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IL IV SECOLO: LE PRIME MONACHE CRISTIANE

TRA ORIENTE E OCCIDENTE

Clarianum, 16 maggio 2022


Prima lezione
La testimonianza delle origini

«A chi non è sposato e alle vedove dico: sarebbe bene se rimanessero come sono
anch’io, ma se non riescono a essere continenti si sposino pure: infatti è meglio
sposarsi che ardere di desiderio. […] La donna senza marito e la vergine pensano
alle cose del Signore, per essere sante nel corpo e nello spirito; invece colei che è
sposata pensa alle cose del mondo e a come piacere al marito» (1 Cor. 7, 8-9 e 34).

La presenza nelle prime comunità cristiane di donne votate alla castità è


testimoniata abbastanza precocemente: negli Atti degli Apostoli si parla delle
quattro figlie vergini del diacono di Cesarea Filippo, che hanno il dono della
profezia (Acta 21, 9).

Ma è solo in età patristica che si sviluppa una riflessione specifica sul valore della
verginità .
La verginità di Maria
 
Il Protovangelo di Giacomo è un testo apocrifo, scoperto dall’umanista
Guillaume Postel alla metà del Cinquecento. Secondo il Postel, ne era autore
Giacomo il Minore, fratello di Gesù , ed era stato composto non oltre la metà del
II secolo. Sarebbe stato dunque uno dei più antichi testi cristiani, per alcuni
studiosi addirittura precedente al Vangelo di Luca, che vi si sarebbe ispirato.
Questa tesi è stata respinta per molti motivi, innanzitutto il silenzio dei Padri
della Chiesa, che non fanno alcun riferimento a questo scritto. Ma
principalmente un’analisi interna del suo contenuto ha spostato la sua datazione
molto più tardi, nel IV secolo. L’autore anonimo rivela infatti una scarsa
conoscenza degli usi palestinesi, ed è legato intellettualmente all’ambiente
greco.
Nonostante non sia stato accolto nel canone, il Vangelo di Giacomo è però
considerato più un testo extracanonico che un apocrifo, perché la Chiesa ha
tacitamente accolto molte informazioni che vi sono contenute e che sono entrate
a far parte della tradizione e delle credenze comuni. Il Vangelo di Giacomo
riveste particolare importanza anche per l’iconografia cristiana.
Il Protovangelo di Giacomo
Al centro del racconto vi è la figura della Vergine Maria, con notizie
sulla sua vita che ampliano notevolmente il sobrio racconto
dell’evangelista Luca.

Il Vangelo di Giacomo è strutturato in tre parti:


1) Nascita di Maria (capp. 1-18)
2) Apocrifo di Giuseppe (capp. 19-21)
3) Apocrifo di Zaccaria (capp. 22-25)

Il tema centrale dell’opera è però rappresentato dalla verginità di


Maria, mentre nel racconto lucano l’accento viene posto sulla
maternità divina. la Madre di Dio sia stata vergine prima, durante
e dopo il parto.
Questo suo stato viene sottolineato dall’episodio della ostetrica
incredula, che verifica l’imene intatto della puerpera e viene punita
per la mancanza di fede.
Maria, che ha custodito la sua purezza fin dagli anni della sua
educazione nel Tempio, è un modello di perfezione per le fanciulle
cristiane.
La verginità si configura come il vertice della santità , in quanto è un
martirio sine cruore, senza sangue.
L’iconografia antica del
Natale
La novità di Giotto:
una madre tenera
Il Natale secondo santa Brigida:
una scena di adorazione
La rivoluzione del IV secolo: l’esodo nel deserto

Il Protovangelo di Giacomo riflette la spiritualità e gli ideali ascetici del IV secolo,


che è il tempo della esplosione del monachesimo, un fenomeno che storicamente
ha scarso rilievo nei primi tre secoli. I cristiani sono certamente consapevoli della
propria radicale diversità dai pagani, e tuttavia essi continuano una vita normale
all’interno delle città , con uno stile proprio. Già nel II secolo si ha notizia di
cristiani, uomini e donne, che conducono una vita ascetica, ispirata a una rigorosa
sequela dei precetti evangelici. Tuttavia queste prime esperienze non implicano
una separazione dalla comunità dei credenti: gli asceti praticano la castità , si
tengono lontani dai lussi e dai divertimenti del mondo pagano, ma continuano a
vivere nelle proprie case (ascetismo domestico).
Questa consapevolezza trova esplicita traduzione
nella celebre lettera a Diogneto, un testo databile al
II secolo: «ogni terra straniera è per loro una patria
e ogni patria è una terra straniera ... Essi sono nella
carne, ma non vivono secondo la carne, passano la
loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo,
obbediscono alle leggi stabilite e il loro modo di
vivere è superiore in perfezione alle leggi ...
Insomma, ciò che l’anima è nel corpo, sono i
cristiani nel mondo ... così si vede bene che i
cristiani sono nel mondo ma il culto che essi
rendono a Dio resta invisibile» (À Diognète, ed. H. I.
Marrou, Paris 1965 [Sources Chrétiennes, 33bis]).
Alla fine del III e soprattutto nel IV secolo, si manifesta invece una tendenza
nuova, che spinge numerosi cristiani a fuggire il mondo e a cercare la solitudine,
abbandonando la città e le proprie abitazioni, per vivere forme di isolamento
perfetto al di fuori del consorzio umano. I modelli biblici non mancano: Cristo
stesso si era ritirato nel deserto, anche se per un periodo breve, e prima di lui,
Giovanni Battista, Elia, Mosè, che vengono presentati come precursori della vita
monastica. I primi seguaci di questa pratica di vita vengono chiamati in modi
differenti: asceti, anacoreti, monaci. Ma tutti questi termini richiamano l’idea di
una esistenza solitaria, eremitica, e insieme celibataria.
Le ragioni di un successo

