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Il nostro sguardo si rivolge ad un autore fondamentale del pontificato di Damaso: l’Ambrosiaster.

Chi è? A cosa è dovuta la sua importanza? Quali rapporti con Girolamo? Quale la sua dottrina circa
matrimonio e verginità?

Chi è Ambrosiaster

Molti sono stati i tentavi di identificazione di quest’autore, ma per capire chi è dobbiamo partire
dalle sue opere; la prima è la raccolta delle Questiones veteri et novi testamenti, questioni
esegetiche dell’Antico e Nuovo Testamento, 150 questioni esegetiche che detengono un primato: è
la prima raccolta basata su domande e risposte del mondo latino (genere letterario delle questiones:
l’autore pone una domanda di natura esegetica, teologica, disciplinare, giuridicao varia, come se un
autore fittizio gliela rivolgesse e poi risponde).
La seconda opera sono i Commentarii alle lettere di Paolo (Mario Vittorino commenta solo alcune
lettere) tutte commentate dall’Ambrosiaster (eccetto la lettera agli Ebrei); dopo di lui un altro
commentatore sarà Pelagio, poi parzialmente Girolamo e Agostino.
Queste due grandi opere furono attribuite, a cui si aggiungono altri frammenti attribuiti
all’Ambrosiaster, la prima a Sant’Agostino, mentre i Commentari a san Paolo passano ad Ambrogio
e così sarà conosciuto nel Medioevo e citato dall’Aquinate.

Nel 1686 i maurini coniarono il nomignolo “Ambrosiaster” (il falso Ambrogio): il Souter dimostrò
che le due opere appartenevano a questo misterioso autore, che per il professore volle passare per
anonimo.
Harnack dice che l’Ambrosiaster è il grande sconosciuto della patristica.
Queste erronee attribuzioni dicono il tentativo di identificare il nostro accostandolo ai grandi di
questo periodo, tuttavia la lettura delle opere ci consente di dire:
 Che l’autore si colloca a Roma sotto Damaso nell’ultima fase del suo pontificato (terminus
post quem delle sue opere 384, guarda caso data della morte di Damaso);
 Ambrosiaster è fondamentalmente un” romano”, intanto nell’impianto tradizionale della sua
teologia e per il forte legame con la tradizione e la grandezza di Roma, condiviso con gli
aristocratici del suo tempo. Egli ha una visione aristocratica della società, forse dovuto ai
destinatari della sua opera, cioè pagani e cristiani.

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L’opera nel contesto damasiano

Ambrosiaster è un presbitero della Chiesa romana (lo si capisce da parecchi elementi delle sue
Questiones) che ha recepito le istanze più profonde del pontificato di Damaso, tendente a
consolidare la comunità cristiana all’esterno (pagani e giudei) da un lato e dall’altro a consolidare la
comunità nel confronto ad intra con i suoi oppositori (ursianiani, luciferiani, manichei etc).
Segue gli sviluppi della teologia damasiana circa la fede nicena e la disciplina ecclesiastica (Il
Decretale è consonante con la sensibilità del nostro).
Qual è il ruolo di Ambrosiaster nel contesto del pontificato di Damaso?
Ambrosiaster è un esegeta: al contrario di Girolamo che vorrà proporsi come l’Origene Romano,il
nostro resta un po’ nell’ombra, che vuol servire la comunità cristiana di Roma, intervenendo
sull’attualità della situazione romana,rileggendo la Scrittura, esercitando un ufficio profetico.
Nel commento alla lettera ai Corinti, egli descrive l’esegeta come colui che esercita un compito
profetico nella comunità e il suo compito è secondo solo al ministero del Vescovo, perché interpreta
e attualizza la Scrittura per il popolo, a cui rimarrebbe oscura.
Questa sorta di autocoscienza profetica che ha del suo ruolo, è importante per capire come si pone
nel pontificato di Damaso:
nelle Questiones ad ogni domanda fa seguire una risposta concisa. La sua esegesi non è quasi mai
allegorizzante ma storicizzante. Cerca di rispondere con chiarezza agli interrogativi dei suoi lettori,
manifestando un indole pragmatica; è ripetitivo come si farebbe in una spiegazione orale e il suo
latino è rusticus, non è come quello di Girolamo.
Egli vuole offrire un vademecum delle questioni discusse nella Roma del suo tempo: la finalità
potrebbe indicarsi nelle costruzione di una unità ecclesiale, il consolidamento di una unità
ecclesiale, che al suo tempo è profondamente minacciata, come dimostrano i Commenti a Paolo.
(Nel IV secolo ci sono tanti commenti a Paolo per tre motivi: l’ansia soteriologica dell’uomo del IV
secolo; Paolo è oggetto di dibattito con gli eretici, specie i manichei di impostazione dualista; Paolo
nel IV secolo diventa il modello dell’ascetismo e la sua lettura circola negli ambienti monastici).
Nei Commentarii dell’ Ambrosiaster, Paolo diventa figura normativa nella Chiesa del suo tempo:
Ambrosiaster retroproietta all’epoca di Paolo problemi e divisioni della Chiesa del suo tempo. E
allora quando Paolo parla delle divisioni delle comunità di Corinto, il nostro vede lo spettro degli
eretici del suo tempo e dice che l’Apostolo sta parlando contro marcioniti, novaziani, manichei,
donatisti.

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Ma il modo di ragionare è interessante perché così, per Ambrosiaster, Paolo diviene ispiratore della
costruzione di questa unità ecclesiale che ispira la finalità dell’anonimo esegeta, dando motivazioni
scritturistiche all’intento pastorale di Damaso.
E’ proprio questa normatività di Paolo e della comunità primitiva che emerge in modo forte e
rigoroso nei commenti paolini dell’Ambrosiaster e ci permette di capire cosa è per lui la Chiesa.

Per Ambrosisater la chiesa si costruisce su due binari:


1.la categoria teologica è quella paolina
2.la categoria istituzionale è quella dell’impero

La chiesa allora è un corpo organicamente strutturato, una compagine gerarchicamente ordinata,


alla cui testa pone il Vescovo di Roma, per questo argomenta in difesa di quest’ordo ecclesiastico
che ritiene fondato sulla potestas data da Cristo agli apostoli dopo la resurrezione (valenza
sacramentale).
La trasmissione di questo potere costituisce la traditio che è garanzia di verità, garanzia di verità
della trasmissione/successione apostolica, identificando i successori degli apostoli nei vescovi,
garanzia dell’unità dell’ordine della Chiesa. Quindi chi contrasta i Vescovi attenta all’unità della
Chiesa.
Così capiamo perché Ambrosiaster colpisca gli abusi interni alla comunità cristiana: troviamo nelle
sue opere una rivendicazione contro coloro che abusano del loro potere. Per esempio Ambrosiaster
prende di mira la pretese di egualitarismo dei diaconi romani, che volevano avere lo stesso posto dei
presbiteri (questio 101); troviamo un giudizio severo contro l’ambizione del clero del suo tempo,
prende le distanze da una corsa verso cariche ecclesiastiche, attaccando l’avidità.
Ambrosiaster, però, proprio perché alieno dal potere può avere uno sguardo autonomo e una presa
di distanza dai tumulti per la successione di Damaso; non è un difensore di Damaso per partito
preso come Girolamo, difende il Papa per un legame teologico, perché rappresenta l’unità della
Chiesa.

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Rapporti con Girolamo

Sia Damaso che Girolamo mostrano di conoscere le opere di Ambrosiaster (le lettere 35-36 databili
nel 384 di Girolamo sono indicative. In esse Damaso la spiegazione di 5 questioni esegetiche che si
ritrovano in altrettante questiones dell’Ambrosiaster).
Abbiamo anche altre casi in cui Girolamo legge Ambrosiaster (lettera 146, scritta da Betlemme a
Evangelo, in cui tratta la questione dei diaconi romani in termini simili o dipedenti dalla questio 101
di Ambrosiaster. Essi sostenevano che non c’è distinzione sacramentale tra i due gradi, l’episcopus
è il primo tra i presbiteri).
Nella epistola 73, in cui risponde ancora una volta ad Evangelo che gli ha mandato un volume
anonimo sulla questio famosa del sacerdote Melchisedek. Altro non è che la questione 109 di
Ambrosiaster: infatti Girolamo non è d accordo con lui nel ritenere che Melchisedek sia figura dello
Spirito Santo e accusa l’anonimo di ignoranza, pur riconoscendogli una certa autorevolezza.

Tutto questo emerge in una lettera scritta a Roma da Griolamo, nella lettera 27 in cui si pone in
opposizione al nostro.
Qui si lamenta delle critiche ricevute a Roma nella sua opera di emendazione della Scrittura, in
modo particolare del Nuovo testamento e del Salterio, affidatogli da Papa Damaso.

Epistola 27
“da post priorem: Dopo la precedente epistola che ti ho scritto, mi è stato proprio di recente
riferito che alcuni omuncoli mi criticano aspramente perché io avrei tentato di correggere qualcosa
nei Vangeli contro l’autorità degli antichi e l’opinione di tutti”.

Si lamenta di alcuni omuncoli: chi sono?


Tra i suoi critici c’è l’Ambrosiaster che commentando Rm 5,14 dice che alcune versioni latine sono
state tradotte sugli antici codici greci, criticando l’opera di Girolamo che peccava di autenticità e
l’anonimo cita, per appoggiare la sua idea, che queste versioni le ritroviamo in continuita con il
testo biblico che troviamo in Cipriano, Tertulliano, Vittorino.
Quindi vede con sospetto l’opera di Girolamo.
Girolamo dice che il suo scopo non vuol intervenire sulle parole del Signore ma migliorare la
traduzione latina rifacendosi a quell’originale greco, che è la lingua utilizzata da Paolo, ma i suoi
detrattori non possono capirlo a causa della loro “rusticitas”, rifacendosi al sermo piscatorius, tema
apologetico molto utilizzato.
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I suoi avversari dicono di utilizzare un linguaggio che è quello degli apostoli, quello dei pescatori
appunto, non un linguaggio dottrinale, forbito che avrebbe potuto inventare la dottrina: questo è
l’argomento apologetico, cioè che la dottrina cristiana e il Vangelo sono vere perché gli apostoli
non avrebbero potuto inventare nulla, in quanto rozzi, pescatori e non filosofi.
Nel paragrafo 3 dell’epistola a Marcella Girolamo dà alcuni esempi dello scontro esegetico vissuto
a Roma. Per esempio Ambrosiaster cita Rm 12,12 ma non secondo l’emendazione di Girolamo e
cosi in altri esempi.
In Girolamo troviamo l’utilizzo di esempi presi dal mondo animale a scopo satirico, come arma
definitiva.
Quindi Girolamo si trova dinanzi ad un esegeta che non è insignificante, l’Ambrosiaster appunto,
che lascia volutamente anonimo, per una sorta di damnatio memoriae, nel catalogo del De Viris
Illustribus, .

Ma non c’è solo polemica letteraria, ma anche corrispondenza e dipendenza di pensiero: in fin dei
conti condividono lo stesso ideale l’appoggio dell’azione pastorale e della persona di papa Damaso.

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Tema matrimonio-Verginità

Evitare in primis l’errore secondo cui Ambrosiaster si oppone decisamente alla dottrina ascetica di
Girolamo.
Perché?
Perché Ambrosiaster sostiene l’inferiorità della donna e la bontà delle nozze e del matrimonio,
uguagliando il clero celibato e il clero uxoriato, ponendosi come un precursore di Gioviniano,
secondo Hunter.
Per il professore, però, l’opera di Abrosiaster è un’opera mediana tra gli eccessi di Gerolamo e
quelli di Gioviniano.
Circa l’argomento matrimonio-verginità è fondamentale per la comprensione del pensiero di
Ambrosiaster la quaestio 127, De Peccato Adae at Aevae, insieme al commento che egli dedica al
cap. 7 della lettera ai Corinzi.
Innanzitutto emerge la bontà del matrimonio nella dottrina dell’ascetismo dell’Ambrosiaster.
La quaestio 127 riguarda infatti la bontà naturale delle nozze e della procreazione e tratta anche del
peccato originale, ma non teologicamente, proprio per spiegare questa bontà naturale.

La quaestio inizia spiegando che il matrimonio fa parte del progetto della creazione e quindi fin
dalle origini si pone sotto il segno della benedizione divina (paragr 1-4).

Nei paragrafi 5-14, Ambrosiaster sottolinea che questa bontà delle nozze, questo valore primordiale
delle nozze vale anche nella Nuova Alleanza, in quanto unico e il Dio dell’Antico e del Nuovo
Testamento. In questa sottolineatura Ambrosiaster si appoggia sulla presenza di Cristo alle nozze di
Cana. Il leitmotiv di questi primi paragrafi è il termine “benedizione”.

Come terzo argomento è affermata la bontà della procreazione, che trova conferma non solo in
Genesi ma anche perché la procreazione è indispensabile per la rinascita in Cristo e per la
Resurrezione (paragr. 15-23).

Quarto argomento/tesi riguarda la natura del peccato originale (paragr. 24-31) e qui Ambrosiaster
spiega che la natura del peccato non si può conoscere esattamente, non è legato alla sessualità ma
alla disobbedienza.
Quindi dal peccato originale non viene né una condanna delle nozze né una condanna della
procreazione.
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Dal paragr 32 al 36 pone uno sguardo riassuntivo alla storia della salvezza: dice che i
concepimenti miracolosi fino alla nascita di Cristo dimostrano che il progetto divino continua e da
qui passa alla situazione attuale della Chiesa del suo tempo.
Nel paragrafo 33, in modo particolare, partendo sempre dagli apostoli, perché la comunità primitiva
apostolica ha carattere normativo per l’Ambrosiaster.
E qui che spiega il rapporto fra matrimonio e verginità e quindi l’esigenza della castità per i chierici.

Dunque questo testo non riguarda immediatamente il tema della verginità e del celibato dei chierci.
Proprio la struttura della quaestio ci fa capire quali avversari ha in testa Ambrosiaster.
A primo impatto può sembrare che il nostro autore voglia contrastare Girolamo che esaltando la
verginità denigrava il matrimonio, anche se questo sarà più evidente e vigoroso nel “Contro
Gioviniano” scritto a Betlemme
Ciò che domina la quaestio 127 è l’idea dell’unità tra Antico e Nuovo Testamento, l’unità
dell’uomo e della donna, che sono entrambi dall’unico Dio.
Il progetto creativo delle origini, allora, concorda con il Nuovo Testamento e questa idea è
profondamente antidualista, e quindi lotta e confronto contro il manicheismo.
Intanto nel paragrafo 10 e 34 accusa i suoi avversari di ipocrisia e simulata castità, richiamandoci
quanto diceva Agostino circa i manichei.
Anche il paragrafo 9 è indicativo dove si rifà all’apostolo, menzionando uomini dalla coscienza
indurita che proibiscono di sposarsi.
Nel commento a questo passo, Ambrosiaster dice chi sono questi eretici:” quando si sentono
discorsi di questo genere e si apprende che questa dottrina è stata composta dal diavolo, che
asserisce cose falso circa l’incarnazione del Salvatore, che ora si esprime nei Marcioniti, nei
Patriciani e in modo assolutamente particolare nei Manichei”.

Questo non è l’unico riferimento ai Manichei.


Nel paragrafo 34, richiamando 1Corinti 7,25: poiché i Corinti erano divisi dagli eretici, che
insegnavano a condannare le nozze per ipocrisia, consultando l’apostolo con lettere,se fosse lecito
sposarsi o rimandare la propria moglie”.
Se andiamo a prendere il commento alla prima lettera ai Corinti, dove dice che i Corinti consultano
Paolo perché confusi e lacerati dagli eretici, fa esplicito riferimento ai maichei.

I suoi avversari Ambrosiaster poi li cita esplicitamente nella Quaestio 127 ai paragrafi 17 e 19, ove
è menzionato Marcione e Mani e non meglio precisati cattolici.

