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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G.

LETTIERI

SAPIENZA
FACOLTÀ DI LETTERE MODERNE
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STORIA DEL CRISTIANESIMO I


Prof. G. Lettieri

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ANNO ACCADEMICO 2022-2023
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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

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LE FONTI CRISTIANE

1. Il cristianesimo come anomalia


Il nostro corso si fonda sulla consapevolezza che nella cultura occidentale
il cristianesimo è la struttura storico-culturale di riferimento, che cioè ha de-
finito in maniera decisiva l’identità culturale dell’Occidente – per cui si po-
trebbe dire che l’Occidente sia uno stato di fuoriuscita rispetto alla sua iden-
tità religiosa. Attraverso una metodologia storico-critica, dunque non a ca-
rattere fideistico o dogmatico, si vuole pertanto studiare il fenomeno storico
del cristianesimo. Significativo a tal proposito è il rapporto con la secolariz-
zazione: viviamo in paesi secolarizzati e autonomi rispetto a un’opzione re-
ligiosa proprio perché la religione dominante è stata il cristianesimo, che ap-
punto favorisce la secolarizzazione, essendo paradossalmente la religione
della fuoriuscita della religione (cfr. Jacques Le Goff).
In altri termini, il cristianesimo è stato uno strumento di mediazione e cata-
lizzazione delle esigenze più alte della cultura classica, trasformandole, ap-
punto mediandole, combattendole e assorbendole. Ha quindi risucchiato la
classicità, filtrandola a livello culturale; tuttavia, nel recuperarla, l’ha inevi-
tabilmente caricata di una serie di valenze che prima non aveva. In tal senso
si può parlare di cristianesimo come anomalia, quale religione ebraica che
“assoggetta” la cultura occidentale greca e latina, fuoriuscendo dal contesto
semitico ed entrando addirittura in polemica con l’ebraismo storico. In tal
senso c’è da considerare che si tratta di una religione non prevista da Gesù,
piuttosto esplosa per la genialità religiosa del messaggio estatico.
La parola “cristianesimo” è utilizzata per la prima volta soltanto nel 155
da Ignazio di Antiochia (precisamente il termine che impiega è christianoi);
la mancanza di un’espressione specifica per tutto e oltre il I secolo, cioè il
tempo in cui vengono prodotti gli scritti fondativi della religione, tradisce
un’identità che ha bisogno di tempo per definirsi. Originariamente il cristia-
nesimo è una setta giudea apocalittica, messianica, perdente e perseguitata,
il cui capo del resto è stato crocifisso dai romani e dalle autorità del Tempio
ebraico. Nel testo protocristiano dell’evangelista Giovanni (Gv), l’ultimo dei
Vangeli canonici (siamo negli anni 90), uno scritto impregnato di categorie
ebraiche, si parla infatti dei giudei come corpo ostile ed estraneo: assistiamo
allo scarto e all’affermazione polemica nei confronti del giudaismo domi-
nante (i giudei sono considerati come seme del diavolo).

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Tutti i documenti che possediamo sulle origini cristiane sono redatti in


greco e non in aramaico, dominante nella Palestina dei tempi di Gesù. È pro-
babile che anch’egli conoscesse qualcosa di greco, appartenendo a una classe
sociale medio-bassa, forse dedita ai commerci (probabile anche per domi-
nanza romana). Ad ogni modo Gesù ha pensato, parlato e agito in aramaico,
dunque il fatto che tutto ciò che dice di lui sia in greco è il filtro di una rivo-
luzione culturale. Le stesse citazioni della Bibbia ebraica presenti nel Nuovo
Testamento (NT) presuppongono traduzioni in greco della Bibbia stessa. Del
resto gli autori del NT sono sia ebrei che gentili (ad esempio Luca, discepolo
di Paolo, è greco) e le lettere di Paolo (di cui quella ai Tessalonicesi [1Tes]
è il testo cristiano più antico, degli anni 50) sono scritte da un ebreo bilingue,
che conosce l’ebraico poiché ha studiato la Legge, ma scrive in greco.
È evidente che sin dalle sue origini il cristianesimo si pone come fenome-
no storico-religioso giudaico-ellenistico, in quanto l’insuccesso interno di
una pretesa religiosa altissima, quasi folle, resta frustrata a livello giudaico,
dunque necessita di essere compensata in qualche modo, attraverso la diffu-
sione del messaggio su un altro livello. Propriamente, la pretesa assoluta del
cristianesimo è che Dio si sia rivelato in Gesù, che è allora il Cristo, datore
di salvezza per Israele essendo figlio stesso di Dio, quindi nuovo re escato-
logico di Israele che fa irrompere Dio nella storia. Quando però Gesù fallisce
ed è messo in croce come bestemmiatore, le comunità gesuane, per reagire a
questo shock, avanzano una fede immediata nella resurrezione e nella nuova
venuta del Regno e, in generale, passano alla predicazione come ricerca di
compensazione del trauma vissuto. In questo contesto sono diverse le attesta-
zioni delle apparizioni di Risorto, come si legge ad esempio in Cor 15 di Pa-
olo. Questi è certamente l’uomo più decisivo della storia dell’umanità, un e-
breo convertito di eccezionale intelligenza e carisma, che testimonia lo scarto
rispetto all’identità ebraica, sostenendo che Gesù sia il salvatore anche dei
gentili, e compiendo il rilancio di una scommessa fallita (considerando poi
che questo nuovo arrivo del Regno tardava ad arrivare), la cui delusione agi-
sce proprio come una molla e potenzia l’idea originaria.

2. Un inquadramento sui Vangeli canonici


Gesù non scrive niente, dunque abbiamo soltanto interpretazioni della sua
figura. Si tratta anzitutto di testi extra-cristiani, importanti perché sicuramen-
te non possono essere considerati in alcun modo interessati, come: Svetonio,
Tacito (che parla di un tumulto a Roma nel nome di un certo “Cresto”, pro-
babilmente Cristo), Giuseppe Flavio (si parla di Testimonium Flavianum, in
cui lo storico ebreo scrive positivamente di Gesù, tanto da far pensare che ci
sia stata poi una riscrittura da parte di una mano cristiana) e le fonti mandee
(il mandeismo, di origine palestinese, richiama memorie di Giovanni Battista

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che vedono negativamente Gesù come falso Messia). Abbiamo poi i testi
propriamente cristiani, ossia le fonti canoniche e quelle non canoniche. Per
quanto riguarda la nozione di canone, bisogna considerare che le Chiese do-
minanti nel bacino del Mediterraneo avevano archivi di testi riguardanti Ge-
sù, espressione di un’iniziale pluralità di interpretazioni della sua figura, che
attraverso un attento discernimento selezionavano e mettevano in comune,
definendo appunto un “canone”. Con questo termine, da “regolo”, si intende
la “regola” dottrinale che identifica i testi ispirati, in prospettiva antieretica.
La canonicità in pratica dà garanzia di tutela e conservazione dei testi, come
attesta del resto il fatto che rimane poco dei testi non canonici esistiti.
Le fonti canoniche costituiscono propriamente il corpus del NT, cioè l’in-
sieme dei testi decisivi del I secolo nati nel contesto della prototradizione
della Chiesa: i Vangeli di Marco (Mc), Matteo (Mt), Luca (Lc) e Gv, gli Atti
degli Apostoli (At) di Luca, le lettere apostoliche (di Paolo, Pietro, Giovanni,
Giacomo e Giuda) e l’Apocalisse (Ap) di Giovanni. La prima attestazione di
un canone testamentale è quella protocattolica (della Chiesa che si assesta
progressivamente) proposta intorno al 180 dall’eresiologo Ireneo, il quale
fissa un criterio di massima, ossia che per essere considerato canonico uno
scritto deve dipendere necessariamente da discepoli diretti di Gesù (come
Marco e Giovanni) o da loro interpreti (come Matteo, discepolo di Pietro, e
Luca, discepolo di Paolo). Un altro canone è quello Muratoriano del 200 cir-
ca. Il NT dunque è composto tra il 180 e il 200, ad ogni modo fino al Concilio
ecumenico di Nicea del 325 si avranno comunque diverse formulazioni ca-
noniche. Invece tra le fonti non canoniche abbiamo ad esempio i Vangeli
apocrifi, il Libro di Enoch (un testo dell’apocalittica ebraica, scritto prima in
ebraico, ma conservato oggi soltanto in etiopico, in quanto considerato ca-
nonico dalla Chiesa etiopica), il Pastore di Erma (in uso a Roma, ma poi
decaduto perché non apostolico) e i codici di Nag Hammadi (un insieme di
testi gnostici scritti in copto, tradotti dall’arabo egiziano, e rinvenuti in Egitto
nei pressi di Nag Hammadi, tra i quali il Vangelo apocrifo di Tommaso che
aveva appunto ispirato delle comunità gnostiche).
Per quanto riguarda nello specifico i quattro Vangeli, va precisato anzi-
tutto che non sono stati concepiti per essere poi unificati in un unico corpus,
tanto che fra loro si danno rapporti di confronto, di riscrittura o addirittura di
polemica (Gv, ad esempio, attacca quello di Mc e in generale è pensato non
per stare accanto agli altri, bensì in qualche modo per sostituirli). Pur non
essendoci quindi una trasmissione unitaria, provenendo infatti da una forma-
zione polimorfa della tradizione, i suoi rami vengono a un certo punto a con-
nettersi. Possiamo notare inoltre che tra Mc, Mt e Lc si ha una sostanziale
corrispondenza e continui richiami (si parla infatti di Vangeli “sinottici”),
per cui anche dal punto di vista ideologico vengono interpretati in maniera
congruente, seppur chiaramente con delle differenze.

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Con esattezza, Mc, il più antico, è totalmente ricompreso in Mt e Lc, i quali


presentano poi del materiale aggiuntivo sui discorsi di Gesù che si è pensato
dipendesse da una fonte autonoma chiamata “Q” (da Quelle, “fonte” in tede-
sco). Tuttavia in un recente studio si salta l’ipotesi di questa fonte autonoma
e si fa dipendere, attraverso un allargamento di materiale, Mt da Lc, il quale
avrebbe sostanzialmente recepito e messo per scritto la tradizione orale dei
detti di Gesù. Il quarto Vangelo, quello di Gv, non segue la struttura dei si-
nottici e introduce una novità ideologica pazzesca: Gesù è Dio, preesistente
e creatore del mondo, diversamente da Mc, per cui Gesù sarebbe un uomo
comune con un carisma eccezionale, in quanto unto da Dio nel battesimo, e
da Mt e Lc, secondo i quali Gesù, pur nato da una vergine, non sarebbe co-
munque un soggetto divino preesistente. La cristologia dei sinottici è perciò
definita “bassa”, mentre quella giovannea invece è chiamata “alta”.
Procedendo più sistematicamente, consideriamo che Mc si attesta su uno
stato più primitivo, meno elaborato, per il quale la filialità divina è interpre-
tata come dono dello Spirito di potenza di Dio durante il battesimo al Giorda-
no (secondo la tradizione pseudoclementina lo Spirito avrebbe vagato per
vari profeti sino a manifestarsi e rimanere definitivamente in Gesù, che per
Mc sarebbe il più grande dei profeti, l’ultimo profeta come si esprime la tra-
dizione apocalittica); per cui, tramite la propria azione carismatica, questo
strumento di Dio libera dai demoni e realizza il Regno in una prospettiva
apocalittica. In Mt e Lc abbiamo invece, in comune, la genealogia e la descri-
zione del concepimento di Gesù attraverso l’annunciazione alla Vergine Ma-
ria, così la potenza divina si ha dalla nascita (secondo una tradizione lo Spiri-
to si incarnerebbe nel ventre di Maria passando da un orecchio). Con Gv, in-
fine, nel prologo sapienziale che esalta il Logos divino si ha l’innalzamento
dell’identità umana di Gesù, il quale in principio era già Dio, per cui già do-
tato di Spirito (che è allora un dono personale identitario non dipendente da
un successivo atto, come il battesimo o il concepimento verginale).
Ci si chiede pertanto se Gv conosca i sinottici (probabilmente sì, in parti-
colare Mc e Mt). A tal proposito si considera improbabile che la forma lette-
raria “vangelo”, cioè una biografia che narra progressivamente e veicola un
messaggio teologico fortissimo, sia stata inventata indipendentemente da
ciascun evangelista. Questo fa pensare a un rilancio di una forma da cui si è
avuto comunque un qualche contatto, in particolare sembra che Gv non ami
Mc e lo voglia rilanciare. Ad ogni modo i Vangeli non sono concepiti per
stare insieme, ma le varie riscritture rispondono a esigenze diverse.

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3. Un inquadramento sui Vangeli apocrifi


Oltre ai Vangeli canonici abbiamo anche quelli apocrifi, da apo kupton,
“qualcosa di nascosto”, “di segreto”, benché dal punto di vista storico la pa-
rola “apocrifo” prende il significato di “falso”, “eretico”, dunque è espulso
dal canone perché considerato tendenzioso. La doppia valenza del termine
dipende chiaramente dal contesto in cui viene usato, per cui ad esempio l’im-
portante vangelo apocrifo di Tommaso a seconda dell’interpretazione è con-
siderato una rivelazione ulteriore, segreta, oppure una rivelazione non rico-
nosciuta e falsa. Addirittura l’apocrifo di Giovanni si autodefinisce come ta-
le, chiaramente nel senso di segreto, in quanto testo gnostico che si vuole su-
periore poiché farebbe accedere a una conoscenza più profonda di Gesù.
Scolasticamente i Vangeli apocrifi sono distinti in:
 arcaici, considerati non canonici in quanto troppo primitivi nell’interpre-
tazione della figura di Gesù. Un esempio è il Vangelo degli Ebioniti (che
secondo citazioni patristiche talvolta è associato a quello degli Ebrei), il
quale presenta una cristologia molto bassa, in qualche modo simile a Mc,
tuttavia diversamente da lui non ha la forza di imporsi. Un altro è il Van-
gelo di Pietro, molto giudaizzante, ma già docetistico (per cui Gesù avreb-
be una realtà umana soltanto apparente), che non si adatta quindi alla no-
vità sull’interpretazione della figura di Gesù;
 gnostici, concepiti come Vangeli ulteriori, cioè che presuppongono i ca-
nonici per poi aggiungere delle rivelazioni segrete, presentandosi tuttavia
come troppo innovativi, eversivi, concepiti come loro forzatura teologica;
 di Tommaso, che si presenta come una transizione tra i due precedenti.
Anzitutto perché è paragonato da alcuni alla fonte Q, in quanto sarebbe
un elenco dei detti di Gesù, di cui vari coincidono col materiale sinottico
arcaico, dunque in tal senso è inquadrabile tra i Vangeli antichi superati.
Tuttavia si muove verso una prospettiva gnostica, sapienziale ed elettiva:
qui Gesù, proclamando direttamente la verità, è sapienziale e sentenzioso,
oltre che storicizzato, al punto che manca il racconto della sua nascita,
della sua morte e della sua resurrezione, assolutamente presenti invece
nei Vangeli canonici, seppur attraverso varie presentazioni;
 fabulosi, cioè favolistici, come il Protovangelo di Giacomo, il più antico
testo cristiano a sostenere la verginità di Maria, prima, durante e dopo il
parto, contenente in generale degli elementi mitici (ad esempio l’imma-
gine di Gesù bambino capriccioso e già divino), che pur non essendo ri-
levanti dal punto di vista rivelativo, comunque non sono necessariamente
eretici, anzi si presentano come innocui e d’altra parte fortunati nel solle-
citare idee collettive, nonché sembrano decisivi per la storia dell’arte.

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4. La divergenza tra le fonti e la metafora di “Gesù-fiume”


Lo studio storico-critico delle fonti cristiane implica lo sforzo ermeneutico
di decontestualizzare il testo dalla struttura interpretativa ecclesiale, che me-
diandolo da due millenni lo accoglie e lo inquadra in un’ottica evidentemente
di fede. Ad esempio il titolo di “Figlio di Dio” presente in Mc se estrapolato
dall’ermeneutica ecclesiale, che connettendolo con Gv lo spiega come “Fi-
glio eterno di Dio”, significa semplicemente “uomo eletto da Dio”. Rileggere
il testo come se avesse una potenza relativa autonoma, quindi, significa che
lavorare storicamente comporta una considerazione di ogni testo canonico
come apocrifo. Un buon esempio è quello delle opere teologiche dal II secolo
in poi, propriamente da Ignazio d’Antiochia, che considerano l’incarnazione
dal momento del concepimento verginale di Maria per opera dello Spirito
Santo: si assiste qui a una mediazione fra la tradizione di Gv che vede Cristo
umano e divino, ma non fa riferimento al concepimento verginale (in Gv 8
si parla di Gesù come figlio di Maria e Giuseppe, dunque è scontata la ma-
ternità umana di Maria), e quella di Mt e Lc che invece parlano di questo
concepimento verginale (Mc invece non parla né dell’uno, né dell’altra). La-
vorare sui testi canonici considerandoli tali, perciò, significa dover far fronte
al caleidoscopio di interpretazioni, spesso in polemica tra loro, che sono poi
state ammortizzare e mediate dalla tradizione ecclesiale.
Scorporando i testi canonici, la cui ortodossia è garantita dalla restituzione
scritta della verità rivelata da parte degli apostoli e passata poi ai vescovi, ci
troviamo a dover far fronte alle diverse linee interpretative, spesso diver-
genti. Per inquadrare le articolazioni delle concezioni di Gesù formulate dal-
le varie comunità è significativa la metafora del fiume, per cui Gesù si sareb-
be manifestato come fiume che si articolerebbe in diversi rivoli, alcuni dei
quali tenderebbero a disseccarsi, mentre altri più potenti continuerebbero a
scorrere, anche diversificandosi, trovando unità nell’ispirazione del messag-
gio. Proprio la ricerca e la tensione all’elemento comune originario, che Gesù
si è rivelato in Dio e ha inaugurato il Regno dei cieli, evita alla tradizione di
essere schizofrenica (resta però il problema di come sia possibile che Dio si
sia manifestato in Gesù, di quando il Regno redentivo si debba realizzare e
di chi lo comprenderebbe). Una caratteristica fondamentale del fiume gesua-
no è che il suo flusso diventa più potente quanti ostacoli trova. Di fatto nasce
da delle resistenze, cioè la crocifissione, la cultura giudaica ostile e poi le
persecuzioni, ma proprio l’esperienza dello scontro con questa barriera origi-
naria ha fatto sì che questo fiume, saltando, disperdesse acqua: la potenzialità
frustrata e fallita si eleva, ma frammentandosi. Vince soltanto il rivolo che
fa un salto che lo porta né troppo lontano, né troppo vicino.

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LA FIGURA DI GESÙ

1. Il rapporto di Gesù con la tradizione ebraica “ufficiale”


La rivelazione fondamentale per gli ebrei è quella mosaica, ossia la Legge,
consegnata a Mosè sul Sinai e messa per iscritto nel Pentateuco, e il Tempio,
il compimento della Legge, quale casa di Dio ordinata a Mosè, prima costi-
tuito dalla tenda e poi in un vero e proprio tempio con Salomone a Gerusa-
lemme. La libertà di Israele è pertanto nella messa in pratica ossequiosa di
tale rivelazione, tanto che i farisei, imponendo anche agli ebrei comuni il ri-
spetto maniacale caratteristico della classe sacerdotale, “sacerdotalizzano”
l’intero popolo di Israele (come Gesù farà nei confronti dei cristiani, popolo
sacerdote, re e profeta). Dunque al tempo di Gesù i testi sacri erano la Torah,
cioè il Pentateuco (Genesi, Esodo, Levitico, Deuteronomio [Dt] e Numeri),
che costituisce il corpus legale ebraico, e l’insieme dei testi considerati ispi-
rati di natura profetica, storica e sapienziale, ma che ancora non erano stati
raccolti in un testo unitario, cosa che accadrà forse nel I o II secolo.
Il Testo Masoretico, ossia l’ufficiale Scrittura sacra ebraica, si svilupperà
ancora più tardi, fra il I e il X secolo. Inoltre spesso quest’ultimo è usato
anche come base per la traduzione dell’Antico Testamento (AT) da parte dei
cristiani, benché non coincida esattamente con la Septuaginta, la cosiddetta
Versione dei Settanta, ovvero la traduzione greca da parte di settantadue sa-
pienti di Alessandria d’Egitto (univocità e contemporaneità giustificano lo
scandalo della traduzione). Dunque i testi sacri sono il risultato di un pro-
cesso storico, fatto di tensioni e di mediazioni. Gesù si colloca all’interno
dell’ebraismo del suo tempo, tuttavia come un innovatore.
Al tempo le correnti spirituali che s’intrecciano con un discorso sociologi-
co (tradizioni ideologiche che si legano a un piano economico-sociale) sono:
 i sadducei, la classe sacerdotale aristocratica che non crede nella resurre-
zione, bensì nella mortalità dell’uomo, nel Tempio e nella Legge;
 i farisei, grandi interpreti della Legge, per i quali l’ebreo perfetto è quello
che diventa perfetto moralmente seguendo scrupolosamente la Legge, per
cui non solo i sacerdoti, ma tutto il del resto di Israele deve essere puro.
Hanno l’elemento apocalittico della resurrezione;
 gli esseni, di cui abbiamo conoscenze sparse, sono influenzati da pratiche
di purificazione, hanno elementi apocalittici quali resurrezione;

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 gli zeloti sono coloro che hanno lo zelo per il Tempio e Israele, dunque
percepiscono istanze messianiche militari e politiche e non spirituali, ma
il loro destino era quello della liberazione, attraverso l’insurrezione.
Il mondo ebraico è molto frastagliato. Pensiamo infatti a Qumran, movi-
mento di estrazione sadducea, sono persone che probabilmente vivevano se-
parati nel deserto con ideali di purezza estrema e considerano che il Tempio
e i sacerdoti sono impuri, perché il vero Tempio è il loro pneumatico.
È possibile parlare del rapporto di Gesù con la tradizione ebraica conside-
rando le prese di posizione sui suoi elementi identificativi, ossia la Legge e
il Tempio. Propriamente assistiamo a una loro complicazione e relativizza-
zione, dunque a una loro vera e propria riconfigurazione. A proposito della
Legge, come si vede in Mc 2,23 Gesù, ammettendo che i discepoli raccolga-
no spighe nel giorno di sabato, subordina la Torah, alla luce sua autorità davi-
dica (il re Davide aveva indotto a mangiare il pane del Tempio), a quelle che
sono le esigenze della comunità messianica (sostenendo che l’uomo non è
stato fatto per il sabato, piuttosto il sabato è stato fatto per l’uomo). In altri
termini, essendo così relativizzata, la Legge non viene messa in discussione
o viene negata, piuttosto viene reinterpretata radicalmente.
Altrettanto significativo è il contrasto con le prassi religiose vigenti nel
Tempio, da cui è possibile capire la reinterpretazione che fa di questo pilastro
della tradizione ebraica. Facciamo riferimento nello specifico all’episodio
della purificazione del Tempio, che in Gv è all’inizio (2,3), a sottolinearne la
rilevanza, mentre nei sinottici è alla fine, giacché per loro, in maniera non
molto attendibile, Gesù entra a Gerusalemme una sola volta nella vita, inoltre
è proprio questa vicenda a condurlo alla croce. Rovesciando le monete dei
cambiavalute, identificati come una spelonca di ladri, Gesù esercita la sua
pretesa di subordinazione dell’autorità del Tempio al suo ruolo. Propriamen-
te si vedono due atteggiamenti di Gesù opposti e sintetizzati nei Vangeli, os-
sia la purificazione e la distruzione. In Mc 14,58 troviamo ancora l’aspetto
della distruzione e quella della ricostruzione del Tempio in tre giorni (il rife-
rimento temporale può essere un’appendice dei credenti nella resurrezione),
tuttavia l’accusa che è rivolta a Gesù di voler annientare il Tempio qui in Mc
viene considerata falsa, mentre nell’episodio di Gv è considerata vera.

