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Immagini di vita religiosa in un'epoca di confronti: Ruperto di

Deutz nel dibattito tra monaci e canonici agli inizi del XII secolo

La statura teologica e intellettuale di Ruperto di Deutz, monaco vissuto in area


renana a cavallo tra la fine dell'XI e gli inizi del XII secolo, provoca ancora oggi
l'interesse di molti. Con queste parole non intendo riferirmi soltanto al mondo
accademico che ha sempre tributato una certa attenzione al fecondo teologo tedesco;
infatti non sono passati molti anni da quando Edoardo Arborio Mella, monaco di Bose,
ha pubblicato in italiano due brevi opere di Ruperto, il De voluntate Dei e il De
omnipotentia Dei. Nella sua prefazione Arborio Mella concludeva scrivendo:
«Ruperto di Deutz, a suo tempo esegeta biblico tradizionale, teologo discusso e
filosofo non riuscito, è oggi per noi soprattutto l'antesignano di un filone di pensiero
tuttora ricco di suggerimenti»1. In altre parole non solo l' attualità di temi come quello
del male, ma anche la posizione antropologica dello stesso Ruperto, hanno reso il
pensiero di quest'ultimo un valido termine di paragone per la riflessione teologica
contemporanea.
La particolarità del pensiero di Ruperto di Deutz risiede probabilmente nella
capacità di dare impostazioni nuove a problemi antichi, come ha d'altra parte osservato
lo stesso Arborio Mella rispetto ai due scritti rupertiani da lui pubblicati; tuttavia
questa osservazione induce a chiedersi quali fossero le provocazioni in grado di
suscitare questo particolare approccio con la tradizione. Le pagine che seguono non
sono altro che il tentativo di illustrare il contesto di formazione di questo dibattito
cercando di comprendere in maniera specifica come questo finì per contribuire
all'evoluzione di un originale pensiero ecclesiologico. Non si può infatti trascurare il
contributo che lo stesso Ruperto diede alla fazione anti-imperiale all'interno della
riforma che coinvolse la Chiesa proprio in quegli anni.
Il contesto storico e culturale nel quale si inserisce l'attività teologica di Ruperto di
Deutz può essere descritto da una esortazione presente nel vangelo di Matteo:
«Credete che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No vi dico, ma piuttosto la
divisione; gli uomini saranno divisi, figlio contro padre e padre contro figlio» 2. Non
penso esista un brano che riesca ad anticipare con la stessa efficacia quella profonda
frattura che attraversò le strutture ecclesiastiche nel XII secolo.
Ildeberto di Lavardines (+ 1123) osservava che «Trinus in Ecclesia viget ordo.
Uxoratus Job, Daniel se mortificantes, rectores Noe significat». Immagine della
trinità: la Chiesa, come Dio, è una e nello stesso tempo trina 3. Eppure la situazione
reale era ben distante dall’immagine di Ildeberto perché una frattura sembrava essersi
1
Dio è buono. De voluntate Dei. De omnipotentia Dei, a cura di E. ARBORIO MELLA, Torino 2006, 33.
2
Mt. 10, 21-22.
3
HILDEBERTUS DE LAVARDINO, Carmina miscellanea, PL 171, col. 1440. Crf G. Picasso, "Status vitae"
nella "societas christiana" (Chierici Laici e monaci), Milano 1970.
Per uno studio di carattere generale sulla figura e sull'opera di Ildeberto, rimando a: W. VON MOOS,
Hildebert von Lavardin, Stuttgart, 1965. Per la collocazione cronologica delle opere di Ildeberto e
quindi per una corretta comprensione del contesto storico culturale in cui queste vengono prodotte,
rimando a: G. ORLANDI, Doppia redazione nei acarmina minora» di Ildeberto?, in Studi Medievali,
1974, II, 1019 - 1049.
Sempre per una analisi cronologica delle opere di Ildeberto, una interessante e molto recente analisi è
quella svolta da M. WOLTERBECK, «Piratae vis importuna»: Hildeber of Lavardin's Poems about
William of Aquitaine's Desctruction of the Church of Poitiers, in Allegorica, 17, (1996) 95-115.

1
aperta tra la stirpe di Daniele, cioè coloro chiamati alla contemplazione, in particolare
tra i monaci, e i chierici.
Può sembrare strano che nel XII secolo due degli elementi costitutivi della chiesa si
trovino in contrasto; tuttavia ciò è testimonianza di una società, come quella
ecclesiastica, attraversata da profondi e radicali cambiamenti e per questo alla ricerca
di una nuova identità4.
Nel tentativo di comporre una immagine adeguata del contesto che si intende
prendere in esame è bene considerare che il fiorire di grandi differenziazioni nella vita
religiosa, così come avvenne nel XII secolo, vide lo sviluppo di nuove e rigogliose
forme di vita monastica, capaci di inserirsi nel rinnovato contesto di rinascita urbana;
nello stesso tempo stavano crescendo istituti di canonici regolari che si aprivano a
modelli di vita monastica. Con la fondazione di Prémontré, ad esempio, i canonici
regolari guidati da San Norberto si erano avvicinati per la loro organizzazione al
modello cistercense5. Specularmente, con l'avvento delle nuove esperienze monastiche
Come studi di carattere generale sulla concezione tripartita della società medievale mi richiamo soltanto
al celebre studio di Duby, Lo specchio del feudalesimo, Torino 1998; inoltre una analisi molto accurata
è quella svolta da Yves Congar nella sua relazione alla terza settimana della Mendola del 1965 dal
titolo, Les laïcs et l'ecclesiologie des "ordines", ad introduzione della quale viene svolta una interessante
ricerca rispetto ai presupposti teologici - scritturali rispetto ai quali si è basato lo sviluppo di questa
ideologia societaria. Jacques Le Goff mette in relazione questa partizione della società medievale con
l'altra contenuta nel Carmen ad Rotbertum rege di Adalberone di Laon. Entrambe, secondo lo storico
francese, nascono dalla necessità di rafforzare l'ideologia monarchica nello sviluppo nella dinastia
capetingia. J. LE GOFF, Note sur la société tripartie, in «Pour un autre Moyen Age. Temps, travail et
culture en Occident», Paris 1977.
4
Sulle dialettiche interne al mondo ecclesiastico e allo sviluppo del contrasto tra canonici e monaci
rimando a: Y. CONGAR, Modèle monastique et modèle sacerdotal en Occident de Grégoire VII à
Innocent III, in Mélanges E.- R. Labande, I, Poitiers 1974. Un ulteriore spunto di riflessione proviene da
G. LUNARDI, L'ideale monastico nelle polemiche del secolo XII sulla vita religiosa, Noci, 1970. In una
prospettiva di più ampio orizzonte può essere un utile riferimento l'opera di padre Chenu, La théologie
du XII siècle, Paris, 1976, il quale dedica un intero capitolo allo sviluppo di tale scontro. Tuttavia
l'attenzione della sua riflessione si mantiene sull'analisi dei termini esegetico scritturali, e sulla
riscoperta della tradizione platonica che tale contenzioso comportò.
Sempre Chenu, qualche anno prima dell'uscita dell'opera appena citata scrisse un articolo che può
risultare interessante per la contestualizzazione e la collocazione cronologica di alcune importanti opere
che segnarono il dibattito tra monaci e canonici. M.D. CHENU, Moines, clercs, laics au carrefour de la
vie évangelique, in Revue d'Histoire ecclesiastique, 49 (1954), 59-89.
Sempre rispetto al contrasto che venne creandosi nel XII secolo tra le istituzioni monastiche e le
istituzioni canonicali, un utile rimando possono essere gli interventi della settima settimana di studio
della Mendola che aveva come titolo: Istituzioni monastiche e istituzioni canonicali in occidente (1123 -
1215). In particolare vorrei sottolineare come utili per la comprensione delle dinamiche storiche che in
questo momento mi premono evidenziare, la relazione iniziale di P. ZERBI, Vecchio e nuovo
monachesimo alla metà del XII secolo e la relazione di C.D. Fonseca dal titolo, Monaci e canonici alla
ricerca di una identità.
5
Riguardo allo sviluppo del movimento canonicale rimando alla complessa e ricca relazione di K.
BOSL, Das Verhältnis von Augustinerchorherren (Regularkanoniker), Seelsorge und
Gesellschaftsbewegung in Europa im 12 Jahrundert, in Istituzioni monastiche e istituzioni canonicali,
419 - 550.
Il principale riferimento rispetto alla ricostruzione delle vicende genetiche dell'ordine premostratense è
un'opera di Domenique Marie Dauzet, tradotta in italiano da Fiorella Mattioli con il titolo, San
Norberto: una riscoperta della vita comune del clero, Roma 2000.
Un interessante intervento è quello svolto da Petit al passo della Mendola nel 1959 dal titolo: L'ordre de
Prémontré de Saint Norbert à Anselme de Havelberg, in La vita comune del clero, Milano 1962, 456-
479.