Ci si è chiesti quali siano state le ragioni dello straordinario successo di questo


movimento, sorto in Egitto, ma che rapidamente contagia, con la sua carica
dirompente, gli altri paesi del bacino mediterraneo. Le radici del fenomeno
sono sicuramente molto articolate e complesse, così come diverse saranno le
forme che esso assumerà nei diversi paesi in cui si afferma. Ma un elemento di
base può essere rintracciato nella esigenza di testimoniare i modi di essere e il
fervore di rinuncia dei primi cristiani. Si tratta di una forma di vita che può
garantire un modello di perfezione che lo stesso successo storico del
cristianesimo rischia di disperdere e contaminare. Esso è l’espressione
profonda di una esigenza di autenticità e di radicalità cristiana che una Chiesa
vittoriosa, ma ormai troppo compromessa con le sorti dell’Impero e del mondo,
non può più garantire. Scelta celibataria, ascesi, rinuncia alla proprietà privata e
comunione dei beni possono viceversa assicurare una continuità con la
perfezione delle origini (Ecclesiae primitivae forma).
Dopo gli inizi incerti, su cui siamo poco informati, già in Egitto, che ne
rappresenta la culla, il movimento si struttura e organizza in due tipi principali:
l’eremitismo (vita solitaria) e il cenobitismo (koinòs bíos = vita comune).
Anacoreta

Il termine allude alla anachòresis,


cioè alla fuga dalla città nel
deserto. Originariamente esso
indicava tutti coloro che si
allontanavano dalla società per i
motivi più diversi (criminali,
delinquenti comuni, asociali). In
seguito il vocabolo assunse una
connotazione religiosa, per
indicare una scelta di vita
spirituale.
Monaco

La preistoria del greco monachos è


complessa. Il suo uso, in trascrizione copta
(nel Vangelo apocrifo di Tommaso, che
sembra risalire al II secolo) lascia supporre
che appartenga (nella sua forma aramaica)
agli ambienti giudeo-cristiani: l’insistenza
poggiava allora sulla qualità
eccezionalmente unitaria del discepolo
perfetto, ‘non diviso’. Il monaco trascende
tanto l’opposizione sessuale quanto la
tensione esterno-interno, alto-basso,
celeste-terrestre, tutte le contraddizioni
dello stato di peccato, al punto di essere
assimilato alla perfezione ‘unica’, che si
realizza in pienezza nel Figlio, l’Unigenito,
sacrificato dal Padre per la salvezza del
mondo.
Ma questa eredità speculativa, legata alla gnosi orientale, è ormai
in ombra quando il vescovo Atanasio attribuisce l’appellativo di
“monaco” all’eremita Antonio e il termine diventa di uso corrente
per indicare il solitario, che professa il celibato, e conduce una lotta
vittoriosa contro il tentatore.
Girolamo e Agostino ne danno due interpretazioni etimologiche
differenti, che riflettono diverse sensibilità . Per Girolamo, il
monaco è «colui che vive solo» (mònos=solus), per Agostino è colui
che forma una inscindibile unità con i confratelli nel cenobio
(mònos=unus).
Sant’Antonio e le madri del deserto