2. Il rapporto di Gesù con l’apocalittica giudaica


L’altra tradizione ebraica, ignorando la quale non sarebbe possibile met-
tere a fuoco Gesù e la comunità gesuana, è quella dell’apocalittica giudaica.
Esiste infatti un’intera corrente ebraica che si rifà a una segreta rivelazione
che Dio farebbe a Mosè nello stesso momento in cui gli dà la Legge e che è
considerata poi messa come per iscritto negli scritti apocalittici (da apoca-

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lypto, che significa appunto “rivelazione”), testi in cui sono descritte le vi-
sioni di personaggi notevoli della “parallela” religione pubblica (ad esempio
Enoch, Abramo ed Elia). Propriamente Gesù trae il suo immaginario apoca-
littico dalla tradizione non scritturale del “Pentateuco enotico”, che riflette
una visione del mondo che con una certa approssimazione possiamo chia-
mare “apocalittica”. In Gen il patriarca antidiluviano Enoch è eletto da Dio
e, come poi sarà per Elia nel Secondo Libro dei Re (2Re), non muore, bensì
sparisce in cielo presso Dio, diventando così un rivelatore celeste. Per l’apo-
calittica giudaica sono significative le cinque sezioni del Libro di Enoch etio-
pico (chiamato così per le traduzioni etiopiche degli scritti da noi rinvenuti,
essendo del resto testi sacri per la Chiesa etiopica cristiana).
Nella sezione del Libro dei Vigilanti del Libro di Enoch, si parla di angeli
chiamati a vigilare sulla creazione e a far rispettare gli uomini creati da Dio,
ai quali insegnano le regole di civiltà, l’astrologia, la bellezza e in generale i
segreti celesti. Tuttavia si innamorano delle figlie dell’uomo e unendosi ses-
sualmente con loro rompono l’ordine di Dio, generando così i cattivissimi
giganti che mangiano tutto e moriranno solo con il Diluvio universale. Ad
ogni modo la loro componente sovrumana (essendo comunque figli di an-
geli) sopravvive nelle presenze dei demoni; propriamente i demoni principali
sono gli angeli caduti, mentre gli altri che ossessionano gli uomini sono le
anime dei giganti. La centralità dell’elemento demoniaco, quindi di disor-
dine, che insiste sulla malignità del mondo, è caratteristica dell’apocalittica
e di fatto assente nell’AT (sono in Giobbe [Gb] si legge di satana quale ten-
tatore angelo di Dio, subordinato comunque alla sua corte celeste), anzi in
Genesi (Gen) troviamo proprio il fondamento della bontà del mondo.
Altrettanto peculiare di questa corrente ebraica rispetto alla religione pub-
blica è che dal peccato originale dei giganti uniti alle donne con la seguente
caduta degli angeli, peccato più radicale di quello di Adamo ed Eva in Gen,
matura una visione negativa della sessualità e della seduttività della donna
(in effetti all’interpretazione di Gen noi diamo in qualche modo una sovrap-
posizione apocalittica). In pratica l’atto sessuale è il mezzo attraverso cui il
peccato è entrato nella creazione divina, in maniera opposta nella tradizione
ebraica, in cui, alla luce del comando divino di crescere e moltiplicarsi ri-
volto ad Adamo ed Eva, è il non esercizio della sessualità a essere visto come
un’imperfezione, sinonimo per certi versi di disobbedienza.
In un’altra sezione del Libro di Enoch, il Libro dell’astronomia o dei Lu-
minari celesti, vengono esposte nozioni astronomiche che coincidono con
quelle esposte nel Libro dei Giubilei e con quelle in uso presso gli esseni. Al
sole è fatto corrispondere il perfetto ciclo maschile, mentre alla luna l’imper-
fetto ciclo femminile. Da ciò si può notare che a questi testi dell’apocalittica,
benché non si impongano come canonici per il cristianesimo, la nuova reli-

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gione deve moltissimo. Sempre nei libri dell’apocalittica, infatti, si appren-


dono delle novità assolute rispetto alla religione ebraica ufficiale, come l’im-
mortalità dell’anima e la pretesa di un rapporto intimo con Dio (nell’AT, ad
esempio, Mosè ha difficoltà a vedere Dio), cioè di una sua visione diretta (i
cieli che si aprono durante il battesimo in Mc, scardinando la barriera tra ce-
leste e terreno, sono infatti una scena apocalittica, di rivelazione). In sintesi,
il pensiero apocalittico che intercetta Gesù è un pensiero sostanzialmente
dualistico, ma non di un dualismo radicale, secondo il quale due principi (due
divinità) verrebbero contrapposti, piuttosto qui si ha un unico Dio da cui sono
generate due nature; in pratica il dualismo non tocca il teologico, ma attiene
alla distinzione fra il Dio buono e la creazione decaduta.
In Gesù e nella comunità gesuana derivano dalla tradizione apocalittica:
 la presenza di demoni che posseggono la gente e infestano il mondo;
 il rapporto difficile con la sessualità. Si consideri ad esempio che Gesù,
come poi anche Paolo, non è sposato, inoltre per Mt e Lc egli nasce da
una vergine e per Gv e Paolo la sessualità se non è peccato è almeno im-
perfezione, tanto che nelle lettere paoline è scritto che chi ha moglie viva
come se non l’avesse (in generale nella tradizione cristiana il non eserci-
zio della sessualità è un elemento di perfezione). Gli stessi discepoli erano
chiamati a una vita nomade, in maniera del tutto contro-culturale;
 la credenza nella resurrezione. È questo un motivo di tensione di Gesù
con la classe dei sadducei. Del resto nell’orizzonte culturale ebraico l’uo-
mo sopravvive proprio tramite la discendenza e non attraverso la vita eter-
na (d’altronde il Dio dell’AT è il Dio di questo mondo e non quello del
mondo celeste), invece i cristiani sono convinti dell’immortalità dell’ani-
ma e dell’attesa della resurrezione finale dei corpi;
 l’escatologia dei tempi ultimi. Nell’Ap si prefigura l’annientamento del
mondo e la creazione di una terra nuova e un cielo nuovo, così come an-
che Paolo insiste sull’avvento del Regno celeste, mentre non rinveniamo
tracce dell’ultramondanità nell’AT e in generale di una fine di questo
mondo e del nostro tempo. Se quindi in Gen troviamo l’idea della bontà
della creazione divina, nell’Ap si insiste invece sulla strutturale malignità
del mondo (dal decisivo carattere sessuale), che necessità quindi di essere
distrutto e riconfigurato attraverso una nuova creazione divina. Questo
proprio perché si ha una concezione del mondo, come del tempo e del-
l’uomo stesso di tipo estatico, nel senso che la pienezza è soltanto futura
(tale proiezione in avanti e questa visione dell’ultimo più del primo sov-
vertono di fatto la concezione naturale, assiologica e ontologica della per-
fezione collocata già al principio, come nell’orizzonte dei greci che ricer-
cano appunto l’archè). Nell’attingere l’idea dell’annuncio della venuta di

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

un Regno, Gesù intercetta anche la presenza di un misterioso, il Figlio,


un giudice escatologico inviato da Dio con unzione soteriologica.
Dunque le novità del messaggio gesuano sono attinte da un’opzione apo-
calittica in una più o meno aperta polemica nei confronti con la tradizione
ebraica, che invece il suo fulcro nelle strutture della Legge e del Tempio che
sono intimamente conservative. In effetti quella giudaica è una religione con-
servativa, che custodisce l’identità sacrale costitutiva, mentre quella cristiana
è una religione eversiva (anche quando si fa conservativa), perché pensando
a una pienezza, una salvezza che deve ancora arrivare è una religione irre-
quieta, per la quale non può bastare la tradizione da cui si parte, quindi mette
in discussione l’assetto tradizionale e sposta l’accento su ciò che non è an-
cora (per questo è la religione della fuoriuscita della religione?).
Per cui Gesù, pur collocandosi all’interno del giudaismo del suo tempo, lo
fa da assoluto innovatore, per la sua posizione estatica ed ecologica. In effetti
l’AT ha delle premesse estatiche, benché embrionali, cioè la profezia, quindi
la promessa di qualcosa di nuovo, tanto che l’apocalittica giudaica (germi-
nata parallelamente alla Legge e al Tempio) ha un rapporto fortissimo con la
tradizione profetica, nei cui confronti si pone come un suo proseguimento
iperbolico. Con esattezza, il profeta ebraico vede quello che accadrà, è pro-
iettato verso la fine, tuttavia la sua profezia è imminente e riguarda sostan-
zialmente il successo di Israele, del resto l’orizzonte è quello della religiosità
del popolo e della riconciliazione con il mondo (da qui infatti l’idea di Gesù
come Messia politico). L’escatologia di Gesù, invece, come quella del Bat-
tista, è l’attesa di una dimensione radicalmente nuova.

3. Il rapporto di Gesù con Giovanni Battista e la messianicità


Mettendo tra parentesi l’atto di fede dei redattori dei Vangeli, in direzione
dei soli dati storici, risulta significativo domandarci cosa abbia effettivamen-
te pensato e detto Gesù di se stesso e cosa, invece, è messo sulla sua bocca
dalla prima comunità credente. Per quanto in tutti i testi Gesù sia considerato
come il Messia, non sembra che egli abbia esplicitamente parlato di sé in
questi termini, al di là dell’autentica percezione che egli può aver avuto per
se stesso del suo ruolo e della sua missione. Quando Gesù, in Mc 2,18-28, si
autodefinisce come Sposo (nella tradizione ebraica il Messia è lo Sposo di
Israele), tuttavia sembra che qui abbia agito una rilettura della comunità cre-
dente. Rudolf Bultmann sostiene infatti che Gesù non si è propriamente con-
siderato come Messia, piuttosto ha predicato l’avvento imminente del Figlio
dell’uomo (categoria apocalittica) come Messia che sarebbe dovuto venire,
difatti per parlarne usa la terza persona; pertanto l’identificazione di Gesù
come il Cristo sarebbe una rilettura dei discepoli (in questa ipotesi non del
tutto convincente Gesù è interpretato come il NT interpreta il Battista). Da

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contestualizzazioni varie l’espressione Figlio dell’uomo infatti indicherebbe


Gesù stesso in condizione di sofferenza e poi di gloria.
Sicuramente Gesù ha storicamente predicato l’avvento del Regno di Dio
imminente, animato da una certa frenesia escatologica. Tutti i testi, inoltre,
ci restituiscono l’idea storica di Gesù come carismatico, taumaturgo, guarito-
re ed esorcista, dunque come un uomo convinto di avere un dono divino. I
suoi atti, tra l’altro, attestano la sua azione come profeta, infatti come tutti i
profeti compie dei segni miracolosi che sosterrebbero la veridicità della sua
parola. Altrettanto storico e senz’altro fondamentale per districarci nella que-
stione dell’autoconsapevolezza della messianicità gesuana è il discepolato di
Gesù presso Giovanni Battista, in un rapporto fatto di similitudini e di scarti
(la tradizione insiste ad ogni modo sulle discontinuità).
Seppur con delle differenze, tutti e quattro i Vangeli canonici sono d’ac-
cordo nel presentare Gesù come discepolo di Giovanni, dunque in un rappor-
to di iniziale subordinazione, soprattutto per quanto riguarda la problematica
questione del battesimo. Ragionando sulle fonti e cercando di risalire ai dati
storici su Gesù, effettivamente egli dovrebbe essere stato battezzato da Gio-
vanni, seppur per la fede questo resta un dato scomodo, anzi proprio questa
problematicità per la Chiesa primitiva attesterebbe la sua storicità (cfr. “crite-
rio dell’imbarazzo” di John Paul Meier). In Mc è in tale occasione che Ge-
sù riceve lo Spirito, dunque questo sarebbe un atto necessario. In Mt, invece,
Gesù non avrebbe bisogno del battesimo, ad ogni modo l’evangelista man-
tiene il dato storico, disattivandolo comunque dal significato che ha per Mc.
Lc poi descrive rapidamente il battesimo, ma non afferma che sia stato Gio-
vanni a officiarlo (semplicemente parla della presenza di Gesù mentre Gio-
vanni sta battezzando). Diversamente dai sinottici, infine, in Gv il Battista è
testimone della discesa dello Spirito su Gesù, ma non si parla del suo batte-
simo, in quanto in questo Vangelo è presentato già come il Dio disceso.
Ad ogni modo nel Vangeli canonici e in quasi tutte le notizie cristiane an-
tiche si assiste a un ribaltamento di rapporti, dunque a una progressiva subor-
dinazione del Battista, nella consapevolezza della sua funzione introduttiva
all’azione messianica di Gesù (quale ultimo profeta), per quanto la comunità
battista in scontro con quella gesuana reputi ciò un’invenzione protocristia-
na. In Lc fin dall’inizio è percepibile questo rapporto, come mostra l’esultan-
za di Giovanni ancora nel grembo della madre nella scena presente solo qui
della visitazione di Maria incinta (unicamente adesso abbiamo notizia che i
due fossero cugini). In Mt è affermato inoltre che Giovanni non sarebbe de-
gno di battezzare Gesù e addirittura solo la discesa dello Spirito glielo fa-
rebbe riconoscere (in antitesi con l’idea che Gesù sia il discepolo prediletto
di Giovanni). Tra l’altro guardando con attenzione Mc, che inizia proprio con
l’attività del Battista e il battesimo di Gesù, dunque con l’apertura del cielo

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alla rivelazione divina e all’unzione, sembra che Giovanni non partecipi at-
tivamente a questo momento, come se Gesù fosse battezzato da lui soltanto
anonimamente. Tanto più questo ribaltamento è visibile in Gv, in cui il Bat-
tista non solo non ha battezzato Gesù, ma è semplicemente il testimone della
luce che deve venire (Gv 1,8) e, come afferma egli stesso, non è il Cristo (Gv
1,19), lo Sposo, piuttosto sarebbe colui che lo precede (Gv 3,28).
Complessivamente comunque i canonici parlano di Gesù originariamente
discepolo del Battista, che apprende da lui un messaggio radicale di profezia
escatologica, cioè sulla fine del mondo e l’attesa del Regno divino, dunque
a proposito della necessità di un battesimo di penitenza, per mettersi poi in
proprio. Egli avrebbe quindi preteso di portare avanti o di compiere e supe-
rare la missione di Giovanni. È problematico individuare se questa autono-
mia avverrebbe prima o dopo l’arresto del Battista: Gv sostiene prima, in
parallelo, mentre per Gaetano Lettieri avverrebbe dopo, continuando e supe-
rando la missione di Giovanni, tanto che i discepoli di quest’ultimo si chie-
dono se hanno davanti il Messia. Anzi Gv attesterebbe anche il passaggio di
alcuni discepoli dal Battista a Gesù. In realtà, secondo questa tesi ardita, Gio-
vanni non avrebbe concepito la sua missione finalizzandola all’evento di Ge-
sù, né l’avrebbe pensato come il suo discepolo prediletto, né addirittura a-
vrebbe riconosciuto la sua messianicità, perché egli stesso si sarebbe identi-
ficato come il Figlio di Dio, il suo profeta, il suo Unto.
Questa idea si basa sull’episodio delle nozze di Cana (Gv 3,2-10), in cui
si parla del vino vecchio, scadente, e di quello nuovo, eccellente: la parteci-
pazione di Gesù alle nozze è la simbolica affermazione della superiorità del
vino da lui trasformato e delle sue nozze nei confronti dello Sposo Battista,
così smentendo la sua pretesa messianica. Il primo miracolo di Gesù sarebbe
pertanto il segno della sua messianicità sopra Giovanni, proprio perché basa-
to sui riti di abduzione del Battista (l’acqua per purificare). La tesi è suffraga-
ta da più fonti: le Pseudoclementine, in cui è mostrato il conflitto tra i disce-
poli di Gesù e quelli del Battista considerato come Messia; la tradizione man-
diana, secondo cui Gesù sarebbe l’inviato maligno venuto a uccidere al Gior-
dano Giovanni, vero Messia; i testi gnostici, dove il Battista è l’Arconte del-
l’Utero che vuole affogare Gesù nel Giordano (d’altra parte la tradizione rin-
via a una connessione fra i due, sia genetica che di rivalità); il fatto che nei
Vangeli canonici Gesù, pur parlando bene di Giovanni, lo ridimensiona.
Quindi la messianicità di Gesù sarebbe affermata proprio attraverso la ri-
valità con Giovanni e l’abbassamento della sua pretesa messianica: dopo la
morte del Battista, Gesù porta avanti il suo messaggio, nel segno di irriduci-
bili similarità fra i due. Anzitutto entrambi officiano battesimi di penitenza
per il perdono dei peccati, segno di un’avvenuta conversione. Alla luce di
Gv 1,25-34 circa il battesimo di acqua del Battista e quello in Spirito di Gesù,

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alcuni studiosi commentano che quest’ultimo battesimo sarebbe qualitativa-


mente diverso, tuttavia sembra un’ipotesi poco verificabile: è poco probabile
che quello di Giovanni fosse un battesimo di sola acqua, poiché alla sua pre-
tesa eversiva non può non corrispondere un battesimo di fuoco (in tal senso
si può pensare a uno slittamento dei Vangeli dal Battista a Gesù). Del resto
Giovanni propone un mezzo per entrare in contatto con Dio più potente del
Tempio, rispetto al quale quindi è in contraddizione, benché di fatto non lo
neghi. D’altra parte il suo ministero si svolge soprattutto nel deserto come
denuncia dell’impurità e invito a prepararsi all’arrivo della Luce.
La sua pretesa di battezzare viene dalla percezione di un’autorità straordi-
naria basata su una chiamata carismatica profetica (dalle accentuazioni apo-
calittiche), dono dello Spirito, che lo rende strumento di Dio. Federico Adi-
nolfi sostiene in realtà che questa pretesa di remissione dei peccati venga dal
fatto che il Battista in realtà viene da una figura sacerdotale, tuttavia questa
ipotesi regge poco, in quanto c’è già il Tempio (lo scenario cambia conside-
rando l’ingiunzione della purificazione del Tempio). Il suo essere un eversi-
vo radicale può derivare soltanto dalla convinzione di essere un Unto di Dio,
tanto da sfidare la politica e andare incontro alla morte senza paura. Del resto
una seconda somiglianza con Gesù è l’annuncio dell’avvento escatologico
della perfezione e del giudizio (i buoni saranno esaltati e i cattivi puniti). Pro-
prio in questo senso si comprende il motivo dell’uccisione del Battista da
parte di un re: non perché lo accusa di immoralità, piuttosto in quanto conte-
sta la sua autorità (della serie “se non ti battezzi sei finito”).
Nell’esperienza di pretesa eversiva, profetica e messianica di Giovanni
inoltre c’è in comune con Gesù la commistione fra tradizione e innovazione.
La caratterizzazione di Giovanni come profeta è individuabile anche dal suo
gravitare intorno al fiume Giordano, che rappresenta la porta con il cielo, in
quanto nel racconto del secondo Libri dei Re (2Re), lungo di esso il profeta
Elia venne rapito in cielo con un carro di fuoco (simbolo dello Spirito), senza
passare per la morte e andando direttamente nell’intimità di Dio, e il suo spi-
rito profetico poi sarebbe sceso sul discepolo Eliseo. Dunque il Battista sa-
rebbe in qualche modo connesso con Elia, oltretutto simile anche nell’abbi-
gliamento (cintura e pelle di cammello), in relazione di simbolica continuità
(tanto che in alcuni testi i due sono esplicitamente collegati).

4. La problematicità della pretesa messianica e la vicenda finale di Gesù


La condanna a morte di Gesù è mossa a partire dal suo messaggio eversivo
e la sua pretesa di essere il mediatore, il Messia. In effetti anche se Gesù non
si autoproclama l’Unto, il suo atteggiamento critico e creativo nei confronti
dei due pilastri della tradizione ebraica, cioè la relativizzazione della Legge

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alla sua autorità carismatica e la purificazione del Tempio, esprime chiara-


mente questa pretesa (per cui viene comunque riconosciuto come un bestem-
miatore). In questo senso possiamo parlare di un Gesù ebreo e allo stesso
tempo eretico: egli è ebreo in quanto pensa alla salvezza di Israele, tuttavia
opera in questa direzione in maniera critica, ponendosi al margine del suo
essere ebreo; questo margine coincide con il Regno escatologico annunciato
nella sua predicazione apocalittica. Il messianismo ebraico infatti ricerca un
capo politico, egli invece si configura come un Messia di tipo religioso.
Gesù pretende di essere decisivo nei confronti della tradizione religiosa e-
braica alla luce della sua autorità carismatica. Per i sinottici quest’autorità
si dispiega dopo la morte del Battista, ma per Gv già durante la sua attività.
Gesù prova il suo carisma attraverso l’attività miracolista; Mc, nello speci-
fico, è molto basato sulla sua azione taumaturgica. Inoltre assistiamo a una
riconfigurazione carismatica anche della sua famiglia: nel proclamare la sua
identità carismatica si riconosce come figlio dello Spirito, più che di sua ma-
dre, e i suoi veri parenti sono quelli basati sulla condivisione della volontà di
Dio (Mc 3,31). Il punto è che Gesù probabilmente predica all’interno del
Tempio, continuando evidentemente a riconoscere al suo interno la presenza
di Dio, dunque attribuendogli un valore decisivo, ma si attende un riconosci-
mento della sua identità carismatica da parte dei sacerdoti del Tempio (cfr.
quando risponde al capo dei sacerdoti «Tu lo dici» alla domanda se fosse il
Messia). Tuttavia essi considerano scandaloso il fatto che Gesù vorrebbe che
il cuore dell’ebraismo si converta a questo annuncio del Regno di Dio.
Alla luce della sua pretesa di possedere un’elezione carismatica, cioè di
essere inviato da Dio quale ultimo profeta, l’intenzione di Gesù di riconfigu-
rare i pilastri dell’ebraismo sarebbe una sorta di colpo di stato pacifico, che
non mira appunto ad annientare, piuttosto a relativizzare a sé, così che venga
riconosciuta la propria autorità suprema escatologica. In tal senso Gesù no-
mina dodici apostoli in riferimento alle dodici tribù di Israele: si considera
Messia, tuttavia attende un riconoscimento religiosamente formale da parte
dell’autorità ebraica, possibile soltanto nel Tempio (ciò spiega perché gli a-
postoli continuano a frequentarlo anche dopo la morte del maestro).
Ed Parish Sanders insiste sulla forte connessione tra il rovesciamento delle
tavole dei cambiavalute nel Tempio in segno della sua purificazione e l’istal-
lazione del tavolo dell’Eucarestia: alle tavole dei cambiavalute giungevano
pellegrini da tutto il Mediterraneo per comprare vittime sacrificali in vista
della remissione dei peccati, ma Gesù sostituisce totalmente il rito sacrificale
istituendo l’Eucarestia quale sacrificio della sua persona. L’esigenza del suo
sacrificio viene dalla consapevolezza del suo fallimento in quanto non è stato
riconosciuto. Se si dà per buona l’idea di Sanders pare che Gesù quindi abbia
cercato la morte; altri studiosi avvalorano questa posizione, sostenendo che

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Gesù cerca la morte perché poteva essere la prova decisiva della sua messia-
nicità, in quanto secondo le attese apocalittiche la resurrezione dei morti è il
segno dell’avvento del Regno di Dio annunciato. Secondo Mauro Pesce, in-
vece, sembra che Gesù non voglia morire, quindi la resurrezione è la risposta
compensativa della comunità al fallimento storico del maestro.
Da un punto di vista storico, come poteva pensare Gesù, predicatore mar-
ginale, carismatico provinciale, che a Gerusalemme i sacerdoti, classe aristo-
cratica, l’avrebbero potuto riconoscere? Egli si sposta nel cuore politico, si
butta nella caldaia delle altissime tensioni tra occupanti romani e resistenze
ebraiche, ma va a sfidare i poteri costituiti. La pretesa di Gesù di essere con-
siderato figlio di Dio è alta dal punto di vista religioso e per far sì che venga
riconosciuta si muove in un senso centripeto, cioè a partire dal centro. Perché
Gesù a Gerusalemme si espone alla prova ultima, nonché mettersi definiti-
vamente nelle mani di Dio qualora egli volesse rivelarlo come Messia (solo
lui può dargli il potere o mettere fine a tutto), disporsi alla verifica divina
della sua pretesa messianica (andiamo a Gerusalemme significa scoprire le
carte: «Se possibile allontana da me questo calice [cioè dimostra la mia mes-
sianicità ora]», altrimenti «sia fatta la tua e non la mia volontà»).
Tutto questo richiedeva che ci fossero dei testi biblici che giustificassero
questa ipotesi folle che per compiere la pretesa messianica: Is 52,13-53,12 e
Sal 22 (si tratta di testi che circolano al tempo, anche in frange politiche e
messianico-politiche, a motivo delle attese di liberazione politica di quel
tempo). Il primo passo è il IV canto del Servo sofferente del Deuteroisaia (Is
52,13-53,12), in cui dal sacrificio si realizza un esito positivo (la morte è
questo spogliarsi e assumere la condizione tremenda di umiliazione, di soffe-
renza e di tormento, tuttavia è il presupposto della glorificazione). Gesù cer-
ca il cortocircuito per la questione dell’autoidentificazione con l’agnello sa-
crificale con i riti sacrificali della Pasqua ebraica: assistiamo in tal senso a
un vortice interpretativo (pensiamo anche a Gv e Ap); Gesù in altri termini è
una calamita simbolica. Se egli si interpreta in questa maniera deve pensare
a una messianicità che passa attraverso la morte (in effetti la tradizione ebrai-
ca post-cristianesimo surgela il brano del Deuteroisaia).
Tutto questo l’ha interpretato la prima comunità cristiana, andando a ri-
configurare questo rito eucaristico come rito sacrificale, oppure Gesù stesso
ha attivato questo, che ha progettato e interpretato, dando questa dimensione
memoriale e sacrificale? Il «fate questo in memoria di me» davvero Gesù
l’ha pensato e detto? In realtà lui si riferirebbe a qualcosa più a breve termine:
morto e risorto. Sembra invece suggerire un lavorio della comunità, che nel
ritardo della parusia ha bisogno di rammemorare il sacrificio, di far divenire
Gesù anticipatamente la venuta definitiva attraverso la ripetizione del rito.

