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DANIELIS BONINI

HISTORIA
CHRISTIANARVM
LITTERARVM

A PRINCIPIIS
VSQUE AD

AVGVSTINVM
HIPPONENSEM

EX OPERA SIMONETTORVM PRINCIVALLORVMQUE CONFECTA


IN CARAMAGNOLENSI CIVITATE A.D. MMXXII

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LETTERE PAOLINE
La trasmissione orale della fede era completata da missive elaborate in base alle diverse situazioni e ai diversi
destinatari. C’erano molte altre lettere (anche non paoline) non giunte fino a noi. Molte furono attribuite ad
altri (Pietro, Giovanni, Giacomo, Giuda, Barnaba). Molte lettere anche di fine I secolo erano ormai dei trattati:
il fatto che furono scritti in forma epistolare è prova dell’importanza data dai primi cristiani a questo genere.
Vita di Paolo: nato a Tarso (Cilicia) col doppio nome giudeo e romano di Saul e Paolo, ebbe formazione
rabbinica e presso Gerusalemme forse studiò anche con rabbi Gamaliele. Convertitosi al cristianesimo, visse
più di due anni in Arabia, poi a Gerusalemme incontrò Pietro e Giacomo “fratello del Signore”, poi Siria e
Cilicia (pose Antiochia come base) dove conobbe Barnaba, con cui partì per il primo viaggio. Nel 48 era di
nuovo a Gerusalemme (concilio). Poi ad Antiochia, conflitto con Pietro. Si staccò da Barnaba e viaggiò ancora.
A Efeso per tre anni come base. Intorno al 58 arrestato a Gersalemme, poi due anni a Cesarea Marittima e
da lì a Roma intorno al 60; morì sotto Nerone.
Uniche lettere autentiche: 1Ts, 1Cor, 2Cor, Gal, Fil, Fm (tutte intorno al 55) e Romani (57-58). Pseudoepigrafe
le pastorali (1Tm e 2Tm, Tt), forse anche 2Ts, Col ed Ef. Fuori dal canone (ma presente anche in quello siriaco)
c’è anche la pseudoepigrafa 3Cor.
Perché la pseudoepigrafia? Dicendo che un proprio scritto era opera di un apostolo, si voleva ravvivare la
memoria di costui e attualizzarne l’insegnamento per le nuove esigenze.
Per le pseudoepigrafe non mancano problemi filologici: ad esempio 2Cor sembra l’unione di due lettere, e
1Cor 14,34-35 è un’interpolazione successiva.
Nelle lettere, Paolo interviene sui problemi delle comunità cristiane. In particolare, i primissimi cristiani erano
dei giudei osservanti la Torah e la normativa farisaica, ma molti valorizzarono l’atteggiamento indipendente
e talvolta critico di Gesù verso la Torah e verso le spiegazioni normative farisaiche (dette halakàh). Per Paolo
solo la fede in Gesù rendeva giusti, e dunque bastava il battesimo per entrare nel Regno di Dio, e dunque
anche i pagani potevano convertirsi al cristianesimo. Per molti ebrei, invece, la salvezza operata da Gesù si
poteva inserire solo all’interno del patto esclusivo tra Dio e il popolo eletto. Ci fu quindi uno scontro tra Paolo
e Pietro, coadiuvato quest’ultimo da Giacomo fratello di Gesù, leader della comunità di Gerusalemme, che
permetteva la conversione dei pagani solo se questi accettavano anche le leggi ebraiche. Questa crisi è un
po’ nascosta dagli Atti, ma risalta bene nelle lettere paoline.
Paolo poi concepiva Cristo come Dio (Fil 2,6-11) e riteneva che solo la fede in Cristo potesse riscattare dal
peccato originale (Rm) – la Legge era insufficiente (contrasto Fede-Legge: Col, Ef). Paolo prospettava ai
convertiti dal paganesimo i doni della libertà e della grazia, il che sembrava suggerire una pericolosa idea di
superiorità dei cristiani ex pagani rispetto ai cristiani ex ebrei: questo problema fu molto sentito a Corinto ed
è affrontato nelle due lettere ai Corinzi.
La lettera agli Ebrei (composta forse prima della distruzione del Tempio) è senza destinatari e anonima, ma
fu presto attribuita a Paolo. Relativamente alla natura di Cristo (umana, divina, angelica?) l’autore si colloca
sulla scia di Paolo ritenendo Cristo divino e creatore di una nuova alleanza tra Dio e gli uomini che ha reso
obsoleta quella precedente. È un vero e proprio trattato nelle vesti di una lettera, in ossequio al modello
paolino, cosa che si continuerà a fare anche in seguito.
Non sappiamo quasi nulla dei cristiani di osservanza giudaizzante (Pietro e Giacomo fratello di Gesù).
Le due lettere di Pietro sono pseudoepigrafe e forse nate in ambiente paolino: infatti non prendono posizione
ma usano il nome di Pietro solo per esortare i cristiani a rimanere fedeli in momenti di pericolo e a non
preoccuparsi per il ritardo nel ritorno di Gesù.
La lettera di Giacomo invece, indirizzata alle dodici tribù disperse nel mondo, attesta un atteggiamento
antipaolino: è comunque molto moderata e dice che la fede è sì fondamentale, ma accompagnata alle buone
azioni, al di là della Legge.

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I VANGELI
Il ricordo di Gesù era inizialmente orale e si concentrava soprattutto su ultima cena-passione-morte-
risurrezione. Occasione per tramandare il ricordo di Gesù era non solo la liturgia, ma anche la catechesi e la
polemica con le altri componenti del giudaismo. Nacquero delle raccolte, orali e scritte, di detti e fatti di
Gesù, che man mano si arricchivano e modificavano, adattandosi alle varie esigenze. Venuti meno i testimoni
oculari, si iniziò a voler scrivere tutto quanto: nacquero quindi quelle unità di tradizione che confluirono nei
Vangeli (che divennero canonici solo a metà II secolo) e in testi extracanonici. I Vangeli non sono biografie
ma mescolanza di più generi letterari.

Teoria delle due fonti (Germania, fine 1800 ma ancora la più valida). Praticamente tutto Marco è presente
in Matteo e Luca; Matteo e Luca presentano materiale in comune ignoto a Marco e materiale proprio. Marco
fu quindi fonte di Matteo e Luca, seppure in una redazione precedente a quella attuale. Per le parti comuni
a Matteo e Luca si ipotizza una “fonte Q” (Quelle), usata da Luca con maggior fedeltà: la fonte Q doveva
contenere soprattutto λογία e cioè detti/discorsi di Gesù, e forse non narrava la passione-morte-risurrezione,
il cui racconto circolava a parte. La fonte Q è forse un Matteo aramaico a cui alludono Papia e Ireneo nel II
secolo parlando di un Matteo ebraico come del più antico vangelo. A Nag Hammadi è stato trovato il Vangelo
di Tommaso in copto, ed è una semplice successione di λογία, quindi questa struttura letteraria esisteva.

Formgeschichtliche Methode (metodo della storia delle forme), Germania, inizio 1900): data la teoria delle
due fonti, occorre concentrarsi sui meccanismi di tradizione orale che trasmisero le informazioni su Gesù.
Ogni comunità cristiana delle origini trasmetteva piccole unità indipendenti (pericopi) utili al suo contesto;
talvolta le comunità creavano le pericopi (fiducia romantica, oggi obsoleta, nelle capacità creatrici delle
comunità). Questo metodo cerca di estrarre le pericopi dai Vangeli e capire quali siano effettivamente
riferibili al Gesù storico. Le soluzioni sono le più disparate:
1) Criterio della discontinuità (o della doppia dissomiglianza): quanto più un fatto/detto di Gesù è
difforme rispetto al coevo giudaismo e alla posteriore comunità cristiana, tanto più possibilità ha di
essere autentico.
2) Criterio della coerenza: le cose dette e fatte da Gesù devono essere compatibili col contesto giudaico-
palestinese dell’epoca (coerenza esterna) e non avere discrepanze fra di loro e con l’insegnamento
di Gesù già assodato (coerenza interna).
3) Criterio della molteplice attestazione: sono più probabili i detti/fatti di Gesù che si riscontrino in fonti
diverse e indipendenti.
Le pericopi così individuate presentano uno sfondo di lingua semitico e parametri stilistici ebraico-aramaici
(passivo divino, parallelismo semitico, andamento ritmico delle frasi).
Oggi il Formgeschichtliche Methode è considerato obsoleto e si tende ad apprezzare la specificità di ognuno
dei tre scritti, le loro diverse finalità e i motivi per cui i singoli autori hanno selezionato certe pericopi e non
altre: si parla di “metodo della storia della redazione”.
Il Vangelo di Marco (poco prima del 70) è il più antico e il più breve. Suo scopo è accreditare Gesù come
l’uomo di Dio che annuncia il suo regno compiendo prodigi; Marco in particolare vuole dimostrare la
progressiva rivelazione di Gesù come Messia, e solo ai discepoli, cui viene ordinato di tacere fino alla
risurrezione (segreto messianico). Solo l’evento pasquale (passione-morte-risurrezione) avrebbe fornito la
chiave per comprendere davvero Gesù.
Il Vangelo di Matteo (dopo il 70) condivide lo stesso pensiero ma amplia la narrazione, e in più vuole
dimostrare che tutte le cose fatte da Gesù erano state preannunciate dai profeti. Matteo è infatti di chiara
estrazione giudeocristiana e inserisce la vicenda di Gesù nell’ambito della tradizione e dell’osservanza
giudaica: non manca qualche polemica antipaolina.
Il Vangelo di Luca (dopo il 70 o dopo l’80) non è contenutisticamente molto diverso da Matteo, ma
ideologicamente è molto lontano: Luca è un etnocristiano, cioè proviene dal paganesimo, ed è stato in
rapporto con Paolo. Il Gesù narrato da Luca annuncia l’infinita misericordia di Dio (parabola del figliol prodigo
presente solo in Luca) e il riscatto degli emarginati.

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Il Vangelo di Luca si connette con l’altra opera dello stesso autore, gli Atti degli Apostoli (scritti poco dopo il
Vangelo), in cui si mostra convinto che il ritorno di Cristo è ancora molto lontano nel tempo. In ogni caso,
secondo Luca, anche dopo la risurrezione Cristo è presente nella Chiesa con il suo spirito, indirizzando l’azione
dei discepoli nell’espansione della fede cristiana. Luca, nelle sue due opere, dimostra di conoscere bene la
storiografia greca, soprattutto nell’uso dei discorsi.

Un certo Giovanni è l’autore di un quarto Vangelo, di tre lettere e dell’Apocalisse (=rivelazione). Tra il Vangelo
e le lettere c’è un’affinità di idee e di stile che permette di legarli allo stesso autore, mentre l’Apocalisse è
certamente di mano diversa.
Il Vangelo di Giovanni nasce nel contesto di una comunità piuttosto isolata, in polemica con le linee
maggioritarie del giudaismo, e si rifà alla testimonianza di un anonimo “discepolo prediletto” da Gesù (solo
dopo fu identificato in Giovanni di Zebedeo; dal Vangelo però non sembra neanche appartenere ai 12). Il cap.
21 del Vangelo è un’aggiunta di un redattore che, dopo la morte del discepolo, vuole forse rapportarsi con
altre correnti cristiane, soprattutto quella petrina. In passato si riteneva tarda la datazione del Vangelo, ma
il papiro Ryland (P 52), databile a inizio II secolo, l’ha fatto datare intorno al 100. Luogo di redazione o Siria o
Transgiordania o Alessandria o Asia Minore. Il Vangelo giovanneo condivide coi sinottici la narrazione e alcuni
episodi, ma ha una cronologia diversa e pone l’accento sulla persona di Gesù più che sulle sue opere: sin dal
primo capitolo ne enuncia il carattere divino come Logos. Gesù parla con lunghi discorsi dal tono sapienzale
e ieratico-iniziatico. Il Vangelo propone un culto spirituale (vd. lavanda dei piedi e samaritana), in polemica
con l’incipiente istituzionalizzazione della Chiesa.

L’autore delle tre lettere si autodefinisce “l’Anziano”: se non è l’autore del Vangelo (di poco anteriore) ci è
comunque molto vicino. Nella comunità dell’Anziano c’è crisi di autorità e crisi dottrinale: molti negano la
passione di Cristo ritenendola incompatibile con la sua divinità (docetismo). Le lettere non fanno riferimenti
a persone e luoghi, e il tono è un po’ esoterico, quindi non si capisce quale fosse la comunità dell’Anziano.

L’autore dell’Apocalisse dice di chiamarsi Giovanni e sembra un profeta attivo in Asia minore a fine I secolo.
Sostiene di aver avuto sull’isola di Patmo delle visioni relative al trionfo finale di Cristo sulla grande meretrice
(la Gerusalemme terrena) e sulle potenze avverse, cui seguirà l’instaurazione in terra della nuova
Gerusalemme dei giusti. Il genere è quello dell’apocalittica, nato nel giudaismo postesilico e fiorente
soprattutto dal I secolo. Nell’apocalittica un essere sovrannaturale comunica all’uomo qualcosa sulla realtà
trascendente; il linguaggio è sempre simbolico e immaginifico, non descrittivo. Tipica l’insoddisfazione nei
confronti nel mondo coevo, l’attesa di un mutamento radicale, la dipendenza della storia terrena da quella
ultraterrena, la vittoria finale di Dio sul male. Fra le principali apocalissi giudaiche annoveriamo il libro di Enoc
o Enoc etiopico, ma anche il libro di Daniele dell’AT, 2Baruc e 4Esdra. Anche materiali dei vangeli e delle
lettere paoline hanno carattere apocalittico. Fra i testi apocrifi, Ascensione di Isaia, Pastore di Erma e
Apocalisse di Pietro. L’Apocalisse di Giovanni, scritta in un greco approssimativo ricco di semitismi, ha forse
elementi anche antiromani. All’inizio, l’autore riporta 7 lettere da lui inviate a comunità cristiane
microasiatiche su cui aveva autorità: tutte comunità in luoghi dove il cristianesimo fu predicato per la prima
volta da Paolo: forse dunque queste comunità erano in crisi per una sovrapposizione tra le dottrine paoline
e una successiva predicazione di stampo giudaizzante.

Effettivamente 1Tm, 2Tm e Tt riportano che a fine I secolo le comunità di fondazione paolina in Asia erano in
crisi per questioni gerarchiche e dottrinali – ovvero proprio per il contrasto tra antilegalismo paolino e
tendenze giudaizzanti. L’autore ignoto di 1Tm, 2Tm e Tt (che assume il nome Paolo per dare peso ai suoi
consigli) cerca di tenere una linea intermedia tra le due dottrine, ma è più paolino.

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MARCIONE E GLI GNOSTICI

Marcione (e Apelle)
II-III secolo: crisi di crescita del cristianesimo. Il centro di gravità si spostò dalla componente giudeocristiana
a quella etnocristiana: si inspessì l’antigiudaismo e dunque si polemizzava molto sulla messianicità di Gesù e
ancora sull’osservanza della Legge.

Marcione, originario di Sinope nel Ponto, paolinista estremo, rilevò le differenze tra il Dio dell’AT e quello del
NT, distinguendo due divinità diverse. Propagandò le sue idee a Roma e nel 144 tornò in oriente, dove
organizzò una sua chiesa che si diffuse rapidamente e che, soprattutto inizialmente ma fino al V secolo, fu un
pericolo per l’ortodossia, come dimostra l’alto numero di opere antimarcionite nel II e III secolo.

Di Marcione conosciamo una lettera e le Antitesi, le quali confrontavano affermazioni dell’AT e del NT di
significato antitetico, al fine di distinguere le due divinità: ne rimane qualche passo dallo scritto
antimarcionita di Tertulliano. Scrisse inoltre l’Instrumentum, un canone di scritti neotestamentari contenente
il Vangelo di Luca e le 10 lettere di Paolo (non ci sono le pastorali e la lettera agli Ebrei) depurati dalle presunte
interpolazioni giudaizzanti. Probabilmente la creazione del canone neotestamentario ortodosso avvenne in
risposta a quello marcionita.

Un altro marcionita è Apelle, allievo di Marcione e scrittore dopo il 170. Fu autore dei Sillogismi, volti a
dimostrare le contraddizioni e le falsità dell’AT e di cui abbiamo qualche passo dal De Paradiso di Ambrogio.
Scrisse anche le Rivelazioni, sulle visioni di una profetessa di nome Filomena.

Lo gnosticismo
Anche lo gnosticismo notava la differenza tra Dio dell’AT (creatore) e Dio del NT (buono e vicino agli uomini).
Lo gnosticismo era una delle varie fedi filosoficamente atteggiate provenienti da un miscuglio di cristianesimo
e paganesimo, e vedeva negativamente il mondo materiale. Solo alcuni uomini privilegiati, gli gnostici
appunto, ospitano nel corpo un seme di origine divina, destinato ad acquisire sempre maggiore
autocoscienza fino a liberarsi dal corpo e tornare al divino. Vista l’avversione per il corporeo, gli gnostici
negavano la risurrezione finale dei morti e l’incarnazione di Cristo – erano cioè docetisti. La risurrezione
gnostica è la presa di coscienza con cui l’elemento divino dello gnostico capisce di essere consustanziale al
mondo trascendente.

Gli gnostici vivevano in comunità molto ristrette, spesso sotto-comunità delle comunità cristiane, di cui
intendevano rappresentare un’élite intellettuale, depositaria di una rivelazione divina superiore rispetto a
quella dei cristiani comuni. Gli gnostici effettivamente erano di solito di estrazione sociale e intellettuale
superiore ed erano ben visti per la loro generosità: erano un pericolo sottile per il cristianesimo, sicuramente
meno pericolosi del marcionismo. Solo a fine II/inizio III secolo un po’ dovunque gli gnostici ancora convinti
furono considerati eretici ed estromessi dalle comunità cristiane.

Gli gnostici scrissero molto, e, una volta che furono considerati eretici, i loro scritti furono attaccati dai
cattolici. Grazie a Ireneo, Clemente, l’Elenchos ed Epifanio conosciamo bene le dottrine gnostiche e anche
alcuni loro testi. Oltre a questa tradizione indiretta c’è anche quella diretta rappresentata dai papiri di Nag
Hammadi (rinvenuti in Egitto nel 1946): 13 codici papiracei contenenti 53 opere di cui 41 prima ignote. I testi
di Nag Hammadi hanno comunque alcuni limiti: sono spesso traduzioni greco>copto mal fatte, sono testi
tardi (III-IV sec) tranne qualche eccezione (Apocrifo di Giovanni) e sono anonimi, nulla aggiungendo quindi a
ciò che già sappiamo di grandi gnostici di II secolo come Basilide, Carpocrate, Valentino, Tolomeo, Eracleone.

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Da tutte le testimonianze vediamo che era un movimento molto complesso e stratificato, con il II secolo come
età d’oro, e successivamente (come si coglie soprattutto dai papiri di Nag Hammadi) improntato soprattutto
sugli elementi mistici e iniziatici comunque presenti sin dall’inizio. I maestri gnostici prima citati furono i primi
a tentare un’organizzazione dottrinale coerente dei dati derivanti dalla tradizione cristiana, nonché i primi ad
aver iniziato un’interpretazione sistematica della Scrittura. Furono sì allontanati dall’ortodossia, ma la
arricchirono intellettualmente, di sicuro in quanto a metodo di ricerca e impegno intellettuale.

Dottrina degli eoni (esposta da Valentiniano ma, poiché i suoi scritti sono frammentari, nota da altre fonti):
in principio era un Eone, sia maschile (Padre/pre-Padre/Abisso) sia femminile (Silenzio/Grazia/Ennoia).
Volendo estroflettersi, questo eone “sinolo” di Padre e Silenzio genera tutte le realtà emanando 30 coppie
(maschio-femmina) di eoni dette sigizie, man mano sempre meno perfette, che insieme compongono il
Pleroma divino. Nell’ultima sigizia (la più impura) l’elemento femminile, Sophia, vuole conoscere il Padre, ma
è bloccata dall’eone Limite. Sophia aggira quindi Limite (e tutto il Pleroma) espellendo fuori dal Pleroma la
sua passione, Sophia Achamoth (un grado inferiore di sapienza), come un aborto. Sophia Achamoth, uscendo
dal Pleroma, genera il Demiurgo, il dio semi-creatore che non sarebbe mai dovuto esistere, e che crea il
mondo materiale (il quale si trova quindi fuori dal Pleroma e cioè fuori dalla perfezione che deriva dal Padre).
Con la nascita del Demiurgo, e la creazione del mondo materiale da parte sua, si crea un disequilibrio che il
Pleroma tenta di risolvere mandando il Salvatore (Cristo e lo Spirito Santo) presso Sophia e Sophia Achamoth.
Obiettivo degli gnostici, immersi nella realtà creata dal Demiurgo e quindi, indirettamente, da Sophia
Achamoth, è di sfuggire a questa fuga dal Pleroma causata da Sophia+Sophia Achamoth+Demiurgo e tornare
nel Pleroma, ricongiungendosi con il Padre: questo può farlo attraverso Cristo, che è stato mandato dal
Padre-Pleroma per sconfiggere il Demiurgo. Solo gli uomini dotati della scintilla spirituale possono
ricongiungersi al Pleroma: lo gnosticismo non è dunque per tutti ma per pochi eletti.

IL CANONE NEOTESTAMENTARIO
Il NT ha 27 libri, ma il canone, nato a fine II secolo, non era come oggi: molti libri faticarono a entrare nel
canone (come l’Apocalisse) e altri libri furono successivamente esclusi. Ci fu un certo dibattito nelle varie
comunità cristiane per la selezione dei libri canonici.

I cristiani dei primi secoli consideravano Scrittura anche i testimonia, raccolte cristiane di passi dell’AT messe
insieme sulla base di precisi presupposti teologici come la messianicità di Gesù.

LETTERATURA APOLOGETICA

Nel II secolo la crisi dovuta a marcionismo, gnosticismo e montanismo si aggiunse all’odio dei pagani
(autorità, intellettuali, popolo) per i cristiani, visti come pericolosi per le istituzioni, perché si rifiutavano di
credere alla religione tradizionale (fondativa della società romana; da qui l’accusa di ateismo rivolta ai
cristiani) e di tributare il culto dovuto all’imperatore. È vero che anche gli ebrei non credevano agli dèi
tradizionali e non veneravano l’imperatore, ma questi ultimi non si espandevano bensì rimanevano chiusi
nelle loro comunità (pur geograficamente sparse), mentre i cristiani facevano proselitismo. I cristiani erano
quindi passibili di ateismo e lesa maestà, e per questo secondo motivo condannabili a morte.

Una risposta di Traiano a Plinio il Giovane, risalente al 112-113, colpisce il cristiano in quanto tale, cioè senza
accuse specifiche, anche se allo stesso tempo proibisce la ricerca “a tappeto”. Ma anche il popolino odiava i
cristiani, accusandoli di immoralità e odio del genere umano, sulla base di dicerie strampalate; gli intellettuali
invece li accusavano di essere ignoranti e fanatici verso una religione ridicola e lontanissima dalla paideia
classica.

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Risalenti al II secolo sono le opinioni di:
- Traiano: (vd. sopra) i cristiani vanno condannati sì individualmente, e non scovati cercandoli a
tappeto, però vanno condannati semplicemente in quanto cristiani;
- Plinio: le due schiave ministrae del culto, forse diaconesse, da lui interrogate, sono colpevoli solo di
“superstizione smodata”;
- Luciano di Samosata: i cristiani sono dei sempliciotti pronti ad accogliere come profeta qualunque
ciarlatano;
- Marco Aurelio: i martiri hanno un coraggio estremo ma teatrale e irrazionale;
- Galeno: opinione moderata;
- Celso (medio-platonico): intorno al 180 scrive l’Ἀληθὴς Λόγος (Discorso veritiero o Autentica ragione,
forse con derisione già nel titolo del “Logos” cristiano). In quest’opera usa varie fonti per confutare i
cristiani e fa parlare contro di loro anche un giudeo.

Il cristianesimo aveva quindi dei pericoli interni (le eresie) contro cui reagiva irrigidendo la gerarchia e la
liturgia ed espellendo gli eterodossi; più difficile invece difendersi dai pericoli esterni: la ricerca non a tappeto
voluta da Traiano li metteva parzialmente al sicuro (potevano comunque essere arrestati in qualunque
momento), ma gli intellettuali e il popolino preferivano farne arrestare quanti più possibile, e così ai cristiani
non restava che il martirio.
Per questo, alcuni cristiani fra i più dotti cercarono di difendere la propria fede dai pericoli interni (eresie) ed
esterni (persecuzioni) rivolgendosi direttamente agli intellettuali pagani (ed eretici) attraverso scritti
apologetici. Parlando agli intellettuali pagani e mettendosi al loro stesso livello, speravano che questi, e
quindi le classi egemoni di cui solitamente facevano parte in quanto uomini dotti, potessero influire sulle
autorità imperiali – ma questo risultato fu ottenuto dagli apologisti solo nel III secolo.
Non era, poi, soltanto un tentativo di difendersi, ma anche semplicemente di spiegare la dottrina cristiana
anche agli ortodossi stessi, che di dubbi dovevano averne: gli apologisti scrivevano anche di demoni,
monarchia divina, anima, risurrezione, polemica con i giudei, e cercavano di risultare chiari ai propri
interlocutori, chiunque fossero.

L’apologetica di II secolo fu disdegnata (non in senso teologico ma puramente retorico) nei secoli successivi,
perché l’apologetica successiva, soprattutto quella di III e IV secolo, era di qualità nettamente più alta. Si
persero quindi le opere degli apologeti di II secolo, e se rimane qualcosa lo dobbiamo agli interessi religiosi
ma anche culturali di Areta, metropolita di Cesarea di Cappadocia, vissuto nel X secolo, che fece trascrivere
varie opere apologetiche di II secolo in un codice giunto fino a noi e oggi alla BN di Parigi.

Le opere apologetiche di II secolo avevano ciascuna le proprie specificità, ma anche tendenze comuni. In
genere prendevano in considerazione sia le accuse ufficiali sia quelle di estrazione popolare: alle prime
rispondevano che i cristiani avevano diritto a essere sottoposti a giudizio solo con accuse concrete e
specifiche e non in base al proprio culto; alle seconde rispondevano che i cristiani vivevano una vita rettissima
e morigerata. Sugli dèi pagani, gli apologeti dicevano che erano personaggi antichi divinizzati per le loro
buone azioni (evemerismo), mentre i miti omerici e di altri poeti erano immorali.
Alle accuse di ignoranza e rusticità rivolte dagli intellettuali pagani, gli apologisti, quasi tutti pagani convertiti
al cristianesimo e quindi con una cultura frutto della paideia classica-pagana, opponevano la falsità dei miti,
l’immoralità della retorica (che fa vincere il falso) e l’inconcludenza dei filosofi. Alcuni apologisti, poi, erano
comunque disposti a riconoscere che le dottrine e gli insegnamenti di vari poeti e filosofi erano comunque
validi, sia in senso teorico (unicità di Dio, esistenza del Logos) sia in senso morale: per spiegare tali
convergenze facevano spesso ricorso all’argomento, proprio già del giudeoellenismo, dei furta Graecorum:
Omero, Platone e altri avrebbero attinto quanto di vero si riscontra in loro da Mosè e in generale dall’AT.
Alcuni apologisti infatti definivano la religione cristiana una filosofia.
L’apologetica chiaramente non poteva affrontare i nemici pagani usando le Scritture (anche il NT), ma doveva
parlare la loro stessa lingua e quindi fare uso della filosofia greca, anche per dimostrare di essere al loro
stesso livello. Gli apologisti riconoscevano l’insufficienza dell’educazione pagana in cui erano cresciuti, ma ne
sfruttavano la strumentazione concettuale indispensabile per farsi ascoltare.

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Per esempio, gli apologisti introdussero la Logostheologie o dottrina del Logos proprio usando la filosofia
greca (soprattutto medio-platonica) in funzione di difesa del cristianesimo. Basandosi sul Vangelo di Giovanni
dicevano che Cristo è Logos divino distinto dal Padre, il quale ha emanato il Logos per provvedere alla crea-
zione e al governo del mondo; poi questo Logos si sarebbe anche incarnato nel Figlio per portare la salvezza.

Non mancavano però le convinzioni nettamente opposte al paganesimo: per gli apologisti la materia non è
eterna ma creata da Dio; i corpi risorgeranno alla fine dei tempi; il Logos divino si era incarnato, aveva patito
ed era risorto in Gesù.

Primi elementi di apologetica si riscontrano già nel discorso sull’Areopago che Luca mette in bocca a Paolo in
At 17,23ss (Paolo cita anche un verso di Arato di Soli per avere una base comune con i pagani e suscitare il
loro interesse, un po’ come gli apologisti dei secoli successivi). C’era poi la Predicazione di Pietro, opera di
inizio II secolo contenente vari spunti di polemica antipoliteistica e antigiudaica.

Ecco un elenco dei principali apologisti di II secolo, che ci sono noti soprattutto da Eusebio:

PERDUTE
- Quadrato: forse vescovo di Atene, stando a Eusebio fu il primo apologista, perché donò ad Adriano
un suo testo apologetico durante la visita dell’imperatore ad Atene nel 124 o 125. Questa Apologia
di Quadrato è perduta ma Eusebio ne tramanda un frammento in cui l’autore afferma la veridicità
dei miracoli di Cristo menzionando alcuni miracolati che ai suoi tempi erano ancora vivi.
- Milziade: autore di Apologie, Contro i Greci, Contro i Giudei
- Apollinare di Hierapolis: autore di Apologie, Contro i Greci, Contro i Giudei, Contro i montanisti
- Melitone: vescovo di Sardi, indirizzò le sue Apologie a Marco Aurelio verso il 176. In un passo
tramandato da Eusebio vediamo che quest’opera conteneva il primo parallelismo tra la data
dell’avvento di Cristo e l’instaurazione dell’impero di Augusto (sincronismo che avrebbe dovuto
aprire la strada alla collaborazione impero-Chiesa). Melitone chiama il cristianesimo “la nostra
filosofia”, assimilandolo non ai culti pagani ma alle filosofie ellenistiche. Melitone oltre che vescovo
era anche profeta e asceta, e la sua opera ebbe molto successo ma era troppo vasta (secondo
Eusebio) e quindi si perse: di lui dunque si sono salvati solo un’omelia pasquale e l’omelia Sull’anima
e il corpo. Scrisse anche delle Egloghe, che a dispetto del titolo erano una raccolta di testimonia
scritturistici su Cristo. Per l’elenco dei libri biblici usava il canone ebraico, per poter contestare i
giudei. Scrisse anche Sul diavolo e l’Apocalisse di Giovanni e un’opera intitolata Su Dio corporeo, forse
relativa all’accusa rivoltagli da Origene di attribuire a Dio forma umana.

GIUNTE FINO A NOI


- Aristide di Atene: indirizzò anch’egli ad Adriano una Apologia, e forse nella stessa occasione di
Quadrato (l’arrivo ad Atene dell’imperatore). Il testo è conservato in traduzione siriaca, e parte del
testo originale greco confluì nei capp. 26-27 della Vita di Barlaam e Ioasaph, un racconto tardo di
tono agiografico. Nella sua Apologia, Aristide di Atene difende il cristianesimo ritenendolo superiore
alla religione dei barbari, dei Greci e dei giudei, perché è l’unica religione che dia una conoscenza
esatta di Dio (ingenerato, senza principio, incomprensibile ecc: schemi medioplatonici). Evidenzia
inoltre, per la prima volta, che i cristiani sono un nuovo γένος costituitosi su base religiosa anziché
etnica, e sottolinea l’ineccepibile moralità e morigeratezza dei cristiani, garanzia della veridicità della
loro fede.

Passiamo ad apologeti maggiori.

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Giustino
Vissuto nella prima metà del II secolo, è la prima grande personalità letteraria del cristianesimo. Nacque a
Flavia Neapolis (Palestina) e si convertì al cristianesimo dopo aver studiato filosofia. L’ambientazione a Efeso
del suo Dialogo con Trifone potrebbe suggerire che la conversione avvenne in Asia Minore. Per due volte fu
a Roma, dove insegnò filosofia cristiana gratuitamente, suscitando l’inimicizia del filosofo cinico Crescente.
Fu arrestato forse con la complicità di Crescente e, processato verso il 165, confessò la sua fede e fu
decapitato con alcuni suoi allievi.

Di Giustino ci sono giunte, tramandate da Areta di Cesarea, due Apologie e il Dialogo col giudeo Trifone.

Prima Apologia: scritta a Roma verso il 153 e indirizzata ad Antonino Pio, Marco Aurelio e Lucio Vero, che
vengono invitati a dimostrare che il loro governo sia davvero illuminato come vantano. Giustino critica il fatto
che i cristiani vengono condannati in quanto tali, nonostante la loro estrema morigeratezza. La religione
pagana è opera dei demoni (anche se poi Socrate allontanò gli uomini dai demoni e così la sua condanna a
morte fu orchestrata dai demoni) mentre il cristianesimo è inviso solo perché poco conosciuto. Parla inoltre
dei riti – a lui dobbiamo la più antica descrizione dell’eucaristia.

Seconda Apologia: forse un’appendice aggiunta alla prima Apologia, la riprende in una certa misura ma è
dedicata soprattutto a raccontare come e perché tre cristiani sono stati condannati dal prefetto Urbico. È
qui che Giustino menziona l’inimicizia di Crescente nei suoi confronti.

Dialogo col giudeo Trifone: essendo contro i giudei e non contro i pagani, c’è quasi un cambio di genere
letterario (coi giudei c’era ovviamente in comune l’AT). Dialogo prolisso, è sceneggiato come un confronto di
due giorni tenuto a Efeso tra l’autore e un giudeo di nome Trifone (forse il famoso Rabbi Tarphon?): potrebbe
effettivamente conservare l’eco di discussioni realmente avvenute. La controversia si focalizza sull’AT, di cui
Giustino menziona i passi di contenuto messianico per dimostrare che si erano verificati in Cristo. Distinzione
tra τύποι e λόγοι: le parti narrative della Scrittura sono τύποι, cioè trattano di fatti accaduti che a una
seconda lettura prefigurano eventi futuri; i λόγοι invece sono le profezie il cui unico livello di lettura è
cristologico. Il primo esegeta a noi noto, Ippolito, farà ampio uso di questa distinzione.
Non sappiamo se il Dialogo fosse in grado di persuadere i giudei, ma in ogni caso il suo pubblico non erano
tanto gli ebrei quanto i cristiani, che dall’opera potevano trarre numerose argomentazioni.
Nel Dialogo Giustino si presenta come tipico cristiano colto, di origine ed educazione pagana e che vede il
cristianesimo come una filosofia oltre che come una religione (ponendosi così sullo stesso piano degli
avversari pagani). Giustino ricorre molto sia all’argomento dei furta Graecorum sia alla Logostheologie, e
intesse lo stoicismo al medioplatonismo.

