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FACOLTA’ TEOLOGICA DELL’ITALIA CENTRALE

APPUNTI DEL CORSO DI

SCRITTI GIOVANNEI

Prof. Benedetto ROSSI


INTRODUZIONE

Leggere e conoscere il vangelo di Giovanni. Uno dei vertici della rivelazione e della mistica.
Accanto alla attenzione e allo studio ci vuole amore.
Questioni introduttorie. Questione giovannea, scopo, destinatari, datazione, ambiente culturale,
aspetti letterari e narrativi, vocabolario, struttura letteraria.
Per questi rimandiamo a Mannucci, Giovanni, il Vangelo narrante oppure a Segalla, oppure Ashton
Comprendere il IV vangelo (in inglese oltre che dalla ed Vaticana) oppure Introduzione al vangelo
di Giovanni di Raimond Brown, Queriniana, edizione italiana di quest’anno, probabilmente il
migliore.

I brani per l’esegesi.


Prologo: ambiente culturale, esegesi e teologia. Sarebbe da imparare a mente.
Poi la settimana inaugurale. Poi i personaggi di Nicodemo, samaritana e ufficiale regio.
Discorso sul Pane di vita (forse).
Cap. 13, 14-17 lavanda e discorsi di addio.
Passione. Esegesi e teologia.
Sintesi della visione cristologica ecclesiologica ed escatologica del IV vangelo.
Suggerirei la lettura di uno degli studi di Dodd: L’interpretazione del IV vangelo oppure La
tradizione storica del IV vangelo. L’interpretazione… cerca di fondare l’interpretazione del vangelo
tenendo conto degli influssi culturali del contesto, soprattutto ermetismo, poi gnosi e Qumran. Si
trovano anche nell’introduzione del Brown. Dodd si è schierato a favore di un contesto
dell’ermetismo: oggi questa tesi non è molto accolta. Il secondo invece pone in relazione la
tradizione storica del IV vangelo con i sinottici e fa vedere l’indipendenza dai sinottici.
Poi la 1 Lettera di Giovanni. Leggendo il commentario del Brown.
L’Apocalisse: lettura personale su uno dei commentari. Vedi Frijan, Il messaggio. Anche Enzo
Bianchi, L’Apocalisse di Giovanni e Giblen L’apocalisse. Faremo introduzione, cenni sulla
letteratura apocalittica, il genere letterario, il problema del simbolismo, la struttura letteraria,
pensiero, sviluppo teologico, il messaggio riferito all’aspetto cristologico ecclesiologico e
escatologico. Faremo la lettura della prima parte: visione iniziale e settenario delle lettere; poi il
cap. 12 e infine la Gerusalemme celeste.

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QUESTIONE GIOVANNEA
Si deve distinguere l’autenticità dall’autoricità. Che alla base stanno gli apostoli (cf. DV 18-19 1)
non si discute. È sufficiente che l’autore sia all’origine dello scritto ma non che lo abbia scritto
anche materialmente. La cosiddetta QG non è un questione dogmatica ma un problema di critica
storica e letteraria. Si vuole affrontare il problema dell’autore del IV vangelo. Distinguiamo
autenticità da canonicità. La DV ci ricorda l’origine apostolica. Non vuol dire che l’apostolo sia lo
scrittore materiale. È sufficiente che l’apostolo sia all’origine del contenuto. L’autore per noi è colui
che concepisce e realizza l’opera, ma non era così nei tempi antichi. Pietro è l’apostolo dietro il
vangelo di Marco. La QG si pone per la differenza di valutazione relativa ad alcuni dati della
tradizione antica, del II secolo, critica esterna (cioè cosa dicono altri autori) e anche dalla critica
interna (cosa dice il vangelo dell’autore). Il fatto che sia la critica interna che la critica esterna non
è unanime nel valutare l’autore pone la questione giovannea.

Critica esterna. Testimonianze.


Vedi allegato 1: La diffusione del Quarto Vangelo.
Vi è una rapida diffusione del IV vangelo. Questo ci dicono le scoperte papirologiche. Il P 52 è il
papiro più antico di tutto il NT. Risale a prima del 150 forse 120/130 e riporta Gv 18,31-36. Poi il
P66 di prima del 200 che riporta tutto il vangelo.
Diffusione rapidissima del IV vangelo. Si ritrova nei padri apostolici. In Ignazio, nella Lettera ai
Filippesi e ai Magnesi.

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DV 18-19:
Origine apostolica dei Vangeli
18. A nessuno sfugge che tra tutte le Scritture, anche quelle del Nuovo Testamento, i Vangeli possiedono una
superiorità meritata, in quanto costituiscono la principale testimonianza relativa alla vita e alla dottrina del Verbo
incarnato, nostro Salvatore. La Chiesa ha sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli sono di origine
apostolica. Infatti, ciò che gli apostoli per mandato di Cristo predicarono, in seguito, per ispirazione dello Spirito Santo,
fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia tramandato in scritti che sono il fondamento della fede, cioè l'Evangelo
quadriforme secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni (31).
Carattere storico dei Vangeli
19. La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande costanza che i quattro suindicati
Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua
vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo
(cfr At 1,1-2). Gli apostoli poi, dopo l'Ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva detto e
fatto, con quella più completa intelligenza delle cose, di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati
dallo Spirito di verità (32), godevano (33). E gli autori sacri scrissero i quattro Vangeli, scegliendo alcune cose tra le
molte che erano tramandate a voce o già per iscritto, redigendo un riassunto di altre, o spiegandole con riguardo alla
situazione delle Chiese, conservando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo tale da riferire su Gesù
cose vere e sincere (34). Essi infatti, attingendo sia ai propri ricordi sia alla testimonianza di coloro i quali « fin dal
principio furono testimoni oculari e ministri della parola », scrissero con l'intenzione di farci conoscere la « verità » (cfr.
Lc 1,2-4) degli insegnamenti che abbiamo ricevuto.

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Anche nelle Odi di Salomone troviamo una affinità al IV vangelo, soprattutto la Ode XXV sembra
dipendere e riferirsi al IV vangelo. Siamo nel I secolo. Qualcuno dice che l’affinità dipende
dall’ambiente comune di Qumran.
Nel I secolo ancora Policarpo di Smirne riporta affermazioni del IV vangelo. Poi Giustino, ecc. La
diffusione nel II secolo è un dato di fatto.
Ma chi è l’autore?
Dal III secolo è stato attribuito all’apostolo Giovanni figlio di Zebedeo e discepolo prediletto. Un
frammento di Papia di Gerapoli riportato da Eusebio sembra distinguere tra un Giovanni apostolo
morto (perché verbo al passato eipen= “disse”), e di un Giovanni presbitero, discepolo del Signore
ancora vivo (verbo al presente).
Ireneo riporta una esperienza personale avendo ascoltato Policarpo che aveva ascoltato l’apostolo.
Papia non dice d’aver ascoltato Giovanni l’apostolo, ma di aver ascoltato Giovanni il presbitero.
Giovanni l’apostolo non è Giovanni il presbitero

Attestazioni sull’autore.
Agli inizi del III secolo la paternità Giovannea non sembra essere così pacifica. Muratori parla di un
discepolo Giovanni, e di un apostolo Andrea.
Critica intera: cosa ci dice il testo dell’autore.
Il testo ci mette davanti il discepolo amato. (en ogapesa o Iesus: il discepolo che Gesù amava).
Sembra che questa espressione sia una connotazione autobiografica. Quindi si tratterebbe
dell’evangelista scrittore.
- L’ipotesi più radicale considera il discepolo amato una finzione letteraria o una figura
ideale. Così scomparirebbe il portatore storico della testimonianza, non sarebbe più molto
storico, ma piuttosto spirituale. Questa opinione, Loisy e Crageud, oggi non è più accettata.
Se si attribuisse a questa finzione letterale non sussisterebbe la questione storica.
- Un'altra ipotesi ritiene una persona storica, di Gerusalemme legato a Qumran non discepolo
di Gesù. Sarebbe il fondatore della scuola giovannea un cristiano di Gerusalemme legato
alla comunità di Qumran. Lo si confronterebbe con il maestro di giustizia fondatore della
comunità di Qumran (S. Tycle).
- Una terza ipotesi lo identificherebbe con un anonimo discepolo di Gerusalemme e questo
spiegherebbe l’interesse per la città santa e la giudea e le considerazioni dell’ambiente
sacerdotale Gv 18,15 (entra nella casa del sommo sacerdote) questa è l’ipotesi di
Scnackenburg e Brown.

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- Engel invece ritiene che l’autore è Giovanni il presbitero che avrebbe scritto da giovane al
tempo di Nerone l’Apocalisse e da vecchio il IV Vangelo.
- Infine la tesi tradizionale che identifica autore e discepolo amato e apostolo Giovanni
(Robinson e Morris).
L’ipotesi più diffusa in Europa (non Germania) è quella del Brown che ritiene distinto l’autore
(Giovanni evangelista) dal discepolo amato, Giovanni figlio di Zebedeo. Brown sostiene che dietro
il concetto di autore ci stanno due persone: il discepolo amato che sta all’origine della tradizione; e
l’evangelista che scrisse il vangelo.

Cosa si può dire?


Il IV vangelo lo chiama il discepolo amato in 13,23; 19,26; 20,2; e 21,7. Però non è come nel caso
del vangelo di Luca che parla di se stesso, e dice cosa vuol fare e come intende lavorare.
Qui è il gruppo dirigente i lavori che esce allo scoperto solo in 21,24.25:
Gv 21,24 “questi (il discepolo amato) è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte
(testimone autore, ma non in senso carta e penna) e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera”:
sarebbe il discepolo che è appena morto e che ha suscitato scandalo a causa dell’ipotesi che “non
sarebbe morto” (21,22).
Al v. 25 però lo scrittore si presenta col suo volto al singolare:“vi sono molte altre cose compiute da
Gesù che se fossero scritte una ad una penso che neppure il mondo basterebbe a contenere i libri che
si dovessero scrivere…”. Dal noi del v. 24 si passa all’io del v.25. Qui c’è il segreto dell’autore. In
questi due versetti si dice che:
1) C’è un discepolo testimone che sta alla origine delle cose che sono state scritte, anzi è il
fondatore, il garante.
2) Poi un gruppo dirigente che si fa garante davanti agli uditori che quello che ha detto il testimone
è vero. C’è un respiro cattolico, universale.
3) C’è un autore che alla fine esprime la sua opinione sulla importanza di ciò che Gesù fece. Qui
sembra che appaia la diversità tra il testimone garante (il discepolo amato) e l’evangelista, colui che
scrive.
Questa diversità tra testimone e evangelista scrittore appare anche in Gv 19,35 dove si legge “chi ha
visto ne da testimonianza, e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero perché anche voi
crediate”. Questo si adatterebbe a un discorso fatto dall’evangelista di fronte alla testimonianza del
discepolo. Colui che scrive dice che ciò che scrive riguarda il testimone di cui sta scrivendo, ma non
lo dice di sé stesso. Usa la terza persona per questo motivo e non per umiltà come pensavano i
Padri.

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In conclusione il discepolo amato:
- è il testimone che il gruppo giovanneo assicura garante della tradizione scritta del vangelo:
- è il discepolo più intimo di Gesù, compare vicino a Pietro.
- Il discepolo è testimone di tutte le vicende del Cristo.
- Forse è il primo discepolo, quello anonimo del primo incontro: “dove abiti” insieme ad
Andrea.
- Forse era della Galilea perché lo troviamo tra quelli che pescano sul lago in Gv 21,7.
- Testimone e interprete, è venerato fondatore della comunità giovannea.

Chi sarebbe l’evangelista?


La sua identità è implicita nella composizione.
1) Doveva conoscere il greco parlato nella comunità giudaica. È un greco semplice povero (poco
più di 1000 vocaboli) ma ben conosciuto.
2) Conosceva molto bene la Scrittura e la impiega liberamente.
3) Doveva vivere in un ambiente ellenistico tanto da assorbirne la mentalità diffusa, e espressioni
comuni, che però interpreta in sottofondo biblico.
4) Doveva essere stato in contatto con gruppi giudaici marginali: qumranici, samaritani, battisti.
5) Doveva essere un teologo di primo piano, che esprimeva pensieri profondi con un linguaggio
semplice, carico di significato.
6) Usa il simbolismo, l’enigma.
Era certamente del gruppo del discepolo amato. Potrebbe essere stato anche discepolo del Signore.
Probabilmente di origine palestinese, ma non è escluso che fosse un giudeo della diaspora
ellenistica. Si è sempre più scettici della ipotesi di una scuola, di una comunità che pensa e che
scrive (formgesicht); si tratta di una autore e non di una scuola. C’è sempre l’opera di un autore
personale. La scuola della storia delle forme è quella che sta dietro l’ipotesi mitica e l’ipotesi critica
della questione sinottica.
L’ipotesi critica è che all’origine dei vangeli c’è un personaggio semplice, Gesù, un uomo che poi è
stato divinizzato dal fanatismo dei credenti, per cui si toglie tutto ciò che è miracolistico e di divino
dal vangelo. L’ipotesi mitica è che all’origine ci sia un mito, una idea, che poi viene proiettata fino
a prendere corpo nel mito di un personaggio storico. Le comunità del bacino del medio oriente che
creano liberamente queste forme. Questo significa non conoscere nulla del mondo giudeo e nei
primi 50 anni la chiesa era fatta da giudei.

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Gli eretici hanno quasi forzato con le loro interpretazione esagerate la difesa a denti stretti della
paternità apostolica Giovannea. Per cui la tradizione antica riteneva che il discepolo amato e
l’apostolo sono la stesa persona.

Il discepolo amato è l’apostolo Giovanni?


L’apostolo Giovanni risponde ai connotati del discepolo amato.
Nello schema a confronto ciò che conosciamo dalle altre fonti (altri vangeli atti e paolo).
Sembra che le cose coincidano. Fu uno dei 3 discepoli più intimi di Gesù.
Fu un compagno di Pietro prima ancora di divenire discepolo (azienda ittica Lc 5).
Lo si trova a dirigere la primitiva comunità (Atti e Galati).
Un punto critico molto forte è il fatto che fosse al calvario, alla morte di Gesù, quando i sinottici
dicono che i discepoli fossero fuggiti. In Gv 19,25 si parla del discepolo amato ai piedi della croce.
In sinottici si parla della madre dei figli di Zebedeo forse alludendo che lui poteva essere con sua
madre. Un ragazzo dunque.
Tuttavia in Mt 27… c’era la Madre dei figli di Zebedeo può essere indizio che c’era anche il figlio.
Circa la conoscenza della Giudea e di Gerusalemme potrebbe dipendere dagli anni passati a
Gerusalemme nella comunità delle origini, quindi dopo la morte di Gesù.
Le altre difficoltà contro l’identificazione non sembrano consistenti.
Per esempio: in At 4,13 Giovanni è detto un pescatore e un illetterato, ma questo non vuol dire che
non fosse testimone intelligente e personale. Poi i pescatori erano benestanti. Illetterato poi riguarda
la preparazione culturale non l’intelligenza. Poi il discepolo amato è l’apostolo non l’esecutore
materiale del testo.
L’obiezione che il discepolo amato (18,15) aveva conoscenze nell’ambiente del sommo sacerdote
non necessariamente riguarda il discepolo amato, anche perché lì si parla de “l’altro discepolo”
senza specificare “che Gesù amava”.
Gv 21,24-25 ci fa capire la presenza di un testimone, di una comunità che avalla e di un evangelista
e redattore che certamente entra nell’accoglienza della testimonianza di Giovanni, la fa propria
senza nulla togliere al kerygma.
Si può identificare l’apostolo Giovanni con il discepolo amato ed è lui che è testimone e ha la
paternità del vangelo. Come mai non compaiono Giacomo e Giovanni nel IV vangelo?
In conclusione: l’identificazione dell’Apostolo con il discepolo amato è l’ipotesi migliore tuttora.
L’autore letterario rimane senza nome.

Dove è stato composto?

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La tradizione del II secolo parla di Efeso, dimora di Giovanni. La testimonianza di Leucio Carino,
Ireneo, Policrate è in questo senso. L’archeologia conferma la notizia di Policrate della tomba di
Giovanni a Efeso. Capitale di provincia. Una città cosmopolita, culturalmente vivace, Celso vi
possedeva una importante biblioteca dell’antichità.
L’alternativa sarebbe Antiochia sull’Oronte (di Siria) per la affinità con le odi di salomone e per le
lettere di Ignazio di Antiochia. Segalla addirittura parlerebbe di una prima redazione in Samaria,
perché c’è una benevolenza verso i samaritani.

08.10.09
La data della composizione.
Termine ante quem dell’anno 52 (p52 del 130 ca)
Poi vedi Gv 9,22 che rimanda al Concilio di Iamne (Iabne) 83-90. Si tratta del concilio del
giudaismo per il trasferimento di alcune questioni dal culto templare alla Torah, per l’essere venuto
meno del Tempio di Gerusalemme. In questo concilio non fu ritenuta canonica la Versione dei
LXX, perché esplicava il senso di quanto contenuto nel testo. Vedi ‘almah in Is 7, tradotto con
parthenos.
Il meturgemam (targumim) nel tradurre interpretava o aggiungeva delle spiegazioni.
Paolo fa una cosa del genere in 1 Cor 1, 10: la roccia che seguiva il popolo era Cristo. Ma
nell’Esodo la roccia rimane ben ferma!
Ora per impedire ai mimim (cristiani) di inquinare il testo vengono negati i libri deuterocanonici.
Rabbi Aqiba ci mise una notte intera per dimostrare la canonicità del Shir Hashirim.
Altra decisione fu quella sulle interpretazioni rabbiniche. Vedi le sette midott di Rabbi Hillel per
impedire l’interpretazione della Torah in ambito cristiano. Ebbene anche con queste regole il
vangelo di Giovanni riesce a dimostrare che Cristo è il Messia.
Poi il P66 di prima del 200 che riporta tutto il vangelo, per cui termine post quem, è il 200.
Termine post quem 200.

Lo scopo e i destinatari.
La prima chiusura in 20,30-31: è una sintesi teologica del vangelo.
“Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli ma non sono stati scritti in questo libro,
questi sono stati scritti perché crediate (ina pisteuete/pisteusete) che Gesù è il Cristo, il figlio di Dio
e perché credendo abbiate la vita nel suo nome”. Abbiamo i temi fondamentali del vangelo: segni,
credere, Cristo, Figlio di Dio, vita eterna. Qui c’è tutto Giovanni.

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“sono stati scritti perché crediate” - si pone il problema se questo crediate in greco sia un
congiuntivo aoristo “perché arriviate a credere” o un congiuntivo presente “perché continuiate a
credere”. Se si tratta di congiuntivo presente, allora sono stati scritti per incoraggiare i cristiani in
persecuzione. Se aoristo è un vangelo missionario, che vuol portare alla fede. Ma se uno non è
credente, non è già dentro, il vangelo di Giovanni è incomprensibile. Giovanni è realmente un
vangelo per gli iniziati, non è un vangelo missionario ma mistico.

Poi c’è la polemica contro i giudei. In Gv 12,12 “la pasqua dei giudei” non è più la pasqua di Gesù
né dei cristiani. È già avvenuta la spaccatura. Ancora in Gv 9,22 il cieco nato i genitori “stettero
zitti perché avevano paura che se l’avessero riconosciuto sarebbero stati espulsi dalla sinagoga”.
Come già detto è stato scritto dopo il concilio di Iabneh o Iamnia, un piccolo villaggio a 6 km a sud
di Tel Aviv dove si ritirò il sinedrio nel 70 dc (dopo la distruzione) e iniziò a rifondare tutta quanta
la fede giudaica, e soprattutto un concilio a Iabneh nel 85/90 in cui furono prese grandi decisioni
riguardanti il giudaismo: tra cui fu fatta la birkat hamminim. Lo shemoné esré sono le 18
benedizioni che il pio israelita deve dire ogni giorno: fu introdotta la birkat hamminim, cioè la
benedizione contro i minim che in sostanza è la maledizione contro gli eretici, i nozterim, i
nazaretani, i cristiani. In questo concilio furono espulsi dalla sinagoga i seguaci del nazareno.

La polemica contro Giovanni il Battista, anche questo è uno degli scopi del vangelo. Sembra
evidente che è una apologia contro il gruppo dei seguaci del Battista che riteneva il Battista
superiore al Signore. Ha un tratto molto forte che cerca di ridimensionare la figura del battista, vedi
Gv 1,15. Polemica che si trova al battesimo “si deve compiere ogni giustizia” “lui deve crescere e io
diminuire” “era prima di me”.

Dicevamo che uno degli scopi è probabilmente l’incoraggiamento dei cristiani in una situazione di
persecuzione. Altro scopo era l’antigiudaismo, in seguito al Concilio di Jabne in cui il mondo
giudaico si è ristrutturato, in cui fu codificato il canone dell’antico testamento scartando il testo
della 70 che serviva ai cristiani per avvalorare la venuta del cristo. Furono scelte le regole per
l’interpretazione della scrittura, regole che usa Giovanni. Poi furono introdotte le preghiere di
maledizione degli eretici (cristiani). Sono evidenti in Gv i riferimenti al giudaismo come a qualcosa
di ormai separato. Il cieco nato “temeva di essere espulso dalla sinagoga”.

Altro scopo è la disputa contro il pre-gnostisicmo e i docetisti. Che la Parola si fa carne, è proprio
contro la gnosi e la svalutazione della materia, e contro chi credeva nella salvezza dalla conoscenza.

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È la polemica contro lo gnosticismo che ha il problema della negatività della materia. Non si può
accettare nello gnosticismo che Dio abbia assunto una natura umana. In Gv si parla della
conoscenza, ma al tempo stesso è contro lo gnosticismo perché “il verbo si fece carne”, cioè
fragilità. Cosa per gli gnostici impensabile a causa del loro platonismo e della visione negativa della
materialità. Attualmente lo gnosticismo è ben incarnato nella setta dei Testimoni di Geova che non
credono alla divinità di Gesù.
Quindi una pluralità di scopi.
La datazione si riferisce alla redazione finale del testo. La tesi tradizionale è che sia scritto dopo i
sinottici. Assolutamente dopo il 70, probabilmente dopo l’ 85/90 se è una risposta al concilio di
Jabne. Sicuramente prima del 100/110 per vari motivi: perché P52 riporta alcuni versetti (18,31-36)
ed è del 120. E il P66 e P75 riporta tutto Gv. Inoltre Ireneo dice che Giovanni visse fin sotto
Traiano (115).

Critica letteraria e narrativa.


Ci chiediamo l’origine e la formazione letteraria. Diciamo subito che il vangelo non è nato di getto.
Lo si evince per esempio dalle due finali (20,30-31; 21,25).
Il capitolo 21 è certo una aggiunta. Poi in 14,31 c’è una cerniera redazionale e Il continuo è al cap
18. Si capisce che i capp. 15-17 sono aggiunti dopo, di carattere testamentario. Si tratta di
inserzioni. Come il capitolo 20 degli Atti. È un genere diverso.
Un’altra inserzione si trova in 7,53 – 8,12 la donna adultera, in alcuni codici si trova nel vangelo di
Luca. Era uno scandalo per la chiesa primitiva perché offre il perdono senza tante penitenze.
Poi i capp. 4 e 6 siamo nel sud, mentre nel cap. 5 siamo in Galilea, quindi al nord. Così sembra più
giusto leggere 4 poi 6 poi 5 poi 7 quasi che ci sia stato uno scambio di fogli. Si capisce però che
queste parti sono tutte della stessa mano. Parliamo di un’unica paternità di questo testo. Qualcuno
dice che possano esserci anche più mani.

Modello degli strati o delle fasi.


La prima risposta è quella di Wellhausen che nel 1907 sosteneva di trovarsi davanti a modifiche e
aggiunte intorno ad uno scritto di base. All‘inizio c’è uno scritto unitario (A) e uno diviso un due
(B1) e (B2). Lo strato A, racconti di miracoli, e lo strato B, sullo schema delle feste ebraiche (b1) e
racconto della passione (b2).
Ipotesi delle fonti
Secondo Bultmann, sarebbe il risultato di tre fonti: fonte dei segni, fonte dei discorsi e il racconto
della passione. Applica la teoria sinottica delle fonti a Gv.

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La critica più serrata a Bultmann viene da Dodd secondo il quale il IV vangelo sarebbe di una
tradizione presinottica di origine palestinese indipendente dai sinottici.
Nei sinottici si vede che ci sono detti e fatti indipendenti tra loro, mentre in Gv i detti e i fatti sono
strettamente connessi, quindi ha una tradizione storica, più storica dei sinottici e indipendente.
Ancora: il vangelo è stato composto unitariamente fin dall’inizio, ma in tempi successivi, cioè ha
avuto più redazioni, più edizioni. È più facile parlare di redaziongescihte, che non di formegescihte.
Snackenburg parla di 3 stadi: 1) tradizione giovannea che risale all’apostolo, poi 2) l’opera di un
discepolo che scrive e infine 3) il redattore finale. Su questo Brown, Segalla.
La tradizione giovannea si affianca a quella sinottica ed è fondamentale per ricostruire il Gesù della
storia, perché si rifà alla tradizione orale che viene dall’apostolo. Anche se ci sono agganci che
fanno pensare alla conoscenza delle tradizioni sinottiche. In 21,24 “questi fatti li ha testimoniati il
discepolo… noi li attestiamo” vuol dire che ci fosse una comunità.
Segalla vede la prima fase in Palestina (vedi polemica e difesa dei samaritani), seconda fase ad
Efeso dove Giovanni c’è dopo il 60, perché la comunità la fonda Paolo nel 53.
Dufour – prima tappa attorno a Giovanni; II tappa – la scuola giovannea che organizza il pensiero
dell’apostolo; III – l’evangelista scrittore; IV il redattore finale (+21).

Aspetti letterari.
Ci rifacciamo anche all’opera del Mannucci e all’Introduzione del Brown.
Giovanni è il vangelo narrante. Racconta Gesù che a sua volta è il narratore del Padre. “Dio nessuno
l’ha mai visto, l’unigenito che è nel seno del Padre ce lo ha rivelato”. Il vangelo del Logos: Gesù è
narrato e narrante. È rivelato e rivelatore. Rivelando il Padre rivela se stesso. Il narratore usa l’arte
del dire e del non dire. C’è una comunicazione implicita e silenziosa oltre a quella esplicita. Nel
narrare si evoca e ci suggerisce più cose di quelle dette espressamente. Il narratore si rende presente
anche con note di commento per aiutare il lettore, quasi per farli da guida.
Ci sono traduzioni, annotazioni di tempo e di luogo, usanze, ricordi dei discepoli, spiegazioni,
enumerazioni, sommari, si cerca di identificare le persone, disquisizioni teologiche. Colui che narra
si fa presente per penetrare ulteriormente il mistero della vita di Gesù.
La narrazione del vangelo sviluppa una trama drammatica.
È un dramma che è anche la trama della narrazione. Il conflitto tra fede e incredulità. C’è una spinta
verso questa dramma (ORA, l’ora in qui è innalzato). Si consuma già dalle prime righe del vangelo.
C’è una scansione: “non è l’ora”. Questo conflitto è la spinta calamitante verso un’ora che deve
giungere. Più si avvicina l’ora più si acuisce questo conflitto. I personaggi sono invitati a prendere
posizione, a decidersi. È una trama drammatica processuale in personaggi. La rivelazione si

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personalizza, è agganciata a persone reali, non fittizie con le quali Gesù si intrattiene in dialogo.
Però assumono un ruolo paradigmatico, tipico di un modo di essere e di porsi davanti al mistero;
sono rappresentativi di una categoria (senza per questo essere genere letterario e prescindere dalla
realtà). L’uomo deve decidersi davanti alla rivelazione, pro o contro. Dio Padre, Gesù e lo Spirito
da una parte e l’uomo dall’altra. L’uomo non astratto, ma concreto. Chiamato ad esprimersi a
credere o meno di fronte alla rivelazione del Dio Trino.
Dio ci mette davanti a questa decisione con la incarnazione. Nascono due fronti: il si e il no.
Il fronte del si è costituito dalla Madre di Gesù, dal Battista, dagli Apostoli, dai Discepoli e dalle
Donne. Il fronte del no: i giudei, i farisei, i capi e la folla, Giuda e Pilato. Sullo sfondo di questo
fronte del no, c’è satana, le tenebre, il principe di questo mondo. La non luce è incredulità, non
accoglienza.

Il parlare di Gesù.
Nel IV vangelo i dialoghi e i racconti di Gesù hanno una grande importanza. Nei sinottici i detti
sono brevi: parabole e controversie che sono botta e risposta. I discorsi lunghi nei sinottici sono le
raccolte dei loghia. Anche in Gv ci sono loghia brevi, ma non come nei sinottici. In Gv abbiamo
frammenti parabolici e due grandi allegorie: il buon pastore e la vera vite.
Le controversie in Gv sono veri dibattiti teologici su un unico argomento (capp. 5, 7, 8). I discorsi
in Gv hanno la forma letteraria del dialogo: cap. 3 la nuova rinascita con Nicodemo, cap. 4 l’acqua
viva con la samaritana, cap. 9 la luce.
C’è sempre una annotazione di tempo e luogo, per dare concretezza.
Poi c’è la sottolineatura psicologica del personaggio. Gesù scava e mette a nudo la psicodinamica
del personaggio, la problematica interiore del personaggio.

C’è poi una forma letteraria precisa: una affermazione profetica di Gesù, di fronte alla quale nasce
nell’interlocutore il malinteso voluto da Gesù, questo serve a Gesù per tornare sull’argomento e
approfondire. Spesso i dialoghi terminano con un grande monologo. Ci si è chiesto di dove venga
questo modo dialogico. Qualcuno parla di influsso del mondo ellenistico. Secondo il prof non c’è
bisogno, il metodo dialogico era già un metodo rabbinico.
Caratteristica è la formula di autorivelazione assoluta (‘egò eimì) o di identificazione con una realtà
(io sono il buon pastore, l’acqua viva, ecc).
Nella dinamica dialogica in cui emerge il malinteso appare una caratteristica: Gesù è l’incompreso.
L’interlocutore coglie il senso letterale non quello profondo, Gesù spiega.

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Il fraintendimento non può essere ridotto a una tecnica letteraria. Gesù è incompreso non tanto per
quello che dice, quanto per quello che è: il logos preesistente e incarnato! Questa è
l’incomprensione di fondo inevitabile. Da un lato rispetto agli uomini è totalmente altro, dall’altro
ha una dimensione intima. L’incomprensione è un dato di fatto non un artificio letterario.
Perché l’evangelista insiste sul tema del fraintendimento? Se teniamo presente che accanto a
questo tema c’è una accentuazione della pneumatologia, della teologia dello Spirito, segnalano una
situazione di crisi nella comunità di Giovanni. Forse una caduta della tensione spirituale, per cui lo
Spirito non era per tutti una realtà concreta e operante. È come se Gv dicesse: se uno non ha lo
Spirito non può comprendere Gesù. Come i giudei, ai tempi di Gesù, la comunità rischia di non
comprendere Gesù senza l’aiuto dello Spirito. Forse questa sottolineatura del fraintendimento
voleva anche riparare eventuali deviazioni carismatiche, cioè certi facili entusiasmi carismatici. Lo
Spirito ha la funzione di far comprendere quello che è già rivelato, non dare manifestazioni
estatiche.
Si parla di due realtà, il rivelatore e il mondo, che non possono capirsi. L’incredulità è restare nella
realtà del mondo. Il fraintendimento rivela anche una mancanza di conoscenza. C’è una mancanza
di conoscenza che è destinata a scomparire e una destinata a crescere (un fraintendimento sempre
più grande).
L’incomprensione non è solo di ciò che dice, ma di ciò che Gesù è. C’è una dimensione
irraggiungibile e una invece raggiungibile. Il fraintendimento in riferimento al dato cristologico; ma
anche fraintendimento di incredulità. Nel momento in cui la luce appare, essa genera la fede; il non
credere è colpevole. Cadi nel fraintendimento perché non credi.
La mancanza di conoscenza è
per i giudei è detta con oida, - sei nella inconoscibilità nel fraintendimento totale
per i discepoli e altri con gignos – puoi approfondire la conoscenza.
Il fraintendimento è come un giudizio globale sul giudaismo.
Il fraintendimento + la pneumatologia del IV vangelo – ci fanno capire che l’intento
dell’evangelista è quella di mettere davanti ad una caduta spirituale della sua comunità. Allora dice
Giovanni che dove non c’è lo Spirito Gesù può essere frainteso; prima (giudei) e dopo la sua pasqua
(cristiani).
Altra intenzione doveva essere quella di evitare deviazioni carismatiche. Lo Spirito ha la funzione
di approfondire e far conoscere il già rivelato. Lo Spirito riecheggia la voce di Gesù.

Sempre riguardo alla critica letteraria, dobbiamo parlare della ironia giovannea. Il IV vangelo è
maestro di ironia. L’ironia è l’arte della comunicazione silenziosa tra autore e lettore. È finalizzata

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alla comprensione più profonda del testo. (sensus dictionis e sensus scriptionis, lo scritto mi dice
qualcosa di più). Il lettore attento intende che l’autore vuole dire molto di più di ciò che scrive.
L’ironia è un tipo particolare di simbolo: dice una cosa e intende un'altra anche se non sempre sono
in contrasto.
Se non senti il tratto ironico non comprendi il testo. L’ironia è sottile, e bisogna essere lettori attenti
per capire che il narratore vuol dire di più di quello che i personaggi dicono o comprendono. Si dice
che l’ironia è un tipo particolare di simbolo, una realtà che rimanda a un’altra. Vi sono molti tipi di
ironia.
Gli avversari usano espressioni sarcastiche che, non sapendolo, dicono la verità “sei tu più grande
del nostro padre Giacobbe?”. I Giudei sono le vittime drammatiche dell’ironia di Gesù. Caifa: “è
meglio che uno muoia per tutti”, è una ironia perché dice una verità in fondo. “non abbiamo altro re
che Cesare” è una bestemmia per un ebreo per il quale l’unico re è JHWH. Questa è una ironia: voi
giudei non avete riconosciuto il vero re e avete perso la regalità di Dio prendendo quella di Cesare.
Proprio i Giudei esprimono la verità. Ma avendo rifiutato il messia hanno rifiutato la salvezza.
Distruggendo il tempio di Gesù, i Giudei hanno distrutto anche il loro tempio.
Qual è l’origine di questa ironia? Forse una situazione di rottura con la sinagoga, da cui sarebbe
nato un contesto polemico. A livello di relazioni l’ironia è la peggiore mancanza di carità. In un
contesto di persecuzione, l’ironia può dire molto di più di un testo piano. Una forma criptica di dire;
che dice molto di più.

C’è poi il simbolismo.


Simbolo dal greco syn ballo = mettere insieme. Il simbolo non è arbitrario, ma analogia tra la cosa
significante e la cosa significata. Il cuore simbolo dell’amore, perche come il cuore serve per vivere
cosi l’amore nella relazione con l’altro.
L’origine del simbolo è nelle cose: Gesù è simbolo perché rimanda al Dio invisibile: “chi vede me
vede il padre”. Gesù è il simbolo vivente di Dio.
Accanto alla carne di Cristo Gv usa dei simboli archetipi: luce, acqua, pane della vita, vino. Questi
simboli sono importanti anche nei primi segni/sacramenti cristiani. Ma sono anche realtà importanti
dell’esperienza umana quotidiana della gente.
Anche i personaggi diventano simboli, rappresentando categorie di persone. Nicodemo: il
giudaismo più moderato. La samaritana il giudaismo eretico. L’ufficiale regio il mondo pagano.
Il rapporto del simbolismo con la storicità: Il quarto vangelo ci trasmette una storia che per certi
aspetti è anche più esatta dei sinottici. La sottolineatura simbolica non è contro la storia. Il carattere
evocativo non è contro la storia, ma a favore.

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Struttura letteraria
Vedi allegato (p.5 ss).
Le indicazioni letterarie sono poche ma sufficienti per creare un certo accordo tra gli studiosi nel
riconoscere nel Vangelo una divisione in due parti. Tali indicazioni sono:
- 1,1-18 costituisce il Prologo,
- 12,34-43,44-50 funge da conclusione alla parte precedente formata dal racconto dei segni
compiuti da Gesù,
- 13,1 introduce la seconda parte del racconto caratterizzata dal tempo dell’ora,
- 20,30-31 ha un carattere conclusivo,
- 21,24-25 ha anche carattere conclusivo e conferisce a Gv 21 la fisionomia di un’appendice,
sebbene il vocabolario sia in perfetta consonanza con il resto del Vangelo.
Tenendo presenti questi dati letterari molti autori hanno in comune la divisione del Vangelo in due
parti:
1. Il Libro dei segni (7 miracoli), la rivelazione pubblica di Gesù, i capitoli 1-12
2. Il Libro della gloria o della rivelazione intima ai suoi discepoli, i capitoli 13-20.
Precedute da un Prologo (1,1-18) e da un Epilogo (21,1-25)

Gli esegeti non sono concordi nel stabilire l’idea guida. Sono state proposte varie strutture.
Mollar coglie un principio liturgico: la dimensione cultuale, antico e nuovo. Sembra che ci sia
tutta una scansione guidata dalle feste. Una sensibilità liturgica.

Sahlin fa una lettura tipologica riferita all’antico testamento: attualizzazione dei fatti dell’esodo.
Padre Roimar – sottolinea i segni, il settenario dei segni all’inizio e alla fine.
Ci soffermiamo sulla struttura di De la Potterie (p6). Buone le ipotesi di Segalla e Van De Bucher.
L’ambientazione culturale del vangelo.
Lingua e stile.
L’ambiente culturale di Giovanni
Qual è la lingua e lo stile? Quale rapporto con l’AT? Con il giudaismo ellenistico e quello
rabbinico? Quale milieu culturale. L’area culturale è importante.
Il Vangelo di Giovanni è scritto in greco della koiné non letterario. Una notevole autonomia
lessicale. Usa 15416 parole. Su queste usa 1011 vocaboli di cui una trentina in modo frequente.

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Privilegia alcune aree semantiche: conoscere, vedere, parola/parlare, credere, mondo, mandare,
vita/vivere, verità/vero, testimoniare/testimonianza, gloria/glorificare, rimanere, l’ora. Privilegia
queste aree semantiche.
Dal punto di vista stilistico c’è la precedenza della paratassi e l’asindeto. Nelle nostre lingue il
modo di coordinare è sintassi o paratassi: syn = insieme, para = presso, tasso = ordinare. Sintassi è
mettere insieme una proposizione principale e altre secondarie: participiali, dichiarative, esplicative,
causali, ecc.. Esempio di sintassi: “dopo essermi svegliato, siccome sentivo una certa uggia nello
stomaco, mi sono alzato cosicché ho deciso di farmi un bella tazza di caffè, ho bevuto, mi sono
sentito meglio”. C’è una frase iniziale participiale, poi una consecutiva poi una finale poi la
dichiarativa alla fine.
Paratassi = affiancare. La paratassi invece è una lingua povera in cui le proposizioni sono come
tutte principali e vengono giustapposte: “e mi sono svegliato, e ho pensato, e ho deciso e ho
bevuto…”.
L’asindeto è quando una frase è interrotta e ce n’è un’altra che non sembra correlata. Queste
caratteristiche hanno fatto pensare a una stesura originale in lingua semitica. Abbiamo nomi propri
e termini semitici che sono tradotti e altri che non sono tradotti. Ci rimanda a una ambiente
palestinese, ma non è un argomento decisivo.

Rapporto con l’AT.


Le citazioni esplicite sono 18: 9X Salmi, 4X Isaia, 2X Zaccaria, 1X Sam o Michea. Introdotti con
“sta scritto”, “disse” o “affinché si compisse”. Cita dalla LXX, dal testo ebraico e dai targumim, a
volte dalla forma testuale di Qumran.
I riferimenti alla Scrittura sono sempre fatti con allusioni (più che citazioni) a figure di Genesi ed
Esodo e a filoni tematici teologici. C’è però anche un forte contatto con la letteratura sapienziale.
Alcuni hanno tentato di spiegare Giovanni alla luce dell’ellenismo, ma la matrice del vangelo
rimane nella tradizione rabbinica, giudaica, semitica nei termini, toponimi e AT.
È attento alle regole di rabbi Hillel codificate a Jabne per l’interpretazione del testo. I riferimenti
alla Scrittura come allusioni a figure personaggi e situazioni dell’AT sono numerose. Situazioni e
temi di Genesi e Esodo. Tema della creazione, Abramo, Giacobbe, Mosè, il serpente di bronzo, la
manna, l’acqua, l’agnello pasquale, la vite, il pastore. Il riferimento a Isaia in quel “ ani hu” “ego
eimi” “io sono”. Riferimento forte alla letteratura sapienziale nel prologo e nel cap. 6 (Sir 24, Sap 9,
Prv 8). Possiamo parlare di continuità col giudaismo, ma Giovanni si pone anche in conflitto, si
allontana dal giudaismo. Contiene come abbiamo visto molto antigiudaismo.

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Rapporto con il giudaismo e il giudaismo ellenistico.
Movimento religioso di dopo il 70: gli hasidim. Si sono contrapposti un giudaismo ellenistico e
palestinese in passato. Hengel ha cercato di appianare questa contrapposizione cercando di
dimostrare che anche il giudaismo palestinese andò soggetto alla ellenizzazione. Ricordiamo il
movimento maccabaico che era rivolto contro il giudaismo ellenistico che cercava di penetrare la
Palestina. La cultura ellenistica era penetrata dunque anche nella Palestina: nell’educazione, nella
scuola, nella urbanistica. Come avveniva spesso c’erano i contrari e gli aperti. Come al tempo di
Gesù molti avevano due nomi, uno greco e uno palestinese a indicare un tentativo di conciliazione.
Bisogna ammettere che in Giovanni c’è un influsso ellenistico. Dodd sottolinea gli aspetti greci del
vangelo e che fu scritto per evangelizzare i devoti delle regioni pagane. C’è anche del giudaismo
rabbinico palestinese, ma anche tanto antigiudaismo. Conosce temi e tradizioni giudaiche,
rabbiniche, feste, si richiama a esegesi rabbiniche, utilizza argomentazioni giudaiche. Anche
antigiudaismo: sente il trauma della distruzione del tempio. Riflette la rottura di Jabne in Gv 9, 16 e
nella passione “la vostra legge”, “la vostra pasqua”. È l’antigiudaismo che qualifica il IV vangelo.

Giovanni è l’ermetismo.
Si è cercato di confrontare Giovanni con l’ermetismo. Quel corpo di letterature greca di carattere
filosofico religioso fondato su Ermete Trismegisto, del II/III secolo d.C., anche se questa letteratura
contiene materiale più antico. La caratteristica di questo ermetismo che riemerge anche nel
medioevo, è sincretismo tra la dottrina stoica e platonica. Il rapporto col IV vangelo è contrastante.
Le affinità sul lessico si contrappongono a differenze strette di contenuto come dice lo
Scnackenburg. Brown afferma che l’ermetismo non è importante per lo sfondo del vangelo.
Dodd e Barret riconoscono una importanza per il principio formativo, affermano che per il modello
dei dialoghi riprenderebbe da questo corpo di letteratura, anche se il modello del dialogo e anche
dell’ellenismo, e c’è anche nel rabbinismo.

08.10.14
Rapporto con Qumran.
Ricordiamo che Qumran dipende dall’AT. Quando troviamo un parallelo con Qumran nel lessico o
nel pensiero bisogna considerare se non sia semplicemente la dipendenza di entrambi dall’AT.
In linea generale bisogna affermare che non c’è dipendenza da Qumran.
-Alcuni hanno ravvisato la dipendenza da Qumran nel dualismo (luce/tenebre, bene/male, figli
della luce/figli delle tenebre). Però a Qumran il dualismo è di carattere metafisico, la lotta cosmica

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deterministica tra luce e tenebre, è profonda, ontologica. In Giovanni è mitigato ed è etico/religioso,
è la lotta di Gesù con il mondo, che invita a prendere posizione.
-In Qumran c’è determinismo assoluto, in Giovanni non c’è o meglio è un determinismo relativo,
c’è libertà di autodeterminarsi e c’è la responsabilità, “la verità vi farà liberi”.
-Si dice in rapporto per l’ideale dell’amore fraterno nella comunità. Ma a Qumran è solo per il
proprio compagno di setta (fino al punto di odiare l’altro), in Giovanni è verso tutti, ha carattere
anche testimoniale (“da questo sapranno che siete miei discepoli…”) ed include anche il nemico.
-La dottrina dello spirito ha affinità ma anche notevoli differenze e rivelano l’originalità del IV
vangelo.
Solo quando hanno un confronto diretto e non dall’antico testamento può essere preso in
considerazione altrimenti dipendono dall’AT e non l’uno dall’altro.
Per la affinità con lo gnosticismo. Anzitutto bisogna distinguere la letteratura gnostica. Vedi Nag
Hammadi e la gnosi cristiana eretica. Lo gnosticismo pre-cristiano era sostenuto dalla scuola di
Bultmann (petitio principii) che ricostruisce il pre-gnosticismo a partire da Giovanni e poi dice che
questo dipende da quello.

Rapporto tra Giovanni e Sinottici


Si resta colpiti della diversità della persona di Cristo. Descritta nei suoi gesti con profondità. Anche
Giovanni narra il battista, la chiamata, la purificazione del tempio, la moltiplicazione dei pani, il
cammino sulle acque, ecc. Ma vi sono anche numerose differenze dal ché diciamo che è una
tradizione indipendente. Lo sfondo geografico-cronologico. Per i sinottici gran parte della vita
pubblica di Gesù si svolge in galilea e specialmente a Cafarnao e riferiscono un solo viaggio a
Gerusalemme. Giovanni parla di 3 pasque e di altre due feste. L’attività sembra svolgersi
prevalentemente a Gerusalemme. Giovanni racconta solo tre miracoli come i sinottici: e narra
invece le nozze di Cana, e altri. Giovanni non nomina mai indemoniati e lebbrosi.
L’insegnamento di Gesù: nei sinottici molte parabole, in Giovanni grandi discorsi. In Giovanni si
parla una sola volta del regno (con Nicodemo). Nei sinottici Gesù è il profeta, il taumaturgo. In Gv
è il figlio di Dio che rivela il padre.
Clemente, Eusebio e Girolamo parlano di teoria del completamento, che risale al II sec.: Giovanni
avrebbe scritto per completare i sinottici.
Poi la teoria dell’indipendenza (XVIII secolo) Giovanni trascende i sinottici o perché li ignora o
per la sua autonomia o perché a suo tempo non erano diffusi e quindi non li conosce.
Teoria della interpretazione: (XIX sec.) inconciliabili il tipo di racconto giovanneo e sinottico.
Giovanni avrebbe scritto per purificare e spiegare i sinottici.

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Teoria della rimozione: Risale alla fine del XX. Molto radicale per cui Giovanni considera il suo
libro come la forma assoluta del messaggio divino. Con questo libro vuole rimuovere dall’uso della
chiesa gli altri vangeli.
L’opinione che possiamo accettare? Non vuole rimuovere, ne purificare, ne completare gli altri
vangeli. Giovanni vuole dare la sua lettura della sua esperienza di Cristo funzionale alla sua
comunità. Ne più in alto né più in basso. Alla sua comunità ha dato la paternità di se stesso.
Il Gesù di Giovanni parla in modo diverso da quello dei sinottici. Nei sinottici Gesù si rivela
progressivamente: è il segreto del messia. Mentre in Giovanni da subito, ed è ripresa nella
confessione di Tommaso: mio Signore e mio Dio.
In Gv Gesù è l’unico responsabile della rivelazione del Padre e di sé stesso, mentre nei sinottici
chiede ai suoi di non rivelare nemmeno la trasfigurazione.
Il materiale di Gv infine è distribuito in modo diverso da sinottici.
In Gv Gesù si reca per tre volte a Gerusalemme per la pasqua (2,13; 6,4; 11,55) con durata del
ministero pubblico di tre anni. Per i sinottici un anno con l’unico viaggio a Gerusalemme che è il
centro di tutto. Sarebbe più logico l’ordine dei capp. 4-6 e 5-7.

L’espressioni “cosi doveva compiersi”, “cosi aveva detto il profeta” nei sinottici vuol dire che Gesù
è il compimento dell’AT. In Gv invece il compimento è in filigrana. La prospettiva giovannea è
post-pasquale, mentre i sinottici vorrebbero offrirci la lettura nel concreto del passato.
In Gv c’è prima il segno e il miracolo e poi le spiegazioni; nei sinottici invece il contrario.
Nei sinottici ci sono le tentazioni e gli esorcismi, ma non ci sono in Gv.
Nei sinottici si Parla del regno di Dio, in Gv non si parla di questo. Nei sinottici Gesù annuncia il
regno di Dio, in Gv invece annuncia se stesso come la luce.
Nei sinottici Gesù vede lo Spirito nel battesimo; in Gv è il Battista che vede lo Spirito posarsi su
Gesù. In Gv il Battista è il testimone, mentre per i sinottici è il battezzatore.
In Gv il miracolo genera la fede; nei sinottici il miracolo presuppone la fede.
La discussione in Gv riguarda la fede in Gesù e l’incredulità nei sinottici le discussioni sono sulla
Legge e la sua osservanza.
Nei sinottici i miracoli rivelano la misericordia di Dio verso i peccatori; in Gv i segni rivelano la
gloria divina di Gesù.
Nei sinottici c’è la nascita verginale, la trasfigurazione, l’istituzione dell’eucaristia.
In Gv non c’è la nascita verginale né la trasfigurazione né l’istituzione dell’eucaristia.
Nei sinottici c’è l’invito alla conversione: convertitevi e credete al vangelo; in Gv c’è il venire verso
Gesù (erchomai pros).

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Nei sinottici Gesù muore il 15 nisan, in Gv il 14 nisan.

Rapporto con lo gnosticismo. Occorre sgomberare il campo dalla diversità di senso che si da a
questo termine. Nel 1947 a Nag Hammadi fu documentato uno gnosticismo cristiano, eretico, ma è
del II/III secolo. Da esso fu ipotizzato uno gnosticismo precristiano o giudaico da cui poi si farebbe
dipendere Giovanni, ma sono pure teorie, non c’è nessun dato letterario.

Vocaboli e concetti fondamentali


Centrale è la parola logos che vedremo con il prologo.
1. La parola aletheia = verità. Intesa sullo sfondo giudaico con Brown che concorda con I. De la
Potterie sullo sfondo giudaico e qumranico. Bultmann e Dodd invece pensano a uno sfondo greco.
- Per i greci la verità è l’adeguamento della nostra percezione alla realtà. Conoscere le cose così
come stanno: conoscere la realtà. Platone parla di iperuranio. Aristotele parla di astrazione del
concetto dalla materia. C’è comunque una dimensione intellettuale, cognitiva dietro la parola.
Dire “Dio è vero” evidenzia l’aspetto conoscitivo “dio c’è”: l’aspetto intellettivo della verità.
- In ambito giudaico la parola verità è emet che indica stabilità, solidità, fedeltà è lo stessa radice del
termine colonna (amud-colonna; cosi come amen). Dio è vero è tale perché è sicuro come la roccia,
è stabile, è fedele; è degno di fede. Non c’è l’aspetto cognitivo, ma quello morale. Dio è fedele.
Infatti i LXX traducono emet a volte con pistis (fede, fiducia) a volte con alehteia.
La letteratura sapienziale e anche Daniele parlano di sapienza come verità rivelata, come
comunicazione, rivelazione dei misteri, del piano divino di salvezza. Paolo parla di relazione con la
verità che è Gesù Cristo, non si esclude l’aspetto cognitivo, ma si pone l’accento sulla relazione.
Nel prologo 1,17 si parla di verità come pienezza di rivelazione, manifestazione.
La frase grazia e verità – indica la pienezza della rivelazione: una pienezza che supera la legge di
Mose (14,6 via, verità, vita). Conoscere la verità conoscere Cristo (13,16: lo Spirito vi farà
conoscere la verità tutta intera).
Le espressioni come fare la verità indicano il cammino dell’uomo nella fede verso Gesù. Adorare in
spirito è verità: è il culto nuovo che Gesù inaugura e manifesta alla dona samaritana.
Il battista è testimone alla verità, cioè conduce a Cristo. La verità non è oggetto di conoscenza
astratta ma principio della morale e rinnovamento della vita. Principio dell’agire. Conoscere la
verità è fare esperienza di Cristo. Essere dalla verità è la dimensione generativa con cui si esprime il
processo generativo della verità. Camminare nella verità, amare nella verità. L’aspetto cognitivo
passa in second’ordine.

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2. Tema e vocabolario che gira intorno alla idea di rivelazione. Non troviamo il sostantivo né
il verbo rivelare (apocalypto), ma i verbi insegnare=didasco; manifestare=gnorizo;
mostrare=faneroo; far conoscere=ananghello; annunziare=apanghello; lego=dire, parlare-laleo;
testimoniare=martureo; e poi i termine logos e rema=parola.
Gv usa il linguaggio sapienziale e apocalittico del tardo giudaismo. Perche avvenga la dinamica
della rivelazione sono necessari vari momenti.
Nella dinamica di rivelazione ci sono 3 momenti:
- Primo momento di comunicazione espresso con verbi di sopra manifestare, far giungere a
conoscere,ecc.
- Secondo momento l’accoglienza della rivelazione con i verbi acuo=ascoltare;
orao=vedere; lambano=prendere, ricevere; mathetes=il discepolo che si lascia istruire,
formare. Dal momento che si è manifestata la luce e io vi parlo voi siete responsabili- dice
Gesù.
- Terzo momento è il custodire con il verbo tereo=osservare (cf. a Cana: vino- Parola;
meno=rimanere; echo=avere, trattenere; gignosco=conoscere; oida=sapere.
Che ruolo gioca Gesù in questa dinamica? Egli è il rivelatore. Il punto di partenza e di fondo è: Dio
nessuno ha visto mai! Quindi Cristo, il figlio unigenito è venuto a farcelo conoscere. Più ci si
distanzia da Cristo,più ci si allontana da Dio. Il volto di Dio non è lo stesso. La Legge fu data per
mezzo di Mose, la grazia e la verità per mezzo di Gesù Cristo.
In questo concetto centrale della rivelazione che abbraccia tutto il vangelo la posizione di Gesù è
come unico rivelatore del padre. Il punto di partenza è il prologo 1,18 “Dio nessuno ha mai visto”,
accentuato dal complemento oggetto all’inizio della frase. “Cristo l’unigenito figlio del padre è
venuto a farcelo conoscere”. Ruolo imprescindibile di rivelazione di Cristo. La perfezione della
rivelazione si trova in Gesù Cristo non in Mosé. Gv 1,17 “la legge fu data per mezzo di Mosè, la
grazia e la verità per mezzo di Gesù Cristo”. Pienezza e totalità della rivelazione in Cristo e anche la
missione dello spirito è in riferimento a Cristo. Nei discorsi di addio 5 riferimenti allo spirito che
porterà alla comprensione piena dell’evento Cristo.
In quanto rivelatore, la posizione di Cristo condiziona la sua relazione al Padre: sottomissione,
obbedienza, fare la volontà, essere inviato, testimone di quello che ha visto e udito: padre-
dipendente. È rivelatore del Padre e di sé stesso perché la rivelazione del Padre è il Figlio.
L’espressione con cui il IV vangelo constata la missione di rivelazione è diversa dai sinottici. Essi
sono vivi e descrittivi, Giovanni è solenne, non immagini ma concetti e simboli universali: luce,
acqua, vita, verità, la parola di Dio, “ho dato loro la tua parola”.

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Cristo, fonte, mediatore e fine della rivelazione. “mostraci il Padre… da tanto tempo sono con
voi…”.
3. Termine conoscere. La dinamica della conoscenza. Giovanni non usa mai la parola gnosis,
ma il verbo ginosco e oida. Perché? Perché la conoscenza non è concettuale, intellettuale, ma una
dinamica di relazione. La conoscenza è relazione personale. Ecco perché abbiamo solo il verbo e
non il sostantivo. Oida è il sapere perché uno ha visto. Suppone uno sfondo semitico: jadah, si tratta
di una esperienza vitale della persona. La conoscenza suppone la fede, che normalmente la precede.
Si conosce la verità mediante il rimanere e il dimorare. La fede comporta un entrare in rapporto di
amore con Cristo, con una progressione.
La non conoscenza offre ancora una apertura quando espressa con ginosco, mentre quando è
espressa con oida indica una totale negazione, una chiusura definitiva: è il regno delle tenebre. Il
verbo gignosco esprime una progressività che anche al negativo permette ancora un passaggio al
positivo. Il verbo oida da il senso compiuto sia al positivo (per Gesù) sia al negativo (definitivo
regno delle tenebre, per i giudei).

I verbi vedere e udire abbondano nel IV vangelo.


Vedere: blepo, teaomai, theoreo, orao, idein. Qualcuno, tra cui il prof e Spicq, vi coglie delle
sfumature e differenze
Blepo: descrive una visione materiale, una percezione fisica. In 1,29 Giovanni vede passare Gesù,
in cap. 9 il cieco riacquista la vista.
Theoreo: da cui viene il nostro teoria che è una verità oggettiva che vale come legge, ma che deriva
dall’osservare con attenzione e intenzionalità, ecco il significato di theoreo, da cui teoria: una legge
desunta dall’osservazione dell’esperienza. C’è una contemplazione una osservazione intenzionale.
Un vedere profondo a cui si collega poi la fede. L’oggetto di questo vedere è il figlio, gli angeli, il
risorto. Ci vuole penetrazione nell’osservazione per percepire queste realtà.
Theaomai è un vedere come contemplare spiritualmente. L’oggetto è lo Spirito che Giovanni ha
visto scendere su Gesù: ho visto lo Spirito scendere su di lui
Orao: è un vedere con comprensione, con l’intelligenza della fede.
L’uso dei verbi mette in luce che c’è una progressione della visione. Dal vedere dei sensi si passa a
uno sguardo di fede che penetra il mistero. C’è anche la parte opposta: il non vedere dei giudei.

Udire: akuo indica l’adesione di fede a Cristo che si rivela: ascoltare e credere. Vedere e udire
implicano la fede, risposta alla rivelazione di Gesù in gesti e parola,che corrisponde in vedere i gesti
e udire le parole.

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Credere/ pisteuo
Nella chiusura si parla dello scopo del vangelo: perché credano. Giovanni non usa il sostantivo
pistis ma usa 98 volte il verbo pisteuo. Perché non usa mai il sostantivo? Perché la fede non è un
concetto di verità, ma l’adesione a una persona, un atteggiamento concreto, esistenziale, che
coinvolge tutte le dimensioni della vita. L’uomo fidandosi di Dio si lascia attrarre dal Padre:
accoglie l’inviato del Padre.
Credere assoluto: indica l’atteggiamento esistenziale del credente, non serve il contenuto, coinvolge
tutta la persona.
Si registrano in Giovanni le seguenti tre costruzioni.
Credere a (col dativo): atteggiamento di accoglienza, fiduciale in Gesù, in quello che annuncia, in
ciò che opera, l’atteggiamento di abbandono, di confidenza. La mancanza di fiducia e abbandono è
una colpa grave, vanifica l’azione del Padre che in Gesù attira tutti gli uomini a sé. L’aspetto primo
quindi è la fiducia a Dio e a Gesù.
Credere che (pisteuo oti) esprime il contenuto della fede, l’identità di Gesù: il santo di Dio, il
Cristo, mandato dal Padre, uscito da Dio ecc.
Credere in (pisteuo eis +accusativo): lo si usa solo per Cristo, un movimento di adesione alla
persona, un dono di sé, un aspetto di relazione totalizzante. Costruzione che si trova solo in Gv.
Espressioni equivalenti sono: venire, accogliere, conoscere, vedere, udire, ascoltare vengono usati
come sinonimi del credere: implicano il credere. La sintesi del credere è: credere nel nome di…,
che è la sintesi del credere a... e credere in... Lo si nota anche nel credo dove si dice “credo in
Dio… credo la chiesa”.

