sono le parole del Maestro nel sesto cap. di
Matth.) come fanno li gentili» (Espositione utilima, cit., cc. 568r-v).
71 «Per tanto [Dio] si danna queste nostre donne che vanno per la via mormorando pater

nostri con la bocca et con l'animo totalmente alieno, anci con gli occhi vagheggiando hor qua hor
laÁ, et similmente ne la chiesa di Dio, per il che siano certe che incitano Dio ad ira, secondo che
doveriano impetrare il favor suo» (Ivi, c. 573v).
72 Ivi, cc. 566v-567r.

73 «De la hipocresia, ciascuno si metta la mano al petto, et esamini molto bene la concientia

sua se le orationi sue, et per consequente le operationi sue sono fatte a laude et gloria del padre,
et per utilitaÁ del prossimo, overo per essere tenuti boni christiani, et laudati da quegli, temendo
da esser notati dagli altri, se non facessino queste cose, questa eÁ somma hipocrisia et abomina-
tione appresso Iddio, et non solamente non saranno accettate l'orationi sue, ne le elemosine et

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DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

«laude e gloria del padre, et per utilitaÁ del prossimo»,74 erano da disprez-
zare almeno quanto quelli che pregavano lungamente e meccanicamente.
Il rimedio indicato dall'autore consisteva in un ripiegamento intimistico
che insisteva sulla necessitaÁ di ritagliarsi una sfera privata altra da quella
pubblica, ma non necessariamente in contrapposizione con quella. Stanca-
ro, infatti, alla pari di Lutero, non voleva «sconfessare» del tutto le pratiche
esteriori: «Non ha dannato il Signore che non si faccia oratione pubblica-
mente ne la chiesa», scriveva l'ebraista mantovano; 75 nei luoghi sacri «si
ringratia Dio de li benefici recevuti» 76 attraverso orazioni e laudi condivise
con il resto dei «frategli»; 77 ma la vera preghiera eÁ un altra cosa: eÁ «un par-
lare con Dio»,78 eÁ «il parlare del cuore, et del animo nostro indirizzato a
lui»,79 eÁ «uno ardente et desideroso colloquio di animo con Dio»,80 eÁ
una preghiera privata e personale, un'operazione di raccoglimento interiore
che richiede un isolamento fisico (o comunque mentale) dalla vita pubbli-
ca, oltre che un profondo distacco dalle cose terrene: 81 «CosõÁ ci insegna
Christo che orando entriamo in camera, et chiusa la porta secretamente
oriamo al padre, per queste parole siamo insegnati a fuggire l'ambicione,
la quale se con tutto il petto la fugiremo et oraremo al padre non per simu-
lata santitaÁ, ma per commettersi in tutto a Dio, rettamente haveremo orato
ne la camera serrata, se bene fussimo in una gran moltitudine di gente».82
Lo stesso brano evangelico,83 qui preso ad esempio del ripiegamento inti-

altre operationi, ma anci gli saranno efficaci testimonii de la mala et impia volontaÁ sua, nel giorno
del iudicio» (Ivi, cc. 567v-568r).
74 Ivi, c. 568v.

75 Ivi, c. 570r.

76 Ivi, c. 572v.

77 «Bisogna usare le parole et proferirle, quando si ora pubblicamente per esprimere gli af-

fetti nostri et cogitationi de l'animo nostro, i quali da i frategli non sono conosciuti se non per le
parole, senza le quale non possiamo notificare alla Chiesa i beneficii recevuti da Dio, et le laudi,
accioÁ l'animo de gli huomini si accendono a laudare Dio, et confidarsi in quello, et brevemente
tutta la chiesa di Dio si edifica per questo mezo, cioeÁ per le orationi, et laudi, che publicamente si
cantino ne la multitudine de christiani, [...] orationi, che sono scritte nel antiquo et nuovo testa-
mento, et da la santa madre Chiesa composte, dal spirito santo, et tutto questo in laude et gloria
di Iddio, et in edificatione del prossimo» (Ivi, cc. 569v-570r).
78 Ivi, c. 570v.

79 Ivi, c. 571r.

80 Ivi, cc. 571v-572r.

81 «A la oratione si richiede la mente humana essere vacua et aliena da ogni altra cogita-

tione, et abstratta da le occupationi mondane, accioÁ con ardentissimo affetto senza impedimento
parli con Dio» (Ivi, cc. 573r-v).
82 Ivi, cc. 572r-v.

83 Si tratta di un passo tratto dal Vangelo di Matteo (Matt. 7). Il brano del «cubicolo» e Á
presente anche in Savonarola (vedi Operette spirituali, cit., p. 230).

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CAPITOLO PRIMO

mistico dello Stancaro, avrebbe assunto, pochi anni dopo ± in un contesto


politico-religioso che non consentiva piuÁ i (pur esili) margini di manovra
della fine degli anni trenta ± un chiaro significato nicodemitico.84
Ma al di laÁ dei significativi adattamenti che il richiamo alla preghiera
mentale e ai citati riferimenti scritturali subiva rispetto alle cangianti situa-
zioni politico-religiose degli antichi Stati italiani, esso manteneva comun-
que una carica ostile alla Chiesa di Roma e, comunque, come tale dovette
essere recepita dalle autoritaÁ ecclesiastiche romane.
Andando avanti nella lettura dell'Espositione utilima di Stancaro, infat-
ti, emerge chiaramente l'impronta dottrinale protestante, nonche la sua
stretta affinitaÁ contenutistica con il Padre nostro luterano. Il richiamo alla
giustificazione per sola fede (e alla complementare svalutazione delle opere
umane) appare come un elemento costante nel testo. Dopo aver indicato
che «bisogna orare in fede, confidandosi ne la satisfattione de solo Chri-
sto»,85 cominciando l'«esplicatione» delle singole frasi componenti la pre-
ghiera domenicale, Stancaro ± a proposito dell'invocazione «Padre nostro
che sei in cielo» ± riprendeva quasi letteralmente l'interpretazione lutera-
na: 86 «Sono poche parole ma conteneno una amplissima commemoratione
de la divina bontaÁ verso di noi, per la quale lo eterno et celeste padre, noi
miseri et scelerati peccatori, ne ha accettato per suoi figliuoli adottivi et fat-
ti heredi de la celeste patria, mediante il suo figliuolo unigenito et nostro
fratello Iesu Christo...».87 Qualche riga piuÁ sotto seguiva fedelmente la
spiegazione svolta da Lutero a proposito delle invocazioni «venga il tuo re-
gno» e «sia fatta la tua volontaÁ», accomunate, secondo l'autore, da una ri-
gida contrapposizione tra la «carne peccatrice» e la salvifica grazia divina:
«Che venga il regno suo [...] ma mentre che ci sforziamo di far questo ne-
gocio, la carne ne eÁ contraria et obsta, et di novo ne tira in drieto da questa
libertaÁ de la gratia, ne la servituÁ del peccato, essa necessitaÁ consequente-
mente ne spinge a questa tertia dimanda. Sia fatta la volontaÁ tua etc. [...]
Di qua [ossia, dalla realizzazione della volontaÁ divina] la carne nostra trop-
po violentemente ci revoca da te Re nostro».88 Ad eliminare ogni residuo
dubbio sull'impronta luterana dello scritto, ecco una delle piuÁ lucide e con-
sapevoli svalutazioni del libero arbitrio: «Donaci il spirito tuo santo, che la

84 Cfr. infra, p. 35.


85 Espositione utilima, cit., c. 575v. (corsivo mio).
86 M. LUTERO, Il padre nostro, cit., pp. 13-17.
87 Espositione utilima, cit., c. 575v.
88 Ivi, cc. 587r-v.

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DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

volontaÁ mia prava et piena de infedeltaÁ, piena di pravi affetti, piena di odio
e malevolentia et rancore verso il prossimo, piena de l'amor proprio, sia re-
formata secondo il voler tuo».89 A questo punto, come per un automatismo
evidentemente consolidato (nella cultura protestante), a tale svalutazione
della volontaÁ umana faceva seguito una condanna dell'eresia pelagiana,
presentata dall'autore come l'unica reale alternativa alla dottrina luterana.
A questa condanna Stancaro giungeva attraverso la spiegazione del precet-
to «Et remette a noi li nostri debiti come noi li rimettiamo alli nostri debi-
tori»,90 che l'ebraista mantovano commentava con queste parole: «La con-
donatione nostra non eÁ causa che Dio ci rimetta li peccati nostri, ma eÁ se-
gno et argumento de la divina remissione».91 Se qualcuno fosse convinto
del contrario, proseguiva Stancaro, cadrebbe, infatti, nell'«heresia pelagia-
na»: «Oltra di questo il principio del bene operare non saria da Dio, ma da
noi, et questa eÁ la heresia pelagiana dannata dala santa madre chiesia».92
Mettendo, poi, in discussione due principi cardine dell'impianto dottri-
nal-ecclesiologico romano quali il timore della pena come deterrente per il
peccato,93 e ± come abbiamo giaÁ visto in Lutero ± 94 la rigida suddivisione
liturgica del tempo quotidiano del fedele,95 Stancaro finiva per salvare ben

89 Ivi, c. 588v. Cercando di spiegare la «sostanza» della volonta Á divina, Stancaro, ancora
una volta seguiva fedelmente il testo luterano: «La volontaÁ tua eÁ che primieramente te cono-
sciamo per nostro Dio, et padre celeste, et che sopra ogni cosa te amiamo con tutta l'anima,
con tutto il cuore, con tutte le force nostre, poi che amiamo il prossimo nostro come noi mede-
simo, la volontaÁ tua eÁ che brevemente di cuore facciamo tutti li toi comandamenti, et che si ab-
steniamo da tutti li vitii et peccati non per paura del inferno, ma per solo amor tuo filiale» (Ivi, cc.
588v-589r). Per il corrispondente passo di Lutero cfr. Il padre nostro, cit., pp. 38 e 45.
90 Ivi, c. 595v.

91 Ivi, c. 599r.

92 L'eresia pelagiana non era comunque l'unica cui Stancaro dedicava la sua attenzione. Di-

scutendo del «pane quotidiano» citato nel «Pater noster», egli, infatti, metteva in guardia dai pe-
ricoli insisti nell'eresia anabattista: «Ne noi favoreggiamo la stultitia de alcuni che dicono, Christo
ce insegna che non dobbiamo essere solliciti dicendo che mangiaremo, che beveremo, de che se
vestiremo etc. non siate adunque solliciti de giorno de dimane; adunque dicono costoro non bi-
sogna lavorare altramente, ma sperare in Dio che ci provederaÁ, et cosõÁ vano a spasso, mangiando
hogi in casa di questo dimane in casa di quello, et non voleno lavorare altremente. A li quali ri-
spondo, che Christo (io conosco questi tali in faccia, et sono nel errore de Anabaptisti) non ha
insegnato dottrina diversa da quella del padre, il qual ha ordinato (legge il iii cap. del genesi)
che viviamo del sudor nostro, ...» (Ivi, cc. 594r-v).
93 «[L]a volonta Á tua», scriveva Stancaro, «eÁ che [...] si absteniamo da tutti li vitii et peccati
non per paura del inferno, ma per solo amor tuo filiale» (Ivi, c. 589r).
94 Cfr. supra, p. 12.

95 «Non e Á obscuro anchora che non si debbe orare per usanza, ne havere rispetto a uno
luogo (quando la persona fa oratione sola) piuÁ che l'altro, ma da ogni tempo in ogni loco si
puoÁ orare, sopra il tutto bisogna ch'oriamo con ferma fede di ottenere quello dimandiamo, come
mostra il Signore per la risposta che fece a li Apostoli» (Ivi, c. 575v).

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CAPITOLO PRIMO

poco dell'ortodossia romana. I riferimenti a «santa madre Chiesa» (che pe-


raltro scompariranno significativamente dall'edizione del 1547 successiva
alla fuga),96 cosõÁ come quelli alle pratiche esteriori del digiuno e dell'asti-
nenza, se testimoniavano lo stato d'animo inquieto di un uomo fortemente
combattuto tra la sua istintiva adesione al messaggio luterano e una sincera
ed illusoria (ma ancora per poco praticabile) fedeltaÁ alla Chiesa romana,
non sminuiscono il contenuto chiaramente eterodosso dello scritto.
Il filone letterario cui eÁ riconducibile l'Espositione dello Stancaro offri-
va anche altri esempi dell'avvenuta saldatura tra il richiamo ad una religio-
sitaÁ e devozionalitaÁ interiori esercitate nella pratica dell'orazione mentale
(richiamo spesso accompagnato, come detto, da una rivendicazione della
«supremazia» del Pater sulle altre preghiere) ed elementi dottrinali etero-
dossi. Chiaramente eretica era la calvinista Pia espositione ne dieci preceti,
nel Symbolo apostolico, et nella oratione dominica, dove si ha quello che ci
comandi Iddio, quello che si debbe credere, et come si debba orare di Antonio
Brucioli.97 Un'opera non particolarmente originale nella quale venivano fe-
delmente riportati interi brani tratti dall'Institutio di Calvino e tradotti in
lingua volgare. Un trattato in cui, accanto alle ripetute affermazioni del
«servo arbitrio» cui l'uomo era inesorabilmente condannato 98 (e corri-
spondenti invocazioni di una salvezza «certa, et sicura» ottenuta con il solo
aiuto della fede),99 il Pater noster veniva presentato non solo come l'orazio-

96 Vedi A. PROSPERI, Preghiere di eretici, cit., p. 209 e nota 18.


97 Venetia, per Francesco Brucioli et frategli, 1542. La derivazione calvinista di quest'opera
del Brucioli, se non in alcuni punti la vera e propria riproduzione di interi brani dall'edizione
latina dell'Institutio christianae religionis di Calvino, eÁ stata giaÁ svelata molti anni fa da T. BOZZA,
Calvino in Italia, in Miscellanea in memoria di Giorgio Cencetti, Torino, Bottega d'Erasmo, 1973,
pp. 409-441, in particolare pp. 411-419. Sul Brucioli oltre al classico lavoro di G. SPINI, Tra Ri-
nascimento e Riforma. Antonio Brucioli, Firenze, La Nuova Italia, 1940, cfr. anche la voce biblio-
grafica Brucioli, Antonio, in J. TEDESCHI, The Italian Reformation, cit., pp. 143-147.
98 «[...] che noi non siamo in nostra potesta Á , che noi possiamo seguitare dove ci tira il de-
siderio, et cupiditaÁ dello animo, ma che noi dobbiamo stare intenti al cenno suo, a fare quello che
gli piace [...] onde agli obedienti promette tanto la benedittione della presente vita, quanto la
eterna beatitudine, ma a transgressori non solamente minaccia le presenti calamitaÁ, ma il suppli-
cio dell'eterna morte» (Pia espositione, cit., c. 2r-v; si tratta di un passo non riportato da Bozza
pur essendo una frase contigua ad altre da lui collazionate con i brani corrispondenti dell'Insti-
tutio calviniana).
99 «Et cosõÁ hora ci sia manifesta la giusta diffinitione della fede, se direno esser ferma, et

certa cognitione della divina benevolentia verso di noi, la quale fondata nella veritaÁ della gratuita
promissione in Christo, per lo spirito santo, eÁ rivelata alle menti nostre, et segnata ne cuori. Et in
somma il vero fedele, non eÁ se non quello che con solida persuasione ha per certo Iddio essergli
propitio, et benevolo padre, et della sua benignitaÁ si promette tutte le cose, et il quale, confidato
nelle promissioni della divina benevolentia, verso di esso presume indubitata aspettatione di sa-
lute. Et di qui dico anchora che il fedele non eÁ se non quello, che appoggiato alla sicurtaÁ della
sua salute, confidentemente insulta al diavolo, et alla morte, ma accioÁ che piuÁ non tegnamo in

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DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

ne «piuÁ prestante, et la piuÁ efficace di tutte le altre orationi che mai sieno
venute in terra», ma anche come l'unica ad avere valore ed efficacia di fron-
te a Dio: «Il padre non esaudisce la oratione che non dettoÁ il figliuolo, per
che il padre conosce i sensi, e parole del suo figliuolo, ne riceve quelle cose
che si usurpoÁ la inventione humana, ma quelle cose che espone la sapientia
di Christo».100 Allo stesso modo altrettanto temibili per l'impianto devo-
zionale cattolico risultavano testi d'impronta erasmiana che, contrapponen-
dosi all'anti-intellettualismo di ispirazione savonaroliana, insistevano sulla
comprensione letterale del testo evangelico e della preghiera. Basti qui ac-
cennare solo brevemente a Giovanni Pico della Mirandola,101 autore di una
Breve et acuta dichiaratione sopra il Pater nostro,102 opera in cui, prima di
procedere all'«espositione» del Pater, l'autore non esitava a dichiarare che
l'intensa meditazione personale deve poggiare sulla comprensione del sen-
so letterale del testo evangelico, ed in particolare sul modello esclusivo di
preghiera che ci eÁ offerto da Cristo nelle pagine del Vangelo.103 E anche
qui, accanto all'erasmiano invito alla tolleranza religiosa espresso dal Pico
nel passo in cui esortava i devoti a «pregare per i giudei, per gli turchi, per
gli heretici, et per tutti gli christiani»,104 non mancavano affermazioni dot-

aspettare chi legge, vegnamo alla narratione del Symbolo» (Ivi, cc. 25v-26r; corsivi miei; l'ultimo
riferimento alla «sicurtaÁ della sua salute» non sembra essere ripreso dall'Institutio, almeno stando
a quanto emerge indirettamente dall'analisi di Bozza che interrompe la sua collazione appena
prima di quel brano: cfr. T. BOZZA, art. cit., p. 419). Il confronto tra i due testi portato avanti
da Bozza si ferma alle carte introduttive e al «Commento nel Symbolo apostolico»; sia consentito
riportare almeno un brano della Pia espositione ne la oratione dominica (cc. 53r sgg.) in cui l'in-
fluenza calvinista appare inconfutabile: «Induce finalmente anchora il Signore certi in tentatione,
et quella perpetua, i quali da del tutto prigioni a Satan, ostinati nella impietaÁ, come quegli che
sono vasi di ira, et non vasi di gratia, nimici di Iddio, non figliuoli. Et in questa dobbiamo con-
fidare che non ci indurraÁ Iddio in veritaÁ padre nostro, il quale ci computoÁ nel numero de suoi
figliuoli, et questo se con certa fede lo chiamiamo padre, perche noi non crediamo quello vera-
mente essere nostro padre, se non confidiamo cosõÁ havere a perseverare in eterno, il che eÁ essere
padre celeste» (Ivi, c. 76v; l'invocazione del Pater noster che l'autore sta commentando eÁ eviden-
temente «Et non ci indurre in tentatione»).
100 Pia espositione, cit., c. 72v.

101 Su di lui, vedi il recente lavoro di M.T. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI , Pico della Mi-

randola, Milano, Piemme, 1998 e la bibliografia ivi contenuta; nonche il volume curato da Patri-
zia Castelli citato alla nota seguente.
102 Breve et acuta dichiaratione sopra il Pater nostro del signor Giovanni Pico della Mirandola,

s.d., s.l., (cito dall'esemplare conservato in Biblioteca Apostolica Vaticana, R.I.V. 1919, int. 8);
del 1523 eÁ l'edizione curata da Girolamo Regino cit. da A. PROSPERI, Les commentaires, cit., p.
98 e nota 29 p. 104. Su questo testo cfr. soprattutto ID., Celio Secondo Curione e gli autori italiani:
da Pico al «Beneficio di Cristo», in Giovanni e Gianfrancesco Pico. L'opera e la fortuna di due stu-
denti ferraresi, a cura di P. Castelli, Firenze, Olschki, 1998, pp. 163-185, in partic. pp. 167 sgg.
103 Ivi, c. 79.

104 Ivi, c. 77; cfr. anche A. PROSPERI , Preghiere di eretici, cit., p. 220.

Ð 19 Ð
CAPITOLO PRIMO

trinalmente compromettenti laddove si leggeva, per esempio, che «eÁ cosa


certa che noi non ci salviamo per i meriti nostri, ma per la sola misericordia
di Dio».105
Non deve stupire, dunque, che alla fine degli anni quaranta l'identifi-
cazione tra l'esaltazione della preghiera domenicale e la presenza di dottri-
ne ereticali fosse pressoche completa. Indicativa appariva giaÁ nel 1547 la
scelta dell'editore veneziano (Alessandro Brucioli et frategli) che ± forse
proprio nel tentativo di sfuggire alla rete censoria sempre piuÁ stretta in ter-
ra veneziana ± al momento della ristampa dell'opera del Brucioli eliminava
proprio la parte dedicata all'orazione.106 Ma ancor piuÁ significativa era la
scelta degli inquisitori friulani i quali, pochi anni prima che gli estensori de-
gli indici dei libri proibiti condannassero, insieme ai trattati di Lutero e
Calvino sul valore dell'orazione, anche l'anonima Espositione dell'oratione
del Signore in volgare,107 facevano trascrivere nei loro verbali la seguente
deposizione di un frate udinese a testimonianza della sua inequivocabile
«corruzione di spirito»: «Non facea stima d'altro che del Pater noster.
Quando io andava alla chiesa mi inginochiava inanti al sacramento et ivi
col nudo Pater noster pregava il signor GiesuÁ Christo che pregasse il Padre
celeste per me, ne per cosa alcuna volevo sentir la intercession de' santi.
Solo a lui rimetteva di core li miei peccati, solo in lui speravo la remission
di quelli, et quando alle volte mi appresentavo al sacerdote, dicea: ``Padre,
io ho peccato grandemente et offeso la maestaÁ divina nelli 10 comanda-

105 Ivi, c. 89. Sono ascrivibili a questo filone «erasmiano» anche l'Espositione dell'oratione

domenicale (1525) di Pellegrino Moretto, su cui cfr. A. PROSPERI, Les commentaires du Pater no-
ster, cit., p. 99 e ID., Penitenza e Riforma, cit., p. 221. Nonche l'ortodossa anonima Interpetatione
della Oratione dominica, ebraica, greca et Latina, Venezia 1522 su cui cfr. A. PROSPERI, Les com-
mentaries, cit., p. 94 e ID., Preghiere di eretici, pp. 217-218. Una questione molto interessante, che
tuttavia esula dal nostro lavoro, riguarda un altro testo segnalato da Prosperi, ossia il De inven-
toribus rerum di Polidoro Virgilio, il quale aveva inserito in appendice il «Pater» come docu-
mento della invenzione delle preghiere cristiane (Preghiere di eretici, p. 217 e nota 43); la censura
romana dell'opera (su cui cfr. ibid.) eÁ plausibilmente legata anche alla presenza della preghiera
domenicale, tanto piuÁ che la traduzione italiana curata dal Lauro, stampata a Venezia dal Giolito
nel 1543, sottolineava sin dal titolo la presenza dell'«espositione del Pater»: De la origine e de
gl'inventori de le leggi, con la espositione del Pater nostro (ibid.); piuÁ in generale su questo scritto
vedi A. STEGMANN, Le `De inventoribus rei christianae' de Polydor Virgil ou l'eÂrasmisme critique,
in «Colloquia erasmiana turonensia», a cura del Centre d'eÂtudes supeÂrieures de la Renaissance de
Tours, De PeÂtrarque aÁ Descartes, 24, vol. I, Paris, 1972, pp. 313-321.
106 T. BOZZA , Calvino in Italia, cit., p. 419.

107 Cfr. supra, p. 9. Per le opere di Lutero e Calvino il riferimento e Á rispettivamente al Sim-
plex et aptissimus orandi modus (condannato negli Indici romani del 1559 e del 1564, cfr. Index
de livres interdits, vol. VIII, cit., p. 682) e a La forma delle preghiere ecclesiastiche, condannata
negli Indici romani del 1559, 1564 (Index des livres interdits, vol. VIII, cit., pp. 472-473 e
592-593) e del 1590 e 1593 (Ivi, vol. IX, cit., p. 434).

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DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

menti della lege, nei sette peccati mortali, nei cinque sentimenti del corpo,
nelle tre virtuÁ theologali; non mi son dato troppo all'opere della misericor-
dia corporali ne spirituali. Ho creduto peroÁ et credo a un solo Iddio et nel
suo Figliuolo signor nostro GiesuÁ Christo, ch'el sia concetto di Spirito San-
to, et anchora nato di Maria vergine, et a tutto 'l resto de questi 12 articoli
della santa fede et in ogni altro modo et via che io havesse offesa la sua di-
vina maestaÁ, l'anima mia et il prossimo mio, con tutto 'l core dico la colpa
mia. Ideo precor''. Tal era la confessione ch'io facevo all'hora et ancorcheÂ
egli mi assolvesse, tenivo d'esser stato assolto dalla potente man d'Iddio, per-
cioche sempre precedeva la confession mentale. Questa cosa duroÁ [dal]
1548 attorno s. Sebastiano sino 1555 alla vigilia della Assonta d'agosto».108
La preghiera che era stata «prescritta» nei piuÁ diffusi testi catechistici di
inizio secolo, e che ancora all'inizio degli anni venti era caldamente racco-
mandata dalle gerarchie ecclesiastiche,109 era diventata, cosõÁ, il simbolo del-
la dilagante e minacciosa eresia luterana. «Questa heresia comincia dal Pa-
ter noster e finisce nella picca et nel archibuso» scriveva Alvise Lippomano

108 AAU (Archivio arcivescovile di Udine), «Confessione di fra Vincenzo da Udene della

vita tenuta in Spilimbergo 1548 sino al 1555...», cc. 3v-4r, cit. da G. MICCOLI, La storia religiosa,
in Storia d'Italia, Dalla caduta dell'Impero romano al secolo XVIII, vol. II, Torino, Einaudi, pp.
431-1079, passo citato a p. 1042. Dalla lettura dei documenti inquisitoriali d'altra parte emerge
chiaramente che l'insegnamento del Pater noster come unica preghiera veramente cristiana, in
contrapposizione ad ogni altra forma di orazione e devozione, era atteggiamento frequente presso
i filoprotestanti veneziani («l'eÁ da piuÁ il Pater noster che l'Ave Maria»: cfr. F. AMBROSINI, Storie di
patrizi e di eresia nella Venezia del '500, Milano, Franco Angeli, 1999, pp. 195-196 e nota 95; e J.
MARTIN, Out of the Shadow: Heretical and Catholic Women in Renaissance Venice, in «Journal of
Family History», 10, 1985, pp. 21-33, p. 23), lucchesi («Ne vogliono che in l'oratione s'habbia a
dire se non il Pater nostro et prohibiscono l'Avemaria»: cfr. M. BERENGO, Nobili e mercanti nella
Lucca del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1974, I ed. 1965, pp. 407-408 e nota 1; e S. ADORNI
BRACCESI, Una «cittaÁ infetta». La repubblica di Lucca nella crisi religiosa del Cinquecento, Firenze,
Olschki, 1994, p. 125) senesi (V. MARCHETTI, Gruppi ereticali senesi del Cinquecento, Firenze,
Nuova Italia, 1975, p. 75) e bolognesi («Perche io sono divota della chiesa de santo Stephano
et voluntieri e spesse volte per divotione li sono andato e li vadi quasi ogni matina a captare
le indulgentie [...], delle volte il mio consorte, vedendo che andavo cosõÁ spesso a detta chesia:
``Non credi tu, Isabella, che faresti meglio delle volte a stare a casa e dire le tue oratione e come
hai hauto messa, venire a casa e non bassare tante corsete come fate voi altro suore?'' [...] e delle
volte dicea [...]: ``Vale piuÁ un Pater a dirlo de core che dire una corona e spipulare''»: G. DAL-
L'OLIO, Eretici e inquisitori nella Bologna del Cinquecento, Bologna, Istituto per la storia di Bo-
logna, 1999, p. 343 nota 83). PiuÁ in generale, l'attenzione degli inquisitori al tema della preghiera
eÁ testimoniato anche dal processo intentato nel 1543 contro l'artigiano Girolamo Rinaldi il quale,
dirigendo le preghiere collettive di un gruppo di laici che si riunivano per recitare l'uffizio della
Madonna, aveva riformato la formula dell'assoluzione in senso cristocentrico (cfr. S. SEIDEL MEN-
CHI, Erasmo in Italia, 1520-1580, Torino, Bollati Boringhieri, 1987, pp. 73-74).
109 Nel 1521 il vescovo di Brugnato, Filippo Sauli, nell'Opus noviter editum pro sacerdotibus

curam animarum habentibus (Milano, 1521) insisteva molto sul dovere dei curati di controllare la
conoscenza del «Pater» presso i loro fedeli, cfr. A. PROSPERI, Les commentaires du Pater noster,
cit., pp. 97-98 e nota 28 p. 104.

3
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CAPITOLO PRIMO

al cardinal Marcello Cervini nel 1547.110 Un'affermazione tanto piuÁ pesante


e piena di significato perche pronunciata da un ecclesiastico che solo sei an-
ni prima aveva dedicato alla preghiera domenicale un'appassionata Esposi-
tione volgare 111 in cui ± pur intravedendo l'ombra della censura romana che
si allungava su questo filone letterario-religioso ± 112 si era adoperato «a
profittevole utilitaÁ di tutte le divote e povere persone, et massimamente
di quelle, che non vogliono, o non possono studiare la sacra scrittura, overo
cosõÁ bene non la intendono», esponendo «in lingua volgare il Simbolo Apo-
stolico, il Pater nostro, et i dua precetti della CharitaÁ, nelle quali tre cose
consiste cioÁ che si dee da noi credere, desiderare, et operare in questo mon-
do, et osservandole l'huomo intieramente, senza dubbio si puoÁ chiamare
perfetto Christiano, et acquistare la gloria immortale di vita eterna».113
Dovettero passare piuÁ di dieci anni e tre indici dei libri proibiti (quelli
veneziani del 1549 e del 1554 e quello romano del 1559) per avviare un pro-
cesso di riappropriazione della preghiera domenicale da parte delle autoritaÁ
romane. Solo nel 1559 ± significativamente nello stesso anno della promul-
gazione del piuÁ severo Indice romano del secolo ± l'arcivescovo di Salerno,
Girolamo Seripando, avrebbe potuto pensare di dedicare al Pater noster
un intero ciclo di prediche.114 Ma ancora alla fine del secolo la trattatistica

110 Lettera da Bologna, 16 novembre 1547, cit. da A. PROSPERI , Preghiere di eretici, cit., p.

216, edita da G. BUSCHBELL, Reformation und Inquisition in Italien um die Mitte des XVI Jahr-
hunderts, Padeborn, 1910, pp. 289-290 e da M. FIRPO-D. MARCATTO, Il processo inquisitoriale del
cardinal Giovanni Morone, vol. II, t. 1, Roma, 1984, pp. 247-248.
111 Espositioni volgari del Reverendo M. Luigi Lippomano vescovo di Modone, et coadiutore

di Bergamo, sopra il Simbolo Apostolico cioeÁ il Credo, sopra il Pater nostro, et sopra i dua precetti
della charitaÁ, Nelle quali tra cose consiste cioÁ che si dee dal bon christiano credere, desiderare, et
operare in questo mondo. Opera catholica et utilissima ad ogni Christiano, Venetiis, apud Hiero-
nimum Scotum, 1541.
112 PiuÁ che ad una formula di rito l'espressione utilizzata dall'autore nella dedica dell'opera
assomiglia ad un abile tentativo di mettere le mani avanti: «NeÁ essendo convenevole che cosa al-
cuna venga a luce, se primieramente non eÁ approvata dalla fedele censura della Santa Sede Apo-
stolica, la quale [opera] se V.B. si degneraÁ laudare et commendare, ardiroÁ con il suo benigno fa-
vore mandarla nelle mani delle genti, accioÁ che qualunque la leggeraÁ, possa imparare brievissima-
mente divenire buon christiano [...] se ancora non le pareraÁ degna di vita, procacciaroÁ che essa sii
seppellita nel grembo del perpetuo silentio» (Ivi, c. A2r-v).
113 Ivi, c. A2r. Si tratta di un'opera notevole per la sua capacita Á di coniugare un forte ap-
pello all'interioritaÁ della devozione con un netto richiamo all'apparato devozionale esteriore cat-
tolico; cfr. per esempio i frequenti richiami al «digiuno e all'elemosina» che devono accompa-
gnare qualsiasi atto di preghiera: «PeroÁ ci ammaestra la Scrittura divina dicendo, buona eÁ la ora-
tione con il digiuno, et la elemosina. Imperoche quello che nel giorno del giudicio eÁ per rendere il
premio per l'elemosine, et per le opere buone, hoggi anchora eÁ benigno auditore di quello, che
viene alla oratione con la operatione» (Ivi, c. 84v); oppure gli insistenti riferimenti al valore della
confessione auricolare (Ivi, c. 114v).
114 Non sembra casuale, del resto, che a riprendere il tema del Pater noster sul versante cat-

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DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

cattolica avrebbe risentito gli effetti di quella innaturale identificazione (ere-


sia-orazione domenicale) e dell'azione censoria che ad essa fece seguito.115

2. L'ORAZIONE MENTALE E GLI «SPIRITUALI»

L'«eresia» dell'orazione mentale non si era diffusa solamente tra gli


strati popolari o tra i rappresentanti del clero locale,116 ma anche tra le alte
sfere della gerarchia ecclesiastica. Il caso piuÁ emblematico eÁ sicuramente
quello del cardinal Federico Fregoso. Il suo Pio et christianissimo trattato
della oratione, mandato a stampa (non casualmente) solo dopo la sua mor-
te, nel 1542,117 si trovoÁ, negli anni cinquanta del '500, al centro di un du-
plice attacco da parte della Chiesa di Roma: da un lato, come visto, l'acu-

tolico sia un esponente dell'ordine agostiniano che aveva frequentato a lungo il circolo degli «spi-
rituali». Il Seripando era certo approdato, se mai se ne fosse allontanto, alla piuÁ sicura ortodossia;
eppure nelle sue prediche risuonavano ancora violente invettive contro l'apparenza e l'esterioritaÁ
superficiale di alcuni esponenti del clero: «I nostri greggi non sono piuÁ nelle mani di noi pastori,
ma de' bassi mercenarii e noi (o mortifero e grave sonno) a ch'attendemo? Ci siamo ingolfati nel
governo e nell'augumento dei mali piuÁ presto che dei beni temporali. Di qui nasce che non si
vede tra noi altro che piombo nero, perche non vi eÁ anco il colore et l'apparenza della vera virtuÁ
et disciplina ecclesiastica, [...] perche siamo sempre occupati dalle cure terrene, et temporali»,
cfr. R.M. ABBONDANZA BLASI, Tra evangelismo e riforma cattolica. Le prediche sul Paternoster
di Girolamo Seripando, introduzione di G. De Rosa, Roma, Carocci, 1999, p. 85; l'autrice pub-
blica in Appendice il testo integrale delle prediche dedicate alla preghiera domenicale (Ivi, pp. 99-
317). Sul tema vedi anche F.C. CESAREO, Penitential Sermons in Renaissance Italy. Girolamo Se-
ripando and the Pater Noster, in «The Catholic Historical Review», 83 (1997), pp. 1-19. PiuÁ in
generale sul Seripando oltre a H. JEDIN, Girolamo Seripando. Sein Leben und Denken im Geiste-
skampf des 16. Jahrhunderts, 2 voll., WuÈrzburg, Rita-Verlag, 1937-38, cfr. ora gli Atti del conve-
gno su Geronimo Seripando e la Chiesa del suo tempo nel V centenario della nascita (tenutosi a
Salerno, 14-16 ottobre 1994), a cura di A. Cestaro, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,
1997 e M. CASSESE, Girolamo Seripando e i vescovi meridionali (1535-1563), 2 tomi, Napoli, Edi-
toriale Scientifica, 2002.
115 Cfr. infra, pp. 129 sgg.

116 Numerosi processi inquisitoriali videro coinvolti anche esponenti del clero locale. Per

esempio, il prete modenese Giovanni Bertari fu costretto ad abiurare pubblicamente, a seguito


di una sentenza romana che portava la firma di Girolamo Aleandro, perche aveva criticato la
prassi corrente dell'orazione vocale, prolungata e meccanica, sostenendo la necessitaÁ di intendere
le parole della preghiera recitata (vedi, S. SEIDEL MENCHI, Erasmo in Italia, cit., pp. 74-75, e Ivi,
pp. 103 sgg. per altre testimonianze di critiche rivolte alle forme di devozionalitaÁ cattolica).
117 Sulla morte del Fregoso, occorsa nel 1541, cfr. G. BRUNELLI , sub voce, in Dizionario bio-

grafico degli italiani (d'ora in avanti DBI), vol. 50, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, 1998,
pp. 396-399, in partic. p. 399; e P. SIMONCELLI, Evangelismo italiano del Cinquecento, cit., p. 113.
L'ipotesi di una morte per avvelenamento ventilata da Pier Paolo Vergerio [«Fregoso, il qual fu
fatto Cardinale e non molto doppo avelenato (come eÁ publica fama, si come eÁ ancor fama di quel-
l'altro singolar gentile huomo di M. Gasparo Contareno)»: A gl'Inquisitori che sono per l'Italia.
Del Catalogo di libri eretici, stampato in Roma nell'Anno presente. MDLIX, c. 28r] non ha trovato
finora ± a quanto mi risulta ± riscontri documentali. Sul Fregoso, oltre alla voce di Brunelli, vedi
anche M. FIRPO, Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, vol. I, Il Compendium,
Roma, Istituto storico italiano per l'etaÁ moderna e contemporanea, 1985, pp. 281-282.

Ð 23 Ð
CAPITOLO PRIMO

tizzarsi della battaglia condotta contro il «luterano» (ed «erasmiano») ap-


pello alla devozione interiore, dall'altro il regolamento di conti interno alla
Chiesa romana che vide il prevalere del partito carafiano rispetto alla cor-
rente degli «spirituali»,118 di cui Fregoso era stato significativo esponente.
Insieme all'anonimo trattato Della giustificazione, della fede e delle opere 119
e alla Praefatio in Epistolam D. Pauli ad Romanos 120 la sua accorata esalta-
zione dell'orazione mentale fu puntualmente condannata dall'Indice di
Paolo IV.121 Il Pio et christianissimo trattato del Fregoso presentava in mo-
do sistematico molte delle argomentazioni avanzate fino a quel momento
dalla trattatistica di genere a favore del principio della devozione interioriz-
zata di tipo spiritualistico, approfondendo con particolare incisivitaÁ alcune
di queste. L'autore passava dalle critiche rivolte alla recitazione meccanica
e ripetitiva della preghiera (priva di alcuna utilitaÁ, se non dannosa, per il
fedele) 122 al netto rifiuto opposto alle false promesse delle orazioni super-

118 Su questo punto, ma anche piu Á in generale sulle alterne vicende degli «spirituali» ita-
liani, eÁ sufficiente segnalare, oltre al citato volume di P. SIMONCELLI, Evangelismo italiano del Cin-
quecento, cit., i lavori di G. FRAGNITO, Evangelismo e intransigenti nei difficili equilibri del ponti-
ficato farnesiano, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», XXV, 1989, pp. 20-47, e di M.
FIRPO, Tra alumbrados e ``spirituali''. Studi su Juan de ValdeÂs e il valdesianesimo nella crisi religiosa
del '500 italiano, Firenze, Olschki, 1990; ID., Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul car-
dinal Giovanni Morone e il suo processo d'eresia, Bologna, Il Mulino, 1992; ID., Riforma prote-
stante ed eresie nell'Italia del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 1993; ID., Dal sacco di Roma al-
l'Inquisizione. Studi su Juan de Valdes e la Riforma italiana, Alessandria, edizioni dell'Orso, 1998.
119 L'opera e Á stata recentemente attribuita al Fregoso da Valerio Marchetti, il quale ha an-
nunciato di avere rinvenuto il testo manoscritto (l'ipotizzata edizione a stampa veneziana del
1543 non eÁ stata invece rinvenuta) e di volerne approntare un'edizione critica che non ha ancora
visto la luce (vedi S. SEIDEL MENCHI, Erasmo in Italia, cit., p. 165 e nota 102 pp. 406-407): l'at-
tribuzione di Marchetti porrebbe fine, qualora verificata, ad una querelle iniziata subito dopo la
morte del Fregoso, sin dalle insinuanti affermazioni del Vergerio che aveva scritto rivolgendosi
agli inquisitori romani: «Ora veramente ne havete trovati due altri con che ordinar il vostro ca-
talogo uno della giustificatione, della fede, e dell'opere, l'altro eÁ una prefatione nell'Epistola a'
Romani. Or sappiate di certo questi due non esser stati suoi, quantunque altro paia nel titolo
ma di quel grand'istromento di Dio Martin Lutero e fu alcun buon fratelli, che havendogli voltati
nella nostra lingua, accioÁ che il lettor rozo non si spaventasse a leggerli e che voi altri diabolici
inquisitori non deste loro la caccia, attaccoÁ lor in cima quel onorato nome di Fregoso, col quale
sono andati un pezzo attorno sicuri e han fatto con quella mascherata e astutietta, la qual niuno,
fuor che voi, negheraÁ potersi da noi licitamente usare, essendo tante le vostre rabbie e le vostre
tirannidi, che, se non adopriamo qualche volta, qualche arte, i buoni libri non possono compa-
rire» (A gl'Inquisitori che sono per l'Italia. Del Catalogo di libri eretici, stampato in Roma nel-
l'Anno presente, MDLIX, c. 28r-v). Sulla proibizione dell'opera cfr. Index des livres interdits,
vol. VIII, cit., p. 763.
120 Index des livres interdits, vol. VIII, cit., p. 763.
121 Il Pio et christianissimo trattato della oratione, il quale dimostra come si debbe orare et

quali debbeno essere le nostre preci a Iddio per conseguire la eterna salute et felicitaÁ (Venetia, Ga-
briel Giolito de' Ferrari, 1542) fu condannato giaÁ nell'Indice veneziano del 1554 (Index des livres
interdits, vol. III, cit., pp. 273-274) e oltre che in quello romano del 1559 anche nell'indice tri-
dentino del 1564 (Index des livres interdits, vol. VIII, cit., pp. 469-470).
122 «Quelli che dicono verbi gratia il pater noster per ottenere una dignita Á temporale, overo

Ð 24 Ð
DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

stiziose, le quali illudevano il credente di essere liberato dal «male» per il


solo fatto di recitare vocalmente il testo della preghiera; 123 si muoveva dal-
la messa in discussione della chiesa come luogo privilegiato di culto 124 ad
una severa condanna della pratica cattolica di rivolgere orazioni ai santi e
alla vergine.125 Alle sterili pratiche della devozione esteriore il Fregoso con-
trapponeva, secondo un consolidato schema, le virtuÁ dell'atto devozionale
interiore e del dialogo intimo con Dio. L'orazione doveva essere indirizzata
esclusivamente a Dio e doveva distinguersi per la sua brevitaÁ: 126 il precetto
evangelico secondo cui bisogna «orare continuamente» non doveva essere
interpretato come un invito alla recitazione ininterrotta di rosari e corone

[...] il credo per liberare se o altri da qualche pericolo; cum sit ch'el pater noster non parli della
dignitaÁ che tu cerchi, ne il credo parli di quello che tu domandi [...]. Considerino adunque que-
sto caso, quelli che fanno la loro oratione con recitare alcune orationi imparate a mente, o qual-
che hinno, o antiphona della Vergine, senza intendere quello ch'essi dicano: le quali orationi
poco piuÁ valore o virtuÁ pensiamo che habbiano, che se uno papagallo le havesse imparate e le
ridicesse» (Pio et christianissimo trattato della oratione, cit., cc. XLVIv-XLVIIr). E ancora:
«Spesse volte mi sono meravigliato qual vana superstitione habbi introdotto nella plebe christiana
questa consuetudine di replicare tante volte una medesima oratione, come quella del Signore o la
salutatione della Vergine, la quale falsa dottrina senza alcun fondamento ne d'auttoritaÁ, ne di
convenevole raggione ha causato che posposta in tutto l'attentione della mente nella quale solo
consiste la vera oratione non s'attende ad altro che a volger la lingua e a menar le labbra con
celeritaÁ, e infilzare i paternostri o voltare le carte dell'ufficio senza attendere quel che si dica
ne con chi si parla, o meglio con chi si dovrebbe parlare nell'oratione, e cosõÁ involti in queste
tenebre palpabili molti si credono egregiamente haver fatta la loro oratione quando hanno bat-
talogizzato un'hora o due co' l pensiero sempre vagando e spesse volte in cose alla oratione
al tutto contrario, la quale oppenione al giuditio mio non eÁ molto distante da quella di quelli
heretici i quali per il loro molto orare furono chiamati con un greco vocabolo Euchiti» (Ivi, cc.
XVIv-XVIIr).
123 «Saranno i spiriti mali che ascendono a tentarne sotto specie di religione mettendoci

avanti queste superstitiose orationi con false promesse o di liberarne dalla peste, o da qualche
altro male, o danno delle cose temporali, o vero di farne conseguire qualche bene di questo
mondo mediante quelle de gl'intercessori, quali affermano essere appropriati quale a un'opra
e quale a un'altra rimovendo al tutto Dio benedetto e misericordioso dalla mente e intentio-
ne nostra e cosõÁ discendono poi tirandone con seco nelle loro infime tenebre dell'abisso» (Ivi,
c. XXIIIr).
124 «Il luogo dell'oratione essere di nulla importantia, ma la vera adoratione consistere nel-

l'affetto e sollevatione dello spirito e nella veritaÁ e puritaÁ del cuore» (Ivi, c. XIr).
125 «Quantunque etiam la nostra moderna chiesa nelle sue cerimonie et orationi pubbliche

questo stile constantemente osserva di non drizzare le sue orationi se non a Dio solo omnipotente
et eterno con quella consueta intercessione per GiesuÁ Christo signor nostro, benche la suole im-
plorare il divino soccorso spesse volte co 'l suffragio dell'anime sante o delli spiriti angelici, e so-
pra tutto con quello della vergine la quale imploratione e invocatione di santi in sussidio delle
nostre dimande in nessun modo si puote ne si deve chiamare oratione se non equivocamente,
perche questo saria quella falsa adoratione dannata nella Scrittura antica e molto piuÁ da GiesuÁ
Christo maestro nostro nella vera ispositione di quella cioeÁ di lasciare Dio e 'l creatore per rivol-
gersi con le sue orationi alle cose create» (Ivi, c. XXIr).
126 «Nessun altro che lui ci possa aiutare ne  concederne le gratie addimandate [...]» (Ivi,
c. XXv).

Ð 25 Ð
CAPITOLO PRIMO

bensõÁ, in senso spiritualistico, come un costante congiungimento di pensie-


ro e di cuore con Dio.127 Infatti, pur non rinnegando i benefici, anche ma-
teriali, che ± secondo «il libro de i giudici nel tempo della legge antica», ma
anche «nell'etaÁ nostra» ± 128 «l'oratione di santi uomini» 129 ha potuto ot-
tenere dalla benignitaÁ di Dio,130 Fregoso sottolineava che la «dolcezza et
soavitaÁ» derivanti dal congiungimento mentale con Dio sono superiori a
qualsiasi altra forma di beneficio devozionale.131 In tale contesto, l'invito
a «fuggire la vanagloria dei Pharisei» che oravano pubblicamente per farsi
ben giudicare dagli uomini ed il corrispondente invito a chiudere l'«uscio»
della propria camera orando «secretamente» nel «cubiculo del cuor» 132
poteva essere ancora utilizzato ± per quanto lo consentivano i margini di
movimento e di libertaÁ religiosa del tempo ± come un messaggio anti-nico-
demitico, in un'accezione del resto ben esemplificata dal rifiuto di uno
sdoppiamento tra morale pubblica e morale privata che si leggeva poche
righe dopo: «Noi tenemo che non sia per niente lecito nel ragionare con

127 «La dottrina di Giesu Á Christo ci insegna che la molta oratione non consiste nelle molte
parole, ma nelle cogitationi buone nelli giusti desideri nell'amare e venerare Dio con timore e
tremore» (Ivi, c. XVIr).
128 Ivi, c. VIIIv.

129 Ivi, c. XVIIIr.

130 «Essendo adunque l'oratione di tanta efficacia e virtu Á nel cospetto di Dio che non solo a
se medesimo, ma ad altri puote tanto giovare, e non solo a uno, o a due particolari, ma ad una
CittaÁ intera, ad uno popolo, ad una provincia, certo se altro frutto non se cavasse questo non si
potrebbe dire se non grandissimo, di liberare tanti huomini dalla morte, e molti talvolta innocenti
e di tenera etaÁ, e di matura, prohibire le violentie de gli sfrenati soldati a tante honeste madri di
fameglia, tanti stupri di vergini sacre, e di profane e tanti altri indegni casi, che procedono dalla
pestilentia, ma potissimo dalla guerra, Certo se l'oratione questo ha possuto ottenere, come si
legge nel libro de i giudici nel tempo della legge antica, E puossi ancho ragionevolmente credere
per indicii molto evidenti nell'etaÁ nostra, havendo visto alcune cittaÁ nobilissime in Italia poste in
estremo pericolo, nientedimanco essere state miracolosamente preservate da simili ingiurie» (Ivi,
cc. VIIIr-v).
131 «Talmente che se l'oratione di santi huomini ha possuto simili gratie ottenere dalla be-

nignitaÁ di Dio, non eÁ da dubitare che etiam quando l'opportunitaÁ il ricercasse un'altra volta fer-
merebbe il sole in mezzo il cielo. Ma questi tanti e tali beneficii ottenuti da Dio mediante l'ora-
tione supera e trapassa quella dolcezza e quella soavitaÁ che sente l'anima quando col mezzo di
quella s'approssima a Dio overo con lui si congiunge et unisce e fassi non solo simile a lui se-
condo la sua creatione, ma diventa al tutto divina e in lui si trasforma» (Ivi, c. VIIIv).
132 «Al tutto si deve fuggire nella oratione ogni vanagloria e ogni opere di laude humana la

quale i pharisei sommamente cercavano, peroÁ oravano in publico nel tempio o negli anguli delle
piazze per esser visti da gl'huomni. Ma il nostro maestro dannando quella vana apparenza di re-
ligione insegna alli suoi discepoli non essere in modo alcuno da orare in publico nel cospetto
delle genti, ma in nascosto nella camera tua serrato l'uscio dove non possa entrare ne vanitaÁ
ne hipocrisia ne alcuna titillatione della gloria mondana serrando sopra tutto l'uscio del cuor
tuo et excludendo da quello ogni pensiero terreno di qual si voglia cupiditaÁ o illicito affetto et
il padre tuo che ti vede in secreto che ti guarda nel cubiculo del cuor tuo ti renderaÁ la mercede
conveniente» (Ivi, c. XIv).

Ð 26 Ð
DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

Dio [...] havere una cosa nel cuore e l'altra nella lingua [...]. Il che se eÁ bia-
simevole usare ragionando con gl'huomini etiam a noi inferiori, quanto saraÁ
piuÁ detestabile usarlo nel parlare con Dio?».133
Fregoso riprendeva, dunque, temi erasmiani e luterani rielaborandoli
con nuove argomentazioni alla luce della specifica situazione sociale e reli-
giosa della penisola italiana. Anche sulla delicata questione della compren-
sione delle parole Fregoso prendeva posizione, giungendo ad una sorta di
compromesso tra l'anti-intellettualismo luterano e il filologismo umanista
di Erasmo. Da una parte, infatti, l'influsso erasmiano lo induceva a porre
particolare attenzione al significato delle parole, incitando il devoto ad un'a-
nalisi accurata delle singole parti dell'orazione: «Con ogni diligentia essami-
nare tutte le parti della sua oratione accioÁ che per qual si voglia causa non
restasse indegnata verso d'essa anima la soprema bontaÁ che mai si stracca
d'ascoltare le nostre dimande et essaudirle».134 Dall'altra, in modo solo ap-
parentemente contraddittorio, finiva per subordinare l'importanza della
stessa comprensione della parola al valore assoluto dell'orazione mentale.135
Gli argomenti piuÁ pericolosi per la Chiesa romana vanno tuttavia cer-
cati altrove. CosõÁ come nel trattato Della giustificazione, anche nel Pio et
christianissimo trattato della oratione, il Fregoso, pur non rinnegando mai
esplicitamente la dottrina della retribuzione delle opere, non riusciva a ma-
scherare le sue tendenze eterodosse. Discutendo, per esempio, dei modi cui
ci si debba predisporre all'orazione e con della qualitaÁ delle domande da
rivolgere a Dio Fregoso rammentava al lettore che l'uomo, «viilissima pol-
vere»,136 non deve presentarsi davanti al sommo padre per «domandare
premio delle sue buone opere, quasi come che a riscuotere un debito,
[...] ma si conosca e confessi peccat[ore] pien[o] d'iniquitaÁ intanto che
non ardisca levare gl'occhi al cielo»,137 e soprattuto si guardi dal mettere
in discussione il principio dell'inderogabilitaÁ della grazia divina: «[...] in

133 Ivi, c. XLVIv.


134 Ivi, c. XXIIIv.
135 «Le sia ricordato quel che si convenga dire o pregare in quel punto e in quello atto del-

l'oratione, perche stimolata e agitata dal fervore da se stessa diraÁ quelle parole con la lingua e co 'l
cuore che l'affetto senza pensarvi le apparecchiaraÁ davanti, e forse senza intenderle secondo l'op-
penione di quel santo e degno huomo Antonio abbate, il quale soleva dire che la vera et perfetta
oratione era quando l'huomo non sapeva quello che si dicesse volendo questo intendere per la
molta sollevatione del spirito e alienatione da se stesso per adherirsi et ascoltarsi e quasi unirsi
con Dio, e tutto quello che questa cosõÁ bene ordinata anima dicesse o facesse in simil caso
non potria essere se non ottimamente detto e fatto al Signor suo grato e accetto» (Ivi, c. XLVr).
136 Ivi, c. XLVIr.

137 Ivi, c. XXVIv.

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CAPITOLO PRIMO

tutte le dimande sue e ringratiamenti e osservationi avertisca che non vi sia


alcuna parola che possa derogare alla gratia di Dio».138 L'esaltazione della
grazia salvifica di Dio (sempre complementare allo svilimento dell'arbitrio
dell'uomo) trovava spazio anche qualche paragrafo dopo: «A Dio si do-
mandi con ogni instantia la moltiplicatione e l'acrescimento di tutte le virtuÁ
perche senza la gratia sua noi non siamo sufficienti pure a pensare alcuna
cosa buona da noi medesimi».139
L'ispirazione luterana del testo veniva del resto definitivamente chiari-
ta, oltre che dall'enfasi posta sulla «volontaÁ divina»,140 dalle osservazioni
offerte dal Fregoso a proposito dell'invocazione «liberaci dal male» del Pa-
ter noster, fedelmente riprese dal commento al «Pater» di Lutero. Se giaÁ il
riformatore tedesco aveva sottolineato la circostanza che la richiesta di es-
sere preservati dal «male» arrivava solo a conclusione della preghiera, quin-
di solo dopo aver riconosciuto la propria assoluta incapacitaÁ e miseria e do-
po aver ripetutamente chiesto al sommo padre di illuminare l'uomo con la
sua grazia salvifica, anche il cardinal Fregoso scriveva: «[...] e non solo do-
vemo pregarlo che ci conceda queste virtuÁ, ma molto piuÁ che ci guardi e
liberi da ogni peccato, si come GiesuÁ Christo ci insegnava che dovessimo
orare il patre nostro, ponendo questa domanda per conchiusione della no-
stra oratione, e di tutte le nostre petitioni».141
Alla luce di queste osservazioni, anche la specifica enfasi posta ± in un
contesto che altrimenti non avrebbe richiesto uno specifico riferimento alla
questione ± sul «beneficio di Cristo» assume un colore particolare. Trovan-
dosi a dover fornire una spiegazione del motivo per cui alcune delle richie-
ste contenute nelle orazioni venissero esaudite ed altre no, Fregoso si ap-
pellava all'inconoscibilitaÁ dei misteri e dei giudizi divini. Solo in pochissimi
casi, spiegava il cardinale, Dio ha messo l'uomo a parte di tali misteri. Il piuÁ
significativo tra questi fu quello della morte di Cristo in croce. La decisione
divina di non esaudire l'orazione di GesuÁ Cristo crocifisso, che chiedeva di

138 Ibid.
139 Ivi, cc. XLIIIr-v. Poco piuÁ sotto, l'affermazione della totale assenza di arbitrio umano
veniva in qualche modo attenuata, con l'inserimento di un piuÁ ortodosso «senza l'aiuto suo»:
«E massime devemo pregarlo si degni moltiplicare quelle tre divine virtuÁ [...] la fede, la speranza
e la caritaÁ perche senza l'aiuto suo noi no' l possiamo ne credere ne in lui sperare perfettamente»
(Ivi, c. XLIIIv).
140 «In tutte le tue petitioni e domande tu intendi sempre quasi come un general protesto,

che sempre sia adempita la volontaÁ sua la quale sempre eÁ giusta sempre eÁ buona, e a noi sempre eÁ
utile nella parte piuÁ necessaria e di maggior importanza se bene forse da noi non fosse cono-
sciuto» (Ivi, c. XLIv).
141 Ivi, c. XLIIIIr.

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DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

essere salvato, trovava, infatti, la sua spiegazione nella scelta divina di sacri-
ficare il suo figliuolo per la salvezza degli uomini, dando, cosõÁ, prova della
sua infinita misericordia: «Ma che vogliamo dire dell'oratione di GiesuÁ
Christo quando pregava il padre suo che passasse da lui il Calice della
sua passione e non poteÁ essere esaudita, certo che questa tale cosõÁ degna
oratione eÁ dalla divina persona di Christo offerta con tanta instantia et af-
fettione che 'l sudore convertito in sangue gli cadeva dalla faccia, meritava
sopra tutte l'altre unite insieme essere per molti rispetti essaudita se la sola
misericordia di Dio non si fosse opposta il quale verso la carne del figliuolo
suo volse parere crudele per essere tanto piuÁ misericordioso alle giaÁ con-
dannate anime della natura humana».142
Il silenzio, del resto giaÁ di per se eloquente, mantenuto intorno alla re-
tribuzione delle opere, non era piuÁ sufficiente a mascherare l'impronta dot-
trinale protestante del testo. Ad aggravare ulteriormente la sua posizione
dovettero poi contribuire non poco le dure prese di posizione assunte con-
tro le gerarchie ecclesiastiche, colpevoli a suo dire di non aver contrastato,
e di aver anzi alimentato la superstizione popolare. Ben oltre i generici at-
tacchi contro la «preghiera meccanica» e contro il formalismo devozionale,
Fregoso attaccava «le parti piuÁ alte» della gerarchia romana, fino ad accu-
sare esplicitamente di «corruttela» il «pinnacolo del tempio», non altrimen-
ti identificabile che nel sommo Pontefice: «Questa corruttela [...] [p]rimie-
ramente ha occupato la plebe piuÁ infima come quella che eÁ sempre piuÁ in-
clinata a ricevere queste vane superstitioni e poi eÁ ancho salita alle parti piuÁ
alte et eÁ entrato questo pessimo tentatore nella cittaÁ santa, et eÁ asceso infino
al pinacolo del tempio e de lõÁ tenta e perturba ogni cosa rimuovendo le mi-
sere e sciocche anime dal culto e adoratione del creatore».143
Il suo duro attacco alla Chiesa di Roma, inoltre, non risparmiava nep-
pure il rigido dogmatismo cattolico che ± seppur in maniera indiretta e sot-
tile (il tema del paragrafo in questione era sempre l'inconoscibilitaÁ del giu-
dizio divino) ± veniva messo in seria discussione: «Li giudici di Dio sono
uno infinito abisso e imperscrutabile, e benche ragionare se ne possa pari-
mente se si fa con modestia e sobrietaÁ, temeraria sciocchezza certo eÁ parlare
diffinitamente e con determinatione».144
Il Fregoso non poteva sfuggire alla condanna. Il testo, come accennato,
fu inserito nell'Indice veneziano e gli estensori del primo indice romano del

142 Ivi, cc. XIXv-XXr.


143 Ivi, c. XXIv.
144 Ivi, c. XIXr.

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CAPITOLO PRIMO

1559 non ebbero il minimo tentennamento nel riconfermare la proibizione.


Come eÁ stato ampiamente documentato, l'Indice del 1559 conteneva la piuÁ
severa condanna delle versioni vernacolari della Bibbia fin allora mai emes-
sa, nonche forti restrizioni anche per la lettura del testo latino.145 Ebbene,
il rinvenimento ± nello scritto del Fregoso ± di ripetuti appelli alla lettura
diretta del testo sacro, consigliata come il miglior strumento di preparazio-
ne all'orazione mentale (anche e soprattuto per i «semplici et idioti») 146 sa-
rebbe dunque apparsa, oltre che un ulteriore motivo per condannare l'ope-
ra, una palese conferma dell'ormai teorizzato nesso eresia-testo sacro.
A poco valsero cosõÁ i pienamente ortodossi rimedi consigliati da Frego-
so per sfuggire alla «memoria de i piaceri sensuali o havuti o disiderati» e
alla «sollecitudine delle ricchezze». L'autore, infatti, a questo fine prescri-
veva, secondo la migliore tradizione ortodossa cattolica, un rimedio corpo-
rale e uno spirituale: «[...] il digiuno per domare l'insolentia della carne, e
la limosina per estinguere l'insatiabil sete dell'avaritia i quali come due
puntelli sostengono la oratione che non inclini ne a destra ne a sinistra
[...]».147 E ugualmente inefficace e tardiva si riveloÁ quella teoria pedagogi-
co-dottrinale posta a conclusione del trattato, in cui prefigurava, in riferi-
mento al rapporto fede-opere, un doppio livello (esoterico-essoterico) di
«indottrinamento». EÁ probabile che Fregoso cercasse di prevenire l'accusa
di non essersi espressamente pronunciato a favore del libero arbitrio e della
retribuzione delle opere, insinuando l'idea che i fermi nella fede non hanno
bisogno di chiarimenti intorno a dogmi che giaÁ conoscono perfettamente.
Fregoso, infatti, distingueva accuratamente tra coloro «che sono infermi

145 Index des livres interdits, vol. VIII, cit., pp. 25-50; G. FRAGNITO , La Bibbia al rogo. La

censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Bologna, Il Mulino, 1997,


pp. 75 sgg.
146 L'invito allo studio della Bibbia per prepararsi alla «vera» orazione veniva affermato nel

testo a partire da un atteggiamento mistico-affettivo largamente diffuso allora tra dotti e semplici,
attraverso una malcelata svalutazione della tradizione e, implicitamente, dell'autoritaÁ della Chiesa
nell'interpretazione del testo sacro: «[...] e essercitarsi spesso nelle lettioni delle cose divine e ma-
xime ne i santi Evangeli e nella dottrina delli Apostoli, e di quelli santi antichi dottori che furono
a gli Apostoli vicini con prudentia peroÁ e con giuditio, tenendo per certo che in la sacra scrittura
non possa essere alcuna cosa falsa ne ancho alcuno errore, ma ne i scritti de i dottori ben possono
essere e in fatto pure si trovano alcuni errori, ma non giaÁ contrari alla fede, perche come huomini
anchora essi potevano errare, [...]. Ma la sacra scrittura che si bene fu scritta per mano d'huomini
fu peroÁ dettata e inspirata dal spirito santo non puote esser ne errore ne falsitaÁ» (Ivi, c. XXVv). Il
messaggio veniva ripetuto anche successivamente: «Quella anima che saraÁ a questo modo dispo-
sta, come havemo detto di sopra essercitata per le assidue lettioni e meditationi nelle sante scrit-
ture, e che s'offeriraÁ inanzi al suo Signore piena d'affetto, e di divotione inchinandosi con ogni
humiltaÁ e riverentia sotto la sua potentissima mano» (Ivi, c. XXXVIIv).
147 Ivi, c. XXXv.

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DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

nella fede ne molto credono» 148 e quelli «che sono fedeli, e fermamente
credono la vita futura, e la retribuzione delle opere».149 Mentre i primi de-
vono essere «indottrinati» riguardo alla retribuzione delle opere e al libero
arbitrio dell'uomo, nonche sull'importanza che questi due elementi ricopri-
ranno al momento del trapasso a vita futura,150 i secondi, non avendo bi-
sogno di essere «illuminati» al riguardo, dovrebbero `solamente' avere pie-
na fiducia nella infinita misericordia e «liberalitaÁ» divina (ed evitare dun-
que di preoccuparsi nelle loro orazioni per la «salute dell'anima»).151 Fre-
goso dunque proponeva una teoria dai molteplici livelli di lettura. Se ai
lettori cattolici questa sarebbe dovuta apparire come una giustificazione
sufficientemente plausibile del suo silenzio-assenso rispetto alla versione
ortodossa del rapporto fede-opere, ai lettori «spirituali» egli voleva forse
rivolgere (nicodemiticamente) la raccomandazione di continuare ad aver
fede solo nella grazia misericordiosa di Dio.
Gli sforzi di mediazione non furono premiati. Passata la metaÁ del seco-
lo non c'era piuÁ spazio neanche per le sottili distinzioni simulatorie o dis-
simulatorie.152
GiaÁ al momento della stesura del suo scritto il Fregoso aveva intravisto
orizzonti minacciosi. Tra le righe del suo testo, infatti, non eÁ difficile rin-
tracciare alcuni preoccupati riferimenti autobiografici al clima di ostilitaÁ
che sentiva crescere intorno a seÂ. «Si deve etiam fare oratione per li nostri
nemici [...] perdonandoli le ingiurie»,153 scriveva a proposito dei contenuti

148 Ivi, c. XXXVIr.


149 Ivi, c. XXXIVv.
150 «A questi tali saraÁ sempre utile instruirli nella credenza delle cose dell'altro mondo e
confirmarli con quelle vere e salde raggioni, che fanno a questo proposito con l'autoritaÁ della
santa scrittura, e della dottrina di GiesuÁ Christo, che dopo questa vita breve e corporale ne deve
succedere un'altra spirituale et eterna, nel principio della quale si ha da essaminare le opere no-
stre di questa prima vita, e poi nel resto di quella che eÁ infinita si ha da ricevere la retributione del
bene, o del male, secondo le opere, e secondo il proposito della volontaÁ sua la quale senza alcun
dubbio eÁ libera in se stessa, benche al bene inferma e debole, e al male prontissima e gagliarda»
(Ivi, c. XLr).
151 «Non debbono secondo il giuditio nostro questa tanto intensa petitione della salute del-

l'anima porgere a Dio nelle loro orationi, in modo alcuno, perche al tutto si debbono confidare
nell'infinita misericordia e liberalitaÁ sua senza domandare alcun premio» (Ivi, cc. XLVr-v).
152 Anche gli appelli alla tolleranza di impronta erasmiana o meglio ancora pichiana (cfr.

supra, pp. 19-20) come quello che segue non potevano essere apprezzati dagli inquisitori in un
contesto di lotta feroce al «nemico»: «[...] ne si deve per niente abbandonare gl'infedeli, i Giudei
e gli heretici pregando Dio li voglia illuminare della veritaÁ sua imitando la Chiesa madre nostra,
che ora et intercede non solo per gli suoi figlioli, ma anchora per gli suoi nemici, e questa tale
universale oratione insegnava GiesuÁ Christo quando voleva che invocassimo il padre nostro,
come padre universale e commune a tutti» (Ivi, c. XLv).
153 Ivi, c. XLIr.

Ð 31 Ð
CAPITOLO PRIMO

della «giusta» orazione; e ancora, poco dopo: «Si deve [...] congiungere
[...] [la domanda] della patientia nelle avversitaÁ del mondo, e [...] la patien-
tia e tollerantia delle ingiurie non solo delle grandi, ma etiam delle picciole,
le quali come paglia o minuti stecchi piuÁ facilemente s'accendono e ricevo-
no il fuoco dell'ira che vi fanno le legne grosse».154
Il progressivo irrigidimento del clima religioso e politico ed il conse-
guente assottigliamento dei margini di movimento fino a quel momento
utilizzati dagli «spirituali» sarebbero culminati nell'approvazione del decre-
to sulla giustificazione, durante la sesta sessione del Concilio di Trento, il
13 gennaio 1547.155 Solo attraverso una sottile opera di «aggiustamento»
dei propri scritti (Crispoldi) oppure accompagnando la trattazione con
esplicite confessioni di fede ortodossa (Porzio), si sarebbe potuto evitare
la sorte toccata agli scritti del cardinal Fregoso. Tullio Crispoldi, autore,
nel corso degli anni trenta, di numerose operette devozionali sul tema della
preghiera e della devozione religiosa, in cui aveva utilizzato, probabilmente
a scopo cautelativo, lo stratagemma dell'anonimia,156 trascorse parte della
sua attivitaÁ pastorale «tra evangelismo e controriforma» a Verona presso il
vescovo Giberti.157 Il contenuto dei suoi scritti rivela, in effetti, un ambi-
guo oscillare tra posizioni potenzialmente eterodosse e posizioni di sicura
ortodossia, dovuto certo al carattere complesso della sua personalitaÁ e della
sua formazione religiosa, ma anche frutto delle posizioni di frontiera occu-
pate dal gruppo di «spirituali» intorno a cui gravitava. Se, per esempio, da

154 Ivi, c. XLIIIr.


155 Il testo del decreto eÁ in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di G. Alberigo,
G.A. Dossetti, P.-P. Joannou, C. Leonardi, P. Prodi, Bologna, Istituto per le Scienze religiose,
1973, pp. 671-681, nonche naturalmente in Concilium Tridentinum. Diariorum, Auctorum, Epi-
stolarum, Tractatuum nova collectio, Freiburg, Brisgoviae, B. Herder, vol. V, 1911, pp. 791-799.
Per una prima analisi del decreto eÁ sufficiente qui rinviare a H. JEDIN, Storia del Concilio di
Trento, vol. II, Brescia, Morcelliana, 1962, pp. 354-356.
156 Mando Á alle stampe in ordine cronologico, Le Meditationi sopra il Pater noster (sett.
1534), le Meditationi dechiarative del Paternostro (dic. 1534), De la Ave Maria et del Credo
(1535), e l'Oratione sopra il Pater noster (1540) (cfr. A. PROSPERI, Les commentaires du Pater no-
ster, cit., pp. 99-100).
157 Sul Crispoldi vedi F. PETRUCCI , sub voce, in DBI, vol. 30 (1984), pp. 820-822; A. PRO-

SPERI, Tra evangelismo e controriforma. Giovan Matteo Giberti, 1495-1543, Roma, Edizioni di
Storia e Letteratura, 1969, cit., ad indicem; C. GINZBURG - A. PROSPERI, Giochi di pazienza.
Un seminario sul «Beneficio di Cristo», Torino, Einaudi, 1975, ad indicem; P. SIMONCELLI, Evan-
gelismo italiano, cit., ad indicem; M. FIRPO, Il «Beneficio di Cristo» e il Concilio di Trento, p. 62 e
ID., Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, vol. I, cit., pp. 343-344, indica il Cri-
spoldi come uno dei quattro uomini di chiesa cui nel 1544 venne affidato il compito di redigere
una censura del Beneficio di Cristo: sfortunatamente non disponiamo del testo di queste censure
che, tra le altre cose, potrebbe forse contribuire ad illuminare meglio un personaggio che rimane
ancora per certi versi difficile da decifrare.

Ð 32 Ð
DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

un lato prendeva posizione a favore della dottrina dell'intercessione dei


santi, dall'altro presentava (nella prima delle sue opere) una raccolta di «in-
centivi» selezionati ai fini di una devozione basata integralmente sull'ispira-
zione interiore diretta dallo Spirito Santo, e descriveva la preghiera come
un moto di incitazione e di emozione dell'anima, respingendo la concezio-
ne cattolica secondo cui l'orazione era un atto in se meritorio davanti agli
occhi di Dio. Molti dei suoi scritti sono caratterizzati, dunque, da un'alter-
nanza di proposizioni legate alla difesa della dottrina delle opere meritorie
ed altre di segno completamente opposto, legate all'esaltazione della gratui-
taÁ della giustificazione divina.158 Nel De Ave Maria, per esempio, dopo
aver sostenuto con ricche argomentazioni la liceitaÁ dell'orazione rivolta ai
santi affinche «preghino per noi» e affinche «possiamo imparare la strada
che hanno tenuta loro, et ne siano uno incitamento ad intrarvi ...»,159 Cri-
spoldi spiegava ai suoi lettori che le bone opere dell'uomo sono «un niente
da seÂ, ma solo vagliano perche le facemo sotto questa fede».160
Al di laÁ di questi difficili tentativi di conciliare istanze dottrinali diverse
tra loro, comunque, l'incolumitaÁ del prete veronese, non piuÁ coperto dal-
l'autoritaÁ religiosa del Giberti, morto nel 1543, dovette passare nei decen-
ni successivi per un sottile ritocco di alcuni passaggi compromettenti delle
sue opere.161
Chi non godeva di quella naturale propensione per il compromesso
dottrinale, o per l'intervento autocensorio, propria del Crispoldi, doveva
invece ricorrere ± volendo ancora trattare il tema dell'orazione interiore ±
ad esplicite e ripetute professioni di fede ortodossa. EÁ il caso dell'umanista
Simone Porzio,162 autore di un Modo di orare christianamente con la espo-

158 Cfr. A. PROSPERI, Les commentaires, cit., pp. 100-101.


159 T. CRISPOLDI, De Ave Maria, s.l., s.d., c. 371v.
160 «[Sono] li meriti di GiesuÁ Christo, per li quali sono accette le opere bone de fideli soi[;]
ne [i] peccati mei mi levano di questa fiducia peroche io credo in questa fede havere la remis-
sione de peccati mei» (Ivi, cc. 379v-380r); cfr. anche C. GINZBURG - A. PROSPERI, Giochi di pa-
zienza, cit., pp. 17 sgg. Tipiche del tentativo di compromesso dottrinale messo in atto dal Cri-
spoldi sono affermazioni di questo genere: «Le opere nostre bone tanto vagliono et tanto sono
accettate da Dio, quanto sono fatte in fede, perche si fanno con questa cognitione che elle siano
un niente da se, ma solo vagliano perche le facemo sotto questa fede, cioeÁ, che Dio benedetto per
li meriti del suo figliuolo fa degni di fare quelle tali opere a sua gloria, et tutto quello che per
nostra fragilitaÁ vi peccamo su, et non le facemo con tutti quelli modi che si convengono a tanta
nostra dignatione, esso benignamente lo ne perdona» (Ivi, c. 380v).
161 Vedi C. GINZBURG - A. PROSPERI , op. cit., p. 22.

162 Sul Porzio, cfr. Filosofia, filologia, biologia: itinerari dell'aristotelismo cinquecentesco, a

cura di D. Facca e G. Zanier, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1992; P. ZAMBELLI, L'Apprendista stre-
gone. Astrologia, cabala e arte lulliana in Pico della Mirandola e seguaci, Marsilio, 1995, p. 210;
EAD., Scienza, filosofia, religione nella Toscana di Cosimo I, in Florence and Venice: comparisons

Ð 33 Ð
CAPITOLO PRIMO

sitione del Pater noster, pubblicato a Firenze nel 1551 da Lorenzo Torren-
tino grazie alla traduzione in lingua fiorentina di Giovan Battista Gelli,163
opera che sin dal titolo richiamava un chiaro influsso erasmiano.164 Solo
dopo essersi profuso in una enfatica sottolineatura del valore meritorio del-
le opere, Porzio procedeva ad introdurre il suo pensiero sul valore dell'o-
razione mentale. Solamente cioeÁ dopo aver chiarito che siamo «figliuoli et
heredi del sommo Padre [non] solamente con l'affetto et con l'intentione,
ma anchora con gli effetti et con l'opere»,165 l'autore si sentiva libero di
passare alle ormai tradizionali (nell'ambito di questo «genere letterario»)
critiche contro gli «Hypocriti, i quali amano di orare ne le Sinagoghe, et
ne cantoni de le piazze, accioche gli huomini gli vegghino» 166 e contro quei
fedeli che si prodigano in lunghissime orazioni «accozzando insieme gran-
de moltitudine di parole»,167 mettendo cosõÁ finalmente in evidenza che la
vera devozione eÁ quando «ci congiugniamo mediante la oratione et preci
con Dio».168
Ogni affermazione legata al filone «spirituale» sopravvive solo in quanto
seguita da un'affermazione di segno contrario, che di fatto rappresentava
una smentita della precedente asserzione. CosõÁ, per esempio, dopo aver pre-
so posizione contro l'orazione rivolta ai santi («questa debbe darsi solo a
Dio») 169 stemperava subito la carica polemica della proposizione, ribaden-
do il potere intercessorio delle «anime angeliche»: «[A] questo dubio, se
quando noi honoriamo i santi, noi dobbiamo usare questa sorte di prece
[...] si debbe rispondere, che questa debbe darsi solo a Dio ottimo et gran-
dissimo, essendo ella appresso a nostri quel solo et vero culto di Dio chia-

and relations. Acts of two Conferences at Villa I Tatti in 1976-1977, organized by Sergio Bertelli,
Nicolai Rubinstein, and Craig Hugh Smyth, vol. 2: Il Cinquecento, Firenze, La Nuova Italia,
1980, pp. 1-52; A. DE GAETANO, Giambattista Gelli and the Florentine Academy, Firenze, La
Nuova Italia, 1976.
163 Sul Gelli, oltre al testo del De Gaetano citato alla nota precedente, cfr. P. SIMONCELLI ,

La lingua di Adamo. Guillaume Postel tra accademici e fuoriusciti fiorentini, Firenze, Olschki,
1984, ad indicem; e M. FIRPO, Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo. Eresia, politica e cultura
nella Firenze di Cosimo I, Torino, Einaudi, 1997, ad indicem.
164 Modo di orare christianamente con la espositione del Pater noster, fatta da M. Simone Por-

tio Napoletano. Tradotto in lingua Fiorentina, da Giovan Batista Gelli, In Fiorenza, presso Lo-
renzo Torrentino, MDLI; l'edizione latina, a quanto mi risulta, fu pubblicata per la prima volta
solo l'anno successivo: S. PORZIO, Formae orandi christianae, enarratio. Eiusdem in Euangelium
Diui Ioannis scholion, Florentiae, apud Laurentium Torrentinum, 1552.
165 S. PORZIO , Modo di orare, cit., c. 14.

166 Ivi, c. 16.

167 Ibid.

168 Ivi, c. 15.

169 Ivi, c. 22.

Ð 34 Ð
DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

mato latria, il quale si conviene solamente a lui; imperoÁ che noi honoriamo et
preghiamo i santi, non perche ci faccino bene alcuno in virtuÁ loro propria,
ma lo impetrino per noi da Dio mediante i loro meriti, et i loro preghi».170
Allo stesso modo prima di esaltare la dimensione privata ed interiore
della preghiera, si sentiva obbligato a ricordare che anche le orazioni pub-
bliche avevano una funzione ed un valore fondamentale: «Et se pure tu
orerai in publico, ma per il bene commune, et per dar buono essempio a
gli altri, cercando solamente la gloria, et lo aiuto di Dio, et non la reputa-
tione et l'honor de gli huomini, et saraÁ come se tu orassi in ascosto imperoÁ
che il Signore eÁ sempre presso et favorevole a quelli che lo chiamano».171
Sia le orazioni private che quelle pubbliche dunque ricevevano la benedi-
zione divina: «Et certamente che sono certe orationi tanto publiche, quan-
to private, [...] le quali sono molto grate a Dio».172
EÁ chiaro dunque che le mutate condizioni religiose imponevano un dif-
ferente codice di espressione. A tal proposito pare significativo sottolineare
come il precetto evangelico dell'orazione da recitarsi nella «parte piuÁ secre-
ta della camera», a distanza di dieci o venti anni dalle precedenti versioni
letterarie, venisse utilizzato con un significato letteralmente capovolto. Se
in Savonarola, in Lutero o in Stancaro,173 sempre accompagnato dal richia-
mo quasi esclusivo al valore ineguagliabile dell'orazione interiore, suonava
come un chiaro appello a fuggire la «doppiezza» tra cuore e lingua, nel
trattato del Porzio ± preceduto dalla proclamazione della legittimitaÁ dell'o-
razione pubblica, e seguito, come vedremo tra poco, da una sublimazione
della distinzione tra sfera pubblica e sfera privata ± esso assumeva una ca-
ratterizzazione chiaramente nicodemitica.174 Leggendo, infatti, il brano in
questione alla luce delle conoscenze storiche sul clima politico religioso dei
primi anni cinquanta non possiamo avere dubbi sul significato da attribuir-
gli: «Et questo modo di orare disegnandoci il Salvator nostro con la simi-
litudine de la camera dice. Quando tu vuoi orare entra dentro a la tua ca-
mera, dove havendoci insegnato primeramente come non si debbe orare in
publico, dimostra hora qual sia il luogo che si debbe eleggere; Onde dice.
Quando tu ori, cioeÁ quando tu desideri honorare debitamente et conve-
nientemente Dio, che cosõÁ significa appresso a Greci questa parola [...].

170 Ivi, cc. 22-23.


171 Ivi, c. 31.
172 Ivi, c. 32.
173 Cfr. supra, pp. 15-16.
174 Vedi P. SIMONCELLI, Evangelismo italiano, cit., pp. 365 sgg.

Ð 35 Ð
CAPITOLO PRIMO

Quando tu ori cioeÁ, quando tu deliberi far tal cosa, entra dentro a la tua
camera cioeÁ, ne la piuÁ secreta parte de la casa tua; et dove tu sei solito
et consueto di ascondere, et riporre i tuoi tesori, et le tue cose piuÁ pretiose,
riponi anchora l'oratione tua, la quale eÁ di gran lunga piuÁ pretiosa di qual si
voglia altro tesoro, et vuole significare in questo luogo il maestro nostro, il
tuo piuÁ sicuro et secreto luogo, et quivi riponi il cuore tuo. Onde quando
tu ti libererai da le perturbationi del mondo, et non ti lascerai allettare, et
tirare da le lusinghe de la carne, ne adempierai i suoi desideri, ma abneghe-
rai et abbasserai te medesimo, allhora tu camminerai totalmente in ispirito,
et cercherai Dio con tutto il cuore, il quale non saraÁ allhora diviso, ma tutto
rivolto a Dio».175
Puntuale dopo poche righe, come giaÁ accennato sopra, giunge la codi-
ficazione «sublimante» della teorizzata distinzione tra pubblico e privato,
attraverso un esplicito richiamo al testo vangelico: «... come scrive Luca di-
cendo che Christo insegnava il dõÁ nel tempio, et la notte usciva di quello, et
andava a stare nel monte, onde insegnava come publico ministro palese-
mente nel tempio il giorno, et la notte orava et pregava per se et per gli altri;
la qual sorte di vita debbono non solamente imitare i sacerdoti, ma inge-
gnarsi con ogni diligenza il piuÁ che possono di condursi a tal perfettione».176
In alcuni momenti, certo, l'autore sembrava non riuscire a dissimulare
perfettamente la sua originaria ispirazione protestante, e si lasciava andare
ad appassionate esaltazioni della fede, spiegando che «tutte le opere buone
sieno frutti della fede» e che «eÁ certamente l'opera della fede, credere in
colui il quale eÁ stato mandato da il sommo padre, et questa fede essendo
ferma et stabile in Dio eÁ quella che ci rende tali, et che ordina noi stessi
et consiglia tutte le forze dell'animo nostro a la dilettione et all'amore di
Dio». La conclusione del trattato, tuttavia, riportava il discorso (salvo un
incontrollato spunto finale, che tradiva ancora una volta il ben piuÁ magma-
tico retroterra del suo pensiero) 177 su binari saldamente ortodossi. La pa-

175 S. PORZIO , Modo di orare, cit., cc. 28-29. Il brano continua cosõÁ: «Egli soggiugne, chiudi

la porta tua, imperoÁ che come quando l'uscio eÁ aperto i ladri entrano di nascosto a furare i tesori
corruttibili, cosõÁ anchora quando saraÁ aperta la porta del tesoro spirituale, la quale sono i cinque
nostri sensi, entreranno le perturbationi de le cose sensibili, et ruberanno subitamente il tesoro
spirituale, perche se elle entrono per gli occhi elle rendono tenebrosa la lucerna del corpo tuo, se
elle entrano per gli orecchi, perturbano la mente, et se elle frequentano et stimolano l'animo»
(Ivi, c. 30).
176 Ivi, c. 35 (corsivo mio).

177 Le parole finali, infatti, svalutavano parzialmente quanto detto sul valore meritorio del-

l'orazione: «Et se bene egli puoÁ anchora darti il Cielo senza le tue orationi, et senza i tuoi preghi,
egli vuole niente di manco questi tali buoni movimenti de lo animo» (Ivi, c. 40).

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DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

lese difesa del libero arbitrio dell'uomo si accompagnava alla riaffermazio-


ne della funzione principale dell'orazione del fedele, intesa non solo come
mezzo per rendersi familiari a Dio e rammentarsi dei propri peccati, ma
anche come strumento per «ingraziarsi» il sommo Padre in vista del giudi-
zio finale: «Dio non ti comanda che tu lo preghi perche tu gli facci noto il
desiderio tuo, ma perche tu lo pieghi et rendatelo familiare, con la frequen-
za delle orationi, perche tu ti humilii, et perche tu ti riduca spesso a memo-
ria i tuoi peccati, et ricorditi di haverlo offeso. Perche se bene oltra di que-
sto dio conobbe ab eterno, che mediante la gratia sua, et il buono uso del
libero arbitrio tuo, tu impetrerai et meriterai il Cielo, egli non ti predestinoÁ
peroÁ di tal maniera che non ti lasciassi la podestaÁ de lo arbitrio, et de lo
eleggere libera».178

Muovendosi tra i riferimenti cripto-riformati e le affermazioni ortodos-


se dell'umanista, tra i suoi appelli all'orazione mentale e i suoi attacchi con-
tro le «vanitaÁ» della devozione esteriore, non si puoÁ fare a meno di osser-
vare che tutto il trattato eÁ percorso in modo trasversale da una venatura
ascetica la quale, pur non emergendo mai come struttura portante del di-
scorso, affiora di tanto in tanto, lasciando segni, flebili ma chiaramente di-
stinguibili, della sua presenza: una presenza che suggerisce un'ultima con-
siderazione. «[M]ediante la oratione et le preci con Dio ± aveva scritto il
Porzio ± [...] noi certamente ci partiamo da le cose terrene et andiamo alle
celesti, et siamo tirati da fratelli al Padre nostro non terreno, ma divino se-
condo lo affetto et il desiderio della mente nostra; et ci insegna finalmente
la via et il modo, per il quale noi possiamo ritornare in gratia con noi stessi,
et col quale noi possiamo indurre il senso a seguitare la ragione, et ad es-
sergli obbediente con questo digiuno; concioÁ sia cosa che un mancamento
degli affetti, et uno spogliarsi de le passioni humane, le quali essendo di-
scacciate da noi, faranno che noi riedificheremo un nuovo huomo, non so-
lamente caro a Dio, ma amico et benevolo anchora a gl'altri huomini».179 Si
trattava di una venatura ascetica ben temperata da un intellettualismo d'im-
pronta umanistica che, insistendo sul primato dell'elemento razionale,180 lo

178 Ivi, c. 40. Anche in questo brano «ortodosso», comunque, trapelava qualche indeside-

rato (ma inconsciamente prorompente) segnale «eterodosso». Come ha sottolineato Paolo Si-
moncelli, Evangelismo italiano, cit., p. 366, quel «non ti predestinoÁ peroÁ di tal maniera [...]» la-
sciava in effetti intendere che comunque una certa misura di predestinazione esistesse. Sull'Espo-
sitione del pater, posta in appendice al Modo di orare, si rinvia alle considerazioni di P. SIMON-
CELLI, op. cit., p. 367 e nota 173.
179 S. PORZIO , Modo di orare, cit., cc. 15-16.

180 Nell'ambito di una complessa teorizzazione del rapporto tra orazione e contemplazione

4
Ð 37 Ð
CAPITOLO PRIMO

teneva ben distante da quell'abbandono totale alla volontaÁ di Dio che i di-
fensori dell'ortodossia cattolica impararono a riconoscere come l'elemento
piuÁ insidioso della tradizione mistico-contemplativa: finche fosse rimasto
imprigionato, e ben controllato, nelle maglie del razionalismo umanistico,
il suo invito all'«abnegazione» di se stesso come strada per «camminare to-
talmente in ispirito» e cercare «Dio con tutto il cuore» 181 non avrebbe
dunque preoccupato le autoritaÁ inquisitoriali romane. La teorizzazione del-
l'orazione mentale come strumento per giungere alla «divina unione» con
Dio attraverso la privazione di tutti i propri affetti e beni terreni, il totale
annullamento della propria volontaÁ ed un profondo odio per se stesso, ave-
vano trovato ben altra sistematica esposizione negli scritti di un Battista da
Crema o di un Serafino da Fermo, tenendo sicuramente in maggiore ap-
prensione i difensori dell'ortodossia romana.

3. SERAFINO DA FERMO E LORENZO DAVIDICO

Le espressioni di quella religiositaÁ contemplativa che, nel solco della


tradizione begarda del Libero Spirito,182 anticipoÁ molti elementi della se-
centesca tradizione dell'«orazione di quiete»,183 passarono indenni ± tran-
ne poche eccezioni ± 184 tra le maglie della censura romana, riemergendo
poi in tutta la loro carica dottrinalmente inquietante nel bel mezzo del «se-
colo del barocco».185 Mentre nella Spagna della prima metaÁ del secolo XVI

leggiamo: «Noi ce lo [Dio] proponiamo et rappresentiamo nell'animo con la ragione in tre ma-
niere [...]» (Ivi, c. 20).
181 «Onde quando tu ti libererai da le perturbationi del mondo, et non ti lascerai allettare,

et tirare da le lusinghe de la carne, ne adempierai i suoi desideri, ma abnegherai et abbasserai te


medesimo, allhora tu camminerai totalmente in ispirito, et cercherai Dio con tutto il cuore, il
quale non saraÁ allhora diviso, ma tutto rivolto a Dio» (c. 29).
182 Su cui vedi l'ormai classico studio di R. GUARNIERI , Il movimento del Libero Spirito. Testi

e documenti, in «Archivio Italiano per la Storia della PietaÁ», vol. IV, Roma, Edizioni di storia e
letteratura, 1965, pp. 351-708; noncheÂ, piuÁ recentemente, EAD., Prefazione storica a Margherita
Porete, Lo specchio delle anime semplici, Roma, Edizioni San Paolo, 1994, pp. 7-54.
183 Vedi per un primo approccio M. PETROCCHI , Il Quietismo italiano del Seicento, Roma,

Edizioni di storia e letteratura, 1948; R. DE MAIO, Il problema del quietismo napoletano, in «Ri-
vista storica italiana», LXXXI, 1969, pp. 721-744; e G.V. SIGNOROTTO, Inquisitori e mistici nel
Seicento italiano. L'eresia di Santa Pelagia, Bologna, Il Mulino, 1989.
184 Cfr. infra, pp. 87 sgg.

185 P. SIMONCELLI , Il «Dialogo dell'unione spirituale di Dio con l'anima» tra alumbradismo

spagnolo e prequietismo italiano, in «Annuario dell'Istituto storico italiano per l'etaÁ moderna e
contemporanea», XXIX-XXX, 1977-78, Roma, 1979, pp. 565-601, in partic. pp. 599-600.

Ð 38 Ð
DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

le autoritaÁ inquisitoriali si trovarono di fronte al parallelo procedere di mo-


vimenti protestanti e correnti spiritualistico-alumbrade,186 avendo in altre
parole la possibilitaÁ di colpire indiscriminatamente l'una e l'altra manifesta-
zione di eresia, nella penisola italiana, invece, le cose andarono diversamen-
te. La mistica italiana si sviluppoÁ, infatti, sin dal Trecento ± tranne poche
eccezioni, quali l'eresia begarda sopra citata ± nell'alveo dell'ortodossia cat-
tolica. Al momento della diffusione delle dottrine protestanti in Italia, quel-
la tradizione offrõÁ, tra l'altro, un importante contributo alla difesa della stes-
sa ortodossia in funzione anti-luterana.187 In virtuÁ di tale evoluzione risultoÁ
dunque molto piuÁ difficile per le autoritaÁ romane, distratte dal pericolo del
luteranesimo, individuare, nel corso del XVI secolo e dei secoli successivi,
il labile confine tra ortodossia ed eterodossia: un'indiscriminata «caccia al
mistico» sarebbe risultata tra le altre cose dannosa ai fini di quella lotta an-
ti-luterana che ± almeno fino agli anni settanta del '500 ± avrebbe conser-
vato la prioritaÁ su qualsiasi altro obiettivo delle gerarchie ecclesiastiche.
EÁ questo il quadro all'interno del quale va letto il cinquecentesco Trat-
tato utilissimo et necessario della mentale oratione 188 di Serafino da Fer-
mo 189 che, pur contenendo molti degli elementi che nel corso della secen-
tesca offensiva contro il quietismo avrebbero provocato la reazione delle
autoritaÁ ecclesiastiche, riuscõÁ allora a passare indenne tra le maglie della
censura romana (non altrettanto gli riuscõÁ, invece, in Spagna dove finõÁ ripe-
tutamente all'Indice).190 Un trattato, va subito detto, esplicito nella sua im-

186 Vedi B. LLORCA , Die Spanische Inquisition und die ``Alumbrados'' (1509-1667), Berlin-

Bonn, Ferd. Dummlers Verlag, 1934; J.E. LONGHURST, Erasmus and the Spanish Inquisition:
The Case of Juan de ValdeÂs, Albuquerque, The University of New Mexico Press, 1950; Reforma
espanÄola y Reforma luterana. Afinitades y diferencias a la luz de los misticos espanoles (1517-1536),
Madrid, Fundacion Universitaria Espanola, 1975; Inquisicion espanola y mentalitad inquisitorial,
Barcelona Ariel, ed. Angel AlcalaÁ, 1984; nonche il classico studio di M. BATAILLON, Erasmo y
Espana. Estudios sobre la historia espiritual del siglo XVI, Mexico-Buenos Aires, Fondo de cultura
economica, 1966 (II ed.).
187 Sulla tradizione mistica ortodossa, cfr. G. GETTO, Letteratura religiosa dal Due al Nove-

cento, cit., pp. 159 sgg.; e sull'antiluteranesimo di un Battista o di un Serafino cfr. L. BOGLIOLO,
Battista da Crema. Nuovi studi sopra la sua vita, i suoi scritti, la sua dottrina, Torino, SocietaÁ Edi-
trice Internazionale, 1952.
188 Trattato utilissimo et necessario della mentale oratione, et come acquistar si possi, del Re-

verendo padre Don Seraphino da Fermo Can. Regulare et predicatore rarissimo. In Venetia, Comin
da Trino, 1541.
189 Su Serafino da Fermo vedi G. FEYLES, Serafino da Fermo canonico regolare lateranenese

(1496-1540). La vita, le opere, la dottrina spirituale, Torino, SocietaÁ Editrice Internazionale, 1942.
190 Le sue Obras espirituales furono condannate sia nell'Indice spagnolo del 1559 (Index des

livres interdits, vol. V, cit., pp. 539-541) che in quello del 1583 (Index des livres interdits, vol. VI,
cit., p. 632). In Italia, invece, solo la sua Apologia di fra Battista da Crema fu inserita nell'Indice
romano del 1559 e in quello del 1564 (Index des livres interdits, vol. VIII, cit., pp. 677-678).

Ð 39 Ð
CAPITOLO PRIMO

postazione ascetico-mistica e radicale nelle sue implicazioni spiritualistiche


quanto gli scritti del maestro di Serafino, Battista da Crema, condannato
dal Sant'Uffizio nel 1552 e messo all'indice nel 1559.191
Come in altri scritti fin qui esaminati, lo spunto iniziale eÁ la desolata
considerazione del dilagare del vuoto devozionalismo delle parole. Gli «hy-
pocriti et superstitiosi» che pregano il Signore «con sola voce et ignude ce-
rimonie» 192 sono anche in questo trattato il termine di paragone negativo
che l'autore utilizza per esaltare la preghiera fatta con il «cuore», «in spirito
et veritade».193 Il filo del discorso, tuttavia, lo conduce in direzioni diverse
da quelle giaÁ trattate. Il fine ultimo della sua «infiammata» espositione eÁ
± come Serafino chiarisce fin dall'inizio ± la «mentale unione» con Dio.
L'orazione mentale per il canonico non eÁ, dunque, semplicemente una pre-
ghiera interiore, un colloquio intimo con Dio, come siamo stati abituati a
vederla interpretare fin qui, ma essa eÁ «l'ardente desiderio di Dio», il mez-
zo attraverso il quale l'uomo puoÁ giungere alla «perfetta unione» con l'og-
getto primo del suo desiderio. L'intero trattato eÁ dominato da questa mi-
stica tensione verso l'alto, il cui tormentato percorso eÁ ben riassunto dalla
metafora del «salimento d'un alto monte, che nel principio eÁ scabroso, et
lubrico, et pian piano diventando men difficultoso, finisce in un campo
amenissimo, et fertilissimo, al qual chi vole ascendere, convien che dispon-
ga ogni peso, et facci buon animo, et adoperi ogni industria, et preceda per
ordine cominciando dal basso infino alla cima».194
Quattro sono i gradi, secondo la ripartizione savonarolinana, o meglio
bonaventuriana, con cui si sale fino alla cima del «monte». Il primo eÁ la
«lettione»,195 il secondo la «meditatione»,196 il terzo la «mental orazio-

191 Index des livres interdits, vol. VIII, cit., pp. 379-80.
192 Trattato utilissimo et necessario della mentale oratione, cit., c. 2v. «Molti [...] si sforzano
dire molti ufficii, et orationi, et sempre vanno brontolando, et spesso lasciano per sodisfare al
proprio appetito, le opre della charitaÁ, et diventano sdegnosi, [...] non hanno peroÁ il cuore in-
tento a quel che dicono, ma solamente moveno l'asciutte labbra, lasciando la mente in diversi
pensieri otiosamente discorrere» (Ivi, cc. 10r-v).
193 Ivi, c. 3r-v.

194 Ivi, c. 17r.

195 «Di quella ho gia Á detto che debbi sceglier tra gli altri libri sol quelli che alla perfetta
vittoria delle tue passioni ti conducono, in questo sia svegliato, che la curiositaÁ non ti traporti
al desiderio di sapere, perche non riportaresti unione, et mortificatione, ma distrattione, et fo-
mento dell'amor propio» (Ivi, c. 60r).
196 «Quando per se stessa la mente va ruminando quel che nel pascolo della lettione ha rac-

colto, et quivi ti conviene haver patientia di sopportare gli importuni pensieri, che in quel tempo
ti molestaranno, riducendo tante volte l'animo al primo oggetto, quante volte fugge, che all'ul-
timo restarai vincitore» (Ivi, c. 60v).