Da Eusebio sappiamo che scrisse anche altro: Syntagma contro tutte le eresie, Syntagma contro Marcione,
Discorso ai Greci, Confutazione (contro i Greci), Sulla monarchia di Dio, Psaltes (Salterio), Sull’anima. Varie
le opere spurie a lui attribuite. Forse giustinea, o al massimo di qualche suo allievo, il trattato Sulla
risurrezione di cui abbiamo qualche frammento nei Sacra Parallela di Giovanni Damasceno.

10
Taziano
Siriaco, discepolo e amico di Giustino, anche lui come il suo maestro si convertì al cristianesimo per esigenze
di rigore morale. Dopo aver frequentato la scuola giustinea a Roma, verso il 172 tornò in oriente, dove aprì
una sua scuola di stampo encratita e quindi eretica, pregna di rigorosi divieti sessuali e alimentari (secondo
Ireneo l’encratismo fu influenzato anche dallo gnosticismo).

Diatessaron: armonia evangelica, è il “Vangelo che si ricava διὰ τεσσάρων” e cioè “mediante i quattro”. In un
periodo in cui si discuteva delle contraddizioni fra i quattro vangeli, che stavano diventando canonici, Taziano
ne propone uno solo, fondendoli e rendendoli compatibili. Non si sa se il Diatessaron sia stato composto in
greco e poi tradotto in siriaco o viceversa, sta di fatto che oggi ne abbiamo solo frammenti anche se l’opera
godette di grande fortuna anche nel medioevo: fu il testo evangelico ufficiale della chiesa siriaca fino al V
secolo, quando fu sostituito dai quattro vangeli canonici, e fu tradotto in molte lingue e commentato da
Efrem Siro.

Contro i Greci: opera apologetica in cui Taziano si dimostra molto più chiuso e pessimista del suo maestro
Giustino. Condanna l’ellenismo in ogni sua forma (religione filosofia letteratura retorica), fonti di vizi. Se
Giustino valorizzava i riscontri tra filosofie pagane e cristianesimo, Taziano ne sottolineava solo la derivazione
dai libri di Mosè (furta Graecorum). Nell’attaccare tutto ciò, però, non menziona mai né le Scritture né Gesù:
vuole criticare l’ellenismo dall’interno. Eppure sa esprimersi perfettamente in stile asiano e attinge spesso
dal medioplatonismo, ad esempio nel distinguere due pneumi (uno pneuma soprasensibile identificabile in
Dio e uno sensibile proprio del mondo materiale), e quindi introducendo un divisismo molto platonico e
opposto alla concezione monistica dello pneuma stoico. Inoltre propone il cristianesimo come nuova paideia,
in contrasto con la Seconda Sofistica.

Problemi: opera perduta, era un elenco delle difficoltà derivanti dai passi più oscuri della Scrittura.

A Diogneto
Non presente nel codice di Areta, giunto a noi in altro modo (fu trovato nel 1436 da Tommaso d’Arezzo a
Costantinopoli tra la carta usata da un pescivendolo per avvolgere il pesce). Di livello letterario davvero molto
elevato, ma anonimo e di luogo e datazione difficili. Il contenuto infatti sviluppa temi apologetici largamente
diffusi e manca di caratteri tali da poterlo inquadrare in un ambiente letterario preciso. Contrariamente a
quanto si è creduto per lungo tempo non è una lettera, ma un trattatello che risponde ad alcune domande
poste all’autore dall’amico pagano (e colto) Diogneto. Tra le solite domande (come vivono i cristiani, perché
sono ostili a giudei e pagani) ce n’è una che verrà poi molto riproposta: perché la loro religione è apparsa
tanto tardi. La risposta è la maggiore novità ideologica dell’opuscolo: il Figlio di Dio è voluto arrivare tardi
perché ha aspettato che gli uomini si convincessero della loro impotenza in modo che potessero ottenere la
salvezza. Ciò significa che, per l’autore, l’uomo non è in grado di conoscere Dio con la ragione (cosa che invece
credeva Giustino). Inoltre i cristiani sono superiori a tutti gli altri, perché non avendo una patria costituiscono
l’anima del mondo, e come la carne combatte l’anima pur non potendo vivere senza di essa, così il mondo
combatte i cristiani anche se questi ne sono il fondamento.

Satira dei filosofi pagani (Ermia filosofo)


Non sappiamo chi fosse questo Ermia, e l’opera (come l’A Diogneto) non è mai citata dagli autori antichi.
Forse risalente al 200 circa, irride i filosofi greci e la loro sapienza mondana, frutto dell’apostasia degli angeli
(idea diffusa nel II secolo e già in Giustino). Segue l’elenco degli argomenti che generano discordia tra le
dottrine filosofiche. Nella conclusione si afferma che la ricerca della realtà è senza fine e il suo scopo è vano
e senza evidenza di ragione. L’ironia insistita ricorda quella di Luciano di Samosata, specialmente quella
dell’Icaromenippo.

11
Ireneo di Lione
Nativo di Smirne, fu vescovo di Lione negli ultimi decenni del II secolo (in Gallia si erano stabiliti molti asiatici).
La sua formazione fu totalmente asiatica e forse cristiana sin dall’inizio, perché non abbiamo notizia di una
sua conversione. Nel 177 fu inviato da Lione a Roma per portare una lettera con cui i cristiani lionesi
invitavano il vescovo Eleuterio a non condannare prematuramente i montanisti (seguaci di un’eresia
carismatica in cui alcuni profeti si dichiaravano come posseduti da Cristo). Fatto vescovo, fu in contatto con
papa Vittore (regn. 189-198) per mitigarne l’ostilità contro i cristiani di Roma di origine asiatica, che
celebravano la Pasqua secondo il rito quartodecimano (cioè in contemporanea alla Pasqua ebraica).

Eusebio elenca alcuni suoi scritti. A noi sono giunti Smascheramento e confutazione della falsa gnosi (noto
come Adversus haereses) e la Dimostrazione della predicazione apostolica.

Adversus haereses (Smascheramento e confutazione della falsa gnosi): in cinque libri (due blocchi, I-II e III-
V), ci è giunto integro soltanto in una traduzione latina precedente al V secolo, mentre gli ultimi due libri si
trovano anche in una traduzione armena. Dell’originale greco restano solo frammenti da papiri e per
tradizione indiretta. Contenuto antignostico e soprattutto ostile a Valentino, la cui dottrina gnostica era
quella più elaborata e conosciuta.
Dopo la prefazione, il I libro è dedicato a una dettagliatissima esposizione, con varie fonti, della gnosi
valentiniana, la cui dottrina si riscontra anche nei ritrovamenti ritrovamenti papiracei dell’Apocrifo di
Giovanni e del Vangelo di Giuda.
Il libro II confuta lo gnosticismo evidenziandone incongruenze, inverosimiglianze e tratti eccessivamente
mitologizzanti.
Nel secondo blocco completa la confutazione basandosi sulla Scrittura, che ormai comprende anche il NT,
alla cui sistematizzazione in canone Ireneo potrebbe non essere stato estraneo (è il primo autore cristiano a
citare passi del NT considerandoli normativi al pari di quelli dell’AT). Il libro III insiste sulla canonicità del NT
e sul valore vincolante della tradizione. I libri IV e V vorrebbero essere, per dichiarazione dell’autore, 1) la
confutazione della gnosi sulla base delle parole di Cristo e degli apostoli e 2) una dimostrazione della
congruenza tra AT e NT (proposito attuato solo in piccolissima parte).
Sviluppatissimo il tema del millenarismo: nel settimo millennio di età del mondo, secondo Ireneo, si
compiranno varie promesse di Dio.
Nell’opera, Ireneo dichiara ripetutamente di rifarsi a tradizioni precedenti, soprattutto di non meglio
identificati “presbiteri”, quindi le incongruenze nell’opera potrebbero essere dovute alla pluralità di fonti.

Dimostrazione della predicazione apostolica: composta dopo la Adversus haereses e disponibile solo in
traduzione armena, è un compendio di dottrina basato sulle Scritture destinato a un tal Marciano, ma
probabilmente usato anche per la catechesi. Nella prima parte leggiamo i capisaldi della dottrina cristiana
come ormai cominciavano a canonizzarsi in opposizione agli eretici; nella seconda si legge dei testi profetici
dell’AT e dei loro riferimenti a Cristo e alla Chiesa.

È vero che i suoi testi sono scomparsi in redazione originale – segno che si perse interesse per Ireneo già in
antico – ma è comunque un autore fondamentale, come rilevato già da Eusebio, che legò Ireneo all’acceso
dibattito tra cristianesimo e gnosticismo. Proprio quando non ci fu più bisogno di combattere gli gnostici i
testi di Ireneo smisero di essere utili (e iniziarono a servire testi contro altre eresie). Difficilmente uno
gnostico avrebbe abbandonato il proprio credo grazie alla critica di Ireneo, ma è anche vero che il destinatario
dell’Adversus haereses non sono gli gnostici ma i cristiani “tentati” dagli gnostici.

Sia i cristiani sia gli gnostici fondavano le rispettive convinzioni sulla Scrittura, ed entrambi usavano
interpretarla anche allegoricamente: per Ireneo, gli gnostici creavano delle interpretazioni forzate, e in più
non avallate dalla tradizione della Chiesa e dei suoi vescovi, che già allora iniziava ad avere un certo peso.

12
LETTERATURA ALESSANDRINA

Il giudeoellenismo
L’unione culturale fra mondo ebraico e mondo greco produsse una vasta letteratura di cui rimane solo
qualche traccia: traduzione dei Settanta, Lettera di Aristea, Sapienza di Salomone, Terzo libro dei Maccabei
e vari scritti di Filone. Filone, in particolare, in quanto giudeo, cercò di unire la tradizione religiosa di Israele
con la paideia greca.

Nel I e II secolo il mondo ebraico (sia in Israele sia nei territori orientali più interessati dalla diaspora) fu
sconquassato da vari conflitti che portarono i giudei a ripiegarsi su sé stessi, interrompendo così il progetto
sincretico di Filone, che fu apertamente rifiutato insieme al testo della Settanta.

Furono i cristiani a raccogliere l’eredità giudeoellenistica: per quanto riguarda la Settanta (che in origine era
la traduzione solo del Pentateuco, ma nel resto del II sec. a.C. furono tradotti anche gli altri libri dell’AT)
questa fu adottata come testo ufficiale dell’AT da tutte le comunità cristiane grecofone; per quanto invece
riguarda Filone, i suoi testi continuarono a essere letti solo da alcune comunità cristiane (sempre grecofone)
di Alessandria. Due sono gli elementi cristiani che si riscontrano già in Filone: 1) la dottrina del Logos (già
medio-platonico) come entità sussistente accanto al Dio cristiano e a lui subordinata come mediatore con gli
uomini, e 2) una prassi ermeneutica esemplata sull’interpretazione filosofica dei miti greci, e quindi
allegorica.
Come si è visto, la dottrina cristiana del Logos era presente già nel Vangelo di Giovanni, mentre la lettura
allegorica dell’AT era presente già in Paolo: non fu dunque difficile, per i cristiani alessandrini di II secolo,
assimilare questi contenuti da Filone, perché erano dottrine e prassi di fatto già note per altra via (Paolo e
Giovanni, appunto).
Filone però arricchiva questi due elementi: la dottrina del Logos, nell’interpretazione filoniana, si concentrava
sul ruolo del Logos come mediatore tra Dio e il mondo, mentre per quanto riguarda l’allegoresi dell’AT, quella
cristiana vedeva nell’AT delle prefigurazioni (τύποι) di Cristo e della Chiesa, mentre Filone interpretava figure
e fatti della Scrittura come simboli di realtà psicologiche e cosmologiche.

I primi testi cristiani nati o arrivati ad Alessandria furono forse il Vangelo degli Ebrei e il Vangelo degli Egiziani
(perduti), e se è vero che la Lettera di Barnaba è stata redatta ad Alessandria, da questa cogliamo che il
cristianesimo alessandrino era estremamente critico nei confronti dell’osservanza giudaica di tipo petrino.

Solo a partire dalla crisi gnostica, però, abbiamo certezze sul cristianesimo alessandrino: i principali gnostici
erano proprio di lì, e la loro influenza rimase per molti decenni tra i cristiani colti della regione. Fino
all’episcopato di Demetrio e quindi fino a quasi tutto il II secolo, la comunità cristiana alessandrina era poco
coesa e i suoi vescovi poco potenti: i gruppi di fedeli si radunavano nelle chiese domestiche, sotto i presbiteri.

Prima del vescovo Demetrio, data la decentralizzazione dei cristiani di Alessandria, anche l’insegnamento
cristiano era disseminato in più livelli e più scuole – alcune anche gnostiche. Tra i principali maestri (privati)
ci furono prima Panteno, poi Clemente; a partire dall’episcopato di Demetrio (189-231) questo insegnamento
si istituzionalizzò nel didaskaleion, dove poi insegnò anche Origene (attenzione a non confonderlo con il
contemporaneo didaskaleion neoplatonico, sempre ad Alessandria).

13
Clemente Alessandrino
Forse originario di Atene e quasi certamente pagano di nascita, ebbe vari maestri in tutto l’oriente, tra cui (in
Egitto) quello che definisce “l’ape siciliana”, ovvero probabilmente Panteno. Fu maestro cristiano ad
Alessandria, prima privatamente e poi nel didaskaleion; a inizio III secolo abbandonò la città forse per le
persecuzioni di Settimio Severo. Da una lettera del 205 o 215 di Alessandro, vescovo di Cappadocia e poi di
Elia Capitolina (Gerusalemme), possiamo supporre senza certezza che Clemente sia stato presbitero a
Cesarea di Cappadocia; morì tra il 215 e il 230, senza mai essere tornato ad Alessandria, forse perché preferiva
la situazione centrifuga precedente al vescovo Demetrio.

Di Clemente ci sono giunti vari scritti, ma poco della sua opera più importante, le Hypotyposeis (“Abbozzi”),
opera di carattere miscellaneo ma soprattutto esegetico e teologico. Il poco che rimane delle Hypotyposeis
è nella traduzione latina di Cassiodoro detta Adumbrationes in epistulas canonicas, ma è insufficiente per
conoscere la prassi esegetica e la dottrina teologica di Clemente.

Ci sono giunti i titoli di altre opere perdute: Sulla Pasqua, Contro i Giudaizzanti, I princìpi, Il digiuno, Sul
pettegolezzo…

Per quanto riguarda gli scritti superstiti, possono essere divisi in due gruppi: uno destinato alla diffusione
esterna e quindi più stilisticamente elaborato (Protrettico, Pedagogo, Quale ricco si salva?), l’altro connesso
con la scuola e quindi meno curati (Stromateis) o addirittura sotto forma di annotazioni (Estratti profetici,
Estratti da Teodoto).

1) Il Protrettico è esplicitamente ispirato a quello di Aristotele, che aveva il fine di invitare i giovani che
avevano completato l’istruzione inferiore ad abbracciare lo studio della filosofia. Ovviamente la
filosofia che intende Clemente è quella cristiana, e con l’invito ad abbracciare la teologia c’è anche
quello a rifiutare i culti pagani (specialmente misterici), la critica alle persecuzioni e l’ennesima
esposizione dell’argomento dei furta Graecorum. Clemente in quest’opera si dimostra uno degli
autori cristiani più ottimisti: è convinto dell’azione protrettica del Logos divino ma anche dei benefici
provenienti dalla paideia e dalla filosofia. Clemente è stato il solo letterato cristiano ad approvare
l’esercizio della ginnastica e dimostra una grande capacità di dialogo tra cristianesimo e cultura greca.

2) Il Pedagogo, in tre libri, è indirizzato a un pubblico cristiano incipiente, come bambini che necessitano
appunto di un pedagogo. L’opera è soprattutto morale, perché gli etnocristiani dovevano abituarsi a
un rigore morale superiore a quello del paganesimo da cui provenivano. Cristo è presentato come il
divino pedagogo che indirizza la sua cura a tutti i battezzati, indistintamente, senza privilegiare
nessuno (frecciata agli gnostici).
Il primo libro introduce l’argomento e si scaglia contro gnostici e marcioniti, affermando che Dio è
uno solo, in quanto il Dio giusto dell’AT è lo stesso del Dio buono del NT. Gli altri due libri trattano
problemi di morale spicciola: mangiare, bere, vestirsi, gioielli eccetera, senza mai arrivare a un rigore
opprimente, proprio perché Clemente sa aprirsi ai valori umani della vita e quindi al rigorismo
spietato di certi cristiani preferisce il concetto greco di giusta misura. La lettura del Pedagogo
evidenzia il livello sociale mediamente alto del suo pubblico, che doveva essere principalmente la
comunità di cui Clemente era maestro e forse presbitero. Proprio il livello sociale mediamente
elevato spiega perfettamente il motivo per cui fu scritto il Quale ricco si salva?

3) Nell’operetta, forse un’omelia, Quale ricco si salva? Clemente commenta l’episodio del giovane ricco
secondo il racconto di Marco e dice che quel passo va interpretato solo allegoricamente (secondo
una prassi tipica del cristianesimo alessandrino). Quei versetti infatti non vogliono indicare che il ricco
deve spogliarsi di ogni bene, ma che deve usare tutto con profitto e quindi anche a beneficio dei
bisognosi. Questa spiegazione rimuoveva uno dei principali ostacoli che potevano impedire ai ricchi
l’accesso alla comunità cristiana e la stessa conversione.

14
All’inizio del Pedagogo Clemente descrive la triplice azione del Logos divino sugli uomini: come Protrettico in
quanto invita alla salvezza, come Pedagogo in quanto insegna a vivere rettamente, come Maestro in quanto
istruisce ad approfondire la conoscenza della verità. Era quindi forse prevista una grande impresa letteraria
di cui il Protrettico e il Pedagogo costituivano le prime due parti, mentre la terza a questo punto doveva
intitolarsi Maestro ma corrisponde forse agli Stromateis. Questa secondo cui gli Stromateis sarebbero
l’ultimo elemento della trilogia è però una teoria vecchia: i primi due scritti infatti sono più elaborati e
destinati a uscire dal ristretto ambito in cui operava Clemente, mentre gli Stromateis sono (insieme alle
Hypotyposeis) di un genere letterario di minor livello, quello degli hypomnemata, comprensivo di tanta prosa
filosofica e scientifica: gli Stromateis potrebbero quindi essere nati nel contesto dell’insegnamento di
Clemente.

C’è da dire che gli Stromateis trattano comunque l’argomento che si sarebbe trattato in un ipotetico Maestro,
perché scopo dell’opera è, tutto sommato, l’approfondimento della verità. L’opera, in 8 libri (l’ultimo sembra
non rifinito) tratta degli argomenti più disparati (rapporto tra Scrittura e sapienza greca, martirio, morale
sessuale, furta Graecorum ecc): l’obiettivo è semplicemente quello di alzare il livello culturale del lettore
cristiano, facendolo passare dalla pura fede alla vera conoscenza, in opposizione alla finta conoscenza che è
quella della gnosi.
Due sono i denominatori comuni degli Stromateis: la polemica contro gli gnostici (di cui Clemente riporta
molti frammenti) e il continuo rimbalzare da citazioni bibliche a citazioni greche-pagane, tratto tipico di
Clemente. È sua quindi l’impostazione propedeutica della filosofia greca finalizzata allo studio approfondito
della Scrittura: tale impostazione sarà propria anche di Origene e poi di tutto l’oriente cristiano, passando
soprattutto per Basilio di Cesarea e il suo famoso appello ai giovani.

Clemente, per quanto critico verso gli gnostici, fu da questi profondamente influenzato. Scrisse gli Estratti da
Teodoto, una raccolta di citazioni di questo poco noto valentiniano, forse per servirsene a fini polemici, con
varie osservazioni di Clemente inframmezzate tra una citazione e l’altra; solo il contenuto (gnostico vs
ortodosso) permette di distinguere chiaramente le osservazioni di Clemente da quelle di Teodoto, perché il
modo di esprimersi è lo stesso. Per certi frammenti, poi, l’attribuzione è addirittura dubbia.

Gli Estratti profetici sono annotazioni solo clementine di tono esoterico, con destinazione molto ristretta se
non personale (forse bozze di lezioni scolastiche?). Sono osservazioni slegate che partono da un testo biblico
e lo interpretano in modo disparato, rapportato all’iniziazione cristiana ma anche al successivo progresso
verso la conoscenza (non quella gnostica).

Clemente dimostra un’ottima conoscenza di Filone. Tra i due si era interposto lo gnosticismo, e alcuni cristiani
ritenevano che questo fosse una deformazione della fede dovuta all’influsso deviante della filosofia greca,
dalla quale quindi presero le distanze. Clemente però volle mantenere il contatto con Filone, che appunto
voleva unire Scrittura e filosofia greca (quindi apprezzata anche da Clemente). Influsso pagano in Clemente
è per esempio quello stoico in ambito morale, mentre influssi di Filone sono 1) la convinzione che la Scrittura
volutamente nasconde il suo significato profondo sotto quello letterale al fine di scoraggiare chi è solo curioso
(motivo per cui serve l’allegoresi) e 2) la dottrina del Logos, che però ovviamente Filone non vedeva ancora
impersonificato in Cristo.
Ma, come si è detto, fra i due c’è di mezzo lo gnosticismo, e anche quello ha influenzato Clemente, e non solo
nel modo di esprimersi come negli Estratti da Teodoto: come gli gnostici, infatti, mirava a costituire un’élite
all’interno della comunità, dove secondo lui tutti dovevano avvertire lo stimolo a progredire verso la (vera)
gnosi, ma solo alcuni, tra cui lui stesso in quanto maestro, ci riuscivano. La meta ideale, non solo per Clemente
ma secondo tutti i cristiani a partire da Ireneo, è la somiglianza con Dio: in Gen 1,26 si legge che Dio creò
l’uomo a sua immagine e somiglianza, ma nel versetto successivo solo a sua immagine, perché la somiglianza
è l’uomo che deve cercarla, progredendo verso la conoscenza (gnosi) di Dio e verso il Logos (avvicinandosi
quindi a Cristo).

15
Origene
Stando a Eusebio, fu il successore di Clemente alla guida del didaskaleion, il che porta a pensare che Origene
fu anche allievo di Clemente: in realtà forse non fu così, ma comunque molto probabilmente i due si
conoscevano: in una lettera, Alessandro di Elia Capitolina (vd. sopra) dice di aver conosciuto Origene grazie
a Panteno e a Clemente. In ogni caso, Origene (che di Clemente conosceva benissimo le opere) rifiutava la
definizione clementina di “vero gnostico” per indicare il cristiano spiritualmente progredito, quindi forse
riteneva Clemente una sorta di gnostico marginale. Origene conosceva bene anche gli scritti di Filone.

Aderì totalmente al progetto culturale clementino di formare spiritualmente un’élite di ortodossi da


contrapporre a quella degli gnostici. All’epoca di Origene però era già in atto la forza centripeta del vescovo
Demetrio, che non accettava tale progetto perché divisivo oltre che d’ostacolo rispetto alla sua volontà
accentratrice e che vedeva Origine come un’autorità pericolosa.

Origene è il primo personaggio di lingua greca nella storia della Chiesa di cui possiamo ricostruire un percorso
biografico, grazie alla Storia ecclesiastica di Eusebio, che di Origene è anche uno strenuo difensore.
Nacque intorno al 185 ad Alessandria da famiglia cristiana: il padre Leonida curò molto l’educazione del figlio,
e morì martire sotto Settimio Severo. Origene, 17enne, maggiore di 7 fratelli, dovette provvedere alla famiglia
a cui peraltro erano stati confiscati i beni. Visse per un po’ da una ricca matrona e iniziò a insegnare
grammatica. Tra 203 e 210, data l’assenza (dovuta alle persecuzioni) di catechisti ad Alessandria, comincia
un’attività catechetica riconosciuta da Demetrio, forse perché Origene (contrariamente a Clemente) non era
un presbitero. Nel frattempo lasciò la scuola di grammatica e studiò filosofia con il neoplatonico Ammonio
Sacca, per poter affrontare i pagani colti e gli gnostici. Probabilmente si evirò a fini ascetici, pratica non del
tutto inusuale tra i primi cristiani. Viaggiò a Roma, e una volta tornato ad Alessandria la sua scuola si divise
in due livelli: principianti (affidato al filosofo Eracla) e superiore (Origene). Un ricco gnostico di nome
Ambrogio si convertì al cristianesimo grazie a Origene: i due rimasero amici e Ambrogio sostenne
economicamente la produzione letteraria di Origene, anche però come scelta delle tematiche da affrontare.
Origene intorno al 215 inizia a viaggiare e a diventare famoso. Andò in Arabia e poi in Palestina presso
Alessandro di Elia Capitolina, che lo fece predicare davanti ai fedeli: la cosa fu rimproverata da Demetrio a
Origene perché era laico, ma poco dopo fu consacrato presbitero da Alessandro. Andò poi ad Antiochia,
convocato da Giulia Mamea, e poi in Grecia. Nel frattempo, dato che era stato ordinato sacerdote da
Alessandro e non da Demetrio (che comunque fino ad allora doveva avergli sempre negato il presbiterato),
si creò una spaccatura fra Demetrio e Origene, il quale ebbe una condanna disciplinare dal primo attraverso
una sinodo convocata in Egitto e a Roma: i decreti rimasero però inoperanti a Cesarea Marittima, dove
Origene continuò a insegnare e predicare. Morto Demetrio, il suo successore Eracla mantenne la condanna
di Origene, che fu invece rimossa dal successore Dionigi, il quale di Origene era stato allievo. Morì intorno al
253, a Cesarea o a Tiro.

Visto il numero di opere da lui scritte, ricevette (non si sa da chi) il soprannome di Adamanzio, ovvero
“resistente come l’acciaio”. La lettera 33 di Gerolamo contiene una lista significativa ma incompleta delle
sue opere. Da Eusebio sappiamo quali opere furono scritte ad Alessandria e che solo dopo i 60 anni (intorno
al 245) Origene autorizzò i tachigrafi a trascrivere le omelie (in cui è più reticente ad affrontare le tematiche
esoteriche). Non ci sono vere incoerenze né ripensamenti all’interno dei suoi scritti.

Il primo lavoro è un Commento ai Salmi (fino al Sal 25), composto ad Alessandria.

Fra le opere esegetiche principali non ci sono giunti gli Stromateis (in 10 libri) e il Sulla risurrezione (4 libri).
Negli Stromateis confrontava le dottrine cristiane con l’insegnamento dei filosofi, fra cui alcuni
medioplatonici: è palese la ripresa del progetto clementino.
L’argomento del Sulla risurrezione era scottante nell’Alessandria dell’epoca, dominata culturalmente dagli
gnostici che rifiutavano l’idea cattolica della risurrezione del corpo. Origene accetta alcune istanze gnostiche
sostenendo che nella risurrezione non risuscita la carne ma un principio corporeo interno, teoria criticata a
inizio IV secolo.

16
Clemente aveva scritto I princìpi (perduta): Origene ne riprese il progetto in un’opera omonima, in cui, come
Clemente, inquadra la dottrina cristiana negli schemi di trattazione filosofici, improntati alla ricerca e
discussione delle ἀρχαὶ (i principi dell’essere, appunto). Così facendo, Origene si poneva in concorrenza con
i filosofi pagani, proponendo ai lettori colti, in forma per loro consueta, una sintesi della fede cristiana.
Origene in quest’opera sostiene che ci sono tante verità di fede che sono presentate e discusse nelle Scritture,
mentre certe cose nelle Scritture non sono dette esplicitamente (Trinità, generazione dell’anima eccetera)
ma a cui i teologi dovevano cercare di dare una risposta, e il Perì Archòn prova a dare alcune di queste
risposte. Ad esempio spiega i vari livelli di esegesi della Scrittura.
In quest’opera Origene supera la Logostheologie, che parlava di due stadi nell’emissione del Logos,
sostenendo egli che il Logos si genera eternamente.
Avvia anche la riflessione sullo Spirito Santo: con il termine ipostasi individua le tre parti della Trinità.
La sua dottrina della creazione è marcatamente antignostica: inizialmente furono create creature razionali
uguali (preesistenza), dotate di corporeità eterea, poi differenziatesi tra loro seguendo il libero arbitrio. Molte
di queste creature quindi si allontanarono dal bene, ma l’amore divino, che vuole la reintegrazione del bene
(apocatastasi), creò il cosmo attuale suddiviso in cielo, terra e inferno, affinché le categorie derivate dalla
differenziazione (angeli, uomini, demoni) si trovassero nelle condizioni più adatte per la loro purificazione (o
per il loro progresso nell’amore, nel caso degli angeli).
I principi furono l’opera più nota di Origene, e furono oggetto di molti attacchi degli avversari e di varie opere
difensive. Rimane per intero solo nella traduzione latina di Rufino, che però ne aveva adattato molti passi
all’ortodossia successiva: Gerolamo quindi ne fece un’altra traduzione più fedele all’originale, e di cui restano
solo frammenti. Dell’originale greco origeniano rimangono: 24 frammenti selezionati da Giustiniano per
essere condannati in una lettera al patriarca Mena del 543 (Origene fu condannato nel 553); il terzo e il quarto
libro sono inseriti quasi per intero nell’antologia greca di passi origeniani detta Philocalia.
Era sicuramente in 4 libri, e dai frammenti è evidente che Origene tornò sugli stessi paragrafi più volte, forse
anche per invito di Ambrogio.

Al periodo di Cesarea risalgono gli altri trattati (non esegetici) giunti fino a noi.

Il Sulla preghiera, composto intorno al 234, ruota intorno al problema dell’incontro fra libera volontà
dell’uomo e volontà di Dio: se Dio è onnisciente e presciente e il suo giudizio indefettibile, a cosa serve
pregare?
La prima parte era introduttiva, la seconda interpretava il Padre Nostro, la terza integrava la prima sulle
modalità pratiche della preghiera. Rispetto all’omonimo trattato di Tertulliano, scritto vent’anni prima, quello
di Origine è di indole speculativa, come dimostra il metodo dialettico che usa, ed è pervaso da una profonda
spiritualità tutta orientale: l’esortazione di Origene è a chiedere beni spirituali, non materiali.

Scrisse anche una Esortazione al martirio in occasione della prigionia di Ambrogio e del presbitero Protocteno
durante le persecuzioni di Massimino il Trace (235). Era inoltre figlio di un martire. Identificava la motivazione
del martirio nell’imitazione di Cristo.

Su richiesta di Ambrogio, scrisse una confutazione al Discorso Veritiero scritto da Celso settant’anni prima:
intorno al 248 compose dunque la sua unica opera apologetica, la Contro Celso, o meglio, Contro il trattato
dal titolo Discorso veritiero di Celso, che riporta quasi per intero il testo dell’avversario medioplatonico: è la
prima volta che un testo apologetico affronta un’opera precisa e non accuse generiche. Rispondendo alla
derisione di Celso relativa alle tante divisioni nelle comunità cristiane, Origene paragona questa divisione a
quella esistente tra le scuole filosofiche pagane, di fatto dunque assimilando la comunità cristiana a una
scuola filosofica. È infatti ormai assodato che modellava l’insegnamento da lui impartito nella scuola su quello
delle scuole di filosofia, e il suo stesso metodo di lavoro, fondato sulla ricerca dei principi più che
sull’affermazione apodittica, è di origine filosofica. Lo stile della Contro Celso è simile a quello dei trattati di
Plutarco e Galeno.

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Il Dialogo con Eraclide, ritrovato in un papiro egiziano (papiri di Tura), apre uno squarcio di luce sulle
discussioni teologiche affrontate da Origene con gli eretici di fronte all’assemblea dei cristiani, su richiesta
dei vescovi locali. In questo caso si tratta della trascrizione della discussione con il vescovo Eraclida, avvenuta
forse in Arabia tra 244 e 249. Inizia Eraclide con la sua confessione di fede (monarchianismo?), poi Origene
gli pone delle domande. Ci sono anche gli interventi di altre persone, tra cui due vescovi.

Ma Origene fu soprattutto un esegeta, attività in linea col suo essere maestro e presbitero. Commentò quasi
per intero le Scritture, cosa insolita all’epoca data la prevalenza (ancora) dell’oralità nel mondo cristiano:
poté riuscirci anche grazie ad Ambrogio, che faceva trascrivere tutto ciò che Origene diceva a scuola e in
chiesa. L’ampiezza della produzione esegetica e la damnatio memoriae hanno fatto sparire quasi totalmente
tale produzione in lingua originale: rimangono alcuni libri dei Commentari a Matteo e dei Commentari a
Giovanni, una raccolta di Omelie su Geremia, un’Omelia su 1Re. Importante il commento al Cantico dei
Cantici, perché è l’inizio di un filone d’interpretazione allegorica al Cantico: prima di lui c’erano i
commentatori ebrei a fare questa interpretazione allegorica. Tra i papiri di Tura c’è anche parte di un
Commentario a Romani. La tradizione occidentale-latina ha invece preservato molto di più: omelie su Genesi,
Esodo, Levitico, Numeri, Giosuè, Giudici, tre salmi, Isaia, Cantico dei Cantici, Luca. Le traduzioni di Gerolamo
e Rufino sono utili, ma piuttosto libere e non tengono conto dell’apparato filologico originario (Origene usava
gli Hexapla per tenere in conto le varianti scritturistiche), di fatto distruggendo parte del senso dell’esegesi.

Gli scritti esegetici di Origene furono ripartiti in tre generi: scolii, omelie, commentari. Le omelie erano quelle
predicati in riunioni ecclesiali non eucaristiche, che si tenevano in giorni feriali a Cesarea e talvolta a
Gerusalemme, e hanno una forte impronta antignostica e antimarcionita. Ogni omelia spiegava il passo
sostanzialmente parola per parola: la ripartizione in lemmi delle omelie sarebbe rimasta canonica per quelle
di argomento esegetico, e Origene aveva trasferito questo schema dal commentario (di ambiente scolastico),
dove appunto anche lì si spiegava parola per parola.
I commentari superstiti risalgono tutti al periodo cesariese tranne i primi due libri a noi giunti del
Commentario a Giovanni, scritti ad Alessandria. La prassi esegetica origeniana proveniva a sua volta dal
commentario scolastico greco di carattere soprattutto filosofico, ma anche grammaticale. La struttura di
commentari e omelie è quindi uguale, ma ovviamente le omelie sono più brevi e semplificate, soprattutto
nell’impegno filologico.