Amare. Si regista 7 volte agape, 36 il verbo agapao e 13 il verbo fileo. I verbi fanno discutere se
sono sinonimi (la maggioranza degli studiosi) o se presentano sfumature differenti (padre Spique).
In 21,15-17 portano a una interpretazione. Dobbiamo cogliere una sfumatura. Il verbo agapao
esprime un amore “dello sballo”, che sa dimenticarsi e abbandonarsi.
Il verbo fileo è un amore nobile, descrive anche la relazione padre-figlio, amore fraterno, che ha più
tratti umani. Si esprime un amore infinito come esigenza dell’appartenenza a Cristo: lo vedremo ai
capitoli 13, 15, 21. L’espressione di amore è l’atto di fede: l’osservazione del comandamento. In Gv
21,15: mi ami (agapas me x2) e poi mi vuoi bene (fileo me). La risposta di Pietro è più dimessa
senza presunzioni: ha sperimentato la difficoltà dell’amare. Allora risponde: tu sai tutto, tu sai che ti
amo. Pietro accetta la sua nudità, mostra tutto se stesso, il suo cuore in questa risposta…

23
Rimanere. Importanza del verbo menein rimanere. Caratteristico del IV vangelo, soprattutto nella
formula di mutua immanenza, della interiorità reciproca, la stabilità dinamica nella comunione con
Cristo.
Esprime l’intima unione che c’è tra il Padre e il Figlio e che si trasmette all’unione tra il Figlio e i
discepoli. 8,31 “rimanere nella parola” cioè rimanere in Cristo (come dice Paolo), nel suo amore.
Da questo dipendono i frutti. Alcuni l’hanno associato, in ambito paolino, alla formula “in Cristo”.
Alcuni l’hanno paragonato alla dottrina paolina del corpo mistico.

Altro termine è vita = zoe. Dio è il vivente: dal verbo hay, vivere, vita.
Il verbo salvare=sozo che ricorre 6 volte, salvezza 1 volta, salvatore 1 volta: molto raro quindi. Il
concetto di salvezza è escatologico. Anche Rm 5,1 “…saremo salvati”, la giustificazione è presente,
la salvezza è futura. La categoria di vita eterna: zoe aionion. Questo è lo scopo del vangelo e della
missione del figlio: vedi Gv 20,21 e 10,10 il buon pastore. In 6,57 il figlio ha la vita in se ed ha il
potere di dare la vita. Anche senza l’aggettivo, “eterna”, zoè non si riferisce mai alla vita naturale
che è chiamata psyché. Il concetto della zoè è escatologico è la haye olam, la vita (eterna) del
mondo futuro, ma che si è resa presente. Giovanni ha una visione di escatologia realizzata, (3,16;
5,24) mentre nei sinottici sono quasi contrapposti. Per Giovanni ciò che sarà è già ora. La vita
eterna è “che credano in te e colui che hai mandato”. La vita è alimentata (6,51-58) dal mangiare e
bere il corpo e sangue di Cristo. L’opposto di vita non è la morte ma il peccato. La vita in Giovanni
è senza fine, dura per sempre. Sull’aspetto qualitativo: è un’altra, diversa, propria di Dio. Il vero
nemico della vita eterna non è la morte (11,26), ciò che distrugge la vita è il peccato (1 Gv 3,15).

Tenebre. In greco scotia. Le tenebre o la tenebra non hanno un senso cosmologico metafisico ma
antropologico. Nel prologo si dice “la luce splende nella tenebra”. Le tenebre antropologicamente
sono gli uomini che hanno rifiutato la rivelazione (luce), la parola. Gv sottolinea il dualismo etico
luce/tenebra. “Dio è luce e in lui non c’è tenebra” 1 Gv. La tenebre diventa forte quando Giuda
consegna Gesù “ed era notte”.
Verso la fine del vangelo il termine mondo coincide con tenebra. La parola mondo (cosmos) ha un
paio di volte il senso di creazione, l’universo fisico, ma per di più ha un senso antropologico
negativo: gli uomini immersi nel peccato a causa del loro rifiuto di Cristo. Gli uomini immersi nel
peccato sono però una categoria amata “Dio ha amato il mondo”. Per cui il mondo può essere
redento. La realtà umana in potere di satana è designata come “il principe di questo mondo” (8,44).
Il cap. 8 contrappone la paternità di Dio e la paternità di satana. I discepoli non sono generati da
questo mondo. Il mondo essendo dominato da satana, odia Gesù e i suoi seguaci che sono nel

24
mondo ma non sono di questo mondo: dimensione omicida, della morte, del togliere la vita. Gesù
vince il mondo nell’ora della sua glorificazione (12,33) e abbatte il principe di questo mondo
(12,31).

Giudizio = krisis. È la condanna, l’autocondanna. “io non sono venuto per condannare il mondo”, il
mondo si auto-condanna da solo rifiutando la parola, non risponde all’amore della luce. Mentre nei
sinottici il giudizio è alla fine dei tempi il IV vangelo lo anticipa (senza escludere la fine dei tempi):
giudizio, resurrezione, vita sono realtà escatologiche anticipate “ora il principe di questo mondo è
stato giudicato”.

Ego eimi = io sono. Una formula di autorivelazione.


Distinguiamo un uso assoluto senza predicato che ricorre 7 volte e un uso con il predicato. Vi
leggiamo la trasposizione della formula isaiana (Is 43,25 51,12) e la trasposizione della formula
JHWH, del nome di Dio. Indica la manifestazione potente e salvifica di Dio. È l’affermazione della
divinità del Cristo. Nel Getsemani “sono io” e tutti cadono in terra. Gesù parla di se stesso come
Dio lo ha fatto nell’AT. Rivela il suo rapporto unico con il Padre.
In altre 7 volte la formula è messa con il predicato nominale: dimensione funzionale di Dio,
relazionale: ci dice chi è Gesù per noi. “io sono il pane, la porta, il buon pastore, la resurrezione, la
vite, la via, la verità” si rivela identificandosi con una realtà per noi. Gesù è in quanto vive per
quella realtà: un Dio per…

25
PROLOGO
Origine del prologo. E il sottofondo.
Una struttura complicata.
La struttura del prologo si può leggere sia in senso verticale, sia in senso orizzontale per cui
abbiamo per tre volte la presentazione del:
1. principio, del fondamento colto in Dio, fuori del tempo e della storia;
2. il principio nella storia della salvezza che si identifica con la comparsa del Battista;
3. e poi il principio nell’accoglienza della testimonianza del Battista cioè il principio nella vita
di ciascun credente.
La seconda parte che ha come tema l’azione del Verbo come luce degli uomini. Vv 3-5 il rapporto
luce e tenebra; v 9 la realtà positiva della luce. Poi le risposte a questa luce: le tenebre che sono
una risposta di rifiuto (seconda parte del v 5) e le risposte, positiva e negativa, dei suoi e degli altri
che invece hanno accolto (v 10. 12) e la risposta “noi tutti” storico-universale. L’ultima parte
riguarda il contenuto della fede e l’oggetto della fede: è l’Unigenito Figlio del Padre, colto nella
duplice realtà dell’esperienza storica di coloro che hanno contemplato e nell’esperienza che poi
continua nell’accoglienza di ciascun credente dell’opera degli evangelisti, dei testimoni e degli
apostoli. È una struttura complicata, vedremo di rileggerla alla fine dell’esegesi in senso orizzontale
(con la scansione del principio, l’azione della luce, le risposte degli uomini e il contenuto della fede)
sia in senso verticale.

Una parola sull’obiezione sollevata da molti contro l’unità del prologo, che viene spezzettato
soprattutto le inserzioni dei versetti 6-9.15. riguardanti il Battista. Alcuni fanno rilevare che c’è un
insieme di termini che non compaiono più nel resto del vangelo: a) la parola Logos per indicare una
persona; b) il verbo dimorare skhno,w; c) l’aggettivo plh,rhj; d) la parola grazia = ca,rij; e) la
parola plh,rwma = pienezza. Queste voci si trovano solo nel Prologo, non ricorrono nel resto del
Vangelo e per questo si dice che non appartengono al vangelo e che il Prologo ha un carattere
frammentario. Però alcune di queste voci sono rarissime anche negli altri scritti del NT, spesso
ignorate del tutto dagli altri evangelisti. E poi questi termini appaiono fusi con altri termini
prettamente e unicamente giovannei, spesso sono inseriti in espressioni tipiche, caratteristiche se
non esclusive del IV Vangelo.
Per esempio essere con il valore semantico del verbo essere col significato di esistere non c’è nel
resto del NT ed è collegata con en che è caratteristica giovannea. Le voci luce, vita, contemplare,
gloria, unigenito sono tipicamente giovannee. Le espressioni h=n pro.j to.n qeo,n “rivolto verso”,
“avere la vita in” sono tipicamente giovannee, para. patro,j “da presso il padre”, lamba,nein ek
“ricevere da,” ecc. Le voci è vero che non ricorrono ma sono collegate con un fraseggiare
giovanneo. Inoltre anche altrove nel vangelo ci sono dei vocaboli che ricorrono raramente: a;nemoj
ricorre unicamente in 6,18; a;xioj solo in 1,27 così καιρός, ecc. Ci sono almeno 15 vocaboli che
ricorrono solo una volta nel Vangelo. Il fatto che un termine ricorra solo una volta non ci autorizza
a dire che non appartiene al componimento, che non è giovanneo. Bisogna essere apodittici. C’è
un rapporto stretto tra il Prologo, la prima parte e tutto il Vangelo.

Ricerca esegetica dell’ultimo secolo.

26
Von Harnack cento anni fa sollevò la questione se il Prologo fosse parte integrante del IV vangelo.
Da allora la critica ha vissuto tre momenti.
1) All’origine del prologo c’è un inno gnostico, tesi di R. Bultmann del 1923. Si trattava per lui di
un inno aramaico che celebrava il culto del Battista identificato con la figura del rivelatore. In
seguito venne cristianizzato dall’evangelista. Oggi questa ipotesi non è difesa quasi da nessuno.
2) All’origine un inno protocristiano, per alcuni indipendente dal vangelo, per altri dipendente.
Render Harris 1917 (Pr 8, 21-31; Sir 24; Sap 6 e 9). L’evangelista avrebbe sostituito la parola
logos alla parola sapienza. Su questa linea si è collocata la tradizione cattolica (Wickenhaouser e
Boimars). Boimars parla di identificazione del logos con la sofia già preparata dal mondo giudaico
con la personificazione della Torah. Per Schnackenburg l’evangelista reinterpreta un inno
protocristiano dell’ambiente dei giudei ellenisti. Anche in questa ipotesi lo sfondo sarebbe quello
della speculazione sapienziale (Sir 24 - preesistenza della sapienza, attività creatrice, identificazione
della sapienza con la Torah). Casemann, Henkel e Jeremias parlano di origine pre-giovannea ma
cristiana.
3) Prologo come parte integrante del vangelo. Tesi di Dodd e poi Cullmann e Barret. Il prologo fa
corpo con tutto il primo capitolo ed è una specie di proemio. Per l’interpretazione non sono
sufficienti i presupposti dell’AT. Bisogna muoversi anche nel mondo del giudaismo rabbinico e
della personificazione della sapienza e della Torah.
Per Dodd bisogna andare vicini anche al logos secondo Filone, a metà strada tra la personificazione
della sapienza e la personificazione della Torah. Secondo Cullmann il termine logos non designa
Gesù Cristo come un nome proprio personale. Gesù si trova a essere Parola di Dio nel suo rapporto
con il mondo e con gli uomini: in relazione agli uomini è Parola.
Il Segalla distingue l’ambiente della tradizione, ovvero la matrice ispirativa giudaico palestinese,
dall’ambiente della redazione, che è invece ellenistico. Questa redazione non ha però influito sul
contenuto storico e teologico. La scelta della parola Logos è funzionale a esprimere l’universalismo.
Anche Duofur dice che il retroterra religioso e culturale del logos va cercato in ambito biblico e
giudaico.
Come mai se la matrice è del mondo biblico si è sostituito logos alla parola sofia, sapienza?
Qualcuno ha proposto per il cambio di genere (sapienza è femminile, mentre logos è maschile). Ma
è una banalizzazione. Duofur dice che il cambiamento è dovuto al fatto che la sofia si era troppo
identificata con la Torah. Il movimento sapienziale era sentito come ateo, perché perdeva il
riferimento storico del giudaismo. Alla fine però la sofia era stata identificata con la Torah. Per
evitare questa identificazione l’autore avrebbe usato la parola, il logos.

27
Sull’origine del prologo la questione c’è un mistero che, tutto sommato, è di importanza secondaria.
Se è nel vangelo è perché ci stava bene, e corrispondeva alla designazione di Gesù come logos.
Il prologo è la confessione di fede della comunità in Cristo riconosciuto come Parola incarnata.
L’evangelista cerca di introdurre in questo mistero.
Kittel invece parla di una personificazione della Parola.
L’evangelista cerca un contatto con qualsiasi ambiente religioso e filosofico per portare a tutti il
vangelo. Un contribuito a identificare questo punto di contatto può essere quello di Filone che è
stato un ellenizzatore del pensiero giudaico. Filone ha voluto comporre una conciliazione tra AT e
la filosofia ellenistica (soprattutto stoicismo). Ci sarebbero molti logoi intermedi al di sopra dei
quali c’è il logos. Riprende la funzione demiurgica del pensiero platonico. Questo logos per Platone
è strumento di creazione di Dio. Principio di unità e coesione del mondo. Non si sa però se sia un
attributo di Dio personificato. Un comunicatore di Dio, un principio della vita morale. Filone usa
espressioni come: “logos di Dio, primogenito figlio di Dio, secondo Dio, ambasciatore di Dio”.
Oggi non si ha dubbi sulla sostanziale differenza tra il logos del Gv e quello di Filone. Per i greci
il logos è soprattutto ratio. Per il vangelo è la Parola che si incarna! Certamente il logos ellenistico
ha influito sulla riflessione dei padri che vedono più come cosa interna a Dio che non come
rivelazione.
Aspetto letterario del prologo.
Nei sinottici vediamo che: Marco risale all’inizio della predicazione, Matteo fa risalire Gesù ad
Abramo nella sua genealogia, Luca ad Adamo (universalità). Luca nel suo prologo ci dice che molti
autori sono stati interessati a Gesù.
Giovanni ci dà un prologo poetico che abbraccia eternità e tempo storico di Gesù. Probabilmente
colgono nel giusto coloro che intuiscono nel prologo un richiamo alla letteratura sapienziale
(preesistenza della sapienza, creazione in sapienza, ruolo salvifico del logos). Come se Giovanni
avesse voluto dimostrare che ciò che la Chiesa professa si inseriva nella tradizione sapienziale
giudaica.

La struttura.
Secondo le idee espresse (logos, vita, luce, testimonianza, verità) o concettuali (Langrange). Più
famosa è la struttura concentrica presentata nel 1931 da Lund, accolta e divulgata dal Goimars:
struttura concentrica con un movimento di discesa e uno di risalita. Che sarebbe il concetto di tutto
il vangelo: un uscire e un entrare. Detta anche struttura parabolica rovesciata. Ad ogni punto di
discesa corrisponde un punto di salita. Logos in Dio, poi rapporto Logos-uomini, Logos rifiutato
dagli uomini, eccetera.

28
È una struttura statica e molto concettuale. Il movimento di ritorno non è così corrispondente a
quello di uscita. Poi è strano che il centro sia costituito dagli uomini.

Borgen parla di 3 parti:


A 1-2 logos
B 3 mediazione
C 4-5 luce
C’ 6-9 luce
B’ 10-13 mediazione
C’ 14-18 logos

De la Potterie portò a perfezione la struttura di Lacann: una struttura strofica o a onde o a spirale,
che ci ripresenta per 3 volte in prospettiva diversa gli stessi elementi. Questa permette la lettura sia
in senso verticale che orizzontale.
1-5
6-14
15-18
Ogni strofa divisa in 3 parti per argomenti che si ripetono sempre con maggiore profondità.
Inclusioni, parallelismi, concatenzioni…
Inclusioni. Sono un indice chiaro nelle costruzioni semitiche. Delimitano un brano o una porzione
di brano. Ne registriamo molte nel Prologo. Alcune sono formali altre contenutistiche. Formale
quando è la stessa parola che si ripete, contenutistica è quando si usa una parola sinonimo.
Prima inclusione: Al v. 1 rivolto verso Dio, al v. 18 il figlio unigenito è rivolto verso il seno del
Padre, è una inclusione contenutistica, concettuale.
Una seconda inclusione è tra il v. 1 e il v.14, in parte è per antitesi. Al v. 1 “In principio c’era la
Parola e la Parola era rivolta verso Dio” al v. 14 “la parola divenne…” ci verrebbe da dire quasi
rivolta presso l’uomo (l’abbiamo contemplato!). Le antitesi sono “era” e “divenne” e tra “presso
Dio” e “tra gli uomini”.
Terza inclusione tra v.6 e v.14 con la parola egheneto, una cerniera che serra la parte centrale di
questa struttura.
Parallelismi. Nelle composizioni i parallelismi sono un chiaro indice di costruzione letteraria. Varie
forme di parallelismo:
sinonimico: si ripete con espressioni analoghe quanto detto in un verso precedente.

29
Antitetico: con il quale si contrappongono due affermazioni una affermata e l’altra negata.
Progressivo o climatico: all’interno di un versetto o un breve passo nel quale nel secondo membro
si completa e sviluppa quello affermato nel primo. Riprendo qualcosa e qualcosa lascio.
Il parallelismo esterno antitetico tra il vs 1 (il logos è: logos /Dio). e v.6 (l’uomo /battista avvenne:
uomo Dio.)
Tra il v. 6 e 9 c’è parallelismo.
Tra il v 4 e il 9 parallelismo sinonimico. Al v. 4 “la vita era la luce degli uomini e la luce splende
nelle tenebre” al v. 9 “era la luce vera che illumina ogni uomo” abbiamo la luce, gli uomini, perciò
è uno stretto parallelismo esterno alle singole parti.
Tra il v. 5 “e le tenebre non l’hanno vinta” e il v. 10-11 “e il mondo non lo riconobbe” 11b “e i suoi
non l’hanno accolto”.
Il parallelismo tra vv. 6-8 (ancoraggio storico) e il v 15 (testimonianza reale presente) riguardo a
Giovanni.
Tra v. 14 e il v. 16 e 18. In v 14 “e la parola si fece carne” antitetico opposto in 18b “il figlio
unigenito Dio rivolto verso il seno del padre”. Al 14d “gloria come unigenito dal padre pieno della
grazia della verità”. Al 16a “dalla sua pienezza tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia…”.
Altro tra il v3 “tutto per mezzo di lui fu fatto senza di lui niente fu fatto” al v. 17 “la legge fu data
per mezzo di Mosè”.
V3 e v 17: 3- per mezzo di lui tutto fu fatto e senza niente fu fatta; 17 – la legge fu data per mezzo
di Mosè, la grazia e la verità per mezzo di Cristo fu fatta.

Parallelismi interni alle singole parti.


Sinonimico tra v 7 e v 12 con l’uso del termine credere: “affinché tutti credessero per mezzo di lui”
Al v. 16 “e noi tutti abbiamo ricevuto grazia” e al v. 17b “la grazia della verità per mezzo di Cristo”

C’è poi il processo della concatenazione. Nelle lingue semitiche si agganciano gli stichi per aiutare
la memorizzazione. Una parola del primo stico è ripresa come inizio del secondo stico. Logos
Theos; Theos logos ai primi versetti. Questa concatenazione può diventare un chiasmo che
concatena ad X due stichi. Vedi chiasmo per opposizione al v.3.
Tutto per mezzo di lui fu fatto,
senza di lui fu fatto niente.
Vedi chiasmo di concatenazione v.1:
A-logos B-theon
B’-theos a’-logos

30
Vedi anche vita-vita, luce-luce.
Questa struttura dicevamo che si può leggere in senso orizzontale per cui abbiamo per tre volte la
presentazione del principio colto fuori del tempo; nel tempo; nella vita di ciascun credente. La II
parte che ha come tema l’azione del verbo come luce degli uomini. Vv 3-5 luce e tenebra, v9.

Boismard, una parabola inversa: l’uscita dal Padre, l’incarnazione, e il ritorno. Vedi allegato:
uscita dal padre ritorno figlio nel padre.

incarnazione
Lacan invece propone una struttura ad onde di mare.
È stata proposta anche la struttura a spirale: vista dall’alto scende vista di lato che sale.
Tre strofe 1-4, 6-14, 15-18. Come movimento di spirale si comincia dallo stesso punto in
prospettiva diversa:
A. - tema del principio 3 strofe (in Dio; nella pienezza dei tempi; nel tempo in cui io accolgo la
parola.
B. - 2 strofe. Rapporto verbo luce uomini (1 ciò che la luce ha fatto la strumentalità; 2 ciò che la
luce produce in relazione agli uomini.
C. - le risposte date alla Parola (il tentativo di soprafazione delle tenebre; gli uomini resistono in
modo diverso: gli uomini del tempo di Gesù (i giudei che) hanno rifiutato, quelli che l’anno accolto.
D. - La fede, il creduto dei figli di Dio.

ESEGESI DEL PROLOGO.


1:1 VEn avrch/| h=n o` lo,goj( kai. o` lo,goj h=n pro.j to.n qeo,n( kai. qeo.j h=n o`
lo,gojÅ
1:2 ou-toj h=n evn avrch/| pro.j to.n qeo,nÅ

Contenuto generale.
La parola eterna divina agente nella creazione e sorgente di vita e di luce per gli uomini.
En archè en o logos kai o logos… in principio era la parola e la parola era rivolta verso Dio…
Il verbo en è imperfetto per ben 3 volte. Indica un’azione continuata nel passato. Il significato
quindi è: Esisteva.
En arché in principio. Qual è questo principio? Si pensa al bereshit della Genesi. Alcune note
parlano del principio eterno. Il prof pensa che sia riferimento preciso alla Genesi 1,1. In genesi “in
principio Dio creò”, l’inizio dello spazio e del tempo: la creazione. Cosa vuole dire Giovanni? “in

31
principio era…” Cambia il rapporto della parola con il principio. Dovremmo dire allora “in
principio la parola già era”. E come se ci dicesse: pensa a quel Principio! ebbene la parola era già.
In Genesi la creazione si identifica con il principio. In Giovanni si dice che la parola era prima di
questo principio, era fuori di questo principio. Si può parlare di preesistenza, di sovra-esistenza
della parola. Questo si deduce dal verbo en che è all’imperfetto. Assume un senso filosofico di
esistere. Più avanti che il “venne”, cioè la storicizzazione. La differenza è tra creò ed era, il
Principio è lo stesso. Ma il creò riguarda dal principio in poi, il era riguarda il prima di quel
principio.
En archè si può tradurre come un principio relativo anziché assoluto? Cioè “in un principio”
anziché dire “nel principio”? Per essere determinato un termine astratto non ha bisogno dell’articolo
e noi abbiamo anche il supporto del riferimento alla Genesi. Ma se è un principio allora non si può
parlare di pre-esistenza. Si deve tradurre nel principio, perché archè è un sostantivo neutro che per
essere determinato non necessita dell’articolo: sarebbe un errore grammaticale.
Pros ton theon: pros più accusativo indica sempre un moto verso qualcosa, in direzione di qualcosa.
Nel greco ellenistico equivale a parà più dativo che ha un significato statico. Pros ton indica un
rapporto più di relazione. Alcuni dicono che Giovanni ha l’uso più ellenistico, quindi statico,
invece secondo il prof è preferibile vedere l’uso classico e pensare a un essere orientato, rivolto
verso. I. Della Potterie dice che pros indica sempre un movimento, ma soprattutto ciò afferma la
distinzione tra logos e Dio. Anche se è di faccia, di fronte a Dio, è distinto: la persona.

…e Dio era la Parola. La Parola è il soggetto, Dio è il predicato nominale. L’enfasi è sulla parola
Theos. Theos- sostantivo, che in quanto predicato nominale ha la funzione di aggettivo. Si potrebbe
dire che la Parola era divina. Sta indicando una qualità della Parola. Per indicare che La Parola è
Dio, è Divina. Il Logos non è lo stesso che Dio, sta presso Dio (distinzione); ma poi dice Il Logos è
Dio, nel senso che è divino: sono la stessa cosa; la stessa natura: la stessa. Mette prima la
distinzione per non permettere la confusione; altrimenti poteva indurre a credere che Gesù era il
Padre. Da qui la Teologia comprende la Natura unica delle Tre persone divine.

Logos nell’ellenismo, nell’AT, la Hokma, nel giudaismo ellenista.


O logos il termine è usato senza altra spiegazione. Vuol dire che Giovanni lo ritiene chiaro per i
suoi lettori. Applicato a Gesù si trova solo in apocalisse 19,13. Si trova in San paolo in Colossesi
1,15 lo stesso concetto, non lo stesso termine. Cosa vuol dire Giovanni? Nell’ambiente culturale
greco ellenistico, AT presso LXX, in quello della sofia della sapienza; e in quello di filone.

32
1- Nel greco ellenistico comune logos significa sia il pensiero interno, sia l’espressione del
pensiero attraverso la parola. Logos ha anche un significato filosofico: l’essere come ragione
intima in Eraclito; l’insieme del mondo delle idee di Platone; gli spermaticoi logoi del primo
stoicismo. La ragione intima dell’essere.
Nei LXX troviamo il termine logos con molta frequenza. Meritano attenzione due gruppi di testi:
a) in cui la Parola di Dio è forza creatrice: Gen 1,3; Salmo 32,6. Si tratta di un insieme di testi
che fanno uso del logos come forza creatrice.
b) in cui la Parola di Dio è comunicazione, rivelazione di Dio fatta ai profeti: Ger 1,4 “la parola
di Dio fu rivolta verso di lui”; Ez 1,3; Am 3,1. Si tratta di una parola divina che rivela,
manifesta, con un valore e una forza concreta e attiva.

Proverbi e Sapienza. In Prov 8,22 la sapienza dice “YHWH mi creò … io stavo sempre accanto a
lui come architetto … mi ricreavo sulla faccia della terra e la mia delizia era tra i figlio dell’uomo”
la sapienza non è presentata come una qualità di Dio, ha una sua personalità seppure non
determinata, assiste Dio nella creazione. Nel libro della Sapienza la Sofia appare con una luce
simile alla hokmà dei Proverbi. In 9,4 si chiede che Dio conceda “la sapienza che si trova associata
ai tuoi troni” e in 9,2 “tu che hai fatto tutte le cose con la tua parola e con la tua sapienza hai
formato l’uomo” parallelismo sinonimico. In 7,22 la sapienza architetto di tutto. In 7,27 “passando
nelle anime sante forma gli amici di Dio e i profeti”. Risulta chiaramente che la Sofia è
personificata e associata a Dio fino a sedere sul trono. Ha funzione cosmologica nella creazione e
funzione soteriologica in quanto abita nelle anime sante e forma i profeti. È una personificazione
non una persona.
Nella letteratura rabbinica e targumica la parola di Dio diventa la Shekinà, la presenza di Dio che
era riservata al santo dei santi nel Tempio.
Nella speculazione giudaico rabbinica. Filone ha un suo concetto di logos: corrisponde alla sofia
della sapienza e alla hocmà dei proverbi: in Filone ha un ruolo cosmologico e antropologico. In De
opificio mundi 17,24 afferma: “prima della creazione Dio concepì nella sua mente il cosmos noetos
che è il suo logos”. In Quod Deus dice: “Dio mandò il suo figlio minore il cosmos … e conservò
presso di se il figlio maggiore il cosmos noetos”. Nel trattato Il logos è un organon strumento per
mezzo del quale tutto avvenne”. In Filone il logos è l’uomo ideale primigenio immagine di Dio da
cui derivano gli uomini. C’è un collegamento con Giovanni forse perché entrambi fanno riferimento
alla tradizione biblica. Con la personificazione della torah secondo i rabbini che è costruttrice della
creazione. Personificazione molto accentuata nella letteratura targumica.

33
L’espressione logos nel nuovo testamento è spesso il messaggio di salvezza: il vangelo, proclamato
da Gesù, da Paolo, dagli apostoli. Quello proclamato da Paolo è Cristo stesso. In 2Cor 4,1-6 per
paolo non solo il vangelo annunciato, ma cristo stesso. Logos Theu = evangelion = Cristos. In Col
1,15 “questi è immagine del Dio invisibile…” il collegamento tra logos e Cristo è evidente nella sua
funzione cosmologica e anche salvifica. La dinamica del logos è già dunque presente nel NT,
conosciuta. Forse per questo qualcuno parla di un inno al logos primordiale.
Giovanni si muove sullo stesso ordine di Paolo ma usa la parola Logos e da una visione sua di
Cristo. Ci dice una espressione di un pensiero intimo: questa espressione diventa in linguaggio
religioso rivelazione di Dio. Lieta novella annunzio di salvezza. Non si tratta di una espressione
astratta: l’espressione è cristo stesso, considerato rivelazione di Dio e immagine visibile di Dio. Ha
funzione cosmologica e salvifica.
Nel secondo stico si parla del logos presso Dio: orientato, indirizzato dinamicamente verso Dio.
Posto allo stesso livello ma distinto da Dio. Si pone qui la distinzione in primo piano: si tratta di una
persona diversa dunque. È una determinazione personale. Una distinzione in relazione reciproca
“rivolto verso”. Non è solo giustapposto a Dio ma tende verso di lui, come in un trasporto di amore.
Infine abbiamo la affermazione della natura del logos. Esiste prima del principio, è in relazione con
Dio e ora afferma che questo logos è Dio, è di natura divina. Si afferma l’unità, la identità tra Dio e
il verbo. Una costruzione particolare in cui il sostantivo apposizione è messo prima del verbo. Il
soggetto è “o logos” perché ha l’articolo e invece viene messo dopo. Theos è un sostantivo usato
con funzione aggettivale. Uso un sostantivo come un aggettivo per dare una identità qualificante.
Nel V 2a si ha un ripetizione e un approfondimento. Un approfondimento perché riprende mettendo
insieme la preesistenza e la sua distinzione e relazione con Dio padre diventando la relazione stessa
la base della preesistenza.
1:3 pa,nta diV auvtou/ evge,neto( kai. cwri.j auvtou/ evge,neto ouvde. e[nÅ o] ge,gonen
1:3 tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.

Vedi pagina 12 degli allegati del prof.


Problema testuale al v. 4a. Si può collegare ogegonen con ciò che precede “niente al di fuori di lui
avvenne di ciò che è stato”. Oppure si collega a ciò che segue ci dice di più?

Per mezzo di lui tutto fu fatto


Senza di lui fu fatto niente di ciò che fu fatto. In questo caso “di ciò che fu fatto” sarebbe una
tautologia.
Altri ritengono o gegonen collegato a ciò che segue (vs.4). “ciò che fu fatto in lui era la vita”. La
seconda punteggiatura sarebbe da preferire.

34
Il prof. ritiene che attaccarlo a ciò che precede è solo una ripetizione inutile. Attaccandolo a ciò che
segue ci dice qualcosa di più, o della sua opera o della modalità con cui è stata fatta.
San Giovanni Crisostomo e Teodoreto portano avanti la prima punteggiatura nel IV sec. perché la
seconda era sostenuta dagli ariani.
La seconda si trova in Origene, Clemente Alessandrino, e in alcuni Codici molto importanti.
Sarebbe difficile trovare un consenso così largo nell’antichità.
Tutto fu fatto per mezzo di lui,
senza di lui non fu fatto niente.
Mentre la prima versione aggiunge: di ciò che fu fatto.
Che invece sarebbe l’inizio del 4° vs.

Panta- è un neutro e indefinito. Indica tutto, anche ciò che sta alla dextera Dei.

Dia autu. Dia + genitivo indica causa efficiente. Per mezzo di lui, con la sua mediazione. Senza, al
di fuori di lui niente fu. Un parallelismo antitetico. Il logos è mediatore nell’opera della creazione e
della salvezza, non dicendo il modo della mediazione. La seconda parte antitetica non è solo una
ripetizione, ci dice che non esiste niente che non sia stato fatto senza di lui.
“Cio che è avvenuto, in lui era la vita” Ogni essere creato ha la sua origine vitale nel logos. “In lui”
si riferisce al logos. Si può anche ritenere “cio che fu fatto in lui, era la vita” Ciò che fu fatto in se
stesso aveva la vita. Ciò che è stato creato è partecipazione alla vita di Dio, qualcosa di
esistenzialmente valida, non dipendente. Qui si obietta che la vita non è mai un discorso biologico
in Giovanni. Oppure ciò che è stato fatto è stato pensato in Cristo, siamo fatti a immagine del
Figlio, sia del mondo antropologico che cosmologico.
Senza, al di fuori di lui niente fu. Un parallelismo antitetico. Il logos è mediatore nell’opera della
creazione e della salvezza, non dicendo il modo della mediazione. La seconda parte antitetica non è
solo una ripetizione, ci dice che non esiste niente che non sia stato fatto senza di lui. Non dice che
esiste qualcosa che è stato fatto da lui: è esclusiva, senza di lui non esiste niente.

1:4 evn auvtw/| zwh. h=n( - 1:4 In lui era la vita e


“Cio che è avvenuto in lui era la vita. Ciò che fu fatto è un perfetto, che compiuto nel passato
irradia i suoi effetti fino al presente: è una creatio continua. Siamo all’inizio di un nuovo pensiero:
indico cosa è e come vive ciò che fu fatto.
Senso

35
Ogni essere creato ha la sua origine vitale nel logos. Si può anche ritenere “ciò che fu fatto in lui,
era la vita/vitale Ciò che fu fatto in se stesso aveva la vita è vitale. Ciò che è stato creato è
partecipazione alla vita di Dio, qualcosa di esistenzialmente valida, non dipendente. Qui si obietta
che la vita non è mai un discorso biologico in Giovanni, ma di vita divina: sarebbe l’unica volta in
cui Giovanni usa zoè per il senso biologico.
“In lui” si riferisce al logos. Ciò che fu fatto in lui è vita. È vitale in relazione al Logos: parte da lui,
vive in lui e si sviluppa in relazione a lui. Qui è causa di Vita.
Causa esemplare nei padri. Ciò che è stato fatto è stato pensato in Cristo, siamo fatti a immagine
del Figlio, sia del mondo antropologico che cosmologico.

4B kai. h` zwh. h=n to. fw/j tw/n avnqrw,pwn\ 4b la vita era la luce degli uomini;
La vita porta una conseguenza nell’umanità: è vita divina e rivelazione di Dio. La vita è luce, e la
luce è vita. La rivelazione del padre, del mondo sovrannaturale comunica la sua vita divina; e a sua
volta la vita comunicata è luce rivelativa. La vita e la luce sono cristo stesso e coincidono: sono
sinonimi di logos/verbo incarnato.

1:5 kai. to. fw/j evn th/| skoti,a| fai,nei( kai. h` skoti,a auvto. ouv kate,labenÅ
1:5 la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l' hanno accolta.

Tenebra equivale al mondo degli uomini immersi nel peccato (cf. Efesini: una volta eravate tenebre
ora siete luce nel signore). Le tenebre sono un ambiente nefasto in cui gli uomini sono immersi; un
mondo senza Dio. È proprio qui che la luce splende (faino- è al presente: brilla splende ora).
Ma le tenebre non l’hanno vinta.
– c’è un primo significato di katalambano – incapacità di comprenderla intellettuale.
- Non la accettarono, non la fecero propria, non accolta, indifferenza.
- Non la vinsero, la respinsero. Senso avversativo: superare, sorprendere. Così i padri antichi.
Il terzo senso è da preferire, e al limite l’indifferenza e la non accettazione, ma non l’incapacità di
comprenderla. Vedi in 12,35 camminate fintanto che c’è la luce e le tenebre non vi sorprendano: qui
c’è una contrapposizione tra luce e tenebre.
Katelaben è aoristo e suggerisce un azione passata e puntualizzata (ed essendo anche un aoristo
passivo) per indicare una aspetto unitario. La luce brilla attualmente, e siccome le tenebre ci sono
ancora e ci saranno secondo l’evangelista sino alla fine dei tempi, c’è ancora una ostilità alla luce.

E la vita era la luce degli uomini. Viene ripreso il versetto precedente. Già alla fine del versetto 3 e
nel versetto 4 Giovanni parla del logos incarnato. Il senso da dare a zoe è la vita soprannaturale, è la
partecipazione alla vita di Dio. È la vita che viene portata agli uomini: la vita divina. Il concetto di

36
luce non si identifica con la vita. La luce indica la rivelazione del padre, della salvezza. Gli uomini
accogliendo questa luce escono dall’ambito peccaminoso delle tenebre e ricevono la vita: dalla luce
nasce la vita. Come Giovanni identifica “la vita era la luce degli uomini”? Se li leghiamo al termine
concreto che è Gesù, allora questa identificazione si capisce: Gesù si definisce la vita e la luce.
Coincidono in lui. Bultmann parla a proposito di zoe in senso attivo e causativo. È Gesù che
storicamente è rivelazione del Padre …

La seconda parte “e la luce brilla nel buio”, nelle tenebre. Vediamo la concatenazione e lo sviluppo.
Scotia cosi come luce ha un significato metaforico. Scotia è il contrario della luce. Tenebra è ciò
che è al di fuori della rivelazione di Cristo. Qualcuno intende tenebre con gli uomini immersi nel
peccato (Ef 5,8 “eravate un tempo tenebre ora siete luce nel Signore”). Gli uomini camminano nelle
tenebre, non che sono tenebre. Si deve quindi intendere un ambiente nefasto in cui gli uomini sono
immersi, soggetto all’influsso del diavolo, “potere delle tenebre” (Lc 22,53). È l’opposto
dell’incarnazione, della vita e della luce. Fainei = brilla, risplende. Notare il presente, al di fuori del
tempo. Vedi 1Gv2,8 fainei si riferisce al verbo incarnato che per gli evangelisti si riferisce al
passato ma che per noi è ancora in atto. Fanei è intransitivo, è la luce colta nel suo aspetto di
brillare, non di illuminare.

“e le tenebre non la spensero” o non la compresero o non la ricevettero. Senso intellettuale: le


tenebre non compresero, non capirono. Cirillo di Alessandria ma anche tanti moderni. Senso vitale:
non la ricevettero, non la accettarono. In senso ostile: non la vinsero, non la spensero. In questo
senso molti padri greci: Origene, Crisostomo, Teofilatto. Questo senso sembra preferibile.
Normalmente katalambano indica un senso ostile: superare, sorprendere, ma anche il senso di
comprendere, afferrare. In 6,17 si trova ancora il verbo insieme a scotia “li sorpresero le tenebre” e
in 12,35 “camminate finché avete la luce in modo che le tenebre non vi sorprendano”. Il prof ritiene
quella dei padri greci “e le tenebre non la sopraffecero”. A cosa si riferisce concretamente
Giovanni? L’aoristo suggerisce una azione passata, ma può essere un periodo colto come una realtà
unitaria. Forse il riferimento all’ostilità verso Gesù nella sua vita pubblica che culmina nella
crocifissione. In tal senso si può pensare alle tenebre come alla morte che non ha vinto Gesù. In
senso generale è un contrasto contro Gesù che continua.

v. 6-8. La testimonianza di Giovanni.


1:6 VEge,neto a;nqrwpoj( avpestalme,noj para. qeou/( o;noma auvtw/| VIwa,nnhj\
1:6 Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni.

37
L’importanza non del testimone, ma di ciò che testimonia, con un mandato: è un apostolo, uno
shaliah. Gesù si presenta agli uomini come rivelazione del Padre di fronte alla quale gli uomini
devono accettarla o respingerla. Hanno un ruolo importante i testimoni. Il mondo è caratterizzato
dalla presa di posizione dei testimoni. Il testimone per diretta esperienza entra in gioco e rende
ragione di ciò di cui ha fatto esperienza.
Giovanni mette in evidenza 2 caratteristiche:
1) è mandato da Dio, si parla di una missione profetica e si storicizza egeneto non è vaga;
2) per testimoniare intorno alla luce, cioè Cristo in quanto incarnato, in quanto rivelazione del
Padre. Il battista è mandato a svolgere una azione di testimonianza. Il concetto di testimonianza è
tipico di Giovanni, ma anche degli apostoli e poi dei discepoli. Nella teologia di Giovanni Gesù si
presenta agli uomini come rivelazione del padre e gli uomini dovranno fare una scelta: accettare o
respingere questa rivelazione. Gli uomini hanno il compito di testimoniare: annuncia perché ha
visto e questo porta colui che accoglie la testimonianza a un vedere. La testimonianza è importante
per l’esperienza diretta. C’è una dimensione sensoriale della fede. La rivelazione in Gv ha bisogno
della risonanza di un testimone: vedi la samaritana. Se noi crediamo è per la testimonianza del
Battista: è un inizio storico determinante.

1:7 ou-toj h=lqen eivj marturi,an i[na marturh,sh| peri. tou/ fwto,j( i[na pa,ntej pisteu,swsin diV auvtou/Å
1:7 Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per
mezzo di lui.

La sua testimonianza verso tutti: perche tutti credessero. Ricordiamo l’inizio della 1Gv. La
testimonianza porta colui che l’accoglie a vedere e toccare a sua volta. La fede nasce dall’ascolto. In
Giovanni la fede ti permette di vedere, non il viceversa. Ecco perché non si può incontrare Cristo se
non con la mediazione della Chiesa. Perché lo si incontra per la testimonianza di qualcun altro.
Ricordiamo l’episodio di Bartimeo in cui la folla che rappresenta la chiesa è prima di ostacolo e poi
mezzo dell’incontro.
Grazie al battista si è messa in moto la catena che ha permesso di incontrare Cristo. Fu il battista a
mandargli i primi discepoli, a essere il primo testimone. È l’anello di congiunzione tra il vecchio e il
nuovo. Per questo il pantes non è pletorico o retorico, ma realmente nel mistero.
1:8 ouvk h=n evkei/noj to. fw/j( avllV i[na marturh,sh| peri. tou/ fwto,jÅ
1:8 Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce.

“non era lui la luce” più avanti si dirà che lui era una lampadina, uno che brillava di riflesso. “ma
venne per testimoniare sulla luce”.
1:9 +Hn to. fw/j to. avlhqino,n( o] fwti,zei pa,nta a;nqrwpon( evrco,menon eivj to.n ko,smonÅ
1:9 Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo, che viene nel mondo.

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v. 9 erkomenon si può riferire a ogni uomo che viene, a cui è garantita la luce. Ma si può anche
riferire alla luce che col suo venire nel mondo illumina ogni uomo. Si sottolineerebbe la
incarnazione. È da preferire riferirlo alla luce visto anche che è al imperfetto. Perché in molti passi
si dice (12,46) che Cristo è venuto nel mondo e vi rimane come luce. Poi nel versetto seguente si
dice “era nel mondo”. E poi dire ogni uomo “che nasce” è una ripetizione inutile. Viene affermato
che solo in Cristo si comprende il mondo, solo la rivelazione che Cristo porta ci illumina sul senso
della vita di ogni uomo. Ci sono delle luci non genuine, o perché semplicemente false o perché
incomplete, lacunose. Per esempio la prima parte della Bibbia: l’antico testamento è una luce
lacunosa senza Cristo. Gesù è la luce autentica che illumina ogni uomo. Il verbo usato fotizo: si
tratta di una azione illuminante, è un verbo transitivo, mentre faino v.5 era intransitivo una luce
che ti viene incontro, che puoi anche non vedere, ma che non è luce in sé, ma anche per te. Azione
al presente, un presente attuale. L’oggetto panta antropon è ciascuno e ogni singolo uomo. Questa
luce illumina anche se uno non lo vuole, anche se uno non lo sa. Ecco perché per Giovanni la non
fede è responsabile, non ci sono scuse per non accogliere la luce. A quale grado sia la responsabilità
non spetta a noi dirlo. L’erkomai, è riferito alla Luce, all’erkomenos, a Gesù che viene.
1:10 evn tw/| ko,smw| h=n( kai. o` ko,smoj diV auvtou/ evge,neto( kai. o` ko,smoj auvto.n ouvk e;gnwÅ
1:10 Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe.

Il senso di cosmo:
1) l’universo creato da Dio;
2) il mondo umano in questo senso è quello amato da Dio;
3) il mondo ostile a Dio e alla rivelazione di Cristo, coincide con la tenebra.
Il mondo umano creato da Dio è potenzialmente positivo e questa si accresce se si aggiunge e si
accetta la redenzione operata da Cristo. Se invece la scelta è di rifiuto il mondo diventa tenebra,
sottomesse alla potestà diabolica. Il mondo fu fatto per mezzo di lui, non può essere cattivo in se.
“ma il mondo non lo riconobbe” in seguito a ciò il mondo umano assume il senso negativo.
Il verbo sotto forma di luce si trovava nel mondo. Il mondo in genere ma soprattutto gli uomini
sono stati creati per mezzo di lui, c’è dunque ontologicamente una somiglianza, una relazione
strettissima. Ci dovremmo aspettare una accoglienza di questa luce, invece c’è opposizione.
Nel versetto precedente si parlava di luce nel mondo (al femminile) ora invece di una persona
auton che è maschile, si intende Gesù fatto uomo. Questo conferma l’identificazione di vita e
luce in Gesù, nel Logos – Verbo incarnato.
1:11 eivj ta. i;dia h=lqen( kai. oi` i;dioi auvto.n ouv pare,labonÅ
1:11 Venne fra la sua gente, tra i suoi, ma i suoi non l' hanno accolto.

39
Ta idia la sua proprietà. In senso generico si riferisce al mondo. Ma la proprietà di Dio, la ‘am
segullah, è nel linguaggio Biblico (Es 19,5 Dt 7,6) è Israele, il popolo di Dio. Anche la terra
dell’eredità che è la terra che Dio si è acquistata nahalà (Zac 2,16 Dt 3,18) e che da, affida al suo
popolo. O idioi corrisponde a ta idia, sono gli israeliti, il popolo proprio di Dio.
Non lo ricevettero, non lo accettarono, nonostante fossero suoi. Paralambano è sinonimo di
lambano, prendere in braccio e stringere a sé. Non gli credettero, non lo fecero suo. È il mistero del
rifiuto, dell’incredulità.

1:12 o[soi de. e;labon auvto,n( e;dwken auvtoi/j evxousi,an te,kna qeou/ gene,sqai( toi/j pisteu,ousin eivj to.
o;noma auvtou/(
1:12 A tutti quanti però l' hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che
credono nel suo nome,

Vediamo che accogliere significa credere. I suoi (sua proprietà non lo accoglie) ma una parte
dunque lo ha accolto. L’accettazione significa credere in lui, nel suo nome, come ci dice la tersa
parte del versetto.
È un ebraismo pisteuo eis è entrare dentro la persona, in una relazione dinamica coinvolgente.
Da questa relazione che è fede e accoglienza dipende il dono che fa il logos: la facoltà di divenire
figli di Dio. La fede che è vita dà la facoltà, il potere di divenire figli di Dio.
Quando Gesù dirà “bisogna rinascere di nuovo” a Nicodemo, rinascere di nuovo è accogliere Cristo
e credere in lui. Si paragona la genesi della fede con la genesi umana. Se non accogli il mistero non
rinasci e sei nella notte. Il potere exusia ha proprio il significato filosofico di facoltà.
Tekna ci dice il potere generativo della fede. Il concetto di figliolanza non è giuridico, ma di
relazione, non per generazione ma per via di essere. Per questo parla di “divenire” figlio di Dio. In
questa relazione si cresce, non è data on/off. Essere figlio è un concetto dinamico, una tensione
continua: ho il potere di esprimere la mia figliolanza e di viverla sempre di più. Non è una questione
giuridica.
In Rm 8,14 “infatti tutti quelli che sono guidati dallo spirito di Dio sono figli di Dio … avete
ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo ‘abbà padre” al v. 22 “tutta la
creazione geme nelle doglie del parto … anche noi gemiamo aspettando l’adozione a figli”.
Dunque siamo figli, ma c’è una progressione, c’è un divenire che non è mai completo, che sarà
completo solo nella manifestazione finale di Cristo. È un già e non ancora. È una relazione che
dipende da noi, dalla nostra adesione libera. La nostra figliolanza è dinamica non giuridica.

1:13 oi] ouvk evx ai`ma,twn ouvde. evk qelh,matoj sarko.j ouvde. evk qelh,matoj avndro.j avllV evk qeou/
evgennh,qhsanÅ
i quali non da sangui, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.

40
Riprende la genesi umana (vedi la ripresa anche con Nicodemo e la paragona alla genesi della fede).
Questione di critica testuale: all’inizio e alla fine del v. 13. All’inizio c’è un pronome relativo
singolare o plurale? E anche il verbo finale: “il quale o i quali” “furono generati o fu generato”.
Alcuni codici portano il singolare e allora ci si riferirebbe alla nascita di Cristo, se invece il plurale
ci si riferisce agli uomini, la generazione nella fede. A livello di critica esterna la lezione al
singolare non andrebbe presa in considerazione perché non c’è in nessun testo antico. Anche se c’è
nei codici della vetus latina che sono del II secolo. Antichità dei codici, attestazione molteplice e
lectio difficilior ci porterebbero a escludere il singolare. Tertulliano dice che il passaggio dal
singolare al plurale fu fatta per evitare problemi da parte degli ariani.
A livello di critica interna cosa si preferirebbe? Il singolare perché tutto l’inno si muove a
concatenazione e se usassi il plurale dovrei riagganciarmi al v. 12. Invece con il singolare si
aggancerebbe subito al testo che precede. E poi ci starebbe anche bene per il riferimento alla nascita
del logos, che sarebbe anche importante per la mariologia, per la nascita verginale.
Quali componenti entrano in gioco nella generazione di un uomo? Se ci si riferisce alla generazione
alla fede va bene il discorso, ma se ci si riferisce alla nascita umana. I sangui forse si riferisce alla
componente femminile, perché nella nascita c’è emissione di sangue. Poi perché si riteneva che la
nascita avvenisse dall’aggrumarsi del sangue nel grembo. Poi perché il sangue è la vita. Il seme
maschile è colui che farebbe raggrumare il sangue nella donna la funzione del caglio nel formaggio
(cf. come formaggio mi hai accagliato). Né femminile né maschile.

“ne da volere di carne” qui la carne non ha opposizione a Dio, ma si parla dell’impulso sessuale
senza il quale non ci sarebbe generazione, non peccaminoso, ma naturale e positivo. Parla della
dimensione intenzionale della generazione da parte dell’uomo. Nella generazione fisica entrano in
gioco il sangue, la carne e la volontà. Nella generazione alla fede non entrano in gioco questi
elementi. Paragonando la genesi della fede a quella umana si sottolinea che si tratta di una
generazione e questo si ritroverà nel dialogo con Nicodemo.
né da volere di uomo – non conta neppure il volere di maschio.
Ma dal volere di Dio, dal cuore di Dio.
Se all’inizio del v.13 si accetta il Singolare, allora c’è un riferimento alla concezione verginale di
Maria. La critica esterna è a favore del plurale. La critica interna invece è favorevole al singolare.
Semplicemente perché la tecnica seguita delle inclusioni nei vss. Per risalire al singolare si
dovrebbe invece risalire tanto indietro il riferimento al singolare. D’altronde anche logicamente vi
dico che la luce venne nel mondo e vi spiego come avvenne: con una nascita particolare. La prima
edizione della Bible de Jerusalem era al singolare (Mollat e Grelot).

41
1:14 Kai. o` lo,goj sa.rx evge,neto kai. evskh,nwsen evn h`mi/n( kai. evqeasa,meqa th.n do,xan
auvtou/( do,xan w`j monogenou/j para. patro,j( plh,rhj ca,ritoj kai. avlhqei,ajÅ
1:14 E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.

Parte centrale: è il versetto centrale di tutto il prologo. Se penso al v. 13 come la Genesi di Cristo, il
suo concepimento, torna il v. 14 perché divenne carne, nascita. C’è lo sfondo dell’AT:
- Sarx è un ebraismo per “uomo” corrisponde al basar, indica la concretezza storica. Sta a
significare uomo, uomo storico e concreto.
- Il verbo skenoo viene da skena tenda, significa drizzare una tenda, abitare una tenda. A volte
significa abitare. Qui si trova lo sfondo dell’antico testamento: la tenda dove abitava la
gloria di Dio (Es 40,34). C’è corrispondenza con la radice shakan (abitare sotto la tenda) e
con l’espressione shekinà (la presenza).
Dio ha la sua tenda in mezzo alle altre tende dell’accampamento. Il creatore dell’universo ha fatto
riposare la mia tenda (Sir 24,8) drizza la tua tenda in Giacobbe. La sapienza era identificata con la
memrah (parola) e con la torah (legge)
Lo stesso si trova in Ap 21,3. Si sottolinea la vicinanza, l’accessibilità del verbo incarnato in mezzo
a noi. La sua shekinà nella carne di Cristo. Il luogo della nuova alleanza, il nuovo tempio.
“e abbiamo visto la gloria di lui gloria come dell’unico figlio dal padre pienezza …”
Abbiamo visto, abbiamo percepito, non contemplato. Il plurale dice Giovanni e i suoi discepoli o
gli apostoli. Un vedere storico che si sublima in una visone storica, ma della fede. La fede è la pre-
comprensione che non riduce le facoltà umane ma le esalta. (vedi in Gv 3,36)
Abbiamo visto in quella carne la gloria, la shekinà di Dio. La gloria, kavod, designa Dio stesso
che si rende presente, che manifesta la sua presenza, una manifestazione appariscente in questa
luminosità pesante: forma analogica per indicare Dio invisibile. In Giovanni è la gloria rivelatrice
nei segni: la sue identità (di Cristo) nei segni Kavod deriva da kaved=pesante. È una pesantezza,
una visibilità non nascondibile. Tutte le manifestazioni di Dio si racchiudano nella Gloria di Dio,
nella sua kavod. In Rm 3,20-21 “tutti sono privi della gloria di Dio”, cioè non hanno la rilevabilità
della presenza di Dio. Con il peccato l’uomo non manifesta Dio. I miracoli manifestano ciò che
Gesù è, manifestano la sua identità. Giovanni si riferisce alla manifestazione di Gesù con i segni che
fa. In particolare la trasfigurazione. Abbiamo visto la sua gloria, abbiamo riconosciuto la shekinà
nella carne di Cristo.
“Gloria come di unigenito …” Questo os significa in generale come ma qui si dovrebbe dire in
quanto, in corrispondenza con il fatto che dando un senso esplicativo e non un valore comparativo
(comparativo significherebbe che non lo è). Il valore di os come esplicativo è tipico del greco

42
antico. Monogenè si parla più della sua (bakurì) unicità nel suo genere più che di unigenito. Non si
tratta della filiazione divina di Gesù, ma il suo essere unico: c’è solo lui.
Parà patros si potrebbe riferire anche a doxa “abbiamo visto la sua gloria, gloria che gli proviene
dal padre come essere unico nel suo genere”. La gloria gli verrebbe dal padre. Ma siccome in
Giovanni “para patros” si riferisce in genere alla missione del figlio 6,46 9,16 16,24 18,8 allora si
preferisce riferirlo a monogenus. “la gloria che ha come essere unico nel suo genere proveniente
dal padre”. Poi certo questo suo essere unico gli viene dal fatto che viene dal Padre.

v. 14 pleres è maschile e si dovrebbe riferire al logos (pieno della grazia e della verità). Ma la
costruzione sarebbe stiracchiata. Si dovrebbe dare una valore astratto indeclinabile tradotto con
“pienezza”.
Karitos, benevolenza, condiscendenza: vedi anche hesed veHemet nell’AT.
Aletheias è la rivelazione portata da Gesù. Il contenuto oggettivo della verità è luce. In Gesù si
concentra tutta la benevolenza divina. È in lui che si trova tutta la rivelazione del Padre, che
consiste nella benevolenza. Questi due termini un endiadi: esprimono il mistero dell’essere del
logos e sono interscambiabili.

Terza tappa.
1:15 VIwa,nnhj marturei/ peri. auvtou/ kai. ke,kragen le,gwn\ ou-toj h=n o]n ei=pon\ o` ovpi,sw mou
evrco,menoj e;mprosqe,n mou ge,gonen( o[ti prw/to,j mou h=nÅ
1:15 Giovanni gli rende testimonianza e grida: "Ecco l' uomo di cui io dissi: Colui che viene dopo di
me mi è passato avanti, perché era prima di me".

v. 15 riferimento alla testimonianza del Battista. Testimonianza attualizzata. Giovanni il battista


nota un fatto: Gesù viene dopo di lui cronologicamente ma gli passa avanti mettendolo nell’ombra,
perché “era prima di lui”. Questo significa la preesistenza di Gesù, corrisponde all’en arché en. In
senso cronologico non di discepolato. La profezia del Battista, un insegnamento anche che il battista
dava ai suoi discepoli che continuavano a ritenerlo superiore a Gesù.
Kekragen – gridare di Giovanni. Marturei – è al presente per sottolineare che la sua testimonianza è
attuale. E se diamo testimonianza noi oggi è perché risaliamo alla prima testimonianza, quella di
Giovanni Battista. La voce del battista è ancora presente nella chiesa.
Il battista dice: era prima di me. Il che equivale all’en archè èn: alla preesistenza. Polemica
antibattista per affermare l’unicità, e la priorità in ordine del tempo del logos incarnato.

1:16 o[ti evk tou/ plhrw,matoj auvtou/ h`mei/j pa,ntej evla,bomen kai. ca,rin avnti. ca,ritoj\
1:16 Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia.

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v. 16 “poiché” indica un nesso, non con quanto precede immediatamente ma probabilmente, con
“pienezza di verità e grazia” della fine del v. 14. Per il fatto che Gesù è la pienezza della grazia e
della rivelazione noi possiamo attingere da lui “karin anti karitos”. È la testimonianza di fede, forse
degli stessi discepoli del Battista, o di Gv.
Due possibili traduzioni di anti. 1) anti come “al posto di” cioè sostitutivo: la grazia del NT
sostituita a quella dell’ AT (così Giovanni Crisostomo). 2) “grazia su grazia” in senso aggiuntivo,
come dice Bultmann, senso di sovrabbondanza. 3) “grazia corrispondente alla sua grazia” (Jouon)
che sottolinea il valore stretto tra noi e Gesù e da un valore preciso a questa grazia: il tutto di lui noi
abbiamo ricevuto.
Il “kai” è accentuativo dell’oggetto della frase. Forse il senso del v.17 fa prevalere il senso
antitetico, nel senso di superamento. Però è più forte in senso aggiuntivo e corrispettivo secondo il
prof.
1:17 o[ti o` no,moj dia. Mwu?se,wj evdo,qh( h` ca,rij kai. h` avlh,qeia dia. VIhsou/ Cristou/ evge,netoÅ
Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.

C’è un parallelismo climatico. Si sottolinea la superiorità della Rivelazione di Gesù come totale e
definitivo. Per Mosè si dice fu data; mentre del logos si dice avenne.
v. 17 oti è lo stesso nesso causale del versetto precedente. Lo stesso riferimento alla fine del v. 14
cioè alla pienezza della grazia e della verità. Qui si ha una contrapposizione con l’antico testamento.
Passivo teologico, azione della legge di Dio. Il verbo egeneto si riferisce a karis e aleteia: “fu fatta”,
si tratta della attuazione della karis e aleteia negli uomini che credono, concretizzazione del dono di
Cristo. C’è anche la contrapposizione tra i due mediatori: da una parte Mosè e dall’altra Gesù
Cristo.
1:18 Qeo.n ouvdei.j e`w,raken pw,pote\ monogenh.j qeo.j o` w'n eivj to.n ko,lpon tou/ patro.j evkei/noj
evxhgh,satoÅ
Dio nessuno l' ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato.

v. 18 I codici più antichi hanno “monogenè teos” (Sianitico; Bodmer B66) preferibile anche per la
lectio difficilior rispetto a “monogenè uios”.
Theon udeis: Qui si anticipa il complemento oggetto al soggetto e al verbo quindi si vuole
sottolineare il l’oggetto della frase. Due enfasi: su Dio e su mai. L’impossibilità assoluta della
visibilità di Dio. Siamo sulla concezione ebraica che Dio è inconoscibile. La conoscenza di Dio è
sempre parziale se non parte da questa affermazione. Nonostante la grande intelligenza dell’uomo
Dio è rimasto sconosciuto. Monogenes theos: Dio stesso nella sua ineffabile divinità ci viene
incontro. Si potrebbe dire Dio stesso, perché monogenes sottolinea l’unicità. “Colui che è unigenito
Dio, rivolto verso il seno del Padre, quello lo ha svelato”.