2
di ambito urbano, i chierici presenti nelle città, soprattutto i canonici delle cattedrali,
videro la loro esperienza di vita religiosa privata di una identità che si veniva
confondendo con la vita comunitaria monastica, trovandosi inoltre defraudati delle
donazioni che fino a quel momento erano state una loro esclusiva pertinenza.
Concentrandosi sulla tradizione monastica, nulla sembrava vietare all'ordo
monachorum di rivestire incarichi di natura pastorale: nelle isole britanniche 6, agli
albori della conversione di quelle popolazioni al cristianesimo, il monastero spesso
coincise con il centro di organizzazione diocesano. Tuttavia sul continente la
tradizione che aveva caratterizzato sia lo sviluppo dei monasteri che quello delle
diocesi, aveva definito due distinte sfere di controllo e se le campagne diventarono
l'ambiente per lo sviluppo dell'esperienza monastica, le città furono il centro
dell’azione del vescovo e dei suoi canonici. Ma questo equilibrio si infranse: una
testimonianza di Arnone di Reichesberg, che scrive un'opera dal significativo titolo di
Scutum canonicorum, sembrò sottolineare la nostalgia di un sodalizio che non esisteva
più7. Alla base di questo sentimento c'era la consapevolezza di una identità perduta:
infatti se Arnone aveva scritto lo Scutum, era per la «pro scuto et armis in defensionem
nostri usus sum»8 che evidentemente erano stati messi in discussione. Quest'autore
vedeva la necessità di ritornare ad una tradizione che potesse risolvere ogni equivoco;
per questo motivo giustificherà una identità per i canonici sopra le vicende bibliche dei

Sicuramente più datato è l'articolo di C. DEREINE, Les origines de Prémontré, in Revue d'Histoire
Ecclesiastique, 42 (1947), 352-378.
6
B. BISCHOFF, Il monachesimo irlandese e il continente: «già alla fine del quinto secolo e tanto più nel
sesto questa [la chiesa vescovile in Irlanda] fu sostituita da una organizzazione che aveva per
fondamento esclusivamente i grandi monasteri. [...] da allora in poi i vescovi fanno parte della struttura
monastica» in Il monachesimo nell'alto medioevo e la formazione della civiltà medievale, IV sett. di
studio del CISAM, Spoleto 1957, 123.
Riguardo gli sviluppi del monachesimo sul continente rimando in primo luogo all'intervento di J.F.
Lemaigner alla IV sett. di studio del CISAM, dal titolo Structures monastiques et structunes politiques
dans la France de la fin du X et des debuts du XI siecle. In questo intervento lo storico francese sembra
partire dalle seguenti domande: «De tel prélats avaient ils des qualités propres à 1'exercice d'une
jurisdicion bienfaisante sur les monastère situés dans leures diocèses? Les moines au moins menacés,
sinon atteints, n'allaient-ils pas chercher à se dérober à leur emprise? Et s'orientant vers Rome, contre
les évéques tout aussi bien que contre les laiques: les deux choses sont liées, solliciter d'autre appuis
conduisant à d'autre structures?» 383. A queste domande sembra offrire una risposta descrivendo un
complesso quadro di rapporti tra enti di potere in cui il monastero si era inserito. Tuttavia una risposta
chiara è quella fornita da Cantarella, il quale descrivendo la dinamica genetica del monastero di Cluny,
e mettendo in relazione questa con la nobiltà franca, individuava nel monastero il fulcro di una
"organizzazione" territoriale che altrimenti sarebbe sfuggito al esercizio del potere delle signorie laiche.
G.M. CANTARELLA, Il monachesimo in occidente: il pieno medioevo (secoli X - XII), in La storia, a
cura di M. FIRPO, Torino, 1982, 345 - 360.
7
ARNO REICHERSPERGENSIS, Scutum Canonicorum, in PL 194, coll. 1489 - 1528. Per la corretta lettura
dell'opera reputo necessario l'intervento di Ovidio Capitani al passo della Mendola nel 1959. In tale
intervento l'autore mise in risalto l'equivocità dell'opera che più di una volta mise in errore numerosi
storici. Infatti padre Chenu nella sua opera La théologie du XII siècle attribuì lo Scutum Canonicorm a
Anselmo di Havelberg con il titolo Liber de ordine canonicorum (PL 188). In breve il prof. Capitani,
anche in virtù delle parole di stima verso Ruperto di Deutz presenti nell'opera, improbabili per un
acceso avversario di Ruperto come Anselmo di Havelberg, diradò gli equivoci in merito assodando la
paternità dell'opera ad Arnone. O. CAPITANI, Nota per il testo dello "Scutum Canonicorum", in Atti
della prima settimana di studi della Mendola, Milano 1962. Cfr. C.D. FONSECA, Monaci e canonici,
204 - 205.
8
ARNO REICHRSPERGENSIS, Scutum Canonicorm, in PL 194, col. 1493.

3
sacerdoti di Israele e sopra il magistero di Ambrogio e Agostino. I monaci erano
invece descritti come il figlio minore d'Israele, Beniamino; tale paragone descriveva la
vocazione ascetica del monaco, che come Rachele muore al mondo per partorire un
uomo nuovo che siede alla destra del padre9. Quello di Arnone era un ideale monastico
preciso che imponeva l'ascesi come la principale condizione per una vita monastica.
La vocazione dei canonici era di conseguenza la testimonianza o comunque una più
attiva azione pastorale.
Bisogna dire che parole di Arnone sono troppo accomodanti rispetto alla realtà del
contrasto in corso. La questione non poteva risolversi con un semplice richiamo alla
tradizione e ben presto il problema finì per infiammare il dibattito teologico: quando
Filippo di Harvengt, canonico regolare di Prémontré, iniziò a scrivere il quarto
capitolo del suo De Institutione Canonicorum10, si soffermò a lungo sulla esclusività
sacerdotale dei paramenti liturgici. Le parole usate, anche se non erano esplicitamente
indirizzate ai monaci, lasciavano intuire un contenzioso che, nel momento in cui si
trovava a scrivere, il premostratense cercava di risolvere; tale confronto era ormai
talmente ovvio che all'interno di questo brano di letteratura teologica, non c'era quasi
più bisogno di ricordarlo.
Ma non furono soltanto i chierici a far sentire la loro voce: anche il mondo
monastico aveva preso le sue posizioni e in questo contesto Ruperto di Deutz era senza
dubbio un polemista attivo11. A difesa della possibilità per il monaco di predicare,
intorno al 1119, Ruperto scrisse 1'Altercatio monachi et clerici; anche se la forma è
quella di un dialogo, qui è il monaco che guida la discussione. Il chierico di fronte alla
forza delle auctoritates scritturali portate dal monaco a sostegno delle sue tesi, non può
far altro che arrendersi all'evidenza delle argomentazioni avverse e se in un primo
momento la considerazione del monaco come uomo morto al mondo 12 gli fa sostenere
che non è lecito per quest’ultimo predicare, la risposta di Ruperto rende il chierico
consapevole della medesima vocazione sacerdotale dei due protagonisti. Il breve
opuscolo si presenta come un piccolo esempio della retorica monastica: la forza delle
tesi del monaco arriva da un approccio in qualche modo mistico alle auctoritates

9
Rispetto all'appellarsi alle autorità di Agostino e di Ambrogio, Arnone usa le seguenti parole: «in
sactis quoque postmodum confessoribus et pontificibus, Hilario, Ambrosio, Augustino, germen
plantationis justitiae mundo protulit» PL 194, col. 1493.
Rispetto al confronto con i figli di Giuseppe: ARNO REICHRSPERGENSIS, Scutum Canonicorum: «Aut,
quomodo unum omnes patrem invocamus Dominum, omnes autem nos fratres sumus, simus nos duo
ordines, ego videlicet canonicus ac monasticus, tamquam duo fratres uterini veri Jacob filii, de quibus
idem pater Jacob ad decem filios suos: "Vos scitis, alt, quod duos filios genuerit mihi uxor mea,
egressus est unus , et dixistis bestia devoravit cum, et hucusque non coparet: istum Benjamin" [...]
simul ergo, inquam, nos duo ordines veluti duo isti patriarchae Jacob filii fratres uterini, ex una matre
nobili Rachele [...] major natu Joseph, sacerdotalis dignitatis et ecclesiastici regiminis donis aurescens,
sit vero junior ordo monasticus Benjamin, qui a matre filius doloris, a patre vero filius dexterae vocatus
est» in PL 194, col. 1497 d.
10
PL 203, coll. 727 - 730.
11
ARNO REICHERSPERGENSIS, Scutum canonicorum: «quomodo in ordinem Cluniacensium Rupertus
abbas Tuitiensis, totius pene Veteris ac Novi Testamenti expositor illustris, ordinem illum aureum
tanquam topatius perornat» in PL 194, col. 1519 a.
12
RUPERTUS TUITIENSIS, Altercatio monachi et clerici, in PL 170, coll. 537 - 542. L'attribuzione a
Ruperto di Deutz dell'opera è stata definitivamente sancita da M. MAGRASSI, Teologia e storia in
Ruperto di Deutz, 30; Per la data dell'opera si veda invece l'opera più datata di U. BERLIÈRE, Rupert de
Deutz et Saint Norbert, in Revue Bénédectine, 7 (1890), 456.