Sant’Antonio (250-356) è il fondatore dell’eremitismo. Di lui, morto in


tardissima età nel deserto egiziano, sono rimaste poche lettere, ma
soprattutto la celebre Vita scritta intorno al 360 dal grande vescovo
Atanasio di Alessandria. Questa biografia è il tracciato di una ricerca,
durata tutta la vita, di una sempre maggiore solitudine. Appartenente a
una pia famiglia cristiana di piccoli proprietari terrieri, Antonio, che è un
illetterato, dopo la morte dei genitori vende tutti i suoi beni e lascia la sua
casa per andare a vivere fuori del suo villaggio presso un anziano esperto
nella vita di perfezione. Quindi si ritira in una tomba vicino al Nilo dove
trascorre molti anni. Infine si allontana nel deserto in cerca di una
solitudine ancora più radicale.
Richiamato da circostanze eccezionali, interrompe questo stile di vita per
ritornare qualche volta in città , mettendo a disposizione il suo immenso
prestigio e autorità spirituale al servizio della fede nicena contro gli ariani. Ma
si tratta soltanto di parentesi brevi nella sua esistenza di solitario e uomo del
deserto, capace di sopravvivere con il minimo possibile di sostentamento
terreno: pochissimo cibo, vestiario ridotto all’indispensabile, riparo essenziale e
provvisorio.
Uno dei grandi temi della Vita di Antonio è la lotta contro i demoni e le loro
tentazioni, concepita come una vera e propria militia Christi. Il deserto è infatti il
luogo dell’ascesi, ma anche della battaglia, perché lì regna incontrastato il
demonio.
Antonio sarà quindi anche l’archetipo di una lunga schiera di “uomini di
Dio”, che la letteratura agiografica successiva rappresenterà impegnati in
uno strenuo combattimento contro le forze del male, dominatori di fiere e
animali mostruosi, dotati da Dio per la loro vita santa di carismi
straordinari, operatori di taumaturgie eccezionali. L’eremita, che si è
liberato di tutti i vincoli corporei e carnali, acquisisce, proprio in virtù di
queste rinunce, una potenza soprannaturale. La scelta di Antonio viene
presto seguita da altri eremiti e anacoreti, che già nel IV secolo popolano i
deserti del Basso Egitto, dal Nilo al confine della Libia (la Nitria, le Celle e
la Scetide). Si parla di parecchie centinaia (o migliaia) di asceti che ne
imitano la vita.
Su questi discepoli di Antonio siamo informati grazie a diverse opere: la Historia monachorum, la
Historia lausiaca di Palladio, e le Collationes di Cassiano, che risalgono però a una fase successiva (V
secolo). Dal racconto di Palladio, veniamo a sapere che, nonostante la vita eremitica sia considerata
inadatta alle donne, nel deserto vivono anche delle Madri, che divengono apprezzate maestre
spirituali, come Amma Sincletica, il cui percorso spirituale è molto simile a quello di Antonio.
Infatti, dopo essersi consacrata alla verginità , vive per un certo periodo in un cimitero e poi va nel
deserto. Qui viene raggiunta da altre anacorete, desiderose di seguire il suo stile di vita e a loro
Sincletica insegna il disprezzo della vita coniugale, ma anche l’importanza di rimanere fedeli al
proprio luogo.
«Nel mondo le donne abitualmente incontrano grandi disagi, partoriscono con fatica e con
pericolo, soffrono per l’allattamento e si ammalano insieme ai figli ammalati; sopportano
queste cose senza prevedere la fine della fatica. Essendo a conoscenza di queste cose non
lasciamoci adescare dall’avversario, come se la vita nel mondo fosse tranquilla e pacifica».
Altrettanto famosa è Amma Sarra, che vive da reclusa in una piccola cella nei pressi del Nilo,
combattendo per lunghi anni il demone della fornicazione, e Amma Teodora, maestra di umiltà .
Una variante: Maria Egiziaca, la Maddalena redenta
Pacomio e il cenobitismo

Già nel IV secolo la forma eremitica di


Antonio si accompagna con forme di vita
cenobitica, la vita solitaria con quella in
comune, ma comunque sempre al di fuori
del normale consorzio storico.
Il cenobitismo ha origine dalla
iniziativa di Pacomio, che intorno al
320 dà vita a Tabennisi, nell’Alto
Egitto, a una grande comunità. Il
progetto è coronato da successo, perché
alla morte del fondatore, nel 346, i
monasteri sono undici (di cui due
femminili) e raccolgono diverse migliaia
di monaci. La struttura è congregazionale,
perché i vari monasteri dipendono
dall’abate della casa-madre, che è
appunto Tabennisi.
L’insediamento pacomiano ha l’aspetto di un
piccolo villaggio, costituito da diverse case dove
abitano gruppi di monaci. Al centro è la synaxis,
cioè il luogo dell’adunanza, dove essi si riuniscono
per le preghiere in comune. Gli alloggi sono
recintati da un muro, tanto che sia per la tipologia
insediativa che per il tipo di vita che vi si conduce,
il monastero pacomiano assomiglia a un
accampamento militare, suggestione derivante
anche dall’originaria professione del fondatore.
La vita dei monaci è rigidamente disciplinata da
alcune norme, che regolano i pasti, il sonno, il
lavoro e la preghiera. Il corpus pacomiano, noto
nella sua forma più completa nella traduzione
latina di san Girolamo, è un testo aperto, formatosi
nel tempo, che riflette la maturazione della
esperienza legislativa di Pacomio e dei suoi
successori, in risposta alle esigenze di una
comunità in espansione.
Povertà , lavoro, obbedienza

Requisito indispensabile per essere ammessi nel monastero è la


rinuncia ai propri beni. I monaci devono guadagnarsi da vivere
attraverso il lavoro nei campi, fonte di sostentamento per il monastero,
ma anche per i poveri e i bisognosi. La crescita economica determina
delle forme di accumulazione, tanto che i successori di Pacomio devono
vigilare con severità , affinché non vi sia un rilassamento rispetto alla vita
semplice e austera degli inizi.
Oltre al requisito della povertà personale, ai cenobiti è richiesta
l’assoluta obbedienza all’autorità del superiore.
Il regime alimentare è sobrio, ma mite se paragonato alle
pratiche degli eremiti: si tiene nel debito conto che i monaci devono
attendere ai lavori agricoli. Solo il mercoledì e il venerdì essi osservano il
digiuno, mangiando una volta al giorno.
Monasteri doppi