44
O on- colui che è: si trova anche nelle icone. Eis ton kolpon – l’intimità amorosa del Padre e del
Figlio. Il Figlio ci racconta, ci mostra, questa intimità.
“ekeinos”, quello, cioè Gesù, il verbo incarnato costui, proprio lui.
“exegesato”: Escludiamo il senso di “condurre fuori”, “guidare” (ex-ago) perché manca il soggetto.
Resta il significato di “manifestare”, “spiegare”, “rivelare”. Termine tecnico della interpretazione
della volontà divina da parte dei rabbini. La rivelazione è la parola di Gesù, ma anche la sua vita.
Egli stesso è manifestazione del padre. “Filippo da tanto tempo sono con voi … chi vede me vede il
padre”. La Cei aggiunge “lo” ha rilevato. In realtà il verbo è senza oggetto. Gesù rivela sia se stesso
che il padre, non solo il padre. È colui che manifesta e il manifestato.
Egli fu la rivelazione, la manifestazione, la Parola visto che il verbo è senza soggetto.

INIZIO DEL VANGELO.


Prologo narrativo 1, 19-28. E poi fino al v. 51
A partire dal v. 19 il vangelo sembra iniziare come tutti gli altri evangelisti: battista, battesimo,
tentazione. Siamo davanti a una scansione di giorni (emerologica) il giorno dopo (epaurion).
- Dal 19 al 28; - primo giorno. Corrisponde alla frase del prologo: no era lui la luce,ma aveva
la funzione di testimone. Nel primo giorno abbiamo la dichiarazione di Giovanni davanti
alla comunità giudaica dove nega di essere messia.
- dal 29 al 34; - il giorno dopo Al 29 “il giorno dopo”;. Nel II giorno si presenta Gesù che va
verso Giovanni e riprende il v. 15 del prologo “quello che viene dopo di me …” descrive
l’investitura del messia.
- dal 35 al 42;- III Giorno. al 35 “l’indomani”, Nel III giorno Gesù cammina e i discepoli
abbandonano il battista e vanno dietro Gesù. Ecco l’agnello che toglie il peccato.
- dal 43 al 51. Nel IV giorno chiamando Filippo Gesù si prepara alla manifestazione ad
Israele. L’obbiettivo era stato espresso nel v.31: perché egli si manifesti
Al v. 2,1 “tre giorni dopo” quindi Cana è al settimo giorno: nella pienezza.

Una unità ben studiata e armonica.


19 Kai. au[th evsti.n h` marturi,a tou/ VIwa,nnou( o[te avpe,steilan Îpro.j auvto.nÐ oi` VIoudai/oi evx
~Ierosolu,mwn i`erei/j kai. Leui,taj i[na evrwth,swsin auvto,n\ su. ti,j ei=È
19 E questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme
sacerdoti e leviti a interrogarlo: "Chi sei tu?".

20 kai. w`molo,ghsen kai. ouvk hvrnh,sato( kai. w`molo,ghsen o[ti evgw. ouvk eivmi. o` cristo,jÅ
20 Egli confessò e non negò, e confessò: "Io non sono il Cristo". - (confessò pubblicamente) non lo
negò e lo riconobbe: io non sono il cristo”

21 “kai. hvrw,thsan auvto,n\ ti, ou=nÈ su. VHli,aj ei=È kai. le,gei\ ouvk eivmi,Å o` profh,thj ei= su,È kai.
avpekri,qh\ ou;Å

45
21 Allora gli chiesero: "Che cosa dunque? Sei Elia?". Rispose: "Non lo sono". "Sei tu il profeta?".
Rispose: "No".

22 ei=pan ou=n auvtw/|\ ti,j ei=È i[na avpo,krisin dw/men toi/j pe,myasin h`ma/j\ ti, le,geij peri. seautou/È
22 Gli dissero dunque: "Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno
mandato. Che cosa dici di te stesso?".

Tu come di descrivi? Io voce gridante nel deserto: raddrizzate la strada del Signore come disse
Isaia il profeta” “Gli inviati gli erano anche inviati dal gruppo dei farisei” “Che dunque allora,
perché battezzi se tu non sei il Cristo…”
“io battezzo con acqua, in mezzo a voi si è reso presente colui che voi non conoscete, colui che
viene dopo di me, del quale non sono degno di sciogliere i legacci del sandalo”.
“queste cose avvennero in Betania al di là del giordano, dove Giovanni battezzava”.

1. La figura di Giovanni si dà per scontato, e anche il movimento attorno lui è cosi noto che viene
inviata una commissione investigatrice dai capi dei giudei. I sacerdoti e leviti sono in ambito
giuridico le autorità supreme. I leviti sono in-adatti a ricevere il grado di sacerdote. Nel tempio
facevano la funzione di sacrestani, ma anche di sorveglianti e di guardie. Erano il corpo armato al
servizio del sinedrio. Il Battista rende testimonianza nell’interrogatorio ufficiale della
commissione. Doveva testimoniare la luce. Questo prologo narrativo è realmente storico. Il fatto
che la sua attività (di testimoniare la luce, perché inviato da Dio) provoca il sospetto dell’autorità
colloca questa autorità nelle tenebre (in coloro che vogliono ostacolare la luce). C’è un circolo di
potere che è contro la testimonianza della luce-vita.
2. L’interrogatorio inizia senza formule di cortesia, indica forse la paura di perdere autorità, in
abrupto: “tu chi sei?” Atteggiamento brutto ma ancora riservato, il fatto che sono dei leviti significa
che se avrebbe risposto nel modo sbagliato l’avrebbero preso. Non attribuiscono a Giovanni nessun
ruolo, vogliono che sia lui stesso a dichiarare le sue intenzioni. Sappiamo da Giuseppe Flavio che il
battista aveva molto seguito.
3. Al v. 20 è ridondante “professò, non negò e professò”. Se si fosse dichiarato messia erano pronti
ad arrestare Giovanni. Uno dei principali obiettivi del messia avrebbe dovuto essere la riforma del
culto con la deposizione della gerarchia.
Giovanni cerca subito di tranquillizzare “io non sono il messia!”. È una rassicurazione: state
tranquilli, non sono io. Riprende il tema del prologo di 1,8 “non era lui la luce”. Questa frase
prepara la affermazione che Gesù farà alla samaritana in Gv 4,26 “io sono che ti parlo”. È
interessante che Giovanni mai pronuncia “io sono” in nessuna sua dichiarazione. Nemmeno al
versetto 23 tradotto io sono voce di uno che…, invece c’è scritto: io voce di uno che…
Sappiamo il valore di quel “ego eimi” che invece più volte dice Gesù. (4,26; 8,24).

46
La prima dichiarazione di Giovanni ha risolto il problema di fondo. Al v. 21 è come un respiro di
sollievo, meno male “ma allora chi sei?”
Si paventano le possibilità dei contesti che si ritenevano preparare la venuta del messia: il ritorno di
Elia. E la descrizione di Giovanni battista corrisponde all’abbigliamento di Elia. Poi Gesù stesso
reinterpreterà il battista come Elia. Ma il Battista non si attribuisce l’identità di Elia.
“sei tu il profeta?” cf. - Dt 18,15 Mosè dice “sorgerà un profeta come me”. – non sono il profeta.
Riprende qui il v. 17 del prologo.
Le risposte del Battista sono sempre più brevi. Corrisponde alla percezione della chiusura
dell’accoglienza della testimonianza. Il compito di Giovanni è annunziare la presenza del messia
sposo.
“come ti definisci? Chi sei? Dobbiamo portare una risposta a coloro che ci hanno inviato”. C’è
una inquietudine, le autorità hanno bisogno di una dichiarazione per capire se ci può essere un
pericolo. Giovanni risponde: “io, una voce che grida nel deserto, raddrizzate la via del Signore,
come dice il profeta Isaia”. Voce è un termine relazionale che presuppone degli ascoltatori, degli
uditori. Giovanni come voce non parla di sé stesso ma parla a loro, le sue parole sono una
sollecitazione ad ascoltare “la parola”. La voce non è la parola, ma è lo strumento che comunica la
parola. Non accolgono la mediazione della parola definitiva perche i farisei hanno assolutizzato
Mosè e la legge.
Più avanti Giovanni si dichiarerà “lucerna” non luce. È come un’eco.
Appaiono anche i farisei tra gli invianti. Gli domandarono ancora “perché battezzi se tu non sei
…?” L’autore di Gv vuole mostrare che Giovanni non si attribuiva nessuno di questi ruoli. È
una domanda inquisitoria, lo accusano di essere usurpatore: con quale autorità fai questo (lo
diranno anche a Gesù. Il fatto del battesimo era collegato con quelle tre figure. All’interno della
religione ebraica il battesimo era un rito di purificazione (dopo la guarigione dall’infermità Lv
14,8) o per coloro che erano incorsi in mancanze legali di carattere morale (Lv 14,6 e 15,16) vedi i
miqrè di Qumran. Rito simbolico. Poi il battesimo era rito con significato di lavacro dalla macchia,
E come cambiamento di stato (dei proseliti) l’abbandono delle pratiche religiose precedenti e
l’adesione alla vita giudaica: battesimo di affiliazione . A Gerusalemme si praticava nella piscina di
Siloe. Rito di liberazione.

Il battesimo di Giovanni sappiamo che è strano: una presa di coscienza dei propri peccati, della
propria nullità. Si dava una volta sola. Il battista come risposta vuole relazionare il suo battesimo a
colui che sta venendo. Si può assimilare alla contrizione. Rimetteva i peccati? Non è un battesimo
di purificazione. L’unicità del battesimo di Giovanni desta sospetto.

47
“Giovanni disse: io battezzo con acqua”. Il personaggio cui prepara la venuta è già presente.
Giovanni afferma la propria inferiorità rispetto a colui che deve venire: solo con acqua. Un
battesimo relativo alla comparsa del Messia. Qui è presente colui che viene dopo di me e che era
prima di me. 26 e[sthken - Si è reso presente, verbo molto importante che tornerà in 21,1. Gesù
stava li, era presente ma non lo vedevano.
Qui c’è allusione alla legge del levirato. Il tema nuziale è molto importante. Il senso generale del
levirato è che il go’el, il più prossimo era vicino nella necessità. Nell’ambito della famiglia chi
moriva senza figli, il suo go’el doveva sposare la moglie per dare la discendenza, non solo per il
nome, ma perché si realizzi la alleanza si Dio: senza discendenza eri considerato maledetto e fuori
dall’alleanza, La cerimonia per la rinuncia al diritto di sposare la donna rimasta sola avveniva alla
porta della città. Rut 4,6. Rinunziare era sciogliersi i sandali e sbatterli (simbolo dei genitali).
Oppure prenderli da parte di un altro. Giovanni si definirà l’amico dello sposo. Lo sposo è Cristo.
C’è un tema di nuzialità come nuova alleanza. Lo vedremo anche in Cana. In Gv 3,22 i discepoli
del Battista sono preoccupati dell’attività di Gesù. Giovanni risponde: chi possiede la sposa è lo
sposo. L’amico dello sposo esulta di gioia alla voce dello Sposo. Lo sposo deve crescere e io
diminuire: come cresce lo sposo? Con i figli. Ecco perché Gesù battezza e c’era molta acqua e tutti
accorrono a lui. Gesù ha già incontrato la sposa a Cana, ora la purifica per renderla pronta alle
nozze.
La localizzazione del battesimo di Giovanni corrisponde all’interpretazione del battesimo stesso,
come un uscire dalla terra promessa per potervi rientrare veramente. Giovanni fa fare come un
nuovo esodo. Gesù sarà legato a questa prospettiva esodica.

28.10.08
Gv 1,29-34. Testimonianza di Giovanni Battista.
Non è presente un uditorio, la sua testimonianza è rivolta a tutti e perenne.
Testo concentrico
A 1,29 - affermazione su Gesù (questi è l’agnello di Dio).
B 1,30 - citazione di un detto precedente (è di lui che io dissi)
C 1,31 - Affermazione di ignoranza (nemmeno io sapevo)
D 1,32 - Visione dello spirito (la testimonianza).
C’ 1,33 - la confessione di ignoranza, di Giovanni
B’ 1,33b - nuova citazione di detto precedente; “ che mi disse”
A’ 1,34 - affermazione su Gesù (questi è il figlio di Dio).

48
“il giorno seguente” dato temporale che indica la successione dei giorni che culminerà nel giorno
del messia.
“veniva presso di lui” ricordiamo nel prologo “veniva la luce”. Il veniente, il venire è il verbo
dell’incarnazione.
“guardate ide l’agnello di Dio” cf.14-17 del prologo. L’opera di Gesù e la sua persona sono
presentate come un Esodo. V. 14“si accampò” poi c’è la colonna luminosa. Poi la nuova alleanza al
v.17 “la grazia e la verità”. Vale a dire in chiave pasquale. Anche la contrapposizione Mose/gesù in
ottica della nuova pasquale.
Qui con la menzione dell’agnello ci si rifà al contesto esodico e pasquale, il sangue dell’agnello che
salva il popolo dallo sterminio.
La dimensione esodica e pasquale è in tutto il vangelo.
Per esempio: Delle 6 feste citate nel vangelo la prima e l’ultima sono pasque (6 e 11) che celebrano
la liberazione dall’Egitto e la costituzione del popolo nel deserto, e il cammino verso la terra
promesso.
Vedi 4,46b la seconda parte del vangelo ha il tema pasquale. Ricordiamo anche il tema dell’ “ora
di Gesù” quella della sua morte che troviamo anticipato nel segno di Cana. Si collegherà a 13,1
nella preparazione della pasqua, sapendo che era giunto la sua ora. Alla fine mentre Gesù muore si
sottolinea che è l’ora in cui vengono sacrificati gli agnelli: 19,31.
Poi il tema del cibo 6,1ss ha un carattere pasquale, vedi 6,4. Poi il tema della manna e di nuovo
dell’agnello in 6,51: quindi tema pasquale.
La menzione dell’issopo in 19,29 e quella del sangue in 19,34 contengono il riferimento al sangue
dell’agnello (che liberò il popolo dalla morte in Egitto, l’aspersione sacerdotale). In 19,29 “vi era lì
un vaso di aceto …” si parla di issopo e di innalzare. Al v. 34 di nuovo il sangue dell’agnello.
Ricordare il riferimento: non li sarà spezzato nessun osso.

v.29. Dietro l’espressione “ecco l’agnello” qualcuno nella tradizione ritiene che venga da una
espressione aramaica “talijàh” che indica sia “agnello” che “servo” facendo così riferimento a Isaia
e ai Canti del Servo che prende su di sé i peccati: espiazione allora prendendo su di sé i peccati.
Soprattutto il primi due canti: il servo porta il diritto e la giustizia, quindi libera con la Parola. Infatti
voi siete mondi per la parola che avete udito.
Al prof non sembra che Giovanni abbia questa visione dell’agnello, che toglie il peccato.
Il concetto di espiazione è liturgico sacrificale, ma va preso con le molle dal punto di vista teologico
perché in se non c’è niente da espiare, non c’è da placare un Dio, è libera iniziativa dell’amore di
Dio questa azione di Cristo. Non è un Dio che esige il sangue. È libera auto-donazione di Cristo. A

49
chi deve pagare il debito? A satana? Ma questa è una bestemmia. Il peccato non deve essere espiato
ma tolto.
airon- 1Sam 15,25. Eliminare dimenticando. Perdona il mio peccato. È un togliere perdonando. La
relazione tra l’agnello e il peccato non è quindi proprio quelli di caricarsi dell’agnello del peccato.
Questi dati rendono inequivocabile “agnello di Dio” che annuncia un nuovo esodo, una nuova
pasqua in Cristo. Il peccato non deve essere espiato ma eliminato. Come Gesù toglie il peccato? Il
rifiuto della parola vita sarà il peccato. Interessante che il peccato è al singolare non al plurale. Il
peccato è entrare nella sfera della menzogna in 8,32-34. Il peccato è non credere ed è responsabilità
dell’uomo perché la luce ti viene incontro. Il peccato è togliere spazio alla luce, non riconoscere
Gesù. Il peccato è adesione alla menzogna del principe di questo mondo. Il Cristo toglie il peccato
del mondo.
Ma cos’è il peccato? – IL peccato, ten amartian – con l’articolo, qui non si può non vedere la
paternità di satana, che nega la verità che è Cristo. Vedi Rm 5,12: “come a causa di un solo uomo il
peccato è entrato nel mondo”.
Mondo – è il mondo delle tenebre, l’umanità bisognosa di salvezza. Se il peccato è l’adesione alla
non fede prodotta da satana, l’agnello è colui che dà l’acceso alla luce.

v. 30 “era prima di me”. Qui qualifica colui che viene come il maschio adulto: lo sposo “aner”. Si
è reso presente lo sposo: è lui che ha diritto alla sposa, al popolo della alleanza. Giovanni gli si pone
innanzi come l’amico dello sposo che corre avanti e annunzia l’arrivo dello sposo. Giovanni eclissa
la propria figura davanti a colui che giunge.
31. “sono venuto a battezzare perché ”. Giovanni aveva dato inizio alla sua missione prima di
conoscere Gesù. Battesimo di rottura col passato e annuncio di un arrivo. Giovanni ha continuato a
vivere in questa speranza, non ha completamente accolto Gesù, nei sinottici si vede che Giovanni
gli manda a chiedere “sei tu colui che deve venire”. Gesù era sconosciuto a Giovanni come Messia,
agisce sotto l’influenza dello spirito. Giovanni è Gesù sono indipendenti, è lo spirito che li
accomuna. Il giudice spietato che si attendeva non è quello che si manifesta in Gesù. Anche il
Battista ha dovuto crescere nella conoscenza.
32. “e Giovanni rese questa testimonianza dicendo: ho contemplato lo spirito discendere come
colomba e rimanere sopra di lui”. Gesù è lo sposo perché ha ricevuto lo spirito. Lo Spirito è
descritto in termini di Gloria e di Amore del padre. Giovanni non dice che Giovanni battezza Gesù.
La qualità dello spirito è marcata dalla provenienza “dal cielo” cioè da Dio, anzi di Dio. Questa
visione di Giovanni è in parallelo con la visione in 1,14 della gloria (come di unigenito) da parte
della comunità. Dio è spirito e si comunica al Figlio.

50
-“come colomba” uso del simbolismo. È frase comune per indicare l’affetto per il nido. Lo spirito
trova il suo nido permanente in Gesù. Come il piccione viaggiatore che ritorna al nido. Lo spirito
trova il suo luogo naturale, la sua abitazione permanente in Gesù. Ho contemplato, fa pensare alla
visione vera e propria. Come colomba è in connessione sintattica con “discendere”. Nella tradizione
rabbinica si paragona il volteggiare dello spirito sulle acque primordiali al volteggiare della
colomba sulla sua nidiata. C’è una connessione creativa. Si può dire allora che Gesù realizza
pienamente il progetto creatore. Il volteggiare dello spirito, finche non trova il suo nido in Gesù. La
discesa dello Spirito come colomba sarebbe una allusione alla creazione che ora si completa in
Cristo. Jonab, in ebraico. Riferimento a Giona e all’universalità della salvezza.
Due linee di confluenza:
- l’amore del Padre discende sul Figlio, pienezza dello Spirito;
- questo porta a pienezza l’opera del Padre sull’uomo, la creazione.
La venuta dello Spirito su Gesù poi corrisponde a dei testi profetici: “un germoglio …” Is 11,1 poi
in Is 42,1 e in Is 61,1.
L’insistenza del Battista sulla venuta e permanenza dello Spirito “e rimase su di lui”. Carattere
messianico. Di fatto allude all’unzione di Davide “e lo spirito si posò su Davide da quel giorno in
poi” 1 Sam 13,16. Davide è l’unico re di cui si affermi tale permanenza. Gli altri re o giudici
avevano episodi di effusione occasionale dello spirito, ma non di rimanenza. Samuele non
conosceva Davide come Giovanni non sapeva chi era Gesù: un po’ come se fosse l’ultimo profeta
che fa da inclusione a Samuele. Però Giovanni evita qualunque mediazione del Battista, che non
unge Gesù. Giovanni è testimone dell’unzione dello Spirito.
Qui si farebbe dunque riferimento all’unzione del messia. Ez 34,24. Si danno altre analogie
all’episodio di Samuele: il profeta non conosceva Davide così si spiegherebbe la frase di Giovanni
“nemmeno io sapevo chi fosse” che è ripetuta due volte ad indicare che la scelta di Gesù è compiuta
direttamente da Dio. Qui addirittura l’unzione viene direttamente da Dio senza mediazione umana.
Lo spirito che scende su Gesù fa di lui la presenza di Dio sulla terra. Per questo Gesù vive nella
sfera dello spirito e appartiene a chi è in alto.
v. 33 “io non lo conoscevo” ancora nega di conoscerlo prima. La testimonianza non nasce da una
deduzione umana ma viene dal prendere conoscenza della situazione che viene data. La
manifestazione,
- Dio gli aveva dato un segno per riconoscere colui che battezza in Spirito.
Il battesimo con Spirito sarà diverso da quello di Giovanni, non sarà una immersione in acqua, ma
una penetrazione dello Spirito santo che sarà “acqua che zampilla per la vita eterna, l’acqua che
sgorga dal costato di Gesù”.

51
Il verbo“Battezzare” ha due significati: immergere e impregnare come l’acqua che bagna la terra.
C’è comunque il contatto esteriore o interiore del soggetto con l’acqua.
Gesù ha la pienezza dello Spirito e immergerà completamente l’uomo nello spirito. I suoi
riceveranno lo spirito. È interessante che lo spirito, quando si nomina in relazione a Gesù non
ha l’appellativo santo, mentre ce l’ha quando è nominato in relazione agli uomini. Santo ha a
che fare con l’azione, il santificare, il separare e unire alla sfera divina.
- Ora possiamo comprendere come Gesù toglie il peccato. Al v. 33 “egli è colui che battezza”.
Com’è che toglie il peccato? Immettendo nell’uomo una possibilità nuova, una forza di vita capace
di distruggere il peccato dall’interno: donando lo spirito, donando la vita. Il suo atto di amore
genera il dono dello spirito che intride del divino e libera dal peccato. Per esempio se prendiamo il
peccato come un tumore, il concetto del togliere in chiave di redenzione potrebbe essere intesa
come una operazione chirurgica che lo asporta. Lo spirito invece opera dal di dentro e distrugge il
peccato senza separarlo dall’uomo. Sana dal di dentro ciò che è malato. Lo spirito da all’uomo la
capacità di amare come Gesù, il dare la vita, lo spirito da la sintonia con Gesù. L’amore senza fine,
fino alla morte: Emise lo spirito.
“lascio questa testimonianza: lui è il figlio di Dio”. In 19,35 si affianca quella dell’evangelista.
Giovanni ha visto scendere su Gesù la pienezza dello spirito, la pienezza dell’amore realizzato la
vedrà l’evangelista sulla croce. Il sangue che esce dal costato di Gesù: la realtà dell’acqua e dello
spirito 19,34.
In questo secondo giorno Dio si propone di togliere l’umanità dal peccato. L’epoca che inizia è
l’epoca festiva, della pasqua, della gioia e libertà. Per questa missione Gesù ha ricevuto la forza
dello spirito è Dio sulla terra. In Gesù si trova la vita e per mezzo di lui ogni uomo può liberarsi
dall’oppressione, essere irrorati dall’opera dello spirito.

Terzo giorno. (35-51)


“il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due suoi discepoli …” e poi il quarto giorno. Abbiamo
una serie di movimenti. V.35 e 51 fanno da inclusione.
Vedere 9X= esigenza di capire ciò che si guarda: esperienza del cammino di fede, da cui
l’importanza del “fissare lo sguardo”vv. 36. 42.
Il cambio del pronome personale da singolare in plurale. Attenzione al cambio delle persone: vi dico
… vedrete…
1) Battista che si rivolge ai suoi discepoli
2) i due che vanno dietro a Gesù e gli parlano Andrea (e Giovanni)
3) l’incontro con Pietro

52
4) il colloquio con Filippo
5) il dialogo tra Gesù e Natanaele.
Si potrebbe vedere una sinfonia con una introduzione e 4 momenti simili di chiamata. I sinottici
insistono sulla chiamata di Gesù (Mc //) che prende l’iniziativa, mentre qui lo fa solo per Filippo.
Giovanni propone la sequela come un camminare nella fede, progredire nella conoscenza di Cristo.
Sequela = cammino che scopre la verità antica e nuova insieme. Ognuno dei personaggi dà una sua
spiegazione a quella che ha incontrata: vera ma parziale e pure saziante per ognuno dei personaggi.
Sottolinea la necessità di scoprire Gesù di Nazareth; ognuno parla e dice qualcosa in base alla sua
condizione storico culturale, solo Pietro tace. La sequela proposta qui è un cammino di fede matura.
In Mc e nei sinottici subito (euthus) X56, è un subito teologico. In Mc 1,16 non è il primo incontro;
e Gesù non è uno stregone. In un istante avviene il tutto: il subito in cui ti devi mettere in gioco,
quando tutto giunge a maturazione. Il subito indica, questo istante in cui avviene tutto. È
l’autorevole parola di Gesù che determina il subito teologico. In Giovanni è l’esperienza della
conoscenza di Gesù che determina la sequela.

Il Battista sta battezzando al di là del Giordano. Ha il coraggio di indicare il Messia. Sta in piedi,
statico, e indica colui che si deve seguire.
Gesù è in continuo movimento, per incontrarlo devi muoverti, devi andarli incontro. Gesù in
movimento è segno del suo popolo in movimento. Non si può più essere Battisti/fermo statico, ma
in movimento incontro agli uomini a cui annunciare Gesù.

I primi tre discepoli sono nell’attesa del Messia. I primi due sono discepoli del Battista, Pietro forse
non, ma certamente un simpatizzante. Filippo e Natanaele sono pregni di pregiudizi diffusi. Filippo
conosce le Scritture, Natanaele è sotto il fico per dire l’amore alla Scrittura. Il fico è immagine di
Israele. Erano gli unici posti d’ombra dove amavano ritirarsi coloro che meditavano la Scrittura. È
un vero israelita che condivide i pregiudizi su i galilei.
I due che si muovono alla ricerca, finiscono la ricerca quando Gesù dice chi cercate.
La parola chiave del primo momento “che cercate?” domanda imprevista e profonda. Gesù fa
conoscere la dimensione ambigua della ricerca (non è la ricerca della Maddalena: donna chi
cerchi?). I discepoli forse cercano un nuovo maestro. Ma essi si scopriranno cercati.
Dove?- indice della ricerca concreta. Vedi più avanti “non sapevano da dove aveva attinto. Dove? –
in Gv è il svelare l’identità di Gesù. (di Lui sappiamo di dove è… ma del messia non sappiamo di
dove è; ancora la samaritana … di dove hai quest’acqua). Dove? – è un interrogativo che cela
sempre la identità di Gesù. È un tema sapienziale.

53
Accanto a questo la parola “abitare, dimorare” ricorre diverse volte. Tutti verbi importanti che
hanno un tratto personalistico. L ‘esperienza gli ha talmente colpiti che ricordano l’ora: l’ora
decima/ 4 del pomeriggio.
Molto importante l’esigenza di comunicare ciò che si è sperimentato: Giovanni ai discepoli, questi a
l’un l’altro ecc. Gesù stesso comunica, anzi si comunica nella sua dimora, e cosi crea l’incontro
Il secondo movimento è più calmo. La parola chiave è “ti chiamerai Cefa”. Il cambio del nome è
cambio del destino, dei connotati. Assunzione di un’altra personalità. C’è chi si mette nel mezzo e
si lascia cambiare il nome come Simone.
Il terzo movimento, la giornata di Filippo, ha la parola “seguimi!”. Da una dimensione profetica.
Il quarto movimento di incontro con Natanaele è caratterizzato da una esperienza profonda: si sente
conosciuto, anche se parte da scettico. La parola chiave “come mi conosci?”.

Tutti si mettono in gioco. C’è un condensato della identità di Gesù:


battista – agnello di Dio; i due discepoli – maestro; Andrea - lo chiama messia; Filippo – colui di
cui ha scritto Mosè e i profeti (Dt); Natanaele - Figlio di Dio e re di Israele: Gesù – vedrete il figlio
dell’uomo.
C’è qui tutta la cristologia di Giovanni. Non sono affermazioni preconfezionate: sono convinzioni
maturate stando vicino a Gesù, da una esperienza vissuta. La fede si nutre e cammina. La
dimensione ecclesiologica è frutto di questi micro-processi di incontro, di dialogo, di stupore.
Che cosa ci dicono queste coordinate? Quale messaggio in questa scansione? Una portata
inesauribile di queste pericopi.
/ La domanda “che cercate” può sembrare banale. Ci accorgiamo di un significato profondo. Un
capolavoro di pedagogia. La ricerca non finisce mai, non è rigidità mentale, ma apertura a lasciarli
guidare permeare dall’incontro con Gesù. Due discepoli hanno avuto l’indicazione “ecco l’agnello
di Dio” e seguono in silenzio. La situazione è imbarazzante, la scena inizia con un disagio. Ecco la
domanda di Gesù.
La risposta “dove abiti?”. Gesù abita nel padre e abitare in Gesù vuol dire abitare nel padre, credere
in Gesù e abitare nei fratelli “amatevi come io vi ho amato”. In una frase apparentemente semplice
c’è il mistero di Gesù “dove abiti?”. Avrebbe voluto essere “possiamo abitare con te?” e Gesù
“venite e vedrete” invita ad abitare con lui per conoscerlo. Abitare con lui vuol dire essere
pienamente in lui, nel suo amore. Un aspetto importante: nei sinottici la sequela si imposta in un
modo diverso. In Mc 1,16-20 o al cap. 2 è diverso. “che cercate?” è un po’ la cornice di tutto il
vangelo di Giovanni. Al 20,15 Gesù domanda alla maddalena “chi cerchi?”. Cosa cercavano?

54
Qualcosa inerente il messia, un maestro superiore. Non c’è ancora una ricerca personale. In Maria
c’è la ricerca di lui.
All’interno di questo relazionarsi con Gesù ci sono parole importanti. Il primo tempo è l’esperienza
dell’ “abitare”. Iniziale familiarità, entrare là dove Gesù abita con il padre. Solo in questa ragione ci
può essere la risposta alla chiamata.
Il cambio del nome. L’appellativo di Pietro è un fulmine, è un cambio di destino, una progettualità
nuova alla quale ti devi conformare. Sembra meno graduale dell’esperienza Quel “subito” di cui
parlano i sinottici è un dopo essere avvolti dal mistero. cui ti conduce un dimorare. L’esperienza di
Filippo è ancora più diretta: “seguimi!” che è un appellativo interiore.
Un quarto tipo di esperienza, più profetica è quella di Natanaele che comprende che qualcuno lo
conosce a fondo più di quanto lui stesso si conosca. Ci possiamo domandare cosa significa questo
linguaggio non verbale. Natanaele comunque si sente completamente scoperto.
Queste quattro tipologie ci dicono che l’esperienza di Gesù si trasmette per un passaparola. La
modalità dell’incontro corrisponde alla tua tipologia, al tuo modo di essere. L’incontro concreto
porta a una professione di fede. A un mettersi in gioco, a un riconoscere “tu sei il figlio di Dio, il re
di Israele”. Nessuno esaurisce il mistero del logos fatto carne. Per il battista è l’agnello di Dio, per i
primi due discepoli è il maestro, per Andrea è il messia. Per Filippo è colui di cui hanno parlato i
profeti. Natanaele lo ammira come figlio di Dio e re di Israele. Anche Gesù stesso si da un titolo
“figlio dell’uomo”. Anche altri titoli dati dal battista: colui che era prima, colui che è abitato dallo
spirito, colui che battezza nello spirito. Ognuno con la sua sensibilità contribuisce a illuminare la
persona di Gesù, affermazioni maturate dallo starci vicino, dalla relazione. La fede della comunità
si consolida attraverso l’esperienza di ciascuno. Oltre l’aspetto della sequela personale c’è il
costituirsi di una comunità di discepoli in cui c’è il confronto di dubbi e di stupore.
Il battista è colui che inizia questo orientamento verso Gesù. Nella prima coppia “che
cercate..venite e vedrete” ci dice che la scoperta della identità di Gesù è data solo a coloro che si
mettono in cammino sulla via del suo esodo e si mette in relazione con Gesù. Chi ha il cuore
inquieto e si mette in ricerca supera i falsi giudizi e le insicurezze che ci sono in tutti questi
personaggi. In questi incontri giochi di sguardi e poi di parole. Ognuno di questi protagonisti segue
una strada personale ma non assolutizza la propria scoperta, ogni punto di vista viene condiviso.
Gesù alla fine “vedrete cose maggiori di queste” una frase che riassume tutte le esperienze “vedrete
il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul figlio dell’uomo”. Fa riferimento alla scala di
Giacobbe con gli angeli che salgono e scendono.
Giovanni evangelista conosce questa tradizione e se ne appropria. 2,11 sarà la prima interpretazione
di questa scala di Giacobbe. Cana come il Sinai, Cana come il nuovo tempio (cf. la purificazione).

55
30.10.08
Cana di galilea 2,1-12
Cana a nord di Nazareth. Si discute la collocazione geografica tra Kefar Cana e Kirbet Cana, vicino
a Iotapata. Una struttura di eventi che la avvicinano al Sinai (Es 19,11 come Mosé mostrò la sua
gloria così Gesù ) e alla Pasqua.
Al v. 4 Gesù ha l’articolo. Uno anaforico: riprende tutto quello che di Gesù è stato detto fino a quel
momento. Al v. 9 gegemenenon è un perfetto: azione compiuta che continua a mantenere il suo
effetto sul presente: l’acqua è diventata vino.

v. 1 Il terzo giorno di Cana fa parte di una scansione di giorni di sette giorni. Forse Giovanni si
ispira a una antica tradizione giudaica che distribuiva i fatti del Sinai in una serie di giorni. In Es
19,1 la teofania del Sinai “nel terzo mese dall’uscita degli israeliti …proprio in quel giorno” ; in Es
19,10-11.16 “va dal popolo e si purifichino oggi e domani e si tengano pronti per il terzo giorno,
[… ] ora al terzo giorno sul far del mattino…” nella traduzione giudaica la rivelazione del Sinai è
data da una scansione di giorni e il più importante è il terzo giorno. Il terzo giorno avviene la
rivelazione. Diversi rabbini la distribuiscono in sette giorni. Il Targum gerosolomitano in 8 giorni. Il
modello letterario dietro a questo “giorno terzo” è quello esodico. Qualunque sia la scansione: il
terzo giorno è quello della rivelazione.
Matteo dice “sei giorni dopo” Luca “circa otto giorni dopo”- molto legati alla rivelazione Sinaitica e
al contesto pasquale. È la famosa tematica emerologica.
Al terzo mese, al terzo giorno. Cana è presentato alla stregua dei fatti del Sinai. Una rivelazione,
una teofania. Giovanni si riferisce anche al terzo giorno della resurrezione. Poco più avanti
“distruggete questo tempio e in tre giorni lo riedificherò”. Anche per Giovanni il terzo giorno è
quello della resurrezione. In 1Cor 15 “vi ho trasmesso […] fu sepolto è resuscitato il terzo giorno”.
In Gv poi, oltre al legame con il tema della pasqua, la formula del terzo giorno sta in relazione
all’ “ora di Gesù”. Gesù risponde alla madre “l’ora mia ancora non è venuta”. L’evangelista correla
il segno con il terzo giorno e l’ora di Gesù che è un tema dominante nel vangelo. In 13,1 “sapendo
che era giunta la sua ora”. Il tema dell’ ora (7,30; 8,30; definitivamente compiuta quando Gv dice e
da quell’ora la prese ….: Tetelestoi/ tutto è compiuto 19,) fa riferimento alla passione e morte e
risurrezione di Gesù. Si esprime un andamento drammatico del vangelo.

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Legato il tema dell’ora anche con quello della gloria: “in quell’ora” nella glorificazione il padre
rivela la gloria del figlio, la verità della sua rivelazione. “padre glorifica il tuo figlio affinché il
figlio glorifichi te”. Anche qui “riconobbero la sua gloria e credettero in lui” si dice dei discepoli.
Con l’ora si parla dunque della passione e anche della gloria.
14,20, 16,23 – in quel giorno. È il giorno della morte e risurrezione di Cristo. Gv 14, 18-20: in quel
giorno voi saprete che io sono”- il giorno della perfetta rivelazione, in cui si realizza il mistero della
salvezza. I discepoli in quel giorno, prendono coscienza del loro legame con Gesù.
Corre un filo d’oro, tra il terzo giorno del Sinai, di Cana e passione, morte risurrezione: I segni
compiuti da Gesù vanno compresi alla luce di questo filo.

Al v. 51 si parlava degli angeli che salgono e scendono e si disse che si riferiscono al Sinai oppure
al tempio.
Le interpretazioni di quel passo da parte dei rabbini sono due una al Sinai, l’altra al culto del
tempio. La scala è comunicazione tra cielo e terra. La prima interpretazione è che gli angeli che
salgono e scendono sono Mosè e Aronne che salgono il monte Sinai per portare l’alleanza.
La seconda interpretazione degli angeli che salgono e scendono sono i sacerdoti che salgono al
tempio per i sacrifici. Anche questa ripresa in cap 2. Quindi in Cana si riattualizza sia Sinai che
tempio, nuova alleanza e nuovo culto. Giovanni conosce le due interpretazioni: comincia con quella
sinaitica e poi con quella del tempio. Il VINO di Cana è l’equivalente della Rivelazione della
TORA sul Sinai.

A conferma di questo al versetto 5b troviamo “qualunque cosa vi dirà fatelo”. Si riferisce Gn 41,55
quello che il faraone diceva “andate da Giuseppe, quanto egli vi dirà fatelo”. Ma anche i testi in cui
il popolo stipula il patto “quanto il Signore ha detto lo faremo:Es 19” Tutto il popolo promette
obbedienza al JHWH. Anche nel rinnovamento del patto a Sichem (Es 24) si ripete “quanto il
Signore ha detto noi lo faremo e lo ascolteremo”. Due punti:
Il mediatore, Mosè, oppure un profeta (Geremia) un capo del popolo (Giosia) non è neutrale,
prende parte, cerca di convincere il popolo. Il mediatore sta tra Dio e il popolo.
La risposta del popolo è di grande importanza. Una espressione simile si trova 12 volte nella
scrittura e riguarda il patto del Sinai o il suo rinnovamento. La risposta è Differente nei termini ma
uguale nella sostanza (Es 19,3-6; In Sichem).
Es 8 e anche in Es 24 trovano eco in quanto dice Maria. A Cana Maria si tiene tra Gesù e i servi, fa
da mediatrice, e dice a loro di fare quello che vi dirà. Qui anticipazione di quanto avviene sotto la

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croce. Inoltre il mediatore nell’antico testamento non era un personaggio neutro, prima degli altri
aderisce alla volontà di Dio, come succede anche qui a Cana.
A Sinai il dono della legge avviene dopo questa promessa del popolo, anche qui a Cana il dono del
vino buono avviene dopo, perché preceduto e propiziato dalla fede di Maria.
Se letto alla teofania del Sinai – si comprende perché Gesù si riferisce a Maia col titolo DONNA.
Perché Gesù si rivolge con il titolo “donna”. Non era usuale questo modo di rivolgersi alla madre.
Giovanni pone sulle labbra di Maria quanto la comunità emise sul Sinai. Stretto legame tra popolo
di Israele e Messia. Donna è la versione giovannea del lucano “Figlia di Sion”: è un titolo
ecclesiologico. La donna nell’antico testamento è segno del popolo che incontra il suo Dio. È una
investitura del ruolo di nuovo popolo di Dio, ruolo ecclesiologico. Il ruolo della donna è quello di
sposa e di madre. Così è presentata Maria, il nuovo popolo.
L’invito di Maria alle NOZZE di Cana è il suo testamento spirituale. Maria non parla più, ma ha già
detto tutto in queste parole. Il tema della nuzialità è molto importante. L’attesa messianica è quella
dell’attesa dello sposo. Il suo compito non è di aprire le finestre quando sembra che Cristo abbia
chiuso la porta, ma quello di spingere i fedeli ad aprirsi al Signore. Donna si riferisce anche alla
“figlia di Sion”.Gesù parla sempre di donna: la prostituta, la samaritana, l’adultera, la Maddalena.
-Il VINO. Un altro aspetto da chiarire in questo brano è il valore e la portata del VINO. Il termine
compare 5 volte in pochi versetti. C’è una enfasi letteraria sul termine inoltre sulla quantità un
metrete è dai 40 agli 80 litri e dunque ne viene prodotto una quantità enorme e anche di qualità
buona. Tutto porta a dare importanza a questo elemento. Quale simbolismo in questo segno?
Quantità, qualità, pienezza (fino sopra). L’evangelista suggerisce di vedere nel vino il simbolo della
Parola di Cristo, della Nuova Legge, dell’Evangelo.
San Agostino “il vino buono è l’Evangelo”.
Anche Bultmann afferma questo: il vino è l’evangelo, è Gesù stesso.
Possiamo infatti fare una retrospettiva, perché se la prospettiva è vera ha un sottofondo nell’AT.
Nell’AT e in tutti i paesi del medioriente il vino ha significato l’era escatologica messianica. Am
9,13 le colline traboccheranno mosto, nell’era messianica. Tanto vino da infradiciare le montagne.
Gl 2,24. Di questo vino si presentano due qualità: sopraffina “vini grevi, raffinati” Is 25. “In quel
giorno il grano farà crescere i ragazzi e il vino renderà fiorenti le ragazze” in Zc 9,17 .
Secondo aspetto è la gratuità Is 55,1, “vino e latte senza spesa”. In Os 2,21 Is 62,5 si parla di
nozze tra Dio e il popolo. In Osea si parla di vino e grano e olio, abbondanza, qualità e gratuità
legate alle nozze. Anche in Isaia si parla ancora di vino. Bontà sopraffina, gratuità e collegamento
con la nuzialità dunque nel tema escatologico del vino. VINO legato alla NUZIALITA’.
Nel mondo targumico dei rabbini questi tratti vengono accentuati ancora di più.

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Nel NT si collega il tema del vino con il tema del Regno e della Nuova Alleanza. In Mc 14,25 “in
verità non berrò più del frutto della vite fino a quel giorno in cui lo berrò nuovo nel Regno di Dio”.
L’opinione che nell’era messianica avvenisse una produzione eccezionale di vino era diffusa nel
AT.
Si trova poi il raffronto con la Parola di Dio: Ger 23,9 (come chi beve fino a causa di IHWH e
della sua parola) e poi Prv 9,2.5: la sapienza mesce il vino. Questi versetti fanno riferimento al
vino come alla Torah. Melchisedek avrebbe istruito Abramo nella Torah quando gli offre pane e
Vino. Nel Cantico 2,4 “egli mi ha introdotto nella cella del vino” qualcuno lo ha riferito al monte
Sinai: cantina del vino, cantina della Torah. Per altri il vino è simbolo dello spirito.
Il vino dunque è la parola di Cristo, la sua rivelazione, il suo vangelo. La parola di Gesù è la verità.
Le nozze di Cana sono il segno della rivelazione di Gesù.
-A conferma di questa interpretazione vedi il v. 10 “il maestro di tavola … tu hai conservato il vino
nuovo fino ad adesso” il verbo conservare/custodire, tetelekas-thereo, è quello che si usa per la
parola di Dio. Maria conservava (thereo) nel suo cuore la parola di Dio.
-Inoltre, si dice che il vino si trae dall’acqua delle idrie che era l’acqua della purificazione: non
profana dunque ma rituale. Lavandosi le mani venivano mondati dalle impurità contratte. Mc 7
parla di queste tradizioni rituali. Proprio quest’acqua viene mutata in vino, a significare che la
purificazione non viene più dall’osservanza della legge mosaica (simboleggiata dall’acqua):
contenitori vuoti (Ger 31,31 pietra), ma dalla parola di Cristo (simboleggiata dall’acqua che è
migliore. La torah non può più purificare, il vino sì. Cap. 15,3 i discepoli sono mondi (katharsimon
-la stesa parola che qui si usa per purificare qui) per la parola annunciata. Il vino che è la Parola
purifica. Gesù è verità e libera i discepoli dalla schiavitù del peccato. Chi dimora in Gesù santifica
se stesso. Il vino di Cana è simbolo della rivelazione escatologica di Cristo. A conferma il contesto
precedente “colui del quale scrissero i profeti” dice Filippo a Natanaele. “dalla sua pienezza …
grazia su grazia” nel prologo.
Gesù ordina di riempire fino all’orlo. La sua parola, di Cristo, è pienezza. Quella di Cristo è una
pienezza che si aggiunge ad una misura precedente: alla Antica Alleanza venuta meno. L’economia
della Legge mosaica è superata in qualità dalla parola di Cristo. Il vino di Gesù è di qualità
superiore rispetto al vino precedente: come riconosce il maestro di tavola.
Quello che avviene a Cana è un preludio. Gesù è più grande di Giacobbe si dice al brano della
samaritana. “colui che era prima di me” dice Giovanni battista. Ora in Cristo è iniziata l’era
escatologica. Il vino buono è servito alla fine.

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Il vino va messo in collegamento con il III Giorno e l’ORA. Il vino è segno del mistero che si
compirà sulla croce e sotto la croce. Il tema delle nozze è legato al tema messianico. Giovanni svela
la nuova alleanza in Gesù.
-La vergine è presentata come “madre di Gesù” e “donna”. Più che col nome proprio con il ruolo
che svolge. Gv 19,25 – fa inclusione con la “donna” di Cana. L’ultimo dono di Gesù sulla croce
sarà il dono della maternità di Maria in ordine alla fede del discepolo.
-“non hanno vino” – il testo suggerisce che non è che Maria vuole solo descrivere la situazione, ma
è andata apposta da Gesù per dirglielo. Le donne stanno da una parte e gli uomini dall’altra nelle
nozze.
-“che c’è tra me e te o donna”. Questa frase può esprimere accordo o disaccordo, tra due o più
persone. L’accordo (tra me e te non c’è nulla: dunque siamo d’accordo). Il disaccordo è meglio
documentato, almeno nel greco profano (HAI FORSE MAGIATO NEL MIO PIATTO). Nell’AT
10 volte e nel NT 5 volte ed esprime sempre una divergenza tra punti di vista. Questa frase è usata
dagli indemoniati “che c’è tra noi e te … sei venuto a rovinarci”. Si deve tenere conto della tematica
dell’ora e del vino.
La divergenza tra Gesù e la madre è che la Madre parla del vino della tavola, Gesù parla del vino
escatologico. La risposta di Gesù sembra un invito a Maria ad andare oltre il significato materiale. Il
ti riferito al vino: cos’è per te il vino e cos’è per me. Come se dicesse: Mamma forse non lo sai ma
chiedendomi il vino mi chiedi di dare la vita. Maria non lo sa ma chiedendogli il vino gli chiede il
dono della vita, il dono di sé stesso. Gesù invita a fare il passaggio dalla cose materiali a quelle
spirituali. Lo farà anche con la samaritana e con i discepoli.
“Il maestro di tavola non sapeva di dove venisse”. “di dove” assume una connotazione messianica.
Cela e svela l’origine di Gesù: lui viene dal padre. In 9,29 “non sappiamo di dove sia… eppure mi
ha aperto gli occhi”. Solo chi osserva la parola di Gesù arriva a comprendere l’origine di Gesù e lui
stesso. Solo coloro che ascoltano la parola e obbediscono arrivano a conoscere l’identità di Gesù e il
“di dove” viene che è il padre. La tematica del DOVE? Nicodemo, Samaritana (4,10); 6,41
sappiamo di dove sia; 7,26 -2X. Dove – il mistero della provenienza di Gesù. Il non sapere la sua
origine, significa non sapere chi è.
“ma lo sapevano i diaconi …”- in 14,21: chi accogli i miei comandamenti e li osserva questi mi ama
e…,: si può sapere chi è solo ascoltando e obbedendo alla sua parola. È un affermazione immensa.
È una realtà profonda. L’identità è dischiusa a chi ascolta. Altrimenti si fa la fine del maestro di
tavola: gioisce, fa complimenti ma è un ebete che non capisce!!!!

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Ciò che dice però il maestro di tavola ci fa capire che il vero sposo è Gesù. Il battista infatti è
l’amico dello sposo. In Ap 21: la sua sposa è pronta. La Gerusalemme scende dal cielo pronta come
una sposa. La parabola del Regno in termini di nozze Mt 22,1-15.
Il racconto di cana ci porta a parlare dei due testamenti. Il nuovo testamento non mette da parte
l’antico, ma l’antico è divenuto nuovo. La realtà trasformante della parola.
“così Gesù fece il primo (arché) dei segni in Cana di Galilea”. È il segno archetipo, tutti gli altri
segni si rifaranno a questo esplicitandolo ulteriormente. Archè = che Cana è l’archetipo di tutto, è lo
stampino a cui bisogna riferissi; è simile all’en archè del Prologo.
Perché Giovanni parla di segni e non miracoli? I miracoli secondo i sinottici sono prodigi che
producono lo stupore e aprono alla fede. Invece il segno chiede una dialogicità, ti pone delle
domande e ti conduce a scoprire l’identità di Cristo.
Il testo termina dicendo “manifestò (fanero) la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”. Al cap
21,1 c’è inclusione con questo “manifestò la sua gloria”. La gloria è manifestazione della divinità.
Tutte le manifestazioni avvengono con la modalità di Cana: l’archetipo. Significa penetrare il
segno. In questo primo segno c’è la rivelazione di chi è Gesù. C’è il verbo fanerow. La
caratteristica dei verbi in ow in greco è di essere causativi: la conoscibilità del fatto non sta nel
soggetto che è spettatore, ma in colui che si manifesta. La visibilità della gloria è data dalla
rivelazione di colui che si rivela, non nella capacità di chi accoglie la rivelazione. Quindi si rende
visibile in modo conoscibile dall’altro. Vedi similitudine il verbo Karitow: Hai trovato grazia: Dio
che guarda con atteggiamento di karis: il suo sguardo è trasformante efficace, la rende graziosa. In
Ef 1,6 karitow si dice di tutti i credenti. L’azione di Dio è causativa quindi. Le giare di pietra: il
riferimento al cuore di pietra da trasformare in cuore di carne.
Perché Maria si accorge che manca il vino? Perché solo chi serve si accorge di ciò che manca.
Maria stava servendo ed è per questo che ella si accorge. Maria ci lascia come un testamento
spirituale in queste parole. Non dice altro. Maria anche immagine della chiesa, anche per la
relazione con i servi. “qualunque cosa vi dica fatela”. Queste parole in Maria nascono da una
situazione di prova, di dolore, non da euforia. Maria esprime l’invito con tranquillità ma nasconde
la sofferenza della donna sirofenicia che gli chiede un intervento “non sono stato inviato che alle
pecore perdute della casa di Israele” che è come uno schiaffo. Maria rivisita i rifiuti che nei vangeli
ci sono alle domande rivolte a Gesù: il centurione, il funzionario regio. Maria non si indispettisce al
rifiuto. Da prova di una fede profonda. È come se dicesse, malgrado l’apparente rifiuto si affida e
invita ad affidarsi. Questa espressione nasce da una inclinazione profonda del cuore. Cap. 12
“camminate mentre avete la luce perché la notte non vi sorprenda”. La notte ci sarà! Maria dice
“siate pronti a fare tutto quello che vi dice, anche se non lo comprendete, come ho fatto io.”

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Esprime la certezza che Dio non abbandona i suoi figli che sono i condizione disagiata, più o meno
grande. E per questi sposi era importante. Nel cuore di maria c’è la speranza che Dio non delude,
perché Dio è soluzione alle situazioni chiuse della storia. Fate quello che vi dirà nasce anche da uno
spirito molto pratico. Anche noi clericali abbiamo il rischio di ridurre tutto a chiacchiere, Maria non
chiede di discutere, ma di “fare”. Non è l’attivismo, ma il vivere il mistero. “Non chi dice Signore,
signore, ma chi fa la volontà …”, è uno spirito pratico, operativo. Maria era a servire. Le parole di
Maria sono una domanda per la chiesa. La prova del silenzio di Dio. Le amarezze, le ingiustizie, ci
fanno arrivare a dire “ma Dio c’è?”. La reazione di Maria è di grande fede. Alla risposta del Signore
potrebbe nascere sospetto, permalosità. Maria può invitare a fare quello che Dio vuole perché lei lo
sta facendo. Il mio progetto è lui, la mia parola è lui, è come se dicesse Maria. A livello
ecclesiologico queste parole sono molto concrete. Maria è anche immagine chiara della chiesa,
perché non raccorda a se ma al suo figlio. Maria coinvolge i diaconi, rimanda all’ascolto e al fare
che deriva dall’ascolto.
-dopo queste cose. L’essere stati irradiati dalla rivelazione permette di camminare insieme in
pellegrinaggio verso la meta.

04.11.2008
Saggio di Mariologia.
Fate quello che vi dirà: Maria non parla da un momento di entusiasmo, ma nasconde la sofferenza
nascosta, di chi si è sentito rispondere con una frase molto forte. Le parole esprimono il
superamento di un momento di prova da Parte di Dio. Certe parole non si improvvisano se prima
non sono state fatte proprie. Al momento dell’annunciazione aveva detto: si faccia di me secondo la
tua parola. Ora invita gli altri a fare altrettanto, perché è la prima che si è messa in gioco.
Il testo greco è forte: “qualunque cosa vi dica”, Maria non sa cosa farà Gesù, ma lei si affida. Gesù
è la speranza che non delude. Dalla speranza nascono le parlo di Maria ai servi.
Le parole fate quello che vi dirà, è segno chiaro della sua praticità. Non dice valutate esaminate ecc:
essa sa che non chiunque dice Signore Signore, ma ci fa la volontà del Padre entrerà nel regno dei
cieli. Ci descrive la verità dell’uomo.
Maria per prima ha attraversato l’esperienza dell’uomo e può aiutare gli altri a fare altrettanto: per
questo sulla croce lei viene data come Madre, dell’uomo, dell’umanità. Il Si di Maria compie fuori
di sé il senso di sé: fate quello che vi dirà perché io l’ho fatto. Il mio progetto è il suo progetto, solo
bisogna fidarsi.
Maria qui ci dice che se uno fa quello che dice Gesù – c’è sempre una via di uscita, per una
situazione difficile personale o ecclesiale. Maria invita i servi allo spirito pratico: fate e non

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discutete troppo. Non tavole rotonde a non finire, ma lo spirito di servizio che tende alla
compassione e all’operatività. È un invito a vivere l’esperienza dell’eucaristia: il fate questo in
memoria di me, e anche la lavanda dei piedi.
Si accorge che manca il vino perché lei serve, ma anche perché lei possiede questo vino che è la
Parola di Dio, la grazia. Marie è capace di suscitare collaborazione, di coinvolgere nella vita
ecclesiale. Poteva benissimo fare tutto da sé, ma chiede collaborazione.

Cap 2 la cacciata dei venditori dal tempio.


In 2,13-22 la seconda attualizzazione del Sinai: quella del tempio dove gli angeli sono i sacerdoti
che salgono e scendono le scale. A Cana è stata annunciata la nuova alleanza che si compirà con la
sua ora. A Cana si parla della torah.
Ora si affronta l’altra grande realtà, l’altro polmone dell’ebraismo: il tempio. Nelle feste e nel culto,
la presenza di Gesù produce sempre tensione. Già nel prologo si dice che la gloria di Dio splendeva
in Cristo, come in una tenda, non in un tempio. Il culto dispiegava le sue cerimonie soprattutto nelle
feste. Si nota che tutte le volte che Gesù si trova nel tempio si creano frizioni, come una realtà che
non si può amalgamare: due realtà diverse. Gesù è il nuovo tempio. Le grandi polemiche si
sviluppano nel tempio. Il compito di Gesù è condurre gli uomini fuori del tempio. Ed è questo il
motivo almeno nominale della sua condanna.
Struttura della pericope:
Al v13 occasione il viaggio di Gesù.
l’operato di Gesù al tempio 14-16
17 prima interpretazione dei discepoli
18-21, la reazione delle autorità con la sfida di Gesù.
v.22 – la successiva lettura dei discepoli ad opera dello Spirito che insegna e ricorda ai discepoli.

“era prossima la pasqua dei giudei e Gesù salì a Gerusalemme”: questa è la prima delle 3 pasque,
poi in 6,4 (pane di vita) e in 11,55 quella della resurrezione di Lazzaro.
Era già imposto l’obbligo di sacrificare l’agnello nel tempio a tutti gli israeliti che avevano fatto la
bar-mizpà a 12 anni dovevano partecipare. All’epoca di Gesù gli abitanti di Gerusalemme erano
50000 che arrivavano a 120000 a pasqua. Fino a 13000 agnelli sgozzati a pasqua. La pasqua era il
momento propizio per la esaltazione nazionalistica, vedi nell’anno 6 la rivolta di Giuda il Galileo.
“festa dei giudei” non si trova mai nel Antico testamento, c’è un senso dispregiativo, come se

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questa festa non appartenesse più al Signore né ai cristiani. Non è la festa dei cristiani. (cf. 5,1 e
6,4). Ogni festa dei giudei scatena un conflitto tra le autorità e Gesù.
La pasqua in origine la festa della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, è diventata invece festa
nazionale. Dicendo “dei giudei” sembra diventata una schiavitù, non più una liberazione. Gli
oppressori non sono i romani, ma le autorità del popolo. Gesù vuole liberare da questa oppressione
politico religiosa, e farlo entrare nella terra promessa.
Il gesto di Gesù non è quello di un buono e mito riformatore, ma un gesto forte.
Giovanni pone questo Gesto all’inizio del ministero pubblico di Gesù.
La narrazione del viaggio è accelerata. Viene descritto il clima che si trova nel tempio: commercio.
C’erano le licenze per le varie bancarelle che dovevano essere comprate dal sommo sacerdote. Gesù
sceglie per la sua rivelazione qualcosa di eclatante. Tocca il cuore del giudaismo. Il messia era
rappresentato con in mano un flagello, per questo “fece una sferza di cordicelle”. Uno dei compiti
del germoglio in Isaia era di rigenerare il culto. “cacciò tutti dal tempio”. Il gesto di Gesù si
inserisce nella denuncia dei profeti rispetto al culto. Qui Giovanni ci dice qualcosa di più: Gesù
espelle dal tempio la materia del sacrificio: il culto diventa incapace di continuare il proprio ruolo.
Gesù espelle i buoi e le pecore. Le pecore saranno figura del popolo. Al cap. 10 il buon pastore
conduce fuori dal recinto le pecore: libera dalla schiavitù del mondo politico e religioso del tempio.
Le vere vittime non sono le pecore ma il popolo che è saccheggiato dal ladrocinio continuo. Il
mercenario ruba, sfrutta le pecore. Gesù tocca il sistema nevralgico del tempio.

