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Parte prima

Come nasce il cristianesimo

Capitolo 1 - Gesù di Nazaret

Le fonti

Conosciamo Gesù di Nazaret perché un certo numero di quelli che lo frequentarono erano convinti che
attraverso di lui il Dio d'Israele fosse intervenuto in maniera unica e decisiva. Trasmisero perciò ricordi
relativi a lui e interpretazioni diverse della sua persona.
Poiché la morte di un inviato divino scandalizzava, si raccontò in modo tale da mostrare che corrispondeva a
profezie contenute nelle Scritture e dunque alla volontà di Dio.
Gli altri ricordi furono trasmessi sotto forma di brevi unità: un miracolo, una controversia, un detto o una
parabola. Si formarono piccoli raggruppamenti di queste unità e progressivamente furono messi per iscritto.
Poteva accadere che le parole di Gesù, servendo da norma, venissero attualizzate o inventate. Vennero
compilate raccolte.

Ma si cominciò anche a scrivere narrazioni della sua attività.


La più antica a noi nota è il libro, composto verso il 70, opera di un Marco, collaboratore dell'apostolo Pietro.
Il libro comincia con la frase «Inizio del vangelo di Gesù Cristo» dove "vangelo" significa l'annunzio di
Gesù. In seguito si designò come vangelo il libro attribuito a Marco e altri analoghi che trasmettevano la
memoria di Gesù.
Ci sono altre due opere di questo tipo, anonime, ma trasmesse come composte da Matteo, discepolo di Gesù,
e da Luca, discepolo di Paolo, probabilmente l'una nell’80 e l’altra, con la sua continuazione gli Atti degli
Apostoli, nel 90. Questi tre vangeli si definiscono come "sinottici", cioè che si possono disporre in modo da
“vederli insieme”, perché presentano la stessa struttura e numerosi contatti.
A partire dal II secolo furono chiamati Vangelo secondo Marco, Vangelo secondo Matteo, Vangelo secondo
Luca.

Teoria delle due fonti: una volta sottratto il materiale proveniente da Marco, rimane una cospicua materia
comune a Matteo e Luca, costituita quasi esclusivamente da detti di Gesù, per cui si suppone che
entrambi abbiano usato una seconda fonte scritta, per noi perduta, una raccolta di detti di Gesù: la fonte Q
(iniziale di Quelle, 'fonte' in lingua tedesca)

Ci furono numerosi altri vangeli:


Vangelo di Giovanni di Zebedeo: probabilmente composto intorno al 100 da un discepolo di Gesù. Numerosi
contatti, ma la sua struttura e l'impostazione sono diverse da quelle dei sinottici.
Si ha poi un discreto numero di dettagli storicamente attendibili, ignoti ai sinottici e una reinterpretazione
molto elaborata della figura di Gesù, così che il suo uso per la ricostruzione del Gesù storico esige estrema
prudenza.

Vangelo secondo Tommaso: una raccolta di 114 detti di Gesù (somiglia all'ipotetico documento Q), ci è
giunto in una traduzione copta ritrovata nel 1945 a Nag Hammadi in Egitto e in pochi frammenti nella lingua
originale greca.
Per un certo numero di detti risale a fonti diverse dagli altri vangeli a noi noti e ha quindi valore autonomo.

Vangelo secondo gli Ebrei: restano solo frammenti riportati da autori cristiani che sembrano indipendenti
dagli altri vangeli.

Vangelo di Pietro: resta una parte con un racconto leggendario della passione, morte e resurrezione

Nascita e infanzia

Sulla nascita di Gesù non sappiamo praticamente nulla.


Paolo afferma solo che era «nato sotto la Legge» cioè era un uomo ebreo.
Non ne parlano né Marco né Q, invece Matteo e Luca contengono racconti sulla nascita e infanzia aventi
qualche elemento in comune, ma anche divergenze talmente forti da non poter essere spiegate come
discrepanze dei ricordi dei protagonisti. Non hanno valore storico.

La nascita a Betlemme, che Matteo e Luca giustificano in modi totalmente diversi, fu presumibilmente
inventata sulla base della convinzione che in quel villaggio, patria del re Davide, dovesse nascere il messia.
La discendenza di Gesù da Davide, affermata nei racconti di nascita, appare già verso il 56 nella Lettera di
Paolo ai Romani.

Nei racconti di nascita possono essere considerati storici i nomi dei genitori, confermati da altre
informazioni, e la menzione delle «sue sorelle», che erano quindi almeno due. I nomi dei quattro fratelli
discendono dalla storia religiosa ebraica (patriarchi, eroi nazionali della rivolta dei maccabei) e Gesù è
l’abbreviazione di Giosuè, il successore di Mosè. Si suppone quindi fosse una famiglia fedele all'identità
nazionale e religiosa d'Israele.

Marco definisce Gesù un tekton, cioè un carpentiere, mentre Matteo lo definisce figlio di tekton alludendo al
lavoro del padre. Probabilmente Gesù ha anche coltivato la terra.
Non sappiamo quanto fosse alfabetizzato.

Gesù il galileo

Marco afferma che da Nazaret di Galilea Gesù andò a farsi battezzare da Giovanni nel Giordano e lo designa
spesso come Nazarenos.
Matteo e Luca connettono il termine con Nazaret come luogo dal quale Gesù ha cominciato a predicare e
Marco e Giovanni presuppongono invece che vi sia nato.

Nazaret non è menzionata né nella Bibbia ebraica, né nelle fonti giudaiche non cristiane prima del III secolo.
Per il tempo di Gesù non dovevano esserci più di 400 abitanti. Erode Antipa l’aveva ampliata e fortificata,
facendone la prima città della Galilea.

Dopo il distacco di Gesù dalla famiglia la tradizione sinottica registra una sola visita a Nazaret, durante la
quale gli abitanti tengono nei suoi riguardi un certo distacco e un atteggiamento critico, diffidando del
paesano che se n’è andato.

L'attività di Gesù si svolse largamente nei villaggi della Galilea. Marco, seguito da Matteo e Luca, distingue
due periodi: un'attività in Galilea, con visite nelle regioni circostanti e pochi giorni a Gerusalemme, verso
la festa di Pasqua, durante i quali fu arrestato e condannato a morte.
Giovanni fa agire Gesù in Galilea, ma include almeno tre Pasque a Gerusalemme, il che significa che
l'attività di Gesù sarebbe durata più di due anni.

Verso la fine del I secolo lo storico Flavio Giuseppe (galileo) descriveva la Galilea come un territorio fertile
e densamente popolato.
Cultura e pratiche religiose non differiscono da quelle dei Giudei, l'identità che si attribuivano era giudaica e
rispettosa delle norme di purità. Gesù quindi non è cresciuto in un clima di opposizione a Gerusalemme e al
Tempio.
Si trattava di una società agraria in cui la terra apparteneva largamente a latifondisti che vivevano per lo più
nelle città e tendevano ad allargare i propri possedimenti rovinando i piccoli proprietari. Degli impoveriti si
davano al brigantaggio come mezzo di sussistenza e di rivolta contro la tassazione.

La cronologia di Gesù

Secondo Luca Gesù nasce sotto l'imperatore Augusto (37 a.C.-14 d.C.) e sia Luca sia Matteo convergono nel
situarne la nascita sotto Erode il Grande.
L'altro elemento di datazione in Luca, ossia il censimento indetto dal legato di Siria Quirinio, è invece
incompatibile con il regno di Erode perché avvenne dieci anni dopo la morte del re (inizi del 4 a.C.).
Se si tiene per ferma la datazione sotto Erode la nascita di Gesù potrebbe collocarsi poco prima del 4 a.C.
Anche l'inizio dell'attività pubblica è incerto, in base ai dati di Luca e Giovanni si colloca rispettivamente o
dal 26 al 30 o al 27-28.
Combinando le possibili date d'inizio con la diversa durata dell'attività nei sinottici e in Giovanni, si ottiene
per la morte una forbice che va dal 27 al 34 (Pilato fu in carica dal 26 al 36). I vangeli canonizzati
concordano nell'affermare che Gesù è morto la vigilia del sabato, ma divergono sulla data: secondo i
sinottici, sarebbe morto il venerdì 15 Nisan, il giorno successivo alla cena pasquale, secondo Giovanni il
venerdì 14 Nisan, prima della cena pasquale che aveva luogo la sera di quel giorno.
La cronologia giovannea appare preferibile.

Giovanni il Battista

Diverse fonti indipendenti connettono l'inizio dell'attività di Gesù con Giovanni, detto il Battista: Q, Marco,
Giovanni e il Vangelo secondo gli Ebrei. Esiste su Giovanni anche un'informazione non cristiana, quella di
Flavio Giuseppe, che non lo collega con Gesù.

Le fonti concordano sul rito di un battesimo, cioè di un'immersione in acqua, con cui egli esortava il popolo
a farsi sottomettere da lui, una sola volta, come segno di un cambiamento di vita e della richiesta di perdono
dei peccati.
È plausibile che Giovanni abbia annunciato la venuta imminente del giudizio di Dio su Israele, affermando
che pur non essendo un popolo privilegiato rispetto ai gentili (=non ebrei) Dio offriva comunque loro
un'ultima possibilità di sottrarsi alla condanna mediante il battesimo di Giovanni.

Q, Marco e Giovanni confermano anche l'annunzio di uno «più forte» che doveva manifestarsi dopo il
Battista e che avrebbe svolto un ruolo decisivo nel giudizio. Che questo personaggio fosse Gesù è
un'interpretazione dei seguaci di quest'ultimo.
I discepoli di Giovanni hanno continuato a esistere e a battezzare durante l'attività di Gesù e in concorrenza
con lui e con i suoi discepoli e anche dopo la morte di Gesù.

Il battesimo di Gesù è un dato autentico: perché i discepoli di Gesù, convinti che il loro maestro non avesse
peccati, avrebbero dovuto inventare che si era sottoposto a un rito di espiazione? Inoltre, i testi mostrano vari
tentativi di spiegare perché Gesù si fosse fatto battezzare.

Sia Marco che Q hanno connesso l'inizio dell'attività autonoma di Gesù con la fine di quella di Giovanni.
I due inizialmente hanno la stessa idea: l'intervento finale di Dio è imminente, Israele è soggetto alla collera
del giudizio, ma Dio prende l'iniziativa di offrigli un'ultima possibilità. Ma è sulla natura di questa iniziativa
che le loro strade si dividono.
Mentre il Battista attribuisce a Dio l'iniziativa di dare a Israele un'ultima possibilità di convertirsi, Gesù
gliene attribuisce un'altra: cominciare a stabilire in questo mondo il suo regno senza aspettare che gli umani
si convertano.

Per Gesù inoltre si ammetteva che il mondo fosse popolato, oltre che dagli esseri visibili, da entità spirituali
invisibili, dotate di poteri superiori e di conoscenze inaccessibili agli umani, ma importanti per il controllo
della condizione umana.
Una parte di esse può essere rivelata a determinate persone mediante forme di comunicazione diverse a
seconda delle varie culture. Una delle più comuni è la visione, accompagnata o no da comunicazione
uditiva.
Secondo la forma più antica disponibile del racconto, in occasione del suo battesimo Gesù ha avuto una
rivelazione visiva e uditiva relativa alla sua "vera" condizione.

Gesù, carismatico itinerante

Gesù era un carismatico, ossia considerava la sua autorità come un dono concesso da un’istanza superiore.
Prove di questo sono i miracoli, che attestano la presenza di un potere spirituale.
Era un carismatico anche perché attirava a se le persone e aveva costituito un gruppo che lo seguiva.

Quando questa autorità appare si pone il problema del suo rapporto con le altre autorità, in particolare con
quelle non carismatiche ed essendo quelle carismatiche considerate superiori i conflitti sono frequenti.
Gesù però non sembra aver contestato nel principio le istanze di autorità del giudaismo in terra d'Israele.
I conflitti con i farisei gli sono stati attribuiti dalle prime generazioni di ebrei credenti in lui che si sono
trovati sempre più in tensione con i rabbi, i quali si richiamavano alla tradizione dei farisei.
È plausibile che Gesù abbia avuto discussioni con farisei su questioni d'interpretazione della Legge, ma
simili discussioni, correnti tra i dotti, non conducevano all'odio verso l'interlocutore né al desiderio di
eliminarlo fisicamente. Implausibile è quindi l'affermazione che i farisei progettassero di uccidere Gesù.
Il vero problema sorse invece con i sadducei, l'aristocrazia sacerdotale di Gerusalemme.

Gesù è un itinerante. Si è separato dalla famiglia, nucleo fondamentale della società, ha rinunciato alla casa e
ai beni e ha adottato uno stile di vita senza dimora fissa, entrando in contatto con persone considerate
impure. Un simile comportamento veniva stigmatizzato dalla società, definito negativamente e dunque
emarginato.
Quella di Gesù è un' auto-stigmatizzazione volontaria, intesa a mettere in discussione il sistema di valori
dominante, proponendone uno alternativo.
Il distacco dalla famiglia e dai beni significa rinuncia a un sistema di valori che comporta rapporti di dominio
e che può implicare l'esercizio della violenza, perché la difesa dell'onore esige la riparazione di un torto
anche mediante la vendetta.
Ma Gesù richiede di non esercitare nessun tipo di sopraffazione: di non uccidere e nemmeno di adirarsi o di
insultare, di cercare la riconciliazione invece di tentare di ottenere giustizia, di non opporre resistenza al
male, di amare coloro da cui si è odiati.

I discepoli di Gesù

Gesù non opera in solitudine, ma ha sia discepoli che condividono la sua forma di vita, sia una più larga
cerchia di adepti.
Riunisce intorno a sé un gruppo di persone legato da relazioni di uguaglianza, il cui stile di vita vuole essere
dimostrazione della possibilità di un'esistenza collettiva fondata non su rapporti di dominio, ma sul perdono
reciproco. Esso costituisce il nucleo della nuova realtà del regno di Dio.

Discepoli, apostoli e Dodici non sono equivalenti.


La più antica attestazione dell'esistenza del gruppo dei Dodici è in un'arcaica formula di fede citata da Paolo
per cui il Risorto «apparve a Cefa e quindi ai Dodici». Ma Paolo non li menziona altrove.
Il materiale Q non menziona i Dodici.
Non appare fondata nemmeno l'opinione secondo la quale il gruppo dei Dodici si sarebbe formato solo dopo
la morte di Gesù, forse sulla base di un'apparizione del Risorto.
Con ogni probabilità simboleggiano le dodici tribù d'Israele, dunque il popolo nel suo insieme. La
costituzione dei Dodici sembra quindi un atto simbolico: significa che il regno di Dio, inaugurato nel
ministero di Gesù, era destinato a tutto Israele.
Luca sistematizzerà l'identificazione dei Dodici con gli apostoli perché nel suo vangelo il termine “apostolo”
è applicato solo a membri del gruppo dei Dodici. In realtà, le lettere di Paolo mostrano che nella prima
generazione di credenti in Gesù si designavano come apostoli i missionari.

I discepoli possono essersi aggregati a Gesù in vari modi: chiamati da lui, chiamati da chi era già discepolo,
guariti o esorcizzati da lui (come Maria di Magdala) o venuti spontaneamente.
L'abbandono della famiglia è presentato come radicale sia in Marco che in Q, ma poteva anche non esserlo
(come nel caso di Simon Pietro).
La notizia che alcune donne seguivano Gesù è poi comune ai sinottici e a Giovanni. Tra di loro vi era
certamente Maria di Magdala, la sola a comparire in tutte le liste di donne e beneficiaria della prima
manifestazione del Risorto secondo Giovanni. Poiché è identificata dal nome del villaggio di provenienza,
non sembra essere stata soggetta all'autorità di un padre, di un marito o di figli maschi. Secondo Luca Gesù
aveva espulso da lei sette demoni, forse con un esorcismo.

Insieme con Gesù i discepoli sono coinvolti nel processo di realizzazione del regno di Dio, inoltre operano
criticamente rispetto alle istituzioni esistenti e lo fa come gruppo.
L'impresa di Gesù non è finita con la sua morte anche perché ha selezionato discepoli interessati ad istanze di
cambiamento e li ha istruiti e associati alla sua pratica di vita, mettendoli in grado di elaborare e rilanciare il
suo messaggio.
Il regno di Dio, gli esorcismi e le guarigioni

Le fonti considerano l'annuncio del regno di Dio come il cuore del messaggio di Gesù.
Il regno appare centrale anche in Q, nel materiale proprio a Luca e in quello proprio a Matteo. È attestato
anche in Marco, nelle lettere di Paolo e nel vangelo di Tommaso. Praticamente tutte le fonti più antiche
conoscono la nozione, in altre fonti del II secolo invece tale idea diviene rara ed è variamente reinterpretata,
il che mostra che non è stata attribuita a Gesù.

L'espressione come tale è rara fuori della tradizione su Gesù, ma l'applicazione al Dio d'Israele del concetto
di regnare era corrente. Dopo l'esilio, si affermava che Dio regna su Israele dal Tempio di Gerusalemme, ma
si sviluppò anche la convinzione che Dio avrebbe realizzato il suo regno nel mondo mediante il giudizio
sulle nazioni e il regno eterno d'Israele.
Gesù condivide l'opposizione tra il regno di Dio e le forze spirituali del male, ma apre le porte del regno
anche a chi non appartiene al popolo d'Israele.

Gesù ha due prospettive: il regno presente ed il regno futuro.


Da una parte, egli parla di un regno che deve ancora realizzarsi nel mondo. Così avviene nelle prime tre
beatitudini, la cui forma più vicina a Gesù sembra essere quella di Luca:

Beati i poveri, perché vostro è il regno di Dio.


Beati voi che avete fame ora, perché sarete saziati.
Beati voi che piangete ora, perché riderete.

La seconda e la terza hanno in vista un cambiamento di condizione tra il presente ed il futuro, per intervento
di un Dio che si prende cura dei poveri e degli oppressi e rende loro giustizia. Entrambe evocano l’idea del
regno di Dio come un banchetto imbandito da Dio stesso che avrebbe fornito gioia e sazietà senza limiti, idea
che ritroviamo anche in Gesù.
La prospettiva di un rovesciamento politico o di una rivoluzione sociale è assente, ma la portata politica e
sociale di una tale promessa è inequivocabile: Dio sta con decisione dalla parte di quanti non hanno potere né
onore e sono schiacciati da relazioni e istituzioni umane inique, perché hanno diritto ai beni dei quali sono
oggi privati.

Sempre in Q si trova il Padre nostro con la preghiera «venga il tuo regno». La "venuta" del regno sembra una
formulazione propria di Gesù.
Nella versione di Luca la preghiera per la venuta del regno è seguita da quella per il pane del giorno. Fino a
che arriverà il tempo della sazietà, si chiede il pane che permetta di sopravvivere giorno per giorno: già il
presente è quindi un tempo sostenuto dall'amore di Dio per chi vive nella precarietà e nella mancanza.

Un detto pronunciato durante l'ultima cena unisce regno e banchetto in prospettiva futura: «In verità vi dico
che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».

Non si può dunque negare a Gesù l'idea di un intervento futuro, imminente, di Dio per instaurare il suo
regno, come fanno alcuni studiosi secondo i quali il regno per Gesù aveva solo una dimensione presente. È
tuttavia chiaro che Gesù ha parlato anche della presenza del regno.

Nesso tra l'azione di Gesù e la fine del dominio delle potenze malvagie: il suo confronto con queste avveniva
mediante gli esorcismi. Gesù compie esorcismi. Questo tratto, attestato da più fonti indipendenti e insistente
nella tradizione sinottica (assente invece in Giovanni), è storicamente sicuro ed è plausibile: l'esorcismo
era praticato correntemente in ambito giudaico ed ellenistico-romano.
Il presupposto era la convinzione che sul comportamento umano influissero esseri spirituali, sia benevoli sia
ostili. Un comportamento giudicato deviante poteva essere attribuito a possessione da parte di questi poteri.
L'antropologia della religione mette in evidenza che la possessione è uno dei meccanismi con i quali persone
che nella società sono soggette a una forte pressione cercano di sfuggirvi. Nell'ambiente in cui opera Gesù,
l'occupazione romana in Giudea, la precarietà economica in Galilea dove la politica di Erode Antipa
contribuiva a rovinare i piccoli agricoltori, la struttura patriarcale, costituivano elementi di pressione
pubblica e privata che possono aiutare a capire la quantità di fenomeni classificati in quel contesto come
possessione. Gesù aveva la capacità di trattare con successo casi del genere.

L'espulsione dello spirito cattivo non comporta semplicemente il ristabilimento di una situazione normale,
ma anche un’adesione alla fede in Dio e al gruppo dei fedeli rappresentato da Gesù. Così Maria di Magdala
diviene sua discepola.
Questo perché Gesù attribuisce ai suoi esorcismi un significato connesso con l'instaurazione del regno.

Gesù compiva anche delle guarigioni. La malattia non era considerata come condizione puramente
fisiologica: un' alterazione o disfunzione del corpo implicava un problema di relazione sociale. Questi nessi
sono chiari ad esempio nel caso della donna che aveva un flusso di sangue irregolare da dodici anni: secondo
la norma di Luca era costantemente in stato di impurità e non ci si doveva accostare a lei. La guarigione
fisica si effettua appena ella tocca la frangia del mantello di Gesù, ma poi Gesù avverte che un'energia di
guarigione è uscita da lui e s'innesca un processo solo al termine del quale Gesù la dichiara guarita sulla base
della fede. La donna sarà così reintegrata nella comunità d'Israele.

Gesù ha operato resurrezioni? L'attribuzione di resurrezioni era tradizionalmente un elemento costitutivo


della presentazione di un personaggio considerato portatore della potenza e della benevolenza divina (profeta
Elia che resuscita il figlio della vedova di Sarepta).
La spiegazione razionalista per cui si trattasse di casi di morte apparente potrebbe anche corrispondere ai
fatti in qualche caso, ma importante è il valore simbolico delle resurrezioni che erano atte a segnalare la
potenza divina che agiva nel taumaturgo.

Gesù e la legge

Questione del rapporto tra Gesù e la Torah, termine tradotto abitualmente con Legge (ma meglio sarebbe
“insegnamento”) che corrisponde al Pentateuco.
Ciò è dovuto in buona parte agli sviluppi posteriori alla sua morte, quando l'adesione di molti non ebrei alla
fede in Gesù pose il problema del doverli obbligare o meno a osservare la Legge.
Inoltre le varie scuole non avevano la stessa interpretazione dei precetti (halakha=cammino) al tempo di
Gesù le due principali erano quelle di Hillel e di Shammai, mentre il gruppo che viveva a Qumran aveva la
propria halakha, molto rigorosa.

Non ci sono pervenute dichiarazioni di Gesù sulla Legge o sui criteri della sua osservanza, è possibile che
non ne abbia fatte. Lui era un ebreo che riteneva che la Legge fosse un privilegio donato da Dio a Israele, la
cui osservanza andava da sé.
Benché alcuni storici lo assimilino al modello di un rabbi, le fonti più antiche non ci permettono di dire che
la sua principale occupazione fosse l'interpretazione della Legge.
In quanto carismatico, era però naturale che potesse essere interpellato a riguardo e a un giovane che gli
chiede cosa debba fare per ereditare la vita eterna Gesù risponde enumerando i comandamenti, mentre a chi
domanda quale sia il primo comandamento risponde con lo “shema”, ossia il nucleo della confessione di fede
di un ebreo, e fa seguire il comandamento dell'amore del prossimo.

Nel contesto di Gesù il divorzio era un ripudio da parte del marito, se ne regolavano le modalità e le scuole
discutevano sulle ragioni valide.
Un testo ritrovato a Qumran presenta invece una halakha restrittiva, condannando un secondo matrimonio
dell'uomo dopo il divorzio.
A Gesù viene attribuita una dichiarazione sul divorzio e la ricostruzione più antica mostra che egli ha
proibito il divorzio. Così come i qumraniti, fondava tale divieto sulla Genesi, pensando probabilmente che la
presenza del regno comportasse il ritorno all'ordine originario della creazione. In tal caso vi sarebbe
un’evidente coerenza tra questa halakha e il suo messaggio fondamentale sul regno di Dio.

La posizione di Gesù sul sabato si inserisce nelle discussioni del tempo riguardanti cosa fosse permesso fare
quel giorno. In questo caso l’idea dei qumraniti è opposta a quella di Gesù.
Gesù infatti afferma che chiunque possegga una pecora la afferrerebbe e la tirerebbe fuori da un fosso se
questa ci cadesse di sabato.
I qumraniti invece ritenevano che se un animale cade in una cisterna o in un fosso non lo si deve tirar fuori di
sabato.

Purità, perdono, pasti

Per quanto riguarda le norme di purità il problema divenne acuto via via che i non ebrei aderivano alla fede
in Gesù.
E’ certo che egli ebbe rapporti e condivise la sua tavola con persone che in base alla Legge erano considerate
impure, come coloro che riscuotevano le imposte per l'autorità straniera e le donne che per qualche motivo
erano etichettate come prostitute, perché per Gesù non è l'impuro che contamina il puro quando entra in
contatto con esso, bensì il contrario. Il puro, che ha come fonte di purezza Dio, venendo a contatto con
l'impuro lo rende puro, perché Dio non può essere sconfitto dall'impurità.

Dio prende l'iniziativa di liberare Israele e tutti gli esseri umani dal male, invia Gesù a portar loro la notizia e
la realtà di questo fatto. E questa realtà si manifesta con le guarigioni, gli esorcismi e con la pratica dei pasti.

I pasti di Gesù rompono le regole sociali e si collegano alla prospettiva del regno visto come un banchetto.
Come guarigioni ed esorcismi, anche i pasti si collegano a episodi di perdono dei peccati per poter entrare
nel regno dei cieli.
Il tema del peccato e della sua eliminazione preoccupava le varie forme di giudaismo del tempo.
Il gruppo di Qumran legava impurità e peccato, così come Giovanni Battista che toglieva l'impurità con il
battesimo.
Gesù mantenne la distinzione tra puro e impuro, ma modificandola attraverso il rapporto tra impurità e
trasgressione, poiché nulla di ciò che esiste fuori dell'uomo può renderlo impuro, ma solo il male che egli
compie (la trasgressione).
Da questo peccato/impurità non ci si libera mediante riti, ma accettando il perdono offerto da Dio attraverso
Gesù e praticando a propria volta il perdono.

Nel giudaismo si era già rappresentata la fine dei tempi come un giubileo nel quale Dio avrebbe perdonato
tutti i peccati e Gesù riprese questa idea ma con la convergenza tra la nozione di questo giubileo e quella di
regno di Dio.
Gesù quindi accettò i vari tipi di sacrificio praticati nel giudaismo, salvo quello per il perdono dei peccati,
che collegava invece ad altre pratiche. Nei suoi ultimi giorni Gesù ha probabilmente compreso che la sua
morte era imminente, ma quasi sicuramente non l’ha intesa come mezzo di perdono dei peccati, in quanto il
perdono aveva già luogo nella sua attività.
La conseguenza era l'ingresso in una nuova logica di vita, che contrastava con quella corrente e che Gesù
propose come la logica di Dio.

Parabole

Questa logica però non si poteva provare con argomentazioni e lo strumento privilegiato per comunicarla
sono le parabole.
Le parabole non compaiono nel Vangelo secondo Giovanni, ma nessuno studioso mette in dubbio che Gesù
se ne sia servito.

Il termine greco parabole significa “paragone”, è stato usato nella traduzione greca della Bibbia detta dei
Settanta per rendere l'ebraico “masal” (=racconto che esige un'interpretazione).
Gli studiosi moderni hanno distinto due tipi di parabole: la “similitudine” che consiste nello spiegare
qualcosa per analogia e la parabola propriamente detta, “racconto” dove il messaggio è comunicato dalla
storia narrata.
Nessuno dei due tipi è invenzione di Gesù, la tradizione contiene molte parabole e un esempio biblico è la
parabola narrata dal profeta Nathan al re Davide.

La parabola è data in modo da porre un problema e indurre l'ascoltatore a prendere posizione. Quando si è
schierato, essa lo sorprende mettendo radicalmente in discussione la sua opzione, ma gli offre anche una via
d'uscita.
Due esempi: la parabola del Figlio prodigo e quella del Buon Samaritano.

Nella parabola del Figlio prodigo il figlio minore che abbandona la casa si rende colpevole nei confronti
dell'onore del padre e della famiglia, ma anche il padre si comporta in maniera sorprendente. Quando il figlio
caduto in miseria ritorna il padre, responsabile dell'onore del gruppo domestico, fa tutto ciò che mantenendo
la sua autorità non avrebbe dovuto fare. L'ascoltatore di Gesù non avrebbe apprezzato il comportamento del
padre e si sarebbe schierato dalla parte del figlio maggiore, ma la parabola lo pone in un dilemma. Il padre ha
messo a repentaglio l’onore, ma in questo modo ha ridato al figlio dignità, creando gioia.
Questa parabola fa scoprire dei valori e comportamenti naturali per l’ascoltatore, ma mostra che esistono altri
modi di fare che non creano sofferenza. Mostra un’alternativa in apparenza assurda, che genera vita e in
questa s'incontra Dio.

Nella parabola del Samaritano ribadisce il concetto di prossimo da amare come sé stessi, che Gesù considera
come secondo comandamento della Legge.
In questa parabola l'ascoltatore è invitato a identificarsi con l'uomo ferito, non con il samaritano, mentre
nessuno avrebbe fatto questa scelta, se gli fosse stato richiesto di scegliere tra un samaritano e un ebreo
l'ascoltatore non avrebbe mai indicato il primo come prossimo. Mettendosi nei panni del ferito si comprende
che egli non era nelle condizioni di scegliere chi amare.
Quel che importa dunque non è la ripartizione precostituita dell'umanità, ma la misericordia tra gli individui
che non conosce distinzioni.

Anche se queste parabole non si riferiscono esplicitamente al regno, sono in rapporto con esso, perché la
nuova possibilità di esistenza che svelano è resa possibile dal perdono che Dio sta offrendo per mezzo di
Gesù.
Da qui discendono anche la rinuncia radicale alla violenza e l'amore per il nemico: «Amate i vostri nemici.
Siate misericordiosi, come il padre vostro è misericordioso». Dio può essere solo un Dio di misericordia
infinita verso tutti gli umani i quali non possono essere che peccatori.
Si può vivere il regno solo seguendo la logica del comportamento di Dio, dunque perdonando e rinunciando
alla vendetta, essenziale per mantenere l'onore in quel contesto culturale. Gesù non vuole una comunità
politica che viva sulla base di simili norme, ma un gruppo di persone che può fondare la vita sulla rinuncia
alle garanzie di una società organizzata.

Figlio dell’uomo e messia

Gesù deve avere attribuito a sé stesso un ruolo preciso in quella che riteneva una fase decisiva per la storia
d'Israele e si dichiara maggiore di Salomone e di Giona, perché ciò che avviene per mezzo di lui è più grande
di quanto avvenne attraverso quei due personaggi.
Questo non significa che si sia attribuito uno statuto più che umano, non ha mai affermato di essere Dio.
Un detto lo colloca in linea con i profeti perseguitati e uccisi da Israele, secondo una concezione che si era
affermata nella Bibbia ebraica.

Una questione complessa riguarda l'appellativo di «Figlio dell’uomo».


È molto frequente nei vangeli divenuti canonici, sempre riferito a Gesù e rarissimo negli altri scritti.
È il solo titolo applicato a Gesù in Q.
In ebraico e aramaico al tempo di Gesù l'espressione indicava sia l'essere umano in generale, sia un
determinato essere umano.
La si trova poi in alcuni scritti di rivelazione, nel Libro di Daniele il protagonista vede il giudizio finale e uno
simile a un figlio d'uomo che giunge fino ad un Vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria
e regno, tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano. Esso rappresenta «il popolo dei santi dell'Altissimo».
Si tratta dunque di una figura umana, semplice simbolo del popolo dei santi, oppure di un corrispettivo
celeste di quel popolo.
Da Daniele ha ripreso tale personaggio il Libro delle parabole. Il Figlio dell'uomo vi appare come un essere
di aspetto umano che Henoch vede accanto a Dio, dove è stato nascosto da prima della creazione, a lui è
affidato il giudizio e con lui i giusti e gli eletti trascorreranno la vita per sempre.

Le parole del Figlio dell’uomo sono attribuite a Gesù e queste riguardano l’attività presente e l’attività futura,
egli ha il potere di perdonare i peccati in questo mondo, potere sul sabato e insiste sulla vita marginale.
Vi è anche un gruppo di detti relativi alle sofferenze del Figlio dell'uomo, si tratta di profezie della passione e
della morte di Gesù, che gli sono state certamente attribuite più tardi.

C'è poi chi pensa che Gesù si sia definito Figlio dell’uomo per attirare l'attenzione su si sé.
Altri pensano che Gesù ne avrebbe parlato in due ruoli diversi: prima quello di un inviato divino che conduce
in questo mondo una vita marginale, poi quello di un personaggio trasfigurato.
Gesù avrebbe iniziato a vedere la futura manifestazione del Figlio dell'uomo come una sua venuta nella
gloria dopo la sua morte.

E’ il Figlio dell'uomo che compie il giudizio in un momento futuro, mentre il compito di Gesù nel presente è
quello di mettere al primo posto la misericordia e il perdono divino, offerti prima che agisca la giustizia che
annienta il male e quelli che lo commettono.
Secondo il Libro delle parabole al momento del giudizio, Dio lascia ancora ai peccatori un'ultima possibilità
di pentirsi e ricevere il perdono.

Resta aperta la questione se Gesù concepisse il Figlio dell'uomo come l'identità che Dio gli avrebbe attribuito
dopo la sua morte, oppure concepisse sé stesso come una prima manifestazione del Figlio dell'uomo per
portare la misericordia di Dio prima del suo giudizio.

Il termine Messia deriva dall’ebraico e tradotto in greco è “christos” ed è un titolo che veniva dato a una
persona che aveva ricevuto un'unzione rituale, come un re, un profeta o un sacerdote.
Al tempo di Gesù, l'appellativo comincia a essere dato anche a figure che hanno un ruolo nel cammino verso
la salvezza, come un messia della stirpe di Davide che sconfiggerà i sovrani terreni.
Questo titolo non è quasi mai messo in bocca a Gesù, ma gli viene dato da sostenitori e avversari.
La motivazione della condanna di Gesù come «re dei Giudei» mostra che i Romani lo hanno giustiziato
come ribelle, dunque di fronte alle autorità non ha rinnegato questo ruolo.
Per quanto ne sappiamo, un messia sconfitto e messo a morte non era previsto nell'immaginario di nessuno,
il titolo dunque gli è stato attribuito prima della sua morte.

Conflitto e morte

L'arresto e la morte di Gesù non vanno valutati separatamente dai conflitti esplosi nel suo ultimo soggiorno a
Gerusalemme. In esso la tradizione sinottica situa l'episodio spesso definito Purificazione del Tempio o
cacciata dei mercanti, mentre Giovanni lo colloca precedentemente alla prima delle tre Pasque che questo
vangelo include nell'attività di Gesù. Storicamente lo si comprende meglio come elemento scatenante della
crisi finale.

Il suo significato è però controverso. La tesi che vi scorge il ricordo trasformato di un attacco armato al
Tempio per mettere fine alle attività affaristiche dell'aristocrazia sacerdotale si collega a un'interpretazione
difficilmente sostenibile di Gesù come ribelle politico.
Generalmente si pensa a una volontà di purificare il culto del Tempio protestando contro il commercio e i
guadagni che vi si effettuavano.
Tuttavia, era normale per un ebreo sia la presenza nella zona pubblica del Tempio di banchi di cambio, i
quali permettevano agli ebrei che affluivano da vari paesi di cambiare il loro denaro nell’unica moneta
consentita per l'imposta e la possibilità di procurarsi animali certificati per i sacrifici.

Sembra dunque preferibile la tesi di Ed Peirce Sanders che sostiene la prossimità tra il racconto dell'azione
nel Tempio e un detto di Gesù sulla distruzione del Tempio, il quale in Giovanni ha la forma: «Distruggete
questo tempio e in tre giorni lo alzerò».
Una profezia di Gesù sulla distruzione del Tempio è attestata anche nella tradizione sinottica, quando durante
l'interrogatorio davanti al sinedrio alcuni forniscono una falsa testimonianza: «Lo abbiamo udito mentre
diceva: io distruggerò questo tempio, fatto da mani d'uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da
mani d'uomo».
Difficilmente i suoi seguaci gli avrebbero attribuito una profezia del genere in un'epoca (prima di Marco) in
cui il Tempio era ancora in piedi (Marco infatti la presenta come falsa testimonianza) e anche dopo la
distruzione essa non sarebbe stata formulata in questo modo: non erano stati né Gesù né gli ebrei a
distruggere il Tempio (come attesta la forma giovannea).
Gesù, per il rovesciamento di tavoli e qualche suppellettile, gesti che potevano essere classificati come
profetici, al massimo sarebbe stato flagellato e poi lasciato libero come pazzo innocuo: egli però aveva fatto
la sua entrata a Gerusalemme con i seguaci in un momento delicato come l'imminenza della Pasqua, inoltre
si era segnalato per l'annuncio di un perdono dei peccati che aggirava le istituzioni a ciò deputate, gestite
dall'aristocrazia sacerdotale. Questa non avrà voluto correre il rischio di una situazione incontrollabile,
perciò fece catturare Gesù di notte in un luogo appartato.

All’inizio della stessa notte i primi tradenti situarono una cena di Gesù con i suoi discepoli (certamente non
solo i Dodici, ma anche quanti erano venuti con lui dalla Galilea, comprese le donne, saranno stati presenti)
nella quale compì un gesto di decisiva importanza.
I quattro resoconti di questo evento (i sinottici e Paolo) sono influenzati dalle rispettive prassi liturgiche.
Inoltre in Marco, Matteo e Luca si tratta della cena pasquale ed ha quindi luogo la sera del giorno 14 Nisan,
mentre Gesù muore il 15. In Giovanni Gesù muore il pomeriggio del 14 Nisan, prima della cena pasquale.
La datazione di Giovanni è preferibile: è difficile immaginare una riunione urgente del sinedrio la notte di
Pasqua e ammettere che Simone di Cirene, quando fu requisito per portare la croce, tornasse dal lavoro nel
campo in un giorno di festa.
In ogni caso, appare certo che Gesù morì verso Pasqua e questo fatto influenzò la comprensione della sua
morte.

La cena qual è descritta nelle fonti non ha le caratteristiche di una cena pasquale.
Ormai conscio del destino che stava per colpirlo Gesù ha voluto celebrare con i suoi un pasto particolarmente
solenne nel corso del quale, come un padre di famiglia ebreo, ha pronunciato parole di benedizione sul vino e
sul pane, ma li ha inoltre collegati al senso della propria azione e del proprio destino.
Ha interpretato il sangue che stava per effondere come il sigillo di una nuova alleanza con Dio.
Che abbia o meno invitato a ripetere tali pasti in sua assenza, i discepoli lo hanno compreso così: pane e vino
condivisi avrebbero reso presente Gesù anche quando non avrebbe più fisicamente partecipato. Ma si sarebbe
presto riunito a loro nel banchetto finale del regno, almeno secondo i sinottici.
Giovanni invece collega con la cena un altro gesto di Gesù, la lavanda dei piedi dei discepoli, probabilmente
un rito d'ingresso praticato nel suo gruppo nel quale si rappresentava l'amore reciproco sotto la forma del
farsi schiavo (lavare i piedi era un compito degli schiavi).

Quella notte Gesù si recò con pochi discepoli nell'orto del Getsemani, sul monte degli Ulivi, in uno stato di
estrema angoscia ed ebbe un intenso colloquio con Dio. Giuda, uno dei Dodici, avrebbe indicato il luogo
dove si trovava: il dato è probabilmente autentico, mentre i racconti non forniscono ipotesi sulle sue
motivazioni. Gli fu poi attribuita la morte di Achicofel che aveva tradito Davide (suicidio per
impiccagione), mentre da altri quella tipica del nemico di Dio.

La cattura fu effettuata da un gruppo inviato dall'aristocrazia sacerdotale, Giovanni parla anche di una coorte
di soldati romani con il suo comandante, ma questo è improbabile perché in tal caso Gesù sarebbe stato
condotto da Pilato. Fu portato invece a casa del sommo sacerdote, dove secondo Marco ebbe luogo una
riunione di membri del sinedrio in cui Gesù sarebbe stato accusato di bestemmia e dunque considerato
passibile di una pena di morte che Roma (governava direttamente la Giudea) non permetteva però alle
autorità giudaiche di infliggere.
Al mattino presto, Gesù sarebbe stato trasferito al pretorio di Pilato, che in occasione della Pasqua si
trasferiva a Gerusalemme per meglio controllare la situazione.

La crocifissione mostra che Gesù fu processato e condannato dall'autorità romana.


Il cosiddetto Testimonium Flavianum afferma che Pilato condannò Gesù alla crocifissione «in seguito ad
azione legale intentata dagli uomini più influenti tra di noi».
Probabilmente, l'aristocrazia sacerdotale di Gerusalemme ha speditamente interrogato Gesù, poi lo ha
consegnato a Pilato con un'accusa atta a farlo condannare.
L'azione giudiziaria dev'essere stata procedura usuale nelle province, in cui il magistrato romano celebrava
tutto il processo ed emetteva la sentenza. Poiché Gesù non era cittadino romano, fu certo sbrigativa.

Quanto alla motivazione, l'iscrizione affissa alla croce recava « il re dei Giudei» quindi Gesù fu condannato
come ribelle politico. Non saranno stati i suoi seguaci a inventare il fatto, ma sarà stato denunciato a Pilato
come ribelle da chi sapeva che l'autorità romana non lo avrebbe condannato per divergenze interne al
giudaismo. L' aristocrazia sacerdotale poi non avrà ignorato che Gesù non si era presentato come liberatore
politico.
La denuncia avrà anche trovato un pretesto nell'appellativo di messia che molti dovevano aver applicato a
Gesù. Una pretesa messianica però non motivava una condanna a morte.
Oltre al timore che Gesù provocasse una sommossa e la repressione romana, movente principale
dell'aristocrazia sacerdotale devono essere state la sua critica al Tempio, nonché la sua offerta di una
riconciliazione con Dio che aggirava di fatto i meccanismi di espiazione legati al Tempio.

Gesù subì dunque una pena disonorante, applicata soprattutto agli schiavi e largamente usata dai Romani al
fine di dissuadere i dominati da qualunque ribellione. In terra d'Israele, questo supplizio era stato adottato
anche da sovrani locali ed i Romani avevano proceduto anche in Israele a crocifissioni di massa, che
sarebbero riprese con l'assedio di Gerusalemme nel 70.
I condannati venivano flagellati, poi inchiodati e sollevati: nudi e spesso in posizioni degradanti, erano
esposti allo scherno dei passanti e dopo ore o giorni di tormenti morivano. I cadaveri venivano lasciati a
lungo sulla croce in balia di uccelli da preda e i resti erano gettati in fosse comuni o abbandonati ai cani.

Qualcuno ritiene che questo sia stato anche il destino di Gesù.


Tuttavia vi sono esempi di crocifissi che le famiglie ebbero il permesso di deporre e seppellire. Secondo tutti
e quattro i vangeli, Giuseppe d'Arimatea, un membro del sinedrio, avrebbe ottenuto da Pilato il permesso di
staccare il corpo dalla croce e lo avrebbe deposto in una tomba sotto gli occhi di alcune donne della cerchia
di Gesù.

Che pochi giorni dopo la tomba sia stata ritrovata vuota è una notizia che non compare sino al Vangelo
secondo Marco, intorno al 70, benché i discepoli di Gesù abbiano sostenuto prestissimo che Dio lo aveva
resuscitato.
Se il racconto abbia un fondamento storico o no è questione ancora discussa e in ogni caso dal punto di vista
storico non se ne può dedurre la resurrezione di Gesù, che si situa su di un piano diverso. Per la storia, la
vicenda personale di Gesù termina con la sua sepoltura.
Capitolo 2 - Dagli ebrei seguaci di Gesù all'antagonismo fra cristiani ed ebrei

Il problema della transizione

La transizione da una religione a un'altra o la trasformazione di una religione in un'altra, è una delle
dinamiche più delicate e complesse della storia delle religioni. Si verifica principalmente nel caso delle
religioni fondate quando, per l'iniziativa di un personaggio storico considerato il fondatore, incomincia ad
affermarsi all'interno di una determinata tradizione religiosa una nuova proposta che progressivamente si
differenzia dalla matrice di partenza e attraverso un processo più o meno lungo e articolato sfocia in una
religione nuova e autonoma.
Quello che va dal giudaismo al cristianesimo rappresenta forse il caso più difficile e complicato di questi
passaggi.

Un modello che ha conosciuto una particolare fortuna è quello della "separazione delle vie" tra giudaismo da
un lato e cristianesimo dall'altro, con svariate discussioni per identificare il momento cronologico o l'evento
determinante che avrebbero causato questa separazione, anche se la maggioranza degli studiosi si orienta per
gli anni successivi alla guerra giudaica del 132-135, scatenata da Bar Kokhba, la terza rivolta contro Roma
scoppiata in Cirenaica, Egitto e Cipro. Se si segue questo modello diventa difficile parlare di cristianesimo in
riferimento al periodo che va dalla morte di Gesù agli eventi della separazione.

Daniel Boyarin (2004) ritiene che sia necessario adottare un modello più flessibile e suggerisce quello
ondulatorio in analogia con il fenomeno dell'interferenza delle onde come quelle che si producono quando si
lanciano contemporaneamente più sassi in uno stagno.
Sfruttando questa metafora Boyarin sostiene che il cristianesimo non sarebbe nato in seguito a una
separazione avvenuta in un momento precisamente identificabile a partire da un giudaismo originario
piuttosto uniforme, ma il cristianesimo avrebbe avuto origine da specifiche scelte operate da gruppi differenti
e dalla conseguente loro aggregazione e diffusione, fino a formare un agglomerato nuovo all'interno di quella
vasta gamma di gruppi che costituiva il giudaismo del tempo e comprendeva anche i seguaci di Gesù.
Questo processo si sarebbe concluso soltanto nel IV secolo, quando l'intervento degli apparati di potere
ideologico e repressivo dell'Impero rese possibile la nascita di una vera e propria religione nuova, dai confini
chiari e netti e permise di stabilire in modo preciso l'appartenenza e rendere operativa l'esclusione.

La proposta di Boyarin ha suscitato un acceso dibattito, senza convincere tutti gli studiosi.
Piuttosto che pensare a un preciso momento della storia per la separazione del cristianesimo dal giudaismo, è
più appropriato pensare a un processo, lungo e complesso, al termine del quale, dalla matrice di partenza, il
cosiddetto "giudaismo del Secondo Tempio" (categoria con la quale si indica il periodo fino alla distruzione
del 70, in cui si distinguevano sadducei, farisei, esseni, i gruppi che confluiranno nel movimento
rivoluzionario zelota, i seguaci di Giovanni Battista e altri) emergeranno due entità non soltanto religiose, ma
anche culturali: il giudaismo rabbinico ed il cristianesimo.

L’attuale critica storica sconsiglia di continuare a usare il termine "giudeocristianesimo" che ha avuto lunga e
grande fortuna storiografica, ma di cui è sempre stato difficile dare una definizione univoca: infatti, per
quanto riguarda le origini esso è contraddittorio rispetto al dato di fatto che i fedeli di Gesù sono parte del
giudaismo e per il periodo successivo, si è incerti se intenderlo in senso etnico o per indicare quanti credono
in Cristo e praticano l'osservanza a prescindere dall'etnia.
Di conseguenza preferiamo espressioni concrete, vicine all'uso antico: Giudei/ebrei credenti in Gesù o
cristiani di origine giudaica.

I primi sviluppi del movimento di Gesù dopo la morte violenta del capo carismatico

Il movimento di Gesù è nato e ha conosciuto i suoi primi sviluppi all'interno del mondo giudaico.
Gesù aveva svolto la sua missione pubblica prevalentemente nei villaggi rurali della Galilea, rivolgendo il
suo messaggio di speranza esclusivamente alla popolazione locale di origine ebraica.
Un mutamento di prospettiva che includa anche i gentili nell'annuncio della salvezza si realizza secondo
Matteo solo dopo la resurrezione di Gesù, attraverso il mandato missionario che invita i discepoli ad
ammaestrare e battezzare tutte le genti.
Dopo la sua morte, il gruppo dei seguaci si ricompattò e si riorganizzò e, seppur non senza tensioni e
difficoltà, riuscì a continuare a promuovere la causa per la quale Gesù si era battuto: l'annuncio del regno di
Dio. Ci dovette, quindi, essere una sostanziale continuità nel movimento di Gesù tra il periodo dell'attività
pubblica del capo carismatico e quello immediatamente successivo alla sua morte.

È verosimile che i discepoli di Gesù della cerchia più stretta, compresi i Dodici (il cui numero dopo il
suicidio di Giuda si ricompone con l'elezione di Mattia) siano ritornati in Galilea, dove potevano contare sul
supporto di numerosi simpatizzanti, per riprendere la predicazione iniziata dal loro maestro.
In Galilea abbiamo scarsissime testimonianze, per lo più indirette. È in questo contesto che va collocata
l'azione dei cosiddetti "predicatori itineranti", che portano avanti il messaggio di Gesù con le stesse sue
modalità.

Dato che Q non contiene riferimenti espliciti alla resurrezione, questi missionari verosimilmente
giustificavano la sua morte ricollegandola alla sorte dei profeti uccisi da Israele ma approvati da Dio.
Ma la morte di Gesù, che è stata infamante (il condannato «appeso ad un albero» viene dichiarato maledetto
dalla Torah), difficilmente avrebbe consentito al grosso dei seguaci di continuare a credere che la sua causa
godesse dell'approvazione divina, se non fosse intervenuto l'elemento nuovo della fede nella resurrezione,
sostenuta dalle esperienze individuali e collettive delle apparizioni del Risorto.
Queste esperienze alimentarono la convinzione che Dio fosse intervenuto in un modo straordinario per
rendergli giustizia, non abbandonandolo alla morte, ma elevandolo a una nuova condizione, nell'attesa che
Gesù ritornasse per inaugurare il regno di Dio, il cui avvento aveva annunciato durante il suo ministero
pubblico, ma che non si era ancora manifestato.

Dei primissimi sviluppi del movimento di Gesù abbiamo notizie scarne, che ricaviamo principalmente dagli
Atti degli Apostoli. Ma i dati desumibili da questa fonte attribuita a Luca sono stati condizionati dal progetto
letterario dell'autore, che concentra a Gerusalemme tutti gli eventi successivi alla morte di Gesù, senza
menzionare in alcun modo la Galilea (contrariamente a Matteo e Giovanni che vi fanno invece esplicito
riferimento) e inoltre obbedisce a una tendenza volta a smorzare i contrasti interni al gruppo dei seguaci di
Gesù.
Gli Atti si aprono fornendo alcune informazioni sulla comunità che si sarebbe raccolta a Gerusalemme e
raccontano che i discepoli più stretti e i familiari di Gesù si riunivano insieme in un'abitazione in città dove si
dedicavano costantemente alla preghiera e frequentavano regolarmente il Tempio. Conducevano una vita
comune. Si trattava quindi di un gruppo perfettamente inserito nel giudaismo del tempo.

Contrariamente però all'armonia che Luca intende mostrare il gruppo dei seguaci di Gesù nel periodo
immediatamente successivo alla sua morte non conobbe sempre una convivenza pacifica, ma fu anche
attraversato al suo interno da tensioni e conflitti, riguardanti innanzitutto la questione della successione alla
guida del movimento e quella dell'accoglienza dei gentili nel gruppo.

La successione alla guida del movimento

Nella competizione per la successione dovettero svolgere un ruolo di vitale importanza le apparizioni: il fatto
di essere stati testimoni, in modo individuale o collettivo, di un'apparizione del Risorto, conferiva senz'altro
un prestigio e un'autorità che erano preclusi a quanti non potevano fare riferimento a una tale esperienza, ma
un prestigio e un'autorità ancora maggiori poteva rivendicare chi avesse potuto dimostrare di essere stato il
primo destinatario di un'apparizione del Risorto.

I racconti delle apparizioni contenuti nei vangeli canonici e nell'apocrifo Vangelo secondo gli Ebrei, le liste
di destinatari di apparizioni riportate da Paolo fanno intuire l'esistenza di gruppi in competizione che
aspiravano a essere riconosciuti come gli eredi autentici di Gesù e della sua opera e che facevano
riferimento, ai fini della loro legittimazione, gli uni a Pietro, ai Dodici e alla cerchia più stretta dei discepoli
di Gesù, gli altri a Giacomo, fratello di Gesù e alla cerchia allargata dei suoi familiari.
Ovviamente non entravano in questa dinamica le donne, anche se è verosimile che la prima destinataria di
un'apparizione fosse Maria di Magdala, come riportato in un'aggiunta posteriore, presente in alcuni
manoscritti, al Vangelo secondo Marco.
Secondo Max Weber tra le modalità con cui i gruppi sociali risolvono il problema della successione dei capi
carismatici figurano la designazione compiuta dallo stesso capo carismatico e l'identificazione del successore
all'interno del suo gruppo familiare, nella convinzione che il carisma sia una qualità del sangue e si trasmetta
per via ereditaria.
È esattamente la situazione che troviamo nel caso della successione di Gesù, il primo si richiama a Pietro,
designato da Gesù come suo successore ed il secondo fa riferimento a Giacomo, fratello di Gesù.

La competizione ha lasciato qualche traccia all'interno degli scritti protocristiani.


Il fatto che i vangeli canonici parlino molto poco dei familiari di Gesù e quando lo fanno tendano a metterli
in cattiva luce indica che essi rappresentano il punto di vista dei gruppi che si richiamavano a Pietro e ai
Dodici. Ciò significa che, sul lungo periodo, furono loro che riuscirono a imporsi.
Ma nel breve periodo anche i gruppi che si richiamavano a Giacomo ottennero risultati significativi, segno
che la competizione per la successione di Gesù si dovette risolvere con un compromesso, che tenesse conto
delle esigenze di entrambe le parti.

Giacomo, finché visse, riuscì a ottenere ampi riconoscimenti del suo prestigio e della sua autorità. Lo
ritroviamo infatti alla guida della comunità di Gerusalemme, affiancato da due membri del gruppo dei
Dodici: Pietro e Giovanni.
I familiari di Gesù continuarono anche dopo la morte di Giacomo a svolgere ruoli importanti nelle comunità
dei seguaci di Gesù in Terra di Israele.
Fu Simeone, cugino di Gesù e Giacomo, a succedere a quest'ultimo alla guida della comunità di
Gerusalemme e a subire il martirio sotto Domiziano.
Sappiamo inoltre che alcuni parenti di Gesù furono a capo di comunità cristiane della Palestina,
verosimilmente in Galilea, sempre al tempo di Domiziano. Si tratta dei nipoti di Giuda, fratello di Gesù e
Giacomo, condotti davanti all'imperatore per il sospetto di avere avanzato pretese messianiche, e quindi di
costituire una minaccia per l'autorità di Roma in Palestina, ma subito rilasciati perché ritenuti innocui.

Con la fine del I secolo dei parenti di Gesù e del loro ruolo di guida nelle comunità cristiane della Palestina si
perdono le tracce.

L'accoglienza dei gentili all'interno del movimento di Gesù

Il processo di ripensamento della figura di Gesù di tutta la sua vita e attività alla luce della fede nella
resurrezione costituisce l'avvio in senso proprio della “cristologia” (=discorso su Cristo), termine con
cui si designa la riflessione di fede su Gesù.
A poco a poco al personaggio viene assegnata una vera e propria funzione salvifica, non più circoscritta
soltanto nel perimetro del giudaismo, ma potenzialmente aperta all'umanità intera. È su questa
trasformazione che si fonda la missione ai gentili, che costituirà l'occasione di altre e forse più gravi tensioni
all'interno del movimento di Gesù e il cui protagonista principale sarà Paolo.

Non siamo in grado di ricostruire in modo preciso come sia nata all'interno di un movimento che almeno alle
origini era totalmente radicato all'interno dello spazio religioso giudaico l'idea della missione ai gentili.
È Luca a darci qualche informazione, distinguendo nella primitiva comunità di Gerusalemme due gruppi che
chiama rispettivamente «ebrei» ed «ellenisti». È probabile che la distinzione alludesse alla prevalente
diversità di lingua (l' aramaico per gli ebrei ed il greco per gli altri) e di origine (la terra di Israele per gli
ebrei e la diaspora ellenistica per gli altri).
A un certo momento fra i due gruppi sarebbero sorte tensioni, che avrebbero portato a una separazione
(istituzione dei Sette, responsabili del gruppo degli ellenisti in contrapposizione ai Dodici, responsabili degli
ebrei).
Le motivazioni addotte da Luca, che parla di lamentele per l'inefficienza del servizio di assistenza alle
vedove sono fittizie. Più verosimilmente gli ellenisti rappresentavano un gruppo particolare all'interno
del movimento di Gesù, che frequentava proprie sinagoghe, aveva una lingua, cultura e tradizioni proprie,
che furono percepite come estranee e pericolose dal gruppo maggioritario degli ebrei.
Successivamente, a seguito di una non meglio definita persecuzione che Luca sembra connettere
all'uccisione di uno dei Sette, Stefano, gli ellenisti furono espulsi da Gerusalemme.
Con il loro allontanamento l'annuncio del vangelo di Gesù lascia la Giudea e attraverso la Samaria (con
l’attività missionaria dell'apostolo Filippo) raggiunge le genti.
Luca fa legittimare questo allargamento della missione ai pagani da Pietro, con l'episodio del battesimo a
Cesarea del centurione Cornelio e della sua famiglia, preceduto da una visione.

La missione degli ellenisti raggiunge rapidamente le città della diaspora ellenistica. Sappiamo che una base
importante di questa missione si era costituita ad Antiochia, capoluogo della provincia di Siria e Cilicia,
importante centro economico e commerciale, amministrativo e militare, dell'Impero romano.
La sua popolazione comprendeva una numerosa comunità giudaica.
Luca dice che ad Antiochia per la prima volta i discepoli di Gesù furono chiamati «cristiani», mettendo in
connessione la notizia con il moltiplicarsi delle conversioni alla fede in Gesù in quella città grazie alla
predicazione di Paolo e Barnaba. Probabilmente tale nome fu attribuito ai seguaci di Gesù dalle autorità
romane perché Paolo non lo menziona mai nelle sue lettere.
Anche il termine derivato, "cristianesimo", compare per la prima volta in Ignazio di Antiochia all’inizio del
II secolo.

Dunque ad Antiochia il movimento di Gesù veniva a contatto con una città cosmopolita, dove i Giudei
rappresentavano una minoranza.
Diversamente da Gerusalemme, i rapporti dei Giudei con le altre componenti etniche della città dovevano
essere molto fitti, sappiamo infatti che intorno alle numerose sinagoghe si muoveva una schiera di
simpatizzanti che, pur senza aderire in modo pieno al giudaismo e alle sue osservanze, ne era attratta per la
sua concezione monoteistica della divinità, per i suoi ideali etici, per l’efficacia di certe sue pratiche
religiose.
Che in un contesto come questo l'annuncio degli ellenisti si potesse rivolgere anche ai pagani non stupisce.

Il giudaismo del tempo, anche se probabilmente non svolgeva in modo attivo una missione volta a convertire
i gentili, prevedeva comunque procedure e regole di ingresso per quanti volessero aderirvi senza essere
Giudei di origine.
Le modalità di adesione al giudaismo erano varie e graduate. I “timorati di Dio” erano semplici
simpatizzanti, i quali apprezzavano del giudaismo gli ideali etici e la fede monoteista e osservavano alcune
pratiche (digiuni, regole alimentari), i proseliti invece sceglievano di aderire in modo pieno al giudaismo,
accettando la circoncisione, un bagno purificatore e la completa osservanza delle prescrizioni della Legge.
Il movimento di Gesù invece era missionario.

Ai gentili che volessero credere in Gesù e aderire al suo movimento si richiedeva l'osservanza della Legge, la
circoncisione, il bagno purificatore, come ai proseliti? Per aderire al movimento di Gesù bisognava prima
aderire al giudaismo oppure no? Si trattava di stabilire se il movimento di Gesù dovesse rimanere circoscritto
entro il perimetro del giudaismo oppure se non dovesse travalicarlo.

Una figura importante della comunità di Antiochia era Barnaba. Fu lui a portare Paolo ad Antiochia, dandogli
modo di condividere l’esperienza dell'annuncio ai pagani intrapresa da quella comunità.
La prassi degli evangelizzatori in Antiochia era quella di accogliere i gentili nel gruppo dei seguaci di Gesù
mediante il battesimo senza richiedere loro la circoncisione, cioè senza imporre una previa adesione al
giudaismo. Questa prassi non mancò di creare problemi interni, provocando tensioni soprattutto con il
gruppo della comunità di Gerusalemme che faceva riferimento a Giacomo.
L'accoglienza di gentili incirconcisi all'interno di un movimento che fino ad allora era composto quasi
esclusivamente da ebrei non poteva non sollevare qualche difficoltà per quanto riguardava la convivenza, dal
momento che l'ebreo osservante per ragioni di purità rituale era tenuto ad adottare particolari accorgimenti
che limitavano la relazione con i non ebrei.
All'interno della comunità cristiana di Antiochia questi problemi dovettero essere risolti senza che fosse
necessario ricorrere a direttive ufficiali e a prese di posizione.
Con il passare del tempo tuttavia il conflitto si acuì e per risolvere le difficoltà fu necessaria una discussione
del problema tra i rappresentanti della comunità di Antiochia e quelli della comunità di Gerusalemme.

