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SECONDA SERIE

diretta da

V. GAMBI - C. DANNA

62.

SAGGI TEOLOGICI

Il presente volume raccoglie una serie di studi concernenti


problemi di teologia fondamentale, di metodologia teologica
generale, di impostazione del trattato su Dio uno e trino e
un lungo capitolo di teologia biblica sulla rivelazione e sul
concetto di Dio nel Nuovo Testamento. La traduzione dei
testi è integrale. Solo in qualche caso ci siamo permessi
di introdurre una nota, per indicare altri scritti dell' Autore,
che sviluppano concetti qui appena accennati. La ricchezza
sconcertante del suo pensiero - causa concomitante della
non sempre facile lettura delle sue opere - lo porta infatti
spesso ad accennare di sfuggita a temi, che dovrebbero in­
vece essere ampiamente illustrati per essere compresi. Verità
a lui care come la trascendenza e l'apertura dello spirito
umano verso l'infinito, il concetto di persona come si trova
nella filosofia esistenzialista moderna, la visione lucida e
acuta della complessità del fenomeno della conoscenza uma­
na, che si ripercuote ad esempio nello sviluppo dei dogmi
e nella stessa effettuazione della rivelazione, la funzione
realmente e perennemente mediatrice dell'umanità di Cristo,
la possibilità di incarnazione da parte del solo Verbo - per
limitarci a quelle qui più di frequente chiamate in causa ­
vanno approfondite in se stesse onde comprenderne l'ap­
plicazione e l'uso che ne fa. Per questo, se mai fu valida
la raccomandazione che per capire Rahner bisogna leggerlo
tutto, essa si impone in modo particolare per gli arti­
coli di questo volume. Quanti hanno modo e pazienza
di compiere questo accertamento, scopriranno senza dub·
bio nella sua produzione - non escluse queste pagine ­
uno dei capitoli più preziosi, di rara profondità e attua­
lità, della teologia cattolica di questo nostro secolo.
karl rahner

saggi teologici

edizioni paoline
I SBggl raccolti In questo volume sono stati desunti dal volu­
me I. IV e V degli Schriften zur Theologie, Benzicer. Elnsledeln.

IMPRIMATUR
Romae. die 23.XII.1964
Ex Aedlbus Curlae Eplscop.
Ostien. ae Portuen. et Rufinae
+ Titus Mancini, Vico Gen.

(v. 4176)

© 1965 by EDIZIONI PAOLINE - ROMA

INTRODUZIONE

Il 4 marzo 1964 Karl Rahner compiva ses­


sant'anni. In tale circostanza 72 studiosi, antichi
alunni, amici e collaboratori, hanno pubblicato in
suo onore due grossi volumi dal titolo « Gott in
Welt », in tutto 1630 pagine! (*). Più che prepa­
rare una raccolta occasionale, si è voluto piuttosto
dare un commento all'ampia tematica che ha sem­
pre orientato tindagine teologica del Rahner. Si
affrontano perciò alcuni dei problemi più impor­
tanti della filosofia, del metodo teologico, dell' ese­
gesi biblica, delfecclesiologia, della cristologia,
della storia delle religioni e delle varie confessioni,
dei rapporti tra filosofia, teologia ed altre scienze.
La molteplicità dei temi trattati rispecchia
l'intima ricchezza della teologia del Rahner, con­
ferma la produttività non ordinaria del suo pen­
siero ed è prova evidente degl'impulsi efficaci. che

* Una nutrita selezione di questi saggi sarà pubblicata


in un volume dal titolo: Odierni orizzonti teologici, Edizioni
Paoline, Roma (in preparazione).
8 INTRODUZIONE

i suoi scritti teologici han dato all'uomo di oggi


nella concretezza delle sue complesse situazioni e
nelle sue più sentite aspirazioni, ponendo anche
solide basi per un suo sviluppo genuino e profon­
damente religioso.
Sessantun pagine raccolgono le firme dei mes­
saggi con cui 14 cardinali, 2 patriarchi, 23 vescovi
e numerosissimi studiosi e teologi di tutto il mon­
do, cattolici e protestanti, tra cui Karl Barth e
Visser't Rooft, hanno voluto manifestare la pro­
pria ammirazione e riconoscenza all'insigne
maestro.
La bibliografia, distinta in ordine cronologico
sino al 1 gennaio 1964 e in ordine sistematico,
elenca 887 titoli, cui bisogna aggiungere le non
poche pubblicazioni di questi mesi. Siamo di fron­
te ad un' attività indefessa, che da uno studio ap­
profondito della rivelazione e della storia della
teologia sa trarre una risposta orientativa agli as­
sillanti problemi attuali, infondendo fiducia illi­
mitata in Cristo e nella Chiesa e puntando corag­
giosamente sul futuro.
Nel giugno del 1964 K. Rahner, dopo 15 anni
d'insegnamento alla Facoltà Teologica d'Inns­
bruck, è stato chiamato a succedere a Romano
Guardini sulla cattedra di «Weltanschauung »
cristiana e filosofia della religione all'Università di
Monaco. All'impareggiabile plasmatore di co­
scienze succede un «lavoratore» ben noto, un
asceta del pensiero cattolico, dal viso emaciato, gli
INTRODUZIONE 9

occhi vivactsszmz ed un sorriso un po' malizio­


setto, che non allontana affatto, anzi esprime com­
prensione e partecipazione ai dolori ed alle gioie
degli altri. Lo possono testimoniare i suoi disce­
poli d'Innsbruck, che oltre ad ascoltarlo nelle ore
di scuola, non mancavano mai agl'incontri del gio­
vedì, in cui rispondeva alle più impreviste doman­
de sui problemi del giorno; le anime sconvolte,
che ricorrono a lui per co.nsiglio e conforto; gli
studiosi di tutte le confessioni, che amano discu­
tere con lui i piani dei loro lavori scientifici.
« Eppure sino a dieci anni fa 1'opera di Karl
Rahner non era nota che agli specialisti di T eolo­
gia... Oggi è conosciuto in tutto il mondo e ono­
rato come il rappresentante della teologia non solo
tedesca ma anche europea... Bisogna seguire Karl
Rahner per imparare a conoscere il pensiero catto­
lico dei nostri giorni ». Queste frasi altamente si­
gnificative sono della rivista « Christ und Welt »,
pubblicazione seria ed impegnativa dei fratelli se­
parati di Germania 1. È un riconoscimento sincero
dei meriti di un teologo, che ha saputo presen­
tare anche fuori dell' ambito cattolico la verità ri­
velata nella sua genuinità e integrità, ma nello
stesso tempo con mentalità aperta e pronta al dia­
logo.

l Frasi riportate da P. VICENTIN, Un Maestro: Karl Rah­


ner, in Osservatore della Domenica, 14 giugno 1964, 15.
lO INTRODUZIONE

** *
Il pensiero di Rahner suscita molti interroga­
tivi in chi lo accosta e vuole spiegarsi la risonanza
che ha avuto, anche tra i non specialisti. Davanti
alla sua ricchezza le reazioni sono spesso contra­
stanti: alcuni ammirano senza criticare, altri s'irri­
tano senza simpatizzare. Per poterlo penetrare
senza abbagli è oppor luna dare un rapido sguar­
do alle tappe della vita stessa del Rahner, che si
riflettono in vari aspetti dei suoi scritti.
A Friburgo, in Brisgovia, sua città natale,
durante gli anni dell' adolescenza prende parte
con entusiasmo al movimento giovanile cattolico
« Quickborn », fondato nel 1909 da Bernhard
Strehler, che, per opera specialmente di Romano
Guardini, contribuirà tanto al rinnovamento litur­
gico. Questi giovani, senza rinunciare alle gioie
spensierate della loro età, volevano richiamare i
loro contemporanei al culto del semplice e del tra­
,dizionale.
Una profonda impressione sul Rahner produ­
cono gli esempi di bontà del giovane torinese Pier
Giorgio Frassati, che abitò per qualche tempo
presso la sua famiglia e morirà più tardi nel 1925
.in fama di santità. Ne troviamo un ricordo vivo
.nella prefazione che egli scrisse nel 1961 ad una
biografia del Frassati: «Pier Giorgio è qualcosa
.di più di un giovane puro, allegro, arante, aperto
alla vera bellezza e libertà, pieno di comprensione
INTRODUZIONE 11

sociale, che porta nel suo cuore la Chiesa e la sua


sorte ... È uno che ha il coraggio e la forza di es­
sere un cristiano non per una reazione contro la
generazione dei propri genitori, ma perché ha com­
preso il Cristianesimo stesso, che c'insegna a cre­
dere in Dio, nel valore della preghiera e dei sacra­
menti, alimento dell'eterno nell'uomo, e nella fra­
ternità universale. In lui si può scoprire all'opera
in maniera misteriosa e umanamente inspiegabile
la grazia ... Ecco un cristiano che, dopo aver com­
preso se stesso sino a spaventarsene e dopo aver
risolto, torse piangendo, i suoi problemi tuffan­
doli nella grazia, vive il suo Cristianesimo pre­
gando, mangiando il pane della vita e della morte,
amando i suoi fratelli »2.
Abbiamo in queste righe un po' anche il pro­
gramma di vita del giovane Rahner. Anch'egli ha
compreso se stesso davanti a Dio e perciò alla
distanza di tre settimane dalla licenza liceale Gli
si dona totalmente nella Compagnia di Gesù.
Frutto di due anni di meditazione durante il novi­
ziato sono gli schemi degli articoli di spiritualità,
che pubblicherà più tardi. Durante gli studi di fi­
losofia a Feldkirch (Austria) e a Pullach presso
Monaco, oltre ad assimilare la dottrina tomistica,
approfondisce Kant ed il P. ]. Maréchal, che po­
nendo a confronto tomismo e kantismo aveva ten­

2 Introduzione a: L. FRASSATI, Das Leben Pier GiorgIO


Franatis, Freiburg i.Br. 1961, 9-lO, 11.
12 INTRODUZIONE

tato di utilizzare il metodo trascendentale per la


gnoseologia tomistica.
Ordinato sacerdote dal card. Michael Faulha­
ber (Monaco, 26 luglio 1932) e completati gli
studi teologici, è inviato all'università di Friburgo
in Brisgovia per la laurea in filosofia, dove segue
tra gli altri i corsi di Martin Heidegger e Martin
Honecker. Prepara anche una dissertazione sulla
gnoseologia tamistica, giungendo a nuove inter­
pretazioni e soprattutto ad una prospettiva di ag­
gancio dell'uomo a Dio, che ritorna continuamen­
te nei suoi scritti. Eccone le ultime conclusioni:
« Per S. Tommaso teologo, l'uomo è il luogo in
cui Dio si manifesta in modo da poter essere ascol­
tato nella sua rivelazione orale: ex parte animae.
Per poter ascoltare Dio che parla, dobbiamo co­
noscerne l'esistenza. Affinché la sua parola non
sia rivolta ad un uomo, che già Lo conosce, deve
Egli esserci nascosto. Per poter Dio parlare agli
uomini, la sua parola deve raggiungerci là dove
siamo, sulla terra e durante la nostra vita quag­
giù. Quando l'uomo s'immette nel mondo conver­
tendo se ad phantasma, si attua già l'apertura al­
l'essere in genere ed in questo la conoscenza del­
l'esistenza di Dio, che però ci resta nascosto, per­
ché trascende il mondo. L'abstractio è la schiusura
all'essere in genere, che pone l'uomo davanti a
Dio; la conversio è la penetrazione nell'hic et nunc
di questo mondo finito, che ci rende Dio lontano
e nascosto. L'abstractio e la conversio sono per
INTRODUZIONE 13

S. Tommaso la stessa cosa: l'uomo. Se s'intende


così l'uomo, può egli ascoltare Dio quando parla,
perché ne conosce l'esistenza; Dio può parlare
perché ignoto. Ora il Cristianesimo non si riduce
all'idea dello Spirito eterno, sempre presente; si
concretizza in Gesù di Nazareth. Perciò la gno­
seologia metafisica di S. Tommaso è cristiana, se
richiama l'uomo nell'hic et nunc del suo mondo
finito) perché anche l'Eterno penetrò in esso, af­
finché l)uomo Lo scopra ed in Lui ritrovi se
stesso» 3.
La dissertazione purtroppo non fu accettata,
per diversità di vedute) da Martin Honecker, ma
pubblicata col titolo « Geist in Welt» nel 1939
e nel 1957 suscitò molto interesse per la novità
d'interpretazione e la forza di argomentazione. Il
19 dicembre 1936 Rahner si laurea in teologia
alla Facoltà d'Innsbruck con una dissertazione
sull'« Origine della Chiesa dal costato di Cristo
secondo i 55. Padri» e vi consegue l'abilitazione
il 1 luglio 1937 presentando alcuni saggi sul­
l'ascetica e la mistica di Origene) Evagrio Pontico
e S. Bonaventura, già abbozzati nel Noviziato 4. Dà

3 Geist in Welt, Innsbruck, 1939; 2a ed. rielaborata e


completata da J. B. Metz, Miinchen, 1957.
4 Le début d'une doctrine des cinq sens spirituels chez
Origène, in Revue d'ascétique et mystique, 13 (1932) 113-145;
La doctrine des «sens spirituels» au Moyen-Age, en parti­
culier chez St-Bonaventure, in KA.M. 14 (1933) 265-299;
«Coeur de Jésus» chez Origène? in KA.M. 14 (1934) 323­
336; Die geistliche Lehre des Evagrius Ponticus, in Zeitschrift
14 INTRODUZIONE

inizio intanto al suo insegnamento e alla serie di


pubblicazioni, che saranno interrotti il 20 luglio
1938 per la soppressione della Facoltà d'Inns­
bruck da parte dei nazisti. Risalgono a quel pe­
riodo tra l'altro le 15 lezioni tenute a Salisburgo
su «Fondamenti della filosofia della religione »,
pubblicate più tardi col titolo « Harer des W or­
tes» (Uditori della parola) S, che espongono in
modo nuovo la dottrina della rivelazione, dell' an­
tropologia e delta grazia. Insieme con Hans Urs
von Balthasar elabora il « Saggio di uno schema
di dogmatica », riportato in italiano in questo vo­
lume, e lancia la prima idea delle « Quaestiones
disputatae », in cui si sarebbero dovuto mettere a
fuoco, secondo la tradizione migliore della teolo­
gia, le questioni più attuali e avviare il colloquio
col mondo scientifico anche non cattolico.
Espulso dal Tirolo, Rahner è accolto dal Car­
dinale Arcivescovo di Vienna nell'Istituto Pasto­
rale e vi porta un contributo coraggioso ed effi­
cace, che non poche volte suscita vivaci proteste
del governo nazista. Le conferenze di quegli anni
burrascosi a Vienna, Lipsia, Dresda, Strasburgo,
Colonia, ecc., vertono sull' antropologia quale punto
di aggancio alla teologia, sulla filosofia esistenzia­
listica, su problemi di etica, dogmatica, ascetica e

fur Aszese und Mystik, 8 (1933) 21-38; Der Begriff der Eksta­
sis bei Bonaventura, in Z.A.M. 9 (1934) 1-9.
5 Horer des Wortes, Miinchen, 1941; 2a ed. rielaborata
da ]. B. Metz, Miinchen, 1963.
INTRODUZIONE 15

mistica e preparano il materiale di molte pubbli­


cazioni future.
Un episodio del periodo viennese assume par­
ticolare importanza nella vita di K. Rahner, per­
ché fa vedere come sin d'allora aveva chiari nella
mente il piano di studi e l'indirizzo dogmatico,
che sta attuando nella sua vita.
lt 18 gennaio 1943 l'Arcivescovo di Friburgo
in Brisgovia S. E. Mons. Conrad Grober rivolgeva
all' episcopato della Germania una lunga lettera di
21 pagine, nella quale deplorava alcune novità in
campo teologico e liturgico. Le accuse erano con­
densate in 17 punti:
l) divisione tra il clero giovane e quello an­
ziano (tra i giovani poco prudenti erano annove­
rati i promotori di una « riforma liturgica », i so­
stmitori di una «teologia della predicazione »,
gli «attivisti viennesi », che volevano impostare
le comunità parrocchiali su basi nuove);
2) crescente disinteresse per la « theologia na­
turalis »;
3) nuova determinazione concettuale della fe­
de intesa come « presa di coscienza dell' essere con
Cristo »;
4) crescepte disistima per la filosofia e la teo­
logia scolastica;
5) ritorno pratico, ardito e senza riguardi a
tempi, norme e forme più antiche;
6) preferenza unilaterale della patristica orien­
16 INTRODUZIONE

tale « col suo particolare mondo concettuale e la


sua forma espressiva »;
7) crescente influsso della dogmatica protestan­
te sull'esposizione della fede cattolica;
8) apertura alle altre chiese secondo gl'intenti
dell'« Una Sancta »/
9) concetto nuovo della Chiesa, per cui essa
« non è più la societas perfecta fondata da Cristo,
ma una specie di organismo biologico »;
lO) «mistica del Cristo, che fiorisce in modo
che non si sa se da strabiliare o da spaventare »;
Il) sublime supernaturalismo e nuovo atteg­
giamento mistico nell'ambito della nostra teologia;
12) deduzioni dalla dottrina del Corpus Chtis­
ti Mysticum, « che non tengono alcun conto che
le immagini adoperate da S. Paolo devono essere
chiarite senza esagerazioni, perché anche nell' Apo­
stolo ogni paragone zoppica »;
13) superaccentuazione del sacerdozio univer­
sale;
14) tesi del sacrificio-banchetto e del banchet­
to sacrificale, « secondo la quale il convito dei fe­
deli appartiene aWintegrità, per non dire all'essen­
za della S. Messa» (<< Ci si appella per questo ... al
cristianesimo primitivo ... »);
15) superaccentuazione della liturgia (<< lo cre­
do con molti altri che si sia esercitata già, e non in
malo modo, la cura pastorale prima che sorgesse
il senso liturgico in forma più vasta»);
16) la tendenza a rendere obbligatoria la Mes­
INTRODUZIONE 17

sa comunitaria (<< lo considererò sempre la Messa


comunitaria come qualcosa di marginale e una ma­
nifestazione legata ai tempi») ,.
17) tendenza a venire incontro al popolo in­
troducendo la lingua tedesca persino nella Santa
Messa.
r
L'Arcivescovo considera introduzione della
lingua volgare nella celebrazione eucaristica come
«un rilassamento del vincolo spirituale con la
Chiesa e con Roma stessa» e chiude la lettera con
un interrogativo certamente non retorico: «In
questo caso possiamo noi} Vescovi della grande
Germania, può Roma ancora tacere? » 6.

Sarebbe ingiusto giudicare questo documento


partendo dalle visuali dell' enciclica « Mystici Cor­
poris» pubblicata poco dopo (29 giugno 1943)
e della « Mediator Dei» (20 novembre 1947) o
dalle grandiose prospettive del Concilio Ecume­
nico V aticano II. Il documento non ebbe per gli
eventi bellici grande risonanza. Il Cardinale Arci­
vescovo di Vienna incaricò l'U!ficio pastorale di
elaborare una risposta esauriente. L'ordine fu ese­
guito da K. Rahner, che stese 53 fitte pagine, di
cui per brevità citiamo solo qualche brano 7.
Nell'introduzione si costata che. le lagnanze
mosse dall' Arcivescovo di Friburgo non tenevano

6 Cfr. H. VORGRIMLER, Karl Rabner. Leben. Denken.


Werke, Miinchen, 1963, 30·32.
7 Ib. 33·38.
18 INTRODUZIONE

sufficiente conto del mutamento dei tempi, che


non si può evitare né arrestare. «Alle origini la
Chiesa si è evidentemente adattata allo spirito dei
tempi nella lingua, nell'ordinamento del culto di­
vino, nell'accentuazione o nella messa in risalto di
determinate verità di fede, nell'arte, nelle strut­
ture organizzati ve, nelle forme concrete della pra­
tica religiosa, ecc. Anche oggi la Chiesa deve vi­
vere nei tempi. Ad essa è stata promessa la per­
manenza sino alla fine dei secoli, perciò sappiamo
che lo farà sempre e ovunque. Però gli uomini
della Chiesa possono adempiere più o meno bene
questo compito o anche trascurarlo in singoli pae­
si ». Il pericolo è reso ancor più evidente dal fat­
to che dove la Chiesa viene meno a questo suo
compito, le giovani generazioni si estraniano da
essa. <~ Solo dove si cercano con sincerità nuove
vie, anche l'attaccamento alla tradizione è tale che
le si può promettere un successo per l'avvenire ».
« Non v' è alcun motivo di perdere la calma, se
spira effettivamente un'aria più fresca, si sentono
ed affrontano problemi e compiti nuovi, si percor­
rono e tentano vie nuove. Non è il caso d'irritarsi
se questo movimento non è promosso solo dall' al­
to con comandi e prescrizioni, ma sorge spontaneo
dal basso. Una direzione, che trovasse non accet­
ta o inquietante tale iniziativa da parte dei sud­
diti, manifesta con ciò solo la propria insicurezza
e incapacità a guidare e reggere una Chiesa vera­
mente viva. Né la dogmatica né la storia provano
INTRODUZIONE 19

che i grandi e vivi movimenti, con i quali la Chie­


sa si adegua incessantemente ai tempi, debbano
sempre la loro origine alla gerarchia stessa ». Que­
ste parole richiamano molto chiaramente quanto
pochi mesi più tardi affermò Pio XII sui carismi
dei laici nella Chiesa e per la Chiesa.
Rahner accenna infine al valore delle discus­
sioni nella Chiesa: «Negli scambi di vedute bi­
sogna solo osservare costantemente la carità da
ambo le parti. Anche se su una determinata que­
stione si ha un'opinione personale diversa da quel­
la degli altri, si deve sempre riconoscere che le
tendenze degli altri procedono da vero amore per
la Chiesa e da una sollecitudine sincera per il suo
avvenire. In tal campo operano in modo particola­
re ingiuste generalizzazioni, che feriscono ed ama­
reggiano. Se tutti quelli, cui si riferiscono queste
lamentele ed ammonimenti, amareggiati per il mo­
do con cui alcuni vivono e scrivono nella Chiesa,
si chiudessero nel silenzio, sarebbe da tollerarsi
tale conseguenza? ». «Ci si lamenta che riesce
difficile al sacerdote in cura d'anime orientarsi nel­
la ridda delle opinioni correnti. È vero! Perciò sa­
rebbe raccomandabile organizzare conferenze, cor­
si, giornate di studio, ecc., per la sua ulteriore for­
mazione ».
Rahner riafferma anche il diritto di riannodar­
si, entro determinati limiti, ai primi tempi della
Chiesa: «Nessun periodo della Chiesa preso a sé
manifesta nella dottrina e nella prassi, in maniera
20 INTRODUZIONE

totale e ugualmente espressa, tutta la pienezza


della verità e della realtà che Cristo ha in essa ri­
posto. Ci si può così sempre richiamare ai pri­
mordi della Chiesa e della teologia, nei quali si
manifestò, più chiaramente che nell'immediato
passato, ciò che si ritiene necessario ed utile pro­
prio per la situazione presente ».
Delinea infine un quadro dello stato della teo­
logia cattolica di allora in Germania. Esalta
i grandi nomi e i contributi della teologia storica.
Però « con questi lavori vasti ed ampi, che met­
tono a disposizione del teologo ordinario e dell'in­
vestigazione strettamente dogmatica i risultati del­
l'indagine storica, non siamo divenuti più ricchi ...
Non possediamo una teologia biblica completa,
non una storia della te alogia scolastica o della teo­
logia più recente, non una grande storia cattolica
delle religioni né una storia della morale ». Rah­
ner afferma con insistenza, come farà in seguito
nei suoi saggi, che la teologia scientifica deve con­
servare la sua esattezza e i teologi non devono ri­
sparmiarsi il duro lavoro che essa esige. Esistono
numerosi testi scolastici in latino ed in tedesco,
che servono di base ad un serio studio teologico.
Però mentre questi testi giustamente si limitano
a presentare la dottrina usuale, la vita teologica
non si attua in Germania come ci si potrebbe at­
tendere. «Non si pongono nuove questioni e pro­
blemi, che emergono al contatto col modo di pen­
sare e di agire del mondo moderno, soprattutto nel­
INTRODUZIONE 21

le indagini strettamente scientifiche. Ci si dedica


immediatamente e quasi esclusivamente alla vol­
garizzazione e perciò si rinuncia più o meno alla
rigorosa esattezza nella formulazione dei concetti
e nella motivazione teologica ... ». Taie indirizzo e
tali iniziative portano con sé gravi pericoli: anzi­
tutto non si studia nelle scuole in maniera suffi­
ciente la teologia, che così con l'andare del tempo
non esercita più un influsso efficace. Se si presen­
tano al giovane teologo questioni nuove, questi
cerca di dare a se stesso ed agli altri una risposta
provvisoria e non impegnativa, piuttosto che fare
dei tentativi. « Il clero francese, per quanto si può
dedurre dal numero e dall' ampiezza delle loro ope­
re scientifiche, sembra più coraggioso e diligente
nello scrivere e più disposto a fornirsi di libri ».
È nota la parte presa da Rahner nella polemica
sorta tra biblisti e teologi in questi ultimi anni.
Egli ha più volte espresso la sua convinzione che
esegeti e dogmatici devono in fraterna collabora­
zione cercare, se occorre, nuovi metodi, accosta­
menti e presentazioni per far filtrare ovunque la
dottrina rivelata nelle sue molteplici prospettive
ed incidenze, anche se, riscoperta genuinamente
nelle fonti, dovesse far cadere qualche incrostazio­
ne o inesattezza dovuta alla carenza di strumenti
adatti di ricerca. Nel suo saggio « Esegesi e dog­
matica ») riportato in questo volume, Rahner fa
quasi da mediatore tra teologi ed esegeti, vuole
aiutare ambedue le parti a fare un obiettivo esame
22 INTRODUZIONE

di coscienza. A ciò era ben preparato, perché già


nel lontano 1943 aveva lungamente meditato que­
sta posizione, per cui nel memoriale all' Arcivesco­
vo di Friburgo poteva scrivere: « Non si può forse
del tutto dissimulare !'impressione che qua e là
non si abbia abbastanza coraggio e fiducia per az­
zardarsi sul piano esegetico anche in questioni dog­
matiche scabrose, ma importanti e pressanti. Mi­
sure più severe dell' autorità ecclesiastica potrebbe­
ro, certo, con troppa facilità impedire degli sbagli,
ma potrebbero anche avere una conseguenza più
grave: far tralasciare tali questioni per paura di
venire in conflitto con i superiori ecclesiastici. Per­
ciò l'esegesi scientifica si applica, più o meno esclu­
sivamente, a temi che non sono pericolosi ed evi­
tano le questioni più pressanti in tale campo ... In
Germania non abbiamo un grande commentario
scientifico del Vecchio e del Nuovo Testamento,
una teologia neotestamentaria, un dizionario teo­
lo gico e una concordanza manuale, che ci rendano
in sede scientifica indipendenti dall'esegesi pro­
testante ».
Indi Rahner passa a toccare altre questioni
particolari accennate dalla lettera di Friburgo: la
teologia della predicazione, la teologia orientale,
la dottrina della grazia, la mistica del Cristo, il
rinnovamento liturgico e l'attività del laicato.
Egli è alieno dal considerare la teologia della
predicazione come scienza autonoma, perché alla
sua base sta il grave malinteso che la teologia
INTRODUZIONE 23

scientifica possa restare così com' è, purché le si


formi accanto una teologia kerigmatica. È vero,
egli osserva, che la teologia qual è spesso insegnata
nelle scuole non prepara sufficientemente ad una
predicazione viva. A tale scopo però non basta
ripetere l'elaborato della teologia scientifica in una
maniera più accessibile e con un ordine più pra­
tico.
La teologia orientale ha ancora da dire qual­
cosa a quella occidentale. La sua dottrina sulla ri­
surrezione e la glorificazione di Cristo} sul culto}
sul nesso stretto tra ascesi e .mistica} sul simboli­
smo, sulla trasfigurazione di tutto l'universo per
opera della grazia} può dare anche oggi nuovi im­
pulsi alla nostra teologia. «In un tempo poi, in
cui i vincoli esterni, sociali e culturali dell'uomo
col Cristianesimo e la Chiesa sono più o meno
caduti, il cristiano può conservare la sua fede,
se vive nel suo intimo la sua unione al Dio Trino
mediante la grazia soprannaturale e divinizzante
del Cristo mediatore ».
L'Azione Cattolica ha oggi più che mai im­
portanza ed il laico può assolvere il compito a lui
imposto se attinge forza dal sacrificio di Cristo
partecipando vi anche in maniera liturgica e sen­
sibile.
Concludendo la prima parte del memoriale,
che consta di 34 pagine, Rahner costata che non
v' è alcun motivo di proibizioni o di moniti, oc­
corre piuttosto promuovere positivamente il la­
24 INTRODUZIONE

voro scientifico. A ciò non son tenute solo le fa­


coltà ma anche i vescovi, che possono tanto con­
tribuire al rinnovamento della formazione scien­
tifica, facendosi promotori della pubblicazione di
grandi o pere con un piano unitario e di un co­
stante aggiornamento del clero, incoraggiando pro­
fessori ed alunni. « Stimolando le forze, le si gui­
da meglio. Quando si fa appello a tutte le forze,
in maniera positiva e con fiducia, s'impone loro
dei compiti e se ne rende possibile l'attuazione,
esse si lasciano ordinare e dirigere al retto fine.
Solo quando si vuole con coraggio un nuovo fu­
turo, si preservano con costanza gli elementi vera­
mente duraturi assicurando loro l'avvenire ».
La seconda parte del memoriale riguarda la
filosofia. Ne citiamo solo un brano particolarmen­
te significativo: «Si dà anche nella filosofia mo­
derna una serie di classici, quali Cartesio, Leibniz,
Kant, Fichte, Schelling, Hegel, Schopenhauer,
Nietzsche, Kierkegaard, ecc., il cui pensiero ... non
è privo di ogni originalità, vitalità e profondità.
Un contatto vitale con esso potrebbe essere neces­
sario e giovare anche ad una filosofia cristiana viva
e attuale. Ciò non esige dal filosofo cristiano ['ac­
cettazione di alcun errore ma lo costringerebbe a
strutturare il proprio sistema in maniera nuova
ed originale, a superare ogni formalismo ste­
reotipo ed ogni verbalismo, a rivedere i problemi
perennemente nuovi e imparare a tradurre il lin­
INTRODUZIONE 25
guaggio dell'unica filosofia in quello delle altre fi­
losofie ».
In questo memoriale Rahner non è soltanto
il teologo speculativo, originale ed entusiasta, ma
è ànche tanto personale da non essere imitabile,
anzi da irritare coloro che, aggrappatisi con affet­
tata serenità ad una situazione superata, ritengono
che tutti i problemi siano stati già spiegati e risolti.
Dopo aver studiato in profondità egli può delinea­
re un piano pratico, che sarà più tardi ampiamente
sviluppato per additare « come va oggi impostata
la formazione dei teologi» 8.
Nell' estate del 1944 Rahner, costretto dagli
eventi bellici a lasciare Vienna, si ritira ad eserci­
tare la cura d'anime in un villaggio della bassa Ba­
viera. Potrà riprendere nell'agosto del 1945 l'in­
segnamento teologico a Pullach e risalire nel 1948
da professore ordinario la cattedra di dogmatica
ad Innsbruck, occupando la sino al 1964 tra la sti­
ma dei colleghi, l'ammirazione e l'affetto dei di­
scepoli, che non dimenticheranno mai le sue bril­
lanti lezioni sulla creazione e il peccato. originale,
la grazia, le virtù infuse e la penitenza. D'allora
comincia anche a pubblicare con ritmo crescente,
mentre tiene conferenze in varie città europee a
ceti intellettuali diversi, nelle università e alla

8 Cfr. Il Teologo, in Missione e Grazia, Roma, 1964, 504­


540.
26 INTRODUZIONE

radio. Nel 1948 parla per la prima volta in Bad


Driburg in Westfalia ad un circolo di teologi cat­
tolici e protestanti su problemi ecumenici. Le riu­
nioni si ripetono ogni anno sotto il patronato del­
l'Arcivescovo di Paderborn e di un Vescovo pro­
testante ed hanno contribuito non poco a prepa­
rare l'ambiente per l'erezione da parte della Santa
Sede del « Segretariato per promuovere l'unità dei
Cristiani ».
Quale membro della Goerres-Gesellschaft e
della Paulus-Gesellschaft, che conta tra i suoi
membri trecento professori di tutte le facoltà de­
gli atenei germanici, è stato particolarmente attivo
con le sue conferenze e pubblicazioni su questioni
ai margini tra teologia e scienze e sui rapporti tra
Cristianesimo ed altre religioni.
Oltre a curare varie edizioni dell'Enchiridio n
Symbolorum del Denzinger, ha iniziato dal 1957
con fosef Hofer la ripubblicazione su nuovo pia­
no del « Lexikon fur Theologie und Kirche », di
cui sono apparsi sin ora 8 volumi. Non poche voci
nuove sono del Rahner. Intanto può realizzare
l'antica idea delle «Quaestiones disputatae »,
« una serié di scritti, nella quale si potrebbe trova­
re - scrive nella prefazione al primo numero 9 ­
tutto ciò di cui un cristiano dovrebbe rendersi con­
to con chiarezza per essere veramente tale, purché

9 Ober die Schriftinspiration (Quaest. disp. I), Freiburg


i.Br. 1957, 9.
INTRODUZIONE 27

la riflessione chiarificatrice si verifichi con quella


obiettività e rigore che ne fa un'investigazione
scientifica ».
L'indizione del Concilio Ecumenico Vatica­
no II è un nuovo stimolo per l'attività del Rahner:
i problemi prospettati dal programma rinnovatore
di Giovanni XXIII vengono da lui affrontati con
ampiezza di vedute e studiati nei loro vari aspetti
teorici e pratici. Chiamato a cooperare alla prepa­
razione del Concilio quale membro della Commis­
sione « De Sacramentis », è inserito più tardi nel
ristretto numero degli esperti. L'influsso da lui
esercitato è noto a tutti.
Intanto con F. X. Arnold, V. Schurr e L. M.
Weber sta preparando un manuale di teologia pa­
storale in più volumi e con J. Daniélou, J. Alfaro
e C. Colombo un Dizionario di Teologia, « Sacra­
mentum Mundi », che comparirà contemporanea­
mente in tedesco, francese, spagnolo, italiano e
inglese. Possiamo ancora attenderci dal Rahner
altri pregevoli lavori in un prossimo futuro.
Di tutta questa ampia produzione sino a poco
fa erano apparsi in italiano solo alcuni volumetti
e qualche articolo lO. Le Edizioni Paoline hanno

IO Opere e articoli pubblicati in italiano: Visioni e profe­


zie, Milano 1955; Alcune tesi per una teologia del Sacro
Cuore di Gesù, in « Cor Salvatoris », a cura di J. Stierli,
Brescia, 1956, 145-172; Tu sei il silenzio, Brescia, 1956; Il
mistero della morte, in Digest Religioso (Napoli) 1 (1958)
28 lNTRODUZIONE

quest'anno edito « Missione e Grazia» nella tra­


duzione di E. Martinelli e nella nostra traduzione
«La penitenza della Chiesa », che, raccogliendo
per la prima volta gli articoli speculativi e storici
pubblicati in riviste diverse in una quindicina di
anni, ci dà un' esposizione assai ricca del sacramen­
to della penitenza. Si prosegue ora la pubblicazione
italiana di «Schriften zur Theologie », che, già
tradotti integralmente in spagnolo e parzialmente
in francese ed in inglese, hanno avuto un'eco non
indifferente nel mondo. Per facilitare la loro uti­
lizzazione al lettore italiano le Edizioni Paoline
hanno creduto opportuno abbandonare l'ordine
cronologico dell' edizione del Benziger e distribui­
re i saggi sistematicamente in 6 volumi dal seguen­
te contenuto: La Teologia o Dio, Cristo e Maria,
Antropologia soprannaturale, La Chiesa, r Sacra­
menti e gli ultimi eventi, Saggi di spiritualità. I
singoli volumi saranno preceduti da un'introdu­
zione, in cui si cercherà di sintetizzare e valutare

40-48; Tempo di penitenza, in Humanitas (Brescia) 15 (1960)


165-172; Pericoli nel Cattolicesimo d'oggi, Alba, 1961; Maria
Madre del Signore, Fossano·Cuneo, 1962; In cammino verso
«l'uomo nuovo », in Humanitas 17 (1962) 739-760; L'anno
liturgico, Brescia, 1962; Dio nasce nel nostro cuore, in Vita
nostra (Roma) 15 (1962) 3, 24-28; Esegesi e Dogmatica, Bre­
scia, 1963; Che cos'è l'eresia, Brescia, 1963; Il latino lingua
della Chiesa, Brescia, 1963; La virilità nella Chiesa, Vicenza,
1962; La fede in mezzo al mondo, Alba, 1963; Il comanda­
mento dell'amore, Brescia, 1963; Necessità e- benedizione della
preghiera, Brescia, 1963; La libertà di parola nella Chiesa,
Torino, 1964.
INTRODUZIONE 29

il pensiero dell' autore sui vari argomenti, anche


se espresso in altri scritti.

Prima di dire qualche parola sui saggi inclusi


in questo volume sottolineiamo alcune caratteristi­
che della personalità teologica del Rahner, origi­
nale e vigorosa tanto nel campo speculativo-dog­
matico quanto in quello ascetico-pastorale. Ad
un' ampiezza non ordinaria di conoscenze dogma­
tiche egli unisce un ammirevole dominio della pro­
blematica teologica, una perspicacia nell' osservare
i punti deboli di più di una soluzione comunemen­
te accettata, un coraggio nell' avanzare ipotesi, che
all'inizio possono anche sconcertare, ma ad un
esame attento si presentano fondate, una ricca do­
vizia di suggerimenti, che aprono nuove prospet­
tive alla speculazione teologica.
Rahner è un assertore della tradizione ed ha
un senso profondo di ortodossia e di fedeltà al
sentire della Chiesa: è sua cura costante che le
spiegazioni speculative siano pienamente conformi
al dato dogmatico. Più che ripristinare o ripetere
in maniera sterile e, a lungo andare stancante, il
dato storico, egli lo ripensa e riesamina alla luce
del presente. Egli ribadisce spesso che la teologia
approfondendo con amore la fede dei primi secoli
non deve mirare tanto a dimostrare 'che anche i
55. Padri hanno detto e vissuto quanto la Chiesa
30 INTRODUZIONE

insegna e vive oggi. Investiga piuttosto cosa essi


hanno da dirci oltre quelle verità, che sono oggi
chiaramente presenti alla coscienza della Chiesa.
Ritornando al passato la teologia progredisce nel
futuro. È un lavoro duro ma va affrontato, « e lo
si può fare solo se, spigolando nel vasto campo
della storia della teologia, si colgono quelle spighe,
che non si possono senz'altro considerare come ri­
poste da tempo nei granai della nostra teologia
scolastica» H. Perciò Rahner investiga le fonti bi­
bliche e patristiche con accuratezza e tecnica ag­
giornata e ricerca con passione quell'immensa ric­
chezza di pensiero che spesso, senza che lo si sap­
pia o anche mal comprendendola, si nasconde die­
tro le formulazioni teologiche. Con atteggiamento
piuttosto riservato, che a torto è potuto apparire
a qualcuno poco rispettoso, egli analizza il valore
dei concetti, dei termini e delle sentenze della teo­
logia scolastica. Le dichiarazioni del Magistero
vengono interpretate nel loro contesto storico con
un'ermeneutica sottile e differenziata, sempre
animata da amore e sottomissione. Rahner va
avanti sin dove lo permette la tradizione della
Chiesa e della teologia.
Da questo nesso con le fonti e con la storia
del passato egli attinge una forza d'immediatezza,
che gli fa vedere le cose nella loro concretezza,

H La teologia della penitenza in Tertulliano, in La peni­


tenza della Chiesa, Roma, 1964, p. 473.
INTRODUZIONE 31

scoprire nel nostro modo abituale di pensare uno


splendore da tempo affievolito, risvegliare eviden­
ze da tempo assopite e ravvivare situazioni, che
sembravano staticizzate da secoli. Con abilità al­
larga 1'ambito della questione con una serie di do­
mande, cui non riesce sempre a dare una risposta
esauriente. Non si tratta di problematicismo; è
l'ansia cosciente di una ricerca, che non riesce mai
ad esplorare i tesori della nostra fede trascendente.
Coloro che sono stati suoi alunni o hanno avuto
occasione di trattenersi con· lui in colloquio pri­
vato hanno potuto costatare che 1'arte di porre
domande in maniera comprensiva e sempre più
ampia deriva anche dall'umiltà di chi sa ascoltare
e imparare da tutti.
Rahner ha vivo il senso della responsabilità del
teologo di fronte alle necessità spirituali dei pro­
pri contemporanei; di qui 1'afflato pastorale e ke­
rigmatico della sua teologia. I suoi saggi e le sue
conferenze partono da una necessità sentita perso­
nalmente ed hanno uno scopo pratico anche quan­
do il tema è in sé mol.fo astratto. Vi si sente la
vicinanza della teologia alla situazione religiosa
dell'uomo nel tempo, ai suoi interrogativi, che
vengono individuati e interpretati nel loro senso
e nella loro portata. «La teologia, scrive egli 12,
deve servire alla predicazione del Vangelo ed essa
per lo più progredisce solo quando procede dalla

12 Schriften zur Theologie, Vorwort, Einsiedeln, 1962, 7.


32 INTRODUZIONE

nece ssità e dal compito di quest'annuncio e quindi


ha una risonanza pastorale, che non è affatto a
scapito della sua rigorosità ». «In realtà la teo­
logia più rigorosa, che s'impegna appassionatamen­
te e unicamente al suo oggetto e si prospetta que­
stioni sempre nuove, anzi la stessa teologia più
scientifica, è a lungo andare la più kerigmatica » 13.
It kerigma non è per Rahner un epifonema del
pensiero teologico, che viene così livellizzato e
volgarizzato, né la teologia un compito di teoriz­
zazione e perciò qualcosa di pura accademia. Si
deve vedere il kerigma all' altezza del pensiero teo­
logico e viceversa la teologia dev' essere tutta pe­
netrata da un afflato kerigmatico e pastorale, non
può ripiegarsi passivamente su se stessa e conten­
tarsi della contemplazione dei propri concetti. Il
teologo deve far sprigionare spontaneamente dal­
l'oggetto dei suoi studi la forza kerigmatica e spi­
rituale in esso immanente. L'attività di Rahner
quale professore, scrittore e conferenziere, tradi­
sce questa sua concezione della teologia. Unico
intento è rendere l'uomo più buono e più capace
di amare, facilitargli una vita religiosa cosciente,
agendo non come «padroni della sua fede, ma
come ministri della sua gioia» (2 Coro 1,24).
Rahner fa una «theologia viatoris» in genuina
fraternità con tutti gli uomini peregrini sulla ter­
ra, perciò si sente vicino a tutti coloro che pro­

13 V. più avanti: Saggio di uno schema di dogmatica, p. 62.


INTRODUZIONE 33

vano difficoltà a credere o addirittura pensano di


non poter più credere. Il principio, che in pratica
l'ha sempre guidato, è quello che ha fatto suo
Paolo VI nella sua prima enciclica «Ecclesiam
suam »: «Mettiamo in evidenza anzitutto ciò che
ci è comune, prima di notare ciò che ci divide» 14.
Tutto ciò richiede una grande umiltà e una fede
fraterna nei riguardi di tutti, condividano o no
la nostra fede.
Rahner ha sempre sentito l'obbligo grave da
lui ricordato ai sacerdoti al Katholikentag di Han­
nover: «La nostra fede sarà genuina solamente
quando non è la fede dei "beati possidentes ",
ma quella che si accomuna agli altri nel credere.
Ci dobbiamo porre nella fila di coloro che cre­
dono tra difficoltà e tentazioni, si domandano co­
sa propriamente s'intende per ciò che chiamiamo
formule di fede, che importanza hanno queste for­
mule per la condotta reale della loro vita. Dob­
biamo essere tra coloro che sono angustiati spesso
dal sospetto tormentoso che l'edificio della fede
sia solo una sovrastruttura tradizionale, masche­
rante una mentalità che domina effettivamente la
loro vita concreta, perché non si osa confessare
in pubblico di che cosa in verità si vive» 15. Di
conseguenza non imporremo agli altri se non ciò
che viviamo o almeno cerchiamo di vivere tra i

14 OSIuvatore Romano, 10·11, ago 1964, 8.


15 Der Glaube des Priesters heute, copia poligrafata, 5
(vers. in Saggi di spiritualità).

2. - Sallgl teologiCi.
34 INTRODUZIONE

dolori e nella preghiera. «Combatteremo ogni


giorno contro la routine di termini teologici e d'in­
numerevoli ricette morali, che abbiamo imparato
e continuiamo a trasmettere senza averle mai com­
prese veramente» 16.
La nostra fede deve apparire fraterna anche al
cosiddetto incredulo. Però perché sia tale egli de­
ve poter vedere in noi un credente, che è come
lui uomo di oggi e non si spaventa delle difficoltà
della sua fede ma la pratica proprio per queste.
Tutto ciò non è un'astuta tattica apologetica! È
il risultato dello sforzo per eliminare i difetti del­
la nostra fede: « Il falso tono di una convinzione
a buon mercato, un parlare che trasforma il mes­
saggio del Cristianesimo in un facile rimedio a
tutti i mali del tempo, un pensare ed un parlare ...
come se noi sapessimo e avessimo penetrato tutto
e il Cristianesimo fosse la formula esplicativa del
mondo e non comandasse di abbandonarsi con
l'aiuto della grazia in modo radicale al mistero in­
comprensibile dell' amore ineffabile» 17.
Solo in tal caso i cosiddetti increduli non avreb­
bero facilmente l'impressione che noi in fondo
difendevamo solo noi stessi, la Chiesa e il gretto
ordine borghese, invece di preservare loro, nostri
fratelli, e noi stessi dal cadere nell'abisso della
rassegnazione stoica e passiva.

16 Ib. 5.

17 Ib. 7.

INTRODUZIONE 35

* * *
Non è facile esporre e valutare il pensiero di
Rahner per la sua molteplicità, ricchezza di pro­
spettive ed anche frequenti ripetizioni, sia pure
con sfumature diverse. Si è cercato di additare la
proprietà formale della sua impostazione teologi­
ca nell'antropocentrismo. Siamo di fronte ad una
semplificazione e schematizzazione, che impoveri­
sce alquanto il suo pensiero e spiega molte delle
critiche, talvolta anche aspre, che gli sono state
mosse. La sua teologia è rivolta all'uomo non per
una preferenza dell' antropologia contro la teolo­
gia. A lui preme spiegare concettualmente la di­
sponibilità essenziale e storica dell'uomo alla ri­
velazione e la struttura teocentrica del suo spirito,
cui deve corrispondere una donazione al suo Crea­
tore in una decisione strettamente personale e
assolutamente libera. Contro ogni cosmocentrismo
panteistico o antropocentrismo ateo egli porta
l'uomo a riflettere su se stesso e a collocarsi nel suo
rango antropologico e nella sua soggettività stori­
ca per prostrarsi in adorazione davanti a Dio,
« l'Inconcepibile, che non si può inserire in alcun
ordine, la Misura senza misura, la Presenza, che
sola non può essere mai circoscritta» 18.
Questa teologia a sfondo antropologico non
ha alcun criterio puramente filosofico, si basa sulla

18 Ib. 16.
36 INTRODUZIONE

verità rivelata, sul messaggio centrale del Verbo


fattosi Uomo, il quale ci fa conoscere che pren­
dendo la nostra carne ha voluto condividere la
nostra sorte e la nostra storia e così scoprirei il
nostro stesso essere. Perciò secondo Rahner non
v' è alcun ambito obiettivo, almeno dall'Incarna­
zione del Logos, che non possa essere incluso for­
malmente, e non solo indirettamente e deduttiva­
mente, nell'antropologia teologica. Ciò costituisce
la caratteristica di tale antropologia ed è nello stes­
so tempo la sintesi della teologia 19. Mettendo in
risalto questo principio e cercando di attuarlo nel­
le singole tesi fondamentali, egli ha infiuito non
poco sullo sviluppo del pensiero teologico. La sua
novità non sta nel dire cose del tutto ignote, nel
reinserire nel presente un sistema teologico già
accettato e nell'illustrare con materiale storico un
canone dogmatico precisato da tempo sotto ogni
aspetto. In un colloquio serio e vivo con la tra­
dizione, il pensiero dogmatico della Chiesa è ri­
preso nuovamente nel suo insieme, ripensato in
uno sforzo fondamentale con lo sguardo rivolto
all'uomo ed esposto in maniera originale.
Di fronte a questa nuova impostazione appa­
re chiaro ,che non si possono presentare come
unica espressione ed interpretazione della dottrina
della Chiesa un determinato indirizzo teologico

19 K. RAHNER, Theologische Anthropologie, in Lexikon f.


Theologie und Kirche, I, 623-627.
INTRODUZIONE 37

con un canone tematico ben strutturato, un ango­


lo visuale e un armamentario di categorie, che ri­
flettono necessariamente un singolo periodo sto­
rico. Nella Chiesa non si può porre in discussione
quanto riguarda il dogma e la costituzione divina
della Società salvifica fondata da Cristo. Però an­
che in questioni teologiche è necessaria una certa
libertà di opinione e la Chiesa ha sempre riba­
dito la sua volontà, che si mantenga un libero
scambio di vedute fra le varie scuole. Il teologo
non può sottrarsi al dovere di affrontare questioni
non ancora chiaramente decise, la cui soluzione
non è indifferente per la vita pratica. Ciò può im­
portare dei rischi ed imporre dei limiti all'espres­
sione delle proprie opinioni. «Sin dove è possi­
bile nei singoli casi esprimere liberamente le pro­
prie opinioni nella sfera pubblica della Chiesa, sa­
rà sempre sino ad un certo grado una questione
da esaminare, e l'ultima parola in proposito spet­
ta all'autorità ecclesiastica» 20.
Ciò spiega perché Rahner con umiltà e doci­
lità non esita ad affrontare questioni scabrose e,
ove lo ritenga opportuno, a ricorrere a termini
nuovi. Si è parlato persino di un « suo linguag­
gio », non senza una punta d'ironia da parte di
coloro che ritengono la formula morta e il pen­
fiero in esso racchiuso come l'espressione adegua­

20 K. RAHNER, La libertà di parola nella Chiesa, Torino,


1964, 40.
38 INTRODUZIONE

ta di quanto l'uomo si è appropriato dell'unica


verità divina e perenne.
Rahner rende più efficace la sua esposizione
dogmatica ponendo in intima correlazione la filo­
sofia e la teologia, ciò che è pienamente legitti­
mo, perché il contenuto concettuale dogmatico è
sempre riflesso in un'evidenza storica criticamen­
te esaminata. Egli si sente legato ai classici della
filosofia cristiana, ha assimilato abbondantemente
le linee maestre del tomismo e conosciuto con­
temporaneamente il pensiero filosofico moderno,
specie quello esistenzialistico. Per lui la filosofia,
più che stare accanto alla teologia, è uno stru­
mento ermeneutico, che, se rettamente usato, ser­
ve allo sviluppo della teologia e alla sua intima
unità. Una tendenza tanto marcatamente specu­
lativa come la sua potrebbe rappresentare in teo­
logia il pericolo di una deformazione metodolo­
gica, nella quale la costatazione positiva del dato
rivelato sia a volte sacrificata ad una teoria teo­
logica aprioristica. Ma Rahner conosce bene la fun­
zione dell'« inteUectus quaerens fidem », tien con­
to dei suoi limiti: la sua guida è l'insegnamento
del Magistero ecclesiastico, anche in materie non
strettamente definite. Il suo atteggiamento al ri­
guardo non lascia luogo a dubbi, come l'ha rico­
nosciuto pubblicamente anche il S. Padre Paolo VI,
quando nell'udienza concessa nel novembre del
1963 agli Editori del Lexikon fiir Theologie und
Kirche ebbe per lui parole di lode e di compia­
INTRODUZIONE 39

cimento. Rahner non riduce mai la portata dei


documenti e, sostellendo con forza, calore ed en­
tusiasmo le proprie convinzioni, non assume mai
posizioni esclusivistiche nei riguardi degli altri.
Per lui è pienamente legittima, anzi necessaria la
coesistenza llell'ambito cattolico di varie tendenze
teologiche, che riflettano in maniera complemen­
tare la pienezza inesauribile del deposito rivelato.
Non poteva essere diversamente, perché il suo in­
tento teologico è solo far comprendere l'amore che
Dio ha espresso all'uomo in Gesù Cristo. La sua
teologia sa questo 1l0n tanto come risultato di
una fede vista solo speculativamente, ma soprat­
tutto come effetto della «scientia Jesu Christi»
(Fil 3,8), accolta con gratitudine e vissuta inti­
mamente.
La teologia di Rahner non è priva di lacune e
di nèi. Non può meravigliare che si possa non con­
dividere qualche sua posizione non sufficientemen­
te fondata o si debba segnare qualche punto in­
terrogativo su più di una pagina. Egli stesso ne è
conscio, specie quando si tratta di « quaestiones
disputatae »: «Sono queste dei problemi, scrive
egli 21, che non hanno ancora trovato una solu­
:done accettata da tutti. Però li si deve affrontare
per trovarne una. La risposta che si dà loro sarà
volentieri revocata, se non la si critica con leggerez­
za, ma la si sostituisce con Ulla migliore ». Gli
21 K. RAHNER, Kirche und Sakrament (Quaest. disp. X),
Freiburg i.Br. 1960, 5.
40 INTRODUZIONE

scritti del Rahner invitano ad una revisione criti­


ca da parte di coloro che prendono sul serio la teo­
logia, ad una collaborazione personale, ad un dia­
logo intorno a questioni all'ordine del giorno, per
impedire che si crei una frattura fra le opinioni
dei teologi e la vita della fede.
Purtroppo la lettura dei saggi del Rahner è
spesso laboriosa per lo stile sovraccarico di pa­
rentesi) incisi e idee sovrapposte) riesce difficile
seguire un pensiero, la cui chiarezza e precisione
è inferiore alla sua profondità. In qualche pagina
si risente una certa aria d'improvvisazione) di una
elaborazione eccessivamente rapida: è l'effetto
quasi inevitabile della sua straordinaria capacità
di produzione e dell'ampiezza e diversità dei temi
affrontati. Non manca una lieve tendenza a criti­
care le posizioni della « iibliche T heologie» (la
teologia ordinaria), cui attribuisce qualche opi­
nione) che non rappresenta il pensiero dei grandi
teologi. Sotto questo aspetto alcune critiche) che
gli sono state mosse, non sono del tutto infondate.
Però) nonostante tutto, il giudizio sulla sua teolo­
gia è decisamente positivo e il suo pensiero occupa
un posto importante nella presente problematica
spirituale. Il contributo che esso porta alla teo­
logia può essere misurato solo nel futuro.

* * *
Alla luce di questa disamina di carattere gene­
INTRODUZIONB 41
rale possitlmo ora dare un rapido sguardo ai saggi
raccolti in questo volume.
Il primo elabora il piano di un trattato di dog­
matica destinato agli uomini del secolo XX: come
presentare una teologia non solo ortodossa, ma
anche viva? Quali questioni esaminare, quale or­
dine adottare? Il compito non è facile. Lo schiz­
zo merita di essere studiato dai professori di teo­
logia e dagli autori di manuali, che non vogliono
ridursi a ripetere meccanicamente il passato. L'au­
tore ha preparato il terreno con una panoramica
realistica della produzione teologica attuale, della
poca originalità e vitalità dei manuali, in cui la
documentazione storica trova poca risonanza: di­
fetti obiettivi ma dipinti in qualche punto a colori
un po' foschi e non alieni da un po' di esagerazio­
ne. Quindi per prevenire obiezioni fa notare che:
1) la teologia deve contemporaneamente e neces­
sariamente abbracciare le essenze o strutture e
l'esistenza, in altre parole essere speculazione e
storia della salvezza,- 2) alcune questioni di morale
dovrebbero tornare alla dogmatica,- 3) si dovrebbe
sviluppare una «teologia» della teologia londa­
mentale,- 4) data la natura della realtà semplice e
infinitamente ricca, di cui si occupa la dogmatica,
è inevitabile che certi termini ritornino più volte
sotto punti di vista diversi. Una conferma pratica
di quest'ultima affermazione è data dai sottotitoli
della dogmatica formale premessa a quella spe­
ciale, che suscitano subito l'impressione che l'au­
42 INTRODUZIONE

tore, forse per il suo temperamento, non sia sfug­


gito a delle ripetizioni. Si leggeranno con profitto i
copiosi suggerimenti per un trattato della rivela­
zione: parola divina efficace, storicità, simbolismo,
e sacramentalità, profetismo, risposta del credente
che « ascolta », caratteri particolari di una rivela­
zione salvifica.
Il punto di partenza per l'esposizione della dog­
matica speciale non è Dio né l'uomo ma il rapporto
tra Dio e l'uomo. È una prospettiva rispondente ad
un'idea esatta della rivelazione che, propriamente
parlando, ha per oggetto l'azione di Dio sull'uomo.
La parola di Dio ci fa conoscere ciò ch'Egli ha
voluto essere per noi e ciò che noi siamo per lui,
creature chiamate ad entrare in comunione con
Lui, decadute e redente dal Mistero del Cristo.
La teologia solo dopo aver investigato questo rap­
porto tra Dio e l'uomo esaminerà i termini tra cui
esso si annoda. Di qui la divisione della dogmatica,
che presenta qualche novità. Così, per esempio,
la teologia trinitaria è connessa con la trattazione
della grazia, perché solo per aver appreso per ri­
velazione che dobbiamo riferirei a Dio, Padre, Fi­
glio e Spirito, abbiamo conosciuto la Trinità delle
Persone Divine. La Cristologia, mentre è in un
primo tempo subordinata all' antropologia in quan­
to l'Incarnazione del Verbo è considerata soprat­
tutto come la realizzazione più alta possibile del
rapporto tra Dio e l'uomo, viene ripresa più tardi
dal punto di vista della Redenzione.
INTRODUZIONE 43

La seconda parte dello schema anticipa la fe­


lice integrazione dell'Ecclesiologia e della Sacra­
mentaria che, preparata in questi ultimi anni, ha
trovato la più autorevole conferma nella costitu­
zione liturgica e nello schema « De Ecclesia » del
Concilio Vaticano II. La Chiesa è vista per la sua
struttura fondamentale come il sacramento di Cri­
sto, presenza della sua verità (tradizione, magiste­
ro, Scrittura), della sua volontà (giurisdizione, di­
ritto), della sua grazia,' t'appartenenza ad essa è
« res et sacramentum » della grazia e della salvez­
za. La S. Messa è considerata come il sacrificio e
il mistero centrale, nel quale la Chiesa si attualiz­
za totalmente nel suo rapporto a Dio, a Cristo e
ai suoi membri. L'antropologia, nel suo triplice
aspetto di natura elevata, decaduta e redenta, è
completa, sebbene i suoi elementi siano dispersi
in diversi trattati, come anche i sacramenti in par­
ticolare sono studiati dove trovano il loro posto
nella vita cristiana.
Questo schizzo di dogmatica forse non sarà
mai attuato daZZ'autore. Se lo fosse avremmo una
dogmatica molto tradizionale e notevolmente viva.
Ce lo fanno predire gli elementi che l'autore già
ci ha forniti.
Due saggi (il quinto e il sesto) richiamano un
problema del massimo interesse. Tutti i teologi
sono concordi nell'affermare che i dogmi sono con­
tenuti esplicitamente o implicitamente nella rive­
lazione trasmessaci dalla S. Scrittura e dalle tra­
44 INTRODUZIONE

dizione. Il dogma si sviluppa passando, secondo


alcuni dall'implicito logico, formale o virtuale, al­
l'esplicito o, secondo altri, dall'implicito vissuto
all' esplicito. Non pochi tra questi ultimi insistono
sul fatto che il progresso « vitale» deriva dal pas­
saggio dallo stato di conoscenza concreta, vitale ed
implicita, che la Chiesa ha del mistero, alla cono­
scenza astratta ed esplicita di questo stesso. Rah­
ner, collegandosi all'ultima corrente, utilizza la
psicologia de/linguaggio e distingue ciò che è for­
malmente « detto» da ciò che è formalmente « co­
municato ». Il primo è il minimum necessario del
senso di una frase, il secondo è il senso pieno del­
l'asserzione, voluto di fatto e comunicato da colui
che la pronuncia. Questo senso pieno non è sem­
pre espresso direttamente nelle parole né è imme­
diatamente formulabile sia da parte di chi parla
sia da parte di chi ascolta. Se si prende la frase
pronunciata come punto di partenza per una dedu­
zione, la conclusione può coincidere con una veri­
tà già comunicata formalmente. In tal caso dedur­
re è far sì che il formalmente « comunicato» sia
anche formalmente « detto ».
Tutto ciò si applica anche alle verità di fede.
Ogni loro formulazione anche se fatta ai tempi
apostolici, non comprende mai tutti gli elementi
della loro ricchezza interiore formalmente comu­
nicata in ciò che è stato formalmente detto. Lo svi­
luppo dogmatico consiste nel passaggio dall' espe­
rienza spirituale non formulata, preconcettuale, al­
INTRODUZIONE 45
la conoscenza astratta, concettuale, formulata nel­
la Chiesa dei tempi apostolici o in quella post­
apostolica. L'autore allarga la nozione d'implicito,
quale è compreso dai difensori della « via dialetti­
ca », che fanno derivare il passaggio da una sem­
plice analisi o da una vera argomentazione dimo­
strativa e persuasiva, creando non poche difficoltà,
e fa appello con una certa insistenza all'implicito
vissuto o affettivo. Forse sarebbe stato meglio, co­
me ha notato il Thils 22, rimanere semplicemente
sul piano intellettuale e mostrare che a questo stes­
so livello la psicologia dell'intelligenza riconosce
oggi unanimemente alcune forme di possesso dot­
trinale autentico ma non concettualizzato, cioè non
cosciente nel senso abituale del termine.
Il Rahner conclude che non si può ridurre la
rivelazione ad un insieme di proposizioni 23; essa
consiste anche ed essenzialmente nella comunica­
zione di verità mediante proposizioni, ma è anzi­
tutto l'azione salvifica di Dio nel Cristo sul!' uma­
nità, è l'esperienza concreta della persona e dell'o­
pera di Gesù di Nazareth} dell'evento della sal­
vezza espresso da tali proposizioni.
Lo sviluppo del dogma è riesaminato nel sag­

22 G. THILS, Chronique de Théologie Fondamentale, in


Eph. Theol. Lov. 31 (1955) 430-1.
23 Quest'osservazione, ripetuta spesso, è esposta in modo
magistrale nella conferenza: Der Glaube des Priesters heute,
11, ribadendo il bisogno di semplificare la nostra fede, senza
menomazione alcuna del suo contenuto, per rispondere alle
esigenze attuali.
46 INTRODUZIONE

gio seguente secondo i suoi fondamenti biblici e i


suoi elementi costitutivi, che lo condizionano, ed
è in qualche modo completato dagli esposti su
«Che cosa è un'asserzione dogmatica» e sul
« Concetto del mistero» inerente a tutte le veri­
tà, che la rivelazione presenta all'uomo come un
oggetto della fede a lui indispensabile per la sal­
vezza.
La dottrina su Dio, Uno e Trino, soggetto di
non pochi scritti del Rahner, è rappresentata in
questo volume da tre saggi. Il primo, « Theos nel
Nuovo Testamento », è una ricerca di teologia bi­
blica, ricca ed assai suggestiva, che apre visuali
molto proficue su alcuni temi quali l'unicità, la
personalità, gli attributi di Dio, la novità meravi­
gliosa del Nuovo Testamento, che in continuità col
Vecchio ci svela il Dio dell' amore. Il teologo, an­
che se potrà avanzare qualche riserva su punti par­
ticolari 24, vi troverà numerose indicazioni, che lo
aiuteranno a mantenere la sua ricerca al livello di
un' autentica intelligenza della fede, senza decli­
nare al piano di una teodicea, di cui però richiede
il servizio ed accoglie i dati. Il secondo saggio è
una disamina sull'esistenza e il valore di una teo­
logia biblica del Nuovo Testamento. Il terzo in­

24 Cfr. la recensione di M.·V. LEROY, su: K. RAHNER,


Écrits théologiques I, Desclée de Brouwer 1959, in Revue
Thomiste 70 (1962) t. 62, I, 280-3; J.-HERVÉ NICOLAS O.P.,
Une théologie interrogative, in Freiburger Zei/schrilt lur Phi­
losophie und Theologie 7 (1960) 428·33.
~ ...

INTRODUZIONE 47

vece, dopo aver sintetizzato lo sviluppo storico


della teologia frinitaria e l'influsso esercitato sulla
mistica cattolica, sottolinea che questo dogma re­
sta alquanto estraneo alla vita della maggior par­
te dei fedeli e la sua trattazione piuttosto isolata
nell'insieme della dogmatica. Sembrerebbe quasi
che il Mistero sia stato rivelato per se stesso e
debba costituire una realtà chiusa in sé. La 55.
Trinità al contrario è un mistero di salvezza e co­
me tale dev' essere presentata. Se non ci si vuoI
fermare ad un'esposizione incompleta del Cristia­
nesimo, in ogni trattato si deve far vedere il suo
fondamento trinitario e nello stesso tempo l'aspet­
to salvifico di questo dogma, che pervade tutti gli
altri tanto da potersi chiamare « ecumenico ».
I nftne ricordiamo lo studio dei rapporti tra
«Esegesi e dogmatica », cui abbiamo già accen­
nato.
Siamo grati al Rahner di quanto ci ha fatto
apprendere dallo studio, certo non facile, dei suoi
scritti, e auguriamo che questi possano essere ac­
colti tra noi con la stima e l'ammirazione che han­
no trovato in tante altre nazioni.

ALFREDO MARRANZINI S. J.
della Pontificia Facoltà Teologica
«S. Luigi» - Napoli
SAGGI TEOLOGICI

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1.

SAGGIO
DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA *

Programmi non attuati e discorsi sul « come


si doveva fare », ma in realtà non si è fatto, non
costano molto. Suscitano solo il sospetto che i
loro autori sian tra coloro che sanno sempre me­
glio ogni cosa. D'altra parte, l'uomo non ha mai
fatto nulla senza aver avuto prima davanti agli
occhi un piano di azione. I programmi sono quin­
di indispensabili.
Oggi sembra diventare quasi impossibile che
un teologo scriva da solo un'intera dogmatica,
che sia qualcosa di più di un testo scolastico o
di una sintesi conveniente di ciò che si suoi dire
comunemente su tali temi. In tal caso presentare
un programma non sviluppato di una dogmatica,.

~ * Titolo originale: U eber den Versuch eines Aufrisses einer


Dogmatik, in Schriften zur Theologie, I, Benziger Verlag,.
Einsiedeln, 4a ed., 1960, pp. 9-47; versione di A. Marranzini, sj.
52 SAGGI TEOLOGICI

come prima base di discussione per vedere come


un gruppo di teologi dovrebbe oggi elaborare in­
sieme una dogmatica cattolica, forse non è solo
indice di presuntuosità.
Basta dare uno sguardo senza pregiudizi al
lavoro dogmatico cattolico dei nostri giorni, per
giungere con sorpresa a delle costatazioni, che
:J.1 non si aspetterebbero a priori. Tali costatazioni
.!
"
sono sempre unilaterali, schematiche e, fortuna­
tamente, non possono essere attribuite a merito
di questo o di quello. Si può sempre dire a chi
4'
,.
:, le fa: medice, cura teipsum. Ma è realmente vero
I
'i che chi siede in una casa di vetro, non ha mai
f1
il diritto di lanciare pietre? Egli potrebbe anche
permettere che i suoi vetri vadano in frantumi.
In una parola e chiaramente: passando in rivi­
sta la produzione dogmatica degli ultimi decen­
ni, la si può dividere - schematicamente e con
qualche ingiustizia per persone e casi partico­
lari - in tre gruppi l: testi scolastici, monografie
storico-dogmatiche e studi dogmatici speciali o
li marginali.
:~
t~
r:
I ' I Prescindiamo, naturalmente, dagli scritti di «alta volga­
(o rizzazione », di teologia giornalistica e pirateria teologica, che
purtroppo esistono. A ragion veduta tralasciamo anche i lavori
l., - spesso necessari ma talvolta superflui - in cui si ricuoce
;.
i quotidianamente alla gran massa del popolo cristiano il pane
dell'istruzione religiosa, anche quando sembra identico a quello
~ di ieri. Abbiamo qui presente solo la produzione teologica,
r che si suoI chiamare «scientifica ». Francamente, in teologia
i, è particolarmente problematica la distinzione tra scienza e
I; volgarizzazione. Infatti qui la «scienza» poggia sulla fede
l",
l!
r'

l'l i.,:
~'
'l'i
~
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 53

I testi scolastici sono sempre manuali. Chi ne


ha fatto la prova, sa che non è facile scrivere un
buon testo o anche solo una sua parte. C'è tutta
una serie di buoni manuali di dogmatica in latino
e in lingue moderne. L'essenza stessa della scien­
za della fede cattolica e il fine di tali manuali de­
stinati ad alunni di teologia, che vogliono per la
prima volta studiare a fondo la dottrina della
Chiesa, esigono che tali testi non pretendano di
essere « originali» ad ogni costo. Ma è tanto sa­
crilego pensare che essi - fatte singole ecce­
zioni - siano cosi « poco originali» da suscitare
.orrore?
Negli ultimi decenni forse si sono ripresi
sotto qualche aspetto: sono migliorati nella parte
storico-dogmatica, nella bibliografia, che però è
raramente elaborata, ecc. Ma si rifletta a quanto
segue: nessuno potrà negare che negli ultimi due
secoli si sono verificate trasformazioni storiche
e spirituali, che in estensione, profondità e forza
plasmatrice dell'uomo, corrispondono per lo me­
no a quelle emerse nel periodo tra S. Agostino
e l'alta scolastica. Ora la dogmatica è uno sforzo

del « popolo ». E forse quasi sempre si è verificato che la teo­


logia scientifica «cattedratica» (sitzende), per usare un'espres­
sione di H. U. v. BaIthasar, ha appreso più dalla teologia non
scientifica, «che prega» e predica, che non questa da quella.
Ma ciò esorbita dal tema presente.
54 SAGGI TEOLOGICI

dell'intelligenza e una scienza, che devono ser­


vire al proprio tempo, come da esso crescono
- o dovrebbero crescere - perché devono ser­
vire alla salvezza e non alla curiosità teoretica
- per quanto la pura conoscenza come tale sia
già parte della salvezza stessa - . La salvezza
poi è sempre quella del singolo uomo in un
tempo concreto. Chi crede che la divina rivela­
zione è una fonte tanto ricca di queste verità
da non potersi mai esaurire (Dz. 3014), può giu­
stamente aspettarsi che una dogmatica di oggi
si distingua, per esempio, da una del 1750 al­
meno quanto la Somma Teologica di S. Tommaso
si distingue dagli scritti di S. Agostino.
Qual è la realtà? Nelle lezioni ordinarie di
l
dogmatica ci si potrebbe attenere tanto ai trat­
;,I tati di Billuart o ai Wirceburgenses quanto a
una dogmatica di oggi. Dove si tratta di vera dog­
matica, cioè non di storia dei dogmi o di un'arbi­
traria frammentazione, né di haute vulgarisatioJt,
una dogmatica di oggi 2 non si distingue da quelle
di 200 anni fa. Non si dica che, data l'immutabi­
lità del depositum fidei, non può distinguersi in
nulla dalle precedenti. Ciò non è affatto vero né
esatto. Basta, per esempio, farsi solo un'idea della
contingenza storica del canone uniforme che ha
regolato, già da più di due secoli, la scelta delle

2 In questa considerazione sorvoliamo la teologia fonda­


mentale.
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 55

questioni ordinarie, dei trattati, ecc., in un testo


di dogmatica, per vedere che tale aJtermazione
dell'inevitabile immutabilità dei nostri testi sco­
lastici è falsa 3.
Quante cose sono scomparse dai manuali di
oggi, che erano invece trattate ampiamente da san
Tommaso nel suo testo scolastico: la Summa theo­
logiae! Dove sta scritto che si devono trattare i
sette sacramenti l'uno dopo l'altro e devono esi­
gere quasi un terzo della trattazione dogmatica?
Si consideri lo spazio riservato al trattato
«De resurrectione Christi» o in genere al
«De Mysteriis vitae Christi », e ci si domandi:
questa distribuzione dello spazio - che già tra­
disce qualcosa sui più profondi atteggiamenti e
sulle prospettive dello spirito dei teologi ­
è senz'altro evidente? Perché, per esempio, nel
«De paenitentia» si tratta ordinariamente in

3 Qui si profila minaccioso il circulus Vltlosus della teo­


logia del Denzinger. Il Denzinger è obiettivo nei documentI
raccolti e selezionati, ma soggettivo nella raccolta e nella scel­
ta. La selezione, evidentemente, è stata fatta secondo il cano­
ne delle questioni e delle tesi della teologia scolastica attuale.
Si sono scelte e raccolte le dichiarazioni del magistero eccle­
siastico, di cui si ha bisogno nella scuola di teologia. Ma non
si sarebbero trovate nelle fonti del Denzinger, nelle lettere
pontificie, nei bollari, ecc., molte altre cose, se le si fosse con­
siderate altrettanto importanti che quelle questioni, per cui il
Denzinger ha raccolto il suo materiale? Dacché esiste il Den­
zinger con la sua raccolta e il suo indice sistematico, il teo­
logo ha, quasi involontariamente, l'impressione che il Den­
zinger sia la norma canonica delle questioni da trattare in
dogmatica. Per le altre, infatti, non si può addurre nessuna
giustificazione dal Denzinger. II circolo vizioso è completo.
56 SAGGI TEOLOGICI

maniera espressa ed ampia l'aspetto personale


ed esistenziale del processo sacramentale - « De
virtute paenitentiae» - mentre, con un senso
di evidenza tranquilla, si ritiene superfluo fare
lo stesso negli altri sacramenti, o tutt'al più ci si
sbriga con un paio di note a pie' di pagina? O
si pensi ad una teologia biblica completa - quale
ancora non abbiamo, ma possiamo tuttavia in
qualche modo immaginare - e ci si domandi
che tematica e quali proporzioni potrebbero da
essa derivare, che non sarebbero in partenza ina­
datte anche per una dogmatica sistematica. Ci
sono molte dogmatiche e teologie morali (o lo
sono tutte?) che non dicono una parola sul tema
paolino: legge e libertà 4. È senz' altro evidente
che va bene cosi? Si esamini la prospettiva sto­
rica di una dogmatica di ordinaria provenienza:
non vi è nulla tra Adamo (De Deo creante et
elevante; De peccato originali) e Cristo. Non si
potrebbe avere una teologia della storia della sal­
vezza in genere, una teologia dell'Antico Testa­
mento ed, espressamente, una teologia delle vie
della salvezza al di fuori della storia israelitica?

l Non sono riuscito a trovare nell'lndex systematicus del


Noldin alcun richiamo al «discorso della montagna ». Nel­
l'Enciclica di Leone XIII sulla libertà (Libertas praestantis­
simum) non si trova una parola sulla libertà, per la quale
Cristo ci ha redenti e che ci dona come grazia. Si parla
solo, sotto l'aspetto filosofico e giuridico-naturale, della li·
bertà che già abbiamo. Queste osservazioni, che si potreb·
bero moltiplicare, non si spiegano facilmente col fatto che
ogni autore sceglie il proprio tema a piacere?
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 57

Questi e simili esempi sulla problematica dei


comuni manuali ce ne potrebbero fornire altri,
anche considerando solo la loro tematica.
Nessuno può poi negare che la storia dei
dogmi e la teologia biblica, di fatto, non hanno
fortemente influito quale fermento sugli stessi
trattati dogmatici. Anche da un altro punto di
vista si può dimostrare - in maniera for­
male - che l'uniformità e la fossilizzazione
dei manuali non sono giustificabili con la scusa
dell'immutabilità del dogma. Quando una scien­
za perde la forza di plasmare nuovi concetti, di­
venta «sterile », per usare un'espressione del­
l'Humani generis s. Per l'ulteriore sviluppo di
una scienza occorrono concetti tecnici, perché il
già acquisito può servire all'acquisizione di cono­
scenze nuove ed esatte solo se è diventato maneg­
gevole e atto ad una nuova applicazione che lo
superi fissandolo in un concetto esatto. Ipostasi,
natura, soprannaturale, opus operatum, transub­
stantiatio, contritio, attritio, habitus, gratia san­
ctificans, grati a gratis data e molti altri concetti
simili sono il risultato condensato di un lavoro
teologico spesso durato per secoli. Poterono e
possono ancora diventare punto di partenza

5 «Experiundo novimus», dice l'Humani generis (Dz.


3014). La sterilità della teologia può essere non soltanto una
possibilità astratta, ma anche un fatto già sperimentato. Non
si sarà, certo, tanto ingenui da pensare che cose simili si
verificavano solo nei «brutti tempi antichi ».
58 SAGGI TEOLOGICI

e strumenti concettuali per ulteriori riflessioni


teologiche. In certo modo sono simboli e trofei
vittoriosi del proficuo lavoro teologico dei secoli
11, passati.
I
Ora ci domandiamo: quali concetti di tal tipo
son sorti negli ultimi secoli? Ci sono, in campo
strettamente dogmatico, termini tecnici teologici,
divenuti classici e noti ad ogni teologo, che negli
ultimi secoli abbiano accresciuto il tesoro dei
mezzi di chiarificazione teologica? Forse i termi­
ni: corredemptio-corredemptrix? Però questi con­
cetti sono ancora molto discussi.
E per il resto? Dovrebbe questo stato di cose
perdurare? Non si può, certo, dire che siano stati
già elaborati tutti i concetti, di cui si ha bisogno
in teologia come strumenti veramente tecnici o
che si adopererebbero se si possedessero. Natu­
ralmente è molto difficile dimostrare tale asser­
zione a teologi soddisfatti di se stessi. Ma si ve­
rifica anche qui che chi non condivide l'opinione
- in realtà blasfema - che la teologia abbia già
quasi esaurito la rivelazione divina e l'abbia già
tradotta interamente in concetti teologici, dovreb­
be trovare strano e sconcertante che la formazione
dei concetti teologici sia tanto poco attiva.
Ecco un piccolo esempio: se si ammette una
distinzione obiettiva tra il peccato veniale e il
mortale, che non si limiti alla «materia» del­
l'atto, ma si estenda anche al lato soggettivo
- cioè alla profondità, centralità o perifericità
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 59

dell'atto esistenzialmente diverso, in rapporto al


nucleo personale - si deve ammettere la stes­
sa distinzione anche per l'atto moralmente buo­
no. Ciò per la natura stessa della cosa, sicché la
qualità etica di questi atti tanto diversi corri­
sponde solo «analogamente» allo stesso concet­
to dell'atto moralmente buono. Orbene nei
teologi non si trova neppure una parola su que­
sta distinzione e sull'oggetto da distinguere. Se
si avesse un terminus technicus appropriato,
si potrebbe, per esempio, domandare, tra l'al­
tro, in un dato trattato teologico: accresce la
grazia ogni atto (soprannaturale) moralmente
buono o solo - per così dire - quello «gra­
ve »? O dove sono i concetti e i termini, teolo­
gicamente ed ontologicamente esatti, per deter­
minare positivamente il rapporto degli angeli col
resto del mondo, anche materiale? Se li si qua­
lifica solo come « puri» spiriti, la maggior parte
di quanto la S. Scrittura dice sul loro rapporto
col mondo, resta inespresso e svanisce per la no­
stra coscienza odierna.
Non si può pensare che questi «progressi»
della teologia riguardo alla tematica, all'imposta­
zione e alla soluzione delle questioni, alla formu­
lazione dei concetti, ecc., a prescindere da alcuni
settori specializzati, come la mariologia, si riferi­
scono solo a sottigliezze più o meno insignificanti.
Finché non si elabora un'impostazione della que­
stione (per lo più non esiste neppure la questione!)
60 SAGGI TEOLOGICI

e non si giunge ad una risposta, pare che l'essenzia­


le sia chiaro e che, tutt'al più, restino da risolvere
solo un paio di controversie scolastiche, prive in
fondo d'importanza religiosa. Si affini invece la mi­
ra mediante la storia dei dogmi, o, più esatta­
mente nel nostro caso, con la storia della teolo­
gia. Si riconosca che la teologia non si muove
solo verso soluzioni migliori e più chiare, ma nel­
lo stesso tempo è sempre anche la storia delle false
rassicurazioni su una linea « media», cioè spesso
mediocre, e per « esaurimento », la storia delle so­
luzione spesso solo verbali, del lasciar cadere in
oblio questioni, che si sorvolano « ad usum del­
phini » per una maggior chiarezza e sinteticità ma­
nualistica. A chi inoltre cerca di far teologia tenen­
do presente lo spirito dei tempi, una vita religiosa
sentita e una predicazione veramente attuale, s'im­
porranno questioni abbastanza nuove e tali da esi­
gere una chiarificazione e una soluzione in un'im­
postazione teologica rigidamente scientifica 6.
Purtroppo la teologia dogmatica di oggi ha,
in fondo, ricevuto pochi stimoli da una storia
dei dogmi e della teologia bene impostata e con­
dotta, come diremo ancora in seguito. Se si pre­
scinde da singoli teologi e da alcune questioni
6 Per citare un esempio, posso riferirmi al mio opuscolo:
Die vie/en Messen und das eine Opfer, Freiburg, 1951. Cfr.
inoltre: B. NEUHEUSER, Die vielen Messen, in Catholica 9
(1953) 151-153, e l'articolo di F. VANDENBROUCKE, La concé­
lébration, acte liturgique communitaire, in La Maison-Dieu
35 (1953) 48 ss.
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 61

particolari, quali, per esempio, le mariologiche,


la vita religiosa e la teologia formano un'unità
veramente non troppo viva. Gl'impulsi del tempo
penetrano nella teologia troppo indeboliti e quasi
già immunizzati. Perciò le nostre scuole di dog­
matica somigliano oggi a quelle di 200 anni fa.
Valutando questo stato di cose non si può
pensare che la differenza desiderata debba e possa
consistere in un adattamento puramente lette­
rario, verbale e retorico, di una dogmatica vecchia
al nostro tempo, in « applicazioni» e «prospet­
tive» nuove e in corollari pratici. Sotto questo
aspetto è meglio che una dogmatica, scientifica
però, che cioè sia in ascolto con impegno e serietà
e ripensi esattamente quanto ha ascoltato, si sforzi
di essere anzitutto aderente alla realtà, cioè al suo
oggetto. Allora e solo allora potrà permettersi di
essere anche «attuale », cosa sempre somma­
mente pericolosa e per lo più molto infruttuosa.
Quando invece aderisce praticamente alla realtà in
maniera più pressante di prima, allora diventa
automaticamente attuale: e attrae a sé il suo
tempo, senza doversi adeguare al tempo. A ciò
però si giunge sempre troppo tardi.
Il malinteso pratico più importante, difeso o
almeno fomentato dalla cosiddetta «teologia del­
la predicazione », stava nel pensare e nel pren­
dere come base che la teologia scientifica può es-,
sere com'è, solo le si deve formare « accanto» una
teologia « kerigmatica ». Questa consisterebbe es­
62 SAGGI TEOLOGICI

senzialmente nel ripetere quello «stesso» che


la teologia scolastica scientifica ha già elaborato,
ma in maniera un po' diversa e più kerigmatica,
e nel dargli un ordine più pratico. In realtà la
teologia più rigorosa, che s'impegna appassiona­
tamente e unicamente al suo oggetto e si prospetta
questioni sempre nuove, anzi la stessa teologia
più sCientifica è, a lungo andare, la più kerig­
matica.
I nostri testi scolastici sono poco vivi, servono
poco alla predicazione e alla testimonianza delle
verità, non perché contengono troppa filosofia
scolastica e scientifica, ma perché ne offrono trop­
po poca. Proprio perché sono oggi reliquie del
passato, non possono neppure conservare il pas­
sato nella sua purezza. Infatti può conservare il
passato nella sua purezza solo chi si sa obbligato
al futuro, e lo conserva conquistandolo.

i~ 1. .;,

Le monografie sulla storia dei dogmi, che


costituiscono il secondo dei gruppi, in cui abbia­
mo distinto i lavori odierni di dogmatica scien­
tifica cattolica, non possono colmare la lacuna dei
testi scolastici. Ciò non solo perché dogmatica e
storia dei dogmi non s'identificano, ma anche per
un motivo quasi più importante: la maggior parte
di questi lavori è assolutamente retrospettiva.
Essi non attingono dal passato alcun impulso per
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 63­

l'avvenire della dogmatica. Mostrano come SI e


giunti a ciò che oggi è in vigore. Percorrono a ri­
troso la via della posizione attuale. Solo rara­
mente uno giunge in qualcuno di questi lavori
agli antichi incroci, prima superati senza badarvi
e forse persino fatalmente, e trova la via che lo
possa condurre oggi ad un terreno sinora ine­
splorato.
Vi sono, naturalmente, molti lavori intrapresi
per puro interesse storico agli eventi del passato.
Non indaghiamo per il momento se si possa deri­
vare da essi - in un contesto diverso o più
ampio - qualcosa di più importante per la dog­
matica che non sia una semplice conoscenza re­
trospettiva del suo passato, già superato, e se
guardando al passato non si miri anche al futuro
e si trovi nel passato una parte del fu turo non
ancora raggiunto. Chi, specie se giovane princi­
piante, «domanda» facilmente e con troppa im­
pazienza quale sia il «risultato» dell'investiga­
zione storica ed esige troppo immediatamente e
presto da ogni lavoro storico un risultato che
stimoli la stessa dogmatica, mette in pericolo la
serietà e la profondità del lavoro storico in teo­
logia e promuove un dilettantismo che vuoI rac­
cogliere prima di seminare.
Per quanto sia importante questa verità, si
può tuttavia domandare se l'attuale lavoro dei
cattolici sulla storia dei dogmi non sia rimasto,
sotto molti aspetti, sterile, perché non lo si è
64 SAGGI TEOLOGICI

compiuto interrogando in modo schietto e aperto


la realtà stessa. Perciò si può percepire solo ciò
cui è stata già data, ieri o oggi, una risposta.
Nòn si è insistentemente interrogata la realtà in
modo da udire anche le sue espressioni antiche.
Queste forse allora non erano ancora formulazioni
di una teologia espressamente scientifica, ma piut­
tosto l'eco anche della predicazione, della fede e
della vita cristiana. Per noi oggi, però, sono
o potrebbero essere forse più importanti di altre
verità o theologumena, che hanno una storia più
immediatamente percepibile.
I lavori sulla storia del dogma, per essere
utili alla dogmatica, non devono ridursi solo ad
« esporre» sinteticamente quanto fu detto da
questo e da quell'autore nel passato. In questa
storia dello spirito lo storico deve dirigere con
l'antico teologo il suo sguardo alla realtà stessa,
ascoltando naturalmente quanto questi dice. Non
deve riferire teologia antica, ma far teologia in­
sieme con l'antica teologia.
Questo metodo, è vero, più facilmente di
quello che si limita a riferire la dottrina antica,
corre il pericolo d'interpretare falsamente le fonti,
introducendo problemi moderni in testi antichi.
Però in definitiva è l'unico che ci faccia giungere
veramente al pensiero e non solo alle parole del
testi antichi. Non si dimostra che ciò sia stato
fatto collezionando, ordinando e ricostruendo in
modo molto superficiale i testi e giudicando molto
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 65

sommariamente, dal tribunale della teologia at­


tuale, se l'autore antico sia stato già abile come
lo siamo noi oggi e in quale misura. Questo me­
todo di pura erudizione - che riferisce sempli­
cemente - pone tutto sullo stesso piano. Non
può percepire il dinamismo nascosto di una
teologia antica, non vi scopre gli elementi ine­
spressi eppure molto attivi, né i presupposti se­
greti. Sorvola la divergenza o dislivello che può
sussistere tra quanto si è detto e quanto si è pen­
sato, tra la soluzione singola - ponderata forse
troppo poco - e la concezione fondamentale.
Possiede le parti, ma non lo spirito che le lega
insieme. Quindi non trova nella teologia storica
proprio quello che potrebbe essere utile alla dog­
matica odierna.
Si esamini, per esempio, il trattato De gratia
di Hermann Lange. È il compendio della dottrina
scolastica sulla grazia meglio documentato sotto
l'aspetto storico. Lange conosceva veramente i
« risultati» dell'investigazione storica, quali al­
lora si presentavano in questo campo 7. Però se
ci si domanda, quale significato essi abbiano per il
contenuto propriamente teologico del suo libro,
si deve rispondere sinceramente, con un giudizio
naturalmente sommario: nessuna. La colpa non

7 Naturalmente sino alla pubblicazione del suo libro. Oggi


forse (?), dopo i lavori di Bouillard, H. de Lubac, Auer, Land­
graf, Alfaro su questo tema, qualcosa sarebbe un po' diverso.

3. - Saggi teologlc1.
66 SAGGI TEOLOGICI

è di Lange, ma di questi lavori storici e della loro


infruttuosità dogmatica.
Si potrebbe dire qualcosa di simile del miglior
compendio scolastico del trattato De Paenitentia,
quello del P. Galtier, uno dei più seri conoscitori
della penitenza, che ha portato contributi positivi
in tale campo. Se si lasciano da parte nella sua
opera le notizie storiche e la difesa apologetica
della dottrina penitenziale della Chiesa contro glì
attacchi di una storia della penitenza falsamente
interpretata, resta un trattato dogmatico, che so­
miglia a quelli degli ultimi due secoli come un
occhio somiglia all'altro. La colpa di ciò è di Gal­
tier in quanto dogmatico? Nient'affatto. È de­
gli stessi lavori storici. Ora non dev'essere così.
Lo si vede - per scegliere a bella posta un esem­
pio senza pretese - considerando le indagini di
Poschmann sulla storia della penitenza 8. Che cosa
rende l'elemento storico così stimolante ed attuale
nei lavori di de la Taille o di H. de Lubac? È l'arte
di scegliere i testi storici, in modo che non diven­
tino solo schedine di voto pro o contro le nostre
posizioni attuali - già assicurate da lungo tem­
po - ma ci dicano sulla realtà stessa qualcosa, a
cui noi sinora non abbiamo riflettuto affatto o non
con abbastanza esattezza. Ciò non significa che si
faccia teologia storica per confermare le nostre

8 Cfr. La penitenza della Chiesa, Roma, 1964.


SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 67

nuove opinioni private con citazioni sèelte dai


padri e dai teologi (abuso che anche si verifica).
Si tratta piuttosto di un antico pensatore non
solo per conoscere la sua opinione, ma anche per
apprendere qualcosa sulla realtà stessa.
La teologia storica si riduce troppo a riferire
gli antichi e poco a far teologia con essi, a 0'\)V8s:oAo­
ye;'v. S'impara perciò da essa per lo più solo un
pezzo del passato, che senza di essa è stato già
immesso nella teologia di oggi, ma non la parte
che forma il nostro futuro nel nostro passato.
Nessuna meraviglia, quindi, se sinora il lavoro
della teologia storica, grande e sempre lodevole
per il suo contributo positivo, non sia divenuto
forza sufficiente per superare le deficienze sopra
costatate dei testi scolastici.

Il terzo gruppo da noi distinto comprende


opere su questioni dogmatiche speciali e margi­
nali. Ciò vuoI dire che esistono molti lavori - ri­
guardanti principalmente la mariologia - contro
i quali si può solo obiettare che accanto ad essi
esistano troppo pochi studi su questioni centrali.
Perciò si ha l'impressione - forse ingiusta nei
riguardi di alcuni teologi - che questi lavori deb­
bano servire come un alibi per scansare questioni
che secondo le leggi di proporzione della rive­
lazione, non si potrebbero evitare, ma esigereb­
68 SAGGI TEOLOGICI

bero molto più coraggio e molta più disposizione


ad affrontare i rischi che non quelli richiesti dalla
tematica scelta.
La dottrina sulla Trinità, sull'Uomo-Dio, sulla
redenzione, sulla croce e sulla resurrezione, sul­
la predestinazione e sull'escatologia si fermano
I~ proprio su questioni di cui nessuno si occupa
e alle quali ognuno s'inchina reverentemente. Tale
inchino è un malinteso. Il pensiero delle genera­
zioni precedenti - anche se giunto a risultati
condensati sotto forma di definizioni conciliari ­
non è mai un letto di riposo per il pensiero delle
generazioni seguenti. Le definizioni, più che un
termine, sono un inizio. Nulla di ciò, per cui si
è veramente combattuto, va perduto per la Chiesa.
Sono un « hic Rhodus », un'apertura. Ma nulla di­
spensa il teologo da un ulteriore e immediato
lavoro. Ciò che si accumula solo e si trasmette
senza nuovo sforzo, e per di più ab avo, dall'ori­
gine della rivelazione, si corrompe come la manna.
E quanto più a lungo s'interrompe una tradizione
viva, con una ripetizione puramente meccanica,
tanto più può diventare difficile il riannodarla 9.
Gl'innumerevoli studi mariologici di oggi
meritano ogni lode. Non si mette in dubbio che,
almeno in generale, sono anch'essi sorretti dal
movimento mariologico della Chiesa contempo­

9 H. U. v. BALTHASAR, Was salt Tbealogie? [br Ort und


ibre Gestalt im Leben der Kircbe, in W ort und Wabrbeit 8
(1953) 325-332 (vedi specialmente a p. 330).
r

SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 69

ranea, che è una grazia dello Spirito Santo. Ma


quanti temi, che pure sarebbero importanti, re­
stano non trattati. Su quante questioni regna la
calma funerea della stanchezza e della mancanza
d'interesse. Nei confini dell'ortodossia fino all'alto
medioevo ci sono state differenze molto profonde
sulla dottrina trinitaria. Oggi il 99% di coloro
che hanno studiato teologia dovranno confessare
di non sapere nulla e di averne appena sentito
qualcosa durante il periodo degli studi.
Dove sono lavori teologici sui misteri della
vita di Cristo? Un grosso volume in francese e
in spagnolo sull'Ascensione del Signore ignora
totalmente le questioni, che vanno al di là della
critica testuale e dell'apologetica storica di que­
sto evento. Il Dictionnaire de Théologie catholi­
que, nonostante la sua voluminosità, ha dimen­
ticato un articolo su tale argomento. Nella teologia
attuale si sente ancora di più la mancanza di una
riflessione a fondo sull'essenza e sul significato
dei misteri della vita di Cristo in generale. Per
quanto riguarda la vita di Cristo, la teologia dog­
matica attuale s'interessa solo dell'incarnazione,
della fondazione della Chiesa, della dottrina di
Gesù, dell'ultima cena e della sua morte. Nel­
l'apologetica si tratta anche la risurrezione dal
punto di vista della teologia fondamentale. Tutti
gli altri misteri della vita di Cristo non esistono
più in dogmatica, ma solo nella letteratura edi­
ficante.
70 SAGGI TEOLOGICI

Dov'è un lavoro moderno sulla dottrina della


transustanziazione e sulla concezione del mondo
della fisica moderna? lO La Humani generis non
ci ha preammoniti contro i pericoli di falsi ten­
tativi, perché non si faccia nulla in questo campo.
Si scorra una qualunque bibliografia e si resterà
atterriti di fronte alla deficienza o addirittura alla
mancanza totale di vere ricerche dogmatiche sulla
teologia della morte. Poeti e filosofi vi pensano.
Nella teologia di oggi s'insegna freddamente una
volta, in un contesto qualunque, che la morte è
pena dovuta al peccato originale. Questo è, press'a
poco, tutto. Ciò che se ne dice nell'escatologia
non è neppure un decimo di ciò che darebbero da
sé le fonti della rivelazione se si leggessero vera­
mente con spirito e con cuore. Quale scarsezza
e mancanza d'interesse per l'escatologia! Perché
non esiste alcun lavoro, esatto, dettagliato, pa­
ziente, anzitutto sull'ermeneutica delle espressioni
escatologiche delle fonti della rivelazione? L'ar­
gomento e il modo in cui è presentato conde­
terminano inevitabilmente anche il «genus litte­
rarium» di tali espressioni. Quale improvvisa­
zione incontrollata, regna, invece, sulla questione
del loro contenuto e della loro forma! 10a Chi si
lO La nuova edizione del trattato De Eucharistia di Filo­
grassi non ha neppure una parola su tale argomento. Quando
avremo un trattato scolastico sull'Eucarestia, che si discosti
finalmente dalla divisione superficiale e usuale, in cui si tratta
prima della presenza reale e poi del sacrificio della Messa,
come se questa divisione scaturisse dalla natura stessa della
cosa?
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 71

mette a scrivere una teologia sul concetto del


tempo e sul suo senso? Il Sino al secolo XVIII
si rifletté, almeno, sul cielo e sulla sua localizza­
zione. Oggi si dice che il cielo è anche un luogo
e non si sa dove sia. Semplice, ma anche un po'
comodo. Su questo argomento si potrebbe dire
anche di più. Nel campo dell'escatologia, anche
sotto l'aspetto puramente storico-dogmatico, ci
sarebbe ancora molto da fare.
Quanto siamo ancora poveri nella « Teologia
della storia »1 Una teologia formale della storia
della Chiesa dopo Cristo manca del tutto. Le in­
troduzioni alla storia della Chiesa sono di una
povertà che sbalordisce. Ci sono, per esempio,
criteri interni, genuinamente teologici, per una
suddivisione della storia della Chiesa in periodi?
Fino a che punto la storia della Chiesa è una
scienza teologica? Qual è il suo oggetto mate­
riale? Quale l'oggetto formale, che la distingue
dalla parte riservata al Cristianesimo in una storia
generale delle religioni, anche se scritta da un cat­
tolico, per il quale la dottrina cristiana e il con­
vincimento dell'origine divina della Chiesa sareb-
IOa Cfr. Princìpi teologici dell'ermeneutica di asserzioni
escatologiche, in Saggi sui sacramenti e sull' escatologia, Ro­
ma, 1965.
Il Cosi, per esempio, il lavoro di F. BEEMELMAN, Zeit und
Ewigkeit nach Thomas von Aquin, Miinster, 1914, sebbene
sia stato incluso nella serie «Beitrage» di Baumker, è di una
ingenuità spaventosa. È esempio tipico del semplice «riferi­
re », invece di ripensare intelligentemente il pensiero di un
altro. Di qui la sua totale sterilità.
72 SAGGI TEOLOGICI

bero norma negativa per la sua investigazione a


posteriori della storia religiosa?
Tutti questi sono solo pochi esempi, presi a
caso, che dimostrano chiaramente che le mono­
grafie storico-dogmatiche e quelle dogmatiche
hanno un principio di selezione in sé non del
tutto evidente, che agisce inconsciamente e fa sì
che non si tratti affatto una quantità innumere­
vole di questioni di teologia dogmatica. È difficile
dire, d'altro lato, quale sia la causa di questo strano
principio selettivo: timore di affrontare questioni
difficili; la falsa concezione che in determinati
settori la teologia dogmatica è giunta ad uno stadio
non più superabile; l'impressione paralizzante che
provoca la staticità di certe controversie scolasti­
che; la progressiva mancanza di collaborazione fra
teologi 12; il senso, falso ma abbastanza diffuso,
che nelle questioni nuove non si possa andare al
di là delle « differenze » di opinioni.
Ciò fa sì che ci si perda d'animo e si consideri
superfluo e ozioso «accalorarsi» e parteggiare
per una semplice opinione, che resterà sempre
controversa. Si preferisce così esporre la propria
opinione, là dove non è contestata ma ascoltata
solo devotamente, negli scritti edificanti 13.
12 Va notato, per esempio, che il sistema delle recensiom
nel campo teologico, sebbene per fortuna meno che in altri
campi, ha adottato il costume di « annunciare» le nuove pub­
blicazioni, senza occuparsi del pensiero di un altro in analisi
esatte e dettagliate.
13 Questo potrebbe essere anche uno dei motivi, per cui
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 73

Da uno sguardo panoramico all'odierna biblio­


grafia teologica, appare che la dogmatica di oggi
è molto ortodossa 1\ ma non molto viva. Dicendo
ciò non intendiamo accusarla di essere «prolis­
sa », «diffusa », «arida », «erudita e noiosa »,
di non essere scritta in stile elegante e di non
essere per tutti edificante di primo acchito. I la­
vori nel campo della teologia dogmatica scientifica
possono fare a meno di queste qualità, purché
si dedichino alla realtà trattata con quella parte­
cipazione appassionata, che questa stessa realtà
più di ogni altra esige e senza la quale non si
schiude veramente. Allora si avrebbe da sé ciò
che troppo raramente troviamo: trattazioni dog­
matiche, che non sono testi scolastici, i quali ripe­
tono meccanicamente la dottrina precedente (con
ricca bibliografia e tanti dati riguardanti la storia
del dogma), ma sono originali; studi storicq-dog­
matici, che utilizzano il passato per superare lo

si trova in questa letteratura più originalità e vivacità di pen­


siero che in quella « specializzata ».
14 Tale ortodossia può costituire anche un pericolo, come
nota K. RAHNER, Una metamorfosi dell'eresia, in Pericoli nel
Cattolicesimo d'oggi, Alba 1961, pp. 83-106. Il pericolo di una
eresia, formulata in maniera esplicita e teoretica, che s'infil­
tri nell'ambito della Chiesa e voglia diffondersi in essa, è
escluso dal grado di riflessività oggi raggiunto sui prindpi
formali della fede e della teologia. D'altra parte ci « devono»
essere delle eresie - anche nella Chiesa - . Perciò l'eresia
può apparire solo sotto due forme: come eresia « criptoga­
ma» (occulta), che si vive solo esistenzialmente e si evita
di esprimere in una forma teoretica e riflessa, e come orto­
dossia morta, che può essere fedele alla lettera, perché in fon·
do non s'interessa della realtà.
74 SAGGI TEOLOGICI

stato attuale; lavori dogmatici specializzati, che


hanno il coraggio di porsi dei problemi nei vari
campi della dogmatica, in cui domina oggi, più
o meno, la calma di un cantiere abbandonato,
l, mentre la costruzione era ancora a metà. I tre
~ « desiderata », nei tre rami della letteratura dog­
r
I~\ matica sono connessi. Li si potrebbe ridurre ad
uno solo: più dogmatica nei manuali scolastici;
più dogmatica nelle monograhe di storia del dog­
ma; più dogmatica nei lavori specializzati d'inve­
stigazione di tutto il campo dogmatico e non di
settori limitati.

* .', "i',

Lo schema di un'intera dogmatica, pubblicato


nelle pagine seguenti, vuoI essere un contributo,
anche se piccolo, al compito descritto in questa
nostra critica. Esso ha un senso anche se non
sorgerà mai una dogmatica strutturata esattamente
così. Per quanto racchiuda già in sé un notevole
sforzo di riflessione 15 esso intende solo additare,
a suo modo, quanto pensavamo di vedere anche
da un altro punto di vista: l'abbondanza di temi
non elaborati, che attendono il teologo. Solo

15 Il primo abbozzo di questo schema risale a conside­


razioni fatte dall'autore molti anni fa insieme ad Hans Urs v.
Balthasar. Non è più possibile distinguere quel che di buono
o di male spetta all'uno o all'altro. Della pubblicazione sono
io l'unico responsabile.
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 75

una dogmatica elaborata potrebbe veramente mo­


tivarlo e giustificarlo convenientemente. Perciò
qui non tentiamo neppure di spiegarlo e di moti­
varIo, ma ci limitiamo ad alcune osservazioni e a
qualche nota su alcuni punti.
Ogni dogmatica cattolica dev'essere teologia
essenziale ed esistenziale. In parole semplici, se­
condo necessarie strutture e connessioni essen­
ziali deve investigare e riferire che cosa effetti­
vamente è accaduto - in modo libero e indedu­
cibile - nella storia della salvezza. Il secondo
compito, che consiste nel riferire, s'intende da
se stesso. Ma anche il primo, cioè l'investigazione,
è vero, nonostante tutto l'esistenzialismo di oggi.
Infatti la teologia è pensiero. Non è affatto pos­
sibile, assolutamente e sotto ogni aspetto, pensare
fatti atomisticamente polverizzati. Anche le azioni
libere hanno la loro essenza e struttura, le loro
connessioni, omologie ed analogie. Quindi, men­
tre si narra che avvenne questo o quell'evento, si
deve anche dire che cosa sia propriamente ciò
che è avvenuto. E questa domanda è assolutamente
disparata da tutto il resto. Ci sono delle strutture
che si conservano, nonostante la sorprendente no­
vità degli eventi. Altrimenti sarebbe assurdo par­
lare di una storia della salvezza secondo un piano
di Dio, che abbraccia tutto ed era in lui deter­
minato da tutta l'eternità, anche se a noi si svela
lentamente. Non è possibile trattare sempre di
nuovo questi caratteri comuni dell'ordine « essen­
76 SAGGI TEOLOGICI

ziale» in ciascuna parte della narrazione della


storia della salvezza. Occorre anche vedere ed
esporre gli elementi comuni in quanto tali. Si deve,
quindi, fare anche teologia astratta essenziale, seb­
bene su questi argomenti si sa qualcosa di vera­
mente esatto solo se lo si deduce dai fatti della
storia della salvezza. Nei trattati dogmatici di tipo
tradizionale troviamo teologia essenziale (asser­
zioni sul costante andamento della storia della
salvezza, anzi persino sulla necessità di tale anda­
mento) e storia della salvezza (<< narrazioni »,
«fatti biblici»), mescolate insieme apparente­
mente con «un metodo impuro ». Ciò non è un
errore, ma una necessità derivante in teologia
dalla natura stessa delle cose. È però un difetto
se non ci si rende conto, in maniera riflessa, di
questi rapporti fondamentali. Tale difetto si os­
serva in quasi tutte le dogmatiche. Esso porta
ad accorciare, inavvertitamente, talvolta la teo­
logia essenziale, tal altra l'esistenziale. Molti temi
fondamentali restano non trattati, perché «si
narra» solo il fatto indicando il tempo della sua
rivelazione 16. Non si riferiscono molti eventi, per­
ché ci si occupa solo di ciò che nella storia della
salvezza è valido per ogni tempo e in ogni luogo.
16 Per esempio, dove si trova nelle nostre dogmatiche una
trattazione a fondo, esatta e penetrante sul perché, sul modo
e sulla misura, con cui Dio ha parlato ai Padri nei diversi
tempi in differenti maniere, sul perché ora, dopo la comparsa
del Figlio, ciò non si verifica più, sulle conseguenze che ne
risultano, ecc.?
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 77

Si disse già sopra che secondo la dogmatica usuale


tra Cristo e Adamo non si è verificato alcun evento,
che non si possa riservare esclusivamente alle nar­
razioni bibliche per fanciulli. Il trattato De gratia
è tanto avulso dal tempo e dalla storia, da destar
l'impressione che il suo contenuto valga per sem­
pre e in ogni caso, tanto che si annota molto bre­
vemente, che anche i giusti dell'Antico Testa­
mento hanno avuto la grazia da Cristo 17.
Si devono vedere e valutare questa relazione
e implicazione inevitabile di teologia «essenzia­
le » e di teologia « esistenziale » - di ontologia
teologica e narrazione storica - per compren­
dere meglio l'impostazione di molti temi e la
divisione dello schema seguente.
Ragioni pratiche rendono irreversibile la divi­
sione della teologia in dogmatica e morale, che
il Medioevo, per fortuna - potremmo quasi
dire - non conobbe. Le conseguenze, evitabili
ma per lo più non evitate, sono note. La dogma­
tica si trasforma in una scienza teologica occulta,
esoterica la cui importanza per la pratica della vita

17 Questo è esatto. Ma sulla differente distribuzione della


grazia si può dire solo che la grazia di Cristo non fu donata
così « largamente» prima del suo avvento? Dal punto di vista
della teologia biblica, non è dire da una parte troppo poco,
se si pensa ad Abramo, padre dei credenti di Eh 11, ecc., c
dall'altra anche troppo, se si guarda a Cv 7,39 e a molti altri
testi similI? Perché prima di Cristo si può avere la grazia di
Cristo e non la visione beatifica come (effetto della) grazia
di Cristo? Dove si trova nel trattato «De gratia» un'indagine
su grazia e tempo (storia)?
'i.'
h
li
f 78
~
SAGGI TEOLOGICI

crlstIana è conosciuta solo in modo poco chiaro


e fiacco. La teologia morale è sempre in pe­
ricolo di diventare uno strano miscuglio di
etica filosofica, diritto naturale, positivismo cano­
nico e casistica. La teologia - positiva e specula­
tiva - è nella « teologia» morale solo un ricordo
appena accennato. Basta solo esaminare la strut­
tura usuale di tale morale e, tenendo presente la
S. Scrittura, domandarsi quale debba essere la sua
materia e il suo metodo, per rendersi conto che
la teologia morale ordinaria potrebbe avere un
contenuto più teologico 1~. Ma ciò non rientra
nel nostro tema.
Qui accontentiamoci di notare come la dog­
matica non può rinunciare a riferire alla morale
le verità genuinamente dogmatiche. È suo diritto.
Essa è la disciplina più antica e più degna. A lei
spetta la prima parola. Quando la morale si costi­
tuisce disciplina teologica, deve vedere come sal­
vaguarda questo diritto di primogenitura della
dogmatica e come giustifica, e sino a che punto,
i motivi addotti per la sua esistenza indipendente.
Effettivamente la dogmatica ha trattato come suoi,
sino ai nostri giorni, molti temi, che si trovano
anche in morale e si sarebbe perfino tentati di

18 Quanta importanza, per esempio, si dà oggi nella teo­


logia morale ai temi biblici, quali il concetto paolino di li­
bertà, l'imitazione di Cristo, il carisma, le beatitudini del di­
scorso della montagna, l'essere crocifissi con Cristo, ecc.?
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 79

veder trattati soltanto in essa. Quando si parla


« De virtute paenitentiae », «De virtutibus theo­
logicis », «De fide », ecc., in dogmatica, e per di
più dettagliatamente, la sua pretesa in questo cam­
po è chiara. E qualora tale pretesa sia giustificata, a
questo diritto fondamentale corrisponde un do­
vere fondamentale, cui non ci si può sottrarre alla
leggera con la scusa di « dividere praticamente il
lavoro» o di «evitare un doppio lavoro », ecc.
Ciò significa che spetta alla dogmatica stabilire i
fondamenti veri, universali e attuabili di ciò che
il cristiano può, deve e gli è lecito fare. A lei
tocca dare una risposta alla domanda: che devo
fare per entrare nella vita? Essa può solo dire:
la teologia morale deve vedere, ciò posto, che
cosa ancora le resta da fare. Se c'è una scienza
che cerca di ascoltare, comprendere al massimo e
assimilare in ogni situazione quanto è stato detto
da Dio, se questa scienza si chiama dogmatica,
se la parola di Dio contiene, sempre e in ogni
caso, l'unica verità reale ed indissolubile, cioè
l'amore da praticare e non solamente «ideali»
per lo più trascendenti i fatti, non si può separare
la morale dalla dogmatica. Allora però viene da
domandarsi, forse con una certa meraviglia, per­
ché le trattazioni dogmatiche usuali discutono, a
buon diritto, questo e quell'argomento prevalen­
temente morale, mentre, in maniera assai proble­
matica, abbandonano generosamente alla teologia
morale altre questioni, che saranno affrontate sotto
80 SAGGI TEOLOGICI

l'aspetto esclusivamente morale. Riflettendo su


questo stato di fatto, si comprenderà perché molti
temi sono stati inseriti nel nostro schema di dog­
matica.
Si può - o si deve - ammettere e ricono­
scere la teologia fondamentale come disciplina in­
dipendente accanto o prima della dogmatica. Però
se si concepisce la dogmatica come sorretta dalla
fede, che abbraccia e giudica tutto, che non può
presentarsi ad alcun tribunale e supera la com­
prensione della ragione - nel senso di un tribu­
nale superiore d'istanza - allora è comprensi­
bile che la dogmatica debba, da se stessa e in se
stessa, sviluppare una teologia dei fondamenti teo­
logici. Deve dire da se stessa, in qualche sua parte,
come e in che senso si può e si deve dare una
prova razionale della fede dall'esterno e verso
l'esterno. La dogmatica non attua questa prova.
Ne determina però autonomamente la possibilità,
il senso e i limiti. Chiamiamo qui questo compito
della dogmatica «teologia dei fondamenti », che
non si deve scambiare con la cosiddetta teologia
fondamentale. Essa deve riflettere ugualmente sul­
l'aspetto soggettivo ed oggettivo di questa poso
sibilità di una teologia fondamentale.
Dove si deve esporre, come capita nella dog­
matica, una realtà unitaria e nello stesso tempo
inesplicabilmente molteplice, il cui ultimo assio­
ma è l'infinita incomprensibilità di Dio, le inter­
ferenze di singoli temi sono inevitabili. È impos­
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 81

sibile delineare uno schema, che s'imponga per


una sua assoluta logicità. Non bisognerebbe quin­
di aver paura di simili interferenze. Non pregiu­
dica nulla il ritorno del tutto nelle singole parti.
In dogmatica gli schemi molto chiari e sintetici
si pagano sempre con l'impoverimento di alcuni
punti di vista. Al contrario, il trattare lo « stesso
argomento» in luoghi diversi in maniera appa­
rentemente frammentaria e dispersa, può contri­
buire a chiarire la reale pienezza di una verità e
la realtà stessa della fede. Non si giustifica real­
mente, per esempio, il posto centrale della S. Mes­
sa come sacrificio della Chiesa e nella Chiesa, trat­
tando dell'Eucarestia solo tra i sette sacramenti
e parlando ivi del suo carattere sacrificale, quasi
sempre dopo averla considerata come sacramen­
to. Si può perciò senz'altro sostenere che la teo­
ria generale dei sacramenti si deve presentare
quale parte dell'ecclesiologia dogmatica 19 e trat­
tare poi dei singoli sacramenti secondo il posto
che occupano nella vita.

19 Se non si fa ciò, non si ha alcun prinCipIO genuino


per determinare la struttura essenziale comune a tutti i sa­
cramenti. Allora si può vedere il De sacramentis in genere
solo partendo dai singoli sacramenti. In tal caso il battesimo
dei fanciulli diventa di fatto l'unico modello di sacramento.
Di conseguenza tutti i sacramenti son trattati secondo un
unico, identico schema; l'aspetto esistenziale del sacramento
- eccettuata per caso la penitenza - non trova « di diritto »
un posto chiaro e si offusca la differenza essenziale tra i singoli
sacramenti (cfr. Dz. 846: testo che non è mai sviluppato
sotto l'aspetto realmente teologico).
,82 SAGGI TEOLOGICI

SCHEMA DI UNA DOGMATICA

LIBRO PRIMO

TEOLOGIA FORMALE E FONDAMENTALE

:~

!~ PARTE PRIMA

(, TEOLOGIA FORMALE
',1
o
;,jl
A. Relazione fondamentale tra Dio e la crea­
;'1
,j
tura 1.
!,I
II
;i 1 Si dovrebbe determinare qui, per quanto è possibile ­
1.1
il; ,deducendolo anche da quanto la fede sa concretamente di
Li Dio e del mondo - quel rapporto formale fondamentale tra
Dio e il mondo, che possa essere criterio direttivo per i pro·
.'~" blemi particolari di tutta la teologia: Dio resta sempre più
grande e non entra mai in una formula derivata dal mondo:
«Deus semper malor» (cfr. Dz. 432); il mondo è sempre
aperto a Dio in quanto tale, senza poterIo mai afferrare da
sé in questa apertura; il mondo, in quanto creato dal libero
amore di Dio, nonostante la sua limitazione e contingenza,
non è mai davanti a Dio una pura negatività (si eleverebbe
così già in partenza un vallo contro il pericolo, sempre in·
combente in una pura ontologia, di concepire l'essere finito
come semplice «limitazione» di un essere puro, con cui non
si può più conciliare una validità veramente eterna del mon­
do davanti aDio); infine la legge fondamentale cristiana se­
condo cui la vicinanza e la distanza da Dio crescono in mi­
sura uguale (e non inversa) e secondo cui Dio ci manifesta
la sua divinità, facendoci esistere e diventare.
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 8J

B. Idea di ognz rivelazione possibile nel


mondo.
I. Il Dio di una possibile rivelazione: il carat­
tere divino della rivelazione.
1. Il Dio trascendente. Trascendenza e rive­
lazione 2.
2. La libertà di Dio nella rivelazione (rivela­
zione come grazia).
3. Contenuto ed atto della rivelazione. Carat­
tere essenziale ed esistenziale della parola
di Dio.
4. Parola ed azione di Dio: verbum efhcax.
5. Il rapporto « personale» tra Dio e l'uomo
derivante dalla chiamata di Dio. La rivela­
zione, tipica forma previa dell'amore so­
prannaturale e gratuito di Dio, nella quale
egli tivela se stesso.

2 Proseguendo la sezione A, si dovrebbe in primo luogo


sviluppare qui il concetto teologico della trascendenza divina,
che non coincide in pieno con quello della teologia naturale.
Si dovrebbe inoltre sviluppare il concetto di una rivelazione
di Dio, che non s'identifica necessariamente con la creazione
del mondo, ma è espressa da Dio al mondo, di una rivela­
zione cioè, che non è il mondo, ma è fatta al mondo, mediante
la parola. Si dovrebbe dimostrare come la parola sia una real­
tà, che nell'automanifestazione del Dio trascendente non può
essere sostituita da alcun elemento appartenente all'ambito
intramondano del creato o del creabile.
84 SAGGI TEOLOGICI

II. La rivelazione nel mondo: carattere terrestre


della rivelazione.
1. Rivelazione dell'Assoluto nel finito, condi­
zionato e temporale.
Rivelazione nel tempo e nello spazio.
L'azione salvifica e il tempo e lo spazio.
2. Storicità della rivelazione.

Storia della salvezza.

« Tradizione ».

3. Carattere essenziale ed esistenziale della


rivelazione.
4. Carattere sociale della rivelazione. La
« Chiesa ».
5. L'ordine simbolico.
a) Segno, parola, immagine, concetto, mI­
to, simbolo. Essenza, possibilità e limiti
della rivelazione orale.
Rivelazione e mistica.
Rivelazione e gnosi.
b) Miracolo (quale «segno» del segno).
c) Sacramentalità della parola di Dio in
generale.
b. Rivelazione provvisoria e definitiva (Storia
della rivelazione). Il carattere formale del
Vecchio e del Nuovo Testamento. Rivela­
zione definitiva: rivelazione come realtà
escatologica; i due eoni.
7. Rivelazione come mistero.
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 85

III. La rivelazione e lo strumento della sua tra­


smissione.
1. Idea del profeta.
2. Idea del mediatore.
3. Idea della rivelazione permanente: Chiesa.
IV. La rivelazione nel soggetto che la riceve.
1. II potere di udire la rivelazione: la costitu­
zione dell'uomo quale essere capace di per­
cepire la rivelazione.
a) Il potere naturale di ascoltare 3.
b) Il potere di ascoltare come effetto del­
la grazia.
2. L'ascolto della rivelazione.
a) L'ascolto come percezione della parola
interna ed esterna (in corrispondenza
alla parola e all'azione di Dio nella rive­
lazione).
Appropriazione del messaggio: la fede.
b) Il rapporto formale tra natura e grazia,
intelletto e fede (senso e limiti dell'apo­
logetica).
c) Ordinamento storico, sociale e simbolico
nel soggetto sempre nuovo e mutevole,
che percepisce la rivelazione (sviluppo
del dogma).

3 Cfr. su ciò: K. RAHNER, Horer des Wortes, :'vfiinchen,


1941.
86 SAGGI TEOLOGICI

d) La libertà di ascoltare e la possibilità di


ribellarsi: la soprannatura in sé come
i•. croce della natura.
3. Gradi di ascolto. Fede-gnosi.

C. Idea di una rivelazione redentrice.

Trasposizione del rapporto formale della rive­


lazione nel modus dell'ordine del peccato e
della redenzione.
1. La rivelazione redentrice in quanto proveniente
da Dio.
1. Modificazione del «contenuto» della rive­
lazione.
~
l'l a) Rivelazione dell'ira e del giudizio e
i. l quindi dello stato di perdizione del­
il
, l'uomo.
b) Rivelazione della grazia riconciliatrice.
VI
:j 2. Modificazione della forma di apparizione
II
,r della rivelazione.
i~ a) La rivelazione come «legge», «scan­
dalo» e « giudizio ».
tI
b) La rivelazione come kenosi e annichi­
lamento: theologia crucis.

II. La forma redentiva del mediatore.

III. L'uditore della rivelazione in quanto pec­


catore da redimere.
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 87

1. Il peccato in quanto rifiuto di ascoltare la


rivelazione.
2. La trasformazione del peccatore in uditore;
la grazia della fede come sottomissione ed
obbedienza.
3. La modificazione dell'ordine storico, sociale
e simbolico e degli eoni.

D. Idea della teologia come scienza.


1. «Teologia »; rivelazione, predicazione, fede e
teologia.
II. Teologia come grazia.
III. Teologia come sistema razionale.
IV. Teologia e «fonti» della rivelazione (scrit­
tura-tradizione ).
V. Teologia e Magistero.
VI. Theologia viatoris - theologia peccatoris ­
theologia crucis nella teologia razionale.
VII. Teologia e teologie. Tipologia delle teologie.
Senso teologico della storia delle teologie.
VIII. Teologia dogmatica in senso stretto quale
disciplina nell'ambito della teologia.
88 SAGGI TEOLOGICI

PARTE SECONDA

TEOLOGIA FONDAMENTALE

(La rivelazione in una vita spirituale concreta già


esistente ).
La differenziazione del Cristianesimo romano­
cattolico.

