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Ispettoria ILS – “Madonna del Cenacolo”

La Spezia

PROGETTO PAROLA DI DIO E VITA SALESIANA


2018-2019

Paolo Veronese, San Giacomo Minore, particolare – Dublino, National Gallery of Ireland

Un anno in compagnia della Lettera di Giacomo


Strumento di formazione biblica e pastorale per le comunità
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PREMESSA
Continuando il nostro percorso di approfondimento della Bibbia quest’anno
ritorniamo al Nuovo Testamento e approfondiamo la Lettera di Giacomo perché
segni e accompagni il nostro itinerario educativo-formativo come comunità
educante dell’Ispettoria
La lettera di Giacomo ha rappresentato nel panorama degli scritti neotestamentari
un caso alquanto singolare ed enigmatico così da farne risaltare anche la sua
particolarità.
L’assenza di espliciti riferimenti al ministero di Gesù, alla sua morte e alla sua
risurrezione, ha talora posto in dubbio la sua origine cristiana. A ciò, va aggiunta la
difficolta di identificarne l’autore, i destinatari, il tempo e il luogo di composizione e
la problematicità nel tracciarne una struttura letteraria dai contorni ben definiti.
L’interesse verso la lettera di Giacomo sta vivendo, da alcuni decenni, una nuova
stagione. Questo ha portato a valutare lo scritto di Giacomo non più come un
semplice assemblaggio di tradizioni isolate, ma come la proposta di un progetto di
vita coerente per i credenti.
Le sentenze della tradizione sapienziale non sono semplicemente riprese, ma
riformulate e ricreate in modo originale sulla base della nuova esperienza di fede
cristiana.
La natura pseudo-epigrafica dello scritto rimanda a quella tradizione apostolica
attraverso cui vi è il legame con la persona di Gesù Cristo ed è un preciso indizio
dell’attualizzazione e dell’impegno scaturito dalla fede delle prime comunità
cristiane. La tradizione apostolica dell’annuncio è inseparabile dall'insegnamento e
dalla testimonianza degli stessi apostoli, che diviene norma di fede per i credenti di
ogni tempo.
La comprensione del testo è strettamente legata alla sua forma. II modo di
argomentare è serrato e procede per contrasti. Forte è il pathos comunicativo che,
ricorrendo a tutte quelle vivide immagini della tradizione biblica unite ad una
sensibilità retorica, suscita profondi interrogativi negli ascoltatori di ieri e di oggi.

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Le qualità dello scrittore, le significative scelte di contenuto e di stile, permettono di
cogliere la realtà e il valore della Parola per un impegno di testimonianza dinamico
e autentico nella storia.
Per questo, l’approfondimento della Lettera di Giacomo con la sua forte dimensione
comunitaria e la grande attenzione alla concretezza della vita potrà aiutare a rileggere
la nostra stessa esperienza comunitaria e richiamaci alla necessità di vivere
testimoniando, con la coerenza che ci è possibile, la fede che professiamo.
Nello strumento che offriamo, trovate una breve presentazione delle Lettere
Cattoliche, della cui raccolta fa parte la Lettera di Giacomo, la presentazione del
testo, un commento al testo e l’approfondimento di alcuni temi specifici.

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LE LETTERE CATTOLICHE
Le sette lettere del Nuovo Testamento, che non sono di san Paolo, furono ben presto
raccolte in una sola collezione, nonostante la loro origine diversa: una di san Giacomo, una
di san Giuda, due di san Pietro, tre di san Giovanni.
II titolo molto antico di «cattoliche» deriva forse dal fatto che la maggior parte di esse non
è indirizzata a comunità o persone particolari, ma riguardano piuttosto i cristiani in
generale.

La lettera di Giacomo non fu subito accolta nella Chiesa. Quando le chiese accettano la
canonicità di questa lettera, identificano comunemente il suo autore con quel Giacomo
«fratello del Signore» il cui ruolo così distinto nella prima comunità di Gerusalemme, fu
coronato dal martirio per mano dei giudei verso l’anno 62. Evidentemente questo
personaggio è distinto dall'apostolo Giacomo, figlio di Zebedeo, che Erode fece uccidere
nel 44: ma si potrebbe pensare di identificarlo con l’altro apostolo che aveva questo nome,
il figlio di Alfeo. Già gli antichi esitavano su questa identificazione e i moderni ne discutono
ancora.
Del resto, il vero problema si situa altrove e in modo più profondo. Consiste nella
attribuzione stessa della lettera a Giacomo, «fratello del Signore». Questa attribuzione,
infatti, non è senza difficoltà. Se realmente fosse stata scritta da questa personalità di
primo piano, non si comprenderebbe la difficolta che essa incontrò per imporsi alla chiesa
come scrittura canonica.
Inoltre, è stata scritta direttamente in greco, con un‘eleganza, una ricchezza di vocabolario,
un senso della retorica che sorprenderebbero molto in un galileo; forse Giacomo avrebbe
potuto farsi aiutare da un discepolo dotato di una discreta cultura ellenica, ma è una
congettura impossibile a dimostrarsi. Infine la lettera presenta un’affinità molto rilevante
con scritti la cui composizione si situa verso la fine del I sec. o all’inizio del II, specialmente
la prima lettera di Clemente romano e il Pastore d’Erma. Si è spesso affermato che queste
due opere avevano largamente utilizzato la lettera di Giacomo, ma oggi si riconosce
sempre più che queste affinità possono essere spiegate dalla utilizzazione di fonti comuni
e dal fatto che gli autori di queste differenti opere dovevano affrontare difficolta analoghe.
Di conseguenza, numerosi autori oggi pongono la composizione della lettera di Giacomo
verso la fine del I sec. o all’inizio del II.
Il carattere arcaico della sua cristologia verrebbe spiegato non dall’antichità della sua
redazione, ma perché emanerebbe da ambienti giudeo-cristiani, eredi del pensiero di
Giacomo, fratello del Signore, e chiusi agli sviluppi della teologia cristiana primitiva.
Questo scritto vuol raggiungere le «dodici tribù della diaspora», cioè forse i cristiani di
origine giudaica dispersi nel mondo greco-romano, soprattutto nelle regioni confinanti
con la Palestina, quali la Siria o l’Egitto. Che questi destinatari siano convertiti dal
giudaismo, è confermato dal corpo della lettera. L’uso costante che l'autore fa della Bibbia
lascia supporre che essa sia loro familiare, tanto più che l'autore nelle sue argomentazioni
procede più per reminiscenze spontanee e allusioni che soggiacciono ovunque, che per
citazioni esplicite. Si ispira particolarmente alla letteratura sapienziale per derivarne lezioni
di morale pratica, ma dipende anche profondamente dagli insegnamenti del Vangelo, il
suo scritto infatti non è puramente giudaico, come talvolta si è preteso. Vi si ritrovano,
invece, continuamente, il pensiero e le espressioni preferite di Gesù, anche in questo caso,
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più come utilizzazione di una tradizione orale viva, che per citazioni esplicite, prese da una
tradizione scritta.
In conclusione, è un saggio giudeo-cristiano che ripensa in modo originale le massime
della sapienza giudaica in funzione del compimento che esse hanno ricevuto sulla bocca
del Maestro.
Lo scritto si piega con molte difficolta allo stile epistolare. È quindi da considerarsi una
omelia, un saggio di quella catechesi che doveva essere in uso nelle assemblee giudeo-
cristiane del tempo. Vi si trovano una serie di esortazioni morali, collegate senza uno
stretto legame, sia in gruppi di sentenze sullo stesso argomento, sia per assonanze verbali.
Si tratta di pensieri sulla sopportazione delle prove, sull’origine della tentazione, o sul
controllo della lingua, sull’importanza della concordia e della misericordia, sull'efficacia
della preghiera. Il sacramento dell’unzione degli infermi ha un suo luogo teologico proprio
in questa lettera.
Due temi principali occupano tutta l’esortazione.
Uno esalta i poveri e riprende severamente i ricchi: questa sollecitudine verso gli umili, i
favoriti di Dio, si ricollega a una antica tradizione biblica e in modo speciale alle beatitudini
del Vangelo.
L'altro insiste sulla realizzazione di opere buone e mette in guardia da una fede sterile. Su
questo punto c’è anche una discussione polemica, che molti interpreti credono diretta
contro Paolo. Bisogna, infatti, riconoscere che vi sono contatti molto significativi tra
Giacomo e Galati-Romani, specialmente nella differente interpretazione degli stessi testi
biblici su Abramo. Non è impossibile che Giacomo abbia voluto opporsi, se non allo stesso
Paolo, almeno ad alcuni cristiani che deducevano dalla sua dottrina conseguenze nefaste.
Bisogna però ritenere due cose: innanzitutto, al di là di una opposizione superficiale
richiesta da situazioni differenti, Paolo e Giacomo sono d’accordo sulla sostanza; inoltre,
questo tema della fede e delle opere, che veniva sollevato dai dati stessi della religione
giudaica, poteva benissimo essere un argomento tradizionale di discussione che i due
autori hanno trattato in maniera indipendente.

Anche Giuda che si dice «fratello di Giacomo», sembra presentarsi come uno dei «fratelli
del Signore». Niente obbliga a identificarlo con l’omonimo apostolo; anzi egli stesso si
distingue dal gruppo apostolico.
In realtà, già dall’anno 200 questa lettera era stata accolta come Scrittura canonica dalla
maggior parte delle chiese. L’uso di fonti apocrife ha fatto sorgere qualche dubbio fin
dall’antichità, ma non c’è problema, il ricorso a scritti giudaici allora diffusi è legittimo e
non equivale in nessun modo a riconoscere loro un carattere ispirato.
Tutto lo scopo di Giuda consiste nello stigmatizzare i falsi dottori che mettono in pericolo
la fede cristiana. Minaccia loro una punizione divina, illustrata da precedenti della
tradizione giudaica; anche la descrizione che dà dei loro errori sembra influenzata da
questi ricordi del passato. I vizi e la licenza morale che rimprovera loro, soprattutto le loro
bestemmie contro il Cristo Signore e gli angeli, erano presenti nell’ambito del cristianesimo
fin dal I secolo, dovuti all’influsso delle tendenze sincretiste, denunciate dalla lettera ai
Colossesi, dalle Lettere Pastorali e dall’Apocalisse. Alcune caratteristiche invitano però a
non risalire troppo indietro nel I sec. La predicazione degli apostoli è collocata nel passato;
la fede è concepita come un dato oggettivo «trasmesso una volta per tutte»; le lettere di

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Paolo sembrano utilizzate. È vero che la seconda lettera di Pietro utilizza a sua volta quella
di Giuda, ma, come diremo subito, essa può essere posteriore alla morte di Pietro. In
conclusione si pensa agli ultimi decenni dell’epoca apostolica.

Due lettere cattoliche si presentano come scritte da san Pietro.


La prima, che nell’indirizzo iniziale porta il nome del principe degli apostoli, è stata accolta
senza discussione fin dagli inizi della chiesa: utilizzata probabilmente da Clemente di Roma
certamente da Policarpo, è attribuita esplicitamente a Pietro a partire da Ireneo. L’apostolo
scrive da Roma; dove si trova con Marco che chiama «suo figlio». Benché siamo molto
poco informati sulla fine della sua vita, una tradizione assai sicura lo fa effettivamente
venire nella capitale dell’impero, dove morì martire sotto Nerone. La Prima Lettera di Pietro
si rivolge ai cristiani della «diaspora», precisando i nomi di cinque province, che
praticamente rappresentano l'insieme dell’Asia Minore. Ciò che dice del loro passato
suggerisce che essi sono convertiti dal paganesimo, benché non sia esclusa la presenza tra
loro di giudeo-cristiani, perciò scrive loro in greco. E se questo greco, semplice ma corretto
e armonioso, sembra di qualità troppo buona per il pescatore galileo, noi conosciamo il
nome del discepolo-segretario che ha potuto assisterlo nella redazione: Silvano,
comunemente identificato con l’antico compagno di Paolo.
Lo scopo di questa lettera è quello di sostenere la fede dei suoi destinatari in mezzo alle
prove che li assalgono. Qualcuno ha voluto vedervi persecuzioni ufficiali come quelle di
Domiziano o anche di Traiano, cosa che farebbe supporre un periodo molto posteriore a
Pietro, ma le allusioni della lettera non autorizzano nulla di simile. Si tratta, piuttosto, di
angherie private, ingiurie e calunnie che la purezza di vita dei convertiti attira loro addosso
da parte di coloro le cui sregolatezze essi hanno abbandonato.
Un'altra difficolta è stata sollevata contro l'autenticità della lettera: l’uso considerevole che
sembra fare di altri scritti del Nuovo Testamento, soprattutto Giacomo, Romani, Efesini; ciò
sorprende, tanto più che il Vangelo sembra poco utilizzato. Tuttavia, anche le reminiscenze
evangeliche sono numerose, pur restando discrete; se fossero più evidenziate, si sarebbe
portati a dire che uno pseudonimo ha cercato di farsi passare per Pietro. Quanto ai contatti
con Giacomo e Paolo, non devono essere esagerati. Nessun tema specificamente paolino
appare nella lettera. E molti di quelli che vengono considerati «paolini», in quanto noti
soprattutto attraverso le lettere di Paolo, di fatto sono patrimonio comune della prima
teologia cristiana. I lavori della critica ammettono l’esistenza di formulari di catechesi
primitive di testi dell’Antico Testamento, che hanno potuto essere utilizzati parallelamente
dai diversi scritti in causa, senza che ci sia tra di loro una dipendenza diretta. Se
nondimeno resta un certo numero di casi precisi in cui la prima lettera sembra ispirarsi
realmente a Romani o a Efesini, ciò può essere ammesso senza rifiutarne l’autenticità:
Pietro non possedeva la forza teologica di Paolo e ha potuto ricorrere agli scritti di
quest’ultimo, soprattutto quando si rivolgeva, come in questo caso, a circoli di influsso
paolino. Non bisogna dimenticare nemmeno che il suo segretario Silvano era discepolo dei
due apostoli. Infine, è giusto segnalare, accanto a queste affinità paoline, le
interdipendenze che alcuni interpreti hanno creduto di scoprire tra la Prima lettera di
Pietro e altri scritti di ambiente petrino, come il secondo Vangelo o i discorsi di Pietro negli
Atti.

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La lettera dovrebbe essere anteriore alla morte di Pietro, 64 o 67, benché Silvano possa
averla completata qualche anno più tardi, seguendo le sue direttive e sotto la sua autorità.
Di portata essenzialmente pratica, questo scritto contiene anche una apprezzabile
ricchezza dottrinale. Vi si trova un meraviglioso riassunto della teologia cristiana comune
all’epoca apostolica, un calore commovente nella sua semplicità. Una delle idee
fondamentali verte sulla coraggiosa sopportazione delle prove, avendo il Cristo per
modello: come Lui, i cristiani devono soffrire con pazienza, felici se le loro tribolazioni
derivano dalla loro fede e dalla loro condotta santa, opponendo al male solo il bene, la
carità, l’obbedienza ai pubblici poteri e la dolcezza verso tutti.
Non c’è dubbio che anche la seconda lettera si presenti come scritta da Pietro. L’apostolo
non soltanto si nomina nell'indirizzo, ma fa anche allusione all'annuncio di Gesù circa la
sua morte e dice che è stato testimone della trasfigurazione. Inoltre, fa allusione a una
prima lettera che non può essere che la Prima Lettera di Pietro.
Se scrive una seconda volta agli stessi lettori, lo fa con un duplice disegno: metterli in
guardia contro i falsi dottori e rispondere all’inquietudine causata dal ritardo della parusia.
A rigor di termini, questa inquietudine e questi falsi dottori possono essere esistiti sin dalla
fine della vita di Pietro, ma vi sono altre considerazioni che mettono in forse l’autenticità
della lettera e suggeriscono una data più tardiva. La lingua ha notevoli differenze rispetto
alla Prima Lettera. Tutto il capitolo 2 riprende liberamente, ma chiaramente, la lettera di
Giuda. Il gruppo apostolico è messo sullo stesso piano del gruppo profetico e l'autore
parla come se non ne facesse parte. Queste difficolta autorizzano dubbi che si sono
manifestati fin dall’antichità. Non solo l'uso della lettera non è attestato con certezza prima
del III secolo, ma, in più alcuni la rigettavano. Anche molti critici moderni si rifiutano di
attribuirla a Pietro ed è difficile dar loro torto. Tuttavia, se un discepolo posteriore si è
coperto dell’autorità di Pietro, forse aveva qualche diritto a farlo, sia che appartenesse ai
circoli che dipendevano dall’apostolo, sia che utilizzasse uno scritto proveniente da lui,
adattandolo e completandolo con l’aiuto di Giuda. Questo non significa necessariamente
creare un «falso», perché gli antichi avevano idee diverse dalle nostre sulla proprietà
letteraria e sulla legittimità della pseudonimia.

