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LETTIERI
SAPIENZA
FACOLTÀ DI LETTERE MODERNE
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ANNO ACCADEMICO 2022-2023
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STORIA DEL CRISTIANESIMO I PROF. G. LETTIERI
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LE FONTI CRISTIANE
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che vedono negativamente Gesù come falso Messia). Abbiamo poi i testi
propriamente cristiani, ossia le fonti canoniche e quelle non canoniche. Per
quanto riguarda la nozione di canone, bisogna considerare che le Chiese do-
minanti nel bacino del Mediterraneo avevano archivi di testi riguardanti Ge-
sù, espressione di un’iniziale pluralità di interpretazioni della sua figura, che
attraverso un attento discernimento selezionavano e mettevano in comune,
definendo appunto un “canone”. Con questo termine, da “regolo”, si intende
la “regola” dottrinale che identifica i testi ispirati, in prospettiva antieretica.
La canonicità in pratica dà garanzia di tutela e conservazione dei testi, come
attesta del resto il fatto che rimane poco dei testi non canonici esistiti.
Le fonti canoniche costituiscono propriamente il corpus del NT, cioè l’in-
sieme dei testi decisivi del I secolo nati nel contesto della prototradizione
della Chiesa: i Vangeli di Marco (Mc), Matteo (Mt), Luca (Lc) e Gv, gli Atti
degli Apostoli (At) di Luca, le lettere apostoliche (di Paolo, Pietro, Giovanni,
Giacomo e Giuda) e l’Apocalisse (Ap) di Giovanni. La prima attestazione di
un canone testamentale è quella protocattolica (della Chiesa che si assesta
progressivamente) proposta intorno al 180 dall’eresiologo Ireneo, il quale
fissa un criterio di massima, ossia che per essere considerato canonico uno
scritto deve dipendere necessariamente da discepoli diretti di Gesù (come
Marco e Giovanni) o da loro interpreti (come Matteo, discepolo di Pietro, e
Luca, discepolo di Paolo). Un altro canone è quello Muratoriano del 200 cir-
ca. Il NT dunque è composto tra il 180 e il 200, ad ogni modo fino al Concilio
ecumenico di Nicea del 325 si avranno comunque diverse formulazioni ca-
noniche. Invece tra le fonti non canoniche abbiamo ad esempio i Vangeli
apocrifi, il Libro di Enoch (un testo dell’apocalittica ebraica, scritto prima in
ebraico, ma conservato oggi soltanto in etiopico, in quanto considerato ca-
nonico dalla Chiesa etiopica), il Pastore di Erma (in uso a Roma, ma poi
decaduto perché non apostolico) e i codici di Nag Hammadi (un insieme di
testi gnostici scritti in copto, tradotti dall’arabo egiziano, e rinvenuti in Egitto
nei pressi di Nag Hammadi, tra i quali il Vangelo apocrifo di Tommaso che
aveva appunto ispirato delle comunità gnostiche).
Per quanto riguarda nello specifico i quattro Vangeli, va precisato anzi-
tutto che non sono stati concepiti per essere poi unificati in un unico corpus,
tanto che fra loro si danno rapporti di confronto, di riscrittura o addirittura di
polemica (Gv, ad esempio, attacca quello di Mc e in generale è pensato non
per stare accanto agli altri, bensì in qualche modo per sostituirli). Pur non
essendoci quindi una trasmissione unitaria, provenendo infatti da una forma-
zione polimorfa della tradizione, i suoi rami vengono a un certo punto a con-
nettersi. Possiamo notare inoltre che tra Mc, Mt e Lc si ha una sostanziale
corrispondenza e continui richiami (si parla infatti di Vangeli “sinottici”),
per cui anche dal punto di vista ideologico vengono interpretati in maniera
congruente, seppur chiaramente con delle differenze.
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LA FIGURA DI GESÙ
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gli zeloti sono coloro che hanno lo zelo per il Tempio e Israele, dunque
percepiscono istanze messianiche militari e politiche e non spirituali, ma
il loro destino era quello della liberazione, attraverso l’insurrezione.
Il mondo ebraico è molto frastagliato. Pensiamo infatti a Qumran, movi-
mento di estrazione sadducea, sono persone che probabilmente vivevano se-
parati nel deserto con ideali di purezza estrema e considerano che il Tempio
e i sacerdoti sono impuri, perché il vero Tempio è il loro pneumatico.
È possibile parlare del rapporto di Gesù con la tradizione ebraica conside-
rando le prese di posizione sui suoi elementi identificativi, ossia la Legge e
il Tempio. Propriamente assistiamo a una loro complicazione e relativizza-
zione, dunque a una loro vera e propria riconfigurazione. A proposito della
Legge, come si vede in Mc 2,23 Gesù, ammettendo che i discepoli raccolga-
no spighe nel giorno di sabato, subordina la Torah, alla luce sua autorità davi-
dica (il re Davide aveva indotto a mangiare il pane del Tempio), a quelle che
sono le esigenze della comunità messianica (sostenendo che l’uomo non è
stato fatto per il sabato, piuttosto il sabato è stato fatto per l’uomo). In altri
termini, essendo così relativizzata, la Legge non viene messa in discussione
o viene negata, piuttosto viene reinterpretata radicalmente.
Altrettanto significativo è il contrasto con le prassi religiose vigenti nel
Tempio, da cui è possibile capire la reinterpretazione che fa di questo pilastro
della tradizione ebraica. Facciamo riferimento nello specifico all’episodio
della purificazione del Tempio, che in Gv è all’inizio (2,3), a sottolinearne la
rilevanza, mentre nei sinottici è alla fine, giacché per loro, in maniera non
molto attendibile, Gesù entra a Gerusalemme una sola volta nella vita, inoltre
è proprio questa vicenda a condurlo alla croce. Rovesciando le monete dei
cambiavalute, identificati come una spelonca di ladri, Gesù esercita la sua
pretesa di subordinazione dell’autorità del Tempio al suo ruolo. Propriamen-
te si vedono due atteggiamenti di Gesù opposti e sintetizzati nei Vangeli, os-
sia la purificazione e la distruzione. In Mc 14,58 troviamo ancora l’aspetto
della distruzione e quella della ricostruzione del Tempio in tre giorni (il rife-
rimento temporale può essere un’appendice dei credenti nella resurrezione),
tuttavia l’accusa che è rivolta a Gesù di voler annientare il Tempio qui in Mc
viene considerata falsa, mentre nell’episodio di Gv è considerata vera.
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lypto, che significa appunto “rivelazione”), testi in cui sono descritte le vi-
sioni di personaggi notevoli della “parallela” religione pubblica (ad esempio
Enoch, Abramo ed Elia). Propriamente Gesù trae il suo immaginario apoca-
littico dalla tradizione non scritturale del “Pentateuco enotico”, che riflette
una visione del mondo che con una certa approssimazione possiamo chia-
mare “apocalittica”. In Gen il patriarca antidiluviano Enoch è eletto da Dio
e, come poi sarà per Elia nel Secondo Libro dei Re (2Re), non muore, bensì
sparisce in cielo presso Dio, diventando così un rivelatore celeste. Per l’apo-
calittica giudaica sono significative le cinque sezioni del Libro di Enoch etio-
pico (chiamato così per le traduzioni etiopiche degli scritti da noi rinvenuti,
essendo del resto testi sacri per la Chiesa etiopica cristiana).
Nella sezione del Libro dei Vigilanti del Libro di Enoch, si parla di angeli
chiamati a vigilare sulla creazione e a far rispettare gli uomini creati da Dio,
ai quali insegnano le regole di civiltà, l’astrologia, la bellezza e in generale i
segreti celesti. Tuttavia si innamorano delle figlie dell’uomo e unendosi ses-
sualmente con loro rompono l’ordine di Dio, generando così i cattivissimi
giganti che mangiano tutto e moriranno solo con il Diluvio universale. Ad
ogni modo la loro componente sovrumana (essendo comunque figli di an-
geli) sopravvive nelle presenze dei demoni; propriamente i demoni principali
sono gli angeli caduti, mentre gli altri che ossessionano gli uomini sono le
anime dei giganti. La centralità dell’elemento demoniaco, quindi di disor-
dine, che insiste sulla malignità del mondo, è caratteristica dell’apocalittica
e di fatto assente nell’AT (sono in Giobbe [Gb] si legge di satana quale ten-
tatore angelo di Dio, subordinato comunque alla sua corte celeste), anzi in
Genesi (Gen) troviamo proprio il fondamento della bontà del mondo.
Altrettanto peculiare di questa corrente ebraica rispetto alla religione pub-
blica è che dal peccato originale dei giganti uniti alle donne con la seguente
caduta degli angeli, peccato più radicale di quello di Adamo ed Eva in Gen,
matura una visione negativa della sessualità e della seduttività della donna
(in effetti all’interpretazione di Gen noi diamo in qualche modo una sovrap-
posizione apocalittica). In pratica l’atto sessuale è il mezzo attraverso cui il
peccato è entrato nella creazione divina, in maniera opposta nella tradizione
ebraica, in cui, alla luce del comando divino di crescere e moltiplicarsi ri-
volto ad Adamo ed Eva, è il non esercizio della sessualità a essere visto come
un’imperfezione, sinonimo per certi versi di disobbedienza.
In un’altra sezione del Libro di Enoch, il Libro dell’astronomia o dei Lu-
minari celesti, vengono esposte nozioni astronomiche che coincidono con
quelle esposte nel Libro dei Giubilei e con quelle in uso presso gli esseni. Al
sole è fatto corrispondere il perfetto ciclo maschile, mentre alla luna l’imper-
fetto ciclo femminile. Da ciò si può notare che a questi testi dell’apocalittica,
benché non si impongano come canonici per il cristianesimo, la nuova reli-
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alla rivelazione divina e all’unzione, sembra che Giovanni non partecipi at-
tivamente a questo momento, come se Gesù fosse battezzato da lui soltanto
anonimamente. Tanto più questo ribaltamento è visibile in Gv, in cui il Bat-
tista non solo non ha battezzato Gesù, ma è semplicemente il testimone della
luce che deve venire (Gv 1,8) e, come afferma egli stesso, non è il Cristo (Gv
1,19), lo Sposo, piuttosto sarebbe colui che lo precede (Gv 3,28).
Complessivamente comunque i canonici parlano di Gesù originariamente
discepolo del Battista, che apprende da lui un messaggio radicale di profezia
escatologica, cioè sulla fine del mondo e l’attesa del Regno divino, dunque
a proposito della necessità di un battesimo di penitenza, per mettersi poi in
proprio. Egli avrebbe quindi preteso di portare avanti o di compiere e supe-
rare la missione di Giovanni. È problematico individuare se questa autono-
mia avverrebbe prima o dopo l’arresto del Battista: Gv sostiene prima, in
parallelo, mentre per Gaetano Lettieri avverrebbe dopo, continuando e supe-
rando la missione di Giovanni, tanto che i discepoli di quest’ultimo si chie-
dono se hanno davanti il Messia. Anzi Gv attesterebbe anche il passaggio di
alcuni discepoli dal Battista a Gesù. In realtà, secondo questa tesi ardita, Gio-
vanni non avrebbe concepito la sua missione finalizzandola all’evento di Ge-
sù, né l’avrebbe pensato come il suo discepolo prediletto, né addirittura a-
vrebbe riconosciuto la sua messianicità, perché egli stesso si sarebbe identi-
ficato come il Figlio di Dio, il suo profeta, il suo Unto.