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L’interpretazione teologica post-pasquale potrebbe essere già stata immagi-


nata e preparata da Gesù, compresa la fine della risurrezione, differentemente
dallo scollamento che fanno generalmente gli storici.
Fondamentale in tal senso è lo sbandamento naturale della comunità, il
quale non risolve un problema, piuttosto identifica una difficoltà. La fonte Q
e il Vangelo di Tommaso parlano di un Gesù liberale, ma con autocoscienza
messianica bassissima, senza caratteri forti di teologia sacrificale. Questo è
il grado massimo di Gesù de-teologizzato, che si configura come maestro,
rabbino, che insegna e attende da Dio e non intende un suo ruolo di tipo
sacrificale e non vuole presentarsi come Messia sacrificale. Nella visione di
Lettieri, però, la dimensione messianico-sacrificale non sarebbe una rilettura
post-eventum della comunità cristiana, bensì una prospettiva rivelativa di Ge-
sù già interna. Se questo è vero Gesù può aver ipotizzato che quel Regno si
compisse nel passaggio per la sua morte e risurrezione, in quanto autentico
inviato di Dio. L’esigenza di questa tesi è di riavvicinare ipoteticamente il
lavoro interpretativo della comunità con i gesti ultimi del Gesù storico.
Altro riferimento biblico fondamentale, presente sia in Mc che in Mt, è il
Sal 22 (tuttavia non presente negli altri due Vangeli perché probabilmente
viene ritenuto molto scandaloso), il quale presenta inoltre una sintonia con il
Deuteroisaia, che potremmo dire sia una variazione sul tema del Salmo. La
tunica non è un dato storico, bensì l’applicazione del Sal 22 sulla crocifis-
sione, poiché è la prova dell’identità messianica di Gesù. Anche il Sal 22 ha
una traiettoria di umiliazione, annientamento e resurrezione, solo che è in-
terpretato in senso collettivo, mentre Gesù lo interpreta in senso personale.
Il grido non è inventato probabilmente, poiché il fraintendimento con Elia è
un indicatore della sua storicità (come ci si andrebbe a inventare una frase e
il fraintendimento della frase?). Ad ogni modo, se ha davvero fatto quel grido
è davvero un’autointerpretazione del suo sacrificio, connettendo Sal 22 e
Deuteroisaia, come escatologica prova della sua messianicità. Se non sono
un ebreo e non conosco la Bibbia a memoria, o sono ebreo ma non conosco
l’ebraico e non capisco il grido, perché lo metto nel Vangelo? È così scan-
daloso come testo d’altronde? Lc non lo inserisce, ad ogni modo a 23,45
riecheggia comunque il Sal 22: toglie il grido perché lo sente come terribile,
a dimostrazione proprio per questo della probabile fondatezza storica.
Il dispositivo interno alla vicenda finale di Gesù è lo stesso del Discorso
della Montagna (in Lc 6 come nel meno antico e più elaborato Mt 5): la logica
del rovesciamento apocalittico, ossia il capovolgimento morte-vita, sofferen-
za-gloria. Questa è la potentissima scommessa storica che il gesuanesimo
che diventa cristianesimo gioca e vince. Chi ha capito meglio questo è Paolo.

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

3
LA SVOLTA PAOLINA

1. L’affermazione paolina dell’universalismo


Paolo si pone in un rapporto di continuità nella differenza con Gesù. Filo
rosso tra i due è senz’altro la logica del rovesciamento apocalittico che anima
il messaggio e l’intera esistenza di Gesù, sino alla sua vicenda finale, e che
viene assunta pienamente da Paolo. Tuttavia mentre Gesù non si proclama
mai direttamente Messia (se non davanti al Sommo sacerdote), piuttosto que-
sta autocoscienza è desumibile dal suo effetto operativo, in Paolo tutto è
chiaramente fondato sull’ovvia messianicità gesuana, provata attraverso la
sua resurrezione. Ad ogni modo Paolo, benché sia diversissimo dal Gesù sto-
rico, proprio alla luce della logica del rovesciamento apocalittico che fa pro-
pria, forse è stato un po’ meno lontano da lui di quanto possa sembrare.
Questo ribaltamento apocalittico è ben espresso nella formula ubi minor,
maior cessat, ossia dove c’è il minore il maggiore deve deporsi, nel senso
che l’ultimo è destinato a diventare il valore dell’umano e questo fa sì che
tutto ciò che è potere venga a decadere (la politica democratica risponde a
questo meccanismo messianico, vive idealmente di questa traiettoria). Paolo
è un ebreo, propriamente un fariseo, dunque conosce perfettamente la Legge.
Ad ogni modo è originario di Tarso in Cilicia, una zona dell’Asia minore
prossima alla Siria, per cui è anche ellenizzato (anche se il suo greco non è
tantissimo raffinato). Perseguita i cristiani ed è presente al martirio di Stefano
(negli At dice che cercava la strage dei cristiani), però sulla via di Damasco
resta folgorato. Da qui si individua il profondo filo rosso con Gesù: come lui,
egli è un estatico, così si convince di avere una visione diretta di Gesù (ipo-
tesi uno: è matto? Probabile. Ipotesi due: è disonesto? No) e addirittura che
Gesù l’ha chiamato all’opera chiave, cioè convertire il mondo.
Secondo un luogo comune il cristianesimo avrebbe inciso sulla storia pro-
prio grazie all’azione di Paolo, anzi egli viene considerato da alcuni addirit-
tura come il “fondatore” della religione cristiana. È evidente che il suo rap-
porto con Gesù, di scarto, come anche di continuità e di rilancio è un pro-
blema chiave dell’Occidente (ad esempio Nietzsche ne parla come dell’av-
velenatore del messaggio gesuano). Occorre considerare da un punto di vista
storico-critico che Paolo non ha mai conosciuto direttamente Gesù e non può
essere considerato come il fondatore del cristianesimo non avendone usato

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

nemmeno mai il termine. Tuttavia la sua novità strepitosa è l’idea del mes-
saggio gesuano come rivolto a tutte le genti, anche ai pagani. In effetti da un
punto di vista storico Gesù rivolge il suo messaggio molto probabilmente a
Israele (si pensi a quando afferma che la fede – ebraica – di una donna l’ha
salvata), senza una portata universalistica, se non come effetto secondario: il
fuoco della predicazione è tutto per la conversione di Israele, in continuità
con la predicazione del Battista. Tuttavia Paolo concepisce in una prospettiva
universalistica (ed ellenistica) l’iniziale economia elettiva ebraica.
E questo attraverso, anzi grazie all’indurimento di Israele (in qualche mo-
do, allora, il sacrificio redentivo di Gesù crocifisso è il sacrificio di tutto il
popolo). Nell’immaginario ebraico il popolo di Israele sarebbe infatti la spo-
sa eletta di Dio, che tuttavia lo tradisce unendosi a genti straniere. Per Paolo
questo tradimento è necessario perché Dio possa così eleggere e sposare la
totalità dell’umanità in Gesù (quindi comunque anche gli ebrei), il quale sa-
rebbe così lo Sposo atteso da Israele (si pensi all’incontro di Gesù con la sa-
maritana, in cui egli stesso parla di sé come dello Sposo, oppure all’episodio
delle nozze di Cana in cui il Battista si definisce amico dello Sposo).
La promessa di Dio in ogni caso è irrevocabile, quindi la fine del mondo
si avrà soltanto quando la fede di Israele sarà ripristinata e anche Giuda (sim-
bolo di Israele) sarà salvato. Significativa a tal proposito la metafora dell’u-
livo e degli innesti: Israele sarebbe l’ulivo, l’albero dell’elezione, ma storica-
mente gli israeliti sono i rami che si sono seccati e per questo motivo vengo-
no tagliati, permettendo in tal modo l’innesto dei rami dell’oleastro, un olivo
selvatico, simbolo dei popoli non eletti. L’innesto avviene all’interno di un
albero che resta ad ogni modo ebraico (con Paolo, in effetti, abbiamo l’ebrai-
cizzazione del mondo) e la fine della storia si avrà quando gli ebrei saranno
rinnestati nel tronco originale. L’esclusione di Israele sarebbe del resto anti-
paolina e anti-cristiana: il cristianesimo stesso è una religione ebraica extra-
ebraica, quasi un tumore ebraico da amputare, che resta tuttavia ebraico.
La scelta dell’universalismo di Paolo si afferma dopo e in conseguenza al-
la crocifissione di Gesù, la mancanza di fede nella resurrezione e l’attesta-
zione del ritardo della fine del mondo e della prospettata irruzione escatolo-
gica del Regno. In tal senso la diffusione epidemica del messaggio di salvez-
za cristiano è un fenomeno di sostituzione, di compensazione spaziale del
fallimento temporale e di fatto rappresenta un delirio, la pretesa che il mondo
intero si converta e diventi santo. L’ideale rimane quello, l’irruzione del go-
verno di Dio sul mondo (la sua presenza nell’umanità trasfigurata, redenta)
e la manifestazione ubiqua dello Spirito che fa risorgere i morti, ma Paolo
avvia questa modalità di reinterpretazione dell’escathon con la diffusione
carismatica della comunità di Gesù tra i pagani. Il suo messaggio si basa sul-
l’interpretazione sacrificale della morte di Gesù, che consente la resurrezione
dei morti, la loro salvezza, il dono dello Spirito come attore della resurrezio-

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ne universale e, infine, la testimonianza, il rendere possibile l’elezione delle


genti (nella Lettera ai Galati [Gal], spiega in maniera evidente che essendo
Gesù il benedetto, rendendosi maledetto benedice la maledizione).
Il cristianesimo vince perché ha una struttura dialettica capace di adattarsi
alla sorpresa e di inventare una sorpresa, articolando appunto dialetticamente
giudizio di condanna e misericordia, apocalisse finale e ritardo per prepararsi
meglio. In tal senso è protagonista la soggettività di chi si accosta alla fede e
può leggervi ciò di cui ha bisogno, senza venire mai contraddetto proprio a
motivo della natura dialettica del cristianesimo. In termini generali conside-
riamo che rispetto alla tradizione paolina quella giovannea è più divisiva,
concependo infatti in maniera radicale la contrapposizione apocalittica tra
eletti e reietti, mentre Paolo introduce un universalismo apocatastale, da apo-
catastasi, cioè “reintegrazione” (sistematizzata poi da Origene), per cui i giu-
dei sarebbero reietti solo temporaneamente. In effetti in Rom 11 Paolo consi-
dera la complessità della storia del popolo del Patto, in quanto pur avendo
rinnegato l’economia di salvezza, ora aperta in una prospettiva universale,
non si compirà senza di Israele: questa alternanza tra le due economie, l’ele-
zione del popolo ebraico e quella delle genti, è metaforizzata con un innesto.

2. La supremazia dello Spirito sulla Legge


Paolo è un convertito da una forma di ebraismo “ufficiale” a un’altra di ti-
po apocalittico, dunque pur restando intimamente ebreo passa dalla concen-
trazione esclusiva sulla Legge ebraica alla prospettiva del Messia ebraico
morto e risorto, dunque all’orizzonte dello Spirito (il Risorto effonde lo Spi-
rito ai discepoli e l’unico vero Tempio è la comunità dello Spirito del Risor-
to). Ovviamente Paolo, non negando la propria identità ebraica, non parla
male della Legge, ma la sua radicalizzazione offre un’interpretazione dura
nei confronti della pretesa che questa sia l’unica modalità rivelativa e reden-
tiva di Dio, certo della potenza dello Spirito che infatti la supera.
Questo è chiaro in Gal 3, che si comprende bene alla luce del capitolo pre-
cedente. In Gal 2,11-14 Pietro era stato accusato da Paolo di ipocrisia a se-
guito dell’“incidente di Antiochia”, quando i due condivisero il pasto con dei
pagani (non circoncisi e non osservanti le norme alimentari), ma dopo il rim-
provero di alcuni inviati di Giacomo Pietro si ritirò dalla comunione con Pa-
olo, suscitando il suo biasimo per non aver capito che non è la purezza della
Legge a salvare, bensì lo Spirito del Risorto. Per cui Gal 3 si apre con una
polemica di Paolo contro Pietro, a sottolineare la complessità della comunità
protocristiana, percorsa da correnti non sempre in sintonia tra loro. Per l’ap-
punto Paolo si scaglia contro i Galati, che sono degli ebrei convertiti e che
seguono Pietro nel non volersi integrare con i pagani convertiti.

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

«Siete così privi d’intelligenza che, dopo aver incominciato con lo Spirito,
ora volete finire con la carne?» (Gal 3,3). Fondamentale in Paolo è la dialet-
tica carne-Spirito: la carne è l’uomo, con la sua Legge scritta; lo Spirito, che
immortalizza, libera e garantisce l’escatologia tra uomini e Dio, è Cristo stes-
so, il quale sulla croce ci ha riscattati dalla maledizione della Legge diventan-
do per noi maledizione (in quanto appeso al legno, secondo Dt 21,23); la cro-
cifissione è infatti la prova che Dio abbia fatto ruotare l’economia dalla Leg-
ge allo Spirito. Chi non si apre alla forza dello Spirito viene maledetto e ucci-
so; si pensi a 2Cor 3,6: «infatti la lettera uccide, lo spirito invece vivifica»,
per affermare la superiorità del messaggio di Cristo, fondato sullo Spirito,
che è vita, rispetto alla Legge che è lettera scritta e cioè formulazione esterio-
re. In quest’ottica da elemento di elezione d’Israele che fa esaltare dalla ma-
ledizione, la Legge con Gesù è l’elemento stesso di maledizione, che funge
ad ogni modo da premessa del dono maggiore dello Spirito, poiché rivela la
maledizione affinché si possa essere salvati dalla grazia, come un pedagogo
che conduce a Cristo, lo Spirito, per essere così giustificati per fede.
Paolo giustifica con la Scrittura la supremazia dello Spirito, sostenendo
che prima viene la fede e poi la Legge; del resto Abramo, a cui è stato affidato
il primo vero testamento, è stato salvato dalla fede e non dalla Legge, data
poi a Mosè (oltretutto dagli angeli e non da Dio stesso). Se quindi gli ebrei
sono i figli di Abramo allora sono i figli della fede e non della Legge, nel
senso che è la fede a renderli ebrei, quindi eletti. Gesù, discendente di Abra-
mo, infatti non nega la Legge, ma la porta a compimento relativizzandola al-
la sua messianicità. Inoltre la fede è il perno della giustizia, ciò che giustifica
e che permette oltretutto l’elezione di tutte le genti. Tra l’altro Dio aveva già
preannunciato ad Abramo che attraverso di lui sarebbero state elette tutte le
nazioni e ora, in Gesù, si giunge al compimento di questa promessa. E questo
è possibile proprio attraverso il popolo di Israele che, come Giuda, diventa il
popolo maledetto poiché prigioniero della Legge, tuttavia chiamato a credere
in Dio perché sia possibile l’avvento del Regno (cfr. metafora dell’ulivo).
Parliamo di un dualismo economico, nel senso che si distinguono due piani
di salvezza, la Legge e la nuova rivelazione di Grazia che supera la Legge.

3. L’originalità cristiana della logica anti-mondana che si mondanizza


Il rapporto tra morte e vita è una categoria antropologica, più che culturale,
nel senso che la morte è un dato antropologico evidente, dunque ogni cultura
spiega e dà senso alla morte. Nella cultura classica questo rapporto vita-mor-
te è ciclico: smembramento, chiusura del sacco e rinascita. Un primo ele-
mento di specificità cristiana è che questa dialettica diventa invece lineare,
dunque non segna più la ciclicità stagionale, la scansione ciclica del tempo,
bensì segna la fine del tempo: con la morte e la resurrezione c’è la rottura del

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

cerchio (quei circuiti con Cristo sono frantumati, come osserverà Agostino).
Per capire meglio quest’aspetto si consideri che se la resurrezione è davvero
presente in tutte le culture, non è tuttavia una concezione di resurrezione in-
dividuale come nel cristianesimo, che ha perciò la potentissima capacità di
rielaborare la struttura antropologica chiave dell’umano con una straordina-
ria potenza di significazione e di totale risignificazione. Oppure si pensi che
invece di parlare del dio egizio che muore e rinasce, il cristianesimo prende
questo dispositivo della morte del dio e tuttavia fa cominciare una cosa nuo-
va, la storia, come attesa della fine, come inizio della fine.
Un secondo elemento di specificità cristiano della dialettica vita-morte, o
meglio di originalità (perché si tratta comunque di rielaborazioni, invenzioni
pazzescamente originali, di dati antropologici e culturali), è che la prospet-
tiva apocalittica di Gesù segna la dimensione tipicamente ebraica della di-
struzione del potente e dell’esaltazione del miserabile (il Messia distrugge
un ordine per crearne un altro). Per fare un esempio, pensiamo al fatto che
tutte le culture hanno lavorato sulla legittimità del potere, mentre il cristia-
nesimo invece lo fa saltare. È la logica kenotica che spinge a innalzare ciò
che è vuoto, ciò che è nullo, ciò che è miserabile.
A tal proposito consideriamo che il termine “nichilismo”, di cui Nietzsche
dà la più grande interpretazione, è un articolo paolino di secondo grado. In
1Cor 1,17-31 il nichilismo diventa attivo con la negazione della negazione
della vita: Paolo qui dice che evangelizza senza potenza di parola (alcuni
hanno battezzato che balbettasse pure), ma perché non fosse svuotata, annul-
lata la decisività di Cristo. In altri termini il Vangelo viene annunciato da una
parola debole, che è perciò il segno della potenza della Croce rispetto alla
parola umana: c’è una dimensione quindi antitetica e violenta tra il divino e
l’umano, in quanto il mediatore, che è il Cristo, salva annientando e annien-
tandosi, scegliendo le cose che non sono per annientare le cose che sono
(l’annientamento del potere dell’uomo è il motivo per cui Nietzsche odiava
Paolo alla fine). La potenza divina come antitetica alla potenza degli uomini
è ripresa da Paolo nei profeti veterotestamentari: il mondo cerca la sapienza,
ma Dio lo salva annientando il potere naturale, così che Cristo ha annientato
(katargeo) ed esaltato il niente, le realtà che non sono (l’unico precedente è
profetico-apocalittico), tanto che poi i suoi predicatori saranno pietra di in-
ciampo per i giudei e stoltezza per i pagani, i filosofi.
La dialettica morte-vita (rinascita) nell’interpretazione paolina è portata
all’iperbole, è estremizzata, fino a rovesciare la logica naturale, quella del
mondo che, attraverso anche i miti di morte e resurrezione, cerca la vita, la
potenza. Con la prospettiva di Paolo invece l’unica potenza è quella di Dio,
che in Cristo fa saltare la dialettica ciclica vita-morte, facendo accedere a una
nuova dimensione della vita. Si tratta quindi di una concezione anticiclica,
perché fa passare dalla morte naturale non alla vita, ma a una dimensione ec-

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

cezionale che prima non esisteva. In questa logica radicalmente anti-monda-


na che mette in crisi la ciclicità della logica mondana, quest’irruzione nella
vita nuova è umanamente distruttiva (del potente), ma esalta il nulla del va-
lore, della natura, del potere, della sapienza, della bellezza.
Mentre nel mondo classico il nuovo è la rinascita del vecchio dopo la crisi,
in Cristo è fatto tutto fuori, riconfigurato radicalmente. Agostino concepirà
questa logica paolina come una logica della Grazia che irrompe su una natura
destinata a un processo di corruzione. Abbiamo una verità eccezionale, che
eccede totalmente l’ambito della sapienza, delle tradizioni, della cultura, del-
la natura. Questa logica della rottura del circolo al tempo stesso si mondaniz-
za, diventa cioè il segreto della cultura mondana. L’unico uomo a somiglian-
za di Dio è così quello ri-creato, totalmente spirituale tramite Cristo (per que-
sto Paolo è considerato pazzo dagli ebrei); se fosse messa all’inizio ritorne-
remmo alla ciclicità. Pertanto la tesi di Paolo in 1Cor 15 è una totale rilettura
di Gen in prospettiva escatologica e apocalittica: il vero Adamo non è il pri-
mo, bensì l’ultimo, in quanto il primo Adamo è peccatore e mortale e l’ulti-
mo dona l’immortalità e l’intimità con Dio, vincendo quindi il peccato.
Paolo parla della resurrezione individuale: ritornerò io, riconfigurato ma
io. È significativa l’eternizzazione di questo mio corpo; dal punto di vista
culturale il cristianesimo considera essenziale non il “padre” in qualsiasi sua
forma, ma quel singolo padre che è il mio (questo è uno dei motivi dell’indi-
vidualizzazione della persona). La follia di Paolo è la teoria assoluta dell’in-
dividualità precisa, non solo i desideri e la memoria, ma anche il mio corpo.
È evidente che ci siano obiezioni di vario genere (oltre che greche, anche
sadducee). Contro l’orfismo e il pitagorismo (l’anima trasmigra in corpi di-
versi, anche di altre creature), Paolo parla di corpi celesti cosmici perfetti e
incorruttibili, corpi spirituali. Noi siamo corpi mortali e peccatori, l’imma-
gine perfetta non è del primo Adamo, ma quella che riceviamo con l’ultimo
Adamo, Gesù, il quale con la sua resurrezione ci dona lo Spirito che immor-
talizza, così che il nostro corpo subisce una trasformazione radicale: da psi-
chico, vivente (e per questo mortale), diventa pneumatico, celeste, si spiri-
tualizza, si angelizza, diventiamo in altri termini immagine di Dio. Com’è
l’uomo celeste, Cristo, così saranno coloro che ricevono il suo spirito: saran-
no immortalizzati perché risorgeranno con lui, portando l’immagine escato-
logica, quella celeste. A partire dal II secolo la tradizione cristiana recupera,
contro gli gnostici, la concezione ciclica, per cui l’immagine divina nell’uo-
mo è già stata data, ma poi perduta, quindi la rivelazione di Cristo serve a
riscoprire la perfezione perduta (è una concezione pedagogica).
L’Occidente, secondo Nietzsche, prende questa visione estatica, secondo
la quale soltanto la rivelazione finale dona la pienezza: dalla distruzione della
natura abbiamo l’irruzione, la rivelazione, il dono dello Spirito. Sono favole?
Di questa idea noi viviamo nella nostra cultura. Un dispositivo cristiano nel-

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

l’idea di democrazia quindi? La cultura ottocentesca rivoluzionaria è una e-


voluzione di una traiettoria cristiana, la matrice è cristiana. Jacques Derrida,
laico e decostruzionista, dice che il secolarismo è il trionfo del cristianesimo,
quindi Cristo è lo specchio degli specchi: il dispositivo liberante occidentale
è pertanto cristiano (oppure, per non confessionalizzare il discorso, è mes-
sianico-escatologico). Maurice Sachot sostiene che quindi il cristianesimo
sarebbe l’impensato che ci pensa, ossia ciò che non viene tematizzato cultu-
ralmente, che ormai non è più studiato, ma che tuttavia ci pensa (in senso
quasi idealistico allora), nel senso che determina le categorie fondamentali
dell’Occidente e del mondo tutto; siamo cioè determinati da una logicità cri-
stiana. L’Occidente impara perciò da questa tradizione giudaico-cristiana
che il nuovo non è il ritorno del vecchio, piuttosto la reinvenzione totale del
vecchio; il valore è evidentemente totalmente eversivo.