Il tempio era il simbolo del potere religioso e della nazione di Israele. Se nel prologo abbiamo visto
che la parola è divenuta uomo ed è la nuova tenda. Chiaramente il segno del tempio deve essere
abolito perché c’è la nuova tenda che è Gesù Cristo. Il tempio era il luogo della presenza di Dio, ma
anche la sede del potere religioso e politico: gran sinedrio. Il culto si rendeva visibile soprattutto
nelle feste. In Giovanni si menzionano 6 feste. Ogni volta che Gesù viene a una festa c’è sempre un
conflitto tra Gesù e i giudei nel tempio. Contenitori vecchi e vino nuovo non vanno d’accordo. Le
grandi polemiche coi giudei si svolgono nel tempio. Farà parte della missione di Gesù di condurre
gli uomini fuori del tempio. Gesù è considerato un pericolo per il tempio e la nazione: 11,48.
L’abolizione del tempio per Giovanni non significa riforma del culto antico ma sua fine. Nuova
parola e nuovo tempio, nuova presenza.
v. 2,13 occasione del viaggio di Gesù. V. 14-16 una prima interpretazione erronea dei discepoli. V
18-21 reazione dei dirigenti e contro reazione di Gesù.
v. 13. “era prossima la pasqua dei giudei”. La prima di tre pasque: 6,4 11,55. La pasqua una delle
feste di pellegrinaggio, la più importante. Era una festa familiare, ma con la centralizzazione del

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culto era obbligo sopra 12 anni a sacrificare nel tempio a pasqua. La riunificazione del culto è opera
di Giosia nel 621. Prima di allora c’erano vari templi con il culto sacrificale. Per la pasqua
accorrevano a Gerusalemme i giudei dall’estero, dalla diaspora. Si pensa che all’epoca di Gesù
Gerusalemme contasse 50000 abitanti che con la pasqua salivano a 120000. Il totale di 13000
vittime sacrificali. Un vero macello. L’anno 6dc fù l’occasione di una sommossa. L’espressione
usuale in Giovanni “la pasqua dei giudei” è intenzionale, non si trova in AT che parla di pasqua o
festa del signore. Qui ha senso peggiorativo, come anche “i giudei”. Una festa utilizzata dalle
autorità, non è più la festa dei credenti in cristo. Era la fine della schiavitù e la fondazione di Israele
come popolo. Ma la denominazione “dei giudei” la rende una festa del regime oppressore, di coloro
che dominano il popolo per i propri interesse. Gesù salvatore, liberatore, deve ricondurre il popolo
verso un nuovo esodo.

Esegesi.
v. 14 “trovò nel tempio i venditori di buoi, pecore e colombe e i cambiavalute che vi si erano
installati (seduti)”. Si elenca tutto questo per dare l’idea di ciò che c’era nel tempio. Gesù non
incontra gente che cerca Dio ma che fa commercio. Il viaggio è riassunto, c’è come una
accelerazione. Si passa dal contesto dell’andare a Gerusalemme all’essere subito nel tempio dando
uno sguardo alla situazione che regnava. Gesù non incontra gente che cerca Dio, ma un commercio.
La festa era un mezzo di lucro per i dirigenti. Un mercato che cominciava 3 settimana prima di
pasqua. Le licenze si compravano dal sommo sacerdote. La potente famiglia di Anna probabilmente
gestiva tutto questo affare. Il commercio degli animali era nelle mani della famiglia del sommo
sacerdote. Gesù occupa il centro della scena, i discepoli osservatori e interpreti. Gesù sceglie
l’occasione del cuore di Israele per manifestare il segno della sua identità.
v. 15 “e avendo formato una specie di flagello di corde …” - il flagello simbolo dei dolori
inaugurali dei tempi messianici. Il messia era rappresentato con il flagello in mano per fustigare i
vizi. Così Gesù si presenta in linea con il testo di Zc 6,12-13 “dice il signore degli eserciti: ecco
l’uomo che si chiama germoglio, spunterà da se e ricostituirà …”. È dunque un segno di
rivelazione che magari il popolo non capiva, ma gli scribi e i rabbini sì.
“… e li cacciò tutti dal tempio, tanto le pecore quanto i buoi”. - Il gesto di Gesù si inserisce nella
denunzia dei profeti verso il culto ipocrita dei sacrifici che andava insieme all’oppressione del
popolo e all’ingiustizia. Un culto che copriva l’ingiustizia e l’oppressione dei poveri. Qui Gesù va
molto oltre i profeti: caccia pecore e buoi, non le persone. Gesù non si limita a denunciare un culto
che vela ingiustizia, ma il culto che è in sé ingiustizia perché gioca sulla religiosità del popolo.
Caccia fuori dal tempo gli animali, la materia del sacrificio. Gesù propone l’abolizione espellendo il

65
materiale del culto: pecore e buoi, costituisce l’impossibilità della continuazione del sacrificio. È
come le giare di Cana che sono vuote. Così facevano i romani che custodivano i paramenti del culto
nella torre Antonia per poterli ricattare. Togliendo il materiale del sacrificio veniva abolito il culto.
Questa frase è in parallelo con 10,4 “quando ha spinto fuori tutte le sue pecore … dell’atrio” ci si
riferisce al tempio. Le pecore sono nel recinto del tempio dove sono macellate e sacrificate. Le
pecore sono anche simbolo del popolo di Dio. Gesù le butta fuori, le conduce fuori, le libera. La
vera materia del sacrificio è il popolo sfruttato. I dirigenti sono mercenari (sono i sacerdoti del
tempio), ma il mercenario ruba e sfrutta. La vera vittima è il popolo.
Ai cambiavalute sparpagliò le monete e rovesciò i banchi. “erano installati” cioè seduti. Il sistema
bancario era stabile nel tempio. Offrivano il sistema di cambiare le monete per poter offrire il
tributo al tempio che non poteva avere l’effige dell’imperatore, e quindi con monete appropriate. Il
gesto di Gesù tocca un punto nevralgico, era il sistema che alimentava la classe dirigente .
Anche alla passione il problema di Kaifa sarà questo.
V 16 “a quelli che vendevano colombe disse: levate tutto questo da qui e non fate della casa …”
Sembra che Gesù li ritenga responsabili della corruzione del tempio, benché siano gli animali
minori. Non apre le gabbie però, gli dice di toglierle. Questa identificazione rende questi venditori
figura della gerarchia sacerdotale.
La colomba era l’animale usato negli olocausti di propiziazione (Lev 1,14-17) di purificazione e di
espiazione (Lev 12,8 15,14) erano soprattutto i poveri a offrirle (Lev 5,7 14,22). Erano modi per
riconciliarsi con Dio e propiziarsi Dio. Qui si incontra lo stesso tema di Cana con le giare. Il
sacrificio delle colombe rientra nella purificazione dei giudei, come le giare: i venditori di colombe
sono coloro che offrono per denaro la riconciliazione di Dio, rappresentano le gerarchie
sacerdotali che commerciano il favore di Dio. Come a Cana il vino dello Spirito e della Parola si
oppone alle giare vuote, così a Gerusalemme le colombe sacrificali si oppongono allo Spirito di Dio
“grazia su grazia”. La gerarchia del tempo sfruttava soprattutto i poveri offrendo loro per denaro dei
presunti favori di Dio.
Gesù non fa azione ma gli si rivolge accusandoli di sfruttare il popolo per mezzo del culto, di
ingannare il popolo con la vendita delle cose sacre.
Gesù agisce come figlio in casa del padre. Denota una situazione stabile il ripetuto riferimento alla
casa. La relazione con Dio non è commerciabile, è una relazione come tra padre e figli, non ci
può essere commercio. Il luogo che doveva essere di relazione con Dio è diventato luogo per
sfruttare il popolo da parte dei capi. Lo sfruttamento e l’arricchimento sostituisce la ricerca di Dio.
Parlando della Casa di mio padre - Gesù rimanda alla relazione familiare, domestica con Dio, non
religiosa, desacralizzazione del tempio e sacralizzazione della casa della famiglia. Questo termine

66
desacralizza la relazione con Dio, non più di timore, ma di confidenza. Non si può essere
commercio, tutto appartiene a tutti. “non trasformate…” vuol dire che in origine non era così, non
doveva essere così. È una denuncia forte. È questo il senso di Pasqua dei Giudei.
Per Gesù sembra che il tempio abbia fallito la sua missione storica. Ger 7,22 “io non diedi comando
sul sacrificio …” e Am 5,25. L’ideale è la tenda la shekinà, nel deserto. Quella il segno della
presenza salvifica di Dio nel suo popolo. Nel deserto Dio si è manifestato come salvatore. Il tempio
è diventato una realtà statica, per andarci uno deve spostarsi, invece nella tenda Dio cammina con il
suo popolo, gli viene incontro, lo accompagna. Nella tenda Dio scendeva, mentre nel tempio l’uomo
deve salire. E infatti è sceso: Filippo da tanto tempo sono con voi.
Gesù annunzia, con un gesto profetico, la sua intenzione di condurre la gente (pecore) fuori della
istituzione religiosa che ruba loro e li sfrutta. Gli sfruttatori sono i sacerdoti e i dirigenti giudaici che
trasformano l’immagine di Dio in un tiranno.
V. 17 “i suoi discepoli si ricordarono che stava scritto …”. I discepoli spettatori della scena
interpretano con il sal 69,10. Giovanni adatta il testo sostituendo il passato dei LXX con il futuro
“la passione per la mia casa mi consumerà”. La parola chiave è zelos, interesse, ardore. Nell’AT
Elia sull’Oreb “sono pieno di zelo per il Signore d. Eserciti …”. Lo zelo passione, permettono di
interpretare il gesto di Gesù come quello di un profeta riformatore. “risposero i dirigenti giudei: che
segno ci mostri per poter compiere queste cose?” Reazione anche dei dirigenti. Sembrano non
ascoltare Gesù. Gli chiedono delle credenziali. Partono dall’idea di essere padroni del tempio.lo
vedono come uno intromesso in affari che non li competono. Non pensano neppure che quelle
parole siano vere e non si interessano di quello che compete a loro.
I dirigenti vedono un rivale in Gesù, una sua intromissione volta a sostituirsi alla loro posizione.
Essi mettono subito sul piano giuridico la sua azione.
v. 19 “replicò loro Gesù: sopprimete questo santuario e in tre giorni lo eleverò”. Si parla di
santuario, naos, mentre il recinto è il temenos. Gesù è il santuario. Gesù parla del naos che è il
centro, il santuario.
Gesù da il segno della sua morte come segno. Lo uccideranno ma non riusciranno a distruggerlo.
Usa lyo, sciogliere per indicare il distruggere, non katalyo come i sinottici. Lui lo ricostruirà ma non
è il verbo della edificazione oicodomeo, è il verbo della risurrezione egheiro. Lui è il tempio e la
dimora di Dio, lui è il luogo della preghiera. “dissero allora i dirigenti: 46 anni ci sono voluti e tu lo
eleverai in tre giorni?” loro parlano di oicodomeo si limitano all’edificio, non alla presenza di Dio.
Parla di Naos- che è il santuario, mentre ierw si riferisce a tutto il tempio, spianata e cortili
compresi.
v. 21 “egli però parlava del santuario del suo corpo”.

67
v. 22 I fatti illuminano le parole. I discepoli dopo la morte e resurrezione i discepoli assoceranno
quelle parole a quegli eventi. Questo Giovanni lo può dire a partire alla funzione dello Spirito che
porta a senso l’azione di Gesù e ricordare. La comprensione piena viene nello Spirito.
Gesù si è manifestato, si è rivelato come presenza, inviato del padre. Come ci si pone davanti
alla rivelazione di Gesù. Ci vengono presentate varie tipologie di reazione. Tre personaggi. Alla
fine del capitolo 4 si ritorna a Cana. Cana apre la rivelazione (settimo giorno) e la richiude. Questi
incontri che vengono presentati rappresentano un ribaltamento: chi doveva essere più avvantaggiato
si trova svantaggiato e viceversa. Nicodemo che doveva essere avvantaggiato non arriva alla fede,
l’ufficiale regio invece arriva alla fede, crede alla parola senza vedere. La samaritana una via di
mezzo: crede perché vede un segno di lettura della sua vita. L’ufficiale si mette in moto sulla
parola, prima di vedere la potenza della parola.
Fino alla fine del cap 4 il tema del credere, della fede è centrale.
Dal punto di vista della rivelazione il vangelo si potrebbe chiedere qui: Nuovo tempio, nuova parola
(Cana), nuova Torà e nuovo culto. Ora qui si chiede la adesione di fede che nasce dall’ascolto. Tre
persone diventano i simboli della fede:Nicodemo, Samaritana e Ufficiale regio.

2,23 - 3,21 Nicodemo. Struttura


2,23-3,2 introduzione
3,3-3,10 fede imperfetta di Nicodemo alla quale in 3,22 corrisponde la fede perfetta del
Battista
3, 11-21 discorso di Gesù, un trattato teologico.
3,22-30 – La fede perfetta del battista.
3, 31-36 Segue il discorso dell’evangelista.
Fino a 3,2 una specie di introduzione. Poi fino a 3,10 il dialogo con Nicodemo. Poi Gesù si presenta
come rivelatore del Padre (11-13); la croce come momento culminante della gloria di Gesù (14-15)
e la salvezza e la condanna come logica di conseguenza della fede o incredulità delle parole di Gesù
(16-21).
Credere – 7X e sempre nella bocca di Gesù. La fede è il motivo dominante del brano. Il dialogo si
trasforma in un monologo. Per dare alle dichiarazioni di Gesù un senso universale: valide non solo
per Nicodemo, ma con il lettore di sempre. C’è una sintesi precisa di tutti i temi del vangelo:
11-13 – Gesù rivelatore del Padre
14- 15 - Croce come luogo culminante di gloria
16- Dio si manifesta nell’opera e l’agire di Gesù
16-17 Salvezza e condanna come logica conseguenza della fede o meno in Gesù

68
Introduzione al dialogo.
“mentre era a Gerusalemme … molti credettero vedendo i segni che faceva … conosceva tutti … ciò
che vi era nell’uomo”.
Il testo così come è formulato sembrerebbe che la fede presentata è degna di grande rispetto.
Ma poi si dice che Gesù non si fidava di loro perché li conosceva tutti. Cos’è che non va nella fede
di questa gente. La fede che viene dai segni non va bene?
In 6,15 nel tentativo di nominarlo re si può pensare che gli uomini abbiano un concetto troppo
terreno della fede, si fermano nei significati immediati non della spiritualità. Più che un significato
spirituale vedono l’aspetto materiale dei segni. Non capiscono il linguaggio trascendente dei segni.
Gesù cerca di purificare l’interlocutore da questo atteggiamento.
Nicodemo, fariseo puro sangue, è attratto dai prodigi di Gesù. Abbiamo davvero una introduzione
piena di Nicodemo. Una generica “c’era un uomo” poi di appartenenza “del gruppo dei farisei”, poi
personale “Nicodemo” (colui che vince nel popolo/ oppure popolo vincitore) e poi la carica socio
religiosa “un capo dei farisei, membro del sinedrio”. Una persona qualificata al massimo.
Il v.3,2 ci dice cosa fa. “andò da Gesù di notte e gli disse …”. Venire presso – indica chi si accosta
all’umanità di Gesù: è il venire presso la vede, l’initium fidei. Di notte – rimanda alla notte di
pasqua, della liberazione. Qualcuno pensa alla timidezza, alla possibilità di stare in tranquillità;
Bultmann evoca il mistero della notte; altri pensano al fatto che i rabbini (a Qumran) studiavano di
notte. Ma forse indica la mancanza di sicurezza, il non voler prendere posizione. Ma Gesù o lo
incontri di giorno, nella luce, oppure non lo incontri. La venuta di notte è non solo temporale ma
anche esistenziale. Nicodemo ammira Gesù, ma ancora non lo comprende. L’atteggiamento di
Nicodemo non si distanzia dagli altri giudei.
Degli altri giudei Nicodemo ha la sicurezza “noi sappiamo”. Gesù non si lascia impressionare dagli
apprezzamenti “che vieni da Dio”. Nicodemo ha un compiacere nel fare queste affermazioni da
sapiente che ha capito, vuole distinguersi dalla marmaglia che non capisce. Qualcuno pensa ad una
captatio benevolentiae, ma non sembra reale.
Maestro noi sappiamo – Un maestro, ma Gesù è IL maestro. Nicodemo pensa di vedere e vedere
bene, invece è cieco ancora, è nelle tenebre. Giovanni sottolinea questo fatto nella circostanza che
“andò da Gesù di notte”. Di notte perché era comune tra i rabbini dedicarsi allo studio della
scrittura durante la notte. Anche gli esseni lo facevano un’ora durante la notte. C’è chi dice che la
notte indica la timidezza di Nicodemo che non vuole compromettersi davanti al proprio gruppo di
appartenenza. Al cap. 7 Giovanni ci dice che prenderà coraggio. La notte può avere un significato di
inadeguatezza della fede: Gesù è la luce, lui è ancora nella notte. Sono possibili vari significati. La

69
notte forse è ancora nell’animo di Nicodemo, lui non ha ancora riconosciuto la luce. Anche per
Giuda si dice che uscì “ed era notte”.
“sappiamo che sei da parte di Dio venuto come maestro, nessuno può fare questi segni che tu fai se
Dio non è con lui”. Kierkegaard dice che Nicodemo è ammiratore ma non imitatore di Gesù. Non è
solo rabbi, ma la Parola; Dio, non solo inviato di Dio. Questa illusoria certezza “sappiamo” viene
delusa da Gesù. Con molta ironia Gesù li dirà: come tu sei maestro in Israele e non sai queste cose?
La certezza di sapere è sgretolata dalle sue stesse parole. Sembra un dialogo tra sordi: Nicodemo
vuole portare Gesù dalla sua, e Nicodemo dalla sua. Infatti Gesù non risponde, Si è vero oppure no,
sposta tutto:
“In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto non può vedere il regno di Dio.”
Nei vv. 3-10 viene indicata la necessità di rinascere dall’alto per vedere, rinascere dall’acqua e dallo
spirito per entrare nel regno. Questa è la cosa importante. Nicodemo vuole imporre uno schema
prefabbricato. Gesù invece cerca di aprirgli gli occhi: deve aprirsi alla novità di Dio, farsi
riplasmare.
Chiave cristologica: per regno di Dio si intenderebbe il regno presente e operante nella persona di
Gesù. Vedere e entrare implicano una adesione di fede: entrare in comunione con Gesù. Lui è il
regno. A pilato dirà “io sono re” e si entra nel regno nell’ascolto della sua voce. Questa
interpretazione si appoggia anche ai sinottici nei testi che collegano il regno di Dio con la persona
di Gesù. In Mc 9,1 e Lc 9,27 “finché non avranno visto …” in Mt 16,18 “finche non avranno visto il
fdu venire con il regno”. Lc 18,29 per amore del regno abbandono di tutto. Mc 10,29 abbandono per
amore mio. Mc 11,10 benedetto il regno che viene: Lc 19,38 benedetto colui che viene, il Re. Allora
il regno di Dio si identifica come presenza che opera nella persona di Gesù. Vedere ed entrare
implicano l’adesione di fede. Nascere dall’alto è vedere il regno di Dio: due cose importantissime
per la teologia.
“nascere dall’alto” al v. 3 e 7: anothen = dall’alto, può significare anche “di nuovo” oltre che
“dall’alto”, cioè da Dio: senso questo tenuto dai padri greci. E questo è confermato dal vocabolario
di Giovanni che nel prologo usa l’espressione “nascere da Dio” (1,16) “non da sangue ma da Dio
sono stati generati”. Inoltre nascere anothen è in parallelo al nascere dallo spirito dei v. 5 e 8. Se
questa interpretazione è corretta si deve affermare che l’uomo per aderire a Gesù è tenuto a lasciarsi
generare da Dio. È vero, la fede viene da Dio. Bisogna che Dio operi una nuova nascita di ordine
soprannaturale. A partire da zero, ribassare la propria esistenza su un principio ispiratore diverso.
L’interpretazione più comune ci dice che Nicodemo non c’ha capito nulla. “come può accadere
questo? Come può un uomo nascere quando è vecchio?” Nicodemo fa finta di non capire e nopn
vuole accettare la proposta di Gesù. Nicodemo è vecchio, non può ricominciare daccapo. Mentre

70
Gesù parla di realtà divine che non hanno a che vedere con la biologica. Nicodemo non sa uscire da
una visione fisicista della nascita. Questa l’interpretazione classica che però non convince.
Nicodemo fa lo gnorri. “tu che sei un maestro …” Gesù riconosce a Nicodemo la possibilità di
seguire il discorso di Gesù. Esperienza della beriah hadashà la nuova creatura: colui che diventava
proselito era paragonato a una nuova creatura. Quindi Nicodemo sa di cosa parla Gesù. Allora
capisce che significa rinascere, ricominciare daccapo. Ma come egli è maestro. Doveva seguire il
discorso di Gesù. Gesù gli domanda di regredire religiosamente, politicamente e socialmente. Per
lui ciò che conta è essere uomo adulto, non bambino. Il bambino nella società ebraica non contava
dal punto di vista sociale. Nicodemo non vuole lasciarsi condurre, vuole condurre lui il discorso.
Se uno non nasce dall’acqua e dallo spirito ….
Tornare indietro non gli torna, non accetta, si rifiuta e fa lo gnorri. Zaccaria e Maria sono brani
simili: “come è possibile?”.

Lo spirito è colui che da piena comprensione nella verità, di Cristo. Il verbo gennao, nascere, è
messo in relazione con la fede. La nascita nella carne, nobile e buona, ma è aliena alla nascita della
fede. Il tuo orizzonte è limitato. La nascita della fede non annulla l’altra ma la trasforma. La fede
per essere tale importa con se una profonda relazione con Dio. “nascere dallo spirito” è la
generazione nella fede che è condurre gli uomini sotto l’azione dello spirito = accogliere la parola di
Gesù, accogliere la sua persona. Solo lo spirito rende capaci di intendere le cose spirituali,
altrimenti resti fermo a quelle carnali. Certo dice Gesù è misterioso, ma non puoi negarlo solo per
questo. Allora Gesù usa l’esempio del vento: anche quello non sai come e da dove viene ma vedi
l’effetto, i danni del vento. Allora la domanda di Nicodemo è sospesa come la domanda di Pilato:
cos’è la verità. È simile alla domanda di Zaccaria…. Non a quella di Maria che chiede Solo la
modalità e non la possibilità.
v. 6-8. In 3-5 un principio, la necessità di nascere dall’alto. In questi versetti Gesù chiarisce “quello
che è nato dalla carne è carne e quello che è nato dallo spirito è spirito … così è di chiunque è nato
dallo spirito”. Abbiamo un participio perfetto “è nato”. Sviluppo logico limpido: si potrebbe dire
che per aderire nella fede a Gesù è necessario nascere dallo spirito in quanto solo lo spirito rende
capaci di intendere le cose soprannaturale. Finché si resta puramente carne si resta esclusi dal
dinamismo della fede. Questo cambiamento radicale è originato dallo Spirito. È un mistero ma è
così. Anche il vento è enigmatico, non si sa da dove viene e dove va, ma siamo esposti alla sua
potenza.
Il termine carne non ha un significato negativo come in paolo in Rm 7,14-25. Carne dice l’uomo
debole incapace di elevarsi alla fede e alla vita divina. “la carne non giova a nulla” Gv 6,63. I giudei

71
in 8,14 esprimono pareri “secondo la carne”. Significa vivere e agire su un piano puramente umano
senza un influsso dallo Spirito di Dio. “quello che è nato dallo Spirito è spirito” il verbo nascere è
all’aoristo in 3-5 e al perfetto in 6-8. Si può dire che l’idea espressa in “nascere dallo spirito”
comprende un duplice stadio: il momento iniziale della nascita alla fede quando è all’aoristo; il
carattere adulto della fede quando c’è il perfetto. A questo livello adulto c’è la sintonia dell’agire
dello spirito con l’agire dell’uomo. Sarebbe l’azione incoativa e perfettiva dei sacramenti.
06.11.2008
I vv. seguenti sono una critica a Nicodemo. Il dialogo passa ad un monologo di ampio respiro tipico
di Giovanni. Una duplice unità: 1) la testimonianza di Gesù che solo lui può dare (11-17) e 2)
portano il tema sul rapporto credere e sottostare al giudizio di Dio (tema soteriologico).
Vv 11-17 La testimonianza di Gesù ha le carte in regola per essere ragionevolmente accolta. E’ una
testimonianza fondamentale per la salvezza di tutti gli uomini. Gesù dice che la sua verità. La sua
testimonianza deve essere accolta con razionalità.
Credibilità 2 elementi:
a) al v. 11 “in verità in verità noi parliamo di quello che sappiamo e attestiamo quello che abbiamo
veduto”. Si usa il plurale in contrapposizione al quel “noi sappiamo che sei un inviato di Dio” del v.
3,2 in bocca a Nicodemo. Quello che Gesù comunica agli uomini, la sua testimonianza, prima l’ha
contemplato nel seno del Padre. Si potrebbe dire una semplice contrapposizione letteraria. Gesù fa
notare che quello che comunica lo ha contemplato nel seno del padre, dunque la sua testimonianza è
diretta e oculare. È credibile perché ha avuto conoscenza diretta di ciò che dice, non lo ripete per
sentito dire.
b) v. 15-16 un altro elemento per la credibilità. “se vi ho parlato di cose terrestri e non credete …
così deve essere innalzato il figlio dell’uomo … chi crede in lui abbia la vita eterna …” sono parole
enigmatiche. Si può capire questa frase facendo questa parafrasi:
“se voi non capite ora il senso di una verità così elementare qual è il dovere di nascere dallo spirito
e/o dall’alto come potrete capire quanto c’è da dire ancora sul mio conto … eppure dovreste
credermi perche se anche nessuno è salito al cielo, uno è disceso dal cielo. Poiché lui è l’unico
disceso dal cielo, l’unico rivelatore, il figlio dell’uomo sull’esempio del serpente di Mosè sarà
innalzato da terra perché tutti abbiano in lui la vita eterna. Quindi le cose celesti sono conoscibili
grazie a lui. At 4,12 – in nessun altro c’è salvezza se non in Gesù Cristo. Nessuno ci rivela la verità
delle cose celesti se non Gesù che è disceso dal cielo.
L’innalzamento di cui si parla è la crocifissione di Gesù che in Giovanni è anche la sua
resurrezione. Il Cristo di san Francesco è giovanneo, è un cristo risorto. Una testimonianza in presa
diretta e basata sulla terrestrità di Gesù che è disceso.

72
v. 16-17 una testimonianza di carattere universale “perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”.
La funzione di Cristo è rivelare il Padre e dare la possibilità di Salvezza. È la luce che viene nelle
tenebre per illuminare, ma per illuminare chi la accoglie. Chi non la accoglie si mette contro: questo
è il giudizio.
v. 18-21 binomio fede-giudizio. “Chi crede in lui non è condannato ma chi non crede è già
condannato … la luce è venuta nel mondo …”. Krisis e krinein = condanna e condannare.
Colorazione particolare dell’aspetto escatologico: giudizio e condanna. La condanna si realizza
nella non accoglienza del Signore Gesù già su questa terra, e non tanto alla fine del mondo: l’uomo
che non l’accoglie è già un disperato.
-Il primo momento della separazione credenti-non credenti espresso dal verbo krima e il secondo è
momento della krisis del pronunciamento della condanna.
La condanna, il giudizio, non è comminata dall’esterno ma dall’interno dell’uomo che respinge la
parola di Gesù, il suo insegnamento,la sua rivelazione.
Vedi per questo Gv 12,47-48 “se qualcuno ascolta le mie parole io non lo condanno (krino) perché
non sono venuto per condannare il mondo ma per salvare il mondo. Chi mi rigetta e non accoglie la
mia parola, la parola che ho pronunciato lo condannerà nell’ultimo giorno”.
Il senso del v.18 del capitolo 3. “chi crede in lui non è condannato” mette in luce che la fede
esclude (presente, già ora. La nostra fede ha vinto il mondo) la condanna “chi non crede è già
stato condannato” la mancanza di fede porta in se un giudizio di condanna già in atto: dal momento
che hai rifiutato sei bell’e del gatto. Il giudizio di condanna è in sé definitivo e già cominciato.
Vv 19-21 sono più oscuri. -“compiere opere malvagie” e “fare il male” designano le opere di coloro
che rifiutano Gesù e scelgono come opzione di stare con il demonio.
“fare la verità” al contrario è l’atteggiamento di coloro che aprono il cuore a Gesù, accolgono la sua
parola, e non hanno nulla da spartire con il mondo di satana. Essi vivono della luce e fanno la verità,
la verità è Cristo. La luce diventa programmatica e dinamica del vivere.
19-21, Si possono così parafrasare:
“la condanna è questa: Gesù luce è venuto nel mondo ma gli uomini preferirono le tenebre proprie
del demonio alla luce presente in Gesù. E ciò perché la loro opzione di fondo, il loro cuore, era in
netto contrasto con lui. Di qui una prima conseguenza: è impossibile credere a Gesù luce di fatto se
si ha un cuore che lo respinge a priori (fare il male), Andare a lui in questa condizione può far
nascere la paura che il contatto con la luce metta a nudo la propria cattiveria.
Per chi ha uno spirito ben disposto viene naturale venire alla luce e mostrare che è in intima unione
con Dio (opere fatte con Dio). La predisposizione di apertura o chiusura.

73
Secondo questa prospettiva Giovanni ritiene importante la disposizione interiore più che le singole
azioni che sono manifestazioni di una scelta di vita interiore che è movente profondo di un agire
esterno. Uno è buono o cattivo perché all’origine c’è qualcosa che lo spinge in una direzione o in
un’altra, e non perché agisce bene o male. Importanza di preoccuparsi di ciò che si è anziché di
ciò che si fa. Anche se ciò che si fa mostra ciò che si è. Il problema è la resistenza, la chiusura alla
luce, che è la forza della sua Parola. Se non ascolto, certo è come se la rifiutassi. La cosa più
difficile è lasciarsi amare, essere mendicanti dell’amore di Dio. Spesso ci difendiamo dall’amore.
Non ci mettiamo a nudo davanti ad esso.
Al cap. 8 esprime lo stesso concetto con la paternità del diavolo o di Dio, come due principi
propulsori.
Vv 23-30. si contrappone la fede del Battista con una fede non matura di Nicodemo. Il Battista
sembra conoscere bene sia l’identità di Gesù sia il suo rapporto con lui. Si desume da 27-30
“Giovanni rispose nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stato dato dal cielo … chi possiede
la sposa è lo sposo … egli deve crescere e io devo diminuire”.
Questa la risposta di Giovanni ai suoi discepoli gelosi perché Gesù faceva più proseliti. Gesù è il
messia sposo venuto per unire in mistiche nozze tutti i credenti in lui. È quello annunciato dal
profeta Malachia. In quanto tale Gesù è colui che deve affermarsi sempre di più in mezzo al popolo.
La missione del battista è quella di annunciarlo, inferiore, preparatore della strada, amico dello
sposo, che deve cederli il passo con gioia. Il tema nuziale presente anche alle nozze di Cana.
L’altro elemento della testimonianza del battista è che lui accetta questa sua posizione subalterna e
in questo trova la sua gioia. Molto significativo è il fatto che la sua gioia nasca dalla consapevolezza
che partecipa del compimento, vedendo Gesù.
Vv 31-36 riflessione conclusiva dell’evangelista. Un approfondimento riguardo alla testimonianza
del battista. Vengono sottolineati i seguenti punti: 1) al v. 31 il messia appartiene per sua natura al
mondo divino. 2) in quanto appartiene al mondo divino è in grado di parlare di Dio trasmettendo ciò
che ha visto e ciò che ha udito: lui non fa che riferire le parole di Dio. Si trova anche nel discorso
sacerdotale “quel che mi hai dato io l’ho dato loro”. Al v. 34-35 il messia è il canale attraverso cui
lo spirito è dato in modo illimitato e sovrabbondante. Il detentore dei poteri divini. Al v 36 all’uomo
resta due alternative o credere ed entrare nella vita eterna o non credere e respingerlo e diventare
oggetto dell’ira divina. At 12 l’unico nome in cui c’è salvezza. Si capisce come in Giovanni la non
fede è responsabile.

Gv 4 SAMARITANA

74
Don Divo Barsotti, ha scritto un testo di esercizi spirituali sulla samaritana, molto bello. Coloro che
dovevano essere i più pronti e preparati risultano i più incartanti (Nicodemo). Farà un cammino di
fede, parlerà davanti al sinedrio, e si esporrà per chiedere il corpo, ma inizialmente è chiuso: non
rinuncia alle sue sicurezze. Nel caso di Nicodemo è l’uomo che va incontro al Signore, nel caso
della Samaritana è il Signore che le va incontro e si manifesta. Nicodemo rappresenta il giudaismo
fedele e ortodosso, la samaritana invece gli “eretici”.
Il brano della samaritana è di profonda psicologia dell’incontro.
16.ss lo sposo che va dalla sposa prostituita: la Samaria.
Dopo i prime tre versetti di collegamento. Il v. 4 “doveva passare per la Samaria”.
Non è mica vero, c’erano altre due possibilità: la via Maris oppure la via del Giordano. Non è una
necessità topografica, ma dell’amore, della missione, un dovere salvifico. È lo sposo che va a offrire
il suo amore e spirito a Samaria, che è la prostituta: una popolazione che non ha il culto autentico di
YHWE. È il recupero di una relazione. Un cammino di amore per riportare Samaria al retto
rapporto con dio. Una regione eterodossa, sangue misto e religione sincretista. Tra i due popoli
esisteva una calorosa e profonda inimicizia. I giudei disprezzavano i samaritani e lo usavano come
un titolo dispregiativo (cf. 8,48). Allo stesso modo i samaritani usavano con disprezzo il titolo di
giudeo.
2 Re 17. La Samaria fu popolata dai coloni assiri, che portarono a una situazione religiosa ibrida.
La Abdallah, separazione assoluta che dettò Neemia al ritorno dall’esilio. I giudei avevano distrutto
il tempio samaritano del monte Garizim. Al tempo del procuratore Pacomio i samaritani avevano
profanato il tempio di Gerusalemme con ossa di morti impedendo la celebrazione della pasqua.
“giunse a una città della Samaria chiamata Sicar (Sichem), vicino al podere che Giacobbe…” Gesù
attraversa una regione storica per il popolo di Israele. Si ferma vicino alla fonte all’ora sesta. La
fonte (peghè) si chiamerà poi pozzo. Presso Sichem. Gs 24 parla di un rinnovamento dell’alleanza a
Sichem. Un pozzo profondo circa 32 metri. Risale al 1200 a.c. prima età del ferro (trovate
ceramiche dai scavi archeologici effettuati). È l’unica acqua nella zona. Anche Giacobbe ha a che
fare con un pozzo Gen 29,2-10 in occasione dell’incontro con Rachelein Haram.
Pozzi dei patriarchi; la sorgente di Mosè, simbolicamente raffigurano la Torah. Il testo più
commentato nella tradizione rabbinica è Nm 21,16-18 dal pozzo della legge sgorga l’acqua viva
della sapienza. Anche paolo dice quella roccia accompagnavano il popolo- la fonte,la legge, che
Paolo Dice quella roccia è Cristo. Il pozzo di Giacobbe si identifica con la sorgente di Mosè ma
anche con Sion e l’acqua che sgorga dal tempio come dice il profeta Ezechiele. Il pozzo si identifica
con le istituzioni giudaiche della legge e del tempio. Gesù si pone sopra il pozzo: lui la nuova
sorgente, l’acqua viva. C’è anche il riferimento alla sposa. La Torah, i rotoli sono coperti di una

75
stoffa, velluto, che deve essere della stessa stoffa del velo della sposa; perche quando si legge la
Torà deve essere svelata come la sposa.
Il testo dice “checopiacos” affaticato, un verbo usato per esprimere le fatiche apostoliche, il lavoro
per il regno. Il cammino indica l’opera di Gesù e la fatica di andare, la fatica della missione della
salvezza. L’evangelista sottolinea che era mezzogiorno, come anche in 19,14 quando è condannato
a morte, momento in cui Gesù porta a termine il suo cammino e ritorna al padre. Anche in questo
momento Gesù ha sete.
Si anticipa qui l’ora di Gesù, come a Cana. In 4,23 si avvicina l’ora, anzi è giunta. Gesù si trattiene
a sedere sulla fonte. “si fermò a sedere” fa capire che lui si vuole sostituire alla fonte antica di
Giacobbe che non è capace di dissetare.
Ezechiele parla di una sorgente zampillante. Gesù in 7,35-39 si identificherà con questa sorgente.
Gesù è il tempio che dà un’altra fonte, altra sorgente zampillante. L’accesso allo Sheol a
Gerusalemme era sotto il tempio e ivi le sorgenti degli abissi. Il culto permetteva alle sorgenti
dell’abisso di non prevaricare. Gesù è il nuovo culto che permette alle acque di non distruggere.
5 - “giunse una donna di Samaria… dammi da bere”. La donna non ha un nome proprio, si
identifica con la provenienza, è una rappresentante di Samaria. Se la donna è simbolo di Israele,
anche qui è simbolo del popolo eretico e scismatico, simbolo ecclesiale. È l’incontro del messia con
la Samaria, la prostituta. Cf. Os “prendi una donna prostituta che ha figli bastardi…”- torna il
tema del messia sposo che va a prendere la sua sposa. Dio non abbandona la donna che non ha un
retto rapporto con lui, lo sposo. Il messia sposo va a riconquistarsela, vedi Os 2,15-16 (le chiederò
conto di quando offriva incenso ai baal) .
Questo incontro inizia con una richiesta “dammi da bere”. Essendo uomo Gesù prova la necessità
come ogni uomo. Chiedendo da bere dimostra la solidarietà con tutti gli uomini, prova di amore e
occasione di manifestarsi a favore dell’uomo. Dare acqua è segno di accoglienza e ospitalità. Gesù è
stato rifiutato in Giudea e chiede ospitalità a Samaria, offre in cambio però la sua acqua. È il
mistero dell’incarnazione. È lui che ti dona ma al tempo stesso ha bisogno. Dare acqua era segno di
accoglienza e ospitalità. Accetta di chiedere, di domandare. “gli dice la donna samaritana: come mai
tu che sei un giudeo …” la risposta della donna riflette lo stupore. Gesù si fa bisognoso. Non chiede
neppure impone da giudeo superiore: si fa inferiore e chiede.
Gesù è venuto ad abbattere le barriere. Ef 2,14 “togliere il muro di separazione”. Gesù si presenta
qui come un uomo bisognoso come tutti e riconosce che la donna può offrirgli qualcosa di prezioso.
Afferma la dignità di quella donna. Non si dava che l’uomo si rivolga a una donna, poi in pubblico,
poi a una samaritana e per chiedere … acqua.

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Nella risposta si sente la rabbia di una ferita “tu che sei giudeo” sinonimo di satana, avversario.
Eppure Poi arriverà a riconoscerlo come messia.
Gesù le risponde in modo indiretto e suscitando la curiosità della donna:“se tu conoscessi il dono di
Dio e chi è colui … ti darebbe acqua viva”. Gesù risponde in modo indiretto, suscita la curiosità
della donna, entra a livello del cuore. Le parla di un dono di Dio, zampillante, che lui è in grado di
dare. Gli ha chiesto un favore che lui può superare. Volontà di fraternità. Gesù si dimostra
indipendente dalle divisioni religiose: lui uomo- lei donna; lui giudeo-lei samaritana. Questo perché
l’amore si rivolge all’umanità intera Offre il dono di Dio.
Essa non conosce il dono di Dio. In Os 4,1 “non c’è conoscenza di Dio”. La donna si reca al pozzo
a mezzogiorno, quando non c’è nessuno, per evitare incontri. Essa ha sete, e Gesù sfrutta questa
sete, il suo vissuto umano. Gesù non va a vendere frigoriferi in Alaska.
V.11 - “Signore se non hai secchio e il pozzo è profondo da dove puoi attingere acqua”. La donna
rimane impressionata, da Giudeo che lo chiamava prima ora lo chiama Signore. C’è uno stupore
che ancora contiene ironia. Con la rabbia iniziale, ma con apertura di cuore.
Questa donna vede che non ha utensili e si domanda da dove possa procurare l’acqua viva che
promette. “in che modo può accadere” è sempre una apertura di provocazione. Lo stupore della
donna è parallelo a quello di Nicodemo. Tema dell’acqua e dello spirito. Anche questa donna, come
Nicodemo, non sale al livello superiore del discorso. La donna conosceva il cammino della legge,
cioè il pozzo. Non immagina il dono gratuito di Dio, l’amore di Dio.
Nicodemo però sembra chiudersi, questa donna invece lascia aperta una possibilità: “sei forse tu più
grande del nostro padre Giacobbe che ha dato a noi il pozzo …”. C’è l’ironia: la donna qui lo dice
in senso negativo e invece sta dicendo proprio il vero non sapendolo. Signore- e poi più grande di
Giacobbe!!! Quel pozzo aveva il prestigio di Giacobbe dal quale i samaritani si ritenevano
discendenti. Quel pozzo, la legge (cf. prologo fu data per Mosè), ci da bere, ci da vita.
14 - “chiunque beve di quest’acqua … l’acqua che io gli darò non avrà più sete”. Qui c’è il rifiuto
della saggezza che viene dalla legge Sir 24,20-22 (quanti si nutrono di me avranno ancora fame,
quanti bevono di me avranno ancora sete). La Torah non disseta, Gesù ha la forza di dissetare(Is
55,1). L’acqua si trasformerà in una fonte di acqua che zampilla e da vita definitiva. Lo spirito è una
sorgente interna, non esterna. L’uomo deve ricevere vita dal dentro, nella sua radice, nel profondo
del suo essere, una vita nuova che lo mantiene vivo eternamente, non dalle purificazioni esterne.
Ritorna l’idea presente in Nicodemo, non basta la saggezza, l’uomo ha bisogno di una vita nuova.
15- “dammi quest’acqua …”. Gesù è entrato dentro la sua vita e suscita il desiderio. Cammino non
solo pedagogico. Dio si mette in solidarietà chiedendo, ma pronto a dare. Questa donna si lascia
avvolgere: lei samaritana supera la barriera e chiede da bere al giudeo. Ora è lei che domanda. Gesù

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ha destato l’anelito della donna. Ora è pronta ad abbandonare il pozzo della legge, della tradizione.
Ora chiede l’acqua a un giudeo, si sono rotte le barriere. Riconosce il valore della nuova fonte, della
acqua. Nicodemo non riconobbe l’insufficienza di quella saggezza “sappiamo…” la donna invece
riconosce l’insufficienza e chiede.
Fin qui il dialogo, partito da posizioni distanti, mostra un avvicinamento.
Ora Gesù fa la proposta “va a chiamare tuo marito … non ho marito”. Il passaggio dall’acqua-
spirito al tema del marito può sembrare brusco. Per avere quell’acqua dell’amore devi recuperare la
tua nuzialità. Lo sfondo di 2Re 17,24-41 menziona cinque santuari degli assiri (ciascuna nazione
si fabbrico i suoi idoli …). La parola baal indica marito e signore. Il culto di questi baalim, dei,
signori. Samaria ha 5 mariti è un riferimento al culto idolatrico. Davanti alla richiesta dell’acqua,
nuovo rapporto nello spirito, si deve prendere atto del culto deviato, idolatrico. C’è tutto un livello
reale simbolico. Una donna realmente esistita che diventa immagine del popolo eretico. Gesù gli fa
prendere atto del suo bisogno. “non ho marito” indica una esasperazione interna e anche una
delusione. Perché questa donna è andata a prendere l’acqua a mezzogiorno? Per non incontrare
nessuno. Non voleva essere presa in giro ancora. Cerca di tenere a distanza Gesù, alla fine però cala
le brache e rivela la sua posizione.
18 -“hai detto bene di non aver marito, … hai detto la verità” – Gesù svela ma non colpisce, coglie
l’aspetto di verità che sta in quella menzogna. La donna si è sentite denudata: letta dentro. È un
trattato di psicologia umana. L’atteggiamento costruttivo vince le resistenze. Un atteggiamento
veramente umano. Non la critica, ma la loda per quella parte di verità che dice. Gesù dice: hai
ragione non hai marito. La donna non si sente giudicata, si sente amata: questo è il modo di agire di
Dio al quale siamo chiamati tutti, specialmente chi si prepara a fare il pastore.

“Le disse Gesù hai detto bene di non avere marito, perché di mariti ne hai avuto 5…” Vi sono due
livelli: il livello simbolico, di segno, in cui 2 RE 14,24-41 dove gli assiri avevano trasportato le loro
divinità in Samaria ed erano 5. La parola baal indica sia marito che signore, per cui il riferimento è
anche alla idolatria. Gesù porta questa donna a stabilire la relazione con l’unico Dio, a vincere
l’idolatria, a entrare in se stessa. Mentre la Samaria riconosce la propria infedeltà e chiede l’acqua
del messia, l’autorità dell’unico tempio non l’ha riconosciuta. La Samaria accoglie Gesù e gli
chiederà di fermarsi, mentre si era allontanato dalla giudea per l’ostilità dei giudei.

19- “vedo che sei un profeta, i nostri padri… voi dite che il luogo dove si deve celebrare è
Gerusalemme”. Gesù passa all’argomento del culto. È collegato all’argomento dei mariti. Il

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passaggio è all’interno di una dinamica di relazione. Mostra l’insicurezza e vuole sapere il culto
vero quale è? Ha paura del vino nuovo, conosce il vino vecchio e non riesce ad allontanarsi.
21- La risposta al discorso della donna “credimi donna si avvicina all’ora in cui non renderete culto
al padre ne su questo monte ne a Gerusalemme”. I samaritani dicevano che dio doveva essere
adorato sul monte Garizim, luogo del sacrificio di Noè e anche del sacrificio di Isacco. Al Signore
non importano questi dati storici, secondari, polemica tra i due gruppi. “voi adorate quello che non
conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo perché la salvezza viene dai giudei”. Non si tratta
di scegliere tra due possibilità storiche di culto. Il tempio di Gerusalemme vedrà la fine. Gesù parla
di un cambiamento radicale, è finita l’epoca dei templi, il culto di Dio non avrà luoghi
privilegiati. L’alternativa è Gesù. Il culto è incentrato in Gesù, nuovo santuario, nuovo tempio dal
quale sgorga l’acqua dello spirito (7,37-39) lui acquista il nome nuovo dal Padre che cambia il culto
del passato, diviene personale: il dio della legge aveva creato inimicizia tra i popoli fratelli. Il Padre
fa cadere le barriere perché non da il figlio a un popolo privilegiato, ma a tutta l’umanità. Samaria
non deve subire l’umiliazione del ritorno alle tradizioni più antiche: c’è una realtà nuova. Chiunque
crede ha la salvezza. Luce piena, amore donato. La paternità di Dio fa sparire la paternità di
Giacobbe (il pozzo) che i sinottici descrivono con: fate quello che vi dicono ma non quello che
fanno. Samaria non dovrà più sopportare l’umiliazione di un ritorno alle tradizioni giudaiche
riconoscendo la superiorità dei nemici, la paternità di Dio fa sparire i particolarismi di entrambe le
tradizioni.
Non significa che il culto deve essere spirituale e non ha bisogno di segni e celebrazioni.

18.11.2008
Gesù riconosce però ai giudei la correttezza della conoscenza di Dio contro la idolatria dei
samaritani, anche se ora il vero culto sarà in “Spirito e verità”. Cosa vuol dire? Gesù sembra fare un
superamento della correlazione tra culto e luogo di culto con la scomparsa di ogni particolarismo. Il
nuovo culto proprio perché non ha legami con un recinto spaziale è per sua natura universale
realizzando Mal 1,11 “da dove sorge il sole fino là dove tramonta è grande il mio nome tra le
nazioni… offerta pura…”.
1- Culto che fonda il suo dinamismo sulla paternità divina.
2- Questo fa sì che esiga dai credenti un atteggiamento di amore.
3- Questo nuovo culto ha la prerogativa di compiersi in spirito e verità, pneumati kai aleteia. È
definitivo!
pneumati kai aleteia
Gli studiosi l’hanno intesa diversamente. Quali significati hanno i termini?.

79
In spirito. Per alcuni avrebbe un significato astratto e indicherebbe il modo spirituale come
contrapposizione al culto fatto dai riti, sottolineando l’adorazione compiuta nell’intimo del proprio
cuore. Per altri vorrebbe indicare la adorazione che suscita lo Spirito Santo, nasce dalla sua
misteriosa azione nell’interno. In Spirito, significa nello Spirito Santo. È la relazione a Cristo
mediante lo Spirito che ti mette nella vera relazione con il Padre. Nemmeno potremo dire che Cristo
è il Signore se non mediante lo Spirito.
In verità. Alcuni pensano che equivalga a “con sincerità, sinceramente” opponendosi al modo
falso, alla finzione, alla doppiezza. Un vero culto, non un culto bugiardo. Per altri indicherebbe
“non più in figura”: l’AT sarebbe un culto prefigurativo, ora comparirebbe la realtà, il vero culto
messianico.
Certamente ciascuna di queste opinioni hanno una parte di verità, ma nell’insieme nessuna, secondo
il prof, offre un concreto pensiero giovanneo. Bisogna considerare i vs seguenti. Nel discorso
seguente si trova un parallelo al v. 24 dove si afferma “Dio è Spirito”.
Cosa significa in Giovanni che Dio è spirito? Duplice osservazione:
1) nel lessico di Giovanni definizioni di Dio hanno sempre un carattere funzionale, non
intendono dirci chi è Dio in se ma cosa fa Dio: Dio in funzione di … del singolo e degli
altri. È certo l’identità di Dio ma nel suo agire verso gli uomini, nella storia della salvezza,
verso ogni persona e verso tutti. Se dice Dio è amore vuol dire che si è manifestato in un
atteggiamento di amore. Dio è luce perché si è manifestato in Gesù come luce. Dio è spirito
in quanto agisce attraverso l’attività dello Spirito. Lo spirito è quella forza invisibile che
proviene dal Padre e dal Figlio e mediante la quale gli uomini rinascono nella fede alla vita
divina, nella dignità di figli e sviluppano la relazione col Signore. L’adorazione in Spirito è
quella fatta da coloro che sono nati dallo Spirito santo. Onorano lasciandosi illuminare e
guidare dallo spirito. Non un discorso intimistico, ma che lo spirito è l’agente della
preghiera del cristiano.
2) Nell’ottica di Giovanni “verità” non significa senza falsità, designa la rivelazione divina che
è in Gesù, lui è la verità, il rivelatore del Padre. Adorare in verità vuol dire promuovere un
culto al cui centro sta Gesù, la sua Parola recepita e vissuta: lui diventa il tempi oche è stato
demolito. Un culto che avviene in Cristo mediante lo Spirito. In queste realtà l’uomo
sperimenta la paternità di Dio. Gesù nuovo tempio e nuova alleanza, vino, parola. Il nuovo
spazio di culto è Cristo, mediante lo spirito. Un culto che accomuna e non che divide gli
uomini. Il padre cerca adoratori che lo adorino così.
Tra il tema del culto e il tema dell’acqua c’è un legame. Lo spirito e l’acqua viva indicano la Parola
di Gesù. Che è il vero culto e il tempio messianico. Il tempio di pietra serve per lodare Dio, ma non

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è un elemento indispensabile. Si entra davvero nel nuovo tempio si realizza il connubio tra verità e
vita cristiana. Si tratta di portare a livello concreto e manifesto quella verità che sta nel cuore di
ogni credente e che è Gesù Cristo.
4:25 le,gei auvtw/| h` gunh,\ oi=da o[ti Messi,aj e;rcetai o` lego,menoj cristo,j\ o[tan e;lqh|
evkei/noj( avnaggelei/ h`mi/n a[pantaÅ
4:25 Gli rispose la donna: "So che deve venire il Messia (cioè il Cristo) : quando egli verrà, ci
annunzierà ogni cosa".
4:26 le,gei auvth/| o` VIhsou/j\ evgw, eivmi( o` lalw/n soiÅ
4:26 Le disse Gesù: "Sono io, che ti parlo".

25 - “so che sta per giungere il messia …” ---“sono io che ti sto parlando”. La donna è disposta ad
accettare il messia quando giungerà. Sebbene Gesù gli appena detto che “è giunta l’ora” la donna
non l’ha riconosciuto, comprende che le parole annunciano l’era messianica. Di fronte a questa
disponibilità Gesù si rivela “sono io”. Qui ancora una definizione funzionale “ego ‘eimi” che
traspone “JHWH” ma anche “chi sono io per te”. Qui dice “io sono” in quanto parlo, essere di
rivelazione, messia. Dt 18,15 “susciterà in mezzo a te uno come te” che il messia doveva trovarsi
coinvolto nella Torah. È Dio in quanto parla: IO SONO CHE TI PARLO!! Il messia esercita la sua
messianicità nell’annuncio, nel parlare, nella dinamica della rivelazione.
Giungono i discepoli e rimangono stupiti ma nessuno gli domanda di cosa discuteva né perché
parlasse con lei. L’atteggiamento dei discepoli risponde alla cultura del tempo che considerava la
donna come inferiore. Gesù però esplicita la sua libertà profonda. Os 2,16 – Gesù l’ha portata nel
deserto e ha parlato al suo cuore. I discepoli non capiscono come Gesù potesse perdere tempo a
discutere con un donna per di più samaritana.
4:28 avfh/ken ou=n th.n u`dri,an auvth/j h` gunh. kai. avph/lqen eivj th.n po,lin kai. le,gei toi/j avnqrw,poij\
4:28 La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente:
4:29 deu/te i;dete a;nqrwpon o]j ei=pe,n moi pa,nta o[sa evpoi,hsa( mh,ti ou-to,j evstin o` cristo,jÈ
4:29 "Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?".

L’ultima parte del capitolo IV presenta la donna che lasciata la brocca (interessante che è la stessa
parola che si usa per le anfore di Cana) va al paese. Come le anfore a Cana ( idirian – stesso
termine) erano vuote, ora l’anfora viene abbandonata, ora c’è l’acqua viva. Lei si fa testimone,
sperimenta quella libertà che non aveva mai sentito e va ad annunziare ciò che ha trovato. Lei
rompe con la legge! Ha compreso la novità di Gesù e taglia con il suo passato. Diversa da
Nicodemo che non comprende la novità di Gesù. Va ad annunciare agli altri: venite a vedere un
uomo, non dice un giudeo. Propone un messaggio modesto e in forma interrogativa, non perché non
crede ma perché vuole che essi stessi facciano la sua esperienza. Quella di Gesù che le ha svelato il
suo passato che lei ha accettato. Ha accettato se stesso. Os 7,1: Gesù è venuto a guarire Israele, e

81
Samaria che è la capitale. La donna si comporta come i discepoli (Andrea e Natanaele) va nel paese
ad annunciare ciò che ha visto e creduto.
Tutti nel paese hanno sete e rispondo al sua annuncio. C’è una prolessi di quello che sarà
l’accoglienza in Samaria della Parola nella chiesa primitiva. Gesù non accetta l’invito a mangiare
dei suoi discepoli. Questo perché si serve del contrasto tra cibo divino e umano, per spiegare solo
quale è il suo compito: quello di fare la volontà del Padre. I discepoli non capiscono ancora, che c’è
un cibo eterno, un pane di vita (Gv 6).
“Compiere l’opera” – riferimento a Genesi. Il compimento dell’opera di Dio.
Prov 9,5; Sal 119,9,3 – il suo modo di parlare del cibo è simile al modo giudaico di parlare della
Torah, della Legge. La sua opera è l’attuare l’amore di Dio.
Il riferimento alla mietitura: - Gesù ha seminato la sua parola. Non accolta a Gerusalemme la sua
testimonianza è feconda in Samaria, pronta alla mietitura. La realtà del raccolto è la fede dei
samaritani.
È interessante che Samaria fa l’esperienza di Cristo grazie all’annuncio di questa donna. Gesù
rimane per 3 giorno, ritorna il tema del terzo giorno, esperienza di Cristo rivelatore, di alleanza di
Cana al terzo giorno. La riconciliazione di Samaria è fatta. Si ferma con loro due giorni. Os 6,2: in
due giorni ci farà rivivere. Anticipo della risurrezione.
Vv 41-42 “non è più per la tua parole che noi crediamo ma perché …” dalla rivelazione mediata,
all’incontro diretto. Visto, udito, contemplato, toccato. Da una mediazione a una esperienza diretta.
L’efficacia dell’annuncio è basata nelle parole di Gesù. Chi lo ascolta con cuore sincero aderisce
alla sua parola. Per loro Gesù non è messia nazionale, ma universale: salvatore del mondo. Perché
ha superato l’inimicizia tra giudei e samaritani. La nuova era non conosce diversità. Il salvatore del
mondo è l’agnello che toglie il peccato del mondo.
I samaritani eterodossi hanno colto la messianicità di Gesù, mentre Nicodemo ortodosso non lo ha
capito.
In giudea prevaleva l’atteggiamento negativo: Gesù non si fidava dei giudei, 3,36 – una minaccia.
In Samaria invece prevale l’aspetto positivo: la donna riconosce di essere peccatrice, comunica agli
altri la sua esperienza.
Nicodemo si aspettava un messia maestro per Israele, i samaritani riconoscono il messia salvato re
del mondo.

Gv 4,46-54
“Passati due giorni uscì per la Galilea”

82
Terzo personaggio tipologico: il funzionario regio (dopo Nicodemo e la samaritana). Gesù ritorna a
Cana. La donna ha avuto bisogni di vedere nella sua vita per arrivare a credere. Il funzionario regio
crede alla parola e diventa una fede familiare, si espande nelle relazioni più strette.
“tornò di nuovo a Cana, dove aveva cambiato l’acqua in vino” - c’è intenzionalità di collegare
questo episodio a Cana. Al vs. 54 si dice che questo fu il secondo segno. Si vuole dare una cerniera
stretta tra Cana e l’ufficiale regio.
La fede del personaggio. V.50 “credette alla parola che gli aveva detto Gesù e si mise in
cammino”. Credette lui e la sua famiglia” - v 53. Credere alla parola è fondamentale. È un pagano
forse a servizio dei romani, forse di erode. È in una situazione di bisogno: un figlio gli sta morendo
a Cafarnao. Il bisogno fa rievocare una esperienza conosciuta, una parola che aveva suscitato
meraviglia e stupore, che era entrata nel cuore. L’ufficiale aveva sentito parlare di un uomo che
faceva meraviglie e forse lo aveva visto: dopo Cana Gesù scese a Cafarnao. Cafarnao indica che
forse Gesù era stato visto: un uomo che costruisce non distrugge, che da speranza. 30 Km da
Cafarnao, da 257m a 2-300m sopra. Per questo si dice li chiese di “scendere”.
Il v. 47 “udito che Gesù era venuto…”, udito ricorda Mc 16,46-52, “udito che Gesù passava di là..”
di Bartimeo, è l’inizio della fede, un muoversi verso. Non è ancora l’ascolto obbedienziale della
fede ma è sufficiente per avvicinare l’ufficiale a Gesù. Giovanni ci fa capire che non si può credere
in una volta sola, bisogna che l’uomo viva una esperienza di gestazione interiore. Per Nicodemo il
parto non c’è stato, per la donna con fatica c’è stata una nuova generazione, per questo funzionario
accetta il rischio dell’incontro, è cosciente di essere ignorante, sa poco del mondo giudaico,
probabilmente da anche un giudizio di stranezza. Non usa intermediari, perde la propria faccia, è
conosciuto e il mettersi in moto significa anche un esporsi. Dalla sua dignità si allinea ai pezzenti
giudei. Un amore che gli fa dimenticare il suo ruolo, si sbilancia per chi ama, l’amore porta a
sbilanciarsi.
Apelthen pros auton e.. “lo pregò di scendere a guarire suo figlio che sta per morire”. Nicodemo
non fa un cammino sotto il sole. Lui vuole stabilire un rapporto con Gesù accademico, da maestro a
maestro, ed è già tanto che gli concede il titolo di rabbi. Invece questo padre si mette in una
relazione diversa: prega Gesù. Sia con Nicodemo come anche qui, Gesù sembra non ascoltare le
richieste e risponde enigmaticamente “se non vedete segni e prodigi voi non credete”.
Gesù ci fa sapere che l’atteggiamento di questo soldato che lo ha invocato è un atteggiamento
superstizioso, ritiene Gesù un mago. L’espressione “segni e prodigi” si rifà al Deuteronomio con
Dio che esercita il suo potere taumaturgico, una mentalità che è anche presso gli ebrei nel loro
relazionarsi a Dio nel cammino dell’esodo. Ma segni e fede, credere nei segni rimanda anche a
Gv20,20: questo sono stati scritti perché cediate.