Questa idea si basa sull’episodio delle nozze di Cana (Gv 3,2-10), in cui
si parla del vino vecchio, scadente, e di quello nuovo, eccellente: la parteci-
pazione di Gesù alle nozze è la simbolica affermazione della superiorità del
vino da lui trasformato e delle sue nozze nei confronti dello Sposo Battista,
così smentendo la sua pretesa messianica. Il primo miracolo di Gesù sarebbe
pertanto il segno della sua messianicità sopra Giovanni, proprio perché basa-
to sui riti di abduzione del Battista (l’acqua per purificare). La tesi è suffraga-
ta da più fonti: le Pseudoclementine, in cui è mostrato il conflitto tra i disce-
poli di Gesù e quelli del Battista considerato come Messia; la tradizione man-
diana, secondo cui Gesù sarebbe l’inviato maligno venuto a uccidere al Gior-
dano Giovanni, vero Messia; i testi gnostici, dove il Battista è l’Arconte del-
l’Utero che vuole affogare Gesù nel Giordano (d’altra parte la tradizione rin-
via a una connessione fra i due, sia genetica che di rivalità); il fatto che nei
Vangeli canonici Gesù, pur parlando bene di Giovanni, lo ridimensiona.
Quindi la messianicità di Gesù sarebbe affermata proprio attraverso la ri-
valità con Giovanni e l’abbassamento della sua pretesa messianica: dopo la
morte del Battista, Gesù porta avanti il suo messaggio, nel segno di irriduci-
bili similarità fra i due. Anzitutto entrambi officiano battesimi di penitenza
per il perdono dei peccati, segno di un’avvenuta conversione. Alla luce di
Gv 1,25-34 circa il battesimo di acqua del Battista e quello in Spirito di Gesù,
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Gesù cerca la morte perché poteva essere la prova decisiva della sua messia-
nicità, in quanto secondo le attese apocalittiche la resurrezione dei morti è il
segno dell’avvento del Regno di Dio annunciato. Secondo Mauro Pesce, in-
vece, sembra che Gesù non voglia morire, quindi la resurrezione è la risposta
compensativa della comunità al fallimento storico del maestro.
Da un punto di vista storico, come poteva pensare Gesù, predicatore mar-
ginale, carismatico provinciale, che a Gerusalemme i sacerdoti, classe aristo-
cratica, l’avrebbero potuto riconoscere? Egli si sposta nel cuore politico, si
butta nella caldaia delle altissime tensioni tra occupanti romani e resistenze
ebraiche, ma va a sfidare i poteri costituiti. La pretesa di Gesù di essere con-
siderato figlio di Dio è alta dal punto di vista religioso e per far sì che venga
riconosciuta si muove in un senso centripeto, cioè a partire dal centro. Perché
Gesù a Gerusalemme si espone alla prova ultima, nonché mettersi definiti-
vamente nelle mani di Dio qualora egli volesse rivelarlo come Messia (solo
lui può dargli il potere o mettere fine a tutto), disporsi alla verifica divina
della sua pretesa messianica (andiamo a Gerusalemme significa scoprire le
carte: «Se possibile allontana da me questo calice [cioè dimostra la mia mes-
sianicità ora]», altrimenti «sia fatta la tua e non la mia volontà»).
Tutto questo richiedeva che ci fossero dei testi biblici che giustificassero
questa ipotesi folle che per compiere la pretesa messianica: Is 52,13-53,12 e
Sal 22 (si tratta di testi che circolano al tempo, anche in frange politiche e
messianico-politiche, a motivo delle attese di liberazione politica di quel
tempo). Il primo passo è il IV canto del Servo sofferente del Deuteroisaia (Is
52,13-53,12), in cui dal sacrificio si realizza un esito positivo (la morte è
questo spogliarsi e assumere la condizione tremenda di umiliazione, di soffe-
renza e di tormento, tuttavia è il presupposto della glorificazione). Gesù cer-
ca il cortocircuito per la questione dell’autoidentificazione con l’agnello sa-
crificale con i riti sacrificali della Pasqua ebraica: assistiamo in tal senso a
un vortice interpretativo (pensiamo anche a Gv e Ap); Gesù in altri termini è
una calamita simbolica. Se egli si interpreta in questa maniera deve pensare
a una messianicità che passa attraverso la morte (in effetti la tradizione ebrai-
ca post-cristianesimo surgela il brano del Deuteroisaia).
Tutto questo l’ha interpretato la prima comunità cristiana, andando a ri-
configurare questo rito eucaristico come rito sacrificale, oppure Gesù stesso
ha attivato questo, che ha progettato e interpretato, dando questa dimensione
memoriale e sacrificale? Il «fate questo in memoria di me» davvero Gesù
l’ha pensato e detto? In realtà lui si riferirebbe a qualcosa più a breve termine:
morto e risorto. Sembra invece suggerire un lavorio della comunità, che nel
ritardo della parusia ha bisogno di rammemorare il sacrificio, di far divenire
Gesù anticipatamente la venuta definitiva attraverso la ripetizione del rito.
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LA SVOLTA PAOLINA
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nemmeno mai il termine. Tuttavia la sua novità strepitosa è l’idea del mes-
saggio gesuano come rivolto a tutte le genti, anche ai pagani. In effetti da un
punto di vista storico Gesù rivolge il suo messaggio molto probabilmente a
Israele (si pensi a quando afferma che la fede – ebraica – di una donna l’ha
salvata), senza una portata universalistica, se non come effetto secondario: il
fuoco della predicazione è tutto per la conversione di Israele, in continuità
con la predicazione del Battista. Tuttavia Paolo concepisce in una prospettiva
universalistica (ed ellenistica) l’iniziale economia elettiva ebraica.
E questo attraverso, anzi grazie all’indurimento di Israele (in qualche mo-
do, allora, il sacrificio redentivo di Gesù crocifisso è il sacrificio di tutto il
popolo). Nell’immaginario ebraico il popolo di Israele sarebbe infatti la spo-
sa eletta di Dio, che tuttavia lo tradisce unendosi a genti straniere. Per Paolo
questo tradimento è necessario perché Dio possa così eleggere e sposare la
totalità dell’umanità in Gesù (quindi comunque anche gli ebrei), il quale sa-
rebbe così lo Sposo atteso da Israele (si pensi all’incontro di Gesù con la sa-
maritana, in cui egli stesso parla di sé come dello Sposo, oppure all’episodio
delle nozze di Cana in cui il Battista si definisce amico dello Sposo).
La promessa di Dio in ogni caso è irrevocabile, quindi la fine del mondo
si avrà soltanto quando la fede di Israele sarà ripristinata e anche Giuda (sim-
bolo di Israele) sarà salvato. Significativa a tal proposito la metafora dell’u-
livo e degli innesti: Israele sarebbe l’ulivo, l’albero dell’elezione, ma storica-
mente gli israeliti sono i rami che si sono seccati e per questo motivo vengo-
no tagliati, permettendo in tal modo l’innesto dei rami dell’oleastro, un olivo
selvatico, simbolo dei popoli non eletti. L’innesto avviene all’interno di un
albero che resta ad ogni modo ebraico (con Paolo, in effetti, abbiamo l’ebrai-
cizzazione del mondo) e la fine della storia si avrà quando gli ebrei saranno
rinnestati nel tronco originale. L’esclusione di Israele sarebbe del resto anti-
paolina e anti-cristiana: il cristianesimo stesso è una religione ebraica extra-
ebraica, quasi un tumore ebraico da amputare, che resta tuttavia ebraico.
La scelta dell’universalismo di Paolo si afferma dopo e in conseguenza al-
la crocifissione di Gesù, la mancanza di fede nella resurrezione e l’attesta-
zione del ritardo della fine del mondo e della prospettata irruzione escatolo-
gica del Regno. In tal senso la diffusione epidemica del messaggio di salvez-
za cristiano è un fenomeno di sostituzione, di compensazione spaziale del
fallimento temporale e di fatto rappresenta un delirio, la pretesa che il mondo
intero si converta e diventi santo. L’ideale rimane quello, l’irruzione del go-
verno di Dio sul mondo (la sua presenza nell’umanità trasfigurata, redenta)
e la manifestazione ubiqua dello Spirito che fa risorgere i morti, ma Paolo
avvia questa modalità di reinterpretazione dell’escathon con la diffusione
carismatica della comunità di Gesù tra i pagani. Il suo messaggio si basa sul-
l’interpretazione sacrificale della morte di Gesù, che consente la resurrezione
dei morti, la loro salvezza, il dono dello Spirito come attore della resurrezio-
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«Siete così privi d’intelligenza che, dopo aver incominciato con lo Spirito,
ora volete finire con la carne?» (Gal 3,3). Fondamentale in Paolo è la dialet-
tica carne-Spirito: la carne è l’uomo, con la sua Legge scritta; lo Spirito, che
immortalizza, libera e garantisce l’escatologia tra uomini e Dio, è Cristo stes-
so, il quale sulla croce ci ha riscattati dalla maledizione della Legge diventan-
do per noi maledizione (in quanto appeso al legno, secondo Dt 21,23); la cro-
cifissione è infatti la prova che Dio abbia fatto ruotare l’economia dalla Leg-
ge allo Spirito. Chi non si apre alla forza dello Spirito viene maledetto e ucci-
so; si pensi a 2Cor 3,6: «infatti la lettera uccide, lo spirito invece vivifica»,
per affermare la superiorità del messaggio di Cristo, fondato sullo Spirito,
che è vita, rispetto alla Legge che è lettera scritta e cioè formulazione esterio-
re. In quest’ottica da elemento di elezione d’Israele che fa esaltare dalla ma-
ledizione, la Legge con Gesù è l’elemento stesso di maledizione, che funge
ad ogni modo da premessa del dono maggiore dello Spirito, poiché rivela la
maledizione affinché si possa essere salvati dalla grazia, come un pedagogo
che conduce a Cristo, lo Spirito, per essere così giustificati per fede.
Paolo giustifica con la Scrittura la supremazia dello Spirito, sostenendo
che prima viene la fede e poi la Legge; del resto Abramo, a cui è stato affidato
il primo vero testamento, è stato salvato dalla fede e non dalla Legge, data
poi a Mosè (oltretutto dagli angeli e non da Dio stesso). Se quindi gli ebrei
sono i figli di Abramo allora sono i figli della fede e non della Legge, nel
senso che è la fede a renderli ebrei, quindi eletti. Gesù, discendente di Abra-
mo, infatti non nega la Legge, ma la porta a compimento relativizzandola al-
la sua messianicità. Inoltre la fede è il perno della giustizia, ciò che giustifica
e che permette oltretutto l’elezione di tutte le genti. Tra l’altro Dio aveva già
preannunciato ad Abramo che attraverso di lui sarebbero state elette tutte le
nazioni e ora, in Gesù, si giunge al compimento di questa promessa. E questo
è possibile proprio attraverso il popolo di Israele che, come Giuda, diventa il
popolo maledetto poiché prigioniero della Legge, tuttavia chiamato a credere
in Dio perché sia possibile l’avvento del Regno (cfr. metafora dell’ulivo).
