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GESU’ NELLA LETTERATURA NON CRISTIANA DEI PRIMI TRE SECOLI

Una panoramica

Vito Sibilio

Diverse volte si afferma che Gesù sia un personaggio praticamente ignorato al di fuori della
letteratura biblica dei suoi tempi. In realtà Egli è non soltanto l’ebreo del I sec. sul quale
siamo meglio informati dopo Paolo di Tarso, ma anche oggetto di numerose citazioni e
trattazioni in una serie vastissima di autori e opere dei primi tre secoli. Ovviamente sono
innanzitutto, gli uni e le altre, afferenti alla Patristica, sia nella sua età apostolica che in
quella apologetica, ma in questa sede ci soffermeremo su testimonianze pagane, ebraiche ed
eterodosse, con un occhio di riguardo per le prime, onde evidenziare come e fino a che
punto Gesù era conosciuto da quei contemporanei che non credevano in Lui o che lo
facevano a modo proprio. Noteremo tre linee tendenziali: quella della indifferenza
frammista a malcelato disprezzo e stupore (autori greco-romani), quella dell’odio
diffamatorio (tradizione ebraica), quella dell’amplificazione e dello stravolgimento
leggendario e mitico (la galassia degli anonimi autori dei testi apocrifi, suddivisibili in testi
ebioniti e gnostici). Esse corrono parallele a quelle della conservazione pia del racconto
evangelico e della sua interpretazione teologica da parte dei Padri. Ne risulterà una
panoramica interessante, composita, suscettibile di differenti interpretazioni, ricca di misteri
ma univoca nell’attestare, sia pure in modi particolari, la storicità e la rilevanza del
Fondatore eponimo del Cristianesimo 1 .

LA CRONACA DI THALLOS

Quella che probabilmente è la più antica testimonianza su Gesù in un testo greco


extrabiblico ci è giunta de relato. Thallos, autore samaritano, scrisse tre libri di Storie in
lingua greca, in cui riferiva non solo della Morte di Cristo in Croce, ma anche delle tenebre
e del sisma che l’accompagnarono, mostrando così di conoscere almeno il Vangelo di
Matteo, se non di essere stato informato del prodigio da altre fonti 2 . Questo passo del
Samaritano, come dicevo, non ci è giunto direttamente, in quanto la sua opera, scritta
presumibilmente a Roma intorno agli anni cinquanta del I sec., non ci è pervenuta, ma è
stata citata dallo storico cristiano Sesto Giulio Africano (160-240) nella sua Ecloga
chronographica, che a sua volta andava dalla Creazione del mondo fino ad Eliogabalo (218-
222). L’opera dell’Africano si perse anch’essa, ma il brano contenente la citazione in
questione è contenuto nella Storia universale di Giorgio Sincello († dopo l’810), che a sua
volta narrava la storia del mondo dalla Creazione fino a Diocleziano (284-305), continuando
consapevolmente l’opera dello storico della Dinastia dei Severi. Il Sincello afferma di
riportare un passo “tratto da Africano, riguardo agli eventi associati con la Passione” di
Gesù, in cui lo storico di età severiana asseriva che, quando Cristo stava per morire, “una
terribile oscurità si abbatté su tutto il mondo, le rocce furono spezzate da un terremoto e

1
R. VAN VOORST, Gesù nelle fonti extrabibliche, Torino, Edizioni Paoline, 2004; E. NORELLI, La presenza di Gesù
nella letteratura gentile dei primi due secoli, in A. PITTA (a cura di), Il Gesù storico nelle fonti del I-II secolo,
Bologna, Dehnoniane, 2005 (Ricerche Storico Bibliche 17/2), pp. 175-215 .
2
Mc 15,33: “Giunta l'ora sesta, si fece buio su tutta la terra fino all'ora nona”; cfr. Mt 27,45; Lc 23,44.
molti luoghi della Giudea e del territorio restante furono abbattuti. Thallos, nel terzo libro
delle sue Storie, definisce questa oscurità come eclissi del sole, a mio parere
irragionevolmente 3 ”. Giulio Africano contestava questa interpretazione del fenomeno data
dal Samaritano, in quanto Gesù era stato crocifisso durante il plenilunio pasquale, quando
non è possibile che ci sia un eclisse, in quanto la Luna è diametralmente opposta al Sole.
Perciò si dovevano considerare le tenebre inspiegabili e prodigiose, come del resto
avrebbero asserito Origene (185-250), Girolamo (347-420) e Giovanni Crisostomo (349-
407), polemizzando contro Celso, personaggio sul quale torneremo.
La citazione, sebbene di terza mano, è credibile, per cui appare evidente che le circostanze
storiche, comprese quelle inspiegabili, in cui Gesù era morto non solo erano note, ma anche
commentate e oggetto di polemica in ambienti extrabiblici. Thallos potè quindi o conoscere
il Vangelo di Matteo, sia nella sua forma greca che ebraica, o apprendere queste notizie da
altre fonti, scritte e orali. La determinazione dell’epoca in cui Thallos visse ci permette di
capire perché egli forse è stato il primo a parlare di Cristo in un testo non biblico 4 .
Probabilmente il nostro cronista era quel Thallos samaritano che viveva a Roma verso la
metà del I sec. e che, stando alla testimonianza di Giuseppe Flavio (37-100), concesse un
ingente prestito ad Erode Agrippa I ([10 a.C.] 39 d.C.-44). In realtà la recensione flaviana
riporta testualmente “allos Samareus”, ossia “un altro Samaritano”, senza che però il brano
avesse menzionato prima alcun altro appartenente a quel popolo 5 . In ragione di ciò, essendo
il nome Thallos comune anche tra i funzionari della Casa di Cesare (peraltro spesso assai
ricchi), e non avendo altrimenti senso la frase di Giuseppe, diversi filologi, dall’Hudson in
poi che per primo lo fece nel 1720, aggiunsero una theta dinanzi ad allos, leggendo così
Thallos 6 . Le Storie samaritane avrebbero avuto dunque per padre un potente burocrate di
quel popolo, perfettamente inserito nel contesto politico dell’epoca, ellenizzato, partecipe
dei dibattiti culturali e religiosi dell’epoca e quindi attento critico anche delle vicende di
Gesù e della sua nascente, piccola e vitale Chiesa. Forse fu segretario dello stesso Ottaviano
Augusto ([63 a.C.] 27 a.C.-14 d.C.) 7 o più probabilmente liberto di Tiberio 8 .
Questo Thallos è altrimenti noto tramite diverse altre fonti, che però non possono collocarlo
in un range temporale preciso, informandoci solo che è vissuto prima del 180, in quanto

3
Ed. K. MÜLLER, Fragmenta Historicorum Graecorum, Paris, 1841-1870, vol. III, 517-519, frammento 8.
4
Su tutta la questione: F. JACOBY, Die Fragmente der griechischen Historiker, Berlin, 1922-1958, vol. IIB, p. 1157, e
IID, pp. 835-836; H. RIGG, Thallus: The Samaritan?, in «Harvard Theological Review» XXXIV (1941), pp. 111-119 ;
P. PRIGENT, Thallos, Phlégon et le Testimonium Flavianum témoins de Jésus?, in Paganisme, Judaïsme,
Christianisme. Influences et Affrontements dans le Monde Antique, Paris, 1978, pp. 329-334; E. SCHÜRER, Storia del
popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, Brescia, 1997, vol. III/1, pp. 699-700; R. E. VAN VOORST, Gesù nelle fonti
extrabibliche, Cinisello Balsamo, 2004, pp. 33-37; E. NORELLI, La presenza di Gesù nella letteratura gentile dei
primi due secoli, in A. Pitta (a cura di), Il Gesù storico nelle fonti del I-II secolo, Bologna, Dehnoniane, 2005 (Ricerche
Storico Bibliche 17/2), pp. 177-182.
5
Antiquitates iudaicae, XVIII,VI, 4. 167: “Inoltre c’era un altro samaritano, che era liberto di Cesare. Agrippa riuscì a
ottenere da lui un prestito di un milione di dracme, con cui estinse il debito con Antonia”.
6
J. HUDSON, Flavii Josephi…opera omnia, Utrecht 1726. Per le versioni del testo greco delle Antichità Giudaiche cfr,
l’edizione italiana a cura di L. MORALDI, Novara 2013, vol. I, pp. 37-38. Per dei pareri difformi cfr. Cfr. I. MIEVIS, À
Propos de la Correction 'Thallos' dans les 'Antiquités Judaïques' de Flavius Josèphe, in «Revue Belge de Philologie et
d'Histoire» XIII (1934), pp. 733-740. H. RIGG, Thallus, op. cit., intende l’allos pronominalmente, e traduce: “Da un
altro, samaritano di stirpe, che era liberto di Cesare, etc.”. A proposito della ricorrenza del nome Thallos tra i burocrati
imperiali, ad esempio un’iscrizione latina parla di un T. Cl. Thallus praepositus velariorum domus Augustianae (Corpus
Inscriptionum Latinarum, VI, p. 8649).
7
GAIO SVETONIO TRANQUILLO, Augustus, 67; Altri Tallo sono menzionati nelle iscrizioni (Corpus Inscriptionum
Latinarum, VI, pp. 6987-6988)
8
In http://www.treccani.it/enciclopedia/tallo_res-903f3997-86d9-11dc-9a1b-0016357eee51/ Enciclopedia Treccani,
s.v.
conosciuto per primo da San Teofilo di Antiochia (†183/185) 9 . Di costui, pur non
conoscendosi le origini, si sapeva avesse trattato nella sua opera storica di Mosè – per cui
poteva essere più probabilmente ebreo o anche appunto samaritano, ipotesi questa suffragata
dal nome – e, non essendo plausibile che ci potessero essere tanti storici chiamati al
medesimo modo, peraltro citati esclusivamente da antichi testi patristici perché tutti di
interesse cristiano, l’identificazione tra il Thallos teofiliano e quello flaviano appare
senz’altro certa.
Un ulteriore problema verte sui temi trattati da Thallos nella sua opera. Un brano del
Chronicon di Eusebio di Cesarea (265-340), giuntoci integralmente in armeno, riferisce che
questo storico “raccoglie materiale dall'epoca della caduta di Troia fino alla
centosessantasettesima olimpiade”, tenutasi tra il 112 e il 109 a.C. 10 Ciò non solo
renderebbe impossibile che egli parlasse di Cristo, ma anche poco probabile che l’autore di
una simile opera storica vivesse nel I sec. A questo va però aggiunto sia che lo stesso
Eusebio, nella sua Praeparatio Evangelica, che altri frammenti thallosiani attestano che
l’opera del Samaritano partiva da molto prima (non solo dalla già citata epoca mosaica ma
anche dalle età mitiche di Cronos e di Belo) e proseguiva ben oltre 11 . Del resto, Eusebio
parla di materiale raccolto dall’autore e non di fatti narrati, il che significa letteralmente che
Thallos inserì documenti nel suo racconto sul lasso di tempo intercorso tra la Guerra Iliaca e
il 109 a.C., non che abbia narrato solo quel periodo. Inoltre molti hanno supposto un errore
nella traduzione armena dal greco eusebiano, correggendo il numerale ordinale greco
centosessantasettesimo in duecentesimosettimo o duecentodiciassettesimo. In tale caso,
l’Olimpiade di riferimento come terminus ad quem sarebbe o quella del 49-52 o quella
dell’89 -92, ovviamente dopo Cristo. La sequenza corretta di lettere greche più probabile, se
non paleograficamente almeno per la collimanza con gli altri dati che andiamo elencando,
sarebbe la prima 12 . In ogni caso, sia che Thallos continuasse la sua opera oltre il 109 a.C.,
sia che giungesse all’Olimpiade del 52, sia che si spingesse a quella del 92, sia che la sua
Cronaca avesse avuto diverse edizioni e continuazioni, sia persino che egli avesse scritto
opere diverse cui distintamente si riferivano Giulio Africano ed Eusebio di Cesarea, egli
potè conoscere e scrivere dei fatti di Gesù, e se egli non fu certamente il più antico
testimone extrabiblico e non cristiano del Redentore, di certo le probabilità che lo sia stato
realmente stato sono altissime. Infatti è molto più plausibile che sia esistito un solo Thallos
a cui tutti costoro fanno riferimento piuttosto che più di uno e peraltro tutti storici in lingua
greca. Del resto, la polemica del Samaritano su un dato cronachistico e prodigioso come le
tenebre che accompagnarono la Morte di Gesù è più comprensibile in un contemporaneo ai
fatti che in un postero, il quale avrebbe potuto facilmente derubricare il fenomeno
dall’elenco degli eventi storici relegandolo tra i miti, invece che affannarsi a cercare
spiegazioni naturalistiche facilmente contestabili.
Sulla base della datazione dei Vangeli a cui io stesso ho fatto riferimento da queste pagine 13 ,
si può supporre questa ricostruzione: Thallos nasce all’incirca, come Giovanni Evangelista,
9
Tallo è citato per la prima volta da Teofilo di Antiochia (Ad Autolycum, 3,29), poi da Minucio Felice (Octavius, 21,4),
indi da Tertulliano (Apologeticum, 10; Ad nationes, 2,12), ancora dallo pseudo-Giustino (Cohortatio ad Graecos, 9),
infine da Lattanzio (Divinae institutiones, 1,23; 1,13).
10
J. KARST, Die Chronik des Eusebius aus dem Armenischen übersetzt, Leipzig, 1911 (GCS 20), p. 125.
11
Per un elenco dei frammenti di Thallos cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Thallus_(historian)
12
https://infidels.org/library/modern/richard_carrier/jacoby.html : R. CARRIER, Jacoby und Müller on “Thallus”, “The
Secular Web”, 1999.
13
V. SIBILIO, La datazione interdisciplinare dei Vangeli. Una messa a punto della situazione, ed. on line in
Christianitas, Rivista di storia cultura e pensiero del Cristianesimo, I (2013), pp. 115-226, oggi in V.SIBILIO, Sulle
tracce del Gesù Storico, digitale, Amazon.com 2011.
intorno al 15 d.C. Tiberio lo affranca prima della sua morte, avvenuta nel 37, e in ogni caso
durante il periodo del soggiorno italiano di Erode Agrippa. Thallos ha allora all’incirca
vent’anni. Nel 42 Matteo (†62/70) scrive il suo Vangelo in ebraico. Nel 44, a Roma, Marco
(20-68) scrive il suo in greco. Nel 46 il Vangelo di Matteo è tradotto in greco. Nel 48
Marco scrive la versione definitiva del suo Vangelo. Nel 50 Luca (10-92) scrive il suo
Vangelo. Thallos può prendere visione di questi testi. E’ un samaritano, la sua opera si
colloca nel novero di quelle siriache, presumibilmente fu scritta originalmente o tradotta
successivamente anche in siriaco e in samaritano, onde rendere più agevole la sua
diffusione. Perciò poté leggere anche le versioni originali dei Vangeli, in lingua semitica.
Nel corso della stesura della sua opera, che arriva nella sua prima edizione fino al 52, e che
ragionevolmente si suppone di qualche anno posteriore, Thallos discute anche della Morte
di Gesù. Ha allora tra i quaranta e i cinquanta anni e quindi ha una piena maturità letteraria.
Nulla gli vieta di proseguire la stesura del suo testo in una seconda edizione che arriva
all’89-92, quando avrebbe avuto settantasei anni. Una pluralità di edizioni, in più lingue,
con la conoscenza di fonti anteriori e della letteratura coeva, è quanto avvenne anche per il
Quarto Vangelo. Può benissimo essere avvenuta per le Storie di Thallos, che con questa
ipotesi non hanno bisogno di essere scisse in tante opere puramente ipotetiche e attribuite ad
autori curiosamente omonimi seppur non distinti tra loro nella conoscenza degli antichi.