Ð 40 Ð
DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

ne»,197 il quarto la «contemplazione».198 Mano mano che il devoto proce-


de lungo questa scala, egli passa dalla condizione di «incipiente» fino a
quella di «proficiente», per arrivare infine ad uno stato di «perfezione»:
«[1] sarai nell'oratione incipiente, quando combattendo in te dall'una parte
l'amor d'Iddio, dall'altra del mondo sentirai molta resistentia in sollevar la
mente a Dio, come se un grave peso volesti alzare da terra, et se pur qualche
volta gustarai un poco di luce, subito andaraÁ in niente, et tornarai alla solita
gravezza. [2] Ma quando mancaraÁ la diffidentia per la dimistichezza, che
nel divin colloquio nasce, et giaÁ non piuÁ con l'animo cosõÁ dubbioso, ma qua-
si certo andarai d'impetrar quel che orando domandi, et senza difficultaÁ po-
trai continuar l'interior essercitio, et tollerare il secreto silentio, potrai dire
esser proficiente nell'oratione, et guardati che 'l pericolo della tepiditaÁ non ti
conduca ritornare indietro. [3] La perfetta oratione eÁ tutta di fuoco sempre
arde nel cuore, et luce nell'intelletto talmente, che fa conoscere ogni mini-
mo peccato, et ultimamente induce oblivione di tutte le cose esteriori, et
rapisce l'anima sopra di se stessa nell'abisso della divina caligine».199
La prima fase appare come quella piuÁ difficile da superare: «Tutta l'in-
dustria deve esser collocata nel raffrenar l'imaginatione, che in otiosi pen-
sieri non discorra»,200 in altre parole l'obiettivo deve essere quello di «ha-
ver vittoria delle passioni, et desiderii cattivi».201 Solo tagliando via questi
«impedimenti» 202 terreni, il fedele potraÁ avviarsi verso la mentale unione
con Dio. Per «quelli che di molti pesi si carigano, cioeÁ di terrene occupa-
tioni, d'infruttuosi ragionamenti, de diletti sensuali» 203 non esiste alcuna
possibilitaÁ di arrivare alla cima del monte.
Per liberarsi di questi «lacci» terreni occorre concentrare i propri pen-
sieri sugli «oggetti penosi»,204 catalizzare la propria «memoria» sul ricordo

197 «Non e Á altro che una elevation di mente in Dio, senza strepito di parole, et in questa se
ritrova hor fatica, hor diletto, secondo che piuÁ fidelmente saraÁ da te essercitata, peroÁ molto sono
utili l'orationi giaculatorie, le quali debbono come sono brevissime, esser anchor frequentissime
in ogni luoco, et operatione, et quanto piuÁ saranno frequenti, tanto meno haranno di fatica, come
la candela piuÁ leggiermente s'accende quando di fresco eÁ smorzata, et anchor mantiene un poco
del caldo passato» (Ivi, cc. 60v-61r).
198 «Questa e Á per eccessivo amore, tanto purgata, che l'anima in Dio trasforma, et piuÁ si
puoÁ dir esser in Dio, che in se stessa, peroÁ senza difficultaÁ piuÁ tosto eÁ mossa da Dio, che da
se si mova, a questo grado non si perviene se non dopo molte fatiche, et piena vittoria di se
stesso» (Ivi, c. 61r).
199 Ivi, cc. 72r-v (corsivi miei).
200 Ivi, cc. 62r-v.
201 Ivi, c. 62v.
202 Ivi, c. 20r.
203 Ivi, c. 18r.
204 Ivi, c. 31r.

Ð 41 Ð
CAPITOLO PRIMO

del «male»,205 «raccoglie[re] nella mente [...] tutto il danno, che dal pec-
cato se riceve», facendo sõÁ che «la volontaÁ non potraÁ voler altro che ma-
le».206 Se «in questo studio [...] tu perseveri ± continuava Serafino ± [...]
diventerai un altro huomo tramutato, perche l'animo tuo per tal meditatio-
ne saraÁ indutto al dispreggio del mondo, alla fuga del peccato, al timor del-
le pene, et amor della vertuÁ».207
Solo in questa maniera, ripensando, secondo l'esempio di Cristo, «la
fallacia del mondo, la brevitaÁ del tempo, la vicinanza della morte, il perico-
lo dell'inferno»,208 l'uomo potraÁ raffrenare «le infruttuose cogitationi, et
facendo spesso novi proponimenti tramuta[re] in meglio la vita sua».209
In questa prospettiva, gli atti devozionali raccomandati dalle autoritaÁ
ecclesiastiche ± «come sono digiuni, vigilie, et asprezze corporali, cosõÁ an-
chor, povertaÁ, castitaÁ, obbedientia» ± 210 sono uno strumento «lodevole»
consegnato dalla Chiesa nelle mani dell'uomo «perche ci tolgono gli impe-
dimenti di orare con le importune agitationi, che conturbano la mente no-
stra come venti tempestosi»,211 e «ci conducono» «all'oration perfetta».212
Fin qui dunque Serafino da Fermo rimaneva nei piuÁ consolidati confini
dell'ortodossia cattolica.213

205 Ivi, c. 31v.


206 Ivi, cc. 31r-v.
207 Ivi, c. 32r.

208 Ivi, c. 37r.

209 Ibid.

210 Ivi, c. 9v.

211 Ibid.

212 Ibid. Anche le orazioni giaculatorie assumono in quest'ottica una funzione imprescindi-

bile: «Et perche la nostra imaginatione con fatica si stabilisce, ha bisogno non solo una volta il
giorno, ma molte, et molte essere raffrenata mentre s'assuefaccia al giogo, et peroÁ sono molto utili
l'orationi chiamate giaculatorie, che a modo de giaculi si mandano verso il cielo, et queste sono
brevissime, et debbano esser frequentissimo con tutte l'opre nostre mescolate, in ogni luoco et
tempo, [...] ne m'affaticaroÁ dare la forma di queste orationi, perche oltre che tutte le scritture,
et massimamente li Salmi ne siano abbondanti, l'animo desideroso per se stesso soggeriraÁ parole
infocate, secondo il bisogno, mosso peroÁ dal spirito» (Ivi, cc. 38r-v). Precisando meglio la sua
posizione al proposito, Serafino muoveva piuÁ avanti una critica, seppure implicita, alla moltitu-
dine di orazioni diffuse ed utilizzate in ogni dove ed in ogni forma; cosõÁ infatti prosegue il di-
scorso dell'autore sulle orazioni giaculatorie: «Non bisogna fabricar da noi le parole, ma sola-
mente lasciarsi guidare al spirito, il qual secondo la capacitaÁ, et bisogno nostro ci faraÁ chieder
quel che sia espediente, si anchora perche tanti libri sono ripieni d'orationi, che piuÁ eÁ da temer
per la soverchia abbondantia diventar schifo, che per carestia venir meno, conciosia cosa che una
sola parola pronontiata col cordiale affetto prevaglia a molte asciuttamente col cuor distratto pro-
ferite» (Ivi, c. 62r).
213 E non poteva certo essere l'antintellettualismo di Serafino ± ben espresso dall'insistenza

con cui affermava che «[s]e con ferma attentione perseveri alla Croce, v'imparerai tutte le vertudi
meglio assai che tutte le scritture havesti a memoria» (Ivi, c. 54r), e che «non solamente la prat-

Ð 42 Ð
DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

A questo punto il discepolo di Battista da Crema si addentrava nelle


fasi successive della mistica ascesa alla cima del monte. Grazie alla pratica
del «santo odio» di se stesso il fedele arriva alla seconda fase dell'«ascesa»,
passando dallo stato di «incipienza» a quello di «proficienza». Solo dimo-
strando ± aveva scritto Serafino ± di «esser disposto per amor suo in ogni
male, cosõÁ temporale, come eterno esser precipitato, et cosõÁ infinitamente
odiar te stesso»,214 potraÁ un giorno arrivare ad amare Dio «infinitamente»
come egli merita.215
EÁ in quel momento che l'anima dell'uomo si unisce con Dio e attraver-
so la mediazione divina (e solo grazie a quella) riacquista, come per un ri-
flesso condizionato, la fiducia in se stesso e nel resto dell'umanitaÁ: «Allhora
veramente amarai Dio, et perche non si ritrova vero amor se non in lui,
amarai anchor te stesso, et il prossimo tuo, cosõÁ il santo odio t'indurraÁ al
santo amore, come l'amor disordinato di te stesso t'induceva [a] perder
Dio e te stesso et ogni bene».216
Rimettendo in modo totale ed univoco la propria volontaÁ in quella di-
vina (Serafino parla di «annullamento» della volontaÁ umana), attraverso
l'orazione, l'uomo giunge ad una condizione di «deificazione»: «L'oratione
eÁ quella che fa ascendere l'huomo alle cose sopramondane, et conversar in
cielo con gli angeli, et finalmente congiongersi alla infinita maiestaÁ, et in
uno ineffabile modo deificarsi, et operare come Iddio perhoÁ che colui
che ora in spirito e veritade, non si move da seÂ, ne dal proprio volere,
ma secondo il spirito che habita in esso».217
Giunti a questo stadio «deificante» non solo «s'acquista quel, che pec-
cando havea perduto» 218 ma si raggiunge uno stato di «perfezione» nel
quale ogni «parte» della nostra anima (da quella «concupiscibile» a quella
«irascibile», a quella «rationale») conosce la vera «quiete»: «Et se vuole ac-
quetarsi [la mente nostra] non ha altro mezzo che la oratione, la qual ci
conduce a Dio, dove la parte nostra detta concupiscibile ritrova il bene,

tica [``l'imitazione della vita di Cristo''], ma etiamdio la speculativa t'insegna il crucifisso, il quale
se fusse inteso, ogni dubbio di theologia ci farebbe chiaro, ma eÁ tanto profondo il suo sentimento,
che non puoÁ essere capito, se non da quelli che profondamente s'abbassano» (Ivi, cc. 57r-v) ±
non poteva essere questo genere di prese di posizione, ad impensierire un apparato ecclesiastico
che si preparava a sferrare uno dei piuÁ violenti attacchi mai tentati contro la lettura della Bibbia
in volgare (su cui cfr. G. FRAGNITO, La Bibbia al rogo, cit., passim).
214 Ivi, c. 50r.

215 Ibid.

216 Ivi, c. 50v.

217 Ivi, cc. 3v-4r.

218 Ivi, c. 14v.

Ð 43 Ð
CAPITOLO PRIMO

qual eÁ suo vero oggetto, et satiata se riposa, cosõÁ cessa l'opra dell'irascibile
essendo in Dio fuor d'ogni contrario, in godimento perfetto, et la rationale
contemplando la prima veritaÁ piuÁ oltre non s'affatica in sapere».219
Giunti cosõÁ alla terza ed ultima fase dell'ascesa mistica, detta dell'«ora-
zione perfetta» Serafino dovette avvertire in maniera distinta il pericolo di
un intervento inquisitoriale. Pur avendo fin a quel momento ricalcato fe-
delmente (sia nei contenuti che nel linguaggio) le orme del suo maestro,
Serafino scelse di non addentrarsi nello scivoloso terreno dei mistici effetti
derivanti dal raggiungimento di tale stato di «perfezione». Se pure inizial-
mente aveva accennato all'acquisizione di una «certa fidanza di essere nel
numero degli eletti» 220 (dove quel certa portava volutamente in se una for-
te carica di ambiguitaÁ, in equilibrio tra l'affermazione «eretica» della cer-
tezza della salvezza e l'estremo interpretativo opposto di un tentativo di
sminuire la nettezza dell'affermazione), Serafino preferõÁ, infatti, rifugiarsi
dietro un'esplicita professione di inconoscibilitaÁ,221 evitando di avventurar-
si in quelle insidiose affermazioni riguardo allo stato di impeccabilitaÁ e di
libertaÁ totale del «perfetto» 222 che cosõÁ decisive si sarebbero rivelate nella
condanna di Battista da Crema.223 Dall'esigua documentazione a disposi-

219 Ivi, cc. 21r-v.


220 Ivi, c. 5v.
221 «Assai maggior meraviglia sarebbe poter esprimer la grandezza delli divini misterii, quali

nella perfetta union tra Dio, et l'anima si ritrovano, che come Dio supera ogni sapientia nostra
incomparabilmente, et di lui non sappiamo quel che sia, ma quel che non sia, cosõÁ dell'union tra
Dio, et l'anima non habbiamo cognitione, eccetto in ombra, et anchora quelli che con esperientia
l'hanno gustata, non l'hanno potuta esprimere, cosõÁ Zaccaria dopo la vision dell'angelo, divenuto
muto, il che benche dica la scrittura, che fu per la durezza del suo credere, nondimeno possiamo
dir che l'altezze divine trascendeno ogni concetto (non che ogni parola) et solamente deveno col
sacro silentio essere honorate, col qual assai meglio s'esprimeno, peroche almeno si confessa esser
tali che con parole non si possono comprendere, et allhora secondo la sua conditione, et gran-
dezza si conoscono quando restano incomprensibili dove s'alcun si persuadesse haverle com-
prese, giaÁ dimostrarebbe non haverle a pena gustate» (Ivi, cc. 124r-v).
222 Anche Serafino aveva parlato di «liberta Á », senza, tuttavia, attribuirgli la centralitaÁ accor-
datagli da Battista da Crema, relegandola nella risposta ad uno dei «dubbi» che aveva posto in
appendice al suo trattato; il dubio era: «Per qual cagione il contemplativo eÁ tirato spesso dalla
violentia del spirito dove egli non pensa». La risposta: «Rispondo che nell'oratione la ragion pre-
cede l'affetto, ma nella contemplatione l'affetto guida la ragione, si che l'anima non si move, anzi
eÁ mossa, et portata dove Dio vuole, nel qual atto eÁ talmente libera, che patisce violentia, et tal-
mente eÁ violentata che gode di libertaÁ perfetta» (Ivi, cc. 117v-118r).
223 Su Battista da Crema vedi L. BOGLIOLO , Battista da Crema, cit.; O. PREMOLI , Storia dei

Barnabiti nel Cinquecento, Roma, DescleÂe & C., 1913, passim; M. FIRPO, Nel labirinto del mondo.
Lorenzo Davidico tra santi, eretici, inquisitori, Firenze, Olschki, 1992, pp. 18-48; E. BONORA, I
conflitti della Controriforma. SantitaÁ e obbedienza nell'esperienza religiosa dei primi barnabiti, Fi-
renze, Le Lettere, 1998, in partic pp. 103 sgg. e 166 sgg. Il domenicano non dedicoÁ al tema del-
l'orazione uno scritto specifico, ma esso fu tema centrale in tutta la sua opera, cfr. L. BOGLIOLO,
Battista da Crema, cit., pp. 61-63.

Ð 44 Ð
DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

zione per la prima metaÁ del Cinquecento emerge, infatti, come l'elemento
determinante ai fini della condanna imposta dal Sant'Uffizio al maestro do-
menicano nel 1552 224 fosse proprio quel senso di assoluta certezza della
fede (e di impeccabilitaÁ) connaturato al raggiungimento dello stato di «per-
fezione» da parte del devoto, che permeava tutti gli scritti del domenicano.
Agli inquisitori doveva apparire come una reinterpretazione di elementi be-
gardi 225 che troppo pericolosamente andava a coincidere nei suoi effetti
con la luterana salvezza per sola fede.226
L'«impunitaÁ» garantita allo scritto di Serafino da Fermo conferma dun-
que quanto intuito giaÁ precedentemente, ossia che l'esaltazione dell'orazio-
ne mentale (anche ± ora ± nelle intepretazioni mistiche piuÁ ardite) non co-
stituiva, di per seÂ, un pericolo per le autoritaÁ inquisitoriali. Fu duramente
combattuta solo nella misura in cui venne presto associatata all'eretica dot-
trina luterana.

224 Alla condanna del Sant'Uffizio (per cui oltre a E. BONORA, I conflitti, cit., p. 145, vedi S.

PAGANO, La condanna delle opere di fra' Battista da Crema. Tre inedite Censure del Sant'Offizio e
della Congregazione dell'Indice, in «Barnabiti Studi», 14, 1997, pp. 221-310, in partic. pp. 238
sgg.) seguõÁ la proibizione delle sue opere nell'indice romano del 1559 e in quello del 1564 (quam-
diu expurgantur), cfr. Index des livres interdits, vol. VIII, cit., pp. 379-380.
225 Gian Pietro Carafa, il futuro Paolo IV, gia Á vent'anni prima che il collegio cardinalizio si
occupasse degli scritti di Battista da Crema, aveva colto nella dottrina del domenicano una pe-
ricolosa riproposizione degli elementi propri del begardismo medievale. In una lettera scritta
nel 1531 allo stesso Battista, il prelato napoletano «mostrava di aver capito che dietro alla disob-
bedienza del frate verso i suoi superiori non stava una circostanza fortuita, ma una coerente po-
sizione dottrinale, sulla base della quale all'istituzione non veniva riconosciuto alcun diritto di
controllo nei confronti dell'esperienza religiosa del singolo» (E. BONORA, I conflitti della Contro-
riforma, cit., p. 146). Carafa aveva ben intuito, come spiega Elena Bonora, che «quella temeraria
ricerca della tentazione [...] portava all'annullamento del volere individuale, che per Battista era
la radice di ogni male. [...] [S]ostenendo questo esito mistico, cioeÁ l'unione tra volontaÁ umana e
divina realizzata attraverso la totale soppressione della prima, si sottraeva l'agire dell'uomo a ogni
possibile giudizio, dal momento che la sua conformitaÁ al volere divino veniva ad esser piuÁ forte di
qualsiasi norma oggettiva di valutazione» (Ivi, p. 145). Un breve papale emanato di lõÁ a poco, nel
1536, da Paolo III contro le «conventicola» milanesi «ispirate» dall'opera di Battista da Crema
offriva una conferma dell'ormai consolidato nesso tra eresia begarda (Libero Spirito) e dottrina
mistica del domenicano: definendo l'ereditaÁ di cui queste «sette» si facevano portatrici, il breve
parlava inequivocabilmente di «multae haereses ab Ecclesia damnatae, praesertim beguinarum et
pauperum de Lugduno nuncupatae» (Ivi, pp. 189 sgg., in partic. p. 191).
226 Alla luce di queste considerazioni sembra legittimo sostenere che ± lungi dal ricadere

sotto l'accusa di pelagianesimo, come pure eÁ stato autorevolmente sostenuto (cfr. M. PETROCCHI,
Pelagianesimo di Battista da Crema, in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», VIII, 1954, pp.
418-422) ± il trattato di Serafino avrebbe potuto piuttosto rischiare una condanna per certe af-
fermazioni riecheggianti la luterana concezione della grazia salvifica come: «Confortati con que-
sta speranza, che dove manchi soppliraÁ la gratia di Christo» (Trattato utilissimo et necessario della
mentale oratione, cit., c. 25r), se non avesse subito dopo «corretto» la sua interpretazione speci-
ficando che la grazia interviene perche le forze umane da sole non sono «sufficienti»: «Et come a
suoi discepoli afflitti per la tempesta allhora s'appresentoÁ, et portogli grande tranquillitaÁ, quando
erano prossimi alla desperatione, cosõÁ a te doneraÁ vittoria, quando le forze tue harai con certa
esperientia conosciuto esser insofficientissimo» (Ivi, c. 25r).

Ð 45 Ð
CAPITOLO PRIMO

La vicenda del Monte d'oratione,227 opera dell'altro discepolo di Batti-


sta da Crema, Lorenzo Davidico, rappresenta ai fini del nostro discorso
una sorta di quadratura del cerchio. Malgrado i ripetuti e prolungati ten-
tativi di incriminazione,228 le autoritaÁ inquisitoriali non trovarono alcuna
traccia d'eresia nei suoi scritti. Nonostante i diversi periodi di incarcerazio-
ne, e nonostante le sue ripetute fughe, il trattato (come del resto l'intera sua
sterminata produzione libraria) 229 passoÁ indenne il vaglio ± che pure do-
vette essere attento e non esente da pregiudizi, nel suo caso ± della censura
ecclesiastica.
Vale la pena soffermarci ancora per poche pagine sullo scritto di questo
ambiguo divulgatore dell'opera del maestro domenicano, cercando di met-
tere a fuoco le modalitaÁ secondo cui il filone mistico dell'orazione arrivoÁ a
confluire nei rigidi canoni dell'ortodossia cattolica. Laddove Serafino da
Fermo fu salvato da una prudente astensione rispetto ai passaggi piuÁ deli-
cati della mistica ascesa verso Dio, nel caso del Davidico furono, invece, le
sue ripetute e ridondanti professioni di ortodossia nonche i violenti (anche
se non particolarmente originali) attacchi rivolti contro l'eresia luterana a
garantirgli, non solo l'«assoluzione» dei suoi scritti, ma anche le glorie della
spiritualitaÁ controriformistica.
Se molte pagine del testo del Davidico sono dedicate alle ormai rituali
accuse contro il vuoto devozionalismo di quei fedeli che praticano l'orazio-
ne «senza mental attenzione»,230 il nucleo centrale dell'opera consiste, inve-

227 Monte d'oratione composto per il reverendo sacerdote M. Lorenzo Davidico Predicatore

fidelissimo. In Roma, per i tipografi Valerio e Luigi Dorico, l'anno del Giubileo 1550.
228 Sul Davidico e sulle sue alterne vicende inquisitoriali vedi M. FIRPO , Nel labirinto del

mondo, cit., vol. I - D. MARCATTO, Il processo inquisitoriale di Lorenzo Davidico (1555-1560). Edi-
zione critica, vol. II, Firenze, Olschki, 1992.
229 Vedi la bibliografia delle sue opere presentata da Massimo Firpo in appendice al suo

volume Nel labirinto del mondo, cit., pp. 237-258.


230 Monte d'oratione, cit., c. 7r. Il Davidico in particolare se la prende contro quelli che

«sempre borbottano con le labre per usanza e non intendono se stessi» (Ivi, c. 7v-8r), che «pen-
sano pagar Dio di parole, [e] subito che sono levati dal letto cominciano a borbottare» (Ivi, c.
15v), che «diranno tanti Pater nostri, e tante Avemarie per le cinque piaghe, ma non peroÁ mirano
in esse giamai con la pura mente» (Ivi, c. 16r), e che «pensando di orare vanno col suo intelletto
discorrendo in molte parti, et pensano piuÁ cose vane, et impertinenti» (Ivi, c. 7r). L'autore, poi,
elenca al proposito una serie di orazioni tra le piuÁ diffuse dell'epoca, segnalando come il profondo
ed interiore significato di ognuna di esse venga regolarmente stravolto alla luce di una pratica
devozionale del tutto superficiale: «Tanti altri [diranno orazioni] per le sette allegrezze, et hanno
quasi sempre il suo core adolorato, et mal contento, ne sanno che cosa sia allegrezza interiore.
Altri ne diranno tanti per li tre chiodi, o per la corona di spine del signore, et non vogliono sentir
alcuna pontura, anzi per una minima parolina detta contra la sua riputatione, boria, et volontaÁ,
tanto si risentono alle volte che saltano fuora della navicella» (Ivi, c. 16r). E ancora: «Sono alcuni
altri similmente che diranno l'offitio del Spirito Santo, et a quello sempre fanno resistentia, non
mettendo in opera le buone inspirationi, non ascoltando il rimorso della conscientia, et non vi-

Ð 46 Ð
DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

ce, in una caotica ma accalorata difesa dell'impianto devozionale cattolico


minacciato dalle dure critiche luterane. Da un lato, prendeva posizione a
tutela della ripartizione liturgica del tempo della preghiera, cosõÁ come la
Chiesa cattolica l'aveva assimilata dalla tradizione ecclesiastica: «Hor se li
Apostoli con David havevano alcuni tempi statuti per l'oratione non li do-
vemo ancora noi havere ad imitatione di quelli massime essendo indutti a tal
pio essercitio dalla Chiesa santa, la quale per essere retta dal Spirito santo
non puoÁ errare? Oltra di questo avante Martino Luthero che si faceva nelle
chiese di Germania? Certo quello che fanno li veri religiosi et ecclesiastici in
Italia, e con mirabile fervore».231 Dall'altro riaffermava con vigore, sulla ba-
se del medesimo principio «tradizionalistico», la dottrina dell'intercessione
dei santi, cosõÁ radicalmente messa in discussione dall'eresia protestante:
«Non dovemo solamente orare per noi istessi, ma ancora invocar li Santi
humilmente, peroche orano per noi, benche alcuni moderni heretici vadino
predicando il contrario [...] Se le ragioni et argomenti de lutherani valesso-
no, adunque hariano fatto male li Santi pregando per altri, saria la Chiesa
stata in errore dalli Apostoli in qua invocando i Santi a intercedere per
noi, se non pregano. E benche Dio solo beatifichi e infonda le gratie, pur
suole fare tale effetto mediante le seconde cause, quale a nostro proposito
sono le intercessioni de Santi, come scrive Gregorio nelli dialoghi».232

Al di laÁ di questi elementi che offrono la misura della sua ortodossia, il


bagaglio mistico dello scritto risultava comunque svuotato di ogni poten-
ziale carica spiritualistico-eversiva ed appariva dunque molto meno perico-
loso di quello del pur «ortodosso» Serafino da Fermo. Il percorso tracciato
dal Davidico, peraltro, si presentava irrimediabilmente frammentato, di-
sperso nel profluvio di parole lasciate cadere senza un filo coerente sulle car-
te del testo. Solo con una fatica improba si riesce, infatti, a ricostruire ± sep-
pur in maniera vaga ± la sua versione della mistica «ascesa del monte».233

vendo in modo alcuno secondo il lume che li daÁ il Spirito santo, et la gratia che daÁ quello gli eÁ
concessa. Altri dicono l'Offitio della Croce, et non se la voglion sentir sulle spalle, anzi tirano de
calci, [...] et se potessono farebbono ancora far Dio a suo modo» (Ivi, cc. 16r-v). Sulla tradizio-
nale contrapposizione tra orazione mentale e orazione vocale cfr. Ivi, cc. 11v, 15r, 19r e 20v; sul-
l'orazione giaculatoria e su quella «santa», vedi Ivi, cc. 16v-17r.
231 Ivi, c. 35r. Il Davidico ribadiva anche l'essenziale funzione delle «hore canoniche»: «Per

il divoto e fervente suono dele trombe spirituali delle hore canonice vanno a terra le machine delli
demonii. PeroÁ si debbe tale laudabile consuetudine servare, lassando dire alli heretici quelli che li
piace» (Ivi, c. 35v).
232 Ivi, cc. 31v-32r.

233 Ecco un breve saggio del disegno che emerge mettendo insieme elementi sparsi nel te-

sto: «Concentrandosi sui propri peccati» (Ivi, c. 20v), e arrivando cosõÁ a diffidare «d'ogni propria

Ð 47 Ð
CAPITOLO PRIMO

Se in alcuni momenti il linguaggio utilizzato dal Davidico sembra ri-


chiamare da vicino quello del maestro Battista da Crema, spesso quell'af-
flato mistico viene immediatamente smentito dalla presenza di tonalitaÁ di
segno diametralmente opposto. CosõÁ, per esempio, in un primo momento
leggiamo che l'orazione eÁ un «dilettevole laccio» grazie al quale riusciamo
«a vincere le tentationi, ad augumentar li meriti, a estirpare le proprie pas-
sioni, a impetrar lume, spirito et fuoco di veritaÁ, et a venire in maggior co-
gnitione della volontaÁ di Dio»,234 e poche righe dopo troviamo scritto che
«con l'oratione bisognaria custodire il cuore, la bocca e tutti i nostri sensi,
pregar Dio non solamente per se stesso, ma ancora per la chiesa, per il som-
mo Pontefice (la cui autoritaÁ eÁ mirabile in terra), e per la unione delli fideli,
et accompagnare la buona vita».235 In alcuni casi il tentativo di compro-
messo tra istanze diverse arriva ad esiti paradossali, come quando, cercan-
do di conciliare all'interno di una medesima frase scrupolo ortodosso e
slancio mistico, scrive: «Il modo di far oratione eÁ farla senza modo, come
inebriati et impazziti di amore, il loco eÁ farla in ogni loco, massime in
Chiesa secondo il rito de catolici, et il tempo eÁ farla senza intermissione se
eÁ possibile».236
L'unico denominatore comune di questi confusi e sovrapposti messag-
gi sembrava cosõÁ l'intenzione di compiacere allo stesso tempo tutti i suoi
potenziali lettori o interlocutori, gli spirituali seguaci del suo maestro fra'

virtude» (Ivi, c. 18v), «facendosi per Christo l'huomo servo (interiormente almeno) de tutti» (Ivi,
c. 7v), facendo in modo «che l'anima [...] accusi se stessa» (Ivi, c. 9r), e soprattutto esercitandosi
nella «vera imitatione di Christo» (Ivi, c. 7v), solo attraverso questi passaggi l'uomo puoÁ aspirare
alla «totale estirpatione di tutti li vitii» (Ibid.). Una volta giunti a questo stadio, si puoÁ raggiun-
gere, infatti, quello stato di spropriazione di volontaÁ in cui si ottiene «un vero dominio sopra la
tua mente libera dalla multiplicitaÁ delle cogitationi, fantasie, imaginationi» (Ivi, c. 6r), escludendo
«ogni [...] altro pensiero» (Ivi, c. 6v). Di qui, «spogliato della sua volontaÁ» (Ivi, c. ) e vestito
«della dolce volontaÁ di Dio» (Ivi, c. 20v), l'uomo puoÁ conquistare «la vera libertaÁ del Spirito»
(Ivi, c. 7v) attraverso le «nozzi spirituale e celeste» (Ivi, c. 21r) ossia attraverso la «spirituale
unione con quello [Dio]» (Ivi, cc. 6r-v).
234 Ivi, c. 18v.

235 Ivi, c. 6v. Ecco altri esempi sparsi di interpretazioni «ortodosse» in tema di orazione: «El

tempo della oratione eÁ tutta la vita del Christiano perche sempre havemo bisogno de ottener al-
cuna cosa da Dio, e di rengratiarlo delli ricevuti benefitii» (Ivi, c. 5v); «eÁ optimo consiglio delli
Santi che il desideroso di far bene oratione si vesta di humiltaÁ, di patientia, di caritaÁ verso il pros-
simo, et di dolcezza d'amore» (Ivi, c. 9r); «la caritaÁ (dice Christo) forma l'oratione, la humiltaÁ la fa
penetrare il cielo, et la fede la fa ottener quello che li piace» (Ivi, cc. 8r-v); ancora, l'orazione del
fedele deve consistere in «laudare il suo signore in domandar quello spirituale soccorso che lui
vole» (Ivi, c. 6v). Oppure: «La oratione sta bene col degiuno et elemosina, ma se non poi degiu-
nare dalli cibi, degiuna dalli vitii, cosõÁ fa elimosina spirituale con casto desiderio orando per altri,
et essortando al ben fare questo e quello; e dando buon essempio a ciascuno. El sale condisse li
cibi, et la santissima oratione ogni nostra degna, et buona operatione» (Ivi, c. 10r).
236 Ivi, c. 19r (corsivi miei).

Ð 48 Ð
DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

Battista,237 da una parte, e gli inflessibili difensori della fede cattolica, dal-
l'altra.238
Il risultato finale andoÁ probabilmente al di laÁ delle migliori aspettative
dell'autore. La sua «depotenziata» riproduzione del messaggio mistico bat-
tistiano sarebbe diventata nel giro di pochi anni un solido modello di de-
vozionalitaÁ controriformistica.239

4. PIER PAOLO VERGERIO E LA POLEMICA ANTIDEVOZIONALE

Prima di chiudere questo quadro dei moduli devozionali della prima


metaÁ del Cinquecento eÁ d'obbligo un riferimento al piuÁ noto avversario ita-
liano del devozionalismo cattolico: il vescovo di Capodistria Pier Paolo
Vergerio.
Il Vergerio, fuggito dall'Italia nel 1549 dopo essere stato accusato di
adesione alle dottrine luterane, fu uno dei piuÁ prolifici e agguerriti polemi-
sti dell'Europa del Cinquecento.240 Una volta giunto in lidi sicuri, intrapre-
se un'indefessa attivitaÁ di libellista 241 dedicandosi, tra le altre cose, ad una

237 A questo proposito uno dei momenti misticamente piu Á elevati del testo eÁ quello in cui il
Davidico descrive le «nozze spirituali»: gli uomini si sentono «infiammati di quello celeste fuoco,
pensano in la oratione si mettono a meditare, orano et contemplano quello che li piace, con gran
delettatione et gusto interiore [...] alle volte sono cosõÁ elevati in Dio che chiamati non sentono, e
che punti non si dogliono [...] perche sono disproprietati di se stessi, perche non cercano rapti, il
sapore della contemplatione, le consolationi et dolcezze interiori per suo contento» (Ivi, c. 13r).
238 La volonta Á di essere accettato dalle autoritaÁ cattoliche, nei cui confronti coltivava un am-
biguo sentimento di attrazione e diffidenza mista a mal direzionate ambizioni personali, era sem-
pre presente. Chiara testimonianza ci giunge sia dallo scrupolo censorio con cui cercava di uni-
formarsi all'ormai dominante spirito controriformistico, scagliandosi contro «sonetti, canzoni la-
scive, et madrigali» (Ivi, c. 37r), ed altre «fiabe et rise» di sospetti «cantori» non omologati alle
severe direttive inquisitoriali (Ivi, c. 37r). Sia dal repentino colpo di coda, con il quale in finale
d'opera riconduceva tutti i benefici attribuiti fin lõÁ alla pratica dell'orazione mentale al piuÁ orto-
dosso principio dell'obbedienza, che diventa cosõÁ la cifra attraverso la quale leggere l'intero trat-
tato: «La obedientia porta all'anima la vera tranquillitaÁ della mente, spirituale dolcezza, presentia
del Spirito santo, affluentia della celeste visitatione, vittoria di se stessa, cognitione della veritaÁ,
ruina delli vitii, fortezza in tutte le spirituali battaglie, e caparra del Paradiso» (Ivi, c. 26v; cfr.
anche c. 31r).
239 M. FIRPO , Nel labirinto del mondo, cit., p. 67.

240 Pier Paolo Vergerio il Giovane. Un polemista attraverso l'Europa del Cinquecento, a cura

di U. Rozzo, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Cividale del Friuli - 15-16 ottobre 1998),
Udine, Forum, 2000. Sul periodo italiano del Vergerio vedi anche A.J. SCHUTTE, Pier Paolo Ver-
gerio. The making of an italian reformer, GeneÂve, Librairie Droz, 1977 (trad. it. Pier Paolo Ver-
gerio e la Riforma a Venezia 1498-1549, Roma, Il Veltro, 1988); e S. PEYRONEL RAMBALDI, Dai
Paesi Bassi all'Italia. «Il sommario della Sacra Scrittura». Un libro proibito nella societaÁ italiana
del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1997, pp. 162-184.
241 Sulla sua prolifica attivita
Á editoriale di questi anni (piuÁ di quaranta opere in quattro anni,

Ð 49 Ð
CAPITOLO PRIMO

sistematica e pungente critica delle pratiche devozionali diffuse nella peni-


sola italiana. In quegli stessi anni dava prova della sua sensibilitaÁ nei con-
fronti del tema dell'orazione facendo stampare nel 1549 una piccola raccol-
ta di preghiere, alcune delle quali di sua composizione, introdotte da una
breve Oratione de' perseguitati et fuorusciti per lo evangelio et per GiesuÁ
Christo 242 e curando l'edizione di un'anonima Forma delle publiche oratio-
ni, et della confessione, et assolutione, la qual si usa nella chiesa de forestieri,
che eÁ nuovamente stata instituita in Londra (per gratia di Dio) con l'autoritaÁ
et consentimento del Re, senza indicazione di data e luogo ma attribuibile
con una buona dose di sicurezza al biennio 1549-1550,243 agli stessi anni
cioeÁ in cui dalle medesime tipografie di Poschiavo uscivano anche le ereti-
che Meditationi sul Pater Noster di Giulio da Milano.244 Ma cioÁ che piuÁ lo

senza contare le opere di altri e le traduzioni da lui curate) eÁ fondamentale il saggio di S. CA-
VAZZA , Pier Paolo Vergerio nei Grigioni e in Valtellina (1549-1553): attivitaÁ editoriale e polemica
religiosa, in Riforma e societaÁ nei Grigioni. Valtellina e Valchiavenna tra '500 e '600, a cura di A.
Pastore, Milano, Franco Angeli, 1991, pp. 33-62.
242 S. CAVAZZA , art. cit., p. 42; F. HUBERT , Vergerios publizistische ThaÈtigkeit nebst einer bi-
bliographischen U Èbersicht, GoÈttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1893, n. 22, pp. 269-270.
243 Nella dedica «a Ministri, et predicatori delle chiese di magnifici signori Grisoni, salute et

pace in Iesu Christo», Vergerio diceva di aver ricevuto questo testo dall'Inghilterra ma non ne
specificava l'autore. Il catalogo della British Library in cui il piccolo testo eÁ conservato l'attribui-
sce dubitativamente a Ochino o al Vermigli, entrambi soggiornanti in quegli anni nell'Inghilterra
di Edoardo VI (Vergerio stesso aveva dedicato nel 1550 un opuscolo Al serenissimo re d'Inghil-
terra Edoardo Sesto de' portamenti di papa Giulio III, cfr. S. CAVAZZA, art. cit., pp. 41-42); in ef-
fetti l'influenza del re inglese eÁ evidente nel testo laddove l'anonimo autore invoca su di lui la
protezione divina: «Che tu ti degni col tuo potente braccio, col qual fin hora l'hai defeso da suoi
nimici, difender sempre il clementissimo prencipe, et Re nostro Eduardo sesto, et col tuo spirito
cosõÁ illustrar la sua mente, che essendo cresciuta in lui la tua gratia con la etaÁ egli governi il po-
polo suo sotto il re di Re Christo secondo la tua parola, [...] Dopoi col spirito del tuo consiglio
governerai la famiglia di esso nostro signor Re, et tutti i primarii del suo regno, et tutti i magi-
strati, specialmente il prudentissimo senato regio, et conserveragli nella vera dottrina del tuo fi-
gliuolo et in una mutua concordia d'animi nel signore» (Ivi, cc. A6r-v). I frequenti riferimenti alla
dottrina del Beneficio di Cristo caratterizzano l'opera in senso chiaramente riformato e potreb-
bero far propendere per un'attribuzione del testo al predicatore senese: «Adunque a tutti voi
che siete tali et vi vergognate, et vi pentite di haver fatti i peccati, et dopoi fermamente credete
quelli a voi esser tutti pienamente perdonati per i meriti di Christo solo [...] A tutti quei vera-
mente che anchora di vostri peccati vi delettate, et non li volete confessar et corregere, o pur co-
noscendogli, cercate altro rimedio della salute che l'unico merito del beneficio di Christo signor
nostro, [...] vi annuncio che in cielo i peccati vi sono rimessi per il nome del signor nostro Iesu
Christo benedetto» (Ivi, cc. A5r-v); tuttavia non sembra ci siano elementi sufficienti per un'attri-
buzione certa. Sull'Ochino e sul Vermigli rimandiamo alle rispettive voci bibliografiche in The
Italian Reformation, cit., a cura di J. Tedeschi, pp. 361-378 e pp. 536-553; piuÁ in generale sulla
comunitaÁ di esuli italiani in Inghilterra si veda il fondamentale saggio di L. FIRPO, La Chiesa ita-
liana di Londra nel Cinquecento e i suoi rapporti con Ginevra, in Ginevra e l'Italia. Raccolta di
studi promossa dalla FacoltaÁ Valdese di Teologia di Roma, a cura di D. Cantimori, L. Firpo,
G. Spini, F. Venturi, V. Vinay, Firenze, Sansoni, 1959, pp. 309-412, ora in ID., Scritti sulla Ri-
forma in Italia, Napoli, Prismi, 1996, pp. 117-194.
244 Esortatione alli dispersi per Italia di Giulio da Milano. Vi eÁ aggiunta una Meditatione so-

Ð 50 Ð
DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

interessava era smascherare l'idolatria insita in alcune forme di devoziona-


litaÁ esteriore di matrice cattolica.
Il nucleo di quest'attivitaÁ consiste in sei operette scritte rigorosamente
in volgare italiano nella prima metaÁ degli anni cinquanta, libelli in cui, forte
della sua profonda conoscenza del costume religioso italiano, Vergerio si
divertõÁ a smontare pezzo per pezzo le pratiche ed i testi devozionali piuÁ dif-
fusi della prima metaÁ del Cinquecento.245

pra del Pater noster, stampato in Trento 1549 [l'indicazione «in Trento» eÁ falsa come giustamente
sottolinea S. CAVAZZA, art. cit., p. 36]. Questa prima edizione della Esortatione eÁ stata rinvenuta e
segnalata per la prima volta da E. RONSFORD, Nuove opere sconosciute di Giulio da Milano, in
«Bollettino della SocietaÁ di Studi Valdesi», n. 138 (1975), pp. 55-58; su di essa si eÁ soffermato
recentemente U. ROZZO, L'«Esortazione al martirio» di Giulio da Milano, in Riforma e societaÁ
nei Grigioni, cit., pp. 63-88, il quale eÁ autore anche di altri studi sulla figura e sulle opere del
Della Rovere: U. ROZZO, Sugli scritti di Giulio da Milano, in «Bollettino della SocietaÁ di Studi
Valdesi», n. 134 (1973), pp. 69-85; ID., Incontri di Giulio da Milano: Ortensio Lando, in «Ivi»,
n. 140 (1976), pp. 77-108; ID., Le «Prediche» veneziane di Giulio da Milano (1541), in «Ivi»,
n. 152 (1983), pp. 3-30. Per quanto riguarda piuÁ specificamente la Meditatione sopra il Pater no-
ster ± la quale rimane invariata nella seconda edizione del 1552 (Esoratione al martirio...) ± sem-
bra opportuno segnalare, dal momento che non eÁ mai stata oggetto di una specifica analisi te-
stuale, almeno un passo in cui l'eterodossia dell'autore emerge in modo inequivocabile, a conclu-
sione della breve esposizione delle sette invocazioni della preghiera domenicale: «Ti chiediamo
Padre queste dimande, non per il valore de le nostre buone opere, ma per il merito del tuo diletto
Christo, nel quale sei placato d'ogni tuo sdegno. Riguarda adunque in lui, et non in noi, et riguar-
dando in Christo abbraccia noi tuoi diletti figliuoli. Noi siamo certi che ci esaudirai, perche tuo eÁ
il Regno, la potentia, et la gloria, ne secoli de secoli. Amen» (Esortatione alli dispersi per Italia,
cit., c. C4v).
245 F. HUBERT, Vergerios publizistische Tha Ètigkeit nebst einer bibliographischen U Èbersicht,
cit., pp. 273, 275, 283, 287, 291, 296 [rispettivamente opere n. 27 (Discorsi sopra i Fioretti di
San Francesco, ne quali della sua vita, e delle sue stigmate si ragiona, sd. sl.), n. 36 (A quegli Ve-
nerabili Padri Dominicani che difendono il Rosario per cosa buona, Basilea, 1550), n. 67 (Operetta
nuova del Vergerio, nella quale si dimostrano le vere ragioni che hanno mosso i Romani Pontefici ad
instituir le belle cerimonie della Settimana Santa, Tiguri apud Andream Gesnerum F. Rodolphum
Vuissenbachium MDLII), n. 79 (Ludovico Rasoro alla Abbadessa del Monasterio di Santa Giustina
di Venetia, sopra un libro intitolato Luce di Fede, stampato nuovamente in Milano per Giovanni
Antonio da Borgo in laude della Messa MDLIII), n. 93 (Della camera, et Statua della Madonna
chiamata di Loretto, la quale eÁ stata nuovamente difesa da Fra Leandro Alberti Bolognese, e da
Papa Giulio III. Con un solenne privilegio approvata. Nello anno MDLIII. Mali autem homines,
et impostores pergent in deterius, et fallent, et fallentur), n. 104 (Che cosa sieno le XXX Messe
chiamate di San Gregorio e quando prima incominciarono ad usarsi..., lo anno MDLV)]. A queste
operette vanno aggiunti i molti riferimenti critici alla letteratura devozionale contenuti nei suoi
scritti dedicati ai cataloghi, veneziano del 1549, milanese del 1554, e romano del 1559, dei libri
proibiti: Il catalogo de libri, li quali nuovamente nel mese di maggio nell'anno presente MDXLVIII
sono stati condannati e scomunicati per heretici da Giovan Della Casa legato di Venetia e d'alcuni
frati. EÂ aggiunto sopra il medesimo catalogo un iudicio, et discorso del Vergerio, ZuÈrich, Christoph
Froschauer, 1549 [in cui, per esempio, Vergerio scriveva queste parole riferendosi ai Fioretti della
Bibbia: «Ove, oltre infinite falsissime dottrine e marcissime favole tolte (dico) de parola in parola
fuor del Metamorfosi (e si narrano come veritaÁ occorse nel tempo del Vecchio e del Nuovo Te-
stamento)», cit. da G. FRAGNITO, La Bibbia al rogo, cit., p. 312, nota 117]; Catalogo dell'Arcim-
boldo arcivescovo di Melano. Con una risposta fattagli in nome d'una parte di quei valenti huomini,
TuÈbingen, Morhard, 1554; A gl'Inquisitori che sono per l'Italia. Del catalogo di libri eretici stam-
pato in Roma nell'anno presente MDLIX, TuÈbingen, s.t. 1560.

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CAPITOLO PRIMO

I temi toccati dal Vergerio in questi scritti coprono un ampio spettro


della vita del devoto cattolico: dall'idolatrica adorazione di statue ed imma-
gini fino alla frequentazione delle «false» messe, dalle celebrazioni della
settimana santa fino a pratiche devozionali diffusissime come il rosario,
passando per la lettura di libretti «superstitiosi», quali i Fioretti di san Fran-
cesco e i Miracoli della Madonna.246
Come noto, l'opera omnia del Vergerio fu condannata dall'Indice ro-
mano del 1559 e da quello tridentino.247 In questa sede ci preme ± attra-
verso una breve analisi del contenuto di alcune di queste operette ± non
solo approfondire l'analisi delle motivazioni che portarono alla loro con-
danna (analisi che non puoÁ prescindere dall'impronta chiaramente prote-
stante degli scritti), ma anche provare a contestualizzare tali scritti nel pro-
cesso di ridefinizione dei modelli devozionali che la Chiesa intraprese a
partire dalla metaÁ del secolo.
Cominciando dal primo dei due punti, nella piuÁ celebre tra queste sue
operette, per esempio, i Discorsi sopra i Fioretti di San Francesco, ne quali
della sua vita, e delle sue stigmate si ragiona,248 il Vergerio censurava le «co-
sacce impie» 249 contenute nei Fioretti di San Francesco da un punto di vista
esplicitamente luterano. Uno dei bersagli prediletti del suo spirito polemi-
co era la ricorrente assimilazione che nel libretto veniva presentata tra i po-
teri e le qualitaÁ di San Francesco e quelle del figlio di Dio: «Nel sesto ca-
pitolo», scriveva per esempio Vergerio, «c'eÁ una cosa terribilissima, si dice,
che san Francesco fu un altro Christo dato al mondo per salute delle genti,
et che Dio padre lo volle far in molti atti conforme, et simile a suo figliuolo
[...] Madonna questa eÁ una delle piuÁ strane cose che possano dire tutti i
Diavoli dello inferno, ella eÁ una bestemia horrenda».250 EÁ vero, proseguiva

246 Cfr. nota precedente.


247 Index des livres interdits, vol. VIII, cit., p. 519. Ma giaÁ l'Indice veneziano del 1554 l'a-
veva incluso tra gli autori condannati (cfr. Ivi, vol. III, p. 367).
248 Per il titolo completo cfr. supra, nota 245.

249 P.P. VERGERIO, Discorsi sopra i Fioretti, cit., c. C2r.

250 Ivi, c. C3v. Di simili contenuti sono anche altri due brani incriminati dal Vergerio: «In

questo penultimo capitolo si dice, che Dio havea deliberato di dare una crudelissima sententia, et
esterminare il mondo, ma che Christo suo figliuolo per placarlo promesse di rinovare la sua vita,
et la sua passione in san Francesco, et darli le stigmate, et per virtuÁ di esse tirar gli huomini alla
veritaÁ, et salvarli (udite udite che scelerata ribalderia, o Diavoli dello inferno), et medesimamente
promesse per virtuÁ della virginitaÁ della Madonna rinovata nel corpo di santa Chiara, di tirare
molte migliara di femine fuor dalle mani del Diavolo (vedete che bella distintione de questi ga-
glioffi, san Francesco salva gli huomini, santa Chiara le donne), et Dio per queste promissioni del
figliuolo, et vedendo seguire lo effetto delle stigmate di san Francesco, et della virginitaÁ di santa
Chiara, mutoÁ openione, et perdonoÁ al mondo, et non lo volse piuÁ esterminare» (Ivi, c. E6r). E
poco prima: «Dice l'autore del libro che le cose alte et secrete furono queste li disse Christo (vo-

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DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

Vergerio illustrando il suo punto di vista in materia, che «in tutti quelli che
sono degli eletti Dio manda di quello istesso spirito, che havea GiesuÁ Chri-
sto, lo dice Paulo»,251 ma questo non eÁ certo l'interpretazione che l'autore
dei Fioretti intende offrire; egli tende, invece, ad attribuire erroneamente a
san Francesco un potere salvifico che solo GiesuÁ Cristo possiede: «L'autore
del libro non la intende per questo verso, ma vi diraÁ chiaro che sicome
Christo con i suoi meriti, e col suo sangue salvoÁ gli eletti, cosõÁ san France-
sco con i suoi meriti et con le sue stigmate venne a salvar la gente, et cavarla
fuor del Purgatorio, et metterla in Paradiso, la quale eÁ una cosa horren-
da».252 EÁ una cosa «horrenda» soprattutto perche «si niega affatto la effi-
catia, et la virtuÁ eterna del sangue del figliuolo di Dio».253 Se si ammettesse
solo per un attimo, obiettava Vergerio, che qualcun altro, oltre a Cristo,
disponga del potere di salvare le anime dai loro peccati concedendo loro
vita eterna, l'universalitaÁ del «beneficio di Cristo» verrebbe sminuito in
modo intollerabile: «La passione, et morte di GiesuÁ Christo, incarnato di
Maria Vergine, ± ci teneva a ribadire Vergerio ± fu sofficientissima per ac-
quistar salute a cento millia migliara et millioni de mondi, [...] et peroÁ l'A-
postolo dice, eterna redentione inventa, et peroÁ dice, una oblatione santi-
ficavit in sempiternum santificatos, et non bisogna piuÁ rinovare in altre per-
sone quel sacrificio, et quella hostia sempiterna, ma solo bisogna attendere
a predicarla, et manifestarla si come esso ci ha comandato che havessimo a
fare».254 Per i duri ad intendere, Vergerio usava parole ancora piuÁ chiare:
«Ma ci vuol altro a dover stare unito col celeste Padre, ci vuole spirito che a
lui piaccia di donarci, et chi non lo ha, et non ha la fede viva potraÁ ben
smagrirsi, e macerarsi quanto vuole, che vi saraÁ poco frutto».255 Esaltazioni

glio mettere qui le parole istesse di san Francesco recitate in questi fioretti): Sai tu quello che ti ho
fatto; io ti ho donato le mie stigmate accioÁ che tu sia mio confaloniero, et cosõÁ come lo dõÁ della
morte mia discesi allo limbo, et tutte le anime che io trovai, io estrassi in virtuÁ delle mie stigmate,
cosõÁ ti concedo che ogni anno nel giorno della tua morte tu vadi al Purgatorio, et tutte le anime
delli tuoi tre ordini, cioeÁ de minori, de suore, de continenti, et anchora de altri che saranno tuoi
devoti, li quali troverai tu li trarrai fuora in virtuÁ delle tue stigmate, et menerai alla gloria del Pa-
radiso, accioÁ che tu sia conforme a me nella morte come sei nella vita» (Ivi, cc. E3v-E4r).
251 Ivi, cc. C3v-C4r.

252 Ivi, cc. C4r-v.

253 Ivi, c. E6r. Su questo aspetto «scandaloso» Vergerio si era gia Á soffermato ne Il Catalogo
de libri, cit., a c. K5r: «Quei fioretti di san Francesco, ne quali tralle altre molte ineptie, biasteme,
et heresie vi eÁ questa horribile che da CCC anni in qua, nel qual tempo fu san Francesco, gli huo-
mini non si haveano piuÁ a salvare per le piaghe et per il sangue di Christo, ma per le stigmate, et
per il sangue di san Francesco».
254 Ivi, cc. E5v-E6r.

255 Ivi, cc. C4v-C5r.

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CAPITOLO PRIMO

cosõÁ eloquenti del principio della giustificazione ex sola fide non potevano
certo lasciare indifferenti le autoritaÁ romane impegnate nella lotta alla dif-
fusione del protestantesimo.
Ma se i censori romani non fecero fatica a comprendere quanto il pun-
gente spirito critico vergeriano fosse influenzato dalle dure pagine scritte
da Lutero contro l'«idolatria» e la «superstitione» della Chiesa di Roma,
essi dovettero anche accorgersi degli elementi dottrinali luterani presenti
negli stessi Fioretti di San Francesco. Il Vergerio, per altro, non aveva man-
cato di individuarne, e lodarne, i passaggi di ispirazione protestante, faci-
litando indirettamente il lavoro dei censori romani. Il brano, per esempio,
dal quale l'attento polemista protestante avrebbe voluto eliminare l'«em-
pia» espressione «apri la bocca che io li cacheroÁ dentro», conteneva una
chiara esaltazione della predestinazione e della certezza della salvezza per
sola fede. Il racconto dei Fioretti, infatti, riguardava un Demonio che cer-
cava di far cadere in tentazione un povero «fra Ruffino», convincendolo
che egli non fosse tra i predestinati alla salvezza; solo l'intervento risolutore
di san Francesco avrebbe scacciato il Demonio e «confermato in gratia et
sicurtaÁ della sua salute» il malcapitato fra Ruffino.256 Vergerio non si era
fatto sfuggire il passo, commentando che a parte l'«indegnitaÁ di quelle
quattro parole [...] a me il resto par bello et credo certo che cosõÁ sia, che
il Demonio sempre si fatichi di spogliarci della confidentia di Dio et della
certezza della remissione de peccati».257 Allo stesso modo il Vergerio non
aveva mancato di sottolineare un altro passo che dovette allarmare i lettori
ortodossi dei Fioretti almeno quanto rese soddisfatto l'esule italiano: «Nel

256 Ecco il passo riportato dal Vergerio che vale la pena leggere per intero: «In questo ca-

pitolo si parla di un fra Ruffino, et si dice che egli era tentato dal Demonio della predestinatione,
et peroÁ stava maninconico, perche questo Demonio li volea pur mettere in cuore che esso non era
de predestinati a vita eterna; il demonio che eÁ astutissimo sa ben esso quanto importa al Chri-
stiano, che egli sia securo della sua elettione et predestinatione, et peroÁ egli volea levare questa
arma, et scudo di mano a quel povero frate, et una volta gli apparve in forma di crocifisso, et
disseli tu non sei de predestinati a vita eterna [...] et non credere al figliuolo di Pietro Bernardo,
ne se lui ti dicesse il contrario, et ancho non lo domandare di questa cosa, peroÁ che lui ne altri
non lo sa. Salvo che io che son figliuolo di Dio. [...] san Francesco [...] li disse non creder alle
parole di quel crocifisso, perche vi era il Diavolo dentro et non consentire, et non li credere
quando ti vuol dar ad intendere, che tu non sei predestinato, ma quando il Demonio verraÁ
piuÁ a tentarti di questo, rispondeli, apri la bocca (perdonatemi dico io con riverentia, se l'auttore
del libro non lo vuol dire) che io li cacheroÁ dentro, et segue la legenda a dire che fra Rufino cosõÁ
fece, [...] et il diavolo andoÁ via [...] et il frate restoÁ pieno di allegrezza, et dolcezza di spirito, et era
come absorto in Dio (cosõÁ dice) et dall'hora inanzi fu cosõÁ confermato in gratia et securtaÁ della sua
salute, che tutto diventoÁ mutato in un altro huomo, et sarebbe stato il dõÁ et la notte in oratione a
contemplare le cose divine chi lo havesse lasciato, onde dicea san Francesco di lui che frate Ruf-
fino era in questa vita canonizzato da Dio» (Ivi, cc. D2r-D3r).
257 Ivi, c. D3r.

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DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

XLIIII [capitolo] vi sono diece parolette d'oro, o ne fussero molte di que-


ste, vi si introduce un fra Mattheo che parla con un frate, il quale per la
grandezza de suoi peccati se tenea esser dannato, et stava in gran malinco-
nia, et dice, non ti ricordi tu che la misericordia di Dio eccede tutti i pecca-
ti del mondo? Et che Christo benedetto nostro salvatore pagoÁ per ricom-
prarci un infinito pretio, et peroÁ habbi buona speranza che per certo tu sei
salvato».258
I Fioretti di San Francesco non compaiono in alcuno degli indici cinque-
centeschi. Risultano, tuttavia, tra i titoli piuÁ citati contenuti nelle liste di li-
bri sequestrati compilate localmente sul finire del secolo in applicazione
delle direttive dell'Indice clementino.259 Il rinvenimento di quei passi lute-
rani dovette con ogni probabilitaÁ stimolare il sequestro dell'operetta; tutta-
via, la presenza dei Fioretti in quelle liste non sarebbe pienamente com-
prensibile se non mettessimo in rilievo un altro elemento. Alla luce di quan-
to sappiamo a proposito dell'azione censoria delle autoritaÁ ecclesiastiche
della seconda metaÁ del Cinquecento, azione volta, tra le altre cose, ad
«estirpare» gli elementi superstiziosi presenti nella letteratura devozionale
del tempo,260 ci pare infatti legittimo ipotizzare che molti dei brani «super-
stitiosi» messi in evidenza dall'analisi di Vergerio avessero colpito l'atten-
zione dei censori romani.
Se forse la condanna vergeriana delle penitenze corporali subite da san
Francesco ± cosõÁ come la sua violenta invettiva contro l'equiparazione dei
poteri del poverello d'Assisi con quelli del figlio di Dio ± 261 erano ancora
troppo marcatamente riconducibili alle posizioni dottrinalmente eterodos-
se del polemista capodistriano per poter essere prese in seria considerazio-
ne dagli inquisitori senza pregiudizi di sorta,262 certe «ineptie» e «falsitaÁ»

258 Ivi, c. D7r.


259 ACDF (Archivio della Congregazione per la dottrina della fede, ex Sant'Ufficio), Indice,
serie XVIII, vol. unico, c. 38v (Index librorum qui in Indicem Romanum sunt suspensi vel pro-
hibiti, qui asservantur in Conventu S. Iohannis ad Carbonariam. Per P. Magistrum Cherubinum
Veronensem Augustinum Theologum Curiae Archiepiscopensis Neapolitanae in loco clave
clauso de mandato Illustrissimi et Reverendissimi Cardinalis Gesualdi donec de loco convenienti
in palatio Archiepiscop. Provideatur); c. 48v (Lista di libri prohibiti et sospesi che si trovano nel-
l'Inquisitione di Ancona); c. 62r (Libri prohibiti et suspensi qui habentur in sancto offitio Vero-
nae); c. 79r (4 copie, in Nota de libri abruciati mandata dal Vicario di Montepulciano a 27 d'ot-
tobre, cfr. c. 79v). Sulla rilevanza ed il contesto in cui furono concepite queste liste censorie cfr.
infra, pp. 186 sgg.
260 Cfr. infra, pp. 63 sgg.

261 Cfr. supra, pp. 52-53.

262 Ecco il brano: «Nel secondo capitolo si narra che san Francesco havea sentita certa tur-

batione nell'animo, et per farne la penitenza si gettoÁ in terra con la panza in su, et comandoÁ a fra

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CAPITOLO PRIMO

da lui segnalate dovettero invece contribuire non poco alla crescita di una
consapevolezza critica da parte cattolica. Espressioni come «apri la bocca
[...] che io li cacheroÁ dentro»,263 racconti «superstitiosi» e «fabulosi» come
quello di san Francesco che «si messe a parlar di Dio tanto infocatamente,
che tutto quel fuoco, et tutta una selva che era vicina comincioÁ ardere, et da
ogni banda le persone correvano per ismorzar il fuoco»,264 o come quello
del fra Simone che stando «in contemplazione» e «in oratione», «non sen-
tiva un carbone ardente che li fosse posto sul pie' nudo» 265 mentre, d'altro
canto, risultava fortemente infastidito da alcune innocue cornacchie da lui
malamente allontanate,266 non potevano passare inosservate ad un lettore
scrupoloso. A queste espressioni si aggiungeva anche l'«horribile historia»
raccontata di suo pugno dal Vergerio in conclusione d'opera. Per avvalo-
rare la sua critica alla veridicitaÁ delle stigmate di san Francesco ± delle qua-
li, a detta di Vergerio, non si disponeva di alcuna fonte al di laÁ della parola
del solito fra Ruffino ± l'esule italiano raccontava ai suoi lettori un caso di
fabbricazione artificiosa di santitaÁ a fini di lucro: «Nel anno MDVII nella
cittaÁ di Berna quatro frati dell'ordine di san Dominico di osservantia, Gio-
vanni Veter, Stefano Bosshorst Theologo, Francesco Ulschi, Heinrico Stei-
necrer, vedendo che i frati di san Francesco erano in maggior credito, et
haveano piuÁ concorso et piuÁ elemosine, che essi non haveano, si delibera-
rono di voler anchora essi haver un santo con le stigmate, et con le piaghe
di GiesuÁ Christo, et havendo nel monasterio loro un frate idiota, et sempli-
ce chiamato Benedetto elessero lui per soggetto buonissimo, sopra il quale
si havesse a fare la barraria, et prima uno de quatro, che lo confessava li
comincioÁ a dare ad intendere che egli era sulla via di divenire un gran san-
to, [...] Poi nella sera seguente que gaglioffi li diedero a berre di quell'ac-
qua chiamata da alcun allopiata, la quale fa dormire cosõÁ forte, et stupire et
quasi perdere tutti i sentimenti, [...] et con un buon chiodo li fecero le pia-

Bernardo, che tre volte li passasse per adosso et li mettesse un pie sulla golla, et l'altro sulla
bocca, et li dicesse per conto di villania, villano figliuolo di Pietro Bernardone, et fra Bernardo
lo servite, et li disse villania, et tre volte li puose i piedi sulla gola, et sopra il viso. A me questi non
paiono modi gravi et degni della MaestaÁ Christiana per haver a punire in noi li peccati delle tur-
bationi, o delle superbie et arrogantie. Se egli havea spirito dovea sapere che la vittoria che noi
dobbiamo haver sopra ogni sorte de peccati ci de venire per la fede in GiesuÁ Christo, haec est
victoria, quae vincit mundum, fides nostra, et non per farsi mettere i piedi sul mostazzo»
(P.P. VERGERIO, Discorsi sopra i Fioretti, cit., cc. C3r-v; corsivo mio).
263 Ivi, c. D2v.

264 Ivi, cc. C6v-C7r.

265 Ivi, c. D5r.

266 Ivi, c. D5r.

Ð 56 Ð
DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

ghe nelle mani, et ne piedi, et la quinta con un cortelli nel costato, lo infe-
lice svegliandosi si trovoÁ con le ferite, e tutto sangue».267 Naturalmente la
vicenda raccontata serviva all'esule italiano per mettere in discussione il po-
tere intercessorio dei santi; concludendo il racconto metteva in bocca al
«poverazzo di fra Benedetto» questa inappellabile sentenza: «io credo cer-
to che cosõÁ come sono stato ingannato io, cosõÁ sia stata ingannata quella po-
vera Donna di santa Caterina di Siena, alla quale ho inteso che certi frati
diedero ad intendere che ella havea le stigmate».268 Tuttavia, racconti co-
me questo e «superstitioni» come quelle segnalate dal Vergerio nelle sue
operette ebbero il merito di imporre all'attenzione delle gerarchie ecclesia-
stiche la delicata questione delle incontrollate degenerazioni che quel gene-
re di letteratura poteva portare con seÁ, contribuendo a far maturare posi-
zioni che giaÁ da qualche tempo avevano fatto breccia tra le file cattoliche.
L'obiettivo che il polemista di Capodistria si era prefisso era dimostrare
che «ineptie» e falsitaÁ di questo genere erano tutt'altro che rare nei libretti
devozionali dell'epoca. Nei tanto diffusi Miracoli della Madonna,269 nel li-

267 Ivi, cc. E8r-F1r.


268 Ivi, c. F2r. Non eÁ inutile qui segnalare come, per esempio, anche lo scritto vergeriano
Delle statue et imagini, puntualmente condannato dalle autoritaÁ romane, fosse intriso di elementi
chiaramente caratterizzati in senso luterano: basti segnalare questo passo in cui l'autore invitava
la sua dedicataria, l'Abbadessa del monastero di santa Giustina di Venezia, ad abbandonare la
vita monastica, un brano in cui gli elementi luterani si accompagnavano con la «tradizionale» in-
vettiva rivolta contro l'apparato devozionale della Chiesa di Roma: «Voi credete che i meriti della
vostra asserta virginitaÁ, della vostra simulata e sforzatissima obidientia e della vostra ricca po-
vertaÁ, vi debbano acquistare la giustificazione, la remissione di peccati e la vita eterna, ma quando
etiandio la vera virginitaÁ, la vera obedientia e la vera povertaÁ fosse in voi, queste nostre virtuÁ non
possono meritare ne giustificatione, ne remissione di peccati, ne la vita eterna, i quali divini doni
che son l'un nell'altro incatenati, e indivisibili, solo Iesu Christo ne ha con le sue divine virtuÁ, e
con la sua morte acquistati. Voi etiandio in certi vostri breviarii, certe corone, certe cerimonie
mettete la vostra confidentia credendo che quanto piuÁ ne harete fatte, e dette maggior montagne
di meriti siate per acquistare in cielo, e sono baie, tutte quelle corone e quell'altre orationi (al
modo che le solete dire) e quelle cerimonie vostre sono inventioni, e sogni d'huomini carnali,
e marze superstition che molto dispiacciono a Dio» (Delle statue et imagini, cit., cc. C2v-C3r).
269 «Vi e Á poi un altro libro ± aveva scritto Vergerio nel suo Catalogo ± il quale publica-
mente, et nelle boteghe, e sotto i medesimi portici si vende, il quale si chiama i miracoli della
Madonna. [...] EÂ senza il nome dello auttore, et sarebbe necessario che vi fosse dove si scrivono
historie, et si narrano miracoli, ma sia stato chi si voglia, egli eÁ stato un goffo, un ribaldo, un igno-
rante, un impio. Egli si eÁ imaginato di vedere un regno, nel quale sia restata una Regina o Du-
chessa vedoa con un pupillo, et questa governi ogni cosa secondo la sua voluntaÁ, et che il figliuolo
non s'impacci ne molto, ne poco, ma stia soggetto alla madre, et lasci far a lei. Et tale costui ha
scritto et depinto che sia il regno del cielo dove la Madonna governi, et faccia tutte le gratie, et
tutte le iusticie, et che GiesuÁ Christo sia obediente, et tacito a tutto quello, che a lei piace di fare
come un pupillo, et che anche quella non tenghi conto, se il figliuolo eÁ vituperato, pure che ella si
veda in honore, et credito delle persone. Et quivi narra una frotta de miracoli, li piuÁ strani, et piuÁ
scempi, et mal composti, et piuÁ dishonesti, et impii che mai siano stati scritti, vi eÁ fino questo, che
la madonna per coprire il fallo di una Monaca sua devota, la quale era Sacristana, et era fuggita

Ð 57 Ð
CAPITOLO PRIMO

bro della Madonna chiamatta di Loreto,270 negli esemplari del Rosario della
Madonna 271 e persino in alcune sconosciute Prediche di San Vincenzo,272

via con un gentil'huomo si vestõÁ da Sacristana, et servõÁ per lei fino, che ella tornasse a casa. Non eÁ
questo un bel offitio, che colui daÁ alla santissima vergine madre del nostro signor GiesuÁ Christo,
di mantellare, et come tener mano, o far la guardia ad una Monaca, la quale vada a darsi piacere,
che cose horribili sono queste?» (Catalogo de libri, cit., cc. K3v-K4r). E ancora, pochi anni dopo
era ritornato con veemenza sullo stesso testo: «Ve n'eÁ un altro chiamato miracoli della Madonna,
ove insomma se insegna che l'huom possa andare alla strada, et robbare, et assassinare, et far
quante dishonestaÁ, et furfanterie che egli vuole, che ogni cosa gli saraÁ perdonata, et andraÁ senza
fallo in paradiso pur che egli habbia devotione (come voi solete dire) nella Madonna, et dica la
corona. Tra i miracoli veramente vi sono questi due (per darvene un saggio) che un pellegrino
andando a Roma truovoÁ sulla strada una testa d'huomo senza il busto, la qual dimandoÁ di esser
portata a Roma, et che essendo portata ancor viva, il Papa la communicoÁ, et che una femmina
havendo un suo figliuolo in preggione andoÁ a levare fuor delle brace d'una statua della Madonna
un bambino di legno la quale per non ne star senza corse a liberare quello che era in preggione, et
allora rihebbe il suo» (Catalogo del Arcimboldo, cit., c. G3r).
270 Ecco quello che scriveva in riferimento a questo testo e alla leggenda dell'origine della

casa natale di Cristo: «Ne eÁ uno di questi libri, il quale dice, che doppo la morte di Christo gli
Apostoli consacrarono quella camera, nella quale l'angelo entroÁ a fare l'ambasciata alla vergine
Maria, et la fecero diventare una chiesa, et non eÁ vero, che gli Apostoli consacrassero mai neÂ
quella, ne altra chiesa di muro, essi attendevano a far quello, che era lor comandato, et andavano
predicando, et portando attorno le buone novelle di Christo, et essendo amaestrati dallo spirito
santo sapevano molto bene, che doppo la venuta di Christo in terra non bisognava piuÁ far le de-
dicationi de tempii con certe acque mescolate con cenere, vino, et sale, et usar cerimonie Iudai-
che. Dice anche il medesimo libro, che S. Luca per comandamento de gli Apostoli depinse di sua
mano una figura della Madonna, et la puose in quella chiesa, et eÁ falso come l'altra. S. Luca de-
pinse benissimo la historia del Evangelio, e de fatti de santi Apostoli, et non fece mai imagini,
overo statoe, ne della Madonna, ne altre, dove trovate voi, che a tempi de Apostoli si usassero
depinture? Aggiunge il medesimo libro che giaÁ cerca CC anni questa chiesa, della quale mai
piuÁ per lo adrieto si havea havuto cognitione, si partõÁ da quel paese di Giudea, et prima si fermoÁ
in Histria, vicino a una terra chiamata Fiume, et poi passoÁ il mare, [...] et poi andoÁ vicino a Re-
canati. Che sogni, che fabule sono queste? [...] Direte, questa, che tu hai narrato della madonna
di Loreto, per prima eÁ cosa di poca importantia, Et io dico, che ella eÁ di grandissima importantia,
percioÁ che io so che in quella casa, o chiesa si fanno ogni anno infinite idolatrie, et poi quella eÁ
cagione, che nel Christianesmo si tolerino et si difendano molte altre simili chiese, et figure mi-
racolose (come dicono) che sono un mero paganesmo. Et qual penna, qual lingua potrebbe mai
narrar a peino le grandi offese, che si fanno a Dio, et a Christo per il mezzo di quelle buggie, et di
quelle false apparitioni» (Catalogo de' libri, cit., cc. K2v-K3r). A questa operetta era poi dedicato
specificamente lo scritto di Vergerio intitolato Della camera et Statua della Madonna chiamata di
Loreto, (cfr. supra, nota 245).
271 «Ve ne e Á anche un altro chiamato il Rosario pieno di gofferie, di falsitaÁ di heresie, et di
molte lascivie, et dishonestaÁ vergognose. Quivi si narra, che la Madonna adorava la imagine di
suo figliuolo, et che ella andava in peregrinaggio, visitando que luochi dove Christo era nato,
dove havea fatto il ieiunio, dove era stato preso, flagellato, crocifisso, sepolto. Et tutte sono bug-
gie marze, fatte per ingannare i popoli. Quivi sono descritte le essequie della Madonna, et si dice,
che fu portata la croce avanti, et vi furono delle candele accese, et le fu dato lo incenso, et che S.
Pietro havea il piviale atorno. Et anche questo eÁ fatto per stabilire la gente in quelle cerimonie,
frascherie, et impietaÁ le quali da certo tempo in qua sono state trovate da preti, et da frati avari.
Ma vi eÁ di peggio in questo rosario, vi eÁ che la Madonna andoÁ alla cella di un frate Alanno dalla
rupe di Britania, et lo sposoÁ con uno annello et (come si dice) con un favor fatto de suoi capelli
biondi, et poi lo bascioÁ, et poi li diede a lattare le sue belle mamelle, et con queste carezze, et
dilitie lo mandoÁ a predicare il rosario, che vi pare o legato, o frati? Perche lasciate che questo

Ð 58 Ð
DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

non era difficile per Vergerio individuare ed esporre al pubblico dileggio le


«gofferie», le «fabule», le «bugie marze, fatte per ingannare li popoli» di
cui queste operette erano intrise.
Non appare dunque casuale, alla luce di queste considerazioni, ritrova-
re molte di queste operette negli editti di condanna emanati da vescovi in-
quisitori tra la fine del '500 e l'inizio del '600; in particolare, non stupisce
leggere, tra le operette devozionali presenti in una lista censoria del 1614, il
titolo di un libretto chiamato Luce di fede,273 cui il Vergerio aveva dedicato
una delle sue sei opere anti-devozionali, intitolata Alla Abbadessa del mona-
sterio ... sopra il libro Luce di fede.274 Il principio filologico, ispiratore della
critica vergeriana, che nei Discorsi sopra i Fioretti aveva trovato solo una
parziale applicazione (rimanendo peraltro strettamente connesso al suo
punto di vista luterano) qui emergeva in maniera piuÁ esplicita e definita.
Nel Proemio ai lettori, il polemista istriano formulava il suo atto d'accusa:
«Tra le altre arti e astutie che ha usato il papato per metter le sue inventioni
contrarie alla parola di Dio in credito, e farle tener per buone, e cose non
humane, ma per proprie dottrine di Iesu Christo, questa n'eÁ stata una, che
egli dalle sue creature superstitiose ha fatto comporre, e stampare de libri
nelle lingue de popoli, e narrarvi dentro le marze idolatrie, e falsitaÁ e poi
aggiungere che di esse ne habbia parlato, et le habbia lodate san Giovanni,
san Mattheo, san Marco, san Luca, san Paolo, e poi anche gli antichi dot-
tori, e ben sapete che la povera gente ignorante havendosi comperati tali
libri, e con desiderio letti, e devorati, e veggendovi dentro allegata la auto-
ritaÁ degli Evangelisti (che si puoÁ dir di piuÁ?) e de dottori piuÁ famosi, se le
han bevute, e saldamente credute, di maniera che poscia han voluto tenere
per heretici tutti quei, che ne hanno sentito parlar in contrario».275 In par-
ticolare, riferendosi specificamente al libretto che aveva sotto mano (Luce
di fede) si mostrava scandalizzato per l'equiparazione che ± in termini di

libraccio traditor con tante ribalderie che egli ha dentro vada per le mani de popoli Christiani et
che li frati di San Domenico doppo il vespero nelle publiche chiese lo leggano a suoi devoti, et
alle sue devote?» (Catalogo de libri, cit., c. K4r-v).
272 «Ve ne e Á un altro delle prediche di San Vicenzo, le quali quando io leggo mi pare ap-
punto leggere una Macaronea, non vidi mai la piuÁ goffa cosa, oltra che eÁ pieno di impietaÁ, et di
falsitaÁ, dice parlando di San Pietro: ``Quia re negavit per os non comedit amplius nisi panem, et
olivas'', che pur eÁ contra l'evangelio, dove si legge che Christo li diede a mangiar del pesce doppo
la negatione. Et poi dice sopra quel passo: ``Acceserunt Angeli, et ministrabant ei'', che gli angeli
portarono a Christo, il quale doppo il ieiunio di quaranta giorni comincioÁ ad havere fame delle
spinaccie, et delle sardelle» (Catalogo de libri, cit., c. K4v).
273 Si tratta di una lista dell'inquisitore di Bologna su cui cfr. infra, p. 177.

274 Cfr. supra, nota 245.

275 Alla Abbadessa del monasterio, cit., c. A2r.

Ð 59 Ð
CAPITOLO PRIMO

«valore» e di «utilitaÁ alle anime» ± esso stabiliva tra la «passione, e morte


del figliuol di Dio» e la messa dei fedeli.276
Al di laÁ del suo luterano pregiudizio dottrinale nei confronti dell'«effi-
cacia» attribuita dai cattolici alla celebrazione eucaristica, eÁ interessante qui
sottolineare che la sua critica si rivolgeva essenzialmente verso l'uso stru-
mentale di riferimenti scritturali e patristici falsamente addotti a sostegno
della (giaÁ di per se «scandalosa») tesi in questione: «Esso papesmo ha fatto
falsamente allegare tre degli evangelisti, e anche san Paolo, e insieme Chri-
sostomo, Augustino, Girolamo, e degli altri affermando che tutti questi in-
sieme habbiano tenuta la messa che hoggidi si usa per cosa buona, anzi che
habbian detto di tanto valore, e di tanta utilitaÁ alle anime esser la messa a
cui la dice overo l'ascolta di quanta eÁ la propria passione, e morte del fi-
gliuol di Dio».277 Nel momento stesso in cui affermava con scrupolo filo-
logico la necessitaÁ di modellare le pratiche devozionali su precisi e circo-
stanziati riferimenti biblici, evangelici o patristici,278 Vergerio coerente-
mente si batteva affinche questi riferimenti fossero attendibili e verificabili
da chiunque, persino dai piuÁ «simplici». EÁ con questa disposizione d'animo
che egli elencava le «virtuÁ della santa messa» citate da un trattatello inserito
in appendice al volumetto Luce di fede, segnalando come nessuno dei rife-
rimenti a san Giovanni Chrisostomo, a santo Agostino o a San Gregorio
fosse minimamente veritiero.
Il rinvenimento di una copia di quest'ultimo trattatello sulle «virtuÁ del-
la santa messa» (giaÁ comparso come appendice del Luce di fede) in un vo-
lume di carte inquisitoriali conservate presso l'Archivio della Congregazio-
ne per la dottrina della fede (ex-Sant'Uffizio) 279 sembra offrire ulteriore

276 Nel suo Catalogo del Arcimboldo, il Vergerio sottolineava il medesimo punto con parole

diverse: «Ve ne eÁ un altro chiamato luce di fede ove si afferma ben quatro, o sei volte, che qua-
lunque fiata un di cotesti vostri sciagurati pretazzuoli o sacrificuli va all'altare, et dice cotesta vo-
stra messa, tanto eÁ ne piuÁ ne meno come se Christo figliuol di Dio smontasse come egli smontoÁ
da cielo giaÁ mille cinquecento cinquanta anni et presa carne humana fosse di nuovo veramente
crocifisso, et morto sulla croce» (Catalogo del Arcimboldo arcivescovo di Melano, cit., cc. G3r-v).
277 Alla Abbadessa del monasterio, cit., cc. A2r-v.

278 «Qual luogo o dell'Evangelio over degli atti de santi apostoli sapranno addurre il quale

dimostri, che lo spirito santo habbia voluto, che ella si faccia? Et piuÁ dico, qual successore degli
apostoli, o qual degli antichi padri (che sia stato veramente apostolico) la usoÁ giamai?», scriveva
perentorio a proposito delle «cerimonie della settimana santa» (P.P. VERGERIO, Operetta nuova
del Vergerio, nella qual si dimostrano le vere ragioni, che hanno mosso i Romani Pontefici ad in-
stituir le belle cerimonie della settimana santa, Tiguri apud Andream Gesnerum F. et Rodolphum
Vuissenbachium MDLII, c. A3r).
279 Una copia a stampa del trattatello Le virtuÁ, et le utilitaÁ che acquistano quelli che ascoltano
la Santa Messa. Raccolte da diversi Santi Dottori, per il R. Don Fabio incarnato Napolitano, in Na-
poli, et ristampata in Messina, per Pietro Brea, 1594 si trova infatti all'interno di un volume dei

Ð 60 Ð
DEVOZIONE INTERIORE, LUTERANESIMO E CENSURA ECCLESIASTICA

sostegno alla nostra ipotesi di una indiretta influenza degli scritti vergeriani
sull'azione censoria romana.280 Non sarebbe del resto la prima testimo-
nianza di una «ricezione» delle critiche vergeriane da parte delle autoritaÁ
cattoliche.281
Uno sguardo piuÁ attento all'evoluzione delle pratiche e dell'ideologia
censorie della seconda metaÁ del secolo su questo tipo di letteratura, potraÁ
fornire ± tra le altre cose ± anche qualche chiarimento su questa ipotesi di
lavoro.

Protocolli della Congregazione dell'Indice, evidentemente preso in visione da uno o piuÁ membri
della Congregazione nel corso dei loro lavori (ACDF, Indice, Protocolli O, cc. 596r-599r).
280 Allo stesso modo e Á legittimo ipotizzare che l'invettiva rivolta contro i testi liturgici ec-
clesiastici ± tra cui il Vergerio includeva oltre al Pontificale e al libro Rituum ecclesiasticorum, sive
sacrarum cerimoniarum sacrosanctae Romanae Ecclesiae libri tres, anche il Missale romano «che in
effetti non v'eÁ libro al mondo, che habbia altrettante eresie e bestemmie» ± che caldeggiavano la
«superstitiosa» adorazione di croci e statue (P.P. VERGERIO, A gl'Inquisitori che sono per l'Italia,
cit., c. 22r; ID., Delle statue et imagini, nell'anno 1553, cit., cc. A4r-v) non dovette passare inos-
servata in un momento in cui le autoritaÁ romane erano alle prese con la delicata questione della
riforma dei testi liturgici (su cui cfr. infra, pp. 63 sgg.).
281 In uno dei saggi introduttivi contenuti nell'ottavo volume dell'opera da lui curata, De

Bujanda scrive per esempio che «les critiques de Pier Paolo Vergerio dans ses contrefacËons
des index sont parfois retenues par les censeurs» (Index des livres interdits, vol. VIII, cit., p. 36).

Ð 61 Ð
CAPITOLO SECONDO

TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA:


LA CENSURA ECCLESIASTICA DALL'INDICE DI PAOLO IV
ALL'INDICE CLEMENTINO

1. VERSO UNA RINNOVATA INTERIORITAÁ

L'Indice emanato da Paolo IV nel 1559, come si eÁ accennato nel prece-


dente capitolo, rappresentoÁ un significativo punto di svolta nel rapporto tra
gerarchie ecclesiastiche e letteratura devozionale.1 La dura condanna inflit-
ta agli scritti devozionali di stampo eterodosso aveva reso possibile l'inau-
gurazione di un processo di riappropriazione del tema dell'orazione menta-
le, cosõÁ come della preghiera del Pater noster, da parte dei rappresentanti
della cultura controriformistica romana. Da quel momento ± e ancor piuÁ
dopo la conclusione del Concilio tridentino ± sarebbe stato infatti possibile
allentare il controllo, pur senza distogliere l'attenzione, nei confronti del ne-
mico esterno e avviare un progetto di consolidamento interno del patrimo-
nio ortodosso. Testimonianza evidente di questo processo eÁ il graduale ma
irreversibile spostamento dell'attenzione dei censori romani dagli scritti di
seguaci di Lutero e di altri eresiarchi verso opere di autori cattolici.2
Occuparsi del consolidamento interno dell'ortodossia romana significa-
va allora, oltre che ridefinire l'impianto dogmatico e disciplinare, rinnovare
± anche in ragione delle critiche eterodosse delle quali era stato fatto ogget-
to ± l'intero apparato liturgico-devozionale, ossia tutto quell'insieme di riti

1 Per uno sguardo d'insieme sulla censura ecclesiastica nel XVI secolo (ed in eta Á moderna in
generale) a partire dall'Indice di Paolo IV, resta fondamentale A. ROTONDOÁ, La censura ecclesia-
stica e la cultura, in Storia d'Italia, vol. V, tomo II, Torino, Einaudi, 1974, pp. 1397-1492. Cfr. ora
anche M. INFELISE, I libri proibiti, Roma-Bari, Laterza, 1999.
2 P. SIMONCELLI , Documenti interni alla Congregazione dell'Indice 1571-1590. Logica e ideo-

logia dell'intervento censorio, in «Annuario dell'Istituto storico italiano per l'etaÁ moderna e con-
temporanea», XXXV-XXXV (1983-84), pp. 189-215.

Ð 63 Ð
CAPITOLO SECONDO

e preghiere che scandivano la pratica religiosa quotidiana di ecclesiastici e


comuni fedeli.
L'Indice romano del 1559, ed in particolare l'Instructio circa Indicem
librorum prohibitorum ad esso allegata ± documento stampato nel febbraio
1559 dalla Congregazione del Sant'Uffizio per far fronte alle difficoltaÁ in-
contrate dagli inquisitori nell'applicazione delle generiche indicazioni cen-
sorie contenute nell'Indice ± 3 contenevano un primo abbozzo di quelle che
sarebbero diventate le linee direttive della Chiesa di Roma in materia litur-
gico-devozionale. La dura battaglia sferrata da tale Indice contro l'uso della
lingua volgare nelle «cose sacre»,4 pratica ormai imprescindibilmente asso-
ciata sin dagli anni trenta del secolo alla diffusione dell'eresia luterana,5
non dovette rimanere circoscritta al testo biblico. Nel testo dell'Instructio
il divieto di lettura venne, infatti, esteso anche agli uffici divini e alle «pre-
ghiere delle ore» in lingua volgare: «Missae omnes vulgari Idiomate inter
horas beatae virginis insertae, sive quomodocunque aliter impressae vel
conscriptae penitus interdictae sunt. [...] Idem censetur de horariis preci-
bus, quae in Ecclesiis latinae decantari solent, si in vulgarem linguam con-
versae deprehendantur».6
L'Instructio, tuttavia, non si limitoÁ a chiarire, estendendoli, divieti giaÁ
presenti nell'Indice paolino. Da una parte, infatti, individuoÁ la fonte, o me-
glio una delle fonti, della superstizione devozionale, ponendo le basi per la

3 Index des livres interdits, vol. VIII, cit., pp. 39-50, in partic. pp. 46-49; il testo dell'Instruc-

tio a pp. 100-104; G. FRAGNITO, La Bibbia al rogo, cit., p. 93.


4 Non e Á certo frutto della casualitaÁ il fatto che, nel «solo indice universale che sia stato sti-
lato dall'Inquisizione romana» (G. FRAGNITO, La Bibbia al rogo, cit., p. 83), nell'Indice che piuÁ di
ogni altro si pose come principale, se non unico, obiettivo quello della lotta contro l'eresia pro-
testante, comparisse la piuÁ netta condanna della lettura della Bibbia in volgare mai trovata in al-
cun indice ecclesiastico o civile: «Biblia omnia vulgari idiomate, Germanico, Gallico, Hispanico,
Italico, Anglico sive Flandrico, etc. conscripta nullatenus vel imprimi vel legi vel teneri possint
absque licentia sacri Officii S. Ro. Inquisitionis». (Index des livres interdits, vol. VIII, cit., p.
325; G. FRAGNITO, op. cit., p. 85). Alla condanna del testo integrale si aggiungeva anche la spe-
cifica proibizione del «Novi Testamenti libri vulgari idiomate conscripti sine licentia in scriptis
habita ab Officio Sanctae Rom. et universalis Inquisitionis nullatenus vel imprimi vel teneri pos-
sint» (Index des livres interdits, vol. VIII, cit., p. 331, e G. FRAGNITO, op. cit., p. 85).
5 Una delle prime testimonianze del nesso volgare-eresia ci viene dal giudizio dato dall'al-

lora nunzio pontificio a Venezia Girolamo Aleandro riguardo all'esposizione delle Epistole di San
Paolo da parte del domenicano fra Zaccaria da Fivizzano, nel 1532: «La dottrina sacra non eÁ su-
bietto da mettere in mani dil vulgo et di persone idiote, massime sappiando che la heresia luthe-
rana eÁ pullulata e cresciuta in Alemagna solo per questa via» (F. GAETA, Un nunzio pontificio a
Venezia nel Cinquecento. Girolamo Aleandro, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione cul-
turale 1960, pp. 118-119; O. NICCOLI, Profeti e popolo nell'Italia del Rinascimento, Roma-Bari,
Laterza, 1987, pp. 158-159; G. FRAGNITO, op. cit., p. 70).
6 Index des livres interdits, vol. VIII, cit., p. 104.

Ð 64 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

dura lotta che contro questo tipo di «devianze» sarebbe stata intrapresa ne-
gli anni seguenti; dall'altra, segnoÁ il primo tassello di un processo di recu-
pero filologico del patrimonio ecclesiastico tradizionale, fino a quel mo-
mento «ipotecato» dall'eresia luterana che aveva rivendicato una sorta di
esclusivitaÁ ermeneutica sui testi sacri e sulla tradizione patristica.
Per quanto riguarda il primo dei due punti l'Indice paolino individuava
l'origine dell'uso superstizioso delle orazioni da parte dei devoti cattolici
nelle «rubriche» apposte in appendice oppure all'inizio delle orazioni stes-
se. Non era tanto, dunque, il contenuto delle preghiere ad essere oggetto
delle attenzioni censorie degli inquisitori quanto quelle parole, le rubriche
appunto, che attribuivano all'atto devozionale poteri («virtutes») taumatur-
gici di vario tipo, dalla guarigione istantanea fino all'adescamento amoroso:
«Rubricae quibus confictae, quaedam virtutes psalmorum sive orationum
summa cum indignitate describuntur, in multis Psalteriis et communibus
libellis precum iubentur vel rescindi vel deleri».7
Riguardo al secondo punto, invece, l'Instructio ± riferendosi alle opere
senza nome d'autore condannate nella terza classe dell'Indice paolino ± in-
troduceva una significativa puntualizzazione: «Quae a quadraginta annis ci-
tra impressa sunt, ita ut compertum sit eadem ante XL annos nunquam
fuisse alias impressa vel composita, censentur prohibita».8 Le opere stam-
pate per la prima volta negli anni successivi alla diffusione dell'eresia lute-
rana (gli «ultimi quarant'anni») erano da considerarsi comunque proibite,
salvo casi specifici.9 Un'indicazione che di per se non segnava alcuna novi-
taÁ. EÁ piuÁ che naturale, si direbbe, che l'Indice paolino concentrasse le sue
attenzioni sulle opere presumibilmente contaminate dall'eterodossia prote-
stante. Senonche questa perentoria sottolineatura della cesura rappresenta-
ta dalla Riforma protestante nel processo evolutivo della Chiesa romana as-
sume una particolare connotazione qualora venga letta alla luce delle in-
dicazioni contenute nella Moderatio indicis librorum prohibitorum, il de-
creto firmato da Pio IV due anni dopo, nel 1561, per attenuare i divieti che
avevano colpito alcune particolari categorie di libri e per alleggerire il cli-
ma intimidatorio creato dall'Indice paolino.10 Tale decreto, riferendosi alla

7 Ibid.
8 Ivi, p. 101.
9 CosõÁ continuava infatti il testo dell'Instructio: «Si tamen passim inter Catholicos recepta

sint, et probata sine controversia et suspitione alicuius labis: et viri Catholici et eruditi id affir-
ment cum licentia officii Sanctae Inquisitionis conceduntur» (Index des livres interdits, vol. VIII,
cit., p. 101). La licenza della Congregazione dell'Inquisizione veniva dunque concessa solo nel
caso di opere al di sopra di ogni sospetto.
10 Index des livres interdits, vol. VIII, cit., pp. 53-54. Il testo della Moderatio e
Á alle pp. 105-

Ð 65 Ð
CAPITOLO SECONDO

stessa tipologia di opere, prescriveva ± in senso cronologicamente opposto,


ma esattamente speculare a quello dell'Instructio ± che gli scritti stampati
prima della diffusione del luteranesimo (gli stessi «ultimi quarant'anni»)
avrebbero dovuto essere «tollerati», eccezione fatta per i casi di manifesta
eresia: «Libri sine authoris nomine impressi ante quadraginta annos (dum-
modo nullum in fide errorem contineant) tolerentur».11 A questo punto,
quella volontaÁ di distinzione appena implicita nell'Indice del 1559 sarebbe
apparsa evidente in tutta la sua radicalitaÁ sin troppo manichea: da una par-
te un'inflessibile battaglia antiluterana, dall'altra un'operazione di recupero
della tradizione cattolica anteriore alla diffusione delle dottrine riformate.
Il percorso censorio tracciato dall'Indice paolino, tuttavia, racchiudeva
in se una stridente contraddizione. La radicale offensiva lanciata contro la
lingua volgare rischiava di muovere le gerarchie ecclesiastiche in una dire-
zione opposta a quella della valorizzazione delle stesse tradizioni, locali o
nazionali che fossero. Questa contraddizione apparve evidente, per esem-
pio, agli occhi di Ludovico Beccadelli, arcivescovo di Ragusa,12 il quale rea-
gõÁ con incredulitaÁ e smarrimento al divieto di lettura della Bibbia in volgare
contenuto nell'Indice paolino, proprio in nome delle consolidate tradizioni
locali. Scrivendo al Ghislieri all'indomani della promulgazione dell'Indice,
si appellava all'«uso antico» delle lingue vernacole, sostenendo che sarebbe
stato molto difficile, oltre che altamente inopportuno, tentare di «levarle»:
«Et qui in tutta la provincia di Schiavonia, non pure a Ragusa, hanno nella
lingua loro, com'essi dicono, da san Hieronimo in qua, tutti i libri sacri, et
non solo gli leggono ordinariamente ne i monasterii delle donne e nelle case
private, ma celebrano per tutto il paese, dalle cathedrali e monasterii de'
frati in poi, la messa in lingua schiava et, per quel ch'intendo, in detta lin-
gua si fanno preti et dottori anchora. Et essendo questo uso molto vecchio,
com'ho detto, sarebbe cosa quasi impossibile a levarla».13 La Commissione

106; G. FRAGNITO, op. cit., p. 95; cfr. anche H. JEDIN, Storia del Concilio di Trento, cit., vol. IV,
tomo I, 1979, p. 153 sgg.
11 Index des livres interdits, vol. VIII, cit., p. 105.

12 Sul Beccadelli cfr. G. ALBERIGO , sub voce in DBI, vol. VII, pp. 407-413; G. FRAGNITO ,

Per lo studio dell'epistolografia volgare del Cinquecento: le lettere di Ludovico Beccadelli, in «Bi-
bliotheÁque d'Humanisme et Renaissance», 43, 1980, pp. 61-87; EAD., In museo e in villa. Saggi
sul Rinascimento perduto, Venezia, Arsenale, 1988, passim; EAD., Le contraddizioni di un censore:
Ludovico Beccadelli di fronte al Panormita e al Boccaccio, in Studi in memoria di Paola Medioli
Masotti, a cura di F. Magnani, Napoli, Loffredo editore, 1995, pp. 153-171.
13 Ragusa, 12 febbraio 1559, in BPP, Ms. Pal. 1010, f. 282r-v, cit. da G. FRAGNITO , La Bib-

bia al rogo, cit., p. 101 (corsivo mio). Il richiamo agli usi locali dovette comunque pesare non
poco nella posizione favorevole alle traduzioni della Bibbia in volgare assunta dalla maggioranza
dei padri conciliari italiani (G. FRAGNITO, op. cit., p. 79).

Ð 66 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

tridentina, di cui il Beccadelli era membro autorevole, incaricata da Pio IV


di mitigare l'Indice di Paolo IV, pose rimedio a tale palese contraddizione
provvedendo ad una moderazione del divieto di lettura della Bibbia in vol-
gare. La regola IV dell'Indice tridentino, approntato da quella commissio-
ne, infatti, permetteva ai vescovi e agli inquisitori di autorizzare, dopo aver
sentito il parere di parroci o confessori, la lettura di versioni della Bibbia
nelle lingue vernacole, tradotte da autori cattolici, in tutti i casi in cui repu-
tavano che tale lettura sarebbe servita per accrescere la pietaÁ e la devozione
del fedele.14
Risolta cosõÁ, seppur parzialmente, questa contraddizione, la commissio-
ne tridentina poteÁ riprendere piuÁ coerentemente il percorso intrapreso dal-
l'Instructio e dalla Moderatio.15
Da una parte, venne aggiunto un altro tassello al menzionato processo
di «recupero», chiarendo che le opere «qui vero de ratione bene vivendi,
contemplandi, confitendi, ac similibus argumentis vulgari sermone con-
scripti sunt, si sanam doctrinam contineant, non est cur prohibeantur, sicut
nec sermones populares vulgari lingua habiti» (Regola VI).16 EÁ sufficiente
infatti gettare uno sguardo ai cataloghi delle ristampe cinquecentesche di
testi devozionali medievali 17 per rendersi conto di come tutti i temi indivi-
duati da quest'ultima regola ± dalla «contemplazione» al tema del «bene
vivendi», fino a quello della confessione ± caratterizzassero inconfondibil-
mente tale settore letterario.
Dall'altra parte, rispetto al secondo importante tema affrontato dall'In-
dice paolino, quello della superstizione, gli estensori dell'Indice tridentino
fecero un passo in avanti. Elencando le categorie di opere da espurgare, il
testo della Regola VIII operoÁ, infatti, una sostanziale equiparazione tra ere-

14 G. FRAGNITO , op. cit., p. 98; il testo della regola IV e


Á in Index des livres interdits, vol.
VIII, cit., pp. 816-817.
15 La regola prima dell'Indice tridentino accoglieva fedelmente l'indicazione contenuta

nella Moderatio riguardo alla letteratura pre-riforma; specificando che solamente i libri esplicita-
mente condannati nel corso dei secoli precedenti erano da considerarsi proibiti, essa confermava
indirettamente che ± come giaÁ evidente nella Moderatio ± la letteratura devozional-religiosa tre-
quattrocentesca rimaneva esente da qualsiasi proibizione: «Libri omnes, quos ante annum
MDXV aut summi Pontifices, aut Concilia oecumenica damnarunt, et in hoc Indice non sunt,
eodem modo damnati esse censeantur, sicut olim damnati fuerunt» (Regula I, in Index des livres
interdits, vol. VIII, cit., p. 813).
16 Ivi, p. 816. Il riferimento ai «sermones populares» introduceva per la prima volta un ac-

costamento tra cultura dei «senza lettere» e letteratura devozionale che sarebbe stato ripreso an-
che negli anni a seguire, cfr. infra, pp. 180 sgg.
17 Per un primo approccio vedi A.J. SCHUTTE , Printed italian vernacular religious Books, cit.,

passim.

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CAPITOLO SECONDO

sia da una parte e superstizione, empietaÁ e divinazione dall'altra, sancendo


definitivamente sul piano normativo ± attraverso l'introduzione dello stru-
mento dell'espurgazione ± l'inizio dell'offensiva ecclesiastica contro ogni
forma di «superstitio»: «Libri, quorum principale argumentum bonum
est, in quibus tamen obiter aliqua inserta sunt, quae ad haeresim, seu im-
pietatem, divinationem, seu superstitionem spectant, a Catholicis Theolo-
gis, Inquisitionis generalis auctoritate, expurgati, concedi possunt».18
Era comunque l'intero campo della «morale» che, ben oltre i confini
della «superstitio», diventava terreno di un progetto, culturale ancora pri-
ma che censorio, mirante a controllare ogni singolo aspetto della vita del
fedele: sotto le generiche categorie della «lascivia» e dell'«oscenitaÁ» (Regola
VII) 19 interi settori di letteratura volgare, religiosa e non, cadevano tra le
mani dei censori romani. Gran parte della letteratura religiosa e devoziona-
le cinquecentesca sarebbe stata letta dalle autoritaÁ romane alla luce di que-
ste nuove categorie censorie, spesso ben al di laÁ degli specifici contenuti
delle opere stesse.20
Coerentemente al disegno tracciato dalle regole tridentine, anche i
decreti emanati in occasione del Concilio di Trento avevano evidenziato
la centralitaÁ del problema della superstizione. Dopo aver ribadito ± sem-
pre in linea con le regole censorie ± il principio dell'autoritaÁ dei testi sacri
e della tradizione patristica,21 dopo aver sottolineato in funzione antilute-

18 Index des livres interdits, vol. VIII, cit., p. 817. Anche la Regola IX ritornava sul tema,

specificando le diverse forme di superstizione annidate tra gli scritti dell'epoca, dai sortilegi, ai
venefici, fino alle incantazioni: «Libri omnes, et scripta Geomantiae, Hydromantiae, Onoman-
tiae, Chiromantiae, Necromantiae, sive in quibus continentur Sortilegia, Veneficia, Auguria, Au-
spicia, Incantationes artis magica, prorsus reiiciuntur [...]» (Ivi, p. 818).
19 Nella «Regula septima», infatti, leggiamo: «Libri, qui res lascivas, seu obscoenas ex pro-

fesso tractant, narrant, aut docent, cum non solum fidei, sed et morum, qui huiusmodi librorum
lectione facile corrumpi solent, ratio habenda sit, omnino prohibentur, et qui eos habuerint, se-
vere ab Episcopis puniantur. Antiqui vero, ab Ethnicis conscripti, propter sermonis elegantiam,
et proprietatem permittuntur, nulla tamen ratione pueris praelegendi erunt» (Ivi, p. 817).
20 Nonostante la sensibile diminuzione del numero delle proibizioni rispetto all'Indice pao-

lino e nonostante l'introduzione dello strumento dell'espurgazione che restituõÁ in un certo senso
una vita (seppur menomata) a testi altrimenti destinati alla scomparsa, nonostante tutto questo,
dobbiamo considerare come le dieci regole introduttive dell'Indice Tridentino ampliarono a di-
smisura il campo censorio ecclesiastico.
21 Sessio IV (8 aprile 1546): «Decretum primum: recipiuntur libri sacri et traditiones aposto-

lorum. [...] Perspiciensque, hanc veritatem et disciplinam contineri in libris scriptis et sine scripto
traditionibus, quae ab ipsius Christi ore ab apostolis acceptae, aut ab ipsis apostolis Spiritu sancto
dictante quasi per manus traditae ad nos usque pervenerunt, orthodoxorum patrum exempla se-
cuta, omnes libros tam veteris quam novi testamenti, cum utriusque unus Deus sit auctor, nec non
traditiones ipsas, tum ad fidem, tum ad mores pertinentes, tamquam vel oretenus a Christo, vel a
Spiritu sancto dictatas et continua successione in ecclesia catholica conservatas, pari pietas affectu
ac riverentia suscipit et veneratur» (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, cit., p. 663).