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L’attenzione dell’Ambrosiaster sembra focalizzarsi appunto su questo “catholice”, cosa che già
riscontriamo nei paragrafi 9 e 10, dove l’anonimo facendo riferimento all’ipocrisia dei falsi profeti
denunciati da Paolo 1 Tm 4,1ss, quelli che hanno la coscienza cauteriata (i manichei), aveva fatto
pure appello ad alii, che troviamo proprio all’inizio del paragrafo 10.
Quindi i paragrafi 9-10 e 17-19 hanno la stessa struttura.
Sorge necessaria la domanda di riuscire a identificare questi cattolici a cui si rivolge l’anonimo
esegeta, perché anche questi, come gli eretici manichei e marcinoniti, condannano le nozze e
simulano di amare la castità, e pur venendo distinti dai manichei e marcioniti nella costruzione del
testo, cadono, però, nello stesso errore degli eretici. (vedi 3 rigo paragrafo 10: ).
Chi sono?
Questi alii, per Hunter, dovrebbero essere Girolamo e i suoi sostenitori, ma per Di Santo sono tutti
quei cattolici tentati dal fascino dei manichei, manicheismo, che secondo le fonti del IV secolo ebbe
una diffusione enorme, specialmente fra le donne.
Forse l’anonimo esegeta ha di mira Girolamo e i suoi sostenitori eccessivamente rigoristi ma anche
questi cattolici affascinati dai manichei.
Perché questa tesi?
Ce lo dimostra la sua teologia sulla verginità.

La teologia sulla verginità di Ambrosiaster.

Emerge in primis un atteggiamento misurato e moderato di Ambrosiaster verso il rapporto


matrimonio-verginità, matrimonio che si innesta sul piano della creazione, come visto nella prima
parte della quaestio.
Sul piano della fede la verginità rappresenta qualche cosa in più, una sorta di plusvalore, perché
segna il superamento dell’inferiorità originaria (la donna è inferiore all’uomo per l’anonimo
esegeta), permette, per così dire,l’affrancarsi dalla differenziazione sessuale. Nel suo commento a
1 Cor 7, 39 dice che nella verginità la donna è soggetta a Dio solo, superando così la sua
condizione di inferiorità originaria.
Quindi l’anonimo vede nella verginità il superamento dell’inferiorità originaria e inoltre la verginità
ha un merito maggiore: egli attribuisce una certa preminenza alla verginità sull’esempio di Paolo,
commentando il capitolo 7 della 1 Corinti. L’anonimo parla di un optimum rispetto ad un bonum,
che consiste nell’apprendere che tra il bene e l’ottimo non c’è nulla di più eccellente della verginità
stessa, che procura un merito maggiore dinanzi a Dio e libera, in secondo luogo, dalle molestiae
nuptiarum.
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Nel suo commento al capitolo 7, Ambrosiaster ricerca un equilibrio tra matrimonio e verginità,
ponendosi in una via mediana tra gli eccessi di Girolamo e di Gioviniano, parlando, però, della
verginità come di una via privilegiata per raggiungere Dio.
La verginità è astenersi da un bene in vista di una virtù maggiore.
L’anonimo, però, non ha difficoltà ad attribuire un merito e una gloria ad una donna sposata in cielo
rispetto ad una vergine che non ha mantenuto il suo voto.
Ambrosiaster non vuole opporsi necessariamente a Girolamo ma cerca di considerare la verginità
per se stessa, sul piano della fede e della redenzione.
C’è un altro elemento che accosta l’anonimo a Girolamo, la polemica contro le vergini infedeli.
Ambrosiaster usa questo stesso argomento che lo avvicina parecchio a Girolamo e nel suo
commento a 1 Tm, cap 5, polemizza chiaramente, e non in maniera satirica come lo stridonensis,
contro le vedove che vivono in maniera rilassata, superba, non casta.
Concludendo possiamo dire che per l’Ambrosiaster la professio di vita verginale è bona et pia,
quindi è una prospettiva ascetica, dall’altro però polemizza contro questa degenerazione
dell’ascetismo ad opera degli eretici, che gettano fango e ombra su questa realtà e forse vuole anche
polemizzare contro alcuni eccessi di Girolamo.

Circa la continenza dei chierici, nei paragrafi 33-36 della quaestio 127, sviluppa tale argomento.
Anche qui l’anonimo cerca una via equilibrata perseguendo la via promulgata da Papa Damaso
nella Decretale: da una parte afferma la liceità del matrimonio dei chierici, ma una sola volta prima
dell’ordinazione, richiamando la lettera di Paolo a Timoteo.(vedi paragrafo 34 della quaestio: qui l
apostolo insegna che colui che ha una sola moglie se ha osservato tutti gli altri comandamenti può
essere ordinato sacerdote).
Dall’altro lato sostiene la necessità della continenza perpetua dei sacerdoti in forza del loro luogo di
vicarii christi et ministri dei (per l’anonimo il ministero sacerdotale è ministero delegato sulla scorta
della potestas data da Cristo agli apostoli, inizio paragrafo 35: se è lecito e un bene sposarsi perché
ad un sacerdote non è lecito avere una moglie?). L’obiezione menzionata dall’anonimo si rifà alla
Decretale di papa Damaso.
A seconda della condizione di una persona si applica una legge superiore o meno.
Alla linea 5 di pagina 415 dice che uno prima di essere ordinato può avere lecitamente rapporti con
la moglie. Una volta ordinato non più. E spiega tale contraddizione affermando che anche nella vita
dei coniugi cristiani a volte è lecito avere rapporti, altre volte no, come prescritto dall’Apostolo
Paolo.
Siamo sulla stessa linea della Decretale ad Gallos.

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L’anonimo cerca ancora una volta, come già Papa Damaso, che a un livello teorico e scritturistico si
può e si deve ammettere che ci siano dei chierici sposati, dall’altra esalta il clero di ispirazione
ascetica, prescrivendo la continenza perpetua per tutta.
Egli nel paragrafo 33 vede nel collegio apostolico la situazione della chiesa del suo tempo:da una
parte la possibilità di un clero sposato, rappresentato da Pietro, esempio appunto del clero sposato, e
dall’altra Giovanni, esempio del clero continente.
Gli argomenti portati dall’Ambrosiaster per sostenere la castità del clero sono gli stessi della
Decretale: l’argomento rituale, perché il sacerdote deve celebrare quotidie il santo sacrificio. (vedi
riga 19 paragr 36: il vescovo è vicario di Cristo, per cui a lui non è lecito ciò che da altri è lecito,
perché deve ogni giorno rappresentare Cristo, pregando per il popolo, offrire il sacrificio o
battezzare. E non solo al vescovo ma anche ai suoi collaboratori perché deve essere più santo colui
che amministra le cose sante.), tesi che ritorna nel commento a 1 Tm 3,12-13, ove ritorna il
quotidie.
Questa insistenza sulla purezza rituale dei ministri, che devono battezzare i malati in punto di morte
se c’è necessità per esempio e offrire il sacrificio, con il richiamo a due esempi già menzionati nella
Decretale ad Gallos (gli sposi cristiani che si astengono dai rapporti per la preghiera e i sacerdoti
veterotestamentari) mostrano come l’anonimo sia allineato con la dottrina e l’ascetica codificata da
papa Damaso. Manca solo la castità nei culti pagani, come esempio che troviamo nella Decretale.

Conclusione: questa dottrina ascetica dell’Ambrosiaster, sia circa l’esaltazione dell’ascesi verginale
sia circa la castità dei chierici, appare conforme sia alla teologia di papa Damaso sia alla teologia
che svilupperà Girolamo, almeno nella sua sostanza.
Ambrosiaster, però, a differenza di Girolamo, ha una posizione equilibrata nella questione
matrimonio-verginità tanto per i cristiani quanto per i chierici.
Non è valida l’interpretazione che Ambrosiaster polemizzi solo contro l’ascetismo di Girolamo.

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San Girolamo a Roma (382-385) e conversione dell’aristocrazia alla vita ascetica

Il rapporto di Girolamo con Papa Damaso


I tre anni scarsi in cui Girolamo rimase ancora una volta Roma, dall’autunno del 382 all’agosto del
385 in cui partì per Betlemme, furono i più felici della sua vita, secondo il Kelly.
Girolamo nell’autunno del 382 torna nell’Urbe, città dove il dalmata aveva studiato insieme a
Bonoso, Eliodoro, Rufino e Pammachio, grandi compagni della sua giovinezza.
A Roma prima di partire per le varie esperienze monastiche Girolamo era stato battezzato, perché
quando lui parla della capitale ne parla come della città che gli ha dato la fede, in cui ha visitato e
pregato presso le catacombe martiriali, battesimo avvenuto certamente sotto il pontificato di
Liberio.
Perché torna a Roma nel 382, data del Concilio romano indetto proprio da papa Damaso, a cui
partecipano Epifanio di Salamina e Paolino vescovo di Antiochia di cui Girolamo fu
accompagnatore?
Proprio per questo motivo: perché accompagna i due vescovi per discutere lo scisma di Antiochia
tra Melezio, riconosciuto vescovo da Costantinopoli, e Paolino, riconosciuto da Roma.
Al Concilio Girolamo entra in contatto per la prima volta con Papa Damaso, ormai alla fine del suo
pontificato visto che morirà nel dicembre del 384.
Dal deserto della Siria, prima del suo arrivo a Roma, Girolamo aveva mandato due lettere a
Damaso: la lettera 15 e la lettera 16, circa le questioni trinitarie, ma non riceve risposta.
Quando giunge a Roma non è un perfetto sconosciuto ma vi giunge ben” raccomandato” e protetto
da Evagrio di Antiochia e difatti nel concilio del 382 Damaso lo prende come interprete per i
vescovi orientali e svolge un ruolo teologico presso il Papa. Questo ce lo fa sapere Rufino nella
grande polemica con Girolamo nel “De adulterazione libro rum Origenis”, ricordando un episodio
del Concilio romano del 382. Narra che era avvenuta una grande falsificazione degli apollinaristi:
Damaso dovendo giudicare l’eresia apollinarista, affida ad un presbitero suo amico di preparare una
formula di fede che gli apollinaristi avrebbero dovuto sottoscrivere. Nella formula questo presbitero
inserisce l’espressione cristologica “dominicus homo”, ma questa formula non piace agli eretici: il
presbitero, allora, porta un testo di Atanasio in cui c’è la stessa espressione in greco,da lui inserita in
latino. Gli apollinaristi si fan dare la formula e tentando di falsificarla, ma non vi riescono.
Rufino, non dice che si tratta di Girolamo, ma nel Contra Rufino, libro II capitolo 20, Girolamo
stessa afferma che è lui il presbitero amico di Damaso, menzionato da Rufino stesso.
Dopo questo primo contatto inizia una collaborazione lunga e feconda tra Girolamo e Damaso.

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Nell’epistola 123 del 409, rievocando gli anni di Roma accanto a Damaso scrive così : “molti anni
fa quando ero aiuto di Damaso, Vescovo di Roma, nei documenti ecclesiastici e rispondevo alle
consultazioni sinodali che venivano tanto dall’Oriente quanto dall’Occidente”.
Girolamo assume accanto a Damaso il ruolo di consultore teologico e di vero e proprio segretario,
occupandosi di scrivere e stendere le risposte del Papa ai vari vescovi (Duval ipotizza l’impronta di
Girolamo nella Decretale ad Gallos di Papa Damaso).
E’ stata scoperta alla fine degli anni 80 una nuova serie di lettere di Agostino e tra queste c’è una
lettera di Girolamo, scritta ad Aurelio di Cartagine, in cui dice di ricordarsi dell’Ipponenesis quando
venne a Roma come diacono accompagnatore, essendo il dalmata sempre accanto a Damaso.
Questo fatto è rivelatore del grado di confidenza che c’era tra Girolamo e papa Damaso.
Questa frequentazione assidua di Girolamo con Damaso è ben testimoniata nell’epistolario di
Girolamo: qui si dice che i corrieri andavano e venivano ogni giorno dalla dimora di Girolamo a
quella di Damaso, per recare domande del papa e risposte di Girolamo. Quindi è Damaso che fa le
richieste e Girolamo risponde, elemento significativo del rapporto tra queste due figure.
Quando Girolamo sta per imbarcarsi a Ostia per Betlemme scrive ad Asella, nella lettera 45 “che a
giudizio di tutti ero degno dell’episcopato. Sulla bocca di papa Damaso c’erano le mie parole. Ero
detto da tutti santo, umile, coltissimo”.

Quali erano le richieste di Damaso a Girolamo?


Soffermiamoci sulla lettera 35, che costitusice la richiesta di Damaso circa 5 questioni già trattate
dall’Ambrosiaster, e sulla lettera 36, che è la risposta di Girolamo.

Dice Damaso a Girolamo: dato che tu dormi e dato che da tanto tempo leggi piuttosto che scrivere,
ho disposto di mandarti delle piccole questioni, non perché tu non debba leggere, difatti dalla
lettura come dal cibo quotidiano si è nutriti e la preghiera ingrassa, ma perché il frutto della tua
lettura sia questo tuo scrivere. Io ritengo che non sia discorso migliore tra di noi quando parliamo
della scrittura (da intendere come un porre questioni esegetiche da parte di Damaso e nelle risposte
da maestro di Girolamo).

Nella lettera 36, Girolamo non risponde a tutte e 5 le questioni ma solo ad alcune e gli fornisce una
piccola bibliografia, per affrontare le altre non trattate da lui, citando Tertulliano, Novaziano e
Origene che già avevano affrontato questi argomenti, e aggiunge che ha ritardato a rispondere
perché gli sono giunti dei volumi dalla Sinagoga da trascrivere.

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Dice Girolamo: per dire la verità, ho tra le mani il libro di Didimo sullo Spirito Santo, che ho
intenzione di dedicarti una volta tradotto, perché tu non pensi che io mi limiti a dormire, dato che
tu ritieni che leggere senza scrivere equivalga a dormire.

La risposta ci dice che nel 384 Girolamo sta traducendo dal greco il trattato di Didimo sullo Spirito
Santo, la cui divinità è stata formulata nel Concilio Di Costantinopoli del 381, forse perché circola il
trattato di Ambrogio, che Girolamo ritiene uno scopiazzamento di Didimo.

Il carteggio epistolare tra Damaso e Girolamo ci ha rivelato la confidenza fra questi grandi due
personaggi e l’interesse esegetico del papa.
Girolamo, poi, quando sarà a Betlemme e dopo che papa Damaso sarà già morto, manterrà la
promessa dell’epistola 36, quella cioè di dedicargli la traduzione dell’opera “sullo Spirito Santo”di
Didimo il Cieco. Girolamo rievocherà queste circostanze nella prefazione della traduzione.
Girolamo traduce anche per Damaso una visione di Isaia, contenuta nella lettera 18, e le omelie sul
Cantico dei Cantici di Origene.
Girolamo traduce, per papa Damaso, le due omelie che Origene aveva dedicato al tema del Cantico
dei Cantico e non l’intero commentario, opera davvero molto faticosa.

Il carteggio fra Damaso e Girolamo è stato velato da un dubbio sull’autenticità, in particolare dal
Nautin, che parla di un carteggio fittizio.
Il tono franco e confidenziale di queste lettere ha fatto pensare che Girolamo, in realtà, abbia
inventato questa sua corrispondenza dopo la sua partenza da Roma, quasi per auto legittimarsi e per
difendere la sua memoria e il suo operato nell’Urbe, desiderando colpire Ambrogio.
Questa è la tesi di Nautin.
Contro questa tesi, intanto, abbiamo già visto che le lettere 35-36 non hanno di mira Ambrogio ma
Ambrosiaster, a differenza di quanto sostiene il Nautin; in più ci sono altri due elementi da
segnalare:
1.c’è un rimando interno all’opera di Damaso che è di grande importanza. Il papa, come ricaviamo
nella lettera 35, dava grande importanza alla lectio divina, superiore alla dolcezza di ogni miele.
Tale immagine/pensiero corrisponde all’epigramma II di Damaso, dove spinge un fratello a nutrirsi
della sacra scrittura, “che sazia gli animi con caste vivande”.
2. Agumentum e silentio. Se lo scambio epistolare fosse falso, questo sarebbe stato rinfacciato da
Rufino a Girolamo, nella loro aspra polemica.