A. Fenomenologia della religione in genere.


Essenza, esistenza, giustificazione:
Teologia - filosofia della religione storia della
religione - fenomenologia religiosa - psicologia
religiosa.

B. La «religione» e l'accesso dell'individuo


ad essa. - Princìpi distintivi della vera
religione.
Il problema della verità in genere di fronte alla
religione.
Possibilità di una decisione.
Obbligo della decisione, della professione, ecc.
Criteri esistenziali della decisione.

C. Fenomenologia delle religioni non-cristiane


I. Fenomenologia delle forme religiose.
II. Senso storico-teologico delle forme religiose e
della storia della religione.
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 89

Teologia della storia della religione.


III. Il Cristianesimo quale religione totale.

D. Fenomenologia del Cristianesimo.


1. Religione umana naturale e Cristianesimo come
religione fondata sulla rivelazione.
Rivendicazione dell' assolutismo del Cristiane­
simo.

Sincretismo e complexio oppositorum.

II. Cristo il fondatore (legatus divinus quale con­


cetto dell'apologetica).
III. La Chiesa. Note della vera Chiesa nel mondo.

E. Fenomenologia delle eresie cristiane.


1. Teoria filosofica e teologica dell'eresia.
1. Possibilità dell'errore.
2. Eresia nella Chiesa.
a) in senso neutro: indirizzi diversi di
scuola. Fede e gnosi, ecc.
b) in senso stretto: eresia occulta.
3. Eresia in quanto scissione dalla Chiesa.
Eresia e verità di fede.
Eresia e unità d'amore.
II . Teologia della storia delle eresie (opinioni e
chiese).
90 SAGGI TEOLOGICI

F. Fenomenologia del Cristianesimo cattolico­


romano.

G. Teoria dell' accesso del singolo individuo


alla vera religione.
1. Possibilità e limiti di tale teoria (data l'esisten­
zialità gratuita della fede).
II. Grazia interna e criteri esterni nel riconosci­
mento dell'obbligo di credere.
III. Prova volgare e prova scientifica. Senso del­
l'apologetica scientifica per il singolo creden­
te e per il pagano.

LIBRO SECONDO

DOGMATICA SPECIALE

PARTE PRIMA

L'UOMO (E IL SUO MONDO)

COME NATURA ORDINATA

AD UN FINE SOPRANNATURALE 4

4 Qui non si dovrebbe parlare né dell'uomo solo né del


creato in generale in modo che l'uomo non ne appaia il fine.
Bisognerebbe parlare dell'unica realtà del creato, considerata
però dal punto di vista dell'uomo, cioè in quanto precede l'or­
dine del peccato e della redenzione e perdura ancora nell'or­
dine attuale, sia pure con caratteri diversi.
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 91

A. La creaturalità in quanto tale 5.


I. La condizione di creatura (creazione e conser­
vazione).
II. Libertà dell'atto creativo di Dio.
III. Temporalità del creato.
IV. Finitezza del creato. La positività del finito.
V. Trascendenza e azione universale di Dio in e
su tutto il creato.
VI. Dottrina formale del fine della creazione e
del creato.
VII. Unità e connessione di tutto il creato 6.

5 La «creaturalità» non è qui una caratterizzazione della


natura, in quanto si distingue dalla grazia e dalla finalità so·
prannaturale di tutto il creato.n una proprietà fondamentale
di tutta la realtà diversa da Dio, che precede la distinzione di
natura e grazia, anzi giunge alla sua perfetta realizzazione
solo nell'ordine della grazia soprannaturale, perché la «crea­
turalità» non è espressione puramente negativa.
6 Qui non s'intende solo l'unità del cosmo materiale, del­
l'umanità, ecc., ma un'unità, che include anche gli angeli.
Contro certe tendenze neoplatoniche della teologia sarebbe
urgente precisare, in termini veramente antologici, sino a che
punto gli angeli appartengono per la loro essenza a questo
mondo, nonostante la loro «pura» spiritualità. Solo così l'in­
carnazione del Logos e la redenzione possono avere un signi­
ficato anche per gli angeli e tutto può essere creato da Cristo
e in vis ta di lui.
92 SAGGI TEOLOGICI

B. L'uomo come sintesi unitaria (di « natura»


e « soprannatura »).
I. L'unico fine concreto: la soprannaturalità come
ultima forma dell'uomo concreto.
1. Fine concreto e sua obbligatorietà.
2. Sua soprannaturalità.
II. La « natura» come « residuo » e come genui­
na « possibilità» anche se solo formale 7.
Diversità e connessione delle affermazioni che
si possono fare sopra questi due aspetti.

C. La «natura ».
1. La possibilità di una teologia della natura.
1. Come rivelazione immediata delle verità
« naturali ».
2. Come «conservazione» e «interpretazio­
ne» mediante la rivelazione e il magistero
delle verità conosciute naturalmente.
La possibilità di un'antropologia teologica
« neutrale ».
II. La natura: l'uomo.
1. Le dimensioni interne dell'uomo.
a) L'uomo come persona.
a) Contatto immediato e personale del­

7 Cfr. Rapporto tra natura e grazia, nel volume che rac­


coglie i saggi di antropologia soprannaturale.
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 93

l'uomo con Dio (individualismo;


creazionismo) .
~) Spiritualità e libertà.
y) Logica ed etica.
b) L'uomo come «natura» (persona cor­
porea, spazio-temporale).
cx.) Il carattere naturale dell'essere spiri­
tuale personale.
~) Teologia della corporeità della per­
sona umana.
y) Teologia della dualità dei sessi.
8) Teologia degli stati e degli eventi
umani.

Nascita.

Età.

Cibo e bevande.

Lavoro.

Vedere, udire, ecc. Parlare, tacere,

ridere, piangere.

Arte (musica, danza, ecc.).

Lineamenti fondamentali della vita

spirituale.

Cultura.

La morte (come fenomeno naturale).

L'aldilà naturale 8.

8 Penso qui ad una teologia dello stato ontologico del­


l'uomo, in quanto questi dopo la morte, pur abbandonando
il suo luogo fisico, nello spazio e nel tempo del mondo, non
cessa tuttavia di appartenere al mondo. Egli non è sottratto
al suo divenire e alle sue condizioni, vi continua ad appar­
tenere in mutua azione e reazione, antecedentemente alla que·
94 SAGGI TEOLOGICI

2. Le dimensioni esterne: il mondo.


a) La sfera interumana.
a) Teologia del matrimonio e della fa­
miglia.
~) Teologia del popolo e dello stato,
teologia della pluralità dei popoli.
y ) Teologia dell'umanità.
L'unità del genere umano (Adamo
come realtà naturale).
L'unità di fine della storia umana:
teologia formale della storia.
b) La sfera infraumana: teologia della na­
tura.
a) Teologia della fisica e della biologia:
il primo aspetto della realtà naturale.
~) Natura e simbolo.
y) Magia e tabù (natura e mondo degli
spiriti).
Spiritismo, ecc., incantesimo.
c) La sfera sovrumana.
a) Esistenza e natura del mondo degli
angeli.
~) Mondo angelico e mondo umano
(come unità naturale).
3. Natura: uomo e Dio.

stione se la sua sorte definitiva sia la beatitudine o la dan­


nazione. Si dovrebbero, quindi, chiarire qui i presupposti on­
tologici della possibilità del «purgatorio », della «poena sen­
sus », del significato dell'escatologia universale per i singoli
individui nonostante il giudizio particolare, ecc.
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 95

a) La conoscibilità di Dio partendo dal


mondo e dall'uomo.
b) Teologia del Dio creatore (<< della na­
tura» ).
a) Dottrina formale di Dio (gli attributi
« necessari» di Dio).
~) La dottrina materiale-esistenziale di
Dio: comportamento libero e perso­
nale di Dio verso il mondo.
Ira; amore; alternativa di questi due
sentimenti; volontà salvifica univer­
sale, ecc.
c) Dio e l'uomo.
a) Dominio di Dio sull'uomo: azione
universale di Dio; scienza; provvi­
denza; predestinazione.
[3) Sottomissione dell'uomo a Dio; reli­
gione.
Libertà e azione universale di Dio.

D. La dimensione soprannaturale della realtà


umana.
I. Il Dio dell'ordine della vita soprannaturale e
della rivelazione.
1. Il carattere trinitario dell'economia divina.
Triplice relazione dell'uomo in grazia con
Dio.
a) Spirito.
b) Figlio.
96 SAGGI TEOLOGICI

c) Padre.
2. L'indipendenza immanente delle tre perso­
ne divine nel loro rapporto con il mondo
soprannaturale.
a) Le tre persone.

a.) Padre.

~) Figlio.

y) Spirito Santo.

b) Dottrina formale della Trinità.


II. La partecipazione alla vita trinitaria di Dio.
1. Lo stato di grazia soprannaturale (De gratia
habituali).
a) Grazia increata: partecipazione alla vita
divina.
b) La grazia creata abituale.
c) La grazia come stato originale.
a.) La grazia degli angeli e la grazia
paradisiaca.
~) I doni preternaturali come conse­
guenza della grazia paradisiaca.
y) L'unità soprannaturale adamitica del
genere umano in sé e con gli angeli.
2. Influsso attivo dello stato di grazia sopran­
naturale.
a) Vita spirituale e grazia soprannaturale
in generale.
Necessità, natura, coscienza, occultezza,
oggetto formale della grazia «attuale ».
b) Logica e grazia soprannaturale: fede.
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 97

c) Etica e grazia soprannaturale:


Speranza e amore.
Le virtù morali soprannaturali.
d) Crescita in grazia (merito), gradi di svi­
luppo della vita morale.
e) Le specificazioni fondamentali della vita
spirituale: vita attiva e vita contempla­
tiva.
f) Economia sopralapsaria della grazia di
Dio.
III. Il Mediatore: l'Uomo-Dio 9.

9 Si ammetterà facilmente che l'inserire, come si è fatto


sopra, la dottrina trinitaria nella teologia della grazia concessa
all'uomo, non va necessariamente contro la dignità intrinseca
di questo tema, se si riflette che la vita intima della Trinità
divina ci è rivelata, perché e in quanto ci furono rivelate
la nostra redenzione e la nostra elevazione alla grazia. Si am­
metterà pure che si può superare il vuoto formalismo della
teologia trinitaria oggi comune solo collegando strettamente
la dottrina della grazia con quella della Trinità. Più proble­
matica, lo si deve ammettere, è la subordinazione, che qui
si è fatta, della cristologia ad un'antropologia teologica. Pe­
rò si deve tener presente che si affronterà di nuovo la cri­
stologia dal punto di vista della redenzione. La cristolo­
gia più facilmente sfugge all'apparenza, non agevolmente evi­
tabile, del mitologico e del miracoloso, se l'incarnazione del
Logos - in tutta la sua unicità, libertà e imprevedibilità a
partire da questo mondo - è vista come la realizzazione su­
prema del rapporto fondamentale esistente in genere tra Dio
e le creature spirituali. In questo contesto si chiarisce meglio
l'unità della persona e della missione di Cristo. Infine un
punto di vista « quoad nos », che è antropologico, non deve
necessariamente occultare la struttura della cosa in sé, che
è diversa, anzi ce la può scoprire meglio che se si procedesse
sin da principio nel modo più obiettivistico possibile. Cfr.
Problemi della cristologia di oggi, nel volume dedicato ai saggi
di cristologia.

4. - Sani teologicI.
98 SAGGI TEOLOGICI

1. Teologia dell'Uomo-Dio.
a) L'Uomo-Dio. Unione ipostatica; com­
municatio idiomatum, ecc.
b) Le ripercussioni dell'unione ipostatica
sulla natura umana di Cristo.
c) Gli « uffici» del Cristo.
d) Il significato generale, antologico-meta­
fisica ed etico, dell'unione ipostatica.
2. La partecipazione dell'umanità all'opera del
Mediatore.
a) La maternità divina di Maria. Maria
rappresentante dell'umanità. Il principio
fondamentale della mariologia.
b) L'unità soprannaturale dell'umanità in
Cristo (corpo mistico di Cristo nella sua
universalità).
c) L'unità di tutta la creazione in Cristo.
~) Cristo e il mondo infraumano.
~) Cristo e gli angeli.

PARTE SECONDA
CADUTA E REDENZIONE

A. Il peccato.

1. Vessenza del peccato.


II. La caduta degli angeli.
1. In sé.
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 99

a) Fatto. Essenza.

b) La condanna eterna.

2. Le conseguenze cosmiche ed antropologiche


della caduta degli angeli: potestas diabo1i;
demonizzazione della natura (idolatria).
III. La colpa originale.
1. La caduta in peccato.
2. Il peccato originale. Il regno del peccato.
Peccato e morte.
IV. I peccati degli uomini.
1. Possibilità e fatto del peccato personale.
2. Stato di peccato.
3. Peccati sociali oltre il peccato dell'intero
genere umano.

B. Dio e il peccato.
I. L'ira di Dio.
II. La riprovazione e l'inferno.
III. La positività del peccato soltanto davanti a
Dio e per opera di lui (<< felix culpa»).
IV. La volontà salvinca infralapsaria di Dio.
1. Volontà salvmca universale.
2. Volontà salvinca differenziata.
(Grazia infralapsaria sufficiente ed efficace,
predestinazione ).
100 SAGGI TBOLOGICI

C. Il Redentore.
I. Teologia della storia dell'umanità orientata
verso il Redentore.
1. Rivelazione primitiva ed elementi rivelati
contenuti nelle varie religioni.
2. Da Adamo ad Abramo. La «legge natu­
rale »; il paganesimo.
3. La teologia dell'essenza e della storia del
Vecchio Testamento. La salvezza sotto la
legge.
4. La pienezza dei tempi.
II. L'Incarnazione come redenzione (redenzione
« fisica »).
1. Come costituzione del mediatore che ci ri­
concilia.
2. Come assumptio carnis peccati e quindi già
come accettazione fondamentale della morte
e santificazione dell'umanità.

III. Teologia della vita di Gesù.


1. Teologia generale della vita di Gesù.
a) Gli eventi della vita di Gesù come
« esempio ».
b) Gli eventi della vita di Gesù come
« misteri ».
2. Teologia dei singoli eventi della vita di Gesù.
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 101

IV. Teologia della croce.


1. La croce come realtà per Gesù: via dell'an­
nientamento e della gloria (merito per Cri­
sto).
2. La croce come sacrificio vicario ed espia­
zione per l'umanità (la croce come merito
vicario).
3. La discesa di Cristo agl'inferi.

V. Teologia del Signore glorificato.

D. La Chiesa di Cristo.
I. L
a Chiesa e Cristo.
1. La Chiesa e Cristo come Logos incarnato.
La Chiesa e l'umanità consacrata.
Cristo capo dispensatore della grazia (gratia
capitis; funzione santificatrice dell'umanità
di Cristo).
2. La Chiesa e Cristo legatus divinus.
La Chiesa, fondazione di Cristo.
La Chiesa, autorità (docente) di Cristo.
La Chiesa, obbedienza (discente) di Cristo.
3. Relazione tra Chiesa docente e discente.
4. Estensione della Chiesa.
II. Struttura fondamentale della Chiesa: sacra­
mento totale del Cristo. Visibilità efficace del­
la sua vita, della sua verità e della sua grazia.
102 SAGGI TEOLOGICI

III. La sacramentalità (forma) essenziale ed uffi­


ciale della Chiesa.
1. Presenza della verità di Cristo.
a) Tradizione: come conservazione della
verità;
come presenza sempre nuova della rive­
lazione;
come storia e sviluppo della rivelazione.
b) Il Magistero come articolazione autori­
tativa della tradizione (soggetti, fonti,
ambito del magistero, infallibilità, limiti,
eccetera).
c) Scrittura.
C'I.) Come parola di Dio: lspuazione.
~) Come libro della Chiesa (la Scrittura
nella Chiesa e sopra la Chiesa).
y) Come verità sempre nuova (senso
tipico, spirituale, ecc.).
2. Presenza della volontà di Cristo: giurisdi­
zione e diritto.
a) Esistenza e detentori del diritto divino
nella Chiesa.
b) Jus humanum nel diritto della Chiesa.
c) La particolarità formale del diritto neo­
testamentario della Chiesa in contrappo­
sizione al diritto civile e veterotestamen­
tario.
3. La presenza della grazia di Cristo nella
Chiesa.
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 103

a) La Chiesa, sacramento totale.


Appartenenza alla Chiesa «res et sacra­
mentum» della grazia e della salvezza.
b) La Messa, mistero centrale della Chiesa,
nel quale essa stessa si realizza totalmente
nei riguardi di Dio, di Cristo e dei suoi
membri.
a.) La Messa, presenza di Cristo nella
Chiesa.
~) La Messa come sacrificio.
Y) La Messa come realizzazione della
Chiesa.
c) L'articolazione del mysterium della Chie­
sa nei singoli sacramenti (De sacramen­
tis in genere).
Esistenza dei sacramenti e loro numero.

Loro efficacia (opus operatum).

Ministro dei sacramenti.

Opus operatum e opus operantis.

I sacramenti e Cristo.

I sacramenti e la Chiesa. «Character

sacramentalis ».

Sacramenti come segni di ciò che deve

venire.

d) La santificazione del mondo per mezzo


della Chiesa.
IV. La forma intima della Chiesa.
104 SAGGI TEOLOGICI

1. Rapporto tra gerarchia «interna» ed


« esterna ».
2. Cristo capo (<< primogenito dei fratelli»)
della Chiesa interna.
3. Maria come Chiesa perfetta.
a) L'Immacolata Concezione: immunità dal
peccato.
b) Corredentrice con il dolore e con l'azione.
c) Assunta in cielo.
d) Mediatrice di tutte le grazie.
4. I padri biblici della Chiesa:
Patriarchi e profeti (i « savi » degli antichi).
Il Battista.
Gli Apostoli. S. Giuseppe.
5. Gli stati nella Chiesa in genere.
6. Gnostici e carismatici.
7. I santi e il loro culto.
8. La vita non sacramentale di grazia come
vita della Chiesa (<< recezione spirituale»
dei sacramenti).
V. La Chiesa dei peccatori 10: la Chiesa errante.
La Chiesa peccatrice.
VI. Teologia della storia della Chiesa.

lO Cfr. K. RAHNER, Vie Kirche der Sunder, Freiburg, 1948;


nell'edizione fiamminga: Kerk deT Zondaren, ingeleid door
F. Fransen, Antwerpen, 1952, si spiega più esattamente in che
senso e sotto quali limiti si parli di Chiesa «errante ».
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 105

1. antologia e gnoseologia di una considera­


zione teologica della storia della Chiesa.
Possibilità di una storia della Chiesa.
Fonti: profezie, esperienza. Oggetto, ecc.
2. Teologia formale della storia.
a) Possibilità di una divisione teologica in
periodi della storia della Chiesa.
b) Le forze plasmatrici nella storia della
Chiesa.
c) Orientamento escatologico della storia
della Chiesa.
d) «Crescita» e «sviluppo» della Chiesa
(in estensione e intensità).
e) «Recessione» della Chiesa (in intensità
ed estensione).
f) Concetti di « rinascita », « riforma,
« persecuzione », ecc.
3. Teologia materiale della storia della Chiesa.
a) La Chiesa dei Giudei. Soppresssione e
permanenza dell'Antico Testamento.
b) La Chiesa dei Gentili.
c) La Chiesa nell'Impero Romano.
d) La Chiesa universale.
e) La Chiesa della' fine dei tempi, anticri­
sto, ecc.
f) La «Chiesa» dell'eternità.
a.) Chiesa e regno definitivo di Dio.
~) Chiesa purgante e Chiesa trionfante.

l.
"
106 SAGGI TEOLOGICI

E. Antropologia teologica del redento.


I. Essenza della moralità cristiana.
1. Norma fondamentale (norma honestatis su­
pernaturalis-hominis lapsi et reparati).
2. Legge e libertà.
3. Coscienza e guida da parte dello Spirito
Santo.
II. Il morire con Cristo.
1. Il processo interno della giustificazione.
Il carattere specifico della conversione peni­
tenziale (e quindi della vita successiva) in
contrapposizione alle virtù «ideali» della
« pura» soprannatura.
a) La fede (dell'« infedele» e del «pecca­
tore »).
b) La conversione (metanoia); il morire.
c) L'amore.
d) Gratuità e carattere indebito della « vo­
cazione ».
2. Il battesimo come visibilità sacramentale di
questo processo.
3. La vita di morte (immolata e nascosta) con
Cristo come forma della vita cristiana (vita
contemplativa come categoria cristiana).
a) Come forma universale di vita cristiana.
Essenza dell'ascesi cristiana 11 (Discorso

Il Cfr. anche K. RAHNER, Passione e ascesi, nel volume


SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 107

della montagna, imitazione del Croci­


fisso, ecc.).
b) Come monachesimo: la rappresentazione
della vita cristiana nel monachesimo; i
consigli evangelici.
c) Come mistica in quanto forma dell'a­
scesi 12.
d) Come martirio in quanto visibilità quasi
sacramentale della forma cristiana di vita.
e) L'« ascesi» cristiana di fronte ai grandi
ordinamenti di questo mondo (stato,
cultura, ecc.).
III. Vita attinta da Cristo (vita attiva; la vita di­
vina quale si rivela nella vita umana).
Missione nel mondo da parte dello Spirito, che
si manifesta nel cristiano.
1. La missione generale.
a) L'apostolato (testimonianza, ecc.) quale

dedicato ai saggi di spiritualità. K. RAHNER, Zur Theologie der


evangelischen Riite, in Orientierung 17 (1953) 252-55.
12 Si dovrebbe qui trattare dell'essenza della mistica, non
solo quale fenomeno psicologico, ma anche quale fatto spe­
cificamente cristiano. Se si concepisce l'ascesi non come alle­
namento morale, ma come partecipazione alla passione e alla
morte del Signore - e come loro ripetizione - si capirà
anche che la mistica è un'ascetica di fede e di rinuncia della
persona spirituale; non è un'anticipazione della visio beatifica,
ma un penetrare nella passione del Signore, mediante «la
purificazione passiva dello spirito », e la «notte» del senso
e dello spirito. È chiaro quindi che si deve concepire la mi­
stica partendo dall'ascetica, e non viceversa, supposto che
sotto i due concetti s'intenda sempre qualcosa di specifica·
mente cristiano.
108 SAGGI TEOLOGICI

atteggiamento fondamentalmente cri­


stiano.
b) La confermazione come visibilità sacra­
mentale della missione.
c) Il martirio come testimonianza di vitto­
ria sul mondo.
2. La vocazione particolare.
a) I carismi in generale; la vocazione, la
scelta della vocazione.
b) I carismi liberi.
c) Il matrimonio. La vedovanza.
d) L'ordinazione sacerdotale e il sacerdozio.
3. Intimo rapporto tra vita attiva e vita con­
templativa.
4. L'idea della perfezione cristiana.

IV. Il sacramento centrale della vita: l'Eucare­


stia come mezzo sacramentale per morire con
Cristo e vivere di Cristo.
1. Partecipazione 'permanente alla morte di
Cristo.
2. Vita nella Chiesa.
3. Communio mundi; trasformazione del mon­
do.
4. Comunione «spirituale ».
5 . «Pietà eucaristica».
V. La lotta del cristiano col peccato.
1. La peccabilità del cristiano.
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 109

a) Concupiscenza.
b) Attacco da parte del mondo e del de­
monio.
c) Il peccato « veniale ».
2. La coscienza del peccatore.
3. La possibilità della perdita della grazia.
a) Il peccato mortale del cristiano.
b) L'incredulità.
4. La possibilità del rinnovo del perdono.
5. La lotta col peccato.
a) Gli atti personali del cristiano (peniten­
za, dolore, attritio, ecc.). La metanoia
come atteggiamento abituale, preghiera
per la perseveranza.
b) La necessità della grazia santificante per
il giustificato.
c) La sacramentalità della penitenza eccle­
siastica.
d) Le indulgenze.
6. Preoccupazione per la salvezza m generale.
a) Speranza e fiducia.
b) Oecultezza della salvezza.
c) Grazia della perseveranza.
VI. Teologia della morte 13.

13 La morte dev'essere vista anzitutto come un evento,


che si verifica nella vita cristiana di quaggiù, come parte della
vita cristiana. Per quanto sia la fine di tutto, essa è anche
realtà intima dell'insieme della vita, sicché durante tutta la
vita si va morendo lentamente. Non si può saltare la morte
110 SAGGI TEOLOGICI

1. La morte nell'ambito soprannaturale.


a) La soprannaturalità della morte in genere
nel presente ordine di salvezza.
b) La morte come castigo. Rapporto tra la
prima e la seconda morte.
c) La morte in quanto è morire con Cristo
e redenzione.
d) La morte come termine del progresso
soprannaturale e inizio dell'altra vita.
2. La sacramentalità della morte: l'unzione
degl'infermi.
3. La morte individuale come inizio dei nOVlS­
simi, come giudizio.
a) Possibilità della riprovazione eterna.
b) L'inferno come destino privato 14.
c) Stadio definitivo dell'unione con Dio.

F. Escatologia.

I. Gnoseologia teologica delle espressioni esca-

passando subito a ciò che avviene dopo di essa. - Cfr. alcune


riflessioni sul tema della morte cristiana: K. RAHNER, Zur
Theologie des Todes, Freiburg, 1958 (vers. ita!., Morcelliana,
Brescia).
14 «Privato» nel duplice senso di destino del singolo
individuo e di destino di questo individuo condannato per
propria colpa ad un isolamento senza amore. Intenzionalmen·
te abbiamo inserito qui l'escatologia «individuale », prima
di quella generale, per far apparire, anche in questo modo,
che in fondo la vera escatologia è quella «generale» e per­
ciò resta da dire su di essa qualcosa di essenziale non incluso
nell'escatologia «particolare ».
SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA 111

tologiche nella loro possibilità e nei loro li­


miti 15.
II. Gli Eschata.
1. Il nuovo eone come totalità.

a) Trasformazione del tempo.

b) Trasformazione della materia.

c) Definitività dello spirito.

d) La definitività del nuovo eone.

2. Il rapporto tra l'escatologia individuale e


l'escatologia collettiva.
3. Il rapporto tra l'eone presente e il futuro.
4. I singoli elementi dell'escatologia.
a) Il ritorno di Cristo.
b) La resurrezione della carne.
c) Il giudizio universale.
d) L'inferno, destino totale del «corpus
diaboli ».
e) Il cielo, regno eterno di Dio Padre.

15 Si dovrebbe qui discutere anche se questi limiti siano


identici quando si tratta del «cielo» e dell'« inferno» o se,
sotto determinati aspetti, si debba dare una risposta negativa
a questa questione, ciò che sembra più esatto. Se ne dovrebbe
tener conto anche quando si tratterà dei due stati finali, che
poniamo uno di seguito all'altro, come se fossero dello stesso
rango.
I
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2.

CHE COS'È
UN «ASSERTO DOGMATICO »? *

Il problema assegnatomi da discutere, e che


va da me risolto sulla base dei dati offerti dalla
teologia cattolica, suona così: che cos'è un asserto
dogmatico? La questione mi risulta già di per sé
difficile da inquadrare nel suo giusto senso e da
risolvere, giacché essa - per quanto ne so io ­
nella teologia cattolica usuale, non viene, si può
dire, mai posta esplicitamente in questa forma.
Nell'ecclesiologia teologico-fondamentale, esi­

* Il presente articolo è una conferenza, tenuta in occa·


sione di un raduno ecumenico interconfessionale raggruppante
cattolici e protestanti evangelici. I limiti di una relazione, che
nelle intenzioni non avrebbero dovuto esser ampliati in un
secondo tempo, spiegano la frammentarietà deIIa trattazione.
Titolo originale: Was ist eine dogmatische Aussage? in
Schriften zur Theologie, V, Benziger, Einsiedeln, 1962, pp.
54-81; versione di E. Martinelli, OeD.
114 SAGGI TEOLOGICI

ste sì un trattato concernente il Magistero eccle­


siale, le persone di esso investite, l'autorità vin­
colante delle sue dichiarazioni scaglionate su una
ben articolata graduatoria di impegnatività, un
trattato sui cosiddetti «loci theologici », sulla
preminenza della S. Scrittura come parola ispi­
rata di Dio. Inoltre, ai nostri giorni si è ricomin­
ciato a riflettere con maggior impegno, con più
esattezza e delicatezza di sfumature sui rapporti
intercorrenti tra Magistero dottrinale e S. Scrit­
tura; ed è anche sperabile che questi primi passi,
dopo tanti rifiuti troppo piattamente negativi, op­
posti sinora alla teologia evangelico-protestante,
giungano adagio adagio a sfociare finalmente in
una almeno approssimativa teologia della parola.
In questo quadro, si va anche gradualmente im­
ponendo una più accentuata riflessione sulla di­
versità esistente tra «kerigma» e dogma, tra
la parola del Magistero ufficiale e la vera e pro­
pria predicazione del lieto e salvifico messaggio
del Signore.
Tuttavia, non si può dire che basti aprire un
testo scolastico per trovarvi - già bella e fatta ­
la risposta al nostro interrogativo, che si domanda
cosa sia un asserto dogmatico. Inoltre, benché il
tema non sia né conosciuto, né discusso diret­
tamente sotto l'aspetto di controversia teologica,
c'è tuttavia da aspettarsi «a priori» che anche
nella risposta affiorino nuovamente e si rifacciano
duramente sentire tutte le divergenze dottrinali
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 115

circa il Magistero ufficiale, i rapporti con la Scrit­


tura, ecc., esistenti tra la teologia evangelica e
quella cattolica. Di conseguenza, il mio compito
consisterà soltanto nel tentar di racimolare insie­
me, dai quattro angoli della teologia cattolica, le
«disiecta membra» della dottrina concernente
l'essenza d'un asserto dogmatico. E resterà da
vedere fino a che punto mi riuscirà di farlo, o
fino a che punto molti temi, pur esattamente per­
tinenti all'argomento, verranno da me sorvolati.
Suppongo che la questione sia impostata in
modo che la risposta da darvi debba distinguere
anche - se non proprio esclusivamente - l'as­
serto dogmatico dal verbo della vera e propria
predicazione «kerigmatica» diretta, ossia cer­
cando di chiarire se, come e perché esistano varie
categorie intrinsecamente diverse di enunciazioni,
di frasari usati nell'ambito del cristianesimo eccle­
siale, delle quali una si chiama « asserto dogma­
tico» in senso strettamente specifico. Evidente­
mente, questa differenziazione, da tracciare entro
il linguaggio con cui si esprimono i cristiani e
la Chiesa stessa nella persona dei suoi rappresen­
tanti ufficiali, non può costituire l'unico tema della
trattazione qui richiesta. Tuttavia ci si attende
- così almeno penso - che l'asserto dogmatico
venga messo a raffronto non solo con il «kerig­
ma », con la diffusione e la predicazione presa in
senso strettamente teologico di questa parola, ma
venga anche raffrontato con l'asserto profano, con­
t'I
116 SAGGI TEOLOGICI

cernente pure materia religiosa, se un tale asserto


esiste e può esistere; sicché, sotto questo aspetto,
anche le affinità comuni riscontrabili nel «kerig­
ma », nel dogma e su su uno all' asserto teologico
compreso, vengano messe in risalto e distinte dal
linguaggio profano.
Nella misura in cui l'asserto dogmatico deve
venir distinto da quello «kerigmatico» propria­
mente detto, s'impone anche un'adeguata distin­
zione di esso dall' asserto quale si trova nella Sa­
cra Scrittura. Al riguardo bisogna tuttavia ricor­
dare come anche nella Scrittura non viene affer­
mata esclusivamente una rivelazione originaria,
così che in essa tale rivelazione scaturisca sempre
come fatto primordiale. Anche nell'ambito della
Scrittura sussiste invece un genere di riflessione
teologica, la quale non è direttamente « kerigma »,
bensì - si potrebbe forse dire - un tipo esem­
plare di riflessione teologica: il che, secondo l'idea
cattolica dell'ispirazione scritturale, può anche
aver luogo, poiché questa non esclude affatto ge­
neri letterari di stampo essenzialmente disparato,'
pur restando sempre espressioni dell'unica parola
di Dio.
Come premessa metodologica a quanto do­
vremo dire in seguito, credo possa bastare questo.
Cercherò di svolgere il mio assunto, suddividen­
dolo in una serie di tesi, che saranno poi svilup­
pate in modo abbastanza ampio una per una.
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 117

1. È un asserto vero.

L'asserto dogmatico è un'affermazione che


s'arroga il diritto di esser vera, anche in quel
senso formale a noi già noto in base al linguaggio
usuale profano e alle conoscenze ordinarie da noi
possedute. Anche l'asserto dogmatico intende ri­
spettare tutte le intime strutture e tutte le leggi
che spettano o potrebbero spettare ad un asserto
profano: rapporto col soggetto affermante, logica,
storicità degli elementi concettuali, inserimento
dell'affermazione in un contesto storico e sociale,
diversità dei generi letterari, spontanea comunità
d'intenti tra chi parla e chi ascolta, senza la quale
non esisterebbe una possibilità d'intesa. Queste e
altre simili linee strutturali d'un detto naturale
e profano devono trovarsi anche in un asserto
dogmatico. Va da sé che, in questa sede, non
possiamo diffonderci a sviluppare con maggior
ampiezza il complesso di queste strutture, perché
la loro esplicita e ponderata descrizione, a mala­
pena abbozzata in teologia (il che non è sempre
un gran bene) richiederebbe un dispendio di tem­
po e di energie molto maggiore di quello asse­
gnatoci.

La nostra tesi, cosi come l'abbiamo formulata,


per un uomo dalla mentalità cattolica non pro­
mana soltanto dall'esperienza che costata « a po­
118 SAGGI TEOLOGICI

sterlOfl» che le cose stanno proprio così come


dice la tesi: in altre parole, dalla convinzione che
anche negli asserti della predicazione e della teo­
logia cristiana si tratta pur sempre di parole uma­
ne, con tutto quanto vi è in esse espresso, ma
anche dall'idea cattolica dei rapporti intercor­
renti tra natura e grazia. Proprio questo sarebbe
il «locus theologicus» nel quale la mentalità
cattolica dovrebbe attingere qualcosa, per com­
prendere cattolicamente l'essenza dell'asserto dog­
matico, visto anche (non soltanto!) come un detto
naturale.
Ma proprio su questo punto, ci sarebbe pro­
babilmente da domandarsi e da vedere se l'idea
evangelico-protestante dei rapporti intercorrenti
tra creazione peccatrice e grazia redentrice non si
spinga sin dentro il nostro problema, sicché ­
anche nei confronti delle strutture naturali basilari
di un asserto dogmatico o anche «kerigmatico»
- esista già, o sia almeno da aspettarsi, una diver­
sità teologicamente controversa tra l'interpreta­
zione cattolica e quella protestante. Forse però
la divergenza su questo terreno non è ancora stata
sufficientemente sviscerata per via di riflessione,
esaminando a fondo l'idea dei rapporti intercor­
renti tra natura e grazia che ne costituiscono il
nocciolo.
In campo cattolico, bisogna comunque che ci
si decida ad ammettere una cosa: per quanto nella
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 119

teologia cattolica si rifletta sull'essenza della pa­


rola, l'aspetto di tale parola caratterizzato dalla
proclività al peccato insita nell'uomo non ba quasi
mai assunto una vera importanza tematica. Eppure
avrebbe dovuto assumerla da un pezzo. Non basta
fare alcune generiche dichiarazioni teologiche sul­
l'ottenebrazione ereditaria della spiritualità uma­
na, sulla necessità morale della rivelazione per
giungere alla conoscenza, chiara e certa, di quelle
verità che di per sé sarebbero già accessibili alla
intelligenza umana, nel campo religioso e morale.
Infatti queste affermazioni non debbono venire
usate solo per caratterizzare la conoscenza umana
fuori dal settore della rivelazione. Ad esse biso­
gnerebbe chiedere anche quale fisionomia « infra­
lapsaria» abbiano la conoscenza e l'enunciazione
umana dentro il settore della rivelazione e della
fede ecclesiale. Se la dottrina cattolica dice .che
anche l'uomo giustificato - beninteso, non con­
siderato secondo la mentalità evangelico-prote­
stante «simul justus et peccator» - resta pur
sempre influenzato dalla sua provenienza da un
ceppo peccatore, per cui (tanto per intenderei)
anche la formula «simuI justus et peccator» è
in certo qual modo interpretabile in senso catto­
lico, le conseguenze sono logiche. Dovrebbe in­
fatti significare che il suo scadimento non va in­
terpretato solo come un condizionamento della
dimensione morale dell'uomo giustificato, ma an­
che come un condizionamento del suo fattore
120 SAGGI TEOLOGICI

« noetico », e precisamente anche come un con­


dizionamento della verità attinta da parte del­
l'uomo, pur giustificato, dal deposito della fede.
La verità divina è, sì, incarnata nella spiritualità
naturale dell'uomo, ma non in una natura « noe­
tica» astratta e neutrale del suo spirito, bensì
nella natura (e quindi anche nella «noetica»),
peccatrice per ereditarietà e suscettibile di essere
redenta solo dalla grazia di Cristo. Orbene: quali
siano le conseguenze concrete di queste nostre
considerazioni fatte in campo puramente astratto,
non riesco proprio a rintracciarlo nella tematica
esplicita della teologia cattolica attuale.
Eppure, se non si indulge alla strana opinione
- davvero infondata, anche se probabilmente
sotto sotto molto diffusa - che i discorsi e le
frasi affermate non possano possedere altre note
fuorché quelle della verità o dell'errore, allora iI
problema se gli asserti dogmatici non vadano
essi pure soggetti a portare la firma dell'uomo
peccatore per ereditarietà e colpevole individual­
mente, non si risolve affatto affermando sempli­
cemente che tali asserti sono veri e quindi già
automaticamente sottratti alla sfera d'influenza
della carne peccatrice. Difatti, in questa carne di
peccato si è realmente incarnata anche la verità
di Dio, se è vero quanto afferma la nostra prima
tesi, cioè che gli asserti dogmatici costituiscono
innegabilmente anche asserti forniti d'una sostan­
za naturale e «noetica », e se è vero che anche
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 121

la nostra natura - al pari di ogni natura - non


è una natura astratta quale di per sé potrebbe
uscire dalla mano del Creatore, bensÌ una natura
concreta e quindi «infralapsaria», contrassegna­
ta dal marchio del peccato umano.
Dobbiamo quindi chiederci: perché anche un
asserto in sé da qualificarsi come vero, non po­
trebbe essere talvolta superficiale, precipitato o
presuntuoso? Non potrebbe forse tradire la pro­
spettiva storica d'un uomo, in modo tale che
detta prospettiva si riveli poi storicamente errata
o dannosa? Perché una data verità non potrebbe
risultare pericolosa, equivoca, dimostrandosi solo
un'ipotesi di lavoro o una saccenteria bella e buo­
na? Perché non potrebbe implicare e manovrare
l'uomo in una situazione che esige una decisione
sproporzionata alle sue facoltà?
Se non si respingono « a priori » come assurdi
questi e simili altri interrogativi, appare chiaro
che anche nell'ambito della verità ecclesiale e
negli asserti dogmatici veri e propri è pur sempre
possibile esprimersi in modo peccaminoso, di una
peccaminosità che può essere imputata tanto ad
un individuo singolo, quanto all'umanità in ge­
nere e ad una data epoca.
Purtroppo, non si può dire che la teologia
cattolica abbia sinora prestato davvero attenzione
a questo tutt'altro che inutile problema, che pure
nella teologia della natura concreta sussistente nel­
l'ordine «infralapsario » s'impone da sé. Infatti,
122 SAGGI TEOLOGICI

se nella teologia cattolica mi chiedessero quali siano


le strutture fondamentali di questa naturalità « in­
fralapsaria », che pure è congenita anche in ogni
asserto dogmatico, io dovrei confessare la mia
ignoranza, limitandomi ad abbozzare alla rinfusa
solo qualche isolata linea descrittiva.
Con tutto ciò, per altro, non si deve affatto
ritenere liquidata l'idea ancor più fondamentale,
che viceversa va ribadita in questa nostra prima
tesi: l'asserto dogmatico (come pure quello « ke­
rigmatico ») ha un suo substrato naturale, che lo
pone in una certa similarità con gli asserti profani
e costituisce la «potentia oboedientialis» anche
in senso positivo della sua essenza e del suo si­
gnificato dogmatico in quanto tale. Come già ab­
biamo detto, non ci è possibile sviluppare più a
fondo queste caratteristiche essenziali d'un asserto
umano, quantunque esse si ritrovino necessaria­
mente tali e quali in un asserto dogmatico. Pos­
siamo però fare qualche rilievo.

Anzitutto: un assetto dogmatico intende es­


sere un asserto vero, già per il solo fatto che
questo è il senso e lo scopo cui di per se stesso
mira un asserto umano. Esso infatti intende espri­
mere una ben precisa realtà di fatto, che sta real­
mente di fronte a colui che parla: non è soltanto
l'enunciazione di un particolare stato soggettivo
di colui che parla; in fondo, non mira ad ogget­

:1~'
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 123

tivare la soggettività di chi parla, bensì a porgere


la realtà oggettiva all'orecchio di chi ascolta, e
quindi in questo senso a soggettivizzarla. In quan­
to poi la maggior parte degli asserti dogmatici
non si riferiscono semplicemente ad oggetti del­
l'esperienza sensitiva diretta, e nemmeno inten­
dono esprimere un'esperienza spirituale individua­
le, essi possono essere soltanto analogici; ciò si­
gnifica che indirizzano la mente all'oggetto da essi
considerato, avvalendosi di immagini positive e
della loro intrinseca possibilità di venir superate
mediante la trascendenza e la negatività, e ciò
sempre con la consapevolezza che questo supera­
mento trascendentale dei dati originali non con­
duce nell'oscurità e nell'ignoto, perché anche alla
realtà sconosciuta compete un'effettiva analogia
con quella già sperimentata; questa affermazione
trascendentale di una similarità analoga - mal­
grado l'enorme dissomiglianza sussistente tra real­
tà divina e realtà finita - rientra infatti nei
dati primordiali dello spirito, implicitamente tra­
dotti in pratica in ogni affermazione e in ogni
negazione.

Posta questa premessa, si può avanzare a buon


diritto l'affermazione che non tutti gli asserti dog­
matici sono allo stesso modo veri o falsi, e quindi
che il problema della verità in senso obiettivo
può realmente venir posto a taluni di tali asserti,
124 SAGGI TEOLOGICI

non solo, ma che non tutti gli asserti, unicamente


perché concernono una realtà che oltrepassa l'e­
sperienza sensibile, sono egualmente veri o egual­
mente falsi. Per un cristiano ordinario, ciò può
apparire forse una cosa ovvia e lampante.
Se però ci si pone dal punto di vista d'un
assoluto modernismo (ossia di quel modo di pen­
sare designato con questo nome nella teologia
cattolica) o d'un assoluto esistenzialismo, nel pro­
blema della verità d'un asserto dogmatico biso­
gnerebbe porre decisamente l'attenzione sul grado
in cui gli riesce di mettere bene in evidenza l'espe­
rienza religiosa soggettiva e non reiterabile, produt­
tiva sia all'interno che all'esterno, cosa che può
riuscirgli in una graduatoria assai diversa, mai
però in modo tale da poter essere stimata falli­
mentare nella misura in cui un'affermazione si
contrappone a una negazione e la verità all'er­
rore propriamente detto.

Ora noi diciamo: va da sé che all'asserto


dogmatico vanno concesse tutte le possibilità ti­
piche degli asserti profani, che in essi sussistono
circa la differenza fra la verità assimilata in un
autentico atto personale, e quella verità (o quel­
l'errore) la quale (o il quale) esiste nell'asserto
concettuale-oggettivo di quella verità non ogget­
tivata, pre-concettuale, contenuta implicitamente
in un fattore trascendentale o antecedente, che
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 125

viene assimilata con un atto personale o spirituale.


Tuttavia questa conoscenza pre-concettuale, ancora
inespressa, che può benissimo esser vera anche
quando la sua espressione oggettivo-concettuale è
falsa (e viceversa), nonostante la sua caratteristica
di concetto inespresso, è una conoscenza oggettiva,
che mira ad un oggetto ben distinto, indipendente
e capace di subire l'atto di questa conoscenza.
Che questa tipica tensione tra fattore pensato
e fattore espresso esistente anche nella conoscenza
profana (se cosÌ possiamo arrischiarci a definire,
sia pure in modo un po' equivoco, il rapporto reale
intercorrente tra questi fatti), possa esistere anche
e soprattutto in un asserto teologico, risulta chiaro
non soltanto dalla validità universale della nostra
tesi principale, ma anche da molti altri principi
specificamente teologici. Risulta infatti dalla pos­
sibilità effettiva di essere autentici credenti in
Cristo anche là dove - limitandosi a giudicare le
cose in base al senso obiettivo d'un asserto ogget­
tivato - sembra esistere soltanto incredulità, e
risulta dall'impossibilità di sapere con assoluta
certezza, per via riflessa, tanto di se stessi quanto
di un altro, se si sia veramente credenti, quan­
tunque ci sembri - stando all'attestazione della
nostra coscienza riflessa - di ritenere senz'altro
per assolutamente veri gli asserti espliciti della
fede. Anche così però ci è impossibile, in questa
sede, addentrarci più a fondo nel problema.
126 SAGGI TEOLOGICI

2. L'asserto dogmatico
è un'espressione di fede.

Più avanti, nella quinta tesi, ci proponiamo


di delimitare e distinguere l'asserto dogmatico
dall'asserto direttamente e originariamente «ke­
rigmatico »; ciò, per altro, non deve impedirci
di qualificare anche l'asserto dogmatico, preso in
senso stretto, come espressione di fede. Di con­
seguenza, quando l'asserto dogmatico è genuino
e realizza la sua vera essenza non è soltanto una
affermazione profana sopra un argomento teolo­
gico, sopra qualcosa cui originariamente e ante­
cedentemente si riferisce la fede cristiana; esso
è invece nella sua stessa attuazione, nella quin­
tessenza della sua realizzazione attuale da parte
del soggetto, un vero atto della fede. Per dirla
in altre parole, esso non è soltanto un'espres­
sione racchiudente la «fides quae creditur », ma
includente anche la «fides qua creditur ».
La teologia cattolica esprime questo dato di
fatto quando afferma che la teologia non è un atto
dell'« habitus fidei », ma viceversa è un atto del­
1'« habitus scientiae », permeato però e accom­
pagna to dall'« habitus fide i », sicché la teologia
è e deve tassativamente essere «fide illustrata»
(Dz. 1796: Conco Vat. I).
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 127

Siccome la fede è sempre l'ascolto prestato


da un uomo concreto alla parola di Dio, l'autentico
aver udito - l'audizione data al verbo di Dio,
che si attua effettivamente solo allorché vien per­
cepita e intesa - deve sempre verificarsi simulta­
neamente alla comprensione della fede, ossia in un
confronto (naturalmente, suscettibile di infinite
gradazioni) tra il messaggio ascoltato e lo stato
in cui già si trova l'uomo, in quanto soggetto spi­
rituale, al momento stesso in cui sente il mes­
saggio. Ora, dato che il confronto dell'uditore con
quanto gli vien detto è un momento indispensa­
bile dell'ascolto stesso, giacché il non capire inti­
mamente svuota di qualsiasi valore anche l'audi­
zione, un certo grado di «teologia» costituisce
già un momento interno dell'udire stesso; l'atto
stesso dell'udire credendo è già un'attività del­
l'uomo, in cui entra in gioco la sua soggettività,
con la sua logica, con la sua esperienza, accom­
pagnata dai suoi concetti e dalle sue prospettive.
Ciò che noi chiamiamo teologia, e quindi propo­
sizione dogmatica presa in senso stretto, è di con­
seguenza solo un proseguimento, uno sviluppo
ulteriore di quella riflessione fondamentale che già
si verifica nell'ambito dell'ascolto ossequiente
prestat~ alla parola di Dio? e perciò ~tesso nel­
l'ambito della fede.
Da questo fatto, però, deriva ancora che là
riflessione dogmatica e l'asserto da cui è espressa
non possono né devono mai distaccarsi dall'origine
128 SAGGI TEOLOGICI

da cui si dipartono, ossia dalla fede stessa. Ciò


si riferisce - come abbiamo già detto - non
solo all'oggetto della fede, ma anche all'attua­
zione della fede. Questa infatti rimane sempre la
base portante dell'asserto dogmatico vero e proprio.

Benché quanto abbiamo detto sembri tanto


ovvio e solare, bisogna tuttavia riconoscere che
un'affermazione del genere non risulta affatto al­
trettanto evidente nel campo della teologia cat­
tolica. Difatti, sulla scorta di un settore non tra­
scurabile della teologia postridentina, si ritiene
la grazia - in quanto strettamente soprannaturale
e quindi anche la grazia della fede, pur essa dono
autenticamente soprannaturale - come un ele­
mento che oltrepassa la coscienza; è invalsa così
l'opinione che il « lume della fede », quand'anche
si voglia ancora conservare quest'espressione, im­
porti una di queste due cose: o una pura eleva­
zione extra-cosciente e soprannaturale degli atti
spirituali dell'uomo, tramite la quale essi diven­
tano atti salvifici; oppure l'istruzione empirica
esteriore impartita tramite la rivelazione storica,
la cui realtà e il cui contenuto (che sono insepa­
rabili) possano venir compresi anche attraverso
la ragione meramente naturale, speculativa e sto­
rica. In altre parole, si nega che gli atti salutiferi
soprannaturali abbiano un oggetto formale, che
non può venir compreso da un atto naturale, per
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 129

cui) l)oggetto della teologia (come poi quello della


fede) risulterebbe fondamentalmente assimilabile
tanto dalla pura ragione naturale, quanto da quella
animata dalla fede. L'incredulo, in pratica, non
si occuperà di questi asserti, perché non lo inte­
ressano; tuttavia, attenendosi alla suaccennata
teoria circa la natura della grazia della fede, egli
è per principio in grado di farlo altrettanto bene
di un credente: occupandosi di tali asserti, egli è
all'altezza di comprenderli esattamente come il
credente. Sicché, potrebbe esistere un asserto dog­
matico, che sarebbe sì un asserto della fede nel
suo oggetto, ma non lo sarebbe nella sua affer­
mazione.

Orbene: contro questa idea di stampo nomi­


nalistico e razionalistico, che relega la caratteri­
stica gratuità della fede - evidentemente, guar­
dandosi bene dal negarla - in una dimensione
concepita in modo meramente oggettivistico e
formalistico, situata al di là della coscienza, al di
fuori della sua attuazione spirituale, noi ci atte­
niamo invece alla dottrina tomistica del tipico
oggetto formale da cui è specificato l'atto elevato
dalla grazia, al vero e proprio lume della fede,
all'incommensurabilità della fede, che non può
venir messa sullo stesso piano di un atto profano
riferentesi a materia religiosa. Di conseguenza,
concepiamo le cose in modo assai diverso. Diciamo
130 SAGGI TEOLOGICI

che anche là dove non si tratta di un mero ascol­


tare ed esprimere a parole il messaggio di Dio,
rivelatoci propriamente nel Cristo, anche là dove
si ragiona di un asserto dogmatico nel senso di
una riflessione intenta a rendersi conto del suo
significato - e quindi di teologia - si tratta
pur sempre di un'affermazione di fede e di una
realizzazione della fede. Nell'istante stesso in cui
ciò non si verificasse più, sussisterebbe indubbia­
mente ancora una scienza a sfondo religioso, ma
non più un'autentica teologia.

Può anche darsi, anzi si darà senz'altro, che


questa differenza non sia coscientemente avver­
tibile per via riflessa, e che quindi lo studioso
profano di scienze religiose e il teologo cristiano
s'incontrino apparentemente sullo stesso piano,
distinguendosi solo in base all'accettazione o alla
ripulsa esistenziale di quanto stanno discutendo
insieme. Ma è tutta apparenza. Questa accettazione
o questa ripulsa esistenziale apre o chiude piutto­
sto il loro sguardo nei confronti della realtà stessa,
quand'anche apparentemente l'esperto profano di
scienze religiose sia all'altezza di conoscere e di
parlare del cristianesimo altrettanto bene e forse
anche più del teologo credente. Non è facile com­
prendere chiaramente, per via di riflessione, per­
ché mai avvenga cosÌ; non è agevole dire come
lo studioso profano di scienze religiose, nelle
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 131

affermazioni dello stesso tenore fatte da entrambi,


non colga col suo discorso il vero e proprio oggetto
espresso da esse, non lo esprima, sebbene legga gli
asserti dogmatici del teologo, creda di capirli e, sul
piano della concettualità oggettiva come tale, non
si possa rinfacciargli alcuna carenza di compren­
sione. Eppure, tale incapacità esiste: giace in pro­
fondità, là dove la conoscenza agisce prima di
esprimersi nel suo asserto formulato per via ri­
flessa, nell'atto della persona che accoglie la grazia.
Va per altro rilevato, a proposito di questa
costatazione: non è affatto vero che nella con­
siderazione d'un cattolico l'incredulo sia sempli­
cemente l'uomo sfornito di grazia, ossia la « na­
tura pura» (per dirla con una formula cara alla
teologia cattolica); anch'egli infatti sta sotto l'in­
flusso della grazia, che va in cerca d'ogni uomo
per illuminarlo; in ogni caso, egli vede sempre più
di quanto vedrebbe un uomo se la grazia non esi­
stesse, persino quando egli non vuoI vedere ciò
che vede, persino quando «soffoca e perseguita
la verità »; anch'egli sta quindi sotto la luce della
grazia, beninteso, in atteggiamento di voluta chiu­
sura di fronte ad essa. E tuttavia, nonostante ciò,
sussiste pur sempre una differenza tra l'asserto
del teologo e quello dell'esperto di scienze reli­
giose profano e miscredente, anche se non è pos­
sibile a nessuno dire « in concreto» e con sicu­
rezza assoluta chi - tra coloro che parlano ­
appartenga a questa categoria e chi a quell'altra.
132 SAGGI TEOLOGICI
i!·
Se è giusto affermare che l'asserto dogmatico,
Il:c anche quando rientra già nella vera e propria teo­
logia, è e rimane pur sempre un'espressione di
fede, non soltanto rispetto al suo oggetto ma
anche nella sua attuazione soggettiva, allora vuoI
anche dire che esso è condizionato da tutte le
proprietà della «fides qua creditur ». Da questo
punto di vista, ci sarebbe da sviluppare tutta una
teologia dell'asserto dogmatico. In ogni caso, da
tale presupposto ne deriva che anche l'asserto
dogmatico - sia pure in maniera tutta sua ­
partecipa alla confessione di lode di Gesù Cristo,
espressa nell'accettazione ossequente del suo mes­
saggio. Sicché esso, nonostante ogni riflessio­
ne di carattere concettuale, richiama l'evento sto­
rico della salvezza, la rende presente confessando
apertamente di aver avuto la vita da essa. Non si
limita a parlare di quel grande evento, ma mira
invece a mettere l'uomo realmente in contatto
con esso, e - malgrado ogni astrazione e rifles­
sione teoretica cui viene sottoposto - tende
essenzialmente a far sì che il rapporto non mera­
mente teoretico ma anche esistenziale e permeato
dalla grazia, che lega tutto l'uomo all'autentica
realtà storica della salvezza e non solo ad una sua
formulazione fatta di parole, venga conservato
intatto. Si viene insomma a dire che l'asserto teo­
logico, sia pure ripensato nella sfera teorica, resta
ugualmente sempre un itinerario dinamico «ex
fide ad fidem ».
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 133

Siccome lo spazio ci permette appena di indi~


care il «locus theologicus » adatto a risolvere il
problema concernente l'essenza dell'asserto dog­
matico, che è precisamente l'essenza dell'atto di
fede, sorvoliamo tutte le ulteriori precisazioni
che sarebbero tuttora formulabili analizzandolo
più a fondo ancora. Notiamo tuttavia, per inciso,
che fino ai tempi più recenti, nella descrizione teo­
logica dell'atto di fede, tale atto è stato studiato
troppo sovente e quasi in via esclusiva basandosi
unicamente sull'essenza della proposizione dog­
matica. Dato che oggi, nella teologia cattolica, si
sta facendo il lodevole sforzo di elaborare e met­
tere in rilievo altri aspetti inerenti all'atto di fede,
ponendone in luce anche momenti diversi dal mero
attenersi ad un enunciato garantito dall' autorità
di Dio, in futuro sarà senz'altro più facile anche
mettere bene a fuoco le proprietà che distinguono
l'asserto teologico-dogmatico dal vero e proprio
atto di fede. Bisognerà solo badare ad evitare il
pericolo, che tornerebbe di danno sia allo stesso
atto di fede (il cui momento teoretico non risul­
terebbe più chiaro), sia all'asserto teologico (il cui
collegamento vitale con l'atto di fede potrebbe
sparire dalla visuale), di trasformare la distinzione,
realmente sussistente tra i due fattori, in una
separazione netta e recisa.
134 SAGGI TEOLOGICI

3. L'asserto dogmatico
è un'affermazione eminentemente ecclesiale.

Già l'atto di fede e la diffusione del verbo


di Gesù Cristo sono caratterizzati da un'impronta
ecclesiale inconfondibile e inalienabile. Nella
Chiesa si fa dell' apostolato e si crede, perché
essa - indissolubilmente unita all'individuo sin­
golo e non reiterabile, presente sempre alla di lui
decisione in favore della fede - costituisce il
soggetto dell'azione redentiva di Dio e della fede
stessa. Quest'ultima infatti fluisce essenzialmente
dall'ascolto e dipende sostanzialmente dall'atte­
stazione data al messaggio di Cristo, la quale - a
sua volta - avviene nella comunità dei credenti,
scaturendo da essa e rifluendo su di essa.

L'asserto dogmatico però è ecclesiale in una


maniera e in una misura ancor più accentuata.
Sì, perché la teologia, in quanto si distingue dal
messaggio originario e dalla semplice fede, sussi­
ste ed opera in quanto la Chiesa esiste e deve
esistere. Si dà teologia perché si deve credere nella
Chiesa, partendo dalla Chiesa e ritornando ad essa.
Si può naturalmente supporre che esisterebbe
teologia anche se il singolo avesse una storia della
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 135

salvezza e della fede assolutamente individualistica


(nell'ipotesi che questa possa esistere). Il messag­
gio da lui udito, ribadito continuamente ai suoi
orecchi, si manterrebbe lo stesso in perenne dia­
logo con la mentalità derivatagli dalle sue espe­
rienze vitali d'altra provenienza, dovrebbe pur
sempre venir riascoltato dall'uomo in funzione
della sua vicenda spirituale di stampo eterogeneo.
E siccome la sua esperienza della salvezza, presa
in se stessa e considerata nel suo aspetto di pe­
renne incontro con la realtà concreta di cui è im­
pastata la sua vicenda storica individuale, ha pure
essa una sua storia, esisterebbe quindi già di per
sé una teologia. Infatti questa è appunto il perdu­
rare storico - sussistente in un perenne e sempre
nuovo incontro, intento sempre ad assimilare
tutto - di una rivelazione che, nel tempo, ha
un suo ben preciso limite spazio-temporale. Se
non esistesse l' Èql-&7tOC~ dell'evento storico della
salvezza, esisterebbe una continua rivelazione e
non una teologia, ordinata ad un evento salvifico
localizzato, che non si identifica con essa. Ma se
non esistesse una teologia, la storia unica e non
reiterabile della salvezza non sarebbe in grado di
raggiungere con effetti realmente salutari l'uomo
venuto in seguito, o, quanto meno, costui non
verrebbe da essa colto in tutta l'ampiezza e la
vastità della sua esistenza. Egli dovrebbe, anzi,
spogliarsi della sua propria irrepetibile unicità sto­
rica, cercando affannosamente di crearsi - ridotto
136 SAGGI TEOLOGICI

così ad una figura umana puramente astratta ­


un rapporto che lo colleghi con questo evento sal­
vifico passato.
Ma non basta. Dopo tale considerazione si vede
già chiaro come teologia e pensiero non impe­
gnativo, proveniente dalla riflessione meramente
soggettiva fatta su un avvenimento riguardante
la salvezza o su un'espressione della rivelazione
originaria, non siano affatto la stessa cosa. Proprio
perché la teologia deve costituire .un confronto
assoluto ed ossequiente della propria esistenza col
« kerigma » della salvezza incentrato nella persona
di Gesù Cristo, essa deve poter portare in sé l'im­
pronta vincolante della fede, deve cioè esser pos­
sibile una teologia magisterialmente vincolante.
Quando essa non ha (ancora) tale carattere, ciò
non deriva dal fatto che la teologia non possa
averlo, ma dal fatto che è tuttora in procinto di
ritrovare se stessa e di dare quanto intende dare:
la concretezza della fede in una nuova situazione
spirituale.
Tuttavia, quantunque la teologia esista e debba
esistere già solo a causa della storia individuale cui
va soggetta la fede del singolo, essa riveste non­
dimeno un carattere specificamente ecclesiale.
Nella Chiesa, bisogna che si creda in comune, che
si faccia professione di fede in comune, che Dio
venga lodato e ringraziato per la sua grazia in una
lingua accessibile a tutti. E sin da adesso, sin da
quaggiù. Per adeguarsi ad una situazione spirituale
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 137

comune, che appunto nel suo afflato comunitario


dovrà necessariamente venir concepita sempre più
in comune e intesa sempre più in comune, il mes­
saggio a noi trasmesso dovrà anch'esso essere assi­
milato sempre più e sempre nuovamente in comu­
ne. Nella Chiesa, è tassativo che esista una teologia
sostenuta dalla Chiesa stessa. Sarà naturalmente
anche sempre portata avanti dall'iniziativa indi­
viduale dei singoli, perché altrimenti non potrebbe
svolgersi né la storia, né la vita d'una comunità.
Ma anche la teologia e l'asserto teologico del sin­
golo individuo dicono sempre (esplicitamente o
implicitamente) ordine alla Chiesa. Difatti, l'as­
serto teologico del singolo è sempre una domanda
rivolta alla Chiesa, per sapere se essa accetta di
far suo tale asserto annoverandolo tra gli altri di
cui è depositaria, o per chiederle se almeno lo
reputa sostenibile nell'ambito della sua dottrin~.

Ma c'è di più. A fianco e al di sopra della


teologia - già pur sempre ecclesiale - del sin­
golo individuo, esiste la vera e propria teologia
della Chiesa, in cui essa fa della teologia come
ente comunitario, alimentandola attraverso l'ope­
ra degli incaricati ufficiali del suo magistero or­
ganizzato. In altre parole, la Chiesa fa della teo­
logia, in funzione delle sempre mutate situazioni
storiche in cui di volta in volta viene a trovarsi,
riflettendo sulla fede che sente pulsare nella sua
138 SAGGI TEOLOGICI

coscienza e sulle sue scaturigini primordiali, ri­


pensando il messaggio di Gesù Cristo trasmesso
nella fede della comunità primitiva, riuscendo
così a presentare l'unica e immutabile fede nella
nuova forma impressale da questa rinnovata ri­
flessione teologica in modo tale, che essa man­
tenga e riacquisti ad ogni istante un'attualità ir­
refutabile di fronte allo sguardo e alla decisione
di chi ascolta il suo messaggio.
La forma teologica della predicazione eccle­
siale è autentica teologia, perché la diffusione del
verbo cristiano resta pur sempre subordinata ad
un'altra «norma normans », cui sa di esser vin­
colata e obbligata a dare solo una spiegazione in­
terpretativa: il messaggio dei primi testimoni del
Signore, la fede della comunità primitiva, quale
esiste in forma normativa e concreta nella Sacra
Scrittura. E questa teologia è autentica predica­
zione della fede, che a ragion veduta esige obbe­
dienza, in quanto la Chiesa - nella sua qualità
di autorità docente - afferma ed è autorizzata ad
affermare che il messaggio da lei presentato in
questa forma (ossia divenuto teologia) è realmen­
te l'inquadratura più attuale e valida della pa­
rola con la quale Dio ha parlato ai nostri cuori,
e non solo un discorso su questa parola.
Anche qui ricordiamo solo il « locus theologi­
I; cus », dal quale sarebbe possibile dedurre una
I~ precisazione essenziale dell'asserto dogmatico. Di­
IlIl cendo infatti che un asserto dogmatico è eccle­
,I
P
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 139

siale, non si è ancora detto tutto. Il significato


intrinseco di tale affermazione andrebbe ulterior­
mente spiegato. Non potendo far di meglio per
i limiti che ci sono imposti, cerchiamo di chiari­
re almeno un aspetto.

Si tratta di questo: siccome l'asserto dogma­


tico riveste un carattere tipicamente ecclesiale,
esso comporta anche sempre e tassativamente una
terminologia comunitaria, una regolamentazione
del linguaggio. Questa, da una parte può essere
vincolante, dall'altra deve però esser tenuta pre­
sente nei suoi precisi limiti e nella sua funzione
quando si esaminano i documenti ecclesiali, e non
essere scambiata con l'oggetto stesso che esprime,
come se fosse l'unico modo possibile di enun­
ciarlo.
Mi vedo costretto a spiegarmi e a precisare
meglio questa sottotesi. Lo ritengo assai impor­
tante, perché nella teologia usuale concernente il
Magistero e la facoltà che esso ha di obbligare,
non vi si riflette sufficientemente, con le conse­
guenze che ne nascono poi inutili malintesi nel­
l'insegnamento pratico della dottrina cattolica e
nelle controversie teologiche. La realtà intesa ne­
gli asserti teologici è d'una ricchezza sconfinata
e d'una pienezza inesauribile, mentre il materia­
le terminologico disponibile per designare questa
realtà è quanto mai ristretto e continua a rima­
140 SAGGI TEOLOGICI

nere limitato, quantunque il vocabolario - con il


procedere della storia - cresca e s'arricchisca di
concetti e di termini. Rimane limitato e ristretto
poi soprattutto perché si tratta di una scorta di
parole da usarsi nel formulare gli asserti dogma­
tici, i quali devono essere brevi, concisi, compren­
sibili a tutti, commisurati sulla coscienza della fe­
de di gruppi molto vasti di persone. Con questo
materiale concettuale così ridotto, utilizzabile dal­
la comunità, bisogna mantenere aperto lo sguar­
do sull'infinita pienezza delle cose espresse dalla
fede, bisogna mettere in luce l'inesauribile ab­
bondanza e le innumerevoli sfumature contenute
nella realtà stessa. È quindi logico che una simile
terminologia quanto mai ristretta non si possa
mai dire adeguata alla realtà da essa descritta.
In questo contesto non ci interessa vedere
come si possa prendere coscienza del come e del
perché di questa inadeguatezza tra asserto e cosa
in esso asserita, dal momento che la realtà intesa
può essere attinta soltanto nella parola e non an­
che accanto ad essa e oltre ad essa. La cosa che
qui interessa è la seguente: il termine inadeguato
alla rea!tà da esso espressa mette in rilievo sem­
pre - e specialmente nel suo impiego comunita­
rio - solo e inevitabilmente alcune note salienti
di guanto si vuoI dire,lasciandone altre inesorabil­
mente in ombra; creando delle relazioni con certi
determinati aspetti delle cose, non riesce a por­
te nel dovuto rilievo certe altre relazioni effetti­
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 141

vamente esistenti con altre realtà della fede. La


terminologia storicamente condizionata e limitata
imprime all'asserto di fede - specialmente nella
sua fisionomia teologica - una limitazione, una
concretezza angusta e una contingenza storica.
A ciò si aggiunge, quasi non bastasse, che è
impossibile fornire al contempo una definizione
univoca, ponderata ed esplicita dei termini im­
piegati. La teologia infatti non può partire, come
la geometria, da un numero ben limitato di assio­
mi, suscettibili di essere fissati da una definizione
tassativa dei concetti in essi adoperati (a parte
il fatto che questo poi non riesce neppure in tali
scienze).
Da tutto ciò deriva però che le proposizioni
dottrinali della Chiesa, gli asserti dogmatici ec­
clesiali - senza che questo fatto sia sempre co­
scientemente avvertito da coloro che insegnano
e definiscono, anzi benché non ne abbiano e non
possano averne adeguatamente coscienza per via
riflessa - contengono contemporaneamente an­
che una terminologia, nei confronti della quale,
se non è lecito formulare il problema se sia vera,
è però possibile domandare se sia la più indo­
vinata.
Or qua or là, sempre pero m via del tutto
marginale, anche nella teologia cattolica viene in­
travisto questo problema. Così, per esempio, quan­
do ci vien detto che la Chiesa designa l'evento ve­
rificatosi nell'Ultima Cena chiamandolo «aptissi­
142 SAGGI TEOLOGICI

me» transustanzzazzone; oppure quando Pio XII


difende la proprietà e l'esattezza espressiva di
molti concetti contenuti nella tradizione scolasti­
ca, dei quali dice che non è ammissibile che la
Chiesa giunga al punto di disfarsi, quantunque
sia arcinota la loro origine meramente storica
(Dz. 2312).

È innegabile che, nella prassi, il problema che


qui c'interessa bisogna scovarlo col lanternino.
Tanto per portare alcuni esempi: quando s'inse­
gna che l'uomo, da Adamo in poi, è già per na­
scita peccatore, il termine « peccatore» viene usa­
to in un'accezione solo analogica, che si differen­
zia assai profondamente dalla qualità di pecca­
tore costituita da un atto di vera e propria deci­
sione personale. D'accordo che, nel trattato sco­
lastico-teologico del peccato originale, questa di­
stinzione viene motivata e analizzata in lungo e
in largo; ma nella formulazione ecclesiale abbre­
viata, allorché si asserisce che l'uomo è peccatore
sin dalla sua origine, ossia sin da Adamo, questa
analogia non viene affatto espressa. Non risultando
posta come tema, essa non risulta più nemmeno
presente alla coscienza riflessa della maggioranza
dei cristiani, e per lo più viene anche sempre di­
menticata dai teologi, perché anche la loro teolo­
gia - nella prassi della vita quotidiana - torna
a riafferrarsi saldamente alle massime del catechi­
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 143

smo, ai dati quanto mai indifferenziati degli as­


serti ecclesiali. Chi sa veramente cosa comporti
l'analogia in simile caso, comprende pure come di
per sé e « in abstracto » si possa anche affermare
che l'uomo non è peccatore sin da Adamo, senza
per questo affermare una reale contraddizione con
la dottrina del peccato originale insegnata dalla
Chiesa: tutto perché tale affermazione, se fatta
con un'altra terminologia, si limiterebbe a negare
che l'uomo sia peccatore sin da Adamo nello stesso
senso in cui lo sarebbe per via di decisione per­
sonale.

Esistono però anche dei fatti che dimostrano


come la Chiesa, or qua or là, abbia non solo len­
tamente sfumato ma anche autenticamente cambia­
to la terminologia (senza per altro determinare un
cambiamento nella sostanza da essa espressa). Per
esempio, la terminologia agostiniana, concernente
la colpevolezza di ogni atto del peccatore costituito
tale dalla colpa ereditaria, che pure un tempo era
quella ufficiale della Chiesa, è stata implicitamente
soppiantata dalle dichiarazioni di S. Pio V. S. Ago­
stino poteva e doveva dire - e la Chiesa del suo
tempo lo insegnò come dottrina ecclesiale - che
ogni uomo infetto dalla colpa originale, e non an­
cora giustificato, è peccatore in ogni suo atto. Ora,
nel linguaggio della Chiesa postridentina non è
più lecito attenersi ad una formulazione di que­
144 SAGGI TEOLOGICI

sto genere, quantunque si possa dimostrare come


queste due formulazioni apparentemente contrad­
dittorie non si contraddicano poi affatto nella so­
stanza che intendono esprimere. Nessuno può per
altro nascondersi quale capitale importanza rivesta
simile cambiamento, sia pur solo terminologico, nel
campo della teologia e della storia ecclesiastica.

Di tali precisazioni terminologiche, implicite


nelle definizioni, ne esistono molte. Per esempio,
che cosa si debba intendere sotto il nome di « per­
sona» quando se ne esamina il contesto alla luce
della dottrina complessiva della Chiesa circa la
Trinità (ammettiamolo, se vogliamo essere one­
sti), ha ben poco a che fare con guanto pure s'in­
tende solitamente dire con questa parola; eppure,
la realtà intesa viene espressa con questo termine,
e nel campo della dottrina ecclesiale non ci si può
permettere di esprimere quel rapporto di sussi­
stenza eludendo completamente questo concetto e
il termine che lo designa, sebbene forse un'altra
terminologia, sul genere di quella proposta dal
Barth in materia, di per sé non risulti più esposta
a sÌ facili equivoci (anche se poi presterebbe ma­
gari il fianco a malintesi d'altro genere).
Quando ultimamente il S. Ufficio dichiarò che
unicamente il sacerdote consacrante può concele­
brare, ci ha messi di fronte più ad una fissazione
terminolagica che ad un asserto dogmatico atto a
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 145

chiarire una realtà; in tale dichiarazione, infatti,


non si trova spiegato che cosa. sia la concelebra­
zione, sicché in pratica la succitata proposizione si
riduce a prescrivere che si può designare col nome
di concelebrazione solo quella Messa, in cui pa­
recchi sacerdoti pronunciano tutti assieme le pa­
role della consacrazione; rimane però una que­
stione tuttora sempre aperta se un sacerdote, senza
una tale con-consacrazione, possa o no esercitare
la sua vera e propria funzione sacerdotale parte­
cipando all'azione liturgica in qualche altra ma­
niera.
Notissimo è ancora un altro esempio: la que­
stione di chi - in base alla dottrina cattolica ­
possieda la qualità di membro della Chiesa, è per
buona parte una regolamentazione di terminologia.
Nella «Mystici Corporis », il termine « membro
della Chiesa» era riservato ai cattolici; oggi in­
vece, nelle sfere ufficiali della Chiesa stessa, pare
si sia nuovamente più propensi a designare come
« qualità di membro della Chiesa» la realtà costi­
tuita dal solo fatto di aver ricevuto il battesimo.
L'interessante della faccenda è il fatto che, in
queste dichiarazioni del magistero ufficiale della
Chiesa stessa, il problema non viene mai considera­
to esplicitamente come una questione di termino­
logia, viceversa, si enunciano degli asserti dando
l'impressione e dando come scontato il presuppo­
sto che ci si riferisca unicamente alla realtà in­
trinseca in essi adombrata.
146 SAGGI TEOLOGICI

Bisogna inoltre tener presente, che tutta que­


sta terminologia sottostà inevitabilmente ad un
continuo processo storico di mutazione, il quale
è ed è stato sì influenzato, in certo qual modo gui­
dato, mantenuto e parzialmente dirottato su altre
vie dall'autorità docente della Chiesa - che è
sempre investita del potere di dirigerlo - ma,
nonostante tutto, in parte almeno le sfugge. Que­
sto processo storico cui va soggetta la terminolo­
gia, infatti, non può essere adeguatamente diretto
dalle autorità ufficiali della Chiesa, neanche nel
settore ecclesiale. Si attua quindi indipendente­
mente dalla Chiesa ufficiale e dalla sua consapevole
direzione, almeno in una certa misura; e questa
realtà di fatto implica nuovamente il dovere (e il
diritto), da parte della Chiesa, di tener conto di
tale processo termino logico che si verifica fuori
dalle sue dirette dipendenze. Ciò può avvenire nelle
maniere più disparate, nelle quali non ho alcuna
intenzione di addentrarmi in questa sede.
Non è per altro escluso che, per le ragioni
suaccennate, la Chiesa non tenga sufficiente calcolo,
o almeno non lo tenga con sufficiente decisione, di
queste trasformazioni terminologiche. Per cui, pos­
sono sorgere in seno alla Chiesa stessa, oppure nei
rapporti con la teologia non cattolica, delle contro­
versie le quali - in fondo in fondo - si basano
unicamente su dei puri e semplici equivoci di ter­
minologia. E per lo stesso motivo - parlando
sempre dal punto di vista cattolico - può anche
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 147

darsi che un teologo cattolico rimanga abbarbicato


ad una terminologia ufficialmente adottata, anche
allorché non riesca ormai più a nascondersene i
difetti: la sua problematicità, la sua equivocità, la
sua forse già costatata mancanza di prospettive
che pure le sarebbero indispensabili, e tante altre
simili deficienze che l'affliggono al pari di ogni
altra terminologia.
Con questo, d'altronde, non è affatto detto che
il teologo si mantenga in posizione completamente
passiva, di fronte alla regolamentazione teologico­
terminologica del linguaggio operata dalla Chiesa.
No. In qualsiasi momento e in qualsiasi luogo egli
faccia della teologia vitale, puntando il suo sguardo
sulla realtà di cui si occupa, egli contribuisce anche
attivamente (benché forse quasi inavvertitamente)
alla suaccennata continua trasformazione storica
della terminologia usata nel linguaggio ecclesiale.
E reciprocamente: attenendosi nei suoi asserti alla
regolamentazione ecclesiale del linguaggio, egli
si inserisce nel condizionamento comunitario e sto­
rico della coscienza della fede, sempre attuale e
sempre rinnovata; condizionamento, questo, che
(se viene ratificato e continuato) mantiene al con­
tempo aperta la visuale dell'individuo singolo verso
la coscienza della fede posseduta dalla Chiesa, la
quale, dal canto suo, chiede al singolo quello spi­
rito di rinunzia senza cui - nel presente « eone»
- non può esistere l'unità della verità e dell'amore.
148 SAGGI TEOLOGICI

4. L'asserto dogmatico è un enunciato


che si addentra nel mistero

Anche qui poniamo in risalto, innanzitutto, una


caratteristica comune sia all'asserto teologico-dog­
matico, sia all'asserto direttamente « kerigmatico ».
Se l'asserto « kerigmatico » - nonostante ogni
precisa e inderogabile ampiezza di contenuto che
gli spetta e gli deve a buon diritto spettare - già
per il solo fatto di riferirsi sempre ad un evento
storico verificatosi nell'ambito delle dimensioni
umane, è in realtà un asserto che solleva l'uditore
sopra se stesso tuffandolo nel mistero di Dio, ciò
vale in tutto e per tutto anche per l'asserto dog­
matico. Anche quest'ultimo, infatti, non può mai
rinnegare gli stretti legami retrospettivi che lo vin­
colano al vero e proprio asserto «kerigmatico»
di fede. Poiché esso è anche l'espressione ri­
flessa, nella quale l'uomo è presente a se stesso
anche esplicitamente - per dir così - nel suo
processo conoscitivo e non soltanto nella cono­
scenza dell'oggetto, allora può essere quello che è
soltanto a condizione di non dimenticare che l'og­
getto da esso inteso viene espresso in modo esatto,
unicamente quando, all'atto d'incarnarsi nel suo
concetto limitato, viene concepito come infinito
ed inconcepibile, come autentico e perenne mi­
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 149

stero, che sussiste non solo nel concetto, ma anche


e soprattutto nella comprensione, precedente ad
ogni concettualizzazione, in cui è dato Dio nella
trascendenza e nella grazia.

L'asserto dogmatico, al pari di quello « kerig­


matico », per principio racchiude in sé un momento
che non s'identifica affatto con il suo contenuto
concettuale (come capita invece negli asserti ca­
tegoriali profani). Qui, tale contenuto, senza me­
nomare la sua propria importanza, resta pur sem­
pre solo il mezzo atto a render possibile l'espe­
rienza della trascendenza e dell'ineffabilità. A far sÌ
che questa spinta polarizzatrice non sia solo una
vuota e inane trascendenza, che non si limiti ad
essere unicamente l'orizzonte formale entro cui
può agire la concettualizzazione oggettiva, bensÌ
la maniera in cui l'uomo si muove efficacemente
incontro all' auto-comunicazione diretta di Dio,
provvede l'elemento da noi chiamato grazia e che
riceviamo ed accogliamo in quell'altro elemento
da noi chiamato fede. Intendiamo qui riferirei non
all'idea della trascendenza, né al concetto di gra­
zia, bensì alle realtà stesse. Naturalmente, queste
realtà non si lasciano presentare così in se stesse,
oggettivate, nell'asserto dogmatico; non è possi­
bile stabilire in modo oggettivo se esse si siano
attuate simultaneamente all'enunciazione dell'as­
serto.
150 SAGGI TEOLOGICI

Non si ripeterà mai abbastanza al teologo, che


quanto entra nelle sue enunciazioni costruite a
base di concetti non è l'unico fattore che deve
esser presente in esse. Indirettamente, appiglian­
dosi criticamente a questo o a quell'altro indizio,
è possibile provare se accanto alla lettera esiste
anche lo spirito, se accanto alle parole dette su una
data realtà esista di fatto anche la realtà stessa.
Nel complesso del discorso, guardando lontano e
a fondo nelle cose, si scorgono certamente degli
indizi preziosi per una distinzione selettiva degli
spiriti, delle tracce utili a far comprendere se uno
dice soltanto a parole di aver a che fare col mi­
stero, mentre poi in effetti si limita a manipolare
i suoi concetti e le sue espressioni come se fossero
la realtà stessa, come se fossero delle monadi chiuse
in se stesse e manovrabili a piacere da lui, e non
fossero invece dei segni, che parlano tanto più
chiaramente e distintamente quanto più rimangono
muti, intenti solo ad additare qualcosa che li sor­
passa infinitamente, ad indirizzare l'uomo credente
verso la luce inaccessibile di Dio.

Se prescindiamo dal tema dell'analogia, dob­


biamo riconoscere che i criteri qui esposti non ven­
gono sviluppati, con l'ampiezza dovuta, nella teolo­
gia cattolica. Senza dire poi che, a sua volta, il tema
dell'analogia viene per lo più anch'esso frainteso,
quando il concetto analogico viene considerato co­
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 151

me uno strano ibrido vegetante tra il concetto uni­


voco e quello equivoco, e quindi come un elemento
derivato, di fronte al quale l'elemento più origi­
nale e più autentico sarebbe il predicato univoco,
mentre invece è solo l'apertura radicale del moto
analogico che rende spirito lo spirito.
Le teorie del paradosso, del discorso dialettico,
del discorso puramente indiretto, non hanno tro­
vato - e probabilmente non del tutto a torto ­
alcuna giusta eco nella teologia manualistica cat­
tolica; in ogni caso, non vi hanno ricevuto nessun
diritto di vera cittadinanza. Se vogliamo essere one­
sti, dobbiamo ammettere che la dottrina dell'analo­
già è stata valorizzata appieno solo recentemente,
da E. Przywara. È stato lui che l'ha elevata, da
modesta nozione scolastica sperduta nel gran ma­
re della logica e dell'antologia generale, ad auten­
tico e importantissimo fattore centrale del discor­
so teologico. E, per ora, è tutt'altro che elaborata
cosÌ bene da poterei permettere di dire esatta­
mente che cosa significhi, e se proprio tutti l'ab­
biamo davvero capita a fondo. Tanto è vero, che
ancora non si è giunti a mettersi d'accordo se que­
sta dottrina sia effettivamente quella che tempo fa
il Barth qualificava come specifica espressione cat­
tolica e quindi da respingersi nel modo più asso­
luto, oppure se questa analogia - nel campo della
teologia cattolica - sia un termine denotante un
tratto essenziale del discorso teologico: un tratto
riconosciuto pacificamente da tutti, sia pure sotto
152 SAGGI TEOLOGICI

altri nomi; un tratto che ci offre un primo adden­


tellato per risolvere la questione che qui c'inte­
ressa, dimostrando come il discorso teologico non
si limiti solo a parlare del mistero, ma assolva la
sua vera funzione unicamente quando è in grado
anche di fungere quasi da guida per condurre al
cospetto del mistero stesso.
Comunque sia, il sugo di questa digressione è
il seguente: nel discorso teologico-dogmatico, non
è lecito pensare di possedere automaticamente la
realtà stessa di cui si parla, per il solo fatto di
possedere il termine concettuale che la designa.
Questa parola, infatti, è eminentemente «mista­
gogica » anche sotto un altro aspetto, oltre a quel­
lo suo tipico di rappresentare e dare un'immagine
della realtà da essa adombrata. Essa infatti evoca
l'esperienza, divinamente gratuita, del mistero as­
soluto stesso in atto di comunicarsi a noi nella gra­
zia, che è la grazia di Cristo. Ma, anche su questo
punto, dobbiamo limitarci solo a segnalare con
rammarico un tema che non rientra affatto nella
teologia corrente; con questo, per altro, non si dice
affatto che esso sia totalmente assente dalla tradi­
zione teologica.
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 153

5. L'asserto dogmatico non s'identifica né con la


parola primordiale della rivelazione,
né con l'espressione originaria della fede

Forse mi addentro appena ora nella trattazio­


ne vera e propria dell'assunto assegnatomi; per cui,
non faccio ormai più in tempo, dopo una sÌ lunga
conferenza, ad analizzare con la dovuta posatezza
il tema atteso. Devo però dire che, volendo espor­
re in modo intelligibile l'idea cattolica di teologia
e di fede, di asserto scritturale e asserto dogmatico,
ci si trova davanti a mutue correlazioni cosÌ fitte
e intricate, si riesce ad esprimere così poco nel
senso di una distinzione netta e recisa, che si ca­
pisce come quanto sinora abbiamo detto costituisca
una necessaria premessa al brano che viene ora:
alla parte cioè che riguarda la distinzione da rile­
vare tra promulgazione originaria della rivelazione
ed espressione originaria della fede, da un lato, e
asserto dogmatico di derivazione riflessa, dall'altro.
Il prototipo della prima categoria di asserti, lo
abbiamo nella S. Scrittura, sebbene anche qui si
debba forse rilevare una distinzione tra l'evento
primordiale della rivelazione e l'immediata atte­
stazione che ce ne vien data, contrapposte alla ri­
flessione presente nella S. Scrittura stessa su que­
sti fatti. Se l'asserto dogmatico va distinto dall'as­
1.54 SAGGI TEOLOGICI

serto scritturale - e ciò è più che legittimo ­


vanno anche esaminate a fondo le differenze esi­
stenti tra i due tipi di asserto. Il che non è affatto
così facile come potrebbe sembrare a prima vista.

Abbiamo già detto come l'asserto dogmatico


venga oggettivamente e soggettivamente sostenu­
to dalla fede, denotando simultaneamente afferma­
zione e atto di fede; abbiamo visto come debba
sottostare alle norme dettate dal magistero ufficiale
della Chiesa, anche quando non sia sempre e in
ogni caso il frutto d'una dichiarazione vincolante
della Chiesa docente, bensì il prodotto di una
« quaestio disputata », perché anche quest'ultimo
mira a sua volta a prender coscienza della fede
posseduta dalla Chiesa e quindi riconosce di di­
pendere dal magistero ecclesiale. E reciprocamen­
te: non esiste alcuna rivelazione promulgata, fuor­
ché sotto forma di rivelazione creduta. Ora, in una
rivelazione creduta e quindi udita, è sempre insita
- come sottintesa, accettata e assimilata - già la
sintesi tra parola di Dio e parola dell'uomo che ne
è il destinatario: parola che proprio quest'ultimo,
nella situazione storica e nella posizione in cui si
trova, è in grado e in dovere di pronunciare. Ogni
parola di Dio che l'uomo pronuncia è dunque ­
almeno sino ad un certo punto - una parola ri­
flessa, e perciò stesso già un frammento di teolo­
gia. Sicché, la differenza tra « kerigma» primor­
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 155

diale e asserto dogmatico non sta nel fatto che là


sussista in certo qual modo unicamente la nuda
parola di Dio, mentre qui non sussiste che la
riflessione umana. Se le cose stessero così, potreb­
bero esistere soltanto dispute teologiche non impe­
gnative attorno alla parola di Dio, ma non mai
asserti di fede diversi dalla parola primordiale di
Dio eppure assolutamente impegnativi, attraverso
i quali la parola di Dio - cosÌ com'è uscita ini­
zialmente dalle sue labbra - conserva la sua pe­
renne attualità vincolante nel corso della storia:
potrebbe esistere insomma soltanto una storia del­
la teologia, mai una storia dei dogmi. Il fatto quindi
che essa esista realmente, si spiega solo dando per
scontato che già in quell'asserto primordiale della
fede sussista l'identico momento d'una riflessione
genuinamente umana, legittima e necessaria, che
poi agisce e si sviluppa ulteriormente anche in se­
guito, nella teologia susseguente.

La nostra osservazione vale, per ribadirlo an­


cora una volta, anche a proposito della Scrittura.
Persino nel più elementare asserto « kerigmatico »
è insito già un principio di teologia, considerata
come riflessione e deduzione dall'immediata no­
zione rivelata; e, anzi, questa teologia deduttiva
occupa un largo spazio anche nella Scrittura. C'è
davvero da rammaricarci che proprio nella teolo­
gia cattolica ci si pensi così poco. Non ci si do­
156 SAGGI TEOLOGICI

manda quasi mai donde il compilatore di certi


brani della Scrittura abbia attinto ciò che dice.
Non si tien mai conto della possibilità, pur indub­
biamente effettiva, che già un asserto scritturale
possa essere secondario rispetto ad un altro, e
quindi derivato da quest'altro. Si mette ogni passo
della S. Scrittura sullo stesso piano, quanto a si­
gnificato, considerandolo sempre come elemento
originario e fontale, come scaturito dall'immedia­
ta rivelazione di Dio, come un dato indeducibile.
Eppure, nessuno può onestamente contestare la
possibilità inversa, che pure esiste di fatto, perché
anche nelle pagine del Nuovo Testamento si rileva
uno sviluppo dogmatico. Sicché, il tener concre­
tamente calcolo di questa eventualità potrebbe con­
tribuire in modo decisivo a precisare esattamente il
senso di tanti passi scritturali 1.

Nonostante ciò esiste però una differenza so­


stanziale tra l'asserto teologico (anche nella sua
forma vincolante di autentica attestazione di fede
e di predicazione attuale) e l'espressione originaria
della fede, nella quale, «quoad nos », rientra
tutta quanta la S. Scrittura.
La ragione fondamentale: che li diversifica, sta
\.1 nella posizione unica e di assoluta preminenza go­
,\ duta dalla S. Scrittura. La rivelazione ha una sua

1 Cfr. Teologia nel Nuovo Testamento, p. 167 SS.


CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 157

storia. Ciò significa - in prima e in ultima ana­


lisi - che esistono degli avvenimenti ben deter­
minati, fissati nel tempo e nello spazio, in cui que­
sta rivelazione destinata a tutte le età posteriori
si verifica e si attua in modo tale, che tutte quante
le epoche seguenti rimangono stabilmente vinco­
late a quell'importantissimo evento storico e de­
vono ricollegarsi ad esso senza eccezione come al
loro momento fontale. Per questo motivo le età
seguenti si trovano di fronte a fatti e detti (che a
loro volta rientrano negli elementi costitutivi di tali
eventi), i quali formano la perenne e inderoga­
bile «norma normans, non normata» per tutti
gli asserti dogmatici successivi, e sono precisamen­
te gli asserti originari e fontali.
Anche allorché questi asserti possiedono tutti
gli elementi da noi rivendicati pure ad un asserto
dogmatico, hanno però ancora una cosa in via del
tutto esclusiva: appartengono all'unico e non rei­
terabile evento storico della salvezza, al quale si ri­
chiama ogni predicazione e ogni teologia susse­
guente; in questo particolarissimo senso, essi val­
gono molto più della semplice teologia, molto più
anche d'una teologia assolutamente vincolante. Non
si limitano infatti ad essere solo un'affermazione
di fede, ma costituiscono il fondamento perenne
e la base incrollabile di tutte le altre affermazioni
presenti e future. Essi sono la stessa sostanza tra­
smessa per via di tradizione, non la tradizione che
si permette di elaborare la sostanza trasmessa. Per
158 SAGGI TEOLOGICI

quanto l'asserto successivo, di tipo già derivato e


adattato, possa essere una forma e un aspetto del­
l'asserto originario, senza il cui aggiornamento il
cristiano delle età seguenti non sarebbe più in gra­
do di intendere e di ripetere devotamente l'asserto
primitivo, sotto pena di diventare anti-storico e
anti-ecclesiale; in altre parole, per quanto tale cri­
stiano li oda ripetuti sempre nella loro espressione
successiva, formulati dal magistero dottrinale e
dalla coscienza della fede della Chiesa, egli ode
realmente gli asserti originari della fede. E li per­
cepisce non « malgrado » così li ripeta la Chiesa,
ma proprio «fortunatamente» perché li ode in
funzione della Chiesa attuale. In effetti, l'ultima
e definitiva garanzia che convalida questa facoltà
di udire l'asserto originario, non è la capacità sto­
rica dell'uomo (ossia la sua «facoltà intellettiva
di penetrazione » nelle cose dette dalla rivelazione
e dalla fede), bensÌ la vita di fede nella Chiesa
attuale. Ma, come già si è detto, così si ode appunto
l'asserto originario della fede, che resta sempre un
momento dell'evento storico della salvezza, a cui
rimangono perennemente vincolate tutte le epoche
successive.
Si tratta dunque unicamente di stabilire in qua­
le forma dell'attuale asserto di fede, vincolante o
meno, ci viene offerto questo asserto originario,
visto come «norma normans, non normata ». A
questo problema, non intendiamo dare una rispo­
sta con una deduzione teologica, anche se proba­
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 159

bilmente non sarebbe del tutto impossibile dar­


gliela pure cosi. La questione è risolta risponden­
do semplicemente: tale asserto originario ci viene
offerto nella Sacra Scrittura.

Pur lasciando aperta la controversa questione


che oggi (più ancora che negli ultimi secoli) agita
la teologia cattolica circa i rapporti tra S. Scrittura
e tradizione - vale a dire se la tradizione, cne
dopo il Concilio di Trento è una norma della no­
stra fede e della predicazione ufficiale della Chiesa,
in linea di principio e astrattamente costituisca una
fonte materiale additiva della fede, da affiancarsi
alla S. Scrittura, oppure solo un criterio formale
per mantenere pura e limpida tale fede, da quando
il contenuto materiale della predicazione apostolica
si è adeguatamente condensato nella Scrittura ­
possiamo benissimo rispondere alla nostra questio­
ne additando semplicemente la Sacra Scrittura.

Il motivo è semplicissimo. Pur ammettendo,


infatti, che esista accanto alla Scrittura un'altra
fonte valida e autorizzata a presentarci altre ma­
terie di fede non riscontrabili in essa, questa fonte
della tradizione in pratica non esisterebbe come
sorgente perfettamente pura, in modo che in essa
fosse contenuta unicamente l'attestazione - ga­
rantita limpida da Dio - della tradizione apo­
160 SAGGI TEOLOGICI

stolica autentica, perfettamente allineata con la ri­


velazione e assolutamente esente da qualsiasi con­
taminazione di tradizione umana. È ovvio, infatti,
che sin dai primordi del cammino storico della ri­
velazione essa è sempre stata accompagnata dalla
riflessione teologica umana, da tanti «theologu­
mena» non vincolanti, da nozioni ed opinioni me­
ramente umane e anche da errori.
Certo, è fuori discussione che la Chiesa, tra
questi elementi indistinti - frammisti di umano
e di divino - vegetanti nell'ambito della tradi­
zione, può benissimo tracciare una linea di demar­
cazione, sceverando quanto è realmente un dato
effettivo della tradizione primordiale, da tutto il
resto che non può vantare tale diritto. Bisogna
senz'altro riconoscerle questo divino istinto sele­
zionatore, guidato dall'assistenza dello Spirito
Santo.
Ma anche dopo àver detto questo, non si è
ancora data una risposta al problema del come la
Chiesa operi questa distinzione, continuamente
necessaria se essa deve sempre nuovamente rico­
noscere la verità della rivelazione, pur sapendosi
legata con vincoli indissolubili alla rivelazione ori­
ginaria. Anche ammettendo che ciò risultasse pos­
sibile alla Chiesa tramite il lume della fede ad essa
concesso, tramite un istinto della fede, senza bi­
sogno di alcun criterio esterno, le cose non cam­
bierebbero affatto. Infatti una volta che la Chiesa
intraprendesse tale selezione critica della lettera­
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 161

tura trasmessale dall'età apostolica in poi (ossia,


dicesse chiaramente dove essa riconosca la genuina
oggettivazione e la limpida espressione della sua
fede, e in quale altra letteratura di quel tempo non
ce la veda affatto), essa finirebbe per isolare pre­
cisamente quella stessa pura oggettivazione della
primordiale testimonianza apostolica, che noi de·
signiamo appunto col nome di Sacra Scrittura.
Comunque, è un fatto: i cristiani sono tutti
d'accordo (almeno nell'essenziale) nell'ammettere f
che nella S. Scrittura è stata data alla Chiesa la pura J
oggettivazione scritturale, sia pure storica, del I
« kerigma» apostolico, qualunque siano le posi.
zioni assumibili di fronte alle considerazioni aprio­
ristiche or ora fatte.
Ora, la Chiesa non possiede inutilmente tale
norma oggettiva quando, col dono dei poteri di­
screzionali di cui è insignita, scevera dal blocco
concreto della sua tradizione effettiva ciò che in
essa costituisce autentica tradizione rivelata, da
ciò che invece è tradizione meramente umana, sia
pure rimontante sino ai suoi primordio Perciò, in
quanto esiste effettivamente una « norma normans,
non normata », la quale si identifica con la Scrit­
tura ed esclusivamente con essa, formando una
norma primaria per la coscienza della fede della
Chiesa universale e per il Magistero ecclesiale, non
quindi per il singolo (o quanto meno non per dar­
gli adito a lottare contro la coscienza della fede
della Chiesa universale, che si afferma autoritati·
6. - Saggi teologicI.
162 SAGGI TEOLOGICI

vamente attraverso il Magistero docente), la Scrit­


tura forma un caso a sé. Questo deposito origina­
rio della rivelazione e della fede, esistente nella
Chiesa e appartenente alla Chiesa, risulta quindi
essenzialmente distinto da ogni altro asserto teolo­
gico successivo della Chiesa e nella Chiesa, anche
quando esso costituisce un'attestazione «kerig­
matica » impegnativa per la fede, e non solo una
riflessione teologica.
Si potrebbe dunque dire così: il discorso teo­
logico è unicamente un discorso teologico, soltanto
quando non è un discorso scritturale. Naturalmen­
te, anche l'asserto dell'esegesi e della teologia bi­
blica è un'affermazione meramente teologica, quan­
tunque verta sulla parola della S. Scrittura.

Sarebbe naturalmente possibile e auspicabile


mettere in luce, motivare e valorizzare a fondo ­
anche nell'ambito di questo stesso discorso teolo­
gico - un'altra distinzione che finora abbiamo
sempre accennata solo di sfuggita e accettata come
premessa sottintesa. Questa distinzione si basa su
due fatti: in primo luogo sul fatto che esiste real­
mente un pronunciamento dogmatico della Chiesa
nel suo Magistero ordinario e straordinario, ossia
una serie di asserti che richiedono obbedienza e
sottomissione sino all'autentico e assoluto assenso
di fede, sempre però anche qui a seconda dei di­
versi gradi in base ai quali il singolo cristiano e il
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 163

singolo teologo sanno di essere vincolati alla pre­


dicazione e alla dottrina della Chiesa, anche là
dove tale assoluto assenso della fede non viene loro
richiesto o viene richiesto in maniera non dimostra­
bile; in secondo luogo, sull'esistenza del discorso
dogmatico meramente privato del singolo teologo.
I passaggi tra questi due tipi di asserzione teo­
logica sono fluidi. E ciò, già per il solo fatto che
il teologo, anche nei suoi asserti privati - quando
siano realmente dogmatici - intende pur sempre
richiamarsi alla coscienza della fede posseduta
dalla Chiesa. Egli, infatti, ha normalmente la giu­
sta e sufficientemente fondata impressione di fare
da portavoce appunto alla dottrina del Magistero
docente ordinario, ossia alla normale predicazione
della fede. Per cui, con le sue enunciazioni, si
rivolge a chi l'ascolta in modo da indirizzarlo alla
fede della Chiesa, dandogli quel tanto di sicurezza
che lo porti poi quasi automaticamente a rispon­
dere alla fede della Chiesa da lui raggiunta, non
soltanto con l'acutezza mentale del teologo, ma
con l'animo del credente.
Persino allorché agli effetti pratici, vale a dire
con esplicita dichiarazione fatta in partenza, un
enunciato viene esposto come «quaestio dispu­
tata» o come « sententia libera », se vuoI essere
ancora davvero teologico non può mirare che a
rafforzare o a facilitare la comprensione e l'assi­
milazione dei veri e propri asserti dogmatici della
fede, almeno per chi lo espone e per chi ne ascol­
164 SAGGI TEOLOGICI

ta l'esposizione. Si, perché anche le libere opi­


nioni teologiche, in rapporto all'autentico deposito
della fede, non possono davvero rappresentare
solo una conoscenza meramente aggiuntiva. Se in
questo senso esista una reale teologia deduttiva,
che acquisisce una nuova conoscenza dichiarandola
poi non attinente al deposito della fede e non
vincolante, c'è da dubitarne; e, nel caso che esi­
stesse, resterebbe poi da domandarsi se sarebbe
ancora teologia. Nel campo della teologia, la fun­
zione precipua del libero asserto teologico è sen­
z' altro quella di far vedere e far riconoscere me­
glio le autentiche verità credute.
Inoltre, non bisogna trascurare il fatto che
non è possibile, «hic et nunc» per il singolo,
tracciare un'adeguata linea di demarcazione tra il
vero e proprio deposito della fede, e la pura e
semplice opinione teologica libera; e oltre a ciò,
che persino le definizioni della Chiesa vengono
successivamente accolte da ciascuno anche in fun­
zione della propria consapevolezza complessiva, e
quindi anche come sottoposte ad essere interpre­
tate alla luce di opinioni teologiche, quantunque
inconsciamente.

Con quanto abbiamo detto sulla quinta tesi non


intendiamo affatto insinuare che, a proposito della
distinzione tracciabile tra un asserto «kerigma­
tico » e dogmatico della fede, sia stato detto tutto.
CHE COS'È UN ASSERTO DOGMATICO 165

Abbiamo insistito più che altro (non però esclu­


sivamente) sulla differenza esistente tra un as­
serto di fede originario e un asserto teologico­
dogmatico dipendente da esso e fondato su di
esso.
Naturalmente, negli asserti teologici derivati
esiste poi ancora una differenza tra l'asserto che
esprime una professione di fede, mirando alla
realtà intrinseca contenutavi, abbandonandosi fi­
ducioso ad essa, esaltandola, e l'asserto in cui il
primo raggio della riflessione ritorna sulla pro­
pria conoscenza. TaIe distinzione ha il suo fon­
damento antologico nella struttura intima della
stessa conoscenza umana, la quale è sempre im­
mediata, ma anche riflessa, presente a se stessa e
presente alla cosa conosciuta; tale dualismo le è
così connaturato, da non poter mai venir adegua­
tamente superato. Sicché, esiste anche un asserto
dogmatico che si riferisce primariamente e inten­
zionalmente al possesso conoscitivo riflesso d'una
data cosa, e un asserto dogmatico che mira invece
direttamente alla cosa in sé. E a loro volta, queste
due specie di asserti, malgrado la loro diversità,
anzi proprio a causa della loro diversa conforma­
zione, non sono mai completamente districabili
una dall'altra.
3.

TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO *

Poniamoci una domanda: nel Nuovo Testa­


mento esiste già una teologia? E se all'interro­
gativo bisogna rispondere affermativamente, qual
è il suo valore in rapporto ai compiti che si pre­
figge la teologia moderna?
Per dare al problema una risposta esatta, è
necessario prima intenderci su quale significato
dobbiamo dare al termine « teologia », su cui s'in­
centra il nostro assunto. Evidentemente, qui non
può trattarsi di esporre un'analisi esauriente di
questo sostantivo, e nemmeno di vedere se forse
si possa parlare di teologia in tante altre accezioni
diverse che andrebbero tenute distinte una dal­
l'altra, pur prescindendo dal concetto di « teologia
naturale» e pensando « a priori» unicamente alla
teologia che si basa sulla rivelazione cristiana ed è
quindi di stampo prettamente « ecclesiale ».

,', Titolo originale: Theologie im Neuen T estament, in


Schriften zur Theologie, V, Benziger, Einsiedeln, 1962, pp. 33­
53; versione di E. Martinelli, OeD.
168 SAGGI TEOLOGICI

Affermiamo perciò semplicemente quanto se­


gue: per lo meno qui, nel caso nostro, intendiamo
per teologia una nozione il cui contenuto e la cui
certezza non derivano immediatamente dal pro­
cesso originario e fontale della rivelazione, che nel
suo contenuto e nella sua evidenza è sufficiente a
se stessa; intendiamo invece - pur ammettendo
che in ultima analisi tutto derivi da quel fatto ­
una nozione che ne deriva mediatamente, per via di
deduzione, scaturendo da un processo discorsivo
mentale e da una conoscenza religiosa sperimen­
tale, che non s'identificano con la semplice perce­
zione uditiva della rivelazione in quanto tale.
D'accordo: un concetto così precisato (non di­
ciamo che sia completo, ma solo che per il nostro
assunto è sufficiente, almeno per il momento),
presuppone che abbiamo o riconosciamo di avere
un'idea sufficientemente esatta del processo im­
mediato di rivelazione « fontale ». Perdonate, ma
è una questione in cui non possiamo addentrarci
in questa sede. Per lo scopo che ci siamo prefissi,
ci basta affermare questo: il processo di rivela­
zione « fontale » a cui alludiamo, è la produzione
di una conoscenza su determinate cose operata im­
mediatamente da Dio stesso, in modo che il conte­
nuto di tale conoscenza venga compreso chiara­
mente e sperimentato come inequivocabilmente e
indubitabilmente comunicato da Dio; per cui, di
tale contenuto si ha la piena consapevolezza solo
in quanto il fatto della rivelazione viene attuato
TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO 169

da Dio, in modo avente per oggetto direttamente


il deposito in parola.
Come poi questo fatto si verifichi, fino a che
punto esso costituisca un'illuminazione intellet­
tuale interna e immediata, fino a che punto si possa
realizzare in forma di esperienza d'una effettiva
rivelazione divina, fino a che punto sia raggiun­
gibile l'evidenza dell'auto-rivelazione divina me­
diante gli atti intellettivi interni, oppure anche nei
confronti del primitivo destinatario della rivela­
zione essa abbisogni d'una convalida esterna me­
diante il miracolo, e allora in che modo vadano
considerati questi miracoli in rapporto alla loro
funzione di criteri accertanti la provenienza di­
vina d'una rivelazione, son tutte cose che per il
momento non ci devono interessare. Ci basta sa­
per distinguere bene questa rivelazione originaria
e «fontale », dalle nozioni derivate da tale co­
noscenza originaria insita nel processo stesso della
rivelazione, che si basano tutte su di essa pur
senza identificarsi con essa. Se, perché e in qual
senso - sotto certe precise condizioni - anche
tali nozioni dedotte possano venir qualificate an­
cora come rivelazione propriamente detta, lo ve­
dremo in un secondo tempo.
Intanto, è fuor di dubbio che tale distinzione
esiste di diritto e di fatto.
Ogni argomento della riflessione teologica, af­
fermatosi o in via di affermarsi nella storia della
teologia, ha da un lato l'intenzione di impostare
170 SAGGI TEOLOGICI

tutta la sua struttura sui dati della rivelazione,


partendo da essi e ritornando su di essi, spie­
gandoli, sviluppandoli, mettendoli in rapporto con
il complesso dell'unica coscienza e sistematica
scienza umana, e via dicendo; d'altro canto, però,
non accampa affatto la pretesa di venir accolto
come un dato già di per se stesso incluso nell'atto
rivelante diretto di Dio, quasi che l'argomenta­
zione - nel suo contenuto e nella sua legitti­
mità - fosse semplicemente un dato immediato
di questa azione divina.
Orbene: se noi diamo tranquillamente alla
riflessione teologica così intesa il nome di « teo­
logia », distinguendola così dalla rivelazione ori­
ginaria che non si basa su nulla di precedente, sor­
ge subito il nostro problema: negli scritti del
Nuovo Testamento, esiste già una teologia, o in­
vece tutte le loro espressioni non sono che l'ag­
gettivazione dell'atto font aIe della rivelazione?
A prima vista, potrebbe sembrare che la que­
'stione vada risolta dandovi una risposta assolu­
tamente negativa. La Scrittura infatti è ispirata
in tutte le sue singole parti; tutto ciò che esprime
-costituisce oggetto di fede, e tutti i suoi asserti
formano la norma di questa fede. Per cui, sa­
rebbe tutta rivelazione e non teologia.

Guardiamo le cose un po' più accuratamente,


prima di accettare come decisiva la conclusione
testé fatta (ossia che la Scrittura sia tutta rivela­
TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO 171

zione, e non anche teologia). Nessun teologo cat­


tolico metterà in dubbio che nella Chiesa esistono
dogmi i quali sono di per sé autentici asserti della
rivelazione, e quindi doverosamente credibili per
fede divina e non soltanto ecclesiastica, quantun­
que non derivino da un atto immediato di rive­
lazione, ma siano invece dedotti da uno o più
asserti originari o addirittura primordiali della
rivelazione stessa, cioè resi espliciti da impliciti
che erano. A quali condizioni, sotto quali presup­
posti ed entro quali limiti tali asserti derivati ri­
vestano tuttora la qualifica di « rivelati da Dio »,
in quali casi non sia più possibile attribuire loro
tale qualifica (quantunque forse anche allora essi
restino pur sempre assolutamente certi e suscet­
tibili di esser definiti dalla Chiesa), non rientra
nel nostro assunto stabilirlo.
A noi è sufficiente costatare che nella dot­
trina ufficiale della Chiesa esistono dati di fede
di stampo deduttivo: asserti che non si possono
dire di per se stessi promananti immediatamente
da una rivelazione di Dio, che non sono stati sem­
plicemente comunicati, e non hanno in se stessi
il loro fondamento. Esistono verità di fede rico­
nosciute come tali dalla Chiesa, perché e in quanto
riconducibili ad altre verità rivelate, nelle quali
sono « implicitamente» contenute. Diversamente,
non sarebbe possibile uno sviluppo dogmatico,
che è assai di più d'una semplice storia della
teologia.
172 SAGGI TEOLOGICI

La storia dei dogmi, infatti, non denota né la


storia di un'attività intellettiva meramente umana
convergente su un deposito di fede sempre im­
mutabile, né la nuda storia delle successive for­
mulazioni di una verità presente in modo scarno
e indipendente dalle formulazioni in cui ci è data,
e che quindi ci è sempre stata offerta in una veste
di parole cangianti e diverse a seconda dell'estro
del momento o delle circostanze storiche esterne
che hanno influenzato la mentalità umana. La
storia dei dogmi è realmente la storia della fede:
di quella fede che permane sempre e non conosce
più alcun vero e proprio accrescimento apportato
al suo deposito dall'esterno. Ma è anche una storia
della fede, in cui si realizza qualcosa che finora
non esisteva « cosi com'è attualmente ». Il nuovo
si legittima sempre e unicamente attraverso la
sua derivazione dall'antico; la nuova verità è an­
cora sempre quella antica, non un'altra che viene
a giustapporsi alla vecchia. Eppure è una verità
« nuova », in quanto ci troviamo di fronte ad un
asserto che, come enunciato di fede, viene ad esi­
stere per la prima volta adesso, mentre prima non
esisteva. E in effetti, la novità di questa entità ap­
parsa or ora dice a buon diritto relazione tanto al
contenuto, quanto anche alla formulazione espres­
siva, della realtà rivelata presa come tale.
Ma proprio per il fatto che la nuova verità
concernente un asserto rivelato si legittima come
verità antica tramite il suo ritorno alla vecchia
TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO 173

verità di fede, compresa e conosciuta da sempre,


dice già di per se stessa di non provenire da una
nuova effettiva rivelazione di Dio; lascia sottin­
tendere, invece, che la sua data di nascita, il suo
momento di rivelazione sono esattamente quelli
della verità precedente, che è appunto la rivela­
zione originaria libera e indipendente di Dio o
tutt'al più - nella sua propria origine - scatu­
risce da una rivelazione fontale di Dio. Per dirla
in breve: se davvero esiste una storia dei dogmi,
esiste anche una rivelazione, la quale - pur non
essendo «sic et simpliciter» originaria in se
stessa - è pur sempre rivelazione: infallibile
parola di Dio, che esige intrinsecamente un atto
di fede.

Ripeto che non è questa la sede adatta a risol­


vere il problema del come ciò sia possibile, ossia
ad esaminare come una parola dedotta con altri
termini dalla parola di Dio possa ancora conserva­
re la qualità di parola di Dio. È una grossa questio­
ne che non può certamente venir risolta solo appel­
landosi alle affermazioni fornite dalla teologia ma­
nualistica corrente circa lo sviluppo e il progresso
dogmatico, in cui si asserisce che un nuovo dogma
si limita soltanto a ribadire con altre parole l'iden­
tico concetto antico, per cui, il contenuto della
nuova formulazione sarebbe totalmente, mera­
mente e immutabilmente identico all'antico, e
perciò stesso parola di Dio.
174 SAGGI TEOLOGICI

No, invece. Per esempio, nella dottrina che


afferma il numero settenario dei sacramenti, la
sacramentalità del matrimonio, la modalità mera­
mente relativa di sussistenza delle Divine Persone,
ecc. ecc., sono state definite come dogmi delle
nozioni che, nei tempi del cristianesimo primitivo,
semplicemente non «esistevano» come tali. Lo
sono diventate, pur senza esserci state date in
una nuova rivelazione. Si sono affermate come
frutto dell'autentica storia della verità antica, e
quindi e in questo senso risultano identiche ad
essa, partecipandocene la sua proprietà come quella
d'una parola di Dio, ma sempre derivando dalla
fonte antica d'una comunicazione divina, non da
una nuova.
Ora, questa verità partecipata deve avere una
sua storia: innanzi tutto perché in quanto verità
udita e creduta umanamente (e solo in quanto
tale, essa è anche verità detta da Dio) deve neces­
sariamente avere una sua vicenda storica; e poi,
ancora, perché - nel settore dello spirito e della
persona - una storia è sempre la vicenda d'un
autentico divenire, pur nella stabile identità del­
l'unica e medesima verità storicamente esistente.
Come abbiamo già detto poco sopra, le ge­
nuine forme, condizioni, cause di tale evoluzione
e della storia di tale evoluzione in rapporto ad una
verità presa in senso generico, in rapporto ad una
verità rivelata e quindi ad una parola di Dio, non
rientrano nel nostro argomento. Tutte le teorie,
TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO 175

formulate dagli studiosi dello sviluppo dogmatico


e della storia dei dogmi, altro non sono che ten­
tativi diretti a trovare una risposta a questo pro­
blema centrale: come una nuova verità possa ef­
fettivamente essere ancora l'antica. La molteplicità
di tali teorie, che sono ancora ben lungi dall'esser­
si conglobate in un'unica « sententia communis »
nell'ambito della teologia, viene a dimostrare ­
appunto attraverso tale molteplicità - che una
cosa è vera: il dogma può sostanzialmente avere
una storia, non soltanto come ordinariamente si
rintraccia la « Storia della divina rivelazione» da
dentro l'Antico Testamento sin giù dentro il Nuovo
(rilevando come in diversi momenti si assista allo
scaturire di nuove iniziative divine, le quali co­
municano di volta in volta nuovi asserti di verità,
di cui ognuno ha la sua precisa data di nascita),
ma anche nel senso che una data verità (comunicata
una volta per sempre) ha essa pure una sua storia,
la quale non la estromette necessariamente dal
campo della divina rivelazione, bensì ne è essa
stessa lo sviluppo.

Siccome questa storicità della verità rivelata


non può in linea generale venir messa in discus­
sione, e inoltre siccome questa verità resta pur
sempre la stessa anche nelle nuove fisionomie da­
tele dalla storia, è lecito intavolare il problema se
anche nel Nuovo Testamento esista già una tale
storia della verità rivelata originaria, in cui si as­
176 SAGGI TEOLOGICI

siste al delinearsi di nuovi sviluppi della medesima


verità, i quali a loro volta mirino ad appropriarsi
la qualità di parola di Dio, senza per altro esigere
una loro propria scaturigine di rivelazione. Quando
si dice « nell'ambito del Nuovo Testamento », s'in­
tende precisare: già al tempo del Nuovo Testa­
mento, nell'età della Chiesa Apostolica, in quel pe­
riodo cioè in cui - secondo la comune convin­
zione teologica - si stava tuttavia operando la
rivelazione, perché questa viene dichiarata chiusa
con la « morte dell'ultimo Apostolo », sicché tale
rivelazione derivata, ma pur sempre autentica, si
possa dire nata ancora (non « soltanto») durante
l'epoca della Chiesa primitiva, e sia stata diffusa
dagli Apostoli stessi nonché dagli altri propaga­
tori del messaggio cristiano da essi legittimamente
autorizzati. «Nell'ambito del Nuovo Testamen­
to » vuoI però anche dire: nel corso della stessa
formazione degli Scritti Neotestamentari, sicché
questi processi evolutivi storico-dogmatici avven­
gano e siano rintracciabili nella loro stessa ste­
sura.

"k -;,

La questione da noi intavolata può e deve


ricevere una risposta decisamente positiva. In­
nanzitutto, bisogna evidentemente domandarsi:
se questo processo esiste nella Chiesa più recente,
TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO 177

perché non avrebbe dovuto aver luogo anche nella


Chiesa primitiva? L'intima energia espansiva, la
dinamica dell'auto-spiegazione - insita in una
verità e specialmente in una verità divina - non
può essere stata minore nella Chiesa primitiva di
quanto lo è stata in quella posteriore. Dio, infatti,
in quel periodo non aveva bisogno di fare, di sua
nuova iniziativa, ciò che la stessa verità da lui
rivelata era in grado di produrre (sempre, natural­
mente - come nelle età seguenti - sotto la pe­
renne vigilanza della sua Divina Provvidenza, con
l'assistenza dello Spirito Santo e in conformità
ad una situazione spirituale che è continuamente
protetta dalla sua Volontà e dalla sua Sapienza,
sicché Dio non è che faccia « più poco », ma agi­
sce solo «diversamente» allorché dice la sua
verità attraverso lo sviluppo immanente d'un dato
già comunicato, invece di parteciparci una verità
nuova di sana pianta).
Poi, va ricordato che non è possibile ascoltare
una verità in modo da intenderla, senza prima ac­
coglierla, assimilandola, confrontandola con il pro­
prio restante bagaglio mentale e scientifico, ecc.
Per dirla in altro modo: l'atto del semplice ascol­
tare ed accogliere, e l'atto della riflessione, non
sono atti e fasi adeguatamente distinguibili e sca­
glionabili in una successione prettamente crono­
logica, nell'ambito di un unico processo intellettivo
spirituale. Sicché, la teologia incomincia ad essere
presente, come condizionamento della semplice
178 SAGGI TEOLOGICI

audizione, sin dal primo istante dell'ascolto stesso.


Di conseguenza, essa non può più far a meno di
proseguire e di svilupparsi.
Sin dalla prima attenta lettura del Nuovo Te­
stamento, se lo leggiamo senza prevenzioni di
sorta, costatiamo che effettivamente vi si fa
della teologia. Sarebbe assurdo il voler ricondurre
adeguatamente, per esempio, ogni differenza esi­
stente tra la teologia dei Sinottici o degli Atti degli
Apostoli e quella di un S. Paolo all'intervento di
una nuova ed autonoma rivelazione di Dio. No,
invece: gli uomini del Nuovo Testamento pon­
derano, riflettono sui dati che già conoscono della
loro fede; si pongono dei « problemi », che s'in­
gegnano poi meglio che possono a risolvere da se
stessi in una riflessione teologica; hanno udito
obiezioni, cui si premurano di rispondere, e che
al contempo suscitano in loro sempre nuove no­
zioni; hanno una formazione mentale e teologica
diversa, che si fa sentire nella prospettiva delle
loro affermazioni, nella scelta dei concetti, nelle
sottolineature da essi effettuate nelle loro espo­
sizioni. Possiedono esperienze di vita persona­
lissime, che hanno conquistate di persona, che non
sempre avevano avute a disposizione, che ora flui­
scono nel loro pensiero teologico, esigendo nuove
risposte sul terreno della loro antica fede.
La loro dottrina è diversa; il che per altro non
significa affatto che sia contraddittoria. Non si
potrebbe parlare della teologia di Paolo, di quella
TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO 179

degli scritti giovannei, se in essi non si trovasse


precisamente una « teologia », un'attività umana,
una riflessione umana, il fermento caratteristico
impressovi da una ben determinata individualità
e da una data situazione storica (l'influsso dell'am­
biente giudaico, del perdurare del movimento re­
ligioso iniziato dal Battista, dell'ellenismo, del
giudaismo pre-cristiano e dello gnosticismo pa­
gano).
Di fronte a tutti questi problemi, gli uomini
del Nuovo Testamento non si limitano a ricevere
una risposta da sempre nuove ed autonome ri­
velazioni di Dio (<< cosÌ parla Jahwè»); la ri­
sposta che vi dànno, invece, è il risultato della
loro teologia, della loro riflessione sui primitivi
dati fontali della rivelazione e sulle primissime
nozioni della fede.
Questa riflessione - quando si esprime nel
Nuovo Testamento come Scrittura è sempre di-/ ;.,'
rettamente o indirettamente quella degli auto­
ritari messaggeri di Cristo, che sono dotati d'una
vera facoltà docente - è una riflessione convalida- j
ta dall'assistenza dello Spirito Santo. Essa - nel '
suo risultato materiale, nel suo metodo e nelle sue
caratteristiche formali - è legittimata da ciò che
noi chiamiamo « ispirazione» (la quale non è d'al­
tronde necessariamente la comunicazione d'un
nuovo bagaglio di cognizioni, fino a quel momento
assolutamente inesistenti, alla mente dell'autore
ispirato); il prodotto di questa riflessione teolo­
180 SAGGI TEOLOGICI

gica esiste realmente nel Nuovo Testamento e non


per questo essa distrugge la qualità di parola di
Dio insita nelle sue affermazioni; ma, d'altro canto,
dice chiaramente che non tutto quanto è detto nel
Nuovo Testamento ha in ogni singolo caso per
fondamento un vero e proprio atto autonomo di
rivelazione.