83
Gesù fa capire che c’è bisogno di crescere nella fede, non toccare, ma accogliere la sua parola.
Relazione fatta di ascolto, accoglienza e risposta. È molto più importante il miracolo che la parola.
Il funzionario regio non se la prende per il giudizio duro di Gesù e non si irrigidisce, insiste nella
preghiera “scendi prima che il mio bambino muoia”. Diversamente da Nicodemo che andò a parlare
con lui di notte, l’ufficiale parla con lui nel pieno giorno: ora settima. Infatti l’ufficiale non si
offende di questo rimprovero di Gesù, ma come Davide nel Sal 51; riconosce la sua colpa con un
senso di LIBERAZIONE.
L’insistenza è un segno del cambiamento intervenuto in questo soldato: è come Maria che, pur
trattata duramente ,dice “fate quello che vi dirà” che indica apertura di fede. Mostra di non essere
chiuso in se stesso, di non giocare a fare l’offeso e questo apre all’azione di Gesù: “Va, tuo figlio
vive.” Ed egli “credette alla parola espressione sinonimica di Gesù = Parola” si mise in cammino:
cioè si mise sulla via di Gesù che è il cammino. Vuol dire vivere la propria vita orientati alla parola,
all’ascolto. Tuo Figlio vive è una parola anche su Gesù: lui è il Figlio che vivrà. A quanti lo hanno
accolto ha dato il potere di diventare figlio di Dio. In 3.33 invece: chi crede in lui ha la vita eterna:
infatti qui poiché crede, ha la vita.
Alla donna di Sicar Gesù ha promesso l’acqua che da vita, sorgiva, a questo funzionario “tuo figlio
vive”. È la fede che permette al padre di rinascere e sperimentare di nuovo una vita. “credette alla
parola”, un discorso che collega a Maria che credette alla parola. La fede è un cammino di crescita
nella comprensione della propria identità, nella comprensione di chi è Gesù e un modo diverso di
intendere la relazione. Come Maria, cresce nella comprensione del Figlio, cosi questo ufficiale che
si mette in cammino: è il cammino della fede.
Questo funzionario è descritto con tre appellazioni diverse in base alla sua crescita:
1) v. 49 “funzionario regio” quando è solo all’inizio di una relazione con Gesù, una designazione di
ruolo, sociale, chiusa nella categoria sociale;
2) v. 50 “quell’uomo credette”: tutti i fronzoli della retorica delle titolature sono spazzate vie: colui
che pone la fiducia nelle parole di Gesù nasce di nuovo, una nuova umanità;
3) v.53 “padre”: quando non è più una logica di potere o di semplice fiducia, entra in una relazione
capace di generare, quando ha accolto la Parola che ti fa figlio e ti rende capace di generare.
Questo sviluppo si può anche cogliere dalla prospettiva del figlio: 1) quando il padre è all’alto del
suo potere chiama il figlio paidion ragazzino, servo, come dire non hai potere, sei niente, sei
insignificante: ciascuno si relazione all’altro in base a ciò che ritiene importante. I servi lo chiamano
“pais” 49, servo, cioè lo chiamano come loro. Gesù lo chiama uios, figlio dandogli una dignità: è
uguale al padre, figlio nel senso stretto, profondo, un titolo che l’evangelista dà solo a Gesù. C’è
una trasferenza: ognuno coglie l’altro partendo dalla propria posizione. Per il funzionario è un

84
ragazzetto, per i servi pure è un ragazzo/servo; per Gesù e l’evangelista è FIGLIO- uguale al
PADRE. Solo nella fede in Gesù si giunge alla uguaglianza della dignità tra gli uomini.
“il padre riconobbe che proprio in quell’ora …” ancora il tema dell’ora. L’ora della passione,
dell’amore. A Cana “Non è ancora giunta la mia ora” è l’ora della passione. L’attrazione al mistero
della fede avviene dalla croce. L’essere attratti dalla croce è il dinamismo della fede. La fede
permette all’uomo di appropriarsi della vita che sgorga dal Cristo. La fede diventa diffusione, che
vince il mondo. “credette lui con tutta la famiglia”, diventa convincente e comunione.
Si ripete 3 volte “tuo figlio vive” (50, 51, 53). La guarigione di questo fanciullo diventa il segno
dell’efficacia della parola di Gesù: parola di vita, Gesù datore di vita. Oltre a indicare che Gesù dà
la vita e apre alla vita probabilmente indica anche di Gesù che vive a partire dall’”ora”, è adombrata
l’esperienza che Cristo stesso attraverserà.

Sezione 5-10.
Capitolo 5
Giovanni inizia a inserire le parole e i gesti nella cornice delle grandi celebrazioni giudaiche per
indicare che in lui si compiono le aspettative dell’AT. Cristo si presenta come il vero motivo della
gioia che è prefigurato nelle feste liturgiche. Lui è la gioia che è prefigurata nella liturgia. I termini
luce e vita compaiono con significativa presenza.
Da una parte c’è il giudaismo sterile (tante feste poca gioia: tante foglie e pochi fichi), dall’altro
Gesù, compimento della Gioia.
5,1 - “vi fu poi una festa dei giudei e Gesù salì a Gerusalemme”. Una festa forse pentecoste, e di
sabato, e il nome della piscina Betesda = casa della misericordia o casa della fedeltà di Dio. La
piscina ha 5 portici, probabilmente da riferire ai 5 libri del pentateuco: non si da festa senza gustare
la parola, la Torah. Nella Torah si trova il nettare, il miele della vita. Nella parola il giudaismo
ripone la speranza come qualcosa che da la vita. Gesù sarà la misericordia, la fedeltà di Dio, la fonte
della gioia. Sotto questi portici in contrasto con l’inizio del capitolo, e con la speranza attesa del
miele e del nettare di vita, un elenco di infermità: paralitici/ xeron= uomini secchi che non hanno la
linfa vitale in sé. Il rapporto con l’acqua rimanda a Cana e alle sue idrie. C’è dipendenza. 38 anni
ricorda il cammino descritto in Dt 2,14 (Il cammino da Kades a Barnea).
4
Dt 2,14 La durata del nostro cammino, da Kades - Barnea al passaggio del torrente Zered, fu di
trentotto anni, finché tutta quella generazione di uomini atti alla guerra scomparve dall'
accampamento, come il Signore aveva loro giurato.

L’immagine del popolo di Israele incapace di trovare la vita nelle acque della legge. Ormai il
giudaismo è atrofizzato e non è capace di guarire e dare vita. Come a Cana le giare vuote, il

85
giudaismo è incapace di liberare l’uomo dall’infermità. Gesù è venuto a curare l’impotenza
suscitando speranza. L’immagine è parallela, anche se molto più polemico e antitetico al giudaismo,
al discorso di Lc4,16-30 attualizzando le promesse di Is 61 in cui Dio prometteva di impegnarsi a
favore dei poveri. Lui è la piscina.
“un angelo infatti … il primo da qualsiasi malattia fosse affetto”. Forse una sorgente intermittente
che ogni tanto agitava le acque (non c’è conferma archeologica). Comunque fenomeni che attirano
la credulità popolare. Il messaggio è chiaro: chi è medico? L’acqua o qualcun altro? L’acqua che dà
la vita è Cristo stesso! La legge è impotente, ma se si aggiunge la grazia e la verità allora l’uomo
riprende vita.
Il perfetto angelo mandato a smuovere è Gesù. Da qualsiasi malattia: niente è impossibile a Dio, a
Gesù. Nelle icone antiche si rappresenta Cristo come un angelo. L’impossibilità è data dalla
chiusura del cuore dell’uomo incapace di fidarsi e di affidarsi al mistero dell’amore.
Gesù vede: non è indifferente alla situazione di ogni singolo uomo: “vuoi guarire?”. Fa suscitare un
movimento interno di adesione, verso di lui, corrispondente a quel “vedere” e “sapere” di Gesù
(vedendo lui, e sapendo che si trovava da molto tempo, dice). Lui che è il primo a venirci incontro,
vuole suscitare il nostro andargli incontro! Vedere, sapere e dire è il Dio che viene. Ma l’uomo deve
esplicitare il suo bisogno. Solo chi si lascia illuminare dal suo vissuto e si riconosce bisognoso può
essere guarito. È quello che ogni infermo che si riconosce tale desidera sentirsi dire.
“Signore, io non ho nessuno”, ci ricorda il “Non hanno più vino” ricorda “come posso rinascere” e
ricorda la parola della samaritana “dammi di quest’acqua”. “Signore, io non ho nessuno”, ci ricorda
il “Non hanno più vino” ricorda l’impotenza della carne a rinascere “come posso rinascere” e
ricorda la parola accalorata della samaritana “dammi di quest’acqua”. Descrive la solitudine
esistenziale che l’uomo prova davanti alla propria immobilità fisica e spirituale. È l’isolamento
adamitico che non lascia vivere l’uomo nella gioia e nella giusta relazione con se stesso, con gli
altri, con le cose, con Dio. Qui è Gesù che va incontro: nei vangeli la duplice dinamica: il malato
che và verso Gesù o Gesù che và verso il malato. La malattia e l’impotenza attrae l’attenzione del
figlio di Dio e verso il figlio di Dio. La risposta del paralitico è una presa di coscienza, una lettura
della vita come sforzo esistenziale, riconoscimento della propria incapacità. In questo “tento” è
l’apertura di fede alla vera acqua della vita che è Gesù: piscina e battistero e acqua in cui ci si
immerge. Ricordiamo il discorso alla samaritana. Chi viene a me non avrà più sete e diventerà una
sorgente di acqua zampillante.

Gesù si fa il suo prossimo. Qualcuno scende prima di me; ma questo prima di me – rimanda alla
professione di Giovanni: prima di Me è Gesù. La malattia e l’impotenza attrae l’attenzione del

86
figlio di Dio e verso il figlio di Dio. La risposta del paralitico è presa di coscienza, lettura della vita
come sforzo esistenziale, riconoscimento della propria incapacità. “tento” è la apertura alla vera
acqua della vita che è Gesù: piscina e battistero e acqua in cui ci si immerge. Ricordiamo il discorso
alla samaritana.
“alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina”. Egheire=risorgi. È lo stesso invito che si trova in Mc 2
all’infermo calato dal tetto. È la resurrezione che dona la capacità, la libertà. Non una semplice
guarigione di storpio, ma una resurrezione, un rinnovamento della vita illuminata dalla grazia di
Cristo come dice in 5,14 “ecco che sei guarito, non peccare più…” Solo il rapporto sincero con la
persona di Gesù può rendere la persona veramente nuova, veramente guarita. La guarigione è segno
del perdono che Gesù concede. Gesù non chiede neppure che lo segua, dimostrando una totale
gratuità, però lo ammonisce: non peccare più. Deve iniziare una vita nuova, guarire dal peccato, e
non solo dalla malattia. Senza dubbio il male che esiste è legato al peccato, ma non a livello
personale bensì a livello cosmico.
Prendi il tuo lettuccio – è ripetuto per 4 volte. La ferita diventa in Cristo trasformazione di Vita;
così come in Lui stesso: risorto trasformato ma con le ferite addosso dove fa mettere le mani a
Tommaso. In 2Cor 12: quando sono debole è allora che sono forte.
Giovanni non ci presenta una guarigione ma la resurrezione: l’uomo che viene sollevato perche stia
in piedi e cammini (halakh): il cammino della vita della fede (la halakha).
Solo il rapporto sincero dell’uomo con Gesù, l’acqua viva – è capace di guarire: egli è il vero
angelo. Non ho un uomo!!, --- al cap. 18. Pilato dice: ecco l’uomo!! (cf. L’inno greco-ortodosso:
Cristo rispose: come puoi dire non hai un uomo, quando io mi sono incarnato, sono diventato uomo
per te).

5, 9-18: quel giorno era sabato. Il libro del Dtr invitava al rispetto del sabato (Dt 5,12). La legge
ebraica vigente aveva codificato 39 cosa da non fare il sabato. L’ultima di queste cose, la 39°
Mishnah Sanhedrin 7,2, era il divieto di portare un letto. (Strak-Billengegk, Commentar talmud
aund Midrash, 6 voll. porta tutti i riferimenti dei vangeli che possono essere riferiti all’epoca). Non
si tratta qui solo dell’affermazione: è il sabato per l’uomo e non l’uomo per il sabato.
Sotto sta l’interpretazione del testo di Gen 2,2. Alcuni con l’interpretazione halakika dicevano che
tutto era vietato. Gesù invece fa una interpretazione hagadica – cioè di racconto, di comprensione
del mistero. Nel settimo giorno Dio consacrò quel giorno, lo benedisse il che è un opera.
V. 17: Il Figlio fa quello che fa il Padre: opera in quel giorno perché partecipa all’attività del Padre
che opera sempre. Egli porta a completamento l’opera della creazione.

87
I capi del popolo hanno compreso questo, e per questo lo contestano: non solo perché viola il sabato
ma perché si fa Dio (v. 18). Quella di Gesù è si una provocazione ma egli non può fare
diversamente: perché è la rivelazione si sé stesso come Dio: perché egli opera perché opera il Padre.
19-30: Gesù rivela la sua piena unità d’azione in unione col Padre. Il Figlio non può fare nulla se
non ciò che vede fare al Padre. Come il padre ha la vita in se stesso così ha concesso al figlio di
avere la vita in se stesso.
31-40: i giudei pensano di servire il padre rifiutando il Figlio. Gesù dice che l’agire del Padre non è
separabile da quello de Figlio. Chi ferisce il figlio ferisce il Padre. Gesù dice che nessuno può dare
la testimonianza di sé stesso. Anche se egli può farlo. Tuttavia porta quattro testimoni:
1. Il Battista uomo mandato da Dio ha reso testimonianza ai capi del popolo. Se avessero
creduto a lui avrebbero compreso Gesù.
2. Le opere stesse che Gesù compie: sono opera di rivelazione.
3. L’azione del Padre nell’intimo delle coscienze: testimonianza interiore che Dio concede a
coloro che si aprono alla sua azione.
4. Le Scritture amate e scrutate dai Giudei parlano di Lui. Una lettura onesta farebbe loro
capire che parlano di Gesù. Il problema è la durezza del cuore: non è la trasmettente ma il
ricevente che ha un problema.
Allora Gesù invece di 2 porta 4 testimoni ed è come se dicesse a loro: a questo punto l’incredulità
quindi è responsabilità vostra.
41-47: “non accetto la gloria degli uomini”. Aprirsi a Gesù comporta entrare nella logica della
gloria di Dio; la gloria della croce. Il problema allora non è l’identità di cristo o la complessità della
Scrittura, ma il cuore duro, il cercare la propria gloria e quella degli uomini: è il peccato della
superbia. Ci vuole l’umiltà per aprirsi al mistero di Dio. L’esempio migliore è il battista che
afferma: io non sono.

CAPITOLO VI.
Capp. 5-6 sono collegati strutturalmente. Iniziano con un segno (storpio/pane) a cui segue un
discorso. Il segno della moltiplicazione dei pani (6,1-15, cammina sulle acque 16-21; 22-28
discorso di pane di vita.
La Moltiplicazione dei pani: analisi e confronto con Mc 6, 34-45. Confronto. Anche in Mc dopo la
moltiplicazione abbiamo Gesù che cammina sulle acque. (Vedi allegato).

88
In Gv la folla reagisce e accorre da Gesù, in Mc no. In Mc si commuove della folla, mentre in Gv
prende l’iniziativa. In Mc l’iniziativa è dei discepoli che hanno i pani e i pesci. In Gv i pani e pesci
sono di un ragazzo. In Gv è Gesù che distribuisce, in Mc sono i discepoli.
La folla di 5000 indica l’abbondanza messianica. Gesù è tutto intento a nutrire la folla. Gli avanzi
devono essere raccolti perché nulla vada perduta.
Il pane di Gesù non è la manna di YHWH che non poteva essere conservata. All’interno del segno
questo viene superato: la folla lo indica come profeta. Ma Gesù si ritira nella montagna dalla quale
era sceso prima della moltiplicazione. Diversamente da Mc non si dice che si ritira in preghiera, ma
in solitudine per stare col Padre che è sempre con Lui: e inoltre per preparare l’epifania sul mare.

In Mc. Gesù non accetta la proposta dei discepoli di congedare la folla, ma rende loro capaci di
distribuire ciò che lui moltiplica. La folla non rende lodo perché non sa ciò che è successo: solo i
discepoli lo sanno.
La camminata sull’acqua. Oltre a Gv si trova in Mc e Mt. L’episodio in Gv è narrato dal punto di
vista dei discepoli, più che dal punto di vista di Gesù. Si tratta di una epifania: l’essere divino rivela
una sua qualità o messaggio ad alcuni.
Se confrontiamo Gv con i Sinottici. Vediamo queste somiglianze: Gesù è sulla terra e i discepoli
sul mare; i discepoli sono i pericolo; Gesù cammina e va verso i discepoli; i discepoli hanno paura;
Gesù si auto presenta ed è causa del superamento della paura; infine c’è la conclusione.
In Gv – i discepoli di propria iniziativa prendono la barca e vanno verso Cafarnao. La notte coincide
con l’assenza di Gesù. Quando vedono camminare sulle acque hanno paura, ma non lo ritengono un
fantasma. Gesù si manifesta nell’epifania: SONO IO. La sua manifestazione fa superare loro la
paura. Infatti Gesù non gli incoraggia: l’averlo visto e sentito è sufficiente. Infatti lo invitano a
salire sulla barca. Prima non c’è, poi cammina e si avvicina, vogliono prenderlo sulla barca (a
quanti lo hanno accolto….).
Non si dice se Gesù è salito sulla barca; ma che appena egli si avvicina e essi subito giungono a
riva. Gesù è capace di annullare la distanza che lo divide dai discepoli: sono venuto dal Padre, sono
usciti per annullare la distanza.
Gesù domina il mare, che è simbolo delle forze del male. Dio interviene contro il mostro marino
(Sal 89, 93, 104), e contro le onde (Sal 106). In Giobbe si legge un inno a Dio creatore che cammina
sulle onde del mare (TM) mentre nel testo greco si dice che cammina sul mare come sulla terra.
È l’unica volta che i discepoli in Gv hanno paura di fronte a Gesù.

Nei vv. 22-25 la folla si avvicina a Gesù.

89
L’unità è dato dal tema del pane di vita, con riferimenti alla shekinà, e anche al logos e alla sofia
come pane. Sir 24,20 – “quanti mangiano di me avrà ancora fame, quanti bevono di me, avranno
sete”. Pro 9,5; 9,28: “mi cercheranno e non mi troveranno”, tema sapienziale (Shir Hashirim)

22 – 71 Delimitare il brano. Gli elementi strutturali parallelismi, chiasmi ecc.


La tematica di fondo è quella della vita e della fede necessaria per averla.
Cf, struttura 2 dell’Allegato. Altri hanno tentato di leggere la struttura in 7 interrogativi e 7 risposte
lunghe e complesse da parte di Gesù. (Struttura 1 dell’Allegato).

Introduzione 22-25
Dopo la moltiplicazione la folla corre, ma non è nello stesso posto: Gesù deve essere cercato (cf.
cercare e trovare: tema sapienziale, cercare la Sofia il logos). Ma Gesù non si lascia trovare da
chiunque. È come la dinamica del cercarsi e nascondersi del Cantico che vive anche la Maddalena.
La gente cerca Gesù, perché non è racchiudibile nei schemi umani: ti ho trovato, ora non ti voglio
lasciare più, ti chiudo a chiave.

La prima pericope: 26-34 (cf. Allegato del testo concentrico).


25.11.08
Gesù non biasima le folle. È la ricerca simile come quella della samaritana che vuole l’acqua per
non tornare più a riempire. Infatti Gesù gli richiama a cercare il cibo che non perisce. Chiede un
impegno a mantenere vivo il rapporto con lui e non trasformarlo in un rapporto usa e getta. La gente
domanda spesso: cosa dobbiamo fare per compiere le opere (ergon) di Dio (v.29)? Credere in colui
che Dio ha inviato. La fede è l’unica risposta adeguata a Dio.
La Gente però non vuole mettersi in gioco, si tiene quel margine che “sono io a decidere”; infatti al
v. 30 chiedo un segno. La gente pensa: vedere per credere. La risposta dele vangelodi Giovanni è
Credere per poter vedere.

35-59 Gesù rivela la sua identità.


Prima sezione: 35-47. La fede.
I giudei partono da Mosè che ha dato la manna nel deserto. Gesùcontesta tutto. Anzitutto non fu
Mosè a dare la manna. Ma il pane vero è lui. VV. 41,48,48 Gesù è pane e vita. L’unica condizione
per ricevere questo pane vivo è credere in lui. Egli è venuto per fare a tutti il dono di sé, ma i giudei
non credono. Chi rifiuta Gesù-Pane non può gustare la vita che Gesù–Pane dà. Come nel Esodo il
popolo domandava man-hu (cos’è), così ora la gente si chiede chi sei e da dove viene. Ma i giudei

90
pretendono di conoscerlo: v. 42. Non è il figlio di Giuseppe?. Essi non conoscono ne il padre ne il
figlio, solo il Figlio può rivelare il Padre.
Però Gesù dice anche che nessuno può venire a lui se non attirato dal Padre (v.44). C’è la messa in
gioco c’è anche il Padre che ci attira: tutti saranno ammaestrati da Dio (v.45). L’ammaestramento di
Dio avviene però in Gesù, che è la Parola, l’attrazione del Padre

48-59: il pane nuovo.


Alla mormorazione dei giudei Gesù dice: io sono il pane vivo disceso dal cielo, darò la mia carne
per la vita del mondo. Non si può avere la vita senza credere nella sua morte per la vita del mondo.
La fede allora si esprime nel mangiare la sua carne e bere il suo sangue (54). La tua fede si misura
in chiave eucaristica. V. 57: chi mangia di me, vivrà per me e in me. Come il Padre, che è il vivente
ha mandato me, e io vivo grazie al Padre, così anche colui che si ciba di me. È un riferimento chiaro
alla missione ed evangelizzazione. Colui che è inviato da Gesù vive di GesùPane, eucaristia
Le affermazione di questa sezione hanno un carattere eucaristico. Il pane che io darò, argomento al
futuro. Ancora il verbo trogo – indica il mangiare in senso molto realistico. Il senso eucaristico..
La necessità del mangiare per avere la vita, è inteso insieme alla dimensione (Prov e Sir) di cibarsi
della parola,

60-66. i discepoli. Il linguaggio di Gesù pare duro ed essi abbandonano. Scleros, duro, significa
offensivo e impossibile da accettare. Mangiare la sua carne, e bere il suo sangue, e poi la
risurrezione… chi può intenderlo. Dalla durezza del cuore, si passa alla mormorazione (gogusmos),
termine deuteronomistico. La mormorazione era una spina nel cuore di Mosè, così si presenta anche
per Gesù.
La mormorazione esiste nella chiesa ed è brutta. Il problema non sono le questioni da affrontare,
ma il modo in qui si affronta. Invece di mormorare, si dovrebbe dire la verità nella carità.
La reazione dei discepoli è simile a quella di Nicodemo. Al vs.63 Gesù da a loro la stessa risposta: è
lo Spirito che dà vita, la carne non giova a nulla.
In vs 53. Aveva detto che la carne che dà la vita è quella del filio dell’uomo. Al v. 63 ci dice che la
sua carne è vivificata dallo spirito. Le parole che vi ho detto sono spirito e vita. Lo spirito vivifica la
carne e le parole: è una sintesi della teologia delle due mense: quella della parola e quella del copro
e del sangue.

91
67-71.. i Dodici e Pietro. Di fronte alla reazione negativa della maggioranza dei discepoli Pietro,
nella sinagoga di Cafarnao, fa la sua professione di fede. In Gv questa confessione di fede
corrisponde a quella di Mt16, 13-20. Per Mt e Mc Gesù si trova per Gv è a Cafarnao….
Nei sinottici Gesù domanda ai dodici cosa pensa la folla della sua identità. In Gv invece la folla è
presente a motivo dei pani, e il loro pensiero è espresso con l’abbandono. Non corrisponde alla loro
aspettative messianiche. Di qui la domanda di Gesù: volete andarvene anche voi? Cioè la pensate
come loro. Nei sinottici Pietro parla a nome proprio, qui invece parla a nome dei Dodici e potremo
dire a nome di tutti i credenti. Ciò si esprime con la frase il Santo di Dio, che riprende 1,14:
abbiamo contemplato la sua gloria come di unigenito di Dio. I sinottici mettono questa espressione
in bocca agli indemoniati.
In Gv non c’è il riferimento a Pietro come pietra della sua chiesa come in Mt16,18, perché lo ha già
anticipato. In Gv il cambio del nome avviene prima, perché Gesù conosce e investe nel futuro di
Pietro, mentre in Mt è in seguito alla conversione.
In 1,14 – abbiamo creduto, contemplato, la gloria.
6,69 – Pietro dice, abbiamo creduto, che tu sei il santo di DIO. Pietro con la sua affermazione: da
chi andremo? Ci fa capire come la fede nasce da una comunione con Gesù, da una esperienza che
egli ha fatto di Gesù.
Gesù non è presentato solo come Messia, ma come messia che dona se stesso il suo copro e la
parola di vita. Qui sta la differenza con i sinottici. Chi accoglie la parola e mangia il pane, è capace
di fare l’affermazione di Pietro.
Nell’insieme della sequenza si scorge una progressiva rivelazione di Gesù.
Ha la vita del padre,
la vita divina è concessa solo a chi crede che Egli è mandato dal Padre,
vive di Lui solo chi si nutre con Lui: il vertice della fede è l’incontro con Gesù-Eucaristia.
All’origine c’è il Padre che è il vivente (27) e può dare il pane vero (32), Il figlio che partecipa della
vita del Padre è pane vivo che dona la vita al mondo (33). La comunicazione della vita avviene a
tutti coloro che lo mangiano e credono alle sue parole. Questo nutrimento è forza per questa vita e
la vita eterna: insomma nutre la speranza.

I giudei distanziandosi dall’ascolto si distanziano dalla fede. Chi non crede ha la responsabilità,
tropo facilmente si dice: io non ho la fede, no mi è stata donata, beato te che c’è l’hai.

Cap 9.
Cieco, peccato, mondo – sono tre termini molto importanti.

92
Cieco 12X, Occhi 9X; vedere 7X, sapere, lavare, uomo.
Il racconto è centrato sul processo contro Gesù per la guarigione del cieco nato.
7 unità ciascuna delle quali ha un dialogo.
1-11, Gesù con i discepoli
8-12, i vicini
13-17 primo interrogatorio
18-23 – dialogo coni genitori
24-34 secondo interrogatorio
35-38 dialogo tra Gesù e il cieco
39-41- discorso di Gesù coni farisei.

Il dialogo dei discepoli con Gesù. E poi con il cieco. La luce o illumina o abbaglia.
I neofiti venivano chiamati fotismenoi – illuminati.
La guarigione è preceduto dal problema della sofferenza. I discepoli credono che la retribuzione
avviene in questo mondo. Quindi se uno è cieco, o ha peccato lui oppure i suoi genitori. C’è anche
la trasmissione del peccato; ancora ogni sofferenza nasconde una colpa.
Gesù annulla la loro domanda. Egli si concentra tutto sul cieco che gli sta dinanzi. È con i fatti che
opera sul cieco che egli parla e svela. È la vittoria della Luce (Gesù) sulle tenebre (la cecità, la
condizione di ogni uomo prima che vanga illuminato dal Logos, La luce rifulse nelle tenebre che
non la accolsero.)
I vv. 4-5 interrompono il racconto per darci la comprensione dell’opera di Gesù: è giorno, il
momento opportuno per operare le opere di Dio. Finché Cristo è nel mondo, egli illumina, ed è il
momento per la chiesa di operare. Il Gesto-Segno di Gesù sottolinea la gratuità dell’opera di Dio.
L’iniziativa è tutta del maestro. È rispetto al cap V, Gesù neppure gli domanda se vuol esere
guarito. Dio anticipa. Gesù interviene: quella cecità è per la manifestazione dell’opera di Dio.
Il fango spalmato sugli occhi, simboleggia la rinuncia al voler vedere, e il comando di andare a
lavarsi nella piscina di Siloe (shalah- inviato: l’etimologia infatti derivava dal fatto che l’acqua era
stata inviata nella piscina tramite il tunnel di Ezechia) lo invia a lavarsi in sé, in Gesù che è l’inviato
del Padre. Non posso vedere con i miei occhi ma con quelli rigenerati da Gesù. Certo il gesto di
Gesù allude anche alla nuova creazione che avviene nel battesimo: come il primo uomo fu fatto di
fango. Dice cieco dalla nascita, cioè che Gesù prende l’uomo così come è. Il rimando alla creazione,
infatti è più qui: cieco dalla nascita”, che non nel fango e saliva.

93
Per 14 volte il cieco ripete di aver recuperato la vista. L’illuminato diventa irraggiamento della luce.
Iin contrasto a questo c’è il rifiuto dei farisei, che non aprono gli occhi sulla possibile messianicità
di Gesù perché sono sicuri di ciò che conoscono.
Il rifiuto e la cacciata dalla sinagoga – sfondo il concilio di Iabne.
Il dialogo con Gesù. Il cacciato dalla sinagoga viene accettato nella comunità di Gesù. Però chiede
tu credi nel Figlio dell’uomo. Il cieco lo aveva ritenuto un profeta, ma ora dice chi è?. Gesù non
risponde IO SONO, ma TU LO VEDI. Il recupero della vista è legato all’obbedienza alla parola,
che vada a lavarsi. Ora il cieco, crede, obbedisce e vede, vede il Figlio dell’Uomo.
La disputa con i Farisei. Gesù dice si, siete ciechi, perché erano così sicuri che non lasciavno spazio
all’azione di Dio nella loro vita. Il loro peccato è quello di non sentirsi bisognosi di DIO, di vederci
da soli. L’altro peccato è quello della mancanza della speranza; sono disgraziato non c’è soluzione e
speranza. Sono due casi di superbia; perché si pone la speranza in sé e non in Dio.
La prima cosa che fa Gesù è quella di far prender coscienza di esser ciechi.

Vediamo un po’ la logica sottostante.


La prima parola che Dio dice nella creazione è Sia la LUCE. La luce iniziale non è un elemento
ottico, ma la rivelazione più sconvolgente del volto di DIO, che esce da sé ed è luce di comunione.
E la luce fu, non riguarda sole e stelle che verranno create più avanti, è lo splendore di Dio. La
creazione della LUCE si identifica con la prima parola di Dio. D’ora in poi LUCE-RIVELAZIONE/
PAROLA, è un binomio forte. Luce al mio cammino è la tua parola (sal 118). Agli ebrei dell’epoca
quindi dire io sono la luce, rimandava a Dio. C’era un midrash dell’epoca raccontato dai rabbini: le
bereshit uniscono la creazione, la luce e la parola. La creazione è la prima espressione ceativa di
Dio verso la luce. La luce è il primo effetto creativo della parola.
Le bereshit si domandano da dove è stata creata la luce. Rispondono Dio si è ammantato di Luce, ed
apri la porta per uscire e fu la luce dappertutto. Qui c’è il germe della uscita da sé di Dio.
Il termine OR/luce unisce Dio (Alef – il primo/la lettere che rinvia a Dio) con l’uomo (Resh- testa
dell’uomo). Quindi ancora prima del significato ottico, la luce è comunione tra Dio e l’uomo.
I rabbini dicono ancora che la terza creazione (quella del popolo) avviene con la nascita a Ur dei
caldei con Abramo. Ur – ha le stesse lettere di Or. UR significa fuoco ed è a oriente. La luce e il
fuoco partano da Ur dei Caldei come terza tappa della creazione, quella del popolo eletto. Infatti in
Esodo la nube luminosa è sempre rimando alla luce. Certo la nube è luminosa per gli ebrei, ma non
per gli altri che non sono dentro di essa. La stesa cosa dice Gesù ai farisei: Egli è la nube luminosa
per chi crede in lui, ma non per chi non crede.
27.11.08

94
Costruzione letteraria perfetta: domina il 7. 7X maestro, 7X……; 7X……
La luce che guida gli uomini. 1Gv 1,5-6, se camminiamo nella luce… siamo in comunione con lui..
Coloro che pretendono di credere senza cambiare la loro vita, sono mentitori. Chi si pone in
rapporto con Dio non può più vivere nel peccato; così come chi si espone alla luce non può vivere
nella tenebra.
Cap. 10.
Dal cieco nato si passa al pastore; è una lettura della storia del popolo d’Israele. Per i sinottici
l’immagine del pastore riflette la Palestina agreste (come pecore senza pastore Mt), mentre in Gv ci
si rifà ad un immagine biblica, specie quella della teologia dell’Esodo, il contesto è quello dell’aria
del tempio e non dei campi Palestinesi.
Nell’antico oriente era un immagine molto comune per esprimere il legame tra il re e il popolo.
L’Inno di Shemesh al dio sole: … illuminatore di tutti tu sei il pastore di tutti noi…..
In Israele Dio è chiamato pastore, pochissime volte come titolo, però la sua cura per il popolo si da
con immagini pastorizia. Giacobbe chiama Dio suo pastore (gen 49,24). Giacobbe si rifà all’uso
comune del suo tempo. Sal 48: tu guidasti come un gregge il tuo popolo. È la transumanza del
popolo di Dio. YHWH è un pastore che difende il suo gregge (es 15),che guida il suo popolo (su ali
d’aquila). Come un pastore fa pascolare il suo gregge. (cf anche Ger 31,10).
Il pascolo è la parola. In Ezechiele il Signore denuncia il comportamento dei pastori.
Infine il salmo 23: “Il signore è il mio pastore” che fornisce come pascolo alla sua pecora i teneri
germogli della primavera.

Il brano di Giovanni si divi de in tre sezione:


- 10, 1-6 Dominano i verbi entrare e uscire
- 7-10. Cristo porta
- 11- 18.Crsto pastore
Uscire – quando ha come soggetto il pastore significa condurre al pascolo, quando invece ha come
soggetto il gregge significa seguire il pastore.
Nel primo quadretto si oppone il pastore con il ladro e brigante.
Nel secondo quadretto invece si descrive il pastore che entra nel recinto e conduce fuori le pecore e
cammina davanti ad esse. Il significato è forte, è quello che fece Gesù (2,14) nella festa dei
tabernacoli, festa molto esodica.
Recinto – Gv. usa il termine greco aule, (177X nella LXX, e mai si riferisce all’ovile), almeno in
100 casi indica il vestibolo che si trova davanti al tempio o tabernacolo. In 18, 15 Gv usa questo
termine per indicare il cortile del sommo sacerdote.

95
Nel salmo 100, il popolo che è il gregge, gli altri e i recinti, invece sono quelli del tempio. Il pastore
delle pecore, è Gesù che entra per la porta come nuovo pastore di Israele.
Se lui è entrato per la porta, significa che chi è entrato in modo diverso è un brigante, partigiano o
ribelle (indicava il partito di Barabba Lc 23,19). Con questa metafora Giovanni non allude alla vita
pastorizia del paese ma alla storia della città. Gli zeloti avevano da poco tentato di prendere il potere
proprio entrando nel recinto, ma avevano fallito. Gesù dice: io non sono un qualsiasi brigante che
entra per una rivoluzione, io sono il vero pastore. Allora faccio uscire le pecore, exago, termine che
traduce jazza, il verbo usato in Esodo per far uscire il popolo dall’Egitto. Ora Gesù dice che deve
far uscire da Israele, dal tempio le sue pecore.
Al v. 4. Cammina davanti ad esse, ed esse lo seguoino – Dt 1,30: YHWH cammina davanti a voi e
combatte per voi.
Essenziale è il seguire Gesù.
Vs. 6. Non capirono. Cos’è era un enigma, un mashal? Essi non comprendono che sta parlando
della loro storia.

II sezione.
IO SONO la porta delle pecore. Ormai le pecore sono uscite dal recinto, devono entrare nel Regno.
Nei sinottici porta stretta, Entrare nel regno (mt 18), la porta si chiuse (mt 27). In Gv tutto si
concentra su Gesù, è attraverso di lui che bisogna entrare.
La prima idea è quella precisa della salvezza. La porta è un tutt’uno con l’edificio, per cui Egli non
solo è la porta ma è il nuovo tempio.
Tutti quelli venuti prima di lui sono in netto contrasto con Gesù. Denuncia i falci messia, venuti per
rubare e uccidere. Solo in lui le pecore trovano la piena libertà interiore espressa nella libertà di
entrare ed uscire: sentirsi a casa, e anche nel trovare pascolo: pienezza di vita.
Il Pastore- tema presente nell’AT, specie EZ 34. Vedi allegato del prof. confronto tra i due brani.
Il buon/bel kalos pastore – non dà, la vita ma depone la vita per le pecore: sottolinea il fatto che
Gesù dispone della sua vita in pienezza: si depone un vestito. Egli compie un atto messianico.
Il mercenario – è introdotto in contrapposizione con pastore. Il mercenario scappa, mentre il pastore
da la vita per le pecore. Ha stabilito un rapporto unico tra lui e le pecore. La conoscenza è reciproca
e rispecchia la conoscenza tra il Figlio e il Padre. La conoscenza ripetuta per ben 4 volte, va intesa
nel senso semitico e non greco. Jadah entrare in un rapporto esistenziale e reale con l’altro. La
conoscenza è dovuta al fatto che ha dato la vita per essi, e che da la vita ad essi, alle sue pecore.

96
La reciproca conoscenza è diretta, descritta dal kathos/come; non solo di somiglianza, ma perché
basato sulla conoscenza del Figlio e del Padre, e questa conoscenza del cuore che si dilata e viene
partecipata alle pecore/discepoli di Gesù.
Ho altre pecore, nei confronti delle quali il Pastore si comporta allo stesso modo. Oltre a quelle già
entrate nel nuovo recinto, nel nuovo tempio, ci sono quelle da condurre. La prospettiva
escatologica.
17-18, il vertice. Il padre ama il figlio perché compie l’opera di dare la vita per le pecore, depone la
sua vita. Ma lo anche perché depone la sua vita e la riprende; se la morte fosse l’ultima parola
sarebbe un fallimento. Infatti l’ultima parola è la ripresa della vita: la risurrezione. Il figlio può
disporre liberamente della sua vita. L’amore del padre da una parte e la libertà del figlio si
incontrano nell’unico intento della salvezza degli uomini. Quella che è la sua libertà e l’obbedienza
al padre nell’amore.
L’immagine dell’agnello è significativa quanto quella dell’agnello. Gv presenta Gesù iinun sisntesi
delle due immagini: pastore e agnello. Il primo saluto che Gesù ha ricevuto è: ecco l’agnello di Dio.
Le due metafore non sono mai usate cosi in riferimento l’una all’altra. Il padre pasce il suo gregge,
mentre l’agnello inizia con il Figlio di Abramo e compie in Cristo. In Ap. si dice l’agnello sarà loro
pastore. Il Padre sacrifica il Figlio divenuto agnello, cioè parte integrante del gregge, per recuperare
con amore il suo gregge.
In Ap poi ci sono le immagini dell’Esodo.
Delle pecore si ripete il conoscere. Si richiede la sequela del pastore maestro nei pascoli erbosi; una
docilità alla parola. Il Cristo non è riducibile a nozioni teologiche; è una persona col quale devi
instaurare un rapporto personale.
Accogliere significa essere agnello, la credibilità è espressa con l’essere agnello, disposto a dare la
vita per accogliere l’altro. L’immagine del pastore buono termina con la pecora buona. Se Dio
recupera la sua immagine amorevole di padre, pastore, l’uomo, le pecore devono ascoltare la sua
voce.
L’ascolto della voce, risponde alla sua chiamata e sperimenta la fraternità nella sua parola: un solo
gregge. Solo ascoltando la sua voce diventiamo un unico ovile. È la sua voce, la sua parola che ci
unifica. Un pastore il cui punto di riferimento è credibile.

11, 55 – 12,50 Gesù a Gerusalemme per la Pasqua della Sua vita.


È la terza pasqua che ci viene presentata, poi l’unzione, poi l’entrata a Gerusalemme, La venuta dei
greci, Il discorso sull’incredulità dei giudei; compendio (44-50).

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55-57. La Pasqua è presentata come la Pasqua dei giudei. Per Gv l’unica Pasqua è quella di Gesù
per la quale sta scoccando l’ora. Quella dei giudei è ormai giunta alla fine. Gesù srà innalzato e
attirerà tutti a sé.

12, 1-8; l’unione di Betania. Il profumo – per alcuni è simbolo della diffusione del vangelo, oppure
la regalità di Cristo, la sua gloria e divinità.
1. Lazzaro che aveva risuscitato dai morti è tra i commensali, cf. v. 9, Lazzaro che Gesù aveva
risuscitato dai morti…. È una inclusione per dire che Gesù dà la vita.
2. L’unzione in Gv è anticipo della risurrezione, mentre nei sinottici è segno che anticipa le morte
come imbalsamazione. Mc parla di due giorni prima, ma gli studiosi ritengono più certa la
cronologia di Gv che dice sei giorni prima della Pasqua, (il settimo/Ottavo giorno sarà quello
della risurrezione). L’unzione è segno della regalità; Gesù fa il suo ingresso nella città come il
Re.
3. Il riferimento alla creazione, ai sei giorni. Adamo creato il 6° giorno, il 6° giorno verrà ricreato
il nuovo Adamo nel suo innalzamento. Non per nulla dal suo costato nasce anche la nuova
donna, che si trova ai piedi della croce, Maria la nuova Eva.
4. Marta più dedita alle faccende, padrona di casa. Maria invece più riflessiva, di spalle tonde. Fa
pensare l’espressione Lazzaro commensale: non era a casa sua, oppure si riferisce al fatto che
era risorto.
5. Dell’unguento si esalta il profumo e la preziosità. Nella tradizione giudaica L’Albero della vita
e il profumo che esso emanava si rifà alla Legge, indica la Legge. L’haftara hashabat, è il
profumo del sabato, nel senso della legge, della simkha hattora (della gioia della legge).
6. Il corpo di Gesù è il definitivo albero della vita, che col suo profumo ti dona la vita, la
possibilità di attraversare il tempo fino al suo ritorno. Lo aveva detto in 11,25: io sono la
risurrezione e la vita.
7. La parola casa/bet – oikos, significa non solo casa ma anche famiglia. In 2,10 il tempio era
definito da Gesù casa di mio Padre. Il rapporto con Dio deve essere non istituzionale, religiosa,
o economica, ma familiare. Il riferimento a: distruggete questo tempio e in 3 giorni lo ricostruirò
significa ora che la casa del padre è Gesù: lui il nuovo tempio, la libertà, la nuova relazione
familiare del uomo con Dio. È l’amore di Dio che si espande nella casa, con il profumo.
8. Asciugare con i capelli – segno che l’amore è incontenibile nei gesti, nella forma nei segni. Solo
le prostitute andavano con i capelli sciolti. Ma essa è in clima familiare e non le importa
della’aspetto esteriore; la cosa più grande è Gesù che le sta davanti, l’amore, la casa di Dio.

98
9. Giuda, come i giudei che hanno trasformato la casa del padre in emporio. Il suo ragionamento è
come il loro! Trecento – Gv è preciso. In evraico i numeri sono con le lettere. Trecento
corrisponde alla Tau, che è simbolo della Croce. Giovanni vuol sottolineare, che il prezzo che
Gesù ha pagato è la croce.
10. Lasciala. Doveva conservarlo per la mia sepoltura. Conservare come il vino di Cana. Il verbo
tereo, conservare è collagato alla parola, e la parola è collegata alla vita, e questa si riceve dal
vangelo.
11. Molta folla corse anche per vedere Lazzaro. Gesù dà la vita che conforma alla vita di Cristo
risorto. Decisero di far morire anche lui, perché la vita di Cristo è vita di passione, così anche
quella di Lazzaro. In lui, nella sua morte siamo stati sepolti.

12, 12-19 l’ingresso a Gerusalemme


Nonostante la somiglianza con i sinottici ci sono tratti giovannei. La sottolineatura della pasqua, più
che della messianicità. Gesù qui si presenta come l’epifania del Cristo Risorto. Non c’è
l’ingiunzione dell’asino, ne il fico maledetto.
Gesù stesso si procura l’asinello e ci monta sopra da solo senza aiuto.
Duplice movimento della folla, quella che è con lui e quella che gli viene incontro: in mano hanno
le palme. Le palme rimandano alla festa della Cappane, alla Tenda Presenza della shekinà, Gesù è
la nuova tenda.

02.12.2008
Nel testo di Zc 9,9, omette l’aggettivo mite. Sottolinea la regalità di Cristo. La folla più che
osannare li rende testimonianza, insieme a Lazzaro alla regalità e divinità di Gesù.
Chiara affermazione del ruolo rappresentativo di Israele – il mondo gli va dietro: la salvezza è
offerto a chi va dietro a Gesù. Seguire è una risposta di libertà.

vv. 20-36: venuta dei greci e discorso di Gesù.


22-22. la venuta dei greci.
23-36 insegnamento di Gesù.
Tutto il mondo segue Gesù. I greci rappresentano l’altro gregge, anche quello Gesù buon pastore
deve guidare. Anch’essi vogliono vedere Gesù: vogliamo vedere Gesù. Al volere segue la messa in
atto.

99
Gesù risponde con il senso della vita. Fin ora il vangelo ha realizzato il tema, viene tra i suoi: le
feste liturgiche ebraiche, e la manifestazione in chiave esodica ebraica (sono la tenda, l’acqua, la
vita, il buo pastore…). Ora invece mostra se stesso a tutti ( i greci simboleggiano tutti).
È giunta l’ora che il FdU sia glorificato!. Nella domanda dei greci Gesù vede un segno: il giungere
dell’ora!!!! Quell’ora tanto attesa. L’ora della glorificazione del FdU, nella morte e crocifissione.
Infatti dice subito l’esempio del chicco di grano che muore e produce frutto. Essi non sanno che con
la loro domanda chiedono a Gesù di morire; lo stesso che Maria a Cana.
Voler incontrate significa assimilarsi a Dio. Vedere Gesù non significa vedere degli occhi, ma
significa essere visti da Lui. Bisogna esser come lui, fare come lui, dare la vita come lui:
consegnarla a lui, come il chicco di grano. Riconoscere che la vita appartiene a lui.
La voce dal cielo è il battesimo: è il Tabor Giovanneo.
La morte di Cristo piena glorificazione del Padre, è il momento in cui viene giudicate il mondo,
cacciato fuori il principe di questo mondo.
Quando sarò elevato, attirerò tutti a me.

Incredulità dei giudei.


Due scene. Vv 37-43 si registra un fatto: nonostante i segni compiuti i giudei non hanno creduto a
Gesù. Perché? L’evangelista risponde con una riflessione sul mistero dell’indurimento dei giudei.
Significa che la loro incredulità era prevista dal piano di Dio. Per entrare nella libertà dei Figli,
bisogna buttarsi, esporsi (cf. vs 42). Se uno fissa lo sguardo su di sé in cerca della propria gloria è
impossibilitato a credere vs. 43.
Si tratta di un intium fidei, che però viene soppresso, perché uno non si espone. In 5,44 – come
potete credere voi che prendete gloria gli uni dagli altri.
Gli oppositori alla luce del vangelo – sono chiamati addirittura sinagoga di satana (1 Tess2,15ss e
Ap 2,9; 3,9).
È bene ricordarsi che Giovanni ritiene responsabile della morte di Cristo il nostro peccato tanto
quanto quello dei giudei. E quanto alla responsabilità: insiste sui capi del popolo, non sul popolo. E
ricordiamoci che il vangelo e scritto per noi. Ricordiamoci il dito di Natan verso Davide, verso di
me: TU SEI QUELL’UOMO.
4
Ricordiamoci le parole di Paolo: 1 Corinthians 9:24-27 ¶ Non sapete che nelle corse allo
stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da
25
conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una
26
corona corruttibile, noi invece una incorruttibile. Io dunque corro, ma non come chi è
27
senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l' aria, anzi tratto duramente il mio

10
corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri,
venga io stesso squalificato.

vv. 44-50: Ultimo appello alla rivelazione pubblica di Gesù. La fede nella sua persona ha come
punto di arrivo il Padre. Gesù che aveva gridato per risuscitare lazzaro ora grida amoi tutti: Chi
crede…..

Capitolo XIII
Cap 13. C’è unità fino al cap 17. Si parla della pasqua e della morte. Passaggio dalla tenebra più
densa della morte per andare al padre.
C’è una serie di sequenze.
I) “la nuova comunità, la fondazione e il cammino”. Dopo l’introduzione in 13,1 due episodi
lavanda dei piedi e tradimento di giuda. Poi la carta magna della fondazione i vv 33-35.

Leggiamo 13,1-20. Titolo: La nuova communità fondazione e cammino.

v. 1 è il preambolo. “prima della festa di pasqua”. Si omette ogni riferimento di luogo. Gesù aveva
rotto con il tempio diventato sistema di oppressione e non di familiarità con Dio. Qui la pasqua è
quella della sua vita. “la sua ora, quella di passre da questo mondo al padre”. Gesù sta per
concludere il suo cammino verso il padre. Il passaggio sarà la croce dove egli si consegnerà per dare
la vita agli uomini. Giovanni sottolinea la coscienza che Gesù ha della sua missione e del tempo, del
momento che ha per vivere ai vv. 1, 3, 18,4 e 19,8. Non è avvinto dagli eventi, si lascia fare, ma è
lui che lo permette. È lui che si avvia verso la morte. Lui è cosciente di ciò che fa; lo vuole e lo fa.
Ora è giunta la sua ora.
Avendo amato i suoi “li amò fino alla fine” cioè fino all’estremo. Lui che aveva amato i suoi che
erano in mezzo al mondo (i suoi come nel prologo) dimostrò il suo amore fino all’estremo. I suoi
non l’hanno accolto tuttavia lui da il suo amore; amore gratuito. L’amore di Gesù segue sempre i
suoi. Completezza non solo del tempo ma anche del dono. La lavanda è segno del suo servizio. “eis
telos” si collega a “tutto è compiuto” sulla croce al cap 19. eis telos riprende il senso di pienezza di
cana delle giare: eos ano.
“mentre cenavano, il diavolo aveva già indotto giuda iscariota a consegnarlo”. Non si dice che cena
è, ma è una cena; momento di amicizia e di intimità. In 12,6 Giuda era presentato come ladro e
sfruttatore. Qui c’è l’idea dell’interesse personale in cui sta vivendo giuda che si trasforma in
omicida e menzognero.

10
“cosciente che il padre aveva posto tutto nelle sue mani”. Gesù ha piena coscienza della missione si
collega a 3,35 “il padre ha posto tutto nelle sue mani” e anche a 17,2 “poiché gli hai dato tutto lui
può dare tutto”. Tutto nelle sue mani: la sua vita e la vita anche dell’umanità, degli altri. Questo
tutto nelle mani collegato col tema dell’ora ha a che fare con la libera accettazione della passione. Il
padre non impone assolutamente niente a Gesù, lascia la piena libertà di azione. Il figlio non fa
nulla che il Padre non voglia; il Padre non fa nulla che il Figlio non voglia.
“che da dio procedeva e a Dio tornava”. Gesù sa quale è la sua origine ed è sicuro del suo iteneraroi,
del suo esodo; che la sua morte è la fine del suo cammino, estrema espressione del suo amore. La
morte diventa luogo della rivelazione dell’amore di Dio. Con estrema libertà dimostra l’amore come
servizio lavando loro i piedi.
“si alzò da mensa, deposto il mantello prese un panno e se lo legò alla cintura”. Un accumulo di
verbi: 7+1. Serve a giovanni a mettere davanti agli occhi la scena in ogni suo dettaglio. Un quadro
che resti sempre impresso: una azione, l’ultima, che è segno evocativo e rivelativo della identità di
Gesù. Giovanni calca ogni aspetto, non è semplice cronaca, ha valore di rivelazione. L’amore si
traduce in servizio. Depose il mantello e prese il mantello sono in parallelo con 10, 17: deporre la
vita e riprenderla. Quindi deporre il mantello è simbolo del deporre la vita.
Gesù si spoglia del mantello e si cinge di un panno, proprio di colui che serve. L’amore diventa
serivizio. Lavanda dei piedi era usata per dismotrare accoglienza e ospitalità, compiuta però da
parte di uno schiavo oppure al massimo da parte della donna al marito o dei figli al padre.
L’espressione si spoglia si ricollega all’altra in cui “riprese il mantello”. Non si dice che depose il
panno: rimano con lui, fa parte della sua identità: amore e servizio, dono totale fino alla fine.
In 10,17-18 Gesù parla di consegnare e riprendere, deporre e riprendere. Deporre il mantello
simboleggia il dono della vita e l’assunzione del panno del servizio= liberazione, purificazione
dell’amato. Con l’azione di lavare i piedi insegna quale deve essere l’atteggiamento: amare significa
prestare servizio all’altro fino al dono della vita. Nella bibbia il vestito non è mai un aspetto
esteriore, è la visibilità di ciò che uno è. L’abito fa il monaco per la bibbia, indica la dignità della
persona. Vestire di sacco significa la penitenza interiore.
“versò dell’acqua nel catino …” Quello di lavare i piedi era un servizio che si rendeva per mostrare
accoglienza e ospitalità. Questo lo compiva uno schiavo ma non giudeo. O una donna: la sposa allo
sposo o le figlie al padre. Segno di umiliazione, sudditanza e di estremo amore. Questo gesto di
lavare i piedi avviene prima del pasto, non durante. Questa è la stranezza ulteriore. Non è un
servizio qualunque. E poi dice “siete già puri”. Inoltre Gesù non chiede aiuto per questo gesto, fa
tutto da solo. Non si dice neppure l’ordine di precedenza. Si sottolinea il panno di cui Gesù si è

10
cinto “li asciugava con il panno…”. Tanto che quando rimette il mantello, non toglie il panno, gli
resta addosso il servizio che ha assunto. Il costato rimane aperto. È il suo amore.
Con questo gesto Gesù conferisce dignità. Non è un amore dall’alto, ma per indicare chi siete voi.
Siete commensaliCon questo gesto Gesù sta mostrando quello che si compirà dopo. Dio non agisce
come un sovrano celeste ma come un servitore umilissimo. Dopo la guarigione allo storpio di
betesda Gesù dice “Il padre ancora lavoro perciò anch’io lavoro”. C’è un filone della tradizione
ebraica che dice che Dio non si è fermato affatto dalla creazione nel sabato. Questo richiama Gesù
per mostrare la sua somiglianza al padre. L’amore di Gesù incarna ed eleva alla dignità, non è un
amore per concessione come a un pezzente. Nella casa del padre tutti signori perché tutti servitori.
L’amore crea uguaglianza e pari dignità. L’atteggiamento di Gesù si oppone a quello del potere
oppressore dei figli del diavolo che cercano la gloria e opprimono, mettendosi al di sopra. Dio
invece serve l’uomo, lo lava, lo ama e lo porta alla sua dignità. Non è la grandezza un valore che
egli per umiltà cede per far vedere quanto è buono. Non è concessione che vorrebbe sempre dire
una superiorità. L’amore mi fa figlio e mi abilita alla mensa. Se io ti lavo ti faccio capire che tu sei
come me.

Pietro infatti non vuole, dice di essere lui che dovrebbe lavare i piedi a lui. C’è un’enfasi dei
pronomi personali, Pietro capisce che c’è un’inversione di ruoli. Lui è un suddito e non ammette
una stessa dignità con il signore (infatti lo chiama Signore); ma Gesù è signore e deve rimanere tale,
per questo non accetta l’inversione dei ruoli. Gesù non si meraviglia dell’incomprensione di Pietro.
Gesù gli domanda di accettare di essere amato, che è la cosa più difficile. Gesù gli sta rivelando
il modo in cui il padre e lui li amano.
“non mi laverai mai i piedi per l’eternità”. Conserva ancora la logica di questo mondo. È se
stesso, non accetta che Gesù si abbassi, ognuno stia al suo posto, difende il rango di Gesù e il suo.
Pietro crede che la disuguaglianza sia necessaria, mentre l’azione di Gesù crea uguaglianza e pari
dignità. Ha paura di perdere le loro identità. Il vertice dell’amore è lasciarsi amare, lasciarsi
andare.
Gesù e il padre non vogliono schiavi, ma commensali.
- “se non lasci che ti lavi non hai nulla da spartire con me”. Tutti sono signori, Bisogna accettare
che non ci siano capi ne’ servitori. Ma bisogna entrare nella logica di Dio, nella logica dell’amore:
non si tratta di fare ma lasciarsi fare da Dio, poi si potrà anche fare. Finchè uno non si scopre amato
gratuitamente non può restituire l’amore; insomma non può amare autenticamente. Ricordiamo Mc
10 “vogliamo sedere alla destra e alla sinistra…”. Gesù qui è perentorio. È necessario che l’amore

10
di pietro sia rigenerato da Gesù con questo gesto. In un altro passo pietro prende di Satana, qui gesù
fa capire che la mentalità di pietro è incompatibile.
Pietro continua a non capire però accetta e gli dice di lavargli anche le mani e il capo, come un rito
di purificazione. Non pensava che quel lavaggio significava il sangue, l’amore. “colui che ha già
fatto il bagno…” non si tratta di un rito purificatorio, ma di servizio, come tale lo devi accettare.
Pietro è coraggioso, si butta, si lascia amare, si lascia fare. Non è questione di purificazione, ma di
servizio e di amore.
Esclude il significato rituale purificatorio. “Non tutti siete puliti”, c’è un discorso di purità che non
viene dall’esterno ma dall’interno. A nulla serve il lavarsi se non si apre il cuore: pietro infatti ha
aperto il suo cuore.
- “lavati i piedi prese il suo mantello…” Gesù non toglie il grembiule e riprende il mantello. Torna a
mensa. Il servizio prestato per amore non diminuisce la dignità, la libertà, anzi diventa tratto
identificativo di Gesù, dell’amore che come servizio giunge fino alla morte. Ora ha dato la vera
dignità ai commensali. Ora siedono a mensa come con un pari nella dignità.
- mi chiamate maestro e signore: Un discepolo non si permetteva di chiamare il maestro per nome.
Gesù lo ammette di essere Signore e Maestro, ma nella sua comunità i ruoli non fanno rango. “vale
a dire, vi lascio un esempio perché come ho fatto io facciate anche voi”. Questo è l’archetipo
dell’agire. “fate questo in memoria di me”. Fare eucarestia è amare come lui ha amato. Essere corpo
d’amore. Maestro e Signore nella sua comunità, non significa nessuna differenza di rango: gli ha
resi tutti uguali. Che la differenza non crei rango, per noi è ancora difficile da digerire. 14. Se
dunque IO IL SIGNORE e IL MAESTRO vi ho lavato i piedi…..anche voi dovete lavarvi i piedi gli
uni gli altri. Un amore – servizio, fino alla morte.
v. 16 “davvero vi assicuro un servo non è da più del suo Signore ne un inviato da più di chi lo
manda; lo capite? Beati voi se fate lo stesso”. (Cf. Mt 10,25) L’accoglienza della sua parola si deve
tradurre in atteggiamenti non solo interiori, ma in modi di comportarsi. Questa esigenza è espressa
in termine di beatitudine. Dissipa il miraggio di felicità proposto dal potere. Non si è felici
dominando ma amando, cioè nel servizio. Non si è felici in un atteggiamento di superiorità ma di
uguaglianza. Giovanni pronuncerà un’altra beatitudine “beati coloro che pur non avendo visto
crederanno” - beati: la pedagogia di Cristo è magnifica. Non dice maledetti coloro che non faranno.
Beati voi se le mettete in pratica.
Il fare eucaristico non solo come anamnesi, ma essere eucarestia, compiere una vita eucaristica.
Non solo si deve fare perché la detto Lui, ma lo si deve comprendere e vivere intensamente. Non
c’è niente di più bello che servire la persona amata.