PETRONIO ARBITRO

Il Satyricon di Petronio ha fatto riferimenti al Vangelo di Marco e a quello di Matteo.


Personaggio che non ha bisogno di molte presentazioni, Tito Petronio Nigro (27-66) fu
proconsole della Bitinia e poi console, appartenente ai “pochi intimi di Nerone, arbitro di
raffinatezza, a tal punto che quegli nulla riteneva essere dolce o voluttuoso, se non ciò che
Petronio avesse approvato per lui14 ”. Scrisse il suo Satyricon tra il 64 e il 65, come si
capisce da alcune allusioni all’incendio di Roma del 64 15 . Quando Petronio prende la penna
è dunque appena iniziata la prima persecuzione, quella neroniana, ai Cristiani, i Vangeli
sinottici sono stati scritti e Pietro (2/4-67), Paolo (5/10-64/67) e Marco sono personaggi noti
a Roma.
Già il Preuschen evidenziò profonde somiglianze fra un passo del Vangelo di Marco,
l’Unzione di Betania 16 , ed un passo del Satyricon. In esso Trimalchione, durante il
banchetto da lui apprestato, ordina l’unzione dei convitati con il nardo, prefigurando
simbolicamente le proprie esequie 17 . Perciò Preuschen credette di poter spiegare tali
somiglianze ipotizzando una imitazione di Petronio da parte dell’evangelista Marco, di cui
però non poteva spiegare convincentemente la ragione. In realtà, fu proprio il contrario,
come ha argomentato bene Ilaria Ramelli 18 . L’ironia è graffiante, in quanto Trimalchione, a
differenza di Gesù, sa bene di avere ancora molti anni davanti a sé. Ma non inganni lo
scherno alla prescienza divina che il Cristo mostrò nel Vangelo nei confronti della Sua
Morte: la presenza di questo riferimento nel Satyricon conferma che i poteri profetici di

14
PUBLIO CORNELIO TACITO, Annales, XVI, 17-19.
15
K. F. C. ROSE, The date and the author of the Satyricon, Leiden, 1971.
16
E.PREUSCHEN, Die Salbung Jesu in Bethanien, in «Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft» III
(1902), pp. 252-253, e IV (1903), p. 88. Il passo è Mc 14,3-9.
17
Satyricon LXXVII,7; LXXVIII, 3-4, ed. K. MÜLLER, München, 1983.
18
I. RAMELLI, Petronio e i Cristiani: allusioni al vangelo di Marco nel Satyricon?, in «Aevum» LXX (1996), pp. 75-
80.
Gesù erano conosciuti a Roma e presi talmente sul serio da dover essere demoliti con la
beffa.
Ulteriori passi del Satyricon che echeggiano i Vangeli sono quello del canto del gallo
(considerato qui di malaugurio contrariamente alla tradizione romana) durante la cena di
Trimalchione, che allude a quei canti che accompagnarono il rinnegamento di Pietro 19 ; la
novella della Matrona di Efeso, in cui si fa il verso alla prodigiosa scomparsa del Corpo di
Gesù dalla sua stessa tomba, nel modo in cui viene descritto nel Vangelo di Matteo 20 ; il
testamento di Eumolpo che impone agli eredi l’antropofagia del suo cadavere, alludendo al
rito eucaristico, sia come viene presentato nei Sinottici che nel Vangelo di Giovanni 21 .
Nei tre passi summenzionati le allusioni sono sorprendenti: nel primo sembra quasi che il
pentimento di Pietro sia canzonato o addirittura considerato falso, in quanto Trimalchione
ordina di far cuocere il gallo perché non porti sfortuna. Forse per i guai passati da Pietro da
quando aveva iniziato a predicare, pentitosi per aver abbandonato il Maestro? O perché
Petronio pensava che l’Apostolo era un semplice opportunista? In ogni caso, un episodio
cruciale dell’odissea giudiziaria di Gesù viene indirettamente confermato e ancora i suoi
poteri profetici sono sbeffeggiati. Inoltre, una prova indiretta viene ad aggiungersi a quelle
che abbiamo del soggiorno di Pietro a Roma.
Nel secondo passo Petronio dimostra di conoscere la stessa Resurrezione di Cristo e
l’accusa rivolta ai suoi discepoli di averne trafugata la salma. Capovolgendo il racconto
evangelico con una eccezionale finezza tipicamente classica, Petronio forse suggerisce che
l’assenza del Corpo dalla tomba sia il frutto della seduzione delle donne nei confronti delle
guardie, anche se apparentemente egli racconta una storia contraria. Con questo triplice
salto mortale, che ribalta il Vangelo ma anche la giustificazione delle guardie col Sinedrio e
in cui esse concedono la salma alle Donne in visita al Sepolcro per amore, Petronio ci
fornisce non tanto una chiave inedita per una soluzione umana del più grande enigma della
storia – in quanto del tutto inverosimile perché troppo grande era il rischio che le guardie e
le Donne correvano nel fare ciò – ma una prova del fatto che tutto l’Impero sapeva che nella
remota periferia giudaica un morto era misteriosamente tornato in vita. Inoltre questo passo
petroniano mostra che il suo autore conosceva il Vangelo di Matteo.
Nel terzo passo, l’ironia sul fatto che Cristo, prima di morire, avesse lasciato ai suoi fedeli la
sua Carne e il suo Sangue da mangiare e bere, onde ereditare la vita eterna, è una prova
storica di quello che era il significato dell’Eucarestia per la prima generazione cristiana. Il
riferimento al valore testamentario del rito eucaristico suppone tuttavia che Petronio
conoscesse anche il Vangelo di Giovanni o almeno le sue fonti. Il che si addice alle tesi da
me già espresse sulla datazione dei Vangeli su queste colonne 22 .
Io stesso ho costruito alcuni miei saggi per la concordanza dei racconti kerygmatici a partire
dallo stile dei Sinottici che Petronio avrebbe imitato, in quanto solo Matteo, Marco, Luca e
lui lo adoperarono 23 . E’ la cosiddetta forma veloce, la cui presenza nel Satyricon può

19
Sat. LXXIV, 1-4; Mc 14, 27-31. 66-72.
20
Sat. CXI-CXII; Mt 27,62-28,15; Mt 26,17-25; Mc 14,12-26; Lc 22,7-14. Cfr. Gv 6,22-58.
21
Sat. CXLI.
22
V. SIBILIO, La datazione interdisciplinare dei Vangeli. Una messa a punto della situazione, ed. on line in
“Christianitas, Rivista di storia cultura e pensiero del Cristianesimo”, I (2013), pp. 115-226.
23
V. SIBILIO, La Resurrezione di Gesù nei racconti dei Quattro Vangeli – Un’indagine storico-critica, 1° ed. on-line
sul sito www.theorein.it. reg. il 27.10.2004 ai sensi dell’art. 1 D.Lgs.Lgt. 31.8.1945 n. 660; 2° ed. sul sito
www.theorein.it (2005), 3° ed. a stampa in “Teresianum – Ephemerides Carmeliticae” LXVII 1 [pp.3-66] e 2 [pp. 267-
334] (2006); ID., La Passione e la Morte di Gesù nei racconti dei Quattro Vangeli, sul sito www.theorein.it (2006); ID.,
Per una concordanza dei racconti kerygmatici dei Vangeli, ed. on line su “Christianitas” III (2014), pp. 99-336.
Confluiti in ID., Sulle tracce del Gesù storico.
spiegarsi solo per una conoscenza e una parodia dei Sinottici, non avendo alcun senso che
questi volessero imitare un accorgimento stilistico di Petronio 24 . Questi sembra avere un
angolo visuale preciso, quello di Pietro, che però viene ridicolizzato. Proprio su questo G.G.
Gamba ha scritto una monografia che scioglie gli enigmi del Satyricon, presentandolo come
una parodia del Cristianesimo al quale Petronio e Nerone ([37] 54-68) si sarebbero
avvicinati. Di qui le identificazioni di Petronio medesimo con Encolpio, di Nerone con
Ascilto, di Agrippina (15-59) con la sacerdotessa Quartilla, di Seneca (4 a.C.-65 d.C.) con
Agamennone e di Trimalcione con l’apostolo Pietro che in quel periodo predicava a
Roma 25 . Anche se questa ricostruzione non fosse esatta – e in ogni caso non serve al nostro
discorso – il dato obiettivo è che il ciclo degli Apocrifi su Pietro presenta l’Apostolo alla
corte di Nerone 26 . Questo senza che nessuna influenza poté esserci tra questi Atti e il
Satyricon stesso, la cui chiave esoterica poteva essere decodificata solo negli ambienti
neroniani e fu dimenticata in seguito alla drammatica scomparsa di tutti i protagonisti degli
eventi adombrati nel romanzo, compresi l’autore e l’Imperatore, morti suicidi.
Aggiungo, per rendere più suggestivo e completo il quadro, che la lettura cristiana del
Satyricon darebbe maggiore forza a chi crede che le Quattordici Lettere in greco scambiate
tra Paolo e Seneca (4 a.C.-65 d.C.) siano autentiche 27 . La cosa sarebbe legata al fatto che
Seneca avrebbe fatto conoscere a Nerone le Lettere di Paolo e quindi il Cristianesimo.
Personalmente credo che quel carteggio sia apocrifo, in quanto le Lettere dell’Apostolo a un
così importante personaggio sarebbero entrate nel canone neotestamentario, in cui sono stati
ammessi scritti anche meno importanti, come la missiva a Filemone o la Seconda e Terza
Lettera di Giovanni.