Oltre il Vangelo, tre lettere di Giovanni ci sono state conservate dalla tradizione. Esse
presentano una tale parentela letteraria e dottrinale con il Vangelo, che è difficile non
attribuirle allo stesso autore, l’apostolo Giovanni. La seconda e la terza lettera, è vero,
hanno dato luogo a esitazioni di cui si trova eco in Origene, Eusebio di Cesarea, Girolamo;
per lungo tempo non furono accolte nella chiesa d’Antiochia e nelle chiese della Siria, ma
non si vede come tali lettere, semplici biglietti di circostanza senza importanza dottrinale,
sarebbero riuscite a imporsi, se realmente non fossero state opera di san Giovanni.
La terza lettera è verisimilmente la prima in ordine di tempo; tende a regolare un conflitto
d’autorità sorto in una chiesa che dipendeva dall’autorità dell’apostolo.
La seconda lettera mette in guardia un‘altra chiesa particolare contro la propaganda dei
falsi dottori che negavano la realtà dell’incarnazione.
Quanto alla prima lettera, assolutamente più importante, si presenta piuttosto come una
lettera enciclica destinata alle comunità dell’Asia minacciate dalle lacerazioni delle prime
eresie. Giovanni vi ha condensato l’essenza della sua esperienza religiosa. Partendo da temi
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paralleli successivi (luce; giustizia; amore; verità), egli vuol mostrare l’intimo legame che
esiste necessariamente tra il nostro stato di figli di Dio e la rettitudine della nostra vita
morale, considerata come fedeltà al duplice comandamento della fede in Gesù Cristo, figlio
di Dio, e dell’amore fraterno. Per lo stile e la dottrina, questa è la lettera che si avvicina di
più al Vangelo; deve dunque esserne contemporanea.
(Cfr. La Bibbia di Gerusalemme, Commento di Gianfranco Ravasi, Vol. X-XII)

Gli apostoli – Affresco della Pieve di San Bartolomeo – Bornato (BS)

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LA LETTERA DI GIACOMO

INTRODUZIONE AL TESTO

AUTORE, DATA E LUOGO DI COMPOSIZIONE


Il mittente nell’indirizzo della lettera è designato con il nome greco Iakdbos, una forma
grecizzata dell’ebraico Giacobbe, che ricorre 42 volte nel Nuovo Testamento e di cui diversi
personaggi portano il nome. Due di essi appartengono al gruppo dei dodici: Giacomo,
figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni, messo a morte da Erode Agrippa verso l’anno
42/44 e Giacomo figlio di Alfeo. Un terzo personaggio, chiamato Giacomo, è «il fratello del
Signore» che, senza essere apostolo, ebbe un ruolo di primo piano nella Chiesa madre di
Gerusalemme e la cui morte violenta avvenne nel 62 d.C.
Si parla anche di Giacomo figlio di Maria, chiamato il minore, e di un Giacomo, padre di un
apostolo chiamato Giuda, menzionato solo da Luca.
Inoltre la lettera fu riconosciuta come canonica solo tardivamente, cosa questa che non
potrebbe spiegarsi se dietro ci fosse stata una così autorevole personalità.
L’identificazione del mittente resta quindi incerta. L’ipotesi più plausibile sembra essere che
l’autore, ponendo lo scritto sotto l’autorità di un personaggio autorevole della prima
generazione cristiana, attraverso il fenomeno della pseudonimia, abbia voluto dare
maggiore sostegno alle raccomandazioni contenute nel testo, senza escludere la possibilità
che dietro di lui si possa essere raccolta la tradizione risalente a quel Giacomo che ebbe un
ruolo importante nella comunità di Gerusalemme. Il nome stesso sembra richiamare il
progenitore delle “dodici tribù di Israele” che nel Nuovo Testamento è citato diverse volte
e nella lettera agli Ebrei viene esaltato come modello esemplare di fede.
La tradizione cristiana antica identificava l’autore della lettera con Giacomo, il fratello del
Signore, che insieme a Pietro guidò la Chiesa di Gerusalemme e fu martirizzato nel 62 d.C.
Le ipotesi sulla paternità letteraria dello scritto condizionano le risposte sulla data e sul
luogo di composizione.
Coloro che ritengono Giacomo di Gerusalemme autore reale della lettera collocano la
datazione non più tardi del 70; vi è anche chi ipotizza che, data l’essenzialità della
composizione, sia da ritenere uno degli scritti più antichi del Nuovo Testamento.
I sostenitori della pseudonimia reputano, invece, verosimile di doverne spostare la
cronologia alla fine del I secolo o all’inizio del II per la forma letteraria e la prioritaria
preoccupazione di consonanza con il patrimonio di fede cristiano. Le medesime soluzioni
proposte sull’identità dell’autore influenzano l’individuazione del possibile luogo di
composizione. Esso andrebbe situato nella regione siro-palestinese o eventualmente a
Gerusalemme nel caso in cui fosse opera del “fratello di Gesù”; viceversa, per i fautori della
pseudonimia, luogo naturale di composizione sarebbe la citta di Alessandria d’Egitto,
giacché in questo luogo appaiono le prime testimonianze a favore dello scritto così in
sintonia con l’ambiente culturale e religioso da esso presupposto: l’autore è giudeo-
cristiano colto, conoscitore del mondo ellenistico e della tradizione biblica.

DESTINATARI E AMBIENTE CULTURALE


L’autore si rivolge alle dodici tribù disperse nel mondo, ma intende con questa espressione
la Chiesa come Israele dei nuovi tempi. I destinatari sono più volte interpellati come
“fratelli miei”, “fratelli amati”, non solo al fine di sollecitare i credenti a un impegno attivo e
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fecondo nella storia, ma per stabilire con loro una comunione di fede feconda. Gli indizi
presenti nello scritto lasciano ipoteticamente supporre che la comunità appartenga a una
classe sociale medio-bassa, ma vi partecipano anche commercianti e proprietari terreni
verso i quali sembrano esserci atteggiamenti di eccessiva ossequiosità al punto da
suscitare tensioni interne.
Non vi sono elementi decisivi che possano far pensare a un confronto tra cristiani di
origine giudaica e cristiani di origine pagana. Un’indicazione di massima può essere
dedotta dall’ambiente e dalla tradizione a cui sembra richiamarsi.
La lettera di Giacomo contiene riferimenti espliciti ed allusioni implicite (circa quaranta
casi) all’Antico Testamento ripresi dalla Bibbia greca, la Settanta, con preferenza per la
lettura sapienziale ed i Salmi.
Il collegamento con gli elementi giudaici non costituisce un sistema chiuso; l’autore li
rielabora personalmente e segue una sua linea. Ad esempio, la legge è interpretata come
“legge di libertà” e le opere sono intese non come un sistema esterno, ma come prodotto
d’interiorità. Egli trae con competenza anche dall’ambiente culturale ellenistico forme
espressive, immagini e concetti che meglio potevano esprimere le proprie riflessioni ed i
propri moniti: sono state riscontrate affinità con brani di Plutarco, Epitteto, Platone, Filone
Alessandrino e Seneca. La lettera si colloca, dunque, tra due mentalità culturali, quella
giudaica e quella ellenistica.
Si notano contatti con la tradizione sinottica ed in particolare con quella di Matteo. Molto
forte è il parallelismo della lettera di Giacomo con la prima lettera di Pietro per quanto
riguarda la tradizione esortativa; differente è l’accento che si pone sulla tradizione rispetto
a quanto si può riscontrare nell’epistolario paolino, ma possono tuttavia stabilirsi dei
confronti. Nella lettera di Giacomo è confluita quella specifica tradizione cristiana che,
avendo come fondamento il messaggio di Gesù, si è sviluppata nella catechesi come
conseguenza derivante dalla novità battesimale.

INSERIMENTO NEL CANONE


I dubbi sorti circa l’attribuzione della lettera all’apostolo Giacomo hanno influenzato il suo
riconoscimento nelle Chiese delle origini, alimentando così una confusione tra l’autenticità
di attribuzione all’autore e la canonicità, basata sulla validità dei contenuti.
La più antica testimonianza è quella di Origene che cita espressamente la lettera di
Giacomo come parte della Bibbia ed attesta l’esistenza della sua tradizione presso la
Chiesa egiziana già dal II secolo.
In Palestina, verso il 312, Eusebio di Cesarea ricorda che lo scritto, pur facendo parte delle
lettere lette insieme alle altre in un gran numero di Chiese, appartiene ai libri discussi.
La lettera di Giacomo risulta assente nel Canone Muratoriano ed in Occidente sarà
utilizzata soltanto nel IV e V secolo, anche se tracce di riferimenti si possono trovare negli
scritti dell’epoca subapostolica di Clemente Romano, in Giustino ed altri.
Girolamo, pur accettandoli, mostra delle riserve. All’inizio del V secolo, dopo i concili
africani, fu inserita nella lista ufficiale degli scritti ispirati. Il Concilio di Trento ufficializzerà
la canonicità dello scritto nel 1546.

PARTICOLARITÀ STILISTICHE
L’estensore dello scritto sembra possedere una buona conoscenza della lingua greca. In
108 versetti sono adoperati 557 termini, di cui circa 350 utilizzati una sola volta nel corso

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della lettera, 63 sono unici nel panorama letterario del Nuovo Testamento, 18 del tutto
originali e circa quattro non compaiono nel greco ellenistico. Il testo si presenta ricco di
immagini, i termini scelti, verbi, sostantivi e aggettivi sono raffinati, denotano sensibilità
espressiva e comunicativa.
Le argomentazioni passano attraverso la concatenazione di frasi in cui le parole utilizzate, a
seconda dei casi, ampliano il discorso o introducono una nuova trattazione; espressioni
semplici e lapidarie sintetizzano il suo pensiero piuttosto che svolgere ampie trattazioni.
L’autore ama procedere per contrasti, esemplificazioni, evocare paragoni ed immagini,
porre interrogativi, elencare vizi e virtù, privilegiare immagini intense e contrasti acuti,
seguire lo stile profetico-apocalittico di minaccia.
Si nota l’inclinazione alla drammatizzazione, il ricorso a una sottile e forte ironia, la
predilezione di vocaboli provenienti dalla stessa radice per formare giochi di parole,
l’utilizzo del chiasmo e del parallelismo antitetico.
L’attenzione per una certa disposizione retorica è anche evidenziata da alcune scelte
stilistiche quali l’utilizzo della diatriba, le domande retoriche, gli esempi ipotetici, gli esempi
tratti dalla Scrittura, la paronomasia, l’ironia, il dialogo immaginario, l’invettiva.
L’autore dimostra di padroneggiare la cultura semitica ispirandosi, per le sue esortazioni,
alla tradizione parenetica biblico-giudaica della letteratura sapienziale, sia per il contenuto
sia per lo stile.

GENERE LETTERARIO
Se l’indirizzo iniziale potrebbe subito far pensare a una lettera, il seguito dello scritto lascia
emergere che si è ben lontani dal tipico genere epistolare: non vi è alcuna menzione di
relazioni personali tra destinatario e mittente; non vi è traccia di quel dialogo con cui è
ristabilita una relazione interpersonale interrotta; l’assenza dei saluti finali suscita
l’impressione di una conclusione brusca e improvvisa.
L’andamento del discorso perde completamente il tono di una lettera per assumere quello
omiletico della tradizione cristiana, sul modello delle omelie sinagogali e della tradizione
sapienziale. L’autore sembra piuttosto rivolgersi a degli ascoltatori, per i quali lascia
emergere una forza argomentativa che trova le sue ragioni all’interno di una fede autentica
e per nulla suggerita da un mero esercizio persuasivo retorico. Esortazione e dissuasione
procedono entrambe, nella stessa direzione, al fine di evitare non solo le possibili
conseguenze per il presente ed il futuro, ma soprattutto per possedere con chiarezza i
risvolti di una fede vissuta in autenticità.
La numerosa presenza di imperativi, circa 59, la ripresa di tradizioni, proverbi della
tradizione sapienziale (Proverbi, Siracide, Sapienza) e della filosofia popolare ellenistica e di
alcuni detti della tradizione evangelica, mettono in evidenza lo scopo prevalentemente
etico dello scritto.

CONTENUTO E STRATEGIA COMPOSITIVA


La ricerca per stabilire la struttura della lettera di Giacomo, cioè la coerenza tra le parti nel
quadro di una logica globale, non sempre ha dato esiti fruttuosi, proprio per la specifica
natura del testo. Un primo impatto con lo scritto giacobeo può dare l'impressione di
trovarsi davanti ad una successione di affermazioni o sentenze tra loro poco collegate,
ragion per cui spesso è stato considerato un assemblaggio di proposizioni riprese dalla
tradizione sapienziale. È necessario allora lasciarsi guidare dall’autore della lettera che, dal

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punto di vista stilistico, nel suo modo di argomentare, ispirandosi alla tradizione parenetica
biblico-giudaica della letteratura sapienziale, sviluppa con armonia un discorso che è in
continuo movimento con digressioni e nuove focalizzazioni che interagiscono tra loro e
suscitano l’attenzione/reazione degli ascoltatori.
L’azione comunicativa tra l‘autore e i suoi interlocutori si estende in un contesto culturale
condiviso che, riprendendo il ricco bagaglio della tradizione sapienziale biblica, gli
permette di evocare, sia pure attraverso sequenze apparentemente staccate, la
progressione delle sue argomentazioni.
L’applicazione del metodo retorico antico, difficilmente riesce ad incanalare la lettera di
Giacomo in una vera e propria opera prodotta secondo i canoni della manualistica di una
scuola retorica, tuttavia riesce a far intravedere una strategia comunicativa che, influenzata
dalla cultura del tempo, di cui la retorica rappresenta un codice culturale di comunicazione
di primaria importanza, esprime una matrice unitaria di fondo che collega le varie parti del
discorso esortativo.
Dopo l’indirizzo e il saluto epistolare, l’esordio della lettera pone l’attenzione sulla
molteplicità delle prove/tentazioni in cui il cristiano si imbatte, con l’invito a viverle nella
gioia poiché il cammino di fede si concretizza attraverso il loro superamento: un cammino
di perfezione passa attraverso la richiesta a Dio della sapienza, consapevoli della propria
povertà e della necessita di viverla in piena comunione con lui.
Un simile progetto di vita richiede di essere consapevoli del processo che si innesca
quando ci si trova di fronte alle tentazioni: la bramosia e il superamento di ogni forma di
autoinganno che impedisce un‘autentica religiosità. Quest’ultima rappresenta il tema di
fondo che unifica le diverse parti del discorso e costituisce la tesi dell’autore.
Il secondo capitolo approfondisce dal punto di vista tematico quelle asserzioni conclusive,
concise e lapidarie di 1,26-27 e sviluppa il corpo dello scritto con l’esposizione delle
differenti motivazioni e la confutazione delle tesi contrarie.
Il rapporto tra l’autentico ascolto della Parola che conduce alla messa in pratica viene
esteso ed esplicitato attraverso l’esame attento del caso riguardante “i favoritismi” e
fortemente motivato dalla riflessione sul rapporto fede-opere. L’intero secondo capitolo è
dunque formato da due brani che seguono un analogo sviluppo: si aprono con un
annuncio tematico per giungere alle rispettive conclusioni. I lettori/ascoltatori sono così
posti nella condizione di avere piena consapevolezza di ciò che si dovrebbe o non si
dovrebbe operativamente intraprendere in vista di una fede autentica. Le argomentazioni
di Giacomo hanno poco a che fare con le questioni squisitamente paoline, come ad
esempio quelle riguardanti le comunità cristiane della Galazia che annettevano un “valore
salvifico” alle opere della Legge, complementari all’unico evento salvifico costituito dalla
morte e risurrezione di Gesù Cristo. Giacomo, al contrario, non vuole condurre i suoi
interlocutori verso una sorta di legalismo o precettistica, ma vuole aiutarli a comprendere
ciò che è implicato nella professione di fede in Gesù Cristo: un’autentica testimonianza di
fede si concretizza attraverso una prassi di vita seriamente impegnata.
Le relazioni con il prossimo procedono attraverso la comunicazione, ossia la parola,
pertanto l’invito pressante a sapersi controllare nel parlare, ad essere capaci di operare un
discernimento per evitare di ergersi a maestri sugli altri e di impartire insegnamenti
erronei, si basa sulla consapevolezza che la parola può divenire uno strumento veramente
pericoloso per la vita e la crescita della comunità.