Due racconti di Paolo (2° lettera ai Galati) e di Luca (Atti degli Apostoli) sembrano riferirsi allo stesso
episodio, ossia a questa discussione in merito all'opportunità di fare o non fare circoncidere i gentili che si
convertivano alla fede in Gesù, ma i resoconti, accanto a somiglianze, presentano differenze e gli studiosi
non sono giunti a una posizione unanime.
Luca affronta due problemi diversi, entrambi relativi alla missione ai gentili: quello dell'opportunità della
circoncisione per i convertiti alla fede in Gesù provenienti dalle genti e quello delle regole di purità da
osservare per rendere possibile la convivenza tra seguaci di Gesù di origine giudaica e di origine gentile nelle
comunità miste e li presenta come discussi nel corso di una stessa assemblea tenutasi a Gerusalemme (il
concilio di Gerusalemme del 49).
Paolo tiene distinti i due problemi e assegna la discussione del primo (circoncisione) a un incontro privato a
Gerusalemme con Giacomo, Cefa (Pietro), Giovanni, mentre parla del secondo (osservanza delle regole di
purità) in riferimento al racconto della sua controversia con Pietro ad Antiochia (incidente di Antiochia).
Si giunse comunque ad un compromesso in cui l’autorità considerava legittime sia la missione di Paolo che
non prevedeva la circoncisione e l’osservanza delle regole di purità, sia quella di Pietro che le prevedeva.

Il prosieguo della 2° Lettera ai Galati dimostra che Paolo andava oltre la questione della circoncisione e
considerava esonerati dai vincoli della Legge sia i pagani convertiti sia gli stessi Giudei credenti in Gesù.
Giacomo e i suoi invece consideravano i Giudei vincolati all'obbligo dell'osservanza della Legge e non
ammettevano una comunione di mensa con chi era in stato di impurità rituale.
L'incidente di Antiochia riguarda precisamente questo punto. Pietro, prima dell'arrivo dei rappresentanti di
Giacomo, mangia con i convertiti dal paganesimo che non osservavano nessuna norma di purità e poi
trascina dalla sua parte anche Barnaba. Paolo protesta, ma sarà lasciato solo.
In questa occasione viene alla luce il problema di fondo, che va ben al di là di una semplice disputa sulle
modalità di conversione dei gentili: qui si confrontano due concezioni radicalmente diverse del modo di
aderire al movimento di Gesù e le difficoltà della loro coesistenza si manifestano fin da subito.

Per Paolo nella nuova “ekklesia” dei seguaci di Gesù ogni distinzione è superata e la fede nel Cristo morto e
risorto assicura la salvezza a tutti nello stesso modo, quindi i convertiti di origine gentile dovevano essere
accolti senza alcuna restrizione.
Nel racconto del concilio di Gerusalemme invece Luca ci presenta le due diverse posizioni, richiama quella
di Paolo (mettendola però in bocca a Pietro) e ci illustra anche quella di Giacomo. Egli concorda con Pietro
sul fatto che secondo il piano provvidenziale di Dio ai gentili deve essere consentito l'accesso alla salvezza,
ma propone una modalità diversa, richiamandosi alla parola dei profeti.
Il contesto è la restaurazione di Israele nei tempi messianici la quale prevede la salvezza per le nazioni, ma
senza che queste perdano o mutino la loro identità: i gentili resteranno tali e otterranno la salvezza se si
aggregano al popolo di Israele, ma rimanendo distinti da esso.
Quindi nell'era messianica inaugurata dalla venuta di Gesù, le nazioni si convertiranno, cioè abbandoneranno
le loro credenze e le pratiche idolatriche e saranno ammesse al culto dell'unico vero Dio di Israele, ma senza
essere assimilate a Israele.

Anche sul ruolo svolto da Gesù nell'offerta della salvezza ai gentili Giacomo assume una posizione
particolare. Per Pietro negli Atti (cioè per Paolo) alle nazioni è offerta la salvezza grazie all'ascolto del
vangelo predicato, ossia grazie all'annuncio di Gesù e della redenzione da lui compiuta.
Per Giacomo invece alle nazioni è offerta la salvezza attraverso la conversione al vero Dio (egli non
menziona neppure Gesù) e la funzione di Gesù è semplicemente quella di inaugurare i tempi messianici.

La conseguenza che Giacomo trae dal suo discorso è che i convertiti alla fede nel vero Dio (non in Gesù)
debbano essere accolti, ma non si dovrà imporre loro la completa osservanza della Legge (circoncisione),
bensì soltanto un numero molto limitato di norme di purità ricalcate su quelle imposte nell'Israele antico agli
stranieri residenti che consentissero la convivenza dei credenti delle due provenienze nelle comunità miste.
È questo il cosiddetto "decreto apostolico", inviato alle chiese di Antiochia, Siria e Cilicia da Giacomo e
dalla comunità di Gerusalemme, il quale comprende quattro divieti: di consumare gli “idolotiti”, ossia la
carne offerta agli idoli nei templi pagani, di cibarsi di sangue e della carne di animali soffocati (non macellati
in modo da farne fuoriuscire completamente il sangue, considerato sede della vita) e di adottare alcuni
comportamenti sessuali tra consanguinei.

Paolo nelle sue lettere non mostra di conoscere questo decreto, sembra quindi che non abbia avuto
applicazione nelle comunità paoline.
Tuttavia il decreto, che doveva caratterizzare soprattutto la missione di quanti si richiamavano a Giacomo e
alla sua cerchia, ebbe larga diffusione nei primi secoli (testimonianza di Plinio il Giovane nella
lettera indirizzata a Traiano dice che in Bitinia non si riusciva più a vendere la carne immolata agli idoli
prima della sua azione repressiva contro i cristiani).

All’inizio degli anni 50 del I secolo quindi il movimento di Gesù si presenta già come una realtà complessa e
articolata, all’interno della quale si possono distinguere due gruppi: quello dei credenti in Gesù di origine
giudaica e quello dei credenti in Gesù di origine gentile.
Non si tratta di gruppi organizzati in modo unitario e autonomo e numerose debbono essere state le
differenze al loro interno.
Tuttavia, essi si distinguono principalmente per alcune caratteristiche, che non riguardano tanto le credenze o
le dottrine professate, ma le pratiche religiose, la condotta di vita, le autorità cui si richiamano e i rapporti
con le istituzioni giudaiche.

La comunità di Gerusalemme e i credenti in Gesù di origine giudaica

I credenti in Gesù di origine giudaica sono rappresentati innanzitutto dalla comunità di Gerusalemme,
guidata da Giacomo, fratello di Gesù.
Giacomo e gli anziani della comunità sviluppano una propria missione con caratteristiche diverse da quella
di Paolo.
Non mancano i conflitti con le autorità giudaiche: Pietro viene fatto arrestare dai sacerdoti perché annunciava
in Gesù la resurrezione dei morti, sempre i sacerdoti fanno incarcerare gli apostoli.

Ma l'episodio più grave di questi conflitti con le autorità giudaiche è rappresentato proprio dall'uccisione di
Giacomo, fratello di Gesù. Il fatto non è raccontato negli Atti degli Apostoli, ma ce ne parla lo storico ebreo
Flavio Giuseppe. L'autorità sacerdotale, in questo caso il sommo sacerdote Anano il Giovane, approfittando
di un vuoto di potere convoca il sinedrio e fa condannare alla lapidazione Giacomo con la generica
motivazione di avere trasgredito la Legge. Siamo nell'anno 62, quando a Gerusalemme e nella Giudea già
fervono i preparativi in vista dell'insurrezione contro Roma, che scoppierà nel 66.
La comunità di Gerusalemme si trova senza capo e il suo atteggiamento nei confronti degli altri gruppi
giudaici dopo quanto è successo è caratterizzato dalla diffidenza e dalla paura.

Anche i seguaci di Gesù dovettero sentire la pressione di quanti li invitavano a prendere posizione e a
schierarsi nei propositi di rivolta contro l'oppressore romano. Ma una notizia di Eusebio ci informa che prima
dello scoppio dell'insurrezione la comunità cristiana di Gerusalemme abbandonò la città per trasferirsi al di
là del Giordano, nella città di Pella.
Sulla storicità di questa migrazione a Pella della comunità di Gerusalemme si è molto discusso e gli studiosi
sono tuttora divisi.
A favore dell'attendibilità storica vi sono alcune circostanze: la cresciuta insicurezza della vita della comunità
cristiana a Gerusalemme dopo la messa a morte di Giacomo, la sua scarsa propensione a impegnarsi nella
lotta armata contro l'oppressore romano conformemente a quello che era stato un atteggiamento di fondo
di Gesù durante il suo ministero pubblico e la constatazione che la comunità cristiana sopravvisse alla guerra
e alla distruzione di Gerusalemme dopo l’insurrezione giudaica contro Roma del 66-77, cosa che sarebbe
difficilmente pensabile se fosse rimasta nella città.
Terminate le ostilità è verosimile che una parte della comunità sia ritornata se non proprio a Gerusalemme
almeno nelle regioni al di qua del Giordano.
Un'altra parte, invece, dovette restare nelle regioni della Transgiordania, come confermano numerose fonti.

Che i seguaci di Gesù fossero ancora numerosi e attivi in Giudea al tempo della seconda insurrezione
scatenatasi contro Roma (133-135) è attestato da una notizia di Giustino, il quale riferisce che il
leader della rivolta, Simone Bar Kokhba, aveva ordinato che i cristiani fossero severamente puniti se non
rinnegavano la messianicità di Gesù. Egli era anche molto severo con i Giudei che si rifiutavano di aderire
all’insurrezione.

Il momento della guerra del 133-135 segnò una svolta decisiva nei rapporti tra i seguaci di Gesù della
Palestina e gli altri Giudei: per ben due volte i primi si erano rifiutati di schierarsi a fianco dei loro fratelli in
quella che era sentita come una causa comune nazionale contro lo straniero oppressore e questo rifiuto
dovette essere sempre più percepito come un tradimento che li assimilava al nemico.
Questo contribuì a isolare i gruppi dei cristiani di origine giudaica dagli altri gruppi del giudaismo del tempo.
Le fonti superstiti ci forniscono alcune informazioni anche sulla situazione in Asia Minore.
Qui le comunità giudaiche nei primi secoli erano numerose e piuttosto bene integrate nella vita delle città che
abitavano. Tuttavia, l'istituzione del fiscus Iudaicus sotto Vespasiano in seguito alla distruzione del Tempio di
Gerusalemme e in particolare il suo inasprimento sotto Domiziano, mutarono profondamente la situazione.
Le tensioni tra le comunità giudaiche della diaspora e l'amministrazione romana e le aristocrazie pagane
locali si acuirono e in questa situazione di reciproca diffidenza e sospetto i Giudei si sentirono come
obbligati a ribadire costantemente la loro fedeltà a Roma.

Proprio nello stesso periodo poi si assiste a una progressiva criminalizzazione dei cristiani da parte degli
intellettuali e delle autorità romane, considerati come adepti di una superstizione irragionevole e
potenzialmente pericolosi dal punto di vista politico, come illustrano i provvedimenti presi contro di loro a
Roma da Nerone e in Bitinia da Plinio negli anni 112 -113, sotto Traiano.
Anche se i Romani avevano dimostrato, in più occasioni, di essere perfettamente in grado di distinguere i
cristiani dai Giudei, questi ultimi avevano un crescente interesse a sottolineare la loro separazione dai
cristiani in modo da evitare qualsiasi confusione con questi. Se nel caso dei cristiani di origine gentile la
distinzione si imponeva da sé, nel caso dei cristiani di origine giudaica la confusione restava possibile.

È quindi verosimile che le misure adottate dai Giudei per salvaguardare la propria identità agli occhi delle
autorità romane avessero come obiettivo soprattutto i cristiani di origine giudaica.
Questa situazione non necessariamente presuppone procedure formali di espulsione dei fedeli in Gesù dalle
comunità giudaiche, ma riflette il punto di vista di quei Giudei credenti in Gesù che, in nome di un lealismo
nei confronti dei Romani, si vedono improvvisamente emarginati dalle comunità di cui facevano parte, con le
conseguenze che ciò comportava: isolamento, difficoltà nei rapporti familiari e sociali, ostacoli nel lavoro,
perdita di privilegi. In particolare la mancata iscrizione negli elenchi dei contribuenti fiscus Iudaicus, che
veniva raccolto e gestito dalle stesse comunità giudaiche, esponeva alla possibilità di incorrere nelle misure
repressive (il carcere) adottate dai Romani nei confronti dei cristiani.

Verso la metà del II secolo, Giustino affronta per la prima volta in modo esplicito e diretto il problema dei
cristiani di origine giudaica e del loro ruolo all'interno della più vasta compagine dei seguaci di Gesù.
Nel suo Dialogo con Trifone l'autore affronta con l'interlocutore giudeo la questione del significato e della
portata salvifica della vicenda terrena di Gesù e il problema dei rapporti tra i seguaci di quest'ultimo e i
Giudei che non hanno aderito al suo messaggio.
Una sollecitazione del suo interlocutore spinge Giustino a pronunciarsi sulla compatibilità ai fini del
conseguimento della salvezza tra l'essere giudeo e il voler continuare a osservare le prescrizioni della Legge
e il credere in Gesù e obbedirgli, seguendo quindi la sua di legge.

La risposta di Giustino è caratterizzata da tolleranza e flessibilità. Egli distingue, all'interno della vasta
compagine dei credenti in Gesù diversi gruppi caratterizzati da atteggiamenti diversi.
Tra i cristiani di origine gentile si profilano due posizioni differenti: una più moderata, condivisa da Giustino
stesso, che accetta di vivere in comunione con i Giudei credenti in Gesù che continuano a osservare le
prescrizioni della Legge e ammette la possibilità che si salvino, purché essi non vogliano imporre anche agli
altri cristiani l'osservanza di tali prescrizioni, e una più radicale che nega a questi seguaci di Gesù la
possibilità di salvarsi e rifiuta la comunione con loro, ritenendo che l'osservanza della Legge non sia
compatibile con la fede in Gesù Cristo. Una terza categoria è rappresentata da quei cristiani provenienti dalle
genti che attratti e affascinati dal giudaismo decidono di osservare le prescrizioni della Legge. Pure loro
secondo Giustino si possono salvare.
Sono invece esclusi dalla salvezza quanti, passando a condurre una vita conforme alla Legge, rinnegano il
Cristo.
Anche tra i Giudei credenti in Gesù si fronteggiano moderati e radicali: i primi, pur continuando
nell'osservanza delle norme rituali giudaiche, non pretendono di imporle anche ai cristiani provenienti dalle
genti e accettano la comunione con questi ultimi, i secondi, più intransigenti, vorrebbero imporre anche ai
cristiani di origine gentile l'osservanza delle prescrizioni rituali e quindi rifiutano la comunione con chi non
si sottometta a questa condizione.
Infine si fa riferimento ai Giudei che non credono nel Cristo e scagliano anatemi contro i cristiani, secondo
Giustino non c'è salvezza possibile per loro.
Purtroppo la testimonianza dell'apologista non permette di quantificare in modo preciso il fenomeno e di
stabilire la rispettiva incidenza delle opposte tendenze. In ogni caso, dalla sua testimonianza emerge quanto
variegata fosse la composizione delle comunità cristiane della Siria e Palestina nella prima metà del II secolo
e come, accanto ad ambienti attraversati da forti tensioni, ce ne fossero altri dove i diversi gruppi potevano
coesistere pur in presenza di credenze e pratiche religiose anche molto diversificate.

L'emergenza del fenomeno gnostico nella seconda metà del II secolo contribuì in modo decisivo alla messa
in crisi di questo delicato equilibrio e favorì l'aggregazione di una corrente maggioritaria, la cosiddetta
Grande Chiesa (chiamata così dal pagano Celso, che nel II secolo scrisse la prima opera contro i cristiani)
che progressivamente si adoperò per marcare in modo sempre più netto i confini di quella che stava
diventando una nuova religione, il cristianesimo.

I rapporti tra i vari gruppi dei seguaci di Gesù, ormai diffusi in gran parte del Mediterraneo, subiscono
pertanto un profondo mutamento verso la fine del II secolo. In questa nuova situazione, certe credenze e
pratiche che fino a poco tempo prima erano accettate (anche se non condivise da tutti) incominciano a essere
guardate con diffidenza perché divergono dalla norma che si sta imponendo e i gruppi che le veicolano sono
bollati come eretici e di conseguenza vengono marginalizzati ed esclusi.

In questo contesto anche quei gruppi di seguaci di Gesù di origine giudaica che continuavano a osservare le
prescrizioni della Legge finirono per essere considerati eretici perché divergevano da quella linea di credenze
e pratiche che si stava imponendo come normativa.
Nei cataloghi delle eresie essi compaiono sotto nomi differenti (cerintiani, ebioniti, elchasaiti), che fanno
riferimento a personaggi, reali o fittizi, presentati come fondatori delle rispettive sette.
Gli eresiologi concordano nel sottolineare come i membri di questi gruppi continuino a osservare i precetti
della Legge (circoncisione, norme alimentari, sabato), conducendo uno stile di vita giudaico il che
significa che essi dovevano essere bene integrati nelle comunità giudaiche del tempo.

Non sembra però che il motivo della loro inclusione tra gli eretici fosse il perdurare del loro stretto legame
con il giudaismo, quanto piuttosto la dottrina cristologica da loro professata che considerava Gesù un uomo
comune, nato da un normale rapporto tra Maria e Giuseppe e poi eletto da Dio come suo figlio per le sue
particolari virtù (adozionismo).
Questo modo di vedere la figura di Gesù era opposto rispetto alla dottrina dell'incarnazione del Figlio di Dio
preesistente, che nel frattempo si stava elaborando nella Grande Chiesa.
È ragionevole pensare che questi gruppi fossero diffusi in Palestina soprattutto nelle regioni al di là del
Giordano e poi in Siria e nelle regioni più orientali dell'Impero romano almeno fino al IV secolo, quando la
situazione muterà nuovamente con Costantino.

Il successo della missione paolina e i credenti in Gesù di origine gentile

La situazione è diversa nei gruppi di credenti in Gesù di origine gentile che progressivamente a partire dal
successo della missione paolina diventano maggioritari.

Secondo gli accordi presi durante il concilio di Gerusalemme le missioni ai gentili di Giacomo e di Paolo
non imponevano ai convertiti la circoncisione, segno dell'appartenenza al popolo di Israele, per aderire al
movimento di Gesù non era dunque necessario essere o diventare ebrei.
Restava però il problema della convivenza nelle comunità miste, risolto con la richiesta esplicita di osservare
un minimo di norme di purità rituale (le quattro clausole del decreto) nel caso della missione dei cristiani di
origine giudaica e con l'invito, nel caso di Paolo, ad adeguare i propri comportamenti alle esigenze dei
fratelli più deboli per evitare di scandalizzarli.

Non contemplando gli obblighi dell'osservanza la missione paolina, che è quella che noi meglio conosciamo,
ottiene grandi successi e le comunità di credenti in Gesù di origine gentile diventano sempre più numerose.
In questo contesto è facile capire come i rapporti di queste comunità con il giudaismo, in particolare con le
istituzioni giudaiche, si allentino progressivamente.
Il patrimonio religioso condiviso con il giudaismo però resta grande: sono comuni la credenza in un Dio
unico, le Scritture sacre, i valori etici, alcune pratiche religiose come il digiuno e l'elemosina, le principali
feste liturgiche cristiane sono adattamenti di analoghe feste giudaiche.
Ma al tempo stesso si assiste a una progressiva differenziazione dei credenti in Gesù provenienti dalle genti
rispetto al giudaismo. Tale processo si svolge su due piani: sul piano politico amministrativo e sul piano
culturale.

Le autorità romane iniziarono abbastanza presto a identificare i seguaci di Gesù come un gruppo a parte e a
distinguerli dai Giudei. L'appellativo stesso di "cristiani", dato ai seguaci di Gesù per la prima volta ad
Antiochia risale all'autorità amministrativa romana.

Ma l'elemento che contribuì in modo decisivo alla distinzione dei cristiani dai Giudei fu l'istituzione fiscus
Iudaicus, che sostituiva la tassa che tutti i Giudei pagavano al Tempio di Gerusalemme dopo la distruzione di
quest'ultimo nel 70.
Per riscuotere la tassa, i Romani dovettero censire i Giudei. L'iscrizione alle liste dei contribuenti fiscus
Iudaicus permetteva quindi all'autorità romana di identificare i Giudei e di distinguerli da altri gruppi etnici e
religiosi e in particolare dai credenti in Gesù di origine gentile i quali rivendicavano per sé il diritto di
professare liberamente la loro fede, svincolati dagli obblighi di fedeltà alla religione civile dell'Impero
romano, senza però vedersi riconosciuti i privilegi in ambito religioso di cui godevano i Giudei.

Un secondo fattore che contribuì a differenziare i cristiani di origine gentile dai Giudei è di tipo culturale.
Nello svilupparsi dei contenuti dottrinali della loro fede i cristiani di origine gentile fecero ampio ricorso agli
strumenti concettuali offerti dalla tradizione filosofica greca, si assistette quindi a una sorta di trasferimento
del patrimonio dottrinale del cristianesimo nascente che originariamente era espresso in categorie di pensiero
semitiche e ora veniva riformulato in categorie di pensiero greche per renderlo maggiormente fruibile da
parte di persone appartenenti a quella cultura.
Questo fu decisamente rifiutato e contrastato da parte del rabbinismo nascente che nei primi decenni del II
secolo riprese in mano le sorti del giudaismo, in crisi dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme,
riformandolo e riunificandolo sotto la guida dei rabbi.

In tale riformulazione del messaggio cristiano attraverso la filosofia greca i seguaci di Gesù di origine gentile
si servirono in particolare del metodo allegorico. Questo procedimento interpretativo permetteva di far dire al
testo altre cose rispetto al suo senso immediato (allegoria=dire altre cose) cogliendo significati nuovi e più
profondi nelle Scritture sacre che rimasero per i cristiani quelle giudaiche, anche dopo che a esse si
affiancarono quelle propriamente cristiane.
Il metodo allegorico consentiva di interpretare alla luce di Cristo, come prefigurazione dei fatti della vita sua
e dei suoi seguaci, tutta la storia ebraica.

Il successo della diffusione del messaggio cristiano tra i gentili e il rifiuto di tale messaggio da parte della
maggioranza degli ebrei, con il conseguente progressivo allontanamento del cristianesimo nascente
dal giudaismo, suscitò interrogativi negli autori cristiani a partire dalla metà del II secolo.
Ci si interroga sul valore normativo della Legge che i cristiani non osservano più pur accettando le Scritture
che la contengono e sul significato delle profezie nelle quali i cristiani leggono riferimenti più o meno
espliciti alla vicenda di Gesù che i Giudei però non riconoscono.
La discussione è volta a dimostrare come il valore normativo della Legge fosse provvisorio e la sua funzione
si sia esaurita con l'avvento del messia Gesù e come il senso cristologico delle Scritture sfugga alla
comprensione dei Giudei per l'indurimento del loro cuore e per la loro ostinata riluttanza a riconoscere gli
inviati di Dio in mezzo a loro.
La conclusione è che nel progetto salvifico divino l'antico Israele viene ora sostituito dai cristiani, che
costituiscono il nuovo popolo di Dio.

Questi sono i temi che saranno ripetutamente ripresi e riformulati nei trattati adversus Iudaeos, una forma
letteraria che conoscerà una grande fortuna nell'antichità e nel medioevo.
Via via in molti di questi testi e in generale nella produzione letteraria cristiana prese piede anche l'accusa di
deicidio rivolta in generale al popolo ebraico.

Il modello della sostituzione è quello che si impone soprattutto negli scritti polemici rivolti ai Giudei che
documentano un problema peculiare dei cristiani, cioè quello di definire la propria identità religiosa.
Invece nei confronti del mondo pagano e in particolare delle autorità romane, il problema si configura in un
modo nuovo: i cristiani si presentano come distinti sia dai Giudei sia dagli adepti dei culti politeistici diffusi
nell'Impero romano.
Le autorità romane non avevano tardato molto a identificare i cristiani come un gruppo distinto, ma tale
identificazione era stata in un primo tempo di tipo politico-sociale e indicava una fazione o partito dei
seguaci di un capo di nome Cristo.
Invece gli autori cristiani spostano l'accento sul piano religioso. Rivendicano per sé il diritto di essere
riconosciuti come un gruppo religioso autonomo degno di essere affiancato agli altri gruppi religiosi del
mondo antico.
Svolta decisiva nel processo di differenziazione per i cristiani di origine gentile rispetto al giudaismo e alle
sue istituzioni.
La contiguità fra cristiani e Giudei però continuava a essere stretta.
Non c'è però solo ostilità da entrambe le parti, c'è anche la suggestione esercitata dai riti ebraici sui
cristiani.

I Giudei avranno poi una migliore conoscenza delle Scritture: Girolamo nel IV secolo intraprende l'opera di
traduzione della Bibbia direttamente dall'ebraico in latino (chiamata in seguito Vulgata) anche per evitare che
nel contenzioso sull'interpretazione delle Scritture i Giudei si appellino al testo ebraico sconosciuto ai
cristiani che invece in Occidente usavano la traduzione latina della Bibbia dei Settanta, cioè della Bibbia
greca.

La svolta costantiniana

Con l'avvento al potere dell'imperatore Costantino (306-337) la situazione subì profondi cambiamenti.
Dopo i falliti tentativi dei suoi predecessori come Diocleziano (284-305) di restaurare l'Impero in crisi
facendo leva sui valori, i culti e le usanze del passato, Costantino cambiò radicalmente politica e offrì
ai cristiani fino ad allora considerati un ostacolo e una minaccia, tolleranza e pace in cambio di un
riconoscimento e di un appoggio del potere imperiale.
Iniziava così l’alleanza politica tra Impero e Chiesa che sarebbe durata per tutto il medioevo.

Con il mutamento della situazione dei cristiani anche quella dei Giudei andò incontro a trasformazioni,
sfavorevoli nei loro confronti.
Pur se non è Costantino a sancire la separazione fra le due diverse religioni, già avvenuta nei fatti, è indubbio
che una serie di sue misure vanno nella direzione di assecondare lo sguardo negativo dei cristiani sui Giudei
e fanno si che il loro culto fosse considerato inferiore a quello cristiano e al culto tradizionale pagano (accusa
di deicidio dei Giudei durante il concilio di Nicea discutendo sulla Pasqua cristiana).

Dal 324 in poi è distinguibile, come attesta il Codice Teodosiano, un interesse di Costantino a legiferare
in materia di giudaismo: viene limitato il privilegio dell'esenzione dagli incarichi onerosi nelle curie, si
proibisce la lapidazione dell'ebreo apostata nonché la circoncisione forzata degli schiavi.
Le disposizioni comprendono anche il divieto di unione di ebrei con donne non ebree.

Per quanto riguarda i cristiani di origine giudaica, fino ad allora inclusi nelle liste degli eretici soprattutto per
la loro cristologia considerata erronea, si assiste a un mutamento di prospettiva negli autori del IV secolo.
Secondo Girolamo i cristiani di origine giudaica, che egli identifica con il gruppo dei nazareni, pur
professando una cristologia perfettamente ortodossa sono biasimati dagli altri cristiani per il fatto di
continuare nelle pratiche giudaiche e dagli altri Giudei per il fatto di credere in Gesù.
Di conseguenza non è possibile essere cristiani e al tempo stesso continuare a condurre una vita al modo dei
Giudei: a voler essere al tempo stesso l'uno e l'altro, si finisce per non essere né l'uno né l'altro.

La costruzione dell'identità cristiana richiede una definizione precisa del patrimonio dottrinale e delle
pratiche religiose (a questo provvederanno i concili) e una altrettanto precisa identificazione dei suoi tratti
distintivi che lo differenziano da altre realtà religiose.
In questa prospettiva ogni tipo di contaminazione, che mescoli realtà religiose diverse o si collochi
nell'interstizio tra l'una e l’altra è considerata potenzialmente pericolosa perché vanifica i confini e
compromette la purezza dell’identità.
I cristiani di origine giudaica che vorrebbero continuare a essere al tempo stesso sia ebrei sia cristiani non
hanno futuro: si lasceranno progressivamente assimilare alla forma di cristianesimo dominante, oppure
saranno condannati a un'estrema marginalità.

L'alleanza politica tra Impero e Chiesa con il passare del tempo si consolida sempre di più.
Nel 380, l'editto di Tessalonica promulgato dall'imperatore Teodosio I fa del cristianesimo nella forma
cattolica l'unica religione dell'Impero.

Nel 388, quando in seguito all'incendio della sinagoga giudaica di Callinico in Mesopotamia, appiccato dai
cristiani della città guidati dal loro vescovo, le autorità imperiali impongono loro la ricostruzione dell'edificio
distrutto, Ambrogio di Milano ottiene dall'imperatore Teodosio la revoca dell'imposizione, sancendo in
questo modo la superiorità dell'autorità della Chiesa su quella dell'imperatore.

Il Codice Teodosiano fissa poi nel 429 l'estinzione del patriarcato giudaico: il centro del giudaismo si sposta
verso Oriente, in Mesopotamia, fuori dei confini dell'Impero romano. Privo di un rappresentante ufficiale che
comunichi con l'imperatore il giudaismo vede progressivamente dissolversi i suoi privilegi, di cui aveva
goduto per secoli, in questo modo i Giudei saranno a poco a poco assimilati agli eretici e come tali
perseguitati e condannati.
Capitolo 3 - Le molteplici strade del vangelo (I-II secolo) e il consolidamento ortodosso del III secolo

Cristianesimo e cristianesimi

Da tempo la ricerca storica è consapevole del pluralismo presente nel cristianesimo fin dalle sue origini. In
tale prospettiva si parla di "cristianesimi" piuttosto che di "cristianesimo".

La tragedia della distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 e l'adesione alla fede in Gesù di un numero
sempre maggiore di gentili, prima quelli più vicini al giudaismo (proseliti e timorati di Dio), ma poi
soprattutto estranei a esso, furono fattori che contribuirono a diversificare e a complicare la vita dei gruppi
dei seguaci di Gesù.
La convivenza tra fedeli di origine giudaica e fedeli provenienti dal paganesimo, anche nei gruppi che
adottavano un atteggiamento di tolleranza reciproca, non era facile.
La posizione assunta da Paolo, per il quale l'unica salvezza è in Gesù Cristo, essendo la Legge inefficace e
superata, fu alla lunga vincente sul piano dell'evangelizzazione perché liberava i pagani da obblighi
costrittivi che costituivano un imbarazzo sociale, ma poteva produrre un atteggiamento di disprezzo nei
confronti di chi si ostinava a credere che l'osservanza fosse parte integrante del lascito di Gesù.

Inoltre la speranza della ricostruzione del Tempio e le rivendicazioni dei Giudei esercitavano una pressione
forte su quanti fra loro credevano in Gesù.
Un documento anonimo in forma epistolare successivamente attribuito a Barnaba, la cosiddetta Lettera di
Barnaba, parla di tali difficoltà. L'autore è un missionario itinerante di Gesù.
Nel suo scritto non compaiono i termini "cristiano" e "giudeo", ma tutta la lettera è un atto di accusa contro
l'Israele storico: l'autore si spinge a sostenere che l'interpretazione letterale della Torah, con il culto nel
Tempio, la circoncisione, i digiuni, sia stata un tradimento della volontà di Dio istigato da un angelo
malvagio, mentre Dio chiede solo un culto spirituale e la fedeltà del cuore.
Questa posizione estremizza sia il messaggio di tipo paolino sia il culto giudaico.
Barnaba ravvisa un pericolo estremo nell'assunzione delle pratiche giudaiche: non si conosce la provenienza
del testo, ma se fosse egiziano come è probabile, la sua reazione contro le pratiche cultuali giudaiche
potrebbe spiegarsi con le difficoltà in Egitto a ridosso della rivolta dei Giudei del 115-117.

Del cristianesimo egiziano non sappiamo nulla prima dell'emergere dei maestri gnostici, il che ha portato in
passato a pensare che nasca con loro. In realtà l'evangelizzazione in Egitto dovette avvenire precocemente da
parte di missionari Giudei. Negli Atti degli Apostoli è ricordata la figura di Apollo, proveniente da
Alessandria d'Egitto, che era già seguace di Gesù quando a Efeso incontrò gli amici di Paolo, i coniugi
Priscilla e Aquila: l'evangelizzazione che aveva ricevuto non contemplava il battesimo, ma era esperto nelle
Scritture.
È facile ipotizzare che altri come Apollo in Alessandria abbiano diffuso il messaggio evangelico all’interno
delle categorie giudaiche, che erano diversificate e dunque avranno prodotto esiti differenziati.
Il cristianesimo egiziano ha quindi una matrice giudaica e il silenzio sulle prime fasi dell'evangelizzazione
può spiegarsi con la catastrofe della rivolta del 115-117 che provoca la decimazione dei Giudei.

Il modo di vivere, di pregare, di riunirsi dei cristiani dipendeva da quello che pensavano su Gesù, sulle
modalità della salvezza da lui portata e sui suoi destinatari.
Non c'era solo la questione se si dovesse osservare la Legge giudaica, ma anche differenti visioni dell'essere
umano: per esempio, nel mondo greco-romano era diffusa l’idea per cui ci si chiedeva se la salvezza e la
resurrezione fossero solo per l'anima, oppure quale fosse il valore della procreazione e dell'assetto sociale per
un cristiano.

Le vie dell'evangelizzazione

A seguito della cacciata dei Sette da Gerusalemme il messaggio di Gesù arriva in Samaria, in Siria e in
particolare ad Antiochia già nel 30.

Anche a Roma giunse rapidamente.


L'episodio della Pentecoste a Gerusalemme narrato negli Atti degli Apostoli con il catalogo dei Giudei
osservanti provenienti da tutte le nazioni che assistono all'evento e la collocazione al centro di esso dei
Romani, trova il suo senso nell’ideale passaggio del vangelo da Gerusalemme a Roma.
Eppure non si va lontani dal vero a pensare che proprio dei Giudei arrivati da Roma a Gerusalemme per il
pellegrinaggio annuale siano ritornati affascinati da qualche predicatore di Gesù e abbiano diffuso il vangelo
a Roma.
Il cristianesimo a Roma si è impiantato in una forma impregnata di cultura giudaica, il che vuol dire che ci fu
la conoscenza della Scrittura ebraica. Lo conferma l'ampio uso di citazioni scritturistiche nella cosiddetta
Prima Lettera di Clemente ai Corinzi, il primo documento cristiano di sicura origine romana (96).

Dalle sette lettere autentiche di Paolo (Romani, 1 e 2 Corinzi, Galati, Filippesi, Tessalonicesi 1, Filemone) e
dagli Atti degli Apostoli abbiamo notizie di qualche spostamento di Pietro e soprattutto dell'evangelizzazione
condotta da Paolo dopo la sua "conversione" e il sodalizio con Barnaba.
Dapprima Paolo si muove in un'area piuttosto limitata, dal porto di Antiochia a Cipro, toccando alcune zone
dell'Asia Minore sia costiere sia dell'interno.
Successivamente espande il raggio d'azione, senza trascurare di tornare a visitare i gruppi di fedeli che aveva
costituito in varie città, fino a passare in Grecia e in Macedonia.
L'unica data sicura, il 52, certificata da un'iscrizione di Delfi, riguarda il primo soggiorno a Corinto dove
incontra Priscilla e Aquila, esuli da Roma.
In seguito si spingerà fino a Efeso, dove c'erano già alcuni credenti in Gesù.

L'azione missionaria di Paolo, che Luca specifica in tre viaggi, sarà interrotta dalla sua cattura a
Gerusalemme, fatta dai Giudei di Asia che lo accusano di aver profanato il Tempio. Dichiaratosi cittadino
romano, passa due anni in custodia a Cesarea e poi, appellatosi a Cesare, viene trasferito a Roma. Paolo
predica a Roma per due anni in una casa presa in affitto (dunque gli erano vietati gli spostamenti,
secondo il regime della custodia militare).
Non sappiamo nulla di certo sulla sua fine.
Una tradizione romana (Prima lettera di Clemente, frammento di Muratori, Atti di Pietro) parla di un
successivo viaggio in Spagna, il paese dove aveva progettato di andare, ma molti storici non le danno
affidamento.
Si ammette invece che morì a Roma.

Oltre alle sette lettere autentiche, sono entrate a far parte del Nuovo Testamento altre cinque che figurano
scritte da Paolo: Colossesi, Efesini e le cosiddette “pastorali” (due a Timoteo e una a Tito).
Le prime due sono con ogni probabilità pseudoepigrafe (cioè scritte da qualcuno che finge di essere il
personaggio menzionato come autore) e certamente lo sono le pastorali.
La pseudoepigrafia, che per la nostra mentalità è un falso, all’epoca era diffusa: gli ignoti autori non pensano
di fare un'impostura, ma considerandosi discepoli di Paolo si assumono il compito di prolungarne
l'insegnamento, adattandolo alle circostanze presenti.
Stabilire la vera paternità di un'opera è invece importantissimo per lo storico.

La Seconda lettera a Timoteo ha un'espressione sconfortata: tutti in Asia hanno abbandonato Paolo. È la
riprova che la tradizione paolina conserva il ricordo che in Asia la missione di Paolo è stata contestata
almeno in parte da missioni di diverso tipo.
Le sette lettere che il veggente Giovanni nell'Apocalisse invia, nel 90 circa, ad altrettante chiese d'Asia da un
lato confermano che l'evangelizzazione dell'Asia avanzava a grandi passi (il numero sette è simbolico di
totalità e quindi le chiese erano di più), dall'altro contengono una precisa contestazione dei caratteri
dell'evangelizzazione paolina. In Asia Minore infatti prevarrà un tipo di evangelizzazione più legata alle
tradizioni giudaiche.

La storia di Paolo è quella più nota in base a fonti attendibili, ma altri missionari avranno agito in modo
simile.
Non tutti hanno avuto la capacità organizzativa di Paolo, che restava in contatto con le chiese fondate
mediante l'invio di lettere e di missionari a lui collegati, ma molti avranno viaggiato come lui insieme ad
almeno un compagno.
Gli Atti ci attestano che la convivenza fra missionari non è sempre facile, ma di solito era una
sicurezza essere almeno in due. Marito e moglie missionari, come attesta Paolo, viaggiavano insieme.
La predicazione di Paolo, a differenza di quella di Gesù, si svolge nelle città. Possiamo immaginare che
anche altri missionari si saranno comportati allo stesso modo, privilegiando i centri urbani.
Fino al IV secolo il cristianesimo rimase un culto sviluppato soprattutto nelle città e poco nelle campagne. Il
motivo sta nell'imponente rete viaria dell'Impero romano: fra i percorsi principali c'era la "via del mare", che
collegava Egitto e Palestina passando per Antiochia di Siria, i centri dell'Asia Minore e terminando al
Bosforo. Da Alessandria partiva anche una via che, passando per l'Africa romana, raggiungeva le colonne
d'Ercole.

Queste vie permettevano di muoversi agevolmente verso Oriente fino alla Mesopotamia e lungo tutto
il Mediterraneo: commercianti e artigiani sono stati in prima fila nel compito missionario, proprio per la loro
facilità di movimento.
Risulta esemplare il caso dei coniugi Priscilla e Aquila, fabbricanti di tende (lo stesso mestiere di Paolo) i
quali si spostano in varie città e sono in grado ogni volta di avere una casa abbastanza grande da ospitarvi
una riunione.
La grandiosa rete di collegamenti era anche un efficace strumento bellico per i Romani. Fra gli
evangelizzatori presto cominciarono a figurare i soldati, che porteranno il cristianesimo nei luoghi più remoti
fino ai confini nordici dell'Impero: Treviri e Colonia, importanti episcopati, erano centri di guarnigioni.
Nonostante che la milizia fosse sconsigliata o proibita da alcuni capi di Chiesa il cristianesimo si diffonde fra
i soldati fra II e III secolo: Tertulliano narra di un soldato cristiano che rifiuta di mettersi la corona in onore
degli dei durante una cerimonia e per questo viene imprigionato: il soldato comunque non è l’unico cristiano
presente, infatti Tertulliano segnala con disapprovazione che gli altri soldati cristiani, invece di apprezzare il
gesto del compagno, lo criticano come turbatore della pace.

Se Siria, Asia, Roma, Grecia, Egitto hanno avuto una precoce evangelizzazione fra I secolo e inizi del II,
altre aree sono state presto raggiunte, come l’India.

Pietro avrebbe battuto le stesse regioni di Paolo, arrivando al Ponto e alla Cappadocia e poi sarebbe morto a
Roma, secondo una tradizione presente già dalla fine del I secolo.

Questi sono solo alcuni nomi che le tradizioni hanno privilegiato perché si ricollegano ai vangeli canonici: la
diffusione del cristianesimo però è avvenuta per la maggior parte attraverso canali anonimi.

L'organizzazione interna delle chiese

Ogni gruppo di persone, fin dagli inizi, per quanto possa essere entusiasta e spontaneo, si organizza al suo
interno. I vangeli fanno capire che Gesù con i discepoli, per spostarsi da un luogo all'altro, aveva
bisogno di qualche risorsa economica, messa a disposizione da componenti del gruppo stesso fra cui alcune
donne o da altri discepoli che, restando nelle loro case e ai lavori abituali, potevano fornire ospitalità.

Dopo la morte di Gesù, il movimento proseguì in varie forme. Erano diverse le modalità di azione dei
missionari. Alcuni predicatori itineranti in Galilea riproducevano le stesse modalità del gruppo più vicino a
Gesù, mentre Paolo e altri adottavano un tipo di missione pianificata.
I missionari generalmente trovavano ospitalità e vivevano grazie al sostegno di seguaci locali.
Paolo ci teneva a lavorare per mantenersi, ma usufruiva anch'egli dell'ospitalità occasionale.

In tutta la prima fase dell'evangelizzazione nei luoghi dove c'erano comunità giudaiche ci si rivolgeva prima
a esse e ai loro simpatizzanti. Ma anche nel caso che molti membri aderissero al messaggio (Paolo a Corinto
riesce a convincere addirittura Crispo, il capo della locale sinagoga) non si raggiungeva un consenso
unanime e dunque le riunioni del gruppo di seguaci di Gesù si organizzavano fuori della sinagoga. Questo
alla lunga provoca distanziamento e separazione.
Sulle riunioni per il culto è Paolo a fornire notizie fondamentali. I suoi adepti continuavano la vita abituale
nelle loro case o in quelle dei padroni se erano schiavi e avevano occasioni di riunione per la preghiera e
cena con la frazione del pane in una stanza fornita da chi era nelle condizioni di farlo.
Egli usa l'espressione «“ekklesia” che si raduna nella casa di ... », cioè chiesa domestica.
L'organizzazione delle riunioni in una casa implica prendere parte e condividere i rapporti gerarchici
all’interno di essa che non corrispondeva alla nostra attuale famiglia, ma comprendeva varie generazioni di
parenti, nonché gli schiavi, sicché quando il padrone aderisce alla fede anche il resto della casa lo segue.
In molti casi il padrone che aveva una casa abbastanza grande, era meglio collocato socialmente e aveva una
migliore istruzione era anche la guida spirituale del gruppo.
Talvolta però padroni compiacenti, senza aderire alla fede dei loro schiavi, concedevano loro di riunirsi nella
dimora padronale.

Se poi c'era un personaggio dotato di ispirazione profetica spesso prendeva il sopravvento e la sua influenza
superava certamente l'ambito ristretto di una chiesa domestica per estendersi ad altri gruppi di fedeli nello
stesso luogo.
Una notizia degli Atti degli Apostoli, parlando in generale della ekklesia di Antiochia, dice che in essa
c'erano «profeti e maestri».

Anche in Paolo il termine usato per indicare la riunione dei fedeli di Gesù è ekklesia, che nel vocabolario
profano significa “raccolta”, “assemblea”. Il termine è quasi del tutto assente nei vangeli e ciò indica
chiaramente che si riferisce ai gruppi di seguaci che si riuniscono e interagiscono nella fase successiva
alla vita di Gesù: è un'adunanza di persone presso un luogo, non un luogo.
Paolo parla al singolare e al plurale, a volte si riferisce all' ekklesia in una casa, a volte all' ekklesia di una
città a volte alle ekklesiai di una regione.
Al significato sociologico si aggiunge presto un significato dottrinale.
Già nella Lettera agli Efesini con ekklesia si intende un'entità che è spirituale e addirittura preesistente.

Il significato primario di ekklesia come assemblea è equivalente a quello di synagoghe (sinagoga), usato
correntemente per indicare l'adunanza di preghiera ebraica. Anche questo secondo termine era usato, pur se
meno di frequente, per indicare il raduno dei fedeli di Gesù.
Possiamo ipotizzare che i Giudei fedeli di Gesù scelsero ekklesia per distinguersi e man mano che cresceva
la distanza fra cristiani e Giudei i vocaboli siano stati messi in contrapposizione, fino a essere rappresentati
iconograficamente nelle cattedrali medievali mediante due figure femminili, la Chiesa sorridente e la
Sinagoga con gli occhi chiusi o bendata, per simboleggiarne la cecità spirituale.

Come erano organizzate le ekklesiai in una città? C'erano sicuramente forme di raccordo fra cristiani di
diversi gruppi in una stessa città, ma ci potevano anche essere diversità dovute all'influsso di diversi
evangelizzatori, come a Corinto dove oltre Paolo operano Apollo e Pietro.
L' apostolo fondatore mantiene nel tempo una certa autorità, anche se talvolta nuovi predicatori potevano
contrastarne l'influsso.
Paolo scrive per mantenere rapporti e guidare le sue ekklesiai e risponde ai quesiti che gli si pongono: anche
se i quesiti potevano giungergli attraverso i suoi collaboratori, è evidente che questi interagivano con
portavoci dell' ekklesia, con persone che si erano assunte o erano state investite del ruolo.
Per indicare ruoli particolari all'interno delle ekklesiai Paolo non ha termini specifici. Però in un caso parla di
episcopi (sorveglianti) e diaconi (servitori, ministri).
L'astratto diakoniai (servizi, ministeri) ha in Paolo una valenza pari alla multiformità dei possibili ruoli
specifici, da lui concepiti come "doni" (carismi in greco): quando parla ai fedeli di Corinto, fra
i quali si verificano fenomeni di profetismo, per frenare gli entusiasmi fa una precisa gradazione dei carismi:
al primo posto ci sono gli apostoli, al secondo i profeti, al terzo i maestri, poi i vari doni spirituali. Da questo
vario vocabolario si ricava che ci sono funzioni diverse nelle chiese paoline, pur in assenza di una precisa
strutturazione.

La Didache (fine I secolo-inizio II secolo), forse di area siriana, mostra una situazione in cui all’autorità di
profeti e maestri si sta sostituendo quella di episcopi e diaconi, che devono essere eletti.
Siamo ormai fuori dalla prima generazione e pertanto questo scritto tende a identificare apostolo e profeta.
La distinzione dei veri profeti dai ciarlatani, che arrivano spesso da fuori e tendono a farsi mantenere dai
fedeli è un problema importante: la Didache, se da un lato raccomanda di guardarsi dal profeta che chiede
soldi, d'altra parte comanda di accogliere il vero profeta a spese del gruppo, mentre il semplice
correligionario che chiedeva di essere accolto doveva lavorare.
Paolo sosteneva che la cosa migliore era che pure l'apostolo lavorasse.
Il pericolo dell’avidità si pone però anche per episcopi e diaconi, visto che la Didache raccomanda di
eleggere persone non desiderose di arricchirsi.
Man mano che l'organizzazione delle chiese si struttura nel corso dei primi tre secoli e si stabilizzano ruoli
precisi, le persone che li ricoprono vengono mantenute dalla comunità e si accrescono i rischi relativi.

Nelle lettere autentiche di Paolo e nella Didache non compare il termine presbyteros (anziano), che avrà
invece grande fortuna: a capo della Chiesa di Gerusalemme secondo gli Atti degli Apostoli ci sono Giacomo
e gli anziani (presbiteri). Questa sorta di collegio è in continuità con gli usi giudaici, ma anche con l’idea che
identifica autorità e anzianità.
Gli Atti li considerano presenti anche nelle chiese paoline, ma adottano probabilmente la terminologia
derivante da una situazione posteriore a quella delle chiese fondate da Paolo.

La Prima lettera di Clemente ai Corinzi attesta per Roma e per Corinto l'identificazione fra episcopi e
presbiteri. Questa fonte ci parla di un conflitto all'interno della Chiesa di Corinto causato dalla rimozione di
alcuni presbiteri dal loro ruolo, voluta da gran parte della comunità. I promotori della rimozione restano
anonimi, ma si capisce che costoro si consideravano più adatti rispetto ai deposti.
Il punto della questione però è se i presbiteri debbono ricoprire il ruolo vita natural durante oppure possono
essere sostituiti.
La Prima lettera di Clemente ai Corinzi, schierandosi con i presbiteri deposti, sostiene che furono gli apostoli
a stabilire i presbiteri a guida delle chiese e per evitare contese aggiunsero la clausola che alla loro morte
fossero sostituiti da altri designati dai predecessori, con l'approvazione dell’assemblea.
Anche se la designazione non si affermerà mai nelle chiese (se non per brevi periodi) il tentativo più o meno
aperto di applicarla è ricorrente.

Nelle prime decadi del II secolo, in alcune chiese di Asia e di Siria l’organizzazione basata sul collegio degli
episcopi/presbiteri lascia il posto all'affermazione di un episcopo al di sopra del collegio presbiterale che a
sua volta è sovraordinato ai diaconi. Si tratta di un processo lento e non privo di contrasti.
Talvolta si parla di "episcopato monarchico" (il termine italiano è vescovo) nel senso di un episcopo che ha
responsabilità per più di un gruppo di fedeli in una stessa città e che successivamente acquista prerogative di
governo sempre più generali nella città e un potere decisionale più chiaro e centralizzato.

La prima attestazione del passaggio allo schema verticale che vede il vescovo a capo del collegio dei
presbiteri e i diaconi in subordine si trova nelle lettere di Ignazio di Antiochia.
Da come Ignazio insiste nel dire che tutto si faccia sotto la presidenza del vescovo e che non ci siano riunioni
separate capiamo però che l'autorità del vescovo unico era tutt'altro che consolidata nelle chiese cui si
rivolge. Il ruolo del vescovo unico è ancora incerto, Ignazio giustifica il ruolo sovraordinato del vescovo in
quanto figura di Dio Padre, collega i diaconi a Cristo sulla base dell'idea di servizio e i presbiteri agli
apostoli. Si ricava che il vescovo assume le prerogative che erano dei maestri e dei profeti.

Ma perché si passò all'episcopato monarchico? Girolamo, nel IV secolo afferma che in un primo tempo le
chiese erano dirette da un consiglio di presbiteri e che successivamente, a causa delle divisioni, si
preferì porre uno solo a capo perché avesse cura di tutta la sua Chiesa.
Di certo il moltiplicarsi delle diversificazioni dottrinali e forse anche l'impatto di episodi persecutori ha
favorito la centralizzazione all’interno delle singole chiese.

Le pratiche di vita

Nel giudaismo, che aveva sempre tenuto in conto la procreazione, a tratti si ha una visione negativa della
sessualità.
Nei vangeli entrati a far parte del Nuovo Testamento non abbiamo attestazione che Gesù predicasse la
continenza o che guardasse ai peccati sessuali con particolare severità. Con ogni probabilità egli
però a causa della sua scelta di vita non aveva moglie.
Paolo predilige lo stato di continenza, contestualizzandolo nella perdita di valore di tutte le istituzioni del
mondo attuale rispetto all'evento decisivo della salvezza in Cristo e al compimento prossimo della sua
seconda venuta. In lui si insinua però anche l'idea che il peccato sessuale contamini in modo intimo l'essere
umano, al contrario di altri peccati.
Il pensiero di Paolo ha alimentato precocemente, anche se non ne è all'origine, il fenomeno dell'encratismo
nel cristianesimo delle origini: negli Atti di Paolo e Tecla, un testo largamente diffuso, il vangelo proposto da
Paolo consiste essenzialmente nella predicazione della verginità.

C'era chi riteneva che la continenza perpetua dovesse essere la condizione dei battezzati. La motivazione alla
base della continenza veniva spostata dal terreno “escatologico” (la continenza è anticipazione dello stato
futuro dei beati) a quello “protologico” per cui la continenza riproduce lo stato dei progenitori nell'Eden.

L'encratismo radicale fu emarginato dalla Grande Chiesa, ma l'apprezzamento per la verginità, considerata
superiore al matrimonio, rimase nei secoli un caposaldo della morale cristiana perché sganciando l'individuo
da molti legami sociali consentiva una vita dedita a Dio.
I cosiddetti apologisti, cioè i cristiani che scrissero in difesa della loro fede, insistettero sulla superiore
morale sessuale dei cristiani per controbattere alle accuse di promiscuità. Tuttavia era sempre possibile, a
causa del rifiuto delle nozze da parte dei cristiani estremisti, esporsi all’accusa di asocialità.
La superiorità assegnata alla continenza era passibile di provocare problemi non solo nei confronti del
mondo esterno, ma anche all'interno delle chiese. In un periodo in cui le guide delle chiese erano coniugate e
dovevano dare esempio di una buona conduzione familiare la presenza di asceti riconosciuti come tali
presentava il potenziale pericolo di una fonte di autorità alternativa.

I testi più recenti fra quelli entrati a far parte del Nuovo Testamento insistono sui cosiddetti "codici
domestici", cioè sulle prescrizioni per donne, giovani, schiavi, con intento di disciplinamento.

Le fonti mostrano da un lato un forte coinvolgimento femminile alle origini del cristianesimo (Paolo dà a
Febe il titolo di protettrice, menziona Giunia come apostolo accanto al marito, considera normale la profezia
femminile nelle assemblee, anche se impone il velo alle donne che profetizzano), dall'altro lato lasciano
trapelare la resistenza a rendere visibili le donne e quando ne parlano sottolineano comunque la loro
debolezza e il bisogno di protezione.

Non possiamo esprimerci con certezza sull'eventuale ruolo di guida nelle chiese svolto da donne, ma ci sono
elementi sufficienti per non negarlo in particolari circostanze, come induce a pensare il caso di Ninfa che
esercitava il ruolo di responsabile di una chiesa domestica forse perché vedova o non sposata.
L'autore della Prima lettera a Timoteo impone alla donna di tacere e di non insegnare perché colpevole della
trasgressione di Eva: ai nostri occhi è chiaro che la prescrizione viene data proprio perché c'erano donne che
intervenivano nell'assemblea e insegnavano, ma ciò non toglie che questo comando contenuto in un testo che
diverrà canonico ha contribuito insieme ad altri simili a produrre l'esclusione o la forte limitazione dai ruoli
attivi femminili nelle chiese.

È lontana da Paolo l’ipotesi di rovesciare l’ordinamento della società nel caso degli schiavi (e anche delle
donne). Per lui l’ordinamento «non c’è schiavo né libero» (= tutti uguali dopo il battesimo davanti a Cristo)
è del tutto provvisorio e destinato a finire a breve.
Quindi egli rimanda a Filemone lo schiavo Onesimo, raccomandando però al padrone un diverso trattamento
dello schiavo.
Ignazio raccomanda ai liberi di non disprezzare gli schiavi e agli schiavi di non aspirare a essere liberati, il
che rivela il desiderio diffuso di essere riscattati dalla comunità.

Questione delle ricchezze: nonostante fra i detti di Gesù ce ne fossero di ben chiari contro l'accumulo delle
ricchezze, l'adesione al cristianesimo di persone di elevate disponibilità economiche e la necessità delle
chiese di far fronte a situazioni interne di estrema povertà imponevano un’indulgenza.
L'operetta di Clemente Alessandrino (inizio III secolo) dal titolo Quale ricco si salva? riprende le parole
di Gesù sulla condanna dei ricchi, insegnando però al tempo stesso il buon uso della ricchezza a fini
caritativi.

Alla radice del conflitto teologico

La logica della predicazione missionaria imponeva di concentrarsi sulla figura di Gesù per il fatto stesso che,
annunciando il vangelo, bisognava spiegare le ragioni dell'autorità di chi lo aveva pronunciato.
La fede nella resurrezione non implicava che Gesù fosse qualcosa di diverso da un uomo eletto e confermato
da Dio. È la cristologia che si suole definire "bassa" e che rimane quella di molti Giudei credenti in Gesù.

Il prologo del Vangelo secondo Giovanni, identificando Gesù Cristo con il “Logos presso Dio”, lo
considera senz'altro un essere preesistente e questa è la cosiddetta "cristologia alta", anche se il racconto
della passione e tutto lo svolgimento della narrazione garantisce in Giovanni la realtà del suo essere uomo.

L'insorgere della cristologia alta introduce un paradosso rispetto al monoteismo rigoroso cui erano pervenuti
gli ebrei e al quale anche i cristiani aderivano.
La riflessione cristiana conduce progressivamente a parlare di Gesù Cristo come di "dio" in senso proprio,
aprendo la questione di come conciliare tale convinzione con l'unicità di Dio e acuendo la polemica con gli
ebrei.
Il Vangelo secondo Giovanni ha svolto un ruolo decisivo nell'affermarsi della cristologia alta.

Nell'ambito di chi pensava in termini di cristologia alta si diffonde però presto la convinzione, opposta a
quella sostenuta nel Vangelo secondo Giovanni, che Gesù in quanto essere divino fosse uomo soltanto in
apparenza: questa dottrina viene chiamata "docetismo" (dal verbo greco dokeo= “sembrare”, “apparire”).
Il docetismo è una convinzione che attraversa la riflessione di gruppi legati alla cristologia alta e quindi più
lontani dal giudaismo, ma anche gruppi di Giudei credenti in Gesù.
Ignazio la combatte con forza nelle sue lettere. Negli stessi anni e nella stessa regione di Ignazio, la Siria, la
comunità ecclesiale retta dai profeti sostiene precisamente una cristologia doceta.
Questi sono indizi chiari che insieme con la moltiplicazione delle riflessioni su Gesù Cristo la
preoccupazione di avere una “retta fede” in Cristo diventa un fattore importante nella vita delle chiese.

Fin dalla fonte per noi più antica, Paolo, che scrive negli anni 50, si manifesta la volontà di garantire la
genuinità della verità del Vangelo. La ricerca di una garanzia probabilmente nasce proprio perché il
messaggio evangelico attecchisce su terreni culturali differenziati e quindi si presta a essere diversamente
interpretato.

Quando l'evangelizzazione si propaga nel bacino del Mediterraneo si moltiplicano, a contatto diretto con le
sfaccettature della cultura ellenistico-romana, le tradizioni e i punti di vista e il problema si fa acuto.
Il confronto e il conflitto fra dottrine diverse si intensifica nel II secolo e diventa una dinamica perenne della
storia del cristianesimo, caratterizzata dalla enorme produzione dottrinale: la posizione vincente
di volta in volta incrementa il patrimonio dottrinale di quella che più tardi verrà definita "ortodossia" (dal
greco orthe doxa=“retta opinione”), mentre la posizione scartata è chiamata "eresia", termine che dal
primitivo significato di “scelta” assunse il senso negativo di “posizione non retta”.
Le eresie erano considerate dagli antichi una deviazione diabolica dell'originaria unità di fede, e la loro
origine si faceva risalire a Simon Mago.
Lo storico le valuta molto diversamente, riconoscendo che lo sviluppo della "teologia" (=discorso su Dio)
nasce dall'interazione fra le diverse posizioni.

Marcione del Ponto

L'importanza di Marcione per la storia e la teologia del II secolo è massima.


Partito dal Ponto si unisce alla comunità cristiana di Roma. Pochi anni dopo (144) ne viene espulso.

Marcione, partendo dalla riflessione di Paolo, intende la relazione fra la Legge e il vangelo in termini di forte
opposizione, al punto da dedurre l'esistenza di due dei: il dio della Legge, il creatore, il dio giusto di Israele
contrapposto al Dio del vangelo, Padre di Gesù Cristo, il Dio buono. Quest'ultimo non ha nulla a che vedere
con il creatore e la sua opera, ma si rivela in Gesù come novità assoluta.
Il creatore stabilisce con l'uomo una relazione da padrone a servo, segnata dalla sua giustizia vendicativa,
nella quale si manifestano la sua invidia, durezza e instabilità.
Il Dio ineffabile, sconosciuto, prova compassione per gli uomini e decide di liberarli mosso esclusivamente
dall'amore. Così invia suo Figlio, il quale assume l'apparenza di un giudeo, Gesù.
Marcione abbraccia una prospettiva doceta perché per lui la materia non può accogliere la salvezza: Cristo
dunque non assume una carne umana, bensì un corpo celeste capace di operare sensibilmente. Apparve in età
adulta a Cafarnao e riscattò con il suo sangue ciò che non gli apparteneva, cioè le anime di Giudei e gentili.
I credenti abbandoneranno il loro corpo carnale e ciò che resusciterà sarà l'anima animata dallo Spirito di
Cristo e dotata di un corpo psichico.

Il punto più controverso, con conseguenze per tutto il sistema, è la relazione fra i due dèi. La posizione
classica sostiene la loro opposizione radicale.
Non manca chi ha proposto invece una relazione fra loro in cui il dio creatore è inferiore a quello buono e
proviene da una degradazione del mondo divino, rientrando in una generale visione provvidenziale.

Marcione seppe organizzare una sua Chiesa che ebbe grande successo: gruppi marcioniti continuarono a
essere presenti anche molto dopo il II secolo e furono fortemente concorrenziali con la cosiddetta Grande
Chiesa, come appare da numerose testimonianze.

I gruppi gnostici

Dal punto di vista dottrinale la più grande sfida che i cristiani dovettero affrontare fra II e III secolo fu il
dibattito interno suscitato dalle correnti chiamate gnostiche.

Nel XX secolo lo gnosticismo fu considerato un fenomeno ampio, precristiano, influenzato da elementi


orientali, il che porta a includervi ogni sistema di pensiero di tipo dualista.
A partire dagli anni Ottanta del XX secolo si sviluppa un'altra tendenza critica che invita a prendere in
considerazione i dati degli eresiologi e dei pagani, i quali conoscono soltanto gnostici cristiani.
Infine, alcuni studiosi considerano la categoria "gnosticismo" storicamente inservibile.
Come per molte altre definizioni si può continuare a usare il termine in modo convenzionale, sapendo che lo
gnosticismo non fu un movimento unitario, bensì si articolò in numerose correnti, diverse per
organizzazione, riti e dottrina, le quali tuttavia hanno due caratteristiche comuni riconoscibili.