MARA BEN SERAPION

Mara Bar Serapion è una persona non altrimenti identificata che scrisse una lettera al figlio
per esortarlo a perseguire sempre la sapienza. La missiva, tramandata in un manoscritto
siriaco del secolo VII conservato oggi al British Museum, si ritiene che “sia stata scritta agli
inizi del II secolo o addirittura alla fine del I. Molto probabilmente è successiva all’anno 73
d.C.”, dati alcuni riferimenti storici 28 . Si tratta quindi di un testo redatto dopo che i Libri
del NT erano stati scritti e poco dopo che era stata redatta la Lettera di Clemente Romano
(70 ca.), che sarebbe stato Papa dal 91 al 101.
Un passo della lettera attesta la storicità di Cristo e la comune convinzione, in ambienti
illuminati, che il suo martirio avesse meritato un duro castigo:
“Quale vantaggio trassero gli Ateniesi
dall’aver ucciso Socrate? Ne ottennero
carestia e morte. O gli abitanti di Samo per
aver bruciato Pitagora? In un momento tutto il
loro paese fu coperto dalla sabbia. O i Giudei,
24
M. BARCHIESI, L’Orologio di Trimalcione. Struttura e tempo narrativo in Petronio, in I moderni alla ricerca di
Enea, Roma 1981.
25
Petronio Arbitro e i Cristiani. Ipotesi per una lettura contestuale del Satyricon, Roma, 1997.
26
Il ciclo agiografico su Pietro, riunito negli Atti di Pietro, comprende gli Atti di Vercelli del 190 ca., il Martirio di
Pietro, collocabile tra il I e il V sec., i Frammenti Copti del Museo Borgiano [mss. del IV-V sec.], gli Atti di Pietro e
Paolo dello Pseudo-Marcello, del V sec. Le relazioni tra Pietro e la corte di Nerone sono descritte negli Atti di Nerone.
Cfr. i testi in http://www.profezieonline.com/atti-di-pietro.html
27
M. SORDI, I rapporti personali di Seneca con i Cristiani, in Seneca e i Cristiani, a cura di A. P. Martina, Milano
2001, p. 113 sgg.
28
J.M. GARCIA, Il protagonista della storia. Nascita e natura del cristianesimo, Milano 2008, p. 31.
per il loro saggio re? Da quel tempo fu
sottratto loro il regno. Dio vendicò
giustamente la saggezza di questi tre uomini:
gli Ateniesi morirono di fame, gli abitanti di
Samo furono travolti dal mare, i Giudei furono
eliminati e cacciati fuori dal loro regno, e sono
ora dispersi per tutte le terre. Socrate non è
morto, grazie a Platone; né Pitagora, grazie
alla statua di Hera, né il saggio re, grazie alle
nuove leggi che ha stabilito 29 ”
L’autore, come si vede, non è cristiano, ma gli studiosi identificano il “saggio re dei Giudei”
con Gesù 30 . Tra le testimonianza extrabibliche su di Lui è senz’altro quella che tutti
riconoscono come più antica, anche se personalmente considero più remota nel tempo
quella di Thallos.

GIUSEPPE FLAVIO

Giuseppe Flavio (37-103 circa), legato del Sinedrio, governatore della Galilea e comandante
dell’esercito giudaico nella rivolta antiromana, poi devoto servitore di Vespasiano (69-79)
e Tito (79-81), fu il maggiore storico ebreo di età post-biblica. Scrisse le sue opere
monumentali in greco.
In un passo delle Antichità Giudaiche, scritte nel 93-94 (quindi presumibilmente coeve al
Pastore di Erma, a sua volta vissuto a cavallo tra il I e il II sec.), Giuseppe spiega perché fu
ucciso Giovanni Battista (8/7 a.C.-28 d.C.), del cui ministero dunque lo storico era
informato perfettamente:
“Ad alcuni dei Giudei parve che l’esercito di
Erode fosse stato annientato da Dio, il quale
giustamente aveva vendicato l’uccisione di
Giovanni soprannominato il Battista. Erode
infatti mise a morte quel buon uomo che
spingeva i Giudei che praticavano la virtù e
osservavano la giustizia fra di loro e la pietà
verso Dio a venire insieme al battesimo; così
infatti sembrava a lui accettabile il battesimo,
non già per il perdono di certi peccati
commessi, ma per la purificazione del corpo,
in quanto certamente l’anima è già purificata
in anticipo per mezzo della giustizia. Ma
quando si aggiunsero altre persone - infatti
provarono il massimo piacere nell’ascoltare i
suoi sermoni - temendo Erode la sua
29
Syriac MS. Additional, 14.658.
30
C.M. CHIN, Rhetorical Practice in the Chreia Elaboration of Mara bar Serapion, in “Journal of Syriac Studies”
2006. In R. PENNA, L’ambiente storico-culturale delle origini cristiane: una documentazione ragionata, Bologna
1986, p. 268, si legge: “l’esecuzione di un “re saggio” non può riferirsi da altri [se non a Gesù] poiché la storia non
conosce alcun re d’Israele condannato a morte dagli stessi ebrei: né davididi, né asmonei, né erodiadi….. la qualifica
ripetuta di “re saggio” può riferirsi molto bene a Gesù di Nazareth [perché] contiene una doppia allusione: al motivo
ufficiale della sua condanna come “re dei giudei” (Mt 27,37;Mc 15,26; Lc 23,38; Gv 19,19-21) e alla saggezza del suo
messaggio morale”.
grandissima capacità di persuadere la gente,
che non portasse a qualche sedizione -
parevano infatti pronti a fare qualsiasi cosa
dietro sua esortazione - ritenne molto meglio,
prima che ne sorgesse qualche novità,
sbarazzarsene prendendo l’iniziativa per
primo, piuttosto che pentirsi dopo, messo alle
strette in seguito ad un subbuglio. Ed egli per
questo sospetto di Erode fu mandato in catene
alla già citata fortezza di Macheronte, e colà fu
ucciso 31 ”.
Il riferimento è alla sconfitta che nel 36 l’esercito di Erode Antipa (4 a.C.-39 d.C.) patì da
Areta (9 a.C.-40 d.C.) re dei Nabatei, la cui figlia il tetrarca aveva ripudiato per sposare la
cognata Erodiade (15 a.C.-39 d.C.). La legittima moglie si era rifugiata dal padre che con le
armi aveva vendicato l’onore della figlia. Proprio Giovanni aveva stigmatizzato la condotta
immorale della coppia regale, venendo per questo ucciso. E a questo empio delitto i più
ricondussero la causa per cui Dio aveva voluto l’umiliazione dell’esercito di Antipa.
Ancora nelle Antichità giudaiche Giuseppe accenna indirettamente a Gesù quando racconta
il martirio di Giacomo il Minore, nel 62; infatti nei Vangeli Giacomo è detto fratello di
Gesù, con una traduzione tecnica del semitismo che indicava i parenti del Redentore, e
Giuseppe, che evidentemente conosceva il Nuovo Testamento, cita correttamente questo
epiteto:
“Anano […] convocò il sinedrio a giudizio e vi
condusse il fratello di Gesù, detto il Cristo, di
nome Giacomo, e alcuni altri, accusandoli di
trasgressione della legge e condannandoli alla
lapidazione 32 ”
Ma la testimonianza più importante è il cosidetto Testimonium flavianum. Esso così recita:
“Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo
saggio, sempre che si debba definirlo uomo:
era infatti autore di opere inaspettate, maestro
di uomini che accolgono con piacere la verità,
ed attirò a sé molti Giudei, e anche molti della
grecità. Questi era il Cristo. E quando Pilato,
per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo
punì di croce, coloro che da principio lo
avevano amato non cessarono. Egli infatti
apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo,
avendo già annunziato i divini profeti queste e
migliaia d’altre meraviglie riguardo a lui.
Fino ad oggi ed attualmente non è venuto
meno il gruppo di quelli che, da costui, sono
chiamati Cristiani 33 ”
31
Ant. XVIII, 116-119.
32
Ant. XX, 200.
33
Ant. XVIII, 63-64. Ecco il testo originale Greco, che merita di essere riportato: Γίνεται δὲ κατὰ τοῦτον τὸν χρόνον
Ἰησοῦς σοφὸς ἀνήρ, εἴγε ἄνδρα αὐτὸν λέγειν χρή: ἦν γὰρ παραδόξων ἔργων ποιητής, διδάσκαλος ἀνθρώπων τῶν ἡδονῇ
τἀληθῆ δεχομένων, καὶ πολλοὺς μὲν Ἰουδαίους, πολλοὺς δὲ καὶ τοῦ Ἑλληνικοῦ ἐπηγάγετο: ὁ χριστὸς οὗτος ἦν. καὶ
Così come ci è giunto, il passo non solo riporta i contenuti della fede cristiana primitiva e i
fatti che la fondarono, ma attesta che l’autore professi gli uni e creda agli altri, il che non
sembra possibile, essendo Giuseppe un ebreo osservante. In conseguenza di ciò si aprì una
disputa filologica che, pur essendo oggi virtualmente composta, non inficia il valore storico
della testimonianza in sé. Vediamone il motivo.
Nel secolo XVI Gifanio (1534-1604) e Osiandro (1498-1552) misero in dubbio l’autenticità
del passo, seguiti poi da moltissimi commentatori, mentre altri studiosi anche razionalisti lo
riconobbero autentico 34 . I primi consideravano il testimonium come una mera
interpolazione, ma i più vedevano in esso solamente un aggiustamento di particolari da parte
di un copista cristiano, se non addirittura l’inserimento nel testo di alcune glosse a margine,
fatte da scribi cristiani, poi per errore entrate nel corpo stesso dell’opera per mano di altri
che la tramandarono. Quest’ultima ipotesi è tutt’altro che peregrina in quanto il fenomeno in
questione era abbastanza comune 35 .
Che l’originale delle Antichità dovesse contenere un riferimento a Gesù lo si deduce anche
dagli altri due brani che fanno riferimento a personaggi neotestamentari e che abbiamo
citato: Giuseppe non poteva conoscere Giovanni il Battista e ignorare Cristo, né poteva
definire Giacomo il Minore “fratello di Gesù” senza dire nella sua opera chi fosse Costui.
Del resto, Giuseppe censisce con scrupolo gli aspiranti messia del I sec. e non poteva
tralasciare il candidato che aveva avuto miglior fortuna. Che poi la testimonianza non sia
interpolata, lo attesta indirettamente anche il fatto che un falsario avrebbe dovuto
ragionevolmente metterla dopo il racconto della fine del Battista e non in questo punto del
testo, almeno a giudizio di diversi critici 36 .
In quanto poi alla critica testuale, va rilevato che tutti i manoscritti greci delle opere di
Giuseppe che noi possediamo dal secolo XI in poi contengono questo passo nella medesima
forma; esso è pure citato due volte da Eusebio di Cesarea nei primi decenni del IV secolo 37 .
Quindi, a questo proposito, la tradizione testuale è forte.
Origene invece, attribuisce al nostro Giuseppe l’affermazione inesatta che Gerusalemme fu
distrutta per castigo divino in punizione del martirio dell’apostolo Giacomo, aggiungendo:
“E la cosa sorprendente è che egli, pur non ammettendo il nostro Gesù essere il Cristo, ciò
nondimeno rese a Giacomo attestazione di tanta giustizia 38 ”. Questo dimostra che il Padre
conosceva una versione precedente delle Antichità in cui Giuseppe non faceva professione
di Cristianesimo e che forse non le aveva lette con grande accuratezza. Ancora però il
grande Alessandrino in altra sede della sua monumentale opera scrisse che Giuseppe aveva
detto queste cose “sebbene non credente in Gesù come il Cristo 39 ”, ad ulteriore conferma

αὐτὸν ἐνδείξει τῶν πρώτων ἀνδρῶν παρ᾽ ἡμῖν σταυρῷ ἐπιτετιμηκότος Πιλάτου οὐκ ἐπαύσαντο οἱ τὸ πρῶτον
ἀγαπήσαντες: ἐφάνη γὰρ αὐτοῖς τρίτην ἔχων ἡμέραν πάλιν ζῶν τῶν θείων προφητῶν ταῦτά τε καὶ ἄλλα μυρία περὶ
αὐτοῦ θαυμάσια εἰρηκότων. εἰς ἔτι τε νῦν τῶν Χριστιανῶν ἀπὸ τοῦδε ὠνομασμένον οὐκ ἐπέλιπε τὸ φῦλον.
34
quali F. K. BURKITT, in «Theologisch Tijdschrift» (1913), p. 135 ss.; A. VON HARNACK, Der jüdisch
Geschichtsschreiber Josephus und Jesus Christus, in «Internationale Monatsschrift für Wissenschaft, Kunst und
Technik» VII (1913), coll. 1037-1068 (sia pure con qualche oscillazione in merito).
35
T. REINACH, in «Revue des Études juives» XXXV (1897), p. 1 ss. ; O. BETZ et alii (a cura di), Josephus Studien,
Göttingen, 1974, pp. 9-22. In generale sulle posizioni degli studiosi, cfr. A. M. DUBARLE, L’originalité du témoignage
de Flavius Josèphe sur Jésus, in «Recherches des Sciences Religieuses» LII (1964), pp. 177-203, e R.
DEVREESSE, Introduction à l'étude des manuscrits grecs, Paris, Imprimerie National, 1954, p. 81.
36
A. NICOLOTTI, Testimonianze extracristiane sulla persona di Gesù di Nazareth e sulla Chiesa primitiva, in
/www.christianismus.it.
37
Historia ecclesiastica I, 11; Demonstratio evangelica III, 3, 105-106.
38
Commentarium in Matthaeum, X,17.
39
Contra Celsum, I,47.
del fatto che la versione delle Antichità che circolava del III sec. era evidentemente diversa
da quella di oggi.
Ad ulteriore riscontro del fatto che il testimonium non uscì così com’è dalla penna di
Giuseppe vi è la differenza stilistica tra esso e il resto delle Antichità. Ma proprio i maggiori
sostenitori di questa difformità, come il Thackeray, trovano in essa una ragione per leggere,
sotto il rifacimento cristiano, una lezione originale che prova decisamente che Giuseppe
conosceva Gesù e le credenze del Cristianesimo del I sec. 40 Questo testo primigenio,
sgombrato dalle aggiunte cristiane che spezzano il fluire del discorso peraltro in modo
parenetico, scorre veloce e rivela espressioni certamente giudaiche, come quelle che
alludono alla condanna a morte di Gesù come voluta dai notabili “fra noi”, riferito quindi al
popolo dell’autore. Quello che dovette essere il testo flaviano ci è stato restituito dalla
Storia Universale, detta anche Il Libro del Titolo, di Agapio di Gerapoli (†942), riscoperta
nel 1971 e risalente al X sec. Scritta in arabo, la Storia cita proprio il testimonium, in una
versione non cristianizzata simile a quella ricostruita dai filologi41 , tanto più
significativamente perché scelta da un vescovo, che a sua volta la traeva da una ulteriore
versione, siriaca, ossia quella contenuta nella Cronaca di Teofilo di Edessa (†785),
purtroppo andata perduta. Il testo, citato anche dallo storico arabo Girgis Al-Makin (XIII
sec.) nella sua Cronaca Universale, così recita:
“Similmente dice Giuseppe l’ebreo, poiché egli
racconta nei trattati che ha scritto sul governo dei
Giudei: “Ci fu verso quel tempo un uomo saggio che
era chiamato Gesù, che dimostrava una buona
condotta di vita ed era considerato virtuoso
(o: dotto), e aveva come allievi molta gente dei
Giudei e degli altri popoli. Pilato lo condannò alla
crocifissione e alla morte, ma coloro che erano stati
suoi discepoli non rinunciarono al suo discepolato
(o: dottrina) e raccontarono che egli era loro
apparso tre giorni dopo la crocifissione ed era vivo,
ed era probabilmente il Cristo del quale i profeti
hanno detto meraviglie. 42 ”
Come dicevamo, la disputa sul testimonium è dunque composta, in quanto una soluzione
soddisfacente per tutte le parti in causa è stata trovata proprio con questa versione appena
citata. E’ peraltro degno di nota che diversi studiosi autorevolissimi sono poi inclini a
ritenere che il testimonium non sia stato soggetto ad alcuna interpolazione, come Nodet,
Bardet e Troiani. Quest’ultimo, traducendo il testo flaviano con particolari sfumature,
mostra come esso può essere benissimo uscito dalla penna di Giuseppe senza che implichi
alcun atto di fede in Gesù da parte sua. Questo da un lato getta una luce diversa sulla storia
delle Antichità ma non modifica il valore storico del passo, che è inalterato sia che lo si
consideri autentico sia che lo si consideri interpolato 43 . Appare tuttavia a mio avviso