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Non solo al maestro, ma a ogni credente è richiesto di “essere sapiente”, perché la ricerca
dell’autentica sapienza che viene dall’alto è espressione di un progetto di vita coerente con
la piena adesione alla Parola, i cui frutti si rendono evidenti. Ciò che si radica nella sapienza
mondana è nefasto e ostacola la crescita della comunità.
Un’improvvisa apostrofe chiama il lettore/ascoltatore direttamente in causa, così da
rimarcare la forza persuasiva e pedagogica di tutto il ragionamento, per invitarlo a
riflettere su ciò che discrimina la coerenza o l’incoerenza dell’agire e sollecitarlo ad un
cammino di conversione verso Dio e verso i fratelli.
Asserita l’inimicizia tra Dio e mondo, due esempi negativi, quello del commerciante e del
ricco possidente, chiariscono ciò che procede da una sapienza esclusivamente mondana: la
sicurezza di sé e le false aspettative provenienti dalle ricchezze.
Le esortazioni finali riassumono quanto l’autore della lettera ha esposto nel corso dello
scritto, raccomandando la paziente attesa del Signore, la preghiera e la solidarietà nella
fede. La sezione conclusiva può essere considerata, dal punto di vista retorico, un epilogo
con cui si rendono evidenti le ragioni dell’intero discorso orientato a modificare la prassi
degli ascoltatori-lettori. Il ricordo della parusia rende urgente e necessaria la risposta
sapiente della comunità, chiarendo che il futuro sarà determinato da ciò che si opera nel
presente.
(Cfr. Rosario Chiarazzo, Lettera di Giacomo, Città Nuova Editrice, 2011)

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PROSPETTIVA TEOLOGICA
Il discorso persuasivo della lettera di Giacomo ha come obiettivo un progetto di vita
integro, conseguenza della fede ricevuta nel Battesimo, per un autentico rapporto con Dio
e con i fratelli.
A tal fine, è tracciato un cammino di “perfezione” che non ha semplici finalità esteriori di
comportamento, quanto piuttosto l’indivisibilità del credente, ossia il coinvolgimento
totale del credente per divenire un cristiano adulto.
La Parola “impiantata” è quella Parola di verità mediante la quale è avvenuta la
generazione dei credenti per libera iniziativa di Dio e che nella sua attuazione salva e rende
liberi.
L’apparente molteplicità dei temi trattati, quali la tentazione, la povertà e la ricchezza, la
perfezione e l’intemperanza, la preghiera, la bontà di Dio, la coerenza tra parole e azioni, la
coesione tra fede ed opere, la misericordia, la sapienza, la discordia, l’amicizia, la gioia, la
pazienza, l’atteggiamento nei confronti del mondo, la malattia, rappresentano l’esigenza di
una trasformazione dei propri criteri valutativi per godere di quella nuova nascita frutto
dell’iniziativa libera e gratuita di Dio e donata al credente da Gesù Cristo per mezzo del
suo mistero di morte e risurrezione.
Nella ricerca della sapienza è donata la risposta alle molteplici domande sul significato
della vita e del mondo, poiché fondata non su una semplice osservazione della realtà, ma
sulla fede in Dio: è la scoperta di un’intima presenza che dà valore al mondo e alla storia di
ogni individuo.
Saggio è chi entra in comunione con la sapienza, una relazione di amore che permette di
scoprire l’alterità di Dio. La Parola di verità è capace di dare una risposta alla ricerca
dell’uomo se si apre ai doni di Dio.
Nella “giustizia di Dio” è racchiuso il molteplice contenuto di una verità con cui nelle
pagine della Bibbia è sintetizzato l’agire divino: Dio è giusto in quanto è fedele alle sue
promesse di salvezza e realizza concretamente ciò che promette. Egli è il solo che nella sua
misericordia rende giusto l’uomo, lo salva in virtù della libera decisione della sua grazia.
Chiedersi “ciò che è giusto” è interrogarsi sul rapporto personale con Dio, sul cercare il suo
volto per plasmare l’esistenza in unione con la sua volontà.
Tutto questo si traduce, allora, in un impegno attivo nella storia, in un dinamismo che
produce nuove condizioni di vita in vista del pieno compimento salvifico. Al contrario, il
rinnegare l’intima armonia vitale che conduce alla salvezza attraverso un agire empio, è
rivelatore di una profonda inconsistenza interiore.
Ciò che uno è, quello che fa e quel che dice, costituisce un’unità inseparabile così come lo
sono l’albero e i suoi frutti. Le parole sono la misura della rettitudine morale e spirituale del
credente che esprimono in superficie ciò che egli è nell’intimo.
La sapienza di Dio si rende evidente tramite i suoi frutti, poiché non si tratta di considerarsi
saggio, ma di esserlo realmente attraverso una vita impegnata.
Nella contrapposizione tra due forme di intendere la sapienza, emerge il sistema valoriale
con le rispettive logiche che le sorreggono.
Una sapienza “diabolica” rivela tutta la sua negatività in quegli atteggiamenti antisociali e
disordinati che distruggono la qualità delle relazioni umane. Se l’opzione fondamentale di
un individuo è per la sapienza terrena, ne consegue un’esaltazione di sé che si ripercuote

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nell’ambito di scelte concrete che portano a prediligere la ricchezza, il potere, il prestigio
per dominare e controllare il prossimo.
Il vivere nell’amicizia con Dio esclude qualsiasi forma di sistema alternativo e richiede un
continuo discernimento per affermare il primato dell’amore verso Dio e verso i fratelli.
L’opulenza e il benessere, ricercati come fine, pongono le basi per un’ingannevole fiducia
in sé nel trovare rifugio dalla fragilità della condizione umana e dall’angoscia della morte.
Tali realtà, paradossalmente, si ripropongono nella loro tragicità di fronte alla
constatazione del proprio limite, una delimitazione che può essere valicata
nell’abbandonarsi al futuro di Dio. II distacco interiore dalla ricchezza così motivata
conduce alla liberalità della condivisione con il prossimo, al superamento di steccati
presenti in ogni comunità, per cui “rinunciare” significa guadagnare quel “tesoro”
inesauribile e inattaccabile da ogni forma di corruzione. Ai credenti è chiesto, con continui
richiami, di fare in modo che la propria vita si lasci trasformare da una fede che coinvolge
tutto il proprio essere.
Nella preghiera si vive e si esprime la relazione con Dio, quel rapporto personale e
comunitario attraverso cui poter ricevere i doni che rendono capaci tutti, forti, deboli,
malati, tristi, di un cammino perseverante nella storia: la preghiera è un’esigenza richiesta
dalla fede e non una delle tante cose da fare.
La perseveranza permette di vivere la relazione con Dio nelle differenti situazioni della vita,
la gioia o il dolore, consapevoli che un cammino coerente si fonda sulla certezza della sua
Parola che produce salvezza e consolazione.
Il cammino di perfezione passa attraverso la capacità di discernere e attuare ciò che è
nell’ottica di Dio, e ai credenti viene offerto incoraggiamento e sostegno per vivere un
progetto di vita integro e totale con Dio, datore del dono splendido e gioioso della vita
piena.
II rimanere incontaminato dalle realtà mondane, allora, sta a indicare la distanza necessaria
da quello spazio negativo dove, prevalendo una logica di prepotenza e di sopruso, i deboli
e gli oppressi perdono qualsiasi diritto di sussistenza, segno invece di predilezione e di
interesse del Padre.
I lettori sono messi in guardia contro gli inganni e gli errori: le discordie minacciano la
comunità in cui il povero, che pure è stato scelto da Dio, è disprezzato; di conseguenza, la
credibilità della fede, l’integrità della preghiera e delle celebrazioni vengono meno al punto
da rendere Dio responsabile delle loro stesse mancanze. L’amore fraterno e la misericordia
vengono lesi; conflitti, calunnie e diffamazioni distruggono la pace ed il rapporto con Dio.
L’autore denuncia il pericolo che il Vangelo diventi un’opinione, oggetto di dispute tra
dotti.
Il brano che più di ogni altro ha suscitato polemiche e discussioni è quello in cui Giacomo
afferma che la fede senza le opere è morta. Il problema, allora, non è la messa in
discussione se la giustificazione provenga solo dall’atto di credere e di abbandono in Dio
che dona la salvezza, quanto piuttosto l’essere consapevoli che i “giustificati” non possono
non muoversi nella consapevolezza che le opere rendono fruttuosa e operativa la
medesima fede: si tratta di due facce di un’unica medaglia, in cui le azioni provenienti dalla
fede non rappresentano degli optional ma, al contrario, la manifestano.

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Non si nega l’importanza della fede poiché non è la fede in sé l’oggetto del dibattito, ma si
sostiene che la fede, da sola, senza le opere è inutile, così com’è superfluo offrire semplici
parole a chi ha freddo e fame.
La riflessione di Giacomo allora non si contrappone o non cerca di polemizzare in maniera
sterile contro la visione paolina della fede, ma suggerisce una prospettiva complementare
che, scevra da estremismi fideistici, si colloca nella viva concretezza del Vangelo. Del resto
anche Paolo parla di fede che opera per mezzo della carità. Giacomo denuncia la
possibilità di un cristianesimo solo verbale, abitudinario e stanco, basato più su discussioni
e discordie che su un impegno concreto nella storia.
L’incontro con Cristo glorioso, oggetto della speranza cristiana, si sostiene e si rafforza non
nella prevedibilità di un dato cronologico, ma nella qualità di un rapporto costruito e
consolidato.
Il richiamo escatologico sostiene quella prassi di vita che, in linea con la tradizione
evangelica, invita ad assumere il presente come tempo opportuno in vista del pieno
raggiungimento della salvezza. La parusia rende urgente e necessaria la risposta sapiente
della comunità chiarendo che il futuro sarà determinato da ciò che si opera nel presente.
L’attesa del Signore non può ammettere forme di passività; al contrario, i credenti sono
invitati a rendere salda la relazione con Dio e con i fratelli. La fortezza che proviene dalla
fede è l'unico antidoto contro ogni sorta di tribolazione, sofferenza, prova e dubbio.
Il giudizio finale sarà commisurato al grado con cui il credente avrà adempiuto la legge
fondata sull’amore: la fede vissuta nell’ottica di un amore attivo e dinamico non teme alcun
giudizio ultimo.
(Cfr. Rosario Chiarazzo, Lettera di Giacomo, Città Nuova Editrice, 2011)

GESÙ CRISTO NELLA LETTERA DI GIACOMO


Il nome di Gesù Cristo compare esplicitamente soltanto in due versetti della Lettera di
Giacomo (1,1 e 2,1). Senza soffermarci a lungo su questi due versetti, spesso si è parlato di
povertà della riflessione cristologica della lettera; ma un simile giudizio sottovaluta
l'irraggiamento della figura di Cristo.
Al di là della citazione esplicita del suo nome, questo irraggiamento si manifesta attraverso
l’evocazione del suo insegnamento e attraverso le rappresentazioni metaforiche della sua
persona. Nel tessuto letterario dello scritto possono essere individuati molti di questi
procedimenti ed essi non solo fanno allusione a Cristo, ma definiscono anche diversi
aspetti della sua impronta particolare sulla vita e sullo spirito dei credenti.

Le due menzioni del nome di Cristo


Prima di tutto è necessario rivalutare l’importanza di queste due rapide citazioni con le
quali il nome di Cristo è introdotto nella lettera in 1,1 e 2,1, perché esse non sono
insignificanti.
«Giacomo, servo di Gesù Cristo, Dio e Signore». Certo, il v. 1,1 può essere tradotto come fa
la tradizione, attribuendogli il significato di un riferimento a «... Dio e (al) Signore Gesù
Cristo». Però la frase greca è organizzata in modo tale che le parole possono essere

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raggruppate anche diversamente, in un‘interpretazione che certifica una celebrazione forte
della divinità di Gesù: «Gesù Cristo, Dio e Signore».
Le due comprensioni del testo non si escludono a vicenda, tuttavia è significativo che
l’autore combini la possibilità di comprendere, attraverso questa frase, una vigorosa
confessione di fede propriamente cristiana, perché essa ammette la consacrazione della
persona di Gesù di Nazareth come manifestazione dell’essenza di Dio.
Tale formulazione, che autorizza esplicitamente l'identificazione di Gesù con Dio, non è
molto frequente nei testi del Nuovo Testamento. L'equivalente si può trovare soltanto in
tre lettere: Tito, Seconda Lettera di Pietro, Seconda Lettera ai Tessalocinesi.
In quella indirizzata a Tito, in 2,13, l'interpretazione è certa: l'autore evoca senza ambiguità
la «gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo». Infatti, il contesto allude alla
Parusia di Gesù.
In 2Pt 1,1, la maggior parte dei traduttori interpreta il testo come un riferimento a «nostro
Dio e Salvatore Gesù Cristo». In 2Ts 1,12, gli esegeti sono divisi: traducono con «secondo la
grazia del nostro Dio e Signore Gesù Cristo» o con «secondo la grazia del nostro Dio e del
Signore Gesù Cristo». La datazione di questi testi e illuminante. Perché le costruzioni
grammaticali che permettono di far emergere questo elemento fondamentale di una
profonda cristologia, cioè l'enunciato della divinità di Gesù, ricorrono solo in alcuni scritti
tardivi. Tale constatazione fornisce un argomento a favore dell’ipotesi secondo la quale la
Lettera di Giacomo si inscriverebbe in questa categoria di testi.
In ogni caso, il confronto suggerisce che il pensiero religioso dell'autore esprime una
dottrina giunta a un grado di elaborazione tale da permettergli di distaccarsi dai principi
del giudaismo. Infatti, il concetto giudaico di Dio distingue la sua natura come
radicalmente esclusiva di una partecipazione all'umano. Ora, costruendo in tal modo la sua
titolatura, Giacomo non evita di suggerire tale idea.
Questa iniziativa, all'inizio della lettera, in qualche modo la apre così su una celebrazione di
Cristo in tonalità maggiore, per usare un paragone musicale.
«La prova affidabile della gloria accordata...» «Fratelli miei non vogliate trovare nei segni
esteriori la prova affidabile della gloria accordata al nostro Signore Gesù Cristo» (Gc 2,1).
L’interpretazione proposta per questo versetto non corrisponde esattamente alla lettura
che ne è stata fatta in tutta la tradizione. Sul piano del senso, questa diversa comprensione
attribuisce al versetto una portata cristologica più sostanziale.
Infatti, questo passo si inscrive coerentemente nel ragionamento che si sviluppa nella
prima parte del paragrafo, in cui si raccomanda di riconoscere il povero come un prediletto
di Dio. Gli esegeti hanno messo in evidenza la relazione che si stabilisce tra il v. 2,5 in
particolare e il messaggio del Discorso della montagna: «Beati i poveri in spirito...». In
questa logica, appare effettivamente aberrante che i credenti considerino l’abbigliamento
rutilante di un ricco come segno esteriore della benevolenza accordata da Gesù Cristo.
Tradotto in questo modo, il testo rimanda, quindi, non soltanto all‘autorità gloriosa di
Gesù, ma costituisce anche un’eco e un richiamo del suo insegnamento, inscritto in
filigrana nella lettera.
D'altronde, l'idea secondo la quale il Cristo è colui che «dà la gloria» agli uomini è meno
convenzionale della celebrazione della propria gloria, ma essa è feconda, perché
suggerisce la sua sovranità divina capace di trasmettere agli uomini la sua prerogativa
regale. Essa lo mostra così come Signore in azione nel mondo e supera la visione di un
esito statico della sua elevazione.
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Perciò, queste due menzioni del nome di Gesù Cristo, sono efficaci nel testo, perché
proclamano non soltanto la sua natura e la sua potenza divine, ma ricordano anche le linee
fondamentali del Discorso della montagna, suggerendo il suo profilo di predicatore. Tali
menzioni, d’altronde, non sono chiuse nei loro versetti, perché la seconda occorrenza, in
particolare, si inscrive in una relazione con un contesto marcato dalla risonanza del nome
di questo Signore presente tra i poveri. Inoltre, queste due citazioni si inscrivono in un
registro più nutrito di rappresentazioni metaforiche di Cristo che sfumano, completano e
rafforzano l’evocazione della sua autorità nel corso di tutta la lettera.

Metafore di Cristo.
Non meraviglia che Giacomo, raccomandando ai suoi lettori di diventare «poeti della
Parola» (Gc 1,22), alluda in qualche modo a Gesù Cristo attraverso significati metaforici.
Infatti, all’autore non sembra piacere l’uso di formule immediate, il cui senso sia tanto
evidente da poter essere pronunciate senza riflettere per assimilarne il significato
profondo. Al contrario evocando la potenza e l’azione di Cristo attraverso uno stile
immaginoso, l’autore della lettera mira a suscitare una scoperta sempre nuova delle sue
qualità essenziali.
«La Parola impiantata» e «il volto originale». In 1,21 Giacomo invita i suoi fratelli, poiché
sono stati «generati per volontà di Dio per mezzo della sua parola di verità» (1,18) a
purificarsi da ogni macchia e a ricevere «la parola che è stata impiantata e che è salvezza
per la [loro] vita». L’aggettivo emphytos, che si collega a questa entità, la Parola, e che
viene tradotto con «impiantata», costituisce l’unica occorrenza di questa parola nel Nuovo
Testamento. Prima, nella lingua greca, esso evoca l'ispirazione dei poeti che è posta in loro
dalle Muse e che si sviluppa indipendentemente dalla loro volontà cosciente. D’altronde,
per rendere conto del significato preciso della radice principale che compone questa
parola e che è collegata all'idea di «natura» o di «fisico», come del prefisso che indica
un’interiorità, sarebbe possibile immaginare un’equivalenza con l'aggettivo «incarnato»,
poiché la Parola di cui si parla viene ad abitare il corpo dei battezzati.
Giacomo 12,1-25
Perciò, liberati da ogni impurità e da ogni eccesso di malizia, accogliete con docilità
la Parola che è stata impiantata in voi, che è potenza di salvezza per le vostre vite.
Diventate allora dei «poeti», mettendo in opera la Parola e non soltanto degli
ascoltatori, che passano accanto al suo significato essenziale. Infatti, un uditore della
Parola che non la mette in pratica in quanto «poeta» assomiglia a un uomo che
guarda il suo volto originale in uno specchio. Ora è il proprio essere che egli
percepisce poi si allontana e ne dimentica subito i tratti. Chi invece fissa lo sguardo
sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non diventa un
ascoltatore smemorato, ma un «poeta» che mette in opera una energia. In questo
«mettere in opera» troverà la sua beatitudine.
Immaginando questa rappresentazione, Giacomo risolve un problema posto da Ezechiele,
nell’Antico Testamento, che si chiedeva come i fedeli possano passare dall’ascolto della
parola di Dio alla sua obbedienza e alla sua pratica. Per l'autore di questa lettera, è
necessario che gli uomini accolgano in sé questo Verbo, che si è primordialmente
«incarnato», allo scopo di comprenderlo e di compiere la sua volontà.
In questa prospettiva, il fenomeno è possibile solo perché il credente può contemplare un
Dio che condivide la sua natura. Infatti, in 1,23, Giacomo propone l'immagine affascinante
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dello specchio della contemplazione, in fondo al quale l'uomo in meditazione scopre il suo
«volto originale».
L ‘originalità del pensiero neotestamentario consiste nell'identificare questo irraggiamento
di luce al «volto» umanizzato di Dio, cioè a quello di Gesù Cristo, nel quale il contemplativo
finisce per riconoscere il proprio volto originale.
Nel corso di questa simbiosi, che si realizza nella fase di fascinazione davanti allo specchio,
il credente può allora provare in sé il sentimento mistico di questa Parola, che riempie
ormai la sua natura e vi si sviluppa. In questo testo ispirato, Giacomo contamina il senso
delle sue metafore che si illuminano a vicenda.
Le due espressioni: la «Parola impiantata» e il «volto originale» confermano
reciprocamente un senso metaforico destinato a suggerire gli effetti dell’incarnazione di
Cristo come mezzo per riconoscere la sostanza di ogni identità e di ogni vita nella fede.
L’immagine di Gesù Cristo si delinea, così, nello sfondo di tutto il testo della lettera che si
presenta anche come messaggio ispirato.
«Il bel Nome invocato sopra di voi» e «la legge della libertà». D’altro canto, «il bel Nome
invocato sopra di voi» di cui si parla in Gc 2,7 è stato identificato da alcuni esegeti come un
riferimento al nome di Cristo, attraverso un’allusione al rituale del battesimo. L’espressione
rimane a priori abbastanza vaga, come è opportuno per evocare Dio, secondo la tradizione
ebraica. Tuttavia la natura di questa qualità inesprimibile, riassunta nel qualificativo della
bellezza, è in seguito precisata attraverso il ragionamento che si stabilisce in questa
sezione del secondo paragrafo.
Giacomo 2,7-13
Non sono loro che bestemmiano il bel Nome che è stato invocato sopra di voi?
Certo se adempite la Legge regale secondo ciò che è scritto: «amerai il tuo prossimo
come te stesso», fate bene. Ma se voi «scegliete le vostre teste», attivate il peccato e
la Legge vi denuncia come trasgressori. Poiché chiunque osservi tutta la Legge, ma
la trasgredisca in un punto solo è accusato di tutto. Infatti colui che ha detto «Non
commetterai adulterio» ha anche detto «Non ucciderai». Ora se tu non commetti
adulterio, ma uccidi, ti rendi trasgressore della Legge. Parlate e agite come persone
che saranno giudicate secondo una Legge di libertà misericordiosa. Infatti, il
giudizio sarà senza misericordia per colui che non avrà avuto misericordia. La
misericordia trionfa sul giudizio.
In realtà, nel suo complesso la frase stigmatizza coloro che «bestemmiano il bel Nome
invocato sopra di loro». Essi vengono indicati in modo più sviluppato al v. 2,6 che li
rappresenta come «tiranni». Il vocabolario metaforico diventa quindi specificamente
politico e Giacomo traccia tutta una cronologia religiosa e abbozza una sociologia
sommaria elencando le categorie della «tirannia» dei ricchi, che credono soltanto nel
potere dei loro beni materiali, nonostante la fede che ostentano; poi quella della «Legge
regale» di Dio che si rivela essere una denominazione della Legge ebraica, a partire dal
momento in cui essa entra in rapporto con la «Legge della libertà».
Nel Nuovo Testamento, quest’ultima espressione, nella sua opposizione alla Legge
mosaica, evoca l’avvento della potenza di Cristo che conferisce lo stato di piena umanità.
Ora, il termine «libertà», sia nel pensiero ebraico, con il ricordo della schiavitù in Egitto, sia
nella filosofia politica dei greci, fieri di aver inventato la democrazia, esprime in modo
eccellente un ideale quasi estetico di perfezione.