In primo luogo, la distinzione di due dei, che assumono nomi diversi nelle diverse sette, ma che possono
essere così descritti: il Dio superiore, ineffabile, di natura spirituale, Padre di Cristo, e il dio
inferiore, il Demiurgo, di natura psichica, creatore diretto del mondo psichico e materiale, coincidente con il
Dio delle Scritture giudaiche.
Costui serve l'economia del Dio superiore, sebbene la relazione fra i due può assumere un carattere di
opposizione.

In secondo luogo, è tipica dello gnosticismo la dottrina della degradazione di un elemento spirituale (questo
distingue Marcione dagli gnostici), proveniente dal mondo divino (Pleroma). Questo verrà riscattato
attraverso una lunga vicenda che dal decadimento nel mondo condurrà alla reintegrazione nel Pleroma sua e
delle particelle divine.
Le particelle divine, configurate come uomini spirituali, vivono nell'ignoranza fino a che ricevono la gnosi,
comunicata per mezzo del Salvatore Gesù.

La costituzione della parte non divina di Gesù varia da una corrente all’altra però dato che la materia è
destinata alla corruzione, il Salvatore assume solo un corpo spirituale o psichico.

Gli uomini sono di diverse nature perché non tutti contengono in sé una particella divina e quindi la salvezza
è solo per gli spirituali, non per tutti: una concezione determinista degli esseri umani e della salvezza.
È proprio sulla difesa del libero arbitrio contro il determinismo che gli ortodossi concentreranno
gran parte delle loro critiche agli gnostici.

Gli gnostici valentiniani (dal nome dell'iniziatore, Valentino, che operò ad Alessandria e a Roma) sono i
primi per i quali è attestato un sistema teologico completo.

La reazione della Grande Chiesa ai dualismi del II secolo

I movimenti di Marcione e degli gnostici lanciarono nel II secolo una sfida all’interno del cristianesimo,
perché le loro concezioni riplasmavano il volto di Dio che i cristiani avevano mutuato dal giudaismo.
Però risultarono perdenti rispetto alla Grande Chiesa.
Il cristianesimo, nella sua corrente maggioritaria, confermò la fede in un unico Dio di cui Gesù Cristo era
figlio, ma fu grazie alla sfida di gnostici e marcioniti che si precisò un corpo di dottrine ortodosse e un
canone di Scritture cristiane, in relazione e in contrapposizione alle scelte dottrinali e scritturistiche di questi
antagonisti.

Soprattutto lo gnosticismo valentiniano esercitava un'attrattiva profonda sugli elementi intellettualmente più
esigenti fra i cristiani. La maggior parte dei presbiteri delle varie chiese non avrebbero saputo dare risposte
soddisfacenti sul problema dell'origine del male nel mondo come quelle che davano i valentiniani,
spiegandolo miticamente come l'esito di un travaglio interno al mondo divino.
I valentiniani consideravano i cristiani della Grande Chiesa come "psichici", figli del dio inferiore (il
Demiurgo) che però agendo rettamente avrebbero goduto della salvezza, sia pure a un livello inferiore di
beatitudine.
Nelle chiese però albergavano anche gli spirituali da "risvegliare" per cui i valentiniani operavano al loro
interno: Valentino per un soffio non fu messo a capo della Chiesa di Roma.

In certi frangenti la contrapposizione fra cristiani ortodossi e gnostici poteva investire le scelte di vita: se i
marcioniti accettavano il martirio per la fede, a patto di essere liberati dal dominio del dio creatore, alcune
sette gnostiche consideravano le autorità mondane al servizio di potenze divine malvagie o comunque
inferiori al Dio sommo, pertanto rinnegare la fede davanti a esse non costituiva problema e dunque si
sottraevano al martirio.

Se il cristianesimo, nella parte maggioritaria, respinse il dualismo, vuol dire che la fede in un Dio unico
creatore, identificato con il Dio d'Israele si era radicata in un'organizzazione cultuale ed ecclesiale
sufficientemente solida.

Lo strumento di cui la Grande Chiesa si servì per contrastare i movimenti dualistici fu duplice: la formazione
di un canone ortodosso di Scritture cristiane e l'affermazione della tradizione pubblica, validata dalla
successione dei vescovi dagli apostoli.
Sappiamo che Egesippo (II secolo) andava visitando le principali chiese per stabilire le liste dei vescovi.
Recatosi a Roma, stabilì la lista dei vescovi locali fino al contemporaneo Aniceto.
Alle origini le forme di organizzazione ecclesiastica si differenziavano e la maggioranza delle chiese era retta
da un collegio presbiterale. Ma ciò non toglie che si fossero tramandati alcuni nomi di personaggi in vista per
particolari qualità o forse per un'istruzione maggiore che li rendeva abili nei rapporti con altre chiese: furono
i loro nomi a confluire nelle liste.

Ireneo di Lione (seconda metà del II secolo) dopo Egesippo approfondisce la concezione del vescovo come
successore degli apostoli: questa successione è depositaria e garante della tradizione autentica, della retta
dottrina.
Ireneo ribadisce poi costantemente l'unicità di Dio onnipotente e la sua creazione del mondo e allo stesso
tempo l'unità psicofisica dell'essere umano, ribaltando il disprezzo della materia gnostico e marcionita e
rafforzando ulteriormente questa presa di posizione mediante il millenarismo.
Si usa chiamare millenarismo la dottrina escatologica dei cristiani (=riguardante gli ultimi tempi) più diffusa
fra II e III secolo, secondo la quale prima del giudizio finale e dell'eternità Cristo avrebbe regnato con i giusti
risorti per mille anni su una terra liberata dal peccato e dal male.
Mediante questa dottrina Ireneo poteva affermare anche l'unicità di ispirazione fra Antico e Nuovo
Testamento, contro i dualisti. Non avrebbe però potuto farlo se non avesse avuto a disposizione lo strumento
della selezione e delimitazione di un canone ortodosso di Scritture cristiane.

Il problema dell'unità di Dio per i cristiani fra II e III secolo

Il rapporto fra Gesù Cristo e Dio nella cristologia alta restava la questione principale.
Lo gnosticismo valentiniano indicava nella figura di Sofia, l'ultima entità del Pleroma (concepito come una
serie di trenta esseri divini androgini (eoni) provenienti dal Dio sommo) l'eone che aveva rotto l'unità divina
con il suo desiderio passionale di conoscere il Padre, producendo così il mondo inferiore mediante il
Demiurgo.
La redenzione di Sofia viene operata a vari livelli da una nuova emissione di eoni con funzione salvifica dai
nomi diversi.
Negli stessi anni Giustino che riafferma secondo il modo di pensare ortodosso l'unico Dio della tradizione
giudaica, concepito però come sommo bene: questi ha da sempre in sé il Logos che è il suo pensiero, la sua
mente.
Prima del tempo che ha inizio con il mondo Dio lo genera in funzione della creazione del mondo e degli
uomini. Il Logos quindi prima crea e poi redime il mondo con l'incarnazione.
Questa teologia è stata chiamata "teologia del Logos" proprio perché incentra la mediazione fra Dio e il
mondo nella figura del Logos.

In tale fase dell'elaborazione teologica e per lungo tempo l'altro soggetto di ciò che si preciserà in seguito
come Trinità, cioè lo Spirito santo, rimane in secondo piano, anche se alcuni autori a volte lo inseriscono
nello schema parlandone come "mani" di Dio.

La reazione a questa dottrina, che chiamiamo "monarchiana", prese due direzioni: alcuni, alla maniera
adozionista sostennero che Gesù Cristo era un mero uomo adottato da Dio.
Altri sostennero che Cristo e Dio sono la stessa cosa, per cui è Dio Padre sotto l' aspetto di Cristo che ha
patito sulla croce.
Successivamente si preferì parlare di modi diversi (da qui il termine "modalismo") in cui l'unico Dio svolge
la sua azione nel mondo: come Padre nella creazione, Figlio nella redenzione e Spirito santo nella
santificazione.

Origene di Alessandria (fine II-metà III secolo), il più grande pensatore cristiano dell'antichità insieme ad
Agostino, sembra polemizzare contro quest'ultima formulazione monarchiana.
La produzione letteraria di Origene è vastissima e la sua riflessione è sistematica rispetto ai tempi, spaziando
da Dio al mondo all'umanità.
Egli supera la dottrina del doppio stadio del Logos, prima insito nel Padre e poi generato in vista della
creazione, concependo la generazione dal Padre come eterna e continua, in quanto non c'è un momento in cui
il Padre sia senza il Figlio.
Origene assicura anche l'individualità eterna del Figlio, la sua sussistenza, che è da sempre e per sempre.
Inoltre riesce a inserire nello schema anche lo Spirito santo, parlando di tre ipostasi (=persone) divine.
L'unione fra le ipostasi non è da lui concepita in termini di sostanza, ma come unione di amore e di volontà,
che in Dio è immutabile e dunque lo è anche l'unità fra le tre ipostasi.

I cristiani di Roma e Cartagine fra II e III secolo

A Roma, capitale dell'Impero, la continua immigrazione portava alla presenza di gruppi di cristiani di varia
provenienza, ognuno con una propria fisionomia e con proprie sedi di riunione.
A complicare la situazione nel corso del II secolo vi fu la presenza di maestri cristiani venuti da
ogni parte che vi aprirono scuole, dove si celebrava anche il culto cristiano: Giustino, Valentino e altri.
Il prolungarsi della conduzione collegiale dei presbiteri, attestata sicuramente poco prima della metà del II
secolo da uno scritto romano, il Pastore di Erma, si spiega con questa disarticolazione della Chiesa.

Tuttavia una decisione attesta che i presbiteri avevano su un punto essenziale una linea comune: Marcione fu
respinto nel 144. Il suo insegnamento, per quanto efficace, doveva risultare particolarmente ostico a una
Chiesa in cui i presbiteri erano eredi del forte sentimento monoteistico dal giudaismo.

Paolo, Ignazio mostrano di avere alta considerazione di questa Chiesa, ciascuno rivolgendole richieste.
Ignazio, nel saluto iniziale della sua lettera ai Romani, ne parla come di colei che presiede nel territorio della
città di Roma, nella legge di Cristo.
Tuttavia Ignazio vuole dire soprattutto che la Chiesa, che si trova a vivere nella capitale dell'Impero, agisce
secondo un sistema di valori opposto ad esso.

Anche se Pietro e Paolo non sono stati i fondatori della Chiesa, a partire da metà del II secolo, il periodo in
cui si diffonde l'idea della successione apostolica delle chiese, cominciano a essere considerati tali secondo la
tradizione secondo cui entrambi sono stati martirizzati a Roma.
Gli studiosi concordano che con Vittore (189-199 ca.) si registra un comportamento da vescovo monarchico.
L'episodio più significativo in tal senso è la sua decisione di uniformare il calendario pasquale a Roma, dove
la comunità asiatica celebrava secondo l'uso “quartodecimano”(cioè il 14 Nisan, lo stesso giorno della
Pasqua ebraica), mentre la maggioranza celebrava la domenica successiva alla luna piena di primavera.
Vittore aveva chiesto alle chiese d'Asia di riunirsi in concilio, evidentemente confidando nell'abbandono
della prassi quartodecimana che invece esse confermarono con una lettera del loro rappresentante, il vescovo
Policrate di Efeso. Vittore allora si spinge a volerle tagliare fuori, come se fossero eterodosse.
Non sappiamo i motivi dell'azione di Vittore. C'era un problema liturgico derivante dallo sfasamento della
data, per cui alcuni festeggiavano la Pasqua mentre gli altri erano ancora in digiuno penitenziale, e vi era
anche un risvolto teologico in quanto la Pasqua quartodecimana era incentrata sulla passione di Cristo,
mentre quella domenicale sulla resurrezione.
Ma l'ostilità a una tradizione così antica si può spiegare solo con accentuate difficoltà interne, forse anche
con la diffusione a Roma della propaganda della profezia detta montanista (dal profeta Montano), che
accoglieva la prassi quartodecimana.

Il montanismo, nato in Frigia fra il 151 e il 171, si diffuse rapidamente in Asia Minore e in generale in
Oriente, nonché in Africa. Fu una reviviscenza dell'entusiasmo profetico delle origini: i montanisti credevano
nell’effettiva discesa dello Spirito negli ultimi tempi, ossia i loro. Questo avvenne in un momento storico in
cui invece l'organizzazione ecclesiastica, sempre più incentrata sul vescovo, tendeva a emarginare le
manifestazioni carismatiche poco controllabili.
È indubbio che il montanismo attirava sospetti in molti fra quanti avevano un ruolo di responsabilità nella
Chiesa per via del ruolo di primo piano di due donne profetesse, Priscilla e Massimilla, per il rigore ascetico
e l'esortazione all'autodenuncia come cristiani.
Inoltre i montanisti, valorizzando l'azione dello Spirito, consideravano sempre aperto e passibile di essere
accresciuto il novero delle Scritture cristiane per le quali, proprio nella seconda metà del II secolo, si stava
cercando di determinare un canone.

A Roma il pericolo di un canone aperto fu particolarmente sentito e l'avversione al montanismo mise in crisi
l'accettazione del Vangelo secondo Giovanni e dell'Apocalisse, contestati dal presbitero Gaio. Gaio si appella
all'autorità di Pietro e Paolo: i due apostoli "fondatori" diventano strumenti per rivendicare un primato alla
Chiesa di Roma.

Il vescovo di Roma più importante della prima metà del III secolo fu Callisto (217-222), un tempo schiavo
banchiere. La vicenda della sua vita è narrata da fonte a lui avversa, l'autore per noi sconosciuto dell'opera
antieretica Elenchos (Confutazione) un tempo identificato con Ippolito, un esegeta di cui abbiamo molte
opere (l'opinione oggi prevalente è che bisogna distinguere Ippolito da questo autore romano).
Callisto, dopo un periodo di prigionia nelle miniere di Sardegna come confessore della fede, fu liberato con
altri cristiani per intercessione della concubina dell'imperatore Commodo, Marcia.
Protetto da Vittore, organizzò poi come diacono per il vescovo Zefirino il primo cimitero di proprietà della
Chiesa di Roma, dove ricchi e poveri sono sepolti insieme e con formulario epigrafico uguale, che ricorda
solo il nome del defunto e nessun altro dato biografico (catacombe di San Callisto).
Diventato vescovo propone una visione ecclesiale inclusiva: indulgente in campo penitenziale, accomodante
verso le esigenze dei cristiani di origine altolocata, lontana da elaborazioni raffinate in teologia.

Il tema della penitenza era molto sentito fra i primi cristiani che in generale ritenevano che dopo il battesimo
non fosse possibile riconciliazione nella Chiesa per i peccati gravi (apostasia, omicidio, adulterio).
Erma un secolo prima a Roma aveva scritto un fortunato libro di visioni (il Pastore di Erma), allo scopo di
annunciare una possibilità di remissione dopo il battesimo.
Callisto servendosi dell'allegoria dell'arca di Noè in cui convivono animali puri e impuri riteneva che la
Chiesa non dovesse respingere i peccatori, ma indurli a penitenza.
Si trattava di una prassi di misericordia che è stata criticata aspramente, al pari dell'altra decisione di
permettere alle cristiane di nobili natali di convivere con uomini di rango inferiore o schiavi, purché cristiani.

Le ricche cristiane per legge non potevano contrarre matrimonio con uomini di classe inferiore, pena la
decadenza dai privilegi di rango. Difficilmente nella cerchia dei loro mariti però esse trovavano dei cristiani.
Naturalmente le dame tendevano a tenere nascosta tale unione legittimata solo dalla Chiesa, per cui l'autore
dell'Elenchos denuncia le conseguenti pratiche contraccettive e abortive.
Alcuni decenni dopo emerge a Roma un'altra personalità di intellettuale cristiano, anch'egli in contrasto con
la linea prevalente della sua Chiesa: Novaziano.
Teologo, produce con il De trinitate l'ultimo testo di elevato impegno dottrinale nella Chiesa di Roma, che
non vedrà più all'opera grandi teologi fino a Leone Magno.
È scritto in latino, mentre l'autore dell'Elenchos scriveva ancora in greco, la prima lingua adoperata nella
Chiesa romana.
Con lui assistiamo al riemergere di una linea rigorista (ma evidentemente questa tendenza non aveva mai
cessato di essere una componente della Chiesa romana).
Nel 250, dopo il martirio del vescovo Fabiano, che si era rifiutato di fare il sacrificio prescritto da Decio in
tutte le città, Novaziano come portavoce dei presbiteri romani aveva intessuto una corrispondenza con
Cipriano di Cartagine. Questi, a differenza di altri colleghi più sfortunati era riuscito a mettersi al riparo,
continuando a guidare la Chiesa attraverso lettere, ma in posizione resa difficile dalla sua assenza.

La Chiesa di Cartagine era antica, importante nella regione, ed era sempre stata in stretti rapporti con Roma.
Tertulliano ne era stato l'espressione letteraria più significativa all'inizio del III secolo: era un rigorista e un
polemista che, dopo aver aderito al montanismo, finì la sua vita in una setta tutta sua.
Nonostante avesse finito i suoi giorni da scismatico fu, fino all'altro africano Agostino, il maestro di
generazioni dei cristiani latini che volessero avere una preparazione.

Cipriano stesso lo chiamava suo maestro.


Egli era di famiglia altolocata, avvocato di professione. Aveva aderito in età matura al cristianesimo con una
conversione clamorosa e subito, nel 249, era stato fatto vescovo, suscitando la gelosia dei presbiteri di lunga
data. Una tale elezione è comprensibile considerando il significato che il ruolo del vescovo monarchico
aveva assunto e che richiedeva una vasta gamma di doti: si tendeva per cui a privilegiare persone che già
nella vita civile avevano dimostrato capacità e influenza.
L'anno dopo Cipriano si trovò di fronte al doppio problema costituito da un lato dai lapsi (=caduti), ossia i
cristiani che a vario livello avevano ceduto per paura davanti al decreto di Decio, e dall'altro dai confessori
che in prigione, circondati dalla venerazione degli altri cristiani, riammettevano immediatamente nella
comunione della Chiesa i lapsi, esercitando di fatto un contropotere rispetto al vescovo, non senza l'appoggio
di qualche presbitero.
La situazione mostra come le chiese si siano trovate impreparate di fronte a una situazione di pericolo
inaspettata: da lungo tempo i cristiani, nonostante il loro culto non fosse ufficialmente accettato, vivevano
tranquilli.
Le lettere di Cipriano ci mostrano il dramma che avviene nelle case dei cristiani, con il capofamiglia che di
solito cerca tutti i mezzi per scampare i suoi, agendo anche con violenza per obbligare moglie e figli a
sacrificare. Solo pochi si rifiutano, accettando il pericolo. A Smirne sacrifica addirittura il vescovo.
Chi cade però lo fa per paura e non perché voglia abbandonare la Chiesa, da qui le suppliche ai confessori di
essere perdonati e la conseguente confusione.

Cipriano propone una via media che rifiuta l'immediata riammissione e rimanda la decisione sui lapsi a un
concilio da svolgersi quando fosse tornata la calma, a parte i moribondi da riammettere invece subito, se
pentiti.
Novaziano, come testimonia lo scambio epistolare, concorda.

Ma una volta diventato vescovo Cornelio, fattosi eleggere in contrapposizione a lui, rifiuta di ammettere
i lapsi neanche in punto di morte, rimettendo a Dio il giudizio.
Emerge una concezione della Chiesa come raccolta di santi, in opposizione alla posizione maggioritaria di
una Chiesa come comunità inevitabilmente mista.

Novaziano, fra 253 e 260, scrisse tre lettere-trattati contro i tre caposaldi dell'osservanza giudaica, sulla
circoncisione, sul sabato e sui cibi.
Nel frattempo Cipriano appena chiusa la persecuzione nel 251 e nel 252 tiene due concili sul problema dei
lapsi. Quelli pentiti e disposti a una durissima penitenza potevano essere riconciliati in punto di morte. I
libellatici, cioè quelli che avevano comprato il libellus senza sacrificare, avevano una penitenza più mite
poiché non avevano contaminato il loro corpo. I chierici caduti dovevano essere ridotti allo stato laicale
e fare penitenza come i laici.
Cipriano fu la grande figura di riferimento del cristianesimo africano. La sua posizione sui lapsi fu
all'insegna di una meditata prudenza, pur in un'attitudine di rigore.
Rigore che si manifestò in modo più caratteristico nella questione del battesimo degli eretici, così che
Cipriano diventò successivamente l’esponente dell'intransigenza “donatista” pur continuando allo stesso
tempo a essere figura di riferimento per cattolici come Agostino.

Il consolidamento dell'organizzazione episcopale

Fra il 180 e il 260 si compie il processo di stabilizzazione organizzativa nel cristianesimo. La maggioranza
delle chiese sparse nel bacino del Mediterraneo è retta da un vescovo e ha una propria identità di fede, d'etica
e di culto, anche se ci sono comunità più piccole in cui un presbitero assolve la cura dei fedeli e ci sono i
gruppi, le sette emarginate o autoemarginatisi.

La Storia ecclesiastica di Eusebio conserva frammenti delle lettere che molti capi di chiese si scambiavano: il
mezzo epistolare consentiva di confrontare le opinioni, stabilire linee comuni ai vescovi di una regione o di
aree diverse.

Altro strumento per prendere decisioni condivise o risolvere conflitti erano i concili di cui il prototipo è il
concilio di Gerusalemme: potevano essere assemblee dei cristiani di una città o di un'area più vasta.
In un primo momento, specie nel caso di concili in città i partecipanti saranno stati indiscriminatamente i
fedeli più importanti e i presbiteri: un'omelia di Ippolito parla dei presbiteri che si riuniscono a Smirne,
all'inizio del III secolo per condannare Noeto, non nominando il vescovo forse per insistere sulla collegialità
della decisione.

All'inizio del III secolo si afferma una terminologia sacerdotale in riferimento ai ruoli ecclesiastici.
Nel I secolo si affermava che l'unico sacerdote è Gesù Cristo, ora si passa a parlare di vescovo-sacerdote.
Si pongono così le basi per quella che, nel decreto di Graziano (1140), sarà sancita come divisione dei
cristiani che genera il clero e i laici.

Cipriano di Cartagine completa la dottrina episcopale con la sua competenza giuridica, precisando la natura
indivisa del potere episcopale.
Egli ricorda casi di vescovi africani che hanno impedito il reintegro nelle loro chiese agli adulteri pentiti, ma
hanno mantenuto l'unità della Chiesa accertando che gli altri vescovi si comportassero diversamente.
Questa dottrina ha un potenziale di tensione con le crescenti pretese della Sede romana.
Nello stesso periodo, grazie a una lettera diretta proprio a Cipriano veniamo a conoscere che la Chiesa di
Roma ha elaborato un'interpretazione tutta sua del Vangelo secondo Matteo per la quale il vescovo di Roma è
successore di Pietro perciò si estende a lui la parola di Cristo rivolta a Pietro nel Vangelo.

Di fatto Cipriano, pur nel rispetto di quello che sembra considerare un primato di onore, non esitò a
schierarsi contro i pronunciamenti romani: lo fece accogliendo il ricorso di due chiese di Spagna, che
si erano viste reintegrare dal romano Stefano due vescovi, apostati durante la persecuzione di Decio, a lui
appellatisi. Cipriano convoca un sinodo nel 254 confermando la deposizione dei due.
La vicenda dimostra che nel III secolo l'appello a Roma veniva praticato, ma la sua decisione era tutt'altro
che insindacabile. La soluzione scelta da Cipriano per opporsi a Stefano inoltre fu un sinodo invece del
parere di un solo vescovo.

Più clamorosa fu la disputa che oppose di nuovo Cipriano a Stefano nella questione del battesimo (Roma non
ammetteva di ribattezzare gli eretici, Cartagine sì): Cipriano ebbe nel sinodo del 256 l'appoggio compatto
dei vescovi d'Africa e si arrivò quasi alla rottura con Stefano di Roma, se non fosse sopraggiunta la morte del
romano (257) e l'anno dopo quella di Cipriano, per martirio, sotto Valeriano.
Capitolo 4 - La Bibbia al centro: la formazione del canone e lo sviluppo dell'esegesi

Oralità e scrittura

La religione cristiana, come quella giudaica, ha prodotto libri sacri e letteratura basate sulla corretta
officiazione dei riti.

Per quanto riguarda il giudaismo la presenza della Scrittura fa sì che in Palestina l' insegnamento
elementare dell'ebraico si impartisse più diffusamente che nel mondo greco-romano, così come i Giudei della
diaspora apprendevano bene il greco per leggere la Scrittura tradotta in questa lingua.
Con la diffusione del cristianesimo nel bacino del Mediterraneo le cose andarono diversamente: il tasso di
alfabetizzazione dei cristiani non superava quello medio del mondo greco-romano e l'educazione scolastica
era limitata in ragione della classe sociale.

Tuttavia il cristianesimo attribuiva molto valore ai testi anche se la stragrande maggioranza dei cristiani fu
analfabeta.
In una società orale si accedeva al testo scritto in modi diversi e i cristiani avevano la catechesi, le omelie, il
semplice passaparola: anche quando i vangeli furono scritti, le parole di Gesù continuavano a essere
trasmesse oralmente, e prima che i vangeli fossero composti probabilmente c'era chi componeva e
raccoglieva materiale scritto riguardante Gesù.
Matteo e Luca hanno a disposizione una fonte scritta (la fonte Q) che raccoglieva, senza cornice narrativa, i
detti di Gesù, i vangeli canonici portano a supporto di episodi della sua vita brani biblici (i Testimonia): tutto
ciò conferma un rapporto costante con lo scritto anche per i seguaci di Gesù fin dagli inizi.

Probabilmente qualcosa fu fissata per iscritto già in aramaico, la lingua corrente in Palestina, ma la scelta
obbligata per la diffusione del messaggio fu l'uso del greco, sicché conosciamo per le origini cristiane
solo testi in greco a partire da quello più antico, la Prima lettera ai Tessalonicesi di Paolo.
Una certa conoscenza del greco si aveva anche in Palestina.

Per scrivere si usava di solito un segretario al quale si dettava, controllando poi lo scritto. Così fa Paolo, che
a volte aggiunge una frase o la firma.

Nell'antichità greco-romana il materiale più usato per il libro era il papiro, la pergamena comincia ad
affermarsi nel IV secolo. La forma del libro era il rotolo. Il termine plurale biblia (=Bibbia) altro non
significa in origine che “rotoli”.
Quando tre uomini e tre donne di Scili, villaggio dell'Africa del Nord, si presentano davanti al proconsole
Saturnino a Cartagine per essere giudicati come cristiani portano con loro una “capsa”, contenitore cilindrico
dei rotoli, dichiarando che sono i libri e le lettere di Paolo. Siamo nel 180.
Però già dal II secolo i cristiani mostrano di preferire la forma del codice, cioè del libro a fogli. Questo non
era sconosciuto in precedenza, ma veniva considerato piuttosto un taccuino ed era in origine l'unione di
poche tavolette sottili di legno su cui si passava la cera per scrivere con lo stilo.

Ci si interroga sui motivi della scelta cristiana a favore del codice: abbandonata la teoria che fosse per motivi
economici, dubbia la motivazione basata sulla comodità (che si avrà solo successivamente a vari
accorgimenti come la maggiore capienza) si pensa che all'origine dell'uso preferenziale di esso ci sia stata
l'autorità di un testo che fu trasmesso proprio su codice.
Gamble ritiene che possa essere stata trascritta in un codice una collezione di lettere di Paolo, in quanto
difficilmente un numero elevato di lettere si sarebbe potuto trascrivere in un unico rotolo.

In genere la trascrizione dei testi delle Scritture cristiane fu meno professionale di quella attuata dai Giudei.
Allestire un testo costava, era un'impresa che richiedeva uno “scriptorium” ed è questo il motivo
della minor qualità dei testi cristiani, affidati il più delle volte a trascrizioni private con alta probabilità di
produrre errori di copiatura.

Da Erma risulta che c'era nella Chiesa di Roma chi si occupava della trascrizione e diffusione dei testi e sul
montante destro del trono della cosiddetta "Statua di sant' Ippolito" nella prima metà del III secolo è inciso
un elenco di quattordici titoli che forse corrisponde a una piccola biblioteca raccolta da un gruppo di fedeli.
Origene nel III secolo aveva a disposizione tachigrafi e calligrafe per la composizione delle sue opere.
Erede della grande filologia alessandrina, giunto a Cesarea concepì ai fini dello studio testuale della Bibbia
ebraica un'impresa innovativa e onerosa: gli Hexapla.
Su sei colonne parallele scritte sulle due facciate di un codice di notevoli dimensioni, allineava in forma
tabulare il testo in lettere ebraiche, l'ebraico traslitterato in greco, le traduzioni greche di Aquila, Simmaco,
Settanta e Teodozione, in modo da rilevarne immediatamente le differenze.

Una produzione letteraria come quella origeniana, in gran parte dedicata all'esegesi biblica, richiedeva una
biblioteca. Così come ad Alessandria Origene ne allestì una anche a Cesarea.
Il presbitero Panfilo, erede della tradizione origeniana e il suo protetto Eusebio incrementarono tra fine III e
inizio IV secolo la biblioteca di Cesarea.
Una volta diventato vescovo, Eusebio poté rendere così efficiente lo scriptorium da concepire nuove
grandiose imprese come i Canoni cronologici, cronografia universale su colonne parallele, che rendeva
visivamente evidente il confluire delle storie dei vari popoli nel regno di Augusto e nella nascita di Cristo.
Questa sua attività ebbe il riconoscimento di Costantino che nel 332 gli invia una lettera per chiedere
cinquanta copie delle Scritture chiaramente leggibili e facilmente trasportabili per darle alle nuove chiese.

La formazione del canone

La fede in Cristo guida la formazione del corpus di scritti normativi e orienta la loro interpretazione.

Questioni metodologiche

Si dovrebbe parlare non di canone, bensì di canoni. In effetti, ciascuno dei gruppi cristiani finì per riferirsi a
un corpus di scritti in qualche modo normativo, delimitato e vincolante, il quale raccoglieva le tradizioni su
Gesù e in qualche caso sugli apostoli in relazione al modo in cui ciascuno di essi credeva.

All'inizio però non fu così. I primi discepoli di Gesù non ebbero scritti cristiani a cui far riferimento. Questi
furono solo progressivamente composti, dotati di autorità, riuniti e da ultimo canonizzati.
I primi cristiani ereditarono dai giudei un corpus di scritti dotato di autorità divina (la Scrittura di Israele, che
poi i cristiani chiameranno Antico Testamento). Ciò non significa che i diversi gruppi cristiani non ebbero sin
dal principio una coscienza canonica, ma questa si applicava precisamente al modo di credere in Gesù e non
a un corpus di scritti.

Il vangelo e gli apostoli nelle lettere di Paolo

Non ha senso parlare del canone delle Scritture al tempo in cui Paolo scrive le sue lettere.
Invece, egli mostra di possedere una coscienza canonica in relazione a ciò che chiama il "vangelo", cioè la
vita di Cristo che si trasferisce nei credenti.
Affinché possa crescere tra i credenti senza deformarsi si trasmette vincolata agli apostoli, confermati dalle
apparizioni del Risorto e da un mandato missionario. Quindi la verità di Gesù si trasmette "normativamente"
mediante la struttura evangelico-apostolica. Ciò non significa però che gli apostoli stanno al di sopra del
vangelo.

In questo sistema sono inserite altre realtà portatrici di autorità: le Scritture di Israele, le parole di Gesù, la
Cena del Signore, le formule di fede, le sue stesse lettere, scritte ciascuna in circostanze particolari non
garantiscono di per sé la verità del vangelo che veicolano.

Alcuni decenni più tardi, probabilmente agli inizi del II secolo, l'autore delle lettere pastorali (1 e 2 a
Timoteo, Lettera a Tito) insisterà sulla necessità di aderire al vangelo dell'Apostolo, il quale si attualizza
ai suoi tempi mediante il retto insegnamento al quale è necessario attenersi, essendo legittimato dagli
episcopi/presbiteri delle comunità in continuità con Paolo.

Questa coscienza canonica vincolata a un sistema di legittimazione non è propria di un unico gruppo del
cristianesimo delle origini.
Il fenomeno si osserva nelle lettere di Ignazio e nell'Ascensione di Isaia.
Ignazio presenta una concezione dell'eresia come una deviazione dottrinale incompatibile con la fede
normativa, un diverso modo di vivere e una separazione dalla comunità di riferimento.
Allo stesso modo l'autore dell'Ascensione di Isaia considera che la verità di Cristo è stata travisata, il che
ha condotto a numerose divisioni.
Tutto ciò serve a provare che, sebbene siano esistiti sin dal principio diversi modi di essere cristiani, le
distinte correnti (almeno nell'area di Siria inizio del II secolo) non hanno compreso il cristianesimo
in modo pluralistico e ciascuna ha presentato sé stessa come portatrice del vero vangelo, dal quale altre si
erano allontanate. A questo non corrisponde però una concezione plurale del vangelo: il vangelo è uno solo,
ma ogni gruppo lo ha interpretato in modo diverso considerandolo quello giusto, non si può pensare a più
vangeli.

Le tradizioni di Gesù: dall'oralità alla scrittura

La raccolta e la messa per scritto dei fatti e delle parole di Gesù sarà cominciata poco dopo l'annuncio di
resurrezione, però poche volte se ne parla esplicitamente. Però abbiamo due eccezioni.
All’inizio del Vangelo di Luca l'autore esplicita il suo intento di comporre in modo rigoroso un'opera che
contenga «gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi», specificando che altri avevano « cercato di
raccontare con ordine» e con ciò verosimilmente indica la prima produzione (Q, Marco, altri scritti?) che
segna il passaggio dall'oralità alla scrittura: sono testimonianze veritiere, ma non si considerano sufficienti
per mancanza di ordine ed esaustività.

Alcuni decenni dopo Papia di Hierapolis compose un'opera in cinque libri, l'Esposizione degli oracoli del
Signore, nella quale ordinò insieme con altri materiali le parole e i fatti di Gesù da lui raccolti e selezionati.
Papia afferma di preferire le tradizioni trasmesse inalterate per mezzo della voce grazie alla catena maestro-
discepolo che risale allo stesso Gesù rispetto a quelle contenute nelle opere scritti (si riferisce forse a Marco
e a certi scritti in greco messi in relazione con Matteo che non risultavano del tutto soddisfacenti per la loro
mancanza di completezza e di ordine).
Papia per questo probabilmente non ha preso i logia di Gesù solo da testi scritti e meno ancora da scritti
canonizzati.

L'eredità apostolica per scritto e come Scrittura: la Seconda lettera di Pietro

Paolo non contemplava che la sua eredità messa per scritto fosse considerata come Scrittura.
Le pastorali hanno potuto tenere in conto le lettere di Paolo come autoritative, però non hanno messo in
conto un loro eventuale carattere di Scrittura ispirata.

Seconda lettera di Pietro: il suo autore vuole confermare ai destinatari la fede da loro professata in relazione
alla seconda venuta di Cristo (parousia) come ricevuta dagli apostoli che gli predicarono il vangelo.
Per legittimarla cerca di dimostrare la sintonia fra Paolo e Pietro, segnalando che Paolo ha insegnato nelle
sue lettere la stessa fede che Pietro professa.
Quindi la legittimazione non sta nella predicazione orale dell'Apostolo, bensì nelle sue lettere, considerate
parte della Scrittura.
Varie nel numero, le lettere di Paolo sembrano formare una collezione, sebbene probabilmente non chiusa.
L'allusione al fatto che in esse si trovano alcuni passi difficili suggerisce che tanto l'autore che i suoi
avversari ne avevano una conoscenza non superficiale, e che esse erano oggetto di una disputa esegetica.

La coscienza canonica applicata a una collezione di scritti: Marcione

Marcione trova il vangelo nelle lettere di Paolo (senza le pastorali ed Ebrei) e in Luca (inteso come vangelo
di Paolo).
Siccome gli scritti che i cristiani avevano prodotto riflettevano una relazione positiva tra il vangelo e la storia
di Israele, Marcione si convinse che erano stati interpolati: i discepoli, giudei e semplici, non avevano capito
che Gesù annunciava un altro Dio distinto dal creatore e mescolarono il vangelo con la Legge.
Siccome tutta la predicazione apostolica ne risultava contaminata, Gesù si rivelò a Paolo (esperienza di
Damasco) comunicandogli di nuovo il suo vangelo. Però i cristiani di origine giudaica, che avevano il
controllo delle chiese, interpolarono dopo la morte dell'Apostolo le sue lettere e il vangelo: da allora, la
Chiesa e le sue scritture presentavano un Gesù distorto.
Marcione si sentì chiamato a ricostruire il testo primitivo delle lettere paoline e del vangelo, elaborando una
sua propria edizione alla quale aggiunse le Antitesi, uno scritto in cui egli forniva le prove, attraverso una
serie di opposizioni, dell'impossibilità di identificare il Dio di Gesù con il Dio dell'Antico Testamento.

Con Marcione il testo scritto diventa l'unico luogo nel quale si incontra il vero vangelo, il che lo ha portato a
fare una selezione positiva (Luca e Paolo) e un'altra negativa, rigettando gli altri testi cristiani che
circolavano con autorità nelle chiese. In tal modo egli introduce negli scritti e nelle raccolte di scritti
autoritativi del suo tempo la nozione di delimitazione vincolante propria della coscienza canonica, per cui
Marcione è il primo che ha adottato un canone di testi cristiani.
Anche se la collezione di Marcione però non pare avere tutte le caratteristiche di un canone: non ha la
“sacralizzazione” del testo dato che i suoi seguaci continuarono a intervenire su di esso.

L'eredità evangelica per scritto e come Scrittura: Giustino

La pratica domenicale testimoniata da Giustino martire considera intercambiabili le Memorie degli Apostoli
o Vangeli con i libri dei profeti: tutti questi formano (forse con l'Apocalisse) quello che Giustino chiama
«i nostri scritti».

La formulazione delle Memorie degli Apostoli è caratteristica per le seguenti ragioni:


1) è conforme alla concezione che vede gli apostoli come trasmettitori autorizzati della vita di Gesù
2) serve a Giustino per presentare la nuova religione ai pagani
3) gli è utile per opporsi alla radicale critica marcionita della testimonianza apostolica

Lo studio delle citazioni della tradizione sinottica fa pensare che il materiale contenuto nelle sue opere
provenga nella quasi totalità da Matteo, Marco e Luca, però a partire da documenti intermedi
frutto della trasmissione dei vangeli nelle chiese. Così si spiegherebbe la presenza in essi di tradizioni
extrasinottiche.

L'opera del martire testimonia una coscienza canonica, apostolica ed ecclesiale rispetto ai punti principali
della fede però che non pare aver ancora raggiunto un corpus di scritti cristiani.

La coscienza canonica applicata a una collezione di scritti della Grande Chiesa: Ireneo di Lione

Secondo Ireneo la conoscenza del Figlio di Dio comporta necessariamente:


1) l'accettazione della dottrina degli apostoli e della Chiesa del tempo apostolico
2) l’accettazione del carattere del corpo di Cristo (la Chiesa) conforme alla successione dei vescovi
3) la custodia delle Scritture
4) il dono speciale dell'amore

Quindi risulta vincolante l'adesione alle Scritture cioè ai libri che sono accolti nelle chiese, al loro testo
autentico e alla loro corretta interpretazione.
Questa coscienza canonica si applica pienamente ai vangeli. Ireneo afferma che vangeli non possono essere
in numero né maggiore né minore di quattro (collezione di quattro vangeli (Mt, Lc, Mc e Gv) considerata
chiusa e vincolante).

A questo aggiunge una concezione storico-salvifica del vangelo: concepito come tetramorfo è annunciato
profeticamente nella creazione e durante la storia di Israele ed è portato a compimento nella vita umana di
Cristo per mezzo dello Spirito santo. Ciò significa che il carattere tetramorfo del vangelo è stabilito
dall'inizio e non nel momento della sua messa per scritto.
Ci sono quattro correnti nella predicazione apostolica: Pietro, Paolo, Matteo e Giovanni che poi vengono
messe per iscritto e ricevute da tutte le chiese, ma che sono manifestazione del carattere anteriormente
tetramorfo del vangelo che alla fine si mostra nella sua messa per iscritto.

Ireneo cita poi altri gruppi cristiani i cui canoni o libri autoritativi sono da lui considerati censurabili, come
ad esempio i valentiniani che fabbricano i loro propri scritti e si gloriano di avere più vangeli di quelli
stabiliti o gli ebioniti che usano solo Matteo e respingono Paolo.
Da qui si può ipotizzare che la moltiplicazione degli scritti nei gruppi gnostici abbia potuto giocare un ruolo
importante nel delimitare la collezione dei vangeli nel canone del Nuovo Testamento a soli quattro.

La coscienza canonica è anche evidente nel caso degli Atti degli Apostoli e nel caso delle lettere di Paolo
anche se Ireneo non dà una lista delle lettere paoline. Meno ancora sappiamo del resto degli scritti citati da
Ireneo, che distingue dagli altri e li considera pertinenti al tempo della Chiesa.

La coscienza canonica che con Ireneo si applica corpus di scritti sostituisce la coscienza canonica applicata
alla fede o al vangelo? No, infatti è necessario aderire non solo alla custodia sincera delle Scritture, ma anche
alla fede degli apostoli e al carattere del corpo di Cristo secondo la successione dei vescovi.

Il frammento di Muratori (FM)

Si tratta di un breve documento, di cui mancano inizio e conclusione, scritto in latino volgare. Deve la
denominazione a Lodovico Antonio Muratori, che lo scoprì e pubblicò nel 1740.
Sebbene a partire dal 1970 sia stata proposta una sua composizione in Oriente nel secolo IV, sembra non ci
siano motivi per abbandonare la datazione tradizionale ai secoli II-III.
In quanto al luogo di composizione esso comunemente si colloca in Italia, probabilmente a Roma.
Suo scopo è stabilire quali libri possono essere letti nell'assemblea, quali in privato e quali debbono essere
rigettati. La sua composizione presuppone quella del Nuovo Testamento.

È importante rendersi conto che il frammento non è una lista come quelle che compariranno nel IV secolo,
ma appartiene a una fase del processo di canonizzazione nel quale alcune raccolte di scritti si sono costituite
e sono considerate autoritative e anche canoniche (i quattro vangeli, Atti degli Apostoli, le lettere di Paolo)
mentre altri testi hanno una posizione più incerta.
L'autore ritiene necessario giustificare e commentare la inclusione o l'esclusione di diversi scritti, adducendo
argomentazioni che non saranno poi presenti nelle liste propriamente dette.

Per quel che concerne i quattro vangeli richiama l'attenzione la leggenda circa l'origine di Giovanni, secondo
la quale l'apostolo Andrea ricevette una rivelazione per cui un discepolo di nome Giovanni (non è chiamato
apostolo) ha messo per scritto i ricordi di tutti.
Si può pensare che l'autore abbia inteso difendere Giovanni a fronte dei circoli che lo rigettavano, come
succedeva a Roma tra il II e il III secolo.

L'autore insiste sulla totalità, unità e pluralità della raccolta dei quattro vangeli, sicché non importa che
ciascuno inizi in modo diverso. È possibile che abbia così inteso opporsi a ogni preteso tentativo di ridurre il
numero dei vangeli.

Il concetto di totalità appare anche probabilmente nella notizia del FM su Atti: le azioni di tutti gli apostoli
sono state raccolte in un unico libro.

Per quanto riguarda gli scritti di Paolo, è interessante notare che il FM ne giustifica l'autorità in due modi
diversi.
Da un lato afferma che Paolo ha scritto a sette chiese, mostrando così la destinazione universale delle
suddette lettere fin dall'origine. In questo Paolo ha seguito Giovanni, suo predecessore, autore
dell'Apocalisse. Così si mette in rilievo il valore dell'Apocalisse che è presentata come uno scritto
antichissimo (anteriore alle lettere paoline), con una destinazione universale (simbolismo del numero sette),
di carattere esemplare (dato che Paolo lo ha seguito in questo simbolismo) e legata all'apostolo Giovanni.

In secondo luogo segnala che la ricezione universale della lettera a Filemone e delle lettere pastorali, scritte
da Paolo per affetto personale, si deve a un altro motivo: sono state santificate in onore della Chiesa cattolica
per ordinare la disciplina ecclesiastica.
Vediamo che per l'autore del FM è importante il legame fra canonicità e ricezione universale dei libri.

L'autore esplicita il rifiuto di certi scritti, alcuni di provenienza marcionita, che circolano sotto l'autorità di
Paolo.
L'Apocalisse di Giovanni e quella di Pietro sono fra i libri accettati, sebbene la ricezione di quest'ultima non
sia unanime.
Il Pastore di Erma si annovera fra i libri utili che però non può essere letto nell’assemblea, forse per il suo
carattere recente, il che indica che per l'autore è necessario che i libri accettati risalgano all’epoca apostolica
e implica la fine del tempo dell'ispirazione scritturistica.

L'evoluzione del canone nel III secolo

Il termine “canon” per tutto il III secolo (Tertulliano, Clemente di Alessandria, Origene) non si riferisce a una
lista di libri canonici, bensì alla regola di fede, norma assoluta e chiave dell'interpretazione delle Scritture.

I tre autori summenzionati attestano che nella Grande Chiesa si è stabilita la collezione canonica dei quattro
vangeli.

Clemente attribuisce valore anche alle tradizioni orali in relazione alla trasmissione della memoria
evangelica, le quali veicolano misteri rivelati dal Signore solo ad alcuni. È anche generalizzata la ricezione di
Atti, Apocalisse e lettere paoline.

Soprattutto ad Alessandria, sono stati considerati pertinenti alla Scrittura alcuni scritti del cristianesimo
primitivo come Barnaba, la Prima lettera di Clemente, il Pastore di Erma, Didache, il che non succedeva nel
caso di Ireneo e neppure nel FM.

La raccolta delle lettere "cattoliche" come collezione dovette nascere solo alla fine di questo secolo.
La Prima lettera di Giovanni e la Prima di Pietro sembrano essere state accolte da Ireneo e chiamate
cattoliche.
Il termine fu esteso alla collezione quando essa si costituì, riunendo due gruppi originariamente indipendenti,
cioè le lettere di Giovanni e altre quattro (1 e 2 Pietro, Giacomo e Giuda).
La circolazione dei manoscritti che contenevano queste lettere dovette risultare decisiva per la sua rapida
diffusione.

Non pare che nel corso del III secolo si sia preteso di arrivare a una delimitazione definitiva del Nuovo
Testamento.

La delimitazione del canone nel IV secolo

Nel IV secolo troviamo le prime liste complete dei libri del Nuovo Testamento.

Quella di Eusebio pare una creazione originale a partire dalla sua ricerca negli scrittori ecclesiastici.
Contiene i quattro vangeli, gli Atti, le lettere di Paolo, una lettera di Giovanni e una di Pietro e presenta
l'Apocalisse come incerta. Tali libri sono da lui considerati accolti.
Da questi si distinguono, a seconda della maggiore o minore ricezione ecclesiale, i libri discussi i quali a
loro volta sembrano suddividersi in discussi (Giacomo, Giuda, 2 Pietro, 2 e 3 Giovanni) e spuri (Atti di
Paolo, il Pastore di Erma, Apocalisse di Pietro, Lettera di Barnaba, Didache, Apocalisse).
Eusebio allude anche ai libri eretici.

I confini del canone non sono del tutto definiti, anche se ormai siamo ad un punto molto vicino alla
canonizzazione.

Alcuni decenni più tardi, Cirillo di Gerusalemme enumera anch'egli i libri del Nuovo Testamento nelle
Catechesi battesimali. Questi sono distinti dagli apocrifi o controversi.
La menzione di altri vangeli nocivi fa pensare che in Palestina a metà del IV secolo circolavano non soltanto
i quattro vangeli accolti.

Atanasio nella Lettera Festale 39 include una lista di libri canonizzati (il termine “kanonizomena” per la
prima volta appare in questo contesto), la prima con gli attuali ventisette libri, seguita da una lista di libri letti
il cui impiego era destinato ai catecumeni.
Autori come Gregorio di Nazianzo, Didimo, Giovanni Crisostomo, Teodoro e Teodoreto (secoli IV-V)
attestano altre liste, che si differenziano in generale l'una dall'altra per la ricezione o meno di alcune delle
lettere cattoliche e soprattutto dell'Apocalisse.

Agostino è testimone di un canone di ventisette libri il quale fu sanzionato da tre sinodi nordafricani fra i
secoli IV e V secolo.

Il canone dell'Antico Testamento

La complessità del processo di formazione del canone dell'Antico Testamento è riconosciuta dagli studiosi.

Fasi principali del processo:

1. Nel giudaismo dei tempi di Gesù circolava tanto in Giudea quanto nella diaspora una collezione di libri
sacri ancora aperta e in molti casi più ampia dell'attuale.
Le differenze fra i gruppi potevano essere notevoli, i sadducei consideravano ispirata solo la Torah (ossia il
Pentateuco) e rifiutavano i profeti al contrario dei farisei.
Da molti era considerata ispirata la letteratura che i moderni chiamano "apocalittica", soprattutto quella
legata al nome di Enoch. Questi scritti proponevano una spiegazione alternativa rispetto a quella contenuta in
Genesi sull'origine del male, attendevano da Dio un cambio dell'assetto attuale del mondo e l'avvento di
un mondo governato da Dio. A seguito della tragedia delle rivolte giudaiche, che questa letteratura poteva
aver ispirato, i libri apocalittici non furono accolti nel canone ebraico.

2. Dal principio i discepoli di Gesù, seguendo il loro Maestro, accolsero le Scritture di Israele come tali. In
queste coesistevano diverse collezioni, i cui confini erano incerti.
Si constata che i cristiani ricevettero le Scritture di Israele secondo la versione greca detta dei Settanta, una
traduzione cominciata in Egitto nel III secolo a.C. a beneficio dei Giudei che non comprendevano l'ebraico e
che divenne il testo sacro di riferimento per le chiese dei primi secoli.

3. Lungo il II secolo i cristiani della Grande Chiesa, in linea con la polemica nei confronti del giudaismo,
prendono progressivamente coscienza che le Scritture appartengono a loro.
Gli autori del II secolo includono nelle Scritture i libri “deuterocanonici” che non furono inclusi nel
successivo canone ebraico, ma che si ritrovano nel corpus dei Settanta e un buon numero di scritti apocrifi.

4. Clemente di Alessandria include i libri sapienziali (Proverbi, Sapienza, Siracide).


Da allora in poi sarà ancora più necessario delimitare il canone dell'Antico Testamento, per la quale si
possono constatare due tendenze opposte:
- il canone cristiano deve essere identico al canone ebraico, il quale si considera chiuso intorno all'anno 200
- il canone può essere diverso, a seconda della ricezione dei libri nelle chiese

5. Per Origene è un dato di fatto che il corpus cristiano diverge da quella ebraica per lingua e contenuto
(comprende parti di libri o libri interi che non si trovano nel canone ebraico) e ciò non è modificabile.
Attesta che esiste una categoria di libri accolti e un'altra di interesse, ma non facenti parte del corpus sacro e
che debbono essere usati con precauzione.

6. Nella Lettera Festale 39 Atanasio afferma che i libri canonici sono ventidue. In questa lista non compare
nessun deuterocanonico. Sussiste una terza categoria, aperta: gli "altri libri" che possono essere letti dai
catecumeni per il loro carattere edificante.

7. Girolamo attesta un canone uguale all'ebraico mentre Agostino presenta una lista di quarantaquattro libri,
con tutti i deuterocanonici, la quale eserciterà un grande influsso in futuro.
Se a questi dati sommiamo i libri contenuti nei codici più antichi constatiamo la complessità e la lentezza con
la quale si è definito il canone cristiano dell'Antico Testamento.

8. Il fatto che Girolamo sceglie il canone ebraico è legato all'idea che egli ebbe modo di tradurre per il
mondo latino la Bibbia di Israele direttamente dall'ebraico invece che dal greco, come avevano fatto le
antiche traduzioni latine.
Egli affermò il principio che il testo ispirato deve essere identificato con l'originale e non con una sua
traduzione, sia pure autorevole, come i Settanta. Agostino gli obiettò che in questo modo si veniva a creare
una distanza perniciosa fra la Chiesa di lingua greca e quella di lingua latina.
L'autorità della traduzione di Girolamo (poi detta Vulgata) si affermò lentamente.

L'esegesi scritturistica

Questioni introduttive

All'inizio i cristiani ricorrono prima alle Scritture di Israele che rimasero per loro l'unica Scrittura fino a metà
circa del II secolo e poi anche agli scritti apostolici per spiegare e difendere la loro fede.
Tuttavia la maggioranza delle correnti cristiane non vollero essere una religione del libro. Tanto nel loro uso
quanto nella polemica con i Giudei o fra loro i distinti gruppi cristiani partivano dal presupposto che la loro
comprensione di Cristo e della storia della salvezza era incarnata nella Scrittura, però era anche anteriore
a questa.

Le prime interpretazioni cristiane della Scrittura

I cristiani inizialmente selezionarono e in parte crearono passi delle Scritture, che chiamiamo Testimonia,
intorno a un tema (la croce, la morte di Gesù, l'unzione messianica) per provare che le profezie si erano
compiute in Gesù.
Poco a poco tutta la Scrittura cominciò a essere ripensata.

Per Paolo le Scritture confermano gli eventi della vita di Gesù e i loro grandi episodi sono letti alla luce di
Cristo, chiave di lettura grazie alla quale si dissolve il velo che nasconde il suo senso vero.
Paolo non si distingue dagli altri ebrei per le tecniche interpretative che impiega e in genere la terminologia e
i procedimenti esegetici del primo cristianesimo si collocano in continuità con quelli del mondo sia pagano
sia giudeo, sebbene presentino anche qualche caratteristica propria.

Da quando Paolo nella lettera ai Galati usa l’espressione “detto in allegoria” per dire che le due donne di
Abramo, Agar e Sara, significano le due alleanze, quella degli schiavi (i Giudei) e quella dei liberi (i
cristiani), l'allegoria inizia ad essere utilizzata moltissimo fra i cristiani.
Paolo usa l'allegoria come sinonimo di typos, quindi si parla di metodo allegorico “tipologico”.
Il metodo allegorico consente di ricavare anche altri tipi di significato. Dalla storia ci si può alzare al piano
superiore dell’insegnamento morale, come faceva il giudeo Filone (Abramo e Sara=unione di intelligenza e
virtù, animali proibiti=vizi da evitare, animali permessi=virtù da imitare).

Gli alessandrini Clemente e Origene sfrutteranno molto l'esegesi di tipo filoniano e Origene in particolare
arricchirà l'esegesi allegorica con il significato mistico incentrato sui misteri del Logos e del mondo celeste.

Relazione fra la Scrittura ebraica e Cristo: egli le dona il senso autentico.


Quando il Nuovo Testamento si affiancherà all'Antico Origene dirà che senza Cristo non si avrebbe la prova
del carattere ispirato della Scrittura giudaica.

L'esegesi dei valentiniani e la risposta degli ecclesiastici

I valentiniani furono i primi a tentare un'esegesi globale delle Scritture.


Fino ad allora la Scrittura era servita per approfondire i dati della predicazione apostolica e per questioni di
tipo pratico nella vita delle chiese. Con i valentiniani l'esegesi acquisisce un carattere dogmatico.

A differenza di Marcione, che considerava le Scritture di Israele come una rivelazione inferiore e le
interpretava alla lettera, i valentiniani sostenevano che in esse si possono trovare elementi pneumatici,
psichici e materiali, corrispondenti alle tre nature che erano derivate variamente dal peccato verificatosi nel
mondo divino. Quindi in loro non vi era la necessità di selezionare, eliminare o disprezzare alcuni scritti.

Lettera a Flora di Tolomeo: la parte pura della Legge non è estranea al Salvatore ed è da lui portata a
compimento. Sebbene attribuisca la legge di Dio nel suo complesso al Demiurgo, sembra pensare a un'azione
del Dio superiore per mezzo del Logos e di Sofia i quali a insaputa del Demiurgo hanno introdotto nella
Legge elementi pneumatici.

L'esegesi valentiniana influirà enormemente su autori come Ireneo e Tertulliano. Oltre ad accelerare la
coscienza canonica nella Grande Chiesa, la polemica scatenata contribuirà a fissare la coscienza testuale
neotestamentaria e ad affinare concetti decisivi come quello di tradizione (segreta per gli gnostici, pubblica
per gli ecclesiastici) quale criterio per interpretare la Scrittura.

Senza chiudersi a nessun metodo esegetico, questi autori adottano lo schema promessa-compimento senza
allontanarsi dal piano storico: ciò che si annuncia nelle Scritture di Israele si compie in Gesù e si compie o
si compirà nei cristiani.

L'esegesi allegorico-tipologica fu inoltre protagonista nelle due omelie pasquali di ambiente asiatico
quartodecimano, quella di Melitone di Sardi e l'anonima In sanctum pasha, predicate al popolo per la Pasqua:
il sacrificio dell'agnello pasquale e la liberazione del popolo di Israele dall'Egitto anticipano il sacrificio di
Cristo, la liberazione dell'uomo da peccato e morte e la sua nuova creazione.

L'interpretazione della Scrittura in ambito alessandrino

Ad Alessandria si può parlare di una iniziativa culturale molto più aperta alla filosofia greca e che pretende
di approfondire, in contrasto con i gruppi gnostici, l'interpretazione della Scrittura e la comunicazione dei
misteri divini, soprattutto a beneficio delle classi colte.

Clemente, del quale si sono perdute (tranne frammenti) le Ipotiposi in cui egli presentava interpretazioni
sintetiche di tutte le Scritture, considera che queste sono la voce del Logos divino.
In esse tutto è scritto con un fine preciso, anche se a volte può restare nascosto. Per scoprirlo, bisogna
cercarlo con delle capacità riservate agli eletti, predestinati alla gnosi, però non nel senso delle nature
gnostiche, ma grazie all'esercizio del libero arbitrio.
Clemente combina l'esegesi allegorico-tipologica con l'allegoria di tipo morale.

Origene amplia l'attività esegetica a tutti i libri della Scrittura e in modo più esteso dei suoi predecessori.
Questo lavoro assume tre forme diverse.
Negli “scoli” Origene raccoglie spiegazioni di passi scelti da un libro specifico. Le “omelie” furono predicate
soprattutto a Cesarea dopo che divenne presbitero e si adattano in estensione e contenuto alle esigenze di un
pubblico vario, pur seguendo un ordine secondo il quale si spiegano gli episodi principali di un libro intero.
Infine nei “commentari” la ricerca del significato del singolo passo è molto profonda.

Si serve di tutti i metodi dell'esegesi, preferibilmente dell'allegoria non tipologica. In primo luogo bisogna
svelare il senso letterale del testo, però il vero compito dell'esegeta consiste nella ricerca del senso o dei
diversi sensi spirituali del passo.
Nell'opera Sui principi egli definisce, a partire dalla tripartizione corpo/anima/spirito, tre livelli di
interpretazione: letterale/ morale/ spirituale.
Lo scopo fondamentale è la ricerca del senso spirituale, secondo il quale bisogna innalzarsi per mezzo
dell'allegoria alla verità eterna del vangelo.
Dalla conoscenza di Cristo uomo, propria del cristiano semplice e corrispondente al senso letterale della
Scrittura si passa alla conoscenza di Cristo Dio da parte del cristiano perfetto in accordo con il senso
spirituale.

Le tradizioni patristiche

Per "tradizione" si intende una categoria associata a un ambiente, a un individuo o a un gruppo, che si
riferisce a una forma globale di concepire e vivere la fede cristiana a partire dalla dichiarata ricezione
della predicazione apostolica e che comprende il modo di vivere e pregare, la riflessione dottrinale,
l'interpretazione della Scrittura.
A differenza di Marcione e degli gnostici le tradizioni patristiche riaffermano l'unicità di Dio e negano
la differenza di natura degli uomini.
Tradizione asiatica: la denominazione corrisponde all’ambito geografico dove si formò. Poi però si diffuse
presto con suoi rappresentanti in tutto l'Impero: a Roma con Giustino, ad Antiochia di Siria con Teofilo, in
Gallia con Ireneo, in Asia con Melitone e Ippolito, in Africa con Tertulliano.
Tratto distintivo della loro concezione è la salvezza della carne. L'uomo è composto di spirito, anima e corpo.
Lo spirito, elemento divino, viene progressivamente riversato da Dio nell'uomo per farlo partecipe della sua
gloria.
Centralità della vita e dell'umanità reale di Gesù fino a giungere alla perfezione del Cristo glorioso,
paradigma dell'uomo perfetto.
La creazione materiale del mondo e dell'uomo è unica e svolta da Dio che predispone la salvezza di
entrambi.

Tradizione alessandrina: raggiunse presto una posizione egemonica, prima in Oriente (Clemente; Origene, i
Cappadoci: Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo) e poi anche in Occidente
(Ambrogio, Rufino, Girolamo).
La tradizione platonica influenzò questi autori in questioni importantissime come la resurrezione “della
carne”. Per loro l’uomo si identifica con l'anima.

Clemente distingue la creazione dell'uomo a immagine di Dio, cioè a immagine del Logos, da quella dal
fango della terra, cioè del corpo.
Origene inserisce questa convinzione in una riflessione che ha lo scopo di opporsi agli gnostici che
professavano la distinzione di nature diverse, la cui sorte di bene o di male è segnata dall'origine.

La tradizione alessandrina invece afferma l'unicità di Dio, giusto e buono, e l’unica natura degli esseri creati
da Dio inizialmente come creature tutte uguali, dotate di libero arbitrio, variamente decadute per libera scelta
dalla primordiale condizione celeste di bene e di unione con il Logos di Dio.

Il male non esiste è solo l'assenza di bene prodotta dagli esiti del libero arbitrio: Dio, che si identifica con il
Bene, predispone un assetto del cosmo adatto al recupero delle creature suddivise in angeli, esseri umani e
demoni.
All’iniziale uguaglianza delle creature corrisponderà analoga fine e dunque Origene ammette la salvezza
universale delle creature mediante provvidenziale di Dio (dottrina dell’ “apocatastasi”), compreso il diavolo
che per primo si era allontanato dalla sua condizione originaria.