* 7: ,#':

C'è da temere, con l'affermazione fatta, di


volere sfondare porte aperte, enunciando enfa­
ticamente delle cose più che ovvie. Ma conside­
rando in concreto l'andamento mantenuto dalla
teologia cattolica sino ai nostri giorni, rilevando
come non si traggano, o almeno non si traggano
chiaramente con la dovuta linearità, le debite con­
seguenze da questo semplicissimo fatto, sorge il
dubbio che l'elementare principio della teologia
già esistente nell'ambito del Nuovo Testamento
non risulti poi così ovvio come a prima vista po­
trebbe e dovrebbe risultare alla teologia manuali­
stica corrente. Domandiamoci quindi: quali con­
seguenze derivano da questo principio? Non sarà
necessario enuclearle tutte; ma almeno alcune, bi­
sogna pur esporle.
Siccome possiamo genericamente rintracciare
TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO 181

«a posteriori» della teologia nel Nuovo Testa­


mento, senza aver bisogno di ricorrere per pro­
varIo alle altre cognizioni che pure sin qui ab­
biamo già sfruttate, possiamo innanzitutto affer­
mare una cosa: poiché nel Nuovo Testamento
esiste già una teologia, pur formando essa un
dogma, tale teologia può esistere anche nella
Chiesa posteriore. La .teologia evangelico-prote­
stante prende in gran parte le mosse dall'assioma
(sottinteso o espresso) che dopo il Nuovo Te­
stamento esiste, sì, una poderosa storia della teo­
logia, ma nessuna vera storia dei dogmi, nel senso
che in essa nascano dogmi di fede, definitivi e
vincolanti, sempre rnigliorabili nell'espressione e
nella formulazione anche in futuro, ma assoluta­
mente sottratti al dubbio circa la loro verità,
alla possibilità di una revisione e all'eventualità
che possano essere posti in contrasto con un'af­
fermazione del Nuovo Testamento. Per contro,
va invece affermato tassativamente che, se nel­
l'ambito del Nuovo Testamento esiste già una
teologia che crea dei dogmi vincolanti per la fede
e non soltanto dei «theologumena », allora, tale
teologia esiste anche al di fuori del Nuovo T e­
stamento, nella Chiesa dei secoli seguenti, per­
ché i moventi e le necessità sono identici in en­
trambi i casi.
Naturalmente, il Nuovo Testamento come pe­
riodo e soprattutto come Scrittura, costituisce una
èra normativa nei confronti di tutte le età poste­
182 SAGGI TEOLOGICI

riori, essendosi affermato in esso un avvenimento


iniziale, il quale - rappresentando non l'assem­
bramento di un complesso qualsiasi di singole
verità staccate, ma un evento storico di salvez­
za (in cui rientra anche la Chiesa) - forma la
norma perenne e la struttura basilare di tutta la
Chiesa posteriore, di ogni fede e di ogni teologia
successiva.
Questo però non esclude che, nella vicenda
seguente della fede, possa aver luogo il delinearsi
di nuovi dogmi sul terreno del Nuovo Testamento.
Se l'assimilazione stessa della fede e non soltanto
la riflessione teologica sulla consapevolezza della
fede è una vicenda storica - non si sa come po­
trebbe essere diversamente - allora deve neces­
sariamente esistere anche una storia dei dogmi,
perché questa non è altro che la storia della forma
di volta in volta assunta dalla piena adesione della
fede sul terreno dell'unica e immutabile rivelazio­
ne divina, così come essa s'è manifestata una volta
per tutte in Gesù Cristo e deve rimanere in ogni
situazione storica un evento attuale nell'adesione
della fede e non soltanto in quella della semplice
teologia.

Se nel Nuovo Testamento c'è della teologia, che


quantunque espressione vincolante della rive­
lazione intesa come parola di Dio - non è per al­
\ tro un atto originario di rivelazione nuovo di zecca,
TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO 18.3

deve anche sostanzialmente essere possibile farsi un


concetto abbastanza chiaro che ci indichi press' a
poco dove passi nel Nuovo Testamento la linea di
demarcazione tra materia costituente il dato origi­
nario della rivelazione e la teologia di tipo rivelato.
Il fatto che nella teologia cattolica questo problema
stenti a porsi, o quanto meno non si ponga quasi
mai espressamente, sta a dimostrare che la sempli­
cissima tesi enunciata nel nostro assunto - nono­
stante tutta la sua ovvia perspicuità - non viene
affrontata con sufficiente impegno. Logicamente,
si tratta soltanto di tracciare una linea divisoria
approssimativa.
Siccome l'intero Nuovo Testamento, con tut­
te le sue singole parti e tutte le sue affermazioni,
è vincolante nei confronti della teologia successiva
(sempre naturalmente in base al grado d'impegna­
tività vantato dai singoli asserti), nel tracciare
tale linea di demarcazione, non può senz'altro
fungere da criterio normativo quello di stabilire
quali espressioni corrispondano tassativamente,
ossia «impegnando Cristo », al canone interno
della Scrittura, e quali no.
Siccome poi la distinzione - tra un'asserzione
espressa « con altre parole» e un'altra asserzione
che rispetto all' asserto originario è nuova e dice
qualcosa di nuovo - è assai difficile di per se stessa
(lo stanno a dimostrare le varie teorie concernenti
lo sviluppo dogmatico, con la loro distinzione tra
184 SAGGI TEOLOGICI

contenuto formale e virtuale, ecc., di una frase che


ne racchiude un'altra), va da sé che la proiezione
di una linea di demarcazione, in questa materia,
non può pretendere di offrire una definizione netta
e precisa. E questo, oltretutto, anche perché una
formulazione enuc1eativa di ciò che costituisce un
asserto originario e un asserto derivato dalla rive­
lazione suppone a sua volta necessariamente, in
entrambi i casi, un'interpretazione di ambedue i
gruppi di asserti fatta dal tracciante stesso: il che
equivale a fare ancora teologia.
Nonostante tutto, però, si può sempre porre
la seguente duplice questione: che caratteristiche
approssimative possiede ciò che può essere ritenuto
come vero substrato sostanziale del cristianesimo,
se e in quanto rappresenta una notificazione di Dio,
dietro la quale non è più assolutamente possibile
andar oltre? E, invece, quali elementi della parola
rivelata della Scrittura si possono considerare già
come uno sviluppo, un'interpretazione teologica
dei dati originari, ottenuta a mezzo di concetti,
di immagini, di considerazioni o defluenti dalla
problematica stessa dei dati originari, oppure già
esistenti nell'ambiente religioso in cui è sbocciato
il Nuovo Testamento come mezzi espressivi e in­
centivi alla riflessione teologica?
Ammettendo (solo come sensata ipotesi di la­
voro, beninteso, non come stretto principio erme­
neutico) che gli asserti cristologici e soteriologici
del Nuovo Testamento rimontino tutti quanti alle
TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO 185

affermazioni fatte da Gesù circa se stesso e la sua


persona (logicamente, considerata nella luce del­
l'evento pasquale), e non contengano in più alcun
altro elemento il quale si rifaccia a sua volta - ne­
cessariamente e come additivo all'autoaffermazione
di Gesù - ad una nuova sostanziale rivelazione
propriamente detta, è possibile porsi, p. es., un'al­
tra domanda ancora: qual è l'autoaffermazione sto­
rica, fatta da Gesù su se stesso in modo così cate­
gorico, da permettere a tutta la cristologia e sote­
riologia degli altri scritti del Nuovo Testamento
di basarsi su di essa? Stando al concetto che i cat­
tolici hanno della teologia fondamentale, non si
può dire che un interrogativo del genere sia as­
surdo, irresolubile o illecito, né affermare che non
sia permesso risalire dietro la fede cristologica e
soteriologica degli Apostoli e degli Scritti Neote­
stamentari. Se esiste una teologia fondamentale di
stampo cattolico, la quale, in ultima analisi, prende
le mosse da un'autoaffermazione storica di Gesù
o si rifà ad essa (che è poi lo stesso), la domanda
è senz'altro legittima e necessaria. Malgrado que­
sto, il più delle volte viene relegata in un canto.
La rivendicazione chiarmcativa di cui ci occu­
piamo non rappresenta solo una pretesa della cu­
riosità connaturata all'indagine storica, tutta pro­
tesa a sapere come sono andate le cose. Una di­
stinzione di questo genere, una consapevolezza
esplicita e chiara dei rapporti di dipendenza e di
derivazione cui sottostanno i singoli asserti del
186 SAGGI TEOLOGICI

Nuovo Testamento, ha una funzione quanto mai


essenziale. Il conoscere questi nessi d'interdipen­
denza può infatti servire a precisare meglio e con
più nettezza di contorni il senso di un dato as­
serto, la sua reale finalità espressiva e i suoi limiti
di estensione. Quando si è in grado di individuare
la fonte da cui un agiografo neotestamentario ha
attinto quello che dice, si riesce a precisare molto
meglio anche quello che intende dire. In caso di
dubbio, è possibile infatti specificare come egli non
voglia dire nulla più di quanto concede la fonte
originale del suo asserto.
Questo metodo non va preso come un prin­
cipio critico, utilizzabile per respingere come non
impegnativo un dato passo del Nuovo Testamento,
il cui significato è già di per sé assodato da altra
fonte, o dal suo indiscusso tenore verbale. Allorché
il significato del testo è già inequivocabile, il teo­
logo deve limitarsi a dar ragione all'agiografo
neotestamentario, anche quando non riesce a ve­
dere come i presunti dati originari della rivela­
zione - nel caso specifico - autorizzino quel de­
terminato significato, oppure non è in grado di
indicare la fonte da cui lo scrittore neotestamen­
tario ha desunto ciò che dice.
Tuttavia, esistono indubbiamente dei casi in
cui il senso d'una frase, la sua portata e la sua
estensione non sono affatto chiari. In tale caso è
senz'altro lecito, dal lato metodologico, intrapren­
dere il tentativo di precisare il genuino senso del­
TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO 187

l'asserto esaminato (o di un contesto da interpre­


tare), domandandosi « da quale punto di parten­
za » il « teologo del Nuovo Testamento» prenda
le mosse per sviluppare le sue idee, quali even­
tuali premesse e quali eventuali presupposti fac­
ciano da sfondo alla sua disquisizione teologica,
chiedendosi infine che cosa ne derivi e che cosa
non ne derivi. E allorché il senso di un dato as­
serto, determinato in base alla sua scaturigine, non
viene sconfessato dal significato del medesimo as­
serto già assodato altrove, è senz'altro permesso
affermare che il senso precisato nella sua origine
sia anche il significato autentico, sicché nel caso
messo in dubbio esso non esorbita assolutamente
dal significato così stabilito.
In questa sede, non ci è possibile diffonderci
in esempi probanti. È però lecito dal lato « euri­
stico », attenendosi cautamente al «principio di
parsimonia o di economia », supporre, per es., che
s. Paolo, in materia di dati fontali rivelati circa
la sua dottrina del peccato originale, non avesse
a disposizione altro che quanto è desumibile ab­
bastanza chiaramente dall'Antico Testamento e
dalla soteriologia del Nuovo. Ora, domandiamoci
onestamente: che cosa si deduce da questi dati
originari? Questa domanda (come del resto suc­
cede assai spesso nei più scottanti problemi della
filosofia e della teologia) può e deve naturalmente
venir risolta studiando la struttura della teologia
di S. Paolo. È ovvio che tale lavoro può acquistare,
188 SAGGI TEOLOGICI

per il fatto che Paolo ce l'ha elaborata in modo


vincolante, una certezza assai maggiore di quella
che essa avrebbe se l'avessimo pensata noi per
primi. Ma, allorché noi ricostruiamo geneticamen­
te il pensiero paolino, mi sembra (senza poter per
altro qui motivare più a fondo il mio pensiero) che
si arrivi ad una dottrina della colpa ereditaria ge­
nuinamente paolina, che collega il peccato d'ori­
gine al peccato personale molto più chiaramente
di quanto non abbia capito S. Agostino; allora,
ne conseguirebbe anche un'interpretazione della
) dottrina sul peccato originale che guarda per prin­
cipio molte cose in modo assai diverso da quanto
ha fatto S. Agostino; e in essa, si dovrebbe « a
priori» dar molto peso a più d'una caratteristica
che, nella dottrina tradizionale sempre e fin troppo
influenzata da Agostino, viene messa in valore
troppo negligentemente. Peccato che più d'un sem­
plice accenno, indicante quanto fruttuoso possa di­
mostrarsi questo metodo, qui non possiamo al­
legare.

C'è però un punto sul quale, anche tra i catto­


lici, l'esegesi e la teologia biblica moderna, sia pure
sotto altre etichette, usano il metodo da noi de­
scritto. Ma anche qui, la dogmatica cattolica ha
a malapena tentato di seguirle nel suo lavorìo in­
tradogmatico. L'esegesi e la teologia biblica at­
tuale, a proposito delle parole di Gesù, si chie­
TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO 189

dono dunque riflessamente quanto della loro for­


mulazione (nella finalità, nell'esplicitazione della
portata, nei contorni, nell'impiego del materiale
concettuale, e via dicendo) sia invece già una crea­
zione della « teologia comunitaria» (naturalmente,
intesa nel giusto senso cattolico, ossia come teolo­
gia del magistero ecclesiale della Chiesa primitiva,
praticata dagli Apostoli in quanto persone inve­
stite di pieni poteri da Gesù, in quanto maestri
della comunità autorizzati ad impegnare la fede
sotto l'assistenza dello Spirito Santo, e non come
una mera speculazione teologica anonima, non gui­
data da nessuno e priva di qualsiasi garanzia).
Con questo, non si deve superfìcialmentedire
in ogni caso che - dal lato storico - ogni sin­
gola parola di Gesù, nel senso qui inteso, debba
essere già di per se stessa un atto originario della
rivelazione. Tuttavia, la sua vicinanza ad un tale
atto è comunque essenzialmente così grande, che
il pur sempre pensabile distacco da essa, talvolta
qui riscontrabile, risulta quasi sempre irrisorio
(almeno per quanto concerne le vere e proprie af­
fermazioni di Gesù circa la sua persona, benché
anche qui - non dobbiamo sottovalutarlo - egli
adoperi probabilmente dei concetti teologici già
fortemente delineati e pregnanti, e non soltanto
concetti teologicamente neutrali di stampo gene­
ricamente umano). Ad ogni modo, p. es. nell'esca­
tologia di Gesù è incluso già tanto materiale sto­
ricamente proveniente da altra fonte, che è persino
190 SAGGI TEOLOGICI

realmente possibile parlare d'una «teologia» di


Gesù, la quale si limita ad aggiungere unicamente
un dato, un dato solo, all'escatologia tradizionale:
dato, però, che rivoluziona radicalmente tale esca­
tologia tradizionale, in quanto Gesù vi afferma
di essere lui stesso il fulcro della storia mondiale,
il Salvatore in persona, e non soltanto un profeta.
Come abbiamo detto, per la suaccennata ra­
gione non è detto si possa identificare ogni pa­
rola del Gesù storico col concetto di una rivela­
zione originaria (sebbene vada pure osservato che
l'assoluta e innata consapevolezza della qualità di
Figlio di Dio posseduta da Gesù - « visione bea­
tifica immediata di Dio », si chiama in linguaggio
teologico - debba per forza dare a tutti i suoi as­
serti un orizzonte comprensivo tale, da dare a sua
volta ad ognuna delle sue affermazioni, sia pure
materialmente derivate, un'originalità assoluta­
mente impareggiabile). Di conseguenza, in molti
casi, questo lavoro selettivo degli esegeti e degli
specialisti di teologia biblica, intenti a tracciare
una distinzione tra la parola del Gesù storico e
l'opera della « teologia comunitaria », giunge pra­
ticamente alle stesse conclusioni da noi qui cal­
deggiate come metodo differenziativo (non divi­
sivo). La distinzione intrapresa dall'esegeta sembra
a prima vista metodologicamente superflua al la­
voro dei dogmatici, perché essi accolgono l'intera
Scrittura con tutto il suo contenuto come parola
ispirata e infallibilmente vera di Dio, e quindi non
TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO 191

sembra loro affatto essenziale il sapere donde pro­


venga l'esatto tenore verbale d'un dato asserto,
se da Gesù stesso oppure dalla « teologia comuni­
taria » che interpreta le parole di Gesù già in for­
ma teologica, basandosi sul complesso della fede in
Cristo. Quando però si tratta di individuare il si­
gnificato esatto, e forse sin troppo difficilmente de­
terminabile, di una parola di Gesù contenuta nei
Vangeli (e questo può sempre capitare), allora la
distinzione di cui ci stiamo occupando può diven­
tare importante anche per il dogmatico.
P. es., quando si tratta di precisare il senso di
testi quali Mt 10,23 oppure Mc 9,1, non è af­
fatto indifferente se essi vadano considerati detti
da Gesù « cosÌ» come suonano, oppure no. Lo
stesso si dica, p. es., della formula trinitaria conte­
nuta in Mt 28,19. Se essa è già un atto riflesso
della teologia trinitaria pulsante nella comunità
primitiva, allora è prendendo le mosse da questa
costatazione, che bisogna esaminarne il senso e
la portata. Allora, non si può imbastire il proprio
ragionamento ostinandosi ad interpretare questa
formula come se provenisse direttamente dall'im­
mediata visione beatifica di Dio posseduta da Gesù;
bisogna invece chiedersi che cosa muova la teologia
della comunità primitiva ad invocare, in una for­
mula battesimale, Padre, Figlio e Spirito Santo.
Con ciò, s'impone l'esigenza di un'interpretazione
innanzitutto economico-salvifica di questa Triade,
tramite la quale interpretazione, è possibile rag­
192 SAGGI TEOLOGICI

giungere la Trinità immanente con una precisione


molto maggiore di quella con cui forse non sarebbe
affatto possibile raggiungerla partendo cosi, dalla
prima considerazione, senza conoscere questo al­
tro punto di avvio.
E di simili esempi pratici, sul come utilizzare
nel campo dell'ermeneutica il principio da noi
enunciato, se ne potrebbero addurre a iosa.

L'auspicata proiezione di una tale linea di di­


stinzione selettiva potrebbe poi portare un'utilità
ancor più sostanziale.
Chi di noi non ha già avuto l'impressione che
il Nuovo Testamento, e più ancora la dogmatica
insegnata nelle nostre scuole, sia un intricatissimo
e quanto mai complicato sistema di asserti, un
farraginoso complesso di dati, di punti di vista,
di contesti, di suddistinzioni, di pensieri contra­
stanti e spesso "clssai difficilmente armonizzabili tra
loro, la cui sintesi richiama a sua volta ancor più
complicate suddistinzioni? Orbene, almeno una
cosa è chiara e lampante sin dall'inizio: la verità,
che intende abbracciare ed esprimere sia pure di
lontano l'infinità di Dio, la sconfinata complessità
del mondo e della storia della salvezza, non può
essere cosi semplice da far sì che la sua espressione
non venga a chieder molto alle nostre forze. Un
sistema liscio e scorrevole, composto solo di al­
cune poche formule concernenti la realtà intrinseca
TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO 193

dell'atto religioso, porterebbe impresso - già nella


sua chiarezza e nella sua semplicistica faciloneria
- l'impronta del falso.
Eppure, il messaggio evangelico si rivolge al­
l'uomo comune, mirando ad aiutarlo a sopportare
la sua penosa e breve vita; il messaggio del Van­
gelo non è il materiale su cui debba esercitarsi la
perspicacia dialettica degli uomini. Soprattutto
l'uomo moderno ha l'impressione che, a propo­
sito del vero messaggio di Dio, bisogna sempre
tener presente come esso abbia la funzione di af­
fermare quell'ineffabile mistero da noi appunto
chiamato Dio. Egli pensa che il suo messaggio
non abbia la pretesa di « aver scoperto qualcosa di
nuovo », bensì l'intenzione contraria: quella cioè
di mettere l'uomo in stretto contatto con un Dio
che va mostrandosi sempre più grande, portando
l'uomo di fronte all'autentico mistero divino, per
farlo così realmente uscire dal suo piccolo guscio
ergendosi sopra se stesso, in modo da permettergli
di addentrarsi in quell'atto che si chiama fede, ado­
razione, abbandono, o comunque lo si voglia de­
signare.
La riflessione sul messaggio cristiano deve ne­
cessariamente e fruttuosamente comportarsi da ri­
flessione) ossia essere - come è di norma per una
teologia - complicata, sottile, astratta; deve in­
somma essere in certo qual modo una misteriosa
scienza di tipo esoterico, accessibile soltanto agli
iniziati. Questo è forse inevitabile; per cui, non
194 SAGGI TEOLOGICI

dovrebbe suscitare troppo precipitosamente e fa­


cilmente le proteste del « semplice cristiano ». Ta­
le complicata teologia svolge un'inderogabile fun­
zione per il fatto che in essa viene appianato il sem­
plice messaggio evangelico, viene dilucidato il suo
contenuto « kerigmatico » tutt'altro che semplice,
tutt'altro che esposto chiaramente e utilitaristica­
mente in tutta l'estensione che dovrebbe avere.
Questa teologia, però, non deve presentare il
« kerigma » come una teologia « ad usurn delphi­
ni », come una teologia volgarizzata, cosÌ come nei
rotocalchi viene spiegata la microfisica del « Signor
Ognuno» l. Il semplice messaggio evangelico, il
« kerigma» stesso, devono risultare sempre l'ele­
mento di maggior peso, il più vicino alla realtà in­
segnata, il più profondo e più impegnativo della
mente e del cuore, malgrado la sua semplicità ­
anzi, meglio - proprio a causa della sua sempli­
cità lineare. Il sistema riflesso deve sempre figu­
rare come elemento derivato e secondario rispetto
al «kerigma», perché quest'ultimo - inteso a
fondo ed esattamente - non costituisce il discorso
primordiale sulla realtà, bensÌ la realtà stessa in­
tesa e sperimentata, e quindi non può affatto venir
sostituito dalla riflessione teologica. No, perché il
« kerigma» rettamente inteso non è un discorso
accessorio fatto su una data cosa, bensÌ la realtà

1 «Herr Jedermann », popolare figura della lettera tura te­


desca di fantascienza.
TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO 195

stessa della cosa. In contrapposizione alla teologia


riflessiva, esso risulta integralmente presente e in­
teso nel giusto senso allorché include la grazia, in
cui viene annunziato e ascoltato; si afferma allor­
ché evoca la trascendenza dell'uomo, divinizzata
dalla grazia e fatta capace di penetrare nella realtà
stessa di Dio: trascendenza che non si rende pre­
sente nel discorrere, ma nell'esperienza «quoti­
diana », nel travaglio dell'amore, della morte, del­
l'inseparabile incontro con il mistero, nella cui abis­
sale profondità tutto affonda le sue radici, la cui
notte illumina da sola tutti i primi piani rischiara­
bili dell'esistenza umana.
Il « kerigma », per altro, risulta davvero sem­
plice appunto quando è realmente se stesso, non
quando è teologia depotenziata: e ciò, perché in
ultima analisi l'elemento più semplice è anche il più
abissale, e viceversa. Orbene: questa evocazione
« kerigmatica» del carattere inafferrabile della
Divinità che si dona e redime, contenuta nella
fede cristiana e resa presente proprio tramite il
messaggio della fede, ha ovviamente e necessaria­
mente uno stile legato al suo tempo, una sua fi­
sionomia vincolata alla situazione del momento; e
ciò, per la semplice ragione che essa deve andare
incontro all'uomo concreto, così com'è.
Da notare - per inciso - che non si intacche­
rebbe affatto la dignità e la perenne importanza
della Scrittura, attribuendo più coraggiosamente
anche alla Bibbia questa fisionomia storicamente
196 SAGGI TEOLOGICI

condizionata alle circostanze del momento, che,


anzi, casomai ne innalzerebbe il valore invece di
diminuirlo, e ammettendo tranquillamente la dif­
ficoltà di comprensione che essa presenta a noi,
uomini d'un'altra epoca; noi infatti stentiamo a
capire come diretto a noi ciò che in essa è detto,
stentiamo ad afferrarlo a fondo, e proprio nei punti
in cui vediamo in gioco le più tragicamente sem­
plici realtà della nostra concreta esistenza, non là
dove le sfuggiamo in un'ideologia romantica, che
ci rapisce in un incanto purtroppo meramente este­
tico. Essendo convinti di questo fatto, sapremmo
anche attingere dalla Scrittura la vera consolazione
realmente contenuta in essa. Attenendoci rettamen­
te a questo criterio, la nostra parola raggiunge­
rebbe oggi probabilmente assai più uomini di quan­
ti ne raggiunga alla prova dei fatti.

Sebbene questa caratteristica legata al tempo,


insita nel « kerigma », non possa affatto venir tra­
scurata (o meglio: affinché non venga trascurata),
occorre sempre chiedersi quale sia il messaggio
vero e proprio, quale sia la realtà intesa nella com­
plicatissima teologia. Non nel senso caro ai lati­
tudinaristi o ai modernisti, quasi che tramite que­
sta indagine si dovesse stabilire quanta parte della
« sostanza» del cristianesimo si possa impunemen­
te gettar a mare, quanti elementi si possano scar­
tare come irrilevanti dall'impegnatività della fede:
TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO 197

ciò sarebbe una pura e semplice eresia. Sì, perché


l'elemento «sconfinatamente semplice» si mani­
festa già di per se stesso in tutto ciò che la compli­
cata teologia dice; per cui, sarebbe davvero con­
troproducente voler rinunciare ad una buona parte
della sua autospiegazione.
Però, deve venir enunciato realmente come
« kerigma », non come teologia complicata: come
elemento primario, non come sottoprodotto sem­
plificato della teologia. E la dottrina cattolica della
« fides implicita », che un tempo suonava agli orec­
chi evangelico-protestanti come un'atroce aberra­
zione, il problema concernente quanto vada cre­
duto « de necessitate medii et praecepti » e quan­
to no, in definitiva non sono affatto delle disquisi­
zioni casistiche tendenti a minimizzare l'impegna­
tività della fede, ma scaturiscono invece dall'esatta
e quanto mai importante convinzione che la fede
vera e propria raggiunge la sua specifica essenza
sempre come abbandono all'inafferrabile Iddio,
come accettazione dell'Indisponibile, come pos­
sesso - effettivo possesso! - dell'Incommensu­
rabile; ed è questo che ha di mira la «fides im­
plicita ».
In questi problemi, si fa sentire la convinzione
che l'effettivo possesso della realtà rivelata non
sempre necessariamente cresce (anzi, talvolta per­
sino diminuisce) col crescere dello sviluppo con­
cettuale della sostanza raggiunta nell'autentico atto
di fede. Tale atto, infatti, raggiunge, sì, attraverso
198 SAGGI TEOLOGICI

l'aggettivazione concettuale (sino ad un certo pun­


to), ma non in essa, bensì nell'esperienza della gra­
zia divina della fede, nella luce della fede, la real­
tà pensata, quella realtà che è il fondamento e
al contempo il vero e proprio oggetto della fede,
la grazia della fede che - come grazia increata ­
è lo stesso Dio Trino, ed è anche il contenuto della
fede stessa posseduto nell'atto di fede.
Ben a ragione quindi s'impone il problema di
sapere che cosa sia il nucleo essenziale della fede,
quale sia la maniera giusta in cui il «kerigma»
debba presentare concettualmente la realtà da es­
so adombrata, affinché l'atto uditivo dell'accoglien­
za di questo « kerigma » - ossia la fede - possa
risultare più radicalmente esistenziale e meglio col­
legato, nell'atmosfera della grazia, alla realtà che
intende esprimerci. Ora, questo problema è in
stretto contatto con la questione cui è dedicato il
presente breve saggio.

Naturalmente, la questione da noi presa in


esame può anche essere avviata a soluzione in una
maniera diversa da quella ottenibile rispondendo
agli interrogativi posti dalla presente indagine, la
cui risposta deve cercar di scoprire, soltanto con
un'osservazione fatta « a posteriori », la struttura
genetica degli asserti neotestamentari. È anche pos­
sibile, infatti, tentare di risolverla con un procedi­
mento più speculativo. A questo fine, si può dire
TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO 199

in genere che il nucleo centrale della rivelazione


cristiana e l'unità costituita dai misteri presi in
senso stretto, si comprendono riflettendo sul fatto
che l'assoluto mistero di Dio ha voluto rendersi
presente in mezzo a noi non soltanto come lon­
tano traguardo polarizzatore, ma concedendosi a
noi in un'assoluta e radicale auto-comunicazione
tramite la grazia, come il più intimo substrato della
nostra esistenza e quindi come un mistero stabil­
mente accostatosi a noi per venir accolto dal nostro
amore; si potrebbe dimostrare, sia pure solo in
via deduttiva, risalendo dai singoli misteri cono­
sciuti e creduti dal cristianesimo, che i tre massimi
misteri cristiani (la Trinità, l'incarnazione, la gra­
zia sfociante nella gloria) vanno considerati come
delle articolazioni necessariamente interdipendenti
dell'unico mistero fondamentale della nostra con­
creta esistenza, ossia che il mistero è semplicemen­
te la realtà divina messasi alla nostra portata nella
grazia, e quindi come tale da accettarsi per via di
fede e di amore 2.
Può anche darsi che tale prospettiva unifica­
trice sia tipicamente moderna. Non per questo la
si deve mettere in discussione. È infatti innegabile
che il pathos dell'esperienza di Dio, quale si è af­
fermato nell'uomo dei nostri giorni, gli fa sentire
in modo altamente esistenziale (e non soltanto nel

2 Cfr. il saggio Sul concetto di mistero nella teologia cat­


tolica, p. 391 SS.
200 SAGGI TEOLOGICI

campo teoretico, come è sempre avvenuto in pas­


sato) il mondo soprannaturale: Dio, egli lo vede
come l'Inesprimibile e l'Inconcepibile. Per cui, è
più che giustificato il considerare la lineare inaf­
ferrabilità e l'inafferrabile linearità di tutto il mes­
saggio cristiano prendendo le mosse da questa co­
statazione. Ora, se il problema da noi qui esami­
nato, che verte sulla distinzione tra contenuto
« kerigmatico » e teologico del Nuovo Testamen­
to, vien da noi lasciato sostanzialmente senza ri­
sposta - perché il nostro assunto riguardava solo
la sua legittimità - è dunque da supporre che il
problema cosÌ impostato, e la seconda questione
solo brevemente accennata in sé e nella sua ri­
sposta, finiscano quanto meno per dare un risul­
tato convergente, quando in pratica non coincidano
perfettamente.
Va osservata però una cosa. Tentando di fare
una distinzione tra rivelazione originaria e teolo­
gia basata su di essa - ma pur sempre impegna­
tiva e «quoad nos» autenticamente rivelata ­
non intendiamo affatto affermare che nel Nuovo
Testamento esistano degli asserti, i quali siano
unicamente e « chimicamente» (sit venia verbo!)
una mera aggettivazione del primordiale atto di
rivelazione, senza essere in alcun modo già della
teologia. Abbiamo già sottolineato come, di per
se stesso, l'atto di udire una rivelazione sia al con­
tempo un frammento d'attività dell'uomo: attività
che implicitamente è già teologia. È fuor di dubbio
TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO 201

che il vero e proprio atto di rivelazione si inserisce


anche così «profondamente» nell'intimo del­
l'uomo (tanto più che esso è proprio rivelazione
dell'auto-comunicazione divina della grazia « divi­
nizzante », che in fondo non intende dire altro
fuorché questo, là dove è giunto al suo punto cul­
minante e alla sua perfezione), che ogni singola
oggettivazione concettuale della sostanza da esso
comunicata è già secondaria nei suoi confronti, ~
quantunque tale oggettivazione sia a sua volta vo­
luta così com'è e garantita nella sua esattezza da'
Dio stesso (in una rivelazione pubblica, in cui
questa seconda rivelazione deve essere trasmessa,
ad altri come a soggetti della rivelazione imme-,
diata).

Di quanto abbiamo asserito, possiamo farci


un'idea più chiara rifacendoci all'esempio dei mi­
stici. Nell'esperienza mistica, è noto come occor­
ra distinguere nettamente tra la vera e propria
esperienza di Dio che si verifica nell'intimo della
persona toccata da questa grazia, e la sua espres­
sione concettuale, la sua spiegazione e la sua og­
gettivazione riflessa intrapresa dal mistico, prima
per sé e poi anche per gli altri, con l'aiuto di con­
cetti e di mezzi espressivi provenientigli da altre
fonti. Se si prescinde dal fatto che per quanto ri­
guarda la garanzia divina offerta a questa oggetti­
vazione concettuale, esiste una differenza essenzia­
202 SAGGI TEOLOGICI

le tra la rivelazione ufficiale pubblica e una « rive­


lazione privata» di stampo mistico, per il resto
l'autentica ed originaria esperienza intima fatta
nell'atto rivelante dal primitivo destinatario della
rivelazione si può capire benissimo paragonandola
all'esperienza intima fatta dal mistico.
Infatti, se, nella sua qualità di auto-comuni­
cazione soprannaturale di Dio, la grazia è anche
luce (lume della fede, «illustratio et illuminatio
mentis et cordis »), come l'antica teologia ha sem­
pre saputo - poiché senza un'idea conduttrice di
questo genere, la dottrina del Nuovo Testamento
che parla di luce, di unzione, di dinamica speri­
mentale dello Spirito, di gemito inenarrabile dello
Spirito, ecc., risulterebbe assolutamente incom­
prensibile - allora, anche l'intima investitura
della grazia è già di per sé una forma di rivela­
zione, e lo è, quantunque come rivelazione pub­
blica, ufficiale e destinata ad altri, raggiunga la sua
perfezione completa soltanto nell'oggettivazione
divinamente garantita di ciò che già in essa sus­
siste in modo irriflesso nell'uomo.
Questa rivelazione basilare, fatta per via di
grazia, deve anzi formare il substrato su cui s'in­
nesta il processo originario disvelatore nella rive­
lazione propriamente detta. Appunto perché, pri­
ma della visione beatifica, fondamentalmente e
« per definitionem » non può esistere forma di ri­
velazione più sublime dell'auto-comunicazione di
Dio per via di grazia, questa deve formare la base
TEOLOGIA NEL NUOVO TESTAMENTO 203

anche della rivelazione come la intendiamo usual­


mente. In un secondo tempo, questa viene poi ad
avere il momento dell'oggettivazione ufficiale, della
concretizzazione concettuale, della promulgazione
a tutti con autorità vincolante, estendentesi a tutte
le dimensioni dell' esistenza umana (individuale e
sociale), obblìgatorietà vincolante che non spetta
ancora alla rivelazione basilare fatta mediante la
grazia nell'intimo dell'uomo. Ora, se le cose stan­
no così, è facile anche capire come questo processo
originario della rivelazione - il quale anche nella
Scrittura precede la teologia - non possa affatto
venir individuato identificandolo con una determi­
nata oggettivazione in certi asserti scelti « ad hoc»
nel Nuovo Testamento. Vi fa, sì, da substrato basi­
lare, ma non si identifica con certe affermazioni
concettuali oggettivanti, anche allorché queste co­
stituiscono per noi l'oggettivazione assolutamente
impegnativa e il perfetto intermediario del pri­
mordiale atto di rivelazione.

Tenendo presenti queste considerazioni, è fa­


cile capire come il problema del contenuto pre­
teologico e « kerigmatico » del Nuovo Testamen­
to, che va distinto dalla teologia del Nuovo Te­
stamento, e l'altro problema concernente il nucleo
centrale « kerigmatico » del suo messaggio, che noi
siamo tenuti a diffondere, siano strettamente col­
legati. Concediamo che rientri nell'ambito delle
nostre facoltà il parlare su ambedue queste realtà,
204 SAGGI TEOLOGICI

tra le quali la teologia riflessa ha il compito di


operare una distinzione, sia pure solo per via di
concetti, per via appunto teologica. Ma è quanto
mai importante che la teologia capisca come rientri
nella funzione essenziale delle idee da essa enun­
ciate il ribadire che essa non costituisce il fonda­
mento dell'esistenza cristiana: esattamente come
la metafisica non costituisce il fondamento dell'esi­
stenza spirituale, quantunque entrambe - teolo­
gia e metafisica - appartengano di necessità a
questa nostra esistenza umana e cristiana.
4.

ESEGESI E DOGMATICA *

Ciò che stiamo per esporre .nel presente saggio


non mira soltanto, e nemmeno in primo luogo, a
risolvere la questione accademica dei rapporti in­
tercorrenti tra le due scienze che c'interessano, va­
le a dire tra l'esegesi (affiancata dalla teologia bi­
blica) e la dogmatica. Diremmo piuttosto che que­
sto studio è stato motivato dall'impressione, assai
diffusa, che nel campo della teologia cattolica pre­
domini una certa freddezza tra i cultori di queste
due discipline. Ci pare, anzi, che non pochi espo­
nenti dei due settori della teologia cattolica si
guardino a vicenda con una certa diffidenza per
non dire con malcelato risentimento.
I dogmatici sembrano talvolta inclini a pen­
sare che gli esegeti si prendano ben poco a cuore

* Titolo originale: Exegese und Dogmatik, in Schriften


zur Theologie, V, Benziger, Einsiedeln, 1962, pp. 88-111; ver­
sione di E. Martinelli, aeD.
206 SAGGI TEOLOGICI

quella teologia cui il dogmatico si sente profonda­


mente legato, quella teologia che - tra il resto ­
dà la sua sentenza anche sui problemi che formano
l'oggetto dell'esegesi (presa nel senso più ampio
del termine).
Gli esegeti, dal canto loro, sembra pensino a
volte che i dogmatici vogliano imporre loro dei
vincoli nient'affatto giustificati dalla realtà delle
cose, dal momento che non si sono tenuti abba­
stanza al corrente sui progressi conseguiti dal­
l'esegesi cattolica negli ultimi decenni.
Non abbiamo alcuna intenzione, qui, di ana­
lizzare più a fondo- o di documentare con prove di
fatto la suaccennata tensione. Del resto, non è poi
un argomento che si sia condensato tanto spesso,
o in modo esplicito e mordace, nei libri e nelle
altre pubblicazioni stampate. Questa rivalità, al­
meno sinora, si manifesta più che altro nei dialo­
ghi, nelle conferenze, nelle lezioni scolastiche e
perfino naturalmente negli immancabili pettego­
lezzi clericali. Se si volessero inseguire tutte queste
quisquilie, si finirebbe per andar a perdersi in un
intrico di contrasti personali, suscitando un'infini­
tà di risentimenti e di polemiche astiose. Il che
non ha alcun senso e non porta alcuna utilità.
Siccome però la rivalità da noi indicata non è
soltanto lo spettro creato da una fantasia tormen­
tata, ma c'è davvero, e quindi dobbiamo senz'altro
evitare che da questo fatto derivi magari a poco a
poco un vero danno sia alla scienza sia alla Chie­
ESEGESI E DOGMATICA 207

sa, credo opportuno e consigliabile metterei a fa·


re alcune considerazioni sui rapporti intercorrenti
tra dogmatica ed esegesi: con tutta sobrietà, ma
anche con tutta franchezza. Sì, perché, tentando di
nasconderle, queste cose né si accomodano, né
vengono tolte di mezzo.
Per altro, se qualcuno - contro l'intenzione
dell'autore e contro l'oggettivo stato delle cose ­
dovesse ricavare dalla nostra dissertazione l'idea
che nella teologia cattolica tedesca allignino solo
sconfortanti polemiche di carattere interpretativo
o personale, oppure che l'estensore del presente
saggio si presenti al pubblico per dare sfogo alla
sua animosità, non me la p;endo affatto. Sono an­
zi pronto ad affermare che anche un simile tra­
visamento dei fatti non costituirebbe una ragione
valida per passar sotto silenzio le osservazioni che
ci accingiamo a fare. Persino le considerazioni più
rette e più importanti possono venir fraintese: lo
sanno tutti.

Avverto che non parliamo nemmeno, né di·


rettamente, né indirettamente, dello spiacevole ar­
ticolo, così lesivo per la dignità e il buon nome
della scienza cattolica, pubblicato da A. Romeo con­
tro i Professori del Pontificio Istituto Biblico 1.

l A. ROMEO, L'Enciclica «Divino afjlante Spiritu» e le


«opiniones novae », in Divinitas 4 (1960), pp. 387-456, cfr.
Herder·Korrespondenz, 15 [1961], 287); Pontificium Institu­
208 SAGGI TEOLOGICI

Dato però che questo scritto scaglia indegni sospetti


proprio contro gli esegeti tedeschi, contro le loro
vedute da lui dette esplicitamente « brume nordi­
che », con il quale eufemismo viene designata l'ese­
gesi cattolica tedesca e apostrofati senza ambagi i
suoi esponenti, ci limitiamo a riaffermare, cosi di
sfuggita, una cosa sola: l'esegesi cattolica tedesca
considera, a buon diritto, come una bassa e odiosa
denigrazione della sua nobile attività e dei suoi sen­
timenti ecclesiali, l'essere sospettata di eresia e di
tendenze anti-ecclesiali. Si può esser buoni cattolici
anche a qualche centinaio di chilometri da Roma.
Ci auguriamo che anche i dogmatici e i Vescovi
cattolici, in perfetta solidarietà con gli esegeti te­
deschi, respingano decisamente e con tutta energia
tali inqualificabili e globali insinuazioni. Ripetiamo
tuttavia, che non intendiamo affatto riaprire que­
sto capitolo piuttosto inglorioso.

Il fatto che cominciamo a parlare, con tutta


sobrietà ed evitando il tono polemico, di difficoltà
realmente fondate e consistenti, non costituisce per
nulla una prova che nell'esegesi cattolica regni una

tum Biblicum et recens libellus R. D. A. Romeo, in Verbum


Domini 39 (1961), pp. 1-17; f.-M. LE BLOND, L'Église et
l'Histoire, in Éludes 309 (1961), p. 8455.; cfr. anche L. ALON­
SO-SCHOKEL, Argument d'Écriture et théologie biblique dans
l'enseignement théologique, in Nouvelle revue théologique 81
(1959), p. 337; ID., Probleme der biblische Forschung in Ver
gangenheit und Gegenwart, Diisseldorf, 1961.
ESEGESI E DOGMATICA 209

situazione allarmante, e neppure che alla fin dei


conti abbiano ragione quanti invocano a gran vo­
ce la scomunica ecclesiastica. Ma, d'altro canto,
non significa ovviamente nemmeno che si debba
continuare a tirare avanti così, come se non esi­
stessero problemi e difficoltà.

Intanto è degno di attenzione il fenomeno


che, soprattutto oggi, i problemi « subcutanei »,
da cui prendono lo spunto queste riflessioni, si
trovano nel settore del Nuovo Testamento, piut­
tosto che nel Vecchio. Trent'anni fa, invece, pre­
valeva ancora il punto di vista opposto. Per que­
sta ragione, le nostre considerazioni verteranno
di preferenza sulle questioni che andrebbero me­
glio e più nitidamente messe a fuoco, tra esegeti
e dogmatici, a proposito del Nuovo Testamento.
Se qualcosa di quanto andremo dicendo farà
pensare al discorso di un saccente snobistico o
dell'orgoglioso che si è autonominato arbitro della
controversia, provi un po' il benevolo lettore a
domandarsi se questa sua impressione si sarebbe
potuta evitare in altro modo, che non fosse natu­
ralmente quello di lasciar stare il ferro rovente
perché scotta. Se poi egli è dell'idea che quest'ul­
timo metodo sia ancora il peggiore, abbia la bon­
tà di dare per scontate in partenza anche le sue
impressioni sfavorevoli, come inevitabili fenome­
ni marginali di una cosa pur tanto necessaria.
210 SAGGI TEOLOGICI

Esprimendo apertamente la nostra idea, senza


timori e in piena libertà, ci sembra di non accam­
pare altro diritto all'infuori di quello che compete
ad un figlio, il quale non deve avere alcuna paura
di esporre ai genitori la sua modesta e rispettosa
opinione fra le quattro mura della casa paterna;
intendiamo usare unicamente la facoltà legittima
costituita nella Chiesa dalla necessità che esista
viva e pulsante nelle sue file un'opinione pubblica,
la cui mancanza tornerebbe di grave danno sia ai
pastori che al gregge, come ha espressamente di­
chiarato Pio XII 2.
La suddivisione del presente studio è sempli­
cissima: prima ci rivolgiamo agli esegeti, poi ai
dogmatici, e finiamo aggiungendovi alcune conside­
razioni conclusive.

Cosa dice il dogmatico agli esegeti

Cari fratelli e stimatissimi colleghi: permette­


temi di dirvi la mia opinione. Voi esegeti non
guardate sempre abbastanza a noi dogmatici e
alla nostra dogmatica. Se parlo enunciando giudizi
un po' generalizzati, non abbiatevelo a male e non
adiratevi con me. Chi non ha alcun motivo reale

2 Allocuzione ai partecipanti al Congresso Internazionale


della Stampa Cattolica, tenuta il 17 febbraio 1950, AAS 42
(1950), p. 25155.
ESEGESI E DOGMATICA 211

per esser colpito, non deve sentirsi imputare pec­


che nemmeno in questa sede.
Premesso questo, ribadisco però l'impressione
che ho: voi esegeti dimenticate talvolta di essere
dei teologi cattolici. Oh, voi volete naturalmente
esserlo, e va da sé che lo siete per davvero. Ov­
viamente, non ho la minima intenzione di insi­
nuare l'ingiusto sospetto che non conosciate i prin­
dpi assiomatici della religione cattolica concer­
nenti i rapporti tra esegesi e dogmatica, tra fede e
ricerca, tra scienza e Magistero ecclesiastico, o che
non vogliate attenervi ad essi. Ma siete anche voi
uomini, e quindi peccatori come tutti gli altri uo­
mini (ivi compresi i docenti di dogmatica). Per cui,
può benissimo accadere anche a voi, nel quotidia­
no maneggio della scienza, di non dar sufficiente
peso a questi postulati fondamentali. Capita a tut­
ti qualche volta, no? Potete dunque anche voi di­
menticare (non negare, o escludere in via di prin­
cipio) di star trattando una materia, che costituisce
un momento interno della teologia cattolica vera
e propria, per cui è tenuta anche ad osservare tut­
ti i princìpi inerenti alla teologia cattolica stessa.
Di conseguenza, l'esegesi cattolica è una scien­
za della fede, e non soltanto filologia e scienza
delle religioni; essa sta positivamente in relazione
con la fede della Chiesa e con il Magistero eccle­
siastico. La dottrina e le direttive dell'autorità do­
cente della Chiesa, nei confronti dell'esegesi cat­
tolica, non rappresentano soltanto una «norma
212 SAGGI TEOLOGICI

negativa », ossia un limite che non si può oltre­


passare se si vuole restare ancora cattolici. Vicever­
.sa, esse sono più che altro un principio positivo
interno, che guida lo stesso lavoro esegetico della
ricerca, quantunque debba essere sempre messo be­
ne in rilievo (ne riparleremo fra poco, nel brano
dedicato ai docenti di dogmatica) quanto, nel la­
voro di esegesi e nella teologia biblica è un risul­
tato del metodo filologico e storico in se stesso, e
quanto non lo è. Mi rincresce, ma non possiamo
qui precisare ulteriormente che cosa comporti,
nella pratica concreta, la nostra affermazione che
l'esegesi è un'autentica scienza teologica, con tut­
te le conseguenze relative.
Torniamo a noi. Sono facilmente rintracciabili
alcuni indizi, pienamente atti a confermare il fatto
che la coscienza autenticamente teologica in voi
non è sempre così viva come dovrebbe. Ho la netta
impressione che voi lavoriate spesso, allegri e com­
piaciuti, nello stile del semplice filologo laico. e
dello storico profano. E ve lo dimostro subito.
Allorché sorgono delle difficoltà, dei problemi
riguardanti la teologia dogmatica o la fede nella
mente dei vostri giovani teologi o dei laici da voi
istruiti, voi dichiarate perentoriamente: questo
non « ci » riguarda; questa è materia che compete
ai dogmatici, cerchino di sbrogliarsela loro ... No,
cari fratelli: i dogmatici possono e devono accetta­
re del lavoro su vostra segnalazione, e anche ar­
ESEGESI E DOGMATICA 213

rabbiarsi. Ma voi non dovete assolutamente di­


menticare che il vostro primo e precipuo com­
pito è proprio quello di dimostrare la reale e piena
conciliabilità delle vostre conclusioni con il dog­
ma cattolico e - almeno in linea di principio ­
anche con la dottrina non definita della Chiesa;
e non solo siete tenuti a dimostrarla senza forza­
ture e con tutta onestà, ma anche elaborandone
e agevolandone la concordanza quando è il caso.
In fin dei conti, siete pur dei teologi cattolici. E
quindi avete la stessa identica responsabilità dei
docenti di dogmatica, di fronte alla dottrina della
Chiesa e alla fede del semplice credente.
Non abbiatevene a male, non vogliatemene se
ve lo dico: talvolta si ha l'impressione che non sia­
te sempre molto convinti di questa vostra respon­
sabilità, che proviate quasi un sottile piacere ma­
ligno, non appena riuscite a creare vere o suppo­
ste difficoltà a noi dogmatici. Date l'impressione
di considerare come la vetta suprema e la prova
più lampante dell'autentica scientificità della ma­
teria che insegnate, proprio nel riuscir a scovare
delle difficoltà.
Voi dovete essere critici, spietatamente critici.
Non dovete mai farvi promotori di vergognosi ac­
comodamenti tra i dati della scienza e quelli della
dottrina ecclesiale. Quando occorre, potete anche
tranquillamente additare un problema esponendo­
ne con tutta onestà i termini, anche allorché non
ne vedete subito - malgrado tutta la vostra buo­
214 SAGGI TEOLOGICI

na volontà - una soluzione positiva, atta a con­


ciliare l'insegnamento ufficiale del Magistero (o
ciò che al momento appare come tale), con i risul­
tati veri o supposti della vostra scienza. Ma do­
vete considerare come apice supremo della scienza
da voi insegnata unicamente l'aver adempiuto si­
no in fondo il vostro dovere. E in questo rientra
(come parte integrante del vostro compito di ese­
geti cattolici) il portare la prova dell'armonia che
regna tra i vostri insegnamenti e la dottrina eccle­
siale, dimostrando come le vostre conclusioni con­
fluiscano da sé nella dottrina della Chiesa, quasi
essa ne fosse la più genuina espressione. Un lavoro
del genere, va da sé che non occorre lo faccia ogni
singolo esegeta e ogni qualvolta insegna (senza
suddivisione del lavoro e senza specializzazione in
un dato settore del lavoro, oggi, non se la cava più
nessuno); ma un'attività di questo tipo fa parte in­
tegrante del compito affidato all'esegeta. Nel
quadro della vostra missione d'insegnanti, questa
preoccupazione dovrebbe risultare spesso assai più
visibile di quanto mi sembra risulti in realtà.
Allora, come la mettiamo? Se voi lasciate tut­
to quanto a noi il lavoro di gettare un ponte tra
l'esegesi e la dogmatica, e noi poveri dogmatici
accettiamo di accollarcelo (e allora saremmo co­
stretti invece noi a cimentarci con l'esegesi, perché
un ponte deve pur toccare e collegare due rive,
non una sola), allora - siate onesti! - sareste
proprio voi i primi a gridare all'usurpazione. Sa­
ESEGESI E DOGMATICA 215

reste proprio voi a puntare i piedi, urlando che


noi docenti di dogmatica non comprendiamo
un'acca di esegesi, e andiamo abborracciando alla
carlona quattro nozioni di esegetica a buon mer­
cato, dalla quale dovremmo invece tener giù le
mani. Insomma, a chi tocca questo compito di col­
legamento, che pure è inderogabile?

Ci sono delle volte, in cui fate davvero un'im­


pressione strana: da una parte vi lamentate che
noi si apprezzi troppo poco la Scrittura, che si
faccia troppa teologia scolastica e troppo scarsa
teologia biblica. Mentre poi, dall'altra, appena vi
si chiede di dimostrare come e dove nella Scrit­
tura la dottrina della Chiesa trovi la sua espres­
sione o almeno il suo fondamento giustificativo,
incominciate a scusarvi e a schermirvi, dichiaran­
do che per quanto concerne quella data dottrina
della Chiesa (p. es. certi sacramenti, certi dogmi
di mariologia, ecc.), nonostante tutta la vostra
buona volontà non trovate alcun addentellato ... E
ve la sbrigate dicendo che la responsabilità di tut­
to questo andrebbe lasciata esclusivamente alla
tradizione e al Magistero. Non è assai spesso colpa
vostra, se parecchi teologi vi dànno l'impressione
di strappare l'azzurro dal cielo a forza di specula­
zioni, mentre voi vi rifiutate di apportare qualsiasi
appoggio biblico a delle verità che pure apparten­
gono anch'esse al deposito della vostra fede catto­
216 SAGGI TEOLOGICI

lica? Ma insomma, la tradizione dove dovrebbe


aver pescate queste verità? Siete proprio voi, in
quanto storici che credete almeno ai canali sotter­
ranei della tradizione, gli incaricati di provare se
una data cosa - a vostro giudizio - possa dimo­
trarsi non contenuta, né esplicitamente né impli­
citamente, nella coscienza pubblica della fede pos­
seduta dalla Chiesa nei primi secoli. Il Magistero
ufficiale è, sì, il detentore d'una verità di fede, il
potere autorizzato a darne una possibile spiega­
zione; non è però la fonte materiale d'una verità
rivelata.
Per dirla in altre parole: quando un asserto,
dichiarato rivelato dal Magistero ufficiale delle età
a noi più vicine, non viene esplicitamente inse­
gnato nei primi secoli dai Padri della Chiesa, ne­
gli scritti a noi attualmente ancora accessibili, e
può dimostrarsi storicamente che allora non è sta­
to nemmeno divulgato in modo esplicito « per tra·
smissione orale» (perché diversamente non si spie­
gherebbe la sua mancanza nella letteratura tradi­
zionale), allora vuoI dire che quel dato enunciato
deve essere implicitamente contenuto nella S. Scrit­
tura. È quindi nuovamente compito degli esegeti
offrire il loro contributo alla teologia biblica, af­
finché il dogmatico possa dimostrare - basandosi
su dati esegeticamente incontrovertibili - l'effet­
tiva esistenza implicita di tale affermazione nella
dottrina della Scrittura, nonché le modalità di tale
esistenza implicita.
ESEGESI E DOGMATICA 217

Non avete dunque il preciso dovere di sob­


barcarvi i compiti tipicamente vostri, senza scari­
carli con troppa fretta sugli altri? Non v'accorgete
di trincerarvi in certi momenti troppo frettolosa­
mente dietro la dichiarazione che all' esegeta com­
pete soltanto il dovere di assodare bene il senso
letterale immediato della Scrittura, e che tutto
quanto esula da tale lavoro di precisazione non fa
ormai più parte del suo mestiere?

C'è poi un'altra cosetta ancora. Non vogliate­


mene, se vi dico che a volte date proprio l'impres­
sione di vergognarvi di esporre a fondo i vostri
princìpi esegetici veri e propri (vale a dire quelli
che non solo hanno un colore nettamente dogma­
tico, ma che fluiscono concretamente dallo stesso
lavoro esegetico), e di dimostrare come essi colli­
mino alla perfezione con i princìpi del Magistero
ufficiale della Chiesa.
Lo so: non è facile. In certe circostanze, a pro­
posito di questo lavoro, bisogna onestamente dire
che tale o tal altra dichiarazione della Commissio­
ne Biblica, datante dagli inizi del secolo XX, a
qualcuno può sembrare ormai sorpassata, oppure
tutt'ora valida solo in certe sue sfumature. Ma voi
dovreste averlo il coraggio di accingervi a questo
« pericoloso» lavoro. Perché bisogna pur farlo.
218 SAGGI TEOLOGICI

E solo voi potete farlo, perché voi in effetti non


reputate noi « sistematici» e dogmatici all'altezza
di farlo; voi non ci considerate in grado di avere
l'esatta conoscenza dei singoli problemi esegetici,
senza la quale i relativi princìpi rimangono troppo
generici, troppo ambigui, troppo inesatti e troppo
poco maneggevoli dal lato pratico. Tali princìpi,
voi li possedete indubbiamente. Ma li affondate
nell'esegesi spicciola, caso per caso, mentre il pro­
fano nel campo esegetico - e tale è anche il dog­
matico - di fronte alla vostra esegesi d'un testo
e ai suoi risultati, si domanda tutto perplesso co­
me questo o quel dato possa quadrare con l'iner­
ranza della Scrittura, con i «canoni» dottrinali
ufficiali riguardanti il senso di certi passi scrittu­
rali, fino a che punto sia stato messo in rilievo il
« genere storico» di uno scritto agiografico, come
vada interpretata la « pseudonimità » di un dato
brano scritturale, se si possa ammettere in linea
di principio come possibile qualcosa di simile an­
che nel Nuovo Testamento, come si possa venire
a capo con i decreti della Commissione Biblica, e
via dicendo.

Comincio a diventare perfino scortese. Ma


permettetemi ancora un'osservazione un pachino
maligna (che, tra il resto, scambiando le materie,
ammetto volentieri si possa benissimo applicare
anche ai dogmatici): se conosceste un pachino me­
ESEGESI E DOGMATICA 219

glio la teologia che si insegna nelle scuole, se que­


sta - nella mente di qualche esimio rappresen­
tante della vostra santa scienza - non fosse sca­
duta al livello di una scienza mezzo dimenticata,
fuori d'esercizio già da un pezzo, anche nell'esegesi
le cose vi riuscirebbero più facili e non così dif­
ficili.
Mi pare, p. es., che gli esegeti potrebbero sen­
z'altro parlare assai più chiaramente e con mag­
gior pacatezza sulla dottrina biblica del merito e
sulla pura gratuità della beatitudine eterna, se
avessero ancora presente in modo chiaro le nozio­
ni scolastiche circa i rapporti intercorrenti tra li­
bertà e grazia, ricordandoli sin nella loro ultima
radicalità. In quella parte dell'insegnamento sco­
lastico si fa appunto anche della teologia biblica,
sia pure sotto altra veste concettuale.
Se non si pensasse in base ad una dottrina
probabilmente ancora assai rozza e primitiva circa
la Trinità (mi si passi questo esempio, che si ri­
chiama ad un recente studio, esegeticamente emi­
nente, da poco pubblicato) 3, non ci sarebbe nem­
meno bisogno di affermare che in S. Paolo non si
può trovare una vera e propria dottrina trinitaria.
Tra parentesi: dove sarebbe rintracciabile nel Nuo­
vo Testamento, se in S. Paolo non c'è verso di tro­
varne traccia? Probabilmente, sempre ancora in
quella parte della Scrittura che per ora non state

3 INGO HERMANN. Kwios und Pneuma) Miinchen, 1961.


220 SAGGI TEOLOGICI

trattando ... Se ci si ricordasse bene quanto insegna


la teologia scolastica circa la meramente relativa
distinzione delle tre persone, di questa distinzione
cosÌ sottile da apparire quasi impercettibile, credo
si potrebbe trovare altrettanta traccia anche in
S. Paolo (espressa naturalmente con altre parole),
perché anche nei suoi scritti i termini « kyrios »
e « pneuma » non sono semplicemente due parole
esprimenti la stessa, stessissima cosa, assolutamente
indifferenziata.

In date circostanze, come teologi cattolici è le­


cito nutrire un'idea propria, magari contrastan­
te con quattro postulati dottrinali non ancora
definiti dal Magistero. Questo però bisogna dirlo
esplicitamente e portarne le ragioni. Non bisogna
invece sbarazzarsi alla leggera del problema, pas­
sandolo senza dir nulla all'ordine del giorno. Molte
delle apparenti contraddizioni, di piccolo o grosso
calibro, che attualmente nel lavoro esegetico sem­
brano quasi venire a contrasto con le usuali enun­
ciazioni del Magistero ecclesiale, spesso si ridur­
rebbero in realtà a pure questioni di terminolo­
gia; il che può accadere anche nelle occasioni più
impensate, ossia quando a prima vista sembrereb­
be trattarsi d'un argomento quanto mai esplosivo.
Va quindi da sé, che anche l'esegeta deve sfor­
zarsi di tener presente il linguaggio usato dal Ma­
gistero ecclesiastico, spiegando bene perché non
ESEGESI E DOGMATICA 221

esista effettivamente alcuna differenza tra le dichia­


razioni ufficiali e i dati acquisiti dalla sua scienza.
Per esempio, stabilire cosa sia un « errore»
e cosa non lo sia, già rispetto al significato for­
male del concetto così espresso, non è affatto così
facile come potrebbe sembrare e come ordinaria­
mente si presuppone. Sicché l'esegeta, sotto la
qualifica di « errore» attribuita ad un dato da lui
rinvenuto nel Nuovo Testamento, può forse in­
tendere un'affermazione che - detta in altro mo­
do - esprime senz'altro una cosa giusta e indi­
scutibilmente vera, una cosa che nessun dogmati­
co può negare o si sogna di negare, come ovvia­
men te non la negano quelle Encicliche papali che
escludono ogni errore dalla S. Scrittura. Con tale
qualifica, l'esegeta designa, p. es., una data affer­
mazione scritturale, come il fatto che Abiatar
(Mc 2,26) era Sommo Sacerdote quando Davide
mangiò i pani della proposizione; ed è effetti­
vamente un errore, se la frase viene avulsa dal
« genere letterario» dello scritto in cui è inclusa,
se viene isolata dal contesto in cui è inserita, e
viene letta così da sola: il che è una cosa che nor­
malmente l'esegeta ha il diritto di fare.

Nessuna vera conoscenza, anche se a tutta pri­


ma risulta sconcertante e foriera di difficoltà da
superarsi, è veramente una « demolizione ». Tut­
tavia, sarà sempre bene che anche i non specialisti
222 SAGGI TEOLOGICI

rilevino che voi non vi limitate solo a demolire,


ma vi date anche a costruire. Bisogna che anche
loro notino che voi contribuite a far progredire la
conoscenza della vita di Cristo, e non solo a di­
mostrare che dal punto di vista storico tante cose
non si sanno in modo così esatto come si cre­
deva di saperle sinora.
Quando si vede chiaramente che voi non vi
limitate solo a lasciar impregiudicati i dati dogma­
ticamente incontrovertibili della vita, dell'auto­
coscienza e della consapevolezza della sua missione
posseduta da Cristo - tutte cose indispensabili
per il dogmatico, nel campo della cristologia e del­
la soteriologia - ma viceversa li mettete bene
in luce e li difendete, e precisamente con i metodi
della conoscenza storica, anche il dogmatico vi è
grato. Allora, anche i docenti di dogmatica com­
prendono più facilmente come abbiate ragione nel
non considerare ogni parola di Gesù, sia pure
quella contenuta nei Sinottici, come una specie di
« registrazione su nastro magnetico» e come un
resoconto stenografico colto dalle labbra dello stes­
so Gesù storico, e nell'ammettere invece (e non
solo in via generica e in teoria) che nella trasmis­
sione delle parole di Gesù sia già in azione l'in­
terpretazione teologica dell'età apostolica, la qua­
le precisa tali parole nel loro significato, adattan­
dole sin da quel momento alle condizioni parti­
colari in cui versa la comunità.
Lo so, che a tutto questo siete già abituati
ESEGESI E DOGMATICA 223

da un pezzo, per cui non costituisce più un pro­


blema per voi. Ma non tutti si trovano sul vostro
stesso piano. Dovreste tener maggiormente cal­
colo anche dei «deboli di fede », dei lenti di
comprendonio. Dovreste quindi sforzarvi di far
capire, anche a questa gente, che state costruendo
e non distruggendo. Dovreste istruire i vostri gio­
vani allievi di teologia in modo che non vengano
a soffrire alcun danno nella loro fede; dovreste
ammaestrarli in modo che, divenuti giovani coa­
diutori, non reputino loro compito principale quel­
lo di predicare dal pulpito ponderosi problemi
di esegesi che forse hanno compresi loro stessi
soltanto a metà, dicendo grossolanità, destando
doloroso scalpore e scandalo in un pubblico an­
cora quasi del tutto impreparato.

Non sarebbe male, inoltre, se voi consideraste


un po' meglio di quanto è talvolta sinora acca­
duto, a quali princìpi « aprioristici» di dogmatica
e di teologia fondamentale (naturalmente, inter­
pretati con molta cautela, assimilati e compresi
con tutta esattezza, sfumati nella loro portata e
nella loro obbligatorietà, già in vista dei problemi
tipici della vostra esegetica) voi dovreste ispirarvi
anche nella ricerca sulla vita di Gesù, affinché il
Gesù della critica evangelica mantenga una stretta
connessione anche storicamente dimostrabile con
il Cristo della fede.
Non occorre che, nel campo dell'esegesi vera
224 SAGGI TEOLOGICI

e propria, facciate della cristologia sul tipo di


guella del Concilio di Calcedonia; ma quello che
il Gesù storico ha detto di se stesso, deve sostan­
zialmente essere (almeno collegato con l'esperien­
za pasquale) la stessa identica cosa che la cristo­
logia dogmatica dice di Gesù.
È senz'altro lecito precisare meglio il <, genere
letterario» della narrazione sinottica e giovannea
dei miracoli e trovare ancor troppo indifferenziata
l'affermazione generica, soprattutto se applicata ai
singoli racconti, che si tratti di narrazioni storiche.
Vi tornerebbe forse utile, e a volte potrebbe por­
tarvi anche una luce risolutiva, il precisare un po'
meglio teoricamente che cosa sia il miracolo in se
stesso, nella sua oggettività e nella sua conosci­
bilità. Non dovete suscitare l'impressione di pen­
sare che dai Vangeli non si possa dedurre stori­
camente che Gesù abbia compiuto quei miracoli
(specie quello della sua Risurrezione), i quali an­
che oggi rivestono la massima importanza per le­
gittimare la sua missione. Se avete qualche idea
dei princìpi dogmatici offerti dalla teologia fon­
damentale (e ciò è presumibile, credo), farete an­
che capire chiaramente ai vostri uditori che la Ri­
surrezione di Gesù non rappresenta solo l'oggetto,
ma anche il fondamento basilare della fede nel
Signore. Nessuno vi rinfaccerà come un dannoso
sconfinamento, lo spiegare di persona ai vostri
ascoltatori perché e come entrambi questi aspetti
siano al contempo possibili e giusti.
ESEGESI E DOGMATICA 225

Un'ultima cosa ancora. È un metodo ingiusto


e offensivo, tanto a voi quanto ai teologi evan­
gelico-protestanti, il rinfacciarvi di aver mutuato
qualche dato dall'esegesi evangelica. Infatti, di­
mostra forse qualcosa, tale costatazione, anche
ammesso che sia esatta? Nient'affatto. Anche l'e­
segesi evangelico-protestante può aver conseguito
dei risultati perfettamente esatti: credo non ci sia
nemmeno bisogno di dirlo. Per cui, è assoluta­
mente legittimo accoglierli, quando meritano. E
se san falsi e inammissibili? Si respingano pure,
ma adducendo i motivi concreti della loro falsità,
non rifiutandoli col verdetto sommario che quella
è teologia protestante.
Tuttavia, ammesso pure che il dato sia vero
e accettabilissimo, non dovreste forse talvolta evi­
tare di dar l'impressione che una tesi offerta dal­
la teologia evangelico-protestante risulti ai vostri
occhi più vicina al vero, semplicemente perché è
nata sul terreno dell'esegesi evangelico-protestan­
te e non originariamente su quello cattolico? E
non dovreste anche tener presente il fatto, che la
teologia evangelico-protestante spesso abborda la
Scrittura con un « a priori» filosofico, e non sol­
tanto con un metodo oggettivo, intrinseco all'ese­
gesi stessa?
226 SAGGI TEOLOGICI

Due parole d'un collega ai docenti


di dogmatica

Non intendo riferirmi personalmente a nes­


suno; ci tengo anzi a parlare stando sulle gene­
rali, ave il discorso può adattarsi benissimo ai
singoli individui, pur così diversi tra loro. Intra­
prendo quindi il dialogo con me stesso. Ognuno
degli stimatissimi colleghi insegnanti di dogmati­
ca qui presenti, prenda come detto a se stesso
unicamente quanto gli pare giustificato nei suoi
confronti. Quando ciò non si verificasse, abbia
compassione di me, che mi sto dando una lezione
da me stesso.

Orbene, caro amico, sii onesto: di esegesi, tu


ne capisci assai meno di quanto sarebbe deside­
rabile. Come dogmatico, hai giustamente la pre­
tesa di fare di tua iniziativa dell'esegesi e della
teologia biblica, e di non limitarti solo a prende­
re i dati conclusivi trovati dagli specialisti di ese­
getica; e ciò, perché è tuo peculiare compito di
dogmatico attingere con tutti i mezzi la parola
di Dio alla sua fonte, e sai benissimo che in nessun
luogo essa si può trovare più agevolmente di quan­
to la si trovi nella S. Scrittura. Allora, però, tu
devi per forza fare dell'esegesi: e come va fatta
ESEGESI E DOGMATICA 227

oggi, non come la si faceva nel buon tempo an­


tico. O meglio, non soltanto come la si faceva nel­
le epoche trascorse. Nella dogmatica, la tua esege­
si deve risultare convincente anche per gli esper­
ti di esegetica. E ciò quand'anche essi ti accordas­
sero il diritto di porre alla S. Scrittura delle que­
stioni che nemmeno loro hanno bene sott'occhio,
quand'anche tu contassi tacitamente sull'even­
tualità che questo o quell'altro esegeta, nel caso
singolo, non sia d'accordo con te e ti spiattelli in
faccia il suo parere negativo in nome dell'esegesi
(invece che in nome della sua esegesi).
Ora, se vuoi attaccar discorso e competere con
gli esegeti, devi saper anche maneggiare con de­
strezza i loro strumenti, devi aver imparato a ri­
conoscere il peso delle loro considerazioni e dei
problemi da loro posti. Altrimenti, ti capita di
ergerti a giudice delle loro questioni con troppo
poca precisione. (Per esempio: quando ricorri al­
la « scientia non communicabilis» nel caso del­
l'affermazione di Gesù, secondo cui il Figlio del­
l'Uomo «non conosce» l'ora del giudizio [Mc
13,32]). E se sei onesto, dovrai riconoscere di
non aver spiegazioni pronte da dare a testi come
quello di Mc 9,1 (<< Ci sono alcuni dei presenti
che non gusteranno la morte, prima di aver visto
il regno di Dio venuto con potenza»), o all'altro
di Mt 10,23 (<< Poiché vi dico in verità: non fi­
nirete le città d'Israele, prima che venga il Figlio
dell'Uomo»); per cui, dovrai esser contento se
228 SAGGI TEOLOGICI

gli esegeti te ne trovano una, anche se 'forse ti


sembra poi troppo temeraria.
E non dimenticare: un problema come questo
sorge in te molto in ritardo, solo in margine al
tuo «sistema» e alla tua coscienza; ragion per
cui, non può avere ai tuoi occhi il peso che ha
a quelli dell'esegeta, che se lo vede sorgere molto
presto e quindi con ben altro impegno per la sua
coscienza.

Abbi pazienza con l'esegeta! Oggi, data la


sconfinata estensione di una scienza moderna e
la complicata meccanica dei suoi metodi, è quanto
mai difficile arrivare a capire un'altra scienza, an­
che solo abbastanza da paterne parlare con un mi­
nimo di competenza. Spesso, si crede di capirne
qualcosa. E invece bisognerebbe averci lavorato
per decenni interi, per averne un'idea. Non si do­
vrebbe aver preso conoscenza dei problemi e del­
le eccezioni sollevate dall'esegeta solo leggicchian­
do magari svogliatamente una «objectio» di un
testo scolastico, ma attingendola invece nelle sue
lunghe e profondamente studiate monografie. Ora,
quanti sono i docenti di dogmatica che oggidì pos­
sono permettersi questo lusso? Solo badando al
tempo occorrente e alle energie fisiche necessarie
per farlo, ciò risulterebbe quasi impossibile. Vac­
ci adagio quindi, e con prudenza. Non limitarti
soltanto a citare un numero del Denzinger o la fra­
ESEGESI E DOGMATICA 229

se d'un'Enciclica, per poi sbottar fuori a dire:


questo non va!
Se ti lagni che 1'esegeta si cura ben poco dei
tuoi criteri, delle tue norme e delle tue fonti,
lasciando a te la fatica di gettare i ponti come se
fosse una cosa che non lo riguarda, non puoi a
tua volta comportarti allo stesso modo nei suoi
confronti.
Non dimenticare che stai lavorando con la
Scrittura, la quale è l'ispirata e infallibile parola
di Dio. L'esegeta in quanto tale, è anche un
esperto di teologia fondamentale: non soltanto lo
può, ma lo deve essere. Quantunque sia sempre
valido quanto abbiamo detto poco sopra circa la
natura teologica della sua esegesi, egli ha dunque
il diritto e il dovere di esplicare, in rapporto al
Nuovo Testamento, la funzione dello storico di
teologia fondamentale, proprio perché deve es­
sere un teologo cattolico, il quale non può comin­
ciare la sua trattazione partendo dal nudo e an­
cora infondato atto di fede. Di conseguenza, egli
non è tenuto a presupporre già in partenza, sem­
pre e dappertutto, l'ispirazione e l'inerranza della
Scrittura. Se lo facesse, sarebbe un pessimo teo­
logo, perché negherebbe l'esistenza d'una teologia
fondamentale di stampo cattolico. Sicché, egli de­
ve per forza esaminare la sua fonte - il Nuovo
Testamento - anche come storico.
Come storico, deve quindi riconoscere che i
Sinottici, nel loro substrato sostanziale, sono dav­
230 SAGGI TEOLOGICI

vero delle fonti storicamente attendibili, anche se


l'affermazione che i Sinottici sono fonti storiche
sicure della nostra conoscenza storica della vita di
Gesù, è ancora ben lontana dal definire il «ge­
nere letterario» dei Sinottici in modo così pre­
ciso, da far scaturire un giudizio univoco sul con­
tenuto effettivo di ogni singola frase, che oggi ci
si presenta come notizia storica, mentre forse non
lo è nel senso della moderna storiografia.
Ma c'è una cosa che importa ancor di più,
ed è la seguente: Se l'esegeta può e deve sobbar­
carsi i problemi riguardanti la tradizione del Nuo­
vo Testamento, anche prescindendo (come ipotesi
di lavoro) dall'ispirazione e dall'inerranza della
Scrittura, allora - pur attenendosi già da un
punto di vista da storico profano alla sostanziale
storicità dei Sinottici - ha non solo il diritto, ma
anche il dovere, di non considerare a priori tutti
gli asserti della Scrittura come egualmente certi
anche dal lato storico. Se lo facesse, scambierebbe
i metodi, passando dalla teologia fondamentale al­
la dogmatica. Il che non sarebbe un vantaggio,
bensì un errore. Persino là dove il Sinottico (cosa
che presumibilmente non succede sempre) fa una
singola affermazione che egli stesso vuole venga
intesa in senso storico, l'esegeta e lo studioso del­
la vita di Gesù non devono presentare ogni asser­
to sinottico come storicamente certo e sicuro. Do­
ve e quando si costata con assoluta certezza che
il Sinottico vuoI esprimere una data cosa, presen­
ESEGESI E DOG:VIATICA 231

tandola come un avvenimento storico nel senso


inteso da noi moderni, l'esegeta che lavora con il
metodo della teologia fondamentale non può dire:
qui il Sinottico sbaglia! Tuttavia, se è conscio
del suo dovere, non ha nemmeno bisogno di dire:
qui il Sinottico ha sicuramente ragione! Non solo
può, ma deve parlare con sfumature assai più sot­
tili di quanto facciamo noi dogmatici (e a buon
diritto, nella nostra materia).
Se noi dogmatici crediamo di dover ritenere
come un fatto certo la visione immediata di Dio
goduta da Gesù durante la sua vita terrena, perché
questa è una dottrina vincolante, sia pure non de­
finita, proposta dagli ultimi Papi da Benedetto XV
in poi, allora avremmo anche noi il dovere di
mostrare all'esegeta come tale dottrina possa con­
ciliarsi veramente, e non a mezzo di funambolismi
concettuali, con l'idea che l'esegeta s'è fatta del
Gesù storico studiando i Sinottici. Dovremmo far
capire, molto più chiaramente di quanto in via
ordinaria non ci curiamo di fare, che non ci sen­
tiamo del tutto estranei alle preoccupazioni dei
nostri colleghi di esegetica, che sappiamo usare
almeno passabilmente i loro metodi e valorizzare
le loro conclusioni.

A te, dogmatico, tutto risulta più facile che


al tuo collega intento ad occuparsi di teologia fon­
damentale: puoi utilizzare, per principio e in
232 SAGGI TEOLOGICI

egual modo, ogni vocabolo della Scrittura come pa­


rola infallibile ed ispirata, come valida prova nelle
tue dimostrazioni dogmatiche, senza badare alla
fonte da cui deriva. Il tuo ragionamento fila indi­
pendentemente dal problema se il materiale che
hai davanti sia parola realmente storica e assolu­
tamente certa di Gesù, oppure sia invece già sta­
ta rielaborata dalla teologia della comunità e da­
gli scrittori del Nuovo Testamento. Tu non de­
vi porti la questione se quanto esprimi rientri
davvero tra i dati primordiali della rivelazione,
o non sia invece già teologia dedotta dagli Apo­
stoli (naturalmente in modo perfettamente esatto
ed infallibile) da quei dati fontali originari. Tu
puoi procedere tranquillamente così, quantunque
- sia detto tra parentesi - il tuo modo di agire
attenendoti pedissequamente al metodo dogmatico
non sia neppure esso l'ideale, in quanto l'esatta
interpretazione d'un testo dipende, magari, pro­
prio dalla risposta che va data prima alle que­
stioni di cui si occupano l'esperto di critica te­
stuale e l'esegeta intento a studiare le varie stra­
tificazioni storiche della tradizione. Tuttavia, non
sarebbe affatto male se, per esempio, nelle cita­
zioni scritturali dogmatiche da te addotte per pro­
vare l'esistenza della Trinità, si rilevasse che sei
al corrente delle discussioni fatte dagli storici sul
messaggio di congedo con cui gli Apostoli ven­
gono irradiati nel mondo (Mt 28,16-20). Dato
che lo puoi fare - in quanto non vi osta alcuna
ESEGESI E DOGMATICA 233

ripugnanza dogmatica - tieni serenamente conto


del fatto che la formula trinitaria, posta qui sulle
labbra di Gesù, possa anche essere già stata rie­
laborata dalla teologia comunitaria.
Ce ne sarebbero molti, di problemi immanenti
alla dogmatica vera e propria, che un docente di
dogmatica potrebbe e dovrebbe intavolare, perché
la loro soluzione risulterebbe davvero soddisfa­
cente e agevolante l'opera dell'esegeta. Per esem­
pio, se nell'ambito della dogmatica ci si chiedesse
come effettivamente vadano considerate le appari­
zioni del Risorto, e - quel che più di tutto im­
porta - se egli forse non appartenga ormai più
al nostro mondo sperimentale e fenomenico, per
cui quindi la sua esperienza debba essere comple­
tamente diversa anche solo da quella di Lazzaro
risuscitato, se ne dedurrebbe forse che le varian­
ti imprecise nel descrivere tali apparizioni, riscon­
trabili nella narrazione dell'evento pasquale, ci sa­
rebbe da aspettarsele in base alla natura stessa
dell'evento, e di conseguenza non avrebbero alcun
bisogno di venir ritoccate artificialmente.

Noi dogmatici potremmo esprimere di primo


acchito cose molto più chiare, circa i problemi
immanenti della dottrina trinitaria e della cristo­
logia: il che farebbe comprendere meglio, al teo­
logo biblico, come tanto la teologia biblica quanto
la teologia dogmatica della scuola dicano effettiva­
mente le stesse identiche verità.
234 SAGGI TEOLOGICI

Tanto per esemplificare: sarebbe probabilmen­


te possibile esprimere cosa s'intenda per dottrina
trinitaria, senza ripetere sempre all'infinito soltan­
to le formule di persona e natura. Si potrebbe
dimostrare come Trinità immanente e Trinità
« economica » siano così strettamente interdipen­
denti, che la caratteristica immanente della Trini­
tà risulta già espressa, allorché se ne è affermata
esattamente la caratteristica «economica» come
fa la Scrittura.
Si potrebbe sviluppare una <~ cristologia ascen­
dente », ben congegnata dal punto di vista onto­
logico-esistenziale, studiando a fondo l'incontro
con l'Uomo Gesù; ne risulterebbe una cristologia
assai più imparentata con il modo di vederla che
hanno i Sinottici e gli Atti degli Apostoli, assai
più affine alla loro mentalità di quanto non risulti
una cristologia imbastita unicamente sull'assunzio­
ne d'una natura umana da parte del Logos « di­
scendente» in mezzo a noi.
In una dottrina, realmente solida dal punto
di vista metafisico, concernente l'immediata visio­
ne di Dio goduta dall'anima di Gesù ancora quag­
giù nella sua vita terrena, si potrebbe probabil­
mente render comprensibile la sostanza di una si­
mile situazione di fondo, che di per sé esula dal­
la tematica rintracciabile e motivabile nel Nuovo
Testamento, in modo tale che l'esegeta compren­
da come, attraverso questa dottrina scolastica, non
gli viene affatto tolto il diritto di costatare a mez­
ESEGESI E DOGMATICA 235

zo dell'indagine un'autentica evoluzione, una ve­


ra dipendenza dall'ambiente religioso del suo tem­
po, una serie successiva di svolte, nella vita stessa
di Gesù.
Non varrebbe forse la pena di considerare, per
es., se in certe circostanze una data forma di ne­
scienza non sia qualcosa di più perfetto rispetto
alla conoscenza, visto che rientra nell'essenza
della libertà della creatura (libertà che anche Ge­
sù ebbe ed esercitò, nella sua qualità di vero ado­
ratore e di perfetto obbediente all'ineffabile vo­
lontà del Padre) il vivere nella decisione apren­
dosi verso l'Ignoto, che si «conosce» veramen­
te nella sua fisionomia essenziale soltanto allorché
lo si accoglie amorosamente proprio come Ignoto?
Perché noi dogmatici non teniamo calcolo con più
evidenza del fatto, cosi ovvio dal lato psicologico
e antologico-esistenziale, che la « conoscenza» non
è un concetto univoco, che in un uomo possono
sussistere realmente molte e quanto mai dispa­
rate «conoscenze» per nulla affatto trasponibili
una nell'altra, sicché è possibile sapere una cosa
in un dato modo, e non saperla assolutamente
- anche per se stessi - in un altro? Quando
si è uniti a Dio, là e negli abissi vertiginosi in cui
questa realtà viene sperimentata, si conosce effet­
tivamente « tutto quanto ». E lo si conosce, senza
che per questo lo si debba - o anche soltanto
lo si desideri - conoscere in quella dimensione
dello spirito umano in cui si conoscono solo no­
236 SAGGI TEOLOGICI

zioni singole, spicciole e sfruttate, le quali in certe


circostanze non farebbero che rendere impossibile
o turbare la silente intima unione con l'autentica
e sola Verità. Perché, quindi, noi dogmatici do­
vremmo proibire agli esegeti di dire, in un vero
senso (anche se ovviamente non abbraccia l'intera
realtà di Gesù), che Gesù certe cose non le ha
sapute, quando egli stesso lo afferma (Mc 13,32)
e noi non abbiamo alcun motivo plausibile di so­
fisticare a base di distinzioni attorno al suo as­
serto?

In teologia, noi abbiamo assai spesso dei prin­


cìpi molto rigidi ed esatti, quasi metafisici. Ma
non ci accorgiamo quanto siano vasti e spaziosi,
quanto perciò siano suscettibili di contenere; e
non facciamo vedere con sufficiente nitidezza agli
esegeti, che lavorano «a posteriori », come essi
possano, tranquilli e imperturbabili, partire dai sin­
goli dati della loro indagine sulla vita di Gesù,
per giungere a trovare un vero uomo vivo con
la sua brava storia, senza dover affatto prescindere
da lui, arrivando anzi proprio cosÌ a rilevare che
le loro mani hanno toccato il Verba che si è fatto
carne.
Noi partiamo tacitamente dal fatto che la ri­
surrezione sia, sì, un gran miracolo che accredita
la missione di Gesù; ma sottintendiamo che que­
sto prodigio (se appena Iddio lo avesse voluto),
ESEGESI E DOGMATICA 237

avrebbe potuto accadere a qualsiasi altro uomo,


indipendentemente dall'Unigenito Figlio dell'Uo­
mo prima morto e poi risuscitato, non in una ri­
surrezione alla semplice vita terrena come era av­
venuto a Lazzaro, bensì in una risurrezione all'au­
tentica totale perfezione. Ora, questa sottintesa
premessa è davvero così chiara come pare, è ef­
fettivamente esatta? Perché invece non si dovreb­
be forse dire qualcosa di più pensato e di più
profondo, in proposito? Non sarebbe forse me­
glio dire: l'inizio della salvezza assoluta, di quella
riabilitazione che non è una fase della salvezza,
bensì la salvezza definitiva e non superabile di
Dio fatta persona, che lo è e dimostra di esserlo
precisamente attraverso la risurrezione, è neces­
sariamente il Figlio di Dio quale lo intende la
cristologia calcedonense? Non si potrebbe sup­
porre che una cristologia « funzionale» contenga
in embrione la cristologia antologica tradizionale,
solo che venga pensata con sufficiente radicalità la
sua essenza? E una cristologia elaborata in questo
modo, pur mantenendo i suoi requisiti di cristo­
logia funzionale, non potrebbe aprire a tanti uo­
mini di oggi quell'accesso alla fede della cristia­
nità che essi, per paura del fattore « mitologico»
che sembra loro di scorgervi (anche se obiettiva­
mente non a ragione), altrimenti non trovereb­
bero?
Partendo da un'elaborazione di questo gene­
te, non si potrebbe forse debellare una certa in­
238 SAGGI TEOLOGICI

filtrazione monofisita che affligge la cristologia


(non quella trattata dalla dogmatica ufficiale, be­
ninteso, ma quella posseduta dai singoli cristiani),
i quali ultimi, nella natura umana del Logos, ve­
dono soltanto qualcosa di simile ad una livrea o
ad una marionetta di cui si serve Dio: qualcosa
che ha, sì, una facciata per presentarsi a noi, men­
tre non ne ha affatto un'altra per presentarsi a
Dio in un libero dialogo? Si capirebbe forse me­
glio allora che una «cristologia della risurrezio­
ne », la quale non si dà gran pensiero di appellarsi
alle affermazioni fatte da Gesù mentre era tuttora
in vita, per spiegare il mistero della sua persona,
ma guarda invece semplicemente alla sua risur­
rezione, nella quale diventa «il Signore », non
è detto debba esser falsa. Perché non dovrebbe
trovare maggior comprensione la tendenza di molti
moderni, anche tra gli esegeti cattolici, che li por­
ta a vedere molte cose sotto la luce dell'espe­
rienza pasquale, e a considerare quanto della vita
di Gesù ci vien rapportato in parole ed opere,
come già interpretato da quell'esperienza? E ciò
anche se occorre certamente andar cauti, anche se
un'auto-affermazione fatta da Gesù nella sua vita
storica circa il suo essere - affermazione che pone
la sua ontologica filiazione di Dio - non possa
venir contestata e non esista alcun fondamento
per contestarla, sempre supposto che non si pensi
che tale auto-affermazione debba più o meno aver
subito a che fare con la « communicatio idioma­
ESEGESI E DOGMATICA 239

tum », O con dei concetti già quasi belli e for­


mulati sullo stile calcedonense?

Se noi dogmatici facessimo valere sempre su­


bito, all'inizio del trattato sul peccato originale,
la nostra dottrina già collaudata e ottimamente
scolastica concernente l'analogia del «peccato
ereditario », mettendo quindi bene in luce come
l'uomo possa in certo qual modo «ratificare» il
peccato originale col suo peccato personale, non
succederebbe senz'altro il grosso inconveniente
che lamentiamo ancora adesso. Non sarebbe av­
venuto neanche per il passato, che i nostri esegeti
- ancora per un paio di secoli dopo Erasmo ­
pensassero che nel famoso « in qua » (= Adamo)
della Lettera di S. Paolo (Rm 5,12) andasse di­
fesa a spada tratta l'interpretazione agostiniana.
E così si sarebbe potuto riconoscere, già assai pri­
ma di quanto è stato possibile effettivamente, che
nel testo di Rm 5,12, stando anche solo al tenore
verbale, si parla proprio del peccato del singolo
uomo; senza che per questo, nel suaccennato ca­
pitolo, non sussista più nulla del peccato originale
rettamente inteso.

Per noi dogmatici, però, la cosa pm impor­


tante - se vogliamo dar soddisfazione agli ese­
geti - è presumibilmente ancora la costatazione
240 SAGGI TEOLOGICI

che la qualifica di « storico» attribuita ad un dato


resoconto neotestamentario, anche là dove è esat­
ta, in molti casi è per altro troppo generica.
L'espressione « narrazione storica », usata nei con­
fronti del Nuovo Testamento e quindi anche dei
Sinottici, non dice per esempio che i discorsi di
Gesù siano più o meno delle «registrazioni su
nastro magnetico », tutt'al più accorciate per via
di omissioni. Si ha quasi soggezione di dirlo, nel­
la nostra qualità di dogmatici: ma è un fatto, che
il nostro lavoro, vertente sempre attorno ai dogmi,
porta fatalmente con sé la tentazione mentale di
continuare a pensarla sempre allo stesso modo, an­
che quando abbiamo riconosciuto da un pezzo ­
almeno in linea teoretica - che si tratta d'una
posizione falsa. Citiamo a prova dei nostri asserti
le parole di Gesù, tornando sempre quasi automa­
ticamente a pensare che le parole da noi citate
debbano essere suonate sulle labbra di Gesù lette­
ralmente « così », come se fossimo stati presenti
e le avessimo udite di persona. Viceversa, un « ge­
nus litterarium historicum » che intenda assumersi
una garanzia di questo tipo non esiste nel Nuo­
vo Testamento. Ora, il contare seriamente su que­
sto fatto, che sarebbe dimostrabile con un'infinità
di esempi e che bisognerebbe valorizzare anche dal
lato metodico - quando non salta agli occhi im­
mediatamente dal solo confronto istituito tra i Si­
nottici stessi - costituisce il pane quotidiano de­
gli esegeti, mentre denota al contempo un'astrat­
ESEGESI E DOGMATICA 241

ta e fuggevole concessione, quasi una munifica con­


discendenza, da parte dei dogmatici. Nessuna me­
raviglia, quindi, se noi e voi stentiamo a compren­
derci.
Nonostante questo, sarebbe senz'altro errato
pensare che tutto vada a catafascio e che nulla ri­
manga in piedi di storicamente certo, se si parte
tranquillamente ma con coraggio dalla premessa
che, nei rapporti a noi trasmessi anche dai Sinot­
dci circa le parole di Gesù, dobbiamo tener conto
di spostamend fatti dalla tradizione verbale, di
spiegazioni originate da particolari interessi teolo­
gici, di glosse non nettamente distinguibili come
tali, di asserti modificati per dar loro un tenore
plastico e drammatico, nonché di tante altre va­
rianti suscettibili di interessare la critica storica.
Per l'esattezza, dobbiamo aggiungere qualcosa
ancora. Siccome i singoli brani dei Vangeli hanno
avuto, come sempre, una loro tipica preistoria pri­
ma di entrare a far parte del Vangelo (e ce lo ha
dimostrato a ragion veduta la cosiddetta « storia
delle forme»), dobbiamo logicamente tener conto
del fatto che i singoli brani - comparati tra lo­
ro - non possiedono sempre esattamente lo stes­
so «genus litterarium historicum». Per questo
motivo, ad esempio, almeno dal punto di vista pu­
ramente teologico-fondamentale e storico, non è
altrettanto certo che Gesù sia stato in Egitto, quan­
to lo è invece che sia stato crocifisso a Gerusa­
lemme.
242 SAGGI TEOLOGICI

Queste osservazioni non infirmano affatto


l'autorità delle narrazioni riferiteci, perché esse per
la loro stessa natura autorizzano a porre tali que­
stioni. Non hanno infatti alcuna pretesa di essere
minuzioso e pignolo rapporto poliziesco « soltan­
to» di un avvenimento storico e osservabile da
chiunque.
Una volta ammessa questa possibilità, con la
quale bisogna pur fare i conti, non si è per altro
ancora risolta la questione che si chiede dove,
quando e in quali proporzioni ciò sia riscontrabile
nelle singole pericopi sulle parole e sulle opere di
Gesù a noi trasmesse. Lo stabilirlo caso per caso,
nei limiti delle possibilità, è un compito che spetta
proprio ad una giudiziosa critica storica condotta
sul Nuovo Testamento. Essa, ben spesso, non si
limita unicamente a « creare difficoltà »: viceversa,
non di rado agevola anzi il lavoro del dogmatico.
Allorché, p. es., ci dice che può essere inter­
pretata come una glossa della casistica comunita­
ria la clausola: «Chi manda via sua moglie, ec­
cetto in caso di fornicazione, la espone all'adulte­
rio » (Mt 5, 32), risulta molto più facile di quanto
non risulterebbe se questa clausola andasse consi­
derata come effettivamente uscita - cosi come
suona - dalle labbra stesse di Gesù. È davvero
possibile alleviare il dogmatico di tante gravissime
« croci», sul tipo dei già menzionati testi Mc 9, 1
oppure Mt lO, 23 (senza per altro eliminarli sem­
plicemente, data l'ispirazione e l'inerranza dell'in­
ESEGESI E DOGMATICA 243

tera Scrittura), allorché la critica storica afferma


che Gesù non può aver parlato proprio « così »,
ossia con tali precisazioni cronologiche almeno ap­
parenti.
D'altra parte però - come abbiamo già det­
to - non è che alla fine non si sappia ormai più
che cosa sia realmente avvenuto agli effetti storici.
È vero che molti fatti non si conoscono più esat­
tamente. Tuttavia, si può sempre saperne ancora
abbastanza, da riuscir a stabilire dal punto di vi­
sta teologico-fondamentale quei dati specifici che
costituiscono la base atta a sostenere la dottrina
ecclesiale riguardante la persona e le opere di Ge­
sù. E con una realissima certezza storica; reale an­
che se non può venire scambiata con l'assoluta
certezza della metafisica o della fede (ognuna nel
suo campo); reale quantunque un'esatta analisi
gnoseologica - atta a stabilire quando e perché,
nonostante la sua pluristratificazione e la sua dif­
ficoltà intrinseca, una tale nozione può essere chia­
mata « certa» - possa a sua volta risultare diffi­
cile.

Quando un profano in storiografia vien messo


a confronto con le elucubrazioni d'uno storico ten­
denti ad accertare come siano realmente andate le
cose nelle campagne di Cesare in Gallia, rischia
forse di perderci la testa e di non raccapezzarcisi
più. Ha l'impressione che, a conti fatti, non si
244 SAGGI TEOLOGICI

sappia nemmeno più se Cesare sia stato in Gallia


per davvero.
Una simile sensazione di capogiro storico è
comprensibile, non però giustificata. La si ha, a
volte, anche di fronte al lavoro degli esegeti. Ma,
sempre supposto, naturalmente, che essi lavorino
coscienziosamente e non pensino che il loro com­
pito precipuo sia quello di distruggere le tradizio­
nali certezze; sempre supposto che anche nell'ese­
gesi facciano il loro mestiere di teologi e di cre­
denti: da questo presupposto (per quanto non
possa entrare come premessa realmente pertinente
nella teologia fondamentale vera e propria) essi
trarranno senz'altro migliori prospettive per lavo­
rare storicamente in senso giusto, di quante ne
possa avere colui che è cieco e quindi non vede la
quintessenza di ciò che qui affiora: il miracolo
della grazia di Dio pulsante in Gesù Cristo.
Orbene: perché noi dogmatici non dovremmo
riconoscere che tali premesse esistono di fatto nei
nostri esegeti? Non abbiamo affatto bisogno di
accogliere le loro singole conclusioni, con cie­
ca fiducia nella sapienza degli specialisti in una
data materia. Abbiamo il diritto, e al contempo
il dovere, di praticare da noi stessi l'esegesi fin
dove ci pare e piace, controllando cosi con tutta
serenità di spirito i risultati conseguiti dagli ese­
geti. Ma non abbiamo nessuna ragione legittima
di soccombere alla nostra tipica tentazione, com­
portandoci (per lo più tacitamente) come se il loro
ESEGESI E DOGMATICA 245

metodo, già di per se stesso, andasse affrontato


con spirito di opposizione.

Altra questione è quella di stabilire quale im­


portanza possano avere o non avere i risultati
giusti, ben maturi e ponderati, di questa esegesi
in rapporto alla predicazione, all'istruzione e alla
formazione religiosa.
Sul pulpito, si parte giustamente e doverosa­
mente dalla premessa di accettare la Sacra Bibbia
così come sta (ciò che non può invece assoluta­
mente fare, almeno nello stesso senso, l'esegeta
che lavora dal punto di vista della teologia fonda­
mentale). La base portante da cui muove una pre­
dica fatta dal pulpito è, dunque, completamente
diversa da quella lezione tenuta da un professore
in un corso di esegetica. Per cui, al pulpito non si
addicono molte cose discusse dall'esegesi sotto il
punto di vista teologico-fondamentale; e ciò, quan­
tunque anche il semplice fedele abbia il diritto di
esigere che la predicazione non sia in contrasto
coi dati sicuri offerti dalla ricerca esegetica.
Fino a qual punto i fedeli, non tanto attra­
verso la predicazione domenicale, quanto piutto­
sto a mezzo di conferenze e di articoli di stampa,
vadano introdotti nei problemi teologico-fonda­
mentali dell'esegesi, dipende dall'età e dal grado
d'istruzione che hanno. Comunque, non bisogna
mai dimenticare che la predicazione costituisce la
246 SAGGI TEOLOGICI

diffusione della parola di Dio e serve specifica­


mente all'edificazione della fede.

Alcune riflessioni supplementari

Sia i dogmatici sia gli esegeti devono ricordar­


si di essere non i padroni, bensì i servitori, di quel
Magistero ufficiale che Cristo ha affidato a Pie­
tro e agli Apostoli, non ai professori. Però, lo
sanno anche i professori, e non soltanto Hegel,
che Dio ha istituito il mondo in modo tale da ob­
bligare il padrone ad aver bisogno del servo, sic­
ché - malgrado tutta la sua autorità padronale ­
egli si trova a dipendere da lui.
Ora, questo servitore del Magistero ufficiale
della Chiesa ha bisogno dell'autorizzazione da par­
te del potere costituito, ma al contempo di quel
margine di fiduciosa libertà, senza il quale il servi­
tore non può adempiere il suo modesto ma neces­
sario incarico.

La scienza ecclesiale, e nel suo ambito special­


mente l'esegesi, oggi non ha solo da espletare com­
piti scientifici che interessano gli eruditi. Deve
invece combattere anch' essa sul fronte della fede e
della Chiesa, rendendo maggiormente accessibile
ESEGESI E DOGMATICA 247

la fede all'uomo moderno, istruendo gli intellet­


tuali contemporanei, irrobustendone la spirituali­
tà e alleviandone le angosce. L'uomo attuale è un
gracile figlio dello storicismo e delle scienze natu­
rali, una creatura tremendamente smagata, caute­
losa e disincantata, un essere che soffre della lon­
tananza e del silenzio di Dio provandone tutte le
ansie lancinanti. Ora, la Chiesa deve occuparsi
proprio di questo uomo, che è poi l'uomo di oggi
e di domani.
Nella predicazione della fede, è facile fermarsi
ad altri uomini, a uomini provenienti da strati
sociali e da esperienze spirituali completamente
differenti, che sono portati a «credere» senza
tanta fatica: agli uomini semplici, umili, non an­
cora infettati dall'atmosfera spirituale moderna,
a uomini che sono tuttora ancorati a saldi legami
sociali, a gente che per un motivo qualsiasi accan­
tona sempre i problemi intellettuali o forse in pri­
vato li risolve a volte in modo smaccatamente
acattolico, pur non lasciandosi affatto fuorviare per
questo dalla sua «ecclesialità» ufficiale esterna.
La Chiesa però deve prendersi a cuore l'intel­
lettuale moderno; non può Iasciarlo in asso nel suo
intimo bisogno di credere, nella sua aspirazione
alla fede. Chi non vuoI costatare questo bisogno
di credere, disconosce la più vera e profonda pro­
blematica del nostro tempo, che pure va vista lì.
Ed è appunto per questo, che la scienza eccle­
siastica non deve produrre per proprio uso e con­
248 SAGGI TEOLOGICI

sumo, ma pensare invece agli uomini di oggidì.


Ora, se lo fa per davvero, non può sorvolare alle­
gramente sui problemi più difficili e pericolosi. È
tenuta invece a cercare soluzioni nuove e magari
non ancora provate, perché oggi non si può ormai
più limitarsi a ripetere all'infinito le buone verità
già collaudate da secoli, o credere che basti rimet­
terne a nuovo la formulazione abilmente aggior­
nata dal punto di vista didattico e pedagogico.

Può anche darsi che gli ultimi interrogativi


della fede non possano venir risolti nella ristretta
cornice delle questioni e dei problemi teologici
singoli. Tuttavia, parecchi di questi problemi, di
fronte ai quali !'intellettuale profano in scienze
teologiche ha l'impressione di non vedere una so­
luzione, di non ottenere da nessuno una risposta
onesta e lineare, rilevando anzi come essi siano
universalmente scansati e se ne eviti ad arte una
leale discussione, attestano tutti quanti una situa­
zione e un'atmosfera spirituale la quale - benché
le decisioni fondamentali della vita vengano sen­
tite tuttora come gravose e impegnative - può
diventare irrespirabile e mortale per l'accostamen­
to .alla fede bramato dall'uomo moderno.
Egli deve quindi ricevere dalla scienza eccle­
siale una risposta chiara e soddisfacente a questi
singoli problemi che lo travagliano. Tocca a noi
spiegarli: cosa se ne dice dell'evoluzione, cosa
ESEGESI E DOGMATICA 249

dice la Chiesa a proposito della complessa storia


delle religioni, qual è la sorte degli innumerevoli
non cristiani, perché noi oggi (almeno in apparen­
za) abbiamo cos1 pochi e problematici miracoli,
mentre nelle antiche Scritture se ne raccontano di
assai più strepitosi e convincenti, come si consi­
dera l'immortalità dell'anima e quali ne sono le
prove. Questi e tanti altri quasi innumerevoli pro­
blemi similari, anche allorché non vengono posti in
modo esplicito (per stanchezza e per paura di met­
tere ulteriormente a repentaglio il briciolo di fede
che ancora si ha e si vuoI conservare), esprimono
la situazione spirituale in cui versano sistematica­
mente e inesorabilmente gli intellettuali moderni,
il cui numero va ingrossando ogni giorno più. Nel
novero di tali problemi, rientrano anche questioni
di esegetica e di teologia fondamentale. Ci si chie­
de: qual è l'attendibilità storica della Scrittura e
in specie del Nuovo Testamento? sono degni di
fede i miracoli in esso raccontati? è storicamente
conoscibile la Risurrezione di Gesù? esiste una
discrepanza solo apparente o anche reale tra le
narrazioni della Risurrezione? esiste un rapporto
tra la dottrina di Gesù da un lato e la teologia e
la prassi dell'ambiente in cui è vissuto dall'altro,
ecc.? Quando l'esegesi volesse aggirare questi e
molti altri problemi del genere, mancherebbe sen­
z'altro al suo dovere. Tali problemi sono davvero
difficili e « pericolosi »: ma vanno risolti lo stesso.
250 SAGGI TEOLOGICI

La Chiesa ha sempre pacificamente ammesso


che esistano e debbano esistere varie scuole, vari
indirizzi teologici. Guardando la cosa dal punto
di vista puramente logico, gli asserti contrastanti
di tali scuole risulterebbero a volte anche oggetti­
vamente pregiudizievoli per la fede, perché è ov­
vio che le idee espresse da due scuole in contrasto
tra loro non possono esser vere nello stesso tempo
e sotto lo stesso angolo visuale. Ma soggettiva­
mente, nessuno le ha mai viste e considerate co­
me una minaccia per la fede, e a ragion veduta;
si è sempre saputo infatti che, nelle questioni
aperte, entrambe le scuole mantenevano intatti ed
erano intenzionate a mantenere sempre intatti i
princìpi fondamentali. Si è quindi sempre potuto
lasciare che i teologi disputassero tra loro e la
Chiesa non è mai intervenuta, lasciando invece
loro piena libertà a tutto vantaggio della teologia.

Nelle questioni attualmente poste alla teologia,


non bisogna esimersi dall'escogitare e dal tentare
delle soluzioni, la cui conciliabità con la dottrina
vincolante della Chiesa non sia già scontata in par­
tenza, inequivocabile, palese e già costatata. A
tali problemi, non è sempre e dappertutto possi­
bile portare una risposta, la cui «certezza» sia
immune da qualsiasi dubbio e assolutamente indi­
scutibile dal punto di vista ecclesiale. Se tale rispo­
sta sia ineccepibile dal punto di vista ecclesiale sarà
ESEGESI E DOGMATICA 251
una cosa che assai frequentemente verrà in luce mol­
to adagio. Questi problemi, frattanto, vanno discus­
si possibilmente nei circoli di esperti, prima di esser
dati in pasto al grosso pubblico. È un ottimo prin­
cipio, questo; peccato che, nonostante tutta la
buona volontà, non sempre sia applicabile. Esi­
stono infatti molte questioni tuttora non appurate
e non risolte dagli specialisti di teologia, che pure
rappresentano interrogativi posti insistentemente
agli uomini del nostro tempo, e non solo agli
esperti di teologia.
Ora, non si possono tacitare questi uomini ri­
mandandoli a più tardi, al momento in cui - nei
«circoli specializzati» - si sarà giunti ad una
« sententi a communis », riconosciuta e accettata
da tutta la teologia nonché dal Magistero ecclesia­
stico. Occorre invece dar loro una risposta adesso,
subito, formulandola in modo che anche il non
esperto possa udire un responso plausibile e riso­
lutivo che plachi le sue ansie. In qualche circo­
stanza - come si dimostrerà poi - una tale ri­
sposta potrà magari rivelarsi semplicemente falsa;
potrà esser troppo poco ponderata; potrà forse ­
contro tutte le buone intenzioni del teologo che
l'ha escogitata - risultare oggettivamente in con­
trasto con certi princìpi ecclesiali e del Magistero
ufficiale; come potrà magari essere invece già esat­
ta, già maturata bene. A volte, potrà darsi che in
essa non risulti ancora sufficientemente chiaro co­
me certe dichiarazioni ufficiali dell'autorità docen­
252 SAGGI TEOLOGICI

te, di tipo non definitorio, abbiano bisogno d'una


certa revisione (il che non solo è possibile, ma
non di rado è anche realmente stato fatto). Potrà
darsi che anche una nuova idea, pur giusta, abbi­
sogni, dal lato prettamente sociologico-ecclesiale,
d'un certo «periodo d'incubazione », finché la
gente ci abbia fatto l'abitudine e ne abbia speri­
mentato, anche esistenzialmente e quasi sensibil­
mente, la conciliabilità con la vetusta fede della
Chiesa.

Il Magistero ufficiale della Chiesa ha indub­


biamente il diritto e il dovere di sorvegliare tale
processo di ricerca, d'indagine, di discussione (di
quella seria, però, dalla quale matura effettiva­
mente qualcosa), tenendo lontane le aberrazioni,
soffocando con la massima tempestività ancora in
sul nascere i virgulti che dànno indizi chiari e
inequivocabili di svilupparsi in direzione eretica.
Tutto ciò è ovvio, per ogni teologo cattolico. Tanto
è vero, che non nutre mai l'opinione che ogni
norma direttiva data dal Magistero ecclesiale sia
falsa o ingiustif1.cata, semplicemente perché risulta
dura e amareggiante per questo o quel teologo.
Tuttavia, non è vero che si sia autorizzati a
scavalcare a pié pari il tempo della discussione,
della ricerca e degli interrogativi, sostituendo­
vi per principio le decisioni ufficiali dell'auto­
rità docente ecclesiale. Il Magistero ufficiale
ESEGESI E DOGMATICA 253

della Chiesa è l'unica istanza che, in base


alla dottrina cattolica, può emanare in materia di
teologia una decisione vincolante in coscienza an­
che per i teologi specializzati. Non è però l'unica
istanza che possa da sola far piena luce sulle que­
stioni tuttora aperte. Per .fare questo, è necessaria
la riflessione ponderata dei teologi, occorre la di­
scussione preliminare. I teologi non rappresentano
un « piacevole malanno » nella Chiesa, non sono
un circolo di appassionati del dibattito che discu­
tono per soddisfazione personale. Hanno invece
una loro consistente e insostituibile funzione.
Non basta, a sopprimere questo dato di fatto,
la possibilità che l'autorità docente del superiore
ecclesiastico e la competenza scientifica risultino
casualmente unite in una stessa persona. I teologi
sono indispensabili nella Chiesa: devono discute­
re; e oggi, dovrebbero discutere dei problemi, nei
quali - durante la discussione - vengano « ar­
rischiate» anche delle opinioni non ancora pro­
vate, pericolose magari, e persino esposte a dimo­
strarsi poi, in un secondo tempo, insostenibili e
acattoliche. Che questo però non costituisca af­
fatto un lasciapassare per le teorie più pazzesche,
riconosciute in partenza come teologicamente
inammissibili da ogni teologo ordinario, penso non
occorra diffonderci a sottolinearlo.
Tra parentesi, dal lato teoretico-scientifico è
anche chiara e da tener senz'altro presente una
cosa: non è possibile fissare un principio formale,
254 SAGGI TEOLOGICI

in base al quale si riesca a stabilire, subito e senza


lasciar adito a dubbi, dove corra la linea di de­
marcazione tra il diritto di discussione e le idee
da respingersi « a priori ». Di conseguenza, la de­
cisione arrischiata in buona scienza e coscienza
non è mai completamente evitabile, né da una
parte né dall'altra: l'autorità docente ecclesiale
può dapprima impedire o proibire qualcosa che,
in un secondo tempo, dimostrerà magari di essere
un'opinione perfettamente discutibile; mentre in­
vece un singolo teologo può considerare lecitamen­
te discutibile un'opinione che, in realtà e per prin­
cipio, non lo è affatto, e suscita anzi a buon diritto
l'immediata opposizione del Magistero. Ora, con­
tro queste deficienze imputabili alla creaturalità e
alla limitatezza dell'uomo e della Chiesa stessa,
esiste un unico rimedio: umiltà, pazienza, amore.

Tutto ciò è più che ovvio. Non l'abbiamo ri­


portato davvero per dire che in queste cose si
possono nutrire opinioni diverse, bensì perché se
ne tragga una conseguenza che potrà forse risul­
tare meno ovvia, ma non per questo meno impor­
tante e fornita di tutti i crismi dell'esattezza.
Facciamo un caso: i teologi stanno discutendo
un dato problema di esegesi realmente scabroso,
eppur tuttavia imposto dalle esigenze attuali. Sia
all'esegeta sia al dogmatico, in casi del genere,
può capitare di portare il loro contributo verbale
ESEGESI E DOGMATICA 255

alla discussione in modo cosÌ reciso, da dichiarare


l'opinione d'un altro teologo inconciliabile con que­
sto o quell'altro principio della teologia cattolica
vincolante per intervento del Magistero. Tale opi­
nione può essere giusta o errata; ciò non toglie
che debba poter venire espressa. Non ci si può li­
mitare ad affermare che anche l'altro ha pure i
mezzi di rilevare questa discrepanza; se questa esi­
stesse per davvero, l'altro teologo - supposto
beninteso che sia cattolico - non avrebbe certo
espressa tale opinione. No, è sempre possibile che
un teologo, con le migliori intenzioni, sostenga
qualcosa di oggettivamente contestabile dal punto
di vista ecclesiale e teologico, senza per altro nem­
meno accorgersene di primo acchito.
Ma supponiamo che un teologo possa, debba
e anche voglia insorgere contro un altro teologo
con queste armi (non solo permesse, ma in certe
circostanze quasi obbligatorie): in tal caso deve
pensare che ciò potrebbe immediatamente in­
durre sull'altro la minaccia della censura eccle­
siastica, della proibizione del suo libro o dell'espul­
sione dai ranghi dell'insegnamento ufficiale della
Chiesa. Ma allora, probabilmente egli giungerà a
vietarsi - con danno della stessa materia tratta­
ta - di affrontare i suoi colleghi con tali mezzi
di per sé legittimi, per non dire necessari. Tacerà,
si ridurrà ad aggirare l'argomento, esprimendo la
sua idea solo nelle lezioni orali. CosÌ però non
si dà alcun contributo al progresso della materia;
256 SAGGI TEOLOGICI

senza contare poi i danni che soffrirebbe la schiet­


ta sincerità fraterna, che pur dovrebbe regnare tra
teologi cattolici.
In un caso simile non si può dire che l'altro,
per il solo fatto di aver espresso la sua opinione
debba incolpare se stesso, se è incorso nel peri­
colo di una misura repressiva da parte dell'auto­
rità ecclesiastica. Il collega intenzionato a com­
battere le opinioni altrui, può anzi e deve onesta­
mente pensare che il suo avversario è pure lui
un teologo insigne, che l'opinione da lui caldeg­
giata - anche se non viene accolta - contribui­
sce al progresso della materia, che il suo opposi­
tore nutre al par di lui un'irreprensibile menta­
lità ecclesiale. Può dunque pensare con tutta one­
stà che il suo avversario vada comunque protetto
da una mozione ufficiale di censura ecclesiastica,
quand'anche egli stesso intenda respingere nel
modo più assoluto e controbattere accanitamente
la sua opinione. Per cui, se avesse buone ragioni
di temere che, a seguito del parere negativo da
lui dato all'opinione del suo avversario, questi
corra il pericolo di venir censurato dall'autorità
ecclesiastica, dovrebbe senz'altro guardarsi bene
dall' esternare la sua propria opinione nella forma
poco sopra accennata. Non credo se la senta pro­
prio di addossarsi la colpa dell'incriminazione del
suo socio. Tutto ciò è ovvio e indiscutibilmente
onesto.
ESEGESI E DOGMATICA 257

Questo tacere o prender la cosa con timida


precauzione costituisce però uno svantaggio per
l'argomento dibattuto. Sì, perché impedisce la ne­
cessaria discussione, nonché a volte l'inderogabile
difesa della dottrina cattolica, che in buona parte
spetta anche ai teologi. Non solo, ma costringe­
rebbe l'autorità ecclesiastica ad assumersi una fun­
zione che di per sé dovrebbero esercitare i teo­
logi stessi. E per di più, estrometterebbe la di­
scussione teologica dal pubblico dibattito sulle ri­
viste e sui libri, per relegarla in una specie di
clandestinità di partiti che si combattono solo
oralmente.
Con quanto abbiamo esposto, non intendiamo
affatto insinuare che le autorità ecclesiastiche fac­
ciano proprio alla cieca il verdetto di un teologo
contro l'opinione d'un altro, o che prendano mi­
sure non necessarie ed ingiuste ogni qualvolta in­
fliggono una mozione di censura. Ma non si può
nemmeno affermare che un tal modo di agire sia
stato «a priori» e sempre escluso, che questo
fatto non sia proprio mai successo. Ora però, se
tali misure precipitate, oggettivamente ingiuste o
troppo dure, nocive all'importante materia cui tut­
ti vogliono servire, non è « a priori» impossibile
vengano comminate dall'autorità ecclesiastica in
questo settore, un teologo ha pure il diritto di
temerle. Sicché, se avesse l'impressione che ciò
capitasse con relativa facilità, dovrebbe indubbia­
mente cercar di stornarle dai suoi colleghi. Altri­
9. - Saggi teologie!.
258 SAGGI TEOLOGICI

menti la discussione ne rimarrebbe paralizzata, e


i problemi resterebbero insoluti. Sì, perché una
mozione di censura, per bene che vada, riesce
soltanto a sbarrare la strada sbagliata; ma con ciò
non è detto risulti già aperta la strada giusta.
In questa aggrovigliata materia, è lecito pen­
sare che tali misure coercitive ufficiali della Chie­
sa (in linea di diritto e oggettivamente indubbia­
mente possibili, e in date circostanze persino ne­
cessarie), da lei adottabili nei confronti di teologi
che esprimono la loro opinione in una libera di­
scussione, esplicando con chiaro senso di respon­
sabilità il loro dovere di professori, dovrebbero
però venir prese soltanto di rado, con circospe­
zione, e dopo aver attentamente vagliato tutte le
circostanze e tutte le prove a discarico. Diversa­
mente, la necessaria funzione rivestita nell'ambito
della Chiesa dalla discussione teologica verrebbe
indirizzata a danno della dottrina ecclesiale, inve­
ce che a suo vantaggio.
Tali misure repressive non devono tacitamen­
te partire dal pregiudizio che ogni falsa dottrina,
la quale non sia stata esplicitamente vietata dal
Magistero ecclesiale, può continuare a cresce­
re indisturbata, e non potrà mai venir sconfitta
mediante la chiarificazione dei problemi ottenuta
con mezzi prettamente teologici. Se tali mozioni
ecclesiastiche di censura venissero inflitte troppo
spesso o troppo avventatamente, nei circoli teo­
logici - contro tutte le buone intenzioni - si
ESEGESI E DOGMATICA 259

affermerebbe involontariamente il parere che una


data corrente di pensiero sia già conciliabile con
la fede cattolica, per il solo fatto di non esser
stata subito rintuzzata dall'autorità docente. Sic­
come però questo, normalmente, non si verifica
per ogni singolo caso, proprio perché non deve
verificarsi ad ogni pié sospinto, il teologo non si
fida nemmeno più a manifestare l'opinione contra­
ria. Avrebbe sempre l'impressione che la sua opi­
nione contrastante debba necessariamente esser
falsa, perché altrimenti l'autorità ecclesiastica l'a­
vrebbe già caldeggiata per conto suo.
Il che, a sua volta, costringerebbe l'autorità
docente ad agire ancor più drasticamente ed af­
frettatamente, per non dar adito a qualcuno di
pensare che questa o quell'altra opinione siano so­
stenibili dal punto di vista cattolico. Così, l'indi­
spensabile funzione della teologia cattolica rimar­
rebbe totalmente paralizzata.
Partendo dal tacito presupposto che una di­
chiarazione non «definitoria» del Magistero su­
premo possa in conclusione venir tuttora sempre
migliorata, la situazione diverrebbe ancor più in­
tricata: un teologo non parlerebbe perché teme
la censura della Chiesa; l'altro starebbe zitto per­
ché non vorrebbe attirare tale censura su un terzo;
e quando il Magistero ecclesiale parla, il suo inse­
gnamento finirebbe per esser preso non come una
proposizione dottrinale, bensì come un provvedi­
260 SAGGI TEOLOGICI

mento disciplinare che si cerca di eludere tacita­


mente appena è possibile.
Con tutte queste considerazioni, non inten­
diamo assolutamente prospettare una situazione di
fatto allarmante; miriamo invece unicamente ad
esporre l'analisi un po' approfondita d'un possi­
bile meccanismo psicologico, sempre pronto ad en­
trare in azione nell'ipotesi che le autorità ecclesia­
stiche concedessero troppo scarsa fiducia al valore
positivo della discussione tra teologi, reputando
quindi loro dovere l'interferire quanto più tempe­
stivamente possibile nella discussione, mediante le
loro misure autoritarie.
5.

SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE


DEL DOGMA 1<

Molte delle verità insegnate dalla Chiesa pre­


sentano la caratteristica di non essere state sem­
pre presenti in modo esplicito e percepibile nella
coscienza della sua fede. Un esempio a noi parti­
colarmente vicino è il dogma dell'Assunzione cor­
porea di Maria al cielo. Esso non fu sempre pro­
fessato esplicitamente. Per lo meno noi uomini
di oggi non possiamo scoprire e provare la sua
presenza con il suo esatto contenuto. In ogni caso
non è esistito prima con la chiarezza, precisione,
determinatezza e forza obbligante che oggi ha. Si
è in certo senso «evoluto », ha cominciato ad
esistere in un senso, che si doveva ancora ulte­

* Titolo originale: Zur Frage der Dogmenentwicklung,


pubblicato in Schriften zur Theologie, I, Benziger, Einsie­
deln, 4a ed., 1960, pp. 49-90; versione di A. Marranzini, S.;'
262 SAGGI TEOLOGICI

riormente precisare, perché non si trova già al­


l'inizio della predicazione del Vangelo così come
si presenta oggi.
Perciò, se vogliamo comprendere esattamente
questa dottrina o qualunque altra caratterizzata da
tale « evoluzione », siamo costretti a fare alcune
riflessioni di principio sul senso, la possibilità e i
limiti di un'« evoluzione del dogma » in genere 1.