4
scritturali13. Per questo motivo lo stesso riferimento a Paolo usato dal chierico per
sostenere la morte al mondo del monaco, viene sviluppato dallo stesso monaco per
evidenziare la sua rinascita in Cristo. L'auspicio di Arnone secondo cui il monaco
doveva fuggire dal mondo per vivere in Cristo nel chiostro, non sembra essere accolto
da Ruperto. Tra i due protagonisti dell’Altercatio esistono due modi diversi di
appellarsi alla tradizione e per questo motivo il monaco rimprovera il chierico di
essersi dimenticato che il suo ufficio non è «scientia litterarum non tonsura vel
habitus tuus, sed altaris est officium»14.
Da questa breve ricostruzione della dialettica esistente tra monaci e chierici
emergono i fattori di un reciproco cambiamento: se da una parte il modello di vita
monastico era uscito dai canoni che lo volevano lontano dal mondo, magari nelle
campagne, per entrare nella più movimentata vita urbana, dall'altra c'era il mondo dei
chierici che si era aperto ai nuovi fermenti culturali, frutto delle riscoperte della
tradizione dialettica classica. Dove affondavano le radici di questo confronto? Al
fondo c'era una questione culturale, ovvero un problema di ripresa della tradizione e
dei metodi d'insegnamento della teologia15.
Il profilo del giovane Ruperto emerse proprio all'interno di un ambiente segnato da
questa cultura. Agli inizi del XII secolo un tema particolarmente studiato nelle scuole
di teologia e in modo particolare a Laon, era quello del libero arbitrio. Anselmo di

13
Rispetto al metodo di approccio alle auctoritates scritturali e al loro utilizzo, numerose indicazioni ci
sono fornite dallo stesso Ruperto di Deutz il quale nel De Victoria Verbi Dei afferma: «Hic sensus non
solum ratione, verum etiam constat auctoritate» (ed. HAACKE, in MGH, "Quellen zur Geistesgeschichte
des Mittelalters", vol. V (1970), 417). In regulam Sancti Benedicti, afferma: «Eius rei necesgitas me
compulit ut dicerem non esse in canone scripta Beati Augustini, non esse illi per omnia confidendum
sicut libris canonicis [...] At iili me ex hoc diffamare coeperunt tamquam haereticum, qui dixissem non
esse in Canone Beatum Augustinum» in PL 170 col. 496 bc. Per l'approccio di Ruperto alle Auctoritates
scritturali, si veda anche il Prologus in XII Prophetas minores, PL 168, col. 11 bc.
Cfr. M.L. ARDUINI, Contributo alla biografia di Ruperto di Deutz, in Studi Medievali, 1975, II, 565; M.
MAGRASSI, Teologia e Storia in Ruperto di Deuts, Roma 1954, 30; C.D. FONSECA, Monaci e canonici,
204; O. Capitani, Nota, 41
Per quanto riguarda i riflessi della tradizione classica e patristica che hanno caratterizzato l'opera
rupertiana, rimando ad un articolo di H. Silvestre tanto schematico quanto utile: H. SILVESTRE, Les
citations et réminiscences classiques dans l’ouvre de Rupert de Deutz, in Revue d'histoire
ecclesiastique, 45 (1950), 140, 174.
14
RUPERTUS TUITIENSIS, Altercatio monachi et clerici, in PL 170 col. 539 c. cfr. R. FOREVILLE, J.
LECLERCQ, Un débat sur le sacerdoce des moines au XIIe siècle, in Studia Anselmiana, 41 (1957), 8-
118.
15
Dom Leclerque analizzò in maniera approfondita questo particolare aspetto della formazione culturale
monastica. Partendo dalla constatazione che la cultura monastica fondava le proprie radici su tre
principali fonti, la Sacra Scrittura, la tradizione patristica e la letteratura classica, l'autore vide nella
grammatica l'introduzione necessaria per lo sviluppo culturale monastico. Fin qui nulla di
particolarmente diverso dagli ambienti canonici. La distinzione riguarda invece il diverso accento posto
sopra questa attività: la lectio scolastica tende infatti verso la quaestio e la disputatio, mentre la lectio
monastica è una meditatio tendente verso l'oratio. J. LECLERQUE, Cultura umanistica e desiderio di
Dio. Studio sulla letteratura monastica nel medioevo. Firenze 1965 90-93.
RUPERTUS TUITIENSIS, In regula Sancti Benedicti: «cisternis hominum viva fontis Christi fluenta jugiter
manantia maliora sunt» in PL 170, col. 481 ab; mi sembra interessante riportare una sottolineatura
evidenziata già nel 1961 da Varaggini e riportata da Piazzoni. Varaggini infatti definiva la teologia
monastica come "Teologia sapienziale", ovvero come teologia la cui conoscenza si muove secondo un
approccio contemplativo. A. M. PIAZZONI, Monaci teologi, in Storia della teologia nel medioevo a cura
di D'ONOFRIO, Casale Monferrato 1996 vol. 2 121n.

5
Laon e Guglielmo di Champeaux cercavano infatti di comprendere le ragioni secondo
le quali l'uomo, creatura di Dio, riuscì a rifiutare il suo stesso Creatore. La tradizione
che fino a quel momento aveva offerto le risposte a questo interrogativo, presentava
affermazioni perentorie; Boezio definiva il libero arbitrio «liberum de voluntate
iudicium»16, ed anche Agostino, che rispetto a questo problema aveva offerto una
risposta particolarmente articolata, ora sembrava essere ricordato con la sola
affermazione «potentia bene vel male operandi»17. Tutte e due erano sentenze che
sintetizzavano correttamente il pensiero dei rispettivi autori, ma il loro uso era oramai
paragonabile a quello delle attuali «pagine rosa del Larousse», come scrisse Leclerque,
era cioè un uso non critico, valido esclusivamente per offrire delle auctoritates
semplici e immediate soprattutto all'omiletica 18. Ovviamente questo approccio non
bastava più a quegli esponenti rappresentativi di quel nuovo modo di pensare nato
nelle scuole; seppur corrette, le affermazioni dei Padri non erano più in grado di dare
le ragioni della loro stessa validità.
Ruperto di Deutz, che proveniva dal chiostro e quindi lontano dai fermenti culturali
delle scuole, preferiva la semplicità e usava dell'aderenza alle scritture come strumento
con il quale svolgere la riflessione teologica19. Rispetto al problema del libero arbitrio
sollevato da Anselmo di Laon e da Guglielmo di Champeaux, Ruperto rispose:
«Itaque non incomprehensibilia Dei judicia comprehendere, et investigabiles vias eius
investigare tentabimus». Si evidenziò pertanto una distanza sostanziale tra una

16
BOETII, In librum Aristotelis de Interpretatione libri Sex, in PL 64, col 492. Cfr. O. LOTTIN,
Psycologie et morale aux XII et XIII siecles, t. 1, «Problemes de psycologie», Louvain, 1942, 17.
17
AURELIUS AUGUSTINO, De libero arbitrio, PL 32, col. 1230. Sulla percezione delle formule di Boezio
e di Agostino, si veda Anselmo di Laon che nelle sue Sentenza, cosi le spiegava: « Liberum arbitrium
est, ut dicit Boetius, liberum de voluntate iudicium; nisi enim libere possit implere quamlibet partem,
non est libera diiunicatio. Augustinus sic: liberum arbitrium est potentia bene et male operandi» in F.
BLIEMETZRIEDER, Anselm von Laon systematische Sentenzen, in Beiträge zur Geschichte der
Philosophie des Mittelalters, XVIII, (1919). Cfr. O. LOTTIN, Psycologie et moral, 17.
18
Sul ritorno libresco ai classici e l'evoluzione dell'approccio agli stessi autori con forme che cercavano
di utilizzarne il metodo dialettico è interessante la prefazione all'edizione italiana della precedentemente
citata opera di Jeauneau fatta da Francesco Lazzari. Egli infatti evidenzia come l'uso dei classici in
ambito carolingio fosse un uso formale, egli descrive ciò addirittura con l'espressione: «... ne
conoscevano [i medievali dei classici] quasi solo dei luoghi comuni, una sorta di proverbi o di citazioni
noti ovunque, simili a quelli che occupano oggi le pagine rosa del Larousse [cfr. J. LECLERQUE, Cultura
umanistica, 268]». Il passaggio tra questa forma di ritorno ai classici ed una ripresa delle stesse
tematiche e delle stesse opere più maturo e consapevole avviene, sempre secondo Lazzari, per una
personalizzazione dell'attività culturale, ovvero una ricerca di originalità formale e di contenuti che in
precedenza non si era vista. F. LAZZARI, Prefazione a Nani sulle spalle di giganti, Napoli 1969, 1-33.
Anche Leclerque vede nella stima per i classici un intento di imitazione stilistica e quindi formale.
Tuttavia egli aggiunge una osservazione interessante ovvero la constatazione che i classici rientravano
all'interno di quelli che erano i libri scholastici e non quindi i libri divini. Da ciò ne deriverebbe la
originale attenzione per i classici che si sviluppò all'interno delle scuole cattedrali. J. LECLERQUE,
Cultura umanistica, 145-147.
19
RUPERTUS TUITIENSIS, De voluntate Dei, «Deum, cum indurat quempiam non velle malum, sed pro
justitia sua puniri. [...] idem apostolus: "Ergo cui vult miseretur, et quem vult indurat" [...] Omnes enim
in unum duritiam meruimus, scilicet in Adam, in quo omnes peccavimus» in PL 170 col. 439. Ivi:
«Scrupuli quidam curiosorum, qui Deum malum velle argutantur. [...] Dicunt enim: si Deus malum fieri
non vult, aut non voluit, cur non creaturam inconvertibilem, id est quae de bono in malum declinare aut
generare non posset creavit? [...] Itaque non incomprehensibilia Dei judicia comprehendere, et
investigabiles vias eius investigare tentabimus» in PL 170 col. 440. Per l'analisi di questa riverenza per
il mistero, rimando a: M. MAGRASSI, Teologia e storia, 40.