Per il NT accertava l’esatta lezione delle espressioni che spiegava mettendo a confronto più esemplari di quei
testi; per l’AT invece realizzò gli Hexapla, una sinossi di tutti i libri veterotestamentari su sei colonne parallele
(testo ebraico – testo ebraico traslitt. in greco – Settanta – Aquila – Simmaco – Teodozione); per alcuni libri
affiancò altre due traduzioni da lui stesso rinvenute. La colonna dei Settanta era fornita di segni diacritici:
l’asterisco per indicare una mancanza dei Settanta rispetto alle altre traduzioni, l’obelo per indicare le
aggiunte della Settanta.
Pare che di questo testo fu fatta una sola copia integrale, che era conservata nella biblioteca di Cesarea, della
quale i libri di Origene costituirono il nucleo primitivo.
A diffondersi non fu dunque l’Hexapla ma i Tetrapla, cioè l’Hexapla senza ebraico ed ebraico traslitterato, e
ancor di più la sola colonna della Settanta con in margine le varianti delle altre traduzioni (questa versione è
detta Septuaginta Hexaplae o Settanta esaplare).
L’Hexapla non voleva essere un’edizione critica ma solo un modo per controllare l’esattezza delle Settanta
che circolavano, e dimostra il forte interesse di Origene per l’esattezza del testo biblico, coerente con la sua
esigenza antignostica di non esagerare con l’allegorismo (per lui bisognava partire assolutamente dal
significato letterale, e solo secondariamente arrivare a quello allegorico).

Altri due scritti esegetici di Origene sono i due trattati Sulla Pasqua, dedicati a Es 12 (l’episodio dell’agnello
pasquale).

Tutta l’esegesi di Origene si fonda sulla distinzione tra senso letterale e senso spirituale della Scrittura.
Secondo Origene, come l’uomo consta di corpo, anima e spirito, così la Scrittura presenta un senso corporeo-
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letterale (a beneficio dei cristiani incipienti nella fede), un senso morale (a beneficio dei progredienti), un
senso spirituale (a beneficio dei perfetti); il senso spirituale può essere portato alla luce con l’allegoresi.
Condivideva in pieno la convinzione filoniana e clementina che la Scrittura nasconde il suo significato
autentico sotto il velo della lettera per metterlo al riparo da un approccio superficiale. Il passaggio da un
livello all’altro di lettura è spesso accompagnato da termini tecnici (τύπος, τροπολογία, σύμβολον) di cui
alcuni introdotti per la prima volta da Origene nel linguaggio esegetico, come ἀναγωγή (testo biblico come
innalzamento sopra il semplice significato letterale) e θεωρία (la comprensione spiritualmente intesa del
testo biblico).

Non è facile valutare lo stile di Origene perché molto lo abbiamo solo in traduzione, ma da quello che abbiamo
riusciamo a capire che sapeva alzare e abbassare il livello stilistico in base al contesto. Nei commentari
impiega uno stile scarno e funzionale, e usa le figure retoriche traendole dal linguaggio della Scrittura. Nelle
omelie gli artifici retorici sono quelli di più immediata efficacia sul pubblico, tipici della comunicazione orale.

La dottrina teologica del Logos e la prassi esegetica allegorica di Origene sono esiti rilevanti di una
metodologia della ricerca che fece uso di concetti e moduli dedotti dalla filosofia greca: Origene attirò dunque
l’attenzione anche degli intellettuali pagani, e questo fu di grande importanza in un III secolo in cui la crisi
scosse anche i valori più tradizionali e le certezze di ogni cittadino romano. In tale contesto favorevole iniziò
a crollare il pregiudizio che valutava la religione cristiana adatta soltanto ad adepti fanatici e ignoranti: il
cristianesimo, grazie anche a Origene, divenne interessante anche per i più colti e per le classi elevate. Per
contro, molti cristiani (non solo i meno colti) non vedevano di buon occhio questo ingresso della filosofia
greca tra gli strumenti atti a difendere il cristianesimo.

L’ampio successo di Origene e la diffusione delle sue opere, dovuta anche banalmente agli spostamenti fatti
durante la sua vita, inaugurarono per la prima volta una letteratura relativa a un autore cristiano: molte
infatti furono le opere destinate a difendere, interpretare o criticare Origene – qualcosa di molto diverso
dalle opere antieretiche, che si schieravano contro un nemico ormai dichiarato. Conosciamo l’Apologia per
Origene scritta da Panfilo ed Eusebio, sappiamo da Fozio di un’altra Apologia per Origene rimasta anonima,
e abbiamo citato la Philocalia.

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LA LETTERATURA CRISTIANA IN LINGUA LATINA
Nasce con un secolo di ritardo rispetto a quella in lingua greca, e quindi nella seconda metà del II secolo. I
primi centri di irradiazione del nuovo messaggio erano dopotutto in oriente: a occidente solo Roma e qualche
importante scalo commerciale furono raggiunti subito. I primi missionari (orientali) in occidente si
rivolgevano spesso ad altri orientali, semplicemente perché parlavano greco. Ne derivò che il greco divenne
presto la lingua ufficiale dei cristiani anche in occidente, la lingua della liturgia e anche della prima letteratura
– unica eccezione l’Africa romana. Inoltre nel II secolo la Seconda Sofistica stava già imponendo il greco come
lingua letteraria in tutto l’occidente.
Ma i cristiani di lingua latina c’erano e aumentavano, e bisognava provvedere alle esigenze di chi il greco non
lo conosceva. Si iniziò quindi con le traduzioni latine dei Vangeli e di Paolo: nel 180 i martiri di Scilli portarono
davanti al proconsole Saturnino una capsa con i rotoli di Paolo, quasi certamente in una loro traduzione
latina. A fine II secolo anche parti dell’AT dovevano essere disponibili in latino, come traduzioni dalla Settanta:
tali traduzioni si moltiplicarono, dando non poche difficoltà, nel IV secolo, a Gerolamo e Agostino, anche
perché spesso non erano buone. Tutto questo materiale sparì con l’imporsi della Vulgata nel V secolo, e
quindi ne abbiamo ben poco. I nomi di alcune antiche traduzioni (Itala, Afra) fanno pensare a iniziative di
carattere regionale, o forse a varianti regionali di un’unica traduzione originale: non possiamo saperlo.
Nel III secolo alle traduzioni bibliche si aggiunsero quelle di testi che alla fine non entrarono nel canone
neotestamentario: la Lettera di Clemente, il Pastore di Erma, lo scritto di Barnaba, la Seconda lettera di
Clemente; più tarda (IV sec) sembra essere la traduzione dell’Adversus haereses di Ireneo.
Tutte le traduzioni latine della Scrittura erano fedeli al greco, a volte tanto da contrastare la sintassi latina, e
usavano molti termini tecnici greci: si diffusero quindi termini come baptisma, apostolus, episcopus, martyr,
eucharistia..: nacque il latino dei cristiani.

Minucio Felice
La letteratura cristiana latina nacque nell’Africa romana: qui infatti i cristiani cominciarono quasi subito a
esprimersi in latino, perché in Africa il greco era molto meno diffuso che nel resto d’occidente. In Africa,
inoltre, l’adesione al cristianesimo era sin dall’inizio connotata da ostilità all’amministrazione imperiale, il che
certo non favoriva la diffusione del greco, che nell’opinione comune era connesso con la dominazione
romana.
Il più antico documento cristiano in latino di origine africana sono gli Acta martyrum Scillitanorum, risalenti
al 180. Dopodiché, non sappiamo se sia venuto prima l’Octavius di Minucio Felice o l’Apologeticum di
Tertulliano, due scritti che sembrano essere in rapporto diretto, in qualche modo.
L’Octavius è databile intorno al 197, ed è l’unica opera a noi pervenuta di Minucio: circolava anche un De fato
vel contra mathematicos, contro gli astrologi, sotto il nome di Minucio, ma Gerolamo rifiutava questa
paternità – c’è da dire che alla fine dell’Octavius Minucio promette di comporre un’opera sul destino.
Era avvocato a Roma, e l’Octavius è ambientato sul lido di Ostia, dove Minucio con due colleghi si era recato
durante le ferie dei tribunali. Originale la scelta del genere dialogico per un’opera apologetica rivolta ai pagani
(in greco i dialoghi apologetici di Gregorio il Taumaturgo nascono da un confronto ormai molto più evoluto
tra pagani e cristiani a metà III secolo). Minucio vuole instaurare un clima di fiducia e apertura verso il suo
pubblico, cioè il ceto colto romano-pagano. I personaggi sono tre colleghi ma soprattutto amici, e la loro
amicizia è insistita nel proemio: in questo modo Minucio vuole creare un parallelo con il pubblico, visto non
come nemico da persuadere ma come amico a cui far scoprire la verità.
Il pagano Cecilio e il cristiano Ottavio sono i protagonisti della discussione, mentre a Minucio spetta solo il
giudizio conclusivo. Comincia Cecilio, sulla falsariga forse di un discorso anticristiano pronunciato in senato
da Frontone, e produce il complesso delle accuse di ateismo, illegalità, immoralità, ignoranza. Cecilio si
dimostra scettico sulla possibilità di conoscere certi misteri dell’universo (dottrina tipica di molti pagani colti
dell’epoca, mentre i cristiani pensavano di avere la risposta, apparendo così dei sempliciotti). Dopo un breve

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intermezzo dialogico Ottavio risponde punto per punto, passando dalla provvidenza all’unicità di Dio
all’immoralità del paganesimo. Poi confuta le accuse di Cecilio sottolineando la morigeratezza dei cristiani e
l’eroismo del martirio. Minucio non ha bisogno di esprimere la sentenza, perché Cecilio stesso riconosce la
vittoria di Ottavio.
La forma dialogica, oltre a rendere il lettore partecipe dell’atmosfera amicale, riprende alla lontana l’usanza
di presentare gli argomenti in utramque partem, tipica delle scuole di retorica. L’opera è così collegata con i
dialoghi di Seneca e Cicerone (soprattutto il De natura deorum), ed è dunque dotata di una dignità formale
apprezzabile dal pubblico pagano. La struttura dell’operetta è studiatissima sotto ogni aspetto, e ricorda
l’elevatezza formale di Tertulliano.
Una cosa interessante è che Ottavio, nel confutare Cecilio, non usa argomentazioni in positivo, ma solo in
negativo rispetto alle argomentazioni pagane: non viene neanche menzionato Cristo. Qualcuno ha pensato
che Minucio non conoscesse bene la dottrina e che fosse cristiano solo per morale, ma anche Taziano ha
questo stesso “riserbo”, e da certi passi dell’Octavius si nota in realtà che Minucio doveva conoscere la
religione cristiana più di quanto non mostri. Siamo agli antipodi dell’atteggiamento di Giustino: lui credeva
che dimostrarsi convintamente erudito sulla dottrina cristiana avrebbe impattato sul lettore pagano, mentre
Minucio è prudente e preferisce far leva su argomenti etici che i pagani troverebbero difficile confutare. È
quindi possibile che Minucio ritenesse fondamentale l’etica (non la dottrina) per la prima conversione, e che
quindi forse lui stesso si convertì con una buona conoscenza dell’etica cristiana ma non della dottrina.

Tertulliano
Vigoroso, polemico e riflessivo, nonostante certi suoi eccessi Quinto Settimio Fiorente Tertulliano riuscì a far
maturare la dottrina cristiana nel contesto africano.
Sappiamo poco della sua vita, quasi tutto ricavato dai suoi scritti, che nonostante qualche perdita sono giunti
a noi numerosi. Nacque a metà II secolo forse a Cartagine, dove studiò retorica, diritto e filosofia. Riuscì a
padroneggiare il greco – caso raro in Africa – tanto da riuscire a scrivervi. Si convertì in data non precisabile
e forse fu anche presbitero. Scriveva già da prima della sua conversione, come testimonia Gerolamo, ma
iniziò la sua attività di scrittore cristiano intorno al 197. Cristiano estremista, dal 207 simpatizzò per il
montanismo, cui aderì nel 213. Da questi poi si separò e fondò una sua setta, i tertullianisti, che esistettero
fino a inizio V secolo. Dal 220 non abbiamo più notizie di lui.
Periodo cattolico (197-206):
Scritti apologetici: Ad nationes, Apologeticum, De testimonio animae
Polemica antigiudaica: Adversus Iudaeos
Scritti morali-parenetici: Ad martyras, De spectaculis, De oratione, De patientia, De cultu feminarum, Ad uxorem
Scritti antieretici: De praescriptione haereticorum, Adversus Hermogenem
Scritti dottrinali: De baptismo, De paenitentia

Periodo di influenza montanista (207-212):


Scritti apologetici: Ad Scapulam
Scritti morali-parenetici: De idololatria, De corona, De exhortatione castitatis, De virginibus velandis
Scritti antieretici: Adversus Marcionem, Adversus Valentinianos, Scorpiace
Scritti dottrinali: De anima, De carne Christi, De resurrectione mortuorum

Periodo montanista e “tertullianista” (213-220):


Scritti parenetici: De fuga in persecutione, De pallio
Scritti antieretici: Adversus Praxean
Scritti disciplinari: De monogamia, De pudicitia, De ieiunio adversus psychicos

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Al 197 risale l’Apologeticum, giuntoci in due redazioni. Ci sono dei punti di contatto con l’Octavius minuciano:
come questo, infatti, l’Apologeticum riespone il contenzioso tra cristiani e impero e respinge le accuse di
immoralità. Dato che Tertulliano era un avvocato, c’è anche una discussione di argomento giuridico tesa a
dimostrare la contraddittorietà della normativa promulgata da Traiano, ribadita da Adriano e ancora in vigore
nel 197, che prescriveva di non ricercare i cristiani d’ufficio ma di condannarli se fossero stati accusati con
accusa non anonima: Tertulliano obietta che se i cristiani sono criminali vanno ricercati d’ufficio, se non lo
sono non vanno condannati, ma non possono essere una via di mezzo.
Rispetto a Minucio, Tertulliano non si limita a esaltare la santità di vita dei cristiani e a criticare l’immoralità
dei pagani, ma estende la polemica alla dottrina, differenziando il Logos stoico (immanente nel mondo) da
quello cristiano (preesistente accanto a Dio e fattosi uomo). L’opera è ricca di vis polemica.

Di poco precedenti all’Apologeticum sono i due libri Ad nationes (ai pagani), il cui contenuto è una versione
più contenuta dell’Apologeticum, di cui sono quindi un’anticipazione.

Il De testimonio animae è un trattatello di poco successivo all’Apologeticum e tratta dell’anima “naturaliter


christiana” come testimone dell’esistenza di Dio.

L’Ad Scapulam è una lettera del 212 indirizzata a Scapula, governatore d’Africa ostile ai cristiani. Tertulliano
vi ribadisce il diritto dei cristiani di avere libertà di coscienza e la lealtà dei cristiani all’imperatore,
distinguendo tra l’ossequio all’imperatore e l’adorazione che invece è solo per Dio. Afferma inoltre l’inutilità
dell’azione cruenta svolta contro i cristiani, che sta per attirare l’ira divina contro i persecutori (tema
destinato a grande fortuna); tema del martirio che spinge i pagani a convertirsi.

Relativamente all’Adversus Iudaeos si è a lungo discusso se quest’opera fosse una polemica letteraria o
rispondesse a problemi presenti in effettivi contatti tra cristiani ed ebrei, ma questa seconda ipotesi sembra
la più probabile, dato che epigrafi e scoperte archeologiche testimoniano una massiccia presenza giudaica a
Cartagine, e inoltre Tertulliano mostra di conoscere i loro costumi. L’opera prende le mosse dal ricordo di
una disputa duranta un giorno e rimasta inconclusa tra un cristiano e un proselito (cioè un pagano convertito
al giudaismo). Soliti argomenti: rigetto di Israele, confronto tra legge naturale e mosaica, circoncisione
spirituale, osservanza, realizzazione in Cristo delle profezie.
Opera disorganica e forse incompleta, forse anche inautentica, e i capitoli conclusivi ricordano la successiva
Adversus Marcionem, quindi forse è un’opera abbozzata che fu riutilizzata per l’opera antimarcionita.

Il De praescriptione haereticorum, risalente al 200 circa, è uno scritto antieretico. La praescriptio era
l’obiezione preliminare con cui un avvocato tentava di invalidare, prima della discussione, la linea d’attacco
dell’avversario. La praescriptio avanzata da Tertulliano vuole respingere in toto l’interpretazione eretica del
testo sacro, inammissibile perché solo la chiesa cattolica, fondata dagli apostoli, ha il diritto di fornire l’unica
interpretazione autentica della Scrittura.

In cinque libri è l’Adversus Marcionem, frutto di una composizione laboriosa e tormentata, a più riprese tra
207 e 212. Nei primi due libri affronta la distinzione marcionita tra Dio giusto (AT) e Dio buono (NT),
dimostrando che sono lo stesso Dio. Nel III libro combatte il docetismo di Marcione e la sua affermazione che
il Messia annunciato nell’AT doveva ancora venire. Gli ultimi due sono una critica del canone biblico
marcionite, comprendente solo Luca e solo alcune lettere di Paolo.

Adversus Hermogenem: è del 205 e quindi precedente all’Adversus Marcionem. Tertulliano vi confuta la
dottrina di Ermogene (gnostico) sulla coeternità della materia con Dio.

Nell’Adversus Praxean, successivo al 213, Tertulliano si mostra chiaramente montanista. Prassea aveva
diffuso in Africa l’eresia monarchiana di Noeto, che identificava Cristo con il Padre. Tertulliano espone con
chiarezza la dottrina trinitaria e ritorce contro Prassea i passi scritturistici che i monarchiani usavano per
suffragare la propria dottrina.

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Di impronta antignostica è l’Adversus Valentinianos, che assume un tono sarcastico e ricalca l’Adversus
haereses di Ireneo.

Antignostico è anche lo Scorpiace (rimedio contro la puntura dello scorpione gnostico), in cui difende il
martirio contro il deprezzamento degli gnostici.

Da semi-montanista scrisse anche il De carne Christi e il De resurrectione mortuorum, su temi molto vivi nel
dibattito con gli gnostici: Tertulliano vi afferma l’integrità e realtà del corpo di Cristo contro il docetismo e la
risurrezione finale dei corpi contro l’affermazione della dissoluzione del corpo.

I veri destinatari di queste opere, comunque, non erano gli gnostici ma i cattolici sollecitati dagli gnostici.

Il De baptismo, risalente al periodo cattolico, parte da obiezioni di alcuni gnostici in merito all’efficacia del
battesimo, e nel confutarle descrive il rito come si svolgeva ai suoi tempi. Adduce anche una tipologia
battesimale di origine scritturistica, a cominciare da quella tradizionale del passaggio attraverso il Mar Rosso.
Tertulliano si dichiara contrario sia ad amministrare il battesimo ai bambini, sia a considerare valido il
battesimo amministrato dagli eretici.

Il De anima tratta di un argomento più filosofico che religioso: Tertulliano si basa infatti soprattutto sullo
scritto Sull’anima del medico Sorano di Efeso, dandoci così il primo trattato cristiano di argomento
prettamente filosofico. Tertulliano si dimostra vicino allo stoicismo, affermando cioè la corporeità dell’anima
in opposizione allo spiritualismo platonico; rifiuta la metensomatosi, sostenendo cioè che le anime non sono
preesistenti rispetto ai corpi, e opta per il traducianismo, secondo cui l’anima era trasmessa con il corpo dai
genitori ai figli tramite la generazione (traducianismo adottato poi anche da Agostino). Affronta poi la
questione dell’aldilà, sostenendo che le anime in attesa della seconda venuta di Cristo sostano nell’Ade, a
eccezione delle anime dei martiri che vengono ammesse in paradiso subito dopo la morte.

Uno dei suoi primi scritti è l’Ad martyras (200 ca.), una parenesi estremista indirizzata a un gruppo di cristiani
che in carcere attendevano il momento della prova suprema.

Nel De corona, scritto in occasione del martirio di un soldato cristiano che si era rifiutato, considerandolo
idolatrico, di porsi in capo una corona in onore dei figli di Settimio Severo allora assurti al trono (211),
Tertulliano spiega i motivi per cui un cristiano non può portare una corona né in pubblico né in privato. Dice
che la corona d’alloro dei trionfi è intrecciata non di foglie ma di cadaveri ed è cosparsa non di unguenti ma
di lacrime.

Nel De fuga in persecutione considera illecito per il cristiano sottrarsi all’arresto con la fuga in caso di
persecuzione.

Nel De spectaculis (200 ca.) condanna ogni genere di giochi, anche quelli ginnici in quanto tipicamente pagani
(anche se i giochi ginnici erano una cosa più greca-orientale).

Al 211 ca. risale il De idololatria, in cui sostiene l’impossibilità per il cristiano di praticare vari mestieri legati
in qualche modo al paganesimo: in particolare vieta il mestiere di soldato, che nel De corona ammetteva a
determinate condizioni.

Nel De cultu foeminarum e nel De virginibus velandis impone alla donna la modestia esteriore, con toni molto
misogini: dal De cultu foeminarum viene la famosa espressione “tu es diaboli ianua”, riferita alla donna. La
misoginia è dovuta anche all’azione di Eva.

In Tertulliano c’è un forte contrasto tra un intransigente rigorismo e una realistica apertura al mondo esterno:
dopotutto c’era anche la necessità, per i cristiani, di non destare sospetti tra i pagani. Tertulliano diventa più
rigoroso con la conversione al montanismo: Mt 10,23 dice “se vi perseguitano in questa città fuggite in
23
un’altra”, ma nel De fuga in persecutione dice di non fuggire; nell’Ad uxorem (200-205) consiglia alla moglie
di non risposarsi in caso rimanga vedova; nel De exhortatione castitatis (207) equipara le seconde nozze
all’adulterio, e rincara la dose nel successivo De monogamia (217 ca.). Nel De poenitentia (203) ammette, a
seguito di pubblica penitenza, la possibilità di una remissione dei peccati postbattesimali, mentre nel tardo
De pudicitia (220 ca.) attacca un vescovo per aver perdonato peccati postbattesimali. Tertulliano arriva qui,
nel De pudicitia, a formulare il principio secondo cui il testo sacro condanna tutto ciò che non approva
esplicitamente.

Il massimo distacco dalla Chiesa cattolica si avverte nel De ieiunio adversus psychicos, in cui difende la pratica
montanista di osservare rigorosi digiuni, che gli ortodossi rifiutavano e talvolta irridevano. Chiama gli
ortodossi “psichici” deformando un termine paolino, in quanto uomini dotati solo di anima ma non di Spirito
Santo.

Risale forse al periodo della conversione al montanismo il De pallio, in cui l’autore si difende dai rimproveri
per aver dismesso la toga del cittadino per indossare il pallium caratteristico del filosofo cinico: l’opera è poco
chiara, con tono di divertissement, sottofondo ironico e chiara intenzione di evitare una discussione
approfondita sull’argomento.

Forse dall’insegnamento ai catecumeni deriva il De oratione, sull’efficacia della preghiera: nella prima parte
spiega il Padre Nostro, nella seconda dà vari consigli su come pregare.

Intorno al 203 scrisse il De patientia, che risente dell’influsso di Seneca e in generale dello stoicismo. È la
prima opera a trattare di una virtù in modo monografico. Tertulliano considera la pazienza un dono
particolare di Dio in quanto afferma di esserne personalmente privo. La pazienza cristiana è superiore a quella
dei filosofi perché fondata su fede e speranza: Cristo ne è modello e la sua attuazione massima è nel martire.

Varie opere tertullianee sono andate perdute, come il De spe fidelium e il De paradiso – entrambi su temi
escatologici, destino delle anime, millenarismo.
L’Adversus Apelleiacos, diretto contro Apelle, discepolo di Marcione, proseguiva la polemica antimarcionita.
Il De censu animae (Sulla natura dell’anima) era diretto contro Ermogene ed era un’anticipazione del De
anima.
Il De fato trattava del rapporto fra sorte e libero arbitrio.
Nell’ultimo dei sette libri Sull’estasi (Gerolamo dà il titolo in greco) confutava le accuse dell’antimontanista
Apollonio.
Secondo Gerolamo, prima della conversione al cristianesimo aveva dedicato a un amico filosofo un trattato
sulle noie del matrimonio (Ad amicum philosophum).
Tertulliano era bilingue e quindi poté curare la redazione in greco, per noi perduta, di molte sue opere.

Opera spuria più celebre l’Adversus omnes haereses, un catalogo di 32 eresie forse derivato dal perduto
Syntagma di Ippolito.

L’abbiamo detto: Tertulliano era pieno di ardente passionalità e rifiutava i compromessi ideologici e
dottrinali. Questo in più casi lo mise in contraddizione con sé stesso: rilevò più di tutti l’incompatibilità di
Gerusalemme con Atene e del portico di Salomone con quello della Stoà, eppure la sua riflessione su Dio si
nutrì abbondantemente di filosofia stoica; l’assertore del diritto che solo la Chiesa cattolica ha di interpretare
la Scrittura finì per allontanarsi dalla Chiesa. Inoltre lui, così grande ammiratore dei martiri e propugnatore
dell’intransigenza di fronte alle persecuzioni, non soffrì mai alcun pericolo, e non è da escludere che avesse
qualche protezione dai piani alti.

Per quanto riguarda la forma letteraria, va rilevato che, se Minucio aveva trasferito al mondo cristiano il
dialogo ciceroniano, Tertulliano da Cicerone e Seneca trasferì il dialogo filosofico, e con alta elaborazione

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formale, esattamente come Minucio. Gli scrittori cristiani di lingua greca generalmente preferivano gli
hypomnemata, dalla forma molto meno elegante.

A lui il cristianesimo deve veramente moltissimo nell’ambito della dottrina trinitaria, cristologica,
antropologica, escatologica: molti concetti di questi ambiti li ha letteralmente inventati Tertulliano, così come
molta terminologia (trinitas, persona, natura, gradus…). Si occupò di tutto e la sua opera è stata un punto di
riferimento per i successivi dottori cristiani di lingua latina per almeno un paio di secoli: per questo a pochi
interessò il suo distacco dalla Chiesa e la sua intemperanza.

Cipriano
Celebrato dalla Vita Cypriani, una sua biografia scritta poco dopo la sua morte dal diacono cartaginese Ponzio,
Tascio Cecilio Cipriano fu vescovo e martire. Altra fonte su di lui sono gli Acta.

Nato a Cartagine, di condizione sociale molto alta, studiò retorica. Si convertì al cristianesimo intorno al 246:
divenuto presbitero, nel 250 fu eletto vescovo di Cartagine: il fatto che era vescovo da recentemente
convertito causò un certo scontento. Nel 251, con la persecuzione di Decio, si ritirò in una località vicina a
Cartagine, dove continuò a dirigere i fedeli. Dal 252 al 254 l’Africa fu colpita da una grave pestilenza e ancora
Cipriano si impegnò come vescovo. Successivamente nacque una controversia tra Cipriano e il vescovo di
Roma, Stefano, relativa alla validità del battesimo degli eretici. I rapporti tra le due chiese erano giunti alla
rottura, ma nel 257 iniziò la persecuzione di Valeriano. Questa volta Cipriano preferì non sottrarsi: fu
arrestato, processato ed esiliato a Curubis, non molto lontano da Cartagine. Nel 258 fu riportato a Cartagine,
di nuovo processato e decapitato.

Celebre l’Ad Donatum, opera apologetica sul contrasto tra paganesimo e cristianesimo, che forse voleva
gareggiare con l’Octavius minuciano.

Di maggior spessore ideologico è l’Ad Demetrianum, composto in un anno imprecisato tra 251 e 253
compresi. Di fronte alla crisi dell’impero, i pagani credevano che la causa fosse l’ira degli dèi, irritati per il
successo di una fede a loro ostile. In tal senso si era espresso un non meglio identificato Demetriano, e questa
risposta di Cipriano si richiama a usuali spunti antiidolatrici e sviluppa il tema della vecchiezza del mondo, del
suo impoverimento materiale e morale; nell’opera c’è una certa vena apocalittica, e dopotutto altrove
Cipriano afferma esplicitamente di star aspettando l’attesa della venuta dell’Anticristo e della fine del mondo.

I tre libri dei Testimonia ad Quirinum sono un’antologia biblica a imitazione di raccolte già esistenti, ma non
così grandi. Il libro I vuole dimostrare le prevaricazioni dei giudei e il loro rigetto da parte di Dio; il II libro
illustra le caratteristiche divine e la venuta di Cristo (come Logos) con ovvio ricorso alle profezie dell’AT; il III
libro fu aggiunto più tardi e raggruppa passi con l’intento di fornire al lettore una guida in campo morale.
Nella prefazione Cipriano dice di aver elaborato questa antologia per aiutare l’amico Quirino, che voleva
saperne di più sui contrasti tra cristiani e giudei: senza escludere la validità di questa motivazione, si può
anche pensare che Cipriano abbia radunato questi passi biblici per sé stesso, dato che era da poco convertito:
prova di ciò è il fatto che i passi biblici da lui citati nelle altre opere sono quasi sempre già citati nei Testimonia
ad Quirinum.

Molto più breve e meno impegnativo è l’Ad Fortunatum de exhortatione martyrii, selezione di testi biblici atti
a confortare i cristiani minacciati dalla persecuzione. Fu redatto forse nel 257 durante la persecuzione di
Valeriano.

Durante la persecuzione di Decio del 251, molti cristiani commisero apostasia negando la propria fede per
non incorrere nelle pene previste: questi apostati, detti lapsi (“caduti”), spesso sinceramente cristiani ma non
fino all’eroismo, una volta terminata la persecuzione (durata meno di un anno) vollero essere riammessi nella
Chiesa ed erano in ciò raccomandati dai confessores, cioè cristiani che invece non avevano rinnegato la fede
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e si trovavano quindi in carcere o erano già stati condannati. C’era quindi un grande disordine nelle comunità
cristiane: da un lato non si voleva riammettere i lapsi, dall’altro non si poteva ignorare la raccomandazione
dei confessores.
Cipriano era in una situazione precaria, perché all’inizio della persecuzione si era ritirato in un luogo sicuro.
Finita la persecuzione fu oggetto di molte critiche, e a persecuzione ancora in corso iniziò uno scambio
epistolare con Roma con cui alla fine impose il punto di vista sia suo sia di Roma, cioè che si dovesse
rimandare ogni decisione a giorni più tranquilli. Morto Decio nel 251, e terminata la persecuzione, Cipriano
chiarì col De lapsis la sua posizione, che attribuiva alla Chiesa la possibilità di amministrare penitenza e
perdono; le punizioni invece dovevano essere rapportate all’entità della mancanza del singolo, ma una
sanzione doveva esserci. Questa soluzione equilibrata fu applicata anche altrove (Roma, Alessandria).

La crisi generata prima dalla persecuzione e poi dai lapsi aveva inficiato la coesione della Chiesa, a Cartagine
come altrove. Quasi in contemporanea con il De lapsis, dunque, Cipriano scrisse il De catholicae ecclesiae
unitate che, integrato da alcune lettere, ci fa conoscere la sua concezione della Chiesa (unico mezzo di
salvezza che si offre all’uomo). In quel periodo la Chiesa era sparsa in tante comunità piuttosto autonome,
che però avevano coscienza di costituire un corpo unitario in quanto membra del corpo di Cristo. Per Cipriano
è la gerarchia ad assicurare l’unità, e in particolare il vescovo, cui si è trasmessa l’investitura che Cristo aveva
dato a Pietro.
Il capitolo 4 presenta due redazioni: una breve, denominata Primatus textus, che sembra accennare al
primato del vescovo di Roma, e una lunga, detta Textus receptus, in cui tale concetto non c’è. È possibile che
il Primatus textus sia un falso della cancelleria papale composto nel VI secolo.

Durante la pestilenza del 252-254 scrisse il De mortalitate, in cui prospetta ai lettori il significato cristiano
della morte, che avvicina a Cristo e alla ricompensa finale; scrisse anche il De opere et eleemosynis in cui è
affrontato il problema delle misere condizioni di vita di moltissimi, che la pestilenza aveva ulteriormente
aggravato, ed esorta chi può a donare generosamente. Molte le espressioni fortissime contro i ricchi. Molto
probabile che entrambe le opere derivino da due omelie.

Tre opere sono ispirate ad altrettanti trattati di Tertulliano:


- De habitu virginum (249 ca.) in cui esorta le vergini consacrate a mantenersi immuni dal mondo.
Ispirato al De cultu foeminarum tertullianeo;
- De dominica oratione (251-252) sugli stessi temi del De oratione, centrandolo ancor di più sul Padre
Nostro;
- De bono patientiae (256) sulla pazienza, modellato sul De patientia. Vicino a questo scritto è anche il
De zelo et livore, che mette in guardia contro i peccati dell’invidia e della gelosia.

Di Cipriano è il primo epistolario cristiano in lingua latina: sono 81 lettere di cui 16 di corrispondenti. Con queste
lettere possiamo seguire la questione dei lapsi e il contatto di Cipriano con la chiesa di Roma per coordinare una
comune linea di condotta. Dall’epistolario conosciamo anche l’ultima crisi in cui Cipriano fu coinvolto, quella del
battesimo degli eretici. Tertulliano nel De baptismo già aveva negato validità al battesimo somministrato dagli
eretici: se il neofita voleva passare alla chiesa cattolica doveva essere ribattezzato, perché il ministro battezzante
in quanto eretico non aveva il carisma dello Spirito Santo e quindi non poteva trasmetterlo. In Africa la si pensava
come Tertulliano, mentre a Roma era sufficiente che la formula battesimale pronunciata fosse idonea, anche se il
ministro era eretico. Roma voleva che anche l’Africa fosse meno stringente, ma i vescovi africani, sotto la guida di
Cipriano, si riunirono in concilio (epistola 72) per non permetterlo. La persecuzione di Valeriano interruppe la
questione, che si risolse nel IV secolo con l’adeguamento dell’Africa alla prassi romana.