Parliamo di un dualismo economico, nel senso che si distinguono due piani
di salvezza, la Legge e la nuova rivelazione di Grazia che supera la Legge.
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cerchio (quei circuiti con Cristo sono frantumati, come osserverà Agostino).
Per capire meglio quest’aspetto si consideri che se la resurrezione è davvero
presente in tutte le culture, non è tuttavia una concezione di resurrezione in-
dividuale come nel cristianesimo, che ha perciò la potentissima capacità di
rielaborare la struttura antropologica chiave dell’umano con una straordina-
ria potenza di significazione e di totale risignificazione. Oppure si pensi che
invece di parlare del dio egizio che muore e rinasce, il cristianesimo prende
questo dispositivo della morte del dio e tuttavia fa cominciare una cosa nuo-
va, la storia, come attesa della fine, come inizio della fine.
Un secondo elemento di specificità cristiano della dialettica vita-morte, o
meglio di originalità (perché si tratta comunque di rielaborazioni, invenzioni
pazzescamente originali, di dati antropologici e culturali), è che la prospet-
tiva apocalittica di Gesù segna la dimensione tipicamente ebraica della di-
struzione del potente e dell’esaltazione del miserabile (il Messia distrugge
un ordine per crearne un altro). Per fare un esempio, pensiamo al fatto che
tutte le culture hanno lavorato sulla legittimità del potere, mentre il cristia-
nesimo invece lo fa saltare. È la logica kenotica che spinge a innalzare ciò
che è vuoto, ciò che è nullo, ciò che è miserabile.
A tal proposito consideriamo che il termine “nichilismo”, di cui Nietzsche
dà la più grande interpretazione, è un articolo paolino di secondo grado. In
1Cor 1,17-31 il nichilismo diventa attivo con la negazione della negazione
della vita: Paolo qui dice che evangelizza senza potenza di parola (alcuni
hanno battezzato che balbettasse pure), ma perché non fosse svuotata, annul-
lata la decisività di Cristo. In altri termini il Vangelo viene annunciato da una
parola debole, che è perciò il segno della potenza della Croce rispetto alla
parola umana: c’è una dimensione quindi antitetica e violenta tra il divino e
l’umano, in quanto il mediatore, che è il Cristo, salva annientando e annien-
tandosi, scegliendo le cose che non sono per annientare le cose che sono
(l’annientamento del potere dell’uomo è il motivo per cui Nietzsche odiava
Paolo alla fine). La potenza divina come antitetica alla potenza degli uomini
è ripresa da Paolo nei profeti veterotestamentari: il mondo cerca la sapienza,
ma Dio lo salva annientando il potere naturale, così che Cristo ha annientato
(katargeo) ed esaltato il niente, le realtà che non sono (l’unico precedente è
profetico-apocalittico), tanto che poi i suoi predicatori saranno pietra di in-
ciampo per i giudei e stoltezza per i pagani, i filosofi.
La dialettica morte-vita (rinascita) nell’interpretazione paolina è portata
all’iperbole, è estremizzata, fino a rovesciare la logica naturale, quella del
mondo che, attraverso anche i miti di morte e resurrezione, cerca la vita, la
potenza. Con la prospettiva di Paolo invece l’unica potenza è quella di Dio,
che in Cristo fa saltare la dialettica ciclica vita-morte, facendo accedere a una
nuova dimensione della vita. Si tratta quindi di una concezione anticiclica,
perché fa passare dalla morte naturale non alla vita, ma a una dimensione ec-
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4. La cristologia di Paolo
Nella Chiesa protocattolica è possibile individuare diverse cristologie:
primitiva carismatica, apocalittico-rivelativa, secondo la quale Gesù rice-
ve la dynamis, ossia lo Spirito del Padre, quale impersonale dono carisma-
tico attraverso cui si manifesta la potenza operativa di Dio; dunque non è
contemplata la dimensione preesistente di Gesù. È in altri termini la cri-
stologia bassa dei sinottici (in Mc il dono dello Spirito si ha con il batte-
simo, mentre in Mt e Lc nel concepimento verginale). In alcuni punti so-
prattutto di Mc emerge un punto di vista adozionistico, eresia secondo cui
Cristo è solo un uomo adottato dal Padre, assunto da lui alla divinità;
delle Pseudoclementine, attribuite a Clemente di Roma, discepolo di Pie-
tro e terzo vescovo di Roma. Sarebbe una cristologia adamitica, secondo
cui Gesù è l’ultimo profeta, l’Adamo edenico impeccabile, redivivo, che
riceve lo Spirito, l’olio messianico dall’albero della vita, il quale visita i
profeti per arrivare a Gesù (stessa linea di Maometto);
giovannea, alta, per cui Gesù è interpretato come preesistente; Dio sareb-
be in due ipostasi o persone. Questo comporta l’innalzamento di Gesù dal
piano storico a quello protologico e ontologico, già trinitario;
della corrente ipergiovannea, così convinta dell’esaltazione della divinità
di Cristo da mettere in ombra la sua dimensione naturale. Si apre così il
rischio dell’eresia docetista, secondo cui la natura umana di Cristo non
viene considerata, dunque la passione e la morte sono solo fittizie. Nella
Prima Lettera di Giovanni (1Gv), invece, si mette in evidenzia la concre-
tezza di Cristo, probabilmente proprio in chiave anti-docetista.
Secondo una tesi minoritaria, ma convincente, quella di Paolo non sarebbe
una cristologia alta, come quella giovannea, in cui si afferma la preesistenza
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Ma se tutto è alla fine, Dio che ha fatto prima? Ha sbagliato tutto? Nel II
secolo abbiamo infatti lo gnosticismo che parla del Dio creatore e del Dio di
Cristo. Come si salva la coerenza di Dio, il fatto che debba essere responsa-
bile della creazione? La tradizione cattolica ha detto che Dio sin dall’inizio
ha dato una rivelazione parziale del suo progetto di salvezza, quindi gli uo-
mini già avevano una scintilla di bene, ma poi hanno peccato e Gesù infine
li ha risvegliati. Questo comporta un movimento chiave, cioè il fatto che il
Cristo escatologico di Paolo (Col) diventa anche il Cristo creatore; se Cristo
da soggetto escatologico diventa anche protologico e creatore, il dono del-
l’immagine è collocato di nuovo all’atto della creazione. In sintesi, a partire
dalla fine del I secolo e l’inizio del II secolo all’idea paolina del Cristo esca-
tologico datore di Spirito e quindi immagine celeste si sovrappone l’idea di
un Cristo divino creatore dell’uomo e datore della sua immagine a ogni crea-
tura (la donazione dell’immagine celeste è retroproiettata al momento della
creazione), ma in seguito al peccato di Adamo c’è bisogno dell’incarnazione
di Cristo perché l’immagine venga restaurata e quindi compiuta. Abbiamo
quindi quello che è un processo di retroproiezione del Cristo escatologico,
redentore, che dona lo Spirito in quello protologico, creatore, ontologico,
dunque dell’immagine carismatica nell’immagine protologica.
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ancora vivo. Anche se poi in lui l’attesa si spiritualizzerà, egli abita espli-
citamente di abitazione celeste e pensa all’avvento del Regno divino co-
me vero e proprio passaggio dalla terra al cielo;
lo Spirito principio eversivo delle strutture religiose tradizionali. La nuo-
va alleanza è nello Spirito, nel quale si costituisce il Regno, per cui le
strutture del tempo non sono rinnegate, ma riconfigurate completamente;
il voler distruggere il Tempio per la pretesa di Gesù di essere l’uomo deci-
sivo di Dio. Per Paolo Gesù morto e risorto sostituisce lo Spirito alla Leg-
ge e il nuovo Tempio è la comunità dei credenti nello Spirito (il Tempio
non è stato ancora distrutto quando Paolo sta scrivendo);
la centralità della resurrezione dei morti. C’è un passo sinottico (Mt 22,
23ss) in cui Gesù è provocato dai sadducei circa la resurrezione dei morti
(creduta dai farisei, gli esseni e probabilmente anche gli zeloti). Gesù ri-
sponde che sono in errore perché non conoscono le Scritture nella potenza
(la dynamis) di Dio, che fa la differenza: si risorge come angeli di Dio in
cielo («Alla risurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si
è come angeli nel cielo»). Qui sembra, ipotizzata da Gesù, qualcosa di a-
nalogo a Paolo: la resurrezione fa sì che l’umanità si “angelizzi”, ci sia
questo passaggio dalla terra al cielo, questa spiritualizzazione radicale
(saranno sempre i nostri corpi, ma non li useremo più sessualmente).
Ecco perché le prime comunità cominciano a dire che la castità sia una
virtù: se il mondo deve finire e il nostro destino antropologico è quello della
spiritualizzazione, quindi il sesso non serve più, perciò se ci rinuncio passo
a una natura angelizzata e “divinizzata” in qualche modo (nel senso che ri-
cevo l’intimità con Dio). Si tratta quindi di una modalità di anticipo nella di-
mensione escatologica angelizzata, come un distacco dal mondo in approssi-
mazione alla dimensione di Dio (per correre nel Regno bisogna dimenticare
le cose passate, tra cui propriamente l’esercizio della sessualità, entrando in
tal modo nella dimensione angelizzata). In 2Cor 4 riscontriamo delle tracce
di un pensiero apocalittico nell’accenno al “Dio di questo mondo”.
A partire dalle categorie apocalittiche assistiamo a un tendenziale duali-
smo antropologico: per la tradizione biblica l’uomo è carne (sarx, che non è
“corpo”, bensì tutto l’uomo), progressivamente però il cristianesimo sdop-
pia, cioè siamo corpo, ma la realtà carnale e concreta (compresa la dimensio-
ne e l’esercizio della sessualità) è solo un aspetto provvisorio della mia iden-
tità. Si introduce così la questione dell’anima, elemento non corporeo nel-
l’identità. L’uomo, chiamato a una nuova dimensione escatologica, vede una
antropologia più complicata: quella cristiana diventa molto analoga, fino a
corrisponderle, alla platonica (inizialmente non presente nei Vangeli).
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4
L’ORIGINE DELL’ERESIA E
LA RICERCA DELL’ORTODOSSIA
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Questo segnala che il termine “eresia” sia piuttosto ambiguo, come abbia-
mo visto “apocrifo”: in se stesso è neutro e nonostante può semmai avere u-
na connotazione positiva (in riferimento alla riconfigurazione di un’identità
religiosa nuova e alternativa all’ebraismo; si pensi all’accusa rivolta a Paolo
in At 24), solo dopo è diventato negativo. Proprio in questo senso il problema
dell’eresia diventa ossessivo a partire dal II secolo, quando diventano forti le
resistenze ai nuovi assetti identitari gesuani protocristiani. In una prima fase
della storia della comunità cristiana nascente è evidentemente centrale l’at-
tesa imminente del Regno, però quando in una seconda fase questa realtà tar-
da ad arrivare la fiammata carismatica ha bisogno di una struttura per man-
tenersi, un potere che garantisce la tenuta identitaria. In altri termini è neces-
saria un’ortodossia perché l’identità non venga divisa o contraddetta, piutto-
sto si traduca in un annuncio credibile e universalmente efficace. A compli-
care le cose, in realtà, occorrerebbe osservare che già Flavio Giuseppe divide
il mondo giudaico in sette aeresis, identificando un principio di eresia già
nel giudaismo del secondo Tempio, dunque radicando il principio dell’eresia
nell’ortodossia ebraica. In tale retrodatazione del principio di eresia/ortodos-
sia è fondamentale il testo della 1Gv che condanna anticristi gli avversari,
quelli che reputano apparente la natura umana di Gesù: la crisi interna della
comunità giovannea genera la demonizzazione dell’avversario.