Due sono le conseguenze:


a) in origine non c'è differenza fra angeli, uomini e demoni
b) la creazione materiale, la sua salvezza e la vita di Gesù nella carne sono conseguenti alla caduta della
prima creazione.
Capitolo 5 - Alla periferia dell'Impero romano e oltre: i caratteri comuni dei cristianesimi orientali
(secoli II-IV)

I tratti comuni

Il cristianesimo si è diffuso nelle aree periferiche dell'Impero romano o al di là dei suoi confini sia in
direzione dell'Oriente asiatico sia verso l'Africa settentrionale, in regioni che già da tempo avevano elaborato
proprie culture e le avevano espresse nelle lingue locali.

La prima fase dell'ellenizzazione, a seguito dell'impresa di Alessandro Magno (332 a.C.), aveva portato
nel Vicino Oriente e nell'Egitto stili di vita, modelli di amministrazione, configurazioni urbanistiche di
origine greca, accolti in maniera differenziata.
La successiva dominazione romana aveva poi esercitato la propria influenza non solo nel campo
dell'amministrazione, ma anche in quello del vivere civile e del modo di pensare. Anche sotto
di essa il greco continuava a essere diffuso nel Mediterraneo orientale, quindi le imprese romane devono
essere considerate come un secondo momento di diffusione della tradizione culturale e linguistica greca.

A tutto ciò fu sensibile l'espansione del cristianesimo in quei luoghi, di conseguenza la multiformità fu un
carattere distintivo dei fenomeni di cristianizzazione delle regioni periferiche orientali e fu il tratto comune
che segnò il rapporto di questi territori con il cristianesimo: l'evangelizzazione fornì nuovi stimoli al
processo già in atto dell'emersione di nuove élite autoctone in un contesto politico dominato dall'Impero
romano e in un ambiente culturale ellenizzato.

Alcune novità, infatti, si affermano tra II e III secolo con l'attivismo economico dei gruppi etnici orientali,
favorito anche dall'estensione della cittadinanza romana sotto l'imperatore Caracalla (212 d.C.). Tale
possibilità di affermazione sociale apertasi per i ceti etnici emergenti è stata intercettata dalle comunità
cristiane che hanno garantito a questi una posizione di rilievo e prestigio all’interno non solo della vita
religiosa, ma anche della dirigenza comunitaria.

In ambiente persiano, quindi fuori dall'Impero romano, o negli Stati satelliti tra i due grandi Imperi, i
fenomeni di diffusione del cristianesimo si sono incontrati con comunità giudaiche vivaci, trovando in esse
una sede particolarmente adatta alla ricezione del messaggio.

Un altro fenomeno interessante da notare in questi contesti periferici è costituito dall'elaborazione di lingue
letterarie utili all’attività intellettuale attuata da ceti di notabili locali che, pur potendo utilizzare il greco,
hanno voluto dotarsi anche di una lingua scritta legata alla loro etnia. Ciò accade o prima o durante la fase
della cristianizzazione (l'armeno e il georgiano letterario sono certamente da connettersi con l'attività di forti
chiese cristiane).

Siria e Mesopotamia

L'evangelizzazione di Siria e Mesopotamia

L'area geografica di diffusione di gruppi cristiani che si esprimono in aramaico e in particolare nella varietà
chiamata "siriaco" si estende a est di Antiochia: essa comprende la porzione interna delle province della Siria
e la Mesopotamia, a partire dalle sue articolazioni regionali settentrionali (Orsoene e Adiabene) con i
capoluoghi di Edessa e di Nisibi (due città fondamentali per gli sviluppi della cultura del cristianesimo
siriaco), per passare attraverso l'area della capitale Seleucia-Ctesifonte e giungere fino alle regioni
meridionali che si affacciano sul Golfo Persico.

Si tratta di due realtà culturalmente diverse: la Siria è erede di una ricca e vivace civiltà ellenistica, è sede di
fiorenti città, con élite dotate di un forte senso dell'autonomia municipale, il vasto territorio mesopotamico
invece presenta una civiltà meno urbanizzata anche in ragione della sua peculiare struttura politica ed è più
resistente alla cultura greco-romana, a livello linguistico si vede prevalere il greco, ma soprattutto le lingue
iraniche e semitiche.
La Mesopotamia tra I e III secolo è luogo di continui conflitti e conosce una mobilità estrema dei confini che
dividono l'Impero romano dalle formazioni statali di ambito Persiano.
Tra la fine del II e l'inizio del III secolo essa diventa romana e lo stesso avvenne all’Orsoene dopo un breve
periodo di indipendenza.
Solo con la sconfitta di Giuliano detto l'Apostata nel 362 Nisibi ritorna all'interno della Persia. Questa è
l'area dove, nonostante il frazionamento politico e lo stato di guerra continuo, il cristianesimo nella
multiformità dei suoi movimenti ha mantenuto maggiore stabilità.

Non dobbiamo tuttavia dimenticare i numerosi spostamenti di cristiani e anche qualche missione più
organizzata verso l'India e verso la Cina.

Eusebio di Cesarea si interessa del cristianesimo dell' Osroene fin dal primo libro della Storia ecclesiastica,
quando riporta la leggenda della conversione al cristianesimo della casa regnante di Edessa nella persona
del re Abgar, per opera di un discepolo di Gesù. Dà inoltre prova di un'attenzione appassionata per i
fenomeni cristiani che si manifestano nella regione, svelando il coinvolgimento dell’Osroene nella
controversia pasquale della fine del II secolo.
Nonostante questo non sembra provvisto di una documentazione adeguata sul cristianesimo dell'area
mesopotamica, ragione per cui dobbiamo rivolgerci ad altre fonti: epigrafia, archeologia, scritti eresiologici
(per esempio l' Elenchos, Epifanio di Salamina), testi letterari, i quali in taluni casi costituiscono l'unica
traccia dell'esistenza di forme di cristianesimo taciute dalle fonti tradizionali.

Le ipotesi di ricostruzione delle origini cristiane nella regione può essere ridotta a due tendenze maggiori:
quella che vede predominante l'influsso della città greca di Antiochia che avrebbe raggiunto gli
ambienti di Edessa e dintorni, quella che invece insiste su una missione palestinese di carattere più semitico,
che avrebbe toccato l'Osroene e l'Adiabene, luogo della presenza di un vigoroso ebraismo, al quale si era
convertita anche la casa regnante.

Per completare il quadro bisogna aggiungere un'osservazione linguistica: il siriaco appare per la prima volta
non in prodotti letterari cristiani o ebraici, ma nei mosaici e nelle epigrafi funerarie dell'élite non cristiana
che ha dominato Edessa dal I secolo d.C. in poi, sia quando era capitale di un libero Stato che quando è stata
ridotta a colonia romana.
Di tale strumento linguistico, che era a disposizione accanto al greco, si sono impossessati ebrei e cristiani
per dotarsi di una cultura scritta.

La letteratura cristiana

Primo documento letterario insigne di quest'area è la traduzione dell'Antico Testamento chiamata a partire
dal IX secolo “la semplice”, databile tra il I e il III secolo d.C., la cui caratteristica più qualificante è l'esser
stata compiuta a partire da un modello ebraico e non dalla versione greca dei Settanta.
Gli ambienti che ne sono responsabili sfuggono a una immediata identificazione: si sono proposti
il giudaismo di Edessa o i Giudei credenti in Cristo di matrice palestinese, qualche critico ritiene ipotizzabile
un'evoluzione e trasformazione degli ambienti intellettuali responsabili (l'operazione del giudaismo edesseno
sarebbe stata continuata da cristiani di origine giudaica ancora capaci di comprendere l'ebraico).

È attribuibile a Taziano, allievo del martire Giustino, giunto in zona siriaca nel 172, l'iniziativa di scrivere il
Diatessaron, non è chiaro se in greco o in siriaco, ricostruibile oggi attraverso citazioni e versioni in varie
lingue antiche.
Questa iniziativa aveva una sua caratterizzazione ideologica. Sappiamo infatti che venivano eliminate le
genealogie di Gesù, per sottolinearne la provenienza senza mediazioni da Dio, e che erano particolarmente
enfatizzati i passi evangelici compatibili con un accentuato encratismo.

Di segno opposto era invece la traduzione dei vangeli separati, contemporanea o di poco posteriore, che
insisteva sulle genealogie di Gesù, in linea con alcune preoccupazioni tipiche di ambienti giudaici cristiani.
Maestri e profeti

Vi è una grande varietà di posizioni teologiche ed etiche nel cristianesimo di area siriaca, soprattutto in zona
edessena.

L'encratismo non è solo tratto caratteristico di Taziano, ma pervade anche tutta la letteratura legata al nome
dell'apostolo Tommaso (vangelo e Atti) conservata in copto, greco e siriaco, collocabile in Osroene.
Tommaso costituisce l'esempio del vero credente, gemello di Gesù, e quest'ultimo assume in alcuni casi i
tratti tipici della cristologia doceta.

Una cristologia alta, centrata su un Cristo rivelatore e salvatore cui l'intimità del credente desidera
conformarsi, è illustrata nelle Odi di Salomone, uno degli insiemi testuali di più difficile datazione e
collocazione ideologica: sono utilizzate da intellettuali distanti come Lattanzio e l'autore gnostico della Pistis
Sophia e in siriaco sono trasmesse nell'ambito di manoscritti di contenuto biblico.

Una sensibilità spiccata verso l'elaborazione filosofica greca caratterizza Bardesane, caposcuola di una
corrente intellettuale cristiana fiorita a Edessa tra II e III secolo, connessa alla corte e destinata nel IV a
essere marginalizzata.
A lui probabilmente è attribuibile l'iniziativa di comporre versi poetici in lingua siriaca.
Il suo sistema e la sua etica non sono vicini a quelli prevalenti nella Grande Chiesa (Ireneo, Origene), ma
nemmeno contigui allo gnosticismo né all'encratismo, anzi è percorso da una polemica contro il marcionismo
la quale rifiuta l'opposizione tra il Dio dell'Antico Testamento e il Dio padre di Gesù Cristo.

L'atteggiamento di polemica esplicita o implicita contro Marcione è stato riconosciuto non solo negli scritti
di Bardesane, ma anche in alcune Odi di Salomone, nella leggenda di Abgar, nonché nei più tardi autori
del IV secolo.
Non vi possono essere dubbi sul fatto che, mentre le sette gnostiche hanno condotto una vita appartata in
ambiente siriaco, il marcionismo abbia costituito una reale sfida agli altri movimenti cristiani.

Gruppi di Giudei credenti in Cristo rappresentati sia in Osroene, sia nelle Mesopotamia orientale e
meridionale: qui i gruppi di battisti fin dal II secolo hanno costituito comunità significative, cui reagiranno
dialetticamente i movimenti più tardi come e il manicheismo.

Il manicheismo è un elemento fondamentale, quello che probabilmente ha contribuito al rafforzamento


dell'identità della Grande Chiesa in tutta l'area, proprio per la radicalità con cui ha posto il problema
del dualismo del male, delle nature, dell'etica, della Chiesa.
Esso nasce nella Mesopotamia sasanide, ma Mani, secondo la testimonianza della sua biografia conservata
nel Codice Manicheo di Colonia, indirizza una lettera anche ai credenti di Edessa, dove evidentemente
intende acquisire proseliti, per convertirli alla religione dei due principi.

Gli sviluppi della Chiesa

In questa varietà di maestri e profeti, dove si colloca la Grande Chiesa, nucleo della futura ortodossia?
L'iscrizione di Abercio costituisce testimonianza non solo della sua diffusione in Asia Minore e in altre zone
del Mediterraneo, ma anche della sua presenza a Nisibi.

Per Edessa il Chronicum Edessenum presenta un documento civico in cui si parla del «tempio della chiesa
dei cristiani» in relazione a un'inondazione del 201: ci si domanda se si tratti di una casa-chiesa del tipo di
quella scoperta a Dura Europos e se essa sia traccia della presenza di una comunità raccolta intorno a un
vescovo, piuttosto che di gruppi radunati attorno a profeti e maestri ai limiti dell'ortodossia. Non esiste una
risposta sicura.

La vera e propria chiesa episcopale di Edessa è stata fatta costruire dal vescovo Qona all'inizio del IV secolo.
Dunque il monoepiscopato è venuto crescendo di importanza durante il III secolo in Osroene e
probabilmente ha esercitato la sua influenza su Nisibi e la Mesopotamia.
Nel IV secolo esso è la norma in Osroene e Adiabene, le cui sedi episcopali dipendono con ogni probabilità
da quella di Antiochia.
All'inizio del IV secolo nella Persia sasanide sono presenti non solo il modello del monoepiscopato, ma
anche forme di centralizzazione del potere religioso che si imperniano su una delle capitali dell'Impero,
Seleucia-Ctesifonte, e che si fondano su di un vescovo, Papa.
Questi, deposto in un primo tempo da un gruppo di suoi colleghi, viene ristabilito attorno al 329 dai vescovi
occidentali responsabili di diocesi collocate nell'Impero romano vicino ai confini con la Persia.

La forma dell'episcopato monarchico deve essere penetrata in Persia non solo attraverso la via di Edessa, ma
anche per il tramite delle deportazioni operate dai Persiani vittoriosi al tempo di Valeriano (260): sappiamo
che l'imperatore fu deportato all’interno dell'Impero persiano assieme a una grande massa di antiocheni e
dunque anche di cristiani ed è del tutto probabile che questi ultimi abbiano rifondato delle comunità rette
secondo un modello di episcopato monarchico.

Proprio nei confini di questo Impero, mentre in Occidente l'era costantiniana apre un periodo di pace relativa
per il cristianesimo, si scatena una persecuzione anticristiana che dura per alcuni decenni.

Diventa subito chiaro che il rapporto tra cristianesimo e potere non cristiano è uno dei grandi problemi
nella storia della Chiesa di Persia.
La situazione politica ha certamente favorito una progressiva autonomia della Chiesa di Persia dalle chiese
occidentali. La probabile dipendenza da Antiochia non è ricordata esplicitamente dalle fonti.
È invece sottolineata, nella raccolta degli atti sinodali siriaci, la presenza di vescovi occidentali, cioè
appartenenti all'Impero romano, nei primi sinodi persiani che, all'inizio del V secolo, vanno a sancire
l'identità di questa Chiesa: con il concilio del 410, svoltosi con il permesso dell'imperatore e promosso dal
vescovo e ambasciatore dell'imperatore Arcadio presso l'Impero persiano, si ha la formale accettazione del
Simbolo e dei canoni di Nicea e la dichiarazione dell'ordine delle province ecclesiastiche persiane,
capeggiate da quella di Seleucia-Ctesifonte, dove risiede il vescovo più importante.
Il concilio del 424 sottolinea che il vescovo della capitale non deve avere un riferimento superiore,
nemmeno tra i padri occidentali. Con questo la Chiesa persiana dichiara la propria autonomia e libertà nella
gestione di propri affari interni.
Solo con il passare del tempo, il vescovo di Seleucia-Ctesifonte aggiungerà il titolo di "patriarca".

Il monoepiscopato si diffonde in comunità in cui da tempo è presente un'antica istituzione ascetica, i "Figli
del Patto". Si tratta di gruppi di asceti, sposati o non sposati, che hanno scelto comunque la via della
continenza e della dedizione totale alla Chiesa.
Rispetto al monachesimo, che essi precedono di molto, propongono uno stile di vita ascetico in stretto
legame con le chiese delle città e dei villaggi.
Tali gruppi convivono con l'istituzione episcopale, spesso in tensione con essa.
Con l'affermarsi del monachesimo essi perderanno di importanza, pur non scomparendo del tutto.

L'Egitto e la nascita del copto

Le fonti

L'Egitto ellenistico e romano è la regione dove meglio possiamo cogliere la giustapposizione e poi la fusione
culturale tra due etnie diverse, gli Egiziani e i Greci, a cui più tardi si aggiungono i Romani.
Esso è inoltre il luogo di un'evoluzione particolare del giudaismo, il giudaismo ellenistico, la cui eredità
viene ricevuta in ambito cristiano anche dopo la rivolta giudaica del 115-117 e la sua dura repressione.

La storia del cristianesimo egiziano risente di tutto ciò.


Esso è iniziato in Alessandria per diffondersi a ondate in tutto l'Egitto, superando le divisioni etniche e
linguistiche tradizionali e la dicotomia tra la grande metropoli e il resto del paese.
I primi gruppi cristiani in Alessandria si sono espressi in greco, ma quando diverse forme di cristianesimo si
sono diffuse nell'entroterra egiziano, hanno assunto anche l'elemento linguistico egiziano.
Nello stesso tempo le religioni tradizionali fanno uso anch'esse delle due lingue e rimangono a lungo
praticate nelle due etnie.
Solo alla fine del IV secolo possiamo notare che il rapporto di forze tra cristianesimo e religioni tradizionali
si sta capovolgendo a favore del primo.
La quantità di fonti da utilizzarsi è davvero notevole se rapportata a quelle relative al cristianesimo di altre
regioni.
Oltre a quelle più tradizionali di tipo storiografico, canonico, agiografico, omiletico, teologico conservate in
greco e in copto, in arabo e altre lingue orientali, abbiamo le fonti di archivio del patriarcato di Alessandria, i
papiri letterari greci e copti legati allo gnosticismo, al manicheismo, le architetture delle chiese e dei
monasteri, e le espressioni iconografiche, i testi documentari che illustrano il funzionamento della Chiesa dal
III secolo.

L'organizzazione ecclesiastica ai suoi inizi

Nonostante una tradizione risalente all'inizio del III secolo attribuisca la prima evangelizzazione a Marco
evangelista, le origini del cristianesimo in Alessandria rimangono oscure.
La nuova religione appare con i suoi rappresentanti storicamente documentati dopo la rivolta giudaica del
115-117.

Nonostante le fonti ci mostrino l'esistenza di una pluralità di gruppi dall'orientamento religioso molto
diverso, i primi nomi registrati sono quelli di famosi maestri gnostici, come Basilide e Valentino, che
avranno largo seguito in Egitto.
Questo non deve portare alla conclusione che nel II secolo non sia esistita una gerarchia ecclesiale di altro
orientamento, bisogna piuttosto pensare che tale gerarchia è esistita, ma ha avuto scarso peso culturale e non
ha lasciato traccia di sé nelle fonti.

Personaggi noti dal punto di vista sociale si erano avvicinati al cristianesimo nella sua forma gnostica o
platonica, strutturata in circoli di intellettuali.
Persino un pensatore non gnostico come Clemente Alessandrino non dà peso alla gerarchia ecclesiastica,
mentre la sua attenzione è attratta dal rapporto fra maestro e discepolo, che egli avverte come centrale.

Ciononostante Eusebio di Cesarea e altre fonti egiziane e orientali ci hanno lasciato una lista di vescovi di
Alessandria a partire da Marco: ha lo scopo ideologico di creare una linea di successione episcopale
continua, che risalga fino all'età apostolica. È dunque un prodotto piuttosto tardo, la cui prima elaborazione è
collocabile nel III secolo, con ritocchi nel IV e nel V.

L'affermarsi dell'episcopato monarchico in Egitto

All’inizio del III secolo si osservano i segni di una reazione a questa struttura della comunità cristiana e al
suo orientamento religioso.
L'iniziativa è attribuibile a Demetrio, primo vescovo di Alessandria (189-232) storicamente verificabile, che
decise di sfruttare l'enorme potenziale intellettuale del maestro Origene e la sua capacità di reagire allo
gnosticismo.

Certamente è con l'assenso di questo vescovo che Origene operò all'interno di una nuova struttura, la scuola
catechetica.
A differenza degli gnostici o di Clemente, Origene esercitava il suo ruolo di maestro sotto il controllo del
vescovo. La sua opera educatrice permise a Demetrio di fare della comunità di Alessandria una Chiesa sia
gnostica che gerarchicamente strutturata, caratterizzata dalla pluralità dei livelli sociali e culturali.
Questo non significa che non vi siano state tensioni tra episcopato e scuola, infatti Origene a un certo punto
della sua carriera per contrasti con Demetrio dovette trasferirsi in Palestina, a Cesarea, dove era stato
ordinato presbitero.

Dopo Demetrio fu vescovo Eracla (232-248), che in seguito alla partenza di Origene da Alessandria era stato
promosso alla guida della scuola e che non fece nulla per riconciliarsi con Origene.

A Eracla succedette Dionigi (248-264), uno dei personaggi più in vista di Alessandria, in precedenza
direttore della scuola: questi passaggi tra scuola ed episcopato dimostrano come la scuola si fosse ormai
completamente integrata nella struttura della Chiesa.
Ma questo comportò anche dei dissensi: un gruppo di fedeli alessandrini protestò presso la sede di Roma
contro il vescovo Dionigi, criticando la sua dottrina trinitaria, ci fu poi lo scontro di Dionigi con il
millenarismo presente in alcune regioni egiziane.
Questi dissensi non provenivano solo da cristiani di scarsa preparazione o levatura sociale, perché soltanto
persone di una certa preparazione potevano muovere alla scuola l'accusa di essere troppo sensibile alla
filosofia greca.

Con Demetrio si sta affermando anche ad Alessandria, con un certo ritardo, la forma dell'episcopato
monarchico.
Possiamo ipotizzare che esso subentri a una struttura presbiterale, forse attiva ai vertici della Chiesa di
Alessandria nel II secolo. Tale struttura, di impronta giudaica, ha lasciato le sue tracce nel sistema di elezione
e ordinazione del vescovo di Alessandria, che in una prima fase prevedeva che fossero i presbiteri della
metropoli a scegliere e consacrare come vescovo un loro membro.
Demetrio diffonde il modello dell'episcopato monarchico anche all'esterno della metropoli, portando così alla
formazione delle prime diocesi.

Con il rescritto dell'imperatore Gallieno inizia un periodo di pace che sarà interrotto soltanto dalla
persecuzione di Diocleziano (303): è il periodo in cui la Chiesa si diffonde per tutto l'Egitto dando luogo a
quella rete di cento vescovi che rimarrà stabile fino alla dominazione araba.

La scuola catechetica sopravvive, anche se il suo rapporto con l'episcopato è meno organico che alle origini.
I nuovi vescovi, tutti dipendenti da quello di Alessandria, dopo il 250 intendono far sentire la loro voce nella
scelta del primate che dunque viene eletto non più soltanto dai presbiteri. A tale scelta partecipano anche i
vescovi.

L’invenzione del copto

La nascita delle diocesi, attestate dai papiri documentari già nella seconda metà del III secolo (papiri di
Ossirinco) è significativa per la popolazione della Valle del Nilo, soprattutto per quella di etnia egiziana: essa
vede la Chiesa della metropoli farsi prossima alle sue esigenze religiose.
Lo sviluppo della rete delle diocesi non permette il prevalere di alcuna città sulle altre, né nella Valle del
Nilo, né in Libia, né in Cirenaica: Alessandria rimane il perno del sistema.

Il periodo che va da Demetrio a Dionigi è significativo anche per la storia linguistica delle comunità
egiziane.
La Chiesa comunica in greco, ma a partire dalla seconda metà del III secolo uno spazio è lasciato anche
a una forma specifica di egiziano, sebbene limitatamente ad alcuni ambiti della produzione scrittoria: proprio
in questa fase il copto comincia ad affermarsi.

Nei primi secoli dell'Impero la produzione di testi egiziani e la loro copiatura avveniva nelle varie
scritture note in Egitto, la cui difficoltà ne facevano un appannaggio di un'élite ristretta, legata ai templi. La
progressiva decadenza di tali sistemi di scrittura a livello epistolare, amministrativo e legislativo portò
inevitabilmente a una situazione nella quale il greco avrebbe potuto divenire l'unico veicolo della
comunicazione scritta anche presso gli Egiziani.
Tuttavia ci fu una reazione a questo: proprio all'interno dell'élite dell'etnia egiziana durante il III secolo
avvenne la creazione di una lingua letteraria, il copto, con un suo alfabeto di semplice utilizzazione e
apprendimento, in gran parte preso a prestito da quello greco.

Le prime attestazioni vedono una prevalenza di testi che possiamo definire cristiani, in particolare traduzioni
dal greco di testi biblici, gnostici e ortodossi, ma si ha altresì la presenza di materiale magico legato alle
religioni tradizionali, per cui è difficile prendere una posizione sulle origini confessionali di questa lingua
letteraria.
Solo a partire dal IV secolo il copto è usato nella corrispondenza privata, ma limitato ad ambienti monastici o
ascetici.

Un ceto nuovo, economicamente in crescita, ormai ellenizzato e conscio dell'irreversibilità del processo che
nei secoli precedenti aveva portato alla decadenza della civiltà del passato, sente il bisogno di evidenziare il
proprio prestigio mediante la formulazione di una lingua letteraria che, se pur deriva dalla secolare
evoluzione linguistica egiziana, è anche aperta all'influsso lessicale, sintattico e naturalmente concettuale
della cultura greca dell'epoca.

La diffusione della Chiesa gerarchica sul territorio, favorisce il processo di marginalizzazione dello
gnosticismo, la cui eredità letteraria continua tuttavia a essere copiata e tradotta.
In questo contesto si svolge la propaganda manichea a partire dal 270 che va incontro a pagani, cristiani
cattolici e gnostici.
A una Chiesa che esprime testi copti "ortodossi" si contrappongono ambienti che traducono, copiano e
interpolano più o meno profondamente testi gnostici e testi manichei.

Nel contesto di questa diffusione sempre più capillare della Chiesa episcopale e nel quadro di questa vita
culturale molto ricca dobbiamo collocare anche le origini del monachesimo, destinato a incidere
profondamente nella Chiesa egiziana e del Mediterraneo.
Il periodo delle origini è caratterizzato da una pluralità di motivazioni e di forme, nonché da un'identità a
volte incerta, anche nei confronti di altre forme di ascetismo cristiano, spesso legato alla vita di città o di
villaggio.

L'ascesa dell'episcopato alessandrino

La persecuzione dioclezianea è stata traumatica, ma non ha annientato la Chiesa egiziana che da essa emerge
ancora ben strutturata, sebbene profondamente divisa.

Gli editti di persecuzione segnano un momento di crisi, provocando la fuga di molti vescovi e presbiteri, la
deportazione di altri, la loro condanna ai lavori forzati nelle miniere, il martirio di rappresentanti illustri
dell'élite, la distruzione di chiese e di libri.
La conseguenza più vistosa di tale situazione è l'esplosione di uno scisma che è profondamente radicato da
una parte nell'insofferenza nei confronti della gerarchizzazione della vita episcopale, sempre più incentrata
sul vescovo di Alessandria, dall'altro nello stato di disordine creato dalla persecuzione che, in assenza di
un'autorità centrale anch'essa perseguitata e incapace di prendere decisioni, ha fatto sì che intere diocesi
fossero lasciate a sé stesse o in mano a un clero non sempre adeguato, preparato.

Tale centralizzazione è stata criticata da Melizio, vescovo di Licopoli. Si è sentito in diritto, nonostante il
divieto canonico per i vescovi di celebrare ordinazioni al di fuori delle diocesi di competenza, di ordinare
diaconi e presbiteri nelle situazioni di bisogno a partire dal 304.
Con questo atto Melizio apre uno scisma destinato ad avere ripercussioni per tutta la prima metà del IV
secolo, portando a una divisione sia nel clero sia nel monachesimo egiziano.
Condannato al concilio di Nicea del 325, tale movimento scismatico troverà modo un decennio dopo di
alimentarsi grazie a un'alleanza tattica con il clero ariano o contiguo all'arianesimo.

Quest'ultimo, nato intorno al 318 dal libico Ario, uno dei presbiteri responsabili delle chiese di Alessandria,
viene condannato prima dal vescovo Alessandro di Alessandria e poi dal concilio di Nicea, ma trova supporto
in Oriente, in ambienti episcopali ostili alla crescita sempre più pronunciata del potere religioso della sede
episcopale alessandrina.

In questo contesto di crisi interviene la figura complessa di Atanasio, probabilmente consacrato mediante un
colpo organizzato all'interno del clero egiziano antimeliziano. La sua personalità è caratterizzata da una
fiducia incondizionata nella giustezza delle sue ragioni, da foga polemica contro gli avversari ecclesiali, da
costanza e resistenza nei confronti delle numerose persecuzioni capitategli anche da parte del potere
imperiale.
Alla difficile situazione ecclesiastica il vescovo cerca di rimediare con una politica in cui l'elemento
propagandistico, polemico e gli atti di costrizione e di violenza non sono disgiunti da forme di
riconciliazione volte a rinsaldare il proprio partito ecclesiale.
La struttura ecclesiale atanasiana tenta di emergere fra altri partiti agguerriti, ma con grande difficoltà.
Una delle intuizioni di Atanasio che avrà più conseguenze è l'alleanza con il monachesimo in tutte le sue
forme.
Se l'episcopato di Atanasio è totalmente coinvolto nella crisi ariana, che è teologica, politica ed ecclesiastica,
in quanto riguarda sia il rapporto tra cristianesimo orientale e quello occidentale, sia le relazioni
tra impero e Chiesa, il periodo che segue è invece caratterizzato dall'incremento di potenza delle sedi
episcopali orientali più importanti, tra le quali Alessandria tenta di emergere, soprattutto quando si rende
conto che Costantinopoli in virtù della sua posizione politica di capitale dell'Impero è destinata a crescere
anche come potere religioso.

Con il vescovo Teofilo (385-412) viene elaborata un'immagine di Alessandria come città da sempre
ortodossa, segnata dal martirio, di origine apostolica attraverso l'evangelista Marco allievo dell'apostolo
Pietro, opposta a Costantinopoli.
A ciò si aggiunga anche la lotta al paganesimo, tema sul quale Alessandria vuole entrare in piena sintonia con
l'imperatore Teodosio, con la distruzione (parziale) del Serapeo.

Vittima di questa politica di potenza del seggio alessandrino sarà Giovanni Crisostomo, vescovo di
Costantinopoli, la cui morte nel 407 segnerà la rottura della comunione di Alessandria con la sede di Roma.
Solo dopo la morte di Teofilo i rapporti tra Alessandria e Roma saranno ristabiliti.

Cristianesimi del Caucaso: Chiesa armena e Chiesa georgiana

La localizzazione geografica

L'area geografica in cui si espandono è quella delimitata dal massiccio del Caucaso, dalla costa orientale e
meridionale del mar Nero, dalla costa sud-occidentale del mar Caspio e dai rilievi montuosi del Kurdistan.
All’interno di questo territorio tre regioni sono significative per la presenza di forme cristiane ben connotate:
Armenia, Georgia (Iberia), Aluania (Albania).

L'evangelizzazione dell'Armenia

È una regione che è stata divisa politicamente tra l'Impero romano e quello persiano, che soltanto in brevi
periodi fu autonoma.

Il cristianesimo è probabilmente arrivato con due correnti cristiane:


- la corrente meridionale e siriaca (proveniente da Edessa)
- la corrente nord-occidentale greco-cappadoce

Nella Storia Ecclesiastica Eusebio menziona una lettera di Dionigi di Alessandria diretta a «quelli
che sono in Armenia» a proposito dei “lapsi”. Capiamo quindi che si tratta di una diocesi interna all'Impero
romano.

La conversione al cristianesimo avvenne tra il 306 e il 314 e sarebbe accaduta per opera di Gregorio
l'Illuminatore.
Questi, secondo le fonti armene, sarebbe stato un nobile di origine partica, cresciuto ed educato a Cesarea di
Cappadocia. Rientrato in Armenia, sarebbe stato gettato in un pozzo dal re per 15 anni, a causa della
sua fede cristiana, ma poi avrebbe guarito lo stesso re, fatto che causò la conversione ufficiale di tutto il
regno al cristianesimo.
Gregorio sarebbe diventato quindi capo della Chiesa a Cesarea di Cappadocia.

Queste tradizioni tracciano una conversione dell'élite regnante armena nel IV secolo e possiamo cogliervi
una dialettica vivace tra due influssi diversi: uno greco-cappadoce e uno siriaco-persiano che segnano il
cristianesimo armeno alle origini.
Vi sono infatti motivi politici e identitari in questa scelta della casa regnante, soprattutto in contrapposizione
alla Persia mazdea.

La letteratura armena

La cultura letteraria deve il suo sviluppo a quello che la storiografia armena ritiene essere un evento capitale,
cioè l'invenzione dell'alfabeto armeno da parte di Mesrop Mastoz.
Prima di allora la Bibbia doveva venir tradotta oralmente da lettori in grado di comprendere o il siriaco o il
greco.
L'invenzione dell'alfabeto, avvenuta a Edessa, stimolò anche l'avvio di una vasta opera di traduzione che
Mesrop realizzò con l'aiuto di generazioni di traduttori che appresero le lingue e le tecniche in tutti i centri
più importanti della cristianità bizantina. Il risultato fu una serie di traduzioni a partire da testi siriaci e greci,
che portò a una mescolanza di tradizioni teologiche e spirituali.

Per quanto riguarda la Bibbia una prima traduzione parziale condotta sul siriaco operata da Mesrop fu
seguita da una seconda, sulla base del testo greco.
Si tradussero poi opere storiografiche, nonché gli scritti di impegno teologico ed esegetico e la letteratura
canonica.

Solo a questo punto cominciò una produzione originale in lingua armena.

L'evangelizzazione della Georgia

L'Iberia divenne protettorato romano nel 65 a.C.. La parte orientale ebbe relazioni maggiori con la
Persia mentre quella occidentale con l'Impero romano.

Il documento più importante sulla cristianizzazione è il racconto di Rufino sull'apostolato di santa Nino, una
prigioniera di qualche decennio prima, datato al tempo di Costantino.
Ci sono poi numerose tradizioni in merito all'apostolato di Andrea e la ritrovamento della tunica di
Gesù che cercano di legare la Chiesa del IV secolo con il periodo delle origini apostoliche.
Il cristianesimo è probabilmente penetrato anche dall'Armenia e dalla Siria come fanno supporre i
testi prodotti in quelle zone.

Il primo vescovo georgiano sarebbe Giovanni (335-363) ordinato secondo Rufino da Alessandro di
Costantinopoli. È però attestato chiaramente che le chiese dell’Iberia furono ordinate per qualche secolo in
Antiochia, la città di riferimento.
Il racconto della Conversione della Kartli parla di una chiesa nella capitale, fatta costruire con la
sovvenzione del re.
La cronaca accenna poi ai vescovi e alla fondazione del “catholicosato”, forma di autonomia della Chiesa
georgiana dalle chiese occidentali.

Le prime traduzioni di testi biblici dall'armeno furono subito riviste su modelli greci e le altre furono fatte in
Terrasanta, dove i gerogiani furono presenti fin dal V secolo.

L'Etiopia

Il regno di Axum aveva il suo centro nell'altopiano abissino ed esercitava la sua influenza anche oltre il mar
rosso, nello Yemen, con il quale condivideva alcuni elementi linguistici e culturali. Le iscrizioni reali
attestano la penetrazione dell'ellenismo in questa zona.

La Storia Ecclesiastica di Rufino è utile per identificare la notizie e le testimonianze numismatiche


ed epigrafe sulla diffusione del cristianesimo in Etiopia.
Altro documento è la lettera, citata da Atanasio nell'Apologia a Costanzo, in cui l'imperatore Costanzo dopo
il 337 esorta i re di Axum a inviare ad Alessandria il vescovo Giorgio per verificare la fede del vescovo
Frumenzio, ordinato tale da Atanasio, uomo riprovevole secondo l’imperatore. La lettera risale ai primi anni
50 del IV secolo.

Rufino fa risalire l'arrivo del cristianesimo al “tempo di Costantino” raccontando la storia di due giovani
siriaci, Frumenzio ed Edesio che inizialmente schiavi, conquistarono la fiducia del re al punto che alla sua
morte Frumenzio divenne primo ministro della regina, adoperandosi per reperire dei cristiani tra i
commercianti romani nel regno di Axum e dando loro facoltà di costruire chiese e di celebrare i riti.
Frumenzio poi fu ordinato vescovo da Atanasio in Alessandria.
Non si sanno le ragioni per cui si presentò ad Alessandria invece di andare ad Antiochia e con questo atto la
nascente Chiesa etiopica si pone sotto la tutela di quella egiziana dalla quale dipenderà fino al XX secolo.

Le traduzioni in etiopico

Dopo la conversione della casa regnante dovettero iniziare le traduzioni dal greco in etiopico. Risulta molto
problematico capire quali testi far risalire a questa fase.
Attualmente si pensa che il corpus aksumita possa comprendere la Bibbia, tradotta gradualmente tra IV e VI
secolo, apocrifi come il Libro di Enoch o l'Ascensione di Isaia, il Pastore di Erma, nonché testi patristici più
tradizionali, una raccolta di testi canonici e storiografici e infine testi agiografici e monastici.
Non si esclude per questo periodo la composizione di testi originali di carattere agiografico o omiletico.
Parte seconda
Cristianesimo, società, istituzioni

Capitolo 6 - Il cristianesimo e la società del mondo greco-romano fra I e III secolo

I rapporti dei cristiani con la società: lo sguardo degli altri

Il movimento di Gesù nacque nel contesto culturale e religioso del giudaismo e fu soprattutto la
riflessione sulla figura di Gesù e sul suo rapporto con Dio a determinare una serie di incompatibilità con i
gruppi del giudaismo così da condurre alla separazione fra il giudaismo e quello che sarà chiamato
cristianesimo.
Però i concetti-cardine che i cristiani andavano sviluppando appartenevano all'universo di pensiero dei
Giudei. E ciò agli uomini di cultura allevati in conformità alla cultura classica (i pagani) era estraneo.

I Giudei costituivano un gruppo religioso antico e noto, il quale coincideva con un'etnia circoscritta e
individuabile, i cristiani invece, man mano che emergevano come un gruppo distinto, presentavano soltanto i
lati negativi del giudaismo: considerati pertanto estranei a esso, furono privi dello status di religione lecita,
riconosciuto al culto giudaico, e della conseguente normazione di tutela.

Il greco era la lingua più diffusa nella parte orientale dell'Impero, era la lingua parlata dal giudaismo della
diaspora, ma anche la lingua dei commercianti che ebbero una parte rilevante nella diffusione del messaggio,
oltre che degli uomini di cultura. Non a caso si è salvata della primissima produzione letteraria, in cui
sicuramente c’erano brevi scritti in aramaico, solo quella in lingua greca.

Tra le finalità degli Atti degli Apostoli vi era anche quella di accreditare il messaggio come perfettamente
compatibile con i doveri del civis Romanus.
Verso la fine del I secolo, la Prima lettera di Pietro insiste sul rispetto che i credenti devono alle autorità, ma
nello stesso tempo testimonia una situazione di forte tensione tra queste e i cristiani. A costoro erano infatti
rivolte accuse di essere malfattori, ladri, omicidi, per cui si rendeva necessario un atteggiamento apologetico.

Le relazioni determinatesi nella società antica al diffondersi della predicazione cristiana furono difficili, ma
contribuirono alla definizione dell'identità cristiana. In età romana imperiale la precisazione del profilo
identitario di un gruppo era solita avvenire non in virtù del dialogo bensì a causa delle polemiche. Le
categorie del dialogo e della tolleranza erano di fatto estranee a quell'epoca.

I rapporti tra cristiani e pagani si svilupparono secondo i seguenti livelli:


a) voci circolanti tra il popolo, cioè accuse diffuse sul conto dei cristiani basate prevalentemente su
preconcetti e sul sentito dire
b) attacchi da parte di intellettuali basati sui fondamenti dottrinali e scritturistici
e) provvedimenti di tipo giudiziario posti in essere da parte di imperatori o magistrati locali con incarichi di
governo

Spesso i magistrati recepivano le accuse anticristiane del popolo e si vedevano costretti a intervenire in
senso repressivo. Talvolta constitutiones imperiali anticristiane furono il riflesso delle pressioni di cenacoli
di intellettuali pagani.

I provvedimenti di tipo giudiziario aiutano a visualizzare le coordinate cronologiche di un lungo periodo nel
quale si sviluppano non solo le opinioni degli estranei che osservavano i cristiani, ma si determina anche da
parte cristiana la necessità di difendere le proprie posizioni attraverso una letteratura di carattere apologetico
e di raccogliere la memoria di coloro che erano stati vessati a causa della fede e che si presentavano quali
modelli da imitare.
Quest'ultima esigenza diede luogo allo sviluppo della letteratura agiografica nell'ambito della quale gli Acta
martyrum costituiscono una preziosa fonte.
Le autorità e i cristiani

Per molti anni si è parlato in termini generici di rapporti tra Chiesa e Stato romano. Successivamente si è
sviluppata una maggiore attenzione storiografica nei confronti del diverso atteggiamento degli imperatori
in riferimento alla realtà cristiana.
La storia delle persecuzioni quindi è stata riletta come la storia dei rapporti tra imperatori e cristiani. Ma
anche questo percorso sembra ignorare che l'Impero romano era un mosaico di province in ciascuna delle
quali l'autorità di Roma era pienamente rappresentata da governatori i quali esercitavano anche la funzione di
magistrati giudicanti. Difficilmente dunque i cristiani entravano in contatto diretto con il princeps. Più
importanti delle sue eventuali direttive era l'atteggiamento dei governatori locali sul quale incideva non solo
la normativa generale che costoro erano chiamati ad applicare, ma anche la specificità delle situazioni
locali e del momento, gli umori della popolazione e le loro stesse personali sensibilità di uomini e di
amministratori.

Inoltre non possiamo parlare semplicisticamente di Chiesa, ma dobbiamo considerare i cristiani un insieme
variegato per dottrina, organizzazione, visione del mondo e rapporti verso i poteri costituiti.
Tutto ciò rende più difficile il lavoro dello storico.

Eusebio di Cesarea parla di persecuzioni che avevano andamento diverso da zona a zona, Tertulliano attesta
che anche gli apologeti trovavano fruttuoso rivolgersi a governatori locali per far valere le loro ragioni.

Inoltre si pone il problema di stabilire quando le autorità romane siano state in grado di distinguere tra le
comunità dei credenti in Gesù e i giudei. Ciò non ebbe a verificarsi in un luogo e in un momento
preciso infatti le nostre fonti attestano situazioni diverse.
Se prendiamo in considerazione gli Atti degli Apostoli, assistiamo già a un processo di distinzione tra i
seguaci di Gesù e la sinagoga. Su questo sfondo l'autore fa intervenire i rappresentanti del potere di Roma a
tutela della predicazione dei credenti in Gesù e quasi ad arginare le malversazioni messe in atto dai
Giudei.
Il messianismo di chi credeva in Gesù era diverso da quello che aveva agitato le correnti giudaiche e la cui
azione aveva portato al conflitto con Roma: probabilmente alle autorità locali non sfuggiva il carattere meno
pericoloso delle attese cristiane.
Ma dobbiamo anche mettere in conto che Luca aveva tutto l'interesse a presentare il suo gruppo non solo in
luce favorevole, ma anche degno di benevola attenzione da parte delle autorità costituite.

Un particolare negli Atti ci conduce alla storia del principato di Claudio, intorno al 49.
Leggiamo che Paolo incontrò Aquila e Priscilla, una coppia di Giudei che stava a Corinto in seguito
all'ordine di Claudio, che allontanava da Roma tutti i Giudei.
Troviamo un riferimento alla stessa vicenda in Svetonio: «Claudio espulse da Roma i Giudei i quali erano
continuamente in tumulto a causa di Cresto».
Il testo pone almeno due problemi:
1) Cresto è da intendersi nome proprio di un personaggio, probabilmente un liberto, il quale fomentava
disordini nelle comunità di quella diaspora oppure è grafia errata per "Cristo"?
2) In cosa esattamente è consistito il provvedimento di Claudio? Quanti Giudei furono espulsi, tutti?

Sull'evento disponiamo anche di una testimonianza di Cassio Dione il quale afferma che, poiché il numero
dei Giudei a Roma era diventato oltremodo ingente era impossibile espellerli dalla città senza creare
problemi di ordine pubblico e che pertanto Claudio, pur concedendo di praticare il loro stile di vita, vietò che
si riunissero tutti insieme.
Alla luce di questa informazione, l'inciso svetoniano si deve intendere che Claudio espulse da Roma soltanto
quei Giudei che tumultuavano a causa del problema di Cre(i)sto. Il termine “tutti” negli Atti è
un’esagerazione, ma possiamo comunque ravvisare nel provvedimento di Claudio un'attestazione del già
rilevante numero di Giudei che allora iniziavano ad interessarsi al problema Gesù.

La punizione dei cristiani in quanto colpevoli dell'incendio di Roma del 64, narrata da Tacito attesta per
quell'anno la capacità di distinguere tra costoro e i Giudei da parte di Nerone. Va notato che se
il provvedimento fu preso in relazione a quanto era accaduto, il fatto che un capro espiatorio sia stato
individuato senza troppa fatica vuol anche dire che agli occhi dell'opinione pubblica i seguaci di Gesù
erano circondati da pessima fama e che al tempo di Nerone si era determinata un'associazione di fatto tra il
nome cristiano e accuse riprovevoli, che rimase anche dopo la damnatio e la rimozione dei suoi atti.

La più ricorrente preghiera cristiana, il Padre nostro, quando invocava l'avvento del regno di Dio a un
orecchio estraneo implicitamente auspicava il collasso delle strutture politiche esistenti all'epoca.

Gli anni del principato neroniano videro progressivamente costituirsi un clima difficile per la predicazione
cristiana, causando tra i cristiani un'ansia di liberazione da questo clima.

Nell'età dei primi due imperatori Flavi, Vespasiano (69-79) e Tito (79-81), non registriamo contatti tra
autorità e cristiani anche se proprio in quegli anni ebbe luogo l'evento che molto contribuì alla definizione
identitaria del gruppo dei credenti in Gesù: la guerra giudaica e la conseguente caduta del Tempio di
Gerusalemme.
La tragedia occorsa ai Giudei che non avevano aderito a Gesù fu interpretata come un castigo loro
comminato da Dio e come un segno di favore verso i cristiani.

L'età flavia fu per i Giudei (principalmente della diaspora romana) un'epoca di contraddizioni. La loro
immagine risentì negativamente degli eventi del 66-70: ai nobiliores parve opportuno far cessare la relazione
di Tito con la regina giudea Berenice, Domiziano compose un poema il quale, più che celebrare il fratello
vincitore dei Giudei, descriveva a tinte fosche quel popolo.
Una così recente dinastia aveva bisogno di un mito di fondazione per consolidare l'acquisita signoria e quindi
per i Flavi fu chiamato in causa il Bellum Iudaicum.
Tutto ciò rese opportuna per lo storico giudeo Flavio Giuseppe la compilazione delle sue opere di carattere
storico-apologetico le quali miravano ad accreditare la tesi di una rivolta voluta soltanto da alcuni gruppi di
Giudei, mentre la posizione maggioritaria del suo popolo era caratterizzata da lealismo verso Roma e le sue
istituzioni.

Più volte la storiografia si è interrogata sull'esistenza di un provvedimento anticristiano da parte di


Domiziano (81-96) del quale però non abbiamo notizia certa nelle fonti se non in accenni di Melitone di
Sardi e di Tertulliano, che assimilano l'ultimo degli imperatori flavi con Nerone.
Con ogni probabilità gli innegabili episodi di persecuzione a danno dei cristiani che si ebbero sotto
Domiziano furono determinati da situazioni locali, da interventi di singole autorità le quali recepirono istanze
popolari tutelando esigenze di ordine pubblico.

Anche a Roma si ebbero momenti difficili, come sembra attestare la Prima lettera di Clemente ai Corinzi
e tutta una tradizione agiografica cristiana.
Rimane ancora problematico istituire un collegamento fra questi episodi di persecuzione anticristiana e le
discusse notizie di Svetonio e di Cassio Dione, secondo cui un cugino dell'imperatore sarebbe stato
condannato per ateismo e Acilio Glabrione, console nell'anno 91, sarebbe stato pure condannato per ateismo,
adesione ai costumi giudaici e per aver introdotto novità.
A favore di un carattere anticristiano di questi provvedimenti il fatto che fu accusa ricorrente rivolta ai
cristiani quella di essere atei (nel senso di rinnegare gli dei della patria) e di costituire una novità in fatto di
religione.

L'età degli Antonini fu per le comunità cristiane un'epoca di formazione e di trasformazione.


Si pose allora la sfida culturale per i cristiani di mediare tra la predicazione del vangelo (strutturato secondo
le categorie del giudaismo) e la cultura di intellettuali e imperatori dell'epoca che vedeva l'egemonia della
cultura ellenistica.
Vi fu poi anche una più consapevole presa d'atto da parte di governatori provinciali della consistenza delle
locali comunità cristiane e dei problemi che queste ponevano nell'ambito dell'amministrazione della giustizia
e della tutela dell'ordine pubblico loro affidata.

In Bitinia Plinio il Giovane si trovò coinvolto nell'esperienza per lui nuova di processi contro i cristiani. Ne
abbiamo ampia notizia nella lettera che egli scrisse per ottenere direttive dall'imperatore Traiano.
Il governatore si confessava apertamente ignorante in materia, non sapeva se calibrare le punizioni a seconda
dell'età o della gravità del crimine commesso oppure se perseguitare i cristiani soltanto a causa del loro
nome. Comunicava di aver comunque adottato un criterio che troveremo poi costantemente
applicato in tutti i successivi processi a carico dei cristiani: colpire coloro che si ostinavano nella professione
di fede e si rifiutavano di apostatare.
Ne ricaviamo che le persecuzioni anticristiane piuttosto che creare martiri intendevano indurre apostasie.

La testimonianza di Plinio, riferendo il contenuto degli interrogatori, ci trasmette informazioni sul culto
cristiano: esso consisteva in riunioni celebrate in un giorno stabilito, all’alba, con il canto di inni a Cristo
come se fosse un dio, con un sacramentum che impegnava a non commettere furti e adulteri, a mantenere la
parola data. Poi ci si rivedeva per celebrare un pasto comunitario basato su cibo ordinario.
Secondo Plinio quella dei cristiani era una superstizione perversa, meritevole di essere punita.
In conclusione il governatore segnalava da un lato la rilevante diffusione nelle città e nelle campagne
della superstizione cristiana, dall'altro il suo ridimensionamento in virtù dei provvedimenti repressivi da lui
adottati.

Il rescritto di Traiano non tardò a giungere: l'imperatore approvava quanto fatto da Plinio, dichiarava che
non era il caso di emanare una norma generale e di procedere a una ricerca d'ufficio. Vietava di dar corso ad
accuse anonime, anche se in caso di denunce si doveva procedere.
Le misure prescritte avevano una duttilità tale da lasciare spazio di manovra ai singoli governatori.

In Asia, che fu terra cristiana, contemporaneamente a Plinio fu proconsole Cornelio Tacito.


Dieci anni dopo le petizioni del popolo anticristiano attrassero l'attenzione del proconsole Serenio Graniano
che come Plinio si rivolse al suo imperatore, Adriano (117-138), per ottenerne un rescritto chiarificatore.
Quest'ultimo giunse però al successore Minucio Fundano (122-123): vi si raccomandava di non dar peso a
calunnie generiche ma di procedere solo sulla scorta di accuse circostanziate. Quanto poi alle pene da
infliggere queste avrebbero dovuto essere commisurate ai delitti effettivamente commessi.
Sembra quindi che in questo caso i cristiani siano stati perseguitati in base a crimini di vario genere di cui
erano riconosciuti volta per volta colpevoli.

Eusebio di Cesarea ci trasmette il testo di una lettera di Antonino Pio (138-161) ampiamente rimaneggiata in
senso filocristiano.
Ma un suo nucleo che potremmo ritenere autentico testimonia da un lato l'accusa di ateismo e di causare
sciagure, dall'altro la volontà dell'imperatore di concentrarsi su problemi di ordine pubblico senza dar seguito
a denunce anonime e generiche.
L'imperatore però nel 141 si era rivolto al legato della Gallia vietando l'introduzione di nuove sette e di
religioni estranee, una norma che avrebbe consentito a qualsiasi governatore maldisposto verso i cristiani di
agire contro di loro.

I cristiani vissero comunque un'epoca di incertezza del diritto, era dunque urgente la definizione di una
norma chiara relativa al fenomeno cristiano, a causa dell'ostilità di gruppi di pagani che non mancava mai di
tradursi in agitazioni. Tutto ciò era ancor più urgente laddove la consistenza numerica dei cristiani era più
rilevante.

Marco Aurelio (161-180) (molto attaccato al mos maiorum) aveva raccomandato a governatori e milizie la
ricerca d'ufficio di sacrilegi e latrones.
In Asia un proconsole, probabilmente in applicazione di questa misura imperiale, si avvalse del suo potere
per introdurre la ricerca d'ufficio dei cristiani. Non conosciamo il nome di questo magistrato, ma sappiamo
che il principato di Marco Aurelio si era inaugurato in Asia con il proconsolato di Sisenna Rutilianus (161)
che fu fanatico avversario dei cristiani, noto principalmente per la satira che gli dedicò Luciano di Samosata.

Siamo informati dell'introduzione di questi nuovi editti dall’Apologia di Melitone di Sardi il quale fece allora
chiara professione di lealismo verso Marco Aurelio e il figlio Commodo, dichiarando che avrebbe accettato
questo provvedimento se fosse stato sicuro della sua paternità imperiale, ma in caso contrario ne chiedeva
l'abolizione e il ritorno alla precedente prassi che prevedeva la pena solo in presenza di un crimine.

Nell'età di Marco Aurelio l'Oriente fu sconvolto dalla rivolta di Avidio Cassio (175), che ebbe il suo
epicentro in Siria e in Egitto e fu poi repressa.
Pestilenze e stragi, ruberie e soprusi potevano essere considerati "segni dei tempi" da quelle comunità di
cristiani che nell'Asia si appellavano alle visioni dei loro profeti apocalittici per auspicare l'avvento della
Nuova Gerusalemme, prodromo del crollo di Babilonia/Roma.
Costoro erano i seguaci della Nuova Profezia, poi denominati montanisti, prevalentemente diffusi tra gli
strati più bassi della popolazione.

Quando studiamo i rapporti tra comunità cristiane e società romana dobbiamo tenere in debito conto il ruolo
del Senato il quale non fu soltanto e semplicemente un organo amministrativo, ma ebbe anche altri rilievi:
godé di una sua valenza religiosa nell’ambito delle devozioni pagane, specialmente in Oriente si venerava e
il culto per questa sacra assemblea che era attestazione di lealismo verso Roma.
Il Senato era il luogo istituzionale della conservazione religiosa, guardava con diffidenza alle superstizioni ed
era portato a intervenire in termini di repressione.
Nella seconda metà del IV secolo il Senato romano sarà ancora formato prevalentemente da pagani.

Marco Aurelio aveva operato in piena sintonia con il senato.


Non così suo figlio Commodo (180-192) al quale invece le fonti attribuiscono un atteggiamento di
benevolenza nei riguardi dei cristiani, anche per l'influsso della concubina Marcia che si adoperò a loro
favore
A Roma però durante il principato di Commodo fu processato e condannato Apollonio, membro di una
comunità cristiana. La decisione fu presa dal prefetto del pretorio Tigidio Perenne (180-185) e il Senato
determinò il verdetto.

Gli anni di governo della dinastia afro-siriaca dei Severi (193-235) videro una svolta nei rapporti tra il potere
imperiale e i cristiani. In considerazione dell'afflusso rilevante di orientali a Roma è stata rilevata la
situazione di sostanziale favore goduta dai cristiani all'epoca di questa dinastia.
Le nostre conoscenze dipendono in gran parte dalle biografie di questi imperatori contenute nella Historia
Augusta.

Significativo è già il principato di Settimio Severo (193-211) in merito al quale la citata fonte parla di un
suo divieto di far proselitismo a carico di Giudei e cristiani. Eusebio invece attesta una persecuzione ad
Alessandria.
È dubbio però che ci sia stato un disposto anticristiano da parte dell'imperatore, mentre episodi persecutori
nell'Impero sono da attribuire all’iniziativa di magistrati locali, probabilmente stimolati da accuse popolari o
dall'atteggiamento di rifiuto di prendere parte ai riti della città antica.
Così avvenne in Africa al tempo del procuratore Hilarianus (marzo 203: martirio di Perpetua e Felicita).

Questa situazione di ambiguità legislativa e di pericolo portò i giuristi a denunciare.


Fu nell'età di Caracalla, intorno al 217, che Domizio Ulpiano compose il suo De ufficio proconsulis il cui
libro VII comprendeva le norme prodotte in merito al fatto cristiano e tentava pertanto di contribuire a
risolvere il problema di un bilanciamento tra le singole situazioni vigenti per ciascuna provincia e il quadro
normativo generale.

Un altro significativo momento di questa dinastia è costituito dal principato di Alessandro (222-235).
Abbondano le informazioni della Historia Augusta in merito alla sua apertura verso la religione cristiana,
sino ad attribuirgli il proposito di erigere un tempio in onore di Gesù stesso.
Con il suo principato siamo un'età in cui le donne dell'aristocrazia nutrivano interesse e coltivavano
devozioni per tutto quanto di religioso proveniva dall'Oriente mistico. Ne abbiamo attestazione dal dialogo
della madre dell'imperatore, Giulia Mamea, con Origene.
È nel "senato delle donne" della dinastia severiana che venne composta da Filostrato la Vita di Apollonio
di Tiana, un santone il cui profilo di filosofo sfumava in quello dell'uomo santo e fautore di miracoli.

Nel 235, con la fine della dinastia severiana, termina anche l'apertura filo-cristiana.
Il nuovo princeps, Massimino il Trace (235-238), uomo attento alle esigenze dei suoi eserciti, procedette a
una sorta di epurazione dei cristiani che aveva trovato inseriti negli ambienti di corte. L'iniziativa nella
storiografia ecclesiastica si trasformò nel ricordo di una persecuzione.
In realtà non vi fu la promulgazione di alcuna legge anticristiana da parte di Massimino e gli episodi che si
registrarono a Roma, nella Cappadocia e nel Ponto furono variamente motivati da esigenze locali.
Il III secolo vide un'altalena di atteggiamenti diversi tra imperatori che si succedettero, la cui politica passò
in un breve lasso di tempo dall'avversione alla tolleranza o viceversa.

Il fenomeno è più evidente nel passaggio da Filippo l'Arabo (244-249) a Decio (249-251).
Filippo l'Arabo era esponente dell'aristocrazia di una regione in buona parte cristianizzata, quel territorio che
Origene visitava per affermarvi la sua teologia di stampo ellenizzante contro il conservatorismo teologico di
del vescovo Berillo.
Eusebio riferisce a proposito di Filippo un racconto che lo vuole cristiano e penitente in chiesa e ne ricorda la
corrispondenza della moglie Octacilia Severa con Origene.
Decio invece è passato alla storia come l'artefice di una persecuzione anticristiana di portata generale, ma in
realtà l'iniziativa consistette in una sorta di sacrificio agli dei insolitamente lungo ed esteso territorialmente.
La misura era in sintonia con il conservatorismo d'impronta senatoria che contraddistingueva la sua azione
politica, ma aveva anche una funzione propiziatoria in un momento caratterizzato da guerre e malattie.
Furono prescritti sacrifici pubblici agli dèi. Al termine venivano rilasciate certificazioni relative a questi
adempimenti, i libelli, i quali ci rendono certi che anche ai sacerdoti pagani fu richiesto di sacrificare, quindi
non si trattò di una deliberata persecuzione anticristiana, anche se i credenti in Gesù furono messi in
gravissima difficoltà.

Il primo imperatore a indire una persecuzione deliberatamente anticristiana e di portata generale fu Valeriano
che promulgò due editti nel 257 e nel 258.
L'imperatore inviò anche missive ai governatori di provincia. Si trattava di misure atte a incamerare i beni di
ecclesiastici e a decapitare l'organizzazione stessa delle comunità. Quanto poi ai cristiani appartenenti
ai due ordines maggiori (senatori e cavalieri) avrebbero dovuto perdere i propri beni e, in caso di mancata
apostasia, anche la vita.
Questo accanimento non ottenne gli scopi desiderati: la cancellazione delle comunità e il necessario sostegno
economico alle armate.
Valeriano fallì e terminò la sua vita prigioniero di Shapur I, re della Persia sasanide.

Il figlio Gallieno, contraddicendo la politica del padre, già intorno al 260 egli restituiva con un rescritto alle
chiese i beni sottratti nel corso della precedente persecuzione.
Il desiderio di ristabilire la pace con i cristiani risultò anche dalle missive che l'imperatore inviò ai principali
vescovi per informarli della misura a loro favore.
Così facendo l'imperatore fondava la capacità giuridica di possedere beni immobili da parte delle comunità
cristiane in quanto tali. Si diede così il via alla costruzione di edifici chiamati a sostituire le domus ecclesiae.
La politica di Gallieno inaugurò un quarantennio di pace (la cosiddetta "piccola pace della Chiesa") durante
il quale le guide dei cristiani ebbero modo di esercitarsi in quelle discussioni dottrinali che poi
nell'età di Costantino, tra ulteriori misure di pace e di favore, avrebbero dato corpo alla controversia ariana.

Scarsissime sono le notizie su Aureliano. Egli volle stabilire una monarchia in terra come in cielo. Per
perseguire il primo proposito annesse le regioni della Gallia e dell'Oriente, per quanto attiene al secondo
proclamò il culto del Sol invictus, divinità non estranea alla venerazione dei Romani ma che ora veniva
presentata quale immagine dell'unica sostanza divina manifestatasi, nella varietà dei miti e dei riti, con i volti
molteplici degli dei del pantheon tradizionale.
Con Aureliano era l'antica tradizione solare e apollinea che si ergeva ad esempio di monarchia in cielo: come
l'Impero era un'articolazione di province svariate, tutte espressioni del potere di Roma, così gli dei
dell'Olimpo erano raggi diversi di quell'unico principio datore di unità e di vita che è il sacro sole.
Fu a seguito della riconquista di Antiochia che ad Aureliano fu richiesto un arbitrato nella disputa tra due
vescovi cristiani: Paolo di Samosata, vescovo di Antiochia e il suo avversario Domno. Nel 268 un sinodo
di vescovi contrari alla dottrina cristologica di Paolo lo aveva condannato e deposto scrivendo poi una
missiva ai vescovi di Roma e di Alessandria. Ma Paolo non abbandonò la casa episcopale e quindi si ricorse
all’imperatore. Aureliano appoggiò la delibera sinodale.
I cristiani visti dal popolo: rumores ed equivoci

Molte accuse che furono formulate dal popolo sul conto dei cristiani erano state già messe in circolazione a
proposito dei Giudei. All'opinione pubblica pagana non sfuggivano le affinità tra giudaismo e cristianesimo,
si sapeva inoltre che Gesù era nato tra i Giudei che costituivano un'etnia già nota e circoscritta, mentre i
cristiani rappresentavano una novità sospetta.