La fondazione della comunità femminile è riconducibile alla sorella di Pacomio,


Maria, che si presenta al monastero per esservi ammessa. Pacomio non la
riceve, però le fa sapere dal portinaio che intende aiutarla:

«Se vuoi entrare in questa santa vita per ottenere misericordia davanti a
Dio, esaminati accuratamente e i fratelli costruiranno un edificio, dove
potrai ritirarti. Senza dubbio, grazie a te, il Signore farà venire altre
sorelle, che si salveranno per merito tuo» (Vita copta di san Pacomio, p. 27).

Le monache seguono in tutto la regola maschile, anche se non indossano la


melote, l’indumento di pelle di capra che indossano gli asceti del deserto.
Le due comunità vivono in grande comunione spirituale, anche se la
separazione è rigorosa, e si evitano tutti gli incontri che non abbiano motivi
religiosi e spirituali.
Una separazione rigorosa

«Diciamo qualcosa anche del monastero delle vergini. Nessuno vada a


visitarlo se non chi ha là la madre o la sorella o la figlia e parenti e cugine
e la madre dei suoi figli. Se poi vi sarà necessità di vederle perché prima di
rinunziare al mondo e di entrare in monastero spettava a loro l’eredità
paterna o vi è qualche altro motivo manifesto, mandino con questi un
uomo di età avanzata, visitino quelle e tornino insieme. Nessuno vada da
loro tranne quelli che abbiamo detto sopra. Se vogliono vederle, prima lo
facciano dire al padre del monastero, e questi li mandi dai seniori
incaricati della cura delle vergini. Essi vadano loro incontro e insieme
vedano quelle con cui devono parlare, con ogni disciplina e timor di Dio.
Quando le vedranno non parlino con loro di questioni secolaresche».
(Regula Pachomii, 143, in Regole monastiche antiche, a cura di G.
Turbessi, Roma 1974).
L’importanza dello studio

Preghiera e lavoro manuale sono alla base della vita pacomiana, e tuttavia
uno spazio importante è riservato anche allo studio, e questa è una
occupazione prevista anche per le monache:
«Chi entra nel monastero ancora pagano, prima sia istruito su ciò che
deve osservare e quando avrà accettato ogni cosa, gli si diano venti Salmi
o due lettere dell’Apostolo o una parte del resto della Scrittura. E se ignora
le lettere, alle ore prima, terza e sesta vada da colui che può istruirlo e
impari con molta diligenza e ogni gratitudine. Poi gli si scrivano gli
elementi di una sillaba, le parole e i nomi e sia costretto a leggere anche
contro voglia. Nel monastero non ci sia proprio nessuno che non sappia
leggere e non ricordi qualcosa della Scrittura: come minimo il Nuovo
Testamento e il Salterio» (Regula Pachomii, 139-140).
Il monachesimo greco:
Macrina e i Padri Cappadoci

Gli inizi del monachesimo in Asia Minore sono


da ricondurre alla figura di Eustazio, vescovo di
Sebaste (356), testimone di un evangelismo
radicale, che predica castità e povertà perfetta
ed è assai critico nei confronti delle istituzioni
ecclesiastiche (condanna del clero sposato e
delle ricchezze della Chiesa, anche se utilizzate
per scopi caritativi e benefici). Questo
personaggio rigoroso e settario, ma di altissima
levatura spirituale, esercita una influenza
fondamentale sulla famiglia di Basilio di
Cesarea, convertendo agli ideali ascetici la
madre e la sorella Macrina e quindi lo stesso
Basilio, che però in seguito se ne distacca, per
proporre un modello nuovo e diverso di
monachesimo, alieno dagli estremismi di
Eustazio e della sua cerchia.
Della cerchia di Basilio fanno parte anche l’amico Gregorio di Nazianze e il fratello
Gregorio di Nissa. Legati da una forte intesa reciproca e da una profonda consonanza di
ideali, i Padri Cappadoci riconoscono in Basilio il capo e il legislatore; Gregorio di Nazianze
è il poeta del gruppo, sensibile e contemplativo, amante della solitudine; Gregorio di Nissa è
invece il teologo speculativo e mistico, di grande profondità di pensiero.
Basilio si forma ad Atene e a Costantinopoli, quindi trascorre un periodo di tempo in
Egitto e in Siria per conoscere la vita monastica di quei paesi. Al suo ritorno in patria si dà
alla vita ascetica nel 355 e si stabilisce in una proprietà di famiglia nel Ponto, ad Annesi,
dove crea una comunità monastica. Nel 370 diventa vescovo di Cesarea di Cappadocia.
Il monachesimo di Basilio è diverso da quello egiziano. La sua dottrina è trasmessa nelle
Regole morali e nell’Asceticon (in due versioni: Piccolo Asceticon, tra il 365 e il 370, e Grande
Asceticon), in cui si esprime una concezione nuova e originale del monachesimo. Più che di
un vero e proprio codice normativo, si tratta di consigli, ammaestramenti sulla vita
cristiana formulati come domande e risposte di un maestro ai suoi allievi.
La dimensione ecclesiale dei Basiliani