Declinando la fede in Gesù come soggetto carismatico che annuncia l’av-
vento di un Regno che però non viene, piuttosto parlando di un Gesù che è
Dio, potere assoluto, la cristologia giovannea si configura presto come un la-
boratorio di ortodossia protocristiana, mentre le cristologie basse di Mc, Lc
e Mt (e in parte anche Paolo, se si considerano solo le sue lettere autentiche)
sono considerate in qualche modo troppo ebraiche e conservative, non garan-
tendo la diffusione del messaggio in ambito greco, dunque minacciando la
credibilità stessa della pretesa gesuana. L’interpretazione giovannea del ri-
tardo del Regno è più efficace: l’assenza del Gesù atteso e la mancanza asto-
rica viene sostituita dall’affermazione altissima, quasi folle, che la sospen-
sione è colmata con la presenza assoluta del divino creatore. In questo modo
il cristianesimo si presenta vincente poiché duraturo, capace di tenere bene
l’urto della storia e il ritardo dell’avvento del Regno.
Affermando la divinità del crocifisso da Israele, quale Dio creatore e pree-
sistente, ci si inizia così a muovere verso una direzione diteistica in ambito
pagano, comportando però una rottura definitiva con Israele e il suo monotei-
smo assoluto. Man mano, perciò, tutti gli altri fiumi cristologici oltre quello
giovanneo si essiccano; oltre a Giovanni resiste solo Paolo, in quanto inglo-
bato dalla teologia giovannea (per cui a quella paolina viene attribuita la qua-
lifica di cristologia alta). Tuttavia nella direzione dell’affermazione giovan-
nea del rapporto preesistente tra Padre e Figlio si sviluppa il docetismo, che
considera la natura umana di Cristo non vera (da docheo, cioè “sembrare”),
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ontologizzante), in quanto non c’è più un dono che arriva alla fine, in Cristo,
ma un dono originario che il Logos fa seminando questi semi di verità. Pro-
priamente egli usa l’espressione Logos spermatikos (immagine stoica): in-
terpreta Cristo come il Logos spermatico, che ha disseminato nelle sue crea-
ture delle particelle di intelligenza. In questo senso l’uomo è a immagine di
Dio, perché ogni uomo creato dal Logos (presupposto giovanneo) è animato
da tali particelle, semi, scintille di intelligenza divina (che è l’essere a imma-
gine di Dio, a partire dal battesimo, in cui riceviamo appunto lo Spirito). Una
tale partecipazione è più chiara nei profeti dell’AT e più oscura nei filosofi,
come Socrate. Quest’accostamento a un pensiero potentissimo e complesso
come quello ellenistico permette al cristianesimo nascente di avere una forza
culturale travolgente. Quest’intuizione proposta da Giustino verrà successi-
vamente sviluppata da filosofi più sofisticati, come gli alessandrini.
Inoltre Giustino non è soltanto il filosofo del Logos, ma è anche il primo
eresiologo, che crea di fatto una teoria dell’eresia, cioè dell’errore. È nella
sua genealogia dell’errore che sappiamo di Marcione, oltre che ai polemisti
Ireneo di Lione e Tertulliano. Dunque a Roma abbiamo il polo di Giustino,
quindi la “Grande Chiesa” (chiamata così da Celso intorno al 170), ossia la
prima manifestazione storica di quella che poi sarà la Chiesa cattolica, quale
organizzazione gerarchica ed esegetica, che determina l’ortodossia per me-
diazione e compromesso discernendo l’eresia, e poi il polo di Marcione.
4. Il marcionismo
Il problema dei primi decenni del II secolo è la sistematizzazione di un ca-
none. Il primo, che testimoniando la verità della natura profondamente strut-
turale dell’eresia cristiana è perciò un canone eretico, sarebbe quello di Mar-
cione. Marcione è il primo a stabilire una lista di scritti autorevoli, che ci di-
cono la vera idea di Gesù. Tuttavia per esserci un canone deve esserci autori-
tà, per questo non nasce subito (50-100, datazione tradizionale, anche se ci
sono datazioni molto più basse che hanno in Marcione il punto di tenuta).
Marcione nasce in Asia minore da una famiglia ricca, fa l’armatore e ha
successo, così quando giunge a Roma dona nella prima metà del II secolo la
somma clamorosa di duecentomila sesterzi alla comunità cristiana, tuttavia
gli viene ridata ed è espulso, probabilmente nel 144. Questo fatto è del tutto
inedito, ma l’essere espulso rivela un pensiero totalmente incompatibile con
quello della comunità romana. Ad ogni modo nella I Apologia (150-153)
Giustino rivela che la chiesa marcionita è diffusa in tutto il globo: è senz’al-
tro di un’esagerazione politica, che dice comunque il successo della struttura
ecclesiastica parallela alla Grande Chiesa, che le fa cioè concorrenza e che
sopravvive per secoli. Tuttavia di Marcione non abbiamo una riga, se non
quanto dicono gli avversari, ossia Giustino, Ireneo di Lione e Tertulliano,
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per cui questa dottrina in molti tratti ci sfugge. Sicuramente si tratta di una
rottura innovativa con quanto c’era, presentata attraverso dei testi.
Se dobbiamo identificare i caposaldi di questa proposta dottrinaria possia-
mo seguire Ireno di Lione, il quale ce la espone attraverso tre principi:
il rigetto del Dio dell’AT, dei suoi comandamenti e dei suoi profeti;
la credenza di un Padre buono che fa irruzione nella storia tramite il Fi-
glio, cioè Cristo, il quale avrebbe due scopi, ossia salvare soltanto coloro
che avranno fede in lui e abolire le opere del Dio creatore;
la mutilazione di Lc e delle lettere paoline (per Ireneo Marcione avrebbe
ripulito tutto quello che è deriva rispetto alla sua teoria).
Di questa mutilazione ce ne parla Tertulliano, il quale ce ne dà una rico-
struzione sistematica in cinque libri intitolati proprio Adversus Marcionem.
L’eretico avrebbe rimosso la parte della nascita di Gesù e inizia con Cafarnao
ed eliminato una serie di parabole (come quella del figlio prodigo e quella
dei vignaioli omicidi), nell’intenzione di far fuori ogni connessione tra Cristo
e le sue possibili prefigurazioni nei profeti, dunque gli schemi tipologici (nei
profeti si prefigura il Cristo; l’obiettivo è eliminare ogni vicinanza tra Gesù
e il Dio dell’AT). In altri termini il canone sarebbe composto solo da Lc puri-
ficato, che è il Vangelo paolino, e da dieci lettere di Paolo, cioè quelle auten-
tiche e quella agli Efesini (Ef), senza le pastorali (in quanto non autentiche e
soprattutto perché, secondo il fiuto filologico di Marcione, sarebbero il primo
aggiustamento paolino alle esigenze di una cultura ecclesiastica).
Del resto Marcione è esponente di un paolinismo radicale: mentre Paolo è
un ebreo monoteista, come tutta la tradizione delle origini cristiane, quello
marcionita esaspera il dualismo economico retroproiettandolo a livello teo-
logico, nell’idea che non si può accettare il nuovo se si rifà sempre al vecchio
(Paolo in realtà è molto più complesso di questa riduzione). Con esattezza,
in questa prospettiva la Legge è espressione di un Dio che non è quello di
Gesù, mentre il vero Dio è quello della Grazia. In tal senso la salvezza con-
siste nel possesso della conoscenza del Dio buono e nel rifiuto del Demiurgo:
il Dio buono si rivelò in Gesù e comparve come uomo in Giudea; saperlo, e
divenire completamente liberi dalla favola del creatore del mondo o Dio
dell’AT, è il fine ultimo a cui tende ogni processo soteriologico. Possiamo
considerare che Marcione è una di quelle strade che avrebbe potuto prendere
il cristianesimo se avesse proseguito con l’ellenizzazione, buttando al mare
l’AT (d’altra parte Paolo rappresenta un problema per la comunità romana),
tuttavia la comunità cristiana resta sempre intimamente giudaica.
Di fronte allo shock di Marcione si capisce che bisogna creare il canone:
lo farà Ireneo nel 180 circa. Tuttavia alcune teorie storiografiche recenti so-
stengono che la vicenda si sia svolta al contrario: agli inizi del II secolo il
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Vangelo di Marcione sarebbe la prima stesura e poi gli altri Vangeli verreb-
bero in risposta stesi da altre tradizioni. Questa teoria, che sposta evidente-
mente in avanti la datazione dei Vangeli, ha vari gradi di radicalità.
L’unico testo che dovrebbe aver scritto Marcione sono le Antitesi, ossia
delle contrapposizioni di un verso dell’AT e il NT, dunque da un lato la legge
del taglione e dall’altro l’invito a porgere l’altra guancia, da una parte Mosè
che ordina di distruggere e dall’altra Gesù che dice di amare… Secondo
molti in quest’opera dialettica non c’era nemmeno il commento di Marcione,
bensì solo un accostamento scritturale. L’obiettivo è quello di mostrare che
Legge e Grazia sono contrapposte, perché il Dio creatore non è quello di Ge-
sù; questi infatti non ha un vero corpo (Marcione è un doceta) perché non
può assumere un corpo creato da un altro Dio. Del resto è il banditore di un
messaggio ignoto e inaudito di Grazia (caratteristiche paoline estremizzate),
il rivelatore spirituale (non consustanziale) di un Dio sommo, buono, stranie-
ro al mondo, che ha come scopo liberare l’uomo dal Dio creatore, il quale
pratica una giustizia distributiva, dà a ciascuno secondo il merito.
A proposito del luogo teologico della discesa di Gesù agli inferi, che ri-
sponde al problema di chi è morto prima della rivelazione salvifica, Mar-
cione ha una variante meravigliosa: Gesù sarebbe accolto solo dagli ultimi, i
disperati, i perseguitati, i sodomiti, in pratica tutti coloro non sarebbero me-
ritevoli di alcuna salvezza, ma che sono in grado di aprirsi credenti alla novi-
tà del Dio sommo che arriva come un ladro di notte e ruba uomini non suoi,
ma del Dio creatore, per farli beneficiari della vera bontà, quella che si effon-
de volontaria e libera verso gli estranei (mentre chi non crede concepisce il
messaggio di libertà come una tentazione demiurgica). Il fatto che si parli di
Dio come ladro restituisce il carattere anarchico, eversivo, destabilizzante,
totalmente estraniante del dono (la Grazia elegge i fuorilegge è il messaggio
apocalittico nel suo grado ultimo e paradossale). Il marcionismo quando con-
cepisce la salvezza come buona novella del Dio straniero intende il senso
dell’esistenza come folgorazione che irrompe nel mondo, in una prigione o-
scura e dolorosa. La modalità d’azione è la ferità di amore, che dischiude la
mia identità; l’amore è qualcosa che destabilizza, ruba sicurezza.