Si disse che i cristiani erano dediti al cannibalismo, praticavano l'incesto, odiavano il genere umano.
Probabilmente queste accuse presero le mosse da fraintendimenti intorno al «mangiare il corpo del Signore»
in occasione della cena del Signore e all'amore fraterno che legava i membri delle comunità. Quanto poi
all'odio verso il prossimo derivava anche dall'astensione dalle cerimonie religiose pubbliche, la quale veniva
interpretata dagli estranei al cristianesimo come un atto di pericoloso boicottaggio politico, data la
compenetrazione tra religione pagana e politica.

Inoltre vi è l'accusa di adorare un dio dalla testa asinina. Così infatti è raffigurato Cristo nel più antico
crocifisso che è di mano pagana. Questo crocifisso blasfemo si ritiene risalga all'età dei Severi. In questa
raffigurazione caricaturale tanto Gesù in croce quanto l'adorante Alexamenos indossano abiti servili. Ciò si
concilia con l'altra denigrazione, secondo la quale il cristianesimo avrebbe reclutato i suoi seguaci tra servi e
ignoranti.
Agli osservatori pagani, probabilmente, non doveva sfuggire neanche il fatto che le guide e i profeti delle
comunità cristiane erano liberti o persone prive tanto di ascendenze gentilizie quanto di cultura. Ma più
ancora che per questo aspetto sociale, il carattere plebeo della predicazione cristiana era palesato dal fatto
che a essa erano estranei i contenuti e il metodo della filosofia classica.

Da connettersi ai comuni timori della società antica sono invece l’accusa secondo le quali i cristiani
avrebbero praticato la magia. Essa derivava da una matrice antigiudaica. Mago è colui che usa formule,
parole e gesti difficilmente comprensibili. La magia determinava un timore diffuso nella società antica.
Paradossalmente però in tempi successivi furono i pagani a essere accusati dalla Grande Chiesa di praticare
la magia e con la repressione di quest'ultima si avviò anche il processo di distruzione di templi e di
abolizione dei rituali tradizionali (secoli IV e V).

Più pregnante tra tutte fu l'accusa di ateismo.


Al mondo antico fu pressoché estranea l'idea di negare l'esistenza della divinità. Ateo dunque era colui che
voltava le spalle agli dei protettori del suo popolo e questo aveva un carattere di pericolosità sociale. Si
aggiunga che i cristiani collocavano al posto degli dei tradizionali il dio dei Giudei o il Nazareno, spirato per
mano della giustizia romana.

Le analisi degli intellettuali e la difesa della paideia tradizionale

Non dobbiamo meravigliarci del silenzio degli storici greci e romani sulla persona di Gesù. Il loro modo di
tramandare la memoria aveva infatti un carattere aristocratico e selettivo: si interessavano al profilo dei
grandi personaggi e delle loro donne mentre rimanevano estranei i grandi movimenti di popolo, così come
coloro che appartenevano a strati sociali subalterni.
Gesù era tra questi, un profeta itinerante della Galilea, piccola regione posta alla periferia di una minuscola
provincia dell'Impero, la Giudea.
La sua figura non fece notizia fino a quando il movimento che da lui aveva preso le mosse acquisì una
dimensione tale da suscitare apprensione tra chi temeva per un potenziale scardinamento dell'ordine
pubblico.

Scarne notizie all'inizio del II secolo sui cristiani le reperiamo in Tacito, Svetonio e Plinio il Giovane
che in un modo o nell'altro sono tutte direttamente collegate a problemi di tutela dell'ordine pubblico.

Nel I secolo abbiamo soltanto il cosiddetto Testimonium Flavianum, cioè la notizia di Gesù nelle
Antichità giudaiche del giudeo Flavio Giuseppe, che ha probabilmente un fondo autentico con interpolazioni
di mano cristiana.
Che Flavio Giuseppe si sia interessato a Gesù è comprensibile per la sua origine e la conseguente attenzione
ai movimenti religiosi giudaici: a Giovanni il Battista dedica più spazio che a Gesù.
Dobbiamo attendere l'età di Marco Aurelio per assistere intorno al 178 alla composizione di una prima
trattazione organica da parte pagana dedicata alla questione cristiana. È il Discorso veritiero che
l’intellettuale Celso scrisse con il duplice proposito di confutare la religione dei seguaci di Gesù e di
incoraggiare costoro a integrarsi in quella società dalla quale con la loro conversione si erano estraniati.
Come è avvenuto per le altre opere anticristiane che l'intellettualità pagana ha composto il trattato
di Celso andò perduto, ma la sua sorte fu comunque più favorevole di quella di altri trattati perché Origene,
nella sua confutazione di circa settanta anni dopo, lo cita quasi per intero.

Nei primi due libri Celso introduceva un giudeo a polemizzare contro i cristiani: questo espediente retorico
(la cosiddetta "prosopopea") consentiva di denunciarli come apostati dal loro originario gruppo di
appartenenza, proprio come quest'ultimo si era a suo tempo reso colpevole di rivolta nei riguardi della
tradizione religiosa pagana comune a tutti gli altri popoli.
La principale accusa che Celso muoveva ai cristiani era quella di considerare la specie umana come qualcosa
di superiore all'ordinamento naturale e di nutrire la pretesa di costituire un gruppo privilegiato dal favore
divino di cui i credenti in Gesù si consideravano detentori unici.

Con Celso assistiamo alla prima chiara esposizione di quelli che saranno i luoghi comuni della controversia
anticristiana di carattere dotto.
Al pagano non sfuggì neanche la frammentazione dei gruppi cristiani e le polemiche che tra questi
scoppiavano, elenca varie sette prevalentemente di carattere gnostico che egli mostra di conoscere e che
contrappone al gruppo maggioritario da lui definito la "Grande Chiesa".

Utilizza anche brani delle Scritture.


Denunciava le contraddizioni dei vangeli a proposito del racconto della resurrezione e aggravava la dose
rilevando che prima testimone di questo evento era stata una donna isterica (probabilmente Maria di
Magdala).

Celso espresse la religiosità che prevedeva culto per la tradizione, avversione per il nuovo, timore di
sconvolgimenti sociali, senso del dovere verso la res publica.

Diverso è quel che Luciano di Samosata aveva scritto in merito ai cristiani appena pochi anni prima in La
morte di Pellegrino.
Il cristiano Pellegrino prima viene onorato dalla sua comunità come profeta, interprete delle Scritture e, una
volta carcerato come confessore della fede, sfamato in abbondanza e assistito in tutti i modi. Ma poi soltanto
per aver mangiato dei cibi vietati viene rigettato e ridotto in miseria e questa trasgressione fu l'inizio del suo
definitivo allontanamento dal cristianesimo.
Significativa fu anche la morte di Pellegrino che Luciano rievocò: il personaggio si diede fuoco smanioso di
esibirsi platealmente e riuscì a abbindolare non pochi ammiratori.

L'insensata bramosia della morte è un tratto che caratterizza i martiri cristiani nel giudizio degli osservatori
pagani.
Già in età traianea a Plinio i condannati per la loro fede erano sembrati preda di una superstizione malvagia e
smodata.
Ma è nell'età di Marco Aurelio che fioccano le accuse a tal proposito. Un breve inciso dei suoi Pensieri
contrappone la serenità del saggio stoico nei riguardi della morte alla concitata ostinazione del martire
cristiano.
In Celso tutto ciò diventa un'articolata accusa ai martiri cristiani, folli che non amano la vita e provocano le
autorità.
Questa ansia di assimilarsi al modello di Gesù sofferente, probabilmente esasperata da un disagio sociale o
esistenziale, caratterizzava nella tarda età degli Antonini la spiritualità di gruppi montanisti a cui oracoli
e visioni annunciavano l'imminente fine dei tempi.

Diverso era l’atteggiamento dei cristiani che aderivano all'universo concettuale della gnosi per i quali il
corpo non aveva valore e quindi neppure il martirio.
Nel III secolo, con il protrarsi e il consolidarsi dell'etica cristiana dell'astensione dalle cerimonie pubbliche,
si istituzionalizzò sia presso il popolo che presso gli intellettuali pagani l'immagine del cristiano come
estraneo alla società.
In quest'epoca le comunità andavano aumentando di numero e organizzandosi efficacemente sia al loro
interno sia tramite istituti di coordinamento quali i sinodi.
In molti pensavano che la diffusione del culto cristiano mettesse in crisi la prosperità della società e la
sicurezza dell'Impero.

La pace concessa ai cristiani da Gallieno non determinò la cessazione degli attacchi di intellettuali pagani.
Fu l’età nella quale fu attivo a Roma il filosofo Plotino, animatore di un cenacolo dove il platonismo era
spiegato nell'ambito di una visione filosofica che aveva il suo vertice nella ricerca dell'Uno, nell'incontro tra
l' individuo e il suo Dio filosofico. Fu allora che si determinò una polemica tra il filosofo e gruppi di cristiani
i quali erano entrati a far parte della sua scuola e vi diffondevano testi apocalittici il cui assunto era l'attesa
della dissoluzione di questo cosmo al quale il filosofo guardava invece come a una eterna dimora degli dei.
Sono gli "gnostici di Plotino" di cui dà notizia Porfirio nella biografia del maestro.
Le idee di Plotino colpivano anche e più in generale alcuni assunti del pensiero cristiano: al cuore della sua
critica c'è l'irriducibile distanza fra la sapienza cristiana rivelata dall'alto e la cultura di Plotino che
comprendeva la difesa del carattere aristocratico della conoscenza di Dio, riservata a menti elette ed
esercitate nella filosofia.

Contro il pericolo cristiano agì poi il discepolo Porfirio il quale abbinava alla conoscenza dei filosofemi
classici una curiosità per le dottrine di salvezza orientali e tra queste quelle di Giudei e di cristiani.
Con Porfirio cambiò in primo luogo lo stile della contesa, che non fu più alto e indiretto, come lo era stato
per il suo maestro.
Egli si rese conto che la fede dei cristiani aveva la sua base nelle Scritture e contro queste indirizzò le sue
pagine. Nella consapevolezza che un'arma missionaria formidabile per i cristiani era l'argomento tratto dalla
profezia s'impegnò a storicizzare gli oracoli veterotestamentari ai quali facevano ricorso i suoi avversari e li
destituì di ogni significazione cristologica.
Il caso più famoso è costituito dal libro di Daniele che Porfirio dimostrò essere una composizione, un'opera
spuria che niente aveva a che fare con Gesù.

Sempre in questa direzione egli criticò Origene e l'esegesi allegorica alla quale costui ricorreva. Quello
allegorico infatti era per Porfirio un metodo esegetico che poteva essere applicato ai grandi testi della
tradizione ellenica, non ai testi di Giudei e cristiani, modesti nella forma e inaccettabili nei contenuti.

Porfirio chiamò in causa anche considerazioni di carattere generale: contrappose il fideismo cristiano alla
tradizione filosofica classica della ricerca di Dio, evidenziò le contraddizioni della figura di Paolo, denunciò
l'assurdità di un Dio che si fa uomo entrando nel ventre di una ragazza, sottoponendosi a morte indecorosa e
consumando la sua presenza nella vita drammatica di una sola persona in un angolo remoto della terra.

Lo sguardo sugli altri: i cristiani e la società antica

Quando i pagani accusavano i cristiani di estraniarsi dalla compagine sociale non avevano tutti i torti. In
effetti i credenti in Gesù da un lato avevano ereditato l'atteggiamento dei Giudei che considerava errate
buona parte delle consuetudini della città antica, dall'altro erano convinti che demoni malvagi avevano
ispirato quel culto pagano che pervadeva ogni aspetto della vita civile e politica.

La religione antica, quella dei pagani, non era un esercizio di fede astratta disgiunto da un praticato stile di
vita, essa pervadeva ogni aspetto della vita sociale, dalla politica all'arte, dall'architettura alla milizia. Prova
ne è il fatto che l'antichità non ci ha lasciato un manuale sistematico di religione pagana, ma la sua
conoscenza noi la acquisiamo osservando la vita e leggendo gli scritti degli antichi.

I cristiani e la società, mestieri e costumi

Non è possibile oggi sentenziare in maniera assoluta su questo estraniamento dei credenti in Gesù verso
consuetudini e mestieri. Ciò avveniva in vario grado da persona a persona, da comunità a comunità.
Possiamo considerare Tertulliano (fine II - inizio III secolo) il più radicale assertore dell'incompatibilità tra la
fede in Cristo e alcuni mestieri. Questo suo atteggiamento andò radicalizzandosi man mano che egli si
avvicinò alle posizioni carismatiche del movimento della Nuova Profezia.
Il suo manifesto è il De spectaculis dove prende di mira non solo quanto avveniva nei circhi, nelle arene e nei
teatri, ma ogni pubblica manifestazione che legava colui che vi partecipava alla società, al sistema di
governo: funzioni religiose, processioni pubbliche, pronunciamenti e acclamazioni di tipo politico così come
messe in scena offerte al popolo per averne il consenso. Il cristiano era invitato ad astenersi da ogni mestiere
che avrebbe potuto metterlo in contatto con le tre principali trasgressioni che la sua etica prevedeva, ossia
idolatria, omicidio, immoralità sessuale.

Anche la militanza nell'esercito, che allora era una scelta volontaria di mestiere, costituì argomento di
dibattito nelle comunità. L'esercito celebrava le sue ricorrenze pagane. Certamente un cristiano ligio
avrebbe avuto difficoltà a conciliare la fede con la spada, le sacre insegne e gli incensi dei suoi
accampamenti.
Tuttavia il cristiano Giulio Africano, proprio nell’età severiana trattava d'arte militare nei suoi Cesti, inoltre
la vigilia della grande persecuzione dioclezianea fu preceduta da una vistosa epurazione di cristiani che
militavano nei ranghi dell'esercito. Ecco dunque perché è oggi difficile sentenziare anche sull'atteggiamento
degli antichi cristiani in merito alla milizia, questa scelta era diversamente compiuta a seconda della
sensibilità e della radicalità dei principi.

Per quanto riguarda le donne apprendiamo dalla severa critica di Tertulliano che le cristiane, nonostante gli
ammonimenti contenuti nei documenti neotestamentari continuavano a truccarsi e a vestirsi con eleganza,
almeno quelle che avevano le condizioni economico-sociali per farlo.
Certo molte si saranno strettamente attenute alle prescrizioni di modestia e semplicità.

I cristiani e l'Impero

Tra i cristiani dei primi secoli non vi fu un'unica linea di pensiero in relazione alla realtà politica di
quell'epoca: l'Impero romano. La varietà di atteggiamenti in merito al binomio cristiani/politica sarà una
costante di tutta la storia della Chiesa.

Già i documenti neotestamentari presentano linee di pensiero diverse.


Quando i farisei interrogarono Gesù sulla liceità di corrispondere le tasse a Roma, egli diede una risposta
volutamente ambigua: si fece mostrare da un lato il denaro con il volto dell'imperatore, dall'altro
introdusse un secondo elemento, non previsto dalla domanda: Dio. Se ne deduce che, se si deve a Cesare,
tanto più si deve a Dio.

Molto più usato nell'antichità fu il cap. 13 della Lettera ai Romani, composta nella prima età neroniana, nel
quale Paolo invita i credenti a sottomettersi alle autorità poiché costoro sono ordinate da Dio a castigo
dei malfattori e a ricompensa di chi bene opera.
In realtà la riflessione di Paolo va compresa inserendola in quella produzione con la quale la letteratura
filosofica del tardo ellenismo s'interrogava sui principi fondanti dell'autorità di chi era al potere e sulla sua
normazione.
Contro l'opinione diffusa che salutava nel basileus (o princeps) la fonte stessa dell'autorità, Paolo fa
dipendere la sottomissione dei buoni cittadini dal particolare secondo il quale la fonte prima di autorità sta
nella positiva volontà di Dio tesa ad assicurare la giustizia.

Paolo fu un buon cittadino romano come rivela sia il suo epistolario sia il profilo che di lui traccia l'autore
degli Atti.
Anche quando rivolgendosi ai Filippesi ribadisce che «la nostra cittadinanza è nei cieli e di là aspettiamo
come salvatore il Signore Gesù Cristo» egli certo non attesta una estraneità all'Impero, ma richiama l'attesa
della venuta di Cristo per eliminare un sentimento di fierezza che ai Filippesi poteva derivare dal loro far
parte di una colonia romana con tutti i privilegi connessi a questa condizione.

Sulla scia del prudente lealismo paolino si collocano le raccomandazioni della Prima lettera di Pietro che
insistono ancor più sulla funzione di tutela o di repressione esercitata dall'autorità che però è pur sempre
«creata dagli uomini».
Nella stessa area asiatica e nello stesso lasso di tempo (se propendiamo per una datazione in età domizianea)
collochiamo l'Apocalisse di Giovanni, da riferirsi però a comunità ancora immerse nell'universo di pensiero
e di osservanze del giudaismo e che pertanto prendevano le distanze da certe libertà del paolinismo.
Qui l'atteggiamento verso l'Impero romano è completamente diverso.
Il testo giovanneo è in realtà una lettura attualizzante del Libro di Daniele, che vuole dar senso a un lungo
momento di tribolazione per i cristiani dell'area intorno a Efeso. Laddove Daniele esprimeva la storia dei
malvagi regni della terra in quattro bestie spaventose corrispondenti a quattro imperi, Giovanni compendiava
questa lunga sofferta epopea politica nell'unica figura di una bestia ben più mostruosa che veniva dal mare e
si scatenava a far guerra ai santi, identificata con l'Impero romano, espressione del secolare diabolico
tentativo dell'uomo di cacciare Dio dalla storia.

L'Apocalisse fu anche il principale fondamento per il millenarismo che fu la dottrina escatologica più
diffusa nel II e III secolo.
Esso però non fu tutto antiromano, come ad esempio nel caso del lealista Ireneo di Lione.
È un motivo ricorrente dell'antica letteratura cristiana (specialmente apologetica) la preghiera che il buon
credente era solito rivolgere a Dio per la prosperità dell'Impero e dell'imperatore. In questo vescovo,
carismatico e lealista nello stesso tempo, troviamo la dottrina secondo la quale il principato nasce con la
predicazione di Gesù e con questa è destinato a prosperare. I fenomeni di persecuzione venivano quindi di
volta in volta addebitati alla malvagità di qualche imperatore.

Anche nel pensiero di Origene, che scriveva a Cesarea sotto Filippo l’Arabo, era rilevante la
contemporaneità tra la predicazione di Gesù e l'Impero dei Romani che assicurava pace ai popoli tutti.
La grande istituzione politica dell'Impero era apprezzata dal teologo proprio in quanto strumento atto ad
assicurare una diffusione ottimale del messaggio cristiano.

Tuttavia apprensioni per il presente e il futuro non scomparivano e in momenti difficili del III secolo alcuni
scrittori cristiani, avvalendosi di un'esegesi biblica attualizzante, tentavano di dare significato ai drammi
dell'età in cui vivevano.
Fu così che in Asia Ippolito identificò la quarta bestia di Daniele con l'Impero romano e ne previde il
collasso con l'affermarsi di dieci regni nazionali, preludio all'avvento dell'Anticristo.

Successivamente il poeta Commodiano ravvisò nella sconfitta di Valeriano a opera di Shapur I di Persia la
soccombenza di un autentico anticristo da parte dell'apocalittico re di Oriente, figura ancora destinata a porre
fine all’Impero.

Un grande vescovo della stessa epoca, Dionigi d'Alessandria, aveva dai suoi Testimonia scritturistici profezie
veterotestamentarie che gli sembravano atte a dipingere a tinte fosche quello che egli riteneva il vero artefice
della persecuzione valerianea, cioè il prefetto Macriano e poi i suoi figli, usurpatori precipitati nel fango e
nel sangue in adempimento della profezia.
Opposto era invece il suo giudizio su Gallieno, il benefattore della Chiesa, al quale ben si adattavano le
parole di Isaia e che egli pertanto salutava come un sole che dà luce e salute.

Tutto il filone di pensiero che da Paolo approdava a Origene andò poi a comporsi nella teologia politica di
Eusebio di Cesarea la quale andò acquisendo contenuti e forma grazie al ricorso alla Bibbia e alla riflessione
sugli eventi di cui egli stesso fu testimone che videro la Chiesa passare dalla persecuzione al favore.
Anche per Eusebio l'Impero e la Chiesa costituivano vicende parallele, però egli era in condizione non solo
di celebrarne l'avvicinamento, ma anche di magnificare il profilo di Costantino che aveva reso possibile
questa integrazione.
Costantino: novello Mosè che guida alla libertà il popolo di Dio, mediatore a imitazione del Logos tra
l'umanità e la sfera della divinità identificata con il Dio dei cristiani.

Cristianesimi antichi e paideia classica: tra apologetica e mediazione culturale

Quali furono le sfide che il pensiero cristiano dovette affrontare? Cosa fu l'apologetica?
Quest'ultimo termine si riferisce all'organizzazione di un discorso difensivo che un individuo o un gruppo
formulava al fine di far valere le sue ragioni e di prevalere sul piano del diritto e/o su quello del pensiero.
Vi fu poi una vera rivoluzione semantica: vocaboli antichi acquisiti dal lessico cristiano erano impiegati per
esprimere concetti nuovi. Espressioni quali "salvatore", "legge", "pentimento", "conversione" subirono
sostanziali modifiche di significato. Questa dei cristiani fu la "modernità di linguaggio".

Anche un rito fondante come il battesimo, già nell'interpretazione di Paolo, aveva radicalmente cambiato
significato e stava ora a significare piuttosto che il rito attestante il ravvedimento in vista dell'imminente
giudizio di Dio come proclamava Giovanni Battista, l'esperienza iniziatica del credente che con Gesù si
immergeva nella morte e con Gesù risaliva a vita nuova.

Carattere e volti dell'apologetica cristiana

L'apologetica più che un semplice genere letterario deve essere considerata un'esigenza che pervase
trattazioni appartenenti a generi letterari diversi. Si ha quindi in epistole, trattati teologici, esegetici,
catechesi, memorie storiografiche e anche inni.

Le opere appartenenti al genere dell'apologetica conobbero una loro fioritura in area asiatica nel II secolo.
In età severiana, invece, fu l'Africa a produrre significativi apologeti di lingua latina: Tertulliano e Minucio
Felice.
Ci fu la stesura di importanti opere apologetiche anche in un'epoca (IV e V secolo), durante la quale la
professione di fede cristiana era addirittura causa di favore presso le autorità.
È il caso di Arnobio, Lattanzio, Eusebio di Cesarea, Atanasio, Firmico Materno e altri.

L'apologetica precostantiniana si pose il duplice scopo di perorare la causa della libertà di culto per i cristiani
e di dimostrarne la bontà, quella postcostantiniana invece si concentrò sulla confutazione del culto pagano e
cercò di sollecitare provvedimenti tali a determinarne la scomparsa totale, al fine di far prevalere la verità
cristiana sull'errore.

Il debito delle composizioni apologetiche cristiane verso filoni di pensiero precedenti è vistoso sin negli
scritti più antichi. Questi autori fecero tesoro della precedente produzione apologetica dei Giudei, delle
invettive dei filosofi greci contro l'immagine antropomorfa della divinità.
Il giudaismo aveva perseguito la sua polemica contro l'idolatria già in testi o in libri non canonici ma ben
accreditati.
Tuttavia il più compiuto apologeta del giudaismo fu Flavio Giuseppe nella sua opera Contro Apione.

La più rilevante idea che gli apologeti cristiani derivarono e svilupparono dai loro predecessori giudei fu
quella secondo la quale dietro il culto delle divinità pagane si nascondeva l'attività dei demoni.
I rituali esorcistici vennero praticati tra i seguaci di Gesù sin dal primo momento della sua predicazione.
Il demonio e i suoi angeli decaduti erano ritenuti all'origine del culto pagano. Certo presso i cristiani non
mancavano coloro che ritenevano gli dei pagani del tutto inesistenti o personificazioni degli elementi della
natura. Ma costoro erano in minoranza: buona parte del successo missionario del cristianesimo è da attribuire
alla sua capacità di liberare chi vi si avvicinava dalle sofferenze causate dai demoni.

Bersaglio polemico degli apologisti cristiani furono in primo luogo le assurdità e immoralità dei miti
tradizionali, già soggetti da tempo alle critiche dei filosofi d'ogni corrente. Pertanto gli attacchi ai tratti
antropomorfici degli dei omerici fatti dagli scrittori cristiani quali Taziano, Clemente Alessandrino, Minucio
Felice e tanti altri non erano contributi originali e innovativi al pensiero teologico.

Ben pochi pagani allora prendevano alla lettera quelle vicende narrate dai poeti, anzi tra loro i più acuti
ricorrevano all'esegesi allegorica per ravvisarvi significazioni diverse. Quelli poi che erano animati da
sentimenti anticristiani si soffermavano a rilevare alcune corrispondenze tra episodi della mitologia
classica e racconti biblici. Nasceva così una controversia incentrata sulla maggiore o minore eleganza
letteraria di quelle narrazioni oppure sull'ipotesi di plagio.

I cristiani, poi, svolsero una vivace polemica contro la prassi sacrificale dei pagani, in sintonia con un'antica
tradizione filosofica greca la quale ripudiava altari, vittime e fumigazioni d'incenso, in sintonia col
profetismo ebraico che aveva prediletto la pietà del cuore rispetto ai sacrifici nel Tempio.
L'apologetica cristiana, pur professando lealismo verso la res publica, trovava parole di condanna per
l'apoteosi degli imperatori o di uomini ritenuti dopo la morte assurti alla sfera del divino come Antinoo.
Con ciò introduciamo il debito dell'apologetica cristiana verso la dottrina di Evemero (IV-III secolo a.C.).
Costui nella sua Sacra iscrizione aveva teorizzato che gli dei sarebbero stati uomini illustri del passato i quali
per le loro azioni si sarebbero procacciati successivamente la venerazione dei sudditi sino al vero e proprio
culto.

L'apologetica cristiana fu condizionata dalla necessità di far fronte a un atteggiamento di pensiero diffuso in
età imperiale romana secondo il quale tutto ciò che poteva vantare il crisma dell'antichità era per questo vero,
al contrario specialmente in materia di religione la novità era da mettere in relazione con l'errore. A monte di
questo atteggiamento c'era la persuasione secondo la quale la verità andava ricercata in una tradizione di
pensiero unitaria. Questo determinava la condanna del cristianesimo in quanto novità.
L'esigenza di difendere la credenza in Gesù dall'accusa di essere una novità indusse i cristiani ad agganciare
la loro storia alla vicenda d'Israele. Così si soddisfaceva anche la controversia antigiudaica poiché la Chiesa
rivendicava il ruolo di un nuovo Israele, sostituitosi all'antico.

Possiamo riscontrare questa esigenza apologetica anche nella produzione cronachistica, dall'inizio del III
secolo in poi, di autori quali Giulio Africano, l'autore del Chronicon un tempo identificato con Ippolito e
infine Eusebio di Cesarea: costoro collegarono la storia dei cristiani con quella veterotestamentaria,
mettendola in parallelo con le vicende della Grecia e di Roma.
Le sinossi e gli schemi cronologici miravano a persuadere il lettore che Mosè era stato più antico di Omero.
Di conseguenza ogni affinità tra quanto di buono poteva desumersi dalla tradizione classica e la narrazione
scritturistica era denunciata quale plagio compiuto dai filosofi rispetto alla più antica tradizione ebraica.

La più articolata argomentazione su questo piano la formulò Eusebio di Cesarea, in età costantiniana: nella
sua Preparazione evangelica l'assunto tradizionale dell'antichità come criterio di verità veniva impiegato
proprio contro i pagani, in quanto la sapienza dei Giudei sarebbe stata più antica di quella dei filosofi
pagani e fonte di quest'ultima.

Originalità e limiti dell'apologetica cristiana

Sullo scorcio del IV secolo la resistenza al cristianesimo fu opposta delle religioni del mistero che venivano
professate con l’intento di soddisfare l’ansia di catarsi, di unione mistica con il divino, di conoscenza della
dimensione ultima a cui arriveranno anche i cristiani, per altra via.

I cristiani non pensarono tanto all’interpretare le evoluzioni della ricerca del sacro quanto di denunciare
con argomenti facili le immoralità dei miti, l’incomprensibilità di rituali arcaici, la superficialità delle
celebrazioni collettive.

Il limite vistoso dello studio dell’apologetica cristiana è che conosciamo soltanto la voce cristiana, poiché
la controparte pagana è scomparsa o pervenutaci solo in frammenti.
Possiamo comunque ipotizzare da quel che possediamo che il tema di fondo non fu la lotta tra politeismo e
monoteismo.

La produzione apologetica comunque si mosse entro due poli:


1. Rigetto totale di quanto aveva prodotto la tradizione precristiana nei campi del pensiero, della
religione, dell’arte (Taziano e Tertulliano). Faceva però da contraltare in entrambi gli autori la ripresa ai
propri fini di concetti filosofici provenienti dalla Grecia.
2. Scritto apologetico come tentativo di mediazione culturale (Giustino, Clemente alessandrino). Lungi dal
demonizzare la cultura pagana cercava di ravvisarvi alcuni aspetti positivi.

Permane in ogni caso una sostanziale incompatibilità tra la cultura classica e la novità cristiana,
culturalmente radicata nelle categorie del giudaismo.

Non possiamo valutare quanto le aperture degli apologeti al pensiero antico siano state fruttuose presso i
pagani in vista di una loro conversione.
Nei secoli II e III, i successi dell'azione missionaria furono basati non tanto sull'apologetica, quanto sulla
capacità di accoglienza, di calore fraterno delle comunità cristiane. Il senso di appartenenza e di identità
fornito dalla Chiesa aiutava a lenire sofferenze di tipo emotivo, sociale e economico nella vastità dell'Impero
che tendeva a produrre individui alienati e soli.

Il cristianesimo ha reso “democratica” l'esperienza e il concetto di conversione perché tutti avevano accesso
alla liberazione per mezzo di Gesù e alla pienezza dello Spirito, liberi e schiavi e potevano inoltre accedere al
ruolo di guide nella comunità.
Capitolo 7 - Da perseguitati a favoriti, da favoriti a persecutori
Il cristianesimo nell'Impero romano fra IV e V secolo

L'ultimo scontro. La tetrarchia e l'era dei martiri

Aureliano (270-275) il più rilevante degli imperatori restitutores i quali nel periodo della crisi economica e
sociale del III secolo cercavano di contenere tramite riforme dell'esercito, della moneta e
dell'amministrazione le pressioni dei barbari dall'esterno e di riorganizzare la compagine interna
dell'Impero. Questi provvedimenti anticipano la politica che si ebbe nell'età della tetrarchia.

Diocleziano fu colui che inaugurò quest'epoca. La frantumazione delle province, l'accrescimento del loro
numero, il loro accorpamento in diocesi (come egli volle) aveva lo scopo di consentire una più capillare
gestione del potere.
L'imperatore poneva a fondamento del suo potere non più il consenso del Senato o l'azione spesso mutevole
degli eserciti, bensì un carisma che gli proveniva dall'alto: egli si ergeva quale mediatore tra la sfera
dell'umano e quella del divino, di quest'ultima era proiezione terrena che si concedeva alla vista in spazi
circoscritti e riservati, sacri, come andava considerato tutto quanto gli si riferiva.

Di ciò abbiamo un'idea leggendo panegirici ed osservando la ritrattistica. L'imperatore è raffigurato con
grandi occhi sempre fissi verso l'alto, quasi a scrutare il volere divino per poi tradurlo in azioni e per i sudditi
devoti.

Diocleziano nel 285 si era associato al potere Valerio Massimiano. Questa diarchia fu trasformata in
tetrarchia nel 293: ai due imperatori (che erano "augusti" e posti sotto la tutela di Giove) furono associati due
reggenti di rango subordinato, ossia i "cesari" collegati al semidio Ercole. Così Diocleziano ebbe residenza in
Oriente (Nicomedia) e a lui si associò Galerio, e Massimiano in Occidente, a Milano e a lui si associò
Costanzo Cloro.
Ciascuno ebbe un insieme di province da governare e un limes da difendere.

La cosiddetta "seconda tetrarchia" del 305 vide l'abdicazione dei due Augusti ma anche l'esclusione di due
personaggi di rilievo: Massenzio, figlio di Massimiano, e Costantino, figlio di Costanzo Cloro, già l'anno
successivo proclamato imperatore dalle truppe del padre defunto.
Dopo il Convegno di Carnuntum del 308 in Occidente si imposero l'augusto Licinio e il suo cesare
Costantino, in Oriente l'augusto Galerio e il suo cesare Massimino Daia.

Per quanto riguarda gli aspetti religiosi, l'ideologia politica emersa dalla tetrarchia era un misto di
conservatorismo e di innovazione: faceva leva sul rinvigorimento dei culti tradizionali e pertanto entrò in più
momenti in conflitto con la spiritualità e la dottrina dei cristiani. Persecuzioni e tensioni che ebbero termine
con la svolta costantiniana del 312-313.
Di questa "era di martiri" abbiamo notizia esclusivamente da fonti cristiane e da alcuni stringati riferimenti
papiracei. Le fonti pagane tacciono, ma si ha l’eccezione del De mortibus persecutorum di Lattanzio e degli
scritti di Eusebio di Cesarea: gli ultimi tre libri della Storia ecclesiastica e i Martiri della Palestina, opera che
riguarda ciò che ebbe luogo in questa regione.

A Nicomedia nel 303 Diocleziano promulgò il suo primo editto anticristiano. Il provvedimento era stato
preceduto da una serie di epurazioni dall'esercito che aveva interessato soprattutto cristiani militanti nelle
legioni di stanza in Africa. Questi martiri militari tuttavia non erano stati processati e condannati perché
cristiani, ma in quanto manchevoli verso quella religio castrensis che faceva tutt'uno con la disciplina
militare.

Inoltre probabilmente nel 302 vi era stato un editto contro i seguaci della religione di Mani, sollecitato da una
relazione del proconsole d'Africa Iulianus, che aveva fornito informazioni dettagliate creando allarme per la
diffusione della setta in quei territori.
Licopoli, in Egitto, era il focolaio dove s'irradiava l’azione missionaria dei manichei e qui infatti il
neoplatonico pagano Alessandro compone una confutazione nella quale presentava i miti di Mani e dei suoi
seguaci come degenerazioni della più semplice predicazione dei cristiani.
L'editto dioclezianeo era invece incentrato principalmente su due specifici aspetti della religione
di Mani: il suo destabilizzante carattere di novità e la sua provenienza da una regione (la Persia dei Sasanidi)
tradizionalmente nemica di Roma.

Tra le cause della persecuzione anticristiana di Diocleziano non solo ci fu l'incidenza del cesare Galerio, ma
fu incisiva anche l'azione di intellettuali che gravitavano nell'orbita della corte imperiale.
Si pensi a un personaggio quale Hierocle Sossiano il quale compose un'opera dal titolo L'amico della verità.
Hierocle era stato vicario in Oriente e poi era stato richiamato nella città imperiale, Nicomedia, come
consigliere intellettuale di corte. Lo ritroveremo poi quale prefetto d'Egitto sempre contro la fede in Gesù, in
soccorso dell'ultimo dei persecutori, Massimino Daia.
Due erano i temi centrali del suo trattato: le contraddizioni e l'inconsistenza della Bibbia e il paragone tra
Gesù e Apollonio di Tiana, in base al quale la figura del primo veniva drasticamente ridimensionata.

Gran parte dei governatori chiamati a eseguire le direttive anticristiane miravano non tanto a spargimenti di
sangue quanto indurre apostasie utili, specialmente se autorevoli e pertanto contagiose, come quelle di
vescovi e maestri cristiani.
Prova di tale stile è l'interrogatorio cui Clodio Culciano, governatore d'Egitto (301-307) sottoposto il ricco
vescovo Filea di Thmuis.
Culciano mostrò interesse per gli aspetti dottrinali del cristianesimo, delle Scritture, ma soprattutto dichiarò
che se Filea fosse stato un poveraccio l'avrebbe subito messo a morte, ma siccome era illustre e poteva
influenzare molti voleva convincerlo a sacrificare agli dei, inducendolo a un'esemplare apostasia.

L'editto dioclezianeo non infliggeva la morte per i cristiani, bensì la consegna delle loro Scritture, la chiusura
dei locali di culto e la perdita delle tutele giuridiche.

Nella primavera e nell'autunno dello stesso anno intervennero altre due direttive che prevedevano il carcere
per i ministri di culto, fatta salva la possibilità di uscirne se avessero effettuato sacrifici all'imperatore.
Più grave fu invece il quarto provvedimento nella primavera del 304 il quale prevedeva a carico dei cristiani
l'obbligo dei sacrifici agli dei pagani e, in caso di inadempienza, la pena di morte.
Anche in questi anni valse la regola per cui l'applicazione di tali direttive passava per lo zelo e i margini di
discrezionalità delle autorità locali.
Si ebbero applicazioni più rigorose in Oriente, dove le comunità cristiane erano più diffuse, nelle terre
sottoposte a Galerio (Illirico e Asia Minore) e a Massimino Daia (Siria ed Egitto).
In Occidente le azioni furono più blande o nulle, come nelle regioni scarsamente cristianizzate sottoposte a
Costanzo Cloro: una situazione questa di cui si avvalse poi Eusebio di Cesarea per rievocare in chiave
filocristiana anche l'operato del padre di Costantino.

Galerio fu particolarmente attento a esigere i sacrifici, infliggendo in caso contrario pena di morte e
deportazione nelle miniere. Nel 311 però, colpito da malattia irreversibile, in prossimità della morte, nella
sua residenza di Serdica promulgò un editto in cui riconosceva infine ai cristiani la libertà di professare la
loro religione e di ricomporre le loro comunità.
L'editto era chiuso da un invito a pregare per il bene dell'Impero e dell'infermo imperatore.
Di lì a pochi giorni egli sarebbe morto.

Più interessante e meditata fu invece l'azione anticristiana di Massimino Daia il quale nel 306 e poi nel 308
aveva promulgato due constitutiones le quali attivavano una capillare macchina burocratica per indurre i
cristiani all'apostasia o, in caso di ostinazione, per avviarli a micidiali lavori.
Dopo una breve pausa successiva alla concessione di Galerio, Massimino già nel novembre del 311
riprendeva le persecuzioni.
Queste ebbero a cessare soltanto a seguito di una specifica direttiva in tal senso, presa congiuntamente da
Costantino e da Licinio: è la legge "perfettissima" che alcuni identificano con il cosiddetto "editto di
Milano".

Perché Massimino Daia si è così accanito a danno dei cristiani?


Senz'altro per sostenere con un'armatura ideologica di tipo religioso e tradizionale il suo potere. Egli
riorganizzò il culto pagano nei suoi territori, creando sacerdozi, facendo costruire templi. Per questo aspetto
la sua azione può essere considerata prodroma di quella che avrebbe tentato tra il 361-363 l' imperatore
Giuliano nella quale però l'intento filosofico di restituire vita e rispetto agli dei antichi sarebbe prevalso sul
desiderio di produrre martiri, che gli fu invece assente.

Massimino tentò di coinvolgere le comunità civiche nella sua politica religiosa. Le stimolava a rivolgergli
petizioni scritte contenenti la richiesta di espellere i cristiani con le vaghe accuse di costituire un gruppo
oscuro, recente e perché alienava la protezione degli dei. L'imperatore si affrettava a rispondere,
assecondando il desiderio espresso e assicurando benevole elargizioni di denaro.

L'aspetto ideologico non era secondario in questa lotta di religione e comprendeva la composizione di scritti,
come gli Atti di Pilato, fortemente voluta dall'imperatore. Si trattava di una sorta di apocrifo anticristiano o
della rievocazione del processo e della condanna di Gesù conforme a un genere letterario ben diffuso
tra i cristiani. Il testo fu addirittura adottato e fatto leggere ai ragazzi nelle scuole.

Per i cristiani l'incubo di Massimino Daia terminò definitivamente nel 313, quando egli fu sconfitto da
Licinio e poi sepolto a Tarso, la città di Paolo.

La sua persecuzione lasciò traccia nella memoria agiografica: le iscrizioni che a Laodicea ci parlano di
Gennadio e di Eugenio. Il primo « sostenne la sacra Scrittura, morendo assai pietosamente», il secondo,
figlio di notabili di Laodicea, dopo aver sofferto da militare in quanto cristiano si era ritirato per non
sacrificare agli dei, poi era diventato vescovo e in tale veste aveva restaurato il suo edificio di culto.

Tra le conseguenze di queste persecuzioni ricorderemo lo sviluppo del culto dei martiri e lo scisma donatista,
che prese l'avvio dalla questione dei ministri di culto che avevano apostatato.

Costantino il rivoluzionario

Ponte Milvio e la legislazione filocristiana

L'ascesa di Flavio Valerio Costantino dal punto di vista della politica militare è da considerarsi l'ultimo atto
di una lunga serie di lotte armate tra uomini di potere i quali ambivano a realizzare il sogno di acquisire una
signoria unica e assoluta.
Diverso è il discorso che va fatto in merito alla sua politica religiosa poiché in questa l'imperatore si affermò
quale autentico rivoluzionario.

Gli storici non trattano più il tema della conversione di Costantino poiché si rendono conto di non disporre
degli strumenti atti a scandagliare un'esperienza così profonda e individuale. Si preferisce parlare di svolta
costantiniana, indicando con tale espressione quel complesso di atteggiamenti e di provvedimenti i quali
caratterizzarono il passaggio dai culti tradizionali che si praticavano durante la tetrarchia a un sempre più
aperto favore verso la Chiesa detta "cattolica".
Al centro di questo campo d'indagine collochiamo la "questione costantiniana" che mira invece a saggiare il
grado di attendibilità di quelle fonti cristiane le quali riferiscono di una visione celeste avuta dall'imperatore
in armi come del punto di partenza della sua politica filocristiana.

Il ritratto dell'imperatore emerge principalmente dalle rievocazioni che a lui hanno dedicato Eusebio di
Cesarea e Lattanzio. Si tratta però di fonti di parte.
Rintracciamo anche una tradizione storiografica pagana la quale ha visto in Costantino un opportunista reo di
aver compromesso la protezione degli dei antichi verso la res publica.
Oltre alle iscrizioni costituiscono fonti di rilievo le emissioni monetali personalmente curate dall'imperatore
che attestano il suo graduale ma costante allontanamento dal paganesimo.
Utilissimo lo studio della sua legislazione, indispensabile per misurare concretamente le mutazioni che la
Chiesa conobbe in pochi anni, dalla condizione di perseguitata a quella di soggetto favorito.

Nel 305 Costantino e Massenzio si trovarono a essere esclusi dal secondo assetto tetrarchico.
Costantino era stato proclamato dalle milizie del padre in Britannia suo successore e così aveva stabilito il
suo dominio su questa provincia e in Gallia. Massenzio si era proclamato signore dell'Italia e dell'Africa.
Uno scontro tra i due avvenne il 28 ottobre del 312. Le truppe di Costantino marciarono su Roma e
l'assediarono. Massenzio volle affrontare il nemico in campo aperto, schierò incautamente l'esercito con le
spalle al Tevere, presso il Ponte Milvio fu sconfitto e, sotto la carica del nemico, fu travolto.

Da parte sua Massenzio aveva emesso provvedimenti in favore dei cristiani. La propaganda costantiniana
minimizzò ciò, tacciandolo di ipocrisia.
Per quanto riguarda la posizione religiosa di Costantino, la testimonianza di un panegirico e le emissioni
monetali fino a quell'epoca attestano una sua devozione per l'Apollo-Helios.

Un altro panegirico nel rievocare la battaglia di Ponte Milvio attribuisce l'esito dell'evento a una mens divina
venerata con nomi svariati dai popoli della terra: si tratta di termini non troppo difformi da quanto leggiamo
nell'iscrizione dell'arco.
Di contro a queste vaghe affermazioni due autori cristiani, Eusebio e Lattanzio, raccontano un mutamento di
atteggiamento religioso che Costantino avrebbe avuto alla vigilia della fatidica battaglia presso Roma.
Lattanzio racconta del sogno fatto dall'imperatore alla vigilia dello scontro durante il quale egli fu avvertito
di raffigurare sulle insegne il segno celeste: la lettera greca X girata e con la sommità piegata, un simbolo
che suggerisce le prime due lettere del nome di Cristo.
Ancora dopo, intorno al 337, leggiamo nella Vita di Costantino che non fu solo Costantino ad avere la
visione ma tutto l'esercito suo e che la croce fu raffigurata per ottenere la vittoria.
La tradizione veicolata dagli encomiasti di Costantino dunque per tempo lo considerò come l'uomo tenuto in
serbo dalla provvidenza divina per conciliare il percorso dell'Impero con quello della Chiesa.

L'anno successivo, nel 313, Costantino si incontrò a Milano con il collega Licinio. Si doveva trattare dei
nuovi equilibri di potere, ma la riflessione sulla questione dei cristiani non poteva essere assente. L'assunto
del precedente editto di Galerio fu confermato nella sostanza e ampliato nella portata: non più una semplice
tolleranza concessa per i credenti in Gesù, ma una vera e propria equiparazione del loro culto a tutti
gli altri legittimati.
Costantino rimase pontifex maximus dei pagani e non represse i culti tradizionali. Il suo intervento
in campo religioso non si concretizzò nella repressione del paganesimo bensì nella concessione di favori,
sempre maggiori, nei riguardi della Chiesa.

Nel 313 Costantino scriveva al proconsole d'Africa Anulinus disponendo la restituzione del patrimonio
ecclesiastico e l'elargizione di somme a beneficio della Chiesa cattolica.
Nel 315 il divieto di marchiare il volto dei condannati poiché esso era comunque «a immagine di Dio».
Nel 318 l' episcopalis audientia, cioè il diritto di una parte in causa di trasferire all'arbitrato di un vescovo
un processo anche se già iniziato presso le autorità civili, naturalmente con pieno riconoscimento della
sentenza.
Nel 321 la «legge domenicale», cioè il rispetto per la solennità del giorno precedentemente dedicato al Sole
ma ora da dedicarsi a opere pie cristiane.
Nel 321 la manumissio in ecclesia, cioè la possibilità riservata ai cristiani di emancipare i propri schiavi e la
possibilità di lasciare in eredità beni alla Chiesa cattolica.
Nel 323 il castigo comminato a coloro che avessero costretto un cristiano ad assistere a cerimonie di culto
pagano.
Nel 331 i provvedimenti a tutela della famiglia e della sua compattezza, sia rendendo difficili gli scioglimenti
sia impedendo il frazionamento di quella degli schiavi.

La sua politica edilizia fu mirabile per la fondazione sul suolo della vecchia Bisanzio di una città che da lui
derivò il nome, Costantinopoli, e poi per l'edificazione di edifici di culto cristiano principalmente a Roma e
in Palestina, che perciò si avviava a essere Terrasanta.
All'età costantiniana risalgono infatti iniziative edilizie che riguardano la costruzione della Basilica di San
Giovanni in Laterano, di Pietro e Marcellino, la Basilica di San Pietro al Vaticano. A Gerusalemme
la chiesa del Santo Sepolcro e il complesso sul Monte degli Ulivi.

Costantino episkopos ton ektos, alle prese con la crisi donatista

Le competenze di Costantino in quanto garante della pace religiosa e la necessità di definire una Chiesa
cattolica lo spinsero al coinvolgimento nelle due grandi controversie che travagliarono l'età sua e ben oltre.
In Africa la questione donatista, che rimase circoscritta a quelle terre, ad Alessandria la controversia ariana,
che invece ben presto divampò dappertutto nell'Impero.

In Africa non pochi cristiani, tra cui anche vescovi, avevano ceduto alla paura nel corso della recente
persecuzione dioclezianea e avevano consegnato le Scritture alle autorità, come prescriveva l'editto. Costoro
erano vescovi traditores e contro di loro andavano levandosi le censure di coloro che si consideravano puri
da tale macchia.

Già prima del 312 a Cartagine era stato eletto vescovo Ceciliano. Ma tra coloro che lo avevano ordinato vi
era stato Felice di Abthugnos, un traditor. Contro il neoeletto si formò una fronda che collocò nella cattedra
cartaginese Maiorino a cui seguì Donato, che diede poi nome al movimento.
Non si trattava di una contrapposizione tra fasce di popolazione più o meno romanizzata oppure di
condizione più o meno agiata, come spesso in passato s'è ritenuto. La materia del contendere affondava le
sue radici nella tradizione ecclesiale africana rigorista.
Nel corso del conflitto sempre più la posizione donatista si sarebbe radicalizzata, esasperando questa
tradizione e concependo le chiese come assemblee di eletti, puri da ogni contaminazione con la società e con
il corrotto potere politico d'oltremare.

Nel discorso era implicitamente coinvolta anche la teologia dei sacramenti: la loro efficacia dipendeva dalla
condizione di purezza di colui che li amministrava? La tradizione, tipicamente africana e ciprianea, della
reiterazione del battesimo militava a favore del sì.

A Costantino, che già aveva intestato alla Chiesa di Ceciliano la restituzione dei beni ecclesiastici, furono
indirizzate da esponenti della parte di Maiorino due petizioni, a seguito delle quali egli organizzò un arbitrato
presieduto dal vescovo di Roma, Milziade. Questi, oltre ai vescovi convocati da Costantino, ne aggiunse
altri: ne venne fuori un concilio (313) che si espresse a favore di Ceciliano.
I donatisti protestarono e l'imperatore convocò un concilio ad Arles (314) di vescovi galli: il nuovo
vescovo di Roma, Silvestro, fu assente. La condanna dei donatisti venne rinnovata.
Successivamente, egli attuò anche una repressione che non escluse la violenza.

Tutto ciò corroborò la fronda donatista, radicando nei suoi aderenti la convinzione che il potere romano fosse
estraneo alla Chiesa, anzi a questo avverso.
Tardivamente (321) Costantino abrogò ogni tipo di intervento repressivo o discriminatorio a carico dei
seguaci di Donato: la Chiesa donatista in Africa si atteggiò a Chiesa dei martiri, perseguitata proprio come
Gesù aveva predetto e pura da contaminazioni con il potere politico.

Il donatismo si era candidato a essere l'interprete autentico della cristianità d'Africa. Lo fu per lungo tempo,
anche dopo gli inizi del V secolo.

La crisi ariana, Costantino e il primo concilio ecumenico

Diversa era la situazione in Alessandria d'Egitto, centro di raffinata elaborazione teologica. Qui scoppiò la
lunga controversia che prese il nome da Ario, poi considerato l'eretico per eccellenza, ma che in realtà ebbe
diversi protagonisti trascinandosi per quasi tutto il IV secolo.

Ad Alessandria la teologia del Logos si era evoluta, soprattutto a opera di Origene, nel senso di affermare tre
"ipostasi", cioè tre sussistenze individuali di Dio Padre, del Figlio Logos e dello Spirito santo.

Nella seconda metà del III secolo Dionigi di Alessandria lottò per sradicare l'opposta dottrina sabelliana dalla
Libia, territorio sottoposto alla sua Chiesa. Alcune sue affermazioni suscitarono però sospetti nell'ambito dei
fedeli ortodossi. In particolare non fu apprezzato che egli considerasse il Figlio quasi estraneo al Padre e che
rifiutasse di considerarlo della stessa sostanza.
I suoi avversari si rivolsero al vescovo di Roma, Sisto II, ma la risposta venne dal successore, anch'egli di
nome Dionigi. Questi contestò la dottrina delle tre ipostasi estranee e separate l'una dall'altra, anche se non
affermò l'unica ipostasi.
Dionigi di Alessandria, pur confermando la dottrina delle tre ipostasi, negò di considerarle divise: ammise di
essersi espresso male a proposito del Figlio, perché spinto dalla preoccupazione di salvaguardare la sua
identità personale rispetto a quella del Padre e si dispose ad accettare la generica unità di natura fra esseri
dello stesso genere.

La questione dei due Dionigi anticipò le tematiche dibattute nel corso della controversia ariana: cercare di
capire l'unità e la distinzione in Dio.
Nell'impostazione origeniana, l'unità era assicurata dalla preminenza di Dio Padre, fonte della divinità, e
dalla concordia di amore e di volere fra il Padre, il Figlio e lo Spirito.

La predicazione di Ario, un presbitero autorevole della Chiesa di Alessandria, si sviluppò all'interno di


questo schema, radicalizzandolo.
Ario era mosso dall'esigenza di preservare l'unicità di Dio, partendo però dal presupposto della distinzione
ipostatica fra Dio e il Figlio, proprio della tradizione alessandrina cui apparteneva.
In nome della salvaguardia dell'unico Dio, il solo non generato, si opponeva all’innovazione apportata da
Origene della generazione eterna del Logos, perché predicare un Logos generato equivaleva per lui a
predicare due ingenerati, quindi due dei.
Ario considerava inadeguato il termine stesso "generato" perché gli sembrava presupporre un passaggio di
sostanza dal Padre al Figlio (impoverimento del Padre) e preferiva pensare al Figlio come creato
direttamente dal Padre: il Figlio è una creatura del Padre, prima delle altre creature in quanto le successive
dipendono da lui.

La condanna di Ario da parte del vescovo Alessandro, il ricorso all'istituto dei sinodi locali non erano stati
dirimenti né in Bitinia nel 320 né ad Antiochia nel 324, rispettivamente a favore e contro Ario.

Per l'imperatore Costantino si poneva il problema di tutelare la pace sociale. Pertanto egli fu indotto a
convocare un concilio che ebbe luogo a Nicea nel 325 e che coinvolse poco meno di trecento vescovi in
maggioranza orientali. Fu proprio lui a presiederlo.
Dopo inevitabili scontri fu elaborata una professione di fede nella quale ci si riferiva a Gesù come a «Dio
vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre».
Ario non la accettò e fu condannato insieme con due suoi sostenitori.

Tale pronunciamento, pur se non risolse definitivamente la questione del mistero della divinità di Cristo,
ebbe una grandissima importanza nella storia del pensiero teologico, anche perché la terminologia
adottata non era desunta dalle Scritture: sempre più la tradizione veniva a consistere non soltanto nella
fedeltà alla trasmissione e interpretazione ortodossa del dato scritturistico ma anche un complesso dogmatico
di insegnamenti che questo dato andavano a integrare.
Inoltre per la prima volta si aveva, almeno nelle intenzioni, un'unità dottrinale in tutto l'Impero, in
precedenza mai avvenuta, anche perché regnava un imperatore cristiano e che si era definito anche «vescovo
per coloro che sono al di fuori» (episkopos ton ektos).
Per evitare le dispute religiose e gli antichi sinodi locali l’imperatore promosse un concilio che poteva per la
prima volta chiamare "ecumenico".

Il quasi unanimismo niceno della prima ora andò ben presto infrangendosi per più motivi: il tema era arduo,
la dottrina era stata formulata con una terminologia estranea alle Scritture e ciò suscitava le perplessità di
gran parte del popolo cristiano, le diverse tradizioni teologiche tra Occidente (unità a scapito delle
individualità del Padre e del Figlio e dello Spirito santo) e l'Oriente.
Inoltre, alcuni partecipanti al concilio avevano ritirato le loro firme.
Tra questi vi era l'influente Eusebio di Nicomedia, amico di Ario, che proprio a lui si era rivolto per aiuto
all'inizio della disputa con Alessandro.
Già nel 328 Eusebio operava quale consigliere dell'imperatore e da questa posizione maneggiava per una
denigrazione degli avversari di Ario come Atanasio di Alessandria, nel 325 diacono al seguito di
Alessandro e che poi, da vescovo, si ergeva a campione della fede nicena.
Furono esiliati anche il niceno Eustazio di Antiochia per abuso di potere e Marcello di Ancira, la cui dottrina
era avvertita dai vescovi orientali come il maggiore pericolo.

Riabilitato alla fine e sul punto di tornare ad Alessandria, Ario però morì nel 336.
L'anno dopo morì Costantino che, in punto di morte, a Nicomedia si fece battezzare proprio dall'ariano
Eusebio. Tale circostanza creò problemi quando l'arianesimo fu definitivamente sconfitto in Occidente,
e produsse fra V e VI secolo una falsificazione della memoria storica con la leggenda circa il battesimo
"ortodosso" di Costantino a opera del Vescovo di Roma Silvestro contenuta negli Actus Silvestri, il testo che
sarà alla base del successivo falso Constitutum Constantini (Donazione di Costantino).

La breve marcia della Chiesa cattolica verso l'egemonia

In meno di ottant'anni la Chiesa passò dalla condizione di soggetto perseguitato all'esercizio di un’egemonia
nell'ambito dell'Impero.
Oltre ai dibattiti tra filosofi e teologi contribuirono a questo processo le constitutiones degli imperatori in
materia di sacrifici, templi, apostasie ed eresie. Queste leggi però non ebbero un'immediata capacità di
adeguare la realtà alla norma desiderata, come attestano sia le loro numerose reiterazioni, sia le pene
comminate ai magistrati inadempienti.
La riduzione a minoranza dei pagani e l' ascesa al potere dei cristiani non fu dovunque un fenomeno
omogeneo, simultaneo e fu un processo lento.

Tra le fonti di quest’epoca abbiamo le Storie ecclesiastiche composte dai tre continuatori di Eusebio
di Cesarea, ossia Socrate scolastico, Sozomeno e Teodoreto di Cirro, i frammenti di Filostorgio che ci
restituiscono il punto di vista ariano e le constitutiones imperiali prodottesi durante il secolo raccolte nel
Codex Theodosianus che Teodosio II editò nel 448. Nel libro XVI si ha la normazione che riguarda la
repressione dei culti pagani e delle eresie, la politica su templi e sacrifici, le agevolazioni per la Chiesa
cattolica.

In passato si è voluto spesso rievocare la storia del IV secolo in termini di conflitto tra paganesimo e
cristianesimo. Questa prospettiva è da considerarsi superata, anche se non si può negare che allora si ebbe la
sostituzione di una visione del mondo (quella pagana) con un'altra (quella giudaicocristiana) profondamente
diversa.

Terminate le persecuzioni vennero meno le voci circolanti tra il popolo a carico dei cristiani, mentre la
polemica con gli intellettuali pagani visse la sua stagione più alta, aggiungendo alle argomentazioni di Celso
e di Porfirio altre nuove che derivavano dal senso di sgomento indotto dal lacerarsi delle strutture politiche in
corrispondenza dell'abbandono degli dei antichi, i quali lasciavano posto ai dogmi e ai riti dei cristiani.
L'apologetica, dopo Costantino, conobbe una rilevante fioritura, il che dimostra la persistente vitalità della
visione pagana.

La grande svolta di Costantino fu il preludio di un'età nuova.


È noto il suo editto di Spello del 335 nel quale si concedeva il permesso di celebrare il culto pagano alla sua
gens Flavia purché esente da superstizione.
Quest'ultimo termine cambia di significato per tutto il IV secolo: dapprima indica la religione dei cristiani,
poi nei testi legislativi ricorre con un’ambiguità che lasciava spazio ai magistrati per una sua definizione, alla
fine passa a indicare il complesso delle tradizionali devozioni pagane.
L'evoluzione del pensiero giuridico fu pilotata in funzione di questa idea per poi invocare per il paganesimo
la severa repressione già messa in atto per la magia.

Nel 337 alla morte di Costantino tre suoi figli si divisero le regioni dell'Impero: Costantino II regnò su
Gallia, Britannia e Spagna, Costante su Italia, Africa e Illirico, Costanzo II su Tracia e Oriente.
Ma le tensioni scoppiarono ben presto: Costantino II morì nel 340 combattendo contro Costante, il quale si
suicidò nel 350 incalzato dalle truppe dell'usurpatore Magnenzio che a sua volta fu sconfitto da Costanzo II
nel 353.

Nel periodo in cui Costante e Costanzo regnarono rispettivamente sulla parte occidentale e su quella
orientale dell'Impero la controversia ariana riprese e gli imperatori favorirono il partito religioso
maggioritario nei rispettivi domini, quindi Costante i niceni e Costanzo il vasto fronte ostile alla formula
nicena ma che non poteva dirsi tutto ariano.

Quando Costanzo II dopo il 353 rimase unico signore dell'Impero fino alla morte (361) cercò l'unione
religiosa sulla base della formulazione generica che il Figlio è «simile al Padre secondo le Scritture» (Concili
di Rimini e di Costantinopoli, 359-360) che potesse far convergere gli estremi del nicenismo da un lato e
dell'arianesimo radicale dall'altro.
La politica religiosa di Costanzo II fu in linea con quella del padre, ma fu caratterizzata da una normazione
che già esplicitava un privilegio verso la Chiesa e che nei fatti tendeva a una mortificazione dei culti
tradizionali.
A lui risale una legge del 341 tendente a far cessare la superstizione ed i sacrifici. In realtà i sacrifici pagani
continuarono a essere celebrati, ma già l'ambiguità con cui la norma era stata formulata consentiva ai
magistrati cristiani più zelanti di ravvisarvi un assoluto divieto di culto pagano e di intervenire di
conseguenza.
Si giunse, specialmente nelle più cristianizzate regioni dell'Oriente, ad azioni radicali con la distruzione di
templi così da evitare le occasioni di trasgressione e da esorcizzare il luogo dai demoni che l'avevano abitato.
In realtà si trattava anche di acquisire a buon mercato materiale edilizio da impiegare privatamente e di
arricchirsi grazie a beni artistici da mettere sul mercato.

Nel contesto della normazione repressiva di Costanzo II va posta l'opera apologetica di Firmico Materno De
errore prophanarum religionum.
Non essendoci più all'ordine del giorno la richiesta di libertà per il culto cristiano e non bastando a Materno
le misure di Costanzo II, l'apologista spingeva gli imperatori verso una cancellazione dichiarata del
paganesimo e una radicale distruzione dei suoi templi.
Oltre alla tradizionale equiparazione tra dei pagani e demoni, a quella tra magia e culto pagano egli giungeva
ad attualizzare le pagine veterotestamentarie che narravano le vittorie degli Israeliti sui Cananei, con stragi e
distruzioni di città e templi: erano secondo lui profezie di quanto avrebbe fatto il nuovo Israele, la Chiesa, ai
pagani di tradizione greco-romana.