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TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

rana il valore meritorio di uffici 22 e orazioni,23 equiparate a tutte le altre


«buone opere» del devoto cattolico, i padri conciliari avevano individua-
to, infatti, nella superstizione e in devianze ad essa comparabili («scurri-
lia, [...] fabulosa, vana, adulationes, detractiones, [...] impias et diabolicas
incantationes, divinationes, sortes») 24 uno dei pericoli maggiori per l'in-
tegritaÁ e la purezza dell'impianto devozionale romano. Essi non si erano
limitati, tuttavia, a segnalare la questione. Valorizzando suggestioni giaÁ
presenti nel Libellus ad Leonem X, i vescovi tridentini avevano individua-
to il rimedio da seguire nella perentoria affermazione dell'autoritaÁ centra-
le della Chiesa di Roma quale unica fonte di legittimazione di riti e pre-
ghiere: «[...] ne superstitioni locus aliquis detur, edicto et poenis propo-
sitis caveant, ne sacerdotes aliis quam debitis horis celebrent, neve ritus
alios aut alias caeremonias et preces in missarum celebratione adhibeant
praeter eas, quae ab ecclesia probatae ac frequenti et laudabili usu recep-
tae fuerint».25 Le ultimissime parole del decreto, alludenti all'«uso anti-
co» di cerimonie e preghiere come fonte di legittimazione alternativa da-
vano, infine, la misura dell'avvenuta saldatura tra i due problemi fin qui
seguiti, quello della lotta alla superstizione e quello della valorizzazione
del patrimonio religioso tradizionale.
Un percorso accidentato, dunque, ma piuttosto lineare nei suoi assi
portanti. La riforma del Breviario, intrapresa proprio in quegli anni, e con-

22 «Omnes vero divina per se et non per substitutos compellantur obire officia, et episcopo

celebranti aut alia pontificalia exercenti adsistere et inservire, atque in choro, ad psallendum in-
stituto, hymnis et canticis Dei nomen reverenter, distincte devoteque laudare» (Ivi, Decretum de
reformatione, Sessio XXIV, canone XII, cit., p. 767).
23 «Decretum de iustificatione: [...] verum etiam et eorumdem sacramentalem confessionem,

saltem in voto et suo tempore faciendam, et sacerdotalem absolutionem, itemque satisfactionem


per ieiunium, eleemosynas, orationes et alia pia spiritualis vitae exercitia» (Ivi, Sessio VI, p. 677).
24 «Decretum secundum: recipitur vulgata editio bibliae praescribiturque modus interpretandi

sacram scripturam etc. [...] Post haec temeritatem illam reprimere volens, qua ad profana quaeque
convertuntur et torquentur verba et sententiae sacrae scripturae, ad scurrilia scilicet, fabulosa,
vana, adulationes, detractiones, superstitiones, impias et diabolicas incantationes, divinationes,
sortes, libellos, etiam famosos: mandat et praecipit ad tollendam huiusmodi irreverentiam et con-
temptum, et ne de cetero quisquam quomodolibet verba scripturae sacrae ad haec et similia au-
deat usurpare, ut omnes huius generis homines, temeratores et violatores verbi Dei, iuris et arbi-
trii poenis per episcopos coerceantur» (Ivi, Sessio IV, pp. 664-665). Sempre riguardo alla que-
stione della superstizione cfr. Ivi, pp. 774-776, Sessio XXV (3-4 dic. 1563): De invocatione, ve-
neratione et reliquiis sanctorum, et de sacris imaginibus. [...] Omnis porro superstitio in sanctorum
invocatione, reliquiarum veneratione et imaginum sacro usu tollatur, omnis turpis quaestus eli-
minetur, omnis denique lascivia vitetur, ita ut procaci venustate imagines non pigantur nec or-
nentur».
25 Decretum de observandis et vitandis in celebratione missarum, Sessio XXII (17 sept.

1562), Ivi, p. 737.

6
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CAPITOLO SECONDO

clusa solo nel 1568, rappresentoÁ il primo vero banco di prova di questa
lunga gestazione normativa.26
Nel corso dei lavori preparatori, che, iniziati sotto Paolo IV, prosegui-
rono ben oltre la sua morte, furono accolte molte delle istanze riformatrici
avanzate venti anni prima dal QuinÄones. In sintonia con lo spirito informa-
tore del Libellus ad Leonem X, il cardinale francescano aveva progettato
intorno alla metaÁ degli anni Trenta una riforma complessiva dell'impianto
liturgico romano. Egli proponeva una radicale rivisitazione delle funzioni e
delle modalitaÁ d'uso del Breviario romano ± il testo liturgico contenente
l'ufficio divino che gli ecclesiastici erano chiamati a recitare a varie ore
del giorno. L'idea di fondo del QuinÄones era quella di restituire al testo
la sua originaria funzione di silloge di brani scritturali, proponendone dun-
que un uso piuÁ interiorizzato di quanto fatto fino a quel momento. Duplice
l'esigenza che trovava riscontro nelle sue istanze riformatrici. Da un lato
incentivare ± attraverso i brani riportati nel Breviario ± la lettura diretta
e semplificata del testo evangelico. Dall'altra ricondurre il Breviario alla
sua forma antiqua consolidatasi in etaÁ patristica: facilitaÁ di fruizione delle
sacre scritture e affermazione della sacra tradizione ecclesiastica. A queste
due esigenze rispondevano infatti tutte le misure adottate nel suo progetto
di riforma quali la semplificazione degli uffici feriali (soprattutto la riscrit-
tura, abbreviata e semplificata, delle letture bibliche in essi contenute), la
riduzione del numero degli uffici (e dei giorni) festivi, ancorati fino a quel
momento ad un numero sempre crescente di santi da onorare, l'eliminazio-
ne di risposte ed antifone superflue. Entrambi i temi su cui avevano ferma-
to la loro attenzione Querini e Giustiniani ± il problema dell'ignoranza e
quello dell'affermazione dell'autoritaÁ ecclesiastica ± 27 ricevevano dunque
una risposta concreta in questa proposta di riforma. Ma i tempi non erano
ancora maturi. L'assonanza di queste tesi riformatrici con le rivendicazioni
religiose di stampo protestante fece sõÁ che il progetto del QuinÄones susci-
tasse ± all'interno della Curia romana ± piuÁ diffidenze che consensi.28 Con
il trascorrere degli anni divenne tuttavia evidente che l'unico reale motivo

26 Sulla riforma del Breviario vedi H. JEDIN , Storia del Concilio di Trento, cit., vol. IV, tomo

II, 1981, pp. 344-348.


27 Cfr. supra, pp. 1 sgg.

28 Nel 1558 (8 agosto) un decreto di Paolo IV proibõÁ la ristampa del breviario di Quin Ä ones.
Il decreto in realtaÁ non fu mai promulgato, tant'eÁ che nel 1561 il generale dei Gesuiti LaõÂnez an-
cora permetteva ai membri del suo ordine di utilizzarlo. Per queste vicende cfr. vedi S. DITCH-
FIELD , Liturgy, Sanctity and History in Tridentine Italy, Cambridge, Cambridge University Press,
1995, p. 24 e p. 29 e nota 43.

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TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

del fallimento di quella riforma avviata nel 1535 era la circostanza di essere
stata concepita con trent'anni di anticipo. Gli stessi princõÁpi ispiratori che
nel 1535 suonavano come una precoce ammissione di colpa, stanti le anco-
ra troppo recenti accuse luterane di tradimento dei testi sacri, ora, dopo il
compimento del processo di ridefinizione dottrinale occorso a Trento e la
«serrata di ranghi» realizzata con i due indici romani, potevano essere ac-
colti come struttura portante della «riforma» liturgica romana.
Il Breviarium pianum che fu presentato a conclusione dei lavori della
commissione incaricata rispondeva infatti all'esigenza di restaurare le forme
originali del Breviario (ridur l'officio all'antico) eliminando le «nuove, as-
surde o apocrife cose» aggiunte nel corso dei decenni.29 La prima misura
adottata fu quella di ridurre il numero dei giorni festivi riconducendo cosõÁ
il testo al suo principale originario intento: quello di far sõÁ che il lettore (nel
caso del Breviario l'ecclesiastico, nel caso del Messale, come vedremo fra
breve, il fedele) riuscisse a recitare 150 salmi in una settimana avendo al
contempo la possibilitaÁ di leggere tutti i brani scelti tratti dalla Sacra Scrit-
tura.30 Gli interventi ecclesiastici non si limitarono tuttavia ad un aggiusta-
mento quantitativo del testo. Spesso i cardinali preposti alla riforma si pre-
sero carico di intervenire anche qualitativamente su singoli passi. Sui testi
delle «lezioni» relative alle «azioni» dei santi, per esempio.31 Da una rela-
zione indirizzata da Leonardo Marini, vescovo di Lanciano membro della
citata commissione, a Pio V con l'intento di informarlo riguardo allo svol-
gimento del lavoro di riscrittura delle «lezioni» agiografiche, apprendiamo
qualche elemento sul tipo di lavoro svolto. Marini, infatti, si soffermava sul-
l'impegno profuso al fine di offrire ai chierici un testo dallo stile «conciso e
sobrio», un «racconto» depurato da ogni elemento apocrifo e liberato da
concetti che non concernevano la vita del santo. Il racconto agiografico,
sempre secondo la relazione del Marini, avrebbe dovuto menzionare solo
le «informazioni» piuÁ attendibili e quelle ritenute piuÁ importanti rispetto
allo scopo edificante che esso si poneva. In ogni caso evitare parole o
espressioni che potessero confondere le menti dei semplici o che potessero

29 Ivi, p. 35.
30 Ivi, p. 30. Il numero dei giorni festivi, e degli uffici ad essi corrispondenti, era aumentato,
spiega Ditchfield, oltre che per «accontentare» le numerose richieste provenienti da ogni dove
del mondo cattolico, anche per una motivazione di ordine «umano». Un giorno di festa dedicato
al culto di un santo dispensava infatti il prete dal gravoso compito di recitare un alto numero di
salmi e preghiere cui si sommavano l'ufficio del giorno, l'ufficio del morto, ed il `piccolo' ufficio
della beata vergine (Ivi, pp. 31-32).
31 Ivi, p. 36.

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CAPITOLO SECONDO

offendere il decoro e l'onestaÁ cristiana.32 Con una notevole sensibilitaÁ filo-


logica, la cronologia delle vite dei santi fu controllata nei minimi particolari,
precise informazioni vennero fornite sullo stato e sul luogo di conservazio-
ne delle reliquie di ciascun santo e specificate le fonti su cui il racconto si
basava.33
Il messaggio che si volle offrire con questa riforma del Breviario fu, co-
munque, quello di un lavoro che si limitava a «restaurare», senza lasciare
alcuno spazio alla fantasia o alla creativitaÁ dei revisori. Nessun altro signi-
ficato potrebbe infatti essere attribuito alla frase scelta scrupolosamente dal
Sirleto 34 per riassumere il tipo di intervento effettuato: «Niente eÁ stato ag-
giunto o niente eÁ stato messo al posto delle cose nuove assurde e apocri-
fe».35 In questo contesto si comprende bene il ruolo di tutto rispetto
che la tradizione devozionale locale ricevette nella complessiva riforma li-
turgica. In particolare, l'indicazione secondo la quale tutti i breviari utiliz-
zati da diocesi e Ordini religiosi da piuÁ di 200 anni erano da considerarsi
esclusi dagli interventi ecclesiastici. Il principio dell'«antichitaÁ» dei testi li-
turgici sarebbe cosõÁ diventato negli anni a seguire il principale appiglio cui
le diocesi locali si sarebbero aggrappate per ottenere dalla Santa Sede la
ormai obbligatoria approvazione dei loro uffici e breviari. Ma su questo ri-
torneremo piuÁ avanti.
Alla radicale revisione del Breviario romano seguõÁ ± a distanza di soli
due anni ± la riforma del Messale, il testo liturgico utilizzato dal clero du-
rante le celebrazioni e da parte dei fedeli nei momenti di preghiera indivi-
duale. La rinnovata versione del santorale rendeva tale operazione sostan-
zialmente obbligatoria. Nella bolla Quo Primum Tempore posta in apertura
del nuovo Messale l'intento principale della riforma ± ricondurre con scru-
polo filologico il testo alla sua forma originaria ± era esplicitamente formu-
lato: «Ad pristinam Missale ipsum sanctorum Patrum normam ac ritum re-
stituerunt».36

32 Ivi, p. 37; P. BATIFFOL , History of the Roman Breviary, London, Longmans and Co., 1912

(I ed. fr. 1893), p. 228.


33 S. DITCHFIELD , Liturgy, Sanctity, cit., p. 37.

34 Sul Sirleto cfr. P. PASCHINI , Note per una biografia del cardinale Guglielmo Sirleto, in «Ar-

chivio Storico della Calabria», V, 1917, pp. 44 sgg.; ID., Guglielmo Sirleto prima del cardinalato,
in ID., Tre ricerche sulla storia della Chiesa nel Cinquecento, Roma, Edizioni liturgiche, 1945, pp.
155 sgg.; ID., Il cardinale Sirleto in Calabria, in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», I, 1947,
pp. 22-67; ID., Sirleto, Guglielmo, in Enciclopedia Cattolica, XI, CittaÁ del Vaticano, 1953, coll.
757-58. Sulla sua attivitaÁ come membro della Congregazione dell'Indice cfr. G. FRAGNITO, La
Bibbia al rogo, cit., ad indicem.
35 S. DITCHFIELD , Liturgy, Sanctity, cit., p. 35.

36 Ivi, nota 93 p. 43. Se una riforma del Messale si era resa necessaria in seguito alla revi-

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TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

EÁ in questo quadro che deve essere letta la Bolla emanata nel 1571 da
papa Pio V «sopra la recitatione della Beata Vergine Maria, colli decreti, et
indulgentie».37 EÁ un documento che consente di verificare ± con partico-
lare riferimento al tema dell'orazione ± le concrete modalitaÁ di applicazione
dei criteri censori e «riformatori» formulati in materia liturgico-devozionale
dagli estensori degli indici paolino e tridentino. Tutti i principi ivi enuncia-
ti, a partire dalla proibizione della lettura di testi devozionali in volgare, fi-
no al valore «normativo» attribuito alla tradizione ecclesiastica locale prima
ancora che a quella patristica, dall'affermazione dell'autoritaÁ centrale roma-
na come fonte unica ed indiscutibile di legittimazione in materia, fino alla
lotta contro le superstizioni, sono princõÁpi che si ritrovano applicati nella
bolla pontificia del 1571 in un disegno solido e coerente.
Che l'offensiva contro il volgare rappresentasse un elemento costitutivo
della strategia controriformistica si deduceva chiaramente, una volta di piuÁ,
dall'insistenza con cui la bolla puntava il dito contro gli «uffici» e le «ora-
tioni» in lingua volgare: «Tutti gl'Ufficioli volgari, in qualonche lingua sia-
no, o in Italiano, o in Spagnolo, o in Francese, o in Tedesca, o in qualonque
altra volgare, sono totalmente proibiti. [...] Orationi volgari, qualonque sia-
no, se ben fossero inserte ne gl'Uffici latini, e parimente Litanie volgari so-
no prohibite, e interdette».38 La bolla, tuttavia, non limitava il suo raggio
d'azione alla questione del volgare. Era l'intera produzione editoriale cin-
quecentesca, in questo caso di «Uffici della Beata Vergine Madre», ad es-
sere messa in discussione in nome del ristabilimento dell'esclusivitaÁ dell'au-
toritaÁ papale in materia liturgica: «Si annullano tutti li Uffici della Beata
Vergine Madre, composti, o tradotti in lingua volgare in qual si voglia mo-
do, e lingua, si come ancor si annulla l'Ufficio stampato, e pubblicato a Ve-
netia appresso li Gionti l'anno passato 1570 con questa, se ben falsa inscrit-

sione del calendario dei santi, ancor piuÁ urgente si faceva quella del Martirologio, cui, infatti, nel
giro di pochi anni, si dedicoÁ con grande impegno uno dei piuÁ grandi storici della Chiesa del
tempo, Cesare Baronio (Ivi, pp. 43 sgg.).
37 Bolla dell'11 marzo 1571, in Bullarium diplomatum et privilegiorum sanctorum romanorum

pontificum, taurinensis editio..., tomus VII, Augustae Taurinorum, Seb. Franco et Henrico Dal-
mazzo editoribus, 1862, pp. 897-901. Seguiamo qui il «Sommario della Bolla del Santiss. padre
Papa Pio V, sopra la recitatione dell'Ufficio della B. Vergine Maria, Colli decreti, et indulgentie,
havuto da Tortona», riportato in Scriniolum Sanctae Inquisitionis Astensis in quo quaecumque ad
id muneris obeundum spectare visa sunt, vidilicet Librorum Prohibitorum Indices ... Astae, Apud
Virgilium de Zangrandis, 1610, ff. 55-57. Su quest'ultima importante fonte documentaria vedi
ora M. FANTINI, Lo Scriniolum di Fra Giovanni Battista Porcelli (1612): da un archivio di lettere
alla formazione di un manuale, in L'Inquisizione romana: metodologia delle fonti e storia istituzio-
nale, a cura di A. Del Col e G. Paolin, Trieste, Edizioni UniversitaÁ di Trieste, 2000, pp. 199-256.
38 Scriniolum, cit., f. 56, sotto il titolo Modo, et regola di espurgare gl'ufficioli, et altri libri

d'orationi.

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CAPITOLO SECONDO

tione, Officium Beatae Mariae Virginis per Concilium Tridentinum Pio V


Pontifex Maximus reformatum, e in somma ciascun altro ufficio della detta
Beata Vergine, composto ancor in lingua latina con inscrittione de Hortu-
lus animae, o Thesauri spiritualis compendium, o sotto qual si voglia altro
titolo, o nome divolgato».39 Rivolgendosi a «tutti quelli cosõÁ secolari, come
regolari di qual si voglia ordine, e laici dell'uno, e l'altro sesso, che per qual
si voglia regola, militia, ordine, uso, consuetudine, ragione, o causa sono
obligati a recitar l'Ufficio della Beata Vergine», Pio V intimava loro «che
non ardiscano dire, leggere, o tener in alcun modo altro Ufficio della Ma-
donna, che quello ch'eÁ corretto di comandamento di Nostro Signore, eÁ sta-
to stampato in Roma nella stamparia del Popolo Romano eretta a fine d'im-
primere fidelmente, e incorrottamente li libri sacri, e dicendo altro ufficio
sappiano non satisfar al debito, che hanno da recitar tal ufficio, eccettuan-
do come di sopra».40
Rimaneva aperta la delicata questione della tradizione ecclesiastica lo-
cale. Gli estensori della bolla, cosõÁ ± sulle orme del compromesso raggiunto
nei decreti tridentini ± 41 si misero alla ricerca di una formula che potesse
conciliare l'affermazione dell'autoritaÁ papale con la tutela delle devozioni
locali. Sulle prime, l'imbarazzo e l'impaccio dei revisori sembroÁ avere la
meglio. Il tono imperioso della proibizione sopra citata veniva attenuato at-
traverso una formula dal contenuto alquanto ambiguo che cercava di co-
niugare appunto il rispetto della tradizione locale (implicito nel riferimento
al «consenso [...] del suo Prelato») con una riaffermazione dell'autoritaÁ
centrale della Curia romana mascherata dietro l'accomodante formula della
concessione di una «licenza»: «Si concede peroÁ licentia a quelli, che per le
cause sopradette potessero recitar altro ufficio, che possano in loco di quel-
lo, che hanno recitato fino a hora dir questo, di consenso peroÁ del suo Pre-
lato, e di tutto il capitulo d'esso Prelato».42 Quando, piuÁ avanti, dovettero
tornare sulla questione, comunque, essi riuscirono a sciogliere quel sotteso
antagonismo con una sentenza ben piuÁ lineare che sanciva la «pari dignitaÁ»
dei due principi: «Si eccettuano [dalla proibizione generale] peroÁ quelli Uf-
ficii, che dalla lor prima institutione furono approbati dalla santa sede apo-
stolica, e quelli che consteraÁ esser stati instituiti, o usati oltra duecento an-
ni, purche non siano in lingua volgare».

39 Scriniolum, cit., f. 55.


40 Ibid.
41 Cfr. supra, p. 69.
42 Scriniolum, cit., f. 55.

Ð 74 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

Risolta cosõÁ l'apparente contraddizione, e delineati i confini del proprio


raggio d'azione, il testo della bolla scendeva nei particolari dell'intervento
censorio. Approfondendo le motivazioni sottostanti la proibizione di carat-
tere generale, i «revisori» si imbattevano subito nel problema della super-
stizione: «Si prohibisce il dir l'ufficio d'essa Beata Vergine in volgare, si co-
me ancor se li prohibisce il dir qualsivoglia oratione volgare, se ben fossero
inserte nelli ufficii latini, poiche si eÁ conosciuto esser in molte di esse ora-
tioni molte superstitioni».43 Utilizzando lo strumento espurgativo introdot-
to dalle Regole tridentine, la Bolla di Pio V interveniva dunque sui testi di-
stinguendo tra parti «cattive» (le «rubriche» segnalate dall'Indice paolino
ma, come vedremo, non solo queste) e parti «da salvare». Il testo della bol-
la si era infatti concluso con l'invito (o meglio il «comando») rivolto a par-
roci e fedeli a consegnare nelle mani degli «inquisitori dell'heretica pravitaÁ»
gli «ufficii» per «levar totalmente l'uso delli [...] volgari, e purgar li altri».44
Ebbene, nel Modo et regola di espurgare tutti gli ufficioli veniva accurata-
mente illustrato in che modo si sarebbe dovuta svolgere tale operazione
di «espurgazione»: «Tutte le Rubriche anco dell'orationi si levano via, le
quali non appartengono al titolo dell'Oratione, overo al governar l'Ufficio;
ma parlano d'Indulgenze incerte, o d'osservationi vane, o superstitiose,
overo del valore dell'Orationi, con raccontare cose non verisimili, ne ragio-
nevoli. Tutte le parte inserte, e poste nell'Orationi, le quali repugnano alle
sacre lettere, overo alla dottrina della santa, e Cattolica Romana Chiesa, o
importano falsitaÁ, devono esser levate via». E ancora, di seguito: «Parimen-
te quando hanno del superstitioso, e dell'inusitato; o sono indecenti, inco-
gnite, o inette, o fuor di proposito inserte, debbano esser levate».45
Prima di indicare la lista dei «luoghi» da espurgare veniva cosõÁ presen-
tato agli ecclesiastici e ai fedeli un elenco di «orationi le quali intiere, e tutte
si levano».46 Tra queste troviamo orazioni che sin dalla semplice lettura del
titolo svelavano la loro natura «superstitiosa» come l'Oratione a ritrovar co-
se robbate, l'Oratione contra la tempesta, l'Oratione contro il morbo, l'Ora-
tione contro gl'Inimici, quella «contra la febre» o quella «contra il male del-
la gotta», ovvero orazioni scartate come «superflue» nel corso della revisio-

43 Ibid.
44 Ivi, f. 55 (corsivo mio).
45 Ivi, f. 56. Non eÁ difficile notare nell'utilizzo dell'espressione «inusitato» l'ennesimo rife-
rimento all'importanza dell'«uso antico», in contrapposizione al concetto di «novitaÁ», cui si at-
tribuiva una valenza negativa, necessariamente associata all'origine e agli sviluppi della riforma
luterana.
46 Per le orazioni che seguono cfr. Ivi, ff. 56-57.

Ð 75 Ð
CAPITOLO SECONDO

ne del calendario dei santi legato alla riforma del Breviario e del Messale,
oppure testi che dietro un titolo apparentemente ortodosso nascondevano
contenuti e messaggi «superstitiosi», quale per esempio Il Confitemini della
Beata Vergine. Proprio un esemplare del Confitemini della Madonna con le
litanie, stampato in Venetia per Augustino Bindoni (1553), conservato
presso la Biblioteca Casanatense di Roma ± biblioteca dove nel corso del
XVII secolo confluirono numerosi testi appartenuti al Sant'Uffizio roma-
no ± 47 offre testimonianza diretta della qualitaÁ e dell'efficacia dell'interven-
to censorio. Essa reca sul frontespizio un'indicazione scritta a mano dal to-
no inequivocabile: «Divozione con superstitione sciocca», e sul primo fo-
glio un'altra annotazione manoscritta che conferma quanto emergeva giaÁ
dalla lettura della bolla di Pio V: «Il Confitemini ... [sic] le litanie della
R.ma Vergine non approvate scioccamente, e percioÁ non senza qualche
spazio di superstizione, ... [sic] unite delle promesse ridicole». L'analisi
del contenuto del volumetto offre dunque una testimonianza interessante
degli elementi condannati: da una parte le cosidette «rubriche», dall'altra
i brani superstitiosi. Tra le prime leggiamo espressioni come: «Qui si co-
mincia questo divoto psalmo che si vole dire con molta riverentia e contri-
tione di cose divotamente quando tu hai alcuna tribulatione d'alcuno tuo
amico speciale o d'altra persona divota che sia tua recomendata la quale
fusse in tribulatione dirai questo psalmo con le orationi che sono scritte
con esso ingenocchiati dinanci alla Imagine della Vergine Maria e doppo
ogni verso come voi trovarete signato diraÁ tutta la Ave Maria con la invenia.
Et veramente quando tu l'harai ditta divotamente senza fallo sette mattine
a degiuno senza favellare a persona in tanto che tu la venerai a dire sarai
essaudito senza fallo e receverai da Dio il dono e la gratia che tu dimande-
rai»; 48 oppure come le parole: «Queste sono le Letanie della gloriosa vir-
gine Maria le quali chi le diraÁ o faraÁ dire seraÁ scampato da pestilentia: la
quale essendo intrata nel monasterio de santa Chiara per miracolo de la
verzene Maria fu liberado per virtuÁ de queste letanie»; 49 e ancora: «Quello
che diraÁ questa oratione io gli doneroÁ el mio corpo e lo sangue mio precio-

47 Con la bolla del 18 luglio 1703 Clemente XI acconsentiva a che i libri proibiti dall'Indice

fossero conservati anche presso la Biblioteca Casanatense: cfr. V. DE GREGORIO, La Biblioteca


Casanatense di Roma, Napoli, ESI, 1993; vedi anche il saggio di A.A. CAVARRA, La Biblioteca Ca-
sanatense a difesa dell'ortodossia: bibliotecari e teologi domenicani, segretari dell'Indice e Maestri
del Sacro Palazzo, in Inquisizione e Indice nei secoli XVI-XVII. Controversie teologiche dalle rac-
colte casanatensi, a cura di A.A. Cavarra, Vigevano, Diakronia, 1998, pp. 1-5.
48 Confitemini della Madonna con le litanie, Venezia, Augustino Bindoni, 1553, c. A1v.

49 Ivi, c. B2r.

Ð 76 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

so eternalmente li sacieroÁ».50 Tra i brani superstitiosi invece leggiamo passi


«irriverenti» e «irreali» come questo: «Advenne chel ditto solitario fu rapto
e pareagli essere in uno campo nel quale era uno dilettevole fiume pieno de
pitre preciose. Et appresso quel fiume era tutte le monache del ditto mo-
nasterio. De le quale parte erano tutte bagnate de la acqua del ditto fiume e
parte erano meze bagnate e parte erano solamente spianzate. Allhora el so-
litario fece oratione che li fusse revelato che significava questa visione: fugli
revelato che significava el stato santo de le sore che haveano ditta la ditta
oratione»; 51 oppure passi dottrinalmente scorretti che, piuÁ o meno impli-
citamente, attribuivano alla Madonna poteri salvifici che l'ortodossia catto-
lica non le riconosceva: «[...] hora se tu m'abbandoni ove andaroÁ? Che fa-
roÁ? Che chiameroÁ? A chi domandaroÁ aiuto o fontana d'ogni gratia».52
Per questo tipo di orazioni ogni tentativo di correzione sarebbe stato
del tutto inutile. Per altri testi meno compromessi gli estensori della bolla
avevano invece preparato un elenco di «Orationi, antifone, letanie, et Hin-
ni, che debbono esser corrette, come di sotto».53 Senza entrare nel merito
di ogni singola orazione (e corrispondente espurgazione), la cui precisa
identificazione eÁ resa per altro ardua dalle difficoltaÁ di reperimento dei te-
sti, siamo comunque in grado di offrire qualche esempio delle «osservationi
vane, o superstitiose», e di quelle espressioni che «repugnano alle sacre let-
tere [...] o importano falsitaÁ [...] [o] hanno [...] dell'inusitato, o sono inde-
centi, incognite, o inette»,54 che i censori romani ritennero opportuno «le-
vare». La prima categoria censurata eÁ, come detto sopra, quella delle
«rubriche». Espressioni come «per virtutem illorum verborum» e «ut sem-
per illa verba in memoria haberemus» 55 attribuivano poteri quasi miraco-
losi alle semplici parole delle invocazioni che il fedele era chiamato a rivol-
gere a Dio.
Accanto a questa tipologia di «espurgazioni» troviamo, poi, una vasta
gamma di interventi che vanno dalla puntigliositaÁ con cui si precisava che
«La Salve Regina, dove in alcuni Ufficioli eÁ intitolata, Canticum Angelorum,
s'intitoli, Antiphona Beatae Mariae Virginis» 56 oppure che l'«Oratio devo-
tissima ad Beatam Virginem Mariam, Stabat mater dolorosa, s'intitola,

50 Ivi, c. B7r.
51 Ivi, c. B6v.
52 Ivi, cc. A8r-v (corsivo mio).
53 Scriniolum, cit., f. 56.
54 Ibid.
55 Ivi, f. 57.
56 Ibid.

Ð 77 Ð
CAPITOLO SECONDO

Planctus Beatae Mariae Virginis» 57 fino ad espressioni «sconvenienti» co-


me quella contenuta nelle Litanie della Madonna in cui era opportuno «to-
glie[re]: Spiritus sancti solatium»,58 o come «queste due parole: ista manu»
da «scancellare» nell'Oratio ad dexteram manum Christi.59 Insieme a que-
ste, infine, osservazioni riferite ad espressioni che troppo da vicino riecheg-
giavano ± anche solo da un punto di vista linguistico, a volte determinante
nell'azione di censori spesso dottrinalmente impreparati ± elementi luterani,
oppure altre parole che potevano indurre in errore il lettore. CosõÁ gli esten-
sori della bolla suggerivano di levare le parole «Ideo de tua pietate confisus»
contenute nell'orazione «Auxilientur mihi Domine Iesu», oppure le ancora
piuÁ equivoche parole «tutta la speranza della remissione de i peccati, etc.
fino, della quale esso Salvatore» tratte dal «sermone della confessione» con-
tenuto nell'Instruttione alla Christiana religione, parole che forse potevano
insinuare nel lettore devoto un'errata interpretazione della giustificazione
per opere e per fede.60

2. ORAZIONE MENTALE E ORTODOSSIA CATTOLICA

Si trattava dunque di una ben individuabile strategia volta al restauro


filologico, alla purificazione devozionale e al recupero della migliore tradi-
zione ecclesiastica pre-luterana, che ± nella teoria e nell'azione dei riforma-
tori tridentini ± andava di pari passo con il superamento del trauma della
rottura protestante e con il recupero di un'interioritaÁ religiosa che per al-
cuni decenni era apparsa monopolio esclusivo del mondo riformato. In al-
tre parole, questo orientamento andava di pari passo con il recupero del
tema dell'orazione mentale che, a partire dall'Indice paolino, si era tentato
di riportare nell'alveo dell'ortodossia romana.
La figura che meglio riassumeva in se gli aspetti religiosi e culturali di
quella che potremmo forse definire come la «prima Controriforma» eÁ Car-
lo Borromeo.61 Per un verso, il III Concilio provinciale milanese (1573) ac-

57 Ibid.
58 Ibid.
59 Ibid.

60 Ibid.

61 Su Carlo Borromeo esiste una vasta bibliografia; basti qui rimandare a M. DE CERTEAU,

sub voce in DBI, vol. 20, pp. 260-269; G. ALBERIGO, Carlo Borromeo come modello di vescovo
nella Chiesa post-tridentina, in «Rivista Storica Italiana», LXXIX, 1967, pp. 1031-1052; Il grande
Borromeo tra storia e fede, Cinisello Balsamo, 1984; G. ALBERIGO, Da Carlo Borromeo all'episco-
pato post-tridentino, in H. JEDIN-G. ALBERIGO, Il tipo ideale di vescovo secondo la Riforma catto-

Ð 78 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

coglieva con rigore e prontezza le disposizioni normative elaborate sino a


quel momento in materia di uffici divini e orazioni superstiziose, in parti-
colare dalla bolla di Pio V; 62 per l'altro ± nonostante l'acquisita consape-
volezza dell'importanza del processo di «collettivizzazione del sacro» ai fini
di un capillare radicamento sociale dei valori ortodossi ± 63 veniva recupe-
rata la dimensione individuale della preghiera attraverso la valorizzazione
dell'orazione mentale. Non eÁ un caso che, nella prima metaÁ degli anni set-
tanta, Carlo Borromeo, nel pieno della sua attivitaÁ pastorale, si rivolgesse ai
confessori chiedendo che «faccino comprare a quelli che sanno leggere, et
hanno il modo alcuni libri spirituali, et devoti»; 64 indicando tra gli altri, ol-
tre a testi tre-quattrocenteschi come «le vite de' santi padri [e] il Gerson
dell'Imitatione di Christo», anche «l'opere di fra Luigi di Granata ... [e]
la Prattica dell'oratione mentale del p. F. Mattia capucino et altri simili».65
Naturalmente il san Carlo Borromeo «eroe» della Controriforma eÁ soprat-
tutto quello che scrisse e divulgoÁ nel 1572 la Lettera pastorale ed instituto
dell'orazione comune. Era la dimensione comunitaria della preghiera quella

lica, Brescia, Morcelliana, 1985, pp. 99-138; San Carlo e il suo tempo, Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura, 1986; San Carlo Borromeo. Catholic Reform and Ecclesiastical politics in the second
half of the Sixteenth Century, ed. by J.M. Headley and J.B. Tomaro, Washington, The Folger
Shakespeare, 1988; Carlo Borromeo e l'opera della grande Riforma: cultura, religione e arti del go-
verno nella Milano del pieno Cinquecento, a cura di F. Buzzi e D. Zardin, introduzione di G. Ra-
vasi, Milano, Credito artigiano, 1997.
62 Acta Ecclesiae Mediolanensis ab eius initiis usque ad nostram aetatem opera et studio presb.

Achillis Ratti, Milano, ex typographia Pontificia Sancti Iosephi, 1890, tomo II, col. 241; cfr. C. DI
FILIPPO BAREGGI, Libri e letture nella Milano di San Carlo Borromeo, in A. RAPONI - A. TURCHINI,
a cura di, Stampa, libri e letture a Milano nell'etaÁ di Carlo Borromeo, Milano, Vita e Pensiero,
1992, pp. 39-96, in partic. pp. 43-44; M.P. FANTINI, Censura romana e orazioni: modi, tempi, for-
mule (1571-1620), in L'Inquisizione e gli storici: un cantiere aperto. Atti dei convegni Lincei,
Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2000, pp. 221-244, in partic. p. 228.
63 Cfr. il classico saggio di J. BOSSY , Controriforma e popolo nell'Europa cattolica, in Le ori-

gini dell'Europa moderna, a cura di M. Rosa, Roma-Bari, Laterza, 1977, pp. 281-308; A. BIONDI,
Aspetti della cultura cattolica post-tridentina. Religione e controllo sociale, in Storia d'Italia, Annali
4: Intellettuali e potere, Torino, Einaudi, 1981, pp. 255-302; A. PROSPERI, Tribunali della co-
scienza. Inquisitori, confessori e missionari, Torino, Einaudi, 1996, in particolare la terza parte
del volume, pp. 551 sgg.
64 AEM (Acta Ecclesiae Mediolanensis), II, col. 1893; cfr. C. DI FILIPPO BAREGGI , Libri e

letture, cit., p. 78.


65 AEM, II, coll. 1893, cit. da C. DI FILIPPO BAREGGI , Libri e letture, cit., pp. 78-79. Sul-

l'opera del cappuccino Mattia Bellintani da SaloÁ, cfr. D. ZARDIN, Mercato librario e letture devote
nella svolta del Cinquecento tridentino. Note in margine ad un inventario milanese di libri di mo-
nache, in A. RAPONI - A. TURCHINI (a cura di), Stampa, libri e letture a Milano, cit., nota 16 pp.
157-158; e soprattutto R. CUVATO, Mattia Bellintani da SaloÁ (1534-1611). Un cappuccino tra il
pulpito e la strada, Roma, Edizioni Collegio S. Lorenzo da Brindisi, Laurentianum, 1999; ma
cfr. anche infra, pp. 88 sgg.

Ð 79 Ð
CAPITOLO SECONDO

privilegiata dall'arcivescovo di Milano, quella «capace di imprimerle una


forza straordinaria»: 66 «[e] perche Christo dice, che se due di voi conver-
ranno sopra la terra, otterrranno dal mio Padre celeste tutto quello che loro
dimanderanno, perche dove sono due o tre congregati nel nome mio, io
sono in mezzo di loro, peroÁ desideriamo, che tutti convenghino insieme
a questa santa orazione, per esser piuÁ facilmente esauditi, e tanto piuÁ che
il bisogno eÁ a tutti comune».67 Tuttavia, l'istituzione di un momento di pre-
ghiera autenticamente corale, non toglieva valore alla preghiera individua-
le, che veniva presentata come una valida alternativa all'orazione comune
(familiare, nel caso specifico): 68 «Se alcuno si trovaraÁ nel tempo [...] fuor
di casa, o in altro modo impedito da poter trovarsi con gli altri della fame-
glia [...] potraÁ farla da solo [...] in ogni luogo dove si trova».69 L'indicazio-
ne ± tra i testi devoti consigliati ai fedeli ± delle opere del Granada 70 an-
dava, del resto, oltre un riconoscimento formale della dimensione indivi-
duale della preghiera. Con il domenicano Luis de Granada l'arcivescovo
di Milano aveva infatti stabilito ± tramite i suoi numerosi collaboratori ge-
suiti ± stretti rapporti in un proficuo scambio culturale e religioso: non eÁ
dunque frutto del caso che le opere del religioso spagnolo si ritrovino nu-
merose nella biblioteca personale del Borromeo.71 Testimonianza, da un

66 C. DI FILIPPO BAREGGI, Libri e letture, cit., p. 89.


67 AEM, III, col. 459, cit. da C. DI FILIPPO BAREGGI, art. cit., p. 89. Oltre alla dimensione
corale, Borromeo riprendeva, nel suo Libretto dei ricordi, la concezione altrettanto tipicamente
controriformistica, della preghiera come «strumento» che scandisce la giornata del fedele: «Sa-
pendo leggere dirai l'ufficio della Madonna, almeno le feste [...]. Quando si suona l'Ave Maria
la mattina, a mezzogiorno, e la sera, dirai tre volte l'Ave Maria a ginocchione, ed insieme quei tre
versetti, quali sono posti nell'esercitio quotidiano stampato nell'officiolo della Madonna [...]. La
sera dopo cena, [...] leggi, se sai leggere un poco di un libro spirituale, o vite dei santi, o altro [...].
Se fai viaggio, usa di dire [...] quelle brevi orazioni e preci, che si chiamano l'Itinerario, stampato
nell'ufficiolo della Madonna [...]. Facci leggere qualche libro spirituale alla mensa, se hai chi lo
faccia, o figliuoli, o altri, mentre si mangia, almeno per un pezzo» (Ivi, coll. 653-665, cit. da C. DI
FILIPPO BAREGGI, art. cit., p. 79).
68 Sul ruolo centrale che la famiglia assume nella visione borromaica, cfr. C. DI FILIPPO BA-

REGGI, art. cit., pp. 90-94.


69 AEM, col. 462, cit. da C. DI FILIPPO BAREGGI , art. cit., p. 89.

70 Su Luis de Granada (1505-1588), cfr. la recente biografia di A. HUERGA , Fray Luis de

Granada. Una vida al servicio de la Iglesia, Madrid, B.A.C., 1988; per un repertorio delle sue
opere vedi M. LLANEZA (a cura di), Bibliografia del V.P.M. Fr. Luis de Granada de la Orden
de Predicatores, Salamanca, Calatrava, 1926-28.
71 C. DI FILIPPO BAREGGI , art. cit., p. 75. Sui rapporti tra Granada e Borromeo, cfr. A.

HUERGA, Fray Luis de Granada y san Carlos Borromeo. Una amistad al servicio de la restauracion
catolica, in «Hispania sacra», 11, 1958, pp. 299-347, e R. ROBRES LLUCH, S. Carlos Borromeo y sus
relaciones con el episcopado Iberico post-tridentino, especialmente a traves de fray Luis de Granada
y s. Juan de Ribera, in «Anthologia Annua», 8, 1960, pp. 83-141.

Ð 80 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

lato, dell'accoglimento, da parte della «spiritualitaÁ controriformistica», di


tematiche quali l'annullamento della volontaÁ umana e l'affidamento del-
l'uomo alla volontaÁ divina, che in Spagna erano invece motivo di condanna
di quelle stesse opere.72 Dall'altro, conferma della familiaritaÁ che l'arcive-
scovo di Milano aveva con il tema dell'orazione mentale.73
La lettura di un trattato pubblicato in quegli stessi anni (nel 1574, per
l'esattezza) dall'ortodosso frate cappuccino Silvestro da Rossano 74 ci offre,

72 Il domenicano spagnolo infatti non solo poneva come fine ultimo della pratica devozio-

nale il raggiungimento dell'unione dell'anima con Dio e la trasformazione dell'uomo in Dio («Al
fine di questo essercitio, quel che in esso si esserciteraÁ, potraÁ aspirare, et amorosamente sospirare
a Dio: desiderando con infocati desiderii esser unito con esso»; Pie et devote orationi, raccolte da
diversi e gravi autori, per il R.P.F. Luigi di Granata, dell'ordine de' Predicatori. E novamente tra-
dotte di spagnolo in italiano da un devoto Religioso, In Vinegia, appresso Gio. e Gio. Paolo Gioliti
de' Ferrari, MDLXXX, c. A6v) ma insisteva ripetutamente sulla nullitaÁ dell'essere umano e sul
processo di «spropriazione» della volontaÁ umana come passaggio obbligato verso la meÁta ultima
del devoto: «Polvere e cenere sono; Nulla sono» (Ivi, c. A7r), per continuare scrivendo: «... E per
amor vostro lasso ogni malignitaÁ, e vanitaÁ; ogni diletto e propria volontaÁ, proprie passioni, et pro-
prie inclinationi male» (Ivi, c. A8r); e ancora piuÁ avanti, insistendo sull'infinito scarto esistente tra
la «bassezza» umana e la «sommitaÁ» divina: «Illuminate il mio intelletto facendo ch'io conosca la
vostra somma veritaÁ e la mia propria bassezza, e viltaÁ, Deh Spirito Santo che siete amore del pa-
dre, del figlio, collocate la mia volontaÁ in voi, accendendola con un cosõÁ grand'amor di caritaÁ che
niuna cosa gli possa estinguare» (Ivi, cc. A9v-A10r). E ancora: «Taglinsi tutti gli lacci, che mi im-
pediscono di unirmi con voi perfettamente. Fate ch'io entri per le vostre santissime piaghe al pro-
fondo dell'anima mia e trasformatemi in voi, origine, e principio mio; accioÁ senta in me la vena
delle acque vive; accioÁ che chiaramente io vi conosca; ferventemente vi ami; perpetuamente sia
unito con voi» (Ivi, c. A9r).
Accanto a queste tematiche nell'opera del Granada comparivano chiari riferimenti alla mi-
sericordia salvifica di Dio e ai «meriti» del «sangue precioso di Christo» come questo: «Raccolte
tutte le potentie, e sentimenti dell'anima, [il devoto] stia in spirito avanti i piedi del Salvatore; et
piangeraÁ ivi dolcemente, et humilmente tutti i suoi peccati, gettandogli nel profondo della mise-
ricordia Divina; accioÁ ivi siano sommersi et annullati. Desideri con tutto il suo cuore di non haver
offeso Iddio; accioÁ per questo modo meriti di essere in sua gratia, si come sarebbe se non l'ha-
vesse offeso. Oltra di cioÁ proponga con la sua gratia fuggire tutto quello, che ad esso Signore
dispiace. Domandi che gli siano rimessi gli suoi peccati per gli meriti di Christo, e della sua ma-
dre, e di tutti i santi. Domandi d'esser bagnato nel sangue precioso di Christo per esser sano, e
santo» (Ivi, c. A5v). EÁ presumibilmente questo genere di commistioni tra elementi mistici ed ele-
menti di ispirazione luterana che contribuõÁ alla proibizione da parte delle autoritaÁ inquisitoriali
spagnole della sua De la oracioÂn y GuõÂa de pecadores e del suo Manual de diversas oraciones, nel
contesto di una sempre maggiore identificazione tra movimenti alumbradisti e protestanti
(sulla censura delle opere del Granada cfr. Index des livres interdits, vol. V, pp. 482-484, vol.
VI, pp. 611-614).
73 C. DI FILIPPO BAREGGI , art. cit., p. 80. A questo proposito, tra i testi «consigliati» dal

vescovo Carlo Borromeo compare anche un sermonario di Ludovico Pittorio, in cui era presente
un'anonima Espositione sopra l'oratione domenicale in forma di meditatione (R. BOTTONI, Libri e
lettura nelle confraternite milanesi del secondo Cinquecento, in N. RAPONI - A. TURCHINI, a cura
di, Stampa, libri e letture, cit., p. 261).
74 Vedi G. CARLINI , Silvestro Di Franco da Rossano Calabro (1530-1596), Vicario Provinciale

in Toscana, in «Fra Noi», 13 (1996), pp. 5-33. Intorno alla figura di Silvestro da Rossano si eÁ
svolto recentemente un convegno a Rossano Calabro, 16-19 maggio 1996, dal titolo «Padre Sil-
vestro da Rossano (1530-1596). Un cappuccino tra chiostri, pulpiti e strade d'Italia», di cui si

Ð 81 Ð
CAPITOLO SECONDO

del resto, una testimonianza di come ormai il tema dell'orazione mentale


fosse perfettamente inserito nella precettistica controriformistica di genere.
Si tratta del Modo come la persona spirituale che ora, si habbia a disporre
nella Oratione verso Iddio e li suoi Santi.75 Un'opera della quale si coglie
sin dall'apertura il timbro ortodosso: «Dobbiamo camminare, et abondare
nella perfettione delle opere [...] dobbiamo essercitarsi nelli spirituali esser-
citii della vita christiana, [...] nondimeno essercitarsi ogni dõÁ alla santa ora-
tione, sempre eÁ stata cosa lodevole appresso gli spirituali, et santi, ha por-
tato utile all'anime, oltre ch'egli eÁ necessario per la salute di tutti, et la San-
ta Romana Chiesa sempre ha tenuto, et insegnato tale essercitio».76
Nel corso dell'opera, l'autore si dilunga nell'analisi delle «ragioni che ci
inducono all'oratione [...] frequente sollecita et fervente»,77 cosõÁ come in
quella degli «effetti dell'oratione»,78 mantenendosi sempre rigorosamente
entro i confini dell'ortodossia cattolica. EÁ tuttavia nella definizione dell'«o-
razione giusta» che Silvestro da Rossano assurge a modello esemplare di
ortodossia: essa eÁ una vera e propria summa del cattolico perfetto, una de-
finizione in cui, secondo un «ordine» (tipicamente controriformistico) in
via di consolidamento, ad ogni elemento corrisponde il suo inevitabile e
immutabile destino: «[l'orazione giusta eÁ quella] che daÁ a ciascheduno
quello, che ti conviene; come a dire a Dio honore, ai santi imitatione, al
mondo disprezzo, ai demonii resistenza, alla carne afflittioni, ai superiori
obedienza; a gli eguali, pace, a gl'inferiori buoni essempii, ai poveri aiuto,
a gli amici perseveranza nell'amicitia, et a gli inimici perdono, et peroÁ quan-
do la persona ora in tal modo, ora giustamente».79

attende la pubblicazione degli atti. Su di lui e sulla singolare vicenda inquisitoriale di cui fu pro-
tagonista sul finire del secolo cfr. infra, pp. 138 sgg.
75 Modo come la persona spirituale che ora, si habbia a disporre nella Oratione verso Iddio e li

suoi Santi: per tutti li giorni della Settimana tanto la mattina come la sera detta Consonantia Spi-
rituale. Composta da Fra Silvestro da Rossano Cappuccino, mentre predicava a San Salvatore di Ve-
netia, nell'anno MDLXXII. Divisa in due parti, nella prima si tratta di quelle cose che sono neces-
sarie da sapere, e nella seconda il modo che si ha da tenere. Con privilegio, In Vinegia appresso
Gabriel Giolito de' Ferrari, MDLXXIIII.
76 Ivi, cc. A4r-v.

77 Ivi, c. 13. Tra queste non solo l'«esemplaritaÁ », la «gratitudine», l'esigenza di «conservarsi
in gratia», ma anche l'affermazione che «siamo obligati per necessitaÁ legale [ad] osservarla, et
perche l'oratione ce la comanda Iddio per ogni legge» (Ivi, c. 21).
78 Ivi, c. 59. Tre sono gli effetti dell'orazione secondo l'autore: quello di «meritare vita

eterna, il quale effetto eÁ commune ad ogni buon'opera, fatta per charitaÁ, et fede viva» (Ivi, c.
59), quello di «impetrare quella cosa che noi dimandiamo al nostro benigno Iddio» (Ivi, c.
60) e l'effetto di «una certa dolcezza di mente» (Ivi, c. 60).
79 Ivi, c. 84.

Ð 82 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

EÁ dunque in tale contesto che ritroviamo l'orazione mentale accolta


dall'autore come una tra le tante forme possibili di preghiera; dopo l'ora-
zione sacramentale, quella «di laude» e l'orazione vocale, Silvestro da Ros-
sano cosõÁ descriveva la preghiera mentale: «[Essa] consiste nelle sante me-
ditationi, et sante contemplationi con li atti conoscitivi dove si conosce Id-
dio, et la propria anima nostra».80 Una distinzione introdotta poco prima
doveva comunque incrinare ± a tutto vantaggio di quest'ultima ± l'eguali-
tarismo implicito in quel burocratico elenco tipologico di orazioni. Silve-
stro da Rossano, infatti, esaminando le differenze tra il culto esteriore e
il culto interiore ammetteva implicitamente che la «vera» orazione era solo
quella in cui «si ricerca l'elevatione della mente»: «L'esteriore culto consi-
ste prima nelle cerimonie della Chiesa, et della religione: secondo nelle ri-
verenze, et dispositioni del corpo divote, che si portano al nome d'Iddio, di
GiesuÁ, di Santa Maria Vergine, et di tutti i Santi all'immagini, et figure; se-
condo, che richiedono i luochi, et tempi, ma il culto interiore, consiste in
applicare lo intelletto a conoscere Iddio, la voluntaÁ in amarlo, la memoria
in ricordarsi di lui per essergli grati, et perche quel culto esteriore alquanto si
puoÁ fare senza oratione, ma il culto interiore non si puoÁ fare mai senza ora-
tione, perche si ricerca l'elevatione della mente, et a questo culto siamo tutti
obligati».81
Non era comunque solo il tema dell'orazione mentale ad essere recupe-
rato al versante della corretta fede cattolica. Egli adattava, per esempio,
ai nuovi «canoni» tridentini concetti che appartenevano al bagaglio della
letteratura mistica, utilizzando un linguaggio provatamente ortodosso;
non parlava dunque di unione dell'anima con Dio,82 bensõÁ di concordanza:
«Si concorda contemplando, l'anima con Iddio Signore suo»; 83 non parla-
va di annullamento della volontaÁ umana bensõÁ di conformazione: «La vera
giustitia [...] [consiste] in conformare la volontaÁ nostra con quella di
Dio»; 84 e quando parlava di «quiete della mente» non intendeva altro
che la tranquillitaÁ e l'attenzione di colui che prega: «L'attentione non eÁ al-
tro se non una ferma, et tenace quiete della mente, et tranquillitaÁ di quello

80 Ivi, c. 45.
81 Ivi, cc. 16-17 (corsivo mio).
82 Se pure capitava che egli utilizzasse tale espressione questa era sempre accompagnata da

concetti tipicamente ortodossi come per esempio nella descrizione dell'«orazione sacramentale»
la quale «consiste nelle sacre confessioni, et communioni, onde questa s'addimanda vera ora-
tione, dove l'anima, et il corpo s'unisce con Christo suo Signore» (Ivi, c. 44).
83 Ivi, c. A5r.

84 Ivi, c. 5.

Ð 83 Ð
CAPITOLO SECONDO

che ora, il quale attende al fine di essa oratione»,85 e «con le sante frequen-
tationi potraÁ l'huomo acquistare la quiete della mente».86
Egli riprendeva tutte le piuÁ aspre critiche rivolte ± dal versante etero-
dosso ± alle forme di devozione «sensibile»,87 «curiosa»,88 «superstizio-
sa» 89 e «vanagloriosa»,90 avvertendo il fedele che «la divotione si perde fa-
cilmente per la disperatione de gli essercitii, et officii, et per li molti et varii
negotii».91 Ma lo faceva indicando come unico rimedio possibile la `catto-
licissima' pratica della «santa confessione, et communione»: «Non ci eÁ la
miglior strada, che la santa confessione, et communione, et il santo silentio
a non parlar cosõÁ facilemente delle cose del mondo, et massime inutili».92
Arrivati alle ultime carte del trattato, non stupisce allora scovare tra le righe
del testo la citazione dello stesso passo biblico che intorno alla metaÁ del se-
colo era assurto a simbolo della pratica nicodemitica,93 qui invece perfet-
tamente inserito e valorizzato in un contesto ortodosso. Parlando del luogo
piuÁ adatto alla preghiera del fedele, Silvestro da Rossano non aveva dubbi
nell'affermare in prima battuta che «il luoco dell'oratione, quanto all'uni-
versalitaÁ, eÁ la Chiesa».94 Subito dopo, peroÁ ± introducendo una dicotomia
pubblico/privato, che grande fortuna avrebbe conosciuto nella normativa e
nella precettistica cattolica di fine secolo ± 95 l'autore offriva la piuÁ solenne

85 Ivi, c. 59.
86 Ivi, c. 62.
87 «Puo Á esser tale divotione tutta sensibile, come suole accadere in molti nel sentire sonare
organi, cantare hinni, Salmi, et altre musiche spirituali; et benche queste cose siano necessarie, et
quei che le negano sono heretici, nondimeno la sola sensibile divotione, dice S. Agostino, che gli eÁ
una passione molto pericolosa» (Ivi, c. 55).
88 «Puo Á ancora la divotione essere curiosa, et questa quando la persona nell'intrinseco cerca
di sapere i secreti di Dio, per saperne parlare, overo senza necessitaÁ» (Ivi, cc. 55-56).
89 «Puo Á ancora essere superstitiosa, come fare piuÁ oratione in un luogo, che in un altro; piuÁ
in un tempo che in un altro, et ancora piuÁ in un modo che in un altro» (Ivi, c. 56).
90 «CosõÁ puo Á ancora essere divotione vanagloriosa, com'havere per vanagloria libretti, co-
rone, crocette indorate con fiocchi da seta, et altre cose; et massime nelle donne: eÁ ben vero
che l'adornamento delle sudette cose si deve fare per honore et gloria di Dio, et non altrimenti»
(Ivi, c. 56).
91 Ivi, c. 56. E l'appello dell'autore continuava qui esortando il fedele a far sõÁ «che gli esser-

citii non l'occupin tanto, che perda quel gran thesoro della divotione, nel quale l'anima possiede
Iddio» (Ibid.).
92 Ivi, c. 57.

93 Cfr. supra, p. 35.

94 Ivi, c. 76. «Quanto al particolare» continuava qui l'autore, «e Á da considerare, che sono
alcuni oratorii nelle Chiese dove stanno delle sante reliquie, delle devote imagini, et particolar-
mente il santissimo sacramento dell'Eucaristia; et ivi si fa oratione con assai affetto di devotio-
ne» (Ibid.).
95 Vedi infra, pp. 157 sgg.

Ð 84 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

delle legittimazioni alla devozionalitaÁ privata e interiore: «[A]ltri luochi so-


no particolari nelle case, dove le persone hanno commoditaÁ di farle; et cosõÁ
adornano quelle stanze con divotissimi adornamenti [...]. Ma parlando del
luogo spirituale dell'oratione, dico, che eÁ il cuore, et la volontaÁ nostra, che
poco ne gioveranno i luoghi santi, et le Chiese adornate, gli oratorii secreti,
come il cuore eÁ pieno di vanitaÁ, et non ora con diligenza. La onde bene
disse il Salvatore nostro Christo GiesuÁ, quando tu vuoi orare, entra nella
tua camera secreta, et serrato l'uscio, ora laÁ tuo padre. La camera secreta
eÁ il nostro cuore, nel quale secretamente habita Iddio: l'uscio serrato eÁ il
nostro appetito, il quale deve essere serrato ad ogni passione, et sensualitaÁ
maligna. Questo eÁ il luoco, dove si ora Iddio».96

3. CENSURA E AUTOCENSURA NEGLI ANNI OTTANTA

L'operazione di reintegrazione dell'orazione mentale nel bagaglio reli-


gioso della Chiesa controriformistica risultava tanto piuÁ delicata e difficile
quanto piuÁ era necessario continuare a mantenere un elevato livello di vi-
gilanza censoria nei confronti delle diverse esposizioni dottrinali che il tema
della preghiera era frattanto venuto assumendo in quegli anni. Si trattava,
da un lato, di forme eterodosse ormai note che continuavano a proliferare,
dall'altro, di forme di eterodossia diverse da quelle luterano-calviniste, anti-
che quanto a radici teologico-religiose ma certamente nuove agli occhi di
inquisitori e censori romani fino a quel momento «distratti» dal pericolo
protestante. Pur non rappresentando un ostacolo insormontabile lungo
la via della ritrovata interioritaÁ devozionale, questi abiti variamente etero-
dossi con i quali l'«orazione» si vestõÁ nel corso della seconda metaÁ del
'500 avrebbero comunque influito negativamente sull'azione pastorale e
pedagogica delle gerarchie ecclesiastiche e soprattutto su quell'azione di
purificazione della preghiera nella quale, a partire dagli anni sessanta e set-
tanta del secolo, settori consistenti della Curia romana avevano investito
grandi energie e speranze.

Nel 1560 veniva data alle stampe, per i tipi di Giovan Battista Pinerolo,
La Forma de le orationi ecclesiastiche e il modo d'amministrare i Sacramenti,
e di celebrare il santo Matrimonio, secondo che s'usa ne le buone Chiese. Ap-
pena un anno dopo la proibizione de La Forma delle preghiere ecclesiasti-

96 Modo di orare, cc. 76-77 (corsivi miei).

7
Ð 85 Ð
CAPITOLO SECONDO

che 97 ± opera anonima dietro alla quale era facile riconoscere, sin da una
prima lettura, la mano di Giovanni Calvino ± lo scritto, quasi a modo di
provocazione rispetto all'ostentata severitaÁ dell'Indice voluto da Paolo
IV, era dunque nuovamente disponibile sul mercato editoriale grazie ad
una semplice e quasi impercettibile variazione di titolo. Lungi dall'essere
un ortodosso strumento di indottrinamento di veritaÁ cattoliche, quale veni-
va presentato agli occhi dei piuÁ ingenui e sprovveduti lettori, la Forma con-
teneva alcune delle piuÁ lucide teorizzazioni della giustificazione per sola fe-
de: «Signore Iddio, Padre eterno e onnipotente, ± si leggeva giaÁ dalle prime
pagine del testo ± noi confessiamo e riconosciamo sinceramente [...] che
noi siamo miseri peccatori, conceputi e nati in iniquitaÁ e corruttione, incli-
nati a mal fare, e inutili ad ogni bene, e che per nostro vitio non cessiamo
giaÁ mai di trasgredire i tuoi santi comandamenti. Il che facendo, ci acqui-
stiamo per tuo giusto giuditio ruina e perditione. Nondimeno Signore, noi
habbiam dispiacere in noi stessi d'haverti offeso, e condanniamo noi e i no-
stri peccati con vero pentimento, desiderando che la tua gratia sovvenga a
la nostra miseria e calamitaÁ».98 Dietro alla rassicurante facciata di titoli ap-
parentemente ortodossi, dunque, le gerarchie ecclesiastiche avrebbero pre-
sto imparato a riconoscere alcuni dei piuÁ temibili e insinuanti veicoli dell'e-
terodossia dottrinale.
Lo stratagemma del frontespizio pseudo-ortodosso era, infatti, destina-
to ad essere nuovamente utilizzato dai fantasiosi editori cripto-luterani,
mettendo in seria apprensione i tutori dell'ortodossia cattolica. Sfruttando
beffardamente il grande successo editoriale conosciuto dal Catechismo tri-
dentino, ristampato con grande continuitaÁ sin dall'inizio degli anni sessan-
ta,99 nel 1580 veniva pubblicato dietro il «cattolicissimo» titolo di Il Piova-
no, cioeÁ sedici sermoni composti da messer Vittor de Popoli di san Germa-
no sopra 'l Catechismo Romano una fedele trasposizione dell'intero libro 15
(1-43) dell'Institutio calviniana.100 Sotto una veste editoriale formalmente

97 Index des livres interdits, vol. VIII, cit., pp. 472-473.


98 La Forma de le orationi ecclesiastiche e il modo d'amministrare i Sacramenti, e di celebrare
il santo Matrimonio, secondo che s'usa ne le buone Chiese. De la Stampa di Giovan Battista Pine-
rolo 1560, c. A2r-v.
99 L'ultima parte del catechismo tridentino e Á interamente dedicata al tema dell'orazione:
Catechismus, ex decreto Concilii Tridentini, ad parochos, Pii Quinti Pont. Max. iussu editus, Ro-
mae, In aedibus Populi Romani, apud Paulum Manutium, 1566, pp. 292-359; sul catechismo ro-
mano cfr. ora le ricerche di M. CATTO, Il catechismo a Roma in etaÁ moderna. Roberto Bellarmino e
l'arciconfraternita della dottrina cristiana nell'istruzione catechistica, Pisa, Tesi di perfezionamento,
Scuola Normale Superiore, 2000.
100 T. BOZZA , Italia calvinista. Il Piovano di messer Vittor de' Popoli, in L'uomo e la storia.

Studi storici in onore di Massimo Petrocchi, vol. I, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1983,

Ð 86 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

ineccepibile ± basti dare uno sguardo all'«ordine de sermoni, che si conten-


gono in questo libro» che riproduceva fedelmente l'indice contenutistico
del catechismo tridentino («5 Sermoni sopra 'l Simbolo de gli Apostoli.
5 Sopra i dieci Comandamenti della Legge. 6 Sopra l'oratione Dominica-
le») ± le stamperie ginevrine avevano confezionato un prodotto che potesse
aspirare a circolare nel mercato editoriale italiano, aggirando le strette ma-
glie della censura ecclesiastica. La fitta ed allarmata corrispondenza episto-
lare intrattenuta dai membri della Congregazione dell'Indice con le sedi lo-
cali proprio intorno alla pericolositaÁ di quest'opera testimonia, oltre al par-
ziale successo conseguito da quella raffinata iniziativa editoriale, anche la
raggiunta consapevolezza da parte delle gerarchie ecclesiastiche di un'azio-
ne censoria che non poteva piuÁ fermarsi alle apparenze: di fronte a stru-
menti sempre piuÁ perfezionati occorreva reagire con serietaÁ e scrupolositaÁ
controllando accuratamente il contenuto di ciascuna opera in circolazione,
senza dunque limitarsi ad un semplice controllo del frontespizio.101 L'ope-
ra fu presto condannata e debitamente inserita nei successivi Indici dei libri
proibiti; 102 tuttavia, il fantasma di una trattatistica sull'orazione domenica-
le alla quale fosse ingannevolmente associato l'eterodosso messaggio salvi-
fico secondo cui «[Dio] ab eterno gli ha predestinati ad essergli figliuoli per
GiesuÁ Christo secondo il beneplacito della sua volontaÁ»,103 era destinato ad
influenzare, negli anni a seguire, l'atteggiamento di inquisitori e censori
romani.

Accanto alle piuÁ recenti manifestazioni dell'eresia luterana e calvinista,


come accennato, altre forme di eterodossia dottrinale sembravano minac-
ciare il tema della preghiera.
Una rinnovata sensibilitaÁ permetteva ora di cogliere sfumature dottri-
nali che prima era difficile scorgere. Nel corso degli anni ottanta del secolo

pp. 267-298; in particolare la trasposizione del libro 15 di Calvino corrispondeva ai cinque «Ser-
moni sopra l'Invocatione» (cc. 252-408) del Piovano.
101 Ancora il 25 luglio del 1603 il cardinal Tagliavia in una lettera indirizzata all'inquisitore

di Modena faceva riferimento ai «finti et falsi frontespitii» del Piovano, raccomandandosi di «dar
ordine che li deputati in admetter libri novi e forestieri non riguardino al solo frontispitio, con
tutto che per il titolo autor luogo stampator e licenza apparisca il libro catholico, ma con diligenza
sia revista et essaminata la dottrina che contiene il libro prima che sia permesso e divulgato» (cfr.
A. ROTONDOÁ, Nuovi documenti per la storia dell'«Indice dei libri proibiti» (1572-1638), in «Rina-
scimento», 2ã s., 3, 1963, pp. 145-211, in partic. p. 177; la medesima raccomandazione veniva
rivolta anche all'inquisitore di Bologna in una lettera spedita lo stesso giorno, cfr. Ivi, p. 178).
102 L'opera compare per la prima volta nell'Indice sistino e successivamente in quello sisto-

clementino del 1593, cfr. Index des livres interdits, vol. IX, cit., p. 362.
103 Il Piovano, cioeÁ sedici sermoni, cit., c. 295.

Ð 87 Ð
CAPITOLO SECONDO

le gerarchie ecclesiastiche riallacciarono i fili interrotti di una blanda azione


inquisitoriale avviata negli anni trenta contro le degenerazioni di una tradi-
zione ± quella mistico-unitiva ± che in Italia affondava le sue radici in tempi
e luoghi lontani. Si tratta di una serie di interventi censori che, lungi dal
rappresentare un insieme organico e metodicamente pianificato, sono suf-
ficienti per delineare i tratti di un'offensiva che arrivoÁ a lambire ripetuta-
mente il tema dell'orazione, contribuendo a definirne il carattere (cattolica-
mente) ortodosso.
Prendiamo le mosse da un singolare caso di autocensura. Singolare per-
che riferito ad una personalitaÁ religiosa del tempo, il frate cappuccino Mat-
tia Bellintani da SaloÁ,104 e ad un'opera devozionale, la sua Prattica dell'ora-
tion mentale,105 che sono stati spesso indicati quali modelli della devozio-
nalitaÁ controriformistica. In effetti, era stato lo stesso Carlo Borromeo, nel
1573, a chiedere al Bellintani di comporre un trattato ascetico sul tema del-
l'orazione, intenzionato a codificare una volta per tutte l'ormai diffuso e
apprezzato esercizio da lui praticato durante l'apostolato; 106 cosõÁ come
era stato il medesimo Borromeo a decretarne il grande successo editoriale
negli anni immediatamente seguenti, ancor piuÁ calorosamente forse rispet-
to all'ortodosso trattato del confratello Silvano da Rossano.
Il capolavoro ascetico del Bellintani univa in se la dimensione contem-
plativa (il magistero interno) e l'aspetto della predicazione evangelica, delle
«pratiche», del metodo e delle regole scritte (magistero esterno).107 Il suo
intento era quello di fornire una guida all'esercizio concreto della preghiera

104 Su di lui e Á sufficiente qui rimandare alla recente biografia di R. CUVATO, Mattia Bellin-
tani da SaloÁ (1534-1611), cit.
105 MATTIA BELLINTANI da Salo Á , Pratica dell'orazione mentale di fra Mathia Bellintani da SaloÁ
dell'Ordine dei Frati di S. Francesco Capuccini. Parte prima: Di nuovo dallo stesso autore riveduta,
corretta, ed in alcune parti ridotta a miglior forma. Parte seconda: Nuovamente posta in luce, Ve-
nezia, presso Pietro Dusinello, 1584, edizione critica a cura di P. Umile da Genova, O. M. C.,
Assisi, Collegio S. Lorenzo da Brindisi dei Minori Cap., 1931 (d'ora in poi ed. 1584). Ma ve-
di ora anche la prima edizione del 1573, edita per la prima volta solo recentemente (cfr. infra,
nota 110).
106 Introduzione di p. Umile all'ed. 1584, p. XII .

107 «E Á di due sorti il magistero dello Spirito Santo, perche egli c'insegna dentro segreta-
mente e di fuori manifestamente. Il magistero interno consiste nell'occulto discendere dello Spi-
rito Santo nell'anima, eccitandola a pregare. E questo eÁ il domandare che fa lo Spirito per noi con
ineffabile pianto, del qual parla San Paolo. Il magistero esterno consiste nei precetti ed ordini che
abbiamo dalle scritture sacre e dai santi uomini, i quali illuminati da Dio, e in cioÁ esperti per la
lunga esercitazione che han fatto nell'orazione, hanno saputo dare a noi dottrina singolare [...]
perche lo Spirito Santo, quantunque sia in tutte le nostre buone opere il primo operatore, ricerca
nondimeno la cooperazione dell'uomo» (Pratica, ed. 1584, p. 35; R. CUVATO, Mattia Bellintani da
SaloÁ, cit., p. 112).

Ð 88 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

mentale; dopo un'introduzione teorica centrata sull'utilitaÁ della meditazio-


ne, e dopo qualche indicazione di carattere generale sulle concrete moda-
litaÁ di esercizio meditativo, presentava 52 meditazioni o «pratiche» (il cui
numero sarebbe aumentato nelle successive edizioni) 108 organizzate intor-
no ai misteri della vita di Cristo ± da quello dell'incarnazione fino a quello
della passione ± ciascuna delle quali composta di tre elementi destinati ad
indirizzare il fedele durante il suo percorso spirituale: «[Il] Preambolo, la
Meditazione e l'Azione». «Dovendo l'uomo pregare ± spiegava l'autore il-
lustrando l'importanza dei tre «momenti» ± ha prima da preparare l'animo
suo, e disporsi agli atti che deve compiere, e al ricevimento della grazia, che
Iddio gli vuole dare, per aiutarlo a far tali atti. Fatta la preparazione per il
preambolo, si entra a meditare qualche mistero santo con l'intelletto, il
quale ci serva per esca onde accendere il fuoco nella volontaÁ. Pertanto,
quando per la meditazione la volontaÁ si eÁ infiammata, prorompe negli atti
suoi, nei quali sta la forza dell'orazione; e questi si pongono nella terza par-
te chiamata azione».109 La dimensione contemplativa, dunque, risultava
temperata da un saldo ancoraggio alle quotidiane necessitaÁ di preghiera
dei fedeli, mantenendosi lontana da incontrollati slanci mistici. Eppure,
nel momento in cui nel 1584 si apprestoÁ a ristampare la sua Prattica con
l'aggiunta di una terza e quarta parte, il Bellintani dovette avvertire intorno
a se un clima diverso da quello che aveva circondato solo dieci anni prima
la prima stesura dell'opera. Difficile dire ± in assenza di ulteriore documen-
tazione al riguardo ± se la «riscrittura» degli otto capitoli introduttivi della
sua opera sia frutto di una volontaria scelta autocensoria o se il frate capuc-
cino potesse aver subito pressioni interne al suo ordine. Certo, alla luce di
un confronto testuale tra la prima edizione del 1573 110 e la successiva del
1584,111 non possiamo piuÁ limitarci a leggere le allusive frasi vergate dal

108 R. CUVATO, op. cit., p. 109.


109 Pratica, ed. 1584, pp. 44-45; R. CUVATO, op. cit., p. 109. Una particolare sensibilitaÁ di-
mostrava il Bellintani nella volontaÁ di rapportare lo sforzo richiesto alle effettive capacitaÁ e «po-
tenzialitaÁ» spirituali del fedele, laddove distingueva secondo la tradizionale suddivisione: «A
gl'incipienti convengono piuÁ i movimenti del timore [...] del desiderio di emendare la vita. Ai
proficienti quelli della speranza, del desiderio di fare del bene assai [...]. Ai perfetti quel dell'a-
more e del desiderio di maggiormente amare» (Pratica, ed. 1584, pp. 51-52; R. CUVATO, op. cit.,
p. 110).
110 Prattica dell'oratione mentale, di f. Mathia Bellintani da SaloÁ, dell'Ordine de' frati di S.
Francesco Capuccini. Opera molto utile per quelle divote persone, che desiderano occuparsi nell'o-
ratione con frutto e gusto. Con privilegio dell'Illustrissimo Senato di Milano per anni dieci. In Bre-
scia, appresso Vincenzo Sabbio, 1573, in I Frati Cappuccini. Documenti e testimonianze del primo
secolo, a cura di C. Cargnoni, III/1, Letteratura spirituale ascetico-mistica (1535-1628), Perugia,
EFI Edizioni Frate Indovino, 1991, pp. 665-736 (d'ora in poi ed. 1573).
111 Per il titolo completo cfr. supra, nota 105.

Ð 89 Ð
CAPITOLO SECONDO

Bellintani all'inizio del suo lavoro di «riscrittura» come una semplice e re-
torica formula introduttiva: «E poiche quella prima m'uscõÁ di mano in fret-
ta, ± scriveva nel 1584 ± senza esser da me prima tenuta alquanto per po-
terla poi rivedere maturamente, passato il primo fervore dell'invenzione,
anzi a gran pena, dopo la prima volta ch'io la scrissi, la rividi una volta
di sfuggita, mi eÁ parso dovere, nel mandar fuori questa aggiunta, raconciar
qualche cosetta di quel principio; peroÁ non si meravigli chi ritrovasse il li-
bro in qualche cosa differente da quello ch'era prima».112 Si dovette trat-
tare piuttosto di un imbarazzato tentativo di mascherare il suo adattamento
al clima religioso e culturale di quegli anni; 113 un adattamento che dovette
passare attraverso intenzionali omissioni e piccole ma significative aggiunte
testuali. La prima fondamentale indicazione che viene da una lettura com-
parata delle due edizioni eÁ che tutte le correzioni muovono nella direzione
di un rafforzamento dell'elemento volontaristico dell'uomo. Attraverso l'e-
liminazione di espressioni sconvenienti o mal interpretabili oppure, al con-
trario, attraverso l'aggiunta di espressioni verbali che meglio chiariscano il
significato delle sue affermazioni, l'intento dell'autore eÁ sempre quello di
restituire centralitaÁ al ruolo del libero arbitrio umano. Il Bellintani passa
da interventi sostanziali fino a piccoli marginali ritocchi. Rileggendo con
spirito autocritico le pagine introduttive della sua Prattica, il frate cappuc-
cino dovette rendersi conto di come il suo travolgente amore e la sua incon-
trollata passione per l'atto della preghiera lo avessero condotto fuori dai
confini dell'ortodossia romana. «E questi dovrebbero sapere, secondo la
dottrina di san Bernardo e la isperienza di santi uomini, ± aveva scritto
nel 1573 ± che il lasciare cosõÁ notabilmente la orazione, per fare opere di
caritaÁ, eÁ un volere oltra il precetto divino amare piuÁ il prossimo che se stes-
so; e chi si daÁ tanto in preda alle opere esteriori, quantunque buone, contrae
tanta impuritaÁ di animo che vi entrano mille passioni disordinate, e pensan-
dosi di operare per caritaÁ, opera per umani sguardi e perde il frutto e qualche
volta pecca».114 Affermare che chi si dedica caritatevolmente alle «buone
opere esteriori» possa commettere peccato ed essere passibile di impuritaÁ
d'animo era cosa evidentemente avventata, anche se riferita ad un fedele
che trascura colpevolmente l'attivitaÁ di preghiera. CosõÁ, a distanza di dieci
anni il Bellintani coglieva l'occasione per correggere il tiro, capovolgendo il

112 Proemio, ed. 1584, p. 10.


113 Per altre considerazioni sulla diffusa sensibilitaÁ anti-mistica di quei primi anni ottanta
del secolo cfr. infra, pp. 108 sgg.
114 Pratica, ed. 1573, p. 687.

Ð 90 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

senso della sua precedente affermazione: «Cosa che talvolta si fa ± si riferi-


sce sempre alla posizione di chi sostiene che «non ha tempo di pregare» ±
per istigazione del demonio; il quale quando non possa con altro, ci svia
dall'orazione ponendoci innanzi l'opere pie, accioÁ, lasciato lo spirito dell'o-
razione, lasciamo anche l'opere buone e prendiamo l'empie».115
Se quella (involontaria?) svalutazione delle buone opere aveva necessi-
tato un'intervento riparatore non meno bisognosa di emendazione dovette
apparirgli la svalutazione del libero arbitrio umano che compariva in un'al-
tra pagina della prima edizione del suo libro. In un impetuoso slancio di
esaltazione della gloria e della potenza divine, affrontando il tema de L'o-
razione eÁ la via piuÁ breve per acquistar le virtuÁ e commentando il versetto del
Pater noster, «Venga il tuo regno», aveva scritto: «[...] Due sono i mezzi
d'acquistar le virtuÁ in commune: uno eÁ il nostro proprio essercizio che fac-
ciamo negli atti virtuosi [...] l'altro eÁ l'addimandarle a Dio istantissimamen-
te nella orazione e questo apunto eÁ il regno suo, il quale preghiamo che
venga in noi, dicendo: ``Venga il regno tuo'', perche allora con modo sin-
golare Iddio regna in noi, quando l'anima nostra sta umilmente soggetta al
suo imperio, e non si muove se non tanto quanto eÁ mossa dallo Spirito San-
to»; 116 e poco dopo, confermando l'interpretazione qui fornita, aveva com-
mentato con queste parole il versetto successivo della preghiera domenica-
le, «Sia fatta la tua volontaÁ»: «Per questo ne insegnoÁ Cristo a dire, pregan-
do il Padre nostro celeste: ``Sia fatta la volontaÁ tua qui in terra come si fa in
Cielo''; perche il farsi da noi qui in terra la volontaÁ d'Iddio altro non eÁ che
osservare i suoi santi precetti e consigli, e questa osservanza consiste negli
atti virtuosi, perche non eÁ atto di virtuÁ alcuno che non ci sia da Dio o com-
mandato o consigliato».117 La «riscrittura» non poteva prescindere da una
ridefinizione di queste equivoche affermazioni, eliminando cioÁ che avrebbe
potuto indurre un ingenuo lettore ad una visione luterana del percorso sal-
vifico dell'uomo. Restituendo il giusto peso dottrinale ed il corretto valore
teologico al «consentimento e [al] concorso della volontaÁ nostra» ecco co-
me riassumeva il commento ai due versetti del Pater nella nuova versione:
«[...] PeroÁ non solo s'ha da chieder a Dio l'abito della virtuÁ, che renda l'a-
nima facile a lasciarsi muovere dallo Spirito santo [il riferimento eÁ all'invo-
cazione ``Venga il regno tuo''], ma ancora l'atto stesso della virtuÁ, che eÁ il
movimento di Dio col consentimento e concorso della volontaÁ nostra [il ri-
ferimento eÁ all'invocazione ``Sia fatta la tua volontaÁ'']». Allo stesso modo,

115 Pratica, ed. 1584, p. 33.


116 Ed. 1573, p. 676 (corsivo mio).
117 Ed. 1573, p. 677 (corsivo mio).

Ð 91 Ð
CAPITOLO SECONDO

nell'ambito del medesimo paragrafo, scomparivano nella seconda edizione


espressioni `equivoche' come quella secondo cui «[...] malamente ci esser-
citiamo negli atti virtuosi, se nella orazione non otteniamo prima tal grazia
da Dio»,118 oppure frasi incaute come «Se le virtuÁ sono doni d'Iddio e se le
nostre forze sono deboli».119 Si trattava del resto di un'operazione che sa-
rebbe stato costretto a ripetere qualche pagina piuÁ avanti, laddove aveva
utilizzato espressioni che non uscivano dall'alveo dell'ortodossia, ma che
la cautela consigliava di eliminare. Nonostante il Concilio di Trento avesse
da poco solennemente riaffermato la validitaÁ teologica del dogma della gra-
zia cooperante (la cooperazione di opere umane e grazia divina ai fini della
salvezza eterna) il retaggio di non lontane battaglie anti-luterane ingenerava
evidentemente il dubbio che frasi come «accioche conoscesse l'uomo che le
sue fatiche sarebbero vane senza la mano d'Iddio»,120 o quali «quanto sia
per noi, caschiamo in ogni male, se Iddio non ci sostiene»,121 potessero
condurre il pio lettore a confidare esclusivamente nell'aiuto di Dio ai fini
della propria salvezza.
Alla stessa tipologia di intervento possono essere ascritti quei piccoli ri-
tocchi con i quali il Bellintani aggiungeva nel testo alcune brevi locuzioni al
fine di chiarire meglio il significato della frase, eliminando ogni residuo
margine di dubbio intorno all'ortodossia della sua opera. Basti pensare al
passo «[...] e potresti a poco a poco venire a tanto che ti troveresti pronto
anche a patire l'inferno, quanto alla pena solo, se cioÁ fosse possibile e a Dio
piacesse», in cui l'inserimento dell'inciso «quanto alla pena solo» doveva
servire a tracciare un limite preciso ed invalicabile che lo slancio unitivo
e il desiderio di annullamento della volontaÁ umana non avrebbero potuto
oltrepassare. In altri casi, un'aggiunta apparentemente impercettibile mira-
va a sottolineare con piuÁ enfasi quanto era stato affermato undici anni pri-
ma; si puoÁ ad esempio notare che nel 1573, introducendo il discorso «in-
torno alla parte affettiva che abbiamo chiamato azione», Mattia da SaloÁ
aveva illustrato il rapporto di dipendenza che unisce l'«atto» alla medita-
zione utilizzando queste parole: «Dal meditare si cavano piuÁ sorti de' frutti:
il primo [gli affetti] eÁ di accendere l'animo o all'amore, o al desiderio, o a
speranza, o farlo temere, e simili. Il secondo [gli atti] eÁ di farlo uscire alle
operazioni nascenti da quelli affetti di amore, di speranza, di desiderio, di

118 Ed. 1573, pp. 676-677.


119 Ed. 1573, p. 680.
120 Ed. 1573, pp. 682-683.
121 Ed. 1573, p. 684.

Ð 92 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

timore».122 Nulla di fuorviante in queste affermazioni; il percorso ascetico


e mistico disegnato dal Bellintani si muoveva lungo le linee tracciate dalla
piuÁ ortodossa tradizione contemplativa: eÁ la meditazione ± aveva sottoli-
neato il frate cappuccino ± che riscalda il cuore dell'uomo e lo guida nel-
l'«azione» che da quello stesso calore e amore eÁ scaturita. Eppure, nella ri-
maneggiata edizione dell'`84 due significative aggiunte modificano la pre-
cedente stesura del testo. Si tratta di due locuzioni che ± ancora una volta ±
mirano ad evidenziare il ruolo svolto in questo percorso dalla volontaÁ uma-
na: eÁ la volontaÁ umana, specificava ora il Bellintani, il motore primo dell'a-
more da cui hanno origine tutti i nostri «atti»; la meditazione eÁ una «fonte
irrigatrice» irrinunciabile, ma senza l'atto di volontaÁ su cui si fonda l'amore,
l'azione dell'uomo perderebbe ogni significato: «Irrigata la nostra volontaÁ
dalla sacra meditazione, produce in se medesima, col vigore dello Spirito
Santo, due effetti molto utili e dolci. Questi sono gli affetti e gli atti. Gli
affetti sono: l'amore [...]»; e ancora: «[...] il nome di amore importa prima
un desiderio ardente di unirci con la cosa che amiamo [...] Importa poi un
atto di volontaÁ, col quale liberamente vogliamo bene a qualcuno, come l'a-
nima, che ama Iddio, gli vuol bene, cioeÁ vuole e si compiace ch'egli abbia
quel suo bene divino, ch'eÁ l'infinito pelago di ogni perfezione»; in altre pa-
role: «nascono ... tutti gli atti da l'amore, perche la prima operazione che fac-
cia la volontaÁ nostra eÁ di amare».123
«Il pensiero di Mattia ± ha scritto il suo piuÁ recente biografo fornendo
un'efficace chiave di lettura di talune contraddizioni dottrinali presenti nel-
la sua opera ± erede e [...] debitore della teologia agostiniana, ma per vo-
cazione formato al pensiero francescano-bonaventuriano [...] sembra a vol-
te oscillare tra un'antropologia in cui la creatura appare sempre e comun-
que inadeguata, e quindi incompatibile con la diversitaÁ di Dio, e un'antro-
pologia che proclama lucidamente la dignitaÁ della creatura fatta a
immagine e somiglianza di Dio e quindi capax Dei».124 Se questa fine inter-
pretazione ben coglie l'interna conflittualitaÁ del pensiero teologico-dottri-

122 Ed. 1573, p. 702.


123 Ed. 1584, p. 51 (corsivi miei). Prima della pubblicazione nel 1991 da parte di Costanzo
Cargnoni dell'edizione del 1573 l'edizione della Pratica cui tutti facevano riferimento era l'edi-
zione critica curata dal p. Umile da Genova basata appunto sull'edizione del 1584. Sulle diverse
edizioni della Prattica cfr. p. UMILE, Introduzione all'ed. 1584, pp. XXVIII-XXXIII; vedi anche R.
CUVATO, op. cit., pp. 107-108. Qualche anno piuÁ tardi il Commento all'Apocalissi del Bellintani
pronto per la pubblicazione sarebbe stato bloccato, per motivazioni che tuttavia esulavano dal
tema dell'orazione, da un deciso intervento inquisitoriale (R. CUVATO, op. cit., pp. 146 sgg. e
pp. 162-166).
124 R. CUVATO , op. cit., pp. 223-224.

Ð 93 Ð
CAPITOLO SECONDO

nale del frate cappuccino, non sembra tuttavia chiarire del tutto la ragione
di questi ripetuti interventi autocensori, pienamente comprensibile solo a
patto di inserire la vicenda della Prattica in un contesto culturale e religioso
piuÁ ampio, con riferimento agli sviluppi della censura ecclesiastica di quegli
anni cosõÁ come anche alle travagliate vicende interne al suo ordine.125
Nello stesso anno in cui il Bellintani si accostava alla sua Prattica dell'o-
razione mentale con l'intenzione di «augmentarla» e, come abbiamo visto,
di addolcirne le espressioni piuÁ aspre, veniva ufficialmente condannato il
Dialogo dell'unione dell'anima con Dio del francescano Bartolomeo Cordo-
ni da Castello.126 Non era certo la prima volta che questo testo finiva sotto
le mire dei censori romani. GiaÁ otto anni prima, nel 1576, il Dialogo del
Cordoni era comparso in un'inedita lista (o Indice?) di libri proibiti, oggi
conservata presso l'Archivio della Congregazione per la dottrina della fe-
de.127 Una lista compilata da Giovanni di Dio ± censore di libri a Roma,
secondo quanto riferisce De Bujanda, per volere della Congregazione del-
l'Inquisizione e del Maestro del Sacro Palazzo ±128 dietro l'esortazione del

125 Un altro caso di autocensura cinquecenteca che vale la pena segnalare e Á quello che vide
protagonista Antonio Pagani, autore delle note Rime spirituali, pubblicate per la prima volta a
Venezia nel 1554 e successivamente inserite nell'Indice romano del 1559. Nel 1570, nel tentativo
di far dimenticare il suo burrascoso passato tra le file dei barnabiti, l'antico seguace di Paola An-
tonia Negri, ora frate Antonio minore osservante, mandava alle stampe una nuova versione della
sua raccolta spirituale, riadattando per l'occasione il precedente testo. «L'intero testo ± ha scritto
Elena Bonora ± veniva rielaborato sino a tramutarsi da vera e propria apologia della disobbe-
dienza alla Chiesa nel nome di un'illuminazione interiore e della libertaÁ del cristiano, nell'esalta-
zione controriformistica della supremazia di ``quel pastore che 'l divin throno rappresenta in
terra''» (E. BONORA, Nei labirinti della censura libraria cinquecentesca: Antonio Pagani (1526-
1589) e le «Rime spirituali», in Per Marino Berengo. Studi degli allievi, a cura di L. Antonielli,
C. Capra, M. Infelise, Milano, Franco Angeli, 2001, pp. 114-136, citazione a p. 128; da integrare
con le considerazioni svolte in EAD., I conflitti della Controriforma, cit., pp. 583 sgg.).
126 Sul Cordoni, oltre alla voce del DBI di P. ZAMBELLI (vol. VI, Roma, 1964, pp. 707-708)

e a quella di E. D'ASCOLI in «Dictionnaire de SpiritualiteÂ, AsceÂtique et Mystique. Doctrine et


Histoire», fasc. IV, Paris, 1935, pp. 1266-1267, vedi anche STANISLAO DA CAMPAGNOLA, Barto-
lomeo Cordoni da CittaÁ di Castello e le due prime edizioni del suo «Dialogo», in «Bollettino di
storia patria per l'Umbria», LXXX, 1983, pp. 89-152.
127 Index Authorum, qui vel aperti haeretici sunt, aut certi de haeresi valde suspecti esse viden-

tur aut contra bonos mores, vitaeque pudicitiam aliqua continent. Postremo etiam addita sunt opera
Sanctorum Doctorum sive etiam prophanorum, quae ratione impressionis, aut Interpretis, sive quod
scholia, atque Annotationes haeretici alicuius Authoris contineant minus probanda videntur. Au-
thore D. JO. DEI FLORENTINO, Romae MDLXXVI [ACDF, Indice, serie XIV vol. unico]. Nel decimo
ed ultimo volume da lui curato, De Bujanda, che nel frattempo aveva preso visione dell'indice ma
non aveva ottenuto il permesso di pubblicarlo, ha dedicato poche righe a questo documento li-
mitandosi ad evidenziarne l'importanza nell'ambito della storia della censura nel XVI secolo (In-
dex des livres interdits, vol. X, Thesaurus de la litteÂrature interdite au XVI sieÁcle. Auteurs, ouvra-
ges, eÂditions, Centre d'Etude de la Renaissance, Editions de l'Universite de Sherbrooke Librairie
Droz, 1996, pp. 825-826).
128 Index des livres interdits, vol. X, cit., p. 825.

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TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

cardinal Guglielmo Sirleto a stilare un catalogo di libri proibiti non com-


presi nell'Indice paolino ne in quello tridentino: 129 si trattava dunque della
prima fonte romana delle «liste lunghe» e degli Indici dei libri proibiti della
fine degli anni settanta e dell'inizio degli anni ottanta.130 Nelle appendici
dei «libri volgari sospetti» elencati, in corrispondenza di ciascuna lettera
dell'alfabeto, al termine delle liste di libri latini proibiti, troviamo per la pri-
ma volta in questo Indice alcuni testi mistici fino a quel momento trascurati
dai censori romani tra cui, appunto, il Dialogo dell'unione dell'anima con
Dio.131 Inserito pochi anni dopo nell'Indice di Parma del 1580, il testo

129 L'intenzione proclamata da Giovanni di Dio nella lettera prefatoria non viene rispettata

formalmente, nel senso che compaiono nella sua lista anche libri giaÁ precedentemente condannati
(tra cui il Beneficio di Cristo). Troppo poco sappiamo di lui per avanzare ipotesi sulle sue scelte
censorie. Senza dubbio si trattava di un personaggio culturalmente molto ben attrezzato. La sua
raffinata sensibilitaÁ eÁ inequivocabilmente testimoniata ± tra le altre cose ± dalla presenza tra i ti-
toli proibiti dell'Oratione di m. Benedetto Varchi fatta in Fiorenza il VenerdõÁ santo nella Compa-
gnia di San Domenico, la quale oratione eÁ nell'Orationi raccolte dal Sansovino nel 2 libro a carte 58,
opera che ± come eÁ stato messo in evidenza da P. SIMONCELLI (Evangelismo italiano, cit., cap. VI,
pp. 330 sgg., e cfr. ora anche M. FIRPO, Gli affreschi di Pontormo, cit., pp. 218 sgg.) ± presentava
interi brani letteralmente «trascritti» dal Beneficio di Cristo. Non solo nessuno dei suoi predeces-
sori si era mai reso conto della sottile trasposizione ereticale del Varchi, ma nessuno dei successivi
Indici cinquecenteschi avrebbe menzionato l'«Oratione» di Varchi. Pur essendo lontani da una
piena comprensione del personaggio e delle sue scelte censorie eÁ utile qui ricordare che ± in base
alle scarne testimonianze che emergono dalla nota introduttiva allo stesso indice ± egli dovette
agire in pieno accordo con il cardinal Sirleto e con l'intera Congregazione dell'Inquisizione, e
che la presenza di una sua dedicatoria nell'edizione giolitina delle Pie et devote orationi di Luigi
di Granada eÁ sufficiente a testimoniare una particolare sensibilitaÁ del di Dio nei confronti della
tradizione mistica. Scrivendo da Venezia il 18 Novembre 1567 «[a]l molto Reverendo Padre il
P.F. Giacomo Pasqualigo, dell'ordine de' Predicatori, Padre mio in Christo osservandissimo»
(Pie et devote orationi, raccolte da diversi e gravi autori, per il R.P.F. Luigi di Granata, dell'ordine
de' Predicatori, cit., c. A2r) Giovanni di Dio infatti raccomandava caldamente la lettura di que-
st'opera «poich'ella tratta di cose mentali, e di tal conditione, ch'intorno a quelle bisogna adope-
rar tutto lo spirito, e tutto l'affetto, ne occorre ch'io vi esorti a servirvene ne' vostri essercitii spi-
rituali, percioche sapendo la vita laboriosa nelle cose appartenenti alla contemplatione, son certo
ch'avrete quest'operetta spirituale, come una preciosa gioia, et ve ne servirete per diporto con-
templativo, nelle vostre occorrenze» (Ivi, c. A3r). Alla luce di questa accalorata esaltazione del
Granada da parte del censore di Dio assume particolare rilevanza la collocazione editoriale delle
Pie et devote orationi che, nell'edizione giolitina del «Terzo fiore della ghirlanda» conservata
presso la Biblioteca Angelica di Roma e segnalata da Paolo Simoncelli (Evangelismo italiano
del Cinquecento, cit., p. 222, nota 6) si trova inserita accanto ad alcuni testi di Vittoria Colonna
tra cui il Pianto della Marchesa di Pescara sopra la Passione di Christo (riprodotti integralmente da
Simoncelli in appendice al suo volume, Ivi, pp. 423 sgg.). Evidentemente, la scelta dell'editore
veneziano Giolito de' Ferrari, il quale individuava un'affinitaÁ e un'assonanza tra i testi della Co-
lonna e quelli del Granada, tracciava una linea di confine dell'ortodossia cattolica nel «settore»
del misticismo religioso (sul misticismo di Vittoria Colonna, cfr. A. AUBERT, Misticismo, valdesia-
nesimo e riforma della chiesa in Vittoria Colonna, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», anno
XLVI, 1992, pp. 143-166; sul Granada cfr. anche supra, p. 80).
130 J.M. DE BUJANDA in Index des livres interdits, vol. X, cit., p. 826. Sulle liste lunghe e gli

indici di quegli anni cfr. U. ROZZO, Index de Parme, in Index des livres interdits, vol. IX, cit., pp.
17-185.
131 Index Authorum, cit., cc. non numerate. Il Dialogo avrebbe trovato posto nell'Indice di

Ð 95 Ð
CAPITOLO SECONDO

fu sottoposto all'attento esame di alcuni censori e «teologi» per essere poi


ufficialmente proibito dal Sant'Uffizio nel marzo del 1584.132
Il testo della condanna allora redatto, mettendo a fuoco l'obiettivo del-
le sue mire censorie, utilizzava la significativa espressione di «novum et in-
solitum orandi modum». Come noto, dopo aver esaminato le censure
«theologorum»,133 i cardinali membri della Congregazione dell'Inquisizio-
ne «iudicaverunt [...] esse supprimendos et prohibendos, tamquam conti-
nentes errores in fide, et plures propositiones erroneas, scandalosas, teme-
rarias ac piarum aurium offensivas, quaeque per apertas consequentias ad
haereses hoc infelici tempore grassantes, et ad alias iamdiu damnatas dede-
cunt».134 Ebbene, se in quell'accenno a dottrine «iamdiu damnatas» era
probabilmente implicito il riferimento alla lontana eresia begarda del Libe-
ro Spirito,135 l'appello al «nuovo e insolito modo di orare» ± oltre ad essere
una spia della crescente avversione per tutte le «novitates» che potevano
alterare il quadro esistente ± costituiva un'importante testimonianza dell'at-
tenzione che gli inquisitori romani continuavano a dedicare al tema dell'o-
razione. Ancor piuÁ significativo, tuttavia, risulta il fatto che quell'indicazio-
ne censoria (il «nuovo e insolito modo di orare») non si riferisse al noto
testo del francescano Cordoni, bensõÁ ad un'operetta ad esso allegata, il Cir-
colo del divino amore, oggi attribuito con sicurezza a Francesco Ripanti da
Iesi: l'ex-generale del giovane ed inquieto Ordine cappuccino cui i massimi
vertici della Curia romana avevano assegnato il delicato compito di ricom-

Parma del 1580 (il quale peraltro deve molto all'Indice di Giovanni di Dio) e negli Indici roma-
ni non promulgati del 1590 e del 1593, pur rimanendo poi «escluso» dall'Indice clementino
del 1596.
132 ACDF, Inquisizione, Decreta 1584, cc.nn. Nel corso della riunione dell'8 marzo 1584 la

Congregazione dell'Indice registrava la condanna del Sant'Uffizio: «Coram S.mo D. Gregorio


XIII in Congregatione Sancti Officii damnatus fuit liber Dialogo dell'Unione spirituale de Dio
con l'anima di fra' Bartolomeo da Castello minore osservante...» (Registrum Actorum et decreto-
rum Sacrae Congregationis Indicis ab anno 1571 usque 1606, in ACDF, Indice, Diaria vol. I, c.
14v). Il testo della condanna fu pubblicato anche autonomamente dagli eredi di Antonio Blado,
stampatori camerali, nel corso dello stesso 1584; quest'ultima versione eÁ stata riprodotta da Paolo
Simoncelli in appendice al suo saggio Il «Dialogo dell'unione spirituale di Dio con l'anima» tra
alumbradismo spagnolo e prequietismo italiano, in «Annuario dell'Istituto storico italiano per l'etaÁ
moderna e contemporanea», voll. XXIX-XXX, 1977-78, Roma, Istituto storico italiano per l'etaÁ
moderna e contemporanea, 1979, pp. 565-601, testo a pp. 600-601; cfr. anche Stanislao da Cam-
pagnola che segnala una copia di quel medesimo testo anche in EÂtudes sur l'Index romain, in
«Analecta iuris pontificii», II, 1857, Roma, cc. 2632-2633 (S. DA CAMPAGNOLA, Bartolomeo Cor-
doni, cit., p. 123, nota 116).
133 Su tali censure vedi infra, pp. 101 sgg. e nota 155.