6
teologia monastica ed un'altra frutto delle scuole canonicali; il vincolo che univa
Ruperto alla Scrittura, rese la sua teologia monastica più vicina alla tradizione
patristica, eppure il contesto nel quale nasce ci obbliga ad una riflessione più accurata
che ci costringe a risalire alle sue fonti. Se infatti all'espressione "teologia monastica" -
a cui associamo la figura di Ruperto - noi attribuiamo il significato di una teologia
tendenzialmente coerente nei suoi sviluppi e nata all'interno del chiostro, le origini di
questa devono essere fatte risalire almeno all'epoca carolingia; in questo periodo
Benedetto di Aniane operò una particolare azione di riforma al fine di rendere la forma
della vita monastica chiara e particolarmente armoniosa 20. Con l'azione di Benedetto -
l’unificazione delle regole monastiche e la conseguente diffusione di codici e
conoscenze attraverso la rete della congregazione benedettina - la teologia usò degli
strumenti della grammatica e della retorica che furono applicati anche
all'insegnamento dogmatico dei Padri. Questo era chiaramente il metodo teologico di
un contesto ben definito e l'avvalersi della grammatica per avvicinarsi
all'insegnamento dei Padri era comprensibile all'interno di una istituzione educativa
che aveva lo scopo principale di fornire i primi rudimenti di teologia a quei fanciulli
che, oblati al monastero dai loro genitori, avrebbero tendenzialmente trascorso il resto
della loro vita tra quelle stesse mura.
La teologia monastica, almeno fino al XII secolo, appariva pertanto, con la sua
fedeltà ai testimoni della tradizione, immobile o almeno statica nei confronti di un
metodo che in linea di principio non sembrava permettere un particolare sviluppo
dottrinale21. Tuttavia questa immagine non sembra appartenere al profilo di Ruperto.
Nello scontro con i chierici di Laon, il nostro monaco discute, confuta e non rifiuta
aprioristicamente le posizioni dottrinarie di Anselmo e di Guglielmo; nel difendere la
tradizione monastica Ruperto sembra quasi utilizzare il metodo di quegli ambienti
culturali contro cui si stava scontrando. Per questo motivo nel 1953 Beumer definiva
la teologia di Ruperto come una «Vermittlungstheologie», una teologia di
mediazione22.
20
Padre Chenu così descrive la teologia monastica: «En pairelle perspective, le labeur théologique se
développe sous 1'aspiraction et dans le climat d'un otium spirituel, mot sauvoureux, d'usage
caractéristique, mieux, expression d'une loi interne. Ce n'est pas qu'on méconnaisse 1'austerité des
exercices de la lectio-meditatio. [...] Théologie contemplative pure: varcare Deo, dans une sabbatum
mystique où les activités de la semaine cessent enfin.» M. D. CHENU, La Théologie, 348. Tuttavia J.
Leclerque afferma che: «Determinare i caratteri di una teologia non significa affatto isolarla da ogni
altra corrente dottrinale di una determinata epoca» permettendo così la comprensione di una linearità del
percorso culturale che si svolgeva all'interno il chiostro. J. LECLERQUE, Cultura umanistica, 250.
Un valido commento a Benedetto d'Aniane e alla sua azione riformatrice è anche quello compilato ad
introduzione dell'edizione per il Corpus Christianorum della Concordia Regularum da parte di Pierre
Bonnerue. BENEDICTUS ANIANENSIS, Concordia Regularum, ed. BONNERUE, CCCM 168A, Brepolis,
1999.
21
Per la comprensione delle posizioni monastiche rispetto termoni come "Tradizione" e "Progresso" cito
soltanto Guglielmo di Saint Thierry che affermava: «Sed et nos loquamur quidquid loquemur ex
Patribus [...] ipsis eorum verbis sensus eorum afferentes vestigiis eorum inhaerentes, nil de nobis
praesumentes [...] terminos fidei [...] quos posuerunt Patres nostri non ignorare nec in aliquo eos
praeterire» in De erroribus Guillelmi de Conchis, PL 182, col. 334, bc, cfr. M. MAGRASSI, Teologia e
storia, 57. Per un approfondimento dell'ideale monastico di Guglielmo rimando a: A.M. PIAZZONI,
Guglielmo di Saint - Therry e il declino dell'ideale monastico, in SStor, 181 - 183, Roma 1988.
22
J. BEUMER, Rupert von Deutz und seine Vermittungstheologie, in Münchener Theologische
Zeitschrift, IV (1953), 255 - 270. Con una chieve interpretativa simile è anche: J. BEUMER, Zur
Ekklesiologie der Früscholastik, in Scholastik, XXVI (1951), 364-389.

7
Tuttavia alla luce dei recenti studi l’espressione deve essere rivisitata: se infatti
esiste una mediazione nell'applicazione da parte di Ruperto di differenti metodi di
indagine, i contrasti nei quali questi stessi strumenti metodologici erano stati impiegati
non lasciano intravedere nessuna volontà di compromesso. Fu Mariano Magrassi che
nel 1959 riuscì a comprendere la complessità e la problematicità culturale e teologica
di Ruperto. Lo storico benedettino intravide tra le linee conduttrici del pensiero
rupertiano il disagio di una personalità che non riusciva a riconoscersi in nessuna delle
categorie culturali che in quel periodo elaboravano il pensiero teologico; nei fatti
Ruperto sembrava imputare ai monaci una sorta di immobilismo frutto della loro
rigida adesione alla tradizione, ma allo stesso tempo accusava il mondo dei chierici di
utilizzare uno strumento inadeguato alla riflessione teologica 23. Per descrivere la
personalità di Ruperto, Magrassi lo definì come uno dei promotori dell'emancipazione
teologica del XII secolo e per illustrare questa affermazione finì con lo scrivere:
«Ruperto aprì con ciò la via ad Abelardo che nel Sic et Non addurrà tutta una serie di
problemi patristici dello stesso tenore». I giudizi di Magrassi sono senz'altro
suggestivi, ma allo stato attuale delle ricerche non credo che si possa affermare che
una qualche coincidenza di interessi tra i due pensatori. I contesti e i contenuti delle
rispettive trattazioni teologiche restano assai distanti.
Le considerazioni fin qui espresse ci costringono a vedere il complesso dei
problemi che seguirono questo confronto al di là del dibattito teologico, inserendoli
all'interno di un più articolato quadro storico. Il merito di essere riuscita a sottolineare
l'importanza del contesto storico e culturale negli sviluppi dottrinali dell'opera di
Ruperto deve essere attribuito all'Arduini24. Nel ricostruire le complesse vicende
Nei riguardi del dibattito storiografico rispetto a Ruperto di Deutz, non esiste allo stato attuale degli
studi, un lavoro che possa sintetizzare gli sviluppi, i paradossi e le soluzioni che questo particolare
autore ha suscitato. Questo anche perché di "dibattito" vero e proprio è sicuramente audace parlarne, e
perché la maggior parte degli studi svolti in merito a questo particolare autore sono stati svolti
innanzitutto da teologi prim'ancora che da storici. Ciò nonostante si possono avvertire discordi
interpretazioni soprattutto rispetto la collocazione cronologica del complesso corpus rupertiano. M.L.
Arduini, ad esempio, sembra non attribuire affatto a Ruperto tutte quelle opere, la maggior parte di
impronta agiografica, prodotte prima dell'ordinazione sacerdotale di Ruperto (1106 ca). Mentre allo
stato attuale delle ricerche sembra avvertirsi un rinnovato interesse rispetto a questo periodo della
produzione rupertiana. Questo sembra essere d'altra parte confermato dal già citato Arborio Mella
ripresentando la traduzione delle due opere di Ruperto in questione.
Comunque, sempre nel tentativo di trovare uno strumento capace di farci orientare nel dedalo dei
giudizi nei confronti di Ruperto, interessante, anche se ormai datata, è la voce dedicata a Ruperto di
Deutz da P. Sejourné nel Dictionnaire de Theologie Catholique, vol. XIV, p. 1, Paris, 1939, 169, 205.
Sempre M.L. Arduini ha offerto, al termine del sopra citato articolo per Studi Medievali, Contributo
alla biografia di Ruperto di Deutz, un quadro abbastanza esauriente della bibliografia relativa a Ruperto
di Deutz almeno fino al 1975. Tale quadro si limita ad essere un elenco degli studi, senza offrire un
apporto critico rispetto allo sviluppo degli interessi nei confronti del nostro autore. Tuttavia dalla lettura
di tale elenco si può sin da ora osservare un innegabile interesse che per Ruperto ebbe soprattutto il
mondo storiografico di estrazione monacale soprattutto della prima metà del secolo e a cavallo degli
anni '50 e '60 da parte di ecclesiastici che poi presero parte ai lavori del Vaticano II, come H. De Lubac.
Questa caratteristica credo debba essere imputata al fatto che l'opera di Ruperto è essenzialmente
un'opera teologica, il cui fascino, ovviamente, è rivolto innanzitutto verso i contemporanei esegeti della
teologia medievale.
23
L'opera senz'altro più significativa delle ricerche di M. Magrassi rispetto a Ruperto di Deutz, è senza
dubbio la sopra citata, Teologia e storia in Ruperto di Deutz, Roma, 1958.
24
L'attività di ricercatrice di Maria Lodovica Arduini si è rivolta in massima parte verso l'analisi storica
della complessa personalità di Ruperto di Deutz. Oltre all'articolo più volte citato di Studi Medievali, un