4. La cristologia di Paolo
Nella Chiesa protocattolica è possibile individuare diverse cristologie:
 primitiva carismatica, apocalittico-rivelativa, secondo la quale Gesù rice-
ve la dynamis, ossia lo Spirito del Padre, quale impersonale dono carisma-
tico attraverso cui si manifesta la potenza operativa di Dio; dunque non è
contemplata la dimensione preesistente di Gesù. È in altri termini la cri-
stologia bassa dei sinottici (in Mc il dono dello Spirito si ha con il batte-
simo, mentre in Mt e Lc nel concepimento verginale). In alcuni punti so-
prattutto di Mc emerge un punto di vista adozionistico, eresia secondo cui
Cristo è solo un uomo adottato dal Padre, assunto da lui alla divinità;
 delle Pseudoclementine, attribuite a Clemente di Roma, discepolo di Pie-
tro e terzo vescovo di Roma. Sarebbe una cristologia adamitica, secondo
cui Gesù è l’ultimo profeta, l’Adamo edenico impeccabile, redivivo, che
riceve lo Spirito, l’olio messianico dall’albero della vita, il quale visita i
profeti per arrivare a Gesù (stessa linea di Maometto);
 giovannea, alta, per cui Gesù è interpretato come preesistente; Dio sareb-
be in due ipostasi o persone. Questo comporta l’innalzamento di Gesù dal
piano storico a quello protologico e ontologico, già trinitario;
 della corrente ipergiovannea, così convinta dell’esaltazione della divinità
di Cristo da mettere in ombra la sua dimensione naturale. Si apre così il
rischio dell’eresia docetista, secondo cui la natura umana di Cristo non
viene considerata, dunque la passione e la morte sono solo fittizie. Nella
Prima Lettera di Giovanni (1Gv), invece, si mette in evidenzia la concre-
tezza di Cristo, probabilmente proprio in chiave anti-docetista.
Secondo una tesi minoritaria, ma convincente, quella di Paolo non sarebbe
una cristologia alta, come quella giovannea, in cui si afferma la preesistenza

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

divina e creatrice di Cristo, poiché nell’interpretazione paolina tutto è pun-


tato sugli eventi finali ricapitolati in Cristo e lo stesso mondo della creazione
è svalutato in virtù della fine, secondo il dispositivo per cui il nuovo non è il
ritorno del vecchio, ma la sua reinvenzione totale. Tutte le formule su Cristo
come soggetto divino sono in qualche modo ambigue nella teologia paolina,
in quanto rimandano alla manifestazione di Dio Padre nel Figlio. Mentre Gv
dedica molto spazio a questa innovazione teologica, elaborata in riferimento
ai libri sapienziali, arrivando nel capitolo 8 ad attribuire il nome di Dio a
Gesù («prima che Abramo fosse, Io Sono»), in Paolo non è presente una tale
insistenza. L’unica eccezione sembra (apparentemente) essere il celebre inno
della Lettera ai Filippesi (Fil 2,5-11), dove viene proposta chiaramente la
preesistenza di Gesù (cfr. anche la Lettera ai Colossesi [Col] 1,15).
Nell’inno di Fil 2,5-11 si parla al v. 6 di Cristo che è di forma divina. Con
precisione, il termine morphé usato per “forma” viene tradotto spesso come
“natura” (applicando, in maniera confessionale, la dottrina giovannea della
preesistenza di Gesù, dalla forma divina a quella del servo, per dire dell’uma-
nità preesistente che passa a quella incarnata), ma sarebbe in realtà “aspetto”,
“condizione” (così come anche la “condizione di servo” è sempre morphé).
Riecheggia qui Is 52-53, da cui capiamo che non è in gioco una dimensione
ontologica, quanto più una valenza rivelativa: Gesù proprio per aver ricevuto
lo Spirito dal Padre possedeva una condizione divina, non appropriandosene
quindi, piuttosto assumendone l’aspetto (in tal senso condivide l’interpreta-
zione del battesimo come momento di teofania in cui Gesù assume la condi-
zione carismatica di Figlio carismatico). Mentre quindi il prologo giovanneo
articola la relazione tra Padre e Figlio quale unico interprete del Padre, Paolo
teorizza un rapporto che è solo rivelativo e carismatico.
Sempre al v. 6 di questo inno si considera che Gesù non fu geloso del suo
essere uguale a Dio, ma se Gesù fosse preesistente perché avrebbe dovuto
percepire la sua divinità come fonte di una possibile appropriazione? Da qui
si comprende che egli non si inorgoglisce non di una condizione a lui natu-
rale, piuttosto di un dono che gli viene fatto. In tal modo acquista vivacità la
strutturale opposizione tra Cristo e Adamo, entrambi beneficiari del dono
dell’immagine divina, tuttavia se Adamo si è inorgoglito e ha disobbedito,
Cristo si è sottomesso, non si è esaltato, anzi si è svuotato sulla croce per re-
cuperare poi la sua condizione divina dopo la morte (sganciata da Gv, que-
st’interpretazione paolina è una riflessione primordiale sulla sovranità di Ge-
sù). La chiave di lettura di Fil è quindi l’opposizione tra il primo Adamo e
l’ultimo Adamo, il quale annichilisce se stesso, si svuota (verbo keno), si u-
milia e accetta la morte. In questa cristologia neo-adamitica, cioè letta in con-
trapposizione con Adamo, l’introduzione della categoria greca non deforma
il dispositivo ebraico, piuttosto è la natura ebraica che cade in un cortocir-
cuito e si rende necessario l’innesto del greco per elaborare la divinità.

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

Altri testi anti-adamitici, come implicitamente lo è Fil 2, sono 1Cor 15,


Rom 5 e 2Cor 3-4. In 1Cor 15, come abbiamo osservato, viene svalutato A-
damo come immagine di Dio, in quanto sarebbe gloria decaduta, argilloso,
peccatore e mortale. In Rom 5, nel contrapporre Adamo e Cristo, Paolo so-
stiene che a causa di un solo uomo il peccato entrò nel mondo (questo sarà il
punto di inizio dell’escatologia negativa di Agostino, secondo la quale tutti
gli uomini, derivando da Adamo, sarebbero peccatori come lui, tuttavia il
peccato sarebbe in qualche modo necessario, poiché senza di esso non vi sa-
rebbe la Grazia. In Paolo, però, non è decisiva questa necessità del peccato).
Al v. 18 è spiegato che come uno condanna tutti, per azione di un altro tutti
possono essere giustificati: in Adamo siamo tutti peccatori, in Cristo abbia-
mo la Grazia e la possibilità della salvezza. Al v. 19 abbiamo nella coppia
obbedienza-disobbedienza una corrispondenza con Fil 2.
In 2Cor 3 si sottolinea che come la lettera uccide, così lo Spirito vivifica.
Qui il deuteroagonista è anzitutto Mosè, beneficiario della Legge: viene con-
trapposta la gloria effimera di Mosè sul Sinai con la gloria permanente di
Gesù che diventa appunto Gloria eterna di Dio, non più riflesso, ma struttura.
Come abbiamo considerato, assistiamo qui a un cambiamento di economia:
la Legge viene superata ed è lo Spirito che ha fatto risorgere Gesù e fa risor-
gere chi si battezza e si dedica alla fede (guardando Cristo i fedeli sono spec-
chio della sua Gloria e vengono trasformati nella stessa immagine). In 2Cor
4 viene esaltato Cristo quale eikon, immagine di Dio, e svalutato implicita-
mente Adamo, che nella tradizione ebraica è anch’egli immagine di Dio: così
come vivifica lo Spirito di Cristo, sul cui volto risplende la conoscenza della
gloria di Dio (probabile influenza sul prologo giovanneo), così uccide la Leg-
ge data ad Adamo e rivelata a Mosè (lo stesso Adamo è ucciso dal divieto di
non mangiare che suscita in lui il desiderio di trasgressione).
In Col 1,15-20 assistiamo a un innalzamento della cristologia quando si
parla di Cristo come immagine di Dio; ad ogni modo c’è da considerare che
quest’epistola non è probabilmente autentica di Paolo, del resto l’immagine
di Dio è sempre e solo escatologica nel corpus paolino, mentre in questa oc-
casione sarebbe primitiva e primordiale. Si parla di Gesù come primogenito
non solo escatologico, ma anche primogenito cosmologico, della creazione
(fatto simile alle creature che mettono in discussione l’assoluta perfezione
del Padre nei confronti del Figlio, quasi come in una posizione ariana).
In sintesi, per Paolo, quindi, prima Dio ha creato l’uomo imperfetto, sol-
tanto per poi dimostrare come poi possa esserci un uomo ulteriore. La dot-
trina dell’irruzione del dono deve per forza far prevalere il nuovo sul vecchio:
l’esaltazione del tempo escatologico comporta una svalutazione del prima.
Questo del resto è il problema del Gesù storico, che è inevitabile che con la
sua pretesa escatologica, carismatica e quindi messianica ciò che viene prima
è opaco. In tal senso Paolo deve rileggere Gen in qualche modo.

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

Ma se tutto è alla fine, Dio che ha fatto prima? Ha sbagliato tutto? Nel II
secolo abbiamo infatti lo gnosticismo che parla del Dio creatore e del Dio di
Cristo. Come si salva la coerenza di Dio, il fatto che debba essere responsa-
bile della creazione? La tradizione cattolica ha detto che Dio sin dall’inizio
ha dato una rivelazione parziale del suo progetto di salvezza, quindi gli uo-
mini già avevano una scintilla di bene, ma poi hanno peccato e Gesù infine
li ha risvegliati. Questo comporta un movimento chiave, cioè il fatto che il
Cristo escatologico di Paolo (Col) diventa anche il Cristo creatore; se Cristo
da soggetto escatologico diventa anche protologico e creatore, il dono del-
l’immagine è collocato di nuovo all’atto della creazione. In sintesi, a partire
dalla fine del I secolo e l’inizio del II secolo all’idea paolina del Cristo esca-
tologico datore di Spirito e quindi immagine celeste si sovrappone l’idea di
un Cristo divino creatore dell’uomo e datore della sua immagine a ogni crea-
tura (la donazione dell’immagine celeste è retroproiettata al momento della
creazione), ma in seguito al peccato di Adamo c’è bisogno dell’incarnazione
di Cristo perché l’immagine venga restaurata e quindi compiuta. Abbiamo
quindi quello che è un processo di retroproiezione del Cristo escatologico,
redentore, che dona lo Spirito in quello protologico, creatore, ontologico,
dunque dell’immagine carismatica nell’immagine protologica.

5. Il filo di un’eventuale continuità tra Gesù e Paolo


C’è uno scarto decisivo tra il movimento gesuano delle origini e il cristia-
nesimo che dipende dalla svolta paolina: da un movimento settario e cari-
smatico di pochi entusiasti seguaci di un profeta crocifisso si passa a un’altra
religione alternativa con prospettiva universalistica che concepisce la con-
versione delle genti come finalità decisiva della missione messianica (Gesù
si sente solo come un Messia ebraico, mentre per Paolo c’è l’innovazione del
mettere al centro della comunità dello Spirito la conversione delle genti). C’è
però da considerare anche una dimensione di continuità, un elemento nella
predicazione di Gesù che Paolo ha saputo intercettare e reinterpretare:
 l’arrivo del Regno imminente. Per Gesù la rivoluzione è interna a Israele,
quale riconfigurazione in chiave apocalittica, escatologica e messianica
della religione ebraica. Siamo al confine tra la dimensione storica e cele-
ste, come connessione tra il Regno escatologico e la resurrezione dei mor-
ti che abiteranno la terra (la novità apocalittica è il cielo aperto: non c’è
più divisione tra la perfezione divina e la fragilità umana). Questo spinge
a pensare a un Regno nient’affatto equiparabile agli altri messianismi, in
quanto avverrebbe già sulla terra. In 1Ts 4,13ss Paolo pensa anch’egli a
una fine del mondo, una seconda parusia imminente e l’arrivo del Regno
(di cui Gesù è il perno della rivoluzione escatologica), quando egli sarà

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

ancora vivo. Anche se poi in lui l’attesa si spiritualizzerà, egli abita espli-
citamente di abitazione celeste e pensa all’avvento del Regno divino co-
me vero e proprio passaggio dalla terra al cielo;
 lo Spirito principio eversivo delle strutture religiose tradizionali. La nuo-
va alleanza è nello Spirito, nel quale si costituisce il Regno, per cui le
strutture del tempo non sono rinnegate, ma riconfigurate completamente;
 il voler distruggere il Tempio per la pretesa di Gesù di essere l’uomo deci-
sivo di Dio. Per Paolo Gesù morto e risorto sostituisce lo Spirito alla Leg-
ge e il nuovo Tempio è la comunità dei credenti nello Spirito (il Tempio
non è stato ancora distrutto quando Paolo sta scrivendo);
 la centralità della resurrezione dei morti. C’è un passo sinottico (Mt 22,
23ss) in cui Gesù è provocato dai sadducei circa la resurrezione dei morti
(creduta dai farisei, gli esseni e probabilmente anche gli zeloti). Gesù ri-
sponde che sono in errore perché non conoscono le Scritture nella potenza
(la dynamis) di Dio, che fa la differenza: si risorge come angeli di Dio in
cielo («Alla risurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si
è come angeli nel cielo»). Qui sembra, ipotizzata da Gesù, qualcosa di a-
nalogo a Paolo: la resurrezione fa sì che l’umanità si “angelizzi”, ci sia
questo passaggio dalla terra al cielo, questa spiritualizzazione radicale
(saranno sempre i nostri corpi, ma non li useremo più sessualmente).
Ecco perché le prime comunità cominciano a dire che la castità sia una
virtù: se il mondo deve finire e il nostro destino antropologico è quello della
spiritualizzazione, quindi il sesso non serve più, perciò se ci rinuncio passo
a una natura angelizzata e “divinizzata” in qualche modo (nel senso che ri-
cevo l’intimità con Dio). Si tratta quindi di una modalità di anticipo nella di-
mensione escatologica angelizzata, come un distacco dal mondo in approssi-
mazione alla dimensione di Dio (per correre nel Regno bisogna dimenticare
le cose passate, tra cui propriamente l’esercizio della sessualità, entrando in
tal modo nella dimensione angelizzata). In 2Cor 4 riscontriamo delle tracce
di un pensiero apocalittico nell’accenno al “Dio di questo mondo”.
A partire dalle categorie apocalittiche assistiamo a un tendenziale duali-
smo antropologico: per la tradizione biblica l’uomo è carne (sarx, che non è
“corpo”, bensì tutto l’uomo), progressivamente però il cristianesimo sdop-
pia, cioè siamo corpo, ma la realtà carnale e concreta (compresa la dimensio-
ne e l’esercizio della sessualità) è solo un aspetto provvisorio della mia iden-
tità. Si introduce così la questione dell’anima, elemento non corporeo nel-
l’identità. L’uomo, chiamato a una nuova dimensione escatologica, vede una
antropologia più complicata: quella cristiana diventa molto analoga, fino a
corrisponderle, alla platonica (inizialmente non presente nei Vangeli).

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

4
L’ORIGINE DELL’ERESIA E
LA RICERCA DELL’ORTODOSSIA

1. La comunità giovannea come laboratorio per l’ortodossia


La comunità giovannea, con la novità fondamentale che Gesù è Dio, di-
venta presto un laboratorio nel quale si inizia a definire efficacemente l’orto-
dossia protocristiana, rispetto alla quale chi si allontana cade nell’eresia.
Il primo testo di Giovanni nel NT è il quarto Vangelo, che rappresenta una
autentica novità rispetto ai sinottici, in quanto: manca il concepimento ver-
ginale di Gesù; è taciuto il suo battesimo (per quanto abbia un ruolo chiave
il Battista); si annuncia la sua divinità preesistente; si sostiene l’effusione
dello Spirito; c’è una probabile dipendenza da Mc, quale sua riscrittura che
polemizza e innalza; si ha una struttura apocalittica, mostrata nella contrap-
posizione della luce con le tenebre (poi identificate con i giudei che lo por-
tano a morte); è assente l’istituzione dell’Eucarestia (per quanto ci sia un ri-
ferimento alla tradizione eucaristica in tutto il testo, giacché Gesù è da subito
descritto come l’agnello di Dio che nutre); è presentata una passione reali-
stica e un’interpretazione della crocifissione come esaltazione, innalzamento
verso il Padre. Abbiamo tracce di un pensiero apocalittico quando si parla
del Principe di questo mondo e del governo degli angeli decaduti.
Oltre il Vangelo Giovanni scrive anche tre lettere, redatte da un anziano
che polemizza con gli elementi più giovani della comunità giovannea. Viene
trattato il tema del docetismo e a tal proposito si individuano due linee inter-
pretative, l’una che individua come anticristo chi non riconosce la pienezza
dell’umanità di Gesù (la forma umana sarebbe soltanto un’apparenza) e insi-
ste solo sulla dimensione divina, l’altra, presentata da Reymond E. Brown,
secondo cui Giovanni polemizzerebbe contro chi non connette la salvezza
con la sofferenza e il sacrificarsi dell’uomo Gesù, per spostare soltanto sul
Logos l’elemento salvifico (questo spiegherebbe perché effettivamente non
c’è la trattazione dell’istituzione dell’Eucarestia nell’ultima cena). Fonda-
mentale la 1Gv che insiste sul Logos in carne e ossa, riecheggiando brani di
Gv, che infatti presupporrebbe (l’insistenza sul corpo perché si sta iniziando
a formare un’eresia protocristiana che ne nega la funzione salvifica). Ele-
menti di novità in questo testo sono: Gesù come il Logos divino preesistente

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

(è qualcosa di eretico, nel senso di innovativo), quale manifestazione di Dio


accanto al Padre, tuttavia non è Dio creatore; la storicità del corpo e l’identità
personale di Gesù, nel senso che egli è sarx, persona in carne e ossa.
Altro scritto di Giovanni è l’Ap, di rottura radicale con il mondo, in quanto
tratta delle visioni della vera Chiesa escatologica. Al capitolo 13 descrive la
visione della donna che soffre per le doglie del parto e che genera un Messia,
contornata da simboli, come la corona di dodici stelle e la luna sotto i piedi:
negli apocrifi quella luna corrisponde al ciclo mestruale, dunque rappresenta
l’imperfezione femminile, per cui calpestarla significherebbe schiacciare u-
na femminilità perversa. Nella tradizione cristiana quella donna è la Madon-
na che generà Gesù e Israele, donna di Dio, che genera il Messia, il quale in
un dualismo apocalittico sarebbe opposto a un messianismo demoniaco giac-
ché la donna è assalita dal diavolo al momento del parto. Nel capitolo 17 ab-
biamo la visione di una prostituta di Babilonia che beve il sangue dei martiri
di Cristo, a simboleggiare una dimensione di sessualizzazione (questa prosti-
tuta è vista in un rapporto dialettico con la donna del capitolo 13, prima eletta
e ora decaduta, rinunciando al ruolo di generazione del Messia), e la visione
di una bestia, Roma. Nel capitolo 21 c’è la visione della Sposa dell’Agnello,
chiamata la Gerusalemme celeste, che discende dal cielo; anche lei interpre-
tata come lo stesso personaggio femminile, prima madre, poi prostituta e in-
fine sposa, cioè l’umanità in tre momenti diversi che culminano con la reden-
zione (secondo uno studio sarebbe Israele nella sua storia, in riferimento al-
l’abbigliamento tipico del sommo sacerdote). Il Figlio a cavallo con la spada
in bocca sarebbe infine il Logos, caratterizzante Gv e 1Gv.

2. La nascita dell’eresia protocristiana


C’è una visione storiografica consolidata che posiziona la nascita del con-
cetto di eresia in un certo momento dello sviluppo protocristiano e poi c’è la
tesi di Letteri che sposta il problema, ponendolo all’origine, quando già Gesù
predica e si distacca così dalla tradizione maggioritaria. In senso esistenziale
si differenzia chiedendo una scelta, la scelta per il Regno. L’origine dell’i-
dentità cristiana dipende in effetti dalla decisione di rottura di Gesù nella tra-
dizione ebraica, propriamente da una scelta (dal greco aìresis) apocalittica,
a proposito della pretesa messianica, in altri termini producendo una crisi (da
krisis, appunto “giudizio”, “scelta”) già infraebraica, iniziata dal Battista e
continuata in seguito dai suoi discepoli, diventando infine ortodossia. Poiché
però il giudaismo non si converte, con la svolta paolina abbiamo infatti l’a-
pertura a un’economia universalistica. Ad ogni modo ciò che è significativo
è che il passaggio all’ortodossia e alla definizione di un nuovo assetto avvie-
ne attraverso l’eresia, una crisi di rottura, cioè la pretesa divisiva con cui na-
sce il cristianesimo, l’atteggiamento eretico originario.