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Ultimo elemento del rapporto fra Damaso e Girolamo la grande impresa biblica, iniziata proprio a
Roma, come segnalato nella “Prefatio in Evangelii”, dove l’opera è dedicata proprio al pontefice.
L’opera che egli compie ha all’origine un comando di Damaso, questo il passaggio principale della
praefatio: mi spingi a fare una nuova opera da qualcosa di molto più antico al punto che io devo
sedermi come giudice di fronte ai codici delle Sacre Scritture dispersi in tutto il mondo. E poiché
sono tra loro in discordanza devo stabilire quali sono quelli che concordano con il testo greco più
antico.
Contro la gelosia dei critici ho un duplice motivo di consolazione: il primo è che tu che sei il
Sommo Pontefice mi comandi di fare questo: non può essere vero ciò che cambia anche se
confermato dalla testimonianza di molti malevoli.

Il tentativo di Girolamo è di fare una versione unica del Nuovo Testamento, a partire dagli antichi
codici in greco, che si imponga come versione unica rispetto a tutte le altre, sulla scia di Origene e
del suo Exapla, con il crisma, però, dell’ufficialità, da parte di papa Damaso.
L’appellarsi all’autorità di Damaso è garanzia di durevole legittimità.

14
Il rapporto di Girolamo con le donne del circolo dell’Aventino

La conversione dell’aristocrazia romana all’ascetismo grazie all’opera di Girolamo è un capitolo


assai interessante, perché misura la forza di penetrazione che il cristianesimo ha sull’antica cultura
romana.
Se l’antica cultura romana si trasforma in cultura cristiana è grazie alla conversione dell’aristocrazia
all’ascetismo.
Infatti c’era una scollatura tra l’impero ufficialmente cristiano e un’aristocrazia fedele alla
Tradizione del mos maiorum.
La grandezza di Girolamo sta nella sua capacità di intercettare una tendenza che si sta già
sviluppando prima del suo arrivo: già attorno alla vedova Marcella, nella zona dell’Aventino, si
andavano riunendo nobildonne desiderose di un cammino spirituale forte e approfondito.
Girolamo entra in questo contesto di “ascesi domestica” come maestro e direttore spirituale,
sfruttando anche il favore che papa Damaso godeva presso le grandi famiglie aristocratiche. Forse
entra su mandato e suggerimento di papa Damaso.
Ci sono due grandi centri spirituali:
il primo costituito da Marcella, Asella, Principia e della madre di Marcella, Albina, convertita
anch’essa al “sanctum propositum”. A quest’ultima Girolamo assegna il ruolo di “madre”per questo
gruppo di donne e per lui stesso.
Il secondo gruppo fa capo a Paola, la domestica ecclesia, con le sue figlie, Blesilla ed Eustochio e
dalla vergine Feliciana.
Proprio in questa casa di Paola fu ospitato il vescovo Epifanio, alla venuta del concilio del 382
mentre il suo vescovo fu ospitato in un'altra casa. Queste nobildonne, infatti, conoscevano
perfettamente il greco.

A questi due grandi nuclei spirituali potremmo aggiungere il monasterium, riunito attorno alla
vedova Lea e altre realtà (il gruppo della vergine Fabiola).
Non abbiamo di questo periodo romano lettere a personaggi che non siano donne, le uniche capaci
di fruire della Scrittura e di divenire apostole. Girolamo esalterà la capacità delle donne di mettersi
alla scuola di Cristo e alla sequela delle Scritture.

In questo gruppo di donne la preminenza, secondo Girolamo, è da assegnare a Marcella per la sua
determinazione e per la sua forza, per quanto Paolo ed Eustochia costituiranno l’esempio perfetto di
discepola; Girolamo definisce Marcella nella lettera 30 filoponotate, colei che ama la fatica (le
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fatiche letterarie) e ergodioktes, colei che sovrintende al lavoro nel senso che è la sua sorvegliante,
che lo spinge con le sue domande ai lavori esegetici, nell’epistola 28.
Quando Girolamo partirà da Roma sarà Marcella ad “essere maestra di esegesi” nel circolo
dell’Aventino, facendo le veci del maestro e sarà sempre lei da Roma a muovere le fila della
controversia origenista in difesa di Girolamo, prima sotto papa Siricio e poi sotto papa Anastasio,
dato la dignità del suo ruolo e del suo rango.
Secondo l’epistola 126, sarebbe stata propria Marcella a spingere Girolamo ad assumere la guida
del circolo, che supera il pudore dello stridonensis con la sua industria, con la sua pressante e
incisiva opera.
Il metodo con cui lavorano questo circolo di donne con Girolamo è la frequente e costante lectio
divina, imparando l’ebraico e il metodo per dirimere questioni esegetiche, e il metodo che adotta è
quello di domanda-risposta-domanda per approfondire sempre più la Scrittura, ricalcando il metodo
di Origene, facendo sorgere dalla Scrittura continua necessità di approfondimento, perché si nutra
non solo la cultura ma anche la spiritualità. E’ la ricerca di un apprendimento superiore.
Sembra, poi, che queste donne ponessero questioni per iscritto a Girolamo, tecnica tipica del
maestro: quando non si incontravano o dopo ogni incontro col sorgere di nuove questioni, Girolamo
voleva che esse fossero messe per iscritto.
Nella notizia su se stesso, con cui si chiude il De viris illustribus, Girolamo parlando delle opere
scritte nel periodo romano menziona un libro di epistole a Marcella, e innumerevoli lettere a Paolo e
ad Eustochio.
Cosa è questo liber di epistole a Marcella, questo volume a se stante?
Dovevano essere frutto dell’insegnamento ascetico con Marcella, infatti nella maggioranza di
queste lettere scritte alla nobildonna, Girolamo affronta questione filologiche molto specifiche.
Questo indica che il rapporto tra Girolamo e Marcella fosse davvero unico, mentre le lettere scritte a
Paola ed Eustochio sviluppa maggiormente il significato spirituale e mistico della Scrittura.

La maggioranza poi di queste lettere romane trattano del Salterio o di problemi legati ad esso:
evidentemente le lezioni di Girolamo all’Aventino trattavano molto del Salterio, base della
preghiera quotidiana.
Sappiamo anche quali libri Girolamo prediligesse nel suo programma di formazione: si partiva dall’
Ecclesiaste, che rappresentava il libro per i principianti, perché insegnava il distacco dal mondo e la
vanità delle cose del mondo e questo era il libro che il maestro commentò alla giovane Blesilla, che
morirà pochi mesi dopo.

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Il secondo livello del suo insegnamento comprendeva l’approfondimento del libro dei Proverbi, per
il suo tono morale; il terzo livello era segnato dal Cantico dei Cantici, l’unione sponsale e mistica
con il Verbo Incarnato.
Il maestro indiscusso di questa esegesi che Girolamo insegna a Roma è Origene, come vediamo
nella lettera 28, dove riporta un passo di Origene e come abbiamo visto dalla dedica di alcune
omelie del Cantico dei Cantici dell’Adamanzio a Damaso.
Inoltre nella lettera 30, in cui spiega il significato mistico dell’alfabeto ebraico, celebra la grandezza
della Scrittura in termini origeniani.
Nell’epistola 33, poi, Girolamo ci dà uno dei cataloghi delle opere di Origene e anche di Marco
Terenzio Varrone.
E’ interessante sottolineare come Girolamo intenda proporre non un modello a caso, ma il modello
per eccellenza dello scrittore cristiano nella figura di Origene, nell’ambito della cultura cristiana,
perché a lui Girolamo vuole ispirare il suo insegnamento e il suo ideale di vita; è un doppio
modello, di scrittore e di asceta. Perché?
Per Origene l’interpretazione dei testi sacri è il vero cammino ascetico, quindi il binomio esegesi-
ascesi proprio di Origene è assunto da Girolamo, che lo cala nella vita del circolo.
Passiamo all’epistola 33: Al contrario anche i nostri tempi hanno uomini eruditi, uomini che sanno
in quali mari sono nati i pesci, da quale spiaggia si possono trarre le conchiglie più prelibate;
abbiamo tra le mani Paxamo e Apicio, (…) questo cristiano che è il vero filosofo, che si dedica alla
lectio, con il mantello usato dai filosofi e la tunica sordida dei monaci, considerato quasi un folle.

Girolamo presenta il modello dell’asceta come il filosofo cristiano (pallio e tunica), cioè sta
presentando se stesso alla Roma del suo tempo, sulla scia di Origene.

Alla fine della lettera sembra dare un presagio della sua fine: Girolamo richiama la condanna di
Origene da parte del vescovo Demetrio e anche a Roma anche un assemblea ecclesiale avrebbe
sottoscritto la condanna di Origene (notizia che troviamo solo in Girolamo), per invidia perché non
si può sostenere il paragone con la sua grandezza.
Il presagio è che se Girolamo si è identificato nel ritratto del filosofo cristiano, il cui modello
supremo è Origene, allora anche lui, per invidia sarà osteggiato e allontanato.

17
LA LETTERA 22 AD EUSTOCHIO

Il liber de verginitate servanda: così è stata definita la lettera 22 di Girolamo ad Eustochio, vero
manifesto dell’ascetismo romano.
La famiglia di Eustochio è la famiglia per eccellenza, secondo Girolamo: Paola, madre di
Eustochio, è la discepola per eccellenza di Girolamo, e le figlie Blesilla, rimasta vedova, si dedica
alla vita ascetica anche se muore pochi mesi dopo tra l’ottobre e il novembre del 384, e Eustochio,
che sin dall’adolescenza si dedica alla verginità, rappresentano i due gradi di vita ascetica:
vedovanza consacrata e verginità perpetua.
Un’altra sorella di Blesilla ed Eustochio è Paolina, che sposerà Pammachio, che si dedicherà alla
vita ascetica alla morte della moglie. La famiglia di Paola era tra le più antiche della nobiltà
romana, con discendenza dagli scipioni e dai gracchi.
Guardiamo ora alla finalità e alla struttura.
Girolamo concepisce l’epistola come un liber, quindi è un trattato, un’opera sistematica, non una
semplice epistola di occasione, e fornisce i modi per custodire la castità. Non è un protrettico per
la castità, non vuol esortare alla castità ma vuol mettere in guardia Eustochio circa i pericoli che
toccano la vita ascetica.
Dunque il liber, attraverso Eustochio, si rivolge a tutto il cenacolo che Girolamo ha realizzato.
Questo lo dimostra lo sguardo dello stridonese: all’interno dell’opera notiamo sempre rimandi alla
vita del monachesimo a Roma, rimandi a tratti sferzanti e polemici, ma significativo.
Eustochio, senza perdere in qualche modo i tratti distintivi della sua personalita, dunque in questa
lettera, diviene il modello ideale dell’asceta, incamminata verso le mistiche nozze.
La lettera comincia con il rimando al Salmo 44, 11-12, adoperato nella velatio delle vergini, in cui
si invita la giovane alle nozze con lo sposo e si chiude con la citazione delle nozze mistiche del
Cantico dei Cantici.
Attraverso Eustochio la lettera di Girolamo ha una ricaduta su tutto l’ascetismo: Girolamo incarica
la vergine di indicare anche alle ancelle della sua casa la via ascetica (par.29) e ad altre.
Quindi la lettera più che ad un genere esortativo risponde ad esigenze di direzione spirituale che
Girolamo costruisce tenendo lo sguardo ben presente sulla condizione del monachesimo a Roma e
intercalandolo con cenni autobiografici. Ecco l’originalità dell’opera.
Opere su questo argomento sono molto diffuse nel IV secolo, pensiamo per esempio alla lettera alle
vergini di Atanasio; ma fonti latine di Girolamo sono Tertulliano, Cipriano, Ambrogio (di cui
troviamo un giudizio limpido e positivo) e Damaso (vedi paragr 22).

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Girolamo non intende comporre una laus verginitatis (paragr 2) perché il destinatario già la conosce
bene; ora a questo tema, in negativo, si affiancava un altro tema: tessere le lodi della verginità
significava accompagnarle con le molestieae nuptiarum.
Girolamo dice di non voler tessere le lodi della verginità e di non voler soffermarsi sulle molestie
delle nozze, anche se le nomina poi tutte, è equilibrato nel giudizio delle nozze e delle donne
sposate (ricordiamo le polemiche su lui cadute per il contro Elvidio), perchè vuol guardare in
prospettiva alla formazione delle vergini perché possano perseverare nel santo proposito.
Non mancherà il motivo encomiastico ad Eustochio e il rimando ai fastidi delle nozze, nel paragrafo
22, una sorta di spartiacque della lettera.
All’inizio del paragrafo 23 dice di non voler esaltare la verginità, ma di insegnare a custodirla. Ecco
lo scopo della lettera.

Dividiamo le lettera in due grandi parti corrispondenti:


1-2 Esordio, in cui Girolamo dice che la vergine deve uscire dalla sua patria e dalla casa di suo
padre, unendosi a Cristo, senza guardare indietro, come la moglie di Lot, cioè alla vita passata.
3-6 primo caveat: dal proposito della vita ascetica deve nascere timore e non superbia, perché essa è
combattimento spirituale.
7. Exemplum di Girolamo nel deserto agli inizi della sua vita ascetica.
8-12: astinenza dal vino e digiuno come rimedi alla lussuria
13-18 si soffermano sulla satira alle vergini lapse, alle vedove, alle matrone e ai chierici avidi di
denaro. Eustochio è stimolata alla preghiera e alla lettura notturna.
19-22. Comparazione matrimonio-verginità, ritenuta superiore
23-26 (II parte) La vergine è lo spazio sacro solo per Dio e invita all’intimità con lo sposo divino,
evitando vanagloria e falsità. Il leitmotiv è sempre la superiorità della vergine.
27-29. Ripresa di esempi negativi e nuove raccomandazioni alla vergine di evitare frequentazioni
mondane e la moda della poesia.
30. il sogno di Girolamo, altra pagina autobiografica. Sogno narrato da Girolamo per raccomandare
la sola lettura dei tseti sacri
31-32. la vergine e i beni temporali con reprimenda sull’avarizia.
33. Ampliamento del tema dell’avarizia con un racconto tratto dai padri del deserto.
34-36. lunga digressione sui tre generi di monaci in Egitto (cenobiti, anacoreti, sarabaiti o
girovaghi).
37. Riprende l’esortazione alla vergine e alla preghiera come i monaci di Egitto.
38. Presenta Maria, madre di Cristo, come modello della vergine. Capitolo da isolare.

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39-40-41. Epilogo con perorazione finale: l’amore di Cristo è la finalità ultima della verginità
consacrata e descrive la gloria della vergine in paradiso.

L’insegnamento ascetico proposto


1. I mezzi per custodire la castità
Girolamo si mostra ossessionato dalla terribile esperienza di una caduta di una vergine consacrata,
chiamata da lui meretrice, nel paragrafo 6.
Si sofferma sull’azione esercitata nell’animo della tentazione che si scaccia mostrando un desiderio
santo più forte della concupiscenza (paragr.17). L’amore carnale si vince con l’amore spirituale, che
è un amore più grande.
Sulla base di questa consapevolezza presenta ad Eustochio tutta una serie di armi necessarie per
custodire la santità:
al primo posto pone la parola di Dio, per scacciare i cattivi pensieri e gli influssi della cultura
romana (paragrafi 6,24,25, 29).

Quindi per dominare il corpo e le passioni Girolamo ritiene necessario il digiuno, con proibizione
del vino e dei cibi raffinati, prendendo cibo solo una volta al giorno. L’idea sottesa è che la gola
alimenta la lussuria. Per custodire la castità è necessaria la temperanza (paragrafi da 8 a 12 e il 17).
Molti criticano questa posizione di Girolamo sul digiuno quasi come eretica: è la posizione di
coloro che assimilano l’ascetismo cristiano al manicheismo (vedi paragr 13, in cui compare per la
prima volta il termine monaca, in senso dispregiativo).
Il primo sguardo che sta dando Girolamo al monachesimo femminile è negativo, dettato appunto da
queste critiche esterne. Girolamo risponde a queste accuse nel paragrafo 38, giudicherà ove in
maniera assai dura l’ascesi manichea, dicendo che gli eretici si nascondono sotto il termine glorioso
della verginità. Se ci sono vergini presso i manichei è perché il diavolo vuole contraffare l’autentico
valore di essa che si trova nella Chiesa.
Da notare, poi, che anche Ambrosiaster definisce verginità vocabulum gloriosum: forse Girolamo si
rifà all’anonimo esegeta anche se Duval ritiene questo passo un’originalità di Girolamo.