Cipriano era un estimatore di Tertulliano, ma era molto meno polemico rispetto a lui.

Quanto lo stile di Tertulliano è all’insegna dell’irregolarità e fuori della norma della scuola, tanto quello di Cipriano
vi è dentro, non per imitazione ma perché adatto alla compostezza del suo carattere. Lo stile di Tertulliano per
certi versi ricorda Tacito, quello di Cipriano invece Cicerone. Cipriano inoltre accantonò completamente la cultura
pagana dopo la conversione, tanto che non cita mai autori pagani, mentre in Tertulliano delle citazioni si trovano.

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Sotto il nome di Cipriano sono state trasmesse varie operette latine prodotte fino al VII secolo. Tra queste il breve
scritto satirico Cena Cypriani, che ebbe grande fortuna nel medioevo, e il carme Ad quendam senatorem, ma anche
molte altre.

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LA STORIOGRAFIA CRISTIANA
A metà III secolo, tra la persecuzione di Valeriano (257) e quella di Diocleziano (303 -313), i cristiani vissero in
pace. Questo favorì, specialmente in oriente, la diffusione del cristianesimo, che ormai era piuttosto diffuso
anche nei ceti egemoni: di qui l’inasprirsi della polemica degli intellettuali pagani che continuavano a rifiutare
la nuova fede. Testo anticristiano importante di quest’epoca è il Contro i cristiani (270 ca.) del medioplatonico
Porfirio di Tiro, in cui vengono riproposti i temi della polemica di Celso, ma con maggior conoscenza dell’av-
versario e cioè delle Scritture, della dottrina e della vita comunitaria. Ne abbiamo solo qualche conoscenza
indiretta. Suscitò una certa inquietudine fra i cristiani, che risposero tra fine III secolo e IV secolo con tre
confutazioni successive: Metodio, Eusebio e Apollinare di Laodicea. Se il testo di Porfirio è da datare invece
proprio al III o IV secolo, come sostengono alcuni studiosi, allora quest’opera era funzionale alle persecuzioni.
Quando Diocleziano riprese le persecuzioni nel 303, i cristiani non se l’aspettavano perché ormai adusi alla
convivenza con i pagani, e questa persecuzione fu più lunga delle altre, arrivando in oriente fino al 312. An-
cora più inaspettato fu il passaggio repentino al regime di tolleranza di Galerio, nel 311, e poi all’aperto favore
con Costantino, nel 313. Per Costantino era solo una mossa politica per includere l’efficiente organizzazione
della Chiesa nella struttura claudicante dell’impero, ma i cristiani percepirono il cambiamento come il trionfo
finale della verità contro l’errore. Si iniziò quindi a interpretare i fatti in chiave religiosa e cioè provvidenzia-
listica, e anche a considerare unitariamente la vicenda del rapporto Chiesa-impero che ormai si prolungava
da tre secoli. Nacque quindi la storiografia cristiana.

Lattanzio
Nato in Africa a metà III secolo, Lucio Celio Firmiano Lattanzio fu discepolo di Arnobio (ancora pagano) nello
studio della retorica; iniziò a insegnare in Africa e scrisse il Symposium, oggi perduto. Diocleziano intorno al
290 lo chiamò a insegnare a Nicomedia di Bitinia, sede imperiale. Dopo l’arrivo a Nicomedia scrisse in esa-
metri un Hodoiporikòn de Africa usque Nicomediam (Itinerario dall’Africa a Nicomedia), pure perduto. Se-
condo Gerolamo ebbe pochi discepoli, dato che la città era di lingua greca, e quindi dovette mettersi a fare
lo scrittore. Negli anni ’90 del III secolo si convertì al cristianesimo, e nel 303 dovette abbandonare l’insegna-
mento a causa delle persecuzioni. Intorno al 315 Costantino lo chiamò a Treviri come precettore di suo figlio
Crispo. Morì forse prima della condanna a morte di Crispo, avvenuta nel 326.
La dimensione storiografica non fu certo la più praticata nell’attività letteraria di Lattanzio, ma è celebre
soprattutto per questa.
Il De mortibus persecutorum, forse quello che Gerolamo chiama “De persecutione”, è una breve opera che si
inserisce nel contesto del nuovo rapporto tra Chiesa e impero inaugurato da Costantino. Lattanzio medita
sulle varie persecuzioni, da Nerone a Galerio, e arriva a due conclusioni: 1) gli imperatori persecutori sono
stati cattivi imperatori e 2) la provvidenza divina li ha puniti “tardi ma in modo pesante e giusto”. L’opera ha
finalità apologetica e un tono violento, ma il suo taglio è storico, anche se sono molte le forzature e le ine-
sattezze. È un tentativo di filosofia della storia in chiave cristiana, collegato alla lontana con la tradizionale
concezione che la fortuna dell’impero era conseguenza del favore della divinità procurato con meriti e virtù.
Questa protezione il Dio dei cristiani la accorda a Costantino.

Le Divinae institutiones, l’opera più ambiziosa di Lattanzio, è in 7 libri: si tratta di una summa del sapere
cristiano scritta tra 304 e 311, quando era animato da uno spirito antiromano che lo portava a considerare
l’impero frutto di violenza e ingiustizia. Fu scritto per rispondere a due intellettuali pagani, Ierocle e un altro
non nominato. I primi due libri confutano il politeismo usando l’argomento evemeristico; il III attacca la filo-
sofia sulla base del tradizionale argomento delle contraddizioni dei filosofi; il IV difende la divinità di Cristo e
la verità dell’incarnazione; nel V e VI tratta della giustizia, possibile solo se si conosce Dio; il libro VII è dedicato
al fine ultimo della vita beata e presenta un’escatologica millenaristica. A inizio V libro introduce un confronto
tra gli scrittori di lingua latina a lui anteriori: Minucio ha prodotto poco, Tertulliano si esprime in modo oscuro,

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Cipriano ha scritto solo a uso dei cristiani. Questo confronto ha finalità autocelebrativa, ma è comunque una
prospettiva di tipo storico.
L’opera è molto ineguale: è efficace quando critica il politeismo e quando discute di tematiche morali e so-
ciali, con influssi stoici da Cicerone e Seneca, ma è carente nell’aspetto dottrinale – cosa che si riscontra
anche in altri scritti lattanziani. Lattanzio conosce poco l’AT e poco di letteratura cristiana, forse addirittura
solo i tre autori che nomina a inizio libro V: nel libro IV illustra argomenti teologici ricorrendo alla sapienza
profana criticata nel libro III, soprattutto a Platone, al Corpus Hermeticum e ai Libri Sibillini. Da Lattanzio
viene fuori quindi una teologia dualista: Dio ha creato due spiriti, uno il Figlio e l’altro che è diventato il
demonio. A volte presenta Dio con tratti antropomorfi.
L’opera fu composta a scaglioni: inizia in periodo di persecuzione, ma l’ultimo libro è dedicato a Costantino.
Gerolamo precisa poi che Lattanzio fece un’epitome in un solo libro delle Divinae institutiones, e ci informa
di altre opere perdute: due libri indirizzati a un autore cristiano, Asclepiade; due raccolte di lettere (a Severo
e al discepolo Demetriano, dedicatario anche del De opificio Dei); un libro di grammatica intitolato Gramma-
ticus. Gerolamo non ricorda il De ave phoenice, un carme in 85 distici elegiaci che i manoscritti attribuiscono
a Lattanzio (che in versi aveva scritto anche l’Itinerario). La fenice è un simbolo cristiano di risurrezione.
Prima delle Divinae institutiones aveva composto, dedicandolo a Demetriano suo discepolo, il De opificio Dei,
in cui ammira la perfezione del corpo umano, diverso da quello degli animali per la stazione eretta che gli
consente di guardare al cielo e in cui ravvisa la provvidenza divina negata dagli epicurei. I concetti espressi
qui da Lattanzio erano comuni tra i cristiani dell’epoca. Insiste molto sulla provvidenza.
Ancora contro la concezione epicurea di un Dio estraneo alle vicende degli uomini scrisse verso il 313 il De
ira Dei, dove l’ira divina, cioè la giustizia retributiva per cui Egli punisce il male, viene presentata come un
aspetto della sua azione provvidenziale a beneficio del mondo e delle sue creature.

Anche il maestro di Lattanzio, Arnobio, aveva varie carenze dottrinali, e alcuni decenni dopo anche Mario
Vittorino presenterà forti scompensi tra una completa formazione platonica e una difettosa conoscenza
dell’AT, e su questa base si possono ipotizzare molti casi simili. Il cristianesimo all’epoca si imponeva soprat-
tutto come fatto di religione e di morale, e quindi i convertiti, anche se istruiti, di solito non sentivano l’esi-
genza di approfondire la dottrina e la Scrittura, soprattutto l’AT. In Lattanzio, lo scompenso forte è tra la
carenza dottrinale e l’eccellenza della forma, che gli ha valso il titolo di Cicerone cristiano.
Come dimostrano le critiche da lui mosse a Tertulliano e Cipriano, si pose il problema di come comunicare il
contenuto cristiano ai lettori pagani che potevano avere difficoltà nell’oscurità espressiva di Tertulliano e nei
termini usati con accezione cristiana del secondo. Lattanzio quindi cercò di ridurre al minimo i neologismi e
di spiegarli nel contesto, e usò una forma scorrevole ma elegante, ispirata a Cicerone e Seneca. Non c’è però
nessuna apertura alla cultura pagana come invece riscontriamo in Giustino e Clemente: anche se Lattanzio
può compensare (male) le sue carenze in dottrina solo usando testi pagani, a livello di teoria la sua condanna
è radicale: non cercava nessun accordo con la filosofia greca perché legata alla corruzione dell’uomo.

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Eusebio di Cesarea
Cristiano dotto secondo lo spirito alessandrino: buona cultura pagana soprattutto filosofica e ottima cono-
scenza della Scrittura e delle lettere cristiane.
Nacque verso il 265 forse a Cesarea di Palestina, ancora legata alla figura di Origene. Fu allievo di Panfilo,
ardente origeniano, in onore del quale scrisse una perduta Vita: con Panfilo collaborò alla cura e all’ordina-
mento della biblioteca di Origene. Durante la persecuzione di Diocleziano si impegnò con il maestro impri-
gionato nella stesura dell’Apologia per Origene, poi fuggì a Tiro e poi in Egitto, dove fu arrestato. Scampato,
quando iniziò la controversia ariana (320 ca.) era vescovo di Cesarea: fu da subito al fianco di Ario, pur non
condividendo le parti più radicali della sua dottrina. Compromesso, al concilio di Nicea alla fine scelse di sot-
toscrivere la condanna di Ario e la formula di fede, dandone però subito dopo, in una lettera indirizzata ai
fedeli di Cesarea, un’interpretazione tutta sua. Insieme a Eusebio di Nicomedia capeggiò la reazione antini-
cena che portò a varie deposizioni vescovili, e rifiutò di sostituire il vescovo Eustazio nella cattedra di Antio-
chia. Ammiratore di Costantino, celebrò il ventennale e il trentennale dell’ascesa al potere dell’imperatore.
Morì poco dopo di lui, nel 339-340.
Sua opera principale l’Historia ecclesiastica in 10 libri, fondatrice della storiografia cristiana. Ai suoi tempi,
scrivere la storia di una comunità religiosa era progetto impensabile da parte di un pagano abituato a vedere
la religione come una pratica sempre uguale da secoli e di cui proprio la fissità era essenziale. L’unico modello
a cui Eusebio poteva guardare alla lontana erano le Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe, interessate però
più alla storia politica che a quella religiosa, e in ogni caso è la storia di un popolo, non di una religione. Quella
di Eusebio è invece la storia di un movimento religioso, non politico, a base non etnica ma universalistica, sin
da subito strutturato in comunità ecclesiali, che insieme formavano la Chiesa. Eusebio poteva conoscerne la
storia perché aveva a sua disposizione i documenti della biblioteca di Cesarea.
L’opera fu cominciata prima del 303, e i repentini cambiamenti susseguitisi fino all’editto di Milano convin-
sero Eusebio a rielaborarla e completarla, sottolineando la vittoria finale della verità per volontà divina e per
merito di Costantino: è quindi una storia provvidenzialistica, perché si svolge sotto la regia di una volontà
superiore.
Stupisce la quantità di fatti narrati, segno che i documenti a disposizione di Eusebio dovevano essere davvero
numerosi, tanto che a volte la narrazione sembra solo una giustapposizione di fonti, che Eusebio sapeva bene
essere sconosciute ma importantissime. È comunque abbastanza certo che il materiale presentato al lettore
è selezionato per rendere la Storia una storia di parte.
Il filologo E. Schwartz contò quattro edizioni dell’opera, curate da Eusebio stesso, e forse il primitivo progetto
arrivava al libro VII.

Quattro manoscritti hanno conservato, alla fine dell’VIII o del X libro, una narrazione sui martiri dell’ultima
persecuzione in Palestina: in seguito Eusebio ne scorporò il racconto, lo ampliò e ne fece un’opera monogra-
fica, i Martiri di Palestina, conservata in traduzione siriaca. Vi si raccontano le storie di singoli martiri ma
anche quelli di gruppi di vittime senza nome; centrale è il martirio del maestro Panfilo. Si concentra molto
sul contesto storico delle persecuzioni e sulle differenze di condizione politica tra oriente e occidente.
Eusebio aveva già scritto un’opera agiografica, andata perduta.
Prima del 303 iniziò la stesura della Cronaca, scritta in parallelo alla Storia ecclesiastica e a essa collegata. Ci
è giunta solo in traduzione armena e, parzialmente, in quella latina di Gerolamo.
La prima parte, cronografica, riassume la storia dei popoli orientali, greci e romani; la seconda, detta “Chro-
nici canones”, si compone di tavole sinottiche di cronologia integrate da brevi notizie di storia sacra e profana,
da Abramo al 303, con un successivo prolungamento fino al 325.
La concezione dell’opera non è originale, già Sesto Giulio Africano intorno al 221 scrisse una cronografia cri-
stiana dalla creazione (5500 a.C.) al 221. La novità eusebiana consiste nella vanificazione dello schema esa-
millenario, presente in Giulio Africano, in Ippolito e nella Synagoghè dell’Autore dell’Elenchos, e quindi af-
ferma l’impossibilità di datare l’inizio e la fine della storia. L’esistenza di un “germoglio” del cristianesimo nei
primordi della storia umana avviene tramite il convergere dei fila regnorum, cioè di tutti i regni della storia,
nell’unico dominio romano, a sua volta comandato da uno solo (Augusto) ai tempi di Gesù. Rispetto a questa

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reductio ad unum spirituale e temporale la tetrarchia dioclezianea rappresenta un abnorme ed empio ritorno
alla pluralità, e l’avvento di Costantino il compimento del disegno provvidenziale oltre che il ritorno all’unità.
Sia la Storia ecclesiastica sia la Cronaca hanno anche intento apologetico: Eusebio voleva contrastare l’offen-
siva degli intellettuali pagani.
La Lode di Costantino, o Triaconteterico, è il discorso per il trentennale del regno, pronunciato a Costantino-
poli forse alla fine dei festeggiamenti, nel 336. Eusebio vi delinea la figura dell’imperatore cristiano, che,
imitando il Logos, porta in sé l’immagine del regno supremo. Eusebio vede nell’impero cristianizzato la rea-
lizzazione dell’età messianica, l’instaurazione del regno di Dio in terra, la completa simbiosi tra Chiesa e stato,
e attribuisce all’imperatore il ruolo di rappresentante del Logos divino. Questa concezione unitaria del rap-
porto tra impero e Chiesa cadde presto in occidente, ma in oriente rimase come fondamento teorico del
potere politico e religioso dell’imperatore romano-bizantino.
In 4 libri è la Vita di Costantino, scritta durante la vecchiaia di Eusebio. Segue gli schemi laudativi dei panegirici
imperiali, ma aggiunge uno schema cronologico e un andamento narrativo tipici della storiografia. È una sorta
di agiografia che incrocia più generi letterari, secondo una tendenza tipicamente tardoantica. Costantino è
amico di Dio, nuovo Mosè, superiore agli altri uomini per saggezza e giustizia.
L’opera non è ben rifinita, per questo fu a lungo ritenuta spuria.
Non ci è giunta la Contro Porfirio, in 25 libri, confutazione del più importante scritto anticristiano del tempo,
il Contro i cristiani di Porfirio.
Leggiamo invece la Contro Ierocle, databile alle ultime fasi della persecuzione. È la confutazione dell’Amante
della verità, opera di Ierocle, alto funzionario imperiale, che aveva attaccato i cristiani poco prima del 303
(vd. Divinae institutiones di Lattanzio). Eusebio si rifà alla tradizione apologetica, rimandando esplicitamente
alla Contro Celso di Origene, e di suo confuta l’esaltazione che Ierocle aveva fatto di Apollonio di Tiana, un
filosofo del I secolo immaginato, sulla base della Vita di Apollonio scritta da Filostrato nel III secolo, come un
santone/taumaturgo da opporre a Cristo.
Prima dell’episcopato scrisse un’Introduzione elementare generale al Vangelo, per spiegare apologetica-
mente il cammino dall’AT al Vangelo. In 10 libri, ne restano gli ultimi tre, detti Eclogae propheticae.
In 15 libri è la Preparazione evangelica, scritta tra 313 e 323, che vuole dimostrare l’irrazionalità della reli-
gione pagana nel suo aspetto mitologico e idolatrico, l’insensatezza dell’allegoresi dei miti greci data dai filo-
sofi, la maggiore antichità e superiorità dell’ebraismo rispetto al paganesimo. Soliti argomenti delle contrad-
dizioni dei filosofi e dei furta Graecorum. Molta documentazione, numerose le citazioni dei filosofi.
La Dimostrazione evangelica, in 20 libri di cui abbiamo solo i primi dieci, scritta tra 313 e 323, polemizza
invece contro i giudei, per dimostrare la transitorietà della legge mosaica. Questa è stata svuotata dall’av-
vento di Cristo, di cui la Torah era solo un’anticipazione – un τύπος, potremmo dire. Rassegna di tutte le
profezie dell’AT interpretabili come riferimento alla divinità di Cristo.
Fra le accuse rivolte ai cristiani rilevavano soprattutto l’irrazionalità della religione cristiana e la sua carenza
di radici etniche. La prima accusa Eusebio la ribaltò dimostrando l’irrazionalità del paganesimo (fomentato
dai demoni), mentre per la seconda accentua l’origine ebraica (in senso etnico) del cristianesimo. In partico-
lare, Eusebio spiega che gli ebrei sono gli antichi patriarchi, che, imbarbarendosi dopo Adamo, hanno iniziato
a prendere il nome di “giudei” e hanno dovuto essere sottoposti da Mosè a una legge per non incappare nei
più corrotti costumi; i Greci presero la filosofia dagli ebrei. Mentre dunque giudei e Greci erano degenerazioni
degli ebrei, i cristiani si sono ricongiunti ai patriarchi, e sono dunque un τρίτον γένος intermedio tra Greci e
giudei. Ecco perché i cristiani hanno una base etnica e per giunta più antica di quella greca e giudaica. Eusebio
parla di questo τρίτον γένος anche nella Storia ecclesiastica, che è dunque connessa con la Preparazione
evangelica e con la Dimostrazione evangelica.
Eusebio compose quindi la Teofania, in 5 libri, come sintesi degli argomenti presenti nella Preparazione e
nella Dimostrazione, ed era destinata a un pubblico più ampio. È giunta frammentaria in greco e completa in
siriaco.

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A latere della Dimostrazione evangelica compose le Questioni e risposte sui Vangeli, di cui restano frammenti
e un’epitome. Eusebio vi trasferisce in campo cristiano il genere delle quaestiones et responsiones, tipica-
mente filosofico.
Dimostra di avere scarsa conoscenza delle dottrine dei dottori cattolici ed eretici: di fatto, considerava le
eresie come frutto di un’indebita curiosità. Riteneva che per onorare Dio bastasse quel tanto di conoscenza
deducibile in modo immediato dalla Scrittura, e considerava pericoloso avventurarsi oltre con il ragiona-
mento. Solo nei libri IV e V della Dimostrazione evangelica Eusebio dichiara la propria posizione dottrinale, e
si dimostra assertore della dottrina del Logos secondo la concezione alessandrina di III secolo (Origene, Dio-
nigi il Grande: subordinazionismo).
All’insorgenza della crisi ariana, Eusebio prese le difese del presbitero alessandrino Ario contro il vescovo di
Alessandria, Alessandro (di cui rifiutava lo strapotere), posizionandosi però nel mezzo. Dopo Nicea (325)
scrisse dunque una lettera con la sua interpretazione del Credo.
Marcello, vescovo di Ancira, era uno dei principali antiariani a Nicea, ma era comunque un monarchiano
radicale. Dopo Nicea fu dunque messo sotto accusa in un concilio a Costantinopoli, nel 336, e in tale occa-
sione Eusebio scrisse i due libri Contro Marcello, per confutarlo, e i tre libri di Teologia ecclesiastica, sempre
contro Marcello ma con una maggior pars construens.

Che rapporto aveva Eusebio con Origene? Ne condivideva la sensibilità filologica (vd. Hexapla) sia l’imposta-
zione cristocentrica dell’ermeneutica biblica. Se ne distaccava però per un molto maggiore interesse storico
e molto minore interesse spirituale.
A Eusebio però mancava la concezione platonica (e poi origeniana) dell’universo a due livelli, corrispondenti
all’interpretazione letterale e spirituale. Eusebio infatti usa poco l’allegoria, preferendo il significato letterale,
cioè storico, del testo sacro.
Non che l’allegoresi sia assente in Eusebio: nell’introduzione del Commentario a Isaia Eusebio chiarisce che
il messaggio profetico a volte lo si può interpretare anche solo alla lettera, mentre a volte è necessaria an-
che l’allegoresi.
Del Commentario a Isaia, scritto dopo il 324 e non di origine scolastica (non sembra che Eusebio sia stato
insegnante), conosciamo larghi estratti grazie a un manoscritto. Eusebio vi interpreta i fatti storici dell’epoca
del profeta, usando molto i libri storici dell’AT. L’interpretazione è comunque cristologica, ad esempio posti-
cipa alle guerre romano-giudaiche i passi profetici attinenti alle invasioni di Assiri e Babilonesi in Giudea; le
guerre romano-giudaiche sono una punizione per aver rifiutato e ucciso Cristo.
Il Commentario ai Salmi ci è giunto integro per Sal 51-95, per il resto frammentario. Di datazione incerta ma
probabilmente tarda. Inquadramento storico anche qui molto curato, con riferimenti a libri storici e profetici
dell’AT, e vari salmi sono interpretati solo in riferimento agli effettivi eventi della storia di Israele, ma l’inter-
pretazione cristologica c’è comunque ed è anzi prevalente. I Salmi sono di tono moraleggiante, quindi è facile
riferirli a Cristo e alla Chiesa senza dover passare per l’allegoresi.
Canoni evangelici: scritti poco prima del 330, sono una concordanza dei quattro Vangeli divisi in sezioni con
tabelle riassuntive che agevolano la ricerca dei passi paralleli.
Onomastico: unica sezione rimasta di un’opera a carattere enciclopedico sulla geografia biblica, con i nomi
dei luoghi biblici in ordine alfabetico. È stata tradotta con modifiche da Gerolamo.

Lo stile di Eusebio è duttile ma non eccezionale, ha uno spessore retorico un po’ più elevato nelle opere
storiche e apologetiche, ma sa essere ampolloso nella Vita di Costantino, come richiede il contesto.
La storiografia cristiana successiva ha usato la Storia ecclesiastica come modello, sia in oriente sia in occi-
dente. La traduzione latina di Rufino, che continuò il racconto fino al 395, ebbe immensa fortuna.
In ambito apologetico persino Atanasio, nemico personale di Eusebio, usò le sue impostazioni.
32
In ambito esegetico la presa di distanza dal modulo ermeneutico di Origene, pur da lui tanto ammirato, ha
impresso una svolta decisiva al prosieguo dell’esegesi in oriente, nel senso che ha richiamato l’attenzione
sull’importanza della dimensione storica nell’interpretazione dell’AT. L’esegesi antiochena discende da Euse-
bio e i suoi due commentari maggiori sono stati tenuti presenti dai più grandi esegeti posteriori, da Gerolamo
a Teodoreto.
In campo dottrinale la sua attività era ridotta, come si è detto, ma ha dato spunti per impostare, dopo Nicea,
un orientamento trinitario lontano da Ario ma anche dal filomonarchianismo del credo niceno, fornendo a
Basilio una delle due componenti della sua sintesi.

Ma l’aver inizialmente favorito Ario nocque molto a Eusebio e alla sua fama postuma, nonostante l’ammira-
zione universale per la sua opera di storiografo. In epoca moderna la sua dichiarata ammirazione per Costan-
tino gli ha valso la nomea di vescovo cortigiano e ambizioso, asservito al potere politico.
Di temperamento fondamentalmente razionalista, risentì a fondo il contraccolpo della propaganda anticri-
stiana di Porfirio, Ierocle e altri, e orientò quasi tutta la sua attività letteraria in funzione di una risposta
definitiva alle tradizionali accuse di ignoranza e fanatismo rivolte ai cristiani. È in questo quadro che va inse-
rita la sua ammirazione per Costantino, la cui svolta filocristiana apparve a Eusebio come un miracolo, e a cui
Eusebio era solo molto riconoscente. Così si spiega anche la sua scarsa propensione alla discussione dottri-
nale e lo scarso rilievo dato agli eretici nella Storia ecclesiastica: egli, ben consapevole di quanto i pagani
enfatizzassero e deridessero le divisioni interne alla Chiesa come segno di scarso rigore intellettuale, tendeva
a presentare all’esterna una Chiesa compatta (che Costantino ufficializzò anche politicamente) e che basava
la sua dottrina sulla Scrittura, non sulle speculazioni personali. Solo così poté ribaltare le accuse di irraziona-
lità.

33
LA LETTERATURA CRISTIANA TARDOANTICA
Già Gallieno e poi Galerio avevano iniziato a tollerare il cristianesimo. Dopo il 313 arrivarono anche alcuni
provvedimenti antipagani. Presto le istituzioni iniziarono anche una politica di aperto favore nei confronti del
cristianesimo e della Chiesa, e iniziò la simbiosi subito teorizzata da Eusebio. Nonostante ciò, a inizio IV secolo
i cristiani erano ancora una minoranza, già abbastanza rilevante in oriente, molto meno in occidente. Gli
strumenti essenziali del potere – esercito e burocrazia – erano ancora completamente pagani, e così la mag-
gior parte della classe egemone. Quello di Costantino fu dunque un audace azzardo. A fine IV secolo, Teodosio
elevò il cristianesimo a religione di stato e assegnò l’oriente al primogenito Arcadio e l’occidente a Onorio:
questa decisione politica-territoriale accelerò il divario, anche linguistico, tra le due parti.
Si aprì la strada a un comune sentire di pagani e cristiani in ambito artistico e a un comune linguaggio domi-
nato dalla retorica: si generò una facies culturale molto più omogenea che nel passato fra autori cristiani e
pagani, pur nella diversità dei contenuti specifici. Furono anche creati nuovi generi letterari cristiani, per
venire incontro alle esigenze della comunità, mentre quelli già esistenti, soprattutto l’omiletica, cercarono in
molti casi di adattarsi alla nuova dignità che la Chiesa andava acquisendo e alle esigenze formali-stilistiche
dei convertiti appartenenti agli strati sociali più elevati; dall’altro lato, c’era anche l’esigenza di diffondere il
messaggio a uditori sempre più numerosi e quindi meno motivati e spesso meno istruiti.
La massima novità si ebbe nell’estensione all’ambito cristiano dell’eloquenza di apparato, per le grandi festi-
vità liturgiche e per celebrare i martiri.
Il genere agiografico fu meno sensibile all’obiettivo di miglioramento stilistico della letteratura cristiana, e
rimase sempre un genere popolare. Inizialmente l’agiografia celebrava i martiri, eroi mitizzati di un’epoca da
subito considerata irripetibile, e poi i nuovi eroi del mondo cristiano e cioè i monaci, uomini agli antipodi
degli ideali della paideia greca e quindi molto sovversivi nei confronti del paganesimo.
La letteratura di argomento dottrinale, genere già esistente, mutò le sue caratteristiche: nel II e III secolo le
controversie si erano svolte nell’ambito di una Chiesa comunque illegale, al massimo tollerata; quando però
la Chiesa fu integrata nella struttura statale e il cristianesimo divenne un affare di Stato, l’autorità politica
subito considerò suo dovere interferire, sia per ristabilire la concordia sia perché non poteva esimersi da
questioni di così grande interesse pubblico. Le discussioni dottrinali assunsero quindi un carattere ufficiale –
i vescovi già sotto Costantino erano diventati di fatto dei funzionari statali – e le controversie si complicavano
perché intrecciate con affari politici. L’appoggio del potere politico all’una o all’altra dottrina era spesso de-
cisivo.
Tutto questo comportò delle novità a livello letterario: agli scritti teorici si aggiunsero quelli polemici, usati
dagli autori per difendersi e per attaccare gli avversari al cospetto delle autorità, con riferimento a fatti per-
sonali e pubblici (soprattutto concili).
A ciò si aggiunge una serie di scritti ufficiali: decreti di concili, canoni disciplinari, lettere encicliche, omelie di
argomento dottrinale, resoconti di dibattiti pubblici.

A inizio IV secolo il panorama dottrinale di argomento trinitario e cristologico era variegato: ad Alessandria
dominava incontrastata la dottrina origeniana del Logos (una sola divinità articolata in tre ipostasi/persone
disposte in ordine digradante e quindi subordinate l’una all’altra, unificate da armonia di volere e agire); a
Roma questa dottrina era ritenuta triteista e si preferiva una trinità più unitaria. Il resto dell’occidente era
piuttosto disinteressato all’argomento, mentre in oriente, in base ai luoghi, si oscillava tra la dottrina del
Logos da una parte e residui di monarchianismo dall’altra.
Intorno al 320 il presbitero alessandrino Ario, origenista radicale, affermò che il Figlio è creatura del Padre:
entrò quindi in contrasto col vescovo Alessandro e la controversia si diffuse in tutto l’oriente. Il concilio di
Nicea del 325, voluto e presenziato da Costantino, vide la vittoria di origeniani moderati (tre ipostasi ma non
così divise) e monarchiani (Dio unico, non diviso, quindi no trinità e Cristo non divino) a danno degli origeniani
radicali (tre ipostasi ben distinte). L’arianesimo fu condannato e fu proclamata una professione di fede in
base alla quale il Figlio è ὁμοούσιος (consustanziale) al Padre, cosa che per gli origeniani minacciava di assor-
bire la persona del Figlio in quella del Padre come nel monarchianismo radicale.

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Nel contesto post-niceno e del passaggio del potere da Costantino ai suoi figli, fino all’unificazione dell’im-
pero sotto Costanzo II (351), nacquero vari contrasti (accentuati da motivi politici e personali) che coinvolsero
anche l’occidente. Da una parte tornò l’arianesimo radicale, dall’altra si affermò un forte movimento sia an-
tiariano sia antiniceno, i cui aderenti furono chiamati omeousiani perché all’homoousios niceno opponevano
l’homoiousios, cioè l’affermazione che il Figlio non è della stessa sostanza del Padre ma di una sostanza simile
alla sua. Costanzo II pose fine alla questione con una formula dal contenuto variamente interpretabile, la
quale affermava che il Figlio è simile al Padre secondo le Scritture (concilio di Rimini, 359, e di Costantinopoli,
360).
Costanzo II morì (362) prima che la situazione da lui voluta si fosse stabilizzata, e quindi i contrasti ripresero
espandendosi a un dibattito sullo Spirito Santo. Nel 381 Teodosio ordinò un concilio a Costantinopoli per
riaffermare la validità del Simbolo niceno, che fu dunque ritoccato e integrato nella parte finale (divenendo
il Simbolo niceno-costantinopolitano) interpretando la consustanzialità secondo il compromesso elaborato
da Basilio di Cesarea: l’unica sostanza (=natura divina) è articolata in tre ipostasi, Padre, Figlio e Spirito Santo,
distinte l’una dall’altra ma uguali per attività, onore e dignità. Tale dottrina è detta neonicenismo.
Secondo il neonicenismo e non solo, dunque, in Cristo esisteva una natura divina e una umana. Apollinare di
Laodicea (Siria) riaffermò l’unità della natura di Cristo a danno della completezza della sua umanità: il Logos
divino, cioè, aveva assunto in Maria un corpo umano non integro, in quanto privo della facoltà razionale
dell’anima, sostituita in Gesù dal Logos. Cristo dunque era totalmente Dio ma non era totalmente uomo per-
ché parte della sua anima era Logos divino e non facoltà razionale, come invece in tutti gli altri uomini.
Apollinare fu condannato più volte, ma la sua cristologia unitiva che esaltava la natura divina di Cristo incon-
trò molto favore ad Alessandria, mentre ad Antiochia, per esempio, si riteneva che Cristo fosse sia uomo sia
Dio, allo stesso modo.
Ad Alessandria si affermava una sola ipostasi di Cristo incarnata, che agli antiocheni appariva come una forma
di apollinarismo; per gli antiocheni Cristo aveva natura umana e divina, il che agli alessandrini sembrava una
divisione di Cristo in due persone. C’era una forte rivalità tra Antiochia e Alessandria, e questa si estese a
Costantinopoli, che grazie a Nestorio passò dalla parte di Antiochia: intorno al 430 Nestorio, monaco antio-
cheno divenuto vescovo di Costantinopoli, accantonò la definizione di Maria come madre di Dio (Theotokos)
preferendo quella di Maria come madre di Cristo (Christotokos). Il patriarca di Alessandria, Cirillo, accusò
Nestorio di affermare due Cristi e due Figli: Nestorio fu condannato nel concilio di Efeso del 431, ma la sua
dottrina non morì. Al concilio di Calcedonia (451) si raggiunse un compromesso: nell’unica ipostasi di Cristo
si uniscono due nature, divina e umana, integre e complete senza divisione e senza confusione. La formula
fu considerata definitiva in occidente, ma in oriente i sostenitori della dottrina di Cirillo (cioè i monofisiti) in
Egitto e in Siria complicarono ancora la situazione.