134 P. SIMONCELLI , Il «Dialogo», cit., p. 601.

135 Ivi, p. 600, ma passim.

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TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

pattare le file dopo la clamorosa fuga di Bernardino Ochino. Ricostruendo


brevemente le (parallele) vicende editoriali di queste due opere, il Dialogo
del Cordoni e il Circolo del Ripanti, non solo eÁ facile verificare che proprio
a quest'ultimo testo dovettero essere indirizzate le maggiori attenzioni degli
inquisitori romani, ma eÁ anche possibile osservare come l'intervento inqui-
sitoriale finisse per mettere in discussione, attraverso la (implicita) condan-
na del Ripanti, l'intera ancorche giovane tradizione spirituale cappuccina.
La prima edizione del Dialogo era stata pubblicata postuma nel 1538 a
cura del francescano Ilarione Pichi da Borgo Sansepolcro.136 Nella rinun-
cia alla pubblicazione da parte del Cordoni non era difficile leggere la con-
sapevolezza dei rischi racchiusi in un «dialogo» che verteva interamente sui
temi della «perfetta libertaÁ dell'anima» e dell'«illuminazione». Rischi che
non dovettero sfuggire nemmeno al curatore dell'opera, se eÁ vero che
con grande accortezza impiegoÁ le sue energie in un'opera di «pulitura»
del testo, espungendo probabilmente le affermazioni piuÁ esoteriche e dun-
que piuÁ pericolosamente soggette ad un intervento censorio.137
Noncurante, o forse inconsapevole, dei pericoli insiti in tale prima de-
licata operazione editoriale, Girolamo da Molfetta, brillante oratore e se-
guace dell'Ochino, pubblicava a Milano, pochi mesi dopo, nel gennaio
del 1539, una nuova edizione del testo.138 Questa volta, insieme all'opera
del Cordoni, il Molfetta pubblicava anche un «Epilogo» intitolato Circulus
charitatis divinae, o Circolo del divino amore (un 53ë capitolo aggiunto ai 52
originari) e un'operetta di sua mano chiamata Alcune regule de la Oratione
mentale con la contemplatione de la Corona del nome di Iesu.139 Appena

136 De unione animae cum supereminenti lumine. Opera nuova et utile ad ogni fidel Chri-

stiano. Composta per il Reverendo padre frate Bartolomeo da Castello de l'ordine de l'observantia,
Perugia, per gli Cartolari, ottobre 1538.
137 P. SIMONCELLI , Il «Dialogo», cit., pp. 573-574. Simoncelli rafforza questa ipotesi indi-

cando, sulla base di una cronaca francescana del 1572, l'esistenza di altre due opere di Cordoni
presumibilmente circolanti in forma manoscritta (Ivi, p. 573).
138 Dyalogo dell'unione spirituale de Dio con l'anima, Milano, per Francesco Cantalupo et

Innocentio da Cicognara, 1539. Stanislao da Campagnola sostiene che l'edizione del 1539 curata
da Girolamo da Molfetta sia basata su un manoscritto differente da quello utilizzato da Ilarione,
che in altre parole le due edizioni del 1538 e del 1539 siano da ricollegare a due diverse tradizioni
manoscritte (S. DA CAMPAGNOLA, Bartolomeo Cordoni, cit., pp. 130 sgg.). Simoncelli aveva dubi-
tativamente avanzato questa ipotesi, optando tuttavia per un'interpretazione che vedeva un Gi-
rolamo da Molfetta opporsi con la seconda edizione alla volontaÁ interna all'ordine di insabbiare
la prima edizione (P. SIMONCELLI, Il «Dialogo», cit., pp. 575-576).
139 Alcune regule de la oratione mentale con la contemplatione de la Corona del nome di Iesu,

predicate da Fra Hieronymo da Molfetta, in I Frati Cappuccini. Documenti e testimonianze del


primo secolo, a cura di C. Cargnoni, III/1, Letteratura spirituale ascetico-mistica (1535-1628),
cit., pp. 429 sgg.

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CAPITOLO SECONDO

due anni dopo questa impresa editoriale, il Molfetta, emulando le gesta del
suo maestro fra Bernardino Ochino, allora generale dell'Ordine cappucci-
no, sarebbe fuggito oltralpe: una decisione istintiva e precipitosa, compiuta
forse piuÁ per compiacere il proprio modello di vita umana e religiosa, l'O-
chino appunto, che per una reale ed interiore maturazione di pensiero; una
decisione affrettata che non sembra azzardato ipotizzare quale una delle
motivazioni che avrebbero portato il Molfetta al drammatico gesto del sui-
cidio.140 Al di laÁ della triste conclusione della sua breve vita, la repentina
decisione di fuga e la brusca rottura con l'ortodossia cattolica implicita
in quel gesto avrebbero definitivamente compromesso le sorti della sua
opera. Si comprende bene come mai la successiva edizione del Dialogo
del Cordoni, pubblicata nel 1548 a Venezia, sia priva delle molfettiane Re-
gule per l'oratione mentale: non dovette essere l'individuazione di contenuti
dottrinalmente fuorvianti a consigliare l'omissione del testo da questa edi-
zione di metaÁ '500, quanto piuttosto un automatico meccanismo censorio
messo in moto dalla sua fuga. L'operetta del Molfetta, Alcune regole de la
Oratione mentale con la contemplatione de la Corona del nome di Iesu, non
presentava, infatti, elementi dottrinalmente eterodossi.141 Una breve intro-
duzione precedeva una Corona che conduceva per mano il lettore passando
in rassegna l'intera vita di Cristo, dall'Incarnazione alla Pentecoste, com-
pendiata in trentatre misteri organizzati secondo la scansione dei trentatreÂ
anni che GesuÁ Cristo passoÁ sulla terra. Dall'accurato elenco delle regole in-
troduttive da osservare durante l'orazione,142 fino ai «cinque gradi» di
«quelle grazie, le quale vole esso Dio li siano domandate»,143 fino alle virtuÁ

140 Sulla fuga del Molfetta e sul suicidio cfr. P. SIMONCELLI, Il «Dialogo», cit., pp. 577 e 579.
141 Sulla stretta dipendenza del breve scritto da uno dei capitoli iniziali del Dyalogo cfr. C.
CARGNONI, Fonti, tendenze e sviluppi della letteratura spirituale cappuccina primitiva, in «Collec-
tanea Franciscana», 48/3-4, 1978, pp. 311-398, in partic. pp. 361-362.
142 «Darte al silenzio, fuggendo le mormorazioni e perdimento di tempo [...]»; «fugire la

conversazione de l'altri»; «frequentar la chiesa o cella o altro luoco apto alla santa orazione»; «bi-
sogna che lo spirito si converta sopra se medesimo ed entri con la sua considerazione ne la casa
de li suoi pensieri. E trovando dentro quella la infesta turba de li vani pensieri, caduchi e inutili e
dannosi, mundani o carnali, bisogna virilmente quelli mandare fuora e serrare loro la porta ad-
dosso, e con gran sollecitudine fare la guardia che quelli, ne altri simili rientrino»; e ancora: «Bi-
sogna levarsi mentalmente a parlar spiritualmente con lo immenso Sposo Dio, sõÁ come lo vedessi
presenzialmente, credendo fermamente che Dio eÁ lõÁ presente, vede tutti li tuoi pensieri e desideri,
senza che li parli con la bocca corporale» (Alcune regule de la oratione mentale, cit., pp. 435-436).
143 Il primo grado, «per esso medesmo Dio»: «Che [...] se faccia cognoscere da li miseri mor-

tali, [...] credere, [...] considerare, [...] amare, [...] temere [...] servire [...], si como merita la [...]
[sua] grande excellenzia e dignitaÁ» (Ivi, p. 437); il secondo, «per tutta la generazione umana»:
«Che tutta la presente e futura se convertisse ad cognoscere, amare, temere e servire fidelmente
a te suo verace Patre e omnipotente Signore» (Ivi, pp. 437-438); il terzo, «per la Ecclesia cristiana
militante», la quale «ti vogli degnare conservare forte e constante nel tuo santo servizio, e darli

Ð 98 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

da esercitare durante la contemplazione 144 e fino all'elenco dei misteri del-


la vita di Cristo di fronte ai quali soffermarsi,145 l'intero contenuto dell'o-
pera rimaneva nell'ambito della piuÁ sicura ortodossia. Se forse l'inaspettata
polemica contro la corruzione morale e religiosa del clero poteva aver in-
sospettito i lettori piuÁ sensibili 146 ± eÁ lecito supporre, infatti, che certe in-
sinuazioni avanzate dall'autore al momento della stesura dell'opera, nel
1539, fossero mal tollerate a distanza di dieci anni, in un contesto radical-
mente mutato ± il fedele e sentito richiamo alla «Chiesa romana» 147 li
avrebbe dovuti certo tranquillizzare. Neppure il possibile sospetto di una
vicinanza di contenuti con il contemporaneo Trattato dell'oratione del
suo maestro Ochino 148 poteva aver determinato l'esclusione dell'operetta
del Molfetta. La constatazione che il Trattato dell'oratione di Ochino aveva
visto la luce nel 1544 successivamente alla stesura dell'operetta del Molfet-
ta di per se non avrebbe, in effetti, escluso una dipendenza di pensiero e di
idee tra i due, soprattutto alla luce dell'intensa e intima frequentazione te-
nuta prima della fuga. Ma la diversitaÁ di impostazione e di contenuti tra le
due opere risultava palese anche ad una prima lettura. Vale solo la pena di
accennare come nel Trattato dell'Ochino l'elemento mistico-unitivo risul-
tasse marginale 149 rispetto ad un impianto chiaramente calvinista. Se da

triumfante vittoria contra le insidie e battaglie de lo inimico demonio» (Ivi, p. 438); il quarto, «per
se medesimo»: «Se voglia degnare spogliarme e defenderme da tutti i pensieri, desideri e opera-
zioni le quale sonno contrarie a la sancta voluntaÁ tua» (Ivi, p. 438); il quinto, «per sue particular
persone»: «Tutte quelle grazie prefate, [...] domando ancora per lo tale chi si sia» (Ivi, p. 438).
144 Ivi, p. 439.

145 Ivi, pp. 440-445.

146 «Dapoi io mi ricordai che non l'avea cercato [il divino Sposo Cristo] nel stato de' reli-

giosi; ce venne a me alquanto di speranza. Questi religiosi viddi essere di dua sorte, onde doman-
dai a quelli prima che mi stavano piuÁ appresso, e dixi a quelli: ``Avete visto il mio diletto''. E la
voce rispose prima che loro: ``Qui invano il cerchi, perche questi tutti sonno che cercano le cose
sue, e non quelle de Iesu Christo [...]''» (Ivi, p. 434).
147 Oltre alle grazie da domandare a Dio in favore della «Ecclesia militante cristiana» si

veda anche il passo successivo: «E nel dir tal corona contemplarassi uno per volta de' sequenti
misteri, pregando al fine Idio per lo stato de la Chiesa romana» (Ivi, p. 440).
148 Sermones Bernardini Ochini Senensis, [Ginevra] 1544, Die 15 Martii (Sermoni I-XIII).

Cargnoni segnala una diversa edizione del trattato in La seconda parte delle prediche di M. Ber-
nardino Ochino Senese ..., all'interno della quale il Trattato dell'oratione copiosissimo eÁ compreso
tra le Prediche 52 e 64 (C. CARGNONI, Fonti, tendenze e sviluppi, cit., pp. 333-334).
149 L'unico sermone in cui compaiono elementi mistici e Á il sermone VIII (Delli varii modi
che doveremo tenere per havere delle gratie da Dio) in cui si legge che «se voliamo delle sue gratie,
bisogna spogliarsi la sensualitaÁ, con le sue delitie, tesori, honori, et dignitaÁ, et vestirsi lo odorifero
Christo, [...] perche vivendo in te Christo, operarai et parlarai per impeto del suo spirito, tal che
chi ti vedraÁ, vedraÁ un Christo in terra. Imperoche si come una palla d'argento, posta in uno vaso
d'oro liquefatto si veste d'oro, cosõÁ l'homo, nella fornace del divino amore, si veste di Christo,
alhora essendo cosõÁ vestiti di Christo, obterremo ogni gratia» (Sermones Bernardini Ochini,

Ð 99 Ð
CAPITOLO SECONDO

un lato raccoglieva in nuce i germi dottrinali dell'ultimo Ochino, protago-


nista con i suoi Dialogi Triginta del grande dibattito europeo sulla tolleran-
za,150 dall'altro l'opera ochiniana rappresentava un frutto maturo del suo
nuovo credo religioso, distinguendosi cosõÁ nettamente dalle ortodosse Re-
gule del Molfetta. La centralitaÁ attribuita nell'economia dello scritto alla
dottrina del «beneficio di Cristo» 151 consentiva all'autore di accostare ±
anche a rischio di qualche lieve forzatura concettuale e dottrinale ± 152
una rigida concezione predestinazionistica di stampo calvinista 153 ad una

cit., cc. E3r-v); su questo passo cfr. anche C. CARGNONI, Fonti, tendenze sviluppi, p. 333). L'insi-
stenza dell'Ochino sulla miseria umana rispetto alla grandezza divina, sebbene non immune da
influenze mistiche, mi sembra piuttosto da contestualizzare nell'ambito della sua visione prote-
stante come emerge dai seguenti brani: «Doveremo fare oratione per svegliarci, aprir li ochi,
et vedere le nostre miserie, et necessitaÁ, la gran bontaÁ di Dio» (Ivi, c. A5v); «Per essere una infi-
nita distantia infra noi et Dio, non potiamo senza mezo andare a lui, maxime, per lo impedimento
del peccato, per el quale siamo sõÁ cechi, fragili, et maligni, che non potiamo pur un poco alzar la
testa a Dio» (Sermone IV ± Per qual mezo si debbano domandare le gratie a Dio, Ivi, cc. B4v-B5r);
«Non meritiamo se non inferni» (Ivi, c. E1r); «Per essere exauditi da Dio, bisognarebbe in prima
allontanarsi col cor dal mondo, et approximarsi a Dio» (Sermone X ± Del modo per esser sempre
exauditi, Ivi, c. F1r); «Per haver questa ardente sete delle divine gratie, bisogna che la legge habbi
facto in noi el suo officio cioeÁ che ci habbi mostrato la nostra ignorantia, fragilitaÁ, malignitaÁ, le
nostre miserie, et la impotentia a relevarci; et dall'altra parte, che abraciando con viva fede Chri-
sto, speriamo per mezo suo, et bontaÁ del padre, di obtener quello che domandiamo» (Ivi, cc.
F1v-F2r).
150 Cfr. il saggio di M. FIRPO , «Boni christiani merito vocantur haeretici». Bernardino Ochino

e la tolleranza, in La formazione storica della alteritaÁ. Studi di storia della tolleranza nell'etaÁ mo-
derna offerti ad Antonio RotondoÁ, promossi da H. MeÂchoulan, R.H. Popkin, G. Ricuperati, L.
Simonutti, Firenze, Olschki (Studi e testi per la storia della tolleranza in Europa nei secoli
XVI-XVIII, vol. 5), t. I, pp. 161-244. Vedi anche ID., Il problema della tolleranza religiosa nell'etaÁ
moderna, Torino, Loescher editore, 1978, pp. 95-96.
151 Cfr. per esempio il Sermone IV ± Per qual mezo si debbano domandare le gratie a Dio:

«Harebbe Dio possuto senza altro mezo tirarci a se, ma con somma, et infinita sapientia, ha vo-
luto che 'l sia un mediator in fra noi, et lui, senza 'l quale nissuno mai si salvoÁ, ne salvaraÁ» (Ser-
mones Bernardini Ochini, c. B5r); «Per salvarci eÁ morto in croce» (Ivi, c. B6r); e ancora: «Tutti
haviamo bisogno di essere riconciliati con Dio per mezo di Christo innocentissimo, el qual solo,
senza alchuno adiuto di Angeli, di sancti, o sancte ha tolti li peccati del mondo, solo ha satisfacto
per noi, solo ci ha pacificati, et reconciliati col padre, imo eÁ la nostra pace, et la propitiatione per
tutti li peccati: Christo solo eÁ quello per mezo del quale fumo electi, per lui solo siamo benedicti,
adoptati per figlioli di Dio, et facti suoi heredi» (Ivi, cc. B6v-B7r).
152 Vedi a titolo di esempio il brano seguente in cui l'Ochino si sforza, in modo non sempre

lineare, di attenuare la rigiditaÁ della predestinazione calvinista introducendo elementi che con-
traddicono l'immutabilitaÁ della sentenza divina: «Impero che non saraÁ mai nostra intentione di
pregar Dio che muti la sententia, ma che ne disponga secondo el suo divino beneplacito; debba
adunque pregarsi per tutti, nel modo che eÁ dicto [...]. PeroÁ siamo piuÁ obligati a pregar per li fe-
deli che per li infideli, ben che 'l potrebbe anco essere, che Dio prevedendo che uno infidele con-
vertendosi, faraÁ molto fructo, ci inspirasse a pregar con maggior fervor per epso [sic], che per li
fideli» (Ivi, cc. C7v-C8r).
153 «Noi sapendo che Christo in celo nostro advocato, assiste inanti al Padre, et prega per

noi, chome unico nostro mediatore, siamo per fede certi, che ci salvaremo» (Sermone II ± A che
fine si debba fare oratione - Ivi, c. A7r); «Non si debba giaÁ pregar per li morti, perche o sonno

Ð 100 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

visione universalistica che, facendo leva su elementi quali la legge, la ragione


naturale e la religione del cuore, era destinata a condurlo alla dottrina della
misericordia divina concessa a tutti i credenti.154
Se dunque era l'improvvisa fuga del Molfetta ± e non una ragione lega-
ta ai contenuti della sua operetta ± l'unico reale motivo della scomparsa
delle sue Regule dall'edizione veneziana del Dialogo (1548), allora l'orto-
dossia della tradizione spirituale cappuccina in tema di orazione sembrava
uscire, almeno per il momento, indenne dal «caso Ochino».
Nell'edizione veneziana del 1548 rimaneva invece l'anonimo Circolo del
divino amore. Pur essendo difficile spiegare per quale motivo l'attenzione
dei censori romani si posoÁ su quell'opera solo all'inizio degli anni ottanta
± con l'eccezione di Giovanni di Dio, che l'aveva segnalata giaÁ nel 1576 ±
lasciando passare dunque piuÁ di trent'anni dall'ultima edizione, interessa
qui sottolineare come fu proprio questo testo, ancor prima del Dialogo
del Cordoni, ad attirare gli inquisitori e condurre alla condanna dell'intera
opera. EÁ quanto emerge, in particolare, dalle censure preparate dal cap-
puccino Evangelista Canobio, conservate oggi tra i Protocolli della Congre-
gazione dell'Indice.155 Come accennato, era infatti al Circulus che si riferiva

salvi o dannati, se salvi, sonno gionti, non possano piuÁ crescere in gratia di Dio, ne caderne» (Ser-
mone V ± Per chi debba farsi oratione - Ivi, c. C5r); «Dio [...] eÁ immutabile» (Ivi, C6v); «Non
debbi adunque pregar Dio che salvi li reprobati, et muti la sententia, ma si ben pregarlo che
se ne serva in suo honore, et gloria et in quel modo che ha ab etterno previsto, et determinato»
(Ivi, c. C7r); «Li electi, [...] se ben non orano di continuo, et non observan la divina legge, niente
dimeno tale inobservantia, non li eÁ imputata a peccato, imo per esser membri di Christo, non-
hanno in se cosa alchuna la quale sia degna di damnatione» (Sermone VII ± Quando debba farsi
oratione a Dio, Ivi, cc. D7v-D8r).
154 «Dio eÁ tutto benigno dolce, pio, clemente, et pien di charitaÁ, la sua misericordia eÁ infi-
nita, et non ha bisogno di esser commossa, con le nostre orationi» (Sermone II, cit., Ivi, cc. A5r-
v); «Perche Dio eÁ uno infinito pelago di ogni bontaÁ, dal quale emanano tutte le gratie, tutti li
doni, et tutto 'l nostro bene» (Sermone III ± A chi debbano demandarsi le gratie, Ivi, c. A7v;
la stessa espressione eÁ utilizzata da Ochino qualche carta avanti, a c. D1r: «immenso et infinito
pelago di bontaÁ, emanano tutte le gratie»); «Dio vuole che Christo sia unico mediatore, non di
alchuni solamente di noi, ma di tutti, et non per un tempo, ma per sempre, ne in una gratia sola,
ma in tutte, epso [sic] eÁ optimo mediatore» (Sermone IV, cit., Ivi, c. C2r). L'ampiezza della mi-
sericordia divina teorizzata in questi passi dall'Ochino sembrava in certi momenti aprire la strada
verso una vera e propria teorizzazione della tolleranza religiosa, cosõÁ come abbiamo visto nei trat-
tati sull'orazione di Pico e Stancaro (cfr. supra, pp. 19-20): «Rarissimi trovarai che habbin facto
mai oratione per li turchi, per li infideli, per li hebrei, per li heretici, scismatici, et scomunicati,
imo li hanno in odio, et pensano che 'l sia zelo persequitarli, et male il pregar per loro; imo non
pregano mai di core per li loro inimici» (Sermone V cit., Ivi, c. C4r); «[Dio] volse che nella ora-
tione, cercassemo, che Dio fusse universalmente honorato da tutti, et cosõÁ anco, che per tutti do-
mandassemo le gratie» (Ivi, c. C4v).
155 ACDF, Indice, Protocolli G, cc. 201r-202v e cc. 215v-216v (si trattava rispettivamente

di censure «in libello Circulus charitatis divinae» e di censure al «Dialogo dell'unione spirituale
di Dio con l'anima»). Si tratta evidentemente delle censure dei «teologi» in base alle quali la Con-

8
Ð 101 Ð
CAPITOLO SECONDO

quell'espressione «novus modum orandi» contenuta nel decreto inquisito-


riale e non al Dialogo del Cordoni; 156 all'ortodosso generale dei cappuccini
Francesco Ripanti, chiamato a ricucire lo «strappo» di Bernardino Ochino,
e non dunque all'eretico francescano Cordoni.157 E soprattutto era a que-
sto «nuovo e insolito modo di orare» che Canobio scelse di dedicare mag-
giore attenzione. Si trattava di un metodo contemplativo di «assai difficile
interpretazione», come eÁ stato giustamente sottolineato di recente,158 che
attraverso una complessa «operatione circolare» doveva condurre il fedele
alla visione di GesuÁ Cristo, prima, e alla perfetta unione con Dio, poi. Sen-
za addentrarci tra le insidiose pieghe del testo,159 basti qui evidenziare l'og-
gettiva difficoltaÁ incontrata dal censore cappuccino, impegnato ad orientar-
si tra le sottigliezze teologico-dottrinali di un'opera che si collocava nel
punto di confluenza di tradizioni ereticali di diversa origine e provenienza.
La compresenza di elementi teologici risalenti alla tradizione begarda del
Libero Spirito e propaggini dottrinali di chiara ereditaÁ luterana non solo
impedõÁ al censore di fornire un'interpretazione unitaria ed organica del te-
sto, costringendolo a procedere brano dopo brano, frase dopo frase, senza
un tentativo coerente di comprensione dell'opera, ma in alcuni casi era de-
stinata a portare fuori strada il pur attento frate cappuccino. EÁ quanto si
deduce, per esempio, da una tra le osservazioni finali dello stesso Canobio
in cui questi rilevava, con una significativa forzatura interpretativa, una con-
traddizione interna al testo. In un luogo dell'ultimo capitolo, sottolineava
stupefatto il censore, l'autore sostiene che l'uomo giunto al termine del
suo percorso circolare ± una volta ottenuta la possibilitaÁ di contemplare il
tanto bramato «circulus divinus» ± «tendit in nihilum»; poco dopo, tuttavia,

gregazione dell'Inquisizione decise la condanna del testo. Nel testo della condanna pubblicato da
Paolo Simoncelli in appendice al suo saggio citato si legge infatti: «[...] mandaverunt Reverendiss.
Patribus Theologis ut praedictos libellum de unione anime et tractatum Circuli charitatis divinae
diligenter examinarent, ac demum intellectis in Congregatione praedicta propositionibus per
praedictos Theologos notatis, consideratisque censuris eorundem theologorum mature desuper
factis, ac per eosdem relatis, indicaverunt praedictos libellum de unione animae, et dictum Epi-
logum [...] fore et esse supprimendos et prohibendos» (P. SIMONCELLI, Il «Dialogo», cit., p. 601).
156 L'intero decreto inquisitoriale sembra concentrato piu Á sul Circulus che sull'opera del
Cordoni, salvo includere naturalmente anche quest'opera nel decreto di condanna; cfr. P. SIMON-
CELLI, Il «Dialogo», cit., pp. 600-601 e S. DA CAMPAGNOLA, Bartolomeo Cordoni, cit., p. 124; vedi
anche C. CARGNONI, Fonti, tendenze, cit., p. 345; e supra, pp. 96-97.
157 EÁ difficile stabilire se fra Canobio avesse un'idea precisa riguardo alla vera identitaÁ del-
l'autore del Circolo; certamente, secondo quanto emerge dal dispositivo di condanna, gli inqui-
sitori avevano intuito che non si trattava del Cordoni.
158 C. CARGNONI , Fonti, tendenze, cit., p. 344.

159 Per un'approfondita analisi del testo del Ripanti cfr. C. CARGNONI , Fonti, tendenze, cit.,

pp. 340-342; e soprattutto ID., Introduzione a I Frati cappuccini, III/I, cit., pp. 46 sgg.

Ð 102 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

continuava il Canobio, l'autore smentisce letteralmente quest'affermazione


scrivendo che una volta ottenuta la grazia divina («informatus gratia, et
cum ea operante») l'uomo eÁ fatto potente e capace di ogni cosa, dunque
(«igitur») «non tendit in nihilum»: «In ultimo cap. habetur quod homo ha-
bens contemplationem huius circuli potens et volens moraliter et gratuite
tendit in nihilum, et in eodem capite habetur quod homo informatus gra-
tia, et cum ea operans factus est dives et potens omnia non igitur tendit in
nihilum»; 160 era palese dunque agli occhi del censore che «haec doctrina
est contraria sibi ipsi».161 All'origine della sua fuorviante obiezione era,
probabilmente, un'imperfetta conoscenza delle sfumature begarde eredita-
te dal misticismo cinquecentesco ed un ragionamento teologico-dottrinale
che si muoveva ancora in una troppo rigida alternativa tra ortodossia cat-
tolica e ortodossia luterana. Il Canobio, infatti, non riusciva a cogliere come
nel circolare percorso mistico che avrebbe dovuto condurre l'uomo all'u-
nione con Dio l'autore distinguesse due momenti ben separati tra loro. Il
primo coincideva con la fase comunemente definita dell'annichilazione in
cui, attraverso la contemplazione del proprio oggetto di desiderio (Dio),
l'uomo ± conservando il proprio libero arbitrio ± riesce a liberarsi di tutti
gli affetti ed i lacci che lo tengono legato al mondo terreno arrivando a de-
siderare per se stesso nient'altro che il nulla. Il secondo (la fase unitiva) eÁ
quello che conduce l'uomo ad unire la propria volontaÁ con quella di Dio e,
attraverso quest'atto unitivo, lo rende potenzialmente capace di tutto cioÁ
che eÁ in potere di Dio: in quest'ultimo stadio, e solo in quest'ultimo, l'uo-
mo perde di fatto il libero arbitrio, ma solo indirettamente, come conse-
guenza dell'identificazione con Dio, e non ± come sostenuto dall'ortodossia
luterana ± perche il libero arbitrio viene «sanato» dall'intervento della gra-
zia. La contraddizione, in altre parole, era solo apparente: frutto di un mec-
canico, quanto pregiudizievole, accostamento di due frasi estrapolate dal
loro originario contesto oppure, piuÁ semplicemente, frutto di un compren-
sibile disorientamento del censore stesso. Una difficoltaÁ di interpretazione
che non stupisce a questo punto ritrovare anche nelle piuÁ brevi e piuÁ sche-
matiche censure al Dialogo del Cordoni.162 Lungi dal tentare di ricostruire
la radice dottrinale di affermazioni a volte non sempre coerenti tra loro, il
censore si limitava ad elencare le proposizioni erronee enumerando il cor-
rispondente numero di pagina, questa volta senza compiere alcuno sforzo

160 ACDF, Indice, Protocolli G, c. 202r.


161 Ibid.
162 Ivi, cc. 215v-216v.

Ð 103 Ð
CAPITOLO SECONDO

di commento o postilla, accostando proposizioni teologicamente ben lon-


tane l'una dall'altra. CosõÁ nel breve elenco di «loca notata» si leggevano
una di seguito all'altra, a modo di elenco burocratico, affermazioni che svi-
livano il libero arbitrio e il ruolo delle buone opere ai fini della salvezza co-
me «Bona opera sunt nihil. 241» o «Videtur negare ieiunia, vigilia et labo-
res, et opera humilitatis. 35» accanto a proposizioni che esaltavano perico-
losamente gli effetti mistici dell'unione «deificante»: «Uniti operatio non
est humana», o che promettevano all'uomo la possibilitaÁ di assumere su
di se tutti i meriti riconosciuti a Cristo: «Unitus usurpat sibi virtutes, et me-
rita Christi. 173», «Iustitia, et sanctitas Christi, et animae unitae. 174»; ga-
rantendo una ancor piuÁ temibile sensazione di onnipotenza: «Unitus pos-
sidet omnipotentiam Dei», oppure «Unitus concurrit omnibus operationi-
bus creaturarum, et Creatoris, etiam divinis conceptibus. 157», ovvero una
sensazione pericolosa che liberava l'uomo dall'obbligo di praticare qualsi-
voglia opera virtuosa: «Licentiat se unitus a virtutibus charitatis. 3», «Non
utitur actualiter virtutibus. 138».
Al di laÁ di tali considerazioni introduttive, tuttavia, la «difficoltaÁ del
censore» 163 nulla toglieva all'efficacia e all'incisivitaÁ dei rilievi effettuati
dal Canobio. La sua visione «luteranocentrica» esprimeva forse una mag-
giore rozzezza intepretativa, ma aveva il pregio di focalizzare senza sbava-
ture il pericolo insito in quelle pagine. Il nemico dottrinale era, infatti, ben
individuato e delineato: svalutazione del libero arbitrio umano e conse-
guente svalutazione del valore delle buone opere ai fini della salvezza eter-
na; certezza della salvezza e stato di impeccabilitaÁ garantito dall'unione di-
vina. Una volta superato il primo difficile impatto con il testo, in effetti, il
cappuccino Canobio era in grado di individuare immediatamente i punti
nodali dell'opera.
Seguendo rigidamente la sequenza dei capitoli, il censore iniziava il suo
lavoro elencando e postillando alcune delle «proprietates quas Auctor tri-
buit huic Circulo».164 Il primo rilievo del Canobio muoveva nella direzione
di una netta distinzione tra il piano della contemplazione e quello dell'azio-
ne. Lungi dal voler contestare al Circolo la qualifica di «tractatus» contem-

163 Si prende qui in prestito un'espressione utilizzata da A. ROTONDO Á , Cultura umanistica e


difficoltaÁ di censori. Censura ecclesiastica e discussioni cinquecentesche sul platonismo, in Le pou-
voir et la plume. Incitation, controÃle et reÂpression dans l'Italie du XVI sieÁcle. Actes du Colloque
international organise par le Centre Iteruniversitaire de Recherche sur la Renaissance italienne
et l'Institut Culturel Italien de Marseille (Aix-en-Provence, Marseille, 14-16 mai 1981), Paris,
1982, pp. 15-50.
164 ACDF, Indice, Protocolli G, c. 201r.

Ð 104 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

plativo, egli teneva a sottolineare che non era corretto attribuire a tale «es-
sercitio» e a tale dimensione contemplativa anche la valenza e le caratteri-
stiche proprie della vita «activa» e caritativa, elevando in questa maniera il
Circulus a sintesi perfetta della «Vita apostolica»: «Quod [Circulus] sit Vita
apostolica [...] Haec propositio est falsa de rigore sermonis, quia hic Cir-
culus facit homines etiam contemplativos, vita autem Apostolica consiste-
bat ne dum in contemplatione sed etiam in actione ut patet actu ap. c.
4».165 Riducendo la vita attiva a quella contemplativa, sembrava insinuare
il censore, si rischiava di allontanare i fedeli dall'esercizio concreto delle
buone opere. Nella stessa direzione si muoveva anche l'osservazione suc-
cessiva laddove, chiarendo il senso della precedente, rilevava l'errore com-
piuto dall'autore attribuendo una non meglio specificata «magnitudo cha-
ritatis» ad un «essercitio» meramente contemplativo quale era quello che
egli era in procinto di presentare ai lettori: semmai, scriveva il censore, si
sarebbe potuto parlare di «magnitudo contemplationis». Essendo la caritaÁ
un'azione che non puoÁ prescindere dall'elemento volontaristico dell'uomo,
era decisamente fuorviante parlare di «magnitudo charitatis» con riferi-
mento ad un «tractatus» contemplativo in cui della volontaÁ umana non ap-
pariva neanche l'ombra: «[...] proprietas huius Circulis est quod sit magni-
tudo charitatis. Ista propositio etiam est falsa quia charitas subiectatur in vo-
luntate, Circulus iste cum sit contemplatio quedam spectat ad intellectum et
ideo potius dici debet magnitudo contemplationis quam charitatis».166
Andando avanti nella lettura del testo, tuttavia, il Canobio dovette pre-
sto accorgersi che per emendare il testo non era sufficiente proporre una
netta distinzione del piano della contemplazione da quello dell'azione, neÂ
bastava insistere sulla separazione tra la sfera dell'intelletto e dell'affetto
e quella della volontaÁ e della caritaÁ. Come egli stesso sembrava aver intuito
sin dalle prime osservazioni, dietro alla confusione di piani dell'autore si
celava il pericolo ± questo sõÁ ben piuÁ temibile ± della svalutazione del valore
delle opere umane. Il «cultus divinus» non poteva esaurirsi nella congiun-
zione interiore che l'uomo stabilisce con Dio, rivolgendo verso l'alto la pro-
pria orazione mentale; esso, secondo il Canobio, deve trovare il suo neces-
sario e imprescindibile completamento in un «culto esteriore» fatto di sa-
crifici, atti devozionali esteriori e offerte di denaro, in altre parole nell'ar-
ticolato armamentario delle opere buone «consigliate» dalla Chiesa
cattolica: «In principio declarationis huius Circuli, dicetur quod circulus

165 Ibid.
166 Ivi, c. 201r.

Ð 105 Ð
CAPITOLO SECONDO

iste est suppremus cultus divinus quae praepositio falsa etiam videtur, quia
cultus divinus nedum consistit in interiori coniunctione ad Deum per intel-
lectum et affectum, hoc est in devotione mentis, sed etiam in exteriori re-
verentia, et in sacrificiis et oblationibus».167
Prima ancora di occuparsi delle speculazioni dottrinali dell'autore nelle
fasi conclusive del percorso unitivo, il compito fondamentale che il Cano-
bio si prefiggeva era quello di riaffermare il valore centrale del libero arbi-
trio umano e di smentire ogni traccia di «certitudo gratiae».168 Di fronte ad
affermazioni avventate come quella secondo cui «hic Circulus est infinitus
intensive, et estensive, immensi valoris», il Canobio ± riproponendo una
(tutt'altro che scontata) centralitaÁ dei meriti del Cristo ± interveniva pron-
tamente a ribadire che «nullum opus viatoris sive internum sive externum,
potest esse infiniti valoris et meriti, cum omne opus hominis satisfactorium
et meritorium efficaciam habeat ex satisfactione et merito Christi».169 E
laddove leggeva che «contemplans hunc Circulum obtulit Deo liberum ar-
bitrium tenens ipsum solumodo ut instrumentum sub voluntate Dei», si
impegnava a ricordare all'autore i chiari ed inequivocabili decreti della
Chiesa tridentina: «[Haec] propositio [est] heretica quia tollit activitatem
a libero arbitrio contra concilium Tridentinum sess. 6 can. 4».
Infine, ecco il censore cappuccino alle prese con gli ultimi slanci mistici
dell'autore di questo «nuovo e insolito modo di orare». La presunzione che
l'«essercitio» di questo «circolo» avrebbe garantito una piena e distinta
comprensione di tutti gli attributi di Dio era una falsitaÁ da combattere:
«In eodem cap. [ultimo] habetur quod qui exercit se exercitio huius circuli
habet in mente sua distinctam et ordinatam speciem et similitudinem cir-
cularem presentis exercitii Dei quae assertio est presuntuosa et falsa quia
in via non possumus habere distinctam speciem omnium actributarum
Dei et etiam idearum, ut declarat et ponit hic Circulus».170 Una falsitaÁ
da combattere almeno quanto l'errata convinzione di trovarsi di fronte
ad un'unione «perfetta e finale» con Dio: come aveva a suo tempo chiarito
san Tommaso d'Aquino, il percorso spirituale dell'uomo deve essere carat-
terizzato da una continua tensione verso la perfezione divina, ma non potraÁ
mai giungere alla sua meÂta finale dato che il raggiungimento di questo ri-

167 Ibid.
168 «Dicetur quod exercens hunc circulum habet actum perfectissimum amoris circumstan-
tio natum, cum multis circumstantiis presertim graduitis. Quae prepositio videtur presuntuosa,
quia ponit certitudinem gratiae» (Ivi, c. 201v).
169 Ibid.

170 Ivi, c. 202r.

Ð 106 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

sultato comporterebbe l'esaurimento di quell'indispensabile tensione spiri-


tuale: «Idem habetur quod exercens se in hoc circulo consequitur perfec-
tam unionem cum Deo effectivam, formalem, et finalem. Falsa assertio quia
in vita non datur unio, ita perfecta, quin perfectior fieri possit, tam ex parte
obiecti quam ex parte finis et efficientis ut ait S. Thom. 22 q. 23».171

Appariva chiaro, dunque, leggendo le censure del Canobio che, ancor


prima e ancor piuÁ del Dialogo del Cordoni, era il Circolo del Ripanti il vero
pericolo da eliminare. Il messaggio dovette arrivare a destinazione se gli
stessi promotori della nuova iniziativa editoriale che, all'indomani della
condanna inquisitoriale, ripropose sul mercato librario italiano il Dialogo
del Cordoni, scelsero questa volta di pubblicarlo senza l'«Epilogo» del-
l'ex-generale dei Cappuccini, forse nella speranza che, tralasciando l'opera
che piuÁ aveva attirato le mire censorie di Roma, il testo avrebbe avuto
maggiori possibilitaÁ di circolare indisturbato.172 Al di laÁ delle speranze
di chi si adoperava per aggirare le proibizioni ecclesiastiche, comunque,
con l'omissione di quel «nuovo modo di orare» iniziava una vera e propria
opera di rimozione nei confronti dell'autore del Circolo, quel Francesco
Ripanti da Iesi fino a pochi decenni prima salutato come il salvatore del-
l'ortodossia cappuccina. Un processo di rimozione al quale la stessa storio-
grafia cappuccina sembra aver contribuito in modo rilevante e del quale
ancor oggi sembra di sentire gli effetti.173 Un destino di oblio, quello
del Ripanti, simile del resto al destino toccato in sorte a Giovanni Pili
da Fano, altro importante esponente della spiritualitaÁ cappuccina del
'500. L'apprezzato combattivo controversista autore di un'Opera vtilissima
uulgare contra le pernitiosissime heresie luterane per li simplici 174 era infatti

171 Ivi, cc. 202r-v.


172 Non solo la nota edizione del 1593, ma anche quella finora sconosciuta del 1589, ripro-
ponevano a pochissimi anni dalle censure inquisitoriali, la primissima edizione (1538) del testo
del Cordoni senza il Circolo del Ripanti. Vedi Bartolomeo Cordoni da Castello, De vnione anime
cum Deo, In Perugia, per Girolamo Cartolaro, 1538. Et ristampata in Bologna, per Fausto Bo-
nardo, 1589.
173 Non risulta per nulla casuale che sul Ripanti la bibliografia cappuccina sia limitatissima

non solo per quanto riguarda i decenni successivi alla sua morte ma anche nei secoli successivi,
come viene segnalato dallo stesso C. CARGNONI, Fonti, tendenze, sviluppi, cit., pp. 346-347.
174 In Bologna, Giouan Battista Phaello, 1532. Su quest'opera cfr. G.L. BETTI , Alcune con-

siderazioni riguardo all' ``Incendio de zizanie lutherane'' di Giovanni da Fano pubblicato a Bologna
nel 1532, in «L'Archiginnasio», LXXXII (1987), pp. 235-243; vedi anche S. CAVAZZA, ``Luthero
fidelissimo inimico de messer Iesu Christo''. La polemica contro Lutero nella letteratura religiosa in
volgare della prima metaÁ del Cinquecento, in L. PERRONE (a cura di), Lutero in Italia, Casale Mon-
ferrato, Marietti, 1983, pp. 65-94, in partic. pp. 69 sgg. Su Giovanni Pili da Fano, vedi OPTATUS a

Ð 107 Ð
CAPITOLO SECONDO

anche l'autore di un'Arte di unirsi a Dio (1536) ricalcata quasi alla lettera
sul testo del censurato Dialogo del Cordoni.175 Ebbene, attraverso una raf-
finata e sottile operazione mistificatoria, nel 1622, Dionisio da Montefalco
avrebbe rimesso mano al testo rivestendolo di un abito piuÁ consono ai va-
lori del tempo, depurando un'opera «manchevole e difettosa [...] rancia,
rozza e sformata» e restituendola cosõÁ ai devoti lettori decisamente «mi-
gliorata».176 Mentre le copie delle due edizioni (1536 e 1548) dell'Arte ve-
nivano probabilmente ritirate dal mercato editoriale,177 il Pili era cosõÁ de-
stinato ad essere ricordato solo ed esclusivamente come il lodato campione
della controversistica cattolica e l'appassionato assertore della povertaÁ
evangelica.178

Alla luce di questa breve ricostruzione, si comprende bene l'origine de-


gli scrupoli autocensori del Bellintani, impegnato nel 1584 nella «riscrittu-
ra» della sua Prattica dell'oratione mentale.179 Non eÁ necessario procedere
ad una lettura comparata dei rispettivi luoghi censurati per rendersi conto
di quanto gli interventi del Canobio possano aver influenzato le scelte del-
l'autore della Prattica.
Non si trattava, comunque, di una questione circoscrivibile all'interno
del pur importante giovane Ordine cappuccino. Era il piuÁ generale clima
culturale e religioso di quei primi anni ottanta ad influenzare gli orienta-

VEGHEL, Jean de Fano, in Dictionnaire de spiritualiteÂ, VIII, Paris, 1974, pp. 506-509 con relativa
bibliografia.
175 C. CARGNONI , Fonti, tendenze sviluppi, cit., pp. 349 sgg. Una ricerca a parte merite-

rebbe, dunque, lo studio delle modalitaÁ e dei compromessi dottrinali attraverso i quali l'acceso
antiluteranesimo del Pili poteva incontrarsi con certe affermazioni di chiara impronta prote-
stante, fedelmente ricavate dal Dyalogo del Cordoni e contenute dunque nella sua Operetta de-
votissima chiamata Arte de la Unione, Bressa, per Damiano et Iacomo Philippo fratelli, 1536.
176 Arte d'unirsi con Dio, del R.P.F. Giovanni da Fano Predicator Capuccino. Ridotta in mi-

glior forma, accresciuta, e in quattro parti divisa, cioeÁ nella vita purgativa, nell'illuminativa, nell'u-
nitiva e negli esercizi ..., in Roma, per Andrea Fei, 1622, cc. 8-9. Un breve confronto tra l'edizione
antica e questa rimaneggiata eÁ stato fatto da U. D'ALENCËON, Le PeÁre Jean de Fano, in «Etudes
franciscaines», 47 (1935), pp. 636-647, in partic. p. 643; cfr. anche C. CARGNONI, Fonti, tendenze,
sviluppi, cit., pp. 326-327.
177 Pochissime sono le copie rinvenute: ad un primo censimento ne risultano solamente due

della prima edizione e due della seconda edita per i tipi di Damiano Turlino, in Bressa, 1548 (cfr.
C. CARGNONI, Fonti, tendenze, cit., nota 79, p. 326).
178 Regula et testamentum seraphici patris nostri s. Francisci. Compendioso discorso dil fra

Giouanne da Fano, sopra il stato dell'altissima pouertaÁ euangelica de frati minori. Mediolani,
per Francesco & Simone fratelli Moscheni, 1554; su cui cfr. F. ELIZONDO, El ``Breve Discorso''
de Juan de Fano sobre la pobreza franciscana, in «Collectanea Franciscana», 48 (1978), pp. 31-65.
179 Cfr. supra, pp. 88 sgg.

Ð 108 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

menti della spiritualitaÁ mistica cinquecentesca. Due esempi possono basta-


re a mettere in luce le linee generali della politica censoria delle autoritaÁ
ecclesiastiche in questi anni. Non sembra affatto casuale che nella seconda
metaÁ degli anni ottanta vengano presentate e discusse dalla Congregazione
dell'Indice le censure di due tra le opere condannate di Battista da Cre-
ma: 180 lo Specchio interiore 181 e il Della cognitione et vittoria di se stessi.182
Opere che sin dalla promulgazione dell'Indice del 1564 attendevano di es-
sere espurgate: 183 sin da quando, per l'esattezza, dietro richiesta del cardi-
nal Ludovico Simonetta, uno dei legati membri della commissione triden-
tina incaricata di redigere il nuovo indice, erano state condannate donec
corrigentur (moderando la precedente proibizione dell'indice paolino) ed
affidate al generale della Compagnia di GesuÁ, Giacomo LaõÁnez, «ut, ab
eo expurgata, excudi rursus possent et legi».184 Considerato che il Lainez
si era ammalato poco tempo dopo aver ricevuto quest'incarico, terminando
peraltro i suoi giorni di lõÁ a poco,185 l'«impresa» non era stata piuÁ affron-
tata. Solo nel corso degli anni ottanta si erano dunque ricreate le condizioni
per portare avanti il lavoro. Un'osservazione anzitutto. La scelta dei due
testi da espurgare tra i tanti del domenicano, o almeno tra le sue quattro
opere principali, non era affatto casuale. Accogliendo la tradizionale suddi-

180 ACDF, Indice, Protocolli G, cc. 203r-207v; e 193r-198r. Il testo di queste censure e Á
stato pubblicato in appendice da S. PAGANO, La condanna delle opere di fra' Battista da Crema.
Tre inedite Censure del Sant'Offizio e della Congregazione dell'Indice, in «Barnabiti Studi», 14
(1997), a pp. 259-280.
181 BATTISTA DA CREMA , Specchio interiore opera divina per la cui lettione ciascuno devoto

potraÁ facilmente ascendere al colmo della perfettione, in Milano, dal Calvo, 1540.
182 BATTISTA DA CREMA , Opera utilissima de la cognitione et vittoria di se stesso ... Compo-

nuta per il reverendissimo Battista da Crema maestro di scientia spirituale pratica et perfettione,
christiano rarissimo (I ed., Milano, 1531), Venezia, NicoloÁ Bascarini, 1545.
183 Dal memoriale scritto dal Paleotti nel 1583 e discusso dalla Congregazione dell'Indice in

quello stesso anno [il testo integrale eÁ stato pubblicato da A. ROTONDOÁ, Nuovi documenti per la
storia dell'Indice dei libri proibiti (1572-1638), cit., pp. 163-171; cfr. anche P. PRODI, Il cardinale
Gabriele Paleotti (1522-1597), vol. II, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1967, pp. 241-242; e
G. FRAGNITO, La Bibbia al rogo, cit., pp. 125-127] deduciamo (seppur indirettamente) che a quella
data le opere di Battista da Crema non erano state ancora espurgate; nella risposta al «5 dubbio»
leggiamo infatti: «L'opere di fra Battista da Crema sono nella 2a classe dell'Indice di Trento, quan-
diu expurgata non prodierint, peroÁ eÁ bene ritenerle» (A. ROTONDOÁ, art. cit., p. 165). La datazione
delle censure offerta da Sergio Pagano conferma in effetti questa deduzione essendo successiva a
questa data; basandosi sui dati biografici dell'unico censore individuabile, l'agostiniano fra' Evan-
gelista Bosio da Padova, il Pagano individua un arco temporale oscillante tra il 1587 e il 1593 (S.
PAGANO, La condanna delle opere di fra' Battista da Crema, cit., pp. 251-254).
184 Index des livres interdits, vol. VIII, cit., p. 106; cfr. anche Ivi, p. 81.

185 M. SCADUTO , L'epoca di Giacomo Lainez 1556-1565. L'azione, Roma, Edizioni La Civilta Á
Cattolica, 1974, p. 248.

Ð 109 Ð
CAPITOLO SECONDO

visione del cammino verso la perfezione in quattro «stadi» corrispondenti a


devoti incipienti, proficienti, perfetti e perfettissimi, Battista da Crema ave-
va dedicato a ciascuno di questi gradi un'attenzione particolare scrivendo
quattro opere: se l'Aperta veritaÁ e la Philosophia divina erano indirizzate
a chi muoveva i primi passi lungo la mistica scala del Carioni, il Della co-
gnitione et vittoria di se stessi e lo Specchio interiore erano invece rivolti a
chi aveva giaÁ compiuto buona parte di quel percorso. Mentre le prime
due opere si proponevano l'obiettivo di indurre l'incipiente ad abbandona-
re lacci e passioni terrene, gli altri due trattati che le gerarchie ecclesiastiche
sceglievano di sottoporre a «politura» erano quelli indirizzati a proficienti e
perfetti, a coloro che, avendo giaÁ fatto i conti con passioni e vizi terreni,
avrebbero dovuto solo completare il processo di annichilamento della pro-
pria volontaÁ vincendone le ultime «suspitioni» e «fantasie», gli ultimi resi-
dui ostacoli lungo una via che doveva condurli a «farsi ben simili a Dio».186
Si trattava dunque dei due trattati che l'autore aveva dedicato ai devoti che,
essendo giunti alla «perfetta vittoria di se stessi», ormai «non temono fumo
di laude humana ne vituperio di confusione diabolica» e, come «lucerne
sopra de candeliero [...], colonne ferme et stabilite», «sono fortificati, di
sorte che non solo non cascano, ma stando in tal puritaÁ [...] sempre si di-
lettano di crescere».187 Lo Specchio e la Vittoria et cognitione erano senza
dubbio gli scritti che ± nell'ambito del tipico gradualismo teologico del Ca-
rioni ± si spingevano piuÁ avanti sulla via della «deificazione» dell'uomo, ri-
velando al lettore veritaÁ nascoste che ad altri non era dato conoscere: in al-
tre parole gli scritti che piuÁ di altri rendevano l'opera di Battista da Crema
assimilabile alle eretiche dottrine del Dialogo del Cordoni e del Circulus di-
vinis amoris del Ripanti.188 La scelta come detto non era casuale. Proprio
in virtuÁ di tale funzione e destinazione, in queste due opere lo spazio con-
cesso all'elemento volontaristico era pressoche nullo. A differenza della
Philosofia divina e dell'Aperta veritaÁ ± scritti in cui l'enfasi dell'autore ca-
deva evidentemente sulla necessitaÁ di esercitare la volontaÁ umana quale
mezzo privilegiato per trovare dentro di se la forza di abbandonare lacci
e passioni terrene e volgersi liberamente a Dio ± laddove Battista da Crema
si rivolgeva ai proficienti e ai perfetti il valore del libero arbitrio umano e
delle opere umane era destinato a perdere gran parte del ruolo che gli era
stato riconosciuto: mano mano che il fedele si avvicinava a Dio, liberandosi

186 E. BONORA, I conflitti della Controriforma, cit., p. 152.


187 Ibid.
188 Per un confronto tra gli scritti di Battista e il Dialogo del Cordoni, cfr. Ivi, pp. 175 e sgg.

Ð 110 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

dei pesi che lo tenevano legato all'universo terrestre, egli era chiamato ad
abbandonare la propria volontaÁ fino ad un totale annullamento nella volon-
taÁ divina. Le altre due opere del domenicano (l'Aperta veritaÁ e la Philosofia
divina) potevano aspettare. Sin da una prima lettura delle censure appor-
tate ai due testi si comprende come ± analogamente al caso del Cordoni
e del Ripanti ± l'obiettivo principale del censore sia quello di ribadire la
centralitaÁ dell'arbitrio umano nella teologia cattolica e di opporsi ad ogni
tentativo di svalutazione delle buone opere umane. Ecco, per esempio, co-
me, dopo aver trascritto una delle frasi che piuÁ avevano colpito la sua im-
maginazione («fol. 175 fa. 2 lin 12 dice, tanto e non piuÁ ti devi tu gloriar
delle tue buone opere quanto si puoÁ gloriar un asino a portar letame
etc.») si apprestava a smentirla nel modo piuÁ categorico: «Par che l'esem-
pio non vagli, perche quando l'huomo fa una buona opera si puole gloriar
in Dio, come di' l'Apostolo qui gloriat in Domino gloriet?».189 E ancora,
avrebbe annotato un'altra avventata affermazione dell'autore dalla quale
emergeva uno svilimento della natura umana: «Par che non stia bene il dire
che il Signore Dio ce habbi fatto quali siamo, et che ci habbi soggiocati a
queste [male] inclinationi, perche essendo rimasta corrotta et disordinata la
natura nostra, piuÁ tosto da noi stessi, in Adamo, ci siamo soggiocati che
Iddio ci habbi posto sopra tal giogo. Et inoltre se Adamo non havesse pec-
cato, l'huomo non haverebbe havuto questo giogo».190
La restituzione di una centralitaÁ teologica e dottrinale all'elemento vo-
lontaristico umano rimaneva, dunque, in virtuÁ di un perdurante antilutera-
nesimo, il crinale lungo il quale l'azione dei censori era destinata a muover-
si, il principale filtro attraverso il quale anche la letteratura mistica, o me-
glio le sue derivazioni piuÁ estreme, erano sottoposte al vaglio ecclesiastico.
Una logica e una sensibilitaÁ censoria i cui echi non faticarono a giungere
anche all'interno dell'Ordine gesuitico. Ne doveva fare le spese il Gagliar-
di, autore di un Breve compendio della perfezione cristiana scritto ad epilogo
della breve ma intensa vicenda mistico-spirituale che lo vide, nel corso del
1584, direttore spirituale di Isabella Berinzaga. Oggetto di pesanti accuse
da parte dei suoi stessi confratelli il Compendio fu sottoposto ad un attento
vaglio censorio e fu condannato ad una tormentata vicenda editoriale.191 Al
di laÁ di una pur auspicabile ricostruzione dettagliata dell'intera vicenda,

189 ACDF, Indice, Protocolli G, «Censura in libro Della cognitione e vittoria di se stesso»,

cc. 193r-198r, in partic. c. 196r.


190 Ivi, c. 194r.

191 Composto intorno al 1585, il testo fu pubblicato a Parigi in lingua francese nel 1596 con

Ð 111 Ð
CAPITOLO SECONDO

colpisce il fatto che la maggior parte degli interventi censori ± miranti ad


attenuare l'eco dell'esperienza isabelliana ed in particolare i passaggi piuÁ
estremi della sua via perfectionis - vertesse sul tema della volontaÁ. Dietro
l'ingannevole sembianza della «precisazione» teologica, il revisore interve-
niva in modo sostanziale sul testo: laddove, per esempio, il Gagliardi aveva
scritto che l'anima lascia «piena e immediata padronanza al divino benepla-
cito di tutto il corpo [...] come se non avesse piuÁ volontaÁ», egli correggeva
la frase del maestro spirituale specificando: «Come se non avesse piuÁ pro-
prietaÁ ne la sua volontaÁ». Oppure, dove l'autore proseguendo il filo del suo
discorso paragonava tale «sottrazione e rinuncia» a quella di Cristo nell'Or-
to che accettoÁ il «patir croce» non perche la sua volontaÁ fosse tale ma per-
che era quella del padre, e commentava: «E cosõÁ [la sua volontaÁ] diventoÁ
non volontaÁ», il censore con puntualitaÁ «consigliava» un'opportuna corre-
zione: «DiventoÁ non propria volontaÁ».192

il titolo di AbreÂge de la perfection, senza che il suo autore avesse ottenuto il permesso dall'autoritaÁ
censoria del suo Ordine e probabilmente a sua insaputa. Le prime edizioni italiane (Brescia, 1611
e Vicenza, 1612) uscirono anonime (la seconda, per l'esattezza, attribuiva l'opera ad un generico
«Servo di Dio»). La prima edizione italiana che attribuisce il testo al Gagliardi eÁ Breve compendio
intorno alla perfettione cristiana. Dove si vede una pratica mirabile per unire l'anima con Dio. Del
M.R.P. Achille Gagliardi. Teologo della Compagnia di GiesuÁ. In Napoli, per Giovan Giacomo
Carlino, 1614. Per queste notizie cfr. Breve compendio di perfezione cristiana. Un testo di Achille
Gagliardi S.I. Saggio introduttivo ed edizione critica a cura di M. Gioia, Roma-Brescia, Gregorian
University Press - Morcelliana, 1996 («Aloisiana», 28), in partic. pp. 18-23. Sulle vicende censo-
rie del testo vedi Ivi, pp. 39-43, ma soprattutto S. STROPPA, L'annichilazione e la censura: Isabella
Berinzaga e Achille Gagliardi, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», n. 3, 1996, pp. 617-625,
in cui l'autrice si avvale delle differenti lezioni manoscritte del testo, e corrispondenti variazioni,
segnalate nella recente edizione a cura di Mario Gioia. Su una fonte poco studiata quale la serie
delle «Censurae librorum» interne all'ordine gesuitico, che potrebbe presumibilmente contri-
buire ad un approfondimento di questa tematica, ha attirato per primo l'attenzione degli studiosi
U. BALDINI, Una fonte poco utilizzata per la storia intellettuale: le ``censurae librorum'' et ``opinio-
num'' nell'antica Compagnia di GesuÁ, in «Annali dell'Istituto storico italo-germanico in Trento»,
XI (1985), pp. 19-50. Sui rapporti tra Achille Gagliardi e Isabella Berinzaga cfr. anche P. PIRRI, Il
P. Achille Gagliardi, la dama milanese, la riforma dello spirito e il movimento degli zelatori, in «Ar-
chivum Historicum Societatis Iesu», XIV (1945), pp. 1-72; sul suo capolavoro mistico vedi ID., Il
breve compendio di Achille Gagliardi al vaglio dei teologi gesuiti, in «Ibidem», XX (1951), pp.
231-253 e ID., Gagliardiana 1. Un nuovo importante codice del Breve compendio di perfezione cri-
stiana, in «Ibidem», XXIX (1960), pp. 99-129.
192 S. STROPPA, L'annichilazione e la censura, cit., p. 624. La vicenda del Compendio del Ga-

gliardi deve essere messa in relazione anche con l'evoluzione interna seguita in quegli anni dalla
Compagnia di GesuÁ. In particolar modo, con l'importante mutamento riguardante la sfera della
spiritualitaÁ avviato sotto il generalato di Mercuriano e proseguito poi sotto il generale Acquaviva.
L'Ordine gesuitico, infatti, favorõÁ il passaggio da una «espiritualidad contemplantiva y casi mõÂ-
stica, por otra mucho maÂs activa y praÂtica», mirando a «sustituir la meditacioÂn que giraba en
torno a la fijacioÂn del alma en su proceso interior, considerando especialmente los atrobutos
de Dios, por otra que contemplaba maÂs la funcioÂn de Jesucristo en la vita espiritual de cada per-
sona, cuya figura paso a ser el centro de las meditaciones» (vedi J. MARTIÂNEZ MILLAÂN, Transfor-
macion y crisis de la CompanÄÂõa de JesuÂs (1578-1594), in I religiosi a corte. Teologia, politica e di-
plomazia in antico regime, a cura di F. Rurale, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 101-129, in partic. pp.

Ð 112 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

L'impronta antiluterana che abbiamo visto finora connotare l'approc-


cio delle autoritaÁ inquisitoriali romane al filone dell'orazione «mistico-uni-
tiva» sembrava destinata a deformare la prospettiva interpretativa dei cen-
sori anche in quei pochi casi in cui essi si accostavano al tema dell'orazione
intravedendo pericoli diversi da quello della luterana certezza della fede.
Un primo segnale in questo senso emerge dalla lettura di una nota cen-
soria ± ulteriore testimonianza dell'attenzione rivolta dalle autoritaÁ romane
verso il tema della preghiera e dell'orazione in quegli anni a cavallo tra i set-
tanta e gli ottanta sotto la regia del Sirleto ± riguardante un'opera del vesco-
vo e cardinale Giovanni Fisher, futuro santo della Chiesa di Roma: 193 il

106-107; ma cfr. anche I. IPARRAGUIRRE, Para la historia de la oracioÁn en el Colegio Romano du-
rante la segunda mitad del Siglo XVI, in «Archivum Historicum Societatis Iesu», XV (1946), pp.
77-126; e A. GUERRA, Un generale fra le milizie del Papa. La vita di Claudio Acquaviva scritta da
Francesco Sacchini della Compagnia di GesuÁ, Milano, Franco Angeli, 2001, pp. 115-120). Non
sembra il frutto di una semplice coincidenza cronologica la presenza tra gli incartamenti proces-
suali senesi conservati presso l'archivio romano del Sant'Uffizio di un procedimento inquisitoriale
datato 1585 contro un padre gesuita reo di aver «scritto et detto» affermazioni avventate sulle
potenzialitaÁ salvifiche e glorificanti dell'orazione. Antonio Francesco Ghelfucci, lettore di gram-
matica gesuita, fu invitato a «correggere» alcune proposizioni nelle quali pareva intendere, a
detta delle autoritaÁ inquisitoriali senesi, che «il cristiano orando puoÁ in breve tempo [...] guada-
gnare et per se stesso et per gli altri perpetua gloria» e che l'orazione era il «piuÁ utile, piuÁ honesto
esercitio in questa vita senza alcuna limitatione», un «esercitio» persino di «maggior perfettione»
rispetto alle «virtuÁ theologali». Di fronte alla puntuale domanda rivoltagli dall'inquisitore di
Siena se «chi ora possi esser sicuro di esser in gratia, et che sia in gratia colui per chi ora» la ri-
sposta del gesuita fu giudicata evidentemente troppo elusiva: «Dico che chi ora ± aveva detto il
Ghelfucci ± non puoÁ sapere senza revelatione di Dio che egli o altri habbia la gratia perche non si
puoÁ sapere che sia stato esaudito, et se io dico sicuro intendo come si suol parlare ordinariamente
[poco prima aveva citato il ``modo di parlar comune'']». Per dissipare ogni residua ambiguitaÁ
terminologica e contenutistica, l'inquisitore fece sottoscrivere all'«imputato» tre «proposizioni»
con le quali correggeva il senso delle sue affermazioni, consentendo cosõÁ alle autoritaÁ senesi di
archiviare il caso: «I. niente piuÁ dilettevole etc. dell'oratione io l'intendo per esageratione [...]
rifiutando ogni errore che potesse nascere di qua; 2. Chi ora per se stesso et per altri perpetua
gloria nella vita [...] intendo per quelli che sono in gratia etc. [...]; 3. Chi ora in questa vita [...]
guadagneraÁ aiuto sicuro etc. intendo come dice San [...: di difficile lettura]» (ACDF, Inquisizione
di Siena, Processi, vol. 10, fasc. contra Antonio Francesco della Compagnia del GesuÁ, lettore di
grammatica, 1585, cc. 712r-715r). Oltre che una testimonianza della sensibilitaÁ censoria delle
autoritaÁ inquisitoriali senesi ± particolarmente vigili intorno ai pericoli di un'eccessiva svaluta-
zione dell'intervento della grazia divina a favore di una smisurata sicurezza riposta dal fedele
in un «mezzo» terreno quale l'orazione ± questo breve processo rappresenta una prova documen-
taria della specifica attenzione di cui furono oggetto i membri della Compagnia di GesuÁ in quegli
anni da parte dell'Inquisizione nel momento stesso in cui si accostavano al tema a loro caro del-
l'orazione, lasciandosi trasportare dalle sue supposte immense potenzialitaÁ spirituali e terrene.
Non eÁ affatto da trascurare a questo proposito il quadro generale dei rapporti tra Inquisizione
romana e Ordine gesuitico, che vedeva proprio in quegli anni il Sant'Uffizio schierarsi accanto
al pontefice contro alcuni influenti membri del partito «castellanista», che da qualche tempo
aveva preso in mano le redini dell'Ordine a discapito del contrapposto partito «papista» (cfr.
J. MARTINEZ MILLAN, Transformacion y crisis, cit., p. 114).
193 Giovanni Fisher, nato a Beverley nel 1469 circa e morto a Londra nel 1535, fu cardinale,

umanista, teologo, vescovo di Rochester [Roffense], confessore e padre spirituale di tutta la fa-

Ð 113 Ð
CAPITOLO SECONDO

Tractatus de orando Deum, et de fructibus precum, modoque orandi, pubbli-


cato postumo a Roma nel 1578.194 La particolare sensibilitaÁ degli organi
censori nei confronti di questo tema puoÁ spiegare un interessamento che
non trova altrimenti giustificazione.195 Mosso da uno scrupolo tanto zelante
quanto privo di una complessiva visione teologico-dottrinale, il censore del
Fisher annotava, in due paginette prive di ulteriore commento, brani del-
l'autore contenenti una svalutazione delle opere in senso luterano ed altri
nei quali ravvisava (non senza qualche forzatura interpretativa) un'esaltazio-
ne della volontaÁ umana di stampo pelagiano. CosõÁ, da un lato, egli annotava
un «luogo» del testo in cui le preghiere degli uomini erano definite «propha-
nae et immundae», rimproverando implicitamente all'autore un'eccessiva
svalutazione delle opere umane: «Fol. 20 pag. 2 ibi: Deum aures suas sacer-
rimas ad prophanas et immundas nostras preces inclinare etc. quamque in
sensu nullum omnino vitium est (ut autor ipse inferius exponit) adhuc ta-
men haec duae voces: prophanae et immundae; improprissime ponuntur

miglia di Enrico VIII, acerrimo polemista antiluterano. Su di lui cfr. A. STEWART, The life of John
Fisher cardinal Bishop of Rochester; with an appendix containing the bishop's funeral sermons, let-
ters, London, Burns & Oates, 1879; C. EUBEL - W. VAN GULIK, Hierarchia catholica medii et re-
centioris aevi, vol. III, Monasterii, sumptibus et typis Librariae Regensbergianae, 1923, p. 286;
Enciclopedia Cattolica, CittaÁ del Vaticano, Ente per l'Enciclopedia cattolica e il libro antico,
1948-1954, vol. VI, 1951, pp. 626-627; sulla sua amicizia con Erasmo cfr. Erasmus and Fisher:
their correspondence, 1511-1524, par JEAN ROUSCHAUSSE, Paris, Vrin, 1968. Il Roffense viene giu-
stamente ricordato come un acceso polemista antiluterano: tra i suoi scritti il piuÁ noto eÁ la Asser-
tionis Lutheranae confutatio iuxta verum ac originalem archetypum, nunc ad vnguem diligentissime
recognita. Per reuerendum patrem Ioannem Roffensem episcopum, academie Canthabrigien cancel-
larium. Aeditio vltima, variis annotationibus in margine locupletata, Venetiis, in aedibus Gregorii
de Gregoriis, 1526 mense Augusto.
194 Ioannis Roffensis episcopi et S.R.E. Cardinalis, Tractatus de orando Deum, et de fructibus

precum, modoque orandi, Romae, apud Franciscum Zanettum, 1578. Il documento censorio (che
non contiene ne indicazione di data ne d'autore) si trova in ACDF, Indice, Protocolli G, c. 151r.
La constatazione che nell'unica edizione a stampa conosciuta, datata appunto 1578, sono assenti
le due espressioni segnalate come pericolose dal censore (cfr. infra, nn. 196-197), potrebbe far
pensare ad un intervento preventivo da parte dello stesso correttore, ad un intervento in altre
parole che dovette precedere la pubblicazione dello scritto. Non possiamo tuttavia escludere
che siano due le edizioni stampate nel corso del 1578 e che delle due solo la seconda (quella cor-
retta) sia oggi disponibile.
195 Non mi sembra infatti che nella biografia del Fisher compaiano elementi che potessero

incrinare post-mortem la sua immagine pienamente ortodossa e dunque giustificare indiretta-


mente un interessamento postumo delle autoritaÁ censorie. Le conseguenze di questo fugace in-
tervento censorio, del resto, furono molto limitate. Nel 1592 veniva, infatti, mandata alle stampe
una traduzione in lingua volgare dell'opera (Breue trattato di Giovanni Vescouo Roffense ... del
modo di pregare Iddio, e de' frutti che si cauano dall'oratione. In Napoli, ex officina Horatij Sa-
luiani, appresso Gio. Giacomo Carlino & Antonio Pace, 1592). Nell'Indice clementino del
1596 sarebbe comparso sõÁ il nome del cardinale, ma non in riferimento a questo scritto bensõÁ
quale supposto autore di un volume intitolato De fiducia et misericordia Dei che, peraltro, come
veniva ivi specificato, era opera a lui falsamente attribuita (Index des livres interdits, vol. IX, cit.,
p. 704).

Ð 114 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

hoc loco, prophanae enim et immundae preces proculdubio eae dicuntur in


quibus, res iniuste postulantur a deo, scilicet vindicta homicidium etc. has
autem preces nullo modo Deus exaudit».196 Dall'altro lato ± senza minima-
mente curarsi della contraddizione nella quale incorreva ± riportava un pas-
so dello scritto che gli permetteva di soffermarsi sui pericoli di un'interpre-
tazione del rapporto fede-opere in senso pelagiano: «Fol. 41 pag. 1 ibi: sed
quaecumque nos agimus (quatenus a solis nobis processerint peccata magis
etc. non videtur sustinendum nam si per illa verba / solis nobis / excluditur,
generale Dei hominem moventis, auxilium, fatebor equidem, nos ne suffi-
cientes quidem esse aliquid cogitare quasi ex nobis, ne dum opus aliquod
vel minimum efficere, neque in hoc casu potuit esse dubitandi causa. Si vero
per praefata verba excluditur gratia qua est donum habituale quemadmo-
dum videtur necessario intelligendum. Tunc contradicit Concil. Tridenti-
num Cano. 7 de iustificatione [...]».197
L'affiorare di istanze pelagiane in relazione al tema dell'orazione viene

196 ACDF, Indice, Protocolli G, c. 151r. Come accennato alla nota precedente questo rife-

rimento alle «prophanas et immundas nostras preces» veniva cambiato in una successiva (o nella
prima? Cfr. le considerazioni svolte supra, alla nota 194) edizione dello scritto in un piuÁ innocuo
«nostras preces»: «Quamquam divina maiestas ± questo il brano ``depurato'' ± supereminentis-
simae fuerit celsitudinis, est nihilominus adeo pia, clemens et dulcis, ut non dedignetur aures suas
sacerrimas ad nostras preces inclinare, modo non desit nobis animus resistendi peccatis» (I. FI-
SCHER, Ioannis Roffensis episcopi et S.R.E. Cardinalis, Tractatus de orando Deum, et de fructibus
precum, modoque orandi, Romae, apud Franciscum Zanettum, 1578, pp. 29-30). Questa versione
del brano in questione venne fedelmente conservata nella traduzione in volgare italiano pubbli-
cata nel 1592: «Se bene il Signore Iddio eÁ d'immensa MaestaÁ, egli eÁ nondimeno cosõÁ pio, cosõÁ
clemente, et cosõÁ benigno, che non si sdegna chinarsi, et porgere le sue santissime orecchie a'no-
stri prieghi, pure che noi ci proponiamo fuggire i vitii, et lasciare i peccati» (Breue trattato di
Giovanni Vescouo Roffense ... del modo di pregare Iddio, e de' frutti che si cauano dall'oratione,
cit., p. 27).
197 ACDF, Indice, Protocolli G, c. 151r. In questo caso sembra che l'eliminazione dell'e-

spressione segnalata dal censore abbia comportato un rimaneggiamento dell'intero brano che
nella `nuova' versione si presenta cosõÁ: «Certum equidem est, neminem quantumvis gravissimis
onustus peccatis fuerit, orationis suae merito prorsus omni cariturum: remunerabitur enim aut
in praesenti saeculo praemiis quibusdam temporariis, aut saltem quantum ad poenas mitius in
futuro tractabitur» (I. FISCHER, Tractatus de orando Deum, cit., p. 56). Ed ecco la traduzione
in volgare: «EÁ ben vero, che ciascuno che ora, se bene eÁ colmo de peccati, non ora senza qualche
merito, perche o egli saraÁ rimunerato in questo mondo con premi temporali, o nell'altro gli ver-
ranno temperati i tormenti, ma per la sua oratione egli non si guadagneraÁ pure un'amica della
gloria del Paradiso» (Breve trattato, cit., p. 53). Un'altra testimonianza della sensibilitaÁ antipela-
giana delle autoritaÁ inquisitoriali di quegli anni eÁ quella fornita da Paolo Simoncelli in riferimento
ad alcuni scritti del Chiari (P. SIMONCELLI, Documenti interni alla Congregazione dell'Indice, cit.,
p. 200 e nota 35). Si doveva trattare, anche in questo caso, di una sensibilitaÁ ancora da perfezio-
nare se eÁ vero, come ha sottolineato Adriano Prosperi, che nessuno dei censori riconobbe dietro
a quegli scritti di ispirazione pelagiana l'inconfondibile impronta dell'Epistola di Giorgio Siculo
(A. PROSPERI, L'eresia del Libro grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Milano, Feltri-
nelli, 2000, nota 2, p. 470, e p. 376).

Ð 115 Ð
CAPITOLO SECONDO

registrato dalle autoritaÁ romane di quei primi anni ottanta anche nell'am-
bito del «caso Mocenigo». Filippo Mocenigo, arcivescovo di Cipro, fratello
di Marcantonio, appartenente alla nota famiglia patrizia veneziana ± ad un
ramo diverso della famiglia rispetto ad Alvise di Marin, giaÁ condannato dal
Sant'Uffizio di Venezia per eresia luterana ±,198 veniva sottoposto a proce-
dimento inquisitoriale nel 1583 dopo che nel corso dei precedenti venti an-
ni erano state depositate contro di lui testimonianze orali di differente pro-
venienza.199 Si tratta di un processo che per la sua peculiare natura viene
conservato nella serie delle Censurae librorum dell'archivio romano dell'In-
quisizione: 200 gran parte del procedimento riguarda, infatti, l'analisi di un
libro manoscritto dello stesso Mocenigo (intitolato Circa la via et progressi
spirituali) nel quale gli inquisitori cercavano una conferma delle accuse che
si erano accumulate sul suo conto.201 Nel corso della dettagliata analisi del

198 Sulle vicende inquisitoriali di Alvise Mocenigo cfr. F. AMBROSINI , Storie di patrizi e di

eresia nella Venezia del '500, Milano, Franco Angeli, 1999, pp. 110-112 e 122-135; su Marcan-
tonio e Filippo Mocenigo cfr. Ivi, p. 114, nota 49 e P. GRENDLER, The «Tre Savi sopra eresia»,
1547-1605: a prosopographical study, in «Studi veneziani», n.s., 3 (1979), pp. 283-340, in partic.
p. 314.
199 ACDF, Inquisizione, serie Censurae librorum, vol. I, fasc. 5 (1583), Contra Filippo Mo-

cenigo, cc. 47r-191v. Sin dalla prima denuncia di fra Antonio da Venezia, nel 1561, era stato
aperto un fascicolo inquisitoriale sull'ecclesiastico veneziano. Le sue influenti amicizie curiali
e le sue nobili ascendenze familiari gli avevano garantito l'immunitaÁ anche negli anni a segui-
re quando, nel 1572, le accuse nei suoi confronti erano state rinnovate dalla deposizione di Teo-
filo Martino da Siena. Come il suo precedente accusatore, anche il monaco di Monte Cassino
insinuava il dubbio che il Mocenigo potesse essere sospettato di pelagianesimo. Ma anche
questa volta si lascioÁ correre. Solo all'inizio degli anni Ottanta, nel 1583 il Sant'Uffizio romano de-
cideva di andare al fondo della questione cercando di appurare la veridicitaÁ di quelle affermazio-
ni. Questa volta l'Inquisizione romana non disponeva solo di testimonianze orali, bensõÁ anche
di documenti scritti, opere dell'accusato, su cui esercitare il proprio controllo (cfr. anche P.
GODMAN, The saint as censor. Robert Bellarmin between Inquisition and Index, Leiden, Brill,
2000, pp. 21 sgg.).
200 Su questa serie archivistica di «Censurae librorum» della Congregazione del Sant'Uffizio

resta ancora molto da indagare (per qualche prima considerazione cfr. P. GODMAN, The saint as
censor, cit., p. 20). Come noto, comunque, in seguito all'istituzione della Congregazione dell'In-
dice il Sant'Uffizio non rinuncioÁ alle sue competenze in materia di censura libraria, fedele ad un'in-
terpretazione estensiva dei suoi poteri. Sui contrasti tra le due Congregazioni ci ha documentato
ampiamente GIGLIOLA FRAGNITO (La Bibbia al rogo, cit., passim; e EAD., La censura libraria tra
Congregazione dell'Indice, Congregazione dell'Inquisizione e Maestro del Sacro Palazzo (1571-
1596), in La censura libraria nell'Europa del Cinquecento, a cura di U. Rozzo, Convegno Interna-
zionale di Studi, Cividale del Friuli 9-10 Novembre 1995, Udine, Forum, 1997, pp. 163-175).
201 Nel 1581 il Mocenigo aveva pubblicato un'opera sull'«umana perfezione» intitolata Phi-

lippi Mocenici archiepiscopi Nicosiensis regni Cypri, etc. Universales institutiones ad hominum per-
fectionem; quatenus industria parari potest (Venetiis, apud Aldum). Quest'opera, tuttavia, dedi-
cata proprio a Gregorio XIII e solennemente approvata dal papa stesso oltre che dall'imperatore,
dai re di Francia e Spagna, non puoÁ esser in nessun caso confusa con la versione latina dell'opera
in volgare su cui si concentrarono le attenzioni inquisitoriali. Sulle Universales institutiones vedi la
relazione di E. BONORA, Una versione controriformistica della ``repubblica dei sapienti'': le Univer-

Ð 116 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

manoscritto del Mocenigo, appariva evidente come l'attenzione del censore


fosse indirizzata verso l'enfatica sopravvalutazione delle possibilitaÁ umane
di intraprendere e concludere con successo la mistica via perfectionis: «Se
l'anima si puoÁ elevare alla comprensione dell'immensa bontaÁ, et incompren-
sibil sapientia divina, ± aveva annotato tra i suoi appunti dopo aver letto una
delle frasi piuÁ emblematiche ± 202 giaÁ l'anima puoÁ diventar Dio, il che eÁ im-
possibile, poiche il comprensore non eÁ minor della cosa compresa, et per
questo dicono li dottori, che qualsivoglia creatura, benche perfettissima
non puoÁ comprendere l'incomprensibil sapientia et bontaÁ divina, ma solo
essa stessa».203 Un pericolo, quello pelagiano, che il consultore del Sant'Uf-
fizio avvertiva sempre piuÁ temibile mano mano che l'autore si andava acco-
stando al tema dell'orazione. GiaÁ la lettura del testo di un'Oratione, la quale
frequentata potria giovar non poco al progresso spirituale, et seria bene dirla
innanzi l'Imagine del Crucifisso, et piuÁ presto in modo di meditatione, che leg-
gendola,204 conservata tra le carte raccolte nel fascicolo Mocenigo, in appen-
dice all'opera manoscritta dell'ecclesiastico veneziano, lo aveva messo sul-
l'avviso. Qui gli echi di un cristocentrismo ancora vivo si univano, in un'in-
solita saldatura dottrinale, con un'impronta di tipo pelagiano. L'accento po-
sto, sin dal principio dell'Oratione, sul «Santissimo Corpo [di Iesu Christo]
morto con tanta afflitione» e l'accalorata invocazione del «frutto della Divi-
na vostra Misericordia» si accompagnavano in un disegno sostanzialmente
coerente con l'immagine riflessa del fedele che con il «dono eccellentissimo
dell'Intelletto», vinta la sua personale battaglia contro vizi e passioni terrene
(superbia, iracondia, avaritia, gola, lascivia, accidia) chiedeva al figlio di Dio
di meritare «di penetrare al pieno adempimento della volontaÁ vostra». Ecco,
il breve testo completo dell'orazione proibita:

sales institutiones ad hominum perfectionem di Filippo Mocenigo arcivescovo di Cipro (1581),


presentata al convegno Per il Cinquecento religioso italiano. Clero Cultura SocietaÁ, Convegno in-
ternazionale di studi, Siena 27-30 giugno 2001. Dello scritto in volgare esaminato dagli inquisitori
(Circa le vie et progressi spirituale) eÁ rimasta solamente una versione manoscritta conservata
presso l'archivio romano del Sant'Uffizio nella «Raccolta dei Libri della Censura Librorum».
Nel testo della condanna viene fatto esplicito riferimento ad «exemplaria edita» di questo scritto
in volgare, ma non sono rimaste, a quanto mi risulta, tracce di un'edizione a stampa.
202 Era lo stesso censore a riportare il testo della frase esaminata prima di stendere le pro-

prie considerazioni: «Alla c. 61 f. 2 si dice cosõÁ: ``Et possono elevare l'anima alla comprensione
cosõÁ dell'immensa bontaÁ divina in risolversi di voler ristorare le creature sue, et ridurre l'universo
non solo alla propria armonia, ma a piuÁ nobile ancora, come della incomprensibile sapientia et
providentia sua etc.''» (ACDF, Inquisizione, serie Censurae librorum, vol. I, fasc. 5 (1583), Con-
tra Filippo Mocenigo, c. 73r).
203 Ivi, c. 73r.

204 Il testo si trova all'interno del volume manoscritto del Mocenigo (Circa le Vie e Progressi

Spirituali, cit.) a cc. 129v-130v.

9
Ð 117 Ð
CAPITOLO SECONDO

Signor, et Redentor mio Iesu Christo vi prego, ch'in virtuÁ del S.mo Corpo vo-
stro morto con tanta afflitione, et risuscitato con tanta gloria vogliate mortificare
ogni affetto mio terreno, mondano, et carnale, et vivificarmi nello spirito con il di-
vino spirito vostro. Siche estinta ogni superbia viva in me una vera humiltaÁ, et con
il dono del S.mo timor vostro meriti essere assicurata da tutti i mali, et constituita
in parte dell'altiss.mo vostro Regno celeste.
Estinta ogni iracondia, viva in me una vera mansuetudine, et con il dono della
sincera pietaÁ, meriti esser assicurata, et liberata da ogni tentatione, et di godere la
immobilitaÁ santa della terra vostra celeste. Estinta ogni invidia, viva in me uno in-
terno pianto, et vero cordoglio delli peccati miei, et del mondo tutto, et con il gran
dono vostro della scienza, mi trovi gagliarda, et pronta a rimettere pienamente tut-
te l'ingiurie, et torti ricevuti, con ricever piena remissione di tutti li peccati miei, et
essere sempre consolata nella S.ma gratia vostra.
Estinta ogni Avaritia mi senta tutta sitibonda della piena, et consumata Giu-
stitia, et con il nobilissimo dono della fortezza, meriti d'esser quotidianamente nu-
trita con il suavissimo Cibo vostro, et nella efficacia sua goda d'una suavissima pie-
nezza, et saturitaÁ;
Estinta ogni Gola, et affetto di commoditaÁ corporali, viva in me la efficacia
della vera misericordia, et con il dono altissimo del Consiglio vostro meriti di pe-
netrare al pieno adempimento della volontaÁ vostra, et seguendola con tutti li spiriti
miei, riceva sempre il frutto della Divina vostra Misericordia;
Estinta ogni Lascivia, et affetto de piaceri carnali, il cor mio appaia mondo nel
conspetto vostro, et con il dono ecc.mo dell'Intelletto meriti di penetrare acutis-
simamente all'avenimento del Regno vostro, et adombrarmi l'inenarrabile bellezza
della faccia vostra, et della incomparabile divinitaÁ, con fiducia di doverla fruir pie-
namente;
Estinta ogni Accidia viva in me una tranquillissima pace, anco nelle tribulatio-
ni, et con il dono supremo della immensa sapientia vostra, possa degnamente san-
tificare, et comprendere la piena santificazione del gloriosissimo nome vostro, et di
giubilare nella filiale adoptione, alla quale ci conduce la virtuÁ dell'acerbissima pas-
sione di voi sig.re et Redentor nostro, che vivete, et regnate con Dio Padre in unio-
ne del S.mo Spirito Dio per tutti li secoli de secoli. Amen.

L'enfatica accentuazione pelagiana del merito dell'uomo, confermata


del resto dall'inciso «con fiducia di doverla fruir pienamente» utilizzato
dal Mocenigo, dovette apparire al censore una chiara conferma dei suoi so-
spetti. Ma ancor piuÁ sicuro delle sue intuizioni egli divenne quando giunse
alla lettura delle osservazioni dedicate dall'autore alla preghiera domenica-
le. «Alla carta medesima [c. 50] faccia 2 ± scriveva il censore, riportando il
commento del Mocenigo alla sesta invocazione del Pater noster (``liberaci
dal male'') ± si dice che nella sesta petitione dell'oratione del signore do-
mandiamo essere assecurati dalla tentatione, et pongonsi queste parole:

Ð 118 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

``Havendo sempre risguardo non a quelle tentationi dalle quali potemo li-
berarci fuggendo l'occasioni, ma da quelle nelle quali possono condurci
violentemente li maligni spiriti, et gl'huomini seguaci loro''».205 Sostenere
che l'uomo fosse in grado di fuggire alcune tentazioni senza l'aiuto divino
significava per il censore scegliere di seguire Pelagio al di fuori dei confini
dell'ortodossia cattolica: «Questa sententia conferma che ci sono alcune
tentationi dalle quali possiamo liberarci per industria nostra, senza bisogno
di domandare aiuto al signore, il che eÁ contra quella sua sententia, sine me
nihil potestis facere et quell'altra dell'apostolo, non sumus sufficientes co-
gitare aliquid ex nobis, sed sufficientia nostra ex deo est»; 206 «Non eÁ mal
fatto ± continuava, riferendosi esplicitamente allo scontro dottrinale che
oppose in tempi antichi Sant'Agostino a Pelagio ± haver l'ochio quando
oriamo a domandar aiuto a Dio per non cascar non solo nelle tentationi
violenti delli demoni et huomini maligni, ma ancora da quelle che con levar
le occasioni si possono declinare, perche senza aiuto della gratia di Dio ne
manco fuggiremo le occasioni, et essendo questo guardarsi dalle occasioni
principio et causa che ancora quando vengono le violenti tentationi non re-
sistiamo, seguitaria che il tutto dependaria dalle forze nostre quando vin-
ciamo il demonio, et acquistiamo il paradiso, come convince S. Agostino
i Pelagiani, quali dicevano che se bene era bisogno della gratia di Dio
per piuÁ facilmente operare, nondimeno il consentire alla gratia era tutto no-
stro; il che come heretico eÁ stato damnato, percioche se per sua natural for-
za o industria puoÁ l'huomo resipiscer da un male benche piccolo et con dif-
ficultaÁ, seguitaraÁ che rinforzandosi per simili esercitii potraÁ restaurarsi da
tutti, massime se poniamo che per se stesso si guadagni l'aiuto di dio fug-
gendo le occasioni, et consentendo alle buone inspirationi».207 «La veritaÁ
catholica ± ribadiva energicamente ± eÁ che se bene concorre il libero arbi-
trio, nondimeno esso non eÁ sufficiente senza l'aiuto divino ne a giustificarsi,
ne a conservarsi in giustitia, come si dice nel Concilio Tridentino de Iust.
Can. 22».208

205 Ivi, c. 72r.


206 Ibid.
207 Ivi, c.

208 Ivi, c. 72r. Allo stesso modo cosõÁ aveva commentato un brano precedente: «Alla c. 50

faccia prima si dice cosõÁ: ``Non in quanto dependono dalla nostra accidia, perche sicome cadeno
in questi per defetto nostro, cosõÁ potemo liberarcene con l'industria nostra, ma a quelli mali dalli
quali ci puoÁ liberare la sola divina misericordia''. Dicendo il profeta a Israel, perditio tua ex te
salus vero tua ex me o Israel, eÁ cosa manifestamente erronea dire, che da quei mali dove cademo
per defetto nostro ci possiamo liberar con l'industria nostra, senza la divina misericordia, concio-
sia che in tutti i mali siamo per defetto nostro, perche dal peccato quale eÁ voluntario, son venuti

Ð 119 Ð
CAPITOLO SECONDO

Ebbene, questa colta arringa del consultore non dovette essere suffi-
cientemente convincente se i membri della Congregazione del Sant'Uffizio
optarono per una piena assoluzione dell'imputato. In realtaÁ, seguendo una
prassi piuttosto diffusa ma non per questo meno equivoca, gli inquisitori
romani ± nel medesimo istante in cui decretarono l'assoluta innocenza del-
l'ecclesiastico veneziano («non esse haereticum, neque suspectum de haere-
si») ± si premurarono di ordinare la soppressione di tutte le copie in circo-
lazione dell'opera incriminata. Certo riconducibile anche agli influenti lega-
mi curiali e nobiliari del Mocenigo, l'ambiguitaÁ di questa condanna riflette-
va l'esistenza di una scala gerarchica nella valutazione delle dottrine
ereticali, all'interno della quale il pelagianesimo occupava evidentemente
un gradino non troppo elevato: «Libellum autem ± ecco il testo della con-
troversa decisione inquisitoriale ± de spiritualibus progressibus vulgari lin-
gua ab ipso composito licet a piis quibusdam viris revisum, et ab eis et ab
Inquisitore olim Venetiarum ad relationem tamen alterius sibi factam pro-
batum cum denuo recognitus, et examinatus, non nullas propositiones am-
biguas, et obscuras, et periculosas, [...] continere dignoscatur, fore et esse
supprimendum, et exemplaria edita, vel aliis communicata ab eo fore, et es-
se colligenda, et in sancto officio exhibenda, ut similiter supprimantur,
prout illum, et illa supprimi; et colligi mandavit, et ita decrevit, et declaravit,
atque mandavit omni melior modo, et forma, quibus potest, et debet».209
Come eÁ stato recentemente scritto, «il clima della Controriforma trion-
fante, con la violenta polemica contro l'agostinismo della Riforma, era fa-
vorevole alle accentuazioni mistiche e devote della bontaÁ e dell'importanza

tutti gli altri mali, et tamen ne da quello ne dalli mali sussequenti ci siamo possuti liberar, come
dice l'apostolo, Christus gratis mortuus esset, perche eÁ chiara cosa che Adamo non si posse libe-
rar da quel peccato nel quale tutti participiamo, per industria sua, benche per suo defetto in
quello fosse caduto, ma si liberoÁ per la misericordia di Dio, donando Christo, nel qual futuro
credeva Adamo per dono di Dio, essendo la fede dono di Dio, et cosõÁ tutti noi da quel peccato
per la medesima via ci liberiamo. Ancora dalli altri peccati nostri attuali non ci possiamo liberar
per nostra industria, se bene per nostro difetto in quelli siamo cascati, ma per la gratia che ci
dona Dio per Iesu Christo, percioche altra virtuÁ si ricerca a levarsi che a cader, non essendo il
cadere virtuÁ ma mancamento, et il levarsi grandissima virtuÁ, onde vediamo che sebene alcun cade
in un pozzo, per suo defetto et accidia, non per questo puoÁ per la sua industria uscire et in
somma tal sententia eÁ secondo l'heresia pelagiana giaÁ dannata dalla Chiesa» (Ibid.).
209 La decisione venne presa durante la riunione del «die Jovis Sexta mense Octobris 1583.

In generali congregatione officii Sanctae Romanae, et universalis Inquisitionis habita coram Sanc-
tissimo Domino Nostro Domino Gregorio Papa XIII ac Ill.mis et Rev.mis Dominis Iacobo Sa-
bello Episcopo Portuense, Ludovico Madrucio presbitero tituli Sancti Honuphrii, et Iulio Anto-
nio Sanctorio Sanctae Severinae nuncupato presbitero tituli Sancti Bartholomei in Insula misera-
tione [...] Proposita Causa Reverendi Patris Domini Philippi Mocenigii Archiepiscopi Cypri in-
quisiti ex causis de quibus in actis. Idem S.mus Dominus noster visis, et consideratis conside-
randis» (Ivi, cc. 191r-v).

Ð 120 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

delle opere umane. [...] La disattenzione, se non addirittura il favore nei


confronti delle accentuazioni mistiche e delle pulsioni verso la santitaÁ con-
quistata con le opere erano dunque le tendenze prevalenti»; in altre parole
«la polemica contro le idee di Lutero spostava l'asse dottrinale cattolico
verso le tendenze pelagiane».210 Laddove, alle prese con il Tractatus de
orando Deum del Fisher, l'affiorare di elementi pelagiani era stato fuggevol-
mente avvertito e segnalato da un censore che dimostrava di non possedere
una reale padronanza dei temi trattati, nel caso del Mocenigo questa dop-
pia formula di assoluzione-condanna segnava evidentemente un limite che
le autoritaÁ romane non erano ancora pronte a valicare.211

Se dalle riflessioni sin qui svolte risulta evidente che l'orazione «misti-
ca» rimase coinvolta nell'azione censoria romana solo, o quasi solo, nella
misura in cui venne assimilata al messaggio luterano, come abbiamo visto
in riferimento al tema della volontaÁ, allora eÁ anche possibile rilevare come,
parallelamente all'affievolirsi dello slancio repressivo contro le dottrine
protestanti, persino le piuÁ accese manifestazioni della ricca tradizione spi-
rituale mistica erano destinate a riconquistare gli spazi perduti.
Con la fine degli anni ottanta una fase intensa ed importante dell'atti-
vitaÁ censoria romana ± una fase nella quale l'indole e le posizioni personali
di papa Gregorio XIII dovettero ricoprire un ruolo non marginale, ancora
peraltro tutto da studiare ± 212 sembrava concludersi.
Non casualmente nel 1588 usciva a stampa ± dopo ben cinquant'anni
di attesa ± l'ultima di un lungo filone di opere dedicate alla preghiera do-
menicale, il trattato Della unione dell'anima con Dio sopra il Pater noster
della venerata madre Battista Vernazza,213 figlia del celebre fondatore del-

210 A. PROSPERI, L'eresia del Libro grande, cit., p. 376.


211 EÁ evidente che in mancanza di uno studio complessivo sull'antipelagianesimo nel XVI
secolo ci si puoÁ qui solamente limitare a segnalare casi isolati e a delineare linee di tendenza
che necessiterebbero di un quadro piuÁ organico all'interno del quale collocarsi.
212 Una bella lettera scritta da Agostino Valier qualche anno piu Á tardi, nel 1600, illustra
bene la particolare sensibilitaÁ di Gregorio XIII nei confronti delle degenerazioni mistico-estati-
che. Rispondendo ai quesiti dell'inquisitore di Torino che chiedeva lumi su come comportarsi
di fronte a «molti accidenti di cadute, che hanno apparenza di estasi, e uscita di senso, e anco
di rapto» verificatesi «nella mirabile divotione della Madonna di Vico appresso MondovõÁ», il
cardinal di Verona richiamava idealmente l'ereditaÁ degli insegnamenti di Gregorio XIII: «[...]
come si vede dall'essempio di Papa Gregorio decimo terzo inanti a cui andando in estasi una
divota persona se la fece levar d'avanti, ne mai piuÁ dimandoÁ che ne fosse» («Consideratione
sopra le cadute d'alcuni di quelli che vanno alla divotione della santissima Vergine di MondovõÁ»:
Lettera del card. di Verona all'Inquisitore di Torino, Roma 4 ottobre 1600, in Scriniolum, cit.,
f. 617 sgg.).
213 BATTISTA VERNAZZA , Della unione dell'anima con Dio sopra il Pater noster. Tratt. della

Ð 121 Ð
CAPITOLO SECONDO

l'oratorio del Divino Amore, Ettore Vernazza. L'originale stesura dell'opera


in effetti risaliva al 1538, anno ± sia detto per inciso ± della prima edizione
dell'ormai condannato Dyalogo del Cordoni. SimilaritaÁ di titolo, oltre che di
contenuto, avevano evidentemente sconsigliato una «frettolosa» pubblica-
zione del testo. L'opera rimasta inedita per cinque decenni vedeva final-
mente la luce solo all'indomani della morte dell'autrice, occorsa il 9 maggio
1587. Qualche sospetto, o almeno qualche interrogativo sorge spontaneo.
Difficile infatti accontentarsi delle spiegazioni «ufficiali» fornite a giustifica-
zione dell'ostinata reticenza alla pubblicazione manifestata dalla Vernazza
nel corso della sua lunga vita. Il generoso tentativo del promotore dell'ini-
ziativa editoriale del 1588, Don Dionisio da Piacenza, di spiegare questo sal-
to cronologico pluridecennale (dal 1538 al 1588) riconducendolo esclusiva-
mente alla schiva personalitaÁ della mistica genovese e alla sua comprovata
tendenza all'estraniamento dalla vita mondana («il vero humile [...] eÁ alieno
da ogni honore») non sembra esaurire i termini di una vicenda che risulta
piuÁ complessa di quanto non la si volesse far apparire. EÁ la stessa «Apolo-
gia» del resto ± premessa da don Dionisio sotto forma di dedica all'edizione
completa delle opere vernazziane («All'Illustrissimo et Reverendissimo Si-
gnor Monsignor NicoloÁ Sfondrato, Cardinale, e Vescovo di Cremona»,
Di Piacenza alli 5 di Genaio 1587) ± a tradire una certa inquietudine.
«Le Opere della Veneranda Madre Donna Battista Vernacia, ± cosõÁ esordi-
va il canonico lateranense ± le quali hora si mandano in luce, sono per se
stesse tanto spirituali, et ripiene di affetti, et sentimenti divini, che pare,
che non habbiano bisogno di altro presidio humano, per diffendersi da
qualsivoglia calonnia, che loro potesse esser machinata da altrui invidia, o
malignitaÁ».214 L'immediata sensazione di trovarsi di fronte ad una vera e
propria excusatio non petita trova piena conferma nel prosieguo della dedi-

Reverenda, et Devotissima Vergine di Christo, Donna Battista da Genoa, Can. Regolare Latera-
nense, in Opere spirituali della Reverenda et Devotissima Vergine di Christo, Donna Battista da
Genova, Canonica Regolare Lateranense. In tre tomi distinte, nelle quali tutta l'altezza della Chri-
stiana perfettione, et intima amorosa union con Dio (quanto sia possibile) chiaramente s'insegna.
Hor prima date in luce, con tre tavole utilissime et copiosissime. Con privilegii. In Venetia, presso
gli heredi di Francesco Ziletti, 1588. Per qualche notizia biografica su Battista Vernazza cfr. L.
FERRARI, Onomasticon. Repertorio bio-bibliografico degli scrittori italiani dal 1501 al 1850, Milano,
Hoepli, 1947, p. 686; P.L. FERRI, Biblioteca femminile italiana, Padova, Crescini, 1842, pp. 380-
381; Elogi di Liguri illustri, seconda edizione riordinata, corretta ed accresciuta da D.L. Grillo,
Genova-Torino, 1846-77, 4 voll., vol. I, pp. 17-25; R. SOPRANI, Li scrittori della Liguria e parti-
colarmente della marittima, Genova, P.G. Calenzani, 1667, p. 55.
214 Epistola dedicatoria premessa all'edizione delle Opere spirituali della Reverenda et

Devotissima Vergine di Christo, Donna Battista da Genova, Canonica Regolare Lateranense,


cit., c. A2r.