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

Questo segnala che il termine “eresia” sia piuttosto ambiguo, come abbia-
mo visto “apocrifo”: in se stesso è neutro e nonostante può semmai avere u-
na connotazione positiva (in riferimento alla riconfigurazione di un’identità
religiosa nuova e alternativa all’ebraismo; si pensi all’accusa rivolta a Paolo
in At 24), solo dopo è diventato negativo. Proprio in questo senso il problema
dell’eresia diventa ossessivo a partire dal II secolo, quando diventano forti le
resistenze ai nuovi assetti identitari gesuani protocristiani. In una prima fase
della storia della comunità cristiana nascente è evidentemente centrale l’at-
tesa imminente del Regno, però quando in una seconda fase questa realtà tar-
da ad arrivare la fiammata carismatica ha bisogno di una struttura per man-
tenersi, un potere che garantisce la tenuta identitaria. In altri termini è neces-
saria un’ortodossia perché l’identità non venga divisa o contraddetta, piutto-
sto si traduca in un annuncio credibile e universalmente efficace. A compli-
care le cose, in realtà, occorrerebbe osservare che già Flavio Giuseppe divide
il mondo giudaico in sette aeresis, identificando un principio di eresia già
nel giudaismo del secondo Tempio, dunque radicando il principio dell’eresia
nell’ortodossia ebraica. In tale retrodatazione del principio di eresia/ortodos-
sia è fondamentale il testo della 1Gv che condanna anticristi gli avversari,
quelli che reputano apparente la natura umana di Gesù: la crisi interna della
comunità giovannea genera la demonizzazione dell’avversario.
Declinando la fede in Gesù come soggetto carismatico che annuncia l’av-
vento di un Regno che però non viene, piuttosto parlando di un Gesù che è
Dio, potere assoluto, la cristologia giovannea si configura presto come un la-
boratorio di ortodossia protocristiana, mentre le cristologie basse di Mc, Lc
e Mt (e in parte anche Paolo, se si considerano solo le sue lettere autentiche)
sono considerate in qualche modo troppo ebraiche e conservative, non garan-
tendo la diffusione del messaggio in ambito greco, dunque minacciando la
credibilità stessa della pretesa gesuana. L’interpretazione giovannea del ri-
tardo del Regno è più efficace: l’assenza del Gesù atteso e la mancanza asto-
rica viene sostituita dall’affermazione altissima, quasi folle, che la sospen-
sione è colmata con la presenza assoluta del divino creatore. In questo modo
il cristianesimo si presenta vincente poiché duraturo, capace di tenere bene
l’urto della storia e il ritardo dell’avvento del Regno.
Affermando la divinità del crocifisso da Israele, quale Dio creatore e pree-
sistente, ci si inizia così a muovere verso una direzione diteistica in ambito
pagano, comportando però una rottura definitiva con Israele e il suo monotei-
smo assoluto. Man mano, perciò, tutti gli altri fiumi cristologici oltre quello
giovanneo si essiccano; oltre a Giovanni resiste solo Paolo, in quanto inglo-
bato dalla teologia giovannea (per cui a quella paolina viene attribuita la qua-
lifica di cristologia alta). Tuttavia nella direzione dell’affermazione giovan-
nea del rapporto preesistente tra Padre e Figlio si sviluppa il docetismo, che
considera la natura umana di Cristo non vera (da docheo, cioè “sembrare”),

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

e che porta in seguito all’eresia dualistica dello gnosticismo. Intanto si smor-


za l’ebionismo (la setta che nega la divinità e la nascita verginale di Cristo,
predicando l’osservanza della Legge giudaica), da cui è derivato il monar-
chianismo (da “unico principio”, cioè il movimento che sottolinea l’unità as-
soluta di Dio) di tipo adozionista. Anche lo gnosticismo perderà, poiché si
allontanerà troppo dalla memoria storica di Gesù: sarà troppo greco e troppo
poco ebraico, rinunciando alle categorie originarie. L’attenzione che si ha
cura di non perdere verso il piano storico permette allora di recuperare i si-
nottici, che vanno a caratterizzare la figura del Gesù storico. In questa linea
si aggiunge Gv 21, dove è esaltato Pietro: si tratta di una mossa politica, il
recupero dell’identità protocristiana pietrina di cristologia bassa.
Una delle prime scissioni con cui deve confrontarsi la ricerca di un’orto-
dossia è anche il montanismo. Si tratta di un movimento eretico, di cui parla
Eusebio di Cesarea nel IV libro della sua Historia Ecclesiastica, sviluppato
intorno al 156 in Asia Minore, con forti elementi femminili di rottura con il
contesto dominante, intorno alla figura di Montano, il quale sostiene di es-
sere lo strumento dello Spirito che suona, dunque il banditore di una nuova
profezia. Questo movimento carismatico è fortemente ascetico (si pratica
l’abbandono di ricchezze e delle famiglie) e sostiene un’escatologia immi-
nente, cioè aspettano l’incombente discesa della Gerusalemme celeste. È in-
teressante come nella metà del II secolo nasca un movimento fondamentali-
sta che recupera degli elementi eretici di rottura non più dell’identità ebrai-
ca, ma di quella protocristiana; si vuole uscire dall’identità che si sta costru-
endo, vista come mondanizzata. Tuttavia per la sua collocazione nel deserto
il movimento si spegne. Diventa montanista anche Tertulliano, eccezione
marginale, genio isolato che non avrebbe inciso se le sue opere non fossero
state mediate; egli infatti è una figura decisiva per l’identità latina.
In breve, nella ricerca di un’ortodossia vince l’equilibrio di sintesi dialet-
tica tra diverse esigenze: identità ebraica e suo superamento; corpo di Israele
e sua universalizzazione greca. Propriamente quest’ortodossia è considerata
secondo Adolf von Arnack come una “ellenizzazione moderata”: si parla di
“ellenizzazione” a motivo del Logos giovanneo, tuttavia è “moderata” in
quanto si mantiene alla radice ebraica, alla tradizione apocalittica contami-
nata. Con il ritardo della parusia in sostituzione frenesia escatologica, l’attesa
imminente della fine dei tempi, si hanno posizioni diverse tra le comunità di
fine I e inizio II secolo: da un lato gli ambienti semitici restano profonda-
mente legati alla tradizione ebraica, il cui testo rappresentativo è la Lettera
di Giacomo (Giac), molto lontana dalla teologia paolina (in realtà non la
nega, piuttosto in Giac 2,14-26 si accostano le opere all’imprescindibilità
della fede, tanto che per Lutero questo sarà un problema e vorrebbe togliere
lo scritto dal canone, in quanto poi la tradizione cattolica andrà nella direzio-
ne di Giac); da un altro lato si assiste all’affermazione del paolinismo.

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

Con esattezza, la radicalità del messaggio di Paolo, a motivo dell’apertura


universale alle genti e del superamento della Legge da parte della Grazia, si
mostra presto come dirompente e vincente, tuttavia crea dei problemi. Ad
esempio nelle Pseudoclementine si va contro Paolo, considerato il responsa-
bile dell’attacco a Giacomo, essendo il nemico che dissacra la Legge e quindi
la storia di Israele. In effetti alla traiettoria giudaizzante, quella di Giacomo,
che è sostanzialmente quella continuativa, fa da alternativa quella imperiale,
romana, ellenizzante, che risponde all’invito di Paolo. Gli iniziali intellettuali
cristiani che vengono in contatto con l’impulso paolino, apologisti prima e
alessandrini poi, ricategorizzano il paolinismo secondo principi platonici, so-
stenendo che la Grazia, il novum paolino, si deve intendere come disvela-
mento di un Essere ordinato che crea il mondo. La profondità ebraica della
rivelazione apocalittica è connessa con la tradizione greca dell’ordine eterno:
il divino come movimento relazionale di invio del Figlio, dunque il dinami-
smo apocalittico ebraico è inserito nell’essere greco, che è statico.

3. Giustino, il primo apologista


A Roma, oggetto strategico della missione di Paolo, si assiste a una nor-
malizzazione della sua dottrina a opera degli apologisti, ossia coloro che me-
diano il messaggio di salvezza con la paideia pagana, il corso di studi classici
e in senso ampio la cultura classica, oltre che il genere letterario di chi difen-
de una tesi davanti a un accusatore. Il II secolo è pieno di figure di intellettua-
li con formazione filosofica, classica, che difendono un culto ch’è appena
tollerato o perseguitato in senso stretto. Queste apologie cristiane hanno un
tratto protettico, di invito alla conversione (propriamente di difesa e di invito
alla conversione). Il primo apologista, filosofo in senso stretto, è Giustino
(100-163/168). È un provinciale, viene dalla Siria di Palestina, arriva a Roma
e apre una scuola di filosofia, una scuola cristiana, in cui opera fino al mar-
tirio. Di lui abbiamo solo tre opere: il Dialogo con Trifone, un giudeo (dun-
que contiene atti antigiudei), e le due Apologie, che rappresentano nel cristia-
nesimo antico una grande espressione di cultura razionale e morale. Queste
ultime sono rivolte all’imperatore; consideriamo perciò che trattandosi del
tentativo di mediazione con il livello più alto dello stato romano, vengono
smussati alcuni aspetti e il tono punta a conciliare le compatibilità.
Per Giustino il cristianesimo è la vera filosofia che compie le antiche pro-
fezie, non solo quelle di Israele, bensì anche quelle contenute in frammenti
ed espresse in modo del tutto imparziale che ha preannunciato la sapienza
pagana. Questo perché anche se ci sono vari personaggi che recitano diverse
parti, solo uno è l’attore, il Logos paolino che semina nel cosmo semi di veri-
tà; per cui ogni uomo partecipa del Logos in quanto essere dotato di ragione.
Dunque la dottrina paolina viene ontologizzata (si parla infatti di dispositivo

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

ontologizzante), in quanto non c’è più un dono che arriva alla fine, in Cristo,
ma un dono originario che il Logos fa seminando questi semi di verità. Pro-
priamente egli usa l’espressione Logos spermatikos (immagine stoica): in-
terpreta Cristo come il Logos spermatico, che ha disseminato nelle sue crea-
ture delle particelle di intelligenza. In questo senso l’uomo è a immagine di
Dio, perché ogni uomo creato dal Logos (presupposto giovanneo) è animato
da tali particelle, semi, scintille di intelligenza divina (che è l’essere a imma-
gine di Dio, a partire dal battesimo, in cui riceviamo appunto lo Spirito). Una
tale partecipazione è più chiara nei profeti dell’AT e più oscura nei filosofi,
come Socrate. Quest’accostamento a un pensiero potentissimo e complesso
come quello ellenistico permette al cristianesimo nascente di avere una forza
culturale travolgente. Quest’intuizione proposta da Giustino verrà successi-
vamente sviluppata da filosofi più sofisticati, come gli alessandrini.
Inoltre Giustino non è soltanto il filosofo del Logos, ma è anche il primo
eresiologo, che crea di fatto una teoria dell’eresia, cioè dell’errore. È nella
sua genealogia dell’errore che sappiamo di Marcione, oltre che ai polemisti
Ireneo di Lione e Tertulliano. Dunque a Roma abbiamo il polo di Giustino,
quindi la “Grande Chiesa” (chiamata così da Celso intorno al 170), ossia la
prima manifestazione storica di quella che poi sarà la Chiesa cattolica, quale
organizzazione gerarchica ed esegetica, che determina l’ortodossia per me-
diazione e compromesso discernendo l’eresia, e poi il polo di Marcione.

4. Il marcionismo
Il problema dei primi decenni del II secolo è la sistematizzazione di un ca-
none. Il primo, che testimoniando la verità della natura profondamente strut-
turale dell’eresia cristiana è perciò un canone eretico, sarebbe quello di Mar-
cione. Marcione è il primo a stabilire una lista di scritti autorevoli, che ci di-
cono la vera idea di Gesù. Tuttavia per esserci un canone deve esserci autori-
tà, per questo non nasce subito (50-100, datazione tradizionale, anche se ci
sono datazioni molto più basse che hanno in Marcione il punto di tenuta).
Marcione nasce in Asia minore da una famiglia ricca, fa l’armatore e ha
successo, così quando giunge a Roma dona nella prima metà del II secolo la
somma clamorosa di duecentomila sesterzi alla comunità cristiana, tuttavia
gli viene ridata ed è espulso, probabilmente nel 144. Questo fatto è del tutto
inedito, ma l’essere espulso rivela un pensiero totalmente incompatibile con
quello della comunità romana. Ad ogni modo nella I Apologia (150-153)
Giustino rivela che la chiesa marcionita è diffusa in tutto il globo: è senz’al-
tro di un’esagerazione politica, che dice comunque il successo della struttura
ecclesiastica parallela alla Grande Chiesa, che le fa cioè concorrenza e che
sopravvive per secoli. Tuttavia di Marcione non abbiamo una riga, se non
quanto dicono gli avversari, ossia Giustino, Ireneo di Lione e Tertulliano,

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

per cui questa dottrina in molti tratti ci sfugge. Sicuramente si tratta di una
rottura innovativa con quanto c’era, presentata attraverso dei testi.
Se dobbiamo identificare i caposaldi di questa proposta dottrinaria possia-
mo seguire Ireno di Lione, il quale ce la espone attraverso tre principi:
 il rigetto del Dio dell’AT, dei suoi comandamenti e dei suoi profeti;
 la credenza di un Padre buono che fa irruzione nella storia tramite il Fi-
glio, cioè Cristo, il quale avrebbe due scopi, ossia salvare soltanto coloro
che avranno fede in lui e abolire le opere del Dio creatore;
 la mutilazione di Lc e delle lettere paoline (per Ireneo Marcione avrebbe
ripulito tutto quello che è deriva rispetto alla sua teoria).
Di questa mutilazione ce ne parla Tertulliano, il quale ce ne dà una rico-
struzione sistematica in cinque libri intitolati proprio Adversus Marcionem.
L’eretico avrebbe rimosso la parte della nascita di Gesù e inizia con Cafarnao
ed eliminato una serie di parabole (come quella del figlio prodigo e quella
dei vignaioli omicidi), nell’intenzione di far fuori ogni connessione tra Cristo
e le sue possibili prefigurazioni nei profeti, dunque gli schemi tipologici (nei
profeti si prefigura il Cristo; l’obiettivo è eliminare ogni vicinanza tra Gesù
e il Dio dell’AT). In altri termini il canone sarebbe composto solo da Lc puri-
ficato, che è il Vangelo paolino, e da dieci lettere di Paolo, cioè quelle auten-
tiche e quella agli Efesini (Ef), senza le pastorali (in quanto non autentiche e
soprattutto perché, secondo il fiuto filologico di Marcione, sarebbero il primo
aggiustamento paolino alle esigenze di una cultura ecclesiastica).
Del resto Marcione è esponente di un paolinismo radicale: mentre Paolo è
un ebreo monoteista, come tutta la tradizione delle origini cristiane, quello
marcionita esaspera il dualismo economico retroproiettandolo a livello teo-
logico, nell’idea che non si può accettare il nuovo se si rifà sempre al vecchio
(Paolo in realtà è molto più complesso di questa riduzione). Con esattezza,
in questa prospettiva la Legge è espressione di un Dio che non è quello di
Gesù, mentre il vero Dio è quello della Grazia. In tal senso la salvezza con-
siste nel possesso della conoscenza del Dio buono e nel rifiuto del Demiurgo:
il Dio buono si rivelò in Gesù e comparve come uomo in Giudea; saperlo, e
divenire completamente liberi dalla favola del creatore del mondo o Dio
dell’AT, è il fine ultimo a cui tende ogni processo soteriologico. Possiamo
considerare che Marcione è una di quelle strade che avrebbe potuto prendere
il cristianesimo se avesse proseguito con l’ellenizzazione, buttando al mare
l’AT (d’altra parte Paolo rappresenta un problema per la comunità romana),
tuttavia la comunità cristiana resta sempre intimamente giudaica.
Di fronte allo shock di Marcione si capisce che bisogna creare il canone:
lo farà Ireneo nel 180 circa. Tuttavia alcune teorie storiografiche recenti so-
stengono che la vicenda si sia svolta al contrario: agli inizi del II secolo il

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Vangelo di Marcione sarebbe la prima stesura e poi gli altri Vangeli verreb-
bero in risposta stesi da altre tradizioni. Questa teoria, che sposta evidente-
mente in avanti la datazione dei Vangeli, ha vari gradi di radicalità.
L’unico testo che dovrebbe aver scritto Marcione sono le Antitesi, ossia
delle contrapposizioni di un verso dell’AT e il NT, dunque da un lato la legge
del taglione e dall’altro l’invito a porgere l’altra guancia, da una parte Mosè
che ordina di distruggere e dall’altra Gesù che dice di amare… Secondo
molti in quest’opera dialettica non c’era nemmeno il commento di Marcione,
bensì solo un accostamento scritturale. L’obiettivo è quello di mostrare che
Legge e Grazia sono contrapposte, perché il Dio creatore non è quello di Ge-
sù; questi infatti non ha un vero corpo (Marcione è un doceta) perché non
può assumere un corpo creato da un altro Dio. Del resto è il banditore di un
messaggio ignoto e inaudito di Grazia (caratteristiche paoline estremizzate),
il rivelatore spirituale (non consustanziale) di un Dio sommo, buono, stranie-
ro al mondo, che ha come scopo liberare l’uomo dal Dio creatore, il quale
pratica una giustizia distributiva, dà a ciascuno secondo il merito.
A proposito del luogo teologico della discesa di Gesù agli inferi, che ri-
sponde al problema di chi è morto prima della rivelazione salvifica, Mar-
cione ha una variante meravigliosa: Gesù sarebbe accolto solo dagli ultimi, i
disperati, i perseguitati, i sodomiti, in pratica tutti coloro non sarebbero me-
ritevoli di alcuna salvezza, ma che sono in grado di aprirsi credenti alla novi-
tà del Dio sommo che arriva come un ladro di notte e ruba uomini non suoi,
ma del Dio creatore, per farli beneficiari della vera bontà, quella che si effon-
de volontaria e libera verso gli estranei (mentre chi non crede concepisce il
messaggio di libertà come una tentazione demiurgica). Il fatto che si parli di
Dio come ladro restituisce il carattere anarchico, eversivo, destabilizzante,
totalmente estraniante del dono (la Grazia elegge i fuorilegge è il messaggio
apocalittico nel suo grado ultimo e paradossale). Il marcionismo quando con-
cepisce la salvezza come buona novella del Dio straniero intende il senso
dell’esistenza come folgorazione che irrompe nel mondo, in una prigione o-
scura e dolorosa. La modalità d’azione è la ferità di amore, che dischiude la
mia identità; l’amore è qualcosa che destabilizza, ruba sicurezza.
Il marcionismo, ad ogni modo, lascia in sospeso alcune questioni, come il
mito generativo del dualismo divino: si predicano direttamente i due livelli
del divino che a un certo punto entrano in relazione con la venuta docetistica
di Cristo che libera le creature (più emarginate) del Dio creatore, non si spie-
gando poi le modalità di partecipazione alla condizione ontologica superiore.

5. Lo gnosticismo
L’eresia dello gnosticismo, che in realtà non ha mai posseduto un nucleo
stabile di dottrine, si sviluppa all’inizio del II secolo, in un momento storico

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

in cui le comunità cristiane devono fronteggiare il ritardo della parusia. I si-


stemi gnostici non fanno perdere l’attesa escatologica (in quanto già cono-
scono la gnosi), piuttosto la riconfigurano: la distruzione del mondo non è
più intesa come un cataclisma escatologico, ma alla maniera di una rottura
con il mondo, anzitutto culturale e psicologica. La fine del mondo è aspettata
dallo gnostico, tuttavia diventa una questione secondaria, in quanto il mondo
è già distrutto dentro di sé (i protocattolici, invece, anticipano la fine del
mondo asceticamente). Lo gnosticismo propone del resto un disprezzo e un
rifiuto radicale del mondo e del potere che governa il mondo, ereditato dal-
l’apocalittica, che ad ogni modo nella tradizione protocattolica è attenuato,
in quanto il mondo pur essendo inferiore è comunque buono (resta tuttavia
una comunanza tra quest’eresia e il protocristianesimo).
Al tempo stesso quello gnostico è un cristianesimo colto e raffinato, che
elabora al suo interno tradizioni filosofiche e diversi elementi misterici (si
produce così un cortocircuito tra cultura e apocalittica). In tale contesto si fa-
vorisce una platonizzazione del cristianesimo; questa riconfigurazione in re-
altà attiene tanto allo gnosticismo quanto al protocristianesimo, se pensiamo
a Giustino ad esempio o al fatto che i capi delle Chiese leggono Platone. Ab-
biamo inoltre un’ontologizzazione di Paolo. Con esattezza, in Paolo non c’è
un’ontologia, nel senso che l’immortalizzare non è un dato naturale, ma un
dono dello Spirito: il nuovo è il sovrannaturale a cui non corrisponde una
struttura dell’essere se non come ricreazione donativa di una nuova dimen-
sione (quando divento uomo celeste non ritorno a una dimensione preceden-
te, bensì accedo in quella inedita dell’intimità eterna con Dio). I sistemi gno-
stici tuttavia contemplano il dualismo paolino insieme a quello ontologico:
il nuovo è identificato retroproiettivamente col più profondo, l’originario,
così la novità rivelativa serve a capire la dimensione originaria.
Le prime fonti dello gnosticismo sono costituite dagli eresiologi, impor-
tanti esponenti della Grande Chiesa che contestano quest’eresia e trasmetto-
no ai fedeli delle dottrine: Giustino, Ireneo, Tertulliano (che si batte in parti-
colare contro i valentiniani), Clemente di Alessandria (da cui abbiamo fram-
menti di Valentino e di Basilide), Origene, Epifanio (grazie a cui conservia-
mo l’Epistola a Flora) e lo Pseudoippolito. Altra fonte sono i codici di Nag
Hammadi, un insieme di testi gnostici scritti in copto, tradotti dall’arabo egi-
ziano, e rinvenuti in Egitto nei pressi di Nag Hammadi, tra i quali i Vangeli
apocrifi di Tommaso, Filippo, di Verità (Valentino), egiziano, Giuda e Gio-
vanni (già noto in tre varianti); dietro Nag Hammadi ci sarebbe una comunità
manichea, nata nel III secolo e caratterizzata da forti elementi gnostici.
Lo gnosticismo, così come il marcionismo, è un dualismo teologico ereti-
co tra un Dio rivelatore trascendente, rivelato propriamente da Cristo nel NT,
e un Dio creatore inferiore, rivelato invece dalla Legge. Questo sistema di
dottrine in tal senso è un antigiudaismo metafisico, secondo il quale il canone

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

è ridotto oltre a essere in fieri, in quanto la rivelazione di Cristo sarebbe anco-


ra aperta e ispirerebbe i testi gnostici, apocrifi, inaccessibili al cristiano co-
mune. Elemento chiave dei sistemi gnostici è la passione di Cristo, che è l’in-
timo segreto del Dio rivelato: se in Gesù si rivela Dio che muore e che soffre,
allora il segreto di Dio è sofferenza e morte (Friedrich Schelling sosterrà che
pensare davvero alla passione di Dio significa infatti intenderla nell’eternità
di Dio stesso e non solo nella perifericità di un evento storico). Parliamo a
tal proposito di una ontologizzazione, una protologizzazione dell’escatolo-
gia, nel senso che il meccanismo gnostico è un meccanismo di retroproie-
zione, propriamente di “esemplarismo inverso”: il vangelo storico di Gesù
diventa l’exemplum che viene interpretato invertito, quale imitazione storica
del segreto di Dio, appunto nella dimensione protologica.
Secondo la cosmogonia gnostica all’inizio c’era la Profondità, la Pienezza
dell’Essere, il Primo Padre, il Dio sconosciuto, insondabile e impersonale,
dunque spiritualità pura. Da questa fonte emanarono un certo numero di puri
esseri di spirito, gli Eoni (nelle diverse dottrine gnostiche ebbero nomi di-
versi), che appartengono al mondo puramente ideale, noumenale, inintelligi-
bile e insieme con la fonte che li ha emanati formano il Pleroma, cioè la pie-
nezza, il Regno divino a cui gli eletti sono destinati a tornare. La transizione
dall’immateriale al materiale, dal noumenale al fenomenale è provocata da
un difetto, una passione, un peccato in uno degli Eoni. In sintonia con idee
misteriche e orfiche, lo gnosticismo concepisce la creazione del mondo alla
luce di un elemento di peccato, caduta e disseminazione del divino nell’ex-
tra-divino. Secondo molti gnostici all’origine della creazione ci sarebbe il
peccato e la caduta dell’Eone Saggezza, il principio femminile supremo So-
phia, che sembra rappresentare, la grande prostituta, una volta dea verginale,
che appunto pecca e cade dalla purezza originale e a causa di tutto ciò è l’o-
riginatrice di questo mondo materiale e peccaminoso.
Il nome Sophia richiama il Libro dei Proverbi (Prov 8), in cui con questo
termine è definito appunto l’architetto della creazione. Nel sistema di Valen-
tino Sophia è la più giovane dei ventotto Eoni e osservando la loro moltitu-
dine e bramando il potere di generarli, tornò nella profondità del Padre, dove
concepì una passione per lui, o, con il pretesto dell’amore, cercò di conoscere
l’Inconoscibile e di comprendere la sua grandezza, tentando addirittura di e-
mularlo, ma finendo per produrre solamente un aborto, una sostanza amorfa;
per questo fu espulsa dal Pleroma. Significativa è la metafora erotica nella
gnosi, tanto che per i valentiniani il sacramento supremo sarebbe la camera
nuziale (tra l’altro ai maestri gnostici fu rivolta l’accusa di iniziare le proprie
allieve per motivi sessuali). Tale metafora è decisiva anche per il platonismo,
a proposito del desiderio erotico di unirsi con il bello per generare il bello
(cfr. Simposio). In molti sistemi gnostici si distingue inoltre un’“alta Sag-
gezza” e una “bassa Saggezza”, madre del Demiurgo, che cerca di imitarla