1 Ci limitiamo ad alcune indicazioni. Siccome non pre­


tendiamo scrivere un trattato completo sulla questione, non
citiamo le opere che trattano dello sviluppo storico della dot­
trina sull'evoluzione del dogma, né prendiamo posizione esph­
cita sulle singole teorie esistenti oggi nella teologia_ Citiamo
le più importanti e quelle che affrontano il problema tenendo
espressamente presente il nuovo dogma dell'Assunzione.
OPERE GENERALl: J. H. NEWMAN, An Essay on the
Development oj Christian Doctrine, 1845 e la nuova edizione
rielaborata dallo stesso Newman nel 1878; J. B. FRANZELIN,
De divina traditione et de Scriptura, 4a ed., Roma, 1896;
J. BAINVEL, Histoire d'un dogme, in Études 101 (1904), 612­
632; CHR. PESCH, Glaube, Dogmen und historische Tatsachen
(Theol. Zeitfragen, IV), Friburgo, 1908; A. GARDEIL, La don­
née révélée et la théologie 2 a ed., Parigi, 1910; A. RADEMACHER,
Der Entwicklungsgedanke in Religion und Dogma, Colonia,
1914; M. TUYAERTS, L'Evolution du dogme, Lovanio, 1919; R.
M. SCHULTES, Introductio in historiam dogmatum, Parigi, 1922
(a pp. 149-152 si trova una pregevole bibliografia sul tema);
F. MARIN-SoLA, L'Evolution homogène du dogme catholique
I-II, 2, Friburgo, 1924; H. DIECKMANN, De Ecclesia II, Fri­
burga, 1925; L. DE GRANDMAISON, Le dogme chrétien, Pari­
gi, 1928; H. PINARD, Dogme, in DAFC I, 1122-1184; E. Du­
BLANCHY, Dogme, in DTHC IV, 1574-1650; L. CHARLIER, Es­
sai sur le Problème théologique, Thuilles, 1938; FIDE L GAR­
eiA MARTfNEZ, A proposito de la ltamada «le eclesiastica ».
Debe ser admitida en teologia? in Miscelanea Comillas VI
(Santandcr 1946), 9-45; ]. HOCEDEZ, Histoire de la Théologle
au XIXe siècle, III, Bruxelles, 1947, 161-172; H. DE LUBAe,
Le problème du développement du dogme, in RSR 35 (1948),
130-160; E. SEITERICH, Das kirchliche VerstandniI der Dogme­
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 263

Impresa certamente difficile, perché non si pos­


sono dedurre, con il rigore e la precisione necessa­
ria, la possibilità e i limiti di uno sviluppo dogma­

nentwicklung, in Orh PBL 53 (1952), 225-231, 255-263; E.


DHANIS, Révélation explicite et implicite, in Gregorianum 34
(1953), 187-237, a p. 226 s. si trova una più ampia bibliografia.
Citiamo ancora: Lo sviluppo del dogma secondo la dottrina
cattolica. Relazioni lette nella seconda settimana teologica 24­
28 setto 1951, Roma, 1953. Non possiamo occuparci in questo
saggio dei lavori, inclusi in questa raccolta, di Flick, Spiazzi,
Rambaldi, Bea, Balie, Filograssi, Dhanis, Boyer; infine C. VA­
GAGGINI, Il senso teologico della liturgia, 2a ed., Roma, 1958,
pp. 408-415.
LAVORI SULL'EVOLUZIONE DEL DOGMA in riferi­
mento al dogma dell'Assunzione (in essi evidentemente il pro­
blema generale è per lo più solo sottolineato): L. CARLI, La de­
finibilità dommatica dell'Assunzione di Maria in Marianum 8
(1945) 59-77; C. BALIC, De definibilitate Assumptionis B.M.v.
in coelum, Roma 1945 (= Antonianum 21 (1946) 3-67); E.
SAURAS, Definibilidad de la Asuncion de la Santisima Virgen,
in Estudios Marianos 6 (1947) 23-44; C. COLOMBO, La defini­
bilità dommatica dell'Assunzione di Maria SS. nella teologia
recente, in La Scuola Cattolica 75 (1947) 265-281; 76 (1948)
1-16; ]. TERNUS. Der gegenwiirtige Stand der Assumptfrage,
Regensburg, 1948; G. M. PARIS, De definibilitate dogmatica
assumptionis corporeae B.M.v. in coelum, in Div. Thom.
(Piac) 51 (1948) 354-355; G. PHTLIPS, Autour de la défini­
bilité d'un dogme, in Marianum lO (1948) 81-111; R. GARRI­
GOU-LAGRANGE, L'Assomption est-elle formellement révélée de
façon implicite? in Doctor communis (Acta Pont. Acad. Rom.
S. Thomae) 1 (1948) 28-65; C. DILLENSCHNEIDER, L'Assomp­
tion corporelle de Marie, in Etudes Mariales 6 (1948) 13-55
con ampia bibliografia; G. FILOGRASSI, Traditio divino-aposto­
lica et Assumptio B.v. Mariae, in Gregorianum 30 (1949) 481­
489; C. BALIC, De Assumptione B.v. Mariae quatenus in de­
posito fidei continetur, in Antonianum 24 (1949) 153-182; C.
KOSER, Cualificacion teologica de la Asuncion, in Acta del
Congreso Asuncionistico Franciscano de América Latina, Bue­
nos Aires, 1949, 329-353; H. RONDET, La définibilité de l'as­
somption. Questions de méthode, in Etudes Mariales 6 (1949)
59-95; G. FlLOGRASSI, The%gia catholica et Assumptio B.M.V.,
in Gregorianum 31 (1950) 323-350; ]. F. BONNEFOY, L'As­
264 SAGGI TEOLOGICI

tico in genere solo da considerazioni teologiche ge­


nerali. Dobbiamo tener conto dei fatti reali del­
l'evoluzione stessa. Ciò non deve meravigliare. Co­
nosciamo quel che è possibile da ciò che è reale.
Scopriamo le leggi del processo evolutivo di un
vivente, anche se spirituale, dalla stessa evoluzio­
ne concreta.
Il nostro caso porta con sé difficoltà partico­
lari. La realtà vivente, di cui si tratta qui, si pre­
senta in un'assoluta singolarità. È l'evento sto­
rico irrepetibile, che sotto la guida dello Spirito
Santo, maestro di ogni verità, va esperimentando
il messaggio di Cristo, dalla sua comparsa sulla
terra sino al momento in cui la fede per il suo
ritorno si trasformerà nella visione di Dio faccia
a faccia.
È un evento unitario, che si verifica una vol­

somption de la T. S. Vierge est-elle définissable camme re­


vélée «formaliter implicite »? in Marianum 12 (1950) 194­
226; G. FILOGRASSI, Constitutio Apostolica «Munificentissi­
mus Deu!» de Assumptione B.M.v., in Gregorianum 31 (1950)
483-525; B. CAPELLE, Théologie de l'Assomption d'après la
bulle « Munificentissimus Deus », in Nouv. Rev. Théol. 82
(1950) 1009-1027; M. LABOURDETTE e M. J. NICOLAS, La dé­
finition de l'Assomption, in Revue Thomiste 50 (1950); C.
COLOMBO, La Costituzione dommatica « Munificentissimus
Deus» e la Teologia, in La Scuola Cattolica 79 (1951); J.
TERNUS, Theologische Erwiigungen zur Bulle «MunificentiI­
yimus Deus », in Schol. 26 (1951) 11-35; A. KOLPING, Zur
theologischen Erkenntnismethode anlasslich der Definition der
leiblichen Aufnahne Mariens in den Himmel, in Div. Thom.
(Friburgens.) 29 (1951) 81-105. Una più ampia bibliografia si
trova in: Marianum 12 (1950) Supplemento n. 396-434; C.
BALIe, Testimonia de Assumptione B.M.V., Pars altera, Roma,
1950, 442-445; E. DANHIS, o. C., 226 s.
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 265

ta sola. Esso ha certamente le sue leggi, con le


quali si presenta sin dal primo momento. Si veri­
fica senza dubbio secondo le leggi imposte espres­
samente da principio, cui resta sempre obbligato
e che permangono, garantite dallo Spirito, lungo
tutto il corso della sua storia. Esistono, certamen­
te, anche delle leggi osservabili in una parte del­
l'intero processo ed applicabili alle altre fasi e
parti. La legge completa dello sviluppo dogma­
tico però si può formulare solo quando si è con­
cluso l'intero processo unitario.
Esso è un vero evento storico, che si verifica
per di più sotto l'impulso dello Spirito di Dio e
non si mostra mai accessibile totalmente alle leg­
gi che l'uomo è capace di scoprire. Perciò non
è mai l'applicazione di una formula o di una legge
fissa e universale. Il tentativo di costruire tale
formula adeguata, e di voler controllare univoca­
mente tutto il corso di questa storia, riconoscendo
nelle eventuali «deviazioni» solo dei difetti di
sviluppo, è erroneo a priori.
La storia dell'evoluzione del dogma è essa
stessa svelamento progressivo del suo mistero.
Nella Chiesa la realtà viva della coscienza della
fede ritorna su se stessa progressivamente, a po­
co a poco, nell'atto stesso, non in una riflessione
previa. Può darsi quindi, per esempio, che nell'e­
voluzione della dottrina dell' Assunzione appaiano
forme e particolarità di evoluzione dogmatica, che
non si lasciano scoprire con la stessa evidenza in
266 SAGGI TEOLOGICI

altre fasi e processi parziali di questa evoluzione.


Anzi esse potrebbero anche non armonizzare con
le concezioni ammesse sino ad oggi dalla teolo­
gia, non dal magistero! Ciò non indica affatto che
siamo di fronte ad un difetto di evoluzione, ad
una «ipertrofia» dell'evoluzione dottrinale. Si­
gnificherebbe tutt'al più che lo schema teologico in
uso dovrebbe essere corretto, sfumato o ampliato.
Un teologo scrupoloso potrebbe domandare:
Come dobbiamo comportarci, se non ci sono leggi
adeguate di questo sviluppo? Non si lascia allora
ogni facilitazione alla proliferazione più sfrenata
di un pensiero pseudoteologico e ad un'esaltazione
indisciplinata? Gli si dovrebbe rispondere: L'espe­
rienza umana ci mostra che il pericolo è possi­
bile, però qui non si può verificare per tre motivi:
1) Esistono, evidentemente, certe leggi dell'e­
voluzione del dogma, che, essendo conosciute a
priori, come diremo più avanti, si possono appli­
care chiaramente alle « evoluzioni» per giudicare
se si tratta di sviluppo genuino della fede della
Chiesa o di pericoli di deviazioni. Ci sono tali
leggi, anche se possono essere applicate solo nel­
l'ambito della Chiesa e in definitiva solo da essa.
La loro applicazione da parte di cristiani singoli
o di teologi è sempre solo un appello alla Chiesa
stessa, che bisogna riconoscere ultima istanza in
tale questione.
2) Come nei viventi in genere, ogni progresso
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 267

conseguito, che ha sempre in sé qualcosa di defi­


nitivo, significa inevitabilmente una limitazione
delle possibilità future in questo mondo finito,
pieno di ombre e di simboli. Quanto più piena
e chiara diventa la verità, tanto più risulta rigo­
rosa ed esclude ogni possibilità di errori nel fu­
turo. Sotto questo aspetto il progresso evolutivo
del dogma deve farsi, in certo senso e necessaria­
mente, sempre più lento, il che non significa che
debba cessare.
3) C'è un motivo sempre decisivo. Il peri­
colo da parte dell'uomo resta sempre tale e non
v'è alcuna precauzione che possa eliminarlo total­
mente in partenza. Il tentativo di armarsi con le
forze umane contro di esso in modo da non po­
terlo più «subire» è da se stesso destinato al
fallimento. La promessa dello Spirito, e solo essa,
ci assicura che tale pericolo, benché possibile, non
diventerà mai realtà.

Ciò premesso, dobbiamo ora considerare alcu­


ni caratteri essenziali dell'evoluzione cattolica del
dogma. Da quanto si è detto appare chiaro che
non sarà possibile presentare un'opinione uni­
versalmente ammessa o anche insegnata dalla
Chiesa. La teoria generale dell'evoluzione del dog­
ma è una scienza che sta ancora agl'inizi, perché
la storia, da cui si deve in gran parte dedurre,
268 SAGGI TEOLOGICI

non è stata ancora sufficientemente investigata.


Tuttavia si possono elencare alcuni princìpi.
Anzitutto è ovvio che la verità resti sempre
identica, cioè vera, in quanto rappresenta la real­
tà e in un modo obbligatorio per tutti i tempi.
Ciò di cui la Chiesa è entrata in possesso come
di una parte della rivelazione a lei affidata, di un
oggetto della sua fede incondizionata, è da essa
conservato sempre e in maniera defìnitiva per
ogni tempo. Non si dànno evoluzioni del dogma,
che siano solo riflesso di una storia universale del­
lo spirito umano, mentre il loro contenuto sareb­
be pura oggettivazione di sentimenti, atteggia­
menti e disposizioni, perennemente mutevoli, di
epoche in costante trasformazione. Tale relativi­
smo storico è falso sotto l'aspetto metafìsico e,
soprattutto, teologico.
Tuttavia le proposizioni umane, pur esprimen­
do la verità salvifìca divina, son sempre limitate,
non contengono mai tutta la realtà. Ogni realtà,
anche la più limitata, è sempre in connessione e
in rapporto con tutte e singole le altre. Per poter
descrivere adeguatamente anche il più insignifì­
cante processo fìsico, che uno scienziato compie
per esperimento nel suo laboratorio, si richiede
una formula che abbracci, in misura esauriente,
tutto il cosmo. Ora egli non l'ha e la potrebbe
avere solo se si potesse collocare, con la sua real­
tà fìsica, in un punto situato totalmente fuori del
cosmo e senza alcun rapporto con esso: impresa
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 269

impossibile. Tanto più ciò vale della realtà spiri­


tuale e divina.
Le proposizioni, che, poggiati sul Verbo Di­
vino, divenuto esso stesso « carne» in parole u­
mane, enunciamo su di esse, non possono mai
esprimerle in maniera totale e adeguata in una
volta sola. Non che siano per questo false. Sono
« adeguatamente vere », in quanto non dicono al­
cunché di falso. Chi le volesse chiamare « mezze
false », perché non esprimono tutta la realtà intesa
nelle sue singole parti, eliminerebbe la differenza
assoluta esistente tra verità ed errore. Chi invece
pensasse che tali proposizioni di fede, perché del
tutto vere, esprimono la realtà intesa in maniera
in sé adeguata ed esauriente, eleverebbe falsamen­
te la verità umana all'altezza della scienza sem­
plice e comprensiva, che Dio ha di se stesso e
di ciò che da lui ha origine. Tali proposizioni,
proprio perché vere, stanno, nonostante la loro
finitezza, ad una distanza qualitativamente infinita
dalle proposizioni false. È vero che talvolta, anzi
spesso, è difficile determinare nel singolo caso,
in modo concreto ed esatto, dove scorre la linea
di demarcazione tra una proposizione inadeguata
ed una falsa. Ma poiché le nostre proposizioni
sulle realtà divine e infinite sono finite e perciò
inadeguate, in quanto esprimono esattamente la
realtà ma non la coprono totalmente, ogni formu­
la di fede, pur restando vera, può per principio
essere superata e sostituita da un'altra. Questa
270 SAGGI TEOLOGICI

afferma la stessa cosa con nuove sfumature, non


impedisce ma apre anche positivamente nuovi
sguardi su fatti, realtà, verità, non contemplati
espressamente nella formula precedente, che fan­
no vedere la stessa realtà da un punto di vista
e da una prospettiva, sotto cui non era stata mai
sinora considerata.
Questo mutamento nell'ambito della stessa
verità non è solo, né in ogni caso necessariamente,
un puro gioco di curiosità. Può avere anche un
significato essenziale per l'uomo e la sua salvezza.
L'uomo non è, nel suo conoscere, una lastra foto­
grafica, insensibile e statica, che registra sempli­
cemente ciò che la colpisce nei singoli momenti
staccati. Anche solo per intendere ciò che vede o
ode, egli deve reagire, prendere posizione, con­
nettere la nuova conoscenza con ciò che per. altra
via sa, sente e fa nell'esperienza storica e totale
della sua vita.
Deve integrare la sua realtà, la sua vita e la
sua condotta nell'ordinamento di questa verità di­
vina ed agire in conformità con essa: credendo,
amando e obbedendo nel culto, nella disciplina e
nell'attività della Chiesa, nella sua vita privata e
profana di ogni giorno. In tutto ciò non può fare
astrazione da ciò ch'egli è: dalla sua realtà sto­
rica, sempre nuova e mutevole. Infatti egli non
deve inserire nell'ordinamento di questo messag­
gio divino solo la sua « essenza » metafisica im­
mutabile, ma anche la sua realtà concreta, storica,
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 271

« contingente », la sua «esistenza di quaggiù»


con tutto ciò ch'essa include: le sue inclinazioni,
capacità determinate, finite e mutevoli, lo spirito
del suo tempo, le possibilità della sua epoca, i suoi
concetti, condizionati sempre anche storicamente
nonostante la stabilità dell'elemento metafisico, i
compiti determinati, sempre mutevoli e finiti, che
gl'impone la sua situazione ineludibile. Ora questa
situazione non si deve concepire solo come effetto
di uno sviluppo profano e storico. È anche risul­
tato del governo di Cristo sulla sua Chiesa, che
fa addentrare, sempre e in maniere diverse, nella
sua verità unica attraverso il mutamento della
realtà.
L'uomo fa tutto ciò, e lo deve fare, perché
ha lo sguardo aperto, metafisicamente e teologi­
camente, sull' Assoluto, ma sempre da un punto
di vista storico. Perciò non si muta la realtà di­
vina né si trasformano le affermazioni su' di essa
da vere in false. Cambia, sino ad un certo grado,
la prospettiva, sotto cui l'uomo vede la realtà
attraverso quelle proposizioni. Egli la esprime in
maniera diversa e dice di essa qualcosa di nuovo
non ancora visto chiaramente. L'elemento deci­
sivo di questo mutamento non è « progresso », in
quanto si raggiunge una conoscenza quantitativa­
mente maggiore, quasi che la Chiesa « diventi »
in qualche misura « più sapiente ». Almeno fon­
damentalmente, la stessa realtà e verità son viste
diversamente, nel modo che corrisponde proprio a
272 SAGGI TEOLOGICI

questo periodo della Chiesa. È un mutamento nel­


l'identica realtà.
Con ciò non intendiamo dire che tale muta­
mento implichi il totale abbandono della visione
delle cose e della prospettiva antecedenti. Sareb­
be concepire il mutamento quale si presenta nel
campo materiale, non in quello spirituale. Lo spi­
rito dell'umanità e molto più la Chiesa hanno una
« memoria ». Si trasformano conservandosi. Si
rinnovano proprio non perdendo quello che è an­
tico. Possediamo la nostra filosofia continuando
sempre a filosofare con Platone e con la sua ve­
rità, che resta sempre tale. Con molta più ragione
possediamo la nostra teologia, che porta innega­
bilmente l'impronta del nostro tempo, nello stu­
dio costante e rinnovato della Scrittura, dei Padri
e della scolastica. Non facendo l'una o l'altra cosa
verremmo meno alla verità. Cadremmo nell'errore
o non ci approprieremmo della verità in modo ve­
ramente esistenziale.
Si potrebbe qui pensare che il concetto ora
raggiunto di mutamento nell'ambito di una verità,
che permane identica, riguardi, proprio e solo,
ciò che si chiama <~ teologia » in contrapposizione
alla fede della rivelazione. Si tratta, sempre e solo,
della comprensione umana della rivelazione, che
s'aggira quasi costantemente, sebbene a distanza
e in sforzo permanente, intorno al punto fisso
della Scrittura e forse anche ad alcuni altri dati
assodati della tradizione primitiva. Perciò resta
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 273

sempre teologia e non può mai diventare auten­


tica e definitiva parola della rivelazione, che af­
ferra la stessa rivelazione.
Esiste, senza dubbio, un rapporto tra rivela­
zione da una parte e la sua intellezione umana,
sempre condizionata dal tempo e dalla situazione,
e lo sforzo per raggiungerla dall'altra. C'è una teo­
logia della rivelazione, una parola umana, che
cerca di esprimere e intendere il dato rivelato,
senza però avere nella rivelazione stessa una ga­
ranzia della riuscita di tale tentativo. Però non
esiste solo una teologia, che si evolve e cambia,
intorno ad una parola rivelata, espressa una volta
per sempre e perciò statica. Non c'è solo un'evo­
luzione della teologia, ma anche un'evoluzione dei
dogmi, non solo una storia della teologia, ma an­
che, a partire da Cristo, sia pure sempre in con­
nessione con lui, una storia della fede. Questa
esiste, perché da una parte la Chiesa intende le
sue decisioni dottrinali non come semplice teolo­
gia ma come una parola di fede, che, sebbene
non rivelata di nuovo, esprime la rivelazione stes­
sa in maniera vera e obbligante. D'altra parte la
parola del magistero in senso ampio non si può
concepire come modificazione verbale, puramen­
te esterna, delle proposizioni originarie della ri­
velazione.
Molto spesso non si può dire che la parola
nuova del magistero sia solo e semplicemente
quella antica «espressa in modo diverso ». Per
274 SAGGI TEOLOGICI

lo meno il semplice cristiano non può a priori li­


mitare il suo contenuto a ciò che egli stesso può
riconoscere «identico» alle rispettive dichiara­
zioni precedenti. Le dichiarazioni, per esempio, dei
Concili di Nicea e di Firenze sul mistero della
Trinità Divina, che sono intese come espressioni
di fede e non semplici saggi teologici, hanno un
senso determinato. Questo è oggetto di fede, an­
che se io, semplice cristiano e teologo privato,
non riesco a dimostrare per mio conto, con mezzi
filologici ed esegetici, che queste dichiarazioni di­
cono « solo con altre parole », esattamente quello
« stesso », che posso riscontrare da me nelle « fon­
ti» della Scrittura e della rivelazione primitiva.
Naturalmente non vi può essere contraddizio­
ne tra due dichiarazioni né la si può provare sto­
ricamente. Vedremo in seguito come si debba
obiettivamente concepire con più esattezza la dif­
ferenza, più o meno grande secondo il caso di
cui si tratta, tra una dichiarazione anteriore e una
posteriore del magistero. Per il momento basta
costatare che essa può esistere almeno «quoad
nos », cioé per il singolo uomo e la sua teologia
privata, e che in molti casi si dà di fatto. Quindi
almeno in questo senso esiste di fatto «quoad
nos» un'evoluzione dei dogmi, come lo prova
il comportamento pratico della Chiesa nella pro­
clamazione della sua dottrina.
È anche relativamente facile vedere che tale
evoluzione debba esistere. La parola, con cui Dio
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 275

si rivela, è rivolta in maniera sensibile a tutta la


storia dell'intera umanità 2, Perciò non v'è alcun
bisogno che il mezzo di appropriazione della rive­
lazione, condizionato in ciascun caso storicamente,
si trovi assolutamente fuori della rivelazione stes­
sa. Infatti la comprensione reale del dato rivelato
e la sua appropriazione esistenziale da parte del­
l'uomo sono dirette a trasformare le proposizioni
di fede udite originariamente in proposizioni che
riferiscano quanto si è udito alla situazione sto­
rica e spirituale dell'uomo che le ascolta. Solo
cosÌ sono proposizioni di fede, che diventano deci­
sioni e realtà operanti nella situazione umana
reale, condizionata storicamente.
Se le proposizioni « che traducono la rivela­
zione » fossero per principio solo e sempre pura
teologia, «interpretazione privata» delle propo­
sizioni originarie, non si avrebbe mai la garanzia
di aver inteso rettamente la proposizione udita.
La proclamazione stessa della fede da parte sua
sarebbe solo ripetizione monotona delle frasi della
Scrittura e forse anche di una limitata tradizione,
sempre materialmente le stesse. La comprensione
di esse, che ciascuno di noi ha raggiunto nella sua
concreta situazione, sarebbe teologia soggettiva.

2 Non possiamo trattare qui più ampiamente la questione


riguardante le condizioni ontologiche richieste perché una pro­
posizione, formulata in un momento determinato della storia,
possa rivolgersi a tutti gli uomini in ogni periodo di questa
storia.
276 SAGGI TEOLOGICI

Non si avrebbe mai un'appropriazione della fede,


che sia essa stessa fede.
Quanto si è detto vuoI solo accennare bre­
vemente al fatto di un' evoluzione dei dogmi 3 e
offrire una prima base per un'intellezione, an­
cora imprecisa, della sua essenza. Per compren­
derla più chiaramente prendiamo le mosse da una
delle dichiarazioni fondamentali del magistero
sulla dottrina di fede della Chiesa. Essa sembra
apparentemente additare una direzione opposta
alle nostre affermazioni su una possibile ed effet­
tiva evoluzione dei dogmi.
È dottrina della Chiesa, anche se a rigore non
definita, che la rivelazione « si è conclusa con la
morte dell'ultimo apostolo» (Dz. 2020 s). Che si­
gnifica questa affermazione? Sarebbe falso pensa­
re ch'essa voglia più o meno dire che con la morte
dell'ultimo apostolo si sia compilata una somma
di proposizioni ben precisate, quasi un codice con
i suoi paragrafi chiaramente delimitati, una spe­
cie di catechismo definitivo, che, restando sempre
fisso, sia solo ripetutamente interpretato, spiega­
to e commentato. Tale concezione non corrispon­
de né al modo di esistere di una conoscenza spi­
rituale né alla vitalità della fede e del suo conte­
nuto. Se ci domandiamo quale sia il motivo ul­
timo della chiusura della rivelazione, giungiamo

3 Evidentemente questo fatto può essere provato a dovere


solo a posteriori dalla storia stessa,
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 277

al punto esatto, da cui si può comprendere que­


sta proposizione.
Rivelazione non è, nel suo senso ultimo, comu­
nicazione di un determinato numero di proposi­
zioni, una quantità che capricciosamente si può
concepire suscettibile di aumento o di una dimi­
nuzione repentina e arbitraria. È un dialogo sto­
rico tra Dio e l'uomo, nel quale avviene qualche
cosa. La comunicazione si riferisce a questo even­
to e all'azione di Dio. Tale dialogo si avvia ad un
punto finale del tutto determinato, nel quale dò
che accade) e di conseguenza la sua comunicazione,
raggiungono il vertice insuperabile e con esso la
loro conclusione.
La rivelazione è un evento salvifico e perciò
una comunicazione delle « verità» che l" riguar­
dano. Questo evento della storia salviJ1c:a ha ora
raggiunto in Gesù Cristo il suo verticè insupera­
bile: Dio stesso si è definitivamente donato al
mondo nel suo Figlio. Il cristianesimo non è una
fase o un'epoca di una storia del mondo e dello
spirito, che possa essere sostituita da un'altra fa­
se e da un altro « eone» intramondano. Quanto
è accaduto prima e fuori di Cristo nella storia,
era ed è sempre qualcosa di condizionato, di tran­
sitorio, che ha un ambito e una forza vitale limi­
tati. Perciò sfocia da se stesso nella rovina e neI.·
l'assurdo. Un eone segue l'altro. Il presente muo­
re sempre nel futuro. Tutti i tempi, che sorgono
e tramontano, vanno verso l'autentica eternità,
278 SAGGI TEOLOGICI

che resta sempre nell'al di là. Tutto ciò che na­


sce ha già in sé la morte: culture, popoli, regni,
sistemi filosofici, politici, economici.
Prima di Cristo l'intervento rivelatore di Dio
nel mondo era «aperto »: creava tempi, piani
successivi di salvezza. Tuttavia non si sapeva co­
me Dio avrebbe reagito definitivamente alla rispo­
sta, quasi sempre negativa, dell'uomo alla sua ope­
ra, se l'ultima delle sue parole creatrici della real­
tà sarebbe stata di ira o di amore. « Ora» invece
è già posta la realtà definitiva, che non può es­
sere più superata o sostituita: è l'ineliminabile e
irrevocabile presenza di Dio nel mondo come sal­
vezza, amore e perdono, come comunicazione del­
la sua stessa realtà più intima e della sua vita tri­
nitaria al mondo: Cristo. Ora non può venire più
nulla, né un'epoca nuova, né un altro eone o pia­
no di salvezza, ma solo lo svelamento di ciò che
« è già qui » come presenza di Dio sopra il tempo
dilatato dell'uomo, l'ultimo giorno che permane
eternamente giovane. La rivelazione è « chiusa »,
perché è già presente la realtà definitiva, che chiu­
de la storia in senso proprio. Essa è chiusa, per­
ché aperta alla pienezza di Dio, occultamente pre­
sente nel Cristo. Non si dirà più nulla, perché
non c'è più nulla da dire. Tutto è stato detto,
anzi tutto è stato dato nel Figlio dell'amore, nel
quale Dio e il mondo sono uniti, eternamente in­
confusi ma eternamente inseparati. La chiusura
della rivelazione che include tutto e non esclude
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 279

nulla della pienezza di Dio: conclusione come pie­


nezza comprensiva che è pieno presente.
Inoltre si deve badare che, quando parliamo
di una rivelazione « chiusa », ci riferiamo ad una
rivelazione fatta alla Chiesa, che possiede la real­
tà rivelata. In effetti, si può sapere qualcosa di
sicuro su questa realtà della salvezza divina solo
mediante il messaggio e la fede, che ha origine
dall' ascolto ed esprime ciò che ha udito in parole,
concetti e proposizioni umane. Tralasciare questo
messaggio per afferrarsi senza di esso immediata­
mente a questa realtà, in una « vita» religiosa, in
uno stato sentimentale, in un'esperienza che esclu­
de la fede derivante dall'ascolto, è falso, impossibi-.
le e condurrebbe ad una razionalizzazione moder­
nistica del cristianesimo.
La nostra religione, attuandosi nel campo del
nostro sapere cosciente e del nostro agire perso­
nale, è necessariamente legata alla parola del mes­
saggio. Questa però nell'eone del Cristo non è una
parola del remoto, del futuro. Non è solo un'ombra
anticipata di una realtà che ha ancora da venire.
È una parola di ciò che è presente.
La Chiesa possiede ciò che crede: Cristo, il suo
Spirito, la caparra della vita, le forze dell'eternità.
Essa non può apprendere questa realtà senza la
parola. Però non possiede solo una parola che
esprimerebbe la realtà senza contenerla. Il suo
ascolto della parola e la sua riflessione sulla parola
ascoltata non sono puro lavoro logico, inteso a de­
280 SAGGI TEOLOGICI

durre a poco a poco dalla parola udita, come da


un complesso di proposizioni, tutte le virtualità ~
conseguenze logiche. È riflessione sulle proposizio­
ni udite, in contatto vitale con la realtà stessa.
Questa riflessione della Chiesa, che ci fa ap­
prendere la fede mediante la « teologia », si evol­
ve, si chiarifica e si esprime in « nuove» proposi­
zioni di fede e non di pura speculazione teologica.
Si attua in modo indivisibile sulla parola e sulla
realtà: l'una nell'altra, non l'una senza l'altra. In
parole diverse: la luce della fede e l'assistenza del­
lo Spirito, che operano in questa riflessione e in
questa progressiva autocoscienza della fede, non
.sono come l'opera del maestro, che vigila perché
il discepolo non erri nei suoi calcoli e nelle sue
operazioni logiche. In questo caso la conoscenza,
che il discepolo acquista procedendo rettamente,
è dovuta solo alla sua sagacia personale, alla sua
capacità logica e alla virtualità delle sue premesse.
La luce dello Spirito e della fede influiscono in­
vece sul risultato stesso: la realtà data e occulta­
mente presente coopera alla sua intellezione.
L'« unzione » ammaestra. Si riflette su ciò che ab­
biamo visto e contemplato con i nostri occhi del
Verbo vivo della verità, su ciò che abbiamo pal­
pato con le nostre mani (1 Gv l,l). Perciò non è
necessario che questa luce e la sua azione siano di
per sé discernibili e distinguibili, in modo riflesso
e netto, dagli altri momenti del progresso crescente
della conoscenza della fede.
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 281

Anche nella vita naturale dello spirito la ri­


flessione non capta mai totalmente le ragioni e i
motivi efficaci di una conoscenza o di un'azione.
Con un semplice sguardo diretto sulla realtà cono­
sciamo sempre molto più di quello che ci possono
dare la riflessione e l'analisi dettagliata di questa
conoscenza e della sua esperienza. Nel nostro agi­
re abbiamo molti più motivi di quelli che possia­
mo esprimere in modo riflesso prima e dopo. Al­
l'inizio l'uomo semplice, nella sua conoscenza di­
retta dell'oggetto normale della sua vita, non sa
nulla, in maniera riflessa e tematica, dell'essenza
delle sue capacità conoscitive soggettive o della
logica formale, con la quale di fatto lavora.
Quanto più e con quanta maggiore fondatezza
si verificherà ciò nella conoscenza della fede! La
luce della fede e l'impulso dello Spirito non si la­
sciano per sé ridurre ad un dato riflesso in uno
sguardo retrospettivo staccato dall'oggetto della
fede. Essi sono la luminosità che rischiara tale
oggetto, l'orizzonte dentro cui lo si capta, la con­
genialità nascosta con la quale lo si comprende.
Propriamente non sono l'oggetto direttamente
contemplato, né un sole, al quale si potrebbe mi­
rare direttamente. Son però presenti e cooperano
all'apprensione e all'evoluzione dell'oggetto della
fede. Sono la soggettività concomitante ed attiva
(di Dio e causata da Dio), con la quale la parola
di Dio è propriamente appresa la prima volta e
poi sempre di nuovo.
282 SAGGI TEOLOGICI

La conoscenza della fede si attua per la forza


dello Spirito di Dio. Questi però nella sua concre­
tezza quale Spirito del Padre e del Figlio, Spirito
del Crocifisso e del Glorificato, Spirito della Chie­
sa e pegno della vita eterna, Spirito della giustifi­
cazione, della santità e della liberazione dal peccato
e dalla morte, è indivisibilmente la realtà stessa
che si crede. Perciò l'oggetto della fede non è pu­
ramente passivo, indifferente alla posizione che si
prende nei suoi riguardi, ma è nello stesso tempo
un principio mediante il quale egli stesso è ap­
preso come oggetto.
Quest'asserzione ha naturalmente il suo senso
pieno solo se si suppone che il sostegno della fede
da parte dello Spirito Santo mediante la grazia,
oltre che essere una modalità entitativa inconscia
dell'atto di fede, abbia anche un'efficacia di cui
in qualche misura si è consci. Ciò non vuoI dire
necessariamente che la si possa distinguere in mo­
do riflesso. Tale attività permette di apprendere
gli oggetti di fede presentati dal messaggio ester­
no orale sotto una luce, un a priori (oggetto for­
male) soggettivo, proprio della grazia e perciò
inaccessibile a chi ne è privo.
Questa supposizione è, com'è noto, discussa
nella teologia cattolica. Noi in base a motivi bi­
blici e metafisici riteniamo vera la concezione to­
mistica che l'ammette. Perciò abbiamo anche noi
il diritto di ammetterla, pur non potendola pro­
vare qui ulteriormente.
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 283

Ammessa tale ipotesi non è esatto dire che lo


sviluppo della coscienza della fede avvenga solo
in base ad una penetrazione logica e concettuale
sotto un'assistenza per sé «negativa» dello Spi­
rito Santo, che impedirebbe l'incorrere di errori
decisivi in questo lavoro di conoscenza logica uma­
na. Tra una rivelazione nuova, che apporti ele­
menti obiettivi del tutto originali e un'assistenza
per sé negativa, che non contribuisca affatto allo
sviluppo del contenuto del deposito della fede ma
impedisca solo decisioni false e garantisca così dal­
l'esterno l'esattezza delle decisioni di fede, si dà
una terza possibilità: un'evoluzione progressiva
del deposito originario della fede sotto un influsso
positivo del lume della fede donata alla Chiesa.
Ora, partendo da questa prospettiva, ci do­
mandiamo: quali compiti e limiti sono imposti al
lavoro logico, che si può compiere, e di fatto si
compie, sulle proposizioni originarie della fede?
La loro intellezione si può in qualche modo distin­
guere, con l'aiuto della luce dello Spirito, dal pos­
sesso comprensivo dell'oggetto stesso della fede
presente ma nascosto? Si deve rispondere che la
fede della Chiesa riflette sempre di nuovo sulle
proposizioni di fede. Essa conosce il contenuto in
esse implicito, le virtualità logiche e obiettive, che
derivano da una proposizione o dalla connessione
di varie proposizioni.
Queste « conclusioni» possono essere necessa­
rie dal punto di vista puramente logico. Però non
284 SAGGI TEOLOGICI

si richiede che lo siano. Per sé può anche trattarsi


solo di connessione tra le proposizioni, di conclu­
sioni da esse dedotte, magari solo « approssimati­
ve » sotto l'aspetto puramente logico ecc., ma che
per sé non rappresentano una logica apodittica.
Può anche darsi che una proposizione più parti­
colare e precisa appaia più atta ad essere armo­
nicamente inserita in un complesso di proposizioni
o di pensieri più generale o indeterminato. Due
proposizioni si chiarificano e sorreggono a vicenda
tanto che la più particolare può essere dedotta a
rigore da quella generale come sua unica conse­
guenza logica.
Si hanno in tal caso le cosiddette « ragioni teo­
logiche di convenienza », gli argomenti « probabi­
li » (probabiliora) di Scrittura e di Tradizione, ed
altri simili. Sarebbe però falso pensare che allora,
in partenza e per principio, non sia più possibile
una conoscenza certa di fede. Infatti si supporreb­
be tacitamente o espressamente che il progresso
nella conoscenza teologica e di fede si basi unica­
mente ed esclusivamente sulla forza delle operazio­
ni logiche umane.
Ora non è così. A una conoscenza certa della
fede della Chiesa, quando si dà, non si giunge solo
mediante la spiegazione logica di proposizioni in
quanto tali, ma mediante la forza illuminatrice
dello Spirito a contatto con la realtà stessa. Tale
forza si serve della logica senza però esaurirsi in
essa, perché possiede la realtà stessa in questione
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 285

anche come principio attuale della sua conoscenza


e non solo proposizioni su di una realtà lontana:
non ci si può servire della logica nell'ambito della
fede senza un minimo di luce dello Spirito.
Si può avere il progresso dogmatico anche in
base ad «argomenti di convenienza» o di altre
« prove» del genere 4. Naturalmente un teologo
singolo in quanto tale non può dire quando si
realizza con tali argomenti e «nonostante» essi
un progresso certo. Può solo cogliere in modo ri­
flesso la forza - condizionata - dell'argomento
logico come tale. Il progresso certo può essere af­
fermato solo dalla fede della Chiesa, che con que­
ste considerazioni di pura « convenienza » e no­
nostante esse si trova di fatto in possesso sicuro 5
di una conoscenza di fede e per tale via sa che
l'evoluzione della sua conoscenza si è verificata
nella forza e nella luce dello Spirito.
Per il nostro intento possiamo lasciare da par­
te il problema: un « argomento di convenienza»

4 Chi vuole può usare la formula più cauta: non si può


provare a priori che sia impossibile. Solo a posteriori dalla
stessa storia del dogma si può provare caso per caso se e dove
si è raggiunto di fatto in questo modo un progresso dogma­
tico. In ciò si dovrebbero distinguere due possibilità; o tale
progresso avvenne mediante un argomento provvisorio di sola
« convenienza », che però più tardi si manifesta, ad un esame
più attento ed esatto e ad una valutazione più ampia dei con­
testi teologici, assolutamente apodittico; o nel campo dell'ar­
gomentazione logica ci si può afferrare solo ad « argomenti di
convenienza ».
5 Naturalmente «certo» non significa qui: logicamente
necessario, ma: solido, indubitabile, indiscusso.
286 SAGGI TEOLOGICI

di tale tipo in alcune circostanze è, per il mo­


mento quoad nos, solo prova di convenienza e
perciò ci appare tale? Oppure conseguendosi con
esso una conoscenza certa di fede, deve sempre
e in ogni caso includere in sé di fatto un valore
logicamente stringente, che però solo quoad nos
non ha ancora raggiunto il grado di obiettività ri­
flessa e rigorosamente analizzata, per divenire
chiaramente tale? Un teologo, che pretenda di con­
cepire l'evoluzione del dogma come legata il più
strettamente possibile al filo conduttore della spie­
gazione logica di proposizioni, può certamente
considerare la seconda ipotesi come l'unica accet­
tabile 6.
Senza dubbio già nella vita naturale dello spi­
rito si dànno molti casi, in cui, in modo irriflesso
e «globale », conosciamo qualcosa con assoluta
certezza. Da una parte la prova riflessa di fatto
addotta può apparire ancora molto insufficiente e
imprecisa e dall'altra si deve tuttavia ammettere,
per principio, la possibilità di un argomento apo­
dittico che si addurrà o che talvolta per uno spi­

6 Egli deve allora poter provare che si giustifica l'evolu­


zione del dogma, di. fatto avvenuta e legittima, col supporre
questo postulato. Nel dedurre «apoditticamente» dai dati
della rivelazione originaria una proposizione già definita, egli
non può giudicare della forza probativa con quella mitezza,
che non lascia prevalere quando si tratta di dedurre teologica­
mente proposizioni non ancora definite. Rinunciamo qui a ci­
tare esempi di questo duplice modo di procedere.
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 287

rito dalla vista più acuta è stato già addotto in ma­


niera sufficiente.
A noi interessa qui il criterio seguentç:, che de­
v'essere ammesso anche da un tale teologo: non si
può affermare che, dove hic et nunc quoad nos ci
si presenta solo un « argomento teologico di conve­
nienza », non si abbia più la possibilità di una co­
noscenza certa di fede. T aIe affermazione equivar­
rebbe effettivamente ad un naturalismo teologico,
nel quale il modo specifico, con cui la Chiesa, con­
cepita come un tutto, conosce la fede in forza
dello Spirito, che in essa abita, sarebbe ridotto ad
operazione mentale meramente umana. La realtà
superiore e più ampia della conoscenza di fede sa­
rebbe abbandonata a qualcosa di inferiore e di se­
condario, alla teologia « scientifica », che certo co­
stituisce anche un elemento della conoscenza di
fede, ma non ne rappresenta affatto l'essenza ade­
guata.
Però da quanto si è detto segue anche il con­
trario: è uno sforzo superfluo e lesivo della lealtà,
che è virtù anche della teologia, il voler dedurre
a qualunque costo dalle fonti della rivelazione un
argomento riflesso e logicamente apodittico ogni
volta che ci si trova di fronte ad una dottrina
di fede attestata in maniera certa dal magi­
stero ecclesiastico. Il teologo deve compiere tale
sforzo e non deve con facilità e leggerezza dispen­
sarsi dal lavoro rigoroso ed obiettivo, storico e spe­
culativo, proprio della sua scienza, con il pretesto
288 SAGGI TEOLOGICI

che non ne vale la pena, perché egli fa teologia


attingendola sempre dalla fede della Chiesa. Tale
atteggiamento sarebbe falso e riprovevole. Però
quando non è in grado di addurre con lealtà e
obiettività tale giustificazione, non deve dare l'im­
pressione che lo Spirito Santo si manifesti piena­
mente alla Chiesa solo nella sua mente e nelle sue
riflessioni teologiche.
Questo sforzo è già superfluo perché nessuno
può negare che in molti casi la persuasione certa
della fede della Chiesa abbia di fatto Qreceduto
nel temQo tali ùeùu.'Ùoni logiche, certamente \:,OS­
sl'o\.\l in alcune c\tcostanze.
Anche nella logica concreta dello scopri­
mento delle verità della vita quotidiana la propo­
sizione conclusiva dev'essere già chiarita ed affer­
rata, perché si possano in genere cercare le possi­
bili premesse logiche o i concetti generali nei
quali la conclusione può essere implicitamente
contenuta.
Applichiamo ora tutto ciò al campo della co­
noscenza teologica. Perché una conoscenza - in­
dividuale o collettiva - in questa logica concreta
dello scoprimento del vero, non dovrebbe poter
captare una verità teologica, che, trattandosi del
sapere cosciente della fede della Chiesa, è appresa
come vera e certa nella conoscenza diretta, globa­
le e concreta della vita soprannaturale della fede,
anche prima che l'intelligenza del teologo abbia
addotto la prova « riflessa », con il suo lavoro di
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 289

riflessione e con la sua deduttività logica? C'è an­


che nel campo della conoscenza, che approfondi­
sce la rivelazione, un' ({ esperienza concreta », una
conoscenza, integrata da mille osservazioni affer­
rate solo «istintivamente », che non si lascia
esporre in una serie di formule sillogistiche o lo
permette solo difficilmente. Questa conoscenza ir­
riflessa ma molto « razionale », è talvolta più ricca
della sua articolazione riflessa e della sua esposi­
zione logica, sempre posteriore, anche se in certa
misura necessaria. Un essere vivente complesso ha
uno scheletro, ma è qualcosa di più di questo sche­
letro, che prende parte esso stesso alla vita del
tutto. Può darsi che talvolta non ogni singolo teo­
logo riesea a provare, hic et nune, con rigore logi­
co che la conoscenza più esplicita della fede sia
contenuta nella conoscenza precedente meno espli­
cita. Tale circostanza non dimostra però che questa
conoscenza non sia contenuta di fatto nella prece­
dente.
Domandiamoci ancora: come si deve inten­
dere obiettivamente che una nuova formulazione
dogmatica sia contenuta in una formula prece­
dente? Certo vi deve essere contenuta in qualche
modo, perché la rivelazione si è « chiusa» con la
morte dell'ultimo apostolo. Entriamo cosÌ in un
complesso di problemi, in cui esistono punti oscu­
ri e difficili, sui quali i teologi cattolici non sono
affatto concordi.
Anzitutto si deve ripetere che non c'è da me­
290 SAGGI TEOLOGICI

ravigliarsi di questa mancanza di chiarezza e di


unanimità. Ciò non costituisce alcun argomento
contro l'evoluzione del dogma. I processi spiritua­
li funzionano del resto perfettamerite anche prima
che si sia elaborata una teoria sui loro presuppo­
sti soggettivi ed oggettivi.
Precisiamo ancora una volta il punto della que­
stione. Abbiamo sinora cercato di dimostrare che
c'è e ci dev'essere un'evoluzione del dogma. Ab­
biamo inoltre chiarito che questa si attua in un
contatto vitale con la realtà rivelata che ha già
raggiunto la sua pienezza definitiva. Tale contat­
to include, quale suo fattore interno, l'oggettiva­
zione della realtà rivelata in proposizioni e la pos­
sibilità di un'elaborazione logica più rigorosa e
meno indeterminata. Però non si esaurisce qui.
La forza « motrice », che è in azione nell'evolu­
zione del dogma e ne garantisce l'esattezza, non
s'identifica mai adeguatamente con la logica for­
male. Se questa forza fa passare da una conoscenza
anteriore ad una posteriore, ci dobbiamo doman­
dare ancora una volta con maggiore esattezza: in
che rapporto stanno le due conoscenze?
Non v'è naturalmente alcun dubbio che le
realtà oggettive apprese mediante queste due cono­
scenze, di cui l'una è fondamento dell'altra, do­
vrebbero essere in mutuo rapporto, supposto che la
conoscenza che si è evoluta sia un'autentica verità
dogmatica. Ora non è in questione questo sempli­
ce nesso esistente tra le realtà conosciute, ma piut­
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 291

tosto quello esistente tra le conoscenze. Esso deve


esserci, non solo perché la rivelazione si è « con­
clusa» con la morte dell'ultimo apostolo. Tale
fatto non afferma solo la pienezza permanente e
perfetta della realtà della fede, ma anche in qual­
che senso la presenza continua della pienezza della
fede in questa realtà. Però ciò non basta. Se esi­
stesse un rapporto solo tra le realtà, ma non tra
le conoscenze successive di esse, sarebbe necessa­
ria o una nuova rivelazione per la proposizione
posteriore o un'apprensione della realtà indipen­
dente dalla rivelazione orale di Dio intorno ad
essa. Ambedue le ipotesi sono inammissibili.
I teologi cercano di chiarire questo rapporto
con il concetto dell'esplicazione di una conoscen­
za contenuta implicitamente in una conoscenza
esplicita. Fin qui son tutti d'accordo. Così «si
spiega» realmente qualcosa, perché questi concetti
accennano ad un fenomeno, riscontrabile di fatto
tanto nel progresso della conoscenza di fede quanto
in altri campi. Ci sono effettivamente delle « espli­
citazioni» di una conoscenza che evolve così in mo­
do più espresso e articolato il suo contenuto. Ab­
biamo gli esempi più chiari di tale rapporto tra
proposizioni implicite ed esplicite nel campo della
logica formale. Tanto meno si può contestare che
ci siano nel campo della teologia delle esplicita­
zioni di tal genere, che corrispondono con suffi­
ciente esattezza a quelle della logica formale.
Il processo dell'esplicitazione, in termini del
292 SAGGI TEOLOGICI

tutto generali, esiste, anche se si possono dare an­


cora, come vedremo, altri tipi, essenzialmente di­
versi, di movimenti esplicativi spirituali. Perciò
esso serve, senza dubbio alcuno, a darci un'idea,
per lo meno molto generica, del nesso esistene tra
le conoscenze di fede, derivanti l'una dall'altra per
evoluzione del dogma.
Però con il termine tecnico « esplicitazione»
non si spiega molto il carattere del rapporto da
noi cercato. Infatti il tipo esatto di questo rap­
porto di esplicitazione, oggetto del nostro proble­
ma, resta ancora oscuro.
Anzitutto indichiamo brevemente la direzione
in cui si muove la spiegazione che dànno ordina­
riamente i teologi di questa esplicitazione e quali
controversie derivino da questo comune punto di
partenza.
Nell'esplicitazione si prende tacitamente e na­
turalmente come punto di partenza la proposizio­
ne. Ora il problema è come si possa rendere espli­
cita una proposizione, che si suppone già data co­
me entità determinata. Questa esplicitazione si at­
tua poi con gli ausili della logica formale. Essa è
lo svolgimento del contenuto di una proposizione
o delle conseguenze logiche di più proposizioni
mediante il principio di contraddizione. Il suo mo­
dello intuitivo ed esemplificatore, espresso o ta­
cito, è il modello logico o matematico.
L'esplicitazione si riferisce talvolta ad una
proposizione contenuta "nella rivelazione originaria
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 293

ed afferma solo espressamente, con altre parole,


in altro linguaggio concettuale, ecc., « lo stesso con­
tenuto» della proposizione originaria. Natural­
mente la guida del magistero garantisce che la
nuova proposizione riproduca esattamente la pri­
ma. In tal caso non si può dubitare che la nuova
proposizione esprima anche ciò che Dio ha rive­
lato. Quindi è creduta con fede divina per la te­
stimonia,nza di Dio stesso. È « dogma », non teo­
logia. Però si può ancora mettere in dubbio se
l'evoluzione del dogma, verificatasi di fatto, si pos­
sa spiegare adeguatamente partendo da una pro­
posizione, di cui si esplicita il contenuto « forma­
le implicito ». Di ciò parleremo ancora fra poco.
Accanto a questa esplicitazione del contenuto
formale implicito di una proposizione, esiste anche
l'esplicitazione del contenuto « virtuale» implici­
to fatta con l'aiuto di un'altra proposizione. Non
è facile però nei singoli casi delineare esattamente
i confini tra le due forme.
Supponiamo vera la proposizione: tutti gli
uomini nati prima di 200 anni fa san già morti.
Se non so che esistette anteriormente a questa
data un Socrate, non posso conoscere che questa
prima proposizione universale abbraccia anche il
caso di Socrate, non solo di fatto, ma anche nella
sua formulazione in quanto tale. Se però conosco
la seconda proposizione, allora la prima contiene
in maniera «virtuale implicita» che Socrate è
morto. Questa affermazione implicita non si sa­
294 SAGGI TEOLOGICI

rebbe mai potuto esplicitare con la semplice ana­


lisi della prima proposizione presa isolatamente
per sé sola.
Anche nel campo teologico si dànno tali opera­
zioni, evidentemente per lo più molto complesse.
Senza di esse non si potrebbe concepire la teologia
come un complesso di concetti ben articolati tra
loro e con un senso pieno. Per semplificare il no­
stro problema lasciamo da parte il caso, certa­
mente concreto, in cui non solo la tecnica forma­
le o logica di tale procedimento propriamente de­
duttivo, ma anche parte delle proposizioni e del
loro contenuto derivano dalle nostre conoscenze
naturali e non dalla rivelazione. Consideriamo solo
i casi in cui tutto il materiale concettuale di tali
esplicitazioni deduttive, del passaggio dal virtuale
implicito all'esplicito, è già dato in anticipo dalla
rivelazione stessa. Essi esistono certamente e non
v'è alcun dubbio che partecipino in modo signi­
ficativo all'evoluzione « teologica », come preferia­
mo dire per ora con cautela, perché si vuoI sapere
appunto se si possa spiegare così una vera evolu­
zione del dogma.
Ciò supposto, resta ora solo una questione.
Una conoscenza nuova, acquisita con metodo stret­
tamente deduttivo da più proposizioni di fede già
date, può dirsi ancora « rivelata da Dio »? La si
può credere « con fede propriamente divina » per
« l'autorità di Dio»? Oppure è una conoscenza
meramente umana da non ammettersi propriamen­
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 295

te con fede divina, ma tutt'al più con « fede eccle­


siastica» per l'autorità della Chiesa, che agisce
anche in questo caso in maniera infallibile alle
debite condizioni?
Le sentenze dei teologi su tale questione non
sono unanimi. Alcuni, e oggi sono la maggior
parte, dànno un puro valore umano a queste pro­
posizioni derivate, la cui esattezza può essere cer­
tamente garantita dal magistero della Chiesa. Al­
tri credono che si possa chiamare vera «rivela­
zione» anche l'esplicitazione del contenuto pura­
mente «virtuale» delle proposizioni immediate
della rivelazione e che perciò la Chiesa le possa
insegnare come oggetto di vera fede divina. A
noi sembra più esatta questa seconda sentenza.
Abbiamo già accennato brevemente che è dif­
ficile distinguere nel singolo caso l'implicito for­
male dal virtuale e la loro esplicitazione. Eccone
i motivi: anche l'esplicitazione dell'implicito for­
male può e deve spesso realizzarsi, per motivi di
chiarezza, mediante un procedimento sillogistico.
Perciò in tal caso non è facile precisare di quale
tipo di esplicitazione si tratti. I teologi della pri­
ma sentenza hanno sempre la possibilità di spie­
gare, sia pure dopo deduzioni logiche difficili, che
si tratta obiettivamente solo di un'esplicitazione
di un implicito formale. Ora non è facile confu­
tare tale opinione. Però per dare ai concetti il
loro significato semplice ed originario si deve an­
che affermare che si ha l'esplicitazione del conte­
296 SAGGI TEOLOGICI

nuto formale implicito di una proposizione rive­


lata solo quando la nuova proposizione esprime
veramente lo stesso senso della prima con altre
parole ed ha lo stesso contenuto, anche se per
vari motivi può essere utile e necessario formu­
larla. Una proposizione esplicita è contenuta for­
malmente e implicitamente in un'altra, quando ri­
sulta da questa per un'operazione ermeneutzca ed
esegetica, senza bisogno alcuno di un procedimen­
to strettamente deduttivo.
Così, per esempio, invece di usare la propo­
sizione: l'unico ed identico Logos è Dio e uomo,
si può dire: la « persona» del Logos ha una na­
tura umana e una divina. Se non s'introducono
nei concetti di « persona» e di « natura» dei prin­
cipi teologici o metafÌsici forse molto importanti
ma basati su altri fondamenti, si può considerare
la seconda proposizione semplice esplicitazione di
un formale implicito. Tali esplicitazioni si dànno
certamente. Resta però in questione se porta mol­
ta luce e chiarezza la distinzione tra « esplicito»
e « implicito », quando in ambedue i casi si trat­
ta di qualcosa detta in modo veramente formale,
che la proposizione di partenza afferma realmente
e che appartiene al concetto di «quanto è detto
formalmente », se si vuoI lasciare a queste parole
il loro senso naturale.
Però è ancora molto discutibile se si possano
spiegare secondo questo schema tutti i casi in
cui ci si presenta indubbiamente un'evoluzione
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 297

del dogma. Se si volessero spiegare così, per esem­


pio, le dottrine dogmatiche della transustanziazio­
ne, del carattere sacramentale, della validità del
battesimo degli eretici, ecc., che non esistettero
sempre esplicitamente, ma che oggi appartengono
al tesoro della fede della Chiesa, appare aperta­
mente che non si procede senza arbìtri e violenze.
Quindi, poiché esiste di fatto un'evoluzione
del dogma che va al di là dell'esplicitazione del­
l'implicito formale, essa è anche possibile. Volen­
do perciò restare nel campo dell'esplicitazione lo­
gica delle proposizioni, deve darsi almeno una
esplicitazione dell'implicito virtuale, il cui risul­
tato può essere rivelato da Dio e perciò da cre­
dersi per la testimonianza di Dio stesso.
Nel caso della rivelazione orale di Dio non è
particolarmente difficile dare il motivo per cui ta­
le proposizione, risultante dall'esplicitazione di un
virtuale implicito, possa essere intesa come pro­
nunciata da Dio e perciò da ammetter si per la sua
autorità. Un uomo, quando parla, non ha mai
presenti tutte le conclusioni obiettive, che si de­
ducono necessariamente dalle sue asserzioni. Si
può quindi in tal caso mettere in dubbio se si
possano intendere tali conclusioni come comuni­
cazioni del suo stesso sapere. La dinamica, anche
di ogni concetto e proposizione umana, è di per
sé radicata nell'orizzonte infinito della verità in
quanto tale; però si sottrae alla coscienza e alla
prospettiva dell'uomo quando parla e perciò non
298 SAGGI TEOLOGICI

è più espressione della sua soggettività. Noi par­


liamo sempre con una mira « che va al di là della
nostra visuale ». Tutto quello che « propriamente»
diciamo non esprime mai in pieno quanto voglia­
mo dire.
Non è così di Dio. Egli è sempre necessaria­
mente cosciente della vitalità e della dinamica del­
la sua comunicazione immediata sino alle sue ul­
time virtualità e conseguenze. Ha anche in par­
tenza l'intenzione e la volontà di causare e diri­
gere con il suo Spirito questa esplicitazione. Egli
stesso quindi dice ciò che si scopre come detto
solo nella storia viva di quello che fu espresso
immediatamente. Perciò anche quanto è da lui det­
to in maniera virtualmente implicita è sua parola.
L'esplicitazione virtuale, vista da parte di Dio che
parla, è in realtà solo esplicitazione, anche se esige
da noi, che ascoltiamo, una vera deduzione. Dio
non ha detto « formalmente» nelle proposizioni,
da cui parte la nostra deduzione, quello che noi
deduciamo. Non l'ha pronunciato in proposizioni
immediate, ma l'ha «comunicato ». Perciò lo si
può credere senz'altro come conosciuto da lui.
Né si può obiettare che in tale supposizione,
tenendo conto delle virtualità del tutto illimitate
di quanto è stato rivelato immediatamente, si può
considerare rivelato senz'altro tutto, quindi anche
ogni proposizione vera escogitabile.
Infatti:
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 299

1) Non ogni proposizione di « conoscenza na­


turale » ha un contenuto obiettivo necessariamen­
te e realmente connesso con le proposizioni im­
mediate e originarie della rivelazione, perché la
si possa dire comunicata da Dio.
2) Le mancherà la garanzia della coscienza
della fede del magistero ecclesiastico necessaria,
il più delle volte, per conoscere la « conclusione»
così dedotta da un'altra proposizione con la si­
curezza indispensabile, perché si possa credere ri­
velata da Dio.
3) Nella teoria accennata può essere conside­
rato «detto» da Dio all'uomo solo ciò che l'uo­
mo, sotto l'impulso dello Spirito divino e con la
sua luce, dedurrà di fatto da ciò che fu detto im­
mediatamente. Ciò che è stato già dedotto e ciò
che si dedurrà ancora hanno però dei limiti deter­
minati.

Partendo dall'ispirazione della S. Scrittura si


può sollevare una nuova difficoltà contro la distin­
zione ora assodata tra quant'è detto formalmente
e quanto è inoltre realmente comunicato, e quin­
di contro la possibilità di affermare che si possa
credere con fede divina e definire quanto è vir­
tualmente rivelato. Si potrebbe infatti dire che
l'autore umano ispirato della S. Scrittura non è
solo trasmettitore di un messaggio, di cui potreb­
be non comprendere l'ampiezza e la portata. È
vero autore. Perciò l'unico senso ispirato delle
300 SAGGI TEOLOGICI

proposlzlom è quello che l'autore umano vol­


le annettere alle sue proposizioni, volle esprimere
con esse e di fatto espresse. Non si potrebbe quin­
di asserire che nella S. Scrittura, la quale costi­
tuisce il punto di partenza più importante di tali
deduzioni, Dio abbia comunicato più di quanto
abbia detto formalmente.
Possiamo lasciare da parte, perché non inte­
ressa il nostro assunto, se questa obiezione, ri­
guardante l'ispirazione in quanto tale, provenga
da un'esatta determinazione del rapporto tra l'au­
tore umano e quello divino della S. Scrittura.
Anche a prescindere da ciò, l'obiezione non rag­
giunge il suo intento. In questo contesto si può
concedere tranquillamente che non è ispirato più
di quello che l'autore umano come tale volle dire
e scrivere. Eppure proprio per questo può essere
stato comunicato di più, anche quando Dio, au­
tore vero della Scrittura e solo in quanto tale,
dovrebbe non aver potuto comunicare più di quel­
lo che egli e l'autore umano hanno detto e scritto
formalmente. Basti solo pensare che quanto sta
scritto nella S. Scrittura fu anche, di fatto e in
primo luogo, oggetto della predicazione degli apo­
stoli. Questi, in quanto « profeti» o organi ori­
ginari e non scrittori del contenuto della rivela­
zione depositata nella S. Scrittura ispirata, sono
essenzialmente banditori, trasmettitori, non autori
del loro messaggio. Trasmettono un messaggio non
proprio ma di Dio. Perciò la loro comunicazione
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIO:-IE DEL DOGMA 301

può andare al di là di quanto essi stessi se ne


appropriarono esplicitamente.

Riassumendo, possiamo anzitutto dire che il


rapporto tra le proposizioni originarie di fede e
quelle formulate mediante l'evoluzione del dogma
può consistere solo nel nesso tra il contenuto im·
plicito formale o virtuale di una proposizione e
la sua esplicitazione mediante operazioni logiche,
sotto l'assistenza e la luce dello Spirito divino.
Può restare perciò indeciso se questo nesso possa
essere quoad nos già logicamente necessario o pri­
vo di tale apoditticità.
Però cos1 non siamo ancora alla fine della que­
stione. Sinora abbiamo tacitamente supposto con
la maggior parte dei teologi che il punto di par­
tenza di ogni esplicitazione dogmatica sia sempre
una proposizione in senso proprio. Ora si può
contestare che sia sempre così.
In primo luogo non si può dubitare che nel
campo naturale esista una conoscenza, che per se
stessa non si articola in «proposizioni », ma è
punto di partenza di un'evoluzione spirituale, che
solo con il tempo riesce ad esprimersi in pro­
posizioni.
Supponiamo che un giovane abbia l'esperienza
autentica, viva e trasformante di un grande amo­
re. Questo può avere dei presupposti metafisici,
psicologici e fisiologici a lui del tutto ignoti. Il
302 SAGGI TEOLOGICI

suo amore stesso è la sua « esperienza ». Lo sa,


lo vive con tutta la pienezza e la profondità pro­
prie di un amore vero. Egli « sa » di quest'amore
molto di più di quello che può «dire ». Ciò che
balbetta goffamente nelle sue lettere amatorie,
confrontato con questo amore, è povero e misero.
Forse il tentativo di dire a se stesso e ad altri
ciò che esperimenta e « sa » lo porterebbe a pro­
posizioni false. Se gli cadesse sotto mano una « me­
tafisica» dell' amore, forse non comprenderebbe
affatto quanto in essa si dice dell'amore ed anche
del suo amore, sebbene sappia di quest'amore for­
se più dell'arido metafisico autore del libro. Se
è intelligente e dispone di un complesso di con­
cetti abbastanza differenziato, può forse tentare di
dire, lentamente e a saggi, cominciando mille vol­
te da capo, ciò che sa del suo amore, ciò che in
modo più semplice ma pieno già sapeva con il solo
possedere coscientemente la realtà, per giungere
finalmente ad una « conoscenza» espressa in pro­
posizibni riflesse. In questo caso non solo si evol­
vono e derivano logicamente nuove proposizioni
da altre precedenti, ma in uno sforzo indefinito,
solo asintoticamente efficace, se ne formulano del­
le nuove su una conoscenza sempre già posseduta.
Anche questo processo è un'esplicazione. An­
che qui sussiste una connessione obiettiva tra una
conoscenza che precede e delle proposizioni che
seguono. Ma il punto di partenza e il procedi­
mento sono diversi da quelli dell'esplicazione 10­
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 303

gica di proposizioni, che sopra abbiamo preso co­


me modello per l'evoluzione del dogma.
Dobbiamo considerare anche sotto un altro
aspetto questo caso, che ci deve servire come esem­
pio naturale analogo per un'esplicitazione diversa
da quella logica di proposizioni in campo dogmati­
co. Chi ama sa del suo amore. Questa conoscenza di
se stesso è uno degli elementi interni essenziali
dell'amore. È infinitamente più ricca, più sempli­
ce e più piena di qualunque complesso di propo­
sizioni sull'amore. Tuttavia non è mai priva di
una certa espressione riflessa: chi ama confessa
almeno a se stesso il suo amore, « dice» almeno
a se stesso qualcosa del suo amore. Perciò un'au­
toriflessione progressiva non è indifferente neppu­
re a questo amore. Non si tratta di una riflessione,
che si aggiunge alla realtà, lasciandola immutata.
In questa progressiva interiorizzazione, l'amore
comprende sempre più se stesso, dice qualcosa
« su » se stesso, afferra con maggior chiarezza la
propria essenza, si ordina, intende meglio quale
debba essere l'obiettivo del suo agire, si specchia
con evidenza sempre maggiore nella sua essenza,
va sempre più coscientemente verso la meta, qua­
le essa è già da sempre.
L'esatta riflessione in proposizioni e in « pen­
sieri », che l'amante fa sul proprio amore, è così
parte della realizzazione essenziale e progressiva
dell'amore, non mero fenomeno concomitante pri­
vo d'importanza per la realtà stessa. L'amore pro­
304 SAGGI TEOLOGICI

gressivo vive dell'amore originario, conscio sin da


principio di se stesso e di ciò che da sé è diven­
tato mediante l'esperienza riflessa. In ogni istante
vive della sua origine e dell'esperienza riflessa di
se stesso, che antecede sempre questo momento
particolare.
Vediamo che questo possesso della realtà, ori­
ginario e conosciuto non in modo riflesso né
espresso in proposizioni, e la conoscenza riflessa
della conoscenza originaria, articolata ed espressa
in proposizioni, non sono contrastanti fra loro.
Son momenti mutuamente condizionati di una so­
la esperienza, che ha la sua storia. Radice e foglia
non sono la stessa cosa, eppure l'una vive del­
l'altra. La conoscenza riflessa affonda sempre le
sue radici in una conoscenza anteriore, con cui
s'impossessa della realtà. Però anche questa co­
noscenza originaria si possiede più tardi in modo
diverso da prima, vive nella sua attuazione della
conoscenza riflessa, per la quale essa stessa si è
arricchita. La conoscenza riflessa s'inaridirebbe in
se stessa, se non vivesse della conoscenza fonda­
mentale più semplice o la comprendesse total­
mente. La semplice conoscenza fondamentale si
offuscherebbe, se si rifiutasse, perché più ricca e
più piena, di passare alla conoscenza riflessa dei
« pensieri» e delle proposizioni su se stessa.
Ora si dà anche nell'evoluzione del dogma una
connessione di esplicitazione analoga a quella che
abbiamo dimostrato a mo' di esempio nel campo
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 305

naturale? Pensiamo che si debba rispondere af­


fermativamente 7.
Si può ammettere anzitutto per gli apostoli
tale esperienza globale, che si cela dietro le pro­
posizioni e costituisce una fonte inesauribile per
l'articolazione e l'esplicitazione della fede in pro­
posizioni. Il Cristo, mediatore vivente tra Dio e
il mondo, che essi hanno visto con i loro occhi e
palpato con le loro mani, è l'oggetto di un'espe­
rienza, che è più semplice, più sintetica, più so­
bria e certamente anche più ricca delle singole
proposizioni con le quali lo si può condensare in
un progresso fondamentalmente illimitato. L'espe­
rienza viva, per es., del suo atteggiamento verso il
peccato, della sua morte, del suo comportamento
con Pietro, e mille altre simili, fatte dagli apo­
stoli in modo irriflesso e globale, sono anteriori
alle proposizioni di fede, almeno in molti casi,
anche se non in tutti. Eppure costituiscono una
parte della rivelazione originaria, la cui esplici­
tazione, cominciata già con gli apostoli, ha un ca­
rattere diverso da quello dell'esplicitazione logica
di proposizioni.
Anche nei molti casi in cui la parola prole­

7 Per evitare in partenza ogni malinteso facciamo osser­


vare già qui che questa conoscenza fondamentale, globale, ir­
riflessa e in sé non ancora formulata è attinta nell'ambito
della fede dalla rivelazione storica di Dio in Cristo. Come il
dogma formulato in proposizioni, essa non deriva da una co­
scienza o da una subcoscienza religiosa a priori, che si espli­
citerebbe a se stessa in proposizioni dogmatiche.
306 SAGGI TEOLOGICI

rifa dal Signore, per il suo contenuto rivelato,


determinato e non accessibile per altra via, è il
punto di partenza necessario per la fede degli apo­
stoli, essa rientra nell'ambito dell'esperienza viva
da essi fatta a contatto concreto con lui. Perciò
anche questa esperienza concreta è presupposto
essenziale della comprensione esatta e sempre più
approfondita delle parole pronunciate ed ascoltate.
Queste si esplicitano non da sole ma dall'espe­
rienza totale, che si chiarifica in modo sempre più
riflesso ed espresso nello scoprimento del loro
contenuto.
Tale esplicitazione non fa le sue deduzioni
partendo solo dalle proposizioni, bensì misura an­
zitutto una proposizione, che si presenta come
espressione concettuale dell'esperienza, all'espe­
rienza originaria, riscontrandola così vera. Que­
sta esperienza inoltre tende a dire a se stessa ciò
che sa. Il grado iniziale dell'autoriflessione dell'e­
sperienza può essere minimo, ma non mancare del
tutto. Ogni esplicitazione, che si concretizza in
proposizioni, consolida, illumina l'esperienza ori­
ginaria, la fa ritornare sempre più in se stessa,
convertendosi in elemento interno ed essenziale
di questa stessa esperienza viva. Ogni proposi­
zione teologica, per esempio nelle lettere degli
apostoli, è espressione di tutto il contatto vivo
e cosciente con il Dio incarnato.
Così abbiamo il diritto di parlare di un'evo­
luzione del dogma anche per gli apostoli e per
308 SAGGI TEOLOGICI

ché esprime sempre riflessamente solo una parte


di ciò che già si possedeva spiritualmente in an­
tecedenza.
Sotto questa prospettiva si comprende anche
come si possa concepire la piena coscienza della
fede degli apostoli e della primitiva comunità cri­
stiana senza cadere in un anacronismo antistorico.
Non si « sapeva» molto, se per « sapere» s'in­
tende quella forma di conoscenza che si acquista
con l'aiuto di un sistema concettuale riflesso e
complicato. Di tale sistema avevano così poca co­
noscenza, che si può ammettere tranquillamen­
te che allora senz'altro non lo si comprese né
lo si poteva comprendere. Tali concetti hanno in­
fatti bisogno di un periodo determinato per sor­
gere e di un altro periodo determinato d'insegna­
mento e di apprendimento per essere compresi.
Però si sapeva tutto, perché si era appresa in
maniera viva la realtà totale dell'azione salvifica
di Dio e in essa si viveva spiritualmente. Un'e­
spressione maggiore e riflessa di ciò, che si pos­
siede spiritualmente, si paga quasi sempre, di fat­
to e in concreto anche se non per necessità fonda­
mentale ed essenziale, con una perdita parziale del­
la comunione spontanea, «ingenua» in senso
buono, con la realtà della fede, che si possiede
sempre pienamente. Perciò la coscienza della fede
più complicata e differenziata con la sua rispet­
tiva teologia non si deve ritenere «migliore»
della fede sobria del periodo apostolico.
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 307

la loro « teologia ». Questa è per noi ancora ri­


velazione originaria, perché garantita dalla loro
missione profetica, dalla loro infallibilità ed ispi­
razione quale nuova parola rivoltaci da Dio. Tut­
tavia, anche per i banditori della rivelazione, ri­
spetto a una comunicazione fatta loro anterior­
mente, è in un certo senso « teologia », cioè espli­
citazione e deduzione dai dati più originari della
rivelazione 8. L'evoluzione dogmatica per gli apo­
stoli si attua non solo mediante l'esplicitazione
logica di proposizioni, ma anche mediante l'auto­
esplicitazione viva del possesso spirituale della
realtà stessa.
Dal punto di vista obiettivo la proposizione
nuova e la conoscenza antica non hanno fra loro
lo stesso rapporto logico dell'implicito all'espli­
cito di due proposizioni, ma quello dell'espres.
sione parzialmente esplicita di una proposizione
e il possesso spirituale, globale e irriflesso di tut­
ta la realtà. Perciò la proposizione esplicita è qual­
che cosa di più e di meno dell'elemento impli­
cito da cui deriva. È qualcosa di più, perché, es­
sendo formulata in modo riflesso, chiarisce il pos­
sesso spirituale, semplice ed originario della real­
tà. È nello stesso tempo qualcosa di meno, per­
8 Gli apostoli, nelle ioro lettere, quando «argomentano»
non lo fanno solo a motivo dei loro destinatari, per riguardi
pedagogici e didattici, ma tengono conto anche della propria
conoscenza circa la fede, permettendoci in tal modo di vedere
lo sviluppo della loro fede, della loro « evoluzione del dogma »
e della loro « teologia ».
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 309

Dio ha dato ad ogni epoca il suo tipo di co­


scienza della fede. Se noi oggi per spirito roman­
tico volessimo tornare alla semplicità, all'intensità
e pienezza irriflessa della coscienza della fede de­
gli apostoli, ne deriverebbero solo un atavismo sto­
rico. Noi dobbiamo possedere la stessa pienezza
in maniera diversa.
Ora si potrebbe dire che quello degli apostoli
sia un caso singolare, che non contribuisce affatto
alla chiarificazione del nesso tra la conoscenza an­
tica e la nuova formulazione. Infatti gli apostoli
non poterono trasmettere la loro viva esperienza
originaria, ma solo la riflessione da loro già at­
tuata e la sua esplicitazione in proposizioni. Do­
po il periodo apostolico solo una connessione lo­
gica tra l'elemento implicito e quello esplicito
delle proposizioni potrebbe promuovere un'ulte­
riore evoluzione del dogma.
Ora tale obiezione non regge. Gli apostoli
non trasmisero in eredità solo delle proposizioni
sulla loro esperienza, ma il loro Spirito, lo Spirito
Santo di Dio, la vera realtà quindi di ciò che
hanno sperimentato in Cristo. Con la loro pa­
rola è conservata ed è presente anche la loro espe­
rienza. Spirito e parola dànno insieme la possi­
bilità, permanente ed efficace, di un'esperienza,
che fondamentalmente è identica a quella degli
apostoli. Solamente che questa, basandosi anche
sulla parola trasmessa dagli apostoli, poggia sem­
pre ed essenzialmente sulla loro esperienza e la con­
310 SAGGI TEOLOGICI

tinua. Ha una radice storica e non potrebbe mai re­


stare viva, se fosse privata del suo nesso con gli
apostoli mediante la parola, i sacramenti e la tra­
smissione dei poteri gerarchici.
Però proprio questa «successio apostolica »,
nel senso pieno e totale della parola, riguardo alla
conoscenza della fede non trasmette alla Chiesa
postapostolica solo un complesso di proposizioni,
ma l'esperienza viva: lo Spirito Santo del Signo­
re, che è sempre nella Chiesa, il senso e l'istinto
della fede, la capacità prodotta dallo Spirito di
distinguere ciò che è vero o falso nel campo del­
la fede, ciò che, formulato in proposizioni, è con­
forme o no alla vitalità indivisa della verità pos­
seduta in assoluta semplicità.
Pertanto può darsi, anche nell'evoluzione del
dogma dopo il periodo apostolico, la connessione
tra ciò che è implicito nel possesso irriflesso, vivo
e cosciente di tutta la verità e ciò che si esplicita
sempre in maniera parziale in proposizioni. Solo
che nel caso di un'esplicitazione di tal genere,
la relazione simultanea e necessaria con le espli­
citazioni anteriori, già formulate in proposizioni,
e il passaggio dall'esperienza originaria ad una
nuova esplicitazione attraverso la tradizione già
strutturata, si dànno in un grado maggiore e più
necessario di quello del periodo apostolico.
Per poter valutare esattamente quanto ora si
è detto è necessario far la critica della concezione
erronea, tacita e proprio per questo più efficace,
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 311

che si ha delle proposizioni. Tacitamente si conce­


pisce una proposizione ordinaria della vita umana,
quale si presenta anche nel campo della fede, sem­
pre secondo lo schema rappresentativo delle pro­
posizioni di matematica, di geometria o di logica
formale. Ora queste hanno di fatto - approssi­
mativamente - un contenuto fisso. Si può dire
più o meno in due parole, in modo chiaro, esau­
riente e non soltanto irriflesso o conosciuto glo­
balmente, ciò che significano i loro concetti e ciò
che si vuole esprimere con essi. Il loro contenuto,
suscettibile di essere determinato mediante una
definizione e quanto viene in esse comunicato,
che costituisce l'oggetto intravisto per loro mez­
zo, quasi s'identificano. Si può fissare la misura
esatta di quanto in esse si dice e si comu­
nica. La conoscenza ulteriore, che si può eventual­
mente dedurre da questo, è qualcosa di diverso,
proprio perché lo si deduce. Si possono compren­
dere pienamente ed esaurientemente le proposi­
zioni o la proposizione di partenza ed aggettivarle
in maniera riflessa senza saper nulla di queste con­
clusioni derivate.
Ciò tuttavia non si verifica in una proposi­
zione umana normale. Essa ha certamente un sen­
so determinato, che si può intendere e distinguere
chiaramente da quello di un'altra proposizione di­
versa o contraria. Ma, quando cerchiamo di fis­
sare in modo riflesso il suo contenuto, questo
presenta essenzialmente e inevitabilmente margini
312 SAGGI TEOLOGICI

poco chiari. È impossibile dire in maniera ade­


guata ed esauriente) per mezzo di un'interpreta­
zione riflessa della proposizione, ciò che in essa
è o no co-espresso e conosciuto contemporanea­
mente. Si può, sì, determinare chiaramente il mi­
nimo di conoscenza in essa contenuto, ma non il
massimo in essa effettivamente implicato.
Una proposizione è sempre, in certa misura,
una finestra attraverso la quale si mira la realtà
stessa e implica nel suo senso pieno di comunica­
zione questa visione della realtà, come si è detto.
Ha la natura di una finestra, che si apre per mirare
la realtà, non di un involucro dal contenuto chia­
ramente determinato. Se dico, per esempio: N. N.
è mia madre, che cosa voglio comunicare con que­
sta affermazione? Che cosa ho pensato e comuni­
cato in essa? Il minimo, senza il quale la proposi­
zione sarebbe falsa, è chiaro: la nota relazione
biologica. Questo significa forse che tale proposi­
zione non volle comunicare di più e che io nel pro­
ferirla non pensai né volli dire di più?
È possibile, anzi quasi necessario, che nel pro­
nunciare una proposizione di tal genere, io veda
in essa, in modo globale e inespresso ma molto
reale, una quantità di altre cose, come già dicem­
mo. Tutto quello) però, che trascende il contenuto
minimo della proposizione, può essere anche in­
teso contemporaneamente da chi l'ascolta: nel no­
stro esempio, l'elemento specificamente umano del­
la maternità, il rapporto permanente tra madre e
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 313

figlio, che sussiste dopo l'evento della gestazione


e della generazione, e mille altri particolari riguar­
danti la maternità.
Anche chi ascolta mira, insieme con colui che
parla, alla realtà stessa attraverso la proposizione
e considera comunicato dallocutore ciò che in essa
vede. Egli a ragione intende in questa proposizio­
ne, contemporaneamente e come conosciuto da co­
lui che parla, non solo il suo contenuto minimo,
determinabile in certa misura con una definizione,
ma anche il resto conosciuto dal locutore in ma­
niera irritlessa e non oggettivato in proposizioni.
Non si può misconoscere questo dato di fatto,
arguendo che in tali casi si deducono per proprio
conto dal contenuto espresso e udito nella pro­
posizione e dalla sua natura obiettiva, nuove realtà
non affatto espresse e comunicate in esse. Ciò si
verifica certamente ma non sempre né necessaria­
mente. Sarebbe sempre così, se la proposizione
pronunciata e udita avesse la natura di un invo­
lucro dal contenuto chiaro e precisabile esaurien­
temente per mezzo di una definizione. Ora ciò non
si verifica da parte di chi parla, perché egli ha una
conoscenza, non articolata in proposizioni, della
realtà stessa pensata ed espressa, e perché chi ascol­
ta è in grado di percepire tutto ciò nel suo discor­
so 9.

9 Non si può mettere in dubbio il fatto di tale intelligi­


.314 SAGGI TEOLOGICI

Perciò si può intendere senz'altro come comu­


nicata da chi parla quella conoscenza attinta guar­
dando la realtà, anche se non la si è articolata in
proposizioni. E viceversa chi parla può trasmette­
re successivamente anche tale conoscenza per
mezzo di proposizioni,
Sotto questa prospettiva avverrà molto spesso
che secondo la pura logica appaia puro implicito
virtuale quanto è di fatto comunicato formalmen­
te lO, Questo non è semplicemente deducibile co­

bilità. Però non è possibile né necessario analizzare qui ulte­


riormente i presupposti della comunicazione spirituale, che stan­
no alla loro base.
lO Di qui si potrebbe forse anche risolvere con una termi­
nologia più chiara la controversia, che dura fra i teologi sino
al presente. Un gruppo di teologi, soprattutto da Suarez in
poi, si appella al concetto di «implicito formale» per spie­
gare come da una parte è possibile un'evoluzione del dogma
e dall'altra l'elemento esplicitato è sempre locuzione di Dio.
Infatti con questo concetto si spiega facilmente come l'impli­
cito virtuale, una volta dedotto con un vero sillogismo, si
può considerare come espresso da Dio stesso.
L'altro gruppo di teologi considera il formale implicito co­
me un concetto quasi in sé contraddittorio, perché ciò che è
detto formalmente in una proposizione dovrebbe poter essere
determinato, a partire dal suo concetto, mediante la gramma­
tica, il vocabolario, l'ermeneutica e l'esegesi, senza argomen­
tazione logica. Invece l'esplicitazione del cosiddetto formale
implicito avviene in pratica sempre per mezw di un'argomen­
tazione spesso molto complicata. In realtà si tratta di un imo
plicito virtuale, che non ha il diritto di diventare dogma.
Riguardo a questa polemica, secondo quanto si è ora detto,
si deve distinguere: una cosa può essere detta formalmente e
costituire, come abbiamo menzionato sopra, il minimo conte­
nuto di una proposizione; qualche altra cosa può essere for­
malmente comunicata, e perciò intesa e comunicata di fatto
da parte di chi parla, ma non essere formulata in proposizioni
e articolata in maniera riflessa né da chi parla né da chi ascolta.
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 315

me nuova conoscenza inespressa da una conoscen­


za espressa. È contemporaneamente esso stesso
pensato, comunicato e così inteso, anche se arti­
colato in proposizioni e in queste oggettivato solo
da chi l'ascolta e ciò in forma di deduzione.
Quando, per esempio, uno dice: io, A, amo
veramente B, si può senz'altro proferire questa
proposizione avendo di mira spiritualmente anche

Non può quindi costituire il senso pieno del discorso imme­


diatamente articolabile. Ciò che è detto formalmente, a rigore,
non può essere implicito, come invece può essere ciò che è
comunicato formalmente. Perciò quando si attua una dedu­
zione da proposizioni precedenti, non è necessario che il suo
risultato superi ciò che è in quelle comunicato formalmente.
Piuttosto può accadere che questa deduzione converta in for­
malmente detto ciò che era solo formalmente comunicato.
Perciò, contro la seconda sentenza, una dedu;,ione può essere
preceduta da una comunicazione formale, mentre, contro la
prima sentenza, un'esplicitazione non ha bisogno di essere
preceduta da una locuzione formale (implicita). - Anche E.
DHANIS, Révélation explicite et implicite, in Gregorianum 34
(1953) 187-237, specie 219-221 s, conosce di fatto la distin­
zione qui applicata tra ciò che si dice formalmente e ciò che
si comunica formalmente. Egli distingue tra significato for­
malmente e attestato formalmente, che possono a loro volta
avere diversi modi di significazione. Una cosa può essere si­
gnificata esplicitamente o implicitamente e, in quanto impli­
cita, può essere significata immediatamente, cioè esplicitabile
solo analiticamente, o mediatamente, cioè dimostrabile con
prove apodittiche o solo con argomenti suasivi di convenienza.
Di conseguenza per Dhanis una cosa può essere attestata formal­
mente e nello stesso tempo solo significata mediatamente e in
maniera suasiva. Del resto egli non elabora con maggiore preci­
sione né la conoscibilità di fatto, che si può dare in diversi gradi
come per esempio, nel « deposito preso concretamente» (cfr.
pp. 227 ss) né la connessione noetica in quanto tale, che esi­
ste necessariamente tra questo modo di significazione e la
sua attestazione formale.
316 SAGGI TEOLOGICI

la fedeltà di tale amore. Perciò chi ascolta può in­


tendere come comunicata da A la fedeltà di que­
sto amore. Se poi C argomenta: A ha assicurato
di amare veramente; ma il vero amore è fedele;
dunque A è fedele, la conoscenza della fedeltà di
A da parte di C è esclusiva di C solo appa­
rentemente, tenendo conto dell'esplicitazione ri­
flessa della proposizione. Essa risulta dalla propo­
sizione di A e tale conoscenza articolata in una
proposizione può essere considerata senz'altro una
vera comunicazione «formale» di A, anche se
non formulata come proposizione.
Ora non si vede perché tale tipo di comunica­
zione non si possa dare anche nell'ambito della ri­
velazione. Infatti lavora anch'essa con concetti e
proposizioni umane. In questi però è inevitabile
distinguere ciò che si dice espressamente da quan­
to si vede e comunica contemporaneamente Il.
Questo carattere si può e si farà valere anche
quando si adoperano tali proposizioni e concetti
per comunicare una realtà, che non sarebbe acces­

11 Ogni spiegazione per mezzo di proposizioni (definizio­


ni) dei concetti di altre proposizioni applica a sua volta con·
cetti, che pNrebbero ancora essere spiegati mediante altre
proposizioni. Comincerebbe così un processus in infinitum.
Sarebbe infatti falso pensare che tale catena di spiegazioni
giungerebbe, in un numero limitato di membri, ad un punto
in cui si raggiunge un concetto assolutamente semplice, in cui
ciò che è detto esplicitamente in forma di proposizione esauri­
rebbe l'oggetto conosciuto. Quante cose si possono dire di
ciò che è 1'« ultimo» e il «più semplice »: l'ente in quanto
tale!
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 317

sibile nel nostro stato attuale senza una sua enun­


ciazione verbale nella rivelazione.
Quando si dice, per esempio: « Cristo è " mor­
to " per noi », ognuno comprende il significato di
morire e di morte in questa proposizione. Però
qui la «morte » non significa solo, o per usare
maggiore circospezione, non significa necessaria­
mente l'esito clinico. Si può con tale parola dire,
cioè comunicare e quindi intendere (non solo de­
durre!), tutta l'esperienza che l'uomo fa della mor­
te, e che né chi parla né chi ascolta ha mai tradotto
o oggettivato adeguatamente in proposizioni o
« definizioni » della morte. Se chi ascolta, facendo
un'analisi riflessa, passa a dire in proposizioni ciò
ch'egli ha già sempre saputo all'udire la parola
« morte », si può, anche se non necessariamente in
ogni caso, prendere senz'altro come comunicazio­
ne di chi parla, i concetti cosi analizzati e conden­
sati in proposizioni. Tuttavia dal punto di vista
storico si può concedere senza difficoltà che chi
parla nella sua situazione non avrebbe mai inter­
pretato o non avrebbe mai potuto interpretare cosi
la sua comunicazione in proposizioni oggettive.
Nel caso in cui si presta fede alle parole di chi
parla, gli si può attribuire, come suo, questo di­
scorso formulato in queste nuove proposizioni,
perché egli ha conosciuto e comunicato, o potuto
comunicare tutto ciò, sia pure senza tradurlo in
frasi esplicite.
Esiste quindi anche la possibilità di un'espli­
318 SAGGI TEOLOGICI

citazione di ciò che è stato rivelato implicitamente.


Essa si attua espressamente in proposizioni con
un processo molto più complicato di quanto non
si sia visto sinora apertamente.
In tale processo non è necessario che si dedu­
ca dalla proposizione A, presa nella sua espres­
sione più immediata, la proposizione B come con­
tenuta in essa formalmente o soprattutto virtual­
mente. L'esplicitazione può verificarsi in modo
che la proposizione B, considerata in senso rigo­
roso, segua da ciò che è contemporaneamente co­
municato nella proposizione A o sia in esso con­
tenuta ~< formalmente ».
In tal caso, se si verifica ed esprime l'esplici­
tazione nel modo più formale e logico, il processo
dovrebbe essere il seguente: si ascoltano nella
loro molteplicità le proposizioni della rivelazione,
espresse e percepibili immediatamente (serie A di
proposizioni); ci si domanda che cosa sia in esse
contemporaneamente pensato e comunicato come
sfondo e principio che abbraccia e domina in ma­
niera unitaria la molteplicità delle proposizioni.
Questa concezione fondamentale, insieme pensata
e co-espressa, è messa chiaramente in rilievo
guardando attraverso le singole proposizioni la
realtà, che sta alla loro base, e la si formula
espressamente nella proposizione B. Da questa
comprensiva proposizione B si deduce infine la
proposizione desiderata, riconoscendola come co­
espressa implicitamente in quella.
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 319

Se quanto si è detto sin qui è esatto, appare


evidente che il risultato di tale procedimento non
deve, o almeno non necessariamente in ogni caso,
muoversi al di fuori della sfera di ciò che è pro­
priamente rivelato.
Questo schema del processo di esplicitazione
della rivelazione, cui si è accennato cosi breve­
mente, può apparire a prima vista singolare ed
escogitato artificiosamente. Però vedendolo da vi­
cino ci si accorge che lo si adopera molto spesso.
Ogni teologia biblica lavora con tale metodo:
coordina sempre molte espressioni particolari e
concrete della S. Scrittura in direzione di un pen­
siero fondamentale ed unitario, come appare dal
suo modo di impostare le questioni. Quando, per
esempio, la teologia biblica indaga l'idea di Dio o
la concezione del tempo nel Nuovo Testamento,
o l'idea di pneuma in S. Paolo, ecc., segue sempre
lo stesso metodo. Si cerca il pensiero che sta a
base ed è co-espresso in tutti i detti particolari, la
concezione fondamentale, che fa loro da sfondo,
e il motivo dominante o comunque lo si voglia
chiamare. Se più tardi, partendo di qui, si vuoI
dare una risposta ad un altro problema partico­
lare, come, per esempio, quello della compatibilità
di una determinata proposizione filosofica o di una
visione del mondo con la « concezione fondamen­
tale» della S. Scrittura, si ha tutto il processo, di
cui si è tracciato lo schema.
320 SAGGI TEOLOGICI

Con quanto si è detto non intendiamo postu­


lare o decantare alcun nuovo sviluppo del dogma
nella teologia. Questa, in quanto conoscenza ri­
flessa e scientifica, continuerà a lavorare con i me­
todi usati sinora. Ascolterà attentamente quanto
fu detto nella rivelazione originaria; si renderà
conto nel modo più esatto del senso di ciò che ha
udito, adoperando tutti i metodi di cui dispone
una scienza dello spirito: filologia, storia, logica,
ecc.; confronterà e connetterà le proposizioni così
udite e intese: « analogia fìdei »; indagherà le con­
seguenze logiche di tale associazione o di tali de­
duzioni, ecc.
La teologia, in quanto tale, non può inserire
immediatamente nei suoi metodi lo Spirito Santo
e la sua illuminazione come fonte obiettiva o prin­
cipio logico, né può esplicitare e articolare in pro­
posizioni ciò che è insieme comunicato formal­
mente, o implicitamente se si vuole, nelle propo­
sizioni originarie, usando mezzi diversi dalle ope­
razioni logiche.
Tuttavia da quanto si è esposto si possono de­
durre, forse in modo più chiaro che sinora, le se­
guenti conclusioni riguardo al metodo adoperato
ordinariamente e costantemente dalla teologia: il
risultato di tale metodo teologico, per quanto com­
plicato e lento possa essere, non si deve trarre ne­
cessariamente fuori dell' ambito di quanto è stato
realmente detto o comunicato in modo formale da
Dio stesso, quasi fosse un piccolo ritrovato essen­
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 321

zialmente ed esclusivamente umano. Infatti da


una parte Dio quando parla abbraccia in sé in an­
tecedenza tutte le virtualità delle sue parole e per
mezzo del suo Spirito stimola, guida e protegge
tutte le loro articolazioni. Dall'altra, data la na­
tura della sua parola e delle sue proposizioni, l'uo­
mo può sempre comunicare formalmente più di
quanto può dire formalmente.
Possiamo quindi, per esempio, dedicarci in
qualche misura senza intralcio alcuno all'indagine
e alla riflessione teologica delle questioni riguar­
danti l'Assunzione 12, senza che il risultato obiet­
tivo debba essere necessariamente pura «teolo­
gia ». Il magistero ecclesiastico, che dispone di un
criterio più elevato di quello del singolo teologo,
determinerà nel caso concreto il confine esatto tra
dogma e puro theologumenon 13, tra una spiega­

12 Come ha fatto in questo caso ed in molti altri tutta


la teologia classica del medioevo, che, senza preoccupazione
alcuna e con tutta ragione, considerava oggetto di fede i ri­
sultati certi della speculazione teologica. Cfr. per esempio S.
Tommaso, I, q. 32 a. 4 c.: «indirecte vero ad /idem pertinent
ea, ex quibus negatis consequitur aliquid contrarium fidei ».
R. M. Schultes dice che nei secoli XIV-XV era dottrina co­
mune «ad fidem pertinere non tantum ea quae expresse S.
Scriptura vel Traditione habentur, sed simul, quae inde bona
et necessaria consequentia deducuntur» (Introductio in histo­
riam dogmatum, Paris, 1922, p. 115 s).
13 Spetta al magistero della Chiesa precisare i confini,
eventualmente, anche tra un theologumenon in sé logicamente
certo e un dato rivelato da Dio esplicitamente o implicita­
mente. Lasciamo aperta la questione se si possa considerare
rivelato da Dio in maniera formale implicita tutto ciò che si
deduce strettamente dalle proposizioni di fede. Le nostre con­
siderazioni dovrebbero dimostrare solo che non si può dire

11. - Saggi teologie!.


322 SAGGI TEOLOGICI

zione veramente certa ed una puramente proba­


bile. La Chiesa possiede l'organo con cui percepire
se ciò che ci appare risultato del lavoro teologico sia
parola di Dio stesso, più che semplice frutto del
pensiero umano, anche se sotto altra forma, in
una nuova articolazione e in un'esplicitazione
nuova mediante proposizioni. In ogni caso, ciò
che dal nostro punto di vista appare risultato di
esegesi teologica complicata e di speculazione de­
duttiva, non deve di fatto essere necessariamente
privo del carattere di rivelato, anche se solo il ma­
gistero lo garantisce volta per volta con le sue di­
chiarazioni.
Perciò, quando si presenta un'esplicitazione
della fede, alla quale ha contribuito, come si può
dimostrare storicamente, la riflessione teologica per
via propriamente scientifica o solo prescientifica
- la differenza non è essenziale, perché in ambo
i casi si lavora con gli stessi mezzi - il magistero,
assistito dallo Spirito Santo, ha una duplice fun­
zione. Esso può garantire in determinate circo­
stanze come vero il risultato del lavoro teologico
anche quando questo, per principio o sinora de
facto, non sia giunto a delle conclusioni necessa­
rie ma solo di « convenienza ». Noi abbiamo la­
sciato per lo meno aperta questa possibilità. Il

che ogni propOSIZIone dedotta non possa più essere conside­


rata come rivelata da Dio formalmente. A noi sembra che ab­
biamo dimostrato almeno questo.
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 323

magistero garantisce inoltre che il risultato conse­


guito non solo è esatto ma anche parola di Dio.
Se in questo sviluppo del dogma limitiamo i
mezzi obiettivi del teologo, che intervengono nel
processo probativo, a quelli che pone a sua dispo­
sizione il metodo esegetico e razionale, e non gli
permettiamo di appellarsi nelle sue prove in quan­
to tali ad alcuna intuizione o al lume della fede,
ecc., ciò non significa ch'egli potrebbe in genere
giungere ad un risultato esatto solo se si propone
di lavorare intorno ai dati della rivelazione con i
metodi della storia o della filosofia delle religioni.
Il teologo, da credente e da membro della
Chiesa, deve piuttosto lavorare con l'aiuto della
grazia sotto la luce della fede, nel possesso e nel
contatto concreto con la realtà creduta. T ali pre­
supposti in quanto tali, pur non essendo un mo­
mento interno della sua dimostrazione, sono in ge­
nere sempre una condizione perché si possa vede­
re e valutare debitamente la forza probativa reale
dell' argomentazione teologica.
Si possono in ogni tempo trarre rettamente de­
gli argomenti e delle conclusioni dalle proposizioni
di fede, solo se si parte dal centro della fede vis­
suta, che si possiede sempre integralmente nella
sua totalità e unità indivisa. Però si può spiegare
rettamente questa fede solo se si tengono costan­
temente presenti le formulazioni valide, nelle qua­
li la fede primigenia si è espressa già, e in maniera
324 SAGGI TEOLOGICI

necessaria, in proposizioni obiettive. Nessuna di


queste due cose è possibile senza l'altra.
Solo la Chiesa nel suo insieme ha la promessa
di possedere questa fede pienamente e senza alte­
razioni. Essa sola, non ogni singolo fedele, ha gli
organi per poter compiere questa riflessione con
garanzia di non incorrere in errori e con autorità
obbligatoria per tutti. Perciò in definitiva questa
connessione tra la fede originaria, in parte globale
e implicita, a contatto con la stessa realtà me­
diante la grazia e il lume della fede, e la spiega­
zione « nuova» attraverso i mezzi della teologia,
è garantita come sicura e permanente solo nella
Chiesa. Il singolo la riconosce obbligatoria e si­
cura solo se rapprende con la fede nella Chiesa e
con la Chiesa 14.
In nessun caso un aspetto di tale connessione
può opporsi all'altro. La coscienza viva, crescente
e in certo modo istintiva della fede, non può pen­
sare di potersi sottrarre, perché più chiaroveggen­
te, alla teologia seria, che lavora con metodo sto­
rico e razionale procedendo passo passo con circo­
spezione. Né la teologia, che si serve di deduzioni
razionali e concettuali e d'investigazioni storiche,
può pensare che possa esistere nella coscienza

14 Ciò non significa necessariamente ed in ogni caso che


il singolo teologo possa riconoscere rivelato da Dio (fides di­
vina) solo ciò che è insegnato espressamente dal magistero
ordinario o straordinario della Chiesa (fides catholica). Però
anche quando ciò non si verifica, egli ascolta la parola di Dio
nella Chiesa.
SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA 325

della fede della Chiesa solo ciò di cui ha già provato


chiaramente l'esistenza con i suoi strumenti.
Solo e sempre la Chiesa garantisce che ambe­
due hanno proceduto rettamente nel caso concreto,
quando si sa in possesso della verità precisamente
nella (~ nuova » proposizione e lo dichiara espres­
samente e in maniera obbligatoria per la coscienza
della fede dei singoli membri.
6.

RIFLESSIONI
SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI ,~

A noi professori di dogmatica risultano a


tutta prima evidenti l'importanza e le difficoltà che
comporta il problema dello sviluppo dei dog­
mi. Nella nostra professione ci occupiamo del dog­
ma della Chiesa. Questo dogma non dobbiamo
soltanto esporlo e spiegarlo, renderlo accessibile
alla comprensione dell'uomo dei nostri giorni, ma
abbiamo altresl il compito di presentarlo il più
possibile come incluso nella rivelazione originaria.

* Il presente articolo riporta una conferenza tenuta al


convegno dei professori tedeschi di teologia dogmatica, che
ebbe luogo in Innsbruck il 3 ottobre 1957. La conferenza
doveva rimanere cosi come era. Si è rinunciato perciò a tra­
sformarla in una dotta indagine mediante l'aggiunta di note
bibliografiche e ricerche particolari. Titolo originale: U eber­
legungen zur Dogmenentwicklung, pubblicato in Schriften zur
Theologie, IV, Benziger, Einsiedeln, 1960, pp. 11-50; ver­
sione di L. Marinconz.
328 SAGGI TEOLOGICI

La Chiesa e il suo magistero sanno bene di non es­


sere i trasmettitori di una rivelazione di Dio fatta
ora per la prima volta, di non essere profeti, ben­
sì il ministero avente il compito soltanto di con­
servare, tramandare ed esporre la rivelazione di
Dio avvenuta in una determinata epoca storica pre­
cedente, cosicché la funzione della Chiesa e del
magistero presenta una differenza qualitativa di
fronte al processo della rivelazione originaria, seb­
bene non dobbiamo interpretare questo suo com­
pito nel senso che la rivelazione originaria
venga da essa semplicemente riportata come
fatta un tempo, bensì nel senso che essa si compie
in quanto espressa vivamente « adesso» per ades­
so, come rivelazione che si realizza attualmente
nell'audizione di fede ed in essa deve venir assi­
milata. La Chiesa e il suo magistero, quindi, di­
stinguono (non separano) la loro funzione specifi­
ca, l'insegnamento autoritativo verso l'uomo di
un determinato tempo, di fronte al processo della
rivelazione stessa.
Questo fatto però assegna allo studioso di
dogmatica il compito di accertare il rapporto fra
queste due entità. Certo, la verità creduta dalla
Chiesa e il suo magistero infallibile garantiscono
la realtà di un rapporto legittimo fra la rivelazione
originaria e l'affermazione del magistero. Ma ciò
non rende superflua la dimostrazione riflessa di
questo rapporto da parte del teologo. Anzitutto, in­
fatti, secondo la dottrina della Scrittura e della
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 329

Chiesa questo rapporto non è assolutamente me­


tastorico, ma si trova proprio (per lo meno an­
che) sul piano della tradizione storica del messag­
gio originario ed è così, senz'altro, un fatto acces­
sibile ad una conoscenza storica, per quanto, come
ogni soprannaturale azione salvif1ca di Dio, esso
si sveli in fondo nella sua congrua essenza soltanto
a colui che crede.
Si potrebbe senz'altro dichiarare: il nesso fra
il dogma della Chiesa posteriore e la rivelazione
originaria è un oggetto necessario di un'adeguata
teologia fondamentale; la sua considerazione, svi­
luppata di volta in volta per i singoli misteri di
fede, fa parte del compito del teologo e costi­
tuisce, in certo qual modo, la parte teologico-fon­
damentale della sua specializzazione. A tutto ciò
si aggiunge pure un'importanza intrinsecamente
teologica di questo compito. Se il teologo ha il
compito di esporre come tale la dottrina della Chie­
sa, di renderla accessibile alla comprensione del
suo tempo, di rendere possibile a questo tempo
l'assimilazione razionale ed esistenziale della fede,
dei mezzi di questa esposizione del dogma della
Chiesa fa parte la perfetta comprensione dell'ori­
gine di questo dogma ecclesiastico dalla rivelazio­
ne originaria. Il senso, la portata e il limite di que­
sta realtà così derivata, infatti, si possono misu­
rare soltanto attraverso un rinnovato ritorno alla
sua origine, tanto più che anche la dottrina della
330 SAGGI TEOLOGICI

Chiesa ufficiale compie sempre questo ritorno, al­


meno rifacendosi alla Scrittura.
Ma se la disamina disgiuntiva e congiuntiva
del rapporto fra dogmi ecclesiastici e rivelazione
originaria fa parte dei compiti del teologo, è
pure suo compito doveroso il riflettere sulla strut­
tura formale di un tale rapporto in genere, vale a
dire il problema dello sviluppo dei dogmi in gene­
rale e nell'insieme, e non soltanto il problema del­
l'origine del singolo dogma dalla notificazione ori­
ginaria.
Ci è altrettanto noto quanto sia difficile il pro­
blema così delimitato. Esso invero non fu mai
completamente assente nella storia della Chiesa,
poiché in teologia il problema della forma legit­
tima della paradosis e la riflessione scientifico-si­
stematica sull' essenza della teologia e sul rapporto
fra le singole verità di fede e gli articuli {idei come
tema non mancarono mai del tutto, soprattutto da
quando l'apologetica del dogma ecclesiastico rese
ancora più urgente la nostra questione di fronte
alla dottrina protestante della sola Scriptura.
Ma così come oggi lo dobbiamo impostare noi,
il problema è di data molto recente e quindi di
gran lunga non risolto. Nell'odierna guisa ed ur­
genza, infatti, esso ha cominciato ad esistere sol­
tanto a partire dall'800. Soltanto dall'inizio della
moderna scienza storica e dal sorgere dello stori­
dsmo percepiamo chiaramente le differenze e le
distanze nelle figure della storia dello spirito in
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 331

generale e nella storia delle asserzioni religiose in


particolare.
Le eresie del protestantesimo liberale e del mo­
dernismo che, richiamandosi ai risultati della sto­
ria dei dogmi e dello spirito, negano l'identità del
dogma ecclesiastico in tutti i tempi e l'insufficienza
di quell'apologetica, ripetutamente presentata, di
questa identità, che ammette soltanto un insigni­
ficante mutamento nella formulazione verbale, di­
mostrano entrambe quanto sia difficile e ancora
insoluto questo problema. Se vogliamo essere sin­
ceri, non possiamo neppure dire che la « Humani
generis », a questo riguardo, abbia fatto di più di
quello che è l'unico compito, ovviamente primario,
del magistero, cioè di mettere in guardia, in at­
teggiamento difensivo, di fronte ad una relativiz­
zazione storica del dogma ecclesiastico.
Un insegnamento veramente costruttivo circa
il diritto positivo di questo sviluppo, circa i suoi
modi e possibilità positivi non lo possiamo certo
trovare nella «Humani generis ».
Il problema poi si è fatto oggi più difficile per­
ché negli ultimi anni abbiamo vissuto uno strano
capovolgimento dei fronti. Mentre la teologia pro­
testante liberale nel secolo scorso rimproverava
alla Chiesa cattolica una fossilizzazione estranea
alla vita e senza avvenire dell'antico dogma, la neo­
ortodossia protestante, in una rinnovata dottrina
della sola Scriptura, accusa il magistero cattolico
di un'arbitraria sete d'innovazione, che crea dei
332 SAGGI TEOLOGICI

nuovi dogmi non aventi alcun fondamento nella


Scrittura. Mentre prima dunque dovemmo soste­
nere che ci attenevamo al dogma cristiano-antico,
che ancor oggi lo intendiamo come si era inteso
1500 anni fa e dovevamo spiegarne il perché, og­
gi dobbiamo difendere positivamente il di­
ritto dello sviluppo dei dogmi. A questo punto il
nostro problema è centro di una disputa in due
sensi; cioè: come siano conciliabili vera identità
da una parte e vero sviluppo dall'altra; un pro­
blema che indubbiamente è molto difficile, perché
alla fine si inabissa fino a raggiungere gli oscuri
fondamenti dell'antologia più generale riguardante
l'essere e il divenire, il perdurare della medesima
realtà nel mutamento, fino a raggiungere la meta­
fisica generale della conoscenza e dello spirito, la
quale pone gli stessi quesiti circa la verità nella
sua identità e, al tempo stesso, nella sua vera sto­
ricità. Riguardo a questi problemi, perciò, possia­
mo fare soltanto alcune osservazioni che, per
quanto slegate, mirano a servire per la discussione.

1. Sviluppo dei dogmi


nel!'ambito della Scrittura

Per l'apologetica e per la comprensione della


storia e dello sviluppo dei dogmi nella Chiesa è di
somma importanza il riflettere sul fatto che un ta­
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 333

le sviluppo può venir osservato già nel NT. In


via normale nella dogmatica cattolica, prescinden­
do da pochissimi casi singoli (in modo speciale
forse nella cristologia e - naturalmente - nella
teologia fondamentale), siamo tuttora abituati a
vedere la Scrittura, e specialmente il NT, come
un'entità omogenea, indifferenziata, come una
somma di articoli rivelati posta quasi d'un tratto,
simile ad un codice o ad un catechismo creati im­
provvisamente d'un sol getto.
Abbiamo naturalmente un certo diritto a que­
sto metodo che, corrispondentemente, comprova
i singoli articoli dogmatici con dieta probantia
tolti pressoché indiscriminatamente dalla Scrittu­
ra. Quest'ultima, essendo parola ispirata da Dio,
è per noi nell'insieme e in tutte le sue parti una
indiscutibile autorità, in ciascuno dei suoi articoli
è per noi dogma e non semplice teologia, in ogni
articolo è autentico punto di partenza per la no­
stra teologia. Per quanto ciò sia vero e il metodo
accennato, quindi, possa essere giusto in quello
che ha di positivo, questo modo di considerare la
Scrittura e iLmetodo su di esso basato sono unila­
terali.
Stando ai risultati della più recente esegesi,
infatti, non si può più ragionevolmente dimentica­
re C'he nell'ambito di ciò che noi chiamiamo l'uni­
ca Sacra Scrittura, e cioè anche nell'ambito del NT
e non soltanto dell'AT, si compie una storia e uno
sviluppo delle asserzioni. Per quanto tutto ciò che
334 SAGGI TEOLOGICI

c'è nella Scrittura quoad nos sia dogma e non sem­


plice teologia discutibile, si può, anzi si deve di­
re che molte cose in questo dogma della Scrittura,
le quali possiedono per noi la qualità di asserzione
inerrabile della rivelazione, sono esse stesse teo­
logia dedotta nei confronti di un'originaria as­
serzione della rivelaz;ione.
Non ci si deve ingenuamente immaginare che,
data la sua ispirazione (che appunto non deve ve­
nir scambiata con una nuova rivelazione), ogni
proposizione della Scrittura derivi come tale da
una novella rivelazione originaria attribuibile esclu­
sivamente all'atto rivelatore di Dio che si compie
al momento, come se ogni articolo della Scrittura
fosse stato udito in certo qual modo singolarmente
dal cielo mediante una· specie di comunicazione te­
lefonica diretta. Anche se qui accantoniamo il pro­
blema difficile e trattato troppo poco per timore
di idee moderniste, di come ci si debba immaginare
un'originaria rivelazione di Dio ai primi deposita­
ri della rivelazione, resta in ogni caso da dire che
non ogni proposizione nella Scrittura è una rivela­
zione in questo senso, ma che alcune di esse già
attraverso la Chiesa del periodo apostolico e at­
traverso il carattere ispirato della Scrittura sono
inerrabilmente teologia garantita dalla rivelazione
originaria.
Poiché le cose stanno cosi e questa teologia,
dedotta nell'ambito della Scrittura, avanza tutta­
via verso di noi la giusta pretesa di dottrina di
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 335

fede vincolante e nei confronti della sua origine è


qualcosa di maggiormente esplicato, nella Scrit­
tura effettivamente c'è già un vero sviluppo del
dogma e non solo della teologia. Lo sviluppo dei
dogmi nell'ambito della Scrittura è perciò un caso
modello garantito di sviluppo dei dogmi in genere,
un caso modello che di per sé è vincolante per tutti
coloro per i quali la Scrittura è nel suo insieme
autentica testimonianza di fede. La dottrina pao­
lina, per esempio, del carattere sacrificale della
croce di Cristo, di Cristo come il secondo Adamo,
del peccato originale, molti articoli sull'escatolo­
gia, ecc., gran parte della teologia giovannea, ecc.,
sono esplicazioni di alcune semplicissime espres­
sioni di Gesù circa il mistero della sua persona e
dell'esperienza della sua risurrezione.
Se per il semplice fatto che tali espressioni
sono per noi norma obbligatoria di fede si volesse
considerarle, anche come tali, proprio come ca­
dute a nuovo dal cielo, si volesse quindi rispar­
miarsi la fatica di comprenderle meglio riportan­
dole alla loro origine rivelata, da esse distinta, si
correrebbe .il rischio di fraintenderle, oppure di
accettarle come una somma di articoli di fede or­
dinati positivamente, senza un nesso veramente
interno, e in tal modo si metterebbe a repentaglio
la loro credibilità presso coloro che sono fuori
della Chiesa. Dal momento però che nella dogma­
tica in complesso maneggiamo ancora a malapena
questo ordine pluridimensionale degli articoli di
336 SAGGI TEOLOGICI

fede, anche questi fatti possono difficilmente ser­


vire da caso modello, in base al quale studiare le
leggi dello sviluppo dei dogmi.

2. Leggi-cornice aprioristiche
per lo sviluppo dei dogmi.

1. Lo sviluppo dei dogmi è in fondo un pro­


cesso unico, adeguatamente inafferrabile in leggi
formali. Questa prima formula da noi enunciata
può sembrare evidente. È però importante. L'espli­
cazione della definitiva rivelazione di Dio non
è precisabile in leggi formali come i processi delle
scienze naturali, in modo che da esse possa venir
anticipata una fase posteriore. E il motivo è evi­
dente: tale sviluppo è un divenire e come tale è
unico e irrepetibile, per cui non possiede un
a priori rigorosamente predeterminante. Se perciò
la storia dei dogmi è continuamente sorprendente,
se nessun caso è uguale alI' altro, se ogni fase e lo
lo sviluppo dei diversi dogmi decorrono in manie­
ra diversa, tutto questo dobbiamo aspettarcelo a
priori. Non si può quindi sottoporre adeguata­
mente lo sviluppo d'un dogma alle leggi di svi­
luppo di un altro e così, per esempio, contestare
la legittimità di un determinato sviluppo appel­
landosi alla sua eterogeneità rispetto ad un altro.
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 337

Ciò risulta non soltanto dalla natura della ri­


velazione e della sua storia, come storia unica de­
corrente una sola volta fra Cristo e la fine, ma
specialmente dalla natura della storicità della co­
noscenza della verità. Infatti, se l'uomo ha una
storia anche come spirito e non soltanto come es­
sere vivente bio-fisico, anzi soltanto come spirito
la possiede veramente, è chiaro fin dall'inizio che
questa storia ha un decorso irreperibile e non è
la costante ripetizione della stessa legge. E ciò
deve valere a maggior ragione per la parte più
sublime di questa storia umana dello spirito, per
la storia della rivelazione nello spirito umano e
per l'esplicazione di questa rivelazione.
Sarebbe ben strano se ci fosse una storia della
rivelazione divina - cosa che nessun cristiano
può negare - e tuttavia non esistesse una storia
dello svolgimento di questa rivelazione, quindi
nessuno sviluppo dei dogmi, accompagnata dal­
l'unicità e imprevedibilità di tale storia. La stessa
rivelazione infatti possiede una storia (e necessa­
riamente), non soltanto perché colui che parla
(Dio) nella sua libertà può agire storicamente, ma
perché il destinatario di questa parola, l'uomo, è
un essere storico. Fino a tanto quindi che questi
vive la sua storia, deve esistere pure una storia
del dogma, anche se la rivelazione è conclusa, e
in un senso particolarissimo e per un motivo ben
determinato essa può essere conclusa, sebbene la
storia dell'uomo non sia ancora finita.
338 SAGGI TEOLOGICI

Tuttavia, se non esiste un'adeguata teoria


formale dello sviluppo dei dogmi, che possa
permettere una prognosi per il futuro, questa
asserzione non nega che esistano certi princìpi
formali riguardo allo sviluppo dei dogmi, princìpi
che derivano dalla stessa natura di una rivelazione
storica e definitiva di Dio, come la stessa prima
proposizione sopra enunciata, e che rendono pos­
sibili delle giustificate obiezioni contro presumi­
bili sviluppi negativi nella teologia.

2. La rivelazione in Cristo .è la rivelazione


definitiva, insuperabile e conclusa con la fine della
generazione apostolica. Questa proposizione, per
quanto evidente essa sia sotto molti aspetti, ab­
bisogna tuttavia di una spiegazione in diversi
punti, affinché risaltino le importanti conseguen­
ze che da essa derivano. La compiutezza della ri­
velazione la dobbiamo intendere in un duplice
senso:

a) È quella compiutezza che, secondo la sua


natura più profonda, rende « conclusa» la rivela­
zione, perché questa rivelazione è l'apertura verso
l'assoluta ed insuperabile autocomunicazione di
Dio allo spirito creato. La rivelazione in Gesù
Cristo non è soltanto la somma finita di singole
proposizioni finite (per quanto abbiano un og­
getto infinito), bensÌ implica la reale ed esca tolo­
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 339

gica autocomunicazione di Dio allo spirito crea­


to mediante l'incarnazione e la grazia, come gloria
già iniziata. Come diremo ancora meglio in se­
guito, la grazia e la luce della fede sono fattori
essenziali nel processo della rivelazione inteso pu­
re come comunicazione della verità, quindi anche
come locutio Dei attestans.
Ciò non significa che la rivelazione, in quanto
tale, si effettui soltanto nel singolo individuo che
ascolta con fede, nel singolo come tale. Significa
però che se l'insieme di coloro che odono e cre­
dono cessasse di essere, pure la rivelazione in
quanto definitiva ed escatologica cesserebbe di
sussistere. Qualora la rivelazione debba essere de­
finitiva e in certo qual modo non aver più un fu­
turo dinanzi a sé, deve necessariamente venir ac­
cettata, vale a dire anche realmente creduta, altri­
menti si trasforma in giudizio definitivo di Dio
sull'incredulità. Rivelazione definitiva e conclusà
e rivelazione la cui sorte da parte degli uomini sia
ancora sospesa, sono concetti inconciliabili.
Una rivelazione che sia conclusa implica per­
ciò il concetto di Chiesa (distinto dalla sinagoga),
ossia la comunità di coloro che mediante una gra­
zia predeterminante di Dio giungono alla fede e
sono inevitabilmente (sebbene liberamente) im­
prigionati in questa volontà salvifica di Dio; impli­
ca una Chiesa credente, che nell'insieme (senza che
si possa dir qualcosa circa il singolo come tale)
non può decadere dalla fede. (Questa, per inciso,
340 SAGGI TEOLOGICI

è la ragione teologica per cui la Chiesa in quanto


apprende e perciò autorevolmente anche insegna
è e deve essere infallibile, mentre ciò non si può
dire della sinagoga, pur essendo stata anch'essa
di fondazione divina).
Compiutezza è la caratteristica della definitiva,
assoluta ed insuperabile autocomunicazione di
Dio, che fa sì di venir accettata con fede come
tale, e non l'arbitrario cessare della parola di Dio,
che potrebbe continuare e solo di fatto tace dopo
una qualsiasi dichiarazione.
È necessario tener sempre presente questo,
quando si parla della compiutezza della rivelazio­
ne. Essa è un'apertura dell'uomo alla reale e non
solo ideale autocomunicazione di Dio e possiede,
proprio per questa compiutezza, che è un'apertu­
ra, una dinamica interna, una dinamica del10 svi­
luppo dei dogmi in se stessa.
Una rivelazione di Dio che non fosse reale
autocomunicazione della realtà rivelata allo spi­
rito dell'uomo, né potrebbe essere vera e propria
auto-comunicazione di Dio, né si potrebbe imma­
ginare veramente conclusa, poiché una disposi­
zione puramente decretoria di Dio « che egli ora
non parla più» corrisponde in fondo ad una rap­
presentazione antropomorfa di Dio; tanto più che
il concetto di un parlare personale di Dio, anche
se a noi forse è dato di riconoscerlo solo retrospet­
tivamente, può venir pensato soltanto nel caso
che Dio voglia schiudere se stesso, poiché ogni
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 341

altra cosa che Dio altrimenti volesse dire, potreb­


be accadere attraverso la creazione concreta di una
realtà finita comunicata, e ogni realtà sopranna­
turale che di per sé potesse esser raggiunta anche
in maniera naturale, se Dio volesse proprio così,
è un concettuccio antropomorfo, il che vale anche
per una comunicazione della verità che viene qua­
le locutio Dei attestans, sebbene fosse potuta av­
venire altrimenti.

b) D'altro canto non dobbiamo dimentica­


re che questa rivelazione che apre l'infinitezza
concludendola, possiede quale elemento essenzial­
mente costitutivo la parola umana fin tanto che
pellegrini amo ancora nel tempo, lontani dal Si­
gnore e non vediamo Dio faccia a faccia, dicendo
la qual cosa dobbiamo inoltre pensare che anche
questa immediatezza, che noi attendiamo come il
compimento, sarà l'immediatezza mediata dal Ver­
bo di Dio incarnato. Così però, se la parola umana
e il concetto finito sono tuttora dei fattori essen­
ziali della rivelazione conclusa, è chiaro che que­
sta rivelazione o non sarebbe ancora conclusa o
non sarebbe concostituita sostanzialmente dalla
parola umana, se lo sviluppo che interessa il dogma
originario sorvolasse questo precedente concetto
umano e se non traesse delle conseguenze anche
(non soltanto!) da questo concetto umano in cui
era espressa la precedente forma della rivelazione.
Il significato di tutto ciò e quanto ne deriva si
342 SAGGI TEOLOGICI

possono chiarire soltanto allorché, in seguito, po­


tremo riflettere sugli elementi essenziali della ri­
velazione e del dogma e cosÌ pure dare uno sguar­
do alle cause ed agli impulsi che reggono, assieme
ed in fondo indi visibilmente, l'unico sviluppo dei
dogmi.