Basilio pone alla base del suo insegnamento il precetto della carità, dell’amore
di Dio e del prossimo. L’amore di Dio esige una rinuncia totale al mondo, ma non
implica la separazione dalla comunità dei fedeli. La caratteristica essenziale
della spiritualità basiliana è la vita comune: solo la vita cenobitica può garantire
l’esercizio della carità , mentre l’eremitismo è pericoloso e può condurre a forme di
ascesi esasperate.
Ma il cenobitismo basiliano si differenzia profondamente da quello pacomiano
nell’organizzazione del monastero. Per Basilio nella comunità il numero dei monaci
non deve essere elevato, in modo da consentire loro una vita più raccolta. Inoltre il
cenobio non deve essere una entità a sé stante rispetto alla comunità cristiana;
ecco perché il monastero basiliano ha delle scuole, un ospizio, un orfanotrofio.
Importante è la funzione assegnata all’insegnamento e alla formazione. Un altro
elemento distingue il cenobitismo basiliano da quello egiziano: le comunità sono al
servizio della chiesa locale presieduta dal vescovo.
Vita Macrinae

Determinante sulla formazione di Basilio è però la sorella Macrina, di


cui il fratello Gregorio di Nissa scrive una biografia, la prima di una
monaca cristiana. È lei a introdurre i fratelli alla vita ascetica e a
fondare una comunità femminile che sorge nei pressi di quella
maschile. I due monasteri seguono le stesse norme, però alle religiose
è riconosciuta una notevole autonomia, perché il superiore degli
uomini non può interferire nella vita interna della comunità . Tuttavia
la separazione è molto rigida e l’abate può tenere soltanto discorsi e
conferenze, mentre le occasioni di incontro sono ridotte al minimo.
 
Alcuni detti delle Madri del deserto

Amma Sincletica disse:

Imitate il pubblicano e così non sarete condannate come lo fu il fariseo. Scegliete l’umiltà di
Mosè per trasformare il vostro cuore di pietra in una sorgente. — È bene non adirarsi ma, se
questo dovesse succedere, san Paolo non vi lascia nemmeno una giornata per sfogare questa
passione, perché dice «Non tramonti il sole sulla vostra ira». E voi aspetterete sinché non
tramonterà il vostro tempo? Perché odiare chi vi ha rattristato? Non quella persona ha
sbagliato, ma il Maligno. Detestate la malattia e non il malato. — Esattamente come è
impossibile essere allo stesso tempo una pianta e un seme, così è per noi impossibile essere
circondati dagli onori del mondo e allo stesso tempo produrre un frutto celeste.
Amma Teodora disse:

Un maestro dovrebbe essere estraneo al desiderio di dominio, vanagloria e orgoglio. Un maestro non
dovrebbe farsi ingannare dall’adulazione, non farsi accecare dai propri doni e mai farsi dominare dalla
collera. Un maestro dovrebbe essere paziente, gentile e umile per quanto è possibile; deve essere stato
messo alla prova con successo, privo di partigianeria, pieno di sollecitudine e amante delle anime. — Se
volete che il vostro spirito porti frutto e che le passioni cessino di esercitare su di voi ogni seduzione,
rafforzate l’esercizio della lettura. Fatelo in totale silenzio con la mente limpida dandole la possibilità di
approfondirla completamente. Siamo condannati ad assaggiare il pane della sapienza con fatica e il
sudore della fronte. — Amate il Signore nostro Gesù Cristo, lottate per raggiungere le virtù . Il lavoro
continuo che si svolge nella perseveranza allontana e scaccia la tristezza. — Amate l’esichia (equilibrio
interiore, ndr). L’indipendenza dell’anima dalle vanità del mondo si rafforza tramite l’esichia, il silenzio
e la rinuncia. La preghiera e la lettura perfezionano il discernimento.

Amma Sarra disse:

Se ti ricorderai quanto dice la Scrittura: «In base alle tue parole sarai giustificata, e in base alle tue
parole sarai condannata», sceglierai come cosa migliore il tacere. — Siano sempre i Salmi sulla tua
bocca e il ricordo di Dio nella tua mente! Se ricordiamo Dio e lo teniamo dentro di noi i demoni
vengono cacciati. Bada bene a non scordare Dio!
Le prime esperienze occidentali