Il marcionismo, ad ogni modo, lascia in sospeso alcune questioni, come il
mito generativo del dualismo divino: si predicano direttamente i due livelli
del divino che a un certo punto entrano in relazione con la venuta docetistica
di Cristo che libera le creature (più emarginate) del Dio creatore, non si spie-
gando poi le modalità di partecipazione alla condizione ontologica superiore.
5. Lo gnosticismo
L’eresia dello gnosticismo, che in realtà non ha mai posseduto un nucleo
stabile di dottrine, si sviluppa all’inizio del II secolo, in un momento storico
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nell’atto della creazione (ad ogni modo nelle più vecchie speculazioni l’esi-
stenza della materia veniva presupposta tacitamente come eterna, insieme al
Pleroma). Il Demiurgo sarebbe caratterizzato da un delirio di esclusività; si
tratta in effetti di un’affermazione monoteistica degradata. Per gli gnostici il
divino è d’altro canto pensato in modalità dinamica e relazionale e proprio
in tal senso gli gnostici sono in qualche modo i primi teologi trinitari.
Hans Jonas distingue due diversi tipi di dualismo:
iranico o di origine orientale, che sarebbe assoluto, cioè non derivato, e
si richiamerebbe quindi al marcionismo, senza alcuna descrizione della
generazione del Dio inferiore da quello superiore, piuttosto indicando una
preesistenza (il manicheismo del III secolo recupera questi elementi);
sirio-egiziano, dunque la variante valentiniana, di cui possiamo citare, ol-
tre Valentino, Tolomeo, autore dell’Epistola a Flora, ed Eracleone, primo
autore noto di un commento a Gv trasmesso frammentariamente e criti-
cato da Origene (questa notizia è interessante, in quanto ci fa compren-
dere come Gv fosse inizialmente considerato patrimonio gnostico, tanto
che a Roma si pensava addirittura fondativo di tradizioni eretiche).
La soteriologia gnostica non è soltanto redenzione individuale di ogni ani-
ma umana, ma è un processo cosmico, cioè il ritorno di tutte le cose a quello
che erano prima che il difetto nella sfera degli Eoni portasse la materia a esi-
stere e imprigionasse parte della Luce Divina nella maligna materia. Il pro-
cesso della salvezza consiste proprio in questa liberazione delle scintille di
luce. Per Basilide, la generazione di Eoni imprigionata nella materia è la co-
siddetta “terza Filiazione”, per la cui salvezza Gesù venne al mondo. In Va-
lentino il processo è invece straordinariamente elaborato: quando questo
mondo nacque da Sophia gli Eoni Nous e Aletheia produssero dietro coman-
do del Padre due nuovi Eoni, Cristo e lo Spirito Santo (in alcuni sistemi sono
identificati), i quali riportarono l’ordine nel Pleroma, e, di conseguenza, tutti
gli Eoni produssero insieme un nuovo Eone, Gesù Salvatore, che offrirono
al Padre. Ad ogni modo Cristo ebbe pietà della sostanza abortiva nata da So-
phia e gli dette essenza e forma. L’Eone Gesù Salvatore, invece, venne invia-
to come secondo Salvatore e, attraverso il battesimo, si unì all’uomo Gesù,
figlio di Maria (in alcune dottrine Cristo/Spirito è Gesù Salvatore; nei diversi
sistemi inoltre il Salvatore è figlio, fratello o sposo di Sophia).
L’uomo, creatura del Demiurgo, consiste in un miscuglio di anima, corpo,
e spirito (è evidente il richiamo all’antropologia paolina). Lo gnosticismo di
Valentino, pertanto, contempla tre diverse categorie di uomini:
gli pneumatici o spirituali, coloro che possedendo lo Spirito divino e quin-
di la conoscenza (o gnosi), sono predestinati alla salvezza;
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rivela l’anarchia dell’amore, che fa della creatura non una marionetta, piut-
tosto un’articolazione intima di Dio. In pratica la pretesa che viene rilanciata
apre alla rivelazione del segreto più profondo. Nel caso dello gnosticismo il
dispositivo apocalittico è inteso sul piano ontologico, nel senso che il prima
e il dopo diventano il sotto e il sopra, così che la rivelazione progressiva del-
l’unico Dio è spezzata a motivo di un’incompatibilità tra i due piani. È come
se una moglie venisse maltrattata dal marito e considerata come una specie
di sua proprietà, ma a un certo punto questa relazione si apre in qualcosa di
assolutamente meraviglioso; le tradizioni gnostiche considerano tale pro-
gressione impossibile, così ritengono la donna prigioniera del primo marito
finché da altrove non viene qualcuno che la salva (l’anima è paragonata a un
utero violentato, però a un certo punto Dio invia un figlio che rovescia l’utero
dall’intero all’esterno e lo introduce a una dimensione di pienezza).
Come reazione la Grande Chiesa rafforza la sua ideologia in opposizione
ai dualismi teologici eretici; d’altronde Giovanni e Paolo, che evidenziano
l’ulteriorità della rivelazione di Gesù, non negano mai il presupposto dell’an-
tica rivelazione dell’unico Dio (piuttosto l’idea è quella del passaggio gra-
duale dalla rivelazione imperfetta a quella perfetta). Dunque si insiste pro-
prio sulla connessione tra antico e nuovo intesi in un rapporto di continuità,
in cui lo scarto è ridotto, in un processo pedagogico di maturazione che tiene
insieme entrambe le economie, che cioè progredisce dall’AT al NT. Chiave
fondamentale è esattamente quella dell’idea di progresso rivelativo per fina-
lità educative, attraverso cioè un’applicazione della rivelazione divina alla
paideia, per cui la formazione spirituale è interpretata come educazione pro-
gressiva dell’intelligenza e della libertà della creatura. D’altra parte se nelle
due eresie la salvezza è assolutamente un dono di Dio, nella tradizione pro-
tocattolica si sostiene che ad essa deve poi rispondere la libertà dell’uomo:
viene in altri termini recuperata la nozione veterotestamentaria di Legge,
considerandola irrinunciabile, pur spiritualizzandola e quindi rinunciando al-
la dimensione anarchica del dono di Grazia come miracolo che libera total-
mente e gratuitamente (soltanto comprendendo questo sottile ma fondamen-
tale passaggio si può capire la tensione tra Erasmo e Lutero). Proprio que-
st’opposizione anti-dualistica favorisce lo sviluppo del cristianesimo come
nuova cultura universale. Il cristianesimo è quindi un dispositivo che vive
della tensione di questi due dispositivi (è un doppio dispositivo), il conserva-
tivo che precede ed è presupposto a quello eversivo radicale.
È possibile comunque considerare alcune differenze tra i due dualismi, in
quanto il marcionismo non ha la dottrina della caduta del divino, della disse-
minazione dell’elezione del divino e della differenza delle nature ontologi-
che, in quanto tutti gli uomini sono uguali, poiché ciascuno è creato dal Dio
creatore (tuttavia se crede in Cristo può essere rapito e portato all’intimità
col Padre), mentre per lo gnosticismo soltanto alcuni ricevono una scintilla
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del Dio decaduto. Le due eresie in ogni caso perdono rispetto alla tradizione
protocristiana, giacché si mostrano entrambe incapaci nel riconoscere l’an-
coraggio storico; in altri termini il corpo perde la propria dignità, dunque l’i-
dentità è sdoppiata perché dimentica la scaturigine materiale dell’uomo.
Ad ogni modo è proprio in relazione a queste due eresie che la tradizione
protocattolica prende una fisionomia più precisa, a proposito di una serie di
acquisizioni: Dio è l’unico che dà la rivelazione, in barba a ogni dualismo; il
giudaismo viene recuperato nell’ottica di una preparazione, per cui il canone
sarà binario (AT e NT); il corpo ha piena dignità, dunque è affermata la sua
resurrezione e negata la sua dispersione dovuta ad antropologie divisive.
Questa coscienza fa elaborare sistemi di compromesso, per cui dall’idea di
una perfezione solo spirituale (1Cor 7,29: «Chi ha moglie viva come se non
l’avesse») si ha un pieno recupero del corpo, del mondo e della storia (e in
questa direzione si giungerà nel tempo all’affermazione della sacralità del-
l’individuo nella sua integrità psicofisica); inoltre l’attività sessuale è santifi-
cata, la procreazione benedetta e il matrimonio considerato luogo di media-
zione tra l’astinenza e il moltiplicare il dono della vita che Dio offre.
Dolore e intelligenza insieme, caratteri costitutivi dell’esperienza giudai-
ca(-cristiana), fanno qualcosa di esplosivo: perché l’ebraismo (il conserva-
tivo) ha generato il messianismo (la fuoriuscita, la novità che devasta la tra-
dizione)? L’ebraismo fonda la sua elezione nella rivelazione diretta di Dio
all’uomo; concetto chiave è quello di rivelazione, che inscrive in sé un ele-
mento di novità, che sorprende o uccide (Dio che dice ad Abramo «Ti amo»),
un concetto di appropriazione (Abramo assume questo «Ti amo» come una
sua proprietà)… ma se il Dio vero è quello che si rivela la rivelazione non la
puoi chiudere, quindi l’apocalittica è la riapertura della rivelazione, il mes-
sianismo che fuoriesce dalla religione (l’appropriazione). Quel «Ti amo» a-
pre a una storia, in sé la rivelazione ha dentro la nozione di novità della rive-
lazione stessa, quindi il suo rinnovamento, sia interno che radicale.
Per interpretare la teologia bisogna sempre pensare all’erotica, poiché gio-
ca sempre col desiderio, la volontà di pienezza, di godimento, di vita, di sen-
so, in un’esistenza rovinata dal dolore. La teologia è propriamente una mac-
china culturale di significazione del desiderio, per cui quando studiamo teo-
logia studiamo una modalità di partecipazione al senso. Il Vangelo non inse-
gna un amore erotico, tuttavia ha a che fare col desiderio che riusciamo a o-
rientare e vivere nell’esperienza d’amore. Capiamo il cristianesimo se affer-
riamo la sua originale riconfigurazione dell’eros come espressione d’amore
dell’uomo: risponde a una pulsione basilare del desiderio corporeo, del resto
il cristianesimo promette la vita ultraterrena del corpo. Quando parliamo di
Trinità partiamo dai corpi, d’altra parte la matrice del nostro modo di artico-
lare il desiderio è quella corporea e l’origine della nozione cattolica che sem-
bra così pura è l’unione corporale, la metafora dell’unione spirituale.