Ð 122 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

catoria: «Ma anzi che siano atte a persuadere, et convincere chiaramente


chiunque con sinceritaÁ di mente le leggeraÁ, che esse piuÁ con lume soprana-
turale, et con uso continuo d'oratione, che con industria humana, o con al-
tro studio siano state composte; la onde mi eÁ parso del tutto soverchio a fare
sopra di cioÁ longo discorso per modo di Apologia».215 Nonostante il tenta-
tivo di mascheramento messo in atto da Don Dionisio, dietro alle sue parole
si intuiscono chiaramente le ombre delle polemiche, della diffidenza, e forse
dei sospetti che intorno alle opere della Vernazza si erano addensati. Quasi
a cercar legittimazione e sostegno alla sua iniziativa editoriale, come per
condividere con altri la responsabilitaÁ della sua scelta, egli invocava in
suo aiuto l'autoritaÁ del «Padre mio spirituale» e di «alcuni Padri Theologi»:
«Dico per tanto, che oltre la diligenza grande, et scrutinio che il molto Re-
verendo Padre Don Gasparo concanonico, et Padre mio spirituale di buona
memoria volse fare intorno a dette Opere, spendendovi de gli anni; et oltre
a quella che vi aggiunse l'Illustrissimo di Santa Prassede da poi, dandole da
vedere ad alcuni Padri Theologi di spirito et di eruditione molto segnalati,
da quali furono accuratamente vedute, et con la loro sottoscrittione appro-
vate».216 Una solenne e ufficiale sottoscrizione dell'opera, dunque, prece-
duta da una doppia e lunga («spendendovi de gli anni») revisione del testo,
che consente di avanzare l'ipotesi di veri e propri interventi «correttivi».217

215 Ibid.
216 Ivi, A2r-v.
217 Un'ipotesi che risulta del resto avvalorata dalla lettura di una lettera del settembre 1582

con la quale il Generale dei Canonici regolari lateranensi chiedeva al card. Sirleto una «revisione»
ufficiale dei tre tomi delle opere della Vernazza da parte della Congregazione dell'Indice, che
avrebbe seguito cosõÁ quella de «nostri theologi», arrivando persino ad indicare il nome di un pos-
sibile censore per le opere vernazziane: «Sono anni circa 40, ± recitava il testo della missiva che,
data la ricchezza di informazioni, vale la pena riportare per intero ± che ad una nostra Canonica
D. Battista da Genoa nel Monasterio delle Gratie, d'anni all'hora 46, purissima, et humilissima et
alla quale non eÁ mai stato insegnato da huomo se non leggere et scrivere, comincioÁ il Signore
mettere in mente concetti grandissimi et importantissimi. Alli quali ricusando la Vergine di
dar fede per non essere ingannata da colui che si traffigura in Angelo di luce, et stando molto
sospesa, fu assicurata da un suo confessore huomo di santa vita et molta dottrina, fatta prima
et fatto far molte orationi a Dio, che la cosa era dal S.re et fu confortata et inanimata, anzi gli
fu imposto per obedienza, che dovesse tenerne conto, et mettergli in scritto. CosõÁ fece et sempre
la cosa eÁ stata secretissima. Di modo che a questa hora ha scritto tre tomi intieri. Hor eÁ piacciuto
a Dio che la cosa eÁ venuta a nostra cognitione. Per il che havendogli visto io in gran parte, et poi
per gli impedimenti il tutto dal principio insino al fine fatto vedere et essaminare con somma di-
ligenza da nostri theologi huomini dotti et illuminati, gli ho approvati come vedraÁ et volendogli
ad honor di Dio, et utilitaÁ di molti (come si spera) mandare in luce, mi son risoluto, accioÁ non sia
in facultaÁ d'alcuni in una cittaÁ approvargli, et altri in un'altra riprovarli over sospendergli, non
volere che venghino fuori senza l'approbatione dell'Illustrissima Congregatione cosõÁ glieli mando,
et a piedi loro humilmente gli presento, al tutto rimettendomi alla correttione et giudicio di S.
S.rie Ill.me et perche sarebbe forsi difficile trovar persona che habbia tempo, et sappia et voglia
attendere a cosõÁ lunga et importante impresa, peroÁ intendendo che in Roma si trova il R.P. Ema-

Ð 123 Ð
CAPITOLO SECONDO

Al di laÁ di ogni riflessione, comunque, il dato che occorre sottolineare eÁ


che solamente alla fine degli anni ottanta del secolo si crearono le condi-
zioni per la pubblicazione di questo scritto. Certo, come detto, per l'avve-
nuta morte della Vernazza che escludeva ogni residua possibilitaÁ di un'e-
ventuale incriminazione dell'autrice, ma anche evidentemente per il matu-
rare di un clima culturale e religioso diverso. In effetti, «depurato» o meno
che fosse, il testo della Vernazza manteneva caratteristiche teologico-dot-
trinali degne di attenzione. Partendo da una profonda riflessione intorno
alla natura «unitiva» del Pater noster ± un'«orazione [che] tende ad unire
l'huomo con Dio» ± 218 la Vernazza forniva un'attenta analisi delle sette in-
vocazioni di cui la preghiera domenicale eÁ composta, ciascuna delle quali
interpretata dall'autrice come un passo in direzione del raggiungimento di
quel traguardo finale: l'unione con Dio, appunto.219 I diversi stadi della via
perfectionis erano accuratamente sviscerati dall'intensa lettura offerta dalla
Vernazza: dall'annichilazione delle proprie passioni terrene e della propria
volontaÁ, dalla contemplazione della figura del Cristo, prima, e di Dio, poi,
fino alla trasformazione unitiva e al raggiungimento della quiete e della
perfezione.
Lungo quella sottile linea di confine tra eresia ed ortodossia tracciata
dai ripetuti interventi censori degli anni ottanta del Cinquecento, l'Unione
dell'anima con Dio sopra il Pater noster della mistica genovese cercava di
ritagliarsi il suo spazio, teologico e dottrinale.
Nelle fasi iniziali del suo ideale percorso spirituale, per esempio, l'au-
trice parlava con intensitaÁ mistica e slancio unitivo della «crocifissione in-

nuelle di Sa' theologo della Compagnia di GesuÁ, qual molto bene conosce essa Madre, supplico
V.S. Ill.ma degnarsi commettergliela, che lui vegga il tutto diligentemente, et riferisca quanto gli
pare. Dil che gli ne restaroÁ io et tutta la Congregatione nostra, oltre gli altri oblighi inclinatissimo
et deditissimo N.S. la conservi, et gli bascio humilmente la mano. Di Piacenza, alli 9 di settembre
1582. Don Theodosio Generale de Canonici regolari lateranensi» (BAV, Vat. Lat. 6194, Lettere
al card. Sirleto, pars II, c. 475r; ringrazio vivamente Gigliola Fragnito per la segnalazione di que-
sto documento). Non abbiamo alcuna testimonianza, allo stato attuale della documentazione, che
consenta di appurare se la revisione della Congregazione dell'Indice abbia avuto effettivamente
luogo e tantomeno se l'autore di questa supposta revisione censoria sia stato effettivamente il ge-
suita Sa' indicato dal Generale dei Canonici regolari lateranensi nella sua lettera al Sirleto.
218 BATTISTA VERNAZZA , Della unione dell'anima con Dio sopra il Pater noster, cit., cap.

XLV, f. 94.
219 Pater (capp. I-IV), qui es in coelis (V-IX), santificetur nomen tuus (X-XVII), adveniat

regnum tuum (XVIII-XXII), fiat voluntas tua (XXIII-XXX), «ricapitolazione della prima parte
del Pater» (XXXI-XXXV), panem nostrum quotidianum da nobis hodie (XXXVI-XLV), dimitte
nobis debita nostra (XLVI-LV), sicut et nos dimittimus debitoribus nostris (LVI-LXIII), et ne
nos inducas in tentationem (LXVIII-LXXIX), sed libera nos a malo (LXXX-LXXXIX), Amen
(XC-CXX).

Ð 124 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

teriore» 220 e della «nichilitaÁ» dell'uomo, spiegando ai devoti lettori che


«... quell'anima, che desidera essere sorella di Christo, debbe con tutto 'l
suo sforzo profondarsi, et abbissarsi in tutto, piuÁ ch'ella puoÁ, per diverse
ragioni [...] principalmente per obedire a sua MaestaÁ; [...] perche cosõÁ me-
rita la nostra nichilitaÁ».221 Sottolineava anche la necessitaÁ che «chi vuole in
veritaÁ humiliarsi, bisogna che della propria nichilitaÁ habbia un vero lume, il
quale, stando la mente nella divina presentia, s'acquista. [...] Chi ardente-
mente, et unicamente ama Christo, grandissimo diletto sente in profondarsi
sott'ogni rational creatura, per star insieme con l'istesso abissato Christo: et
non puoÁ far di manco, se ha ricevuto il suo divino senso».222 Eppure, su-
bito dopo, per non creare spiacevoli equivoci, la Vernazza specificava che
«questo annichilarsi in se considerato, certo non eÁ altro, che un volontario,
et amoroso morire, nel quale si sacrifica il proprio spirito, mandandolo in
mano del padre».223 Giungendo, in un crescendo letterario e spirituale,
agli ultimi stadi del percorso unitivo, la soglia d'attenzione dell'autrice si
faceva sempre piuÁ elevata. Era lõÁ che, piuÁ temuto che mai, si annidava il
pericolo dell'eresia, era lõÁ che parlando di «deificati, over deiformi amato-
ri» 224 molti prima di lei avevano oltrepassato i labili confini dottrinali del-
l'ortodossia cattolica. L'unione della volontaÁ umana con quella divina, il
dissolvimento della prima nella seconda, il raggiungimento della perfezione
divina e dello stato di impeccabilitaÁ da parte dell'uomo «deificato», erano
questi i temi «pericolosi» che sin dai tempi della medievale eresia del Libe-
ro Spirito Roma aveva condannato. Anche in questo caso la mistica geno-
vese (o il suo «revisore») dovette avvertire in tempo il limite oltre il quale
non era consentito inoltrarsi. L'uomo ± aveva sottolineato con grande ac-
cortezza la Vernazza ± non puoÁ far altro che tendere verso la perfezione
divina, potraÁ avvicinarsi molto a lui, ma non riusciraÁ mai ad avere una vi-
sione perfetta delle sembianze divine: «Noi non possiam capir l'onnipoten-
te / ... / Si che fin tanto che alla terra rendo / il corpo, in cielo sia mia mente
teco, / Dove in te stesso sei, ma non l'intendo».225 Anche nel momento in
cui riusciraÁ ad arrivare, in virtuÁ della grazia divina a lui concessa, al piuÁ alto
grado di orazione egli ± se pure diverraÁ un quid unum con Dio per parte-

220 «Non basta l'esterior crocifissione; ma ancor interiormente bisogna con Christo crocifi-

gersi, et sacrificarsi» eÁ il titolo del capitolo XXVI, f. 58.


221 Ivi, f. 58.

222 Ibid.

223 Ibid. (corsivo mio).

224 Ivi, f. 151.

225 Ivi, ff. 201-203.

Ð 125 Ð
CAPITOLO SECONDO

cipazione ed amore ± rimarraÁ sempre distinto nella sua singolaritaÁ e natura


umana: «Et avenga che equiparar non si possa l'essere deificato per gratia
all'esser Dio per natura, pur vi eÁ tanta similitudine, che possiamo fiducial-
mente dire: Come in cielo, cosõÁ sia in terra. In quel modo, che sua MaestaÁ
c'invita in un altro luoco ad imitare la paterna perfettione, quando dice:
Estote perfecti, sicut et pater vester caelestis perfectus est. Siate perfetti, come
eÁ perfetto il vostro padre celeste. Dove per certo non s'intende a equalitaÁ,
ma a imitatione, et simiglianza».226 Anche nel momento piuÁ alto del per-
corso unitivo ± specificava dunque l'autrice ± l'uomo e Dio costituiranno
sempre due entitaÁ ben distinte tra loro: seppur tirando la corda fino all'e-
stremo limite di tensione il sottile confine tra ortodossia ed eresia rimaneva
inviolato.
Pur considerando l'importanza di questi interventi censori o autocen-
sori, la pubblicazione di quest'opera sembra registrare una notevole atte-
nuazione dell'attenzione che negli anni precedenti aveva caratterizzato l'a-
zione repressiva dei censori romani nei confronti delle piuÁ disparate pro-
paggini del filone mistico. Come si eÁ cercato di dimostrare nelle pagine pre-
cedenti, drammatiche svalutazioni delle «forze» umane come quella
contenuta in questo brano: «Non per proprie forze, ma per gratia, questa
perfettione s'acquista. Et come la divina bontaÁ ha sempre bene per male
retribuito»; oppure categoriche amputazioni del libero arbitrio umano co-
me quella che ± solamente attenuata dall'iniziale riferimento alla «prontez-
za» della volontaÁ umana ± eÁ dato leggere in quest'altro passo dedicato al-
l'«esterior crocifissione» e al «purgar gli affetti»: «SõÁ che la volontaÁ eÁ pron-
tissima, ma le mie forze in veritaÁ sono nulla. PeroÁ amor mio, tu che hai dato
il volere, aggiungi il potere, anzi con tua virtuÁ fa in me l'effetto, sõÁ ch'io pos-
sa veramente dire: ``Pater autem in me manens ipse facit opera''. Il Padre,
che in me sta per gratia; egli fa le opere tutte»; 227 affermazioni come queste,
dicevo, solo pochissimi anni prima non sarebbero state tollerate dai solerti
difensori dell'ortodossia cattolica. Ora, invece, passavano il vaglio di una
doppia revisione. Il ribaltamento di prospettiva era netto.
Pur rimanendo difficile valutare l'entitaÁ e la qualitaÁ dell'opera di «ripu-
litura» dei «Padri Theologi», eÁ lecito, infine, ipotizzare che l'inserimento di
alcuni aggettivi o avverbi sia frutto del loro intervento: «Se il Signore non
m'aiutava, ± si leggeva tra le pagine del ``commento al Pater'' ± io era giaÁ
quasi nell'inferno. Dove dimostra non solo da se stesso non poter ottener

226 Ivi, ff. 63-64.


227 Ivi, f. 16.

Ð 126 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

cosa perfetta, ma anzi che se stato non fusse il tuo divino aiuto, seria quasi
profondato nell'inferno»; 228 e ancora: «In modo tale, che i sensi corporali,
et animali diventano quasi spirituali, non volendo, ne curandosi di ricevere
consolatione, ne pascimento dalli esteriori proportionati oggetti. E cosõÁ
etiandio l'huomo nostro esteriore si fa a Christo crocifisso grandemente
conforme».229 Quelle locuzioni avverbiali come «quasi», «grandemente»,
e ancora «quasi», con tutta probabilitaÁ erano state appositamente inserite
da qualche scrupoloso censore per stemperare le affermazioni piuÁ dure e
per sfumare i toni del discorso laddove questo sembrava assumere conno-
tati compromettenti.
Un'ipotesi, quest'ultima, destinata a trovare conferma in un altro «ca-
so» censorio di quegli anni. Quei piccoli interventi di precisazione teologi-
ca, infatti, hanno un tenore molto simile alle leggere correzioni proposte
dallo stesso Dionisio da Piacenza ± questa volta nelle vesti di censore e
non piuÁ in quelle di promotore o garante della pubblicazione del testo, co-
me nel caso dell'opera della Vernazza ± alle opere di Serafino da Fermo.
Nelle «Annotationi fatte intorno all'operette del R. P. D. Serafino da Fer-
mo da Don Dionisio da Piacenza, Abbate della Badia di Fiesole, secondo le
stampate in Piacenza da Francesco Conti 1570» 230 modalitaÁ e qualitaÁ degli
interventi proposti erano, in effetti, del tutto similari. Eccone alcuni tra i
piuÁ significativi: «Cap. 6 [del trattato Dell'oratione interiore] in fine: Laudo
l'opera di Gio. Cassiano. In margine porrei: Intendi peroÁ in quelle cose, do-
ve non eÁ riprovato»; 231 e ancora: «Cap. 8 dell'istesso Trattato della Conver-
sione; al fine ove dice, che alcuno mosso etc. ha desiderato l'inferno. Porrei

228 Ivi, f. 112 (corsivi miei).


229 Ivi, f. 195 (corsivi miei).
230 ACDF, Indice, Protocolli N, cc. 337r-339v. L'unica opera di Serafino da Fermo che

comparve negli Indici romani fu l'Apologia di Battista da Crema, condannata nel 1559 e nel
1564. Diverso, come noto, il destino delle opere di Serafino in Spagna dove sin dal 1559 furono
interamente messe al bando (cfr. Index des livres interdits, vol. X, cit., p. 181; vedi anche supra,
p. 39 e nota 190). Nello stesso volume di Protocolli in cui compaiono queste note censorie eÁ con-
servata (Prot. N, c. 391r) una lettera datata Piacenza, 19 maggio 1605, in cui fra Francesco Strada
denunciava di aver trovato nell'edizione delle opere di Serafino da Fermo del 1570 due epistole
dedicatorie tratte dalla giaÁ condannata Apologia di Battista da Crema, in cui Serafino si prodigava
in elogi rivolti appunto al maestro Battista e chiedeva al suo interlocutore (presumibilmente uno
dei cardinali della Congregazione dell'Indice) di avvisarlo se il testo fosse da considerare proibito
o meno. Allo stato attuale della documentazione eÁ difficile stabilire con esattezza quale sia la re-
lazione tra questa lettera e le censure di Don Dionisio da Piacenza conservate pochi fogli piuÁ in-
dietro nello stesso volume di Protocolli, ma non puoÁ essere del tutto escluso che fosse stata quella
lettera a rimettere in moto il meccanismo di controllo nei confronti degli scritti di Serafino, mec-
canismo che peraltro non dovette portare ad alcuna condanna o menzione ufficiale.
231 Ivi, c. 337r.

Ð 127 Ð
CAPITOLO SECONDO

in margine: Intendi sempre, se possibile fosse, et a Dio piacesse; et quanto


alla pena»; 232 e poco piuÁ avanti: «Nella Pistoletta precedente al Trattato
della Cognitione, et Vittoria di se stesso, lin. 19 sterpare le passioni (direi:
sterpare, quanto si puoÁ, le passioni)»; 233 e ancora: «Cap. primo [del trattato
Specchio interiore] Quando l'huomo ha suppeditato ogni passione, et ten-
tatione, et talmente eÁ fortificato, che non solo non casca etc. Metterei in
margine: Intendi, in cosa rilevante».234 Le espressioni, gli incisi, che il cen-
sore proponeva di aggiungere ad alcuni brani degli scritti di Serafino da
Fermo («in quelle cose dove non eÁ riprovato», «quanto alla pena», «in cosa
rilevante»), in altre parole, richiamavano molto da vicino espressioni agget-
tivali ed avverbiali presenti nelle pagine del Commento al Pater della Ver-
nazza (quei «quasi» e «grandemente» cui abbiamo fatto riferimento), raf-
forzando cosõÁ l'ipotesi di un intervento sul testo della mistica genovese (in-
tervento evidentemente preventivo in questo caso e non successivo alla
pubblicazione come invece nel caso delle opere di Serafino). Il testo della
Vernazza si presenta dunque sempre piuÁ verosimilmente come il risultato
finale di un delicato lavoro di revisione al quale il censore Dionisio da Pia-
cenza non dovette certo rimanere estraneo. Attraverso le attente «cure»
dell'abate di Fiesole l'opera di Serafino e quella della Vernazza erano de-
stinate a diventare piuÁ simili di quanto non fossero prima del suo interven-
to. Correggendo alcuni tra i piuÁ delicati passaggi dell'opera del canonico di
Fermo intorno al momento unitivo dell'uomo con Dio, Dionisio propone-
va, per esempio, i medesimi accorgimenti (e compromessi) dottrinali che
avevano consentito la pubblicazione del Commento al Pater: se nell'opera
della venerata genovese si leggeva «dove per certo non s'intende a equalitaÁ,
ma a imitatione, et simiglianza» le stesse espressioni avrebbe dovuto adot-
tare lo Specchio interiore di Serafino: «[cap. X del trattato] Aspirare alla
equalitaÁ di Dio; direi (alla simiglianza). Et cosõÁ [...] se l'huomo non si fa si-
mile et equale, aggiongerei (nel modo suo) a Dio».235
La rinnovata funzione emendatrice attribuita in questo caso all'inter-

232 Ivi, c. 337v. Non si puo Á non rilevare come quest'ultima precisazione «quanto alla pena»
sia esattamente la medesima correzione apportata (volontariamente da parte dell'autore o dietro
sollecito invito di terzi) da Mattia Bellintani in uno dei passi dell'edizione riveduta del 1584 della
sua Pratica dell'oratione mentale (cfr., supra, p. 92).
233 Ivi, c. 337v. Molto simile, per contenuti e modalita Á , eÁ quest'altra correzione: «Cap.
primo del detto trattato in fine, haremo di noi stessi, et d'ogni peccato perfetta vittoria; metterei
in margine: Intendi, quanto eÁ possibil in questa vita» (Ibid.).
234 Ivi, c. 338r.

235 Ivi, c. 338v (i corsivi sono tutti di Dionisio da Piacenza). Per il riferimento al «Com-

mento al Pater» della Vernazza cfr. anche supra, pp. 125-126.

Ð 128 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

vento censorio rappresentava un'importante conferma dell'evoluzione del-


l'atteggiamento delle autoritaÁ romane nei confronti della letteratura mistica
sul finire del secolo. Non piuÁ solo un intervento distruttivo volto alla sop-
pressione di interi passi ma ± recuperando l'originario spirito tridentino-
umanistico dell'espurgazione ± un vero e proprio tentativo di salvare il te-
sto dall'oblio e da un'altrimenti inevitabile scomparsa editoriale. La vicen-
da professionale di Dionisio da Piacenza eÁ in questo senso emblematica. Da
un lato, promotore di un'accorta pubblicazione postuma delle opere della
mistica Vernazza, dall'altro, a distanza di pochissimi anni, benevolo censo-
re del mistico Serafino da Fermo.
Verosimilmente motivato dalla preoccupazione di prevenire un inter-
vento ben piuÁ severo di qualche «theologo», il desiderio di stabilire un li-
mite chiaro e netto tra ortodossia ed eterodossia che traspare dalla sua azio-
ne censoria rifletteva emblematicamente l'inatteso lasciapassare concesso
negli ultimi anni del secolo dalle gerarchie ecclesiastiche all'orazione misti-
co-unitiva. Un'allargamento delle maglie censorie che aprõÁ le porte al recu-
pero editoriale di un filone spirituale mistico altrimenti destinato all'oblio,
ma che avrebbe costituito anche la premessa di una sotterranea prolifera-
zione letteraria destinata a riemergere in tutta la sua pericolositaÁ dottrinale
con l'«orazione di quiete» di metaÁ Seicento, proprio dall'interno delle file
ecclesiastiche.236

4. DALL'ERESIA ALLA LITURGIA

Nonostante le gerarchie ecclesiastiche cominciassero ad intravedere il


definitivo successo, e dunque la fine, della dura offensiva inquisitoriale e
censoria intrapresa negli ultimi decenni contro le piuÁ diverse forme di ete-
rodossia religiosa, l'ereditaÁ di quelle battaglie avrebbe pesato ancora a lun-
go sul processo di rinnovamento del cattolicesimo.
Ne dovette prendere consapevolezza per primo Angelo Rocca, erudito
membro della Congregazione dell'Indice e futuro fondatore della ricchissi-
ma Biblioteca Angelica di Roma,237 quando, intenzionato ad offrire ad un

236 P. SIMONCELLI , Il «Dialogo», cit., pp. 600-601; G. SIGNOROTTO, L'eresia di Santa Pelagia,

cit.; A. TURCHINI, Il libro delle «Rivelazioni» di Francesco Negri detto il Fabianino. Orazione men-
tale e dispositivi di controllo inquisitoriale nel Seicento veneto, in «Annali dell'Istituto storico italo-
germanico in Trento», XVII, 1991, pp. 379-559; A. MALENA, Inquisizione, «finte sante», «nuovi
mistici». Ricerche sul Seicento, in L'Inquisizione e gli storici, cit., pp. 289-306, in partic. pp. 301
sgg.; S. STROPPA, Sic arescit. Letteratura mistica nel Seicento italiano, Firenze, Olschki, 1998.
237 Su Angelo Rocca vedi A. ANSELMI , Cenni biografici di mons. Angelo Rocca d'Arcevia:

Ð 129 Ð
CAPITOLO SECONDO

pubblico di non letterati un compendio cattolico dell'orazione domenicale,


si trovoÁ a fare i conti con una serie di inconscie resistenze psicologiche. Al-
l'inizio degli anni settanta, forte del successo ottenuto da quell'insieme di
interventi censori volti a liberare la devozionalitaÁ cattolica da incrostazioni
pagane e superstiziose,238 Carlo Borromeo era riuscito a conciliare nella sua
proposta pedagogico-religiosa le mistiche opere del Granada con i pastora-
li inviti alla preghiera «commune», compiendo un passo importante nella
direzione di una rinnovata integrazione del tema dell'orazione mentale al-
l'interno del patrimonio culturale e religioso cattolico.239 Venti anni dopo,
nel 1594, veniva data alle stampe, otto anni dopo il suo iniziale concepi-
mento, la Spositione intorno all'oratione domenicale del Rocca.240 Lo scarto
tra le originarie intenzioni dell'autore ed il risultato finale del suo lavoro
testimoniava che quella feconda spinta propulsiva aveva perso il suo smalto
iniziale. Quella che ± secondo le stesse dichiarazioni del Rocca ± doveva
essere una «spositione» «per utilitaÁ de' meno intendenti» si rivelava al ter-
mine delle sue fatiche una dotta dissertazione nella quale anche i piuÁ attrez-
zati lettori avrebbero fatto fatica a districarsi. Lungi dal rappresentare solo
un presuntuoso sfoggio di erudizione oppure una testimonianza esemplare
del suo rigoroso approccio filologico-umanistico ai temi sacri, il fin troppo
saldo ancoraggio scritturale del suo lavoro costituiva cosõÁ ad un tempo un
inequivocabile segnale della perdurante insicurezza psicologica delle gerar-
chie ecclesiastiche rispetto a questo genere di tematiche devozionali ed un
inopportuno appesantimento letterario della sua Spositione. Tra un «Cata-
logus auctorum, quos in Orationem Dominicam conscripsisse invenit Ex-
positionis huiusce Auctor (iis exceptis, qui eandem Commentariis illustra-
runt ex occasione exponendi sacrosancta Evangelia) ordine Alphabetico
digestus» 241 ed un elenco degli «Auctores, quorum sententiae hac in expo-
sitione citantur»,242 il lettore «meno intendente» era costretto a misurarsi
con lunghi brani in cui anche il piuÁ colto tra essi avrebbe faticato a distin-

fondatore della biblioteca Angelica in Roma, Fabriano, Tip. Gentile, 1881; Sac. Angelo M. Rocca,
Torino, Ufficio delle Letture Cattoliche, 1908; L. FERRARI, Onomasticon, cit., p. 581.
238 Cfr. supra, pp. 63 sgg.

239 Cfr. supra, pp. 78 sgg.

240 Spositione intorno all'oratione domenicale raccolta da' piu


Á famosi Scrittori antichi et mo-
derni che in cioÁ hanno scritto fin'hora, da F. Angelo Rocca da Camerino, dottor' in Theologia del-
l'Ordine Eremitano di S. Agostino. In Roma, presso a Guglielmo Facciotto, 1594. Per il riferi-
mento al lungo lasso di tempo intercorso tra l'iniziale intenzione e la pubblicazione dell'opera
vedi quanto dice lo stesso Rocca a cc. A2r-v.
241 Ivi, c. A4v sgg.

242 Ivi, c. A6v sgg.

Ð 130 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

guere il senso del messaggio devozionale dell'autore dalla massa di citazioni


dotte che lo cingevano, non raramente fino a fagocitarlo del tutto: «In que-
sto Proemio drizzato al nostro Signore Iddio, ± si leggeva ad esempio in
uno di questi brani ± non occorreva renderlo docile [il lettore], poiche egli
da la docilitaÁ a gli huomini, come fece a Salomone, et a gli altri: et solamen-
te eÁ scrutatore de' cuori; come esso stesso dice a Samuele; et come dice il
Profeta, David, Geremia; et la Sapienza, conosce i secreti de' cuori nostri,
et i nostri pensieri: et chiama le cose, che non sono in essere, come quelle,
che sono nel suo proprio essere, et nella sua propria natura, sõÁ come scrive
S. Paolo a Romani. NeÁ faceva bisogno di renderlo attento, poiche non so-
lamente eÁ scrutatore de' cuori, ma anco per bocca di Geremia profeta ci
essorta a ricorrere a lui invocandolo».243 Risultava evidente, cosõÁ, prose-
guendo nella lettura del testo, che la Spositione del Rocca non era certa-
mente il miglior strumento che il mercato editoriale devozionale potesse of-
frire per «coltivar la devotione de' meno intendenti»: a maggior ragione,
poi, se messa a confronto con l'immediatezza e la spontaneitaÁ di alcune
«sposizioni» luterane o calviniste allora ancora in circolazione.
La Sposizione del Padre Nostro del Rocca era destinata, per quanto mi
risulta, a rimanere (almeno per i decenni seguenti) l'ultima ed isolata voce
di quel filone letterario in area cattolica: testimonianza, dunque, di un rap-
porto ± quello intrattenuto dalle gerarchie ecclesiastiche con le forme e le
modalitaÁ di una rinnovata (e ritrovata) interioritaÁ devozionale ± ancora lon-
tano da una sua positiva soluzione finale.

La preoccupazione ± evidente nelle pagine del Rocca ± di un saldo an-


coraggio delle argomentazioni svolte ad un ricco apparato erudito di fonti
ecclesiastiche lasciava percepire un'eco dell'evoluzione normativa che in
quei medesimi anni inquisitori e censori venivano elaborando in materia
devozionale. Nel processo di codificazione legislativa scandito dalle Regole
premesse ai tre Indici dei libri proibiti degli anni novanta del secolo la vo-
lontaÁ di recupero della tradizione letteraria cattolica anteriore al 1515, ov-
vero anteriore alla Riforma luterana (il cui avvento veniva precauzional-
mente anticipato di qualche anno), giaÁ emersa negli indici del 1559 e del
1564, trovava una rinnovata collocazione.244 Questa importante operazio-
ne non si limitava a sancire la riconciliazione delle autoritaÁ romane, final-

243 Ivi, p. 4. In una sola pagina compaiono ben 9 indicazioni di fonti: 3. Reg. 3; 1 Reg. 16;

Psalm. 7 et 43; Hier. 17; Sap. 7 et 7; Rom. 4; Hier. 33; Psalm. 106; Sap. 3.
244 Per i riferimenti agli Indici del '59 e del '64 cfr. supra, pp. 65 sgg.

Ð 131 Ð
CAPITOLO SECONDO

mente liberate dal fantasma luterano, con un prezioso e irrinunciabile pa-


trimonio spirituale costitutivo della religione cristiana. A fronte di quel ten-
tativo di recupero, la normativa emergente dagli indici sistino e sisto-cle-
mentino, e da quello clementino del 1596, andoÁ, infatti, consolidando e
meglio definendo un atteggiamento di totale chiusura nei confronti di qual-
siasi novitaÁ devozionale, preludendo ad un ambizioso quanto utopistico
progetto di uniformazione liturgica che in fase di applicazione sarebbe di-
ventato il principale, se non l'unico, motivo ispiratore dell'azione repressiva
della Chiesa.
La Regola III dell'indice sistino condannava solo i «libri, et scripta
cuiuscunque sint tituli, aut argumenti, quae ante annum MDXV a summis
Pontificibus, epistolis decretalibus, conciliis ab ecclesia receptis, vel alio
quocunque modo damnata sunt»,245 ossia solo quelli giaÁ esplicitamente
proibiti dalla Chiesa prima del 1515. Tra questi, inoltre, la normativa sisti-
na prevedeva un'ulteriore eccezione per quelle opere che «ecclesia sancta
in antiquorum rituum, ecclesiasticarum traditionum, haereticorumque
damnationis testimonium recepit»: una volta annotati gli errori in essi con-
tenuti, questi scritti avrebbero potuto liberamente circolare.246 Emergeva
dunque da queste poche righe un profondo senso della tradizione ecclesia-
stica, secondo il quale le consuetudini e gli usi antichi delle cerimonie litur-
giche andavano difesi da tutte le «novitates»: «Omnes illae, quae circa ri-
tus, et cerimonias sacramentorum aliquam novitatem inducunt contra re-
ceptum usum, et consuetudinem» avrebbero dovuto essere «estirpate», ag-
giungeva la Regola XXI dello stesso Indice.247 Tutto cioÁ che esulava dai
confini degli ormai ridefiniti dogmi e riti cattolici diventava cosõÁ oggetto
di profonda diffidenza. Qualsiasi «novitaÁ editoriale» riguardante questo
settore avrebbe infatti dovuto ricevere una specifica approvazione da parte
delle autoritaÁ preposte al controllo dei testi: «Nec in posterum [...] libri
[...] de rebus sacris, aut fidei dogmatibus, ecclesiasticisve ritibus, etiam la-
tino sermone a laicis etiam peritis, aut a foeminis, quas in ecclesia publice
docere prohibitum est, sine tali approbatione [della Congregazione dell'In-
dice, dell'Inquisizione o di altra autoritaÁ competente] in lucem emittantur»
(Regola XVII).248

245 Index des livres interdits, vol. IX, cit., p. 795.


246 Ibid.
247 Regula XXI, in Index des livres interdits, vol. IX, cit., p. 799.

248 Ivi, p. 798, corsivo mio; cfr. anche G. FRAGNITO , La Bibbia al rogo, cit., p. 151. Sul si-

gnificato attribuibile, nel quadro normativo ecclesiastico, a quell'avverbio publice, cfr. le conside-
razioni svolte infra, pp. 158 sgg.

Ð 132 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

L'indice sisto-clementino confermoÁ in pieno questa linea. Se da un lato


l'Instructio ± il documento che «sostituiva» le regole sistine ± 249 ribadõÁ che
i libri di autori cattolici pubblicati prima del 1515 non dovevano essere toc-
cati a meno di grossolani errori: «In libris autem catholicorum veterum ni-
hil mutare fas sit; nisi ubi fraude haereticorum, aut Typographi incuria ma-
nifestus error irrepserit»; 250 dall'altro raffinoÁ ancor piuÁ gli strumenti filolo-
gici e censori a difesa della tradizione. Oltre a riprendere le indicazioni si-
stine volte a condannare le «novitates» che inducevano il fedele «contra
Sacramentorum ritus, et caerimonias, contraque receptum usum, et con-
suetudinem Sanctae Romanae Ecclesiae»,251 e quelle che ingiungevano di
espurgare le parti della Sacra Scrittura desunte da versioni eretiche,252 lo
scrupolo filologico dell'Instructio si spingeva infatti fino a proibire tutte
le parole «sacrae scripturae non fideliter et integre prolata».253 Nonostante

249 Instructio eorum, qui libris tum expurgandis et corrigendis, tum imprimendis diligentem ac

fidelem (ut par est) operam sunt daturi (Index des livres interdits, vol. IX, cit., p. 859). Il docu-
mento, redatto dal Bellarmino e dal Miranda, compendiava le regole relative all'espurgazione
ed alla censura preventiva, vedi G. FRAGNITO, La Bibbia al rogo, cit., p. 158. PiuÁ in generale sul-
l'indice sisto-clementino, cfr. Ivi, pp. 156 sgg.; vedi anche V. FRAJESE, La revoca dell'Index sistino
e la curia romana (1588-1596), in «Nouvelles de la Republique des Lettres», I, 1986, pp. 15-49; e
ID., La politica dell'indice dal tridentino al clementino (1571-1596), in «Archivio italiano per la
storia della pietaÁ», XI, 1998, pp. 269-356.
250 Index des livres interdits, vol. IX, cit., pp. 860-861. All'intervento del Bellarmino, per

altro verso, si dovette probabilmente l'«ammorbidimento» della normativa riguardante le opere


di autori cattolici pubblicate dopo il 1515. Come coautore dell'«Instructio» egli, infatti, dovette
avere ben presente la preoccupazione di evitare che le sue Controversie finissero nuovamente al-
l'Indice (seppure quamdiu non corrigantur) come era avvenuto nell'indice sistino. GiaÁ nel corso
dei lavori preparatori della Congregazione dell'Indice Bellarmino non perse occasione per fare
valere il suo punto di vista; sua fu con molta probabilitaÁ l'ispirazione del decreto approvato il
19 settembre 1592 secondo cui fu stabilito «quod Catholicis scriptoribus obiter errantibus inter
scribendum nulla fiat iniuria annotando eosdem in Indice sed in margine notentur errores et ap-
ponantur censura et nullatenus mutilentur delendo sententias sed solum notando errores»
(ACDF, Indice, I/1, f. 52r). Nella redazione dell'«Instructio» il Bellarmino poi, oltre a riportare
questo decreto, scelse di ``abrogare'' le prescrizioni censorie contenute nell'Indice sistino che ac-
consentivano alla circolazione dei «libri catholici de controversiis fidei, vulgariter editi» solo «in
iis tantum locis, ubi catholici cum haeretici permixti habitant, vel ob propinquitatem aliquod
commercium habent» (Regola VIII, Index des livres interdits, vol. IX, cit., p. 796). Al suo posto
l'«Instructio» ricordava invece come le opere di autori cattolici facilmente correggibili dovessero
essere immediatamente corrette e autorizzate a circolare liberamente in tutto il territorio: «In li-
bris autem Catholicorum recentiorum, qui post annum Christianae salutis millesimum quingen-
tesimum decimum quintum conscripti sunt, si id quod corrigendum occurrit paucis demptis, aut
additis emendare posse videatur, id correctores faciendum curent, sin minus omnino deleatur»
(Instructio, cit., p. 860).
251 Ivi, p. 860.

252 Ibid.

253 Estendendo per altro la condanna a tutte quelle parole «Scripturae sacrae quaecunque

ad profanum usum impie accomodantur, tum quae ad sensum detorquentur abhorrentem a Ca-
tholicorum Patrum, atque Doctorum unanimi sententia» (Ibid.).

10
Ð 133 Ð
CAPITOLO SECONDO

la mancata promulgazione di entrambi gli Indici qui presi in considerazio-


ne 254 e nonostante il fatto che il ripristino delle regole tridentine sancito
dall'Indice clementino annullava, in linea teorica, il contenuto di molte del-
le «regole» approvate in quegli ultimi anni, l'Indice del 1596 non modifi-
cava, in questi settori, il quadro normativo sin qui delineato. Laddove si era
verificata ± come appunto nel caso dei settori sopra evidenziati ± una so-
stanziale convergenza di posizioni tra i due Indici nonche ± elemento da
non sottovalutare ± tra le due Congregazioni dell'Inquisizione e dell'Indice
(altrimenti spesso in contrasto tra loro) 255 la normativa stabilita era desti-
nata a guidare nel medio periodo l'azione di controllo delle autoritaÁ censo-
rie ed inquisitoriali romane.
A ridosso della promulgazione dell'Indice clementino questa elaborata
riflessione teorica trovava subito i suoi primi riscontri pratici. Riproponen-
do ± con qualche opportuna variazione ± 256 l'elenco delle proibizioni con-
tenute nell'Indice tridentino, l'Indice del 1596 metteva i censori di fronte
all'evidenza di un lavoro di espurgazione lasciato per lo piuÁ incompiuto.
Tra i molti testi che l'Indice del 1564 aveva indicato quali opere da emen-
dare comparivano quasi tutti gli scritti del mistico Battista da Crema. Le
sole due opere sottoposte a emendazione nel corso della seconda metaÁ de-
gli anni ottanta erano state, come visto, il Della vittoria e cognitione di se
stesso e lo Specchio interiore.257 Se giaÁ si eÁ sottolineato il carattere non ca-
suale di quella scelta, anche la decisione di sottoporre al vaglio censorio la
Philosophia divina e il trattato Della devotione (contenuto nel volume Via
de aperta veritaÁ) rispondeva in questo scorcio di secolo ad una precisa lo-
gica inquisitoriale.258 Si trattava, infatti, dei due testi che, nell'architettura

254 La mancata promulgazione dell'Indice sistino fu dovuta essenzialmente alla morte di

papa Sisto V. I lunghi ed aspri contrasti che contrapposero la Congregazione dell'Indice ed il


pontefice durante la stesura dell'indice (su cui vedi G. FRAGNITO, La Bibbia al rogo, cit., pp.
147 sgg.) non sembrano aver influito direttamente sulla mancata promulgazione dello stesso,
che nonostante tutto aveva raggiunto una sua definitiva stesura.
255 G. FRAGNITO , La Bibbia al rogo, cit., p. 195. Sui contrasti tra le due Congregazioni, EAD.,

op. cit., passim; e EAD., La censura libraria, cit., in La censura libraria nell'Europa del Cinquecen-
to, cit.
256 P.F. GRENDLER, Index de Rome 1590, 1593, 1596. Introduction historique, in Index des

livres interdits, vol. IX, cit., p. 287.


257 Cfr. supra, pp. 109-111.

258 EÁ solo il caso di accennare che in quegli stessi anni, in un periodo presumibilmente com-
preso tra il marzo 1596 e il dicembre 1599, il Dyalogo del Cordoni, ristampato nel 1593, venne
nuovamente sottoposto a censura interna all'ordine da parte del cappuccino Girolamo Mautini
da Narni. Nel corso della seduta del 29 gennaio 1600 la Congregazione dell'Indice ricevette il
lavoro del Mautini e decise di procedere presso l'inquisitore di Venezia affinche indagasse sulle
responsabilitaÁ, editoriali e non solo, connesse a quell'edizione che eludeva un decreto ufficiale di

Ð 134 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

complessiva del gradualistico progetto devozionale del frate cremasco, cor-


rispondevano ai gradini piuÁ bassi di un ideale percorso mistico: in questi
scritti l'autore si rivolgeva prevalentemente ai cosiddetti incipienti, ossia
a coloro che muovevano i primi passi di un cammino religioso ancora tutto
da compiere. Il rischio maggiore che i censori ecclesiastici vedevano trape-
lare negli scritti del frate domenicano era quello della svalutazione dell'ap-
parato liturgico±cerimoniale romano, insita negli accalorati ammonimenti
che fra Battista rivolgeva a questi «neofiti» invitandoli a rifiutare, accanto
a vizi e passioni umane, gli orpelli di una religiositaÁ esteriore spesso inutile
e dannosa. La semplice lettura dell'elenco delle «Correttioni generali» sti-
lato dal censore al termine del suo lavoro, riassuntivo dunque del contenu-
to delle censure da lui apportate ai due testi di Battista da Crema, offre in
prima battuta un chiaro segnale del mutato atteggiamento e soprattutto dei
«rinnovati» obiettivi delle autoritaÁ ecclesiastiche di fine '500, consegnando
al lettore un'inedita gerarchia di valori, o meglio un'inconsueta scala di
prioritaÁ. Quattro ± con tanto di numerazione sequenzialmente ordinata ±
erano, secondo l'efficace formula finale del censore, i gruppi di proposizio-
ni pericolose da espungere dal testo:
«1) insegna che l'huomo spirituale deve tanto odiare se stesso che
non deve operare per bene alcuno neancho spirituale, anzi che deve do-
mandare a Dio con veritaÁ et senza resistentia di essere condannato all'infer-
no perpetuamente.
2) eccede in raggionare contra l'orationi vocali et indulgentie.
3) par che promete un tal stato sicuro in questa vita che l'huomo non
possa peccare ne perdere la gratia.
4) Insegna tal puritaÁ che par che voglia che l'huomo possa in questa

condanna del Sant'Uffizio: «Censura in libellum inscriptum Dialogo dell'Unione dell'anima con
Dio Fratris Bartholomaei de Castello, ordinis minorum de observantia, olim Decreto Congrega-
tionis Sancti Officii damnatum et nuper cum eisdem erroribus Venetiis impressum sub ficto no-
mine fratris Bartholomaei de Castello, cappuccini, recepta fuit a frate Hieronimo de Narnia cap-
puccino et Inquisitori veneto scribendum ut diligenter ad impressore inquirat quomodo impres-
sus sit hic liber ut officio Sanctae Inquisitionis significari possit a quo olim liber damnatus fuit»
(ACDF, Indice, I/1, cc. 119v-120r). Il testo delle censure eÁ conservato in Biblioteca Casanatense,
ms. 345: Censura del libro intitolato Dialogo dell'unione spirituale di Dio con l'anima; Cargnoni ha
pubblicato il testo dei 14 «paradossi» individuati dal censore nel testo, senza tuttavia pubblicare
le lunghe argomentazioni dottrinali e teologiche svolte (C. CARGNONI, Fonti, tendenze e sviluppi,
cit., pp. 394-398); su queste censure cfr. anche STANISLAO DA CAMPAGNOLA, Bartolomeo Cordoni
da CittaÁ di Castello, cit., pp. 122 sgg.; e V. CRISCUOLO, Girolamo Mautini da Narni (1563-1632):
predicatore apostolico e vicario generale dei Cappuccini, Roma, Istituto Storico dei Cappuccini,
1998, pp. 131-136. Su Girolamo Mautini da Narni, interessante figura della spiritualitaÁ contro-
riformistica, vedi ora anche Girolamo Mautini da Narni e l'ordine dei Cappuccini fra '500 e '600, a
cura di V. Criscuolo, Roma, Istituto Storico dei Cappuccini, 1998.

Ð 135 Ð
CAPITOLO SECONDO

vita tanto unirsi con Dio che lo veda a faccia a faccia et sia come quasi com-
prehensore et che non possi piuÁ crescere in perfettione et che sia estinto in
esso il fomite».259

La «luterana» certezza della fede 260 e l'impeccabilitaÁ «unitiva» dell'uo-


mo, dunque, che abbiamo visto finora costituire il principale se non l'unico
obiettivo delle gerarchie romane, venivano relegate agli ultimi posti di que-
sta indicativa «classifica» dei pericoli dottrinali da contrastare. Con un ra-
dicale capovolgimento di intenti, la prioritaÁ assoluta del censore diventava
quella di difendere l'apparato liturgico e devozionale della Chiesa. Se, per
un verso, l'invito a «non [...] operare per bene alcuno» formulato da Batti-
sta da Crema quale ineluttabile corollario dell'annichilamento della volontaÁ
umana 261 racchiudeva in se ± agli occhi dello scrupoloso consultore della
Congregazione dell'Indice ± un'intollerabile svalutazione del valore delle
buone opere di «charitaÁ» che andava combattuta con ogni mezzo; per l'al-
tro verso, gli attacchi rivolti dall'autore «contra l'orationi vocali et indul-
gentie» assumevano le sembianze di un'intollerabile offensiva diretta a mi-
nare le fondamenta delle istituzioni ecclesiastiche romane.
CosõÁ, tra le sue carte, l'anonimo censore aveva appuntato con grande
solerzia i molti «luoghi» in cui Battista da Crema aveva oltrepassato i toni
di una pacata ed ortodossa discussione del tema dell'orazione. A partire da
quel brano in cui l'autore aveva osato accordare l'appellativo di «insensati

259 Si tratta di censure riferibili alla fine del Cinquecento o ai primissimi anni del Seicento:

«Correttione del libro de Fra Battista da Crema intitolato Philosophia divina di quel solo vero
maestro Iesu Christo Crocifisso», in ACDF, Indice, Protocolli N, cc. 530r-534r, in partic. «Cor-
rettioni generali» a c. 534r.
260 Per quanto riguarda la dottrina della certezza della salvezza questi erano i punti piu Á si-
gnificativi individuati in proposito dal censore: «Nel prohemio dice se queste tre Marie star vo-
leno alla Croce ove debbo ne posso andar io il quale tante volte cosõÁ ardentemente ancora con
materiale cuore mi son ligato alla Croce. PiuÁ presto si raffrederaÁ la natura del fuoco et natural-
mente l'acqua saraÁ calda [...] che io mi possa partire dalla croce peroÁ che io son certo che neÂ
morte ne vita ne altra creatura mi potraÁ separare dalla croce et suo amore etc. Dalle quali parole
par che si tenghi certo della gratia et della perseverantia in essa» (Ivi, c. 530r; corsivo mio). Oppure
ancora: «Nel cap. 14 fa comparatione tra i segni interiori et esteriori del christiano et dice sareste
piuÁ contento di non haver tal segno esteriore ma haverne delli altri interiori per li quali tu cono-
scesti di haver il spirito santo et che perseverasse teco; se tu hai intelletto tu dirai che poco te
curaresti d'ogni segno esteriore purche dentro di te havesti segni fermi che havesti il spirito santo.
De certitudine spiritus sancti et perseverantia» (Ivi, c. 530r; corsivo mio).
261 Con riferimento a tale questione il censore, per esempio, aveva annotato tra le sue carte:

«Nel cap. ii orando dice Signor Iddio se gli fusse altra cosa la qual piuÁ mi fusse cara che l'anima
mia, et che gli fosse un'altra gloria maggiore che quella del paradiso, tutto voglio abbandonare,
tutto voglio dispretiare, tutto voglio essere sommerso nel inferno et peggio se si puoÁ dire per gua-
dagnare il prossimo mio. Par a me che l'ordine della charitaÁ voglia che prima io ami l'anima mia che
quella del prossimo» (Ivi, c. 530r; corsivo mio).

Ð 136 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

et matti» a coloro i quali cattolicamente «confidano nelle orationi vocali et


indulgentie»: «Nel cap. 30 reprehende [...] quelli che si confidano nelle
orationi vocali et indulgentie et bolle di essere absoluti et par a me che pas-
si chiamando costoro insensati et matti et puoi dice fa come ha fatto Chri-
sto che puoi haverai una sua indulgentia et absolutione vera et ferma et
questo saraÁ un buono giubileo et vero, non di far orationi: [...] per tanto
a tali saraÁ [...] bene far di buone et farli lassare tanto offitio et attendere
alle cose necessarie»; 262 fino alle incaute affermazioni secondo cui «di-
spiacciono a Dio quelli che vogliono pur dire molte orationi et salmi»:
«Nel cap. 18: Non so quanto piaceraÁ anzi so quanto dispiacciono a Dio
quelli che vogliono pur dire molte orationi et salmi et tutto il giorno spen-
derlo in simili parole come che Iddio sia sordo et bisognasse continuamen-
te cianciarli nelle orechie et lassar le anime senza qualche conseglio Dio
non accetta queste vostre orationi ne ha grata questa tal vostra contempla-
tione ma piuÁ presto vuole che la lassate per attendere il bisogno d'altri»; 263
passando per un altro passo in cui il disprezzo manifestato dal domenicano
aveva toccato forse le sue punte piuÁ elevate: «Nel cap. 58 [scrive:] Non ti
laudo che tu ti charichi molte di orationi vocali et di tanti officii perche Dio
non ha bisogno di parole ne anci eÁ sordo che per strepito di parole si faccia
odire [...] saria meglio di netare con la scopa la casa che masticare parole
imperoche questo contiene qualche utilitaÁ et quelle sono parole senza altro
utile».264
Se, dunque, l'auspicata eliminazione di brani in volgare desunti dalle
Sacre Scritture («onde crederei se dovesse levar tutti questi testi volgari
et mettervi il latino»),265 oppure la puntuale verifica dell'apocrifia e della
falsitaÁ di alcuni dei passi scritturali inseriti («Prima ve mette molti evangelii
volgari et tra gl'altri tutta la passione di Cristo. Et se bene l'intitola testo
della historia con tutto cioÁ vi mette dentro molte cose quali non sonno
del testo») 266 apparivano quali evidenti testimonianze del clima culturale
di quegli anni,267 il tratto distintivo dell'intervento censorio si andava de-

262 Ivi, c. 531r.


263 Ivi, c. 531v.
264 Ivi, c. 532v. Salvo attenuare il suo sdegno dopo aver letto il prosieguo delle affermazioni

di Battista: «EÁ vero che dice massimamente quando sonno dette quasi con la bocca sola et non
con il cuore» (Ibid.).
265 Ivi, c. 530r.

266 Ibid.

267 Non potevano mancare come indiscusso segno dei tempi anche severe osservazioni sui

passi «lascivi» contenuti nell'opera del domenicano come per esempio nel seguente brano segna-
lato dal censore: «Nel cap. 17 o Iudei imbriachi di vino et pieni la bocca di flegma velenata spu-

Ð 137 Ð
CAPITOLO SECONDO

finendo con chiarezza. L'ansia di difesa dell'impianto devozionale cattolico


cosõÁ ben interpretata dall'anonimo censore non era altro che un aspetto
dell'ormai irreversibile spinta ecclesiastica verso l'uniformazione liturgica.
«Parmi questo pensier novo havendo noi le parole di detta oratione molto
differenti»: cosõÁ, emblematicamente, il censore stigmatizzava l'autore per
aver arbitrariamente introdotto non autorizzate «innovazioni liturgiche»,
registrando tra i suoi appunti le parole del brano incriminato: «Nel istesso
cap. ragionando dell'oratione che fece Christo nel horto dice che pietosa-
mente si puoÁ dire che orasse per quelli che erano nel limbo [...] et nel pur-
gatorio et che ne liberoÁ molti dall'uno et l'altro loco se bene erano impre-
gionati per sue negligentie et non meritassero la liberatione».268
Il frate cappuccino Silvestro da Rossano, giaÁ autore del Modo come la
persona spirituale che ora, si habbia a disporre nella Oratione verso Iddio e li
suoi Santi, esemplare modello letterario di spiritualitaÁ controriformistica,
edito negli anni settanta del secolo,269 fu tra i primi a subire gli effetti della
rinnovata offensiva ecclesiastica. L'anno precedente la pubblicazione del
Modo di orare, nel 1573, egli aveva dato alle stampe un'altra operetta spi-
rituale intitolata Modo di contemplare, et dire la devotione del preciosissimo
sangue del nostro Signor GiesuÁ Christo, sparso pietosamente per noi, ristam-
pata due anni dopo nel 1575 dall'editore veneziano Giolito.270 Il titolo, ov-
vero il delicato argomento trattato, toccarono inevitabilmente i nervi sco-

dallate bene questa faccia, imbrattatela molto bene, accioÁ si vergognamo et confondiamo ad ha-
ver tanta cura della faccia nostra, accioÁ getiamo via tanti bussolotti, tanti colori. Displicent verba»
(Ivi, c. 530v; corsivo mio).
268 Ivi, c. 530r.

269 Cfr. supra, pp. 82 sgg.

270 SILVESTRO DA ROSSANO , Modo di contemplare, et dire la devotione del preciosissimo san-

gue del nostro Signor GiesuÁ Christo, sparso pietosamente per noi. Composto dal R.P. Fra Silvestro
Rossano Cappuccino, Predicatore evangelico, et insegnato alla Compagnia dell'Oratorio di Santa
Maria dell'HumiltaÁ di Venetia. Opera molto utile all'anime che l'useranno. Nuovamente ristam-
pato, Con privilegio, in Venegia, appresso Gabriel Giolito de' Ferrari, 1575 (la prima edizione
era stata stampata in Fiorenza, appresso Giorgio Marescotti). Il testo di quest'operetta spirituale
del Rossano eÁ stato recentemente pubblicato integralmente da C. CARGNONI, La devozione al san-
gue di Cristo in un opuscolo censurato e finora ignorato di Silvestro da Rossano, in «Collectanea
Franciscana», 69/3-4 (1999), pp. 573-628 (testo a pp. 593-628), ora anche in Clavis scientiae. Mi-
scellanea di studi offerti a Isidoro Agudo da Villapadierna in occasione del suo 80ë compleanno, a
cura di V. Criscuolo, Roma, Istituto Storico Cappuccino, 1999, a pp. 315-374. La ricostruzione
della vicenda censoria di cui fu protagonista l'opuscolo del Rossano, fatta dal Cargnoni sulla base
di un documento conservato presso l'Archivio arcivescovile di Firenze e segnalato da Giacomo
Carlini ± senza avere dunque a disposizione la documentazione da noi consultata ± viene qui ar-
richita di nuovi elementi che contribuiscono ad attribuire, in merito ai motivi di condanna del-
l'opuscolo, una rilevanza ancora maggiore all'aspetto liturgico rispetto a quanto finora noto; il
saggio di Carlini in questione eÁ Silvestro Franco da Rossano Calabro (1530-1596). Un'ignorata vi-
cenda devozionale, in «Fra Noi», 14 (1997), pp. 13-15.

Ð 138 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

perti di un'ancor viva suscettibilitaÁ antiprotestante delle autoritaÁ inquisito-


riali romane. Il testo fu dunque inserito immediatamente nelle liste locali
allora circolanti.271 Eppure, dopo questi primi timidi tentativi di bloccarne
la circolazione, la vicenda sembroÁ concludersi lõÁ: a parte un breve accenno
alla questione occorso nel mezzo di una riunione della Congregazione del-
l'Indice tenuta nell'ottobre del 1594,272 nessuno si mostroÁ particolarmente
interessato all'opera in questione, evidentemente tranquillizzato in merito
all'ortodossia dei contenuti e rassicurato intorno all'affidabilitaÁ del suo
autore. Nessuno degli Indici romani ufficiali faceva cenno alcuno al testo.
Solo le smanie «uniformatrici» che a fine secolo iniziarono a prendere spa-
zio e forma negli austeri cortili romani avrebbero riportato l'attenzione del-
la censura sull'innocua operetta del Rossano; non certo, dunque, per que-
stioni dottrinali legate alla controversa ereditaÁ spirituale cappuccina.
Come apprendiamo dai verbali stilati dal segretario della Congregazio-
ne dell'Indice, nell'estate del 1599 il procuratore generale dell'Ordine cap-
puccino consegnoÁ ai membri della Congregazione un'accurata censura del
Preciossissimo sangue di Silvestro da Rossano: «Procurator Cappuccinorum
censuram in libellum de Sanguine Christi f. Silvetri de Rossano Cappuccini
tradidit».273 Appena avvertito dell'onta infamante che incombeva sulla sua
reputazione, Silvestro da Rossano si rivolse ai cardinali censori reclamando
immediata giustizia: «Vorrei sapere dove eÁ l'errore, ± scriveva indignato il
frate cappuccino ± dove eÁ la suspitione; errore non ce ne eÁ, perche eÁ la dot-
trina de San Bernardo, de San Bonaventura [...] al piuÁ la dottrina de San
Thomaso; suspitione non vi eÁ poiche si vede la devotione quanto va inanti
con summa utilitaÁ». Dietro alla sua sincera indignazione, il Rossano sem-
brava, tuttavia, aver intuito le ragioni dell'interessamento: «Una sola cosa
di vero ± cosõÁ proseguiva il testo della sua accalorata missiva ± che gli he-
retici si gloriano del sangue de Christo peroÁ si deve levare questa devotio-
ne. Gran cosa certo gli heretici impiamente inreverentemente erroneamen-

271 La data della prima condanna dell'opuscolo e Á il giugno 1576; dopo l'emanazione di quel
decreto inquisitoriale (su cui cfr. C. CARGNONI, La devozione al sangue, cit., p. 583) l'operetta del
Rossano fu inserita nell'Indice di Giovanni di Dio (ACDF, Indice, serie XIV, vol. unico, cc. nn.),
e nell'Indice di Parma del 1580 (Index des livres interdits, vol. IX, cit., p. 63).
272 «Lecta censura in tractatum de sanguine Christi R.di Fratris Sylvestri de Rossano

Capp.ni et commissum Ill.mo Card.li Asculano ut Rev.mum Fratrem Thomam de Senis ordinis
Praedicatorum Theologum Ill.mi Card.lis Florentini eiusdem libri censorem advocet, et examina-
tur Censura et libro Congregationi referat si merito condemnandus est liber, interim vero Ill.mus
Card.lis Florentinus iuxta facultatem in indice ordinarijs traditam si videbit poterit in sua diocesi
librum prohibere» (ACDF, Indice, I/1, riunione dell'8 ottobre 1594, c. 81v). La trattazione della
questione non ebbe alcun seguito, almeno per quanto risulta dalla documentazione disponibile.
273 ACDF, Indice, I/1, c. 120v (riunione del 31 luglio 1599).

Ð 139 Ð
CAPITOLO SECONDO

te infidelmente [...] nominano il sangue precioso de Christo. Donque noi


catholici non lo dobbiamo nominare contemplare e di questo parlare fidel-
mente catholicamente piamente devotamente fruttuosamente?».274 Pur
ammettendo a malincuore che il culto tributato al sangue di Cristo era stata
innalzato dai nemici luterani a guisa di simbolo e bandiera spirituale cioÁ
non toglieva nulla alla validitaÁ di un testo che tentava di promuovere la
riappropriazione di quel culto da un punto di vista ortodosso. Ricevendo
in visione il testo delle censure, tuttavia, il Rossano doveva scoprire con
sua grande sorpresa che la maggior parte dei rilievi sollevati dall'anonimo
censore non riguardavano affatto il tema del sangue di Cristo. Dalla conci-
liante «risposta alle censure» vergata di suo pugno dal frate cappuccino,275
ossia dal documento che egli indirizzoÁ alla Congregazione dell'Indice dopo
aver preso conoscenza delle «censure» fatte al suo testo, emerge come la
questione della devozione fosse ormai indissolubilmente legata al progetto
controriformistico di una rigida uniformazione dell'apparato liturgico. In-
framezzate qua e laÁ da qualche osservazione concernente la questione del
sangue di Cristo,276 i rilievi di carattere «liturgico» apportati al testo dall'a-
nonimo censore superavano di gran lunga ogni altro genere di tematiche.
Essi, inoltre, non riguardavano tanto il contenuto specifico delle orazioni
e delle litanie, quanto l'«ordine» e l'«eleccione» seguiti dall'autore nella lo-
ro disposizione; obiezioni di carattere procedurale, potremmo dire, piuÁ che
di merito, di fronte alle quali fra Silvestro si mostrava forzatamente accon-
discendente: «Ove se dice che non se deve servare tale ordine et disposi-
cione di oracione ma che si deve tenere lo ordine della santa Madre Eccle-

274 Lettera di Silvestro da Rossano al segretario della Congregazione dell'Indice, Paolo Pico,

s.d., in ACDF, Indice, Protocolli M, c. 47r-v.


275 Il contenuto del testo era certamente conciliante ma non si puo Á fare a meno di notare il
tono spazientito con il quale il Rossano esordiva: «Quantunque demostrando il sano et intiero
senso conforme alla veritaÁ Catholica et theologica doctrina habia giaÁ complitamente resposto alle
sopradette Censure non di meno per evitare i letigii et per sottomettermi al sano giuditio delle SS.
VV. Ill.me mi eÁ parso condescendere con modo humano alle subdette censure et con facilissimo
modo accomodare quelle cose che sono notate» (il testo delle «Censure sopra il libretto de san-
guine Christi» eÁ in ACDF, Indice, Protocolli T, cc. 501r-504r; il testo delle «Resposte... lette
inanti all'Ill.mo Santa Severina et alla Congregatione» eÁ Ivi, cc. 505r-510r, citazione a c. 508v;
a cc. 511r-515v, infine, eÁ conservato il testo di altre censure al testo del Rossano, redatte in lingua
latina).
276 Secondo quanto riferito dallo stesso Silvestro da Rossano nella sua «risposta»: «Ove [il

censore] dice che per la morte di Christo et non per il sangue la santa madre Chiesa s'attribuisce
li meriti di Christo mi contento che si ponga per la morte et sangue de Christo» (Ivi, c. 508v)
[testo della censura a c. 502r]. Dello stesso tenore era anche l'affermazione immediatamente suc-
cessiva: «Quanto alla terza ove dice che non si deve poner dodici effusioni di sangue (testo della
censura, ivi, c. 502r) dico che meglio staraÁ a dire dodici considerationi o contemplacione del san-
gue di Christo» (Ivi, c. 508v).

Ð 140 Ð
TRA ORAZIONE SUPERSTIZIOSA E ORAZIONE MISTICA

sia dico che lo metteremo piuÁ espresso accioÁ piuÁ si conosca la virtuÁ Catho-
lica secondo l'ordine de santa Chiesa»; 277 e «ove parla del eleccione delle
Litanie dico che quantunque siano antiche et si dicono da particolari fra-
ternite non di meno mi contento per deviare il periculo che si ripone nella
censura accioÁ non vadano queste nove in publico et si lassino quelle che usa
Santa Chiesa nelli breviarii, [...] che siano tolte queste et poste per modo di
oracione stampino le semplici litanie ch'usa la santa Madre Chiesa».278 Una
volta apportate le modifiche imposte dai censori, il caso veniva archiviato:
alcuni semplici accorgimenti del volenteroso cappuccino furono, cosõÁ, suf-
ficienti per chiudere una vicenda che aveva tenuto impegnata per parecchi
mesi l'intera Congregazione dell'Indice.279
La facilitaÁ e soprattutto la modalitaÁ con cui l'affare si concluse esempli-
ficano bene la qualitaÁ degli obiettivi che si prefiggeva l'attivitaÁ di controllo
ecclesiastica in questo scorcio di secolo: in altre parole, illustrano bene la
prioritaÁ e la centralitaÁ di un impegno sul `fronte' liturgico che di lõÁ a poco
avrebbe portato ad una vasta azione di disciplinamento del variegato uni-
verso editoriale di messali, indulgenze e orazioni. Un progetto, quest'ulti-
mo, destinato, come vedremo, ad avere successo solo fino a quando, e solo
nei termini in cui, fosse stato accompagnato da quell'azione di purificazio-
ne del tessuto devozionale cattolico da superstizioni e incrostazioni pagane
e di restauro filologico della tradizione ecclesiastica, avviata dalle gerarchie
ecclesiastiche negli anni sessanta del secolo.

277 Ivi, c. 509r. Testo della censura, ivi, c. 502v.


278 Ivi, c. 509v. Testo della censura, ivi, c. 503r. Di natura molto simile a queste ultime due
«censure» erano anche le seguenti «osservazioni» riportate da fra' Silvestro: «Ove dice che li re-
sponsorii non si devono ponere per preci dico che la lecione si pone per evitare la meditatione et
il responsorio per hevitare alle lodi divine» (Ivi, c. 509r. Testo della censura, ivi, c. 502r); e «Ove
dice che non si deve mettere quello superlativo questa horacione eÁ necessarissima solo divotis-
sima et utilissima dico che nonobstante [sic] che io intendo per la horacione domenicale che
si dice con questa meditacione del pretioso sangue di christo non dimeno lassaremo il superlativo
et metteremo il posativo dicendo eÁ divota, necessaria et utile» (Ibid.; testo della censura, ivi,
c. 503v).
279 Qualche anno prima, in occasione della preparazione dell'Indice sistino, il Commenta-

rius de oratione horis canonicis del dottor Navarro, MartõÂn de Azpilcueta, era stato oggetto di os-
servazioni censorie dal tenore simile. Per sua propria ammissione l'anonimo censore aveva re-
datto quelle note «magis quia mihi nova visa fuerunt quam falsa aut censura digna». Si trattava,
in effetti, principalmente di annotazioni di carattere liturgico che sollecitarono una maggiore ade-
renza alla `lettera' dei testi liturgici ufficialmente approvati da Roma. Cfr. Biblioteca Apostolica
Vaticana, Vat. lat. 6207, cc. 75r-77r, cit. a c. 75r, corsivo mio. Sul Navarro eÁ in preparazione
un'importante monografia di Vincenzo Lavenia; intanto si veda dello stesso, Assolvere o infor-
mare. Eresia occulta, correzione fraterna e segreto sacramentale, in «Storica», n. 20-21, 2001,
pp. 89-154, specificam. pp. 125 sgg. e la bibliografia cit. a p. 125 nota 1.

Ð 141 Ð
CAPITOLO TERZO

VERSO IL FALLIMENTO
DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE:
I PRIMI ANNI DI APPLICAZIONE DELL'INDICE CLEMENTINO

1. UNIFORMAZIONE LITURGICA: UN TENTATIVO VELLEITARIO ?

Un contenzioso di natura editoriale ed economica si sviluppoÁ nei pri-


missimi anni del XVII secolo intorno alla circolazione di alcune edizioni
di messali veneziani colme di errori, delle quali la Santa Sede vietoÁ la ven-
dita. Il contrasto tra gerarchie ecclesiastiche e librai e stampatori veneziani
aveva origini lontane.1 Sin da quando, nel corso degli anni settanta del
'500, avevano iniziato ad imporre in tutto il territorio italiano il principio
dell'uniformazione dei testi liturgici, le autoritaÁ romane avevano sistemati-
camente incontrato l'opposizione degli stampatori veneziani, pronti ad in-
sorgere in difesa dei loro interessi economici: ogni nuova edizione appro-
vata da Roma significava ± almeno in linea teorica ± per gli stampatori ve-
neziani la perdita degli introiti derivanti dagli esemplari giaÁ stampati della
precedente versione.2 Sempre costrette fino a quel momento a raggiungere
piuÁ o meno decorosi compromessi con la potente corporazione veneziana,
le gerarchie ecclesiastiche cercarono nei primi anni del '600 di imporre
un'accelerazione alla loro azione di controllo. Non a caso fu la Congrega-
zione dell'Indice ad occuparsi direttamente della questione.3 Clemente

1 Per una dettagliata ricostruzione delle vicende che sin dall'inizio degli anni settanta videro

contrapporsi stampatori veneziani e gerarchie ecclesiastiche intorno a problemi ± essenzialmente di


carattere economico ± legati alla stampa di Messali e Breviari, cfr. P.F. GRENDLER, L'Inquisizione
romana e l'editoria a Venezia 1540-1605, Roma, Il Veltro, 1983 (I ed. ingl. 1977), pp. 337 sgg.
2 Cfr. P.F. GRENDLER , L'Inquisizione romana, cit., pp. 242-250.

3 Il diretto interessamento della Congregazione dell'Indice appariva del resto come una coe-

rente applicazione della normativa contenuta nelle regole dell'Indice sistino e sisto-clementino, su
cui cfr. supra, pp. 131-133.

Ð 143 Ð
CAPITOLO TERZO

VIII, infatti, avvertito dell'esistenza di un'edizione alterata (ossia non con-


forme all'esemplare approvato da Pio V) del messale romano, edizione
stampata a Venezia presso la tipografia dei Giunti,4 nel corso della riunione
del 20 gennaio 1601 della Congregazione dell'Indice aveva incaricato la
medesima Congregazione di prendere seri provvedimenti «ne in futurum
repullulet»; cominciando con il ribadire la piena validitaÁ della Bolla di
Pio V, il pontefice si era preoccupato di garantire che nessuno osasse mo-
dificare l'impianto liturgico romano: «Ne quis audeat absque speciali Sedis
Apostolicae licentia in ecclesiastico cultu et rito aliquid addere, minuere,
vel detrahere et interim puniantur temerarii transgressores et interdicantur
huiusmodi adinventiones et praesertim missalia et quoniam ne dum missa-
lia apud Iunctas Venetiis impressa verum etiam apud alios ibidem conti-
nent eosdem errores correctorum culpa qui iuxta editionem Vulgatae Sixti
V iussu editam missalia emendare ausi sunt, ne dum in Epistolis et Evan-
geliis, verum etiam in reliquis, quod minime esse faciendum».5 Nel corso
della medesima riunione, fu inoltre dato incarico al Maestro del Sacro Pa-
lazzo di proibire tutti i messali stampati a Venezia ± non solo quelli editi dai
Giunti ± dopo il 1596, anno di stampa dell'edizione incriminata: «Commis-
sum Magistro Sacri Palatii ut ab anno 1596 quaecumque missalia Venetiis
impressa interdicat librariis ne vendant».6 Una volta adottate queste prime
misure di emergenza, lo stesso Maestro del Sacro Palazzo ± cosõÁ si legge nei
verbali della riunione ± avrebbe dovuto discutere con Sua SantitaÁ se tale
«negotio» fosse di pertinenza della Congregazione dell'Indice piuttosto
che della Congregazione del Sant'Uffizio. EÁ lecito dedurre che il pontefice
dovette propendere per la prima delle due soluzioni se poche settimane do-
po, il 17 febbraio, i cardinali membri dell'Indice ± dando ordine e comple-
tezza alle indicazioni emerse da quella stessa riunione ± emanarono un edit-
to «super Missalium prohibitione».7 Richiamando sin dalle prime righe l'e-
splicita richiesta del pontefice,8 i cardinali dell'Indice ± preso atto dell'inef-

4 ACDF, Indice, I/1, f. 140r. Sul messale di Pio V cfr. supra, pp. 72 sgg.
5 Ivi, c. 140r.
6 Ibid. Al Segretario della Congregazione fu invece affidato il compito di valutare insieme a

Giovanni Battista Bandini le diverse edizioni dei missali apparse a Venezia che dovevano essere
corrette, affinche fosse chiaro quali fossero le stampe da permettere e quali da proibire. L'argo-
mento, si diceva, sarebbe dovuto essere ripreso nella successiva Congregazione (Ivi, f. 141r).
7 Edictum Illustriss. D.D. Card. a Sanctiss. D.N. Clem. Papa VIII Congregationi Indicis De-

putatorum super quorundam Missalium contra formam Bullae Pii Papae V Impressorum prohibi-
tione, in ACDF, Indice, Protocolli S, cc. nn.; lo stesso testo si trova anche in ACDF, Indice, Pro-
tocolli X, c. 566r; e in Scriniolum, cit., ff. 188-189 (per un errore tipografico il foglio 188 eÁ se-
gnato con il numero 178).
8 «Sanctiss. D. N. ne ea impunita remaneret, et ut gravioribus malis, et detrimentis aditus

Ð 144 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

ficacia della Bolla di Pio V in materia di messali 9 e dell'inutilitaÁ, dunque, di


una semplice riproposizione del suo dispositivo ± intimavano la proibizione
di tutti gli esemplari stampati «apud Iunctas, Sessas, Misserinum, et ad si-
gnum Syrenae, et Europae, et quoscunque alios ab anno 1596»: tutte le
autoritaÁ ecclesiastiche sarebbero state impegnate a sovraintendere alla cor-
rezione degli esemplari circolanti nell'ambito della loro giurisdizione, pren-
dendo a modello il Messale di Pio V.10 La situazione, tuttavia, si riveloÁ me-
no facile da gestire di quanto potessero pensare le autoritaÁ romane. Lungi
dall'offrire una soluzione, o tantomeno dal porre fine alla questione, l'inter-
vento dell'Indice aprõÁ la strada ad una lunga serie di problemi di ordine
pratico, contribuendo indirettamente a mostrare il carattere velleitario
del progetto romano.
Vale la pena qui richiamare il «caso» esemplare dell'inquisitore di Asti,
Giovan Battista Porcelli, sicuramente uno dei piuÁ solerti ad intervenire pres-
so la Congregazione dell'Indice.11 L'ostacolo e le resistenze frapposte dagli
interessi economici di editori e stampatori veneziani svolsero, ancora una

praecluderetur, Nobis vivae vocis oraculo mandavit, ut quantotius super his de opportuno reme-
dio provideremus» (Edictum, cit.).
9 «Cum piae memoriae Pius PP. V. Missale Romanum ex decreto Sacri Tridentini Concilii

restitutum Romae edendum curasset, volens futuris incommodis providere, et hominum licen-
tiam coercere, ut idem Romanum Missale incorruptum, et a mendis, erroribusque purgatum
praeservaretur, decrevit et ordinavit eidem Missali nihil umquam addendum, detrahendum,
aut immutandum esse, ipsis vero impressoribus nominatim disertis verbis, et gravibus propositis
poenis prohibuit ne Missale imprimere auderent, nisi impetrata a Commissario Apostolico licen-
tia, et collatione facta cum Missali in Urbe impresso, et attestatione adhibita quod inter se Co-
dices concordarent, neque in ullo penitus discreparent, quemadmodum in eiusdem Pii V litteris,
quae in quovis Missali ad verbum describuntur, plenius continetur; quae omnia tam accurate, et
prudenter constituta, satis tamen non fuerunt, ad quorundam Impressorum, praesertim in Civi-
tate Venetiarum intolerabilem audaciam frenandam, nam manum in messem plane alienam per
summam temeritatem immittentes, in Missali Romano ab eis impresso ab anno 1596 exclusive, et
publice edito multa pro suo arbitrio addiderunt, detraxerunt, et immutarunt, in grave piorum
scandalum, et Apostolicae Sedis offensionem, quin etiam et in suorum Principum iniuriam, a qui-
bus privilegia obtinuerunt [...]» (Edictum, cit.).
10 «Hortamur in Domino omnes Patriarcas, Archiepiscopos, Episcopos, locorum Ordina-

rios, Inquisitores, et Regularium superiores, Praelatos, aut quarumcunque Ecclesiarum tam sae-
cularium, quam regularium administratores, quacunque dignitate Ecclesiastica, seu gradu, vel
praeminentia fulgentes, ut a praesentium notitiam in locis suae iurisdictioni subiectis quantotius
omnia, et singula huiusmodi Missalium exemplaria iam divendita sedulo emendari curent, ad
praescriptum exemplaris sub Pio V primo editi, aut ad eius normam incorrupte, atque exacte
impressi» (Ibid.).
11 Nelle raccolte di lettere relative a questi anni inviate dalla e alla Congregazione dell'In-

dice, conservate presso l'ACDF (Indice, III/1-5; e Indice, V/1) compaiono frequenti riferimenti
alla questione del messale. Lungi dal voler offrire in questa sede una ricostruzione dettagliata e
completa di questi scambi epistolari, il caso del Porcelli di cui qui si riferisce sembra ± ai fini della
nostra analisi ± sufficientemente esemplificativo del contenuto di quei rapporti. Per un quadro
generale della questione, peraltro, si rimanda al giaÁ citato lavoro di Paul F. Grendler.

Ð 145 Ð
CAPITOLO TERZO

volta, un ruolo determinante nel ricondurre il pontefice romano dalle rigide


e intransigenti posizioni iniziali verso una piuÁ morbida «volontaÁ conciliatri-
ce».12 Un ruolo non indifferente, tuttavia, dovettero avere in questo proces-
so, anche le due informatissime e puntigliosissime lettere del Porcelli le qua-
li, mettendo a nudo le aporie del progetto romano, contribuirono ad un ri-
dimensionamento delle linee d'intervento delle gerarchie ecclesiastiche.
Scrivendo dalla sua cittaÁ il 27 giugno 1601, qualche giorno dopo aver preso
visione del testo dell'editto, egli si rammaricoÁ del fatto che non esistesse una
«nota delli errori da doversi corregere, ne tampoco un Missale, che possia-
mo assicurarsi, che sia veramente corretto».13 I problemi che nascevano dal
progetto della Congregazione dell'Indice, comunque, non si limitavano alla
mancanza di un esemplare sicuro in base al quale attuare le correzioni.
Dopo aver ricevuto la «nota» richiesta,14 infatti, il Porcelli ± tutt'altro
che soddisfatto ± tornava alla carica sciorinando una serie di puntigliose
«osservazioni». Innanzitutto, scriveva, «trovai non esservi quasi Missale al-
cuno, che non havesse bisogno di correttione, non tanto dal '96 in qua,
quanto anco delli altri piuÁ antichi»; 15 in secondo luogo, neanche l'edizione
«ufficiale» di Pio V, paradossalmente, poteva considerarsi corretta se con-
frontata con il testo di quelle «censure»: «Anco in quello del 1571, ritrovai
esservi qualche error, mandandone pur copia stampata».16 In altre parole

12 L'espressione e Á di P. GRENDLER, L'Inquisizione romana, cit., p. 344, il quale si sofferma


ampiamente sulle conclusioni dell'intera vicenda, mettendo in luce il «completo successo dei li-
brai veneziani» (Ivi, p. 345).
13 Lettera dell'inquisitore di Asti al card. Valier, in Scriniolum, cit., ff. 176-177. Egli avver-

tiva altresõÁ di fare attenzione ai frontespizi spesso falsificati dagli stampatori per ingannare le
autoritaÁ ecclesiastiche; cosõÁ, infatti, continuava il testo della lettera: «[...] trovando che eÁ falsifi-
cato l'anno dell'impressione: che vi eÁ un Missale stampato dal Gionta in Venetia dell'anno 1580.
Se bene nel primo foglio ristampato di nuovo dice del 1598. Nell'ultimo peroÁ dice del 1580.
Con l'aggionta delle Messe da Gregorio XIII fino a Clemente VIII e sono poste a suoi luochi
ordinarii, e pure si sa che la maggior parte furono aggionte da Sisto V che fu fatto Papa solo
del 1585. E questo istesso errore puoÁ anco esser commesso in altri, per questo mi eÁ parso do-
verne dar aviso a S.S. Illustrissima accioÁ ci ordini come havemo a governarsi per effettuare
quanto desidera quella Sacra Congregatione, e non gettare via la fatica senza frutto alcuno»
(Ivi, f. 177).
14 Il testo di queste censure e Á riportato in Scriniolum, cit., ff. 200 sgg.
15 Lettera da Asti del 24 dicembre 1602, ACDF, Indice III/5, ff. 41r; anche in ACDF, In-

dice, Protocolli X, ff. 26r-v e in Scriniolum, cit., ff. 191-192. CosõÁ continuava il brano citato: «Et
perche in quelli fogli nelli quali sono stampate le parole che si hanno a rimetter ne' Missali in
luoco de gl'errori, vi si contiene, che havessero preso per essemplare il Missale stampato in Ve-
netia per li heredi di Bartholomeo Faletti 1575 come si potraÁ vedere per la copia stampata, ritro-
vata in simil Missale, conforme a quello notai li errori, che si contenvano ne i Missali stampati per
Giovanni Varisco, e Heredi di Bartholomeo Faletti, e suoi compagni del 1570, 1572, 1573, 1574,
1580, 1589, de quali tutti ne mando copia stampata».
16 Ivi, f. 41r.

Ð 146 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

non c'era modo di uscire da questo intricato labirinto di versioni e corre-


zioni; persino «duoi Missali da Venetia che si spendevano per corretti, uno
stampato dal Gionta del 1598, e l'altro per Giorgio Varisco del 1602, sopra
de i quali credevo potermi assicurare per stabilire la correttione di tutti i
Missali. CosõÁ confrontandoli insieme trovai esser tra loro molto differenti,
e discrepanti».17 Insomma, poiche «tutte le correttioni, che vengono per
via di Stampatori sono false, e attendono solo a far qualche segno di cor-
rettione, per scaricarsi di qualche numero de Missali scorretti, che si trova-
no havere»,18 il Porcelli si impegnava in prima persona ad inviare un testo
delle correzioni avvertendo peraltro, disilluso, che sarebbero servite a po-
co. Un quadro desolante, dunque.
Stretti dalle pressioni degli editori veneziani che chiedevano l'abolizio-
ne del privilegio della Typographia Apostolica Vaticana, nonche l'abolizio-
ne del divieto di vendita delle vecchie versioni del messale, e colpiti da
queste due incisive lettere, i cardinali romani dovettero iniziare a prendere
atto delle serie difficoltaÁ di realizzazione dei loro piani. Segnale di un'im-
barazzata impasse era quello offerto dal cardinal Terranova il quale, ringra-
ziando l'inquisitore di Asti delle «censure» inviategli, si limitava a riferire
che «a Venetia si eÁ scritto che si usi maggior diligenza nelle stampe de libri
Ecclesiastici, altrimenti si piglieraÁ rimedio opportuno che non piaceraÁ a li-
brari di Venetia».19 Una minaccia, quest'ultima, eÁ lecito ipotizzare, che al
suo interlocutore dovette sembrare piuÁ frutto di un rito stancamente ripe-
tuto che segno di reale convinzione. In effetti, la promulgazione del nuovo
messale, il 7 luglio 1604, vedeva i librai veneziani accontentati in tutte le
loro richieste.20
Un simile tentativo di regolamentazione e uniformazione fu messo in
atto in quegli stessi anni anche per il delicato settore delle indulgenze.
La materia era sfuggita di mano alle autoritaÁ romane ben prima che le in-
vettive luterane ne mettessero in discussione il fondamento teologico, co-
struendo intorno ad esse una radicale critica contro la devozione esteriore
e la superstizione. Troppe erano le confraternite o le compagnie religiose
che abusavano dei veri o presunti privilegi papali per attrarre nelle proprie

17 Ivi, f. 41r.
18 Ibid.
19 Lettera da Roma, 19 marzo 1603, in Scriniolum, cit., f. 196.

20 L'unica «concessione» alle volontaÁ romane da parte degli interlocutori veneziani fu il


varo di una riforma della stampa, voluta dal Senato, con la quale gli stampatori della cittaÁ veni-
vano richiamati ad un maggior rigore e ad una maggior attenzione nell'esercizio delle loro arti
(P.F. GRENDLER, L'Inquisizione romana, cit., pp. 344-346).

Ð 147 Ð
CAPITOLO TERZO

chiese fedeli e soprattutto denari; cosõÁ come altrettanto incontrollata era


ormai la pratica della vendita di indulgenze false da parte di ecclesiastici
senza scrupoli. Se dunque ancora nel 1571, nella Bolla di Pio V, le indul-
genze erano considerate come un mezzo per «incitar piuÁ vivamente ogni
fedele» ad osservare i precetti cattolici,21 all'inizio del Seicento l'atteggia-
mento ecclesiastico comincioÁ a mutare. Il 22 luglio 1603 l'Inquisitore di
Milano diede un primo segnale di irrigidimento, emanando un editto per
la proibizione di «alcune Indulgenze, le quali vanamente si pretendono es-
sere state concesse grandissime a certe Corone, o Corona del Gran Duca di
Toscana di X Ave Marie, et un Pater noster, da Pio Quarto, o Pio Quinto
di Santa Memoria et confirmate da Papa Clemente Ottavo, delle quali anco
alcune copie sono capitate alle nostre mani».22 Sulla scia di questo editto
Clemente VIII si decise a pubblicare nel 1604 una «Costituzione» con la
quale tentoÁ di disciplinare l'intera materia.23 Il pontefice intimava alle auto-
ritaÁ inquisitoriali ed episcopali locali di raccogliere nel piuÁ breve tempo

21 «Et per incitar piu Á vivamente ogni fedele a dir questo ufficio nuovamente corretto, e stam-
pato, a tutti quelli, che non essendo obligati, lo diranno, per ogni volta si relassano cinquanta giorni
delle Penitenze a loro imposte. A chi diraÁ l'Ufficio de morti inserto in detto Ufficio altri cinquanta
simili. A chi diraÁ li Sette Salmi, o Graduali in esso ufficio inserti altri quaranta. A chi diraÁ alcuna
delle orationi parimente in esso ufficio inserte quindeci giorni simili» (Scriniolum, cit., f. 55).
22 Editto della S. Inquisitione per le prohibitioni infrascritte. Noi frat'Agostino Galamini del-

l'Ordine de Predicatori, Maestro nella Sacra Theologia, Inquisitore Generale nella CittaÁ di Milano,
suo stato, e dominio. 22 Luglio 1603, in Scriniolum, cit., f. 314. Interessante ci sembra riportare il
testo dell'Indulgenza incriminata che segue l'editto: «Indulgenza concessa dalla felice memoria di
Pio quinto alla Corona del Gran Duca di Toscana, confirmata dalla SantitaÁ di Clemente Ottavo.
1601. Questa Corona si dimanda Corona delli meriti della Passione di N.S. GiesuÁ Christo, qual'eÁ
di dieci Ave Marie, et un Pater noster, onde qualonche persona haveraÁ detta Corona otterraÁ la
rimissione di tutti li suoi peccati, e indulgenza plenaria. Et ogni volta che terraÁ in mano detta
Corona, overo con buona fede la guarderaÁ dicendo, Sig. GiesuÁ Christo io ti prego che per li me-
riti della tua passione santissima habbi misericordia all'anima mia, e de miei gravissimi peccati,
otterraÁ la remissione di quelli. Similmente guardandola, o bacciandola per le anime de morti,
per ogni volta che la diraÁ, caveraÁ un'anima di Purgatorio, et se mille volte il giorno la dicesse tante
anime caveria [...]. Si da facoltaÁ a detto Gran Duca, che possa dispensare dette Corone a sette
persone divote, quali ancor essi possino darla ad altri sette, et cosõÁ di mano in mano. Avvertendo
peroÁ che qualonche persona vorraÁ detta Corona la deve dimandar per amor di Dio, e per li meri-
ti della Passione sua santissima. Et questa Corona si deve dar senza premio alcuno, et se detta
Coruna per sorte si perdesse se ne puoÁ quel tale eleggere un'altra da seÂ, ma non puoÁ poi esso
piuÁ dispensarla ad altri. Ricevuta in Milano del 1603 al primo di Genaro» (Scriniolum, cit., ff.
314-315).
23 Il testo della «Costituzione» riguardava in generale vari aspetti della vita delle confrater-

nite; cfr. la bolla papale «Quaecumque a Sede Apostolica» del 7 dicembre 1604: «Praescriptio
formae, qua Ordines Regulares et Confraternitates saeculares de caetero uti debent in erigendis
et aggregandis Congregationibus et Confraternitatibus; et in communicatione suarum indulgen-
tiarum et indultorum, eleemosynarumque collectione, et Confessorum electione», in Bullarium
diplomatum et privilegiorum sanctorum romanorum pontificum, Taurinensis editio, cit., Tomus
XI, 1867, pp. 138-140.

Ð 148 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

possibile tutte le informazioni sulle indulgenze vere o presunte in possesso


di «persone Claustrali, Monastice, e Mendicanti» nonche di «Confraternite
e Compagnie religiose» e di «Chiese secolari e regolari» con il compito di
spedirle a Roma dove sarebbero state controllate ed eventualmente nuova-
mente concesse: un'opera mastodontica per la quale Clemente VIII «giu-
dicoÁ quasi necessario erigere una Congregatione» apposita, secondo quan-
to rivela il cardinal Baronio in una lettera all'arcivescovo di Milano, cardi-
nal Federico Borromeo, pochi mesi dopo l'approvazione di quella «Costi-
tuzione».24
Risulta difficile valutare quanto ed in che misura questo ambizioso pro-
getto diede i suoi frutti.25 Qualche indicazione utile ci viene dalla parallela
vicenda censoria dell'«orazione», che nell'ambito di questo medesimo pro-
getto va letta ed interpretata.
All'indomani della promulgazione della Bolla di Pio V (1571) su uffici
e orazioni 26 fu subito chiaro che l'obiettivo di una complessiva regolamen-
tazione del settore perseguito dalle gerarchie ecclesiastiche era molto meno
facile da realizzare di quanto non prevedessero gli estensori di quella Bolla.
Tutte le difficoltaÁ che una proibizione di tal sorta ± diretta in massima par-
te ad individuare «positivamente» le orazioni da censurare o da condanna-
re ± avrebbe comportato nella sua applicazione pratica,27 emersero subito
con chiarezza dalla lettera con cui l'inquisitore di Pisa, pochi mesi dopo la

24 Lettera del 10 dicembre 1605, in Scriniolum, cit., ff. 630-631; in questa lunga e densa

lettera Baronio comunicava l'intenzione di Paolo V di proseguire l'opera del suo predecessore:
lo stesso Paolo V sarebbe infatti intervenuto ufficialmente sulla questione appena tre mesi dopo
(cfr. Scriniolum, cit., ff. 631-32). Una Congregazione delle Indulgenze e delle Reliquie sarebbe
stata in effetti istituita solamente qualche decennio dopo nel 1669 da Clemente IX col motupro-
prio In ipsis pontificatus nostri primordiis (cfr. N. DEL RE, La Curia romana. Lineamenti storico-
giuridici, Roma, Libreria Editrice Vaticana, 1998 (IV ed.), pp. 382-384).
25 Ulteriori ricerche potranno meglio illuminare questo aspetto. Ci limitiamo qui a segnalare

un documento che coglie la macchina inquisitoriale nel mezzo della sua attivitaÁ. La Congrega-
zione dell'Indice decretoÁ nel 1605 la proibizione di un diffusissimo libro intitolato Thesoro pre-
tiosissimo d'indulgenze: eÁ quanto si desume dal testo della lettera di risposta inviata dall'Inquisi-
tore di Bologna fra Pietro Martire al cardinal Girolamo Bernieri, membro della Congregazione
dell'Indice, in cui il primo scriveva che, ricevuta la sua lettera dell'8 ottobre, l'arcivescovo e
lui avrebbero fatto in modo «che saraÁ publicata da Predicatori et Curati la prohibitione del libro
intitolato Thesoro pretiosissimo d'indulgenze raccolto per Giulio Cesare Nanni, stampato in Bo-
logna per Vittorio Benaccio 1590, il che saraÁ buonissimo remedio per aprire gl'occhi ad altri libri
simili, et io non ho mai lasciato dare alla stampa libri continenti indulgenze, o miracoli novi, che
prima non gl'habbi mandati all'Arcivescovato acioÁ fossero approvati conforme a quanto gl'im-
pone il sacro Concilio di Trento» (Bologna, 29 ottobre 1605, in ACDF, Indice III/5, f. 172r).
26 Su cui cfr. supra, pp. 72 sgg.

27 I criteri censori indicati dalla Bolla erano del resto troppo vaghi e di troppo recente as-

similazione per poter essere applicati con certezza dai singoli inquisitori o vescovi locali ai nume-
rosi (e diversi tra loro) esemplari rinvenuti.

11
Ð 149 Ð
CAPITOLO TERZO

pubblicazione della bolla pontificia, aveva risposto alle sollecitazioni dei


cardinali membri della Congregazione del Sant'Uffizio. Profondamente di-
sorientato di fronte ad una massa di materiale devozionale che andava ben
al di laÁ della dettagliata lista di orazioni contenuta nella Bolla papale, l'in-
quisitore di Pisa non poteva fare altro che inviare al suo interlocutore una
copia di ogni «operetta» sospetta: «... gli mando un mazzo di queste leg-
gende et orationi (come ella mi domanda) havendone io le copie della mag-
gior parte, dove haroÁ caro che ella si chiarisca che non ve n'eÁ alcuna che
non contenga o falso titulo, o indulgenza [...] o osservatione vane, super-
stitiose, o valore dell'oratione non verisimile, o ragionevole, ma da reputarsi
finto [...] incompetente, o parlar inepto, o bugie ridiculose, o cose da non
permettersi, o parole [...] malposte come ella dal suo piuÁ maturo e savio
giuditio sapraÁ scorgere, et che ella ne faraÁ prohibitione, perche essendo la
maggior parte del mondo Idiota, [...] [dette] orationi siano per inganar gli
Idioti».28 Per nulla soddisfatto delle indicazioni normative diramate da
Roma, egli invitava le autoritaÁ romane a prendere (ulteriori) provvedimen-
ti: «Come con gl'indici del Sacrosanto Concilio Tridentino, e del santo
Offitio s'eÁ previsto ai libri, cosõÁ con prohibitioni si proveda a queste carte,
accioÁ non [...] confidarsi [leggi: non confidino] tanto in queste le donne
et i semplici, ne gli stampatori in mandarne [leggi: ne mandino] piuÁ fuo-
ra»; per avvalorare le motivazioni del suo disagio egli offriva, cosõÁ, un sag-
gio della diversitaÁ di orazioni e «scritture» simili in mezzo alle quali i di-
fensori della cattolica ortodossia avrebbero dovuto imparare a districarsi:
«Gli mando anche tre libretti di titulo uno Scelta d'orationi, il 2ë Giardi-
no spirituale, il 3ë Selva d'orationi a fin che doppo gli haraÁ visti, o me gli
rimandi [...] o ritenendogli mi facci saper se purgar (et in che modo) o
abolir si debbono. [...] [N]el primo et secondo, oltre molte orationi com-
poste ad placitum, et in lingua vulgare, sono [...] dell'orationi degne di
purgatione: oltre che promettono indulgentie incerte, [...] trovo la dome-
nicale salutatione Angelica, il Simbolo, Inni, et Salmi esposti in verso, et
altre che pare a me doventino vili cavandosi dal latino. Nel terzo oltre che
vi si trova quanto si trova nel primo e nel secondo, vi si vedono i sette
salmi penitentiali diversamente da diversi in verso esposti (come ella ve-
draÁ); peroÁ non sapendo io [...] se si debbino permettere o no, m'eÁ parso

28 Lettera dell'inquisitore di Pisa, fra Girolamo, Pisa 29 dicembre 1571, ACDF, St. St. HH

2-d, ff. 206r-v. Il frequente utilizzo dei puntini di sospensione deriva dalla circostanza che alcune
parole sono cancellate dall'usura del tempo e dunque illeggibili; la comprensibilitaÁ delle frasi, tut-
tavia, non sembra essere compromessa: solamente in un paio di occasioni si eÁ provveduto a pic-
coli interventi, debitamente segnalati, per meglio facilitarne la lettura.

Ð 150 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

scriverne e domandare a lei risolutione»; come se non bastasse, a rendere il


quadro ancor piuÁ intricato c'erano anche tutte quelle «historiette» libera-
mente tratte dal testo delle Sacre Scritture, che piuÁ o meno direttamente
erano coinvolte dalle proibizioni della regola IV dell'Indice tridentino:
«Nel mazo gli mando copie di molte representationi d'atti del vechio et
nuovo [testamento] et molte representationi di Santi et Sante mosso di
qua, che se non si concedono bibbie vulgari a ogn'uno, come in mano
d'ogn'uno perverranno i misterii [...] esposti in verso poetico, con licentia
poetica, et bene spesso iniustamente, o con parole incompetenti o mal
poste?».29
Lungi dall'offrire una soluzione definitiva alla proliferazione incontrol-
lata del materiale devozionale, la Bolla di Pio V aveva dunque aperto piuÁ
problemi di quanti non ne avesse risolti. La riaffermazione della validitaÁ
formale di quella Bolla nel corso della riunione della Congregazione del-
l'Indice del 10 aprile 1587 30 doveva cosõÁ apparire al tempo stesso testimo-
nianza dell'inefficacia di quelle proibizioni e prova dell'impasse delle gerar-
chie ecclesiastiche.
Si dovette attendere fino alla fine del secolo perche le autoritaÁ romane
affrontassero con rinnovato vigore la questione, cercando di porre un argi-
ne a una produzione editoriale incontrollata.
La sensibilitaÁ censoria nei confronti delle «historiette et orationi», tipi-
che espressioni della religiositaÁ dei «senza lettere», trovoÁ, infatti, nell'Indice
clementino la sua indispensabile legittimazione normativa.31 Non eÁ dunque
casuale assistere negli anni immediatamente successivi alla promulgazione
di quell'Indice ad una sorta di competizione a distanza tra le autoritaÁ locali
impegnate a segnalare ai cardinali romani ogni esemplare «sospetto» di
questo «genere letterario».32 Se inizialmente dovette trattarsi di testimo-
nianze isolate, mosse piuttosto dal desiderio di mostrare la propria solerzia

29 Lettera dell'inquisitore di Pisa, 29 dicembre 1571, cit. (corsivo mio).


30 «Decretum quod observetur constitutio Pii quinti dehoris Beata Virgine aliisque precibus
vulgaribus» (ACDF, Indice, I/1, ff. 18r-v).
31 Cfr. anche infra, pp. 184 sgg.

