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SAN MARCO E LA SUA BASILICA

La vita
Conosciamo qualcosa della vita dell'evangelista
Marco grazie ad alcuni testi del Nuovo Te-
stamento e alle testimonianze degli antichi scrit-
tori ecclesiastici. Per colmare quanto manca a
questi testi ci sono fonti posteriori sia di ambito
egiziano, sia di ambito occidentale, in particolare
modo veneto-aquileiese. Queste fonti riferiscono
dell'apostolato che, secondo la tradizione, avrebbe
svolto in Egitto e nelle Venezie. In ambiente
biblico Marco appare per la prima volta in Atti
12,12, laddove si racconta che l'apostolo Pietro,
trovatosi libero dal carcere, si diresse alla casa di
Maria, madre di Giovanni soprannominato
Marco, dove parecchi cristiani radunati stavano
pregando. Marco si presenta con doppio nome:
Giovanni, di tradizione ebraica, e Marco, di antichissima tradizione romana riportabile
a Marte, il dio della guerra; un fenomeno di binomia non raro nella civiltà ellenistica.
Egli è ritenuto l'autore del secondo vangelo, il più breve dei quattro, composto di soli
sedici capitoli. In questo vangelo, laddove si parla dell'arresto di Gesù, si trova
all'improvviso, senza logici collegamenti con l'insieme narrativo, l'episodio di un
giovinetto che a differenza degli altri discepoli di Gesù, fuggiti via, seguiva il Maestro.
Egli era ravvolto in un lenzuolo sul corpo nudo. Quelli che erano lì per arrestare Gesù
cercarono di fermarlo per liberarsi dell'incomodo testimone. Ma costui, abbandonando
il lenzuolo, fuggì via nudo (Mc 14, 51-52). Molti commentatori hanno ritenuto che
l'episodio abbia un sapore autobiografico, onde nel giovinetto si ravviserebbe Marco
stesso. In effetti, se dal resto degli Atti, dove si parla di Marco, egli risulta di agiata
condizione, l'episodio del vangelo confermerebbe questo dato, giacché poter disporre
di un lenzuolo, onde avvolgersi nella notte, era riservato ai ricchi. Poiché siffatto brano
evangelico non fa il nome di Marco, la prima testimonianza sicura su di lui ci è data
dal testo citato degli Atti. Da esso conosciamo anche Maria, la madre di Marco. In
pratica egli ci appare orfano e unico figlio di madre vedova. Per colmare il vuoto
biografico, lasciato dal testo degli Atti, bisognava costruire una regolare biografia, con
un padre, un luogo di nascita, e altri episodi della giovinezza. Questo lavoro è stato
compiuto, ad esempio, dai biografi copto-egiziani del IX secolo.

LA GIOVINEZZA
Marco sarebbe nato a Chairouan, l'odierna Cirene capitale della Cirenaica, nella Libia
attuale. Suo padre Paolo, nato ad Asut, una località del basso corso del Nilo,
apparteneva a una ricca famiglia contadina, ed era cugino dell'innominata moglie
dell'apostolo Pietro. Maria, moglie di Paolo, era una donna colta, discendente della
stirpe sacerdotale di Aronne e ritenuta santa nella Chiesa orientale. La discreta
agiatezza economica permise a Marco lo studio dell'ebraico, greco e latino,
approfondendo la conoscenza della sacra Scrittura e in particolare i testi dei profeti.
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Probabilmente Giovanni Marco era nato all'inizio dell'era volgare, sotto l'impero di
Augusto. Prima della morte di costui, la Cirenaica fu invasa da tribù barbare, che
depredarono terre e beni della famiglia di Marco, onde, costretto alla fuga con i
genitori, si rifugiò a Gerusalemme. Li acquistarono un podere, attraversato dal torrente
Cedron, alla periferia della città. In questo luogo Gesù si ritirò nella notte dell'agonia e
proprio nella vicina casa di Maria e Marco il Maestro avrebbe celebrato l'ultima cena.
Prima che il Divino Maestro iniziasse la vita pubblica, era morto Paolo, il padre di
Marco. E questi ebbe presto l'occasione d'incontrarsi con Gesù stesso e di diventarne
discepolo. Le ricordate fonti copte precisano che Marco sarebbe stato presente al
primo miracolo del Salvatore a Cana di Galilea. Un'altra tradizione egiziana, anteriore
di quattro secoli a quella copta, è riferita da sant'Epifanio, morto nel 403. Egli afferma
che Marco faceva parte dei settantadue discepoli di Gesù, occupando nella serie il
cinquantottesimo posto. Ma quando Gesù a Cafarnao (Gv 6,66) suscitò meraviglia e
scandalo per aver affermato che bisognava mangiare la sua carne e bere il suo sangue
per ottenere la vita, tanto da spingere molti discepoli ad abbandonarlo, tra questi ci fu
anche Marco. Soltanto dopo l'ascensione di Gesù al cielo egli sarebbe ritornato tra i
discepoli del Maestro, in seguito all'opera persuasiva dell'apostolo Pietro, suo parente
per via paterna. L'apostolo Pietro lo avrebbe battezzato, secondo quanto affermano
alcuni interpreti del noto testo della prima lettera di Pietro, laddove da Roma, nei
saluti ai fedeli, aggiunge anche quelli di Marco, «figlio mio» (1 Pt 5,13), benché odier-
ni esegeti della lettera la ritengano non autografa di Pietro bensì composta da suoi
seguaci in Asia Minore verso il 100. Comunque sia, si sarebbe trattato di figliolanza
spirituale contratta con il battesimo. Le fonti egiziane invece raccontano il battesimo
di Marco in modo diverso. Giunto adolescente a Gerusalemme con sua madre vedova,
che si chiamava Anna, sarebbe stato presentato alla Vergine Maria. Ella a sua volta
affidò Marco e la madre sua a Giovanni. Costui, dopo un'adeguata catechesi, battezzò
ambedue: anzi nel momento del battesimo Gesù stesso sarebbe apparso al giovinetto
in segno di benevolenza. Nella circostanza, Anna avrebbe assunto il nome di Maria, in
ossequio alla Vergine.

DA GERUSALEMME AD ANTIOCHIA
Queste cose ovviamente non sono narrate nei testi neotestamentari. Gli Atti degli
apostoli (12,25) si limitano a ricordare che Barnaba e Saulo, rientrando da
Gerusalemme ad Antiochia, recarono con sé Giovanni soprannominato Marco. Nei
primi mesi dell'anno 45 i due apostoli si erano recati a Gerusalemme con una buona
somma di denaro, raccolta tra i cristiani della città, in soccorso dei fratelli colpiti da
una grave carestia. E’ probabile che i due abbiano soggiornato nella casa di Maria
madre di Marco, poiché Barnaba dal testo sacro risulta imparentato con lui, ora quale
zio, ora cugino. Barnaba era un ebreo convertito, originario dell'isola di Cipro mentre
Saulo corrisponde all'apostolo Paolo, che Barnaba aveva scoperto a Tarso. Antiochia,
oggi Antakya nella Turchia sudoccidentale, sorge di fronte all'isola di Cipro. Allora
godeva il prestigio di un grande centro commerciale ed era una capitale di
divertimenti; divenne famosa per questi motivi nell'intero Medio Oriente, terza città
dell'impero romano dopo Roma e Alessandria, capitale della provincia romana di Siria
con circa trecentomila abitanti, e con una nutrita colonia ebraica di circa quaranta-
cinquemila unità. Erano ebrei dediti al commercio di ogni genere, gioiellieri, artigiani
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e studiosi, stimati a motivo di antica fedeltà verso la dinastia dei Seleucidi, che aveva
regnato sulla città. Nelle sue piazze e strade si incontravano folle cosmopolite,
mercanti di seta provenienti dalla lontana Cina, schiavi giovani e adulti venduti per
diversi servizi. Era la città dei giochi gladiatoni, delle danze e dei cortei, in una
confusa massa di ciarlatani, di strilloni da fiera, di buffoni, incantatori, stregoni, eroi
da circo e palcoscenico come racconta in suadente stile Ernesto Renan, il noto biblista
francese. Soprattutto Antiochia era celebre per i suoi boschetti sacri alla dea Dafue,
adibiti a turpi piaceri. La comunità cristiana da parte sua reagiva a questa situazione
ambientale con una carica di intensa spiritualità e dinamismo apostolico, ed era aperta
all'evangelizzazione sia degli ebrei sia dei seguaci di qualsiasi altra religione. In effetti
gli Atti (11,26) precisano che proprio qui per la prima volta i seguaci della severa
morale predicata nel nome di Cristo, forse per dileggio, furono denominati cristiani. In
questa comunità, durante un servizio liturgico, i suoi profeti e dottori, di cui i principa-
li sono elencati dagli Atti (13,1), «si sentirono dire dallo Spirito Santo: Riservate per
me Barnaba e Saulo perché li ho destinati ad una missione», cioè per andare a
predicare tra i pagani (At 13,2-3). L'asciutto racconto degli Atti non precisa né l'anno
né il mese. Si suppone fosse una tiepida sera di aprile del 46, quando furono imposte
le mani sui due prescelti.

A CIPRO
Continuano gli Atti (13,4): «Essi sotto la spinta dello Spirito Santo scesero a Seleucia
e di là veleggiarono verso Cipro». I due apostoli, e Marco con loro, usciti da Antiochia
si avviarono lungo la strada che si snodava per circa venticinque chilometri, sino a
Seleucia di Pieria, a nove chilometri dalla foce dell'Oronte, il porto naturale di
Antiochia. Marco adempiva la funzione di aiutante, precisano gli Atti (13,5). Cipro fu
scelta in quanto patria di Barnaba e come tappa per organizzare il primo viaggio
apostolico, che porterà Paolo nel cuore dell'Asia Minore (la Turchia attuale) e in
successione, negli altri tre viaggi, nell'intero bacino del Mediterraneo. Il tragitto in na-
ve da Seleucia a Cipro si compiva in ventiquattro ore. Lo sbarco, si suppone, avvenne
a Salamina, il porto di Cipro, la città più popolosa e già antica capitale. A Salamina
sorgevano numerose sinagoghe dove si riunivano gli ebrei, emigrati a Cipro sin
dall'età dei Maccabei per dedicarsi alla preferita attività del commercio. Nelle
sinagoghe della città i due missionari si diedero da fare per annunciare il vangelo (At
13,5), coadiuvati da Marco, forse catechista e battezzatore, forse cronista della
spedizione. Non sappiamo se essi abbiano predicato anche nelle altre città. Il testo
degli Atti (13,6) si limita a raccontare che i tre, prima di giungere a Pafo, la capitale,
attraversarono tutta l'isola, senza precisare se vi siano giunti seguendo la strada
litoranea meridionale o abbiano visitato anche le altre città. Se si avviarono lungo la li-
toranea, dopo Salamina oltrepassarono Cizio e Amatho, famose per i templi di
Afrodite, di Adone e di Ercole, nonché per i commerci dei cereali e del rame. Poco
oltre si imbatterono in Curio. Prima di toccare Arsinoe, si presentarono alla loro vista i
ruderi di Paleopaphus o Pafo vecchia (oggi Kouklia), di origine fenicia, distrutta da un
violento terremoto un quarantennio prima. Era crollato anche il tempio della dea Pafia,
o Cipria, nel cui nome gli abitanti invocavano Astarte, la fenicia dea lunare. Per i
ciprioti ella nacque misteriosamente dalle spume del mare e, poggiando su una
conchiglia, sospinta dalle brezze era approdata a Paleopafo. Essa fu chiamata «dalla
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spuma» (afror) «emersa» (dite), onde Afrodite. E le fu eretto un santuario, che rese
Pafo vecchia tra le città sante dell'antichità. Ad esso accorrevano folle di pellegrini
dall'intero bacino del Mediterraneo per venerare l'immagine della dea. Ad essa erano
richieste la fecondità delle famiglie, la fertilità delle greggi e del suolo e la maternità
per le donne sterili. Al tempo dei nostri missionari il culto era ormai inquinato da
turpitudini e disordini sessuali. Dopo il terremoto, il tempio di Afrodite era stato
ricostruito in Pafo nuova, dove era stata trasferita l'immagine della dea. A Pafo nuova
avvenne lo scontro di Paolo con Bar-Jesus detto Elimas, un mago e falso profeta che
era al seguito di Sergio Paolo, il proconsole romano di Cipro (At 13,6-12). Bar-Jesus
si spacciava intermediario fra Dio e gli uomini, mezzo scienziato e mezzo indovino,
forse seguace della setta ebraica degli esseni. Il proconsole Sergio Paolo lo teneva alla
sua corte tra i favoriti assieme ad altri dotti e saggi. Avendo saputo che Barnaba e
Saulo erano giunti nella capitale, volle conoscere il loro messaggio. Ed essi gli
esposero il vangelo. Poco mancò che Paolo Sergio aderisse alla nuova dottrina. Ma
Bar-Jesus timoroso di perdere il suo ascendente sul proconsole si oppose alla
predicazione dei due missionari. A questo punto Paolo lo affrontò con la sua tipica ir-
ruenza, rendendolo cieco da non vedere il sole. Il proconsole atterrito dall'episodio,
resosi conto della soprannaturalità della predicazione dei due, si convertì subito alla
fede cristiana. E forse egli stesso consigliò ai tre di avviarsi a predicare il vangelo nel
cuore dell'Asia Minore, nella regione di Antiochia di Pisidia, dove i suoi antenati
avevano posseduto vasti terreni.