Le prime notizie relative a forme di vita ascetica in Italia risalgono al 350


ca. Esse sono da porsi in relazione con la presenza, a Roma, del grande
vescovo Atanasio di Alessandria (340-343), in fuga dai suoi avversari,
nemici dell’ortodossia nicena. Secondo san Girolamo, fu Atanasio a far
conoscere la Vita di Antonio e le esperienze degli eremiti del deserto, i
cenobi di Pacomio nella Tebaide, e la condotta ascetica di vedove e vergini.
Il vescovo di Alessandria fu dunque il primo sicuro mediatore delle forme
di ascetismo orientale a Roma e in tutto l’Occidente, anche se egli trovò
probabilmente un terreno già pronto ad assimilare questi ideali.
Dunque, per le origini dell’ascetismo nella penisola bisogna fare
riferimento ai modelli orientali, anche se in un contesto storico differente
il monachesimo conoscerà sviluppi diversi.
Il silenzio delle fonti

Le origini del monachesimo femminile in Italia ci sono poco note, a causa del
silenzio quasi totale delle fonti in proposito.
A fronte di questa scarsezza di documentazione possediamo invece numerosi
testi dei Padri della Chiesa, che svolgono una propaganda a tutto campo a favore
della verginità consacrata, ponendo le premesse ideologiche della valorizzazione
dell’astinenza sessuale. Cessate le persecuzioni, la rinuncia al mondo viene a
configurarsi come una sorta di martirio incruento (sine cruore martyrium), e
nella nuova graduatoria di merito stabilitasi la palma tocca alla verginità , seguita
dalla continenza vedovile e dal matrimonio.
Il primo scritto teorico incentrato sulla esaltazione della verginità è di ambiente
greco ed è il Simposio di Metodio d’Olimpo (†311), in cui le vergini vengono
considerate come un gruppo a sé stante all’interno della comunità ecclesiale,
dotato di una particolare dignità .
In Occidente, i due personaggi che nei loro scritti più si impegnano nella difesa
dello stato verginale sono sant’Ambrogio, vescovo di Milano, e san Girolamo.
La propaganda in favore della verginità

Si tratta di un tema particolarmente delicato, perché i Padri devono


trovare una via di mezzo. Bisogna evitare la condanna del matrimonio
propria del movimento encratita, ma al tempo stesso impedire che castità
e vita coniugale vengano poste sullo stesso piano, come aveva cercato di
fare il monaco Gioviniano, che si attirò , sul finire del IV secolo, la dura
invettiva di Girolamo (Adversus Iovinianum).
In linea generale, tutti i Padri, sia pure con sfumature diverse, sono
concordi nell’affermare che il matrimonio resta comunque un bene,
benché la castità sia un bene maggiore.
Il più estremista nel deprezzamento del matrimonio è Girolamo, mentre
Agostino adotta posizioni più equilibrate. Egli infatti non incentra il suo
discorso unicamente sulla castità , ma ad essa affianca l’umiltà , perché
«più facilmente seguono l’Agnello […] i coniugati umili che le vergini
superbe» (De sancta virginitate LI, 52).
Sant’Ambrogio e la propaganda in favore della verginità
Sant’Ambrogio (†397) dedica numerosi scritti al tema
della verginità consacrata. Particolarmente importanti
sono due trattati: il De virginibus, in tre libri (PL 16), che
il vescovo di Milano redasse nel 377, tre anni dopo la sua
elezione, e il De virginitate.
Il nocciolo dell’argomentazione di Ambrogio fa leva sia
sul valore assoluto della verginità , sia sui vantaggi che
essa comporta che sugli inconvenienti cui sottrae.
Poiché l’attrazione sessuale è una conseguenza della
caduta, lo stato verginale, a imitazione della vita angelica,
conduce chi la pratica a una condizione privilegiata che
anticipa sulla terra la beatitudine del paradiso. La donna
che scelga di dedicarsi a Dio supera la debolezza del
proprio sesso diventando una mulier virilis, capace di
competere in virtù con gli uomini. Inoltre la rinuncia alla
maternità fisica libera la vergine dai rischi della
gravidanza e del parto, mentre le assicura una maternità
spirituale feconda anche in una prospettiva ultraterrena.
Un «monachesimo» domestico