8
biografiche del monaco di Liegi, la studiosa milanese mise in risalto come Ruperto si
trovò coinvolto dalle istanze dalla riforma. Ruperto crebbe infatti nel monastero di San
Lorenzo a Liegi sotto la guida dell'abate Berengario 25. Questi fu allontanato
dall'abbazia nel 1092 dal vescovo filo-imperiale Otberto a causa della sua fedeltà alla
riforma. Sappiamo che l'abate lasciò San Lorenzo assieme ad altri suoi confratelli; le
fonti non nominano mai Ruperto, ma non è escluso che egli, giovanissimo, avesse
seguito Berengario. Questa condizione di conflitto con una gerarchia fedele
all'imperatore emerse in più punti delle sue opere teologiche ed esegetiche.
A partire da questa situazione si possono forse meglio comprendere le ragioni che
resero così particolare il pensiero rupertiano: «La consapevolezza della grave
situazione storica della Ecclesia Christi – scrive l’Arduini - indurrà Ruperto non tanto
a ripetere con San Bernardo che compito del monaco è piangere, quanto combattere i
“multa peccata quae in populo christianitatis sunt”». L'Arduini con questa
affermazione riuscì a comprendere in pieno le ragioni storiche che spinsero Ruperto ad
uscire dal chiostro della tradizione e a tentare di fornire all'ordine monastico una
identità nuova, che al tempo stesso si potesse distinguere dall'ordo clericorum, senza
per questo ancorarsi al rigore del tradizionalismo monastico. Anzi, nel tentativo di
ritrovare una attualità dello stato monastico, Ruperto avvertì la necessità di riformulare
una tradizione.
Ciò si percepisce nella sua opera di commento alla regola di San Benedetto, il
Super quaedam capitula regulae divi Benedicti abbatis 26. L'opera fu redatta
probabilmente attorno il 1125-1126; Ruperto era già abate di Deutz, ciò nonostante il
suo animo sembra ancora turbato delle controversie che lo coinvolsero quando ancora
era un giovane monaco. Egli ricorda il contrasto che portò alla redazione del De
voluntate Dei, ma rammenta pure i momenti delle sue riflessioni teologiche sul
vangelo di Matteo o sui temi dell'Incarnazione 27. L'abate di Deutz è evidentemente più

lavoro interessante risulta essere Ruperto di Deutz e la controversia tra cristiani ed ebrei nel secolo XII,
SStor, 118 - 121, Roma 1979, con il quale 1'Arduini mette in relazione l'azione esegetico - teologica di
Ruperto con il confronto che si stava sviluppando con il mondo giudaico nel XII secolo. Questa analisi
viene svolta alla luce dell'opera Anulus seu dialogus inter Christianum et Judeum della quale 1'Arduini
presenta l'edizione critica per opera di padre Haacke.
Forse il lavoro più completo dell'Arduini è un'opera del 1987 scritta in tedesco con il titolo, Rupert von
Deutz und der «States Christianitatis» seiner zeit, Wien 1987.
Nel 2004 l'Arduini è ritornata su Ruperto di Deutz proprio in relazione al dibattito sopra il problema del
male: M.L. ARDUINI, Anselmo di Laon, Ruperto di Deutz, Sant'Agostino, in Aevum, 80 (2004), 377-387.
25
Chronicon S Huberti andaginensis: «Obertum quemdam praepositum ecclesiae sanctae Crucis
criminibus convictum de civitate decreverat omnimodo exturbandum. Ille vero proripiens se ad
Berengerum abbatem sancti Laurentii venit [...]Anno autem Verbi incarnati 1091, suae vero
ordinatione 16 dominus Henricus hominem exuit in dampnum gloriae Leodiensis et maximo dispendio
nostrae quam specialius colebat solitudinis. Cuius vix audita Obertus morte, sine electione
ecclesiastica de manu regis episcopatum extosit [...] In eadem autem die reversionis suae mandavit
Berengero abbati, ut sine dilactione ecclesia sancti Laurentii discenderet et Guolbodoni abbatiam
libere habendam relinqueret.» in MGH, SS VIII, 602.
26
RUPERTUS TUITIENSIS, Super quaedam capitula regulae divi benedicti abbatis, in PL 170, coll. 477 -
538.
27
RUPERTUS TUITIENSIS, Super quaedam capitula regulae divi benedicti abbatis: «Quasi de altitudine
montis excelsi me nunc advocasti quia propositum habens scribere de gloria et honore filii hominis et
cum hoc proposito ingressus Evangelium secundum Mattheum, mente et pene assidua cogitatione illic
eram illo in monte consistebam, ubi sedens et aperiens ossum docebat discipulos suos sermone
pulcherrimo», PL 170, col. 479 c.

9
maturo; le vibranti invettive che nel De Voluntate Dei si scagliavano contro l'audacia
dei maestri di Laon, ora sembrano cedere il posto ad un tentativo di confronto. Qui
Ruperto descrive le sue parole come povere ma questo non è soltanto un atto di umiltà,
quanto l'espressione di una consapevole distanza tra la cultura dei maestri e la cultura
monastica di cui egli è esponente28.
Nonostante ciò, egli non smette di sottolineare il valore della riflessione scritturale.
Scrive infatti Ruperto: «post multa margaritas, quae bonae esse videbantur,
margaritas poetarum atque philosopharum, unam vere bonam et vere pretiosam,
Sancte ac Divinae Scripturae margaritam invenerunt»29. Le parole di Ruperto
sottolineano l'ideale mistico della cultura monastica che egli vuole difendere; la
teologia non può essere quindi una disciplina della discussione, ma è piuttosto la
contemplazione del divino. Non a caso il destinatario dell'opera, Cunone, viene
definito Philochristo, "amante di Cristo", probabilmente proprio perché giudicato alla
luce di una mistica dedizione alla contemplazione30.
La maturità che l'abate di Deutz esprime in questa opera di commento alla regola di
Benedetto sembra di per sé il tentativo di colmare quella frattura con il mondo dei
chierici che lo vide coinvolto in gioventù 31. La riflessione su alcuni capitoli della
regola di San Benedetto diventa allora il pretesto per sviluppare un confronto; il tema
dell'ufficio dell'altare, che ha l'intento di risolvere un contrasto tra religiosi di diversa
osservanza, è l'occasione per sviluppare argomentazioni importanti tali da rispondere
alla tensione esistente tra un contesto ecclesiale fedele della tradizione benedettina, e
un altro che stava riscoprendo modelli di ispirazione agostiniana.
A partire dal secondo libro dell'opera l'autore intese commentare alcuni capitoli
della regola. Lo spunto venne dalla celebrazione delle veglie domenicali; Ruperto
rivela i ritmi con i quali svolgere il tempo della veglia. La sua è una cabala dai
profondi significati simbolici, attenta a sottolineare il mistero della Resurrezione.
Risulta evidente una attenzione in grado di mettere in risalto il mistero che deve essere
contemplato all'interno della veglia domenicale, senza altre chiavi di lettura
significative in grado di tradire il misticismo della sua teologia 32. Ben diverso è l’inizio
28
Ivi: «Nam quia sum homuncio ventri pigri et cuilibet Epicuro pene consimilis dicere soles, quod ea
quae hactenus scriptavi, non mihi magis quam asino imputare digneris [...]Pauper locuts est, ait
Sapientia, et dicunt; quis est hic? Et si offenderit, sub vertent illum. Hoc mihi mens suggerit: nam hoc
dictum etiam ad me respicit», PL 170, coll. 479cd, 480 a.
29
Ivi, in PL 170, col. 480 b. Cfr. De victoria verbi Dei, in PL 169, col. 1291 a; De trinitate, in PL 167,
col. 498. Nel suo commento all'apocalisse, Ruperto addirittura afferma: «Quid autem Sacra nobis
Scriptura, nisi vera repromissionis est Terra? [...] Ipsa Dei visio quae quandoque perficienda est, hic
iam per Scripturas incoatur...», PL 169, col. 826. Per uno sguardo più completo al rapporto tra l'opera
di Ruperto e le Sacre Scritture, rimando a: M. MAGRASSI, Teologia e storia, 45 – 50.
30
RUPERTUS TUITIENSIS, Super quaedam capitula regulae divi benedicti abbatis, in PL 170, col. 477.
Rispetto alla figura di Cunone, e al rapporto che Ruperto strinse con costui, rimando a M.L. ARDUINI,
Contributo.
31
RUPERTUS TUITIENSIS, Super quaedam capitula regulae divi benedicti abbatis: «idones Deo donante
studeam proferre dequibusdam capitulis regulae beati Benedicti, maximeque de illis de quibus
quaestiones non comtemnendas monerunt quidam servorum Dei, viri religiosi, nostrae, id est
monachicae professionis» in PL 170, coll. 477 - 478
32
RUPERTUS TUITIENSIS, Super quaedam capitula regulae divi benedicti abbatis: «Hic jam dicendum
quod nullus ignorat, aut ignorare debet Christianus, quia media nocte Dominica surrexit Dominus,
triginta tribus oris sepulcro clausus, quae hoc modo supputantur. Hora nona spiritum emisit, et
sepultus est, et tres horae supererant eiusdem diei: Nox sequens et dies subsequens; nox, inquam et
dies, horae sunt viginti quatuor, et additis tribus iam dictis viginti septem fiunt, quibus adjice medium