10
Alzare il calcagno vuol dire fare lo sgambetto. Giuda crede che la felicità sia nel potere economico.
“quello che mangia il pane con me, ha alzato il calcagno contro di me”. È molto intimo e svela una
ferita nel cuore di Gesù. Sal 41,10 “anche l’amico in cui confidavo” e allusione anche a 6,58 “chi
mangia questo pane vivrà per sempre”. Si tratta di deturpare il gesto dell’amore. Per questo Paolo
dice chi mangia in modo indegno (non ci sei con il cuore) mangia la propria condanna. L’eucarestia
segno il pasto con i fratelli, significato la comunione con i fratelli. Per giuda è un segno senza
significato. Tradire l’amicizia, il segno del pane spezzato.
“ve lo dico find’ora prima che succeda, perché quando succederà…” Gesù si assicura che possano
interpretare i fatti che stanno per accadere. Di nuovo la consapevolezza e l’istruzione. IO sono Dio,
ma accetto tutto questo; di essere tradito, consegnato e messo a morte: tutto per maore.
“Chi accoglie…” l’accoglienza è l’amore.- riceve colui che mi ha mandato.

II parte. Vv. 21-32.


Ormai Gesù dice chiaramente che uno dei presenti sta per tradirlo, l’accento è posto su: uno di voi.
Gesù dice queste cose non per svelare il traditore, ma per offrirgli l’ultima possibilità di tornare
indietro e aderire a lui. Non lotta per dire ho ragione. In segno di amicizia offre a Giuda un boccone
di pane. La vita di Gesù corre il pericolo immediato. Sta per dimostrare l’amore fino all’estremo. È
l’odio di giuda che corre il rischio di portarlo alla morte. L’agitazione di Gesù è più per la perdita di
Giuda, il turbamento riguarda Giuda; quest’uomo non accetta l’amore di Gesù. Qui come in 12,27
è il Gestemani di Giovanni: Gesù ha sempre avuto coscienza della mancanza di adesione a lui, ma
è la prima volta che annuncia chiaramente il tradimento.
I discepoli non comprendono, intuiscono ma Gesù li fuorvia.
L’amore del discepolo amato, permette di penetrare i segreti del cuore. C’è intimità, appoggiato sul
petto: persona di confidenza di Gesù, identificato nella tradizione con Giovanni . Simon pietro gli fa
cenno di indagare. È grazie all’intervento di Pietro (e poi di Giovanni) che si può arrivare a
conoscere il mistero: ecclesiologia.
“colui per cui intingerò il boccone…” Gesù non denuncia. Ma le da occasione, manifesta il suo
amore.Nella lavanda Gesù ha mostrato il comandamento dell’amore. Ora mostra che l’amore
include anche colui che sta dando la morte, ci si deve dare fuor di ogni misura. Un amore che non
esclude nessuno nella lavanda, ma qui sottolinea che è ancora più forte verso colui che sta tradendo.
Il gesto di amore più grande lo compie verso Giuda. Gesù voleva bene a Giuda. Non svergogna, ma
protegge il traditore. Gli offre il pane, gli offre la sua accoglienza. Nella festa di pasqua e anche
nello shabbat era segno di deferenza, di rispetto, di attenzione. La carità tutto copre dirà sal
paolo, coprire in greco da dove arriva tegola, per coprire, non nascondere.

10
In questi versetti ricorre 4 volte la parola boccone. Non si dice di cosa sia, ne in cosa lo si intinga.
Non si dice se il boccone è di pane o di carne: lehem, oppure lhm. Il verbo intingere è lo stesso di
battezzare. Si allude forse alla carne bagnata nel sangue. Gesù offre a Giuda la sua persona. Il
gesto di Gesù invita giuda a essere dei suoi. Invece risponde odio all’amore. Se tu sei nella tenebra
non c’è niente di peggio che essere toccato dalla luce. Giovanni non dice che mangiò il boccone, si
gurda bene dal dirlo (chi mangia la mia carne e beve il mio sangue avra la vita). Giuda prende il
boccone, ma non si dice che lo mangia: cioè non fa propria l’offerta di amore di Gesù.
v. 27. Giuda prende il boccone ed esce per consegnare la vita di Gesù a coloro che vogliono
uccidere. Ormai ha interiorizzato satana, diventa un agente, un estenzione del mistero del male. Se
rifiuti l’amore, si scatena ancora di più l’odio.
“ciò che intendi fare fallo subito”. Gesù lo aiuta anche in questo suo pensiero di morte, non cerca di
forzarlo, gli ha mostrato il suo amore, e ora gli viene incontro anche con queste parole che gli
facilita la partenza, gli da una pace illusoria. Non lo ha svergognato davanti ai propri discepoli.
Rispetta la decisione libera del discepolo. È scandalosa la libertà che dà all’uomo. Se non vuoi il
mio amore va bene così, vai avanti così, non ti costringo a costo della mia stessa vita. Lo protegge
ancora dagli altri e gli da come la scusa per uscire, per andare a tradirlo. Giovanni ce lo annota che
nessuno dei commensali avesse capito di cosa stava accadendo. Qualcuno pensava che uscisse a
comprare qualcosa, in quanto teneva la cassa.
Parentesi di discussione. Il rifiuto di Giuda, è il rifiuto dell’amore e della misericordia di Dio.
quindi il prof. dice che probabilmente Giuda si è dannato perché ha rifiutato l’amore. Negli Atti
degli apostoli infatti si dice: un altro deve prendere il posto di Giuda, dopo che Pietro né da una
descrizione cruenta della morte di Giuda. Ora alla morte degli altri apostoli non risulta che per
ricomporre i 12 sia stato eletto qualcuno a sostituirli. Alla situazione di Giuda invece, la Chiesa e lo
Spirito che la ispirava ritiene di sostituirlo. Se Giuda si è salvato, si è salvato come apostolo, per cui
non c’era bisogno di sostutirlo. Ciò ci dice il rischio grande amnche per noi di stare vicino
all’amore, ma di restarne fuori. Il rischio della bestemmia contro lo Spirito Santo: è la sclerocardia,
il rifiuto dell’amore e della salvezza.

“subito uscì ed era notte”. Le parole di Gesù permettono a Giuda di uscire da un gruppo cui non è
più unito in nulla. Si porta via il boccone, cioè la vita di Gesù. Uscendo dall’agape fraterna con
Cristo, c’è solo notte.
“ora si è manifestata la gloria dell’uomo e così la gloria di Dio si è manifestato in lui”. La sovranità
di Dio si esercita nell’amore, non nello sbattere le persone al muro, amore nel rispetto dell’altro fino
a subirne tutte le conseguenze. Amore che non esclude nessuno, include il traditore e non lo giudica

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ma quasi lo accompagna nella libertà di agire contro di lui. Il servizio d’amore esclude qualunque
violenza: vuol dimostrare che l’amore è più forte dell’odio.
Ora compendia tutto quello che ha espresso con i gesti in un comandamento “amatevi gli uni gli
altri come io vi ho amati”.
“mi cercherete” riprende la frase dei discepoli di Giovanni al primo incontro. Mi cercherete: la
grande corsa dei dicsepoli alla ricerca del maestro (cap 20).
“voi non petete venire”. Nessuno può accompagnarlo in questo suo percorso: dopo i suoi discepoli
saranno capaci di seguirlo, ma nondi andare con lui. Voi restate qui e imparate ad amare come io vi
ho amato. C’è una rivelazione nuova, Dio non accentra verso di se l’amore, li manda ad amare
gli altri uomini. La vita e attività dell’uomo deve essere una espansione multiforme dell’amore di
Dio. Amore senza limite ne discriminazione alcuna. La capacità di diventare figli di Dio è la
capacità di amare, come Dio, come Gesù. L’amare il prossimo come se stesso, diventa ora amare il
prossimo come Gesù: il metro, la misura è Gesù.
“da questo riconosceranno che siete miei discepoli” L’amore deve essere dimostrato con un
atteggiamento concreto. Non si tratta di un sapere esoterico, ma dimostrazione di amore.
Mostreranno la possibilità dfi quest’amore al mondo. “se amate quelli che vi amano che merito ne
avete…”. Gesù creando questa comunità vuole creare lo spazio in cui esiste questo amore rispetto
alla tenebra del mondo. La visibilità della Trinità. L’identità del gruppo non è su regole, istituzioni,
leggi, trine e merletti, ma sulla possibilità e dimostrazione di amare come lui ha amato. La
celebrazione dell’eucarestia è ricordo incessante dell’amore di Gesù ma anche impegno della
comunità ad amare come Gesù ha amato “fino alla fine”. Nella consapevolezza che Gesù ci ama
anche mentre ancora noi non capiamo questo amore, come Pietro.
Amando gli altri si rende Dio presente in se stessi e si stabilisce l’unico rapporto possibile con Dio.

v. 36-38 il pseudo amore di Pietro. “gli domanda Simon Pietro: Signore dove vai?...”. “dove vado
non sei capace di seguirmi”. Gesù deve aprire il cammino dell’amore, se non lo apre lui non lo
possiamo seguire. “perché non posso seguirti…io darò la vita per te”.
Pietro non si sofferma su ciò che deve fare come discepolo; ma si sofferma su Gesù. Quindi gli
domanda: dove vai? Non si tratta di amare il Signore, ma l’uomo. Pietro non capisce che il
cammino verso Dio è il cammino verso l’uomo. Non si può dare la vita per Gesù perché nessuno
può sostituirsi a lui come salvatore. Pietro vuol dare la vita per Gesù, ma Gesù è inseparabile dal
gruppo. Quando vedrà l’immagine di Gesù maltrattato non resisterà e rinnegherà. Il vero discepolo
è colui che amato da Dio ama i fratelli. Allora diventa capace di amare come Gesù. Non si tratta di
morire per Gesù, ma per l’uomo, per il fratello. Gesù gli dice: accetta l’amore, accetta di essere

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amato. Seguendo Gesù l’uomo non si sacrifica a Dio ma fa di se il dono di Dio agli uomini. Già con
la lavanda dei piedi si era distrutta in pietro l’immagine del maestro. Ora ugualmente vuole dare la
vita per il suo Signore, come un subalterno deve fare; ma questa non è la logica di Gesù. Pur di
difendere la sua falsa idea di messia, Pietro finirà per rinnegare Gesù. Nonostante gli esempi e le
parole, Pietro non capisce. Pietro non capisce che non si può amare che lasciandoci amare. Bisogna
sentirsi perdonati per essere amati. A questo giungerà Pietro, che ancora non capisce, che vuol
amare a modo umano. Ma Gesù vuole che si ami come lui. Solo quando si sentirà dire per tre volte:
mi ami più di questi, solo allora Pietro si sentirà perdonato e quindi capace di amare.

Affermazioni sul paraclito nei discorsi di addio


5 detti sullo Spirito santo.
Vv 14,15-17 “…ed egli vi donerà un altro paraclito ..” A coloro che amano Gesù e osservano i suoi
comandamenti il Padre donerà un altro paraclito dice Gesù, perché “stia con voi per sempre”. Di
solito l’inizio del v.16 si traduce “io pregherò il Padre” mentre la traduzione più esatta è “io mi
rivolgerò al Padre”. Il verbo non è aiteo ma è erotao: Gesù è ritornato presso il Padre, si rivolge a
lui e gli manifesta il suo desiderio. È un rivolgersi, non semplicemente un pregare: una relazione
figlio-padre a tut per tu.
Il termine paracletos appare solo nei discorsi giovannei di addio ed è riferito allo Spirito e in
1Gv2,1 dove qualifica Gesù come intercessore celeste. Si discute su questo appellativo, valore
semantico e modello soggiacente. I traduttori hanno trascritto il greco paraclito. Un uso antico lo
traduceva come “consolatore” a partire da una etimologia sbagliata. Il termine viene da para-kaleo
chiamato presso, ma qui la forma è partcicipio passivo, mentre consolatore non è passivo. In lativo
ad-vocatus, chiamato presso qualcuno. Il primo significato quindi è quello di presenza: di esserci,
colui che è chiamato presso per esserci. La funzione: essere con voi per sempre, è la spiegazione del
termine. Poi dice un altro: quindi il primo paraclito è Gesù. La differenza tra Gesù e il Paraclito, è
che il Paraclito sarà con voi sempre. Il compito del paraclito sarà la Cristificazione dei credenti.
Infatti è chiamato lo Spirito di Verità: la Varità è Gesù, è la Rivelazione. Verità quindi è in
relazione a Gesù. Chi rifiuta Cristo non può accogliere lo Spirito
In quato primo brano il paraclito ha una sola funzione: “essere con voi pre sempre”. Cosa che
commenta il suo “altro nome”, infatti è detto “altro paraclito” rispetto a qualcuno che è già
paraclito: Gesù. A filippo “da tanto tempo sono con voi…”. Grazie al paraclito che Gesù avvicina a
se e lo distingue da se si realizza la promessa di Gesù “sarò con voi per sempre”.
Qual è questo paraclito che nessun altro evangelista cita. Egli è lo spirito di verità, espressione
propria degli scritti giovannei che rimanda a “Io sono la via, verità e vita”. Gesù è verità, che indica

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anche una discriminazione operata tra gli uomini: contrasto generato dall’accoglienza o no del
signore. “voi lo conoscete perché dimora presso di voi e rimarrà in voi”. I verbi al v. 17 sono al
presente eccetto l’ultimo. Sembra dire Gesù che i discepoli conoscono già lo spirito per il fatto che
dimora presso di loro. Come conciliare con l’affermazione di 7,39 “non c’era ancora lo Spirito
perché Gesù non era stato ancora glorificato”. La situazione post pasquale dei credenti sarebbe
anticipata come lo è anche la constatazione dell’incapacità del mondo di ricevere lo spirito di verità.
Come dice poco prima per il padre, “da ora voi cominciate a conoscere il Padre…”, così per lo
Spirito: Lo Spirito era presso di loro nella sua persona e potevano già cominciare a conoscerlo.
Essendo prossimi a Gesù sono prossimi allo spirito. Dopo la glorificazione del figlio lo spirito sarà
interno a loro come un fiume di acqua viva. È importante notare che lo spirito è donato dal padre:
questo corrisponde alla prospettiva del ritorno di Gesù al padre.

vv. 14,25-26
Le promesse delle opere erano legate alla condizione della fede (vv. 23-24). La fede è condizione
della realizzazione della presenza divina. La fede come osservanza e accoglienza della parola. I vv.
25-26 riguardano l’intelligenza di questa parola da parte dei credenti nel corso dei secoli. Grazie al
paraclito i discepoli potranno penetrare il senso, appropriarsi esistenzialemente di esso. “queste cose
vi ho dette mentre ero con voi, ma il Paraclito…vi farà ricordare tutto ciò che vi ho detto”.
Si distinguono due tempi: la rivelazione di Gesù, come tempo fondante, e la pienezza della
rivelazione che coincide con il tempo del Paraclito.
Il v. 25 è una lettura partendo dal fatto che Gesù si sente già presso il Padre. Grazie al paraclito le
parole di Gesù si chiariranno più che quando le hanno udite.
Questi versetti ci fanno capire la profonda comprensione del mistero del figlio di Dio che
l’evangelista ha avuto grazie allo spirito. Comprensione non solo esperienziale dunque.
Il v. 25 dice tauta lalauta queste parole ve le ho dette è simile a “questo gesù disse” che sigillava
l’attività pubblica caratterizzata da incredulità (12,26). Qui dopo la compagnia sulla terra si
manifesta che il paraclito porterà a pienezza quella compagnia. Il v. 26 culmina su “tutto quello che
vi ho detto” che si riaggancia all’inizio del versetto: l’attività del figlio è rivelazione. Gesù non ha
parlato da se stesso ma secondo le parole del padre (14,10.24). A sua volta il paraclito trasmette la
dottrina di Gesù. Sinergia tra paraclito e Gesù, non concorrenza.
Due verbi sulla funzione del paraclito. Funzione di insegnare e far ricordare. Didacsei kai
ipomnesei, questo kai è probabilmente esplicativo epesegetico “insegnare cioè ricordare”.
L’insegnamento consisterà nel far ricordare le parole di Gesù. Nella Bibbia il verbo didasco ha il
significato di “interpretare autenticamente la Scrittura” e anche attualizzarla. Nel Vangelo di

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Giovanni conserva questo significato: comunicare dall’alto una verità con l’autorità necessaria. Il
Paraclito introdurrà i credenti nell’intera verità della Scrittura. 6,45 “saranno tutti ammaestrati da
Dio”.
Lo spirito datore di vita, perché da la parola che è luce e vita: Cristo.
Quello che i profeti dicevano della legge, si realizza con lo Spirito. L’accento è posto sulla totalità
di ciò che è rivelito. Il paraclito esercita l’azione dall’interno delle coscienza: “vi farà ricordare”,
con non è solo rievocazione di un fatto passato, ma una presa di coscienza del gesto passato, come
in Mc 8,1 “non ricordate il fatto dei pani…”. Il tema della memoria deriva in giovanni dall’AT. Il
libro del deuteronomio è teologia della memoria. Facendo ricordare ai discepoli lo spirito fa
cogliere il significato fino ad allora oscuro, cioè cogliere il filo rosso che collega tutta la storia.
L’evangelista commenta in 2,21-22 “egli parlava del santuario del suo corpo…i suoi discepoli si
ricordarono…” e anche in 12,16 “sul momento i discepoli non compresero…poi ricordarono…”,
che è una comprensione maggiore. La comprensione presuppone l’evento pasquale. La
comprensione è data dallo spirito. Così la comunità è il luogo dove la rivelazione è sempre
nuovamente compresa e attualizzata. Le promesse di Gesù si rivolgono all’intera comunità che
crede. 1gv22,20 parla di una unzione che istruisce: il crisma è lo spirito che porta a pienezza la
istruzione dei credenti.

15,26-27 “quando sarà venuto il paraclito…lo spirito di verità …è lui che mi renderà
testimonianza…”
Molti critici ritengono questo brano interpolato, ma invece bilancia l’effetto negativo del brano
precedente e in armonia con il pensiero dell’insieme. È un contenuto positivo. Anche dal punto di
vista grammaticale c’è legame. Anche questo terzo brano annuncia che il parclito verrà dato ai
discepoli. Qui è Gesù che lo manda immediato e non il padre che lo manda su sua richiesta o in suo
nome. Però dice “vi manderò il paraclito da presso il padre”, e poi “…che procede dal padre”.
Queste espressioni hanno suscitato controversie. Il contesto sembra indicare non l’essenza ma la
missione dello Spirito, cioè la testimonianza su Gesù. Il ruolo dello spirito è quello di testimoniare.
Si parla di marturia già dal prologo. Nei discorsi di addio ricorre come una funzione combinata del
paraclito e dei discepoli. Negli annunci sinottici della persecuzione si diceva che il ruolo dello
spirito era di assistere i credenti davanti ai tribunali esempio in mt 10,20 “lo spirito del padre vostro
che parlerà in voi”. La fermezza dei discepoli di fronte ai giudici sarà la loro testimonianza. Il
contesto una concreta situazione giudiziale. Qui giovanni non parla di situazione di giudizio, anche
se in senso lato c’è un giudizio permanente di coloro che non credono verso i credenti. Lo spirito ha
il ruolo di rendere testimonianza di fronte all’incredulità. Unico oggetto anche se si para di una

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testimonianza del paraclito ai discepolo e poi dei discepoli. Il paraclito confermerà loro la verità che
riguarda il mistero del figlio e allora i discepoli renderanno testimonianza. Dunque una
testimonianza raddoppiata, su un unico oggetto il mistero del figlio, con lo scopo di produrre la vera
conoscenza del figlio e della sua missione di rivelazione del padre. È un discorso più ampio che non
la testimonianza in giudizio. Si può parlare di missionarietà non solo dunque di una funzione
difensiva.

16,7-11 “ed egli venendo convincerà il mondo quanto al peccato…” Questa pericope evoca un
processo in cui Gesù è messo davanti al mondo e anche un giudizio di condanna contro il principe
di questo mondo. La traduzione cei non corrisponde al testo “se io non me ne vado non verrà a voi
il paraclito”.
Il verbo elenkein , istruire una causa, …..
Più che convincere il mondo, che significherebbe che il dialogo del paraclito sarebbe con il mondo,
in realtà è con i credenti, la traduzione più corretta sarebbe “egli venendo stabilirà la colpevolezza
del mondo”. I credenti possono essere in dubbio sul fatto che il mondo possa aver ragione. La prima
opera dello spirito guarda i credenti e li convince. “in materia di peccato, di giustizia e di giudizio”.
L’argomentazione attribuita al paraclito riguarda un processo in corso in cui la sentenza è stata
pronunciata da Dio. Il termine condannare è un passivo divino. Dietro la persona di gesù al centro
della crisi che si propaga ai credenti c’è la contrapposizione tra il principe di questo mondo e Dio.
Gesù è accusato di bestemmia e minacciato di morte. Giudicato da essi proseguiva la propria
vocazione. Sembra che abbia perso perché il primo tempo del giudizio sembra far pendere la
bilancia dalla parte del sinedrio: malfattore. L’evento pasquale ha smascherato la verità del
giudizio. Gesù garantisce ai discepoli che egli è glorificato presso il padre. Egli fa comprendere
quel che è successo con l’innalzamento di gesù. Un giudizio di appello è quello in corso: tre capi di
accusa peccato, giustizia, giudizio.
Materia di peccato: “essi non credono in me”. Questa opera dello spirito nel cuore farà capire che il
vero peccato è non creder in gesù. Il peccato è la non accoglienza della parola, della luce, la apistia.
Peccato esiste solo in riferimento a Dio in un atteggiamento contrario a quanto Dio propone
all’uomo. Nel cap 8 Gesù sfida i suoi interlocutori a convincerlo di peccato e si usa il termine
elenchein che qui viene usato per lo spirito. Squalificando Gesù e il suo messaggio il mondo resiste
a Dio, questo è il peccato. Quella di giovanni non è teoria, ma una realtà: la resistenza alla parola
rivelante di Dio. 1Gv5,5ss “chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è figlio di Dio…ed
è lo spirito che rende testimonianza perché lo spirito è verità…spirito acqua e sangue e questi tre
sono concordi…la testimonianza di Dio è quella che ha dato al suo figlio…se uno vede il proprio

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fratello …c’è un peccato che conduce alla morte, per questo dico di non pregare” è la apistia, è il
peccato contro lo spirito. Hai tagliato il tuo rapporto con la vite: sei secco. Il vero peccato è il rifiuto
della rivelazione. Lo spirito renderà ragione nel cuore che Dio non ha lasciato nulla di intentato.
Giustizia. “perché io ritorno al padre e non mi vedrete più”. Non si parla di dirittura morale, ma in
un contesto processuale è colui che esce vincitore, giustizia resa. La giustizia del primo tempo è che
fosse un bestemmiatore e dunque messo a morte. La giustizia che lo spirito fa capire è diversa:
l’assenza di Gesù è il suo ritorno al padre, questa è la giustizia vera. Lo spirito farà percepire la
assenza come vittoria, la sua invisibilità come segno della sua ascesa al padre: al sepolcro “non è
qui è risorto…”. Il non esserci non è segno della vittoria dell’avversario, ma della glorificazione.
Il ruolo dello spirito poi deve superare le frontiere: Giudizio. Il principe di questo mondo è ormai
condannato. Mentre aveva condannato a morte Gesù, essendo stato risuscitato da Dio, il principe di
questo mondo è stato condannato. Verbo al perfetto: azione al passato che continua nel presente.
Ascoltando lo spirito i discepoli non dovranno più dubitare della verità della fede: hanno le chiavi
per comprendere la verità della giustizia resa a Gesù e del giudizio del principe di questo mondo.

vv. 16,12-15
Qual è l’effetto di questa vittoria nella esitenza dei discepoli? Lo spirito porterà alla piena
appropriazione della verità del figlio. “quando verrà lo spirito della verità vi condurrà alla verità
tutta intera”. Ancora due tempi: il tempo di gesù di nazareth e il tempo dello spirito che li guiderà
all’intera verità. Sono due agenti due ma unici nel loro agire. Il paraclito è l’interprete autorizzato di
Gesù. L’azione è quella di guidare verso l’intera verità, esprimere ciò che avrà udito, ciò che è del
figlio. Odegesei da odos e ago, vi condurrà, sembra riecheggiare il sal 24,5 “conducimi verso la
verità”. Questo desiderio nella tradizione biblica della necessità di Dio che guidi. In Is 63,14 “lo
spirito discese da parte del signore e li guidò”. Nell’AT è Dio, qui diventa la persona dello Spirito.
“ho ancora molte cose da dirvi”, sembrerebbe antitetico a “vi condurrà alla verità tutta intera”. La
verità non è ciò che oggettivamente pronunciato, ma la pienezza del mistero. Non è che Gesù abbia
taciuto qualcosa che lo spirito riveli aggiungendo. Non si tratta di verità molteplici alle quali lo
spirito condurrebbe progressivamente. Si tratta di portare a pienezza il significato di quello che gesù
ha detto, e ha detto completamente, generosamente. “infatti non parlerà di sua iniziativa…prenderà
del mio e ve lo comunicherà” Come Gesù non parla di sua iniziativa, anche lo Spirito: lo spirito
ascolterà da Gesù come Gesù stesso ascoltava dal padre. Un rapporto di dipendenza. La parola non
risuona nelle orecchie, ma raggiunge il cuore (quella dello spirito).
“vi comunicherà ciò che sta per avvenire” ta ercomena: non si parla solo dello svelamento del
futuro (nostradamus) non è infatti ta escata, è lo spirito che da il senso vero della storia, la

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percezione di ciò che sta accadendo come si concorda con la storia. In altre parole lo spirito farà
leggere i segni dei tempi: ciò che accade come significato storico, mentre sta accadendo. La
simultaneità la può dare solo lo spirito.

La vite e i tralci Cap. XV


All’interno de discorso di addio. Tema della glorificazione, della prtenza e ritorno, della comunione
come presenza del Signore in mezzo ai suoi.
Portare frutto (karpon feron) 7X, mentre rimanere (menein) 10X. Tutto si concentra sul come fare
perché il tralcio porti frutto, ossia come fare perché il discepolo porti frutto nella sua missione.
Importante prendere coscienza della importanza della vite, che da quella bevanda che rallegra il
cuore dell’uomo (Sal 12). Nel Cantico la sposa per dire la gioia e allegrezza dice: egli mi ha
introdotto nella cella del vino.
D’avanti al tempio c’era la vite d’oro dove venivano appesi degli grappoli d’oro come ex-voto.
Osea 10:1 Rigogliosa vite era Israele, che dava frutto abbondante; ma più abbondante era il suo
frutto, più moltiplicava gli altari; più ricca era la terra, più belle faceva le sue stele.
Cf. poi Isaia 5 e il Canto del mio diletto. La vite è vista come la sposa, ma produce uva acerba. Il
suo frutto non corrisponde al lavoro e all’affetto del vignaiolo.
Ger 2,21-22; – Ti avevo scelto come vigna preziosa, ora sei diventata bastarda. (vedi il
cambiamento tra vite (shorek) e pruno (sorei). La vigna è oggetto di cura del vignaiolo, ma è
diventata bastarda.
Si noti La degenerazione dell’immagine da Isaia che diceva solo l’una era bastarda; a Geremia ceh
dice la vite è diventata bastarda.
Ezechiele riprende l’immagine (Ez 15). Che pregi ha la vite come legno in confronto agli altri? Si
può solo buttare al fuoco. Bene così tratterò gli abitanti di Gerusalemme, dice il Signore. Come la
vite è scelta e diletta tra le piante, cosi Israele: diceva il popolo che si vantava. Ma Dio dice o la
vigna produce uva come si deve, oppure è inutile.
Insomma l’immagine della vite, descrive una storia di infedeltà che va a peggiorare.

Gesù riprende l’immagine profetica e la riferisce ai vignaioli omicidi in Mt 21. L’agricoltore aveva
mandato i profeti (servi) giunge all’atto supremo di mandare il figlio. Ma gli operai lo uccisero fuori
della vigna. Cf Eb che dice fu ucciso fuori dalle mura della città.

Quale chance ha il Signore per salvare la sua vigna, visto l’immagine pessimistica della fedeltà
ripresa anche dai sinottici???

11
Gv fa un capovolgimento dell’immagine: la redime. Giovanni ci dice: LUI è la nuova, vera ed unica
vite, siamo tutti innestati in lui. Le uve possono maturare, in lui. Per questo in Ap 14,18 l’angelo
può dire getta la tua falce per cogliere i grappoli d’uva.

Gv 15,1-8.
Gli ascoltatori avevano chiara l’immagine della vite, inoltre l’avevano davanti agli occhi, sulla
facciata del Tempio. Nell’annuncio di Mt si parla solo della bontà del Padrone e sugli operai
omicidi, ma non parla della vigna. Giovanni cambia registro: concentra il discorso sulla vigna, in
positivo. Non per farne una metafora dell’infedeltà dell’uomo, ma un metafora della fedeltà di Dio.
Il Figlio è il nuovo ceppo della vita. All’uomo resta il compito più facile di essere innestati alla Vite
(Cristo) da parte dell’Agricoltore (Dio). A noi basta rimanere: prendere atto, assecondare l’opera
del Padre.
I verbi riferiti a Gesù: IO SONO, rimango, ho parlato. È la vite! Quella vera! Cristo è la fonte di
esistenza come la vite per i tralci. Noi siamo ciò che i tralci sono per la vite: il prolungamento del
suo essere. Egli è tutto per noi, e noi siamo tutti per lui (Cant).
I verbi di chi coltiva la vigna: toglire (airei) e potare (kathairei). L’opera del Padre è una
potaturaradicale e periferica. Ciò significa che l’opera del padre ha effetti tutt’altro che semplici.
Dio è un educatore esigente. Dio non può essere ridotto ad uno stumento che amortizza le difficoltà
del nostro cammino e basta: Dio ci educa con la potatura, la correzione.
Il tralcio fruttifica se rimane nella vite, e viceversa: se rimane nella vite porta certamente frutto.
Dare efficacia alla preghiera rimanendo in Lui.
E si rimane in Lui, rimanendo nella sua Parola. Vivere attualizzando la Parola del Maestro sotto la
guida dello Spirito Santo. Dimorare in Lui. Non c’è amore se non c’è Ascolto, se non c’è rimanre
in.

9-11. Rimanere nel mio amore.


La quelifica del cristiano è rimanere in Gesù, che significa rimanere nell’amore. Il vero amore attira
gli amanti nell’amore dell’amante. Non è la mistica astratta ma la dinamica più concreta dell’essere
cristiano.
Amore, osservanza dei comandamenti e gioia. La nostra umanità custodisce un eco che ci rende
simile a Dio. L’uomo non sarà pienamente uomo se non quando sarà Dio, quando si divinizza.
Tra le due realtà uomo-Dio. TU sei il Dio della mia difesa perhe mi respingi (sal 43,2). La nostra
affinità con Dio ci viene mostrata ed è realizzata da Gesù. Il verbo errompe da Dio per ricondurci a
Lui. Nessuno può entrare in questo mistero d’amore se non con il figlio. Allora rimanere nel mio

11
amore, significa che non c’è nessun rimanere se non nell’amore, e questo amore è quello della
croce.

Cap 18-19 La passione

Giovanni inizia il racconto con l’arresto di Gesù. Vv. 18,1-11. Conosce il turbamento di Gesù e lo
anticipa e l’abbandono dei discepoli. Ricordi disseminiati, forse perché attinge a una fonte diversa o
forse perché lega questi ricordi a una teologia. Il disegno complessivo e le singole parti sono
particolari in Giovanni. È come se tutto diventasse segno. In giovanni la passione è come un
compimento, non la conclusione di una vita. Il punto più alto della rivelazione di Gesù. 1,19 cap
13-17 di fronte ai giudei. Ora 18-19 di fronte a tutto il mondo. La passione è la risposta del mondo
alla rivelazione di Gesù: un rifiuto. Ma anche la smentita davanti al rifiuto del mondo: colui che è
rifiutato è il vincitore. Ma anche una risposta di amore davanti al rifiuto: l’atteggiamento di Dio.
L’amore di Dio si manifesta di fronte al rifiuto.

Giovanni ha sottolineato l’impotenza dei giudei: 7,30 7,44 8,20 ecc. è Gesù che dirige gli eventi,
questo sottolinea Giovanni. Non lo possono prendere finchè non giunge la sua ora. Solo quando
dice su alzatevi adiamo, allora è giunta la sua ora e possono prenderlo. Sulla crosce Gesù è
sofferente ma in un alone di maestà e di gloria, fino sulla croce, dove pronunzia parole calme e
solenni: “tutto è compiuto”. Il figlio rivela la potenza salvifica su coloro che credono. Non è la
gloria dopo la debolezza, né accanto ad essa, ma la gloria nella debolezza. Giovanni fa emergere
come nella passione si rivela l’identità, la gloria, la signoria di Cristo.
L’ultimo passo, l’ultima udienza verso l’inquisito Gesù nel vangelo di Giovanni inizia con l’uscita
di Giuda che ha preso il boccone.

Dal punto di vista della narrazione letteraria la struttura della passione è divisa o in 5 o in 3 parti che
avrebbe il vantaggio di una divisione con lo stesso numero di versetti.
La parola giardino (18,1 e 19,41 ). Giovanni omette diverse cose rispetto ai sinottici: l’agonia
nell’orto ecc…. bacio, simone il cireneo. VEDI ALLEGATO DEL PROF.

I primi 11 versetti ci pongono davanti l’arresto di Gesù. O meglio di Gesù che si lascia arrestare. De
la Potterie dice, del confronto di Gesù con Giudei e Romani.

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18:1 Detto questo, Gesù uscì con i suoi discepoli e andò di là dal torrente Cèdron, dove c'era un giardino nel quale entrò
con i suoi discepoli.
18:2 Anche Giuda, il traditore, conosceva quel posto, perché Gesù vi si ritirava spesso con i suoi discepoli.
18:3 Giuda dunque, preso un distaccamento di soldati e delle guardie fornite dai sommi sacerdoti e dai farisei, si recò là
con lanterne, torce e armi.
18:4 Gesù allora, conoscendo tutto quello che gli doveva accadere, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?».
18:5 Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro Gesù: «Sono io!». Vi era là con loro anche Giuda, il traditore.
18:6 Appena disse «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra.
18:7 Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno».
18:8 Gesù replicò: «Vi ho detto che sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano».
18:9 Perché s'adempisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato».
18:10 Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori e colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò
l'orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco.
18:11 Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse bere il calice che il Padre mi ha
dato?».

Giovanni costruisce una scena su due piani. Costringe il lettore a passare da un piano all’altro.
Alcuni tratti fanno capire che il fatto è reale,
altri elementi fanno capire che la narrazione è trasfigurata. Non tradito, ma trasfigurato.
Giovanni trasforma il nudo fatto e lo rende trasparente cogliendo la nuda verità nella sua pienezza.
Il racconto è una esposizione teologica secondo Snackemburg. Non è una illustrazione teologica di
una dottrina, non illustra qualcosa che sta di fuori o di sopra di esso, ma libera i fatti dalla loro
opacità e con la fede penetra la verità, la fa vedere nella sua pienezza. Dichiude mediante gliocchi
della fede, i fatti che altrimenti non si comprenderebbero, ma non inventa. Proprio perché Giovanni
trasfigura il racconto si mostra più storico degli altri. Penetra gli eventi e ne mostra la verità
profonda. Una cronaca precisa non potrebbe darci una lettura più oggettiva dei fatti.
La cronaca viene in più punti sconvolta non per inserirvi un di più o per anticipare la fine del film,
ma per mostrare il senso vero. Scorgere il Cristo vincitore nella sconfitta della cattura significa
scorgere una realtà già presente, la gloria di Dio, in quei fatti. L’umiliato è già il Figlio di Dio.
Tempo, luogo, traditore, discepolo che colpisce di spada, il calice, sono ben sottolineate , ma anche
le annotazioni cronachistiche “di la dal torrente cedron” che il luogo era conosciuto da Giuda, il
nome di Pietro e di Malco.
Però ci sono anche vistose lacune. Non si accenna al segnale del riconoscimento: il bacio di Giuda.
Gesù non si lamenta della cattura, e neppure la fuga dei discepoli. Colpiscono le aggiunte di
Giovanni che imprimono all’episodio una radicale trasformazione: ci sono Giudei e Romani; Gesù è
consapevole di ciò che sta per accadere; il dialogo con gli aggressori e le guardie; l’ordine di lasciar

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andare i discepoli (secondo le parole di Gesù precedenti “non perderò nessuno di coloro che mi hai
dato”).
La cattura è una sfolgorante teofania: siamo davanti a un nuovo sinai. Gesù è presentato come
l’attore di tutto. Giovanni ci mostra gli spostamenti di Gesù, ha la situazione in mano, l’ha voluta e
la guida, non la subisce.
Cf. 17,26: ho fatto conoscere loro il tuo nome… Gesù continua la sua opera, affinchè l’amore di
Dio sia in essi.
v. 1 tauta eipon = detto questo… si riaggancia al “ho fatto conoscere …e lo farò conoscere” vuole
far conoscere pienamente il padre. Quello che sta per accadere è rivelazione di Dio. Non è solo una
congiunzione narrativa.
pe,ran tou/ ceima,rrou tou/ Kedrw.n Di la dal torrente cedron: è un torrente invernale, uno wadi.
Una spaccatura che di solito non porta acqua, se non quando piove. Il luogo è designato con kepos,
mentre gli altri parlano di corion/podere (Mt e Mc). Per Gv è Kepos, è un orto, così dove viene
sepolto. La passione si apre e si chiude con un orto: che fa da inclusione. C’è qui un allusione
all’Eden, interpretazione non accettata da Dufour. Ma il riferimento alla creazione nel nuovo uomo
e della nuova Eva, con l’apertura del costato, sotto la croce.
Un'altra interpretazione parla del torrente dei cedri, evocherebbe Ez 47. Il giardino sarebbe
addiacente alle acque di questo torrente che dà la vita.

L’indicazione che spesso Gesù si tratteneva la con i suoi discepoli trova un aggancio in Lc “se ne
andò come al solito…”. Per passare un momento insieme con i discepoli.
Giuda conosceva il posto ma non c’era: non poteva esserci nel giardino dove c’era l’albero della
vita.
È interessante la scena: ci sono due gruppi che rappresentano il mondo di Gesù che è nella luce e il
mondo del demonio che è nelle tenebre e che perciò hanno le torce.
Anche Giuda il traditore. Uno della comunità che li guida tutti. Appare come se Giuda guidasse tutti
“preso un distaccamento dei romani…”. Ma anche Giuda obbedisce a un incarico, è un sottomesso.
Crede di aver capito tutto e averla fatta, ma rimane fregato.
Nel racconto Giuda è nominato 3 volte, per dire che conosceva il luogo segreto , poi per dire che
guidava il drappello delle gaurdie, la terza per affermare che anche Giuda era la quando Gesù dice
“sono io”. Nonostante che la figura di Giuda sovrasti, non c’è un accenno a un dialogo o contatto tra
Gesù e Giuda. Gesù parla a loro, non più a Giuda. Ora Giuda fa parte del mondo, non più del
gruppo di Gesù e quindi scompare, perde la sua identità, dopo però aver visto la teofania: ego eimi.

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Giuda è presentato con il participio ho paradiso, colui che lo stava tradendo; mantiene questo
aspetto dinamico, di chi sta tradendo ancora, ha il cuore contro Gesù.
Giovanni parla anche di soldati romani “speira”, la coorte romana che poteva contare fino a 600
uomini, ma certo non c’erano tutte queste forze al Getsemani. Non si dice che i soldati avevano
spade e bastoni, qui si dice lanterne e torce perché sono fuori del giardino dove c’è la LUCE, e
allora riccorrono a luci artificiali, ma rimangono nelle tenebre perché rifiutano la vera luce.
Vuole significare l’intensità della violenza e la grandezza dell’odio. È inverosimile che vi abbiano
partecipato i romani e non si capirebbe perché l’avrebbero portato da Anna, e il successivo
comportamento di Pilato. Questo rompe la cronaca: tutti i poteri: romani, il potere religioso dato dai
sacerdoti e il potere dei farisei, partecipano alla cattura: è il mistero dell’iniquità, il potere delle
tenebre.

“Gesù, sapendo tutto ciò che stava per accadere…” ta ercomena, è la lettura quasi simultanea del
senso di ciò che sta accadendo. L’episodio si trasfigura non perché cambiano i particolari
dell’accadimento, un vero e proprio arresto, ma perché osservato partendo non da chi arresta, ma da
chi è arrestato. Si svela pienamente chi è Gesù: Dio. L’identità di Gesù rischiare ciò che accade,
imprime un significato tutto nuovo. La consapevolezza di Gesù è segnata al cap 13, qui e al v.
19,28. Sempre usa il verbo oida che indica un completo e perfetto sapere della verità. È una
conoscenza chiara e profonda del senso dell’evento. E poi ancora conoscenza totale: tutto/panta.
Dopo la consapevolezza il secondo tratto che Giovanni annota è la libertà: Gesù usci andando
incontro a coloro che vengono ad arrestarlo: non è sopraffatto, ma si consegna. Un uomo che
liberamente si confronta e si offre. Se la decisione di arrestare Gesù è nell’orizzonte del Vangelo fin
dall’inizio ma Gesù si è sempre sottratto, ora invece si consegna completamente libero.
Anche questa è verità, non è una aggiunta. Dipende da un angolo diverso di osservazione. Da una
parta la violenza, dall’altra il dono libero.
Gesù intorno ai suoi è nell’Eden, i soldati non possono entrare, lui esce incontro a loro.
vv. 4b-8 “chi cercate” quasi la stessa domanda ai due discepoli che lo seguivano e alla Maddalena
in 20,15. In tutti e tre i casi Gesù pone la domanda per assumere l’iniziativa.
I discepoli rispondono con una domanda “maestro dove dimori?” che è già un esprimere desiderio e
ricerca, volontà di conoscere Gesù e di stare con lui. Questi sono i due desideri dell’autentica
ricerca di Cristo.
Maria Maddalena continua a cercare un cadavere, è chiusa nella sua tristezza. Tocca a Gesù
orientare la ricerca e farsi riconoscere.

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In questo episodio dell’arresto la ricerca è capovolta: tocca anche qui a Gesù farsi riconoscere, ma
aprendo uno spiraglio al mistero: ben al di là della ricerca dell’uomo la rivelazione di Dio va oltre.
Questi non lo cercano per conoscere ma per afferrarlo. Così come con i discepoli e con la
maddalena.
Gli uomini cercano una persona le cui origini servono solo per indicarlo: Gesù di Nazareth.
Qui Gesù non dice solo la sua identità terrena, ma la sua identità divina: IO SONO.
Indietreggiarono e stramazzarono a terra. Dn 10.8 At 9,4 Ap1,17. Il lettore si accorge che il
racconto è stilizzato. Nel dialogo l’espressione “sono io” ricorre tre volte. È la trasposizione in
greco della parola JHWH. L’ego eimi si può vedere come la semplice risposta alla domanda delle
guardie, ma come la rivelazione di Dio. Nessun bacio con Giuda, che è lontano, non può
avvicinarsi, è schierato con i nemici.
Is 43,10 “voi siete i miei testimoni…perché sappiate che io sono.” Giovanni dice che colui che si
vuole arrestare è la presenza di Dio nel suo popolo e non si potrebbe arrestarlo se non lo volesse. È
lui che si toglie il mantello e lo riprende. Indietreggiare, prostratti a terra: ironia per dire che
davanti ad IO SONO, devi indietreggiare e prostrarsi
“lasciate andare costoro”. L’abbandono dei discepoli è presente in Giovanni, ma non come una fuga
bensì come un rilascio. È Gesù che domina la situazione: lui domanda chi cercate, e dice cosa
devono fare.
Giovanni è consapevole di costruire una scena che trasfigura i dati della tradizione. In 16,32 predice
che lo avrebbero lasciato solo, e Pietro lo avrebbe rinnegato, ora però è come se Gesù li facesse
andar via salvandoli. I discepoli sono in pericolo della vita fisica e non spirituale. Anche se non ho
perso nessuno, sembra riferisrsi alla vita spirituale. Ma in questo momento sembra che la perdità
della vita fisica avrebbe significato anche la perdita della vita spirituale.
Motivo apologetico di non scandalizzare la comunità con la fuga dei discepoli? È una spiegazione
che non regge. Quali ragioni? Forse più teologiche, per mostrare chi è Gesù: anche qui Gesù dirige
e domina la scena, anche la fuga dei discepoli è sotto la sua regia, non abbandona nessuno dei suoi,
non pensa a se.
Gesù non si lamenta del modo in cui è arrestato né cita la Scrittura. Giovanni cita le parole di Gesù.
Il termine pleroo è usato per il compimento delle scritture, è una parola riservata alle parole di Dio.
Qui è applicata alle parole di Gesù, assimilate alla parola di Dio. L’arresto di Gesù è compimento
delle scritture ma anche delle parole di Gesù.
“che mi hai dato” ha per soggetto il padre e il tempo del verbo è perfetto: indica la stabilità del
dono. Il padre non affida gli uomini a cristo per poi disinteressarsene, è sempre presente e attivo, si
manifesta nell’amore di Gesù verso di loro: glieli ha dati e continua a darglieli. Una volontà

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espressa in più punti, in 10,28 nell’allegoria del buon pastore, in 6,39. Nella sollecitudine di Gesù è
presente la sollecitudine del padre. Anche in 17,12 nella preghiera sacerdotale “li ho custoditi, li ho
protetti, nessuno di loro si è perduto tranne il figlio della perdizione”. La comunità dei discepoli è
nelle mani di Dio anche se in essa c’è lo spazio del rifiuto: Giuda. Scacco dell’amore di Dio o
mistero della libertà. Proprio perché Dio ama, non sopprime la libertà. L’evangelista trasforma la
fuga dei discepoli in un rilascio.
“non ho perduto” in 10,28 e 6,39, apolumi, si riferisce alla perdita spirituale, alla salvezza. Qui però
giovanni si riferisce alla salvezza fisica. Qui il signore li salva dalla morte, e qui significa salvarli
spiritualmente perché se fossero stati arrestati non sarebbero stati capaci di testimoniare e avrebbero
perso la salvezza eterna. Salvandoli dalla prigione e dalla morte li salva anche dalla dannazione
eterna. Bisogna accettare i tempi e i momenti di crescita. Il martirio è dono di Dio. La paura è
umana. In Eb 5,7 “Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida
e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà;” Ha chiesto di essere liberato dalla
paura della morte, che è umana, e ha potuto per dono di Dio affrontare la morte. Questo l’angelo nel
getsemani. Fu esaudito pregando. La paura e il terrore della morte che è umana è ciò che Cristo ha
chiesto di esserne liberato. La capacità di affrontare serenamente la morte è un dono di Dio, della
grazia. Tant’è vero che non fu esaudito.

L’icompressione di Pietro, dopo che anche le guardie sono atterrite, sembra inverosimile. Pietro
estrae la spada e colpisce. Si comporta in modo logico. Il discepolo che da la vita per il maestro, è
analogo al comportamento durante la cena che non vuole che Gesù li lavi i piedi. Il nomiare Malco,
sottolinea la storicità della tradizione trasmessa.
La risposta di Gesù è un secco rifiuto di ogni resistenza. Qui Giovanni ci mostra la totale
obbedienza di Gesù che con prontezza accetta di avviarsi verso la morte perché accetta di amare.
Non devo forse bere il calice: è lui stesso che prende il calice, non gli è dato come nei sinottici.

18,12-27. Seconda pericope.


18:12 Allora il distaccamento con il comandante e le guardie dei Giudei afferrarono Gesù, lo legarono
18:13 e lo condussero prima da Anna: egli era infatti suocero di Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno.
18:14 Caifa poi era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È meglio che un uomo solo muoia per il popolo».
Anna era il vero boss tra la classe sacerdotale. Interessante che non c’è come figura nei sinottici. La
aqedah è il termine che descrive la legatura di Isacco, quello che noi chiamiamo sacrificio, ma che
per gli ebrei è solo il legamento. Ogni volta che il pio ebreo sente legare, rimanda a Isacco. Il libro
dei Giubilei dice che il legamento di Nissan avenne il 15 nissan. Il libro dei Giubilei aveva il

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calendario solare, addottato a Qumran. Probabilmente Gesù stesso celebrava la Pasqua secondo il
calenadio degli esseni.
Ancora Goivanni sta dentro il cortile, mentre Pietro sta fuori alla Porta. Il tradimento di Pietro dice
anche la paura dell’uomo di fronte alla morte. Solo guardandola con Cristo, la morte non fa paura,
altrimenti, l’uomo non può farlo.
Mentre Gesù dice IO SONO, Pietro rispondendo alla portinaia dice. IO NON SONO.
Facciamo un passo indietro:
11:47 Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: «Che facciamo? Quest'uomo compie molti
segni.
11:48 Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la
nostra nazione».
11:49 Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno, disse loro: «Voi non capite nulla
11:50 e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera».
11:51 Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la
nazione
11:52 e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi.

Poi il dialogo con il sommo sacerdote:


18:19 Allora il sommo sacerdote interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e alla sua dottrina.
18:20 Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove
tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto.
18:21 Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto».
18:22 Aveva appena detto questo, che una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al
sommo sacerdote?».
18:23 Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?».
18:24 Allora Anna lo mandò legato a Caifa, sommo sacerdote.

Ci sono due processi, giudaico e romano. In Giovanni non è un processo perché è un potere
esautorato perché non hanno accolto la luce. L’istituzione giudaica è rappresentata da Anna, ma non
è un processo. L’interrogatorio sembra essere un indagine preliminare. Il sommo sacerdote lo
interrogò sui suoi discepoli e sulla dottrina: segno che sa poco. Anna si muove nell’ambito della
Rivelazione.
C’è la scena di Pietro che fa contrasto. Luca mette i tre quadri in ordine: rinnegamento, oltraggi,
interrogatorio.
Giovanni inserisce l’interrogatorio all’interno del rinnegamento di pietro e gli oltraggi come
accenno dentro l’interrogatorio stesso.

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“lo legarono”: Giovanni insiste sulla vastità della cospirazione contro gesù: romani e giudei. In gesù
vedono un pericolo comune. Nel momento decisivo si scoprono concordi contro Gesù. A
comandare è un ufficiale capo di 1000, un grado troppo elevato perché sia credibile. L’autorità ha
dispiegato tutta la sua potenza. Ora nell’arresto giuda è scomparso, il suo posto è preso
dall’ufficiale. Afferrare, legare, condurre. Giovanni ricorda che fu legato. Al v. 24 ancora “anna lo
mandò legato…”. Sottolineando questo l’evangelista forse si collega a Is 3,9-10 nella versione dei
LXX “guai a loro…” il fastidio delle autorità e dato dalla sua verità. Possiamo vedere qui l’idea
rabbinica dell’ ateda, il sacrificio di isacco in esodo è il “legamento di isacco” sulla legna. Qui gesù
si presenterebbe come il nuovo isacco. Il vangelo di giovanni conosce il rabbinismo, le regole di
Illel e nel fare l’esegesi utilizza le regole ermeneutiche che erano state codificate dai rabbini per
impedire ai cristiani di attualizzare le scritture nella vicenda di Gesù.
v. 13: Giovanni parla di un interrogatorio notturno da parte di Anna, e una seduta del sinedrio
presieduta da caifa, il vero boss della situazione che destituito continuava a governare. Anna è stato
sommo sacerdote dal 6 al 15 dc. E poi seguirono i suoi figli. Anche quando i suoi parenti tra cui
Caifa sono sommo sacerdoti, è Anna che continua a comandare. Per questo il primo interrogatorio è
fatto da Anna.
“è meglio che un uomo solo muoia per il popolo” un passo di grande utilità per comprendere il
significato giovanneo della passione. Solo giovanni ricorda questa riunione in cui si decide la morte
di Gesù. Con la resurrezione di lazzaro Gesù aveva provato la sua affermazione “io sono la
resurrezione e la vita”, l’invidia dei capi dei giudei gli provoca la morte.

18,19-24. Questo interrogatorio appare circolare: Anna, Gesù,schiaffo al centro, Gesù poi di nuovo
Anna. Lo schiaffo sostituisce la scena sinottica degli oltraggi ed è collocato al centro: in rilievo. È
una scena mimata. Solo due verbi di azione: lo schiaffo e l’invio a caifa: verbi di rifiuto e
allontanamento. Non è un interrogatorio giudiziario: l’interrogato si fa interrogante. È Gesù che
pone le altre domande oltra la prima: al sommo sacerdote e alla guardia che schiaffeggia; e cadono
nel vuoto. Per giovanni non si tratta di giudizio.
V 20 “ho parlato al mondo apertamente”. Diversamente dai sinottici è interrogato non sulla sua
identità ma sul suo insegnamento e i suoi discepoli. Sottostante il timore dell’eresia e del sorgere di
una nuova setta.
Per Gesù è l’ultima occasione di parlare al giudasimo.
Due verbi didaskein insegnare e lalein parlare: il verbo didasco è usato solo per Gesù e per lo
Spirito, perché ricorda e porta a pienezza. Anche del padre ma per assicurare che l’insegnamento di

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Gesù è veritiero. Dietro didaskein c’è sempre l’azione di Gesù. Il verbo lalein è un verbo
quotidiano, usuale, sarebbe il parlare della lavandaia. In giovanni però assurge a un verbo tecnico
per indicare la rivelazione di Gesù. Gesù è interrogato sulla sua dottrina e risponde con solennità
ripetendo due volte con enfasi il pronome personale “io”. Gesù ha dignità, ha la serenità di chi non
ha nulla da nascondere, ma si limita a parlare della modalità del suo insegnamento, senza ripetere
nulla del suo insegnamento. Gesù ha già detto tutto a tutti, non si deve più chiedere a lui, ma a
coloro che hanno accolto il suo insegnamento. Predicazione pubblica, universale e aperta.
“ha sempre parlato apertamente al mondo” verbo al perfetto al v. 20. , nel tempio e nella
sinagoga: al centro quindi del cuore religioso di Israele. Il termine mondo indica l’universalità più
ampia possibile. Gesù non ha parlato a un gruppo di iniziati, la sua dottrina non è esoterica, il suo
gruppo non è una massoneria. Però alcune parabole le spiega in disparte ai discepoli perché il
mondo non può capire perché non può accettare la piccolezza del farsi del regno. Il mondo vuole un
re trionfante. Gesù accetta di non sovraccaricare, c’è una gradazione nell’insegnamento, non puoi
ricevere tutto subito. Ma non c’è niente di segreto(non ho parlato in segreto in un agolo oscuro della
terra cf. Is 45,19).

Solo un’anima che si mette alla sequela può accettare certe parti dell’insegnamento. Questo
interrogatorio è per Giovanni l’ultimo grande appello al giudaismo per accettare la parola. Invece
finisce nel rifiuto del soldato con lo schiaffo e il rifiuto di Anna che lo manda via. I verbi sono al
tempo aoristo e indicano precisi fatti ed eventi “ho insegnato nei luoghi del giudaismo, ecc.” per
saperne di più il lettore è rinviato al discorso nella sinagoga al cap 7,14-28 e al cap 8,20ss.
Gesù ha parlato liberamente, con schiettezza, senza riguardo per nessuno, senza rigiri di parole.
Tutto il contrario di coloro che non si esprimevano liberamente per paura dei giudei. Il termine
usato per dire “tutto liberamente” è parresia che significa una nota essenziale dell’agire cristiano: la
libertà che nasce dalla consapevolezza di essere figli di Dio. È usato in ambito greco per indicare il
libero cittadino pieno dei suoi diritti. La franchezza però incontra opposizione e parresia indicò il
coraggio di esprimersi liberamente costi quel che costi. La libertà di chi si rapporta agli altri con
sincerità, senza maschera, così è stato Gesù.
Anche in 7,26 “egli parla liberamente e non gli dicono niente…”. Tuttavia la sua rivelazione è
sembrata ad alcuni oscura, nascosta, reticente. Così hanno pensato i suoi parenti in 7,34 “parti di
qua e va nella giudea perché anche i tuoi discepoli vedano…nessuno agisce di nascosto se vuole
essere riconosciuto pubblicamente…”, lo vogliono lanciare perché è un timidone. I parenti
immaginano che debba manifestare con ostentazione la sua messianicità, questa è per loro la
parresia. Gesù invece per manifestare la sua identità rifiuta il clamore e si nasconde, difatti sale a

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Gerusalemme ma non apertamente, di nascosto, a modo suo. Per Gesù la parresia è il manifestarsi al
mondo apertamente come un re da burla (19,1-3). In 10,24 “fino a quando terrai il nostro animo
sospeso, se tu sei il messia dillo a noi apertamente (parresia)”. Ora si manifesta apertamente ma non
viene accolto. Gesù è la gloria nascosta nella carne. Il problema è lo sguardo offuscato.
“perché interroghi me?” Netto rifiuto di Gesù di sottostare alle indagini. Nega il diritto di essere
interrogato. È un atteggiamento di desautorazione dell’autorità giudaica. Poi stravolge i ruoli e
l’accusato si fa interrogante. Gesù colloca nella parte del torto il giudice: interrogare la persona
sbagliata. Suggerisce la strada giusta per la ricerca oggettiva, per le indagini da fare. La domanda di
Gesù è seguita da due imperativi “interroga coloro che mi hanno ascoltato” “vedi, loro sanno quello
che ho detto”. Gesù parla con autorevolezza. Emerge una figura che si erge, che sovrasta, non Anna
ma Gesù. Gesù rinvia alla testimonianza di chi l’ha ascoltato e capito. Per ascoltare la sua dottrina
bisogna rivolgersi alla chiesa: il luogo dove permangono la parola e la testimonianza di Gesù.
“hanno ascoltato e non hanno dimenticato” sanno bene ciò che gesù ha insegnato. Sanno perché
hanno compreso, non solo perché ricordano. Ascoltare e sapere: un ordine dei verbi che si trova in
4,42 i samaritani alla donna “noi abbiamo ascoltato e sappiamo che…”. L’ascolto e la
comprensione sono verbi al perfetto, ma l’oggetto dell’ascolto, la rivelazione “ciò che ho detto” è al
tempo aoristo: un evento storico ben preciso. Significa che i credenti devono continuamente
riascoltare e comprendere quella rivelazione avvenuta una volta per sempre, compiuta in se: è
l’evento Cristo.

vv. 22-24. Si insiste sul tema della rivelazione “venne tra i suoi e suoi non l’hanno accolto”.
Nell’incontro con Anna il nucleo è quello di essere rivelazione del logos. Il rifiuto è qui riassunto
nello schiaffo che al rifiuto aggiunge il disprezzo e l’irritazione. È la reazione di chi è stato colto
nella verità, messo a nudo e cerca di sopraffarla. Chi schiaffeggia vuole tappare la bocca, impedire
di parlare, proprio di chi si sente scoperto, di chi non vuole ascoltare una verità che lo mette a nudo.
È un gesto di rifiuto della parola più che di umiliazione. Giovanni rende le persone rappresentative
di un gruppo, come Nicodemo e la samaritana, qui la guardia. “così rispondi al sommo sacerdote?”.
Gesù risponde con una tranquilla dignità “se ho parlato male dimostrami in che cosa ho sbagliato,
ma se ho parlato bene perché mi percuoti?”. Martyreson – dimostrami, tesimoniami. Lo schiaffo –
rapisma, è il mettere la mano sulla bocca del altro per non ascoltarlo.
Gesù invita il servo a verificare la verità delle parole che Gesù ha rivolto al sommo sacerdote. Ma il
servo non è interessato alla verità non tollera che abbia mantenuto la sua dignità: ha confuso la
dignità con l’arroganza, come ha confuso la obbedienza con il servilismo, che non è amore, ma
opportunismo. Il lettore che conosce i sinottici si può meravigliare che questo interrogatorio sia

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praticamente assente: il processo è accennato in “anna lo mandò da caifa…”. Eppure questo
colloquio ci fa percepire la storicità di questo racconto. Anna è il vero big boss. Gesù non ha
lasciato nulla di intentato per farsi riconoscere. Il rifiuto è dovuto alla tenacia di contrapporsi alla
luce. Giovanni dunque non riporta il processo giudaico volendo forse dire che i giudei non possono
giudicarlo perché non accolgono la parola. Il processo romano poi è di assoluzione tant’è che per 3
volte pilato dirà “non trovo in lui nessuna colpa” e questo ci fa capire la assurdità della finale
condanna.
Ci viene in mente Matteo 23:37 Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati,
quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!