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7. Ireneo di Lione
Ireneo di Lione (130-202) è un apologista contemporaneo a Giustino e,
diversamente da lui, nella sua opera Adversus Haereses offre una considere-
vole polemica contro lo gnosticismo, propriamente la variante tolomeiana
del valentinismo, sostenendo l’opera unitaria di redenzione, dell’unico Dio
dell’AT e del NT, e l’alternanza tra rivelazione e Grazia. In effetti egli è au-
tore di una tradizione teologica asiatica con prospettiva anti-allegorica e anti-
filosofica, la cui speculazione si limita a rispondere all’insorgenza dei pen-
sieri dualistici negando le tre nature gnostiche, rispondendo all’avvicinamen-
to gnostico del creatore e della creatura con una loro distanza ontologica e
difendendo il libero arbitrio, come poi farà Origene, ma in termini più filoso-
fici. Ad ogni modo, secondo una diversa prospettiva l’immagine secondo cui
è creato l’uomo non è il nous, l’intelletto, bensì il corpo, giacché l’immagine
è rivelata in Cristo che appunto prende il corpo; mentre la somiglianza è la
dimensione spirituale che l’uomo deve scegliere (se per Ireneo si tratta di
raggiungere, di acquisire attraverso l’esercizio del libero arbitrio, successiva-
mente per Agostino si parlerà di dono). Aspetto fondamentale dell’opera di
Ireneo è a proposito dell’azione pedagogica di Dio nella storia.
Nella sua denuncia dell’eresia, Ireneo si esprime contro l’Epistola a Flo-
ra. Si tratta di un’opera ritenuta il capolavoro teologico del II secolo, attri-
buita a Tolomeo gnostico, martorizzato intorno al 140-150 a Roma, lodato
da Giustino come raffinatissimo esempio di fede e attaccato trent’anni dopo
da Ireneo, come forma nascosta di eresia, a sottolineare il clima di incertezza
della comunità romana. In effetti questa forma di gnosticismo è tanto sofisti-
cata da essere criptica: nel mito tolemaico-valentiniano il Salvatore è il kar-
pos, il frutto comune del Pleroma, quale Logos divino generato per scendere
e salvare Sophia, riportandola nel Pleroma; dunque si unisce con la terra per
redimerla, ma è significativo il richiamo al corpo eucaristico e alla pienezza
della salvezza. Si tratta del primo trattato di ermeneutica biblica cristiana, in
cui tra l’altro Gv è citato come scrittura ispirata, e in cui è citato anche Pla-
tone (a proposito del Dio superiore). Come tale si rivolge a tutti, tuttavia gli
gnostici sono chiamati a scoprire qualcosa in più attraverso la chiave dell’al-
legoria (del resto essi sono i primi grandi teologi allegorizzanti). A differenza
di Marcione, che considera le Scritture una rivelazione inferiore e le inter-
preta alla lettera, i valentiniani sostengono che, sebbene si attribuisca la Leg-
ge al Demiurgo (il Dio inferiore, di natura psichica, creatore diretto del mon-
do materiale), il Dio superiore, ineffabile e di natura spirituale, per mezzo
del Logos e di Sophia abbia introdotto in essa elementi pneumatici. A partire
da ciò, e senza necessità di selezionare, eliminare o disprezzare alcuni scritti,
gli gnostici si danno così all’interpretazione scritturistica.
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Oltretutto nella sua opera binaria Ireneo risponde anche all’esigenza ma-
nifestata con la crisi marcionita (140-150) di avere in maniera autorevole un
canone scritturistico, per cui ne elaborerà uno nel 180. Si tratta propriamente
di un canone tetramorfo, in cui sono fissati tutti e quattro Vangeli, compreso
Gv, che è senz’altro problematico (soprattutto nella comunità giudaizzante
che è presente a Roma), in quanto permette la speculazione gnostica, essendo
ad ogni modo impossibile escluderlo, a motivo dell’ineluttabile innalzamen-
to della cristologia con la questione della preesistenza di Gesù.
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dimensione orizzontale-storica ciò che viene prima anticipa ciò che viene
dopo), ma al tempo stesso il passaggio dal vecchio al nuovo dà un’indicazio-
ne quasi violenta di verticalizzazione, dallo storico al metastorico.
Con esattezza, in 1Cor 15 la struttura tra l’economia del primo e l’ultimo
Adamo è di genere tipologico, in quanto la seconda economia è quella nuova
che sostituisce e cancella la vecchia (l’antico è figura del nuovo, anzi è figura
del suo eccesso e lo supera radicalmente). Pensando in termini ontologici il
dualismo paolino, per gli gnostici il nuovo è inoltre identificato con il più
profondo, l’originario, per cui la novità rivelativa serve a capire la dimen-
sione originaria, proietta verso l’identità originaria in cui si è già nell’intimo
di Dio. Secondo questa prospettiva il Dio superiore corrisponde al Dio ge-
suano/paolino e il Pleroma al Regno di Gesù diventato natura superiore, na-
scosta, trascendente, che viene prima (e non dopo!), perché è l’origine, ciò
che è sempre stato, dunque la perfezione, avendo come caratteristica l’eter-
nità. Si assiste in altri termini a una torsione clamorosa per cui il Regno mes-
sianico escatologico è l’origine divina perfetta. L’uomo spirituale è per Paolo
l’uomo nuovo, ma per gli gnostici è l’uomo originario, o meglio è ipervec-
chio (decaduto dal Pleroma), la sua natura è originaria, precede la creazione
del mondo (a proposito della particella divina che è in lui), tuttavia è nuovo
nella sua acquisizione della gnosi che arriva solo alla fine.
Gli gnostici usano l’allegoria perché non interessati a connettere antico e
nuovo, anzi li contrappongono rompendo l’unità dell’economia, in antitesi
con Paolo. L’elemento in comune fra tipologia e allegoria è lo sdoppiamento
e il rinvio di piani, ma se la tipologia è funzionale a dire che il vecchio im-
perfetto è figura del nuovo perfetto, l’allegoria è struttura di rinvio dall’infe-
riore al superiore, dal visibile al nascosto; per cui l’intera storia sacra rivela
gli eterni eventi di Dio prima della creazione del mondo. In tal senso il Sal-
vatore dell’Epistola a Flora è il frutto divino redentivo, personaggio storico
che indica però un’appartenenza divina, richiamando eventi di peccato e di
salvezza anteriori al mondo. Abbiamo anzitutto un’interpretazione tipolo-
gica: è contrapposto il culto materiale del tempio ebraico dell’AT con quello
spirituale interiore del NT, dove le vittime non sono animali ma spirituali e
le preghiere non sono esteriori ma interiori. È poi aggiunta un’interpretazio-
ne allegorica: il nuovo rito è allegoria di un rito eterno primordiale, quello
della generazione del frutto divino redentivo, del Salvatore. In sintesi, lo slit-
tamento orizzontale rinvia al contempo alla realtà eterna ontologica: si ha lo
slittamento dal tempio di Gerusalemme a quello di Gesù, poi innalzato come
corpo eterno di Cristo in cui tutte le creature spirituali sono presenti.
Ad ogni modo la tradizione ortodossa cristiana dipende da Origene, il qua-
le offre una rielaborazione cattolica della cifra gnostica, incrociando l’idea
dell’intimità dell’uomo col divino e l’idea della progressione.
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I CAPISALDI DELLA PATRISTICA
DEL III-V SECOLO
1. Origene di Alessandria
Come gli gnostici Valentino e Basilide, Origene (185-255/57, muore in
seguito alle ferite patite in una persecuzione che non si capisce quale fosse)
è un alessandrino e dire “alessandrino” significa di fatto dire “platonismo”.
Anche Clemente alessandrino pertanto è vicino agli gnostici; d’altronde nel-
la sua opera Gli stromati, le “tappezzerie”, mette insieme fili diversi, prende
autorità pagane, greche, e le introduce all’interno di confessione cristiana.
Secondo Girolamo, Origene è stato il più grande esegeta della Scrittura, del
resto con lui l’interpretazione allegorica raggiunge il suo apice. Di questo
Padre della Chiesa che ha operato sostanzialmente nella prima metà del III
secolo si ha una documentazione buona, benché parzialissima, in quanto è
abbiamo perduto il Peri Archôn, conservatoci soltanto nella traduzione di
Rufino, che tuttavia lo censura per proteggerlo da alcune accuse.
Il primo presupposto della teologia origeniana è che Dio è Logos, cioè
pensiero, inteso ovviamente in senso platonico, ossia come realtà logica pie-
namente immateriale. Il secondo presupposto è che Dio in quanto creatore è
l’essere eterno e la sua creazione è logica. Il Padre genera eternamente il Fi-
glio, in quale eternamente, generato dal Padre (e in tal senso sono coeterni),
come specifica Lettieri crea i logoi, cioè le creature. Origene ha una conce-
zione subordinazionistica del divino, in quanto il Figlio sarebbe inferiore ri-
spetto al Padre, alla maniera di una creatura perfetta che crea il mondo e lo
redime. La formula anti-ariana che risuonerà successivamente è che non c’è
stato alcun momento del Padre senza il Figlio, tanto che Origene verrà accu-
sato di essere ariano per tale visione subordizionazionistica del divino, ad o-
gni modo per egli il Figlio, pur avendo un’altra ousia, un’altra ipostasi rispet-
to al Padre, è generato dal Padre, dunque non abbiamo il Padre senza il Fi-
glio, mentre per Ario il Figlio viene creato prima dell’origine.
Conseguente aspetto fondamentale dell’origenismo è l’indebolimento del-
la coeternità del Figlio col Padre perché anche le creature vengono eterniz-
zate, in quanto sono create originariamente come logoi nel Logos eterno. Più
propriamente, secondo la dottrina della preesistenza delle anime, più esatta-
mente degli intelletti nel Logos, la creazione originaria di Dio è una creazio-
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per cui dopo la dispersione del peccato si è richiamati a quella che è già l’o-
rigine, dato che appena creati abbiamo l’immagine di Dio, subito siamo cri-
stoformi, spirituali, secondo una sorta di protologizzazione del dono. La di-
mensione originaria della pienezza dell’essere creaturale sprofondato in Dio
è propriamente la dimensione mistica, ossia lo stato mistico di fusione amo-
rosa con l’intelligenza del Figlio, proiettati verso il Padre.
Ma perché se si è già in Dio si pecca? Per Origene il peccato è causato
dalla sazietà, dall’angoscia di essere sospesi in una dimensione di perfezione
che però ha ancora bisogno dell’esercizio della libertà (l’unica anima che
non si è annoiata della compagnia del Logos è quella di Gesù, ferro arroven-
tato nel fuoco, talmente innamorato del Logos da meritare la perfetta fusione
con lui). La differenza con gli gnostici è che per loro solo gli spirituali sono
già a immagine di Dio, mentre tutti gli altri uomini lo diventano, in quanto
solo gli eletti discendenti di Adamo ereditano frammenti spirituali, invece
tutti gli altri ricevono l’immagine divina dopo la creazione del mondo, nel
momento in cui accolgono lo Spirito decaduto donato da Adamo.
La forma di de-escatologizzazione proposta da Origene si articolerà poi
nella tradizione cristiana: l’immagine di Dio è la nostra anima, la nostra com-
ponente immateriale e preesistente; in pratica le caratteristiche escatologiche
che Paolo attribuiva al battezzato sono attribuite naturalmente a ogni creatura
nella sua componente incorporea. È chiara la forte platonizzazione in quest’i-
dea dell’uomo come “essere anfibio”, dotato di corpo mortale e mente im-
mortale (in quanto realtà immateriale) Nella prospettiva origeniana bisogna
cogliere la propria realtà trascendente, cioè la nostra vera realtà dimenticata,
individuando il logico nel materiale attraverso l’allegoria (quest’educazione
dell’intelligenza ci permette di abbandonare la materia). Origene è il più
grande interprete della Scrittura per il suo virtuosismo ermeneutico, in quan-
to con l’uso dell’allegoria permette il passaggio dalla storia all’intima appar-
tenenza ontologica del Logos divino che l’ha creata, propriamente dagli e-
venti della storia alla verità profonda, logica, che rivela all’uomo di essere il
Logos creato per amore del Logos divino, chiamato perciò a riconoscere tale
Logos divino come la verità e l’origine della propria natura più intima.