C’era poi il manicheismo, religione sincretica che radicalizzava il dualismo gnostico opponendo due principi
equipollenti, Bene e Male, sempre in guerra tra loro. Fondato dal giudeocristiano Mani (III sec.) in Persia, si
diffuse in tutto il Mediterraneo e fu perseguitato dall’impero al pari del cristianesimo. Dopo Costantino fu
perseguitato anche dalla stessa Chiesa, che coadiuvava l’autorità civile nella repressione.
Era ristretto all’Africa il donatismo, così chiamato da Donato il Grande, che non ne fu l’iniziatore ma uno dei
primi organizzatori. Nacque da alcuni contrasti personali successivi all’ultima persecuzione anticristiana e si
alimentò di sentimento antiromano, tipico del cristianesimo africano, e vedeva quindi un tradimento
nell’amicizia Chiesa-stato di stampo costantiniano. I donatisti dicevano di essere la Chiesa dei puri, dei mar-
tiri, in opposizione a quella cattolica che si era venduta al potere politico. Nonostante la reazione delle auto-
rità e della Chiesa, il donatismo restò forte in Africa e indebolì il cristianesimo in quelle regioni.
Il pelagianesimo prese nome da Pelagio, monaco britannico arrivato a Roma a fine IV secolo. La sua predica-
zione dai toni ascetici accentuava l’impegno individuale del fedele, mettendo in secondo piano il ruolo della
grazia divina. Ebbe successo a Roma ma non piacque ad Agostino, che fece condannare Pelagio e i suoi prin-
cipali seguaci – Celestio e Giuliano – affermando la netta prevalenza della grazia divina nella salvezza degli
individui.

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ARIANESIMO E ANTIARIANESIMO AD ALESSANDRIA
Ario
Quando Ario iniziò a dire che Cristo era inferiore al Padre e di diversa natura, era già anziano. Fu condannato
dal suo vescovo Alessandro e da un concilio di vescovi egiziani, ma trovò comunque molti sostenitori dentro
e fuori l’Egitto. La condanna ufficiale arrivò a Nicea nel 325: fu esiliato nell’Illirico, richiamato sull’onda del
successo della reazione antinicena e riabilitato nel 335, ma morì subito dopo.
Abbiamo poco della sua opera principale, Thalia (Il banchetto), in versi di fattura popolare finalizzati a una
diffusione più vasta possibile della sua dottrina.
Si conservano tre lettere di cui due anteriori al concilio di Nicea e una successiva, in cui Ario espone le sue
idee in forma man mano sempre meno radicale, per riacquistare credito.
La prima è indirizzata a Eusebio di Nicomedia, suo sostenitore, e vi espone in maniera piuttosto radicale le
sue idee: natura creata del Figlio e sua non coeternità con Dio Padre.
La seconda è una professione di fede indirizzata al vescovo di Alessandria, Alessandro. Vi formula la mede-
sima dottrina ma in termini un po’ ambigui.
La terza, brevissima, è indirizzata a Costantino ed è dottrinalmente molto ambigua.

Prima di Ario, il maggior teorico dell’arianesimo fu Asterio il Sofista, un retore cappadoce accusato di essere
un lapsus. Scrisse un Syntagmation di cui rimangono alcuni frammenti, e in passato gli furono attribuite anche
una trentina di omelie dedicate all’interpretazione dei primi Salmi, retoricamente molto elaborate, testimo-
nianza dell’influsso della Seconda Sofistica sull’oratoria cristiana di IV secolo.

A metà IV secolo la dottrina ariana fu riesumata e radicalmente rielaborata da Aezio ed Eunomio, che dopo
qualche iniziale successo subirono l’ostilità anche degli ariani moderati, che si erano attestati sulla formula
di Rimini: Eunomio fu esiliato sette volte. Di Aezio abbiamo grazie a Epifanio una breve trattazione su Dio
ingenerato e generato, di andamento sillogistico. Eunomio scrisse un’Apologia che tuttora leggiamo e a cui
Basilio oppose il Contro Eunomio; a quest’ultima Eunomio replicò, dopo la morte di Basilio, con l’Apologia
per l’Apologia, che conosciamo in parte grazie alla confutazione fattane da Gregorio di Nissa. Di lui ci è giunta
anche una Professione di fede indirizzata a Teodosio e sappiamo che compose un Commentario a Romani.
Aezio ed Eunomio affermavano l’ἀγεννεσία, cioè che il Padre è ingenerato mentre il Figlio è da lui creato e
ne possiede dunque gli attributi divini a un livello molto inferiore, mentre lo Spirito Santo è ancora inferiore
in quanto creatura del Figlio.
Due omelie anonime di V secolo Sull’Ottava di Pasqua, tramandate erroneamente sotto il nome del Criso-
stomo, testimoniano il forte cristocentrismo degli ariani: Cristo è il mediatore che si serve di una sua creatura,
lo Spirito Santo, e delle gerarchie angeliche, per intercedere tra Dio Padre e gli uomini.
L’arianesimo eunomiano durò a lungo: ancora Giustiniano legiferò contro gli ariani.

Ad Alessandro, il vescovo primo nemico di Ario, veniva attribuita un’omelia Sull’anima e sul corpo che è in-
vece di Melitone. È invece di Alessandro una lettera anteriore al concilio di Nicea indirizzata al vescovo di
Tessalonica, suo omonimo, in cui la dottrina del Logos è espressa sulla traccia di Origene e di Dionigi Alessan-
drino, lontana quindi dall’estremismo di Ario ma anche dall’impostazione dottrinale che poi sarebbe diven-
tata nicena.
Ad Atanasio, diacono di Alessandro, è da attribuire una Lettera enciclica che fu largamente diffusa per far
conoscere la deliberazione antiariana dei vescovi egiziani.

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La professione di fede nicena, di stampo in buona parte monarchiano, si schierò non solo contro l’arianesimo,
ma anche contro l’impostazione origeniana (estremista) e alessandrina della dottrina del Logos. Eustazio di
Antiochia (primo patriarca di Antiochia) fu il principale esponente del monarchianismo niceno, e il poco che
ci è giunto dei suoi scritti antiariani successivi al concilio confermano la sua ostilità alla dottrina che affermava
ipostasi distinte del Padre e del Figlio.
Più radicale il monarchianismo di Marcello, vescovo di Ancira, anch’egli protagonista a Nicea, poi accusato e
deposto in un concilio riunito a Costantinopoli nel 336. Rifiutava la dottrina origeniana perché considerata
troppo aperta all’ellenismo. Rifugiatosi in occidente dopo la morte di Costantino, fu riabilitato dal concilio di
Roma nel 341, ma la sua riabilitazione non fu riconosciuta in oriente, così che non poté recuperare la cattedra
vescovile. Morì verso il 370.

Atanasio di Alessandria
L’eredità antiariana di Alessandro fu raccolta ed esaltata al massimo grado dal suo diacono e successore
Atanasio.
Nacque alla fine del III secolo, e una volta divenuto vescovo di Alessandria dovette affrontare i meliziani che
ne contestavano la validità dell’elezione. La mano pesante che usò contro di loro gli portò non pochi pro-
blemi, così come il suo rifiuto di accogliere ad Alessandria Ario riabilitato. Atanasio fu deposto dal concilio di
Tiro nel 335 ed esiliato a Treviri. Nel 337, morto Costantino, tornò in sede e fu subito costretto a rifugiarsi a
Roma, dove sensibilizzò l’ambiente contro gli ariani. Tra 341 e 345 ci furono molti tentativi di riappacificare
orientali e occidentali, ma fallirono: nel 346 l’imperatore Costanzo permise ad Atanasio di tornare ad Ales-
sandria, senza però revocare la condanna inflittagli dal concilio di Tiro. Le ostilità tra Atanasio e Costanzo
ripresero quando quest’ultimo, morto il fratello Costante, assoggettò anche la parte occidentale dell’impero:
Atanasio dopo varie condanne fu costretto a fuggire da Alessandria nel 356, e vi tornò solo alla morte di
Costanzo (362). L’assenza da Alessandria tra il 356 e il 362 impedì ad Atanasio di partecipare agli avvenimenti
di quegli anni, decisivi per i rapporti di forza tra Ario e i niceni. Appena tornato, nel 362, cercò di tornare in
gioco convocando il concilio di Alessandria per la riscossa degli antiariani, ma l’atteggiamento ostile di molti
fra gli stessi antiariani lo mise in difficoltà isolandolo per la seconda volta dal dibattito, dopo l’isolamento
degli anni 356-362: si limitò quindi a porre ordine tra le comunità cristiane d’Egitto che avevano molto sof-
ferto per la lunga controversia. Morì nel 373.
Testo giovanile e non “ancora” antiariano è il dittico costituito dal Discorso contro i pagani e dal Sull’incarna-
zione del Verbo. Il fatto che non sono testi antiariani ha fatto a lungo pensare che fossero testi giovanili,
anteriori al 320, ma va notato che fino al 335 Atanasio evitò lo scontro diretto con Ario; inoltre nei due scritti
vi sono riferimenti alla Teofania di Eusebio e quindi vanno collocati intorno al 335.
Il Discorso contro i pagani ha ancora influssi platonici e riprende i soliti temi antipagani: confutazione dell’ido-
latria e del panteismo filosofico, esigenza del monoteismo anche su base razionale eccetera.
Nel Sull’incarnazione del Verbo sviluppa, sulla traccia di Ireneo, il tema della corruzione dell’uomo come con-
seguenza del peccato originale; solo l’incarnazione del Logos poteva riscattare l’uomo.

Gli scritti antiariani si ripartiscono in due gruppi: polemici e dottrinali.


Polemici: Apologia contro gli ariani (357 ca.)
Apologia a Costanzo (357)
Apologia per la sua fuga (357)
Storia degli ariani indirizzata ai monaci (358)
Nelle tre apologie Atanasio si difende da varie accuse, da quella di slealtà all’imperatore a quella di essere
fuggito dal giudizio.

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Nella Storia degli ariani, opera richiesta dai monaci che si erano schierati in suo favore, Atanasio ripercorre
la storia degli ariani dall’origine fino ai tempi recenti; l’esposizione è ovviamente di parte ma è comunque
molto utile agli storici.
Dottrinali: tre Discorsi contro gli ariani (più un quarto spurio)
Lettera sui decreti del concilio di Nicea
Lettera sulla dottrina di Dionigi
Nei tre discorsi Atanasio espone la propria posizione nel dibattito senza collegamenti a eventi specifici: di qui
la difficoltà di datazione, tra una bassa (356-359) e una alta (337-339), più probabile.
Tra 350 e 355 si collocano gli altri due scritti: la Lettera sui decreti del concilio di Nicea è importantissima
perché Atanasio vi riesuma come parola d’ordine contro gli ariani l’homoousios di Nicea, che per la sua am-
biguità semantica era stato accantonato in oriente dopo il 325, ma si usava ancora contro gli ariani a Roma,
dove Atanasio poteva trovare alleati.
Nella Lettera sulla dottrina di Dionigi cerca di sminuire il significato di alcune espressioni usate da Dionigi di
Alessandria contro i sabelliani e che gli ariani ora usavano a proprio favore.
La Lettera sui concili di Rimini e di Seleucia (359), scritta subito dopo il trionfo degli omei (in parte filoariani)
nel concilio di Rimini, prende posizione sulle varie impostazioni dottrinali affrontate nel 358 e 359.
Il Tomus ad Antiochenos è una lettera del concilio di Alessandria del 362 con cui si cercava di pacificare gli
antiariani di Antiochia, divisi in due partiti in lotta fra loro.
Da questi scritti ci rendiamo conto dei limiti della politica antiariana di Atanasio: contro Ario e i suoi seguaci
aveva un forte senso della divinità di Cristo e credeva che solo Dio incarnandosi poteva redimere l’uomo dal
peccato. Questo però lo spingeva a ridimensionare, fino ad annullarlo, il tradizionale subordinazionismo an-
tiniceno, ancora in parte professato da Alessandro: riteneva cioè che Cristo non fosse inferiore al Padre. La
posizione trinitaria di Atanasio è sbilanciata in direzione dell’unità a discapito della distinzione di stampo
origeniano, motivo per cui molti orientali di ascendenza origeniana ed eusebiana vedevano in lui un monar-
chiano.
Proprio perché vincolato a un’interpretazione “estremista” del credo niceno, Atanasio non poté apprezzare
il tentativo dei vescovi omeousiani di cercare una via di mezzo tra gli estremi del subordinazionismo ariano e
del monarchianismo niceno. Il suo Sui concili, se confrontato con l’omologo De synodis di Ilario, appare estra-
neo alla complessa realtà antiariana degli anni 358-359.
Nello scisma di Antiochia di cui nel Tomus ad Antiochenus si schierò a favore del partito (minoritario) dei
veteroniceni, cioè i niceni intransigenti, contro i fautori del vescovo di fede omeousiana Melezio, che erano
sia antiariani sia antiniceni. Ciò anche per ragioni personali contro Melezio. Con questa mossa Atanasio si
pose ai margini del dibattito dottrinale e politico di allora.
Le quattro Lettere a Serapione, risalenti al 359-360, erano indirizzate a Serapione vescovo di Thmuis, il quale
aveva chiesto all’amico Atanasio di chiarire perché ci fossero alcuni che, pur antiariani, negavano la divinità
dello Spirito Santo. In effetti fino ad allora si era parlato molto poco della terza ipostasi, che fu protagonista
del dibattito dottrinale nel ventennio 360-380 provocando ulteriori divisioni tra gli antiariani, dal momento
che molti di questi, convinti della divinità del Figlio, non lo erano affatto riguardo allo Spirito Santo.
Atanasio nelle quattro lettere allarga allo Spirito Santo il rapporto che aveva proposto tra Padre e Figlio, e
perciò ne afferma la divinità e la consustanzialità con le altre due ipostasi. La pericolante dimostrazione di
Atanasio si basa soprattutto su passi scritturistici in cui, più che di Spirito Santo, si parla di Spirito divino. La
spiegazione ebbe comunque successo e passò ad altri teologi.
Lontanamente antiariana è anche la Vita di Antonio, scritta nel 357 poco dopo la morte del santo, mentre
Atanasio era rifugiato presso i monaci: il racconto della vocazione e dell’esperienza eremitica di Antonio mira
a propagandare l’ideale del monachesimo (ormai saldamente ambientato in Egitto e in espansione), ma an-
che a sottolineare l’avversione del monachesimo agli ariani. Modello dell’opera sono varie vite di filosofi
pagani: la Vita di Pitagora di Giamblico (fine II sec.), la Vita di Apollonio di Tiana di Filostrato (200), la Vita di
Plotino di Porfirio (III sec.).

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L’opera comincia con il racconto della giovinezza di Antonio e lo segue passo passo per tutta la sua esistenza,
enfatizzandone l’impegno antiariano e antiidolatrico, e largheggiando in descrizioni di prodigi vari e nel rac-
conto della sua continua lotta contro il diavolo. È divisa in due parti: la prima va dall’infanzia alla fine della
persecuzione di Diocleziano, la seconda procedere dal ritiro nel deserto sino alla morte. Ebbe molto successo
perché nella seconda metà del IV secolo il monachesimo era già in espansione, espansione che fu dunque
accelerata dalla diffusione della Vita di Antonio. Fu tradotta in latino due volte: da un anonimo e da Evagrio
di Antiochia, amico di Gerolamo, ma anche in tante lingue orientali. Costituì il modello principale per tutte le
biografie monastiche.

Numerose le epistole rivolte ad altri vescovi o come protesta per le decisioni imperiali e di espulsioni. Impor-
tanti le Lettere festali: dai tempi di Dionigi (inizio III sec.) i vescovi alessandrini fissavano anno per anno la
data della Pasqua per la diocesi: nacque così il genere, tutto egiziano, delle festali, lettere inviate a inizio anno
alle chiese egiziane e ai monasteri, con fini liturgici e pastorali. Nelle varie festali di Atanasio si coglie la suc-
cessione negli anni degli argomenti a lui più cari o legati alle contingenze del momento.
Atanasio non si dedicò molto all’esegesi, ma sappiamo che era molto interessato ai Salmi: ci è giunta intera
la Lettera a Marcellino proprio sull’uso dei Salmi. È uno scritto teorico in cui Atanasio propone i Salmi come
testo di meditazione e di arricchimento interiore, ma anche come testo liturgico.
Abbiamo frammenti delle Expositiones in Psalmos (Spiegazioni sui Salmi), che era un commento dell’intero
Salterio di carattere piuttosto schematico: all’esame di ogni salmo premette l’ipotesi, cioè il riassunto, ispi-
randosi al titolo del salmo stesso: è una ripresa del Commento ai Salmi di Eusebio.
Da Gerolamo sappiamo che Atanasio scrisse anche diversi libri sulla verginità, argomento caro al monache-
simo. È forse spurio un trattato Sulla verginità (Discorso di salvezza alla vergine). Probabilmente scrisse qual-
cosa in copto, e in copto ci rimane la Lettera alle vergini, ma è assai probabile che l’originale fosse in greco.
In siriaco si conserva la Lettera alle vergini che sono andate e tornate da Gerusalemme, che attesta a metà
del IV secolo i pellegrinaggi religiosi di comunità monastiche femminili.

L’operato di Atanasio fu accolto in Egitto e in occidente, ma in oriente incontrò molto sfavore. La vittoria
definitiva dell’ortodossia antiariana, sanzionata nel concilio di Costantinopoli del 381 (Atanasio morì nel 373)
ne avvalorò la fama di nemico per eccellenza degli ariani. Gli studi moderni hanno però incrinato questa sua
fama, soprattutto con la pubblicazione di papiri di lettere di meliziani che confermarono le accuse di violenze
e sopraffazioni che avevano fatto condannare Atanasio al concilio di Tiro (335). C’è da dire che partì sin da
subito col piede sbagliato, in quanto alla morte di Alessandro forzo la propria elezione prevaricando, sembra,
precisi accordi. La validità della sua elezione fu subito contestata dai meliziani, provocando la sua reazione
brutale. Riuscì a sensibilizzare l’ambiente romano e quindi l’occidente alla questione ariana, ovviamente in
senso antiariano, presentando i fatti d’oriente in modo da far coincidere la sua sorte con la sorte dell’orto-
dossia e riuscendo perciò a convincere i suoi interlocutori che ogni orientale a lui avverso fosse per ciò stesso
un ariano. In effetti gli orientali, morto Ario (336) ed estromessi dal gioco gli antiariani più fervidi, tra cui lo
stesso Atanasio, dal 340 circa cercarono la linea intermedia tra arianesimo e nicenismo, trovandola nel su-
bordinazionismo moderato di Origene e di Eusebio: Atanasio, favorito dall’impostazione moderatamente
monarchiana della teologia trinitaria romana, fece passare questa linea per ariana, in modo da far fallire i
tentativi orientali di trovare una via di mezzo, avvenuti tra 341 e 345. La successiva riesumazione dell’ho-
moousios niceno attraverso la diffusione della Lettera sui decreti del concilio di Nicea (scritta tra 350 e 355)
contribuì a esasperare il contrasto tra oriente e occidente, mentre il risorgere dell’arianesimo radicale, con
Aezio ed Eunomio, mandava in frantumi il fronte eusebiano-origeniano (la “via di mezzo”) in oriente.
Come si è detto nella sua biografia qui sopra, tra 356 e 362 (ma soprattutto tra 357 e 359) e dopo il 363
Atanasio fu relegato ai margini del dibattito che solo Basilio, a stento, riuscì a dipanare. Basilio però si fondava
in parte proprio sull’homoousios niceno, valorizzando perciò la proposta dottrinale di Atanasio. Questa vit-
toria ottenuta da Basilio ebbe però un prezzo molto alto: la controversia fu prolungata di altri quarant’anni
circa, e portò a un primo vero divario tra cristianesimo orientale e occidentale. La vittoria nicena sugli ariani

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spostò la controversia su elementi specificamente cristologici, e questa controversia durò per secoli: fu inne-
scata da Apollinare di Laodicea, amico di Atanasio, che cercando l’appoggio dei fedeli contro l’autorità politica
che lo avversava rafforzò i sentimenti antiromani in Egitto, già evidenti con lo scisma meliziano e che porta-
rono al disastro durante la crisi monofisita.
Dotato di un’istruzione buona ma non alta, estraneo agli ideali della scuola di Alessandria (che pure rispettò),
Atanasio segnò il distacco dell’episcopato dalla tradizione della scuola e rappresentò il modello del patriarca
di Alessandria.

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I PADRI CAPPADOCI E GIOVANNI CRISOSTOMO
La Cappadocia, regione scarsamente ellenizzata, fu cristianizzata a partire dal III secolo per impulso soprat-
tutto di Gregorio il Taumaturgo. Nel IV secolo questa regione era piena di ariani: Asterio il Sofista, i vescovi
di Alessandria Gregorio il Cappadoce e Giorgio, Eunomio, Aussenzio di Milano. Doveva quindi esserci stata
una “infiltrazione” di origeniani forse da ricondurre a Firmiliano di Cesarea, grande amico di Origene e avver-
sario dei monarchiani.
Nella seconda metà del IV secolo, però, salirono alla ribalta in Cappadocia tre campioni dell’ortodossia: Basi-
lio, il fratello Gregorio di Nissa e l’amico di entrambi Gregorio di Nazianzo. Entrati nel vivo dei contrasti e dei
problemi che affliggevano l’Asia Minore e l’oriente, operarono piuttosto concordemente nel comune intento
di restaurare l’ortodossia in senso antiariano e antimonarchiano, elaborando la formula che, conciliando il
credo niceno con la dottrina delle tre ipostasi, rappresentò l’esito definitivo della lunga controversia trinita-
ria. I tre padri cappadoci discendevano da famiglie cristiane le cui tradizioni risalivano a Gregorio il Tauma-
turgo, e realizzarono l’ideale di un cristianesimo colto, capace di accogliere gli elementi utili dell’ellenismo e
creando dunque una sintesi che sarebbe durata per sempre nella cristianità orientale.

Basilio di Cesarea
Basilio nacque intorno al 330 a Cesarea di Cappadocia e ricevette la formazione religiosa soprattutto dalla
nonna Macrina seniore. Il padre Basilio seniore era un retore famoso e lo educò letterariamente. Poi studiò
a Costantinopoli e ad Atene, dove divenne amico di Gregorio di Nazianzo. Viaggiò presso i monaci di Egitto,
Palestina e Siria e soggiornò presso l’asceta Eustazio di Sebaste, fondatore del cenobitismo in Armenia; poi
tornò in patria, verso il 356. Ricevette il battesimo, distribuì i suoi beni ai poveri e si ritirò a vita monastica ad
Annisa, nel Ponto, in una proprietà della sua famiglia, e con lui la madre Emmelia e la sorella maggiore Ma-
crina iuniore; il fratello Naucrazio fu invece un campione dell’eremitismo e morì prematuramente. Basilio
invitò nella sua comunità monastica Gregorio di Nazianzo (che accettò dopo qualche esitazione) e altri amici.
Nel 360 fu consacrato lettore dal vescovo di Cesarea. Fu poi ordinato presbitero e, nel 370, vescovo di Cesa-
rea. Morì il 1 gennaio 379.
Durante i suoi 9 anni di episcopato, tra i vari problemi di salute, Basilio riformò la vita monastica ordinandone
i ritmi di preghiera e di lavoro; fece molta carità esortando anche i ricchi e fondando la città-ospedale che fu
successivamente chiamata Basiliade, un sobborgo di Cesarea con monasteri, ospedali e ospizi; curò la disa-
strata situazione politica-religiosa della Cappadocia e delle regioni vicine, con risultati che avrebbero poi ri-
solto la controversia ariana.
Quando Basilio iniziò ad avere un ruolo nella politica religiosa, la situazione dottrinale in oriente era la se-
guente: c’erano gli ariani radicali (anomei), capeggiati da Eunomio, e i niceni estremisti (veteroniceni), che
continuavano a parlare come di una sola sostanza e di una sola ipostasi del Padre e del Figlio. C’erano poi gli
ariani moderati (omei), allineati sulla formula riminese del 359 che definiva il Figlio genericamente simile al
Padre e quindi ormai molto simili agli omeousiani; in posizione intermedia tra gli omei e i veteroniceni c’erano
gli omeousiani (la maggior parte dei vescovi orientali), avversi a omei e anomei ma anche ai veteroniceni, e
che credevano in ipostasi distinte per Padre e Figlio ma per il resto erano in discordia interna: alcuni vescovi
erano dalla parte di Melezio di Antiochia (omeousiano, appunto), che nel 363 aveva accettato l’homoousios
niceno intendendolo però nel senso che il Figlio è simile al Padre secondo la sostanza (non quindi come nel
credo niceno), mentre altri non avevano accettato neppure questo accomodamento e si schierarono con
quanto deciso al Concilio di Antiochia nel 341, che modificò la vecchia linea eusebiana sostenendo che le tre
ipostasi sono pari (quindi no subordinazionismo origeniano-eusebiano) ma non consustanziali (quindi no ve-
teronicenismo), unite solo nella reciproca armonia. I vescovi orientali quindi erano principalmente o omeou-
siani o seguaci della dottrina antiochena del 341 (ipostasi pari ma non consustanziali).
La situazione era peggiorata con l’insorgere delle questioni sullo Spirito Santo: ariani e filoariani ne negavano
la divinità e i veteroniceni la affermavano, e in mezzo c’erano gli pneumatomachi (che la affermavano) e i
macedoniani (che la negavano). Valente, riprendendo la politica centrista di Costanzo, ribadì la formula rimi-
nese del 359 favorendo gli omei, capeggiati dal vescovo di Costantinopoli Eudossio.
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Basilio si era formato in ambienti ostili sia agli ariani (di ogni tipo) sia ai veteroniceni, perciò aderì alla posi-
zione omeousiana di Melezio perché aperta all’accettazione del Simbolo niceno. Riteneva i veteroniceni dei
monarchiani e si aprì a Eustazio, vescovo di Sebaste, che però dopo un po’ si allontanò da Basilio spostandosi
verso posizioni filoariane.
Basilio, essendo centrista-omeousiano, fu poco gradito da una parte e dall’altra, ma gettò il seme per il con-
cilio di Costantinopoli del 381 e quindi per il neonicenismo.

Opere dottrinali:
1) Contro Eunomio (3 libri): del 364 circa, Basilio era presbitero, confuta l’Apologia di Eunomio riportan-
dola quasi per intero. Contesta soprattutto l’ἀγεννεσία, cioè che l’essere ingenerato fosse una qua-
lità distintiva della divinità sì che il Figlio non poteva essere Dio in quanto generato. Basilio dimostra
che il figlio, pur non partecipando all’ἀγεννεσία, è anch’egli Dio. Il terzo libro, più breve e aggiunto
posteriormente, è dedicato allo Spirito Santo, che Basilio non considera solo una creatura, ma non
approfondisce troppo forse per le numerose discordie tra omeousiani riguardo al tema.
2) Sullo Spirito Santo: del 375, rimuove le incertezze finali della Contro Eunomio. Non dice esplicita-
mente che lo Spirito Santo è Dio, ancora per non urtare alcuni incerti, ma comunque dimostra proprio
questo.

Come tanti, dopo il 362 Basilio si pose il problema di conciliare l’homoousios niceno con la dottrina delle tre
ipostasi: Atanasio e Melezio semplicemente giustapponevano i due elementi senza incastrarli, ma Basilio
dopo svariati anni affrontò il problema a livello teorico, partendo dal concetto di “simile secondo la sostanza”
(ὁμοιος κατ’ουσίαν) di Basilio di Ancira e degli omeousiani. Il primo passo verso la soluzione lo si legge già
nel Contro Eunomio, dove usa il significato di ousia da lui stesso elaborato; poi la questione è ancora elaborata
in alcune epistole, fino alle epistole 214 e 236 in cui Basilio propone la formula completa, che conciliava
l’homoousios niceno con la dottrina delle tre ipostasi, fondando il neonicenismo: l’unica ousia (sostanza)
definisce la divinità comune alle tre ipostasi; esse si specificano l’una nei confronti dell’altra, il Padre per
essere padre, il Figlio per essere figlio, lo Spirito Santo per il potere santificante. Per tutto il resto le tre ipo-
stasi sono perfettamente uguali. Le tre ipostasi sono quindi consustanziali, e si distinguono tra loro non per
diversità ma per le relazioni reciproche. I due Gregori preciseranno meglio le proprietà specifiche delle ipo-
stasi: l’essere ingenerato per il Padre, l’essere generato per il Figlio, il procedere dal Padre per tramite del
Figlio per lo Spirito Santo.

Basilio non amava scrivere trattati, preferiva generi più diretti come l’omelia e la lettera. La produzione ese-
getica è tutta di carattere omiletico. Spiccano le nove omelie Sull’esamerone, cioè dedicate all’interpreta-
zione di Gen 1, ma Basilio si è fermato prima della creazione di Adamo. Le nove omelie furono predicate,
forse negli ultimi anni di Basilio, in soli sei giorni. L’interpretazione del testo biblico è completamente lette-
rale, e non mancano anzi degli accenni a posizioni antiallegoriste.

Da giovane forse curò col Nazianzeno la Philocalia, antologia di testi origeniani, tra cui la trattazione teorica
(pro-allegorismo) sull’interpretazione del testo biblico contenuta nel libro IV de I principi. Il contrasto tra il
gusto giovanile per l’allegoresi e la preferenza per l’interpretazione letterale in tarda età può essere spiegata
come effetto della polemica antiallegorista degli antiocheni, che appunto fece passare Basilio dal modulo
interpretativo origeniano a quello letteralista antiocheno. Però, ad esempio nelle tredici omelie sui Salmi,
non mancano sporadici approcci allegorici.

Fra le omelie non esegetiche di Basilio almeno 23 possono essere ritenute autentiche. Diverse riguardano il
tema del cattivo/buon uso della ricchezza, che era di grande attualità vista la carestia che colpì la Cappadocia
negli anni della maturità di Basilio. Altre omelie riguardano i vizi degli uomini. Tutte le omelie sono stilistica-
mente ottime, ma le migliori retoricamente sono i panegirici in onore dei martiri: il culto dei martiri all’epoca
era diventato fanatico, quindi i fedeli durante le celebrazioni per i martiri si aspettavano il massimo virtuosi-
smo dall’oratore.

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Il breve testo parenetico Esortazione ai giovani sui modi di trarre profitto dalla letteratura pagana era indi-
rizzato a due giovani parenti che si accingevano a frequentare la scuola. Anche se l’impero era ormai profon-
damente cristianizzato, la scuola era ancora pagana perché continuava a basarsi sugli autori classici. Basilio
riteneva che la scuola, anche se pagana, era indispensabile per avere gli strumenti adatti a leggere le Scrit-
ture, e inoltre gli autori classici, anche i poeti, invitavano all’esercizio delle virtù. In questi scrittori però si
trova il male misto al bene, quindi – spiega Basilio – bisogna usare discernimento e cogliere solo ciò che è
utile e sano per l’anima, e ovviamente è preferibile un maestro cristiano. Questo scritto ebbe enorme suc-
cesso: per oltre un millennio la ratio studiorum di Costantinopoli si sarebbe esemplata su questi principi.

L’epistolario di Basilio consta di oltre 300 pezzi, che già il Nazianzeno iniziò a raccogliere e che presto diven-
nero un modello del genere epistolare. Vanno dal ritorno di Basilio in Cappadocia fino alla sua morte. Sono
lettere di ogni tipo, con impegno letterario diverso: si va dalla lettera di scambio di notizie a testi anche
esegetici e teologici. L’epistolario ci fa conoscere Basilio da vicino e, grazie alle innumerevoli conoscenze di
Basilio, ci permette di approfondire il contemporaneo scenario politico-religioso dell’Asia Minore.

Per Basilio il monachesimo non era un’esperienza a sé stante rispetto a quella di cristiano: il monaco era per
lui un cristiano che voleva essere tale, senza distinzioni rispetto agli altri cristiani. Dettò scritti ascetici per
tutta la vita e da anziano ne curò un’edizione completa, ordinandoli per argomento e dando forse egli stesso
il titolo di Ipotiposi (Abbozzo) di ascesi che ritroviamo nei manoscritti. Il prologo, detto Prologo sesto dai
moderni, contiene il piano dell’opera. Seguono una breve trattazione Sul giudizio, una Confessione di fede, i
Morali e poi una serie di domande e risposte, suddivise in Regole ampie e Regole brevi.
I Morali risalgono al 360 circa. Sono 80 brevi enunciati, chiamati regole, cui seguono una serie di passi del NT
che illustrano l’enunciato. L’opera si rivolge in generale al cristiano, come dimostra la presenza massiccia di
regole per mogli e mariti.
Le Regole ampie e le Regole brevi sono così descritte da Basilio nel Prologo sesto: “Le risposte date alle do-
mande dei fratelli a proposito del comune esercizio nella vita secondo Dio”. Le Regole brevi sono 318 do-
mande/risposte, mentre le Regole ampie sono 55; l’insieme delle ampie e delle brevi è detto anche Grande
Ascetico. Le 373 regole riguardano l’esperienza monastica quotidiana e i suoi mille problemi quotidiani, posti
a Basilio nelle visite alle sue comunità e annotati dai tachigrafi: si può mangiare coi pagani? Si può ridere?
Come essere sicuri della remissione dei peccati? Cos’è l’astinenza? Eccetera.
Gli scritti ascetici di Basilio ebbero un successo gigantesco per tutto il millennio bizantino, e il monachesimo
basiliano ebbe i suoi effetti anche a occidente tramite la traduzione latina che Rufino fece di una prima reda-
zione (detta Piccolo ascetico) delle Regole.

In due libri è il Sul battesimo (366 ca.), che nei manoscritti segue di solito l’Ipotiposi. Per Basilio il cammino di
vita del cristiano è una realizzazione delle promesse del battesimo. Il primo libro sviluppa tre concetti di base
del battesimo, il secondo presenta alcune domande/risposte come le Regole. L’opera risente della genesi
orale, forse nelle discussioni dottrinali e liturgiche nelle comunità monastiche.

Non sappiamo se sia di Basilio il lungo Commento a Isaia, ma il testo è comunque di quell’epoca. Abbiamo
inoltre un breve trattato Sullo Spirito Santo. A Basilio o Gregorio di Nissa (in base ai manoscritti) sono attri-
buite due omelie Sull’origine dell’uomo, che sembrano continuare le basiliane Sull’esamerone; ma vista la
poca fama di queste due omelie è improbabile che siano state scritte da uno dei due fratelli, bensì forse nella
cerchia di Basilio. Alcuni manoscritti aggiungono una terza omelia Sul paradiso, ma posteriore ai due fratelli
cappadoci. Sicuramente non basiliani il IV e V libro aggiunti al Contro Eunomio, e così la lettera 38 in cui è
sintetizzata la dottrina trinitaria di Basilio.