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nell’atto della creazione (ad ogni modo nelle più vecchie speculazioni l’esi-
stenza della materia veniva presupposta tacitamente come eterna, insieme al
Pleroma). Il Demiurgo sarebbe caratterizzato da un delirio di esclusività; si
tratta in effetti di un’affermazione monoteistica degradata. Per gli gnostici il
divino è d’altro canto pensato in modalità dinamica e relazionale e proprio
in tal senso gli gnostici sono in qualche modo i primi teologi trinitari.
Hans Jonas distingue due diversi tipi di dualismo:
 iranico o di origine orientale, che sarebbe assoluto, cioè non derivato, e
si richiamerebbe quindi al marcionismo, senza alcuna descrizione della
generazione del Dio inferiore da quello superiore, piuttosto indicando una
preesistenza (il manicheismo del III secolo recupera questi elementi);
 sirio-egiziano, dunque la variante valentiniana, di cui possiamo citare, ol-
tre Valentino, Tolomeo, autore dell’Epistola a Flora, ed Eracleone, primo
autore noto di un commento a Gv trasmesso frammentariamente e criti-
cato da Origene (questa notizia è interessante, in quanto ci fa compren-
dere come Gv fosse inizialmente considerato patrimonio gnostico, tanto
che a Roma si pensava addirittura fondativo di tradizioni eretiche).
La soteriologia gnostica non è soltanto redenzione individuale di ogni ani-
ma umana, ma è un processo cosmico, cioè il ritorno di tutte le cose a quello
che erano prima che il difetto nella sfera degli Eoni portasse la materia a esi-
stere e imprigionasse parte della Luce Divina nella maligna materia. Il pro-
cesso della salvezza consiste proprio in questa liberazione delle scintille di
luce. Per Basilide, la generazione di Eoni imprigionata nella materia è la co-
siddetta “terza Filiazione”, per la cui salvezza Gesù venne al mondo. In Va-
lentino il processo è invece straordinariamente elaborato: quando questo
mondo nacque da Sophia gli Eoni Nous e Aletheia produssero dietro coman-
do del Padre due nuovi Eoni, Cristo e lo Spirito Santo (in alcuni sistemi sono
identificati), i quali riportarono l’ordine nel Pleroma, e, di conseguenza, tutti
gli Eoni produssero insieme un nuovo Eone, Gesù Salvatore, che offrirono
al Padre. Ad ogni modo Cristo ebbe pietà della sostanza abortiva nata da So-
phia e gli dette essenza e forma. L’Eone Gesù Salvatore, invece, venne invia-
to come secondo Salvatore e, attraverso il battesimo, si unì all’uomo Gesù,
figlio di Maria (in alcune dottrine Cristo/Spirito è Gesù Salvatore; nei diversi
sistemi inoltre il Salvatore è figlio, fratello o sposo di Sophia).
L’uomo, creatura del Demiurgo, consiste in un miscuglio di anima, corpo,
e spirito (è evidente il richiamo all’antropologia paolina). Lo gnosticismo di
Valentino, pertanto, contempla tre diverse categorie di uomini:
 gli pneumatici o spirituali, coloro che possedendo lo Spirito divino e quin-
di la conoscenza (o gnosi), sono predestinati alla salvezza;

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

 gli psichici, uomini dotati di anima razionale e in grado di esercitare il li-


bero arbitrio scegliendo tra il bene e il male. Costoro credono nel Demiur-
go, ma ignorano l’esistenza di un mondo spirituale superiore a lui;
 gli ilici (da hyle, “terra”) o coici (da chora, “materia”), uomini materiali
destinati alla dannazione, poiché non esiste alcuna risurrezione del corpo.
Secondo l’escatologia gnostica valentiniana si salvano solo gli pneumatici
(e gli psichici che si convertono, mentre gli ilici saranno annientati), salendo
nel cielo di Sophia con il Demiurgo che si convertirà. Al banchetto nuziale
nel Pleroma abbandoneranno fuori il rivestimento psichico e fuori rimarrà
anche il Demiurgo, non avendo scintilla divina. Lo gnostico quindi già vive
nella fine, conosce lo Spirito, tuttavia c’è un’escatologia in quanto si attende
la separazione dall’elemento corporeo. Gli gnostici pur essendo più fedeli a
Paolo rispetto alla tradizione protocattolica nell’affermare con radicalità il
dispositivo apocalittico vecchio/nuovo, lo tradiscono nel non considerare sia
l’anima che il corpo dell’uomo trasfigurato e interamente redento.
Significative le assonanze con il mito platonico della biga alata, del resto
molti gnostici frequentano le scuole neoplatoniche: nel Fedro si parla infatti
di elementi celesti, poi incorporati, che attendono di essere liberati; ad ogni
modo nel mito greco non c’è l’idea di una elezione come per lo gnosticismo.
È interessante notare il recupero della dottrina del Logos spermatikos giusti-
niana, solo che qui è assente la dimensione dell’universalizzazione. Il Salva-
tore gnostico è completamente diverso da quello cristiano, in quanto non sal-
va (manca l’idea della riparazione), ma è un maestro destinato a portare la
luce della verità nel mondo, a infiammare le anime predisposte (all’opposto
del marcionismo in cui sono gli ultimi possono credere e per questo essere
rapiti/salvati). In maniera sempre divergente rispetto alla tradizione protocri-
stiana, lo gnosticismo non considera la resurrezione del corpo, dimentica
questa promessa della persistenza dell’identità corporea, tuttavia articola la
propria teologia alla maniera di una dottrina del desiderio erotico (si ha un
rilancio del desiderio come tensione anche in virtù del ritardo della parusia).
Propriamente è una dottrina dell’erotica spiritualizzata (ecco perché è tutto
sposi, atti sessuali…), nel senso che trasferisce la modalità immediata che
l’uomo ha di pensare il suo godimento a livello di desiderio spirituale.
Una struttura mitica e quindi teologica importante è quella definita come
“teofania delle acque”, contenuta nel Vangelo apocrifo di Giovanni, che con-
nette la conversione e la redenzione spirituale di Sophia decaduta con la
prima rivelazione extrapleromatica dell’Uomo celeste e la creazione demiur-
gica dell’uomo terreno, comprensibile cristologicamente. La struttura è arti-
colata secondo momenti ben precisi: idolatrica affermazione di assolutezza
del Demiurgo; agitarsi di Sophia e il suo pentimento; compassione pleroma-
tica per il dolore penitente di Sophia; discesa di una voce dal Pleroma che
annuncia che esiste l’uomo e il figlio dell’uomo; smarrimento degli arconti

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

che ignorano l’origine della voce; apparizione di un’immagine dell’Uomo


che discende dall’alto sulle acque inferiori dove viene illuminato da una luce
celestiale; stupore e tremore degli arconti; tentativo di catturarlo o tramite la
creazione di una sua reduplicazione psichico-materiale o tramite l’uso di essa
come esca perché l’Uomo divino scenda a vivificarla e resti imprigionato
negli elementi inferiori. La tesi di Lettieri è che questa sequenza si può spie-
gare solo a partire dall’episodio evangelico di Gesù nel Giordano.

6. Un inquadramento generale del dispositivo teologico cristiano


In termini generali possiamo osservare che il dispositivo teologico cristia-
no potrebbe essere rappresentato con un sistema di assi cartesiani:
 sul piano verticale delle ordinate abbiamo escatologia, Spirito, dono/Gra-
zia, redenzione, Cristo redentore, liberazione/anarchia, nuovo, messia-
nismo (fuoriuscita, messa in questione ed eversione del religioso, perché
ha una dimensione di irruzione dinamica che la religione riesce a tollerare
fino a un certo punto), elemento profetico, innovazione radicale;
 sul piano orizzontale delle ascisse abbiamo protologia, ontologia, natura,
creazione, Cristo creatore, ordine/Legge, antico, religione, elemento sa-
cerdotale, conservatorismo.
In Paolo abbiamo tanto del dono e poco della natura (quindi 8 e 2); la sin-
tesi cattolica è 5 e 5, mentre Origene è 2 e 8. Il marcionismo e lo gnosticismo,
quali dualismi teologici eretici, che avversano un Dio creatore a un Dio sal-
vatore, invece rompono la tensione tra i due assi del dispositivo, li mettono
in contrapposizione attribuendoli alle due divinità. Il risultato è un esito ipe-
rapocalittico, secondo il quale il nuovo rompe incondizionatamente il rap-
porto con l’antico, l’irruzione di un’ulteriorità inedita che supera e svuota di
significato ciò che è anteriore è estrema. Possiamo considerarla in qualche
modo come una fedeltà maggiore a Paolo rispetto alla tradizione protocatto-
lica: si vive con più intensità la rivelazione apocalittica che rompe la natura,
la dischiude in una dimensione del nuovo che l’uomo non è in grado di con-
cepire, in una dimensione del dono che è totalmente anarchico. Inoltre va
considerato che la matrice apocalittica dei due dualismi non è più sul piano
storico-economico: diventa teologico con Marcione e ontologico (o quanto-
meno si ibrida con l’ulteriore ontologico) nei sistemi gnostici.
Con esattezza per Marcione il Dio straniero fa irruzione con la discesa di
Gesù in forma docetica per liberare il mondo, creato da un Dio cattivo (poi-
ché vede solo se stesso e non riesce ad aprirsi a un rapporto d’amore) e idiota
(in quanto non riconosce l’altro, tenendo prigioniero della propria identità).
La strutturazione in chiave teologica della dialettica vecchio/nuovo introduce
a una dimensione teologica totalmente diversa: concretamente il nuovo Dio

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

rivela l’anarchia dell’amore, che fa della creatura non una marionetta, piut-
tosto un’articolazione intima di Dio. In pratica la pretesa che viene rilanciata
apre alla rivelazione del segreto più profondo. Nel caso dello gnosticismo il
dispositivo apocalittico è inteso sul piano ontologico, nel senso che il prima
e il dopo diventano il sotto e il sopra, così che la rivelazione progressiva del-
l’unico Dio è spezzata a motivo di un’incompatibilità tra i due piani. È come
se una moglie venisse maltrattata dal marito e considerata come una specie
di sua proprietà, ma a un certo punto questa relazione si apre in qualcosa di
assolutamente meraviglioso; le tradizioni gnostiche considerano tale pro-
gressione impossibile, così ritengono la donna prigioniera del primo marito
finché da altrove non viene qualcuno che la salva (l’anima è paragonata a un
utero violentato, però a un certo punto Dio invia un figlio che rovescia l’utero
dall’intero all’esterno e lo introduce a una dimensione di pienezza).
Come reazione la Grande Chiesa rafforza la sua ideologia in opposizione
ai dualismi teologici eretici; d’altronde Giovanni e Paolo, che evidenziano
l’ulteriorità della rivelazione di Gesù, non negano mai il presupposto dell’an-
tica rivelazione dell’unico Dio (piuttosto l’idea è quella del passaggio gra-
duale dalla rivelazione imperfetta a quella perfetta). Dunque si insiste pro-
prio sulla connessione tra antico e nuovo intesi in un rapporto di continuità,
in cui lo scarto è ridotto, in un processo pedagogico di maturazione che tiene
insieme entrambe le economie, che cioè progredisce dall’AT al NT. Chiave
fondamentale è esattamente quella dell’idea di progresso rivelativo per fina-
lità educative, attraverso cioè un’applicazione della rivelazione divina alla
paideia, per cui la formazione spirituale è interpretata come educazione pro-
gressiva dell’intelligenza e della libertà della creatura. D’altra parte se nelle
due eresie la salvezza è assolutamente un dono di Dio, nella tradizione pro-
tocattolica si sostiene che ad essa deve poi rispondere la libertà dell’uomo:
viene in altri termini recuperata la nozione veterotestamentaria di Legge,
considerandola irrinunciabile, pur spiritualizzandola e quindi rinunciando al-
la dimensione anarchica del dono di Grazia come miracolo che libera total-
mente e gratuitamente (soltanto comprendendo questo sottile ma fondamen-
tale passaggio si può capire la tensione tra Erasmo e Lutero). Proprio que-
st’opposizione anti-dualistica favorisce lo sviluppo del cristianesimo come
nuova cultura universale. Il cristianesimo è quindi un dispositivo che vive
della tensione di questi due dispositivi (è un doppio dispositivo), il conserva-
tivo che precede ed è presupposto a quello eversivo radicale.
È possibile comunque considerare alcune differenze tra i due dualismi, in
quanto il marcionismo non ha la dottrina della caduta del divino, della disse-
minazione dell’elezione del divino e della differenza delle nature ontologi-
che, in quanto tutti gli uomini sono uguali, poiché ciascuno è creato dal Dio
creatore (tuttavia se crede in Cristo può essere rapito e portato all’intimità
col Padre), mentre per lo gnosticismo soltanto alcuni ricevono una scintilla

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

del Dio decaduto. Le due eresie in ogni caso perdono rispetto alla tradizione
protocristiana, giacché si mostrano entrambe incapaci nel riconoscere l’an-
coraggio storico; in altri termini il corpo perde la propria dignità, dunque l’i-
dentità è sdoppiata perché dimentica la scaturigine materiale dell’uomo.
Ad ogni modo è proprio in relazione a queste due eresie che la tradizione
protocattolica prende una fisionomia più precisa, a proposito di una serie di
acquisizioni: Dio è l’unico che dà la rivelazione, in barba a ogni dualismo; il
giudaismo viene recuperato nell’ottica di una preparazione, per cui il canone
sarà binario (AT e NT); il corpo ha piena dignità, dunque è affermata la sua
resurrezione e negata la sua dispersione dovuta ad antropologie divisive.
Questa coscienza fa elaborare sistemi di compromesso, per cui dall’idea di
una perfezione solo spirituale (1Cor 7,29: «Chi ha moglie viva come se non
l’avesse») si ha un pieno recupero del corpo, del mondo e della storia (e in
questa direzione si giungerà nel tempo all’affermazione della sacralità del-
l’individuo nella sua integrità psicofisica); inoltre l’attività sessuale è santifi-
cata, la procreazione benedetta e il matrimonio considerato luogo di media-
zione tra l’astinenza e il moltiplicare il dono della vita che Dio offre.
Dolore e intelligenza insieme, caratteri costitutivi dell’esperienza giudai-
ca(-cristiana), fanno qualcosa di esplosivo: perché l’ebraismo (il conserva-
tivo) ha generato il messianismo (la fuoriuscita, la novità che devasta la tra-
dizione)? L’ebraismo fonda la sua elezione nella rivelazione diretta di Dio
all’uomo; concetto chiave è quello di rivelazione, che inscrive in sé un ele-
mento di novità, che sorprende o uccide (Dio che dice ad Abramo «Ti amo»),
un concetto di appropriazione (Abramo assume questo «Ti amo» come una
sua proprietà)… ma se il Dio vero è quello che si rivela la rivelazione non la
puoi chiudere, quindi l’apocalittica è la riapertura della rivelazione, il mes-
sianismo che fuoriesce dalla religione (l’appropriazione). Quel «Ti amo» a-
pre a una storia, in sé la rivelazione ha dentro la nozione di novità della rive-
lazione stessa, quindi il suo rinnovamento, sia interno che radicale.
Per interpretare la teologia bisogna sempre pensare all’erotica, poiché gio-
ca sempre col desiderio, la volontà di pienezza, di godimento, di vita, di sen-
so, in un’esistenza rovinata dal dolore. La teologia è propriamente una mac-
china culturale di significazione del desiderio, per cui quando studiamo teo-
logia studiamo una modalità di partecipazione al senso. Il Vangelo non inse-
gna un amore erotico, tuttavia ha a che fare col desiderio che riusciamo a o-
rientare e vivere nell’esperienza d’amore. Capiamo il cristianesimo se affer-
riamo la sua originale riconfigurazione dell’eros come espressione d’amore
dell’uomo: risponde a una pulsione basilare del desiderio corporeo, del resto
il cristianesimo promette la vita ultraterrena del corpo. Quando parliamo di
Trinità partiamo dai corpi, d’altra parte la matrice del nostro modo di artico-
lare il desiderio è quella corporea e l’origine della nozione cattolica che sem-
bra così pura è l’unione corporale, la metafora dell’unione spirituale.

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

7. Ireneo di Lione
Ireneo di Lione (130-202) è un apologista contemporaneo a Giustino e,
diversamente da lui, nella sua opera Adversus Haereses offre una considere-
vole polemica contro lo gnosticismo, propriamente la variante tolomeiana
del valentinismo, sostenendo l’opera unitaria di redenzione, dell’unico Dio
dell’AT e del NT, e l’alternanza tra rivelazione e Grazia. In effetti egli è au-
tore di una tradizione teologica asiatica con prospettiva anti-allegorica e anti-
filosofica, la cui speculazione si limita a rispondere all’insorgenza dei pen-
sieri dualistici negando le tre nature gnostiche, rispondendo all’avvicinamen-
to gnostico del creatore e della creatura con una loro distanza ontologica e
difendendo il libero arbitrio, come poi farà Origene, ma in termini più filoso-
fici. Ad ogni modo, secondo una diversa prospettiva l’immagine secondo cui
è creato l’uomo non è il nous, l’intelletto, bensì il corpo, giacché l’immagine
è rivelata in Cristo che appunto prende il corpo; mentre la somiglianza è la
dimensione spirituale che l’uomo deve scegliere (se per Ireneo si tratta di
raggiungere, di acquisire attraverso l’esercizio del libero arbitrio, successiva-
mente per Agostino si parlerà di dono). Aspetto fondamentale dell’opera di
Ireneo è a proposito dell’azione pedagogica di Dio nella storia.
Nella sua denuncia dell’eresia, Ireneo si esprime contro l’Epistola a Flo-
ra. Si tratta di un’opera ritenuta il capolavoro teologico del II secolo, attri-
buita a Tolomeo gnostico, martorizzato intorno al 140-150 a Roma, lodato
da Giustino come raffinatissimo esempio di fede e attaccato trent’anni dopo
da Ireneo, come forma nascosta di eresia, a sottolineare il clima di incertezza
della comunità romana. In effetti questa forma di gnosticismo è tanto sofisti-
cata da essere criptica: nel mito tolemaico-valentiniano il Salvatore è il kar-
pos, il frutto comune del Pleroma, quale Logos divino generato per scendere
e salvare Sophia, riportandola nel Pleroma; dunque si unisce con la terra per
redimerla, ma è significativo il richiamo al corpo eucaristico e alla pienezza
della salvezza. Si tratta del primo trattato di ermeneutica biblica cristiana, in
cui tra l’altro Gv è citato come scrittura ispirata, e in cui è citato anche Pla-
tone (a proposito del Dio superiore). Come tale si rivolge a tutti, tuttavia gli
gnostici sono chiamati a scoprire qualcosa in più attraverso la chiave dell’al-
legoria (del resto essi sono i primi grandi teologi allegorizzanti). A differenza
di Marcione, che considera le Scritture una rivelazione inferiore e le inter-
preta alla lettera, i valentiniani sostengono che, sebbene si attribuisca la Leg-
ge al Demiurgo (il Dio inferiore, di natura psichica, creatore diretto del mon-
do materiale), il Dio superiore, ineffabile e di natura spirituale, per mezzo
del Logos e di Sophia abbia introdotto in essa elementi pneumatici. A partire
da ciò, e senza necessità di selezionare, eliminare o disprezzare alcuni scritti,
gli gnostici si danno così all’interpretazione scritturistica.

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

Oltretutto nella sua opera binaria Ireneo risponde anche all’esigenza ma-
nifestata con la crisi marcionita (140-150) di avere in maniera autorevole un
canone scritturistico, per cui ne elaborerà uno nel 180. Si tratta propriamente
di un canone tetramorfo, in cui sono fissati tutti e quattro Vangeli, compreso
Gv, che è senz’altro problematico (soprattutto nella comunità giudaizzante
che è presente a Roma), in quanto permette la speculazione gnostica, essendo
ad ogni modo impossibile escluderlo, a motivo dell’ineluttabile innalzamen-
to della cristologia con la questione della preesistenza di Gesù.