Diverso, e più di indole speculativa, fu il quasi coevo impegno antipagano di Atanasio di Alessandria. Egli
compose un'opera in due libri dove si coglie una polemica antiplatonica collegata alla dottrina
dell'incarnazione del Verbo come unico canale di conoscenza e di salvezza. Questa impresa apologetica
faceva leva sull'inefficacia della mente umana ad acquisire con le proprie forze la conoscenza salvifica e così
creava spazio alla presentazione della rivelazione di Dio in Cristo quale unica via.

Si ebbe tra il 361 e il 363 il regno di Giuliano. L'imperatore, che i cristiani definirono Apostata, mirò a
spogliare la Chiesa dei privilegi acquisiti e a rinvigorire la cultura tradizionale e con questa le devozioni
per gli dei antichi. La sua fu una politica diametralmente opposta a quella di Costantino.
Il nuovo imperatore approfittò delle rivalità tra cristiani concedendo totale libertà di culto e ai vescovi esiliati
a seguito delle vicende della crisi ariana il rientro nelle loro sedi.

Inoltre, pur rifuggendo da atti di persecuzione ingaggiò una guerra di religione, la quale prese corpo in
un'opera di ripresa del culto pagano e nella composizione di uno scritto il cui titolo era già eloquente: Contro
i Galilei. Così egli, infatti, ripristinando un'antica denominazione dei cristiani, voleva indicare l'insignificante
origine di un culto sorto alla periferia dell'Impero.
Anche Giuliano si dedicò alle contraddizioni della Scrittura, insistendo su quelle fra le varie versioni.
Ma il tema centrale dell'opera era la cristologia, su cui era ben informato.
Il bersaglio principale di Giuliano era comunque la dottrina nicena della piena equiparazione delle persone
divine e l'evangelista Giovanni che, al contrario degli altri tre, aveva identificato Gesù con il Logos e con
Dio stesso.

Egli promosse poi un allontanamento dall'insegnamento dei docenti cristiani i quali, non credendo nei
contenuti di quella letteratura che insegnavano, avrebbero costituito riprovevole esempio d'incoerenza.

Quanto all'ebraismo, una sua dignità la derivava comunque dalla sua stessa antichità e dalla ritualità di quei
sacrifici che con la distruzione del Tempio erano stati però sospesi. Giuliano tentò di riedificare tale Tempio
per dar vita a una sorta di fronte comune tradizionale tra paganesimo e giudaismo (religioni antiche) contro
la novità cristiana.
Fu però proprio nel corso di questa spedizione che una freccia stroncò la vita dell'imperatore, poco più che
trentenne.
Non è evidente una politica religiosa del successore Gioviano a causa dei troppo brevi otto mesi del suo
regno, ma possiamo congetturare che egli fu tollerante.

Con Valentiniano I e suo fratello Valente l'Impero tornò a dividersi in due: il primo si riservò l'Occidente, con
le residenze di Milano e di Treviri, e assegnò al fratello la parte orientale, con capitale Costantinopoli.

In Occidente Valentiniano I (364-375) si distinse per la sua politica di non intervento nelle faccende della
religione.
In realtà la sua legislazione congiunta con il fratello Valente (364-378) colpì maghi e astrologi, arginò la
venalità del clero, ma non creò discriminazioni se non a danno dei manichei nel 372.

Lo stesso possiamo dire per quanto riguarda il figlio Graziano (375-383) che gli successe. Almeno fino a
quando, dal 378 in poi, entrò nella sfera d'influenza dei Ambrogio di Milano subendone l'influsso in senso
filocattolico.

Si può dire lo stesso del fratello Valentiniano II (375-392) che gli fu associato ad appena quattro anni,
tutelato dapprima dalla madre Giustina e poi dal generale spagnolo Teodosio.

In Occidente dunque una sterzata in senso antipagano fu data da Graziano nel biennio 382-383.
Fu allora che egli decise di sottrarre i fondi a sostegno dei sacerdozi pagani e del collegio delle vestali di
Roma e rese irreversibile la sua deliberazione con il rinunciare al pontificato massimo, cioè al ruolo di
vertice dei collegi sacerdotali pagani e di patrono dei loro culti, ruolo che l'imperatore deteneva sin
dall'epoca di Augusto.

Un particolare valore simbolico ebbe la decisione del 382 di rimuovere dalla curia del senato romano l'ara e
probabilmente anche la statua della dea Vittoria sulla quale i senatori erano soliti da tempo far ardere granelli
d'incenso. Costoro erano allora in larga maggioranza pagani e incaricarono un autorevole loro esponente,
Quinto Aurelio Simmaco, di recarsi a Milano per perorare la causa del ripristino. Il retore non fu ricevuto da
Graziano, ma soltanto in seguito dall'allora quattordicenne Valentiniano II, che gli era succeduto. Alla corte
però ormai bisognava fare i conti con il vescovo Ambrogio, già politico di carriera.
Il pagano, oramai sulla difensiva, si appellava alla venerabilità delle antiche tradizioni di Roma e alla
complessità in sé del mistero religioso e su ciò fondava la sua richiesta di ripristino. Il vescovo invece
esplicitava il suo concetto di imperatore che per essere cristiano deve agire da soldato di Cristo, sapendo che
il suo successo politico sarebbe dipeso dalla sua coerenza di fede.

La separazione sancita da Graziano tra la res publica ed i culti pagani fu giudicata dalla successiva
storiografia pagana la causa del declino e del crollo dell'Impero.
Privi del tradizionale sostegno pubblico i culti civici romani andarono gradualmente declinando, lasciando
sempre più spazio alle religioni del mistero che, per loro stessa costituzione, erano sodalizi di carattere
privato.
I culti del mistero come il mitraismo, furono l'ultimo baluardo pagano contro il trionfo del cristianesimo.

Ma il protagonista della cattolicizzazione dell'Impero fu Flavio Teodosio, detto il Grande, un militare


spagnolo dapprima chiamato da Valentiniano I a tutelare il figlio Valentiniano II in Occidente, poi inviato
in Oriente a porre riparo alla disfatta di Adrianopoli del 378 nel corso della quale l'imperatore Valente aveva
perso la vita combattendo contro i Visigoti.
Quest'ultimo aveva avuto simpatie per gli ariani e tolleranza per i pagani. Perciò la storiografia cattolica vide
nella sua tragedia un castigo divino, mentre lo stesso episodio fu interpretato dai pagani come la conseguenza
dell'abbandono ufficiale degli antichi dei.

Divenuto collega di Graziano per l'Oriente nel 379, Teodosio già nel febbraio del 380 si decise a risolvere il
problema dell'unità religiosa con un editto (il cosiddetto Cunctos populos) promulgato a Tessalonica con il
quale s'imponeva a tutti gli abitanti dell'Impero la religione cristiana così come professata dalle sedi
episcopali di Roma e di Alessandria.
Contro i pagani si fece poi ricorso ai divieti di celebrare sacrifici e pratiche divinatorie, alla graduale perdita
dei loro diritti civili, si impedì in più modi la facoltà di esercitare il loro culto.
Agli eretici fu fatto divieto di riunione, di possedere locali e avere ministri di culto. Poi furono resi incapaci
di far testamento e di ricevere donazioni.
Ai Giudei furono invece assicurati i diritti e alcuni privilegi tradizionali e pertanto la loro condizione venne a
essere migliore di quella riservata a pagani e cristiani eretici.

Il concilio di Costantinopoli (381)

Altro grande evento dell'epoca di Teodosio fu la convocazione del concilio di Costantinopoli del 381 che sul
piano dottrinale mise fine alla controversia ariana.
L'arianesimo comunque continuò e, grazie all'azione missionaria di Ulfila, fatto vescovo nel 341 da Eusebio
di Nicomedia e inviato a evangelizzare i Goti, divenne la religione nazionale di varie popolazioni
germaniche.

A Costantinopoli fu approvato il cosiddetto Simbolo niceno-costantinopolitano, che presentava alcuni


ampliamenti rispetto al Simbolo niceno, il più significativo riguardante lo Spirito santo, entrato a far parte
della controversia a partire dal 360.

La questione dello Spirito santo era stata sollevata intorno al 360 dai cosiddetti “pneumatomachi”
(=combattenti contro lo Spirito) che negavano la divinità dello Spirito santo.
Furono i Cappadoci, dopo le prime formulazioni di Atanasio, ad approfondire la dottrina dello Spirito santo e
a rivendicarne l'appartenenza alla Trinità.
Gregorio di Nazianzo precisò tecnicamente nel rapporto di processione dal Padre la specificità intradivina
dello Spirito, rispetto alla generazione del Figlio dal Padre.

Un grande contrasto sorse nei secoli successivi a causa della formulazione latina del Credo
niceno-costantinopolitano che aggiunge accanto al Padre, il Figlio, per cui lo Spirito santo è considerato
procedere da entrambi.

Da notare anche l'aggiunta nel Simbolo del 381 riguardante la durata eterna del regno del Figlio, introdotta
già a partire dal 341 nelle formule di fede orientali contro la dottrina di Marcello di Ancira, uno degli
oppositori di Ario della prima ora, nemico della dottrina delle tre ipostasi e sostenitore della piena divinità
del Logos, però in quanto potenza di Dio e non in quanto entità sussistente.
Fu amico di Atanasio e difeso dalla Sede romana, ma gli orientali lo considerarono eretico sabelliano.

Il Simbolo niceno-costantinopolitano non ha alla fine gli anatematismi del niceno, ha invece una serie di
quattro canoni, il primo contenente la conferma del Simbolo niceno e la condanna di tutte le eresie legate alla
controversia ariana.
Il più importante per i successivi sviluppi è il terzo canone, che assegna al vescovo di Costantinopoli
la preminenza di rango dopo quello di Roma: il tema sarebbe stato ripreso nel canone 28 del concilio di
Calcedonia del 451 e avrebbe provocato le ire del vescovo di Roma.

Il crepuscolo degli dei

Il cristianesimo in Oriente era senz'altro più diffuso che in Occidente.

Nella Roma dell'età del vescovo Damaso (366-384) fu attivo il poco noto Ambrosiaster il quale, per
ammaestrare il clero cittadino, raccolse una quantità di questioni incentrate su temi biblici e di dottrina dando
loro le relative risposte.
L'opera aveva finalità didascalica, tuttavia alcune critiche sembrano restituire punti di vista di
avversari della Chiesa, anche pagani.

La Roma della seconda metà del IV secolo andava mutando anche la sua edilizia facendo spazio alla nuova
fede, ma templi ed edifici antichi rimasero lì.

Nel 392 era morto Valentiniano II e il generale franco Arbogaste, sospettato per quel decesso, aveva
promosso l'ascesa al potere di Eugenio, un retore di cultura cristiana, ma di posizione filopagana.
Contro questo usurpatore in armi Teodosio ingaggiò una cruenta battaglia presso Aquileia e vinse.
La storiografia successiva avrebbe celebrato con questa battaglia la vittoria della croce, posta sulle
insegne di Teodosio, sui simulacri di Giove, collocati sulle alture a protezione delle truppe di Eugenio.
Il conseguente suicidio del nobile pagano Nicomaco Flaviano, che aveva sostenuto Eugenio, diede una
collocazione religiosa all'evento e contribuì a farlo leggere come segno ultimo di un paganesimo giunto
oramai al suo tramonto.

Il processo di marginalizzazione e poi di scomparsa di pagani e di eretici non fu immediato né mai del tutto
definitivo. Il paganesimo conobbe forme di sopravvivenza nelle forme dell'arte e della letteratura antica,
nelle pratiche superstiziose della plebe delle campagne e nella riflessione di alcuni eruditi.
Che il pensiero pagano abbia costituito ancora una minaccia c'è attestato da alcune apologie che furono
prodotte nei primi decenni del V secolo.
Tema di fondo è la rivendicazione della accessibilità pubblica della rivelazione cristiana per ogni etnia e
classe sociale, in antitesi al carattere intellettualistico della religiosità filosofica pagana e contro la centralità
della cultura greco-romana.

Agostino, la Città di Dio e la dottrina della grazia

In Africa la controversia sulla cristianizzazione dell'Impero aveva avuto un ritorno a seguito del sacco di
Roma del 410 che aveva spinto su quei lidi profughi tra cui senatori e popolo di Roma, persone che
collegavano la sciagura avvenuta con l'abbandono degli dei antichi. Fu un pensiero trasversale a seguaci
dell'una come dell'altra fede.

Agostino, che pure operò in Africa, è specchio di quest'epoca e di questi problemi.


Nel suo De civitate Dei prendeva le mosse proprio dall'accusa secondo la quale il declino dell'Impero
sarebbe stato causato dall'abbandono dei suoi dei antichi.
Ma egli andava ben oltre l'avvenimento del 410 nel tracciare un ampio schema della storia umana che
accomunava la vicenda d'Israele e di Roma e che dimostrava come il predominio di quest'ultima non
costituiva in sé e per sé un valore, anzi testimoniava i lutti e i misfatti che l'uomo da sempre aveva commesso
nel suo tentativo di erigere la città terrena, intrisa di odio e di violenza, di contro alla città di Dio, dell’amore.

Agostino ci interessa soprattutto per la dottrina della grazia e per la sua visione antropologica, destinata a
segnare il pensiero cristiano d'Occidente.
Mentre tradizionalmente il pensiero cristiano ortodosso attribuiva la salvezza del singolo alla cooperazione
fra la grazia di Dio (necessaria e preponderante) e il libero arbitrio dell'uomo, Agostino assegna la salvezza
totalmente alla grazia di Dio perché la creatura umana merita solo la condanna dopo il peccato di Adamo,
trasmesso a tutta l'umanità (dottrina del peccato originale), in quanto il libero arbitrio è diventato incapace di
volgersi al bene.
Proposta di un abbandono pieno e totale alla misericordia di Dio. Tutti gli sforzi per vivere secondo la
volontà di Dio, che il cristiano è comunque tenuto a fare per corrispondere al disegno divino, non assicurano
la salvezza finale determinata unicamente dal giudizio imperscrutabile di Dio, il quale dona la perseveranza a
coloro che ha prescelto (dottrina della predestinazione) e ha giustificato (dottrina della giustificazione).

Contrapposizione con la dottrina di Pelagio, monaco britannico vissuto a Roma e rifugiatosi dopo il 410 in
Africa.
La dottrina pelagiana valorizza al massimo il libero arbitrio, ribadendo che il peccato ne è accidentale
prodotto e che la natura umana, in quanto creata da Dio, è sostanzialmente buona.
L'intento di Pelagio era soprattutto quello di incoraggiare a una vita tendente alla mancanza di peccato.
I pelagiani precisavano altresì che i bambini nascono innocenti e che il battesimo è impartito per loro
santificazione, non per togliere un presunto peccato originale.

Pelagio fu condannato a Cartagine nel 411 e riabilitati in Palestina nel sinodo di Diospoli del 415.
Dopo averlo di nuovo condannato i vescovi africani si rivolsero a Innocenzo I di Roma che, confermando la
condanna in tre lettere rivendicò alla Sede romana l'ultima parola in materia di dottrina, in quanto possiede
l'autorità di Pietro.
Ma di fronte al timore che il successore di Innocenzo, Zosimo, un greco che dimostrava maggiore prudenza
verso Pelagio, annullasse la condanna gli africani si mossero contro il papa, ricordandogli il pronunciamento
del predecessore e finirono con il prevalere, dopo aver chiesto aiuto all'imperatore Onorio: Zosimo condannò
Pelagio nel 418.

La dottrina di Agostino prevalse in Occidente, mentre l'Oriente, in cui vigeva il pensiero dei Cappadoci,
rimase estranea.
Capitolo 8 - Il consolidamento degli episcopati nelle grandi città cristiane

Tra Costantino e Giustiniano

Nel periodo tra la svolta costantiniana l'età di Giustiniano il processo di uniformazione delle istituzioni, delle
norme e dei costumi ecclesiastici ha fatto progressi, ma le diversità tra le comunità cristiane delle grandi
regioni rimanevano ancora considerevoli.

La Chiesa come istituzione e le istituzioni delle chiese

L'ordinamento interno delle singole chiese era stato formato dalla tradizione e dalle decisioni sinodali. I
principi su cui si reggeva erano: "si rispetti la tradizione" e "si applichino i canoni".

Abbiamo una differenza fra la realtà dei fatti e la mentalità manifestata dai capi delle chiese: mentre
avvenivano cambiamenti fondamentali i dirigenti si mostravano sospettosi verso qualsiasi innovazione.
Nelle polemiche all'interno della Chiesa l'accusa di innovazione aveva un grande peso, sia riguardo le idee
teologiche che per cambiamenti nel campo organizzativo. Per difendersi da tali accuse si cercavano
argomenti nella Bibbia e anche nelle opere di quegli scrittori ecclesiastici che già in questi tempi erano
chiamati Padri della Chiesa.

L'indiscusso valore della tradizione suscitava interesse per il passato delle singole chiese. Questo passato
però veniva spesso manipolato per fabbricare miti che avevano lo scopo di fornire ai singoli seggi vescovili
il diritto di occupare una posizione privilegiata.
Troviamo in questo senso Roma che si richiamava alla fondazione per opera di Pietro e anche alla presenza
delle reliquie di Pietro e di Paolo.
I vescovi che occuparono il seggio di Alessandria nel IV e nel V secolo riuscirono a fare di Marco
evangelista il fondatore della loro Chiesa, definito anche martire (anche se lo storico Eusebio non sapeva
niente di questo martirio). Al vescovo Pietro I, che fu l'ultima vittima delle persecuzioni ordinate da
Massimino Daia, Alessandria assegnò il ruolo di difensore dell'ortodossia a causa della sua lotta contro
Melizio.

Alla fine del IV secolo il processo della creazione di vescovati in tutte le città dell'Impero era quasi
terminato: le eccezioni a questa regola sono numerose e non scomparvero del tutto nemmeno dopo che
l'imperatore Zenone (474-491) stabilì che ogni città doveva avere un vescovo.
In certe regioni un vescovo reggeva due o tre città o anche più.
Gli interessi locali e le lotte tra tendenze dogmatiche favorivano il moltiplicarsi di vescovati, ma nelle
cerchie dirigenti ecclesiastiche ci si rendeva conto che ciò era nocivo, potendo diminuire il prestigio
dell'ufficio episcopale.
Per quanto riguarda le comunità cristiane dei villaggi, dei grandi poderi e dei castra militari alcune avevano i
loro vescovi, altre erano rette da vescovi di grado inferiore (“vescovi di campagna”) che collaboravano
con i vescovi delle città, altre erano parrocchie rette da presbiteri.

Non sempre i confini dei vescovati coincidevano con quelli dei territori civici. Accadeva a volte che un
vescovo trattasse come appartenenti al suo vescovato località situate fuori del territorio della sua città e che
ciò fosse riconosciuto dall'opinione comune ecclesiastica come un suo diritto.
Le liti che in tali situazioni nascevano tra i vescovi dovevano essere piuttosto frequenti, sia in Oriente sia in
Occidente.

Van Dam ha calcolato un po' meno di 2.000 vescovati per tutto l'Impero intorno all'anno 400.

In questo periodo le ordinazioni, sia quelle dei vescovi, che quelle dei presbiteri o dei diaconi, non erano
considerate come valide ovunque in assoluto: veniva ordinato per svolgere le sue funzioni in una comunità
determinata e non poteva trasferirsi da questa a un'altra.
In pratica però questo principio, sebbene fosse spesso ribadito, non sempre poteva essere rispettato.
Parecchi vescovi non erano in grado di prendere possesso del seggio per il quale erano stati ordinati, ma
potevano servire senza difficoltà in altra città.
Accadeva a volte che un uomo energico ed efficace fosse ordinato per una località poco importante:
in questi casi il suo trasferimento poteva giovare alla Chiesa in situazioni difficili.
I moralisti ecclesiastici vedevano nei trasferimenti una manifestazione di amore per il potere, di
un'ambizione riprovevole.
Si trattava soprattutto di trasferimenti di vescovi, sebbene non mancassero casi di presbiteri e di diaconi che
lasciavano la loro sede per un'altra, che assicurasse loro maggiore prestigio e migliori condizioni materiali.

Nella storia delle chiese del IV secolo specialmente in Oriente conosciamo parecchi vescovi che si
trasferirono da vescovati secondari a vescovati più importanti.
Un caso estremo è quello di Eusebio, uno dei principali seguaci di Ario che fu dapprima vescovo di Berytos,
poi divenne vescovo di Nicomedia e nel 339 vescovo di Costantinopoli.
Tali trasferimenti suscitavano critiche, ma sarebbe errato pensare che esse fossero condivise da tutti.
Di solito le critiche erano avanzate da avversari del vescovo che si era trasferito e in quel caso avevano un
carattere strumentale.
L'ambizione, per quanto condannata, era generalmente diffusa tra gli ecclesiastici e un vescovo che lasciava
la sua diocesi per trasferirsi in un'altra non era in grado di mantenersi nella nuova sede se non con l'appoggio
del clero e del popolo di questa.
Il canone 21 del sinodo antiocheno (341) afferma: « Un vescovo non deve essere trasferito da una diocesi a
un'altra, né occupandola arbitrariamente, né forzato dal popolo, né costretto dai vescovi, ma deve restare
nella Chiesa a cui è stato destinato da Dio fin dall'inizio e non si deve allontanare da essa, secondo l'antico
decreto già stabilito riguardo a questo ».

Nel IV secolo si iniziarono a formare uniformemente nell’impero strutture sovraordinate ai vescovati: le


metropoli. In alcuni territori esse esistevano già nel III secolo. In linea di massima le metropoli coincidevano
con i capoluoghi delle province.
La formazione delle metropoli non fu un processo facile perché coinvolgeva questioni che erano state
oggetto di lite per molto tempo, quali le ambizioni delle città e dei vescovi.
In linea di massima la Chiesa rispettava l'ordine di precedenza tra le città stabilito nei primi secoli
dell'Impero.
Le chiese che non acquistavano il rango di metropoli perdevano una parte considerevole della loro
autonomia e soprattutto il diritto di scegliere liberamente il vescovo.
Inoltre le contese tra ecclesiastici o tra laici e il loro vescovo venivano giudicate a livello della metropoli.
Con il passare del tempo il metropolita acquistava poteri sempre più ampi di sorveglianza e di intervento
nelle questioni interne dei vescovati.

Le prime strutture di livello superiore a quello delle metropoli nacquero prima del concilio di Nicea: Roma in
Italia, Alessandria in Egitto, in Libia e nella Pentapoli, Antiochia in Oriente.
La sfera geografica del loro potere subì in seguito delle modifiche, ma la loro posizione egemonica rimase
per tutti indiscussa.
Le sedi che più tardi aspirarono a un ruolo di protagoniste nel mondo ecclesiastico (Costantinopoli,
Efeso, Gerusalemme, Tessalonica in Oriente e Cartagine, Arles, Ravenna in Occidente) non raggiunsero la
stessa posizione e incontrarono forti resistenze.
I vescovi di quattro delle chiese che detenevano una posizione sovra-metropolitana, Alessandria, Antiochia,
Gerusalemme e Costantinopoli, vengono chiamati tradizionalmente "patriarchi" e le loro chiese "patriarcati",
anche se questi termini non compaiono nelle fonti dell’epoca. Il titolo di patriarca compare nei documenti del
concilio di Costantinopoli del 381, ma a quel tempo aveva solo un valore onorifico e non era riservato ai soli
capi delle principali metropoli, bensì poteva essere attribuito anche ad altri vescovi: è solo nel VI secolo che
esso entra nell'uso attuale.

I luoghi dove si prendevano decisioni erano principalmente i sinodi. Il ruolo delle autorità ecclesiastiche
supreme, del papa dei patriarchi, era minore.
Già nel concilio di Nicea (325) si riconobbe opportuno che le assemblee dei vescovi a livello provinciale si
tenessero due volte all'anno e che l'iniziativa della convocazione e la presidenza appartenessero al
metropolita.
Oltre ad avere potere deliberativo, tali assemblee costituivano un'istanza a cui membri del clero e laici
potevano appellarsi contro le sentenze dei tribunali vescovili. Queste istanze erano frequentemente utilizzate
ed erano necessarie come valvola di sicurezza contro decisioni arbitrarie di vescovi di vario rango.
Le assemblee dei vescovi di un territorio più ampio che quello di una metropoli rispondevano soprattutto al
bisogno di discutere e risolvere questioni dottrinali, tuttavia di solito esse discutevano anche problemi
risultanti dallo sviluppo dell'insieme ecclesiastico, al quale si cercava di imporre regole di comportamento
relativamente uniformi.

Alcuni dei sinodi (chiamati anche concili) furono riconosciuti come ecumenici.
Rango ecumenico ebbe fin dall'inizio il sinodo di Nicea del 325 e lo conserva ancora oggi in tutta la
tradizione cristiana. Le sue decisioni dottrinali suscitarono nel IV secolo lunghi conflitti, ma nessuno ne negò
la validità nel campo della disciplina ecclesiastica.
Tra i sinodi del IV secolo posteriori a questo il primo sinodo di Costantinopoli (381) fu innalzato al rango
ecumenico a causa della sconfitta dell'arianesimo, ma non subito soltanto dopo il concilio calcedonese.
I sinodi del V secolo non furono accettati così universalmente: il primo sinodo di Efeso (431) non poté essere
accettato dai cristiani viventi nell'Impero persiano che si richiamavano alla tradizione antiochena
rappresentata da Diodoro di Tarso, Teodoro di Mopsuestia e Nestorio, il secondo (449) rimase valido soltanto
nelle chiese monofisite e quello di Calcedonia (451) soltanto nelle chiese d'Occidente e in quelle
chiese d'Oriente che siamo soliti chiamare ortodosse.
In tutti i sinodi riconosciuti come ecumenici la maggioranza dei partecipanti era costituita da vescovi delle
chiese orientali, l'Occidente era rappresentato soltanto da pochi vescovi. Non ci fu mai un sinodo comune
di tutto l'Impero.
Tra i sinodi ecumenici tardoantichi fu quello di Calcedonia a riunire il maggior numero di vescovi: contò
circa 370 partecipanti presenti durante le sedute.

Le decisioni dei sinodi più importanti venivano confermate mediante una costituzione dall'imperatore che
poi prendeva misure per assicurare che esse venissero osservate. Le opinioni e i desideri dell'imperatore
influenzavano i dibattiti, ma egli non dettava mai formalmente le decisioni finali.

I grandi esponenti del mondo ecclesiastico, per quanto forte fosse l'autorità di cui godevano, avevano
bisogno di appoggiarsi su un gruppo di altri vescovi nelle loro decisioni più importanti.
Il vescovo di Roma convocava dei sinodi locali, il vescovo di Costantinopoli creò un po' alla volta
un'istituzione detta “synodos endemousa” (=sinodo presente in città) composta da vescovi delle diocesi
vicine a Costantinopoli e da vescovi di altre città che si trovassero in un dato momento sul luogo per ragioni
varie. La prima attestazione è dell'anno 450.
La stessa istituzione con un nome diverso è attestata anche ad Antiochia e molto probabilmente esisteva
anche in altre grandi chiese.

Un viaggio attraverso il mondo ecclesiastico dell'Impero romano

Alessandria e l'Egitto

Quando dopo la vittoria di Costantino su Licinio verso la fine del 324 l'Oriente si trovò sotto un imperatore
cristiano la Chiesa più importante di questa parte dell'Impero era quella alessandrina.
Il vescovo di Alessandria aveva sotto di sé l'Egitto e le due province della Libia, dirigeva circa 100 vescovati
i cui titolari erano ordinati da lui personalmente.

I vescovi di Alessandria non lasciarono che si formassero metropoli in Egitto e il loro potere autoritario ebbe
come conseguenza un abbassamento del livello intellettuale dei vescovi egiziani.
Di questi grazie ai documenti conservati da papiri e agli elenchi dei partecipanti ai concili conosciamo molti
nomi, ma pochi di loro sono personalità che abbiano avuto un ruolo indipendente nella vita della Chiesa o
che abbiano scritto opere letterarie.
Personalità di questo genere troviamo invece tra i monaci egiziani.

Un movimento di resistenza contro questa monarchia ecclesiastica fu lo scisma meliziano, ma dopo una
generazione esso fu marginalizzato.
L'arianesimo, nato ad Alessandria, già all'inizio del V secolo non esisteva praticamente più in Egitto.

All'Egitto (ma non ad Alessandria) la cristianità deve una grande innovazione: il monachesimo.
In Egitto si recarono molti uomini eminenti per imparare a conoscere le forme della vita monastica,
che essi poi imitarono nelle loro chiese.
Lì furono scritte le principali opere di dottrina ascetica del IV secolo, influenzate dal pensiero di Origene.
Tuttavia proprio negli ambienti monastici si sviluppò verso la fine del IV secolo un movimento di
opposizione al modo di pensare di quel grande teologo.

La polemica antiorigeniana cominciò in Palestina con gli attacchi di Epifanio di Salamina e di Girolamo
contro il vescovo di Gerusalemme, Giovanni (393-394) che era un origeniano.
In Egitto il patriarca Teofilo, anch'egli origeniano, si trovò a dover far fronte a una folla tumultuosa di
monaci sostenitori di un'interpretazione letterale del passo della Genesi in cui è scritto che Dio creò l'uomo a
sua immagine e somiglianza.
A tale interpretazione erano contrari gli origeniani che, appellandosi al Vangelo di Giovanni in cui Gesù dice
che «Dio è spirito», rimproveravano ai loro avversari una concezione troppo umana e corporale di Dio.
Teofilo rinnegò istantaneamente le sue convinzioni, si alleò con i monaci e cominciò ad agire contro gli
origeniani.
Un sinodo condannò la dottrina di Origene e i monaci origeniani furono cacciati da certi monasteri.
La fuga di alcuni monaci a Costantinopoli, dove cercarono la protezione del vescovo di quella città Giovanni
Crisostomo, divenne il punto di partenza di un conflitto tra la Chiesa di Costantinopoli e Teofilo.
Le conseguenze delle persecuzioni contro gli origeniani furono disastrose per gli intellettuali cristiani e negli
ambienti monastici si cominciò a guardare con sospetto ai monaci colti.

I vescovi di Alessandria, consapevoli della loro potenza e convinti della propria ortodossia, cercavano di
imporre la loro influenza alle altre chiese orientali. Suscitavano con ciò avversione.
Teofilo, Cirillo e Dioscoro, tre vescovi di Alessandria che lottarono contro i vescovi di Costantinopoli,
incontrarono resistenza nonostante la dottrina da loro sostenuta fosse generalmente accettata in Oriente a
causa dell'atmosfera di terrore che li circondava.

La posizione della Chiesa alessandrina decadde notevolmente in seguito alle controversie cristologiche
che verso la metà del VI secolo portarono alla nascita di una Chiesa monofisita separata, retta da patriarchi
che risiedevano in monasteri nelle vicinanze di Alessandria.

La diocesi amministrativa d’Oriente e la sua capitale Antiochia

L’ampia area su cui si estendeva l'egemonia del vescovo di Antiochia, città che era la capitale della diocesi
amministrativa di Oriente, era composta da territori in cui le città avevano una tradizione di autonomia
politica e culturale che risaliva all'età ellenistica.
Nella tarda antichità queste città erano vivaci centri di pensiero teologico e di attività pastorale.
Conosciamo molti vescovi eminenti di queste chiese.

Dal punto di vista dell'attività pastorale delle chiese i metropoliti e i sinodi provinciali contavano di più delle
decisioni del vescovo di Antiochia.
Il concilio di Nicea attribuisce alla Chiesa di Antiochia la “presbeia”, ma non precisa entro quali limiti
territoriali essa debba valere. Inizialmente non era altro che una superiorità di onore, più tardi divenne la
possibilità per il patriarca di intervenire nelle faccende delle chiese situate più in basso in base al prestigio
personale del dato vescovo di Antiochia, dalla sua capacità di negoziare nelle contese e di dirigere i sinodi.

Per la controversia riguardante l'arianesimo la Chiesa di Antiochia e i territori su cui si esercitava la sua
influenza ebbero un'importanza centrale: i principali personaggi di questa lotta provenivano proprio di là.
Tale scisma che durò a lungo nel campo dei seguaci del Credo niceno limitava le possibilità per il vescovo di
Antiochia di allargare la sfera del suo potere effettivo.
Anche le controversie cristologiche posteriori contribuirono a indebolire l'autorità del vescovo di Antiochia:
nel VI secolo ci fu l'espansione del monofisismo.

Nonostante tutto la Chiesa antiochena era una struttura potente. La conosciamo da un interessante documento
appartenente al genere dei “taktika” (liste di vescovati in ordine gerarchico) chiamato dagli studiosi Notitia
Antiochena. Questo documento fu redatto intorno al 570, ma una parte delle informazioni che contiene
proviene da anni anteriori.
In cima c'è l'arcivescovo di Antiochia con il titolo di patriarca, poi vengono sette metropoliti vescovi di sette
città della provincia Syria Prima, dove si trovava Antiochia. Questi costituivano il consiglio del patriarca.
Due arcivescovi detti "semplici" servivano come funzionari del patriarca, e venivano mandati in giro come
suoi rappresentanti.
Quattro arcivescovi occupavano seggi importanti dal punto di vista ecclesiastico (Berytos, Laodicea, Emesa,
Cirro), ma nonostante il titolo prestigioso non avevano giurisdizione su altri vescovi.
I veri metropoliti, i dodici "grandi arcivescovi" esercitavano l'attività pastorale al livello della metropoli.

La forza del centro antiocheno veniva non solo dall'esercizio del potere nella vita ecclesiale, ma anche
dall'attività intellettuale della cosiddetta scuola teologica di Antiochia: Diodoro di Tarso, Teodoro di
Mopsuestia, Apollinare di Laodicea, Giovanni Crisostomo, Nestorio, Teodoreto di Cirro.

La Palestina Prima: il ruolo di Gerusalemme e di Caesarea Marittima

Alla fine del III secolo il seggio vescovile di questa città aveva una posizione secondaria e dipendeva dal
metropolita residente nella capitale della provincia Palestina Prima, Cesarea di Palestina, centro importante
sia dal punto di vista politico che da quello ecclesiastico.
Questo rapporto di dipendenza rimase immutato fino all'inizio del V secolo.

Tuttavia nell'Impero cristiano la Chiesa di Gerusalemme non poteva essere trattata come le altre chiese: a
causa del ruolo di Gerusalemme nella storia della salvezza la sua Chiesa aveva una posizione particolare
sebbene la scarsa importanza della città nel presente non le desse il diritto di avere un ruolo di primo piano.
Tale situazione spiega la decisione del concilio di Nicea contenuta nel canone 7: Gerusalemme doveva venire
onorata, ma questo non cambiava la dipendenza di Gerusalemme rispetto alla metropoli (Cesarea).

Estremamente importante per la Chiesa di questa città fu il fatto che Costantino e i suoi successori vi
edificarono imponenti basiliche.
In favore di essa era anche l'atteggiamento filo-niceno che i suoi vescovi avevano assunto agli inizi della
controversia ariana.
Il movimento di pellegrini che si sviluppò dal IV secolo sulla scia del gesto dell'imperatrice madre Elena che
creò intorno a Gerusalemme un'atmosfera di sacralità.

Alla fine del IV secolo il vescovo di Gerusalemme, Giovanni, intraprese un tentativo mirante a innalzare la
sua Chiesa e a renderla indipendente da Cesarea.
Girolamo che gli era ostile scrisse che Giovanni aspirava a un potere su un territorio comprendente alcune
province e avente il rango di patriarcato.
Il progetto di Giovanni fu continuato da Giovenale. Tuttavia a tale cambiamento dei rapporti ecclesiastici si
opponevano fortemente il patriarca di Antiochia e i capi delle chiese di Roma e di Alessandria.
Soltanto grazie a un'abile politica durante il concilio di Calcedonia (451), passando al momento opportuno da
un campo a un altro (sempre dalla parte del vincitore di turno) Giovenale ottenne il patriarcato che fu
composto dalle tre province palestinesi.

L'Asia Minore

Per questi territori la tarda antichità continua a essere un periodo di relativo benessere in cui i processi di
urbanizzazione non si sono ancora fermati e l'espansione della lingua greca legata alle città progredisce
conquistando molte regioni.

Già all'inizio del IV secolo in alcune regioni il processo di cristianizzazione era molto avanzato.
Nel V secolo i pagani erano ormai in minoranza.

Conformemente al canone 2 del primo concilio di Costantinopoli i vescovi di Efeso e di Cesarea di


Cappadocia, che erano le capitali delle due diocesi amministrative Asia e Ponto, avrebbero avuto il diritto di
esercitare la giurisdizione sulle chiese di questi territori, ma nella pratica poi non lo fecero.
Non bisogna quindi sopravvalutare l'importanza delle decisioni formali dei sinodi, questi potevano
sanzionare con la loro autorità lo stato di cose esistente, ma non erano in grado di cambiarlo.
Costantinopoli, la Seconda Roma

Prima che Costantino il Grande nel 330 ricostruisse Bisanzio, conferendole anche il nome Costantinopoli, la
Chiesa di questa città era una chiesa secondaria all’interno dell'Impero.

Sembra certo che Costantino abbia voluto fin dall'inizio dare alla nuova città il rango di Nuova Roma.
La sua trasformazione in città cristiana fu un processo lento. Il ruolo principale in questo processo lo svolse
Costanzo II (337-361) edificando chiese a Costantinopoli e soprattutto accumulandovi reliquie.
In questo modo la città acquistava una protezione contro catastrofi di ogni specie e poneva le basi per
costruire la sua posizione tra le grandi capitali della Chiesa.

In quegli anni Costantinopoli non era la sede stabile dell'imperatore. Fu solo a partire dal regno di Arcadio
(dal 395) che gli imperatori vi risiedettero stabilmente.
La presenza o l'assenza del sovrano aveva un'enorme importanza per il vescovo.

La fase iniziale della Chiesa della Nuova Roma fu segnata da lotte tra aspiranti al soglio vescovile in una
città dominata dagli ariani.
Nel 379, chiamato dai fautori del Credo niceno privi di un pastore ortodosso, giunse a Costantinopoli
Gregorio di Nazianzo, oratore e teologo che assunse il compito di costruire una comunità cattolica.
Gli inizi furono difficili. La situazione cambiò in seguito all'intervento dell'imperatore Teodosio il Grande.
Subito dopo essere entrato in città questi mandò in esilio il vescovo ariano. Gregorio prese possesso di Santa
Sophia e dei Santi Apostoli, le due chiese principali della città.
Gli intrighi orditi dal vescovo di Alessandria lo spinsero però in breve tempo a dimettersi.

Per il posto lasciato da Gregorio, da una lista di tre candidati presentatagli dai vescovi riuniti in concilio a
Costantinopoli, l'imperatore scelse Nettario, un anziano senatore ed ex pretore che con abilità riportò la città
alla calma e con l'aiuto dell'imperatore allacciò rapporti con le altre chiese.
Fu lui a inaugurare il processo della trasformazione della Chiesa costantinopolitana che con il suo episcopato
allargava sempre più il terreno degli interventi nelle faccende delle chiese di rango minore.

Nel 381 il concilio convocato dall'imperatore a Costantinopoli per risolvere problemi dottrinali approvò un
canone (il canone 3) riguardante lo status della Chiesa costantinopolitana. Esso stabilisce che il vescovo di
Costantinopoli avrà il primato d'onore dopo il vescovo di Roma perché tale città è la nuova Roma.
Si trattava esclusivamente di una questione di rango, non di giurisdizione. In nessun testo canonico
dell'epoca infatti è precisato il confine territoriale della giurisdizione del vescovo di Costantinopoli, ma in
pratica la sua autorità si estendeva già da allora fino alla vicina Tracia.

La Chiesa romana, nella persona di Damaso, indisse un sinodo speciale nel 382 per protestare energicamente
contro quel canone.
Ricordò che il rango di alcune chiese al vertice della cristianità era determinato dai fondatori apostolici e non
da una decisione politica. Per Damaso dopo Roma veniva Alessandria, fondata da Marco evangelista, al terzo
posto veniva Antiochia fondata da Pietro. Secondo lui la Chiesa costantinopolitana doveva tornare sotto la
direzione del metropolita di Eraclea Tracia.

Cambiamenti decisivi nella posizione di Costantinopoli avvennero con l'episcopato di Giovanni


Crisostomo (398-407).
Il suo predecessore Nettario interveniva nelle faccende di altre chiese solo dietro richiesta da parte degli
interessati, Giovanni invece interveniva per sua iniziativa forte dell'appoggio della corte imperiale e del suo
personale prestigio.
Quando si trovava davanti a irregolarità o azioni riprovevoli commesse da vescovi o da persone della corte
agiva per punire i colpevoli senza pensare alla convenienza.

L'aumento del potere e del prestigio del vescovo di Costantinopoli provocò la reazione del patriarca di
Alessandria, Teofilo (385-412) che vedeva in Giovanni un rivale pericoloso.
I numerosi conflitti suscitati da Giovanni a corte e all’interno del clero della capitale facilitarono l’azione di
Teofilo.
Giovanni fu dapprima deposto dal “sinodo della Quercia” (403) dominato dai vescovi egiziani, poi fu due
volte esiliato e morì debilitato dalle faticose condizioni in cui fu costretto a viaggiare verso il luogo
assegnatogli in Asia Minore.

Sebbene non avessero un fondamento giuridico nei canoni e non godessero di popolarità le azioni di
Giovanni Crisostomo corrispondevano ai bisogni delle chiese dell'Asia Minore e di gran parte della penisola
balcanica.
Vi era la necessità di una forte istanza sovrametropolitana capace di imporre ai potenti metropoliti il rispetto
delle regole che spesso venivano infrante.

La formalizzazione della posizione del vescovo di Costantinopoli era solo una questione di tempo.
Il passo fu fatto dai vescovi riuniti al concilio di Calcedonia del 451 con l'approvazione del canone 28.
Questo poté essere accettato solo grazie all'eliminazione del principale rivale di Costantinopoli: il patriarca di
Alessandria che nel corso del dibattito sulla dottrina e sul comportamento negli affari ecclesiastici fu
deposto.
Canone 28:
- i metropoliti del Ponto, dell’Asia e della Tracia e i loro vescovi saranno consacrati dalla Santa Sede di
Costantinopoli
- ciascun metropolita di queste diocesi potrà nominare i vescovi della sua provincia
- i metropoliti dovranno essere consacrati dall’arcivescovo di Costantinopoli

Dopo che questo canone era stato approvato nella seduta successiva i legati papali tentarono di far annullare
la decisione, sostenendo che i vescovi erano stati colti di sorpresa e che c'erano state pressioni, costrizioni. In
risposta alle accuse dei legati del papa, i vescovi delle varie città dell'Asia Minore fecero ampie dichiarazioni
e uno spontaneo atto di sottomissione a Costantinopoli.

A partire dal concilio calcedonese il patriarca costantinopolitano ha sotto di sé un territorio immenso, in cui
si trovano 469 città, la metà del numero delle città di tutto l'Impero secondo le liste redatte nella prima metà
del VI secolo.
La vicinanza dell'imperatore gli giova, ma può anche nuocergli, come testimonia il numero dei patriarchi
deposti dal sovrano.

L'Africa settentrionale

Le chiese dei territori dell'Africa settentrionale costituivano un mondo relativamente isolato che raramente
cercava dei rapporti stretti con il resto della cristianità.
La conquista dell'Africa settentrionale da parte dei Vandali a partire dall'anno 429 prolungò questo stato di
cose e nemmeno la riconquista giustinianea nel 553 riuscì a romperlo.

Il cristianesimo si diffuse qui rapidamente, specialmente nelle regioni urbanizzate della parte nord-est
intorno a Cartagine.
Meno facile fu la diffusione del cristianesimo nella parte meridionale, in terreni stepposi o desertici.
All'inizio del IV secolo compaiono vescovati nei territori meno cristianizzati come la Numidia.
Nei territori montani abitati dai Berberi alcune tribù non furono mai cristianizzate e abbandonarono il
paganesimo solo molto più tardi, per accogliere l'Islam tra molte resistenze.

Un tratto caratteristico dell'Africa è il fatto che qui c'erano vescovati molto piccoli, creati in villaggi.
In questi casi accanto al vescovo c'era soltanto un presbitero o pochissimi presbiteri e diaconi. Era una
conseguenza della convinzione che anche in un piccolo gruppo di fedeli solo il vescovo avesse la facoltà di
esercitare il culto.
All’aumento del numero di vescovati contribuì lo scisma donatista.

Le riforme di Diocleziano alla fine del III secolo avevano diviso il territorio dell'Africa in sei province.
Questa divisione si mantenne fino alla conquista vandala. La geografia ecclesiastica riproduceva questa
divisione.
L'Africa aveva un suo particolare sistema di organizzazione al di sopra del livello dei vescovati. Non c'era
una rete di metropoli che controllassero l'andamento delle cose nei singoli vescovati, ma in ciascuna delle sei
province uno dei vescovi aveva il primato.
Nell'Africa Proconsolare il primato spettava al vescovo di Cartagine, in ciascuna delle altre province spettava
al vescovo più anziano dalla data dell'ordinazione. Non dava però un potere paragonabile a quello dei
metropoliti.
Il sistema privilegiava il vescovo di Cartagine, la città africana più importante che aveva la tradizione
cristiana più antica e l'ambiente culturale più forte. Era il vescovo di Cartagine a ricevere l'informazione
sulla data della Pasqua e a trasmetterla agli altri vescovi dell'Africa.
Il ruolo del seggio cartaginese cresceva quando questo era occupato da un uomo dotato di grande prestigio
personale, tuttavia i vescovi di Cartagine non aspiravano a una formalizzazione del loro ruolo di guida, a un
titolo (quello di patriarca).

Lo scisma donatista è nato dalla condanna del modo in cui la Chiesa si era comportata durante la Grande
Persecuzione e marcò profondamente il cristianesimo africano. Fu uno scisma duraturo, difficile da
combattere.
Si fondava sulla convinzione della Chiesa africana nel III secolo che il valore dei sacramenti non fosse
indipendente dalle qualità della persona che li somministrava. I donatisti ripetevano il battesimo se esso era
stato compiuto da una persona riconosciuta colpevole di un peccato grave (apostasia, eresia) e ritenevano che
la macchia dei vescovi indegni si trasmettesse ai vescovi da loro ordinati.
Questo atteggiamento favorì la creazione di una Chiesa separata e rendeva estremamente difficile un accordo
con la parte opposta.
I donatisti continuarono fino alla fine del loro movimento a richiamarsi agli avvenimenti del passato che
avevano provocato la rottura, avevano un loro clero, chiese, cimiteri e feste separati, una storia sacra piena
di persecuzioni e di martiri che venivano venerati.

Il fatto che i donatisti abbiano potuto estendere la loro azione molto ampiamente nonostante l'atteggiamento
sfavorevole delle chiese dell'Occidente e l'aperta ostilità di Costantino e dei suoi successori testimonia
quanto fosse forte la resistenza che la gerarchia cattolica incontrava da parte dei fedeli.
I donatisti divennero oggetto di vere e proprie persecuzioni (confische delle chiese e dei beni) e poi per la
prima volta tra il 317 e il 321 furono usati soldati per confiscare le chiese e questo ebbe come conseguenza
delle uccisioni.
Le persecuzioni bloccarono per qualche tempo l'espansione dello scisma, ma non condussero
all'eliminazione del conflitto.
I gerarchi cattolici, non riuscendo a vincere con i loro mezzi, chiamavano in aiuto gli imperatori, ma i loro
interventi non erano efficaci perché non trovavano un appoggio sufficiente da parte dei funzionari locali.

Verso il 390 i donatisti erano superiori per numero ai cattolici.


Anche la produzione dottrinale dei donatisti è amplissima. A lungo la parte cattolica non fu in
grado di contrapporre a loro avversari testi che fossero all’altezza, soltanto più tardi poté farlo con Agostino
(vescovo di Ippona dal 396).

L'appoggio che i donatisti diedero al ribelle berbero Gildone divenne per la parte cattolica un argomento
che le rese più facile convincere le autorità imperiali a intraprendere ulteriori azioni contro di loro.
I donatisti furono riconosciuti eretici e come tali sottomessi a repressioni: divieto di assembramento, confisca
dei luoghi di culto, minaccia di esilio per i membri del clero, pena di morte per coloro che intralciassero il
culto cattolico, esilio per i funzionari imperiali non sufficientemente zelanti, espulsione dalle città,
confisca delle loro terre.

L'imperatore Onorio promulgò leggi speciali che avevano lo scopo di eliminare completamente la Chiesa
donatista.

Tuttavia nella Chiesa cattolica si faceva sentire sempre più fortemente la volontà di chiudere lo scisma anche
per mezzo di un'intesa tra le parti.
Verso la fine del 410 una delegazione cattolica ottenne l'accordo dell'imperatore per organizzare una
conferenza comune di tutto l'episcopato africano. Tale conferenza si riunì a Cartagine nel 411. Ciascuna delle
grandi città era rappresentata da due vescovi: le piccole città dell'Africa Proconsolare erano cattoliche,
quelle della Numidia e della Byzacena erano donatiste. Nonostante la parità numerica dei rappresentanti
delle due parti le autorità appoggiavano palesemente la parte cristiana, inoltre vi erano molte divisioni
interne fra i donatisti.
Secondo le intenzioni dell'imperatore Onorio la conferenza doveva condurre a una piena sconfitta del
donatismo e così avvenne.

Nel 412 Onorio emise un editto dopo il quale la maggior parte dei donatisti si convertì o direttamente
costretta o convinta dell'inutilità della resistenza.
Il donatismo non scomparve interamente dall'Africa, ma perse la sua importanza.

Nel 429 l’Africa fu invasa dai Vandali e Cartagine cadde subito.

La Spagna

Diocleziano aveva riunito le province della Spagna con quella della Mauretania Tingitana creando
l’Hispaniae.
La chiesa iberica presentava legami con quella Africana.
Nel corso del IV scolo furono cristianizzate maggiormente le zone urbane, mentre le altre regioni furono
evangelizzate più tardi.
Il numero delle diocesi era esiguo, nell’anno 400 ve ne erano solamente 30.
La Chiesa di Spagna non aveva un centro dirigente stabile, molti vescovi spesso assumevano il ruolo di
dirigente.

Verso il 370 nacque un movimento che scosse la chiesa spagnola e in parte quella gallica. Il movimento era
guidato da un uomo laico chiamato Priscilliano che crea una dottrina ascetica molto rigida e annovera un
gran numero di adepti. Questo movimento aveva per lo più i tratti di una setta e la Chiesa reagì
violentemente condonandolo in un sinodo a Saragozza nel 380.
Per difendersi Priscilliano si appellò ad Ambrogio e papa Damaso, ma invano infatti egli fu ricondannato nel
sinodo di Bordeaux nel 384.
Allora Priscilliano scappo presso Massimo che dopo aver ucciso l’imperatore Graziano regnava su Gallia,
Spagna e Britannia. Questi però era interessato a perseguire l’ortodossia per avere i vescovi dalla sua parte.
Alcuni nemici di Priscilliano presso la corte lo diffamarono, fu costretto ad ammettere di aver praticato la
magia e fu decapitato.
Questo fu il primo caso di eresia con condanna a morte.
Questo episodio fu accolto negativamente da gran parte della comunità ecclesiastica, quindi i vescovi che
condannarono Priscilliano furono deposti ma i priscilliani furono perseguitati comunque.

La Gallia

Le fonti sono numerose e ricche di informazioni, ma molte di queste sono di dubbio valore (leggende sulla
fondazione delle loro chiese, testi agiografici falsati).

Prima dell'età costantiniana il numero dei vescovati in Gallia deve essere stato tra 25 e 40, essi erano
concentrati nella Gallia sud-est. Durante la prima metà del IV secolo il loro numero raddoppiò, soprattutto
nel nord.
Intorno alla metà del V secolo vi erano 70-80 vescovati.
I confini dei vescovati corrispondevano di solito a quelli dell'amministrazione civile, ma durante il IV secolo
accadeva a volte che un vescovo convertisse al cristianesimo villaggi che non facevano parte del territorio
della sua città.
L'aristocrazia gallica prese in mano la direzione delle comunità cristiane.
Anche i monasteri erano per larga parte aristocratici e le chiese prendevano spesso i vescovi dalle comunità
monastiche, come il monastero fondato a Lérins e quello fondato da Martino di Tours.
L'origine aristocratica dei vescovi aumentava la loro forza ed efficacia sul piano sociale. La loro ricchezza
personale poteva unirsi ai mezzi della Chiesa quando si trattava di costruzioni sacre o di opere filantropiche.

Le metropoli in Gallia nacquero tardi, nella seconda metà del IV secolo, e si moltiplicarono lentamente
sebbene il modello fosse comunemente accettato in altre parti del mondo mediterraneo e fosse stato
indicato come regola dal concilio di Nicea del 325.

L'iniziativa di organizzare un centro a un livello superiore a quello delle metropoli incontrò poi molte
resistenze. L'iniziativa partì dal vescovo di Arles, Patroclo (411/412-426).
La sua città aveva un posto eminente nella vita economica e amministrativa della Gallia. Nel V secolo vi
risiedevano a volte gli imperatori e vi era la prefettura delle Gallie.
Patroclo era appoggiato dal papa Zosimo, che creò un vicariato papale in Gallia. Ma i colleghi di Patroclo
non vollero sottomettersi, preferivano trattare con il papa direttamente.
I successori del papa Zosimo non continuarono la sua politica nei confronti del vescovo di Arles.

L'idea di Patroclo fu ripresa da Ilario, che era diventato vescovo di Arles verso il 430. Questo ex monaco di
Lérins era convinto della necessità urgente di riformare la Chiesa con un’epurazione dei vescovati delle
province vicine, deponendo le persone indegne, assicurando un'amministrazione onesta dei beni ecclesiastici.
Per eliminare le resistenze avrebbe avuto bisogno dell’appoggio dell’autorità papale, cioè di avere la
funzione di vicario del papa che gli dava diritto di agire fuori della sua metropoli. Anche se non la aveva egli
si comportava come se fosse titolare del vicariato: organizzava i sinodi, interveniva nelle elezioni dei
vescovi, deponeva i vescovi che trovava indegni.
Le vittime delle sue azioni andarono a cercare giustizia a Roma e il papa, contrario all'idea del vicariato,
condannò Ilario e lo privò dei diritti che spettavano ai metropoliti.

Successivamente un tentativo simile al suo sarà fatto da Cesario, vescovo di Arles dal 502 al 543. Questa
volta il papa Simmaco è dalla sua parte, gli accorda il privilegio di portare il pallio e nel 514 gli conferisce il
vicariato.

L'Italia

Diocleziano creò in Italia due diocesi civili: Italia Suburbicaria e Italia Annonaria, il confine si trovava circa
all'altezza di Ancona e vicino a Pisa. Per lungo tempo l'organizzazione ecclesiastica seguì questa divisione.
L'Italia Suburbicaria (dal Centro fino al Sud) era sottoposta all'influenza diretta del vescovo di Roma e
l'Italia Annonaria era un territorio in cui i vescovi di varie sedi esercitavano la loro influenza a seconda della
grandezza e della ricchezza delle loro città, delle tradizioni locali e delle singole personalità.
All'inizio del IV secolo l'Italia aveva circa 25 vescovati.

I vescovati dell'Italia Suburbicaria erano da sempre sottoposti al vescovo di Roma. Egli ordinava i vescovi, li
convocava per i sinodi, ne controllava il comportamento morale e il modo di amministrare i beni della
Chiesa.

Nell'Italia Annonaria la Chiesa principale per prestigio e ricchezza era quella di Milano. La città aveva un
ruolo centrale per l'amministrazione civile, militare e in certi periodi fu sede della corte e della famiglia
imperiale, il che accresceva l'importanza dei suoi vescovi.
L'apice della storia ecclesiastica di Milano fu il periodo del vescovato di Ambrogio (374-397) che faceva
sentire la sua voce in molte questioni della Chiesa universale.
I suoi successori, persone di non grande rilievo, non furono in grado di mantenere l'altissima posizione che il
vescovato aveva precedentemente acquistato.
L'abbandono di Milano da parte della corte imperiale nel 402 contribuì alla sua lenta decadenza.

A metà del V secolo la Chiesa di Aquileia si liberò dalla dipendenza da Milano, ottenendo il rango di
metropoli. Il territorio di questa metropoli era immenso, ma instabile: comprendeva Venezia, l'Istria, la
Rezia, il Norico, la Pannonia ed ebbe un'importanza fondamentale per la cristianizzazione dei barbari.
Il vescovo di Aquileia godeva del titolo (solamente onorifico) di patriarca.

Il trasferimento nel 402 della corte imperiale da Milano a Ravenna, città più sicura, fu seguito da un
cambiamento di posizione della Chiesa ravennate.
La conquista da parte di Odoacre e poi da parte di Teodorico non fu negativa per Ravenna che continuava a
essere centro del potere. Crebbe anche la forza della sua Chiesa.
Nell'ambiente intorno al vescovo fu creata una leggenda che faceva dell'unico martire della città, Apollinare,
un allievo dell'apostolo Pietro.
Nel IV secolo Roma non svolgeva più le funzioni di capitale dell'Impero, ma aveva un popolo in parte
mantenuto dalle elargizioni degli imperatori e dell'aristocrazia locale (gruppo sociale che disponeva di
enormi ricchezze accumulate nei secoli).
Nonostante il suo declino politico contava ancora probabilmente quasi 800.000 abitanti.
Per questa Chiesa il regno di Costantino fu una grande svolta. L' imperatore e i suoi successori si
impegnarono in un'azione di grande scala per la costruzione e l'abbellimento di edifici di culto di vario tipo,
dando alla religione che essi appoggiavano visibilità e splendore.

Numerosi membri dell'aristocrazia crearono chiese che, pur riconoscendo l'autorità del vescovo di Roma,
erano autonome: i “tituli”. Queste chiese erano per lo più fondazioni private. I loro proprietari fornivano a
esse i mezzi finanziari indispensabili e avevano ampi poteri per ciò che riguardava le nomine dei membri del
clero.
Tale stato di cose durò fino al momento in cui il papa Damaso (366-384) riuscì a sottomettere al suo potere
quelle chiese e a far sì che i mezzi finanziari che esse gestivano fossero versati nella cassa comune del
vescovato.

Costruendo chiese, cappelle, orfanotrofi, ospedali, le famiglie ricche intendevano lasciare un ricordo della
loro devozione. Analogamente si comportavano quanti tra i papi erano ricchi.

All'inizio del IV secolo i cristiani a Roma non erano probabilmente più del 10% della popolazione. Nel corso
dello stesso secolo la cristianizzazione della popolazione di Roma procedette rapidamente e alla fine del
secolo era molto avanzata.
Alla fine del V secolo non c'erano più gruppi apertamente pagani.
Il clero era molto numeroso e influente.

Le donazioni fatte dagli imperatori e dall'aristocrazia non si limitavano alla costruzione di edifici di culto. La
Chiesa di Roma riceveva vaste distese di terra in Italia (dove nel VI secolo il papa era il più grande
proprietario terriero) e anche fuori dell'Italia: in Sicilia, Sardegna, Corsica, Africa del Nord, Dalmazia,
Gallia.

Nella seconda metà del VI secolo e del VII (guerre contro i Goti, invasione dei Longobardi, peste del 542) il
patrimonio riunito nelle mani del papa serviva a un'attività caritativa di grandi proporzioni che andava ben al
di là del compito di dar da mangiare ai poveri di Roma.
Capitolo 9 - Il monachesimo antico

Un fenomeno religioso

Definizione

Il monachesimo cristiano è un fenomeno religioso la cui manifestazione e diffusione sono da collocarsi


all'inizio del IV secolo.
Il termine “monachos” appare per la prima volta nel 324 nei papiri egiziani e fa riferimento a una scelta di
vita solitaria non solo nel senso della rinuncia al matrimonio, ma anche di un vero e proprio allontanamento
dalla società.
L’aggettivo “monotropos” esprime l'essenza dell'asceta facendo riferimento al suo essere unificato: eliminata
ogni volontà estranea a quella divina (umana o diabolica) egli cancella ogni tentazione, ogni dubbio, ogni
doppiezza e consegue una semplicità interiore che ricorda quella predicata da Paolo. Si opera perciò una
purificazione interiore ed esteriore della propria persona (concetto di puro si lega con l'insistenza sulla
verginità tipica del cristianesimo antico).
L'elemento che secondo alcuni più distingue questa forma di vita da altre tendenze ascetiche già esistenti
nelle chiese primitive sarebbe da ricercarsi nella scelta di distacco dal mondo e dalle sue dinamiche e quindi
nel continuo rinnovamento di una condizione di estraniamento. Nell'isolamento il monaco ricerca
una liberazione dalle preoccupazioni terrene e dunque una quietudine tale da permettergli una preghiera priva
di distrazioni e una visione del mondo celeste.

I modelli

Modelli biblici che sin dai primi tempi sono stati oggetto della riflessione dei monaci: le figure profetiche di
Elia, Eliseo e Giovanni Battista. Costituiscono anche una chiarificazione quanto agli aspetti del modello
cristico su cui si è inteso insistere.
Il Gesù che ispira il monaco sia quello delle tentazioni nel deserto e quello del monte Tabor: il primo rivela
che la vita monastica è una guerra contro i demoni, mentre il secondo ribadisce che essa è percorso di
ascensione al cielo, vita angelica e vera conoscenza della pienezza divina.

Gli antecedenti

Si è tentato di collegare il monachesimo tardoantico a fenomeni simili più antichi.


Uno di questi è quello dei Terapeuti, una comunità di asceti che rinunciavano ai propri beni e si riunivano
fuori dai centri urbani per praticare un culto rivolto a Dio.
Un altro è quello dei “reclusi” consacrati al dio Serapide.
Alcuni hanno invece proposto di far risalire l'origine del monachesimo al ritiro nel deserto di cristiani in fuga
dalla persecuzione di Decio (249-251) o dal peso di un'imposizione fiscale divenuta intollerabile (indicata
con il termine anacoresi).
Altri hanno indicato nei monaci gli eredi dei martiri: il nuovo martirio dei continenti avrebbe sostituito
l'antico martirio dei perseguitati.