3. Lo sviluppo dei dogmi è necessariamente


retto, in un'unità che in fondo non è dissolvibile,
da tutti i fattori che sono costitutivi per la rivela­
zione e per il dogma che si sta sviluppando. Que­
sta asserzione non può davvero venir contestata
nella sua universalità formale. Il dogma, in gene­
rale o in particolare, è un'entità unitaria, struttu­
rata da diversi elementi (che indicheremo subito
meglio). Perciò, dovendosi sviluppare, si svilup­
pano necessariamente tutti questi elementi che lo
strutturano. Questo però è possibile soltanto, se
ad ognuno di questi elementi essenziali è insita
una dinamica tendenza allo sviluppo. Dicendo tal
cosa, naturalmente, è anche evidente che questa
tendenza dinamica dei singoli elementi può esser
avviata soltanto nell'insieme e dipende dal
dispiegamento del tutto. Il tentativo quindi di spie­
gare lo sviluppo di un dogma soltanto da un ele­
mento del dogma e della sua dinamica o di limi­
tarlo ad una tale singola dinamica di sviluppo, deve
esser dichiarato a priori altrettanto sbagliato e va­
no come l'idea di poter riuscire a spiegare un ef­
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 343

fettivo sviluppo dei dogmi senza rifarsi a tutti


questi elementi.
Potrebbe darsi che nei diversi casi, quoad nos,
la dinamica di sviluppo dell'uno o dell'altro ele­
mento di un dogma risalti con più evidenza e pos­
sa venir afferrata in maniera più riflessa, non pe­
rò che uno di questi elementi manchi. Ogni teo­
ria dello sviluppo dei dogmi, che non prenda in
considerazione o neghi questo semplice fatto, che
attribuisca quindi lo sviluppo dei dogmi come ta­
le al magistero, o allo Spirito ispiratore, o al di­
spiegamento logico delle potenzialità implicite
nella proposizione umana, va respinta come er­
rata. Con ciò è pure condannato il tentativo di
ammettere, nei singoli casi, diversi esecutori re­
sponsabili dello svolgimento dei dogmi, con il pre­
testo di poter cosÌ descrivere e giustificare più fa­
cilmente i diversi casi storici di un effettivo svi­
luppo dei dogmi.

3. Gli elementi costitutivi della dinamica


dello sviluppo dei dogmi

Abbiamo già detto che gli elementi del dog­


ma sono anche gli elementi essenziali della dina­
mica dello sviluppo dei dogmi nella loro varietà
ed unità indissolvibile. Questi elementi debbono
344 SAGGI TEOLOGICI

ora venir menzionati ed esaminati singolarmente


(naturalmente con sguardo selettivo), cosa ovvia
per formarci l'esatto concetto dello sviluppo dei
dogmi.

a) Lo Spirito e la grazia

L'auto-manifestazione di Dio nella parola


umana della rivelazione annullerebbe se stessa, se
non fosse unita alla luce interna della grazia e
della fede strettamente soprannaturale. Se Dio in­
fatti, in quanto Essere non-accessibile attraverso
la sua creazione da lui dissimile, parlasse di se
stesso in parole umane senza elevare al di sopra
di sé in maniera soprannaturale il soggetto che
ascolta, queste parole andrebbero a cadere sotto
l'a priori soggettivo dello spirito finito soltanto co­
me tale e questa stessa parola cosi verrebbe, an­
che se non semplicemente annullata, tuttavia ne­
cessariamente depotenziata al rango di un fattore
dell' autocomprcnsione e deIl'autocomprensibilità
della semplice creatura e perciò non sarebbe
più una vera auto-manifestazione di Dio. È vero
anche qui infatti, che ogni cosa viene ricevuta nel
modo e nella maniera di colui che riceve; è vero
anche qui che la conoscenza è essenzialmente il
rientrare in sé di colui che conosce, l'illuminato
autopossesso, cosicché ogni cosa ricevuta viene
intesa come elemento di questo compimento di sé.
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 345

Per quanto l'uomo, quindi, già come spirito na­


turale sia l'assoluto essere-aperto all'essere in ge­
nerale e con ciò a Dio quale principio e ra­
gione di questo spirito, la comunicazione di Dio
riguardante se stesso, se fosse accolta senza grazia,
sarebbe tuttavia intesa soltanto come un elemento
di questo immanente autocompimento dell'uo­
mo (sia pure come uomo aperto all'infinito). Sol­
tanto dove l'atto dell'udire in ciò che noi chia­
miamo grazia è una vera e propria coesecuzione
di un atto di Dio nella partecipazione strettamente
soprannaturale a Dio stesso, e non soltanto ad una
qualità da lui creata, il linguaggio di Dio può es­
sere un linguaggio strettamente soprannaturale, in
se stesso, quindi, qualitativa.mente diverso da ogni
comunicazione attraverso la sola creazione, e non
soltanto per quanto riguarda il modo di comuni­
care. Una parola divina viva e propria ha senso
soltanto se diretta ad un udito divino.
Alla dichiarazione della divina rivelazione è
quindi connesso lo Spirito Santo come autocomu­
nicazione strettamente soprannaturale di Dio, non
soltanto come garante dell'esattezza o come autore
di una causalità efficiente di Dio, che di per sé de­
corre nell'ambito del finito, ma come oggetto stes­
so della dichiarazione, assieme al quale soltanto la
parola umana espressa può essere autodichiara­
zione di Dio.
Con ciò sono dati contemporaneamente quel­
l'infinito essere-aperto in seno alla rivelazione con­
346 SAGGI TEOLOGICI

elusa e la dinamica dell'autosvolgimento, che fini­


sce soltanto nella visio beatifica stessa. Se è vero
pertanto (e ciò fa parte del dogma fondamenta­
le del cristianesimo dell'incarnazione) che questa
autocomunicazione di Dio avviene realmente nel­
la parola umana e non soltanto in occasione di
essa, quindi la parola umana non è soltan­
to l'occasione esterna per un'esperienza spiri­
tuale o mistica della realtà trascendente e ineffa­
bile di Dio, ma che Spirito e parola possono ve­
nir posseduti nella loro indissolvibile unità, con­
giunti e distinti, allora la parola umana è aperta
a priori all'infinità di Dio (come parola naturale,
in virtù della sua potentia oboedientialis) e come
parola soprannaturale,.in virtù del suo venir-detta
dallo Spirito e in virtù del suo essere-elevata dallo
Spirito) e lo Spirito divino in questa parola e me­
diante questa parola da lui stesso accettata è dato
nella propria infinità ed effettiva realtà.
Ci troviamo qui di fronte a una realtà di fatto
del tutto unica e particolare, che in teologia viene
comunemente sorvolata. Nell'ambito della cono­
scenza naturale esistono due modi di conoscere:
o si ha una vera e propria esperienza della realtà
in oggetto in se stessa o nei suoi effetti e in base
a ciò si formano poi i propri concetti e giudizi su
di essa, così che si può continuamente allonta­
narsi da questi concetti e giudizi, ritornare al­
l'esperienza della cosa stessa e di qui formare nuo­
vamente i concetti e i giudizi e sottoporre i prece­
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 347

denti ad un esame critico, poiché si può avere la


cosa stessa e non una semplice proposizione su di
essa. Oppure esiste una conoscenza che non pos­
siede la cosa stessa, ma che è vincolata all'affer­
mazione di un altro, senza poter entrare in un di­
retto contatto d'esperienza con la cosa stessa e
rendersi così indipendente dalle affermazioni altrui.
Il secondo caso si verifica in ogni cosiddetto
testimonium. Poiché l'atteggiamento cattolico an­
tignostico ed antimistico di fronte alla verità e alla
realtà di ciò che Dio ha rivelato non permette il
primo modo, (vale a dire: poiché nello stato di pel­
legrini non ei possiamo svincolare dalla proposi­
zione, diffusa in parole umane, della testimonian­
za della rivelazione; poiché non possiamo moder­
nisticamente stabilire un muto stato d'esperienza
dell'oggetto della fede, dal quale possiamo ricava­
re di nuovo e originariamente le proposizioni della
rivelazione come proposizioni intellettuali), la nor­
male teologia delle nostre scuole conclude (senza
rifletterei molto invero) che la rivelazione debba
venir pensata, in base al secondo dei modi men­
zionati della conoscenza umana, come pura testi­
monianza verbale, che rimanda soltanto alla cosa
in realtà non posseduta, senza darla.
Ma questo, appunto, non è giusto. Nella pa­
rola gratuita della rivelazione abbiamo una via di
mezzo superiore fra i due menzionati modi della
.conoscenza: nella parola è data la cosa stessa. Al
di là della testimonianza verbale di Dio, nel con­
348 SAGGI TEOLOGICI

cetto umano non possiamo risalire ad un muto pos­


sesso e ad una muta esperienza della realtà stessa
dì Dio (ciò avviene soltanto quando il Verbo si
esprimerà nell'immediatezza del compimento fi­
nale), ma cionondimeno non abbiamo soltanto la
parola, ma la cosa stessa: l'autocomunicazione di
Dio allo spirito nella propria realtà, che è il prin­
cipio omogeneo della visio beatifica stessa.
Tutto ciò, evidentemente, si può affermare
soltanto se lo Spirito, che rende possibile l'ascolto
della parola di Dio in maniera soprannaturale, non
è un semplice elemento trascendente la coscienza
nell'atto della fede, ma compare realmente come
luce della fede. Ciò non significa necessariamente
che questa luce debba esser presente nella coscien­
za credente come un dato di fatto riflesso e di­
stinto da altri contenuti di coscienza; tuttavia una
vera presenza, anche se non oggettivata e non ri­
flessibile, della luce della fede è necessaria nella
coscienza.
Se questo è vero (e almeno la scuola tomista
con Suarez, contro Molina e i suoi seguaci, soster­
rà ciò come evidente con la Scrittura e la tradi­
zione non ancora offuscata da dubbi nominalisti),
non possiamo immaginare lo Spirito solo come pi­
lota trascendente di uno sviluppo dei dogmi, bensì
come un elemento proprio iilSito in esso tramite
la coscienza di fede della Chiesa che alimenta que­
sto sviluppo. Ogni sviluppo dei dogmi avviene in
questo senso pregnante «nello Spirito Santo ».
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 349

Nel caso che per la spiegazione dello sviluppo dei


dogmi, quale processo nella coscienza di fede del­
la Chiesa come tale, non venga considerato e com­
putato anche questo elemento, la spiegazione di
detto sviluppo, se ciononostante si crede adeguata,
deve necessariamente fallire.
È vero che la spiegazione dello sviluppo dei
dogmi può esibire questo Spirito come fattore iso­
lato ed afferrabile da solo altrettanto poco di
quanto la luce della fede possa venir concretizzata
nell' analysis fidei, ma come in questo caso della
analysis fidei, tale impossibilità di superamento e
di revisione riflessa di un fattore in un processo
spirituale non sta a significare che questo elemen­
to dello sviluppo dei dogmi, quale processo di
coscienza, non esista.
Riguardo alla maniera in cui lo Spirito è pre­
sente nello sviluppo dei dogmi come elemento ad
esso intrinseco, ci sarebbe da dire tutto quello che
altrimenti c'è da dire dello Spirito, della grazia e
della luce della fede in rapporto alla coscienza
dell'uomo. Non è perciò necessario che se ne tratti
ulteriormente. Partendo da una metafisica formale
della conoscenza dello spirito finito, questa situa­
zione di fatto non deve sorprendere. Sarebbe pro­
prio insensato razionalismo (facile a confutarsi me­
diante una deduzione trascendentale), se qualcuno
pensasse che lo spirito finito allo stadio del dive­
nire e dell'incompiutezza, quali elementi della sua
conoscenza, potesse e dovesse avere a fondamen­
350 SAGGI TEOLOGICI

to logico del suo giudizio e a motivo del suo agire


soltanto oggetti di una coscienza riflessa. Pure
nell'ambito naturale della conoscenza la realtà di
fatto non oggettivata ed inabbordabile (in tal gui­
sa però realmente data!) è l'origine non disponi­
bile, il più ampio orizzonte, la base di sostegno
di tutto ciò che noi dell'oggetto predicato ci te­
niamo dinanzi, in parte affinché ciò che in maniera
indisponibile su di noi domina sia presente, in
parte affinché noi ce lo veliamo e dinanzi ad esso
celiamo noi stessi dietro all'oggetto.

b) Il magistero della Chiesa

La parola di Dio è sempre una parola rivolta


dal depositario autorizzato della dottrina e della
tradizione nella Chiesa gerarchicamente costituita.
Il fatto di esser rivolta ufficialmente, il riferimen­
to ad un docente autorizzato, l'udire la parola pro­
veniente da questo docente autorizzato fanno par­
te degli elementi essenziali del dogma e perciò
pure dello sviluppo dei dogmi. Lo sviluppo del
dogma, quindi, non ignora mai il magistero. Non
per il solo fatto che il dogma, in quanto tale, deve
venir annunciato dal magistero, per poter venire
creduto fide ecclesiastica con la Chiesa come un
elemento essenziale della fede di questa stessa
Chiesa. Lo sviluppo del dogma non dipende sol­
tanto in facto esse dal magistero, bensÌ già in fieri.
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 351

Lo sviluppo stesso avviene in un costante rapporto


dialogico con il magistero.
Gli elementi dello sviluppo che esulano dal
magistero (il carisma dello Spirito e lo studio della
teologia) pensano sempre dinanzi al magistero ed
in sua funzione; essi, pensando sempre lo svolgi­
mento dei dogmi nella Chiesa costituita gerarchi­
camente, offrono ognora il loro pensiero al ma­
gistero autoritario; provano anche lì, dove appa­
rentemente sembra trattarsi di teologia puramente
individuale, se il magistero rivestito d'autorità e
la coscienza universale di fede della Chiesa di­
scente nel loro insieme e nella pienezza del loro
spirito riescono a coeseguire il pensiero teologico
individuale o se lo rigettano come a loro contrad­
dittorio.
Non è questo i1luogo per spiegare meglio que­
sta «ecclesiasticità» dell'annuncio della rivela­
zione e perciò dello sviluppo dei dogmi. Ci sarebbe
troppo da dire. Bisognerebbe addirittura risalire
al carattere originariamente dialogico della cono­
scenza umana; dopo di che bisognerebbe dimostra­
re che (se cosi si può dire) la fides implicita, cioè il
riallacciare, conoscendo e amando, la propria co­
noscenza della fede alla fede della Chiesa, come
elemento di una critica trascendenza di sé, è un
fattore indispensabile di ogni fede (anche se si
tratta di fides explicita), senza· del quale non sa­
rebbe affatto possibile da parte della fede la fidu­
ciosa consapevolezza del suo buon esito, poiché
352 SAGGI TEOLOGICI

soltanto in questa salutare autorinuncia è data la


vera critica alla soggettiva insufficienza e limita­
tezza di ogni conoscenza, quindi anche della cono­
scenza della fede, una critica che fa sì (almeno in
quanto implicitamente compresa e conveniente­
mente realizzata), che ogni conoscenza sia realmen­
te vera soltanto nell'atto di donarsi alla verità
maggiore e alla realtà più completa, i cui idonei
detentori possono essere soltanto Dio e la saluti­
fera vicinanza di Dio a noi, cioè la Chiesa. Ci sa­
rebbero altri quesiti da risolvere circa questa ec­
clesiasticità del dogma e del suo sviluppo, laddove
reale ecclesiasticità include sempre necessariamen­
te anche uno stato di riferimento al magistero
della Chiesa.
Per quanto però, nel modo appena accenna­
to, il magistero faccia parte dei fattori indispensa­
bili che reggono lo sviluppo del dogma, esso non
è da solo il suo adeguato promotore. Esso infatti
ha una funzione essenzialmente conservatrice e
discernitrice; secondo la testimonianza storica
dello sviluppo del dogma esso si fa avanti soltanto
quando il movimento stesso è già stato avviato
da altre parti; esso dipende (non nell'autorità
della sua decisione, ma riguardo all'esistenza di
un oggetto sul quale esso dà il suo giudizio) dai
moti carismatici nella Chiesa e dalla riflessione
della teologia. Poiché, nonostante ogni autorità,
assistenza dello Spirito Santo e - in determinati
casi - perfino infallibilità, prende e deve pren­
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 353

dere le sue decisioni con un atto umanamente li­


bero, razionale e di cui perciò è moralmente re­
sponsabile, esso ha bisogno di una motivazione
consapevolmente e razionalmente afferrabile del
suo atto - che ha poi in se stesso, cioè nell'as­
sistenza dello Spirito, la sua giustificazione ­
tanto che l'assistenza dello Spirito Santo sarà
sempre efficace anche affinché questa (chiamiamo­
la) umana coscienziosità e motivabilità della de­
cisione di magistero di fatto non manchi mai.
Il magistero dunque non può, né vuole ren­
dere superfluo o sostituire il compito della teolo­
gia e la motivazione razionale di un nuovo dogma.
Per quanto una sua decisione per il singolo teo­
logo e anche per il semplice fedele sia un fatto
fondato nell' assistenza dello Spirito Santo in ma­
niera tale da non poter venire adeguatamente dis­
solto a ritroso in altri dati ed in certo qual modo
venir reso superfluo, non per questo la decisione
del magistero è qualcosa che possa essere la base
adeguata dello sviluppo del dogma o della moti­
vazione della sua legittimità richiesta dal teologo.
Qualora si dicesse solo ed unicamente: qui è av­
venuto un legittimo sviluppo del dogma, perché
la Chiesa lo ha definito, nei confronti del singolo
teologo si sarebbe, sl, data un'adeguata motiva­
zione al fatto che egli può accettare con fede la
legittimità di questo sviluppo e presupporlo nelle
sue riflessioni, non si sarebbe però data una ri­
sposta adeguata alla domanda, perché questo svi­
12. - Saggi teologiCi.
354 SAGGI TEOLOGICI

luppo, certamente legittimo, sia realmente legit­


timo.
Con una simile risposta autoritativa, infatti,
non soltanto non si sarebbe illuminato il reale
processo di un tale sviluppo, così come storica­
mente è in realtà avvenuto - ciò che è anche
compito della teologia - ma non si sarebbe nep­
pure spiegata l'intima e possibilissima motivazio­
ne della legittimità di questo sviluppo e non la
si sarebbe portata a quel grado di conoscenza ri­
flessa, che può superare quello che nell'antefatto
della definizione era pure già affermabile imme­
diatamente e con chiarezza. Come avviene di so­
lito in decisioni umane sostenibili in modo razio­
nale, infatti, non è necessario che una definizione,
nel momento in cui sorge, abbia già portato i
suoi motivi e le sue giustificazioni al maggior gra­
do possibile di realtà riflessa.
Se si dichiarasse dunque, almeno a proposito
di certe definizioni (per esempio dell'assumptio
B.M.v.), che, esaminando accuratamente, de facto,
qui nulla c'è da conseguire in un'argomentazione
razionale o in un esame storico, risalente fino ai
tempi apostolici, di un'esplicita conoscenza di
fede di questo avvenimento, che in fondo si pos­
sono apportare soltanto delle ragioni di conve­
nienza, le quali, esaminate attentamente e giudi­
cate equamente, non dimostrano nulla; se si di­
cesse che dall'originario depositum fidei soltanto
il magistero stesso) in una maniera del tutto alie­
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 355

na da ogni razionale comprensione, ricava la ve­


rità neodefinita, mentre un sobrio teologo che non
inneggia a pii entusiasmi non può avvedersi del
fatto che essa è contenuta e racchiusa nelle anti­
che verità, si attribuirebbe al magistero un ruolo
nello sviluppo del dogma, che non gli può spet­
tare, verso il quale esso non ha mai avanzato
delle pretese, in fondo si atomizzerebbe la fede
in una somma di singoli articoli che avrebbero
un nesso soltanto nell'autorità formale del magi­
stero; in tal modo si renderebbero questi articoli
atomizzati sempre più senza un volto e sempre
più incomprensibili, sempre meno assimilabili, poi­
ché essi infatti possono avere il loro vero signifi­
cato sempre soltanto nell'insieme della fede e del­
la realtà creduta; si ridurrebbe la fede ad una
obbedienza formale, mentre essa è ben di più,
cioè contatto gratuito con la stessa realtà -creduta;
si ridurrebbe in fondo la continuità, storicamente
tangibile, della traditio, che è pure una continui­
tà del contenuto, e come tale è sempre stata in­
terpretata, ad una continuità dell'autorità formale
del magistero; si negherebbe lo stato concluso del­
la rivelazione nel Cristo e la limitazione della fun­
zione del magistero alla conservazione e allo svol­
gimento di questa rivelazione; interpretato così,
il magistero con una nuova definizione annunce­
rebbe nuove rivelazioni. Il magistero non vuole
vedere in vece nostra ciò che noi non vediamo,
non trae dal depositum fidei ciò che a noi in nes­
356 SAGGI TEOLOGICI

sun modo è dato di trarre assieme ad esso; noi


vediamo piuttosto con esso ed assieme ad esso
esplichiamo; il magistero deve sempre ricorrere
alla teologia e la teologia al magistero, e in nes­
sun caso l'uno sostituisce l'altro, in nessun caso
si aumenta l'importanza dell'uno scemando quel­
la dell'altro.

c) Concetto e parola

Fa parte degli elementi costitutivi della rive­


lazione divina il venir annunciata attraverso la
parola e il concetto umani. Nella misura in cui
questa parola umana vien detta e udita nello Spi­
rito, essa possiede sempre un necessario riferi­
mento e in se stessa un'apertura all'infinito mi­
stero di -quella verità, che si identifica con la real­
tà di Dio e può essere comunicata soltanto nella
comunicazione di questa realtà in se stessa. Nel­
la misura in cui questa parola viene detta dal
magistero della Chiesa gliene deriva una validità,
che da una parte è maggiore dell'intima compren­
sibilità di questa singola parola presa in se stessa,
mentre dall'altra è minore di quella autorità e di
quella validità ampia, perché aperta all'infinito,
che le appartiene in quanto è la stessa carne del­
lo Spirito di Dio che in essa si comunica all'u­
ditore. In qualità di parola della Chiesa (nel suo
magistero), essa richiama la visione e la fede nel
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 357

suo complesso di questa Chiesa, e in ciò possiede


una dignità e una validità che supera la luce in­
trinseca della singola parola, in sé e nella com­
prensione puramente umana del singolo uditore.
Tutti questi fatti però non ci debbono far
dimenticare che questa parola è una parola vera­
mente umana ed è in grado di renderei presente
la parola di Dio soltanto finché rimane tale, con
tutti gli elementi e le conseguenze di una spiri­
tualità veramente umana. Succede come nella cri­
stologia: la divinità aumenta con l'aumentare del­
l'umanità, e non viceversa. Solo l'accettazione del­
la realtà umana nell'apparizione di Dio redime e
libera l'umano e lo porta alla sua suprema attua­
lità, che le è sostanzialmente intrinseca anche se
lo è soltanto come potentia oboedientialis.
Da ciò consegue che lo sviluppo del dogma
deve effettuarsi essenzialmente anche nella dimen­
sione del concetto e della parola umani. Lo svi­
luppo dei dogmi non è unicamente, ma è anche
uno sviluppo quale suole effettuarsi nello svolgi­
mento del pensiero e della conoscenza umana. Si
può dire a priori: nella dimensione del concetto
e della parola umana della rivelazione lo sviluppo
dei dogmi può e deve effettuarsi in tutti quei
modi e attraverso tutti quei mezzi soliti allo svol­
gimento della conoscenza umana. Volendo desi­
gnare la conoscenza dell'uomo, cosciente della sua
validità, come processo della sua ratio (e
questa terminologia è quella che più corrisponde
358 SAGGI TEOLOGICI

all'uso linguistico della Chiesa, dal momento che


il magistero ecclesiastico per motivi assai gravi
rifiuta la concezione di una fondamentale pluralità
della facoltà conoscitiva), dovremmo dire: lo svi­
luppo dei dogmi ha sempre e necessariamente una
dimensione razionale. Intendendo la teologia co­
me riflessione razionale della fede su se stessa e
sui propri oggetti, dobbiamo dire: uno sviluppo dei
dogmi si effettua sempre necessariamente come
sviluppo della teologia. Abbiamo già detto infatti
che il magistero nelle sue decisioni dipende sem­
pre di fatto anche dalla teologia.
Con questa asserzione è scartata, perché ina­
deguata, sia una teologia mistica dello sviluppo
dei dogmi, sia una teologia autoritaria. Anche nel­
lo sviluppo dei dogmi né lo Spirito ispiratore, né
il magistero che decide d'autorità rendono super­
fluo il lavoro razionale della teologia, m~ l'uno
e l'altro si effettuano proprio attraverso questa
teologia.
Naturalmente si è sempre saputo che un nuo­
vo dogma deve essere connesso, sul piano del
concetto, all'antico depositum fidei. Ogni teoria
dello sviluppo dei dogmi come esplicazione con­
cettuale di ciò che implicitamente è già compreso
in un'altra proposizione, tutte le questioni che
possono venir definite esplicazioni della realtà im­
plicita formalmente o virtualmente come fides
divina o fides ecclesiastica, presuppongono la con­
vinzione che lo sviluppo dei dogmi non possa d­
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 359

fettuarsi ignorando lo sviluppo e il lavoro della


conoscenza concettuale umana attorno al dogma.
È tuttavia necessario sottolineare una cosa tanto
ovvia. Con quanto è stato detto finora, infatti,
non si è giunti ancora ad una conclusione circa
la maniera più esatta di una simile attività razio­
nale nello sviluppo dei dogmi, poiché rimane aper­
ta innanzitutto la questione se le spiegazioni di
questa attività esplicitatrice, comuni nella teolo­
gia scolastica e basate su di una logica formale del
concetto e del sillogismo, siano soddisfacenti.
Nonostante tutto però bisogna ritenere per
certo che un rapporto contenutistico fra l'antico
depositum e un dogma neo-definito non solo deve
esistere per principio, ma deve pure essere dimo­
strabile. Se a ciò si rinunciasse, si postulerebbero
in fondo, sebbene si eviti la parola, nuove rive­
lazioni ufficiali nella Chiesa, al di là del deposito
apostolico.
Se talvolta si ha l'impressione che ci si ras­
segni tacitamente nei confronti di un tale rappor­
to di esplicazione razionale e che si voglia per­
ciò rinunciarvi nella teoria dello sviluppo dei dog­
mi, tale disfattismo in una teologia razionale ha
diverse cause. Si parte forse dall'errato presup­
posto, che un tale rapporto razionalmente dimo­
strabile debba spiegare e giustificare ogni cosa
nello sviluppo dei dogmi. Erroneamente si consi­
dera dunque il razionale processo di esplicazione
come l'unico fattore nello sviluppo dei dogmi, il
360 SAGGI TEOLOGICI

che naturalmente non può essere. Oppure si pre­


tende troppo e si esige troppa sicurezza da un
tale processo di esplicazione. Chi tiene per certo
un argomento teologico esplicativo soltanto quan­
do viene effettivamente capito da tutti e non vie­
ne contestato da nessuno, chi chiama «sicuro»
soltanto un tale argomento, non soltanto usa una
terminologia estranea alla Chiesa (essa infatti de­
signa razionalmente intelligibili e sicuri anche de­
gli argomenti che da moltissimi non vengono com­
presi, bensì contestati), ma nega di conseguenza
che ci possa essere una sicura conoscenza razio­
nale, perché non esistono delle conoscenze che
non vengano contestate da nessuno, per cui biso­
gnerebbe dire che non esistono affatto conoscenze
sicure.
Il semplice fatto quindi, che alcuni argomen­
ti esplicativi per un nuovo dogma vengano conte­
stati, che venga negata la loro forza probativa da
uno, o da molti teologi, non è ancora un argo­
mento per dire che in realtà non esista una di­
mostrazione sufficientemente sicura di un rapporto
fra l'antico depositum fidei e una verità da defi­
nirsi o già definita. Un teologo non solo può avere
il diritto, ma eventualmente anche il dovere di
dichiarare il suo argomento univoco e sicuro, an­
che se i suoi colleghi non lo approvano. Per quan­
to riguarda la forza probativa e la sicurezza in un
tale caso, non dobbiamo improvvisamente preten­
dere di più di quanto possa venir raggiunto se­
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 361

guendo la dottrina della Chiesa anche in altre ri­


flessioni teologiche o filosofiche, che essa giudica
sicure. Se in tali processi teologici esplicativi non
si pretenderà una sicurezza maggiore di quella che,
p. es., possiamo raggiungere nella prova dell'esi­
stenza di Dio, della libertà dell'uomo, della neces­
sità della confessione e della transustanziazione
(queste ultime verità secondo la dottrina della
Chiesa possono venir conosciute proprio da altri
dati della Scrittura), allora si esorterà almeno alla
prudenza, quando qualcuno fosse tentato di non
riconoscere ad argomenti teologici, p. es., riguar­
do all'Immacolata Concezione o all'Assunzione,
quella forza probativa che su questo piano sol­
tanto, ma anche realmente, si deve esigere.
Questa problematica è stata forse aggravata
senza motivo dal fatto che si volle motivare la
forza probativa razionale di tali processi esplica­
tivi troppo in fretta e in parte con la logica for­
male scolastica del sillogismo. « Razionale» 'nella
nostra conoscenza concettuale non significa sem­
plicemente chiarezza e sicurezza, che si fonda nel­
l'intelligenza della risolvibilità di un sillogismo o
nella pura analisi razionale di un concetto. Come
già detto, la limitazione della razionalità a queste
cose sarebbe oltre tutto anche contro la termino­
logia della Chiesa. In altre parole, se si fa va­
lere una sicurezza razionale soltanto nel caso in
cui un nuovo articolo di fede venga dedotto siI­
logisticamente da due premesse rivelate, non esi­
362 SAGGI TEOLOGICI

sterà mai uno sviluppo stringente del dogma nel­


le dimensioni del concetto e della proposizione.
Ma allora bisognerebbe esser leali e smettere
di attribuire ai dogmi definiti in tempi remoti una
maggiore evidenza e certezza circa la loro dedu­
zione dalle proposizioni della Scrittura, di quanto
se ne attribuisca ai dogmi più recenti. Il carat­
tere sacramentale del matrimonio, p. es., è dogma
già da 700 anni, ma per questo non è deducibile
con maggiore sicurezza del dogma del 1854 o del
1950.
È inoltre errato, di già nell'ambito della co­
noscenza naturale, parlare di sicurezza soltanto
quando si tratta della consequenzialità di un sil­
logismo. Che mia madre, finché ha la mente non
ottenebrata almeno, non mi avvelenerà lo so, e
lo so con certezza. E questa è una certezza del
tutto razionale, poiché nella terminologia eccle­
siastica e scolastica, giusta e preferibile, non esiste
nessuna altra facoltà di conoscenza sicura all'in­
fuori della ratio. E cosÌ questa certezza circa il
comportamento di mia madre può venir chiama­
ta razionale e questa globale certezza razionale può
venir spiegata molto sottilmente e minutamente
in maniera riflessa in un intero trattato. Tale spie­
gazione è da una parte significativa, anzi fino ad
un certo punto necessaria; tuttavia essa non rin­
noverà la globale certezza originaria e del tutto
razionale, non la raggiungerà adeguatamente, ma
consisterà soltanto nel far prendere all'uomo una
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 363

visione più riflessa di questa conoscenza origina­


ria, irriflessa e globale, benché razionale e certa,
nel facilitargli questa conoscenza, nell'incoraggiar­
lo a non rimanere imbrigliato in una inibizione
e scrupolosità razionalistica, bensì ad affrontare
il rischio di raggiungere una vera certezza e una
razionale intelligenza (libera decisione ed intelli­
genza, infatti, non sono opposti, ma fattori com­
plementari della conoscenza spirituale e della sua
certezza). Esiste quindi, ad ogni modo, una cer­
tezza razionale che è di natura sillogistica e in essa
soltanto inadeguatamente si lascia tradurre per
quanto questa trasposizione sia utile, anzi, fino
ad un certo punto, necessaria.
Perché dunque questa certezza razionale non
potrebbe esserci, nella sua forma originaria, anche
in teologia? Perché il lavoro della teologia riflessa
non potrebbe venir concepito come la riflessione
necessaria, ma sempre inadeguata, della coscienza
di fede della Chiesa su questa sua più originaria
certezza razionale della conoscenza del rapporto
fra una vecchia e una nuova asserzione del dog­
ma? Perché un tale lavoro teologico (nel caso
in cui si svolga possibilmente con serietà, lealtà,
ma anche in un intimo contatto di simpatia con
la cosa e la verità originaria) non potrebbe venir
qualificato come conoscenza certa, non dimenti­
cando che questa certezza prende sempre vita dal
richiamo a quella certezza più originaria e da essa
viene sorretta, che non è creata per la prima val­
364 SAGGI TEOLOGICI

ta da quella riflessione razionale della quale piut­


tosto vive, ma che però può sviluppare, cosÌ come
il fiore trae vita dalla radice e tuttavia anche la
radice dipende dal fiore?
A tale proposito è forse opportuno dire una
parola sul concetto dell'argomento di convenienza.
La teologia, per quanto riguarda la rivelazione,
ha il compito di sviluppare e chiarire il senso in­
trinseco e il rapporto reciproco delle verità rive­
late, il cui carattere di rivelazione sia già provato.
Riflessioni che servono a questo compito, possia­
mo denominarle argomenti di convenienza. Tali
riflessioni possono poggiare già a priori sulla co­
noscenza del carattere rivelato di quelle proposi­
zioni, il cui significato e il cui argomento diven­
gono espressamente tema. La teologia medioevale
si riferiva generalmente a tali riflessioni quando
chiedeva: utrum conveniens est ... In tale caso il
problema della forza probativa di tali riflessioni
gioca evidentemente un ruolo secondario.
Diversamente stanno le cose quando si tratta
di riflessioni che portano a delle proposizioni che
dal magistero non sono ancora garantite come si­
curamente rivelate. Qui il concetto di « argomen­
to di convenienza» porta soltanto in strettoie,
che si potrebbero tranquillamente evitare. Se cioè
in tali casi si designa una riflessione di questo
genere come argomento di convenienza, allora si­
gnifica, stando alla lettera, che questo argomento
rende comprensibile che, se Dio ha realmente agi­
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 365

to così e così, ha agito significativamente, però


non è certo, e con questo argomento non si fa
più certo, che egli abbia agito così. In altre pa­
role: con una tale affermazione si qualifica l'ar­
gomento assolutamente insufficiente per lo scopo
vero e proprio e così si denigra a priori ogni
sforzo teologico rivolto a un tale sviluppo del
dogma. In tal modo però ci si crea una difficoltà
che, in fondo, non sussiste.
Infatti, come stanno le cose in realtà? Tali
riflessioni si effettuano sempre, se fatte seriamen­
te e con la maggiore coscienziosità razionale pos­
sibile, come un'offerta (se così si può dire) alla
comprensione di fede della Chiesa universale e
al magistero. Il problema di sapere quale grado
di certezza razionale - indipendentemente da
questo elemento essenziale, che si tratta cioè di
un pensiero rivolto alla Chiesa universale - con­
venga ad una tale riflessione teologica, è di im­
portanza secondaria, perché si fonda sull'isola­
mento, frutto d'astrazione, di uno degli elementi
(cioè quello razionale) dall'insieme delle riflessio­
ni teologiche. Tale problema secondario può ave­
re un unico senso, cioè quello di acuire la pro­
pria coscienza teologica personale, per non ren­
dere superficialmente troppo comodo il proprio
lavoro teologico, cioè quelle cose che si dicono
rivolti alla coscienza universale della Chiesa. Se
però non si tiene conto di questo isolamento e
del problema che esso pone, una qualificazione
366 SAGGI TEOLOGICI

d'argomento di convenienza non ha propriamente


senso, perché qualifica qualcosa di non anco­
ra compiuto nella pienezza del proprio essere,
in quanto, per sua natura, esso è compiuto sol­
tanto allorché viene accettato nella coscienza uni­
versale di fede della Chiesa, coscienza che sola
possiede la vera e propria capacità di qualifica­
zione, e da essa viene qualificato, non dal singolo
teologo (anche se talvolta in un processo che dura
per secoli), sia con una definizione, sia non curan­
dosi di questa riflessione e non risolvendo il pro­
blema delineatò da questa riflessione teologica.
È possibile che tali riflessioni teologiche ab­
biano in sé elementi di certezza probante, i quali
possono venir concretizzati in maniera riflessa,
non dalla riflessione sillogistica e analitico-razio­
nale del singolo teologo, ma soltanto in rapporto
con la coscienza di fede della Chiesa. Quando
perciò, anteriormente ad essa, già si definisce una
tale riflessione teologica puro argomento di con­
venienza, si chiudono gli atti prima del consentito,
o, per lo meno, si desta l'impressione che l'atto
della coscienza di fede e del magistero successivo
a queste riflessioni teologiche non abbia in fon­
do nulla a che vedere con queste precedenti ri­
flessioni, ma che invece in una specie di genera­
fio aequivoca produca tutt'al più in seguito a tali
riflessioni qualcosa di completamente nuovo, men­
tre in realtà il magistero e la coscienza di fede
della Chiesa realizzano in maniera riflessa una
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 367

forza probante, che era insita in queste stesse ri­


flessioni teologiche, anche se tale consequenzialità
immanente del processo di sviluppo teologico vie­
ne realizzata in maniera riflessa (ma non sosti­
tuita) soltanto e proprio dalla qualificazione del­
la Chiesa.
In altre parole: la definizione di un argomen­
to teologico come conveniente, per il semplice
fatto che la sua forza probante può essere posta
pienamente in luce soltanto dalla riflessione della
Chiesa nella sua totalità, ignora il carattere parti­
colare del pensiero del singolo teologo e separa
ciò che deve, sì, venir considerato composto da
diversi elementi, ma che pure in questa pluralità
è unico.

d) La tradizione

Come quarto elemento di una verità di fede,


e perciò dello sviluppo dei dogmi, va messa espres­
samente in evidenza la «tradizione ». Una pro­
posizione rivelata da Dio è qualcosa che si effet­
tua in un discorso da persona a persona, poiché
la rivelazione di Dio, in quanto strettamente· so­
prannaturale, è essenzialmente una sua automa­
nifestazione. Le proposizioni rivelate sono per­
ciò essenzialmente, e fin dal loro primo inizio,
delle proposizioni dette a qualcuno. Questa loro
comunicazione o trasmissione vale perciò anche
368 SAGGI TEOLOGICI

per il dogma della Chiesa. In questa trasmissione


della verità e contemporaneamente della realtà,
quale elemento costitutivo nella traditio, in fon­
do è già incluso lo sviluppo dei dogmi. T aIe tra­
ditio, infatti, si attua in un determinato punto
spazio-temporale, è necessariamente storica e fa
entrare in questo processo pure il destinatario e
la sua unicità storica, che gli è propria anche in
quanto soggetto conoscitivo.
In altre parole: ogni voce diretta a qualcuno,
nella quale il contenuto deve realmente venir tra­
smesso, significa necessariamente anche una storia
di ciò che nell' asserzione vien detto e non è
soltanto una sua ripetizione. Non si sostiene con
ciò, nel senso di una teoria evoluzionistica dello
sviluppo dei dogmi, contro la dottrina del Vati­
cano I, che la realtà detta non rimanga la stessa.
Ma partendo da questa riflessione (come dall' e­
sempio aposterioristico della Scrittura) si può ca­
pire che ogni kerygma, venendo annunciato, si
sviluppa e perciò, dal momento che deve rima­
nere kerygma rivelato, oggetto di fede, non crea
soltanto teologia storica, ma dogma storico, quin­
di sviluppo dei dogmi.
Se a questo punto ci si chiedesse in che di­
rezione debba necessariamente muoversi tale svi­
luppo già presente nel primo inizio del dogma,
una tale domanda dovrebbe venir soddisfatta te­
nendo conto di tutti gli altri elementi che sco­
priamo nel dogma. Su di uno vogliamo fermare
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 369

l'attenzione. Abbiamo detto sotto il punto a) che


lo Spirito, la grazia e la luce della fede sono fra
gli elementi essenziali del dogma e perciò pure
del suo sviluppo. Se ci si potesse chiedere più
esattamente di quanto qui sia possibile, in che
modo questo elemento operi nell'insieme della
comprensione del dogma, si dovrebbe poter de­
durre che la luce portata dallo Spirito, anzi, in
fondo, ad esso identica, è l'orizzonte aprioristico
nell'ambito del quale vengono compresi i singoli
oggetti della rivelazione, similmente come nell' am­
bito naturale l'essere è l'orizzonte verso il quale
lo spirito, nella sua trascendenza, comprende il
singolo oggetto e lo rende veramente compren­
sibile.
Di qui ci si può aspettare a priori un duplice
movimento nell'ambito dello sviluppo dei dogmi.
L'infinita vastità e intensità di questo a priori so­
prannaturale deve condurre necessariamente ad
uno svolgimento sempre più articolato degli og­
getti compresi nel suo orizzonte; nell'incontro e
nella sintetizzazione di a priori formale ed ogget­
to aposterioristico della fede, tale oggetto viene
necessariamente alleggerito sempre più delle sue
virtualità. Il singolo oggetto di fede a posteriori­
stico, infatti, viene concepito come elemento del
movimento dello Spirito verso quella autocomu­
nicazione di Dio, che non soltanto viene conce­
pita nell'atto di fede come proposizione riguar­
370 SAGGI TEOLOGICI

dante una cosa futura, bensì come realmente av­


verantesi in questo atto.
La singola proposizione di fede però può ser­
vire da fattore in questo movimento verso la de­
finitiva autocomunicazione di Dio, unica ed in­
tensiva, soltanto se essa è aperta a più di quanto
comprenda, ossia all'insieme. Ma ciò è possibile
soltanto (se non può corrispondere a questa esi­
genza dissolvendosi semplicemente nel buio mi­
stico del muto mistero), se essa risolve se stessa
in una maggiore o più differenziata pienezza, at­
traverso la quale viene sempre più posta in rela­
zione all'insieme della rivelazione.
La teologia della sempre più chiara analogia
fidei, pertanto, non è solo il risultato di un lo­
gico acume formale, che presenta combinazioni
sempre nuove, che scopre nuovi collegamenti oriz­
zontali e rapporti e da essi deduce delle conse­
guenze; tale teologia è piuttosto legittimata dal
rapporto esistente fra la comprensione di un sin­
golo articolo di fede e quella del vasto a priori,
dato nella realtà della grazia e della fede nel suo
complesso.
Questo divino a priori della fede è alla base
dell'esplicitazione dell'antico depositum fidei, pro­
manante dalle sue virtualità. La dinamica dello
sviluppo dei dogmi è perciò estensiva e tende sem­
pre ad una più esplicita pienezza del punto singolo.
Contemporaneamente però da questo stesso
principio c'è da attendersi una dinamica contraria.
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 371

L'a priori formale della fede, a differenza della tra­


scendenza naturale dello spirito e della sua aper­
tura aprioristica, non è infatti un a priori formale
astratto, che si fonda nelle potenzialità dello spi­
rito in divenire, bensì la pienezza intensiva reale
di ciò che si intende nei singoli oggetti di fede,
e precisamente non soltanto nel concetto o nel­
l'idea, ma nella stessa realtà, cioè lo stesso Dio
Trino nella sua reale autocomunicazione.
Quando perciò nell'atto di fede, nel dire e
nell'udire la rivelazione accade una sintesi fra il
singolo oggetto di fede e questo a priori, una tale
sintesi deve pure scatenare la dinamica diretta ad
una concentrazione sempre progressiva della mol­
teplicità della realtà comunicata nella rivelazione
verso questa unità aprioristica, sempre sottintesa
in tutta questa molteplicità. Nello sviluppo dei
dogmi deve essere insita necessariamente anche
una dinamica verso l'intensivo, verso ciò che sem­
plifica immergendosi nella beata oscurità dell'uni­
co mistero di Dio.
Non è affatto vero, quindi, che ogni sviluppo
dei dogmi debba sempre muoversi in direzione
di un numero sempre maggiore di singole pro­
posizioni. Altrettanto importante, anzi più im­
portante ancora, è lo sviluppo verso la semplifi­
cazione, verso la visione sempre più chiara di ciò
che effettivamente s'intende, verso l'unico miste­
ro, l'intensificazione dell' esperienza dell'infinita­
mente semplice e, in senso vero, ovvio nella fede.
372 SAGGI TEOLOGICI

Quanto più chiaramente nella molteplicità delle


proposizioni di fede i motivi conduttori fonda­
mentali di tali proposizioni vengono elaborati e
compresi nell'accettare i singoli articoli, tanto più
c'è « sviluppo dei dogmi ».
In concreto la prima dinamica sarà sostenuta
maggiormente dalla pietà popolare e dal magistero
che, per giusti motivi pastorali, le viene incontro.
La seconda, che si muove in senso opposto, sarà
sostenuta, anche se non esclusivamente, piuttosto
dall'esoterica della teologia. Al giorno d'oggi que­
sta, a nostro avviso, non dovrebbe essere a ser­
vizio soltanto (anche se a ragione) della pietà po­
polare, la quale inevitabilmente e giustamente
tende il più possibile alla pluralità e a dispiegare
la pienezza della realtà divina in una molteplicità
di particolari; la teologia oggi potrebbe tranquil­
lamente sentire con maggiore urgenza l'altro uf­
ficio che incombe ad essa e, concretamente, ad
essa soltanto: la riduzione della molteplicità del­
le proposizioni di fede alle loro ultime strutture,
nella cui comprensione potrebbe darsi che il mi­
stero di Dio, che tutto comprende e tutto avvol­
ge, oggi a noi apparirebbe più possente che là,
dove lo spirito si esaurisce soltanto nella molte­
plicità delle singole proposizioni e nella loro di­
stinzione sempre più dettagliata.
Parlando in linguaggio figurato e nello stesso
tempo proprio, si potrebbe dire: c'è una teologia
della vita soprannaturale quotidiana, nella quale
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 373

si cerca di trovare Dio in particolarità sempre


maggiori, sempre nuove e sempre più differen­
ziate. C'è però anche una teologia della « misti­
ca» o del muto mistero, nella quale, le partico­
larità affondano come in una notte, affinché l'uni­
co tutto divenga più possente. Questo secondo
aspetto, che in teologia esigerebbe tanta precisione
e tanto acume quanto il primo, oggi, a quanto
pare, è troppo poco curato. Esso vive tuttavia,
come un bisogno non del tutto consapevole per­
fino nella teologia della demi tizzazione.

e) L'oggettività riflessa del dogma come dog­


ma, come rivelato da Dio

Allorché un dogma esiste nella sua pienezza,


esso comporta che nella coscienza della fede del­
la Chiesa, insegnata definitivamente dal magistero
ecclesiastico, venga affermato come rivelato da
Dio. Anche su questo elemento del dogma dobbia­
mo quindi riflettere, trattando lo sviluppo dei
dogmi.
Lo strano di questo elemento sta nel fatto
che lo sviluppo dei dogmi consiste appunto nel
pervenire ad aver coscienza riflessa di una realtà;
la Chiesa giunge infatti in questo processo a ren­
dersi conto di possedere una determinata propo­
sizione come rivelata da Dio.
Questa oggettività riflessa però - e in ciò
374 SAGGI TEOLOGICI

consiste in fondo tutta la difficoltà dello sviluppo


dei dogmi - non è stata sempre presente. Pro­
babilmente è meglio usare questa formulazione,
piuttosto che dire, inasprendo i termini della que­
stione, che la Chiesa dapprima non ha creduto un
determinato articolo e che solo successivamente
l'ha conosciuto. Se infatti si considera la cosa
con più esattezza e profondità e si distingue fra
una realtà esplicitamente differenziata e una più
globale nella rivelazione divina, è più giusto dire:
la Chiesa non fu sempre consapevole in maniera
riflessa che essa, nella sua coscienza di fede, pos­
sedeva qualcosa come verità di Dio, benché real­
mente da sempre la possedesse.
Comunque sia, dobbiamo riflettere sul fatto
che una tale realtà di fatto riflessa, che non fu
sempre presente, entra nello sviluppo dei dogmi.
E appunto questo è il vero e proprio punto pro­
blematico. La domanda è la seguente: come av­
viene questa entrata? In che modo la Chiesa s'ac­
corge improvvisamente (così si può dire) che la
proposizione che essa forse, riflettendo, da secoli
aveva nella sua coscienza, viene da essa tenuta
salda con l'assolutezza della sua fede?
Se si rispondesse a questa domanda dicendo
semplicemente: essa lo fa perché il Papa o il
Concilio definiscono questa verità, la domanda
verrebbe soltanto spostata. E la nuova domanda
sarebbe: quali condizioni e in base a quali co­
statazioni il Papa ha il diritto di definire? Que­
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 375

sto interrogativo rimane anche sotto la chiara pre­


messa che il Papa, quando definisce, definisce giu­
sto. Infatti la legittimità formale del suo atto del
definire, la quale garantisce l'esattezza della de­
finizione quoad nos, non è né giustificazione og­
gettiva, né quella secondo coscienza della defini­
zione papale per il Papa stesso.
Se però alla domanda posta rispondiamo che
il Papa si accerta della legittimità della sua defi­
nizione valendosi della tradizione, allora si riaf­
faccia il vecchio interrogativo di come si possa
trovare in questa tradizione tale legittimità, dal
momento che ex supposito nella tradizione non
è dato (perché anteriore alla definizione) il fatto­
re della conoscenza riflessa del carattere rivelato
dell'articolo da definire.
Se si dice che questo fattore è già dato, poi­
ché nella Chiesa, come effettivamente prima di
una tale definizione fu fissato dal Papa interpel­
lando l'episcopato, si crede già questa verità co­
me rivelata da Dio, anche se non in base a una
decisione del magistero straordinario, la domanda
viene trasformata nuovamente a ritroso nella sua
precedente forma, vale a dire come accada il pas­
saggio da una coscienza di fede della Chiesa, la
quale coscienza ha già colto una determinata pro­
posizione senza però comprenderla ancora in ma­
niera riflessa come rivelata da Dio, ad una co­
scienza di fede nella quale ciò si avvera.
In altre parole: il problema resta in ogni ca­
376 SAGGI TEOLOGICI

so lo stesso: come, per quali motivi e con che


diritto la coscienza di fede della Chiesa compie
il passo da uno stato, nel quale essa possedeva
una proposizione senza averla riconosciuta in ma­
niera riflessa come rivelata, allo stato di una tale
asserzione?
Volendo rispondere a questa domanda serven­
dosi soltanto dell'accenno all'argomentazione ra­
zionale delle riflessioni riguardanti il rapporto fra
l'antico depositum fidei e la nuova proposizione
(indifferentemente di come si concepisce più da
'Vicino questa conoscenza razionale), dovremmo
dire coerentemente che la sicurezza del risultato
di questa argomentazione, dipende dalla certezza
dell'argomentazione stessa, quindi non potrà mai
condurre ad una sicurezza di fede vera e propria
e la Chiesa non potrà adeguatamente basare la
sua assoluta e irrevocabile decisione su questa
certezza.
Si può naturalmente replicare, dicendo che
questa argomentazione razionale (nel senso ampio
del quale si è già parlato, anche se non è stato
spiegato più a fondo) non può motivare il va­
lore assoluto della definizione o della fede, ma
soltanto il diritto della Chiesa ad una tale defi­
nizione o ad un progresso della fede, nel quale
una proposizione viene realmente colta come ri­
velata da Dio.
Ma allora bisogna chiedersi di nuovo: prima
di tutto, come si può riconoscere un «diritto»
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 377

ad evincere tale assenso, se il riconoscimento di


questo diritto non è tuttavia l'adeguata motiva­
zione di ciò che in un tale assenso realmente ac­
cade? E poi, come sorge questo assenso, se in
esso è dato un plus di valore definitivo e asso­
luto e (in qualcosa almeno) anche di contenuto,
che non può derivare semplicemente dal solo pro­
cesso esplicito razionale?
In termini un po' più concreti e ripetendo
così entrambe le domande: primo, se il processo
esplicativo non è in grado di dimostrare come
definibile la verità nuova e da ritenersi come ri­
velata, con quella forza probante e quella sicu­
rezza contenute nell'atto della fede esplicita e del­
la definizione; se non soltanto di fatto non ha
la possibilità di avere questa pretesa, ma non gli
è neppure consentito di averla, perché altrimenti
tutti gli altri motivi della fede, i suoi stessi mo­
tivi basilari, diverrebbero superflui - essa non
sarebbe affatto opera dello Spirito e la definizione
non sorgerebbe affatto sotto l'assistenza dello Spi­
rito - in che modo la Chiesa credente o il Pa­
pa che definisce riconoscono di poter credere e
definire? Da dove traggono questo diritto? Non
si può né semplificare né minimizzare la domanda.
Ci sono, è vero, certe definizioni (o sembra
per lo meno che ce ne siano), le quali dimostrano
che attraverso il magistero straordinario viene
soltanto ribadito ancora una volta ciò che già
in precedenza fu insegnato dal magistero ordina­
378 SAGGI TEOLOGICI

rio ed espressamente creduto dalla Chiesa. In tali


casi il diritto del nuovo consiste nell'essere, in
fondo, soltanto la ripetizione del vecchio, la di­
fesa di ciò che c'è già.
Nella nostra domanda però pensiamo a tutti
i casi nei quali ex supposito le cose stanno diver­
samente, dove cioè la definizione o la fede della
Chiesa subentra per la prima volta e non sancisce
o difende soltanto ciò che esiste già. Con quale
tangibile diritto, riconosciuto riflessamente nella
coscienza, avviene il passaggio dallo stadio nel
quale una proposizione non viene fissata ancora
come sicuramente rivelata da Dio, allo stadio in
cui detta proposizione viene accettata come sicu­
ramente rivelata da Dio?
Ciò chiarisce pure il secondo interrogativo,
sul come avvenga il passaggio da uno stadio all'al­
tro. È chiaro che questo passaggio rappresenta
il problema decisivo dello sviluppo dei dogmi, più
ancora del problema dell'esplicitazione del conte­
nuto implicato nel depositum tradizionale.
Se bene osserviamo però, questo problema
non si palesa affatto come nuovo, ma ben noto
ad ogni teologo, anche se subisce delle particolari
modificazioni, trattandosi qui della coscienza di
fede di tutta la Chiesa e non del singolo. Ci è
noto infatti, nello sviluppo della fede in genere,
il problema circa il passaggio da un grado di co·
noscenza qualitativamente inferiore ad uno supe­
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 379

riore, e questo nel singolo. Quando qualcuno in­


comincia a credere, bisogna chiedersi: che cosa
accade veramente e con quale diritto colui che
onora non ha creduto incomincia a credere?
La teologia scolastica tradizionale dice innan­
zitutto che colui ha capito i praeambula !idei, la
razionale motivazione della fede (in qualche mo­
do e ono ad un certo grado relativamente a lui
sufficiente), ha riconosciuto il diritto e l'obbligo
di credere, la credibilitas e la credenditas; perciò
egli crede, perciò si risolve liberamente a credere.
Una teologia che miri un po' più in profon­
dità, tuttavia, dovrà aggiungere che in tale ri­
sposta non possono venir dimenticati la differen­
za qualitativa fra un razionale riconoscimento
della credibilità, con la sua problematica, dubi­
tabilità, oscurità, ecc. (ammettendo pure tutta la
« certezza» assoluta o relativa che le viene attri­
buita e le deve venir attribuita) e la radicalità e
assolutezza della fede.
Perciò abbiamo qui lo stesso problema che
troviamo nello sviluppo dei dogmi della Chiesa:
il problema del passaggio dall'incredulità o dalla
. fede non ancora esistente alla fede. Possiamo dun­
que dire: tutti i problemi, le teorie, le divergen­
ze di opinione o interrogativi che troviamo nel­
l'analysis !idei circa il divenire della fede nel
singolo, ritornano nuovamente nello sviluppo
dei dogmi. Tutto ciò che ivi vien detto, può venir
ripetuto qui. Il salto dai necessari presupposti
380 SAGGI TEOLOGICI

della fede alla fede stessa è fondamentalmente lo


stesso qui e n.
E poiché la dottrina cattolica riguardo alla
fede insegna da una parte la necessità dei prae­
ambula, razionalmente e coscientemente afferrabili,
e un rapporto fra essi e la fede, e difende questa
necessità contro teorie irrazionali, che negano que­
sti presupposti e fondano la fede in se stessa, e
poiché d'altra parte questa stessa dottrina afferma
la differenza qualitativa della fede come atto esi­
stente per grazia divina (pure nella zona della
coscienza) di fronte ai suoi presupposti razionali,
la stessa cosa succede nel nostro problema.
Perciò abbiamo pure il diritto d'interrompere
qui la disquisizione su questa problematica dello
sviluppo dei dogmi e di contentarci di questa sua
riduzione a quella più generale. Essa è sufficiente,
perché il problema più generale è realmente un
tema esplicito della teologia e da essa veramente
considerato, mentre quello qui accennato non
viene visto con tale chiarezza e, meno ancora, è
stata elaborata la sua identità con il problema più
generale.

Ricordiamo, infine, ancora due cose. Anzitutto


un caso ancora più generale, che non risolve in­
vero il problema, ma che dimostra la sua auten­
ticità reale e ineliminabile. Ecco di che si tratta:
ovunque si prenda una decisione in libertà, tale
decisione da una parte esige un esame, che la
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 381

preceda e la giustifichi, del suo diritto e del suo


dovere, mentre dall'altta essa possiede una sua
evidenza intrinseca, raggiungibile soltanto nell'at­
to di prenderla.
In altri termini: in nessun caso decisione si­
gnifica soltanto esecuzione di una convinzione;
essa è sempre nello stesso tempo il sorgere della
luce che soltanto la giustifica, così come essa vuo­
le e deve essere giustificata dinanzi a se stessa.
Esiste una chiaroveggenza interna, che non pre­
cede la libera decisione, ma che può esser posse­
duta soltanto in se stessa, anche se da questo
fatto non si può dedurre che una cosa del genere
sia « irrazionale» o renda superflue le precedenti
riflessioni razionali, che debbono condurre alla de­
cisione giusta. Una metafisica della libertà e del­
l'amore potrebbe analizzare e chiarire questo fat­
to. Avremmo allora un'ontologia esistenziale ge­
nerale, che potrebbe essere applicata al nostro pro­
blema particolare con suo gran vantaggio.
Una seconda cosa: due motivi possono in par­
te chiarire e render meno acuto il problema ge­
nerale del divenire della fede, che si sviluppa par­
tendo da presupposti razionali, pur senza essere
in continuità omogenea con essi. Il primo è che
si tratta della Chiesa intera, il secondo che si trat­
ta di una crescita nella fede procedente dalla fede.
Si tratta anzitutto della fede di tutta la Chie­
sa. Possiamo ben dire a posteriori che finora non
è mai uscita una definizione papale, nella quale
382 SAGGI TEOLOGICI

l'oggetto della definizione di fatto non fosse già


stato precedentemente creduto dalla Chiesa come
oggetto di fede. Non vogliamo ora indagare sulla
questione, se ciò debba essere per principio così.
Tale problema non è stato ancora chiaramente
risolto attraverso 1'« ex se infallibilis » dell' auto­
rità magisteriale del Papa. Quest'affermazione in­
fatti significa soltanto che la decisione del Papa
non abbisogna di un'ulteriore approvazione del­
la Chiesa, per aver valore, e che la verifica dei
presupposti ad essa necessari (che in ogni caso
esistono!) non è oggetto di un controllo da parte
di altri, dal cui risultato dipenda la validità della
decisione del Papa. Se qualcuno dunque dicesse
che il Papa definisce per principio soltanto ciò che
nella Chiesa è già creduto come rivelato, non con­
travviene (stando appunto alle precisazioni fatte)
a questo insegnamento.
Noi però lasciamo per ora da parte questo
problema. Tuttavia, almeno di fatto, p. es., l'ef­
fettiva fede della Chiesa nel suo insieme è stata
accertata prima della definizione dell' Assunta at­
traverso l'inchiesta diretta dal Papa ai vescovi.
Almeno questa definizione, quindi, ha avuto luo­
go, dopo aver accertato questa coscienza di fede
già esistente nella verità in questione. E ben dif­
ficilmente si potrà addurre un esempio chiaro e
convincente nel quale sia stato diversamente.
Dunque, almeno in molti casi, la coscienza
della fede della Chiesa circa una verità rivelata
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 383

è presupposta a un atto del magistero straordina­


rio, ed è quindi (in unione con il magistero ordina­
rio) in gioco nel corso della crescita quasi imper­
cettibile, della maturazione e della progressiva pre­
sa di coscienza di questa verità. È la Chiesa tutta
che medita un pensiero che si sviluppa dall'insieme
del suo contenuto di fede; esso matura, concre­
sce sempre più con questo insieme; essa lo vive
e lo coltiva e così un bel giorno si trova (se cosl
possiamo dire) semplicemente come colei che cre­
de in questo determinato modo.
Ciò non stupisce. Come è già stato accennato,
infatti, ogni decisione è preceduta da decisioni
provvisorie, messe a punto, ecc.; in tutte le deci­
sioni agiscono liberamente motivi e impulsi che,
a loro volta, non sono oggetto di una scelta ri­
flessa. Nessuna meraviglia se anche nella Chiesa
avvenga così. Quello che qui interessa è piuttosto
il fatto che nello sviluppo dei dogmi il soggetto che
passa dall'incertezza alla sicurezza, dagli attenti
esami all'approvazione è innanzitutto e in primo
luogo (di fatto almeno nei casi a noi accessibili)
la Chiesa universale.
Ciò è facile a comprendersi: essa non è sol­
tanto la realtà da Dio investita del magistero e
della sua autorità; essa non è soltanto l'insieme
degli impulsi, delle direttive, delle tendenze sto­
riche di sviluppo provenienti da Dio (ammettere
ciò significherebbe andare contro l'insegnamento
stesso della Chiesa, il quale nega che tutti que­
384 SAGGI TEOLOGICI

sti movimenti vengano sempre introdotti in lei


da Dio tramite il magistero gerarchico). La Chie­
sa universale è pure il soggetto nel quale questo
tacito passaggio da uno stadio all' altro è più fa­
cilmente pensabile.
Proviamo a pensare al caso opposto: se il
Papa per esempio non potesse costatare una fe­
de già realmente esistente nella Chiesa (in unione
con il magisterium ordinarium), come può concre­
tamente trovare in sé quei presupposti teologici e
morali che deve avere (e certamente ha quando
definisce, poiché l'opposto, assieme alla possibi­
lità di fallire, non viene permesso dalla provvi­
denza di Dio) quando definisce; in altre parole,
come può avere altrimenti, in maniera concreta,
quella sufficiente sicurezza umana che quanto egli
vuoI definire è contenuto nel depositum fidei?
Se si dicesse che sarebbe sufficiente un giu­
dizio teologico probante, che dimostrasse, ad
esempio, per vari motivi che qualcosa è impli­
citamente contenuto nel deposito di fede, allora
sarebbe praticamente impensabile che questa cosa
venisse scoperta per la prima volta dal Papa pro­
prio hic et nunCj quella motivazione teologica
quindi, che ha il Papa, è ugualmente nota e viva
nella Chiesa. Ma chi vorrà dimostrare allora che
essa finora, anche senza una definizione papale,
non ha servito nella Chiesa universale ad afferrare
di fatto una realtà implicita come rivelata da Dio?
Chi, attraverso questa riflessione, vede minac­
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 385

ciata !'importanza dell'autorità magisteriale del


Papa non è nel giusto. Quando si dice infatti che
la Chiesa universale presumibilmente prima già di
una definizione papale crede con sufficiente chia­
rezza ciò che sarà definito e questa realtà di fatto,
entrata un po' alla volta semplicemente e senza
pompa nella coscienza di fede della Chiesa, è ad­
dirittura la legittimazione di contenuto (non quel­
la giuridico-formale!) per il diritto morale del
Papa alla definizione, l'autorità d'insegnamento
del Papa non viene diminuita.
Almeno questo infatti nessuno lo potrà ne­
gare: che cioè tali atti del magistero straordinario
hanno la loro importanza e il loro significato, an­
che nel caso in cui attraverso il magistero ordi­
nario (quindi anche papale) una verità de facto
venga già esplicitamente creduta nella Chiesa co­
me rivelata da Dio.
Non diciamo che questa fede della Chiesa,
precedente una definizione papale, non abbia al­
cun rapporto con il magistero ordinario. Al contra­
rio; proprio quando questa fede si sviluppa e ma­
tura sotto la guida del magistero ordinario, e an­
che qualora questo non insegni semplicemente ed
in maniera chiaramente tangibile, servendosi della
sua suprema autorità, tanto maggiore e più chiara
diviene l'importanza del magistero nella fusione
con la fede della Chiesa discente: il magistero
ordinario (nelle encicliche del Papa, nei suoi di­
scorsi, ecc.) contribuisce decisamente al maturare
13. - SanI teologIcI.
386 SAGGI TEOLOGICI

e alla presa di coscienza della fede della Chiesa


universale, in un processo di maturazione, tutta­
via, che è più vario, più complesso, più organico
e più armonico di quanto lo sarebbe, se ci si
immaginasse tutta questa realtà come consistente
in una formalizzazione giuridico-metodica (utile
e necessaria) di questo processo: cioè nel decreto
autoritativo e nella sua ubbidiente accettazione.
E poi la fede della Chiesa universale - già
precedente alla definizione - non significa che
ognuno in essa, come singolo, creda già implicita­
mente la proposizione in questione come rivelata
da Dio, ma significa soltanto che questa fede si
trova nella Chiesa già in maniera tale, da dover
esser ritenuta quella di questo soggetto morale.
Il fissare tutto ciò e trasmettere contempora­
neamente questa coscienza di fede della Chiesa
universale ai non-ancora-credenti è proprio la fun­
zione della decisione del magistero papale. Il Pa­
pa è quel punto nel quale la coscienza universale
di tutta la Chiesa ritorna effettivamente in sé in
maniera autoritativa per il singolo nella Chiesa.
Evidentemente non che il singolo sia obbligato al­
l'obbedienza, soltanto allorché abbia controllato
con esito positivo se il Papa nella sua definizione
abbia realmente esercitato questa funzione. Per il
fatto che il legittimo Papa definisce in maniera
formalmente legittima, il singolo sa esattamente
che egli ha esercitato questa funzione.
Ma egli la esercita realmente. La esercita per­
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 387

ché come membro della Chiesa è Papa e perché


ogni sua potestà gli viene sempre concessa da Dio
come ad un membro della Chiesa per la Chiesa
e perché questa in fondo è indefettibile. Perciò
la messa in opera dei suoi pieni poteri, anche nel
caso in cui viene compiuta in funzione dello svi­
luppo dei dogmi, poggia su di uno sviluppo della
coscienza di fede della Chiesa universale, per in­
crementarla e portarla alla definitiva autocoscienza.
Quanto a tale proposito si voleva dire, era
soltanto questo: poiché, e nella misura in cui è
la Chiesa universale quella che regge lo sviluppo
dei dogmi, il problema del passaggio, anche se
non fondamentalmente, è tuttavia relativamente
più semplice che nel singolo che si avvicina alla
fede.
Si aggiunge poi un secondo motivo per que­
sta semplificazione: nella Chiesa si tratta di un ac­
certamento del carattere rivelato di una determi­
nata proposizione creduta, partendo da altre pro­
posizioni già credute, e non (come nel caso con­
templato dall'analysis {idei nel singolo) di pas­
sare dall'incredulità alla fede.

Sono ben consapevole di non aver lmmma­


mente sfiorato, con tutto ciò che ho detto, molti
problemi concernenti lo sviluppo dei dogmi. Sa­
rebbe ora, in special modo, di volgersi più inten­
samente ai problemi che occupano un posto cen­
388 SAGGI TEOLOGICI

trale anche negli studi fatti finora su questo tema,


i problemi cioè di come si compia più esattamente
lo sviluppo sul piano dei concetti e delle propo­
sizioni umane. Bisognerebbe chiedersi come pro­
cede la logica dell'invenzione (a differenza della
logica dell' esame sillogistico) in generale e in par­
ticolare nel campo della riflessione di fede e della
teologia, che leggi abbia, a quali influenze soggiac­
cia, ecc. Con concetti tanto primitivi, come gene­
ralmente impieghiamo (formalmente, virtualmen­
te, ecc.), non possediamo ancora strumenti suffi­
cienti. Ma di ciò non possiamo trattare oltre.
Qui mi premeva unicamente far vedere che ci
sarebbero da chiarire alcuni problemi preliminari,
prima di affrontare quelli soliti, e cioè il problema
dello sviluppo dei dogmi nell' ambito della Sacra
Scrittura; il problema di una considerazione vera­
mente adeguata di tutti i fattori propulsori e con­
duttori nello sviluppo dei dogmi, nessuno dei qua­
li può venir dimenticato se non si vuole che la
teoria di questo sviluppo sia unilaterale o si areni
in strettoie; il problema del rapporto interno fra
l'analysis fidei e lo sviluppo dei dogmi; il proble­
ma del necessario rapporto razionale fra l'antico
depositum fidei ed un nuovo dogma; il problema,
d'indiscutibile importanza, della teologia della dop­
pia direttiva di marcia in questo sviluppo.
Questi e simili quesiti, soltanto sfiorati, esige­
rebbero un chiarimento, se si vuole giungere a un
concetto dello sviluppo dei dogmi che corrisponda
RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI 389

equamente sia ai fatti storici sia alla coscienza


della Chiesa, secondo la quale la sua fede in que­
sto sviluppo rimane quella stessa, ch'ella ha ricevu­
ta come espressione dell' assoluta e definitiva ri­
velazione di Dio, che è Gesù Cristo, nostro Signo­
re, crocifisso e risuscitato.
7.

SUL CONCETTO DI MISTERO


NELLA TEOLOGIA CATTOLICA *

PRIMA LEZIONE

In queste tre lezioni vorremmo dire qualcosa


del mistero, che è un concetto fondamentale della
dogmatica cristiana. La prima lezione cercherà di
introdurre nella problematica in oggetto; la se­
conda svilupperà il concetto di mistero, così come
risulta da tale problematica; la terza metterà a
confronto questo concetto con i misteri cristiani
come si presentano nella dogmatica cattolica e di­
mostrerà che questi misteri sono in plurale delle
variazioni interne dell'unico mistero, di fronte al
quale la dottrina rivelata pone l'uomo.

* Titolo originale: Ueber den Begriff des Geheimnisses in


der katholischen Theologie, pubblicato in Schriften zur Theo­
logie, IV, Benziger, Einsiedeln, 1960, pp. 51-99; versione
di L. Marinconz.
392 SAGGI TEOLOGICI

Il nostro quesito ha un'importanza apologeti­


ca. L'uomo d'oggi sperimenta un mondo compar­
timento stagno, reso in certo qual modo ermetico
verso Dio, un mondo infinitamente grande e com­
plesso, pieno di impenetrabilità e di massiccia auto­
nomia. Dio con ciò non viene proprio spersonaliz­
zato; però il suo governo e il suo operare nel mon­
do più difficilmente che finora si lascia pensare in
analogia all'agire di un essere personale immanente.
Dio diviene più trascendente, e il suo nome, il
nome per l'impenetrabile mistero al di là di ogni
realtà praticabile e definibile. Il mondo diventa
meno divino e cosi a sua volta meno importante.
Disposizioni ad esso immanenti vengono sperimen­
tate forse come molto inevitabili, ma certamente
non come numinose, bensì piuttosto come con­
tingenti e variabili.
Se però Dio è così anonimo e lontano e il
mondo e tutto ciò che in esso è, profano, passeg­
gero e sostituibile, soltanto come in lontananza
infinita opera ed espressione di Dio, nel senso del­
l'esistenza dell'uomo odierno sorge uno strano e
urgente problema: egli non riesce tanto facilmen­
te ad apprezzare la religione compilata concreta­
mente con i suoi mille e mille articoli, usi, prescri­
zioni e regole, come la concretizzazione dell'ob­
bligante volontà di Dio e la via necessaria della
sua salvezza. Tutto ciò gli sembra troppo concreto
e antropomorfo, perché gli risulti facile pensare
che tutte queste particolarità siano il modo e pro­
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 393

prio quello essenziale e necessario, in cui Dio gli


si comunica per la sua salvezza.
Questo vale anche ed in primo luogo per la
dogmatica. Finché essa appare all'uomo d'oggi co­
me una complicatissima raccolta di proposizioni
arbitrariamente connesse, la sua disposizione a
credere è ostacolata. Non perché tema ciò che è
incomprensibile. L'uomo odierno è un razionali­
sta nei riguardi del mondo, sente quest'ultimo non
come numinoso, ma oggetto penetrabile della sua
scienza e della sua tecnica. Tuttavia per questo egli
non è ancora assolutamente razionalista. Lo è me­
no dei suoi avi spirituali dei secoli XVIII e XIX.
Egli presagisce e venera l'ineffabile e l'anonimo.
Ma proprio per questo una dogmatica complicata
gli appare troppo sciente, troppo saggia e raziona­
listica, troppo conforme ai canoni e positivistica.
Non gli suona tanto convincente il fatto che
quando in dogmatica non si sa più come prosegui­
re, ci si richiami ad un decreto positivo di Dio e
si costruisca un mondo religioso, le cui singole
parti vengono connesse per mezzo di certi decreti
di Dio che si chiamano poi misteri. Egli sente il
mistero di Dio troppo immenso, perché gli riesca
facile accettare molti misteri che a prima vista gli
sembrano piuttosto risultati della complicatezza
della dialettica umana che si è inviluppata in se
stessa.
In tale situazione diventa un problema pretta­
mente esistenziale il chiedere in che modo il mi­
394 SAGGI TEOLOGICI

stero si comporti nei confronti dei molti misteri


nella dottrina di fede cattolica, il chiedere se 1'am­
bito del mistero si lasci, se non proprio ridurre
razionalisticamente ad un singolo mistero, almeno
intendere come una vera unità, il chiedere se la
dottrina di fede, qualora celi dei veri misteri, sia
proprio una complicata raccolta di articoli con­
nessi positivisticamente oppure una misteriosa
realtà, semplice, di infinita pienezza, che si lascia
spiegare in una illimitata ricchezza di singoli arti­
coli in modo tale che l'unità misteriosamente sem­
plice di tutto ciò è sempre data e l'uomo, senza
cadere in una riduzione modernistica della religio­
ne dinanzi a questi molti articoli, possa essere co­
lui che veramente è: l'essere dinanzi al mistero
anonimo che egli adora: adoro te devote, latens
Deitas.
Noi partiamo dal concetto normale di mistero,
come è presentato nella comune teologia fonda­
mentale e nella dogmatica odierna. Non è nostro
compito illustrare qui la storia di questo concetto.
Perciò non affermiamo neppure che in tale storia
non esista nulla, né circa il contenuto, né circa la
profondità del concetto, all'infuori di quello che
l'odierna teologia dice. Per chiarire a noi stessi
la problematica ch'esso implica è sufficiente se ci
atteniamo alla nozione corrente nella dogmatica
delle nostre scuole. Ciò è tanto più vero, in quanto
si potrebbe dimostrare che questo concetto, così
come viene presentato nelle teologie fondamentali
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 395

e nelle dogmatiche d'oggi, è all'incirca quello del


Vaticano I; e in questo Concilio, per quanto con­
cerne l'esplicitazione e la conoscenza riflessa, non
si va oltre la solita problematica delle scuole
d'oggi.
Che cosa contiene il concetto di mistero, così
come viene presentato nelle nostre scuole? An­
zitutto ecco tre costatazioni, che attirano la no­
stra attenzione e sollevano la nostra meraviglia:
il mistero viene considerato già in partenza la pro­
prietà di una proposizione; i misteri esistono al
plurale; in questa pluralità essi sono delle propo­
sizioni, che per il momento non sono penetrabili.
Naturalmente nella lingua della Chiesa e della teo­
logia viene chiamato mistero pure ciò che viene
espresso nella proposizione, il suo contenuto. Ciò
è evidente e non può venir messo in dubbio. Ma
la qualità di mistero, anche se condizionata e mo­
tivata dal contenuto espresso, nella terminologia
comune spetta tuttavia alle proposizioni. Le pro­
posizioni sono misteriose.
Ciò risulta pure dal fatto che il concetto di
mistero viene coordinato immediatamente alla
« ratio ». Essa incontra qualcosa di misterioso.
Non sorge neppure la domanda se con ciò il con­
cetto di relazione, il quale chiarisce l'essenza del
mistero, non sia posto in maniera troppo ristretta
e in primo piano. Non occorre essere fautori di al­
cun irrazionalismo, possiamo benissimo attenerci
anche in religione e in teologia al ruolo assoluta­
.396 SAGGI TEOLOGICI

mente essenziale della ratio, e ciononostante chie­


dersi se è poi tanto chiaro ed evidente, che cosa
sia veramente la ratio, e se quindi da questo con­
cetto, per nulla evidente, possa venir debnito
quello del mistero, e nello stesso tempo sollevare
la questione (prettamente scolastica: S. TOMMA­
so, S. Th. I q. 16 a 4) se non sia data un'unità
più originaria dello spirito personale, precedente
alla distinzione delle singole «facoltà» ratio e
voluntas, comunque la si voglia chiamare, e se
questa unità originaria non sia quella realtà verso
la quale è orientato il mistero; se quindi, in altri
termini, pure la volontà e la libertà nella loro pre­
cedente unità con la ratio abbiano un rapporto al­
trettanto essenziale con il mistero e viceversa, co­
me la stessa ratio, e se allora è veramente giusto
accettare a priori il mistero e la proposizione mi­
steriosa come sinonimi.
Nella presentazione delle nostre scuole i mi­
steri sono proposizioni, la cui verità è garantita
soltanto da una comunicazione divina e che pure
nella loro comunicazione, fatta dal Dio rivelatore,
non si fanno intelligibili, ma rimangono essenzial­
mente oggetto della fede. Questa concezione cor­
risponde al concetto comune di rivelazione. Essa
viene concepita (in antitesi all'odierna teologia bi­
blica, sia cattolica sia protestante) come comunica­
zione di proposizioni vere. Evidentemente essa è
anche questo, anzi lo è in modo essenziale. Tut­
tavia a meglio guardare, la storia della rivelazione
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 397

e la teologia biblica ci dicono che l'essenza della


rivelazione consiste nel fatto che Dio ci dice la
verità agendo nei nostri confronti. Il concetto di
rivelazione attraverso l'azione e di rivelazione co­
me evento è il più comprensivo.
Ciò risulta già dal fatto che nell'ordine con­
creto pure la rivelazione, in quanto comunicazio­
ne di verità, si compie soltanto in quell'agire sal­
vifìco di Dio, nel quale egli, attraverso la comuni­
cazione della grazia, ci deve dare la facoltà di udire
la sua rivelazione verbale e contemporaneamente
in questa stessa grazia ci comunica la realtà di ciò
che è oggetto della rivelazione verbale, cosicché
la rivelazione verbale di una realtà si effettua sol­
tanto nella comunicazione contemporanea e gra­
tuita della stessa realtà rivelata; questa viene sol­
tanto spiegata da quella e portata alla coscienza
oggettiva; la parola rivelatrice non è affatto la
provvisoria rappresentanza e la temporanea sosti­
tuzione dell'oggetto, « del» quale per il momen­
to si parla soltanto.
Nella teologia dei nostri manuali però, con­
forme all'usuale concetto di rivelazione come pura
comunicazione verbale, anche il concetto di mi­
stero è collegato a priori alla proposizione. Queste
proposizioni vengono poi distinte da quelle del­
l'intelletto naturale che si « capiscono », si « pe­
netrano» e si «dimostrano », vengono cioè mi­
surate nel loro carattere particolare con l'essenza
della ratio (non con quella dell'« intellectus » ori­
398 SAGGI TEOLOGICI

ginariamente uno con la volontà). Questa ratio


viene presupposta dalla teologia e anche dal Va­
ticano I come l'entità nota ed evidente e come il
criterio comprensibile in se stesso, con il quale ven­
gono misurate queste misteriose proposizioni. Esse
pertanto appaiono inaccessibili alla ragione, supe­
rano l'intelletto creato (Denz. 1796), gli sono
oscure e questo (cfr. Denz. 1673, 1796) « finché
in questa vita mortale pellegrini amo lontano dal
Signore ».
Il tacito presupposto, relativo a questo con­
cetto, è dunque che si tratta di proposizioni che
come tali dovrebbero innanzi tutto appartenere al­
l'ambito della ragione, che di per sé comprende e
penetra e nel presente caso tuttavia non basta a
tale esigenza.
Veramente nelle dichiarazioni del magistero
del XIX secolo e nella teologia dei manuali (a que­
sto punto) non viene illustrato più da vicino che
cosa sia poi veramente questa « ratio », di fronte
alla quale certe proposizioni della dottrina di fede
si presentano come misteri. Tuttavia dalle defini­
zioni di Pio IX e del Vaticano I è possibile vedere
cosa essi intendano per ratio.
Essa è quella facoltà che di per sé tende al­
1'« evidenza », all'intelligenza, all'intuizione, alla
rigorosa dimostrazione, quindi ad un ben determi­
nato rapporto della conoscenza verso il suo ogget­
to, che è appunto l'ideale gnoseologico del XVIII
e XIX secolo, in fondo orientato verso l'ideale
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 399

gnoseologico delle scienze naturali dell'età moder­


na. Il Vaticano I e la teologia immediatamente
precedente e seguente non dicono: il concetto di
questa ratio è troppo ristretto (per il carattere di
comunicazione personale della rivelazione), rela­
tivo e da esaminare criticamente, bensì viene pre­
supposto e si dichiara che esistono ciò nondimeno
dei misteri e questi vengono necessariamente de­
terminati basandosi su questo metro cosÌ proble­
matico.
Di conseguenza viene presupposto a priori e
ovviamente che se in fondo può esistere una pro­
posizione, che da una parte rientri nel campo delle
asserzioni razionali, quindi nel campo di questa
ragione perspicace, e dall'altra non risponde tut­
tavia per intero alle esigenze di questo campo, di
tali proposizioni ce ne possono essere molte, vale
a dire molti misteri. E così ancora il mistero viene
concepito come provvisorio. Si tratta, sembra per­
lomeno, di proposizioni oscure e per il momento
impenetrabili, che però più tardi verranno chiarite
e allora potranno soddisfare alla vera e propria
essenza della ragione umana e alla sua esigenza
di comprensione e di trasparenza. Sia in Pio IX
sia nel Concilio Vaticano I vien detto esplicita­
mente che tali misteri per noi esistono « quamdiu
peregrinamur a Domino in hac mortali vita ». Sia
l'essenza dei misteri sia la loro durata vengono
limitate, in certo qual modo, dalla visio beatifica.
Con questi accenni ad alcuni punti problematici
400 SAGGI TEOLOGICI

non abbiamo naturalmente esaurito il concetto di


mistero nella teologia attuale. Anche sotto questo
punto di vista ci sarebbe molto di più da dire, ma
ciò che è stato detto basta per il momento a su­
scitare la nostra meraviglia.

N ella teologia dei manuali e nel Vaticano I la


ratio è pertanto presentata come criterio del mi­
stero. Essendo posto dinanzi a questo criterio, ed
essendo la sua essenza definita in base ad esso, il
mistero viene inteso come proposizione e perciò
anche come qualcosa che può evidentemente esi­
stere al plurale.
Partendo da questo criterio, diventa però com­
prensibile anche un altro particolare: il mistero
viene definito in modo puramente negativo. È
quella proposizione che provvisoriamente non può
ancora venir sollevata al livello della comprensio­
ne trasparente, sul quale di per sé sta la ratio.
È quella proposizione accessibile unicamente alla
fede, non alla ragione, oscura e velata. Si dice per
la verità (o si sottintende) che una proposizione
puramente creduta, misteriosa, relativa a una real­
tà rilevante, sia migliore e più importante di una
proposizione conosciuta e penetrata, ma relativa a
una realtà terrena insignificante. Tuttavia l'atto
soggettivo del comprendere la proposizione di
contenuto importante in confronto all'altro atto
è negativamente sottovalutato.
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 401

Ora, diciamo noi, come è possibile ciò, se il


modo di concepire la ratio} presupposto dalla teo­
logia del XIX secolo nella definizione del concetto
di mistero, può venir messo in dubbio come insuf­
ficiente? Come è possibile, quando la stessa rafio,
essendo in fondo spirito di assoluta trascendenza
dev'essere piuttosto concepita come la facoltà che
rende semplicemente possibile l'attualizzazione e
la comunicazione del mistero? Come è possibile
ciò, se il mistero dev'essere inteso non come una
realtà provvisoria, bensì originaria e permanente
tanto che ciò che è senza mistero, l'ignorare il mi­
stero, l'aggirarsi nella realtà apparentemente pene­
trata e compresa, si palesa come realtà provvisoria
che scompare dinanzi alla rivelazione sempre più
radicale del perenne mistero come tale dinanzi alla
ragione finita? Come è possibile, se esiste una
« ignoranza », una cosciente ignoranza circa noi
stessi e la realtà ignorata, che di fronte alla cono­
scenza - una certa conoscenza non del tutto in­
conscia di se stessi - non è affatto pura negati­
vità, non significa affatto vuota assenza, bensì si
presenta come indicazione positiva di una relazio­
ne fra un soggetto ed un altro? Se della vera cono­
scenza e della sua crescita, della sua coscienza e
chiarezza fa parte costituzionalmente ed essenzial­
mente anche il fatto di conoscere - proprio nella
concomitante coscienza di ciò che si ignora - di
sperimentare e di riconoscere sempre più se stes­
sa come orientata in fondo alla realtà infinita ed
402 SAGGI TEOLOGICI

ineffabile, tanto che essa perviene solo qui alla sua


vera essenza e non al suo deplorevole limite? Ma
che dire allora del concetto di mistero presentato
nei nostri manuali? Può ancora essere stabilito par­
tendo dalla ragione che penetra le singole proposi­
zioni nella loro evidenza? Può ancora venir conce­
pito come modo deficiente di una proposizione
sussistente solo provvisoriamente? Possono esser­
ci molti misteri?
Di fatto notiamo anzitutto con sorpresa che
nella nostra teologia il concetto di mistero non
viene messo a confronto con la dottrina - che
di per sé è pure evidente e che esprime un dogma
- dell'incomprensibilità di Dio anche nella vi­
sio beatifica. Invece dobbiamo dire: se questa in­
comprensibilità è proprio ciò che allora si vedrà
direttamente; se questa incomprensibilità veduta
di Dio non può essere concepita come il limite
- purtroppo esistente - di ciò che, per la no­
stra felicità, comprendiamo di Dio, bensì proprio
come il contenuto della nostra visione e l'ogget­
to del nostro amore beato; se, in altre parole, il
Dio della visione immediata è proprio il Dio del­
l'infinità assoluta e pertanto dell'incomprensibi­
lità e la visione beatifica, quindi, consiste nella pre­
senza insopprimibile dell'ineffabile, dell'anonimo,
dell'indicibile in quanto tale (perché dove si ha
l'assoluto e il semplice nell'immediatezza e vici­
nanza del loro essere non è possibile distinguere
fra ciò che di esso si può comprendere e ciò che
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 403

rimane incompreso); se dunque la visione di Dio


consiste precisamente nella visione del mistero;
se la suprema attualità del conoscere non è l'ac­
cantonamento del mistero o il suo indebolimento,
bensì la definitività e la vicinanza del mistero im­
perituro, allora il concetto di mistero assume un
significato che, sebbene non sia in contraddizione
con quello comune, è però diverso e, solo così,
attinge il suo contenuto originario. Non è più il
concetto limite per la conoscenza che dovrebbe
penetrare fino in fondo, ma fa parte integrante,
quale realtà vera e propria, del concetto della stes­
sa conoscenza; ciò che per il tradizionale concetto
di mistero era criterio normativo, viene in fondo
degradato al modo deficiente di una conoscenza,
la quale di per sé ha da fare col mistero come tale.

La stessd problematica ci si para davanti, se


prendiamo le mosse dall'essenza dello spirito. Lo
spirito è trascendenza. Lo spirito comprende in
quanto, superando il suo oggetto abbracciato, an­
ticipa la realtà assoluta, non contenibile. Si può
definire chiaro o scuro l'obiettivo dell'anticipazio­
ne - vermcantesi nella conoscenza del singolo
oggetto afferrabile - della realtà incontenibile e
contenente, si può sperimentare la sua ineffabile
realtà data dalla sua inoggettivazione come oscu­
rità divina, oppure dichiararla luce, che illumina
tutto il resto, poiché soltanto nella sua anticipa­
404 SAGGI TEOLOGICI

zione il singolo oggetto si presenta limitato; in


ogni caso questa realtà anonima e sopracategoria­
le, anticipata dalla trascendenza dello spirito in
maniera non completa, non è qualcosa di poste­
riore, (l'oscurità, per il momento ancora esisten­
te, che piano piano bisogna illuminare), bensì la
realtà originaria, la base, ciò che come ultima
condizione di possibilità trascendentale rende pos­
sibile innanzitutto quella chiarezza categoriale nel­
la distinzione delimitante.
Se dunque la ragione che definisce prende vi­
ta dall'indefinibile, se la chiarezza penetrante del­
lo spirito ha le radici nella sua apertura verso la
divina (di per sé chiarissima) oscurità, che ne è
del mistero? Può forse venir considerato come
modus deficiente di un'altra e migliore conoscenza,
che ha ancora da venire? O è proprio il contra­
rio? La ratia, così come viene intesa in senso
comune, è solo incidentalmente e per una specie
di professione accessoria, nella sua ipertensione,
anche facoltà del mistero, oppure, anche se ciò
nella terminologia corrente viene dimenticato e
soppresso, è soltanto dopo, in via subordinata a
questo, anche ratia nel comune significato della
parola, così come l'intende il Vaticano I e la teo­
logia dei manuali?
Perveniamo allo stesso problema, se riflettia­
mo sull'essenza dello spirito, che nella «perico­
resi» di conoscenza e amore è unico. Se non vo­
gliamo lasciare che conoscenza e amore se ne stia
SUL CONCETTO DI NlrSTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 405

no l'una accanto all'altro, in un dualismo imme­


diato e di pura marca positivista, perché in fon­
fo - senza che si sappia il perché - lo stesso
ente è conoscente e amante, allora, pur ammet­
tendo la pluralità delle facoltà e dei loro atti,
dobbiamo attribuire all'ente, che è uno, una re­
lazione originaria e totale a se stesso e all' essere
assoluto, un atto fondamentale, come fattori del
quale reciprocamente riferiti e condizionati devo­
no venir considerati quegli atti che in senso empi­
ristico chiamiamo conoscenza e volontà, giudizio
e amore.
Ma tutto questo significa in fondo che la co­
noscenza, malgrado la sua diversità dalla volontà,
dev'essere concepita in maniera tale che si possa
capire perché in un ente c'è conoscenza soltanto
se e nella misura in cui questo singolo ente si
compie pure in amore. In altre parole: l'auto­
trascendenza della conoscenza, la sua autocostitu­
zione, in quanto essa si fonde con qualcosa di
diverso da sé, deve venir concepita in modo tale
che, ad onta del suo ordine di precedenza rispetto
alla libertà e all' amore, si compia nella sua pro­
pria essenza e nel suo senso soltanto se e nella
misura in cui il soggetto è più che conoscenza,
cioè amore libero. Ma come potrebbe ciò acca­
dere altrimenti, se non per il fatto che la cono­
scenza, nel suo ultimo fondamento essenziale, vie­
ne concepita come la capacità di cogliere ciò che
essa può cogliere, soltanto perché è qualcosa di
406 SAGGI TEOLOGICI

più di lei stessa? E quale particolarità dell'og­


getto di conoscenza si potrebbe menzionare sotto
questo profilo, se non quella che costringe la co­
noscenza a superare se stessa e ad annullarsi (con­
servandosi in un atto più ampio, cioè in quello
dell'amore), se non il carattere dell'incomprensi­
bilità del mistero? È proprio esso che costringe
la conoscenza o ad essere più che se stessa o a
disperare.
Infatti, in ciò che la caratterizza come realtà
diversa dall'amore, essa è la facoltà di assogget­
tare completamente l'oggetto alle sue leggi aprio­
ristiche, la facoltà di giudicare in modo decisivo,
di comprendere completamente. Nella misura in
cui la ragione può, anzi deve venir considerata
da più che ragione, ossia come la facoltà che si
completa soltanto nell'amore, essa stessa dovrà
essere la facoltà di accettare la non giudicabile
realtà maggiore, la facoltà del semplice venir-col­
pito, della donazione che si assoggetta, dell'estasi
d'amore.
Tutto ciò tuttavia essa lo può essere soltanto
se il suo oggetto più vero è ciò che domina indo­
mito, ciò che comprende non-compreso, ciò che
esige non-giudicato, il mistero insomma, e questo
non è puramente espressione del fatto che la ra­
gione non ha ancora conseguito la sua vittoria,
bensì è proprio a questo che arriva quando rag­
giunge il suo compimento diventando amore.
Queste riflessioni non sono un attentato a un
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 407

ben inteso intellettualismo tomista, che è cristia­


no. Esso infatti non può negare che l'uomo, in
quanto spirito, sia unico) che la sua pluralità deb­
ba essere intesa partendo da una precedente unità
(non enim plura secundum se uniuntur) e che per­
ciò debba esserci un'unica ultima parola, che
spiega l'essenza dell'uomo, e non due o tre. Tale
intellettualismo tomista non può negare neppure
che questa parola ultima, nel cristianesimo, debba
essere non la conoscenza, bensÌ l'amore, essendo
noi salvati non per mezzo della conoscenza, ma
dell'amore. E questo a sua volta non può signi­
ficare soltanto che l'atto dell'amore è l'ingresso
ad una vita, che nella sua attuazione sostanziale
si occupa non di ciò per mezzo del quale è stata
conseguita, ma di altro. Proprio volendo essere
intellettualisti tomisti, quindi, bisogna intendere
l'intelletto in modo che l'amore sia il compimen­
to della conoscenza stessa.
In tal caso però nell'oggetto primo ed iniziale
della conoscenza ci dev'essere qualcosa che co­
stringa la conoscenza a divenire amore o a tradire
il proprio essere. Se si dicesse soltanto che con
l'intelletto si conosce la bontà e il valore dell'og­
getto e si sveglia cosÌ l'amore, non si giungerebbe
ad una reale pericoresi, ad un'unità originaria
di entrambe le facoltà. Infatti (per parlare con
S. Tommaso), o questa bontà per l'intelletto sa­
rebbe la verità, oppure l'intelletto presenterebbe
soltanto all'amore il suo oggetto, senza potersene
408 SAGGI TEOLOGICI

occupare direttamente, per cui rimarrebbe l'inter­


rogativo come mai esso possa anche soltanto co­
noscere la bontà in se stessa, se non la può subor­
dinare come tale, al proprio oggetto formale.
Il mistero come proprietà essenziale di quel­
1'« oggetto », verso il quale l'intelletto è origina­
riamente orientato, lo costringe a bruciare in se
stesso per protesta, oppure a sollevarsi fino all'ac­
cettazione devota del mistero in quanto tale, vale
a dire all'amore e a pervenire così al proprio com­
pimento. Pure partendo dall'essenza dello spirito,
quindi, il mistero non può essere quel provviso­
rio concetto limite, quale comunemente compare
nella teologia corrente.

Con quanto abbiamo detto, abbiamo menzio­


nato soltanto i punti di vista più generali e più
formali, che servono a puntualizzare la problema­
tica del comune concetto di mistero. Molto ci sa­
rebbe ancora da dire, se volessimo approfondire i
singoli punti. Ci limitiamo invece ad un ultimo
rilievo.
Il concetto di mistero, come generalmente vie­
ne illustrato in teologia, non contiene nulla che
lo collochi nella sfera religiosa, alla quale sem­
bra tuttavia appartenere. In questa definizione del
concetto di mistero, si designa una proposizione
che fu detta a qualcuno da Dio, quindi da un
altro, e nella quale prima e dopo questa comuni­
cazione non si scorge l'intima conciliabilità dei
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 409

concetti. Per l'accettazione del contenuto espresso


nella proposizione, è di per sé indifferente, nei
confronti del mio rapporto ad esso, se questa pro­
posizione mi è data attraverso la presentazione
della cosa stessa o attraverso la comunicazione
da parte di un altro. La necessità che in determi­
nati casi una proposizione mi debba venir comu­
nicata dalla parola di un altro e non possa venir
colta immediatamente nel suo contenuto, non
rende veramente la proposizione tale da avere
un carattere di mistero.
Se però non si ritiene già il non-vedere un' e­
ventuale contraddizione fra due concetti come la
conoscenza della loro non-contraddittorietà, se
quindi non si considera razionalisticamente la non­
contraddizione puramente concettuale come dato
di fatto di una possibilità realmente ontologica,
allora ci sono moltissime proposizioni nella nostra
conoscenza nelle quali si è a conoscenza della con­
ciliabilità di fatto dei concetti in maniera del tutto
positiva o dalla cosa stessa o attraverso una co­
municazione, senza che da una parte sia data una
vera intelligenza di natura trasparente della con­
ciliabilità ontologica dei contenuti dei concetti
della proposizione, e senza che dall'altra queste
proposizioni già per questo assumano il carattere
di un mistero.
Né l'incomprensibilità della conciliabilità dei
contenuti dei concetti della proposizione, né la
circostanza della necessità di comunicazione attra­
410 SAGGI TEOLOGICI

verso un altro, fanno di una proposizione un mi­


stero, e neppure la combinazione di entrambe le
circostanze di fatto. Perché altrimenti per me sa­
rebbe un mistero, per esempio, la proposizione
che in Australia c'è un fiume XY, dovendo io
attenermi, come non australiano, ad una comuni­
cazione; oppure la proposizione che è possibile
una montagna d'oro grande quanto il monte Bian­
co, volendo io contestare che si possa comprendere
e realmente conoscere la possibilità ontologica di
un tale concetto; o almeno la proposizione che in
Australia esiste una montagna d'oro della gran­
dezza del monte Bianco.
Con una tale definizione del concetto, il fe­
nomeno « mistero» non si coglie. La cosa non mi­
gliora neppure facendo una distinzione fra misteri
naturali e soprannaturali. Infatti, i cosiddetti mi­
steri naturali, esaminandoli accuratamente, o non
sono reali o bisogna chiedersi ancora in che cosa
debba consistere il loro carattere di mistero; se
tale carattere venga espresso proprio a sufficien­
za attraverso la necessità di una comunicazione,
oppure attraverso l'incomprensibilità dei concetti
delle proposizioni, oppure da entrambi.
Ad ogni modo, molte proposizioni che, osser­
vate bene, corrispondono alle condizioni della co­
mune definizione del concetto di mistero, non han­
no necessariamente quel carattere di un mistero nu­
minoso che si attribuisce ai veri e propri misteri
di fede. La comune definizione del concetto del
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 411

mistero non deve per questo venir dichiarata com­


pletamente sbagliata, essa non elabora però con
vera chiarezza la differenza fra quelle proposizioni
che comunemente vengono definite «misteri na­
turali », e le proposizioni che come mysteria striete
dieta} a quanto pare, devono venir distanziati
molto radicalmente dai « misteri naturali ».
Questa differenza non può essere costituita
esclusivamente e originariamente dalla differenza
delle fonti delle proposizioni in questione. L'es­
senza della proposizione e il nostro rapporto ad
essa nell'uno e nell'altro caso debbono avere un'al­
tra motivazione, che non sia soltanto quella che
le proposizioni definite mysteria striete dieta o
debbono venirci comunicate da Dio o rimangono
completamente ignote. Si dovrebbe chiarire per­
lomeno, perché certe proposizioni possono venir
conosciute soltanto attraverso una comunicazione
da parte di Dio e perché questo motivo conferi­
sce alle stesse proposizioni comunicate un carat­
tere che non conviene ai « misteri naturali », sic­
ché questi mysteria striele dieta in se stessi non
possono consistere solo nel fatto che l'intima con­
ciliabilità del soggetto e del predicato non viene
veramente penetrata. Come è stato detto, infatti,
una tale impossibilità esiste anche nell'ambito di
quelle proposizioni colte dalla cosa stessa o co­
nosciute attraverso una comunicazione, che non
è una rivelazione di Dio.
Neppure facciamo passi avanti, dichiarando
412 SAGGI TEOLOGICI

che i mysteria striete dieta sono trascendenti la


stessa ragione degli angeli. Infatti - a parte il
fatto che si dovrebbe spiegare espressamente e
con chiarezza perché le cose stiano cosi anche nei
riguardi della massima intelligenza creata pensa­
bile, il che costringerebbe a definire il concetto
di mistero a partire dalla sua natura particolare
e non da un puro rapporto di fatto a intelli­
genze diverse - il mio proprio rapporto ad
una proposizione, dichiarata mistero, non mu­
ta per il fatto che esso rimane un mistero pure
per un'altra intelligenza, eventualmente superio­
re. In altre parole, non è spiegato perché ed in
che senso qualcosa è per me un mistero, se si
dice solo che anche per un altro non è trasparente.
Inoltre il comune concetto dei mysteria striete
dieta, appunto perché parte dal mysterium come
proposizione, non si pronuncia circa il motivo per
il quale la comunicazione di un tale mistero av­
viene essenzialmente come un evento di grazia.
Evidentemente però il mistero e la sua comuni­
cazione ad un soggetto elevato dalla grazia divina,
che udendo lo accetta nella grazia, hanno un si­
gnificato non solo nel senso che, come dice il Va­
ticano I, la comunicazione dei misteri, fatta sotto
forma di proposizione, è necessaria allorché l'uo­
mo è elevato antologicamente ad un fine sopran­
naturale, nel senso cioè che la grazia esige una
comunicazione verbale dei misteri, ma è vero an­
che l'inverso: ogni comunicazione del mistero
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 413

può avvenire soltanto nella grazia, perché il mi­


stero esige, quale condizione della possibilità di ve­
nir udito, un soggetto gratuitamente divinizzato.
Questo rapporto però non risulta chiaro nel
concetto comune di mistero; non si capisce, in­
fatti, perché una proposizione, nella quale da una
parte la sintesi dei concetti e la conciliabilità del
soggetto e del predicato possono venir conosciute
soltanto per mezzo di una comunicazione, mentre
dall'altra rimangono per ora inaccessibili all'uomo,
possa e debba venir comunicata proprio in un
processo accompagnato dalla grazia. Se si dice
che ciò naturalmente vale soltanto per i misteri
divini e non per altre proposizioni, si ammette
implicitamente che questi mysteria striele dieta
non sono ancora stati colti nella loro specifica
'proprietà per il semplice fatto di venir distinti
dalle proposizioni trasparenti e intelligibili alla
ragione umana.
La problematica del comune concetto di mi­
stero, che parte dalla proposizione, e perciò dalle
proposizioni al plurale, si può cogliere con anco­
ra maggiore chiarezza, riflettendo sulla possibi­
lità, tacitamente presupposta, che ci possano es­
sere molte proposizioni, alle quali conviene la qua­
lità di mysterium striete diclum. Stando alla co­
mune definizione del concetto, sembra non esserci
alcun dubbio in proposito. Se è vero che può
esserci un mistero (come riteniamo), perché non
ce ne possono essere molti? Perché non ci pos­
414 SAGGI TEOLOGICI

sono essere più proposizioni, la cui esattezza può


venir conosciuta soltanto attraverso una comuni­
cazione di Dio e che pure dopo questa comuni­
cazione rimangono incomprensibili? Solo che la
pluralità delle proposizioni, che dovrebbero esse­
re misteri, presuppone una delimitazione recipro­
ca del loro contenuto. Se sono veramente più pro­
posizioni autonome e con un contenuto specifico
ben delimitato, non possono esprimere la stessa
cosa. Se però hanno un contenuto veramente di­
verso, che le fa essere differenti anche come mi­
steri, tale loro contenuto può derivare soltanto
di là, dove ci sono veramente contenuti diversi,
vale a dire realtà diverse, dall' ambito cioè della
realtà extradivina. Questo vale anche se suppo­
niamo che l'uomo è costretto a esprimere pure la
realtà semplice di Dio in proposizioni plurali. La
ragione del carattere misterioso di tali proposizioni
riguardo a Dio è infatti la stessa, cioè la divinità
di Dio essenzialmente misteriosa. In questo modo
resta tuttavia l'interrogativo se questa unica e
identica misteriosa divinità di questi misteri plu­
rali possa essere la ragione oggettiva per una plu­
ralità e diversità così originarie, come è presup­
posto nel comune concetto di mistero il quale,
più o meno tacitamente, insinua che Dio, se vo­
lesse, potrebbe comunicarci tante proposizioni
misteriose quante ne vuole.
Ma se la pluralità delle proposizioni misteriose
fosse fondata in una vera pluralità di realtà di­
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 415

verse in sé e perciò create, ci si esporrebbe all'in­


terrogativo se nella realtà creata come tale possa
in fondo esistere una realtà che nella sua qualità
di creatura, strettamente in quanto tale, possa of­
frire un contenuto di proposizioni 'che sia un vero
mistero. A questa domanda, per una metafisica
veramente tomista dell'essere e dello spirito, dob­
biamo rispondere chiaramente di no. Una creatu­
ra, come creatura, non può essere tale, che in sé
non le possa venir ascritto un intelletto creatu­
rale che le corrisponda antologicamente, per il
quale questa realtà creata non possa essere un
assoluto mistero.
In altre parole: se essere e coscienza di sé
(Beisichsein), secondo una metafisica tomista, cre­
scono proporzionalmente, non può affatto esistere
una creatura che quanto più è elevata, non sia
tanto più cosciente, tanto più comprensibile a sé,
tanto meno mistero per se stessa.
Misteri quindi ce ne possono essere soltanto
dove sia in gioco la relazione di Dio strettamente
come tale verso l'intelletto creato. La pluralità
tacitamente presupposta di misteri divini non può
quindi venir motivata dalla pluralità di realtà crea­
te. Ma allora si impone seriamente la domanda,
se può esistere il concetto di una pluralità di mi­
steri in quella ingenua evidenza come lo presup­
pone l'usuale concetto di mistero, oppure se una
pluralità di misteri come possibile e nella sua de­
416 SAGGI TEOLOGICI

limitazione essenziale non debba venir dedotta dal


concetto di un unico mistero, che è l'unico Dio,
nel suo rapporto alla conoscenza umana.

SECONDA LEZIONE

Nella prima lezione non siamo avanzati di


molto. Tutto quello che abbiamo raggiunto è la
convinzione che il problema dell' essenza del mi­
stero è ben più oscuro di quanto si creda di so­
lito nella teologia fondamentale e nella dogmatica.
In questa lezione, dapprima in maniera filosofico­
religiosa e poi teologica, ci proponiamo di definire
un concetto del mistero che, a dire il vero, crea
nuovi problemi nel campo teologico; però esso
offre contemporaneamente uno spunto per risol­
vere i problemi che pone in maniera tale, che il
concetto teologico di mistero risulta nella sua es­
senza e nel suo carattere che abbraccia tutti i mi­
steri. Questa seconda lezione dunque si pone sem­
plicemente il problema del mistero.
Non iniziamo dal mistero in sé, sia che si in­
tenda come realtà o come proposizione, bensl dal
soggetto al quale il mistero si presenta. A ciò
siamo autorizzati, perché ovunque il mistero è in­
teso come un'entità relativa, perché il mistero
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 417

viene sempre considerato qualcosa che è misterio­


so per una determinata facoltà conoscitiva finita
e nello stesso tempo viene tacitamente presuppo­
sto che Dio, per se stesso, non può essere miste­
rioso, essendo egli la noesis noeseos) l'assoluto e
chiaro essere presso di sé, l'essere assoluto, « illu­
minato ».
Certo, si potrebbe ben chiedere se è proprio
giusto ed ammissibile considerare la conoscenza
di Dio semplicemente come l'intellezione perfetta
dell'essere assoluto, se con ciò - naturalmente
contro ogni intenzione - non si presenti poi co­
me divino ideale la conoscenza piatta, anzi com­
prensiva e appunto per questo quasi comprendente
nel vuoto (dato che nel suo caso avviene appunto
senza l'anticipazione e l'apertura su un'infinità
inafferrabile). Si potrebbe chiedere, in altre pa­
role, se « mistero» come tale, che dapprima de­
signa una realtà creaturale, non presenti tuttavia
anche una positività, che non coincide con quella
della conoscenza perspicace, bensì conviene al
mistero, proprio nella sua distinzione da quella,
e perciò, come tale, deve convenire in maniera
eminente anche a Dio. Si potrebbe chiedere cioè
se alla conoscenza che Dio ha di sé e per sé non
convenga, in un senso eminente ed analogo, un
carattere di mistero e come possa venir immagi­
nato all'incirca.
Ma, come detto, sorvoliamo questo problema
e premettiamo semplicemente che una cosa è sem­
14. - Saggi teologici.
418 SAGGI TEOLOGICI

pre mistero soltanto per una soggettività finita.


Da qui deduciamo il diritto e la possibilità di
incominciare da questo soggetto unito, per spie­
gare il concetto di mistero. Per lui infatti una
realtà o una proposizione che la esprime sono
mistero.
Poniamo in altri termini degli interrogativi
riguardo all'uomo, come essere orientato verso il
mistero come tale, cosicché questo orientamento
fa parte della sua realtà costitutiva, sia naturale
sia soprannaturale. In tal guisa soltanto,
possiamo chiarirci che ii mistero in se stesso non
è un'oscurità sussistente provvisoriamente in se­
no a una realtà o a una proposizione, e che con il
tempo sparisce, bensì determina essenzialmente e
sempre iI rapporto esistente fra lo spirito della
creatura e Dio. L'uomo deve venir definito come
l'essere del mistero, così che questo mistero co­
stituisca la relazione fra Dio e lui e pertanto an­
che il compimento dell'essere umano sia il com­
pimento del suo essere-per-il-mistero perenne.
Per arrivare a comprendere queste proposi­
zioni che pre1udono già al risultato, iniziamo ­
procedendo con tesi per brevità - dalla trascen­
denza dello spirito unito verso l'essere assoluto.
Che l'uomo, conoscendo e volendo sia un essere
di assoluta e illimitata trascendenza, che tutte le
sue realizzazioni spirituali, indipendentemente dal
loro contenuto oggettivo, siano fondate in questa
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 419

trascendenza e apertura verso l'essere assoluto,


può, a ragione, venir presupposto.
Qui resta soltanto da chiedere che cosa si­
gnifichi ciò rispetto ai problemi che ci occupano.
È ovvio che questa trascendenza può venir espres­
sa solo e sempre in maniera descrittiva, in una
affermazione (che si deve obiettivare anche cate­
gorialmente) riguardante l'obiettivo di questa an­
ticipazione trascendente ogni oggettività determi­
nata, e che, viceversa, questo obiettivo della tra­
scendenza può essere chiarito soltanto guardando
all'esperienza della trascendenza, come l'illimitata
apertura del soggetto. Atto ed oggetto dell'atto
in questo originario atto trascendentale possono
sempre esser posseduti ed intesi soltanto in una
unità. È evidente altresì, che l'attivazione di que­
sta apertura trascendentale come tale è qualcosa
di differente dalla descrizione oggettivante che gli
rimane posteriore, che non lo raggiunge mai, me­
diante la posteriore riflessione su di esso. Infine
è pure evidente che la più originaria cognizione di
Dio, quella che motiva ogni altra conoscenza di
lui, è data nell'esperienza della trascendenza in
quanto in essa è sempre dato in maniera non og­
gettivata, inesprimibile, ma anche semplice e si­
cura, l'obiettivo della trascendenza che noi chia­
miamo Dio.
Stabiliti questi presupposti, accennati in ma­
niera molto elementare, chiediamo dunque come
sia dato più esattamente a questa esperienza della
420 SAGGI TEOLOGICI

trascendenza il SUO obiettivo, intendendo sempre


l'intera esperienza, cioè, sia in quanto conoscenza,
sia in quanto amore. Non parliamo di un « obiet­
tivo» (Woraufhin) dell' esperienza della trascen­
denza per esprimerci il più possibile in modo com­
plicato e imbrogliato, ma per due motivi: se di­
cessimo semplicemente « Dio », dovremmo costan­
temente temere l'equivoco di parlare di Dio così
come viene espresso in categorie già oggettivanti,
mentre qui l'essenziale è che « Dio» sia dato già
precedentemente attraverso la trascendenza e in
essa perfino lì, dove una realtà finita è oggetto
della conoscenza.
In altre parole: poiché ci riferiamo proprio
a Dio, in quanto inespressamente ~< in quolibet
cognoscitur» (come dice S. Tommaso) e non in
quanto espressamente, ma in tal modo anche po­
steriormente si parIa di lui, non possiamo dire
semplicemente Dio. Se denominassimo l'obiettivo
della trascendenza « oggetto », verrebbe parimen­
ti evocato l'equivoco che si tratti di un « oggetto»
come generalmente è dato nella conoscenza, che
si tratti dell'obiettivo della trascendenza in quan­
to esso viene espressamente oggettivato attraverso
la riflessione secondaria su questa immediata tra­
scendenza, invece che dell'obiettivo della stessa
trascendenza originariamente compiuta. Ma pas­
siamo ora al nostro argomento.
L'obiettivo dell'esperienza trascendentale è
sempre presente come realtà anonima, indefinibile
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 421

ed indisponibile; infatti, ogni nome delimita, di­


stingue, contrassegna qualcosa, quando gli dà un
nome scegliendolo fra tanti altri. L'orizzonte infi­
nito, l'obiettivo della trascendenza invece non si
lascia dare un nome. Possiamo bensÌ riflettere su
di esso, possiamo aggettivarlo, concepirlo in cer­
to qual modo come un oggetto fra tanti altri, pos­
siamo delimitarlo concettualmente, ma ogni sorta
di concettualismo rimane vera, giusta e compren­
sibile, soltanto nella misura in cui in questo atto
delimitante ed espressivo accade nuovamente, co­
me condizione della sua possibilità, un atto della
trascendenza verso il suo obiettivo infinito.
Di Dio si parla in maniera giusta, solo quan­
do lo si intende come l'Infinito. Come tale pe­
rò può essere inteso soltanto rifacendosi alla il­
limitatezza trascendentale di quell'atto, poiché un
allontanamento puramente negativo del limite di
un finito, soltanto come tale non potrebbe far ca­
pire il significato dell'infinito assoluto e positivo.
Il predicato categoriale concernente Dio, per quan­
to necessario esso sia, vive sempre dell'esperienza
non oggettivata della trascendenza come tale; il
concetto di Dio vive della sua anticipazione; la sua
denominazione, dell'esperienza dell' anonimo. L'an­
ticipazione della trascendenza tende verso 1'ano­
nimo. La condizione, che rende possibile la deno­
minazione distintiva e oggettivante, non può avere
alcun nome. La possiamo chiamare (personaliz­
zandola) l'Anonimo, il Diverso da tutte le realtà
422 SAGGI TEOLOGICI

finite, l'Indefinito; ma con ciò non gli abbiamo


dato un nome: l'abbiamo chiamato semplice­
mente l'Anonimo. E abbiamo capito bene questa
denominazione soltanto se l'abbiamo capita nella
sua radicale, originaria, unica diversità da qual­
siasi altra denominazione.
L'anticipazione cosÌ tende pure verso l'indeli­
mitabile. L'orizzonte della trascendenza, estenden­
dosi come l'irraggiungibile ed offrendo ad essa il
posto per i singoli oggetti della conoscenza e del­
l'amore, distingue se stesso sempre ed essenzial­
mente da tutto ciò che in esso va delineandosi
come oggetto della comprensione. In questo senso
evidentemente la distinzione di Dio da ogni realtà
finita non solo va attuata, ma è addirittura l'unica
distinzione originaria, la condizione della possibi­
lità di qualsiasi distinzione degli oggetti, sia dal­
l'orizzonte della trascendenza stessa, come pure
fra di loro.
Il conoscere che comprende umanamente e
che nella comprensione distingue, presuppone
sempre, che ci si rifletta o meno, la distinzione fra
l'assoluto obiettivo della trascendenza, l'assoluto
essere da una parte ed ogni altro ente dall'altra,
per avere la possibilità di distinguere gli enti fra
di loro.
Ma proprio cosÌ l'essere assoluto stesso vien
posto come l'Indelimitabile. Infatti, come condi­
zione di possibilità di ogni distinzione e di ogni
precisazione categoriale, non può, a sua volta, ve­
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 423

nir delimitato da altri con gli stessi mezzi. L'oriz­


zonte non può essere vasto entro l'orizzonte stesso,
l'obiettivo della trascendenza non può venir fatto
entrare come tale nella portata della stessa tra­
scendenza e così venir distinto da altri; l'ultima
misura non può venir misurata; il limite che tutto
delimita non si lascia definire, a sua volta, da un
altro limite posto ancora più in là. L'infinita va­
stità che tutto abbraccia e tutto può abbracciare,
esistendo soltanto a distanza infinita, dietro alla
quale non soltanto non c'è nulla, ma di fronte
alla quale perfino una costatazione di un «nul­
la » è assurda, una tale ampia vastità non si lascia
abbracciare.
In tal modo però, questo Anonimo e Indeli­
mitabile, l'obiettivo della trascendenza che si stac­
ca da sé da tutto il resto e lo distanzia, che tutto
regola e che rifiuta ogni norma diversa da sé, di­
viene l'assoluto Indisponibile. È sempre presente
disponendo, esso però non si sottrae soltanto fisi­
camente, ma pure logicamente ad ogni disposi­
zione da parte del soggetto finito. Nell'istante in­
fatti, in cui questo soggetto, con l'aiuto della lo­
gica formale della sua ontologia, determina l'obiet­
tivo anonimo, delimitante, non-delimitabile della
trascendenza, lo piglia, per cosÌ dire, in una rete
di concetti, questo pigliare (che non riesce mai del
tutto) si effettua a sua volta mediante l'anticipa­
zione di ciò che deve venir definito. La misura
viene quindi misurata con l'aiuto della stessa mi­
424 SAGGI TEOLOGICI

sura che deve venir misurata. Questa misura c'è,


si offre, è presente come la misura indubitabile,
evidente, e per questo motivo l'uomo ha quasi
inevitabilmente l'impressione di poter giudicare
anche lei come i suoi oggetti ordinari, ha l'im­
pressione di definire con la misura della logica e
dell'ontologia generale, delle quali egli dispone, un
determinato oggetto di una scienza particolare
(chiamata teologia naturale), che si chiama Dio.
Ma non è così: l'ontologia generale e la teo­
logia naturale non sono affatto due scienze di­
verse, e l'unica ontologia (e la logica ontologica
in essa compresa) non è la scienza nella quale, con
misure aprioristiche, assiomi, coordinate, ecc., vie­
ne afferrato un oggetto e ad esso viene permesso
soltanto di cercarvi il suo posto nell'ambito di
questa sistemazione aprioristica e di mostrarsi co­
sì nel suo essere in-sé, bensì l'ontologia è quel mi­
sterioso avvenimento nel quale le prime misure si
mostrano a se stesse come immisurabili e l'uomo
si conosce come misurato.
L'obiettivo della trascendenza non lascia di­
sporre di sé, bensì è l'infinita e muta disposizio­
ne di noi, ogni qualvolta iniziamo a disporre di
qualcosa assoggettandolo, mentre lo giudichiamo,
alle leggi della nostra ragione aprioristica. Questo
obiettivo della nostra trascendenza è presente per­
ciò in un modus esclusivamente suo di rifiuto e di
assenza. Si dà a noi nel modo della rinuncia, del
silenzio, della lontananza.
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 425

Per esprimerlo ancora più chiaramente, biso­


gna riflettere sul fatto che noi, nella nostra nor­
male esperienza, abbiamo presente questo obiet­
tivo soltanto come condizione della possibilità di
'comprendere il finito, che quindi, perlomeno in
questa normale esperienza, non ci è mai permesso
uno sguardo diretto su di esso. Esso non è dato
soltanto come l'obiettivo della trascendenza - co­
sicché già da qui è evitata ogni tesi di un onto10­
gismo, perché questo obiettivo non viene speri­
mentato in se stesso, ma viene conosciuto non og­
gettivato soltanto nell'esperienza della trascenden­
za soggettiva - bensì la sua presenza di fatto
nella trascendenza è la presenza in una trascenden­
za che è data sempre solo come condizione della
possibilità di una conoscenza categoriale, e non
semplicemente per se stessa. Per tale ragione però,
questo obiettivo della trascendenza è sempre dato
soltanto nel modus della lontananza che respinge
da sé. Mai si può avvicinarlo direttamente. Mai
cercare di afferrarlo immediatamente. Esso si dà
soltanto nella misura in cui ci indica, muto, la di­
rezione verso un altro, verso una realtà finita, co­
me oggetto dello sguardo diretto.
L'obiettivo della trascendenza inoltre, nella
misura in cui essa come tale viene considerata pro­
prietà della libertà e dell'amore, può venir defi­
nito come ciò che è santo. Infatti, l'obiettivo di
un'assoluta trascendenza della libertà che domi­
na come realtà indisponibile, anonima e assoluta­
426 SAGGI TEOLOGICI

mente disponente sulla trascendenza come libertà


che ama, è precisamente ed unicamente dò che
noi possiamo chiamare «santo» nel senso più
stretto e originario. Come altrimenti vorremmo
chiamare dò che amiamo e che è anonimo, che di­
spone e che ci sospinge nella nostra finitezza se
non «santo », e che cosa si potrebbe chiamare
santo se non questo, o a chi converrebbe il nome
« santo» più originariamente che a questo infi­
nito obiettivo dell'amore che si apre, il quale di­
nanzi a questa realtà inafferrabile ed indicibile di­
viene fremente adorazione? Nella trascendenza
quindi ci è data nel modus della lontananza non
disposta, autorevolmente distanziate da sé, la
realtà infinitamente santa ed anonima. E questo
noi lo chiamiamo mistero, oppure, affinché non ci
sfugga la trascendentalità della libertà oltre quella
della conoscenza, più esplicitamente il santo mi­
stero.
Ogni esperienza della trascendenza è un'espe­
rienza originaria, non dedotta, e questo stesso non­
esser-dedotto e questa indeducibilità concerne ciò
che in essa s'effettua. Poiché questa trascendenza e
ciò che in essa si dà non ha alcun precedente, poi­
ché essa in ogni altra esperienza è già presente come
sua condizione di possibilità, la determinazione del
suo obiettivo non si serve di categorie attinte altro­
ve e come dal di fuori, ma le deduce dall' oggetto
originario stesso. Sperimentando la trascendenza e
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 427

1'obiettivo bisogna rifiutare una determinata de­


nominazione come completamente non-appropria­
ta e male interpretante questa esperienza, oppure
bisogna ammettere che proprio qui giace la sor­
gente originaria per la comprensione di questa de­
finizione. È certamente fuori dubbio che la de­
nominazione « mistero» qui è al suo posto. In ta]
caso però la comprensione di questa parola pos­
siede pure il suo posto originario qui. Che cosa
sia il mistero bisogna venirlo a sapere qui, altri­
menti non lo si comprende nel suo pieno e puro
significa to.
Abbiamo così raggiunto il concetto originario
di mistero, tuttavia non può evidentemente trat­
tarsi di una definizione della sua essenza. Il mi·
stero è altrettanto indefinibile come tutti gli altri
concetti trascendentali, che appaiono veramente
soltanto nell'originaria esperienza trascendentale.
D'altra parte è ovvio che in questa esperienza tra­
scendentale il suo obiettivo, l'essere assoluto, ap­
pare in modo che per la sua anonimità, indefinibi­
lità, indeterminabilità e per la sua disposizione che
governa in maniera inappellabile conoscenza e li­
bertà, esso è realmente il mistero; in altre parole:
è ovvio che qui è data l'esperienza più originaria
di ciò che noi chiamiamo mistero.
L'uomo è quindi realmente l'essenza re1azio­
nata al sacro mistero, poiché la sua essenza vera
e propria in quanto spirito è la sua trascendenza.
L'uomo è colui che ha sempre a che fare con il mi­
428 SAGGI TEOLOGICI

stero santo perfino quando si occupa della realtà


vicina non misteriosa, della realtà comprensibile e
coordinabile in concetti. Il mistero pertanto non
è qualcosa con il quale l'uomo una volta può « an­
che» imbattersi se ne ha la fortuna e se, oltre
che degli oggetti definibili nell'ambito del suo
orizzonte di coscienza, si interessa pure di qual­
cos'altro. L'uomo vive sempre ed ovunque del mi­
stero santo anche quando non ne è cosciente; la
luce della sua coscienza si fonda nell'incompren­
sibilità di questo mistero; la vicinanza di ciò di
cui si occupa è costituita dalla riservatezza disco­
stante del mistero; la libertà della sua disposi­
zione si fonda nel suo venire-disposto dalla real­
tà santa non-disponibile.
A sua volta, se l'uomo è essenzialmente volto
al mistero, ciò comporta che Dio sia in rapporto
all'uomo essenzialmente come mistero santo. Que­
sta determinazione « mistero santo» non conviene
a Dio per caso, come una determinazione che po­
trebbe convenire altrettanto ad un'altra realtà. Ciò
che si intende per Dio è capito soltanto se ciò che
si intende per mistero santo è compreso come la
definizione conveniente in primo luogo e soltanto
a Dio, come obiettivo della trascendenza. Dio non
sarebbe lui, se cessasse di essere questo mistero.
Però, prima di continuare le riflessioni sull'es­
senza del mistero, la quale in certo qual modo ac­
compagna il problema del soggetto cui esso è con­
ferito, dobbiamo porre il problema concernente
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 429

l'uomo in quanto soggetto spirituale motivato dal


mistero, nella misura in cui consideriamo questo
soggetto elevato dalla grazia. Per mancanza di tem­
po e per rendere più brevi le nostre riflessioni, sup­
poniamo certe proposizioni teologiche, che di per
sé possono pure venir ricavate in un processo tra­
scendentale più originario.
L'uomo in quanto elevato dalla grazia è quel­
l'essere spirituale che ontologicamente è orientato
alla visio beatifica. Grazia, in quanto strettamente
soprannaturale, è in fondo visio beatifica o il suo
presupposto ontologico. Tuttavia il fatto che la
grazia orienti il soggetto spirituale verso l'imme­
diatezza di Dio, nella quale non è più concessa una
mediazione categoriale-oggettiva della conoscenza
di Dio attraverso un oggetto creaturale, non si­
gnifica affatto che questa immediatezza sia l'an­
nullamento della necessità trascendentale che Dio
è essenzialmente il sacro mistero.
Abbiamo già accennato nella prima lezione al
fatto che Dio, nella visio beatifica) rimane l'In­
comprensibile, che questa incomprensibilità, sia
dinanzi all'assoluta semplicità di Dio in se stesso,
come pure dinanzi al rapporto di conoscenza e
amore nel soggetto creaturale, non può essere
semplicemente un puro fenomeno marginale nega­
tivo della conoscenza intuitiva di Dio, ma che in­
vece la conoscenza dell'incomprensibilità di Dio
deve far parte delle prerogative positive della co­
noscenza intuitiva di Dio. La visio beatifica sta
430 SAGGI TEOLOGICI

alla conoscenza di Dio del pellegrino, non come


la conoscenza della cosa svelata, e perciò pene­
trata, alla cognizione di quella ancora velata e
perciò immaginata soltanto a tastoni, bensÌ come
lo sguardo immediato al mistero come tale, alla
presenza solo indiretta del mistero, nel modus del­
la lontananza che tiene discosto da sé.
Grazia non significa l'inizio e la promessa di
un annullamento del mistero, bensì la radicale
possibilità dell'assoluta vicinanza del mistero che
però, con questa vicinanza, non viene annullato,
bensì dato proprio come tale. L'uomo pellegrino,
non ancora giunto alla visione di Dio, può sba­
gliarsi sul carattere di Dio in quanto mistero as­
soluto, dal momento che il sacro mistero è dato
soltanto nel modus della lontananza inavvicinabi­
le. L'incomprensibilità di Dio è data invece a co­
lui che vede, quale contenuto della sua visione
e pertanto quale beatitudine del suo amore.
Sarebbe assurdo e un equivoco antropomorfi­
smo il voler credere che l'oggetto propriamente
detto della visione e della beatitudine sia qualcosa
di chiaro, di comprensibile, di capito e che sia solo
circondato come da un margine oscuro e da un li­
mite proveniente dalla finitezza della creatura, che
devono necessariamente venir accettati. La realtà
compresa e la realtà incomprensibile sono in ef­
fetto la stessa cosa. Naturalmente questa incom­
prensibilità ha il suo carattere positivo, il suo con­
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 431

tenuto beatificante, la sua realtà dicibile, anche se


non propriamente esprimibile. L'incomprensibilità
di Dio sarebbe proprio il vuoto non-esser-capito,
la pura negativa assenza di una realtà, se non fosse
così. D'altra parte questa conoscenza non sarebbe
quella divina, se non fosse compresa proprio come
incomprensibile. Conoscenza come chiarezza, ve­
dere, percepire e conoscenza come possesso del
mistero incomprensibile devono venir posti come
due aspetti del medesimo processo, cosicché am­
bedue crescono e diminuiscono nella stessa misu­
ra e non in misura opposta.
La grazia e la visio beatifica quindi possono ve­
nir concepite soltanto come il mezzo che rende pos­
sibile la vicinanza immediata e radicale del sacro
mistero, strettamente in quanto tale.
Determinando la realtà del sacro mistero, così
come si presenta nella nostra trascendenza, ab­
biamo detto che esso, nella misura in cui esiste
nel modus della lontananza inavvicinabile, è dato
soltanto nell'esperienza della trascendenza sogget­
tiva e solo nella misura in cui questa trascendenza
domina come condizione della possibilità di una
conoscenza categoriale di natura oggettiva. Quando
entrambi questi fattori della distanza vengono an­
nullati, quando l'obiettivo della nostra trascen­
denza non viene con-saputo nella trascendenza sog­
gettiva, ma viene sperimentato in se medesimo ­
e così anche questa esperienza non avviene più
432 SAGGI TEOLOGICI

come condizione di una conoscenza categoriale di


natura oggettiva - e quando una tale· esperienza
è possibile - cosa che noi non affermiamo a prio­
ri, ma supponiamo garantita dalla rivelazione di
Dio - allora il sacro mistero non è più dato nel
modus della lontananza inavvicinabile, ma per
questo non è affatto annullato, bensl presente esso
stesso nella sua radicale anonimità, indefinibilità e
indeterminabilità.
La grazia quindi è la grazia della vicinanza del
mistero perenne, la grazia che rende Dio speri­
mentabile come il sacro mistero e in questo suo ca­
rattere incomprensibile.
Nella visione di Dio faccia a faccia, resa pos­
sibile dalla grazia, alcuni « misteri » vengono esclu­
sivamente annullati nella misura in cui ciò che in
essi viene espresso si dà a conoscere nel suo se
stesso e per Se stesso e pertanto viene sperimen­
tato in se stesso e per la sua conoscenza non
occorre più ricorrere alla supplente espressione
verbale e all'autorità di chi autenticamente parla
e rivela. Con ciò però questi misteri non cessano
di essere misteriosi e incomprensibili, con ciò essi
non incominciano a diventare non-misteriosi e ad
essere trasparenti, risolvibili in una realtà diversa
da questo contenuto, dalla quale esso possa venir
dedotto e reso così « capibile ».
Nella visio, la Trinità, per esempio, non viene
« compresa », bensÌ riguardata come l'incompren­
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 433

sibilità divina; altrimenti non sarebbe identica


con il Dio che è identico alla sua incomprensi­
bilità.
Se l'incomprensibilità di Dio è una beata defi­
nitività, un primo ed ultimo atto, dopo il quale
non c'è nulla e prima del quale non può esserci
nulla per colui che ha dinanzi a sé questo Dio in­
comprensibile, allora la grazia è veramente anche
la grazia di non potersi più illudere dell'incom­
prensibilità di Dio, di non considerarla più prov­
visoria, è la grazia dell'amore incondizionato al­
l'oscurità divina, il coraggio prodotto da Dio di
entrare in questa beatitudine, l'unica e la sola vera,
e di goderla come il cibo dei forti. Fintanto
che si misura l'altezza di una conoscenza dalla sua
comprensione, e fintanto che si crede di sapere che
cosa sia chiarezza e intelligenza, sebbene in ulti­
ma analisi non si sappia affatto; vale a dire fintan­
to che si crede che l'intelligenza analizzatrice e ri­
duttrice, deduttiva e dominante sia di più, invece
che di meno, dell'esperienza dell'incomprensibilità
divina, di più del beato soggiogamento da parte
della stessa luce inaccessibile che proprio lì, dove
essa stessa si dona si mostra inavvicinabile, non si
è compreso nulla del mistero e nulla della vera
essenza della grazia e della gloria.