10
del libro successivo: al mondo mistico della riflessione teologica sembra sostituirsi
un'analisi del mondo religioso. «Duo sunt ordines in una scilicet, in contemplativa vita
quaerentium Dominum. Alter est ordo justorum alter est penitentium»33, con queste
parole Ruperto sembra uscire dal mondo mistico del chiostro e delle veglie per
ritornare nella vita attiva. Nel corso di pochi capitoli, l'abate di Deutz sembra ritrovare
il fervore polemico della gioventù. Il punto di scontro questa volta non è solo un
problema teologico, ma è il rapporto tra monaci e chierici nello svolgimento del
servizio liturgico. Non può esserci una distanza sostanziale tra monaci e monaci che
sono al tempo stesso sacerdoti, anche perché, osserva Ruperto, Benedetto non vietò ai
monaci la celebrazione della liturgia, anche se li esortò al lavoro manuale 34.
Probabilmente l'abate di Deutz avvertì la necessità di difendersi da coloro che
accusavano i monaci di essere usciti dalla solitudine del chiostro, come ad esempio
Gerhoch di Reichersberg il quale affermava che «Monachus per fugam, clericus per
pugnam debet mundum vincere»35, o Tibaldo di Etemps quando scriveva che si sceglie
la vita monastica a causa dell'afflizione dei corpi e per estirpare il male dei peccati 36.
Evidentemente i monaci erano usciti da quel luogo di pena, come Tebaldo definiva il
chiostro, e si erano cimentati nella lotta con il mondo, per parafrasare Gerhoch.
D'altro canto sempre in questo periodo non erano pochi i chierici che contestavano
il monopolio della vita contemplativa ai monaci; «Contemplativam vitam - scriveva
Anselmo di Havelberg – non solum nec semper esse, vel esse posse indifferenter
omnium monachorum, quemadmodum ipsi autumnant unde et speciale nomen et
titulum contemplationis sibi prae ceteris usurpant, verum etiam canonicorum
professionem non impedire»37. All'interno di questo quadro composto da confusione e
da accuse reciproche, Ruperto cercò di fornire al mondo dei monaci la forza di una
tradizione che potesse rispondere alle accuse dei chierici. Quello stesso Girolamo che
nell'Ad Vigilantium sosteneva che compito dei monaci è piangere38, letto da Ruperto
diventava il difensore dalla causa monastica quando nella sua lettera a Nepoziano, il
Padre della Chiesa, affermava: «Sed et nostra qualiacunque sunt suscipe, et libellum
noctis, id est horas sex, et fiun horae triginta tres.» in PL 170, col 497.
33
Ivi, in PL 170, col. 512.
34
Ivi: «Nam quia monachi sunt, et beatus Benedictus monachis ordinavit opus manuum, pene
obliviscuntur quod sacerdotes sunt, maxime quia Pater idem sacri altaris, ut, jam dictum est, officium
in regula sua monachis, quomodo vel quali studio frequentare deberent non instituit» in PL 170, col.
511 c.
35
GERHOCHUS REICHERSPERGENSIS, De aedificio Dei, in PL 194, 1267 c. Cfr. C. D. FONSECA, Monaci
e canonici, 210. Le parole di Gerhoh devovo essere analizzate con cautela, in relazione al suo singolare
spirito critico nei confronti di una Ecclesia divenuta - a giudizio di Gerhoh - quasi sede dell'Anticristo.
Un interessante intervento rispetto l'interpretazione della storia da parte dello stesso Gerhoh, è quello
svolto da Francesca Roversi Monaco al XXXVI convegno del "Centro di studi sulla spiritualità
medievale", tenutosi a Todi nel 1999, dal titolo "Gesta hominum e gesta Dei": Ottone di Frisinga e
Gerhoh di Reichersberg, in Sentimento del tempo e periodizzaione della storia nel Medioevo, Spoleto
2000, 257-281. Più dettagliata è invece l'opera di Lazzarino del Grosso: A. LAZZARINO DEL GROSSO,
Società e potere nella Germania del XII secolo. Gerhoh di Reichersberg, Firenze, 1974.
36
Improperium cuiusdam pro monachis ed. R. FOREVILLE J. LECLERQUE, in Un débat, 52 - 111.
37
ANSELMUS DE HAVELBERG, Epistola apologetica, in PL 188, col. 1136; cfr, G. SEVERINO, La
discussione degli "ordines" di Anselmo di Havelberg, in Bullettino dell'istituto storico italiano per il
medioevo e archivio muratoriano, 78, (1967), 75 - 122. Rispetto ai rapporti tra Anselmo e l'ordine
premonstranenese rimando a F. PETIT, L'ordre de Saint Norbert à Anselme de Havelberg, in La vita in
comune del clero nei secoli XI e XII, Milano 1962.
38
In PL 23, col. 367 a.

11
hunc, libello illius copulato, ut cum ille monachum erudierit, hic clericum doceat esse
perfectum»39. Il sacerdozio diventa allora il coronamento della condizione monastica.
Nel Dialogus duorum monachorum, Ruperto aggiungerà: «Monachus est nomen
perfectionis et clericus est nomen officii»40. Nella visione societaria di Ruperto non
esiste più quella distinzione tra chierici e monaci che, come abbiamo visto all'inizio, fu
prerogativa di Ildeberto di Lavardin o di Abbone di Fleury. In questa "fusione" tra
ordo monachorum e ordo clericorum, solo il primo riesce a rispondere all'ideale di
santità. Si arriva a questa affermazione attraverso una attenta ricostruzione di una
tradizione monastica che soltanto in minima parte può essere ricondotta alla Regula
Benedicti o alle altre regole dei Padri 41. L'attenzione di Ruperto si rivolge
essenzialmente alle auctoritates neo-testamentarie, che attraverso la Regula Benedicti
diventano la realizzazione dell'ideale di vita apostolica. Questa operazione culturale
svolta da Ruperto si inserisce in maniera coerente con la sua particolare adesione alle
Scritture; la regula, secondo l'abate di Deutz, non poteva infatti essere di per se stessa
una garanzia autorevole di santità, ma diventava tale nel momento in cui traduceva
nella prassi il messaggio evangelico. L'ultimo libro del Super quaedam capitula
regulae divi Benedicti abbatis è sicuramente quello in cui finalmente si comprende
l'attualità del discorso teologico svolto fin qui da Ruperto; il contenzioso che costrinse
Ruperto a scrivere l'opera, fu probabilmente quello che si sviluppò in seguito alla
nascita dell'ordine dei canonici di Prémontré, fondato da San Norberto. Quest'ordine di
canonici regolari, riconosciuto proprio nel 1126, data in cui venne redatta l'opera di
Ruperto, adottò infatti la regola di Sant'Agostino. La grande confusione che
accompagnò lo sviluppo e poi il riconoscimento dell'ordine di San Norberto,
probabilmente fece temere a Ruperto una rottura 42. Non a caso l'abate di Deutz sembra
non stancarsi di ripetere l'esortazione paolina: «Non di Apollo o di Cefa, ma di Cristo
noi tutti siamo»43. Tuttavia la preoccupazione di Ruperto non era motivata soltanto da
questo rischio di separazione; ciò che era probabilmente in discussione era la stessa
identità monastica; è per questo motivo che l'autore ritrovò nelle Sacre Scritture un
passo attraverso il quale giustificare il mondo monastico senza tuttavia screditare
39
RUPERTUS TUITIENSIS, In regulam, in PL 170 c.; cfr HIERONIMUS, Epistola, 52 ed. Hilberg, in CSEL
54.
40
RUPERTUS TUITIENSIS, Dialogus duorum monacorum, in PL 170, col. 540; cfr. RUPERTUS TUITIENSIS,
In regulam: «Igitur non quia de missarum celebratione fere nihil B. Benedictus locuius est, idcirco
quicunque sollicitaris vel sollicitatus es ab ejusmodi operariis, qui in opere manuum fere totam spem
suam ponunt non, inquam, idcirco negligas coronam vel diadema tuum, scilicet, sanctum sacri altaris
officium» in PL 170 col. 517 d; cfr. Ivi, coll. 526 e segg.
41
Per la Regula Benedicti e molte delle altre regole monastiche della tradizione continentale, si consulti
La Regola di San Benedetto e le Regole dei Padri, a cura di S. PRICOCO, Milano, 1995; per il
monachesimo irlandese e San Colombano si consulti la Regula monachorum, in «Sancti Columbani
opera» ed. Walker , Dublin 1957; per la Concordia regularum di Benedetto di Aniane, la sopra citata
edizione a cura di Bonnerue per la collezione del Corpus Christianorum.
42
RUPERTUS TUITIENSIS, In regulam: «Hoc autem dico, quod unusquisque nostrum dicit: Ego quidem
sum Augustini, ego autem Benedicti, ego vero regulae hujus, vel illius, ego autem Christi, quod ultimum
utique verum, et bonum est absque inflatione contenditur» in PL 170, col. 525 d.
La fondazione di questi canonici regolari da parte di San Norberto, è chiara ( « Vix scio an cujusdam
[...] gesta a pluribus contemporaneis probisque scriptoribus posteritati commendata fuerunt quam S.
Norberti» in AA. SS. , t. XX., app. 38.), ma ciò non evitò quella profonda crisi d'identità che sembra
essere testimoniata dai timori di Ruperto: «Nonne huius modi contentione habere schismata facere est?»
in PL 170, col. 525 d.
43
RUPERTUS TUITIENSIS, In, regulam, in PL 170, col. 525 b. cfr. I Cor. 1, 11 – 14.