VERSO L'ASIA MINORE


È probabile che nella primavera del 47 i tre missionari si siano imbarcati a Pafo nuova
per la spedizione verso l'Asia Minore, dirigendosi verso Attalia, porto naturale della
Panfilia nei pressi della foce del fiume Cestro. A detta di Strabone, il sommo geografo
dell'antichità, esso era navigabile da imbarcazioni di alto mare fin presso Perge, la
capitale della provincia. Non sappiamo se i tre missionari abbiano navigato sin qui,
oppure, sbarcati ad Attalia, percorsero a piedi i quindici chilometri che li separavano
da Perge. Giunti in qualsiasi modo alla capitale, avvenne il distacco di Marco dai due
apostoli. Il testo degli Atti (13,13) si limita a rilevare ch'egli si separò da loro per
ritornare a Gerusalemme.

LA CRISI DI MARCO
Riesce difficile conoscere per quale motivo il giovane aiutante dei due non abbia
voluto più proseguire. Le ipotesi sono state le più disparate. Già san Giovanni
Crisostomo (344-407) aveva supposto che Marco provasse nostalgia di rivedere sua
madre; secondo altri ricevette notizie spiacevoli circa la sua famiglia. Non è escluso
ch'egli abbia avuto paura dell'itinerario che si presentava innanzi. Dovevano infatti
oltrepassare le impervie e innevate catene montuose dell'Antitauro e del Tauro, tra
stretti sentieri sospesi su valli profonde, in un paesaggio selvatico, con frequenti
caverne in cui si annidavano i briganti dell'Isauria e della Pisidia, ben noti per le loro
rapine e la loro ferocia. Per il distacco di Marco, tuttavia, è stata avanzata di recente
anche un'ulteriore ipotesi. Marco si era reso conto che il programma del viaggio
apostolico si stava mo dificando di fondo una volta che capo missione era diventato
Paolo al posto del cugino Barnaba e gli obiettivi andavano ben oltre l'isola di Cipro.
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L'abbandono di Marco fu considerato da Paolo un tradimento. E se lo legò al dito per
parecchi anni. Mentre Marco si reimbarcava ad Attalia per far vela forse verso Cesarea
marittima, il porto non lontano da Gerusalemme, Paolo e Barnaba ripresero il loro
cammino verso Antiochia di Pisidia.

MARCO A GERUSALEMME E AD ANTIOCHIA


Di Marco ritornato a Gerusalemme poco si sa. Si suppone che si sia recato a Roma,
dove c'era l'apostolo Pietro al quale si sentiva legato da motivi d'affetto, oppure sia
rimasto a Gerusalemme. Qui nel 49, in occasione del Concilio apostolico (At 15,1-29),
si trovava anche Pietro. Ed erano giunti nella santa città anche Paolo e Barnaba per
giustificare il metodo nuovo del loro apostolato verso i pagani divenuti cristiani senza
dover passare attraverso le norme imposte dalla tradizione giudaica. Approvato il loro
sistema missionario, Paolo e Barnaba ritornarono ad Antiochia, la loro base operativa
(At 15,35). Qualche tempo dopo, scrivono gli Atti (15,36), Paolo propose a Barnaba di
riprendere il viaggio per visitare le comunità cristiane da loro precedentemente
organizzate. Ad Antiochia casualmente si trovava anche Marco, giunto forse con
l'apostolo Pietro. Barnaba, tanto legato al suo caro cugino, propose a Paolo di
riprenderlo assieme quale aiutante (At 15,37). A questo punto Paolo fu irremovibile
nel diniego precisando, come scrivono gli Atti (15,38), che non voleva assolutamente
condurre più con sé uno che in Panfilia si era separato, rifiutando di aiutarli. Di recente
alcuni studiosi hanno pure ipotizzato che Paolo intendesse aver mano libera nel suo
apostolato senza agganci con i metodi di Pietro, con il quale aveva discusso in modo
animato, lì ad Antiochia in quei mesi. Ai suoi occhi Marco poteva sembrare la longa
manus dì Pietro e della stessa comunità di Gerusalemme, scelto da Barnaba per
vigilare se lui applicasse fedelmente le decisioni del Concilio apostolico. Barnaba non
era d'accordo con l'amico Paolo. Ma costui, lasciatosi prendere la mano dal suo fiero
temperamento, si arroccò irremovibile nelle sue decisioni. Anche Barnaba puntò i
piedi per difendere Marco al punto che arrivò a rompere la lunga amicizia con Paolo.

ANCORA A CIPRO
Mentre Paolo prese con sé Sila per avviarsi verso le comunità cristiane dell'Asia
Minore, Barnaba si imbarcò verso Cipro assieme a Marco per una seconda
evangelizzazione dell'isola (At 15,39-40). Notizie specifiche al proposito sono
piuttosto tarde e appartengono agli apocrifi Atti di Barnaba, attribuiti a Marco stesso,
ma in realtà redatti tra il 485-488, per giustificare l'autocefalia o autonomia della
Chiesa di Cipro rispetto alle principali sedi patriarcali. Barnaba sarebbe morto nel 60 a
Cipro, dove aveva diffuso il vangelo di Matteo. I menzionati Atti di Bamaba narrano
le vicende cipriote di Marco e Barnaba con vivacità di particolari, con tocchi romanze-
schi, con fantasiosi procedimenti, in una costante opposizione contro i due missionari
da parte di Bar-Jesus, colui che Paolo aveva smascherato nel 46 e che appare e
scompare come un fantasma per ostacolare l'apostolato di Barnaba. Il viaggio e lo
sbarco a Cipro sono narrati con una ricchezza di particolari avventurosi, ben diversa
dalla sobrietà storica della prima missione descritta dagli Atti degli apostoli. In un
primo tempo i due, imbarcatisi a Laodicea di Siria, a nord di Antiochia, furono spinti
dalla furia dei venti nel porto di Corasion sulla costa meridionale dell'Asia Minore.
Ripreso il mare, un'altra bufera li buttò sull'isola Pitiusa nell'Isauria meridionale da
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dove poi, giunsero ad Anemurion sulla costa della Cilicia. Partiti da qui, fu loro
possibile sbarcare a Cipro prendendo terra presso la città di Crommiachiti, dove
guarirono i due sacerdoti cristiani Timone e Aristone. I due missionari, ripreso il
cammino, puntarono sulla vicina Lapithos. Ma fu loro impedito di entrare in città,
poiché si stava svolgendo uno spettacolo di culto idolatrico. Attraversata una catena di
monti, essi giunsero al centro dell'isola, a Lampadistos, dove consacrarono Eraclide
vescovo dell'intera isola. La loro meta, tuttavia, era Paleopafo, in cui Barnaba e Marco
avevano assistito al ricordato episodio di Elimas Bar-Jesus, reso cieco da Paolo. E
Bar-Jesus si presentò alle porte della città intimando loro di proseguire oltre. I due si
avviarono verso Curion sulla litoranea presso il mare. Anche qui Bar-Jesus si parò
innanzi a loro proibendo l'ingresso. Tuttavia, mentre essi si avvicinavano alla città, sul
monte vicino si stava svolgendo un lurido spettacolo di donne e uomini. Barnaba
maledisse quel luogo, onde il monte crollò, ponendo in fuga i superstiti. I due apostoli
sospinti dallo zelo si diressero quindi alla vicina Amatunte. Poco prima, a metà strada,
incontrarono per caso in un villaggio il vescovo Aristochieno, una vecchia amicizia,
eletto da Barnaba e Paolo nel primo viaggio del 46. Egli li accolse nella caverna dove
abitava. Di qui il cammino per Amatunte fu rapido. Ma Bar-Jesus, apparso
all'improvviso, impedì ancora una volta l'ingresso. E fu bene. Sul monte vicino una
gran folla di uomini e donne stava compiendo in atteggiamento di totale assenza di
pudore un sacrificio alla dea Afrodite, la patrona dell'isola. Ad accoglierli e a ristorarli
a casa sua si offerse una vecchia vedova, immune da siffatti turpi riti. I due, rianimatisi
al quanto, si diressero verso la vicina Kitium, senza potervi entrare poiché nello stadio
cittadino si davano i consueti spettacoli immondi. A questo punto Barnaba e Marco,
per giungere a Salamina, presero il mare. Ma neanche al celebre porto fu possibile
l'approdo, onde i due furono costretti a gettare gli ormeggi presso le isole Cleidi, in cui
trovarono ancora sporche feste e più sporchi riti idolatrici. L'unico conforto fu dato
dall'incontro con l'amico vescovo Eraclide. E finalmente, ripresa la navigazione,
sbarcarono a Salamina, dove in una delle tante sinagoghe Barnaba catechizzò nella
fede cristiana molti ebrei. Anche qui, tuttavia, apparve Bar-Jesus. Anzi sobillò contro
Barnaba gli altri ebrei, che lo catturarono, gli gettarono una corda al collo e lo
trascinarono dalla sinagoga sino all'ippodromo, dove lo bruciarono vivo. Raccolte le
sue ceneri, i nemici attendevano il mattino per disperderle in mare. Nel cuore della
notte invece Marco, con l'aiuto di due cristiani del luogo, riuscì a nasconderle in una
grotta per dare loro degna sepoltura assieme al vangelo di san Matteo. Appena gli
ebrei si accorsero della scomparsa dei resti di Barnaba si dettero all'inseguimento di
Marco e dei suoi amici, che si sottrassero alla cattura nascondendosi per tre giorni in
una grotta presso Ledro. Quando cessò ogni pericolo i tre scesero verso il porto di
Limnis.