Il corso delle nostre riflessioni che ha preso le


mosse dal soggetto del mistero nella sua trascen­
434 SAGGI TEOLOGICI

denza e apertura naturale, elevata soprannatural­


mente dalla grazia, ci ha permesso di dire via via
quasi tutto ciò che dovevamo dire in questa se­
conda lezione. Non è necessario che ci ritorniamo
sopra. Faremo soltanto alcuni rilievi integrativi
sull'essenza del mistero in se stesso. Se ciò che è
stato detto, è stato capito bene e se altrettanto
avverrà per la proposizione che ora segue, pos­
siamo e dobbiamo dire: il mistero nella sua non­
comprensibilità è la realtà ovvia. Se l'obiettivo
della trascendenza è ciò che, dischiudendosi, dà a
questa la sua essenza, se la trascendenza è condi­
zione della possibilità di ogni intellezione spiri­
tuale e se il suo obiettivo è il sacro mistero, que­
sto è allora l'unica realtà ovvia, l'unica che, anche
per noi, è fondata in se stessa.
Ogni altra intellezione infatti si fonda su que­
sta trascendenza, ogni luce su questo assoggetta­
mento all'ineffabile e (se così si vuoI chiamare
questa chiara incomprensibilità) all'oscurità di Dio.
Osservato attentamente nella sua misteriosità
quindi, questo obiettivo non è semplicemente un
concetto contrario a ciò che è ovvio. Nella nostra
conoscenza è ovvio soltanto ciò che è intrinseca­
mente a sé stante. Ogni « realtà compresa », però,
diviene comprensibile (ma non ovvia) soltanto
perché viene fatta risalire ad un altro, viene ri­
solta da una parte in assiomi e dall'altra in dati
elementari dell'esperienza sensibile. Viene cioè
chiarita e resa comprensibile riconducendola o alla
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 435

muta ottusità del puramente sensibile o al chiaro­


scuro dell'ontologia, cioè al mistero. Ciò che viene
reso comprensibile si fonda quindi nell'unica evi­
denza del mistero.
Perciò noi lo conosciamo già. Lo amiamo già.
Infatti, nulla è più familiare e più naturale per lo
spirito rientrato in sé, che il tacito chiedere al di
là di ciò che è già stato conquistato e dominato,
che il lasciarsi interrogare oltre le proprie forze,
con umiltà e con amore, la qual cosa soltanto ren­
de sapienti.
Nel più profondo, l'uomo nulla sa con maggior
esattezza, se non che il suo sapere (ciò che comu­
nemente si chiama così) è soltanto una minuscola
isola in un oceano infinito di realtà non esplorata,
che la domanda esistenziale al conoscente è que­
sta, se egli ami di più la piccola isola del suo co­
siddetto sapere, oppure il mare del mistero infi­
nito, se egli ammette che in realtà il mistero è
l'unica realtà ovvia oppure se la piccola luce con
la quale egli illumina questa piccola isola (la si
chiama scienza) debba essere la sua luce eterna,
che (ah, sarebbe l'inferno) gli risplende eterna­
mente.
Vogliamo dire qui anticipatamente (più tardi
forse non si offrirebbe più l'occasione): se i mi­
steri del cristianesimo al plurale vogliono essere
veramente misteri, o meglio, se devono venir com­
presi bene come tali, nella loro spiegazione devo­
no avere in sé l'evidenza del mistero, per la quale
436 SAGGI TEOLOGICI

l'uomo odierno possiede un'intima comprensio­


ne; oppure sono spiegati male, se dànno soltanto
l'impressione di qualcosa che è razionalmente for­
zato e cavilloso.
Il mistero è l'ovvio. Che sia l'ineliminabile
è già stato detto. Gnoseologicamente e ontologi­
camente esso è tanto la minaccia quanto la pace
beata dell'uomo. Può spronarlo alla protesta, poi­
ché lo costringe ad abbandonare la dimora limi­
tata della sua apparentemente chiara realtà per­
sonale per uscire nell'impervio, « anche se è not­
te »; sembra esaurire l'uomo, chiedergli troppo,
avanzare una pretesa enorme, sospingerlo nel di­
lemma o di precipitarsi nella vana ed illimitata
avventura di cimentarsi con l'infinito, oppure, di­
sperando di ciò e quindi più che mai amareggiato,
di trincerarsi dietro la soffocante strettezza della
sua finitezza che ha penetrato fino in fondo.
E cionondimeno il mistero è l'unica pace di co­
lui che vi si affida, che lo ama umilmente, che ad
esso si dona impavido in conoscenza e amore. Il
mistero è l'eterna luce e l'eterna pace. Non si trat­
tava di una sottovalutazione della gloria e della
luce della visio beatifica, né veramente di plato­
nismo (che nel suo intellettualismo poteva inten­
dere ogni incomprensibilità come realtà provviso­
ria), quando i Padri greci esaltavano come beati­
tudine il mistero perenne. Allo stadio supremo
della vita e della conoscenza, secondo 1'Aeropa­
gita, si entra nell'oscurità nella quale c'è Dio; il
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 437

non-conoscere è secondo Massimo il Confessore


il conoscere sovra-razionale; l'accesso al Sancta
Sanctorum, secondo Gregorio di Nissa, è il venir
avvolti dall'oscurità divina. Questa visione del­
l'uomo e della sua beatitudine è tanto più pretta­
mente cristiana, in quanto concilia la radicale
creaturalità e la radicale vicinanza di Dio, renden­
do l'incomprensibilità di Dio beatitudine dell'uo­
mo e non limitazione della beatitudine, concepen­
do l'uomo come l'essenza del mistero unico e pe­
renne. Ed in conformità a ciò troviamo anche in
S. Tommaso (De poto q. 7 a 5 ad 14): «Ex quo
intellectus noster divinam substantiam non adae­
quat, hoc ipsum quod est Dei substantia, rema­
net nostrum intellectum excedens et ita a nobis
ignoratur et propter hoc illud est ultimum cogni­
tionis humanae de Deo, quod sciat se Deum ne­
scire, inquantum cognoscit, illud quod Deus est,
omni ipsum quod de eo intelligimus, excedere ».
Poiché il motivo del fatto che il culmine della
nostra conoscenza di Dio è il sapere di non sa­
pere, vale pure per la visio beatifica, non c'è ra­
gione per non applicare questa asserzione essen­
ziale metafisica della nostra conoscenza di Dio an­
che alla visio beatifica. Allontanando da questa
asserzione di S. Tommaso l'equivoco che l'oggetto
del sapere riguardo a Dio sia diverso dall'oggetto
del non-capire, quasi questi due oggetti fossero
divisibili, essa svela tutta la sua profondità e tut­
ta la sua dialettica. Essa dice anche per la visio
438 SAGGI TEOLOGICI

beatifica: proprio ciò che si conosce di Dio, viene


conosciuto come l'incomprensibile; ciò che si sa
di Dio si sa veramente nell' ultimum della cono­
scenza umana allorché viene conosciuto in manie­
ra assoluta il suo carattere di mistero; la suprema
conoscenza è la conoscenza del supremo mistero
come tale.
Dall'essenza del mistero così conseguita sorge
tuttavia una nuova problematica. Se il mistero è
già dato con il fondamento dell'essenza naturale,
soprannaturalmente elevata, dell'uomo, se qui sia­
mo di fronte al mistero originario, se questo uni­
co mistero è già presente nel primissimo inizio
dello spirito e nel suo compimento definitivo, tut­
ti i misteri cristiani al plurale non sembrano al­
lora essere misteri sostanzialmente nuovi e supe­
riori di fronte a questo mistero originario, bensì,
tutt'al più, dei suoi derivati secondari. A causa
della loro pluralità sembrano essere dei miste­
ri in quanto asserzioni determinate, delimitan­
ti e distintive. In quanto tali però, qualora l'ab­
biano, pare possano avere il carattere di miste­
ro soltanto in maniera secondaria e derivata,
perché quel mistero che è alla base di tutte le
altre proposizioni predicabili e distinguibili, deve
possedere il carattere di mistero in un senso più
originario di queste proposizioni, da esso sorrette
e comprensibili soltanto nei limiti del suo oriz­
zonte. Proposizioni singole, anche nel caso che
contengano dei misteri, distinguibili fra loro come
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 439

tali, entrano in un sistema di coordinate che solo


rende possibile tale loro ubicazione e distinzione.
Tale sistema di coordinate però, come già abbia­
mo mostrato, è fondato sul mistero, il solo ad
essere originario ed illimitato, per cui i singoli
misteri non sembrano essere affatto un'intensifi­
cazione di questa nostra relazione verso l'infinito
e illimitato mistero originario.
Ecco espressa in concetti quella difficoltà fon­
damentale, che è presente nella rdigiosità di Goe­
the come in quella del modernismo ed in quella
di ogni mistica « della notte» di fronte ad una
religione che insegna in base ad articoli ed è strut­
turata in singoli riti: la muta venerazione dell'A­
nonimo sembra aver già superato ogni rapporto
fornito dai singoli articoli, anche se questi ven­
gono chiamati misteri. Singoli misteri non sem­
brano essere veramente misteriosi nel senso ori­
ginario della parola, perché sembrano non lasciare
che il mistero sia quello che è, ma invece preten­
dono, con una certa curiosità, di sapere di esso
qualcosa di preciso.
In ogni caso l'autotrascendenza dei misteri
al plurale nell'unico mistero è così poco chiara
e così poco esplicita nella teologia dei manuali,
che questi misteri vengono concepiti piuttosto nel
senso che, qualora venissero annullati, si dilegue­
rebbero nella comprensione e non nell'adorazione
del perenne mistero.
Succede cosÌ (solo osservato per inciso) che,
440 SAGGI TEOLOGICI

contrariamente alla testimonianza biblica di san


Paolo, non si concepisce la fede come qualcosa
che rimane (nella sua ultima sostanza), ma come
qualcosa che fa parte del provvisorio: «donec
peregrinamur a Domino ». In che relazione stan­
no dunque i misteri del cristianesimo al plurale
col mistero del quale finora abbiamo parlato? È
la domanda che ci rimane da svolgere nella terza
lezione.

TERZA LEZIONE

La seconda lezione ci ha dato un concetto del


mistero che, come vorremmo credere, è più ori­
ginario del concetto usato comunemente nella
dogmatica e nella teologia fondamentale. Non nel
senso che lo contraddica, ma nel senso che questo
mistero, inteso in fondo in entrambi i concetti,
ha un rapporto più originario e più essenziale al­
l'uomo nell'unità delle sue facoltà, quindi un al­
trettanto più originario rapporto alla conoscenza
e al libero amore di quanto affermi invece il con­
cetto corrente in teologia; e così pure nel senso
che Dio stesso è tanto essenziale e sempre miste­
ro santo, che questo misterioso obiettivo della
trascendenza in quanto dominante e non dispo­
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 441

nibile può venir chiamato il nome stesso di Dio,


nome che è l'anonima infinità.
Potrebbe ora sembrare che con ciò sia stato
raggiunto un concetto filosofico-religioso pura­
mente naturale. Contro tale concetto si potrebbe
sollevare l'obiezione che esso, in quanto puramen­
te filosofico, non è affatto adatto a circoscrivere,
in senso strettamente teologico, la vera e propria
essenza del mistero. D'altro canto nella seconda
lezione è già stata sollevata la domanda, se per
mezzo di questo concetto del mistero - che può
venir chiamato «assoluto» nel senso più radi­
cale, in quanto può bensì esser vicino o lontano,
mai però venir annullato - si siano già superati
i misteri teologici al plurale, nella misura in cui
si può porre la domanda se, confrontati con que­
sto unico ed insopprimibile mistero, ci possano
poi essere dei misteri al plurale o abbiano anco­
ra importanza per l'atto religioso fondamentale,
l'adorante sottomissione al mistero per mezzo del­
l'amore devoto.
Già nella lezione precedente abbiamo tuttavia
raggiunto un punto di partenza per la trasposi­
zione veramente teologica del nostro concetto fi­
losofico del mistero, quando abbiamo considerato
il soggetto percipiente il mistero nella misura in
cui esso, attraverso la grazia, è orientato verso la
visio beatifica. Di questo soggetto, ossia quello
teologico, abbiamo già dimostrato che esso come
tale, in quanto orientato verso la visio beatifica,
442 SAGGI TEOLOGICI

è il soggetto dell'assoluta vicinanza del mistero e


proprio perché tale è un'essenza orientata al mi­
stero; grazia e visio infatti non annullano il mi­
stero assoluto; esso, nell'immediatezza di Dio,
l'incomprensibile, raggiunge anzi la sua più radi­
cale realtà. Dio in tal modo non è più semplice­
mente e sotto ogni punto di vista il Dio del mi­
stero lontano e inavvicinabile, ma proprio in
quanto Dio vicino nell'autocomunicazione di sé
diviene più che mai colui il cui nome è il mistero
santo.
Non si può quindi dire che il nostro concetto
di mistero raggiunto dapprima attraverso la filo­
sofia della religione non permetta una sua traspo­
sizione in teologia. Naturalmente il concetto filo­
sofico-religioso di Dio quale mistero santo essen­
ziale e perenne, non si presta a dimostrare filo­
soficamente la possibilità della visio beatifica e
parimenti della grazia e dell'ordine soprannatu­
rale in genere. Che questo mistero santo non pos­
sa esistere soltanto come obiettivo non-raggiunto
della trascendenza in un'esperienza categoriale
del finito, e pertanto sempre attraverso il finito,
ma che, pur rimanendo essenzialmente mistero,
possa bensì comunicarsi in se stesso direttamente
allo spirito creato, questo fatto rimane, per la crea­
tura e per il concetto filosofico di mistero, asso­
lutamente dubbio. Soltanto attraverso la rivela­
zione si può sapere se la rivelazione che risponde
a questa domanda come rivelazione verbale e co­
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 443

me rivelazione nella comunicazione della grazia


debba venir intesa quale dinamica intrinseca non
oggettivata, rivolta a questa visio beatifica.
Partendo da qui si potrebbe ora proseguire
il ragionamento, dicendo che con ciò che si è det­
to è stato ammesso che, oltre al mistero costa­
tato finora, ce ne sia un altro, cioè la possibilità
di un'assoluta autocomunicazione del mistero,
attraverso la quale esso si avvicina in modo radi­
cale. Da qui, cioè dal mistero dell'assoluta auto­
comunicazione del mistero santo, si potrebbe ten­
tare di raggiungere direttamente quei misteri che
la fede cristiana professa come tali. Di fatto, il
tentativo è possibile. Per quanto possa sembra­
re azzardato e pericoloso, si potrebbero dimostra­
re tutti i rimanenti misteri come implicitamente
già esistenti, una volta presupposta la rivelazione
della possibilità dell'assoluta e immediata vici­
nanza del mistero santo.
Anzi, anche se questo tentativo fosse valido
soltanto se la verità dei misteri, resi cosi espliciti,
fosse già presupposta, se quindi non elaborasse e
non potesse elaborare nessuna dogmatica cristia­
na che si basasse unicamente su un unico punto
rivelato, cioè sulla possibilità della visio beatifica,
tale tentativo avrebbe tuttavia ancora un senso:
infatti, è opinabile a priori che ogni rapporto es­
senziale sia riconoscibile come strettamente neces­
sario, anche se la derivazione di uno dei termini
dall'altro non riesce. Quindi, anche se la deriva­
~j
l

444 SAGGI TEOLOGICI

zione deduttiva degli altri misteri da quello della


vicinanza radicale immediata del mistero santo
non potesse esser possibile, ciò che qui non è no­
stro compito discutere, rimarrebbe tuttavia di
fondamentale importanza la costatazione dei rap­
porti testé accennati.
Ma in corrispondenza alla problematica nella
quale è sfociata la seconda lezione, per le rifles­
sioni seguenti scegliamo un punto di partenza un
po' diverso. Riassumiamo la problematica messa
in luce nella seconda lezione. Abbiamo detto che
nell'ambito delle creature, in quanto tale, non ci
possono essere dei misteri assoluti. Naturalmente
ogni ente ed in modo speciale lo spirito creato
nella sua trascendenza orientata all'essere assolu­
to partecipa del carattere misterioso di Dio, nella
misura in cui ogni ente è indirizzato verso di lui
e nella misura in cui senza questo indirizzo e sen­
za di ciò a cui è indirizzato non può venir ade­
guatamente capito.
In questo senso J. Pieper ha pienamente ra­
giorte quando, riassumendo la dott~ina di S. Tom­
maso, dice che le cose sono imperscrutabili e in­
sondabili già perché sono creature, perché nella
loro verità e realtà oggettiva, in quanto risultato
della sapienza creativa di Dio, stanno in tali rap­
porti infiniti, senza dei quali non possono venir
adeguatamente conosciute; che la conoscenza pie­
na anche della più miserabile creatura è possibile
soltanto allo stesso conoscere divino.
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 445

In questo senso ogni comprensione di una


realtà, (indipendentemente di che realtà si tratti),
in fondo è sempre « reductio in mysterium ». E
ogni comprensione che non abbia e nella misura
in cui non ha, (o meglio crede di non avere), in
sé alcun carattere di mistero, sorge soltanto attra­
verso la tacita convenzione di eliminare fin dalI'i­
nizio questa reduetio in mysterium Dei.
D'altra parte però, nella misura in cui l'og­
getto finito di natura categoriale della conoscenza
e l'obiettivo della trascendcnza dànno origine a
due modi di presenza essenzialmente diversi per
lo spirito, questa tacita esclusione della reductio
in mysterium Dei ha un suo diritto reale ed è
vero che nel campo categoriale del finito in quan­
to tale, presupposta tale «astrazione », non ci
possono essere dei misteri assoluti. Soltanto Dio
in quanto tale può essere, per lo spirito creato,
veramente mysterium. Da qui è poi risultata la
domanda, se ed in che senso la fede cristiana pos­
sa parlare di misteri al plurale e come possa venir
concepita l'unità, indubbiamente necessaria, di
questi misteri fra di loro e con il mistero, il cui
concetto finora siamo andati sviluppando.
Se prendiamo le mosse non dal concetto di
mistero da noi raggiunto, bensì dai misteri della
fede cristiana al plurale, vien subito da doman­
darsi a quali misteri ci si riferisce, quando la ri­
velazione in Gesù Cristo è concepita come rive­
lazione di mysteria striete dieta; in altri termini,
446 SAGGI TEOLOGICI

quali e quanti misteri di questo genere Cl SIano.


Si ha l'impressione che la teologia tradizionale
non si interessi eccessivamente di questi problemi
pur così importanti. Questa mancanza d'interesse
ha, per la verità, una ragione che in certo qual
modo la spiega. Quando cioè ci chiediamo quali
siano i mysteria striete dieta e quanti essi siano,
con ciò non intendiamo negare che ogni realtà e
ogni verità esistenti nella fede cristiana in qualche
maniera ed in qualche forma hanno parte al ca­
rattere misterioso di questi misteri ricercati. Se
ciò si contestasse, si affermerebbe che non sussi­
ste alcun rapporto logico intrinseco fra le diverse
verità e realtà cristiane. Se esistono dei misteri,
l'insieme del messaggio cristiano viene co-deter­
minato in tutte le sue parti ed in ogni suo ele­
mento da questo carattere misterioso, ed in que­
sto senso è comprensibile che non ci si interessi
particolarmente della questione, quali verità siano
realmente mysteria striete dieta e quanti ce ne
siano.
Ma l'interrogativo ha tuttavia il suo significa­
to e la sua importanza, tanto più se si propone
di stabilire un determìnal..0 numero di misteri,
che non può essere né maggiore né minore. Una
fede, che professa l'assoluta autorivelazione di Dio
faccia a faccia, non può pensare che Dio possa
estrarre come da uno scrigno di verità e di realtà
che eccedono la comprensione dell'uomo, misteri
sempre nuovi a proprio piacimento. Non può dar­
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 447

si né che la visio sveli improvvisamente un Dio


sotto punti di vista finora del tutto sconosciuti,
né che questo Dio veduto tenga celate in sé real­
tà e verità circa se stesso, di natura delimitata,
e che continui a tenerle nascoste e velate.
Già da queste premesse non è possibile l'im­
magine di una serie illimitata di diversi misteri.
Ogni mistero è veramente di una profondità non
scandagliabile, d'infinita grandezza e ampiezza;
ma proprio perché ciascuno nomina l'infinità di
Dio, che come tale è oggetto della visio beatifica,
non ne esiste un numero qualsiasi. La questione
del numero dei misteri non è fin dall'inizio una
questione intesa numericamente, così come la
questione del numero delle divine persone non
apre una serie numerica, che viene poi arbitraria­
mente troncata dall'esterno.
Se cerchiamo ora di risolvere in maniera più
aposterioristica il problema, vale a dire partendo
dalla dottrina generale e tradizionale del mistero,
possiamo dire prima di tutto che, secondo la dot­
trina generale della teologia, il mistero della Tri­
nità e quello dell'unione ipostatica fanno parte
dei mysteria stricte dieta. Inoltre abbiamo il di­
ritto (stando a ciò che si è detto in precedenza)
di annoverare tra essi anche il mistero della visio
beatifica e della grazia soprannaturale. La ragione
di questa tesi sarà data subito, con evidenza an­
cora maggiore.
Non è necessario che risolviamo la questione
448 SAGGI TEOLOGICI

in maniera apodittica, chiedendo se, secondo la


dottrina comune della teologia, oltre ai tre men­
zionati, ce ne siano ancora degli altri, supposto
naturalmente il solito concetto del mysterium
striete dietum. Possiamo lasciare aperta questa
questione, perché di fatto nella teologia, a pre­
scindere forse dal mistero della transustanziazione
eucaristica e della presenza reale di Cristo, non
vengono menzionate altre verità di fede come si­
curi mysteria stricte dieta, verità cioè (e qui sta
ciò che a noi importa) che non possano venir
dedotte dalle tre già menzionate come loro conse­
guenze necessarie e siano perciò accessibili anche
alla nostra comprensione.
Per esempio il mistero del peccato originale
si lascia ridurre in maniera relativamente facile al
mistero della santificazione soprannaturale dell'uo­
mo per mezzo della grazia precedentemente alla
sua decisione personale; un tale « mistero» non
moltiplica quindi il canone provvisoriamente sta­
bilito dei tre misteri menzionati.
CosÌ nel caso del mistero della transustanzia­
zione, si potrebbe chiedere se una tale commuta­
zione sostanziale fuori del caso di Cristo, vale a
dire indipendentemente da un'unio hypostatiea,
sia o no concepibile. Rispondendo affermativa­
mente a questa domanda, si potrebbe replicare
chiedendo in che modo e con quali argomenti una
transustanziazione di una realtà puramente natu­
rale in un'altra possa venir dimostrata con cer­
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 449

tezza come mysterium striete dietum. Presumibil­


mente nessuno può rispondere in maniera posi­
tiva a questa domanda. Stando alle nostre pre­
cedenti riflessioni, secondo cui nell'ambito della
realtà creata come tale non possono esserci myste­
ria striete dieta) la questione delle possibilità di
una transustanziazione nell'ambito puramente na­
turale come mysterium striete dietum dovrebbe
venir negata. Ora però, se la trasformazione so­
stanziale è qualcosa di immaginabile soltanto in
base all'unio hypostatiea (e questa asserzione do­
vrebbe essere teologicamente più significativa e
l'affermazione opposta teologicamente del tutto
priva di fondamento), viene ammesso nello stesso
tempo che la transustanziazione, se è mysterium
slriele dietum) lo è soltanto in quanto rappresenta
una conseguenza necessaria dell'unione ipostati­
ca, per cui non amplia il nostro canone provvi­
sorio dei mysteria striele diela.
Ugualmente, è chiaro che tutte le norme e le
disposizioni positive di Dio riguardanti gli uffici
ecclesiastici, i sacramenti, la storia della salvezza,
possono venir chiamati misteri di fede solo in
quanto scaturiscono dalla libera e personale dispo­
sizione di Dio e in questo senso non possono ve­
nir dedotti a priori, ma debbono venir accettati
nella comunicazione verbale di Dio come dati di
fatto e tali devono rimanere. Mysteria stricte dieta
per questo però non lo sono.
I misteri della soteriologia si possono ridurre

15. - Sagg! teololl!ci.


450 SAGGI TEOLOGICI

al mistero dell'incarnazione, qualora pensiamo (ciò


che a sua volta non è in se stesso un mysterium
striete dietum) che il Verbo di Dio ha preso una
natura umana dalla famiglia umana, che secondo
la volontà creativa di Dio è solidale nell'avere
una comune storia di salvezza o di perdizione, e
che questa umana natura di Cristo (come è evi­
dente) fu voluta come ancora da attualizzarsi e
quindi soggetta volontariamente all'umano desti­
no di vita e di morte. Stabiliti questi presupposti,
neppure essi veri misteri, tutta la dottrina della
redenzione è derivabile dal mistero dell'incarna­
zione.
L'attento esame aposterioristico di quegli ar­
ticoli di fede che avevano l'apparente possibilità
di essere mysteria striete dieta, ce ne ha forniti
quindi soltanto tre, che, a dire dei teologi, me­
ritano a questo proposito vera considerazione: la
Trinità, l'incarnazione e la divinizzazione dell'uo­
mo nella grazia e nella gloria.
Se poi chiediamo a questi misteri, perché sia­
no da considerarsi come mysteria striete dieta,
dobbiamo dividerli anzitutto in due gruppi: il mi­
stero trinitario di Dio in se stesso e i misteri del­
l'incarnazione, della grazia e della gloria nella
misura in cui in questi due ultimi si tratta di una
relazione di Dio con il non-divino.
Per il mistero della Trinità non occorre ad­
durre molte motivazioni riguardo al suo carattere
di mistero nel comune senso di mysterium striete
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 451

dictum. Infatti, se è mai possibile che ci possano


essere veri e propri misteri, essi devono esistere
nell'intimo della vita divina di Dio stesso. Se Dio
di per se stesso non fosse un mistero, non ne po­
trebbe neppure fondare, quindi non ce ne potreb­
bero essere.
Se esaminiamo meglio teologicamente gli al­
tri due misteri (separando grazia e gloria sareb­
bero tre), avvertiamo subito una comunanza che
li unisce fra loro, li distingue in maniera netta e
decisa da tutte le altre relazioni di Dio con il non­
divino e spiega pure perché siano solo due. In
entrambi i misteri si tratta cioè di quello che in
teologia scolastica potremmo chiamare una cau­
salità quasi formale di Dio verso l'esterno, a dif­
ferenza della causalità efficiente. Per mezzo della
causalità efficiente creativa (naturalmente di na­
tura assolutamente unica e divina) Dio costituisce
l'assolutamente diverso da sé. Invece, in ciò che
chiamiamo incarnazione, grazia e gloria, Dio non
crea ex nihilo sui et subjecti qualcosa di diverso
da sé, bensì partecipa se stesso alla creatura. La
realtà esistente nella grazia e nell'incarnazione
non è qualcosa di diverso da Dio, ma Dio stesso.
La creatura non lo comunica nella misura in cui
essa, per mezzo della sua realtà creata, si richiama
a Dio, ma è Dio stesso che si comunica a lei.
Questo non è direttamente afferrabile solo
nell'incarnazione, cosa che non ha da venir ulte­
riormente spiegata, ma è riscontrabile pure nella
452 SAGGI TEOLOGICI

grazia e nella gloria. Per quanto infatti la teolo­


gia medioevale entro la dottrina della grazia ab­
bia fissato la sua attenzione sulla grazia creata e
per quanto ciò, tramite il Concilio di Trento, ab­
bia ancora influenza sulla moderna dottrina della
grazia (in quello che al riguardo vien detto di po­
sitivo, a ragione), la teologia medioevale nella
sua ontologia della visio beatifica 1 ha tuttavia svi­
luppato in maniera più che chiara la dottrina che
la visio può realizzarsi soltanto attraverso un'au­
topartecipazione dell' essenza divina come tale alla
creatura, e questa autopartecipazione ontologica di
Dio è nella guisa di una causalità formale il pre­
supposto ontologico di quella vicinanza ed imme­
diatezza che conviene alla visio beatifica in quanto
processo consapevole. Se questo però vale per la
visio beatifica, esso vale pure, stando all'insegna­
mento di Leone XIII e di Pio XII, per la grazia
come elevazione soprannaturale dell'uomo, poiché
essa è proprio l'inizio formale e il presupposto
ontologico della visio. Anche per la dottrina della
grazia quindi, la « grazia increata », quale imme­
diata autopartecipazione di Dio in causalità quasi­
formale, a differenza di una causalità efficiente,
è la realtà centrale.
In questa differenza fra causalità efficiente e
quasi-formale di Dio è fondata la differenza es­

l Cfr. K. RAHNER, Possibilità di una concezione scolastica


della grazia increata, in Saggi di antropologia soprannaturale,
Edizioni Paoline, Roma, 1965.
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 453

senziale e radicale fra la natura e il soprannatu­


rale. Ciò è facilmente comprensibile. Una realtà
che non è né Dio stesso, né esiste quale conse­
guenza di una tale autopartecipazione di Dio (co­
me attuazione creata per mezzo dell'atto increa­
to), che quindi è semplicemente e completamente
creata, non può essere soprannaturale in senso
assoluto. Nessuna sostanza creata può pretendere
di essere tale e quindi nel suo caso non ha senso
il porsi il problema della sua gratuità, poiché non
ci sarebbe un destinatario del dono, distinto dal
dono gratuito. Né una modificazione accidental­
mente aggiuntiva e puramente creata può essere
soprannaturale in senso assoluto. Infatti è anto­
logicamente arbitrario porre il postulato che non
possa venir concepita e che perciò sia impossibile
una sostanza creata, di fronte alla quale questa
supposta trasformazione accidentale soprannatu­
rale non apparterrebbe ovviamente allo stesso gra­
do dell'essere. Ad una possibile determinazione
di un soggetto, sempre che tale determinazione sia
finita e creata, può sempre venir presupposto un
possibile soggetto sostanziale, dal quale essa sca­
turisce come normale determinazione. E vicever­
sa, qualora non sia fondamentalmente possibile
questa attribuzione di un tale soggetto ad un tale
« atto », ciò è indice che questo atto è « increa­
to ». Che una cosa faccia parte dell'ordine delle
creature per il fatto di essere creata, e cionondi­
meno, in quanto strettamente soprannaturale,
454 SAGGI TEOLOGICI

possa far parte dell'ordine divino, è semplicemen­


te una contraddizione.
Realtà soprannaturale e realtà generata da
un'autopartecipazione di Dio, che non sia di natu­
ra efficiente, ma quasi-formale, sono concetti iden­
tici. La possibilità di una tale autopartecipazione
quasi-formale di Dio alla creatura costituisce quin­
di il mistero teologico in entrambi questi mysteria
striete dieta. Essi sono mysteria striete dieta per
il fatto che soltanto per mezzo di una rivelazione
(intesa come evento salvifico e comunicazione ver­
bale in un'unità inscindibile) si può venir a sape­
re che esiste e può esistere qualcosa del genere.
L'unibilità del finito con l'infinito in quanto tale
(non a sua volta fornito e rappresentato da un
dono finito, attraverso il cui possesso soltanto si
diviene «partecipi» di Dio) è quella che costi­
tuisce l'incomprensibilità dell'incarnazione e della
grazia.
Quanto alla questione se il finitum sia eapax
infiniti, se accettiamo l'oscura distinzione tra una
comunicazione di Dio attraverso un dono creato
ed un'altra attraverso un dono increato, allora pos­
siamo rispondere affermativamente. Qualora però
ci poniamo la questione dell'autopartecipazione di
Dio proprio in quanto tale, la quale deve risul­
tare attraverso una causalità quasi-formale, allora
incomincia l'assoluto mistero, poiché qui Dio in
se stesso deve penetrare nell'ambito non-divino del
finito come tale.
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 455

Qui Dio si partecipa alla creatura proprio co­


me vicinanza assoluta e come assoluto santo mi­
stero in se stesso. Possiamo quindi dire che en­
trambi i misteri dell'incarnazione e della grazia
altro non sono, se non la radicalizzazione di quel
mistero che attraverso la filosofia della religione,
ma anche la teologia, siamo andati sviluppando
come il vero e proprio mistero originario: Dio
quale santo e perenne mistero per la creatura, e
in tutti e due questi casi non nel modus della lon­
tananza inavvicinabile, bensì nel modus dell'asso­
luta vicinanza.
Dopo quanto è stato detto precedentemente,
non è più necessario trattare a lungo ciò che ri­
guarda la grazia e la gloria. Ci resta da dire sol­
tanto una parola circa l'unione ipostatica. Non
possiamo qui trattare a fondo la questione di un
parallelismo non puramente formale fra l'incarna­
zione e la grazia e la gloria sotto il profilo della
causalità formale, vale a dire la questione di un
rapporto intrinseco che sussiste fra i due misteri,
in modo che la vocazione alla comunione sopran­
naturale con Dio nella grazia e nella gloria con­
segue per tutti gli uomini non soltanto dall'unione
ipostatica di una natura umana con il Verbo di Dio
(data la sua appartenenza all'unica umanità), ma
pure antologicamente è possibile soltanto sulla
base dell'unione ipostatica, cosicché questi due
mysteria striete dieta non posseggono soltanto una
uguaglianza formale, bensì presentano una più
456 SAGGI TEOLOGICI

profonda unità fra di loro: l'unica autopartecipa­


zione di Dio alla creatura, che avviene essenzial­
mente come uscita di Dio nell'altro, in modo tsle
che egli si dona all'altro trasformandosi nell'altro.
Come abbiamo già detto, il problema della ri­
duzione dei due misteri alla loro originaria unità
antologica non dev' essere trattata ulteriormente
qui. Tuttavia, chi volesse rifiutarlo a limine già
in partenza, ci permetta di rivolgergli almeno una
domanda: pensa di salvare, senza questo presup­
posto, la perenne importanza, per la salvezza e per
la gloria di tutti, dell'umanità di Cristo eterna­
mente unita al Verbo? Oppure pensa che l'umanità
di Gesù ora sia soltanto una faccenda privata del
Verbo di Dio, da quando, mediante essa, ha reso
sulla croce la soddisfazione per i nostri peccati?
Vogliamo invece spendere ancora due parole
sul fatto che anche l'unio hypostatica è autopar­
tecipazione di Dio alla creatura proprio in quanto
egli è il mistero santo. Sarebbe infatti una maniera
antica e non antologica di comprendere 1'unio
hypostatica se, fin dall'inizio, non si volesse in­
tendere l'unione sostanziale del verbo di Dio con
la sua natura umana come un'unione che costi­
tuisce la natura umana, con la quale si uni, in pri­
missimo luogo per mezzo del fatto che Dio si dona
al diverso-da-sé e pone questo essere creaturale
accettandolo come spirituale, cosicché il compi­
mento dell'unione avviene soltanto nella conoscen­
za da parte della spiritualità umana della sua unità
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 451

col Logos. La presenza del Logos per l'anima uma­


na nella visio beatifica non è quindi da concepire
come un puro supplemento all'unio hypostatica,
bensÌ come un elemento antologico della stessa.
Contro questa concezione non si può richia­
mare l'attenzione sul fatto che pure noi, che non
siamo ipostaticamente uniti al Logos, avremo tut­
tavia la visio beatifica. Da questo infatti risulta
soltanto che noi possiamo avere questa visio bea­
tifica nella sua immediatezza solo in quanto essa
è appunto mediata dall'unio hypostatica della
natura umana di Gesù col Logos di Dio. Se dun­
que l'unio hypostatica si compie essenzialmente
in ciò che noi (se vogliamo in una cristologia neo­
calcedonica) chiamiamo l'intima divinizzazione del­
l'umana natura di Cristo nella grazia e nella glo­
ria, ciò vuoI dire che l'autopartecipazione di Dio
nell'unio hypostatica è sostanzialmente l'autopar­
tecipazione di Dio alla creatura, in quanto egli è
il santo mistero e lo è in assoluta vicinanza. Come
tale infatti egli è dato nella visio beatifica pure
alla spiritualità creaturale del Logos.
Questa affermazione potrebbe essere raggiunta
anche per altra via, forse più adatta al caso nostro.
Si potrebbe partire dall'autotrascendenza dello
spirito creato e dimostrare che essa ha il suo cul­
mine, anche se irraggiungibile dall'uomo, proprio
in ciò che noi chiamiamo unione ipostatica. Poi­
ché qui non possiamo svolgere questa riflessione,
rimandiamo allo studio di Bernhard Welte nel
458 SAGGI TEOLOGICI

III volume dell' opera sul Concilio di Caleedonia di


H. Bacht e A. Grillmeier 2, Lì vengono fatte quel­
le considerazioni, che qui non possiamo fare, in
maniera ardita, ma completamente ortodossa. Se
però si può dimostrare l'unione ipostatica come il
modo più radicale, non esigibile dal basso, ma emi­
nentemente corrispondente all'essenza della tra­
scendenza, di una tale autotrascendenza creaturale
dello spirito, risulta al tempo stesso che l'unione
ipostatica non è un mistero accanto al mistero del­
l'assoluta vicinanza di Dio come mistero santo,
bensÌ l'insuperabile forma di questo stesso mi­
stero: la consegna ontologicamente ed esistenzial­
mente assoluta al Santo Mistero, Dio, in modo che
questa consegna sia la propria realtà di Dio, nella
quale il Verbo di Dio in quanto mistero espresso
sia la risposta a se stesso.
Possiamo ora ritornare al mysterium stricte
dictum menzionato per primo. Quello che c'è da
dire, può venir soltanto sfiorato con la massima
concisione, più in forma di tesi che in quella di
motivazione della stessa. Se guardiamo al reale svi­
luppo della dottrina sulla Trinità nel periodo della
sua progressiva rivelazione e in quello della ri­
flessione teologica su di essa, soprattutto se ri­
flettiamo al momento non superabile di tale rive­
lazione dato nel N.T., possiamo dire quanto se­
gue: Dio si è partecipato in misura così assoluta

2 Das Konzil von Chalkedon, 3 voll., Wiirzburg, 1953.


SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 459

alla creatura, che la Trinità « immanente» diviene


« economico-salvifÌca » e, viceversa, la Trinità eco­
nomica da noi sperimentata è già quella imma­
nente. Ciò vuoI dire che la Trinità dell'atteggia­
mento di Dio verso di noi è già la realtà di Dio,
come egli è in se stesso: tripersonalità.
Questa frase comporterebbe del sabellianismo
e del modalismo soltanto se essa, ignorando il ra­
dicale carattere di apertura nell'unione ipostatica
e nella grazia increata, non permettesse che la
« modalità» della condotta di Dio verso la crea­
tura elevata soprannaturalmente fosse la guisa in
cui Dio è « per sé », ma rendesse Dio cosÌ intatto
da questo atteggiamento verso la creatura, che la
diversità di questa condotta non implicherebbe al­
cuna differenza in Dio stesso (come avviene nella
creazione e nel comportamento naturale di Dio
verso il mondo, ove la differenziazione esiste sol­
tanto da parte della creatura).
Ne consegue che noi per comprendere la Tri­
nità possiamo partire semplicemente dall'esperien­
za nella fede di Gesù e del suo Spirito in noi,
cosi come ci si presenta nella storia della salvezza:
in essa c'è già la Trinità immanente. Essa non è
soltanto una realtà espressa in maniera puramente
dottrinale. Proprio come immanente l'incontria­
mo nell'esperienza di fede (della quale, come è
naturale, fa sempre parte essenzialmente la parola
concreta della Scrittura): l'assoluta autopartecipa­
zione di Dio al mondo come mistero avvicinantesi
460 SAGGI TEOLOGICI

si chiama, nella sua assoluta originarietà e indedu­


cibilità, Padre; come principio che agisce sponta­
neamente verso questa autopartecipazione entro la
storia, Figlio; e come a noi donato e da noi ac­
colto, Spirito Santo. Poiché in questo « come» re­
lativo a noi si tratta realmente dell'autopartecipa­
zione di Dio « in sé », questa Trinità è una Tri­
nità di Dio in sé, essa significa una differenziazione
in Dio stesso e poiché in ciascuno di questi due
casi della partecipazione di Dio si tratta di lui
stesso e non di due realtà create prodotte in modo
efficiente, deve trattarsi sempre necessariamente
dell'unico e stesso Dio. Dio come principio asso­
luto dell'autopartecipazione soprannaturale, Dio
come principio che agisce personalmente e si espri­
me nel mondo e Dio come Dio che è giunto a noi,
che ci è stato partecipato ed è stato da noi accolto,
posseggono un'unica e stessa essenza e sono in
sé distinti fra loro, perché altrimenti la diffe­
renza economico-salvifica nell'assoluta autoparte­
cip azione alla realtà creata cadrebbe solo nella
realtà creata e non si tratterebbe allora di una dif­
ferenza nell'autopartecipazione di Dio.
Naturalmente questa identificazione di Trinità
immanente ed economico-salvifica presuppone due
cose: anzitutto che i rapporti delle tre divine Per­
sone nella grazia all'uomo non siano puramente
appropriate, ma che ogni divina persona nella gra­
zia abbia un rapporto suo particolare all'uomo,
anche se ciascuno di questi rapporti presuppone e
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 461

racchiude gli altri due. Questo primo presupposto


non è più inconsueto nell'odierna teologia e sta gua­
dagnando terreno. Esso è più vicino al linguaggio
biblico, anche se non è la sua unica interpreta­
zione oggettiva; è favorito dall'insegnamento dei
Padri greci e, soprattutto, senza di esso non si può
spiegare in maniera veramente ontologica la vi­
sione immediata delle divine Persone come tali
nella visio beatifica. La visione di Dio infatti, e
quindi anche delle divine Persone nella loro dif­
ferenza, è resa possibile dalla quasi-causalità onto­
logica di ciò che deve essere guardato quasi fosse
una « species impressa »; deve esserci quindi un
rapporto di natura ontologica dell'uomo alle tre
divine Persone singolarmente distinte (e vicever­
sa), che non sia la conseguenza, ma il presupposto
ontologico per la loro conoscenza. Qualcosa però
che è comune alle tre divine Persone, non può es­
sere il presupposto ontologico della loro conoscen­
za in quanto distinte nel soggetto che conosce e
che guarda.
Il secondo presupposto dell'identificazione fra
Trinità immanente ed economico-salvifica è que­
sto: soltanto il Logos, in virtù della sua relazione
immanente verso le altre divine persone, può es~
sere quello che è in grado di assumere ipostatica­
mente una realtà creaturale e viene ad essere in
tal modo l'essenziale e insostituibile rivelatore del
Padre. Se infatti ogni divina persona potesse in­
carnarsi, nella manifestazione economico-salvifica
462 SAGGI TEOLOGICI

di Dio di carattere personale, il Logos non potreb­


be apparire come tale, come quella persona deter­
minata della Trinità. Questo presupposto, invero,
da Agostino in poi è stato pressoché abbandonato
e sconosciuto; nella teologia anteriore a S. Ago­
stino però era ovvio, e incontra almeno grande
comprensione, per es., ancora in Bonaventura. Ed
è pure assolutamente biblico. Appunto nella Scrit­
tura il Logos si chiama Logos in guisa tale che,
staccando il suo carattere di verbo (Worthaftig­
keit) intradivino da quello economico-salvifico, si
va incontro a gravi difficoltà bibliche. In ogni caso
però, il contrario di questo presupposto non è
stato ancora dimostrato. Ogni dimostrazione che
potrebbe venir tentata si avvale del fatto che ciò
che può una divina ipostasi, lo deve potere anche
ogni altra. Solo che questa riflessione apparente­
mente tanto chiara, in realtà è invece fallita in
partenza. Parte infatti esclusivamente dal presup­
posto falso, che ciò che noi in Dio chiamiamo
« ipostasi », e per tre volte, rappresenti un con­
cetto universale. In realtà però ciò che noi in Dio
chiamiamo ipostasi è precisamente ciò che distin­
gue in maniera sempre unica ciascuna delle tre
persone dalle altre due, e null'altro. Da quello
dunque che una ipostasi può in Dio non è asso­
lutamente deducibile che ciò debba poter essere
possibile pure ad un'altra ipostasi. Abbiamo per­
ciò tutto il diritto di identificare la Trinità imma­
nente e quella economico-salvifica. Solo in tal mo­
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 463

do la dottrina trinitaria circa la Trinità imma­


nente viene conservata, nonostante l'impressione
che essa sia soltanto una sottile dialettica di una
conciliazione puramente formale fra l'uno e il tre.
Il primo dei misteri, la Trinità, si dimostra
quindi (se cosi possiamo dire) come la faccia ri­
volta a Dio di quelle due assolute autopartecipa­
zioni di Dio nell'unio hypostatica e nella grazia,
che matura trasformandosi in gloria; essa è, in
certo qual modo, in identità il reale immanente
« in sé » (an sich) di quel doppio « per noi» che,
essendo reale autopartecipazione di Dio in causa­
lità formale e non in causalità efficiente, dev'es­
sere qualcosa in Dio stesso.
Se quanto abbiamo detto, per quanto concisa­
mente, lo possiamo realmente affermare riguardo al
nostro problema, risulta quanto segue: i tre miste­
ri della Trinità, con le sue due processioni, e delle
vere e proprie autopartecipazioni causali-formali
di Dio all'esterno, corrispondenti alle due proces­
sioni, non sono né « misteri» intermedi che, come
misteri provvisori, deficienti, stiano fra le propo­
sizioni della conoscenza naturale che noi possiamo
penetrare e l'assoluto mistero di Dio, in quanto
egli anche nella visio beatifica rimane sempre l'In­
comprensibile, né sono misteri dell'aldilà che, in
certo qual modo, sono o erano nascosti dietro il
Dio che è per noi il mistero santo, ma stanno ad
indicare l'articolazione dell'unico mistero di Dio
quale radicalizzazione della sua unica completa
464 SAGGI TEOLOGICI

misteriosità, in quanto in Gesù Cristo si è rivelato


che questo assoluto e perenne mistero può esi­
stere per noi non solo nel modo della lontananza
inavvicinabile, bensì anche in quello dell'assoluta
vicinanza attraverso l'autopartecipazione divina.
I misteri del cristianesimo al plurale si pos­
sono cosi intendere come concretizzazione del­
l'unico mistero, naturalmente sempre presuppo­
nendo che possiamo conoscere soltanto per rive­
lazione, che questo mistero santo esiste e può esi­
stere pure come mistero in assoluta vicinanza.
Questo noi lo sappiamo soltanto nella misura in
cui questa assoluta vicinanza ci è data continua­
mente nella concretezza dell'incarnazione e della
grazia.
In questo senso la tesi esposta non implica
l'affermazione che dal concetto astratto di un'asso­
luta vicinanza ed autopartecipazione del mistero
santo possiamo dedurre l'incarnazione e la possi­
bilità di una gratuita divinizzàzione dell'uomo. Il
concetto astratto dell'assoluta vicinanza ed auto­
partecipazione di Dio quale mistero santo è sem­
pre raggiungibile e viene raggiunto nella sua vali­
dità ontologica, al di là di una opinabilità pura­
mente logico-concettuale, nell'esperienza dell'in­
carnazione e della grazia. Così però possiamo an­
che riconoscere che questi misteri hanno un intimo
nesso fra loro e cioè in quanto comunicazione del­
l'assoluta vicinanza del mistero originario.
E partendo da qui si può dimostrare (ciò che
SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOL. CATTOLICA 465

non vogliamo esporre più da vicino), che il ca­


none, raggiunto dapprima soltanto attraverso un
insieme di asserzioni aposterioristiche, dei tre mi­
steri assoluti è un canone che fondamentalmente
non è suscettibile di alcun ampliamento. Ci sono
questi tre misteri nel cristianesimo né più né meno
di come ci sono tre persone in Dio e questi tre
misteri dicono quest'unica cosa: che Dio, attra­
verso Gesù Cristo, si è partecipato a noi nel suo
Spirito e perfino come egli è in se stesso, affinché
il mistero anonimo che in se stesso ineffabilmente
regna su di noi ed in noi, sia la vicina beatitudine
dello spirito che conoscendo innalza se stesso nel­
l'amore.
8.

THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO J

1.
INTRODUZIONE

l. Note preliminari.

Prima di trattare il nostro tema, il concetto di


Dio nel Nuovo Testamento, dobbiamo premett~re
alcune osservazioni di carattere metodologico ed
obiettivo.

1 Il presente studio è stato redatto in vista di una con­


ferenza tenuta a Vienna a un ristretto gruppo di teologi. Do­
veva servire semplicemente a una disamina e a una discussione
più ampia. Perciò facciamo a meno dei riferimenti bibliogra­
fici e del solito apparato scientifico. Circostanze esterne non
ne hanno permesso la rielaborazione. Tuttavia anche così può
forse aiutare ad approfondire meglio la Bibbia di quanto av­
468 SAGGI TEOLOGICI

1. Premesse metodologiche. L'ampiezza e la


complessità del nostro tema c'impedisce evidente­
mente di affrontarlo in maniera completa e defi­
nitiva in una breve esposizione. Si pensi solo che
esso occupa per esempio in KITTEL, Theologisches
W orterbuch zum Neuen T estament 2, sessanta
grosse pagine a caratteri fitti. Si comprenderà
quindi facilmente che non si può fare un'approfon­
dita discussione esegetica dei singoli testi o la si
può appena accennare. La nostra esposizione può
in sostanza offrire solo una sintesi panoramica dei
problemi riguardanti il tema. Né si può evitare che,
vista dall'esterno, assuma piuttosto il carattere di
uno studio speculativo di filosofia della religione
e di dogmatica.

2. Quanto all'oggetto stesso occorre premet­


tere un'altra osservazione. La teologia biblica,
quella vera, che non vuoI essere semplice storia
biblica della religione, ha delle proprie esigenze

viene ordinariamente nei trattati dogmatici «De Deo uno »,


che s~ limitano per lo più ad una speculazione filosofica, con
l'aggiunta di qualche citazione scritturistica. - Titolo origi­
nale: Theos im Neuen Testament, pubblicato in Schriften zur
Theologie, I, Benziger, Einsiedeln, 4a ed., 1960, pp. 91-167;
versione di A. Marranzini, S].
2 G. KITTEL, Theologisches Worterbuch zum Neuen Te­
stament III, 65-123. Anche se non facciamo citazioni esplicite,
gli specialisti si renderanno conto di ciò che dobbiamo a que­
sto articolo composto da Kleinknccht, Quell, Stauffer e Kuhn.
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 469

di metodo e di contenuto. Leggendo la S. Scrit­


tura nella Chiesa, da credenti da questa istruiti,
dobbiamo anche considerare, partendo da tutta la
nostra cultura teologica, quale possa essere la li­
nea direttiva per rispondere al nostro quesito. Tale
a priori teologico generale, connesso con la nostra
indagine sulla dottrina biblica, non ha però bi­
sogno di sminuire l'esattezza storica di ciò che si
presume essere l'insegnamento della S. Scrittura.
Al contrario! Anche i più recenti studi di teologia
biblica, quali quelli di Eichrodt, Stauffer, Kittel,
considerati più da vicino, appaiono sempre domi­
nati da un a priori teologico riguardante l'imposta­
zione teologica, i concetti, ecc. Non essendo questo
indicato espressamente e spiegato con chiarezza in
antecedenza, compromette 1'« esegesi» e dà adito
a false interpretazioni. Invece lo si eviterebbe se
si esponessero subito con franchezza e semplicità
i presupposti teologici generali, con cui ci si ac­
costa alla S. Scrittura.
:E: importante per la nostra questione doman­
darsi in che modo, secondo l'insegnamento della
Chiesa, il concetto cristiano di Dio si distingue da
quello pagano e filosofico. Per concetto pagano di
Dio in pratica intendiamo il concetto che di Dio
avevano i Greci e i Romani. Parlando poi del con­
cetto filosofico di Dio, teniamo presente sia la filo­
sofia esistente di fatto fuori del cristianesimo, in
pratica la greca e romana, sia quella che dovrebbe
essere la filosofia « ideale ».
470 SAGGI TEOLOGICI

Basta dare uno sguardo agli antichi Greci e


Romani, trascurando la storia degli altri pagani.
Infatti, oltre a esserci praticamente impossibile al­
largare ancora il campo di ricerca, la storia reli­
giosa greca e romana, per la sua complessità e
ampiezza, può essere in genere considerata la for­
ma tipica di religione pagana ed è la religione sto­
rica, alla quale è stato presentato per prima il
messaggio cristiano su Dio.
Ci domandiamo quindi: secondo la fede della
Chiesa quali coincidenze e differenze si devono in
partenza attendere tra il concetto di Dio del paga­
nesimo e della filosofia da una parte e quello del
cristianesimo dall'altra?
Per rispondere a tale domanda dobbiamo an­
zitutto fare una digressione. Secondo la dottrina
della Chiesa il mondo nel quale viviamo è di fatto
soprannaturale. Il mondo è tutt'intero ordinato
al Dio personale, trascendente e trinitario. È nel
suo insieme ordinato ad un fine soprannaturale e
dotato, sin dalla sua origine, di grazia. Poi è tut­
t'intero andato soggetto al peccato, per cui anche
« la creazione aspira alla redenzione ». Esso resta
sempre sotto la chiamata obbligatoria di Dio alla
vita soprannaturale, rischiarato dai raggi della ri­
velazione primigenia, mosso dalla grazia anche pri­
ma di Cristo e infine da lui totalmente redento.
Tutta la natura è quindi sempre già immessa
in un ordine soprannaturale. Perciò anche ogni
storia religiosa e ogni filosofia è sempre pervasa,
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 471

consciamente o in maniera inconscia, da un a priori


teologico. Cristo e la sua rivelazione, nonostante
la loro novità, non portano per la prima volta, in
ordine di tempo, il soprannaturale nel mondo, an­
che se tutto il soprannaturale dipende da lui. Ri­
mettono di nuovo in luce il carattere sopranna­
turale dell'azione di Dio e del mondo al suo co­
spetto, da un'oblivione e da un abbandono, che
potevano a loro volta essere motivati da una di·
menticanza e da un abbandono di « natura teolo­
gica », effetti del peccato originale.
In definitiva solo la rivelazione ci può dire
con chiarezza che cosa nella religione non cristia­
na e nel mondo culturale sia naturale o sopran­
naturale, pura nescienza o ignoranza volontaria
derivante dal peccato originale, conoscenza so­
prannaturale o un suo presentimento dovuto ad
una rivelazione primitiva o al dinamismo interio­
re della grazia.
Di qui appare quindi il momento teologico e
soprannaturale, seminascosto o totalmente occul­
to, di ogni religione e filosofia anteriore al cristia­
nesimo o esistente fuori del suo ambito. Esse non
sono affatto una religione o un pensiero puramen­
te naturali, o in qualche modo pervertiti nel loro
aspetto puramente naturale.
Da queste considerazioni risulta perciò che la
fede cristiana può non avere e non deve avere
alcun interesse a che sia dimostrata di fatto e di
principio l'assoluta originalità del suo contenuto
472 SAGGI TEOLOGICI

e delle sue formule. Alcune di queste costata­


zioni sono di natura pratica e a posteriori. E vi­
ceversa, può darsi che si dimostri che un elemento
o un'espressione della fede cristiana si trovi al
di fuori del cristianesimo, e che esista una con­
nessione di dipendenza pratica. Purché questa
costatazione sia esatta e non sia raggiunta vo­
lutamente, livellando quanto è specificamente cri­
stiano secondo lo stile di una storia delle religioni
oggi in voga, la si può accettare senza inquietu­
dine e turbamento. Tale fatto dimostrerà soltanto
che il Dio vivente, rivelatosi in Gesù Cristo, opera
con la sua luce e la sua grazia anche al di fuori
della zona che costituisce la storia della salvezza
nel senso teologico più stretto.
Applichiamo ora queste considerazioni di ca­
rattere generale e fondamentale alla conoscenza
di Dio.
Anzitutto, sappiamo dalla dottrina della Chiesa
che si può per sé conoscere in modo certo l'unico
Dio quale « principium et finis » del mondo me­
diante «il lume della ragione naturale », parten­
do dalla realtà obiettiva di questo mondo. Si co­
stata così solo la possibilità per la natura umana
di tale conoscenza. In concreto diciamo che tale
possibilità di conoscenza naturale di Dio, di cui
si dovrà ancora precisare il contenuto e l'ambito,
è qualcosa che appartiene alla costituzione stessa
dell'uomo, anche indipendentemente dalla rivela­
zione e dalla sua gratuita ed elevante chiamata.
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 47>

ad una partecipazione della vita trinitaria. È una


possibilità, quindi, che appartiene all'uomo anche
quando per il peccato non è più in grado di at­
tuare tale partecipazione alla vita personale di Dio.
Essa è all'opera anche quando la filosofia e la re­
ligione dell'uomo sono sotto la legge del peccato.
Si deve perciò necessariamente trovare in qualche
misura anche nd mondo religioso e filosofico de­
gli. uomini estranei al cristianesimo; solo' perché
anch'essi sono uomini.
L'espressione « conoscenza razionale dal mon­
do » distingue questo raggiungimento di Dio an­
zitutto da una rivelazione personale di Dio all'uo­
mo, per illuminazione interiore mediante la gra­
zia o per una rivelazione storica esteriore. Si diffe­
renzia irioltre da ogni esperienza immediata di Dio,
esistente di fatto o no, sia intesa nd senso di
ogni forma di ontologismo, sia interpretata in
maniera più razionale o mistica. Rigetta in terzo
luogo ogni concezione dell'esperienza di Dio, che
si concepisca come puramente irrazionale, .senti­
mentale, non accessibile criticamente ad una pro­
va riflessa e non comunicabile mediante concetti
razionali e parole.
Si tratta inoltre solo della possibilità di tale
conoscenza di Dio. La definizione del Concilio
Vaticano I non dà alcuna risposta immediata alle
numerose domande che si presentano: Questa pos­
sibilità diventa realtà? Fino a che punto? In che
modo? Si attua di fatto"solo in virtù deIra natura
il
1

474 SAGGI TEOLOGICI

umana o in pratica vi cooperano anche altre cause,

quali per esempio la rivelazione primitiva e la gra­

zia soprannaturale concessa ad ogni uomo? Que­

sta realizzazione dipende solo da fattori logici e

razionali o anche da una decisione morale, su cui

influisce tanto lo stato di peccato originale e per­

sonale dell'uomo quanto la grazia sanante ed ele­

vante? Per l'attuazione di questa conoscenza di

Dio si presuppone sempre nell'uomo concreto l'e­

sperienza di certi valori? Si richiedono alcuni con­

dizionamenti sociologici, quali la lingua, la tradi­

zione, l'educazione e la pratica religiosa?

Riguardo al contenuto della definizione con­

ciliare, è definito solo che si può conoscere Dio

quale principio e fine del mondo. Certamente non

è stato deciso, se si può conoscere Dio quale crea­

tore nel senso strettamente teologico del termine

« creazione ».

Forse la via più semplice, per determinare in

concreto il contenuto di questa possibile cono­

scenza naturale di Dio, è domandarsi quale sia

il significato teologico della definizione di tale pos­

sibilità naturale nell'uomo. A prima vista sembra

che la rivelazione non debba avere alcun interesse

per la costatazione di una tale possibilità. Essa

infatti si occupa dell'uomo concreto, che si trova

sempre nell'ordine soprannaturale.

I Questa definizione deve in fondo riferirsi sem­


pre ad una situazione umana teologica e non ad
una situazione puramente naturale, che quale fat­
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 475
to del tutto intramondano non avrebbe alcun in­
teresse per la rivelazione. Perciò evidentemente
il suo significato teologico è che solo in questa
concezione della natura umana l'uomo può essere
un soggetto capace di accogliere la verità teolo­
gica e la rivelazione.
Solo se l'uomo sta « per sua natura» davanti
a Dio, sempre e in qualunque condizione si trovi,
quindi anche in stato di peccato, di aversione da
Dio e di privazione della grazia conferitagli libe­
ramente, egli è l'essere che deve tener conto di
una possibile rivelazione e può accoglierla o an­
che rifiutarla non per una casualità ma per sua
colpa.
Proprio per poter esperimentare come grazia '
questa automanifestazione personale di Dio e po- •
terla concepire non come qualcosa di evidente ed:
immanente, come un suo elemento costitutivo, è \
necessario che l'uomo sia un soggetto, che deve l
per sua natura contare su un'automanifestazione
di Dio o su un suo rifiuto. Solo se egli ha per
I
sua natura un qualche rapporto con Dio, può ef- I
fettivamente esperimentare come libera e gratui- I
ta questa eventuale automanifestazione di Dio per I
mezzo della rivelazione. In altre parole, perché J
la rivelazione possa essere grazia, l'uomo deve ave­
re, almeno fondamentalmente, un qualche rappor­
to con Dio da un punto che non è già grazia 3. f

3 Cfr. a tal proposito, K. RAHNER, Horer des W ortes,


476 SAGGI TEOLOGICI

Questa considerazione ci permette ora di e­


nunciare con maggiore precisione quale dev'essere
il contenuto di questa conoscenza naturale di Dio.
C'importa poco se l'appartenenza degli elementi
da elencare al concetto naturale di Dio sia pro­
priamente definita o venga da noi dedotta solo
dalla definizione. Noi diciamo che una certa co­
noscenza della trascendenza di Dio sul mondo e
della sua personalità fanno parte del concetto na­
turale di Dio.
L'uomo è necessariamente l'essere che deve
poter ricevere una rivelazione di Dio nella storia
e mediante la parola, ed esperimentare questa au­
tomanifestazione di Dio non solo come azione li­
bera di Dio, ma anche come grazia liberamente
concessa a lui già costituito. Tale è il senso bi­
blico e cristiano della rivelazione. Perciò egli ­
«per sua natura» - dev' essere tale da poter
contare su una rivelazione orale o su un silenzio
di Dio, su una sua autodonazione o su un suo
rifiuto. Ora se la bivalenza di tale rapporto con
Dio appartiene alla sua essenza, egli è il soggetto
capace di ricevere un'eventuale rivelazione di Dio

Mi.inchen, 1941. Naturalmente in ciò bisogna tener conto che


a questa «apertura» necessaria dell'uomo a Dio «si sovrap­
pone» sempre e necessariamente nell'ordine pratico, anche
quando egli non ha la grazia della giustificazione, 1'« esisten­
ziale» soprannaturale dell' ordinazione della persona spirituale
al Dio della vita eterna. Cfr. K. RAHNER, Rapporto fra natura
e grazia, in Saggi di antropologia soprannaturale, Edizioni Pao­
line, Roma, 1965.
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 477

o anche di rigettarla in modo colpevole e con la


coscienza della propria colpa, perché è sempre in
grado di ascoltare la parola. D'altra parte, verifi­
candosi la rivelazione, egli la può esperimentare
come grazia libera, perché deve anche tener conto
di un silenzio di Dio. In altre parole, l'uomo deve,
già per sua natura, stare davanti a Dio, in quan­
to persona libera e trascendente.
Cosa ne segue per il problema del concetto
di Dio, che dobbiamo in partenza attenderci al
di fuori della vera storia della rivelazione? E quin­
di in che modo e in che misura si deve dedurre
il concetto rivelato di Dio da quello estraneo al
cristianesimo?
Nel concetto di Dio, che si riscontra al di
fuori del cristianesimo, si ritroverà l'influsso di
tutte le forze elencate all'inizio delle nostre con­
siderazioni come operanti nella vita religiosa del­
l'umanità: la conoscenza di Dio, a cui l'uomo può
per sua natura pervenire partendo dal mondo, il
decadimento dovuto al peccato originale, la gra­
zia e la rivelazione primitiva. Questi tre fattori
però si manifestano operanti in modo evidente
anche nell'elemento più formalmente decisivo del
concetto cristiano di Dio, cioè nella sua perso­
nalità libera e trascendente quale Signore della
natura e della storia. Quindi essendo la natura e
la grazia operanti sempre e dappertutto, anche
nello stato di decadimento causato dal peccato
478 SAGGI TEOLOGICI

originale, non potrà mai svanire del tutto la co­


scienza di un Dio uno, trascendente, libero, che
tratta liberamente con l'uomo nella storia.
Quando però l'uomo vive in uno stato di pec­
cato originale ed il peccato è in definitiva la vo­
lontà di non permettere a Dio di essere tale e
di chiudere il mondo in se stesso, ogni religione
non cristiana, in quanto sta e deve stare sotto il
segno teologico del peccato, capovolgerà necessa­
riamente l'infinità di Dio nell'infinità delle forze
e delle potenze, che dominano il mondo, e diverrà
politeismo. E quando essa, in una tendenza meta­
fisica e religiosa all'unità per sé giustificata, vuole
unificare le molteplici potenze e forze divinizzate
del mondo, si trasformerà fatalmente in pantei­
smo, finendo per dimenticare in modo colpevole
la personalità e la libertà di Dio di fronte ad una
eventuale azione nel mondo attraverso la sua pa­
rola rivelatrice. In definitiva diverrà culto del
mondo invece che ubbidienza all'unico Dio vivo.
Tutti questi elementi si riscontrano, eviden­
temente in grado diverso, in ogni religione. Per­
ciò è impossibile ridurre una qualsiasi religione
ad una formula perfettamente univoca, per cui si
distingua solo negativamente dal concetto cristia­
no di Dio. Né siamo in grado di giudicare quale
degli elementi in essa contenuti sia quello effet­
tivamente decisivo davanti a Dio nell'attuazione
concreta ed esistenziale che ne fa il singolo uomo.
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 479

Perciò, visto nell'altro senso, il concetto cri­


stiano di Dio, in primo luogo, confermerà la co­
noscenza, che si può avere, anche fuori della sto­
ria della rivelazione per via naturale e sopranna­
turale, del Dio unico, trascendente e personale.
Partendo proprio dalla rivelazione, libererà tutto
ciò che v'è di naturalmente retto nella religione
e nella filosofia non cristiane dalla degradazione
subita a causa del peccato, farà riconoscere come
tale il soprannaturale che in esso si trova e si op­
porrà al tentativo dèll'uomo di reclamarlo come
un segno inamissibile della sua nobiltà naturale.
In secondo luogo il concetto cristiano di Dio
sarà la protesta appassionata di Dio contro ogni
deificazione, politeistica o panteistica, del mondo,
conseguenza del peccato originale, che si presen­
ta sempre ed ovunque ed è anche oggi operante.
Esso solo potrà, in terzo luogo, dire in manie­
ra chiara e definitiva quale rapporto col mondo
abbia voluto di fatto stabilire questo Dio perso­
nale e trascendente nella sua sovrana libertà. Dio
infatti secondo il cristianesimo, manifestandosi li­
beramente e per pura grazia all'uomo nella sua
assoluta intimità, lo pone in una situazione unica,
impreteribile, e lo costringe ad una scelta seria e
definitiva, che sfocia nella felicità o nell'infelicità.
Pone al mondo l'istanza definitiva nell'Incarna­
zione del Figlio di Dio e proprio per tale via lo
chiama alla partecipazione della sua vita trinitaria.
480 SAGGI TEOLOGICI

3. Occorre ancora fare un terzo rilievo preli­


minare. Quello precedente riguardava le differen­
ze tra il concetto di Dio al di fuori del cristiane­
simo e quello del cristianesimo, e si considerava
la storia della rivelazione come un tutto unitario.
Invece ora si mira a spiegare le differenze che si
riscontrano nel concetto di Dio entro l'ambito
stesso della storia della rivelazione. Si tratta, in
altre parole, di vedere se e in che modo il con­
cetto di Dio si possa differenziare e mutare nel
corso della rivelazione. In concreto e per lo svi­
luppo del nostro tema ciò significa domandarsi
se e in che modo debba aspettarsi in partenza
una differenza più o meno fondamentale tra il
concetto di Dio dell'Antico e del Nuovo Testa­
mento.
A tale scopo bisogna rifarsi un pochino in­
dietro. La rivelazione, intesa come l'insieme delle
parole indirizzate da Dio all'uomo e soprattutto
come l'insieme delle azioni, con le quali egli en­
tra in rapporto con lui, ha una vera storia. Pro­
prio perché quel Dio, che la ragione naturale può
conoscere partendo dal mondo, è una persona li­
bera e trascendente il cosmo, tale conoscenza na­
turale di Dio radicata nell'uomo deve lasciare li­
bero questo Dio personale. Essa non può calco­
lare, partendo dall'uomo e dal basso, il modo
concreto, con cui Dio vuole entrare in rapporto
con l'uomo. Non può in ultima analisi costituire
THEOS NEL NUOVO TEST~ENTO 481

una religione concreta e definitiva. Tutto ciò, che


l'uomo può fare da sé nel campo religioso, resta
sempre circoscritto dalla libera sovranità di Dio
e dalla conoscenza di essa. Egli deve porsi a sua
completa disposizione obbedendogli nella vera
« religio ». In questa Dio si dona all'uomo me­
diante la grazia o gli si rifiuta.
La forma concreta di religione, che abbia una
importanza veramente esistenziale, dipende in ma­
niera decisiva da questa questione. Non si può
però dare ad essa una risposta partendo da un
abbozzo metafisico dell'essenza divina tracciato
dall'uomo, ma solo partendo da Dio stesso e da­
gli eventi della sua decisione libera.
Ora tale decisione è essenzialmente storica e
in un doppio senso. Anzitutto nel senso di una
storicità divina, se possiamo così esprimerci. Con
ciò s'intende dire solo che questa decisione divi­
na è anche personale e libera e si attua in un dia­
logo di Dio con un uomo già costituito nella sua
natura.
La parola, rivolta di fatto da Dio all'uomo,
riguarda sempre un essere, che non può mai an­
noverare tra gli elementi, che costituiscono evi­
dentemente la sua essenza e la sua esistenza, tale
rivelazione di Dio. Questa non può essere mai
spiegata come un momento dello sviluppo imma­
nente dell'essenza umana nell'ordine naturale. Per­
ciò la rivelazione è sempre un evento libero, per­
ché presuppone l'uomo già costituito.
16. - Sa.ggl teoloalcl.
482 SAGGI TEOLOGICI

La parola di Dio e la sua azione salvifica non


sono libere solo perché l'uomo stesso è effetto di
un atto libero di Dio. Questa libertà metafisica
di Dio non può essere scambiata con la libertà
intramondana di Dio nell'ambito del mondo già
costituito. Esse sono rivolte liberamente all'uomo
già esistente quaggiù. Sono quindi per loro essenza
evento e storia, non cose, idee o norme metafi­
siche.
Quanto si verifica nella storia della salvezza
non è il caso particolare di una legge naturale,
che permane immutata, o di un'idea. È un evento
libero, imprevedibile, del tutto nuovo, effetto del­
l'agire di Dio. In tal senso, l'azione e la parola
di Dio sarebbero storiche, temporali e dialogiche,
anche se accompagnassero tutta la durata dell'uo­
mo, della sua storia e del mondo.
Però la decisione divina è, in secondo luogo,
effettivamente storica anche nel senso di una sto­
ricità umana. Si dà anche una vera storia della
rivelazione. Dio, infatti, non ha determinato tutto
in una volta. Egli ha pronunciato le sue parole
in determinati momenti del tempo e compiuto le
sue azioni in punti precisi dello spazio. Perciò la
storia della salvezza, quale la possiamo percepire,
non coincide, anche per la sola estensione, con
la storia del mondo.
Inoltre, nonostante la sua eventualità, diver­
sità e molteplicità l'azione storica di Dio nel mon­
do ha nel suo insieme un intimo nesso, un'intima
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 483

teleologia, sicché ogni atto di questa storia salvifì­


ca ha un senso e una comprensibilità solo quanto
momento del tutto. Naturalmente ciò non signi­
fica che da noi stessi potremmo ricostruire e com­
prendere da una parte il tutto come qualcosa di
necessario sul tipo delle teorie fisiche e biologiche.
L'unità e il significato dell'azione di Dio sono quel­
li dell'agire multiforme e mutevole di una per­
sona spirituale libera.
Nella rivelazione e nella storia della salvezza,
si devono ancora distinguere con maggiore esat­
tezza gli eventi salvifici stessi, quali per esempio
il paradiso terrestre, la condanna dell'uomo, l'In­
carnazione, la Chiesa, il giudizio, ecc., e la Parola,
che necessariamente l'accompagna. Per mezzo di
questa ogni evento salvifico ha per noi un'esisten­
za immediata; ogni azione salvifica di Dio ci tocca
personalmente e rientra nell'ambito della nostra
conoscenza spirituale.
L'atto salvifico di Dio, centrale e proprio per
questo definitivo e distinto da tutti i precedenti,
è l'insieme dell'Incarnazione, della Crocifissione
e della Risurrezione, in cui Dio si è comunicato
al mondo in maniera radicale e definitiva, ed è
veramente venuto tra noi.
Tutti gli atti salvifici posti prima della venuta
del Cristo sono intimamente ordinati a lui. Perciò
anche la rivelazione orale, che li accompagna e li
costituisce, ha già un rapporto intimo alla rivela­
zione di Dio nel Cristo, che è definitiva e non più
484 SAGGI TEOLOGICI

superabile. Così è realmente vero quanto dice


S. Agostino: il Nuovo Testamento è già presente
in maniera velata nell'Antico. Certamente, secondo
quanto abbiamo detto or ora, è presente nella for­
ma specifica della profezia: la parola dell' Antico
Testamento è interiormente ordinata alla parola
definitiva, che Dio proferisce in Cristo e per mezzo
di lui. È realmente la prima parola di un dialogo,
che ha un'unità e una coerenza intima e la cui ul­
tima parola è Cristo. Ma questa prima parola è
stata pronunciata da Dio in modo che anche l'uo­
mo conservi, in questo dialogo della storia salvifi­
ca, la libertà di parlare e di agire, un ambito di
decisione veramente genuina e responsabile.
Perciò, per riferirci in modo concreto al no­
stro caso, la parola dell'Antico Testamento, in
quanto contiene già il messaggio del Nuovo, è ne­
cessariamente oscura. Anzitutto essa parla del­
l'azione salvifica di Dio al momento dell'Antico
Patto e poi contiene un'anticipazione profetica
della realizzazione della salvezza del Nuovo, in
quanto la realtà della storia salvifica là realizzata
è intrinsecamente ordinata al Nuovo.
La parola dell' Antico Testamento ha, nel suo
intimo e necessariamente, un aspetto storico, che
riguarda il presente, e uno profetico, che mira al
futuro. Dice sul futuro quanto basta perché chi
ascolta, rimettendosi all'azione salvifica presente,
possa decidersi per il futuro. Però dice anche tanto
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 485

poco e in modo cosÌ velato, da lasciargli ancora la


libertà di decidere.
Il senso definitivo già dato da Dio alla prima
parola di questo dialogo storico, di cui egli con­
serva sempre la direzione sovrana, si disvela a chi
riceve quest'ultima parola in una maniera specifi­
camente e totalmente diversa da quella in cui si
disvela a quanti ricevettero solo la prima parola.
L'Antico Testamento rivela tutto il suo senso
nel Nuovo. Eppure la sua parola è già tale nel suo
intimo da conferire, a chi si abbandona al suo re­
condito dinamismo, un'intelligenza sovrana del suo
senso e, in modo misterioso ed occulto, al di là
della lettera, anche la benedizione, che è la realtà
del Nuovo Testamento.
Possiamo quindi leggere l'Antico Testamento
solo e sempre partendo dalla nostra situazione sal­
vifica esistenziale, quindi dal Nuovo Testamento.
E se ci domandiamo, in una posizione obiettiva e
neutrale, quale senso abbia avuto la parola vetero­
testamentaria per l'uomo dell'Antico Testamento
preso isolatamente nella sua situazione, non pos­
siamo più, quasi per necessità, evitare il pericolo
di dedurne o troppo o troppo poco. Considerando
il rapporto dell'Antico Testamento al Nuovo cor­
riamo il rischio di supporre il Nuovo già esplicita­
mente presente nell'Antico o eleviamo l'Antico ad
una grandezza statica isolata per se stessa.
Alla domanda: «Quale rapporto tra la conce­
zione di Dio dell'Antico e del Nuovo Testamento
486 SAGGI TEOLOGICI

dobbiamo in partenza aspettarci da queste consi­


derazioni fondamentali? » rispondiamo: l'idea di
Dio del Nuovo Testamento non può presentarsi
accanto a quella dell' Antico come qualcosa di as­
solutamente nuovo, quasi in una generatio aequi­
voca. Doveva già operare nell' Antico in forma di
profezie fondamentalmente oscure. L'idea di Dio
del Nuovo Testamento dev'essere lo svelamento e
l'adempimento di quella dell'Antico. È in qualche
misura la parola, che dà il senso ultimo e defini­
tivo a tutto ciò che Dio ha detto di sé in antece­
denza, con la parola e con l'azione. Dobbiamo tener
presente questo principio nel leggere tutta la rive­
lazione, per coglierne esattamente il senso che ci
riguarda.
Questa unità ed identità dell'idea di Dio nel
Nuovo e nell' Antico Testamento non può però es­
sere falsificata, riducendo erroneamente le stesse
espressioni alla necessità e staticità di un'idea me­
tafisica di Dio. Dio è identico nell'Antico come
nel Nuovo Testamento, non perché gli compete
un'essenza necessaria ed immutabile, ma perché
tutta la storia della salvezza è la rivelazione pro­
gressiva del modo, con cui Dio ha voluto stabilire
un rapporto col suo mondo in un'azione storica
libera.
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 487

2. Il concetto di Dio nel mondo greco e nell' An­


tico Testamento.

1. Il concetto di Dio presso i greci

Parleremo anzitutto del concetto di Dio presso


i greci, perché dobbiamo conoscere in qualche mo­
do il mondo concreto, in cui fu presentato il mes­
saggio del cristianesimo. Solo cosÌ potremo com­
prendere perché i pagani abbiano abbandonato gli
dèi per servire il Dio vivo e vero (1 Ts 1,9) e
perché il «monoteismo» non costituisca solo il
presupposto metafisico evidente del cristianesimo,
ma faccia parte del nucleo più intimo e vitale del
suo messaggio.
Accennando al concetto di Dio presso i greci,
ci riferiamo solo alla concezione presente nell'uni­
verso greco-romana-orientale. Non è affatto nostro
intento delineare qui la lunga storia del concetto
greco di Dio. I nostri accenni alla situazione di
quel periodo sono molto sommari e dobbiamo ri­
nunciare all'esposizione del materiale storico.

a) Il termine 6e:6ç non designa presso i greci


l'unità di una persona determinata in senso mono­
teistico, ma piuttosto l'unità del mondo religioso,
chiaramente percepita nonostante tutta la sua
488 SAGGI TEOLOGICI

complessità. Il concetto greco di Dio è essenzial­


mente politeistico. Ciò non vuoI dire che si am­
mettano molti dèi individualizzati, ma solo un
complesso ordinato di dèi, quale si presenta ad es.
in ordine gerarchizzato nella repubblica degli dèi
di Omero.
Questa concezione ha fortemente favorito
l'impiego del termine ee:6c; ed ha trovato la sua
massima espressione nella persona di Zeus, '7t'ot't'~p
&.v~pwv 't'e: ee:wv 't'E:, il monarca ee:wv \)7tIX't'OC; XIX~
&ptO"t'oc;, l'esponente del potere divino in genere.
Questo cosmo pluralistico di dèi è rimasto sino
alla fine, anche quando si sono avute le tendenze
filosofiche più forti verso l'idea di un Dio unico
ed era scomparso da tempo l'antropomorfismo.
Lo Stoa stesso rigetta il monoteismo come una
degradazione di Dio. Ancora in Plotino si afferma
che la molteplicità degli dèi dimostra la grandezza
di Dio, perché non si può concentrare il divino in
un punto, ma lo si deve manifestare nella molte­
plicità ed estensione, in cui esso stesso si espande.
Le figure degli dèi dei greci non sono altro che
le forme causali della realtà cosmica concepite o
come mito (Omero) o come ultimo &.pX~ unita­
rio (fisica ionica) o come 1'(~élX della filosofia. Que­
sta realtà però è come molteplice e si presenta al­
l'uomo con le pretese più svariate, che si trovano
l'una di fronte all'altra, lassù nel mondo degli dèi,
libere e incontrastate, per dilaniarsi invece spesso
tragicamente nel petto degli uomini.
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 489

Di qui il plurale 8eOL e il politeismo. Dovun­


que si presenta con maestà una realtà più profon­
da, un essere grande e imponente, il greco può
dire solo: «anche questo è Dio »; e non: «que­
sto è un "essere del tutto diverso" ». Gli dèi sono
perciò le potenze che dominano il mondo dando­
gli ordine, forma e senso e condizionano ripetuta­
mente quanto v'è in esso di caotico. Dio è tutto
ciò che porta ordine nel mondo, gli dà una forma,
lo unifica e gl'infonde un senso. Gli dèi non han­
no però creato il mondo dal nulla.
L'evoluzione storica del concetto greco di Dio
riguarda propriamente, sempre e solo, il modo
come si debba intendere più esattamente quest'ul­
timo aspetto di assolutezza del mondo. L'evolu­
zione del concetto greco di Dio è il mutamento
delle forme di essere del divino. Solo quando il
mondo stesso viene ridotto ad un'unità metafi­
sica, nella stessa misura anche il concetto di Dio
è enoteistico. Però così non diventa meno deci­
samente intramondano. 0éo~ resta in definitiva il
concetto del predicato, mentre il cosmo è il sog­
getto di questo predicato.

b) Tale politeismo e tale panteismo si affer­


mano ovunque nella grecità fin nelle sue più ele­
vate espressioni culturali. Tuttavia non si può tra­
scurare una genuina risonanza monoteistica} un
presentimento oscuro e irriflesso di un dio vera­
mente personale e trascendente il mondo. Anche
490 SAGGI TEOLOGICI

sotto le formule, nei riti e nelle pratiche religiose


dell'agire concreto del singolo uomo che pensa,
aspira alla salvezza ed è toccato dalla grazia, si può
verificare un rapporto genuinamente personale
dell'uomo con un Dio vivente. Sotto i lineamenti
di Zeus e di Giove, considerato il Dio più eccelso,
può aver operato la rivelazione primitiva, il pen­
siero razionale monoteistico.
Talvolta infatti si rivolge a Dio una preghiera
del tutto genuina e in essa ci si appella ad un Tu
personale e di potenza infinita, si cerca di conosce­
re la volontà degli dèi, s'investiga sull'esistenza di
«un Essere» supremo, ultimo e trascendente la
molteplicità del mondo, come nella filosofia di
Platone e di Aristotile, o in alcune circostanze si
combatte espressamente il mondo degli dèi di
Omero, come già nella filosofia presocratica di Se­
nofane ed Eraclito: su tutto ciò influisce qualche
elemento di autentico monoteismo, poco importa
quale ne sia esattamente l'impulso decisivo. An­
che il mondo è sempre in qualche modo schiuso
e l'uomo in ascolto di una parola che possa venire
dall'aldilà. Tutto ciò è vero e va riconosciuto, an­
che se questa apertura del mondo verso 1'« Uno »,
vivo e trascendente il cosmo, può chiudersi ancora
una volta, non appena l'uomo osa dire chi sia
questo Uno supremo, ch'egli supplice invoca nelle
reali necessità della sua vita; anche se la spiega­
zione della misteriosa profondità del mondo può
.ancora una volta essere affrettatamente attribuita
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 491

non a questo Dio ignoto, ma ad un elemento di­


vino impersonale, comunque lo si chiami, v6fLoç,
3txYJ, spirito o idea, su cui domina ancora la drUlp­
rdvYJ inaccessibile e inscrutabile.

2. Il concetto di Dio nell'Antico Testamento

a) S'impone qui anzitutto una premessa me­


todologica, anche se evidente. Parlando del con­
cetto di Dio nell'Antico Testamento, non investi­
ghiamo il concetto di Dio, che effettivamente e
storicamente ha dominato qua e là negli uomini
concreti, che costituiscono il popolo dell' Alleanza,
concetto che si riflette obiettivamente anche negli
scritti vetero-testamentari. Ricerchiamo solo qua­
le sia il concetto di Dio presentato come l'unico
vero e con carattere obbligante, rinunciando an­
che qui a descrivere la sua evoluzione.

b) La religione dell'A.T. viene designata co­


munemente col termine di monoteismo. Questa
caratterizzazione fondamentale è giusta, purché
comprendiamo cosa sia il monoteismo, che carat­
terizza la religione vetero-testamentaria. Il mono­
teismo, di cui qui si tratta, non può essere inteso
come un'espressione metafisica di natura statica,
che starebbe al suo posto anche in un deismo.
Il monoteismo dell'A.T. si basa in definitiva
i non su una considerazione razionale dell'uomo,

492 SAGGI TEOLOGICI

che cerca l'unità ultima del mondo e la può tro­


vare solo nella causa prima e trascendente di tut­
te le cose. Si fonda piuttosto sull'esperienza del­
l'azione storica e salvifica di Jahwe in questo mon­
do e nella storia di questo popolo. J ahwe, persona
determinata, designata con un proprio nome, do­
tata di propria volontà, interviene spontaneamen­
te nella storia concreta del popolo e degli uomini.
Entra in rapporto con questo popolo determinato,
indipendentemente dalle sue caratteristiche natu­
rali. Lo elegge, lo fa suo stringendo con esso un'al­
leanza. Da Dio geloso gli proibisce di adorare altre
potenze divine e gli s'impone come l'unico Dio
che possa contare per lui. Tale è il nucleo cen­
trale del monoteismo vetero-testamentario, che
deriva dalla conoscenza riflessa dei dati seguenti:
la persona di Jahwe, che è libera ed agisce nel­
la storia, è la sola che possa esigere con diritto
il titolo di EI-Elohim. Tutti gli altri Elohim non
hanno tale diritto, sono il nulla. Questo J ahwe è
il Signore sovrano ed assoluto del mondo come
della natura. Perciò il culto dei Baal, delle potenze
della natura e della fecondità, è idolatrico ed in­
sulso. Jahwe è una persona assolutamente spm­
tuale, dalla cui azione «creatrice» libera tutto
dipende.
Il raggiungimento di questa conoscenza rifles­
sa poté essere lasciata tranquillamente all'evolu­
zione dell'idea fondamentale del monoteismo ve­
tero-testamentario e costituisce effettivamente
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 493

gran parte del contenuto della storia della rive­


lazione dell'A.T., che non si attua certamente me­
diante la sola riflessione umana sui dati fonda­
mentali su elencati, ma è effetto dell'esperienza
dell'azione personale sempre rinnovata di Jahwe,
per cui è la storia non di una riflessione teologica,
ma della rivelazione e della salvezza, è la storia
dell'azione di Dio sul mondo e della sua rivela­
zione orale.
La metafisica si eleva dal mondo alla causa
prima di esso, per venire a conoscere successiva­
mente la spiritualità e, almeno fondamentalmente,
la personalità di Dio, certo in maniera puramente
formale. Infine si domanda: questo Dio perso­
nale ha solo fondato in modo permanente il mon­
do o ha anche stabilito un rapporto attivo con
esso, quasi mettendoglisi accanto? E in che modo?
Nell'A.T. l'evoluzione del concetto di Dio pro­
cede proprio all'inverso. Prima si ha l'esperienza
dell'azione personale e libera di Dio sul mondo,
nella sua attuazione concreta libera. Dio si mani­
festa col suo nome, come colui che chiama ed
elegge. Esperimentato storicamente chi è Jahwe,
si scopre sempre più chiaramente che cosa egli è.
Egli non è solo un Dio, un signore potente nella
storia, quasi il signore solo di questo singolo po­
polo, ma è il Signore della storia di tutti i popoli,
perciò anche Signore della natura. È la causa pri­
ma di ogni realtà, è spirituale, trascendente il
mondo, elevato al di sopra di ogni limitatezza
494 SAGGI TEOLOGICI

terrena. A causa del punto di aggancio di questa


conoscenza della causa prima, Dio non si diluisce
in un concetto metafisica vuoto e inafferrabile.
Anche nella sua assoluta trascendenza su tutte le
cose terrene, egli resta una persona concreta, de­
terminata, quale volle manifestarsi con sovrana
libertà proprio nella stoiia singolare della sua al­
leanza col popolo eletto.
La differenza si potrebbe formulare brevemen­
te cosÌ: la formula fondamentale del monoteismo
vetero-testamentario non è: c'è un Dio, la causa
prima del mondo in definitiva è una; ma: Jahwe
è l'unico Dio. Per il momento ci possiamo con­
tentare di questo punto decisivo del concetto ve­
tero-testamentario di Dio. Ritorneremo più tardi
all'A.T., quando ciò sarà necessario per delineare
il concetto di Dio nel N.T.

2.
THEOS NEL Nuovo TESTAMENTO

l. Il punto di partenza.

1. L'evidenza dell'esistenza di Dio per gli uo­


mini del Nuovo Testamento. Studiando il con­
cetto, che hanno di Dio gli uomini del N.T., su­
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 495

bito ci colpisce l'evidenza della loro coscienza di


Dio. Questi uomini non si pongono mai il pro­
blema dell'esistenza di Dio in maniera esplicita
ed assoluta. Non conoscono il tormento di dover
per prima cosa cercare Dio e crearsi, con lenta
riflessione, il terreno da cui possa sorgere un pre­
sentimento, una prima percezione e conoscenza
di Dio. Niente dà loro l'impressione che Dio sfug­
ga senza posa alla ricerca affannosa dell'uomo né
temono che in fondo Dio non sia altro che la
mostruosa proiezione e oggettivizzazione delle
aspirazioni e delle necessità dell'uomo. Il N .T.
ignora totalmente il tormento del problema di Dio
e tutti i predetti atteggiamenti e quelli che carat­
terizzano la coscienza che l'uomo moderno ha
di Dio.
Dio è senz'altro presente. Dio è anche per
loro incomprensibile ed eccelso. Questa realtà di­
vina può incutere loro timore e tremore e nello
stesso tempo conferire una felicità travolgente.
Però la sua presenza è la cosa più naturale, non
ha bisogno di alcuna prova o spiegazione. Per lo­
ro non conta se la realtà terrestre, da essi imme­
diatamente percepibile, additi al di sopra di essi,
nell'oscurità infinita, un Essere del tutto diverso.
Interessa solo come agisca questo Dio, la cui esi­
stenza eterna è per loro un dato evidente, perché
si possa di qui apprendere e riconoscere cosa egli
sia in sé e che rapporti abbia col mondo.
La realtà immediata del mondo e la sua ma­
496 SAGGI TEOLOGICI

nifesta grandezza non sono per gli uomini del


N.T., per così dire, il punto fisso e definitivo,
da cui ancora si possa raggiungere Dio quasi se­
condariamente. Al contrario: la realtà propria e
quella del mondo diventano per loro chiare ed evi­
denti solo partendo da Dio.
Questa evidenza della conoscenza di Dio non
deriva loro da una vera riflessione metafisica né
essi si turbano e diventano incerti, quando si ren­
dono conto che non si ha la stessa autentica co­
noscenza di Dio nell' ambiente che li circonda.
Questa coscienza evidente di Dio non deriva
propriamente da una riflessione metafisica. In nes­
sun luogo si fa una dimostrazione dell'esistenza
di Dio. Non si espone mai il modo come l'uomo
possa da se stesso formarsi una coscienza di Dio,
né ci si appella mai ad un bisogno di Dio, per
persuadersi della sua esistenza. Il N.T., certo, co­
nosce una possibilità per sé valida di conoscere
Dio dal mondo. Sempre e dovunque, quindi an­
che indipendentemente da ogni azione storica di
Dio sul mondo da lui creato (cX7tÒ x'dO'&Cùç xOO'!J.ou
Rm 1,20), possiamo per sé conoscere con certezza
dal creato (7tOL~!J.IX't'1X Rm 1,20) il vero ed unico
Dio, la sua ~UVIX {-I..~ç e la sua ee;~6'O)ç' (termine me­
tafisico astratto che si presenta solo due volte
nel N.T.), la O'O<p(1X e il ~~XIX[W!J.IX 't'oti Oeou, la forza
obbligante della legge morale quale legge divi­
na (1 Cor 1,21; Rm 1,32; 2,14). Di conseguen­
za l'uomo, che rifiuta nella pratica di riconoscere
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 497

Dio adorandolo e rendendogli grazie (Rm 1,21),


commette una colpa morale, che suscita la sua
ira (Rm 1,18). Secondo S. Paolo v'è in Dio un
elemento di conoscibilità, che si presenta costan­
temente ed obiettivamente schiuso (cpcxvepov Rm
1,19) alla conoscenza umana. L'uomo può sem­
pre percepire il carattere creaturale del mon­
do (Rm 1,20). Gli è possibile una aoeptcx, che può
conoscere Dio partendo da una aoeptcx 6eou obiet­
tivata nel mondo (1 Cor 1,21). Questa possibi­
lità di conoscenza, anzi anche una qualche co­
noscenza di Dio sempre effettivamente presente
(epcxvepov Èa'tw Èv cxò't'o~~ Rm 1,19; yvov't'e~ "òv 6eov
Rm 1,21), nonostante la loro sicurezza costitui­
scono sempre nello stesso tempo e per loro es­
senza anche un problema di decisione religioso­
morale. Dio non è lontano dagli uomini (At 17,
27), ma la loro situazione è tale che lo devono
cercare (~"l"e~v). Perciò, dato il carattere di deci­
sione che importa la conoscenza di Dio, non è
certo (cl &pcx re) che essi lo raggiungano e tro­
vino effettivamente (At 17,27).
Però questa possibilità metafisica non è ancora,
per l'effettiva coscienza degli uomini del N.T., il
motivo esistenzialmente decisivo della loro cono­
scenza di Dio. Di fatto essa non si evolve e non
è mai sviluppata negli scritti del N.T. Gli uomi­
ni del N.T. nella loro esperienza di Dio non vi
si richiamano mai. La si accenna solo per far com­
prendere che l'ignoranza di Dio è un pervertimen­
498 SAGGI TEOLOGICI

to morale dell'uomo e per convincere di peccato


chi non conosce Dio. Anche quando sottolineano
brevemente (Al 17,22 ss) questa possibilità me­
tafisica, facendo l'apologia del monoteismo, il mo­
tivo che porta a convertirsi a Dio non è questa
considerazione metafisica, ma l'azione storica di
Dio manifestatasi nella stoltezza della Croce (1 Cor
1,18 s) e nella Risurrezione di Cristo. Questi fatti
non vengono presentati all'uomo mediante l'inse­
gnamento di una verità fondamentalmente per sé
evidente ed accessibile in ugual misura in ogni
tempo, ma mediante una predicazione e un mes­
saggio che promuovono un riconoscimento nel­
l'ubbidienza (e;ùlXyye;À[~e;crelX~ Al 14,15; &.TClXyyéÀÀe;~v
Al 17,30; x1Jpucrcre;~v 1 Cor 21,23) e non una co­
noscenza teorica.
L'evidenza della coscienza di Dio nel N.T.
non è turbata dalla costatazione sperimentale del­
l'ignoranza di Dio nell'ambito del paganesimo. Il
N.T. conosce xpovouç -rijç &.yvotQ(ç (Al 17,30), una
&yvmlX (El 4,18; At 17,23: &yvoe;~v), un'ignoran­
za di Dio (Gal 4,8: oùx daévlX~; 1 Ts 4,5; 2 Ts 1,8),
un non riconoscimento di Dio (1 Cor 1,21), l'esi­
stenza di &8e;m Èv "r<J) xocrfLC[> (El 2,12).
Questo non riconoscere il vero Dio è però
per il N.T. sempre colpa morale e suo castigo.
Il N.T. non conosce un'ignoranza di Dio o un
dubbio sulla sua esistenza, che siano moralmente
indifferenti, né una problematica religiosa, che re­
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 499

sti puramente teorica 4. Là dove Dio non è cono­


sciuto, si ha a che fare· con una fLOC'UlL6't''I)c; 't'oi) vo6c;
(El 4,17; Rm 1,21), con una '1tWp<ÙO'LC; -rijc; Kocp3LOCC;
(El 4,18), con un offuscamento del cuore (Rm
1,21) e dell'intelligenza di uomini insensati (El
4,18), o ancora con una !L<ùp(oc (Rm 1,22).
Paolo riscontra in concreto nell'idolatria que­
sta ignoranza del vero Dio implicante una colpa
morale (Rm 1,23; At 14,15; 17,29; 1 Cor 8,1-7;
12,2; 1 Ts 1,9) s. A sua volta il culto degli dèi
è in definitiva per lui l'adorazione delle potenze
demoniache (1 Cor 10,20-21; At 9,20).
Senza dubbio nel N.T. si trova affermato in
termini quasi razionalistici che gli dèi pagani 6 sono
nulla (At 19,26; 1 Cor 8,4; 10,19; Gal 4,8). Tut­
tavia il culto politeistico dei pagani si riferisce
effettivamente ad una realtà numinosa, ai demoni.
S. Paolo pensa che esistono realmente nel mondo
delle potenze e delle forze, che possono essere
chiamate, in qualche modo e con qualche diritto
6e;o( e KUpLOL (1 Cor 8,5). Per Paolo ci dev'essere

4 La costatazione di una 8statllrx.qJ.oy!rx. particolare presso


gli Ateniesi (At 17,22) implica certo l'ammissione di un'atti­
vità religiosa estesa e molteplice. S. Paolo ha volutamente
usato il termine più generico possibile (KITTEL II, 21). Però,
come si deduce chiaramente dalla sua visione totale, tale am­
missione non indica una pietà, che, pur essendo erronea in
teoria, sarebbe moralmente lodevole davanti a Dio ed esente
da ogni colpa da parte dell'uomo.
5 Il materiale sul politeismo negli Atti degli Apostoli si
trova in KITTEL III, 100.
6 EtI!lwÀ01: KITTEL II, 375.
-;l,1

500 SAGGI TEOLOGICI

un nesso vero ed essenziale, anche se non chia­


ramente espresso, tra le potenze spirituali e la
natura (El 6,12: xOO'(.Loxp&'t'Opec;;; Col 2,18: epYJO'­
xe(or; TWV ocyyÉÀwv; cfr. il concetto di aro~xeL(x TOU
x60'(.Lou: Gal 4,3; 4,9; Col 2,8.20). Di conseguen­
za l'assolutizzazione del mondo (~Àchpç;u(jor;" "rii
XT[O"E~ 7t'(Xpoc 1:ÒV XTLO'IX'I':"IX Rm 1,25) diventa per lui
realmente un'adorazione delle potenze riprovate
da Dio, che, essendo O"Tmxe;'ì;(X TO\) x60'(.LoU e nello
stesso tempo spiriti ostili a Dio, dominano nel
mondo visibile e su di esso.
Questa ignoranza di Dio, che consiste in una
assolutizzazione della realtà molteplice del mondo
demonizzato e si trasforma in un culto dei demo­
ni costituenti lo sfondo metafisico di questa po­
tenza cosmica, è in conclusione per Paolo rifiuto
di conoscere (Rm 1,18 ss). In realtà coesiste ne­
cessariamente con una certa conoscenza di Dio
( XIX~\ 0\ , '<:O I \ o \ J! "
XlXvWC;; OUX ç;OOX~Il-(xO'OC'1 TOV vEOV ",xetv ev E7t'~-

yv 6>O"E~: non vollero ammettere di avere una co­


noscenza di Dio, Rm 1,18; cfr. Rm 1,19.21.32;
2,14).
Occorrerebbe spiegare ora, dal punto di vista
logico e psicologico, questa strana coesistenza nel­
l'uomo di una conoscenza sempre presente di Dio
e di una sua voluta ignoranza. Come si dovreb­
bero distinguere questi quasi diversi strati della
coscienza esistenziale dell'uomo? Che cosa si de­
ve pensare dei fenomeni di pervertimento, di af­
fievolimento e di oppressione della coscienza, di
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 501

insincerità con se stessi, dei concetti metafisici di


scintilla animae e di sinderesi? Sono problemi, cui
non si può dare qui una risposta. Tutto il loro
complesso spiega però in ogni caso perché gli uo­
mini del N.T. non venivano scossi nell'evidenza
della loro coscienza di Dio dal politeismo ateistico,
che li circondava. Essi vi vedono una colpa e l'ef­
fetto di quello stesso dominio dei demoni, che
sono stati inviati a combattere proprio con la for­
za del vero Dio che è con loro.
La loro parola, di cui sono pienamente con- I
vinti, non si riferisce ad un uomo, che dev'essere I
condotto ora per la prima volta con duro sforzo
pedagogico a qualcosa rimasta sinora del tutto (i
ignota. Riguarda piuttosto un uomo, che ha già .
una certa conoscenza di Dio, anche se questa ve­
rità volutamente non è ammessa ed è in lui an­
cora tanto soffocata da un'ignoranza solo apparen­
temente tranquilla di sé.
II loro messaggio sul Dio vivente, che ha agi­
to con libertà nella storia e ha comunicato all'uo­
mo una sua conoscenza infinitamente superiore a
quella attingibile dal mondo visibile, è nello stesso
tempo la liberazione di una conoscenza di Dio
offuscata naturalmente dal peccato originale e per
propria colpa dai peccati personali. È in qualche
misura una psicanalisi teologica.
CosÌ la rivelazione orale e la conoscenza na­
turale di Dio si condizionano reciprocamente. La
rivelazione orale presuppone un uomo, che nono­
502 SAGGI TEOLOGICI

stante si sia colpevolmente smarrito e perduto


divinizzando il mondo, ha già realmente una qual­
che conoscenza di Dio. Viceversa, questa cono­
scenza velata di Dio diventa pienamente conscia
di sé spezzando il cuore indurito, quando viene
redenta dalla parola di Dio, che si rivela in una
maniera trascendente il mondo.

2. Fondamento intimo dell'evidenza della co­


noscenza di Dio negli uomini del N.T.
Il motivo fondamentale di questa evidenza
della conoscenza di Dio presso gli uomini del N.T.
è il fatto, a sua volta semplice e decisivo, che Dio
stesso si è rivelato, è intervenuto con la sua stessa
azione nella storia di questi uomini e li ha così
persuasi della sua realtà.
,
Gli uomini del N.T. sono persuasi anzitutto
I
.""'­ che il Dio vivente si è rivelato nella storia del
'.r­ popolo dell' Alleanza nell' A.T. ed ha parlato « a
varie riprese e in forme diverse già ai padri per
mezzo dei profeti » (E bI, 1). Il loro Dio è il Dio
,~~
dei Padri (At 3,13; 5,30; 7,45; 15,17 ss; 22,14;
~~ ,
'...... ...
,
24,14), il Dio di Abramo, d'Isacco e di Giacobbe
(Mt 22,32 e par.; Le 1,72 s; 2,32; At 3,13), che
si è mostrato ad Abramo (At 7,2), mediante la
.....,,;,' conclusione dell' Alleanza ha fatto suo il popolo
d'Israele (Mt 2,6; Le 1,72; 2,32; At 3,25; 13,17;
Rm 9,4; 11,2; Gal 3,17; Eb 8,9; 9,15) e si è
costituito suo Dio (Le 1,68).
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 50}

Gli uomini del N.T. vedono questo Dio in­


tervenire attivamente in tutta la storia di questo
popolo (discorso di Stefano in At 7,2-53; sermo­
ne di Paolo ad Antiochia in At 13,16-41). Da
questo suo agire nella singolare storia salvif1.ca,
d'Israele essi conoscono Dio. Il monoteismo pro-/
fetico dell'A.T. è anche per essi la base fonda.!
mentale della conoscenza di Dio.
Essi però non conoscono Dio solo dalla sua
automanifestazione nella storia passata del loro
popolo. Ne esperimentano anche la realtà vivente
nel suo intervenire ancora una volta attivamente
nella loro storia particolare, Dio si manifesta di
nuovo a loro stessi. Dio ha parlato loro nel suo
Figlio (Eh 1,2), ha reso manifesta la sua grazia
salvif1.ca (Tt 2,11; 3,4; 2 Tm 1,10) per mezzo del
sua Figliuolo. Attraverso di lui sono venuti alla
fede (1 Pt 1,21), egli ha fatto loro conoscere il
Dio, non mai visto da alcuno (Cv 1,18). Hanno
visto il Figlio di Dio con i loro occhi, udito con
le loro orecchie e toccato con le loro mani (1 Gv
1,1). La gloria di Dio ha manifestato loro il suo
splendore sul volto del Cristo (2 COf 4,6; Gv
12,45).
Per gli uomini del N.T., a causa della 10rOl
posizione nell'economia salvifica, sussiste un nes-II {[
so indissolubile tra la loro esperienza della realtà .
del Cristo nella fede e la loro conoscenza di Dio ì
nella fede stessa. Di qui la ricchezza delle formule,
nelle quali sono riuniti insieme Cristo e Dio: la
504 SAGGI TEOLOGICI

vita eterna è la conoscenza dell'unico vero Dio e


di colui ch'egli ha inviato (Gv 17,3); l'abbandono
degl'idoli per servire il Dio vivo e vero e l'attesa
del suo Figliuolo costituiscono in qualche modo
l'essenza del cristianesimo in 1 Ts 1,9-10.
La xOW:ÙV~1X col Padre e col Figlio sono l'og­
getto del messaggio di Giovanni (1 Gv 1,3). La
salvezza si attua nell' È7d yvWO'Lç 'rOl) fleol) xrx.t '1'1)­
col) 't'Ol) xup(ou ~fJ.(;)v (2 Pt 1,2). Queste due realtà
non stanno l'una accanto all'altra senza alcun nes­
so, né ne hanno uno puramente obiettivo. Sono
cosÌ indissolubilmente associate, anche per la stes­
sa esperienza di fede, per cui chi rigetta l'una ri­
getta anche l'altra: «Chi nega il Figlio, non ha
più il Padre» (1 Gv 2,25; cfr. Gv 5,23; 14,6-14).
Naturalmente il Nuovo Testamento ammette
anche una conoscenza di Dio, che è esatta e ri­
mane anche in chi non crede nel Figlio. Però nel­
la situazione decisiva dell'uomo, che ha incontrato
il Cristo, questa conoscenza di Dio, anche se esat­
ta, come per esempio quella dei Giudei (cfr. Rm
2,17 s), non uguaglia quella che si ha solo nel
N.T., né mette l'uomo in vero rapporto salvifìco
col Dio vivente. Perciò, assolutamente parlando,
si deve dire che coloro che non hanno il Figlio,
di fatto non conoscono Dio, e non che solamente
non lo riconoscono come Padre del Figlio.
Il Signore può cosÌ dichiarare: «Se glorifìco
me stesso, la mia gloria è nulla. È mio Padre che
mi glorifìca. Voi lo chiamate vostro Dio, eppure
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO .'505

non lo conoscete. Ma io lo conosco» (Gv 8,54-55).


Poiché essi non riconoscono e non amano il Fi­
glio venuto da Dio (h 'roti ee:oti) e da lui invia­
to (Cv 8,42), non riconoscono più neppure il Pa­
dre, di cui sono persuasi di essere figli a causa
dell' Alleanza.
Gli uomini del N.T. hanno fatto in un'evi­
denza travolgente l'esperienza viva e immediata
del Cristo, della sua realtà, dei suoi miracoli e del­
la sua risurrezione. Sono perciò i testimoni di
tutta la realtà di Cristo, nel quale Dio è venuto
loro incontro. Essi lo conoscono dalla sua azione
viva e potente su di loro mediante il Cristo. Il
concetto che si sono formati di Dio non è il ri­
sultato di una faticosa riflessione metafisica, ma
deriva da ciò che Dio stesso ha loro in concreto
rivelato della sua natura nel Cristo.

2. Il contenuto del concetto neo-testamentario


di Dio.