In Basilio gli orientali antiariani, indeboliti da lacerazioni interne anche personali e quindi svantaggiati rispetto
a Roma, che privilegiava il contatto con Atanasio e con i veteroniceni rimasti in oriente, trovarono finalmente
il leader capace di dare consistenza dottrinale e politica alle file del neonicenismo, in funzione antiariana ma
anche avversa alla pressione occidentale e alessandrina.

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Gregorio di Nazianzo
Nacque in Cappadocia verso il 330 da famiglia di alta condizione. Sua madre, Nonna, era cristiana e aveva
fatto convertire suo marito, appartenente alla setta degli Ipsistarii (sincretismo giudaismo-paganesimo), al
cristianesimo: una volta convertito, il marito fu presto fatto vescovo. Gregorio perfezionò gli studi ad Ales-
sandria e ad Atene, e ad Atene conobbe Basilio. Tornò in Cappadocia più tardi rispetto a Basilio, e fu con lui
nel monastero di Annisa. Nel 362 fuggì dall’ordinazione presbiteriale amministrata da suo padre, vescovo di
Nazianzo: si ritirò di nuovo in solitudine e si giustificò nell’Apologia per la fuga. Grazie anche a Basilio fece
pace con suo padre e si fece consacrare presbitero. Anni dopo divenne vescovo di Sasima, piccolo centro
carovaniero: fu convinto da Basilio, ma poi si pentì, rifiutò di raggiungere la sede e si ritirò prima a Nazianzo
e poi a Seleucia/Isauria. Il rapporto con Basilio di conseguenza si rovinò. Nel 379 gli fu proposto di dirigere la
piccola comunità antiariana di Costantinopoli (la capitale d’oriente era da decenni piazzaforte degli omei):
questa volta si impegnò e diede molto a questa comunità. Nel 381 Teodosio indisse il concilio di Costantino-
poli e vi invitò soprattutto vescovi allineati con Melezio, tra cui vari parenti e amici di Basilio. La cattedra
episcopale di Costantinopoli era vacante perché era stato cacciato il filoariano Demofilo, quindi durante il
concilio si tentò di insediarvi il Nazianzeno, ma i vescovi egiziani (ostili a Melezio a causa dello scisma di
Antiochia) si opposero. Gregorio, che voleva davvero mettere pace tra i vescovi orientali e quelli egiziani, si
dimise dal concilio di Costantinopoli e tornò a Nazianzo per amministrarne la comunità cristiana, poi si recò
ad Arianzo (vicino a Nazianzo) dove condusse vita appartata. Morì verso il 390.

Caratterialmente instabile, Gregorio non era portato alla stesura di trattati ampi e organici, ma il suo essere
estroverso e la preparazione retorica lo spingevano all’oratoria, ma si diede anche alla poesia, soprattutto
di carattere autobiografico.

Dei 45 discorsi a noi giunti, diversi hanno contenuto dottrinale, e tra questi si segnalano i cinque Discorsi
teologici, pronunciati durante il soggiorno a Costantinopoli.
Primo discorso: introduttivo, gli inesperti e gli impuri non devono cimentarsi in questioni dottrinali.
Secondo discorso: in polemica con Eunomio, l’uomo può capire che Dio esiste ma non la sua natura.
Terzo e quarto: rapporto tra Padre e Figlio; soluzione basiliana ma comunque non si può davvero conoscere;
rispetto a Basilio approfondisce i rapporti reciproci tra le ipostasi.
Quinto discorso: Spirito Santo; in polemica con i macedoniani afferma la piena divinità e consustanzialità, si
allontana dal riserbo di Basilio in materia.
Come si vede, Gregorio basava la propria dottrina trinitaria sulla soluzione di Basilio, perfezionandola e di-
fendendola. Era ancora più attento all’unità di Dio, una sensibilità che aveva in comune con Gregorio di Nissa
e che, morto Basilio, portò al neonicenismo molti veteroniceni.

La vera originalità dottrinale di Gregorio si manifestò a pieno nella polemica contro Apollinare, che Basilio
aveva limitato per opportunità politica ma che ormai esigeva una presa di posizione dottrinalmente impe-
gnata. Gregorio ne trattò in due lettere a Cledonio (epp. 101 e 102) e in una a Nettario di Costantinopoli (ep.
202), scritte tra 382 e 387. Apollinare accentuava l’unità delle due nature di Cristo: se queste fossero state
troppo divise, infatti, la natura divina non avrebbe partecipato alla passione e alla morte e perciò sarebbe
rimasta estranea alla redenzione. Secondo Gregorio, dato che Adamo ha peccato nella sua integrale umanità,
per poter redimere i suoi discendenti il Logos divino ha assunto un’umanità completa, perciò l’anima di Cristo
non era priva della facoltà razionale.

Le due Invettive contro l’imperatore Giuliano, di poco posteriori alla morte di quello, sono estremamente
violente (genere dello ψόγος) e arrivano addirittura a esaltare per contrasto l’imperatore Costanzo, che or-
mai da tempo era etichettato come l’imperatore filoariano per eccellenza. Gregorio si schiera soprattutto
contro la politica scolastica di Giuliano, che aveva estromesso i cristiani dall’insegnamento, e dimostra che le
riforme di Giuliano furono effettivamente pericolose per i cristiani.

Nell’Apologia per la fuga, testo giovanile, Gregorio risponde alle accuse di debolezza ed egoismo dopo essere
sfuggito alla consacrazione presbiteriale che suo padre, vescovo, era intenzionato a somministrargli. Afferma

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che il suo rifiuto era dovuto al timore reverenziale per un compito così sacro, e aggredisce i religiosi indegni
che hanno accolto con piacere la consacrazione ma senza esserne all’altezza.

Come Basilio pronunciò molti panegirici: per amici e parenti, festività, martiri e santi (Cipriano, Atanasio). È
importante soprattutto l’elogio funebre di Basilio, in cui si legge il ricordo di un’amicizia incrinata da alcune
contingenze ma che la morte di Basilio aveva in qualche modo ravvivato.

L’epistolario è costituito da 245 pezzi, pubblicati da Gregorio stesso, ed effettivamente le lettere appaiono
concepite sin dall’inizio come parte di un epistolario letterario. Contrariamente all’epistolario di Basilio,
quello di Gregorio non è molto utile per conoscere il suo contesto, perché sono principalmente lettere di
argomento personale o di modesta importanza.

Di lui ci restano 18.000 versi ripartiti in 400 composizioni di ogni dimensione, metro e argomento. Usava
soprattutto l’esametro dattilico e il trimetro giambico, ma anche metriche molto elaborate. Si nota l’atten-
zione ad adattare il metro all’argomento: l’esametro (eroico) per temi dottrinali, il giambo per argomenti
familiari, il distico elegiaco per la meditazione, metri lirici per gli inni, e non mancano gli epigrammi. Un paio
di poesie presentano una versificazione che sembra prescindere dal tradizionale senso della quantità, prelu-
dendo così alla poesia bizantina.
Le poesie del Nazianzeno sono state divise in due categorie: di argomento teologico (dottrinale e morale) e
di argomento storico (riguardanti il poeta stesso e altre persone, soprattutto i suoi familiari). In quelle teolo-
giche è chiara la finalità didascalica, l’intenzione di istruire in modo raffinato e piacevole: ci sono poemi sulla
Trinità, sulla creazione, sui miracoli di Gesù eccetera. Noi potremmo trovare poco poetici questi argomenti,
ma occorre tener presente che all’epoca i cristiani erano ancora accusati di avere un basso livello culturale.
Le poesie di argomento storico, invece, effondono in versi sentimenti e affetti, in un ripiegamento interiore
inusuale nella poesia greca al di fuori dell’epigramma.
Menzione a parte merita il lunghissimo poema Sulla sua vita, in 1949 metri giambici, importantissima come
documento storico per ricostruire l’andamento del concilio di Costantinopoli del 381.

La tradizione manoscritta assegna a Gregorio una tragedia in versi giambici, il Christus patiens, ma l’attribu-
zione è contestata. È un centone di Euripide composto da versi di sue tragedie.

La tradizione orientale ha apprezzato Basilio e il Nazianzeno, insieme col Crisostomo, come i rappresentanti
letterariamente più significativi tra i padri di lingua greca. La principale differenza tra i primi due è che Basilio
sa limitare la spinta retorica evitando l’esuberanza; non così Gregorio, spesso alla ricerca di virtuosismi. Il
periodare di Basilio è complesso e ad ampie volute, mentre Gregorio è un tipico asiano nella predilezione per
le frasi brevi, spezzate, antiteticamente costruite.

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Gregorio di Nissa
Fratello minore di Basilio, nacque intorno al 335. Curò la sua formazione cristiana soprattutto la sorella Ma-
crina, cui rimase sempre molto legato, ed ebbe una buona istruzione ma non al di fuori della Cappadocia. Fu
lettore nella chiesa, ma poi optò per la carriera di maestro di retorica e si sposò. Più tardi, sollecitato da
Macrina e dal Nazianzeno, si dedicò a vita monastica nel monastero fondato da Basilio. Nel 372 Basilio lo
fece consacrare vescovo di Nissa (così come cercò di consacrare vescovo anche il Nazianzeno), ma i filoariani
riuscirono a farlo deporre e arrestare. Basilio lo fece evadere e lo mise al sicuro in un possedimento di fami-
glia, rinunciando a utilizzare suo fratello nel groviglio delle relazioni politiche da lui intrattenute. Morto il
filoariano Valente ad Adrianopoli (378) Gregorio tornò a Nissa e acquistò peso nelle ultime fasi della contro-
versia ariana, soprattutto dopo la morte del fratello. Col Nazianzeno recuperò i veteroniceni “converten-
doli” in neoniceni e fu tra i protagonisti del concilio di Costantinopoli del 381. Ormai garante dell’ortodossia
antiariana, rimase a Costantinopoli. Teodosio gli affidò vari incarichi ufficiali e volle che pronunciasse l’elogio
funebre della figlia Pulcheria e della moglie Flaccilla (385). Morì poco dopo il 394.
Come il Nazianzeno, non era interessato alla lotta politica ed era appassionato di lettere, ma rispetto al suo
omonimo scrisse molto di più. Rispetto a Basilio e al Nazianzeno si dedico di più alla filosofia e studiò più di
loro Filone, Origene e Plotino; riuscì ad approfondire le intuizioni del fratello e a proporre speculazioni pro-
prie.
Finché visse Basilio le sue qualità rimasero latenti, e infatti il periodo di massima produzione di Gregorio risale
ai tre anni successivi alla morte di Basilio, perché voleva difenderne la memoria e le opere contro varie criti-
che.
Si è già detto che Eunomio replicò al Contro Eunomio basiliano con un’Apologia per l’Apologia, pubblicata
dopo la morte di Basilio. Gregorio di Nissa a sua volte rispose con quattro lunghi libri Contro Eunomio, scritti
tra 380 e 383, che confutano l’avversario con la solita tecnica di smontare la sua opera pezzo per pezzo.
Discorsi vicini alla trattatistica:
- Il Sulla Santa Trinità parte dall’accusa rivolta ai Cappadoci di adorare tre dèi, e si concentra poi sulla
divinità dello Spirito Santo;
- Il Sullo Spirito Santo contro gli pneumatomachi macedoniani fu scritto durante il concilio del 381 o
subito prima, e difende la divinità dello Spirito Santo;
- È destinato ai pagani l’Ai Greci sulle nozioni comuni, ricco di sottigliezze dialettiche, volto a mostrare
la differenza tra ousia e ipostasi;
- Nel Non ci sono tre dèi affronta l’accusa di triteismo mossa alla teologia cappadoce.

In ossequio al vescovo Teofilo di Alessandria, in occasione del suo insediamento (385), scrisse una lettera
Contro gli apollinaristi, in cui è affrontata l’accusa mossa dagli apollinaristi agli ortodossi di adorare due figli.
Gregorio dimostra che Cristo è unione di natura umana e divina, e usa l’esempio della goccia di aceto (natura
umana) versata nel mare infinito (natura divina).

Lo stesso metodo di confutazione applicato nel Contro Eunomio è utilizzato anche in un’altra opera antiapol-
linarista, l’Antirrheticus adversus Apollinarium (387 ca.), in opposizione alla Dimostrazione dell’incarnazione
di Dio nell’immagine dell’uomo di Apollinare, che conosciamo in buona parte proprio grazie alla risposta di
Gregorio. Il rimprovero mosso ad Apollinare è che il suo Cristo, data la carenza di intelletto umano, risulta né
pienamente dio né pienamente uomo, e rende quindi mortale la divinità (pensiero, quest’ultimo, in realtà
ben evitato da Apollinare). Il Nisseno oppone ad Apollinare la dottrina del Nazianzeno di due nature complete
e ben distinte unite in Cristo.

Il Grande discorso catechetico (385 ca.) è di carattere non polemico ma espositivo-scolastico, perché vuole
fornire uno strumento didattico ai catechisti. È un’opera di sintesi che vuole toccare tutti i principali punti
della dottrina cristiana, ed è quindi per certi versi vicina ai Principi di Origene. È chiaro l’intento di sviluppare
il discorso soprattutto in senso filosofico, con minimo ricorso alla testimonianza della Scrittura, e questo in
funzione apologetica contro i pagani.

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A inizio a 380, poco dopo la morte di Basilio e poi di Macrina, scrisse i Dialoghi sull’anima e la risurrezione.
L’opera vuole ispirarsi al Fedone platonico ed è un dialogo tra l’autore e la sorella tenuto il giorno prima della
morte di lei. L’argomento è quello della natura e del destino dell’anima: immortalità, risurrezione, retribu-
zione. L’ispirazione platonica, oltre che nella struttura e nell’argomento, sta nella concezione di un’anima
intenta a liberarsi della materialità del corpo per progredire nella conoscenza e nell’amore di Dio, in una
continua purificazione e adeguamento alla volontà di Dio. Alla fine l’anima viene completamente assorbita
nel bene (apocatastasi).

Scrisse anche la Vita di Macrina, prima biografia cristiana femminile, sotto le spoglie puramente formali
(come precisa Gregorio stesso) di una lettera. Già gli autori ellenistici pagani ritenevano che le donne, prati-
cando la filosofia, potevano superare la loro naturale debolezza e potevano essere rappresentate (non come
protagoniste) in un bios filosofico: Gregorio dice che Macrina “grazie alla sua filosofia si è innalzata alle vette
più alte della virtù umana”. Macrina è descritta come una donna cristiana perfetta, che con la morte è arrivata
all’esistenza angelica. Nelle ultime pagine fa pronunciare a Macrina una preghiera di forte spiritualità e ne
descrive la morte con toni commossi.

Morto Basilio, il fratello minore Pietro (nel 381 divenuto vescovo di Sebaste) lo invitò a completare l’Esame-
rone basiliano, che si era arrestato prima del racconto della creazione dell’uomo. Gregorio scrisse dunque il
trattato Sulla formazione dell’uomo, in cui vengono distinti platonicamente la creazione dell’uomo a imma-
gine di Dio da quella dell’uomo plasmato dal fango, intendendo il primo uomo come l’umanità nel suo com-
plesso e il secondo come uomo reale nella sua individualità. Accetta la dottrina origeniana dell’apocatastasi
ma respinge quella della preesistenza delle anime.

Subito dopo scrisse l’Apologia per l’Esamerone, per difendere l’opera del fratello da alcune critiche che le
erano state mosse. Pur dichiarando di attenersi come Basilio all’interpretazione letterale del racconto biblico,
di fatto non apprezza il senso letterale di Gen 1 con la stessa rigidezza del fratello, così come nel Sulla forma-
zione dell’uomo aveva interpretato l’Eden in senso allegorico.

L’approccio esegetico di Gregorio di Nissa è infatti piuttosto allegorista, alla maniera di Origene, e appare
chiaro nei vari scritti propriamente esegetici. Alcuni ebbero origine omiletica, come le omelie Sull’Ecclesiaste,
Sul Cantico dei cantici, Sulle beatitudini, Sul Padre Nostro; sono invece più organici il Sui titoli dei Salmi (2 libri,
Gregorio segue il racconto biblico su Mosè) e la Vita di Mosè (2 libri, interpreta Mosè come simbolo dell’iti-
nerario dell’anima che si avvicina a Dio).

L’interpretazione simbolica del testo biblico è condizionata da una finalità ascetico-mistica, perché ogni passo
biblico per Gregorio deve invitare (nella sua allegoresi) a condurre al perfezionamento spirituale. Per ogni
passo biblico individua prima lo scopo (σκοπός) e il senso spirituale (θεωρία), e poi collega i fatti narrati per
farne scaturire il senso previsto (la concatenazione, ἀκολουθία). Quando Gregorio componeva i suoi scritti
esegetici era già in corso la reazione antiochena all’allegorismo alessandrino.

Trattati:
- Contro il destino
- È in realtà un discorso epidittico il Sulla morte prematura dei bambini, rivolto a Ierio, un politico che
aveva interrogato Gregorio sulla questione. Gregorio ritiene che le anime dei bambini, né colpevoli
né meritevoli a causa della brevità della loro vita terrena, recupereranno col progresso ultraterreno
la virtù e la conoscenza non acquisite prima.
- Al genere oratorio appartiene anche il Contro quelli che ritardano il battesimo, in cui Gregorio vuole
sradicare la sempre più diffusa pratica dilatoria. Usa l’argomento del memento mori e varie immagini
scritturistiche che illustrano come τύπος la grazia del battesimo, e al pietoso esempio del giovane
virtuoso ma ancora catecumeno, colpito dai nemici appena fuori la sua città, che muore disperato
gridando alle selve e ai monti di dargli il battesimo.
- Intorno al 380 scrisse il Sui morti, che vuole dimostrare che la morte non è un male. È un misto tra
una consolatio, una diatriba e un trattatello filosofico.

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Scrisse varie opere di argomento ascetico:
- Sulla verginità (371): commissionato da Basilio, Gregorio vi usa le risorse della retorica e della dia-
triba, sfiorando il parossismo nella descrizione dei mali del matrimonio.
- Sul fine del cristiano: scritto su richiesta di alcuni monaci, vuole essere una guida al conseguimento
della perfezione cristiana e presenta ai richiedenti (i monaci) i mezzi per raggiungerla attraverso la
vita monastica e l’ascesi. Vi sono alcune coincidenze letterali con la Grande lettera di Macario/Si-
meone, che hanno portato a far dubitare dell’autenticità gregoriana dell’opera.
- La professione del cristiano.
- La perfezione del cristiano.

L’oratoria è di solito considerata la parte meno riuscita della produzione di Gregorio: restano di lui discorsi
liturgici, panegirici dei santi, orazioni funebri, sermoni morali e dottrinali, e abbiamo già parlato di discorsi
vicini alla trattatistica.
Abbiamo l’orazione funebre per Melezio e alcuni panegirici come la Vita di Gregorio il Taumaturgo, il perso-
naggio cui tanto dovevano le tradizioni cristiane della famiglia di Gregorio e sul quale, come il panegirico
dimostra, si erano accumulate tante leggende orali.

L’epistolario consta di 28 lettere risalenti al periodo dell’episcopato, dopo la morte di Basilio. Alcune sono
brevi biglietti, altre sono brevi trattatelli; tutte presentano un’accurata ricerca stilistica e testimoniano con-
tinuità di interessi e di rapporti con i “sofisti”, cioè i maestri di retorica. Abbiamo anche due epistole mandate
a Libanio, mentre la lettera 2, relativa ai pellegrinaggi (da Gregorio sconsigliati per il contatto fra uomini e
donne durante il viaggio), fu usata dai protestanti nel XVI secolo per opporsi ai pellegrinaggi cattolici.

La fama di Gregorio di Nissa è sempre stata oscurata da quella del fratello e da quella del Nazianzeno, e infatti
i Bizantini non lo dichiararono mai dottore ecumenico, e solo recentemente è stato rivalutato negli studi.
Pesò in modo decisivo la minore perizia nello scrivere rispetto agli altri due, non perché avesse studiato di
meno (perché non è così) ma per qualità naturali. Di carattere, contrariamente al Nazianzeno, si presenta
introverso e chiuso, certamente non adatto alla magniloquenza: l’applicazione delle norme della retorica si
presenta spesso solo esteriore e rende i testi prolissi.

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Giovanni Crisostomo
Nacque ad Antiochia verso il 345. La madre, ricca vedova, lo fece studiare con grandi maestri, tra cui Libanio.
Entrò giovane nella comunità monastica di Diodoro e poi si ritirò nel deserto, presso Antiochia, vivendo vita
ascetica, ma vi rimase poco per problemi di salute. Divenne diacono, poi dal 386 presbitero. Il vescovo Fla-
viano lo incaricò soprattutto di predicare, e in questa attività Giovanni ottenne grande fama, tanto che le sue
omelie erano ascoltate anche da giudei e pagani. Arcadio lo volle vescovo a Costantinopoli nel 397, nono-
stante l’opposizione del vescovo di Alessandria, Teofilo, che non poteva tollerare un antiocheno come ve-
scovo della capitale d’oriente. Il concilio del 381 aveva stabilito il primato d’onore, dopo il vescovo di Roma,
di quelli di Costantinopoli, e anche la separazione delle diocesi e la non ingerenza reciproca: di conseguenza
il potere del vescovo di Costantinopoli si ampliò. Giovanni fu un vescovo impegnato in attività ecclesiastico-
diplomatiche, e andò pure a Efeso per sedare una controversia teologica locale, consacrando ben 17 nuovi
vescovi, tra cui quello di Efeso. Sul fronte interno centralizzò il potere sul patriarcato a discapito della pre-
cedente parziale autonomia delle altre chiese. Un vescovo del genere ovviamente doveva sapersi aprire al
mondo politico-imperiale, ma non lo fece mai, e fu quindi disprezzato dal potente ministro Eutropio e poi
dall’imperatrice Eudossia. Anche molti vescovi gli erano ostili, perché preferivano soggiornare a corte piut-
tosto che nelle loro sedi. Teofilo sapeva tutto e, non appena Eudossia ebbe indebolito a sufficienza il potere
di Giovanni, lo mise sotto accusa e lo fece deporre nella sinodo della Quercia (403). Fu esiliato, poi subito
richiamato a furor di popolo, poi di nuovo esiliato prima a Cucuso (Armenia) e poi a Pytius (Caucaso). Morì a
Comana (Ponto) il 14 settembre del 407.

In ambito dottrinale ed esegetico si tenne lontano dagli atteggiamenti polemici tipicamente antiocheni, e per
questo l’irregolarità della sua condanna fu subito chiara a tutti. Non subì quindi alcuna damnatio memoriae,
anzi morì sostanzialmente da martire, e in più era già enorme la sua fama letteraria.

La maggior parte degli scritti autentici ha avuto origine omiletica, e talvolta di alcune omelie ci sono giunte
due redazioni: una rispondente alla trascrizione tachigrafica e una rielaborata. Le omelie del periodo antio-
cheno (giovanili) sono più rifinite di quelle predicate a Costantinopoli, perché ad Antiochia era più libero dalle
preoccupazioni.
La maggior parte delle omelie giunte fino a noi è di contenuto esegetico, e ci sono alcune lunghe serie di
omelie predicate in giorni continui o quasi, che permettevano a Giovanni di commentari interi libri della
Scrittura. Importanti due serie di omelie sulla Genesi: una da 9 omelie (386) e una da 67 (388), e alcune sui
libri dei Re. Delle molte omelie sui Salmi giunte sotto il suo nome, solo 58 sono considerate autentiche, e in
queste fa spesso riferimento agli altri traduttori dell’AT, a integrazione della lezione dei Settanta.
Ancora più ricca la produzione esegetica sul NT: 90 omelie su Matteo (390), 88 su Giovanni (390), 55 sugli
Atti (400), unico commentario degli Atti pervenutoci dall’antichità. Aveva molto caro Paolo, da lui considerato
il prototipo del santo cristiano: sono diverse decine le omelie sulle singole lettere di Paolo, anche su quelle
spurie e su quella agli Ebrei. Su Galati scrisse un Commentario a Galati.
Giovanni segue la prassi esegetica ormai tradizionale: il testo biblico interpretato è diviso in lemmi spiegati
singolarmente; a questo però aggiunge una spiegazione dottrinale e morale, e non manca la parenesi.
L’esegesi è di tipo antiocheno, ma non radicale né polemica.
Fondamentale il Commentario a Isaia: riguarda in realtà solo i primi capitoli del libro ed era forse un
canovaccio per una serie di omelie forse mai pronunciate. Ci presenta l’esegesi del Crisostomo allo stato
puro: è strettamente letterale, interessata alle vicende storiche di Israele e poco propensa all’apertura in
senso cristologico (tipologico). Non mancano però alcuni τύποι nell’interpretazione della Genesi e dei Salmi.
C’è da dire che il letteralismo estremo è poco adatto all’interpretazione del NT, soprattutto del Vangelo di
Giovanni.

Usava qualunque passo biblico, anche di poco conto come gli Atti (poco considerati dagli altri esegeti), per
insistere su temi morali e per esortare alle virtù cristiane: carità, elemosina, uguaglianza di schiavi e liberi.
Tocca anche i temi della caducità delle ricchezze, dei pellegrinaggi in Terra Santa, la natura del potere

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politico. Davvero ogni omelia ha in qualche modo un intento didascalico relativamente alla condotta di vita
dei fedeli.
Scrisse parecchi panegirici di martiri (Romano, Luciano ecc.) e di vescovi antiocheni (Ignazio, Eustazio,
Melezio) e di Paolo. Inoltre omelie per le festività, otto Omelie battesimali importanti soprattutto sotto
l’aspetto liturgico.
Le 5 omelie Sull’incomprensibilità di Dio (386-387) polemizzano contro gli ariani radicali sulla loro pretesa di
conoscere la natura divina, e sulla traccia dei Cappadoci ribadiscono l’inaccessibilità di questa conoscenza e
il conseguente mistero che avvolge Dio.
Di poco posteriori sono le 8 omelie Contro i giudei, scritte perché molti cristiani ancora usavano riti e pratiche
giudaiche. Riprendendo in parte gli schemi dello psogos, si scaglia violentemente contro i giudei.
Nel 387, durante una sommossa provocata da un aumento di tasse, ad Antiochia (dove Giovanni era
presbitero) furono abbattute alcune statue dell’imperatore Teodosio e dei suoi familiari. Violenze e
rappresaglie invasero la città, così il vescovo Flaviano si recò a Costantinopoli per chiedere che l’imperatore
perdonasse i rivoltosi. Nell’attesa del ritorno, Giovanni scrisse e declamò le 21 omelie Per le statue, nella
chiesa affollata di fedeli spaventati e imploranti l’aiuto divino, sia per infondere speranza sia per rammentare
ai fedeli i loro peccati. Flaviano tornò vittorioso dalla missione, e l’ultima omelia delle 21, pronunciata alla
presenza del vescovo, suggellò la liberazione dall’incubo.
Giovanni si era più volte scontrato con Eutropio, potente ministro di Arcadio, che quando cadde in disgrazia
(399) si rifugiò disperato nella chiesa di Santa Sofia, dove era vescovo Giovanni, in fuga dai sicari. Giovanni
ne approfittò per un discorso alla folla inferocita, riuscendo a far cambiare idea e sottolineando la caducità
dei beni terreni.
Il discorso Su s. Babila contro Giuliano e i pagani risale al 380 ca. e cioè all’inizio dell’attività oratoria di
Giovanni. Rievoca l’azione di Giuliano che nel 362 aveva fatto portar via da un bosco presso Antiochia i resti
del martire Babila, ristabilendovi il culto di Apollo. Un incendio del tempio di Apollo (forse appiccato da
cristiani) e la morte in battaglia dell’imperatore furono da Giovanni considerati prove della potenza del
martire. Libanio deplorò l’incendio, e Giovanni gli rispose esaltando il culto dei martiri, contrapponendolo a
quello dei demoni praticato dai pagani.

Tra i pochi scritti non omiletici è degno di menzione l’ampio dialogo in 6 libri Sul sacerdozio, databile al
diaconato di Giovanni (381-386). Il dialogo inscenato è tra Giovanni e l’amico Basilio (molto probabilmente
Basilio di Raphaneia): i due vengono consacrati all’episcopato ma Giovanni si sottrae, a causa del timore
reverenziale ispiratogli dal sacerdozio e dalla coscienza di non essere adatto a tale ruolo. Poi Giovanni si
dilunga sulla dignità e i doveri del sacerdozio e sui pericoli in cui incorrono quanti aspirano a esso senza
esserne degni. L’opera termina con un confronto tra il sacerdote il monaco che va a vantaggio del primo,
perché opera per il bene dei fratelli più che dedicarsi al ripiegamento interiore.
Da ricordare anche le due esortazioni A Teodoro caduto, rivolte a Teodoro di Mopsuestia, e alcuni trattati
sulla castità e l’ascesi. Si può notare che inizialmente Giovanni era pregno di fervore ascetico, e con gli anni
affievolì la sua durezza: ad esempio, inizialmente era contrario al matrimonio in favore della vita ascetica, e
col tempo si aprì alle necessità della vita coniugale.
Frutto significativo della raggiunta sensibilità pastorale è il Sull’educazione dei figli, argomento poco praticato
dagli autori cristiani dell’epoca. Giovanni insiste sulla necessità di procurare un buon pedagogo per aiutare il
bambino a diventare “un atleta di Cristo”, cioè non necessariamente un monaco ma anche solo un uomo che
viva nel mondo ma con timor di Dio. Dice che il figlio deve essere amabile con gli schiavi, andare in chiesa coi
genitori e, in adolescenza, distoglierlo dai piaceri sessuali non solo col timore dell’inferno, ma anche
proponendogli dei piaceri alternativi.
Durante l’esilio indirizzò agli amici due scritti sulla sofferenza, e sempre al periodo dell’esilio risalgono le 236
lettere, di solito molto brevi.

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Giovanni fa parte pienamente della cultura antiochena a cavallo tra IV e V secolo, come dimostra per esempio
il fatto che chiama la Vergine “Madre di Dio”. Era comunque un’adesione non polemica ma moderata, e
soprattutto non attiva, dato che Giovanni non si è mai dedicato alla riflessione teorica di alto livello. Era più
portato per l’azione pastorale, e dunque interessato più a tematiche presbiteriali, come suggerisce la sua
opera Sul sacerdozio. Le sue aperture di argomento dottrinale, soprattutto antiariane, sono parte di un
generico atteggiamento polemico (per nulla originale) contro pagani, giudei ed eretici. Si potrebbe dire che
fosse più abile a parlare che a pensare. Era però incontrollabilmente passionale e intransigente, soprattutto
nei confronti dei potenti.

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LETTERATURA MONASTICA
Le prime fonti sul monachesimo cristiano appaiono in Egitto tra fine III e inizio IV secolo; subito dopo si
aggiungono la Siria e la Cappadocia. Forme di monachesimo esistevano già prima, come gli esseni (giudei); il
monachesimo cristiano era caratterizzato da una forte carica contestativa nei confronti del mondo, sentito
come impermeabile a un’autentica vita cristiana. Vari gruppi di cristiani a metà III secolo si rifugiarono nel
deserto e sulle montagne fuggendo dalle persecuzioni. Questi gruppi, dopo Costantino, per dissociarsi da una
Chiesa secolarizzata, rimasero lì per dissociarsi dal mondo. C’erano talora anche motivazioni sociali, come
l’impoverimento e la vessante tassazione di metà III secolo. Ovviamente, comunque, la natura profonda del
fenomeno era strettamente religiosa.
Si è a lungo pensato che i primi monaci egiziani fossero analfabeti, ma in realtà generalmente non fu così: il
loro rifiuto della cultura era dovuto al fatto che quella cultura era sentita ancora come pagana. Ciò non
significa, comunque, che i primi monaci fossero tutti ugualmente acculturati. C’è poi da osservare che
l’esigenza ascetica è un bisogno elitario, dunque gli aderenti appaiono spesso provenire dagli strati medio-
alti delle città. Dal IV secolo la condizione di monaco iniziò a essere abbracciata da alcuni per acquisire un
certo status.
Insediamenti monastici non mancavano neanche nelle città, e il divario geografico tra la città e il deserto non
era così ampio: era un divario soprattutto di mentalità (mondanità vs ascetismo).
Gran parte delle fonti per il monachesimo egiziano è in lingua copta. La letteratura copta fu un prodotto
consapevole di un’élite culturale bilingue, piuttosto che una necessità di persone non ellenizzate: i monaci
greci e copti non erano mondi separati.
Nel IV secolo iniziarono a instaurarsi dei rapporti tra monaci e gerarchie locali, visto anche l’aumento del
prestigio e dell’autorità morale dei monaci (ci fu anche una sorta di turismo monastico). Ad Alessandria,
Atanasio cercò di controllare il fenomeno del monachesimo e indirizzarlo ai suoi fini istituzionali e
dottrinali. Si strinse quindi uno stretto rapporto tra monachesimo ed episcopato alessandrino, ma non
mancarono le rivolte dei monaci, come quella contro Teofilo nel 399: in alcuni casi l’autorità monastica
giunse a minacciare l’incolumità dei vescovi.
Bisogna stare attenti alle fonti, perché le lettere di Antonio sono più affidabili della Vita di Antonio scritta da
Atanasio, e gli Apophthegmata patrum nella loro relazione tarda (V sec.) sono condizionati da problematiche
successive, come la lotta all’origenismo.
Un tempo si pensava che l’origenismo si fosse diffuso tardi tra i monaci, ma ora si ritiene che la dottrina
spirituale di Origene sua stata una delle fonti primarie a cui i monaci si abbeverarono. C’erano poi gruppi
meno acculturati, che avevano abbracciato, per esempio, la visione antropomorfa di Dio (antropomorfiti),
contro la quale lo stesso Origene aveva combattuto.
Per il monachesimo dal IV secolo si parla generalmente di eremitismo e cenobitismo, dove il primo è
connesso ad Antonio e il secondo a Pacomio. In realtà lo stesso Antonio promosse, oltre all’anacoresi pura,
il regime semianacoretico, cioè quello delle laure di monaci isolati in celle non distanti l’una dall’altra, con
momenti comuni e una vita regolata pur senza regola scritta; lo stesso Pacomio veniva dal semianacoretismo.
Tra i principali insediamenti semianacoretici presso il delta del Nilo sono da citare Nitria (fondato da Amun
l’Egiziano verso il 325), Scete (fondato da Macario l’Egiziano verso il 330) e Celle (fondato sempre da Amun
verso il 338 come succursale di Nitria). Nelle fonti tutti e tre i centri sono collegati all’azione di Antonio, che
conosceva i fondatori. Il trasferimento da Nitria a Celle era frequente: ne è testimone Evagrio, a Celle nel 385
dopo due anni in Nitria.
Nell’Alto Egitto fu fondato da Pacomio verso il 320 il monastero di Tabennesi, e poco più a nord, ad Atripe,
il Monastero Bianco di Shenute, che da fine IV a metà V secolo divenne il maggiore centro di diffusione della
letteratura copta.
Per la Siria, consultare la Storia religiosa di Teodoreto di Cirro.
Per la Cappadocia, si tenga presente l’azione di Eustazio di Sebaste e quella di Basilio.