II e III rinnegamento di Pietro.


Rinnegamento di Pietro 15-18 e 25-27. “Simon pietro e un altro discepolo seguirono Gesù…”.
Riproduce i tratti essenziali dei racconti sinottici. Vediamo le differenze dovute allo stile narrativo
ma non solo. Giovanni ha notizie inedite e legge l’episodio in modo nuovo. Il lettore che ha seguito
fin qui la storia di pietro vede una contraddizione nel suo comportamento.
All’arresto Pietro ha avuto il coraggio di sfoderare la spada, qui invece non ha coraggio di
affrontare le persone. Pietro aveva coraggio di fronte alla logica messianica comune, ma di fronte a
una realtà nuova si trova spaesato. Cosa dovrebbe difendere adesso? Non riconosce e non capisce. È
smarrito, non comprende e questo genera incredulità più che paura. C’è intreccio tra il
rinnegamento e l’interrogatorio. Le due scene si svolgono simultaneamente, obbligatorio il
confronto. Gesù è legato, ma libero e manifesta la sua parresia e dignità.
Pietro è libero, e tuttavia impedito a parlare liberamente. Non protesta di conoscere, ma nega
ripetutamente di essere suo discepolo e nega di essere stato con lui nel giardino, richiamo alla
dimensione edenica. Le prime domande dei due servi sono introdotte con me e significa che
esprimono un sospetto più che una certezza. La terza non ammette dubbi “io stesso ti ho visto…”. Il
nome di Gesù non è usato, e la negazione è senza enfasi e senza imprecazioni, ma tuttavia è netta:
egli dice “non lo sono”, il contrario di ciò che dice Gesù “sono io”.
“in quell’istante il gallo cantò”. Giovanni non fa cenno al pentimento di Pietro: la scena è tutta
cristologica non è esortativa. All’evangelista gli basta di aver mostrato l’avverarsi della predizione
di Gesù e di far vedere il contrasto tra Gesù e Pietro. Rinnegando il maestro Pietro si avvicina a
Giuda, ma c’è una differenza. Giuda è con lanterne e torce, artificiali, mentre nel caso di Pietro il
canto del Gallo dice che il giorno è vicino; la luce del sole che lo fa entrare nella vittoria.
Evidenzia il rinnegamento più che la sua conversione. Al cap 21 viene riletto il tutto. È vero che
pietro ha rinnegato Gesù ma è anche vero che lo ama. Per capire pietro e in lui anche il discepolo, la

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seconda constatazione è più importante della prima. In 21,17 “Pietro si rattristò” che sembra
motivata dal dubbio che Gesù non gli creda quando dice che lo ama.
Il racconto di Giovanni da una notizia inedita riferendo che Pietro è accompagnato da “un altro
discepolo” non si precisa. Però “era conosciuto dal sommo sacerdote”. Secondo il Segalla
quest’altro discepolo non si identifica con il discepolo amato di cui si parla in altri passi. C’è chi
però pensa diversamente. Neirink nella rivista di Lovanio ritiene che sia lo stesso. Gli argomenti per
negare l’identificazione sono soprattutto due: 1) il fatto che non si dica “Il discepolo amato” come
negli altri casi; 2) il fatto che il suo ruolo si limiti ad introdurre Pietro, mentre in altri passi è molto
più attivo. Al primo dubbio alcuni ribattono che in 20,2 si usa la formula doppia “l’altro discepolo,
che Gesù amava” come per sovrapporre le due figure. L’obiezione alla seconda è che difficilmente
si può pensare che Giovanni abbia introdotto questo personaggio unicamente per spiegare come
Pietro sia potuto entrare nel cortile: una figura invece che accompagna e contrasta la figura di
Pietro. È un discepolo come pietro e segue Gesù, però uno vuole rimanere nell’anonimato, l’altro
invece si lascia identificare come discepolo. Si può dunque accettare che sia il discepolo amato.

Gesù dinanzi a Pilato. 18,28 – 19,16


29 vv. per la condanna a morte di Gesù. Gv usa molto di più dei sonottici.
Il racconto del processo davanti a Pilato occupa più di un terzo della passione. Importante dunque.
Poi la costruzione scenica è molto acurata. I giudei non entrano per evitare di contrarre una impurità
legale. D’altra parte il processo deve svolgersi nel tribunale. È un continui andare e rientrare. Esce
quattro volte e rientra 3 volte. 7 quadri: scene interne e sciene esterne. Non c’è dialogo diretto tra
Gesù e i giudei. Al centro la scena silenziosa degli oltraggi. Tecnicamente è un chiasmo. Una figura
comune nei racconti: le scene laterali in parallelo, al centro quella importante.
La struttura a chiasmo non ha solo lo scopo di costruire il racconto in modo armonico e unitario, ma
anche una funzione di significato, per risaltare gli oltraggi. Gli altri quadri evidenziano e spiegano
questo episodio. È il quadro dove Gesù viene proclamato sconfitto vittorioso. Figura di gesù vestito
da Re da burla. Poi la struttura del chiasmo ribadisce nelle scene parallele l’innocenza di Gesù. Poi
da una scena all’altra il crescere della tensione drammatica.
Il rapporto tra la storia e la teologia. Giovanni vuole raccontare una storia accaduta, ma questa si
allarga e si approfondisce, si sviluppa. I giudei diventano il simbolo del mondo incredulo, del
rifiuto che continua a coalizzarsi nel mondo. Nei discorsi di addio capp 13-17 la storia di Gesù è
descritta come prolungantesi nella chiesa “il mondo ha odiato me e odierà voi”. I giudei sono
rappresentanti del mondo ostile a Gesù e alla Chiesa. Non interessa all’evangelista riferire chi
esattamente siano, quanto esprimere la loro significatività: chi rappresentano. Ugualmente Pilato è

12
simbolo del potere politico: rappresentante politico dell’impero. Il processo del mondo contro Gesù
assume il carattere di una azione pubblica ed ufficiale. I giudei e pilato si ricattano
vicendevolmente. Chi ricatta è ricattabile: la loro personale salvezza e i loro interessi sono più
importanti della verità, così sono conniventi.
Il racconto si svolge su due piani: il paino dell’apparenza e quello della fede. Giovanni ricorre al
mezzo stilistico dell’inversione di ruolo e possiamo dire anche ironia che si manifesta in diversi
modi. I giudei sono gli accusatori, pilato è giudice, ma in realtà è Gesù accusatore e giudice. Si veda
lìabilità di Giovanni a far emergere la verità dalla bocca dell’avversario senza che se ne renda
conto. Passiamo dalla burla alla più profonda realtà. Nel gioco dei soldati, nella proclamazione
dispettosa di Pilato “ciò che ho scritto ho scritto”, la fede è invitata a scorgere la verità di
Gesù. Questo forte simbolismo del racconto non deve meravigliare. I personaggi si trasfigurano, ma
non è una invenzione. I personaggi diventano trasparenti e colti nel loro significato. La lettura
simbolica di giovanni è colta nella realtà storica, non è invenzione.

Primo quadro. Giudei e Pilato vv. 28-32.


Il pretorio è un luogo fisso oppure dove si trova il pretore? Molto probabilmente era il luogo dove si
trovava Pilato. Si trovava nella Torre Antonia a nord della spianata del Tempio, oppure si trovava
nel Palazzo di Erode (l’attuale Fortezza di Davide, torre Fasael).
Funge da prologo e ci fa comprendere il seguito. Il processo è condotto fin dall’inizio in modo non
sincero. La risposta dei giudei alla prima domanda di pilato e poi la seconda risposta (v. 31b)
mostra che hanno già formulato un giudizio, non è per chiedere un giudizio ma per ratificare una
condanna. Danno a Pilato il ruolo di scemo. I giudei sono rigidi osservanti della legge, ma sono
ipocriti: non entrano per non contaminarsi e tuttavia non esitano a condannare un innocente.
Era l’alba – molti ci vedono l’inizio del giorno della vittoria. Verso le 6 del mattino se non prima.
Entra in scena Pilato (il nome ricorre 20X). Appare indispettito e disprezzante versoi giudei, che
ricambia la loro chiusura verso di lui, che è straniero, pagano.
Pilato si presenta come un giudice imparziale e oggettivo, accoglie le istanze di purità ed esce
incontro e chiede quale accusa portino. Ma l’obiettività è subito negata dal dialogo che mostra le
rivalità tra il procuratore e i giudei. Si scatenano le rabbie reciproche. Sembra obiettivo, ma in realtà
vuole indispettire i giudei. Certo la loro risposta “se non fosse un malfattore…” èancora
disprezzante: tu sei qui per fare questo quindi fai il tuo dovere e stai zitto.
Pilato risponde con ironia: aveta la vostra legge quindi fate da voi… Non vuole lasciarsi
coinvolgere neppure essere preso in giro. Poi dice avete questa legge, ci rompete dalla mattina alla
sera; fate secondo la vostra legge.

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La frase finale v. 32 è un commento che ci fa capire che i giudei non sapendolo avallavano la
rivelazione facendo realizzare la previsione di Gesù sulla sua morte (innalzamento). Storicamente la
frase ha fatto molto discutere. Lo studio di Blinser dice che il rinedrio poteva emanare il giudizio
anche di morte in materia di fede, la decisione doveva essere approvata da Roma, che poi doveva
eseguire. Se la morte fosse stata eseguita dai giudei sarebbe stata per lapidazione, mentre daprte dei
romani era la crocifissione, l’innalzamento: ecco il significato della frase …. Di quale morte doveva
morire.

33.ss Pilato saa come stanno le cose, e che le utopie di questo povero galileo non erano pericolose.
Il titolo di re dal v.33 fino alla fine apparirà per ben 7 volte.
v. 34 - . In linea generale questa interrogazione da parte di Gesù (dici questo da te ….) non era
possibile. Ma Giovanni vuol farci comprendere che il giudice è lui; la frase è molto probabimnete
storica. Esalta il titolo re dei giudei; il personaggio atteso che libererà il popolo dalla schiavitù
romana.
Gesù corregge sia il signficato dei giudei che quello di Pilato, verso il messia.
35 – pilato è come se dicesse che il processo non è stato iniziato da lui. Vuol sottolineare la
responsabilità dei capi del popolo.
36 – il mio regno non è di quaggiù. Si passa dal tema del re a quella del regno. L’espressione essere
dà (eni ek) indica origine, appartenenza, comunione e affinità. Il suo regno non ha un logica
territoriale nel quale esercitare la sua sovranità. Questo non significa che non è conivolto con la
realtà umana, anzi è un regno per l’umanità, ma che non gli interessa un ettaro in più. Per
appartenere al regno di Dio ci vuole una rinascita dall’alto (Nicodemo); il regno è gia presente,
anche se non tangibile.
37 – Tu lo dici, IO SONO RE. Prova a far capire a Pilato come si entra nel suo regno; chi è dalla
verità e ascolta la mia voce. Il regno è costituito da coloro che ascoltano e accolgono la verità. Al
regno di Gesù si partecipa non per nascita ma per apertura di cuore. L’adesione obbediente alla
fede.
Cos’è la verità? – Pilato è abituato alle disquisizioni filosofiche. Per Giovanni invece la verità è una
persona; è Gesù Cristo. La domanda è sospesa, perché vuol coinvolgere il lettore, è una
provocazione.
III scena: detto usci di nuovo… e disse ai giudei. Non trovo in lui nessuna colpa. Secondo il diritto
romano non è colpevole. La domanda di Pilato, distratta e senza impegno sulla verità, è una
chiusura alla verità; egli è disinteressato alla verità. Infatti Gesù non gli risponde. Il silenzio di Gesù

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è perchè è lui la risposta in persona. Un po come al cap 6, i giudei chiedono un segno: Gesù è il
segno e loro hanno visto e mangiato di quei pani, ma non hanno visto il SEGNO.
Pilato dice volete che vi liberi il RE DEI GIUDEI. Secondo alcuni storici dicono che la
provocazione è cosi forte che non sarebbe stato possibile per pilato fare una tale dichiarazione. Non
è Pilato che propone barabba ma i giudei, che conoscevano l’usanza e sono pronti.
Il popolo è manipolato. Dai pastori.
Iv scena. Gesù incoronato, vestito come re. La scena di Gv in confronto ai sinottici è più solenne.
Giovanni continua l’ironia. Pilato crede di colmare la sete si sangue dei giudei facendo flagellare
Gesù, ma si illude. La verità o si accoglie e si difende, altrimenti non si può giocare con essa. Non si
deve mandare dei messaggi illusivi, si deve essere chiari.
La corona è di spine, il mantello rosso, i soldati che lo ammagliano, lo schiaffo. Tutti segni che
dicono il rifiuto dell’uomo di capire Dio.
Nuove dichiarazioni di innocenza. Pilati dice: Ecco l’uomo e manifesta la sua innocenza. Non solo
per far dispetto ai giudei ma perché ne è convinto.
Gesù – ecco l’uomo. – pietà compassione e forse un certo disprezzo. Ecco l’uomo che mi
consegnate come pericoloso e mi fate perdere tempo.
Ma Giovanni coglie il mistero della PAROLA FATTA CARNE, è l’uomo la cui origine è dall’alto.
Nei sinottici abbiamo il Figlio dell’Uomo. (Cf Dan 7, Ez 6; Is 52). Per i cristiani delle prime
generazioni c’è anche un significato maggiore: Gesù è l’uomo nuovo, l’Adam.
La vederlo gridarono: crocifiggilo crocifiggilo…. Noi abbiamo una legge e secondo questa legge
deve morire perché si è fatto Figlio di Dio. Continua qui l’ironia di Giovanni. I sacerdoti dicono la
verità non sapendolo. Tuttavia Giovanni sta attento qui a far capire che i responsabili sono i capi del
popolo e non l’intero popolo.
La frase si è fatto figlio di Dio – colpisce anche Pilato. I romani erano superstizioni e ceredvano che
i dei si manifestavano sotto spoglie umane theios-aner (uomo divino). Dai sinottici poi sappiamo
che qualcosa è successo, visto anche il sogno di sua moglie.
Infatti disse a Gesù: di dove sei? – non sai che ho il potere di farti vivere o metterti in croce? – Il
DOVE rimanda sempre all’origine divina di Gesù in Gv.
Ma Gesù parla e si spiega, ma i suoi silenzi di fronte ai giudei sono significativi. Ora non possono
più ascoltarlo, ma solo vederlo come re buffone. Nelle intenzioni di pilato dovrebbe rendere ragione
che non è un uomo pericoloso. Per pilato è importante accertarsi che la pretesa di Gesù di essere re
non minacci l’impero. Per i giudei è determinante la pretesa di essere figlio di Dio. Si rendono
conto che questa seconda pretesa non interessa a pilato. Allora la sostituiscono con l’accusa di
essere malfattore. Gesù non si difende accusando i giudei, se non per scusare Pilato dicendo che

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loro hanno una colpa più grande. E i giudei non parlano a Gesù ma solo a Pilato. Per condannare
Gesù hanno chiesto la libertà di un vero malfattore. Anche questa è una ironia pungente.

Gesù non ha più nulla da dire, rimane silenzioso.


Nella terza scena “dice a lui Pilato, che cosa è la verità?”. Nella seconda scena cercando di spiegare
la vera natura della sua regalità Gesù dice di essere venuto per rendere testimonianza alla verità
(vv33-38). La parola testimonianza assume un significato forte di disponibilità al martirio: una
testimonianza impegnativa pubblica, disponibilità a mettersi in gioco, a esporre la propria vita con
tutte le conseguenze. È la verità che Gesù testimonia e nella quale trova il fondamento di
proclamarsi Dio. Per Gesù non c’è nulla sopra alla verità, neppure la propria sopravvivenza. Per
Pilato prima della verità viene al ragion di stato. La concezione di Gesù si comprende ad una sola
condizione: essere dalla verità. La frase eimi ek è tecnica: indica origine, appartenenza e
comunione. Nel linguaggio di Giovanni diventa sinonimo di una identità profonda di una persona:
la logica di comportamento, direzione di tutto il proprio essere. È significativo che Gesù dice in 37b
“essere dalla verità” e non “venire dalla verità” per sottolineare che non si tratta di una semplice
provenienza, ma di una permanenza e totalità, un essere stabilmente oltre che l’origine: una
situazione di comunione e appartenenza. Solo cului che è afferrato dalla verità può comprendere il
discorso di Gesù di testimone della verità. È difficile ma è aperto a tutti. Chiunque taglia corto su
eventuali distinzioni razziali, culturali, religiose. La apparente domanda di Pilato è in realtà un
sottrarsi, perché davanti alla verità le spiegazioni sono in utili, in realtà bisogna guardarla e volerla
accogliere. Inoltre è priva di impegno, quasi distratta. Il silenzio di Gesù è consapevolezza che è
inutile ridire quanto è già stato detto ed è inutile mostrare quanto è davanti agli occhi. La verità è
lui.

v. 19,1-3 La scena degli oltraggi, l’unica in cui non c’è dialogo. Gesti che trasformano Gesù in un re
da burla. I verbi del vestire sono all’aoristo, ma le derisioni sono al perfetto: ripetute e prolungate.
Derisione, ma anche una altissima rivelazione.

V scena: un secondo dialogo tra Gesù e Pilato: un altro silenzio. Gesù è accusato di essersi
proclamato figlio di Dio. Pilato domando “di dove sei?” (7,27 8,14 9,39) Pilato ha avuto paura,
come sottolinea l’evangelista. Un senso di inquietudine c’era anche prima visto che ora fa più
paura. Il testimone della verità ha insinuato un senso di insicurezza. Non ha paura che minacci
l’impero: è qualcosa di più profondo e più indefinito. Non è la pretesa regalità, ma l’evidenza che
questa regalità è diversa da qualunque altra: sovranità, dignità, consapevolezza: la serenità di fronte

13
alla situazione. Egli parla con autorità come dicono Mc al capitolo 2. Il contesto è invece terribile.
Gesù rimane in silenzio quando la sua regalità è derisa e quando essa è mostrata in pubblico.
Quando la sua regalità è messa in dubbio, gesù non dice parola. Il silenzio ancora alla domanda di
dove sei. Che presuppone la sua origine divina. Perché questo silenzio? Pilato ne è turbato. O
perché non c’è bisogno di rispondere o perché la risposta va cercata nei fatti con uno sforzo
personale: la risposta di Gesù avrebbe disimpegnato Pilato e avrebbe tradito la sua libertà. A volte
non vogliamo assumerci la responsabilità di vedere da noi la risposta, vogliamo l’oracolo che ci
disimpegna. È una decisione personale che non può essere delegata, che ci impegna. Guai a dare
questa risposta per gli altri, ognuno deve darla da se stesso.

Attorno alla consegna di Gesù si snoda un dialogo a tre voci: giudei, pilato e gesù. Solo pilato parla
con tutti, quasi punto di incontro. Tra giudei e Gesù la comunicazione è interrotta. Il discorso verte
sempre su Gesù consegnato “paradidomi” verbo che è sulla bocca di tutti e tre i personaggi. Ci sono
letture diverse della stessa consegna. Prima volta in 18,30 “se non fosse un malfattore non te
l’avremmo consegnato” poi con lo stesso senso in 18,35 “la tua gente e i tuoi capi ti hanno
consegnato a me” qui pilato cerca di discolparsi: non è sua iniziativa, ma la responsabilità ce l’ha
eccome. In 19,11 “ “ ma nella consegna c’è la responsabilità di tutti. Nella consegna … (15,18ss la
vera ragione che scatena l’odio è la percezione della diversità di origine di Gesù. Il mondo rifiuta la
diversità ricorrendo alla menzogna e o alla minaccia.
Gesù accenna alla sua consegna in v. 36 “se il mio regno venisse…perché non fossi consegnato ai
giudei”. Per pilato tutto si spiega con il fatto che i giudei hanno deciso. Per Gesù la sua consegna è
possibile perché la sua regalità è diversa e non contrappone la forza alla forza neppure per far
trionfare la verità. Una identità di Dio diversa, capovolta. Per il credente la consegna di Gesù
manifesta la forza drammatica del peccato ma anche il volto sovrano del Signore.
I giudei sembra che parlino solo con Pilato, in realtà non dialogano, gridano e basta, hanno una loro
idea da imporre. Per raggiungere il loro scopo lanciano tre accuse “è un malfattore” poi in 19,7 “si è
proclamato figlio di Dio”, “si è fatto re come Cesare”. Malfattore è un’accusa generica, uno che fa
cose cattive: che non si addice a uno che con le sue dottrine disturba l’ordine costituito, ma che non
ha violato la legge. Di fronte all’ostinazione di pilato e alla sua onestà, sono costretti a indicare la
vera ragione che non è politica ma religiosa “si è dichiarato figlio di Dio”. Alla fine per ricattare
pilato la buttano in politica “non sei amico di Cesare, chiunque si fa re si mette contro cesare”. I
giudei per condannare Gesù sono costretti a scegliere barabba, non si rifiuta la regalità di Dio senza
scegliere la regalità di cesare, se rifiuti la verità sei costretto a scegliere la menzogna di Barabba. È

13
la dinamica del capitolo 8 della scelta di Dio o Satana come padre. I giudei si sottomettono al potere
di roma.
In questo processo pilato parla molto, con domande anche affermazioni. C’è anche altro: pilato
cerca due volte di disimpegnarsi, la prima per non essere coinvolto in 18,31 con i problemi dei
giudei, e la seconda al v. 19,6 per sottrarsi alla menzogna. Ambedue i tentativi falliscono. La prima
parola di Pilato è una domanda ai giudei “quale accusa portate?” in 18,29, domanda che suscita
stizza. Il titolo re è presente sulla bocca di tutti e in tutta la scena. … Pilato diventa la parabola
della menzogna del potere politico che subordina la verità alla ragion di stato.
Pilato costringe il potere religioso a svelare la propria ipocrisia. Inoltre ripete 3 volte l’innocenza di
Gesù. Inoltre lo proclama re e uomo.
Gesù prende la parola nella seconda e sesta scena. La prima per spiegare la sua regalità e la seconda
per ribattere a pilato che non ha potere su di lui.
Al v. 13 “ekatisen epi bematos” si sedette sul podio. Si potrebbe leggere anche “fece sedere”
sarebbe una lettura ancora più interessante. Il giudicato che diventa giudice di tutti.

1
John 19:11 Rispose Gesù: "Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato
dall' alto. Per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande".

Il potere dall’alto non significa qui legittimazione del potere politico. Ma vuol sottolineare che ciò
che fa Pilato corrisponde ad un sincronismo voluto dal Padre, fa parte del suo disegno e ha un suo
significato.
Pilato cercava di liberalo… Ora ha raggiunto la consapevolezza. Gesù col suo dire o tacere lo fa
entare in gioco! I giudei gli fanno capire che possono ricorrere a Roma dove erano potenti (più di
25.000 giudei resiedevano a Roma).

Settima scena.
GT
John 19:13 o` ou=n Pila/toj avkou,saj tw/n lo,gwn tou,twn h;gagen e;xw to.n
VIhsou/n kai. evka,qisen evpi. bh,matoj eivj to,pon lego,menon liqo,strwton( ~Ebrai?
sti. de. GabbaqaÅ
ICE
John 19:13 Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette
nel tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà.

Gv ci da informazioni topografica un luogo litostroto e sulla colluna e temporale (mezzogiorno). Il


problema è dato dal fatto che Pilato sedette sul podio (tribunale). Potrebbe invece essre il significato

13
transitivo: fece sedere. È preferibile il transitivo: Gesù porta le insegne regali e come tale siede: re e
giudice. Ecco il vostro re. Egli continua a prendersi gioco dei giudei.
Via via, crocifiggilo. – crocifiggerò il vostro re? Continua a prendere loro in gioco Pilato.
Aron aron_ toglilo toglilo, - è l’agnello che toglie i peccati, ma accecati non se ne rendono conto.
La bestemmia grande, la rottura dell’alleanza è data dalla frase: non abbiamo altro re se non Cesare.
Il Signore ha sempre detto Io sono il vostro re.
La condanna non c’è stata: l’unica sentenza di Pilato è stata quella di riconoscere Gesù come
innocente, e come re dei giudei.
Pilato lo consegna, prendetelo e fate quello che vi pare. Ma non emette la sentenza come giudice,
dal punto di vista giuridica. Pilato ha la responsabilità di averlo consegnato. In lui si era fatto corpo
la verità e voleva liberarlo, ma quando li toccano il suo potere si rifiuta, lascia che si crocifisso.
Questa è la bestemmia contro lo spirito santo, si è lasciato coinvolgere ma al momento della scelta
personale si è fatto indietro.

La crocifissione. 19,16b-37
Introduzione.
Allora presero Gesù che prese da se stesso la croce. È il trono di gesù. Riappare il segno di isacco
che porta la legna. I due crocifissi ai lati, sempre sottolineano la raglità. Il cartello era uso presso i
romani per ammonire gli altri. Ci passano tutti e lo possono leggere in tutte le lingue: la croce svela
a tutti i popoli la verità. Il luogo è dove tu vivi (per andare a Gerusalemme) la lingua è la tua lingua
(le lingue del bacino mediterraneo.
Ciò che ho scritto ho scritto: ci può esseere la sfida con i giudei, ma anche la convinzione personale
di Pilato. Fatto sta che nessuno ha rivendicato questo titolo dopo Gesù.
La veste – tutta d’un pezzo. Giuseppe Flavio dice che simile era la veste del sommo sacerdote. La
lacerazione delle vesti indicava la divisione di Israele e Giuda, La veste non strappata invece indica
che il mistero dell’unità è gesù, e che la chiesa dovrebbe vivere questo mistero.

La madre – vide la sua madre, dice alla madre, è tu amadre madre 4X. Il dono ultimo e supremo è
quello di Maria della sua maternità del suo ausilio nella nostra fede, un ruolo ecclesiale: è donna e
madre per tutti noi discepoli come il discepolo amato. Infatti dopo dice Tutto è compiuto.
La prese, la accolse nelle proprie cose: il dono della maternità di maria entra strutturalmente nella
tua vita. 25 – 27.
Il trionfo del crocifisso. Dal fianco di Gesù trafitto escono sangue ed acqua. In tutti e quattro i
vangeli la crocifissione si conclude con una professione di fede. Il centurione “veramente

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quest’uomo era figlio di Dio”. Giovanni cita zac 12,10 “guarderanno a colui che hanno trafitto”. Il
trafitto è la memoria fissa della fede, che coinvolge tutti gli uomini di tutti i tempi. Il trafitto che
dona sangue ed acqua esprime il mistero di Gesù nella sua massima trasparenza, l’amore giunto
all’estremo. Il guardare vuol dire accorgersi, fermare l’attenzione, comprendere, convincersi.
Dovremmo prendere la scena della trafittura come culmine della scena.
La prima scena vv. 16b-22. Sbrigativo nel parlare del viaggio e della crocifissione. Si dilunga sul
titolo della crocifissione. “Gesù nazareno, il re dei giudei”. Una proclamazione pubblica fatta in tre
lingue. L’ironia giovannea raggiunga un apice, viene proclamato ciò che i giudei volevano
impedire: una risposta dispettosa da parte di Pilato. Ciò che ho scritto ho scritto e rimane scritto fino
a noi.
Seconda scena vv. 23-24. La divisione delle vesti. In questa seconda scena l’attenzione è sulla
tunica “tutta di un pezzo” senza cucitura, inconsutile, arafos. Forse richiamando Giuseppe o la veste
del sacerdote. Giovanni distingue tra alcune vesti che si sono divise e una che non è divisibile. È
tradizionale vedere nella tunica il simbolo dell’unità della chiesa. Il termine dividere schisma ha il
significato di scisma, in 7,43 9,16 10,19 è la divisione … In 11,51-52 la riunificazione dei figli
dispersi è qui realizzata nel segno della tunica. Questo tipo di veste da giuseppe flavio sappiamo
essere anche la veste del sommo sacerdote. Qui qualcuno ha voluto vedere la dimensione
sacerdotale di Gesù. Per i sinottici Gesù è un laico. Nella lettere agli ebrei Gesù inaugura un nuovo
sacerdozio. Ma Gesù annulla il tempio, il culto, il sacrificio antico. In 1 re 11,21ss il segno della
divisione del regno fu la divisione di un mantello. Forse qui c’è la rilettura di questa divisione. In
cristo non si divide, si riunifica. È segno del radunare tutti i popoli nel suo regno.
Giovanni dedica il doppio di spazio a questo evento rispetto ai sinottici. Vuol dire che è un fatto che
ha una rilevanza simbolica, che va anche oltre il compimento delle scritture.

vv. 25-27 Terza scena. Le donne sotto la croce. Non si può escludere un gesto di pietà filiale che
affida la madre al discepolo. IL termine donna è ricco di risonanze anticotestamentarie e ricorda
cana. La madre di Gesù e il discepolo non sono personaggi simbolici, ma il contesto invita a
scorgere un contesto più ampio. Maria non è indicata per nome ma come madre. C’è un passaggio
da “sua madre” a “madre” a “donna” e poi “tua madre”. C’è un passaggio da sua madre a madre del
discepolo, con una enfasi alla maternità. Qui c’è la sacramentalità della maternità di Maria. È la
mediazione come a Cana. Maria, simbolo della chiesa come realtà materna. Il dono che Gesù fa alla
chiesa è la maternità di Maria. Il discepolo rappresenta tutti i credenti in Gesù. L’ultimo atto di
Gesù è stato di fondare una comunità con una madre e dei figli: i credenti. Nella scena della

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trafissione è la comunità che è presente e che si protende al futuro “guarderanno a colui che hanno
trafitto”. “stare presso la croce” indica una realtà vivente e personale, è un entrare dentro il mistero.
“e da quell’ora il discepolo la accolse tra le sue cose”, esta idia, sarebbe il suo patrimonio: nel
patrimonio del discepolo c’è la madre di Gesù. Il verbo lambano con le persone significa accogliere.
Tra i doni del discepolo c’è la maternità di maria.

vv. 28-30
La scena della morte è dominata dal “compimento” teleo che ricorre due volte al tempo perfetto ai
v. 28 e 30 e poi in forma teleioo compiuto nel v. 28b. Che cosa è compiuto? Non che la fine è
giunta, ma che l’opera affidata a Gesù è realizzata fino in fondo. Gesù ha condotto fino al limite
estremo il suo amore (13,1) ha portato a termine la sua strada (aspetto cristologico). Si sono
compiute le scritture (aspetto storico salvifico).
Nel v. 28b “perché fosse compiuta la scrittura”: è l’unico passo in cui G usa questo verbo, altrove
usa pleroo per indicare il compimento della scrittura: questo suggerisce l’idea di un vuoto riempito,
di una previsione avverata. Teleoo esprime una maturazione, il termine a cui tutta la scrittura
tendeva, una realtà che si fa.
Tuttavia G non si arresta qui, né per quanto riguarda Gesù ne per quanto riguarda le scritture. “gesù
disse: ho sete”, questo si colloca su 3 livelli: il piano della fattualità: Gesù sta morendo e l’analisi
medica conferma che in quelle condizioni era disidratato; il piano della realizzazione delle scritture:
gesù riassume la sofferenza di tutti i sofferenti.
IL piano salvifico: gesù chiede da bere ma in realtà è lui che disseta per sempre come con la
samaritana. Anche l’espressione “consegnò lo spirito” va letto a tre dimensioni: 1 Gesù muore, fatto
concreto; 2 pienamente cosciente e consenziente: il verbo è all’attivo, non al passivo: è lui che
abbassa il capo, non è un movimento riflesso; 3 china il capo e dona lo spirito, movimento
simbolico della pentecoste.

v. 31-37 Giovanni 19:31 Era il giorno della Preparazione e i Giudei, perché i corpi non rimanessero in croce durante
il sabato (era infatti un giorno solenne quel sabato), chiesero a Pilato che fossero loro spezzate le gambe e fossero
portati via.
Giovanni 19:32 Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe al primo e poi all'altro che era stato crocifisso insieme
con lui.
Giovanni 19:33 Venuti però da Gesù e vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe,
Giovanni 19:34 ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua.

Giovanni 19:35 Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera e egli sa che dice il vero, perché anche
voi crediate.

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Giovanni 19:36 Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso.
Giovanni 19:37 E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto.

Gesù appena morto dona il sangue e l’acqua. Dono che deriva dalla sua morte e indica il
significato salvifico della sua morte. Ordina alla permanenza di questo significato “guarderanno a
colui che hanno trafitto”, attrazione definitiva. La morte di Gesù è vita. Il punto più alto è la croce.
Ma richiede la rivelazione di questo significato salvifico permanente. La composizione della scena è
lineare i vv 31-32 indicano le circostanze. Infine la testimonianza al v. 35. Poi abbiamo due
citazioni bibliche, la prima che si riferisce al non spezzare le gambe, la seconda alla trafittura. Il v.
35 è posto come ponte tra l’avvenimento e la lettura alla luce delle scritture. Questo indica
l’importanza che G attribuisce alla scena, in particola all’uscita del sangue e dell’acqua. Si tratta di
qualcosa di essenziale per la fede. “affinché anche voi crediate”. Perché tanta importanza?
Qualcuno dice che c’è una intenzione anti doceta, tesa ad affermare la reale morte di Gesù e più
ampiamente la sua reale e piena umanità e questo è certamente centrale per la fede. C’è chi vi
scorge un significato simbolico. Diventerebbbe importante la sua portata salvifica. Questi due
significati non si escludono affatto, ma si richiamano. Sono due livelli di lettura che costituiscono il
modo costante di G di vedere l’avvenimento storico e il suo significato. G è interessato a entrambi i
livelli: alla fattualità e alla simbolicità. Il verbo vedere inquadra la parte principale 33, 35 e 37. “I
soldati poiché videro Gesù già morto” “chi ha visto ne da …” “vedranno colui che hanno trafitto”. Il
vedere serve alla fede. C’è un vedere che si arresta all’apparenza e che per G è un non vedere, e c’è
un vedere che va oltre e giunge alla fede. In questa scena ci sono entrambi i vedere: quello dei
soldati che non giunge alla fede (v. 33); il vedere storico del test oculare al v. 35 che coglie anche il
signficato; poi il vedere della fede ma non storico, fondato sulla testimonianza, il vedere della
chiesa “vedranno colui che hanno trafitto”.
Il costato trafitto ci porta un dato storico che Giovanni ci riporta interpretato teologicamente
inchiave sacramentale e spirituale.
Il v. 35 è centrale, esprime la reazione di fronte all’avvenimento. Una reazione destinata a generarne
altre: dal fatto alla testimonianza e da questa alla fede dei futuri credenti. L’idea di testimonianza ha
un posto privilegiato in Giovanni, ma qui è espressa con particolare forza, qui ci si appella a un
testimone oculare: “chi ha veduto”, che è un participio perfetto attivo e sottolinea il fatto della
testimonianza oculare, è un vedere reale storico e il suo oggetto è duplice: storia e segno. È un
vedere che scende in profondità e coglie l’oggetto nelle sue dimensioni di fatto e di simbolo. Lo si
vede bene perché il tempo è al perfetto: quasi ad esprimere un effetto permanente. Nella sua
dimensione di simbolo continua i suoi effetti fino ad oggi, continua ad essere visto anche oggi. In
1,32-34 in 3,11 e in 3,32 si vede che il vedere si prolunga nella testimonianza. Il testimone testifica

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e racconta il fatto compreso nella fede. Non c’è testimonianza dove si racconta solo il fatto. La sua
testimonianza è veritiera: questo aggettivo comporta una certa sfumatura polemica e di esclusività:
è una testimonianza genuina, in contrapposizione ad altre sofisticate o apparenti, per esempio da
parte dei battisti. “e sa di dire il vero” aletè, significa che questa realtà non è facile, che non ci si
ferma al piano fattuale, ma si giunge al significato profondo.
Notiamo la sequenza verbale: vedere al perfetto, testimoniare al perfetto, e credere. Così il discorso
si apre al futuro: dai testimoni oculari ai credenti. Al testimone il vedere, ai successivi il credere.
Questo versetto 35 rivela l’importanza della scena per la fede agli occhi dell’evangelista. Apre la
scena al futuro, facendola diventare memoria visiva per tutti i credenti.
v. 33 “non gli spezzarono le gambe”: qui G vede il compimento della scrittura e scorge un
significato che illumina tutta la crocifissione. Secondo lo stile di G le citazioni sono più evocazioni:
un midrash pesché, un florilegio di scrittura. Fa riferimento a più testi. Qui si riferisce a ES 12,46
Nm 9,12 all’agnello pasquale cui non si doveva spezzare le gambe. Del resto il quadro è pasquale, è
l’ora in cui si sgozzano gli agnelli per la pasqua. Poi l’agnello veniva ucciso in modo che uscisse
tutto il sangue, che non si fermasse nel corpo. Lev 17,10, nel sangue c’è la vita e deve ritornare a
Dio, non può essere tenuta. “e subito uscì sangue”. Poi giovanni pensa anche al giusto del salmo
34,21 perseguitato e preservato “preserva tutte le sue ossa, neppure uno sarà spezzato”. Gesù è
abbandonato sulla croce ma la mano del padre è con lui. Forse il passaggio al salmo 34,21 non è
diretto ma mediato da Is 53,7 dove il servo uomo giusto perseguitato è paragonato ad un agnello
condotto al macello. Le immagini del giusto sofferente e dell’agnello si intersecano. Nel colpo di
lancia Giovanni vede il compimento di Zc 12,10b. Passo a tratti oscuro. Il profeta parla di un
misterioso personaggio attorno al quale si erano cristallizzate le speranze messianiche che però fu
messo a morte e attorno a questo si coagula la lamentazione del popolo e questo fu fonte di
benedizione. Ma sempre in Zc “io verserò uno spirito di compassione” e poco più avanti si parla di
una fonte aperta. Il lettore scorge nell’acqua il dono dello spirito e della vita, ma anche i sacramenti
del battesimo e dell’eucarestia.
Sulla base di Dt 21,22 i giudei vogliono che si levi il corpo morto, perché altrimenti sarebbe
maledizione. Non è pietà ma superstizione. È un maledetto e la sua presenza rende impuri. Da quel
corpo scaturisce l’acqua che purifica. I giudei voglio far sparire la croce con la sua scritta, invece la
croce si trasforma in una memoria perenne a cui tutti guarderanno.
Si può pensare anche, nel segno di Maria e del discepolo, il tema edenico, si parla anche di giardino.
Il nuovo adamo è gesù dal cui fianco esce la nuova eva.
Giovanni rivela che Gesù è il glorioso. Soprattutto le citazioni e le relazioni tra i personaggi. Nella
prima scena a dispetto dei giudei Pilato proclama la regalità di Gesù. Nell’ultima scena vogliono

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levare il crocifisso dalla vista e si dice che tutti lo guarderanno. Gli avversari di Gesù sono giocati,
un conto ciò che si ripromettono e un conto ciò che ne deriva: il vincitore è Gesù non loro. Sia nella
seconda scena che nell’ultima i soldati compiono un gesto: tunica indivisa, trafittura. Tutti e due
con un significato di compimento di scrittura. Gli trafiggono il fianco e invece esce sangue ed
acqua. Gli animali soffocati non possono essere mangiati.

Cap 20 e 21.
Il cap 20 ci presenta 4 episodi. Presa di coscienza che la croce non è stata la fine la l’inizio del
ritorno al Padre: la pienezza della gloria. Immagine di una più vasta realtà comunitaria. Una
comunità colpita dallo scandalo della croce che Gesù aiuta a superare. Il Signore vuole insegnare a
riconoscere i segni della sua presenza: come il glorioso e onnipotente. Per i discepoli l’avvenimento
della croce li aveva sconvolti. Maria probabilmente un grande antidoto alla disperazione. Certo uno
sconvolgimento. Avevano visto nel Signore crocifisso l’impotenza, la fine delle loro speranze, non
subito la manifestazione della gloria. I racconti dei capp 20 e 21 mostrano come Gesù insegna a
riprendere fiducia nella presenza di Dio anche nelle situazioni più oscure.
V 20,1-10 ha come personaggi maddalena, pietro, giovanni, e poi ancora la maddalena. Lei è la
sposa che esce di notte a cercare lo Sposo. La maddalena è colei che raffigura la pienezza, grazie
alla sua ricerca comunicata e non isolata, noi veniamo a sapere e conoscere il mistero della
risurrezione. Sipuò correre in tanti modi nella fede, ma si entra con Pietro per fare l’esperienza di
Cristo risorto.
20:1 Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio, e vide che
la pietra era stata ribaltata dal sepolcro.
20:2 Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via
il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!».
20:3 Uscì allora Simon Pietro insieme all'altro discepolo, e si recarono al sepolcro.
20:4 Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.
20:5 Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò.
20:6 Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra,
20:7 e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte.
20:8 Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.
20:9 Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti.
20:10 I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa.
È ancora notte, perché non si è ancora fatto esperienza del risorto. Tutta l’umanità è nella notte.
Maria vede la pietra ribaltata, non crede e tenta di interpretare in modo naturale la scena. Giovanni
fa capire al v. 2 che non è sola “non sappiamo dove l’hanno posta”, vuol dire che la maddalena è un
po’ simbolo del discepolo che ancora non crede, ma al sepolcro erano diverse donne. Cerca di dare

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una spiegazione naturale, ancora non sa cogliere il significato di ciò che sta vedendo e corre ad
avvisare Pietro e Giovanni, tematica ecclesiologica. Anch’essi corrono. Indicazione dell’anelito, del
desiderio di ricercare la sua presenza, i segni che parlino di lui vivo. La corsa indica la premura
dell’amore, dell’affetto. Solo chi ama corre: anche Maria da Elisabetta. Giovanni vede le bende ma
non entra per rispetto a Pietro: anche qui discorso ecclesiologico. Giovanni è più veloce ma anche
più fresco nell’animo: capisce che sono segni del Signore “vide e credette”. Pietro per ora non
riesce. Qui c’è un testo importante. Il v. 6-7 “e vede le bende a terra” rimanere sul luogo dove uno
si trova. Sono le bende afflosciate come la ruota si dice “a terra” non “per terra”. “E il sudario che
era sulla sua testa non si trovava con le bende ma entetulugmenon arrotolato tutto di un pezzo” Le
bende sono afflosciate mentre il sudario è rimasto come inamidato in rilievo.
I segni sono stati interpretati dalla primitiva comunità.
Maria è come la sposa che nel cantico dei cantici va in cerca dello sposo. C’è l’affetto di Maria,
c’è l’intuizione di Giovanni, e la lentezza di Pietro che dice l’aspetto istituzionale di sempre .
Tipi diversi comunque toccati dall’assenza di Cristo. Tutti hanno l’ansia della presenza di Gesù tra
noi. Esistono doni e disposizioni spirituali diverse, ma quello che è importante che tutti si aiutano e
si rispettano a vicenda per cercare insieme i segni della presenza di Dio e comunicarseli, nessuno
può ricomporre da solo la presenza. Tanto più il Signore sembra assente tanto più è necessaria
questa comunione. Quando manca la presenza dei segni visibili del Signore si tratta di smuoversi,
correre, cercare segni della comunicazione e della presenza del Signore. Se la maddalena non
avesse agito in questo modo, comunicando le sue conclusioni sbagliate si sarebbe ritardato
l’esperienza del risorto. Certo che è vinta dal dolore, ma comunica la sua esperienza. Su questa
comunicazione nasce una esperienza che consente a Giovanni di credere. È importante che si
collabori tutti. A pietro serve Giovanni, e entrambi hanno bisogno di una donna. Non è solo un dato
storico, ma ecclesiologico di sempre.
L’esperienza di Cristo risorto avviene se non c’è un ripiegamento sul proprio dolore: così Maria
Maddalena che si esprime, mentre gli apostoli sono chiusi nel dolore. Essa ci da la possibilità di
conoscre il mistero del risorto senza ritardi.
“non avevano infatti ancora compreso la scrittura”. – grave rimprovero dell’autore verso gli
apostoli. Quando non sappiamo riconoscere la presenza di Dio nella vita, la Scrittura aiuta a far luce
sui segni della sua presenza. Più ci si allontana dalla Scrittura, più la decifrazione si fa difficile.
Giovanni vuole sottolineare il valore della lettura e della comprensione della parola per illuminare
la vita della chiesa e la vicenda del risorto.

v. 11-18 Secondo riquadro

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20:11 Maria invece stava all'esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro
20:12 e vide due angeli in bianche vesti, seduti l'uno dalla parte del capo e l'altro dei piedi, dove era stato posto il corpo
di Gesù.
20:13 Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo
hanno posto».
20:14 Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù.
20:15 Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse:
«Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo».
20:16 Gesù le disse: «Maria!». Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: «Rabbunì!», che significa:
Maestro!
20:17 Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va' dai miei fratelli e di' loro: Io
salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro».
20:18 Maria di Màgdala andò subito ad annunziare ai discepoli: «Ho visto il Signore» e anche ciò che le aveva detto.

Il centro nel v. 17 dove Gesù fa un importante commento sul significato e le implicazioni della sua
resurrezione. Maria pensa di aver a che fare con il Gesù di prima ma sarà aiutata a comprendere che
lui vive una nuova esistenza.
“Maria stava presso il sepolcro fuori piangendo”. Di fronte al mistero non sempre c’è la capacità di
starci. Qui la perseveranza. È lo stesso verbo di Maria sotto la croce. Come nella dimensione
matrimoniale spesso ad avere pazienza sono le donne.
Si inizia con il pianto di Maria e il suo dialogo con gli angeli 11-13. Poi la scena con l’incontro,
riconoscimento e incarico 14-17. Conclusione con l’impegno eseguito v. 18.
Vv 11-13. Il pianto di Maria. Gesù l’aveva annunciato la tristezza, 16,16-23. Maria piange come la
sorella di lazzaro. Si ricorda 4 volte nel brano questo pianto. È un misterioso modo di comunicare e
ci prende quando non teniamo insieme il filo logico ed emotivo delle cose. Obbliga le persone a
reagire, non lascia mai indifferenti. Gesù ha pianto. Maria piange perché è venuto meno il suo
rapporto con il Signore, la relazione con lui. Questa donna convertita aveva incontrato un uomo che
l’aveva capita e le aveva restituito dignità e sicurezza, ora considera conclusa questa appartenenza.
Un amore concluso e spezzato. Gesù gli farà capire che non è così. Tuttavia non vuole staccarsi dal
sepolcro ultimo collegamento al Gesù che amava.

Cap. 21
Gesù non si rivela a tutti nello stesso modo: l’amore di Maddalena, la freschezza di Giovanni, la
lentezza pesanteza di Pietro, il filosofo Tommaso; ma se non si cammina in comunione è
impossibile vederlo. Tommaso deve inserisri nella comunione con gli altri, altrimenti non può
vederlo.

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Vediamo l’apocalisse in riferimento a Gv 20,29. Evidenziamo un aspetto importante “il signore
risorto in mezzo a noi”. È il cuore di questa pagina di Giovanni.
“la sera di quello stesso giorno…
Tommaso non è fifone, esce va fuori. “se non vedo, se non metto il dito…” rappresenta il non
dell’uomo all’esperienza del risorto.

Giovanni 20:26 Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a
porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!».
Giovanni 20:27 Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio
costato; e non essere più incredulo ma credente!».
Giovanni 20:28 Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!».
Giovanni 20:29 Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!».

In realtà è “beati quelli che hanno creduto pur non avendo visto”, ma si deve leggere in senso
atemporale, la beatitudine vale anche per noi oggi. Il credere senza vedere è fede ed è valido in
prospettiva anche per noi. È uno specchio sull’esperienza della chiesa di sempre.
“in quello stesso giorno” è il primo dopo il sabato. È l’inizio di una settimana nuova, di una nuova
creazione. Con il sabato si è chiusa la settimana degli effetti devastanti della morte. Ora si apre la
settimana della comunione, della nuova umanità. Dicendo “quello stesso giorno” giovanni richiama
tutti gli eventi dal versetto 1 del capitolo 20. A partire dalla maddalena al sepolcro. La sera è il
momento del bilancio della giornata, dell’intimità oppure della paura. Gli apostoli pur essendo il
primo giorno della settimana vivono una sera di paura, non hanno ancora capito.
“chise le porte dove si trovavano per timore dei giudei”. Viene poi ripetuto al v. 26. Pensavano che i
giudei facessero loro quello che hanno fatto a Gesù. Hanno paura della croce. Paura di credere
anche alla resurrezione. Tommaso non ha la paura degli altri ed esce, ma ha paura a credere nella
resurrezione.
I personaggi: sullo sfondo i giudei che personificano ciò che fa paura: la violenza mondana. Gesù:
personaggio nuovo. Il primo gesto è il venire, prima dal padre ora viene dalla morte. “o ercomenos”
colui che viene. C’è la tematica del Dio che va incontro. Il secondo gesto “si fermò in mezzo a
loro”. Si pose stabilmente in piedi in mezzo a loro, come centro di quel loro circolo. Una
presentazione simbolica profonda. Poi un gesto di condiscendenza “mostrò loro le mani e il costato”
i segni della passione: la nudità dell’amore. Poi “alitò su di loro”, come Dio alitò su Adamo,
dandogli il soffio della nuova creazione. “Pace a voi”. Un’altra parola riguardo alla missione e allo
spirito. Gesù, il Padre, lo Spirito ecco la missione: “come il padre ha mandato me anch’io mando
voi” Gesù comunica la sua missione. “Ricevete lo Spirito santo” e da il potere e il mandato di

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rimettere i peccati. Vincere il male con il bene del perdono: è un progetto divino che Gesù affida
alla chiesa. I discepoli “gioirono al vedere il Signore”. È il Signore e ormai nulla può separarci da
lui. Illumina la vita di significato. L’oscurità della croce è illuminata da una luce che da calore,
forza, senso di libertà.
Ci soffermiamo su tre temi teologici: Gesù si ferma in mezzo, dice “Pace a voi”, i discepoli sono
chiusi ma Gesù supera questa chiusura.
Questa espressione “Gesù in mezzo” è fonte di una spiritualità che non riguarda solo i focolarini.
“dove sono due o tre …io sono in mezzo a loro” è uno statuto di spiritualità. Gesù risorto è in
mezzo ai discepoli riuniti. La chiesa va concepito come quella realtà in cui Gesù è spiritualmente,
fortemente, vitalmente presente come “Gesù in mezzo”.
Lc 22,27 “io sono in mezzo a voi come colui che serve” e anche al cap 13 è colui che lava. È in
mezzo a noi per darci lo spirito, per incoraggiarci, per lavarci i piedi. Continua a servire nella chiesa
come incoraggiante presenza, colui che da la pace, la fiducia. Esperienza di Gesù in mezzo che
serve, che perdona, che manda.
Pace a voi. Lo ripete tre volte. Lo comanda ai discepoli quando li invia a predicare. Nel discorso
dopo la cena “vi lascio la pace vi do la mia pace” ora la dice in modo definitivo “pace a voi”. In
16,32 “vi ho detto tutte queste cose perché abbiate pace in me”. La pace che dice è una sintesi di
tutto ciò che Gesù ha comunicato. Alla fine un’altra sintesi “queste cose sono state scritte perché
crediate e credendo abbiate la vita nel suo nome.” Il vangelo fa sintesi tra credere e pace. Il dono del
risorto è pace. “giustificati dunque…abbiamo pace in Dio” e anche in Rm “il regno di Dio è
giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo”. “il frutto dello Spirito è amore, gioia e pace”. Pace che
non è assenza di guerra o conflittualità è l’aspetto del ben essere, della bene volenza. Non è solo
pacificazione con Dio, è shalom, è pienezza di vita, è una relazione diversa con Dio, una relazione
di benevolenza. È una connotazione positiva, non l’assenza di conflitto.
Le porte chiuse. Gesù trova gli apostoli chiusi ancora otto giorni dopo. È incomprensibile quanto sia
radicato negli apostoli e in ogni credente la tentazione a chiudersi su di se, sul proprio interesse,
sulle proprie paure. Le attitudini di ciascuno sono intelligenza e amore: comprendere e amare.
Comprendere è mettere l’altro in me, diventare una sola cosa con la persona o il concetto o la cosa
capita: aprire le porte all’altro perché entri in me. L’intelligenza è aprire le porte all’altro perché
entri in me. La chiusura è non voler comprendere è volere che l’altro entri alla mia misura. Non è
farmi all’altro, ma fare l’altro mio. Non accogliere l’altro così com’è. Anche Tommaso pur essendo
uscito non vuole ne’ comprendere ne’ amare. “dimorate in me e io in voi” cosa vuol dire se non
aprire le porte. La chiusura è la resistenza accanita, ostinata che c’è in noi. Il peccato che agisce in
noi con scuse validamente umane: la paura. Tommaso si accanisce a rimanere chiuso in sé, non

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accetta gli altri. Farà l’esperienza di Cristo risorto quando accetterà di mettersi accanto e stare con
le paure degli altri. Cosa fa Gesù davanti a questa chiusura? La supera per portare fede e pace. Gesù
sta in mezzo per superare la chiusura del cuore che malgrado tutto esiste. Ancora oggi c’è gente col
cuore chiuso che fa fatica a comprendere, a credere ad amare e Gesù viene per farci superare queste
difficoltà.

La pesca miracolosa. La tipologia del discepolo amato e più fresco che riesce a capire a riconoscere.
Pietro si cinge i fianchi la veste, come gesù nel capitolo 13: ora Pietro è capace di servire e lavare la
moltitudine dei pesci, simbolo dell’apostolcità. Perché non lo riconoscono? Per chè non ha i
parametri storici; c’è bisogno dello sguardo della fede. È la fatica di tutti gli apostoli.
153 grossi pesci – valore simbolico. È un anagramma. Agostino profetizza che si tratta di tutta la
specie di pesci del lago. Certamente esprime pienezza: è la somma della frase kahal al hawah, la
comunità dell’amore. La somma delle lettere della comunità di Engaddi e En-Eglaim (Ez 47, 10) fa
153,
21,14 – questa era la terza volta che si manifestava (fanero); cf. le nozze di Cana. Lui si manifesta è
conoscibile, quindi se ne può fare esperienza per essere liberati.

Gv 21,15-19
21:15 Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?». Gli
rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli».
21:16 Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene».
Gli disse: «Pasci le mie pecorelle».
21:17 Gli disse per la terza volta: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta
gli dicesse: Mi vuoi bene?, e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie
pecorelle.
21:18 In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando
sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi».
21:19 Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: «Seguimi».

Dopo questa rivelazione sul lago di tiberiade il testo ci pone questo testo che si struttura sul numero
tre. Un esempio di teologia narrativa. Tre volte perché è Pietro che deve perdonarsi. Attraverso la
narrazione di un dialogo ci viene data una teologia molto profonda. C’è una triplice interrogazione.
E una triplice risposta e una triplice missione. Una struttura molto ritmata. Ci sono delle sfumature
linguistiche. Infatti la triplice domanda è espressa la prima e seconda volta con il verbo agapao, il
verbo dell’amore assoluto, totale, di dono di se. La terza volta, come nelle risposte di Pietro con il
verbo fileo, un amore nobile che esprime anche la dimensione nuziale, ma soprattutto amicale. C’è

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una variazione anche nel “tu lo sai”. Le prime due volte sono al passato, la terza al presente “tu lo
conosci”. Anche la missione è espressa con i verbi boskein poi poimanein poi boskein. Anche per
agnelli e pecore.
Importante la connessione tra l’amore verso Cristo e la missione di pascere.
“mi ami più di costoro?” ma si potrebbe tradurre anche con un neutro “mi ami tu più di ogni
cosa” cioè “sono il primo nel tuo amore?”. La domanda di Gesù riprende la pretesa di Pietro di
amare Gesù più degli altri, “se anche tutti ti tradissero io non ti tradirò”. Nessuno può pretendere di
confrontarsi con l’amore degli altri. Gesù riprende la presunzione dell’amore di Pietro. L’amore non
si confronto con gli altri, ma con se stesso, con la sua pienezza. Posso vedere e confrontare se nella
mia vita amo il Signore più di tutto, ma non posso sapere se lo amo più degli altri.
Pietro non lo fa più e non usa neppure agapao, ma fileo. Gesù usa un verbo esagerato, mi AMI.
Pietro che ha capito, abbassa il tiro suo e dice: ti voglio bene. Alla fine apre il cuore e dice: tu sai
tutto, tu sai che ti voglio bene.
E alla terza risposta “tu lo conosci”, accetta di confrontarsi nell’intimo con Gesù stesso. Gesù vuole
liberare pietro dal dubbio delle tre volte con cui a negato di conoscere il Signore.
In Mt 16,16 “tu sei pietro e su questa pietra edificherà la mia chiesa” la condizione per
l’edificazione era la fede di pietro. Qui in Gv la condizione è invece l’amore. In seguito alla
esperienza di un amore completo e gratuito, Pietro può pascere con amore, ed essere un
pastore/mandriano delle pecore dell’unico pastore. In Lc 5 Pietro si confessa peccatore e Gesù gli
affida la missione.
Gesù non chiama Pietro pastore, come in Matteo. Ma gli dice di pascere. Solo Gesù è il pastore
“grande delle pecore”. Le pecore sono del pastore, Pietro è associato al ministero di Gesù pastore.
Pietro è un mandriano. In At 20,28 è chiaro Paolo agli anziani di Mileto “vegliate su voi stessi e su
tutto il gregge in mezzo al quale il Signore vi ha posti come vescovi a pascerli”.
In 1Pt “pascete il gregge di Dio che vi è affidato”.
Il pascere è affidato a Pietro discende dall’amare Gesù con preferenza assoluta. Proprio perché ama
Gesù di un amore preferenziale che abbraccia il suo tutto può pascere. Pietro si addolora che Gesù
gli ripeta la domanda per tre volte. È chiaro il rimando al rinnegamento. Indica una riabilitazione e
un perdona. La missione di Pietro è in relazione al suo essere perdonato. Ricordiamo la donna
peccatrice “molto le è perdonato perché molto ha amato”. Pascere il gregge di Cristo è trasmettere
la riconciliazione di cui lui è il primo destinatario.
Allora le condizioni necessarie per il ministero secondo Giovanni sono:
1) amare Gesù sopra ogni cosa. Amore che precede lo stesso amore al ministero. Utile per la
gente, per la salvezza delle anime, degno, ma non può essere sopra all’amore per Gesù. Il

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ministero va letto quale forma di consacrazione di se al Signore. Che si esprime poi nei
diversi incarichi ministeriali. La consacrazione dipende solo e soltanto dall’amore per Gesù
sopra ogni cosa.
2) La certezza fontale previa, che Gesù mi ama. La certezza che Gesù mi ama, mi perdona, mi
riconcilia è fonte di identità per colui che la vive.
3) La condizione del pascere è l’amore alle pecore, sia piccoli o pecoroni. Partecipazione
all’amore con cui Gesù le ama. La gente merita di essere amata anche se abbiamo la
sensazione che non lo meriti. Dobbiamo amare la gente perché Gesù la ama. Pascere non è
una forma astratta, ma calarsi nelle forme storiche concrete che abbiamo ricevuto. Ministero
che si pone in un incessante adattamento, proprio come un pascolo.