1. L'unicità di Dio

a) Vimportanza centrale della dottrina del­


l'unicità di Dio nel N.T.
Quando Gesù fu interrogato, quale fosse il
primo di tutti i comandamenti, rispose: quello
dell'amore. Esso costituisce anche la sintesi del
506 SAGGI TEOLOGICI

messaggio di Paolo (Rm 13,10; 1 Cor 8,3; 1 Cor


13; Col 3,14) e di Giovanni (1 Gv 3,11). Pro­
prio in questa circostanza decisiva (Mr 12,29 ss)
Cristo stesso cita il testo dello « Scema »: &xoue,
·IC1poc~À, xUptoç o 6eòc; ~fLWV XUptoç e!c; È;mtv. E il
dottore della legge può solo confermare questa
adesione di Gesù alla fede del suo popolo, ricor­
rendo di nuovo alle parole dell'A.T.: etc; È;m~v xotl.
o,)x ~mtV &'ÀÀoc; 1tÀ~v OC')1'OU (Mr 12,32; Dt 6,4;
4,35).
Questa confessione del Dio unico pervade tut­
to il N.T. Gesù stesso afferma che la vita eterna
è per i discepoli conoscere l'unico vero Dio (Gv
17,3) e aver cura della sua gloria (Gv 5,44); où~e:1c;
6eòc; et fL~ etc; (1 Cor 8,4).
L'attestazione dell'unicità di Dio ritorna inces­
santemente: etc; o 6e6c; (Rm 3,30; 1 Cor 8,6;
Gal 3,20; El 4,6; 1 Tm 2,5; Gc 2,19), fL6voc; 6e6c;
(Rm 16,27; 1 Tm 1,17; 6,15; Gdc 25; Al 15,4).
Questo monoteismo, benché si presenti espres­
so nelle più antiche formule tradizionali, non è
soltanto un elemento della tradizione dell'A.T.,
ma è intimamente legato alla fondamentale pro­
fessione di fede del cristianesimo. Quando Cristo
vuole esprimere, nella forma più breve, cosa sia la
vita eterna da lui apportata (Gv 17,3), ricorre al­
la professione di fede nell'unico vero Dio. E a sua
volta Paolo, descrivendo sinteticamente quanto si
è verificato nella conversione al cristianesimo dei
Tessalorucesi in quello che è il brano più antico
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 507

del N.T., ricorre ancora anzitutto alla fede nel


Dio vivo e vero, opposto ai molteplici falsi dèi
(1 Ts 1,9). Paolo motiva con l'unicità di Dio due
teSl dié'gli stanno particolarmente a cuore: la
\I
!
\.
l

chiamata dei pagani a far parte del popolo della


nuova alleanza allo stesso titolo dei Giudei (Rm
3,28-30; 10,12; 1 Ts 2,4-5) e l'unità delle diverse
attività dello Spirito tra i cristiani riuniti nell'u­
nico corpo di Cristo (1 Cor 12,6; El 4,6). CosÌ
anche il concetto eùrxyyÉÀtoV 't"0l) fle:où per il nesso
con altri testi (Rm 15,16; 1 Ts 2,2.8.9.) sembra
significare: Vangelo dell'unico vero Dio. La con­
fessione dell'unico vero Dio è quindi un elemento
centrale del lieto messaggio portato da Cristo.

b) Senso del monoteismo neotestamentario


L'importanza centrale del monoteismo neo te­
stamentario diventa ancor più chiara, se ne ricer­
chiamo il senso. Questa professione di fede non
riguarda una verità, che abbia un' evidenza pura­
mente metafisica, né l'esistenza di un principio
primo, escogitato per unificare definitivamente tut­
te le diverse realtà. Certo, questo Dio unico è an­
che chiamato principio primo di ogni cosa: È~ oi')
't"~ 7t!XV't"oc (1 Cor 12,6); è il 7toc't"~p 7t!Xv't"Cùv, o btt
7t!XVH.ùV xoà 3LtX 7taV't"Cùv xoct tv 7tàaLV (El 4,6), o
èVe:pyÙlV 't"~ 7t!XV't"fX tv 7tMLV (1 Cor 12,6). È egli
che dà a ogni cosa la vita, il respiro e tutto il
resto (Ai 17,25); «in lui viviamo, ci muoviamo
.~
508 SAGGI TEOLOGICI

e siamo» (A! 17,28), sicché « egli non è lontano


da ciascuno di noi» (A! 17,27). Secondo S. Paolo,
l'unico Dio, a causa di questo suo rapporto onto­
logico col mondo, può essere conosciuto nella sua
eE~6,,'Yjc; partendo da esso (Rm 1,20). Ma a pre­
scindere dall'imperfezione di questa conoscenza
metafisica di Dio, che di fatto fu resa evidente
solo mediante l'azione rivelatrice di Dio, la pro­
fessione di un Etc; eE6~ va essenzialmente al di là
dell'affermazione della conoscenza di un principio
e di un fine unico del mondo. È, come si è detto,
un monoteismo «profetico».
Non si riconosce semplicemente e con indif­
ferenza l'unicità di questo Dio, ma si confessa
che egli è l'unico nostro Dio: ciX)..' ~!1-r:\I Etc; eE6ç
(1 Cor 8,6), sebbene vi siano nel mondo e&o!
7tOÀÀo! XIXL XUpLOL 7toÀÀo( (1 Cor 8,5). La professio­
ne del monoteismo è contrapposta al politeismo,
dietro al quale si nascondono delle reali forze
demoniache, oltre che errori e malintesi. Il Dio
unico, di cui si ammette l'esistenza, qui come nel­
l'A.T., non è in prima linea l'oggetto ultimo della
conoscenza naturale dell'uomo, ma il Dio vivente
che agisce e si rende manifesto attraverso le sue
azioni. Perciò anche la formula del monoteismo
neo testamentario non è: esiste un solo Dio, pres­
s'a poco come gl'illuministi asseriscono di credere
in un solo Dio; ma: Colui, che si è manifestato
attivamente nel Cristo e nella realtà salvif1ca spi­
rituale da lui introdotta nel mondo, è l'unico Dio.
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 509

La differenza del monoteismo veterotestamen­


tario da quello neotestamentario sta nell'afferma­
re che il Padre di nostro Signore Gesù Cristo è
l'unico Dio, mentre il giudaismo lo nega.
CosÌ il Dio unico (o 6e6~), che confessano gli
uomini del N.T., è la persona vivente, che operò
nella storia salvifica del V.T. e si è manifestata
definitivamente nel suo Figliuolo. Perciò accet­
tano e fanno volentieri uso delle antiche for­
mule del Dio dei Padri (Al 3,13; 5,30; 22,14),
del Dio d'Israele (Mt 15,32; Le 1,68; At 13,17;
2 Cor 6,16; Eb 11,16), del Dio di Abramo, d'Isac­
co e di Giacobbe (Mt 12,26; Le 20,37; At 3,13;
7,32; Mt 22,32) e, parlando nello stile dell'A.T.,
del « nostro» Dio (Mr 12,29; Le 1,78; At 2,39;
1 Cor 6,11; 1 Ts 2,2; 3,9; 2 Ts 1,11-12; Tm 1,1;
Eh 12,29; 2 Pt 1,1; Ap 4,11; 5,10; 7,3; 12,10;
19,1.5) o, in maniera del tutto personale, del
« mio» Dio (Le 1,47; Rm 1,8; 2 Cor 12,21; Fil
1,3; 4,19; Fil 4; Ap 3,12: quattro volte). Parlano
d'altra parte anche del Dio e del Padre di nostro
Signore Gesù Cristo (Rm 15,6; 2 Cor 1,3; 11,31;
El 1,3), ancora più brevemente, del Dio di nostro
Signore Gesù Cristo (El 1,17). Questo Dio con­
creto è l'unico Dio, cui si riferisce la professione
di fede monoteistica. Chi confessando un Dio uni­
co non vuole confessare cos1 il Dio dei Padri e di
nostro Signore Gesù Cristo, non si riferisce affatto
al Dio ammesso dalla Chiesa primitiva: à.)'.ì..' ~f1.ZV
er~ 6e6ç (1 Cor 8,6).
510 SAGGI TEOLOGICI

Ancora: questa unicità dell'Essere Divino nel


mondo e nella storia non è intesa soltanto come
una costatazione statica. Si deve ancora attuare
nel mondo e nella storia. Dio deve ancora diven­
tare l'unico Dio per l'uomo. Gli uomini, confes­
sando l'unico Dio, non professano solo un fatto,
ma prendono anche coscienza di un compito. Que­
sto Dio, infatti, intervenendo nella storia, vuole
proprio per questa via attuare la sua ~oc(n"AdO(;, il
riconoscimento della sua unicità divina. Diventa
cosi lentamente l'unico vero Dio nella storia del
mondo (gO'OILo(;L oc\)'rwv Oe6c;: 2 Cor 6,16; cfr Eh
8,10; Ap 21,7), fino a che alla fine dei tempi egli
sarà veramente Q Oeòc; ('t'a) 7t'ocv't'ot èv 7t':xcrw (1 Cor
15,28). Perciò il monoteismo si attua proprio nel
primo precetto dell'amore assoluto ed esclusivo
di questo Dio. «Di qui solamente si può cono­
scere se il Dio unico è per i suoi fedeli il vero
ed unico Dio. Essi non possono avere alcun idolo
accanto a Dio, neppure il Mammone (Mt 6,24),
il ventre (Fil 3,19), gl'idoli (1 Cor 10,21; 12,2;
2 Cor 6,16), le potenze del cosmo (Gal 4,8 ss),
le autorità locali (At 4,19; 5,29), il Cesare di Ro­
ma (Mt 12,17) », o gli Angeli (Col 2,18).
« Si deve servire Dio, rendergli quanto gli è
dovuto, obbedire e aver fiducia in lui solo, restar­
gli fedeli anche sotto le minacce più gravi sino al
martirio ». Si richiede un continuo e rinnovato
j'OCL 'ltp Ò
e', 7tLO''t'p,",'~!, '
c; 't'oV O' "
s:ov omo - e:LuCùI\CùV
't'cùv , <:- ' ~ oO\)­
'"

"Ae:Us:w (jeep ~WV't'L xoct &À'fJ(jwep (1 Ts 1,9). « In que­


THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 511

sto Gesù e il cristianesimo primitivo vedono il


senso proprio dell'de; ee:6e;. Il monoteismo può
ben essere per gli uomini del N.T. la professio­
ne di una realtà evidente. In pratica però è per
essi un nuovo compito da adempiere sempre» 7.
Queste considerazioni possono forse far com­
prendere meglio un vecchio problema della Scola­
stica: come si può avere una 1tLO''t'~e; &';L de; ÈO"t'w
o es6e; (cfr. Gc 2,19)? Certo il N.T. applica spes­
so alla convinzione dell' esistenza di un Dio unico
anche dei concetti neutri, che non implicano ne­
cessariamente una decisione religioso-morale, ma
possono affermare anche, almeno in sé, una cono­
scenza teoretica neutra (yL"'(VNO'Xe:LV 6e:ov Rm 1,21;
1 Cor 1,21; Gal 4,9; È1tLyLyvOOXe:t'J Rm 1,28.32; i
Ef 1.17; e:taévOCL 't'ò'J ee-6'J Gal 4,8; 1 Ts 4,5; 2 Ts
1,8; Tt 1,16).
D'altra parte il N.T. caratterizza questa cono­
scenza di Dio, o almeno una conoscenza di Dio,
come 1tLO"t'e:ùe:w &';L e:!e; ÈO"t'LV o 6e:6e; (Gc 2,19), 1tLO"t'~
È1tl 6e:6'J (Eh 6,1), 1tL(me; ~ 1tpÒe; 't'òv 6e:o'J (1 Ts 1,8),
1tLO"t'eUcrOCL 't'<j) ee:éi) IkL E;0''t'L'J (Eh 11,6).
Già si è parlato del rapporto esistente nel N.T.
tra la conoscenza naturale di Dio e quella sopran­
naturale per rivelazione. Qui ci si domanda solo:
da quanto si è detto sul contenuto del monotei­
smo neotestamentario si può spiegare, almeno par­
zialmente, come il primo articolo del nostro Sim­

7 KITTEL III, 102.


512 SAGGI TEOLOGICI

bolo possa in quanto tale essere oggetto di fede?


S. Tommaso, per esempio, lo nega (I q. 2 a. 2
ad 1; II-II q. 1 a. 5). Si può ben dire che chi ha
riconosciuto che ci dev'essere una causa ultima del
mondo, non può nello stesso tempo credere tale
verità. In tal senso S. Tommaso ha perfettamente
ragione: «impossibile est, quod ab eodem idem
sit scitum et creditum » (l.c.). Però, come abbiamo
visto, non si tratta di ciò nella fede monoteistica.
Non si crede ad un fondamento unico ed ultimo
del mondo conosciuto come tale, ma ad una perso­
na vivente ed agente nella storia. Di essa si può
conoscere l'esistenza a causa della sua azione, pri­
ma che sia riconosciuta come l'essere assoluto, fon­
damento di ogni cosa. Si crede ciò che questa per­
sona ha rivelato di se stessa: ella sola è il Dio as­
soluto. Si può ammettere per fede che Yahwe, il
Padre di nostro Signore Gesù Cristo (due espres­
sioni da prendersi come nomi propri in senso
stretto) è il Dio unico. Infatti non è logicamente
necessario né possibile che la persona, la quale
rivela tutto ciò, sia conosciuta prima di questa au­
torivelazione proprio sotto l'aspetto sotto cui ella
si rivela mediante la sua parola.

2. La personalità di Dio

Dal fondamento intimo dell'evidenza, con la


quale Dio si presenta alla coscienza degli uomini
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 513

del N.T., risulta anche che la personalità di Dio


era per essi una realtà vivente. Quanto essi sanno
di Dio non deriva dalla loro investigazione teore­
tiea sulla causa del mondo, ma dall'esperienza del­
l'agire vivo e libero di Dio su di loro. « Le testi­
monianze innumerevoli di preghiere vive nel N.T.
sono altrettante affermazioni del Dio personale,
nel quale credeva il cristianesimo primitivo. Atte­
stano nello stesso tempo in qual senso si deve in­
tendere qui la personalità di Dio: il Dio del N.T.
è un Dio, al quale l'uomo può dare del Tu, come
si può fare solo con un essere personale » 8.
Il senso più preciso della personalità di Dio si
raggiunge distinguendo i singoli elementi di que­
sta personalità nel N.T.
Dio agisce, è libero, tratta l'uomo in un dia­
logo storico e solo attraverso questa azione mani­
festa i suoi « attributi », che altrimenti ci reste­
rebbero ignoti. Sono questi i quattro punti di vista
sotto i quali caratterizziamo il concetto della per­
sonalità di Dio nel N.T. È evidente però che que­
sti quattro aspetti s'intrecciano continuamente.

a) Dio è agente.

Per chi conosce Dio per via metafisica parten­


do dal mondo e perciò lo apprende quale « prind­
pium et finis » di tutta la realtà secondo la den­

8 KITTEL III, 111 s.


514 SAGGI TEOLOGICI

nizione del Concilio Vaticano I, Dio è in un certo


senso anche colui che agisce ed è il fondamento
di ogni cosa. A causa del peccato originale l'uni­
cità del Dio trascendente è rimasta offuscata e
l'uomo è giunto a tale degradazione da diviniz­
zare le varie potenze del mondo, gli o-rO\ xeT..« ,"oi)
X6Ci[.LOU. Ma anche a prescindere da ciò, l'oscurità,
con la quale si presenta l'azione di Dio alla teolo­
gia « naturale », deriva in certo senso dal sem­
plice fatto che non tutte e singole le cose sono sen­
z'altro per la metafisica oggettivazione dell'azione
divina. Questa resta del tutto trascendente, non
ha un luogo e un tempo nell'ambito del mondo, né
può essere percepita ed esperimentata come di­
stinta da ogni altra azione in questo punto dello
spazio e in questo momento del tempo. Essendo
tutto opera di Dio, per la conoscenza umana la
sua azione svanisce in qualche modo nell'anonima­
to di ciò che si verifica sempre e dappertutto. In­
fatti si può conoscere una cosa solo distinguendola
dalle altre di tipo diverso.
Il carattere particolare dell'esperienza di Dio
nel N. T., come del resto di quella dell'A.T., è che
ci si rende conto di un'azione precisa e determi­
nata di Dio nell'ambito del mondo. È un'opera di
storia salvifica dovuta ad un'iniziativa divina ori­
ginale, libera, non richiesta dalla semplice esi­
stenza del mondo né in esso contenuta. Ha un hic
et nunc ben determinato e distinto da ogni altra
realtà e attività nel mondo e nella storia umana.
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 515

Certo, anche il N.T. sa con assoluta evidenza,


che tutto esiste, si muove e vive in Dio inteso
come "ò 6SLOV (At 17,27-29). Esso vede il 1toc'!l)P
nlJ.v-r<ùv (El 4,6) operante ovunque, anche nella
natura: egli fa levare il sole e cadere la pioggia,
riveste i gigli del campo e nutre gli uccelli del­
l'aria; è il Dio delle stagioni feconde, che nutre e
rallegra il cuore dell'uomo (A! 14,17). Il N.T.
vede Dio operante anche nella storia dell'umanità
in tutto il suo sviluppo, attraverso l'avvicendarsi
dei vari periodi, il sorgere e il decadere dei po­
poli (At 17,26).
Tuttavia, se ben si riflette, non si riscontra
mai nel N.T. alcuna espressione di un sentimento
cosmico numinoso, che si accenda davanti alla
grandezza e alla maestà del mondo. Quando il
N.T. parla della magnificenza dei gigli, subito ag­
giunge che appassiranno e saranno gettati nel fuo­
co. Esso è perfettamente conscio che ogni creatura
è coinvolta nel peccato dell'uomo e nel suo allon­
tanamento da Dio e perciò attende sospirando la
manifestazione della sua gloria (Rm 8,22). Così
il N.T. può vedere Dio operante con mano potente
nell'intera realtà e in tutta la storia, ma non tra­
sforma mai Dio in un riflesso misterioso dell'as­
solutezza del mondo. Questo non è mai deificato,
resta sempre la creatura del Signore dell'universo,
che crea liberamente con la sua parola. Tutto ciò
si spiega perché il N.T. ha esperimentato l'azione
di Dio nell'ambito del mondo e non può aver al­
516 SAGGI TEOLOGICI

cun dubbio sulla natura dell'azione divina, dalla


quale trae origine l'intera realtà. L'automanife­
stazione di Dio nel mondo non è per il N.T. una
qualità inerente uniformemente a tutta la realtà
cosmica.
Egli si è scelto con sovrana libertà un popolo
e lo ha fatto suo escludendo tutti gli altri (At 13,
17 ss). Solo questo popolo possedette l'alleanza,
la legge e la promessa (Rm 9,4; GW't"flP[OC èx "C;w
'IoualXtwv: Gv 4,22). Egli ha inviato il suo Fi­
gliuolo (Rm 8,3; Gal 4,4), sicché la salvezza degli
uomini e la trasfigurazione del mondo dipendono
interamente da questo evento storico singolare
(At 4,12; El 2,18).
Per gli uomini del N.T. la coscienza di una
azione salvifica di Dio, precisa e determinata nel
corso dell'intera storia, che non ha per se stessa
un immediato rapporto salvifico a Dio, è così forte
che la chiamata di tutti i popoli alla riconciliazione
e alla comunione con Dio non è dedotta dalla co­
noscenza metafisica di una bontà necessaria di Dio,
bensì è il grande mistero della libera e gratuita
elezione di Dio, nascosta a tutti gli uomini e rive­
lata contro ogni aspettativa. Egli chiama tutti gli
uomini alla sua salvezza, quasi all'improvviso,
senza che ciò sia contro la libertà del suo amore,
che elegge e crea cosi le varie differenze (At 11,
17-18; El 2,11 ss; El 3).
Anche il riconoscimento di Dio come creatore
del mondo riceve la sua evidente vivacità e chia­
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 517

rezza da questa esperienza dell'azione libera e per­


sonale di Dio nella storia (Mt 11,25; Mr 13,19;
Gv 1,3; Al 4,24; 17,24; Rm 11,36; 1 Cor 8,5 s;
Col 1,16; El 3,9; Eh 1,2; 2,10; 3,4; Ap 4,11).
Anzitutto si deve dire che nel N.T., come del
resto anche nell' Antico, la creazione libera di un
mondo temporale non è mai presentata come og­
getto di una conoscenza attinta naturalmente dal
mondo stesso, per cui resta indeciso se il carattere
creaturale del mondo, in senso stretto, sia accessi­
bile anche ad una teologia naturale. Il Nuovo co­
me l'A.T. apprendono la conoscenza del carattere
creaturale del mondo dalla rivelazione orale di Dio.
L'uomo inoltre conosce il vero concetto di
creazione solo dall'azione di Dio nella storia, azio­
ne potente, libera e assolutamente indipendente
da ogni presupposto. Qui l'uomo sperimenta con­
cretamente che Dio è o XIXÀiiJV '!~ fL~ Dnoc Wt; DnlX
(Rm 4,17), formula che da una parte si riferisce
all'azione libera di Dio nella storia di Abramo e
dall'altra esprime chiaramente nel N.T. il concetto
di creazione ex nihilo. Così si completano e si pre­
suppongono reciprocamente la conoscenza dell'in­
tervento di Dio nella storia del mondo e quella
della sua onnipotenza creatrice mediante la sua pa­
rola di fronte a tutto ciò che è fuori di lui.
Essendo il Signore del cielo e della terra, può
dominare con sovrana potenza e libertà le sorti
del mondo e dell'uomo (MI 11,25; At 4,24 s;
El 1,11). Nel suo dominio sulla storia l'uomo ri­
518 SAGGI TEOLOGICI

vive la libera ed assoluta sovranità dell'azione di­


vina e del suo potere creatore. La èvépyE~OC -roi)
xpoc-roue; .nje; tO'xuoe; ocù-roi) che si è manifestata in
tutta la sua forza nella risurrezione del Signore,
ci scopre in genere -rò ùm;p~ocÀÀov iJ.~yd)oç .nje; auvoc­
fLeW<; -roi) 6o:oiJ(Ef 1,19-20), ci dà la ~(O'-r~ç .njç èvo:p­
ydocç -roi) aEoi) (Col 2,12) e ci fa cosi esperimentare
in modo concreto e vitale che Dio è ò -rti ncxV'rOC èVEP­
y&v xa;-rti -r~v ~ouÀ·~v -rou aEÀ~iJ.OC-roe; ocù,ou (Ef 1,11).

b) Dio agisce liberamente.


Questo Dio, che interviene nella storia dell'uo­
mo e nella natura, agisce liberamente. La perso­
nalità di Dio si manifesta nella sua azione, perché
questa si presenta come effetto di una volontà
libera e potente. L'azione di Dio nel mondo, che
è suo, deriva da una decisione spontanea, che non
fa parte dei costitutivi, delle esigenze e delle fina­
lità del mondo. Ciò dimostra che questo Dio, che
agisce, trascende e domina il mondo. La sua azio­
ne non è un altro termine per designare il corso
del mondo né la sua volontà indica l' d!.l.ocPfLév'YJ.
Gli uomini del N.T. esperimentano concretamente
l'intervento di Dio nella storia del mondo, inter­
vento sempre nuovo, inatteso e indipendente dal­
la dinamica immanente del mondo. Di qui rico­
noscono la personalità libera e trascendente di Dio.
Essi conoscono senza dubbio l'eternità del de­
creto divino irrevocabile, che dirige tutta la sto­
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 519

ria e il mondo al loro ultimo fine (Rm 16,25;


1 Cor 2,7; El 1,4; 3,9; Col 1,26; 2 Tm 1,9), e
ne fanno oggetto d'immediata riflessione. Quan­
to vale per questo decreto, si applica evidentemen­
te anche a tutta razione storica di Dio nel mondo
in generale. Con ciò però non si afferma in modo
assoluto che questo piano salvifico, unitario e de
finitivo, sia stato in antecedenza così immesso e
oggettivato nel mondo, che tutto ora si svolge­
rebbe secondo una causalità di ordine puramente
naturale e durante tutto il corso del mondo Dio
sarebbe solo uno spettatore dello sviluppo auto­
nomo ed immanente della realtà da lui creata agli
inizi, come pensavano i deisti.
Questo piano salvmco di Dio è rimasto piut­
tosto un suo mistero assoluto, tenuto nascosto
durante tutti i tempi anteriori e inaccessibile a
tutte le generazioni precedenti. Ora, negli ultimi
tempi, si realizza di fatto e cosi si manifesta. La
realtà salvifica di Cristo è entrata ora per la pri­
ma volta nel mondo (brSP!X\I"I): Tt 2,11; 3,4) e si
è a noi manifestata, non insegnandoci un dato
di fatto, che è sempre esistito, ma scoprendoci
un'azione di Dio nuova e libera. Quest'interven­
to di Dio mediante il Cristo si è verificato pro­
prio ora e non in altro tempo (Eb 1,2: bt'iO'X,x'wu
,"W\I ~rdpW\I 't'ou"W\I; Col1,26:\lu\I; Rm 16,25,~CG\I&­
pw6év't'o.;;aè:\lu\I fLUO"'f"l)PtOu). Va incontro all'uomo de­
caduto per il peccato; contro ogni attesa umana
è rivolto ai poveri, ai deboli, ai reietti (Mt 11,25;
520 SAGGI TEOLOGICI

Le 1,51 55; 1 Cor 1,25 55), agli uomini che non


possono assolutamente far valere alcun diritto. È
dono gratuito di Dio. Perciò l'uomo si rende con­
to che quest'azione di Dio è un'iniziativa vera­
mente nuova e originale, un atto della sua libertà,
~OUÀ1)fJ.1X (Rm 9,19; Gc 1,18), ~01)À~ 't'ou 6e)..~fJ.IX­
-roç IXÙ-rOU (El 1,11; At 20,27), eù~ox(1X (El 1,5.9;
1 Cor 1,21; Gal1,15),repoop(~e~v (Rm 8,29 s; 1 Cor
2,7; El 1,5.11), rep66ecnç, èXÀoy~ (Rm 9,11; 11,
5.28; 1 Ts 1,4; 2 Pt 1,10).
Edotto da questa esperienza dell'imprevedi­
bile libertà di Dio nei dati fondamentali della no­
stra salvezza, l'uomo del N.T. è ora capace di ve­
dere l'azione libera di Dio ovunque, sia nel cam­
po della natura sia in quello della grazia. Le pro­
prietà di ciascun corpo naturale sono opera della
sua libertà (1 Cor 15,38 s), come la diversità in­
comprensibile e capovolgente della sua misericor­
dia e della sua riprovazione (Rm 9,13 ss; 2 Tm
1,9; Gv 6,44.65), la vocazione ai diversi ministeri
e carismi (At 10,41; 16,10; 22,14 s; Rm 12,3;
1 Cor 12,6.28; Eh 2,4), la fissazione della fine dei
tempi (Mt 24,36; At 1,7).
L'eternità e l'immutabilità del libero consi­
glio divino da una parte e la sua imprevedibilità
dall' altra a partire dalla situazione anteriore del
mondo sono connesse fra loro e costituiscono il
presupposto del retto atteggiamento dell'uomo di
fronte a Dio. Egli può nella sua fede tener per
fermo che Dio è fedele (7nO"T6ç: Rm 3,3; 1 Cor
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 521

1,9; 2 Cor 1,18; 2 Tm 2,13; Eh 10,23; 1 Pt 4,


19), verace (&À~e~~, &À'YJeLV6~: Rm 3,4; 15,8; Gv
3,33; 8,26), i suoi consigli sono immutabili e
senza pentimento (&f1.€'t'&ee:'t'o~ Eh 6,17, &flZ't'OCf1.é­
À'YJ't'o~: Rm 11,29). D'altra parte la costante azio­
ne di Dio nella concretezza esistenziale dipen­
de sempre dalla sua disposizione sovrana ed è
per noi un mistero, che sarà totalmente svelato
solo alla fine dei secoli. Perciò l'uomo non può
mai far calcoli su Dio: egli resta sempre il Signore
libero. Poiché interviene liberamente sull'uomo,
usando misericordia a chi vuole e indurendo il
cuore di chi vuole (Rm 9,15.16.18), la libera e
sovrana disposizione di Dio è la prima e l'ultima
parola sulla nostra esistenza intesa in senso mo­
derno.
Paolo non cerca di evolvere alcuna teodicea
sull'elezione libera e gratuita di Dio: «O uomo,
chi sei tu che vuoi discutere con Dio? » (Rm 9,
20). La giustizia e la santità della decisione divina
poggiano sulla stessa elezione: è libera e non può
essere ricondotta a qualcosa di necessario e di
evidente nella sua necessità.

c) Il dialogo di Dio con l'uomo.

La personalità di Dio si manifesta, in terzo


luogo, nell'intrecciare un dialogo storico con l'uo­
mo e nel riconoscere questa sua creatura come
vera persona. Per comprendere il senso di tale
522 SAGGI TEOLOGICI

asserzione occorre una breve spiegazione, che ci


richiama una nozione più generale. Ogni cono­
scenza puramente metafisica, che si eleva dalla
realtà immediatamente sperimentabile alla sua ul­
tima causa e la chiama Dio, corre sempre almeno
il pericolo di concepire il mondo come semplice
funzione di Dio. Cosi il mondo diventa pura
espressione, oggettivazione e funzione derivata di
Dio. D'altra parte Dio rischia di divenire solo il
senso immanente del mondo. La metafisica è qua­
si inevitabilmente in pericolo di perdere di vista
il rapporto bipersonale esistente fra Dio e la crea­
tura personale, di non comprendere che il Dio per­
sonale è tanto trascendente da poter conferire tut­
tavia al mondo, da lui dipendente in maniera in­
condizionata, una vera attività fin nei suoi rap­
porti con lui. Ci si può non rendere conto che
le persone spirituali siano capaci di avere delle
autentiche reazioni davanti a Dio, che ciò che gli
è incondizionatamente sottomesso riceva da lui
un'indipendenza autentica nei suoi riguardi e che
Dio possa lasciare l'uomo libero di fronte alla
stessa divinità.
Questo rapporto tra Dio e l'uomo, cosi oscuro
per la metafisica, si manifesta a sua volta nel mo­
do più chiaro proprio nella storia salvifica attuata
da Dio. Si ha un vero dialogo di Dio con l'uomo.
L'uomo dà alla parola di Dio la risposta che vuo­
le. Può anche opporsi alla sua volontà, può indu­
.rire il suo cuore (Rm 2,5; Eh 3,13), resistere allo
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 523

Spirito di Dio (At 7,51), sottomettersi o no alla


sua volontà (Rm 15,18; 16,19), contraddirlo (Rm
10,21), chiudere le porte del suo cuore a Dio che
bussa (Ap 3,20), opporre il proprio rifiuto al suo
piano salvifìco (Mt 23,37 s).
L'esistenza nel mondo di potenze ostili a Dio,
che pure sono creature di questo Dio unico, di­
pende necessariamente dalla realtà di questa auto­
nomia personale della creatura spirituale. La real­
tà del peccato, la sua inescusabilità davanti a Dio,
l'ira di Dio contro il peccato, l'invito di Dio a ri­
conciliarsi con lui, la preghiera, la cui genuinità
esistenziale è condizionata dalla possibilità da par­
te dell'uomo di prendere una vera iniziativa anche
nei riguardi di Dio, son tutte realtà attestate nel
N.T., che presuppongono lo stesso rapporto bi­
personale tra Dio e l'uomo.
Così si deve concepire anche la piena origi­
nalità dell'azione libera di Dio. Il suo intervento
nel corso della storia non è quasi un monologo
condotto da lui solo; è un lungo, drammatico dia­
logo tra Dio e la creatura, nel quale Dio conferi­
sce la possibilità di rispondere veramente alla sua
parola e fa dipendere le altre sue parole dalla ri­
sposta data dall'uomo liberamente.
L'azione libera di Dio s'ispira, per cosÌ dire,
sempre di nuovo all'azione dell'uomo. La storia
non è un dramma messo in scena da Dio solo,
nel quale le creature resterebbero puramente pas­
sive. Le creature sono veri attori insieme con lui
524 SAGGI TEOLOGICI

in questo dramma divino-umano della storia. Per­


ciò questa ha una serietà determinante ed assoluta,
una decisione assoluta, che la creatura non può
relativizzare riferendo tutto alla volontà di Dio,
da cui ogni cosa deriva e a cui nulla può resistere.
Tale riferimento è vero e falso nello stesso tempo.
Il fondamento biblico della dottrina ora espo­
sta sta nel fatto, semplice ma a sua volta incom­
prensibile, che nella S. Scrittura l'Onnipotente,
l'Assoluto, il 7t"ot.v't"oxp&-rc,)P (Ap 1,8) invita perso­
nalmente la creatura, opera delle sue mani, a fare
ciò ch'egli vuole. Questa parola d'invito rivolta
da Dio ad un'altra persona, benché provenga da
colui che può far tutto da sé, non può essere
priva di ogni senso.
Tuttavia, pur lasciando liberamente alla crea­
tura la possibilità di dargli una vera risposta, Dio
si riserva l'ultima parola. Ciò non vuoI dire sol­
tanto che, essendo egli fisicamente il più forte,
agisce in modo che la sua azione non possa essere
affatto contrastata o impedita dalla creatura. An­
che il peccato della creatura, sebbene costituisca
per essa una rovina totale, non può sottrarsi al
dominio della volontà ultima di Dio, che ha di
mira sempre la sua gloria. Infatti la sua potenza
si manifesta anche nella perdizione dei vasi sog­
getti alla sua collera (Rm 9,22-23).
Secondo la conoscenza che abbiamo di Dio, la
storia del mondo, vista in sé e a partire dal mon­
do stesso, si conclude in una dissonanza completa
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 52.'5

e sconcertante. Quello che esiste fuori di Dio non


perviene mai da sé ad un'armonia definitiva e uni­
versale. Malgrado dò, anzi proprio per questo,
il mondo annuncia la magnificenza del Dio dalle
vie imprevedibili e dai consigli insondabili.
Una creatura può accordarsi con questo fine
ultimo di tutto il mondo solo se dà gloria a Dio
senza riserva, adora la libertà imperscrutabile e
inappellabile della sua volontà e lo ama, più di
se stessa, sicché la sua adesione alla volontà di
Dio è più importante dell'attaccamento a qualun­
que altra creatura.

d) Gli attributi di Dio.

Solo tenendo presente questa personalità viva


e libera del Dio, che per la sua trascendenza è in
grado d'intrecciare un dialogo col mondo, possia­
mo acquistare una pròspettiva esatta della dottri­
na del N.T. sugli « attributi» di Dio. Solo la co­
noscenza della personalità di Dio ci fa compren­
dere che il problema veramente decisivo per l'uo­
mo non è tanto sapere che cosa è Dio, ma piutto- )
sto quale egli si vuole manifestare al mondo. Una
persona si distingue da un'altra non solo per le
proprietà diverse ma anche per gli atteggiamenti
personali presi liberamente. Ciò vale in sommo
grado per la personalità assoluta e sovrana di Dio
di fronte al mondo da essa creato. Questi atteg­
giamenti liberi di Dio di fronte al mondo hanno
526 SAGGI TEOLOGICI

naturalmente, se così possiamo esprimerci, una


struttura metafisica, derivante dalla necessità del­
la sua essenza. Eppure la conoscenza di questa
struttura non basta a determinare con esattezza
l'atteggiamento concreto di Dio.
Egli può usar misericordia e far indurire i
cuori, può illuminare, mandare la èvÉpyew; 7tÀtXv'tJc;
(2 Ts 2,11), inviare lo 7tVeu[J.oc xoc't"ocwçewc; (Rm
11,8), senza cessare per questo di essere il Santo
(Eh 12,10; 1 Pt 1,15) e senza che i suoi giudizi
cessino di essere veri e giusti (Ap 19,2).
CosÌ di fronte a questo Dio del N.T. l'uomo
s'interessa dell'atteggiamento ch'egli prende di
fatto nei suoi riguardi più che della sua essenza
necessaria. Le esperienze, che l'uomo fa con Dio
nella storia della salvezza, non sono solo delle
esemplificazioni e dei casi manifestativi dell'essen­
za metafisica di Dio, di cui egli riconosce la ne­
cessità. L'insegnamento, che ne riceve, deriva solo
da queste esperienze, che restano sempre nuove
ed inaspettate. Il loro oggetto non è qualcosa,
che si costata come sempre esistito, ma qualcosa
che si verifica ora per la prima volta.
I! nucleo centrale della dottrina del N.T. su­
gli « attributi» di Dio non riguarda l'essenza di
Dio sotto un aspetto metafisico astratto: è un mes­
saggio sul volto concreto e personale, sotto il
quale Dio si manifesta al mondo.
Si trovano, senza dubbio, anche nel N.T. delle
asserzioni sugli attributi strettamente metafisici
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 527

dell'essenza divina. La S. Scrittura parla persi­


di una 6d<l. tpOtT!.C; (2 Pt 1,4), di una SeL6'n)t;; (Rm
1,20). Dio vien chiamato <l.Lù.!vwç{Rm 16,26), &[ÙLot;;
&6poc't'ot;; (Rm 1,20; Col 1,15; 1 Tm 1,17; Eh
11,27), &tp6ocp'mç (Rm 1,23; 1 Tm 1,17), tLOC'XelpLot;;
(1 T m 1,11 ; 6,15), oòOè 1tpotTùe6t-teV0ç 't'LV0t;; (At
17,25), &1te(plXtT't'ot;; (Gal 13), o anche oò yàp &ÙLxot;;
Ò 6eot;; (Eh 6,10; cfr. Rm 3,5; 9,14), &ÙÙV<l.'C"ov
ye0()OC()6IXL 6éov (Eh 6,18; cfr. Tt 1,2), otùlXtLev (l't'L
Ò 6eòç &tL<l.p't'CùÀ(;)v oòx &xoOeL (Gv 9,31), oòOett;;
&YIX6òt;; eL tL'lJ eLt;; ò 6e6ç(Mr 10,18), tL0voç tTotpòç 6eot;;
(Rm 16,27 ). Si esalta infine la sua onniscienza
(XotpÙLOyvù.!O"t"Y)ç: At 1,24; Rm 8,27; Eh 4,13;
1 Cv 3,20; Mt 4,6). Tutte queste affermazioni
obiettive degli attributi essenziali di Dio ricono­
sciuti come tali, sono asserzioni assiologiche su
Dio, giudizi che riguardano la sua essenza, non
la sua esistenza.
Ad essi va naturalmente applicato quanto ab­
biamo detto sul rapporto della teologia « natura­
le» alla teologia rivelata secondo il N.T. Queste
proprietà della 6eLIX tpOO'Lç, della 6eLo't' 1)t;; si possono
conoscere dal mondo e sono state di fatto sem­
pre conosciute. Sono però nascoste all'uomo pec­
catore che « ha venerato e servito la creatura an­
ziché il Creatore» (Rm 1,25) e si manifestano
di nuovo a chi in fede ed in obbedienza incon­
tra il Dio vivente nella storia della sua salvezza.
Tali attributi ricevono una nuova risonanza
in questo incontro. L'IXLù.!vLot;; non è solo l'essere
528 SAGGI TEOLOGICI

senza InlZI0 e senza fine; è colui che trascende


tanto il mondo terrestre da poter entrare in esso
e renderlo in qualche modo partecipe della sua
trascendenza al di sopra di ogni mutevolezza e
temporalità (2 Cor 4,8 s; 4,17; 2 Ts 2,16; Eh
5,9; 9,12; 9,15; 2 Pt 1,11).
Lo stesso vale per l'&<pOIXpcrtcx (El 6,24; 2 Tm
1,10) e per l'invisibilità di Dio che sola ci fa com­
prendere cosa significa la nostra futura visione di
Dio (1 Cor 13; 12; 1 Cv .3,2) e la nostra parte­
cipazione alla sua beatitudine, perfetta autosuffi­
cienza (Ap 21,2.3) e onniscienza. Quest'ultimo at­
tributo propriamente non è la coscienza univer­
sale della causa del mondo, che racchiude ogni
cosa nella sua essenza e nella sua scienza, ma l'oc­
chio del Dio personale, il cui sguardo scrutatore,
penetrante e tutelare, l'uomo sente penetrare sin
nel più intimo del suo cuore (Mt 6,4-6; Le 16,15;
Eh 4,12-13; 1 Ts 2,4; 1 Cv 3,20; Mt 6,8.32;
10,29).
È importante inoltre osservare in questo con­
testo che il N.T. non sistematizza mai queste af­
fermazioni metafisiche su Dio, né le sviluppa mai
dal punto di vista speculativo. Anzi tace del tutto
di altre che sarebbero ancora più importanti e
centrali per una teologia metafisica, o in ogni caso
non ha per esse un termine tecnico. Nel N.T. Dio
non è chiamato mai l'essere assoluto né si fa mai
menzione della sua infinità ontica. Nella sua con­
templazione metafisica il N.T. non fissa il suo
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 529

sguardo tanto sull'assoluto, sul necessario, così fa­


cilmente anche impersonale e astratto, ma sul Dio
personale nella concretezza del suo agire libero.
Infatti tutto si riduce a questo. Le afferma-/
zioni decisive del N.T. su chi è Dio si trasformano
nel problema: come l'uomo ha esperimentato Dio
nella storia? Quando il N.T. ci parla di Dio giu­
sto giudice, è sotto l'impressione scuotitrice di
questo fatto: il Dio santo ha reso per la prima
volta l'uomo cosciente della sua perdizione e del
suo stato di peccato nella sua rivelazione e in
quanto ha condannato il peccato nella carne di Cri­
sto, che egli ha fatto peccato per noi (2 Cor 5,21;
Rm 8,3), come del resto fa anche esperimentare
la sua collera contro il peccato lungo tutto il corso
della storia salvifica (2Pt 2,3-7; Cd 5-16).
Né si può fraintendere impunemente l'ira giu­
dicatrice riducendola ad una pura reazione dell'es­
senza necessariamente santa di Dio contro il pec­
cato del mondo. Infatti lo stesso peccato incontra
all'improvviso e imprevedibilmente la paziente
longanimità di Dio (Rm 2,4; 3,26; 9,22; 1 Pt 3,
9: &voX~-f.LCXxpoeUf.L(cx). Questa &voX~ e f.LcxXpOeUf.LLCX
di Dio non sono a loro volta una proprietà me­
tafisica di Dio, che l'uomo potrebbe porre come
dato fisso nel computo della sua vita. Fare ciò
sarebbe tentare Dio (1 Cor 10,9), mentre il tem­
po dell'indulgenza divina è interrotto all'improv­
viso dal giorno del Signore, che viene come un
ladro (2 Pt 3,10).
,
530 SAGGI TEOLOGICI

Altrettanto chiara è l'attualità esistenzialmen­


te personale del comportamento di Dio in con­
trasto con una determinata proprietà metafisica
della sua essenza, quando è chiamato buono, mi­
sericordioso, amante, ecc. Egli è pronto al perdono
(Mt 6,14; Mr 11,25), misericordioso (Le 1,72.78;
6,36; 2 Cor 1,3; El 2,4; 1 Tm 1,2; Tt 3,5; 1 Pt
1,3; 2 Gv 3; Gdc 2), benevolo (Mt 19,17; Le
18,19; Le 11,13; Gc 1,5; XP"I)cn6ç: Le 6,35; Rm
2,4; 11,22; Tt 3,4), amante (Gv 3,16; 16,27;
Rm 5,5; 8,37.39; El 3,2.7; 2 Ts 2,16; Tt 3,4;
Gv 5,1; 4,8-11). È il Dio di ogni grazia (At 20,
24; Rm 5,15; 1 Cor 1,4; 15,10; 2 Cor 1,12; El
3,2.7; 1 Tm 1,2; 1 Pt 2,20; 5,10.12; 2 Gv 3),
il Dio della speranza (Rm 15,13), il Dio della pace
(Rm 15,33; 16,20; 1 Cor 1,3; 2 Cor 1,2; 13,11;
Gal 1,3; El 1,2; Fil 4,9; 1 Ts 5,23; 2 Ts 1,2;
1 Tm 1,2; 2 Tm 1,2; Tt 1,4; Film 3; 1 Ts 2; 16),
il Dio dell'amore (2 Cor 13,11), il salvatore (Le
1,47; 1 Tm 1,1; 2,3; 4,10; Tt 1,3; 2,11; 3,4;
Gd 25), che nella sua misericordia vuole la sal­
vezza di tutti gli uomini (Mt 18,14; 1 Tm 2,3-4;
4,10; Tt 2,11; 2 Pt 3,9).
Quest'amore benevolo e misericordioso nel suo
nucleo essenziale è per il N.T. anche una grazia,
che non può essere richiesta ma contro ogni aspet­
tativa è conferita al peccatore « senza Dio» (El
2,12) e in rottura con lui.
Dio ci ama, egli è il «Dio buono ». Questa
costatazione non è un'evidenza metafisica. È la
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 531

meraviglia incomprensibile, che il N.T. deve an­


nunciare sempre e che la fede spinge continuamen­
te l'uomo ad ammettere. L'amore di Dio dovette
prima diventare reale e manifestarsi (È<pcx\le:pw61):
1 Cv 4,9) nel mandare il suo Figliuolo unigenito.
Dovemmo noi prima esperimentarlo qual è real­
mente, per poterlo credere effettivamente: xcxt
~[Ldç Èy\lwxcx[Le:\I XlXt 1I:E:7ttO"'t"eQxcx[Le:\I 't"~\1 &."'(&11:1)\1, ~\I
~Xe:~ o 6e:òç È\I 'lJ[L'C\I (1 Cv 4,16).
Quest'amore mi attinge nella mia assoluta
concretezza: persuadermene resta sempre il com­
pito dell' ÈÀ1I:Lç O"Cù"t'1)pLCXç (1 Ts 5,8) in questo eone,
sino alla sua definitiva manifestazione. Però non
diventerà mai evidente. La certezza vittoriosa di
essere amati da Dio (Rm 8,39) va sempre con­
giunta con il timore e il tremore (Fil 2,12; 1 Pt 1,
17), perché anche la coscienza pura è sempre sog­
getta al giudizio di Dio (1 Cor 4,4).
In termini ancora più chiari: questo amore
di Dio è libero e sovrano in misura tale, che la
sua parola creatrice e salvatrice non esercita il suo
influsso in modi diversi sull'uomo solo perché o
principalmente perché essa viene ammessa con fe­
de ed amore dall'uomo o rigettata con incredulità,
secondo che egli risponde in un modo o nell' altro
alla libera chiamata di Dio, ma perché Dio con
libertà sovrana da se stesso dona o rifiuta il suo
amore misericordioso, che viene realmente perce­
pito dall'uomo (Rm 9,9-11). La chiamata amoro­
sa di Dio è sempre un appello della sua 1I:p66e:0"r..;
.532 SAGGI TEOLOGICI

ed un'elezione (Rm 8,23-33; 2 Tm 1,9; 2 Pt


1,10).
Se si tengono presenti queste considerazioni,
non c'è da meravigliarsi che l'Onnipotenza di Dio,
nonostante il suo carattere metafisico, venga vista
e sperimentata principalmente in connessione con
la sua libera azione salvifica. Egli ha il potere di
far sorgere dalle pietre dei figli di Abramo (Mt
3,9; Le 3,8; Mt 19,26 e paralleli); può risusci­
tare i morti, richiamandoli ad un altro ordine di
vita (Mt 22,29 s; Gv 5,21; 1 Cor 6,14; El 1,19;
Eh 11,19). La sua &vépye:~1X si manifesta nella ri­
surrezione del suo Figliuolo (At 2,24; 1 Cor 6,14;
2 Cor 13,4; El 1,19 s; Col 2,12). Egli è ~uvlX't'6c;
anche di convertire i suoi avversari e salvaguar­
dare quelli che gli sono fedeli (Rm 11,23; 2 Tm
1,12). La sua potenza si manifesta nel conferire
liberamente la grazia (Rm 1,16; 16,25; 1 Cor 2,
5; 2 Cor 9,8; El 1,11; 3,7.20; Fil 2,13; 4,13;
2 Tm 1,8; Eh 2,18), nel mantenere le sue pro­
messe (Rm 4,21) e nel punire (Rm 9,22).
Troviamo delle vere affermazioni metafisiche
solo quando si afferma la conoscibilità della sua
~UVIX!l.tI:; sul mondo (Rm 1,20) o si fa appello al
1t1XV't'OXp&'t'Cùp (At div. testi; 2 Cor 6,18; quindi una
volta sola fuori degli Atti!).
In corrispondenza all'agire dialogico di Dio la
sua potenza non è vista tanto come una realtà
evidente, sempre presente nel mondo e sempre
già attuata, ma come qualcosa che si realizza len­
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 533

tamente e con difficoltà nel dramma che si svolge


tra Dio e il suo mondo, sino a che la sua ~otO'LÀE;(1X
sia realmente attuata sulla terra e la sua MVIX!l.LC
sia effettivamente apparsa (Mt 24,30; Le 21,27;
cfr. Mt 26,64).
Questo atteggiamento personalmente esisten­
ziale di Dio, che si può conoscere non dal mondo
ma solo dagli atti della sua libera iniziativa, si
manifesta infine nel modo più chiaro nelle affer­
mazioni paradossali.
Per la scienza metafisica quel che è più ele­
vato nel mondo è in qualche modo anche più
vicino a Dio. Si tenta di salire a Dio elevando e
sublimando i valori e le forze del mondo. Questa
ricerca di Dio all'interno del mondo, che costitui­
sce il fondamento della conoscenza metafisica dei
suoi attributi, ha sempre la forma dell'eros gre­
co: tende verso l'alto per il più completo adem­
pimento della realtà umana e solo per tale mez­
zo verso Dio. Il mondo può attendere solo una
rivelazione: l'apparizione della sua potenza e del­
la sua sapienza. Dio invece, che è libero e tra­
scendente, più grande di ogni grandezza terrestre,
più dissimile che simile a quanto v'è di più ele­
vato, trascende con maestà sovrana ogni cosa e
si manifesta proprio nella realtà terrestre. che
sembra la più lontana da lui. Egli rivela 't'Ò «0'6evèç
't'OU &ou, 't'ò !l.Wpòv 't'OU 6eou non nella sapienza
del mondo o nella magnificenza della potenza ter­
restre, ma nella stoltezza e nell'impotenza della
534 SAGGI TEOLOGICI

Croce (1 Cor 1,18-25). Non si comunica a ciò


che, sotto l'aspetto metafisica, gli è più vicino, al
sapiente, al forte, al perfetto, a chi è ontologica­
mentre più ricco, ma allo stolto del mondo, al de­
bole, al fallito, a chi è intimamente fragile e nulla
davanti al mondo (1 Cor 1,26-29; 2 Cor 12,9;
13,4; Mt 11,25). La !J.op'P~ Sc:ou si annienta nella
!J.oP'P~ 3ouÀol), nella povertà, nella morte di Cro­
ce (Fil 2,5-8; 2 Cor 8,9). Il Verbo di Dio, eterno
e creatore del mondo, si fa qualcosa di temporale,
di caduco, di soggetto al potere del peccato e del­
la morte (Cv 1,14). Tutto ciò avviene 87t'<.ùç !J.~
XOCI)X~01ì't'OCL 7t'iiQ'oc ~p~ ~vcGmov 't'ou 6c:ou (1 Cor 1,29).
Dal punto di vista del mondo non v'è nulla
che possa chiaramente, con diritto indiscutibile ed
innato, rivendicare il privilegio di manifestare e
rappresentare Dio sulla terra. Anche l'elemento
più elevato è infinitamente distante da Dio. Però
quanto v'è di più umile non può attirare da se
stesso e necessariamente Dio, come se questi pro­
pendesse con piacere verso il vile e il miserabile.
Tutto nel mondo, dall'infimo al massimo, è O'iXp/;,
quindi tutto deve ammutolire davanti a lui. Per­
ciò non v'è alcuna proprietà attinta dal mondo,
che si possa attribuire con verità quaggiù a Dio.
Sappiamo propriamente e con chiarezza chi è
Dio non da noi stessi e dal mondo, ma solo dal­
l'intervento libero del Dio vivo nella storia, con
cui ci manifesta chi vuoI egli essere per noi. L'in­
segnamento decisivo del N.T. non è un'antologia
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 535

degli attributi di Dio né un'esposizione teorica:


è una relazione storica delle esperienze che l'uomo
ha fatto con Dio.

3. Il Dio dell'amore.

L'esperienza più decisiva, che l'uomo ha fatto


nella storia della salvezza, è che il Dio dei Padri ci
ha chiamati alla più intima comunione con lui nel
suo Figlio mediante la grazia. È quanto si esprime
nella frase: 6 6e:òc; &y&7t1J èO''t'L \I (1 Cv 4, 16). Per
comprenderne il significato occorre una spiegazio­
ne che vada un po' più a fondo.
La comprensione dell'azione personale di Dio
nel N.T. presenta delle caratteristiche ben mar­
cate. Anzitutto il N.T. ben sapendo che il Dio li­
bero e vivo può agire in tempi diversi ed assu­
mere atteggiamenti vari nei confronti dell'uomo,
nella sua sovrana e imprevedibile libertà ha pro­
nunciato la sua ultima, decisiva e definitiva pa­
rola in un drammatico dialogo tra sé e l'uomo.
Egli è il Dio libero e trascendente, le cui possi­
bilità non si possono mai esaurire in un mondo
finito e che perciò non è mai veramente vincolato
da ciò che ha fatto. Eppure si è determinato ed ha
preso di fronte all'uomo e a tutto il finito un at­
teggiamento ch'egli stesso dichiara liberamente de­
finitivo, immutabile ed irrevocabile. E poiché il
solo tempo, che abbia un valore davanti a Dio,
536 SAGGI TEOLOGICI

non fu misurato nei suoi periodi dal corso regola­


re delle stelle e degli orologi, ma dalle azioni di
Dio nel mondo, sempre nuove e sempre libere, il
tempo propriamente si arresta, quando Dio ha
detto la sua ultima parola. Ora, poiché ciò s'è di
fatto verificato, il xcxtp6ç è veramente adempito
(Mr 1,15), è venuta per noi la fine dei tempi
(1 Cor 10,11; 1 Pt 4,7). La temporalità intima
del mondo, strutturata dalle iniziative di Dio, è
al suo termine, anche se questo xcxLp6ç definitivo,
confrontato al tempo astronomico, può durare per
millenni. Dobbiamo renderci conto che cosa vuoI
dire l'Infinito, quando afferma che l'azione da lui
compiuta in un determinato momento, benché sia
sempre necessariamente contingente come ogni
azione libera riguardante cose finite, è l'ultima che
compirà, che non realizzerà alcuna delle molte pos­
sibilità che gli rimangono e tutto resterà per l'eter­
nità come è stato ora stabilito.
Per caratterizzare questa situazione unica, ir­
reversibile e assolutamente originale, la si deve di­
stinguere dagli atteggiamenti assunti da Dio si­
nora, precisare nel suo intimo contenuto e deter­
minare nel tempo e nella sua portata.
In altre parole: sinora abbiamo detto che la
dottrina decisiva del N.T. non riguarda gli attri­
buti di Dio, ma descrive gli atteggiamenti sempre
nuovi di Dio, di cui l'uomo fa esperienza nel corso
della sua storia. Abbiamo anche aggiunto che il
XOtLp6ç del N.T. è caratterizzato dal fatto che l'at­
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 537

teggiamento di Dio in esso sperimentato è defini­


tivo. Si presentano ora due interrogativi:
1) questo nuovo atteggiamento di Dio si di­
stingue da quelli assunti precedentemente nel­
l'A.T. sino alla venuta di Cristo?
2) qual è l'intima natura di questo atteggia­
mento assunto da Dio nella situazione finale del
N. T.?

a) L'amore di Dio nell'Antico Testamento.


Secondo la lettera agli Ebrei (1,1) Dio ha par­
lato ed agito nel suo mondo in maniere varie e
molteplici. Ora la parola e l'azione di Dio, ultime
e definitive, che si sono verificate ed attuate nei
X.OCLpO~ taLoL (1 Tm 2,6; 6,15; Tt 1,3) del patto
nuovo ed eterno, non devono essere solo la con­
clusione di una serie, ma il 7tÀ~pCùf.Lcx. di tutti i
tempi anteriori (Mr 1,15; Gal 4,4; El 1,10) e
qualche cosa di nuovo di fronte a tutto ciò che le
precedette. Perciò quest'ultimo atteggiamento di
Dio si deve distinguere dai precedenti, che rice­
vono da esso un carattere unitario. Nello stesso
tempo dev'essere inteso come il loro -reÀoç, per­
ché in esso trovano il loro adempimento. In altre
parole, questo ~GXcx."ov, che è "tiÀoç e ?t'À~pCùf.Lcx.
di tutto il passato, riduce le azioni e le parole sal­
vifiche di Dio anteriori al N.T., per quanto molte­
plici e diverse, ad un denominatore comune, di­
staccandosi cosÌ nettamente da esse. Tutto il resto
538 SAGGI TEOLOGICI

dev'essere assunto in questo termine finale, in cui


trova il suo compimento.
Dobbiamo tener presente questo rapporto,
quando ci domandiamo che cosa è il Dio del N.T.,
come si distingue dal Dio dell'A.T. Dopo quanto
si è detto sin qui, non ci domandiamo, semplice­
mente e con ingenuità, che cosa abbia compreso
di Dio l'uomo dell'Antico e del N.T. Non si tratta
di una diversa concezione soggettiva degli uomini
delle due Alleanze né della conoscenza progressiva
di un oggetto sempre identico in se stesso, ma di
atteggiamenti diversi di Dio stesso.
Evidentemente non possiamo esporre qui tut­
ta la dottrina del N.T. sulle differenze tra l'Antico
e il Nuovo Patto, il tempo che precede Cristo e
quello che lo segue, sebbene sia questo il mez­
zo concreto per dire come il Dio dei Padri si
distingue dal Dio di nostro Signore Gesù Cristo.
Significherebbe in tal caso tentare un'impresa im­
possibile, e cioè spiegare il significato di tutte le
coppie di concetti tra loro contrari, quali Ò(a~x(C<.
(,x[J.ocp-r(oc) - ~LxOCLOaUV1J (Rm 3,5), aouÀoç-u~oç(Rm
8,15; Gal 4,7), aouÀe:(oc-€Àe:UeepLoc (Gal 5,1), vO[J.oç­
mO"n~ (Rm 4,13 s), O'ocpç-me:u[J.oc (Rm 8,9), xoc­
-raxp~O'~~ - 3~XOCLOcrt)'J1J (2 Cor 3,9), ì'poc[J.!LOC -me:u[J.oc
(2 Cor 3,6), ~Pì'ov-xapLC; (Tt 3,5-7), aLOCXOV[OC TOU
Oocva-rou - 3~ocxov(oc -rO\) meU[J.OCTOç (2 Cor 3,7 s), aLOl;­
O~X1J 7tOCÀOCLOC (7tpciJT1J) - aLoc8~x1J xoc~v~ (véoc; ociciJVLOç)
(Le 22,20; 1 Cor 11,25; 2 Cor 3,6; Eb 8,6;
1; 15; 12,24; 13,20; Gal 4,24), O'XLtX fJ.E:ÀMVTCùV
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 539

-clxwv't'wv 7tpocy(.tOC't'CùV (Col 2,17; Eh 10,1), È7tocy­


yeÀ[oc-eùocyyÉÀwv (Rm 1,1 ss; El 3,6), (1't"o~xer:1X 't'O\)
xocrfLou -Xp~(J't"6ç (Col
2,8.20; Gal 4,3-9), ecc., e
distinguerli fra loro. Solo di qui apparirebbe chia­
ramente la differenza di comportamento tra il Dio
dell'A.T. e quello del Nuovo.
Dobbiamo battere qui una via più semplice.
Partiamo dall'idea corrente, d'altronde perfetta­
mente giusta, secondo la quale nel Nuovo Testa­
mento e, nel senso più proprio, solo in esso Dio si
rivela come il Dio dell'amore, come l'Amore. La
nostra prima questione si concretizza cosÌ: come
e perché questo amore di Dio, manifestato si in
Cristo, si distingue dalla condotta di Dio nell' An­
tico Testamento e, pur distinguendosi, lo com­
pleta?
Di primo acchito questo presunto risultato non
appare molto verosimile. Dio sembra manifestarsi
come amante anche nel tempo salvifico anteriore
a Cristo, anche se, naturalmente, si può parlare
dell'A. T. solo con le necessarie cautele e col mas­
simo riserbo.
Anzitutto si trovano in esso anche dei contesti
concettuali, che, se così si può dire, parlano di un
amore metafisica di Dio. La Sapienza (11,24) af­
ferma che Dio ama tutto ciò che esiste nel mondo.
Secondo il salmo 145,9 Dio dà a ciascuno il suo
essere e mostra la sua misericordia a tutte le sue
creature, mentre nel salmo 136,1-9 si esalta tutta
540 SAGGI TEOLOGICI

la creazione come opera della clemenza e della


bontà divina. Siamo di fronte a contesti concet­
tuali di una teologia naturale: la bontà (il valore
ontologico) della realtà è riportata alla sua origine
nella causa prima di tutto l'essere, che è cosi con­
cepita come buona.
A questa bontà metafisica di Dio si applica
evidentemente quanto si è già detto della teologia
naturale in generale. Essa può essere conosciuta e
in qualche modo è sempre conosciuta, è offuscata
dal peccato originale e si svela chiaramente solo
nell'esperienza che l'uomo fa di Dio nella storia
della salvezza soprannaturale.
Però tale « amore » da solo propriamente non
crea alcun rapporto personale di lo e di Tu tra
Dio e l'uomo. Questi sa di essere sorretto da una
volontà ordinata in qualche modo al valore e al
bene, ma non può, per cosi dire, volgersi ed en­
trare in rapporto personale di comunione e di mu­
tuo amore con questa causa prima del suo essere e
del suo valore.
Nell'A.T. si parla spesso anche della bontà e
della misericordia di Dio, che traspare dalla sua
azione personale nella storia. Dio si è scelto il suo
popolo, gli manifesta in modo particolare la sua
bontà, la sua misericordia e il suo amore proprio
guidandolo personalmente, eleggendolo e stringen­
do alleanza con esso. Egli entra cosi in rapporto
del tutto personale con l'uomo, intreccia con lui
un dialogo. Tutto ciò è per l'A.T., specie per i
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 541

profeti, espressione di una degnazione e di una


grazia incomprensibili. Dio per di più non si lascia
sconcertare dall'infedeltà del suo popolo, dall'ab­
bandono ripetuto di Israele, né rinuncia, a causa
dell'adulterio di lui, alla volontà di conservare
questi rapporti personali: .ecco l'apice dell'amore
di Dio nell'A.T.
In modo più incisivo potremmo forse dire che
per l'A.T. è già segno dell'amore di Dio il fatto
ch'egli entri in rapporto personale col suo popolo
e non vi rinunzi, nonostante il rifiuto degli uomini.
Quest'amore però non sembra includere di più.
Certo si lodano, sempre e ovunque, la bontà,
la clemenza, la prontezza al perdono e la mise­
ricordia di Jahwe verso tutte le creature, specie
verso il suo popolo. Ma, se non facciamo erronea­
mente coincidere la bontà di Dio col suo amore
propriamente personale, non possiamo dedurre
nulla da queste affermazioni per rispondere alla
domanda: Dio ama nell'A.T. l'uomo, perché gli
si vuoI donare in modo personale nella sua essen­
za? Bontà, clemenza, misericordia, provvidenza
sono tutte proprietà, che possono contrassegnare il
Signore di fronte al suo servo. Tale rapporto per­
ciò non esprime ancora che questo signore solle­
cito, giusto, clemente e provvido voglia avere a
che fare con questo servo nella sua vita stretta­
mente personale. Egli può restare sempre ancora
lontano e inaccessibile. Certo, quando Dio eser­
cita il suo dominio su tutto il creato, penetran­
542 SAGGI TEOLOGICI

do e intervenendo attivamente, d'iniziativa perso­


nale, nell'ambito del mondo, e quasi rinuncia alla
sua trascendenza su tutto il finito, diventando part­
ner del suo mondo, si ha già l'inizio di un impe­
gno personale. Questo, visto retrospettivamente
dal N.T., diventa per noi con chiarezza qualche
cosa, che ha un senso solo come momento di un
moto di condiscendenza di Dio verso la creatura:
egli mirava già allora a confidare se stesso al­
l'uomo nella sua intima irrelatività, nel mistero
della sua vita intima personale. Tutto ciò però non
poté propriamente essere intravisto dall'A.T.
Il fatto che Dio con la sua azione personale
prenda l'uomo al suo servizio, con un suo atto
storico faccia di lui ciò che è già per natura, rice­
vendolo così per suo servitore, gli comunichi per­
sonalmente la sua volontà, si occupi personalmen­
te di lui, è già per se stesso una meraviglia incom­
prensibile, che si poté esprimere solo con l'im­
magine di un amore paterno e coniugale. Però solo
nel N.T. questo amore si rivelò elevante.
A ciò si aggiunge ancora che questa azione
amorosa di Dio verso l'uomo nell'A.T. è essenzial­
mente e intimamente ordinata a qualcosa che ha
da venire, ad una nuova alleanza. Questa realtà
promessa rimane però nell'A.T. velata ed oscura.
Se ci si ferma all'A.T. non si può dare una rispo­
sta agli interrogativi seguenti: questa nuova real­
tà è solo l'attuazione del dominio di Dio sul mon­
do, che lascia l'uomo ancora semplice servo di Dio,
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 543

o dovrebbe essere qualcosa di più? Nel futuro


sarà attuata incondizionatamente la legge di Dio
e solo per questa via la regalità piena di Dio? Op­
pure questo dominio divino si attuerà perché Dio
vuoI essere più che il signore, che si stabilisce nel
mondo con la gelosa affermazione del suo esse­
re? Vorrà egli essere il signore amato o l'amato
sovrano?
Tutte queste promesse, quali parole esisten­
ziali di Dio e non semplici affermazioni, rimasero
sempre, sino a che Dio non pronunciò la sua ul­
tima, irrevocabile e decisiva parola, subordinate
alla risposta che avrebbe loro dato l'uomo, libero
partner di Dio in questo dialogo della storia sal­
vifica.
Così l'amore di Dio nell'A.T., quando non
esprime il rapporto metafisica di Dio verso la sua
creatura, che è generico, privo di ogni carattere
esistenziale e personale, significa solo che egli vuo­
le e rende possibile un incontro personale con
l'uomo. Dio desidera con passione avere questo
rapporto e non vi rinuncia, almeno per il momen­
to, anche quando l'uomo vi si rifiuta. Nulla però
indica che questo rapporto debba per sua essenza
andare al di là di quello che intercorre tra il si­
gnore e il suo servo e debba essere irrevocabile:
ciò era avvolto ancora nel mistero del consiglio
eterno di Dio. Infatti Dio non aveva ancora ope­
rato nulla nella storia umana, che schiudesse all'uo­
mo, in maniera chiara e irrevocabile, l'accesso alla
544 SAGGI TEOLOGICI

sua vita personale intima. Perciò l'amore, che l'uo­


mo era chiamato a testimoniare a Dio, restava an­
cora condizionato al modo con cui Dio voleva
amarlo. Si comanqava all'uomo di amare Dio con
tutte le forze del suo essere, ma l'uomo non sa­
peva quale sarebbe stato il sÌ incondizionato che
Dio attendeva dalla sua libertà. Sarà solo l'amore
umile del servo per il suo padrone, che proprio
perché aderisce col suo amore a Dio quale egli
vuoI essere, si arresta di fronte alla sua maestà
sovrana e alla sua luce inaccessibile e non presume
d'instaurare con lui un rapporto di fiducia e di
vera comunione personale incondizionata? O que­
sto sÌ di amore, che l'uomo proferisce ciecamente
e senza riserva, lo introdurrà nelle profondità stes­
se della vita intima di Dio?
Quando nell' A.T. l'uomo assentiva a Dio con
fede piena di amore, era evidentemente già sotto
l'influsso dell'intera teologia dell' azione salvifica
di Dio, anche se il suo telos gli era ancora na­
scosto. Disposto ad essere servo, era già figlio.
Ma egli l'ignorò, finché venne il Figlio del Padre
e cosÌ si manifestò nella storia umana dò che fu
sempre il mistero del disegno della volontà di­
vina 9.

9 Cfr. HEINIsCH, Teologia del Vecchio Testamento, tr. D.


Pintonello, Marietti, Torino, 1950, 99-109; KITTEL, I, 29-34.
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 545

b) La natura del rapporto di Dio verso l'uomo


nel Nuovo Testamento.

Dicendo che Dio è amore e che il carattere


decisivo del rapporto libero di Dio nella storia
si ha nella pienezza dei tempi, nel kairos del N.T.,
intendiamo affermare:
1) effettivamente ci troviamo di fronte non
ad una proprietà di Dio, ma ad una sua azione
libera, ad un evento, l'evento del N.T. attuato
dal Cristo;
2) questo evento consiste nella comunicazione
completa e incondizionata, che Dio fa della sua
vita più intima all'uomo da lui amato.
Questi due elementi caratterizzano il concetto
di amore genuino e personale. L'amore non è una
espansione naturale di se stessi, ma la donazione
libera di una persona che si possiede e può per­
ciò anche rifiutarsi. T aIe donazione è sempre me­
ravigliosa e gratuita. L'amore, in senso pieno e
personale, non è un qualunque rapporto tra due
persone, che s'incontrano in una terza realtà, qua­
le può essere un'opera, un progetto e così via.
È l'abbandono e l'apertura più intima di se stessi
alla persona che si ama.
Metteremo in risalto questi due aspetti nei
due punti seguenti, senza voler però delineare la
realtà salvifica del N.T. in ogni sua dimensione.
546 SAGGI TEOLOGICI

1. Dio ha manifestato di essere l'amore e di


aver chiamato l'uomo alla comunione amorosa più
intima con lui, nella missione del suo Figliuolo
unigenito, nella sua incarnazione, crocifissione e
glorificazione. Con ciò non vogliamo dire che dal­
la realtà del Cristo si possa dedurre come da un
caso esemplare il modo con cui Dio si presenta
necessariamente all'uomo, ma semplicemente che
tutta l'azione libera di Dio nell'intera .storia della
salvezza era ordinata sin dal suo inizio a questo
evento e sorretta da questo decreto divino. La
sua volontà di comunicarsi liberamente e in ma­
niera illimitata e personale all'uomo divenne de­
finitiva, irrevocabile e incondizionata mediante
il suo intervento in Cristo. Cristo è il TéÀo~ 't'oi)
vO[Lou (Rm 10,4), il compimento dei tempi (Mr
1,15). In lui si è manifestato l'ocyoc7tl) 't'oi) Osoi)
(Rm 5,8: O'uvLO"t'l)oW aè: 't'~v éocU't'oi) ocyOC7t"fjv fi:t~ ~[LCi~
Ò 6&ò~, /Y:;L zn &[Locp't'wÀwv ()v't'wv ~[LWV XpLO"t'Òç Ù7tÈp
~[Lwv &7té6ocvfi:V. 1 Gv 4,9: f:V 't'OIYr<p f:<pocvEpw6l) ~ ocy&­
7t"fj 't'oi) Ofi:oi) èv ~[LrV, O't'L 't'ÒV <.ltòv OCù't'oi) 't'OV [Lovoyev1j
OC7tÉO"t'OCÀXfi:V Ò 6e:ò~ e:t~ 't'ÒV x60'[Lov. T t 3,4: ~ Xp'Y)O'­
-ro't7J~ XOCL ~ <pLÀocv6pw7t[oc è'Tte:<p&v1J 't'oi) O'w't'-Yjpo~ ~[Lwv
6wu).
Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo
Figliuolo unigenito (Gv 3,16). La grande dimo­
strazione della tesi dei tempi nuovi ora instaura­
tisi, fatta da Paolo nella lettera ai Romani, cul­
mina non senza motivo in un inno, in cui si passa
dall'amore per Dio degli eletti all'amore di Cristo
THEOS NEL NUOVO TESTA~ENTO 547

per giungere alla certezza tranquilla 't'~c;; &'y&7t1)C;;


'toli {le:oli -iìjc;; èv XflLO"'tc!> 'I1)crou -rc!> KUfl(CP ~!LWV
(Rm 8,28.31 ss) IO.
Nella realtà di Cristo l'amore di Dio è per
la prima volta, in senso vero e proprio, presen­
te, manifesto (è7tl;:~&vYJ) ed oggettivato (O"UVLO"-r1)crLV
Rm 5,8). Mediante questa sua reale presenza
nel mondo esso è divenuto evidente. Si è così
attuato un evento definitivo e irreversibile: Cri­
sto permane eterno, egli è autore di una reden­
zione eterna, è entrato nel tabernacolo dell'al­
leanza eterna e siede alla destra di Dio. Le pro­
messe sono così emerse dalla loro oscillazione e
ambiguità e definitivamente confermate ([3e:[3otL(;)­
GOCL: Rm 15,8). Perciò nessun'epoca futura, nessu­
no stadio di sviluppo, che si possa concepire (OiS-rE
[l1;ÀÀov't'oc: Rm 8,38), può annullare questo even­
to definitivo dell'amore di Dio per noi.

2. Dio ci ha donato se stesso nel Cristo: 'iJ


XOLVCùVLOC aè ~ ~!Le:-répot !Le:'t"CÌ; 't'oli 'ltot-rpòc;; XOCL [.Le:-rÒt
't'OU utoù otò'tOù (1 Gv 1,3), (il termine XOLVCùVLot
si usava di preferenza nel greco profano per de­
signare l'unione coniugale). Con ciò ci ha da­
to l'&ytoV 'ltYs:u!Lot (2 Cor 13,13). Questa comu­
nione di amore è instaurata dallo Pneuma di Dio,
mediante il quale c'infonde il suo amore (Rm 5,5;
Gal 4,6; 1 Gv 3,24; 4,13), e nel quale ci schiude

lO KITTEL I, 49.
548 SAGGI TEOLOGICI

la sua vita personale più intima. Infatti solo lo


Spirito scruta le profondità di Dio, ~O;O'YJ 't"OU Oe:ou,
che nessun altro può conoscere e penetrare (1 Cor
2,10) e ci guida cosi alla conoscenza più intima di
Dio (Gv 15,26; 16,13; 1 Cor 2,12; 1 Gv 20,27).
Questo Spirito divino, che realizza in noi l'amo­
re personale, con cui Dio ci schiude i suoi ultimi
abissi, è perciò lo spirito di fìgliuolanza (Gal 4,
4.6), di cui ci dà anche la testimonianza (Rm 8,
15). Per mezzo di lui siamo fìgli di Dio (1 Gv
3,1.2), chiamati a conoscerlo come egli si cono­
sce, a vederlo faccia a faccia (1 Cor 13,12). Siamo
così introdotti veramente nella più intima comu­
nione vitale col Dio che nessuno ha mai visto o
potuto vedere (Gv 1,18; 1 Tm 6,16), che solo il
Figlio conosce (Mt 11,27; Gv 3,11.32; 7,29) e
colui cui il Figlio lo ha rivelato (Mt 11,27), ren­
dendolo partecipe dell'essenza e del diritto di que­
sta sua fìgliolanza (Rm 8,17.29; Eb 2,11.12).
Non spetta a noi esporre qui più ampiamente
l'essenza di questa grazia e di questa fìliazione.
È abbastanza chiaro che tale rapporto si collega
con nesso indissolubile alla realtà di Cristo e deve
la sua esistenza all'atto singolare e libero, con cui
Dio ci ha donato se stesso in lui. Perciò il testo,
o Oe:òc; &'y&1t'1J Ècr't"[v, non afferma anzitutto una pro­
prietà essenziale di Dio, che sarebbe in sé eviden­
te, ma l'esperienza unica, innegabile e defìnitiva,
che l'uomo ha fatto di Dio in Cristo. È l'espe­
rienza del dono, che Dio ha fatto di tutto se stes­
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 549

so all'uomo in Cristo. Certo, in questo libero at­


teggiamento assunto nel kairos di Cristo, Dio co­
munica definitivamente tutto ciò ch'egli è e può
essere per essenza e per libertà. Si può parlare
di comunicazione della natura divina. Tale comu­
nicazione però dipende in maniera indissolubile
dall'amore, che il Dio personale volle avere per
noi. In questa conoscenza è racchiusa tutta la real­
tà del cristianesimo.

4. « Dio» prima persona frinitaria


nel Nuovo Testamento

a) Impostazione del problema.

L'ultimo quesito, che ci dobbiamo porre qui,


riguarda la dogmatica e la teologia biblica. È di
carattere dogmatico, perché si presuppone la dot­
trina trinitaria definita dalla Chiesa e si fa uso
di concetti che vanno al di là dei dati immediati
ed espliciti del N.T. È ancora una questione di
teologia biblica, perché si ricerca il significato di
un termine quale si presenta nel N.T.
In questa esatta problematica ci domandiamo:
chi s'intende, quando nel N.T. si parla di «o
6e6ç»? Non è nostro compito esporre tutta la
dottrina trinitaria del N.T. Piuttosto la suppo­
niamo quale dogma di fede. Consideriamo acqui­
sito che quanto la Chiesa crede sulla trinità delle
550 SAGGI TEOLOGICI

persone divine nell'unità dell'unica ed identica es­


senza, sia presente anche nel N.T., sia pure in
formule diverse e più semplici. Non ci doman­
diamo quindi se queste tre persone, chiamate nel
N.T., 7toc't'~p. uL6ç, 1t'V&u[J.oc &ywv, si distinguano
fra loro secondo il N.T., pur identificandosi nel
possesso della comune essenza. Ma, supposto tut­
to ciò, chiediamo: quale di queste tre persone
intende il N.T. quando parla di ò 6&oç?
Secondo la concezione abituale non sussiste
per sé alcun problema nell'ammissione della dot­
trina trinitaria, perché si suppone che la termino­
logia usata dal N.T. coincida con quella della teo­
logia: la parola e il concetto «Dio » significano
(significant) la persona che possiede l'essenza di­
vina. Il termine « Dio» può perciò stare (suppo­
nitur) per ciascuna delle tre persone divine, in
possesso di tale essenza, o anche per tutte e tre
le persone insieme. Quando per esempio si chia­
ma il Logos « Figlio di Dio », Dio sta per il Pa­
dre, in quanto è anch'egli una persona divina,
perché «Dio» può stare per ciascuna delle tre
persone divine, ma solo il Padre ha un Figlio.
Ugualmente quando si dice che Dio crea il mon­
do, secondo la concezione della teologia latina
« Dio » sta per la persona divina, cioè in questo
caso per le tre persone divine insieme, in quanto
sono un unico Dio per l'unità dell'essenza e un'u­
nica causa del mondo per l'unità del loro ope­
rare al di fuori. Per la concezione corrente per­
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 551

tanto « Dio» è, sotto l'aspetto della personalità.


un concetto generico, se così ci possiamo espri­
mere. Può perciò venir applicato suppositivamen­
te o stare per ognuna delle tre persone prese in­
dividualmente e per tutte e tre insieme 11.
Né si può contestare qui che tale accezione del
concetto e del termine «Dio» sia possibile, le­
gittima e a lungo andare inevitabile. Tuttavia re­
sta ancora da domandarsi se tale sia il modo di
parlare anche del N.T. Posto nei termini della
logica scolastica il problema è il seguente: il ter­
mine «o 6e6ç» nel N.T. sta solo frequentemen­
te per il Padre, ma ancor più spesso per il Dio
trino in genere, significando solo l'essenza di Dio,
che esiste e sussiste concretamente? O non sta
solo frequentemente per il Padre, ma lo signifi­
ca sempre? Noi affermiamo che nel N.T. ò 6e6c;
significa la prima persona della SS. Trinità e non
sta solo di frequente per essa. Ciò vale per tutti
i casi, in cui non si rivela chiaramente dal conte­
sto un altro significato di o 8e6ç. Queste poche
eccezioni non dimostrano affatto che o 6e:6c; stia
solo per il Padre senza significarlo veramente.

11 Naturalmente si deve intendere bene 1'« universalità»


di questo concetto: si ha un concetto veramente universale
solo quando la forma o essenza designata in obliquo dal con­
cetto concreto è moltiplicabile. A proposito della personalità
divina, non possiamo parlare di concetto universale se non
nella misura in cui è possibile formare un concetto «univer­
sale» dall'unicità ultima, concreta ed immediata di un essere
sussistente.
552 SAGGI TEOLOGICI

Non siamo di fronte ad una questione sottile


di logica grammaticale. Certo, ci sono nel N.T.
molte asserzioni su Dio, che conservano sempre
intatto il loro contenuto, qualunque soluzione si
dia a questa nostra questione. Infatti in molti
casi, anzi nella maggior parte, le asserzioni su
Ò 6<:6ç anche se si riferiscono solo al Padre (am­
messo che o 6<:6c; signifìchi ovunque il Padre e
perciò stia solo per esso), riguardano implicita­
mente per il loro contenuto anche il Figlio e lo
Spirito Santo. Ma se le asserzioni su /) 6e:6c; si ri­
feriscono espressamente solo al Padre, è in ogni
caso da provare più esattamente e da dimostrare
con rigore ch'esse in realtà si riferiscono implici­
tamente anche alle altre persone. Quando, per
esempio, nel N.T. siamo chiamati « figli di Dio »,
si dice con ciò già espressamente che siamo figli
delle tre divine persone, quindi in partenza e con
ugual diritto figli del Figlio e dello Spirito Santo?
Si può dedurre senz'altro ciò da tale affermazio­
ne? Non c'è bisogno di spiegare ulteriormente
che tale questione sfocia nell'altra: in virtù della
grazia sussiste una vera relazione tra noi e le tre
divine Persone? Anche se non si affronta questa
questione nella presente disamina, essa è presup­
posta inevitabilmente dalla nostra impostazione
del problema e si presenta nel suo significato
obiettivo già in questo esempio particolare.
Ma, anche a prescindere dalla sua soluzione,
la nostra questione ha un'importanza pratica per
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 553

l'esattezza kerigmatica del linguaggio teologico.


Non ogni espressione obiettivamente vera è tale
anche sotto l'aspetto kerigmatico. Cosi, per esem­
pio, è realmente vero che Gesù, quando pregava
in quanto uomo, si rivolgeva alle tre persone di­
vine, ma sarebbe kerigmaticamente poco esatto
insistere nell'affermare che Gesù prega il Figlio
di Dio. Quando perciò si chiede quale linguaggio
sia esatto dal punto di vista teologico e kerigma­
tico, ci si dovrà sempre orientare, anche se non
esclusivamente, al modo di esprimersi del N.T.
Solo cosi si evita il pericolo che il nostro linguag­
gio ponga gli oggetti al primo piano della coscien­
za umana, che è sempre finita, insista su linee di
collegamento e di connessione, dalle quali la vista
della realtà rivelata, più importante e decisiva per
l'opera salvifica, venga coperta e messa in secon­
d'ordine. Se, per esempio, s'invocasse solo Dio
in genere o le tre persone divine allo stesso mo­
do, la posizione mediatrice del Cristo potrebbe
forse restare chiara in teoria, ma a lungo andare
potrebbe non conservare più, nella pratica della
vita religiosa, il ruolo che le spetta.
Data l'importanza, per questi motivi, dell'e­
sattezza non solo obiettiva ma anche kerigmatica
del linguaggio, occorre badare bene all'uso del
N.T. Né c'è bisogno di spiegare a lungo il valore
particolare che ha sotto tale aspetto l'uso del ter­
mine « Dio ». Ha grande importanza kerigmatica
precisare con maggiore esattezza in che senso il
554 SAGGI TEOLOGICI

N.T. ci chiama immediatamente ed esplicitamente


figli di Dio. Infatti il rapporto di figliolanza divi­
na, inteso nel senso attribuito abitualmente a ta­
le termine in occidente, ha contribuito ad aumen­
tare il pericolo di ridurre tale rapporto ad uno
sbiadito rapporto etico naturale. Ciò invece sa­
rebbe più difficile, se al primo apparire dell'idea
di figliolanza si avesse viva la coscienza che il
Padre nel senso trinitario (appunto perché « Dio »
significa il Padre) è nostro Padre e che questa fi­
gliolanza divina include anche rapporti specifici
al Figlio e allo Spirito Santo. Il N.T. non designa
questi ultimi rapporti col termine «filiazione »,
perciò lo si dovrebbe evitare nel nostro linguag­
gio kerigmatico. Se «Dio» significa il Padre e
ci abituiamo all'uso di questo termine, quando
« preghiamo Dio» e, ammaestrati da Cristo, di­
ciamo: «Padre nostro» (cfr. Lc 6,12), saremo
più chiaramente consci che invochiamo il Padre
di nostro Signore Gesù Cristo. Cosi sarà molto
più viva la struttura trinitaria di tutta la nostra
vita religiosa e la coscienza della mediazione di
Cristo di fronte al Padre molto più evidente, che
se nel pregare « Dio », tale termine ci richiamasse
alla coscienza solo il Dio della teologia naturale
e la Trinità in genere e perciò anche solo molto
in confuso 12.

12 Cfr. per esempio, J. A. JUNGMANN, Vie Frohbotschaft


und unsere Glaubensverkundigung, Regensburg, 1936, p. 67 S5.
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 555

b) Rilievo metodologico.
Anzitutto è chiaro ed evidente che nel N.T.
o 6eoc; spesso sta per il Padre inteso nel senso tri­
nitario, almeno nei testi, in cui si denomina Cri­
sto «Figlio del Padre» o lo Spirito, in quanto
persona, «Spirito del Padre ». Il Figlio, infatti,
e lo Spirito Santo non sono Figlio e Spirito della
Trinità, ma Figlio del Padre e Spirito del Padre.
Perciò ci domandiamo solo come si possa cono­
scere che ò 6e:oc; non solo sta per il Padre, ma
anche lo significa. Ci riferiamo naturalmente solo
all'uso del N.T.
Si potrebbe pensare che si debba dare a que­
sta questione già in partenza una risposta nega­
tiva per i seguenti motivi:
1) ò 6eoc; si presenta nel N.T. anche in con­
testi, in cui significa certamente non il Padre ma
il Dio trinitario; cosi nelle espressioni, in cui lo si
applica al Dio dell'A.T., al Dio della creazione,
al Dio che è oggetto della conoscenza naturale a
partire dal mondo;
2) o 6e6c; è attribuito anche al Figlio.
Anche se questi motivi non dovessero appa­
rire decisivi per il nostro caso, sorge però la do­
manda: in genere, come si può conoscere se in
un determinato modo di parlare un termine sta
solo per l'oggetto inteso o lo designa propriamen­
te? Da questa indicazione metodologica generale
che cosa risulta per il nostro caso concreto?
556 SAGGI TEOLOGICI

L'unica indicazione metodologica, che si può


dedurre dalla natura stessa delle cose, è questa:
si osservi l'uso linguistico corrente. Cominciamo
dal caso più ovvio. Supponiamo che un certo ter­
mine sia connesso sempre e ovunque con un de­
terminato oggetto e non con un altro per il qua­
le pure potrebbe stare, nel caso che esso desi­
gnasse solo l'oggetto predetto senza però signifi­
carlo. Supponiamo ancora che questo termine si
presenti persino in un contesto, in cui per la chia­
rezza ci si dovrebbe attendere un termine vera­
mente significativo, che di fatto esiste, e non uno
semplicemente sostitutivo. In tal caso è chiaro
che questo termine significa l'oggetto in maniera
specifica e non lo designa soltanto suppositiva­
mente. In ciò si deve evidentemente tener pre·
sente che nel linguaggio concreto si può facilmen­
te passare dall'applicazione suppositiva di un ter­
mine a quella significativa. Questo deriva dal fat­
to che l'uso di un termine subisce delle varia­
zioni attraverso la storia. Il contenuto concettuale
di un termine si può ampliare o restringere. Una
parola può passare da un significato stretto ad uno
più largo e poi ancora ad un altro stretto. Così
può accadere che una parola prima designi sol­
tanto un oggetto determinato e più tardi lo signi­
fichi e viceversa che il significato di una parola
si trasformi in un altro, dopo che è stata usata
semplicemente a designare l'oggetto in questione.
Perciò non si deve far troppo forza sul prin­
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 557

cip io generale che si può conoscere il significato


di un termine, quando lo si usa solo per un og­
getto determinato. È senz'altro possibile che una
parola significhi già o significhi ancora un deter­
minato oggetto, senza che si escluda cosÌ che in
pochi singoli casi la si possa adoperare supposi­
tivamente per indicare un altro oggetto e senza
che sia per questo fatto dimostrato che sia stata
adoperata solo suppositivamente per il primo og­
getto. Quando, per esempio, nel « Conte di Rab·
sburg », si legge che il conte « continua a godersi
la caccia sull'animale del suo servo », sappiamo
bene che si tratta di un cavallo. Ma non per que­
sto il termine « animale» significa «cavallo» in
Schiller. « Animale» sta qui solo per « cavallo ».
Se però si comincia ad usare un termine più o
meno regolarmente o esclusivamente per designare
un determinato oggetto, allora si dovrà dire che
esso diventa anche tecnico e significativo. CosÌ
quando, per esempio, nella vita moderna delle
grandi città, parliamo della nostra vettura, tale
termine nel nostro linguaggio non è più, propria.
mente, un concetto generico, avente sotto di sé
anche l'automobile come specie, per cui sta dì
quando in quando anche per esso. In questi con­
testi già significa l'automobile. Ciò non esclude
che per gli abitanti delle grandi città, in casi ecce­
zionali o in altri contesti, « vettura» possa spes­
so stare per carrozza o anche la significhi. Anzi,
è persino possibile che uno stesso termine signi­
558 SAGGI TEOLOGICI

fichi due cose diverse e non stia solo in loro vece.


Quando dopo la prima guerra mondiale parlava­
mo di «Tank », tale termine secondo i contesti
aveva il significato di « cisterna» o di « vettura
blindata ». Eppure per il nostro linguaggio non
si trattava di un termine generico raggruppante
sotto di sé questi oggetti diversi. Infatti, adope­
rando la parola «Tank» per vettura blindata,
non avevamo la sensazione di usare un linguag­
gio troppo generico e indeterminato, ciò che si
dovrebbe verificare se considerassimo il termine
« T ank » come un concetto vago e generico 13.
Appare cosi che una parola può denominare
più oggetti, senza che quelli che l'adoperano ab­
biano la sensazione di un concetto generico inglo­
bante questi diversi oggetti. In tal caso si ha da
fare con una molteplicità di significati e non solo
di impieghi suppositivi diversi dello stesso ter­
mine. Si devono aver presenti queste particola­
rità linguistiche per poter valutare esattamente le
considerazioni seguenti.

c) Discussione degli argomenti addotti contro


la tesi.
Consideriamo anzitutto la validità o meno de­

13 Si tenga conto che in ambedue i casi non si tratta di


parole identiche solo dal punto di vista fonetico ma designanti
concetti del tutto diversi, come capita in tedesco con « Steuer »,
che significa volante e imposta, e con « Dichtung », che signi­
fica poesia e dispositivo d'impermeabilità.
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 559

gli argomenti che si possono addurre per provare


che nel N. T. o 6e6ç per sé significa Dio in gene­
rale e perciò, anche se in alcuni testi intende il
Padre, si tratta di un'applicazione suppositiva del
termine, non di una sua intima significazione.
Cominciamo dal primo argomento. Si può di­
re che anche nel N.T. o 6e6ç è detto oggetto di
una conoscenza naturale. Questo Dio non sarebbe
il Padre, ma l'unico Dio, che è causa del mondo
per l'unicità della sua essenza, proprietà che com­
pete ugualmente a tutte e tre le divine persone
in possesso di questa unica essenza.
Ora si può dubitare e mettere in discussione
che si possa conoscere dal mondo il Dio trina
nell'unità della sua essenza e non già il Padre.
Evidentemente nella teologia naturale il Padre
non è conosciuto come tale, cioè come colui che
comunica in una generazione eterna al Figlio il
suo essere, mentre invece la teologia naturale può
intuire l'unicità necessaria della divina essenza.
Tuttavia si può asserire che effettivamente si co­
nosce dal mondo il Padre in concreto e non la
Trinità in modo generico e confuso. Mediante la
teologia naturale non si conosce solo una divini­
tà, ma un Dio, che dev'essere necessariamente
sussistente anche in una inderivazione assoluta e
incondizionata sotto ogni rapporto. L'essere così
conosciuto però è il Padre, e lui solo.
La necessità di un'inderivazione incondiziona­
ta ed assoluta sotto ogni rapporto possibile ed
560 SAGGI TEOLOGICI

escogitabile, è ancora un'affermazione possibile


alla teologia naturale, anche se in maniera pura­
mente formale. La teologia naturale certo, non
può conoscere che questo principio primo e con­
creto di tutta la realtà, assolutamente e sotto ogm
aspetto non originato, non solo ha creato il mon­
do dal nulla, ma ha comunicato il suo essere stes­
so. Non può conoscere che esiste un'altra per­
sona da lui originata, che possiede la stessa es­
senza divina; che colui, che è assolutamente senza
principio, possiede la sua essenza e la sua assoluta
inderivazione solo in relazione al Figlio e che per­
ciò non. tutto quello che ha origine da Dio rien­
tra ipso facto nell'ambito dell'essere creato.
Tutto ciò però non toglie che il principio di
tutta la realtà anche non creata, assolutamente
primo sotto ogni aspetto e conosciuto dalla teo­
logia naturale, sia il Padre. Infatti, lo sottolineia­
mo ancora una volta, l'affermazione formalmente
ontologica della necessità di una &px~ che sia as­
solutamente rJ.vocpxoc" riguarda a priori e stretta­
mente un'inQerivazione, che si oppone a qualsiasi
derivazione escogitabile, reale o ipotetica e non
solo ad una derivazione per creazione.
Si vede facilmente che queste considerazioni
toccano i problemi, che si trattano in teologia
quando si parla della subsistentia absoluta. Se
prescindiamo da questioni di terminologia, che
qui hanno pur una grandissima importanza, il pro­
blema reale si riduce a questo: che cosa è, o me­
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 561

glia chi è « questo Dio» (hic Deus), il cui con­


cetto da una parte si distingue dall'essenza divi­
na, dalla divinità, e dall'altra apparentemente si
potrebbe conoscere, prescindendo o ignorando le
tre sussistenze relative, solo mediante le quali
l'essenza divina riceve propriamente un'assoluta
e immediata concretezza?
Se nel rispondere a questo interrogativo non
vogliamo ammettere con Gaetano, Suarez ed altri
una subsistentia absoluta, che almeno come ter­
mine è estranea alla dottrina della Chiesa, in defi­
nitiva possiamo solo dire che l'Essere assoluto e
concreto (hic Deus), da noi conosciuto nella teo­
logia naturale, è propriamente il Padre, anche se
così s'ignora ancora che questa sussistenza sia re­
lativa ad un'altra persona divina. Infatti per via
naturale conosciamo che questa essenza divina de­
ve necessariamente esistere come questo Dio, in
un modo assoluto e individuale sotto ogni riguar­
do. Ora non dobbiamo ridurre questa sussistenza
personale, che è una realtà definitiva e immedia­
ta, a qualche cosa che non attingerebbe l'assoluta
e immediata concretezza di Dio, come è il caso
di questa subsistentia absoluta. «Questo Dio »,
in cui si deve ammettere l'essenza divina come
assolutamente sussistente, dev'essere il Padre, an­
che se da noi non conosciuto come tale.
Quando perciò il N.T. dichiara « Dio» oggetto
della teologia naturale, secondo quanto si è detto,
non si può senz'altro asserire che in tal caso in­
562 SAGGI TEOLOGICI

tende effettivamente il Dio trino nel suo insieme


e perciò in tale contesto il termine o Oe:6ç non si­
gnifica il Padre, ma il Dio trino in genere. Per­
ciò dal semplice impiego del concetto o OE:6ç per
lo meno non si può dedurre una conclusione chia­
ra per la nostra questione.
Lo stesso vale anche per il caso, in cui ò OE:6ç
è nel N.T. il creatore del mondo. Infatti da una
parte si può conoscere per via naturale Dio come
principio del mondo e lo stesso N.T. parla di Dio
creatore. D'altra parte la conoscenza naturale, che
giunge al suo termine estremo, riguarda la prima
persona, anche se non come tale. Si può perciò
affermare che quando il N.T. parla di o Oe:6ç crea­
tore del mondo, si riferisce al Padre. Il principio
primo ed assoluto sotto ogni aspetto, il Padre,
è il creatore del mondo. Con ciò non si nega che
questo attributo spetti obiettivamente a ciascuna
delle tre persone divine in possesso dell'essenza
divina, che è il fondamento del potere creatore
di Dio e della sua actio ad extra. Tale affermazio­
ne è piuttosto, per evidenza logica, implicita nel­
la prima. Perciò non v'è bisogno che sia in essa
contenuta espressamente.
Si può quindi asserire senz'altro che il Padre
abbia creato il mondo. Non c'è bisogno di sup­
porre che dica di più, quando il N.T. afferma
che Dio è il creatore del mondo. Da tale propo­
sizione non si può decidere se dica solo questo o
anche qualcosa di più. Si dovrebbe in tal caso già
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 563

sapere se o Se6e; stia solo per il Padre o lo signi­


fichi anche.
Lo stesso vale anche per i testi, in cui o Se6e;
è detto artefice della storia salvinca dell'A.T. In­
fatti per il N.T. o Se6e; è il creatore e il provvido
sovrano dell'A.T., per cui le stesse soluzioni si
applicano ad ambedue i casi sempre tenendo pre­
sente che, quando ci si riferisce espressamente
solo alla prima persona, sono incluse di fatto an­
che le altre due persone. Per di più qui si aggiun­
ge già il particolare che il termine o Se6e; appli­
cato all'artefice della storia salvinca dell'A.T., al­
lude senza dubbio al Padre, perché nel medesimo
contesto si parla della missione del Cristo da par­
te di questo stesso Dio 14.
Il secondo motivo, per cUi o 6e6e; dovrebbe
solo indicare il Padre senza signmcarlo, nei testi
in cui lo si designa effettivamente con tale ter­
mine, potrebbe sembrare di maggior peso. In al­
cuni testi infatti, del resto pochi, si chiama il Fi­
glio o 6e:6ç. Tra questi non si può comunque an­
noverare Gv 10,33, in cui i Giudei rimproverano
al Cristo di farsi Dio. Infatti era alieno dalla men­
talità dei Giudei qui in lotta il pensare ad una
distinzione tra il Figlio e il Padre né potevano

14 Al 3,12-26 a causa del v. 26; Eh 1,1-2: Dio ha parlato


attraverso i profeti e il suo Figliuolo; Gv 10,35-36: l'Antico
Testamento è la parola del Dio, che ha inviato il Cristo ne'
mondo; ecc. Cfr. J. BEUMER, Wer ist der Gott des A. T.?,
in Kirche und Kanzel 25 (1942) 174-180.
564 SAGGI TEOLOGICI

essi chiamare il Figlio ò 60:6ç con l'intenzione di


distinguerlo dal Padre. Trattandosi qui della ter­
minologia usata costantemente dal N.T., possia­
mo lasciare da parte anche il testo di Eb 1,8 s,
in cui S. Paolo applica al Cristo il salmo 44,7 s.
'0 60:6ç è effettivamente applicato al Figlio, ma non
si può trarre di qui alcuna conclusione definitiva
sull'uso linguistico dell' Apostolo, perché non sap­
piamo quale senso abbia elohim nello stesso sal­
mo 44 15 e in che modo S. Paolo applichi a Cri­
sto questo passo.
Fanno invece al nostro proposito altri testi del
N.T., quali: Rm 9,5 s, in cui è detto o &'1 bd
7':rXV1'WV 8e:6ç; Cv 1,1, in cui il Logos è chiamato
O0:6c,;Gv 1,18, in cui si parla del fLovoYE;v~ç 8e:6c;16;
Cv 20,28, dove S.'Tommaso apostrofa il Risorto:
o xup~6ç 1.1.01) xod o 60:6c; 1.1.01); 1 Cv 5,20, che
afferma di Cristo: 001'OC; È:o'tW o &:ì'YJ8~vòC; 8e:6ç;
Tt 2,13, che parla della ~6~1X ":ov fLeyaÀou 80:01)
xoct crwVjpoç ~fL(;}v 'hicroG Xp~cr1'OU 17.

15 Cfr. B. HEINISCH, Teologia del Vecchio Testamento,


Torino, 1950, 376.
16 Supposto che non si debba leggere qui o f10yoysv'Ìjç; !)~Oç;
variante che è stata difesa anche in tempi recentissimi. Cfr.
KITTEL IV, 784 n. 14 (Biichsel) e R. BULTMANN, Johannes­
evangelium (in J\Icyers Kommentar), 1941, p. 55, n. 4.
17 Non si deve tener conto qui di Fib 3,4, in cui BeO. si
può riferire tanto al Padre a causa di 3,6 che al Figlio a causa
di 3,2.3. In 2 Pt 1,1 e 2 Ts 1,12, poiché l''ijIHÌJV collocato tra
«Dio» e «Signore» (<< Salvatore »), contrariamente a Tt 2,13,
in cui è posposto, sembra separare Bsor;; da Cristo. eso. si
deve riferire non al Cristo ma al Padre, tanto più che S. Paolo
spesso in altri testi, attribuendo al Cristo il predicato Kup~o.,
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 565

Abbiamo quindi sei testi, che attribuiscono


espressamente a Cristo la natura divina mediante
il predicato 8e:6c;. Non è superfluo notare che in
essi il termine 6e:6c;, preso assolutamente senza al­
cuna aggiunta che lo modifichi, non è adoperato
mai con l'articolo, quando si riferisce a Cristo.
0e:6c; o sta solo senza articolo (Gv 1,1.18; Rm
9,5) 18, il che già fa presentire che si considera il
concetto come in un certo senso generico, o è mo­
dificato da una determinazione più precisa, lascian­

parla del Padre come 9aoç e nell'esordio della seconda lettera


di S. Pietro l,l, c'è da aspettarsi senz'altro una menzione del
Padre, come avviene negli esordi delle altre lettere. Restano
ugualmente fuori considerazione El 5,5; Col 2,2; Tt 2,11 e
3,4, perché in tutti questi testi è molto più probabile che
666, si riferisca al Padre e non al Figlio. Lo stesso dicasi di
At 20,28, perché secondo i dati dei manoscritti le versioni
5XXÀ'licr~r.G coi} Ssou e èxxÀ"l/a~a 'tO~ Xllp(OIl sono ugualmente
attestate ed è più verosimile che la versione più difficile e
poco usuale Ey.xÀ"l/a(et "tou Xllp(OIl si sia cambiata in quella
usuale di !xxÀaa(et 'tou &soiJ, specie se si pensa che dal tempo
di S. Ignazio di Antiochia si usa ordinariamente l'espressione
«sangue di Dio », per cui nessun motivo poteva suggerire
la correzione di &soti in xup(Gu.
18 Tn Gv 1,1 e Rm 9,5 si spiega sufficientemente l'assenza
dell'articolo, perché &so, è predicato. Tanto più sorprende
però l'assenza dell'articolo in Gv 1,18. Lagrange ha dunque
ragione di tradurre: «Un Dieu Fils unique» (M.·]. LAGRAN­
GE, Evangile selon Saint Jean, Paris, 5 ed., 1936, p. 27). L'ar­
ticolo in Gv 20,28 si spiega per il ).lOl), che ordinariamente
esige l'articolo davanti a sé, per l'impiego al vocativo (BLASS­
DEBRUNNER, Grammatik des ntl. Griechisch, 6 ed., § 147,3)
e perché compare nella formula fissa: (, xilptol: xetl o &so,
(Cfr. per es., Ap 4,11). Si deve inoltre osservare che o &a6ç; IlOO
inteso come vocativo o nominativo, ha comunque il senso di
predicato. Di qui non si può trarre nulla per decidere se nel­
l'uso ìinguistico del N. T. f; &soç compaia qualche volta come
soggetto, che designi Cristo.
566 SAGGI TEOLOGICI

do cosÌ intendere che non si tratta puramente e


semplicemente di ciò che si ha presente, quando
si adopera o 6e:6ç senza alcuna aggiunta 19.
Notiamo inoltre che in tutti questi testi, ad ec­
cezione di T t 2,13, Oe:6ç sta solo come predicato
o ha il senso di predicato 20, il che conferma nel
contesto il carattere generico del termine. Al con­

19 Si spiega facilmente perché anche in Cv 1,18 manchi


l'articolo: l'espressione, «un Dio figlio unico », esclude in
partenza il pericolo di confondere questo Dio con 6 ,').50. in
quanto tale. In Tt 2,13, dove l'articolo si spiega per la pre­
senza di 1jf1wv, ogni malinteso sul senso della parola &s6ç è
escluso dall'aggiunta di Xpta,ou '11)000. Inoltre si trova in
un contesto di parole di conio specificamente ellenistico (~m­
'fIa.va, ct-ow,'1jP-f1syctç 9,,6.). In tale contesto però 9..0. c
specialmente la forma cultuale f1syct,; 61i0., hanno un tono più
generico e del tutto diverso da quello di 6 9so., che riceve
già dall'A. T. piuttosto il carattere di un nome quasi proprio.
Se 1 Cv 5,20 si deve riferire al Figlio, il che non è del tutto
sicuro, questo testo sarebbe certamente il punto culminante
dell'attribuzione della divinità al Cristo nel N. T. Infatti non
si può negare che l'àÀ1)!hvo. per sé non conferisce a ,) 9soç
un tono più generico, ma sottolinea in modo più marcato l'u·
nicità e l'esclusività di un solo Dio. D'altra parte si deve
però tener conto che proprio nella prima lettera di S. Gio­
vanni li 9s6,; designa senza dubbio il Padre con tanta frequenza
(1,5-7; 4,9.10.15; 5,9-12), così come ut6. 'tOU Ssofi (rx.ù1;oii) in
una dozzina di passi il Figlio, che ,) 9so. si deve riferire sem­
pre al Padre in tutta la lettera, se non si vuole ammettere
uno scambio inspiegabile del soggetto inteso con ,) 9s6;. Se
comunque alla fine della lettera, dove culminano tutte le affer­
mazioni precedenti, si chiama anche il Cristo li à).'t)9tvòç 9s6.,
si fa evidentemente una deroga, cosciente e voluta come tale,
all'uso corrente di,) 966 •. Non si può perciò da qui dedurre
che ,) eso, possa significare a priori e in modo uguale tanto
il Padre quanto il Figlio.
20 In tal senso deve intendersi anche il testo di Cv 1,18,
come è indicato dall'assenza dell'articolo: un Unigenito che
è Dio.
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 567

trario, non si presenta mai come soggetto, riferito


evidentemente senza alcuna aggiunta a Cristo, di
cui si faccia qualche altra affermazione, come si
verifica invece abbastanza spesso con XUfl~Oç (Le
7,13; 10,1; Cv 4,11; 6,23; 11,2; At 9,10-11;
l Cor 7,10-12; 1 Ts 4,16, ecc.).
Ad ogni modo l'argomento decisivo sta nel fatto
che questi testi, in cui Cristo è detto 6<:oç non pos­
sono stare alla pari col numero assolutamente pre­
valente degli altri, in cui il N.T., pur volendo espri­
mere in un modo o in un altro la natura divina
di Cristo, non si appiglia al termine 6<:oc;, come
si sarebbe dovuto aspettare se 6e6c; avesse un si­
gnificato quasi-generico. Il Cristo è chiamato in­
vece « Figlio di Dio », « il vero Figlio di Dio »,
XUflLOç', « Verbo di Dio », dxwv di Dio, XlXflIXX't'~fl
e &.7tIXUYlXCl"fLlX di Dio. Parla del suo èv fLoflCP'fi 6eou
07ttfPXeLV, di un suo «essere presso Dio», della
sua uguaglianza con Dio, eIvoct rcrtX e<:~, del 7tÀ~­
flUlfLtX -njç 6eo't'Yrt"Oç, che abita in lui.
Son tutte espressioni miranti ad esprimere la
divinità del Cristo, e per di più con ogni chiarezza
e senza il minimo intento didattico di rendere
queste affermazioni molto riservate, come poté
essere il caso, quando Cristo cominciò a manife­
stare se stesso. Eppure in tutti questi passi così
numerosi si evita di chiamare Cristo 6eoç. Ciò si
spiega solo ammettendo che nel linguaggio del
N.T. il termine o6e6c; inizialmente significa solo
il Padre. Esso non ha dapprima un senso generico
568 SAGGI TEOLOGICI

e neutro, per cui è applicato al Padre e, allo stesso


diritto e con uguale evidenza,. anche al Figlio, ma
significa in primo luogo lui solo. Solo più tardi,
quasi timidamente e con circospezione, si stacca
da lui e si trasforma in modo tale, che in pochi
testi (Gv 20,28; Rm 9,5; Gv 5,20) lo si osa per­
sino applicare a Cristo. In tali formule, adoperate
per professare in modo particolare la divinità di
Cristo, si ha il coraggio di usare nuove espressio­
ni, mentre nella lingua di ogni giorno ci si attie­
ne di più al significato usuale dei termini. Lo Spi­
rito Santo poi non è chiamato mai 6<:6.:;.
In conclusione possiamo dire che non sono de­
cisivi i motivi addotti a provare che nel linguaggio
del N.T. o 6<:6.:; non significa anzitutto il Padre,
ma una qualunque persona divina o le tre per­
sone insieme, per cui quando si chiama il Padre
o 6<:6.:; lo si denomina cos1 soltanto in modo sup­
positivo. Non si può negare una tendenza evolu­
tiva in tale direzione. Però non si può provare
che si sia avuta già nel N.T. una modificazione
del significato di o 6e:6.:; e che esso, usato isolata­
mente, serva solo a designare suppositivamente
il Padre.

d) Dimostrazione positiva della tesi.

Abbiamo già indicato quale regola metodolo­


gica generale di tale dimostrazione il principio: il
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 569

valore significativo e non puramente suppositivo


di un termine per un determinato oggetto si ha,
quando lo si riferisce sempre o quasi sempre a ta­
le oggetto e lo si adopera per esso in un contesto
decisivo, anche quando lo si potrebbe indicare con
altra parola, che lo significherebbe con maggiore
chiarezza e proprietà e non starebbe solo per esso
come il primo. Di qui derivano anche le osserva­
zioni che seguono.
Anzitutto o Oe:6ç è detto del Padre con tale
frequenza che i pochi passi già citati, in cui lo si
applica anche al Figlio, non permettono di asserire
con certezza che quando è predicato del Padre lo
designi soltanto suppositivamente senza significar­
lo veramente. L'espressione: il Cristo è « Figlio di
Dio» (utòç 'rOV 6e:ou), in cui «Dio» almeno de­
signa il Padre, si trova sulla bocca di Gesù stesso
(Gv 5,25; 10,36; 11,4; cfr. Mt 27,43), è da lui
esplicitamente confermata (Mt 16,17; 26,63s;
Le 22,70), o è proferita da altri (Mt 4,3.6; 8,29;
14,33; 16,16; 26,63; 27,40.54; Mr 1,1 (?); 3,11;
5,27; 14,61; 15,39; Le 1,35; 4,3.9.41; 8,24;
22,70; Gv 1,34.49; 3,18; 11,27; 19,7; 20,31;
At 9,20; Rm 1,3.4.9; 2 Cor 1,19; Gal 2,20; Et
4,13; Eh 4,14; 6,6; 7,3; 10,29; 1 Gv 3,8; 4,15;
5,5.10; 12,13.20; At 2,18). Lo stesso vale anche
per i testi, in cui si trova utòç oc&.ou con riferi­
mento immediato nello stesso contesto a o Ele:6ç;
Rm 1,9; 5,10; 8,3.29.32; 1 Cor 1,9; 15,28; Gal
570 SAGGI TEOLOGICI

1,16; 4,4; 1 Ts 1,10; Eh 1,2; 1 Gv 1,7; 3,23;


4,9-10; 5,10-11 21. Ugualmente o ee;6ç indica il
Padre, quando Dio vien detto «padre di Gesù
Cristo »: Gv 6,27; Rm 15,6; 1 Cor 15,24; 2 Cor
1,3; 11,31; El 1,3.16; Fil 2,11; Col 1,3; 1 Pt
1,3; 2 Pt 1,17; Ap 1,6, o quando viceversa Cristo
è detto o À6yoç TOV ee:OV (Ap 19,13), e:tXW\I TOU
ee:ou (2 Cor 4,4; Col 1,15), tua: Ele;Ci> (Fil 2,7).
'O ee:6c; si riferisce senza dubbio al Padre, al­
meno in forma suppositiva, quando si parla della
missione del Figlio da parte di Dio (Gv 8,42;
At 3,26; Rm 8,3; Gal 4,4), si dice che Cristo
«procede dal Padre» (Gv 8,42; 13,3; 16,27),
ci si riferisce al Logos (Cristo) come esistente
presso Dio (Gv 1,1; 6,46) o si chiama Dio « il
Dio di nostro Signore Gesù Cristo» (El 1,17).
Una persona divina infatti può appartenere ad
un'altra, solo se procede da essa.
S'intende il Padre con il termine Dio anche
in innumerevoli altri testi in cui « Dio » influisce
attivamente su Cristo, è oggetto di un'azione di
Cristo o compaiono semplicemente l'uno accanto
all'altro « Dio» e Cristo. Certo, il contenuto teo­
logico di tali asserzioni ci permette per sé di at­
tribuire a tutta la SS. Trinità le azioni esercitate
da « Dio» sulla natura umana del Cristo (Somma
Teologica, I, 43,8), però esse includono anche rap­

21 In alcuni passi dei Vangeli l'espressione «Figlio di


Dio », ha naturalmente un senso indeterminato, che non si
può prendere in considerazione per la nostra questione.
THEOS NEL NUOVO TESTA~TO 571

porti che vanno oltre quelli di una « missione » in


senso strettamente teologico. Tuttavia ritenere
che il N.T. riferisca (e non implichi soltanto lo­
gicamente) in tal senso un'azione del Dio trino
come tale anche a Cristo, condurrebbe a delle as­
surdità linguistiche.
Infatti 6 ee:6~, che si colloca accanto al Cristo,
è spesso qualificato più esattamente con l'attributo
n(1:,~p, anche senza ~[Lwv!, per cui lo si può in­
tendere solo della prima persona trinitaria. Quan­
do si abbinano Cristo e 6 ee:6~, il Cristo è quali­
ficato come xUpLO~, quindi come persona divina.
In tal caso è ancora una volta impossibile che
siano posti l'uno accanto all'altro la SS. Trinità e
una di queste tre persone (per esempio, 2 Pt 1,2:
tv tmyvwcre:~ 'roi) ae:oi) xed 'l'lJO'ou 'roi) XUpLOU ~[Lwv).
Spesso il Cristo è chiamato « Figlio », anche
in testi, in cui si parla di un'azione di Dio su di
lUI o viceversa. Perciò questo Dio può essere solo
il Padre. Infine non è in genere concepibile che
nella lingua semplice e chiara del N.T., quando
due soggetti sono nominati l'uno accanto all'altro,
un soggetto (<< Dio») includa già l'altro (Cristo)
in ciò che si asserisce immediatamente ed espres­
samente.
Le applicazioni seguenti si devono interpretare
alla luce di queste premesse. Vengono attribuite a
« Dio» azioni operate su Cristo: «Dio» ha risu­
scitato il Cristo (At 2,24.32; 3,15.26; 4,10; 5,30;
10,40; 13,17.33-4; 17,31; Rm 10,9; 1 Cor 15,15;
572 SAGGI TEOLOGICI

6,14; El 1,20; Col 2,12; 1 Ts 1,10; 1 Pt 1,21).


In Atti 2,32 (7tocTI)p v. 33); 3,26 «(btkO"'t"e~Àev);
Rm 10,9; 1 Cor 6,14 (Kup~oc;l) diventa ancora
più evidente dal punto di vista linguistico che è
inteso il Padre in questo Dio, che risuscita il
Cristo. Cfr. anche Gal 1,1, dove appare !.leoc; 7toc't'~p
come risuscitatore del Cristo. « Dio» ha esaudito
il Cristo, lo ha glorificato (At 2,33; 3,13; 5,31;
Fil 2,9), lo ha unto con lo Spirito Santo (At lO,
38), è in lui (At 10,38), lo fa sedere alla sua de­
stra (Mr 16,19; Le 22,69; At 7,55-56; Rm 8,34;
El 1,20: qui o !.leoc; 't'oi) KUp(OU è soggetto di 1,17 l);
Col 3,1; Eh 10,12; 12,2; 1 Pt 3,22; cfr. At 3,21,
dove si parla del trono del Padre). « Dio» ha par­
lato per mezzo di suo Figlio (Eh 1,2), ha profetiz­
zato del suo (1) Cristo (At 3,18). «Dio» rivolge
a Gesù la sua parola (Eh 5,10), lo accredita (At
2,22), gli conferisce il trono di David (Le 1,32),
gli dà tutto ciò che chiede (Cv 11,22). « Dio» è
glorificato nel Figlio dell'uomo e a sua volta lo
glorifica (Gv 13,31-32). «Dio» è xeipocÀ~ del
Cristo (1 Cor 11,3).
Si parla di azioni del Cristo, rivolte verso
« Dio »: il Cristo ascende al suo «Dio» (Cv
20,17); parla del suo «Dio» (Gv 20,17; Ap
3,2.12: molte volte); prega «Dio» (Le 6,12);
compare al cospetto di « Dio» (Eh 6,12); ci por­
ta a « Dio» (Col 3,3); consegna a « Dio» il re­
gno (1 Cor 15,24); appartiene a «Dio» (1 Cor
1,23); è vittima per «Dio» (El 5,22).
THEOS NEL NUOVO TESTANrnNTO 573
Si parla di un nostro rapporto a Dio mediante
il Cristo: noi siamo col Cristo in « Dio» (Col 3,
3); siamo in pace con « Dio» mediante il Kyrios
(Rm 5,1); ringraziamo « Dio» nel nome del Cri­
sto (El 5,20); siamo accetti a « Dio» per il ser­
vizio del Cristo (Rm 14,18); Paolo è apostolo di
Gesù Cristo per volontà di «Dio» (1 Tm 1,1;
2 Tm 1,1).
In una pleiade di testi o ee:6~ e il Cristo sono
posti l'uno accanto all'altro: regno di «Dio» e
del Cristo (El 5,5); eredi di « Dio » e coeredi del
Cristo (Rm 8,17); sacerdoti di « Dio» e del Cri­
sto (2 Pt 1,2); giustizia del nostro « Dio» e del
Salvatore Gesù Cristo (2 Pt 1,1); servo di « Dio»
e del Signore Gesù Cristo (Gc 1,1); servo di
« Dio », apostolo di Gesù Cristo (T t 1,1); un solo
«Dio », un solo Cristo (1 Cor 8,6; 1 Tm 2,5);
comandamento di «Dio» e fede in Gesù (Ap
14,12); testimonianza del Cristo e parola di
«Dio» (Ap 1,2; 20,4); amore di «Dio» e pa­
zienza del Cristo (2 Ts 3,5); Chiesa in «Dio»
nostro Padre e nel Signore Gesù Cristo (2 Ts
1,1); predicazione del regno di « Dio» e insegna­
mento su nostro Signore Gesù Cristo (At 21,31);
davanti a « Dio» e al Cristo (1 Tm 5,21; 6,13;
2 Tm 4,1); e infine in tutte le formule di saluto,
in cui si augura pace ecc. da « Dio» e dal Cristo
(Rm 1,7; 1 Cor 1,3; 2 Cor 1,2; Gal 1,3; El 1,2;
2 Ts 1,2; 1 Tm 1,2; 2 Tm 1,2; Tt 1,4; Film 3;
2 Gv 3).
574 SAGGI TEOLOGICI

« Dio» sta per lo meno a designare il Padre


nelle cosiddette formule trinitarie, come, per esem­
pio, Rm 15,30; 1 Cor 12,4-6; 2 Cor 1,21-22; 13,
13; Ef 4,4-6; 1 Pt 1,2 22 • Ugualmente « Dio» non
può essere che il Padre, quando si chiama lo Spi­
rito Santo Spirito di Dio (MI 3,16; 12,28; Rm
8,9.14; 1 Cor 2,11.12.14 (h 8eou); 3,16; 11;
7,40; 12,5; 2 Cor 3,3; Ef 4,30; Fil 3,3; 1 Ts 4,8
(7tV€UfLlX IXÙ't'OU); 1 Pt 4,14; 1 Cv 4,2.13 (7tVe:UfLot
IXÙ"rOU) 23, o si dice che è inviato e donato da
« Dio» (Al 5,32; 15,18; 1 Cor 6,19; 2 Cor 1,22;
Cal4,6; El 1,17; 1 Ts 4,8; 2 Tm 1,7; 1 Cv 3,24;
4,13 ).
Si notino ancora i testi seguenti: Rm 1,7;
1 Cor 1,3; 8,6; 2 Cor 1,2; Gal 1,3; Ef 1,2; 5,20;
Col 3,17; 1 Ts 1,1 (?); 2 Ts 1,2 (?); 2,16; Film 3.

22 Se prendiamo i testi trinitari nel senso più ampio, ClOe


se teniamo conto di tutti i brevissimi brani del N.T., in cui
si nominano le tre Persone divine, allora bisogna citare anche
i seguenti: Mt 28,19; Le 24,49; Gv 14,16.17; 14,26; 15,26;
16,12-15; At 2,32-33; 2,38-39; 5,31-32; 7,55-56; 10,38; 11,15­
17; Rm 5,1-5; 8,9-11; 8,14-17; 14,17-18; 15,15-16; 15,30;
j 1 Cor 2,6·16; 6,11; 6,15-20; 12,3; 12,4-6; 2 Cor 1,21-22; 13,13;
! Gal 4,4; Ef 1,3-14; 1,17; 2,18·22; 3,14-19; 4,4-6; 5,15-20;
! 2 Ts, 2,13; Tt 3,4-11; Eb 2,2-4; 10,29-31; 1 Pt 1,1-2; 2,4-5;
l 4,14; 1 Gv 3,23-24; 4,11-16; 5,5-8; Gd 20,21. Ora in questi
1 testi il Padre è chiamato 77 volte semplicemente b 9soç e solo
19 volte 1ta:t1)p oppure 9sòç 1tCX1:1)P oppure b Osoç AO:\ 1tcx-c1)p.
23 Infatti lo Spirito Santo in quanto persona divina si può
chiamare spirito di Dio, solo se procede da questo Dio, come
ha sempre sottolineato la teologia in quel che concerne lo Spio
rito come Spirito del Cristo. Cfr. per es., PESCH, Praelectio­
nes dogmaticae, II, n. 529-531. Il Dio però, da cui procede
lo Spirito, è il Padre (Gv 15,26).
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 575

In essi si parla di Dio, nostro Padre, e s'indica


chiaramente questo Dio, che è nostro Padre, come
il Padre trinitario, perché si aggiunge che è Padre
di « nostro Signore Gesù Cristo ». Già di qui ap­
pare che nel linguaggio del N.T. s'intende la prima
persona trinitaria, quando si parla di Dio, nostro
Padre, e della nostra figliolanza divina. Rispettiva­
mente il Cristo stesso può parlare di « mio» Pa­
dre e di « vostro» Padre (Cv 10,17), intendendo
apertamente la stessa unica identica prima persona
divina.
La stessa conclusione si ha dal fatto che se­
condo S. Paolo il Padre di Gesù ci destina ad es­
sere suoi figli, invia il suo Figliuolo, perché rice­
viamo la filiazione (Gal 4,5), il Cristo diventi il
primogenito tra molti fratelli (Rm 8,29) e insieme
con lui invochiamo 'A~~oc o 1t1X't'~p (Rm 8,15; Cal
4,5; cfr. Mr 14,36). In ogni caso secondo il lin­
guaggio del N.T. noi siamo figli di Dio in quanto
siamo figli del Padre, prima persona della SS. Tri­
nità, e non figli del Dio trino. Non è il caso qui
di discutere se tale asserzione sia esatta o meno 24.
Secondo le parole del Cristo gli uomini hanno
un rapporto al Padre suo (Mt 7,21; 12,50; 15,13;
16,17; 18,10.19.35; 20,23; 25,34; Gv 2,16;

24 Questa conclusione, che sembra per se stessa evidente,


non lo è tanto nella teologia scolastica. Cosi, per esempio, ì1
KNABENBAUER, Comm. in Ev. sec. Matth., Paris, 3 ed., 1922,
311-312, richiamandosi a Maldonado e Suarez, sostiene che
anche nel «Padte nostro» s'invoca il Dio trinitario, perché
siamo figli di Dio e il termine « Dio » si riferisce al Dio trina.
576 SAGGI TEOLOGICI

6,52; 14,2.23; 15,8.23-24). Il Dio, che i Giudei


credono loro Padre, è quello da cui è venuto ed è
stato inviato Gesù, quindi il Padre in senso trini­
tario (Gv 8,32). Inoltre, secondo l'insegnamento
di Cristo, il Padre celeste non è il padre degli uo­
mini in base alla creazione o alla provvidenza, sic­
ché lo si possa chiamare senz'altro il Padre di tutti
gli uomini, ma è il Padre dei discepoli di Cristo o
anche di coloro che fanno parte del regno dei
cieli. Per lo meno il Cristo parla di Dio come suo
Padre solo a questi. Tale paternità è basata sulla
libera elezione del Padre, che chiama e guida gli
uomini a suo Figlio (Gv 6,37·40. 44-45). Gli uo­
mini quindi non sono per natura figli di Dio, ma
lo possono diventare accettando determinati at­
teggiamenti morali (Mt 5,9.45; Le 6,30; cfr.
Gv 1,12). ,
Così secondo l'insegnamento di Cristo stesso
non v'è alcun motivo di riferire la filiazione divina,
da lui annunziata, a Dio in generale invece che al
Padre suo.
Tutto quest'insieme di considerazioni ci auto­
rizza a concludere che in tutti i testi, in cui si
parla di Dio come nostro Padre e di noi come
figli di Dio e da lui rigenerati, s'intende sempre la
prima persona divina, Tra questi testi si devono
annoverare anche tutti quelli, in cui ò 6<:6<; per
lo meno designa suppositivamente il Padre (Mt
5,9; Le 20,36; Gv 1,12.13; 11,52; Rm 5,2;
8,14.16.19.21; 9,8.26; 2 Cor 6,18; Gal 3,26; El
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 577

1,5; 2,19; 3,14; 4,6; 5,1; Fil 2,15; 4,20; 1 Ts


1,3; 3,13; Eh 12,7; Cc 1,27; 1 Cv 3,1-2.10; 4,7;
5,1-2.4.7.18; Cdc 1; Ap 21,7).
Di conseguenza non si trova mai nel N. T. al­
cun testo, in cui (, Oe:6ç si debba riferire con ogni
evidenza al Dio trina preso nel suo insieme nella
trinità delle persone. V'è invece una moltitudine
prevalente di testi, in cui con (, Oe:òç s'intende
il Padre in quanto persona trinitaria. Inoltre si
deve osservare che nei testi, in cui si fa una
affermazione senza che se ne possa dedurre con
chiarezza chi s'intenda esattamente, non è conte­
nuto mai alcunché che non si affermi in altri te­
sti del Dio, che in essi si lascia riconoscere diret­
tamente o indirettamente come Padre in senso tri­
nitario 25. Accanto a questi si dànno solo sei testi,
in cui (, Oe:6ç si dice anche della seconda persona
della SS. Trinità, ma ancora con qualche esitazio­
ne e con delle precauzioni, che evidentemente
derivano non dalla realtà stessa, ma dall'uso del
termine. Infine, ricordiamo che nel N.T. o Oe:6ç
non è mai detto dello .-:'1e:UfLlX xyw'I. Queste costa­
tazioni ci autorizzano ad affermare già ora che

25 Così, per esempio, tutta la storia salvifica dell'Antico


Testamento è attribuita al Dio, che inviò Gesù. quindi al Pa·
dre (At 3,12·26; cfr. Eb 1,1). In At 4,24 s, El 3,9 s, Eb 1,2
il Dio, creatore di ogni cosa, è chiaramente significato come
Padre per la sua distinzione dal «Figlio» (<< servitore», « Cri·
stO» ). Se però la creazione e la storia salvifìca sono ascri tte
al Dio Padre, in pratica non si può asserire nulla su {; Osòç;
che non sia già incluso in questa duplice sfera di attività di­
vina.