40
H. ST. J. THACKERAY, Josephus: the Man and the Historian, New York, 1929, pp. 136-149.
41
S. PINÈS, An arabic version of the Testimonium Flavianum and its implications, Jerusalem, 1971
42
Traduzione tratta da J. MAIER, Gesù Cristo e il cristianesimo nella tradizione giudaica antica, Brescia, 1994, p. 65.
43
É. NODET, Jésus et Jean Baptiste selon Josèphe, in «Revue Biblique» XCII (1985), pp. 321-348 e 497-524; S.
BARDET, Le Testimonium Flavianum. Examen historique, considérations historiographiques, Paris, Cerf, 2002; P. A.
GRAMAGLIA, Il Testimonium Flavianum. Analisi linguistica, in «Henoch» XX (1998), pp. 153-177, esprime parere
difforme sull’importanza di questo testo arabo per la ricostruzione dell’originale del testimonium. Per una visione
d’insieme cfr. A. WHEALEY, Josephus on Jesus. The Testimonium Flavianum Controversy from Late Antiquity to
improbabile la tesi del Troiani, in quanto, se davvero il greco di Giuseppe avesse avuto delle
sfumature di significato negative in relazione a Gesù, non si capirebbe come mai gli antichi
autori come Origene, greci anch’essi, non l’avessero inteso in tal senso, per magari
contestarlo invece di citarlo semplicemente. In effetti gli avversari pagani del Cristianesimo
che scrissero in lingua greca furono accuratamente confutati dagli autori cristiani, come
vedremo. Invece Giuseppe fu considerato sempre un testimone favorevole o al massimo
neutrale. Sempre con la tesi di Troiani non si dà ragione della versione flaviana giuntaci
tramite Agapio. Per cui personalmente credo che il testo di Giuseppe Flavio su Gesù sia
stato ritoccato da antichi copisti cristiani, magari per inserimento maldestro di glosse a
margine nel corpo narrativo.

LE DICIOTTO BENEDIZIONI

Un frammento della Genizah del Cairo dello Šemônê ‘esre (le Diciotto benedizioni), che
apriva la celebrazione sinagogale e del quale ci sono pervenute diverse redazioni,
esplicitamente menziona i cristiani all’interno della dodicesima benedizione:
“Che per gli apostati non vi sia speranza;
sradica prontamente ai nostri giorni il dominio
dell’usurpazione, e periscano in un istante i
Nazarei (nôserîm) e gli eretici (minim): siano
cancellati dal libro della vita e non siano
iscritti con i giusti. Benedetto sei tu, Signore,
che schiacci gli arroganti 44 ”.
Giustino (100-165), Girolamo ed Epifanio (310/15-406/407) testimoniano che i Giudei
maledicevano i Cristiani nella preghiera e in particolare i convertiti a quella religione dalla
fede mosaica 45 . Anche se è una parola generica riferibile a tutti gli eretici, nel
termine minim si possono comprendere anche i Cristiani, né vi erano altri dissidenti
dall’Ebraismo all’epoca al di fuori di questi, per cui non si può attenuare la portata
anticristiana di quella maledizione. La sua formulazione è originaria di Jamnia, tra gli anni
85 e 100 del I secolo, sotto rabbi Gamaliele II (vissuto tra I e II sec.), sulla base di un testo
già presente anteriormente, sotto diversa forma. Il testo di questa preghiera non è stato mai
fisso fino ad oggi 46 . Quando tuttavia esso fu fissato per la prima volta, il NT era già tutto
completo ed erano state scritte la Lettera di Clemente, quella di Barnaba, la Didakè e (forse)
il Pastore di Erma (90), mentre le formule orali anteriori a Gamaliele risalgono
evidentemente all’epoca della Prima Guerra Giudaica e, se anteriori, alla tradizione
farisaica. Le Diciotto Benedizioni sono dunque una prova del carattere precipuo della
predicazione di Gesù, nata in ambiente giudaico, avvertita come cosa propria, su cui
esercitare giurisdizione, dall’autorità sinagogale e pure incompatibile con l’ortodossia
Modern Times, New York, Lang, 2003; L. TROIANI, Ancora sul cosiddetto Testimonium Flavianum, in
www.christianismus.it
44
In J. MAIER, Gesù Cristo e il cristianesimo nella tradizione giudaica antica, Brescia, 1994, p. 63, con altri passi
paralleli; R. PENNA, L’ambiente storico culturale delle origini cristiane, Bologna, 1984, p. 248. Su questa preghiera
cfr. E. SCHÜRER, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, vol. II, Brescia, 1987, pp. 547-554, con una
traduzione delle due recensioni babilonese e palestinese.
45
W. HORBURY, The Benediction of the Minim and Early Jewish-Christian Controversy, in «Journal of Theological
Studies» XXXIII (1982), pp. 19-61.
46
J. MAIER, Gesù, pp. 55-64; R. PENNA, L’ambiente, pp. 248-249. Cfr. in gen. L. VANA, La birkat ha-minim è una
preghiera contro i giudeocristiani?, in G. FILORAMO - C. GIANOTTO (a cura di), Verus Israel, Brescia, 2001, pp.
147-189; S. MIMOUNI, Les Chrétiens d'origine juive dans l'antiquité, Paris, 2004, pp. 71-92.
farisaica, la quale, quando si trovò ad essere l’unica superstite tra quelle ebraiche dopo la
Distruzione del Tempio, fulminò il proprio anatema sul Cristianesimo, rigettandolo quale
corpo estraneo.
.

I VANGELI APOCRIFI DEL II SECOLO

La letteratura apocrifa, specie di origine giudeo-cristiana, è una testimonianza fondamentale


sulla storicità di Gesù. I Vangeli afferenti a quell’ambiente sono documenti non solo
dell’esistenza storica di Cristo ma anche del tentativo di smitizzazione della sua biografia, a
dimostrazione ulteriore che le fonti canoniche sono più antiche. Il Vangelo degli Ebioniti,
scritto tra il 100 e il 150, non ammetteva la figliolanza divina di Gesù e faceva iniziare il
suo racconto dal Battesimo di questi, considerandolo come il solo momento in cui Egli
avesse ricevuto lo Spirito Santo47 . Questa mutilazione dei racconti sinottici, e in particolare
del Vangelo di Matteo che di quello degli Ebioniti è un probabile modello, si riscontra
anche negli altri due Vangeli giudeo-cristiani eterodossi: quello dei Nazareni e quello degli
Ebrei, entrambi degli inizi del II sec. e che per alcuni furono un tempo un solo testo con il
Vangelo degli Ebioniti 48 . Il Vangelo di Nicodemo, coevo a quello degli Ebioniti, affermava
implicitamente che Gesù era ritenuto figlio di Giuseppe, cosa peraltro attestata anche dai
Vangeli canonici, anche se in essi ovviamente considerata solo opinione e non realtà 49 . Ciò
attesta lo sforzo di espungere dalla vita di Gesù la sua figliolanza divina, veicolata dalla
credenza nella partenogenesi pneumatica. Sono pur sempre attestazioni della storicità di
Cristo, opportunamente manipolata, gli altri Vangeli giudeo-cristiani, detti di Pietro (130-
150), degli Egiziani (100-150), di Mattia. Il processo di appropriazione del messaggio di
Gesù avviene qui in modo tenue, mediante forme di docetismo ed encratismo, quasi a
testimoniare a rovescio l’Incarnazione del Verbo e l’universalità del suo messaggio 50 .
La storicità dell’insegnamento di Cristo è poi paradossalmente attestato dal processo di
straniamento che esso subisce nei testi gnostici, nei quali anche le caratteristiche storiche del
personaggio sono rese sempre più evanescenti, con un singolare itinerario a rovescio di
quello che di solito è percorso dalle biografie leggendarie, che tendono nel tempo ad
accrescersi nei particolari e non a rarefarsi. Sono, per rimanere ai testi del II sec., ossia ai
più antichi – giunti a noi spesso incompleti o addirittura per tradizione indiretta – il Vangelo
di Cerinto, di Basilide, di Marcione, di Apelle, di Bardesane, di Mani, di Tommaso (150
ca.), di Maria, di Tommaso l’Atleta (II-III sec.), l’Apocrifo di Giovanni (100-150) e la
Sophia di Gesù Cristo (II-III sec.) 51 . Alcuni datano al II sec. anche i Vangeli di Verità, di
Filippo, di Giuda, del Salvatore, della Perfezione e di Eva, nonché il Dialogo del Salvatore
e l’Apocrifo di Giacomo. Indipendentemente dalla datazione di questi testi di eterogenea
origine e spesso solo per comodità considerati tutti complessivamente gnostici, una cosi
ampia letteratura, sia pure giunta in modo frammentario, attesta inequivocabilmente non
solo la storicità ma anche l’importanza di Gesù, la cui fisionomia storica molti avevano

47
R. H. WORTH, Alternative lives of Jesus: noncanonical accounts through the early Middle Ages, McFarland,
2003, pp. 37-38.
48
J. K. ELLIOT, The Apocryphal New Testament: A Collection of Apocryphal Christian Literature, Oxford, p. 3; W.
SCHNEEMELKER- R MCWILSON, New Testament Apocrypha: Gospels and Related Writings, Westminster 1991,
p.135.
49
Testo e bibliografia in http://www.earlychristianwritings.com
50
M. CRAVERI, I Vangeli apocrifi, Torino 2005.
51
L.MORALDI, I Vangeli gnostici, Milano 1981.
desiderio di ridisegnare o arricchire, per annetterne il prestigio alla propria posizione
spirituale.