32 Tra queste testimonianze ci limitiamo a citare la lettera del Vicario di Napoli Ludovico

Boido al card. Terranova, in cui scriveva: «Qui si sono stracciate e si stracciano spesso molti fogli
de historiette, et altre simili cosette che vanno a volta e dicono d'essere stampate in Napoli se ben
falsamente [...] e si dubita [...] che vengano da altre cittaÁ in balle del mercanti de panni, o d'altre
merci» (Napoli, 12 settembre 1597, in ACDF, Indice, III/3, ff. 202r-v); e la lettera di Fra Ci-
priano, inquisitore di Rimini, al card. Agostino Valier in cui diceva di aver trovato un libretto
a modo di ufficiolo portato da un soldato italiano rientrato a casa dalla Germania, «dentro al
quale havendo visto una sorte di lettanie stravaganti, mi sono risoluto di mandarlo» (Rimini, 8

Ð 151 Ð
CAPITOLO TERZO

alle autoritaÁ romane che da una reale consapevolezza dell'azione censoria


svolta e del progetto culturale sottostante tale azione, ben presto esse ac-
quisirono una loro organicitaÁ.
Un editto emanato il 26 luglio 1599 dall'inquisitore di Asti 33 fu il pri-
mo vero segnale del rinnovato atteggiamento inquisitoriale nei confronti di
questo settore editoriale: da quel momento infatti l'interesse censorio per le
«historiette et orationi» sarebbe stato costante e duraturo. Non eÁ del resto
casuale che questo significativo segnale venisse dalla cittaÁ di Asti. Fra' Gio-
vanni Battista Porcelli d'Albenga, l'inquisitore di Asti appunto, si sarebbe
presto segnalato, come giaÁ accennato, alle autoritaÁ romane come uno dei
piuÁ scrupolosi esecutori dell'Indice clementino. Sin dalla stesura di quell'e-
ditto mostroÁ tutta la sua capacitaÁ di cogliere gli orientamenti censori del
momento e di tradurli in concrete disposizioni. Rileggendo il contenuto
della Bolla di Pio V alla luce delle piuÁ recenti prescrizioni elaborate dai
due indici pubblicati ma non promulgati (sistino e sisto-clementino) e re-
cepite dall'Indice clementino, l'inquisitore di Asti, infatti, anticipoÁ ± e dun-
que in qualche modo suggerõÁ ± gran parte della normativa che di lõÁ a poco
sarebbe stata adottata ufficialmente dalla Chiesa di Roma. Egli diffidava
«tutti li fedeli Christiani» dall'utilizzare «sorte alcuna d'orationi, che non
sia approbata dalla Santa, Catholica, Apostolica, e Romana Chiesa, e con-
forme all'uso d'essa»,34 ma soprattutto introduceva il riferimento ai testi
liturgici ufficiali come unico criterio per stabilire la legittimitaÁ di orazioni
e litanie: tutte quelle orazioni «che non siano stampate nelli Missali, Brevia-
rii, e Officioli approbati, e reformati» 35 non avrebbero dovuto in alcun
modo circolare («se prima non saranno vedute dal S. Officio, et giudicate
buone o cattive»).36
Il problema della limitazione e della regolamentazione del numero di
testi in circolazione non era tuttavia il solo di fronte al quale si trovavano
le gerarchie ecclesiastiche, ed una normativa siffatta non poteva di per seÂ
rappresentare la soluzione ottimale. Come del resto giaÁ emerso dalla ri-
flessione svolta intorno alla riforma di Breviari e Messali nel corso degli

Marzo 1598, in ACDF, Indice, III/2, f. 75r): non eÁ escluso che questa lettera sia all'origine del-
l'attenzione inquisitoriale nei confronti del gesuita Sailly (su cui cfr. infra, pp. 155-156).
33 Noi frate Gio. Battista Porcelli d'Albenga, dell'Ordine de Predicatori, Professore di Sacra

Theologia, e Inquisitore Generale della CittaÁ, e Diocese d'Asti, dalla Santa Sede Apostolica special-
mente delegato... Asti 26 luglio 1599, in Scriniolum, cit., f. 171.
34 Scriniolum, cit., f. 171.

35 Ibid.

36 Ibid.

Ð 152 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

anni settanta, una delle questioni piuÁ delicate per quanto riguardava il
settore devozionale era quello del controllo delle consolidate tradizioni
locali, difficilissime da sradicare a meno di compromettere seriamente
la «fedeltaÁ» religiosa di intere aree periferiche. Quando l'11 giugno
1600 giunse tra le mani dei membri della Congregazione dell'Indice
una supplica del padre provinciale di Puglia dell'ordine degli eremitani
di Sant'Agostino, la questione non dovette cogliere di sorpresa i cardinali
romani. La lettera chiedeva infatti la licenza di «potersi cantare l'infra-
scritte litanie, quali antichissimamente che non vi eÁ memoria soleno can-
tarsi avanti la devotissima immagine del Santissimo Salvatore sita e posta
dentro la Chiesa del Santissimo Salvatore di Barletta, nella diocesi di
Trani, deli padri dello detto ordine eremitano di Sant'Agostino» (seguiva
l'elenco dettagliato delle litanie che venivano cantate).37 Ebbene, la ri-
sposta ufficiale della Congregazione, rilasciata seduta stante, fu un peren-
torio «nihil». Pochi mesi prima, invece, il 12 febbraio 1597, rispondendo
ad una richiesta simile (anche se riferita a laudi volgari in versi e non a
litanie) 38 del Vicario Capitolare di Cortona, Evangelista Ridolfini,39 la
Congregazione dell'Indice aveva risposto ± pur con tutte le cautele del
caso ± con tenore ben diverso: «Havendo riguardo alla consuetudine an-
tica di 200 anni in cantarsi quelle laudi volgari in versi sopra l'epistole et
evangelij correnti dell'anno, come attesta Mons.r Vescovo eletto et essen-
do piuÁ di 50 anni che il libro eÁ stampato e non contenendo il semplice
testo della S. Scrittura, ma d'alcune moralitaÁ interposte ... [sic] accompa-
gnato, percioÁ han giudicato questi Ill.mi Sig.ri miei colleghi, che per le
ragioni predette et attesa la devotion del Populo si permetta che si can-
tino dette laudi conforme all'uso antico nelle Chiese solite ma non si in-
troduchino altre di nuovo ne in altre chiese si stenda questa gratia e per-
missione».40
Il decreto inquisitoriale che sarebbe stato emanato l'anno successivo

37 ACDF, Indice, serie XIX (vol. unico), ff. 162r-163v.


38 Ma questo poteva al piuÁ essere motivo di preoccupazione maggiore vista la diffidenza per
tutto cioÁ che di sacro veniva messo sotto forma poetica.
39 Lettera da Cortona del 25 Gennaio 1597, in ACDF, Indice III/3, f. 72r. In questa lettera

il Vicario Capitolare raccontava che «la Fraternita detta delle laudi [...] ha per obligo, et consue-
tudine di piuÁ di 200 anni di fare cantare ogni sera di tutta la Quaresima le laudi nella Cathedrale,
et quattro altre chiese di detta CittaÁ [...], dove concorrendo molto popolo con divotione pare che
non si possi togliere via dette laudi senza generare gran tumulto nella CittaÁ; ho voluto pertanto
darne conto a V.S. Ill.ma alla quale mando insieme i libretti a cioÁ destinati».
40 Lettera in ACDF, Indice, V (vol. unico), f. 49r.

Ð 153 Ð
CAPITOLO TERZO

avrebbe dunque dovuto misurarsi anche con tali questioni che, come visto,
rimanevano indefinite.41
Ricostruendo brevemente le tappe che portarono alla stesura di quel
decreto, eÁ opportuno segnalare come il 20 gennaio del 1601 fu lo stesso
Pontefice ad occuparsi della questione, offrendo cosõÁ la piuÁ alta legittima-
zione alla battaglia che stava per essere intrapresa. Evidentemente sensibile
alle segnalazioni che da piuÁ parti ormai giungevano, Clemente VIII teneva
a sottolineare come egli fosse al corrente della moltiplicazione delle stampe
di litanie e di «multas rubricas orationibus additas et quasdam etiam in vul-
gari lingua translatas», incaricando ufficialmente la Congregazione dell'In-
dice di porre immediato rimedio «ne in futurum repullulet». Sulle ragioni
che, nell'arco di soli sei mesi, videro la Congregazione del Sant'Uffizio avo-
care a se la questione, strappandola letteralmente dalle mani dei cardinali
membri dell'Indice cui il pontefice stesso tanto solennemente si era rivolto,
eÁ difficile ± in mancanza di ulteriore documentazione ± pronunciarsi: salvo
iscrivere anche questo episodio all'interno del progressivo ed inarrestabile
processo di ampliamento delle competenze inquisitoriali in atto ormai da
molti anni.42
Intanto, le allarmate segnalazioni dei «locali» difensori dell'ortodossia
cattolica continuavano a giungere ininterrotamente a Roma. Una lettera
particolarmente ricca di informazioni in materia, scritta il 26 maggio di
quell'anno dall'inquisitore di Venezia, dovette convincere anche i piuÁ ritro-
si ad intervenire concretamente nella questione. Un numero ragguardevole
di non autorizzati «libretti di litannie», noti e meno noti, veniva infatti por-
tato all'attenzione dei cardinali romani: «L'orationi delle 40 hore composte
da Don Ferdinando Bongiorno con diverse lettanie, et giudicate costõÁ im-
pertinenti et compositioni piene di novitaÁ di riti, et percioÁ prohibite, come
V.S. mi scrive, sono state stampate et novamente qui in Vinetia. [...] Voglio
peroÁ dire a V.S. che tanta diversitaÁ di letanie sono state concesse alla stam-
pa, perche avanti di esse ne sono state stampate diverse altre: di singolare in

41 Sul decreto del luglio 1601 in materia di litanie su cfr. infra, pp. 157 sgg. Anche ammet-

tendo che, dietro il cangiante atteggiamento della Congregazione, potessero esserci motivazioni
politicamente rilevanti (non possiamo escludere ± anche se cioÁ non appare dalla documentazione
da noi esaminata ± motivazioni legate al diverso atteggiamento ecclesiastico verso l'una o l'altra
compagnia o confraternita), oppure parametri normativi di riferimento differenti tra loro, non
possiamo dimenticare il ruolo che alla tradizione devozionale locale era stato riconosciuto (e la
sensibilitaÁ che essa aveva incontrato tra le gerarchie ecclesiastiche) nel corso della stesura dei
Messali e Breviari riformati e nei testi delle regole sistine e sisto-clementine della prima metaÁ degli
anni novanta.
42 Vedi G. FRAGNITO , La Bibbia al rogo, cit., passim; e A. PROSPERI , Tribunali della co-

scienza, cit., passim.

Ð 154 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

Venetia del 1599 un libro in 12 con dentro 34 sorte di letannie, oltre l'or-
dinarie doppo i sette salmi; et da queste sono state prese molte dal Bon-
giorno [...], et il titolo del libro eÁ Thesaurus sacrarum precum sive litaniarum
[...]; vi eÁ un altro libro piuÁ grande composto dal padre Thomaso Saillyo
[sic] della Compagnia di GiesuÁ stampato in Parisi del 1599, et in Colonia
del 1601, [...] il titolo del libro eÁ Thesaurus litaniarum, ac orationum sa-
cer...»; e ancora: «in un libretto stampato in Venetia del 1598 appresso
Cornelio Arrivabene composto dal padre Gaspare Loarte dottor theologo
della Compagnia di GiesuÁ nel fine vi sono alcune litanie sopra il Santissimo
Sacramento dell'eucharestia, et del nome di GiesuÁ composte dal Padre
Ignatio [...]; in un altro libretto stampato in Venetia ad Signum Leonis
[...] da frate Alberto Cecho Carmelitano et composto da Claudio Cuardino
da Macerata vi sono sorte di lettanie tutte diverse, et distinte dall'ordinarie.
In un altro stampato del 1596 intitulato Litanie [...]».43
La segnalazione di questa lettera dovette probabilmente dissipare le ul-
time perplessitaÁ del pontefice: il 14 giugno, durante una riunione della
Congregazione del Sant'Uffizio veniva preso il primo provvedimento uffi-
ciale in materia di litanie. Il riferimento specifico era rivolto per l'occasione
al piuÁ voluminoso, nonche il piuÁ noto, di quei libretti segnalati da Venezia,
il testo del padre gesuita Sailly,44 ma giaÁ emergeva chiaramente la volontaÁ
di intervenire complessivamente sull'intero settore editoriale: «De Thesau-
ro Letaniarum Patris Thomae Sayllii gesuitae continente trecentas sexagin-
ta quinque formas Letaniarum ac aliis modiis Letaniarum diversorum au-
thorum, lectis literis Inquisitoris Venetiarum datis 2 huius, Sanctissimus
decrevit suspendi omnes praedictas formas letaniarum, exceptis letaniis or-
dinariis in Missali ac Breviario contentis, ac etiam Letaniis recitari solitum
in honore Beatae Mariae de Laureto: item mandavit rescribi Inquisitori ut

43 Lettera di fra Giovanni di Ravenna, Venetia 26 maggio 1601, in ACDF, Indice III/6, f.

296r sgg.; il primo corsivo eÁ mio. Ecco i titoli completi delle opere citate che siamo stati in grado
di verificare: Il bongiorno overo orationi delle quaranta hore, 1601; Thesaurus sacrarum precum sive
Litaniae variae ad Deum Patrem, ad Deum Filium, ad Deum Spiritum Sanctum, ad B. Virginem, ad
Sanctos Angelos et ad plures Sanctos et Sanctas Dei. Una cum septem Psalmis penitentialibus... [et
aliis] devotis orationibus..., Venetiis, apud Beretium, 1599; Tommaso Saiglio, Thesaurus litania-
rum, ac orationum sacer cum suis adversus sectarios apologiis... Novo ordine dispositus et Litaniis
de Martyrologio in singulos anni dies sumptis auctus, Parisiis, apud Claudium Chappellet, 1599.
44 Qualche tempo dopo la Congregazione dell'Indice ritenne opportuno fargli scrivere una

lettera dal cardinal Bellarmino per chiarire che del suo volume di litanie era stato proibito sola-
mente il pubblico uso ad normam del decreto «circa Litanias» di Clemente VIII, rassicurandolo
dunque sul fatto che la proibizione non riguardava i contenuti del testo e che la sua integritaÁ di
uomo religioso non risultava scalfita da quella condanna (ACDF, Indice, Diaria, vol. I, riunione
del 3 dicembre 1605, f. 180v). Sul Sailly (1558-1623) cfr. C. SOMMERVOEGEL, BibliotheÁque de la
Compagnie de JeÂsus, Bruxelles-Paris, Schepens-Ricard, t. VII, coll. 403-408.

Ð 155 Ð
CAPITOLO TERZO

mittat exemplaria huiusmodi Letaniarum, et hanc suspensionem significari


caeteris Inquisitoribus et magister Sacri Palatii faciat diligentiam in Ur-
be».45 Accanto alle litanie contenute in Messali e Breviari trovavano posto
tra le invocazioni espressamente consentite anche le litanie della Beata Ver-
gine di Loreto: passo dopo passo si andava delineando cosõÁ la formula fi-
nale del decreto inquisitoriale. Il cardinal Giulio Antonio Santoro intanto
si affrettava a dare esecuzione alla volontaÁ del pontefice e della Sacra Con-
gregazione dell'Inquisizione, comunicando a inquisitori e vescovi locali il
contenuto di quel provvedimento ed al contempo annunciando loro l'in-
tenzione di Clemente VIII di procedere entro breve all'emanazione dell'or-
mai indispensabile decreto.46
L'ultima questione da risolvere rimaneva quella della posizione da as-
sumere rispetto alle tradizioni liturgico-devozionali locali. La sospensione
del volume di litanie del Sailly, comunicata dal cardinal Santoro, non aveva
contribuito a sciogliere i dubbi che, come accennato, erano giaÁ diffusi in
proposito, e che anzi continuavano a giungere incessantemente dalle sedi
periferiche: in una lettera del 18 luglio l'inquisitore di Pisa, avvertiva,
per esempio, che «... eÁ nato dubio ai Padri di S. Domenico, se puosso dire
le consuete loro littanie del nome di GiesuÁ, quali per uso anticho, son sem-

45 ACDF, Inquisizione, Decreta, 1600-1601 (copia), f. 573: feria quinta die 14 giugno 1601

coram S.smo.
46 «Essendo venuto a notitia della Santita Á di N.S. che in un libro del padre Tomaso Saiglio
Gesuita, intitolato Thesaurus Litaniarum, si contengono 365 sorti di litanie, et che in un altro li-
bro intitolato Thesaurus sacrarum precum sive litaniae variae, come in altri libretti si contengono
diversi modi di litanie, la SantitaÁ sua per hora ha sospesi i suddetti libri, et l'uso delle sopraddette
litanie, e solo ha eccettuate le ordinarie che sono nel Messale, et nel Breviario, et le litanie in ho-
nore della Madonna S.ma di Loreto; volendo Sua Beatitudine appresso fare quella deliberatione et
risolutione che conviene sopra la diversitaÁ, et numero delle suddette litanie. PeroÁ V.S. non manchi
di notificare la sospensione a tutti i librari, Vicarii Episcopali, et suoi particolari ne' luoghi sot-
toposti alla sua giurisdittione, et a tutti quelli che saraÁ di bisogno; et faccia in maniera che si os-
servi la mente, et volontaÁ di Sua Beatitudine» (lettera del card. Giulio Antonio Santoro all'inqui-
sitore di Firenze, in J. TEDESCHI, Documenti fiorentini per la storia dell'Indice dei libri proibiti, in
ID., Il giudice e l'eretico. Studi sull'Inquisizione romana, Milano, Vita e Pensiero, 1997, I ed. ingl.
1991, pp. 174-175; corsivo mio). Una lettera del medesimo tenore, dal testo pressoche uguale,
veniva inviata al vicario arcivescovile di Napoli (ASDN, Archivio Storico Diocesano di Napoli, Ar-
civescovi, Alfonso Gesualdo, cartella 1, ff. nn.; insieme alla lettera eÁ conservato l'editto emanato il
10 luglio dal Vicario in esecuzione della volontaÁ papale, nonche l'elenco dei librai napoletani cui
era stato notificato; ringrazio Gigliola Fragnito per la segnalazione di questo documento). Anche
l'inquisitore di Pisa ± cosõÁ come probabilmente molti altri inquisitori e vescovi locali ± ricevette in
quegli stessi giorni una lettera molto simile: il 4 luglio 1601 egli rispondeva, infatti, al Santoro
comunicando che «ho anco notificato a tutti i librari, et anco a Monsignor Vicario Archiepisco-
pale la sospensione, che ha fatto nostro Signore di quei libri che contengano diversi modi di Li-
tanie et conforme all'ordine di S. SantitaÁ ho dichiarato che i sodetti libri, et l'uso delle sopradette
litanie siano sospese, e solo si osservino le ordinarie, che sono nel Messale, et nel Breviario (Pisa,
4 luglio 1601, in ACDF, St. St. HH 2-d, ff. 191r-v).

Ð 156 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

pre stati soliti di dire ogni ritornata, che fanno ogni terza domenica del me-
se, l'istesso dubio hanno i Nostri Padri di S. Francesco se possano servirsi
delle lettanie, che fin adesso hanno usato in honore del nostro S. Francesco
ogni quarta Domenica del Mese nella ritornata del Cordone».47 La Con-
gregazione del Sant'Uffizio prendeva tempo. Il forte imbarazzo, ovvero
la paralizzante impasse in cui si dovettero trovare allora i cardinali romani
era, cosõÁ, emblematicamente testimoniata da quel supersedeat con cui es-
si rispondevano all'ennesima richiesta di chiarimenti sopraggiunta da Ve-
nezia: «De Litaniis antiquiis quas plurimae Ecclesiae habent Venetiis,
praesertim Ecclesia Sancti Marci, lectis literis Inquisitoris Veneti datis 30
Junii, decretum ut certioret antiquitatem, mittat illarum exemplum, et su-
persedeat».48
Si dovette attendere piuÁ di un mese perche dal «Palazzo Apostolico nel
Monte Quirinale», il 6 settembre, uscisse la stesura definitiva del Decreto di
N.S. Papa Clemente Ottavo da osservarsi circa le Litanie.49 La prima parte
del decreto non faceva che prendere atto del problema e ricapitolare le de-
cisioni precedentemente assunte: «Perche molti in questo tempo, anche
huomini privati, sotto pretesto d'accrescimento di devotione, ogni giorno
divulgano nuove Litanie, a tal che se ne va portando attorno quasi innume-
rabili forme, et in alcune si trovano sentenze inette, et in altre (quel ch'eÁ piuÁ
grave) ve ne sono delle pericolose, et erronee; la SantitaÁ di N.S. Papa Cle-
mente Ottavo per la sua pastoral sollecitudine, volendo provedere, che la
devotione delle anime, et invocatione di Dio, et de Santi sia senza pericolo
d'alcun danno spirituale mantenuta, Manda, e comanda che, ritenute le an-
tichissime, et comuni Litanie, quali ne Breviarii, Missali, Pontificali, et Ri-
tuali si contengono, et anche quelle Litanie della Beata Vergine, che si so-
gliono cantare nella Sacra Casa di Loreto», le altre, cosõÁ si lasciava intende-
re, erano da ritenersi di regola proibite. Ma era nella seconda parte del de-
creto che si trovavano le piuÁ rilevanti novitaÁ: «Chiunque vorraÁ mandar
fuori altre Litanie, overo delle giaÁ mandate nelle Chiese, Oratorii, o Proces-
sioni vorraÁ usare, quelle siano tenuti mandare alla Congregazione de Sacri
Riti a riconoscere, et correggere, se saraÁ bisogno, ne meno presumano sen-
za licenza della sudetta Congregazione mandarle fuori, neÁ publicamente re-
citare, sotto pene (oltre il peccato) all'arbitrio dell'Ordinario, et dell'Inqui-

47 Lettera da Pisa del 18 luglio 1601, in ACDF, St. St. HH 2-d, ff. 192r-v.
48 ACDF, Inquisizione, Decreta 1600-1601 (copia), ff. 664-665, feria quarta die 25 luglio
1601 (corsivo mio).
49 Ibid.; il testo in lingua volgare e
Á riportato, insieme a quello latino, anche in Scriniolum,
cit., f. 173.

Ð 157 Ð
CAPITOLO TERZO

sitore severamente da imponersi». Il Sant'Uffizio, dunque, ricordava che


± almeno formalmente ± il problema della legittimitaÁ delle litanie antiche
(cosõÁ come di quelle di futura edizione) spettava alla Congregazione dei Ri-
ti. Ma l'elemento piuÁ significativo di questo decreto era ancora un altro.
Prendendo atto dell'impossibilitaÁ di intervenire capillarmente in una mate-
ria ampia e sfuggente quale quella delle orazioni, ma anche assumendo
± coerentemente alla riflessione teorica svolta e alla normativa fin qui adot-
tata dalle autoritaÁ romane ± una posizione di massimo rispetto per una cer-
ta tradizione devozionale medievale che aveva valorizzato oltremodo la pre-
ghiera individuale e privata, introduceva ufficialmente un doppio livello di
azione e di valutazione. L'enfasi posta su quell'avverbio «publicamente»
non era dunque casuale. L'intero progetto cultural-religioso controriformi-
stico si sarebbe strutturato negli anni a seguire intorno alla distinzione pub-
blico/privato. L'ambizione di arrivare a controllare ogni singolo aspetto
della pratica religiosa dei fedeli, ambizione che la Chiesa della Controrifor-
ma coltivoÁ sin dai primi anni della sua lunga vicenda storica, dovette presto
scontrarsi contro una realtaÁ fatta di scarsi ed insufficienti mezzi disponibili,
oltre che di forti resistenze. Si trattoÁ dunque in un certo senso di una resa
delle gerarchie ecclesiastiche ma allo stesso tempo di una precisa scelta
strategica che portoÁ il pontefice a legittimare quel duplice livello di orazio-
ne: dove per «privato» non si intendeva solo la dimora privata del fedele
ma anche l'utilizzo privato che le singole confraternite o compagnie religio-
se soprattutto locali avrebbero potuto farne.50 CosõÁ, quasi a sublimare (o a
suggellare) questa distinzione, troviamo in calce al testo del decreto tra-
scritto tra le carte interne (private) ± i «verbali» ± della Congregazione del-
l'Inquisizione un'aggiunta significativa che non saraÁ riportata nel testo a
stampa (pubblico) dello stesso decreto: «Quo vero ad libellos Letaniarum
iam editos, Ssmus decrevit pro usu privato permitti, prius tamen revisos ab
ordinariis et Inquisitoribus».51 EÁ facile intravedere dietro alle tortuose vi-
cende della stesura di quel decreto la mano dei cardinali Bellarmino e Ba-
ronio, protagonisti proprio in quegli stessi mesi di un appassionato dibat-
tito intorno alla disciplina del culto dei santi svoltosi all'interno della neo-

50 Vedi per esempio a questo proposito la lettera inviata qualche anno dopo la pubblica-

zione del decreto, dal Nunzio apostolico a Gratz, il vescovo di Troia, al cardinal Millino a pro-
posito di un «libretto delle litanie», in cui lo rassicurava del fatto che «ho giaÁ scritto a tutti i Ve-
scovi di questo Stato, che non permettano l'uso pubblico di quello havendolo concesso in privato
solamente all'Oratorio dello Spirito Santo di qui» (Lettera del 13 dicembre 1610, in ACDF, St.
St. TT-1 a, ff. nn.; su cui vedi anche infra, pp. 212-213).
51 ACDF, Decreta 1600-1601 (copia), f. 664. Per il testo a stampa cfr. invece ACDF, Indice

Protocolli O, cc. nn.; e Scriniolum, cit., f. 173.

Ð 158 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

istituita Congregazioni dei Beati, fautori in quella sede di una soluzione di


compromesso che autorizzasse a compiere in privato gli atti devozionali
proibiti in pubblico.52 Ma ancora piuÁ evidente era la volontaÁ del pontefice
di applicare all'impianto devozionale e liturgico romano i princõÁpi e le linee
giuda che avevano fino a quel momento ispirato la sua personale politica
censoria. Nuove acquisizioni documentarie consentono, infatti, oggi, di
gettare uno sguardo dietro a quel velo di apparente unanimitaÁ che eÁ sem-
brato finora caratterizzare scelte e decisioni censorie, distinguendo sfuma-
ture e diversitaÁ di posizioni che fin qui era impossibile delineare. In parti-
colare, il testo di alcune considerazioni manoscritte del pontefice, redatte
nel 1594 in risposta ai dubia espressi dai cardinali impegnati nella revisione
dell'Indice sisto-clementino e passate alla memoria con il nome di Animad-
versio clementina, consente ± anche attraverso la valutazione della distanza
che la separa dalle decisioni ufficiali in ultima istanza adottate dalla Con-
gregazione dell'Indice ± di constatare la specificitaÁ della proposta di Cle-
mente VIII. Intervenendo sulla delicata questione delle difficoltaÁ di appli-
cazione di un Indice eccessivamente severo e rigoroso, il pontefice aveva
offerto subito il primo saggio di un approccio metodologico saldamente
ancorato alla realtaÁ e ai suoi problemi, pronto a misurarsi con una comples-
sa rete di resistenze e ostacoli pratici. Con uno spunto non privo di audacia
intellettuale, il pontefice proponeva alla Congregazione dell'Indice che i ti-
toli aggiunti rispetto alla ben piuÁ moderata lista tridentina fossero stampati
separatamente in un'appendice allegata al testo principale dell'Indice: «Vi-
deretur longe facilius et commodius ut Indices non miscerentur sed Ap-
pendix ederetur a S.mo ad Indicem Pii quarti praesertim quia ita sine ullo
signo commisti sunt, ut cum magna difficultate lectori in singulas vices con-
ferendi Indices sint, ut dignosci possint libri additi. Potest etiam proceden-
te tempore interire penitus ob hanc commistionem Index Pii, sicut accidit
Indici romano Pauli IV, qui vix invenitur ob editionem alterius Indicis sub
Pio. Postremo Index Pii iam apud omnes nationes catholicas receptus est,
si additamentum forsan non reciperetur ex hac admistione uterque Index

52 Si trattava di una soluzione di compromesso che nel caso specifico mirava ad una diplo-

matica mediazione tra coloro i quali tendevano ad ammettere, in nome della consuetudine eccle-
siastica, tutte le manifestazioni devozionali nei confronti dei morti in odore di santitaÁ, di cui si
stava in quella sede trattando, e i fautori di una linea intransigente; cfr. M. GOTOR, La fabbrica
dei santi: la riforma urbaniana e il modello tridentino, in Storia d'Italia, Annali 16: Roma, la cittaÁ
del papa. Vita civile e religiosa dal giubileo di Bonifacio VIII al giubileo di papa Wojtyla, a cura
di L. Fiorani e A. Prosperi, Torino, Einaudi, 2000, pp. 679-727, in partic. pp. 696-701; e ora
ID., I beati del papa. SantitaÁ, Inquisizione e obbedienza in etaÁ moderna, Firenze, Olschki, 2002,
pp. 127 sgg.

Ð 159 Ð
CAPITOLO TERZO

periclitaret».53 Di fronte al rischio di una riproposizione dell'impasse oc-


corsa in occasione dell'emanazione dell'indice paolino del '59, quando di-
verse nazioni cattoliche si erano rifiutate di adottare le severe misure re-
pressive previste dal primo Indice universale romano, il pontefice prefigu-
rava, come eÁ stato acutamente osservato, «due livelli di uso dell'Indice,
quello di coloro i quali recepivano tutto e quello di coloro i quali utilizza-
vano solo la lista tridentina»: 54 nel caso, infatti, in cui i titoli aggiunti fos-
sero stati mescolati ai titoli precedenti un rifiuto dei primi avrebbe compor-
tato automaticamente anche un rifiuto dei libri giaÁ contenuti nell'indice tri-
dentino, mentre nell'ipotesi da lui ventilata uno Stato che si fosse rifiutato
di accogliere le condanne contenute nell'appendice si sarebbe comunque
potuto avvalere della lista tridentina (giaÁ pacificamente accettata) apposita-
mente ristampata per l'occasione. La piena consapevolezza delle insormon-
tabili difficoltaÁ che un ulteriore inasprimento della repressione libraria
avrebbe portato con se emergeva dunque come tratto caratterizzante del-
l'attento sguardo censorio del pontefice giaÁ dalla metaÁ degli anni novanta.
Una consapevolezza che trovava un suo imprescindibile elemento di arric-
chimento e di completezza nella rivendicazione di uno spazio di responsa-
bilizzazione devozionale del fedele. Affrontando il difficile tema della pu-
nibilitaÁ e, piuÁ in generale, della sorte dei possessori di libri da espurgare,
mettendo dunque sul tappeto una questione che di lõÁ a poco sarebbe diven-
tata di stringente attualitaÁ per le autoritaÁ romane,55 Clemente VIII offriva
una prova di lungimiranza politica. Una volta constatato l'incolmabile iato
esistente tra la durezza della legislazione in vigore e le palesi difficoltaÁ ap-
plicative della stessa,56 il pontefice dava corpo a due differenti soluzioni,
entrambe caratteristiche del suo concreto modo di ragionare e di procede-

53 Oppositiones a S.D.N. per Illustrissimum dominum Silvium Antonianum transmissae con-

tra Indicem, pubblicate in appendice da V. FRAJESE, La politica dell'indice dal tridentino al cle-
mentino (1571-1596), in «Archivio italiano di storia della pietaÁ», XI, 1998, pp. 269-356; docu-
mento a pp. 346-49; cit. a p. 346.
54 V. FRAJESE , La politica dell'indice, cit., p. 325.

55 Sull'ingolfamento e la paralisi dell'attivita Á censoria romana in relazione al numero infinito


di libri da espurgare e alle difficoltaÁ di coordinamento tra la Congregazione centrale e i referenti
locali cfr. G. FRAGNITO, «In questo vasto mare de libri prohibiti et sospesi tra tanti scogli di varietaÁ
et controversie»: la censura ecclesiastica tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento, in Censura
ecclesiastica e cultura politica in Italia tra Cinquecento e Seicento. Atti della VI Giornata Luigi Firpo, a
cura di C. Stango, Torino, Fondazione Luigi Firpo, 5 marzo 1999, Firenze, Olsckhi, 2001, pp. 1-35.
56 «Cum earundem instructionum D. V. caveatur habentes libros debere illos ad normam

Indicis expurgatorij corrigere non aperitur quid interim faciendum habentibus huiusmodi libros
expurgandos. Nam cum simpliciter confirmetur constitutio Pii IV ex pena peccati mortalis ibi ap-
posita retineri tuta conscientia non poterunt, si superioribus tradendi erunt difficillime id presta-
bitur propter praeteritas ammissiones librorum» (V. FRAJESE, La politica dell'indice, cit., p. 348).

Ð 160 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

re.57 Solo la seconda delle due proposte sarebbe stata accolta e fatta pro-
pria da una Congregazione dell'Indice troppo gelosamente attaccata alle
sue prerogative per accettare di limitare il proprio raggio d'azione: lettori
e venditori di libri da espurgare avrebbero avuto l'obbligo di consegnare
una nota completa dei titoli posseduti, lasciando alla Congregazione la fa-
coltaÁ di concedere eventuali licenze di lettura dopo aver accuratamente ve-
rificato le qualitaÁ personali e sociali del soggetto in causa.58 Ma eÁ la prima
delle due proposte ± la soluzione che la Congregazione si guardoÁ bene dal-
l'accogliere ± quella che meglio rivela ai nostri occhi l'attitudine censoria
del pontefice, illuminando a posteriori anche le ragioni e le motivazioni
del decreto del 1601 sulle orazioni e litanie altrimenti difficile da contestua-
lizzare: «Ut retineri possint sine peccato libri, non tamen legi, donec expur-
gati ad praescriptum expurgatorii Indicis fuerint, et sic temperanda pena
constitutionis Pii IV».59 I lettori ± stabiliva il pontefice ± abbiano la possi-
bilitaÁ di tenere presso di seÂ, senza leggerli, i libri proibiti in attesa che sia
pubblicato un indice espurgatorio.60 Tra il momento del possesso del vo-
lume incriminato e quello della lettura vera e propria del testo il pontefice
disegnava una zona d'ombra in cui il fedele e la sua coscienza sarebbero
diventati i soli arbitri del loro destino. Dietro a quelle tre semplici parole
(«non tamen legi») prendeva dunque corpo e sostanza una concezione del-
l'intervento censorio basato su un doppio livello di controllo (esteriore/in-
teriore o pubblico/privato) che trasformava di fatto la lettura dei libri da
espurgare in un problema di coscienza personale, in una questione di foro
interno, rispetto alla quale le autoritaÁ inquisitoriali erano chiamate a fare un
passo indietro. Ebbene, questo principio di responsabilizzazione culturale,
ancor prima che religiosa, del lettore-fedele, qui apparentemente destinato
a coinvolgere solamente una piccola minoranza di umanisti e intellettuali (i
«dotti»),61 sarebbe stato presto trasposto sul terreno devozionale ed esteso

57 «Unde, ut pareat facilior, videtur ad oboediendum excogitanda via, quae duplex esse po-

terit» (Ivi, corsivo mio).


58 V. FRAJESE, La politica dell'indice, cit., p. 328.

59 Ivi, pp. 348-349.

60 L'indice espurgatorio in base al quale le autorita Á competenti o i singoli autori avrebbero


potuto emendare i propri testi (Indicis librorum expurgandorum in studiosorum gratiam confecti.
Tomus primus. In quo quinquaginta auctorum libri prae coeteris desiderati emendatur per Fr. Jo.
Mariam Brasichellen. Sacri Palatii Apostolici Magistrum in unum corpus redactus et publicae com-
moditati aeditus, Romae, ex Typographia R. Cam. Apost., 1607) avrebbe visto la luce solo molti
anni dopo, per essere peraltro clamorosamente ritirato dalla circolazione nel giro di pochi mesi.
(cfr. G. FRAGNITO, «In questo vasto mare de libri prohibiti et sospesi», cit., p. 31).
61 V. FRAJESE, La politica dell'indice, cit., p. 328.

Ð 161 Ð
CAPITOLO TERZO

anche al mondo dei devoti «senza lettere». Il decreto emanato dal Sant'Uf-
fizio nel 1601 per disciplinare il vasto settore editoriale di litanie e orazioni
sembra, dunque, inscriversi in un piuÁ ampio progetto culturale e religioso
concepito e portato avanti dal pontefice e dai suoi piuÁ autorevoli collabo-
ratori. Esso costituiva al tempo stesso un alto compromesso teorico volto a
realizzare un progetto totalizzante ed utopistico, quello di una completa
uniformizzazione liturgica della quotidianitaÁ religiosa dei fedeli, ed un ten-
tativo di creare nuovi spazi devozionali per la riscoperta da parte del fedele
di una perduta interioritaÁ religiosa fondata sul principio di responsabilitaÁ
individuale.
I risultati si sarebbero tuttavia rivelati nettamente inferiori alle aspetta-
tive: per l'obiettiva ed intrinseca impraticabilitaÁ di quell'utopistico progetto
uniformizzatore, ma anche per la scarsa attenzione dedicata nei decenni
successivi dalle gerarchie ecclesiastiche a quell'aspetto responsabilizzante
della pedagogia devozionale.
Nonostante il significativo compromesso teorico realizzato dai vertici
della Chiesa romana, infatti, il decreto di Clemente VIII non dovette rag-
giungere gli effetti sperati. Se dal resto dell'Europa continuavano a giunge-
re sconsolati messaggi di «anarchia» devozionale,62 per quanto riguarda i
confini italiani non poteva essere che il solito scrupoloso inquisitore di Asti
a mettere in risalto le prime smagliature dell'azione inquisitoriale romana.63
In una densa lettera scritta al cardinal Valier 64 il 12 marzo 1602, il Porcelli

62 Ancora il vescovo di Troia, nunzio apostolico da Gratz, Pietro Antonio da Ponte, scri-

veva che «quasi ogni Santo ha le sue litanie particolari, et nelle lor feste si soglion recitare, ancor-
che non siano approvate, havendole sentite io stesso un giorno, che mi trovai con S.A. qui in S.
Paolo, la cui festa all'hora correva. PeroÁ essendo questo costume antico, et generale, credo che
sarebbe quasi impossibile il torlo, et dubito che ne seguirebbe gran disturbo. AttenderoÁ nondi-
meno gli ordini di V.S. Ill.ma alla quale fo humilissima riverenza» (Lettera da Gratz, 14 marzo
1611, ACDF, St. St. TT - 1 a, ff. nn.). Risale del resto a quegli anni (1614) la nota lettera di Bel-
larmino segnalata da Antonio RotondoÁ (La censura ecclesiastica e la cultura, cit., pp. 1399-1401)
in cui il cardinale gesuita prendeva definitivamente atto dell'impossibilitaÁ di estendere il progetto
culturale e religioso controriformistico oltre i confini italiani.
63 In riferimento alla particolare scrupolosita Á del Porcelli, che si eÁ avuto modo di segnalare
piuÁ volte, eÁ particolarmente significativa l'annotazione con la quale lo stesso inquisitore di Asti
svelava il fastidio (ma anche il malcelato autocompiacimento) procuratogli dalle maligne voci de-
gli altri inquisitori ed ecclesiastici che lo additavano come il classico «primo della classe» deside-
roso solo di farsi notare dalle autoritaÁ romane: «[...] che leveria l'occasione al mondo di mormo-
rar, che un inquisitore vogli esser piuÁ savio dell'altro [...]» (Lettera al card. Valier, Asti, 12 Marzo
1602, in ACDF, Indice III/5, ff. 37r-v, e 47r; anche in Scriniolum, cit., ff. 186-187 (per err. tip. la
pagina 187 eÁ numerata 177).
64 Sul Valier, cfr. L. TACCHELLA , S. Carlo Borromeo ed il card. Agostino Valier (carteggio),

Verona, Istituto per gli studi storici veronesi, 1972; L. e M.M. TACCHELLA, Il cardinale Agostino
Valier e la riforma tridentina nella diocesi di Trieste, Udine, Arti grafiche friulane, 1974; e l'intro-

Ð 162 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

con la consueta sagacia segnalava che «se non s'havera una forma sicura
[delle ``Litanie, che si sogliono cantare nella Casa della Santissima Vergine
di Loreto''] fra pochi giorni se ne vedranno infinite, tutte sotto quel tito-
lo».65 Ma se a questo problema era piuttosto facile trovare una soluzione
± come testimoniato dalla dettagliata lista delle «litanie di Loreto» inviata-
gli pochi mesi dopo (non prima comunque di una sua seconda insistente
sollecitazione) 66 dal cardinal Borghese ± 67 piuÁ arduo era far fronte ad altre
obiezioni di carattere pratico opposte dall'inquisitore di Asti: «Una cosa
parmi d'avisare d'una gran confusione di tante sorti d'orationi latine, e vol-
gari, che si portano attorno stampate, con infinite altre bagattelle da ciar-
latani, che ci bisogna perdere gran tempo, con rompimento di capo a starli
a rivedere, e non le rivedendo passeriano cose assai obscene, e contra bo-
nos mores, apocrife, e in mille altri modi indecenti, e parmi che sia in liber-
taÁ d'ogni privato far orationi di suo capo, darle fuori sotto titolo de santi, e
dire tutto cioÁ che piace loro». CioÁ che emergeva era dunque la necessitaÁ,
avvertita dal Porcelli come un imperativo morale, ma al contempo l'impos-
sibilitaÁ per un singolo inquisitore di provvedere alla revisione di ciascuno di
quei fogli volanti che a centinaia invadevano le cittaÁ e le campagne italiane.
Ma la sua lettera non si limitava a denunciare la mancanza di personale co-
me uno dei maggiori ostacoli alla realizzazione dei progetti censori romani.
Egli denunciava anche una disarmante mancanza di coordinamento, qui in-
dicata come una delle principali cause dell'incontrollata proliferazione di
«orationi latine, e volgari [...] che sono da populazzi stimate piuÁ [...] che
quelle che sono in commune uso di Santa Chiesa»: «E se bene sono stato
piuÁ volte per non admetterne alcune, pure vedendo che sono stampate al-
trove, e che per tutto sono permesse, per non parer piuÁ savio d'altri, l'ho
lasciate cosõÁ». CosõÁ, per dimostrare ai suoi interlocutori romani che oltre ad
essere un sagace critico era capace anche di proposte concrete, suggeriva al

duzione di A. CISTELLINI ad A. VALIER, Il Dialogo della Gioia cristiana, Brescia, Editrice La


Scuola, 1975, pp. XIII-LXXXI.
65 Lettera dell'inquisitore di Asti al card. Valier, Asti 12 Marzo 1602, cit.

66 «GiaÁ sin questo Marzo scrissi, che poiche restavano admesse le Letanie, che si sogliono
usar nella S. Casa della Gloriosissima Vergine in Loreto, ne uscirono diverse sorti sotto quel ti-
tolo, e ne mandai due differenti, accioÁ avisassero quali sono le vere, che si possono admettere,
non ho mai havuto risposta; cosõÁ resto ancora irresoluto, e a tutta via si causa confusione, non
vorrei che a me fusse imputato negligenza, poiche come saproÁ in che maniera habbi a gover-
narmi, usaroÁ ogni diligenza possibile» (Lettera dell'inq. di Asti al card. Valier, Asti, 24 dicembre
1602, in Scriniolum, cit., ff. 191-192).
67 Lettera del cardinal Borghese all'inq. di Asti, Roma, 30 Gennaio 1603, in Scriniolum, cit.,

f. 193: «Se le manda l'essemplare delle Litanie, che si cantano nella S. Casa di Loreto, secondo il
quale potraÁ regularsi ne' luochi della sua giurisdittione» (segue la lista completa di queste litanie).

Ð 163 Ð
CAPITOLO TERZO

Valier di «ordinar alli Inquisitori di questi stati di Savoia e Monferrato (che


eÁ uno solo di Casale) che si ritrovassero insieme almeno per due volte l'an-
no, e tra loro si trattasse di tutti gli abusi, che nascono alla giornata intorno
allo stampar, e altre occorrenze, e tutti unitamente riferirne a quella Sacra
Congregatione, che co 'l parer loro, ordinasse lei quanto li paresse piuÁ espe-
diente: forsi non saria male, e si troveressimo tutti conformi in ogni cosa,
che leveria l'occasione al mondo di mormorar, che un Inquisitore vogli es-
ser piuÁ savio dell'altro».68 Certamente un inquisitore fuori dal comune,
quello di Asti, ma non il solo a rendersi conto delle falle lasciate aperte
dal decreto del settembre 1601.69

2. LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE O LOTTA AGLI «INDOCTI»?

Il primo che raccolse l'invito dell'inquisitore astigiano a porre ordine in


questo vago e confuso quadro normativo fu l'inquisitore di Modena, Ar-
cangelo Calbetti. Individuando titolo per titolo tutte le «historiette et ora-
tioni» circolanti nella sua cittaÁ redasse un'apposita lista censoria. Inserita in
appendice alla Sommaria instruttione a' suoi Vicari pubblicata a Modena
nel 1604,70 essa in effetti rispondeva principalmente all'esigenza di stabilire

68 Ibid. Sulle ultime parole del testo riportato, cfr. le osservazioni contenute supra alla no-
ta 63.
69 Si vedano ad esempio le osservazioni dell'inquisitore di Pisa che mettevano a nudo l'in-

sufficienza di una proibizione che si limitava ad appellarsi ad una conformitaÁ formale dei testi di
orazioni e litanie rispetto ai testi liturgici: «In queste parti se vendeno i salterii, libretti per i fi-
gliuoli che vanno a scuola dove sono litanie ordinarie del Breviario, ma con santi levati, aggiunti
e trasposti non so se per l'osservanze della Costitutione intorno alle letanie si possono permettere
et di giaÁ ne mando due cartine», Lettera dell'inquisitore di Pisa, Pisa, 2 ottobre 1606, in ACDF,
St. St. HH 2-d, f. 879r.
70 Il testo della Sommaria instruttione a' suoi Vicari e Á contenuto in Scriniolum, cit., ff. 335-
43; la lista censoria avrebbe costituito il modello di base per tutte le successive liste di «orationi
prohibite» che, a livello locale prima, a livello centrale poi, sarebbero state stampate ± sempre piuÁ
ricche di titoli condannati ± nel corso del secolo (cfr. infra, pp. 177-178). L'Instruttione del Cal-
betti, nel quale la lista eÁ contenuta e pubblicata, fu ± insieme all'analoga Breve informatione del-
l'inquisitore di Bologna Pietro Martire Festa ± la prima di una lunga serie di «istruzioni per i vi-
cari». Queste «istruzioni» offrivano ai vicari foranei un compendio chiaro e semplice delle regole
che presiedevano alla procedura inquisitoriale, con particolare riferimento alle fasi in cui essi
erano chiamati a svolgere un ruolo di qualche rilevanza, ovvero lo svolgimento delle indagini pre-
liminari e la raccolta delle testimonianze. Non essendo testi rivolti agli inquisitori non eÁ corretto
parlare di manuali inquisitoriali ne di compendi per inquisitori. Cfr. A. ERRERA, Processus in causa
fidei. L'evoluzione dei manuali inquisitoriali nei secoli XVI-XVIII e il manuale inedito di un inqui-
sitore perugino, Bologna, Monduzzi Editore, 2000, pp. 259-262. Per un inquadramento di queste
tematiche vedi anche J. TEDESCHI, La questione della magia e della stregoneria in due manuali in-
quisitoriali del XVII secolo, in ID., Il giudice e l'eretico. Studi sull'Inquisizione romana, cit., pp.

Ð 164 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

un punto di riferimento concreto in un contesto che lasciava ampi e irrisolti


margini di discrezionalitaÁ. Si trattava di una lista comprendente 28 titoli di
operette «popolari», devozionali e profane, in versi (quasi tutte in ottave),
divise tra «orazioni», «vite di santi», «historie», «contrasti» e «legende». Le
parole che il Calbetti aveva utilizzato per motivare ufficialmente le ragioni
della condanna di questi ventotto titoli suonavano in modo chiaro e peren-
torio: «Non lascino vendere ± aveva scritto a conclusione dell'Instruttione
nei suoi «Avvertimenti in materia di libri prohibiti, e sospesi» ± alcuna del-
le Historie seguenti, per contenere esse respettivamente cose false, super-
stitiose, apocrife, e lascive». Cose false, superstiziose, apocrife e lascive.
EÁ chiaro dunque che l'intervento censorio dell'inquisitore modenese, cosõÁ
come quelli dei pochi inquisitori che seguirono il suo esempio negli anni
immediatamente successivi, rappresentava l'ultimo atto, in ordine di tem-
po, di un processo che, nelle intenzioni e nei progetti iniziali delle autoritaÁ
romane, avrebbe dovuto coniugare l'impellente esigenza di uniformare la
complessa materia devozionale con un'azione di purificazione delle fonti
con cui la religiositaÁ e la devozionalitaÁ dei ceti piuÁ umili si andava costan-
temente alimentando. La lettura di alcuni di questi testi ± la cui identifica-
zione eÁ agevolata dall'indicazione degli incipit presente soprattutto nelle
versioni piuÁ tarde (e quantitativamente piuÁ ricche) della stessa lista censo-
ria modenese ± offre a questa prima impressionistica osservazione la neces-
saria conferma documentaria. GiaÁ nel corso dell'azione inquisitoriale degli
anni sessanta e settanta del '500 una delle principali fonti della superstizio-
ne popolare era stato individuato dalle autoritaÁ romane nelle «rubriche»,
quelle formule poste solitamente a conclusione del testo vero e proprio
che finivano per attribuire ai versi devozionali un valore meramente mec-
canico e materiale.71 Ebbene, ne La historia et oratione di Santo Giorgio Ca-
vallero 72 leggiamo, per esempio, che qualunque soldato avesse portato con
se questo testo sarebbe stato salvato da ogni pericolo: «Chi con perfetta fe'
la oration mia / porteraÁ adosso fa ch'ella gli vaglia / in gente d'arme, e per
la fanteria / in mare, in terra, e per ogni battaglia, / non sia morto ne ancor
offeso sia / ne danneggiato pur sol una maglia, / si come per tuo amor ho
combattuto / chi chiama il nome mio dagli aiuto». All'Oratione devotissima
alla Matre di Dio, trovata nel S. Sepolcro di Christo 73 venivano attribuiti po-

137-152, e A. BORROMEO, A proposito del «Directorium Inquisitorum» di Nicolas Eymerich e delle


sue edizioni cinquecentesche, in «Critica storica», 20 (1983), pp. 499-547.
71 Cfr. supra, pp. 65 sgg.

72 In Venetia, in Frezzaria al segno della Regina, 1586.

73 In Barzellona, e ristampata in Venetia, con licenza de' Superiori, s.d.

12
Ð 165 Ð
CAPITOLO TERZO

teri miracolosi ancora piuÁ portentosi: «Questa S. Oratione fu trovata nel S.


Sepolcro di Christo in Gerusalem, qualsivoglia Christiano che la porta con
devotione dicendo un'Ave Maria ogni giorno non havraÁ paura di sententia
di Giudici contro di se [...], ne moriraÁ in acqua, ne foco, ne falso testimo-
nio potraÁ contro di seÂ, ne moriraÁ di pesta, ne rabia, e in ciascuna battaglia
saraÁ sempre vincitore, se alcuna donna non potraÁ partorire, mettendol [sic]
sopra questa oratione subito partoriraÁ, vale contro l'indemoniati, e portan-
do sempre questa oratione addosso gli appariraÁ la Madonna Santissima, et
eÁ cosa esperimentata dalli Signori Inquisitori di Barzellona».74 L'obiettivo
desiderato sarebbe stato ugualmente raggiunto se il fedele invece di «por-
tare addosso» il testo dell'orazione o del racconto avesse recitato la frase
opportunamente indicata: tra le operette censurate, infatti, troviamo anche
La confessione di Santa Maria Maddalena 75 dove l'inquisitore aveva rintrac-
ciato l'ennesima formula superstiziosa: «Chi diraÁ, o faraÁ dir questa confes-
sione / trenta giorni per se o per sua brigata, / d'ogni peccato haveraÁ con-
tritione, / la Maddalena saraÁ soa advocata / dinanzi al buon GiesuÁ con de-
votione / accioche quest'anima sia sempre essaltata / su nel regno del ciel
dove stanno i beati / onde i gran falli al fin son perdonati»; cosõÁ come non
poteva sfuggire alla sua attenzione La Benedittione di Nostra Donna 76 nella
quale trionfalmente si invocava: «Sempre laudata, e benedetta sia / la ma-
dre di GiesuÁ nostra avvocata, / de pestilenza ci guardi, e malattia, / anchor
ci guardi l'ultima giornata / da ira, da odio e trista compagnia, / ci guardi e
sia a te raccomandata / l'anima d'ogni buon fidel Christiano, / accioÁ che al
fine, al Paradiso andiamo».
Censori e inquisitori impegnati sul delicato fronte della lotta alla super-
stizione popolare avevano giaÁ imparato che il loro lavoro non poteva dirsi
concluso con la semplice individuazione delle «rubriche» annesse ai testi.

74 Ibid. Gli inquisitori romani e locali avrebbero continuato negli anni successivi a tenere

sotto controllo questo tipo di materiale; non eÁ dunque casuale trovare, tra le orazioni aggiunte
nell'editto bolognese del 1614 (su cui cfr. infra, p. 177), altri testi accompagnati da rubriche su-
perstiziose come per esempio l'Oratione di Santa Maria de Loretto, in Siena, s.d. nella quale si
legge: «Anchor ti prego per la tua potentia, / dolce Maria quanto pregar ti posso / che tu scampi
da morbo e pestilentia / chi porteraÁ questa oratione addosso / difendil madre da falsa sententia, /
da incanti e da malie non sia percosso / e liberato sia da tutte l'asprezze / io te ne prego per le tue
allegrezze» (Ivi, cc. nn.; corsivo mio); oppure La devotissima contemplatione del peccatore al Cro-
cifisso, In Venetia, In Frezzaria, al segno della Regina, 1586, nella quale troviamo le seguenti pa-
role: «Qualunque diraÁ con humil core / questo lamento e chi lo faraÁ dire / per le cinque piaghe
c'hebbe el Signore / trenta mattine dico a non fallire, / o adosso el porti sol per suo amore / sicuro
puoÁ in ogni parte gire / e non moriraÁ senza penitentia / saraÁ campato da l'infernal sententia».
75 In Venetia, dalla bottega del Guadagnino, al segno del Hippogriffo, 1585.

76 In Siena, l'anno 1578.

Ð 166 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

Molte delle «cose false, superstitiose, apocrife e lascive» che essi cercavano
erano nascoste tra le righe del testo vero e proprio di «orationi et historiet-
te». Certo, fatta eccezione per le prime tre orazioni citate nella lista mode-
nese, l'Oratione di S. Daniele, l'Oratione di S. Helena in ottava rima e l'Ora-
tione, e scongiuri di S. Marta ± «orationes ad amorem», ossia testi di incan-
tesimi amorosi utilizzati da fattucchiere e negromanti dietro pagamento di
piccole somme di denaro ± 77 i testi delle orazioni condannate si presenta-
vano sotto le ingannevoli vesti di ortodosse narrazioni della vita di santi, di
episodi della vita della Beata Vergine o di altri personaggi biblici, sempre
introdotte da insospettabili incipit quali «nel nome di GiesuÁ con devotione
/ e della dolce Maria nostra advocata», o «A te con le mani giunte inginoc-
chiato / ricorro, o dolce Vergine Maria», o ancora «Ave Maria Vergine gra-
tiosa / piuÁ che altra donna voi sete beata», e cosõÁ via. Eppure dietro que-
st'apparenza ingannevole si celavano le insidie della «lascivia», dell'«apo-
crifia» e anche della «falsitaÁ». Nell'Oratione devotissima della gloriosa Santa
Catherina Vergine, e Martire. Con un nuovo Sonetto in laude di quella nuo-
vamente aggionto,78 per esempio, cantando la leggenda della santa di Ales-
sandria, l'anonimo autore raccontava delle violenze che l'Imperatore Mas-
senzio le impose per convincerla a sposarlo, scrivendo che «Santa Catheri-
na nuda ei la spogliava / e sopra quelle rode la gettava» e «troncar gli fe le
mammelle del petto, / tagliar gli fe la testa senz'alcun difetto»; oppure nel-
l'Oratione devotissima di Santa Margarita, con i sette Gaudii di Santa Maria
Maddalena 79 descrivendo ± secondo formule martirologiche ormai conso-
lidate ± «con quanti stratii lei perse la vita / per quel Tiranno crudele e ma-

77 In riferimento a queste formule magiche ± spesso trascritte dai notai nel corso dei pro-

cedimenti inquisitoriali che vedevano coinvolte le donne che ne facevano uso, e dunque piuÁ fa-
cilmente rintracciabili negli archivi inquisitoriali che tra i cataloghi di biblioteche «popolari» ± eÁ
stato utilizzato il termine di «letteratura d'archivio»: cfr. M.P. FANTINI, Saggio per un catalogo
bibliografico dai processi dell'Inquisizione: orazioni, scongiuri, libri di segreti (Modena 1571-
1608), in «Annali dell'Istituto storico italo-germanico in Trento», XXV (1999), pp. 587; EAD.,
La circolazione clandestina dell'orazione di Santa Marta: un episodio modenese, in Donna, disci-
plina, creanza cristiana dal XV al XVII secolo. Studi e testi a stampa, a cura di G. Zarri, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, 1996, pp. 45-65. Vedi anche M. O'NEIL, «Sacerdote ovvero
strione»: ecclesiastical and supersticious remedies in 16th century Italy, in Understanding Popular
Culture. Europe from the Middle Ages to the Nineteenth Century, ed. by S.L. Kaplan, Berlin-
New York-Amsterdam, Mouton, 1984, pp. 53-83; EAD., Magical Healing, Love Magic and the
Inquisition in late Sixteenth Century Modena, in Inquisition and Society in Early Modern Europe,
ed. by S. Haliczer, London, 1987, pp. 88-114; e piuÁ in generale il bel lavoro di M. DUNI, Tra
religione e magia. Storia del prete modenese Guglielmo Campana (1460?-1541), Firenze, Olschki
(«Studi e testi per la storia religiosa del Cinquecento», 9), 1999.
78 In Venetia, In Frezzaria, al segno della Regina, 1584 (i corsivi che seguono sono miei).

79 Stampata in Siena l'anno 1581.

Ð 167 Ð
CAPITOLO TERZO

ladetto», si raccontava dell'«intention di giacersi con ella» e della crudeltaÁ


con cui egli la fece «prendere e legare, / essendo nuda senza prender sosta,
/ con sottil verghe la fece frustare»: un lascivo richiamo alla nuditaÁ femmi-
nile che non poteva lasciare indifferenti le autoritaÁ inquisitoriali.80 CosõÁ co-
me, d'altra parte, dovettero infastidire la loro sensibilitaÁ le magiche virtuÁ
indebitamente attribuite dalla medesima «oratione» ad un fantomatico «se-
gno della Croce», dotato per l'occasione di inedite sembianze materiali:
«Dipoi la fe rimetter in prigione, / cosõÁ battuta, e tutta flagellata, / dove
da canto v'apparse un dragone / che tutta la prigion ha illuminata / col fuo-
co che sbuffava quel fellone, / e hebbe Margherita lui ingollata / e lei col
santo segno della Croce, / fece scoppiar quella bestia feroce».81
Accanto alle «cose superstitiose» e «lascive»,82 poi, erano quelle «false
et apocrife» ad attirare l'attenzione dello scrupoloso inquisitore modenese.
Espressioni dottrinalmente fuorvianti oppure narrazioni filologicamente
inattendibili dovevano essere sottratte alle «pie orecchie» dei fedeli. Era
il caso di alcune evidenti deviazioni dottrinali del culto mariano o del culto
dei santi che finivano per attribuire alla Vergine Madre eccezionali poteri
salvifici 83 oppure a santa Caterina da Siena l'immeritato riconoscimento

80 Il controriformistico fastidio per la nudita Á femminile si esemplifica bene ± ad un livello


culturalmente piuÁ elevato ± nella vicenda della tomba di Paolo III, completata da Guglielmo
Della Porta nel 1574, le cui statue raffiguranti la Giustizia e la Prudenza furono fatte coprire
da Clemente VIII, recentemente ricostruita da R. ZAPPERI, La leggenda del papa Paolo terzo: arte
e censura nella Roma pontificia, Torino, Bollati Boringhieri, 1998.
81 Oratione devotissima di Santa Margarita, cit. (corsivo mio).

82 La categoria censoria di «lascivia» aveva raggiunto nella mentalita Á inquisitoriale del


tempo una tale estensione che non eÁ azzardato supporre che potesse includere anche Il contrasto
dell'Angelo et del Demonio. E come l'Angelo mostra la via de salvatione al peccatore di questa vita
presente, per andare alla gloria di vita eterna. Il messaggio principale del testo ± quello dell'effi-
cacia assunta dai sacramenti indipendentemente dalle virtuÁ di chi lo somministra ± rispondeva in
modo perfettamente ortodosso ad un dubbio popolare molto diffuso; tuttavia, il solo fatto di pre-
vedere l'eventualitaÁ di un confessore «homicida» dovette probabilmente risultare intollerabile
per le gerarchie ecclesiastiche. Ecco i passi salienti di quell'operetta: «[Angelo] Tu dei saper
pur che Dio non l'ha privo, / si che a me non dir queste parole, / fra gli altri che son salvi io
giaÁ il scrivo, / Perche ha fatto cioÁ che ragion vole, / Se fallato ha nel mondo eÁ stato vivo, / E
nel suo fine s'ha pentito, e duole, / con pura fede, e con contritione, / Comunicossi, e prese con-
fessione [...] / [Demonio] ... Perche tu dici che gli eÁ cosõÁ confesso, / assolver non lo puoÁ giamai
quel Prette / perche quel Prette fu humicidiale, / e tal confession giamai non vale. [Angelo] A
quello che tu hai detto io ti respondo, / O Demonio falso pien d'iniquitade, / Se tutti peccati
che fanno al mondo / Havesso un Prette in sua libertade, / il nostro Padre Dio Signor giocondo
/ non leva peroÁ a quel l'autoritade / che lui non possa sempre confessare, / Chi puramente Chri-
sto vuol perdonare» (Ivi, cc. nn., corsivo mio; cfr. anche C. GINZBURG, Folklore, magia, religione,
in Storia d'Italia, 1: I caratteri originali, Torino, Einaudi, 1974, pp. 601-676, in partic. p. 653).
83 Vedi per l'esempio l'Oratione delli confitemini della Madonna, dal R.P.F. Nicolo Á Aurifico
Carmelitano, In Palermo, per il Rosselli, 1630, Imprim. Dela Riba V.G., Imprim. De Blaschis. Se
nella prima parte dell'Oratione la Vergine Madre viene chiamata in causa affinche interceda tra il
fedele e Dio ed il discorso si mantiene nei canoni dell'ortodossia («Onde a te per riverenza de lui

Ð 168 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

che «molte altre persone in numero infinito per li meriti di questa sacra
Vergine, Dio liberoÁ di tale infermitaÁ pestilentiale».84 Ma si trattava eviden-
temente anche di testi in cui il confine tra «falsitaÁ» e «apocrifia» risultava
quanto mai labile e insidioso. Se la vicenda raccontata da La devota oratio-
ne di San Francesco con una laude bellissima 85 poteva richiamare alla mente
le pungenti e ironiche pagine scritte dal Vergerio intorno alla metaÁ del se-
colo,86 e se le avventure del Demonio tentatore travestito da «donzella» il-
lustrate ne La devota oratione di Santo Antonio 87 potevano essere conside-
rate «falsitaÁ» non tollerabili alla luce della rigida distinzione tra sacro e pro-
fano solennemente teorizzata dai canoni tridentini, un evidente caso di
«apocrifia» eÁ quello del Transito di Nostra Donna, un'operetta che non sa-

io ti prego Regina potentissima, che lo preghi, che mi liberi di quella presente tribulatione, et
d'ogni adversitade, cosõÁ come liberoÁ Susanna da' falsi testimonii, e della ria sentenza, che dierno
contra lei quelli malvasi vecchi. Perche tu sei fonte di gratia e piena di pietade, de non me ab-
bandonare»), piuÁ avanti, invece, l'anonimo autore le attribuisce il potere di concedere la grazia
salvifica: «io conosco bene, e so certamente che per gli meriti miei, io non son degna d'esser esau-
dita ne di ricever gratia, ma la tua grandissima pietaÁ e benignitaÁ eÁ tanta che sempre sta sollecita a
fare gratia a tutti quelli che con puro core si raccomandano a te». Per poi rivolgersi a lei con le
stesse parole dedicate dalla preghiera domenicale alla figura del figlio di Dio: «Pregoti divota-
mente con gran fede, e fervore, che tu mi dia largamente la tua santa misericordia, e liberami d'o-
gni male, e fammi fare la tua voluntaÁ, e questo fai per tua grandissima caritaÁ [...] tu sola me poi
aiutare, e questo credo certamente, senza dubitare, che tu hai da Dio ogni gratia, e dono, e piena
potestaÁ d'impetrare gratia a qualunque te adimanderaÁ» (Ivi, cc. A2v-A3r; corsivi miei); fino a con-
segnare la propria vita interamente nelle sue mani: «Se tu mi abbandoni ove anderoÁ, che faroÁ io, a
chi chiameroÁ, a chi domanderoÁ aiuto [...] e raccomandoti dolcissima Madonna l'anima del patre,
e della madre mia, che tu per li tuoi meriti le traghi dalle pene del Purgatorio, e menale alla gloria
di vita eterna» (Ivi, cc. A6v e A7v).
84 La vita, et morte di Santa Caterina da Siena, stampata in Siena, l'anno 1580, c. B1v (cor-

sivo mio).
85 S.l., s.d., s.p.

86 Cfr. supra, pp. 52 sgg.

87 S.l., s.d., s.p.: «Essendo Antonio dilungi al monistero, / in una grotta molto folta, e scura

/ inverso Iddio haveva il cuor sincero / facendo penitentia aspra e dura / sopra li venne con falso
pensiero / il nimico dell'humana natura / che di farlo peccar disposto egl'era / e venne a lui con
allegra cera [...] Egl'era in forma d'una donzelletta / che non pareva passasse quindic'anni / e con
dolce, e suave paroletta / voleva tirarlo a suoi falsi inganni / e Santo Antonio con mente perfetta /
[...] / da lei s'hebbe tutto a discostare / in sul fronte la Croce s' hebbe a fare» (Ivi, cc. nn.). Un
altro esempio di «historia falsa» ± peraltro sfuggito agli attenti autori di quelle liste ± eÁ La Vita di
S. Rocco, discritta in lingua latina dal Sign. Giovanni Pino di Tolosa, Senatore del Christianissimo
Re di Francia, et ambasciatore alla Serenissima Republica Venetiana. Tradotta in lingua volgare da
Lelio Gavardo, In Venetia presso Gio. Battista Bonfadino 1609, in cui si legge di «un huomo
molto ricco, et dovitioso, di famiglia illustre [il quale] signoreggioÁ per terra, et per mare; et hebbe
moglie, detta Franca, nobile certamente per parentado, ma piuÁ nobile per pudicitia, et per hone-
staÁ di costumi, et di vita. CosõÁ questi insieme giunti di felice matrimonio, lasciato affatto ogni pen-
sier mondano, cominciorno in giusa [sic] ad arder dell'amor Celeste, che non istimavano alcuna
cosa piuÁ che il contemplar del continuo con l'interno del loro affetto, et con lo spirito, l'immor-
tale Iddio e tutti i santi suoi. [...] Franca ingravidoÁ [...] fu chiamato Rocco. Dicesi, che al figliuolo
subito nato si vidde una Crocetta scolpita nel manco lato, la quale mentre egli cresceva, cre-
scendo anch'essa, gli si sparse per tutto il corpo: chiaro segno di futuro valore, et di santitaÁ».

Ð 169 Ð
CAPITOLO TERZO

rebbe sfuggita pochi anni dopo all'attento inquisitore bolognese, evidente-


mente meglio attrezzato filologicamente del suo collega modenese. Lungi
dal volere rintracciare e segnalare tutti i casi di apocrifia individuati in quel
primo decennio del Seicento dai dotti e zelanti inquisitori locali del tempo,
eÁ utile, tuttavia, qui riportare, a titolo esemplificativo, l'intero testo del
Transito accompagnandone la trascrizione con i rispettivi passi originali
del brano dei Vangeli apocrifi dal quale l'operetta era stata «fedelmente
riadattata» a modo di compendio riassuntivo:

Transito di Nostra Donna. In Siena, Transito da I Vangeli apocrifi, a cura di


s.d. Marcello Craveri, Torino, Einaudi, 1969,
pp. 465-472.88
Ave vergine pura et benedetta / madre
del buon IesuÁ figliuol di Dio, / stella del
Cielo porta alma perfetta, / letitia eter-
na di chi t'ha in disio / vittoriosa palma,
onde s'aspetta / vincere, et occultar
l'adversar rio, / aiuta me per tua bontaÁ
infinita / dire il Transito tuo di questa
vita.
Et voi fedel Christiani, et buona gente,
/ prego che m'ascoltiate in cortesia / et
a quel ch'io diroÁ ponete mente / divoti
della vergine Maria, / la qual poi che
Christo onnipotente, / in ciel salõÁ, che
contemplato havia / el tempo ch'ella
visse tutto quanto, / l' padre, el figlio,
et lo spirito santo.
Et sempre lei andava a tutte l'hore, / a
visitare e' sacri luoghi e santi, / dove
usava GiesuÁ nostro Signore, / et dove
e' fece i segni tutti quanti, / accessa di
santissimo fervore, / con devote oratio-
ni, e dolci pianti, / tanto che un giorno

88 Il curatore di questa edizione Einaudi ha trascritto il testo di questo brano dei vangeli apo-

crifi da due manoscritti del XIV secolo conservati presso la Biblioteca Apostolica Vaticana e la
Biblioteca Ambrosiana di Milano. Operette devozionali come il «Transito» circolavano fin dal
Medioevo e la «contaminazione letteraria» cui ci riferiamo potrebbe risalire proprio al secolo
XIV; ulteriori ricerche sulla diffusione dei vangeli apocrifi dello Pseudo Giuseppe di Arimatea
nella prima etaÁ moderna potrebbero tuttavia illuminare meglio forme e modalitaÁ di tale «contami-
nazione». Su di un'altra nota operetta apocrifa ripetutamente presente all'interno di queste liste
inquisitoriali si rimanda a E. BARBIERI, Un apocrifo nell'Italia moderna: la `Epistola della domenica',
in Miscellanea di studi in onore di p. Gregorio Penco, a cura di F. Trolese, in corso di stampa.

Ð 170 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

l'Angel Gabriello / gli apparve in vista


oltre a misura bello.
Et havea in mano una palma fiori-
ta, / tutta piena di fior celestiali, et disse
a lei con loquela pulita: / Ave donna
del ciel che tutto vali / el tuo dolce fi-
gliuolo al ciel t'invita, / madre di Dio
a' riposi eternali, / et vuol che tu a lui
facci ritorno, / et transirai madonna il
terzo giorno.
Com'a lei fatta e gl'hebbe la imbasciata
/ ella rispose a lui, o Gabbriello, / tu sai
ch'io fui da te annuntiata, / peroÁ con
gran'amore io ti favello, / va di a Dio
ch'io sono apparecchiata, / et di al
mio GiesuÁ figliuol mio bello, / che ven-
ghi a me voglio con tutti quanti / prima
ch'io muoia gl'Apostoli santi.
Rispose Gabbriello niuna cosa / eÁ im-
possibile a Dio padre giocondo / nien-
tedimeno Vergin gloriosa, / gl'Apostoli
son' hor per tutto il mondo, / ne se non
per virtuÁ miracolosa / che uscisse del
poter di Dio profondo / tu non haresti,
peroÁ che nol sanno, / che non s'accoze-
rebbono in un anno.
Rapporta al padre Dio quel che t'ho
detto / la Vergine rispose et non tarda-
re / l'Angelo andoÁ e tornoÁ con diletto, /
et disse, o donna ogni tuo domandare /
esaudito eÁ da Christo benedetto, / che [...] mentre la regina Maria stava nel
puoÁ nel padre suo cioÁ che vuol fare, / suo talamo. Giovanni, evangelista e
et mentre che parlava allegro in vista / apostolo, fu subito trasportato da Efeso
vi giunse san Giovanni Evangelista. ed entroÁ nel talamo della beata Maria
E inginocchioni a lei con grande amore [...]. Ed egli inginocchiato, chiedeva
/ gli disse sopra ogni altra benedetta, / perdono [...]
vergine madre del nostro Signore / di E mentre stava per domandargli di do-
parte strane a te son giunto in fretta / ve venisse e per quale motivo fosse ve-
ella il prese per mano, et pier pastore, nuto a Gerusalemme, ecco tutti i disce-
/ eravi giunto, enginocchion s'assetta / poli del Signore, [...] furono condotti
il qual benignamente ad se chiamoe, / da una nube alla porta del talamo della
Iacopo grande, el minor v'arrivoe. beata Maria. [...] Giacomo, Pietro e
Appresso giunse Filippo et Tadeo / Paolo, Andrea, Filippo, Luca, Barnaba,

Ð 171 Ð
CAPITOLO TERZO

Bartolomeo, Simone et Matthia, / die- Bartolomeo e Matteo, Mattia ..., Simo-


tro vi giunse Andrea, et Mattheo / et ne Cananeo [...]
dinanzi alla Vergine Maria, / ch'era
presso allo estremo giubileo / s'inginoc- Venuta la domenica, [...] discese pure
chiorno, et lei humile et pia, / gl'accettoÁ Cristo con una moltitudine di angeli e
tutti con benigno aspetto / in questo accolse l'anima della sua diletta madre
giunse Christo benedetto. [...]
Com'ella el vidde, e non vi fu riparo /
ch'ella lassoÁ andare ogn'altra cosa, / et
disse al buon GiesuÁ figliuol mio caro
/ fa che una gratia non mi sia nascosa,
/ gl'Apostoli in quel punto spaventaro,
/ vedendo GiesuÁ Christo senza posa, /
disse domanda dolce madre mia, /
che ogni gratia a te concessa sia.
Ella rispose, fa che 'l mal nemico, / al
punto della morte io non lo veggia, /
GiesuÁ rispose, ascolta quel ch'io dico
/ esser non puoÁ che questa gratia reg-
gia, / ognun che muor vede il demon
nimico / un'altra gratia madre vo che
chieggia, / fa stima pur di veder quel ta-
pino, / ma mostrerotte 'l come pere-
grino.
Infino al terzo dõÁ stette il Signore / con
gl'Apostoli santi, et con Maria, / che
pur parea c'avesse in se dolore, / et dis-
se a Christo la paura mia / eÁ de Giudei
perch'io so il lor furore / che 'l corpo
mio non habbino in balia, / ch'ancor
non son del nostro sangue satii, / ha-
vendol ne farebbon molti stratii.
Disse GiesuÁ, diletta madre mia, / Ver-
gine sopra ogn'altra benedetta / lieva
questa paura da te via, / che in carne
et ossa tutto 'l ciel t'aspetta, / del corpo
tuo in me la guardia sia / et s'avvien
ch'alcun presso man ti metta, / lassa a
me far che se ne pentiranno / a nessun
modo non ti toccheranno.
Ma poi che fu venuto il terzo giorno, /
a l'hora della Nona benedetta, / e nove
chori de gl'Angeli intorno / erano a

Ð 172 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

questa vergine perfetta / el padre Dio


quivi facea soggiorno, / patriarchi, e
profeti ivi s'assetta, / e fu in sabbato a
nona io ve ne avviso, / et morõÁ in mezzo
a tutto 'l paradiso.
TrionfoÁ il cielo quando v'entroÁ quella /
anima gloriosa immaculata / Giovanni Intanto gli apostoli [...] cominciarono il
evangelista a pier favella, / ch'ella si fus- trasporto del santo corpo [...]. Ma
si a seppellir portata, / ma la gente giu- giunti a metaÁ strada, ecco che un giu-
dea iniqua et fella / era giaÁ tutta quanta deo, di nome Ruben, voleva gettare a
sollevata, / Giovanni et pier di puoi terra il feretro con il corpo della beata
l'acconciorno / poi inverso el sepolcro Maria. Ma le sue mani seccarono fino
s'avviorno. al gomito e, volente o nolente, scese fi-
Et era innanzi al santo cataletto / quella no alla valle di Giosafat, con pianti e
palma che l'Angiol gli portoe, / mossesi gemiti, perche le sue mani erano ritte
un aspro giudeo maladetto, / et catalet- accanto al feretro ed egli non poteva
to con la man piglioe / la mano al legno piuÁ ritirarle a seÂ. E comincioÁ a scongiu-
s'appiccoÁ di netto / onde con l'altra el rare gli apostoli perche lo salvassero
petto si picchioe / rendesi in colpa assai con le loro preghiere e lo facessero di-
humile e piano, / allhor rihebbe libera ventare cristiano ... PercioÁ risanato all'i-
la mano. stante ringrazioÁ Dio [...].
Molti Giudei vi s'erano accostati / et [brano immediatamente precedente]
non sapean quel che volevan fare, / pe- [...] tutta la terra tremoÁ e [...] tutti i
roÁ che parte n'erano acciecati, / et parte Gerosolimitani [...] incominciarono a
morti vennono a cascare / et parte di- pensare che cosa dovevano fare [...]
ventorno indemoniati, / et la terra pare- Ma furono colpiti da cecitaÁ e percuote-
va subbissere [sic] / con gran tremuoti, vano il capo contro le pareti e si urtava-
gl'Apostoli girno / da Dio difesi, et no fra di loro [...].
quella seppellirono.
[...] gli apostoli [...] deposero il corpo
nel sepolcro [...] il santo corpo fu as-
El terzo dõÁ resuscitoÁ Maria, / vergine sunto in cielo dagli angeli.
pura, en ciel ne fu portata, / gl'Angeli, Allora anche il beatissimo Tommaso
e santi gli fer compagnia, / et poco era venne trasportato all'improvviso sul
da terra discostata, / eccoti san Thoma- monte degli Ulivi, [...] e si diede a gri-
so che apparia, / et salutolla, et ella gl'- dare: O madre santa! [...] Allora la fa-
hebbe data / una sua cintoletta, et eÁ scia con cui gli apostoli avevano cinto
provato, / che quella eÁ essa, che si mo- il santissimo corpo venne gettata giuÁ
stra a Prato. dal cielo, [...] egli la prese, la bacioÁ,
rendendo grazie a Dio [...].
O buona gente che ascoltato havete / el
morir della Vergine Maria / per la sua

Ð 173 Ð
CAPITOLO TERZO

gratia paradiso harete, / perch'ella per


noi prega tutta via; / questo povero af-
flitto voi'l vedete, / raccomandato per
suo amore vi sia, / accioÁ che al fine in
gratia sempiterna / Iddio vi doni el ben
di vita eterna.
Il Fine.

«[L]ibri [...] che sotto specie di spiritualitaÁ, e di divozione contengono


cose erronee, false, apocrife, pericolose, e vane» ± avrebbe specificato qual-
che decennio dopo l'inquisitore di Bologna Leoni ± ma soprattutto «divo-
tioni che hanno del novitoso» praticate da coloro i quali «affascinati da cer-
to spirito d'apparente pietaÁ, ma di vera presunzione, sdegnano l'antiche,
massiccie, e sode [divozioni]».89 Sarebbe stato dunque l'attento inquisitore
bolognese, un secolo dopo la pubblicazione di quella prima lista modenese,
nel 1706, a richiamare alla memoria, chiarendole ancor meglio, le originarie
intenzioni delle autoritaÁ ecclesiastiche. Pubblicando per la prima volta in
forma editoriale autonoma la lista (ormai cresciuta a dismisura) di «orationi
et historiette prohibite», il Leoni, infatti, non avrebbe fatto altro che ricon-
durre quell'operazione inquisitoriale all'originario progetto di uniforma-
zione liturgica e devozionale, che indicava come unica legittima fonte di
autoritaÁ la Santa Sede romana: «Le Orazioni o Devozioni, che vengono
nuovamente introdotte ad arbitrio di qualche Persona particolare, da reci-
tarsi o farsi publicamente, appariscono disapprovate».90 Nessuno, in altre
parole, poteva avocare a se il diritto di coniare nuove forme o pratiche de-
vozionali, un diritto che spettava in via esclusiva all'autoritaÁ papale. La con-
danna di ogni forma di incrostazione superstiziosa e apocrifa,91 nonche di

89 Breve raccolta d'alcune particolari operette spirituali proibite, Orazioni, e divozioni vane, e

superstiziose, Indulgenze nulle o apocrife, et Imagini indecenti et illecite, che piuÁ frequentemente
sogliono oggidõÁ andare attorno. Fatta da F. Antonio Leoni Inquisitore di Bologna per commodo
de suoi Vicari Foranei (2 febbraio 1706), c. 4, in ACDF, Indice, XXXVI/7. La stessa raccolta
si trova in ACDF, Indice, XXXVI/13b (Raccolta di alcune particolari operette spirituali e profane
proibite, in appendice a Index librorum prohibitorum Innocenti XI P.M. iussu editus usque ad an-
num 1681. Eidem accedit in fine Appendix usque ad mensem Junii 1704); in ACDF, Indice
XXXVI/14, ff. 403-517; e in ACDF, Indice, XXXV/16.
90 Breve raccolta, cit., cc. 65-66. Cfr. anche laddove ricorda che risultano proibite le «Litanie

tutte fuori di quelle antiche, e communi, che si ritrovano stampate negli Breviarii, Missali, e Ri-
tuali impressi con le dovute licenze, e di quelle della Beata Vergine, che sogliono cantarsi nella
santa casa di Loreto» (Ivi, c. 53).
91 Il Leoni tornava con parole chiare sulle «Orazioni, non solo quelle composte, o depravate

con nomi, e parole sospette, o incognite, ma anco l'altre per se stesse buone, e sante, se vengono
prescritte da recitarsi necessariamente, fuori del commune uso della Chiesa, in qualche modo, o

Ð 174 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

indebita commistione tra sacro e profano,92 riceveva cosõÁ la sua corretta


collocazione storico-istituzionale, inserita in un progetto culturale e religio-
so che tendeva a finalizzare le istanze di omologazione e uniformazione li-
turgica al ristabilimento del valore imprescindibile dell'autoritaÁ romana.93
Ma le considerazioni del Leoni se, da un lato, aiutano a fare ordine tra
le tante sfaccettature dell'offensiva ecclesiastica in campo devozionale, dal-
l'altro lato, non fanno altro che evidenziare le ombre di un'operazione che
sin dai suoi esordi aveva mostrato la sua debolezza.
Uno dei punti nodali della questione era stato lucidamente messo a
fuoco qualche anno prima della pubblicazione del volumetto del Leoni
da Jean Baptiste Thiers, razionalista devoto e rigorista francese,94 autore
nel 1679 di un imponente Traite des superstitions, ristampato nel 1697.95

in qualche numero determinato, senza di che, non possa conseguirsi l'effetto bramato, quasi che
la loro virtuÁ consista in detto numero, o modo singolare, hanno del vano, e del superstitioso, e se
si dicano a qualche fine illecito, tale loro abuso diviene maggiormente sortilego, empio, ereticale,
come eÁ abuso di qualsiasi altra cosa sacra, e benedetta. Per piuÁ decreti del S. Officio» (Ivi, c. 66).
E ancora su «l'Orazioni che si spaciano buone, contro l'Armi, contro i nemici, per sostenere la
Corda, per farsi ben volere, per il Parto, per fuggire i pericoli, e per altri fini sortileghi, coll'abuso
de' Nomi di Dio, de' Santi, e cose sagre, o benedette col portarle adosso, o recitarle, o inghiottirle
etc. Per piuÁ Decreti del S. Officio» (Ivi, c. 64).
92 Il Leoni condannava esplicitamente «l'Orazioni Sacro-profane, o siano Libelli, detti Fa-

mosi, ma realmente infami, ne quali si framischiano alle parole dell'orazioni Ecclesiastiche, come
del Pater, dell'Ave, del Credo, di qualche Salmo, o Inno, satire ingiuriose, contro qualche per-
sona, specialmente Sacra. Per piuÁ decreti del S. Officio» (Ivi, cc. 64-65).
93 Un valore questo, superiore persino alla forza della tradizione ecclesiastica: e Á quanto ri-
sulta evidente per esempio dalle osservazioni riportate dal Leoni in riferimento alla delicata ma-
teria delle indulgenze. Richiamandosi alla costituzione Quaecumque di Clemente VIII del 1604
ribadiva che «concesse per via d'aggregazione, o di comunicazione, fatta da alcuna Archiconfra-
ternita, o da qualsisia Ordine, Congregazione, SocietaÁ anco di GiesuÁ, Capitolo, o Collegio, o da i
loro Ufficiali, Superiori, o da altre Persone, o Persona ancor, che dovesse esser specialemente et
individualmente nominata, restano di niun valore, e forza, quando non siano state posteriormente
rinovate, e confirmate dall'AutoritaÁ del Romano Pontefice» (Ivi, c. 42). Il medesimo principio
sembra essere alla base della proibizione di ogni forma di passaggio ereditario delle stesse indul-
genze: «L'Indulgenze concesse da Sommi Pontefici alle Corone, Rosarii, Grani, Calcoli, Crocette,
Medaglie, et Imagini Sacre, da essi benedette, non passano la Persona di quegli, a quali il Sommo
Pontefice stesso l'ha concesse, o a quali sono state, o saranno da questi distribuite le dette Co-
rone, Medaglie etc. per la prima volta, ne uno puoÁ prestare le prefate Corone, Medaglie etc.
ad altri, o darsi precariamente colle prefate Indulgenze, ne chi ha avuto una delle sudette Corone,
Medaglie et l'ha perduta, non puoÁ in alcun modo sostituire in suo luogo un'altra» (Ivi, c. 42).
94 M. ROSA , Settecento religioso. Politica della Ragione e religione del cuore, Venezia, Mar-

silio, 2000, p. 233.


95 Traite des superstitions selon l'Ecriture sainte, les decrets des Conciles, et les sentiments des
Saints Peres, et des Theologiens, par M. Jean Baptiste Thiers, Docteur en Theologie, et Cure de Vi-
braie. Seconde edition. Revue, corrigeÂe, augmenteÂe. A Paris Chez Antoine Dezallier, rue S. Jacque, a
la Couronne d'or. 1697 Avec Approbation et Privilege du Roy. (4 tomi). Cito da questa seconda
edizione. Su questo testo vedi J. LEBRUN, Le «Traite des superstition» de Jean-Baptiste Thiers, con-
tribution aÁ l'ethnographie de la France du XVII sieÁcle, in Annales de Bretagne et des Pays de

Ð 175 Ð
CAPITOLO TERZO

Dal suo osservatorio francese, infatti, il Thiers non si era limitato a consta-
tare «que les Superstitions soient aussi universellement repandues dans le
monde ChreÂtien».96 L'autore francese richiamava l'attenzione del lettore
sull'enorme iato che si era aperto tra la rigiditaÁ della norma ± le innumere-
voli condanne emanate «par l'Ecriture, les Conciles, les Papes, les saints
PeÁres, les TheÂologiens» ± e la desolante realtaÁ di una capillare diffusione
delle pratiche superstiziose. L'intrinseca malvagitaÁ dell'uomo, cifra caratte-
rizzante del suo approccio teologico e religioso,97 non era sufficiente a
spiegare uno iato che si andava facendo vieppiuÁ incolmabile. L'origine di
quella distanza andava rintracciata secondo il Thiers nell'ambiguitaÁ morale
e nella corruzione dei «pasteurs». La trascuratezza e l'ignavia mostrate ver-
so i propri impegni pedagogici e pastorali 98 non erano nulla in confronto
alla complicitaÁ di cui essi si erano resi responsabili condividendo pratiche
ed usanze superstiziose che erano invece chiamati a combattere: «Et sou-
vent (ce qu'on ne sauroit dire sans douleur) elles [le superstizioni] sont
ou toleÂreÂes, ou autorizeÂes, ou observeÂes, par des personnes d'un caracteÁre
distingueÂ, par des Eclesiastiques, qui devroient empecher de toutes leurs
forces qu'elles ne prissent racine dans le champ de l'Eglise, ou l'ennemi
les seÂme durant la nuit, comme l'ivroie, sur le bon grain».99 Certamente

l'Ouest, 1976, pp. 443-465; R. CHARTIER, J. REVEL, Le paysan, l'ours et saint Augustin, in La DeÂ-
couverte de la France au XVII sieÁcle, Cnrs, Paris, 1980, pp. 259-264; e B. DOMPNIER, Les hommes
d'Eglise et la superstition entre XVII et XVIII sieÁcles, in ID. (ed.), La superstition aÁ l'aÃge des Lu-
mieÁres, Paris, Champion, 1998, pp. 13-47, in partic. pp. 22-28.
96 Ivi, c. A2r.

97 «La malice, l'ignorance, la simplicite  , la vaniteÂ, le caprice, l'humeur, l'amour de la vie, le


zeÁle indiscret, la fausse pieÂteÂ, l'intereÃt, les font souvent entrer jusques dans les plus saintes pra-
tiques de l'Eglise» (Ivi, cc. A2r-v).
98 I «pasteurs» erano direttamente colpevoli «du peu de foi de la pluspart des Chre  tiens, du
peu des sentiment qu'ils ont de leur salut eÂternel, de la grandeur, de la puissance, de la fideÂlite de
Dieu, du peu de connoissance qu'ils ont de sa Loi, du peu d'instruction qu'on leur donne sur la
matieÂre des Superstitions» (Ivi, c. A3r).
99 Ivi, c. A2v. Sullo stesso concetto l'autore ritorna piu Á specificamente parlando «Des Exor-
cisme ou Conjurations, des Benedictions ou Oraisons, pour guerir les maladies des hommes et
des betes, pour les preÂserver de danger, pour chasser les rates et les souris, les taupes, les mulots,
les serpens, les sauterelles, les chenilles, etc. pour detourner les orages, les vents, les tempeÂtes, les
ouragans, etc. Que ces Exorcismes sont de veritables charmes. Qu'ils sont condamneÂs par l'E-
glise. Qu'il y a de la superstition aÁ conjurer les betes, et aÁ les excommunier», eÁ questo il titolo
completo del Livre sixieme, Chapitre II: «Cepandant ± si legge in questo paragrafo ± combien
y-a-t il de gens dans les villes et dans la campagne, qui se melent imunement de ce matier, et
qui croyent rendre de grands services a Dieu, a son Eglise, en s'en melant, soit parce qu'on
ne les en reprend pas, ou qu'on ne les reprend que foiblement, soit meme parce qu'ils trouvent
quelquefois des Ecclesiastiques asseÂs ignorants pour approuver leur conduite, ou du moins pour
n'y rien trouver aÁ redire» (Ivi, v. I, c. 460). Non eÁ difficile immaginare come una simile invettiva
dovette trovare un'accoglienza negativa tra le file romane. Non essendo possibile relegare nell'o-

Ð 176 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

frutto maturo delle polemiche religiose che permeavano l'ambiente france-


se dell'epoca, le parole del Thiers risuonavano come un implicito atto di
condanna della continua riproposizione di quelle liste censorie ed inquisi-
toriali colme di titoli di «orationi et historiette superstitiose et apocriphe»
lungo l'intero arco del Seicento, mettendo spietatamente in luce la vacuitaÁ
dell'intera operazione ecclesiastica. Il volume del Leoni, pubblicato nel
1706, in effetti, era solamente l'ultimo atto di una lunga sequenza di elenchi
censori che avevano raccolto l'ereditaÁ della lista modenese dell'inquisitore
Arcangelo Calbetti. A distanza di soli quattro anni dalla pubblicazione di
quel primo elenco, nel 1608, una versione pressoche inviariata veniva pub-
blicata dal suo successore, fra Michelangelo Lerri.100 A quegli stessi anni si
riferisce con tutta probabilitaÁ un elenco senza data dell'Inquisizione di Pe-
rugia, conservato tra i Protocolli dell'Archivio della Congregazione dell'In-
dice.101 Nel 1614 (1 ottobre) fu l'inquisitore di Bologna a integrare le pre-
cedenti liste emanando un editto cui allegava un elenco di 46 operette de-
vozionali (le precedenti liste arrivavano al massimo a 30 titoli).102 Sulla ba-
se di quest'ultima versione fu stilato l'elenco inserito nel Syllabus seu
Collectio librorum prohibitorum, et suspensorum a publicatione novi Indicis,
iussu Sanctissimi ... Clementis Papae VIII de anno 1596, pubblicato a Bo-
logna nel 1618.103 Nel corso del secolo la lista arrivoÁ a comprendere ben
64 titoli, come si puoÁ vedere nella «seconda impressione» delle Regole del
Tribunale del Sant'Officio, fatte stampare nel 1687 dall'Inquisitore di Fer-
rara Tommaso Menghini.104 Per poi essere per la prima volta ufficialmen-
te inclusa in «Appendice» ad un indice nazionale all'inizio del XVIII se-

blio un'opera cosõÁ imponente, l'espediente utilizzato dalle gerarchie ecclesiastiche fu quello di ri-
spedire le accuse al mittente imputandogli di contribuire in prima persona alla diffusione delle
piuÁ diverse pratiche superstiziose, cosõÁ dettagliatamente descritte all'interno del suo voluminoso
lavoro: eÁ quanto si deduce dalle pagine scritte dallo stesso Thiers in apertura della seconda edi-
zione della sua opera (Ivi, cc. A5r-v).
100 Breve informatione del modo di trattare le cause del S. Officio Per li molto Reverendi vi-

carii della Santa Inquisitione, instituti nelle Diocesi di Modona, di Carpi, di Nonantola, e della Gar-
fagnana, in Modona, nella stamperia di Giulian Cassiani, MDCVIII.
101 ACDF, Indice, Protocolli O, cc. nn.

102 Roma, Biblioteca Casanatense, Per. Est. 18.4/ 376bis.

103 Syllabus seu Collectio librorum prohibitorum, et suspensorum a publicatione novi Indicis,

iussu Sanctissimi ... Clementis Papae VIII de anno 1596. Additis etiam aliis libris, variis erroribus
scatentibus, et suspectis, non legendis, neque retinendis, quo aduqsque expurgentur, aut permittan-
tur a Sancta universali Inquisitione, Bononiae, apud Sebastianum Bonomium, MDCXVIII.
104 Regole del Tribunale del Sant'Officio, praticate in alcuni casi imaginarii da f. Tomaso

Menghini d'Albacina, Inquisitore Generale di Ferrara, e suo Ducato, per lume de' Vicarii della
di lui Giurisdizione. In questa seconda impressione corrette, ed ampliate, in Ferrara, 1687, per l'e-
rede del Giglio, stampatore del Sant'Officio, ff. 108-111.

Ð 177 Ð
CAPITOLO TERZO

colo, nel 1704, nella versione aggiornata dell'Indice di Innocenzo XI pub-


blicato giaÁ nel 1681; 105 appendice da cui, appunto, nel 1706, l'inquisitore
di Bologna, fra Antonio Leoni, avrebbe tratto il materiale per un'edizione
autonoma.106
Il solenne ed ufficiale suggello al fallimento di quell'offensiva volta a
debellare elementi superstiziosi dalla devozione cattolica era idealmente
posto qualche decennio piuÁ in laÁ, in un clima culturale e religioso per molti
aspetti profondamente mutato, dall'opera di una grande figura della cultu-
ra italiana del '700, Ludovico Antonio Muratori. Nel 1747, infatti, usciva a
stampa il suo celebre trattato dedicato alla «regolata devozione».107 Il suo
appello ad una «vera e soda divozione» suonava nelle stanze dei palazzi va-
ticani come un vero e proprio j'accuse contro i sostenitori e i promotori di
una religiositaÁ barocca «vacua et inutile», segnata da «divozioni [...] super-
ficiali» inequivocabilmente dotate di «apparenza e sostanza di superstizio-
ne». I chiari riferimenti autobiografici all'ostilitaÁ con cui la sua opera era
stata accolta,108 non inficiavano il valore ideale delle critiche muratoriane
nei confronti di quegli «eccessi» che spingevano il fedele verso forme di
vera e propria superstizione religiosa allontanandolo dal vero obiettivo del-
la devozione di «adorare e ringraziare Dio». Il Muratori puntava il dito
contro quelle «devozioncelle», «inventate e promosse» esclusivamente
«per farne qualche traffico temporale»,109 quell'indefinito e variegato uni-
verso di «medaglie, Agnus Dei, corone, pazienze, abitini, cordoni, immagi-
ni di santi, brevi, confraternite, e simili altre invenzioni visibili di pietaÁ» nel-
le quali il «volgo semplice e ignorante» riponeva le proprie speranze di sal-

105 Index librorum prohibitorum Innocentii XI P.M. iussu editus usque ad Annum 1681. Ei-

dem accedit in fine Appendix usque ad mensem Iunii 1704, Romae, Typis Rev. Ca. Apost., 1704,
ff. 515-566. Per queste proibizioni vedi ora J.M. De BUJANDA, Index librorum prohibitorum 1600-
1966, vol. XI, 2002, pp. 440, 667-669.
106 Breve raccolta d'alcune particolari operette spirituali proibite, Orazioni, e divozioni vane, e

superstiziose, Indulgenze nulle o apocrife, et Imagini indecenti et illecite, che piuÁ frequentemente
sogliono oggidõÁ andare attorno, cit.
107 Su Muratori ci limitiamo a segnalare F. VENTURI , Settecento riformatore. I: Da Muratori a

Beccaria 1730-1764, Torino, Einaudi, 1969; M. ROSA, L'«etaÁ muratoriana» nell'Italia del '700, in
ID., Riformatori e ribelli nel '700 religioso italiano, Bari, Laterza, 1969, pp. 9-47; Atti del convegno
internazionale di studi muratoriani, Modena, I-IV voll, 1972- 1975. L'opera Della regolata devo-
zione eÁ stata recentemente pubblicata con un'introduzione di Pietro Stella dalle edizioni Paoline,
Roma, 1990: da questa edizione sono tratte le citazioni che seguono.
108 «Se taluno s'arrischia a riprovarle, ecco schiamazzi, ecco lamenti ed accuse. Ma Dio

buono! A che tendono mai queste arti e grida? Quando sussistano le sregolatezze suddette, il
volere che non se ne parli, non eÁ egli forse un tacitamente approvarle, e un operar contra la mente
di dio, che desidera la Chiesa sua, per quanto si puoÁ, purgata e pura nelle opinioni e nell'esercizio
della pietaÁ?» (L.A. MURATORI, Della regolata devozione, cit., p. 40; cfr. anche a p. 195).
109 Ivi, p. 216.

Ð 178 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

vezza, mettendo «tal fiducia [...] in esse che si tenga sicuro dei vari mali
temporali, o si dia a credere di non poter morire in disgrazia di Dio, o
di conseguir certe grazie determinate col recitar certe orazioni per determi-
nato tempo».110 Divozioni che avendo «per oggetto il conseguimento o
l'accrescimento dei beni e comodi del secolo, oppure la liberazione dai mali
ed affanni dei quali abbonda la vita temporale di chi soggiorna nel mon-
do», sono pratiche «di sola apparenza e non di sostanza» 111 che non pro-
ducono «in noi l'amore di Dio e del prossimo», e non serviranno a «emen-
dare la vita nostra e [...] conformarla a quella di GesuÁ Cristo».112 Un qua-
dro sconsolante nel quale il Muratori vedeva allentarsi anche la tensione
religiosa verso una dottrina salda e fedele alla lettera evangelica. Le dege-
nerazioni dottrinali cui la devozione dei santi e la pietaÁ mariana erano state
sottoposte nel corso del Seicento al di fuori di ogni possibile forma di con-
trollo rappresentavano una preoccupante insidia per il futuro della Chiesa
cattolica. La sua composta indignazione era rivolta agli slanci emotivi di
quei fedeli che si dedicavano alla venerazione di Maria arrivando «a crede-
re che a lei appartenga il perdonarci i peccati, il salvarci» 113 oppure al culto
di un santo eletto «senza legittimo fondamento nella sola testa del popo-
lo»,114 al quale attribuire miracolose ed esclusive virtuÁ.115 In ogni caso,
sia che dirigesse la sua critica sulle degenerazioni della pietaÁ mariana o
del culto dei santi sia che facesse riferimento alle «devozioncelle» supersti-
ziose e alle donne che in pubblico «biascicano» Pater nostri con la corona
del Rosario in mano, gli obiettivi del Muratori coincidevano con quelli che
la censura ecclesiastica si era prefissata nella seconda metaÁ del Cinquecen-
to. I continui richiami del Muratori al Concilio di Trento e alla sua «puris-
sima dottrina», alla nobile figura di Carlo Borromeo e all'insieme dei prov-
vedimenti censori e punitivi di quel periodo oltre a proporre un'ideale con-
tinuitaÁ storica tra l'«Illuminismo cattolico» e quella stagione post-conciliare
appaiono qui soprattutto come un'implicita ammissione del fallimento di
quel progetto e di quell'offensiva.
Sulle ragioni e le dinamiche di questo fallimento occorre soffermarsi
con attenzione, cercando di chiarire dove e come si sia interrotto quel pro-

110 Ivi, p. 214.


111 Ivi, p. 227.
112 Ivi, p. 227.
113 Ivi, p. 197.
114 Ivi, p. 176.
115 Senza ricordare che «ciascuno di essi pregando Dio per noi, ci puoÁ essere utile»
(Ivi, p. 176).