Il monachesimo è un fenomeno inizialmente urbano, legato alla formazione di gruppi di discepoli riuniti
attorno a maestri e questo permette di rilevare diversi nessi con il mondo delle scuole filosofiche.

L'Egitto

Ieraca e Antonio

La tradizione ha sempre considerato l'Egitto come il luogo degli inizi, ma la molteplicità degli antecedenti e
dei modelli a cui è possibile connettere l'avvio del movimento monastico ha reso problematico per gli
studiosi affermarlo con certezza.

Ieraca di Leontopoli era un asceta severo e rigoroso che indicava nella continenza l'innovazione
fondamentale della nuova idea di salvezza inaugurata da Gesù.
Si era posto a capo di una comunità urbana di uomini e donne ossessionati dall'esigenza della purificazione.
Il movimento fu condannato dall'autorità ecclesiastica e ridotto a fenomeno marginale, ma tale esperimento
comunitario può esser interpretato come una sorta di proto-monachesimo urbano che, respinto
dall'istituzione, ha intrapreso la via dell'anacoretismo tradizionale non urbano.

Le origini del monachesimo in Egitto e del monachesimo in generale sono state individuate nell'esperienza di
Antonio (251-357) considerato dalla tradizione come il fondatore dell'eremitismo.

Il termine eremitismo (da eremos=deserto in greco) fa riferimento a una specifica forma di vita monastica
praticata nella solitudine, in un completo isolamento nel deserto.

Nato a metà del III secolo nella campagna egiziana, Antonio è di famiglia cristiana. L'ascolto in chiesa della
parabola evangelica del giovane ricco lo spinge a una scelta di vita più radicale: lasciare tutto per consacrarsi
completamente a Dio.
Impara le tecniche della purificazione fisica e spirituale dagli asceti del tempo e sceglie di operare un
distacco sempre più netto dalla società. È da solo finché la sua fama non attira a lui folle di visitatori per
beneficiare della sua saggezza e della sua potenza taumaturgica.

La Vita scritta poco dopo la sua morte da Atanasio di Alessandria insiste particolarmente sulla figura del
santo sintesi delle diverse esperienze ascetiche del tempo che si attua nell'ambito di un'esperienza
rigorosamente individuale.

Le Lettere dello stesso Antonio (335-345) offrono invece una testimonianza sulla dimensione comunitaria
del primo monachesimo da lui avviato e certo più problematica per l'istituzione ecclesiastica (non a
caso fu taciuta nella biografia del vescovo alessandrino).
Vi sono sviluppati i due temi della battaglia spirituale contro i demoni dimoranti nel corpo umano e della
gnosi che segue la purificazione.
La teologia di Antonio appare influenzata dal pensiero di Origene.

Nitria, Celle, Scete

In quegli stessi anni a sud di Alessandria si formano tre insediamenti monastici di crescente notorietà: Nitria,
Celle e Scete.
Ai primi due è connesso il personaggio di Ammonio Nitriota, mentre il terzo sarebbe stato avviato da
Macario Egizio. Di lui resta oggi una Lettera ai figli incentrata sui due obiettivi connessi della purificazione
e della contemplazione.

Il monachesimo che si afferma a Nitria, Celle e Scete ci è noto attraverso una fonte più tarda (fine V-inizio
VI sec), ma composta sulla base di tradizioni orali precedenti: gli Apoftegmi dei Padri, un insieme di raccolte
di detti e fatti che descrivono la vita e conservano gli insegnamenti dei cosiddetti Padri del deserto.
Abbiamo qui un monachesimo composto di gruppi legati a maestri il cui regime di vita è fondato
sull'avvicendamento tra la solitudine del lavoro settimanale e le celebrazioni liturgiche del fine settimana
comunitario.

Il monachesimo cenobitico

Intanto nell'alto Egitto si sviluppa una forma di monachesimo differente, più normato e gerarchico. Si forma
la “koinonia” (=comunità) iniziata da Pacomio (292-346). Il termine indica una famiglia monastica che
riunisce diversi monasteri all'interno di un unico sistema (il termine koinobion=cenobio significa 'vita
comune') nata dalla volontà di allargare il più possibile l'accesso alla salvezza attraverso la disciplina
monastica.

Le principali fonti di riferimento sono le Vite di Pacomio (in greco, copto, latino, arabo), la Lettera di
Ammone, il corpus delle regole e quello delle Lettere, Catechesi e altri Insegnamenti di Pacomio stesso e dei
suoi primi successori. Risalgono alla seconda metà del IV secolo.

Pacomio è nato in una famiglia devota agli dei tradizionali.


Ha conosciuto il cristianesimo in una caserma di Tebe durante la leva obbligatoria avvenuta in occasione del
conflitto di Massimino Daia con Licinio (313). Lì i benefattori cristiani vengono a portare conforto ai
soldati, arruolati a forza e rinchiusi in attesa della battaglia.
Tornato in libertà prima ancora d'aver combattuto Pacomio si stabilisce nei pressi di Chenoboscia, riceve il
battesimo e si unisce alla scuola di un vecchio asceta, Palamone.
Su indicazione di una visione il giovane monaco si sposta per fondare una comunità di più ampie
proporzioni: la gratitudine per il sostegno ricevuto durante la prigionia e un voto fatto in quel frangente lo
inducono a dedicarsi alla salvezza del prossimo come contraccambio per la scampata morte in guerra.
L'iniziativa è percepita come una novità tale da suscitare qualche resistenza, ma nell'arco di pochi anni i
monasteri si moltiplicano, unendo quelli fondati da Pacomio con quelli già esistenti desiderosi di unirsi alla
congregazione.
Alla morte del santo la confederazione è composta di nove monasteri maschili e due femminili.

Ci fu un conflitto tra Pacomio e alcuni vescovi, in passato monaci sotto la sua direzione: al sinodo
di Latopoli avvenuto pochi mesi prima della sua morte il fondatore è accusato per il dono delle visioni da lui
utilizzato per imporre la sua autorità sugli altri monaci, equiparato a una forma di stregoneria.

La redazione delle regole, avvenuta nella seconda metà del IV secolo e restituitaci in una traduzione latina
preparata da Girolamo risponde al problema della gestione dell'autorità nella vita quotidiana.
Dopo un tentativo di secessione da parte di un monastero e una difficile successione nel ruolo di capo si opta
infine per un'organizzazione accuratamente normata della vita e della gerarchia comunitarie.

Un monachesimo per diversi aspetti prossimo a quello avviato da Pacomio è quello di Shenute (348-466).
Una Vita attribuita al successore ci informa sul personaggio, mentre i suoi Canoni costituiscono l'altro
grande corpus normativo del monachesimo egiziano antico.
Shenute fu considerato e chiamato profeta in parte dell'agiografia copta successiva.
I suoi obiettivi erano la restaurazione di una severa disciplina monastica e lotta al paganesimo, perseguiti
sino all'utilizzo della violenza.

Diari di viaggio ed Evagrio

Nell'arco del IV secolo il monachesimo egiziano conosce un successo crescente tale da attirare l'attenzione di
molti da altre regioni.
Lo testimoniano alcuni scritti che si diffondono rapidamente come la Vita di Antonio scritta da Atanasio
di Alessandria e anche i diversi diari di viaggio, redatti da pellegrini recatisi presso i padri del deserto
egiziano: l'anonima Storia dei monaci d'Egitto (dopo il 394) e la più tarda Storia Lausiaca di Palladio di
Elenopoli. La particolarità di queste opere risiede nella volontà di rappresentare il monachesimo come
fenomeno perfettamente integrato nella comunione ecclesiastica.

Altro viaggiatore che lasciò Costantinopoli alla volta dell' Egitto fu Evagrio Pontico (345-399).
Dapprima collaboratore di Basilio di Cesarea e di Gregorio di Nazianzo, questo pensatore è stato il primo a
organizzare in maniera coerente la dottrina ascetica monastica.
Nelle sue opere, ispirate al pensiero di Origene, possiamo individuare due grandi temi ricorrenti.
Il primo è quello dell'ascesa del monaco verso la perfezione lungo un percorso strutturato in tappe
successive: l'acquisizione di una condizione di impassibilità dell'anima, il conseguimento di una mistica
conoscenza della natura e del mondo divino, una capacità di comprensione profonda delle Scritture, fino a
raggiungere infine una livello tale da permettere l'esercizio su altri di una forma di direzione spirituale.
Il secondo tema è quello della lotta alle tentazioni ispirate dai demoni, un conflitto che richiede un metodo
per essere affrontato con successo, come quello di opporre a ogni tentazione la meditazione di un passo
biblico specificamente selezionato.

Dopo Calcedonia

Il periodo che segue il concilio di Calcedonia (451) vede un'istituzionalizzazione progressiva del
monachesimo. Si ha infatti il tentativo operato dal concilio di assumere il controllo di tale forma di vita
cristiana e dunque di imporgli dei limiti, reinserirlo nella gerarchia della Chiesa.
Nei fatti il monastero, integrato nella vita ecclesiastica al punto da ospitare un vero e proprio clero
monastico, esso diviene il centro della liturgia.
È in questi secoli (V-VI) che si diffonde il modello del vescovo-monaco che dirige dal monastero la vita
religiosa degli insediamenti circostanti.

Un'altra questione apertasi all'indomani del concilio è quella della posizione adottata dal monachesimo
rispetto alla dottrina cristologica affermata come ortodossa.
Si crea una spaccatura tra calcedonesi e monofisiti.

Il monachesimo, con la sua capacità di mobilitazione delle masse, diviene uno dei grandi protagonisti nei
conflitti dottrinali.
Questo si rispecchia nella letteratura prodotta in questo periodo, dominata dall'esigenza di affermare un
partito contro l'altro.
La questione della verità teologica, che lasciava indifferenti i primi monaci, più interessati alle esigenze
pratiche dell'ascesi, diviene ora il tema dominante.

Prato Spirituale di Giovanni Mosco (VI-VII sec): l'autore, proveniente dalla Cilicia e divenuto
monaco in Palestina compie due viaggi in Egitto per immergersi nelle più prestigiose tradizioni monastiche,
che intende raccogliere nella sua opera. Tuttavia gran parte del suo testo si ritrova a ruotare sulla sistematica
apologia del partito calcedonese.

Lo stesso avviene nel campo avversario dove si sviluppa il genere letterario delle “pleroforie”, brani
agiografici contenuti nelle biografie dei santi volti ad attestare attraverso il racconto di miracoli la veridicità
di un partito teologico, nella fattispecie quello anticalcedonese.

L'Asia Minore

Apotattici e ascetismo familiare

Le origini del monachesimo in Anatolia non ci sono note nei dettagli.


Alcune fonti posteriori alla metà del IV secolo parlano dei cosiddetti apotattici (rinuncianti) un movimento di
virtuosi della religione che rifiutavano il matrimonio e il consumo del vino.
La pratica dell'ascesi si concretizza nella creazione di una famiglia alternativa a quella carnale, formata da
persone pure e dedite alle sole esigenze dello spirito.
Da questa prima corrente se ne distingue una di diverso genere la quale instaura la pratica di un ascetismo
familiare, cui dedicarsi entro le mura domestiche.

Eustazio di Sebaste

Le prime notizie attestanti l'esistenza di un movimento ascetico di ampie proporzioni in Anatolia si


rinvengono nei canoni e nella lettera sinodale del concilio di Gangre (343) dove è pronunciata la condanna di
Eustazio, vescovo di Sebaste, e dei suoi discepoli.

Lo storico Sozomeno presenta Eustazio come un abile organizzatore delle diverse esperienze preesistenti.
Organizzati in "fraternità" costituenti una Chiesa separata, gli eustaziani si caratterizzano per il particolare
zelo con cui rinunciano alla ricchezza, alla carne, ai legami familiari e istituzionali.
Si distinguono dalla Chiesa istituzionale quanto ai riti, alle consuetudini, all'abito.
Si mantengono grazie ai doni degli aderenti e attribuiscono un ruolo rilevante alle donne.
Il comportamento settario e la contestazione delle istituzioni ecclesiastiche ne fanno un movimento
dissidente che ritiene d'essere l'unico a praticare una retta osservanza dei precetti delle Scritture. Fu anche un
movimento missionario e per certa misura itinerante.

Basilio di Cesarea

Basilio (329-378) fu vescovo di Cesarea di Cappadocia e teologo difensore della dottrina trinitaria.
Dopo un viaggio in Siria ed Egitto, si ritirò a vita ascetica presso una proprietà familiare, nei dintorni
di Neocesarea, dove già da qualche tempo si erano stabilite la sorella Macrina e la madre.
La casa venne trasformata in un monastero e altri si unirono a questa comunità.

Da tradizionale fondatore del monachesimo anatolico gli storici riducono oggi Basilio a suo efficace
riorganizzatore, influenzato da Eustazio di Sebaste. Il suo intervento avrebbe mitigato gli eccessi degli
eustaziani in un movimento più conforme all’istituzione ecclesiale.
Basilio ha fondato una città-ospizio per servire i più poveri e gestita da membri delle sue comunità
monastiche con i fondi della Chiesa di Cesarea.
Un evidente discrimine tra Eustazio e Basilio va poi ravvisato nella diversa posizione assunta nell'ambito
delle controversie trinitarie: il primo aderì al partito degli pneumatomachi, il secondo contribuì in modo
decisivo a formare la teologia trinitaria ortodossa.

Il corpus ascetico che di lui ci è stato trasmesso include un insieme di testi riuniti in tre raccolte: il Piccolo
Ascetico, il Grande Ascetico (noto anche con il nome di Regole) e le Regole Morali.
Strutturate in forma di domande e risposte, queste regole sono l'espressione di una comunità monastica
articolata in sezioni presumibilmente autonome, rispettivamente di uomini o di donne, ciascuna diretta da un
preposto o da una preposta a cui si deve obbedienza assoluta e a cui si manifestano periodicamente i propri
pensieri.
L'ingresso nella comunità era preceduto da un noviziato e sancito da voti di castità e di povertà.
Si recuperano i temi del distacco dai legami di sangue e della costituzione di una nuova famiglia spirituale:
l'aspetto comunitario è centrale.

I messaliani

Sorto in Mesopotamia, poi diffusosi in Siria e in Asia Minore, questo monachesimo ascetico si sviluppò nella
seconda metà del IV secolo ed entrò presto in conflitto con l'istituzione ecclesiastica.
La dottrina ruotava intorno alla necessità della preghiera continua, unico strumento capace di fermare il
demone ereditato da ogni uomo alla nascita a causa del peccato di Adamo e che il battesimo non ha potere di
eliminare.
L'attività orante permette di conseguire un'imperturbabilità dell’anima, requisito indispensabile alla ricezione
dello Spirito.
Rifiuto del lavoro (si vive dei doni), itineranza, tensione anti-istituzionale.
La condanna ufficiale fu sancita dal concilio di Efeso (431) che anatemizzò una serie di sentenze tratte
dall'opera rappresentativa dei messaliani.

La Palestina e il Sinai

Il monachesimo dei luoghi santi

La presenza dei luoghi santi in Palestina ha favorito lo sviluppo di un monachesimo in larga parte formato da
asceti giunti come viaggiatori attratti dalla rilevanza di Gerusalemme.

Il diario di Egeria, matrona latina che intraprese un viaggio in Terrasanta intorno al 381, attesta un legame
forte tra la pratica dei pellegrinaggi e la formazione di gruppi di devoti che partecipavano alle liturgie dei
santuari, gestivano fondazioni volte al soccorso dei pellegrini e dei poveri ed erano mantenuti dall'istituzione
ecclesiastica.
Passarione fu un fondatore e un rappresentante di questo tipo di monachesimo.

La rilevanza della devozione dei pellegrini nelle fondazioni monastiche dei luoghi santi emerge
particolarmente nelle due colonie ascetiche avviate lì da membri dell'aristocrazia latina: la prima sorta sul
monte degli Ulivi (Gerusalemme), la seconda fondata a Betlemme su iniziativa di Paola nel 386, una nobile
romana accompagnata dal maestro spirituale Girolamo.
Un'ulteriore fondazione sul monte degli Ulivi si ebbe nel V secolo con l'arrivo di Melania Iuniore.
Con il tempo i monasteri sorgono numerosi: Giustiniano ne fa restaurare ben otto, tra cui quello chiamato
"degli Iberi" a Betlemme, fondato intorno a metà del V secolo dal principe georgiano noto come Pietro
Iberico che poi sarà un vescovo monofisita.
Il deserto di Giuda

La tradizione attribuisce a Caritone (III-IV sec) l'avvio di un nuovo genere di monachesimo: la laura.
Il termine indica in greco una via stretta, una gola di monti, e si riferisce alle peculiarità topografiche
dei luoghi dove sono sorte le prime fondazioni, il cosiddetto deserto di Giuda, una regione di colli rocciosi
compresa tra Gerusalemme e il mar Morto.
L'insediamento lauritico, diretto da un igumeno (=guida), è costituito da un insieme sparso di celle isolate ma
non troppo distanti da un nucleo centrale dove si trovano gli edifici comuni (chiesa, infermeria, refettorio) e
dove ci si riunisce nel fine settimana per le celebrazioni liturgiche.

Cirillo di Scitopoli intorno alla metà del VI secolo nelle Vite di monaci narra le imprese di questo
monachesimo e dei suoi più insigni rappresentanti: Eutimio (377-473) difensore dell'ortodossia
calcedonese, e promotore dell'ideale di quietudine spirituale derivante da una vita di isolamento
e contemplazione e Saba (439-532), fondatore e federatore di monasteri (tra cui la Grande Laura, intorno al
483). La tradizione lo indica anche come autore di regole.

La tipologia lauritica si ripercuote anche sul genere di direzione spirituale praticata nella comunità, tra
carismatico e istituzionale.
I disordini sorti sull'onda delle controversie dottrinali (le questioni del monofisismo e dell'origenismo) uniti
alla volontà di controllo del monachesimo espressa dal concilio di Calcedonia hanno condotto all'istituzione
di due autorità coordinatrici del monachesimo della regione: un archimandrita dei cenobi e uno delle laure.

La regione di Gaza

Secondo la tradizione l'inizio del monachesimo nella regione di Gaza sarebbe da attribuire alla figura di
Ilarione, protagonista di una Vita scritta da Girolamo. Sulla storicità di questo personaggio sono stati espressi
dubbi, ma recenti scavi archeologici confermano l'esistenza di un monastero in quella zona risalente a prima
del 330.

Da segnalare nell'area è anche la comunità di Isaia (V secolo) monaco di tendenze monofisite autore di un
Ascetico. La via monastica vi è presentata come il recupero della vera natura dell'uomo. L'importanza del
concetto di rinuncia a misurarsi rispetto agli altri e della rinuncia a ogni confronto potenzialmente
conflittuale con gli altri monaci mostra la centralità della dimensione fraterna.

Centrale per il monachesimo di area palestinese fu il monastero di Seridos, dal nome del suo fondatore e
primo igumeno nel VI secolo. Questa comunità ospitava due reclusi di grande fama: Barsanufio e Giovanni.
Il primo, monaco copto, comunicava con l'esterno tramite il superiore Seridos che si era posto sotto la sua
direzione spirituale insieme a tutta la fraternità monastica insediata. Giovanni era il discepolo prediletto di
Barsanufio.
Dei due è rimasto un epistolario in greco di circa 850 lettere composto dalle domande dei monaci su
questioni di ascesi o di spiritualità e dalle risposte dei due anziani.
Si ha l'insistenza sul fondamento delle sacre Scritture.
Alla regola fissa si contrappone qui il modello per cui ognuno deve perseguire la perfezione spirituale
secondo un proprio specifico cammino, anche se sempre sotto la guida del maestro.
L’ascesi richiede particolare virtù di sopportazione e la stabilità interiore è quindi oggetto di una vigilanza
continua, impossibile senza uno speciale dono di discernimento che separa le buone ispirazioni dalle
suggestioni dei demoni.
L'insegnamento contenuto in questi testi costituisce la più ricca testimonianza della pratica di direzione
spirituale nell'antichità monastica.

Il Sinai

Poco sappiamo del monachesimo di quest'area prima dell'epoca di Giustiniano (482-565).


Vi si svilupparono alcuni grandi centri monastici, tra i monasteri del monte Sinai e del Roveto ardente (poi
Santa Caterina), e Raithou.
Quest'ultimo è legato alla figura di Giovanni Climaco (670 ca.) autore di un classico della Scala del Paradiso,
ampio trattato ascetico articolato in trenta gradini, per altrettante tappe nell'ascensione verso la perfezione
spirituale. I gradini riprendono certo l'immagine biblica della scala di Giacobbe e quella degli anni del Cristo.
Salire è fatica fisica come spirituale.
Spiccano la nozione di pentimento/penitenza e il tema delle lacrime che irrorano l'ascesa spirituale.
Il monachesimo assume qui carattere fortemente penitenziale.

La Siria

I Figli del Patto

In questa regione prima del V secolo sono assenti fenomeni ascetici sufficientemente elaborati da poter
essere inquadrati nella categoria di monachesimo.
Nel cristianesimo siriaco delle origini vi era una tendenza encratita, ma l'istituzione che presenta maggiori
analogie con il movimento monastico è la comunità dei cosiddetti Figli e delle Figlie del Patto,
raggruppamenti di continenti diffusi in Siria, Mesopotamia e Persia.
Il patto in questione fa riferimento alla vigilanza richiesta nell’attesa della seconda venuta del Cristo. Con il
termine solitario viene designato il fedele che accetta il patto: la parola somma in sé l'idea di distacco del
monachos greco, ma anche quella dell'unità riconducibile al concetto di monotropia.

L'istituzione del Patto sottolinea la tendenza del cristianesimo siriaco a dividere i credenti in due categorie,
ossia i fedeli comuni e i perfetti.
Tale dicotomia riappare nel Liber graduum, testo di difficile datazione (forse fine IV secolo) e probabilmente
redatta in ambiente mesopotamico. L'opera è suddivisa in trenta trattati che esaminano varie questioni legate
alla vita spirituale del cristiano.
La dottrina sviluppata dal testo si fonda sulla presentazione di due possibili osservanze per il battezzato:
quella del giusto, legato al peccato e alla procreazione, e quella del perfetto, restaurato dal Cristo. Si auspica
un ritorno alla purezza delle origini.

L'esplosione monastica

Il passaggio dall'ascetismo dei Figli del Patto al monachesimo vero e proprio appare segnato da alcuni
mutamenti significativi: il trasferimento dall'area urbana alle regioni desertiche e la tensione con l'istituzione
ecclesiastica. Si assiste inoltre a una teorizzazione dell'ascensione spirituale intesa come percorso a tappe:
sarà Giovanni il Solitario (V secolo) nel suo Dialogo sull'anima e le passioni degli uomini a far corrispondere
tali gradini alle tre componenti della persona umana: somatica, psichica, spirituale.

Una specificità del monachesimo siriaco è il suo carattere estremo.


Nella Storia Filotea (444 ca.) di Teodoreto di Cirro lo storiografo presenta la biografia e il ritratto dei grandi
protagonisti del monachesimo di Siria. Nel farlo insiste particolarmente sul carattere eccezionale delle loro
prodezze ascetiche, nonché sulla varietà dei regimi di vita adottati:vivere all'aria aperta, vivere dentro le
cavità degli alberi, vivere sopra una colonna, clausura. Alcuni si spingono sino a procurarsi delle ferite cui
impediscono di rimarginarsi.

Nella scelta di un'ascesi eccezionale il solitario si distingue per la sua pietà al punto da esser riconosciuto
detentore di doni soprannaturali: allora raccoglie discepoli e diviene una figura di riferimento per il popolo
(nei casi di giustizia sociale), per i vescovi (nell'affermazione dell'ortodossia) e per i devoti (come meta di
pellegrinaggi).
In certi casi il santo è anche fondatore di monasteri.
Se l'anacoretismo rimane la forma più diffusa alle origini, il cenobio e la laura si diffondono presto anche in
questa regione.

Regole e riflessione monastica

L'area siriaca ha prodotto testi canonici di grande importanza, utili a comprenderne l'assetto istituzionale.
Vi sono i cosiddetti Canoni di Efrem, una raccolta che sviluppa temi classici della riflessione monastica
(obbedienza, persistenza nella preghiera, retta pratica ascetica).
Probabilmente autentici sono poi i Canoni di Rabbuia che presentano un monachesimo conforme
all'impostazione desiderata dall'episcopato.
Il monastero di Qenndre fu un centro culturale di grande importanza, in particolare per le traduzioni dal
greco al siriaco.

L'Occidente latino

L'ascetismo premonastico

Nell'Occidente latino il monachesimo in senso stretto si manifesta come fenomeno importato dall'Oriente.
Già in precedenza però esisteva anche qui una vita ascetica imperniata sulla continenza, la povertà e il
servizio ai bisognosi, ma questa si svolgeva perlopiù all'interno del contesto sociale di appartenenza.
In molti casi le testimonianze che ci sono state trasmesse parlano di un ascetismo al femminile cui
sono connesse le origini del monachesimo latino in Terrasanta e rappresentato da personaggi legati
all’aristocrazia di Roma. Questa forma di ascetismo era riconosciuta e inquadrata all’interno dell'istituzione
ecclesiastica.
Qui come in Oriente si era anche diffusa, nonostante ripetute condanne, una particolare forma di convivenza
che vedeva una vergine associata a un uomo continente.

L'Oriente in Occidente

Il ruolo dell'Oriente nella formazione del monachesimo occidentale emerge in particolare nella diffusione di
traduzioni di testi e nel continuo riferimento a quella tradizione quale prototipo insuperabile di perfezione
ascetica.
Le opere che sono state tradotte sono: la Vita di Antonio, di cui si hanno due traduzioni latine nell'arco di un
ventennio, le regole basiliane, una libera traduzione della Storia dei monaci d'Egitto di Rufino di Aquileia, il
corpus delle regole di Pacomio tradotto da Girolamo nel 404.

Anche la traduzione delle opere di Origene si colloca all’interno di questo progetto di trasferimento della
spiritualità e sapienza dell'Oriente in Occidente.
Protagonisti di questa impresa sono Girolamo e Rufino. Grazie alla loro iniziativa molti scritti perduti
nell'originale, anche a causa delle condanne postume, si sono conservati in latino.
Le opere di Origene non erano sconosciute in Occidente e chi sapeva il greco se ne serviva direttamente nella
composizione dei propri scritti. Il vero e proprio lavoro di traduzione era iniziato infatti con Ilario di Poitiers
e soprattutto con Girolamo, che aveva tradotto gruppi di omelie.
Nel 393 però si avrà in Palestina l'antiorigenismo che dall'inizio del IV secolo circolava sotto forma di critica
ad alcune dottrine di Origene. Epifanio vescovo di Salamina si reca da Giovanni vescovo di Gerusalemme,
volendo imporre la condanna degli errori origeniani.
Girolamo, forse per paura che venisse messa in dubbio la sua ortodossia, accetta, Rufino no. I rapporti fra i
due, un tempo amici, si incrinano. Dopo una conciliazione, aiutata dal vescovo Teofilo di Alessandria,
Rufino torna in Occidente e a Roma inizia anche lui a tradurre Origene, l’opera Sui Principi. Questo fatto
segnerà la ripresa delle ostilità con Girolamo, il quale ritradurrà a sua volta la stessa opera per mostrare gli
errori di Origene e le manipolazioni di Rufino per nasconderli. Rufino nonostante tutto continuerà a tradurre
Origene fino alla morte e questa loro disputa non fece altro che diffondere ulteriormente le sue opere.

Il successo del paradigma egiziano ha inoltre influenzato opere come quella di Giovanni Cassiano (360 ca.-
430 ca.). Non si sa molto della vita di questo monaco di origine orientale, ma l'opera costituisce il risultato di
una reinterpretazione e adattamento al contesto gallico dell'insegnamento dei maestri egiziani personalmente
incontrati dall'autore.
Due suoi scritti rappresentano poi la trattazione più estesa delle questioni monastiche nell'ambito
dell'Occidente latino tardoantico.
Il De institutis si concentra sull'abito monastico, sulla liturgia e sulla lotta agli otto vizi.
Le Collationes contengono un'analisi psicologica e spirituale. Spicca poi la riflessione sul rapporto tra
la grazia divina e l'arbitrio umano. Le posizioni mediane di Cassiano lo etichettarono come semipelagiano
nell'ambito delle controversie che videro scontrarsi la teologia di Agostino e la dottrina ascetica del monaco
Pelagio, anche se il pensiero di quest'ultimo era stato respinto da Cassiano. Infatti laddove Pelagio
negava l'ereditarietà del peccato di Adamo e sosteneva la possibilità di una santificazione operata con le
proprie forze morali, Cassiano riconosceva invece la necessità della grazia nella santificazione del monaco.
Un monachesimo episcopale

Nonostante l'incidenza del modello orientale il monachesimo latino presenta sin dall'inizio una propria
fisionomia.
Un aspetto che è stato più volte rilevato dagli studiosi è quello del suo legame con l'istituzione ecclesiastica,
in particolare con l'episcopato.
Diverse comunità monastiche occidentali erano difatti riunite sotto l'autorità di un vescovo o erano destinate
a divenire fucina di vescovi.
Le tracce più antiche di questo fenomeno risalgono all'esperienza di Eusebio vescovo di Vercelli: castità,
ascesi, lavoro, preghiera caratterizzavano la vita del suo gruppo di monaci urbani che dimoravano
probabilmente nei pressi della domus ecclesiae.

In quegli stessi anni Martino decideva di ritirarsi a vita monastica dopo una lunga carriera militare: trascorse
un primo periodo di eremitaggio a Milano, prese poi dimora sull'isola di Gallinara avviando una lunga
tradizione di monachesimo insulare, raggiunse infine il maestro Ilario vescovo di Poitiers e fondò un
monastero nel 360. Martino divenne a sua volta vescovo di Tours nel 371 e, desideroso di tener vivo l'ideale
monastico pur tra gli impegni del nuovo ministero, fondò lì vicino il monastero di Marmoutier.
Dalle descrizioni di Sulpicio Severo, suo biografo, si profila una comunità di tipo semi-anacoretico destinata
a disgregarsi poco dopo la sua morte nel 397: né regola né lavoro manuale, si tratta qui di un
raggruppamento di aristocratici convertiti all’ascesi.

Comunità semi-anacoretica fondata da Paolino, più tardi vescovo di Nola, in Campania. Discendente da
famiglia di rango senatoriale e avviato a una carriera politica, Paolino sposa una ricca cristiana e dopo aver
perso il figlio a otto giorni dalla nascita decide nel 394 di ritirarsi a vita monastica con la moglie, nei pressi
della tomba del martire Felice a Nola. Qui fonda due cenobi, uno maschile e uno femminile.

La tipologia della comunità monastica riunita intorno a un membro del clero, in molti casi destinato
all'episcopato, si diffonde anche all'Africa Latina come testimoniato dalla comunità di Ippona, diretta da
Agostino.
Di ritorno da Milano, egli aveva riunito un gruppo di asceti a Tagaste per poi fondare un monastero a Ippona.
Nominato vescovo nel 395 radunò nell'episcopio quelli che desideravano praticare il suo genere di vita.
Di lui conserviamo una regola, probabilmente la più antica regola monastica d'Occidente, scritta intorno al
400: è costituita da un breve testo dove si insiste sulla necessità della severità nella direzione dei monaci e
viene posto il problema della convivenza di fratelli di diversa provenienza sociale.

Sul versante delle fondazioni monastiche destinate a intrattenere un legame forte e stabile con l'istituzione
episcopale si deve ricordare Lerino. All'inizio del V secolo, su questa piccola isola della costa provenzale
prende dimora Onorato, indicato dalla tradizione come il fondatore del monastero. In pochi anni di vita
semi-anacoretica si forma un gruppo numeroso di discepoli tale da rendere necessaria la costruzione di un
convento con annessa una chiesa. Onorato è prima ordinato presbitero e poi consacrato vescovo nel 428.
La comunità di tipo cenobitico, ma che include anche delle celle isolate, è incentrata sul lavoro ed è
dipendente dall'autorità dell'abate. Lerino cresce rapidamente, moltiplicando le filiali e il numero dei monaci.
A questo luogo sono legate numerose figure di primo piano del cristianesimo latino, capaci di coniugare la
vita monastica, la redazione di opere ascetiche e teologiche e l'esercizio dell'episcopato.

La diffusione del monachesimo in Occidente

Una volta impiantato in Italia e in Gallia il monachesimo si diffonde rapidamente in tutta l'area nordeuropea.
Nel V secolo il monachesimo si diffonde in Bretagna, Scozia e Irlanda, aree in cui si percepisce l'influenza di
Martino e del cenobio leriniano e più avanti quella romana con l'invio, da parte di Gregorio Magno, di
quaranta monaci missionari.

Si avrà anche un'influenza di ritorno del monachesimo irlandese sull'Europa continentale, in particolare con
la figura di Colombano (540-615). Un'ascesi particolarmente severa e l'itineranza vissuta in maniera radicale
sono le caratteristiche di un monachesimo destinato a diffondersi con successo nelle regioni corrispondenti
alle odierne Francia, Germania, Svizzera, Austria e Italia settentrionale.
A Colombano sono attribuiti due testi normativi volti a organizzare e normare i monasteri impiantati
nel corso delle sue peregrinazioni.

Il monachesimo fatica a impiantarsi in Spagna, nonostante il tradizionale rigorismo della regione. La causa di
questo stato di cose va ricercata negli effetti della questione di Priscilliano, la quale in un primo tempo ispira
alla gerarchia ecclesiastica locale un certo sospetto nei confronti del monachesimo.
Questo conoscerà invece uno sviluppo importante a partire dal VI secolo, come testimoniato dalla diffusione
di diverse regole.

In Italia un nuovo impulso alla vita monastica latina è dato all'inizio del VI secolo dalla figura di Benedetto
da Norcia (480 ca.-550 ca.). Di nobile famiglia umbra, decise di volgersi all'austerità monastica prima come
eremita a Subiaco, poi a Montecassino. Qui fondò il cenobio per il quale compose dopo il 530 la nota
Regula. In essa emergono: l'insistenza contro le forme monastiche itineranti sull'esigenza della stabilità e
un'organizzazione delle attività del monastero incentrata sui tre pilastri del lavoro, della preghiera (in
particolare liturgica) e della lettura e meditazione delle Scritture. Il motto «ora et labora» (=prega e lavora) si
diffonderà solo più avanti.
La regola di Benedetto recupera e riutilizza molteplici fonti precedenti, come la regola di Cesario di Arles,
gli scritti di Pacomio, di Basilio, di Cassiano, di Agostino.
Forse perché influenzato della giurisprudenza romana o per reazione a una prima fase anarchica del suo
sviluppo il monachesimo di area latina è strettamente legato all'idea della regola.

Monastero del Vivarium in Calabria: fondato intorno al 550 da Cassiodoro, già alto funzionario
dell'aristocrazia latina. Nonostante la breve durata della sua esistenza ha svolto un'attività di grande
importanza nella riproduzione e diffusione di testi dell'antichità classica e patristica.
Capitolo 10 – I concili di Efeso e Calcedonia: la crisi religiosa in Oriente e la formazione di chiese nazionali

Caratteristiche del periodo e premesse della crisi

Le crisi religiose tra V e VI secolo furono generate non solo dalla varietà delle tradizioni teologiche e
liturgiche, ma anche dal fatto che ciascuna delle regioni cristiane facenti capo alle grandi metropoli (Roma,
Alessandria, Antiochia, Costantinopoli, Gerusalemme, Efeso, Cartagine, Seleucia-Ctesifonte) aspirava a
definire per sé una sempre più vasta sfera di competenza religiosa e influenza politica.
Le prime cinque metropoli che formeranno poi i patriarcati vissero le loro complesse relazioni nel quadro di
un Impero romano ormai pienamente cristianizzato, i cui dirigenti manifestavano un'accentuata tendenza
all’interventismo in materia di religione finalizzato all'unità politico-religiosa e all'ordine pubblico.
L'Impero persiano invece aveva reimpostato la propria politica religiosa riducendo da una parte gli atti di
persecuzione anticristiana generalizzata e mantenendo dall'altra un controllo sui massimi rappresentanti delle
gerarchie episcopali, il cui rifiuto delle decisioni imposte poteva portare alla condanna a morte per
tradimento o apostasia. Tale processo non poteva che favorire nella Chiesa persiana una progressiva
autonomia da quella occidentale e una definizione identitaria.

La controversia cristologica che si manifestò a partire dal 428 aveva premesse nella seconda metà del III
secolo. Infatti già il concilio di Antiochia del 268 portò alla condanna di Paolo di Samosata e alla sua
deposizione da vescovo di Antiochia per opera di un gruppo di vescovi vicini alle posizioni teologiche della
scuola e dell'episcopato di Alessandria.
I disaccordi in tema di cristologia però in un primo momento risultarono spesso trasversali rispetto alla lotta
in campo trinitario durante la questione ariana.

Nel concilio antiocheno del 268 si fronteggiarono due modelli:

1) il modello di origine alessandrina definito logos/sarx (=carne) secondo il quale l'ipostasi divina del Logos
si unisce direttamente alla carne umana divenendo con essa una cosa sola, lasciando poco o nessuno spazio
all'anima e all'intelletto umano di Gesù Cristo.
Il soggetto Cristo è dato unicamente dal Logos, dalla divinità.
Il soggetto è uno con una natura mista, umana + divina (monofisismo).

2) il modello di matrice antiochena chiamato logos/anthropos (=uomo) che insiste sulla completezza
dell'uomo Gesù e sulla divinità del Logos che a lui si unisce nell'incarnazione senza sostituirsi a nessuna
delle facoltà umane.
Il soggetto Cristo è dato dall'unione dell'uomo completo di corpo, anima, intelletto con la divinità (il Logos).
I soggetti sono due, uno umano e l'altro divino (difisismo).

Il primo schema è stato enunciato dai vescovi e presbiteri origenisti che denunciano l'eresia di Paolo di
Samosata, Il secondo schema è invece tipico di quest'ultimo e di coloro che si sono ispirati alla sua
impostazione, correggendola negli elementi dogmaticamente più pericolosi (Eustazio di Antiochia,
Diodoro di Tarso e Teodoro di Mopsuestia).

La crisi ebbe una premessa più recente nella cristologia di Apollinare di Laodicea (seconda metà del IV
secolo) e nelle reazioni che questa suscitò in ambito antiocheno.
Il teologo di impostazione antiariana tentò di dare una soluzione alla dicotomia che pervadeva la riflessione
cristologica di molti antiariani, la quale attribuiva le azioni e i sentimenti straordinari in Cristo alla sua
divinità, le limitazioni invece alla carne.
Per Apollinare solo una strettissima connessione tra Logos e carne poteva garantire la salvezza dell'uomo,
anche a scapito della funzione dell'anima e dell'intelletto umano di Cristo (1).

Cirillo di Alessandria, conscio della condanna che la cristologia di Apollinare aveva subito al concilio di
Costantinopoli del 381, aveva dato maggiore spazio alla componente umana (2).
A questa impostazione avevano reagito due rappresentanti di una tradizione cristologica di Antiochia:
Diodoro di Tarso e Teodoro di Mopsuestia.
Il concilio di Efeso (431) e l'unione del 433

La tensione tra Alessandria e Antiochia/Costantinopoli sfociò in una vera e propria crisi quando attorno al
428 il monaco antiocheno Nestorio fu ordinato vescovo di Costantinopoli.
Nestorio e i suoi commisero l’imprudenza di manifestare pubblicamente alcune perplessità circa
l'opportunità di chiamare Maria "Madre di Dio" (Theotokos) titolo nel quale scorgeva una confusione tra la
divinità, a cui nessuna donna può dare la nascita, e l'umanità: per questo motivo preferiva l'appellativo di
"madre di Cristo" (Christotokos).

Cirillo, ottenuto l' appoggio del papato romano, accusò Nestorio di credere a due Cristi differenti,
da una parte il Figlio di Dio e dall'altra l'uomo nato da Maria.
Il papa Celestino, informato da Cirillo circa la questione, fece condannare Nestorio per il suo divisismo
cristologico. Cirillo inviò quindi una missiva a Nestorio contenente sia il documento di condanna del
concilio romano sia una sua personale lettera contenente dodici anatematismi.

Nel frattempo Cirillo, facendo pressione sull'imperatore, riuscì a far organizzare un concilio di notevoli
dimensioni a Efeso nel 431 nel quale, in maniera del tutto irregolare (non si attese l'arrivo della delegazione
episcopale antiochena, favorevole al vescovo costantinopolitano), ottenne la condanna di Nestorio che venne
esiliato fino alla sua morte.

Cirillo, eliminato l'avversario, negli anni giunse con i nestoriani alla formula di compromesso tra cristologia
alessandrina e quella antiochena del 433.

Secondo concilio di Efeso (449) e concilio di Calcedonia (451)

Tale compromesso era tuttavia destinato a finire dopo la sua morte (444).
Da tempo anche il mondo monastico si era inserito in tali questioni, essendo portato a estremizzare le
posizioni del dibattito religioso.
Negli anni di Cirillo e del suo successore Dioscoro si era affermato con sempre maggior forza il movimento
diretto da Shenute, archimandrita del Monastero Bianco. Fautore dei diritti dell'episcopato di Alessandria
e della Chiesa egiziana, promotore della lotta contro l'eresia e il paganesimo, Shenute offrì ai patriarchi
alessandrini Teofilo, Cirillo, Dioscoro il sostegno di un monachesimo popolare, attento ai ceti sociali più
deboli, estremamente rigoroso e ben organizzato, capace di produrre cultura anche in lingua copta. Esso
influenzò gli orientamenti dei dirigenti ecclesiastici in periferia e nella capitale.

In altre regioni Cirillo aveva conquistato dopo il concilio di Efeso nuovi alleati: il vescovo di Edessa Rabbuia
aveva aderito a tal punto alle sue posizioni da entrare in contrasto con la locale scuola di Edessa, dove
l'esegesi e l'insegnamento teologico seguivano le linee più tipiche della tradizione antiochena e dove si
praticava la traduzione in siriaco degli scritti di Teodoro di Mopsuestia.
Il capo della scuola, Ibas, sarebbe tuttavia diventato a sua volta vescovo di Edessa nel 435 riportando la
tradizione antiochena non solo nella scuola, ma anche a livello episcopale, andando per questo incontro a una
deposizione. Da questo momento Edessa diventò uno dei luoghi in cui le divisioni si manifestarono
maggiormente.

L'occasione per un nuovo conflitto tra le due impostazioni cristologiche fu offerta dall'accusa lanciata da
alcuni vescovi orientali contro il monaco costantinopolitano Eutiche di credere in una sola natura di Cristo.
Il monaco, condannato dal vescovo di Costantinopoli Flaviano nel 448, fu invece difeso da vescovi di
altra tendenza tra i quali vi era Dioscoro, successore di Cirillo.
Questi ottenne la convocazione di un concilio a Efeso nel 449. In vista di questa riunione papa Leone aveva
indirizzato una dichiarazione cristologica al vescovo di Costantinopoli nota come Tomus ad Flavianum il
quale predicava l’esistenza di due nature unite in un solo soggetto (persona).
Nel corso del concilio Dioscoro, forte dell'appoggio imperiale e di Giovenale vescovo di Gerusalemme, non
solo fece in modo che Eutiche ottenesse il riconoscimento della sua ortodossia e che il Tomus ad Flavianum
non venisse preso in considerazione, ma procedette alla deposizione di tutti i capi orientali di tendenza
antiochena (Ibas di Edessa e Teodoreto di Cirro) e persino di Flaviano di Costantinopoli.
Questi fu talmente maltrattato dai soldati imperiali giunti per arrestarlo che morì poco tempo dopo.
Dioscoro riuscì a far mettere sul seggio costantinopolitano un suo uomo, Anatolio.
Tale stato di cose fu di breve durata. La situazione si capovolse infatti con la scomparsa improvvisa di
Teodosio II nel 450, morto per un incidente a cavallo senza lasciare eredi.
La sorella Pulcheria, unica a poter gestire l'Impero, preferì annettersi come sposo e dunque come
imperatore un anziano senatore proveniente dai ranghi militari, Marciano. Ambedue cambiarono
radicalmente la politica religiosa.

Con il concilio di Calcedonia del 451, da lui voluto e organizzato in maniera tale da radunare centinaia di
vescovi, condannò Eutiche per motivi teologici, sconfessò gli atti del concilio di Efeso del 449, depose ed
esiliò Dioscoro per motivi disciplinari (anche grazie al voltafaccia di Giovenale), reinstallò i vescovi deposti
nel 449 (Ibas di Edessa, Teodoreto di Cirro) e sanzionò la supremazia del seggio di Costantinopoli su quello
di Antiochia e Alessandria.
Questo provocò in tempi diversi la nascita di chiese separate da quella imperiale.

Professiamo tutti concordemente un solo e stesso Figlio, il signore nostro Gesù Cristo, di anima razionale e
corpo, consustanziale al Padre secondo la divinità e lo stesso consustanziale a noi secondo l'umanità.
Generato dal Padre prima dei tempi secondo la divinità, per la nostra salvezza è nato da Maria Vergine,
la Madre di Dio, secondo l'umanità.
Si fa conoscere in due nature senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione. Poiché
non è stata eliminata la differenza delle nature a causa dell'unione, ma invece sono state preservate le
proprietà dell'una e dell'altra natura e sono confluite in una sola ipostasi.

La crisi dopo Calcedonia: Palestina, Siria ed Egitto fino all'Enotico dell'imperatore Zenone (482)

L'impatto delle decisioni dogmatiche del concilio suscitò reazioni particolarmente violente in Palestina e in
Egitto da parte del popolo e dei monaci, che indussero nella politica imperiale di difesa dell’ordine pubblico
un atteggiamento oscillante nei decenni a seguire, fino all'imperatore Giustino (518-527).

Giovenale non poté tornare immediatamente nella sua sede di Gerusalemme perché alcuni vescovi e monaci,
a causa del suo voltafaccia nei confronti di Dioscoro, gli avevano messo contro il mondo dei monaci ed
avevano eletto vescovo uno di loro, Teodosio. Solo nel 453 egli riuscì a rientrare, ma con l'appoggio delle
truppe imperiali.
La situazione in Palestina rimase incerta per diversi decenni. Le due correnti si contesero a lungo il territorio,
che alla fine fu conquistato in maggioranza alla causa calcedonese.

Persino nella patria della cristologia delle due nature, Antiochia, ebbero luogo sconvolgimenti tali da
trasformare la città in uno degli epicentri dell'impostazione cristologica avversa e dell'anticalcedonismo.
Qui agì Pietro il Fullone: a partire dal 469-470, nonostante fosse vescovo solo a intermittenza, sostenne
la causa degli anticalcedonesi in varie regioni e fu fautore di una nuova formulazione («egli che è stato
crocifisso per noi») che poteva essere ben accetta in ambienti monofisiti, ma non in ambienti difisiti o
calcedonesi che vi potevano intravedere il rischio di attribuire a tutta la Trinità la passione umana di Cristo
sulla croce.

In un’altra zona di cultura siriaca, Edessa e la sua regione, la restaurazione di Ibas di Edessa non aveva
significato la sconfitta definitiva delle correnti anticalcedonesi, che riemersero con i vescovi dei decenni
successivi.
Questi accentuarono sempre di più il conflitto con la locale scuola teologica ed esegetica che nel 489 dovette
chiudere per ordine dell'imperatore Zenone. Ma già prima di questo evento molti dei maestri e degli allievi
erano emigrati nell'Impero persiano, dove furono accolti dal vescovo di Nisibi e dettero vita a una grande
Accademia cristiana nella città basata sullo studio dell'esegesi e della teologia antiochena.

In Egitto lo scontro ebbe risvolti drammatici.


Al ritorno da Calcedonia, quattro vescovi egiziani che avevano abbandonato Dioscoro consacrarono vescovo
Proterio, un presbitero di Dioscoro passato poi dalla parte dei suoi avversari. La notizia della deposizione di
Dioscoro e della sua sostituzione con Proterio provocò gravi disordini.
Come al tempo dei vescovi ariani, si assistette al fenomeno di un vescovo imposto con le armi, a discapito
della volontà della maggioranza dei fedeli.
La morte di Marciano nel 457 spinse il clero e i cristiani fedeli a Dioscoro, morto nel frattempo (454), a
ordinarsi un proprio vescovo nella figura di Timoteo Eluro, presbitero di Cirillo e collaboratore di Dioscoro.
L'intervento delle truppe per arrestare Timoteo provocò un'altra sollevazione popolare, che terminò
tragicamente con l'assassinio di Proterio.
Timoteo Eluro approfittò della situazione di disordine per eleggere vescovi a lui fedeli e far condannare da
un sinodo sia papa Leone, sia i vescovi calcedonesi di Antiochia e Costantinopoli.

Il nuovo imperatore Leone organizzò nel 457 una consultazione presso tutto l'episcopato dell'Impero in cui
chiedeva un giudizio sul concilio di Calcedonia e un pronunciamento sulla legittimità dell'elezione di
Timoteo Eluro a vescovo di Alessandria.
Dalle risposte in parte conservate deduciamo che la maggioranza dei vescovi dichiarò la validità del concilio
e l'illegittimità dell'ordinazione di Timoteo: egli veniva quindi esiliato a Gangra, dove era stato relegato a suo
tempo anche Dioscoro, e poi in altre località più distanti.
Ad Alessandria fu eletto vescovo Timoteo Solofaciolo, un monaco di fede calcedonese, il quale praticò una
politica moderata nei confronti di amici e avversari.
Timoteo Eluro poté ritornare ad Alessandria solo nel 475, richiamato dall'usurpatore imperiale Basilisco. Fu
accolto trionfalmente dalla popolazione, cui aveva portato in dono le spoglie di Dioscoro e Solofaciolo
si ritirò senza creare disordini.
Il nuovo imperatore aveva emanato un'enciclica in cui si condannavano il concilio di Calcedonia e il Tomus
ad Flavianus. Questo documento, pur approvato da numerosi vescovi anticalcedonesi, suscitò reazioni di
opposizione in altri settori, soprattutto da parte del patriarca di Costantinopoli con l'appoggio del papato
romano. L’usurpatore dovette quindi ritirarlo.

Nel 477 Zenone riconquistò il potere. Poco dopo moriva Timoteo Eluro, proprio quando stava per essere
nuovamente mandato in esilio. Il suo clero procedette in segreto all’elezione di Pietro Mongo, anch'egli
collaboratore di Dioscoro e Timoteo, ma Zenone impose come vescovo di nuovo Timoteo Solofaciolo.
Nel 482 Zenone emanava, su suggerimento di Acacio, quell'editto imperiale che ha il nome di Enotico
(=documento di unione) indirizzato alla Chiesa egiziana, avvertita come la più problematica in Oriente. Esso
codannava gli estremi teologici di Nestorio e Eutiche, confermava il valore dei concili di Nicea,
Costantinopoli, Efeso, nonché degli anatematismi di Cirillo di Alessandria.

Reazioni all'Enotico e momentanea supremazia anticalcedonese in Oriente

Come qualsiasi documento di compromesso l'Enotico scontentò sia i calcedonesi più convinti (i monaci di
Costantinopoli, i monaci della laura di Saba in Palestina, il papato romano che sconfessò il documento nel
484), sia gli anticalcedonesi più radicali.

Ad Alessandria Pietro Mongo cercò di muoversi in consonanza con le intenzioni politiche del documento e
ciò gli permise di venire incontro ai fedeli di orientamento calcedonese. Con quest'abile mossa
politica fece in modo da farsi riconoscere vescovo legittimo di Alessandria anche da Acacio di
Costantinopoli, che in lui vedeva oltre che un anticalcedonese anche un mediatore più esperto e più capace di
creare un'unità religiosa popolare rispetto alle figure calcedonesi allora attive in Egitto.
Tuttavia una parte del mondo monastico ed episcopale egiziano non fu convinto e diede luogo a una
opposizione.
Anche l'anatematismo pubblico contro il concilio di Calcedonia e il Tomus ad Flavianum a cui Pietro Mongo
fu costretto e che fu ripetuto in seguito dai suoi successori, seppure gli garantì l'appoggio della maggioranza
degli Alessandrini non impedì la formazione di uno scisma di estremisti monofisiti che non riconobbero più
alcun vescovo alessandrino (acefali).

L'Enotico era destinato anche ad interrompere i rapporti tra papato romano e sede di Costantinopoli, accusata
di un atteggiamento compromissorio verso gli anticalcedonesi come Pietro Mongo: si apriva così lo scisma
acaciano che proseguì ben oltre la morte del vescovo, fino al 518, e che fu complicato dall'elezione nella
capitale di un vescovo apertamente anticalcedonese come Timoteo.

In Antiochia e nella Siria l'Enotico fu accolto grazie all'azione di Pietro il Fullone che per questo fu
reinstallato sul seggio di Antiochia.
Dopo la sua morte (490) i successori si mostrarono più vicini al concilio di Calcedonia che alla cristologia
dell'unica natura, ma non per questo meno fedeli all'Enotico. Contro costoro tuttavia l'attività degli
anticalcedonesi divenne sempre più aggressiva.

Dopo questa prima lunga fase di alternarsi dei diversi fronti teologici si verifica a partire dalla fine del V
secolo un'affermazione sempre più diffusa dell'orientamento anticalcedonese dovuta sia alla pressione
popolare che agli imperatori che in alcuni rappresentanti del movimento individuavano persone capaci di
garantire una situazione di pace sociale e religiosa.
Dopo la morte di Zenone (491) ad Alessandria l'imperatore Anastasio permise l'elezione di vescovi
apertamente anticalcedonesi.

Severo fu eletto vescovo di Antiochia nel 512. Formatosi ad Alessandria e a Beirut, era convinto della
validità della teologia di Cirillo e dell'errore della definizione calcedonese. La corrispondenza e le omelie
registrano un'attività sia sul fronte sociale e pastorale, sia su quello dogmatico.
Le Epistole a Succenso di Cirillo furono la base da cui egli partì per una chiarificazione concettuale e
terminologica che portò all'elaborazione di una teologia destinata a diventare un punto di riferimento
fondamentale in Oriente, capace di mantenere una via media fra la teologia delle due nature e l'affermazione
dell'unica natura, chiamata anche ipostasi: incarnazione del Logos come “divenire senza cambiamento”.
Dio diviene uomo senza cambiamento perché egli esiste da tutta l’eternità in maniera piena, inoltre egli
diviene per noi (per la nostra salvezza) e non per una necessità inerente alla sua natura.

Riflessi orientali della crisi e l'evoluzione della Chiesa in Persia

Anche le zone ai confini o al di là dei confini orientali e meridionali dell'Impero romano subirono in maniera
diversificata l'impatto della crisi calcedonese nelle sue due fasi, prima e dopo la pubblicazione dell'Enotico.

Nell’Impero persiano si stava affermando la cristologia basata sull’affermazione rigorosa delle due nature,
secondo la prospettiva di Teodoro di Mopsuestia.

Nel Caucaso, nella Siria romana e soprattutto in Egitto invece l’anticalcedonismo, impostato sulla cristologia
dell’unica natura (anche se diversificato al suo interno) era come il movimento più dinamico, sebbene spesso
sia stato represso dal potere centrale.

In Armenia la situazione politica e militare era drammatica dopo una nuova sconfitta da parte dei persiani nel
482. Non si registra una posizione ufficiale della chiesa armena fino al 506 con il concilio di Dvin in cui
chiesa di Armenia, Georgia e Albania si pronunciano a favore dell’Enotico.
Nella questione armena interverrà Filosseno di Mabbug, già attivo ad Antiochia e in tutta la zona circostante.
Egli si caratterizza per la contaminazione che ha praticato tra il pensiero di Cirillo e quello della tradizione
letteraria e teologica siriaca.
Cristo è il Logos ed ha un’unica natura, però esiste in due forme:
- come Dio per natura
- come uomo per miracolo
Anche i credenti battezzati esistono in due modalità:
- come uomini per natura
- come figli di Dio per miracolo

Nel V secolo si gettano le basi di una chiesa indipendente persiana, anche dal punto di vista teologico oltre
che ecclesiale.
La sua cristologia fu definita con i termini tecnici ereditati da Teodoro di Mopsuestia e in seguito anche
da Nestorio: divinità e umanità di Cristo sono chiamate inizialmente “nature” e poi dal VII secolo vengono
chiamate “ipostasi”. Per gli occidentali il termine poteva apparire come l’affermazione di due Cristi, ma in
realtà indica l’individualità delle due nature unite nel Cristo, la cui “persona” viene designata con il termine
“prosopon” (si ha quindi 1 prosopon con 2 ipostasi).
A rafforzare, ma spesso anche a mettere in discussione questa concezione fu la scuola di Nisibi, vera
università cristiana che preparava i ceti dirigenti della Chiesa siro-orientale. Inoltre era un’istituzione di
ricerca esegetica e teologica. Per loro il vero riferimento sarà Teodoro di Mopsuestia.
La politica dell'imperatore Giustino (518-527): declino del fronte anticalcedonese e lacerazioni al suo interno

Nel 518 la proclamazione a imperatore di Giustino significò la fine del periodo favorevole agli
anticalcedonesi.
La comunione tra Roma e Costantinopoli fu poi ristabilita, ponendo termine allo scisma acaciano. Qualche
diversità tra le due capitali sussisteva ancora, come dimostrò la vicenda dei monaci sciti.
Essi, del tutto ortodossi, proclamarono in ambedue le capitali che la dichiarazione di Calcedonia doveva
essere integrata con la frase «uno della trinità è stato crocifisso» per non apparire difisita e nestoriana. Al
papa Ormisda apparve monofisita (simile alla dichiarazione di Pietro il Fullone) e non la accettò. A
Costantinopoli invece essa aveva trovato maggiore accoglienza.
Le politiche imperiali riuscirono tuttavia a superare queste diversità.

Ripresero le persecuzioni nei confronti del clero anticalcedonese, che divennero sistematiche in tutto
l'Oriente con l'eccezione di Alessandria: qui l'imperatore non ritenne opportuno per motivi di ordine pubblico
insediare un patriarca pro-calcedonese.
Alessandria e i monasteri dei suoi dintorni divennero allora luogo di rifugio di eminenti personalità di
orientamento anticalcedonese, cacciate dalle loro sedi episcopali per non aver aderito alla definizione di
Calcedonia e al Tomus ad Flavianum, come Severo di Antiochia e Giuliano di Alicarnasso, che non solo si
costituirono quale punto di riferimento dell'elaborazione teologica in Egitto, ma anche come fautori di nuovi
dibattiti.

Infatti la dottrina di Giuliano, combattuta da Severo, riuscì a raccogliere l'adesione della parte più estremista
e rigorista del mondo monastico.
Giuliano riteneva l'atto stesso dell'incarnazione del Logos talmente significativo da rendere il corpo di Cristo
differente rispetto a quello degli altri uomini che invece vivono nel peccato e nella corruzione. Il corpo di
Cristo era caratterizzato dall’incorruttibilità fin dal concepimento, già prima della resurrezione, per cui chi
concepisce una diversità nel corpo di Cristo prima e dopo la resurrezione (prima passibile e corruttibile, poi
impassibile e incorruttibile) immette una dualità.

Severo riteneva che la concezione di Giuliano togliesse valore alla realtà terrestre di Cristo, alla
consustanzialità tra la condizione umana di Cristo e quella degli altri uomini a tal punto da metterne a rischio
le potenzialità salvifiche e da rendere inutili la nascita nella carne, la sofferenza e la croce.
La controversia tra le due correnti si protrasse nei secoli a venire.
Capitolo 11 - Il cristianesimo in Occidente dalla fine dell'Impero ai regni romano-barbarici

L'Occidente va in frantumi: politica, cultura, religione

Quando nel 476 ci fu la deposizione di Romolo Augustolo i contemporanei, sia pagani che cristiani non si
resero conto dell'evento che ha però sconvolto l'immaginario collettivo di tutte le generazioni successive.
La storiografia tradizionale (dominata dal dato politico) ha dato a quell'anno un valore epocale e ne ha fatto il
punto di partenza della storia europea con la separazione dell'Oriente dall'Occidente, frammentato nei vari
regni romano-barbarici.
La più moderna storiografia invece, maggiormente attenta ai dati culturali, a partire dalla storia religiosa ha
seguito la continuità di rapporti tra Occidente e Oriente che si sono prolungati ben oltre il 476, fino ad oltre il
VII secolo.
Infatti non si parla più di "caduta dell'Impero romano", ma di "trasformazione del mondo romano".

Sul piano politico-militare il distanziamento fra Oriente e Occidente inizia con la battaglia di Adrianopoli e
la morte dell'imperatore Valente sul campo (378).
Alla morte di Teodosio (395) l'Impero fu amministrativamente diviso tra i due figli: ad Arcadio, il maggiore,
l'Oriente, e a Onorio l'Occidente.
Anche la politica nei confronti dei barbari si diversificò, ciascuna mirando in vario modo ad allontanarne
la minaccia.

Queste popolazioni, partite dall'Estremo Oriente, avevano finito per riversarsi prima sui confini orientali
dell'Impero e poi sui confini dell'Impero occidentale.
Nel 406 fu rotto il confine sul Reno lasciato sguarnito da Stilicone, generale di origine vandala di Onorio,
che era concentrato sulla difesa dell'Italia dall'ostrogoto Radagaiso: questo provocò l'invasione della Gallia e
le popolazioni barbariche passarono alla conquista delle varie regioni occidentali.
Nel 410 Roma fu saccheggiata per tre giorni dai Visigoti di Alarico.
I Vandali, guidati da Genserico, con Alani e Goti nel 429 passarono dalla Spagna all’Africa.
Nel 452 fu minacciata Roma e papa Leone I andò incontro ad Attila, re degli Unni, che aveva già conquistato
Aquileia e saccheggiato Milano e Pavia e lo convinse a non attaccare Roma, evitandone il saccheggio.
Nel 455 il nuovo intervento di Leone I scongiurò la distruzione di Roma e il massacro dei suoi abitanti, ma
non il saccheggio della città da parte del vandalo Genserico.