IL TALMUD BABILONESE

Sebbene le prime testimonianze manoscritte complete di alcuni passi del Talmud e


della Misnah contenenti passi ostili a Cristo e alla sua Chiesa risalgono all’Alto Medioevo e
nonostante i relativi frammenti e le citazioni corrispettive più antiche ci mostrino una
tradizione testuale molteplice uniformata proprio in epoca altomedievale e ancor di più con
l’avvento della stampa, non si può dubitare che quei riferimenti anticristiani risalgano alla
seconda metà II sec., almeno in una forma originaria, che da un lato è lo sviluppo dei
Vangeli giudeo-cristiani e dall’altro l’antecedente all’opera di Celso, di cui diremo 52 , e che
confluirono nel Talmud babilonese, scritto verso la metà del III sec.
E’ questa infatti l’epoca in cui il giudeo Trifone, che molto probabilmente è da identificare
con Rabbi Tarphon (70 ca.-135 ca.), assai ostile ai Cristiani 53 , in una disputa con San
Giustino avvenuta nel 135 e poi messa per iscritto nel 160, così misconosce la Risurrezione
di Cristo:
“E’ sorta un’eresia senza Dio e senza Legge
da un certo Gesù, impostore Galileo; dopo che
noi lo avevamo crocifisso, i suoi discepoli lo
trafugarono nottetempo dalla tomba ove lo si
era sepolto dopo averlo calato dalla croce, ed
ingannano gli uomini dicendo che è risorto dai
morti e asceso al cielo 54 ”.
Ordunque, il Talmud babilonese ci riporta questo racconto, del quale mettiamo tra parentesi
quadre le parole contenute solo in alcuni manoscritti:
“Viene tramandato: [al venerdì] alla sera
della Parasceve si appese Ješu [ha-nôserî = il
cristiano]. Un araldo per quaranta giorni uscì
davanti a lui: «Egli [Ješu ha-nôserî] esce per
essere lapidato, perché ha praticato la magia e
ha sobillato e deviato Israele. Chiunque
conosca qualcosa a sua discolpa, venga e
l’arrechi per lui». Ma non trovarono per lui
alcuna discolpa, e lo appesero [al venerdì]
alla sera della Parasceve.
Disse Ulla: «Credi tu che egli [Ješu ha-nôserî]
sia stato uno per il quale si sarebbe potuto
attendere una discolpa? Egli fu invece un
istigatore all’idolatria, e il Misericordioso ha
detto «Tu non devi avere misericordia e
coprire la sua colpa!». Con Ješu fu diverso,

52
Per un parere difforme cfr. J.MAIER, che data ai primi secoli medievali questi testi giudaici. Cfr. Poi R. M.
MEELFÜHRER, Jesus in Talmude, Altdorf, 1681; H. LAIBLE, Jesus Christus im Thalmud, Leipzig, 1891; R. T.
HERFORD, Christianity in Talmud und Midrash, London, 1903.
53
J. MAIER, Gesù Cristo, pp. 219-220.
54
GIUSTINO, Dial. cum Tryph. CVIII, 2
perché egli stava vicino al regno” (Sanhedrin
B, 43b) 55 .
Il passo si riferisce a Gesù, del quale viene indicato con precisione il giorno di esecuzione,
mentre per giustificare il Sinedrio che lo condannò in modo irregolare inserisce la figura
inventata dell’araldo che per quaranta giorni rimanda l’esecuzione di Gesù. Il verbo
“appendere” al posto di “crocifiggere” si trova anche in At 10,39, in Gal 3,13 e in Giuseppe
Flavio. La divergenza tra la dichiarazione “esce per essere lapidato” e la successiva morte di
croce fa chiaramente intendere che Gesù non poté essere ucciso se non con l’assenso
dell’autorità romana, che però non è citata pur infliggendo una pena differente, quasi a
rivendicare solo al Sinedrio il sinistro merito della Crocifissione.
Un’altra analisi preferisce riferire il passo ad un’altra persona, che solo casualmente fu
prima lapidata e poi appesa alla Parasceve; egli aveva cinque discepoli (di cui si parla più
avanti), tutti lapidati come lui; la frase “con Ješu fu diverso, perché egli stava vicino al
regno” significa che quest’uomo era un collaborazionista romano 56 . La cosa è una evidente
forzatura del testo, in quanto non ha alcun senso immaginare che un cadavere lapidato fosse
barbaramente appeso dagli Ebrei (ma echeggia la Novella della Matrona di Efeso che parla
di un cadavere che viene crocifisso). Inoltre con l’espressione “vicino al regno” a mio
avviso non ci si riferisce ad un presunto collaborazionismo di Gesù ma al fatto che Egli non
poté essere lapidato perché giudicato dai Romani. Oppure può essere inteso nel senso che
Gesù con il suo messianismo apolitico sembrava collaborazionista ai Giudei zeloti, come
del resto accadde anche ai Cristiani giudei ai tempi delle Guerre Giudaiche, sia del 70 che
del 130, quando essi non presero le armi contro Roma e furono perseguitati dagli altri Ebrei.
I cinque discepoli potrebbero essere quelli che tra gli Apostoli furono più noti tra gli Ebrei e
da essi più perseguitati, come i due Giacomo, Pietro, Paolo e forse Mattia (†62).
Un altro passo del Talmud babilonese in cui compare il nome di Gesù è l’‘Aboda Zara 16b,
di cui abbiamo però altre due recensioni abbastanza differenti nel Tosefta Hullin 2,24 e nel
Midrash Qohelet Rabba 1,1.8. Il passo riporta un racconto di rabbi Eli‘ezer ben Hyrkanos,
vissuto tra l’80 e il 110, e quindi contemporaneo di Ignazio di Antiochia (†107) e degli
autori della Lettera di Barnaba e della Didakè.
Questo è scritto nell’‘Aboda Zara
“Io, una volta, passeggiavo sulla strada
superiore di Sepphoris, e trovai un uomo dei
discepoli di Ješu ha-nôserî e Giacomo da Kfar
Siknaja era il suo nome. Egli mi disse:
Così invece leggiamo nel Tosefta Hullin
“Mentre una volta passeggiavo lungo la strada
di Sepphoris, trovai Giacomo, un uomo di Kfar
Siknin, e mi disse una parola di eresia in nome
di Ješûa‘ ben Pntjrj:
Cosi infine si legge nel Midrash Qohelet Rabba
“Io, una volta, andavo lungo la strada di
Sepphoris. Mi venne incontro un uomo e
Giacomo da Kfar Siknaja era il suo nome. Egli
mi disse una parola in nome di Ješû ben
Pndr’ e questa parola mi ha fatto piacere:

55
In J. MAIER, Gesù, p. 204.
56
R. PENNA, L’ambiente, pp. 244-245; J . MAIER, Gesù, pp. 202-214.
La sola recensione babilonese così prosegue:
«Sta scritto nella vostra Torà: Tu non devi
portare il prezzo del meretricio e del cane
nella casa del Signore Dio tuo [Deut. 23,19].
Si può dunque fare una latrina per il sommo
sacerdote?» Ma io gli risposi di no. Egli mi
disse: «Così mi ha insegnato Ješu ha-
nôserî: Dal prezzo del meretricio è raccolto, al
prezzo del meretricio deve tornare [Mic. 1,17].
Dal luogo della sporcizia sono venuti, al luogo
della sporcizia devono tornare». E la cosa mi
piacque, e per questo sono stato arrestato, per
eresia 57 ”.
E’ questo dunque un detto, vero o presunto tale, di Gesù, che richiama la sua lotta
all’osservanza letterale della Legge. La condanna del rabbi Eli‘ezer è una condanna del
pensiero cristiano. La questione dell’uso del denaro ottenuto col peccato che non può essere
impiegato nel Tempio riecheggia la questione dei trenta denari di Giuda di Mt. 27,6-7, che
però nel Vangelo i Sacerdoti autorizzano ad usare. Sembra che il redattore voglia ritorcere
contro Gesù l’azione malvagia del Sinedrio attribuendo a Lui il principio etico che essi
seguirono 58 . La mescolanza tra Ješûa‘ ben Pntjrj, Ješû ben Pndr’ e Ješu ha-nôserî (il
cristiano) rivelano un probabile intento denigratorio che alcuni ritengono solo
impropriamente riferito a Gesù 59 .
Esistono infatti numerose citazioni rabbiniche di un certo Ješûa‘ ben Pandera o
Panteri/Pantera‘, riprese come vedremo da Celso, che parlavano di un certo Gesù figlio di
Panther, corrompendo il greco parthénos usando un nome di persona piuttosto raro tra i
soldati romani e quindi calunniando la nascita verginale di Cristo ed espungendolo dalla
progenie di Abramo e dalla Casa di Davide. Nonostante la sua blasfemia, questa calunnia è
storicamente importantissima: nessuno avrebbe deriso la concezione verginale di Gesù se
essa non fosse stata creduta dai cristiani e se quindi la sua narrazione non fosse stata
anteriore a questi testi, ossia risalente alla prima metà del I sec. In tale modo sarebbe stata
abbastanza antica non solo per essere demitizzata ma anche degradata 60 . Inoltre, questa
rozza calunnia aveva il pregio di cancellare l’evidentemente fondata notizia della
discendenza davidica di Gesù, che avrebbe così perduto un titolo fondamentale per essere
riconosciuto Messia, oltre che la sua altrimenti indubbia appartenenza al popolo eletto.
Secondo Maier è possibile una ulteriore interpretazione, per cui Ben Pandera era un mago
ricordato nella tradizione palestinese, come anche Ben Stada, e che queste figure vennero
poi assimilate a quella di Gesù, poi chiamato ha-nôserî, e i passi messi in connessione a Lui
o per errore o, ipotizzo, per denigrarne la potenza guaritrice con l’accusa di teurgia. Ma in
realtà, questo avvenne molto più tardi 61 .
Un ultima testimonianza sul Gesù storico, anche se afferente ad un periodo successivo, è
una frase del rabbi Abbahu, vissuto in Palestina tra il 269 e il 320, coevo dunque all’ultima

57
In J . MAIER, Gesù, pp. 147-149.
58
J. JEREMIAS, Gli agrapha di Gesù, Brescia, 1965, pp. 47-49.
59
J . MAIER, Gesù, pp. 143-169.
60
J . MAIER, Gesù, pp. 143-169.
61
J . MAIER, Gesù, pp. 232-243.
apologetica ma anche agli ultimi pagani implacabilmente ostili al Cristianesimo, e che è
una condanna di Cristo ed è contenuta nel Ta‘anit J, 2,1 62 :
“Se qualcuno ti dice: «Io sono Dio», egli è un
mentitore; «Io sono il figlio dell’uomo», alla
fine dovrà pentirsene; «Io ascenderò al cielo»,
egli ha detto questo, ma non lo compirà”.
La frase si adatta bene a Gesù ma anche ad altri uomini che secondo la testimonianza di
Celso in Fenicia e Palestina si attribuivano tali qualità divine 63 . Era dunque una descrizione
stereotipata di un dominatore arrogante, identificata spregiativamente con Cristo, ma anche
in modo eloquente: i suoi più feroci nemici attestano, negandole, la sua affermazione di
essere Dio, Messia e di essere asceso al Cielo. E’ una condanna senza appello e gravida di
ferali conseguenze: se infatti, finite le persecuzioni, il mondo greco-romano e il
Cristianesimo si incontrarono definitivamente, quello ebraico rimase per lunghi secoli
abbarbicato su queste posizioni denigratorie e assolutistiche, alle quali la nuova religione
ormai trionfanti rispose in modi via via più drastici e vessatori. Questo drammatico scontro
su Cristo tra i suoi connazionali e i suoi fedeli sarebbe terminato, anche se non
completamente, solo nella seconda metà del XX sec.

TACITO

Il massimo storico romano, Tacito (54-119), anch’egli non bisognoso di presentazioni,


scrisse attorno al 112 i suoi sedici libri degli Annali, che narrano la storia romana dalla fine
del principato di Augusto (14 d.C.) alla morte dell’imperatore Nerone (68). Cinque anni
prima Ignazio di Antiochia era stato martirizzato a Roma; nel corso del suo viaggio aveva
scritto numerose Lettere che costituiscono una testimonianza importantissima della teologia
subapostolica. Non si può escludere che Tacito le conoscesse, in quanto appare logico che,
se egli si era documentato, come vedremo, su Gesù, a maggior ragione avrebbe dovuto farlo
sui cristiani suoi contemporanei. Nel XV libro di Tacito vi sono infatti interessanti
testimonianze su Gesù e sulla diffusione del suo messaggio nell’Impero Romano.
Esse riguardano l’anno 64, nel quale scoppiò l’incendio di Roma, appiccato da Nerone allo
scopo di ricostruire la città secondo il suo gusto. Tacito, dopo aver raccontato come il
despota tentasse di stornare da sé l’atroce sospetto di essere stato il distruttore della sua
stessa capitale mediante provvidenze nei confronti dei malcapitati privati delle case dalle
fiamme, così descrive la genesi della prima persecuzione dei Cristiani a Roma 64 :
“Tuttavia né con sforzo umano, né per le
munificenze del principe o cerimonie
propiziatorie agli dei perdeva credito
l’infamante accusa secondo la quale si credeva
che l’incendio fosse stato comandato…Perciò,
per far cessare tale diceria, Nerone si inventò
dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime
coloro che la plebaglia, detestandoli a causa
delle loro nefandezze, denominava cristiani.
Origine di questo nome era Cristo, il quale sotto