TESTIMONIANZE PIÙ SICURE


Tralasciando siffatti racconti tardi e fantasiosi, possediamo su Barnaba una sicura
testimonianza di Paolo, che lo ricorda nella prima lettera ai Corinzi (9,6), del 53.
L'altra menzione di Barnaba si trova nella lettera ai Colossesi (4,10), benché le più
recenti posizioni critiche ritengano questa lettera non autografa di Paolo, ma composta
dalla scuola paolina, quando l'apostolo era ormai defunto da tempo. Paolo fa memoria
pure di Marco nella lettera a Filemone, in quella ai Colossesi e nella seconda lettera a
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Timoteo. Senza dubbio alcuno, gli esegeti paolini, anche i più severi, accolgono come
autografa solo quella scritta, nel 54, da Efeso a Filemone, un ricco cristiano di Colossi.
Alla fine, nei saluti dell'apostolo all'amico aggiunge anche quelli di altri, cioè Epafra
suo compagno di prigionia, e di quattro collaboratori, di cui il primo è Marco e
l'ultimo è Luca l'evangelista (Fm 23). Per spiegare la presenza di Marco a Efeso in
quest'anno 54, è lecito ipotizzare, collegandosi in questo modo al testo degli Atti, che,
quando dopo lo scontro di Antiochia, Barnaba e Marco si recarono a Cipro, di loro due
almeno Marco abbia raggiunto l'apostolo a Efeso, non molto distante. Nei saluti finali
nella lettera ai Colossesi, Paolo consiglia i suoi destinatari di accogliere bene Marco,
cugino di Barnaba, qualora si rechi presso di loro; su di lui l'apostolo aveva inviato
previe istruzioni. Ma se questa lettera va spostata verso l'anno 100 e non è autografa di
Paolo, come ritengono in buona parte gli esegeti odierni, la testimonianza storica perde
ogni valore. Parimenti nella seconda lettera di Paolo al prediletto discepolo Timoteo,
vescovo di Efeso, scritta e spedita nel 67, invitandolo a recarsi a Roma gli raccomanda
di prendere con sé anche Marco perché è prezioso per il ministero (2Tim 4,11). Ma
anche la seconda lettera a Timoteo, non diversamente dalla prima, ora con sufficiente
certezza è ritenuta non autografa di Paolo, bensì redatta parecchi decenni dopo la sua
morte.

MARCO A ROMA
Eppure anche il ricordato testo della prima lettera di Pietro, che sarebbe stata scritta da
Roma e nella quale tra i destinatari da salutare vi è pure il nome di Marco, va
ridimensionato, poiché questa lettera sarebbe stata scntta non a Roma, bensì nell'Asia
Minore verso il 100. Comunque Marco, giunto a Roma o nel 42 o dopo il 50, quale
aiutante di Pietro svolse la sua attività tra gli ebrei, che erano circa quarantacinquemi-
la. E si rivolse anche ai Romani pagani e per di più alle classi militari. In pratica
Marco si sarebbe comportato come un interprete tra Pietro, che non parlava il greco o
lo adoperava male, e il suo uditorio, per il quale il greco era una lingua internazionale.
Soltanto Clemente Alessandrino, attorno al 200, precisa che Marco compose il suo
vangelo a Roma. Per gli altri antichi scrittori ecclesiastici - dall'enigmatico Presbitero
(Giovanni?) del I secolo a Papia di Gerapoli, del 120 circa, a san Giustino martire, del
150 circa, a sant'Ireneo di Lione, del 180 circa - Marco mise in iscritto la predicazione
dell'apostolo Pietro, pur senza indicare in quale luogo questo sia avvenuto. Il dato di
Clemente Alessandrino ci è giunto nel testo dell'Historia ecclesiastica (Il, 15,1-2; VI,
14,5-7) di Eusebio di Cesarea, il padre della storia della Chiesa antica, che scrisse tra il
III e IV secolo, e da un frammento dello stesso Clemente nelle sue Hypotyposis ad I
Petri (5,14). Clemente afferma che Pietro aveva predicato il messaggio della salvezza
ai cavalieri di Cesare (equitibus caesarianis). Codesti, al fine di ricordare quanto
l'apostolo aveva proclamato a viva voce, indussero Marco a redigere il vangelo. Chi
fossero i cavalieri di Cesare non apparve mai chiaro. Di recente, Marta Sordi ha
avanzato un'intelligente ipotesi, proponendo una integrazione del testo di Clemente al
seguente modo: equitibus [et] caesarianis. Il testo acquisterebbe peculiare chiarezza,
onde Marco sarebbe stato spinto alla sua impresa dalla classe sociale romana dei
cavalieri e dal gruppo militare dei cesariani. I primi si dedicavano a diverse attività
sociali, mentre i secondi erano un corpo di polizia speciale addetto alla sicurezza
dell'imperatore.
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AD AQUILEIA
La seconda parte della vita di Marco comprende l'apostolato ad Aquileia, la principale
città della Venetia et Histria, e in Egitto ad Alessandria. Mentre l'apostolato in terra
africana si fonda sull'ineccepibile testimonianza di Eusebio di Cesarea, la missione
aquileiese, invece, si basa su dati puramente tradizionali riconducibili al vasto settore
delle leggende agiografiche. La fase aquileiese va collocata prima di quella ales-
sandrina. Le tradizioni orali, via via elaborate nel corso dei secoli, sono alla fine
confluite nell'organica rielaborazione fatta dal doge Andrea Dandolo nell'ampia
Clironica, redatta in Venezia attorno al 1350. Per il Dandolo, Marco è discepolo di
Pietro in Roma, dove ha composto il suo vangelo su richiesta dei cristiani del luogo
affinché la predicazione dell'apostolo non andasse smarrita per sempre. Pietro, quando
lo seppe, si rallegrò e ordinò che il testo evangelico fosse consegnato alle diverse
chiese. Anzi egli invitò Marco a recarsi ad Aquileia per predicare la parola del Si-
gnore, cosa che il discepolo compì volentieri recando con sé il testo del suo sacro
libro. L'arrivo di Marco ad Aquileia sarebbe avvenuto per via marittima con lo sbarco
a Mursiana, un sobborgo della laguna di Grado, proseguendo poi a piedi sino alla
vicina Aquileia. Qui Marco convertì il lebbroso Ataulfio e suo padre Ulfio, capo della
città, nonché l'intera famiglia, e in un secondo momento innumerevoli pagani, persuasi
sia dalla vivace predicazione di Marco sia da innumerevoli miracoli che
l'accompagnavano. I cristiani neoconvertiti chiesero poi a Marco che ricopiasse per
essi il testo del vangelo. Egli accondiscese alla domanda consegnandolo loro perché lo
osservassero con fedeltà. A questo punto Marco, ritenendo che la sua missione fosse
già compiuta, progettò di ritornare di nascosto a Roma presso san Pietro. Ma gli
aquileiesi, che seppero di questa sua intenzione per ispirazione divina, gli chiesero a
gran voce che fosse dato loro un suo successore.

ERMAGORA
Marco acconsentì alla richiesta invitandoli a presentargli un nome. E fu quello di
Ermagora, un prestigioso aquileiese, che godeva la stima di tutti, grazie a una
esemplare vita cristiana. Marco allora, assieme ad Ermagora, intraprese il viaggio
verso Roma lungo i canali lagunari che collegavano Aquileia con Ravenna. La
navicella che recava i due santi doveva attraversare gli intricati meandri dell'odierna
laguna di Venezia, città allora inesistente. Appena essa giunse al piccolo porto di
Rivalto, cioè il territorio di San Marco dei tempi del Dandolo, scoppiò una bufera di
vento che costrinse i naviganti a un approdo di fortuna presso un isolotto. E qui Marco
cadde in estasi e gli apparve un angelo comunicandogli il messaggio divino, aperto dal
saluto: «Pace a te Marco. Qui riposerà il tuo corpo». L'angelo poi profetizzò a Marco
le ulteriori fatiche apostoliche sino al martirio per Cristo, sino alla costruzione in
queste lagune di una meravigliosa città, dove sarebbe riposato il suo corpo. Finita
l'estasi, Marco ripartì e giunse a Roma rincuorato dall'angelica profezia. Qui presentò
a Pietro sia il resoconto della sua attività missionaria, sia Ermagora perché lo
consacrasse vescovo suo successore in Aquileia. Pietro accondiscese volentieri alla
richiesta del discepolo, onde, ordinato Ermagora vescovo, gli consegnò il pastorale
come segno esterno del potere e lo rimandò ad Aquileia. Correva allora l'anno 50.
Ermagora ritornò ad Aquileia aprendo la serie dei vescovi successori suoi e di san
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Marco. Marco invece, preso con sé il vangelo, si recò in Egitto ad Alessandria, dove
per primo annunziò Cristo e organizzò la relativa comunità ecclesiastica sino alla
morte nell'anno 52. A questo punto se è leggendaria la narrazione del Dandolo e dei
predecessori sull'arrivo di Marco e sull'apostolato in Aquileia tra il 48 e il 50, gode
invece una discreta certezza storica Ermagora quale primo vescovo della città, ma
senza aggancio alcuno con Marco e Pietro. Ermagora sarebbe infatti vissuto poco dopo
il 250 o forse martire nella fase delle persecuzioni per editto degli imperatori illirici da
Decio (249) sino a Diocleziano (304). Il collegamento Ermagora-Marco fu
determinato dalla locale tradizione aquileiese al fine di evidenziare anche per Aquileia
un'origine apostolica della gerarchia episcopale. Nell'ambito dell'attività aquileiese, se-
condo tradizioni tardomedievali, Marco si sarebbe spinto quale missionario sino ai
confini dell'impero romano sul Danubio, predicando a Lauriacum presso l'odierna
Enns nell'Austria superiore. Invece nel contesto dell'apostolato in Italia, tradizioni del
X secolo facevano di Marco il predicatore assieme a Pietro della Puglia addirittura
nell'anno 43, da Taranto, a Brindisi, al Gargano; cosa che se spiega un intenso culto
del santo in tale regione, non trova giustificazione sul piano storico.

IN EGITTO: AD ALESSANDRIA
L'apostolato marciano in Alessandria d'Egitto si fonda sul menzionato testo della
Historia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea. Questi scrive a proposito: «Dicono che
Marco fu inviato per primo in Egitto e che vi predicò il vangelo, che aveva composto e
che per primo stabili parrocchie nella stessa Alessandria». Il termine «parrocchie» non
corrisponde esattamente al significato odierno, fluttuando tra il valore di diocesi in
senso largo e di chiesa in senso stretto. Eusebio non scrive da chi Marco sia stato in-
viato né in quale anno. Gli storici e gli agiografi posteriori hanno ampliato queste
scarne notizie, ricostruendo sulla base di reminiscenze bibliche, in special modo dai
vangeli, una compiuta vita del santo dalla nascita sino al martirio. Possediamo a
riguardo due linee di fondo: quella egiziana, propria della Chiesa copta di Alessandria,
che sviluppa una biografia di san Marco in senso rigidamente nazionalistico; e quella
offerta da Simeone Logoteta, di Costantinopoli (X secolo).