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L'analisi di queste due formule, dietro il velo della loro espressione metaforica, permette
così di individuare dei riferimenti a Cristo. Giacomo, chiaramente, cerca di arricchire la sua
evocazione lasciando immaginare che cosa rappresenta la bellezza di cui parla, e
l’equilibrio che i discepoli sono chiamati ad avvertire, in questo spirito, tra legislazione e
libertà. La teologia si insinua senza pesantezza didattica, ma traccia sottilmente un ritratto
di Cristo che emerge costantemente nel testo.

L'evocazione paradigmatica di Cristo


«Voi avete ucciso il giusto». «Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto
resistenza». Qualunque sia l’interpretazione prevista per questo passo, che la formula sia
generale o che si applichi alla figura di Giacomo, fratello del Signore, al quale si
inchinerebbe il suo pseudo-epigrafo, questa frase non può fare a meno di evocare per i
suoi lettori la crocifissione di Gesù e il suo atteggiamento silenzioso di fronte ai giudici.
Il riferimento si impone con evidenza.
L'autore formula il suo testo sovrapponendo la figura di Gesù Cristo a quella del giusto
ucciso. Egli lo costituisce come il paradigma di ogni vittima di una violenza assassina e
iniqua, così che l’evocazione della sua persona riassume tutte le sofferenze umane.
«La fine del Signore». Sant'Agostino e altri commentatori fino al medioevo hanno
interpretato l’espressione «la fine del Signore» come un’evocazione della morte di Cristo.
Questa lettura, veramente poco seguita dagli esegeti, ha il merito di chiarire con una
particolare luce il vocabolario usato subito dopo. Nei vangeli, il termine «ricco di
misericordia» in particolare, evoca la compassione molto spesso attribuita a Gesù. In
questo caso, le due occorrenze di kyrios in questo versetto potrebbero indicare Cristo,
almeno in modo allusivo.
Avremmo allora in 5,6, un secondo riferimento indiretto alla morte di Gesù. Non si tratta
qui di pretendere che la lettura cristologica sia la sola possibile, nemmeno che essa si
imponga come un’evidenza. Più modestamente, pensiamo che essa costituisca un effetto
possibile del testo in collegamento con gli elementi di cristologia già individuati nella
lettera.
L’arte letteraria e la teologia estetica di Giacomo suggeriscono soltanto la presenza della
figura di Gesù Cristo nella sua lettera, perché l’autore della stessa giudica arido e vano
esporre una dottrina che basterebbe leggere o ascoltare. Egli preferisce suscitare le
reazioni di sensibilità e di immaginazione per comunicare l’idea della potenza di Cristo.
Tuttavia, sta di fatto che le formule che presentano Gesù come Dio sono di un’originalità
vigorosa. Documentano il grado di elaborazione della cristologia di Giacomo, che affida al
suo Signore gli impulsi di un‘energia in azione e non di una gloria immobile.
Le metafore che indicano Cristo intrecciano una rete di significati attraverso la quale egli
appare nelle sue virtù liberatrici e ispiratrici, trasfigurando la povertà in pienezza e facendo
brillare l’ideale di un‘essenza originale da raggiungere.
Gli insegnamenti del Discorso della montagna filtrano attraverso alcuni versetti di Giacomo
e l’immagine della croce si profila per manifestare la solidarietà di Cristo nella morte e nella
sofferenza degli uomini. L'evocazione della sua presenza sottende così tutto il messaggio
di questa lettera.
(Cfr. Assaël-Cuvillier, La lettera di Giacomo, EDB, 2016)

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LA LETTERA DI GIACOMO NELLA LITURGIA
La Lettera di Giacomo ha sempre suscitato nella Chiesa passioni forti e decise, dalla
tenerezza verso i poveri e i malati alla condanna dell’avidità e della maldicenza.
Non è mai mancata la presenza di qualche sua pericope nei Lezionari antichi, fin dal VII-VIII
secolo, che prevedevano la proclamazione di Gc 1,17-21 e Gc 1,22-27 (nel Tempo di
Pasqua) e di Gc 5,7-10 e Gc 5,16-20 in diverse occasioni.
Il Messale di Pio V si arricchisce di nuovi e ulteriori passi, portando a ben nove il totale
delle letture attribuite a Giacomo; ma essendosi a quel tempo notevolmente atrofizzata la
Liturgia della Parola, di fatto il popolo di Dio non beneficiò di un tale testo agiografico,
consegnandolo all’appannaggio delle dispute teologiche, ecclesiologiche e spirituali.
Oggi la Chiesa torna a misurarsi e a essere misurata da questi cinque preziosi e sferzanti
capitoletti, che non mancheranno di mostrare il loro peso nell’elaborazione liturgica della
santa assemblea.

La preghiera che guarisce e salva


La Lettera di Giacomo riveste un ruolo molto importante nell’individuazione del settenario
sacramentale poiché è l’unico testo del Nuovo Testamento a fare un esplicito riferimento
all’unzione con olio fatta ai malati. Nelle Premesse al Sacramento dell’unzione e cura
pastorale degli infermi, elaborato a partire dalla riforma del Concilio Vaticano II, leggiamo:
«Sono molti i passi dei vangeli da cui traspare la premura di Cristo Signore per i malati: egli
cura nel corpo e nello spirito, e raccomanda ai suoi fedeli di fare altrettanto. Ma il segno
principale di questa premura è il sacramento dell’unzione: istituito da Cristo e fatto
conoscere nell’epistola di san Giacomo, questo sacramento è stato poi sempre celebrato
dalla Chiesa per i suoi membri malati; in esso, per mezzo di un’unzione, accompagnata
dalla preghiera dei sacerdoti, la Chiesa raccomanda i malati al Signore sofferente e
glorificato, perché dia loro sollievo e salvezza». Il testo tratto dal capitolo quinto della
Lettera è comunque citato moltissime volte, fin dal primo paragrafo della Costituzione
apostolica di Paolo VI con la quale si promulga il nuovo Rito, facendo poi da riferimento
continuo lungo tutto il rituale sia per le monizioni, sia per le orazioni, sia per il lezionario e
anche, aspetto molto importante, per le rubriche che ne descrivono la modalità celebrativa.
Nei riti iniziali il sacerdote si rivolge ai presenti dicendo: «Fratelli carissimi, Cristo nostro
Signore è presente in mezzo a noi riuniti nel suo nome: rivolgiamoci a lui con fiducia come
gli infermi del Vangelo. Egli che ha tanto sofferto per noi, ci dice per mezzo dell’apostolo
Giacomo: “Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo
averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il
Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati”». Il sacramento viene
poi conferito ungendo l’infermo sulla fronte e sulle mani, dicendo: «Per questa santa
unzione e per la sua piissima misericordia ti aiuti il Signore con la grazia dello Spirito
Santo. Amen. E, liberandoti dai peccati, ti salvi e nella sua bontà ti sollevi. Amen».
Notiamo come, in conformità alla Lettera di Giacomo, il presbitero non afferma il solo
alleviamento della sofferenza, ma annuncia come il Signore offra una salvezza che va al di
là della guarigione fisica, includendo la remissione dei peccati.
La benedizione che viene impartita nel concludersi della celebrazione si muove
coerentemente a questa logica: «Dio Padre ti conceda la sua benedizione. Cristo, Figlio di
Dio, ti doni la salute del corpo e dell’anima. Lo Spirito Santo ti guidi oggi e sempre con la
sua luce».

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Confessare il peccato e realizzare il Vangelo
Giunto ormai in chiusura del proprio componimento, l’autore della Lettera si rivolge ai
propri fedeli esortandoli con queste parole: «Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli
altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti». Questa disposizione è stata accolta ed
elaborata in vario modo, dando origine a varie formule penitenziali, la più conosciuta delle
quali è certamente la preghiera del Confiteor, presente nel Rito dell’unzione, nel Rito della
penitenza e nel Rito della Messa e sempre preceduta da una monizione. Nel celebrare la
riconciliazione di più penitenti con confessione e assoluzione individuale, il diacono (o un
ministro) si rivolge al popolo e dice: «Fratelli, confessate i vostri peccati e pregate gli uni
per gli altri, per ottenere il perdono e la salvezza». L’invito di Giacomo assume una forma
liturgica coram Deo e il battezzato, di fronte alla comunità, non teme di invocare su di sé e
sui propri fratelli l’azione salvifica e misericordiosa del Signore. Quindi tutto il popolo si
unisce nella supplica al Padre: «Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli, che ho molto
peccato in pensieri, parole, opere e omissioni, (battendosi il petto) per mia colpa, mia
colpa, mia grandissima colpa. E supplico la beata sempre vergine Maria, gli angeli, i santi e
voi, fratelli, di pregare per me il Signore Dio nostro». La triplice ammissione di colpa
scandita dal battersi il petto, la supplica finale rivolta alla Vergine e a tutta la schiera
celeste, amplificano eucologicamente, potenziano ritualmente, approfondiscono
teologicamente, il detto dell’apostolo Giacomo.
Rimanendo nell’ambito della riconciliazione sacramentale, si osservi come il Lezionario
accordi spazio a ben tre pericopi tratte dallo scritto neotestamentario, valorizzando la
teologale relazione esistente tra fede e opere:
1) con Gc 1,22-27 la liturgia intende favorire l’esame di coscienza del penitente facendo
leva sulle parole: «Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto
ascoltatori»;
2) con Gc 2,14-26 l’accento è molto simile: «Che giova, se uno dice di avere la fede, ma
non ha le opere?», toccando ancora il tema della coerenza e della responsabilità;
3) con Gc 3,1-12 si ricorda che «se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto».
A cifra sintetica di questi brani voglio citare la bellissima orazione di Colletta intitolata
“Uditori e operatori della Parola”, che il Messale italiano propone a libera scelta nelle ferie
del Tempo Ordinario. Così prega il sacerdote: «O Dio, nostro Padre, che in Cristo, tua
Parola vivente, ci hai dato il modello dell’uomo nuovo, fa’ che lo Spirito Santo ci renda non
solo uditori, ma realizzatori del Vangelo, perché tutto il mondo ti conosca e glorifichi il tuo
nome».

La costanza e la pazienza della fede


La Liturgia delle Ore abbraccia e permea lo scorrere delle fatiche quotidiane come lode e
attesa, riconducendole al mistero di Cristo, di cui ne sono manifestazione. Nel periodo di
Avvento, la Lettera di Giacomo scandisce le quattro settimane di preparazione al Natale, ai
Vespri del giovedì (I-II-III settimana) e ai Vespri del 22 dicembre. La pericope scelta non
poteva che essere Gc 5,7- 8.9b e la decisione di omettere la prima parte del versetto 9
esalta enormemente la dimensione escatologica della Lettura breve che invita ad attendere
il Signore – giudice alle porte! – con la costanza dell’agricoltore.

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Il tema si sviluppa poi in forma litanica nel Responsorio breve, che prorompe come grido
verso il cielo: «Vieni a liberarci, Signore, Dio dell’universo. Mostraci il tuo volto, e saremo
salvi, Dio dell’universo».
Notiamo una vistosa differenza lessicale tra la precedente traduzione CEI e quella 2008
(per ora solo nei Lezionari), che spicca fin dalle prime parole di apertura del brano dove il
«siate pazienti» (Gc 5,7) dell’attuale edizione della Liturgia delle Ore diventerà, nella nuova,
un «siate costanti». In questo contesto osserviamo come nella Colletta della III domenica di
Avvento, Anno A, avendo come Seconda lettura Gc 5,7-10, il Messale italiano compone
questa bella orazione: «Sostieni, o Padre, con la forza del tuo amore il nostro cammino
incontro a colui che viene e fa’ che, perseverando nella pazienza, maturiamo in noi il frutto
della fede e accogliamo con rendimento di grazie il vangelo della gioia».
In modo altrettanto strutturato Giacomo è presente nelle letture brevi del Tempo di
Quaresima. Per tutti i venerdì, all’ora Nona si legge Gc 1,27. Nella nuova traduzione,
leggiamo: «Religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: visitare gli
orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo».
La consonanza con la teologia e la spiritualità quaresimale è assoluta. Basti citarne il
Prefazio III, che si rivolge al Padre dicendo: «Tu vuoi che ti glorifichiamo con le opere della
penitenza quaresimale, perché la vittoria sul nostro egoismo ci renda disponibili alle
necessità dei poveri, a imitazione di Cristo tuo Figlio, nostro salvatore».
Durante i quaranta giorni, abbiamo ai Vespri altri tre brani tratti dalla Lettera, dove in
5,16.19-20 si chiede la confessione “pubblica” dei peccati, la preghiera assidua e la
correzione fraterna (venerdì dopo le ceneri, della II e IV settimana); in 2,14.17.18b l’autore
ricorda che la fede si esprime vitalmente nella carità fattiva (martedì della I e III settimana);
e infine, con Gc 4,7.8-10, la comunità è invitata a sottomettersi a Dio per vincere il peccato
(giovedì dopo le ceneri, della II e IV settimana).
Altre attestazioni le abbiamo nel Tempo Ordinario, nel Comune dei pastori, nel Comune di
un martire e nella Festa di santo Stefano.