Altro mezzo fecondissimo è la preghiera come notiamo nel paragrafo 25, dove incontriamo la
celeberrima espressione di Cipriano, che indica l’unione di preghiera e lettura. Per Girolamo la
preghiera non è solo la recita dei salmi, di cui comunque al paragrafo 36 ne indica le ore da
mantenere.

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La preghiera salmica e la lettura notturna, per la memorizzazione della Scrittura, devono andare
insieme, secondo Girolamo. La Scrittura va appresa a memoria da parte dell’asceta, cosa che
avviene, per esempiuo, nei cenobii egiziani. Questo esercizio è espresso mirabilmente con la
metafora della cicala del paragrafo 18: sii la cicala della notte. Con la preghiera e la lettura notturna
Eustochio è invitata a rimanere sempre nella luce grazie alla Scrittura.

Altro mezzo è il distacco dai beni e dalle ricchezze: vuol dire deporre la condizione aristocratica.
Ad Eustochio Girolamo proibisce la frequentazione delle case delle altre matrone e dei salotti,
consuetudine dell’aristocrazia romana. Le dice di non uscire per i funerali e al paragrafo 17 le dice
di cercare i martiri nella sua stanza, evitando le catacombe, che pur Girolamo esalta in maniera
straordinaria.
Tutto questo si unisce ad una motivazione teologica che il nostro da nei paragrafi 23-26: la vergine
si ritira perché il suo corpo è riservato a Cristo, tempio sacro riservato a Dio: come Maria, la sorella
di Lazzaro, la vergine deve parlare e ascoltare solo Cristo, suo sposo. Nell’intimità che si realizza
nella propria stanza con Cristo dice l’assoluta preminenza di Dio nella sua vita.
Si aggiunge, poi, un ultimo elemento: Eustochio non deve affettare devozioni, avendo
atteggiamenti falsi ed esteriori. Nel paragrafo 27, le dice di non voler sembrare più umile e povera
rispetto agli altri, per sembrare la prima e la migliore.
Eustochio deve distaccarsi non solo dalla ricchezza e dall’onore che le provengono dal suo blasone
familiare, ma da se stessa, quindi una reale mortificazione di se. In qualche modo non deve far
notare il suo volontario rifiuto della condizione aristocratica da cui proviene.
Girolamo vuol plasmare un nuovo modello di donna e di nobile, eliminando quella superbia tipica
della loro condizione di nascita, essendo ricche, colte. La vera superiorità sta nella vita ascetica che
si abbraccia e nella cultura cristiana che si acquisisce; il limite è che Girolamo strappa queste donne
da un’elitè mondana, per inserirle in una èlite all’interno del cristianesimo.

21
INSEGNAMENTO DI GIROLAMO CIRCA IL TEMA MATRIMONIO-
VERGINITA’.

Girolamo afferma la superiorità della verginità da un punto di vista antropologico e cristologico.


Questo lo incontriamo nei paragrafi 19-22.
Girolamo introduce il paragrafo 19 riportando un’obiezione a lui fatta, cioè il denigrare il
matrimonio da parte sua.
Girolamo la affronta con una prospettiva ben diversa: il matrimonio abbia pure il suo valore di
gloria, ma la verginità ha un valore superiore perché consacrata in Maria e in Cristo.
La verginità costituisce la condizione originaria dell’uomo, mentre il comando del matrimonio e
l’uso della sessualità appartengono alla condizione post lapsaria (vedi pag. 133 del libro di
Moreschini). Per Girolamo l’uomo è un essere creato per la verginità.
L’asceta sfrutta due condizioni teologiche opposte da un punto di vista antropologico, però: quella
di Origene, sulle tuniche di pelli di Gen 3,2 (antropologia di stampo alessandrino, dualista) e il
motivo di Eva ancora vergine in paradiso, che è proprio di Ireneo nel parallelo con Maria Vergine,
per mostrare che la nascita verginale di Cristo corrisponde alla nascita del primo uomo. Eva è
ancora vergine quando commette il peccato. Inoltre teniamo presente, come fonte, anche Gregorio
Nazianzeno.
Nella nascita verginale di Cristo, per Girolamo, ricomincia una nuova economia, superiore a quella
della creazione: per questo in sostanza, la verginità ha valore antropologico, perché rappresenta la
condizione originaria dell’uomo, come attestato, appunto, dalla nascita verginale di Cristo.
Le due concezioni, sebbene diverse, sono accomunate dal valore primordiale della verginità: ecco
perché Girolamo le sfrutta.
Il matrimonio per Girolamo viene dopo il peccato e dunque ha per Girolamo un valore inferiore.
E il matrimonio è lodato solo perché genera i vergini (paragr 20).
C’è una tassonomia che Girolamo istituisce: se per l’Ambrosiaster il rapporto matrimonio-verginità
era tra un bonum e un optimum qua è tra un malum e un bonum, quindi molto più pessimista.
Il presupposto fondamentale di Gerolamo è la condizione originaria dell’uomo, non solo
escatologica e il matrimonio è una realtà seconda, dopo la verginità.
In tal senso anziché cercare la continuità come faceva l’Ambrosiaster tra At e Nt circa matrimonio e
verginità, Girolamo afferma la discontinuità, inaugurata dalla nascita verginale di Cristo, che apre
una nuova economia.

Quali argomenti adopera Gerolamo per sostenere tali cose? Sono argomenti teologici.
22
La verginità è consacrata in Maria e riguarda soprattutto le donne, come dice al paragrafo 21 (mors
per Aevam, vitam per Mariam).
La verginità ha iniziato il suo corso con le donne, ai primordi Eva e nella nuova creazione Maria; e
lei in questa tradizionale contrapposizione ad Eva è vista come il modello delle vergini, l’inizio
stesso della castità femminile, il cui valore non era riconosciuto nell’Antica Alleanza.
In Maria, invece, la castità diventa condizione indispensabile della maternità divina (paragrafo 38) e
come Maria la vergine può diventare madre del Signore (paragr. 38).
Maria modello della vergine e la verginità massima espressione dell’amore per Cristo: questo è lo
sviluppo teologico di questi paragrafi.
Nei paragrafi 39-40, poi, la verginità ha il valore del martirio, è il martirio quotidiano della
coscienza, cioè l’offerta della propria vita nella castità.
La superiorità della verginità sul matrimonio, per Girolamo, si giustifica grazie a questo amore
preminente, assoluto per Cristo da parte del vergine, motivazione ultima della castità.
Difatti che l’idea provenga da Atanasio e dalla dottrina mistica di Origene è la citazione di un
espressione del Cantico usata dall’Adamanzio, cioè quella della “ferita d’amore”.
Per questo la verginità, dirà al paragrafo 41, ha un valore superiore in paradiso, rispetto alle donne
sposate e alle vedove.
Questa dottrina che Girolamo sviluppa trova conferma in tre grandi dimostrazioni:
 Esempi autobiografici. Ne sono due, al paragrafo 7 e al paragrafo 30 e hanno un grande
interesse. Al 7 pone la descrizione degli inizi della sua vita ascetica come esempio ad
Eustochio, che deve combattere costantemente contro i pericoli della carne. L’esperienza del
deserto è l’esperienza di un luogo orrido, tipico delle narrazioni virgiliane e per il suo essere
orrido, arso dal sole, secondo le descrizioni di Sallustio, è popolato dai ricordi passati della
vita mondana a Roma. Fisicamente vive il deserto ma mentalmente è tormentato dai piaceri
della vita mondana. Solo la preghiera ardente gli ottiene la consolazione di sentirsi infine
circondato dagli angeli. Cosa vuol dire questa pagina autobiografica? Nonostante l’idea del
tormento, della lotte, della penitenza che pone come cifra essenziale del cammino ascetico,
Girolamo sta confermando la sua iniziazione ascetica, quando era ancora agli inizi del suo
cammino, in cui è completamente solo. Rammenta uno stadio anacoretico del suo stato di
vita ascetica. Girolamo non solo non ripudia l’esperienza fatta ma la presenta come un
continuo rimpianto. C’è da notare che in questa lettera che Girolamo non esalta il deserto, a
differenza dell’epistola 14 ad Eliodoro, perché ora vive un’esperienza ascetica che vive
un’evoluzione a Roma: la solitudine resta la vetta della vita monastica, tuttavia a Roma
Girolamo vive un’esperienza inversa rispetto a quella vissuta nel deserto. Nel deserto di

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Calcide evocare Roma era evocare la concupiscenza mentre evocare il deserto a Roma è
evocare le vette dell’ascetismo. A Betlemme il gruppo di Girolamo vivranno ai margini
della città. Questa pagina della vita eremitica propone un binomio oppositivo spirito-carne.
Al paragrafo 30 oppone il binomio digiuno-lettura dei classici. Se nel primo excursus era in
gioco l’identità e l’autorità di Girolamo come asceta, e dunque tende a rappresentare se
stesso come Antonio Abate per dare le sue forti credenziali, al paragrafo 30 è in gioco il suo
ruolo di maestro, il suo stesso metodo utilizzato nell’insegnamento ascetico a Roma.
L’occasione della menzione di questo secondo excursus autobiografico è l’esortazione ad
Eustochio di evitare la moda del tempo di comporre carmi: alle matrone piace anche
l’adulterio della lingua, cioè un tradimento verso Cristo fatto con la raffinatezza della cultura
e attacca con toni alla Tertulliano, mostrando l’opposizione tra la Scrittura e i classici. Così
può avere l’occasione di narrare la seconda vicenda autobiografica. (vedi e leggi paragrafo
30). Siamo in una fase antecedente a quanto narrato nel paragrafo 7. Partito per la Palestina
dice che ha rinunciato a tutto tranne che alla sua biblioteca di autori classici. Cita Cicerone e
Plauto, la grande eloquenza e la grande satira, ripreso da Girolamo con Giovenale e Persio.
Durante la Quaresima, quando è quasi pronto per le esequie e forse in compagnia di Evagrio
ha una visione: ecco il suo sogno, è rapito immediatamente dinanzi al tribunale supremo,
pieno di luce. Cristo proclama Girolamo ciceroniano ma non cristiano. Viene flagellato,
invoca pietà e gli astanti intervengono per una penitenza: Girolamo fa un voto di non avere
più fra le mani testi di autori profani. Da quel momento legge con impegno i testi sacri, con
uno zelo superiore a quanto messa nei testi profani. Cosa vuol dire? L’esperienza narrata qui
da Girolamo è un’esperienza di conversione alla lettura e allo studio della Scrittura. Che si
tratti di una conversione è il rimando a Paolo che Girolamo fa (raptus in spiritu, come
l’Apostolo e dinanzi a Cristo Girolamo è abbagliato e cade a terra. Sono prestiti letterari). Se
qui si tratta di conversione, a differenza dell’esempio precedente, vuol dire che per
Girolamo questo è più difficile dei tormenti della carne, cioè la tentazione della lettura non
biblica è più pesante di quella dei piaceri della carne. Per questo l’episodio si colloca quando
Girolamo sta per andare nel deserto e quindi l’episodio significa che nel deserto potrà
dedicarsi allo studio della Scrittura in maniera seria (cfr. lettera a Rustico, 125,12 ove dice di
essere stato invitato da un monaco a leggere la Bibbia come rimedio alle tentazioni). Il voto,
però, non sarà mantenuto perché la stessa narrazione di questo sogno ha tutta un
ambientazione classica (l’idea dell’andata negli inferi e il ritorno, idea virgiliana; inoltre c’è
il rimando agli apocrifi e alla letteratura martiriale (Perpetua e Policarpo). A dimostrazione
che il racconto sia vero abbiamo una grande testimonianza di Rufino, che nell’apologia

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contro Girolamo, lo rimprovera di essere spergiuro, perché continua a citare “il nostro
Tullio; il nostro Flacco”. Persino dice Rufino che nelle opere rivolte alle vergini citi
Scrittura e autori classici. La risposta di Girolamo sarà imbarazzata: risponderà che le sue
citazioni dei classici fanno parte del suo bagaglio culturale e gli viene naturale menzionarle;
in realtà il sogno non può essere preso in assoluto perché anche la Scrittura invita a
minimizzare i sogni. Tuttavia testimonia la tensione che perdura in Girolamo tra l’amore alla
Scrittura e l’amore ai classici: a parole li rinnega ma realmente non può farne a meno. Scopo
del sogno è la presentazione di Girolamo che vuole presentarsi a Roma come un maestro
asceta diverso dagli altri, che ha scelto lo studio della Scrittura al di sopra di tutto.
 Esempi di vita monastica (34-36): prendendo spunto da un fatto accaduto nel deserto,
Girolamo prende spunto per un famoso excursus sulle classi dei monaci che ha avuto un
successo enorme. Che sia una digressione lo dice Girolamo, introducendo il paragrafo 34.
Parla di cenobiti, anacoreti e remnhuot, che nella lingua copta può significare “uomini di
separazione o di isolamento”, classe inferiore dei monaci.
Per Girolamo i peggiori sono i remnuhot, che il nostri afferma essere molto diffusi a Roma e
in Occidente, perché vivono insieme, a due o a tre, in città o villaggi e non nel deserto e
quindi sono una forma ascetica disorganizzata, non soggetti a nessuna regola e a nessun
superiore. A loro sono attribuite avarizia, spirito di contesa, critica ai chierici, frequentazioni
di vergini. Il monachesimo che esiste fuori dal suo circolo è ritratto come disorganizzato.
Dopo descrive i cenobiti e li esalta con una descrizione lunga e particolareggiata della loro
vita giornaliera (tutto il paragrafo 35). Girolamo usa il termine cenobium in latino e non
cenobiti. Ne celebra l’obbedienza e la sottomissione ad un pater (gerarchia) e ne descrive la
giornata divisa tra un lungo periodo di solitudine trascorso nella cella, in cui si lavora e si
memorizza la scrittura e da un tempo di vita in comune all’ora nona, con la preghiera dei
salmi, una lettura e una conferenza tenuta dal pater. Difatti i pasti sono ispirati ad un digiuno
uguale tutto l’anno, tranne che in Quaresima e a Pasqua. Esaltando questo esempio di vita
austero, Girolamo ne richiama i modelli: gli esseni, di cui parla Filone e Giuseppe Flavio.
Non c’è un modello biblico, come fa Agostino nel De Moribus ove pone come modello la
primitiva comunità di Gerusalemme.
Il paragrafo dedicato agli anacoreti è molto breve: questa è una tattica retorica e non un
segno di disinteresse. Il cenobium è una forma di vita ascetica nuova per le matrone romane
e va descritta lungamente; quella anacoreta, già descritta, si presta ad una breve descrizione.
Parlando degli anacoreti Girolamo dà le fonti bibliche non date per i cenobiti,cita l’origine
degli anacoreti menzionando il suo Paolo, come iniziatore e Antonio il Grande, come colui

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che ha dato lustro a questo grado genere. Il fondamento biblico, invece, è Giovanni Battista.
Per quanto questo excursus evidenzi una svolta cenobitica in Girolamo, poiché vuole
traghettare l’esperienza ascetica trovata a Roma delle sue vergini verso il genere del
cenobium, in realtà, il primitivo ideale, quello eremitico, non è mai perso di vita da
Girolamo stesso. Anche quando si trasferirà a Betlemme il genere scelto sarà quello
cenobita.
 L’Aspetto satirico sull’ambiente monastico dell’Urbe: da fine pedadagogo, accanto ai
modelli positivi, mette degli esempi negativi, richiamando eventi negativa della vita ascetica
romana che Girolamo vuole evitare, attraverso il genere letterario della satira La satira
geronimiana ha due bersagli: le donne e il clero. Contro le donne la satira si rifà al
background della tradizione satirica romana, ma la innova grazie a Tertulliano e a Cipriano.
Girolamo al paragrafo 13 stigmatizza il comportamento delle vergini lapse (vergini che
vivono come meretrici), che vivono il compromesso, che cadono e sono intente ai delitti più
gravi (contraccezione, aborto). Gli esempi di Girolamo non dovevano essere frequentissimi
ma il pericolo maggiore sono quelle vergini che cadono con la convinzione di fare bene,che
cercano un compromesso rispetto alla radicalità che dovrebbero vivere, invocando la bontà
delle cose create, che per questo non devono essere evitati. Questo è sacrilego per Girolamo.
In questo modo Girolamo se la prende con queste vergini che accusano di manicheismo le
vergini che si sforzano di vivere nella radicalità del proprio proposito. Quindi Girolamo
attacca l’ipocrisia di chi fa professione di vita ascetica ma che nella realtà vivono grandi
compromessi morali, contrari allo stile scelto.
Altro bersaglio sono le matrone e le vedove che vivono una vita eccessivamente mondana e
le agapete, che vivevano con altri consacrati (paragrafo 14) e al paragrafo 27 le vergini che
vivono solo una penitenza e uno stile di vita esteriore.
Al paragrafo 32 Girolamo se la prende con le matrone che vivono nel lusso, nella ricerca
esasperata della raffinatezza mentre Cristo muore nudo fuori le loro porte.
Quindi Girolamo sta bersagliando un modo aristocratico romano che si volge al
cristianesimo senza una piena consapevolezza delle esigenze di vita cristiana, che scambiano
l’elemosina per energetismo o con lo scopo di accrescere il proprio prestigio personale, nella
speranza di ottenere cariche: cioè non potendo organizzare più giochi pubblici li
sostituiscono con queste grandi elargizioni.
Ultimo grande bersaglio della satira di Girolamo in questa lettera sono i chierici e il clero in
genere. Non è un caso che siano legati alle matrone perché nella Chiesa damasiana c’era uno
stretto legame tra clero e mondo delle matrone romane.