LE FONTI COPTE
Per Anba Severo, Marco, collaboratore del cugino Barnaba, evangelizzò con lui l'isola
di Cipro. Morto costui, ritorna presso l'apostolo Pietro per aiutarlo. Muore anche
Pietro, finisce la vita anche Paolo. Marco resta triste in questo mondo. Egli sa che
l'avito Egitto non è ancora cristiano. Per di più gli egiziani sono duri di cuore, onde si
sente incapace di predicarvi il vangelo. Mentre riflette su considerazioni del genere,
all'improvviso gli appare Gesù con l'invito di partire per l'Egitto; anzi gli darà il potere
su tutto l'Egitto, sulla Nubia (parte dell'attuale Sudan settentrionale), la Libia, la
Pentapoli, la provincia d'Africa, sull'occidente di codesta terra, sulle due isole di
Cipro, di Creta. Si rechi subito a Gerusalemme per ricevere la benedizione dalla madre
Maria, prossima alla morte. Il santo, obbediente all'invito del Signore, ritornato a
Gerusalemme, incontra sua madre. Ella lo invita ad iniziare la predicazione africana ad
Abouniah, poiché qui era vissuto Jacob, suo zio paterno; di qui doveva recarsi ad
Alessandria e in altre località. Marco si avvia a un porto della Palestina, alla ricerca di
una nave per il tragitto verso l'Africa. Non la trova. Invece gli appare la Vergine
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Maria, che lo bacia ed ella pure lo invia in Egitto, assieme all'arcangelo Michele. Alla
fine l'evangelista riesce a contattare una nave mercantile in rotta per Alessandria.
Marco ordina al capitano di condurlo sino a Ifrikiah, corrispondente all'Africa
settentrionale nella lingua araba, o per altri studiosi alla città di Cartagine o per altri
ancora all'odierna località di Cirene sull'altopiano cirenaico. Il capitano della nave,
essendo diretto ad Alessandria, era deciso in cuor suo di sbarcare Marco in questo
porto. Appena la nave prese il largo, scoppiò una paurosa tempesta, tale da minacciare
un naufragio. Marco invita la tempesta a calmarsi. In seguito all'improvvisa bonaccia, i
com

A CIRENE
In questo modo si stava adempiendo la volontà di Marco. Appena sbarcato, egli si
muove verso la città e incomincia a predicare. Imbattutosi in una paralitica, la guarisce
con il segno della croce. Poi passa accanto a un indemoniato, che si divorava mani e
piedi e lo risana. A Cirene vive un tale Alino, la principale autorità della città, malato
di lebbra all'ultimo stadio. Gli amici lo avvertono della presenza di un uomo, che
opera prodigi nel nome di Gesù, il Figlio di Dio. Alino fa sapere che, se sarà guarito,
gli consegnerà metà dei suoi beni. E si reca presso Marco. Nel contempo il giovane
figlio di una vedova è portato al sepolcro fra il pianto di tutti. Marco lo prende per
mano, lo risuscita e lo consegna alla madre. Il prodigio convince e converte Alino, che
crede in Gesù, ed è guarito e battezzato. Sul suo esempio tutti gli abitanti aderiscono
alla nuova fede: tant'è vero che Marco li conduce sulla riva del mare a ricevere il bat-
tesimo. Erano cinquemila.

AD ALESSANDRIA: ANIANO
Dopo altri episodi, Marco poteva riprendere il suo viaggio. Salito sulla nave, fece vela
rapidamente verso Alessandria. Essa contava, circa un secolo prima, un milione di
abitanti, ed era antagonista di Roma stessa. Alla porta occidentale della città avvenne
l'incontro con Aniano. Marco, appena sbarcato, dopo un probabile tratto di strada a
piedi, entrò in città dalla porta detta «della Luna». Oltrepassata la porta, all'improvviso
si ruppe la cinghia di un sandalo di Marco. Severo, il biografo copto, ci presenta, in
questo frangente, il santo scorato e incerto sul futuro, presago di un esito infausto della
sua missione. A consolarlo, gli apparve l'arcangelo Michele, che gli rivolge una non
breve esortazione, e lo invita a seguirlo. Gli avrebbe indicato il vescovo suo
successore, giacché il Signore stesso l'aveva scelto a tale scopo. Marco, alzatosi in
piedi e ripreso il cammino, si recò presso un calzolaio di nome Aniano consegnandogli
il sandalo rotto. Nella civiltà ellenistica era abbastanza usuale che un ciabattino
abitasse presso le porte della città per riordinare le calzature dei viandanti. Aniano
stava riparando il sandalo. All'improvviso con la lesina si ferì alla mano sinistra. Fu
spontaneo il suo grido: «Unico Dio». L'evangelista, udite le parole, sorridendo
ripeteva tra sé e sé: «Il Signore ha reso favorevole il mio cammino». E subito con la
sua saliva, spruzzata sulla polvere della strada (gesto comune nella pratica medica
popolare antica), formò un po' di fango. Mentre lo poneva sulla mano ferita del
calzolaio recitò la formula: «Nel nome di Gesù Cristo vivente nei secoli sii risanato».
La ferita guarì sull'istante. Il calzolaio, da buon egiziano superstizioso, ammirate la
potenza e l'efficacia della preghiera di Marco, sbottò nel grido: «O uomo di Dio, oggi
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stesso vieni a casa mia per prendere cibo assieme a me, poiché mi hai dimostrato la tua
misericordia». Marco, rallegratosi della proposta, gli rispose: «Il Signore ti darà il
pane della vita celeste». Il calzolaio condusse a casa sua il santo apostolo. Appena
Marco mise piede sulla soglia esclamò: «La benedizione del Signore scenda su questo
luogo. Preghiamo Dio, fratelli». Dopo la preghiera si misero a tavola. Nell'ovvia
familiarità della conversazione il calzolaio chiese all'evangelista: «Padre, ti prego, chi
sei? E da dove la tua preghiera ha ricevuto tanta potenza?». Marco gli si rivelò. «Io
sono - disse - un servo del Signore Gesù Cristo, figlio di Dio». Il calzolaio di rimando
gli rispose: «Ma io vorrei vedere Dio!». Marco gli disse: «Te lo mostrerò». E
incominciò ad esporgli l'inizio del vangelo di Matteo come il più valido sul piano
catechistico per dimostrargli che Gesù è «figlio di David, figlio di Abramo» (Mt 1,1),
e quanto i profeti avevano predetto su di lui. Di fronte al calzolaio confuso, Marco
diede inizio alla catechesi sul Cristo spiegando come la saggezza di questo mondo è
stoltezza presso Dio. Il calzolaio con la sua famiglia credette subito in Gesù Cristo. Ci
fu ben di più. Una grande moltitudine di abitanti di quella località fu illuminata nella
fede da Marco stesso. Lo storico Simone Logoteta non racconta che l'evangelista
rimase ad Alessandria circa cinque anni per convertire alla fede una moltitudine
innumerevole. Egli si affretta a narrare le trame dei capi religiosi di Alessandria,
appena questi si accorsero del sorprendente numero di credenti in Cristo, per colpa di
un certo galileo giunto fra loro, il quale rovesciava i sacrifici agli dei e ne ostacolava il
culto. Per tali motivi cercavano di catturarlo e di ucciderlo. Lo scrittore Severo, a
questo proposito, scende in particolari di trame oscure, suscitate dal diavolo travestito
da cheikh, cioè capo religioso. Scomparso il demonio, i capi pagani tennero consiglio
e insieme concordarono di eliminare Marco. Egli, conosciuti i loro progetti per
rivelazione divina, ordinò ai discepoli di innalzare una grande chiesa in onore
dell'Immacolata Vergine Maria. Marco a sua volta, al fine di assicurare la vita cristiana
in Alessandria, costituì la consueta gerarchia, ordinando patriarca Aniano, presbiteri i
suoi figli e undici diaconi. Ormai Marco poteva sfuggire alle insidie dei nemici. Uscito
di nascosto da Alessandria, ritornò a Cirene. Qui Marco si fermò ancora alcuni anni
per rafforzare nella fede i cristiani convertiti in precedenza e costituire una regolare
gerarchia ecclesiastica mediante l'ordinazione di escovi e di «clerici», cioè sacerdoti,
diaconi eministri di ordine inferiore. Terminata questa fase di consolidamento nella
fede, desideroso di rivedere i suoi fedeli, l'evangelista decise di ritornare ad
Alessandria. Nella grande città l'apostolo si rese conto che i cristiani erano aumentati
di molto e cresciuti in conoscenza e amore di Dio. Essi avevano già eretto una chiesa
per la loro attività di culto nella località di Boucoli (dal greco bosko: pascolare),
costruita presso il mare, al di fuori della cinta orientale della città, dove si
susseguivano le verdi praterie per il bestiame. Trascorse molto tempo, scrive Simeone
Logoteta. Ormai i cristiani, in continuo sviluppo, si impegnavano nell'azione di
proselitismo per la conversione dei pagani locali. Per tutta risposta questi ultimi, alla
notizia che Marco era arrivato in città per riprendere la predicazione del vangelo,
incominciarono ad ardere di invidia, poiché udivano le meraviglie che egli compiva
guarendo i malati. Per questi motivi i suoi avversari lo cercavano dovunque. Non
potendolo catturare, si mordevano le labbra dalla rabbia; anzi, durante i loro sacrifici
agli idoli, gridando ad alta voce contro di lui, andavano dicendo: «Molte sono le
prepotenze di questo mago!».
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LA MORTE
L'occasione per disfarsi dell'evangelista non tardò a presentarsi. Avvenne la festa di
Pasqua, il 24 del mese di aprile, o di farmuz, come lo chiamavano gli egiziani, o più
propriamente, secondo il calendario copto, nel mese di barmoudéh. Nel medesimo
giorno si celebravano anche i riti in ricordo della nascita del dio Serapide, il patrono
principale di Alessandria. Gli avversari di Marco, profittando delle cerimonie pasquali
presiedute dal santo, gli inviarono alcuni armati, che lo sorpresero mentre celebrava il
sacrificio eucaristico. Lo arrestarono. Gettatagli una fune attorno al collo,
incominciarono a tirarlo fuori dalla chiesa e per le vie della città al grido: «trasciniamo
questo bufalo allo stazzo dei bufali», nell'evidente gioco etimologico tra Boucoli, dove
sorgeva la prima chiesa cristiana, e bufalo. Marco, mentre veniva portato via, pregava
il Salvatore, mentre le sue carni cadevano a pezzi e le pietre delle strade restavano
macchiate di sangue. Sul far della sera, il santo fu gettato in carcere, in attesa delle
decisioni dei suoi nemici su quale morte dargli. In quei momenti, nell'oscurità della
prigione il santo si vide assalito da una folla di spiriti malvagi, che lo deridevano.
Marco senza guardarli, ordinò loro di precipitarsi nell'abisso. E la terra si aprì
inghiottendo quei demoni impuri. Da quel giorno, essi non sono più apparsi nei templi
pagani e neppure nei santuari consacrati agli idoli, onde lentamente crollarono in
rovina. A mezzanotte si verificò un violento terremoto. L'angelo del Signore discese
dal cielo e confortò il santo con l'assicurazione che le sue reliquie mai sarebbero
perite. Appena Marco contemplò questa visione, alzate le mani al cielo, rese grazie al
Signore Gesù. In questo momento Gesù gli apparve. E gli disse: «Pace a te, o Marco,
evangelista mio». E Marco di rimando: «E pace a te, Signore Gesù Cristo». Si fece
giorno. Subito una moltitudine di persone si recò sul luogo della prigione. Al santo,
spinto fuori dall'oscuro carcere, subito fu buttata di nuovo la fune attorno al collo. E
mentre lo strattonavano per le strade e piazze di Alessandria, risuonavano le grida
ormai solite: «Trasciniamo il bufalo allo stazzo dei bufali». Marco invece continuava a
ringraziare il Signore e a dirgli: «Nelle tue mani, Signore, affido il mio spirito». E
spirò. La moltitudine dei persecutori, nel desiderio che scomparisse ogni traccia del
santo, acceso un gran fuoco, stava bruciando i suoi resti mortali. A questo punto il
Signore intervenne in modo provvidenziale. Di fatto, scoppiarono un vento impetuoso
e una bufera violenta. Il sole incominciò ad eclissarsi. Rimbombavano i tuoni. Poi
scese una pioggia torrenziale mista a grossa grandine, che continuò sino al tramonto.
In pratica, molti edifici di Alessandria crollarono in macerie e non pochi abitanti
caddero morti. Solo allora i carnefici del santo abbandonarono in tutta fretta il corpo di
Marco dandosi alla fuga. Quando il cielo si rasserenò, uomini pietosi si recarono in
quel luogo per separare i resti di Marco dalla cenere e recarli dove egli era solito
cantare le sue preghiere e salmi, cioè a Boucoli. Più tardi seppellirono i suoi resti in un
luogo riservato, cioè in una cella memoriae, nucleo iniziale del più noto martyrion
successivo, nella zona orientale dell'edificio. Due altri episodi, tuttavia, vanno inseriti
nella fase alessandrina marciana. Il primo è in relazione alla Vergine Maria, ed è
documentato in un testo apocrifo redatto attorno al 550: Marco aveva saputo che per
lei si approssimava la morte. Anche lui, come gli altri apostoli, giunse a Betlemme
dove ella si trovava. La Madonna chiese loro in quale modo si fossero radunati tutti
assieme dalle regioni più lontane del mondo; anche Marco rispose a questa domanda:
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«Stavo compiendo il rito del terzo giorno nella città di Alessandria e, durante la
preghiera, lo Spirito Santo mi rapì e mi condusse qui da voi». Zaltro è in rapporto al
tuttora discusso problema del luogo in cui Marco avrebbe composto il suo vangelo.
San Giovanni Crisostomo afferma che Marco lo avrebbe redatto in Egitto dopo la mor-
te dell'apostolo Pietro. Il sepolcro di Marco nel martyrion di Boucoli divenne in breve
tempo un santuario di fama internazionale, richiamandovi i fedeli dopo la fine delle
grandi persecuzioni. Ad Alessandria i nuovi patriarchi ricevevano la consacrazione e
l'investitura sulla sua tomba, tenendo fra le mani il capo del santo, avvolto in preziosi
drappi. Questo santuario marciano fu risparmiato durante l'invasione persiana
dell'Egitto del 620, ma fu in parte incendiato durante l'invasione araba del 644-646.
Non fu possibile subito ricostruirlo. Tant'è vero che le reliquie del santo erano state
ritirate dalle macerie finché al patriarca di Alessandria, Giovanni di Samanoud (681-
689), fu concesso di ricostruire l'antico edificio, completato dal successore Isacco
(689-692) che vi riportò i resti dell'evangelista. E chi lo avesse invocato vicino al suo
sepolcro sarebbe stato protetto da ogni calamità, come scriveva Procopio diacono
nell'815.