Si delinea qui l’immagine della virgo intra domum quale


connotato imprescindibile dell’esperienza religiosa femminile.
«Prodire domo nescia [...] domestico operosa secreto»,
raccomanda Ambrogio alla sorella Marcellina, cui è dedicato il
trattato. Resti in casa, attendendo in penetralibus le visite
dell’angelo; non si curi nemmeno di avere delle compagne, ma
coltivi una solitudine perfetta. D’altra parte, come può dirsi sola
colei «cui tot libri adessent, tot archangeli, tot prophete?»
(Sanctus Ambrosius, De virginibus, PL 16/2, II, 9, col. 209). La
solitudine abitata solo dai libri, dagli arcangeli, dai profeti, è il
sito ideale. Silenzio (taciturnitas) letture lacrime digiuno: per il
santo vescovo di Milano è questa la via regia della perfezione.
Se Ambrogio è l’institutor della reclusione, Girolamo ne è il
cantore: «Quando era chiusa in una piccola casa - scrive il
Dalmata nell’elogio della bella Asella – ella si trovava a suo agio
come in paradiso. Un solo strato di terra era il luogo della sua
preghiera e del suo riposo. Il digiuno fu per lei un
divertimento, l’astinenza una refezione. Osservò così bene la
clausura da non arrischiare mai di mettere fuori un piede, né
parlò mai a un uomo». E conclude: «la sua parola è silenziosa e
il suo silenzio grida». (Sanctus Hieronymus, Epistula ad
Marcellam XXI, in PL 22, coll. 427-428).
Ambrogio offre raccomandazioni pratiche riguardo allo stile di vita della vergine, atte a favorirne il
distacco dal mondo: deve stare in casa, prevalentemente nella propria camera, fare un uso parco
dei cibi, attendere la venuta dello Sposo meditando le Scritture giorno e notte. Deve inoltre stare
attenta a non attirare su di sé gli sguardi maschili, e limitare le uscite, che sono giustificate solo per
esercitare la carità .
Questo stile di vita garantisce a chi lo pratica non solo un premio in cielo, ma anche una dignità
particolare sulla terra. Ambrogio elogia la vergine nobile e ricca che ha rifiutato lo sposo terreno
scelto per lei dalla famiglia, sostenendo che nessun uomo può competere in grandezza con il re dei
cieli.
Queste argomentazioni sono mirate a rafforzare il prestigio della condizione verginale anche agli
occhi delle famiglie, restie a privarsi di una discendenza, e il vescovo enumera tutti i vantaggi che
derivano dal fatto di avere una vergine in casa, che può occuparsi dei genitori anche nel periodo
della loro vecchiaia.
L’iniziativa di Ambrogio fa dunque riferimento non tanto a forme monastiche istituzionalizzate,
quanto ad ascete che vivono al di fuori delle comunità , virgines sacrae, che continuano ad abitare in
domibus propriis.
Il fenomeno delle «monache di casa», donne consacrate a Dio, godrà nel tempo di una lunga
continuità , anche se resterà “sommerso” e difficilmente quantificabile, perché lascerà poche tracce.
Marcellina e la velatio
D’altra parte, Ambrogio stesso ha in famiglia una
vergine: si tratta della sorella Marcellina (†398), la
prima persona dedita a vita ascetica su cui siamo
storicamente informati.
Il giorno di Natale dell’anno 352-353, la giovane
riceve in S. Pietro dalle mani di papa Liberio (352-
366) la consacrazione alla verginità (velatio) con
una cerimonia che Ambrogio descrive nei
particolari. Dopo questo rito liturgico ella continua
a vivere nella casa paterna con la madre vedova, e
solo in seguito essa seguirà a Milano il fratello, che
ne assicura il sostentamento grazie a un vitalizio
(precaria). Marcellina applica rigorosamente i
consigli espressi nei trattati di Ambrogio,
conducendo vita ritirata, ma resta in contatto con
donne animate dagli stessi ideali, cui essa fa da
guida e da magistra.
Virgines et viduae

Resta da sottolineare una differenza sostanziale tra le virgines e le viduae. Mentre le


prime potevano pronunciare il propositum castitatis sia privatamente che nel quadro di
una consecratio pubblica e solenne officiata dal vescovo locale, per le vedove una
cerimonia di iniziazione non esisteva. Tale distinzione è da ricondursi alla diversa
posizione dei gruppi: le virgines occupavano il primo gradino nella scala dei meriti, le
vedove soltanto il secondo. Comunque ambedue godevano di una speciale protezione
della Chiesa e del vescovo.
Si noti anche che la consecratio solenne e pubblica dinanzi al vescovo locale non era
prevista per gli asceti maschi. L’uomo poteva pronunciare il suo propositum castitatis solo
in privato e manifestare la propria condizione attraverso un comportamento
irreprensibile. Ciò significa dunque che gli asceti non avevano agli inizi un proprio status
neppure nella gerarchia ecclesiastica, a differenza delle virgines.
La vita ascetica agli inizi poteva presentarsi sotto forme diverse e non aveva una
dimensione istituzionale organizzata.
Essa veniva attuata in comunione con il vescovo, che era il consecrator delle vergini e si
occupava della loro formazione spirituale con numerose prediche e scritti di carattere
ascetico ed esercitava su di loro una sorta di protezione.
La protezione dello Stato
Anche le leggi dello Stato proteggevano lo statuto privilegiato delle virgines, ed è
interessante notare che i provvedimenti in questo senso sono rivolti a loro
piuttosto che agli asceti di sesso maschile. Tale attenzione va compresa alla luce
della peculiare necessità di donne prive della protezione del marito, e da un certo
momento in poi della vita anche del padre, due garanti della elementare funzione
di protezione all’interno della società antica. La prima testimonianza in nostro
possesso è un decreto emesso dalla cancelleria di Costanzo, figlio di Costantino,
che nel 343 proibiva di offrire alla prostituzione le virgines sacrae. Dopo di allora,
sino a Giustiniano, i provvedimenti si sarebbero moltiplicati: erano previste pene
gravissime in caso di rapimento di una vergine. Il sequestratore incorreva nella
condanna capitale, e se sospeso in flagrante reato poteva essere direttamente
ucciso. Analoga severità era applicata a chi gli offrisse asilo e protezione.
Tale legislazione rivela in quale considerazione fosse tenuta la condizione di virgo
sacra, e dunque la preoccupazione dell’imperatore cristiano nel regolare il buon
andamento delle istituzioni ecclesiastiche nel loro complesso, di cui si sentiva
direttamente responsabile.
San Girolamo e l’ascetismo femminile a Roma