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APOCALISSE

Nel v. 3 del cap 1 leggiamo “Beato colui che legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa
profezie”. Forse per molti l’apocalisse è un libro rimasto chiuso come dice in Ap 5,1. Un libro poco
usato in liturgia e anche nella catechesi. Girolamo non lo riteneva canonico. Visto con sospetto
perché usato spesso dagli eretici.
Tre atteggiamenti: 1) disinteresse che diventa diffidenza se non ostilità per questo libro ritenuto
strano. Alcuni ritengono che non si debba occuparsene. Lutero “il mio spirito non si adatta a questo
libro”. 2) ritenere l’apocalisse come un libro di nostradamus come la previsione della storia futura.
3) Chi lo legge con assiduità vi scopre ricchezze insospettate. Se il IV vangelo è unico nella
capacità evocativa, l’apocalisse al di là della difficoltà ermeneutica è veramente eccezionale.
Dobbiamo fare nostra la beatitudine che apre questo libro. E alla fine 22,7 “beati coloro che
custodiscono…”. Le beatitudini dell’apocalisse sono 7.
Come leggere questo libro. Origene racconta che un dotto ebreo membro dell’accademia rabbinica
di Cesarea aveva detto che la scrittura è come un grande edificio. Davanti a ogni porta c’è una
chiave ma quasi sempre è quella sbagliata. Il lavoro è trovare le chiavi giuste per l’edificio, per i
piani, per le stanze.
Prima chiave sbagliata: in ogni dizionario italiano troviamo per “apocalittico” - disastroso, terribile,
catastrofico. Apocalisse invece = visione della storia dominato dalla incombenza della tragedia. Con
questa chiave non si apre nessuna porta.
Vediamo che il libro contiene 4 termini che sono la chiave per accedere: apocalisse, profezia,
testimonianza e lettera.
1- “Apocalisse di Gesù Cristo…” significa “Rivelazione di Gesù Cristo…”, vuol dire togliere il velo
che copre qualcosa, sottrarre il mistero, che impedisce di percepire una verità.
Il termine apocalisse sottolinea due cose: colui che toglie il velo non è l’uomo con il suo
ragionamento. Colui che permette di cogliere l’intima natura degli eventi della storia è Dio, è da
lui che ha origine il messaggio. L’uomo può avere una grande intelligenza, ma non può svelare.
Poi questa lettura che Dio dà della storia viene fatta in un linguaggio che non è quello dell’uomo
contemporaneo ma della Palestina che va dal 150 a.c. al 150 d.c. Sono giunte una trentina di opere
scritte con questo stile. La letteratura apocalittica che precede e segue la venuta di Gesù ha la
caratteristica di nascere in un tempo di difficoltà, di crisi, di oppressione, di persecuzione.
Lo scopo non è predire catastrofi ma fare una lettura profonda della storia per i contemporanei e per
i posteri una consolazione. Per dare una consolazione robusta agli oppressi. Vuole incoraggiare

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dando senso al presente. Quando il presente è oscuro bisogna guardare alla meta futura, solo così
diamo significato al vissuto; esorta alla perseveranza sapendo che alla fine Dio interviene. L’autore
apocalittico esorta alla pazienza, alla costanza, con una profonda certezza che Dio interverrà a
capovolgere la situazione.
Il nucleo fondamentale di questi scritti apocalittici è l’eterno problema dell’uomo: qual è l’origine
del male? Fin dove arriva la forza del male? Chi avrà l’ultima parola?
Nell’approfondire questi problemi lo scrittore affronta in particolare due punti:
1) un pessimismo nelle forze dell’uomo: si è lasciato a se stesso. Nella storia ci sono forze più
grandi dei singoli individui. C’è una realtà che sovrasta imperante e dominante al negativo.
2) Una totale fiducia nelle possibilità con Dio, nella presenza e nella potenza di Dio, l’unico vero
padrone della storia. La lettura apocalittica è certa che Dio è Signore della storia, che è lui a
guidarla. Nulla è lasciato al caso. Nel mondo ci sono forze di bene e di male di gran lunga superiori
all’uomo, ma alla fine della storia risulterà palese come Dio ha guidato tutto. Ci sarà un
rinnovamento radicale. La fine è già arrivata, è necessario agire con coraggio per dare la
consapevolezza al mondo che Dio opera nel mondo. Queste visioni scuotono e spaventano ma
terminano con l’esortazione alla speranza. Uso forte di pseudonimi famosi (Mosè, Elia, Noè) ecc.
Usa di immagini con linguaggio cifrato, di modo che lo potesse comprendere solo alcuni.
La lotta tra le forze del bene e quelle del male. Le affermazioni vengono fatte in base a ciò che Dio
ha già fatto nel passato. Alla luce del passato si cerca di individuare le linee costanti della storia. La
grande verità è che il bene vincerà: la vittoria è di Dio e di coloro che rimangono fedeli.
Un pericolo, una tentazione in questi scritti è quello di dire: il mondo è così complicato e caotico
che è meglio ritirarsi, ci Penserà Dio. L’Ap di Giovanni invece che è anche profezia e
testimonianza si sottrae pienamente a questo richio.

La seconda chiave è profezia. Per 7 volte l’autore qualifica così il suo scritto. L’autore si definisce
un profeta e continuatore e fratello di profeti, descrive la sua vocazione profetica.
Profeta è colui che legge in profondità la storia presente. È abilitato dall’occhio profondo e vigile di
Dio: un nabì dall’occhio penetrante (come balam). Vede i contemporanei e sa interpretarne le ansie,
vede i problemi dei perseguitati e vede verso dove si muove la storia. L’Ap di Giovanni è convinto
che la storia ha subito una svolta con la morte e resurrezione di Gesù. L’autore adopera per 17
volte un verbo “ha vinto l’agnello” e aggiunge “ha vinto con la sua croce”. Il piano di Dio nella
storia non conosce altra vittoria autentica se non la vittoria della croce.

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La vittoria dei credenti non può essere ottenuta in maniera diversa dal come l’ha ottenuta Gesù: i
vincitori sono quelli che non hanno amato la propria vita ma l’hanno donata come Gesù (12,11).
Questa è la profezia. Il male non è negato, ma ridimensionato: è nelle mani di Dio. I credenti
devono associarsi con lui e allora ottengono la dignità sacerdotale e la vittoria. È una lettura
profonda del presente e la tensione verso la quale la storia protende.

La terza chiave è la parola testimonianza. L’apocalisse non suggerisce rassegnazione, fuga, attesa
passiva, ma addita la fedeltà e la testimonianza. Il termine è adoperato molte volte. Gesù viene
chiamato molte volte “testimone fedele” “o martius o pistos”. E i cristiani sono coloro che
custodiscono la “testimonianza di Gesù” che è data da Gesù e che riguarda Gesù. Oppure sono
definiti perseguitati a causa della testimonianza resa a Gesù.
6:9 Quando l'Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l'altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola
di Dio e della testimonianza che gli avevano resa.
17:6 E vidi che quella donna era ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù. Al vederla, fui preso da
grande stupore.
19:10 Allora mi prostrai ai suoi piedi per adorarlo, ma egli mi disse: «Non farlo! Io sono servo come te e i tuoi fratelli,
che custodiscono la testimonianza di Gesù. È Dio che devi adorare». La testimonianza di Gesù è lo spirito di profezia.
20:4 Poi vidi alcuni troni e a quelli che vi si sedettero fu dato il potere di giudicare. Vidi anche le anime dei decapitati a
causa della testimonanza di Gesù e della parola di Dio, e quanti non avevano adorato la bestia e la sua statua e non ne
avevano ricevuto il marchio sulla fronte e sulla mano. Essi ripresero vita e regnarono con Cristo per mille anni;
Si tratta di entrare nella coerenza della vita che significa diventare testimoni. Chi legge l’apocalisse
deve diventare profeta e testimone come Gesù.

La quarta chiave è lettera. Giovanni inizia con un saluto e si chiude con un saluto. Non è una lettera
ma uno scritto omiletico ma si presenta come lettera alle chiese. Significa che la comunità deve
leggere in pubblico questo scritto e coloro che lo ascoltano devono confrontarsi a vicenda. Uno da
solo non lo può capire, occorre leggerlo insieme e confrontarvisi e prendere insieme le decisioni che
conseguono. Ci vuole la comunità che si mette in ascolto.

L’apocalisse è una teologica lettura della storia fatta dall’apostolo. Scritta da un perseguitato
che intuisce che la storia è fatta da una grande opposizione che non cessa con il venerdì santo ma
continua per tutta la storia: l’amore è perseguitato, ma vince.
L’autore cerca di farci capire le costanti della storia.
Una prima costante è un trono, uno solo: la storia è tenuta in mano da uno che siede sul trono.
E la seconda costante è l’agnello: un agnello talmente potente che vince tutti i re della terra.

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La storia che è caotica diventa leggibile in Gesù perché in lui ha vinto l’unica forza che può vincere:
l’amore. L’orgoglio e la violenza ottengono vittorie apparenti che non hanno futuro. Combatteranno
contro l’agnello ma non c’è nessun signore che possa avere l’ultima parola rispetto all’agnello. Il
mondo pare dominato da un dragone che si serve di due bestie, ma la vittoria appartiene a un altro:
il Verbo di Dio, Signore dei signori e Re dei re. L’Apocalisse è piena di queste affermazioni perché
vuole imprimere nella mente e nel cuore dei fedeli che la vittoria è nelle mani di Dio.
Il male dilaga ma non vincerà. Le sue vittorie sono approssimative e si scaglia di furore perché
capisce che gli resta poco tempo. La storia sta nelle mani dell’agnello!
Che cosa deve fare il popolo di Dio che crede nella vittoria di Cristo? Non può mutare la storia nel
suo insieme, ma può e deve tenere presente la pagina finale di questa storia che è la vittoria di
Cristo, altrimenti ci si lascia dominare dal male. Chi non capisce questo si lascia trascinare dal
male. Chi comprende la storia distingue ogni giorno Cristo dall’anticristo ed è capace di pazientare.
È una consolazione impegnativa, che non è rassegnazione. È una consolazione positiva che porta
all’ottimismo. L’idolatria sembra forte ma in realtà è sconfitta. L’apocalisse porta speranza e
lucidità.

Quali i sistemi interpretativi dell’apocalisse?


1.Non è un libro che predice solo eventi che si verificheranno alla fine del mondo. Non predice i
segni che indicheranno la fine del mondo, altrimenti sarebbe stato inutile leggerlo per 2000 anni.
Non è dunque solo escatologico.
2.Poi non descrive nemmeno solo gli eventi dei primi decenni della lotta della chiesa contro le
persecuzioni iniziali (impero – sinagoga – chiesa), altrimenti sarebbe solo un testo storico.
3.L’Apocalisse non descrive nemmeno in miniatura il corso della storia universale.
4.Non si limita neanche solo a una riflessione sulla pasqua di Gesù, come commenta Eugenio
Corsini in un suo testo che vede l’Apocalisse come una haggadà di pasqua: tutto in senso
cristologico (passione morte e resurrezione) tralasciando la Chiesa e la fine della storia.
L’Apocalisse è una lettura teologica di tutta la storia fatta alla luce della vicenda di Cristo. Ci offre
delle forme che descrivono le dinamiche della storia che si ripresentano sempre. Offre le coordinate
di ogni periodo della storia, per poter riconoscere il bene e il male, Cristo e l’anticristo. Non perché
c’è l’incarnazione del male in personaggi storici, ma da la chiave interpretativa per ogni tempo (le
due bestie: la dittatura totalitaria (impero) e la pubblicità media. Sono traiettorie della storia: la vita
non è una passeggiata, ma una lotta, per comprendere guarda alla fine!!!
È stata scritta sotto Domiziano prendendo le categorie di Nerone. Un riferimento costante.
Leggiamo l’apocalisse e trasferiamo le coordinate nel nostro tempo.

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Il linguaggio è simbolico e ci lascia disorientati. Il simbolo è indispensabile quando parliamo di
Dio perché ci rendiamo conto che le parole sono insufficienti. Parliamo di Dio in forma analogica.
Il simbolo non è una definizione. Lascia aperto l’agire di chi legge: è una specie di analogia.
L’analogia è ciò che si predica secondo la ragione in parte uguale e in parte differente. Non per
nulla si usa 70 volte il termine “come”. Si cerca di descrivere l’indescrivibile. Il simbolo ci aiuta a
pensare lasciando spazi sempre aperti. Il simbolo cresce. Posso dire a una persona “ti amo” oppure
posso dargli una rosa. La rosa è un simbolo e si arricchisce con il crescere di colui che lo legge.
L’apocalisse è ricca di immagine discontinue, tortuose, ci vuole pazienza.
La chiave dei simboli è da tenere sempre presente, altrimenti non si comprende l’apocalisse. E i
simboli usati sono da leggere alla luce dell’Antico Testamento e del Nuovo. È una citazione
continua dell’AT fatta sulla base della traduzione dei Settanta. Ci vuole molta pazienza a
interpretare i simboli. Come una mamma che comprende il bambino che balbetta e dice ha detto
questo.
Posso dire: “Angelo è forte”, posso anche dire “Angelo è forte come un leone”, e in sintesi dico:
“Angelo è un leone”; questo è il simbolo. Lo sbaglio più grosso in quest’ultima frase è cercare di
immaginarlo con la criniera e la coda. Il leone ci dice la forza, non l’aspetto.
Certi simboli sono per noi facilemente comprensibili, altri ci restano più oscuri. Quando di parla di
Gesù come leone si riferisce anche al contesto davidico. Dice anche Gesù è un agnello con 7 corna.
Nel mondo biblico il corno indica la forza: il punto di partenza è l’altare dei sacrifici con i corni agli
angoli, che indicava la forza potenza del toro (reminiscenze di culti baalici). Oggi le corna ci dicono
tutt’altro che la forza. I simboli vanno riferiti al loro contesto ermeneutico.

- Simbolismo cosmico: cielo, mare, stelle, ecc. A volte hanno un valore reale che indica un
elemento. Cielo può voler dire la calotta celeste, ma spesso vuol riferirsi alla porta di accesso a Dio:
“vidi i cieli aperti”. Il cielo è tutto ciò che è collegato a Dio; il cielo è la sede di Dio. Il dragone non
può più stare in cielo. “Apparve in cielo una donna vestita di sole”. La donna è nel cielo, perciò è
divinizzata. Il cielo è trascendenza di Dio che entra nella storia perché il cielo è visibile. Ciò che
entra in cielo è una realtà collegata con Dio; è la trascendenza di Dio che entra nella storia.
Il mare – nell’Apocalisse come nel Mondo Biblico è simbolo del male, del maligno: ci sono le
acque primordiali e li sono state legate le bestie malvagie. Da li esce anche la bestia. Il simbolo non
è soggettivo, ma lo si deduce dai pun ti di riferimento, che per l’apocalisse sono dati dall’AT.
Sconvolgimento cosmico: il sole che diventa nero, la luna che diventa rossa, il cielo che si arrotola,
le stelle che cadono, gli alberi che vengono bruciati, i monti spostati. Per sette volte si paral di
Terremoti.

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Tutti questi sconvolgimenti cosa significano? Bisogna dimenticare il sole e la luna e immaginarli
(come il leone). Sono simboli. Il messaggio degli sconvolgimenti cosmici, ci dice che è Dio che
entra in maniera provocante e stimolante nella storia. Dal rumore del passo si capisce chi
cammina. Quando Dio entra nella storia ha un passo pesante: rilevabile, che sconvolge come
un terremoto. Alla fine della Apocalisse la teofania finale è la più sconvolgente. Il simbolo degli
sconvolgimenti cosmici mi dice che l’intervento di Dio nella storia non passa inosservato, è
rilevabile. Due sono le reazioni a quei fatti. Alcuni bestemmiano Dio, (16,9.11.12) cioè si
ostinano nelle tenebre: riconoscono la presenza di Dio e non l’accettano. Altri invece vedono negli
interventi di Dio la sua bontà. Sanno che Dio ha in mano le redini della storia e interviene per
correggerla. Vedono Dio come padrone della Storia, che interviene.

Simbolismo degli animali: agnello 29X, Leone 6X, Acquila 3X, cavallette, cavallo, rane,
scoprioni, serpenti, uccelli. Gli animali si comportanto in modo positivo e negativo e rappresentano
le forze del bene e del male che scalpitano nella storia. Sono forze di cui spesso non conosciamo le
origini: sono più grandi degli uomini, ma sempre sotto il dominio di Dio, per questo si usano i
simboli degli animali. Sono sotto il dominio di Dio. Sono forze che sfuggono a una piena verifica
dell’uomo. Noi parliamo di odio e di superpotenze, l’Apocalisse dice questo usando l’immagine di
animali. Sono forze superiori all’uomo, ma sotto il dominio di Dio. Nella Gerusalemme celeste
non ci saranno animali eccetto l’agnello.
In 6,1-8 vengono nominati 4 cavalli.
Il primo è bianco: colore di Cristo, della resurrezione. Rappresenta le forze di bene che ci sono nella
storia. Il cavallo è l’animale che indica l’agilità la velocità. Una potenza che scorrazza nella storia,
positiva, di Cristo, e vincitore. Rappresenta tutte le forze messianiche, in riferimento alla potenza di
Cristo.
Il secondo cavallo è rosso e gli fu dato il poter di togliere la pace. Questo indica la forza dell’odio
nel mondo: indica la crudeltà, la violenza.
Il terzo cavallo è nero e tiene un bilancia in mano: è l’ingiustizia sociale eretta a sistema: i ricchi
sempre più in alto e i poveri sempre più poveri. La carestia, situazione di disagio.
Il quarto è verde come l’erba che appassisce e muore: indica la potenza della morte e della malattia.
Queste forze sono presenti nella storia, agiscono, scorrazzano.

Simbolismo antropologico. L’autore fa attenzione al vestito, che indica il ruolo e indica la


relazione. Il vestito inerisce e descrive la persona. Nell’apocalisse l’abito fa il monaco,

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contrariamente dal nostro proverbio. L’apocalisse dice che il vestito di Cristo è bianco, come la
donna della Gerusalemme celeste. I martiri hanno le vesti imbiancate nel sangue dell’Agnello.
Poi si parle delle attività dell’uomo. E le posizioni che l’uomo assume e ciò che piace all’uomo.
Per capire l’apocalisse bisogna amare l’uomo, per tutto quello che è, l’umanità. Amore, nozze, città.
Lo stare in piedi o stare seduti. La bellezza, le pietre preziose; la capacità dell’uomo di fare grandi
cose. L’uomo che gioisce, lavora, che ama che vive ed è protagonista della storia.

Simbolismo dei colori. Si usano tantissimi colori. Bianco = Cristo risorto e sua potenza. Rosso =
crudeltà, morte. Nero = negatività generalizzata e lutto. Verde = della caducità come l’erba,
nonostante l’apprenza contraria.

Simbolo dei numeri. I numeri perdono il loro valore matematico quantitativo per assumere un
valore qualitativo.
Il tre è simbolo della divinità e della pienezza divina. (gloria onore e potenza: tre cose della
pienezza divina).
Il quattro è un numero cosmico: del tutto, degli angoli della terra, dell’universalità. I salvati
dicono “ci hai redenti da ogni lingua, tribù, popolo, nazione, ecc 4 termini che dicono la universalità
di provenienza.
Il sette indica una pienezza degli interventi di Dio nella storia. Unisce la totalità cosmica con la
pienezza divina. L’agnello è degno di ricevere “potenza, ricchezzsapienza, forza, onore, gloria e
benedizione, ecc” sette titoli che esprimono la pienezza della nostra riconoscenza.
Gesù è nominato 14 volte, Cristo 7 volte, sette siggilli, sette coppe, sette beatitudini.
Il sei indica la pretesa ridicola dell’uomo di uguagliare la pienezza di Dio, e la grandezza del
sette. I tiranni cercano tre volte di raggiungere la pienezza ma restano imperfetti 666. Poi questo
numero viene dalla somma del valore numerico delle lettere di “nero kezar”. I tiranni del mondo
saranna sempre condannati al 6. La gematria del 666 – Cesare Nerone.
Poi 3,5 che è la metà di 7: il periodo della storia umana che si protrae. Poi è espresso in mesi 42 ed
espresso in giorni 1260 ma è sempre 3 anni e mezzo. La donna “un tempo, due tempi e la metà di
un tempo” quindi 3 e mezzo.
Il mille indica la totalità, l’infinitezza, l’eternità.
Il numero 12 un segno ecclesiologico, reale ma anche ecclesiologico: le dodici tribù e i dodici
apostoli. Non è molto usato nell’AT. È il risultato di 3X4; pienezza per totalità. Cf. le misure della
Gerusalemme Celeste 12.000 cubiti.

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Spesso usa la parola “come” 70X: ci raccorda al simbolo. – per timore di non poter esprimere.
Tanto più ci avviciniamo a Dio, tanto più la nostra lingua è povera.

L’Apocalisse non adopera lo schema “adesso è cosi, ma in futuro”, ma piuttosto il futuro lo descrive
in cielo. Interrompe la narrazione sulla terra e descrive ciò che avviene in cielo volendo indicare il
rapporto tra l’adesso e il futuro. Il rapporto non è tra ora e futuro, ma tra terra cielo. Noi siamo
legati a questa terra ma possiamo capire quale è il nostro fine. Non indica uno schema temporale ma
spaziale: basso – alto.

L’Apocalisse contiene un messaggio di consolazione fondato sulla certezza della vittoria di Cristo.
Invita a una lettura realistica e fiduciosa sella storia. La chiesa si purifica e discerne la sua ora “chi
ha orecchi ascolti..”.
Si apre con una beatitudine per chi legge e ascolta. Quale è la tecnica di questo ascolto?
La prima cosa da fare è decodificare i simboli.
Poi bisogna tenere i piedi in terra, guardarsi attorno, rendersi conto del contesto concreto e
applicarvi il simbolo interpretato. Poi vanno dedotte conclusioni operative che l’autore non
specifica di solito lasciando al gruppo che legge di interpretarle.
L’autore indica come leggere con tre parole: orecchio, sapienza e mente.
Diverse volte orecchio, 7 volte “chi ha orecchi ascolti…”. Cosa significa orecchio? È l’organo
dell’intelletto per il linguaggio ebraico, è la capacità di capire, di avere apertura allo spirito per
applicare alla vita la sua parola. Chi ha orecchi ascolti sta alla fine delle lettere, quindi sicome avete
l’orecchio dovete aprirvi allo spirito.
Poi usa la parola Sapienza o Saggezza (13,18). Non è tanto quella greca, la capacità di formulare
principi filosofici astratti, ma quella di percepire la situazione in cui vive la comunità. Avvertire i
valori dei fatti. Saper percepire se la radice dei fatti è data da valori positivi o negativi. La sapienza
è del cuore, va al di là della sapienza esperienziale, è una luce che viene da Cristo.
La terza è Mente che dice la stessa realtà di orecchio e sapienza. Non è capacità di capire la realtà
ma la capacità di confrontare il messaggio religioso con la situazione in cui si vive. La dimensione
valutativa.
Ci vuole orecchio sapienza e mente perché il misterion di Dio non è così evidente, è nascosto. Il
credente è illuminato ma deve mettere in moto questi suoi organi.
Simbolo – sacramento. Bene ricordare.

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Qual è il momento in cui orecchio, sapienza e mente sono chiamati ad essere all’erta? Quale il
momento propizio per mettere in uso questi tre elementi? L’Apocalisse ci dice in 1,4-8.
Presidente:
Giovanni alle sette Chiese che sono in Asia: grazia a voi e pace da Colui che è, che era e che viene, dai sette spiriti che
stanno davanti al suo trono, e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra.
Assemblea:
A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il
suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.
Presidente:
Ecco, viene sulle nubi e ognuno lo vedrà;
anche quelli che lo trafissero
e tutte le nazioni della terra si batteranno per lui il petto.
Assemblea:
Sì, Amen!
Presidente:
Io sono l'Alfa e l'Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l'Onnipotente!

Questo testo grammaticalmente è piuttosto duro, come tutta l’Apocalisse. Nelle prime rige ci si
rivolge a qualcuno (grazia a voi e pace), poi si passa al noi, poi alla terza persona (egli viene).
Tutto questo risulta molto logico se lo prendiamo per quello che è: dialogo iniziale di una
celebrazione liturgica.
Questo momento adatto per orecchio, sapeinza e mente è allora la liturgia. L’inizio dell’Apocalisse
è come le nostre introduzioni liturgiche. Colui che presiede inizia con un saluto che viene dal
Padre, dallo Spirito e dal Figlio. Poi la risposta dell’assemblea e ancora una parola del presidente.
L’assemblea deve cioè prendere coscienza che Dio interviene nella storia. Colui che era che è e che
viene: colui che interviene. Non sono formule ma una introduzione al mistero.
Nei sette Spiriti si indica la pienezza dei doni e manifestazioni dello Spirito Santo. La pienezza
dello Spirito è indispensabile per la assemblea liturgica. I sette doni dello Spirito.
I cristiani cominciano a capire perché fanno liturgia e rispondono a colui che ci ama a Gesù Cristo.
A colui che ci ama: che ci sta amando, è l’espressione presente perfetta riferita a Gesù: hapax nel
NT. Non che ci amò, ma che ora attivamente ci ama. A Colui che ci ha liberato dal peccato
(aoristo), qui usa il passato. La comunità cristiana è consapevole di essere stata resa un regno di
sacerdoti, pur essendo peccatori. Ci ha fatti sacerdoti!!! È la capacità di poter offrire la nostra
vita. Siamo già un popolo sacerdotale.
Capacità di avere un incontro con Dio e che questa capacità è importante per la storia.

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A lui la gloria e la pontenza: a Crsito, la lode, ma anche l’impegno.
Ecco viene sulle nubbi – ò erkomenos. Con la liturgia si affretta la venuta di Gesù, per questo
l’assemblea risponde si, amen: siamo disposti afficnhe venga qui in mezzo a noi.
“io sono l’alfa e l’omega”, cioè il principio e la fine del mondo indicati dalla prima e l’ultima lettera
dell’alfabeto. Nella apocalisse i cristiani possono leggere la storia e rendersi conto di essere
protagonisti insieme a Gesù.
Al v. 9 del cap 1
Ap 1:9 Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, mi
trovavo nell'isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù.
Ap 1:10 Rapito in estasi, nel giorno del Signore, udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva:

Qual è il giorno del Signore? È la pasqua, ma alla fine del I secolo è già un termine che indica la
domenica, il giorno che appartiene al Signore. È domenica dunque quando si svolge questa
assemblea liturgica. Questa lettura della storia si svolge di domenica. “i cristiani …”. Giovanni si
sente unito ai suoi fratelli, perseguitato insieme a loro.
Si sentono uniti anche a coloro che non possono riunirsi con loro. Per prendere coscienza che Dio li
ama, della loro dignita anche quando perseguitati, anche quando non possono riunirsi.
Come avviene questa liturgia di domenica?
“rapito in estasi”. Il testo greco dice “divenni pienamente docile allo spirito”. Il cristiano di
domenica si riunisce con gli altri pienamente docile allo spirito, non occorre il rapimento estatico.
Importante che la domenica il cristiano ricordi che nello spirito può leggere la propria storia e la
deve leggere. Come si svolge questa assemblea? Risponde tutto il libro dell’apocalisse. Lo spirito è
lo spazio sacrale in cui tutto si svolge. Vivere nello spirito: lo Spirito è il luogo dove faccio
esperienza di Cristo.

Nei capitoli 2-3 ci sono le lettere alle sette chiese. Cristo invita la comunità a fare un esame di
coscienza, a correggersi, a domandare perdono. Gesù invita a convertirsi. È esattamente l’atto
penitenziale delle nostre liturgie. La presa di coscienza della tua vita, della tua storia. Il settenario
delle lettere entra dentro la vita delle chiese e invita all’esame di coscienza. Cap. 2-3, è la visita
pastorale del Cristo risorto alla sua Chiesa; l’aspetto penitenziale.

Poi inizia la seconda parte della apocalisse, cap 4-22. è l’ascolto della parola di Dio applicata
alla situazione concreta. È la Liturgia della Parola.
Una volta convertiti siamo docili allo Spirito per ascoltare la Parola e applicarla alla nostra
situazione esistenziale. La Chiesa purificata interpreta la sua ora discernendo le situazioni positive e

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negative. Comincia a vedere se stessa come donna feconda che deve combattere, ma che è protetta
da Dio.
È l’incontro con Cristo presente per mezzo del quale uno studia e comprende la sua situazione
attuale. Giovanni non da indicazioni concrete, ma ci invita a riflettere su come viviamo il giorno del
Signore, alla carica che esso comporta. Il giorno del Signore è tale se ci si mette in contatto con
Cristo risorto. È lui che fa sentire uniti anche con i fratelli lontani. È tale se ci porta a una
purificazione. Quando sottoponiamo al suo giudizia la nostra situazione attuale, allora siamo ad un
buon punto dell’atto penitenziale. Il Giorno del Signore è tale se ti metti in contatto con Cristo, e
questo ti mette in contatto con i fratelli anche lontani e soprattutto con i perseguitati.

Atto penitenziale. Sette lettere inviate alle sette chiese dell’Asia minore dell’Egeo, hanno lo stesso
chema. Sono le collocazioni postali della strada romana. Ma non solo quelle sette: sette vuol dire
tutte le chiese.
Il pastore conosce la situazione delle sue chiese. Comunità reali normali come le nostre con aspetti
positivi e anche contraddizioni. È Gesù che invia queste lettere: il cristo glorioso. È significativo
che in queste lettere i richiami non vengono presi dai profeti, ma dai vangeli: la tradizione viva della
parola di Gesù.
Le lettere hanno tutte lo stesso schema. L’apocalisse appare disordinato come libro, in realtà è
molto ordinato. Lo schema è di 6 punti:
1) L’indirizzo: le lettere sono indirizzate all’angelo delle rispettive chiese. Chi è l’angelo? I
vescovi? Per alcuni è lui: il primo responsabile di quelle comunità. Questi angeli vengono
anche bacchettati. Tuttavia non si dà uso nella letteratura del riferimento al vescovo come
angelo custode. Per altri è la personificazione della chiesa: l’idealità della chiesa come entità
divina, come dimensione celeste. Sarebbe l’idealità della chiesa: la misura che deve
raggiungere. L’indirizzo è importante, significa che io conosco, ho presente, posso
raggiungere: è una relazione vitale tra il mittente e il destinatario. So dove abiti, so chi sei,
sei presente a me e mi rivolgo a te. Anzi TI SCRIVO, di modo che ti rimanga ciò che dico.
Non c’è niente di peggio quando uno non sa l’identità dell’altro!!!!
2) Gesù si autopresenta. Gesù attraverso la liturgia si fa conoscere. Vuole che la chiesa sappia
di fronte a chi si verifica. Ogni volta è una presentazione diversa: non si può dare una
presentazione definitiva e comunque che valga per tutti. Ogni comunità fa una esperienza
particolare del Cristo. Esprime qualcosa della identità infinita del Cristo. Attraverso queste
sette presentazioni la chiesa arriva a capire qualcosa di chi è Gesù. Nella prima Gesù
definisce se stesso colui che tiene le sette stelle: verbo forte, le tiene ferme, una presa sicura.

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La stessa è fatta di materiale simile alla terra, ma è divina. È il buon pastore che tiene nella
sua mano la dimensione celeste della chiesa. Gesù la tiene in mano: atteggiamento carico di
consolazione e di affetto. Cammina in mezzo ai sette candelabri. La chiesa è colei che porta
la luce. Oro espressione della liturgia. Nella seconda lettera Gesù è il primo e l’ultimo, che
era morte ed è tornato in vita. Gesù è colui che era prima della storia e colui verso il quale la
storia è diretta. “fui morto” è l’unico uomo che può dirlo. Sono tornato alla vita e quindi ho
la capacità di dare la vita anche a te. Nella terza: colui che ha la spada affilata a due tagli:
capacità di discernere e penetrare fino in fondo alle situazioni. Gesù con la sua parola
penetra senza resistenza e giudica senza incertezze il bene e il male che c’è in te. Rif a Eb
4,12 e Is 14,4. Nella quarta lettera a Tiatira: colui che ha gli occhi fiammeggianti come
fuoco: vuol dire capacità di penetrazione; omniscenza; colui che vede e scruta affetti e
pensieri. Gesù a i piedi simili a brondo splendente: la statua di nabucodonosor aveva i piedi
di ferro e argilla ed era lì il suo punto debole. Alla lettera “bronzo fatto con l’oro”. Un
bronzo prezioso, significa potenza ma anche eleganza, completezza, stabilità. Non vacilla.
Nella quinta lettera a Sardi. Colui che possiede la pienezza dello Spirito: i sette spiriti. Non è
per tenerselo gelosamente ma per comunicarlo. Poi possiede le sette stelle. Se parla per
giudicare la chiesa è perché è sua e gli vuole bene. Nella sesta: colui che ha la chiave di
Davide: il potere di aprire e chiudere la città di davide, la nuova gerusalemme, il potere di
decidere chi verrà accolto e chi estromesso. Nella settima lettera a Laodicea: Gesù è l’Amen,
colui che ci assicura che Dio è fedele, non è vacillante. Il testimone fedele, che ha
testimoniato la sincerità della parola di Dio. Principio della creazione vuol dire che è colui
che ha determinato la creazione. La chiesa per fare esame di coscienza deve mettersi alla
presenza di Gesù. L’autore vuole far capire chi è quel Gesù che giudica con un giudizio di
salvezza.
3) È l’esame di coscienza vero e proprio: è il giudizio. Espresso con immagini dall’AT. Cristo
loda le situazioni positive e rimprovera le negative. È capace di sottolineare prima il positivo
e poi rincuorare e stimolare verso il positivo anche gli aspetti negativi. Si sottolineano tre
cose: la comunità inizia a perdere il legame con la tradizione. Ci sono alcune concezioni con
non sono in armonia con la tradizione di Gesù. La chiesa deve verificare se la propria
relazione è conforme a quella iniziata dagli evangelizzatori. Nel secondo punto l’esame di
coscienza tocca la persecuzione. Essa continua nella storia, luogo ove l’opposizione satana-
gesù viene alla luce. E si manifesta con il rifiuto della verità e la violenza. La difficoltà non
viene dalle persecuzione ma da una certa logica mondana che rischia di penetrare nella

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chiesa. Il pericolo è il compromesso con il male. Il rilassamento dell’entusiasmo causato dal
monotono quotidiano. L’amore è diventato una fredda correttezza.
4) Un’esortazione particolare alla conversione. Ravvediti, convertiti, torna all’amore primitivo,
quello del giorno del battesimo. Quando Cristo incontra la chiesa questa non resta mai nella
situazione in cui era, il bene deve andare in meglio e il male corretto. Gesù parla in termini
appassionati, come lo sposo che incontra la sposa. Sii fedele fino a morire: la conversione è
richiesta a tutti, non con neutralità ma con passione.
5) Quando uno ha accettato di convertirsi e fatto l’esame di coscienza, verificato chi è Gesù,
verificati i punti deboli e fatti i propositi di rinnovamento, c’è l’esortazione all’ascolto dello
spirito. Per tutti. Importante il ruolo dello Spirito santo nominato all’inizio, poi alla fine in
22,7 e al centro in 14,13 e 19,7. Tutte le volte lo SS è accompagnato dal verbo “dire”. Alle
volte parla alla chiesa. Altre volte parla a Gesù in nome della chiesa. Lo ss è colui che parla,
mediatore tra Gesù e la chiesa, o colui che esprime il grido della chiesa. In Gv 16,13 lo
spirito è colui che ricorderà ogni cosa, è colui che parla.
6) La promessa al vincitore. Per vincere bisogna combattere. Il premio è espresso con
immagini a volte complicate. Il primo è mangiare l’albero della vita. Non è più ipotetico, è
reale: chi ascolta lo spirito mangia dell’albero della vita. Il secondo: non essere colpiti dalla
morte seconda. La prima morte ci colpisce sempre, ma la seconda no: la morte spirituale. Il
terzo premio promesso: la manna nascoste e una pietruzza bianca con un nome nuovo. La
manna nascosta è il cibo che Dio ha promesso a Israele per entrare nella terra promessa. Un
sassolino bianco con un nome nuovo. La sposa quando si sposa riceve il nome del marito. Il
vincitore riceve il nome nuovo che è di Cristo: la qualità divina. “tu sarai chiamata mio
compiacimento”. Indica un rapporto nuziale con Dio. Sarai parte della mia vita. Il quarto
premio: autorità sulle nazioni. Autorità che il Padre a dato Cristo, di guidare le genti, essere
la stella del mattino. Questa autorità la spartisce con colui che gli rimane fedele. Il quinto
premio: vestito bianco, non cancellare il nome dal libro della vita, riconosciuto davanti al
padre. Veste bianca segno di vittoria. Cristo ci riconoscerà davanti al padre, vedi Rm 8, “chi
ci separerà dall’amore di Cristo…”. Il sesto premio: essere una colonna nel tempio di Dio.
Un elemento insostituibile che non verrà più portato fuori: una realtà importante, strutturale.
Nome nuovo perché nessuno lo tocchi, proprietà perenne di Dio. Il settimo premio: sedere
presso Cristo sul suo trono: compartecipe della vittoria di Cristo. Tutto quello che Cristo è e
gli è stato donato lo compartecipa al vincitore.

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Quando questo gruppo ecclesiale è stato tonificato dall’esame di coscienza, dall’atto penitenziale
ora può percepire la logica, il progetto, il piano di Dio nella storia. Una volta che il gruppo
ecclesiale ha compiuto la purificazione dei propri peccati può leggere la storia dal punto di vista
della trascendenza di Dio può penetrare ciò che sfugge all’uomo. La cronaca è parziale, riduttiva.
Questo lavoro è importante ed è necessario avere presente tre punti orientativi, espressi mediante tre
simboli: il trono, il libro, l’agnello.
Il trono: Ap 4,1-10
Apocalisse 4:1 Dopo ciò ebbi una visione: una porta era aperta nel cielo. La voce che prima avevo udito parlarmi come
una tromba diceva: Sali quassù, ti mostrerò le cose che devono accadere in seguito.
Apocalisse 4:2 Subito fui rapito in estasi. Ed ecco, c'era un trono nel cielo, e sul trono uno stava seduto.
Apocalisse 4:3 Colui che stava seduto era simile nell'aspetto a diaspro e cornalina. Un arcobaleno simile a smeraldo
avvolgeva il trono.
Apocalisse 4:4 Attorno al trono, poi, c'erano ventiquattro seggi e sui seggi stavano seduti ventiquattro vegliardi avvolti
in candide vesti con corone d'oro sul capo.
Apocalisse 4:5 Dal trono uscivano lampi, voci e tuoni; sette lampade accese ardevano davanti al trono, simbolo dei
sette spiriti di Dio.
Apocalisse 4:6 Davanti al trono vi era come un mare trasparente simile a cristallo. In mezzo al trono e intorno al trono
vi erano quattro esseri viventi pieni d'occhi davanti e di dietro.
Apocalisse 4:7 Il primo vivente era simile a un leone, il secondo essere vivente aveva l'aspetto di un vitello, il terzo
vivente aveva l'aspetto d'uomo, il quarto vivente era simile a un'aquila mentre vola.
Apocalisse 4:8 I quattro esseri viventi hanno ciascuno sei ali, intorno e dentro sono costellati di occhi; giorno e notte
non cessano di ripetere:
Santo, santo, santo
il Signore Dio, l'Onnipotente,
Colui che era, che è e che viene!
Apocalisse 4:9 E ogni volta che questi esseri viventi rendevano gloria, onore e grazie a Colui che è seduto sul trono e
che vive nei secoli dei secoli,
Apocalisse 4:10 i ventiquattro vegliardi si prostravano davanti a Colui che siede sul trono e adoravano Colui che vive
nei secoli dei secoli e gettavano le loro corone davanti al trono, dicendo:
Apocalisse 4:11 «Tu sei degno, o Signore e Dio nostro,
di ricevere la gloria, l'onore e la potenza,
perché tu hai creato tutte le cose,
e per la tua volontà furono create e sussistono».

L’autore è portato in cielo, vuol dire essere aiutati a leggere la storia dal punto di vista di Dio. Vede
una porta in cielo. Simbolo del cielo che si apre. Nella porta che si apre in cielo è simbolizzata
l’iniziativa concreta di Dio che permette all’uomo di conoscere realtà inaccessibili normalemente. È
Dio che apre la porta che normalmente è chiusa dall’interno. Si apre una porta, solo alla fine si
aprirà tutto il cielo. La conoscenza è allora solo parziale, si vede solo quanto serve a procedere.

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Attreverso la porta aperta Giovanni vede un torno ripetuto 7+7 volte. Parola in tutte le costruzioni e
in tutti i casi. Tutto è riferito in modo martellante a questo trono. Ognuno deve riferirsi a questa
parola. Che ricorrerà ancora 47 volte in tutta l’apocalisse. Si sa come l’uomo tenda a innalzare troni
a falsi dei. A pergamo dice c’è il trono di satana. A pergamo c’era un grande tempio e il culto
dell’imperatore con un grande trono. Il trono è il potere: Dio è visto con il suo potere, il suo
dominio sulla storia e sul cuore dell’uomo. Dio è presentato come colui che si siede sul trono, colui
che domina. Dio sta al centro di tutto, del cielo, dell’universo. Al centro della storia non c’è un
destino cieco, non leggi inermi, ma un trono: Dio. L’autore usa le pietre preziose per descrivere
Dio. Non lo vede, vede il fulgore che emana da lui. In 1 Gv si dice che Dio è luce. In 1 Tm 6,16
“Dio abita in una luce inaccessibile”. Sul trono Giovanni vede uno splendore simile a quello che
promana dalle pietre preziose. Poi un arcobaleno che dice qualcosa di più. Questo qualcuno non è
indifferente all’umanità: getta un arcobaleno: progetti di pace e alleanza, come si legge in Noè. Dio
è alleato con l’uomo: dimensione di patto e amicizia. Le sciagure non hanno la causa di Dio, egli le
usa eventualmente per la nostra educazione, ma in ultima analisi al centro c’è lui. Dunque il primo
parametro della storia è un Dio che ha progetti di pace e alleanza con l’uomo.
Tuoni, lampi e voci: ci si riallaccia alle teofanie dell’esodo, sul sinai. È il dio dell’esodo. Davanti al
trono sette lampade: sette spiriti di Dio: Dio possiede la pienezza dello spirito. Un mare trasparente
di cristallo. La via alla terra promessa era sbarrata dal mar rosso. Giovanni aveva rischiato la vita
sul mare di genesareth. Davanti a Dio c’è un mare tranquillo e trasparente, non fa più paura. Parla
della creazione uscita buona dalle mani di Dio. Il primo mistero è Dio creatore.
Ventiquattro anziani. Le vesti bianche indicano la trascendenza. Sono seduti su troni. Dio ha
partecipato la sua autorità, il suo dominio. Hanno corone d’oro: prerogative quasi divine. La corona
indica una vittoria dopo una fatica, una lotta. Chi sono? I giusti dell’antico e nuovo testamento. I
discendenti delle dodici tribù e coloro che hanno aderito ai dodici apostoli. Gv 1,12 “a quanti
l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”. Quattro esseri viventi, vuol dire la
totalità degli esseri viventi. Sono gli esseri più forti della creazione. Sono pieni di occhi:
ammirazione e stupore di tutta la creazione davanti a Dio. Come dire sono “tutt’occhi”. Hanno sei
ali simbolo della prontezza. In questa visione il messaggio è che davanti a Dio c’è tutto il cosmo in
atteggiamento di attenzione e di preghiera. Di questa liturgia vengono dette le parole: Santo, santo,
santo. Che viene detto a Dio di cui vengon sottolineati tre attributi: Il signore, l’onnipotente, colui
che era che è e che viene. C’è qui la riconoscenza di tutta la creazione per la grandezza di Dio. I
romani quando salutavano l’imperatore dicevano “axios es” in greco oppure “dignus es” in latino.
Questo capitolo quattro è un grande inno a Dio creatore. Lo si esalta perché maestoso e onnipotente.
Una cosmologia in chiave teologica.

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Dove sono i problemi che l’uomo ha? Vengono elencati subito dopo, nel secondo parametro di
orientamento. Ap 5, 1-4
Apocalisse 5:1 E vidi nella mano destra di Colui che era assiso sul trono un libro a forma di rotolo, scritto sul lato
interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli.
Apocalisse 5:2 Vidi un angelo forte che proclamava a gran voce: «Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?».
Apocalisse 5:3 Ma nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di leggerlo.
Apocalisse 5:4 Io piangevo molto perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo.
Il secondo elemento è dunque un libro, che sta nella mano destra di colui che siede sul trono. Scritto
su entrambi i lati. Poi è sigillato con sette sigilli: sigillatissimo. Scritto da tutti e due i lati, pieno di
parole e avvenimenti. Cos’è questo rotolo? È la storia che non concede spazi vuoti, che non lascia
niente di non scritto.

Scritti giovannei 080117

Il rotolo può significare la storia umana. Il nome di tutti, le giornate piene di avvenimenti. Nella
storia umana non ci sono spazi vuoti, per questo è scritto dappertutto. Questi avvenimenti sono nella
mano di Dio. “chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?” Chi è capace di leggere la storia,
di srotolarla, di far sì che si diriga verso il luogo previsto. Nessuno è in grado di cogliere la storia, la
sua direzione, il senso ultimo delle cose. Di qui il pianto: l’angoscia, lo smarrimento dell’uomo. In
fondo da soli non sappiamo neanche chi siamo. Non sappiamo da dove veniamo né dove siamo
diretti. L’autore ha paura che la storia rimanga indecifrabile per sempre.
Alcuni pensano al rotolo come alla parola di Dio che rimane sigillata, nessuno è in grado di leggerla
e interpretarla. Il libro è anche simbolo della vita che rimane nelle mani di Dio. Nessuno può
avvicinarsi a quel libro per portarlo all’umanità. Gv 1,18 “Dio nessuno ha mai visto, solamente il
verbo…”. Lo sforzo dell’uomo non è capace di penetrare il mistero di Dio.
I sette sigilli cosa sono? Forse il peccato originale, forse il limite connaturale dell’uomo che non è
mai all’altezza di Dio. Comprendi la tua indecifrabilità nel giorno del Signore, nella liturgia. La
liturgia fa la verità di Dio.

Ap 5,5-14
Apocalisse 5:5 Uno dei vegliardi mi disse: «Non piangere più; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di
Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli».
Apocalisse 5:6 Poi vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come
immolato. Egli aveva sette corna e sette occhi, simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra.
Apocalisse 5:7 E l'Agnello giunse e prese il libro dalla destra di Colui che era seduto sul trono.

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Apocalisse 5:8 E quando l'ebbe preso, i quattro esseri viventi e i ventiquattro vegliardi si prostrarono davanti
all'Agnello, avendo ciascuno un'arpa e coppe d'oro colme di profumi, che sono le preghiere dei santi.
Apocalisse 5:9 Cantavano un canto nuovo:
«Tu sei degno di prendere il libro
e di aprirne i sigilli,
perché sei stato immolato
e hai riscattato per Dio con il tuo sangue
uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione
Apocalisse 5:10 e li hai costituiti per il nostro Dio
un regno di sacerdoti
e regneranno sopra la terra».
Apocalisse 5:11 Durante la visione poi intesi voci di molti angeli intorno al trono e agli esseri viventi e ai vegliardi. Il
loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia
Apocalisse 5:12 e dicevano a gran voce:
«L'Agnello che fu immolato
è degno di ricevere potenza e ricchezza,
sapienza e forza,
onore, gloria e benedizione».
Apocalisse 5:13 Tutte le creature del cielo e della terra, sotto la terra e nel mare e tutte le cose ivi contenute, udii che
dicevano:
«A Colui che siede sul trono e all'Agnello
lode, onore, gloria e potenza,
nei secoli dei secoli».
Apocalisse 5:14 E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E i vegliardi si prostrarono in adorazione.

Finalmente qualcuno può prendere questo libro e trasmetterlo agli uomini: il “leone della tribù di
Giuda” e la “radice di Davide”. Due titoli messianici. Il terzo titolo è l’Agnello: sta al centro di tutta
la creazione, tra i vegliardi, tra l’antico e il nuovo testamento. Il punto centrale che da significato
alla creazione. Anzi sta in mezzo al trono insieme a colui che ci sta seduto. Cosa significa
“agnello”? è l’armion che è termine neutro, mentre molti aggettivi sono al maschile. Un simbolismo
discontinuo per Vanni. È come se dicessimo “Un uomo bella”. L’Ancellotti sostiene che dietro c’è
un pensiero semita non trasposto chiaramente in greco. Già nell’antico testamento è un termine
molto usato. In Is 53,7 “come agnello condotto al macello non aprì bocca” un individuo condotto a
una esecuzione violenta. Nell’aramaico la parola talià vuol dire agnello e anche servo. “maltrattato
si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca”. Questo fu ucciso nel giorno di pasqua. Fa pensare anche
all’agnello pasquale ebraico cui non viene spezzato alcun osso. L’agnello è colui che salva quanti
raggiunti dal suo sangue. “è ritto in piedi come sgozzato” un simbolismo profondo. Entrambi i verbi
sono al perfetto: continua a restare in piedi. È il crocifisso e al tempo stesso il risorto. L’agnello è il
cristo contemplato nella sua passione e resurrezioe che non si possono disgiungere.
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“ha sette corna” pienezza della forza e potenza. “ha sette occhi” pienezza dello spirito posseduto
dall’agnello.
L’agnello esercita la sua collera in 6,16; fa guerra e vince in 17,14; è patore delle pecore in 7,17; è
un altro mosè in 15,13; esercita il giudizio in vari passi; celebra le nozze con la comunità in 19,9;
regna con il padre nella nuova gerusalemme in 22,1-2.
Nel nostro brano si dice “l’agnello giunse e prese dalla destra…” Si avvicina con movimento
solenne liturgico e prese il libro. Il testo non dice “il libro”. Prima del libro prende tutto dal padre.
Origine, natura messianica, esistenza, tutto viene dal padre. Dio da Dio, luce da luce. Il verbo prese
è al perfetto perché continuamente prende dal padre. Proprio perché prende tutto dal padre, prende
anche il libro. E prende tutto per darlo all’umanità. Prende anche una missione, proprio in seguito
alla sua morte e resurrezione. Il mondo creato a un certo punto è stato sigillato. Può rompere questo
sigillo l’agnello ucciso e risorto. Il mondo caduto in balia del male è stato redento da Gesù Cristo.
Senza Cristo non si capisce più nulla, tutto è sigillato. Questa redenzione viene poi proclamata a più
riprese in tre strofe successive. I quattro esseri viventi e i ventiquattro vegliardi cantano un canto
nuovo, celebrano una liturgia. Solo l’agnello è degno e capace di prendere il libro e aprirne i sigilli
perché è stato servo obbediente fino alla morte. A costruire la storia non sono i potenti ma l’agnello
e coloro che sono riscattati da lui: i martiri.
L’agnello non è solo, ma da tutto il mondo ha formato un nuovo popolo che supera i limiti del
nazionalismo ebraico. Tutti sacerdoti cioè in grado di dialogare con Dio. Tutti re capaci di regnare
sulla propria vita e indirizzare la propria storia verso Dio. Regnare è accogliere lo stile e la vita di
Cristo. Non c’è posto per una regalità usurpata, ma una regalità partecipata. Una regalità che passa
attraverso la croce.
Al v. 14 c’è l’Amen dei rappresentanti di tutta la creazione. Gli anziani non trovano parole per
esprimersi: adorano.
Questa storia è una lotta del bene contro il male.

Cap 12
Tutti sono d’accordo che sia un capitolo importante e centrale dell’apocalisse. Nuovi simboli per
ribadire lo stesso messaggio. È una attitudine pastorale. Questo modo di fare fa crescere la tensione
e penetrare nella storia da diverse angolature. Vari simboli. I principali la donna e il dragone. Molti
riferimenti anche all’AT.
La donna e il drago vengono chiamati segni. Una realtà presente nella storia visibile a tutti. Ci vuole
calma per percepire il significato di questo segno. “apparve un segno” non “vidi un segno”. Il
vederlo è possibile a tutti i credenti. Capirlo è dato da Dio. Solo il credente può capire il segno.

16
Chi è la donna? In tutte le culture donna è simbolo della comunità, dell’amore, della fecondità. È
vestita di sole: una creatura privilegiata di Dio, il ministro maggiore della natura. La donna vestita
di sole cosa significa. È una creatura talmente amata da Dio che Dio le da il più bel regalo, la riveste
di luce, la riveste di se stesso. Cristo è il sole che sorge dall’alto. “la luna sotto i suoi piedi”. Sal
89,37-38. come il sole e la luna obbediscono a Dio, così questa donna è rivestita della fedeltà di
Dio. La luna è colei che vigila sulla scansione dei mesi. La donna domina la temporalità, il cronos.
La donna è incinta, sta per generare qualcosa di positivo per l’umanità. Poi deve sopportare delle
avversità, lottare contro un essere a prima vista più forte di lei. Dio le da la capacità di lottare, di
resistere e di vincere. Chi è questa donna? L’antico testamento paragona israele a una donna Is
54,1-5; 66,7-11 la figlia di Sion. Israele è paragonato a una donna nelle doglie del parto del messia.
E anche una donna perseguitata. Questa donna è la Chiesa, nella sua dignità (vestita di sole), amata
da Dio, attorno a lei gravita la creazione, l’universo. Non è divina ma rivestita della gloria di Dio.
La chiesa poi è feconda, genera nelle doglie. La chiesa è madre e genera figli attraverso lo spirito (il
battistero utero della chiesa). È perseguitata come una donna davanti a un dragone. Satana e il drago
continuano a scatenare guerra ma non per sempre, per un periodo: 3 anni e mezzo. La sua vocazione
è eterna e il suo destino è transitorio. Alcuni tratti fanno si che diventi meno comunitario e più
personale. Partorisce un figlio maschio destinato a governare le nazioni con scettro di ferro. Allora
questa donna rappresenta oltre alla chiesa anche Maria, la kekaritomene. L’angelo “lo spirito santo
ti avvolgerà con la sua potenza”. Maria genera nelle doglie del parto. Questo parto più che a
betlemme lo vediamo sul calvario: qui diventa madre nella sofferenza ai piedi della croce. La donna
è maria come immagine e modello della chiesa.
Questa donna è anche la nostra persona che nel battesimo è amato da Dio e genera nella fatica
qualcosa di bene che è sempre a rischio di essere depredato.
Apocalisse 12:3 Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle
teste sette diademi;
Apocalisse 12:4 la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose
davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato.
Tra sette teste e dieci corna c’è un simbolismo discontinuo. Una potenza mostrusa mutata in
perversione. Diademi non corone perché la corona è segno di vittoria. I diademi rappresentano i
regni terreni. Una coda enorme che tende a distruggere. Il colpo di coda= falsità e sorpresa.
Giovanni lo identifica chiaramente “serpente antico” “satana” colui che seduce. Di fronte a lui la
donna sembra impotente. La donna e il drago rappresenta la chiesa trascendente e terrena di fronte
alle forze demoniache. Non simboli fermi, ma in un movimento che li contrappone. Il movimento è
importante. Prima un movimento orizzontale sulla terra, contemporaneamente un movimento
verticale tra michele e il dragone. Sulla terra lotta tra bene e male. La donna riesce a partorire e il

16
bambino viene rapito verso Dio. Allora satana continua ad aggredire la chiesa che però è aiutata da
Dio nel deserto. La chiesa sembra che continuamente debba soccombere. Cos’è il deserto? Luogo in
cui Israele ha incontrato Dio e ha fatto alleanza con Dio, in cui Dio lo ha nutrito. È luogo del
cammino incerto e faticoso. Il deserto luogo in cui la storia diventa processione liturgica perché al
centro c’è Dio che la guida. Cosa sono le ali d’aquila? Può significare la forza di liberazione della
parola (AT e NT), oppure i sacramenti oppure entrambi. Poi il dragone vomita l’acqua. Come
israele che si trova il cammino sbarrato dal mare. “le grandi acque non possono spegnere l’amore”.
Dio aiuta la donna che può sfuggire all’acqua. La storia un continuo esodo sostenuto dalla vicinanza
e premura di Dio.
Accanto a questa lotta sulla terra ce n’è una verticale. Per indicare le realtà più profonde della storia
si dice di soli “dopo”, nell’apocalisse invece si dice “in cielo”. Contemporaneamente insieme con
noi scoppia una lotta nel cielo. Si dice del drago che fu precipitato per tre volte
Apocalisse 12:7 Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago
combatteva insieme con i suoi angeli,
Apocalisse 12:8 ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo.
Apocalisse 12:9 Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra,
fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli.
Chi è Michele? Si dice che sia un angelo che ha lottato contro satana. Questa lotta è commentata da
una voce nel cielo.
Apocalisse 12:10 Allora udii una gran voce nel cielo che diceva:
«Ora si è compiuta
la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio
e la potenza del suo Cristo,
poiché è stato precipitato
l'accusatore dei nostri fratelli,
colui che li accusava davanti al nostro Dio
giorno e notte.
Apocalisse 12:11 Ma essi lo hanno vinto
per mezzo del sangue dell'Agnello
e grazie alla testimonianza del loro martirio;
poiché hanno disprezzato la vita
fino a morire.
Apocalisse 12:12 Esultate, dunque, o cieli,
e voi che abitate in essi.
Ma guai a voi, terra e mare,
perché il diavolo è precipitato sopra di voi
pieno di grande furore,
sapendo che gli resta poco tempo».

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Nell’inno Michele non è nominato. “chi è come Dio”. Nell’inno si dice che è il Cristo. L’inno
storicizza questa lotta del cielo. Continuamente si sperimenta la grazia di essere vincitori perché
Cristo ha già vinto e la paura della lotta.

IL volto del dragone è meglio storicizzato nel capitolo 13


Apocalisse 13:1 Vidi salire dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi e su
ciascuna testa un titolo blasfemo.
Apocalisse 13:2 La bestia che io vidi era simile a una pantera, con le zampe come quelle di un orso e la bocca come
quella di un leone. Il drago le diede la sua forza, il suo trono e la sua potestà grande.
Apocalisse 13:3 Una delle sue teste sembrò colpita a morte, ma la sua piaga mortale fu guarita.
Allora la terra intera presa d'ammirazione, andò dietro alla bestia
Apocalisse 13:4 e gli uomini adorarono il drago perché aveva dato il potere alla bestia e adorarono la bestia dicendo:
«Chi è simile alla bestia e chi può combattere con essa?».
Apocalisse 13:5 Alla bestia fu data una bocca per proferire parole d'orgoglio e bestemmie, con il potere di agire per
quarantadue mesi.
Apocalisse 13:6 Essa aprì la bocca per proferire bestemmie contro Dio, per bestemmiare il suo nome e la sua dimora,
contro tutti quelli che abitano in cielo.
Apocalisse 13:7 Le fu permesso di far guerra contro i santi e di vincerli; le fu dato potere sopra ogni stirpe, popolo,
lingua e nazione.
Apocalisse 13:8 L'adorarono tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto fin dalla fondazione del mondo nel
libro della vita dell'Agnello immolato.
Apocalisse 13:9 Chi ha orecchi, ascolti:
Apocalisse 13:10 Colui che deve andare in prigionia,
andrà in prigionia;
colui che deve essere ucciso di spada
di spada sia ucciso.
In questo sta la costanza e la fede dei santi.

Il dragone si incarna in una bestia: si tratta di un potere politico autoritario. Al tempo


dell’apocalisse il potere romano. Non originaria questa bestia, è sempre quella anche se ha nomi
nuovi. Ha un potere che riceve dal dragone, un potere di dominio, di prepotenza. Colpita a morte
rinasce con altro nome ma sempre con le stesse caratteristiche. Si rigenera scimmiottando la
resurrezione di Cristo e la gente è presa da adorazione.
Alla fine alla bestia è dato un potere. È un passivo teologico. Dio concede spazio a questi poteri ma
per un tempo determinato. La bestia si serve di questo potere per respingere l’amore di Dio e il suo
nome e per sfogarsi contro coloro che adorano Dio.

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Non tutti si piegano ad adorarlo: la sua vittoria è sempre approssimativa. Coloro il cui nome è
scritto nel libro dell’agnello non lo adorano. Qui sta la debolezza. L’autore vuole invitare a farsi
accorti e non lasciarsi incantare dagli aspetti affascinanti e positivi di un potere totalitario. Come il
fascino della scienza. A chi sa ascoltare è richiesto il martirio. Cristo non ci avverte di questa bestia
per evitarci la sofferenza. Come il padre non ha evitato la croce al Cristo. Coloro che vogliono
restare fedeli a Dio vengono uccisi e perseguitati. Ma il loro nome è scritto nel libro della vita.
La bestia che viene dopo rappresenta forse il potere suadente dell’ideologia.

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