LA TRASLAZIONE DEL CORPO A VENEZIA


Al santuario di Alessandria giunsero attorno all'828 un gruppo di mercanti veneziani,
con l'intento di trasportare con qualsiasi mezzo le reliquie dell'evangelista nella
nascente Venezia. Tra loro si distinguevano Buono da Malamocco e Rustico da
Torcello. Essi seppero dal monaco Staurazio e dal prete Teodoro, custodi del san-
tuario, che questo correva il rischio di venir distrutto, in base al decreto del
governatore arabo di Alessandria, deciso ad impiegare marmi e colonne delle chiese
cristiane per erigere un palazzo ad Al Fustat, l'antica Babilonia. Per consolarli, i
mercanti offrirono loro la possibilità di condurli con sé a Venezia assieme al corpo di
Marco affermando, tra l'altro, che l'evangelista prima di predicare in Alessandria aveva
soggiornato tra i veneti per recare la fede cristiana. In più, a Venezia loro patria
correva voce che il santo avrebbe avuto un avviso soprannaturale che le sue spoglie,
dopo la morte, in essa sarebbero state riposte e venerate. Vinta la resistenza dei due
religiosi, dopo aver sostituito il corpo dell'evangelista con quello della vicina martire
santa Claudia, le reliquie furono caricate su una nave, nascoste entro ceste di vimini,
protette da foglie di cavolo e da carni suine, malviste dalla religione islamica. Al
momento della partenza, un profumo intenso si diffuse dal santuario marciano per
l'intera città. Tutti gli abitanti di Alessandria corsero subito al sacro luogo per rendersi
conto del fatto. Accortisi che il corpo di Marco stava ancora al suo posto, ingannati
dalla sostituzione con quello della santa, ritornarono tranquilli alle loro case. I due
mercanti veneziani, mentre oltrepassavano la barriera doganale della città,
denunciarono la merce con le fatidiche parole: «kanzir, kanzir (maiale)», onde furono
lasciati passare dai doganieri, che si turarono il naso per orrore della carne suina. Una
scialuppa li accolse insieme ai preziosi resti per imbarcarli sulla nave, che prese il
largoverso l'Adriatico, verso Venezia, in compagnia di Staurazio e Teodoro. Dopo
aver superato, grazie allo stratagemma della carne di maiale, anche un'ispezione di una
nave araba, dopo aver toccato alcuni approdi di fortuna sulla costa calabra dello Jonio,
entrarono in Adriatico. Poco prima, all'altezza dello stretto passaggio nelle isole
Strofadi a sud dell'odierna Corfù, a causa del sonno piombato sui naviganti, la nave
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spinta in maniera impetuosa dalla corrente e dal vento, minacciava di fracassarsi sugli
scogli. Fortunatamente il santo apparso all'improvviso, svegliò i marinai invitandoli ad
avanzare lentamente, così che fu evitato il naufragio. Il viaggio riprese verso Venezia.
I naviganti timorosi di incorrere in sanzioni penali, avendo infranto l'embargo
dichiarato dai veneziani per ogni commercio con gli arabi, calarono l'ancora presso
Umago in Istria. Di qui inviarono in avanscoperta nella capitale lagunare una missione
per avvisare cosa recavano con sé. Ottenuto il permesso d'ingresso, i due mercanti
sbarcarono il sacro pegno, nel porto di Olivolo, accolti dal vescovo locale, e dal doge
Giustiniano Particiaco. Era il 31 gennaio dell'828. Le reliquie furono collocate in
primo tempo presso un angolo del palazzo ducale, finché fosse completata la nuova
basilica in loro onore. E così Marco che era stato il patrono di Alessandria, ora lo di-
ventava di Venezia.

L'INVENZIONE DEL 1094


Nel giugno del 1094, mentre ci si dava da fare per ricollocare il sacro corpo nella più
sontuosa basilica, iniziata in suo onore nel 1063, non si riusciva più a trovarlo. Tra i
pianti e le preghiere della città, dopo giorni di digiuno, il 25 giugno al doge Vitale
Falier, al vescovo Domenico Contarini, ai nobili e al popolo riuniti nella basilica, il
santo rivelò dove stessero le sue reliquie, sporgendo un braccio da un pilastro,
precisato dall'antica tradizione sul lato destro della basilica. La chiesa si riempì di
soavissimo profumo. Una volta trovato il corpo del santo grazie a questo prodigio,
appena esso fu esposto al centro della novella basilica ebbero inizio le feste devote. I
pellegrini per onorarlo giungevano da Venezia, anzitutto, e dal resto dell'Europa. Ai
primi, il santo volle recare il beneficio di alcuni miracoli, descritti con attenzione
dall'anonimo autore dell'Inventio, quali la liberazione di una donna posseduta da sette
demoni non appena ella si accostò all'arca del santo, e la guarigione di un adolescente
da una grave forma cancerosa ormai in metastasi. L'8 ottobre di quel fausto 1094, il
corpo del santo fu collocato entro un sarcofago dal doge Falier nella cripta, ampliata
per la circostanza. I fedeli potevano accedervi da due scale laterali e poi, trascinandosi
in ginocchio, giunti ai gradini del sepolcro avvicinavano alle sante reliquie o i loro
panni o le loro mani a fini protettivi. Né mancarono in quei giorni e in seguito altri
miracoli, come la guarigione di una paralitica di Murano e di malati provenienti sia da
importanti città della Val Padana, sia da oscuri villaggi.

IL VANGELO DI SAN MARCO


Secondo i dati della tradizione più comune Marco compose il suo vangelo in Roma.
Per quel che riguarda la data, in base all'antica teoria di sant'Agostino, egli lo avrebbe
scritto dopo il vangelo di Matteo, di cui Marco sarebbe stato il sunteggiatore, o
«divino abbreviatore» come lo definisce il medesimo santo. Tanto lui, quanto Matteo,
quanto Luca, composero i loro testi evangelici prima dell'anno 70, poiché i passaggi,
che riportano le parole di Gesù sulla futura distruzione del tempio di Gerusalemme
(Mc 13) debbono considerarsi una vera profezia. Se Marco scrisse il vangelo prima del
70, non va tuttavia esclusa qualsiasi precisazione cronologica. Di norma, si accetta il
periodo tra il 64 e il 67, basandoci su quanto scrive Ireneo di Lione (135?-203?):
«Dopo il suo esodo [di Pietro], Marco, discepolo e interprete di Pietro, ci trasmise
anch'egli per iscritto ciò che era stato predicato da Pietro». Più di qualcuno ipotizza
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che il nostro evangelista redasse il suo testo in due momenti. Agli inizi degli anni 40
risale la stesura, in cui egli inserì o rielaborò un'anonima narrazione della passione,
morte e resurrezione di Gesù (capp. 14-16) composta sulla fine degli anni 30. Al
secondo momento, tra il 58-60, si può far risalire il testo definitivo. Se poi si prende in
considerazione il frammento 7Q5 delle grotte di Qumràn da identificare con il testo di
Mc 6,52-53, da un lato il vangelo sarebbe stato composto con sicurezza prima
dell'anno 68, quando le grotte vennero murate, mentre dall'altro il citato frammento
marciano sposterebbe la datazione del vangelo poco dopo il 40. Il vangelo di Marco è
il più breve dei quattro, ed è formato di soli sedici capitoli in lingua greca. Marco ha
diviso il suo vangelo in due parti. La prima è data dai primi otto capitoli, nei quali
riporta le azioni di Gesù, insistendo sui suoi miracoli al fine di dimostrare che Gesù è
davvero il Figlio di Dio. Sembra che per tale motivo, sin dall'antichità cristiana, sia
stato scelto il leone quale suo simbolo perché come quello con il suo ruggito domina le
voci degli altri animali, così Marco proclama forte che Gesù è Figlio di Dio. Nella
seconda parte di preferenza sono presentate le parole di Gesù, che spiegano le
condizioni necessarie per seguire il Redentore sino alla morte in croce. Marco,
narrando la vita di Gesù, mostra una preferenza per i dati aneddottici, gli aspetti epi-
sodici, con uno spiccato gusto verso l'osservazione dei particolari, siano quelli di cieli
sereni o vaste campagne, o sperduti villaggi di Galilea, o del mare di Tiberiade
sconvolto dalla tempesta di vento, che solleva larghe ondate come in una notte fonda.
Il suo stile è rapido, essenziale, nervoso, tipico dell'artista. Alla fine si percepisce in lui
la tecnica del catechista provetto, del traduttore dei lunghi discorsi dell'apostolo Pietro
intorno alle parole e alle azioni di Gesù: insomma uno che per i suoi ascoltatori, e si
suppone fossero i romani piuttosto inclini alla concretezza e alla praticità nelle cose,
vuole evidenziare lo stretto necessario. Nel vangelo marciano predominano alcuni
temi, vale a dire: il segreto messianico, cioè Gesù fa conoscere gradualmente la sua
realtà di Figlio di Dio; il regno di Dio è sempre vicino e atteso; Gesù figlio di Dio è
sofferente sulla terra sino alla fine dei tempi.