12
quello dei chierici. Tale legittimazione avvenne nel momento in cui chierici e monaci
furono associati rispettivamente ad Aronne e a Eliseo. All'interno dell'opera vengono
così presentati due soggetti biblici come emblematici di un ordo. Entrambi vengono
infatti investiti da Dio di un bastone, simbolo di potere, tuttavia se da una parte il
bastone di Aronne è il bastone della legge, quello di Eliseo diventa lo strumento del
profeta, il mediatore tra l'uomo e lo Spirito Santo 44. L'unico che sembra parlare di
Eliseo con le stesse connotazioni attribuitegli da Ruperto sembra essere Girolamo in
una sua lettera a Paolino, lettera peraltro citata esplicitamente dallo stesso Ruperto per
giustificare il suo confronto. La scelta operata è senz'altro singolare 45 infatti la figura
biblica di Eliseo non sempre è stata associata al mondo monastico. Onorio di Autun
preferiva usare le due figure di Aronne e di Eliseo, entrambe come significative del
modello sacerdotale46. Eppure se il particolare riferimento ad Aronne può essere visto
come un elemento topico delle numerose trattazioni riguardanti le forme di vita
sacerdotale, Eliseo è, in questo contesto, un personaggio singolare.
Le varie regole monastiche che sin dal periodo tardo antico si svilupparono in
occidente non sembrano citare questo profeta descritto nel Libro dei Re. Isidoro di
Siviglia, ad esempio, analizzando i modelli di vita sacerdotale nel suo De officio
clericorum, vedeva in Aronne un modello ed un precursore. Lo stesso Isidoro nella sua
Regula monachorum delinea una figura di monaco molto legata ancora ai modelli
orientali di ascesi e di fuga dal mondo, senza tuttavia mettere particolarmente in
evidenza valenze di carattere profetico47. La stessa osservazione si ripete se viene presa
in considerazione la Concordia regularum di Benedetto di Aniane. Nel complesso
tentativo di Benedetto di Aniane di organizzare e conciliare le varie regole monastiche,
l'uso delle vicende bibliche narrate nei diversi libri dei Re, emerge come lo sviluppo di
immagini profetiche e l'occasione per sottolineare la misteriosa potenza di tutto ciò che
è divino; sembra quindi assai lontano il tentativo di mostrare dei modelli di vita
religiosa, o addirittura figure in qualche maniera esemplificative 48. La singolare
presenza della figura di Eliseo diventa, all'interno della trattazione di Ruperto e
soprattutto alla luce del suo più volte citato tradizionalismo, un fattore problematico. A
questo proposito può essere utile approfondire il significativo elemento del bastone,
strumento che nella descrizione dell'autore è condiviso sia dal sacerdote (Aronne), che
dal profeta (Eliseo). La presenza di questo simbolo corrisponde infatti a significati che
in Ruperto sembrano presentare sfumature particolari; nel suo De ecclesiasticis
officiis, Isidoro di Siviglia osservava come il bastone pastorale dovesse significare il

44
Rupertus Tuitiensis, In regulam: «Pater monachorum, id est filiorum prophetarum. Monachi namque
jam tunc illo tempore erant, qui dicebantur filii prophetarum. Hinc beatus Hieronimus ad Rusticum
monachum: "Filii prophetarum, quos monachos in Veteri legimus Testamento, [...]" Idem ad Paulinum:
"Noster princeps Elias noster Elisaeus, nostri duces filii prophetarum, qui habitabant in agris et
solitudine. Patribus [...] Patribus cunctis virgam vel baculum, curae pastoralis insigne, auctoritas
divina, in illis jam dictis duobus primis Aaron atque Elysaeo sacravit.» in PL 170, col 528. Cfr.
RUPERTUS TUITIENSIS, De divinis officis, IV, 1495, ed. Haacke , CCCM 7, 141.
45
RUPERTUS TUITIENSIS, In regulam: «Ergo utramque, ut jam dictum est, et virgam Aaron pontificis, et
virgam sive baculum prophetae Elysaei, eadem auctoritas divina sacravit, quia et cum virga Aaron fuit
utique digitus Dei, et in Elysaeo mittente baculum suum, profecto erat idem mysteriorum opifex Spiritus
Dei» in PL 170, col 529d.
46
HONORIS AUGUSTODUNENSIS, Summa Gloria, ed. SACKUR, MGH L.d.L. III, 70.
47
ISIDORUS HISPALENSIS, Regula monachorum, in PL 83, coll. 867 - 894.
48
BENEDICTUS ANIANENSIS, Concordia Regularum, ed. BONNERUE, CCCM 168 A, Brepolis, 1999.

13
diritto di applicare la legge da parte del vescovo49. Questa era la valenza che doveva
avere il bastone di Aronne nella trattazione del monaco di Deutz. In Eliseo tuttavia, il
bastone assume significati diversi. Pur nell'apparente tentativo di conciliare le due
realtà sacerdotali e monastiche, Ruperto finisce con sottolineare una distanza tra i due
soggetti presi in considerazione reinterpretando la tradizione scritturale di riferimento.
Pertanto, al fine di comprendere gli intenti di Ruperto, bisogna indirizzare il tema
dei simboli dei potere ecclesiastico nell'ampio orizzonte della libellistica prodotta
nell'ambito della lotta delle investiture. In questo contesto si può osservare che il
pastorale inteso come simbolo del potere ecclesiastico era diventato un riferimento
abbastanza diffuso. Rangerio vescovo di Lucca addirittura scrisse un Liber de Anulo et
Baculo. Se particolarmente significativo è il titolo, ancor più è l'inizio:
«Anulus et baculus duo sunt sacra signa, nec ullo
De laici manibus suscipienda modo»50.
Si può chiaramente intuire che il valore sacrale attribuito al bastone, era diventato
strumentale alla causa dei riformatori di ascendenza gregoriana: era il simbolo del
pastore che guida il gregge, in questo caso il gregge di Dio, prima ancora che il
simbolo regale di chi deteneva un potere sulla terra. In questo senso, la precedente
distinzione offerta da Ruperto attraverso gli esempi biblici di Aronne ed Eliseo, per
49
ISIDORUS HISPALENSIS, De ecclesiasticis officiis, «Huic autem, dum consecratur, datur baculus, et
ejus indicio subditam plebem vel regat, vel corrigat, vel infirmitates infirmitorum sustineat » PL 82,
col. 783 - 784; J. LE GOFF, Aspects religieux et sacrés de la monarchie franqais du X au XIII siècle,
in La royauté sacrée dans le monde chrétien, Paris 1992, 21 - 22. Nello Pseudo-Costantino
(Constitutum ed. FEDELE in Fonti per la storia delle origini del dominio temporale della Chiesa di
Roma, Roma, 1929, 104; cfr. SIFFRIN, voce Pastorale, in Enciclopedia Cattolica, t. IX, col. 928.) il
pastorale viene descritto con l'espressione «imperalia sceptra». Le più recenti analisi del linguaggio
simbolico del potere pontificio nel pieno medioevo, sembra aver tuttavia trascurato il valore giuridico
di tale simbolo. Cfr. A. PARAVICINI BAGLIANI, Le Chiavi e la Tiara. Immagini e simboli del papato
medievale, Roma 1998; H. FUHRMANN, "Il vero imperatore è il Papa": il potere temporale nel
medioevo, in Bullettino dell'istituto storico italiano per il medioevo, 92, (1985-86), 367 - 379; C.
FRUGONI, L'ideologia del potere imperiale nella "Cattedra di San Pietro", in Bullettino dell'istituto
storico italiano per il Medioevo 86, (1976 - 77), 67 - 182.
Le indicazioni di Isidoro di Siviglia vennero recepite nel concilio di Aquisgrana del 816 per cui anche
l'elemento liturgico del bastone pastorale divenne a tutti gli effetti un elemento indispensabili per
l'attribuzione del ruolo episcopale. MGH Concil. II, 1.
50
RAGERII EP. LUCENSIS, Liber de anulo et baculo, ed. Sackur, MGH L.d.L., III, 508; in questo spazio
vorrei per un attimo attirare l'attenzione sui risultati di un confronto tra le parole con le quali Isidoro
descrive il "baculus" simbolo dell'autorità episcopale, e come questo viene invece descritto da Rangerio.
C'è una differenza sostanziale che può solo spiegarsi attraverso una evoluzione dell'idea di potere
ecclesiastico. Per Isidoro infatti è il simbolo di un diritto di applicazione della legge intesa nel senso più
ampio: è infondo la legge di Dio, e quindi la cura delle anime soprattutto nella sua accezione dogmatica.
In Ragerio è invece il simbolo del pastore, di colui che fisicamente guida il gregge. Questo valore
certamente non esclude il precedente, ma ne estende la legittimità testimoniando la coscienza di una
autonomia giuridica della carica episcopale. Una spiegazione in questo senso sembra provenire da Ugo
di Cluny il quale affermava che «il vescovo eletto deve ricevere dal re non l'anello e il pastorale, ma
l'investitura dei beni temporali»; queste parole, anche se sono di mediazione, identificano l'esclusività
sacrale di questi due elementi liturgici (G.M. CANTARELLA - D. TUNIZ, Il papa ed il sovrano. Gregorio
VII ed Enrico IV nella lotta per le investiture, Novara, 1985, 213). Infatti l'opera di Rangerio, anche se è
senz'altro la più significativa, non è la sola a trarre spunto dall'elemento simbolico del bastone ai fini di
tessere un quadro ideologico del potere ecclesiastico. Esiste infatti un Carmen de anulo et baculo di
Hunaldo canonico di Toul - sicuramente un ambiente molto più vicino a Ruperto testimoniando così
come certe immagini fossero vicine anche a Ruperto - e un De anulo baculo gladio diademate versus,
(MGH, L.d.L., III, 719 - 728).