Ð 179 Ð
CAPITOLO TERZO

cesso che le gerarchie romane avevano inaugurato intorno agli anni settanta
del Cinquecento e che ancora nei primissimi anni del Seicento sembrava
offrire i suoi benefici frutti. Per rispondere a questo problema si prende-
ranno in considerazione, in primo luogo, l'incidenza avuta dalla lotta con-
tro il volgare; in secondo luogo, l'allentamento della tensione censoria nei
confronti delle infiltrazioni superstiziose e apocrife; in terzo luogo, forme e
modalitaÁ di una proposta devozionale, quella di una parte delle gerarchie
ecclesiastiche della Controriforma, che perseguendo l'obiettivo di una sicu-
ra presa sulle masse non disdegnava affatto l'utilizzo di elementi emotiva-
mente coinvolgenti ancorche fortemente superstiziosi.
Rinviando l'analisi del secondo e del terzo punto ai successivi paragrafi,
interessa qui mettere in evidenza come la lotta contro il volgare ± inserita
nel contesto di un'estensione delle categorie censorie romane che mirava a
piegare alle istanze controriformistiche l'intero universo culturale dei «sen-
za lettere» ± 116 portasse all'eliminazione di testi che avevano svolto un im-
portante ruolo nell'avvicinare i fedeli ai temi dell'orazione e della devozione
interiore. A partire dall'indice tridentino era cominciato un progressivo
spostamento delle mire censorie ecclesiastiche verso l'onnicomprensiva ca-
tegoria dell'«immoralitaÁ». La preoccupazione di tutelare le orecchie del
«popolo fanciullo» da ogni «devianza» rispetto ai rigidi modelli culturali
controriformistici 117 si era andata affermando come una delle prioritaÁ del-
l'azione repressiva. Se le regole tridentine ± la regola VII, in particolare,
che proibiva i libri «qui res lascivas, seu obscenas ex professo tractant», af-
fidando ai vescovi il compito di punire coloro che li detenevano,118 noncheÂ
la regola IV intorno alla questione del volgare ± avevano fornito le coordi-

116 Tale processo era destinato a condurre in quegli anni ad una sostanziale equiparazione

tra veri e propri volumi a stampa e «operette» popolari da parte dei censori romani; significativo
esempio eÁ l'invito che il cardinal Borghese rivolgeva all'inquisitore di Asti ad «usar ogni diligenza
possibile per se stessa, e per mezzo di persone dotte, zelanti, e pie nel riveder li libri, e altre ope-
rette, o historiette, che alla giornata si stampano costõÁ, accioche non contengano cose prohibite
conforme alle Regole dell'Indice; ne conceda licenza di stamparsi, che prima non siano reviste
con ogni accuratezza» (Lettera da Roma, 29 aprile 1605, in Scriniolum, cit., f. 354; corsivo mio).
117 Il rimando e Á d'obbligo al saggio di A. BIONDI, Aspetti della cultura cattolica post-triden-
tina, cit.; l'espressione «popolo fanciullo» eÁ utilizzata da V. FRAJESE, Il popolo fanciullo. Silvio An-
toniano e il sistema disciplinare della controriforma, Milano, Franco Angeli, 1987.
118 In applicazione di questa regola nel 1573 Carlo Borromeo preannuncio Á durante il terzo
Concilio provinciale l'imminente pubblicazione di un indice delle opere oscene (U. ROZZO, in In-
dex de Rome 1590, 1593, 1596, cit., pp. 32-33; G. FRAGNITO, La Bibbia al rogo, cit., p. 140). Pro-
babilmente l'intenzione dell'arcivescovo di Milano fu «ostacolata» dalla riduzione dei margini di
autonomia degli ordinari diocesani, implicita nel periodico invio da Roma di lunghe liste di libri
di tale sorta alle inquisizioni periferiche (cfr. G. FRAGNITO, op. cit., p. 140).

Ð 180 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

nate di questa nuova offensiva, furono le liste censorie stilate negli anni
settanta-ottanta in applicazione di quelle regole a dare concretezza alla
«manovra».119 Emblematica testimonianza, nonche fondamentale legitti-
mazione teorica, di questo nuovo corso della censura romana, fu la pubbli-
cazione ± occorsa nel 1576 a Roma in puntuale concomitanza con la stam-
pa delle piuÁ importanti tra quelle liste inquisitoriali ± della Tractatio in qua
cum de perfecta poeÈseos ratione agitur tum ostenditur cur abstinendum sit a
scriptione poematum turpium, aut falsorum deorum fabulas continentium di
Antonio Possevino.120 La proibizione di tutte le «Opere in versi di sacra
scrittura cosõÁ volgari come latini, li quali apportano gran danno» contenuta
nel citato indice stilato da Giovanni di Dio 121 risultava, in effetti, una sem-
plice trasposizione normativa del messaggio censorio contenuto in quel
trattato. In virtuÁ di un'applicazione estensiva di questo «precetto» vasti set-
tori della letteratura italiana, cinquecentesca e non solo, finirono in quelle
liste 122 insieme a molte opere di letteratura religioso-devozionale. Racchiu-

119 Non dobbiamo peraltro dimenticare che queste liste si iscrivevano nell'azione inquisito-

riale volta ad estendere l'area di riferimento della proibizione della lingua volgare nella materia
del ``sacro'', attraverso il ripristino della ben piuÁ severa normativa contenuta nell'indice paolino
rispetto alla regola IV dell'indice tridentino (vedi G. FRAGNITO, op. cit., pp. 130 sgg.).
120 Gran parte di questo trattato sarebbe diventato il capitolo XVII della Bibliotheca selecta

dello stesso Possevino. Su questo «monumento» della Controriforma cfr. A. BIONDI, La «Biblio-
theca selecta» di Antonio Possevino. Un progetto di egemonia culturale, in La «Ratio studiorum»:
Modelli culturali e pratiche educative dei Gesuiti in Italia tra Cinque e Seicento, a cura di G.P.
Brizzi, Roma, Bulzoni, 1981, pp. 43-75; C. CARELLA, Antonio Possevino e la biblioteca «selecta»
del principe cristiano, in Bibliothecae selectae. Da Cusano a Leopardi, a cura di E. Canone, Firenze,
Olschki, 1993, pp. 507-516. Su Possevino, vedi S. PEYRONEL RAMBALDI, Educazione evangelica e
catechistica: da Erasmo al gesuita Antonio Possevino, in Ragione e ``Civilitas''. Figure del vivere
associato nella cultura del `500 europeo, a cura di D. Bigalli, Milano, Franco Angeli, 1986, pp.
73-92; L. BALSAMO, Venezia e l'attivitaÁ editoriale di Antonio Possevino (1553-1606), in «La Biblio-
filia» XCIII (1991), pp. 53-93; ID., How to doctor a bibliography: Antonio Possevino's practice, in
Church, censorship and culture in early modern Italy, ed. by G. Fragnito, Cambridge, Cambridge
University Press, 2001, pp. 50-78.
121 GIOVANNI DI DIO , Index Authorum, cit.; cfr. G. FRAGNITO , op. cit., p. 131; a questa proi-

bizione va ricondotta con tutta probabilitaÁ l'affermazione contenuta in una lettera di fra Damiano
Rubeo all'inquisitore di Bologna, immediatamente successiva alla stesura di quell'indice, in cui si
specificava che «i Salmi volgari non si ammettono» e che «i Fioretti della bibia si levano» (Lettera
del 25 aprile 1576, in A. ROTONDOÁ, Nuovi documenti, cit., pp. 156-157). Tale proibizione era del
resto giaÁ contenuta in un Aviso a stampa alli Librari che non faccino venire l'infrascritti libri, et
ritrovandosene havere, che non li vendino senza licenza, pubblicato a Roma il 22 maggio 1574
da Paolo Costabili Maestro del Sacro Palazzo e distribuito anche fuori della cittaÁ di Roma (Scri-
niolum, cit., f. 87; e G. FRAGNITO, La Bibbia al rogo, cit., p. 131; piuÁ in generale su questo Aviso
vedi U. ROZZO, in Index des livres interdits, cit., vol. IX, pp. 26-27 e 39-40).
122 Sulla letteratura italiana e la censura ecclesiastica cfr. V. CIAN , Un episodio della storia

della censura in Italia nel secolo XVI. L'edizione spurgata del «Cortegiano», in «Archivio storico
lombardo», s. 2, XIV, 1887, pp. 661-727; A. SORRENTINO, La letteratura italiana e il Sant'Uffizio,
Napoli, Perrella, 1935; P. PASCHINI, Letterati ed Indice nella Riforma cattolica in Italia, in ID., Cin-

13
Ð 181 Ð
CAPITOLO TERZO

se entro le medesime categorie censorie troviamo la condanna di operette


devozionali destinate ai ceti piuÁ umili come la Confessione della Magdalena
(in rima per Marco da Foligno), il Giardino della Nostra Signora Maria Ver-
gine senza nome d'Auttore, le Stanze in laude di M.V. di m. Gabriele Rainie-
ri, la Medicina dell'Anima cosõÁ per li sani, come per gli ammalati senza nome
di stampatore et d'Auttore, ma anche operette popolari profane generica-
mente catalogate come «Canzoni [e Comedie] dishoneste et lascive»,123
«Espositione d'Insogni, et ogni altro libro d'Insogni», «Facetie, motti et
Burle di diversi signori», «Colloquio dishonesto di Damigelle», «Historiet-
te tutte, che non apportano giovamento ne a buoni costumi ne a dogmi del-
la fede», «Lettere amorose» di vario tipo,124 «Madrigali cioeÁ a tre voci, li
quali sono moresche et altre sorte di Madrigali di simil sorte a quattro et
a cinque voci, stampati in Venetia per Gironimo Scotto». Le Regole intro-
duttive dell'indice sistino avrebbero poi contribuito ad un'ulteriore dilata-
zione ± ma anche ad una precisazione ± della categoria di eresia, in seguito

quecento romano e Riforma cattolica, Roma, Edizioni liturgiche, 1958; N. LONGO, Fenomeni di
censura nella letteratura italiana del Cinquecento, in Le pouvoir et la plume, cit., pp. 275-284;
ID., La letteratura proibita, in Letteratura italiana, vol. V, Le questioni, Torino, Einaudi, 1986,
pp. 978-988; U. ROZZO, L'espurgazione dei testi letterari nell'Italia del secondo Cinquecento, in
La censura libraria nell'Europa del secolo XVI, a cura di U. Rozzo, Udine, Forum, 1997, pp.
219-271; ID., Italian literature on the index, in Church, censorship and culture in early modern
Italy, cit., pp. 194-222; G. FRAGNITO, Aspetti e problemi della censura espurgatoria, in L'Inquisi-
zione e gli storici: un cantiere aperto, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 24-25 giugno 1999,
Roma, Accademia dei Lincei, 2000, pp. 161-170; EAD., «Li libbri non zoÁ rrobba da cristiano»: la
letteratura italiana e l'indice di Clemente VIII (1596), in «Schifanoia», 19, 1999, pp. 123-135.
123 A questo genere di proibizione devono essere ricondotti gli interventi vescovili di quegli

anni segnalati da A. PROSPERI (La Chiesa tridentina e il teatro: strategie di controllo del secondo
'500, in I Gesuiti e i Primordi del Teatro Barocco in Europa, a cura di Miriam ChiaboÁ e Federico
Doglio, Viterbo-Roma, Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale-Torre d'Orfeo Edi-
trice, 1995, pp. 25-26 e ID., Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino,
Einaudi, 1996, pp. 342-349), i quali miravano a porre sotto il loro controllo i testi dei drammi
sacri prima che fossero rappresentati, nonche gli editti come quello dell'inquisitore di Pisa che
proibivano «a tutti quanti li comici» di «rappresentare cosa alcuna ne di scrittura di testamento
vecchio o nuovo ne di scrittura sacra o santa ne cosa ecclesiastica o religiosa», o come l'editto del
21 maggio 1581 dell'arcivescovo di Firenze Alessandro de' Medici, che condannava «commedie,
tragedie, farse, tragicommedie o altri spettacoli ne di cose sacre ne di profane» (quest'ultimo
editto eÁ stato pubblicato da M. PLAISANCE in appendice al suo saggio su LiteÂrature et censure
aÁ Florence aÁ la fin du XVI sieÁcle, in Le pouvoir et la plume. Incitation, controÃle et reÂpression dans
l'Italie du XVI sieÁcle, Paris, Universite de la Sorbonne Nouvelle, 1982, pp. 233-252, il testo del-
l'editto eÁ a pp. 249-50); cfr. anche G. FRAGNITO, La Bibbia al rogo, cit., p. 132, nota 52.
124 A testimonianza dell'unita Á d'intenti che vigeva allora tra l'estensore dell'indice e le auto-
ritaÁ istituzionalmente preposte all'attivitaÁ censoria, il 21 marzo 1576 il socio del maestro del Sacro
Palazzo, fra Damiano Rubeo, si premurava di scrivere all'inquisitore bolognese, e presumibil-
mente agli altri inquisitori locali, raccomandando che «neÁ lassi stampare storie commedie et altri
libri volgari d'innamoramenti, che pur troppo si vitia il mondo da se stesso» (A. ROTONDOÁ, Nuovi
documenti, cit., pp. 155-156).

Ð 182 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

confermata nelle sue linee anche dall'indice del 1593.125 Se giaÁ nel corso
delle riunioni della Congregazione dell'Indice era stato deliberato di esten-
dere il campo d'azione della citata regola VII dell'Indice del 1564, inclu-
dendo in essa «etiam libros musices cantilenas obscoenas, vel eiusdem ge-
neris picture quae cum sint muti libri typis non exprimantur, et in Indice
apponantur libri ex professo obscoena tractantes»,126 il successivo inter-
vento di Sisto V avrebbe definitivamente sancito quell'ulteriore allargamen-
to del raggio censorio fino a comprendere anche i libri trattanti «res ama-
torias», nonche quelle espressioni della cultura dei «senza lettere», scritta e
orale, che giaÁ si era iniziato a colpire con le liste «lunghe»: «comoediae, tra-
gediae, et fabellae fictae eiusdem idiomatis, quae similia continent, et quae
etiam non scriptae a circumforaneis, vagis, mimis, histrionibusque circum-
feruntur».127 L'aspetto, comunque, dell'azione inquisitoriale e censoria che

125 L'«Instructio» contenuta nell'indice del 1593, infatti, avrebbe confermato l'imponente

offensiva lanciata contro la cultura dei «senza lettere», scagliandosi contro tutte le «superstitio-
nes, sortilegia, ac divinationes [...] exempla, quae Ecclesiasticos ritus, religiosorum ordines, sta-
tum, dignitatem, ac personas, laedunt, et violant; facetiae etiam, aut dicteria in perniciem, aut
praeiudicium famae, et existimationis aliorum iactata repudientur. Denique lasciva [...] obscenae
imagines [...]» (Index des livres interdits, vol. IX, cit., p. 860).
126 ACDF, Indice, I/1, c. 19r (seduta del 16 aprile 1587). Cfr. anche G. FRAGNITO , op. cit.,

p. 151.
127 Regola XIV dell'indice sistino del 1590, in Index des livres interdits, vol. IX, cit., p. 797;

cfr. anche G. FRAGNITO, op. cit., pp. 151-152. Sul rapporto tra cultura popolare e cultura ecclesia-
stica controriformistica resta fondamentale il saggio di P. CAMPORESI, Cultura popolare e cultura
d'eÂlite tra Medioevo ed etaÁ moderna, in Storia d'Italia, Annali 4, Intellettuali e potere, Torino, Ei-
naudi, 1981, pp. 81-157. Sul tema mi permetto di rinviare anche a G. CARAVALE, Censura e pau-
perismo tra Cinque e Seicento. Controriforma e cultura dei ``senza lettere'', in «Rivista di Storia e Let-
teratura Religiosa», 2002, 1, pp. 39-77. A testimonianza dell'estensione definitiva che assunse il
concetto di eresia nell'indice sistino, basterebbe rilevare che esso arrivoÁ ad includere anche le pro-
posizioni «male sonantes» (Regula XXI, in Index des livres interdits, vol. IX, cit., p. 799). La Regola
XV includeva, tra le opere condannate anche i trattati di duello (Ivi, p. 797; e G. FRAGNITO, op. cit.,
p. 154; sulla proibizione di questo genere di trattatistica vedi ora il saggio di C. DONATI, A project of
`expurgation' by the Congregation of the Index: treatises on duelling, in Church, culture and censors-
hip in early modern Italy, cit., pp. 134-162). E altri aspetti di questa cultura costituivano il bersaglio
delle regole XII e XIII. La prima delle due riguardava «Libri omnes, tractatus, et indices astrolo-
giae iudiciariae, seu divinationum de futuris contingentibus, successibus, fortuitisque casibus, ac
humanis actionibus eÁ libero arbitrio pendentibus prohibentur omnino», riprendendo dunque le
proibizioni contenute nella regola IX dell'indice tridentino (su questi aspetti «profetici» e «divina-
tori» della cultura popolare cfr. O. NICCOLI, Profeti e popolo nell'Italia del Rinascimento, Roma-
Bari, Laterza, 1987), nonche gli «scripta quaecunque, sortilegia, veneficia, magiam, incantatione-
sque continentia», i quali «reiiciuntur omnino» (Index des livres interdits, vol. IX, cit., p. 797). La
seconda delle due regole (la XIII) proibiva «Epigrammata, elegiae, emblemata, satyrae, et poe-
mata; item libri iniuriosi, detractorii, libelli famosi, apologiae, et scripta quaecunque cuiuscunque
sint tituli, honestati, bonis moribus, praelatorum, principum, aut aliorum honori, seu famae adver-
santia, quocunque idiomate [...] etiam sine nomine auctoris» [Ivi, p. 797; il testo della regola non si
riferiva ± come si eÁ visto ± esclusivamente forme di cultura popolare, ma comprendeva quest'ul-
time, basti pensare al filone delle «pasquinate romane», su cui cfr. la raccolta a cura di V. MAR-

Ð 183 Ð
CAPITOLO TERZO

meglio di ogni altro svelava ragioni e sentimenti di questa massiccia opera-


zione di tutela delle pie orecchie del «popolo fanciullo» era la violenta of-
fensiva sferrata dalle gerarchie ecclesiastiche contro l'utilizzo della lingua
volgare in materia del sacro. Pur essendo essa destinata ad essere istituzio-
nalmente codificata sotto forma di concrete e definite norme prescrittive, i
confini e i limiti di quest'offensiva sarebbero presto sfuggiti di mano alle
stesse autoritaÁ inquisitoriali romane. L'elaborato processo di codificazione
normativa che accompagnoÁ l'attivitaÁ della Congregazione dell'Indice e
quella del Sant'Uffizio nel corso della seconda metaÁ del '500, ricostruito
con ampiezza di particolari da Gigliola Fragnito, aveva trovato il suo di-
scusso punto d'arrivo nella Regola IV dell'Indice clementino e soprattutto
nel testo dell'Observatio circa quartam Regulam ad esso allegata.128 Accanto
alle versioni in lingua volgare della Bibbia venivano proibite «alias sacra
scriptura tam novi, quam veteris testamenti partes quavis vulgari lingua
editas; ac insuper summaria et compendia etiam historica eorundem Bi-
bliorum, seu librorum sacra scriptura, quocunque vulgari idiomate con-
scripta»: 129 una vera e propria dichiarazione di guerra ad ogni forma di
fruizione diretta ± priva cioeÁ di mediazione ecclesiastica ± del sacro da par-
te di quell'ampio settore della popolazione che non aveva alcuna consuetu-
dine con la lingua latina.130 Se la presenza, tra i titoli di «historiette» elen-
cati dall'inquisitore modenese all'inizio del '600, del Contrasto di Cicarello e
della Legenda devota del Romito de' Pulcini 131 rappresenta forse la migliore
testimonianza di un progetto, culturale ancor prima che religioso, che mi-
rava a sradicare le piuÁ dirette espressioni della quotidianitaÁ popolare e con-

CUCCI, Pasquinate del Cinque e Seicento, Roma, Salerno editrice, 1983, con le critiche di M. FIRPO,
Pasquinate, in «Rivista storica italiana», XCVI (1984), pp. 600-621, oppure alle satire aretinesche].
128 Index des livres interdits, vol. IX, cit., pp. 929-931.

129 Ivi, p. 929; G. FRAGNITO , La Bibbia al rogo, cit., pp. 182-183.

130 Nonostante il testo delle regole clementine comprendesse anche le opere in versi latini,

era naturale che la violenta offensiva contro l'uso del volgare nelle «scritture» sacre trovasse il suo
complemento in una massiccia campagna per la valorizzazione della lingua latina. A questo pro-
posito appare piuttosto eloquente il contenuto di una lettera che Costabili spedõÁ da Roma all'in-
quisitore di Bologna nel 1574: «Vorrei che li nostri giovani attendessero alla peritia della lingua
latina almeno e ve si esercitassero, che di qua potriano trarre molta laude. Li padri del Jesus con
questo si acquistano molta reputazione. Hanno homini che in 20 et 15 fanno orationi che rie-
scono celebratissime in cappella di N.S. et a delli nostri non bastano li mesi di tempo che ap-
paiono goffissimi» (A. ROTONDOÁ, Nuovi documenti, cit., pp. 153-154).
131 I titoli completi degli esemplari da noi consultati sono El Contrasto di Cicarello da Cazan

da contrastare in Maschera, e uno maridazzo di Toniolo e Menguosa, narrando tutte le virtuÁ del
sposo e della sposa, cosa piacevole e rediculosa, e Legenda devota del Romito et de Pulcini, cavata
della vita patrum, e una Oratione del beato Simone da Trento devotissima. Non sembra del tutto
casuale il fatto che delle due operette non vi sia traccia nelle biblioteche italiane: i due esemplari
citati sono stati da me consultati presso la British Library di Londra.

Ð 184 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

tadina, filtrandole o piuÁ semplicemente sostituendole con valori ed espres-


sioni letterarie di matrice rigidamente controriformistica,132 era l'insieme

132 Nella prima delle due, per esempio, si legge il colorito racconto del violento alterco che

oppose il contadino Cicarel al «Massar»: quest'ultimo pretendeva di essere risarcito economica-


mente per il volgare affronto che Cicarel aveva osato rivolgergli; un episodio increscioso che il
lettore apprende dalla bocca dello stesso Massar il quale, in marcato dialetto veneto, si rivolge
ad un tal Bonsignor, classica figura di mediatore sociale presente in quasi tutti i «contrasti» po-
polari: «Bonsignor stad ascoltar, / quel che mha fat qst vilan / con sareve a dir doman / de quel
altra stemana / al fu una gran scalmana / che lera ben tra hor de sira / chai era anda al molin / e la
Tonia distendeva el lin / insu l'ara a pe de cha / a savi con se fa / bensavi che sto giotto [Cicarel] /
al se misse dopo un cedon / stufelando con fa i bisson / e ne feva se non ghignar / po fe vista de
pisar / e ghe mostroÁ suo fradel / e ghe dis che lera un osel / dandar a sparavier / che vin par mo
vu messer / de quest gentil giardinel». In clima di incalzante rifeudalizzazione economica, ma so-
prattutto in clima di incipiente Controriforma cultural-religiosa, ogni manifestazione di ribellione
contadina rispetto ai rigidi vincoli sociali imposti dai proprietari terrieri e ogni sintomo di insof-
ferenza rispetto allo sfruttamento economico cui i contadini venivano sottoposti in tempi di ca-
restie e pestilenze fu duramente combattuto ed abilmente «tramutato» ± nel giro di pochi de-
cenni ± nell'immagine di un contadino felice della sua vita di campagna e della sua collocazione
sociale (per queste tematiche, con un particolare riferimento alla letteratura intorno al tema della
povertaÁ, mi permetto di rinviare a G. CARAVALE, Censura e pauperismo tra Cinque e Seicento.
Controriforma e cultura dei ``senza lettere'', cit.). La condanna inquisitoriale di queste due ope-
rette va comunque ascritta anche al preponderante ruolo che era andata assumendo la tutela della
«moralitaÁ» pubblica nell'ambito dell'ideologia controriformistica. Espressioni «sconvenienti»
come quelle contenute nel Contrasto di Cicarello, nel brano sopra citato («stufelando con fa i bis-
son / ... / po fe vista de pisar») oppure nelle parole pronunciate in chiusura di operetta da un
risentito Cicarel («e per le forche del mercha / che timpica / el to naso in cul me fica») non tro-
vavano piuÁ alcuno spazio di cittadinanza letteraria. La stessa considerazione valeva, a maggior
ragione, per vicende «sconvenienti», se non «dannose», da ascoltare, come quelle narrate nella
Legenda divota del Romito: sebbene la «morale» della storia in essa contenuta rientrasse perfet-
tamente nei rigidi canoni controriformistici («due cose son che fan perder la gloria / l'una eÁ la
superbia, / e l'altra eÁ vanagloria») non altrettanto «ortodosso» era l'episodio attraverso il quale
l'anonimo autore cercava di raggiungere i suoi obbiettivi. Il protagonista della Legenda era un
contadino il quale «amava Iddio con grande afflitione / havendo molta roba a suo dominio / assai
bestiame e buona possessione / ... / ma solo un duolo lo tiene in contumace»: quello di non riu-
scire ad avere un figlio da sua moglie. «Pregando quello, Iddio che glielo conceda / havendo pure
un gran tempo durato / perseverando in questa volontaÁ / piacque al Signore fusse consolato /
havendo pure de suo preghi pietaÁ / egli hebbe colla donna ingenerato / un figlio maschio di tanta
beltaÁ». Una volta ottenuto cioÁ che ardentemente desideravano, tuttavia, il contadino e sua moglie
concentrarono l'attenzione esclusivamente sul loro bambino iniziando a trascurare le pie pratiche
della beneficienza ed il consueto dialogo con Dio: «molto dispiace a Dio la ingratitudine / ... /
vedete costui la dimenticato / per lo figliolo lassato ogni ben fare»; data la delicatezza della situa-
zione, il Dio della Legenda decise di mandare un segnale chiaro per ricondurre il contadino sulla
retta via. Fin qui ± si converraÁ ± tutto rientrava perfettamente nelle regole di un edificante mes-
saggio controriformistico. Il «tuono» che «Iddio gli mandoÁ / per farlo rientrar nella via piana»,
tuttavia, era di quelli destinati a sconvolgere i creduli ed incolti lettori di queste «historiette»:
«Nel tempo della dolce primavera / ... / essendo quel fanciullo gito soletto / ... / quando fu al-
lentrare d'un boschetto / di folti sterpi e di frondi era chiuso / ... giunse quivi un fiero lupo ...».
Sebbene la «strategia» di una costante insinuazione della paura di una crudele punizione divina
facesse ancora parte a pieno titolo dell'armamentario controriformistico, lo sbranamento di un
bambino da parte di un feroce animale era un «mezzo» evidentemente troppo brutale agli occhi
di ecclesiastici che avevano ormai imparato ad apprezzare i vantaggi di metodi «soavemente per-
suasivi» quali la confessione o altri coinvolgenti espedienti utilizzati nel corso delle sempre piuÁ
frequenti missioni popolari.

Ð 185 Ð
CAPITOLO TERZO

dei titoli «modenesi» ± tutti titoli di operette in versi e in lingua volgare ±


che ricadeva inesorabilmente entro il cono d'ombra proiettato dalla norma-
tiva clementina: la concomitante presenza di quei due elementi (lingua vol-
gare e scrittura in versi), infatti, era spesso motivo sufficiente ad attirare il
prevenuto interessamento di censori ed inquisitori, ben al di laÁ di un'atten-
ta analisi del contenuto delle stesse opere.133
Se eÁ vero, almeno in parte, che la stesura delle regole introduttive al-
l'Indice rispondeva, nelle originarie intenzioni degli autori, ad una logica
di alleggerimento del numero di proibizioni contenute all'interno dell'Indi-
ce stesso, consentendo di evitare la condanna di un numero troppo elevato
di opere,134 la realtaÁ dell'applicazione dell'Indice clementino si mosse in
tutt'altra direzione.
EÁ noto che tra la fine del XVI secolo e l'inizio del successivo ± in mezzo
a continue resistenze esercitate da congregazioni e ordini religiosi i quali,
aggrappati alla loro tradizionale rete di privilegi ed esenzioni, si mostravano
riluttanti a fornire alla Congregazione dell'Indice le liste complete dei libri
proibiti o sospesi conservati nelle loro biblioteche ± le autoritaÁ romane ot-
tennero dai superiori dei singoli istituti elenchi completi di tutti i titoli pre-
senti nelle loro biblioteche (non solo dei libri proibiti, dunque).135 Accanto

133 Piuttosto esemplare e Á a questo proposito la vicenda delle Rime spirituali di Gabriele
Fiamma, comprese nell'indice di Giovanni di Dio e successivamente in quello di Parma del
1580. Molto piuÁ degli slanci mistici, della dottrina del «queto travaglio» e degli accenni alla de-
bolezza umana che sola puoÁ essere vinta con la grazia di Dio e con il «beneficio di Cristo», do-
vette contribuire alla condanna di questo testo la sua «appartenenza di genere» e la sua poco
dissimulata difesa d'ufficio dei volgarizzamenti biblici (cfr. C. OSSOLA, Il «Queto travaglio» di
Gabriele Fiamma, in Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, vol. III, Roma, Bul-
zoni editore, 1976, pp. 239-286, in partic. pp. 246-247, 251-253, 257-259). Ossola mette in evi-
denza anche la significativa azione di «adattamento» (controriformistico) che il Fiamma mise in
pratica nella stesura dei suoi successivi lavori letterari per sfuggire alle mire censorie delle gerar-
chie romane (Ivi, pp. 252 sgg.).
134 Cfr. G. FRAGNITO , «Li libbri non zo Á rrobba da cristiano»: la letteratura italiana e l'indice di
Clemente VIII (1596), in «Schifanoia», 19, 1999, pp. 123-135, in partic., p. 127 e nota 32 a p. 132.
135 G. FRAGNITO , L'applicazione dell'indice dei libri proibiti di Clemente VIII, in «Archivio

storico italiano», n. 1, CLIX (2001), pp. 107-149, in partic. pp. 126-130, corregge l'interpreta-
zione comunemente accettata dalla storiografia secondo cui si eÁ finora parlato di una «grande
inchiesta» intorno al patrimonio librario degli ordini religiosi. Su questa grande operazione di
catalogazione libraria vedi, il catalogo dei codici curato da M.M. LEBRETON e A. FIORANI, Codices
Vaticani Latini. Codices 11266-11326. Inventari di biblioteche religiose italiane alla fine del Cin-
quecento, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1985; cfr. anche R. DE MAIO, I modelli culturali
della Controriforma. Le biblioteche dei conventi italiani alla fine del Cinquecento, in ID., Riforme e
miti nella Chiesa del Cinquecento, Napoli, Guida, 1973, pp. 365-381; A. BARZAZI, Ordini religiosi
e biblioteche a Venezia tra Cinque e Seicento, in «Annali dell'Istituto storico italo-germanico in
Trento», 21, 1995, pp. 141-228; M. DYKMANS, Les bibliotheÁques des religieux d'Italie en l'an
1600, in «Archivum Historiae Pontificiae», 24 (1986), pp. 385-404; M. ROSA, «Dottore o seduttor
deggio appellarte». Note erasmiane, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», 26 (1990), pp. 5-
33. Per una piuÁ dettagliata bibliografia sulla questione, oltre che per un inquadramento generale

Ð 186 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

alla nota preziosa serie di codici vaticani che raccolgono i risultati di quel-
l'imponente operazione di catalogazione libraria, eÁ oggi possibile consulta-
re una serie di elenchi conservati presso l'archivio della Congregazione del-
l'Indice, riguardanti i libri sospesi o condannati, sequestrati e conservati
presso gli archivi conventuali che di regola ospitavano gli inquisitori gene-
rali o i loro vicari. Attraverso questi elenchi eÁ possibile dunque allungare lo
sguardo ai titoli dei libri posseduti prima dell'entrata in vigore dell'Indice
clementino e consegnati alle autoritaÁ inquisitoriali da librai o da semplici
laici, oltre che da esponenti del clero secolare.136 Queste carte consentono
in altre parole di procedere ad un primo sondaggio intorno all'effettiva in-
cidenza dell'Indice clementino, con particolare riferimento alle ampie e va-
ghe indicazioni contenute nell'Observatio circa quartam regulam che, come
detto, proibiva genericamente qualsiasi scritto che contenesse materiali di
derivazione scritturale in lingua volgare.137 Per limitarsi al tema dell'orazio-
ne, infatti, se la presenza di opere chiaramente eretiche o in odore di eresia
quali l'Espositione pia di Antonio Brucioli nei precetti, nel Credo, et Oratio-
ne Domenicale,138 la Forma delle orationi eclesiastiche, et il modo di ammi-
nistrare i sacramenti, et di celebrare il santo matrimonio Calvini ut credi-
tur,139 le Meditationi sopra il Pater nostro senza authore,140 era solo l'ultima
tardiva testimonianza di una battaglia ormai conclusa; e se la comparsa di
titoli di «offitioli», compendi di orazioni, raccolte di litanie non autorizzate,
come l'Hortulus Animae,141 le Hore della gloriosa vergine,142 i 25 Offitioli

e un'attenta ricostruzione della vicenda, vedi G. FRAGNITO, La Bibbia al rogo, cit., pp. 241 sgg., in
partic. nota 36, pp. 245-246.
136 G. FRAGNITO, La Bibbia al rogo, cit., pp. 246 sgg.

137 Sulle opere contenute in questi elenchi si e Á ampiamente soffermata G. FRAGNITO (La Bib-
bia rogo, cit., pp. 246-313) alle cui pagine rimandiamo per un quadro generale della questione.
138 ACDF, Indice, XVIII (vol. unico), c. 44r («Libri prohibiti e sospesi, mandati dal ve-

scovo di Lucca alli 8 di ottobre»).


139 Ivi, c. 59v («Cathalogus librorum partim damnatorum, partim expurgandorum in civi-

tate Parmae repertorum, et ad novi Indicis publicationem S.to officio praesentatorum»; nota del-
l'inquisitore di Parma ricevuta a Roma il 10 settembre, cfr. Ivi, c. 60v).
140 Ivi, c. 63r («Libri prohibiti et suspensi qui habentur in sancto offitio Veronae»).

141 Ivi, c. 39r («Index librorum [...] Curiae Archiepiscopensis Neapolitanae», cit.); Ivi, c.

40r («Bibliotheca Iosephi Pelusi»); Ivi, c. 44v («Libri prohibiti e sospesi, mandati dal vescovo
di Lucca alli 8 di ottobre»); Ivi, c. 70v («Index librorum prohibitorum qui reperiuntur penes li-
brarios Bononiae»); Ivi, c. 77v («Index librorum suspensorum et Prohibitorum, qui sub facultate
Inquisitionis Florentiae inveniuntur»); Ivi, c. 84v («Lista di libri prohibiti, che si ritrovano nella
Cancelleria della S. Inquisitione di Pisa»).
142 Ivi, c. 84v («Lista di libri prohibiti, che si ritrovano nella Cancelleria della S. Inquisitione

di Pisa»).

Ð 187 Ð
CAPITOLO TERZO

della Madonna antichi,143 la Silva Orationum Venetiis 1589,144 il Compen-


dium orationum,145 le Precationes piarum enchiridion Antuerpiae,146 rap-
presentava la continuitaÁ di un progetto ± quello dell'uniformazione liturgi-
ca ± che, nonostante tutte le difficoltaÁ di ordine pratico, non aveva rinun-
ciato alle sue ambizioni; la frequente presenza di alcuni tra i piuÁ diffusi e
popolari testi devozionali in lingua volgare, quali il Giardino d' orationi,147
Il Monte delle orationi volgari sine auctore,148 oppure lo Specchio di oratio-
ni, poneva la questione dell'incidenza dell'offensiva ecclesiastica sul rap-
porto tra fedeli e devozione interiore. Attraverso questi testi, nel corso
del secolo, masse di «semplici et idioti» avevano avuto la possibilitaÁ di ac-
costarsi alla pratica dell'orazione interiore, di prendere confidenza con il
tema della preghiera mentale, fuggendo i sofismi intellettuali e gli slanci mi-
stici di certa letteratura spirituale destinata ai «piuÁ colti» ma allo stesso
tempo evitando le insidie del meccanico «biascicamento» di pater nostri
e della superstiziosa ripetizione di atti esteriori privi di intima adesione re-
ligiosa. Il Libro devoto e fructuoso a ciaschaduno chiamato Giardino de Ora-
tione,149 che aveva conosciuto nel corso della prima metaÁ del XVI secolo
ben dieci ristampe,150 era, in effetti, un vero e proprio manuale dell'«excel-

143 Ivi, c. 79r («Libri abruciati da dui some in circa, da me fra Antonino Topi da Monte

Pulciano, Vicario dell' Sant'Officio, di commissione del Molto Reverendo Padre Inquisitore di
Fiorenza, cioeÁ la quarta domenica d'Agosto 1598 la mattina mentre si celebravano le messe,
avanti la porta della Chiesa di San Francesco; nota de libri abruciati mandata dal Vicario di Mon-
tepulciano a 27 d'ottobre», cfr. c. 79v); vedi anche Ivi, c. 82r: Officii diversi lattini vecchi et vul-
gari, in «Libri proibiti et sospesi che si ritrovano nella santa Inquisitione di Siena».
144 Ivi, c. 67r («Libri prohibiti et suspecti qui reperiuntur in Sancto Officio Inquisitionis

Bononiae»; lista mandata il 6 sett, cfr. Ivi, f. 68v).


145 Ivi, c. 48v («Lista di libri prohibiti et sospesi che si trovano nell'Inquisitione di An-

cona»); Ivi, c. 59r («Cathalogus librorum partim damnatorum, partim expurgandorum in civitate
Parmae repertorum, et ad novi Indicis publicationem S.to officio praesentatorum»; nota dell'In-
quisitore di Parma ricevuta a Roma il 10 settembre, cfr. Ivi, c. 60v); Ivi, c. 61v («Libri prohibiti et
suspensi qui habentur in sancto offitio Veronae»); Ivi, c. 86r («Catalogus librorum prohibitorum,
qui post novi Indicis publicationem, a diversis praesentati fuerunt S. Officio Inquisitionis Comi,
et adhuc inveniuntur in camera R.P. Inquisitoris»).
146 Ivi, c. 48r («Lista di libri prohibiti et sospesi che si trovano nell'Inquisitione di Ancona»).

147 Ivi, c. 81r («Libri proibiti et sospesi che si ritrovano nella santa Inquisitione di Siena»).

148 Ivi, c. 48r («Lista di libri prohibiti et sospesi che si trovano nell'Inquisitione di An-

cona»); Ivi, c. 63r («Libri prohibiti et suspensi qui habentur in sancto offitio Veronae»).
149 Novamente stampato. In Venetia per Bernardino de Viano de Lexona, 1521, adõÁ XXV

Marzo.
150 Sull'opera, edita per la prima volta a Venezia nel 1454 da Bernardino Benali, vedi il sag-

gio di S. DA CAMPAGNOLA, Il «Giardino di orazione» e altri scritti di un anonimo del quattrocento.


Un'errata attribuzione a NiccoloÁ da Osimo, in «Collectanea franciscana», 41 (1971), pp. 5-59;
nonche C. GINZBURG, Folklore, magia, religione, cit., pp. 633-634. A.J. Schutte segnala sei edi-
zioni tra il 1494 e il 1543 (Printed vernacular italian books, cit., pp. 302-303).

Ð 188 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

lentia» e della «virtude singulare e specialissima» dell'orazione per lettori


«indocti». Questa fortunata operetta aveva insegnato ai «senza lettere» a
rispettare l'«antiquissima institutione», la «singolarissima representatione»
e l'«utilissima devotione» dell'«oratione vocale» e della «psalmodia»,151 ri-
cordando al contempo che l'«oratione [...] eÁ una intentione di mente verso
Dio per pietoso et humile affecto [...] quella che fa piuÁ venir l'anima con
Dio»,152 introducendo cosõÁ i suoi devoti lettori alla «grandecia e utilitaÁ del-
la contemplazione divina». EÁ possibile che qualche sensibile tutore delle ri-
gide regole della vita monastica e convenutale si sia sentito turbato dalle
critiche rivolte dall'anonimo autore del Giardino nei confronti di coloro
che «dicono lo officio in choro perche hanno alcuna provisione temporale
e questi sono servi di quella provisione e non hanno la libertaÁ perche non
possono sentire la dolcezza della psalmodia» 153 o di quelli che «dicono li
psalmi e l'officio perche secondo la chiesa sono obligati, o perche hanno
beneficii, over perche son in ordine sacro».154 CosõÁ come non possiamo
escludere che la sensibilitaÁ filologica di qualche censore sia stata colpita
dalla sporadica presenza di brevi narrazioni sacre ricavate da scritti apocrifi
quali il Purgatorio di S. Patrizio oppure il Transito di S. Girolamo.155 CioÁ
che, tuttavia, dovette mettere inquisitori e censori sulle tracce del Giardino
di orazione, determinando, cosõÁ, la repentina scomparsa del testo dalle mani
dei fedeli, era la ferma asserzione della superioritaÁ della lingua volgare,
quale unica lingua comprensibile ai «semplici», nonche la presenza di brani
scritturali riportati per l'appunto in volgare. Con un'orgogliosa rivendica-
zione d'intenti, l'anonimo autore aveva, infatti, introdotto la sua «narrazio-
ne» dichiarando che «io indocto e grosso considerando la indigentia di me
stesso e de molte altre persone maschi e femine le quale hanno pocha scien-
tia, e non possono intendere li libri literali e scientifici e nondimeno anche
lor cercano de acostarsi a Dio e per lor anche eÁ facto il regno del cielo: e

151 Libro devoto e fructuoso a ciaschaduno chiamato Giardino de Oratione, cit., cc. B1r sgg.
152 Ivi, c. A2v.
153 Ivi, c. C2v.

154 «EÁ bene ± continuava l'autore ± che loro in cioÁ meritino perhoÁ che fanno quello a che
loro voluntariamente sono obligati: pur perche non dicono questo officio per piacere a Dio, ma
per lo stipendio cioeÁ merito over intrate temporale che lor ricevano non possono sentire el gusto
della psalmodia, perhoÁ che il suo fine eÁ nel stipendio temporale» (Ivi, cc. C2v-C3r). E ancora piuÁ
avanti riprendeva le sue invettive indirizzate verso «altri li quali dicono li psalmi in choro: percheÂ
cosõÁ eÁ de usanza nella congregatione che dõÂ e nocte si vada in choro a dire il divino officio: e in cioÁ
non hanno altra consideratione ne intellecto se non di fare come fanno li altri. [...] piuÁ presto si
po dire che vadano sforciati che voluntariamente» (Ivi, c. C3r).
155 S. DA CAMPAGNOLA , Il «Giardino di orazione», cit., p. 28.

Ð 189 Ð
CAPITOLO TERZO

forsi piuÁ tosto che per li superbi delle grande scientie mi ho pensato di
componere questa opera e questo tratato de l'oratione in vulgare: accioÁ
che queste anime idiote e simplice possano havere intendimento di questa
oratione e in essa exercitarsi: havendo piuÁ la vanitaÁ della scientia: la qual fa
l'anima insuperbire e volendo piuÁ presto fare utilitaÁ che satisfare alla vanitaÁ
e curiositaÁ di quelli che cerchano pur de haver parlamenti ornati Rhetorici
e exquisiti».156 Quello che intorno alla metaÁ del Quattrocento (la prima
edizione dell'opera eÁ del 1454) poteva risultare ai piuÁ come un utile e «frut-
tuoso» testo devozionale, un secolo e mezzo dopo dovette apparire come
una pericolosa operazione editoriale. Tanto piuÁ che, come accennato, l'ap-
passionata apologia dell'«ignoranza» del volgo e l'esaltazione del volgare
quale unica lingua comprensibile ai «semplici» erano accompagnate da
cioÁ che gli inquisitori dovettero considerare, alla luce delle rigide prescri-
zioni dell'Observatio clementina, una vera e propria ammissione di colpe-
volezza: «Non pongo alcuna cosa da me ± aveva serenamente dichiarato
l'anonimo autore ± ma quello che ho trovato nelli sancti libri de la scriptura
e per li santi doctori». I meno dotti tra i devoti cattolici erano cosõÁ privati di
un testo che aveva costituito per molti di loro il simbolo di una sintesi ac-
cessibile e feconda tra le istanze di una religiositaÁ interiore incentrata sul
richiamo all'imitazione di Cristo e le esigenze di una religiositaÁ esteriore ba-
sata su «digiuno et elemosina».
Se il Giardino d'orazione aveva raggiunto nel corso del secolo un rag-
guardevole livello di diffusione editoriale, il noto Specchio di oratione del
frate cappuccino Bernardino da Balvano, apparso per la prima volta a Mes-
sina nel 1553 e ristampato ben 14 volte nel corso della seconda metaÁ del
secolo,157 era forse alla fine del '500 il piuÁ diffuso tra i titoli devozionali
del tempo. Un successo editoriale che derivava evidentemente dalla chia-
rezza, dal fervore, ma soprattutto dalla semplicitaÁ con la quale l'operetta
affrontava il tema della preghiera interiore. Inserito in una ricca tradizione
letteraria ± quella francescano-cappuccina ± che sul tema dell'orazione
mentale era destinata a produrre (e in parte aveva giaÁ prodotto) alcuni
dei piuÁ intensi scritti della spiritualitaÁ cinquecentesca, lo Specchio di oratio-
ne si distingueva per la sua essenziale praticitaÁ. Le indicazioni teoriche es-
senziali trovavano immediata traduzione e applicazione in esercizi concreti
e convincenti, subito assimilabili dal lettore: nel panorama editoriale cin-

156 Libro devoto e fructuoso, cit., cc. A2v-A3r.


157 I Frati Cappuccini. Documenti e testimonianze del primo secolo, a cura di C. Cargnoni,
III/1, cit., p. 556.

Ð 190 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

quecentesco era uno dei testi piuÁ facilmente fruibili da parte dei fedeli «in-
docti». Persino la nota Prattica dell'orazione mentale del Bellintani, che sa-
rebbe uscita a stampa venti anni dopo, spesso additata come testo-simbolo
della spiritualitaÁ cappuccina del cinquecento, se messa a confronto con
quest'operetta spirituale del Balvano, «poteva parer cosa per letterati».158
Un testo che senza nulla togliere all'intensitaÁ spirituale e religiosa della
Prattica si poneva interamente al servizio dei «semplici», come lo stesso
autore aveva esplicitamente dichiarato in avvio d'opera: «E perche questo
si scrive a consolazion di semplici, accioÁ sappiano quelli che son poco prat-
tici piuÁ leggermente essercitarsi a questo, secondo saraÁ di bisogno a diversi
tempi e vari gradi si ritroveranno, daremo per modello uno essempio a cia-
scheduno di questi affetti sopra detti».159 Affinche questa non rimanesse
solo una bella dichiarazione d'intenti, il Balvano prometteva ai suoi lettori
«essempi» concreti che potessero guidarli nella pratica «essercitatione» dei
«misteri» dell'orazione: «E accioÁ che gli fideli all'orar novelli abbiano di cioÁ
il cammino aperto, daremo per modello un breve essempio, come esserci-
tar s'hanno nelli misteri essi atti della sacrosanta orazione, alla quale chi al
spesso daraÁ opera con fervore, sentiraÁ con esperienza del sacro orar gli me-
ravigliosi frutti».160 Non si trattava dunque solamente del linguaggio chiaro
e semplice con cui il Balvano comunicava ai suoi lettori la centralitaÁ del
messaggio d'amore del figlio di Dio; 161 si trattava anche della particolare
capacitaÁ dell'autore di adattare il suo insegnamento interiore e spirituale
ai ritmi e alle abitudini della loro quotidianitaÁ, utilizzando espliciti riferi-
menti alle concrete occupazioni dei fedeli. «Ogni giorno leÂvati una o due
ore per tempo dinanzi che vorai andare alli tuoi negoci ± consigliava per
le ore mattutine il frate cappuccino ±; va al luogo della tua orazione, nel-
l'oratorio o camera secreta; posto in genocchioni, devotamente invocando

158 Scrivendo nell'agosto del 1594 ad Orazio Mancini, lo stesso Bellintani ± sulla scia del-

l'ondata anti-volgare che si stava abbattendo sull'intera produzione editoriale devozionale cin-
quecentesca (significativo in questo senso l'inciso «se si lasciassero uscire» utilizzato dal frate cap-
puccino con una chiara allusione alle difficoltaÁ editoriali incontrate in quegli anni dagli scritti in
lingua volgare) ± saraÁ portato ad ammettere, almeno implicitamente, che la sua Prattica «poteva
parer cosa per letterati»: «Non gli faccio latini per dui rispetti: l'uno eÁ che nel latino non posso
temperarmi dalle molte parole, come faccio nel volgare. [...] L'altro eÁ che quantunque paia al
principio che siano cose per letterati, nondimeno, se si lasciassero uscire, la sperientia (son sicuro)
farebbe vedere che la lingua volgare volgarebbeli piuÁ, et al volgo anchora servirebbono» (Lettera
a Orazio Mancini, Brescia, 3 agosto 1594, in I Frati Cappuccini, III/1, cit., p. 121).
159 Ivi, p. 567.

160 Ivi, p. 575.

161 «Contra tutte le insidie del pessimo nemico questo e Á il piuÁ efficace rimedio: portare scul-
pito con vivo pensiero il dolce GiesuÁ, e in lui delettarsi per intimo amore» (Ivi, p. 583).

Ð 191 Ð
CAPITOLO TERZO

il nome della santissima TrinitaÁ, ti segnerai con la croce tre volte, nel nome
del Padre, del Figliuolo e Spirito Santo, e detto il Credo per confession del-
la fede, considera per un poco quello che hai da fare il dõÁ, s'egli eÁ cosa buo-
na o mala».162 «La sera, ± avrebbe infine concluso il Balvano ± ritornato a
casa, nel consueto luogo dell'orazione, dopo acquietato le tue facende, pri-
mo che vai riposarti, diligentemente essamina quello tutto che hai fatto il
giorno, li pensieri, le parole e ogn'altra cosa».163 Tra questi due punti car-
dinali del ciclo quotidiano, l'autore dello Specchio selezionava accuratamen-
te i «negoci» piuÁ significativi di un'ordinaria giornata lavorativa del suo po-
tenziale lettore, accostando ad ognuno di essi una metafora letteraria adatta
ad imprimere nella mente «li spirituali concetti» dell'orazione: «Se l'arbore
non pervene a gli frutti, ± leggiamo tra le sue pagine ± invano sono le fati-
che dell'agricoltore; e se l'anima non produce gli atti della mentale orazio-
ne, il leggere e meditare eÁ di poco frutto»; 164 e ancora: «Il figliuolo [che]
ogni giorno frequenta la lezione, benche prima non sapesse, per il conti-
nuare diventa dotto. E la gocciola dell'acqua, quantunque molle, al spesso
cascando cava il duro sasso. In tal modo la persona spirituale di continuo
essercitandosi nell'orazione e a questi misteri, conciosia cosa che al princi-
pio sia rozza e poco esperta, diventeraÁ con grazia del Signore (perseveran-
do fedelmente) d'essa dotta e maestra».165 Il risultato finale era, cosõÁ, un'in-
cisiva miscela di precetti cattolici e di pratici insegnamenti di vita vissuta
che questo passo sembra ben sintetizzare: «Dunque per trovar venia ap-
presso a Dio, al miglior confessore che potrai avere confesserai tutti inte-
ramente i tuoi peccati, e ricevuta da lui l'assoluzione e sodisfatto al prossi-
mo quel tutto che dovevi, disponi e ordina te stesso, la casa e la famiglia, e
tutti tuoi negoci per modo che non ti ritrovi cosa alcuna la quale t'impedi-
sca dalla grazia di Dio. E sarebbe anco bene farti un testamento e dispo-
nere le cose tue quando stai sano, per modo che, occorrendo l'infirmitaÁ,
non ti suffochino gli pensieri delli negoci e ansietaÁ di questo mondo».166
Anche questo testo, come il Giardino di orazione, era destinato a cadere
nella rete degli inquisitori locali, esecutori dell'Observatio clementina. In
una lettera all'inquisitore di Messina, scritta il 6 maggio 1553 al momento
del completamento dell'opera, era stato lo stesso Balvano a dichiarare

162 Ivi, p. 632.


163 Ivi, p. 634.
164 Ivi, p. 570.
165 Ivi, p. 630.
166 Ivi, pp. 631-632.

Ð 192 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

± quando evidentemente l'utilizzo di brani scritturali in opere in lingua vol-


gare non rappresentava ancora motivo di condanna di un testo ± di aver
raccolto, dopo una settimana di studio sulla Sacra Scrittura, tutto cioÁ che
si riferiva al tema dell'orazione e di averlo presentato nelle sue pagine pro-
prio come in uno «specchio».167 Citazioni dalle opere di San Basilio, di
Sant'Agostino, di Sant'Ambrosio o di San Bernardo si alternavano, in effet-
ti, a fedeli trascrizioni di brani tratti dal libro della Genesi, dai salmi di Da-
vide, dalla Lettera ai Corinzi o da altri libri del Vecchio e del Nuovo Te-
stamento. Il tutto riportato fedelmente in lingua volgare. Quanto bastava
per condannare il prezioso libretto alla scomparsa dall'universo dell'edito-
ria devozionale secentesca. Se la Prattica dell'orazione mentale di padre
Mattia Bellintani ± intenzionalmente priva di brani scritturali in lingua vol-
gare ± avrebbe continuato a circolare, piuÁ o meno indisturbata, per tutto il
Seicento, non si puoÁ dunque dimenticare che i fedeli «semplici et indocti»
erano stati nel contempo privati di uno strumento devozionale ben piuÁ alla
portata della loro umile e quotidiana domanda di religiositaÁ rispetto al testo
del Bellintani.
Proprio in riferimento alle «privazioni» cui furono sottoposti i «sem-
plici» nell'ambito dell'applicazione dell'indice clementino, eÁ stato lucida-
mente scritto che «il divieto che li costringeva a privarsi di testi che usati
in ambito domestico (e spesso anche in ambito scolastico) o per seguire le
prediche e la liturgia in latino, avevano alimentato per generazioni la loro
pietaÁ, costituõÁ ± le fonti sono esplicite in proposito ± un vero e proprio
trauma. Un trauma che dovette essere di duplice natura in quanto com-
portoÁ non soltanto la separazione da libri familiari, ma anche probabil-
mente l'adattamento a nuovi testi».168 Il trauma e lo «scandolo che piglia-
no i semplici e buoni» 169 altro non era, dunque, che l'inevitabile prezzo
imposto da una piuÁ complessiva strategia politico-religiosa messa in atto
dalle gerarchie ecclesiastiche; una strategia che mirava a ridurre spazi e
tempi della pietaÁ individuale per sostituirli con proposte e pratiche devo-

167 Ivi, p. 556.


168 G. FRAGNITO, «Dichino corone e rosari»: censura ecclesiastica e libri di devozione, in
«Cheiron», XVII, 2000, pp. 135-158, in partic. p. 153. In una lettera al cardinal Valier citata dalla
stessa Fragnito, il cardinal Tolomeo Gallio, vescovo di Osimo, aveva osservato che «l'essecutione
di questo nuovo Indice a nessuno eÁ stata piuÁ grave che alle monache et altre persone semplici,
che restano private della maggior parte de libri volgari della sacra scrittura» (lettera da Cingoli,
12 settembre 1596; Ivi, p. 138).
169 Lettera di Antonio Benivieni, vicario dell'arcivescovo di Firenze, al R.do Lionardo, ca-

nonico fiorentino a Roma, Firenze 26 ottobre 1596, cit. da G. FRAGNITO, Ivi, p. 139.

Ð 193 Ð
CAPITOLO TERZO

zionali collettive piuÁ agevolmente controllabili da parte dell'attento e seve-


ro «occhio del padre».170 Senza dilungarsi su aspetti, peraltro giaÁ suffi-
cientemente indagati dalla storiografia, che esulano dall'ambito di questo
lavoro, si vuole qui sottolineare come l'eliminazione di testi ampiamente
diffusi a livello popolare come il Giardino d'orazione o lo Specchio d'ora-
tione e la coerente strategia politica controriformistica volta a garantire
una sicura e ferma presa sulle masse di fedeli attraverso strumenti devo-
zionali emotivamente coinvolgenti, ancorche dottrinalmente non rigorosis-
simi, trovava il suo corrispettivo in un graduale ma irreversibile allenta-
mento della tensione censoria nei confronti delle piuÁ disparate forme di
superstizione devozionale. Scorrendo la massa di documenti «espurgativi»
inviati da inquisitori e censori locali tra la fine del '500 e i primi anni del
Seicento, in applicazione delle generiche Regole clementine, e confusa-
mente affastellati sui tavoli di lavoro dei sempre piuÁ indaffarati membri
della Congregazione romana dell'Indice, eÁ possibile cogliere una traccia
evidente di questo processo.171

170 L'espressione e Á presa in prestito dal titolo di un libro di A. TURCHINI, Sotto l'occhio del
padre. SocietaÁ confessionale e istruzione primaria nello Stato di Milano, Bologna, Il Mulino, 1996.
PiuÁ in generale sulle linee della strategia devozionale controriformistica cfr. M. ROSA, PietaÁ ma-
riana e devozione del Rosario nell'Italia del Cinque e Seicento, in ID., Religione e societaÁ nel Mez-
zogiorno tra Cinque e Seicento, Bari, De Donato, 1976, pp. 217-243; ID., La Chiesa meridionale
nell'etaÁ della Controriforma, in Storia d'Italia, Annali 9, La Chiesa e il potere politico, Torino, Ei-
naudi, 1986, pp. 291-345; ID., L'onda che ritorna: interno ed esterno sacro nella Napoli del '600, in
Luoghi sacri e spazi della santitaÁ, a cura di S. Boesch Gajano e L. Scaraffia, Torino, Rosenberg &
Sellier, 1990, pp. 397-417; C. RUSSO, La religiositaÁ popolare nell'etaÁ moderna: problemi e prospet-
tive, in Problemi di storia della Chiesa nei secoli XVII-XVIII. Atti del V convegno di aggiorna-
mento (Bologna 3-7 settembre 1979), Napoli, Edizioni Dehoniane, 1982, pp. 137-190; Devozioni
e pietaÁ popolare fra Seicento e Settecento: il ruolo delle congregazioni e degli ordini religiosi, a cura
di S. Nanni, «Dimensioni e Problemi della Ricerca Storica», 2 (1994), pp. 5-290; A. PROSPERI,
Tribunali della coscienza, cit., in partic. parte III: I missionari, pp. 551 sgg.
171 Ci riferiamo alle numerose note censorie inviate dalle autorita Á locali, spesso costituitesi
in vere e proprie congregazioni locali dell'Indice, in applicazione delle ampie e generiche Regole
clementine. Una volta effettuata la «corretione» del testo a livello locale, secondo le norme im-
partite dalla stessa congregazione romana, i testi di queste censure dovevano infatti essere inviati
a Roma per un'ulteriore verifica e per un'auspicata (ma mai realizzata) uniformazione dei testi. In
realtaÁ, questa massa di documenti divenne presto ingestibile da parte dei membri romani della
Congregazione, creando un vero e proprio ingolfamento dell'attivitaÁ censoria. Solo una minima
parte di questi documenti fu uniformato e organizzato all'interno di un Indice espurgatorio, pub-
blicato nel 1607, ma poi immediatamente sospeso. Su questi temi cfr. i numerosi contributi di
Gigliola Fragnito tra cui L'applicazione dell'indice dei libri proibiti di Clemente VIII, cit.; EAD.,
«In questo vasto mare de libri prohibiti et sospesi tra tanti scogli di varietaÁ et controversie»: la cen-
sura ecclesiastica tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento, cit.; EAD., Aspetti e problemi
della censura espurgatoria, in L'Inquisizione e gli storici: un cantiere aperto, cit.; EAD., «Li libbri
non zoÁ rrobba da cristiano», cit.

Ð 194 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

3. PRIMI SEGNALI DI RESA

Il processo intentato a metaÁ degli anni ottanta dall'inquisitore di Udine,


fra Girolamo Asteo, contro il mugnaio Domenico Scandella detto Menoc-
chio, reso celebre dalle ricerche di Carlo Ginzburg, aveva giaÁ offerto una
significativa testimonianza della linea di tendenza lungo la quale si muove-
vano le gerarchie ecclesiastiche. Una parte rilevante, se non la piuÁ impor-
tante, del procedimento processuale friulano era consistita in un attento
esame dei libri posseduti e letti dall'imputato, al fine di verificare le fonti
dalle quali aveva desunto le eretiche «opinioni cavate dal suo cervello».
Quell'incolmabile iato tra la lettera dei testi e le strampalate conclusioni
che egli ne aveva tratto, su cui Ginzburg ha costruito alcune tra le piuÁ belle
pagine del suo lavoro,172 era apparso immediatamente alle autoritaÁ friulane
quale testimonianza evidente delle aberrazioni dottrinali e teologiche cui
era potenzialmente soggetto il testo evangelico quando fosse avvicinato
da un lettore non avvertito senza l'intermediazione ecclesiastica. Tra i testi
rinvenuti presso la dimora del Menocchio o da lui stesso citati a fondamen-
to delle sue «opinioni» figuravano, infatti, oltre al nudo testo della Bibbia
in volgare, molti tra i testi e le operette devozionali in volgare che avevano
alimentato negli ultimi decenni la pietaÁ religiosa di «semplici et idioti» in-
dirizzandone la tensione devozionale in modo autonomo rispetto ai rigidi
paletti fissati dalle autoritaÁ ecclesiastiche, quali il Fioretto della Bibbia, il
Rosario della gloriosa Vergine, la Vita della Madonna, l'Historia del giudicio.
Dalla semplice lettura di un brano del Fioretto della Bibbia ± aveva confes-
sato il mugnaio friulano ± egli si era convinto che Cristo fosse figlio carnale
di san Giuseppe e che la verginitaÁ di Maria fosse una fantasiosa invenzione
di qualche padre della Chiesa e che dunque Cristo non fosse nient'altro che

172 «Confrontando ± ha scritto Carlo Ginzburg ± a uno a uno i passi dei libri citati da Me-

nocchio con le conclusioni che egli ne trasse (se non addirittura con il modo in cui li riferõÁ ai giu-
dici) si riscontra invariabilmente uno iato, uno scarto talvolta profondo. Ogni tentazione di con-
siderare questi libri ``fonti'' nel senso meccanico del termine cade di fronte all'aggressiva origina-
litaÁ della lettura di Menocchio. PiuÁ del testo, allora, appare importante la chiave di lettura, la gri-
glia che Menocchio interponeva inconsapevolmente tra se e la pagina stampata: una griglia che
metteva in luce certi passi nascondendone altri, che esasperava il significato di una parola isolan-
dola dal contesto, che agiva nella memoria di Menocchio deformando la stessa lettera del testo. E
questa griglia, questa chiave di lettura, rinvia continuamente a una cultura diversa da quella
espressa nella pagina a stampa ± una cultura orale. [...] Fu lo scontro tra la pagina stampata e
la cultura orale di cui era depositario a indurre Menocchio a formulare ± a se stesso prima,
poi ai compaesani, infine ai giudici ± le ``opinioni [...] cavate dal suo cervello''» (C. GINZBURG,
Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del '500, Torino, Einaudi, 1976, pp. 39-40; gli atti
processuali sono stati editi da Andrea Del Col nel 1990: Domenico Scandella, detto Menocchio. I
processi dell'Inquisizione (1583-1599), Pordenone, Edizioni Biblioteca dell'Immagine).

Ð 195 Ð
CAPITOLO TERZO

un uomo come tutti gli altri: 173 un'«opinione» della quale il Menocchio
aveva trovato indiretta conferma leggendo un passo di un altro testo devo-
zionale a quei tempi molto diffuso quale il Rosario della gloriosa Vergine
Maria. Davanti ad un inquisitore friulano sempre piuÁ interdetto dalle sue
stravaganti affermazioni, il mugnaio Scandella aveva infatti spiegato che
Maria «si chiamava vergine essendo stata nel tempio delle vergini, percheÂ
l'era un tempio dove si tenivan dodeci vergini, et secondo che si allevavan
le maritavano, et questo io l'ho letto sopra un libro chiamato il Lucidario
della Madonna»: 174 «Cristo ± aveva ribadito sicuro delle sue ragioni ±
era stato un uomo come tutti gli altri, nato da San Giuseppe e da Maria
vergine». Ancora, citando la lettura di una diffusissima Vita della Madonna
± identificata da Ginzburg nel Legendario de le vite de tutti i santi di Iacopo
da Varagine ± 175 si era mostrato convinto che la Vergine Maria non fosse
degna di particolari onori terreni da parte dei fedeli,176 per non parlare di
come, tenendo sotto gli occhi alcune «rozze ottave pedestramente ricalcate
da un passo del Vangelo di Matteo» avesse addirittura dedotto «che eÁ piuÁ

173 «Questo mio pensiero [che ``Christo era un homenato come noi''] lo fondava perche Â
tanti homini sono nati al mondo, et niuno eÁ nato di donna vergene; et havendo io letto che la
gloriosa Vergine era sposata da s. Iseppo, perche ho letto dell'istorie che s. Iseppo chiamava no-
stro signor Iesu Christo per figliolo, et questo ho letto in un libro che si chiama Il fioreto della
Bibia» (C. GINZBURG, Il formaggio e i vermi, cit., p. 34).
174 Ivi, p. 41. Ecco le parole che aveva potuto leggere in quel libro il Menocchio, riportate

da Ginzburg: «Contempla qui anima fervente, come fatta oblatione a Dio et al sacerdote, S. Ioa-
chino e S. Anna lasciarono la sua dolcissima figliuola nel tempio di Dio, dove dovea essere nutrita
con le altre verginelle, le qual eran dedicate a Dio. Nel qual luoco con somma devotione viveva
contemplando le cose divine, et era visitata dalli S. Angeli, come sua regina et imperatrice, et sem-
pre era in oratione» (Ivi, pp. 40-41). Ginzburg ha commentato: «[...] Pur senza deformarne la
lettera, ne ribaltoÁ il significato. Nel testo, l'apparizione degli angeli isolava Maria dalle compagne,
conferendole un alone soprannaturale. Nella mente di Menocchio l'elemento decisivo era invece
la presenza delle ``altre verginelle'', che serviva a spiegare nella maniera piuÁ semplice l'epiteto at-
tribuito a Maria, assimilandola alle compagne. Un particolare finiva cosõÁ col diventare il centro
del discorso, mutandone il senso complessivo» (Ivi, p. 41).
175 In particolare si dovette trattare del capitolo intitolato De l'assumptione de la beata Ver-

gine Maria, che era una rielaborazione di un «certo libretto [...] appocripho, intitulato al beato
Ioanne evangelista» (Ivi, pp. 41-42).
176 «Signor sõÁ che e Á vero che ho detto quando passoÁ l'imperatrice che lei era da piuÁ della
Madonna, peroÁ intendeva in questo mondo; et in quel libro della Madonna non li fu mai mandati
ne fatti tanti honori, anzi quando la fu portaÁ a seppellir li fu fatto deshonor, che uno voleva tuorla
via dalla spalla delli apostoli, et restoÁ attacato con le mani, et questo era nella vita della Madonna»
(Ivi, p. 41). A p. 42, Ginzburg riporta il testo cui faceva riferimento il Menocchio, la descrizione
delle esequie di Maria fatta dal Varagine in cui l'affronto fatto al cadavere di Maria si risolve nella
descrizione di una guarigione miracolosa, e insomma nell'esaltazione di Maria vergine madre di
Cristo, notando come, invece, Menocchio «isola [...] unicamente il gesto del capo dei sacerdoti, il
``deshonor'' fatto a Maria durante la sepoltura, testimonianza della sua miserabile condizione»
(Ivi, p. 43).

Ð 196 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

gran precetto amar il prossimo che amar Iddio».177 Il problema che a que-
sto punto si posero gli inquisitori friulani non era certo quello di verificare
l'apocrifia o meno dei testi letti dal Menocchio, o di rintracciare con acribia
filologica i passi incriminati per valutare modalitaÁ e portata della distorsio-
ne della lettura operata dall'imputato,178 bensõÁ quello di constatare la va-
liditaÁ di una radicata convinzione secondo la quale un individuo cultu-
ralmente e dottrinalmente poco attrezzato non era in grado di accostarsi
alla riflessione autonoma su temi sacri senza correre il rischio di cadere nel-
l'eresia.
«Il ricorso ± ha scritto Carlo Ginzburg in riferimento al modo di pro-
cedere del mugnaio friulano ± a brani come quelli del Legendario e del Fio-
retto, tratti da vangeli apocrifi, non deve stupire. Di fronte alla contrappo-
sizione tra la concisa semplicitaÁ della parola di Dio ± ``quattro parole'' ± e la
smodata proliferazione della Scrittura, la nozione stessa di apocrifo veniva
di fatto a cadere. Vangeli apocrifi e vangeli canonici venivano posti sullo
stesso piano, e considerati testi meramente umani».179 In modo esattamen-
te speculare, le autoritaÁ inquisitoriali, accecate dal pericolo di un accesso

177 «Perche  ho letto in una Historia del Giudicio [Opera nuova del Giudicio universale. Nel
qual si tratta della fin del mondo, cioeÁ quando GiesuÁ Christo verraÁ a giudicar i buoni, et i rei; Con la
venuta d'Antichristo] che quando saraÁ il giorno del giudicio [Dio] diraÁ a quel anzolo: ``Tu eÁ cat-
tivo, tu non mi hai fatto un ben''; et quel anzolo risponde: ``Signor, non ve ho mai visto da farvi
ben''. ``Io haveva fame, non mi hai dato da mangiare, io haveva sede et non mi hai datto da bere,
era nudo et non mi hai vestito, quando era in priggione non mi venivi a revisitarre''. Et per questo
io credeva che Dio fusse quel prossimo, perche disse ``io era quel povero''» (Ivi, p. 44; l'operetta
compare tra i titoli di «historiette prohibite» sin dalla lista del Calbetti del 1604). Ginzburg in-
dividua le ottave dalle quali il Menocchio aveva ricavato le sue convinzioni: «[...] Christo rispon-
deraÁ lieto nel viso: / ``Quel poverel ch'alla porta venia / morto di fame, afflitto e conquiso / per
mio amor elemosina chiedia, / non fu da voi scacciato ne diviso / ma del vostro mangiava, et be-
via, / a chi voi davi per amor di Dio: / sappiate che quel povero ero io''», e commenta con queste
parole le peculiari modalitaÁ di fruizione del testo da parte dell'imputato: «Se nei casi precedenti
la forzatura avveniva in sostanza attraverso l'omissione, qui il procedimento eÁ piuÁ complesso. Me-
nocchio fa un passo avanti ± apparentemente minimo, in realtaÁ enorme ± rispetto al testo: se Dio
eÁ il prossimo, perche disse ``io era quel povero'', eÁ piuÁ importante amare il prossimo che amare
Dio» (Ivi, p. 45).
178 Vale la pena segnalare un ultimo brano dello storico torinese in riferimento ad un'ope-

retta a quel tempo molto diffusa: «Nel capitolo CLXVI del Fioretto, Come fu mandato Iesu alla
scuola, si legge ± scrive lo storico ± come GesuÁ maledicesse il maestro che gli aveva dato una ``go-
tata'', e lo facesse stramazzare morto sul colpo. Di fronte all'ira dei vicini accorsi, ``Ioseph disse:
`Hai fiol mio castigati ormai, non vedi tu quanta gente ci porta odio?' '' ``Fiol mio'': ma nella
stessa pagina ± continua Ginzburg ± nel capitolo immediatamente precedente [...] Menocchio
aveva potuto leggere questa risposta di Maria a una donna che le chiedeva se GesuÁ fosse suo fi-
glio: ``SõÁ che eÁ mio filiol, suo padre si eÁ solo Dio'' [...]. La lettura di Menocchio era evidentemente
unilaterale e arbitraria ± quasi la ricerca di una conferma di idee e convinzioni giaÁ saldamente
possedute. In questo caso la certezza che ``Christo era un homenato come noi''» (Ivi, p. 43).
Sul Fioretto e le distorte modalitaÁ di lettura di Menocchio cfr. anche Ivi, pp. 61-62; 71-73; p. 85.
179 Ivi, p. 44.

14
Ð 197 Ð
CAPITOLO TERZO

diretto al testo sacro, erano portate a minimizzare, se non ad annullare, la


distinzione tra testi apocrifi (e dunque potenzialmente superstiziosi) e testi
canonici. In altre parole, nonostante si trattasse per lo piuÁ di scritti apocrifi
e superstiziosi, le operette devozionali citate dal Menocchio nel corso dei
suoi processi inquisitoriali, vennero giudicate pericolose dalle autoritaÁ ec-
clesiastiche solamente in quanto veicoli del sacro troppo facilmente acces-
sibili a chi fosse digiuno della lingua latina.180

GiaÁ nell'incontrollata estensione della lotta contro il volgare erano dun-


que racchiuse le premesse di un allentamento della tensione censoria nei
confronti di apocrifia e superstizione. Focalizzando l'attenzione sul fortu-
nato filone della devozione mariana 181 eÁ possibile peroÁ registrare un pas-
saggio ulteriore, cogliendo segnali chiari, anche se frammentati e disorga-
nici, di un «rilassamento» dottrinale destinato ad avere conseguenze di lun-
ga durata.
Se, infatti, persino l'attento inquisitore modenese fra' Arcangelo Cal-
betti sceglieva di minimizzare le allarmate segnalazioni dei suoi collabora-
tori intorno all'attribuzione di poteri «beatificanti» e «santificanti» alla fi-
gura della Beata Vergine contenuta nel noto Rosario della Madonna di Ca-
poleone Ghelfucci,182 non puoÁ allora stupire la leggerezza d'approccio con

180 Non e Á affatto casuale che molti dei titoli citati dal Menocchio siano contenuti nelle liste
dei libri sequestrati a fine secolo, inviate a Roma dalle autoritaÁ inquisitoriali locali in applicazione
delle Regole clementine (su cui cfr. supra, p. 187): a cominciare dai Fioretti della Bibbia, in
ACDF, Indice, XVIII (vol. unico), c. 61v («Libri prohibiti et suspensi qui habentur in sancto
offitio Veronae»); e Ivi, c. 80v («Libri proibiti et sospesi che si ritrovano nella santa Inquisitione
di Siena»); passando poi alla Vita della Madonna, in Ivi, c. 48v (il titolo compare due volte nella
«Lista di libri prohibiti et sospesi che si trovano nell'Inquisitione di Ancona»); arrivando al Fior
di virtuÁ ripetutamente citato dal Menocchio, in Ivi, c. 80v («Libri proibiti et sospesi che si ritro-
vano nella santa Inquisitione di Siena»); oppure ad operette simili come la Vita di Cristo, in Ivi, c.
48v («Lista di libri prohibiti et sospesi che si trovano nell'Inquisitione di Ancona»); e c. 85r («Li-
sta di libri prohibiti, che si ritrovano nella Cancelleria della S. Inquisitione di Pisa»).
181 Su cui cfr. il saggio di MARIO ROSA , Pieta Á mariana e devozione del Rosario nell'Italia del
Cinque e Seicento, cit.; sul culto mariano vedi anche P. SCARAMELLA, Le Madonne del Purgatorio.
Iconografia e religione in Campania tra rinascimento e controriforma, Genova, Marietti, 1991.
182 Ecco come si esprimeva il Calbetti riferendo del caso in questione al segretario della

Congregazione dell'Indice, Paolo Pico: «Non per altro vi scrissi a Roma per il Rosario del Ghel-
fucci, se non perche alcune persone scrupolose, e timorate mi dissero che sarebbe stato bene a far
riveder detto libro, perche v'erano alcune cose, che havrebbono potuto offendere il christiano
lettore; e ricercando io quali fussero, non mi seppero dir altro se non due luoghi nel primo canto,
e son questi: che nel primo canto suddetto ragionando del mistero dell'incarnatione finge poeti-
camente che il Padre eterno volendo far l'incarnation del Verbo, prima ne dimandasse consiglio
al Senato e concistoro degli Angioli, perche dice cosõÁ nella stanza 29: ``Su figlia su, movi le piume,
e stendi / per l'aure eterne il tuo camino alato; / da tutto 'l Cielo a consultar mi rendi / tutto in un
punto il general Senato'', il che (dicevano i sopradetti) ripugna alla infinita sapienza di Dio. E nel
medesimo canto, congregato poi il soprascritto senato, par che finga che ne domandi il consen-

Ð 198 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

la quale il monaco cassinense Anastasio Bresciano e il frate Raffaello Riva,


«venetiano dell'ordine de' predicatori», si accostavano alle affermazioni
contenute nei Discorsi spirituali dal canonico Angelo Gaucci.183 Entrambi
i censori avevano premesso alle loro annotazioni parole di elogio nei con-
fronti dell'opera che si apprestavano a correggere: «Giudico che sia per ap-
portar gran lume, et anco mover le anime alla virtuÁ non solo de semplici
per esser l'opera volgare, ma anco d'ogni conditione di persona, et che
per cioÁ con le infrascritte osservationi sia degna d'essere admessa et appro-
vata», aveva chiosato il primo; 184 «Ogn'uno e particolarmente il semplice
puoÁ cavare da questa lettione consolatione e utilitaÁ spirituale», gli aveva fat-
to eco il secondo.185 Appariva, dunque, chiaro fin dalle prime battute il be-
nevolo atteggiamento nei confronti dell'autore e del testo da parte dei due
censori: ciascuna delle «osservazioni» critiche da loro svolte, in effetti, sa-
rebbe stata immediatamente seguita da un intervento che ne avrebbe atte-
nuato la portata polemica. Subito dopo aver messo in evidenza tre «propo-
sitioni» del Gaucci intorno alla fantasiosa leggenda della «santa Casa di Lo-
reto» ± «propositioni», per ammissione dello stesso censore, dotate di «de-
bolissimi fondamenti» ± il monaco cassinense per esempio si affrettava a
giustificare l'autore precisando che «ben eÁ vero che queste propositioni
non sono assolutamente come vere dette dall'Authore, ma proposte et con-
fermate solo come semplici et private contemplationi».186 Allo stesso mo-

timento a gli Angioli per far quest'incarnatione [...]. M'accennarono anchora che dispiacevano
quelle parole cosõÁ assolutamente poste nel Canto 3 stanze 58 et nel canto 4 stanza 11, nelle quali
attribuisce il beatificare e santificare alla beata Vergine; e nel primo luogo dice cosõÁ: ``letto d'ho-
nore, e sei beata, e puoi / di tua beatitaÁ bear chi vuoi'', nel secondo dice: ``Ecco che a pena il tuo
saluto in tutto / porta all'orecchie mie l'aura vitale [nell'edizione del 1603 da me consultata
«l'aura» eÁ «vocale»] / che il dolce infante mio gioinne, e mentre / tu lo fai santo, ei n'essultoÁ
nel ventre'' [...] Sentendo io questi motivi cominciai a rivedere il libro, ma poiche non scopersi
cosa di rilievo tralasciai, poiche (per quanto par a me) le soprascritte cose si possono prendere in
buon senso; et quanto a me, non ho altri errori notati, se non queste cose che mi furono accen-
nate da queste persone timorate che si movevano per buon zelo; questo eÁ quanto posso dirle
[...]» (lettera da Modena, 10 aprile 1604, in ACDF, Indice, Protocolli N, cc. 475r-v e 487r). Il
titolo completo dell'opera del Ghelfucci eÁ: Il Rosario della Madonna Poema Eroico del sig. Capo-
leone Ghelfucci da CittaÁ di Castello, dato alle stampe dai figliuoli dopo la morte dell'Autore. A di-
votione dell'Illustrissimo Signor Cintio Aldobrandini Cardinale di S. Giorgio. Agiuntovi nuova-
mente gli Argumenti a ciascun Canto. Con privilegio. In Venetia, appresso NicoloÁ Polo, 1603.
183 «Censura della prima parte delli Discorsi spirituali di messer Angelo Gaucci Canonico

di Macerata stampata in Macerata 1596 fatta per Anastasio di Brescia monaco cassinense»
(ACDF, Indice, Protocolli O, cc. 226r-228r); e «Giudicio sopra la prima parte de discorsi di
M. Angelo Gaucci, canonico di Macerata, stampati nella medesima CittaÁ l'anno 1596 di Fr. Ra-
faello Riva Venetiano de Predicatori» (Ivi, cc. 230r-232v).
184 Ivi, c. 226r.

185 Ivi, c. 230r.

186 Ivi, c. 230v.

Ð 199 Ð
CAPITOLO TERZO

do, il secondo censore dopo essere stato mosso da un impeto di sdegno a


segnalare l'abuso miracolistico che il Gaucci operava intorno al sacro san-
gue di Cristo ± «Con le tre goccioline di sangue, parmi troppo si sii ubli-
gato a quella sua lunga e peraltro non ingrata similitudine, perche se non
vogliamo multiplicare miracoli, conviene che maggior numero di tre goc-
cie di sangue concorresse come materia della formatione del corpo di
N.S.» ± 187 si preoccupava di offrire un'interpretazione che giustificasse
le sue affermazioni.188 Il segnale che giungeva cosõÁ dalla periferia alle auto-
ritaÁ romane era quello di un ridimensionamento delle pericolositaÁ degli ele-
menti superstiziosi e miracolistici, se non quello di un invito ad una bene-
vola accettazione degli stessi. EÁ difficile immaginare la reazione di consul-
tori e cardinali romani di fronte ad un messaggio di tal sorta: l'assenza di
specifica documentazione al riguardo lascia ipotizzare che, stante la quan-
titaÁ di lavoro arretrato accumulato, essi non furono neppure in grado di
prendere in visione il testo delle censure. Qualche indicazione sulle reazioni
e sulla posizione assunta da Roma viene, tuttavia, da un altro «caso» affron-
tato in quegli anni, simile per contenuti e tematiche, e meglio documentato
del precedente. Il documento cui ci riferiamo eÁ una «Nota delle cose che
sono parse degne di censura nel libro intitolato Giglio Angelico di France-
sco Cortese minore osservante», il cui autore eÁ il noto inquisitore di Geno-
va Eliseo Masini.189 Le osservazioni censorie del Masini dimostravano sen-
sibilitaÁ dottrinale e filologica. «A car. 39 ± aveva annotato ± dice, che la
Vergine generoÁ con Iddio; et se ben poi si dichiara, tutta via simili parole
a primo scontro offendono l'orecchie»; 190 e subito dopo, sulla stessa lun-
ghezza d'onda, aveva appuntato: «A car. 40, attribuisce alla Vergine la co-
gnitione di tutte le creature visibili, et invisibili, et dice, ch'ella ha conosciu-
to tutte le specie, le virtuÁ delle stelle, de' Cieli, de gli elementi, et di tutte le

187 Ivi, c. 230v.


188 «Il perche par nuovo questo di tre goccioline, il che forse meglio consideroÁ lo stesso aut-
tore, quando nella seguente carta, in quel suo possibile e pio pensiero, (cosõÁ pare che l'ad-
dimandi) disse che il sangue era di quelle cose che concorrevano a far un salvatore del mon-
do» (Ibid.).
189 ACDF, Indice, Protocolli Z, cc. 85r-86v. Il titolo completo dell'opera in questione e Á Gi-
glio Angelico esposto con alti sensi in sette Lettioni, ne sette Sabbati di Quaresima. Con una breve
inventione, e morale dichiaratione del Vangelo corrente nelle seconde parti. Lette nel MDCVIII con
maggiori misteri a Padova, da Fra Francesco Cortese da Montefalco, Teologo, e Predicatore Gene-
rale de Menori osservanti. Con tre tavole dell'Autori citati. Dell'autoritaÁ da quali sono cavati i con-
cetti. E delle cose piuÁ notabili. Con privilegio, in Venetia all'Insegna della Speranza, 1608, Con
licenza de' superiori. Su Eliseo Masini vedi A. ERRERA, Processus in causa fidei, cit., pp. 263-
269 e J. TEDESCHI, Il giudice e l'eretico, cit., ad indicem.
190 ACDF, Indice, Protocolli Z, c. 85r.

Ð 200 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

cose».191 Ma l'inquisitore di Genova non era stato messo in allarme sola-


mente da queste affermazioni dottrinalmente equivoche. In tutta l'opera
± aveva argomentato il censore fornendo dovizia di particolari ± il Cortese
«fa dire a suo modo la Divina scrittura torcendo le autoritaÁ di essa come a
lui pare et i concetti per lo piuÁ sono di cartocci».192 Ebbene, di fronte ad
affermazioni di tal sorta, provenienti dalla penna di un rispettato ed auto-
revole inquisitore, la Congregazione dell'Indice metteva tutto a tacere, li-
quidando le osservazioni del Masini come «parvi momenti», e ponendo fi-
ne ad ogni possibile discussione con un secco «liber utilis permittatur».193
Non stupisce affatto, dunque, scoprire che a questi segnali di rilassa-
mento dottrinale e a questo allargamento delle maglie censorie corrispon-
desse un progressivo svilimento della qualitaÁ dell'intervento censorio stes-
so. I cardinali membri dell'Indice, infatti, si affannavano a dibattere intor-
no all'opportunitaÁ di irrilevanti locuzioni avverbiali, impegnando le loro
giornate a sfornare interventi lessicali e grammaticali di poco conto. Le
censure alla versione latina di uno dei testi allora piuÁ diffusi tra il clero
(ma anche tra i laici) quali le Figure della Bibbia di Antonio Rampegolo
± censure e commenti successivamente inserite all'interno dell'unico indice
espurgatorio pubblicato nel corso del secolo, quello curato da Giovanni
Maria Guanzelli da Brisighella ± 194 offrono in questo senso una significa-
tiva testimonianza. Trattandosi di una raccolta di citazioni scritturali, ovve-
ro di un compendio di episodi edificanti tratti dall'Antico e dal Nuovo Te-
stamento, la versione in volgare risultoÁ essere, nel rigido regime instaurato
dall'Observatio clementina, uno dei testi piuÁ frequentemente segnalati dalle
autoritaÁ locali nelle liste dei libri sequestrati inviate a Roma sul finire del
secolo.195 Se la versione in lingua volgare era destinata, dunque, a sparire

191 Ibid.
192 Ivi, c. 86v.
193 ACDF, Indice, Protocolli S, c. 96v.

194 Indicis librorum expurgandorum in studiosorum gratiam confecti. Tomus primus. In quo

quinquaginta auctorum libri prae caeteris desiderati emendantur. Per Fr. Io. Mariam Brasichellense
Sacri Palatii Apostolici Magistrum in unum corpus redactus, et publicae commoditati aeditus. Ro-
mae, Ex Typographia R. Cam. Apost. 1607, superiorum permissu, ff. 26-36. Sulle vicende che
portarono alla pubblicazione di questo Indice espurgatorio, ma anche sulla peculiare vicenda
della sua immediata sospensione cfr. G. Fragnito, «In questo vasto mare de libri prohibiti»,
cit., p. 31.
195 ACDF, Indice, XVIII (vol. unico), c. 38v («Index librorum [...] Curiae Archiepiscopen-

sis Neapolitanae»); Ivi, c. 40r («In bibliotheca Hectoris Soldanelli quod dicitur della gatta»); Ivi,
c. 40r («Bibliotheca Iosephi Pelusi»); Ivi, c. 44r («Libri prohibiti e sospesi, mandati dal vescovo
di Lucca alli 8 di ottobre»); Ivi, c. 48r («Lista di libri prohibiti et sospesi che si trovano nell'In-
quisitione di Ancona»); Ivi, c. 55r (Lista senza indicazione di provenienza); Ivi, c. 59r («Catha-

Ð 201 Ð
CAPITOLO TERZO

dal mercato editoriale, la versione latina fu, invece, condannata quamdiu


corrigetur nell'Indice del 1596 196 e sottoposta ad una minuziosa espurga-
zione. In molti casi si dovette trattare di interventi che andavano a sosti-
tuire un semplice ed innocuo sostantivo con un altro forse linguisticamente
o grammaticalmente piuÁ appropriato, senza minimamente alterare il senso
ed il significato complessivo della frase nella quale questo era inserito. CosõÁ,
la parola latriam veniva sostituita da idolatriam: «Verbo Avaritia. Simulach-
ra gentium, argentum, et aurum, paulo infra initium, fol 63, habetur, Dia-
bolus cognoscens humanum appetitum esse pronum ad simulachra, et ideo
latriam, corrigatur, Diabolus cognoscens humanum appetitum esse pronum
ad simulachra et idolatriam»; 197 oppure l'aggettivo clarissimi diventava cha-
rissimi: «Verbo eodem. Qui de terra est de terra loquitur, quae est figura O,
in fine habetur, si consideremus fratres clarissimi, legatur, fratres charissi-
mi»; 198 il grammaticalmente errato peccarum veniva corretto nella sua ap-
propriata versione peccatorum: «Verbo Beatitudo. Qui biberit ex hac acqua,
quae est figura B, in fine habetur ex gratiae largitate peccarum, corrigatur,
ex gratiae largitate peccatorum»; 199 e ancora, l'inserimento del venit risulta-
va evidentemente funzionale ad una piuÁ scorrevole lettura della frase senza
peraltro modificarne il contenuto di una virgola: «Verbo eodem. Inebria-
buntur ab ubertate, quae est figura C, fol. 80, habetur paulo infra initium
folii, quia tertio anno Imperii sui, primus annus fuit, legatur, quia tertio anno
Imperii sui venit, primus annus fuit».200 Senza annoiare il lettore con ripe-
titive citazioni, basti qui rilevare come, maniacalmente coinvolti in questo
lavoro di minuziosa quanto infruttuosa riscrittura, i censori arrivavano per-
sino a riproporre ± dopo aver annunciato l'ennesima precisazione linguisti-
ca ± la medesima identica frase che si erano proposti di correggere: «Verbo
eodem [Avaritia], fol. 67. Aquae multae, populi multi, quae est figura N,
circa medium, habetur, percipiet quantum anima in eisdem erat sterilis, et

logus librorum partim damnatorum, partim expurgandorum in civitate Parmae repertorum, et ad


novi Indicis publicationem S.to officio praesentatorum», nota dell'Inquisitore di Parma ricevuta
a Roma il 10 settembre, cfr. Ivi, c. 60v); Ivi, c. 65v («Libri prohibiti et suspecti qui reperiuntur in
Sancto Officio Inquisitionis Bononiae», mandata il 6 sett, cfr. Ivi, c. 68v); Ivi, cc. 68v e 70r («In-
dex librorum prohibitorum qui reperiuntur penes librarios Bononiae»); Ivi, c. 75r («Inquisitionis
Genoae»); Ivi, c. 77r («Index librorum suspensorum et Prohibitorum, qui sub facultate Inquisi-
tionis Florentiae inveniuntur»).
196 Index des livres interdits, vol. IX, cit., p. 463.

197 Indicis librorum expurgandorum, cit., c. 28.

198 Ibid.

199 Ivi, cc. 28-29.

200 Ivi, c. 29.

Ð 202 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

fine bono, corrigatur, percipiet quantum anima in eisdem erat sterilis, et fine
bono»,201 rischiando di confondere il loro mestiere di censori con quello
ben piuÁ umile di correttori di bozze: «Verbo eodem, fol. 80 ± annotavano
tra le loro carte ± legitur, observavit igitur, quod veniret temporis plenitudo,
etc. et fugaret peccati emendam, corrigatur, et fugater peccati mendam».202
Si tratta naturalmente solo di qualche breve assaggio che non esaurisce il
senso ed il valore complessivo delle censure pubblicate dal Brisighella all'i-
nizio del Seicento; sono tuttavia esempi significativi che offrono la misura
di una censura ecclesiastica che ± smarrita dietro al significato contingente
e all'interpretazione linguistica delle singole parole o dei singoli aggettivi ±
rischiava di perdere di vista, insieme all'obiettivo del controllo delle devo-
zioni superstiziose, anche quello di una rigorosa definizione dei contorni
dottrinali e teologici dell'ortodossia cattolica.
Non era infatti circostanza casuale se in quei primi anni del Seicento il
mercato editoriale devozionale assisteva al successo di testi quali il Rosario
della Beata Vergine di Arcangelo Caraccia, oppure il Trattato dell'angelo cu-
stode del gesuita Francesco Albertini. Stampato per la prima volta nel
1614, ripubblicato a distanza di piuÁ di dieci anni, nel 1627 l'opera del Ca-
raccia era la dimostrazione di quanto fosse ormai diffuso il Rosario mariano
tra gli strati popolari.203 Ebbene, scorrendo le pagine del Caraccia si pote-
vano leggere affermazioni che da quasi mezzo secolo le autoritaÁ censorie si
affannavano ± come si eÁ visto ± a condannare: «Chi porta il Rosario bene-
detto adosso guadagna duecento anni, e ducento quarantene d'Indulgenza.
Molto vale contra i Demoni, come si diraÁ nella Quarta Parte».204 PuoÁ an-
che darsi che la Compagnia del Santissimo Rosario fosse effettivamente
autorizzata a concedere proprio quelle indulgenze che egli prometteva ai
suoi fedeli,205 ma non era questo il punto. A non essere accettabile era

201 Ivi, c. 28.


202 Ivi, c. 29.
203 Rosario della Beata Vergine, con l'indulgenze e privileggi concessi alla Compagnia. Raccolto

dal P. Maestro F. Argangelo Caraccia da Rivalta, dell'Ordine de' Predicatori. Di nuovo ristampato
con la Gionta d'alcune divote considerazioni fatte dall'Autore. In Roma, per Guglielmo Facciotti
1627. Con licenza de' superiori. Citiamo dalla seconda edizione dell'opera ± edizione, a detta dello
stesso autore, piuÁ attendibile e piuÁ vicina alle sue reali ed originarie intenzioni perche depurata da
«alcune cose che gl'erano state aggiunte [nella prima edizione] senza sua saputa» (Ivi, f. 2r). Su
questo testo vedi le osservazioni di Mario Rosa che lo contestualizza nell'evoluzione del ricco fi-
lone della pietaÁ mariana tra Cinque e Seicento (M. ROSA, PietaÁ mariana, cit., pp. 228-231).
204 Rosario della Beata Vergine, cit., f. 89 (corsivo mio).

205 «Chi sta presente alla Salve Regina, che si canta la sera de' Sabbati, e giorni festivi al-

l'Altare del Santissimo Rosario, ha 40 giorni d'Indulgenza. Chi dice, fa dire, et ode la Messa
del Santissimo Rosario, guadagna tutte l'Indulgenze, che si guadagnano in dire tutto il Rosario.

Ð 203 Ð
CAPITOLO TERZO

piuttosto la cultura miracolistica e superstiziosa entro la quale quelle indul-


genze venivano presentate ai fedeli. Come ad esempio l'invito ripetutamen-
te rivolto al lettore a portare con se «il Rosario benedetto al collo»,206 le
immagini votive della Madonna,207 oppure addirittura l'«oglio della lampa-
da»,208 e cioeÁ quello stesso armamentario rituale e sacramentale magico-su-
perstizioso utilizzato dalle «donnicciuole» che da tempo gli inquisitori an-
davano processando con l'accusa di «maleficii» e «strigarie».209 Si trattava
di una proposta devozionale che non offriva al lettore alcuna reale via d'u-
scita al di fuori della secca alternativa tra le miracolistiche virtuÁ promesse ai
fedeli «adepti» della Compagnia,210 da una parte, e le piuÁ crudeli punizioni

Ogni giorno visitando l'Altare del Santissimo Rosario, pregando per l'essaltatione della Santa
Fede, si guadagnano cento giorni d'Indulgenza. Chi accompagna la Processione, cento giorni.
Chi accompagna il Stendardo quando si porta alli Morti, cento giorni» (Ivi, f. 89).
206 Nel «Miracolo VII» dedicato ad «alcuni liberati dal demonio col Rosario benedetto» si

leggeva: «Il padre Maestro Frate Alano, rinovatore del Santissimo Rosario, narra d'un huomo
molto travagliato dal demonio, si che non trovarono mai via di liberarlo. Si risolsero i suoi di farlo
scrivere nel Santissimo Rosario, e che lo portasse al collo (gran cosa) mentre, che haveva il Rosario
benedetto al collo, non era travagliato, e come lo levava, subito era tormentato. Si deliberoÁ di non
mai lasciarlo, ne giorno, ne notte, ma sempre portarlo con divotione. Vedendo il demonio la sua
perseveranza, et i favori, che gli faceva la Beatissima Vergine, lo lascioÁ libero totalmente» (Rosario
della Beata Vergine, cit., p. 160, corsivo mio). Ancora, nel «Miracolo XI» intitolato «Una donna
con il Rosario benedetto sanava tutte le sorti d'infirmitaÁ» il concetto veniva ribadito nuovamente
con l'aggiunta di una miracolosa formula d'accompagnamento guaritrice: «Il prefato Dottore re-
cita, che vi era una Donna divotissima del Rosario, alla quale Iddio fece gratia, che a quanti in-
fermi metteva il suo Rosario benedetto adosso, dicendo queste parole: ``In testimonio che Christo
nostro Signore compose il Pater noster, e per suo comandamento fu fatta l'Ave Maria; e per la
divotione del Santissimo Rosario, sia sano da questa infermitaÁ''; e subito restavano sani» (Ivi, p.
164, corsivo mio).
207 Cfr. il «Miracolo XVIII», intitolato «Molti liberati dalla peste per virtu Á del Rosario» in
cui si leggeva: «L'Anno 1494 nella cittaÁ di Lisbona [ci] fu una gran pestilenza, et il Padre Maestro
Alano narra di una Donna, che giaÁ si moriva, si raccomandoÁ alla Madonna del Rosario, tenendo
nelle sue braccia un'Imagine della Beata Vergine. Si addormentoÁ, e poco dopo si sveglioÁ sana e salva.
Fu questo alli 24 di Agosto» (Ivi, p. 172, corsivo mio).
208 «Nella medesima citta Á [...] un'altra Donna stava per spirare, fu raccomandata dal Marito
alla Madonna del Rosario et unse la piaga con l'oglio della lampada del Rosario e subito restoÁ
sana» (Ivi, p. 172, corsivo mio).
209 Su questi temi oltre al saggio citato di M.P. FANTINI , L'orazione di Santa Marta, vedi

anche G. ROMEO, Inquisitori, esorcisti e streghe nell'Italia della Controriforma, Firenze, Sanso-
ni, 1990.
210 Il lettore veniva, infatti, abilmente attirato con la promessa di «beneficii» che potevano

arrivare a modificare persino l'inevitabile destino della morte; ecco quello che si raccontava nel
«Miracolo XVI ± Di uno, che stette sepolto due anni vivo, per virtuÁ del Rosario»: «Al tempo, che
il P. San Domenico predicava il Rosario, era un Ladrone famoso, e San Domenico l'essortava a
lasciare quella mala vita, ma non faceva frutto. Un giorno il Santo lo pregoÁ a volere almeno pi-
gliare quel Rosario, e dirlo ogni giorno; l'accettoÁ, e lo diceva spesse volte. Occorse, che fu am-
mazzato, e come morto fu sepolto in un bosco da' suoi compagni. Da lõÁ a due anni passoÁ il Padre
S. Domenico per quella strada, e come fu vicino al luogo, dove era sepolto, sentõÁ una voce gri-
dare: ``O frate Domenico aiutami''. Si fermoÁ il Santo a quella voce, che non cessava di gridare, e

Ð 204 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

minacciate all'indirizzo dei suoi avversari,211 dall'altra: una proposta che si


adattava, cosõÁ, perfettamente alla mentalitaÁ settaria e ai bisogni «esclusivi-
sti» di chi utilizzava riti e pratiche cattoliche a fini magici e superstiziosi.
Il Trattato dell'angelo custode del gesuita Albertini, pubblicato solo
due anni prima, nel 1612, presentava molte analogie con il testo del Carac-
cia.212 L'angelo prendeva qui il posto del rosario quale dispensatore di «be-
nefici nel corpo e ne beni temporali» mentre, con un linguaggio che sem-
brava trarre ispirazione dalle numerose formule di «incantationes ad amo-
rem» allora in circolazione, l'Albertini prometteva consolazione e soluzioni
per tutti: per «quelli che vogliono accasarsi, [a cui] l'Angelo custode trova
chi habbia ad essere della sua vita buono, e fedel compagno»,213 per chi sta
«restretto in carcere»,214 per gli affaticati viaggiatori,215 i malati, gli inde-

seguitoÁ la voce, che lo condusse alla sepoltura; mosse col suo compagno quella terra, et uscõÁ fuori
quel ladrone, e disse: ``Sappi fra Domenico, che quel Rosario, che m'insegnasti m'ha servato vivo
due anni in questa sepoltura; e la Madonna m'ha fatto vedere le pene, che dovevo patire, se non
era il Rosario: hora ti prego ascoltare i miei peccati, et assolvermi''. Subito finita la confessione,
tornoÁ nella sua fossa, e morõÁ, e l'anima sua se n'andoÁ al Cielo» (Ivi, pp. 169-170, corsivo mio).
211 Veniva presentata, infatti, ai devoti una Beata Vergine vendicativa e crudele con chi

osava opporsi al suo volere; solo per fare un esempio ecco la «grave infermitaÁ, che dava grandis-
sima pena» che veniva riservata a chi non si lasciava rapire dal fascino e dal potere del «sacratis-
simo» Rosario: «Miracolo II ± Una Signora, che persuadeva la gente a non entrare nella Compa-
gnia del S. Rosario, fu castigata, e ripresa dalla Beata Vergine»: «Nel tempo del Padre San Do-
menico era una gran Signora, divota molto della Beata Vergine (per quello, che dimostrava este-
riormente) ma molto male affetta al Santissimo Rosario, che all'hora si predicava nuovamente, e
di tal sorte, che procurava, che la gente non entrasse in questa Compagnia, et a tutto suo potere si
opponeva a questo santo Instituto. Occorse, che una notte questa Signora stava in oratione, e fu
rapito lo spirito suo in Cielo, dove vidde una gran compagnia di gente, che stava in un grandis-
simo splendore, et vi erano huomini e donne, che recitavano il Rosario avanti la B. Vergine, che
era in mezo di quel splendore, et ogni volta, che dicevano l'Ave Maria, usciva dalla bocca di
quelli una Stella splendidissima; vidde anco un bellissimo libro, nel quale tutta quella gente
era descritta con lettere d'oro. E mentre stava con grandissima attenzione considerando tutte
queste cose, udõÁ la B. Vergine, che gli disse: Tu figliuola non sei scritta in questo bel libro [...]
et hai di piuÁ fatto un errore molto grande, havendo persuaso altri, che lascino questa Compagnia,
et altri che non entrino in essa. Onde tu sarai castigata, non tanto peroÁ come merita la tua colpa,
per esser stata in altre cose mia divota, et il castigo, che ti si daraÁ, saraÁ per tua salute; [...] e subito
fu presa da una grave infermitaÁ, che le dava grandissima pena» (Ivi, pp. 141-143).
212 Trattato dell'angelo custode del R.P. Francesco Albertino da Catanzaro della Compagnia

di GiesuÁ. Con l'Offitio dell'angelo custode, approvato da N.S. Papa Paolo Quinto. Et un altro trat-
tato utilissimo alla devotione verso la Beatissima Vergine. Fatto da un Sacerdote Napolitano Dot-
tore in Teologia. Ad istanza del Signor Gioseppe Scotto. In Roma, per Guglielmo Facciotti, 1612.
Con licenza de' superiori. Si vendono alla bottega di NicoloÁ de Lutii. All'arco di Camiliano. Con
Privilegio. Su questo trattato cfr. L. FIORANI, Astrologi, superstiziosi e devoti nella societaÁ romana
del Seicento, in «Ricerche per la storia religiosa di Roma. Studi, documenti, inventari», 2 (1978),
Roma, Edizioni di storia e letteratura, pp. 147-150. Sull'Albertini vedi C. SOMMERVOGEL, Biblio-
theÁque de la Compagnie de JeÂsus, I, Bruxelles-Paris, t. I, 1891, coll. 127-128.
213 Trattato dell'angelo custode, cit., p. 169.