La basilica

FASI STORICHE
L'attuale basilica di San Marco, in base alla tradizione, è la terza fabbrica in onore del
santo, benché sul piano storico risulti, meglio, come seconda. La prima fu eretta dopo
l'829, appena le reliquie di san Marco, giunte da Alessandria a Rivoalto, centro
politico della Venezia attuale, furono deposte, in attesa di costruire una chiesa in loro
onore, in un angolo del palazzo ducale, che sorgeva sulla stessa area, dove si innalza
l'odierno. Si ritiene che nel decennio 829-839 il sacro edificio sia stato portato a
termine nello stesso luogo dove ora sorge quello attuale. Di questo primo edificio sono
ignoti l'architetto e la struttura architettonica. Nei secoli IX e X la basilica di San
Marco costituiva una meta devozionale nella mappa dei loca santa altomedievali,
assieme a San Giacomo di Compostela, a San Pietro di Roma e al Santo Sepolcro di
Gerusalemme. La basilica di San Marco o chiesa palatina, cioè propria del palazzo del
governo politico, intimamente legata a questo sul profilo architettonico, subì gravi
danni in seguito al furioso incendio divampato durante i tumulti politici nella prima
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metà dell'agosto del 976. San Pietro Orseolo, il doge eletto dopo questi tumulti e in
seguito all'uccisione del predecessore Candiano IV nell'atrio della basilica, ricostruì
dalle fondamenta il sacro edificio. Ma si ritiene meglio ch'egli abbia riparato danni
non gravi, salvando in ispecie la cripta originale.

LA FABBRICA ATTUALE
Circa ottant'anni dopo, nel 1063, sotto il dogado di Domenico Contarini, per motivi
forse di prestigio e nell'ardente clima del rinnovamento religioso che precorreva le
Crociate, profittando del momento socio-economico quanto mai favorevole alla
giovane repubblica marinara, fu deciso di abbattere l'edificio marciano per innalzarne
un altro più imponente. Della prima basilica sembra si sia voluto conservare l'area del-
la cripta e poche altre parti. L'architetto, un ignoto forse fatto venire da Bisanzio (e
non il Mazulo proveniente da Pomposa, come si riteneva da qualche studioso),
progettò l'edificio attuale a pianta centrale o croce greca imperfetta, a cinque cupole,
prendendo come modello l'Apostoleion di Bisanzio, cioè la basilica dei dodici
Apostoli, fatta erigere dall'imperatore Costantino il Grande. Forse a Venezia si volle il
nuovo San Marco in tale forma per imitare il prestigio della capitale d'Oriente.

L'IMPIANTO ARCHITETTONICO
L'attuale edificio marciano, orientato verso est, secondo la norma liturgica allora
vigente, si presenta a tre navate. Ciascuna delle due navatelle laterali misura la metà
della centrale: questa è tagliata ad est dal largo transetto. Le cupole poggiano su sei
pilastri tetrapili disposti lungo la navata centrale. L'insieme è avvolto sui tre lati
dall'ampio atrio, costruito nella forma attuale a due piani dopo il 1204, di cui il
superiore è a forma di camere, su imitazione di quello di Santa Sofia di Costanti-
nopoli. La basilica è lunga 78 metri dal muro esterno sulla piazza sino all'esterno
dell'abside centrale e larga internamente 28 metri con un'altezza all'esterno nella
cupola centrale di 50 metri (metà del vicino campanile); l'atrio è largo 7 metri; il
transetto è lungo 50 metri e largo 12 metri. Delle cinque cupole, tre sono disposte in
senso della lunghezza da ovest ad est e le altre due in senso della larghezza da nord a
sud. Tutte si innalzano su un tamburo in cotto, con sedici finestrelle aperte per
l'illuminazione. All'esterno le semisfere delle cupole, ricoperte da lastre di piombo, si
concludono con un cupolino o lanterna arabeggiante, modificato nella forma attuale
forse nei restauri cinquecenteschi di Jacopo Sansovino. Il cupolino si innalza a goccia
per sorreggere croci, quasi tutte a quattro lati o croci cosmiche, caratteristiche in San
Marco e in Venezia, per indicare nella loro forma la signoria di Cristo sull'intero
globo. La cupola centrale (alta 20 metri) è dedicata all'ascensione di Cristo, il mistero
che nella liturgia bizantina evidenzia la sua regalità sull'universo. Per questo motivo si
differenzia dalle altre quattro nell'altezza e nel volume. L'insieme metallico di ogni
cupola è sostenuto all'interno da una struttura lignea, che posa sopra la cupola
sottostante in muratura, visibile solo dall'interno.

LA DECORAZIONE ESTERNA
Nelle tre facciate distinguiamo dall'alto in basso tre ordini: il superiore, il medio,
l'inferiore. La decorazione scultorea e mosaicata rientra in un piano iconografico
prestabilito legato a motivi rigidamente teologici, dottrinali e morali, con influssi della
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pietà popolare tardo-medievale. Per quello a mosaico, nell'interno, si ritenne
progettista Gioacchino il calabrese abate di Fiore (1145 ca.-1202). Nelle facciate
l'ordine superiore è stato abbellito nel primo Quattrocento, onde si notano i grandi
specchi di bianco marmo sulla cui cornice inflessa si snodano a svolazzo vegetali
trecce marmoree, da dove emergono figure a mezzo busto di profeti e di personaggi
dell'Antico Testamento, di difficile interpretazione poiché i loro nomi quasi sempre
sono scomparsi a seguito dell'erosione atmosferica. Numerosi sono gli elementi che
adornano le facciate esterne, e una loro dettagliata descrizione richiederebbe ampio
spazio. Qui ci piace segnalare solo alcuni particolari. Nella facciata meridionale, ad
esempio, si trova la cosiddetta Madonna del fornaretto, un mosaico della Vergine
Maria con il bambino sul petto che reca ai lati due lampade, accese ogni sera al suono
dell'Ave Maria per l'intera notte. La Madonna del fornaretto è così chiamata in ricordo
di un giovane fornaio, garzone di bottega, accusato ingiustamente di omicidio e perciò
decapitato tra le due colonne di Marco e Todaro in fondo alla piazza, da dove egli
gridò poco prima dell'esecuzione: «Ricordève del povero fornareto» (ricordatevi del
povero fornaretto). I giudici, resisi conto dell'errore, ripararono per il futuro ordinando
di tenere accese innanzi alla Vergine sulla facciata della basilica due lampade, che
ardevano illuminando la notte fonda medievale della piazza. Ma sembra che
l'immagine esistesse in antecedenza come Madonna del Brolo e illuminata nottetempo
per indicare ai naviganti la non lontana riva lagunare per l'approdo. Sulla facciata
settentrionale tra le molte sculture dell'ordine medio, è da osservare l'imponente
altorilievo duecentesco di san Cristoforo, che è qui raffigurato mentre poggia sulla
classica palma ed è immerso nelle acque del fiume con due pesci (lucci, pesci di acque
dolci), sostenendo Gesù bambino sulle spalle. Nella pietà popolare tardomedievale il
santo era ritenuto protettore contro la fame, la peste e la grandine, nonché di luoghi
esposti ai pericoli delle acque (fiumi e laghi). Per tale motivo la sua immagine in
Venezia &ittà d'acque tranquille, ma di pericolose e impetuose alte maree, qui gi-
ganteggia in modo da esser vista da qualsiasi persona in qualunque ora del giorno, in
ispecie al mattino, poiché egli rendeva propizia la giornata, se dalla piazza ci si doveva
dirigere verso le zone orientali della città. Tornando alla facciata meridionale, e più
precisamente sull'angolo, è possibile scorgere le sculture in porfido dei Tetrarchi
imperiali, opera del IV secolo collocata qui poco dopo il 1204, trasportata da
Costantinopoli. Dalla tradizione popolare veneziana essa è stata ed è interpretata, i
quattro mori, cioè quattro arabi che, nel tentativo di rubare il tesoro di San Marco,
furono trasformati dal santo in statue marmoree. Molto ricco di immagini e simboli è il
sontuoso insieme della facciata principale, quella occidentale. Sopra il terzo arcone del
portale centrale si innalzano i quattro cavalli di bronzo dorato (ora in copia non
buona). Gli originali si ammirano nel Museo marciano per preservarli dall'inqui-
namento atmosferico. Essi sono stati trasferiti a Venezia dopo il 1204 da Bisanzio,
dove da circa 20 metri di altezza dominavano una piazza della città. Questo
capolavoro dell'arte mondiale ritrae la marcia di quattro destrieri, che rispondono al
comando di un invisibile cocchiere. Questa quadriga fu interpretata diversamente nel
significato simbolico, sia come segno della libertà di Venezia, sia come glorificazione
del do-ge, sia allusiva alla corsa del vangelo di Cristo.

L'INTERNO
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Dal portale centrale si entra nell'atrio, il quale è stato costruito dopo il 1204 e richiama
in scala ridotta quello di Santa Sofia di Costantinopoli, poiché la basilica di San Marco
dopo tale anno era diventata la nuova e vera Santa Sofia. Un'analisi attenta e
dettagliata dell'interno necessiterebbe di un ampio spazio; pertanto ci limitiamo a
segnalare solo alcuni particolari. Ad esempio nella cappella Zen la scultura bronzea di
Antonio Lombardo (1506 circa), in cui la scarpa destra è dorata, onde è chiamata Ma-
donna della scarna, in ricordo, secondo la tradizione, del prodigio operato dalla
Vergine. Un barbone pitocco in epoca tardomedievale, non avendo nulla da offrire alla
Vergine, le consegnò la sua scarpa lacerata. La Vergine in cambio gliela restituì
trasformata in oro.

I MOSAICI
Ma ciò che particolarmente colpisce il pellegrino che entra in San Marco sono gli
splendidi mosaici che adornano l'interno (sia l'atrio che il pavimento, che le mura, le
volte e le cupole). Mentre il mosaico pavimentale si limita di norma a motivi
decorativi floreali o geometrici, ottenuti con grosse tessere di marmi policromi
disposte secondo un disegno preordinato, quello parietale è più raffinato e risulta da
piccole tessere di smalti colorati, collocati sulla parete a mezzo di un intonaco; tutte
hanno nel vetro una lievissima foglia d'oro. In San Marco la decorazione dell'atrio
risale a un periodo compreso tra il 1204 sino circa alla fine del secolo, tranne per i
mosaici attorno alla porta centrale della fine dell' XI secolo, e svolge temi dell'Antico
Testamento, dalla creazione del mondo all'uscita degli ebrei dall'Egitto; quella
dell'interno (presbiterio, transetto, navata centrale) è stata realizzata tra il 1094 sino al
1204 e svolge temi del Nuovo Testamento. Quella delle cappelle adiacenti (Battistero,
Sant'Isidoro) è trecentesca, quella dei Mascoli si data al primo Quattrocento, mentre è
del primo Cinquecento il soffitto della sacrestia. I mosaici dell'interno sono per lo più
opera di mosaicisti greci provenienti dalla Tessaglia e Macedonia, mentre quelli
nell'atrio sono opera di artisti giunti da Bisanzio. Nelle cappelle adiacenti e nella
sacrestia i mosaici sono opera di maestranze locali. I mosaici della basilica di San
Marco raffigurano storie tratte dalla Bibbia, figure allegoriche, vicende della vita di
Cristo, di san Marco e di altri santi. Le figure in mosaico sono accompagnate dalle
didascalie in latino. Esse riassumono spesso tratti della sacra Scrittura relativi
all'episodio raffigurato, oppure si riferiscono a testi liturgici medievali, oppure in
pochi casi sono composizioni originali, a volte di elevato valore letterario. Spesso la
didascalia è a un solo o più versi con rima al mezzo (versi leonini) per un più efficace
ricordo da parte del lettore. I mosaici, nei quali dominano i colori caldi, e in particolare
l'oro, ornano l'ampio spazio della basilica che è largo 28 metri (navata centrale 14
metri; singole navatelle laterali 7 metri, onde è rispettata la norma delle cattedrali
romaniche in cui la navata centrale misura il doppio di ogni navatella). In altezza
l'interno si estende per 21 metri nelle arcate che si slanciano in alto per incurvarsi in
una vibrante lama luminosa. Esso è avvolto di luce velata come nelle chiese
mediorientali, che varia di continuo nelle diverse ore del giorno e delle stagioni con
irripetibili effetti notturni nei riflessi lunari: luce che si fraziona nel transetto a mezzo
del grandioso rosone trecentesco sulla parete destra. I centri di attenzione sono
molteplici. Evidenziamo i due principali: il pavimento e l'ordine superiore. Il
pavimento (secoli XI-XIII) in mosaico si caratterizza in vasti ondulamenti che danno
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l'impressione di camminare sulle acque. L'effetto èdovuto, secondo una plurisecolare
tradizione veneziana, alla volontà di san Marco, poiché, se per caso i turchi avessero
invaso Venezia, la basilica si sarebbe sottratta alla loro profanazione mettendosi a
navigare sulle onde marine. La realtà è diversa. L'ondulamento è causato dal ce-
dimento del sottosuolo a strati sabbiosi, dovuto al peso della basilica. Il pavimento
presenta motivi simbolici, alternati con elementi geometrici, ottagoni e cerchi. Tra gli
altri motivi pavimentali: si susseguono figure mostruose e storie di animali fra le
colonne. Il tutto si rapporta al sistema dei bestiari medievali, per insegnare la lotta
della virtù sul vizio. Efficaci a proposito le scene alla fine della navatella sinistra con
tre splendide aquile reali e i due grifoni affrontati per la lotta. I mosaici parietali
incominciano a 10 metri di altezza rispetto al pavimento. Nella parte inferiore delle
pareti corre un insieme di lastre di marmo orientale.