8. L’ermeneutica tipologica e l’ermeneutica allegorica


Nell’Adversus Haereses Ireneo riflette sulla tipologia profetica (ad esem-
pio i cieli che si aprono e le quattro facce con le quattro paia d’ali che ap-
paiono in Ezechiele sono figura degli evangelisti), in linea con l’idea di pe-
dagogia divina che deve compiersi. In questa riflessione sulla tipologia è ri-
preso da Gal il termine allegoreo, “allegoria”, usato da Paolo per rinviare da
un fatto a un altro, approfondendolo, andando in fondo a complicare il piano
di comunicazione della verità. Si tratta di una forma di sdoppiamento e diffe-
rimento orizzontale e storico del senso, secondo il quale un determinato fatto
storico anticipa orizzontalmente l’evento storico futuro e di rinvio. Questa
prospettiva si presta molto per un’interpretazione dell’AT come attesa inve-
rata degli eventi cristologici, ad esempio: l’attraversamento del Mar Rosso
sarebbe typos, figura, in questo senso allegoria, del battesimo di Gesù; Sara,
sterile e vecchia che genera Isacco, allegoria della Chiesa delle genti che ha
generato il figlio della redenzione dal suo utero vecchio e infecondo; l’evento
della colomba che segue al diluvio universale allegoria dello Spirito che
scende al battesimo al Giordano in Mc; le vicende di Mosè ed Elia allegoria
dei quaranta giorni nel deserto di Gesù; Adamo nell’Eden allegoria di Gesù
in compagnia delle bestie feroci. In fondo tutta l’interpretazione protocri-
stiana all’altezza del NT è di tipo tipologico, tanto che con questo metodo
ermeneutico si può recuperare l’AT in una prospettiva antignostica (proprio
alla luce dell’idea di progressione pedagogica della rivelazione).
Da un punto di vista grammaticale è possibile definire allegorica anche la
tipologia, come fa Ireneo riprendendo l’interpretazione paolina, tuttavia è più
puntuale usarla per parlare di una struttura di sdoppiamento e di differimento
dei piani di senso verticale, ossia a qualcosa che già si dà, come più profondo,
da un piano ontologico inferiore a un piano ontologico superiore. Quest’in-
terpretazione platonizzante dell’allegoria si afferma con lo gnosticismo ed
esplode poi con la tradizione alessandrina, in particolare con Origene, erede
di Filone alessandrino. Se quest’ultimo offre un’interpretazione allegorica
dell’AT, il discepolo la complica dispiegandola in una dialettica con il NT e
incrociando tipologia e allegoria: gli eventi salvifici sono nuovi (secondo una

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

dimensione orizzontale-storica ciò che viene prima anticipa ciò che viene
dopo), ma al tempo stesso il passaggio dal vecchio al nuovo dà un’indicazio-
ne quasi violenta di verticalizzazione, dallo storico al metastorico.
Con esattezza, in 1Cor 15 la struttura tra l’economia del primo e l’ultimo
Adamo è di genere tipologico, in quanto la seconda economia è quella nuova
che sostituisce e cancella la vecchia (l’antico è figura del nuovo, anzi è figura
del suo eccesso e lo supera radicalmente). Pensando in termini ontologici il
dualismo paolino, per gli gnostici il nuovo è inoltre identificato con il più
profondo, l’originario, per cui la novità rivelativa serve a capire la dimen-
sione originaria, proietta verso l’identità originaria in cui si è già nell’intimo
di Dio. Secondo questa prospettiva il Dio superiore corrisponde al Dio ge-
suano/paolino e il Pleroma al Regno di Gesù diventato natura superiore, na-
scosta, trascendente, che viene prima (e non dopo!), perché è l’origine, ciò
che è sempre stato, dunque la perfezione, avendo come caratteristica l’eter-
nità. Si assiste in altri termini a una torsione clamorosa per cui il Regno mes-
sianico escatologico è l’origine divina perfetta. L’uomo spirituale è per Paolo
l’uomo nuovo, ma per gli gnostici è l’uomo originario, o meglio è ipervec-
chio (decaduto dal Pleroma), la sua natura è originaria, precede la creazione
del mondo (a proposito della particella divina che è in lui), tuttavia è nuovo
nella sua acquisizione della gnosi che arriva solo alla fine.
Gli gnostici usano l’allegoria perché non interessati a connettere antico e
nuovo, anzi li contrappongono rompendo l’unità dell’economia, in antitesi
con Paolo. L’elemento in comune fra tipologia e allegoria è lo sdoppiamento
e il rinvio di piani, ma se la tipologia è funzionale a dire che il vecchio im-
perfetto è figura del nuovo perfetto, l’allegoria è struttura di rinvio dall’infe-
riore al superiore, dal visibile al nascosto; per cui l’intera storia sacra rivela
gli eterni eventi di Dio prima della creazione del mondo. In tal senso il Sal-
vatore dell’Epistola a Flora è il frutto divino redentivo, personaggio storico
che indica però un’appartenenza divina, richiamando eventi di peccato e di
salvezza anteriori al mondo. Abbiamo anzitutto un’interpretazione tipolo-
gica: è contrapposto il culto materiale del tempio ebraico dell’AT con quello
spirituale interiore del NT, dove le vittime non sono animali ma spirituali e
le preghiere non sono esteriori ma interiori. È poi aggiunta un’interpretazio-
ne allegorica: il nuovo rito è allegoria di un rito eterno primordiale, quello
della generazione del frutto divino redentivo, del Salvatore. In sintesi, lo slit-
tamento orizzontale rinvia al contempo alla realtà eterna ontologica: si ha lo
slittamento dal tempio di Gerusalemme a quello di Gesù, poi innalzato come
corpo eterno di Cristo in cui tutte le creature spirituali sono presenti.
Ad ogni modo la tradizione ortodossa cristiana dipende da Origene, il qua-
le offre una rielaborazione cattolica della cifra gnostica, incrociando l’idea
dell’intimità dell’uomo col divino e l’idea della progressione.

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

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I CAPISALDI DELLA PATRISTICA
DEL III-V SECOLO

1. Origene di Alessandria
Come gli gnostici Valentino e Basilide, Origene (185-255/57, muore in
seguito alle ferite patite in una persecuzione che non si capisce quale fosse)
è un alessandrino e dire “alessandrino” significa di fatto dire “platonismo”.
Anche Clemente alessandrino pertanto è vicino agli gnostici; d’altronde nel-
la sua opera Gli stromati, le “tappezzerie”, mette insieme fili diversi, prende
autorità pagane, greche, e le introduce all’interno di confessione cristiana.
Secondo Girolamo, Origene è stato il più grande esegeta della Scrittura, del
resto con lui l’interpretazione allegorica raggiunge il suo apice. Di questo
Padre della Chiesa che ha operato sostanzialmente nella prima metà del III
secolo si ha una documentazione buona, benché parzialissima, in quanto è
abbiamo perduto il Peri Archôn, conservatoci soltanto nella traduzione di
Rufino, che tuttavia lo censura per proteggerlo da alcune accuse.
Il primo presupposto della teologia origeniana è che Dio è Logos, cioè
pensiero, inteso ovviamente in senso platonico, ossia come realtà logica pie-
namente immateriale. Il secondo presupposto è che Dio in quanto creatore è
l’essere eterno e la sua creazione è logica. Il Padre genera eternamente il Fi-
glio, in quale eternamente, generato dal Padre (e in tal senso sono coeterni),
come specifica Lettieri crea i logoi, cioè le creature. Origene ha una conce-
zione subordinazionistica del divino, in quanto il Figlio sarebbe inferiore ri-
spetto al Padre, alla maniera di una creatura perfetta che crea il mondo e lo
redime. La formula anti-ariana che risuonerà successivamente è che non c’è
stato alcun momento del Padre senza il Figlio, tanto che Origene verrà accu-
sato di essere ariano per tale visione subordizionazionistica del divino, ad o-
gni modo per egli il Figlio, pur avendo un’altra ousia, un’altra ipostasi rispet-
to al Padre, è generato dal Padre, dunque non abbiamo il Padre senza il Fi-
glio, mentre per Ario il Figlio viene creato prima dell’origine.
Conseguente aspetto fondamentale dell’origenismo è l’indebolimento del-
la coeternità del Figlio col Padre perché anche le creature vengono eterniz-
zate, in quanto sono create originariamente come logoi nel Logos eterno. Più
propriamente, secondo la dottrina della preesistenza delle anime, più esatta-
mente degli intelletti nel Logos, la creazione originaria di Dio è una creazio-

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

ne perfetta, intima al Figlio stesso, puramente logica e incorporea, nel senso


che le creature sono tutte puramente immateriali, per le quali il corpo è solo
una potenzialità non ancora dispiegata, realizzata, giacché in quanto create
sono contingenti e dotate di una mutabilità ontologica che platonicamente si
manifesta come possibilità di incorporazione, distacco di caduta (in altri ter-
mini il corpo è una funzione interna negativa della razionalità pura, evidente
eco platonica della dottrina della caduta dell’anima).
Per Origene l’origine del mondo è una katabolè, una caduta: dopo il pecca-
to i logoi si distaccano, si corporeizzano e Dio crea il mondo per ordinare u-
na struttura cosmica armonica con finalità pedagogiche e redentive, che però
colloca in diversa posizione ontologica gli intelletti decaduti, con differente
rapporto con la corporeità (in tal senso è possibile comprendere che le nostre
condizioni attuali sono l’effetto delle scelte originali divine). Con esattezza,
la corporeità delle anime è un effetto della creazione divina che interviene
nel processo di decadimento, cioè Dio crea i corpi per ordinare le intelligenze
decadute, perché così le anime possano acuire la nostalgia originaria del di-
vino, in quanto il corpo inteso come prigione le aiuta, tramite il suo limite,
nel processo di anamnesi, di rammemorazione del desiderio divino.
Rispetto agli gnostici che sostengono che la cattiveria del diavolo sia di
natura inferiore, per Origene anche il diavolo era in Dio. Tanto che secondo
una seconda dottrina origeniana, quella dell’apocatastasi, cioè della reinte-
grazione, tutte le creature originariamente divine saranno redente e reinte-
grate in Dio, compreso il diavolo. Il dinamismo in se stesso è propriamente
gnostico: si tratta di una forma di paolinismo ontologizzato, cioè l’esito è
paolino, ma a partire da un’ontologia platonizzante. Una terza dottrina orige-
niana è quella della successione delle esistenze, che più che essere intesa co-
me metempsicosi, trasmigrazione dell’anima (la sua reincarnazione), è il ri-
tornare in vita delle anime decadute in diverse possibilità di esistenza, perché
così possano liberamente emendarsi verso Dio, giacché se tornano non lo
fanno mai forzate da Dio. In tal senso i cattivi avranno altre possibilità di e-
sistenza e l’ultimo a essere salvato sarà il diavolo.
In comune con lo gnosticismo, l’intuizione fondativa delle dottrine orige-
niane è una restituzione in chiave ontologica dello spirituale, in altre parole
una trasformazione del dono spirituale escatologico in natura, con la diffe-
renza che ora il dono dello Spirito viene universalizzato e identificato con
l’elemento logico, cioè l’anima, la mente che ogni uomo ha creata su quella
di Dio. Per Paolo l’uomo è immagine di Dio dopo la ricezione dello Spirito
con il battesimo in Cristo, nel senso che l’uomo è immagine di Dio in quanto
immagine di Cristo che è immagine di Dio (e lo è non come immagine proto-
logica, bensì come immagine escatologica). In altri termini, l’uomo non è
creato a immagine di Dio, bensì diventa sua immagine attraverso il dono del-
lo Spirito. In Origene, invece, abbiamo una sorta di magnetismo ontologico,

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

per cui dopo la dispersione del peccato si è richiamati a quella che è già l’o-
rigine, dato che appena creati abbiamo l’immagine di Dio, subito siamo cri-
stoformi, spirituali, secondo una sorta di protologizzazione del dono. La di-
mensione originaria della pienezza dell’essere creaturale sprofondato in Dio
è propriamente la dimensione mistica, ossia lo stato mistico di fusione amo-
rosa con l’intelligenza del Figlio, proiettati verso il Padre.
Ma perché se si è già in Dio si pecca? Per Origene il peccato è causato
dalla sazietà, dall’angoscia di essere sospesi in una dimensione di perfezione
che però ha ancora bisogno dell’esercizio della libertà (l’unica anima che
non si è annoiata della compagnia del Logos è quella di Gesù, ferro arroven-
tato nel fuoco, talmente innamorato del Logos da meritare la perfetta fusione
con lui). La differenza con gli gnostici è che per loro solo gli spirituali sono
già a immagine di Dio, mentre tutti gli altri uomini lo diventano, in quanto
solo gli eletti discendenti di Adamo ereditano frammenti spirituali, invece
tutti gli altri ricevono l’immagine divina dopo la creazione del mondo, nel
momento in cui accolgono lo Spirito decaduto donato da Adamo.
La forma di de-escatologizzazione proposta da Origene si articolerà poi
nella tradizione cristiana: l’immagine di Dio è la nostra anima, la nostra com-
ponente immateriale e preesistente; in pratica le caratteristiche escatologiche
che Paolo attribuiva al battezzato sono attribuite naturalmente a ogni creatura
nella sua componente incorporea. È chiara la forte platonizzazione in quest’i-
dea dell’uomo come “essere anfibio”, dotato di corpo mortale e mente im-
mortale (in quanto realtà immateriale) Nella prospettiva origeniana bisogna
cogliere la propria realtà trascendente, cioè la nostra vera realtà dimenticata,
individuando il logico nel materiale attraverso l’allegoria (quest’educazione
dell’intelligenza ci permette di abbandonare la materia). Origene è il più
grande interprete della Scrittura per il suo virtuosismo ermeneutico, in quan-
to con l’uso dell’allegoria permette il passaggio dalla storia all’intima appar-
tenenza ontologica del Logos divino che l’ha creata, propriamente dagli e-
venti della storia alla verità profonda, logica, che rivela all’uomo di essere il
Logos creato per amore del Logos divino, chiamato perciò a riconoscere tale
Logos divino come la verità e l’origine della propria natura più intima.

2. La crisi ariana e i Concili di Nicea e di Costantinopoli


Dopo l’Editto di Milano del 313 di Costantino l’impero diventa cristiano
e parallelamente esplode il monachesimo, come espressione di abbandono
del mondo. Tuttavia questo recupero di un’escatologia radicale viene consi-
derato non sufficiente nella Chiesa organizzata a motivo di problemi di rela-
zione tra i Vescovi della Chiesa e le comunità monastiche, anche a proposito
di questioni dottrinali: in contrasto con le sedi episcopali diventano rocca-

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

forte che accettano l’arianesimo, in una sorta di contropotere interno. L’ini-


zio del IV secolo è caratterizzato proprio dall’infiammarsi della grave con-
troversia ariana. Secondo il prete alessandrino Ario il Figlio è la creatura per-
fetta, preesistente, nonché l’angelo mediatore che crea il tutto e al quale è de-
legata inoltre l’incarnazione e la salvezza; tuttavia, pur essendo divino (dun-
que non viene messa in discussione l’unità divina), egli non è Dio.
Proprio con l’obiettivo di combattere questa eresia è convocato il primo
Concilio ecumenico a Nicea, nel 325, in cui viene formulata per la prima vol-
ta la consustanzialità, l’homoousios, ossia l’unica ousia divina condivisa dal
Padre e dal Figlio. Il ruolo di mediazione del Figlio viene ontologicamente
assunto da tutta la Trinità, benché resti aperto il problema dell’incarnazione
(in quanto a incarnarsi è sempre e comunque solo il Figlio), entrando in con-
flitto con l’inseparabilità dell’ousia. Fino al successivo Concilio, tenutosi a
Costantinopoli nel 381, resta aperto un acceso conflitto teologico, in quanto
nell’anatematismo niceano si precisava che era maledetto chi negava che il
Padre e il Figlio avessero un’unica ousia e un’unica ipostasi, ossia un’unica
sostanza (il termine greco “ipostasi” corrisponde al latino substantia, quin-
di “ciò che sta sotto”, “sussistenza”). Con Costantinopoli, invece, si parla più
chiaramente di una ousia e tre ipostasi. Tale formulazione, elaborata da Euse-
bio e difesa dai Cappadoci, individuerebbe come eretica quella di Nicea, in-
tesa come cripto-monarchiana, cioè nascostamente monarchiana.
Precisamente, il monarchianesimo è l’eresia combattuta da Origene, se-
condo la quale, per difendere l’unicità di Dio, si tende pian piano a relativiz-
zare la sostanzialità preesistente del Figlio, sostenendo di fatto un’indistin-
zione personale tra Padre e Figlio e andando così nella direzione della ridu-
zione del Figlio alla stregua di una potenza o modalità operativa del Padre.
Per cui il Figlio è Dio non in quanto altro Dio accanto al Padre, piuttosto
come uomo su cui è discesa una potenza divina che lo ha di fatto eletto e mo-
dificato. Con esattezza, quella avversata da Origene è la declinazione per
l’appunto adozionista dell’eresia monarchiana, di contro alla forma invece
modalista, secondo la quale il Figlio sarebbe un prosopon, ossia una masche-
ra, un modo di manifestarsi del Padre, perciò non avrebbe un’identità iposta-
tica propria (non è altro che il Padre ama come altro). Origene combatte la
variante adozionista prendendo sul serio la concezione giovannea della pree-
sistenza del Figlio come l’unigenito che ama il Padre, il suo interprete eterno,
la Sapienza che lo contempla, per cui sarebbe ipostaticamente differente da
lui, in quanto Dio, essendo comunque differente dal Dio. Lo Spirito sarebbe
poi la divinità partecipata, dato che si dà senza le intelligenze, o meglio o-
scilla tra l’elemento divinizzante e la natura creata divina (concretamente af-
ferma di non sapere se sia Dio o la prima creatura). Quella origeniana è per-
tanto una concezione politeistica del divino, nonché subordinata e ipostatica,

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

tanto che egli parla addirittura di tre ousie, cioè tre essenze, a cui corrispon-
dono, nel senso che tendono a coincidere, tre sostanze, tre ipostasi.
In questi termini la formulazione di Nicea dell’homoousios è perciò crip-
to-monarchiana, se non proprio esplicitamente monarchiana, nel momento
in cui, andando a difendere l’unicità di Dio attaccata da Ario, trascura di sot-
tolineare la differenza di ipostasi che c’è tra Padre e Figlio. Del resto il bari-
centro di questo Concilio è l’occidentale Costantino, al quale manca la raffi-
natezza greca, avendo di fatto un retroterra latino, di quell’orizzonte culturale
che è origeniano solo nell’elite e in maggioranza è invece di simpatia mo-
narchiana. Di fatto l’imperatore impone una formula anti-origeniana, contro
il mondo greco dominato all’opposto dalla teologia di Origene, tanto che i
vescovi greci troveranno sempre inadatta la formula dell’homoousios.
Per cui subito inizia un’avversione anti-niceana, ad esempio con Eusebio,
così che Costantino cambia bandiera, indirizzandosi verso una tendenza neo-
ariana. L’imperatore infatti viene battezzato prima di morire dal vescovo a-
riano Eusebio di Nicomedia, benché la tradizione latina parli del papa Silve-
stro, nell’ottica della subordinazione della nozione imperiale da parte di
quella del papato, nella cui prospettiva si comprende la donazione costanti-
niana. D’altronde la soluzione di Ario è preferita perché più vicina a Origene,
in quanto considerando il Figlio come una creatura, avendo una sua identità,
una sua piena personalità preesistente, si evidenza la sua differenza ipostatica
rispetto al Padre. Fondamentale per l’arianesimo è Prov 8, secondo cui la
Sapienza è creata da Dio all’inizio delle sue vie, in sostegno della creazione
del Figlio, subordinato al Padre, ma preesistente rispetto al mondo. La diffe-
renza tra Origene e Ario è che per quest’ultimo il Figlio è una creatura, men-
tre per Origene è Dio che riceve la propria dignità dal Padre in maniera di-
versa dalla creazione (non c’è infatti tempo in cui il Figlio non esisteva).

3. I Cappadoci e la nozione di Trinità


Nella tradizione greca post-origeniana sono fondamentali i tre Cappadoci,
i Padri latini eredi di Origene vissuti nel IV secolo, cioè Basilio di Cesarea,
il fratello Gregorio di Nissa e l’amico Gregorio Nazianzieno. Il loro merito
è senz’altro quello di aver risolto la crisi ariana, proponendo la soluzione
dogmatica della Trinità. Propriamente è con loro che viene acclarata l’idea
di una ousia e tre ipostasi, sulla scorta del baluardo dell’Occidente e di Ata-
nasio di Alessandria, il quale contrariamente agli altri greci difende l’homo-
ousios, opponendosi di fatto alla risacca ariana post-Nicea. Con esattezza, i
Cappadoci di fatto trovano la quadratura del cerchio, recuperando la formula
niceana (che si confà più alla sensibilità occidentale) della consustanzialità e
integrandola con l’idea origeniana (invece di tradizione più orientale) delle
tre ipostasi, le tre sussistenze personali. Per cui quello che ci va di mezzo è

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

Ario, giacché rispetto a Origene il risultato è che il subordinazionismo cade


nell’unità dell’essenza. Si scatena tra l’altro una seconda ondata anti-orige-
niana, propriamente subordinazionistica, in ogni caso Rufino cerca di de-a-
rianizzarla, cioè di attutire l’elemento della subordinazione.
D’altra parte le formulazioni dogmatiche frutto di elaborazioni teologiche
sono strutture storiche di compromesso teologico. A tal proposito Erasmo
successivamente avrà da biasimare che nel NT non si trova mai la nozione
di Trinità, tranne il riferimento di andare a battezzare nel nome del Padre,
del Figlio e dello Spirito (benché qui comunque la formula non sia ontolo-
gica, ma economica). In realtà questi dogmi non sono da deprezzare come
meri “trucchetti”, in quanto sono straordinarie costruzioni intellettuali stori-
che che decidono il destino dell’Occidente e modificano la nozione di “es-
sere” come eterno divenire in sé: benché non sia mai presente nel NT, ousia
è il termine chiave dell’ortodossia (del resto, come evidenzierà nell’Otto-
cento John Henry Newman, le categorie teologiche sono dinamiche, o me-
glio sono progressive e congetturali, ovvero si adeguano crescendo).
Fondamentalmente è possibile tenere insieme uno (essenza) e tre (sostan-
ze) sulla base della nozione di infinità di Dio, introdotta nel IV secolo e in-
novativa per il pensiero greco, secondo il quale il divino è invece finito
(tranne che per qualche breve testo di Plotino e di Filone), in quanto l’infinito
è all’opposto indeterminabile, impensabile e informe, mentre ciò che esiste
è finito e determinato. La nozione di infinità inizia a essere considerata dai
cristiani, in particolare dai Cappadoci, come pienezza assoluta, che l’uomo
non può arrivare a comprendere, permettendo così una risoluzione ontolo-
gica della Trinità. Consente infatti di pensare la corrispondenza delle tre in-
finità delle ipostasi nell’unica infinità dell’ousia (in ogni caso la mente uma-
na non può applicare delle concezioni determinate di distinzione a questo
proposito), nel senso che le tre ipostasi si muovono l’una nell’altra, si ap-
partengono a vicenda. Questa compenetrazione reciproca e necessaria elabo-
rata dai Cappadoci è indicata con il termine pericoresis (in latino circum-
ncessio), usato in ambito trinitario con Giovanni Damasceno.
La ricomprensione ontologica della relazione rende possibile la dottrina
mistica di Gregorio di Nissa dell’epektasis, cioè della “protenzione”, della
“proiezione”, come relazione dinamica di storia ed essere nel rapporto tra
Dio e l’uomo, in altri termini come essenza della divinizzazione. Se Dio è
infinito e l’uomo è finito (e determinato) c’è una barriera ontologica che non
può essere superata, ad ogni modo l’infinito che si fa finito fa che il finito
abbia notizia e conoscenza dell’infinito, progredendo poi all’infinito in que-
sta comprensione e nel godimento della comprensione infinita dell’intelli-
genza che sempre cerca di comprendere l’infinito. Propriamente l’unica mo-
dalità di comprensione è la processualità, cioè il progredire all’infinito di co-

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

noscenza e di gaudio (a tal proposito si noti che l’espressione «ti amo infini-
tamente» ha questo retroterra teologico dell’amore che trascende sempre a
dimensioni ulteriori e sempre più radicali e perfette). Dunque ogni fine non
è che un nuovo punto di partenza dell’ascesa, in un’unione sempre crescente,
perfetta e più profonda. Questa dottrina del godere nel tendere, nel progredire
all’infinito del processo di adeguamento e di approssimazione del divino,
benché per il greco è il peggiore dei mali perché proietta nella dimensione
dell’irrealtà, ha una fortuna pazzesca fino al romanticismo tedesco, restando
in ogni caso come eredità culturale nell’idea che l’uomo non gode nell’esau-
rire, bensì nel progredire (per Niccolò Cusano, ad esempio, Dio è il cerchio
e la sua comprensione è il poligono iscritto in esso che cerca di aumentare
all’infinito i suoi lati senza però mai poter coincidere con esso).