62
In J . MAIER, Gesù, p. 96; R. PENNA, L’ambiente, pp. 245-246.
63
ORIGENE, Contra Celsum VII,9
64
Cfr. J. BEAUJEU, L’incende de Rome en 64 et les Chrétiens, Bruxelles, 1960.
l'impero di Tiberio era stato condannato al
supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; e,
momentaneamente sopita, questa esiziale
pratica religiosa di nuovo si diffondeva, non
solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma
anche a Roma, dove da ogni parte confluisce e
viene tenuto in onore tutto ciò che vi è di turpe e
di vergognoso. Perciò, da principio vennero
arrestati coloro che confessavano, quindi, dietro
denuncia di questi, fu condannata una ingente
moltitudine, non tanto per l’accusa
dell'incendio, quanto per odio del genere
umano. Inoltre, a quelli che andavano a morire
si aggiungevano beffe: coperti di pelli ferine,
perivano dilaniati dai cani, o venivano crocifissi
oppure arsi vivi in guisa di torce, per servire da
illuminazione notturna al calare della notte.
Nerone aveva offerto i suoi giardini e celebrava
giochi circensi, mescolato alla plebe in veste
d’auriga o ritto sul cocchio. Perciò, benché si
trattasse di rei, meritevoli di pene severissime,
nasceva un senso di pietà, in quanto venivano
uccisi non per il bene comune, ma per la ferocia
di un solo uomo 65 ”
Da Tacito sappiamo dunque che Gesù patì sotto Ponzio Pilato e che il suo supplizio costituì
solo un temporaneo arresto della diffusione della sua predicazione, la quale grazie ai suoi
discepoli si diffuse capillarmente giungendo fino a Roma; sappiamo altresì che la Chiesa di
Roma aveva già un buon numero di fedeli; apprendiamo che i cristiani erano invisi al
popolo “a causa delle loro nefandezze”, intese come negazione del mos maiorum, e che la
loro fede era considerata una “esiziale superstitio”, come del resto tutte le religioni orientali,
con l’aggravante di non essere antica ma di recentissima origine 66 ; già da quest’epoca dei
battezzati si dice che sono colpevoli di gravi reati, evidentemente contro il fas e lo ius e
sono accusati di “odio del genere umano”, perché si mettevano al di fuori delle leggi morali
e civili universalmente riconosciute, in un modo più grave di quanto facevano gli Ebrei 67
perché essi non pretendevano di conquistare spiritualmente gli altri popoli. Chiaramente
Tacito proietta sull’età neroniana i pregiudizi già consolidatisi nella sua epoca, ma la radice
dell’odio anticristiano esisteva già da allora.
Quel poco di Tacito su Gesù è di grande valore, perché il sommo storico soleva raccogliere
le notizie con scrupolo. Il fatto che egli non usi le classiche espressioni ferunt e
tradunt attesta che riportò notizie di prima mano. Le fonti utilizzate poterono essere gli acta
senatus e gli acta diurna populi Romani, ovvero gli atti governativi e le notizie su ciò che
accadeva giorno per giorno 68 , da cui poté ricavare le notizie sui processi a Gesù e agli
65
Ann. XV, 44.
66
Cfr. TACITO, Historiae, V, 5, 1. Cfr. P. DE LABRIOLLE, La réaction païenne, Paris, 1934; M. SORDI, I Cristiani
e l’impero romano, Milano, 1984; G. JOSSA, I Cristiani e l’impero romano da Tiberio a Marco Aurelio, Napoli, 1991.
67
Historiae V, 5.
68
Cfr. G. GARBARINO (a cura di), Letteratura latina, Torino, 1992, vol. III, p. 392-393; G. B. CONTE – E.
PIANEZZOLA, Storia e testi della letteratura latina, Firenze, 1989, vol. III, p. 326.
Apostoli, né si può escludere che si parlasse di Gesù nelle opere perdute di Plinio il
Vecchio (24-79), Messalla Corvino (64 a.C.-8 d.C.), Cluvio Rufo (I sec.) e Fabio Rustico
(†dopo il 109). Specie dall’opera storica pliniana appare plausibile che Tacito abbia tratto
notizie su Gesù. L’ipotesi appare consistente 69 perché Plinio il Vecchio non solo aveva
visitato la Palestina descrivendola nel libro V della sua Naturalis historia - da cui Tacito
desunse le informazioni che gli permisero un ampia descrizione della regione prima di
parlare della I Guerra Giudaica – ma perché quegli probabilmente partecipò anche alla
Guerra stessa. Dunque la testimonianza tacitiana su Gesù non solo è aureolata del crisma di
autorevolezza del maggior storico romano ma forse anche da quello dell’antica
testimonianza del più grande dotto eclettico del I sec., Plinio il Vecchio. Né si può escludere
che Tacito, nelle parti perdute dei suoi Annales, parlasse di Gesù più diffusamente. E’
questa una mera ipotesi, ma perfettamente plausibile.

PLINIO IL GIOVANE

Gaio Cecilio Plinio Secondo (61-112/113), nipote di Plinio il Vecchio, allievo di Quintiliano
(35-96), fu consul suffectus e governatore della Bitinia e del Ponto. Contemporaneo di San
Papia (69-130), forse ne conobbe le opere in greco, considerando che ebbe motivo di
documentarsi sul Cristianesimo. Infatti Plinio ci ha lasciato una raccolta di epistole
contenute in X libri, l’ultimo dei quali contiene il carteggio ufficiale tra lui e l’imperatore
Traiano (98-117). Orbene, queste lettere risalgono per lo più al periodo del governatorato di
Plinio in Bitinia, ovvero agli anni 111-113, e sono una fonte documentaria di eccezionale
importanza per il nostro discorso.
In una di queste lettere il Legato consolare si rivolge a Traiano per ottenere istruzioni su
come trattare con i Cristiani della Bitinia e del Ponto. Così si legge in essa:
“È per me un dovere, o signore, deferire a te
tutte le questioni in merito alle quali sono
incerto. Chi infatti può meglio dirigere la mia
titubanza o istruire la mia incompetenza?
Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico
dei Cristiani; pertanto, non so che cosa e fino
a qual punto si sia soliti punire o inquisire. Ho
anche assai dubitato se si debba tener conto di
qualche differenza di anni; se anche i fanciulli
della più tenera età vadano trattati
diversamente dagli uomini nel pieno del
vigore; se si conceda grazia in seguito al
pentimento, o se a colui che sia stato
comunque cristiano non giovi affatto l’aver
cessato di esserlo; se vada punito il nome di
per se stesso, pur se esente da colpe, oppure le
colpe connesse al nome.
Nel frattempo, con coloro che mi venivano
deferiti quali Cristiani, ho seguito questa
procedura: chiedevo loro se fossero Cristiani.
69
P. BATIFFOL, Il valore storico dei vangeli, Firenze, 1913, p. 45.
Se confessavano, li interrogavo una seconda e
una terza volta, minacciandoli di pena
capitale; quelli che perseveravano, li ho
mandati a morte. Infatti non dubitavo che,
qualunque cosa confessassero, dovesse essere
punita la loro pertinacia e la loro cocciuta
ostinazione. Ve ne furono altri affetti dalla
medesima follia, i quali, poiché erano cittadini
romani, ordinai che fossero rimandati a Roma.
Ben presto, poiché si accrebbero le
imputazioni, come avviene di solito per il fatto
stesso di trattare tali questioni, mi capitarono
innanzi diversi casi.
Venne messo in circolazione un libello
anonimo che conteneva molti nomi. Coloro che
negavano di essere cristiani, o di esserlo stati,
ritenni di doverli rimettere in libertà, quando,
dopo aver ripetuto quanto io formulavo,
invocavano gli dei e veneravano la tua
immagine con incenso e vino, che a questo
scopo avevo fatto portare assieme ai simulacri
dei numi, e dopo aver imprecato contro Cristo,
cosa che si dice sia impossibile ad ottenersi da
coloro che siano veramente Cristiani.
Altri, denunciati da un delatore, dissero di
essere cristiani, ma subito dopo lo negarono;
lo erano stati, ma avevano cessato di esserlo,
chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni
persino da vent’anni. Anche tutti costoro
venerarono la tua immagine e i simulacri degli
dei, e imprecarono contro Cristo.
Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o
errore consisteva nell’esser soliti riunirsi in un
giorno fissato prima dell’alba e intonare a cori
alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e
obbligarsi con giuramento non a perpetrare
qualche delitto, ma a non commettere né furti,
né frodi, né adulteri, a non mancare alla
parola data e a non rifiutare la restituzione di
un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto
ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e
riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo,
ad ogni modo comune e innocente, cosa che
cessarono di fare dopo il mio editto nel quale,
secondo le tue disposizioni, avevo proibito
l’esistenza di sodalizi. Per questo, ancor più
ritenni necessario l’interrogare due ancelle,
che erano dette ministre, per sapere quale
sfondo di verità ci fosse, ricorrendo pure alla
tortura. Non ho trovato null’altro al di fuori di
una religione balorda e smodata.
Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato
a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti cosa
degna di consultazione, soprattutto per il
numero di coloro che sono coinvolti in questo
pericolo; molte persone di ogni età, ceto
sociale e di entrambi i sessi, vengono
trascinati, e ancora lo saranno, in questo
pericolo. Né soltanto la città, ma anche i
borghi e le campagne sono pervase dal
contagio di questa religione; credo però che
possa esser ancora fermata e riportata nella
norma 70 ”
Così rispose l’Imperatore:
“Mio caro Plinio, nell’istruttoria dei processi
di coloro che ti sono stati denunciati come
Cristiani, hai seguito la procedura alla quale
dovevi attenerti. Non può essere stabilita
infatti una regola generale che abbia, per così
dire, un carattere rigido. Non li si deve
ricercare; qualora vengano denunciati e
riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in
modo tale che colui che avrà negato di essere
cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti, cioè
rivolgendo suppliche ai nostri dei, quantunque
abbia suscitato sospetti in passato, ottenga il
perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai
libelli anonimi messi in circolazione, non
devono godere di considerazione in alcun
processo; infatti è prassi di pessimo esempio,
indegna dei nostri tempi 71 ”
Plinio, usando il termine cognitiones, ci informa che Roma organizzava veri e propri
processi contro i Cristiani, evidentemente sulla scorta di quell’Institutum Neronianum che li
proscriveva e che fu probabilmente l’unico atto di quell’Imperatore a rimanere in vigore
dopo la sua damnatio memoriae. Sebbene Plinio mostri scrupolo umanitario, Traiano gli
ordina di perseguire il fatto stesso di essere Cristiani. Il Legato dal canto suo descrive bene
l’Eucarestia cristiana e attesta senza mezzi termini sia l’integrità morale dei fedeli che la
loro fede nella Divinità di quel Cristo che in quegli anni i Giudei andavano denigrando nella
loro letteratura, che forse anche Plinio poté conoscere. Le accuse tradizionali, echeggiate in
Tacito e vertenti su crimini incestuosi e riti cannibalici, conventicole politiche ed infanticidi
rituali, non sono assolutamente menzionate. La procedura seguita è semplice: non
inquisitoria ma a denuncia, come tradizionalmente faceva la magistratura romana,

70
Epist. X, 96, 1-9.
71
Epist. X, 97.
prevedeva una serie di interrogatori e la condanna capitale, dopo un certo lasso di tempo,
per coloro che non apostatavano. Si trattava di una modalità senz’altro contraddittoria e
sconcertante per il diritto romano, specie se consideriamo che si tratta di un reato di
opinione arbitrariamente posto. La cosa fu oggetto di veementi ed efficaci polemiche da
parte degli apologeti cristiani ed è senz’altro una macchia sul tanto celebrato governo
traianeo. Plinio alluse anche alle persecuzioni di Domiziano (81-96), che aveva ripreso il
precedente neroniano e che di fatto, nonostante anche lui condannato da morto, era allora
l’ultimo precedente cui Traiano poteva rifarsi. Evidentemente troppo squalificante per una
dinastia, quella Antonina, che sul principato civile basato sul merito riconosciuto
dall’adozione e non sul dispotismo dinastico aveva costruito il suo modello di governo.
Fu così che Adriano (117-138), rispondendo a Quinto Licinio Silvano Graniano, proconsole
d’Asia nel 120 circa, che gli chiedeva istruzioni sui Cristiani, spesso oggetto di delazioni
anonime e accuse ingiustificate, tentò di correggere le storture giuridiche di questa prassi
con delle istruzioni che però giunsero al successore del mittente, Caio Minucio Fundano, in
carica nel 122-123, e che sancivano questo:
“Se pertanto i provinciali sono in grado di
sostenere chiaramente questa petizione contro
i Cristiani, in modo che possano anche
replicare in tribunale, ricorrano solo a questa
procedura, e non ad opinioni o clamori. E’
infatti assai più opportuno che tu istituisca un
processo, se qualcuno vuole formalizzare
un’accusa. Allora, se qualcuno li accusa e
dimostra che essi stanno agendo contro le
leggi, decidi secondo la gravità del reato; ma,
per Ercole, se qualcuno sporge denuncia per
calunnia, stabiliscine la gravità e abbi cura di
punirlo 72 ”
Sull’animo nobile di Adriano influirono anche le Apologie in lingua greca di San Quadrato
e Sant’Aristide, entrambe del 125. La procedura non fu tuttavia del tutto modificata e anche
sotto Marco Aurelio Antonino (161-180) avvenne una persecuzione ai Cristiani per il
semplice fatto di professare una fede diversa da quella pagana. Proprio questo Imperatore,
che certo fu il più colto tra i sovrani romani di età pagana, nei dodici libri in greco del suo A
se stesso, espresse uno sprezzante giudizio sul martirio cristiano, che pure meritava ben altra
considerazione:
“Oh, come è bella l’anima che si tiene pronta,
quando ormai deve sciogliersi dal corpo, o
estinguersi, o dissolversi o sopravvivere! Ma
tale disposizione derivi dal personale giudizio,
e non da una mera opposizione, come per i
Cristiani; sia invece ponderata e dignitosa, in
modo che anche altri possano esserne
persuasi, senza teatralità 73 ”.
Per l’Imperatore, questa morte è segno di fanatismo. Egli era senz’altro influenzato dal
filosofo Epitteto (50-130), che dinanzi alle persecuzioni subite dai seguaci di Gesù, non

72
EUSEBIO DI CESAREA, Hist. Eccl. IV, 9, 2-3.
73
Ad sem. XI, 3.
sapeva dare altra spiegazione del loro coraggio dinanzi alla morte se non l’ostinazione74 .
Sulla scia di Marco Aurelio Antonino si sarebbero mossi gli Imperatori successivi, e la
maggior mitezza di Adriano non avrebbe fatto scuola. I Severi avrebbero continuato le
persecuzioni, che durante l’anarchia militare e sotto gli Imperatori illirici sarebbero state di
massa.