LE CUPOLE
Le cinque cupole poggiano su un sistema di sei pilastri congiunti da un triplice
colonnato di marmi greci. I capitelli sono rivestiti di foglia d'oro. Alcuni sono decorati
a testa di ariete, in allusione alla costellazione dell'Ariete, sotto la quale il 25 marzo
421 sarebbe stata fondata Venezia. Nelle tre cupole dell'asse longitudinale, dalla porta
centrale al presbiterio, i mosaici sono disposti in base a uno schema liturgico che inco-
mincia dal presbiterio e termina nella cupola verso l'uscita. In pratica sono evidenziate
le tre feste principali dell'anno liturgico: la venuta del Redentore e ciclo del Natale
(cupola del presbiterio o dell'Emmanuele); la sua passione, morte, risurrezione e
ascensione o ciclo di Pasqua (cupola centrale); la discesa dello Spirito Santo o la
Pentecoste (cupola verso l'uscita). Nelle due laterali, sopra il transetto, in quella di
destra sono presentati santi della pietà popolare medievale: Nicola, Clemente, Biagio,
Leonardo, titolare un tempo del vicino altare, Erasma, Eufemia, Dorotea e Tecla, in
prevalenza protettori della gente di mare, mentre nell'altra di sinistra si svolge la vita
dì san Giovanni evangelista sulla scorta della tradizione apocrifa, non senza qui pure
un rimando alla sua protezione per i marinai.

L'ICONOSTASI
Il presbiterio è sopraelevato sul piano della basilica da cui è diviso dall'iconostasi, cioè
la cancellata marmorea, che corre da destra a sinistra con al centro la porta santa. Al
centro dell'iconostasi si trova l'imponente crocefisso, laminato in bronzo, con il Cristo
verso i fedeli e i simboli degli evangelisti nei lobi laterali, mentre nel retro verso
l'altare appaiono san Marco in abiti sacerdotali e gli evangelisti a figura. La
crocefissione o déesis, cioè grande intercessione ai lati della croce, divide la serie delle
quattordici statue: a destra san Giovanni evangelista e a sinistra la Vergine, e poi
secondo un calcolato ritmo i dodici apostoli. Marco, benché non appartenga all'elenco
ufficiale degli apostoli, qui èinserito per sottolineare la venezianità del sacro collegio.
Le statue sono in bianco marmo e sono state patinate si ipotizza sin dall'origine. Esse
sono state scolpite nel 1394 dai due fratelli Jacobello e Pierpaolo dalle Masegne.

LE TRIBUNE LATERALI
Nell'alto, ai lati dell'altare, si aprono le due grandiose tribune (ora quella di sinistra
ospita la cantoria sin dal tardo Quattrocento e l'organo moderno), decorate con le
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storie di san Marco. LA PALA D'ORO L'altar maggiore è chiuso sul lato posteriore
dalla pala d'oro, qui fatta collocare dal patriarca Roncalli (poi papa Giovanni XXIII)
nel 1957 per motivi pratici. All'inizio, nel 1105, essa poggiava sul lembo estremo
dell'altare; in seguito fu spostata di poco all'indietro, dove rimase sino alla soluzione
attuale. E una grandiosa tavola lignea su cui sono infisse circa duemila gemme e un
centinaio di smalti bizantini con storie di san Marco (lati estremi), con le principali
feste d~l'anno liturgico (lato superiore), con la gloria di un severo Cristo giudice, al
centro, circondato da dodici angeli, dodici apostoli e dodici profeti.

IL TRONO PATRIARCALE
Nel presbiterio si noti sulla destra il ligneo trono patriarcale (l'attuale del 1895), dove
siede il patriarca della diocesi di Venezia. Esso fu usato, tra i diversi patriarchi, da
Sarto (1894-1903) poi papa San Pio X; Roncalli (1953-1958) poi papa Giovanni
XXIII; Luciani (1970-1978) poi papa Giovanni Paolo I. Sino alla caduta della Re-
pubblica il doge sedeva invece sul trono dogale, collocato al centro dell'ingresso
dell'iconostasi, durante le sacre liturgie a cui doveva partecipare, con i senatori e gli
ambasciatori, assisi ai lati del presbiterio.

I MOSAICI DELLA NAVATA


I mosaici nella basilica sviluppano la storia della salvezza che si snoda nell'anno
liturgico. Si vedano nell'arcone sopra l'iconostasi le scene dell'annunciazione,
l'adorazione dei magi, la presentazione al tempio, il battesimo nel Giordano, con al
centro la trasfigurazione. Lungo la parete di destra e di sinistra si succedono fatti
evangelici, legati alla struttura delle messe del tempo dopo l'Epifania e di Quaresima.
Per quest'ultimo appaiono nella parete, al di sopra dell'ambone di destra, le tre scene
delle tentazioni di Cristo, e il suo ingresso in Gerusalemme: sono mosaici tra i più
eleganti, eseguiti a cavallo tra il 1100 e il 1200. In pendant seguono le coeve ultima
cena e lavanda dei piedi. Nel pilastro verso l'esterno, cioè sulla parete del muro me-
ridionale, è stata collocata la raffigurazione di quella grandiosa pagina evangelica in
cui si narra di Gesù nell'orto del Getsemani, caratterizzata dai magici riflessi della
fresca notte del plenilunio di marzo in aspre rocce tra simbolica vegetazione
dell'imminente passione del Cristo. Nel pilastro e nell'arco relativo, verso l'interno si
succedono le scene della cattura, passione e morte del Cristo, mentre su quello opposto
si notano le altre della risurrezione. Il ciclo, in fedeltà al vangelo di Marco, si chiude
con l'ascensione che occupa l'intero spazio della cupola, in una esecuzione tra le più
articolate e raffinate sul piano stilistico. Nelle due vaste tribune tra le cupole dell'A-
scensione e della Pentecoste sono narrate le vicende degli apostoli, in riflesso della
specifica liturgia medievale della basilica. La storia della salvezza si completa in senso
definitivo con la vicenda dell'Apocalisse, ultimo libro della sacra Scrittura e ultima
vicenda dell'umanità. Lo spazio tra la cupola della Pentecoste e il muro maestro di
uscita è occupato dalle sue scene principali, non senza infiltrazioni di pietà popolare
medievale come il suicidio di Giuda, il traditore, che pende impiccato dall'albero
(angolo di sinistra presso la loggia dei cavalli). Oltre a siffatti mosaici notiamo una
serie ispirata al ciclo eucaristico a sinistra fra il transetto e l'ingresso alla cappella di
San Pietro, dove, è noto, si trovava in parete la custodia eucaristica sino al 1517. Un
altro ciclo unitario di mosaici è quello mariano. Esso, in fedeltà a canoni iconografici
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bizantini, si svolge a ventaglio sui due lati occidentali del transetto per concludersi al
centro dell'atrio, nel cosiddetto pozzo. Nella fascia inferiore dei mosaici appaiono 181
santi, appartenenti alle chiese della città, o santi venerati in paesi con i quali la
Repubblica teneva rapporti commerciali, o legati alla pietà popolare medievale. Si
vedano, a mo' di esempio, i santi Exaudfnos, cattiva lettura cinquecentesca per
Akindfnos, assieme a Pigasios, nella tribuna nord del transetto, titolare il primo della
chiesa di Costantinopoli nel quartiere veneziano, oppure sant' Omobono, il popolare
santo laico di Cremona (ti 197), oppure il vicino san Bonifacio l'apostolo della
Germania (675-754), forse in omaggio alle relazioni con i paesi tedeschi. Me- rita
attenzione anche sant'Alipio, santo stilita orientale, raffigurato all'ingresso dell'atrio
settentrionale; veniva festeggiato con gran concorso di popolo il 26 novembre per i
suoi miracolosi interventi contro varie malattie. Il culto scomparve dopo la caduta
della Repubblica Veneta. Ad alcuni santi è riservato un racconto specifico come per
san Giovanni evangelista nella cupola nord del transetto, con le sue vicende. Tuttavia
la scelta dell'evangelista per la cupola, oltre all'accennato motivo di pietà popolare
quale patrono dei marinai, forse rientrò in un calcolato piano teologico. Nella civiltà
medievale, è noto, si riteneva chiusa la Rivelazione divina scritta (la sacra Scrittura)
con la morte di san Giovanni evangelista, l'ultimo apostolo. Dopo di lui inizia, anche
se in senso improprio, la Rivelazione tramandata di vescovo in vescovo (la
Tradizione). La prima è visualizzata con i quattro evangelisti nei pennacchi della
vicina cupola dell'Ascensione, e ripetuti qui tra le finestre; la seconda con i quattro
dottori della Chiesa Agostino, Ambrogio, Gregorio Magno e Girolamo, presenti nei
pennacchi della nostra cupola. Nelle storie dei santi a ciclo va considerato anche
l'episodio dell'invenzione del corpo di san Marco del 25 giugno 1094, narrata in un
largo paginone sulla parete nordoccidentale, al di sopra dell'ingresso al Tesoro.
Estranee al piano architettonico della basilica sono le cappelle: a destra quella del
Battistero e a sinistra quelle dei Mascoli e di Sant'Isidoro. Lungo le pareti della
cappella del Battistero si svolge mosaicata la vita del Battista, dall'annunzio ai suoi
vecchi genitori (a destra) sino alla sua infanzia nel deserto, alla predicazione da
precursore del Cristo, al battesimo di questi nel Giordano (a sinistra), alle ultime fasi
della sua vita nella cena di Erode, con la voluttuosa danza di Salomè. Il tutto termina
con la decapitazione e sepoltura del santo. Poiché il rito della benedizione dell'acqua
battesimale si compiva a San Marco e a Venezia nella festa dell'Epifania, sono state
presentate anche le storie dei Magi, la loro adorazione al bambino Gesù e la fuga in
Egitto, benché quest'ultima rifatta più tardi. Non esiste più qui la pietra su cui fu
decapitato il Battista, considerata reliquia nella storia della Repubblica: ad essa i fedeli
poggiavano il capo per guarire dal mal di testa.