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Per la Palestina, si sottolinea il legame dei monaci con i Luoghi santi e i pellegrinaggi, che diedero al
monachesimo palestinese un carattere cosmopolita, di cui Gerolamo e Rufino sono espressione.

Il monachesimo ebbe i suoi promotori dal punto di vista letterario: una funzione di propaganda la ebbe la
Vita di Antonio scritta da Atanasio, ma anche altri autori, come Gerolamo, cercarono di dare al monachesimo
un’immagine letteraria.
Per rintracciare le forme primitive della letteratura monastica bisogna rivolgere l’attenzione agli aneddoti e
ai detti dei monaci, trasmessi inizialmente per via orale e solo successivamente raccolte per iscritto (vd.
Apophthegmata patrum). È sostanzialmente quello che accadde per Gesù e con altri movimenti di forte
impatto spirituale: si inizia oralmente, e solo poi si inizia a scrivere a riguardo.
Il monachesimo si basava su lavoro manuale, preghiera e attenzione alla Scrittura (letta o ascoltata). Questi
tre elementi dovevano convergere in una concentrazione interiore che serviva a conoscere Dio.
C’era una grande circolazione di epistole, destinate a rafforzare le comunità monastiche e i gruppi di asceti
collegati allo scrivente. In Egitto erano spesso scritte in copto, ma venivano subito tradotte in greco.
Importanti specialmente le Lettere di Antonio, che forniscono un ritratto di Antonio ben diverso da quello
fornitoci da Atanasio; sono 7 lettere che Gerolamo conosceva in una traduzione greca oggi perduta.
Rimangono alcuni frammenti copti, ma potrebbero essere una ritraduzione dal greco. La prima lettera
sembra essere un discorso catechetico, mentre le altre sviluppano temi cristologici e soteriologici con molte
citazioni bibliche, e sono cioè impegnate in una polemica con altre correnti teologiche. La terminologia non
è ancora evagriana, e la spiritualità è chiaramente origeniana. L’insegnamento fondamentale richiama
l’uomo alla necessità di conoscere la sua vera natura, invisibile e immortale, compromessa dal peccato
originale e restaurata dalla morte e risurrezione di Cristo, ma che ognuno deve conoscere individualmente.
Altri riecheggiamenti origeniani fanno pensare che Antonio fosse istruito, ma non è da escludere che
conoscesse la dottrina di Origene per vie traverse.

Pacomio era di famiglia pagana e fu battezzato intorno al 313. Dopo qualche anno di ricerca spirituale,
concepì il progetto di una vita monastica comunitaria rigidamente regolata, che ebbe come centri principali
Tabennesi e Pbou nell’Alto Egitto. Il monachesimo cenobitico era visto con sospetto dalle gerarchie
ecclesiastiche, perché poteva diventare un potere alternativo. Pacomio inoltre si attribuiva il dono di
discernere le disposizioni interiori, carisma sospetto e conflittuale rispetto all’autorità episcopale. Quando
Pacomio era anziano a Latopolis si tenne una riunione in cui i vescovi locali (precedentemente suoi discepoli)
misero sotto accusa la sua attività; la riunione si concluse con un nulla di fatto. Pacomio morì nel 347; gli
succedette Petronio e poi Orsiesi, che scrisse delle Istruzioni ai monaci, tradotte da Gerolamo in latino.
Nelle fonti pacomiane si nota un certo antagonismo con il modello antoniano. Le biografie più fededegne,
già frutto però di rimaneggiamento di fonti anteriori, sono le Vite copte e la Vita prima in greco, che
presentano inserzioni antiorigeniane, anche se non si può davvero provare che Pacomio fosse ostile
all’origenismo. La Regola di Pacomio (probabilmente non molto vicina al testo originale) è stata trasmessa
nella traduzione latina di Gerolamo da un testo greco. Esercitò grande influenza sulle regole successive, come
quella di Benedetto. Di Pacomio rimangono anche 11 lettere tradotte in latino da Gerolamo.

Macario/Simeone ed Evagrio Pontico


Quattro collezioni di omelie greche, raccolte tra X e XI secolo, poste sotto il nome di Macario il Grande
(fondatore di Scete) ma chiaramente non sue, ci riportano ad ambiente siriaco o mesopotamico, nel contesto
dell’ascesi mistica-entustiastica. Questa corrente era detta messaliana (messaliano in siriaco significa “colui
che prega” e corrisponde quindi al greco “euchita”). I Messaliani erano accusati di non essere favorevoli al
lavoro manuale e di dare ruoli di comando alle donne, e le prime condanne nei loro confronti arrivarono dai
concili di Side (388) e Antiochia (390).
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Le omelie non sono di Macario e sono dunque attribuite al nome convenzionale di Macario/Simeone, che
trae spunto dall’attribuzione in una parte dei manoscritti a un certo Simeone, forse un capo messaliano
mesopotamico.
Nelle quattro raccolte di omelie non risultano i tratti estremisti condannati dai messaliani e si constata invece
un’atmosfera spirituale compatibile con le loro aspirazioni: bisogna distruggere il male nella propria lotta
interiore, e occorre purificarsi attraverso la grazia divina e il dono dello Spirito. Più che omelie sono
esortazioni spirituali nel solco della tradizione dell'anziano a colloquio coi discepoli; sostanzialmente è il
genere delle quaestiones et responsiones dell’Ascetico basiliano.

Evagrio Pontico attinge alla spiritualità del deserto egiziano e vi unisce un’attitudine filosofica.
L’insegnamento di Evagrio è nel deserto e aspira a una totale plasmazione della vita interiore del discepolo.
Evagrio nacque a Ibora nel Ponto, figlio di un corepiscopo (vescovo di campagna), intorno al 350, non lontano
da Annisa, dove si trovavano i latifondi della famiglia di Basilio. Entrò quindi nel raggio di influenza dei
Cappadoci, e Basilio lo consacrò lettore. Nel 379, forse dopo la morte di Basilio, si recò a Costantinopoli, con
una buona formazione retorica e filosofica.
Nel 381 indirizza ai compaesani la Lettera sulla fede (la n. 8 dell’epistolario di Basilio), unico suo scritto
databile sicuramente al periodo premonastico. Dice di apprezzare molto Gregorio Nazianzeno e tratta di
questioni teologiche, dimostrando di aver acquisito la dottrina dei Cappadoci.
Dopo la partenza di Gregorio Nazianzeno in seguito al concilio di Costantinopoli, Evagrio rimase presso il
vescovo Nettario, ma una questione amorosa lo trascinò a Gerusalemme, dove fu accolto da Melania seniore
e da Rufino, e dove poi si fece monaco. Si recò quindi in Egitto, dimorando due anni in Nitria e poi a Celle fino
alla morte (399); poco prima aveva rifiutato la carica di vescovo offertagli da Teofilo di Alessandria.
Conosceva le dottrine di Origene e di Clemente Alessandrino e il dibattito trinitario di IV secolo. In seguito
alla sua condanna per origenismo comminata da Giustiniano nel 553, le opere vennero disperse: una parte
degli scritti è sopravvissuta in greco, un’altra parte sempre in greco va sotto il nome di Nilo di Ancira, una
parte si è salvata in siriaco e armeno, e ci sono state anche delle scoperte recenti.
Tipico di Evagrio è il genere letterario dei “capitoli” o “sentenze” (gr. κεφαλαία): divisione in capitoli, di solito
di dimensione contenuta, il cui numero complessivo ha un significato simbolico. È possibile che sia stato
proprio Evagrio il primo a introdurre i capitoli nella letteratura cristiana a partire da quella filosofica,
specialmente stoica: si pensi al Manuale di Epitteto o ai Pensieri di Marco Aurelio.
Al centro della spiritualità evagriana si situa l’aspirazione alla vera gnosi (cristiana). Sono fondamentali
l’adorazione nella preghiera e l’investigazione intellettuale. Per arrivare alla gnosi propone un’esistenza
spirituale che si muova con l’accordo di vita pratica (=esercizio delle virtù) e vita teoretica/gnostica. A questo
tema Evagrio ha dedicato una sorta di trilogia:
1) Pratico: diviso in 100 capitoletti, è dedicato al raggiungimento della prima tappa dell’esistenza
spirituale, l’ἀπάθεια da parte dell’anacoreta.
2) Gnostico: raggiunta l’ἀπάθεια, l’anacoreta attraverso la carità potrà giungere alla gnosi e diventare
a sua volta maestro di vita spirituale. Il Pratico e lo Gnostico insieme formano il Monaco.
3) Capitoli gnostici: cosmologia che rivisita I principi di Origene; tono esoterico e speculativo. Opera
molto criticata.
Ne La preghiera, in 153 capitoli, Evagrio confida di conseguire nella preghiera un’intima unione con Dio, il
che è suprema elevazione dell’intelletto.
Ai fondamenti della vita monastica sono dedicati: Le ragioni della vita monastica, sui requisiti del monaco; il
Trattato a Eulogio, sulla perfezione monastica; le Sentenze ai monaci; l’Esortazione a una vergine, con consigli
pratici.
Sulla vita pratica, si ricordino: il trattato Sugli otto spiriti del male; l’Antirrheticus, nel quale a ciascuno degli
otto vizi è opposto un metodo di difesa; il trattato Sui diversi pensieri cattivi, un’analisi approfondita dei
pensieri attraverso i quali i demoni combattono gli uomini.
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Per quanto riguarda l’esegesi, come Origene usava gli scolii: Scolii sui Proverbi e sull’Ecclesiaste, Scolii sui
Salmi. Si interessava soprattutto ai libri sapienziali perché più coerenti con la sua dottrina.

La tradizione letteraria monastica continuò fino al VII secolo con Giovanni Climaco e Massimo il Confessore.

Storie di monaci
Il desiderio di diffondere la spiritualità monastica e di celebrarne i suoi più degni rappresentanti portò alla
stesura di opere biografiche, il cui modello era la Vita di Antonio atanasiana.
La Historia monachroum in Aegypto è la relazione in greco di un viaggio compiuto (inverno 394-395) da un
gruppo di monaci palestinesi presso i monaci del deserto egiziano. Rufino la tradusse in latino. Vi sono
somiglianze con la Storia Lausiaca di Palladio.
Dal milieu della spiritualità evagriana viene l’opera più utile per consocere il monachesimo egiziano, è la
Storia Lausiaca di Palladio di Ellenopoli.
Nato in Galazia nel 363, Palladio ebbe istruzione classica. Intorno ai vent’anni iniziò la sua ricerca ascetica,
recandosi in Palestina nella laura di Duca presso Gerico, e poi per tre anni sul monte degli Ulivi presso un
monaco di nome Innocenzo. Qui conobbe Melania seniore e Rufino, che lo indirizzarono in Egitto.
Inizialmente cercò vicino ad Alessandria, dove fu affidato all’austerissimo monaco Doroteo il Tebano, il cui
regime di vita gli rovinò la salute; si spostò quindi in Nitria e poi a Celle intorno al 390 – anche Evagrio arrivò
a Celle in quegli anni, e divenne maestro di Palladio. Nel 399, morto Evagrio, Palladio per problemi di salute
tornò in Palestina. Nel 400 divenne vescovo di Ellenopoli in Bitinia. Seconda parte della sua vita:
coinvolgimento nelle disgrazie del Crisostomo. Palladio fu mandato da quest’ultimo in delegazione a Efeso
per esaminare le accuse contro il locale vescovo Antonino, e restò a fianco di Giovanni in tutte le dolorose
vicende successive, fino all’esilio del vescovo di Costantinopoli. Nel 405 Palladio andò a Roma per difendere
Giovanni di fronte a Innocenzo I. Tornato a Costantinopoli, fu arrestato ed esiliato nella Tebaide, rientrando
così negli ambienti monastici da cui era partito. Tornò in Galazia nel 413 e vi morì entro il 431 come vescovo
di Aspuna.

Le due opere sicuramente palladiane a noi giunte, la Storia Lausiaca e il Dialogo sulla vita di Giovanni
Crisostomo, testimoniano le due fasi della vita di Palladio (monastica e vescovile-travagliata).

La Storia Lausiaca fu composta tra 419 e 420, nell’ultima parte della sua vita, quando era vescovo di Aspuna.
I frammenti della versione copta ne testimoniano la forma primitiva e la complessità del suo processo
compositivo. L’opera prende nome dal ciambellano di Teodosio II, Lauso, cui è dedicata: Palladio volle
presentare a Lauso, “come rimedio contro l’oblio e come guida a un progresso spirituale”, l’itinerario
spirituale di incontri con santi uomini e donne già percorso da Palladio. Molti gli aneddoti edificanti relativi
ai molti luoghi visitati da Palladio, ma è evidente che sono Nitria e Celle i luoghi principali per l’autore.
Palladio è un maestro del racconto breve, condotto con stile rapido proprio del parlato, di facile presa, con
un gusto particolare per l’ἀπροσδόκητον finale. I moduli della Vita di Antonio già divenuti topici (exempla,
tentazioni demoniache, miracoli di guarigione)… sono qui frazionati e adattati ai diversi temperamenti degli
asceti. Ma nell’opera non ci sono solo edificazione e santità raggiunta, ma anche la santità mancata o
perduta: storie di caduta da parte di asceti, o storie di piccoli dispetti a volte sfociati in tragedia.
Due figure sono rilevanti nell’opera: il maestro Evagrio, cui è dedicata una notizia che è una sua piccola
biografia, e Melania seniore, che a un certo punto era stata guida per lo stesso Evagrio. Del primo non ci sono
tracce della sua spiritualità speculativa, segno che Palladio vuole mantenere un tono medio e aperto a tutti:
i temi spirituali di Evagrio sono ridotti all’essenziale. Di Melania vengono riportati alcuni ricordi.
La fortuna della Storia Lausiaca fu straordinaria, e per questo presenta una complessa tradizione manoscritta
e tre recensioni.
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Il Dialogo sulla vita di Giovanni Crisostomo è precedente, risale al 407/8 e fu scrisse durante all’esilio a Siene
in Tebaide. È composta con stile alto e tragico e con un ritmo incalzante. Si tratta di un dialogo tra un vescovo
orientale, che si dichiara testimone oculare degli eventi e che è un alter ego dell’autore, e il diacono romano
Teodoro, incaricato di mostrare il punto di vista di Innocenzo I. La forma dialogica certo favorisce la
drammatizzazione, ma soprattutto, su modello platonico, per concatenare gli argomenti. Lo scopo perseguito
è l’apologia di Giovanni Crisostomo, mediante lo smascheramento delle trame degli avversari (descritti come
dei congiurati e come uomini malvagi) e la confutazione delle accuse. Descrive anche gli ultimi istanti di vita
del Crisostomo.
Si attribuisce a Palladio anche un trattatello, Sulle genti dell’India e i Brahmani. Suddiviso in due parti, di cui
la seconda riprende Arriano, incentra l’interesse sui Brahmani, il cui stile di vita è vicino a quello dei monaci.

Ambrogio di Milano
Nel 374 morì Aussenzio, vescovo di Milano, filoariano. Aderì alla formula di Rimini (359) forse per celare un
pensiero molto più radicale, e dal 361 ebbe vari problemi con la reazione antiariana. Valentiniano I salì al
trono nel 364 e inaugurò una politica di non intervento nella controversia, e così a Milano (come ovunque)
la controversia antiariana si placò e Aussenzio rimase dov’era, anche se i fedeli milanesi erano principalmente
niceni. È ovvio però che c’erano problemi a trovare un successore per Aussenzio. Lo si trovò nel circa 35enne
Ambrogio, allora governatore dell’Italia annonaria (cioè dell’Italia settentrionale), che ottenne una consacra-
zione vescovile irregolare (374): nel giro di pochi giorni fu battezzato e percorse tutto l’iter gerarchico an-
dando contro molti canoni, fino a diventare vescovo. Fu scelto lui perché molto autorevole (e quindi anche
legato all’imperatore) e super partes.
Ambrogio era di fede nicena, come tutta la sua famiglia, ma all’inizio dell’episcopato fu molto cauto, forse
perché circondato da ecclesiastici ariani, o forse perché Valentiniano preferiva che lui rimanesse super par-
tes. Meno di un anno dopo la consacrazione di Ambrogio, Valentiniano morì (375), e suo figlio Graziano lasciò
Ambrogio più libero – anche se ormai possiamo negare con una certa sicurezza la provenienza ambrosiana
delle politiche cristiane attuate da Graziano. Non riuscì mai a comprendere appieno le problematiche dottri-
nali in corso in oriente.
Quando fu fatto vescovo, non aveva cultura religiosa, ma conosceva bene il greco e quindi lesse vari autori
tra cui, a quanto pare, Filone, Origene e Plotino. Per aggiornarsi sulle questioni dottrinali, lesse Basilio e Di-
dimo il Cieco. Iniziò poi a predicare e a scrivere, riuscendoci bene in ambito morale, ma molto meno in ambito
dottrinale ed esegetico: quando doveva trattare un tema dottrinale, usava un’apposita fonte.
Tra 378 e 380 dettò il De fide (5 libri), per replicare alle accuse che Palladio di Ratiaria aveva avanzato tac-
ciando di eresia la sua fede nicena. Inizialmente Ambrogio scrisse solo i primi due libri, e solo dopo la replica
di Palladio scrisse gli altri tre.
Al 381 risale il De Spiritu Sancto (3 libri), su un tema caldo in oriente – in occidente Ilario se ne era occupato
poco, e Mario Vittorino era quasi sconosciuto.
Ambrogio poi si fece sentire in merito alla questione apollinarista, argomento poco noto in occidente, col De
incarnationis dominicae sacramento, che fu tradotta in greco ed ebbe grande successo.
Trasferì in latino e adattò (con formule tertullianee) la formula trinitaria basiliana che asseriva un’ousia divina
articolata in tre ipostasi distinte ed equipollenti per dignità e grado.
Nella sua predicazione si occupò anche di esegesi: raccolse varie sue omelie esegetiche rielaborandole per
pubblicarle, senza cancellarne la destinazione originaria. È il primo esegeta in lingua latina che attesti
l’usanza, praticata in oriente già dai tempi di Origene, di predicare serie organiche di omelie in tempi ravvici-
nati.
All’interpretazione del NT è dedicata solo un’opera ma lunga, le Expositiones in Lucam (10 libri). Molte invece
le interpretazioni dei testi dell’AT, in tanti brevi scritti: Hexaemeron, De paradiso, De Abraham, De patriar-
chis… ce ne sono due sui Salmi e alcuni su temi particolari, come il De Helia et ieiunio. In parecchie di queste
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opere (soprattutto nelle più tarde) l’interesse esegetico soccombe a quello morale, ed è qui che Ambrogio sa
muoversi con naturalezza e originalità; in ambito esegetico si attiene sempre a qualche fonte greca, general-
mente Filone e Origene, ma talvolta anche Basilio (Hexaemeron) e Ippolito (De patriarchis). La linea interpre-
tativa, come tipico in occidente, è la lettura spirituale allegorizzante, e infatti preferiva Filone e Origene.
Laddove la fonte era Filone, e quindi una fonte ebraica, l’ha arricchita con elementi cristologici: Isacco sim-
bolo di Cristo, Rebecca simbolo della Chiesa. L’influsso origeniano lo si vede soprattutto nella spiegazione dei
Salmi e nel modulo interpretativo a tre livelli: interpretazione letterale-spirituale (mystica)-morale, che si
trova anche nelle Expositiones in Lucam.
Lo scritto morale più noto di Ambrogio, il De officiis ministrorum (3 libri, 390 ca.) aderisce a una fonte latina,
cioè il De officiis di Cicerone: stesso titolo, stesso numero di libri, stessa impostazione e in generale una chiara
imitazione. L’opera voleva essere un manuale a uso soprattutto dei chierici (ma non solo), quindi ovviamente
doveva essere cristianizzata rispetto all’opera ciceroniana, e questo non fu difficile grazie al carattere stoico
dell’argomentazione ciceroniana sull’utile e sull’onesto, facilmente trasferibile in ambito cristiano.
L’interesse ascetico di Ambrogio è relativo soprattutto al tema della verginità: già a inizio episcopato scrisse
il De virginibus in tre libri, per la sorella Marcellina, che si era consacrata alla vita ascetica. Fonte, oltre al De
habitu virginum di Cipriano, è forse anche la Lettera alle vergini di Atanasio. L’opera attesta la diffusione in
occidente degli ideali ascetici orientali, ma anche l’ostilità che l’ascetismo incontrava tra i cristiani e i pagani,
in quanto incompatibile con la paideia classica. Subito dopo, infatti, Ambrogio pubblicò il De virginitate, per
rispondere alle obiezioni sollevate contro il De virginibus. Tornò poi sull’argomento con il De institutione vir-
ginis (391) e l’Exhortatio virginitatis (393). Un tema connesso è quello della vedovanza: nel De viduis (378 ca.)
consiglia a vedovi e vedove di non risposarsi. In queste opere ascetiche, il tono di Ambrogio è moderato, cioè
non denigra la vita coniugale, contrariamente ad esempio a Tertulliano e Gerolamo.
In ambito disciplinare e sacramentale va ricordato il De paenitentia (385 ca.), in due libri, in cui Ambrogio
polemizza con i novaziani, ritenendo che la Chiesa poteva rimettere ogni peccato ai penitenti.
Sul battesimo ed eucaristia scrisse un’Explanatio symboli ad initiandos e anche un oggi frammentario De
sacramento regenerationis sive de philosophia. Ma sono fondamentali altre due opere, rielaborazioni di ome-
lie, sul medesimo argomento (spiegazione in chiave scritturistica del battesimo e dell’eucaristia): il De myste-
riis e il De sacramentis.
Orazioni funebri: due risalgono ai primi anni dell’episcopato e sono composte per la morte del fratello Satiro
(In excessu Satyri): la prima fu pronunciata il giorno del funerale, la seconda sette giorni dopo. Sono evidenti
le riprese dell’eloquenza encomiastica e consolatoria; i due discorsi sono anche sostanzialmente dei brevi
trattati sulla risurrezione. Accenti commossi che ritroviamo anche nelle due orazioni ufficiali pronunciate per
la morte di Valentiniano II (392) e di Teodosio (395) (De obitu Valentiniani, De obitu Theodosii).
Tra 385 e 386 gli ariani, spalleggiati dall’imperatrice Giustina (moglie di Valentiniano I e madre di Valentiniano
II, ma non di Graziano), fecero a Milano vari tentativi per ottenere un edificio di culto ariano: Ambrogio si
oppose con forza, fino a rinchiudersi in chiesa con i fedeli per non far entrare i soldati, e alla fine ebbe la
meglio. In tale contesto scrisse il Sermo contra Auxentinum de basilicis tradendis (Aussenzio non è quell’Aus-
senzio ma un omonimo, che gli ariani volevano al posto di Ambrogio).
Avendo avuto formazione classica pubblicò le sue lettere, soprattutto ufficiali ma anche dedicate a temi dot-
trinali o esegetici, tutte redatte in stile elaborato e talvolta un po’ oscuro. Nella 18esima, Ambrogio risponde
alla richiesta, avanzata nel 382 da Simmaco, affinché Graziano ristabilisse nella curia l’altare della Vittoria
rimosso. Simmaco sosteneva che ogni religione poteva condurre alla divinità e considerava il culto pagano
come un atto di lealtà verso il passato di Roma: Ambrogio nella lettera gli risponde non ripiegandosi sul pas-
sato ma guardando al futuro e alla perfezione finale.
Al canto di composizioni tratte dalla Scrittura ne affiancò altre composte ex novo, gli Hymni – così aveva già
fatto Ilario, senza successo. Preparò testi ben diversi da quelli di costui, sia per contenuto sia per forma, e
come occasione per lanciare gli inni usò un momento suggestivo, cioè quando si trovava rinchiuso in chiesa
con i fedeli mentre i soldati presidiavano minacciosi le porte. L’iniziativa ebbe un successo clamoroso, e subito

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fiorirono molte altre poesie a imitazione degli Hymni, non solo a Milano. Proprio nei giorni del lancio dell’ini-
ziativa risiedeva a Milano Agostino, che garantisce l’autenticità di quattro inni: Aeterne rerum conditor, Iam
surgit hora tertia, Deus creator omnium, Veni redemptor gentium. Autentico va considerato anche il Grates
tibi, Iesu, novas, che celebra il ritrovamento casuale dei corpi dei martiri milanesi Gervasio e Protasio, ritro-
vamento avvenuto nel periodo di maggior scontro con gli ariani e per questo ampiamente sfruttato da Am-
brogio (o almeno di questo lo accusarono alcuni). Altri inni sembrerebbero essere di Ambrogio: Splendor
paternae gloriae, Aeterna Christi munera e altri. Il metro è il dimetro giambico in strofe tetrastiche; le strofe
sono generalmente otto. Sono inni destinati alla liturgia, alla preghiera, alle festività religiose, all’onore di
martiri e santi. L’elemento dottrinale è introdotto con discrezione e comunque limitato e noto a tutti: unità
e trinità di Dio, divinità e umanità di Cristo.
Gerolamo, che non amava Ambrogio, definì il suo stile molle nitidum flaccidum atque formosum, definizione
che può essere considerata vera quando è palese che Ambrogio vuole imitare Cicerone.
Insieme con Cipriano, fu il modello del vescovo nella chiesa di lingua latina. Gli fu coevo papa Damaso, un
deciso assertore del primato del vescovo di Roma, che però era quasi secondario di fronte all’autorevolezza
del vescovo milanese.
Era indipendente dal potere imperiale (l’imperatore è nella Chiesa, non al di sopra di essa, quindi no modello
eusebiano). Ambrogio avrebbe voluto una stretta collaborazione tra impero e Chiesa, ma la figura dell’impe-
ratore in occidente era ormai in parte deteriorata e le successive invasioni barbariche non permisero l’attua-
zione del progetto.

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L’OCCIDENTE TRA IV E V SECOLO
Con la crisi del III secolo, in occidente il livello culturale era sceso di molto in confronto al secolo precedente,
e ne soffrì in modo particolare la conoscenza del greco. La scuola non era più bilingue e il greco non era più
visto come indispensabile per la formazione di un bagaglio culturale medio.
Nel IV secolo si intensificarono i rapporti tra oriente e occidente, ma in senso unidirezionale: erano gli occi-
dentali a recarsi spesso in oriente per pellegrinaggi nei luoghi santi e presso i monaci. È in questo modo che
i cristiani di lingua latina potevano entrare in contatto con la cultura cristiana di lingua greca, e si accorgevano
che le lettere in occidente erano rimaste indietro rispetto all’oriente. Inoltre, gli ideali ascetici imponevano
sempre più una riflessione teorica, ma un Origene latino mancava, e anche la storiografia in occidente neces-
sitava di un suo Eusebio.
Alcuni in occidente conoscevano ancora il greco e non avevano difficoltà ad attingere alle fonti, ma man
mano anche persone di estrazione elevata non sapevano più il greco. C’era quindi una forte esigenza di tra-
duzioni dal greco al latino. Già ai primordi del cristianesimo queste traduzioni erano necessarie, ma destinate
agli incolti, e relative soprattutto i libri della Scrittura e altri testi in bilico tra canone e non-canone. Ma questa
più antica letteratura travasata dal greco in latino era obsoleta, perché la modesta qualità formale la rendeva
poco accetta al cristiano colto di lingua latina: si iniziò dunque a comporre parafrasi. E poi serviva tradurre
anche molto altro, non solo testi biblici: nel IV secolo chi cercava una guida spirituale poteva trovarla in Ori-
gene, accessibile soltanto in greco. A fine IV secolo si iniziò dunque a tradurre dal greco Origene e poi Eusebio,
ma anche scritti su tematiche calde come la Vita di Antonio di Atanasio e vari scritti monastici. In questa
attività di traduzione si distinsero soprattutto Gerolamo e Rufino.

Rufino
Nato a Concordia (vicino ad Aquileia) intorno al 345, studiò qui e poi a Roma. Tornato ad Aquileia, fu battez-
zato e fece parte, insieme a Gerolamo, Cromazio e altri, di un gruppo ascetico che finì in lite, per cui verso il
373 Rufino partì per l’oriente. Restò per un po’ in Egitto con Didimo e frequentò monaci del deserto, e nel
390 fondò un monastero maschile a Gerusalemme, mentre l’amica Melania seniore ne fondò uno femminile.
La propaganda antiorigeniana di Epifanio, cui si associò Gerolamo che era monaco a Betlemme, incontrò
l’ostilità di Rufino e di Giovanni di Gerusalemme, il che incrinò ulteriormente i rapporti con Gerolamo. Nel
397 Rufino tornò a Roma per due anni, dove la sua traduzione de I principi di Origene riaccese la polemica
col lontano Gerolamo. Nel 399 tornò ad Aquileia, traducendo e sopportando le invettive di Gerolamo. Qual-
che anno dopo, per sfuggire all’invasione dei Goti, si trasferì vicino a Roma e poi in Sicilia, dove morì intorno
al 411.
Rufino cercò di far conoscere l’origenismo a Roma traducendo il libro I dell’Apologia di Panfilo per Origene, cui
aggiunse in appendice il suo breve De adulteratione librorum Origenis, in cui difendeva Origene da alcune
accuse mosse a I principi.
Subito dopo, Rufino tradusse I principi, accomodando la traduzione in vari punti. Origene infatti esprimeva la
trinità in modo subordinante, cosa ben compatibile con l’ortodossia di III secolo ma non con quella della fine
del IV, e proponeva le contestate dottrine della preesistenza e dell’apocatastasi che Rufino censurò parzial-
mente. Nella prefazione Rufino giustifica il suo modo di tradurre adducendo l’esempio di Gerolamo che pochi
anni prima, ancora molto origeniano, traducendo in latino le omelie di Origene su Isaia aveva eliminato alcuni
passi dottrinalmente pericolosi. Gerolamo reagì con due lettere: una pubblica per gli amici di Roma, cui alle-
gava una propria traduzione de I principi e in cui attaccava Rufino come eretico, l’altra privata e aperta alla
conciliazione. Questa seconda però non arrivò mai a Rufino perché se ne impossessò Pammachio, il leader
del circolo filogeronimiano a Roma.
Rufino dunque conobbe solo la lettera pubblica, cui rispose con uno scritto in due libri (400-402), l’Apologia,
in cui più che difendersi attacca Gerolamo dimostrando che l’origenismo dell’avversario era stato, prima del
voltafaccia, molto più impegnato e totalizzante di quello attuale, e critica la facilità con cui Gerolamo sparla
di tutti. Attacca inoltre la sua traduzione della Bibbia dall’ebraico, sostenendo che vanificava l’insegnamento
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tradizionale della Chiesa e forniva materia alle accuse dei pagani, gettando un’ombra di inautenticità e de-
classando la Settanta.
Poco prima, nel 400, Rufino aveva indirizzato una brevissima Apologia a papa Anastasio, in cui declinava in
quanto traduttore la responsabilità di eventuali errori contenuti negli scritti di Origene.
Intorno al 404 compose un’Expositio symboli, cioè una spiegazione del Simbolo che ogni catecumeno, a co-
ronamento dell’istruzione ricevuta, era tenuto a recitare pubblicamente prima dell’immersione nella vasca
battesimale. La spiegazione, ispirata alle Catechesi di Cirillo di Gerusalemme e un po’ al Discorso catechetico
di Gregorio di Nissa, e aggiornata relativamente alla dottrina, è di scrittura semplice e piana, quindi ebbe
grande diffusione e fu molto imitata.
Intorno al 409, Paolino di Nola gli chiese la spiegazione di un passo messianico nel cap. 49 della Genesi: Rufino
in due riprese dettò il De benedictionibus patriarcharum in due libri, proponendo l’interpretazione dell’intero
testo della morte di Giacobbe e delle sue ultime parole ai figli. L’esegesi è di tipo origeniano, nella sovrappo-
sizione di tre livelli interpretativi (letterale, spirituale e morale; nel secondo si configura nel testo biblico una
prefigurazione di Cristo e della Chiesa).
Di Origene tradusse anche le omelie su molti libri dell’AT e i commentari al Cantico e a Romani. Tradusse anche
l’Historia ecclesiastica di Eusebio, un po’ ridotta, e la continuò in due libri dal 324 al 395. Insieme a Melania
seniore fu guida di Evagrio Pontico, e ne tradusse due serie di sentenze, Ai monaci e Alle vergini. Tradusse i 10
libri delle Recognitiones dello pseudo-Clemente, omelie del Nazianzeno e di Basilio, il Piccolo ascetico.
Secondo Gerolamo (epistola 57), la traduzione di Rufino è libera e mira a rendere i concetti piuttosto che i
termini dell’originale, ed è attenta all’ornatus. Inoltre, là dove il testo greco è considerato difficile per il let-
tore latino, Rufino taglia.
Quasi tutti gli scritti rufiniani sono stati redatti su invito di persone amiche, come Cromazio e Paolino: ciò
dimostra che l’offensiva di Gerolamo contro di lui non ebbe molto successo, dato che il suo pessimo carattere
era noto a tutti. Successivamente, soprattutto dal Rinascimento, il grande prestigio di cui godette Gerolamo
oscurò Rufino, come appare chiaro leggendo la bibliografia precedente al 1920. Solo da questa data si è ini-
ziato a esaminare il rapporto tra i due senza preconcetti.