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tanto che egli parla addirittura di tre ousie, cioè tre essenze, a cui corrispon-
dono, nel senso che tendono a coincidere, tre sostanze, tre ipostasi.
In questi termini la formulazione di Nicea dell’homoousios è perciò crip-
to-monarchiana, se non proprio esplicitamente monarchiana, nel momento
in cui, andando a difendere l’unicità di Dio attaccata da Ario, trascura di sot-
tolineare la differenza di ipostasi che c’è tra Padre e Figlio. Del resto il bari-
centro di questo Concilio è l’occidentale Costantino, al quale manca la raffi-
natezza greca, avendo di fatto un retroterra latino, di quell’orizzonte culturale
che è origeniano solo nell’elite e in maggioranza è invece di simpatia mo-
narchiana. Di fatto l’imperatore impone una formula anti-origeniana, contro
il mondo greco dominato all’opposto dalla teologia di Origene, tanto che i
vescovi greci troveranno sempre inadatta la formula dell’homoousios.
Per cui subito inizia un’avversione anti-niceana, ad esempio con Eusebio,
così che Costantino cambia bandiera, indirizzandosi verso una tendenza neo-
ariana. L’imperatore infatti viene battezzato prima di morire dal vescovo a-
riano Eusebio di Nicomedia, benché la tradizione latina parli del papa Silve-
stro, nell’ottica della subordinazione della nozione imperiale da parte di
quella del papato, nella cui prospettiva si comprende la donazione costanti-
niana. D’altronde la soluzione di Ario è preferita perché più vicina a Origene,
in quanto considerando il Figlio come una creatura, avendo una sua identità,
una sua piena personalità preesistente, si evidenza la sua differenza ipostatica
rispetto al Padre. Fondamentale per l’arianesimo è Prov 8, secondo cui la
Sapienza è creata da Dio all’inizio delle sue vie, in sostegno della creazione
del Figlio, subordinato al Padre, ma preesistente rispetto al mondo. La diffe-
renza tra Origene e Ario è che per quest’ultimo il Figlio è una creatura, men-
tre per Origene è Dio che riceve la propria dignità dal Padre in maniera di-
versa dalla creazione (non c’è infatti tempo in cui il Figlio non esisteva).
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noscenza e di gaudio (a tal proposito si noti che l’espressione «ti amo infini-
tamente» ha questo retroterra teologico dell’amore che trascende sempre a
dimensioni ulteriori e sempre più radicali e perfette). Dunque ogni fine non
è che un nuovo punto di partenza dell’ascesa, in un’unione sempre crescente,
perfetta e più profonda. Questa dottrina del godere nel tendere, nel progredire
all’infinito del processo di adeguamento e di approssimazione del divino,
benché per il greco è il peggiore dei mali perché proietta nella dimensione
dell’irrealtà, ha una fortuna pazzesca fino al romanticismo tedesco, restando
in ogni caso come eredità culturale nell’idea che l’uomo non gode nell’esau-
rire, bensì nel progredire (per Niccolò Cusano, ad esempio, Dio è il cerchio
e la sua comprensione è il poligono iscritto in esso che cerca di aumentare
all’infinito i suoi lati senza però mai poter coincidere con esso).
4. Agostino d’Ippona
Sulla scorta della teologia origeniana, Agostino (354-430) considera in u-
na prima fase della sua elaborazione teologica che occorre non andare fuori,
bensì tornare in se stessi, perché è nella mente che c’è la presenza della veri-
tà, il Logos di Dio. Propriamente egli parla di un movimento che dall’esterno
porta all’interno, cioè dallo storico allo spirituale (che ad ogni modo non è
più dono, piuttosto proprietà naturale che ci fa figli di Dio, o meglio la natura
è donata, ma questo dono è inscritto nel dono della creazione che ha una
natura teomorfa). Avendo quindi già tutto in noi stessi, la rivelazione di fatto
non ci dà nulla di nuovo, piuttosto ci risveglia a scoprire il dono ontologico
in noi (si noti la continuità con lo gnosticismo, benché adesso in una prospet-
tiva universalizzata). Passiamo dallo Spirito come dono escatologico che ir-
rompe nella storia e la spezza allo Spirito inteso come realtà spirituale.
Nel De Magistro elabora così la dottrina del maestro interiore o dell’illu-
minazione, secondo la quale il rapporto tra intelligenza e verità è solo occa-
sionale quando parliamo, in quanto l’intelligenza ha la verità già in se stessa,
originariamente. Se Platone parla nel Menone della dottrina della remine-
scenza, secondo cui conoscere è ricordare una verità appresa da sempre, A-
gostino sostiene invece che le verità sono riconosciute come tali perché in o-
gni uomo c’è una luce della verità, in quanto ha dentro di sé la presenza del
Verbo che illumina come maestro interiore, nel senso che ogni anima creata
è a immagine di Dio in cui il Logos è presente. In questo recupero dell’ori-
genismo e della dottrina del Logos spermatikos viene proposta una formula
molto più raffinata in cui cade ogni resistenza e il Logos abita i corpi.
A partire dalle risposte ad alcune questioni teologiche di Simpliciano par-
liamo di un secondo Agostino, che in realtà non è del tutto origeniano, in
quanto inizia a ripensare lo Spirito con la “S” maiuscola: pur restando fedele
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alla nozione di spirituale della mente come immagine di Dio, ripensa la sal-
vezza come dipendente dall’istituzione escatologica del dono gratuito di
Grazia dello Spirito che irrompe nella coscienza. C’è allora un paolinizzare
la struttura origeniana, facendo dipendere il rapporto della propria identità
spirituale dal miracolo dell’irruzione della Grazia, la novità assoluta del dono
che da un di più che la natura ha deformato. In sintesi, l’Ipponate in una pri-
ma fase riprende l’allegoria, ma in una seconda va in frenata e la riduce, poi-
ché può diventare una macchina di delirio dell’esaltazione della dimensione
spirituale, logica, che non fa capire fino in fondo l’esperienza del dono (la
dottrina della Grazia di Agostino maturo ha dominanza tipologica, costruita
sulla contrapposizione tra vecchio e nuovo, naturale e soprannaturale).
Origine attraverso l’allegoria interpreta la rivelazione di Cristo inscritta
nella Legge ebraica, in quanto iscritta nella natura creata. Propriamente con
la legge interpretativa dell’allegoria salva razionalmente il precedente, pre-
serva la positività dell’umanità e della creazione, in quanto tutto riflette Cri-
sto apocatastatico che reintegrerà la totalità della creazione nel dono di bontà
assoluto. Dunque la natura è originariamente teomorfa, perfetta, spirituale, e
dopo il peccato, commesso per sazietà, decade e deve recuperare la sua iden-
tità profonda. In qualche modo in questa posizione riecheggia la dottrina del
Logos spermatikos giustiniana… che avrà continui approdi nel tempo, l’ul-
timo con il “cristianesimo anonimo” del gesuita Karl Rahner nel Novecento.
Se per il primo Agostino il rapporto tra natura e Grazia è concepito positiva-
mente in termini di progressione (inoltre al libero arbitrio è affidato il com-
pito di scegliere la luce interiore e trascendente anziché i beni esteriori e mor-
tali, in una sorta di platonismo cristiano), col secondo Agostino invece la ri-
velazione è un riorientamento radicale della Legge, giacché rappresenta l’ec-
cedenza dell’evento di Grazia rispetto all’ordine della natura, ma non in un
modo dualistico ed eretico, piuttosto in un senso cattolico (senza cedere alle
esasperazioni del marcionismo e dello gnosticismo, condannato apertamente
il manicheismo). Riattivando il dispositivo dirompente giovanneo del dono
apocalittico che discende dall’alto, il secondo agostinismo coglie dell’uomo
la sua struttura perversa, la sua natura viziata; la creazione tutta ne esce fuori
segnata da una degradazione etica e ontologica (oltretutto la stessa operazio-
ne verrà compiuta secoli dopo con Lutero e con il giansenismo).
Sotto questa spinta apocalittica, profondamente anti-mondana, anti-uma-
nistica, anti-ontologica, Agostino considera il mondo contrapposto al dono
escatologico e arriva a condannare Roma come una bestia maligna, caput
della perversione universale, civitas terrena contrapposta alla civitas Dei
simboleggiata dalla Gerusalemme celeste. Considerando inoltre che in ogni
aspetto dell’umano c’è l’immagine di Dio, il suo pensiero apocalittico è an-
che anti-pedagogico, cioè contro la formazione del bambino, la paideia, in-
tesa come cultura, nel senso che non pensa che siano l’educazione e la cultura
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a dischiudere il mistero del divino nella realtà, in quanto questo è dato mira-
colosamente (nonostante questa pretesa anti-culturale, la cultura agostianana
è molto raffinata). In sintesi, secondo la soluzione teologica di Agostino, che
è ontologicamente non dualistica, nell’opacità spirituale del mondo resta la
fiammata dell’amore eccezionale, l’esperienza straordinaria della Grazia (ci
si salva per fede, ma chi si sforza di credere senza Grazia sarà dannato).
Il secondo Agostino considera poi che la Grazia non viene offerta a chi
dovrebbe meritarla, cioè i colti e i casti, anzi nella seconda risposta teologica
a Simpliciano afferma che Dio ride di lui e gli indica i pagliacci dementi e le
prostitute come coloro che sono più accesi dalla Grazia. In altri termini l’Ip-
ponate sta guardando la logica più profonda di Paolo e la sta radicalizzando,
sostenendo che la Grazia dona la fede, ma non la presuppone (altrimenti non
sarebbe Grazia del resto), d’altronde deve essere senz’altro incondizionata,
costituendo il merito e non trovandolo prima fuori di sé (Gratia gratis data
est). Provando a pensare alla portata rivoluzionaria di questo dono, perciò, la
ragione smaschera evidentemente il suo limite e naufraga.
Del resto egli scrive il capolavoro delle Confessioni proprio per descrivere
l’avvento del dono di Grazia dentro una biografia. In quest’opera, articolata
in tredici libri, di cui i primi dieci sono autobiografici e gli ultimi tre conten-
gono una descrizione teologica di Dio, viene descritto come un uomo orribile
diventa un credente. Propriamente egli intende raccontare la propria storia di
soggetto raccontando le modalità di rivelazione della Grazia e l’esperienza
prima e dopo questo dono (senza di esso l’uomo non riflette l’immagine di
Dio). Per cui la propria biografia diventa così il luogo della rivelazione teolo-
gica, l’esistenza del singolo diviene il luogo di manifestazione dell’eterno:
ecco che l’essere si storicizza radicalmente, quindi la filosofia non è più sem-
plicemente una filosofia dell’essenza eterna immutabile, piuttosto diventa
teologica, come conoscenza dell’irruzione del dono elettivo nella singolarità.