SVETONIO

Gaio Svetonio Tranquillo (70-126 circa) fu procurator a studiis, ab epistulis e a bibliothecis


dell’imperatore Adriano, fino all’anno 122, quando assieme al prefetto del pretorio Setticio
Claro venne destituito ed allontanato dalla corte imperiale. Anche lui coetaneo di Papia, del
quale quindi non si può escludere che avesse conoscenza, anche se presumibilmente per
motivi meno cogenti di quelli di Plinio il Giovane, Svetonio, nella sua opera Vita dei dodici
Cesari, una raccolta di dodici biografie degli imperatori da Cesare a Domiziano scritta
intorno al 120, ci parla di Gesù nella Vita Claudii:
“Espulse da Roma i Giudei che per istigazione
di Cresto erano continua causa di disordine 75 ”
Svetonio scrive Chrestus e non Christus perché le parole greche Chrestòs (buono,
eccellente) e Christòs (unto, Messia) erano pronunciate allo stesso modo, e potevano essere
facilmente confuse. Svetonio infatti parla di Giudei, senza distinguere, giustamente, tra il
Giudaismo e il Cristianesimo della prima generazione (quando questo era ancora una scuola
teologica ebrea anche se aperta ai pagani), e correttamente attribuisce i disordini dei
cinquantamila Ebrei di Roma alle fortissime lotte religiose che i seguaci del Sinedrio
suscitavano contro quelli di Gesù. Sin dalla prima generazione, i Cristiani rivendicano il
messianismo divino del loro fondatore eponimo. Diversamente, essi avrebbero potuto
convivere con le altre scuole giudaiche a Roma, come esse facevano tra loro.
Secondo Paolo Orosio (375-420), che riprende la notizia di Svetonio e cita anche Giuseppe
Flavio, tale espulsione avvenne nel nono anno di Claudio, ovvero tra il gennaio del 49 e il
gennaio del 50. In quegli anni Pietro fu costretto a trattenersi ad Antiochia, fino alla morte
dell’Imperatore. Un secondo accenno ai Cristiani, senza parlare di Gesù, Svetonio lo fa nella
Vita Neronis, quando afferma che questi
“Sottopose a supplizi i Cristiani, una razza di
uomini di una superstizione nuova e
malefica 76 ”.

FRONTONE

Marco Cornelio Frontone (100-166/170), avvocato e retore che educò Marco Aurelio e
Lucio Vero (161-169), rappresentante del cosiddetto movimento arcaicizzante, in una
Orazione contro i Cristiani, pronunciata tra il 162 e il 166, si comportò verso il
Cristianesimo, secondo la definizione di Minucio Felice (200-260) come “non un teste
74
Diss. ab Arriano digestae IV, 6, 6.
75
Vita Claudii XXIII, 4.
76
Vita Neronis XVI, 2
diretto che arrechi la sua testimonianza, ma solo un declamatore che volle scagliare
un’ingiuria. 77 ”
Sempre tramite l’Octavius di Minucio, tramite il deuteragonista Cecilio (filosofo realmente
esistito e in prima linea nella polemica contro la nuova religione, anche se di lui nulla ci è
giunto di scritto in merito), sappiamo che Frontone così trasmuta grottescamente le fattezze
del Cristianesimo:
“Essi, raccogliendo dalla feccia più ignobile i
più ignoranti e le donnicciuole, facili ad
abboccare per la debolezza del loro sesso,
formano una banda di empia congiura, che si
raduna in congreghe notturne, sacri digiuni o
banchetti inumani, non con lo scopo di
compiere un rito, ma per scellerataggine; una
razza di gente che ama nascondersi e rifugge
la luce, tace in pubblico ed è garrula in
segreto. Disprezzano ugualmente gli altari e le
tombe, irridono gli dei, scherniscono i sacri
riti; miseri, commiserano i sacerdoti (se è
lecito dirlo), disprezzano le dignità e le
porpore, essi che sono quasi nudi! […] Si
riconoscono con contrassegni e segnali e si
amano vicendevolmente quasi prima di essersi
conosciuti: regna infatti tra loro una specie di
religiosità di sfrenatezze, e si chiamano
indistintamente fratelli e sorelle, cosicché, col
manto di un nome sacro, anche la consueta
impudicizia diventi incesto. Così la loro vana e
stolta superstizione si vanta dei delitti.
Riguardo a loro, se non ci fosse un fondo di
verità, non circolerebbe una penetrante diceria
così tremenda, della cui ci si debba scusare
prima di parlarne. Sento dire che venerano la
testa consacrata di una bestia sconcia, un
asino, non saprei per quale convincimento:
religione degna e nata con comportamenti del
genere! Altri raccontano che essi venerano e
adorano i genitali dello stesso celebrante e
sacerdote, quasi ad adorare la natura di chi li
ha generati: non so se il sospetto è falso, ma di
certo si sostiene sul carattere dei loro riti
occulti e notturni! E chi ci dice che il loro culto
riguarda un uomo punito per un delitto con il
sommo supplizio e i lugubri legni della croce,
che costituiscono le lugubri sostanze della loro
liturgia, ascrive a quei corrotti e scellerati gli
altari che più ad essi convengono, perché
77
Octavius XXXI, 2.
adorino ciò che si meritano. Quanto alla
iniziazione dei novizi, la diceria è tanto
esecrabile quanto risaputa. Un bambino
cosparso di farina, per ingannare gli incauti,
viene posto innanzi a colui che dev’essere
introdotto ai riti. Invitato questi a infliggere
colpi come se fossero inoffensivi, il bambino
viene ucciso dal novizio con ferite inferte alla
cieca e senza consapevolezza, visto che in
superficie c'è la farina. Orribile a dirsi, ne
succhiano poi con avidità il sangue, se ne
spartiscono a gara le membra, e su questa
vittima stringono un patto, si impegnano
reciprocamente al silenzio a motivo della
complicità in quel delitto. Questi i loro riti, più
funesti di tutti i sacrilegi. Il loro banchetto, è
ben conosciuto: tutti ne parlano variamente, e
lo attesta chiaramente un’orazione del nostro
retore di Cirta. Si riuniscono a banchetto in un
giorno solenne con tutti i figli, le sorelle, le
madri, persone di ogni sesso e di ogni età. Là,
dopo un lauto banchetto, quando i convitati si
sono riscaldati e, tra i fumi del vino, la febbre
di una libidine incestuosa li brucia, un cane
che è legato a un candelabro viene aizzato
grazie al lancio di una focaccia, perché si lanci
e faccia un balzo al di là del limite
consentitogli. Così, una volta estinto il lume
che rendeva tutto consapevole, essi stringono
gli amplessi di una nefasta cupidigia nelle
tenebre che ignorano il pudore, affidandosi
alla sorte, tutti incestuosi, se non nelle azioni,
almeno nella coscienza, poiché nel desiderio
tutti mirano a quello che può accadere ad
alcuni 78 ”.
Sono accuse inverosimili che però mostrano fino a che punto l’odio verso la nuova religione
potesse distorcerla. L’unico elemento storico immutato è il supplizio di Cristo sulla Croce;
del resto della simbologia religiosa nulla rimane tale e quale: l’Agnello diventa asino, il
Corpo eucaristico un bambino immolato, l’amore fraterno un’orgia incestuosa, la
prostrazione ai piedi del celebrante per la consacrazione diventa una proscinesi dinanzi ai
testicoli. Alcune di queste infamie sono tristemente celebri, come la testa d’asino sul
Crocifisso, peraltro eloquente testimonianza del culto tributato nella realtà a quest’ultimo,
che in seguito sarebbe stato effigiato in un graffito sul Palatino nell’età dei Severi con una
eloquente iscrizione: “Alessandro adora il suo Dio” 79 . Questo graffito è considerato il più
antico raffigurante una Croce, sia pure profanata. Ma se non fosse esistita una raffigurazione

78
Octavius VIII,4-IX,7.
79
R. GARRUCCI, Un crocifisso graffito da mano pagana nella casa dei Cesari sul Palatino, Roma, 1856.
autenticamente cultuale tale caricatura non sarebbe stata possibile. Probabilmente era la
caricatura dell’Agnello in Croce, giocando sul fatto che in ebraico la parola “agnello”
significa anche “servo” e quindi allude a un uomo che patisce sotto la simbologia di un
animale sacrificale. In questo caso il tipo iconico dell’Agnello di Dio, non altrimenti
attestato all’epoca, doveva essere già esistente.
In ogni caso Frontone echeggiava le peggiori calunnie ebraiche e pagane, senza prendersi la
briga di verificarne la fondatezza. In effetti, le dinamiche delle discriminazioni sociali sono
sempre le stesse. Colpisce però che siano stati fini intellettuali a rendersi colpevoli della
propagazione di tanto odio sanguinario. Forse cercavano pretesti per alimentare una
personale ostilità che diversamente non avrebbero potuto giustificare dinanzi alla loro
sofisticata intelligenza. Non a caso una medesima valutazione profondamente negativa del
culto e della morale cristiana si rintraccia nelle Metamorfosi del coevo Apuleio (120-180),
africano anch’egli 80 . Certo Frontone avrebbe potuto documentarsi meglio, leggendo le
raffinate opere di San Giustino, di cui fu contemporaneo e coetaneo. Non si comportò
tuttavia diversamente da quegli intellettuali del XX sec. che, aderendo ai totalitarismi,
vollero credere a quanto di più incredibile veniva detto delle loro vittime, Cristiani in prima
fila.

LUCIANO DI SAMOSATA

Luciano (120 ca.-dopo il 180), attivo nell’età degli Antonini, ci ha lasciato un’opera
intitolata La morte di Peregrino, scritta nel 176 circa e nella quale narra del suicidio di
Peregrino Proteo, sul rogo che si era eretto a Olimpia nel 165 o 167. Nello stesso periodo
(177) si data la Supplica per i Cristiani di Sant’Atenagora (130-190), a dimostrazione della
battaglia delle idee che si combatteva attorno alla nuova religione e presso i gradini del
trono imperiale.
Peregrino Proteo, che per Luciano è un ciarlatano, era stato per un certo periodo cristiano,
per poi diventare cinico. Per disprezzo della morte, che Luciano invece definisce “amor di
gloria”, egli si arse vivo. Così Luciano parla della fase cristiana della vita di Proteo:
“Allora Proteo venne a conoscenza della
portentosa dottrina dei cristiani, frequentando
in Palestina i loro sacerdoti e scribi. E che
dunque? In un batter d’occhio li fece apparire
tutti bambini, poiché egli tutto da solo era
profeta, maestro del culto e guida delle loro
adunanze, interpretava e spiegava i loro libri,
e ne compose egli stesso molti, ed essi lo
veneravano come un dio, se ne servivano come
legislatore e lo avevano elevato a loro
protettore a somiglianza di colui che essi
venerano tuttora, l’uomo che fu crocifisso in
Palestina per aver dato vita a questa nuova
religione […] Si sono persuasi infatti quei
poveretti di essere affatto immortali e di vivere
per l’eternità, per cui disprezzano la morte e i
80
Metamorfosi, IX, 14.
più si consegnano di buon grado. Inoltre il
primo legislatore li ha convinti di essere tutti
fratelli gli uni degli altri, dopoché
abbandonarono gli dei greci, avendo
trasgredito tutto in una volta, ed adorano quel
medesimo sofista che era stato crocifisso e
vivono secondo le sue leggi. Disprezzano
dunque ogni bene indiscriminatamente e lo
considerano comune, seguendo tali usanze
senza alcuna precisa prova. Se dunque viene
presso di loro qualche uomo ciarlatano e
imbroglione, capace di sfruttare le circostanze,
può subito diventare assai ricco, facendosi
beffe di quegli uomini sciocchi 81 ”.
Gesù, mai nominato perché troppo spregevole per Luciano, viene considerato un sofista (nel
senso dispregiativo del termine), ed il “primo legislatore” dei Cristiani, come del resto lo
chiama anche, con ben altro senso, San Giustino. L’unica notizia storica su Gesù è il ricordo
della sua Crocifissione e del motivo religioso per cui essa gli fu inflitta; alcune espressioni
fanno pensare ad una diretta conoscenza di certi ambienti cristiani, ma il processo di
stravolgimento, di rarefazione e di standardizzazione in negativo delle notizie sul Cristo
continua imperterrito, mediante una manipolazione autoreferenziale che a noi, uomini della
civiltà della comunicazione, dovrebbe dire molte cose, visto che simili procedure sono
sempre in atto.