Seminare la giustizia e raccogliere la pace


Non può certo mancare una panoramica dei lezionari, nei quali Giacomo è ben presente,
tranne che nelle Messe votive e nelle Messe per i defunti. Premesso che dal lunedì della VI
settimana al sabato della VII (Anno II) si ha la lettura semicontinua della Lettera di
Giacomo, prendiamo in esame ora i testi domenicali che a partire dalla XXII domenica del
Tempo Ordinario, Anno B, per cinque domeniche, offrono all’assemblea la possibilità di
ascoltare la voce dell’apostolo. Potremmo riassumere ciascuna pericope con cinque motti,
presi dai titoli con i quali il Lezionario aiuta il lettore a focalizzare l’attenzione su quel
passaggio ritenuto fondamentale ai fini della Liturgia della Parola. Scorrendo le pagine, per
fornire una visione d’insieme, annotiamo: «Siate di quelli che mettono in pratica la Parola»,
Gc 1,17-18.21b-22.27; «Dio non ha forse scelto i poveri eredi del regno?», Gc 2,1-15; «La
fede se non ha le opere è morta» Gc 2,14-18; «Per coloro che fanno opera di pace viene
seminato nella pace un frutto di giustizia», Gc 3,16-4,3; «Le vostre ricchezze sono marce»»,
Gc 5,1-6.
Il Messale italiano, come sappiamo, propone sempre delle Collette ispirate ai testi biblici. In
alcune delle domeniche appena citate la dipendenza al testo di Giacomo è particolarmente
evidente, come nella XXIII che prega: «O Padre, che scegli i piccoli e i poveri per farli ricchi
nella fede ed eredi del tuo regno…», o come nella Colletta successiva, dove si dice tra

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l’altro: «Il tuo Spirito Santo ci aiuti a credere con il cuore, e a confessare con le opere, che
Gesù è il Cristo, per vivere secondo la sua parola e il suo esempio…», fino alla XXVI quando
il presbitero chiede che «…ogni uomo (o Padre) sia ricco del tuo dono».
Un aspetto molto curioso circa l’uso liturgico della Lettera di Giacomo riguarda il suo
abbondantissimo impiego nelle Messe per varie necessita (otto pericopi in totale), con
particolare attinenza alla società civile e alla richiesta della pace e della giustizia.
Così leggiamo Gc 3,13-18 (chi semina nella pace compiendo la pace raccoglie frutti di
giustizia), o Gc 4,1-10 (le guerre e le liti vengono dalle passioni quali il desiderio di
possesso e l’invidia), o Gc 4,13-15 (il destino di ciascuno è nella volontà di Dio e non nella
propria forza economica e politica): pagine straordinariamente lucide, che rivelano una
saggezza umana e un acume spirituale vividi e pragmatici, intolleranti nei confronti di ogni
affabulazione.
Aprendo il Benedizionale, osserviamo come la Lettera sia citata per due volte, ancora nel
contesto di una Benedizione in occasione di ricorrenze civili: Gc 3,13-18 e Gc 4,1-10 si
guadagnano un posto di tutto rispetto, rivelando un’affinità elettiva con la complessità
della trama umana e civile, che alla luce della Parola di Dio è messa a nudo sia nella radice
peccaminosa sia nella vocazione alla santità. Come ricorda Gc 1,18 – testo citato nella
seconda Colletta del Comune dei pastori fondatori di Chiese – il Padre «ci ha generati per
mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature». Questo dono che
viene dall’alto è impegno che segna il cristiano fin nelle midolla, guarendolo da ogni
dicotomia per congiungere in lui fede e prassi, parola e azione, verità e carità, cura
ecclesiale e impegno civile. Senza possibilità di pie scusanti e devote fughe.
(Cfr. A cura di Marida Nicolaci, Lettera di Giacomo, Editrice San Paolo, 2012)

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PAOLO E GIACOMO: DUE PERCORSI SINGOLARI
L'opera di Paolo
Paolo appartiene al partito fariseo. Conosce quindi la Legge orale e la logica farisaica della
Legge, ma è necessario qui fare due precisazioni.
La prima: il giudaismo del primo secolo è plurale. Ad esempio, un testo come il IV libro di
Esdra non ha la medesima comprensione della Legge della Regola della Comunità di
Qumran o del Contra Apionem di Flavio Giuseppe. Il IV di Esdra, in particolare, è
un’interessante testimonianza nella misura in cui si colloca forse nell'intersezione tra Saul, il
fariseo, e Paolo, il discepolo di Gesù.
La seconda: all'interno del partito fariseo, non c’è una corrente unica. Inoltre, all'interno di
una stessa corrente, ci sono soggetti singoli che hanno storie e psicologie singolari. Da ciò
che si può arguire dai testi autobiografici di Paolo, egli sembra essere stato un fariseo
radicale per il quale la Legge era così importante, così cruciale, che mal sopportava
l’atteggiamento di alcuni discepoli giudei di Gesù nei confronti di essa, al punto che egli
cercava di espellerli dalle sinagoghe perché li considerava un pericolo nei confronti della
sua idea del giudaismo, quindi della sua identità.
L'esperienza di conversione di Paolo si può quindi spiegare se si tiene conto di questo
rapporto problematico, quasi ossessivo, nei confronti della Legge: nell’avvenimento di
Damasco, qualcosa si sbilancia nella sua comprensione della Legge. Scopre che il falso
messia a cui egli dà la caccia perseguitando i suoi discepoli è in realtà colui che gli rivela
un‘altra percezione della figura del suo Dio, quindi un’altra percezione di se stesso e della
Legge. Scopre che era prigioniero di una forza che lo spingeva, in nome della Legge, a
rifiutare il Messia.
Certo, per Paolo, la Legge è «santa» e il comandamento rimane «santo, giusto e buono»,
ma l’una e l’altro sono snaturati dalla forza del peccato. La Legge non è più una. Essa è
ambivalente. La Legge della lettera, la legge della carne, la legge interiore: attraverso la
traduzione dall’ebraico al greco, la Torah di Mosè diventa una nozione generale che
ricopre realtà complesse. Nello stesso tempo, la Legge rimane indispensabile perché rivela
l’uomo a se stesso come schiavo del peccato. È l’evento Cristo, riconosciuto da Paolo come
Messia, che può farla ridiventare «Legge dello spirito», quindi Legge di libertà; ma chi è il
Messia/Cristo? È un Messia messo a morte dalla Legge di cui il peccato si è impossessato. II
credente è quindi liberato dalla Legge, cioè egli non trova più il senso della sua vita
nell’obbedienza, nel sì a questa Legge. Paradossalmente, può, nello spirito di libertà,
compiere il senso fondamentale della Legge, il suo scopo: l’agape.

La Lettera di Giacomo
Essa ha origine in una tradizione teologica in cui Gesù è stato riconosciuto come il Messia
promesso dai profeti, senza tutta la problematicità esistenziale di Paolo. In fondo, dicendo
sì al Messia, «Giacomo» ha detto sì alla Legge nella sua piena espressione, cioè alla Legge
reinterpretata alla luce della fede pasquale. II problema del peccato di certo esiste, ma in
modo meno tragico, ancorché, tramite l'intermediazione della lingua che può deviare la
Parola in discorso falso, il peccato agisce nell'uomo e nel credente. Esiste, quindi, anche la
radicalità. Essa risiede, per esempio, nell'interpellanza rivolta ai credenti, la cui identità sta
in una forma di un paolinismo benpensante, dove la «fede» è soltanto un segno identitario
svuotato di energia viva. Sta anche nelle invettive contro gli uomini d’affari e i ricchi che si
pensano autonomi e disprezzano i poveri. Per Giacomo, la Legge è allora la Legge di
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libertà reinterpretata alla luce dell’avvenimento messianico che le conferisce il suo vero
valore. È buona notizia per coloro che si sanno poveri e mancanti davanti a Dio e davanti
agli altri, ma può diventare legge che accusa per coloro che tradiscono il vangelo facendo
distinzioni tra le persone in base a valori mondani. Giacomo ha trovato in Cristo colui che
dà senso pieno alla Legge, che la dilata all’orizzonte del mondo attribuendole la sua
singolarità universale.

Paolo e Giacomo
In definitiva, Paolo e l’autore della Lettera di Giacomo rappresentano due percorsi
differenti di riconoscimento di Cristo. Senza alcun dubbio, se ci fosse stato soltanto il
percorso di Giacomo la storia del cristianesimo non sarebbe stata la stessa: il modello
paolino di rottura è infatti dominante nel canone del Nuovo Testamento, e non è estraneo
all’emergere del cristianesimo come grandezza storica.
Tuttavia è vero che, malgrado il posto modesto nel canone del Nuovo Testamento, il
modello di continuità proposto da Giacomo deve essere accolto come legittimo nello
spazio dei possibili propri alla fede cristiana. La teologia di Giacomo dimostra che è
possibile accedere alla novità dell’avvenimento messianico per una via diversa da quella di
Paolo, una via che integra forse più agevolmente di quella l’eredità della fede ebraica.
(Cfr. Assaël-Cuvillier, La lettera di Giacomo, EDB. 2016)

GIACOMO E MARTIN LUTERO: STORIA DI UN MALINTESO?


Martin Lutero si è espresso più volte sulla Lettera di Giacomo. Il testo più conosciuto è la
Prefazione al Nuovo Testamento del 1522. Lutero si chiede: «Quali sono i libri essenziali del
Nuovo Testamento e i più nobili?».
La sua preferenza va ai testi in cui «non trovi descritti molte opere e miracoli di Cristo, ma
vi trovi esposto magistralmente come la fede in Cristo trionfa sul peccato, sulla morte e
sull’inferno e dona la vita, la giustizia e la salvezza, che è l’essenza vera del Vangelo, come
tu l’hai ascoltato». Questi libri sono «il Vangelo di san Giovanni e la sua prima lettera, le
lettere di san Paolo, in particolare quelle ai Romani, ai Galati, agli Efesini e la Prima lettera
di san Pietro […] che ti mostrano Cristo e ti insegnano tutto ciò che ti è necessario e
salutare sapere, anche se tu non vedessi e non ascoltassi mai alcun altro libro né alcun’altra
dottrina». E conclude: «Per questo la Lettera di san Giacomo, paragonata a essi è una vera
lettera di paglia, perché non ha alcun carattere evangelico»!
Notiamo prima di tutto che Lutero non dice della Lettera di Giacomo che è, come tale, una
«lettera di paglia».
Lutero la definisce in questo modo «in paragone» agli altri libri biblici, che egli preferisce.
D’altronde, è opportuno riconoscere che, comparandola all’importanza di Paolo nel Nuovo
Testamento, la Lettera di Giacomo e più «leggera». L’elaborazione teologica del
cristianesimo deve evidentemente molto più a Paolo che all’autore della Lettera di
Giacomo. Sfortunatamente la storia conserverà solo l’espressione «lettera di paglia», che
diventerà per molto tempo una qualifica discriminatoria verso la lettera. Per capire le
ragioni profonde di questo giudizio di Lutero al di là delle caricature, bisogna
comprendere bene che, dal suo punto di vista, l’incompatibilità di Gc 2,14-26 con la
teologia di Paolo e l’assenza di cristologia sono determinanti. L’insistenza di Lutero sul
principio della sola fede lo porta infatti a una critica teologica di questa lettera di cui, nel
contesto polemico del tempo, egli non può ricevere positivamente il pensiero.
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Il fatto che Lutero si schieri in modo esclusivo per Paolo lo porta in realtà a elaborare un
nuovo principio di critica del canone, ponendo come sinonimi le parole «canonico» e
«apostolico»; nel suo pensiero il termine «apostolico» non è inteso in modo storico – nel
senso che lo scritto sarebbe della penna di un apostolo – ma in modo kerigmatico, nel
senso di «predicare Cristo, trattare di Cristo». Ecco ormai il criterio secondo cui bisogna
giudicare tutta lo Scrittura, «il banco di prova che permette di giudicare tutti i libri, che
permette di vedere se essi parlano di Cristo oppure no…). Ciò che non è insegnamento su
Cristo, non è apostolico, anche se ci viene insegnato da Pietro o Paolo. All’inverso, ogni
predicazione su Cristo è apostolica, anche se viene dalla penna di Giuda, Anna, Pilato o
Erode». C’è in questo un modo nuovo di porsi di fronte alle Scritture: esse devono essere
giudicate secondo i criteri del «canone nel canone», che le seleziona secondo la loro
capacità di predicare Cristo. In altre parole, Lutero sostiene che le Scritture hanno autorità
soltanto perché esse rendono testimonianza a Cristo, cosa che ha per effetto una netta
distinzione tra la parola di Dio (Cristo) e le Scritture (la testimonianza resa alla parola di
Dio). Così, con Lutero, il principio del sola scrittura che si impone nella nascente Riforma
sta a significare che l’autorità della Bibbia non è l’autorità di una Scrittura, ma l’autorità di
colui del quale questa Scrittura parla.
La pertinenza storica della valutazione severa di Lutero sulla Lettera di Giacomo può essere
discutibile, prendendo in considerazione i dati del testo stesso della lettera. Tuttavia,
teologicamente parlando, questo giudizio è di un’importanza capitale nella storia
dell’interpretazione del testo biblico, perché Lutero in questo modo traccia una strada
nuova, quella di una libertà critica nella quale l’esegesi si impegnerà risolutamente nel
corso dei secoli seguenti.
Per il resto, al di là delle caricature alle quali egli stesso ha contribuito, il suo giudizio
rimane obiettivamente vero: è infatti difficile negare la minore importanza della lettera
nella storia del canone e della teologia cristiana, quando la si «paragona» agli scritti di
Paolo o di Giovanni. Infine, è opportuno sottolineare che Lutero non ha mai escluso la
Lettera di Giacomo dalle sue traduzioni bibliche. Ricordiamo al riguardo le prime parole
della sua introduzione alla Lettera: «lo tengo per buona la Lettera di san Giacomo,
malgrado il fatto che essa sia stata rifiutata dagli antichi, perché essa non propone alcun
insegnamento umano, ma rimane fedele alla legge di Dio».
(Cfr. Assaël-Cuvillier, La lettera di Giacomo, EDB, 2016)

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STRUTTURA DELLA LETTERA
Non è possibile individuare, nella Lettera di Giacomo, una vera e propria struttura, perché
ogni indizio di struttura o di filo conduttore sembra assente. I temi trattati, come già più
volte affermato, sono molti. Volendo presentare il contenuto dell’opera non si può fare
altro che elencare semplicemente i vari temi:

1,1 Indirizzo
1,2-12 Considerate perfetta letizia quando subite ogni sorta di prove
1,13-18 Ogni dono perfetto viene dal Padre della luce
1,19-27 Ognuno sia pronto ad ascoltare e lento a parlare

2,1-13 Non mescolate a favoritismi personali la vostra fede


2,14-26 La fede senza le opere è morta in se stessa

3,1-12 La lingua è un fuoco che incendia il corso della vita


3,13-18 La vera sapienza viene dall’alto

4,1-12 Sottomettetevi a Dio e avvicinatevi a lui


4,13-17 Siete come vapore che appare e scompare

5,1-6 O ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano


5,7-11 Siate pazienti fino alla venuta del Signore
5,12-20 Esortazioni varie finali
(Cfr. Don Claudio Doglio, Le lettere cattoliche – in www.symbolon.net)

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PER APPROFONDIRE IL TESTO…

PERSEVERANZA NELLE PROVE (1,2-18)


Tema principale del brano sono le prove della vita cristiana: quelle provenienti dall’esterno
e quelle causate dalle umane passioni. Ad esso si connettono alcune digressioni
riguardanti la preghiera, i beni terreni, i doni di Dio.
Rivolgendosi ai «fratelli» nella fede, Giacomo li esorta a considerare motivo di evangelica
«gioia» le svariate «prove» alle quali sono soggetti. I paralleli nella Prima lettera di Pietro e
nelle lettere paoline, come pure il retroterra biblico, fanno pensare a qualche forma di
persecuzione. L’invito, a prima vista paradossale, si fonda su di una convinzione, che
appartiene alla visione cristiana di tale esperienza e cioè che la prova deve suscitare una
risposta positiva: la «pazienza», nel senso di resistenza tenace e perseverante.
Questa, a sua volta, ha come risultato un’opera perfetta, ossia il pieno compimento della
volontà di Dio. Fine di tutto, delle prove e della pazienza, è che i credenti siano «perfetti»
nel senso biblico e cristiano del termine, ossia spiritualmente maturi e del tutto uniti alla
volontà di Dio.
Il duplice complemento «integri, senza mancare di nulla» sottolinea il concetto di
perfezione.
Il discorso poi fa un salto, che però si giustifica con la ripresa di «senza mancare di nulla» ...
«se qualcuno manca di...». In ordine alla “perfezione”, il difetto più grave è il mancare di
«sapienza».
Nella tradizione biblica questa consiste nel vedere ogni realtà umana nella luce di Dio e, di
conseguenza, nel vivere e agire secondo la fede. Giacomo esorta chi manca di sapienza a
chiedere questo dono e, ricordando la generosità di Dio, il quale «dona a tutti con
semplicità e senza condizioni», assicura che «gli sarà data», ovviamente da Dio, ma insiste
sulla condizione essenziale della preghiera: «La domandi però con fede, senza esitare».
L’esitazione, descritta con l’immagine dell’«onda del mare, mossa e agitata dal vento»,
riflette, infatti, una carenza di fede.
Una persona sempre indecisa e incostante non pensi, ammonisce Giacomo, di ricevere
qualcosa da Dio.
Il ricco e il povero. La seconda digressione si può raccordare con il tema della sapienza, che
insegna a leggere in modo diverso da quello umano il binomio povertà-ricchezza.
Giacomo invita il «fratello povero» (umile) a “vantarsi” del suo innalzamento, che sarà
opera di Dio. Il «ricco», paradossalmente, si vanti dell’abbassamento, che potrà essere
operato da Dio. Il rovesciamento delle sorti è un motivo ricorrente nelle Scritture d’Israele
e nei Vangeli. L’abbassamento, al quale il ricco va incontro, è illustrato con un‘immagine
biblica, tratta da Isaia: come il sole e il vento caldo del deserto in brevissimo tempo fanno
appassire un fiore, sì che esso perde la sua bellezza, allo stesso modo «anche il ricco nelle
sue imprese appassirà».
La tentazione. Colui che, al contrario dell’uomo incostante, «sopporta» la prova e la supera,
è detto «beato» perché, essendo stato provato e riconosciuto fedele, «riceverà la corona
della vita», il premio eterno che «il Signore ha promesso a quelli che lo amano», ai veri
credenti, che rispondono con perseveranza all’amore di Dio.

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Quanto alla «prova» o tentazione, Giacomo chiarisce: essa non viene da Dio, ma dalle
proprie passioni. Dio non è soggetto a tentazioni, che possano indurlo al male e non è
autore delle tentazioni.
Questa seconda affermazione pare in contrasto con vari testi biblici, secondo i quali Dio
mise alla prova Abramo e il popolo ebraico, come in genere i giusti, ma il punto di vista qui
è diverso: Giacomo esclude che l’uomo possa rigettare su Dio le proprie responsabilità.
«Ciascuno è tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e lo seducono».
Che all’origine del peccato ci siano le passioni della «carne» è tema ricorrente nel Nuovo
Testamento, radicato peraltro negli scritti biblici e giudaici.
Sul prolungamento dell’allusione del v. 14, la dinamica delle umane passioni é descritta
con un’immagine di ordine biologico: esse «concepiscono e generano il peccato, e il
peccato, una volta commesso, produce la morte», quella escatologica.
I doni di Dio. Giacomo ammonisce: «Non ingannatevi!». Il male non viene assolutamente
da Dio, il «Padre delle luci», ossia il creatore degli astri «luce» egli stesso, nel quale «non
c’è variazione né ombra di cambiamento», nessuna imperfezione. «Dall’alto», e
precisamente da Lui, viene «ogni buon regalo e ogni dono perfetto», come la sapienza.
Il più grande di questi doni sono la rigenerazione e la vita nuova dei credenti, temi diffusi
negli scritti neotestamentari. Dio «ci ha generati per mezzo della parola di verità», il
vangelo, che trasmette la rivelazione di Dio nel suo Figlio Gesù. Questo egli ha fatto
liberamente e generosamente, per pura grazia, affinché noi fossimo «una primizia delle sue
creature»: una nuova creazione, oppure, in senso cultuale, come popolo santo di Dio,
un’offerta a lui consacrata.