19. - Saggi teologicI.


578 SAGGI TEOLOGICI

quando il N.T. parla di o 6e:6<;, ad esclusione dei


sei testi predetti, significa il Padre quale prima
persona trinitaria. '0 6e:6c; lo significa e non sta
soltanto per lui, perché l'impiego costante e in
pratica esclusivo per designare una cosa determi­
nata, prova che la parola significa anche la cosa
designata, specie se sta per essa come soggetto e
non solo come predicato. Le poche eccezioni a
tale impiego di 6e:6c;, che per la loro forma lingui­
stica si presentano anche come tali, non autoriz­
zano a pensare che o 6e:6<; nell'uso del N.T. sia
un termine, che designi la Trinità nell'unicità
della sua natura individuale e perciò in partenza
supponga allo stesso modo per tutte e tre le Per­
sone prese singolarmente.
La nostra tesi viene confermata, se si osser­
va che ave occorre un'affermazione teologica ri­
gorosa e precisa sulla persona e l'essenza del Cri­
sto, lo si chiama o utò<; "OU 6e:ou. Cosi avviene nella
confessione di Pietro a Cesarea di FilippQ(Mt 16,
16), nella testimonianza decisiva data dal Cristo
davanti al gran consiglio prima della morte (Mt
26,63; Mr 14,61; Le 22,70), nel compendio del
contenuto teologico del Vangelo di Giovanni (Gv
20,31), nelle formule più antiche del N. T., in cui
si riassume il senso della conversione al cristia­
nesimo (Ts 1,9-10: 3ouÀe:ue:~v 6e;<i> ~(;)V'n xcd &ÀYJ6w4'>
xcd &.voc~ve:~v "òv utòv ocù"ou), nel prologo della let­
tera ai Romani, che costituisce il testo dottri·
nale più importante del N.T. (Rm 1,2.4), e nel
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 579

titolo del Vangelo di Marco (Mr 1,1). In tali pas­


si si dice: «Figlio di Dio» nel senso teologico di
Figlio del Padre. Va notato che il termine « Pa­
dre» stava sempre a perfetta disposizione degli
autori del N.T. Anzi è di grande interesse notare
come il Signore stesso abbia apertamente, almeno
in generale, evitato l'espressione « Figlio di Dio ».
Nei Sinottici questa non si presenta spontaneamen­
te da se stessa sulle labbra di Cristo, anche se egli
la riconosce come formula significativa della sua
essenza. A prescindere dall'espressione «Figlio
dell'uomo », egli parla di se stesso solo come
« Figlio », e di Dio, il Padre, come del « Padre»
semplicemente (Mt 11,27; Le 10,22; Mt 24,.36;
Mr 1.3,.32; Mt 28,19; Le 9,26) 26 o del suo Padre
(celeste). Nei Sinottici, quando Cristo parla di
« Dio» in relazione a lui stesso, non gli dà mai
l'appellativo di o 8e:6ç. Anche in Giovanni ci so­
no solo tre testi, in cui il Signore parla con certez­
za di sé quale « Figlio di Dio» (Cv 5,25; 10,36;
11,4 ) 27. Se si pensa che in Giovanni il termine
« Padre» si trova 102 volte, tra cui 2.3 volte nel­

26 Prescindiamo dalle parabole, in cui il Cristo si dà a


conoscere indirettamente come Figlio in contrapposizione ai
servi, ecc.
27 Forse anche in Cv 9,35. Inoltre si deve tener conto di
Cv 6,27; 6,46; 8,42; 16,27, in cui Q Beoç si trova in connes­
sione con altre affermazioni di Cristo su se stesso. Ma in tali
brani il contesto spiega molto bene l'impiego di (; es6~.
28 Una volta si trova: «Padre vostro ». Anche i 78 casi,
in cui si ha solo «Padre », si riferiscono di fatto sempre al
Padre di Cristo.
580 SAGGI TEOLOGICI

l'espressione «Padre mio» 28, si comprende che


non è un puro caso che il Cristo abbia evitato il
termine «Dio» nel caratterizzare la propria es­
senza. Esso manca del resto anche nella formula
battesimale 29.
Non si può quindi negare che gli uomini del
N.T. volendo parlare del Padre di Cristo, aveva­
no a disposizione un termine che significava pro­
priamente il Padre ed era loro familiare per l'uso
fattone da Cristo. Anzi essi stessi l'utilizzano ef­
fettivamente spesso (<< Padre », «Dio Padre »,
« Dio e Padre») ad eccezione forse degli Atti de­
gli Apostoli. Ora essi chiamano il Padre /) Ele:6ç
anche nelle predette formule solenni, nelle quali
per la chiarezza e la precisione si esige che si ado­
peri un termine, che non designi solo suppositiva­
mente in qualche modo l'oggetto, ma lo significhi
chiaramente. Ciò si spiega solo ammettendo che
per gli uomini del N. T. /) Ele:6ç significhi effettiva­
mente il Padre e non lo supponga soltanto. Per
essi /) Ele:6ç è un termine altrettanto preciso ed
esatto come quello di «Padre ».
Né si può dire che in tale contesto il termi­
ne « Padre» sarebbe stato inesatto, perché non si
potrebbe sapere a quale padre si riferisca. Gli uo­
mini del N.T., infatti, seguendo l'esempio di Cri­
sto, avrebbero potuto parlare del «Padre cele­

29 Non è qui il luogo per spiegare questo modo di parlare


di Cristo.
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 581

ste », del «Padre che è nei cieli» o avrebbero


potuto usare in questo contesto l'espressione loro
usuale «Dio Padre », come fanno tutte le pro­
fessioni di fede apostolica.
Altrettanto possiamo dire delle formule trini­
tarie. Quando in esse si hanno presenti senza al­
cuna incertezza le tre persone, queste son chiama­
te da Gesù 7tO(.,,~p, ut6.;, 7tVe:u[1.CX: &yto\l mentre gli A­
postoli designano sempre la prima persona con
Ò 6e:6.; o 6e:òç 7tO(.,,~p, non mai con 7tO(.,,~p solo 30.
'0 6e:6.; per gli Apostoli significava senz'altro il
Padre. Ecco perché sostituirono il 7tO(.~p usato da
Gesù con 6e:6ç.
Dicendo che nel linguaggio del N. T. Ò 6e:6ç
significa il Padre, non intendiamo affermare che
lo significa sempre in quanto è Padre del Figliuolo
unigenito in virtù della generazione eterna. Si vuoI
dire solo che nel N.T., quando si pensa al Padre,
si ha presente la persona concreta, individuale e
inconfondibile, qual è effettivamente il Padre e
che si chiama ò 6e:6ç. Viceversa, quando si parla
di ò Oe6.;, non si ha in vista primariamente l'es­
senza divina, che sussiste nelle tre ipostasi, ma la
persona concreta, che possiede l'essenza divina sen­

I
za riceverla da altri e la comunica anche al Figlio
per generazione e allo Spirito Santo per spirazione.

30 Cfr. 1 Cor 12,455; 2 CO! 1,21 s; 13,13 s; 2 Ts 2,13;


1 Pt 1,2; Gd 20 s. Sono i brani che E. STAUFFER, Die Theo­
logie des Neuen Testaments, Stuttgart-Berlin, 1941, p. 311
n. 828 riconosce come formule trinitarie in senso stretto.
582 SAGGI TEOLOGICI

È facile riconoscere che questo risultato dimo­


stra con maggiore esattezza che la concezione tri­
nitaria ordinariamente chiamata greca da de Ré­
gnon, sia pure con poca esattezza, si avvicina al
linguaggio biblico, molto più che non quella da
lui stesso detta latina o scolastica. La concezione
latina parte dall'unità dell'essenza divina (un sol
Dio in tre persone), per cui l'unità dell'essenza
divina è il presupposto di tutta la dottrina trini­
taria. La greca invece inizia dalle tre persone (tre
persone aventi un'unica essenza) o, meglio, dal Pa­
dre, che fa procedere da sé il Figlio e per suo mez·
zo lo Spirito Santo, sicché l'unità ~ l'identità del­
l'essenza divina sono concepite come conseguenza
della comunicazione da parte del Padre di tutta la
sua essenza 31. In questa concezione greca della
Trinità il Padre è sempre considerato XIX'" ~~ox~v.
« È questo, dice Schmaus 32, un procedimento
che risale alla cristianità primitiva, perché basato
sulla stessa S. Scrittura. S. Giustino martire, S.
Ireneo e Tertulliano presentano questo modo di
parlare. Origene, acuendo tale concezione, fa di­
stinzione fra 6 6e6c:; e 6e6c;... Questa concezione
è espressa anche negli antichi simboli, sia pure
con minor accentuazione. È divenuta poi tradizio­

31 Cfr. su queste due concezioni la sintesi di THÉODORE


DE RÉGNON, Études de Théologie positive sur la Sainte Tri­
nité, I, Paris, 1892, 333·340; 428-435.
32 M. SCHMAUS, Die psycbologische Trinitiitslehre des bei·
ligen Augustinus, Mi.inchen, 1927, p. 19.
THEOS NEL NUOVO TESTAMENTO 583

naIe. Dionigi Alessandrino riserva al Padre il no­


me di « Dio ».'0 ..WV <lÀCJ.lV 6e6ç e 6 bd nocV"CCJ.lv 6e6c;
sono designazioni del Padre, che si trovano pres­
soché ovunque nel quarto secolo. I Cappadoci
consideravano generalmente il Padre come il Dio
assoluto o come la divina ousia. S. Ilario, discepo­
lo dei Padri Greci, parla del Padre ogni qualvolta
usa il termine Deus senza alcuna aggiunta. Tale
modo di parIare non è connesso con alcuna idea
subordinazionistica ».
Schmaus afferma ancora che questo uso lin­
guistico, proprio di una delle due correnti della
tradizione teologica trinitaria, si fonda sulla stes­
sa S. Scrittura ed accenna semplicemente ad una
pagina del de Régnon (L, 445), nella quale peral­
tro è riportata solo una citazione di Teodoro Abu
Qurra 33. Noi abbiamo cercato di esporre in modo
più dettagliato quanto de Régnon ha proposto co­
me tesi. Per chi proviene dallo studio del N.T.,
essa può sembrare evidente e la sua giustificazio­
ne può dare l'impressione di sfondare una porta
aperta. Però ha la sua importanza per lo studioso
della teologia scolastica occidentale, che è abituato
a leggere il N.T. alla luce della concezione in essa
prevalente. Oltre il fatto che la tesi così motivata

JJ Secondo PETAVIUS, De Trinitate, lib. IV, c. XV, n. 14:


·OBsv ol <X1tocnoÀo( xocl 1t&croc crxs()òv ~ &y(oc ypocrp'~, "o't' {iv
E!1t"Q (; 960., oB'tw. tX1toÀo'twç; xocl tX1tpoalhop(<1'tw~, xa.l w,; ~1tl-
1ta.v aùv èipiJ.plp, xa.l xwplç tòtwfla.'tOç 111toa'ta.'ttxoiJ, 'tòv 1tOC't5pa.
ò"I Àot.
584 SAGGI TEOLOGICI

dimostra che la concezione greca della SS. Trini­


tà dev' essere presa sul serio e tenuta nel debito
cont() da ogni teologo per ragioni derivanti dal­
l'autorità della S. Scrittura, essa è pure importante
per determinare con maggiore esattezza il signi­
ficato della nostra figliolanza divina. Se (; 6e6~ nel
N.T. è il Padre, noi secondo la S. Scrittura siamo
figli del Padre di Cristo, perché partecipiamo alla
filiazione eterna del Figliolo unigenito. Resta anco­
ra aperta la questione, se il rapporto dell'uomo giu­
stificato al Figlio e allo Spirito Santo, instaurato
dalla grazia, possa essere propriamente caratterizza­
to o no come filiazione. In caso positivo la pater­
nità fondata sulla grazia sarebbe solo appropriata
al Padre, prima persona della Trinità, mentre nel
caso negativo ognuna delle tre persone divine
avrebbe con l'uomo giustificato un rapporto non
puramente appropriato ma proprio.
La questione a sua volta non è importante
solo per conoscere con maggiore esattezza l'es­
senza della grazia giustificante e santificante, ma
ci dà la possibilità di decidere se la « grazia in­
creata» dev'essere considerata solo un elemento
derivato dalla grazia creata o un elemento autono­
mo nel concetto globale della grazia santificante.
Inoltre ha una sua importanza anche per la deter­
minazione del rapporto tra la Trinità immanen­
te e la Trinità economica, tra la Trinità della ri­
velazione e la Trinità nella sua essenza. Se l'uomo
THEOS NEL NUOVO TEST~ENTO 585

ha un vero e proprio rapporto con ciascuna delle


tre persone divine 3\ si può superare radicalmen­
te il contrasto tra la Trinità nella sua essenza e la
Trinità nella rivelazione. Dio si comporta con l'uo­
mo giustificato come Padre, Verbo e Spirito ed è
tale anche in sé e per sé.
La liturgia nelle sue preghiere ufficiali si rivol­
ge quasi sempre al Padre mediante il Figlio e chia­
ma questo Padre semplicemente Dio 35. Da tutta la
nostra esposizione risulta che tale è anche il modo
di parlare del N.T. L'importanza kerigmatica della
questione fu già sottolineata brevemente all'ini­
zio dell'indagine.

34 Perché la grazia nel suo senso pieno non si può ridurre


al concetto di un effetto prodotto da Dio per causalità effi­
ciente, che è comune alle tre persone divine. Cfr. K. RAHNER,
Possibilità di un concetto scolastico della grazia increata, in
Saggi di antropologia soprannaturale, Edizioni Paoline, Roma,
1965.
9.

OSSERVAZIONI SUL TRATTATO


DOGMATICO «DE TRINITATE» 1

1.

In una pubblicazione commemorativa in ono­


re dell'ex professore di dogmatica e attuale tito­
lare della cattedra di S. Bonifacio in Magonza, un
tema non deve certo mancare: la dottrina della
Trinità. A questo tema infatti il Vescovo Stohr
ha dedicato parecchi studi ancora oggi di eminente
valore 2. Se sotto questo punto di vista il tema è

1 Molte cose qui dette corrispondono perfino nella formu­


lazione all'articolo Dreifaltigkeit di HENRI DE LAVALETTE nel
LThK III, 2a ed., 543-548. L'amichevole scambio d'idee che
precedette l'articolo nel LThK giustifica queste comunanze. ­
Titolo originale: Bemerkungen zum dogmatischen Traktat « De
Trinitate », in Schriften zur Theologie, IV, Benziger, Einsie­
deln, 1960, pp. 103-133; versione di L. Marinconz.
2 Cfr. A. STOHR, Die Trinitatslehre des hl. Bonaventura,
Miinster, 1923; Die Hauptrichtungen der spekulativen Trini­
tatslehre in der Theologie des 13. Jahrhunderts, in ThQ 106
(1925) 113-135; Des Gottfried von Fontaines Stellung in der
Trinitatslehre, in ZkTh 50 (1926) 177-195; Die Trinitatslehre
588 SAGGI TEOLOGICI

ovvio, sotto un altro aspetto potrebbe tuttavia in­


cutere timore: il supremo mistero è il più oscuro.
E la sua storia potrebbe destare l'impressione che
il chiarimento formale raggiunto (ritenuto ormai
insuperabile) della sua formulazione segni pure
quasi la fine di questa storia: dopo il Concilio di
Firenze non ha più avuto luogo in proposito una
spiegazione ufficiale della Chiesa che sanzioni, at­
traverso il magistero, un reale progresso nella co­
noscenza della Trinità.
Anche se da allora è stato fatto moltissimo per
l'indagine storica di questo dogma - da Petavio
attraverso de Régnon fino a Lebreton e Schmaus
(per ricordare soltanto alcuni nomi più noti) ­
si costata nondimeno, meravigliati forse e un po'
rassegnati (o questa impressione è forse troppo
pessimista?), che l'indagine a ritroso di questa
storia, per il momento almeno, non ha generato
effettivamente degli impulsi, che possano far avan­
zare questa stessa storia. Al giorno d'oggi si pos­
sono bensl osservare qua e là nella letteratura re­
ligiosa dei tentativi di connettere la pietà cristia­
na in maniera più esplicita e più viva con questo
mistero 3; nella teologia stessa ci si rende conto

Ulrichs von Strassburg, Miinster, 1928; Der heilige Albertus


uber den Ausgang des Heiligen Geistes, in DTh 10 (1932)
109-123.
3 Citiamo alcuni esempi: V. BERNADOT, De l'Eucharistie
à la Trinité, Paris, 1915; E. VANDEUR, O mio Dio, Trinità che
adoro, Fiorentina, Firenze, 2a ed.; F. KRONSEDER, 1m Banne
der Dreieinigkeit, Regensburg, 1933; C. MARMION, Consacra­
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 589

in maniera più riflessa e impegnata di dover conce­


pire e presentare la dottrina della Trinità 4 in guisa
tale, che divenga una raltà nella concreta vita reli­
giosa del cristiano (si pensi alla Dogmatica di M.
Schmaus oppure a G. Philips); si scopre pure nel­
la storia della pietà 5 che, nonostante il culto mi­

zione alla 55. Trinità, Vita e Pensiero, Milano, 3a ed., 1960;


GABRIELE DI S. MARIA MADDALENA, Dal Cuore di Gesù alla
Trinità, Ancora, Milano.
4 Cfr. P. LABORDE, Dévotion à la Sainte Trinité, Paris­
Tournai, 1922; M. RETAILLEAU, La Saintc Trinité dans les
jl/sfes, Paris, 1923; R. GARRIGOu-LAGRANGE, L'habitation de
la Saint Trinité et l'expérience mystique, in RevThom 33 (1928)
449-474; M. PHILIPON, La Sainte Trinité et la vie surnatu­
relle, in RevThom 44 (1938) 675-698; F. TAYMANS-D'EYPER­
NON, Le mystère primordial. La Trinité dans la vivante image,
Bruxelles, 1946; A. MINON, M. Blondel et le mystère de la
Sainte Trinité, in EphThLov 23 (1947) 472-498; J. HAVET,
Mystère de la Sainte Trinité et vie chrétienne, in RevDiocNam
2 (1947) 161-176; F. GUIMET, Caritas ordinata et amor disere­
tus dans la Théologie trinitaire de Richard de Saint Vietar,
in Rev.M.A.Lat. 4 (1948) 225-236; B. APERRIBAY, Influjo cau­
saI de las divinas personas en la experiencia mistica, in Ver­
dad y Vida 7 (1949) 53-74; G. PHILIPS, La Sainte Trinité dans
la vie du chrétien, Liège, 1949; H. RONDET, La Divinisation
du chrétien, in NRTh 71 (1949) 449-476, 561-588; K. RAHNER,
Dreifaltigkeitsmystik, in LThK III, 2a ed., 563 s.
5 Per esempio in Bonaventura partendo dal suo esempla­
rismo, col quale egli, in seguito alla rivalutazlone metafisica
della causa exemplaris accanto alla causa dltcicns e alla causa
finalis, supera di gran lunga l'opinione che le realtà del mondo
non possono essere propriamente trinitarie, essendo esso crea­
to per causalità efficiente ad opera del Dio Uno. Cfr. a pro­
posito: L. REYPENS, Le Sommet de la contemplation my­
stique chez le B. ]ean de Ruysbroec, in RAM 3 (1922) 250­
272, 4 (1923) 256-271; A_ AMPE, De grondlijnen van Ruys­
broee' s Drieeenheidsleer als onderbouw van den zieleopgang,
Tielt, 1950; ID., Kernproblemen uit de 1eer van Ruysbroec
II-III, Tielt, 1950/51; ID., De mystieke 1eer van Ruysbroec
over de zieleopgang, Tielt, 1957; ST. AXTERS, GeschiedeniJ
590 SAGGI TEOLOGICI

stico del Dio assoluto, aforme e anonimo, que­


sto mistero non è rimasto ovunque semplicemen­
te un mistero della teologia astratta, ma è esistita
pure (ma quanto rara e timida!) una vera mistica
trinitaria (Bonaventura, Ruysbroec, Ignazio di Lo­
yola, Giovanni della Croce, Marie de l'Incarnation;
forse si potrebbero ricordare qui Bérulle e alcuni
moderni, per esempio Elisabetta della Santissima
Trinità, Anton Jans).
Tutto questo però non può far sì che sorvolia­

van de vroomheid in de Nederlanden, II, Antwerpen, 1933;


L. REYPENS, Dieu (connaissance mystique), in DSAM III,
883-929; P. HENRY, La Mystique trinitaire du B. ]ean Ruy­
sbroec, in RSR 40 (1951/52) 335-368; H. RAHNER, Die
Vision des hl. Ignatius in der Kapelle von La Storta, in
ZAM 10 (1935) 17-34, 124-139, 202-220, 265-282; J. IPAR­
RAGUIRE, Vision ignaeiana de Dios, in Creg. 37 (1956) 366­
390; EFRÉN DE LA MADRE DE DIOS, San Juan de la Cruz
y et misterio de la SantEsima Trinidad en la vida espiritual,
Zaragoza, 1947; P. BLANCHARD, Expérienee trinitaire et vi·
sion béatifique d'après S. ]ean de la Croix, in Année théol.
1948, 293-310; J. KLEIN, L'itinéraire mystique de la V éné­
rable Mère Marie de l'Incarnation, Roma, 1937; M. PHI­
LIPON, La doetrine spirituelle de Soeur Elisabeth de la Tri­
nité, Paris, 1938; H. URS VON BALTHASAR, Elisabeth von
Dijon, KOln, 1952; T. MANDRINI, Una nuova mistica Car­
melitana, in Scuola Catt. 69 (1941) 425-432; A. JANS, Ein
Mystikerleben der Cegenwart, ed. da M. GRABMANN, Mi.in­
chen, 1934. Fino a che punto qui si dovrebbe menzionare
pure una devozione al Logos e non soltanto una speculazione
sul Logos (iniziando da Origene), fino a che punto conver­
rebbe menzionare la venerazione della «divina Sapienza» per
esempio di Susone, L. Blosius, C. Druzbicki, ecc., non lo
possiamo approfondire. Cfr. W. VOLKER, Das Vollkommen­
heitsideal des Origenes, Ti.ibingen, 1931; A. LIESKE, Die theo­
logische Logosmystik bei Origenes, Mi.inster, 1938; B. KRI­
VOCHEINE, The holy Trinity in Greek Patristic Mystical Theo­
logy, in Sobornost, Inverno 1947/48, 529-537.
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 591

mo sul fatto che i cristiani, nonostante ogni loro


ortodossa professione di fede nella Trinità, nella
pratica della loro vita religiosa sono quasi soltan­
to « monoteisti ». Si potrebbe rischiare l'afferma­
zione che, se si dovesse eliminare come falsa la
dottrina della Trinità, gran parte della letteratura
religiosa potrebbe rimanere quasi inalterata. Non
si può neppure obiettare che la dottrina dell'In­
carnazione occupi teologicamente e religiosamente
un posto tanto centrale nei cristiani, che di con­
seguenza la Trinità sia sempre e dovunque insepa­
rabilmente «presente» nella loro vita religiosa.
Infatti oggi, parlando dell'incarnazione di Dio,
lo sguardo mira teologicamente e religiosamen­
te soltanto al fatto che « Dio» si è fatto uomo, che
« una» persona (della Trinità) si è incarnata e
non al fatto che questa persona è proprio quella
del Logos. Si può avanzare il sospetto che per il
catechismo della testa e del cuore (a differenza del
catechismo stampato), l'immagine dell'incarnazio­
ne non muterebbe affatto nel cristiano, se non ci
fosse affatto la Trinità. In tal caso Dio si sarebbe
fatto uomo come persona (unica): di fatto il cri­
stiano medio non comprende di più di una cristo­
logia moderna, scientifica e completa, nella quale
rimane in secondo piano quale sia con esattezza
la divina ipostasi che ha assunto la natura uma­
na. La comune dottrina attuale sull'Incarnazione
che vige nelle scuole lavora di fatto soltanto con
un concetto astratto (che in realtà possiede un'uni­
592 SAGGI TEOLOGICI

tà del tutto analoga e precaria) di una divina ipo­


stasi e non col concetto precisamente della secon­
da ipostasi, in quanto tale, di Dio. Essa si chiede
che cosa significhi che Dio si è fatto uomo, non
però che cosa significhi in particolare che il Logos,
proprio in quanto tale, distinto dalle altre divine
persone, si sia incarnato. Ciò non desta meravi­
glia. Da Agostino in poi (contro la tradizione a lui
precedente) è cosa più o meno pacifica fra i teolo­
gi, che ognuna delle divine persone (se fosse libe­
ramente voluto da Dio) potrebbe incarnarsi e che
perciò l'incarnazione di questa determinata perso­
na non esprima nulla circa l'intima particolarità
divina propria di questa persona 6.
Nessuna meraviglia quindi che la devozione
ispirata dalla dottrina dell'Incarnazione mediti di
fatto solo che « Dio» si è fatto uomo, senza per­

6 È strano: ogni dottrina della Trinità deve far rilevare


che 1'« hypostasis» in Dio è proprio ciò per mezzo del quale
Padre, Figlio e Spirito si distinguono uno dall'altro; che dove
fra questi tre sussiste un accordo domina un'assoluta iden­
tità numerica; che quindi il concetto di « ipostasi» applicato
a Dio non è un concetto universale univoco, che convenga in
egual maniera a ciascheduna delle tre Persone. E tuttavia que­
sto concetto viene poi usato nella cristologia come fosse cosa
ovvia che una «functio hypostatica » nei riguardi di una na­
tura umana possa venir esercitata alla stessa maniera da un'al­
tra ipostasi in Dio, come se non si dovesse perlomeno chie­
dere se quella determinata relativa sussistenza, nella quale sus­
sistono proprio il Padre e lo Spirito in pura differenza, non
uguaglianza, col Figlio non proibisca forse (sebbene questo
non sia il caso del Figlio) di esercitare una tale functio hypo­
statica nei confronti di una natura umana.
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 593

cepire nello stesso tempo in essa una chiara asser­


zione circa la Trinità. Perciò la chiara coscienza
dell'Incarnazione non è una dimostrazione che la
Trinità significhi qualcosa nella devozione del cri­
stiano. E cosÌ succede pure (un ulteriore riflesso
del sentire comune nella dogmatica, e questo in an­
titesi - percepita soltanto molto debolmente ­
alle formule sacramentalmente irrigidite della vec­
chia liturgia) che per esempio in teologia si spie­
ghi, quasi come evidente, che il « Padre nostro»
si dirige in egual maniera e fin dall'inizio indistin­
tamente alla Santissima Trinità, che il Sacrificio
della Messa viene offerto nella stessa maniera a
tutt'e tre le divine persone 7, che la dottrina oggi
corrente della soddisfazione e pertanto della reden­
zione con la sua teoria di un doppio soggetto mo­
rale in Cristo, concepisce un atto di redenzione che
si dirige a priori a tutt'e tre le divine persone in
egual maniera, che quindi questa dottrina non ri­
flette affatto esplicitamente che la soddisfazione
fu resa proprio dal V erbum incarnatum (e non
semplicemente dal Deus-homo) e che perciò ci si
potrebbe altrettanto bene immaginare che un'altra
divina persona come uomo avrebbe potuto rendere
al Dio Trino una satisfactio condigna, anzi que­
st'ultima la si potrebbe anche immaginare sen­

7 Mi ricordo un po' mortificato che anch'io, circa 20 anni


fa, credetti bene di biasimare il fatto che M. Schmaus nella
sua Dogmatica la pensasse diversamente.
20. - Saggi teologici.
594 SAGGI TEOLOGICI

za che la Trinità fosse posta quale condizione o


possibilità 8,
n
Di conseguenza anche dove il trattato è in­
titolato « De gratia Christi » la dottrina della gra­
zia è di fatto monoteistica e non trinitaria: consor­
tium divinae naturae fino alla visio beata essentiae
divinae 9, Si dice invero che la grazia fu « merita­
ta » da Cristo. Ma poiché questa grazia di Cristo
nel migliore dei casi si dimostra prima o poi come
grazia « Dei »-hominis, non come grazia del Ver­
bum incarnatum come Logos, e poiché questa gra­
zia viene intesa come rielargizione di una grazia
che nella sua natura supralapsaria viene general­
mente concepita come pura grazia Dei, non Verbi
e tanto meno Verbi incarnandi, cos1 anche il trat­
tato della grazia è solo in maniera estremamente
poco chiara un riverbero teologico e religioso del
mistero del Dio Trino.
Travagliati dallo stesso timore antitrinitario, ci
si guarda bene (alcune eccezioni da Petavio attra­
verso Thomassin fino a Scheeben, Schauf, ecc., non
fanno che confermare la regola) dal concepire la

8 Una volta presupposta la teoria di una doppia persona


morale in un'unità sostanziale di persona, anche un Dio asso­
lutamente uno potrebbe contrarre un'unione ipostatica con
una natura umana e cosi rendere soddisfazione a se stesso.
9 Nella famosa Costituzione di Benedetto XII sulla visio
beatifica (Denz. 530), la Trinità rimane completamente fuori
considerazione: vi si parla soltanto dell'« essenza divina,. e
a quest' ultima viene attribuita la realtà più intimamente per­
sonale: il mostrar-si. Ciò si spiega forse solo con la tematica
che stiamo qui considerando?
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 595

relazione all'uomo delle tre divine persone fon­


data dalla grazia in modo diverso da un rapporto
basato unicamente sulla « grazia creata» prodot­
ta dalla causalità efficiente e soltanto « appropria­
ta » alle singole persone in maniera diversa.
Lo stesso dicasi del trattato dei sacramenti e
dell'escatologia. Nella dottrina della creazione
oggi (a differenza dell'antica grande teologia, per
es. in Bonaventura) non si trova neppure una
parola sulla Trinità. Si crede che questo silenzio
sia del tutto legittimo, perché le opere divine « al­
l'esterno» sono così « comuni» che il mondo co­
me creazione in fondo non può possedere dei reali
indizi dell'intrinseca vita divina della Trinità;
si considera (pur non ammettendolo esplicitamen­
te) l'antica e classica dottrina delle vestigia e del­
l'imago Trinitatis nel mondo soltanto come una
più o meno pia speculazione, che si può tentare
dopo che in altro luogo si è già conosciuto il ne­
cessario sulla Trinità, una speculazione tuttavia
che non dice nulla di rilevante né della Trinità
stessa né delle realtà create oltre a ciò che, indi­
pendentemente da questo, si sapeva già.

2.

Da tutto questo risulta che il trattato sulla


Trinità se ne sta abbastanza isolato nella com­
pagine della dogmatica. Detto francamente (esa­
596 SAGGI TEOLOGICI

gerando e generalizzando): questo trattato, una


volta considerato, non ritorna più in dogmatica.
Si vede soltanto confusamente la sua funzione nel­
l'insieme della teologia. Questo mistero sembra
comunicato come fine a se stesso. Esso rimane,
anche dopo essere stato comunicato, come realtà
chiusa in sé. È oggetto soltanto di comunicazioni
normative, ma come realtà non ha affatto nulla
(o quasi nulla) a che fare con noi. La teologia
corrente non può rifiutare questa proposizione co­
me esagerata: chi nella cristologia conosce soltan­
to una funzione ipostatica « di una » divina per­
sona, che potrebbe altresì venir esercitata da ogni
altra divina persona, chi pensa che per noi in Cri­
sto abbia realmente importanza soltanto il fatto
che egli è « una» (quale, è per noi irrilevante)
divina persona, chi nella grazia riconosce vera­
mente soltanto dei rapporti appropriati delle di­
vine persone all'uomo e anche qui ha soltanto
una vaga cognizione di una causalità efficiente del­
l'unico Dio, questi in fondo, in poche parole,
dice espressamente che noi non abbiamo altro rap­
porto col mistero della Trinità se non quello di
sapere qualcosa « in proposito» attraverso la ri­
velazione lO.

lO Nella nostra obiezione prescindiamo naturalmente dal


fatto (poiché si tratta di questo anche nella posizione criti­
cata) che vero «sapere », inteso metafisicamente in maniera
radicale, implica il rapporto più reale che si possa pensare alla
cosa saputa' e viceversa. Ma appunto questo assioma, appro­
fondito nei riguardi del presente problema, metterebbe in evi­
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 597

Se a ciò si replicasse semplicemente che la


nostra beatitudine consisterà un giorno nel guar­
dare faccia a faccia appunto questo Dio Trino,
che in tal modo saremo «assunti» nell'intima
vita divina, ch'è nello stesso tempo il nostro più
reale compimento, e che perciò questo mistero ci
è detto già ora, dovremmo chiedere a nostra volta
come può mai esser vero tutto ciò, dal momento
che viene negato un rapporto ontologico-reale di
ciascuna delle tre divine persone all'uomo, che non
sia pura appropriazione, e se la visione di una
realtà, sia pure la più eccelsa, ci possa realmente
rendere beati anche se (nel presupposto che stia­
mo criticando) da un punto di vista ontologico­
reale è vista come non-relativa nei nostri con­
fronti 11.
Il ricorso alla VIStO beatifica deve quindi in­
durre o a tirare fino in fondo le conseguenze del­
la propria posizione, oppure 11 porre la domanda

denza che la rivelazione del mistero della Trinità implica e


presuppone una comunicazione ontologico-reale della realtà
rivelata in quanto tale agli uomini, e che quindi non può venir
concepita, come fa la posizione criticata, nella guisa di una
pura comunicazione verbale, che non muta il rapporto reale
fra il comunicante (come Trino) e il destinatario.
11 Con questa formulazione non intendiamo toccare la que­
stione se Dio possa avere in genere delle relazioni «reali»
« verso l'esterno». È un problema che possiamo qui sorvolare.
« Ontologico-reale» quale proprietà di ciascuna delle tre di­
vine persone nei confronti dell'uomo deve essere inteso sol­
tanto in senso analogico (per ciò che riguarda la « realtà» e
non la particolarità del termine), come per esempio nel caso
del Logos, che ha una reale relazione personale alla sua na­
tura umana.
598 SAGGI TEOLOGICI

se anche qui sia data solo la conoscenza di una


realtà non-relativa, la quale, appunto essendo non­
relativa, rimane isolata dalla conoscenza esisten­
ziale che abbiamo di noi stessi, cosl come nella
odierna teologia dei pellegrini il trattato della Tri­
nità rimane isolato dagli altri trattati di dogma­
tica, nei quali per la nostra reale salvezza venia­
mo a sapere qualcosa di noi stessi.
Queste osservazioni spiegano pure altri feno­
meni. Anzitutto la distinzione e la disposizione,
già da tempo considerate in generale evidenti, dei
trattati De Deo Uno - De Deo Trino, esplicita­
mente e tenacemente difese anche molto di recen­
te, per es. da ]. M. Dalmau (PS] II, 2 ed., 13 s.).
Soltanto pochissimi, come per es. B. M. Schmaus
e A. Stolz, fanno qui lodevole eccezione. Non si
può certo addurre la tradizione come argomento
obbligante per questa scissione e questo ordine,
divenuti comuni, dei due trattati. Essi sono en­
trati nell'uso comune solo dopo che la Somma di
S. Tommaso ha soppiantato le sentenze di P. Lom­
bardo. Se con la Scrittura e i Padri greci per ò
8e6ç; si intende anzitutto il Padre (non solo in
senso suppositivo, ma in senso specifico vero e
proprio) Ha, la struttura trinitaria del Simbolo

Ha Cfr. il saggio Theos nel Nuovo Testamento, p. 467 ss.


In genere Theos nel Nuovo Testamento non sta ad indicare il
Padre solo suppositivamente, cioè non indica direttamente la
natura divina e solo secondariamente, poiché anche lui è una
persona divina, il Padre, ma è il suo nome specifico (N. d. T.).
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 599

Apostolico, avvalorata dalla teologia trinitaria gre­


ca, consiglierebbe piuttosto di trattare innanzitut-
to del Padre, e in questo primo capitolo della
t
teo-Iogia includere pure la trattazione dell'« es­
senza» di Dio, della divinità di questo Padre.
Così, per es., il Maestro delle Sentenze include
la teo-Iogia generale nella dottrina della Trinità
(cosa che Grabmann considera uno degli « errori
capitali» di Pietro Lombardo) e nella Summa
Alexandri non esiste ancora una netta scissione
dei due trattati. Ciò succede, come si è detto, per
motivi non ancora veramente appurati, solo in
S. Tommaso. Egli non tratta dapprima di Dio
Padre quale principio assoluto nella divinità e
nella realtà del mondo, ma della natura comune
a tutt'e tre le persone. E così si è continuato a
fare dopo d'allora.
In tal modo però il trattato sulla Trinità è
finito in uno « splendid isolation », attraverso il
quale corre ancor più il rischio di venir conside­
rato non interessante per la vita religiosa; sem­
bra che tutto ciò che per noi è importante in
Dio, sia già stato detto precedentemente nel trat­
tato De Dea Uno.
Presumibilmente questa divisione e quest'or­
dine dei due trattati scaturiscono dalla concezione
occidentale agostiniana in opposizione a quella
greca (sebbene questa concezione agostiniana non
fosse l'unica a regnare nell'alto medioevo come
accadrà più tardi): ci si occupa innanzitutto del
1
600 SAGGI TEOLOGICI

Dio Uno unisostanziale nella sua totalità e sol­


tanto in un secondo tempo lo si costituisce triper­
sonale (per quanto poi ci si guardi - e ci si deb­
ba guardare - dallo staccare 1'« essenza» come
un « quarto» preesistente alle tre persone).
Secondo la Bibbia ed i Padri greci dovremmo
invece partire dal Dio Uno, assolutamente non ori­
ginato, che è il Padre) pure nel caso che non si
sappia ancora che egli è Colui che genera e che
spira, poiché egli è conosciuto come l'ipostasi una
e totalmente senza principio, che non deve tutta­
via venir concepita positivamente come « assolu­
ta », pur non essendo ancora esplicitamente co­
nosciuta come relativa.
Il punto di partenza latino-medioevale invece
è diverso. In esso si crede di poter e di dover
porre, pure cristianamente, un trattato De Deo
Uno prima del trattato De Dea Trino. Ma allora
si finisce con lo scrivere (nell'unicità della sostan­
za divina infatti si giustifica questo processo), o
almeno si potrebbe scrivere, soltanto un trattato
« De divinitate una », che procede in maniera fi­
losoficamente molto astratta e poco concreta per
quanto concerne la storia della salvezza. Vi si
parla delle necessarie qualità metafisiche di Dio e
non molto espressamente delle esperienze storico­
salvifiche che si san fatte sul libero comporta­
mento di Dio verso la sua creazione. Se ciò si fa­
cesse infatti, non si potrebbe quasi più fare a me­
no di osservare che poi si parla sempre di quello
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 601

che la Scrittura e Gesù stesso chiamano Padre,


Padre di Gesù, il quale manda il Figlio e si dona
a noi nello Spirito, il suo Spirito.
Quando si parte dalla concezione occidentale­
agostiniana, un trattato a-trinitario De Dea Uno
precede come cosa ovvia il trattato sulla Trinità.
In tal modo però la teologia della Trinità desta
più che mai l'impressione che in essa si possa di­
re delle divine persone soltanto qualcosa di for­
male (con l'aiuto delle due processioni e delle re­
lazioni) e che per di più ciò riguardi una Trinità
chiusa in se stessa e non aperta all'esterno (della
quale noi, gli esclusi, in uno strano paradosso,
sapremmo tuttavia qualcosa). Certamente, in una
teologia trinitaria «psicologica» agostiniana si
cerca di dare un contenuto ai concetti formali 12

12 Qui dobbiamo ammettere che la teologia greca al suo


apogeo (presso i Cappadoci), nonostante il suo punto di par­
tenza «economico-salvifico» rivolto al mondo nella dottrina
trinitaria, dà l'impressione di essere ancora più formalistica
della teologia trinitaria in Agostino. Come si spiega? La Tri­
nità per i Greci era forse cosi «economico-salvifica~) da poter
ritenere a ragione tutta la loro teologia dottrina della Trinità,
con la conseguenza che la «loro» dottrina trinitaria non for­
mava l'intera dottrina della Trinità, ma rappresentava soltanto
la sua parte formale astratta, che non doveva dire qualcosa di
ognuna delle tre divine persone, bens} risolvere soltanto il
problema (supplementare per i Greci) dell'unità delle tre per­
sone che si incontrano singolarmente distinte nella teologia
e nell'economia? Stando a ciò, non dovremmo forse dire: l'oc­
cidente prende dai Greci la parte formale della teologia
trinitaria come la dottrina trinitaria intera (poiché la sua
dottrina salvifica conserva solo il minimo, dogmaticamente
inevitabile, di teologia trinitaria) ed è di qui obbligato (a dif­
ferenza dei Greci) a colmare di contenuto questa teologia tri­
602 SAGGI TEOLOGICI

di processio, communicatio essentiae divinae, re­


latio, subsistentia relativa. Ma se vogliamo esser
sinceri, dobbiamo dire che in tal modo non si
avanza di molto.
Non è detto con ciò che questa dottrina psi­
cologica della Trinità sia soltanto una pura - e
neppure riuscita - speculazione teologica. Si può
ben dire: conforme agli spunti già esistenti nella
Scrittura, ambedue le processioni divine, la cui
certa esistenza ci è garantita dalla rivelazione,
hanno qualcosa a che fare con le due facoltà fon­
damentali che sappiamo essere quelle dello spi­
rito: conoscenza e amore. Dobbiamo però aggiun­
gere a questo principio certamente valido della
teologia trinitaria psicologica agostiniana: questo
rapporto interno (se si vuole evitare un'artmcio­
samente ferrea esegesi nella teologia scritturale,
ciò che spesso non accade nella teologia scolastica
in questa questione) è presente nella Scrittura so­
lo in quanto questa conoscenza divina immanente
viene considerata come rivelantesi e questo amo­
re immanentemente divino come donantesi in par­
tecipazione personale nella storia della salvezza.
Quando in teologia non si tien conto di que­
sta precisa visuale della Scrittura, la speculazione
psicologica agostiniana sulla Trinità cade nella no­
ta difficoltà, che farà sempre sembrare inutile la

nitaria quasi matematicamente formalizzata e a renderla plU


e"iclente per mezzo di quello che Agostino già ha sviluppato
-c". le t ~ologia «psicologica» della Trinità?
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 603

meravigliosa profondità di questa speculazione:


si parte da un concetto filosofico, immanente al
mondo di conoscenza e amore, da questo si svi­
luppa un concetto della parola e dell'« inclinazio­
ne » dell'amore, ma poi, dopo aver applicato spe­
culativamente questi concetti alla Trinità, siamo
costretti ad ammettere che tale applicazione falli­
sce, essendo rimasti impigliati nel concetto «es­
senziale» di conoscenza e amore, perché non si
può e non si deve sviluppare un concetto « per­
sonale» della parola e dell'intensità dell'amore
partendo dall'esperienza umana, perché altrimenti
il Verbo conoscente e lo Spirito amante dovreb­
bero avere a loro volta una parola ed uno spirito
come persone che da essi procedono.
Tutto questo non significa che sempre ed in
ogni caso sia un errore separare e ordinare pro­
gressivamente, come è d'uso, i due trattati De
Deo Uno - De Deo Trino. Talvolta si afferma
a torto che questa divisione e ordinamento non
fanno altro che ripetere il corso della stessa storia
della rivelazione, essendo questa progredita dalla
rivelazione della sostanza alla rivelazione delle per­
sone l3. Però possiamo rispondere che questa di­
visione e questo ordinamento son più una que­

13 Si può dire altrettanto che la storia della rivelazione


riveli anzitutto Dio come persona senza principio nella sua
relazione al mondo e proceda poi alla rivelazione di questa
persona quale principio di processi di vita intrinsecamente­
divini e personalizzanti.
604 SAGGI TEOLOGICI

stione didattica che fondamentale. mentre in fon­


do quello che importa è ciò che vien detto nei
due trattati e quali rapporti fra i due vengono
tracciati (dal momento che vengono comunemente
cosÌ distinti).
La cosa che a noi qui premeva far osservare
era soltanto che nella divisione e nella disposi­
zione, come di fatto vengono presentati, non viene
messa sufficientemente in evidenza l'unità e l'o­
mogeneità delle due sezioni, cosa che appunto
appare dalla maniera aproblematica con cui si
crede che questa divisione e questa disposizione
siano semplicemente necessarie ed ovvie.
Pure un altro fenomeno è connesso a questa
chiusura della dottrina trinitaria in se stessa: il
timore col quale ci si guarda da ogni tentativo di
scoprire analogie, indizi, preparativi ad essa fuori
del cristianesimo o nell'A.T. Si potrebbe dire (esa­
gerando e semplificando solo un po'): l'antica apo­
logetica contro i pagani e i giudei mirava soprat­
tutto a trovare la Trinità possibilmente prima an­
cora del N.T. e fuori del cristianesimo, perlomeno
in tracce e presso spiriti privilegiati: i Patriarchi
dell' A.T. nella loro fede sapevano qualcosa in
proposito ed Agostino attribuiva ai grandi filosofi
una conoscenza in riguardo, con una tale genero­
sità che oggi susciterebbe scandalo. La più recen­
te apologetica cattolica rifiuta invece rigidamente
senza eccezioni tali tentativi di scoprire una trac­
cia di questo mistero fuori del N.T. E questo con
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO « DE TRINITATE» 605

incontestabile coerenza: se per questa teologia nel


mondo e nella storia della salvezza la Trinità co­
me tale non compare, allora è perlomeno impro­
babile che di essa vi si trovi anche la minima
nozione. E cosÌ viene tacitamente presupposto
- più o meno ancora prima della domanda di fatto
aposterioristica, se tali tracce si lasciano effetti­
vamente trovare o no (alla quale domanda na­
turalmente nemmeno si può rispondere aprioristi­
camente di sì) - che ciò non può essere. In ogni
caso sarà minima la tendenza a valorizzare positi­
vamente echi o analogie nella storia delle religioni
o nell'A.T. Quasi ovunque vien messa in rilievo
soltanto l'incommensurabilità di queste dottrine
nel cristianesimo e fuori di esso.

3.

Bisogna dire che questo isolamento del tratta­


to della Trinità si dimostra errato già attraverso
la sua realtà di fatto: così non può essere. La
Trinità è un mistero salvifico. Altrimenti non sa­
rebbe rivelata. Ed allora è necessario che venga
chiarito perché lo è. Bisogna che in tutti i trattati
di dogmatica risulti chiaro che queste realtà sal­
vifiche in essi considerate non possono venir com­
prese senza rifarsi a questo originario mistero del
cristianesimo. Quando questa costante pericoresi
fra i trattati non risulta continuamente evidente,
606 SAGGI TEOLOGICI

è un indizio che nel trattato della Trinità o negli


altri trattati non furono chiaramente elaborati
quei rapporti, che solo fanno capire come la Tri­
nità è per noi un mistero salvifico e che perciò
si incontra ovunque dove si parla (appunto negli
altri trattati di dogmatica) della nostra salvezza.
La tesi fondamentale che unisce i vari trattati
e mette in evidenza la Trinità come mistero sal­
vifico per noi (nella sua realtà e non anzitutto co­
me dottrina), potrebbe venir cosi formulata: la
Trinità « economica» è la Trinità immanente, e
viceversa. Dobbiamo ora spiegare questa asser­
zione, motivarla e chiarirla nella sua importanza
e nella sua applicazione alla cristologia. Questi
assunti si penetrano e si condizionano a vicenda
in maniera tale, che non possono venire trattati
uno dopo l'altro, bensÌ contemporaneamente.
La Trinità « economica» è la Trinità imma­
nente, così dice la proposizione in esame. In un
punto, in un caso questo articolo è verità di fede
definita 14; Gesù non è semplicemente Dio in ge­
nerale, ma il Figlio; la seconda divina persona,
il Logos di Dio, è uomo, lui e soltanto lui. C'è
quindi perlo meno una «missione », una presen­
za nel mondo, una realtà economico-salvifica che
non viene semplicemente appropriata ad una de­
terminata divina persona, ma che le è propria.

14 Però soltanto in un punto, in un caso, che da solo


perciò non basta ancora a giustificare la tesi posta come ve­
rità completa ed assoluta.
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE}) 607

Qui non si parla soltanto « di » questa determi­


nata divina persona nel mondo. Qui fuori della
vita divina immanente, proprio nel mondo, suc­
cede qualcosa che non è semplicemente avveni­
mento del Dio tripersonale in quanto uno, il qua­
le agisce nel mondo in causalità efficiente, ma che
conviene soltanto al Logos, che è storia di una
divina persona distinta dalle altre divine persone.
(La situazione non cambia anche dicendo che la
causa efficiente di questa unione ipostatica, che
conviene al Logos, sia opera di tutta la Trinità).
C'è un'attribuzione di natura storico-salviflca che
può convenire soltanto a una divina persona.
Se questo però succede una volta, è in ogni
caso errata la proposizione: non c'è nulla di sto­
rico-salviflco, nulla di « economico» che non pos­
sa venir detto allo stesso modo del Dio trinitario
nell'insieme e di ciascuna persona in particolare
e per sé; e viceversa è pure errata la proposizione:
in una dottrina della Trinità (in quanto asserzione
riguardante le divine persone in generale e in par­
ticolare) ci possono essere soltanto delle afferma­
zioni che riguardano la realtà divina immanente.
Giusta è invece la proposizione: dottrina della
T rini tà e dottrina dell'economia (dottrina della
Trinità e dottrina della salvezza) non si possono
adeguatamente distinguere 15.

15 Non si può ovviare a questa proposizione, affermando


in modo semplicistico ed elementare che l'unione ipostatica
non pone una «relazione reale» nel Logos, che quindi del
608 SAGGI TEOLOGICI

Questa riflessione viene di solito affievolita ed


oscurata nella sua importanza per il nostro pro­
blema da tre diversi ragionamenti. Dobbiamo esa­
minare questi ragionamenti, prima di trattare il
valore del punto di partenza, dogmaticamente si­
curo, per la tesi più completa.
La prima difficoltà, la più nota e la più radi­
cale, è questa: appellandosi all'unione ipostatica,
ci si appella invero ad una realtà garantita dog­
maticamente, ma questo appello è fuori posto,
perché non si tratta affatto, né può trattarsi, di
un caso, di un ésempio di relazione e di principio
universali; l'unione ipostatica non autorizza a
priori di venir considerata come un paradigma per
proposizioni che, per così dire, dischiudono la Tri­
nità all'esterno, cosÌ che alla fine ne risulti la tesi
dell'identità di Trinità economica ed immanente.
Il motivo per rifiutare di concepire l'incarnazione
come «caso» di una relazione più ampia - si
dice - è semplice e decisivo: in Dio tutto è uni­
co nella più assoluta identità, a meno che non
si tratti dell'opposizione personificante delle rela-

Logos in quanto tale non può essere asserito nulla di «econo­


mico» che lo riguardi. Checché ne sia dell'assioma metafisico
scolastico, che Dio non ha «relazioni reali» esterne, resta ve­
ro in ogni caso e deve servire di norma direttiva per questo
assioma (e non viceversa!), che: il Logos è veramente uomo,
lui e soltanto lui e non il Padre o lo Spirito. E perciò rimane
vero che se in una dottrina delle divine persone dobbiamo
dire del Logos tutto ciò che in lui c'è e rimane, questa dot­
trina implica un'affermazione riguardante la storia della sal­
vezza.
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 609

zioni originarie intradivine. Di conseguenza una


singola persona divina, può avere una sua propria
relazione al mondo, distinta da quella delle altre,
soltanto attraverso un'unione ipostatica come ta­
le, perché soltanto in questa la sola cosa ad essa
particolare, l'essere-persona, la funzione ipostati­
ca, viene attuata « ad extra ». Ma poiché da una
parte esiste soltanto un'unione ipostatica del
Logos, e dall'altra ogni relazione propria di una
persona può essere soltanto ipostatica, dalla ve­
rità dell'incarnazione non è deducibile alcun prin­
cipio più universale come tale (oltre la possibilità
dell'unione ipostatica delle altre divine persone).
Non è né nostro compito né nostra intenzio­
ne approfondire questa fondamentale difficoltà po­
sta negli ultimi decenni specialmente da Paul GaI­
tier 16 contro l'accettazione di relazioni non ap­
propriate delle divine persone all'uomo per mezzo
della grazia. Questo tema è stato trattato così a
fondo, che nell'ambito di un così breve articolo
non si potrebbe dire in proposito nulla di più,
né di meglio. Ci accontenteremo quindi di affer­
mare che le confutazioni dell'obiezione, così come
le ha esposte per es. H. Schauf 17, ci sembrano
sufficienti.

16 P. GALTIER, L'habitation en nous des trois personnes,


Edition revue et augmentée, Roma, 1950.
17 H. SCHAUF, Die Einwohnung des Heiligen Ceis/es,
Freib1ug, 1941; cfr. anche: PH. ]. DONNELY, The Inhabita­
tion 01 the Holy Spirito A solution according fo de la Taille,
in ThStud 8 (1947) 445-470; ]. TRUTSCH, SS. Trinitatis inha­
610 SAGGI TEOLOGICI

Galtier ed altri teologi assertori della sua teo­


ria, non hanno provato con certezza, perlomeno,
che una relazione ipostatica propria (eigene) e
una relazione ipostatica unificante (einende) sia­
no necessariamente la stessa cosa. Più in là, nel
corso della nostra riflessione, ci imbatteremo an­
cora in argomenti positivi contro questa identifi­
cazione 18. Affermiamo pertanto: in linea di prin­
cipio si può concepire l'incarnazione come « caso»
dogmaticamente sicuro per una relazione (almeno

bitatio apud theologos recentiores, Trento, 1949; S. J. DOCKX,


Fils de Dieu par grace, Paris, 1948. C. STRXTER, Het begrip
« appropriatie» bit S. Thomas, in Biidr 9 (1948) 1-41, 144­
186; J. H. NICOLAS, Présence trinitaire et présence de la Tri­
nité, in RevTb 50 (1950) 183-191; TH. J. FITZGERALD, De
inhabitatione Spiritus Sancti in doctrina S. Thomae Aquina­
tis, Mundelein, 1950; P. DE LETTUR, Sanctifying Crace and
our union with tbe Holy Trinity, in TbStud 13 (1952) 33-58;
PH. J. DONNELY, Sanctifying Crace al1d our union with the
Holy Tril1ity, A Reply; in TbStud 13 (1952) 190-204; F. Bou­
RASSA, Adoptive Sonsbip. Our union with tbe divine persons,
in ThStud 13 (1952) 309-335; P. DE LETTER, Current Theo­
logy. Sanctifying grace and the divine Indwelling, in ThStud
14 (1953) 242-272; E. BOURASSA, Présence de Dieu et Union
aux divines personnes, in ScEce! 6 (1954) 3-23.
18 Si osservi attentamente il nostro modo di procedere:
l'argomento è dapprima puramente negativo: l'argomentazione
di Galtier ccc. non è pienamente e chiaramente convincente.
Non diciamo quindi positivamente che dal solo fatto dell'in­
carnazione come tale possa venir dedotta anche la possibile
esistenza di altri casi di una tale reale «economizzazione»
della Trinità immanente. (Altrimenti ci contraddiremmo; co­
me diremo più avanti infatti, dall'incarnazione del Logos non
si può desumere la possibilità dell'incarnazione di un'altra di­
vina persona). Soltanto con motivi teologici del fatto che esi­
stono altri casi di una tale compenetrazione di Trinità eco­
nomica ed immanente, si dimostra che l'incarnazione può va­
lere come « caso» di una tale identità.
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 611

non impossibile) economica, propria di una divina


persona, al mondo, con la quale relazione è data
la possibilità di una reale partecipazione di tutta
la Trinità come tale all'evento della salvezza, cioè
un'identità di Trinità economica ed immanente.
La seconda difficoltà - ed in certo qual mo­
do opposta - è quella già sfiorata precedente­
mente: supponendo che ogni divina persona pos­
sa contrarre un'unione ipostatica con una realtà
creata, il fatto dell'incarnazione del Logos non
« svela» niente di lui stesso, vale a dire del suo
proprio essere intrinsecamente divino; l'incarna­
zione in fondo significherebbe per noi oggettiva­
mente soltanto l'esperienza dell'essere-persona di
Dio in generale; noi sappiamo bensì (per rivela­
zione normativa), che proprio la seconda divina
persona per quanto riguarda la realtà umana ri­
scontrabile in Gesù esercita una funzione iposta­
dea. Ma ciò che viene vissuto e sperimentato sa­
rebbe identico, così com'è ora, se un'altra divina
persona formasse la sussistenza di questa realtà
umana. La realtà economica afferrabile è certo
nelle sue parole (Gesù parla infatti del Padre e di
sé, appunto come « Figlio») uno sguardo nella Tri­
nità, ma non in se stessa, poiché ciò che qui av­
viene economicamente sarebbe potuto succedere
benissimo pure con ciascun'altra persona; l'even­
to in sé (che è portatore neutrale di una pura
rivelazione verbale e non esso stesso, come avve­
nimento, rivelazione trinitaria) non asserisce nuI­
612 SAGGI TEOLOGICI

la circa la realtà trinitaria intrinsecamente divina.


È già stato accennato sopra agli effetti pro­
dotti nell'elaborazione della cristologia da que­
sto presupposto accettato come ovvio. Ma è poi
giusto questo presupposto, che ogni divina per­
sona possa farsi uomo? Rispondiamo: questo pre­
supposto non è provato ed è falso.
Esso non è provato: la più antica tradizione
prima di Agostino non ha mai pensato ad una
tale possibilità e nelle sue riflessioni teologiche
ha sempre presupposto in fondo il contrario. Per
essa il Padre, in quanto senza principio, è per
definizione colui che è invisibile, che si rivela
ed appare proprio dicendo il suo Verbo nel mon­
do; questi per definizione è intratrinitariamente
e economicamente la rivelazione del Padre, così
che una rivelazione del Padre senza il Logos e
senza la sua incarnazione equivarrebbe ad un di­
scorso senza parola.
Tale presupposto è falso: dal semplice fatto
cioè, che una determinata divina persona si è in­
carnata, non si può dedurre la stessa «possibili­
tà» per un'altra. Questa deduzione infatti sup­
pone che, a) « ipostasi » sia in Dio un concetto
univoco riguardo alle tre divine persone, e che,
b) la diversità in ogni caso esistente nel singolo
essere-persona delle tre ipostasi (che in realtà è
cosi grande da permettere soltanto vagamente un
analogo concetto di persona applicato in egual ma­
niera a tutte e « tre») non impedisca che una per­
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 613

sona per mezzo dell'essere-persona proprio suo


particolare ed unico entri in una relazione iposta­
tica con una realtà creata, come la seconda divina
persona. La prima premessa è falsa e la seconda
assolutamente non provata 19.
La prima è falsa: in realtà, se essa avesse ra­
gione e se nello stesso tempo non venisse espressa
una sola volta ai margini· del pensiero teologico,
ma venisse presa veramente sul serio 20, imbroglie­
rebbe tutta la teologia. Non esisterebbe più alcun
nesso reale fra la « missione» e la vita trinitaria
immanente. La nostra figliolanza nella grazia non
avrebbe in realtà niente a che fare con la figlio­
lanza del Figlio, poiché essa, essendo assoluta­
mente identica, potrebbe essere causata altrettanto
bene da un'altra persona incarnata. Da ciò che
Dio è per noi non potremmo sapere in nessun

19 Chi contesta che pure il Padre o lo Spirito possano in­


carnarsi, contesterebbe in essi una «perfezione» soltanto se
fosse accertato che una tale possibilità è per il Padre e lo Spi­
rito un'effettiva possibilità e perciò una «perfezione». Ma
appunto questo non è affatto accertato. Per il Figlio in quanto
Figlio, per es., è una perfezione procedere dal Padre. Arguire
da questo però che pure il Padre come tale debba avere que­
sta perfezione è puro non-senso. Ma poiché la funzione ipo­
statica «ad extra» è la divina ipostasi corrispondente, dalla
funzione di questa ipostasi non può esser dedotto nulla per
un'altra, anche se dal nostro astratto concetto universale di
sussistenza non emerge alcuna contraddizione all'idea che il
Padre possa far sussistere una natura umana.
20 Al fatto che essa, benché premessa quasi tacitamente
come evidente, abbia tuttavia degli effetti rilevanti e perciò
anonimamente sia molto potente, si è già accennato all'inizio
dell'articolo.
614 SAGGI TEOLOGICI

caso ciò che egli - trinitario - è in se stesso.


Che questa ed altre simili conclusioni che risul­
terebbero da una simile tesi vadano contro la ten­
denza della Sacra Scrittura lo può contestare sol­
tanto chi non pone la sua teologia sotto la norma
della Scrittura, ma permette a questa di dire sol­
tanto ciò che egli sa già dalla sua teologia scola­
stica e con abilità e sangue freddo elimina tutto
il resto. Ciò si dovrebbe e si potrebbe dimostrare
nei particolari. Qui ci è soltanto possibile porre
l'antitesi. Poiché la tesi respinta non può presen­
tarsi in alcun modo come vincolante né dal punto
di vista dogmatico né da quello teologico, in un
breve articolo è lecito dichiarare semplicemente
che la si respinge. Cosi si rimane, meglio che
essa non faccia, nell'ambito di ciò che è veramente
rivelato; si fa della teologia che non conta, né
esplicitamente, né (cosa molto più pericolosa) ta­
citamente, su un'eventuale possibilità, della qua­
le la rivelazione non dice nulla; rimane nel con­
testo della verità che il Logos è, come appare nella
rivelazione, il (non uno fra i possibili) rivelatore
del Dio Trino in virtù del suo essere personale,
proprio soltanto a lui, al Logos del Padre.
La terza difficoltà 21, che in certo modo com­

21 Questa difficoltà esiste in generale solo anonimamente


in teologia. È difficile perfino formularla con chiarezza, seb­
bene essa stia sullo sfondo di ogni differenza cristologica, che
tu tt'oggi esiste ancora nella cristologia cattolica (ad esempio
fra un puro calcedonismo e un neocalcedonismo). Si tratta
della seguente questione: l'umanità del Logos è semplicemen­
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 615

pleta la seconda, è questa: se la natura umana


del Logos viene concepita soltanto come una real­
tà che ha una ragione in se stessa, nella sua es­
senza definita, come realtà creata secondo un pia­
no, un'« idea» che in sé non ha nulla a che
fare col Logos (in ogni caso non di più di altre
possibili nature ed essenze creabili), allora questa
natura sussiste bensì nel Logos, di lui possono
bensì venir predicate queste realtà naturali e i
loro atti come cosa sua; in un senso formale (ma
appunto molto formale soltanto) si può dire che
il Logos per mezzo di questa realtà umana è « pre­
sente » e « operante » nel mondo e nella sua sto­
ria. Ma tutta questa realtà non «rivela» invero
nulla di lui medesimo in quanto tale. Egli mostra
in essa soltanto l'universale (o tutt' al più attra­
verso di essa il meraviglioso e il sopraumano,
grazie alle virtù preternaturali, che non conven­
gono di solito a una qualsiasi altra natura umana
e che in lui si osservano), quello che anche altri­
menti è appunto « umano ». Ma la realtà umana
come tale non manifesterebbe il Logos in quanto
tale. Egli in essa apparirebbe soltanto nella sua
soggettività formale. E pertanto una realtà divina

te la realtà eterogenea assunta o è proprio quello che il Lo­


gas diviene, quando esprime se stesso penetrando nel non-di·
vino? L'incarnazione va spiegata nel suo contenuto (riguardo
a ciò che il Logos diventa) partendo dalla natura umana in
quanto già nota (e che in tal caso non diviene più evidente
per l'incarnazione), oppure è la natura umana in fondo a
dover essere spiegata dall'automanifestazione del Logos stesso?
616 SAGGI TEOLOGICI

trìnìtaria immanente si sarebbe manifestata nella


storia della salvezza soltanto in una vuota forma­
lità. Quanto è già noto, ma non-trinitario, sarebbe
creato e assunto (come già - logicamente ed og­
gettivamente, anche se non cronologicamente ­
presupposto) .
Però ciò posto non si potrebbe dire che il Lo­
gos sia uscito dal suo stato di non-relazione divina
immanente e abbia mostrato se stesso per mezzo
della sua umanità e nella sua umanità. Non sarebbe
veramente possibile (stando sempre a questo pre­
supposto) dire: chi mi vede, vede me; del sog­
getto, del Logos, non si sarebbe mai visto nulla o
tutt'al più la sua astratta e formale soggettività,
sperimentata nell'umanità come tale di Cristo.
La questione è perciò questa: dobbiamo in­
tendere l'&ovyxtrroç calcedonico nel senso che
la pura natura umana del Logos non ha con lui in
quanto Logos nessuna relazione che non sia quella
di una qualsiasi altra creatura con il suo creatore,
tranne una sussistenza formale in esso, cosicché
essa è bensì « detta» dal suo soggetto, ma questo
soggetto in essa non «esprima» tuttavia vera­
mente se stesso?
Forse non ci è neppure riuscito di far prendere
veramente coscienza della difficoltà in modo ri­
flesso. Essa però sta confusamente e così in ma­
niera più efficace ed inquietante in fondo a ogni
cristologia. Tanto meno è possibile qui motivare
la risposta che a noi sembra giusta. Possiamo dire
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 617

soltanto: la relazione fondamentale fra il Logos e


la natura umana assunta in Cristo non è affatto
così come la vede la menzionata difficoltà. Fra i
due esiste una relazione intima più essenziale.
La natura umana è oggetto possibile della co­
noscenza e della forza creativa di Dio, perché e in
quanto il Logos è per sua essenza colui che può
venir espresso, anche nel non-divino, perché e in
quanto egli è appunto la parola del Padre nella
quale il Padre può esprimersi e - liberamente ­
manifestarsi anche nel non-divino e perché, quan­
do ciò avviene, egli diviene ciò che noi chiamiamo
natura umana. La natura umana, in altre parole,
non è la maschera presa dall'esterno (il 7tpòO'(ù7tov),
la livrea nella quale il Logos nascosto gesticola nel
mondo, bensi fin dall'inizio il simbolo reale 22 co­
stitutivo del Logos, cosicché dobbiamo e possiamo
dire: l'uomo è possibile in quanto è possibile
l'automanifestazione del Logos. Questa tesi non la
possiamo qui esporre più da vicino, né tanto meno
dimostrare. Rimandiamo a studi recenti 23 che se ne

22 A proposito di questo concetto cfr. il mio articolo:


Sulla Teologia del Simbolo, in Saggi sui sacramenti e sul­
l'escatologia, Edizioni Paoline, Roma, 1965.
23 Specialmente degni di considerazione: B. WELTE, Ho­
moousios hemin, in Chalkedon heute III, Wiirzburg, 1954,
pp. 51·80; K. RAHNER, Problemi della Cristologia odierna, in
Saggi di Cristologia e di Mariologia, Edizioni Paoline, Roma,
1965; K. RAHNER, Sulla Teologia del Simbolo (vedi sopra);
K. RAHNER, Sulla Teologia dell'Incarnazione, in Saggi di Cri­
stologia; F. MALMBERG, Der Gottmensch (Quaestiones di·
sputatae 8), Freiburg, 1959.
618 SAGGI TEOLOGICI

occupano esplicitamente o implicitamente. Se però


la domanda è risolvibile nel senso accennato, al­
lora si può dire senza attenuazioni e senza qual­
siasi segreta ritrattazione: ciò che Gesù è e fa co­
me uomo, è l'esistenza del Logos come nostra sal­
vezza vicino a noi, esistenza che rivela il Logos
stesso. Ma allora possiamo dire veramente senza
attenuazioni: il Logos presso Dio e il Logos presso
di noi, il Logos immanente e quello economico è
qui assolutamente lo stesso 24.
La Trinità economica è la Trinità immanente,
asserisce la proposizione che ci siamo proposti di
spiegare.
Finora abbiamo dimostrato che esiste perlo­
meno un caso di questo assioma, dogmaticamente
incontestabile. Che questo caso però è realmente
un caso, risulta soltanto dopo aver riflettuto sulla

24 Questa identità (poiché nella nostra formulazione del


problema non si tratta astrattamente del Logos come oggetto
formale, bensi del Logos reale, divenuto uomo) è quella iden­
tità che Efeso e Calcedonia concordemente esprimono: in­
confusa e indivisa, quindi non la medesimità di un'identità
morta, nella quale nulla può esser distinto, poiché tutto è a
priori la stessa cosa, ben si l'identità nella quale l'unico e
medesimo Logos è egli stesso nella realtà umana, non perché
gli verrebbe aggiunta soltanto addizionalmente una realtà
estranea (la natura umana, laddove questa «unione» non
sarebbe più pensata realmente come tale, ma piuttosto sareb­
bero pensate due realtà una accanto all'altra), ma perché egli
pone l'altro come diverso e cosi pone ed esprime se stesso;
la differenza quindi va intesa come modalità interna del­
l'unità medesima, e cosi, tanto intratrinitariamente che «ad
extra », un'identità immediata, non mediata da dò che è
veramente diverso, va considerata come negazione, non come
guisa suprema della vera identità.
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 619

dottrina della grazia. Si tratta qui del caso delle


relazioni non appropriate delle divine persone con
l'uomo giustificato. Tanto il problema quanto le
divergenze d'opinione dei teologi in proposito sono
noti e perciò non è necessario che li esponiamo di
nuovo. In ogni caso però questa tesi delle rela­
zioni particolari non appropriate è opinione libera
e dogmaticamente non contestabile in teologia.
Noi qui la presumiamo 2S. Sarà necessario soltanto
sviluppare questa dottrina nota e comune, anche
se non incontestata, in direzione del nostro pro­
blema. La tesi che qui supponiamo quindi legit­
tima 26 non svela, se intesa bene e presa sul serio,
una sottigliezza scolastica, ma semplicemente che
ciascuna delle tre divine persone si partecipa libe­

2S Una cosa soltanto vorremmo far rilevare. Se si applica


l'onto1ogia classica della teologia medioevale della visio bea­
tifica alla visione, da tutti ammessa delle divine persone co­
me tali, logicamente non si può confutare questa tesi per la
visio (e allora neppure per la grazia giustificante come sub­
strato antologico e inizio formale dell'immediata visione di
Dio). Una visione diretta delle divine persone, che quindi non
deve venir immaginata mediata da una «species impressa»
creata, ma soltanto dalla realtà antologico-reale della cosa
guardata in se stessa, la quale si comunica a chi vede in una
causalità quasi-formale di natura antologica come condizione
antologica della possibilità della conoscenza, implica necessa­
riamente una relazione antologico-reale di chi vede verso cia­
scuna delle persone viste come tali nella loro vera singola­
rità. Su questo fatto forse la teologia medioevale non ci ha
sufficientemente riflettuto. Ma è assolutamente coerente al
suo punto di partenza teologico per la visio.
26 Sarà ancora sostenuta più sotto, anche se per accenni,
attraverso uno sguardo alla storia reale della rivelazione della
Trinità.
620 SAGGI TEOLOGICI

ramente per grazia ad ogni uomo, sempre in se


stessa nella sua particolarità e differenza personale,
e questa comunicazione trinitaria (1'« inabitazio­
ne » di Dio, la « grazia increata » non solo come
partecipazione della natura divina, ma perché at­
tuantesi in un atto spiritualmente libero, perso­
nale, quindi da persona a persona, intesa pure, e
addirittura in primo luogo, come partecipazione
delle « persone ») è il fondo antologico-reale della
vita della grazia nell'uomo, e (stando ai soliti pre­
supposti) della visione immediata delle divine per­
sone nell'eternità.
Evidentemente questa auto-partecipazione del­
le divine persone avviene conforme alla loro par­
ticolarità personale, vale a dire quindi, conforme e
in virtù anche del loro reciproco stato di relazione.
Se una divina persona si comunicasse altrimenti
che nello stato di relazione verso le altre persone e
attraverso di esso per avere una relazione propria
verso l'uomo giustificato (e viceversa questi verso
quella), in tal caso sarebbe dato e presupposto che
ogni singola persona (anche e appunto come tale
nella sua differenza logica dalla stessa unica es­
senza) sia qualcosa di assoluto e non di puramente
relativo; il vero fondamento della dottrina trini­
taria andrebbe perduto.
Ciò significa: queste tre auto-partecipazioni
sono l'autopartecipazione dell'unico Dio nella gui­
sa tri-relativa nella quale egli sussiste. Il Padre si
dà quindi anche a noi come Padre, vale a dire per
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TlUNITATE» 621

il fatto e nel fatto che egli, proprio perché (essen­


zialmente) esistendo in se stesso, così si esprime
e partecipa il Figlio come auto-manifestazione sua
personificata 27, e per il fatto e nel fatto che egli
e il Figlio (ricevendo dal Padre) affermandosi nel­
l'amore} tendendo vicendevolmente a se stessi e
pervenendo a se stessi, si partecipano così come
gli accolti in amore, vale a dire come Spirito Santo.
Dio si comporta verso di noi triplicemente e
appunto questo triplice atteggiamento (libero e
gratuito) verso di noi non è soltanto un'imma­
gine o un'analogia della Trinità immanente, ma è
questa stessa anche se in quanto partecipata libe­
ramente e gratuitamente. Infatti ciò che è parte­
cipato è proprio il Dio Trino personale e così
pure la partecipazione (che avviene nella libertà
della grazia alla creatura), qualora avvenga libera­
mente, può avvenire soltanto nella guisa divina
immanente delle due partecipazioni dell'essenza
del Padre al Figlio e allo Spirito, poiché un'altra
partecipazione non potrebbe affatto partecipare
ciò che qui viene partecipato, cioè le divine per­
sone, non essendo queste assolutamente nulla di
diverso dai loro modi di partecipazione.
Giunti a tal punto, possiamo ora considerare

27 Non possiamo qui analizzare più da vicino il fatto,


che e come in reciproca unità l'autopartedpazione del Padre
nell'espressione della Parola nel mondo significhi sia incarna­
zione, sia manifestazione nella grazia di questa Parola all'uomo
(credente).
622 SAGGI TEOLOGICI

il rapporto fra Trinità immanente ed economica in


direzione opposta. Il Dio uno partecipa se stesso
come assoluta auto-espressione e assoluto dono
dell'amore. La sua comunicazione ora (questo l'as­
soluto mistero, rivelato soltanto in Cristo) è vera­
mente autocomunicazione, vale a dire Dio non
rende soltanto partecipe « di sé », creando e do­
nando delle realtà finite, per mezzo della sua on­
nipotente causalità efficiente, bensÌ in una causa­
lità quasi-formale, dà veramente e nel senso più
stretto della parola se stesso 28.
Questa autopartecipazione di Dio a noi ha
tuttavia, secondo la testimonianza della Scrittura,
un triplice aspetto: è la partecipazione nella quale
la cosa partecipata rimane realtà sovrana, non­
comprensibile, che pure come realtà ricevuta per­
mane nella sua indisponibile e incomprensibile

28 Ne risulta già un'assiomatica formale: quando la dif­


ferenza esistente in una realtà comunicata da Dio risulta
solo nella creatura, allora non si tratta affatto di un'auto­
comunicazione di Dio in senso stretto. Quando invece si tratta
veramente di un'auto-comunicazione di Dio, nella quale nel­
la realtà comunicata come tale, quindi « per noi », è data
realmente una differenza, allora Dio deve essere " in se stesso»
differente ad onta della sua unità (caratterizzata poi come
quella dell'" Essere» assoluto), cosa che poi viene caratte­
rizzata come modo relativo dello stare-in-rapporto-a-se-stesso.
Si può dire dunque: Se la rivelazione a) testimonia una vera
auto-comunicazione, se essa b) dichiara questa autopartecipa·
zione contenente per noi delle differenze (la giudica comu­
nicata senza che questa comunicazione sia di natura puramente
creaturale e annulli cosi il carattere di una vera autoparteci­
pazione), allora differenza e comunicazione sono affermate eo
ipso in Dio, come egli è in se e per se stesso.
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 623

non-origine; è un'autopartecipazione nella quale


il Dio che si dischiude, « è presente» come verità
esprimentesi e come forza dispositiva libera e
agente storicamente 29; ed è autopartecipazione
nella quale il Dio che si partecipa consegue, in co­
lui che riceve, l'accettazione della sua comunica­
zione, e la ottiene in maniera tale che l'accettazio­
ne non depotenzia la partecipazione a livello pura­
mente creaturale.
Questo triplice aspetto dell'auto-comunicazio­
ne non deve tuttavia esser concepito, nella dimen­
sione della comunicazione, per un verso, come
puro dispiegamento verbale di una comunicazione
differente in se stessa. Nella dimensione dell'eco­
nomia della salvezza questa differenza è veramente
« reale »: il principio dell'autopartecipazione di
Dio, la sua « esistenza» che si dischiude radical­
mente e si esprime, la sua accettazione da lui stesso
operata, non sono semplicemente e indistintamen­
te « la stessa cosa », designata soltanto con parole
diverse. In altri termini: il Padre, la Parola (Fi­
glia) e lo Spirito (per quanto tutte queste parole
siano e debbano essere infinitamente insufficienti)

29 Non dobbiamo dimenticare che il concetto di «parola»


va preso nella sua pienezza veterotestamentaria; è quindi la
possente parola creativa di Dio, detta in azione e decisione,
nella quale il Padre si esprime, nella quale egli è presente e
agisce, che quindi non si tratta mai di un'autoriflessione pu­
ramente teorica. In questo senso, partendo da un tale con­
cetto, è molto più facile capire l'unità del «Verbo» di Dio
come di colui che si è incarnato e che dispone in maniera
imponente e giudicatrice nel cuore dell'uomo.
624 SAGGI TEOLOGICI

richiamano, secondo la coscienza dell'esperienza di


fede, quale viene testimoniata nella Scrittura, ad
una vera differenza, ad una duplice realtà comuni­
cata entro questa partecipazione di sé.
Per l'altro verso però, questa doppia parteci­
pazione attraverso il Verbo e lo Spirito (come la
storia dell'autopartecipazione nella rivelazione ha
mostrato in maniera sempre più chiara e inevita­
bile) non è una partecipazione di natura creaturale,
nella quale Dio non sarebbe tuttavia partecipato
in se stesso.
Se però, stando alla testimonianza della fede,
}'autocomunicazione di Dio è veramente triplice,
se è falso un sabellianismo economico e questi
comunicanti modi d'esistenza di Dio presso di noi
non sono degli infra-esseri creaturali, non sono po­
tenze terrene create, poiché una tale concezione,
in fondo ariana, della partecipazione di Dio annul­
lerebbe la vera autocomunicazione e abbasserebbe
l'evento escatologico di salvezza in Cristo al li­
vello di una comunicazione comune e temporanea
(alla stregua di servi-profeti, di potenze angeliche,
oppure di emanazioni discendenti gnostico-neopla­
toniche), allora a questo stato di partecipazione di
natura divina nella dimensione dell'economia deve
corrispondere un reale stato di partecipazione nel­
l'immanente vita di Dio. La «trinità» dell'at­
teggiamento di Dio verso di noi nell'ordine della
grazia di Cristo è già la realtà di Dio come essa è
in se stessa: «Tripersonalità ».
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 625

Questa frase esprimerebbe del sabellianismo o


modalismo soltanto se essa non permettesse che
la « modalità » della relazione di Dio con la crea­
tura elevata soprannaturalmente e dotata della
realtà propria di Dio, ignorando il radicale carat­
tere di autoapertura di questa modalità (nella gra­
zia increata e nell'unione ipostatica), non permet­
tesse che essa fosse il modo come Dio è « in sé »,
ma invece immaginasse Dio stesso cosÌ intatto da
questo atteggiamento, che questa «diversità»
(come nella creazione e nell'atteggiamento di Dio
verso il mondo) non comporterebbe alcuna diffe­
renza in Dio stesso ma solo da parte della creatura.
Che cosa significa ora per il trattato « De Tri­
nitate» il fatto che venga presupposta (e conse­
guentemente in esso confermata) la tesi, che la
Trinità economica è quella immanente, e viceversa?
Innanzi tutto, in questo trattato possiamo sem­
plicemente cercare l'accesso alla dottrina della Tri­
nità nell'esperienza storica, di fede e di salvezza,
di Gesù e del suo Spirito in noi. Qui è già data
la stessa Trinità immanente. La Trinità non è sol­
tanto una realtà esprimibile in sola dottrina. Essa
stessa avviene proprio in noi, essa, proprio in
quanto tale, non esiste in noi solo allorché la rive­
lazione fa delle dichiarazioni su di essa. Queste
dichiarazioni ci vengono fatte piuttosto perché la
realtà, alla quale esse si riferiscono, è assegnata
proprio a noi; esse non vengono dette come pietra
di paragone della fede in qualcosa, verso il quale
21. - Sagll! teologicI.
626 SAGGI TEOLOGICI

non abbiamo alcuna vera relazione, ma perché la


nostra grazia ricevuta e la nostra gloria non pos­
sono affatto venirci completamente dischiuse in
altra maniera, se non pronunciando questo mi­
stero, cosicché entrambi i misteri, quello della
nostra grazia e quello di Dio in se stesso, sono lo
stesso ed unico profondo mistero. Questo il trat­
tato De Trinitate non deve mai perderlo di vista.
Da qui, da questo interesse, il più esistenziale, del­
la salvezza, esso trae vita, riceve il suo impulso e
trova il vero adito per venir capito.
Naturalmente per chi contesta la nostra tesi,
la Trinità può essere soltanto qualcosa che (fin­
tanto che non la vedremo direttamente come tale
nel suo non-relativo « in sé » 30) può esser comuni­
cato in una forma puramente concettuale (attraver­
so una pura « rivelazione verbale» contrapposta a
una rivelazione nell'azione salvifica di Dio verso
di noi). In questo caso il trattato acquista un'astrat­
tezza e un'irrealtà purtroppo facilmente riscon­
trabili. La prova scritturale acquista inevitabil­
mente il carattere di un metodo che in una cavil­
losa dialettica, da alcune proposizioni particolari
trae delle conseguenze e da esse costruisce un si­
stema, dinanzi al quale vien da chiedersi se Dio ci
abbia proprio rivelato delle cose cosi remote, in
un modo che richiede delle interpretazioni tanto
confuse, numerose e complicate.
30 Presupposto che una VlS10ne così concepita non impli­
chi un'intima contraddizione, oppure questo non venga visto.
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 627

Se invece è vero che per immaginarsi il conte­


nuto della dottrina della Trinità possiamo sempre
richiamarci all'esperienza della storia della salvezza
e della grazia (di Gesù e dello Spirito in noi ope­
rante), poiché in essi si ha già veramente la stessa
Trinità come tale, non dovrebbe esserci alcun trat­
tato della Trinità, nel quale la dottrina delle « mis­
sioni » venga aggiunta in fondo come uno scolio
relativamente secondario e supplementare. Ognu­
no di questi trattati dovrebbe vivere fin dall'inizio
di questa dottrina, anche se essa didatticamente
venisse trattata come tema a sé solo alla fine o
addirittura in altre parti della dogmatica. Si po­
trebbe dire perfino: quanto meno una dottrina
trinitaria ha timore di essere economico-salvifica,
tanto più ha probabilità di dire l'essenziale della
Trinità immanente e di avvicinare anche, realmen­
te, questo essenziale ad una comprensione di fede
teorica ed esistenziale.
Allora il trattato (se esplicitamente o implici­
tamente, è una questione puramente didattica e
secondaria, che qui può benissimo rimanere aper­
ta) può risalire la storia della rivelazione di questo
mistero. Negli ultimi tempi in teologia ci si è abi­
tuati a rigettare con troppa facilità, apodittica­
mente e senza criterio, l'opinione degli antichi, che
già prima di Cristo ci sia stata, in una qualche for­
ma, una fede nella Trinità. Dopo quanto abbiamo
detto, sarebbe meglio dare un giudizio più sfu­
mato di questo problema e come tale utilizzarlo
628 SAGGI TEOLOGICI

nel trattato sulla Trinità, rendendo possibile una


maggiore comprensione per la concezione della
tradizione antica e per la storia della rivelazione
di questo mistero 31.
Tutto l'A.T. tratteggia il tema fondamentale
che Dio è l'assoluto mistero, che nessuno può ve­
dere senza morire, e che cionondimeno proprio
questo stesso Dio fu in relazione coi padri agendo
storicamente. Questa rivelatrice offerta di sé però
nell' A.T. avviene anzitutto (oltre che attraverso
l'angelo di Jahvé e simili) nella « parola », che da
una parte rende Dio stesso possentemente presen­
te e tuttavia lo rappresenta, e nello « spirito» che
fa capire e annunciare la parola. Dove non regnano
queste due cose, Jahvé si è scostato dal suo po­
polo; quando concede la sua rinnovata misericor­
dia al « santo resto » manda il profeta con la sua
parola nella pienezza dello spirito (la dottrina del­
la T6rah e della Sapienza della letteratura sapien­
ziale è in confronto soltanto una scissione un po'
più individualistica e meno storico-dinamica della
stessa concezione fondamentale).
Nell'unità di parola e di spirito è presente Dio.
In un certo senso e in linea di principio non biso­
gna concepire come realtà fissa nessuna di queste
tre entità: la sua presenza nello spirito attraverso
la parola dev'essere diversa da lui, il permanente
31 Specialmente nella reale storia dei concetti, che per·
vennero gradualmente e giustificatamente al loro significato
trinitario in un processo davvero storico.
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO « DE TRINITATE» 629

mistero fondamentale, ma non deve tuttavia porsi


dinanzi a lui come qualcosa di distinto, che lo celi.
Quando poi arriva il tempo dell' assoluta vicinan­
za del Dio « venturo », l'alleanza, nella quale egli
si partecipa in modo radicale al suo compagno,
dalla dinamica di questa storia può scaturire sol­
tanto una delle due cose: o l'assoluta parola di
Dio e lo spirito spariscono come comunicazioni
(puramente) creaturali, come i molti profeti con le
loro molte parole, dinanzi alla presenza reale in­
superabile di Dio escludente ogni altra cosa, la
quale si svela ora come il fine segreto di ogni pre­
cedente alleanza di Dio in ogni tempo, oppure
queste due «comunicazioni» rimangono, nello
stesso tempo però si rivelano anch'esse veramente
divine, come Dio stesso, perciò nell'unità con e
nella diversità dal Dio da rivelare, nell'unità e
diversità che sono quelle di Dio in se stesso.
In tal modo si capisce benissimo la possibilità
di una vera segreta preistoria della rivelazione del­
la Trinità nell' A.T. e questa preistoria (che in
fondo nessuno può negare completamente) non fa
più l'impressione che improvvisamente vengano
usati dei concetti, aventi questa lunga storia, per
formare un'asserzione nel N.T. (e più ancora nella
posteriore dottrina della Chiesa) con la quale essi,
dal loro punto di vista, non hanno assolutamente
nulla a che fare.
Una tale valorizzazione dell'unità fra dottrina
630 SAGGI TEOLOGICI

immanente ed economica della Trinità può pure


scongiurare un pericolo, che (nonostante tutto
quello che forse si vuoI dire contro questa affer­
mazione) è rimasto il vero pericolo nella dottrina
trinitaria, non tanto nell' astratta teologia delle
scuole, quanto nella comprensione comune del cri­
stiano medio: un volgare (inespresso, ma « succu­
taneamente» molto massiccio) triteismo 32, che
dove si pensa - quando si pensa - la Trinità è
un pericolo molto maggiore di un modalismo sa­
belliano. Non si può negare: l'espressione delle tre
persone in Dio provoca quasi inevitabilmente il
pericolo, che generalmente troppo tardi si cerca
di allontanare con delle esplicite correzioni, che in
Dio ci sono tre diverse coscienze, vite spirituali,
centri di azione, ecc.; il pericolo viene aumentato
per il fatto che anche nel corso ordinario dei dotti
trattati trinitari, all'inizio viene sviluppato innan­
zitutto un concetto di « persona» dall'esperienza

32 Bisogna evitare questo dilemma: o nella media coscien­


za religiosa c'è la mancanza, deprecata all'inizio dell'arti­
colo, della Trinità in favore di un rigido, immediato, puro
monoteismo, oppure dove ci si sforza di arrivare alla verità
della Trinità sorge nella coscienza religiosa un triteismo su­
perato solo verbalmente dalla professione (naturalmente mai
negata) dell'unità di Dio. Manca la coscienza, di un principio
mediatore, che permetta di pensare non soltanto in astrattezza
formale e statica, oppure per quanto riguarda «Dio in sé »,
l'intima unità di unicità e trinità di Dio, ma anche concreta­
mente e per noi, vale a dire in una realtà che permette sem­
pre di venir vivamente realizzata in noi stessi (ossia nel mi
stero che dona se stesso a noi attraverso la Parola nello Spi­
rito e come Parola e Spirito),
OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 631

e dalla filosofia e, indipendentemente dall'insegna­


mento trinitario della rivelazione e della storia,
questo viene poi applicato a Dio ed in tal modo
vien dimostrato che in Dio ci sono tre di tali per­
sone. Nel corso successivo del trattato, riflettendo
sulla relazione fra unità e tri-personalità in Dio, si
dànno poi le necessarie precisazioni per la giusta
comprensione di queste tre persone in Dio e cosÌ
(ad ogni modo abbastanza inesplicitamente) in un
secondo tempo si operano pure le inevitabili mo­
dificazioni ed eliminazioni a quel concetto di per­
sona, con il quale era iniziata questa odissea spi­
rituale nel mare del mistero di Dio.
Ma se si vuoI essere sinceri, ci dobbiamo
chiedere un po' angosciosamente perché ciò che
alla fine rimane della « tripersonalità » di Dio si
chiama proprio « persona », se da queste tre per­
sone deve proprio venir eliminato ed evitato ciò
che all'inizio si è inteso per persona. E poi (allor­
quando le sottili dichiarazioni della teologia sono
nuovamente dimenticate), ci si accorge che presu­
mibilmente (in modo errato e in fondo triteistico)
si ripensano ancora le tre persone come tre perso­
nalità diverse con diversi centri d'azione. Ci si
chiede perché non si è usato inizialmente già un
concetto e un termine (sia esso « persona » o un
altro), che potessero venir adattati più facilmente
alla cosa pensata, ed esprimerla in maniera meno
equivoca.
Con ciò non diciamo con Karl Barth che la pa­
632 SAGGI TEOLOGICI

rola « persona » sia inadatta a esprimere la realtà


in questione e che nella terminologia della Chiesa
debba esser sostituita da un'altra meno equivo­
ca, pur dovendo ammettere che nel successivo
sviluppo della parola « persona» fuori dell'inse­
gnamento trinitario, dopo la formulazione del
dogma trinitario nel IV secolo (allontanatosi no­
tevolmente dall'accento originariamente quasi sa­
belli ano e orientato si verso il significato esistenzia­
le ed hermesiano di un « io » contrapposto a cia­
scun'altra persona in libertà autonoma, propria
e distinta) l'equivocità del termine è aumentata
maggiormente.
La parola « persona» comunque ce l'abbiamo:
sanzionata dan'uso di più di un millennio e mezzo,
non c'è una parola veramente migliore, universal­
mente comprensibile ed esposta con meno facilità
ad equivoci. È necessario quindi rimanere fedeli
ad essa, pur sapendo che essa ha una sua storia e
che, in senso assoluto, non si adatta perfettamen­
te sotto ogni punto di vista ad esprimere eiò che
intende, né possiede soltanto dei vantaggi.
Tuttavia se ci si servisse in modo chiaro e
sistematico della via economica per accedere al
mistero della Trinità, non avremmo bisogno in
un tale trattato, come del resto fa la stessa storia
della rivelazione, di servirei fin dall'inizio del con­
cetto di persona 33.

33 Il fatto che il concetto di persona a questo riguardu


OSSERVAZIONI SUL TRATTATO «DE TRINITATE» 63}

Si potrebbe prender le mosse dalla realtà


stessa di Dio (Padre) comunicata nell'economia
della salvezza attraverso la Parola nello Spirito,
dimostrare che questa differenziazione «di Dio
per noi » è quella «di Dio in sé» e dichiarare
poi semplicemente che questa Trinità di Dio in
sé è chiamata tri-« personalità », per cui in que­
sto concetto di persona bisogna includere soltanto
ciò che risulta dal punto di partenza (secondo la
testimonianza della Scrittura e solo così).
Non che con ciò siano già superate tutte le
difficoltà (perché il concetto extra-teologico di
persona intanto ha oggi un altro significato); ma
queste difficoltà potrebbero venir attenuate e ri­
dotto il pericolo di un ~quivoco triteistico.
Infine, partendo da questa posizione, si po­
trebbe porre nuovamente il problema circa la re­
lazione, il rapporto e la distinzione dei due trat­
tati « De Deo Uno» e « De Deo Trino ». I due
non si possono distinguere con tanta facilità come
si suppone partendo dall'esempio e attraverso l'e­
sempio di S. Tommaso. Se si prende sul serio la
parola «De Deo Uno» in questo trattato non

sia sanzionato dal magistero ecclesiastico, non significa neces­


sariamente e in ogni caso che esso debba essere il punto di
partenza di ogni riflessione teologica. Esso può essere anche
il traguardo, al quale si arriva in un ripensamento teologico­
razionale dello sviluppo della rivelazione e della dottrina della
Chiesa, facendo la qual cosa, proprio perché si ripensa questo
sviluppo, non ci si emancipa neppure per un istante dalla
dottrina della Chiesa e del magistero.
634 SAGGI TEOLOGICI

si tratta affatto semplicemente della realtà essen­


ziale di Dio e della sua unicità, bensì dell'unità
delle tre divine persone, dell'unità di Padre, Fi­
glio e Spirito e non soltanto dell'unicità della
divinità; si tratta dell'unità mediata che ha nella
Trinità il suo compimento, e non dell'unicità
immediata della natura divina che, pensata nume­
ricamente come una, da sola non è di gran lunga
ancora la base della trina unità di Dio. Se ciò che
precede è il trattato « De Dea Uno» e non il « De
Divinitate una », allora ci si trova a priori presso
il Padre, il principio non principiato del Figlio e
dello Spirito. Ma allora diviene impossibile di­
sporre i due trattati sen~a alcun rapporto fra di
loro come ancora oggi spesso succede.
INDICE

pago

INTRODUZIONE di A. Marranzini SI 7

1. - SAGGIO DI UNO SCHEMA DI DOGMATICA versione

di A. Marranzini, SI 51

2. - CHE COS'È UN «ASSERTO DOGMATICO »? - versione

di E. Martinelli, OCD 113

3. - TEOLOGIA NEL Nuovo TESTAMENTO - versione di


E. Martinelli, OCD 167

4. - ESEGESI E DOGMATICA versione di E. Marti­


nelli,OCD 205

5. SUL PROBLEMA DELL'EVOLUZIONE DEL DOGMA - ver­


sione di A. Marranzini SI 261

6. RIFLESSIONI SULL'EVOLUZIONE DEI DOGMI - ver­


sione di L. Marinconz 327

7. - SUL CONCETTO DI MISTERO NELLA TEOLOGIA CAT­


TOLICA - versione di L. Marinconz 391

8. - TlIEOS NEL Nuovo TESTAMENTO versione di


A. Marranzini SI 467

9. - OSSERVAZIONI SUL TRATTATO DOGMATICO « DE TRI­


NITATE» - versione di L. Marinconz 587

BJBLJOT€C~
()JCULTaR~
RELJGJOSl\
~

Q...T3,o

SECONDA SERIE
diretta da

V. GAMBI - C. DANNA

«Nessuna collezione ha dimostrato finora in Italia la vitalità


e ha riscosso il successo della Biblioteca di cultura religiosa... In
poco più di due anni, infatti, ha allineato un'ottantina di volumi
di notevole mole e di grande interesse, imponendosi all'attenzione
dei circoli intellettuali anche fuori del mondo strettamente ecclesia­
stico. E non v'è dubbio che il ritmo con cui la serie procede,
l'intraprendenza e il coraggio dimostrati dagli editori nella pro­
grammazione di opere poderose, i criteri preposti alla scelta e
all' esecuzione dei lavori ne faranno uno degli avvenimenti edito­
riali più significativi di questo decennio in materia religiosa.
I motivi che spiegano il successo dell'iniziativa sono molti...
1. Il primo elemento, rilevabile già a un superficiale colpo d'oc­
chio, è costituito dal gruppo delle firme degli autori, una vera
galleria delle massime autorità nel campo culturale cattolico, dai
fratelli Rahner, a Jungmann, De Lubac, Benoit, Congar, Vagag­
gini, Hiiring, Schillebeeckx, Leclercq, Card. Suenens, dom Rousseau,
Moeller, Mons. Charue, Schurr, Martimort, ecc...
2. La collezione ha dato ampio spazio a temi di scottante attua­
lità, come quello dell'ateismo, delle difficoltà della fede nell'èra
della tecnica e dell'atomo, in specie nell'anima dei giovani...
3. Un nutrito gruppo di lavori è dedicato a quei campi della
cultura religiosa, ove più vivi e dinamici si manifestano oggi i
fermenti di rinnovamento, di aggiornamento e di integrazione, come
l'esegesi, la teologia biblica, la teologia morale, l'ecclesiologia, la
teologia sacramentaria, la pastorale, la spiritualità biblica e litur­
gica, la sociologia ...
4. Infine, crediamo occorra segnalare la preziosa funzione che
essa ha già compiuto e che è destinata sicuramente a compiere ...
Vogliamo dire la vocazione ecumenica della collana... Essa con la
sua composizione plurinazionale, ove risuonano le voci più autore­
voli del movimento culturale religioso tedesco, austriaco, francese, in­
glese, dei Paesi Bassi e del mondo spagnolo, ha contribuito precipua­
mente a far conoscere al nostro pubblico il pensiero, o meglio
ancora il modo di pensare e di prospettare i problemi di questi
fratelli nella fede... Se la Biblioteca rimarrà fedele a questa voca­
zione ecumenica e di stimolo, non potrà che avere la gratitudine
dei cattolici italiani, vigili e responsabili, che sentono il bisogno
del respiro universale e trovano modo di arricchimento nelle ric·
chezze altrui, mentre avrà la gratitudine delle comunità cattoliche
degli altri paesi, che saranno sempre meglio capite tra noi» (L'Os·
servatore Romano, 14 luglio 1963).

BABIN P. (a cura di), Dio e il giovane (da 13 a 20 anni) (In pre­


parazione)
BABIN P., I giovani e la fede (2" ed. - 1965 - p. 352 - L. 1.500)
BENOIT P., Esegesi e teologia (1964 - p. 740 - L. 3.200)
BERTETTO D., Pio XII e l'umana sofferenza (1961 - p. 876 - L. 2.000)
BONSIRVEN G., Il Vangelo di Paolo (3" ed. - 1963 - p. 550 - L. 1.500)
Catechismo del Concilio di Trento (1961 - p. 671 - L. 1.700)
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CONGAR Y., La mia parrocchia, vasto mondo (1963 - p. 291 - L. 2.000)
CONGAR Y., e Dupuy B-D., L'episcopato e la Chiesa universale
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2" ed. - 1964 - p. 412 - L. 10400 - VoI. II in preparazione)

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CUTTAZ F., L'amore del prossimo (mistica e pratica della carità)


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D' SOUZA - HAMER - DE LUBAC - GEDDA - FERRETTO, Ricerche


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GRELOT P., Introduzione alla Bibbia (In preparazione)

GRENET B., Le 24 tesi tomistiche (Di imminente pubblicazione)


GUlTTARD 1., L'evoluzione religiosa degli adolescenti (opera pre­
miata dall'Accademia Francese) (1961 - p. 556 - L. 1.600)

GUITTARD L., Pedagogia religiosa degli adolescenti (2' ed. - 1965 ­


p. 422 - L. 1.400)

HARING B., Grazia e compito dei sacramenti (2) ed. - 1965 - p. 483
L. 2.300)
HARTNG B., Introduzione alla sociologia religiosa e pastorale (2) ed.
di imminente pubblicazione)

HARING B., Problemi attuali di teologia morale (In preparazione)

HARING B., Problemi attuali di teologia pastorale (In preparazione)

HARlNG B., Sociologia della famiglia a servizio della teologia e della


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sIma reolOgla morale per laici) (3" ed. - 1963 - p. 575 - L. l.6oo)
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razione)
OSTER H., Il mistero pasquale (nella pastorale) (In preparazione)
PIGNATIELLO L., Problemi attuali di pastorale in Italia (1964 - p. 184
L. 1.000)

PI-É A., Vila affettiva e castità (J n preparazione)

!>RUCHE B., Storia dell'uomo mistero di Dio (Di imminente pub­


blicazione)
RAHNER H. (a cura di), La parrocchia (dalla teologia alla prassi)
(1963 - p. 224 - L. 1.300)

RAHNER K., La Penitenza della Chiesa (studio storico-teologico)


(1964 - p. 872 • L. 3.800)

RAHNER K., Missione e grazia (1964 • p. 844 • L. 3.500)


RAHNER K., Saggi teologici (1965 - p. 634 - 1.3.000)
RAHNER K., Saggi di Cristologia e di Mariologia (In preparazione)
RAHNER K., Saggi di antropologia soprannaturale (In preparazionel
RAHNER K., Saggi sulla Chiesa (In preparazione)
RAHNER K., Saggi sui sacramenti e sull'escatologia (In preparazione'
RAHNER K., Saggi di spiritualità (In preparazione)

RAHNER K., Saggi (In preparazione)


RATZINGER ]., Fraternità cristiana (1962 • p. 129 - L. 700)

RÉGAMEY P., Non-violenza e coscienza cristiana (1962 - p. 389


L. 2.000)
ROEGGL A., Poenitentia salutaris (1963 p. 429 - L. 1.700)

ROLDAN A., Ascetica e psicologia (2' ed. - 1964 - p. 633 - L. 2.300.

ROLDAN A., Le crisi nella vita religiosa (1964 - p. 314 - L. 1.500)


ROUSSEAU O., Storia del movimento liturgico (1961 . p. 379
L. 1.100)

Royo M. A., Teologia della carità (In preparazione)

Royo M. A., Teologia della perfezione cristiana (5' ed. - 1963


p. 1214 - L. 2.900)

SCHASCHIKG J., La Chiesa e la società industriale (1964 - p. 295


L. 1.400)

SCHEBESTA P., Origine della religione (In preparazione)

SCHEIBE W. (a cura di), La pedagogia nel XX secolo (1964 • p. 614


L. 2.700)

SCHILLEBEECKX E. H., Cristo Sacramento dell'incontro con Dio


(2' ed. - 1963 - p. 311 - L. 1.400)
SCHILLEBEECKX E. H., Saggi (In preparazione)

SCHLIER H., La Parola di Dio (1963 • p. 89 . L. 700)

SCHURR V., Pastorale costruttiva (2' ed.. 1965 . p. 153 . L. 1.000)

SEMMELROTH O., Il ministero sacerdotale (1964 . p. 400 - L. 1.800)

SERTILLANGES A. D., La Chiesa (2' ed. - 1963 - p. 609 - L. 2.300)

SIEGMUND G., Storia e diagnosi dell'ateismo (1961 - p. 579 - L. 1.800)

SIGNORELLI G., Il ragazzo in cinquant'anni di narrativa italiana

(1962 - p. 445 - L. 1.600)

SPECIALISTI (tra cui Y. CONGAR), Il concilio e i concili (contributo


alla storia della vita conciliare della Chiesa) (2" ed. - 1962
p. 469 • L. 1.400)

SPECIALISTI, Dall'esperienza all'attitudine religiosa (Saggi di psico­


logia religiosa) (In preparazione)

SPECIALISTI, I grandi temi del Concilio (presentati dai migliori


studiosi di ogni paese) (Di imminente pubblicazione)

SPECIALISTI, Il mistero della Chiesa (In preparazione, 2 voli.)

SPECIALISTl, L't/omo davanti a Dio (In preparazione)

SPECIALISTI, Orizzonti attuali della teologia (In preparazione)

SPECIALISTI, Perché credo? (prove e apologie della fede in 39 tesi)


(1962 - p. 507 . L. 2.300)

SPECIALISTI, (tra cui ]. DANIÉLOU e H. VORGRIMLER), Sentire Eccle­


siam (Vol. I . 1964 • p. 752 • L. 2.500 • VoL II - 1964
p. 768 • L. 2.500)

SPIAZZI R., Il Cristianesimo religione soprannaturale (1963 • p. 457


L. 2.800)
SUENENS 1.-T. (Card.), Un problema cruciale: amore e padronanza
di sé (3" ed. - 1964 . p. 289 - L. 1.100)
TILLARD J.-M., L'Eucaristia pasqua della Chiesa (In preparazione)
TODD J. M. (a cura di), Problemi dell'autorità (1964 . p. 410
L. 1.800)
VAGAGGINI C. E COLL., La preghiera nella Bibbia e nella tradizione
patristica e monastica (1964 - p. 1014 - L. 4.000)
VAGAGGINI C. E COLL., Problemi e orientamenti di spiritualità mona­
stica, biblica e liturgica (1961 - p. 590 - L. 1.600)
VENIER E., Cristianesimo e ottimismo (1963 - p. 381 - L. 2.300)
VOLKEN 1., Le rivelazioni nella Chiesa (1963 - p. 314 - L. 2.000)
La penitenza della Chiesa
di P. K. Rahner

K. Rahner è attualmente considerato il maggior teologo di


lingua tedesca, il più fecondo, acuto e versatile. Nato aFri­
burgo in Brisgovia nel 1904 ed aggregatosi alla Compagnia
di Gesù a diciotto anni, vi fu ordinato sacerdote nel 1932.
Nel 1936 si laureò in filosofia a Friburgo in Svizzera sotto
la guida di Martin Heidegger. Da allora, salvo brevi paren­
tesi, insegna teologia dogmatica all'università di Innsbruck.
Il catalogo delle sue pubblicazioni enumera 750 titoli. Inol­
tre da sei anni sta curando la nuova edizione del monumen·
tale Lexikon fur Theologie und Kirche, di cui si è riservata
la redazione delle voci dommatiche principali. Ultimamente
ha collaborato in misura notevole come esperto ai lavori del
Concilio Vaticano II. Le Edizioni Paoline, che già avevano
pubblicato due brevi raccolte di saggi: Pericoli nel cattoZz·
cesimo di oggi, Alba, 1964, 2a ed., e La fede in mezzo al
mondo, Alba, 1963, iniziano con questo volume la pubblica­
zione di numerosi suoi studi, più impegnativi e rappresentati­
vi. La serie, distribuita in nove volumi, si apre con questa rac­
colta di saggi teologici e storici sulla penitenza, ch'è sempre
stato uno dei settori prediletti della sua indagine. Il valore di
questa vastissima produzione, ormai conosciuta in tutto il
mondo, è cos1 riassunto da un teologo: «L'opera di Karl
Rahner non ha più bisogno di raccomandazioni. Da tem­
po essa si è imposta ovunque come la più importante pro­
duzione teologica del nostro tempo. Le idee, che per la
prima volta sono state risvegliate nelle coscienze da Rah·
ner, uno le trova anche là dove crede di doverle violen­
temente combattere: non v'è segno più sicuro di origina­
lità, di alta classe e di storica potenza di un pensiero»
(W Seibd, in Stimmen der Zeit, giugno 1963, p. 233).

(EDIZIONI PAOLINE - Roma)


Missione e grazia
di K. Rahner

« 11 P. K. Rahner è tra i teologi contemporanei uno di quelli


che maggiormente si interessa ai problemi della pastorale ...
Gli scritti composti in varie occasioni e su vari soggetti
vengono raccolti in questo volume pervenuto già alla terza
edizione. Il metodo seguito dall'autore è sempre lo stesso:
all'analisi di una situazione fa seguito una riflessione teolo­
gica intesa ad illuminarla e a collocarla nel quadro generale
della salvezza. Le due parti non ricevono sempre lo stesso
sviluppo: in genere l'analisi è più serrata. Nulla di sorpren·
dente del resto. Mentre la situazione è un dato di fatto che
l'esperienza permette di esaminare nelle sue varie compo­
nenti, la riflessione teologica in questo campo non è ancora
suificientemente sviluppata. In questo, secondo noi, sta l'im­
portanza di questi scritti del Rahner: egli fa opera di vero
pioniere in un campo nel quale ci si è mossi finora in modo
piuttosto empirico. La trattazione si estende a vari soggetti...
Vi troviamo, tra l'altro, articoli su Maria e l'apostolato, sul­
la messa e l'ascesi dei giovani, sulla funzione nella Chiesa
del vescovò, del parroco, dell'uomo in genere o dell'educa­
tore, del teologo, del laico, del religioso ecc. Alcuni di que­
sti articoli, come quello sulle relazioni tra primato ed epi­
scopato, sull'obbedienza e la devozione al S. Cuore, hanno
già attirato 1'attenzione dei competenti per la loro origina­
lità e profondità. Indubbiamente nel fervore della pastorai"
odierna il libro del Rahner occupa un posto di rilievo. Anche
se alcune idee possono non incontrare il consenso del lettore.
esse pongono sempre un problema e un invito a cercare ulte­
riormente» (D. Grasso, in Gregorianum 43 [1962] 131-132)

(EDIZIONI PAOLINE • Roma)


La parrocchia
di H. Rahner

Quando oggi si parla di parrocchia - ed il tema è molto


discusso - se ne parla quasi sempre come di una realtà
giuridica, d'ordine amministrativo e sociologico, in via di
rapida trasformazione. L'occhio della fede, della teologia,
della spiritualità, della liturgia e della storia invita però a
scandagliare più a fondo la sua natura e a collocarla, dopo
averne lumeggiato le peculiarità, nel più grande quadro del·
la Chiesa e della storia della salvezza. Gli autori del pre­
sente saggio, proponendosi di dare un panorama dell'attuale
problematica e degli orientamenti in atto, non si sono quin­
di limitati all'aspetto canonistico e sociale dell'argomento,
ma ne hanno rifatto a grandi linee la storia, ne hanno trat­
teggiato la teologia e la spiritualità secondo lo spirito della
rivelazione, convinti che solo cosi diventi possibile tracciare
poi con sicurezza le vie che la parrocchia deve seguire, per
adeguarsi alle esigenze tutte nuove di un mondo nuovo,
senza denaturarsi. Al termine, una bibliografia ragionata
permetterà al lettore, desideroso di approfondire il tema,
di orientarsi nella vasta produzione degli ultimi decenni.
L'opera interessa ovviamente in primo luogo i parroci, i
scminaristÌ e il clero diocesano in genere.

(EDIZIONI PAOLINE - ROMA)


Grazia e compito
dei sacramenti
di B. Haring

La teologia morale del padre Hiiring è universalmente ap­


prezzata, perché elaborata secondo quella cbe S. Girolamo
definiva « la legge dell'ordine» demandata da Gesù agli apo­
stoli, legge secondo la quale essi «dovevano anzitutto pre­
dicare la fede, quindi battezzare i credenti col sacramento
della fede e da ultimo, sul fondamento del sacramento del­
la fede e del battesimo, comandare di osservare ciò che il
Signore aveva ordinato ». Anche in questo ciclo completo
di meditazioni liturgico-teologiche egli rimane fedele a que­
sto disegno e ci propone la vita morale e ascetica cristiana
saldamente innestata sulla realtà prodotta in noi dai sacra­
menti. I sacramenti e i comandamenti non sono più visti
soltanto come un semplice complesso di doveri, senza un le­
game vitale e intrinseco che li unifichi, bensl intimamente
collegati in una unità organica. In questa luce, la vita mo­
rale e ascetica consiste semplicemente «nel tradurre nella
vita il sacramento ricevuto nella fede» (colletta del merco­
ledi dopo Pasqua), per cui la vita sacramentale diventa
veramente il centro della vita cristiana e si ritrova quella
unità tra fede, vita liturgica e vita morale pratica, di cui
tanto oggi sentiamo il bisogno. L'opera riuscirà particolar­
mente utile al clero, ai catechisti e a quanti, forniti di
una buona istruzione religiosa, amano meditare il pane so­
stanzioso della parola biblica, della liturgia e della teologia.

(EDIZIONI PAOLINE - Roma)


La Chiesa
di A. D. Serti/langes

La Chiesa di Sertillanges, nonostante i suoi quarant'anni, è


ancora valida, quasi a confermare, qualora ve ne fosse bi­
sogno, che i classici non muoiono mai. Un primo motivo
di questa perenne validità è l'impostazione dottrinale e non
puramente apologetica della trattazione; nel dotto dome­
nicano la considerazione teologica della Chiesa, caratteristi­
ca dell'ecclesiologia degli ultimi decenni, ha infatti un pre­
cursore dotato di un senso vivissimo del mistero, della sa­
cramentalità e della costituzione umano-divina del Corpo
Mistico di Cristo. Un secondo motivo è dato dall'ampiez­
za della visuale con cui svolge l'argomento, ampiezza che
va dall 'analisi del fatto religioso alla dimostrazione di come
la Chiesa venga incon tro pienamente alle sue esigenze (I. I),
fino a una dettagliata esposizione della vita e del mistero
della Chiesa in sé (I. II, III; I. II, V) e del suo atteggiamen­
to di fronte alle realtà di questo mondo, quali la vita intel­
lettuale, il progresso materiale, la civiltà, la vita sociale e po­
litica, la pace, le relazioni internazionali ecc. (I. IV). Infine,
motivo determinante, è l'arte del grande scrittore che alimen­
ta questa perennità, poiché le sue pagine non sono soltanto
quelle di un teologo, ma anche di un poeta e di un artista e
rimangono fra le più belle della ecclesiologia di questo secolo;
per questo motivo l'opera è largamente accessibile anche a co­
loro che vivono fuori del pensiero e della teologia cattolica.

(EDIZIONI PAOLINE - Roma)


Sentire Ecclesiam
3 cura di Daniélou e Vorgrimler

«I ventlcmque contributi scientifici di Sentire Ecclesiam so­


no dedicati all'indagine della «devozione della Chiesa» nel
senso indicato dal sottotitolo, studiano cioè « la coscienza del­
la Chiesa come forza plasmatrice della pietà », sia di singole
personalità cristiane sia di singole epoche storiche. La ri­
cerca incomincia, dopo le pagine introduttive del P. de
Lubac sulla fede «alla Chiesa» e « della Chiesa », coi sal­
mi (A. Deissler) e la rivelazione progressiva di Cristo (A.
Vogt1e); continua con la pietà ecclesiale della cristianità pri­
mitiva, espressa nel simbolismo della Chiesa «piantagione
del Padre» (J. DaniéJou), dei padri greci (1. Bouyer) e
latini (P. Th. Camelot) e del monachesimo rappresentato
dalla istituzione cenobitica di San Pacornio nell'Egitto della
prima metà del secolo IV (H. Bacht), per passare pci ai
riformatori del secolo XI (Y. Congar), ai mistici spagnoli
del secolo XVI (I. Behn) e giungere al secolo XIX (R. Au­
bett) e al nostro (H. Urs von Balthasar). Come rappre­
sentanti individuali del Sentire Ecclesiam sono stati stu­
diati S_ Agostino (J. Ratzinger), S. Benedetto da Norcia
(abate E. M. Heufelder), S. Francesco d'Assisi (K. Esser),
l'autore de L'Imitazione di Cristo (E. Iserloh), S. Ignazio
di loyola (B. Schneider), S. Pietro Canisio (J. Leder), ]. M.
Sailer e J. A. Mohler O. R. Geiselmann), J. H. Newman
(O. Karrer), B. Pascal (H. Vorgrimler). Una considerazione
storica sul concetto di Chiesa presso gli ortodossi (E. von
Ivanka), un dialogo religioso tra Gregorio di Valenza e Luca
Osiander (E. Wolter) e soprattutto una indagine sulla fisio­
nomia della Chiesa delineata nei testi della liturgia latina
(l A. }ungmann) contengono pagine quanto mai significa­
tive su problemi molto attuali... Già nella sua fisionomia di
opera esploratrice, Sentire Ecclesiam dimostra quanto sia uti­
le uno sguardo retrospettivo sulla storia della Chiesa alla luce
di una problematica rinnovata e realmente valida» (C. Capiz­
zi, in La Civiltà Cattolica, 1962, p. 576-577). Nell'edizione
italiana sono state omesse alcune pagine riguardanti l'occa­
sione in cui l'opera è stata composta (60 0 compleanno del
P. Rahner) e sono stati aggiunti due studi nuovi su S. Cateri­
na da Siena (G. Pasquali) e su A. Rosmini (R. Bessero Belti)
(EDIZIONI PAOLINE - Roma)
Lo Spirito Santo
di L. M. Martinez

«È l'ora dello Spirito Santo. La Chiesa, in clima conciliare,


attende una "novella Pentecoste" (Giovanni XXIII). I Ve­
scovi di tutto il mondo, riuniti ogni mattina presso la tom­
ba di S. Pietro, prima di iniziare i dibattiti conciliari, reci­
tano la commovente preghiera di S. lsidoro, Adsumus: "Spi­
rito Santo, eccoci prostrati ai tuoi piedi. Vieni ed illumi­
naci!". La Chiesa universale si aspetta dal Concilio quel
"rinnovamento spirituale" e quell' "aggiornamento" che "rin­
novelleranno la faccia della terra": tutto ciò sarà appunto
opera dello Spirito Santo. Inutile dire, dopo queste pre­
messe, quanto sia opportuna la pubblicazione de Lo Spirito
Santo di Mons. Martinez. Direi che è esattamente la "sua
ora". Ho conosciuto personalmente l'Autore nella Città di
Messico. Uomo di studio e di azione, Primate della Chiesa
messicana, la sua potente personalità, sorrisa dal fascino di
una candida semplicità, irraggiava Dio. Questo profondo teo­
logo aveva un'anima di Santo. I suoi scritti a carattere mi­
stico hanno fatto di lui uno dei maestri di spirito del nostro
secolo. Il suo volume sullo Spirito Santo - che le Edizioni
Paoline per la prima volta pubblicano integralmente in lin­
gua italiana - ci svela la presenza intima di Dio in cia­
scuno di noi e dell'azione del Paraclito nelle profondità
dell'anima. Più precisamente, esso tratta della persona dello
Spirito Santo, della devozione, dei doni, dei frutti e delle
beatitudini, suonando come un appello alla santità rivolto
a tutti. In queste pagine, piene d'intelligenza e di calore,
ognuno troverà una guida sicura, sperimentata, che lo con­
durrà verso la perfezione attraverso i sentieri di Dio»
(M. M. Philipon, esperto del Concilio Vaticano secondo).

(EDIZIONI PAOLINE - ROMA)


Stampato nella Pia Società S. Paolo
Via Alessandro Severo, 56 Roma
febbraio 1965

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