Un ruolo importante nello sviluppo delle esperienze ascetiche a Roma venne svolto
da san Girolamo (†420) durante il suo soggiorno nella città tra il 382 e il 385.
Girolamo in realtà non ne fu l’iniziatore, perché al tempo del suo arrivo erano già
molto attivi gruppi di donne impegnate in una vita di severo ascetismo. Tra queste, la
prima e più famosa fu Marcella (†410), di grande famiglia patrizia. Rimasta vedova
dopo soli sette mesi di matrimonio, sembra intorno al 355, respinse le seconde nozze
e abbracciò una vita di perpetua continenza. Continuò ad abitare con la madre Albina
nella sua casa dell’Aventino, trattenendo delle proprie sostanze quanto le era
necessario per il sostentamento suo e dei suoi parenti. Marcella non consumava
carne e beveva solo limitate quantità di vino, indossava una semplice tunica, e non
coltivava le relazioni sociali tipiche del suo ceto. Usciva di casa solo per brevi
pellegrinaggi nelle basiliche e nei santuari, incontrando ecclesiastici e monaci, ma
sempre alla presenza di testimoni.
Marcella è il modello ideale della vidua sacra nella Roma del IV secolo, e il suo
esempio attirò molte donne di estrazione aristocratica che seguirono il suo magistero
spirituale.
L’ascetismo colto delle matrone romane

L’elemento peculiare di questa cerchia di ascete cristiane era


rappresentato dalla lettura, lo studio e la meditazione delle
Scritture. Si trattava di una vera e propria Accademia di studi biblici.
Fu su questi presupposti che si sviluppò il profondo rapporto di amicizia
spirituale tra Marcella e Girolamo, destinato a durare nel tempo, ben oltre
la partenza di lui da Roma (385).
Ed è grazie agli scritti di Girolamo che possiamo ricostruire la
composizione di questi circoli di virgines e viduae sacre che dettero un
contributo decisivo all’immagine dell’ascetismo a Roma fino al VI secolo.
Oltre a Marcella vanno quindi ricordate Paola e le figlie Blesilla ed
Eustochio, Asella, Fabiola e Irene, ma anche coppie di coniugi che si
votavano insieme alla continenza, pur senza entrare in comunità .
In Girolamo le donne della
classe senatoria romana
trovarono un maestro
affascinante, in grado di
soddisfare il loro desiderio
di conoscere e
approfondire la Scrittura
Sacra
Fondazioni latine nei Luoghi Santi
L’apostolato di Girolamo nei confronti delle ascete
romane non si esaurì dopo la sua partenza dalla
città . Alcune donne lo seguirono, dando vita in
Palestina a comunità monastiche. Tra di loro,
giganteggia la figura di Paola (†406), cui Girolamo
dedicò un celebre Epitaphium, elogio funebre. Nel
385 Paola, accompagnata dalla figlia Eustochio,
raggiunse Gerusalemme e fece visita ai Luoghi
Santi, quindi in compagnia di Girolamo si recò in
Egitto per prendere contatto con la vita degli
anacoreti della Nitria. Infine decise di stabilirsi a
Betlemme, dove la donna fece costruire a sue
spese due monasteri, uno per uomini e uno per
donne, e poco tempo dopo anche un ospizio per i
pellegrini. La comunità femminile, composta di
una cinquantina di donne, era la più numerosa.
Girolamo viveva in disparte, tutto dedito allo
studio e all’insegnamento.
Un’altra comunità latina, precedente a quella di
Paola e di Girolamo, era stata fondata nel 372 a
Gerusalemme da un’altra nobildonna romana,
Melania Seniore (†410), e da Rufino di Aquileia
(†410-411). Il monastero di Melania, sul Monte
degli Ulivi, non ebbe però una vita tranquilla, ma
fu funestato da numerosi scontri con le comunità
betlemite. Girolamo infatti accusava il suo amico
di un tempo di aver aderito a posizioni
origeniste.
Al di là di questi contrasti dottrinali, molto simili
erano i motivi che avevano determinato la
formazione di queste colonie latine in Oriente: il
desiderio di visitare i luoghi storici della vita di
Gesù , e la potente attrazione esercitata dai
modelli di perfezione orientali conosciuti
attraverso la Vita Antonii. Erano loro, nel IV
secolo, gli eroi e gli atleti della vita spirituale.
G. M. Colombas, Il monachesimo delle origini, Milano,
Jaca Book, 1984.
Gregorio di Nissa, Vita di santa Macrina, a cura di E.
Giannarelli, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline,
1988.
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cura di M. Todde, Liscate, Cens, 1989.
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in Sicilia e Italia suburbicaria tra IV e VIII secolo. Atti del Convegno
(Catania, 24-27 ottobre 1989), a cura di S. Pricoco et al., Soveria Mannelli
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