CELSO

Celso, filosofo medioplatonico morto dopo il 178, fu senz’altro il più livoroso e pericoloso
tra tutti coloro che attaccarono i Cristiani nel II sec. (Crescente, il summenzionato Cecilio,
Aristide, dei quali però abbiamo solo i nomi, oltre al menzionato Frontone). Egli scrisse tra
il 177 e il 180 il suo trattato denigratorio intitolato Alethes Logos, ossia Discorso Vero. Esso
ci è giunto solo attraverso le citazioni di Origene che nel 248 ne fece una dettagliata
confutazione (il Contra Celsum) e che paradossalmente procurò diffusione postuma ad
un’opera che sembra fosse stata trascurata fino a quel momento. Dico sembra, perché la
mancanza di eco di Celso prima di Origene fa a pugni col bisogno che questi sentì di
contestarlo.
Celso non riprende le accuse più volgari contro i Cristiani e anzi conosce almeno in parte la
Bibbia, la dottrina ortodossa e quella delle sette eretiche 82 ; tuttavia il filosofo disprezza il
Cristianesimo quale sottoprodotto della già per lui abbietta religione giudaica. Celso
stigmatizza che i Cristiani non partecipino alle feste pagane, non prestino servizio militare,
non ricoprano cariche pubbliche, mostrando quell’odio del genere umano già descritto
ottant’anni prima da Tacito. Questo rifiuto di partecipare alla vita pubblica è per Celso un
“grido di rivolta 83 ”. L’appello con cui concludeva Celso, affinché i Cristiani non si
sottraessero alla vita comune, servendo così lo Stato già in pericolo a causa di tanti nemici,
mostra che l’intento dell’autore era soprattutto politico. Ciò spiega la generalizzazione degli

81
De morte Per. XI-XIII.
82
G.LANATA, Celso, Il Discorso Vero, Milano 1987, p.81.
83
Contra Celsum VIII, 2.
atteggiamenti di alcuni Cristiani, come l’obiezione di coscienza o il rifiuto di magistrature
pubbliche, che invece dagli Acta Martyrum emergono come rare o almeno funzionali al
rifiuto del culto pagano spesso connesso alla vita militare e pubblica.
Proprio a scopo denigratorio, Celso riprende le calunnie ebraiche contro la nascita di Cristo,
in quanto funzionali al suo discorso politico, nonostante il disprezzo per l’Ebraismo stesso e
a dimostrazione del fatto che conosceva bene il dogma della Concezione verginale e di
Spirito Santo 84 . Tali argomentazioni non potevano che venire dall’ambiente giudaico, in
quanto in quello pagano una nascita illegittima spesso era stata attribuita a tanti eroi o
semidei. Inoltre attribuisce alla magia appresa in Egitto i portenti compiuti da Gesù e la sua
conseguente autoproclamazione divina, mostrando di conoscere poco non solo la psicologia
giudaica, ma anche umana in genere, a cui certo non solo qualche portento potrebbe servire
per credere davvero che un semplice uomo sia Dio 85 . La testimonianza è comunque di
capitale importanza, perché il filosofo mostra di credere che Gesù stesso, da vivo, si
proclamò Dio e di ritenere storici i suoi miracoli, tanto da tentarne una demitizzazione ante
litteram. Infine parla degli Apostoli di Gesù, definendoli i peggiori dei pubblicani e dei
marinai, contandoli tra i dieci e gli undici e accusandoli di andare in giro raccattando alla
meno peggio di che vivere 86 . Tutto sommato, questo era quanto un uomo colto e scettico
poteva pensare di Gesù, la cui vita pubblica veniva tuttavia indirettamente tutta confermata,
anche se mistificata: il numero oscillante degli Apostoli, per il tradimento di Giuda;
l’origine degli stessi, di cui molti erano pescatori e Matteo esattore di imposte, anche se di
buona estrazione sociale e condizione economica, come si evince dai Vangeli; la
predicazione itinerante e l’aiuto che i devoti fornivano loro. La stridente contraddizione tra
quanto così gabellato per vero e la sostanza storica di Gesù appare nell’opera di Celso
stesso, il quale, quando non è soverchiato dalla preoccupazione denigratoria e lascia parlare
il filosofo che è in lui, paradossalmente deve elogiare l’etica insegnata da quell’Ebreo da lui
descritto in modo tanto sordido e la dottrina del Logos che i suoi Apostoli tanto ignobili gli
cucirono addosso. Celso era in effetti abbastanza intelligente per sapere che un magistero
filosofico e morale di tale portata non era compatibile col profilo morale di Gesù da lui
disegnato, ma non ci risulta abbia messo in discussione la storicità di quell’insegnamento
attribuito al suo detestato oggetto di denigrazione.

GALENO

Claudio Galeno (129-200ca.), medico personale degli imperatori Marco Aurelio e


Commodo (180-192), contemporaneo di Sant’Egesippo (110-180), Taziano (120/130-180),
San Teofilo di Antiochia (120-183/185), Sant’Atenagora (130-190) e Sant’Ireneo di Lione
(135/140-202/203), di cui difficilmente poté ignorare l’esistenza e le opere, considerava
irrazionale la fede cristiana e questo, nel suo De differentia pulsuum libri quattuor, gli
fornì l’occasione per citare Gesù quale esempio di legislatore al pari di Mosè:
“Nessuno subito da principio, come se fosse
pervenuto alla dottrina di Mosè o Cristo,

84
Contra Celsum, I, 32. Cfr. Hullin 2, 22-23; Aboda Zara 40d; Shabbat 14d. Cfr. M. GOLDSTEIN, Jesus in the Jewish
tradition, New York, 1950, pp. 32-39.
85
Contra Celsum, I, 28.
86
Contra Celsum, I, 62.
ascolti leggi indimostrate, nelle quali non si
deve per nulla credere 87 ”.
“Infatti si potrebbero dissuadere prima quelli
che provengono da Mosé e Cristo, che non i
medici o i filosofi, i quali si sono consumati sui
loro principi 88 ”.
Nonostante questa convinzione sulla cocciutaggine cristiana, Galeno ha per l’insegnamento
morale di Cristo e soprattutto per l’abnegazione con cui era seguita da alcuni discepoli un
profondo rispetto. Un suo testo sull’argomento, tratto dal De Propriis Placitis, l’ultima
opera del grande medico, ci è giunto come citazione nelle Cronache di Abu al Fida (1273-
1331):
“I più tra gli uomini non sono in grado di
comprendere con la mente un discorso
dimostrativo consequenziale, per cui hanno
bisogno, per essere educati, di miti. Così
vediamo nel nostro tempo quegli uomini
chiamati Cristiani trarre la propria fede dai
miti. Essi, tuttavia, compiono le medesime
azioni dei veri filosofi. Infatti, che disprezzino
la morte e che, spinti da una sorta di ritegno,
aborriscano i piaceri carnali, lo abbiamo tutti
davanti agli occhi. Vi sono infatti tra loro sia
uomini che donne i quali per tutta la vita si
sono astenuti dai rapporti; e vi sono anche
coloro che sono a tal punto progrediti nel
dominare e dirigere gli animi, e nella più
tenace ricerca della virtù, da non cedere in
nulla ai veri filosofi 89 ”
Questo è senz’altro un riconoscimento autorevole, tra le cui righe noi leggiamo anche una
valutazione razionalistica dei Vangeli, il cui contenuto, senza inficiare la storicità di Cristo,
viene considerato tuttavia amplificato mitologicamente. Segno che Galeno li aveva letti con
attenzione.

PORFIRIO

Porfirio (233/234-305), filosofo neoplatonico nato presso Tiro, fu il maggiore protagonista


della rinascita della letteratura anticristiana, iniziata dai tempi di Aureliano (270-275), e che
seguì ad un periodo di splendida fioritura della stessa letteratura cristiana in lingua greca
(Ippolito [170-235], Origene, Clemente di Alessandria [145/150-217]) e latina (Minucio
Felice, Tertulliano [160-240], Cipriano [200-258], Novaziano [200-258], Arnobio [257-
311], Lattanzio [250-317 ca.]), protrattasi anche durante l’ultima epoca delle persecuzioni
romane. In questa fase di fioritura del Cristianesimo, il paganesimo aveva tentato una sorta

87
De Differentia, II, 4.
88
De Differentia, III, 3.
89
De Sententiis sive De Propriis Placitis, 10. Su Abu al Fida cfr. F. IBN FAGHÜL - CARL EHRIG-EGGERT - E.
NEUBAUER, Studies on Abul-Fida' al-Ḥamawi (1273-1331 A.D.), Francoforte sul Meno, 1992
di appeasement, persino con lo sforzo di assorbire Cristo nel suo pantheon. Ma senza
successo.
Lo stesso Porfirio fu cristiano per una parte della sua vita 90 , conobbe in gioventù Origene e
poi si accostò a Plotino (205-289), il quale lo orientò filosoficamente in modo diverso.
Infatti il padre del Neoplatonismo si espresse in modo negativo sul Paradiso cristiano e sulla
carità fraterna predicata da Gesù 91 . Ordunque Porfirio, che mostra ampia conoscenza della
Bibbia, perfezionando la linea di Celso e allontanandosi ancora di più dalla mera ripetizione
di accuse denigratorie, nei suoi quindici libri del Contro i Cristiani, oramai perduti, conduce
una sistematica confutazione delle opere di Gesù, senza negarne la storicità. Innanzitutto,
Porfirio parla di Gesù come di un Dio morto e non vivo, ucciso con un supplizio infame e
meritatamente 92 . Poi, più dettagliatamente, nega che Egli avesse poteri divini, afferma che
non poteva comandare ai demoni, che fallì la sua missione dinanzi al Sinedrio e a Ponzio
Pilato, che la sua Passione fu indegna di quel Dio che affermava di essere e lo paragona con
l’enigmatico taumaturgo Apollonio di Tyana (2-98), affermando che questi era senz’altro
superiore a lui 93 . Analogamente, afferma che è assurdo che Gesù, una volta risorto, abbia
preferito apparire a delle donne piuttosto che ai Sacerdoti o a Pilato o al Senato romano,
così come che la sua Ascensione sia avvenuta in modo così dimesso, da non rendere
assolutamente certa la sua Divinità e da risparmiare, in conseguenza, ai suoi discepoli tante
persecuzioni 94 . Porfirio poi considera inventati dagli Evangelisti il grosso dei detti e dei fatti
di Gesù, a motivo delle contraddizioni apparenti tra i loro scritti, avanzando una critica che
darà una spinta energica a quegli autori ecclesiastici che si occuparono delle concordanze
dei Vangeli 95 . Il filosofo considera la scelta di Pietro quale Capo della Chiesa un grande
errore di Cristo, mentre trova ripugnante l’escatologia di Paolo, al quale attribuisce un
carattere ambiguo 96 . Porfirio considera il Cristianesimo contrario ad ogni filosofia 97 , lo
gabella quale politeismo camuffato per il ruolo che attribuisce agli Angeli, rigetta come
assurda l’idea dell’Incarnazione del Verbo e ancor più dell’Eucarestia, la cui dottrina, così
come è esposta nel Vangelo di Giovanni, fa sì che questo sia da considerarsi inferiore ai
Sinottici culturalmente 98 . Il filosofo ritiene impossibile che il Battesimo sia un lavacro
spirituale, innaturale la verginità e assurdo l’amore per i poveri e gli infermi 99 . Alla luce di
ciò, non stupisce né che egli abbia propugnato l’estirpazione violenta del Cristianesimo 100 ,
né che sia stato ampiamento ed efficacemente confutato da svariati autori cristiani, le cui
opere però non ci sono giunte se non frammentariamente esattamente come quella di
Porfirio 101 .
Con questo maestro del Neoplatonismo, la rottura tra paganesimo e Cristianesimo è totale:
ad una confutazione a tutto campo e senz’altro ben fatta si unisce la richiesta di una
estirpazione violenta, per la salvaguardia dei valori della classicità.

90
SOCRATE, Historia Ecclesiastica, 3, 25, 37.
91
Enneadi, II, 9; 5,9; 14; 18.
92
AGOSTINO, De Civitate Dei, 19, 23.
93
Frammenti, nn. 48, 49, 62, 63, in AAB 1916/1 e in SAB 1921/14, a cura di A.VON HARNACK, e in RB 57 (1950),
pp. 409-416, a cura di P.NAUTIN.
94
Frammenti, nn. 64,65.
95
Frammenti, nn. 15, 17.
96
Frammenti, nn. 23-34.
97
Frammento n. 54.
98
Frammento n. 69, 75-76.
99
Frammenti nn.33, 58, 87.
100
Frammento n.1.
101
Metodio di Olimpio, Eusebio, Apollinare.
IEROCLE SOSSIANO

Questi, morto dopo il 308, è l’ultimo dei nemici del Cristianesimo e l’ultimo testimone su
Gesù proveniente dalle fila del paganesimo. Fu filosofo e politico; preside di varie provincie
e prefetto d’Egitto, consigliere di Diocleziano, lo aiutò a preparare la persecuzione con cui
questo Imperatore è entrato nella storia e lui stesso perseguitò le vergini consacrate in
Egitto. Scrisse i Logoi Filalētheis, oramai perduti, nei quali non solo riprese temi e motivi
del ben più grande Porfirio (come la superiorità di Apollonio su Cristo), ma aggiunse di suo
che Gesù era il capo di una banda di novecento briganti e, fatto significativo, che il
monoteismo non era una caratteristica esclusiva del Cristianesimo ma apparteneva anche al
paganesimo, in quanto esso affermava l’esistenza di un Dio supremo 102 .

102
LATTANZIO, De Divinae Institutionibus, 5,2,13-15, 3-23.

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