DOMANDE PER RIFLETTERE E CONDIVIDERE


1) Come vivo le “prove della vita”? Come mi hanno cambiato?
2) Dio ci chiama ad essere “perfetti”. Che idea ho di perfezione? In cosa sento che dovrei
cambiare per camminare verso la perfezione a immagine di Gesù?
3) Per vivere e perseverare nella fede occorre chiedere la “sapienza” di Dio. In quali aspetti
la sapienza di Dio mi sembra più lontana dalla sapienza umana?

DAL LIBRO DEL SIRICIDE (Sir. 1,1-20)


Ogni sapienza viene dal Signore e con lui rimane per sempre.
La sabbia del mare, le gocce della pioggia e i giorni dei secoli chi li potrà contare?
L'altezza del cielo, la distesa della terra e le profondità dell'abisso chi le potrà esplorare? .
Prima d'ogni cosa fu creata la sapienza e l'intelligenza prudente è da sempre.
Fonte della sapienza è la parola di Dio nei cieli, le sue vie sono i comandamenti eterni…
La radice della sapienza a chi fu rivelata? E le sue sottigliezze chi le conosce?
Ciò che insegna la sapienza a chi fu manifestato? La sua grande esperienza chi la
comprende?
Uno solo è il sapiente e incute timore, seduto sopra il suo trono.
Il Signore stesso ha creato la sapienza, l'ha vista e l'ha misurata, l'ha effusa su tutte le sue
opere, a ogni mortale l'ha donata con generosità, l'ha elargita a quelli che lo amano.
L'amore del Signore è sapienza che dà gloria, a quanti egli appare, la dona perché lo
contemplino.
Il timore del Signore è gloria e vanto, gioia e corona d'esultanza.
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Il timore del Signore allieta il cuore, dà gioia, diletto e lunga vita.
Il timore del Signore è dono del Signore, esso conduce sui sentieri dell'amore.
Chi teme il Signore avrà un esito felice, nel giorno della sua morte sarà benedetto.
Principio di sapienza è temere il Signore; essa fu creata con i fedeli nel seno materno.
Ha posto il suo nido tra gli uomini con fondamenta eterne, abiterà fedelmente con i loro
discendenti.
Pienezza di sapienza è temere il Signore; essa inebria di frutti i propri fedeli.
Riempirà loro la casa di beni desiderabili e le dispense dei suoi prodotti.
Corona di sapienza è il timore del Signore; essa fa fiorire pace e buona salute. L'una e
l'altra sono doni di Dio per la pace e si estende il vanto per coloro che lo amano.
Egli ha visto e misurato la sapienza, ha fatto piovere scienza e conoscenza intelligente, ha
esaltato la gloria di quanti la possiedono.
Radice di sapienza è temere il Signore, i suoi rami sono abbondanza di giorni.

Dalle Costituzioni art.18.


Per seguire Cristo con cuore più libero,
mosse dallo Spirito Santo,
abbracciamo volontariamente la povertà evangelica.
Ci inseriamo in tal modo
nel mistero di annientamento del Figlio di Dio
che, essendo ricco, si è fatto povero
per arricchirci con la sua povertà.
Imitiamo Maria, l'umile ancella
che tutto ha dato al suo Signore.
Con filiale abbandono alla provvidenza del Padre
ci rendiamo disponibili senza riserve
per un servizio alla gioventù bisognosa,
divenendo segno della gratuità dell'amore di Dio.
Testimoniamo così che Egli è l'unico nostro Bene
e che tutte le cose create
ci sono donate soltanto per aprirci alla carità.

PREGHIERA
O Padre, che ci chiami ad essere perfetti come Tu sei perfetto, apri la nostra mente
all’ascolto della tua parola di verità, perché possiamo conoscere la tua Sapienza. Aiutaci a
perseverare nelle prove, a non vantarci nella ricchezza, a non attribuire a Te le tentazioni
della vita. Aiutaci a conoscere le passioni che ci allontano da Te e producono male, perché
in tutto possiamo piacere a Te, che ci ami sempre con un amore immutabile e fedele. Tu
che vivi e regni con il Figlio nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen

32
ACCOGLIERE E METTERE IN PRATICA LA PAROLA (1,19-27)
Preparate prossimamente dal richiamo alla rigenerazione, le esortazioni di Giacomo
toccano argomenti piuttosto disparati.
In una prima serie, Giacomo esorta ad accogliere e mettere in pratica la Parola, a non
discriminare i poveri e a tenere a freno la lingua. Ammonendo, inoltre, che senza le opere
la fede è morta, sottolinea che la vera sapienza è mite e pacifica. La prima esortazione
riguarda le relazioni interpersonali. Come già raccomandava il Siricide, l’uomo saggio
dev’essere «pronto ad ascoltare» e «lento a parlare»; soprattutto, deve guardarsi da parole
dettate dalla passione dell’ira. La collera infatti «non opera la giustizia di Dio», ossia il bene
che egli esige dall’uomo.
All’opposto dell’insipienza dell’iracondo, la «mitezza» dispone l’animo all’ascolto. Giacomo
esorta perciò a liberarsi dalla cattiveria e da ogni sozzura spirituale per poter «accogliere la
Parola», quella divina del vangelo, che è stata seminata e come «impiantata» nell’intimo
dei credenti e che ha il potere di salvare.
Ascoltare e accogliere non è sufficiente è necessario essere «facitori» della Parola. Giacomo
porta come esempio uno che si guarda allo specchio e poi se ne va, dimenticando com’era
l’aspetto del suo volto.
Punto di contatto tra l’esempio addotto e chi ascolta ma non fa, è la leggerezza del
comportamento, per cui il gesto iniziale non ha conseguenze.
Diversamente dall’«ascoltatore smemorato», colui che «fissa lo sguardo sulla legge
perfetta, la legge della libertà» e la mette in pratica, è «beato» perché non solamente
ascolta, ma fa l’«opera» che Dio gli chiede.
La «legge perfetta» è la stessa Parola, in quanto norma di vita, «perfetta» perché è un dono
che discende dal «Padre della luce» e rende perfetto e integro chi la osserva.
È detta «legge della libertà» non nel senso degli stoici (libero è colui che non è schiavo
delle passioni), bensì nell’orizzonte biblico-giudaico (dono di Dio, la libertà consiste nel
vivere secondo la Torah) e nella prospettiva della fede cristiana: la libertà dei figli di Dio.
La vera pietà. Riagganciandosi all’inizio del brano, Giacomo introduce una considerazione
di principio. Colui che, abbandonandosi all’ira, non tiene a freno la sua lingua, non si illuda
di essere «religioso»: costui inganna se stesso («il suo cuore»).
La vera religiosità, quella «pura e senza macchia davanti a Dio», consiste infatti nelle opere
di misericordia («visitare gli orfani e le vedove nelle [loro] sofferenze») e nel conservarsi
«incontaminato dal mondo».

DOMANDE PER RIFLETTERE E CONDIVIDERE


1) Che esperienza ho di “ascolto”, cosa mi aiuta ad “ascoltare” l’altro? Che difficoltà
sperimento nell’ascolto in comunità? Mi riesce fare silenzio e tacere?
2) Come si può controllare la propria ira?
3) Che rapporto vedo tra ascoltare la Parola di Dio e metterla in pratica?
4) In quali aspetti mi resta più difficile vivere la volontà di Dio e i valori del vangelo?
5) Chi sono secondo me gli orfani e le vedove del nostro tempo, cioè i deboli e gli indifesi
di cui Dio mi chiede di prendermi cura?

33
SALMO 1
Beato l'uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e
non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la
sua legge medita giorno e notte.
È come albero piantato lungo corsi d'acqua, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non
appassiscono e tutto quello che fa, riesce bene.
Non così, non così i malvagi, ma come pula che il vento disperde; perciò non si alzeranno i
malvagi nel giudizio né i peccatori nell'assemblea dei giusti, poiché il Signore veglia sul
cammino dei giusti, mentre la via dei malvagi va in rovina

Dagli Atti del CG XXIII.


n. 56. La spiritualità salesiana espressa nel quotidiano non ci chiude nell’intimismo, ma
alimenta una cultura dell’incontro che ci rende sollecite, con lo stile di Maria, nei confronti
dei giovani e dei laici. Tutto questo avviene attraverso relazioni personali in cui la qualità
umana è la prima concreta attestazione della qualità della fede cristiana. Tra le qualità da
far maturare nelle nostre comunità c’è, in primo luogo, la carità fraterna come segno
credibile per la gente che incontriamo e fondamento del vivere con modalità circolare il
servizio di animazione.

Dalle Costituzioni art. 22.


La Figlia di Maria Ausiliatrice
ami "realmente, praticamente la povertà",
condizione indispensabile richiesta da Gesù
a chi vuol essere suo discepolo,
ed esigenza del "da mihi animas cetera tolle".
Accetti con serenità i limiti propri ed altrui,
ponendo la sua sicurezza soltanto in Dio.
Si accontenti del necessario,
grata di quanto la comunità le offre e lieta
di lasciare alle sorelle le cose migliori.
Sia pure disposta a "soffrire caldo, freddo, sete, fame, fatiche e disprezzi",
pronta a sacrificare ogni cosa pur di cooperare con Cristo
alla salvezza della gioventù.

PREGHIERA
O Signore, insegnaci ad ascoltare perché possiamo riconoscere la tua voce che ci parla
nelle Sacre Scritture, che ci sussurra nell’intimo della coscienza, che canta nella bellezza del
creato e che ci interroga attraverso i fratelli e i poveri. Fa’ che, con mitezza e umiltà,
accogliamo la tua Parola e ci lasciamo condurre da essa a vivere secondo la tua volontà
che è anche la nostra felicità. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. AMEN

34
LA FEDE VISSUTA IN AUTENTICITÀ (2,1-26)
Ricchi e poveri nella Chiesa. Sono i fatti concreti a dimostrare la fede e la religiosità
autentica. Come esempio, Giacomo porta il diverso comportamento nei confronti del ricco
e del povero che si rileva nelle riunioni della comunità.
La comune fede in Gesù Cristo, «Signore della gloria», deve essere immune da quei
riguardi personali, che inducono a favorire le persone ricche e influenti. Giacomo porta un
esempio concreto, che descrive con vivacità. Nella riunione della comunità cristiana entra
un ricco, abbigliato in modo splendido e con un anello d’oro al dito; entra anche un
povero, vestito miseramente. II primo è fatto accomodare; I‘altro viene lasciato in piedi,
oppure lo si fa sedere per terra («sotto il mio sgabello»). Così si opera un’ingiusta
discriminazione e ci si comporta da «giudici dai giudizi perversi».
Dall’esempio, Giacomo risale a considerazioni di carattere più generale.
Prima osservazione: Dio non «ha scelto» i ricchi, ma coloro che sono «poveri agli occhi del
mondo». In realtà, grazie alla fede, essi sono ricchi, perché «eredi del Regno» di Dio,
«promesso a quelli che lo amano». Ritorna qui il tema del rovesciamento delle sorti.
Perché, allora, «disonorare» i fratelli poveri?
Seconda osservazione: sono proprio i ricchi a opprimere i credenti. Benché l‘espressione
«vi trascinano davanti ai tribunali» si possa riferire a membri della comunità, ai quali più
oltre è diretta un’invettiva, il seguito fa pensare piuttosto a nemici della fede cristiana: essi
«bestemmiano il bel nome che è stato invocato sopra di voi».
Terza considerazione: chi onora il povero compie perfettamente la Legge («regale» perché
di origine divina e in rapporto con il Regno di Dio), il cui primo precetto é: «Amerai il
prossimo tuo come te stesso». Chi invece si lascia guidare da favoritismi personali, fa un
peccato: la Legge lo accusa come trasgressore. Dal momento, infatti, che tutti e singoli i
suoi comandamenti vengono da Dio, colui che la trasgredisce anche in un punto solo
diventa trasgressore dell’intera Legge. L’assioma è illustrato per mezzo del quinto
comandamento: «se tu non commetti adulterio, ma uccidi, ti rendi trasgressore della
Legge».
La conclusione rimanda al giudizio ultimo, basato su quella «legge di libertà» che si
riassume nel precetto dell’amore di Dio e del prossimo. Giacomo ammonisce: «Il giudizio
sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia». La «misericordia»
dell’uomo, che traduce in gesti concreti il precetto dell’amore, non teme il giudizio: ne esce
vincitrice, perché Dio stesso assicura che userà misericordia verso chi è stato
misericordioso.
La fede e le opere. Primo argomento. Giacomo mette a fuoco lo stretto legame tra fede e
opere, al quale già si riferiva allorché insisteva su «mettere in pratica la Parola», ossia la
«legge perfetta, la legge della libertà», la «legge regale» dell’amore.
Fin dalla prima battuta, Giacomo denuncia una fede inerte, che non avendo le «opere»,
non può «salvare» il credente. A sostegno della sua tesi porta un esempio concreto: non
basta dire una parola buona a un fratello o a una sorella che sono nella necessità, se non si
provvede loro ciò di cui abbisognano. «Così anche la fede», se non possiede le «opere», se
non si traduce in fatti positivi, è come se fosse «morta». Viceversa, se uno ha le «opere», è
in grado di mostrare la propria fede a partire da esse.
Secondo argomento. La fede, nella fattispecie, credere che Dio è «uno» (è la fede di
Israele), la possiedono anche i demoni: «Dio, lo credono e tremano!». Dunque, la nuda

35
fede, quella «senza le opere», è sterile: non giova alla salvezza. Chi si illude del contrario è
un insensato!
Terzo argomento: l’esempio di Abramo, «nostro padre» perché i credenti sono tutti sua
discendenza. Giacomo afferma che il patriarca fu dichiarato giusto da Dio («fu giustificato»)
non «per la fede», bensì «per le sue opere», precisamente per il fatto che, in obbedienza al
comando divino, «offri Isacco, suo figlio, sull’altare». Nel comportamento di Abramo si
vede bene che egli non solamente ebbe fede in Dio, ma che questa cooperava con «le
opere di lui», sì che appunto «per le opere divenne perfetta» ed efficace; se, invece, non
avesse agito secondo il comando di Dio («senza le opere»), sarebbe rimasta “sterile”: Dio
non lo avrebbe considerato “giusto”, la sua fede non lo avrebbe salvato. In questo modo
«si compì» il testo della Scrittura: «Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come
giustizia», «credette» con fede «perfetta», dimostrata dalla sua obbedienza a Dio, e per
questa fede Dio lo dichiarò “giusto” e lo considerò suo “amico”.
Conclusione: «Vedete: l’uomo è giustificato per le opere e non soltanto per la fede».
Ultimo esempio, tratto dalle Scritture, è la storia di Raab: questa donna peccatrice «fu
giustificata per le opere» e non solamente per la fede perché accolse gli esploratori
mandati da Giosuè e salvò la loro vita facendoli ripartire «per un’altra strada». Questo
episodio conferma in modo definitivo la tesi di Giacomo: «come il corpo senza lo spirito è
morto, così anche la fede senza le opere è morta».

DOMANDE PER RIFLETTERE E CONDIVIDERE


1) “La misericordia ha sempre la meglio sul giudizio”. Che significato ha questo
insegnamento nella mia vita quotidiana?
2) “Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come giustizia”. Nella mia vita personale,
nella società in cui vivo, quali sono le principali ingiustizie che vedo e che il Signore mi
chiede di sanare con le opere della fede?
3) La storia di Raab rivela che a volte proprio coloro che non immaginiamo manifestano la
fede in Gesù attraverso le loro opere. Ho mai incontrato persone simili?

ISAIA 57,11-19
Chi hai temuto? Di chi hai avuto paura per farti infedele? E di me non ti ricordi, non ti curi?
Non sono io che uso pazienza da sempre? Ma tu non hai timore di me.
Io divulgherò la tua giustizia e le tue opere, che non ti gioveranno.
Alle tue grida ti salvino i tuoi idoli numerosi. Tutti se li porterà via il vento, un soffio se li
prenderà. Chi invece confida in me possederà la terra, erediterà il mio santo monte.
Si dirà: "Spianate, spianate, preparate la via, rimuovete gli ostacoli sulla via del mio
popolo".
Poiché così parla l'Alto e l'Eccelso, che ha una sede eterna e il cui nome è santo.
"In un luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, per
ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi.
Poiché io non voglio contendere sempre né per sempre essere adirato; altrimenti davanti a
me verrebbe meno lo spirito e il soffio vitale che ho creato.
Per l'iniquità della sua avarizia mi sono adirato, l'ho percosso, mi sono nascosto e
sdegnato; eppure egli, voltandosi, se n'è andato per le strade del suo cuore.
Ho visto le sue vie, ma voglio sanarlo, guidarlo e offrirgli consolazioni. E ai suoi afflitti io
pongo sulle labbra: "Pace, pace ai lontani e ai vicini – dice il Signore – e io li guarirò".

36
Dagli Atti del CG XXIII.
n. 44. Comunità in missione aiutano ad uscire dall’autoreferenzialità e a stabilire un vero
incontro con le persone, in particolare i giovani e le famiglie, lasciandoci stupire,
interpellare ed evangelizzare dal mistero che ciascuno/a porta in sé. Ci sembra importante
passare da una mentalità di autorealizzazione individualistica all’assunzione coraggiosa del
cetera tolle, e da una fede debole che non accetta le contrarietà e difficoltà della vita, alla
capacità di riaffermare la fiducia di essere nelle mani di Dio. Si impara così a gestire i
conflitti, senza paura di affrontarli, armonizzando le differenze, vincendo la tentazione delle
chiacchiere non costruttive.