4. Agostino d’Ippona
Sulla scorta della teologia origeniana, Agostino (354-430) considera in u-
na prima fase della sua elaborazione teologica che occorre non andare fuori,
bensì tornare in se stessi, perché è nella mente che c’è la presenza della veri-
tà, il Logos di Dio. Propriamente egli parla di un movimento che dall’esterno
porta all’interno, cioè dallo storico allo spirituale (che ad ogni modo non è
più dono, piuttosto proprietà naturale che ci fa figli di Dio, o meglio la natura
è donata, ma questo dono è inscritto nel dono della creazione che ha una
natura teomorfa). Avendo quindi già tutto in noi stessi, la rivelazione di fatto
non ci dà nulla di nuovo, piuttosto ci risveglia a scoprire il dono ontologico
in noi (si noti la continuità con lo gnosticismo, benché adesso in una prospet-
tiva universalizzata). Passiamo dallo Spirito come dono escatologico che ir-
rompe nella storia e la spezza allo Spirito inteso come realtà spirituale.
Nel De Magistro elabora così la dottrina del maestro interiore o dell’illu-
minazione, secondo la quale il rapporto tra intelligenza e verità è solo occa-
sionale quando parliamo, in quanto l’intelligenza ha la verità già in se stessa,
originariamente. Se Platone parla nel Menone della dottrina della remine-
scenza, secondo cui conoscere è ricordare una verità appresa da sempre, A-
gostino sostiene invece che le verità sono riconosciute come tali perché in o-
gni uomo c’è una luce della verità, in quanto ha dentro di sé la presenza del
Verbo che illumina come maestro interiore, nel senso che ogni anima creata
è a immagine di Dio in cui il Logos è presente. In questo recupero dell’ori-
genismo e della dottrina del Logos spermatikos viene proposta una formula
molto più raffinata in cui cade ogni resistenza e il Logos abita i corpi.
A partire dalle risposte ad alcune questioni teologiche di Simpliciano par-
liamo di un secondo Agostino, che in realtà non è del tutto origeniano, in
quanto inizia a ripensare lo Spirito con la “S” maiuscola: pur restando fedele

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

alla nozione di spirituale della mente come immagine di Dio, ripensa la sal-
vezza come dipendente dall’istituzione escatologica del dono gratuito di
Grazia dello Spirito che irrompe nella coscienza. C’è allora un paolinizzare
la struttura origeniana, facendo dipendere il rapporto della propria identità
spirituale dal miracolo dell’irruzione della Grazia, la novità assoluta del dono
che da un di più che la natura ha deformato. In sintesi, l’Ipponate in una pri-
ma fase riprende l’allegoria, ma in una seconda va in frenata e la riduce, poi-
ché può diventare una macchina di delirio dell’esaltazione della dimensione
spirituale, logica, che non fa capire fino in fondo l’esperienza del dono (la
dottrina della Grazia di Agostino maturo ha dominanza tipologica, costruita
sulla contrapposizione tra vecchio e nuovo, naturale e soprannaturale).
Origine attraverso l’allegoria interpreta la rivelazione di Cristo inscritta
nella Legge ebraica, in quanto iscritta nella natura creata. Propriamente con
la legge interpretativa dell’allegoria salva razionalmente il precedente, pre-
serva la positività dell’umanità e della creazione, in quanto tutto riflette Cri-
sto apocatastatico che reintegrerà la totalità della creazione nel dono di bontà
assoluto. Dunque la natura è originariamente teomorfa, perfetta, spirituale, e
dopo il peccato, commesso per sazietà, decade e deve recuperare la sua iden-
tità profonda. In qualche modo in questa posizione riecheggia la dottrina del
Logos spermatikos giustiniana… che avrà continui approdi nel tempo, l’ul-
timo con il “cristianesimo anonimo” del gesuita Karl Rahner nel Novecento.
Se per il primo Agostino il rapporto tra natura e Grazia è concepito positiva-
mente in termini di progressione (inoltre al libero arbitrio è affidato il com-
pito di scegliere la luce interiore e trascendente anziché i beni esteriori e mor-
tali, in una sorta di platonismo cristiano), col secondo Agostino invece la ri-
velazione è un riorientamento radicale della Legge, giacché rappresenta l’ec-
cedenza dell’evento di Grazia rispetto all’ordine della natura, ma non in un
modo dualistico ed eretico, piuttosto in un senso cattolico (senza cedere alle
esasperazioni del marcionismo e dello gnosticismo, condannato apertamente
il manicheismo). Riattivando il dispositivo dirompente giovanneo del dono
apocalittico che discende dall’alto, il secondo agostinismo coglie dell’uomo
la sua struttura perversa, la sua natura viziata; la creazione tutta ne esce fuori
segnata da una degradazione etica e ontologica (oltretutto la stessa operazio-
ne verrà compiuta secoli dopo con Lutero e con il giansenismo).
Sotto questa spinta apocalittica, profondamente anti-mondana, anti-uma-
nistica, anti-ontologica, Agostino considera il mondo contrapposto al dono
escatologico e arriva a condannare Roma come una bestia maligna, caput
della perversione universale, civitas terrena contrapposta alla civitas Dei
simboleggiata dalla Gerusalemme celeste. Considerando inoltre che in ogni
aspetto dell’umano c’è l’immagine di Dio, il suo pensiero apocalittico è an-
che anti-pedagogico, cioè contro la formazione del bambino, la paideia, in-
tesa come cultura, nel senso che non pensa che siano l’educazione e la cultura

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

a dischiudere il mistero del divino nella realtà, in quanto questo è dato mira-
colosamente (nonostante questa pretesa anti-culturale, la cultura agostianana
è molto raffinata). In sintesi, secondo la soluzione teologica di Agostino, che
è ontologicamente non dualistica, nell’opacità spirituale del mondo resta la
fiammata dell’amore eccezionale, l’esperienza straordinaria della Grazia (ci
si salva per fede, ma chi si sforza di credere senza Grazia sarà dannato).
Il secondo Agostino considera poi che la Grazia non viene offerta a chi
dovrebbe meritarla, cioè i colti e i casti, anzi nella seconda risposta teologica
a Simpliciano afferma che Dio ride di lui e gli indica i pagliacci dementi e le
prostitute come coloro che sono più accesi dalla Grazia. In altri termini l’Ip-
ponate sta guardando la logica più profonda di Paolo e la sta radicalizzando,
sostenendo che la Grazia dona la fede, ma non la presuppone (altrimenti non
sarebbe Grazia del resto), d’altronde deve essere senz’altro incondizionata,
costituendo il merito e non trovandolo prima fuori di sé (Gratia gratis data
est). Provando a pensare alla portata rivoluzionaria di questo dono, perciò, la
ragione smaschera evidentemente il suo limite e naufraga.
Del resto egli scrive il capolavoro delle Confessioni proprio per descrivere
l’avvento del dono di Grazia dentro una biografia. In quest’opera, articolata
in tredici libri, di cui i primi dieci sono autobiografici e gli ultimi tre conten-
gono una descrizione teologica di Dio, viene descritto come un uomo orribile
diventa un credente. Propriamente egli intende raccontare la propria storia di
soggetto raccontando le modalità di rivelazione della Grazia e l’esperienza
prima e dopo questo dono (senza di esso l’uomo non riflette l’immagine di
Dio). Per cui la propria biografia diventa così il luogo della rivelazione teolo-
gica, l’esistenza del singolo diviene il luogo di manifestazione dell’eterno:
ecco che l’essere si storicizza radicalmente, quindi la filosofia non è più sem-
plicemente una filosofia dell’essenza eterna immutabile, piuttosto diventa
teologica, come conoscenza dell’irruzione del dono elettivo nella singolarità.
Come avrà modo di riflettere Francesco Petrarca, è con Agostino che viene
trovata una via di accesso alla soggettività moderna. La memoria dell’uomo
non è più l’astrazione platonica della scoperta di verità eterne, bensì il ventre
dell’anima, il posto nascosto in cui le verità eterne si incrociano con le tracce
esistenziali che mi sfuggono e non trovo (concetto chiave del X libro, sulla
memoria, è proprio l’oblio, dove va a finire ciò che dimentico).
Concludere con le Confessioni è concludere con un “colpo di Grazia”, nel
senso che ci fa morire e rinascere in una dimensione nuova: approdiamo a u-
na interpretazione della verità totalmente storicizzata, la vicenda contingente
del singolo, luogo della rivelazione divina e del senso abissale. In altri termi-
ni Agostino interiorizza il dispositivo apocalittico della rivelazione storica,
nel senso che l’apocalittica da astrazione storico-economica, cioè dall’idea
degli apocalittici ebrei che aspettavano il Regno, progressivamente diventa
la modalità con cui il soggetto interpreta la sua esistenza. In questo modo la

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

storia rivelativa cristiana diventa la struttura interpretativa della soggettività:


la storia del soggetto viene scandita apocalitticamente dall’irruzione del do-
no dello Spirito come forza violenta che io non controllo (viene del resto usa-
to un vocabolario erotico per parlare di questo amore che rivoluzione la vita),
ma una violenza liberante e luminosa che cambia la mia esistenza, fa passare
dal vecchio al nuovo, propriamente a una nuova dimensione dell’esistenza
(per Origene invece lo Spirito è la dimensione perfetta originaria). Agostino
dunque vive una psicologia, d’altronde egli è il genio dell’esperienza even-
tuale, come dono di una nuova dimensione dell’esistenza. Propriamente l’e-
sperienza di Grazia viene da lui descritta come un innamoramento: se ne vie-
ni sopraffatto non è una costruzione oppure un merito.
In questa interiorizzazione tutte le categorie dell’Occidente cambiano pro-
fondamente. Il secondo Agostino in effetti non rifiuta l’idea del maestro inte-
riore, piuttosto afferma che solo la Grazia ci rende consapevoli di tale mae-
stro che è in noi, altrimenti non lo vediamo oppure ce ne appropriamo come
se fosse una proprietà, o peggio un merito della nostra mente. Del resto come
in Gesù vediamo la Grazia che esce, così a livello di dono la Grazia sceglie
un singolo, lo converte e lo fa risorgere da un punto di vista spirituale. In A-
gostino si tende a recuperare la dimensione di spiritualizzazione escatologica
e quindi di de-storicizzazione, benché ci sia una forma fortissima di storiciz-
zazione vecchio/nuovo: da una prospettiva storica di tipo millenaristico con
il cristianesimo passiamo al messianismo spiritualizzato, cioè la traiettoria
cristiana sostituisce l’eschaton millenaristico con un escathon post-storico.

5. La figura di Simon Mago


Simon Mago è una figura delle origini del cristianesimo, apparsa con esat-
tezza in At 8, nel contesto di una persecuzione scatenata a Gerusalemme dalla
comunità giudaizzante, apostolica, legata alle tradizioni cultuali di Israele,
contro una frangia ellenistica, una corrente gesuana primitiva che si distingue
dalla comunità apostolica ed è aperta al mondo pagano, facente capo a Stefa-
no, un carismatico accusato (e poi lapidato) di voler distruggere il Tempio,
in quanto lo considera creato da mani d’uomo e non da Dio (pertanto non sa-
rebbe il luogo della sua presenza). Tuttavia il contrasto tra il dispositivo reli-
gioso tradizionalista e quello estatico e apocalittico viene smussato da Luca,
irenizzante. Eppure sono evidenti le diverse strategie di proselitismo: la co-
munità apostolica pratica un proselitismo infraebraico, cucendo la pretesa a-
pocalittica di Gesù con le strutture tradizionali della religione, della politica
e della società ebraica (in pratica Gesù sarebbe il capo del Tempio, del quale
si attende il suo ritorno); la comunità ellenistica, che mostra un chiaro scarto
verso il Tempio, avanzando perciò un rapporto diretto e di ispirazione cari-
smatica, pratica un proselitismo di stampo universalistico.

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

Dopo la morte di Stefano gli ellenisti, guidati ora da Filippo, vengono per-
seguitati, per cui si spostano per salvarsi in Samaria, considerata dai giudei
terra di prostituzione. Qui tra l’altro Filippo inizia a battezzare le persone che
i giudei considerano empie e pagane, tuttavia questo battesimo viene ritenuto
imperfetto e i nuovi battezzati ancora impuri. Così Pietro e Giovanni si reca-
no anche loro in Samaria per imporre le mani ed effondere lo Spirito ai recen-
ti convertiti. In At 10 Pietro inizia poi a battezzare lui stesso i pagani, inclu-
dendoli così nella comunità; probabilmente questo capitolo degli At è rica-
mato da Luca per attribuire a Pietro una strategia paolina.
La presenza di Filippo in Samaria sottrae molte persone al largo discepola-
to di Simon Mago, un incantatore samaritano chiamato così in quanto opere-
rebbe delle magie. Con esattezza Filippo conquista le genti compiendo mira-
coli più grandi (agisce in tal senso un dispositivo apocalittico), tanto che Si-
mone gli chiede di essere battezzato e di entrare anch’egli nella comunità.
Quando però si accorge che Pietro può effondere lo Spirito imponendo le
mani, gli propone di comprare questa facoltà (si parla perciò di “simonia”
come di compravendita delle “merci” sacre). Ovviamente l’apostolo si indi-
gna aspramente, accorgendosi dell’empietà nel cuore di Simon Mago, tanto
da avvertirlo che così andrà incontro al laccio della distruzione.
La narrazione in At 8 della figura di Simon Mago, della sua esaltazione e
della sua pretesa di affermarsi mondanamente, esibendo una potenza fondata
solo sulla ricchezza, presuppone Ezechiele (Ez) 28, che a sua volta presup-
pone Is 14, a proposito di alcuni format teologico-politici riadattati poi alle
vicende storiche. Propriamente, in Is 14 si racconta del re di Babilonia che si
innalza fino alle stelle, ritenendosi una potenza capace di ricapitolare in sé il
senso della storia del mondo, dunque di divinizzarsi sulla base del successo
storico, tanto da mettersi in aperta rivalità con la tradizione profetica ebraica;
tuttavia chi trionfa nella storia, nella profezia viene abbattuto (è significativa
a tal proposito anche l’identificazione in chiave apocalittica con Lucifero,
punito da Dio proprio per la sua arroganza). In Ez 28 si racconta dello scontro
successivo alla cattività babilonese con il principe di Tiro, città fenicia pros-
sima alla Palestina e simbolo dei commerci; anche qui il cuore perverso, l’e-
saltazione prodotta dalle ricchezze, l’ingiustizia così palesata e la pretesa di
potersi sedere sul trono di Dio viene punita con la distruzione. Sempre in Ez
28 al principe di Tiro si sovrappone il cherubino, simbolo della sapienza e
pieno di ricchezze, creatura perfetta di Dio e garanzia della creazione divina,
che diventa però iniquo, il suo cuore si inorgoglisce per la sua bellezza, la
sua saggezza si corrompe, così che viene fatto precipitare, gettato in mezzo
alle pietre di fuoco (tipica maledizione apocalittica). In conclusione, in At 8
la figura storica di Simone, una sorta di messia samaritano, è interpretata con
il format del principe esaltato anti-divino (l’appellativo di “Mago” è la va-

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

riante negativa del profeta) che presto sarà condannato e annientato. È co-
munque interessante che le categorie che gli sono rivolte richiamano quelle
che furono precedentemente rivolte proprio a Gesù.
At 8 si connette anche con Gv 4, in cui è attestata la presenza di un predi-
catore in Samaria. Precisamente dev’essere una retroproiezione dell’evange-
lista, il quale forse avrebbe inventato l’episodio con la samaritana (richia-
mando in chiave tipologica l’incontro di Giacobbe con Rachele di Gen 29),
il cui concubino sarebbe appunto il falso profeta Simone (ritorna l’ideale del
matrimonio), col richiamo all’acqua come riferimento ai riti di purificazione
della comunità di Simone. È probabilmente un episodio inventato essendo
stato Gesù comunque molto critico nei confronti della Samaria e di fatto non
avendo mai predicato lì se non per il passaggio dalla Galilea alla Giudea. Si-
gnificativa anche la connessione di At 8 con il capitolo 18 delle Antichità
giudaiche di Giuseppe Flavio, a proposito della polemica con un empio pre-
dicatore samaritano, che accende gli entusiasmi della Samaria (del resto le
date coincidono, cioè l’anno 35 circa). Questo falso profeta politico convince
i samaritani che li avrebbe portati sul Garizim, il Monte santo di Dio, dove
avrebbe promesso la ricostruzione del Tempio di Dio (quello precedente fu
distrutto probabilmente nel II secolo a.C.) e dove avrebbe intanto fatto ritro-
vare i vasi sacri di Mosè in cui sarebbe nascosta la manna dell’esodo, l’acqua
scaturita dalla roccia scossa da Mosè e l’olio sacro.
Giustino, samaritano d’origine, nella I Apologia (140-150) dà un peso e-
norme a Simon Mago, alla luce di At 8 e di elaborazioni polemiche successi-
ve, ad esempio le Pseudoclementine. Secondo l’apologista questa figura sa-
rebbe stata mandata avanti dal demonio, alla maniera di un anticristo, per
contrastare la rivelazione di Gesù, essendo di fatto l’inventore dell’eresia,
nello specifico essendo il catalizzatore polemico per la nascita delle eresie
del marcionismo e dello gnosticismo. Inoltre Giustino salda il mito infraebra-
ico con quello pagano, sostenendo che Simone a Tiro avrebbe comprato una
prostituta chiamata Elena, la quale sarebbe in realtà la Elena di Troia della
narrazione mitica greca (cfr. Is 23 in cui secondo l’oracolo Tiro è vista come
un bordello). L’apologeta, tra l’altro, interpreta alla stregua di un mito proto-
logico la figura di Simon Mago come il Padre e di Elena, la donna più bella,
come il pensiero preesistente che crea gli angeli creatori del mondo, i quali
si innamorano di lei, la quale allora decade, degrada fino a diventare una pro-
stituta che necessita infine di essere riscattata da Simone. Queste stesse ri-
flessioni di Giustino sono condivise anche da Ireneo.
Sono diverse le fonti antiche che riportano la figura di Simon Mago. Ad
esempio la tradizione pseudoclementina parla della sua rivalità con Pietro e
del fatto che Elena sia inizialmente una discepola di Giovanni Battista, la
quale poi passa dall’unione profetica samaritana all’unione con Simone (in
realtà le omelie greche parlano di Elena, quelle latine di Selene). Inoltre negli

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

Atti apocrifi di Pietro con Simone, pur non comparendo questa figura fem-
minile, si parla del conflitto romano tra Pietro e Simon Mago, il quale si
innalza in volo per dimostrare il suo potere divino (cfr. Is 14 e Ez 28), tuttavia
l’apostolo prega Dio di farlo prevalere, così che l’impostore cade, viene poi
portato ad Ariccia (al Santuario di Diana) e infine a Terracina (al Tempio di
Giove Anxur), dove morirà. Ancora, in Ap 14 Simon Mago sarebbe eviden-
temente il demoniaco compagno della prostituta, nonché il falso profeta che
dà il segno a tutti gli uomini che lo seguano attraverso i commerci. Infine, in
2Tes ritroviamo la figura dell’anticristo, l’uomo di iniquità che si fa Dio al
posto di Cristo, poiché seduce con la menzogna e la sapienza perversa.
Si può notare che in tutti questi richiami agisce un dispositivo apocalittico,
nello specifico nel costruire su Simon Mago un polo magnetico come capro
espiatorio dei pericoli della Chiesa: sia quelli interni come le eresie, venendo
descritto come il rivale messianico che entra nella comunità per deformarla;
sia quelli esterni come la corruzione della fede attraverso il successo e il po-
tere politico. In particolare si può considerare il problema della gnosi simo-
niana, di cui in realtà abbiamo testimonianza solo grazie a Giustino e Ireneo:
Simon Mago, venendo compreso come un messia politico, è considerato un
catalizzatore polemico su cui sono (discutibilmente) proiettate le prime co-
munità gnostiche, in quanto egli diventa appunto un magnete di errori teolo-
gici. Sicuramente ci sono delle risonanze, nella questione della prostituta de-
caduta e redenta, tuttavia le dottrine gnostiche parlano della relazione Padre-
Figlio, mentre nella prospettiva simoniana solo il Padre scende. Addirittura
secondo alcuni studiosi, come Oscar Cullman, le comunità protocristiane in-
tuiscono la preesistenza di Cristo proprio in contatto con la Samaria, e con
Simon Mago quindi, ma in realtà si tratta di una retroproiezione giustiniana
delle origini gnostiche (nata probabilmente anche dalla confusa attribuzione
di una statua nell’isola tiberina al culto simoniano), poiché in At 8 la dyna-
mis, la potenza divina, avrebbe un significato carismatico e non ontologico
preesistente, dunque non potrebbe giustificare la cristologia alta.
La figura di Simon Mago viene ripresa secoli dopo da Dante Alighieri,
quando parla della simonia come il peccato di commerciare cose sacre, dun-
que usare la religione per fini venali (il cortocircuito sacro-denaro, luogo co-
mune apocalittico, ha il suo presupposto in Is 14 e Ez 28), e in riferimento
alla perversione sessuale, o meglio l’acquistare con denaro la propria donna
(che teologicamente sarebbe la Sapienza di Dio decaduta). Lutero condanna
poi la Chiesa romana per simonia, anzitutto non perché è corrotta, piuttosto
in quanto pretende di gestire economicamente il dono dello Spirito (in At 8
Simone infatti pretende di comprare lo Spirito). È un’accusa teologica tipi-
camente agostiniana quella di non capire che la Grazia è sottratta alla natura
e al suo potere e che anzi le dona qualcosa che non può attingere in autono-
mia (evidente la critica apocalittica), che in altri termini il dono dello Spirito

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

è gratuito e non può essere ottenuto attraverso prestazioni o comportamenti


(d’altronde il papa non sarebbe corrotto perché vuole il denaro, ma poiché
pretende di mediare la salvezza attraverso il giudizio sulle opere).
Propriamente Lutero identifica la simonia con il pelagianesimo, cioè la
dottrina spirituale ascetica ispirata a Origene e all’Agostino giovanile (per il
quale il libero arbitrio non è servo del peccato, bensì qualcosa di positivo),
elaborata dal monaco britannico Pelago dopo essersi rifugiato in Africa a
seguito dello scacco di Roma del 410. Secondo questa dottrina il peccato
originale fu dei soli progenitori e non dei discendenti, per cui non macchiò
la natura umana, che è rimasta pertanto incorrotta e ha conservato il proprio
potere redentivo, nel senso che ha subito come conseguenza il fatto che la
volontà (il libero arbitrio) sia in grado da sola di scegliere e attuare il bene,
senza necessità della Grazia divina. Il ruolo di Gesù è allora soltanto quello
di presentare un “buon esempio” in grado di bilanciare quello di Adamo e di
fornire l’espiazione per i peccati degli uomini: imitando Gesù, il credente è
chiamato a compiere un’ascesi orientando il libero arbitrio ai beni superiori,
evitando il peccato e giungendo da solo alla salvezza eterna, proprio perché
è stato creato libero da Dio e lui stesso, alla fine della vita, premierà o punirà
il buono o il cattivo uso fatto della propria volontà. In questo quadro lo Spi-
rito è semplicemente il dono divino che aiuta la libertà a progredire. Per Pe-
lagio esiste la grazia della creazione, della rivelazione, della Legge, dei mi-
racoli di Cristo e del suo esempio, della sua dottrina salvifica, ma non quella
preveniente (definita da Agostino “ispirazione d’amore” e che per Pelagio
Dio concederebbe ad alcuni secondo una sua volontà imperscrutabile).
A proposito del mito di Simon Mago come il mito dell’idealizzazione del-
la condizione umana, dunque dell’autonomia della natura umana alla luce di
una riducibilità del dono alla natura, è significativo anche il mito di Faust
(rivestito della forma letteraria a noi nota nel 1587), simbolo di tutte le per-
fezioni terrene dipendenti da un potenziamento della natura: Faust è l’uomo
naturale che afferma se stesso e il suo dinamismo inarrestabile su questa ter-
ra, prescindendo dalla logica del dono (su questo archetipo abbiamo anche il
mito dell’affermazione di sé di don Giovanni). È possibile ravvisare nel mito
faustiano alcuni elementi gnostici a proposito dell’esperienza di fruizione
della pienezza della natura, che contempla anche il godimento sessuale (del
resto gli eresiologi contestano agli gnostici di portare a letto le adepte, pren-
dendo alla lettera le metafore mistiche dell’unione tra redentore e redento).
L’elemento di connessione più forte tra questi elementi gnostici e il mito di
Simone è proprio ciò su cui la tradizione eresiologica insiste maggiormente:
la pretesa degli gnostici di possedere il divino naturalmente (del resto la na-
tura è Sophia, identità divina e donna posseduta sessualmente). Simon Mago
è colui che pretende di avere lo Spirito, tuttavia il suo spirito è soltanto l’om-
bra della luce dello Spirito di Gesù, lo Spirito che fonda l’identità cristiana.

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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI

INDICE

I. LE FONTI CRISTIANE ................................................................................... 2

II. LA FIGURA DI GESÙ ................................................................................... 8

III. LA SVOLTA PAOLINA ................................................................................. 19

IV. L’ORIGINE DELL’ERESIA E LA RICERCA DELL’ORTODOSSIA ...................... 30

V. I CAPISALDI DELLA PATRISTICA DEL III-V SECOLO .................................. 48

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