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Al paragrafo 28 critica i monaci che vanno in giro alla maniera siriaca che cercano di
circuire le nobildonne dell’aristocrazia, ma a questo aggiunge la critica quelli che fanno
parte del suo ordine, cioè i chierici. Parla di membri del clero avidi, mondani, capaci di
qualunque cosa pur di estorcere denaro alle matrone.
Emblematico è il ritratto dei chierici al paragrafo 28 che assomigliano a degli effeminati.
Ma la satira, a questo punto, non è campata in aria: questo corrisponde ad una realtà storica
molto forte: nel 370 verrà emanata da Valentiniano una legge che vieterà a monaci e chierici
captatores di ricevere eredità e testamenti. Dunque Girolamo opera una satira verso degli
abusi del clero evidenti e reali.
L’apice della satira in questo frangente è la descrizione di un chierico, cioè il vecchio
chierico importuno e pettegolo, come nelle commedie di Plauto.

27
LA REAZIONE ALL’EPISTOLA 22 E AL MONACHESIMO A ROMA

Con la brillante epistola 22 Girolamo ci ha dato il primo grande quadro del monachesimo originale
ha mostrato la sua propaganda ascetica a Roma, mostrando il suo intento di creare a Roma di una
chiesa vergine. All’interno del pontificato di Damaso, Girolamo ha tracciato un programma di vita
ascetica.
Tuttavia la lettera suscitò anche molti detrattori, avendo assunto un atteggiamento netto e critico,
duro verso l’ambiente e la chiesa di Roma.
Quali erano le critiche fatte a Girolamo?
L’epistola 22 appena pubblicata ha suscitato una tempesta di proteste, attirandosi la maggioranza
dei nemici di Girolamo a Roma. Molteplici sono le testimonianze di questo, sia all’interno delle
opere di Girolamo che all’esterno.

Tre le critiche principali mosse a Girolamo:


 Critica al genere letterario, soprattutto la satira.
 Critica all’ideale monastico da lui proposto.
 Critica alla sua stessa persona.

Circa la prima critica, il genere letterario, nel 394, circa dieci anni dopo, Girolamo scriverà la lettera
52 a Nepoziano dicendo che il suo scritto sulla verginità è stato ricoperto/lapidato e ha dovuto
parare i dardi ricevuti da molti critici. Infatti molti si erano sentiti chiamati in causa dal contenuto
della lettera, nonostante avesse scritto non da avversario ma da amico. Girolamo si difende dicendo
che voleva fare una disputatio generalis e non colpire singole persone. D’altronde anche
nell’epistola 22,22 Girolamo lì dice di non fare nomi, per non far pensare che stesse facendo una
satira, per salvarsi, nascondendosi dietro ad una generalizzazione.
Come se questo non bastasse, trent’anni dopo, nell’epistola 130 a Demetriade, nel 414, Girolamo
ricorda ancora questo fatto: dunque le critiche pesarono molto sull’animo di Girolamo. Il nostro
dice che il sermo offendit plurimos, facendolo passare fustigatore più che monitore dei vizi altrui. E
questa idea non era estranea alla fama di Girolamo, considerato una lingua mordace capace di
sferzare i vizi.
Ancora, nell’epistola 40 scritta verso un innominato avversario che definisce “onanus”, Girolamo
riporta l’accusa di costui che lo ritiene essere uno scrittore satirico. Critica non infondata: in
Girolamo la satira è a servizio della polemica. Quindi il passo era breve dall’accusa di essere non
solo satirico ma anche osceno, perché la satira aveva un contenuto scabroso. E questo passo, cioè
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l’accusa di oscenità, fu compiuto da Rufino. Questi lo accusa di aver dato ai pagani materiale per
accusare la fede cristiana, perché Girolamo ha scritto una serie di oscenità sui chierici, monaci e le
vergini lapse, a tal punto che i pagani stessi la utilizzavano per deridere e criticare i cristiani. Quindi
Girolamo, secondo Rufino, avrebbe scritto un vero e proprio pamphlet contro i cristiani, dopo il
celebre Contra christianos di Porfirio. Accusa davvero molto grave che va oltre le intenzioni di
Girolamo.
Nel difendersi da questa accusa di Rufino, Girolamo resta ancora sul generico, dicendo di non aver
fatto nomi, e chi scandalizza dimostra in realtà che lui ha davvero colto nel segno.
Le critiche riguardano anche la stessa dottrina ascetica di Girolamo: nel cruciale anno 384 misura
tanto il successo della sua predicazione quanto le resistenze che l’opinione pubblica romana ha
verso tale ideale. Lo dimostra molto ben la vicenda di Blesilla, la giovane vedova a cui dedica
l’epistola 38 e 39: questa giovane vedova, dopo appena 6 mesi di matrimonio, convertita all’ideale
ascetico e morta dopo pochi mesi sciocca l’opinione pubblica romana. Nell’epistola 38 ricorda la
conversione alla vita ascetica di Blesilla e menziona le critiche fatte a Roma verso questa scelta,
dicendo che siccome non bevono vino e non ridono a squarciagola e non hanno tuniche di vesti
vengono chiamati tristi, impostori e greci. Ripercorrendo la vicenda di Blesilla, che muta veste,
deponendo gli abiti dell’aristocrazia, Girolamo ripercorre tutte le critiche verso il suo ideale. Cosa
vuol dire essere un impostore e un greco? Secondo la mentalità romana dietro la parola greco sta
l’essere “levantino, astuto”. Dunque dietro c’era che il monachesimo fosse qualcosa di estraneo al
mondo romano, fallace, ingannevole, affettato.
Lo conferma ulteriormente anche l’epistola 39. Blesilla muore quattro mesi dopo la professione
monastica (sanctum propositum) e dopo aver consolato la madre inizialmente nella lettera
(consolatio), celebrando la dottissima morta, parla del modo di vivere il lutto da parte di Paola,
perché anche il lutto spieghi la professione di vita ascetica che anche lei ha fatto. Cuore della
questione, allora, è il modo di vivere il lutto da parte di Paola, perché assuma un contegno che
esprima la sua scelta ascetica, cioè in qualche modo la spinge ad una conversione.
Girolamo non vuole che Paola viva il lutto come le altre matrone: in qualche modo la lettera spinge
ad una conversione, perché immagina che anche Paola viene convocata dinanzi al tribunale di
Cristo che rimprovera l’eccessivo dolore della madre, rispetto alla matrona vedova di Pretestato,
questo grande console, senatore che non si lascia schiacciare dal dolore. Cioè una pagana sta
vincendo una cristiana nella sopportazione del lutto. Inoltre chiama in causa l’esempio di Melania
l’anziana che parte per Gerusalemme dopo la morte del marito e dei due figli, non disperandosi ma
ringraziando Dio.

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Nel paragrafo 6 Girolamo dice che durante il funerale di Blesilla, vedendo il dolore enorme della
madre, la folla pagana leva voci di protesta e di critica contro il nostro e riporta le parole di critica
scagliate contro il nostro e il monachesimo: Blesilla è stata uccisa dai suoi digiuni a causa di
Girolamo. Dunque Girolamo è ritenuto responsabile di aver consumato la vita giovane di Blesilla
plagiandola ed è accusato di aver sedotto Paola, matrona miserabile sedotta dal genus detestabile
dei monaci.
Circa il terzo punto, cioè la critica alla persona di Girolamo, l’accusa di sedurre matrone e le accuse
di immoralità e avidità, dell’epistola 22, ricadono su di lui a motivo del rapporto con Paola, come
testimonia l’epistola 45 ad Asella ritenuta in grande considerazione presso tutto il popolo romano,
prima di imbarcarsi per la Terra Santa, forse per riacquistare quanto perso presso l’opinione
pubblica romana.
Nella lettera Girolamo menzione le tante calunnie subite per il rapporto instaurato con il circolo
delle matrone convertite. Le illazioni ricevute da Girolamo altro non sono che quelle da lui
menzionate nell’epistola 22 verso il clero, cioè avidità e familiarità con le matrone.
Che ad accusarlo siano matrone e il clero, Girolamo ce lo lascia capire nell’epistola 54 a Furia: per
prima cosa sono i servi, all’interno del palazzo, a gettare fango sulla nobildonna che si converte
dicendo: è un greco ed un impostore. Dai servi le voci raggiungono le matrone, l’alta società e a
quel punto diventano dicerie pubbliche. Matrone e clero saranno state l’origine della critica
calunniosa contro Girolamo e della sua partenza da Roma, perendo con la stessa spada con cui
aveva colpito la società romana.
Proprio Sulpicio Severo, nei paragrafi 8 e 9 del I libro del Dialogus, menziona l’epistola 22 e dice
che Girolamo a Roma fu odiato dagli eretici, perché non cessa di combatterli e lo odiano i chierici
perché prende di mira i loro vizi, ma i buoni lo amano certamente. Dunque lo riabilita e ne prende le
difese.

Ora queste critiche le potremmo liquidarle come gretta mormorazione ecclesiastica o chiacchiere da
salotto, ma esse si innestano su una Vulgata anti monastica nella Roma del IV secolo dei pagani
contro il monachesimo.
Le fonti pagane di questo fine IV secolo inizio V secolo attestano concordi l’avversione verso i
monaci. Giuliano l’apostata li definisce misantropi, Libanio che li decsrive come essere voraci e
immorali, Eunapio che li definisce porci sotto l’aspetto umano.
Anche in Occidente le critiche sono forti, da un punto di vista religioso e sociale.
Richiamiamo la testimonianza di Rutilio Namaziano nel de Reditu, dove incontriamo invettive
contro i monaci, definito genus novo.

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Lo fa in due tappe: avvicinandosi all’isola di Capraia non riesce a trattenere disprezzo per questo
luogo, ergastulum, abitato dai monaci. Per lui vivono in un insensato isolamento, fuggono la luce,
temono il rovescio della fortuna e perciò li rifiutano da sé, e si infliggono penitenze e li paragona al
mitico eroe Bellerofonte. Per il loro abito sembrano che abbiano la bile nera i monaci.
Il secondo ritratto lo fa quando si avvicina all’isola di Gorgona, dove vive un nobile da poco
ritiratosi a vita eremitica. Per lui è un fatto scandaloso che un giovane di elevata condizione sociale
lasci beni e matrimonio vivendo in un luogo di morte. Sarcasticamente definisce questo nobile un
credulone e un miserabile infelice, che crede di incrementare la conoscenza divina con la sporcizia.
Per i pagani i monaci sono estranei alla società e fuggono la luce, hanno in odio il genere umano:
tornano cioè nel V secolo le motivazioni anticristiane dei pagani nel II secolo.
Quindi nel monachesimo perdura quella irriducibilità del primo cristianesimo verso la società
pagana.

LE RESISTENZE AL MONACHESIMO IN AMBITO CRISTIANO

L’accettazione dell’ascetismo della lettera 22 era difficoltoso anche in ambito cristiano.


L’esempio lo possiamo prendere da Paolino da Nola.
Nel 389 Paolino nobile, aristocratico, governatore della Campania dal 378 al 383, si converte alla
vita ascetica con la moglie Terasia, trasferendosi in Spagna, lasciando la sua enorme fortuna in
Francia e il suo amico e maestro Ausonio. Questi era un poeta gallico di fine IV secolo, ben inserito
nella corte, precettore di un imperatore, la cui fede religiosa è sempre stata dubbia, forse non si era
mia convertito realmente al cristianesimo.
Ausonio, pur non essendo apertamente pagano, ha resistenza decisa verso la scelta monastica di
Paolino scrivendogli lettere piene di amarezze, rimproverandogli l’abbandono della civiltà e dei
valori tradizionali, bollando la sua scelta come amentia e paragonandolo a Bellofonte.
Paolino risponde al suo maestro attraverso due carmi, 10 e 11. Questa risposta mostra come gli
ideali del monachesimo siano nuovi rispetto ai vecchi ideali aristocratici, ribattendo con delicata
fermezza alle accuse di Ausonio: il suo stile di vita è ragionevole, perché i monaci si ritirano non
per vivere come selvaggi, ma per realizzare l’ideale classico dell’otium, deponendo gli incarichi
civili, per ricercare Dio e la verità. L’inattività e il nascondimento sono condizioni necessarie che il
monaco deve realizzare per ricercare la verità. Questa corrispondenza risale agli anni 391-394.
Nel 395 Girolamo scrive a Paolino da Betlemme, esaltando nell’epistola 58 la sua scelta di povertà
e continenza coniugale, dandogli molti consigli. Girolamo è un pò guardingo e gli chiede di
scegliere tra il diventare vescovo e il condurre vita ascetica.

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Ma in ambito aristocratico cristiano, in modo particolare romano, la scelta di Paolino è vista con
stranezza.
La lettera 58 di Ambrogio riporta le reazioni alla notizia della conversione di Paolino da parte
dell’aristocrazia romana. Dice Ambrogio che quando i senatori hanno sentito questa notizia hanno
detto che Paolino pur provenendo da una famiglia, stirpe, cultura nobile, ha compiuto una scelta
inconcepibile. La voce comune corrisponde a quella che Ausonio aveva rivolto a Paolino e ci
riporta al cuore dell’Impero Roma, perché Girolamo dice che le stesse reazioni si avranno tra i
senatori quando Pammachio abbraccerà la vita asectica.
Perché queste reazioni sono importanti?
Paolino, una volta convertito parte dalla Spagna per installarsi a Cimitile, presso la tomba del
vescovo Felice dove fonderà un monastero e ove l’asceta diventerà vescovo.
Prima di giungere a Nola passa per Roma e sperimenta un’ostilità simile a quella sperimentata dieci
anni prima da Girolamo (qui siamo nel 395): nella lettera 5 Paolino dice di aver trovato invidia e
ostilità da parte del clero romano. Per il clero, paradossalmente, la scelta di Paolino è motivo di
scandalo e per di più sperimenta una certa distanza da parte di papa Siricio, accusato di superba
discretio (da intendere come circospezione, prudenza).
Perché questo atteggiamento di Papa Siricio e del clero?
I commentatori dicono che questa è la conferma che il successore di Damaso aveva in avversione il
monachesimo (così si spiegherebbe la partenza di Girolamo): in realtà Siricio è il papa che nel 392
condanna Gioviniano, quindi non si può dire che è un avversario dell’ideale monastico.
Potrebbe essere che la conversione monastica di Paolino a Roma all’inizio sia stata vista con
diffidenza, perché non erano ancora chiare le motivazioni di questo nobile che tornava da monaco
nella terra in cui era stato governatore. Forse l’ostilità scaturisce dal fatto che questo nobile
aristocratico come Ambrogia sarebbe divenuto, in virtù del suo rango, immediatamente vescovo.
La reazione contro Paolino è sintomatica comunque.