Come avrà modo di riflettere Francesco Petrarca, è con Agostino che viene
trovata una via di accesso alla soggettività moderna. La memoria dell’uomo
non è più l’astrazione platonica della scoperta di verità eterne, bensì il ventre
dell’anima, il posto nascosto in cui le verità eterne si incrociano con le tracce
esistenziali che mi sfuggono e non trovo (concetto chiave del X libro, sulla
memoria, è proprio l’oblio, dove va a finire ciò che dimentico).
Concludere con le Confessioni è concludere con un “colpo di Grazia”, nel
senso che ci fa morire e rinascere in una dimensione nuova: approdiamo a u-
na interpretazione della verità totalmente storicizzata, la vicenda contingente
del singolo, luogo della rivelazione divina e del senso abissale. In altri termi-
ni Agostino interiorizza il dispositivo apocalittico della rivelazione storica,
nel senso che l’apocalittica da astrazione storico-economica, cioè dall’idea
degli apocalittici ebrei che aspettavano il Regno, progressivamente diventa
la modalità con cui il soggetto interpreta la sua esistenza. In questo modo la
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Dopo la morte di Stefano gli ellenisti, guidati ora da Filippo, vengono per-
seguitati, per cui si spostano per salvarsi in Samaria, considerata dai giudei
terra di prostituzione. Qui tra l’altro Filippo inizia a battezzare le persone che
i giudei considerano empie e pagane, tuttavia questo battesimo viene ritenuto
imperfetto e i nuovi battezzati ancora impuri. Così Pietro e Giovanni si reca-
no anche loro in Samaria per imporre le mani ed effondere lo Spirito ai recen-
ti convertiti. In At 10 Pietro inizia poi a battezzare lui stesso i pagani, inclu-
dendoli così nella comunità; probabilmente questo capitolo degli At è rica-
mato da Luca per attribuire a Pietro una strategia paolina.
La presenza di Filippo in Samaria sottrae molte persone al largo discepola-
to di Simon Mago, un incantatore samaritano chiamato così in quanto opere-
rebbe delle magie. Con esattezza Filippo conquista le genti compiendo mira-
coli più grandi (agisce in tal senso un dispositivo apocalittico), tanto che Si-
mone gli chiede di essere battezzato e di entrare anch’egli nella comunità.
Quando però si accorge che Pietro può effondere lo Spirito imponendo le
mani, gli propone di comprare questa facoltà (si parla perciò di “simonia”
come di compravendita delle “merci” sacre). Ovviamente l’apostolo si indi-
gna aspramente, accorgendosi dell’empietà nel cuore di Simon Mago, tanto
da avvertirlo che così andrà incontro al laccio della distruzione.
La narrazione in At 8 della figura di Simon Mago, della sua esaltazione e
della sua pretesa di affermarsi mondanamente, esibendo una potenza fondata
solo sulla ricchezza, presuppone Ezechiele (Ez) 28, che a sua volta presup-
pone Is 14, a proposito di alcuni format teologico-politici riadattati poi alle
vicende storiche. Propriamente, in Is 14 si racconta del re di Babilonia che si
innalza fino alle stelle, ritenendosi una potenza capace di ricapitolare in sé il
senso della storia del mondo, dunque di divinizzarsi sulla base del successo
storico, tanto da mettersi in aperta rivalità con la tradizione profetica ebraica;
tuttavia chi trionfa nella storia, nella profezia viene abbattuto (è significativa
a tal proposito anche l’identificazione in chiave apocalittica con Lucifero,
punito da Dio proprio per la sua arroganza). In Ez 28 si racconta dello scontro
successivo alla cattività babilonese con il principe di Tiro, città fenicia pros-
sima alla Palestina e simbolo dei commerci; anche qui il cuore perverso, l’e-
saltazione prodotta dalle ricchezze, l’ingiustizia così palesata e la pretesa di
potersi sedere sul trono di Dio viene punita con la distruzione. Sempre in Ez
28 al principe di Tiro si sovrappone il cherubino, simbolo della sapienza e
pieno di ricchezze, creatura perfetta di Dio e garanzia della creazione divina,
che diventa però iniquo, il suo cuore si inorgoglisce per la sua bellezza, la
sua saggezza si corrompe, così che viene fatto precipitare, gettato in mezzo
alle pietre di fuoco (tipica maledizione apocalittica). In conclusione, in At 8
la figura storica di Simone, una sorta di messia samaritano, è interpretata con
il format del principe esaltato anti-divino (l’appellativo di “Mago” è la va-
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riante negativa del profeta) che presto sarà condannato e annientato. È co-
munque interessante che le categorie che gli sono rivolte richiamano quelle
che furono precedentemente rivolte proprio a Gesù.
At 8 si connette anche con Gv 4, in cui è attestata la presenza di un predi-
catore in Samaria. Precisamente dev’essere una retroproiezione dell’evange-
lista, il quale forse avrebbe inventato l’episodio con la samaritana (richia-
mando in chiave tipologica l’incontro di Giacobbe con Rachele di Gen 29),
il cui concubino sarebbe appunto il falso profeta Simone (ritorna l’ideale del
matrimonio), col richiamo all’acqua come riferimento ai riti di purificazione
della comunità di Simone. È probabilmente un episodio inventato essendo
stato Gesù comunque molto critico nei confronti della Samaria e di fatto non
avendo mai predicato lì se non per il passaggio dalla Galilea alla Giudea. Si-
gnificativa anche la connessione di At 8 con il capitolo 18 delle Antichità
giudaiche di Giuseppe Flavio, a proposito della polemica con un empio pre-
dicatore samaritano, che accende gli entusiasmi della Samaria (del resto le
date coincidono, cioè l’anno 35 circa). Questo falso profeta politico convince
i samaritani che li avrebbe portati sul Garizim, il Monte santo di Dio, dove
avrebbe promesso la ricostruzione del Tempio di Dio (quello precedente fu
distrutto probabilmente nel II secolo a.C.) e dove avrebbe intanto fatto ritro-
vare i vasi sacri di Mosè in cui sarebbe nascosta la manna dell’esodo, l’acqua
scaturita dalla roccia scossa da Mosè e l’olio sacro.
Giustino, samaritano d’origine, nella I Apologia (140-150) dà un peso e-
norme a Simon Mago, alla luce di At 8 e di elaborazioni polemiche successi-
ve, ad esempio le Pseudoclementine. Secondo l’apologista questa figura sa-
rebbe stata mandata avanti dal demonio, alla maniera di un anticristo, per
contrastare la rivelazione di Gesù, essendo di fatto l’inventore dell’eresia,
nello specifico essendo il catalizzatore polemico per la nascita delle eresie
del marcionismo e dello gnosticismo. Inoltre Giustino salda il mito infraebra-
ico con quello pagano, sostenendo che Simone a Tiro avrebbe comprato una
prostituta chiamata Elena, la quale sarebbe in realtà la Elena di Troia della
narrazione mitica greca (cfr. Is 23 in cui secondo l’oracolo Tiro è vista come
un bordello). L’apologeta, tra l’altro, interpreta alla stregua di un mito proto-
logico la figura di Simon Mago come il Padre e di Elena, la donna più bella,
come il pensiero preesistente che crea gli angeli creatori del mondo, i quali
si innamorano di lei, la quale allora decade, degrada fino a diventare una pro-
stituta che necessita infine di essere riscattata da Simone. Queste stesse ri-
flessioni di Giustino sono condivise anche da Ireneo.
Sono diverse le fonti antiche che riportano la figura di Simon Mago. Ad
esempio la tradizione pseudoclementina parla della sua rivalità con Pietro e
del fatto che Elena sia inizialmente una discepola di Giovanni Battista, la
quale poi passa dall’unione profetica samaritana all’unione con Simone (in
realtà le omelie greche parlano di Elena, quelle latine di Selene). Inoltre negli
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Atti apocrifi di Pietro con Simone, pur non comparendo questa figura fem-
minile, si parla del conflitto romano tra Pietro e Simon Mago, il quale si
innalza in volo per dimostrare il suo potere divino (cfr. Is 14 e Ez 28), tuttavia
l’apostolo prega Dio di farlo prevalere, così che l’impostore cade, viene poi
portato ad Ariccia (al Santuario di Diana) e infine a Terracina (al Tempio di
Giove Anxur), dove morirà. Ancora, in Ap 14 Simon Mago sarebbe eviden-
temente il demoniaco compagno della prostituta, nonché il falso profeta che
dà il segno a tutti gli uomini che lo seguano attraverso i commerci. Infine, in
2Tes ritroviamo la figura dell’anticristo, l’uomo di iniquità che si fa Dio al
posto di Cristo, poiché seduce con la menzogna e la sapienza perversa.
Si può notare che in tutti questi richiami agisce un dispositivo apocalittico,
nello specifico nel costruire su Simon Mago un polo magnetico come capro
espiatorio dei pericoli della Chiesa: sia quelli interni come le eresie, venendo
descritto come il rivale messianico che entra nella comunità per deformarla;
sia quelli esterni come la corruzione della fede attraverso il successo e il po-
tere politico. In particolare si può considerare il problema della gnosi simo-
niana, di cui in realtà abbiamo testimonianza solo grazie a Giustino e Ireneo:
Simon Mago, venendo compreso come un messia politico, è considerato un
catalizzatore polemico su cui sono (discutibilmente) proiettate le prime co-
munità gnostiche, in quanto egli diventa appunto un magnete di errori teolo-
gici. Sicuramente ci sono delle risonanze, nella questione della prostituta de-
caduta e redenta, tuttavia le dottrine gnostiche parlano della relazione Padre-
Figlio, mentre nella prospettiva simoniana solo il Padre scende. Addirittura
secondo alcuni studiosi, come Oscar Cullman, le comunità protocristiane in-
tuiscono la preesistenza di Cristo proprio in contatto con la Samaria, e con
Simon Mago quindi, ma in realtà si tratta di una retroproiezione giustiniana
delle origini gnostiche (nata probabilmente anche dalla confusa attribuzione
di una statua nell’isola tiberina al culto simoniano), poiché in At 8 la dyna-
mis, la potenza divina, avrebbe un significato carismatico e non ontologico
preesistente, dunque non potrebbe giustificare la cristologia alta.
La figura di Simon Mago viene ripresa secoli dopo da Dante Alighieri,
quando parla della simonia come il peccato di commerciare cose sacre, dun-
que usare la religione per fini venali (il cortocircuito sacro-denaro, luogo co-
mune apocalittico, ha il suo presupposto in Is 14 e Ez 28), e in riferimento
alla perversione sessuale, o meglio l’acquistare con denaro la propria donna
(che teologicamente sarebbe la Sapienza di Dio decaduta). Lutero condanna
poi la Chiesa romana per simonia, anzitutto non perché è corrotta, piuttosto
in quanto pretende di gestire economicamente il dono dello Spirito (in At 8
Simone infatti pretende di comprare lo Spirito). È un’accusa teologica tipi-
camente agostiniana quella di non capire che la Grazia è sottratta alla natura
e al suo potere e che anzi le dona qualcosa che non può attingere in autono-
mia (evidente la critica apocalittica), che in altri termini il dono dello Spirito
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