214 L'Angelo era, infatti, presentato dall'Albertini come una sorta di clemente custode car-

Ð 205 Ð
CAPITOLO TERZO

moniati.216 Il gesuita non si limitava a trasgredire il divieto clementino di


pubblicare litanie diverse da quelle ufficialmente elencate nel decreto del
1601,217 ma rischiava anche di oltrepassare i confini dell'ortodossia dottri-
nale impegnandosi nel calcolo della velocitaÁ degli angeli e azzardando im-
probabili spiegazioni intorno al dono dell'ubiquitaÁ tradizionalmente attri-
buito alle creature angeliche dalle Sacre Scritture e dai padri della Chiesa:
avanza tutte le nostre imaginationi la prestezza dell'Angelico moto, si che a noi,
che ammiriamo la velocitaÁ del volo d'un Falcone, del salto d'un Pardo, del nuoto
d'un Delfino, il corso d'una frezza, la caduta d'un fulmine; a noi, che ci rendiamo
per vinti nel considerare un giro solo del Firmamento, ch'in un hora, dicono alcu-
ni, camina tanto, quanto viaggio farebbe un huomo, se facendo ogni giorno qua-
ranta miglia, continuamente caminasse per dua mila nove cento, e quattro anni; o
secondo altri tanto, quanto ci vorrebbe a circondar tutta la terra dall'Oriente fino
all'Occidente [...] a noi dico che restiamo spaventati udendo ragionar di cosõÁ fatti
movimenti, i quali sono di gran lunga avanzati dall'Angelica velocitaÁ; non resta es-
sempio, o similitudine alcuna, che ci possa aiutare a concepire la fretta di quel mo-
to, con che un Angelo discende dal Cielo Empireo, di lontananza poco meno che
infinita, per nostro aiuto.218

Solamente grazie a questa loro «prestezza» ± proseguiva senza la pur


minima esitazione l'Albertini ± «gli Angioli sono presenti in ogni luogo;
perche invero tanto grande eÁ la prestezza de' movimenti loro, che se bene
non possono in un medesimo istante ritrovarsi in piuÁ d'un luogo, possono
tuttavia in brevissimo spatio di tempo a tutte quante le parti del mondo
esser realmente presenti».219 Questa `naturale' e `scontata' conclusione
cui giungeva la sua fantasiosa ricostruzione non era altro che la piuÁ sinto-
matica testimonianza di un «devozionismo» che faceva ormai fatica a rima-
nere entro i confini dottrinali del passato.
Non si trattava di casi editoriali isolati e marginali. Ne si trattava di testi

cerario disposto a chiudere un occhio per il suo colpevole ma penitente protetto: «Se per avven-
tura dunque si ritrovasse alcuno restretto in carcere ricorra devotamente al suo angelo custode,
ricordandosi come l'Angelo liberoÁ San Pietro dalla carcere, ruppe le catene, aprõÁ la porta di ferro,
e libero lo ridusse a casa» (Ivi, p. 173).
215 «Se vi ritrovate in viaggio, assaliti da pericoli, ricorrete all'Angelo» (Ibid.).

216 «Per tre giorni, lasciando da parte i diletti, hai da attendere all'oratione insieme con

tua moglie, et in questo modo restarete dal pericolo, e dalle mani del demonio liberati» (Ivi, pp.
170-171).
217 L. FIORANI , Astrologi, superstiziosi e devoti, cit., p. 149 e nota 117.

218 Trattato dell'angelo custode, cit., pp. 104-105.

219 Ivi, pp. 105-106.

Ð 206 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

estranei al panorama devozionale del tempo.220 Erano infatti sintomatiche


espressioni di una tendenza pedagogico-religiosa che si poneva come obiet-
tivo primario la conquista delle masse di fedeli attraverso la proposta e l'of-
ferta di un'immagine del sacro tesa a soddisfare le piuÁ istintuali e concrete
esigenze quotidiane del fedele molto piuÁ che a rispettare i rigorosi canoni
della correttezza teologica e della purezza dottrinale. Affermazioni religio-
samente stravaganti e dottrinalmente fuorvianti come quelle sopra riporta-
te, facilmente assimilabili alle piuÁ diffuse formule e pratiche superstiziose
del tempo, non erano dunque il frutto dell'invenzione personale di qualche
irrispettoso scrittore o predicatore, bensõÁ il frutto di una deliberata strate-
gia politico-religiosa di gerarchie ecclesiastiche che sembravano aver rinun-
ciato definitivamente a combattere ogni forma di superstizione.
Era chiaro che si era consumata una frattura difficilmente componibile
tra il progetto normativo tridentino e la realtaÁ della proposta devozionale
controriformistica, tra quell'insieme di provvedimenti censori e repressivi
che a partire dalla fine degli anni sessanta avevano scandito una politica
di lotta alle infiltrazioni superstiziose e pagane che inquinavano testi e riti
della religiositaÁ cattolica, e una prassi culturale e religiosa che rispondeva
ad esigenze (di breve o di medio periodo) di ordine decisamente differente.
Una frattura tra norma e realtaÁ che il servita veneziano Paolo Sarpi
avrebbe di lõÁ a poco messo a fuoco in maniera lucida e puntuale, sulla scia
delle attente riflessioni pubblicate qualche anno prima dall'inglese Sandys.
Pubblicata per la prima volta (anonima) in inglese a Londra nel 1605,221 la
Relazione sullo stato della Religione di Edwin Sandys usciva a Ginevra in
lingua italiana vent'anni dopo, nel 1625.222 Promotore di questa iniziativa
era proprio Paolo Sarpi il quale, conquistato dall'ispirazione irenica del
Sandys, decideva di contribuire in prima persona all'arricchimento del te-

220 Cfr. le considerazioni svolte da L. FIORANI , Astrologi, superstiziosi e devoti, cit., e vedi

anche infra, pp. 216 sgg., l'emblematico `caso' del Maestro del Sacro Palazzo, Riccardi.
221 A Relation of the state of religion: and with what Hopes and Policies it hat beene framed,

and is maintained in the severall states of these western parts of the world, London, Printed for
Simon Waterson dwelling in Paules Churchyard at the signe of the Crowne, 1605. In realtaÁ la
stesura dello scritto risaliva a qualche anno prima, ad un viaggio italiano dell'autore nel 1599;
l'opera peraltro venne pubblicata in Inghilterra a sua insaputa. Su quest'opera e sulle sue vicende
vedi G. COZZI, Sir Edwin Sandys e la «Relazione dello Stato della Religione», in «Rivista Storica
italiana», LXXIX (1967), pp. 1095-1121.
222 Relazione dello stato della Religione, e con quali dissegni et arti ella e
Á stata fabricata e ma-
neggiata in diversi stati di queste occidentali parti del mondo, in PAOLO SARPI, Lettere a Gallicani e
Portestanti, Relazione dello Stato della Religione, Trattato delle materie beneficiarie, a cura di Gae-
tano e Luisa Cozzi, Torino, Einaudi, 1978 (edizione che «riproduce esattamente parte del volume
35, tomo I, della collana ``La letteratura italiana, Storia e testi'', Riccardo Ricciardi editore, Mi-
lano-Napoli, pubblicato nell'anno 1969»), pp. 51-88.

Ð 207 Ð
CAPITOLO TERZO

sto con una serie di significative aggiunte.223 In particolare, il Sarpi si de-


dicava ad approfondire quella che considerava una delle piuÁ felici intuizio-
ni dell'autore inglese: da acuto osservatore della realtaÁ religiosa italiana
quale era, il Sandys aveva constatato, appunto, un'insanabile frattura tra
la dottrina cattolica insegnata nelle «scuole» (la teoria) e l'«essercizio» re-
ligioso dei fedeli (la pratica): «Questa religione ± aveva scritto ± non pare
oggidõÁ tanto corrotta nella dottrina e nelle scuole loro (dove anco le molte
opposizioni gli tengono in timore e gli hanno sforzati di raffinarla) quanto
si vede corrotta nella prattica e nell'essercizio che d'essa si fa fra loro».224
Prendendo tra le mani queste pagine a distanza di qualche anno dalla loro
originaria redazione, Sarpi doveva constatare come questa semplice ma ef-
ficace osservazione del Sandys fosse allora ancora piuÁ pregnante di quanto
non lo fosse all'inizio del secolo. Non rimaneva altro che riprendere il filo
del discorso laddove il Sandys lo aveva lasciato. Le cause di tale insanabile
frattura risiedevano, secondo il servita veneziano ± coerentemente con la
sua caratteristica vena giurisdizionalistica ± nell'usurpazione del potere
temporale da parte dei pontefici romani in epoca medievale.225 Al di laÁ del-
la corposa polemica rivolta contro il papato, era tuttavia dalla lucida osser-
vazione della quotidiana pratica religiosa ± costantemente messa a confron-
to con la normativa e con la precettistica ecclesiastica ± che Sarpi ricavava
la sua sferzante diagnosi. A partire dal tema della preghiera fino ad arrivare
alla delicata questione delle indulgenze il verdetto era sempre uguale: rigo-
re dottrinale ed interioritaÁ nella teoria, superficialitaÁ ed esterioritaÁ nella pra-
tica: «Nelle scuole non si concede che l'orazione sia grata a Dio, se non con
l'attenzione del cuore: et in prattica le orazioni cosõÁ publiche, come private,

223 Su Paolo Sarpi, oltre agli studi di Gaetano Cozzi, vedi V. FRAJESE, Sarpi scettico. Stato e

Chiesa a Venezia tra Cinque e Seicento, Bologna, Il Mulino, 1994 e la bibliografia ivi citata; eÁ al-
tresõÁ fondamentale l'introduzione di C. Vivanti all'edizione da lui curata dell'Istoria del Concilio
tridentino di Paolo Sarpi, seguita dalla Vita del padre Paolo di Fulgenzio Micanzio, Torino, Ei-
naudi, 1974; nonche l'introduzione dello stesso Vivanti a Paolo Sarpi, Opere, a cura di C. Vivanti,
Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 2000.
224 Relazione dello stato della Religione, cit., p. 54.

225 «Non eÁ dubbio che ne' sei secoli, che passarono dopo il settecento sino al mille trecento,
i pontefici romani s'assunsero potenza temporale sopra i regni e i prencipati, e per fondarla la
proposero al popolo, come cosa appartenente alla religione, [...] trovando ragioni per sostentar
la dottrina nuovamente inventata con istorcere la Scrittura, et ammassare luoghi de' padri tron-
cati o figurati [...] E perche apparivano in questa disposizione qualche assurditaÁ e contrarietaÁ
contra li articoli della religione, instituirono ne' monasterii le scuole, che studiassero come acco-
modare si potesse la dottrina cristiana agl'interessi che correvano. Ma una contrarietaÁ cosõÁ mani-
festa non si poteva affatto conciliare: per lo che le scuole non potettero salvare tutti gli abusi in-
trodotti, senza inventare qualche distinzione, che se bene non s'accomodasse alle cose, salvasse
nondimeno in parole la dottrina antica» (Ivi, pp. 55-56).

Ð 208 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

si recitano con la voce solamente, e le persone si tengono cosõÁ d'aver sodi-


sfatto al lor debito»; 226 in modo analogo riguardo alla concessione delle
indulgenze: «Nelle scuole si dice che le indulgenzie non vagliono, quando
chi le dispensa usi in cioÁ troppa prodigalitaÁ, o che la causa non sia pia, o chi
le vuol ricevere non si truovi in grazia di Dio. Nella prattica tutto il contra-
rio, sarebbe impietaÁ a dire che non fosse valida una indulgenza plenaria, e
con liberazione d'anime del purgatorio, concessa a chi porteraÁ, bacieraÁ,
guarderaÁ una medaglia, concessa per cavar denari, o per favorire qualche
signore overo qualche dama».227 Uno scarto ± quello tra l'ortodossa dottri-
na dell'intercessione e l'abuso superstizioso della pratica religiosa dei fede-
li ± che gli appariva ancor piuÁ evidente quando passava ad esaminare il te-
ma del «ricorso a' santi»: 228 «Nelle scuole si concede il ricorso a' santi, co-
me a datori della grazia, ma solo come intercessori appresso Dio: nella prat-
tica peroÁ le grazie si domandano a loro, anzi ce ne sono molte che non si
reputerebbe poterle ottener da Dio, ma sol da quel santo ch'eÁ proposto a
tale ufficio: impercioÁ che hanno divisa la podestaÁ di far miracoli, ascrivendo
ad alcuni la cura sopra i denti, ad altri sopra il collo, sopra le mamelle, so-
pra la febbre, sopra la peste [...]. Dividendosi anco in fazzioni, per le varie
divozioni, essaltando ciascuno il suo santo sopra gli altri, a concorrenze: da
che anco nasce che i santi piuÁ moderni offuscano la memoria de' vecchi e
gli escludono dagli onori».229

226 Ivi, p. 56.


227 Ibid. Sulla pratica delle indulgenze Sarpi ritornava anche successivamente con pagine
finemente ironiche: «Restano nondimeno eziandio nelle formule presenti molte contradizioni.
Ho veduto una medaglia benedetta dal papa, col registro stampato delle sue virtuÁ, tra le quali
ne osservai due, la prima, chi diraÁ sette Pater nostri e sette Ave Marie, per la conversione dell'I-
sole Filippine, caveraÁ un'anima del purgatorio. La seconda, chi diraÁ cinque Pater nostri e cinque
Ave Marie, per la esaltazione della Chiesa e conservazione del papa, caveraÁ un'anima del purga-
torio. E mi maravigliai come si potesse trovare alcuno che volesse far con sette quello che si po-
teva far con cinque. E se bene l'assorditaÁ eÁ scoperta al mondo, il papa peroÁ non resta di conti-
nuare [...]. CosõÁ si sostenta e si mostra liberale senza spesa, anzi con guadagno, e si mantiene la
dipendenza delle confraternitaÁ e delle religioni [...]» (Ivi, pp. 71-72).
228 Un tema rispetto al quale l'autore teneva a sottolineare ± dando cosõÁ maggior vigore al

suo spunto polemico ± la sua piena ortodossia cattolica: «Non si deve levare a' santi l'onore e la
venerazione debita: ma quel solo che per abuso eÁ introdotto contro all'onore debito a Dio, dal
quale solo si dee sperare la salute» (Ivi, p. 58).
229 Ivi, p. 57. «[U]na infinita moltitudine delle superstizioni e cerimonie loro [...] come

quando communicano l'onor divino a' santi et agli angeli, fabricando loro chiese, dirizzando loro
altari, raccomandando loro nelle orazioni, sospendendo loro voti [...]» (Ivi, p. 54). Non solo il
culto dei santi ma anche quello della Vergine veniva coinvolto dal Sarpi nella sua polemica:
«E quanto alla Beata Vergine [...] l'onore che danno a lei eÁ doppio per lo piuÁ di quello che fanno
al Nostro Salvatore» (Ibid.); e ancora: «Nelle scuole si distingue l'onor dovuto a Dio, e quello che
si rende alle creature, chiamando questo dulõÁa e quello latrõÁa: ma in prattica questa distinzione
non si trova. ImperoÁ che gli stessi segni di riverenza si rendono a Dio et a' santi ugualmente:

Ð 209 Ð
CAPITOLO TERZO

Il quadro disegnato dalle pagine sarpiane ± in cui non poteva mancare


un violento attacco rivolto alla normativa ecclesiastica contro il volgare ± 230
era dunque quello di un netto scarto tra gli obiettivi annunciati e quelli rea-
lizzati (o perseguiti) dalle autoritaÁ cattoliche. Senza entrare nel merito del
giudizio sarpiano ± nel quale non appare forzato leggere un'esplicita accusa
di «doppiezza» rivolta alle gerarchie ecclesiastiche ±, la sua analisi appare
soprattutto come una testimonianza del fallimento del progetto di control-
lo delle devozioni e delle superstizioni, dell'inefficacia della normativa cen-
soria e della sua incapacitaÁ di incidere nella realtaÁ e di misurare i propri
obiettivi con il reale «stato dello cose».231 Ma il punto centrale eÁ ancora

come si vede nello inginocchiarsi, nel battersi il petto, nel piegare il capo, nel dirizzare le orazioni,
nel far voti, nel giurare per lo nome loro, nell'ergere tempii et altari, nell'offerire il sacrificio della
messa» (Ivi, p. 57).
230 «Dall'esser fatti i servizi divini in lingua incognita avviene che il popolo, ritrovandosi

presente alla messa, non resta di trattare i negozi suoi soliti, come si quella congregazione non
fosse fatta per servizio di Dio, ma per convenire insieme a dare ordine a' fatti suoi, e peroÁ i gen-
tiluomini trattano insieme i loro affari, i mercatanti le loro faciende, et i giovani oziosi non hanno
luogo piuÁ commodo d'essercitare i loro amori che la propria chiesa, ne tempo piuÁ opportuno,
che quando si celebrano i divini uffici» (Ivi, p. 60); «I loro uffici divini, come dal popolo non
intesi, non hanno forza di trattenerli occupati in alcuna contemplazione spirituale: laonde, per
supplire a questo mancamento, gli trattengono fra tanto a recitare, a guisa d'incantesimi, rosari
e corone» (Ivi, p. 58). «Avviene che il popolo [...] non riceve instruzzione alcuna nella fede, ne sa
quello che nelle orazioni dimandi alla MaestaÁ Divina: anzi bene spesso quello ch'egli ha nell'a-
nimo suo di pregare Dio eÁ contrario alle parole che pronuncia: et il vulgo cosõÁ barbaramente re-
cita le orazioni in latino, che ben spesso gli daÁ contrario senso, et invece d'orare, bestemmia, e
reciteraÁ ancora le orazioni ad uno inviate ad un altro, inginocchiandosi a S. Caterina diraÁ Pater
noster qui es in coelis, e con gran divozione si metteraÁ inanzi ad un crocefisso, e diraÁ Ave Maria
gratia plena» (Ivi, p. 60).
231 Nessun tentativo di riflessione autocritica su queste tematiche traspare dal testo delle

censure commissionate dalla Congregazione dell'Indice all'indomani della pubblicazione della


traduzione italiana della Relazione sullo stato della religione, in seguito alle quali il libro fu proi-
bito il 26 luglio del 1626 («Censure del libro intitolato Relazione dello stato della religione tra-
dotto dall'inglese in linguaggio italiano del Cavalier Edoino Sandio», in ACDF, Indice, Protocolli
A2 (23), cc. 653r-658v). Il censore, infatti, si limita ad elencare, piuÁ o meno acriticamente, i con-
tenuti dell'opera evidenziando innanzitutto le critiche e le accuse che l'autore indirizzava alla
Chiesa cattolica e, solo in secondo luogo, riferendo le benevole osservazioni che lo stesso Sandys
rivolgeva all'apparato teologico e liturgico romano. Ogni tentativo di approfondimento intorno al
«doppio livello» insinuato dal Sandys e dal Sarpi ± un approfondimento che avrebbe dovuto evi-
dentemente comportare una messa in discussione della strategia controriformistica ± eÁ del tutto
assente. EÁ sufficiente qui riportare le parole con le quali il censore introduceva le sue osserva-
zioni, presentando un «Anonimo autore» seguace dell'«eretica setta dei protestanti», ma anche
ben predisposto nei confronti di riti e dogmi cattolici, coerentemente alla tradizione anglicana
di appartenenza: «Il libro eÁ Anonimo, ma dalla materia che tratta e da molte singolaritaÁ di esso
si comprende essere opera di persona Inglese eretica della Setta de Protestanti, huomo ch' ha
scorso molte Regioni [...] Apertamente si scuopre nemico giurato de' Cattolici Romani, e di pro-
posito detesta i dogmi della fede nostra in tutto il libro perpetuo impugnatore del Primato, e
della Monarchia Ecclesiastica. L'Autore eÁ huomo d'intelligenza, pratico nelle Controversie, et
ha gran cognizione delle cose del mondo. Non c'eÁ Articolo cattolico, ch'egli non condanni.
Nel scrivere i Riti della Chiesa Romana, e ne loda alcuni di quelli, onde in Italia si mantiene pura

Ð 210 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

un altro. Il messaggio sarpiano dovette risuonare agli intelletti piuÁ sensibili


del tempo come una vera e propria sconfessione della teorizzata distinzione
tra livello devozionale pubblico e livello devozionale privato, su cui tanto
puntava la strategia politico-religiosa della Chiesa controriformistica. Pro-
prio quella distinzione ± esplicitamente teorizzata nel decreto sulle litanie
del 1601, ma non solo in quell'occasione ± doveva cosõÁ rivelarsi con gli anni
la chiave di lettura del fallimento dell'azione di controllo esercitata dalle ge-
rarchie ecclesiastiche romane in campo devozionale.
Senza un costante e rigoroso controllo che vigilasse sulla purezza dottri-
nale della devozione, il principio di una distinzione tra sfera pubblica e sfera
privata si avviava a diventare solo un comodo e pratico espediente per la
realizzazione di contingenti obiettivi repressivi. CosõÁ, quasi a modo di meta-
fora, la proposta lanciata qualche anno prima da papa Clemente VIII di am-
monire «privatamente» gli autori le cui opere si riteneva necessario espur-
gare (non procedendo dunque «ufficialmente» tramite formale sospensione
da parte della Congregazione) ± proposta plausibilmente rivolta a creare un
clima di individuale responsabilizzazione degli autori, e dei fedeli in genera-
le, oltre che a risolvere una congestione burocratica non indifferente ± era
destinata ad essere sostituita con il passare degli anni dalla sempre piuÁ fre-
quente prassi di comunicare direttamente («privatamente») ai librai la con-
danna di un testo pericoloso, al fine di evitare uno scandalo «pubblico» e
garantire cosõÁ alla decisione proibitoria una maggiore efficacia.232
Il decreto del 1601 doveva cosõÁ rimanere agli atti come una mera testi-
monianza della forzata resa delle gerarchie ecclesiastiche, una sconsolata

e sincera la Religione; e in molti luoghi ancora mostra di approvare alcune di quelle cose, che
vengono da Cattolici osservate» (Ivi, c. 653r).
232 «[D]i ordine della Santita Á di N.S. fo sapere a V.R. ch'ella sospenda la vendita di tal libro
et raccoglia gli essemplari di essi che si trovano appresso li librai o private persone et il tutto es-
seguisca privatamente sensa formare editti (lettera del card. Arrigoni all'inquisitore di Bologna,
Roma, 18 giugno 1605, in A. ROTONDOÁ, Nuovi documenti, cit., p. 182, corsivo mio); «Fo sapere
a V.R. per ordine di N.S. ch'ella privatamente, senza pubblicare editto, come da se procuri di
raccogliere gli essemplari di detti opuscoli senza mostrare d'haverne ordine di qua» (lettera
del card. Arigoni all'inquisitore di Modena, Roma, 12 maggio 1606; Ivi, p. 182, corsivo mio). In-
dicazioni del medesimo tenore si leggono nella lettera del 16 luglio 1609 del card. Arigoni all'in-
quisitore di Modena: «Ella privatamente notifichi a i librari della sua giurisdittione ...» (Ivi; p.
186, corsivo mio); oppure nella lettera del 26 luglio 1614 del card. Bellarmino allo stesso inqui-
sitore di Modena: «Senza peroÁ far bando ma privatamente, commanderaÁ a tutti gli librari che
sono nella sua Diocesi o ad altri che fan venir libri ...» (Ivi, p. 197, corsivo mio). Pur essendo
questo un campione solo parzialmente rappresentativo dei carteggi intercorsi tra gli organi cen-
trali romani e quelli periferici, l'osservazione della data di spedizione di queste lettere (la prima eÁ
appena successiva all'elezione del nuovo pontefice del 16 maggio 1605) consente di avanzare l'i-
potesi che questa prassi sia stata inaugurata da Paolo V in rottura appunto con quella seguita dal
suo predecessore Clemente VIII.

Ð 211 Ð
CAPITOLO TERZO

presa d'atto dell'impossibilitaÁ di controllare da vicino l'intero universo de-


vozionale del tempo.233

4. ROBERTO BELLARMINO E TOMMASO CAMPANELLA: UN INCONTRO INEDITO

Una solida ma tardiva testimonianza di una battaglia ormai perduta:


cosõÁ era destinato ad apparire l'ultimo atto di una carriera improntata al ri-
gore dottrinale e allo scrupolo filologico. Appena un anno prima della mor-
te, il cardinal Bellarmino avrebbe lasciato tra le carte della Congregazione
del Sant'Uffizio l'ereditaÁ di un modus iudicandi che nessuno sembrava piuÁ
in grado di raccogliere. Nel 1621 aveva, infatti, ricevuto l'incarico di occu-
parsi di un libretto di litanie, stampato in diverse edizioni dal Duca di Ba-
viera, circolante oltre che in Italia anche in Polonia e in Spagna. Questa
raccolta di orazioni ± piuÁ precisamente la seconda «piuÁ copiosa, e piuÁ vol-
gata» edizione di questa raccolta ± attendeva di essere esaminata sin dal
1610, quando il nunzio pontificio a Graz, il vescovo di Troia, ne aveva se-
gnalato l'esistenza al cardinal Millini attendendo istruzioni da Roma.234

233 Una simile «degenerazione» della distinzione tra sfera pubblica e privata sembra regi-

strarsi parimenti nell'ambito della «politica della santitaÁ» portata avanti in quegli stessi anni dalle
gerarchie romane. Il compromesso avanzato da Bellarmino e Baronio, sebbene animato dalle piuÁ
nobili intenzioni non era destinato a sopravvivere alla morte dei suoi promotori. EÁ sufficiente
arrivare alla metaÁ degli anni venti del '600 ed in particolare alla seconda e definitiva versione
dei decreti di Urbano VIII riguardanti il culto dei morti in fama di santitaÁ per comprendere
quale fosse il destino di questa importante distinzione di sfere tra pubblico e privato. Correg-
gendo una precedente versione del decreto, evidentemente troppo rigorosa, nell'ottobre del
1625 i cardinali della congregazione del Sant'Uffizio stabilirono che la raccolta di donazioni, im-
magini ed ex voto dedicate al morto in odore di santitaÁ sarebbe stata tacitamente autorizzata pur-
che fosse avvenuta «in secreto», senza «infrangere il decoro dell'autoritaÁ pubblica», in attesa di
un'eventuale apertura del processo di canonizzazione. La distinzione pubblico/privato sembrava
cosõÁ destinata a perdere gran parte della carica «ideale» che aveva nelle originarie intenzione del
Bellarmino e del Baronio per essere (almeno parzialmente) asservita ad una asfittica logica di lu-
cro in cui il tacito assenso al culto privato diventava soprattutto un espediente per non rinunciare
alle entrate di denaro legate ai culti non ancora ufficialmente approvati (cfr. M. GOTOR, La fab-
brica dei santi: la riforma urbaniana e il modello tridentino, cit., in partic. pp. 679 e 725; ID., La
riforma dei processi di canonizzazione dalle carte del Sant'Uffizio, in L'Inquisizione e gli storici: un
cantiere aperto, Roma, Atti dei Convegni Lincei, 2000, pp. 279-288 e ora ID., I beati del papa, cit.,
pp. 127 sgg.).
234 «[M]i par d'avvisare a V.S. Ill.ma che havendo il Duca di Baviera stampato in Monacho

tre volte un suo libro di litanie, solo la terza impressione del 1607 eÁ stata revista et approvata da
cotesta Sagra Congregatione, in cui mancano molte litanie di quelle ch'erano nella seconda im-
pressione, il titolo della qual'eÁ Fasciculus sacrarum litaniarum ex sacris scripturis, et Patribus, Mo-
nachii, anno Iubilei 1600, e non di meno questa seconda, come piuÁ copiosa, e piuÁ volgata, et ado-
prata non sol qui, ma per quant' ho inteso da Padri Giesuiti anco in Polonia, in Spagna, et in
Firenze. Non ho giudicato dover fare altro da me in questo negotio, attenderoÁ l'ordine di cotesta

Ð 212 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

Qualche mese dopo, probabilmente sollecitato dallo stesso Millini o da


qualche altro membro della Congregazione del Sant'Ufficio, il nunzio ave-
va inviato a Roma un esemplare della seconda edizione del libretto. Nono-
stante lo scoraggiante quadro di anarchia devozionale da lui disegnato in
una lettera al cardinal Arrigoni ± un quadro che, sebbene attribuito ai soli
territori dell'Impero tedesco di cui aveva conoscenza diretta, non sarebbe
stato difficile estendere anche all'Italia ± 235 l'opera in questione, data da
rivedere al Maestro del Sacro Palazzo,236 era finita nel dimenticatoio. Solo
le pressioni del Duca di Baviera, impossibilitato ad utilizzare il testo senza
l'approvazione della Congregazione,237 avevano convinto il Maestro del Sa-
cro Palazzo a rimettere in moto la macchina censoria. L'indifferenza degli
organi censori romani nei confronti del tema delle litanie ± ben esemplifi-
cata da quei lunghi dieci anni di attesa ± appare in netto contrasto con la
sollecitudine con cui il Bellarmino, ricevuto l'incarico di esaminare l'opera,
presentoÁ in brevissimo tempo alla Congregazione dell'Inquisizione i risul-
tati del suo lavoro.238 In quella che dovette rappresentare per l'autorevole
cardinale l'ultima occasione per ribadire di fronte ai suoi colleghi lo spirito
originario di un decreto a lungo maturato ± il decreto d'inizio secolo sulla
questione delle litanie ± e la validitaÁ di una dialettica pubblico/privato sup-
portata da un'attento controllo filologico della purezza di ogni forma devo-
zionale, il Bellarmino prese le mosse da un'invocazione tributata dall'autore

Sagra Congregatione et a V.S. Ill.ma fo humilissima riverentia» (Lettera del 13 dicembre 1610, in
ACDF, St. St. TT-1 a, s.n.p.).
235 «In essecutione del commandamento datomi da V.S. Ill.ma nella sua de 19 del passato

d'ordine della Sacra Congregatione del S. Officio, le invio l'allegato libro di litanie stampato in
Monaco. Con questa occasione mi par di dar conto a V.S. Ill.ma che in questi Paesi quasi ogni
Santo ha le sua litanie particolari, et nelle lor feste si soglion recitare, ancorche non siano appro-
vate, havendole sentite io stesso un giorno, che mi trovai con S.A. qui in S. Paolo, la cui festa
all'hora correva. PeroÁ essendo questo costume antico, et generale, credo che sarebbe quasi im-
possibile il torlo, et dubito che ne seguirebbe gran disturbo. AttenderoÁ nondimeno gli ordini
di V.S. Ill.ma alla quale fo humilissima riverenza» (Lettera del 14 Marzo 1611 da Graz, in ACDF,
St. St. TT-1 a, s.n.p.).
236 «Liber, de quo in literis videatur a Maestro sacri palatii» (Ivi).

237 «Item Magister sacri Palatii retulit quoddam memoriale sibi a R.mo remissum Ducis Ba-

variae, ut de eo tractaret in Congregatione ubi supplicabat posse reimprimere quendam librum


inscriptum fasciculus littaniarum in quo 33 littaniae diversae erant, quae dicebat iam implisse
[sic] de licentia sacrae Congregationis Inquisitionis ut ei per litteras Ill.mi Cardinalis Bellarminis
significatum fuerat, et quod cum iam omnes exitum habuerint nec amplius inveniantur supplica-
bat sanctitatem suam pro licentia eas reimprimendi» (ACDF, Indice, I/2, c. 200r, riunione del 1ë
agosto 1620).
238 ACDF, Inquisizione, Censurae Librorum, vol. II, fasc. 14 (1621), ff. 615r-v: Censura bre-

vis ad litanias, quas misit Serenissimus Dux Bavariae Gulielmus; ora pubblicato da P. GODMAN,
The saint as a censor. Robert Bellarmine between Index and Inquisition, cit., pp. 308-310.

15
Ð 213 Ð
CAPITOLO TERZO

del «libretto» all'indirizzo del fondatore della compagnia di GesuÁ, Ignazio


di Loyola. La posizione ufficiale della Chiesa prevedeva, come noto, il di-
vieto assoluto del culto dei santi non ancora canonizzati; il Bellarmino, di
conseguenza, non poteva fare a meno di pronunciarsi a favore dell'elimina-
zione di quell'invocazione («putarem esse omittendam hanc invocatio-
nem») adeguandosi alla precisa e specifica indicazione papale in materia ri-
ferita qualche anno prima dal cardinal Pietro Aldobrandini.239 Tuttavia, in
ragione di una prassi quotidiana che sembrava aver sostanzialmente adot-
tato quella soluzione «moderata» (favorevole a consentire in privato gli atti
devozionali proibiti in pubblico) che egli stesso, insieme al Baronio, aveva
proposto nell'ambito delle accese discussioni che impegnarono all'inizio
del secolo i membri di una provvisoria Congregazione dei beati,240 il Bel-
larmino si sentiva autorizzato a dichiarare che «forte possit manere, quia
hae litaniae non possunt recitari nisi privatim a singulis. Privatim autem li-
cet invocare eos, quos pie credimus esse sanctos».241 La responsabilizzazio-
ne individuale del fedele nell'ambito della sfera devozionale privata doveva
procedere di pari passo con una fedele attinenza alle prescrizioni ecclesia-
stiche nell'ambito della sfera devozionale pubblica. Questo «dualismo» de-
vozionale, tuttavia, ± ed era questo l'aspetto su cui il Bellarmino insisteva
maggiormente ± acquisiva una sua intrinseca validitaÁ solo nel contesto in
cui egli stesso lo inseriva all'interno delle sue annotazioni censorie. Sola-
mente tenendo alta la soglia di sorveglianza, filologica e dottrinale, sulle
piuÁ diverse forme di devozione popolare ± secondo il gesuita ± era possibile
garantire una sensata applicazione di quel principio che segnava uno iato
tra devozione privata e devozione pubblica, altrimenti foriero di un'incon-
trollata proliferazione di forme superstiziose. L'attendibilitaÁ del testo dove-
va essere sempre e comunque filologicamente verificata; laddove compari-
vano racconti o brani difficilmente attribuibili ad una sicura fonte scrittu-

239 «[H]avuto notitia di un libretto stampato di varie orationi et litanie de santi, tra quali

vien'anco posto il nome del padre Ignatio, ne fu fatta relatione a S. S.taÁ, la quale ordinoÁ che il
libretto si corregesse, et che stampandosi in l'avvenire non vi si mettesse fra santi la memoria
di detto padre» (Lettera del cardinal Aldobrandini, Roma 8 ottobre 1602, in I. DE REÂCALDE,
Les JeÂsuites sous Aquaviva, Paris, Librairie Moderne, 1927, pp. 293-294).
240 Cfr. M. GOTOR , La fabbrica dei santi, cit., p. 701.

241 Ecco il testo completo delle osservazioni del Bellarmino al riguardo: «f. 288: Sancte

Ignati, ora pro nobis. Haec petitio videtur pertinere ad Beatum Ignatium, auctorem Societatis
Iesu, quia in hoc loco invocantur fundatores ordinum religiosorum. Sed Beatus Ignatius nondum
est canonizatus, sed solum beatificatus pro certis locis. Ideo putarem esse omittendam hanc in-
vocationem, nisi forte possit manere, quia hae litaniae non possunt recitari, nisi privatim a singulis.
Privatim autem licet invocare eos, quos pie credimus esse sanctos» (ACDF, Inquisizione, Censurae
librorum, vol. II, cit., c. 615v; P. GODMAN, The saint, cit., p. 309; corsivo mio).

Ð 214 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

rale oppure passi contenenti palesi inesattezze storiche occorreva interveni-


re con solerzia: «P. 345: sancti septem dormientes. ± aveva segnalato ± Ista
potuissent omitti propter incertitudinem historiae»; 242 e poco piuÁ sotto: «F.
396: Per dulce cor tuum pro nobis in cruce transfixum. Non videtur esse cer-
tum quod lancea militis transfixerit cor Christi. Solum enim in Evangelio
habetur latus Christi lancea fuisse apertum; de transfixione cordis nulla
fit mentio»; 243 ed ancora piuÁ avanti: «F. 300: Litaniae ad sanctas virgines
et viduas. Rectius diceretur: ``ad sanctas mulieres'', quia in his litaniis po-
nuntur aliquae sanctae, quae non sunt neque virgines neque viduae, ut
Sancta Maria Magdalena, Sancta Maria Aegyptica et aliae».244 Inesattezze
storiche come queste e invenzioni linguistiche o contenutistiche erano pas-
sibili di sviare la retta fede dei «semplici» ingenerando in loro confusione e
ambiguitaÁ: «Pag. 348: Per praesepe tuum libera nos, Domine. Petitio est val-
de impropria, ut etiam illa: ``per vestem inconsutilem'', ``per mensam, in
qua caenasti'', et aliae similes, quae potuissent omitti».245 A volte poteva
bastare un solo sostantivo inopinatamente inserito nel testo ad alimentare
le fantasie dei «rudes»: «Ff. 103 et 117: felle et aceto in cruce potate. Non
habetur in Evangeliis Christum in cruce felle et aceto fuisse potatum, sed
solum aceto. Ante crucifixionem, scribit Sanctus Matthaeus, Christum fuis-
se potatum vino cum felle mixto, pro quo Marcus dicit vino myrrato fuisse
potatum. In Psalmis dicitur: ``dederunt in escam meam fel et in siti mea
potaverunt me aceto''. Itaque dici deberet: ``Aceto in cruce potate'', quia
hoc solum habetur in Evangeliis et in Psalmo».246
Vi erano, infine, ± continuava il Bellarmino ± alcuni casi in cui inesat-
tezze linguistiche o sviste inconsapevoli rischiavano di sfociare pericolosa-
mente nell'errore dottrinale, come le possibili degenerazioni del culto ma-
riano: «F. 20: Iesu stella maris, miserere nobis. Haec appellatio stelle maris ±
leggiamo tra le sue annotazioni ± tribui solet Beate Virgini. Fortasse melius
de Christo diceretur ``stella splendida et matutina'', ut dicitur in Apocalypsi
capite ultimo. Nam stella maris est stella polaris, quae exigua est. Stella
splendida et matutina est stella omnium fulgentissima, quae ab astrologis

242 Ivi, c. 615v; P. GODMAN, op. cit., p. 310.


243 Ibid.; Ivi, p. 310.
244 Ibid.; Ivi, p. 309.

245 Ibid.; Ivi, p. 310.

Á ipotizzabile che in questo caso l'intervento del Bellarmino


246 Ivi, c. 615r; Ivi, p. 309. E

possa essere stato determinato dal timore delle fantasie che un lettore «indocto» avrebbe potuto
costruire intorno alla vicenda della morte di Cristo leggendo, o meglio ascoltando, quell'innocua
espressione (felle - veleno).

Ð 215 Ð
CAPITOLO TERZO

dicitur stella Veneris».247 Dietro questa osservazione era facile, dunque,


leggere un puntuale richiamo a non confondere gli attributi di Cristo
con quelli della Madre Vergine, a non attribuire alla Madonna quello
«splendore» d'immagine e quel «potere» che apparteneva, per tradizione
e dottrina, esclusivamente al figlio di Dio: «F. 179: Sancta Maria Mater
Dei Patris. A rudioribus non intelligetur. Et fortasse aliqui putabunt Bea-
tam Mariam dici matrem Dei Patris. Ad tollendam ambiguitatem, melius
diceretur: ``Sancta Maria, mater filii Dei''. Et hoc optime coheret cum pre-
cedenti et sequenti sententia. Nam in precedenti dicitur Maria filia Dei Pa-
tris, cum qua sententia optime cohaeret sequens: ``Mater filii Dei'' et tertia:
``Sponsa Spiritus Sancti''».248 La Beata Vergine era e doveva rimanere `so-
lamente' la madre del figlio di Dio ed era del tutto fuorviante attribuirle
«funzioni» o «posizioni» teologiche che non le spettavano. Dietro alla que-
stione terminologica il Bellarmino intravedeva i rischi di un culto che mi-
nacciava i pilastri teologici e dottrinali della teologia della redenzione, rico-
noscendo alla figura della vergine madre quel potere salvifico dell'umanitaÁ
che solo il figlio di Dio pietosamente sacrificato sulla croce poteva legitti-
mamente detenere.249
Mai rilievo censorio era stato piuÁ puntuale ed opportuno. Mai rilievo
censorio, tuttavia, restoÁ cosõÁ inascoltato. Nel 1626, NiccoloÁ Riccardi pub-
blicava La prima parte dei ragionamenti sopra le Letanie di Nostra Signo-

247 Ivi, c. 615r; Ivi, p. 309.


248 Ibid.; Ibid.
249 L'attivita
Á del Bellarmino intorno al tema della preghiera non si limitava a questo inter-
vento. Altre volte si era impegnato ad affermare il suo punto di vista, come per esempio quando
si trovoÁ costretto a correggere e redarguire il frettoloso estensore, Petilius, di una censura alla
Vita della Beata Vergine del teologo napoletano Lorenzo Masselli, il quale si era reso colpevole
ai suoi occhi di sommarie interpretazioni ed errate conclusioni intorno a questioni dottrinalmente
delicate quali l'approvazione o meno di visioni diaboliche e soprattutto sul tema della preghiera:
«Primo notat lib. 10, cap. 18, dici probabiles visiones spirituum, quando fiunt hominibus doctis
et piis et de rebus gravibus et necessariis. Censor dicit doctrinam esse venenosam etc. At errat,
quia certum esse multas esse veras visiones, ut paret ex lib. 3 Dialogorum Sancti Gregorii et aliis
auctoribus. Certum etiam est aliquas esse diabolicas illusiones. Proinde recte dicit auctor non
posse omnes approbari vel omnes reprobari etc. Censura esset vera, quando omnes visiones es-
sent diabolicae. At, inquit, debuisset dicere: ``consulendum esse confessarium'' Primo, neque hoc
semper est necessarium, imo in exemplis, quae ponit Massellus, nemo consuluit confessorem,
deinde non negat consulendum confessarium sed dat regulam, que etiam confesario servat.
Secundo notat in lib. 5, cap. 28, de Zingara. At hoc fuit statim a Padre Generali accomo-
datum, qui iussit retineri libros et reimprimi folium etc.
Tertio notat lib. 2, cap. 16, additum aliquid ad orationem Ecclesiae et Sancti Ioseph. Hoc
magnum esse peccatum, si mutaretur oratio publice recitanda, at quod privatim in cubiculo ali-
quid addatur ad augendum affectum, nullum est malum» (ACDF, Indice, Protocolli S, f. 231r;
ora anche in P. GODMAN, op. cit., pp. 303-304). Cfr. il testo delle censure del Petilius in ACDF,
Indice, Protocolli S, cc. 229r-v e 232r.

Ð 216 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

ra: 250 un'opera voluminosa che, di lõÁ a tre anni, con la nomina del Riccardi
a una delle piuÁ prestigiose cariche dell'apparato repressivo ecclesiastico, la
carica di Maestro del Sacro Palazzo, avrebbe ottenuto, seppur indiretta-
mente, un riconoscimento ufficiale da parte dei vertici romani.
Non si trattava solamente di un tardivo entuasiasta plauso al Trattato
dell'angelo custode dell'Albertini, quello che il Riccardi offriva nel suo vo-
lume. L'ardito tentativo del calcolo numerico della velocitaÁ degli angeli in
cui si era cimentato il gesuita Albertini riceveva nelle pagine del futuro cen-
sore una piena legittimazione: l'articolato e dettagliato conteggio pseudo-
scientifico con cui il loquace predicatore domenicano mirava a calcolare
in modo esatto il numero complessivo degli Angeli abitanti la sfera celeste
superava, per fantasia e creativitaÁ, i risultati raggiunti dall'improvvisazione
del gesuita. Sotto le specie di una sfida lanciata all'autoritaÁ di San Tomma-
so, il quale si era permesso di sottolineare retoricamente come «manca[sse]
alle nostre menti l'algoritmo, et il numero per calcolare gli Angioli», il Ric-
cardi si immergeva caparbiamente in un calcolo che in molti punti rasen-
tava le vette della farneticazione e del delirio matematico. Una pagina
che vale la pena riportare per intero:
Gli Angioli sono in tanto numero, che vincono il numero di tutte le sostanze
corporee, le arene del Mare, gli atomi del Sole, le foglie de gli alberi; tutti i viventi,
e non viventi, et infino le stelle del Cielo: lo prova S. Tomaso con l'autoritaÁ di San
Dionigi, Multi sunt Beati exercitus supernarum mentium, infirmum, et angustum
nostrarum mentium numerum superexcedentes, affermando cioeÁ che manca l'algo-
rismo, et il numero alle nostre menti per poter annoverar gli eserciti, non che i sol-
dati delle sovrane, e separate sostanze. Eccedono (dice l'Angiolo de' Dottori) le
sostanze Angeliche tutte le corporee nella moltitudine, come nella magnitudine,
e corpulenza sorvanzano i corpi incorruttibili questi corruttibili, e sublunari, che
a suo ragguaglio sono un niente. E se ne puoÁ fare non improbabile discorso, con-
siderando che essendo gli Angioli distribuiti in nove ordini, ci sono tanto piuÁ sol-
dati, o cantori in ciascheduna squadra, o coro, quanto eÁ piuÁ nobile e sublime, per
abbondare in loro la perfezione; si che ci sono piuÁ Serafini che Cherubini. E si co-
me, per esempio, l'eccesso de gli elementi si calcola, che sia in proporzion decupla,

250 La prima parte dei ragionamenti sopra le Letanie di Nostra Signora del padre Maestro Fra

NicoloÁ Riccardi dell'ordine de' Predicatori, e Reggente della Minerva in Roma. In Genova, per
Giuseppe Pavoni. 1626. Con licenza de' superiori. Sul Riccardi vedi V.M. FONTANA, Syllabus ma-
gistrorum Sacri Palatii Apostolici, Romae, ex typ. N.A. Tinassii, 1663, pp. 160-162; G. CATALANO,
De magistro Sacri Palatii Apostolici Libri duo. Quorum alter originem, praerogativas, ac munia, al-
ter eorum Seriem continet, qui eo munere ad hanc usque diem donati fuere, Romae, Typis Antonii
Fulgoni apud S. Eustachium, 1751, pp. 158-160; e soprattutto A. ESZER, NiccoloÁ Riccardi, O.P. -
«padre Mostro» (1585-1639), in «Angelicum», LX, 1989, pp. 458-461.

Ð 217 Ð
CAPITOLO TERZO

di maniera che dieci volte sia maggiore il fuoco, che l'aria, l'aria che l'acqua; cosõÁ
intendesi che per ogn'uno de gli Angioli dell'infimo coro ci siano diece Arcangioli,
cento Principati, mille VirtuÁ, dieci mila Potestadi, cento mila Dominationi, un mi-
lion di Troni, dieci milioni di Cherubini, e cento milioni di Serafini; si che per ogni
Angiolo de' piuÁ bassi bisogneraÁ multiplicarne per gli altri cori cent'undeci milioni,
cento undeci mila, e cento dieci; bisogna poi considerare, che nell'ultimo coro
d'Angioli ce n'eÁ tanto numero almeno, quanto basta a custodire tutti gli huomini
che sono, furno, e saranno, havendo ciascheduna anima ragionevole, fuor di quella
di Christo, il suo Angiolo, senza che uno ne custodisca due, o insieme, o in tempi
differenti; di onde nasce, che almeno tanti Angioli custodi ci sono, quanta eÁ tutta
la radunanza de gli huomini, che nel tremendo giudizio compariraÁ; Facciamone un
conto all'ingrosso, che ci siano dieci milioni d'anime nell'universo regolarmente,
che eÁ pochissimo numero, mettendo un secolo con l'altro, e che di cento in cen-
t'anni si rinovino tutti gli huomini, che debbano essere i secoli del Mondo sessan-
ta, come vogliono quelli, che definiscono la durazione del Mondo a sei mila anni,
verranno gli huomini ad essere sei cento milioni: multiplicati sopra questo numero
gli Angioli fino a Serafini, fanno come si vede nel seguente conto: 60000000000.
Sei milioni di millioni di millioni sei cento sessanta sei mila sei cento sessanta sei
millioni di millioni, e seicento sessanta mila millioni di Angioli; prendiamo questo
numero tanto grande a noi, e tanto picciolo a quel, che pretendiamo misurare, che
non ci arriva con mille di queste distanze.251

Sessanta miliardi di angeli aleggianti sopra le nostre teste: era questo il


numero scientificamente e filologicamente dimostrabile cui approdava il
Riccardi al termine del suo ragionamento.
Le farneticanti pagine del futuro Maestro del Sacro Palazzo non offro-
no solamente una conferma del grado di diffusione del «modello» devozio-
nale emerso dai testi del Caraccia e dell'Albertini, ma rappresentano anche
una misura della definitiva rinuncia da parte della censura ecclesiastica ad
ogni tentativo di purificazione dell'offerta religiosa e devozionale da incro-
stazioni superstiziose e reminiscenze pagane. Non doveva, in effetti, trattar-
si di una momentanea ed incontrollata svista. Il complesso conteggio del
numero degli Angeli si inseriva coerentemente nell'economia di quelle pa-
gine, rivelandosi del tutto funzionale ai suoi successivi ragionamenti sopra le
Letanie di Nostra Signora. «Se la Vergine Santa ± cosõÁ il Riccardi continuava
la sua ardita riflessione ± hebbe nel primo istante della sua grazia, piuÁ gra-
zia assai che l'Angiolo supremo s'habbia adesso, quanta immensitaÁ di gratia
hebbe chi superoÁ di gran lunga il numero delli millioni sopradetti, che ha-

251 La prima parte dei ragionamenti sopra le Letanie, cit., pp. 208-210.

Ð 218 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

veva di grazia, li quali con dieci nove caratteri numerali non potevano de-
scriversi?».252 CioÁ che si andava articolando nell'opera del Riccardi era una
compiuta ed organica riflessione teologica che ± con il procedere dei com-
menti e delle interpretazioni fornite sulla base dei numerosi incipit delle li-
tanie mariane ± mirava ad offrire ai lettori un'immagine deificante della
Vergine Maria. L'esordio era stato tra i piuÁ espliciti: «La Vergine [eÁ] cosõÁ
a punto fra Dio, e l'huomo, come il tepido fra il caldo el' freddo, che si
potrebbe dire, se il vocabulo non fusse troppo profano, semidea». Tale «se-
midea», spiegava il Riccardi, «eÁ mezzo, come dire un Dio creato; un finito
infinito; un omnipotente debolezza; [...] tanto vale, quanto un Dio creato,
Dio zop[p]icante, dimezzato, un Dio fuoruscito di se stesso, e mescolato
con l'imperfezione».253 Era solamente l'inizio di un percorso che sembrava
destinato, sin dalle prime battute, a condurre l'autore al di fuori dei confini
dell'ortodossia cattolica. Proseguendo in un'ascesa linguistica e dottrinale
difficilmente controllabile, infatti, il Riccardi era ben presto approdato
ad un punto di non ritorno: «Maria mezzo tra Dio, e le creature, e Dio in-
creaturito, o creatura deificata», aveva impudentemente affermato.254 CosõÁ,
una volta sfiorate le vette della «deificazione», l'esaltata glorificazione ma-
riana del Riccardi non trovava di fronte a se piuÁ alcun ostacolo ne alcuna
inibizione di sorta. Dalla proclamazione dell'onnipotenza della Vergine
± solo parzialmente temperata da quel tardivo «con participazione di quel
Signore» ±,255 il passo verso un'improbabile quanto teologicamente perico-
losa inversione di ruoli era breve. In men che non si dica, ecco che l'onni-
potente figura divina si trovava relegata all'umiliante condizione di suddito
mariano: «Dio cambia i titoli con sua madre, essa si fa dea e lui creatura e
vassallo [...] nella Vergine si pone una prudenza non regnativa d'Imperii,
ma commandatrice di Dio sogetto: Erat subditus illi [sic]».256
Se persino il potere temporale era totalmente subordinato alla «Sovra-
na Imperatrice» ± il destino delle nazioni tutte, infatti, era nelle sue mani,

252 Ivi, p. 211.


253 «Se si puoÁ trovar ± cosõÁ continuava ± mezzo fuoco in Cielo, e mezzo all'inferno, cosõÁ una
donna, che sia mezzo Dio perdendo le qualitaÁ imperfette, e sia mezzo huomo mezza creatura,
havendo la sostanza humana solamente senza qualitaÁ; et havendo le qualitaÁ divine sia mezzo
Dio» (Ivi, pp. 56-57).
254 Ivi, p. 323.

255 «Ma prendendo l'attributo di potente un poco piu Á generalmente per far la corsa piuÁ li-
bera, non so se m'arrisichi di dire che questa Divina Signora non solamente eÁ potente, ma in certa
forma anche si puoÁ dire onnipotente con participazione di quel Signore, che delle sue grandezze
verso di lei comunicatore cotanto liberale si mostra» (Ivi, p. 388).
256 Ivi, pp. 354-355.

Ð 219 Ð
CAPITOLO TERZO

sosteneva il Riccardi in uno dei suoi ennesimi slanci, cosõÁ come dai suoi
umori dipendevano la salute ed il futuro di Principi e sovrani ± 257 era evi-
dente che questa «infinita et inc[om]prensibile onnipotente» Vergine «[eÁ]
molto piuÁ ammirabile, che il Figlio».258 Ripetutamente accostata, per virtuÁ
e poteri, alla figura divina, la Maria del Riccardi era, dunque, destinata a
prendere, in tutto e per tutto, il posto di Cristo.259 Un inedito «beneficio
di Maria» prendeva simbolicamente il posto del cinquecentesco «beneficio
di Cristo», andando ad occupare prepotentemente il centro della scena
dottrinale disegnata dal futuro Maestro del Sacro Palazzo: «Da Maria ven-
gono tutti meriti, ± sentenziava il Riccardi ± doni, gratie, prerogative, pri-
vilegii, ausilli, invocationi, l'inspirationi, li sacramenti, e li desiderii buo-
ni».260 In altre parole, tutto discende da lei e niente avviene senza il suo
benestare. L'incontrollata esaltazione delle sue taumaturgiche virtuÁ doveva
rappresentare, cosõÁ, agli occhi dei fedeli la piuÁ sicura garanzia dell'infallibi-
litaÁ delle proprie preghiere: «La forza invincibile dell'orazione ne fa a suo
modo, e gli fa fare tutto cioÁ che vuole».261 Di fronte alle sue richieste,
Dio (suddito e debitore) non avrebbe potuto fare a meno di acconsentire
con entusiasmo, esaudendo ogni suo desiderio: «Christe eleison eÁ un pre-
gare tanto efficace, che non puoÁ negare la gratia: perche la B. Vergine eÁ cre-
ditrice di Dio havendoli dato il corpo tutto della misericordia, et metallo
della moneta, con che paga satisfattoriamente, et meritoriamente in infini-

257 «Elegit eam per fare officio in Cielo, et in terra di Sovrana Imperatrice, e Vicaria di Dio

nel Regno della misericordia, arbitra di morte e di vita; dai questa (vita) parlando, e solo more,
perche tu non preghi. La sorte e lo stato di ciascuno Dio ordinoÁ ab aeterno, ma l'essecutione
passa per le tue mani. Quanto di bene non la fortuna cieca, ma Dio veggente vuol dar ad alcuno
per tuo mezzo s'impetra, per tua bocca dice. Le Provincie, e i Regni, e i mondi, la Chiesa tutta da'
rescritti delle tue suppliche concepiscono la cagion di letizia. NeÁ parte alcuna fiorisce con gratia,
con virtuÁ, con bene alcuno, se tu non vuoi, se tu non la miri propitia. L'Arme del Cielo tutto che
militanti alla divina giustitia sono compresse dalla tua pace, e se tu lo permettessi si sciorrebbero
a vendetta. In tua mano sta lo spiantar a fatto le nationi, lo transportarle, la libertaÁ e servitio degli
huomini; la schiavitudine de' re, lo regnar de' schiavi, la nascita e fine delle Republiche e delle Mo-
narchie. Tutto eÁ tua giurisditione» (Ivi, p. 403; l'ultimo corsivo eÁ mio).
258 Ivi, p. 304. E ancora: «Sancta Dei genitrix [...] Prova che sia migliore Maria, che Christo

tanto melior Filio effetta, quanto differentius prae illo nomen haereditavit, et voluntarie genuit me
ut sim initium aliquod Creatoris mei» (Ivi, p. 155).
259 Sul culto mariano, oltre ai testi citati supra a p. 198, cfr S. DE FIORES, Il culto mariano nel

contesto culturale dell'Europa nei secoli XVII-XVIII, in De cultu mariano saeculis XVII-XVIII.
Acta congressus mariologici mariani internationalis in Republica Melitensi anno 1983 celebrati,
vol. 2, Romae, PAMI, 1987, pp. 1-58. Sulle degenerazioni secentesche di questo culto, vedi R.
LAURENTIN, La Vierge Marie comme signe de contradiction au XVII-XVIII, in De cultu mariano,
cit., pp. 102-105; S. DE FIORES, Mariologia inculturata in Italia tra passato e futuro, in «Theoto-
kos» 1 (1993), pp. 19-22.
260 La prima parte dei ragionamenti, cit., p. 344.

261 Ivi, p. 389 (corsivo mio).

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VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

to, tanto che non si puoÁ estinguere mai il debito, e peroÁ per giustitia si diman-
da a nome della Vergine, essendo ella creditrice di debito insolubile, et infini-
to».262 Il cerchio tracciato dal Riccardi poteva cosõÁ considerarsi concluso.
L'incondizionata garanzia di successo, temporale e spirituale, era cioÁ che
il futuro censore assicurava al semplice fedele in cambio di un altrettanto
incondizionato abbandono individuale alla miracolosa potenza mariana.263
Mentre altrove venivano riproposte ± evidentemente in modo meccani-
co ed infruttuoso ± le lunghe liste di condanna di orazioni superstiziose, il
futuro Maestro del Sacro Palazzo sanciva ufficialmente il fallimento di
quella battaglia riproponendo orgogliosamente il medesimo messaggio su-
perstizioso che solo pochi decenni prima le gerarchie ecclesiastiche si erano
proposte di debellare dalle usanze devozionali e dalle menti dei fedeli. In
cambio di una totale ed incondizionata sottomissione all'autoritaÁ romana
si consegnava nelle mani del fedele il codice di una formula magica con
la quale realizzare ogni proprio desiderio, materiale e terreno, ancor prima
che spirituale.

E cosõÁ, come per un beffardo gioco del destino, colui che ormai vestiva
i panni ufficiali del censore, titolare dal 1629 di una delle piuÁ alte cariche
dell'apparato repressivo romano, ufficialmente preposto alla difesa della
dottrina e della morale cattolica,264 diventava il facile bersaglio di una delle
piuÁ illustri vittime di inquisitori e censori ecclesiastici, improvvisatosi a sua
volta ± per l'occasione ± implacabile (nonche ortodossissimo) censore:
Tommaso Campanella. EÁ innegabile che dietro la stesura delle dettagliate
Censure sopra il libro del Padre Mostro: «Ragionamenti sopra le litanie di

262 Ivi, p. 22.


263 Alla luce di queste considerazioni non meraviglia affatto la secentesca proliferazione edi-
toriale di opere intitolate agli «schiavi» di Maria, o di Giuseppe o di altri santi. In attesa di una
ricerca specifica al riguardo, ci limitiamo ad osservare a questo proposito che l'offensiva scagliata
dalle autoritaÁ inquisitoriali nella seconda metaÁ del Seicento contro questo genere di scritti appare
decisamente tardiva e velleitaria; cfr. il decreto della Congregazione del Sant'Uffizio del 1673 che
proibisce «Libelli omnes, et folia impressa, et Imagines incisae ubi representantur homines pen-
duli a Christo, a sacra Pixide, a Beatissima Virgine, a S. Iosepho, et a quovis alio Sancto, et ubi de
hac captivitate, vel vulgari lingua Schiavitudine agitur; et in specie prohibentur infrascripti libri
de supradicta captivitate tractantes»; e il lungo elenco di opere condannate delle quali la maggior
parte intitolate alli «Schiavi della Santissima, e Immaculata Regina del Cielo Madre di Dio»
(ACDF, St. St. O3-e, vol. unico, f. 579; l'intero codice, comunque, eÁ pieno di testi manoscritti
e a stampa di questo genere di operette prodotte nella prima metaÁ del XVII e ora condannate
dal Sant'Uffizio).
264 Sul crescente ruolo ricoperto nell'ambito dell'attivita Á censoria, ben oltre i confini della
sua tradizionale giurisdizione, dal Maestro del Sacro Palazzo cfr. G. FRAGNITO, «In questo vasto
mare de libri prohibiti et sospesi», cit., p. 35.

16
Ð 221 Ð
CAPITOLO TERZO

Nostra Signora» 265 del filosofo stilese ci fosse innanzitutto un forte deside-
rio di rivalsa. Liberato dal carcere romano del Sant'Uffizio nel luglio del
1628 per intervento di Urbano VIII e trasferito nel convento di Santa Ma-
ria sopra Minerva, nel corso dell'anno successivo Campanella era stato de-
finitivamente prosciolto dai vertici dell'Inquisizione romana. La rabbia ed
il rancore accumulato nei confronti dei suoi passati persecutori, tuttavia,
erano difficili da estinguere. L'occasione, poi, era di quelle da non lasciarsi
sfuggire. CosõÁ, negli ultimi mesi del 1630, Campanella si mise al lavoro. Il
desiderio di concedersi una secca rivincita morale, ancor prima che dottri-
nale, su uno dei piuÁ intransigenti censori del suo Atheismus triumphatus o
del suo De sensu rerum, comunque, nulla toglieva alla qualitaÁ delle sue os-
servazioni, ne alla piena e sicura ortodossia dottrinale che le contraddistin-
gueva. Destinate a rimanere manoscritte, queste censure non mancarono di
procurare ulteriori complicazioni alla giaÁ tormentata vicenda biografica del
filosofo stilese. Eppure, costituiscono un'insostituibile testimonianza delle
degenerazioni, dottrinali, ma non solo, cui il culto mariano si prestoÁ in quei
primi decenni del Seicento.
Le insinuanti «murmurationi contra le prediche e libro» del Riccar-
di,266 delle quali il Campanella aveva ricevuto notizia, trovavano, in effetti,
un'inaspettata conferma nelle parole dello stesso Riccardi. A quanto si di-
ceva, egli aveva ammesso, e neppure troppo velatamente, la propria colpe-
volezza: «Tu non sai scrivere. Io dico mille heresie, quando predico, ma
con tal destrezza, che li fo' parer dottrina santa», sembra avesse detto in
un eccesso di spontaneitaÁ.267 CioÁ che piuÁ importava al filosofo stilese, co-
munque, era il fatto che quelle malevole voci trovassero un'inequivocabile

265 TOMMASO CAMPANELLA , Censure sopra il libro del Padre Mostro: «Ragionamenti sopra le

litanie di Nostra Signora», a cura di A. Terminelli, Roma, Edizioni Monfortane, 1998. Su questo
testo si eÁ soffermata recentemente G. ERNST, Tommaso Campanella. La vita, le opere, Roma-Bari,
Laterza, 2002, pp. 216-217.
266 «Havendo inteso in Napoli, et in Roma ± spiegava, non senza un malcelato compiaci-

mento, Tommaso Campanella ± gran murmurationi contra le prediche e libro del P. [...] che au-
dacemente sparla e motteggia contra Dio, contra i sacramenti, contra i santi, e dottor della Chiesa
et confonde i termini della S. Theologia, del che mi fu recitato un sonetto, [...] disse che se lui
poteva, haveria brugiato S. Catherina di Siena e S. Brigida, perche sono contrarie nella materia
della conceptione B. Virginis, et peroÁ le loro rivelatione no[n] sono divine. [...] Item predicando
in Napoli disse che la cenere eÁ piuÁ potente di Dio: perche Dio eÁ fuoco, ignis consumens est, e
la cenere resiste al fuoco. Item alla Minerva predicando disse che li Serafini sono peste e veneno
del Paradiso, perche nel libro dei Numeri eÁ scritto: Misit Deus ignitos serpentes [...] Item dis-
se la Madre di Christo eÁ un'ignorante: e stupendosi gli ascoltatori, disse: ``Vi lo provo con la Can-
tica: Si ignoras te, o pulcherrima''» (T. CAMPANELLA, Censure sopra il libro del Padre Mostro, cit.,
pp. 29-30).
267 Ivi, p. 30.

Ð 222 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

conferma nel suo voluminoso scritto.268 Scorrendo le numerose pagine del-


l'opera mariana del Maestro del Sacro Palazzo, Tommaso Campanella co-
mincioÁ ad appuntare e commentare dettagliatamente ogni affermazione
«stravagante» o, peggio ancora, dottrinalmente eretica, che capitava sotto
i suoi occhi attenti: «E peroÁ ± avrebbe scritto soddisfatto al termine della
sua fatica ± ne cavai le seguenti propositioni: onde si vede che da questo
libro si puoÁ provar il Gentilismo, parte del Mahomettismo e del Talmud
et che gli heretici di questo tempo si ponno servire a provar, che sie vero
quanto scrive Calvino, et Lutero, et Uvicleffo contra la Chiesa Romana,
massime hora che sta l'abominatione in loco santo».269 Se alcuni ridicoli
e favolistici vocaboli utilizzati dal Riccardi, quali «mezza Dea» o «fuoriusci-
to da se stesso», apparivano al filosofo come un comico retaggio di un pa-
ganesimo che, pure, la Chiesa tridentina si era proposta di combattere,270
cioÁ che maggiormente allarmava il Campanella erano le affermazioni di na-
tura ereticale, destinate ad offrire una legittimazione postuma alle violente
accuse rivolte dagli eresiarchi d'oltralpe all'indirizzo delle gerarchie eccle-
siastiche, e soprattutto a sviare l'ingenuo lettore da una corretta e ortodossa
interpretazione della mariologia cattolica: «Haeresis est ± sottolineava per
esempio il filosofo ± dicere Mariam Dio increaturito, non enim conversus
est in substantiam Mariae; neque assumpsit Mariam ad unitatem personae,
sed hominem Christum tantummodo».271 Il procedimento seguito dal
Campanella consisteva in una lettura filologicamente rigorosa delle defini-
zioni fornite dal Riccardi e soprattutto in un'analisi puntigliosa delle con-
seguenze dottrinali e dei postulati teologici che quelle avventate definizioni
portavano in nuce: sostenere che Maria eÁ un «Dio increaturito», spiegava il
filosofo, presupporrebbe che Dio si fosse convertito «in substantiam Ma-
riae» o per lo meno che Maria fosse stata chiamata a sostituire Cristo quale
terza persona della santissima TrinitaÁ. Altrettanto facilmente dimostrabile

268 Campanella, stando a quanto egli stesso riferiva, non era stato il solo a notare le pecu-

liaritaÁ di quello scritto: «Vidi poi trattando seco peggio, et perche certi PP. NN. [Gesuiti] dis-
sero: Se volete vedere l'empietaÁ, et poco cervello del P.M. [...] leggete il suo libro sopra le litanie»
(Ivi, p. 30).
269 Ivi, pp. 30-31.

270 «In primis confidetur nimis profanum esse titulum de Semidea, et deinde in omnibus

paginis eandem vocat mezza Dea, gentilismi profanitate delectatus, et acceptat quod vetat. ``error
gentilium hic multiplex'' 2 [secundum] Dicere Deum creatum, et Deum claudicantem, et dimi-
diatum, et fuoruscito di se stesso est Istrionum et Comicorum ridicula accumulantium vocabula,
et impietates; et fidem eradicat de cordibus hominum, eiusque reverentiam quasi dicat: se la B.
Vergine non zopicasse di un'anca, saria tutta Dea, alludit ad fabulam de Vulcano, quem Gentiles
vocant Dio zoppicante. Pr[a]eterea dicere Deum creatum est contradictoria impossibilis simpl[i-
cite]r, et absolute» (Ivi, pp. 64-65).
271 Ivi, p. 98.

Ð 223 Ð
CAPITOLO TERZO

era l'erroneitaÁ dottrinale di un'altra affermazione del Riccardi secondo la


quale tutti i meriti, i doni, le grazie, i desideri e le ispirazioni dell'uomo pro-
vengono dalle virtuÁ della Beata Vergine: «Haeresis, si physice intelligat;
sunt enim haec a Deo; ± incalzava Campanella ± si moraliter, et suggestive,
mentitur, quoniam sunt multa ab Angelis, et a Sanctis. De inspirationibus,
et desideriis haeresis est id affirmare, praeter quam de Deo. Solus enim in
animas illabitur; solus et facit prophetas, movet voluntates, dat dona et gra-
tias. Et de his dixit: ``Honorem meum nemini dabo''. Item B. Virgo non se
extendit ultra locum Paradisi in quo est mirum quomodo eam audacter
istam ansam dat Haereticis, et Mahomettistis».272
Laddove in alcuni casi era sufficiente un'accurata rilettura delle fonti
utilizzate dal Riccardi a sostengno delle proprie tesi per smascherare le for-
zature interpretative e le fuorvianti conclusioni da lui ricavate,273 in altri un
semplice richiamo alla lettera dei testi sacri avrebbe smentito le ardite os-
servazioni del futuro Maestro del Sacro Palazzo. Ricordando come gli «at-
tributi» del figlio di Dio non possano per nessuna ragione essere conside-
rati inferiori a quelli della Vergine Madre, Campanella sottolineava come,
diversamente dalla figura del Cristo, quest'ultima non partecipa in modo
alcuno alla natura divina.274
Occorreva dunque riportare la figura di Maria alla sua corretta dimen-
sione teologica e religiosa, depurandola dall'altisonante titolo di «princi-
pium omnium bonorum» che le era stato indebitamente attribuito e resti-
tuendola al piuÁ consono ruolo di «ministra humanitatis fragilis, per quam

272 Ivi, pp. 101-102.


273 «Haeresis est nobis attributa a Mahometto, et Calvino, quod B. Virgo sit Dea, et eo ma-
gis quod Deus est illi vassallus, unde sequitur quod melius est imperium Virginis, quia supra
Deum, quam Dei, quia tantum supra creaturas. Nec quia dixit Lucas ``erat subditus illi [sic]'',
prodest Auctori; Lucas enim loquitur de Christo secundum humanitatem, ita quod de rigore
non potest dici subditus, ut ait D. Thomas, nisi addatur secundum humanitatem. Praeterea di-
citur subditus illis: ergo etiam s. Josepho. Ergo non soli B. Mariae. Nec ergo propter hoc excedit
omnes creaturas sola in infinitaÁ, omnes enim sanctos, ut saepe Auctor inculcat praesertim pag.
388. Videtur omnino plusquam gentilismus sermo impius, toties repetere, quod ipsa Domina,
Deus vassallus, cum non nisi semel hoc debeat dici <si fas esset> ut cum additione secundum
humanitatem. Fallacia ergo a secundum quid ad simpliciter» (Ivi, p. 103).
274 «Haeretica est, et fomentum illius haeresis, quae facit Mariam Deam, et nunc supra

Deum. Dixit Deus ad Moysen: ``Quid qua[e]ris nomen meum, quod est mirabile?'' I[dest] sim-
pliciter absolute per antonomasiam. Dicit B. Virgo in Au[c]toris loquacitate: Io son molto piuÁ
ammirabile di Dio. Rationes adducit inanes ex attributorum mirabiliori copula (quia Mater, et
Virgo) cum longe mirabiliora sint attributa Christi, quibus Deus est, et homo, quam Mariae, qui-
bus est Mater et Virgo, testimonio omnium Doctorum, et Sanctarum Scripturu[m]. Aliae proba-
tiones sunt extortae Scripturae, et haeresis fomanta, dum <absolutam> infinitatem, et incompre-
hensibilitatem Mariae dat. <tamquam Deam, quam si negat, nihil probavit, cum et numerus ha-
ren[a]e sit ita co[m]prehensibilis et partes continui potentiatur saltem infinite.>» (Ivi, p. 94).

Ð 224 Ð
VERSO IL FALLIMENTO DELLA LOTTA ALLA SUPERSTIZIONE

satisfacturus erat Deus humanatus».275 La pienezza di grazia della Madre


di Dio si manifestava certo in modo particolare nella sua misericordia
per gli uomini bisognosi di salvezza, traducendosi in un'azione intercesso-
ria e propiziatrice presso il trono di Dio. Ma la misericordia della Vergine
altro non era che un semplice riflesso della bontaÁ e dell'amore del Padre.276
Se, dunque, la proclamazione dell'onnipotenza di Maria faceva cadere il
Riccardi in un grave errore dottrinale,277 anche l'escamotage da lui intro-
dotto per sfuggire ± a detta dello smaliziato filosofo ± ad eventuali controlli
inquisitoriali, a poco valeva. Anche solo attribuire alla Vergine la potestaÁ di
«partecipare» all'onnipotenza divina avrebbe significato attribuire comun-
que alla Madre di Cristo la potestaÁ di creare mondi nuovi, cancellare i pec-
cati, redimere il genere umano ed altre virtuÁ divine che spettavano in via
esclusiva a Dio e al suo venerato «figliuolo».278
Dalle censure campanelliane emergeva, infine, un'attenzione tutta par-
ticolare al tema della preghiera. Considerata la centralitaÁ assunta dalla que-
stione nell'ambito dell'opera del Riccardi non poteva essere forse altrimenti.
Di fronte alle «scandalose» affermazioni del Maestro del Sacro Palazzo in-
torno alla «forza invincibile dell'orazione mariana» Campanella reagiva con
vera indignazione. Se fosse vero, scriveva, che la madre di Cristo «gli [a
Dio] fa fare tutto cioÁ che vuole» allora le preghiere della Vergine dovreb-
bero avere il potere di condannare a morte eterna un uomo predestinato
alla salvezza oppure quello di salvare l'anima di un reprobo: «Cum autem
ait, quod ad preces B. Mariae Deus facit omnia, quoniam debet illi, ut sub-
ditus, blasphemia duplex est maxima. Nec enim ad preces eius damnaret
praedestinatum, nec salvaret reprobum, nec de sole faceret terram, neque
evacuaret infernum».279 Lasciar credere a «semplici et idioti» che in nome

275 Ivi, p. 102.


276 «Tota compassio et misericordia [...] B. Virg. est a Patre, teste Augustino contra Maxi-
minum, quia est fons deitatis et omnis Boni» (p. 47).
277 «Propositio prima haeretica est, quod Maria sit onnipotens non solum creaturarum, sed

etiam Dei, quem subditum dicit; unde sequitur maius esse dominum Mariae quam Dei. Deus
enim super creaturas potest, Maria etiam super Creatorem. Nulla enim creatura, neque Deu ipse,
neque persona divina habet potestatem super Deum, et hoc est de fide catholica; ergo contraria
est haeretica» (Ivi, p. 106).
278 «Et quamvis dicat omnipotentem participio loquitur ad fugiendum Tribunal Inquisitio-

nis. Nam non potest reperiri omnipotentia ex participio, sed parti potentia; alioquin pars aequa-
retur totis contra omnem Philosophiam divinam, et humanam. Praeterea. Si autem quidquid po-
test potest [sic] Deus, potest B. Virgo, tunc posset B. Virgo creare mundos innumerabiles facere
ex nihilo, dare gratiam, peccata delere, redimere genus humanum, dare gloriam, creare animam,
instituere sacramenta et haec concessit Auctor in pag. 344 et 403 et non recte, sed nullum horum
potest, ergo nec toticipat, seu omnicipat omnipotentiam, nec in plurimis participat: potentia po-
test participari, non autem omnipotentia» (Ivi, pp. 106-107).
279 Ivi, p. 107.

Ð 225 Ð
CAPITOLO TERZO

della Vergine qualsiasi loro richiesta poteva essere esaudita e realizzata era
quanto di piuÁ eretico egli avesse potuto ascoltare: «Manifesta haeresis, quo-
niam in nomine Virginis nihil petitum posse negari dicit, et tamen multi ro-
gant in nomine Virginis, et non exaudiuntur». «Christus dixit: ``Quaecum-
que petieritis in nomine meo, dabit vobis'', et non nomine Virginis ± preci-
sava Campanella ± et Apostolus: ``Unus (ait) est mediator Dei, et hominum
homo Christus Jesus'', et alibi: [...] Unde Theologi Thomistae aiunt, quod
de rigore iustitiae solus Christus, qui est nobis iustitia, potest petere pro no-
bis, non autem B. Virgo, aut alius sanctus est nobis justitia; sed ex accepta-
tione Dei, si velit».280 Solo riaffermando prepotentemente la centralitaÁ del
cristocentrismo devozionale,281 sarebbe stato possibile restituire la giusta
misura ed il giusto valore alla preghiera intercessoria della Beata Vergine
Maria: «Orando, ut atq[ue] magis quam coeteri sancti apud Deum».282
La sfortunata sorte delle censure campanelliane ± destinate non solo a
rimanere manoscritte, come accennato, ma anche a provocare un inatteso e
sgradito risveglio dell'offensiva ecclesiastica nei confronti di alcuni dei suoi
piuÁ importanti scritti filosofico-religiosi ± 283 era ormai solo l'ultimo dei se-
gnali di una evidente resa delle gerarchie romane nei confronti delle «de-
rive» superstiziose e dottrinali che caratterizzavano parte della letteratura
devozionale secentesca.
Lo stesso beffardo gioco del destino che aveva favorito quel clamoroso
ribaltamento di ruoli tra censore (Riccardi) e vittima (Campanella) finiva
cosõÁ per regalare l'immagine di un'inedita «affinitaÁ elettiva» tra due tradi-
zionali nemici della storia di quegli anni: l'eretico Tommaso Campanella ed
il cardinale inquisitore Roberto Bellarmino, accomunati ± anche se solo per
un attimo ± da una battaglia ormai perduta in nome della purezza della
dottrina e della devozione.284 Una battaglia per la purezza ed il rigore dot-
trinale che forse ± allontanato definitivamente il pericolo luterano ± non
valeva piuÁ la pena di combattere.

280 Ivi, p. 51.


281 «Igitur [...] Haeretica comparatio, quae debitorem facit Christum, B. Virginem vero cre-
ditricem, cum totum contrarium dicere debuisset, cum sit falsum, et sempliciter, et ex supposti-
tione; quoniam simpliciter ipsa omnia habet a Christo, et quod Christus acceperit corpus illud ab
ea, est gratia a Christo emanans, non a Virgine» (Ivi, pp. 50-51).
282 Ivi, f. 306.

283 A. TERMINELLI , Introduzione a T. Campanella, Censure, cit., p. 14.

284 Sulla stima e il rispetto reciproco che, nonostante la diversita


Á di posizioni, caratterizza-
rono il rapporto tra queste due importanti figure della cultura del tempo cfr. G. ERNST, Il ritro-
vato Apologeticum di Campanella al Bellarmino in difesa della religione naturale, in «Rivista di
storia della filosofia», n. 3, 1992, pp. 565-586, in partic. pp. 566-567.

Ð 226 Ð
INDICE DEI NOMI

Abbondanza Blasi, R.M., 23 Berengo, M., 21


Acquaviva, Claudio, 112 Berinzaga, Isabella, 111, 112
Adorni Braccesi, S., 21 Bernardino da Balvano, 190-192
Agostino, santo, 119, 193 Bernardo, santo, 193
Alberigo, G., 32, 66, 78 Bernieri, Girolamo, 149
Albertini, Francesco, 203, 205, 206, 217, Bertari, Giovanni, 23
218 Bertelli, S., 34
Aldobrandini, Pietro, 214 Betti, G.L., 107
Aleandro Girolamo, 23, 64 Bianchini, G., 1
Ambrosini, F., 21, 116 Bigalli, D., 181
Ambrosio, santo, 193 Bindoni, Agostino, 76
Anselmi, A., 129 Biondi, A., 79, 180, 181
Antonielli, L., 94 Blado, Antonio, 96
Antonino, santo, 3 Boesch Gajano, S., 194
Antonio, santo, 3 Bogliolo, L., 39, 44
Arrigoni, Pompeo, 211, 213 Boido, Ludovico, 151
Asteo, Girolamo, frate, 195 Bonaventura, San, 3, 8
Aubert, A., 95 Bonora, E., 44, 45, 94, 110, 116
Aymard, M., 9 Borghese, Camillo, vedi Paolo V
Azpilcueta, MartõÂn, detto dottor Navarro, 141 Borromeo, A., 165
Borromeo, Carlo, 78, 79, 80, 81, 88, 130,
Baldini, U., 112 179, 180
Balsamo, L., 181 Borromeo, Federico, 149
Bandini, Giovanni Battista, 144 Bosio da Padova, Evangelista, frate, 109
Barbo, Ludovico, 3 Bossy, J., 79
Barbieri, E., VII, 170 Bottoni, R., 81
Baronio, Cesare, 73, 149, 158, 212, 214 Bozza, T., 18, 19, 20, 86
Barzazi, A., 186 Bresciano, Anastasio, 199
Basilio, santo, 193 Brizzi, G.P., 181
Bataillon, M., 39 Brucioli, Alessandro, 20
Batiffol, P., 72 Brucioli, Antonio, 18
Battista da Crema, 38, 39, 40, 43, 44, 45, Brunelli, G., 23
46, 48-49, 109, 110, 127, 134-137 Buschbell, G., 22
Beccadelli, Ludovico, 66, 67 Buzzi, F., 79
Bellarmino, Roberto, 133, 155, 158, 162,
211-216, 226 Calbetti, Arcangelo, 164, 165, 177, 197, 198
Bellintani da SaloÁ, Mattia, 79, 88-94, 108, Calvino, Giovanni, 18, 20, 86, 87
128, 191, 193 Campanella, Tommaso, 221-226
Benali, Bernardino, 188 Camporesi, P., 183
Benivieni, Antonio, 193 Canobio, Evangelista, 101-108

Ð 227 Ð
INDICE DEI NOMI

Canone, E., 181 De Fiores, S., 220


Cantimori, D., 9, 14, 50 De Gaetano, A., 34
Capra, C., 94 De Gregorio, V., 76
Caraccia, Arcangelo, 203, 205, 218 De Luca, G., VII
Carafa, Gian Pietro, vedi Paolo IV De Maio, R., 38, 186
Caravale, G., 183, 185 De ReÂcalde, I., 214
Cardini, F., 1 De Rosa, G., 23
Carella, C., 181 Del Col, A., 73, 195
Cargnoni, C., 89, 93, 97-100, 102, 107, 108, Del Re, N., 149
135, 138, 139, 190 Della Porta, Guglielmo, 168
Carlini, G., 81, 138 Di Filippo Bareggi, C., 79-81
Cassese, M., 23 Dionisio da Montefalco, 108
Castelli, P., 19 Dionisio da Piacenza, don, 122, 123, 127,
Catalano, G., 217 128, 129
Caterina da Siena, 3 Ditchfield, S., 70, 71, 72
Catto, M., 86 Doglio, F., 182
Cavalca, Domenico, 3 Dompnier, B., 176
Cavarra, A.A., 76 Donati, C., 183
Cavazza, S., 50, 51, 107 Dossetti, G.A., 32
Cervini, Marcello, 22 Duni, M., 167
Cesareo, F.C., 23 Dykmans, M., 186
Cestaro, A., 23
Chartier, R., 176 Edoardo VI, 50
ChiaboÁ, M., 182 Elizondo, F., 108
Chiara, Santa, 3 Enrico VIII Tudor, 114
Cian, V., 181 Erasmo da Rotterdam, 27, 114
Cipriano, fra, inquisitore di Rimini, 151 Erbe, M., 12
Cistellini, A., 163 Ernst, G., 222, 226
Clemente IX (Rospigliosi, Giulio), 149 Errera, A., 164, 200
Clemente VIII (Aldobrandini, Ippolito), Eszer, A., 217
143-44, 146, 148, 149, 154, 155, 156, Eubel, C., 114
159, 162, 175, 211
Clemente XI (Albani, Gianfrancesco), 76 Facca, D., 33
Colonna, Vittoria, 95 Fantini, M.P., 73, 79, 167, 204
Cordoni da Castello, Bartolomeo, frate, 94, Ferrara, M., 4, 7, 9
96, 97, 98, 101, 102, 103, 107, 108, 110, Ferrari, L., 122, 130
111, 122, 134 Ferri, P.L., 122
Corrain, C., X Festa, Pietro Martire, 149, 164
Cortese da Montefalco, Francesco, 201 Feyles, G., 39
Costabili, Paolo, 181, 184 Fiamma, Gabriele, 186
Cozzi, G., 207, 208 Fiorani, A., 186
Cozzi, L., 207 Fiorani, L., 159, 205, 206, 207
Craveri, M., 170 Firpo, L., 11, 50
Criscuolo, V., 135, 138 Firpo, M., 8, 10, 13, 22, 23, 24, 32, 34, 44,
Crispoldi, Tullio, 32, 33 46, 49, 95, 100, 184
Cuvato, R., 79, 88, 89, 93 Fisher, Giovanni, 113, 114, 115, 121
Fontana, V.M., 217
D'AlencËon, U., 108 Fragnito, G., VII, 3, 8, 24, 30, 43, 51, 64, 66,
D'Ascoli, E., 94 67, 72, 109, 116, 124, 132, 133, 134, 154,
Dall'Olio, G., 21 156, 160, 161, 180, 181, 182, 183, 184,
Davidico, Lorenzo, 46-48 185, 187, 193, 194, 221
De Bujanda, J.M., 8, 61, 94, 95, 178 Frajese, V., 133, 160, 161, 180, 208
De Certeau, M., 78 Francesco d'Assisi, san, 3, 52, 53, 54, 55, 56

Ð 228 Ð
INDICE DEI NOMI

Franco da Rossano Calabro, Silvestro, vedi Kaplan, S.L., 167


Silvestro da Rossano Calabro Klein, R., 8
Fregoso, Federico, 23-32
Fuglister, H., 12 LaõÁnez, Giacomo, 70, 109
Fumagalli Beonio Brocchieri, M.T., 19 Laurentin, R., 220
Furrer, K., 12 Lavenia, V., 141
Lazzerini, L., 10
Gaeta, F., 64 Lebreton, M.M., 186
Gagliardi, Achille, 111, 112 Lebrun, J., 175
Gallio, Tolomeo, 193 Leonardi, C., 32
Garfagnini, G.C., 3 Leone X (Medici, Giovanni, de'), 2
Gaucci, Angelo, 199, 200 Leoni, Antonio, 174, 175, 177, 178
Gelli, Giovan Battista, 34 Lerri, Michelangelo, 177
Getto, G., 3, 39 Lionardo, canonico fiorentino, 193
Ghelfucci, Antonio Francesco, 113 Lippomano, Alvise, 21
Ghelfucci, Capoleone, 198, 199 Llaneza, M., 80
Ghislieri, Michele, vedi Pio V Llorca, B., 39
Giberti, Giovanni Matteo, 32, 33 Longhurst, J.E., 39
Ginzburg, C., 32, 33, 168, 188, 195-197 Longo, N., 182
Gioia, M., 112 Loyola, Ignazio di, 214
Giolito, Gabriele, 138 Lutero, Martino, 9, 10, 11, 12, 13, 15, 16,
Giovanni di Dio, 94, 95, 96, 101, 139, 181, 17, 20, 24, 28, 35, 54, 63, 121
186
Giovanni di Ravenna, frate, 155 Magnani, F., 66
Girolamo da Molfetta, 97, 98, 99, 100, 101 Malena, A., 129
Giulio da Milano, 50 Mancini, Orazio, 191
Giustiniani, Paolo (Tommaso), 1, 3, 4, 5, 7,
Marcatto, D., 22, 46
70
Marchetti, V., 21, 24
Godman, P., 116, 213, 214, 215, 216
Marcucci, V., 183
Gorian, R., VII
Gotor, M., 159, 212, 214 Marini, Leonardo, 71
Granada, Luigi de, 80, 81, 95, 130 Martin, J., 21
Gregorio XIII, 116, 121, 146 Martinez Millan, J., 112, 113
Grendler, P.F., 116, 134, 143, 145, 146, 147 Martino da Siena, Teofilo, 116
Grillo, D.L., 122 Masini, Eliseo, 200, 201
Guanzelli da Brisighella, Giovanni Maria, Masselli, Lorenzo, 216
201, 203 Mautini da Narni, Girolamo, 134, 135
Guarnieri, R., 38 MeÂchoulan, H., 100
Guerra, A., 113 Medici, Alessandro de', 182
Guggisberg, H.R., 12 Menghini, Tommaso, 177
Gulik, W. van, 114 Mercuriano, Everardo, 112
Merelli, F., 88
Haliczer, S., 167 Micanzio, Fulgenzio, 208
Headley, J.M., 79 Miccoli, G., 21
Hubert, F., 50, 51 Miegge, M., 8
Huerga, A., 80 Millini, Giovanni Garsia, 158, 212, 213
Miranda, Bartolomeo de, 133
Infelise, M., 63, 94 Mocenigo, Alvise, 116
Innocenzo XI (Odescalchi Benedetto), 178 Mocenigo, Filippo, 116-118, 120-121
Iparraguirre, I., 113 Mocenigo, Marcantonio, 116
Moretto, Pellegrino, 20
Jedin, H., 3, 23, 32, 66, 70, 78 Muratori, Ludovico Antonio, 178, 179
Joannou, P.-P., 32 Murray, R.H., 11

Ð 229 Ð
INDICE DEI NOMI

Nanni, S., 194 22, 32, 33, 79, 115, 121, 154, 159, 160,
Negri, Paola Antonia, 94 182, 194
Niccoli, O., 12, 64, 183
Querini, Pietro (Vincenzo), 1, 3, 4, 5, 7, 70
O'Neil, M., 167 QuinÄones, Francisco, 70
Oberman, H.A., 11
Ochino, Bernardino, 50, 97-102 Rampegolo, Antonio, 201
Optatus a Veghel, 107-108 Rao, G., 8
Ossola, C., 186 Raponi, A., 79, 81
Ozment, S.E., 11 Ravasi, G., 79
Regino, Girolamo, 19
Pagani, Antonio, 94 Revel, J., 176
Pagano, S., 45, 109 Riccardi, NiccoloÁ, 207, 216-226
Paleotti, Gabriele, 109 Ricuperati, G., 100
Paolin, G., 73 Ridolfini, Evangelista, 153
Paolo III, 45, 168 Rinaldi, Girolamo, 21
Paolo IV (Carafa, Gian Pietro), 24, 45, 63, Ripanti da Iesi, Francesco, 96, 97, 102, 107,
67, 70, 86 110
Paolo V (Borghese, Camillo), 149, 163, 180, Riva, Raffaello, 199
211 Robres Lluch, R., 80
Paschini, P., 72, 181 Rocca, Angelo, 129-131
Pastore, A., 50 Romeo, G., 204
Pelagio, santo, 119 Ronsford, E., 51
Perrone, L., 107 Rosa, M., 79, 175, 178, 186, 194, 198, 203
Petrocchi, M., 3, 4, 8, 38, 45 RotondoÁ, A., 14, 63, 87, 104, 109, 162, 181,
Petrucci, F., 32 182, 184, 211
Rouschausse, J., 114
Peyronel Rambaldi, S., 49
Rozzo, U., VII, 7, 8, 9, 49, 51, 95, 116, 180,
Pichi da Borgo Sansepolcro, Ilarione, 97
181, 182
Pico della Mirandola, Giovanni, 19, 101
Rubeo, Damiano, 181, 182
Pico, Paolo, 140, 198 Rubinstein, N., 34
Pietro Antonio da Ponte (vescovo di Troia), Ruffini, F., 13
158, 162, 212 Rurale, F., 112
Pili da Fano, Giovanni, 107, 108 Russo, C., 194
Pinerolo, Giovan Battista, 85
Pio IV (Medici di Marignano, Giovanni An- Saiglio, Tommaso, vedi Sailly
gelo, de'), 65, 67 Sailly, Thomas, 152, 155, 156
Pio V (Ghislieri, Michele), 66, 71, 73, 74, Sandys, Edwin, 207, 208, 210
75, 76, 79, 144, 145, 146, 148, 149, 151, Santoro, Giulio Antonio, 156
152 Sarpi, Paolo, 207-210
Pirri, P., 112 Sauli, Filippo, 21
Pittorio, Ludovico, 81 Savonarola, Girolamo, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 13,
Plaisance, M., 182 15, 35
Politi, Ambrogio Catarino, 9 Scaduto, M., 109
Popkin, R.H., 100 Scandella, Domenico detto Menocchio,
Porcelli, Giovan Battista, 145, 146, 147, 195-198
152, 162, 163 Scaraffia, L., 194
Porzio, Simone, 32, 33, 34, 35, 36, 37 Scaramella, P., 198
Possevino, Antonio, 181 Schnitzer, G., 9
Premoli, O., 44 Schutte, A.J., 4, 7, 49, 67, 188
Prini, P., X Seidel Menchi, S., 9, 21, 23, 24
Prodi, P., 32, 109 Serafino da Fermo, 38, 39, 40, 42-47, 127,
Prosperi, A., X, 2, 7, 8, 9, 12, 13, 18, 19, 20, 128, 129

Ð 230 Ð
INDICE DEI NOMI

Seripando, Girolamo, 22, 23 Tomaro, J.B., 79


Sfondrato, NicoloÁ, 122 Tommaso d'Aquino, santo, 3, 106
Signorotto, G.V., 38, 129 Torrentino, Lorenzo, 34
Silvestro da Rossano Calabro, frate, 81, 82, Trolese, F., 170
83, 84, 88, 138-141 Turchini, A., 79, 81, 129, 194
Simoncelli, P., 3, 8, 10, 14, 23, 24, 32, 34,
35, 37, 38, 63, 95, 96, 97, 98, 102, 115, Umile da Genova, padre, 88, 93
129 Urbano VIII (Barberini, Maffeo), 212, 222
Simonetta, Ludovico, 109
Simonutti, L., 100 Valier, Agostino, 121, 146, 151, 162, 163,
Sirleto, Guglielmo, 72, 95, 113, 123 193
Sisto V (Peretti, Felice), 134, 146 Varchi, Benedetto, 95
Smyth, C.H., 34 Vasoli, C., 3
Sommervoegel, C., 155, 205 Venturi, F., 50, 178
Soprani, R., 122 Vergerio, Pier Paolo, 23, 24, 49-61, 169
Sorrentino, A., 181 Vermigli, Pietro Martire, 50
Spini, G., 18, 50 Vernazza, Battista, 121-125, 128, 129
Staehelin, A., 12 Vernazza, Ettore, 122
Stancaro, Francesco, 13-18, 35, 101 Vinay, V., 9, 50
Stango, C., 160 Virgilio, Polidoro, 20
Stanislao da Campagnola, 94, 96, 97, 102, Viti, P., 8
135, 188, 189 Vivanti, C., 2, 208
Stegman, A., 20
Stella, P., 178 Wecker, R., 12
Stewart, A., 114 Windler, C., 12
Strada, Francesco, 127 Wittelsbach, Massimiliano, duca di Baviera,
Stroppa, S., 112, 129 212, 213
Wotschke, Th., 13
Tacchella, L., 162
Tacchella, M.M., 162 Zaccaria da Fivizzano, frate, 64
Tagliavia d'Aragona (Terranova), Simone, Zaccaria, R.M., 8
87, 147, 151 Zambelli, P., 33, 94
Tedeschi, J., 13, 14, 18, 50, 156, 164, 200 Zampini, P., X
Terminelli, A., 222, 226 Zanier, G., 33
Terranova, vedi Tagliavia d'Aragona, Si- Zapperi, R., 168
mone Zardin, D., VII, 79
Thiers, Jean Baptiste, 175, 176, 177 Zarri, G., 167

Ð 231 Ð
INDICE

Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. VII

I. Devozione interiore, luteranesimo e censura ecclesiastica nel-


la prima metaÁ del XVI secolo
1. Il «Pater noster» da Savonarola a Seripando . . . . . . . » 1
2. L'orazione mentale e gli «spirituali» . . . . . . . . . . . . . » 23
3. Serafino da Fermo e Lorenzo Davidico . . . . . . . . . . . » 38
4. Pier Paolo Vergerio e la polemica antidevozionale . . . » 49

II. Tra orazione superstiziosa e orazione mistica: la censura ec-


clesiastica dall'Indice di Paolo IV all'Indice clementino
1. Verso una rinnovata interioritaÁ . . . . . . . . . . . . . . . . . » 63
2. Ortodossia cattolica e orazione mentale . . . . . . . . . . . » 78
3. Censura e autocensura negli anni ottanta . . . . . . . . . . » 85
4. Dall'eresia alla liturgia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 129

III. Verso il fallimento della lotta alla superstizione: i primi anni


di applicazione dell'Indice di Clemente VIII
1. Uniformazione liturgica: un tentativo velleitario? . . . . » 143
2. Lotta alla superstizione o lotta agli «indocti»? . . . . . . » 164
3. Primi segnali di resa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 195
4. Roberto Bellarmino e Tommaso Campanella: un incon-
tro inedito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 212

Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 227

Ð 233 Ð
CITTAÁ DI CASTELLO . PG
FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI GIUGNO 2003

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