In conclusione la polemica contro il monachesimo che abbiamo trovato a Roma non deriva solo
dagli eccessi di Girolamo perché si sviluppa anche in ambito pagano in tempi vicini, e non
dobbiamo dimenticare che questo clero romano, accusato di mondanità e di essere antimonastico,
condannerà unanimemente Gioviniano. Quindi non è un clero antimonastico.
Possiamo concludere questo sguardo con una suggestione di Jacques Fontaine: l’azione di Girolamo
a Roma è stata quella di un riformatore, che ha purificato il monachesimo dai compromessi
mondani dell’ambito romano, riportando il monachesimo verso un ideale colto e spiritualmente
elevato, l’unico che poteva entrare in dialogo con l’aristocrazia romana e i suoi valori. Solo

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Girolamo poteva dialogare con l’aristocrazia romana, come dimostrano le tante conversioni
all’ideale monastico propugnato da Girolamo.
In questo tentativo di Giromao si coglie la sua grandezza e il suo successo si percepisce proprio
quando lui parte: da Betlemme Roma ama e fustiga Roma, la pone al centro del suo interesse e pur
da lontano continuerà ancora meglio la sua azione sul monachesimo romano, privo forse dei suoi
eccessi.

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Con l’opera Adversus Elvidium la polemica antimonastica, in ambito romano, si esprime nella sua
massima forma.
Questo personaggio, Elvidio, lo conosciamo solo attraverso le parole di Girolamo.
Cronologicamente siamo nel 383 e dunque prima dell’epistola 22 ad Eustochio, ma questa polemica
costituisce i prodromi per comprendere la polemica successiva contro Gioviniano.
In quest’opera Girolamo sceglie di rispondere sistematicamente ad Elvidio e dunque possiamo
ricostruire quasi del tutto l’opera dell’eretico.
Ricaviamo che Elvidio aveva scritto a sua volta un opera contro un libello di un certo Craterio sulla
verginità: dunque come retroscena dell Av abbiamo due scritti perduti.
Per alcuni Craterio è un vescovo firmatario del Concilio di Saragozza, identificandolo con il
vescovo richiamato da Girolamo nell’epistola 69: l’ipotesi non sembra avere una reale consistenza.
Noi dell’identità di Elvidio sappiamo meno ancora di quanto Girolamo sapesse effettivamente di
lui: ne conosciamo i capisaldi della sua dottrina grazie al nostro, ma della sua identità ne sappiamo
poco e Girolamo stesso dice di non averlo mai visto.
Fin dall’inizio con l’Adversus Elvidium Girolamo si confronta con un avversario reale che ha
scritto un’opera precisa: la prima opera polemica dello stridonese “Altercatio Luciferiani et
Ortodoxi” è fittizia, infatti. La scrive come una sorta di biglietto teologico di presentazione prima di
giungere a Roma, inviandola a Damaso.
L’opera di Girolamo si presenta come un trattato, una confutazione ben brillante, un piccolo
capolavoro dialettico: infatti Girolamo riesce ad annientare la dottrina di Elvidio.
L’opera si divide in 22 paragrafi:
1. Occasione dello scritto. Pregato dai fratelli interviene contro l’opera di questo certo Elvidio.
2. Spiega quale è l’argomento dello scritto e il metodo con cui confuterà Elvidio, invocando
singolarmente le tre persone della Trinità per difendere la verginità di Maria. Il metodo sarà
una lettura sistematica dell’opera di Elvidio a cui risponderà punto per punto ricorrendo alla
Scrittura (confutazione scritturistica retoricamente costruita). Pur dicendo di non voler
utilizzare le armi dialettiche per controbatterlo, in realtà le usa tutte, Infatti la retorica
giudiziaria viene trasferito in un contesto tipicamente scritturistico, dando un principio al
paragrafo 19, affermando che si deve affermare/credere quanto letto nella Scrittura e negare
ciò che non c’è.
3-17. Difesa della perpetua verginità di Maria e risposta a quattro proposizioni di Elvidio.
18-21. Girolamo mette a raffronto il tema matrimonio-verginità.
22. perorazione-confutazione finale.
La prima parte si fonda sulla citazione letterale di quattro proposizioni di Elvidio.

34
La prima proposizione riguarda la citazione di Mt 1,18. Maria è detta fidanzata con Giuseppe e
rimane incinta prima che andassero a vivere insieme.
Elvidio argomenta sul priusquam: egli si oppone decisamente a Carterio, che invece di promessa
sposa, desponsatam, inseriva commendata, cioè affidata a Giuseppe.
Elvidio sostiene che il testo evangelico dica che Maria è promessa sposa e non affidata a Giuseppe
quando rimane incinta e Carterio ,dunque, sbaglia filologicamente il testo della Scrittura. Infatti non
si capirebbe promessa sposa se non fosse fidanzata a Giuseppe.
Girolamo risponde al paragrafo 4, ove l’attenzione si posta sulla congiunzione priusquam: il fatto
che Maria fosse promessa sposa di Giuseppe al momento del concepimento verginale non implica
che dopo abbiano avuto una normale vita coniugale.
Girolamo, poi, da tre prove per affermare il perché del concepimento avvenuto quando era solo
promessa sposa.
Il primo è che essendo promessa sposa di Giuseppe si indica la discendenza genealogica di Maria,
cioè della discendenza di Davide come Giuseppe, e dunque Cristo ha duplice discendenza regale da
parte di padre e di madre.
La seconda è che Maria è detta promessa sposa di Giuseppe in modo da non risultare un’adultera,
non essendo ancora sposata.
Il terzo motivo è perché Giuseppe custodisse Maria, specie nella fuga in Egitto, trovando in lui un
conforto più che un marito.
Girolamo non manca di dire che il concepimento di una vergine sarebbe apparso incredibile ma
amplificando si rifà al passo di Isaia 7,14.
Quindi, in sostanza circa la prima proposizione di Elvidio, Giuseppe era ritenuto il padre di Gesù
ma non perché fosse il vero padre di Gesù bensì perché questo salvaguardasse l’onore di Maria,
secondo Girolamo.
E qui non esita a difendere i Giudei e cita l’episodio al tempio di Luca, in cui Maria chiama
Giuseppe padre di Gesù.

I paragrafi 5 e 7 bis c’è la seconda proposizione di Elvio: Giuseppe non conobbe Maria fino a che
questa non partorì. L’argomento ora è la congiunzione temporale donec. Quindi dopo il parto di
Gesù avrebbero avuto una normale vita coniugale, ma ammette che non si capisce il perchè la
Scrittura taccia su questo punto.
Abbiamo la confutazione di Girolamo da 6 a 8 bis: la congiunzione donec può avere valore di
tempo determinato, ma in molti casi ha valore di tempo indefinito, citando parecchie espressioni
dalla Scrittura.

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L’evangelista ha voluto intendere esplicitamente, sostiene Girolamo, che Giuseppe si è astenuto da
rapporti con Maria prima del parto, ma implicitamente anche dopo (fine paragrafo 7). Qui sviluppa
un argomento e silentio.
Per ribadire l’idea che Giuseppe non ha toccato Maria dopo il aprto di Gesù, nel paragrafo 8 opera
una caricatura del pensiero di Elvidio, dicendo che Giuseppe, secondo Elvidio, sarebbe stato invaso
da libidine. E prende spunto per celebrare la purezza della nascita di Gesù, in cui non intervengono
neanche le ostetriche.

Queste due prime proposizioni hanno un tono sia filologico (insistenza sul significato grammaticale
del testo sacro) sia teologico. Cosi è della terza proposizione, l’argomento del primogenito
(pargarfo 9) di Lc 2,4-9 e per Elvidio significa che Maria ebbe altri figli. Non si può dire
primogenito se non colui che ha altri fratelli.
Girolamo non si lascia scoraggiare. Ogni unigenito è primogenito, non ogni primogenito è
unigenito, citando numeri 18,16. Nella Scrittura il primogenito è il primo nato maschio, ma non in
relazione ad altri, e che deve essere riscattato dopo un mese.
Richiamando l’episodio della morte dei primogeniti in Egitto costringe a dire Elvidio che morirono
i primogeniti, sia con fratelli che senza.

La quarta proposizione di Elvidio è il punto di forza della dottrina di Elvidio, cioè la questione dei
fratelli di Gesù, citando tutti i passi in cui questi ricorrono.
Questi fratelli di Gesù, menzionati nei passaggi evangelici, vanno identificati con quei figli di
Maria, madre di Giacomo e di Giuseppe, che troviamo in tre momenti della passione (fine paragrafo
11). Quindi la Maria, madre di Giacomo e Joses, è la stessa Maria madre di Gesù, visto che in
questi tre passaggi non c’è una specificazione, ma si parla genericamente di Maria.
L’argomentazione di Elvidio è che Maria, ormai vedova, presente sotto la croce è la madre di Gesù
e degli altri due.
Girolamo risponde riferendosi a Giovanni 19, 25 in cui si parla di Maria, madre di Gesù, e Maria,
madre di Cleofa. La spiegazione è che se Maria avesse avuto altri figli, Gesù sotto la croce non
l’avrebbe affidata a Giovanni, ma ad uno dei suoi fratelli.
Quindi Maria, madre di Gesù, è distinta Maria, madre di Cleofa, sua sorella. Quindi Giacomo e
Jose sono figli della zia di Gesù.
Per spiegarlo Girolamo opera un’approccio nuovo: secondo Girolamo questi fratelli non sono
fratellastri di Gesù, come sostengono gli apocrifi, ma cugini, allegando una spiegazione filologica.

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In ebraico il termine fratello, nella Scrittura, può avere quattro accezioni: per natura, per
appartenenza alla stessa gens (per stirpe), quelli che appartengono alla stessa parentela (cognazione,
cioè che provengono dalla stessa tribù, in greco patria, in latino paternitates, ) infine la quarta
accezione è per affetto, indicando i vincoli affettivi o spirituali.
Sulla base di queste quattro accezioni, fratelli di Gesù va intesa come cognazione, parentela in
senso più ampio.
I paragrafi 13-16 sono una conclusione della prima parte in cui Girolamo paragona Elvidia ad un
folle, che per darsi celebrità, aveva incendiato il tempio di Minerva ad Efeso. L’idea è che Elvidio
ha osato toccare il tempio del Signore, cioè, il corpo immacolato di Maria.
Lo porta poi nell’angolo con una cornuta interrogazione, cioè il sillogismo cornuto o dilemma,
antica tecnica retorica: se Elvidio è disposto ad affermare che Giuseppe è padre carnale di Gesù può
anche affermare che gli altri sono figli di Maria. Ma essendo la prima proposizione impossibile
anche la seconda è impossibile.
L’epilogo, poi del paragrafo 17, solo le auctoritates: Girolamo dice che Elvidio si appoggiava sui
testimonia di Tertulliano e di Vittorino di Petovio, a sostegno della sua tesi.
Di Tertulliano preferisce non parlarne. Di Vittorino, invece dice, aveva parlato dei fratelli di Gesù
nei termini degli evangelisti, ma questo non possiamo verificarlo.
Di contro Girolamo cita i suoi testimonia: Ignazio, Policarpo e multos alios.
Qui l’opera sembrerebbe conclusa.
In realtà l’opera ricomincia al paragrafo 18 con un’altra obiezione di Elvidio comparando
matrimonio e verginità.
Elvidio era giunto a negare la verginità di Maria dopo il parto proprio nel confronto matrimonio-
verginità, partendo dalla considerazione degli antichi patriarchi dell’At che erano tutti sposati,
fondando così l’uguaglianza matrimonio-verginità.
Girolamo deve confutare questa argomentazione stringente, sviluppando il ragionamento in forma
paradossale, sull’esempio del de carne christi di Tertulliano, esaltando l’aspetto spregevole della
nascita, indegno di Dio per alcuni, in opposizione a Elvidio.
E all’inizio del paragrafo 19 Girolamo evidenzia quel principio metodologico che si può affermare
solo quanto è scritto nella Scrittura e non si afferma ciò che non è scritto.
La condanna di Elvidio sarà sanzionata dagli attacchi contro Girolamo, così come ha fatto contro la
Vergine Santa (paragrafo 22) e lo rimprovera perché voleva che vergini e donne sposate avessero lo
stesso grado di gloria.

37
38
21 – XI

Ricaviamo che il nocciolo della dottrina di Elvidio era l’uguaglianza tra matrimonio e verginità, di
cui Elv sosteneva ardentemente la causa portando come testimone l’esempio di Maria, rimasta
Vergine sino al parto di Gesù, ma poi unitasi nel Matrimonio con Giuseppe avendo altri quattro figli
maschi e un indefinito numero di figlie femmine. La dottrina elvidiana non era anti-mariana, ma
anti-ascetica: G gli attribuisce il fatto che El conosca i passi della Scrittura e non doveva essere uno
sprovveduto né dal punto di vista letterario, né dal punto di vista esegetico e teologico, anche se noi
ne ignoriamo completamente la formazione. G lascia intendere che El era anche attento alla
questione filologica; ancora, El fonda la sua dottrina sulle auctoritates dei Padri: G gli rimprovera
di rifarsi a Tertulliano e a Vittorino di Petovio.

Per quanto riguarda Tertulliano bisogna indicare i testi: De virginibus velandis e De monogamia,
ma anche De Carne Christi.

Fin dall’esordio dell’Adversus Elvidium G ci ha detto che si è lasciato convincere al rispondere ad


Elvidio dalla richiesta dei fratelli scandalizzati dalla sua dottrina. G deve intervenire per tagliare un
albero con la scure: sotto la metafora, G sta dicendo il tipo di intervento complesso che deve
attuare. Invoca poi ognuna delle Persone della Trinità perché l’assistano per confutare le tesi di Elv:
è un unicum negli esordi di Girolamo. Egli si trova davanti ad un avversario temibile e il tono che la
sua polemica utilizza lo conferma, perché a differenza delle opere polemiche contro altri avversari
(cfr. Rufino e Gioviniano), G non si sofferma con il solito piglio satirico per ridicolizzarlo per le sue
caratteristiche fisiche, l’aspetto fisico dell’avversario come elemento per prendere in giro dei vizi
nascosti non è presente, qui G punta tutto sull’ignoranza dell’avversario per dimostrare che la sua
dottrina non ha credito: perciò G descrive sempre Elv come uno sconosciuto e un principiante
nell’arte retorica ed esegetica, perciò si rifà alle caratteistiche di Ermogene: infatti l’inzio
dell’Adversus Elvidium richiama con precisione l’inizio dell’Adversus Hermogenen di Tertulliano.
Elvidio viene ritratto come l’avversario gnostico di Tertulliano, con cui G pare identificarsi. G dice
anche che Elv è l’unico in tutto il mondo che è per sé sia laico che Sacerdote: è un’espressione che
ha confuso molto gli studiosi, perché si sono divisi considerando Elv o un laico o un chierico. G
però in questa espressione viole dire che l’eretico non ha un seguito, è tutto a se stesso, è sia laico
sia Vescovo perché la sua dottrina è isolata e lui un perfetto sconosciuto. L’insistenza su questo
punto forse denota che non fosse proprio così, perché alcuni testi eresiologici della fine del IV
secolo e degli inizi del V ci diranno che esisteva una setta degli elvidiani, presentati come discepoli
di questo Elv che negavano la Verginità di Maria. Lo dice un testo che si chiama Induclus de
hæresibus, attribuito erroneamente a Girolamo, ed anche Sant’Agostino al capitolo 84 del suo De
hæresibus.