IL TESORO
Nell'angolo sudoccidentale del transetto si entra attraverso un fascinoso arco arabo-
moresco al Tesoro, formato da tre ambienti: ingresso, santuario, tesoro. Nel santuario
(a sinistra) si conservano rare reliquie della passione di Cristo e di santi, di età
medievale per lo più, provenienti da Costantinopoli, Terra Santa e territori contigui.
Nel Tesoro sono riuniti 283 pezzi in oro, argento e altri materiali. Il nucleo di fondo si
basa in particolare sulla serie dei calici bizantini anteriori al Mille in pietre preziose
(onice, agata ecc.); si aggiungano vasi di vetro e pietra dura, coppe di provenienza
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islamica, oggetti di oreficeria occidentale, in ispecie il bruciaprofumi a forma di chiesa
a più cupole in argento dorato, eseguito nel secolo XII forse in area siculo-campana o
a Venezia. La cappella di Sant'Isidoro, il martire di Chionell'Egeo, nel 250, e
protettore dei marinai nella pietà medievale, fu voluta dal doge Andrea Dandolo come
ex voto dopo la grande peste del 1348 e fu completata il 10 luglio 1355. Ora dal 1976
è adibita a cappella per il Santissimo Sacramento, qui trasferito dall'altare di destra.
Sopra l'altare è collocato il sepolcro di sant'Isidoro con trecentesche storie della sua
vita. Rientrano nella pietà popolare i tre altaroli della basilica: quello trecentesco del
Crocifisso miracoloso che si trova nella navatella sinistra e gli altri due addossati ai
pilastri del transetto: a sinistra con san Paolo apostolo e a destra con san Giacomo
apostolo. Nella navatella di destra si trovano gli altorilievi mariani, della Madonna del
bacio, graziosa immagine veneto-bizantina del secolo XII, così chiamata per ripetuti
baci dei devoti che l'hanno in parte consunta nel corso dei secoli, e della Madonna
dello schioppo, in rilievo duecentesco, così denominata dallo schioppo ad avancarica
collocato di fianco da un devoto marinaio, durante la difesa di Venezia nelle vicende
belliche del 1848-49.

LA CRIPTA
La cripta, radicalmente restaurata tra il 1986 e il 1994, si trova sotto il presbiterio. Si
noti in essa il complesso del sepolcro, in cui giacque il corpo di san Marco sino al
1835. Esso è interpretato sul modello del sepolcro di san Giovanni Evangelista di
Efeso, ancora in piedi quando la cripta fu innalzata nel 1094. Sul lato occidentale si
apre un piccolo vano, dal 1957 occupato dalle tombe dei recenti patriarchi di Venezia.

La devozione

FESTE
A Venezia attualmente si celebra la festa di san Marco il 25 aprile, giorno del suo
martirio e in parte l'8 ottobre, giorno della dedicazione della basilica nel 1094. Ma
dalla seconda metà del secolo XIII sino alle riforme liturgiche del 1966 si
festeggiavano anche il trasporto del suo corpo a Venezia (31 gennaio) a cui si
aggiunse, dalla metà del secolo X~ quella della sua invenzione miracolosa (25
giugno). La solennità del 25 aprile era annunciata alla città (e lo si usa ancora) tre
giorni innanzi con un lungo scampanio festoso del campanile di San Marco alle ore 7,
10, 13 e 17 Alla vigilia, all'esterno delle porte della basilica venivano appese grandi
corone di alloro e di fiori, e lo si pratica ancora. Sino alla caduta della Repubblica
(maggio 1797) la festa si arti-colava nei due giorni della vigilia e della solennità. Alla
vigilia, sull'altar maggiore della basilica erano esposti i suoi tesori di reliquie e reliqua-
ri; le statue degli apostoli sull'iconostasi indossavano paramenti sacerdotali, a volte in
tessuti preziosi, a volte in argento. Al pomeriggio il serenissimo doge scendeva con la
sua corte lungo la Scala dei giganti. Qui lo attendevano i canonici, i sottocanonici e i
clerici ducali, apparati, i primi, in piviali di lamina d'oro per accompagnarlo in
basilica, recandosi al suo trono in presbiterio. Con lui qui prendeva posto la Signoria.
Iniziava il canto al vespero in maestosa polifonia anche a trentatré voci. Alla fine il
serenissimo ritornava nei suoi appartamenti. Di qui egli scendeva in basilica il mattino
seguente, con il medesimo rito della vigilia. Sui pennoni alle due estremità della loggia
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nella facciata principale erano issati i vessilli del santo, come si desume dal dipinto di
Gentile Bellini (1496) La processione in piazza San Marco (Venezia, Gallerie
dell'Accademia): uso praticato ancor oggi. All'ingresso del presbiterio il primicerio, la
più alta autorità religiosa della basilica, in abiti pontificali ossequiava il doge, il nunzio
apostolico e i capi delle missioni diplomatiche accreditati presso la Repubblica. La
messa in onore di san Marco era accompagnata dalle elaborate polifonie della
Cappella Marciana. Appena essa aveva termine, ogni Guardian grande delle singole
sei Scuole grandi, presenti in basilica nello splendore dei loro vestimenti, sfilava
innanzi al doge per consegnare due candele decorate in oro: una per lui e l'altra per la
dogaressa; gesto ripetuto per il nunzio, gli ambasciatori presenti, la Signoria e il clero.
Mentre il doge rientrava a Palazzo sfilava per la piazza la processione solenne, in
ossequio alla norma liturgica della Litania maggiore o Rogazioni del 25 aprile. A
mezzogiorno il doge tratteneva a pranzo il nunzio, gli ambasciatori e i senatori della
Repubblica. Fra i piatti di rito non mancava mai il tradizionale risotto con i piselli,
primizia di stagione, detto alla veneziana risi e bisi, o magnar da doxe (mangiar da
doge). Il pranzo era allietato da polifonie di cantori, da esecuzioni musicali e da
rappresentazioni teatrali di diverso ordine. Caduta la Repubblica, e cessati i riti dogali,
rimasero la processione in piazza e la messa pontificale, celebrata dal patriarca della
città. Scomparsa anche la processione dopo le ultime riforme liturgiche, resta ora, con
l'antico splendore di paramenti e di polifonie, la messa pontificale del patriarca,
concelebrata assieme al suo clero in una basilica affollata di veneziani, di veneti, di
italiani e stranieri. Sul piano popolare la festa odierna è chiamata San Marco del
bocolo, grazie all'uso da parte degli uomini di offrire un bocciolo di rosa alla donna
amata, o fidanzata, o moglie. Il gesto èpiuttosto recente, sorto nell'Istria nel primo Ot-
tocento, inserito nei primaverili riti di omaggio. Sviluppatosi in Venezia è stato legato
alla festa di san Marco, principale festa di primavera. Vero è che sin dal secolo XIV a
Venezia si riteneva che in Alessandria dal sangue di san Marco, sparso nel martirio,
fossero fiorite rosse rose, ma sembra che questo episodio non si leghi in alcun modo
con il citato rito popolare. Parimenti sono leggende romantiche di primo Novecento
quella di Vulcana, figlia di un nobile Particiaco, la quale muore col bocciolo di rosa
sul cuore, appena riceve dall'amato Tancredi una rosa, diventata rossa per il suo
sangue versato nella guerra contro i mori a servizio di Carlo Magno. O l'altra di una
giovinetta che mette pace tra due famiglie rivali e confinanti, quando un giovane di
una di queste le volge lo sguardo presso il bianco roseto, trapiantato sul limite dei
contendenti nel trafugamento del corpo di san Marco. In quel gesto di pace esso si
ricoprì di boccioli rossi. Non leggendaria invece, ma reale nella storia della
Repubblica, era la pratica dei fedeli di poggiare la schiena presso la cattedra marmorea
del santo, conservata nel battistero, al fine di guarire dal mal di schiena o venirne
preservati. La cattedra, forse donata da Eraclio, imperatore di Bisanzio, al patriarca di
Grado tra il 628-630, e da qui, dopo il 1451, trasportata a Venezia, si conserva ora nel
Tesoro della basilica, ma non più oggetto di pietà popolare. Nella festa di san Marco
del 31 gennaio, in memoria della sua traslazione da Alessandria a Venezia, in basilica
si celebrava una solenne messa a cui intervenivano le nove congregazioni del clero:
uso scomparso con le riforme liturgiche del 1966. Il popolo la chiamava San Marco
dei mezéni (pezzi di lardo), per ricordare che essi erano stati collocati tra le reliquie del
santo assieme a foglie di cavolo (in base alla ricetta popolare medievale per conservare
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la carne suina), al fine di imbrogliare i musulmani. Nella festa del 25 giugno per
l'invenzione del corpo, già vigente nel corso del Duecento, in basilica si cantava una
messa solenne con l'intervento del doge e l'incensazione al corpo di san Marco nella
cripta. Seguiva per la piazza la processione delle Scuole grandi, del clero e dei reli-
giosi; in essa veniva recato sotto un baldacchino l'anello episcopale, che si riteneva di
san Marco. Al rientro in basilica questo anello e un codice del vangelo di san Marco,
considerato scritto da lui stesso, venivano esposti alla devozione dei fede-li. In basilica
vigeva pure l'uso di aspergere il popolo con acqua di rose profumate, in ricordo del
profumo qui diffusosi, quando il 25 giugno 094 il corpo del santo fu scoperto in modo
miracoloso, onde tale giorno era denominato: San Marco dell'acqua di rosa. Quest'uso
scomparve all'inizio del nostro secolo. Dopo il 1966 anche tale festa è cessata. Invece
è celebrata ancora la solennità per la dedicazione della basilica, in ricordo della
collocazione del corpo del santo nella cripta, l'8 ottobre 1094. Sino alla caduta della
Repubblica essa era conosciuta dal popolo come San Marco delle zfzole (giuggiole),
cioè le bacche rosseggianti, che in questo periodo maturano lungo le siepi.

LA MESSA DI SAN MARCO

25 aprile, san Marco evangelista, patrono della Chiesa di Venezia e delle genti venete

Antifona d'ingresso (Mc 16,15) Andate in tutto il mondo, predicate il vangelo a


ogni creatura.
Colletta O Dio, che hai glorificato il tuo evangelista Marco con il dono della
predicazione apostolica, e lo hai dato alle genti venete come segno della tua
protezione, fa' che alla scuola del vangelo impariamo a seguire fedelmente il Cristo Si-
gnore. Egli è Dio, e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli
dei secoli.
Sulle offerte Accogli, Signore, il sacrificio di lode, che ti offriamo nel ricordo glorioso
di san Marco, e fa' che nella tua Chiesa sia sempre vivo e operante l'annunzio
missionario del vangelo. Per Cristo nostro Signore.
Antifona alla comunione (Mt 2&, 20) «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla
fine del mondo», dice il Signore.
Dopo la comunione Il dono ricevuto alla tua mensa ci santifichi, Signore, e ci
confermi nella fedeltà al vangelo, che san Marco ha trasmesso alla tua Chiesa. Per
Cristo nostro Signore.

PREGHIERA IN ONORE DI SAN MARCO


Dall'antica liturgia ai primi vespri della solennità di san Marco (25 aprile), antifona
al Magnificat: Sancte Marce, evangelista Domini fidelis, patriae nostrae decus et
gloria, respice de caelis vineam istam et peifice eam, quam plantavit dextera tua,
impetrans nobis gaudium sempiternum.
O san Marco, fedele evangelista del Signore, gloria e vanto della nostra patria, guarda
dal cielo codesta vigna che la tua mano ha piantato e rendila sempre più perfetta,
impetrando per noi la gioia sempiterna.

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