Dalle Costituzioni art. 23.


Ogni nostra comunità
offra una testimonianza credibile di povertà
e ne faccia una coraggiosa e frequente verifica.
Tenendo presente l'insegnamento di don Bosco e di madre Mazzarello
adotteremo un tenore di vita sobrio e austero,
nello stile salesiano di temperanza, gioia e semplicità.
Procureremo che anche gli ambienti
- specialmente quelli riservati alle suore -
rispondano alle esigenze di una vera povertà.
Ci faremo attente alle condizioni del luogo in cui viviamo,
sia rendendoci sensibili al richiamo della povertà,
sia evitando di adeguarci a quello del benessere.
Cercheremo di aiutare anche le giovani
a liberarsi dalla schiavitù delle cose
e a formarsi alla capacità di condividere e di donare.

PREGHIERA
O Signore, tu sai che spesso ci facciamo condizionare dalle apparenze del mondo invece di
riconoscere la “gloria” che viene solo a te. Tu sai che siamo deboli e insicuri nel cammino
della fede e spesso facciamo discriminazioni anche senza accorgercene. Aiutaci a
riconoscere in ogni uomo un fratello e insegnaci ad amarlo con tutto il cuore, con tutta
l’anima e con tutte le nostre forze, come ha fatto il tuo unico Figlio, il Signore nostro della
gloria, Gesù Cristo. Egli vive e regna con Te nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli
dei secoli. AMEN

37
LE RELAZIONI ATTRAVERSO LA PAROLA (3,1-12)
Tenere a freno la lingua. Viene ora ripresa e sviluppata l’esortazione a «frenare la lingua».
Giacomo inizia mettendo in guardia dalla ricerca ambiziosa del ruolo di «maestro, titolo e
ruolo attestati negli scritti del Nuovo Testamento. Tale funzione comporta una grave
responsabilità e, di conseguenza, espone a «un giudizio più severo». Tutti, infatti, anche i
maestri, tra i quali Giacomo si colloca, spesso commettiamo degli errori. Questa
considerazione fa da ponte verso il tema principale della sezione: «Se uno non pecca nel
parlare, costui è un uomo perfetto». L’ideale di perfezione è quello biblico: non la virtù in
se stessa, bensì aderire senza riserve alla volontà di Dio, manifestata dalla sua Legge.
Chi sa «frenare la lingua» è «capace di tenere a freno anche tutto il corpo», ossia l’intera
persona.
Con immagini colorite e attingendo alla tradizione sapienziale biblica, Giacomo mostra
quanto è importante dominare «la lingua»; fuori metafora: evitare i peccati che si
commettono quando si offende il prossimo oppure si parla a sproposito.
Due paragoni, il morso in bocca ai cavalli e il timone delle navi, illustrano il concetto: chi sa
dominare la lingua avrà il controllo di tutta la sua condotta. L’osservazione conclusiva
sottolinea l’analogia con gli esempi addotti: pur essendo un piccolo membro del corpo
umano, la lingua, come personificata, «può vantarsi di grandi cose», è in grado cioè di
causare effetti smisurati.
Una nuova immagine riprende e sviluppa l’idea. La lingua è come «un piccolo fuoco», che
può incendiare un‘intera foresta. La lingua è «fuoco» nel senso peggiore: è «il mondo del
male». Quanto segue ne è la dimostrazione. «Inserita nelle nostre membra, contagia tutto
il corpo»: con la sua perversità avvelena l’intera persona. «Traendo la sua fiamma dalla
Geenna», luogo delle potenze diaboliche, essa «incendia tutta la nostra vita», ossia può
essere per l’uomo causa di rovina.
Un ultimo paragone è tratto dal regno animale: l’uomo è riuscito a domare «ogni sorta di
bestie», ma nessuno è capace di domare la lingua, «un male ribelle, piena di veleno
mortale».
Quanto sia incontrollabile e operi in modo perverso, appare dal fatto che «con essa
benediciamo il Signore e Padre e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di
Dio». La metafora della sorgente e quella degli alberi sottolineano l’assurda contraddizione
tra maledire e benedire. L’ammonimento: «Non dev’essere così, fratelli miei!» funge da
conclusione.

DOMANDE PER RIFLETTERE E CONDIVIDERE


1) Mi è mai capitato di accorgermi che comunicando in un modo o in un altro, a volte
possono cambiare radicalmente le situazioni?
2) Come posso “dominare” la mia lingua? Ci provo?

SALMO 112
Beato l'uomo che teme il Signore e nei suoi precetti trova grande gioia.
Potente sulla terra sarà la sua stirpe, la discendenza degli uomini retti sarà benedetta.
Prosperità e ricchezza nella sua casa, la sua giustizia rimane per sempre.
Spunta nelle tenebre, luce per gli uomini retti: misericordioso, pietoso e giusto.
Felice l'uomo pietoso che dà in prestito, amministra i suoi beni con giustizia.
Egli non vacillerà in eterno: eterno sarà il ricordo del giusto.
38
Cattive notizie non avrà da temere, saldo è il suo cuore, confida nel Signore.
Sicuro è il suo cuore, non teme, finché non vedrà la rovina dei suoi nemici.
Egli dona largamente ai poveri, la sua giustizia rimane per sempre, la sua fronte s'innalza
nella gloria.
Il malvagio vede e va in collera, digrigna i denti e si consuma.
Ma il desiderio dei malvagi va in rovina.

Dagli Atti del CG XXIII.


n. 50. …Ci lasciamo interpellare dalla parola del Papa: «Spero che tutte le comunità
facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una
conversione pastorale e missionaria che non può lasciare le cose come stanno [...].
Costituiamoci in tutte le regioni della terra in uno “stato permanente di missione”». Queste
parole di papa Francesco rivolte a tutta la Chiesa risuonano per noi donne consacrate, per
ogni educatore/educatrice, come appello incalzante a rinnovare la passione e l’impegno
per la missione educativa evangelizzatrice, in qualunque situazione, in qualsiasi opera,
anche inedita, in cui si esprime il carisma salesiano…

Dalle Costituzioni art. 26.


Le nostre comunità
si aprano inoltre ai bisogni della Chiesa
e siano attente alle speranze e alle attese dei poveri,
rendendosi solidali con loro
come ha fatto don Bosco che, amandoli in Cristo,
ha condiviso le loro ansie e si è dedicato alla loro evangelizzazione.
Abbiano una particolare predilezione
per la gioventù povera
e lavorino per la sua promozione ed educazione integrale.
Nella loro azione apostolica
sentano la responsabilità di coltivare il senso della fraternità
e della giustizia sociale
secondo l'insegnamento della Chiesa.

PREGHIERA
O Padre, donaci di imparare a dominare la nostra lingua, perché le nostre parole nascano
dall’amore per la verità, per il bene e per la giustizia. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli.
AMEN

39
I FRUTTI DELL’AUTENTICA SAPIENZA (3,13-4,3)
La vera sapienza. Dal tema della «lingua» si passa a considerazioni di carattere più
generale.
Avendo di mira in modo particolare i «maestri», poiché anch’essi peccano con la lingua,
Giacomo porta il discorso sulla vera sapienza. Chi pretende di essere «saggio e
intelligente», lo dimostri con i fatti, dando prova di «mite sapienza». Se, al contrario, essi
nutrono in cuore «gelosia amara e spirito di contesa», non si vantino di essere sapienti:
mentirebbero «contro la verità».
C’è, infatti, una «sapienza che viene dall’alto» e c’è una sapienza meramente umana, che è
sotto l’influsso nefasto del maligno. Questa sapienza terrena si manifesta nei
comportamenti che Giacomo sta biasimando: «gelosia e spirito di contesa»; più in genere,
nel «disordine» che sconvolge la vita comunitaria e in «ogni sorta di cattive azioni».
La sapienza che viene da Dio si manifesta, invece, in quegli atteggiamenti, che
contraddistinguono il vero sapiente.
Anzitutto: l’uomo saggio è innocente nella sua condotta.
Segue una serie di aggettivi, che declinano il primo in ordine ai rapporti interpersonali:
«pacifica», «mite» e affabile, «arrendevole» verso chi è superiore per rango e autorità;
inoltre, «piena di misericordia», la virtù cristiana per eccellenza che si traduce in «buoni
frutti» (ossia, le opere di misericordia), «imparziale», che non fa ingiuste discriminazioni,
«sincera», senza finzioni e ipocrisie: atteggiamenti diametralmente opposti alla violenza e
all’arroganza, che caratterizzano la falsa sapienza.
In conclusione, coloro che operano la pace porteranno il «frutto di giustizia», una vita in
armonia con Dio, «seminato nella pace».
Andando alla radice della «gelosia e spirito di contesa», che è frutto di sapienza terrena,
Giacomo esorta a cambiare vita: «Sottomettetevi a Dio»; «umiliatevi davanti al Signore».
«Le guerre e le liti» che travagliano la comunità nascono dalle «passioni» che si agitano nei
suoi membri. Mentre smaschera le brame nascoste («siete pieni di desideri»), critica le
rivalità («uccidete, siete invidiosi... combattete e fate guerra») ed evidenzia il penoso
fallimento delle aspirazioni («non riuscite a ottenere»), Giacomo fa prendere coscienza
dell’orientamento profondo che è necessario ribaltare. Qual è la ragione del fallimento?
I veri credenti affidano a Dio le loro necessita e i legittimi desideri, nella certezza di essere
esauditi; invece, coloro che sono tormentati dalle passioni non pregano; oppure lo fanno
«male», dal momento che si rivolgono a Dio per ottenere ciò che permette loro di
«spendere nei piaceri».
Giacomo apostrofa severamente i falsi sapienti: «peccatori!», «adulteri»; gente «dall’animo
doppio. Li pone di fronte all’alternativa: o amare Dio o «amare il mondo», le realtà terrene
ricercate in modo possessivo e orgoglioso. Nella logica dell’alleanza «amare Dio» è
inconciliabile con ogni forma di idolatria. Viceversa, «amare il mondo» equivale a essere
«nemico di Dio». A questo riguardo Giacomo adduce due citazioni bibliche.
La prima si dovrebbe tradurre: «fino alla gelosia (Dio) desidera lo spirito che fece abitare in
noi». Si tratta del soffio vitale dato all’uomo nella creazione e che il Dio «geloso» desidera
appassionatamente. In altri termini: Dio non tollera che la sua creatura abbia altri dei.
Con la seconda citazione «Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà la sua grazia»,
Giacomo sottolinea che Dio concede una «grazia più grande», quella di diventare «eredi
del regno», non ai sapienti che peccano di orgoglio e prepotenza, bensì ai poveri e agli
umili.
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DOMANDE PER RIFLETTERE E CONDIVIDERE
1) Come compendo “mitezza e sapienza” di cui parla Giacomo?
2) Pensando alla mia esperienza, quale sapienza ho maturato? Quali valori, atteggiamenti
umani, insegnamenti, che ho sperimentato e capito, aiutano a vivere una vita buona?

SALMO 112
A te Signore innalzo l’anima mia; mio Dio,
in te confido: che io non resti deluso!
Non trionfino su di me i miei nemici!
Chiunque in te spera non resti deluso;
sia deluso chi tradisce senza motivo.
Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza; io spero in te tutto il giorno.
Ricordati, Signore, della tua misericordia e del tuo amore, che è da sempre.
I peccati della mia giovinezza e le mie ribellioni,
non li ricordare: ricordati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.
Buono e retto è il Signore, indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia, insegna ai poveri la sua via.
Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà
per chi custodisce la sua alleanza e i suoi precetti.
Per il tuo nome, Signore,
perdona la mia colpa, anche se è grande.
C'è un uomo che teme il Signore?
Gli indicherà la via da scegliere.
Egli riposerà nel benessere,
la sua discendenza possederà la terra.
Il Signore si confida con chi lo teme:
gli fa conoscere la sua alleanza.
I miei occhi sono sempre rivolti al Signore,
è lui che fa uscire dalla rete il mio piede.
Volgiti a me e abbi pietà,
perché sono povero e solo.
Allarga il mio cuore angosciato,
liberami dagli affanni.
Vedi la mia povertà e la mia fatica
e perdona tutti i miei peccati.
Guarda i miei nemici: sono molti, e mi detestano con odio violento.
Proteggimi, portami in salvo;
che io non resti deluso, perché in te mi sono rifugiato.
Mi proteggano integrità e rettitudine, perché in te ho sperato.
O Dio, libera Israele da tutte le sue angosce.

41
Dalle Costituzioni art. 21.
Ognuna di noi è personalmente responsabile
di quanto ha promesso al Signore.
Pratichi perciò il distacco e la dipendenza inerente ad ogni povertà,
liberandosi dall'individualismo e dal desiderio di possedere.
Sia discreta nel domandare,
semplice e leale nel dipendere dalla Superiora,
ricordando che il solo permesso ottenuto
non le garantisce di essere povera
nello spirito delle beatitudini.
Esprima la povertà anche con un forte senso
di appartenenza alla comunità e
una fraterna attenzione ai bisogni delle sorelle.
Chi ha il compito di provvedere
ciò che è necessario o utile, sia preveniente e generosa.

PREGHIERA
O Padre, donaci la mitezza che ci rende disponibili alla tua Sapienza, perché ci lasciamo
guidare nelle vie della tua giustizia e della tua volontà. Tu che vivi e regni nei secoli dei
secoli. AMEN

42
LA CONFERMA DELLA SCELTA RADICALE (4,4-12)
L’appello alla conversione si fa esplicito e insistente. Occorre «sottomettersi a Dio»
obbedendo ai suoi comandi, e «umiliarsi davanti a lui», riconoscendolo come unico
Signore; «avvicinarsi a lui» in senso non cultuale, bensì personale; «resistere al diavolo» e
alle sue insidie; «purificare le mani», cessando di compiere il male, e «santificare i cuori»,
rinnovandosi interiormente; «fare lutto» e «piangere», compresi della propria miseria, in
segno di penitenza. All’appello si intreccia la promessa di salvezza: «resistete al diavolo, ed
egli fuggirà lontano da voi»; «avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a voi» rinnovando le
sue benedizioni; «umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà».
L’esortazione si concretizza in altri due ammonimenti.
Mossi da orgoglio, i falsi sapienti sono facili a giudicare e a parlare male del prossimo.
Giacomo mette in guardia dalla maldicenza e denuncia chi presume di giudicare il fratello:
«Chi dice male del fratello, o giudica il suo fratello, parla contro la Legge e giudica la
Legge», anziché osservarla. Disprezza, infatti, la «legge regale» dell’amore del prossimo. A
ciò si aggiunge che ergersi a giudice equivale a mettersi al posto di Dio, il solo «legislatore
e giudice» di tutti, l’unico «che può salvare e mandare in rovina».
Il secondo ammonimento è rivolto ai ricchi, più esattamente a coloro che cercano di
arricchirsi mediante il commercio. II loro ragionare è simile a quello del ricco della parabola
lucana. Simile è pure la risposta di Giacomo, accompagnata da una riflessione sapienziale
sulla brevità della vita. Un uomo di fede dovrebbe piuttosto affidarsi alla volontà di Dio. Il
ragionamento presuntuoso dei ricchi mercanti è espressione di «arroganza». Il loro vantarsi
è «malvagio» perché disprezza la signoria di Dio.
Andando oltre il tema toccato negli ultimi versetti, la sentenza conclusiva è «chi dunque sa
fare il bene e non lo fa, commette peccato».

DOMANDE PER RIFLETTERE E CONDIVIDERE


1) Come recepisco, in questo momento della mia vita, l’invito ad essere “costante e
paziente”?
2) “Il vostro sì sia sì, e il vostro no sia no”. La fiducia nella parola data, l’onestà nella
comunicazione, sono elementi sempre più rari nel nostro tempo in cui non ci si fida più di
nessuno, si ricorre subito agli avvocati, si diffida sempre di tutto e di tutti. Come vivere
questo insegnamento evangelico?

SALMO 32
Beato l'uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato.
Beato l'uomo a cui Dio non imputa il delitto e nel cui spirito non è inganno.
Tacevo e si logoravano le mie ossa, mentre ruggivo tutto il giorno.
Giorno e notte pesava su di me la tua mano, come nell'arsura estiva si inaridiva il mio
vigore. Ti ho fatto conoscere il mio peccato, non ho coperto la mia colpa.
Ho detto: "Confesserò al Signore le mie iniquità" e tu hai tolto la mia colpa e il mio
peccato.
Per questo ti prega ogni fedele nel tempo dell'angoscia; quando irromperanno grandi
acque non potranno raggiungerlo.
Tu sei il mio rifugio, mi liberi dall'angoscia, mi circondi di canti di liberazione:
"Ti istruirò e ti insegnerò la via da seguire; con gli occhi su di te, ti darò consiglio.

43
Non siate privi d'intelligenza come il cavallo e come il mulo: la loro foga si piega con il
morso e le briglie, se no, a te non si avvicinano".
Molti saranno i dolori del malvagio, ma l'amore circonda chi confida nel Signore.
Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti! Voi tutti, retti di cuore, gridate di gioia!