C’è poi una testimonianza di grande interesse: quella di Gennadio di Marsiglia nel suo De viris
illustribus, una continuazione dell’opera di Girolamo (circa del 456). [cfr. Materiale VII] Ciò che
impressiona nella notizia storica di Gennadio sono i cllegamenti che fa: dice che Elv è discepolo di
Aussenzio e imitatore di Simmaco. Questi personaggi non sono di facile identificazione: il primo
dovrebbe essere il successore di Ambrogio sulla Cattedra mediolanense, perché si ha notizia che
Aussenzio fosse discepolo degli ariani e che avesse ; l’identificazione di Simmaco è ancora più

39
complessa: alcuni hanno pensato al Simmaco grande oratore e senatore pagano, ritenendo che si
riferisse allo stile oratorio di Elvidio, ma ciò è sconfessato dalle parole di Gennadio che seguono e
riferiscono una non brillante composizione stilistica; si deve piuttosto pensare al Simmaco ebionita,
che come tale negava la Verginità di Maria. Idealmente questi personaggi potrebbero essere dei
predecessori della negazione della Perpetua Verginità di Maria. In questo modo però, attraverso la
descrizione di Gennadio, Elvidio non pare più un isolato e che scrisse con una preoccupazione di
fede, una certa buona intenzione nel trattare la Verginità di Maria e l’ascetismo.

La dottrina di Elvidio doveva essere soprattutto centrata sull’ascetismo, ma pian piano sciviola sul
piano mariologico; nella confutazione di G. diviene quasi l’argomento principe e tutto ciò fa
considerare la dottrina di Elv come una dottrina anti-mariologica. Sia Agostino che il Prædestinatus
dicono che l’eresia degli Elvidiani è la stessa che Epifanio di Salamina ha condannato con il nome
di anti… o antidicomariani. Egli dedica un’intera notizia del Panarion: sarebbe l’eresia 78, nel III
libro del Panarion, alla quale segue come in un dittico l’eresia opposta, cioè quella dei collyridiani,
coloro che adoravano la Madonna come una divinità e le offrivano in sacrificio una corona di pane,
dalla quale deriva il loro nome. Questo accostamento è sintomatico perché Epifanio dice che
l’eresia di coloro che negano la Verginità di Maria è germinato dall’eresia cristologica degli
apollinaristi; riporta l’idea di alcuni che affermano che questa dottrina fosse stata affermata da
Apollinare stesso in vecchiaia o da qualche suo discepolo. Epifanio però non pare dare molto
credito alla notizia, nonostante esso possa essere un aspetto molto interessante: infatti a Roma
l’apollinarismo era molto diffuso tanto che Damaso decretò due condanne, dapprima un certo Vitale
(nel 377) e poi gli apollinaristi (nel 382) proprio quando Girolamo portò Epifanio a Roma.

[Critica degli autori moderni che danno ragione ad Elvidio: riprendere dalla registrazione…]

Noi non conosciamo le circostanze da cui derivino le dottrine teologiche di Elvidio, sappiamo solo
che si muovo dalla critica all’ascetismo. Se noi cerchiamo di situare la polemica di Elv nel suo
contesto notiamo che E, rispondendo a quel cartiglio, ha voluto certamente muovere un attacco
consapevole al prestigio che l’ascetismo ormai aveva al suo tempo, dato innegabile: Maria era già
modello delle Vergini sin da Origine, sviluppata da Atanasio e da Ambrogio; nelle omelie di
Zenone di Verona che propone la formula della Perpetua Verginità di Maria esplicitamente,
affermando la Verginità in partu. Sia ammettendo che Elvidio potesse conoscere queste dottrine, sia
ritenendo che Elv fosse semplicemente un Romano, è chiaro che dobbiamo supporre un certo
dibattito sull’ascetismo al tempo di Damaso, è un tema di attualità nella comunità cristiana di Roma
in cui Elv vive e Damaso insegna. In ciò, appare strano che Elv non sia stato condannato da Papa
Damaso formalmente: G si limita a dire che Damaso aveva approvato il proprio scritto contro
Elvidio ma non dice né che glielo aveva richiesto né che avesse condannato la dottrina elvidiana.
Bisogna interrogarsi su questo silenzio di Papa Damaso: Duval dice che esso è sintomatico, ma non
dà una risposta sul perché il Papa non sia intervenuto. Il Professore ha due ipotesi a riguardo:

1. L’Ad ELv è del 383 e Damaso muore nel 384, quindi probabilmente non ha avuto modo di
convocare un Sinodo a riguardo.
2. Forse Damaso, come in altri casi, si è affidato alla penna di Girolamo, senza chiederglielo in
modo diretto, ma l’abbia promossa: ha probabilmente mantenuto un atteggiamento di
prudenza verso una dottrina che sicuramente inizialmente non si mostrava come eretica.

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Un ultimo elemento che può essere vincente ci viene dall’Ambrosiaster. Per capire come la dottrina
di Elv abbia incontrato non solo l’opposizione di G, ma anche quella di un altro autore, meno
invocato nella difesa dell’ascetismo, dobbiamo guardare ad Ambrosiaster.

Egli prende una posizione chiara contro Elvidio nel Commento alla Lettera ai Galati. Nella
revisione del Commento, aggiunge una parte in cui è evidente che prende di mira Elvidio: [cfr.
Materiale VII]. Questa è la frase fondamentale: Quidam enim ducti insania hos veros Domini
fratres de Maria natos impia adsertione contendunt, cum Iosef non verum patrem eius dicant
appellatum. Veri significa fratelli carnali, germani. Il cum oppositivo introduce l’altra parte
dell’empia asserzione: costoro infatti dicono che Giuseppe, nonostante quanto affermato prima, non
è padre carnale (vero) di Gesù. Ambrosiaster qui sta dicendo che questa dottrina, in cui non si fatica
a vedere la dottrina di Elvidio (è proprio lui che dice tutto ciò), …

Il passo di Ambrosiaster termina con lo stesso sillogismo cornuto utilizzato da Girolamo.


Ambrosiaster però non segue totalmente G nella spiegazione sui fratelli di Gesù: egli prende la
spiegazione resa popolare dagli apocrifi che ritiene i fratelli di Gesù come figli di Giuseppe avuti in
un primo matrimonio.

C’è un altro passo di Ambrosiaster, che non è esplicito ma aiuta a gettare luce sulla questione della
Verginità di Maria. L’eretico, negando la Verginità in partu di Maria, non fa altro che affermare
l’empietà che gli stessi pagani affermano deridendo tale dottrina. Comento ai Romani 8,3
[Materiale VII]. Il parto verginale non fa altro che garantire la Concezione e Nascita di Cristo senza
peccato, dato cristologico ben più importante. Questo apporto dell’Ambr torna ad essere utilissimo
perché ci aiuta a capire che il tema sollevato da Elvidio, sì toccava la Verginità di Maria, ma ancor
più andava a toccare la Verità dell’Incarnazione.

Per non cadere, dunque, né da una parte nella derisione pagana della Concezione verginale, né nel
docetismo che i manichei affermavano per non dire che Cristo fosse nato per genitalia Virginis,
Elvidio aveva voluto risolvere la questione dicendo che Maria, dopo il parto di Gesù, non fosse più
rimasta vergine.

In fondo Elvidio, senza rendersene conto, affermando che Maria rimanendo vergine fino al parto di
Cristo e consumando poi il Matrimonio con Giuseppe, separa il prima e il dopo dell’Incarnazione:
Maria risulta come uno strumento che esaurita la sua funzione non è necessario che rimanga tale. La
Verginità di Maria invece garantisce la Perfezione di Cristo: la sua Verginità ha un valore
ontologico, non è temporanea ma permanente. Per troncare qualsiasi ulteriore polemica, G dice a
Elvidio che noi non ci vergogniamo che il Cristo sia nato dagli organi genitali della Vergine e
ribadisce il concetto che cioè che è stato scritto noi non lo neghiamo, mentre neghiamo ciò che non
è stato scritto.

Conclusione attraverso un legame con Gioviniano. Di Giov noi sappiamo solo da Ambrogio che
negherà non la Virginitas post patrum di Maria come Elv ma addirittura la Virginitas in partu.
Giov, oltre ad avanzare una forte polemica contro l’ascetismo, riprende la polemica dal punto di
vista mariologico, anche se stranamente non ricaviamo ciò da Girolamo: egli parla delle altre tesi,
ma non di questa; sembra che non conosca la dottrina per la quale Giov negasse la Virginitas in
partu, e così anche Papa Siricio.

41
Agostino, nel De Hæresibus, catalogando l’eresia di Gioviniano dice: [cfr. Materiale VIII]

Ma perché questo tema non si presenta in Girolamo? Egli lo tratta solo nel Commento di Ezechiele
e nell’Adversus Pelagianos. In realtà forse Giov ha tratto questa conseguenza a motivo del
contraddittorio con Ambrogio; nell’originaria predicazione di Giov infatti probabilmente il tema
mariano era secondario, lasciato da parte; sarà Ambrogio a portarlo a prender posizione sul tema
mariologico. L’argomento intrapreso da Elv e Girolamo ha confutato, perdurerà e avrà i suoi
epigoni e le sue punte più aspre nella polemica contro Gioviniano e quella che Ambrogio istaurerà
contro un Vescovo illirico, Bonoso, che Ambrogio farà condannare nel Concilio di Capua nel 382 o
383: questo tema è evidentemente in questi anni all’ordine del giorno.

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LA CONTROVERSIA CONTRO GIOVINIANO

Il ritratto di Gioviniano che la tradizione patristica ci consegna (Girolamo, Siricio, Ambrogio) che
potremmo sintetizzare nell’immagine dell’epicurus Christianorum, così definito da Girolamo, il
monaco cioè dedito ai vizi della carne e della gola, che Siricio definirà avversario della castità e
maetsro della lussruria (dedito al piacere). Un ritratto dunque morale prima che ancora dottrinale,
anche se morale e dottrina vanno congiunti in Gioviniano.

I moderni, però, hanno una percezione diversa di Gioviniano: Harnack definì Gioviniano “il primo
protestante o protestante dei suoi tempi”. La storiografia moderna ha esaltato in Gioviniano il primo
assertore di una fede pura, evangelica, senza le opere e tale concezione è all’origine degli studi
moderni su Gioviniano, come quello di Haller che pubblicò i frammenti di Gioviniano e uno studio
sul suo pensiero.
Tuttavia oggi si tende a non lasciarsi impigliare nelle reti di una valutazione ante litteram di
Gioviniano, anche se gli esiti della ricerca si limitano sempre all’essere pro o contro Gioviniano o
pro o contro Girolamo.
Per il professore la migliore monografia è quella di Duval.

Le testimonianze e le fonti su Gioviniano sono:


epistola di Papa Siricio, Optarem semper numerata come la VII nella Patrologia latina, ma viene
riportata nelle opere di Ambrogio come epistola 41.
La seconda è l’epistola di Ambrogio Recognovimus del 393, risposta a Siricio.
Terza fonte è l’Adversus Iovinianum di Girolamo scritta nel 343, in cui Girolamo ignora le due
precedenti fonti e ignora che sIricio a Roma e Ambrogio a Milano abbiano già condannato
Gioviniano.
Bisogna aggiungere anche tre lettere la 48 e la 49 a Pammachio e la 50 di Girolamo.
Altra fonte importante è l’epistola scritta alla chiesa di Vercelli da parte di Ambrogio nel 396, in cui
vengono deplorati i discepoli di Giovinaino che si son recati a Vercelli.
Infine, tra queste fonti essenziali, ci sono due opere di Agostino: de bono coniugali e il de sancta
verginitae, scritte intorno all anno 400, con lo scopo di equilibrare la visione che Girolamo ha dato
del matrimonio e della verginità contro Gioviniano.

Elementi prosopografici su Gioviniano.

Giovinaino fu sicuramente un monaco che pur rimanendo legato alla professio monastica diffuse
una dottrina antiascetica, centrata cioè sugli effetti del battesimo e su una fondamentale uguaglianza
di tutti i membri della Chiesa, negando la superiorità dei vergini e degli asceti sugli sposati. Tuttavia
egli non venne meno nella sua professio, perché sia Agostino che Ambrogio attestano che
Gioviniano rimase monaco (Agostino, de Haeresisis n.42).
Giovinaino diffuse la sua dottrina intorno agli inizi degli anni 390, prima oralemte e poi per iscritto
a Roma, perché Girolamo risponderà alla sua opera Commentarioli.
Nel I libro al paragrfo 3 Girolamo ci indica i quattro capisaldi della dottrina di Gioviniano:

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la prima sostiene l’ uguaglianza di tutti i battezzati nel loro stato di vita, da cui deriva
fondamentalmente l’elogio del matrimonio.
La seconda afferma l’impeccabilità di tutti i battezzati plena fide.
La terza proposizione nessuna superiorità del digiuno rispetto ai cibi creati da Dio.
Quarta l’uguaglianza della ricompensa escatologica di tutti i battezzati quanto nella gloria dei santi
che nell’inferno. Nel regno dei cieli c’è una sola ricompensa.
A queste tesi, che costituiscono il cuore del pensiero di Gioviniano, va menzionata la negazione
della verginitas in partu, che troviamo nell’epistola Recognovimus di Ambrogio e in Agostino,
mengtre non compare in Siricio e Ambrogio. Non toccherebbe l’ante partum e la post partum.

In tutti i testi che lui porta in appoggio alle sue idee Giovinaino non si appella mai a Maria ma ai
patriarchi dell’At che erano tutti coniugati e secondo Ambrogio in Recogn, 10, faceva di Paolo un
magister luxuriae

Questa predicazione ebbe grande successo, molto più rispetto a quella di Elvidio, che toccò molto la
questione marilogica. L’ambiente aristocratico e monastico era molto sensibile ai temi proposti da
Giovinaino, che in particolare, ebbe l’aggancio con le classi aristocratiche, come attestato da Sirico
al paragrafo 4 della sua lettere.
E Girolamo stesso nei paragrfi 36-37 che menziona i nobili pagani e le matrone che fanno da corteo
a Gioviniano.
A causa della predicazione di Giovinaio ci furono molte defezioni di consacrati, tanto a Roma,
come dice Agostino, tanto a Vercelli, come dirà, Ambrogio.

L’ultimo punto di questo primo sguardo su Gioviniano è la condanna.


La prima condanna dovrebbe essere dei primi mesi del 393. Il contro Giovinaio è sicuramente del
393, scritto dopo il de Viris Illustribus. Nell’Adversus Girolamo non conosce le condanne avvenute
perché avvenute prorio nel 393.
Nei primi mesi del 393 Papa Siricio riceve una denuncia circa Gioviniano, come ricaviamo dalla
sua lettera, presentata da cristiani di alta condizione, probabilemte Pammachio.
Al paragrfo 5 della sua lettera papa Siricio la definisce scrittura orrifica. Convocato il presbiterio
romano Siricio condanna Gioviniano e altri 8 compagni menzionati nel paragrafo 6 della lattera, che
ritroveremo nella condanna di Ambrogio, che testimonia l’effettiva diffusione della dottrina del
monaco.
Siricio non convoca un sinodo straordinario di vescovi per condannarlo perché è avvertita come una
problematica interna della comunità di Roma, che si sente tradita da nemici interni e non esterni, da
una predicazione che probabilmente doveva apparire ortodossa. Per giunta Siricio sottolinea al
paragrafo 4 che l’eresia di Gioviniano diverge da quelle precedenti, perché tutti gli altri eretici si
sono allontanati dalla verità su un punto della dottrina mentre Gioviniano perverte i fondamenti
della vita cristiana, come affermato al paragrafo 4.
Un'altra cosa rilevante è il fatto che dalla lettera di Siricio emerga che tutto il clero di Roma
condanni unanimemente Gioviniano. Questo clero romano, che non sembrava tanto favorevole al
monachesimo, visto che 10 anni prima aveva osteggiato fortemente Girolamo e che non aveva
accolto nel 393 con entusiasmo Paolino, come mai lo condanna visto che intaccava l’ascetismo?