Gerolamo
Insieme a Origene fu lo scrittore cristiano che con più consapevolezza critica si pose problemi specifici di
indole filologica, cui aggiunse anche una riflessione letteraria: riteneva cioè che con il rigore “scientifico” nel
campo delle lettere cristiane si potesse incrementare la fede.
Nacque a Stridone, tra Dalmazia e Pannonia, intorno al 347, da una famiglia non ricca ma che gli permise di
istruirlo adeguatamente alle aspirazione di provinciale intraprendente. A Roma studiò con il grammatico Elio
Donato e rimase per sempre appassionato di Virgilio e Cicerone: per assimilare i classici, in mancanza di soldi,
si abituò a trascriverli da solo, e così fece anche per gli autori cristiani. Battezzato verso il 367/368, andò da
Roma a Treviri, forse per cercare impiego in una città così importante (era sede imperiale). Lì si accostò
all’ascetismo: nel 373 andò ad Aquileia e provò un’esperienza monastica con i compaesani Bonoso, Rufino
ed Eliodoro, suoi compagni a Roma, insieme al presbitero Cromazio e sotto la direzione del vescovo
Valeriano. Qualcosa andò storto e il gruppo si sciolse: Gerolamo partì per l’oriente come fece Rufino (che
però si diresse in Egitto). Nel 374 era ad Antiochia, dal 375 al 377 condusse via anacoretica nel deserto di
Calcide, poi di nuovo ad Antiochia. Migliorò l’apprendimento del greco e iniziò a studiare l’ebraico sotto la
guida di un giudeo convertito. Nell’epistola 22 a Eustochio descriverà i dissidi tra aspirazioni ascetiche e
amore per le lettere profane. Con Gregorio Nazianzeno Gerolamo approfondì la conoscenza di Origene. Nel
382 andò a Roma dove conobbe papa Damaso e ne divenne collaboratore; in quel contesto iniziò a pensare
a una revisione della traduzione latina dei Vangeli e del Salterio: la corrispondenza col papa sembra fittizia,
forse opera dello stesso Gerolamo, ma è possibile che Damaso incoraggiasse effettivamente il progetto.
Damaso si era sempre molto appoggiato alle nobili dame benefattrici della Chiesa: Gerolamo divenne guida

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di alcuni circoli ascetici femminili: le più devote furono la nobile Paola con la figlia Eustochio; la più vivace
intellettualmente fu Marcella. Nel 385 morì Damaso e Gerolamo pensò di succedergli, ma invece fu eletto
Siricio, anche perché giravano voci e sospetti sulle amicizie tra Gerolamo e le donne della sua comunità.
Ruppe allora con Roma e partì per l’oriente; poco dopo lo seguirono Paola ed Eustochio. Ritrovatisi,
pellegrinarono in Palestina ed Egitto, dove Gerolamo ascoltò Didimo il Cieco, e poi si fermarono a Betlemme
(386). Per i successivi trent’anni Gerolamo non si muoverà più. Intorno a lui fioriranno iniziative benefiche e
monasteri, grazie alle elargizioni di Paola. Favorito dalla vicinanza con la biblioteca di Cesarea si dedicherà
alle maggiori imprese letterarie, tra cui la traduzione della Bibbia dall’ebraico, e continuò varie polemiche,
tra cui quella su Origene, che portò alla rottura con Rufino. L’occasione della polemica origeniana nacque su
iniziativa di Epifanio (393) di muovere contro “l’eretico” Origene. Mentre Rufino e Melania seniore, stabilitisi
sul monte degli Ulivi con Giovanni di Gerusalemme, respinsero l’iniziativa, Gerolamo la accolse,
probabilmente temendo che qualcuno potesse accusarlo di eresia. Nel 397 si riconciliò con Rufino e Giovanni
per mediazione di Teofilo di Alessandria, non ancora antiorigenista, ma il conflitto riesplose nel 398 quando
Rufino dichiarò di rifarsi a Gerolamo per la traduzione de I principi e quando Gerolamo appoggiò Teofilo di
Alessandria che divenne antiorigeniano. Neanche la morte di Rufino (411) fece smettere Gerolamo di
accusare l’ex amico. Il sacco di Roma del 410 provocò molta angoscia in Gerolamo; nel 414 Giovanni di
Gerusalemme diede ricovero a Pelagio e nacque una nuova fase polemica in cui alcuni monasteri di Gerolamo
furono attaccati da filopelagiani. Morì nel 419.

Gerolamo affrontò molti generi letterari, ma divenne fondamentale – e non solo per la cristianità latina – per
la Vulgata, cioè la traduzione dell’AT dall’ebraico in latino e revisione sul greco della traduzione latina del NT
(che quindi non fu tradotto ex novo). L’impresa iniziò nel 382 a Roma, con la revisione della traduzione latina
dei Vangeli e del Salterio, e continuò in oriente con la traduzione dell’AT dall’ebraico.
Prima fase (382-384): iniziativa romana, che Gerolamo dice voluta da Damaso. Revisione della traduzione
latina dei Vangeli sulla base del testo greco, necessaria per il moltiplicarsi di alterazioni praticamente in ogni
manoscritto. Non sappiamo quale versione greca usasse, comunque corresse il latino solo dove necessario.
Gli altri testi del NT (Atti, Lettere, Apocalisse) non furono rivisti da Gerolamo ma forse dal suo allievo Rufino
il Siro (omonimo dell’altro, Rufino di Concordia). In questa prima fase revisionò anche il Salterio, ma questa
revisione del Salterio è scomparsa perché sostituita da una successiva condotta da Gerolamo sugli Hexapla
origeniani. Già a Roma, comunque, come si ricava soprattutto dalle lettere a Marcella, era abituato a
confrontare il testo dei Settanta con l’ebraico e con le altre versioni greche.
Seconda fase (387-392): a Betlemme, Gerolamo usa gli Hexapla origeniani per tradurre l’AT dal greco:
completa Giobbe, Proverbi, Cantico, Ecclesiaste e il Salterio (detto Gallicano perché adottato nella Gallia
carolingia e rimasto in uso quasi universalmente fino a Pio XII). Nel frattempo, Gerolamo concepisce l’idea di
tradurre direttamente dall’ebraico.
Terza fase: hebraica veritas. Origene aveva dato, proprio con gli Hexapla, la massima importanza alle varianti
testuali e alla ricostruzione del testo sacro. Ma le varianti proposte dalle varie traduzioni erano da lui studiate
in funzione della Settanta, e riteneva che tutte le varianti fossero divinamente ispirate perché lo Spirito voleva
comunicare più cose in uno stesso testo (e nelle varianti di una singola parola). Origene era diffidente nei
confronti di un testo ebraico che riteneva fosse stato manomesso in funzione anticristiana. Se pure, dunque,
Origene aveva aperto la strada alla revisione critica del testo biblico, la posizione di Gerolamo è comunque
rivoluzionaria rispetto al suo “predecessore”, perché mette al primo posto il testo ebraico, il quale secondo
lui va sottratto alle manomissioni giudaiche, e solo al secondo posto la Settanta, che non è il testo autentico,
anche se a parole ne preservò sempre l’aura di venerabilità.
Oggi gli studiosi rivalutano il testo della Settanta, in quanto traduzione di un originale ebraico più antico
rispetto al testo ebraico usato da Gerolamo. L’intenzione di Gerolamo non fu apprezzata dai contemporanei,
specialmente da Rufino e Agostino. Il secondo, in particolare, nella prima lettera a Gerolamo (394/395;
epistola 28), dimostra una scarsa competenza filologica e sostiene che è assurdo voler migliorare con una
traduzione nuova un testo scritto da settanta saggi (nel II libro del De doctrina christiana, molti anni dopo,
sarà più cauto). In una lettera posteriore, la 71, Agostino accampa come motivo di ripulsa la divisione che si

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verrebbe a creare fra chiese di lingua latina e chiese greche se si cominciasse a leggere nella liturgia latina la
nuova versione
Studi recenti sembrano dimostrare che Gerolamo non fosse così abile nell’ebraico.
Le traduzioni dall’ebraico furono composte in ordine sparso: nel 393 Giobbe, nel 394 Samuele, Re, Esdra, nel
396 i Paralipomeni, nel 398 i libri salomonici. Gli ultimi furono i deuterocanonici Ester (per la parte greca),
Tobia e Giuditta, nel 405. La posizione di Gerolamo sui deuterocanonici (i libri canonici per i cristiani ma non
per gli ebrei) è conseguente all’adozione dell’hebraica veritas: non appartenendo al canone ebraico, ma solo
a quello alessandrino, possono essere letti solo come libri edificanti. Tradusse solo alcuni deuterocanonici.
L’hebraica veritas condusse Gerolamo a una concezione personale dell’esegesi biblica. A Betlemme iniziò a
occuparsi dell’esegesi di Paolo, che era già stato commentato a Roma da Mario Vittorino e dall’Ambrosiaster.
Intorno al 386 scrisse i commenti a Filemone, Galati, Efesini, Tito. Si nota una forte influenza di Origene.
Del 389 è il Commentarius in Ecclesiasten, scritto come proseguimento delle lezioni tenute a Roma a Blesilla,
altra figlia di Paola, morta cinque anni prima forse per eccessiva pratica ascetica. Anche qui è forte l’influsso
di Origene, forse mediato da un utilizzo di Didimo il Cieco.
Tutto questo influsso origeniano non porta però all’allegoresi estrema, perché Gerolamo sa bilanciare
l’allegoresi con un’accurata analisi filologica, basata non solo sugli Hexapla ma anche sulle lezioni del maestro
giudeo con cui studiava l’ebraico.
Nel 391, mentre stava traducendo l’AT dal greco e maturava l’idea di tradurre l’AT dall’ebraico, cominciò a
scrivere opere di supporto storico-filologico all’esegesi, come le Quaestiones Hebraicae in Genesim (schema
domanda-risposta in cui riprende loci della Vetus Latina e li confronta con l’Hexapla per chiarirne il
significato). Altri due scritti del genere sono il Liber interpretationis Hebraicorum nominum e il De situ et
nominibus locorum Hebraicorum: il primo fornisce l’etimologia, sulla scorta di Filone e Origene, dei nomi
ebraici presenti nella Settanta; il secondo traduce l’Onomastico di Eusebio, dedicato ai nomi dei luoghi e alla
loro ubicazione.

Dal 393 Gerolamo inizia i commenti ai profeti, l’unica sua impresa sistematica portata a termine (gli ultimi
commenti ai profeti risalgono a poco prima della morte). Il metodo che usa è lo stesso per tutti: traduce il
lemma prima dall’ebraico (non sempre questa traduzione coincide con quella della Vulgata) e poi dalla
Settanta. Alla traduzione ebraica è collegata l’interpretazione letterale, che mette in luce i risvolti storici della
vicenda; al testo dei Settanta l’interpretazione spirituale, per lo più ricavata da Origene.

Nel 380-81 scrisse il Chronicon, la prima opera geronimiana che attesta uno scoperto interesse storico: è la
traduzione e ampliamenti agli anni 326-378 della seconda parte della Cronaca di Eusebio. Si nota
l’atteggiamento competitivo rispetto a Eusebio nell’inserire autori di lingua latina, evidenziandone anche con
ogni minimo pretesto l’estrazione romana.

Le ricerche condotte per il Chronicon gli tornarono utili nel 393 per il De viris illustribus. Il prefetto del pretorio
d’Italia, Destro, gli aveva chiesto di fare un catalogo ragionato degli scrittori cristiani, così come per i pagani
aveva fatto Svetonio. L’opera dipende come idea originaria da Svetonio, ma è debitrice soprattutto della
Cronaca e dell’Historia ecclesiastica di Eusebio. Sono presenti 135 profili biobibliografici, di cui 78 presenti
già nella Cronaca eusebiana (che Gerolamo ha quindi integrato soprattutto sul versante degli autori latini).
L’intento dell’opera è di mostrare di fronte ai detrattori pagani la maturità della letteratura cristiana, e quindi
non fa differenza tra ortodossi ed eretici. La voce più lunga è quella dedicata a Origene, da Gerolamo molto
ammirato. Dedica una voce anche a sé stesso, senza saltare nulla, e senza menzionare che alcune sue opere
sono solo traduzioni. L’opera fu continuata da Gennadio di Marsiglia per il periodo 392-480.

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Gerolamo aveva una grande aspirazione per l’ascetismo, a volte da lui visto in antagonismo con la
prosecuzione degli studi profani (Rufino rimproverò a Gerolamo i frequenti rimandi agli autori classici), ma
mai in contraddizione con gli studi sulla Scrittura; anzi, l’apprendimento dell’ebraico fu preso da Gerolamo
come esercizio ascetico.
Difese l’ascetismo in molte lettere e anche, per esempio, nelle Vite di Paolo, Malco e Ilarione, agiografie
estremamente romanzate.
La Vita Pauli toglie ad Antonio il primato dell’anacoresi, perché Gerolamo vi sostiene che il primo anacoreta
fu appunto Paolo di Tebe, durante la persecuzione di Decio. Il racconto si focalizza sul rapporto tra Paolo e
Antonio, secondo il topos monastico del passaggio di consegne dal più vecchio (Paolo) al più giovane
(Antonio).
Malco è un asceta siro che, catturato dai saraceni (nomadi di Siria e Palestina) viene fatto sposare a una
prigioniera già sposata, con la quale si mantiene casto; i due alla fine fuggono e si rifugiano in due monasteri
vicini. È un’allegoria della doppia fondazione latina di Betlemme, quella di Gerolamo e Paola.
Ilarione, della Vita Hilarionis, è invece presentato da Gerolamo come il fondatore del monachesimo
palestinese.
La lettera 108 dell’epistolario, detta Epitaphium sanctae Paulae, è l’elogio di Paola fatto da Gerolamo dopo
la di lei morte, per consolare la figlia Eustochio (schema della laudatio funebris). Non ci sono accenni
miracolistici, contrariamente alle Vite (di Paolo, Malco, Ilarione) che sono modellate sul modello atanasiano.
C’è da dire anche che le Vite sono destinate alla diffusione, mentre la lettera 108 era indirizzata a chi Paola
la conosceva di persona.

Opere polemiche.
Al periodo romano (forse) risale l’Altercatio Luciferiani et orthodoxi, scritta forse per aiutare Damaso a
liquidare i residui scismatici. Secondo Quintiliano, l’altercatio è un genere letterario consistente in un
confronto serrato e spontaneo tra le parti opposte in un procedimento giudiziario. Un seguace di Lucifero di
Cagliari e un ortodosso discutono delle condizioni necessarie per la riammissione degli ariani nella comunità
ortodossa.
Il Dialogus adversus Pelagianos (415), in 3 libri, è un’altercatio tra un ortodosso e un pelagiano, relativo alla
teoria dell’impeccantia, alla predestinazione e alla necessità del battesimo per i bambini.
Nel periodo romano scrisse il primo trattato polemico in difesa della vita monastica: Adversus Helvidium de
perpetua virginitate beatae Mariae. Secondo Elvidio, Maria, dopo aver concepito e partorito verginalmente
Cristo, ebbe regolari rapporti con Giuseppe generando altri figli, quelli che i Vangeli chiamano fratelli di Gesù.
Questa teoria, già tertullianea, indeboliva la propaganda ascetica di Gerolamo, che quindi usò l’esegesi per
confutare Elvidio.
Nel 393, sul primato della verginità rispetto al matrimonio, scrisse l’Adversus Iovinianum, in 2 libri: Gioviniano
sosteneva che la verginità e la vedovanza non erano un merito speciale rispetto a un matrimonio santo.
Furono alcuni amici romani, tra cui Pammachio, a chiedere a Gerolamo di intervenire.
Al 406 risale l’Adversus Vigilantium, scritto contro un presbitero aquitano che rifiutava il celibato dei preti e
il culto delle reliquie.

Alla polemica origeniana dedicò due opere.


La prima è il Contra Ioannem Hierosolymitanum, contro Giovanni di Gerusalemme, con il quale i rapporti si
rovinarono a tal punto che per un certo tempo i monasteri di Gerolamo furono per qualche tempo sotto
scomunica. Gerolamo vi propone di agire sul teatro orientale della vicenda, ma la dedica a Pammachio di
fatto proietta la questione anche a occidente. L’opera batte sul tasto dottrinale, insinuando una fede cripto-
ariana nell’origeniano Giovanni, conformemente all’accusa di Epifanio che vedeva in Origene il padre di Ario.

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La seconda è l’Apologia contra Rufinum, inviata a Pammachio e Marcella (principali sostenitori di Gerolamo).
Gerolamo fu informato dell’Apologia di Rufino quando l’ex amico ancora la stava componendo. Gli rispose
quindi in due libri, scrivendo molto in fretta per battere sul tempo l’avversario. Ricevuta la risposta privata di
Rufino, scrisse per confutarla una lunga lettera che divenne il terzo libro dell’Apologia contra Rufinum.

L’epistolario comprende 154 lettere e ci permette di conoscere bene la personalità di Gerolamo. Si ispira a
diversi generi letterari e presenta un’alta perizia stilistica. Nella lettera 57 parla della teoria e tecnica della
traduzione. Importanti le lettere che attestano il suo ruolo di direttore spirituale e culturale nei circoli romani
aristocratici, specialmente femminili: con Marcella Girolamo intesse un rapporto alla pari, mentre Paola era
più sottomessa. Nelle epistole destinate al pubblico femminile le questioni esegetiche si intrecciano alle
esortazioni ascetiche, finalizzate a costruire un modo di essere della donna cristiana altolocata esemplare nel
confronto con la società circostante. La lettera 22 a Eustochio è una suasoria alla verginità con moltissimi
richiami a letteratura pagana e cristiana e a passi biblici.

Gerolamo mostra più volte di non essere un bravo filosofo, ma d’altro canto filosofo non volle mai esserlo;
sono altresì note le sue pecche caratteriali e le numerose contraddizioni. La sua intenzione era di elevare una
volta per tutte il tono della cultura cristiana latina, e forse per dedicarsi a questa impresa voltò le spalle a
Origene. Negli anni 390, traducendo il testo ebraico delle Scritture, sentì di aver superato i predecessori e di
potersi proporre come nuovo incontrastato maestro di scienza biblica. Perciò, l’essere prima messo in que-
stione sull’ortodossia dall’azione antiorigeniana di Epifanio, poi l’essere richiamato da Rufino ai suoi trascorsi
di ammiratore di Origene, fece montare in Gerolamo una reazione di stizza e ripudio.

Agostino
La crisi donatista aveva provocato non pochi danni nell’Africa cristiana di IV secolo. A fine secolo la situazione
non era migliorata, perché la politica di neutralità religiosa inaugurata da Giuliano e continuata da Valenti-
niano aveva molto favorito i donatisti, e la Chiesa cattolica riusciva a resistere solo perché appoggiata da
parte dell’autorità politica. Nella seconda metà del IV secolo gli autori cristiani africani sono tutti donatisti
tranne Ottato: la Chiesa cattolica non riusciva a presentare autori di livello culturale alto. In questo humus
culturale estremamente impoverito, Agostino fu l’eccezione.
Nato a Tagaste (Numidia) nel 354, suo padre Patrizio si convertì al cristianesimo prima di morire, mentre la
madre Monica era una fervente cristiana, ma non sembra che ciò influì molto sul figlio. Agostino studiò a
Tagaste, poi a Madaura e poi a Cartagine, dove ebbe un figlio (Adeodato) da una donna di condizione sociale
inferiore.
La maggior parte delle informazioni sulla sua vita pre-conversione vengono dalle Confessioni, scritte a fine IV
secolo e quindi da anziano e cristiano, cosa da tenere presente nella narrazione della sua vita.
La prima crisi la ebbe leggendo l’Hortensius di Cicerone, opera protrettica oggi perduta: di qui Agostino con-
siderò la retorica solo una professione e cercò un maggiore impegno spirituale, ma rimase deluso dalla pes-
sima traduzione latina della Scrittura, approdando dunque al manicheismo. Fu maestro di retorica a Roma, e
poi, come professore ufficiale (384-386), a Milano, dove fu raggiunto dalla madre una volta morto il padre (e
dove fu lasciato dalla compagna, di cui non è noto il nome). A Milano conobbe Ambrogio. L’interpretazione
allegorica della Genesi presente nelle predicazioni di Ambrogio favorì la conversione di Agostino, che da ma-
nicheo non concepiva l’interpretazione letterale della Bibbia. I due comunque non furono amici: Ambrogio
stimava Monica per la sua fede, ma non poteva vedere di buon occhio il figlio, che aveva fatto carriera con
l’appoggio dei manichei e che gli si presentava come un parvenu; Agostino coglieva bene questa ostilità.
Dopo il contatto con l’ambiente neoplatonico milanese, lesse Plotino e Porfirio nella traduzione latina di Ma-
rio Vittorino: a quel punto Agostino ripudiò il manicheismo e accolse elementi filosofici che lo instradarono
verso il cristianesimo. Nel 386 abbandonò l’insegnamento per dedicarsi a Dio: si ritirò a Cassiciacum (a nord
di Milano) con amici e discepoli, e nel 387 fu battezzato a Milano da Ambrogio, con la compagnia della madre
e del figlio. Tornando in Africa, a Ostia morì sua madre. Si trattenne un anno a Roma, poi tornò a Tagaste,
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dove condusse vita ritirata per tre anni con degli amici e dove pianse la prematura morte del figlio. Aveva già
iniziato a scrivere e aveva già una certa fama in Africa. Nel 391, a Ippona, il vescovo locale Valerio lo nominò
presbitero, e gli succedette nel 395. Da vescovo si occupò della crisi donatista, rispose alle molte richieste di
chiarimenti dottrinali/morali/esegetici, si dedicò alla lotta antieretica e si sforzò di elevare il livello morale e
culturale del clero africano. Morì il 28 agosto del 430, mentre Ippona era assediata dai Vandali. Il discepolo e
amico Possidio ci ha lasciato una sua biografia, che con le Confessiones e le Retractationes è fonte principale
per la sua vita e le sue opere.
Quasi tutti i suoi lavori sono occasionali, composti per venire incontro a richieste precise, oppure come esito
di predicazione più o meno sistematica. Iniziò a scrivere dal ritiro prebattesimale a Cassiciaco (386-387), a
partire da opere dialogiche ispirate alle discussioni avute con gli amici. Si segnalano il Contra academicos in
3 libri, il De beata vita (2 libri), il De ordine (2 libri), i Soliloquia (2 libri), tutte opere filosofiche di argomento
(e modello) platonico e ancora non strettamente cristiane.
Dopo il battesimo, tornando in Africa (387-391), scrisse opere marcatamente cristiane: De Genesi contra Ma-
nicheos (contro i manichei), De magistro (in cui dialogando col figlio Adeodato afferma che l’unico vero mae-
stro è Dio), De musica (6 libri, prima parte di un’enciclopedia mai completata sulle arti liberali), De vera reli-
gione e De libero arbitrio, scritto quest’ultimo dal 391 al 395.
Le celebri Confessiones (397-400 ca.) furono scritte forse per rispondere a critiche di vario genere, non solo
da parte di manichei e donatisti. Nei primi 9 libri su 13 l’opera è autobiografica ma molto concentrata
sull’aspetto spirituale; i libri 10-11 sono di contenuto filosofico e i libri 12-13 di argomento esegetico, sul
primo capitolo della Genesi. Agli studiosi non è ancora chiaro perché Agostino non abbia diviso in due opere
diverse la parte autobiografica da quella “teorica”: forse è perché nelle due (/tre) parti rimane stabile un
dialogo tra Agostino e Dio. L’introspezione, cioè la capacità di ripiegarsi a meditare su sé stesso, è piuttosto
rara negli autori classici, e in Agostino si trova già nei Soliloquia e nel De magistro.

Una parte cospicua della produzione letteraria di Agostino è di argomento esegetico. La conoscenza che Ago-
stino ebbe della Scrittura non fu forse totale come quella di Origene e Gerolamo, ma molto intensiva più che
estensiva, nel senso che si concentrava su alcuni libri per lui significativi (Salmi, Paolo) e li assimilò tanto da
servirsene per esprimere i propri sentimenti: molti passi delle Confessiones sono ricchi di richiami scritturi-
stici. Primo frutto dello studio della Scrittura, iniziato con il presbiterato, è il De doctrina christiana, iniziato
all’inizio dell’episcopato (intorno al 395) e rimasto interrotto per trent’anni: lo completò da anziano con la
fine del III libro e con il IV. Non sappiamo il motivo dell’interruzione, ma l’opera risulta omogenea. I primi tre
libri trattano dell’interpretazione della Scrittura, il quarto di come l’interpretazione vada comunicata agli altri
(predicazione).
Spesso si dice che Agostino inizialmente preferiva l’esegesi allegorica e man mano passò a quella letterale,
ma in realtà anche durante la sua anzianità non mancano le interpretazioni allegoriche, e si può dire che in
generale la preferenza di un tipo di interpretazione rispetto all’altro è determinata di volta in volta dal con-
testo letterario e comunitario.
Le Enarrationes in Psalmos riguardano i Salmi, molto cari ad Agostino e su cui predicò spesso. L’opera è quindi
una sorta di raccolta delle osservazioni esegetiche compiute da Agostino in anni di predicazione sui Salmi,
interpretati in senso cristologico (in senso lato, cioè con Cristo si intende anche la Chiesa). Agostino vede in
Davide una mera prefigurazione di Cristo, e non è affatto interessato, come invece gli esegeti antiocheni, alla
storia del popolo ebraico. Frequente l’esegesi su base aritmologica ed etimologica.
Se è vero che in Agostino troviamo esegesi letterale, lui preferiva esplicitamente quella spirituale (=allego-
rica), e infatti tra i Vangeli prediligeva quello di Giovanni. Scrisse dunque il Tractatus in Iohannis Evangelium,
consistente in 124 discorsi in parte pronunciati e in parte scritti tra il 404 e il 420. L’interpretazione è forte-
mente allegorica.
Il De catechizandis rudibus, risalente al 400 circa, è un trattato di catechesi in cui Agostino suggerisce ai cate-
chisti di proporre la tradizionale interpretazione tipologica dell’AT, come prefigurazione del NT.

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Polemizzò soprattutto con i manichei, già prima di diventare presbitero (De Genesi contra Manichaeos, De
moribus ecclesiae catholicae et de moribus Manichaeorum) e incrementò il suo impegno dopo l’ordinazione,
anche con pubbliche dispute. Al 397-398 risale la principale opera antimanichea, il Contra Faustum Mani-
chaeum, in 33 libri molti dei quali brevi, contro il principale rappresentante del manicheismo africano. La
polemica antimanichea di Agostino ricalca linee tradizionali nel sostenere l’unità di AT e NT, la reale corpo-
reità di Cristo e altri elementi dottrinali tipici del dibattito antiereticale. In particolare, in contrasto ai mani-
chei, sottolineava l’esistenza e il valore del libero arbitrio.
Contro i donatisti si schierò solo una volta divenuto presbitero: era sostanzialmente obbligato a combatterli,
vista la loro aggressività anche a Ippona, nonostante le condanne ufficiali dell’impero. In alcuni casi polemizzò
con esponenti in vista del donatismo, anche in seguito a loro attacchi personali: Contra epistulam Parmeniani,
Contra litteras Petiliani, Contra Cresconium grammaticum. Importante il De baptismo contra Donatistas,
scritto in 7 libri dopo il 400. In contrasto ai donatisti sottolineava la validità ed efficienza del battesimo e
dell’eucaristia amministrati nella Chiesa cattolica.
Il sacco di Alarico del 410 sconvolse l’impero e portò i pagani a dire che finché Roma aveva venerato gli dèi
tradizionali era stata forte, ma con il cristianesimo era stata punita dagli dèi. Molti erano messi in crisi da
questo pensiero e chiedevano chiarimenti a personalità del calibro di Agostino, che dunque rispose, in 22
libri, con il De civitate Dei (413-426). La composizione protratta per lungo tempo non ha giovato all’organicità
e alla compattezza dell’opera, che peraltro si estende ben oltre la tematica del declino dell’impero. Per i
cristiani, tra cui Eusebio e Ambrogio, l’impero era provvidenziale e così la compenetrazione tra questo e la
Chiesa. Agostino però non la pensava così e parla di una città terrena e una celeste, completamente distanti
e separate, l’una mutabile e l’altra immutabile (eterna), secondo uno schema platonico. La città celeste cor-
risponde alla Chiesa ed è solo momentaneamente prigioniera della città terrena, ma è indirizzata verso l’eter-
nità. Dal libro XI ripercorre la storia sacra e profana per dimostrare che, dal delitto di Caino in poi, gli uomini
(consapevolmente o meno) si sono sempre schierati o con la città celeste o con quella terrena, nata dal di-
sprezzo di quella celeste, rappresentata prima dai patriarchi, poi dai migliori fra gli ebrei, e stabilitasi con la
venuta di Cristo. Il contrasto tra le due città terminerà solo con l’apocalisse, quando tutto ciò che è mutevole,
e quindi anche la città terrena, avrà fine, e rimarrà solo ciò che è eterno.
Negli stessi anni del De civitate Dei, più nello specifico tra 412 e 428, scrisse varie opere contro i pelagiani. A
inizio V secolo Pelagio, asceta originario della Britannia, era ammirato dai cristiani aristocratici di Roma, pre-
dicando la necessità, per salvarsi, di condurre una vita ascetica che facesse buon uso del libero arbitrio. Pe-
lagio e il suo discepolo Celestio si rifugiarono a Cartagine fuggendo da Alarico; poco dopo Pelagio andò in
Palestina, ma Celestio rimase e diffuse a Cartagine le idee del maestro, condannando peraltro anche il bat-
tesimo ai bambini (pratica già ben diffusa in Africa). Agostino fece condannare Celestio nel 411 e attaccò
anche Pelagio. Le opere scritte in tale contesto sono dottrinali, relative a svariati ambiti, soprattutto il libero
arbitrio e la grazia divina.
Agostino era predestinazionista, opponeva cioè il non posse peccare, proprio dell’uomo predestinato da Dio
alla salvezza, al posse non peccare di Adamo prima del peccato e al non posse non peccare dell’uomo dopo il
peccato originale. Difficile conciliare il libero arbitrio con il predestinazionismo.
Contrastò gli ariani solo marginalmente, quando Massimino, vescovo ariano, giunse in Africa con dei militari
goti: Agostino bollò Massimino come eretico e scrisse alcune opere contro di lui. Sulla trinità scrisse il De
trinitate, in 15 libri, una delle pochissime opere scritte non su invito di altri ma di propria iniziativa. Dal I al
VII libro compreso riesamina la materia trinitaria; dal VIII al XV scopre analogie della vita trinitaria e l’impronta
dell’attività creatrice di Dio trina in tutta la creazione e soprattutto nell’anima umana.
Agostino parlando di trinità parte dall’unicità di Dio per arrivare alle sue tre sostanze, mentre gli orientali
facevano il contrario. Forse Agostino era influenzato dalla tradizione occidentale, che da inizio III a metà IV
secolo aveva posto l’accento più sull’unità di Dio che sulla sua divisione in tre ipostasi, ma secondo alcuni era
più influenzato dalla dialettica platonica e dal suo superamento: la coesistenza in Dio di unità e pluralità
(coincidenza degli opposti) nega la dialettica (platonica) della contraddizione tra unità e molteplicità, essere

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e divenire. Inoltre, Agostino non apprezzava la terminologia ormai canonica. Innovò definitivamente la dot-
trina trinitaria: dal II secolo alla metà del IV la teologia cristiana era stata cristocentrica, mentre Agostino
spostò l’attenzione da Cristo alla trinità e quindi a Dio “in generale”: superò infatti la contraddizione logica
tra unicità e trinità intendendo la loro unione come l’esito di un eterno atto d’amore, per cui il Padre genera
il Figlio mentre lo Spirito Santo altro non è che la comunione fra i due. Questo modo teocentrico e non con-
traddittorio di vedere la trinità influenzò l’occidente e la teologia per molti secoli a venire.

Nel 426 scriveva da ormai una quarantina d’anni, quindi inventò un nuovo genere letterario, le Retractatio-
nes. L’opera, in due libri, è un indice ragionato di tutti i suoi scritti in ordine cronologico, annotando di cia-
scuno il contenuto, qualche notizia e chiarendo, per ogni opera, cosa considerava non più proponibile nel
426 – le parti, insomma, su cui aveva cambiato idea.

Agostino superò definitivamente il dilettantismo della letteratura cristiana africana e in generale latina, pur
venendo da un contesto (quello cristiano africano) che poco favoriva la nascita di menti così eccelse. Seppe
coniugare il massimo di esteriorità, nutrita di Cicerone, Seneca e Quintiliano, con il massimo di interiorità,
nutrita di Plotino, Paolo e di un’ottima capacità di porsi domande.
Pare non fosse di grandi letture, e la sua conoscenza del greco era piuttosto elementare: conosceva solo gli
autori classici imparati e poi da lui insegnati a scuola, mentre degli autori cristiani lesse qualcosa in più ma
non troppo. Era perfettamente consapevole della sua intelligenza, tanto che nei suoi scritti si nota la tenta-
zione dell’autocompiacimento e una certa identificazione della difesa dell’ortodossia con la sua personale
riflessione; sapeva però anche che rischiava di essere superbo, da cui il suo costante richiamo all’umiltà che
rivolgeva spesso ai suoi ascoltatori e lettori, ma soprattutto a sé stesso. Possidio racconta che, negli ultimi
istanti di vita, piangeva leggendo e recitando i salmi penitenziali, evidentemente temendo per la sua anima.

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Principali eresie:
Origeniani: tre ipostasi in ordine digradante (subordinazionismo), unificate da armonia di volere e di agire
Ariani: origenismo radicale, cioè il Figlio è creatura del Padre e gli è quindi nettamente inferiore; ovviamente
due sostanze diverse
Monarchiani: Padre e Figlio sono la stessa cosa, non c’è trinità, Cristo non è divino
Veteroniceni/omoousiani: Padre e Figlio sono due ipostasi diverse, ma consustanziali
Omeousiani: Padre e Figlio sono di una sostanza simile, ma non la stessa (concili Rimini e Costantinopoli)
Meleziani: veteroniceni secondo cui che il Figlio è simile al Padre secondo la sostanza
Neoniceni/Basilio: le tre ipostasi sono le tre articolazioni di un’unica sostanza, cioè la natura divina. Sono
dunque distinte fra loro ma uguali per attività, onore e dignità
Nestorianesimo: Maria non è madre di Dio ma madre di Cristo
Apollinarismo: Cristo è più Dio che uomo perché al posto della facoltà razionale dell’anima (elemento esclu-
sivo degli esseri umani) aveva il Logos. Cristo dunque totalmente Dio ma non totalmente uomo. Ebbe suc-
cesso ad Alessandria

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