Il cristianesimo in Occidente era un elemento di destrutturazione dell'Impero, ma anche elemento di


riaggregazione culturale e religiosa. In Oriente era elemento di lenta e progressiva separazione
dall'Occidente, anche in ragione della radicata diversità di orientamento dottrinale a partire dalla crisi ariana
del IV secolo. Inoltre in Oriente il cristianesimo era anche l'elemento sul quale si costruiva il sogno di una
riunificazione dell'Impero.
Il concilio di Calcedonia (451) aveva acuito le distanze culturali rispetto a Egitto e Siria. Sul fronte politico
poi il canone 28 di Calcedonia acutizzava i termini del conflitto tra Roma e Costantinopoli: la definizione di
"nuova Roma" per Costantinopoli conduceva a un ulteriore allontanamento perché configurava nella nuova
città imperiale una entità autonoma con competenza sui vescovi dell'Oriente.
Calcedonia segnò quindi una nuova frattura, non più ricomposta nonostante gli interventi imperiali volti a
ricondurre a unità religiosa l'Impero.

Nel VI secolo due eventi segnarono in modo particolare la penisola italica. Dapprima la guerra greco-gotica
(535-555) voluta da Giustiniano nel tentativo di riconquista dell'Occidente che devastò l’Italia.
Dal 568 l'invasione longobarda la frammentò ulteriormente. Occuparono Veneto e Lombardia e al sud
arrivarono fino a Benevento. I Bizantini tennero le isole, le terre calabre e pugliesi, il territorio intorno a
Ravenna (l'esarcato), il ducato romano.

In Occidente si accelerò la frammentazione in chiese nazionali soprattutto i territori che erano rimasti fuori
dalle mire bizantine.
L' avvicinamento con i popoli germanici fece sì che attraverso il cristianesimo le vicende politiche,
economiche, istituzionali si intrecciassero con quelle culturali e religiose ancor più che in Oriente.
Sul piano istituzionale al venir meno delle strutture imperiali le strutture ecclesiastiche svolsero un ruolo di
supplenza. Vescovi e monaci ebbero un ruolo di mediazione decisivo.
L’Oriente viveva il cristianesimo come scontro di idee, mentre l’Occidente lo viveva come sostituto
istituzionale.

L'intensificarsi dei rapporti militari, politici, culturali, religiosi tra barbari e Impero romano d'Occidente (poi
ex) favorì l’acquisizione di nuove identità culturali e religiose.
Nella fase di passaggio proseguiva il lento processo di cristianizzazione dei barbari e parallelamente anche
il cristianesimo si trasformava sotto il profilo dottrinario, delle pratiche religiose e politico-sociale. Esso
iniziò a funzionare secondo realtà articolate sul piano regionale che distinguevano le varie zone nelle
modalità di reclutamento e disciplina del clero, nel rapporto tra laici ed ecclesiastici.

Cristiani, barbari, pagani. Problemi storiografici

Invasioni o migrazioni?

Cristiani, barbari, pagani: nell'intreccio politico culturale e religioso occidentale non si può distinguerli né
identificarli. Tuttavia presentavano elementi di distinzione:
- cristiani che si riconoscevano nella Romanitas, la cultura e la civiltà dell'Impero diventato cristiano
- barbari estranei alla Romanitas che praticavano culti pagani
- barbari diventati cristiani di fede ariana
- elementi di paganesimo tradizionale i cui riti venivano mantenuti talvolta anche tra cristiani

Il termine “paganus” negli autori cristiani non ebbe più connotazione solo geografica: esso definiva ogni
credenza, rito o pratica delle religioni politeistiche.

A Roma lo spazio civico continuò a essere condiviso da pagani e cristiani. Peraltro in questo periodo il
problema principale era rappresentato soprattutto da cultura e religione dei barbari. E nei loro confronti il
mondo romano (pagano e cristiano) ha assunto diverse posizioni.
Nei primi tre secoli l'opposizione era fra cristianesimo e Impero. Quando giunsero i barbari invece i cristiani
erano stati integrati e si riconoscevano nella cultura e nell'Impero romani.
Si stabilirono nuovi parallelismi:
romanità= cultura = cristianesimo
barbarie= incultura= paganesimo

I pagani mantennero l'avversione verso il cristianesimo ritenuto responsabile dei mali che affliggevano
l'Impero. Così pagani e cristiani si accusavano reciprocamente per le invasioni dei barbari.
A lungo, la cultura cristiana mantenne nei confronti dei barbari un atteggiamento di ripulsa. A volte giustificò
l'esistenza dei barbari nella teologia della storia cristiana e nel piano di salvezza divina, facendone strumento
della provvidenza divina in funzione punitiva contro le colpe dei pagani e degli stessi cristiani.

Una prima revisione di queste posizioni si ebbe nel XIX secolo.


La storiografia tedesca e anglosassone parlava di migrazioni di popoli e non di invasioni barbariche. I barbari
diventarono portatori di una nuova civiltà germanica in un continente non più romano.
Per la storiografia italiana e francese le invasioni continuavano a rappresentare un evento catastrofico e
violento che aveva sottomesso la civiltà romana.
Tra XX e XXI secolo il binomio oppositivo tra barbari e romanità è respinto da storiografia e cultura,
che negano il pregiudizio sui barbari come esponenti di una civiltà inferiore.
All'idea dello scontro militare, politico, culturale, religioso tra germanità e romanità si è sostituita quella
dell'integrazione delle nuove popolazioni nell'Impero.

Una lenta interazione: acculturazione e inculturazione

Già nel I-II secolo scambi linguistici reciproci attestavano rapporti non violenti e di natura mercantile.
Successive distruzioni furono contrassegnate da scambi di prigionieri, ma anche da soluzioni non militari.
Una di queste erano i “faedera”, un modo pacifico in cui le popolazioni venivano in contatto tra loro: si
trattava di patti di alleanza, stipulati dal governo imperiale con gli invasori, che stabilivano l'insediamento
nelle province in cambio di servizio militare a vantaggio dell'Impero.
L'incontro politico, economico, culturale e anche religioso fra mondo romano e cristianesimo avvenne quindi
ben prima delle invasioni.

Per quanto riguarda il cristianesimo, alcuni barbari erano già entrati in contatto con questa nuova fede:
- prigionieri cristiani avevano portato la fede cristiana in Etiopia e Georgia
- tra i Visigoti vi era un gruppo di barbari provenienti dalla Cappadocia, uno di questi era Saba (martire del
IV sec) e poi Wulfila (vescovo di confessione ariana e traduttore della bibbia in lingua gotica).

Nel V secolo il cristianesimo veniva introdotto nel mondo barbarico da prigionieri, mercanti, barbari reduci.
Quando le comunità cristiane erano già presenti, la Chiesa ufficiale mandava i suoi vescovi.
Determinante fu anche la presenza di schiavi cristiani al servizio dei barbari.
Oltre a queste forme spontanee di diffusione vi erano le missioni di monaci ed ecclesiastici: alcune missioni
monastiche erano ispirate dal papato di Roma, altre partivano per convertire popolazioni
vicine. Questa forma di diffusione comandata è quella tradizionalmente più evidenziata dalla storiografia.
Ma vi era anche una diffusione politicamente più articolata, come in Gallia dove il ceto vescovile locale di
origine aristocratica sulla base di relazioni diplomatiche avviò la conversione dei re franchi e
l'evangelizzazione della popolazione.
Da questi contatti il cristianesimo veniva trasformato sia sotto il profilo dottrinario che delle pratiche
religiose.

L'incontro tra cristianesimo e culture barbariche diede luogo a processi di adattamento. Uno era
l'acculturazione da parte di un gruppo culturalmente povero rispetto a una cultura dominante: quella romana
prevedeva la combinazione fra le tradizionali discipline scolastiche romane e le Scritture cristiane.
Nel percorso inverso, quello più frequente nello specifico dell'incontro tra cristianesimo e barbari,
l'inculturazione cristiana era l'adattamento del messaggio evangelico alle culture e lingue locali. Questo
processo di cristianizzazione ebbe conseguenze su istituti ecclesiastici, liturgia, culti e sul piano linguistico
abbiamo un processo analogo a quello che aveva portato alle modificazioni di significato nel greco e nel
latino ecclesiastico rispetto a quello classico.
Quando Wulfila si trovò a tradurre in lingua gota lo "Spirito santo" che sia nel termine greco (pneuma) sia in
quello latino (spiritus) implica la nozione di soffio o vento, non volle usare vocaboli che dessero questa
connotazione, sentita come troppo materiale, e optò per il termine maschile ahma, che ha la stessa radice del
verbo gotico “pensare”: lo Spirito è quindi Essere Pensante.

Anche la religiosità pagana dei barbari appare mutata. Nel V secolo e fino alle missioni romane nelle regioni
decentrate dell'Impero essa non era più quella originaria. I vari popoli non furono cultori di un paganesimo
inteso come insieme coerente di culti e rituali tradizionali germanici. Si nota piuttosto un diffuso sincretismo:
divinità romane e culti degli antenati, culti della natura, culti sciamanici.
È una varietà analoga a quella del mondo romano: divinità olimpiche, locali, culti ellenistici, culto
dell'imperatore, cristianesimo.
Il paganesimo dei barbari non era dunque un sistema coerente e il cristianesimo non fu impiantato ex novo
dalle missioni monastiche, tranne qualche eccezione.

La diffusione del cristianesimo, articolata diversamente nei vari regni e senza una lineare progressione è così
suddivisibile:
1) tra IV e V secolo si ebbero conversioni individuali e di compresenza pacifica all'interno di una stessa
popolazione, di religioni e confessioni diverse (paganesimo e cristianesimo - ariano e cattolico)
2) dal V secolo, e fino all'VIII oltre alle missioni di vescovi e monaci vi fu un progressivo rapporto con le
istituzioni. Si accentuò uno sviluppo del cristianesimo che caratterizzava identità nazionale e
politica di una popolazione.

Vescovi e monaci

In Occidente, venute meno le strutture civili, Chiesa e monasteri le sostituirono.


Ai vescovi, difensori del cristianesimo di fede nicena, era affidata la sopravvivenza morale e materiale delle
popolazioni e delle città assediate o distrutte dai barbari-ariani.
Nelle regioni più romanizzate (Gallia e Spagna) e a Roma soprattutto nei ceti dirigenti il clero cattolico
mediò l'integrazione fra Romani e Germani.
Gli scriptoria dei monasteri diventarono centri di spiritualità e di trasmissione della cultura.

La mobilità tra monasteri e strutture ecclesiastiche caratterizzava molti contesti e soprattutto la Gallia: la
fuga nel monastero divenne per molti aristocratici una scelta di vita religiosa, ma anche premessa di una
carriera episcopale.
Inoltre il diritto della Chiesa aveva la tendenza a limitare i poteri dei monaci e a integrare il monastero dentro
le strutture ecclesiastiche.

Per ragioni politiche, ma anche per una cultura segnata da maggiore sensibilità giuridica rispetto all'Oriente,
Chiesa e monasteri acquisirono definita struttura istituzionale.
Deliberazioni dei concili regionali e lettere decretali papali davano le norme che organizzavano vita e
istituzioni del clero e dei fedeli. A loro volta i monasteri venivano organizzati da regole che, riprendendo gli
esempi di perfezione ascetica orientale e la predilezione per la vita cenobitica, erano piuttosto indicazioni
morali.
Tra la fine del IV e l'inizio del V secolo tutte le prime regole latine non ebbero impronta legislativa: erano
brevi ed incomplete rispetto alle problematiche organizzative comunitarie, spesso troppo teoriche e poco
pratiche. Il grande codice di leggi era la Scrittura.

L'Italia e le isole. Il primato di Roma

Come in tutto l'Occidente anche in Italia e nelle isole nel V secolo e nel VI secolo, la cristianizzazione
avanzava dal punto di vista culturale, etnico, sociale, geografico e topografico.
All’inizio del VII secolo erano 258 le diocesi italiane.

Il primato del vescovo di Roma sulle altre sedi in Italia, ma anche in tutto l'Occidente, era incontrastato.
Dalla fine del III secolo, con la riforma di Diocleziano, e poi fino alla conquista longobarda, Roma
aveva perduto centralità politica, amministrativa e civile, passata prima a Milano e poi a Ravenna (dal 402).
Unico interlocutore con l'Oriente il papa era al centro di dibattiti dottrinali e di conflitti politici.

Da Leone Magno a Simmaco

Questa centralità religiosa era interpretata in modo diverso in Oriente e in Occidente.


In Occidente, il crollo delle rappresentanze politiche e civili e la funzione sostitutiva assunta dalle strutture
ecclesiastiche rafforzarono sul piano istituzionale la centralità religiosa di Roma.
In Oriente vi era un riconoscimento generale del supremo ruolo di Roma, ma i rapporti tra sedi ecclesiastiche
erano conflittuali e con Roma in particolare la conflittualità era acuita dal fatto che il seggio di Roma era
comunque situato in un unico Impero, con un'unica capitale politica, Costantinopoli, dove l'imperatore aveva
potere anche sulle questioni religiose.

La forza di questa centralità religiosa si radicava sul paradigma ideologico e dottrinale in base al quale il
vescovo di Roma avrebbe ereditato la sede dall'apostolo Pietro. Tale tesi si appoggia su un impianto
organizzativo-istituzionale sempre più strutturato.

Pochi anni dopo l'editto Cunctos populos di Teodosio (380) dal 383-384 la Sede romana si era dotata di
strumenti atti a regolamentare giuridicamente la vita ecclesiastica: le decretali, lettere normative modellate
sui decreti imperiali.
Dato il loro carattere impositivo, disciplinare e sanzionatorio, esse riguardavano solo i rapporti con
l'Occidente.

A metà del V secolo, oltre a far fronte a uno dei momenti più drammatici della storia d'Italia salvando Roma
e i suoi abitanti, Leone (440-461) ridisegnò la teologia politica del primato di Roma.
La sua teoria, definita petrinologia, ripropone il richiamo a Pietro esplicitamente in termini di successione.
Egli rafforza la tesi dell'ereditarietà affermando l'identificazione tra Pietro e i successori della Sede romana.
Afferma che solo dal pontefice i vescovi ricevono il potere giurisdizionale e che i vescovi di Italia, Gallia,
Spagna, Africa, della Sicilia e delle isole sono stati stabiliti solo da Pietro e dai suoi successori.
La Sede romana diventò solida quanto bastava per contrastare eresie e anche per riequilibrare le
altre istanze autonomistiche sia locali sia regionali.
Leone non trovò significative resistenze contro pelagianesimo, manicheismo e priscillianismo spagnolo.
Dovette invece contrastare l'opposizione delle chiese provenzali.
Il vescovo di Arles, Ilario (430-449) tentò di rendersi indipendente. Costretto a rinunciare alle sue pretese,
Ilario si piegò a Leone che in una lettera ai vescovi gallici riaffermava il primato romano.
Contestualmente Leone ottenne un rescritto dell’imperatore Valentiniano III che sosteneva la tesi
che il vescovo romano è a capo di tutta la romanità e che nessuno può opporglisi: si ribadiva così l’alleanza
tra chiesa ed impero.

In Oriente Leone, in piena controversia cristologica e soprattutto a ridosso del secondo concilio di Efeso
(449) espose in più lettere e in particolare nel Tomus ad Flavianum la dottrina romana contro le tesi
monofisite di Eutiche.
Ai vescovi e in due lettere all'imperatore Teodosio II ribadì la suprema autorità della cattedra romana.
Al concilio però subì un disconoscimento: il Tomus non venne letto, Eutiche fu assolto e riabilitato, vennero
condannati e deposti Flaviano e gli altri vescovi difisiti.

Con il nuovo imperatore Marciano nel concilio di Calcedonia fu tentato un riavvicinamento dottrinale a
Roma passando soprattutto attraverso l'accettazione del Tomus di Leone. Ma il canone 28 riapriva il
contrasto sul primato. Nonostante questo, dimostrando che non si poteva fare a meno dell'approvazione di
Roma, Marciano sollecitò Leone perché il papa approvasse il concilio. Leone lo fece, ma solo dopo due
anni nel 453 e sottolineando espressamente che l'approvazione riguardava solo le questioni di fede: il
conflitto primaziale restava aperto.

Con i papi Ilario (461-468) e Simplicio (468-483), le questioni maggiori riguardarono il rapporto con i
Germani-ariani e i conflitti di competenza tra chiese di Gallia e di Spagna.
Con Simplicio, sotto il cui papato si verificarono gli eventi del 476, si riproposero le controversie
cristologiche.

Nel 482 Acacio, arcivescovo di Costantinopoli, suggerì all'imperatore Zenone di promulgare l'Enotico, testo
che sembrava rinnegare Calcedonia e il suo tentativo di conciliare le opposte posizioni dottrinali, andando
piuttosto nel senso di cercare una soluzione di riconciliazione con il vescovo anticalcedonese di Alessandria,
Pietro Mongo.
Nel 484 il testo diventò regola di fede ufficiale della Chiesa bizantina.

A questo nuovo equilibrio politico ecclesiastico, con il quale Costantinopoli si avvicinava al monofisismo, si
oppose il nuovo papa Felice III (483-492) che inviò lettere e un'ambasceria. Il pontefice dichiarò decaduto e
scomunicato il patriarca Acacio.
Iniziava così lo scisma detto acaciano che si concluderà nel 519, con papa Ormisda.

Morto Acacio (fine novembre 489), i pontefici chiesero la cancellazione del suo nome dai dittici, a
dimostrazione dell'inflessibilità del punto di vista romano. A queste richieste romane opposero resistenza le
chiese d'Oriente, a dimostrazione dell'influenza della Chiesa di Costantinopoli.

Gelasio (492-496) accolse senza contrasti lo stabilimento del governo ostrogoto e rafforzò il potere
ecclesiastico in Italia e in Gallia, ma rifiutò i tentativi di conciliazione di patriarca e imperatore di
Costantinopoli e ribadì il primato di Roma su tutte le altre sedi.

Gelasio portò alle estreme conseguenze la tesi petrina: sviluppò la tesi della distinzione/ subordinazione dei
due poteri in una lettera all’imperatore.
Ci sono due principi dai quali questo mondo è retto: l'autorità sacra dei pontefici e il potere regale. Il primo è
più importante perché i vescovi devono rispondere davanti a Dio anche dell'operato dei sovrani. L'imperatore
deve sottomettersi e non comandare sul potere spirituale.
Per quel che riguarda le questioni dottrinali ogni accusa di eresia si deve misurare sulla dottrina fissata dal
pontefice.

Durante questo pontificato Teodorico, re degli Ostrogoti, dopo avere sconfitto Odoacre era diventato
re d'Italia con l’approvazione dell'imperatore nel 493.
Benché di confessione ariana, nell'ambito della quale costruì chiese anche a Roma, Teodorico attuò una
politica di tolleranza religiosa non solo con i cattolici di fede nicena, ma anche con le minoranze giudee.
Per quanto riguarda l'Oriente lo scisma acaciano, nell'interruzione dei rapporti tra Oriente e Occidente, gli
consentiva totale libertà d'azione in Italia.
Il successore di Gelasio è Anastasio II (496-498): il suo breve pontificato aveva visto un fugace tentativo di
pacificazione.

In rappresentanza degli opposti schieramenti, pro e contro la riconciliazione con l'Oriente, vennero eletti papi
rispettivamente Lorenzo (passato alla storia come antipapa) e Simmaco (498-514).
Questi era il capo dei difensori di Calcedonia, della primazia assoluta di Roma, di una politica religiosa
anti-monofisita.
Con la frattura religiosa si intrecciarono, a Roma, conflitti di autorità anche con gli aristocratici che
pretendevano il controllo sulle elezioni papali. Gli attacchi arrivarono all'esautoramento del papa Simmaco e
l'ultimo dei concili convocati sottopose il papa a processo (502). Nella quarta seduta, detta Palmare, si stabilì
come principio giuridico il fatto che il papa non può essere giudicato da nessuno.

Nel corso della vicenda furono prodotti una serie di falsi storici, i cosiddetti Apocrifi simmachiani, per
avvalorare la posizione di Simmaco.

Il VI secolo: il dialogo impossibile, la frattura con l'Oriente, l'operato di Gregorio Magno

La situazione mutò con la successione imperiale, passata nel 518 al filo-niceno Giustino I, disponibile ad
aprirsi alle richieste di Roma. Quasi contemporaneamente la successione papale era passata al più conciliante
Ormisda (514-523).
Così nel 519 si pose fine allo scisma acaciano.

In quello stesso anno, Ormisda gestì la controversia dottrinale relativa all'affare “teopaschita”. La
controversia era partita dalla tesi di un gruppo di monaci sciti: con un ampliamento della definizione
dogmatica di Calcedonia questa dottrina affermava che Cristo aveva sofferto sulla croce come Dio.
Non avendo ottenuto a Costantinopoli l'accettazione della formula, giudicata anticalcedonese dall'imperatore,
i monaci sciti andarono a Roma, pretendendo l’approvazione del papa. Il papa si dimostrò indeciso.
Solo nel 521 una lettera dell'erede al trono Giustiniano all’imperatore Giustino I chiuse la questione,
giudicando inutile la tesi teopaschita.

Tale questione si collegava a una ripresa del dibattito sulla dottrina della grazia e sul libero arbitrio in cui
furono coinvolte anche Africa e Gallia.
Chiamato in causa sulla questione Ormisda chiuse la discussione ribadendo l'autorità di Agostino.

La situazione mutò ancora con l'imperatore Giustiniano, la cui politica filo-nicena si oppose all'arianesimo in
Oriente. Da qui la reazione anticattolica, in Italia, del re Teodorico. Ne subì tragiche conseguenze il vescovo
di Roma Giovanni I (523-526), mandato dal re a Costantinopoli a mediare in favore degli ariani perseguitati
in Oriente. Tornato con un nulla di fatto Giovanni fu fatto imprigionare dal re e morì di stenti.

Con i successori di Teodorico in Italia e con Giustiniano in Oriente l'ingerenza dei regnanti ostrogoti e del
potere imperiale assunse forme pervasive per i vescovi di Roma.
La dignità pontificia venne del tutto mortificata con papa Vigilio (537-555) negli anni della guerra gotico-
bizantina.
Obbligato a soggiornare per anni a Costantinopoli al papa fu imposta la condanna dei Tre capitoli
(corrispondenti a tre anatemi contro Teodoro, Teodoreto e Iba) tra violenze fisiche, la sua resistenza e
un’umiliante fine.
Tra le reazioni a questo comportamento del papa, giudicato indegno, vi furono la scomunica da parte di un
sinodo africano e lo scisma tricapitolino che vide il distacco da Roma delle chiese di Milano (fino al 560) e
di Aquileia, mentre la sede di Ravenna (dove, in seguito alla conquista dell'Italia da parte di Giustiniano
risiedeva l'esarca, rappresentante civile e militare dell'imperatore d'Oriente) assunse sempre più importanza.

I Bizantini vi avevano riaffermato l'ortodossia, riportando al culto cattolico i templi ariani. A questa fase
appartengono le basiliche di San Vitale e di Sant'Apollinare in classe.
Nel 666 l' arcivescovo Mauro ottenne dall'imperatore l'indipendenza della Chiesa ravennate da Roma, sulla
base di una presunta apostolicità che faceva di Apollinare un discepolo di Pietro.

Nel 590 ascese al soglio pontificio per volontà del popolo Gregorio Magno. L'Italia era priva di strutture,
Roma era devastata e la popolazione decimata da guerre e peste. La città, capitale di un ducato dell'Impero
bizantino il cui rappresentante risiedeva però a Ravenna, era possesso pontificio.
Di famiglia ricca e prestigiosa Gregorio, già prefetto di Roma, era stato in precedenza collaboratore del papa
Pelagio II a Costantinopoli, dove aveva intrecciato importanti relazioni.

Pur nel continuo rimpianto per la vita monastica, già alternata all'interesse per attività politico-diplomatiche e
poi abbandonata per il papato, svolse un'opera di supporto istituzionale, testimoniata in gran parte dal suo
epistolario: riorganizzò l'amministrazione ecclesiastica e la liturgia, difese i diritti del foro ecclesiastico,
organizzò Roma quale sede di rifugiati e fece del papato forza di potere in opposizione a Bisanzio.
Autore di scritti di carattere spirituale, esegetico e pastorale, non fu un teorico.

Lottò contro il paganesimo dei Longobardi.


Nella questione tricapitolina, in cui era stato coinvolto anche prima dell'elezione, operò per una mediazione
tra le chiese scismatiche e l'imperatore, facendo fronte anche alle difficoltà dell'invasione longobarda che
aveva anche diviso militarmente quelle chiese rispetto ai territori controllati dai Bizantini.

Franchi e vescovi gallo-romani

Nella Gallia romana alla fine del IV secolo si contavano circa 70 sedi episcopali.
Nel V secolo, oltre alle relazioni tra monaci e vescovi, uno dei tratti distintivi del cristianesimo in Gallia e in
Spagna, fu il compattarsi di vecchie e nuove forme di potere.
Qui, l'alleanza era tra vescovi gallo-romani e capi dei Franchi.

Negli ultimi decenni dell'Impero, i vescovi, per lo più membri dell'aristocrazia gallo-romana, si distinsero per
le trattative politico-militari con i re germani.

Quando i Franchi, confederazione di tribù emersa nel III secolo nel basso Reno, occuparono il territorio
gallico dai loro culti approdarono al cristianesimo di confessione nicena al seguito della conversione
del franco Clodoveo (tra 482 e 498).
L'allineamento niceno non solo aiutò l'alleanza tra Franchi ed episcopato gallo-romano, ma comportò anche
rapporti privilegiati con la Chiesa romana che determinarono dal VI secolo il consolidamento del potere dei
Franchi in Occidente.
Clodoveo, il "nuovo Costantino", convocò molti concili.

L'episcopato gallo-romano, nella sua forza politico-sociale, finì per tentare di scardinare queste alleanze
entrando in conflitto con il potere regio e avviando tentativi di distacco da Roma: nel V secolo questi
tentativi si concretizzarono nelle rivendicazioni autonomistiche della Chiesa di Arles sotto papa Leone, nel
VI alla fine si stabilizzò l'allentamento dei rapporti con Roma.

Il principale rappresentante di questo episcopato fu Fausto di Riez, monaco di Lerino e teologo, che cercò
una posizione mediana fra agostinismo e pelagianesimo.

Un ruolo politico significativo ebbe Cesario, vescovo di Arles (501/502-543) che nel 513 diventò vicario di
Roma per la Gallia e la Spagna.
Cesario, oltre all’eliminazione delle sopravvivenze pagane, chiuse temporaneamente la controversia
dottrinale sul tema della grazia che agitava parte delle gerarchie ecclesiastiche e gli ambienti monastici. Il
concilio di Orange del 529 ribadì il ruolo imprescindibile della grazia nell'atto stesso del credere, ma affermò
anche che tutti i battezzati con l'aiuto della grazia possono compiere quanto è necessario alla salvezza.

Esemplare anche la figura di Gregorio di Tours, di importante famiglia senatoriale, con la sua opera si
affermava il sentimento di una Chiesa nazionale gallica.
Visigoti e vescovi iberico-romani

In Spagna tra IV e VI secolo c'erano 30/40 sedi episcopali.


Il cristianesimo niceno era minacciato sin dalla prima metà del V secolo dal priscillianismo (nonostante la
condanna del primo concilio di Toledo del 401) dai pagani e dai barbari.

La regione fu travolta dai Vandali passati dai Pirenei nel 409 e poi approdati nel 429 in Africa.

L'invasione dei visigoti avvenuta sotto Teodorico II (453-466) non fu tragica. Solo il successore Eurico (466-
484) di fede ariana e con mire espansionistiche anche sulla Provenza, attuò misure anticattoliche, ma limitate
al divieto di eleggere vescovi.
La disfatta subita dai Visigoti da parte dei Franchi di Clodoveo a Vouillé (507) cambiò la situazione. Tolosa,
già capitale del regno visigotico venne conquistata dai Franchi. Toledo diventò sede metropolitica per i
niceni, poi capitale.
Nel 587 Toledo diventava il centro del progetto di riunificazione nazionale nel segno di una comune
confessione di fede, e diventava anche sede di concili della Chiesa visigotica.
Al seguito del re passarono alla fede nicena nobili e clero e poi Goti e Svevi. In questa fase, anche la Spagna
conobbe l'alleanza tra nuovo potere politico e potere ecclesiastico.

Gli attacchi di Martino di Braga (intorno al 570) contro il paganesimo e molti concili che intervennero su
questioni di disciplina ecclesiastica, dimostravano le difficoltà in cui si dibatteva la fede nicena e la
preoccupazione dei vescovi per la regolamentazione della Chiesa.
Anche all'interno della Chiesa agivano forze di disgregazione: tornarono ad emergere i priscillianisti e i
vescovi simpatizzanti eludevano l'esortazione di Leone a fare un concilio contro di loro. Nel 561 il primo
concilio di Braga li condannò.

Durante il papato di Gregorio Magno, Isidoro vescovo di Siviglia testimonia un cattolicesimo spagnolo
autonomo da Roma e in autonomia anche rispetto al potere regio. Ma nel VII secolo gli equilibri tra Chiesa
spagnola e regno cambiarono ulteriormente e prevedevano il potere nelle mani del re che sceglieva anche i
vescovi.

I monaci in Inghilterra e Irlanda

In Britannia la conversione si ha con la missione di papa Gregorio nel 596.


La Britannia non era del tutto pagana, c’erano segni di romanizzazione e cristianizzazione, ma le invasioni
degli Angli, Sassoni e Juti avevano comportato la scomparsa del cristianesimo nella parte orientale e
meridionale.

La missione di Gregorio era partita alla volta della corte del re del Kent, Ethelbert. Sua moglie, Berta, era
franca e di religione cristiana. Il 25 dicembre del 598 re Ethelbert e 10.000 inglesi si convertirono al
cristianesimo.
Anche altri re seguirono l’esempio del re del Kent come Edwin di Northumbria che aveva sposato una donna
cattolica, sorella di Ethelbert. Egli si converte nel giorno di pasqua del 627.
Nel 664 nel concilio di Whitby si decise che la Chiesa di Northumbria accogliesse la liturgia romana.
Gregorio Magno e altri papi inviarono poi altre missioni.
Gregorio in particolare sconsigliava la distruzione di templi pagani e suggeriva il loro riutilizzo in chiave
cristiana per una graduale conversione.

In Irlanda la prima missione si ebbe nel V secolo ad opera di Palladio (inviato da papa Celestino) e di
Patrizio (un monaco britannico-romano).
Fu l’unico paese cristianizzato, ma non romanizzato, infatti l’Irlanda conobbe un cristianesimo radicato su
riti celtici e lingua gaelica.
I monasteri erano già molti quando i missionari giunsero sull’isola. Da qui partì Colombano che fondò
monasteri in Gallia e Italia.
I Balcani

Nel V secolo tutte le diocesi della penisola balcanica, anche se amministrativamente controllate da
Costantinopoli, sono legate a Roma dal punto di vista ecclesiastico, eccetto Thracia.
Qui il legame con Roma si rafforza quando Leone concede il vicariato ad Anastasio di Tessalonica.
Ma con Leone III Isaurico passò tutto sotto il controllo di Costantinopoli.

La specificità religiosa di questa regione è data dalla particolarità delle condizioni migratorie di popoli fino
ad allora rimasti separati dal mondo romano, non c’erano stati precedenti contatti né incontri di alcun tipo.
Le invasioni degli slavi, seguite a quelle dei popoli germanici, trasformano profondamente queste zone: il
mondo romano d’Oriente viene spezzato in frammenti senza storia da cui ebbe però luogo un nuovo corso di
interazioni con la cultura occidentale.

Gli slavi determinarono la scomparsa della civiltà romana e di molte sedi episcopali.
In molti tentarono di evangelizzare i popoli slavi ed tentativo più sistematico ci fu da parte di bizantini con
Cirillo e Metodio.

L'Africa fuori dal circuito europeo

Le province africane presentavano una situazione diversificata.


Nel 411 il concilio di Cartagine sembra mettere fine allo scisma donatista.
L’Africa risentiva ancora di questo scisma quando nel 429 i Vandali invasero l’Africa, la Sicilia, la Sardegna,
Corsica e isole Baleari. Questi erano antiniceni e compirono persecuzioni contro i cristiani niceni e contro i
donatisti, imposero l’arianesimo obbligando la conversione nel 484 con un editto.

Nel 523 re Hilderico permise la libertà di culto alle diverse confessioni.


Nel 535 con la riconquista di Giustiniano si ebbe una persecuzione di cristiani nemici della chiesa imperiale,
ma fermenti religiosi autonomistici riprendono il sopravvento poco dopo.

All’inizio VI secolo Gregorio Magno denuncia la comunità africana in quanto scismatica per la pratica della
reiterazione del battesimo, considerata donatista.
Capitolo 12 - L'utopia giustinianea e gli sviluppi fino al VII secolo

Un programma ambizioso

Con l'avvento di Giustiniano nel 527 finisce un'epoca di incertezza, quella dei regni che precedono il ritorno
alla proclamazione ufficiale della fede calcedonese, l'epoca cioè di Zenone e Anastasio I (474-518).
Giustiniano poi si sente destinato a distinguersi nettamente fra tutti i sovrani che prima di lui hanno
manifestato il loro favore per il cristianesimo.

Il progetto si traduce in un ampio programma che prevede l'iniziativa di riconquista militare e una
riogranizzazione legislativa. Presuppone anche l'impegno religioso del sovrano negli ambiti dei
costumi religiosi, della disciplina e dell'ordine ecclesiastico, della teologia.
Mira a condurre all'unità di un'ortodossia che abbracci tutti i soggetti dell'ecumene, fino ai suoi lontani
confini: è un’idea quasi utopica.

L'utopia giustinianea (527-602) alla prova dei fatti: una romanità cristiana rinnovata?

Le linee di coerenza di un progetto ampio

Giustiniano si guarda bene dal suggerire un qualunque confronto con Costantino. Da nessuna parte nella
sua imponente opera giuridica introduce riferimenti al suo predecessore. Inoltre nessuna assemblea sinodale
lo loda mai come un nuovo Costantino. Giustiniano ritiene dunque che rivendicare il confronto con lui non
rientri nei suoi interessi, nonostante la sua legittimità resti segnata da un'origine oscura.
Egli deve comunque fare i conti con la reputazione di sua moglie Teodora, che la sua carità e la
sua devozione celebrate in un’iscrizione ai santi Sergio e Bacco non bastano a correggere.

L'imperatore ottiene il suo trionfo ideologico sopprimendo la rivolta di Nika (532) scoppiata per motivi
politici e fiscali, e alimentata negli ambienti dell'Ippodromo dalle fazioni sportive degli Azzurri e dei Verdi.

Mediante la rifondazione della basilica di S. Sofia (distrutta dall’incendio conseguente alla rivolta) egli
pubblica un vero manifesto in cui intende dimostrare che solo a lui è stata affidata la missione divina di
portare a perfezione quanto Salomone aveva immaginato. Allo stesso tempo segnala che egli porta a
compimento quanto Costantino aveva solamente avviato, un periodo nuovo e decisivo che avrebbe dato
compimento alla grandezza di Roma dal tempo di Enea fino al suo regno.
Egli vuole conformarla alla sua vera vocazione, quella di fornire le condizioni più favorevoli per il ritorno
glorioso di Cristo, la parousia.

Al di là di una politica dal corso in apparenza aleatorio è piuttosto l'unità di pensiero che ne costituisce il
fondamento. Il suo ideale è l'assoluta necessità di fare in modo che regnino il buon comportamento e il buon
ordine, quelle virtù che sarebbero esistite nell'antica Roma.
All'interno dell'Impero questa pace è l'oggetto permanente della legge perfezionata, dopo la formazione del
Corpus iuris civilis (terminato nel 534), grazie alle novellae composte in greco.
Le armi invece dovevano difenderne l'integrità di fronte alle minacce esterne.

Giustiniano presenta sé stesso come fonte unica del diritto secolare e legge incarnata, ma intende anche
completare l'edificazione di uno Stato completamente cristiano. Così l'opera imperiale è chiamata a
rispecchiare le realtà superiori.
Erede dell'ideologia costantiniana precisata da Eusebio di Cesarea, Giustiniano è il primo imperatore a
dichiararsi ufficialmente “philochristos” (amico di Cristo). Egli vuol essere il rappresentante di Dio in terra.
Per lui il sovrano è dunque una peculiare immagine di Dio perché governa senza essere lui stesso governato
da nessun'altra creatura.

Fa poi un'incessante riflessione sul problema di come riuscire a conformare il diritto degli individui ereditato
dall'antica tradizione romana alla legge e al piano divini. Per fare ciò, mette al primo posto l'integrità della
dottrina cristiana che tende a divenire sotto il suo regno l'elemento centrale che permette di definire la
comunità romana.
Per questo egli si propone di annullare ogni diversità di credenze.
Nei confronti dei politeisti la legislazione messa in opera da Giustiniano è immediatamente repressiva perché
non gli basta una lenta scomparsa del paganesimo, egli intende eliminare in fretta tutte le forme di adesione
alle divinità tradizionali.
I loro adoratori sono quindi privati dal diritto a ogni forma di trasmissione di proprietà, sia come donatori sia
come beneficiari di successione. Soprattutto la pena di morte, che fino ad allora era prevista soltanto per i
manichei è brandita come minaccia nei confronti di coloro che, dopo il battesimo, tornassero alle loro antiche
pratiche.

L'imperatore attacca ugualmente alcune figure particolarmente in vista nell'apparato dello Stato. Si è tentato
di fare la chiusura definitiva della Scuola filosofica di Atene (529).

Interrotto al tempo della rivolta di Nika, lo sradicamento voluto da Giustiniano riprende in seguito con fasi di
ineguale intensità: nel 542 il monaco Giovanni, futuro vescovo anticalcedonese di Efeso, si vede affidare una
missione ufficiale e conduce alla fede cristiana 70.000 persone in Asia, Caria, Lidia e Frigia.
Nel 545-546 si apre una nuova serie di procedure, accompagnate da torture.
Una terza e ultima ondata di violenza si abbatte sui superstiti pagani nel 562 e non riguarda solo
Costantinopoli. Egli fa anche chiudere gli ultimi templi ai confini, come quello di Giove Ammone nel
deserto libico.

Se ogni forma di paganesimo non è sparita alla morte di Giustiniano, la direzione impressa dall'imperatore e
la sua continuazione cambiano la natura stessa dei legami sociali e culturali.
Molti intellettuali cercano di raccogliere e conservare le conoscenze ora minacciate in ragione del loro
rapporto con la religione greca.

Non limitato al paganesimo, il principio direttivo della politica religiosa di Giustiniano è adesso esteso a
certe province una volta perdute e si scontra ancora con due comunità tradizionali: i Samaritani e i Giudei.
Riguardo al giudaismo Giustiniano non rimette in causa il suo statuto di culto riconosciuto dallo Stato.
Tuttavia egli arriva a promuovere l'impiego nelle sinagoghe della traduzione greca dei Settanta invece che
del testo ebraico o di traduzioni greche a esso vicine, persuaso che essa predisporrà i suoi uditori alla
conversione.
Nei confronti dei Samaritani Giustiniano si fa più duro, come se la loro antichità biblica non bastasse a
preservarli dall'obbligo di cambiare religione.
Una legge li priva di ogni luogo di culto nel 528. Scoppiata nella primavera del 529, la rivolta samaritana
conduce a una repressione tale che una parte importante della comunità fugge verso la Persia. Per quanti
rimangono sul posto, non resta che condurre un'esistenza al pari dei pagani, privi dei diritti di successione,
oppure organizzare una nuova insurrezione (555) anch'essa severamente punita.

Giustiniano considera il manicheismo come una intollerabile devianza settaria, tanto denunciata dalla Chiesa
quanto proscritta dalla legge romana.
Dal suo avvento (527), egli si giudica legittimato ad applicare la pena capitale, già comminata per editto da
Anastasio. Questa politica sembra raggiungere immediatamente lo scopo: il manicheismo scompare
dall'Impero.

Riguardo agli ariani Giustiniano differisce poco dai suoi predecessori: mostra solamente una più grande
severità nell'applicazione delle misure che li escludevano dagli impieghi civili e militari, facendo una
temporanea eccezione per i Goti federati.

Nel suo sforzo di non concedere nulla ai nemici dell'ortodossia, di cui fanno parte anche i sostenitori delle
due nature (eredi di Nestorio), Giustiniano in un unico caso sembra mostrare esitazioni circa la politica
da seguire: nei confronti dei sostenitori dell'unica natura. Nessun dubbio che Giustiniano resti sempre un
calcedonese, però la sua formazione e la frequentazione di vescovi e monaci lo spinge a privilegiare una
cristologia discendente dalla divinità all'umanità. Fin dall'inizio l'imperatore conferma, con un editto in
forma di confessione di fede accompagnata da anatemi, il suo attaccamento a una concezione teopaschita
dell'incarnazione. Allo stesso tempo mantiene in vigore le misure prese dallo zio Giustino I nei riguardi dei
monofisiti. Tale scelta è il risultato della radicata presenza del movimento anticalcedonese.
Si sviluppa una nuova controversia riguardante la corruzione alla quale il corpo di Cristo sarebbe stato
soggetto dopo la morte. Questa oppose i "corrutticoli" (termine peggiorativo a indicare gli adoratori del
corruttibile) e i severiani (cioè i sostenitori dell'insegnamento di Severo di Antiochia) agli "incorrutticoli",
altrimenti denominati giulianisti in nome del loro attaccamento alla dottrina di Giuliano di Alicarnasso.
I primi ritenevano che, in quanto passibile, la carne di Cristo partecipasse delle alterazioni naturali, i secondi
ritenevano che, in virtù dell'unione con il Logos, la carne di Cristo non fosse soggetta alle limitazioni della
natura umana.

La ripresa del conflitto con la Persia (531) probabilmente induce Giustiniano a correggere la sua politica.
Durante l'anno 532, nel palazzo di Ormisda della capitale, con una conferenza riunisce a dibattito le
delegazioni episcopali dei due partiti, calcedonese e anticalcedonese (o severiano). Le questioni trattate sono
teologiche ma anche istituzionali, dal risultato del lavoro dipende il riconoscimento ufficiale dei vescovi
sulle sedi contestate. Nulla di concreto sembra emergere, tranne la conversione ufficiale di un
vescovo anticalcedonese, ma l'imperatore porta avanti la sua intenzione di porre rimedio alla controversia in
virtù della sua competenza teologica.

Attaccando il neonestorianesimo Giustiniano emana una confessione di fede (formula Iustiniani ad populos)
che figura al primo posto nelle leggi raccolte nel Codice giustinianeo. La misura mira a mettere sotto
pressione la Chiesa di Roma per ottenere il suo assenso alle formule teopaschite imperiali. Questa manifesta
intenzione assieme alla riaffermazione della validità incontestabile dei quattro concili, giunge
all’accettazione di papa Giovanni II.

Di solito si attribuisce alle manovre di Teodora la nomina di due vescovi severiani: Teodosio ad Alessandria,
nel febbraio del 535 (cosa contestata dai giulianisti che vi oppongono un concorrente) e Antimo a
Costantinopoli, nel giugno dello stesso anno. Quest'ultimo è uno dei rappresentanti calcedonesi della
conferenza nel palazzo di Ormisda del 532, che in seguito si è accostato alla causa severiana.
Giustiniano immagina così di poter convincere Severo di Antiochia, che egli ha invitato nella capitale. Ma,
non ottenendo le concessioni sperate, Giustiniano supporta allora le esigenze del vescovo di Roma Agapito
per cambiare alleanze. Il papa, venuto in ambasciata, ottiene dall'imperatore la sottoscrizione del libello di
fede romana, ma deve approvare la linea teopaschita promossa da Giustiniano.
Un sinodo che segue di poco la morte improvvisa a Costantinopoli di Agapito (536), aggiunge alla condanna
di Antimo l'anatemizzazione di Severo, i cui scritti avrebbero dovuto essere bruciati.
Giustiniano dimostra così che nessuna questione interna alla Chiesa può essere risolta senza la sua opinione.

Giustiniano impone in Egitto il ristabilimento di una gerarchia fedele a Calcedonia, a cominciare da


Alessandria.

Teodoro Askidas, un monaco origenista venuto dalla Palestina nel 536 e subito elevato al seggio di Cesarea
di Cappadocia, induce l'imperatore a rilanciare la sua proposta del 532.
Giustiniano indirizza dunque il suo attacco all'opera dei vescovi teologi della linea antiochena sostenitori
delle due nature, in particolare agli scritti di Teodoro di Mopsuestia, ai lavori anticirilliani composti da
Teodoreto di Cirro nel contesto della controversia nestoriana e alla lettera di Iba a Mari il Persiano.
La procedura utilizzata contro quelli che convenzionalmente sono chiamati i "Tre capitoli" assomiglia molto
a quella che fu impiegata contro gli origenisti, entrambi furono condannati con un editto dogmatico.

L'editto contro i Tre capitoli viene inviato a tutta la Chiesa imperiale. Ma i patriarchi fanno fatica a
concordare con l'imperatore, mentre papa Vigilio (537-555) lo rifiuta perché comunque si tratta di
condannare personaggi ufficialmente ristabiliti nella loro dignità episcopale dal concilio di Calcedonia (451).
Dopo aver costretto il papa a lasciare Roma, Giustiniano non lo conduce subito a Costantinopoli. È solo dopo
che i patriarchi hanno compiuto l'atto di sottomissione, che Vigilio è ammesso nella capitale (547).

Il concilio di Costantinopoli del 553, aperto in assenza del papa il 5 maggio, è controllato in modo diretto
dall'imperatore anche se egli non vi si reca di persona: 153 vescovi vi si trovano riuniti, di cui soltanto sette
occidentali. La persona di Teodoro, gli scritti di Teodoreto, la lettera di Iba sono ritenuti eretici. Poi i padri
conciliari, conformemente all'intenzione dell'imperatore, stabiliscono di cancellare il nome di Vigilio dai
dittici. Il concilio si chiude con la proclamazione di 14 anatemi all'indirizzo dei Tre capitoli.
Alla fine, Vigilio si sottomette e viene autorizzato a tornare a Roma, ma muore prima di averla potuta
raggiungere (555).
Giustiniano impone allora il suo successore, Pelagio: colui che era stato in precedenza uno dei maggiori
difensori dei Tre capitoli viene ritenuto il più adatto a facilitare l'accettazione della loro condanna in
Occidente, specialmente in Italia.
A dispetto di ciò un nuovo scisma si sviluppa nei territori intorno a Milano, specialmente in quello di
Aquileia.

Sul versante ecclesiologico l'iniziativa imperiale integra Roma nella Chiesa imperiale. Da allora la Sede
apostolica non potrà più essere percepita come separata, mentre durante i due secoli precedenti i papi si
trovavano senza una vera e propria concorrenza in Occidente e protetti da regimi politici di natura differente
ma tutti intenti a ribadire la loro diversità nei confronti di Costantinopoli. Questo procurava alla Sede
apostolica una grande libertà e facilitava l'espressione dell'ideologia petrina, fondamento della sua pretesa al
primato.
Giustiniano colloca il potere politico in posizione di preminenza: nessuna sede, nemmeno quella di Roma,
può pretendere di porsi da sola come suo interlocutore ecclesiale autorizzato, la posizione unanime dei
cinque patriarchi è la sola ricevibile.
Il mantenimento dell'ordine gerarchico poi dovrebbe poter annullare i conflitti fra le sedi principali.
Giustiniano lascia al primo posto la sede di Roma, accorda poi il secondo posto alla sede di Costantinopoli, a
cui seguono i tre restanti rispettivamente ad Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Questa classifica si
fonda sulle disposizioni del concilio di Calcedonia. Tale sistemazione deriva sia dall'ordine politico (il posto
preminente dell'antica e della nuova capitale) che alla storia antica del cristianesimo: è così che Alessandria e
poi Antiochia sono poste in tal modo in nome del legame che univa ciascuna delle sedi all'eredità e alla
figura di Pietro.

Ciò che interessa a Giustiniano, oltre ad affermare la coesione nella fede delle cinque sedi, è che i patriarchi
assicurino l'informazione, il controllo e la trasmissione in materia di affari religiosi fra il potere centrale e le
chiese locali.
I patriarchi devono inoltre impedire l’assenteismo episcopale, controllare che le offerte versate al momento
delle ordinazioni corrispondano alle tariffe fissate, giudicare le cause ecclesiastiche già sentite dall’autorità
provinciale.

Con il consiglio dei chierici egli opera una sistemazione giuridica della vita cristiana.
Assegna al vescovo una funzione civile crescente: deve prendersi cura del buono stato degli edifici con le
autorità pubbliche, sorvegliare i rappresentati dello Stato, promuovere opere di beneficienza organizzata per
sua iniziativa e visitare le prigioni.

La legislazione giustinianea si preoccupa anche della selezione e del comportamento del clero.
Una delle priorità dell'imperatore sembra essere quella di sorvegliare la vita monastica. Egli la identifica con
il cenobitismo, insiste soprattutto sull'assoluta segregazione dei sessi e pone le comunità costituite sotto la
conduzione di capi, gli igumeni, sottoposti ai vescovi. Tende a fare dei monasteri, in quanto luoghi di
penitenza, istituzioni in cui potrà essere realizzata una condanna penale.

Alla prova dei fatti: le prime manifestazioni di una crisi

Nell’azione di Giustiniano la ricerca della meraviglia, del timore e dello stupore risponde anche a una crisi di
identità del tempo vissuto dai cristiani all'inizio del VI secolo.
Dopo i lavori cronachistici di Giulio Africano era divenuta credenza comune che la fine del mondo dovesse
avvenire verso il 500. Questa convinzione era fondata sulla duplice idea che la creazione dovesse durare
6.000 anni e che la nascita di Cristo fosse avvenuta nell'anno 5500. Essa permetteva di considerare le
catastrofi naturali (terremoti, epidemie, sconvolgimenti climatici) e le distruzioni prodotte dall'uomo
come preannunci della fine.
Ma una volta acquisito che la fine non si è verificata alcuni cronachisti assegnano l’anno 0 alla nascita di
Cristo, rimandando il compimento dei secoli alla fine del VII millennio.

Giustiniano trae da questi tentativi la volontà di riqualificare positivamente il corso del tempo.
Negli anni 532-538 con la novella 47 prescrive che la data di ogni documento ufficiale debba in primo luogo
far figurare l'anno di regno e poi soltanto la data consolare, poi l'indizione, il mese e il giorno. Fino a quel
momento l'Impero non si era preoccupato di imporre un suo sistema cronologico all'insieme delle
disposizioni pubbliche.
La soppressione, a partire dal 541, del consolato ordinario sottolinea ancor di più l'esclusività del riferimento
alla figura imperiale.

Ma l'accumularsi delle disgrazie porta a ricercare aiuto anche in altre garanzie giudicate più efficaci rispetto
all'esaltazione di una nuova età imperiale. Così, un culto mariano specificatamente rivolto alla salvaguardia
della capitale si sviluppa nel contesto delle devastazioni della peste.
Nelle regioni orientali le campagne persiane, lanciate per supplire alle carenze finanziarie del regime
sasanide, depredano i territori urbani delle province romane più prossime. I saccheggi e le deportazioni si
rivelano particolarmente crudeli e si ripetono fino al 545, prima di essere interrotte dalla pace del 562.

È in questo clima di grande sconforto che appaiono molte immagini di Cristo dette "acheropite" (non fatte da
mano umana) come il mandylion di Edessa.
Si manifesta la comune sensazione che più dell'uomo santo e dell'imperatore, resi precari dalla malattia e
dalla guerra, è ormai l'immagine che salva, libera, compie i miracoli come il suo modello che è Cristo ad
attivare la potenza divina a beneficio della città.
L'imperatore vuole acquisire un beneficio da questa potenza divina, servendosi subito di queste
manifestazioni per accrescere la carica di sacralità che già circonda la sua figura.
Ciò non riuscirà però a fermare il processo di mutamento della pratica religiosa manifestato dallo sviluppo
del culto dell’immagine nella dimensione locale. Questo causa l’allontanamento delle province dalla
capitale e il principio di universalità tanto agognato da Giustiniano inizia a sfaldarsi.

Alla sua morte si piange con profonda afflizione l'uomo ortodosso, tuttavia l'accesso alla comunione
dei santi non gli è stato concesso dalla Chiesa. Il suo ricordo è troppo segnato dalla costrizione che ebbe a
esercitare su di essa.
Giustiniano è infatti tra coloro che sono stati più duramente esposti all’accusa di cesaropapismo. In materia
di fede e di culto si è avvicinato al limite massimo della competenza stabilita per l’imperatore.

Dopo Giustiniano

Ci fu l’indebolimento del fronte anticalcedonese, privato dei capi in Oriente e in Egitto e debilitato da uno
scisma interno (scisma triteista: alle tre ipostasi divine corrispondono tre nature).
Il nipote di Giustiniano, Giustino II, era propenso alla conciliazione nei riguardi degli anticalcedonesi.
Tuttavia a causa dell'impossibilità a Costantinopoli nel 570 di riconciliare lo scisma triteista Giustino II
promulgò un editto (571) di ispirazione neocalcedonese che, senza menzionare il concilio del 451, segnala
disposizioni meno accomodanti verso i sostenitori dell'unica natura.

Giustino II riapre poi le ostilità con la Persia (572), ma a causa della fragilità della sua salute mentale è ben
presto costretto a rinunciare all'esercizio del potere. Con un umile atto di rinuncia adotta Tiberio e lo designa
come successore nel 574.

Tiberio introduce un notevole cambiamento rispetto agli orientamenti giustinianei in materia di politica
religiosa. Volendo imitare Costantino compie infatti la scelta di mettere fine a ogni forma di persecuzione
verso gli anticalcedonesi e lo esprime con una formulazione al patriarca di Costantinopoli Giovanni
Scolastico, giunto per tentare di persuaderlo del contrario.
Sfruttando l'occasione di questo nuovo accordo che si estende a tutto l'Impero, il patriarca severiano Pietro di
Alessandria (575-577) rimette allora in vigore una supervisione episcopale sul mondo anticalcedonese,
senza tuttavia poter risiedere ad Alessandria.
Questo sforzo è proseguito da Damiano (578-605) e poi quando Giovanni l'Elemosiniere (610-619) è a sua
volta innalzato alla sede calcedonese di Alessandria trova solo sette chiese che obbediscono alla sua
giurisdizione.

Nel resto del mondo anticalcedonese, da lungo tempo collocato sotto la tutela del patriarca alessandrino
Teodosio, Giacomo Baradeo vescovo di Edessa risponde alla domanda pastorale ordinando numerosi
presbiteri e 15 vescovi fra il 553 e 566, malgrado la sorveglianza poliziesca.
Tra di loro figurano gli arcivescovi d'Antiochia. È in questo periodo che si determina una vera strutturazione
della Chiesa anticalcedonese. Fondandosi su una rete di monasteri e di villaggi, essa non è troppo influenzata
dal nipote dell'imperatore, Domiziano vescovo di Mitilene (580-602).
Scatenate diversi anni dopo il trattato di pace con la Persia (591) le sue persecuzioni sono un'eccezione
durante il regno di Maurizio (582-602), per lungo tempo indotto alla moderazione dal patriarca
Giovanni il Digiunatore.

Nello stesso periodo, il pensiero cristologico si approfondisce sul versante neocalcedonese, come attesta
l'opera di Leonzio di Gerusalemme (fine VI-inizio VII sec) che perfeziona la definizione di ipostasi.
Il patriarca Eutichio di Costantinopoli ritiene che corpi incorruttibili ed eterni si sostituiranno ai corpi terreni
nella resurrezione.

In materia ecclesiologica, anche se l'organizzazione patriarcale è tollerata da tutti, il vescovo di Roma


Gregorio Magno (590-604) non può accettare che il vescovo di Costantinopoli si fregi del titolo di patriarca
"ecumenico".
Roma considera preoccupante la tendenza a riservarlo esclusivamente al vescovo di Costantinopoli e di
solito in occasioni sinodali. Il timore di papa Gregorio è che il titolo miri a porsi come garante dell'ortodossia
nella convalida delle decisioni sinodali per poi pretendere un indebito primato.
Il conflitto si protrarrà fino al 602 con l’imperatore Foca che decide nel 607 di ritirare la qualifica di
ecumenico al patriarca di Costantinopoli e stabilisce altresì che la Sede apostolica di san Pietro sarà il capo di
tutte le chiese.

L'utopia giustinianea distrutta? Un Oriente cristiano sconvolto (602-692)

Minacce e riconquista: Eraclio e la ricerca di un'ispirazione costantiniana

Giustiniano, avendo eliminato Vandali e Ostrogoti, ha reso vulnerabile l’impero alla minaccia di nuovi
barbari: Longobardi, Avari e Slavi. Il regno dell’imperatore Maurizio fu caratterizzato da numerosissime
guerre, fino a che lui stesso non cadde nel 602 a causa dei ribelli comandati da Foca.

Da allora si susseguono disastri militari: nei Balcani la ritirata degli inviati contro i Persiani l’ingresso in
massa degli Slavi.
Foca e i suoi seguaci sono eliminati dalla ribellione venuta da Cartagine, rinforzata in Egitto e comandata da
Eraclio nel 610.

Dal 610 al 620 i Sasanidi conquistano Edessa, Antiochia, Damasco, Emesa, Gerusalemme, l'Egitto e
stabiliscono la loro amministrazione sui territori conquistati.
Eraclio potrà rispondere soltanto alcuni anni più tardi, a partire dal 624: ci furono alcune vittorie in Armenia.
Poi, mentre l'assedio di Costantinopoli da parte di Avari e Persiani fallisce di fronte alla mobilitazione della
città guidata dal suo patriarca Sergio, l'imperatore si impegna in Mesopotamia e ottiene la decisiva vittoria di
Ninive del 627. Cosroe II è presto rovesciato ed eliminato (628).

Con gli anticalcedonesi Eraclio intende ottenere un accordo sfruttando la sua condizione di vincitore.
Assume il titolo ufficiale di basileus che sulla scia dei re di Israele, ma soprattutto a imitazione della
designazione conferita a Cristo: l'intento è quello di unire più strettamente ancora il suo Impero al regno dei
cieli.
La pretesa si manifesta anche nel decreto di conversione forzata dei Giudei (632) dopo le violenze da questi
innescate sotto l’influenza persiana e le ritorsioni che ne conseguirono. Questa decisione fu però applicata in
modo ineguale e per poco tempo.

Di fronte a un'intensa sfida, una risposta singolare e rischiosa: il monotelismo

L'unione confessionale ricercata procede con un’iniziativa suggerita nel 626 dal patriarca costantinopolitano
Sergio. Si basa sull'affermazione dell'unicità in Cristo dell'energeia (=attività), che fu accettata da
Ciro, vescovo consultato da Eraclio durante la campagna di Persia. Divenuto patriarca d'Alessandria con
l'appoggio del regime, Ciro promuove la formula grazie a un Patto di unione stretto con
i severiani (633), mentre il monaco Sofronio, futuro patriarca di Gerusalemme, la contesta.
Sergio ricerca il parere di papa Onorio, presentandogli come assurda la presenza di due attività e di
conseguenza di due volontà opposte in Cristo. Il papa concorda con lui e nella risposta afferma un'unica
volontà in Cristo.

Sofronio diviene patriarca di Gerusalemme e non vuole riconoscere altro che due volontà naturali in Cristo.
Sergio convince Eraclio a ufficializzare l'enunciato dell'unica volontà mediante la Ekthesis e così si passa a
una fede dell'Impero fondata sulla confessione del monotelismo.
La controversia generatasi è circoscritta alla sola Chiesa calcedonese, mentre le regioni a maggioranza
anticalcedonese passano sotto l'autorità musulmana.

Rigettata a Roma dopo la morte di Onorio, la dottrina monotelita viene contestata a Costantinopoli.
Il Typos dell'imperatore Costante II (641-668) interdice ogni dibattito sui termini cristologici contestati.
Di fronte a questa ingiunzione un’alleanza si stringe fra il teologo Massimo il Confessore, i suoi discepoli e il
nuovo papa Martino, eletto nel settembre del 649. Una procedura insolita nota sotto il nome di concilio del
Laterano (ottobre del 649), ma differente dallo svolgimento abituale dei sinodi romani, approva senza
discussione i documenti in precedenza messi insieme da Massimo e tradotti in latino, scomunicando Sergio e
i successori e respingendo Ekthesis e Typos.
Questo insieme di delibere è una provocazione per l'imperatore: egli fa arrestare Martino I e lo esilia dove
muore nel settembre del 655. Costante si rivolge anche contro Massimo, gli fa tagliare la lingua e lo esilia.
Anche lui morirà in esilio nel 662.

Passato in secondo piano dopo l'accettazione implicita da parte di papa Vitaliano della linea imperiale
espressa dal Typos, l'affare monotelita riemerge solo dopo che viene respinto l'assalto arabo a Costantinopoli
(677-678): la città resta la capitale di un Impero cristiano, ma ormai sempre più debole e meno esteso.

Costantino IV, che non ha dimenticato l'appoggio decisivo datogli dal papa quando si era trattato di
succedere al padre Costante II morto assassinato, intende giungere a una ripresa di rapporti con Roma.
Al termine di scambi epistolari con papa Agatone, poi di un concilio, il terzo di Costantinopoli tra il
novembre del 680 e il settembre del 681, il ditelismo prevale: «proclamiamo che in lui (Cristo) vi sono due
volontà naturali e due attività naturali, indivisibili e immutabili».
Numerose le condanne che vi sono formulate: papa Onorio I viene anatemizzato, la battaglia di Martino I è
passata sotto silenzio e Massimo riceve una modesta menzione.
Considerato in seguito ecumenico, questo concilio celebra una cooperazione finalmente raggiunta fra Greci e
Latini e segna la partecipazione effettiva o delegata dei titolari dei cinque patriarcati calcedonesi.
Ma illustra allo stesso tempo un processo di contrazione ecclesiologica, una diarchia che concentra
l'iniziativa su Roma e Costantinopoli.

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