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Forse non è del tutto vero la tesi secondo cui Siricio e il suo clero osteggiassero la vita asectica:
Damaso, per esempio, non ha condannato ufficialmente Elvidio, probabilmente perché alla fine del
suo pontificato e perché bastava la confutazione di Girolamo.
Probabilmete a Roma non si amavano gli eccessi ascetici e quindi si confondevano a Roma
l’ascetismo con gli eccessi di Girolamo.
Le decisioni di Siricio vengono diffuse con la sua lettera a diversi vescovi, quindi ha una finalità
corporativa e la risposta da Milano di Ambrogio sarà la risposta di un gruppo di vescovi, riuniti
nella capitale.
Ambrogio nella sua lettera condanna decisamente la 1 e la 4 tesi di Gioviniano, difendendo la
superiorità della condizione verginale ma senza condannare il matrimonio, esprimendosi nei termini
un bonus e un melius.Nel paragrafo 4 Ambrogio da una serie di testimoia scritturistici per affermare
la verginità in partu di Maria. Ambrogio dice che Giovinaino diceva che la vergine ha concepito ma
non ha generato da vergine.
Per dimostrare la tesi del parto immacolato e verginale di Maria Ambrogio cita Lc e Isaia e il
simbolo apostolico custodito dalla Chiesa di Roma, forse perché a Roma si era già discusso
positivamente della virginitas in partu. E un argomento e silentio, però, perché Siricio non
menziona così. Di per sé il simbolo apostolico si limita solo alla concezione verginale: forse a
Roma l’estensione al parto verginale era frutto di una discussione.
Nei paragrafi 9-11 abbiamo uno sviluppo sul digiuno che Gioviniano negava.
Infine la requisitoria di Ambrogio termina con un’accusa a Gioviniano: l’essere manicheo.
Perché?
Proprio perché nega la nascita verginale e il parto verginale di Cristo e questo può farlo condannare
anche a livello imperiale, perché Teodosio nel 389 aveva ribadito la condanna dei manichei.
In ogni caso il trionfo e di Siricio e di Ambrogio.
Per questo Giovinaio e i suoi si muovo verso Vercelli, come segnalatao dall’epistola 63 di
Ambrogio, in cui ribadirà la condanna di Gioviniano e dei suoi.
Nel 398 un rescritto imperiale di Onorio e Teodosio ha condannato Gioviniano e i suoi compagni.

L’opera Adversus Iovinianum è sicuramente del 393. Rispondendo ad una richiesta dei sancti fratres
decide di confutare le opere di Gioviniano (probabilmente Marcella e Donnione), chiamato quindi
in causa 8 anni dopo la sua partenza.
All’oscuro delle condanne subite da Gioviniano, a differenza dell’opera contro Elvidio in cui dice di
aver atteso, qui invece non mostra tracce di reticenza e risponde immediatamente, di fretta, prima
che si chiuda la navigazione affinchè l’opera possa giungere a Roma (in inverno c’era mare
clausum).
Con i commentari di Gioviniano, Girolamo ha dinanzi un autore che rilegge tutta la scrittura in
chiave antiascetica, per equiparare lo stato di matrimonio e verginità; inoltre Gioviniano si
appoggiava anche alle testimonianze di filosofi pagani. Dunque costituiva una sfida avvincente per
Girolamo il rsipondergli.
Girolamo risponde con un’opera in due libri, perché probabilmente era divisa in due libri l’opera di
Gioviniano, e risponde passo a passo all’avversario, seguendo lo schema proposto dal monaco.
L’opera, però, è un tutto unitario perché il primo libro non ha conclusione e il secondo libro
comincia ex abrupto. Girolamo risponde a Gioviniano perché dietro questi vede l’aristocrazia

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romana e sa che la sua opera sarà letta proprio nei salotti dei nobili, dove lo stridonese vuol far
sentire forte la sua voce.
Il primo libro è dedicata completamente alla prima tesi di Gioviniano, l’uguaglianza matrimonio-
verginità; il secondo alle altre tre tesi.

I LIBRO

1-4: introduzione in cui Girolamo rievoca l’occasione dello scritto, sminuisce l’avversario,
accusandolo di ignoranza, ma riconosce la sua preparazione culturale, scritturistica, in particolare.
Sin dall’inizio Girolamo afferma di difendere la verginità senza condannare il matrimonio, cadendo
nell’errore encratita o manichea (paragr 3). Riporta le quattro tesi ed espone il suo metodo.
5: prima tesi di Gioviniano. E’ un paragrafo ampio. Gioviniano giustificava la sua tesi passando in
rassegna tutta la Scrittura, citando Enoch, i Patriarchi, passando ai Giudici, ai Re, citando Elia ed
Eliseo e circa il Nt cita solo Zaccaria ed Elisabetta e Pietro e gli altri apostoli. Alla fine accusa i
cattolici di encratismo alla luce di queste citazioni, concludendo con un’apostrofe alle vergini,
chiedendo loro di non insuperbirsi verso le donne sposate.
Girolamo, nella sua risposta, segue due grandi autori: Tertulliano (De Monogamia) e Origene. Ecco
il dipanarsi della confutazione nei vari paragarfi:
6-15: Girolamo offre una lunga esegesi di 1Cor 7. Questa è un’originalità di Girolamo rispetto a
Gioviniano, perché vuol schierare in prima linea l’apostolo Paolo. Questa lunga esegesi di 1 Cor 7
ha un valore forte, perché espone prima, con una sorta di premonitio, tutti i capisaldi che gli
serviranno per confutare l’avversario. Girolamo rilegge Paolo passo passo, a differenza di
Gioviniano che citava solo alcuni passi, in cui l’apostolo non comandava la verginità. Si preoccupa
di accreditare l’autorità dell’apostolo (par. 9), per strapparlo a Gioviniano, che lo definiva magister
luxuriae. Al paragrafo 12 fa intervenire direttamente Paolo nel dibattito, per giustificare le
incongruenze del suo pensiero e dice che ha dato queste indicazioni per venire incontro alla
debolezza dei cristiani. Ecco il motivo della duplicità dei precetti. Con amarezza Girolamo, però,
ammette che Paolo consente le seconde nozze, dando una sorta di via libera a più matrimoni. Per
Girolamo l’ideale è l’Adamo monagamo, cardine dell’opera di Tertulliano.
16-40. Girolamo passa in rassegna tutti i testimonia citati da Gioviniano. Questa è una sezione
davvero molto lunga e ci sono digressioni di Girolamo che hanno sempre un valore. Da 16 a 25
dedica la sua attenzione all’AT; in 26-27 passa al Nt, specie quei passi citati dall’avversario; 28-31
florilegio di testi At (Proverbi, Salolomone, Cantico) che interpreta come poema sulla verginità; 32-
33 aggiunge testi profetci; 34-36 sottopone alla sua confutazione altre tre obiezioni di Gioviniano,
che facevano da corollario alla sua prima tesi: 1.i ministri son presi dai coniugati; 2.propagazione

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genere umano; 3. Sessualità rientra in un progetto naturale. In 37-40 Girolamo conclude con un
florilegio tratto dal Nt, concludendo con un rimando alla parabola delle dieci vergini e alle nozze di
Cana.

41-49: Citazioni ampie di filosofi e autori profani. E’ una confutazione attraverso testi profani.
Costruisce un elogio della castità costruito ricorrendo alla mitologia, alla storia profana e qui la sua
fonte principale diventa Porfirio. Questo è un passo originale di Girolamo: usa fonti pagane per
esaltare un valore cristiano come la verginità. Non ha remore di esporre storie di parti verginali
pagani affinchè la nascita verginale di Cristo non venga messa in discussione. Forse lo scopo è
convertire una certa aristocrazia ancora pagana mostrando la validità della fede cristiana. Esalta
anche le donne univire per correggere la concezione paolina delle seconde nozze (argomento a
fortiri come nella Decretale ad Gallos, dove si cita la castità dei sacerdoti pagani e leviti), il mos
maiorum.
Nel paragrafo 47 introduce un lungo estratto del libro del filosofo Teofrasto, in cui invita il saggio a
non sposarsi e nel 48 ci sono tutte le tipiche argomentazioni sulla natura cattiva delle donne.
Girolamo dice di aver scritto un Catalogus Feminarum (47).

II LIBRO
Nel II libro, in 38 paragrafi, Girolamo confuta le ultime tre tesi di Gioviniano.
1-4: confuta la seconda tesi, la garanzia salvifica del battesimo. L’idea di giovini ano è
ecclesiologica alla base, l’idea che la chiesa sia un corpo unico, organico, forte grazie al battesimo,
una cshiera compatta in cui tutti i nuovi battezzati formano un drappello invincibile.
Dall’uguaglianza di tutti i membri della chiesa deriva che il battesimo concede una indefettibilità
morale, perciò afferma che essi non possono essere tentati dal diavolo. Non è una tesi
sull’impeccantia ma è un sostenere l’idea che il battesimo ricevuto plena fide dal battezzato non lo
espone ai pericoli della tentazioni, citando la I lettera di Giovanni.
Girolamo risponde facilmente a questa tesi e un po’ frettolosamente citando testi della I Giovanni,
che mostrano che tutti i credenti possono cadere nel peccato. Girolamo conclude che se persino
Cristo èp stato tentato dal diavolo anche il credente lo sarà; il credente può resistere alla tentazione,
grazie al battesimo, ma se vive nella vigilanza e nella penitenza, prendendo le distanza da
montanisti e novaziani.
La terza tesi circa il digiuno e la bontà delle cose create va dal par. 5 al 17. Gioviniano afferma che
se non c’è differenza tra matrimonio e evrginità non c’è neanche tra digiuno e uso dei cibi.
Gioviniano dice che Cristo non ha dato esempio di digiuno ma di mangiare volentieri. Inoltre

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Gioviniano paragonava il digiuno cristiano a dei culti pagani della grande madre in cui gli adepti
per celebrare questa divinità si astenevano dal cibo.
Girolamo lo confuta ampiamente e si divide in due parti, solo che le due parti sono invertite perché
prima riporta dal 6 al 14 i testimonia pagani e poi dal 15 al 17 quelli scritturistici. Girolamo dice che
persino nelle opere dei pagani era prescritta il digiuno. Il nostro vuol però differenziarsi dalla eresia
encratita e dalla scuola pitagorica che eliminavano alcuni cibi.
Tutta questa sezione tratta da autori pagani ha come autore principale è Porfirio e il suo De
Abstinentia, anche se mai nominato, perché l’aristocrazia romana del IV secolo, specie quella
critica verso il cristianesimo, si basava su questo autore. Girolamo rende cosi porfirio un alletao
dell’ascetismo e del digiuno.
Nella parte biblica Girolamo corregge i testi citati da Gioviniano in modo sintomatico, partendo da
Adamo in paradiso e come faceva Ambrogio, lega il digiuno alla verginità e come in paradiso
esisteva solo la verginità così esisteva solo il digiiuno: l’assenza del digiuno causa il suo peccato.
Naturalmente infine Girolamo prende come esempio la coppia di Mose ed Elia sul Tabor (15) non
sono l’esempio della verginita e del matrimonio ma sono congiunti dal digiuno.
Inoltre prende Cristo che digiuna nel desrto e conclude dicendo che non condanna il cibo ma
preferisce il digiuno alla sazietà, il primo unito alla verginita la seconda al matrimonio.
La terza tesi rigurada l’uguaglianza di premio in paradiso. Girolamo dice che per questo Gioviniano
infiniti esempi tratti dalla Scrittura, che parlavno di una uguaglianza nella vita eterna, Anche qui
alla bsa c’è un idea ecclesiologica: alla fine del paragr. 19 cita delle parole del monaco. Gioviniano
dice che della Chiesa vergine e sposa fanno parte tutti e dunque tutti avranno la stessa ricompensa.
In 21-34 Girolamo confuta questa tesi. Girolamo concorda che ci siano due soli ordini, giusti e
peccatori, ma gli rimprovera di aver usato in modo distorto i testi scritturistici adoperati e conclude
con la parabola dei due talenti e la giusta interpretazione della parabola dei due figli.
La dottrina di Gioviniano su quseto punto diventava de responsabilizzante rifacendosi alla
concezione stoica che tutte le colpe sono uguali.
Nell’epilogo, 35-38, Girolamo fa una sorta di ricapitulatio, riassumendo il cammino fatto.
Al 35 ricapitola le tesi di Gioviniano e le sue confutazioni, in 36-37 fa una perorazione contro il
monaco e il paragrafo 38 termina con un’apostrofe a Roma, conclusione molto originale. Qui
l’invettiva e la satira danno il meglio di se. Girolamo ha gia dipinto piu volte l’ignoranza dialettica
di Gioviniano, come afferma pure nell’epistola 50. Girolamo, poi come Siricio, aveva capito la
pericolosità della dottrina giovinanea che poteva apparire cattolica ma che in realtà era eretica
perché distorceva le Scritture e lo definisce un Epicuro che conduce un gregge di porci. Questo

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serve solo a descrivere ironicamente la pericolosità di Gioviniano a Roma che è una reincarnazione
di Basilide, uno gnostico a Roma (37): per la prima volta Roma dà origine ad un’eresia.
Gioviniano involontariamente ha dato forza ai pagani che dopo la concessione dell’usurpatore
Eugenio vedeva con interesse le divisioni all’interno della Chiesa di Roma.

Spunti teologici.

Per Girolamo è abbastanza evidente che la perfezione della vita cristaina, al pari della conoscenza
della Scrittura, nella pratica della verginità.
Il rapporto che Girolamo istituisce tra matrimonio e verginità si fonda sulla superiorità del Nt
rispetto all’At, ponendo in antitesi i due stati di vita. Emblematiche le coppie che Girolamo adopera
per sintetizzare la storia della salvezza: (il numero pari è sempre una corruzione e la coppia indica
questo; la disparità perfezione e la verginità indica questo) Mosè e Giosuè, il primo sposato non
entra nella terra promessa, Giosuè, vergine, si e altre.
La teologia della verginità si fonda su Cristo: Cristo è vergine nella carne e monogamo nello spirito;
Maria è la primizia della verginità. Tutti coloro che ruotano attorno al Signore sono vergini per
Girolamo (starno che non compaia Giuseppe qui e il patriarca Giuseppe altro esempio di castità).
Non ultimi sono modelli di verginità Giacomo fratello del Signore e Giovanni l’apostolo, prediletto
dal Signore per la sua verginità a Pietro. IL Signore Vergine affidò al discepolo vergine la sua
madre vergine: l’apice della esaltazione della figura dell’apostolo.
Per Girolamo solo la verginità è la vera imitazione di Cristo.
Sulla base della maggior o minore assimilazione a Cristo vergine Girolamo designa i gradi della
vita cristiana: IL 100 è la verginità, il 60 la vedovanza, il 30 la castità coniugale.
Tutto è orientato alla castità.
Il matrimonio per Girolamo resta sempre una sorta di male minore: il matrimonio è lecito ma è
tollerato, perché comporta sempre una sorta di impurità.
Girolamo è pereoccupato di non spingersi verso il manicheismo ma anche quando afferma che le
nozze sono un dono nella Chiesa dice per il fatto che non sembri che lui stia condannando la natura.
Al paragrafo 40 del libro I Girolamo confuta la lettura di Gioviniano delle nozze di cana: dato che è
Cristo è venuta una sola volta alle nozze insegna che bisogna sposarsi una sola volta e non si limita
semplicemente a ratificare la bonta delle nozze.
Gli accusatori di questa visione Girolamo li trovò a Roma stessa: quando l’opera arrivò a Roma
Pammachio dovette ritirane le copie perché suscitava scandalo tra i monaci e gli sposati.

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Il monaco contro cui Girolamo polemizza nell’epistola 50 è Pelagio secodno alcuni, ma per Duval
no.

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