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descrivere i due stati di monaco e di chierico, non è più la contrapposizione tra un
ideale ascetico ed uno, per così dire, "mondano", ma diventa la giustapposizione tra il
ruolo profetico, mediatore tra l'uomo e Dio nella parola del monaco, e quello
sacerdotale dell'esercizio della legge. In questo senso risulta allora interessante
confrontare le parole di Ruperto con quelle di Filippo di Harvengt sul problema dei
paramenti liturgici che abbiamo visto all'inizio: nulla che lasci intuire uno scontro tra
le rispettive realtà di appartenenza. Quello che risulta invece chiaro è un diverso modo
di interpretare i vari aspetti della liturgia: simbolico per Ruperto, morale per Filippo 51.
La riformulazione di una identità monastica ad opera di Ruperto porta allora con sé
tutto il pathos della lotta per la riforma svolta dal monaco in gioventù. Con questa
definizione della figura sacerdotale, Ruperto getta le basi per una teoria ierocratica del
potere all'interno del quale l’ordo monastico non è escluso. Quello con i canonici di
Prémontré diventa così un confronto senza i caratteri di uno scontro, offrendo nello
stesso tempo al panorama monastico di cui Ruperto è espressione, l'occasione di
riflettere su se stesso. Per comprendere allora il complesso quadro di fattori che
indussero a una riflessione sulla condizione monastica all'interno del contesto storico
di cui Ruperto si trova ad essere espressione, è necessario tenere in adeguata
considerazione l'evoluzione dell'idea di potere all'interno delle strutture ecclesiastiche.
Nel 1974 Jacques Hourlier osservava la presenza di un «synchronisme entre le
développement de la puissance romaine, après la réforme grégorienne, et le
développement des ordre religieux»52; se ovviamente l'osservazione del religioso
francese riesce a sintetizzare bene i sempre più frequenti rapporti di carattere giuridico
che si vennero a sviluppare tra vari enti monastici ed il papato, alla luce delle
osservazioni fin qui raccolte si può affermare che anche la stessa identità monastica fu
coinvolta dagli sviluppi ideologici rispetto al potere, nati e sviluppatisi in seno alla
chiesa gregoriana. La visione monastica di Ruperto rappresenta, nel contesto storico-
territoriale in cui si viene a trovare, la voce di quelle istanze di rinnovamento degli stili
di vita religiosa che caratterizzarono questo periodo, ovvero il tentativo di una
conciliazione degli ideali della tradizione monastica, rispetto a quelle stesse istanze
riformiste che, sia dall'interno che dall'esterno, gravavano su quel mondo. Nel più
generale quadro di riforma della chiesa, alle esperienze di radicalismo ascetico
proposte da San Pier Damiani o da San Bernardo, Ruperto rispose con il tentativo di
adeguare il modello monastico alle esigenze della stessa riforma 53. Osservando allora
gli sviluppi culturali che contraddistinsero la lotta per la riforma ci si può associare

51
Cfr. G. CONSTABLE, The cerimonies and symbolism of entering religious life and taking the monastic
habit, from the .fourth to the twelfth century, in Segni e riti nella Chiesa altomedievale, Spoleto 1987,
771 -834.
52
J. HOURLIER, L'age classique, Paris, 1973, 425; rispetto all'affermazione del francese, Michele
Maccarrone osservava che tale sincretismo deve farsi risalire al papato riformatore dell'XI secolo.
L'analisi dell'opera di Ruperto in questo senso sembra confermare in un certo senso le affermazioni
Maccarrone, verificando una coincidenza tra lo sviluppo della riforma e l'evoluzione di una coscienza
monastica. M. MACCARRONE, Primato romano e monasteri dal principio del sec. XII ad Innocenzo III,
in Istituzioni monastiche e istituzioni canonicali, 49 - 132; cfr. G.M. CANTARELLA, Il monachesimo in
occidente: il pieno medioevo, in La storia, a cura di M. FIRPO, Torino 1985, t.I, 350.
53
G.G. MEERSSERMAN, «Teologia monastica» e riforma ecclesiastica da Leone IX a Callisto II, in Il
monachesimo e la riforma ecclesiastica, Milano 1971, 256-270; cfr. G.G.MEERSSERMAN, Chiesa e ordo
laicorum nel sec. XI, in Chiesa e riforma nella spiritualità del XI secolo, Todi 1968. Cfr. G.M.
CANTARELLA, I Monaci di Cluny, Torino 1992, pp, 230 - 231.

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alle parole di Tabacco, il quale affermava che nel periodo compreso tra i pontificati di
Leone IX e di Callisto II, «la netta contrapposizione fra conservatori e riformatori è
caduta, e non solo perché tutte le sfumature sono possibili nel passaggio dall'una
all'altra delle due posizioni antitetiche, ma perché non di una antitesi si tratta, ma di
una complessa e discorde ricerca di chiarimento delle istituzioni fondamentali e del
costume della cristianità»54. Rispetto al contesto più dettagliato di Colonia - dove
Ruperto si trovava a vivere - nel 1959 Josef Semmler osservava che un concetto di
libertas coloniensis, che ovviamente si sviluppava sulla logica delle idee della riforma,
non poteva essere distante dallo sviluppo di una potenza territoriale del vescovo 55.
Conseguentemente la libertas monasterii era il risultato della tutela ecclesiastica del
vescovo, la sola capace di rimuovere le ingerenze dei laici. L'immagine di monaco
fornita da Ruperto non è più quindi il frutto di un confronto culturale, né tanto meno
teologico o dottrinale, ma è la percezione di una complessa situazione storica in cui si
avverte l'esigenza di un cambiamento delle immagini societarie, manifestazioni della
cultura teologica e canonistica precedente all'XI secolo.
Dalle osservazioni fin qui espresse, è possibile affermare l’esistenza di un tentativo
di dialogo tra diverse realtà ecclesiastiche che si venne delineando come un imperativo
all'interno del pensiero ecclesiologico del monaco di Deutz. Diventa allora un dato
suggestivo la descrizione delle opere composte da Ruperto di Deutz fornita da Raniero
di Liegi che ci testimonia come Ruperto in gioventù avesse redatto anche una vita di
sant'Agostino56. L'attività agiografica di Ruperto non deve sorprenderci: infatti nel
primo periodo della sua attività letteraria, il giovane monaco Ruperto scrisse
numerose vite di Santi, come la vita della vergine Odilia, del santo martire
Theodardo e dei santi confessori Goare e Severo 57.
Tuttavia mentre questi ultimi erano santi di venerazione locale, l'interesse verso
Sant'Agostino di Ruperto tradisce un coinvolgimento che andava ben oltre
l’agiografia del luogo. Gli stessi canonici di Prémontré infatti, nel momento della
loro costituzione, adottarono proprio lo stile di vita di Sant'Agostino trasmessa da
Possidio, come regola statutaria della loro comunità 58. Agostino era pertanto un
modello di vita ideale particolarmente suggestivo, e non solo nella zona compresa tra
il Belgio e la Germania.
L'originalità e al tempo stesso l'articolata riflessione teologica di Ruperto di Deutz
si viene pertanto a delineare alla luce di una intrinseca complessità che si struttura
non soltanto sulla base di un dibattito teologico di indubbia vivacità, ma anche in
54
G. TABACCO, Vescovi e monasteri, in Il monachesimo e la riforma, 105.
55
J. SEMMLER, Die Klosterreform von Siegburg, Bonn 1959, 172 - 190.Cfr. G. Tabacco, Vescovi e
monasteri, 110.
56
REINERII LEONDIENSIS, De ineptiis cuiusdam idiotae libellus: «Igitur cum adhuc esset iunior, scripsit
libellum metrice Spiritus sancti, cuius proficiebat magis aspiratione, quam alicuius magistri eruditione.
[...] Vitam denique sancti Augustini, nec non et sancte Odiliae virginis radiante melioravit stilo» in
MGH, SS XX, 595.
57
Rispetto la produzione rupertiana, due sono i riferimenti più esaustivi: M. MAGRASSI, Teologia e
storia, 26; più recentemente il dossier compilato da S. Cantelli Forti in Bibliografia della letteratura
mediolatina, in Lo spazio letterario del medioevo v. V, Roma 1998, 584 - 585. Da segnalare: M.
SCHRAMA, The Office in Honour of Saint Augustine: an Unknown Work of Rupert of Deutz, in
Augustiniana, 54 (2004)1-4,589-651
58
Cfr. F. PETIT, L'ordre de Prémontré, in La vita cmune del clero, t. 1, 459.

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relazione ad una situazione delle strutture ecclesiali tale da richiedere una concreta e
al tempo stesso efficace riflessione sopra il significato delle specifiche identità.
Parole chiave come "tradizione", per lungo tempo termine di riflerimento per una
identità monastica, perdono così di valore se non vengono in qualche modo
reinterpretate in un costante confronto con la situazione storica. Forse anche in
questo risiede una certa attualità di Ruperto che fu in grado di superare le
sclerotizzazioni di una memoria dando a questa lo slancio per un confronto con il
mondo.

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