Dagli Atti del CG XXIII


n. 34. Un cambio di prospettiva invita a coltivare un atteggiamento positivo verso l’altro, andando
oltre l’esteriorità e guardando ogni persona con lo sguardo d’amore incondizionato di Cristo.
Richiede di passare da un certo scetticismo verso quello che c’è e funziona male, a uno sguardo
positivo verso quello che c’è e funziona bene. Chi ha un’attitudine positiva considera se stesso, la
comunità e altre realtà come espressione di bellezza e di ricchezza spirituale. Abitare il
cambiamento richiede di abbandonare la logica del “si è sempre fatto così” per lasciarsi provocare
dalle chiamate di Dio, specialmente quelle che ci raggiungono attraverso i giovani. In quanto
educatrici ed educatori non possiamo più pensarci come coloro che si muovono in un ambiente già
conosciuto, con il compito di far arrivare gli altri là dove sono loro. Bisogna entrare nell’ottica di chi
si accompagna, facendo il cammino con i giovani, ricercando e scoprendo insieme nuove strade.
Questo richiede la flessibilità propria di chi è disposto a imparare e disimparare continuamente.
n. 35. Il mondo che cambia ci porta a valutare quali opere e azioni sono da adattare e/o cambiare
per una pastorale giovanile adeguata ai tempi. Per questo le decisioni non possono essere fondate
sul nostro bisogno di sicurezza, o sul criterio di cosa mantenere, focalizzando l’attenzione solo sui
problemi interni e urgenti. Ci è richiesto invece di far diventare il discernimento uno stile di vita, un
impegno continuo per accogliere la novità dello Spirito, che a volte comporta forti cambi di visione
e di strutture e a volte solo piccoli passi in avanti. Nell’intero Istituto è richiesta una flessibilità che
renda possibile il passaggio dalla tolleranza multiculturale a processi di interculturalità che lo
portino ad essere segno eloquente di comunione nella diversità in un mondo diviso da interessi di
parte e da logiche di dominio.

Dalle Costituzioni art. 24.


Un aspetto essenziale della nostra povertà
è l'operosità assidua, industriosa e responsabile,
con cui collaboriamo al completarsi della creazione e della redenzione del mondo.
Ci sottometteremo con generosità alla comune legge del lavoro,
condividendo anche in questo la sorte dei poveri
che devono faticare per guadagnarsi il pane.
Svolgeremo ogni nostra attività
con spirito apostolico e con la dedizione instancabile
di don Bosco e di madre Mazzarello.
Cercheremo di testimoniare il senso cristiano del lavoro
per la costruzione di un mondo più umano
secondo il disegno di Dio,
ed educheremo le giovani ad assumere con serietà
gli impegni della vita,
nella fedeltà al dovere quotidiano.

PREGHIERA
Padre, fa’ che non dimentichiamo mai che ci sono frutti nella vita che si raccolgono solo
sapendo attendere e pazientare. Insegnaci la pazienza del tuo Figlio, che per amore ha
sopportato la croce, vincendo la morte e aprendo per ogni uomo le porte della
resurrezione. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. AMEN

44
LE ILLUSORIE CERTEZZE (4,13-5,6)
Sulla scia degli ammonimenti precedenti, Giacomo rivolge un‘invettiva ai «ricchi», che già
prima ha accusato di opprimere i poveri.
Con il linguaggio degli antichi profeti Giacomo annuncia ai ricchi la catastrofe che incombe
su di loro e per la quale devono piangere con alti lamenti. Come in una visione, vede le
loro ricchezze imputridite, le loro vesti lussuose rose dalle tarme, l’oro e l’argento dei loro
forzieri arrugginiti...; una ruggine che li consumerà come fuoco divoratore, quando la
ricchezza accumulata testimonierà contro di loro davanti al tribunale di Dio.
Ironicamente, soggiunge: «Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni!», quelli del
giudizio divino.
L’origine della loro ricchezza è messa a nudo con espressioni nelle quali si coglie l’eco dei
testi biblici: le «grida» degli operai, ai quali i grandi proprietari terrieri hanno sottratto il
salario dovuto, sono giunte «agli orecchi del Signore onnipotente». Mentre i lavoratori
soffrivano nell’indigenza, i ricchi padroni si davano a «piaceri e delizie», ingrassando come
animali da macello «per il giorno della strage», quello del giudizio.
In breve, accusa Giacomo, «avete condannato e ucciso il giusto, identificato con il povero
oppresso, che non è in grado di opporre resistenza.

DOMANDE PER RIFLETTERE E CONDIVIDERE


1) L’illusione di vivere per sempre, la scusa dei nostri affari a volte ci portano a
disinteressarci degli altri. Quale esortazione colgo dalla frase dell’apostolo Giacomo: “chi sa
fare il bene e non lo fa commette peccato”?
2) La ricchezza ottenuta ingiustamente è un peccato di cui Dio chiederà conto. Come fare
per combattere la mentalità dell’arricchimento a discapito di tutto e di tutti?

SALMO 24
Del Signore è la terra e quanto contiene:
il mondo, con i suoi abitanti.
È lui che l'ha fondato sui mari e sui fiumi l'ha stabilito.
Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non si rivolge agli idoli, chi non giura con inganno.
Egli otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.
Alzate, o porte, la vostra fronte,
alzatevi, soglie antiche, ed entri il re della gloria.
Chi è questo re della gloria?
Il Signore forte e valoroso, il Signore valoroso in battaglia.
Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi, soglie antiche, ed entri il re della gloria.
Chi è mai questo re della gloria?
Il Signore degli eserciti è il re della gloria.

45
Dagli Atti del CG XXIII.
n. 67. La vita consacrata ha bisogno di rinnovarsi perché lo Spirito Santo si manifesta in
modo diverso secondo le epoche. A noi affida oggi la ricerca di strade nuove per far
giungere la freschezza del Vangelo agli uomini e alle donne, specialmente ai giovani.
A noi tocca svegliare il mondo sull’importanza vitale dell’educazione evangelizzatrice,
cooperare a favore di una società più giusta, dove anche i più vulnerabili possano inserirsi
con la dignità dei figli di Dio e dare il proprio apporto.
n. 68. Come FMA sentiamo la gioia di seguire Gesù che ci invia ad aprire cammini insieme
ai giovani, come hanno fatto don Bosco, madre Mazzarello e tante nostre sorelle. Il
profondo rinnovamento del modo di intendere l’amore verso il prossimo, soprattutto
grazie al Magistero degli ultimi Papi, chiama in causa le nostre comunità e la proposta
educativa che esse offrono.
La dimensione sociale dell’evangelizzazione, indicata esplicitamente nella Evangelii
gaudium, interpella tutta la missione e apre nuovi ambiti di attenzione verso i giovani più
poveri. Nel terreno del carisma è deposto un seme di profezia non ancora pienamente
sviluppato. In un tempo inedito, l’audacia è un atto di amore nei confronti del futuro.

Dalle Costituzioni art. 5.


Il Padre ci chiama
a vivere con maggior pienezza il nostro Battesimo
e ci consacra col dono dello Spirito.
Unite in comunità
ci impegneremo con voto pubblico
a seguire Cristo casto, povero, obbediente,
totalmente disponibili
alla sua missione di salvezza.
Professiamo così
di voler vivere per la gloria di Dio
in un servizio di evangelizzazione alle giovani
camminando con loro nella via della santità.

PREGHIERA
O Padre, fa’ che impariamo a riconoscere dalle divisioni e dai conflitti che ci sono tra noi le
ambizioni e i desideri sbagliati che li causano, perché per amore Tuo possiamo superare
ogni istinto che ci porta ad affermarci contro il bene, contro il diritto dell’altro, contro la
giustizia, la verità e la misericordia. E così somigliare sempre più al tuo Figlio Gesù che ci ha
salvati a gloria del tuo nome. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. AMEN

46
UNA COMUNITÀ IN CAMMINO (5,7-20)
Nelle battute conclusive Giacomo esorta tutti i «fratelli» alla pazienza e alla costanza «fino
alla venuta del Signore». La «venuta del Signore» è vicina. È questa la convinzione delle
prime comunità cristiane. Ora è il tempo della costanza paziente, della quale è modello
l’agricoltore. Egli «aspetta... il prezioso frutto della terra» e della propria fatica fino a che
non siano cadute le prime piogge, quelle autunnali, e le ultime, in primavera. Così, «anche
voi» siate pazienti e costanti nell’attesa: «rinfrancate i vostri cuori», per essere perseveranti
nella fede anche in mezzo alle prove.
Come «modello di sopportazione e di costanza» Giacomo addita i profeti, i quali «hanno
parlato nel nome del Signore»: la vicenda di Geremia è eloquente.
Porta poi l’esempio della «pazienza di Giobbe»: i destinatari della lettera conoscono anche
«la sorte finale che gli riserbò il Signore». Giustamente ora consideriamo «beati» tali
personaggi. La storia di Giobbe, in particolare, ci assicura che il Signore è «ricco di
misericordia» e compassionevole, qualità sulle quali si fonda la fiducia dei credenti.
Al tema della Parusia si collega l’ammonimento: «Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli
altri, per non essere giudicati». «Ecco, il giudice è alle porte».
Alla prospettiva del giudizio, che domina la nostra lettera, come del resto tutto il Nuovo
Testamento, s’ispira anche l’ultima raccomandazione, che riporta l’eco dell’insegnamento
di Gesù: «Non giurate né per il cielo, né per la terra... il vostro “sì” sia sì, e il vostro “no”
no...». All’autore della lettera sta particolarmente a cuore la coesione della comunità,
favorita dall’onesta e dalla sincerità nei rapporti interpersonali.
Pregate! Ricollegandosi all’inizio, l’ultimo accorato invito riguarda la preghiera.
Riallacciandosi all’invito iniziale a chiedere il dono della sapienza, Giacomo conclude lo
scritto esortando a pregare in ogni circostanza della vita: quando si è nella prosperità,
inneggiando a Dio, quando si è nell’afflizione affidandogli le proprie angustie. Chi è
malato, faccia venire i «presbiteri, gli “anziani”. Essi pregheranno per lui «ungendolo con
olio nel nome del Signore»: con il potere da lui conferito e compiendo il gesto che ha
insegnato ai suoi apostoli, essi agiranno in suo nome e la loro preghiera, «fatta con fede»,
darà al malato la guarigione (lo «salverà»): sarà il Signore stesso a «sollevare» l’ammalato,
liberandolo dal suo abbattimento e dalla sua infermità. Oltre che fisico e psicologico, il
sollievo è soprattutto spirituale: «se ha commesso peccati, gli saranno perdonati»,
s‘intende da Dio.
Le indicazioni di Giacomo sono rilevanti in ordine al rito sacramentale dell’Unzione degli
infermi.
L’invito, che si pone sulla scia dell’indicazione precedente, a «confessare» i propri peccati e
a pregare «per essere guariti» non si riferisce di per sé al sacramento della Penitenza,
riguarda piuttosto l’aiuto spirituale, che i credenti sono tenuti a donarsi reciprocamente.
Confessare pubblicamente («gli uni agli altri») i propri peccati, ossia riconoscersi peccatori,
è segno della volontà di conversione e favorisce il perdono reciproco.
Con la preghiera d’intercessione, l’intera comunità impetra «gli uni per gli altri» la grazia
della guarigione, nel senso di salvezza spirituale. L’efficacia della «preghiera del giusto» è
illustrata dall’esempio di Elia.
Sviluppando l’ultima raccomandazione, Giacomo sollecita a non abbandonare a se stesso il
fratello che «si allontana dalla verità», ossia non vive secondo la fede. Chi «riconduce il
peccatore dalla sua via di errore» sappia che non solamente «lo salverà dalla morte»
escatologica, ma «coprirà una moltitudine di peccati»: quelli del fratello e anche i propri.

47
DOMANDE PER RIFLETTERE E CONDIVIDERE
1) Perdonarsi a vicenda, pregare gli uni per gli altri, aiutarci a ritrovare la via della verità.
Cosa posso fare per cercare di vivere secondo i consigli dell’apostolo Giacomo?

Salmo 92
È bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo, annunciare al mattino
il tuo amore, la tua fedeltà lungo la notte, sulle dieci corde e sull'arpa, con arie sulla cetra.
Perché mi dai gioia, Signore, con le tue meraviglie, esulto per l'opera delle tue mani.
Come sono grandi le tue opere, Signore, quanto profondi i tuoi pensieri!
L'uomo insensato non li conosce e lo stolto non li capisce: se i malvagi spuntano come
l'erba e fioriscono tutti i malfattori, è solo per la loro eterna rovina, ma tu, o Signore, sei
l'eccelso per sempre.
Ecco, i tuoi nemici, o Signore, i tuoi nemici, ecco, periranno, saranno dispersi tutti i
malfattori.
Tu mi doni la forza di un bufalo, mi hai cosparso di olio splendente.
I miei occhi disprezzeranno i miei nemici e, contro quelli che mi assalgono, i miei orecchi
udranno sventure.
Il giusto fiorirà come palma, crescerà come cedro del Libano; piantati nella casa del
Signore, fioriranno negli atri del nostro Dio.
Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno verdi e rigogliosi, per annunciare quanto è
retto il Signore, mia roccia: in lui non c'è malvagità.

Dalle Costituzioni art. 25.


Ad imitazione dei primi cristiani
ognuna di noi
metta volentieri a disposizione della comunità,
oltre ai beni materiali e al frutto del suo lavoro,
anche il proprio tempo, le doti e le capacità personali.
Questa condivisione e comunione fraterna
si estenda dalla comunità locale a
quella ispettoriale tramite l'Ispettrice,
e a quella mondiale tramite la Superiora Generale,
in modo che tutto possa essere messo a servizio
delle finalità apostoliche dell' Istituto,
secondo le necessità delle diverse situazioni.

PREGHIERA
Padre, fa’ che non dimentichiamo mai che ci sono frutti nella vita che si raccolgono solo se
si sa attendere e pazientare. Insegnaci la pazienza del tuo Figlio che per amore ha
sopportato la croce, vincendo la morte e aprendo per ogni uomo le porte della
resurrezione. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. AMEN

(Per i commenti Cfr. Francesco Mosetto, Lettera agli Ebrei, Lettere di Giacomo, Pietro, Giovanni,
Giuda, ELLEDICI, 2014)
(Per i testi biblici e le domande Cfr. La lettera di Giacomo, Diocesi di Pistoia – Ufficio Catechistico
Diocesano, 2017-18)

48
PER RIFLETTERE…

AMORE PER DIO, AMORE


PER IL MONDO
L’amore per il mondo è nemico
di Dio? (Gc 4,5-6)
La sua prima preoccupazione
scaturisce dalla volontà di
evitare che i fedeli scelgano di
amare le cose del mondo.
L’ammonimento che rivolge
loro è dettato dalla severità e
dal desiderio di impedire che i
credenti, dopo aver scelto di
servire il Dio vivente, ora si volgano agli idoli: «Non sapete che l’amore per il mondo è
nemico di Dio? Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio» (Gc
4,4). Vivere secondo lo spirito del mondo significa riaprire le ferite dell’orgoglio e lasciarsi
prendere dall’invidia e dalle rivalità, dall’ingiustizia e dal desiderio di possesso. Non è
possibile alcun compromesso: o si ama il mondo e si è nemici di Dio, oppure si ama Dio e
si rifiuta il mondo.
II Signore ci ama fino alla gelosia, ovvero in maniera così forte e appassionata da non
ammettere rivali, per questo Giacomo osserva: «O forse pensate che invano la Scrittura
dichiari: “Fino alla gelosia ci ama lo Spirito, che egli ha fatto abitare in noi”? Anzi, ci
concede la grazia più grande» (Gc 4,5-6). Una seconda prova di quanto Dio ci voglia bene
è data dal dono di una grazia illimitata e immeritata, la comunione con lui attraverso il
dono dello Spirito Santo.
Il confronto con alcuni testi dell’Apostolo Giovanni ci fa comprendere il significato della
contrapposizione tra amore per Dio e anche per il mondo. Nella «preghiera sacerdotale»
che Gesù innalza al Padre alla vigilia della sua passione, egli chiede che i suoi discepoli
siano custoditi dal maligno; nella sua prima lettera Giovanni rivolge ai suoi «figlioli» questo
appello: «Non amate il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo l’amore del
Padre non è in lui». Il mondo per Giovanni ha una connotazione negativa, è l’insieme di
tutte le forze che sono sottoposte al potere del maligno e si oppongono alla signoria di
Cristo, alla luce della sua Parola, allo splendore della sua verità e alla gratuita del suo
amore; alla salvezza preferiscono le tenebre dell’egoismo e della menzogna. Chi segue la
logica del mondo si rifiuta di credere in Gesù, di riconoscerlo come Figlio di Dio; egli è
venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in lui non cammini nelle tenebre, ma
giunga a possedere la luce della vita. Il Signore insegna ai suoi discepoli un nuovo stile di
vita, contrapposto a quello del mondo, chiede loro di essere forti, perché hanno vinto il
maligno e la parola di Dio dimora in loro.
L’Apostolo Giovanni ammonisce i suoi lettori a non amare il mondo; nel Vangelo,
conversando con Nicodemo, che era venuto da lui di notte per interrogarlo, osserva,
invece, che il mondo è amato con amore perfetto e totale: Dio ha mandato il suo Figlio
perché il mondo si salvi per mezzo di lui.

49
In base a quale criterio nello stesso tempo ci è comandato e proibito di amare il mondo?
Secondo quali motivazioni l’Apostolo Giovanni impedisce di amare il mondo, mentre Gesù
nel Vangelo ci chiede di amarlo? L’invito ad amare il mondo significa donare a tutti, in
primo luogo alle persone e alle realtà che si rendono nemiche di Dio, l’amore che viene da
lui, rendere tutti partecipi dell’amore che fluisce dalla Croce del Redentore. L’amicizia per il
mondo non deve portare ad accettare lo stile di vita e il corredo di valori che il mondo
esalta; per un cristiano l’amore per Dio è esclusivo, totale, assoluto. «Ci vien proibito quindi
di amare nel mondo ciò che in se stesso il mondo ama, e ci viene comandato di amare nel
mondo ciò che in se stesso il mondo odia, cioè l’opera di Dio e le innumerevoli
consolazioni della sua bontà».
L’amicizia per il mondo non è in opposizione con l’amore per Dio. Il mondo è il luogo ove
il cristiano conduce la sua esistenza, si costruisce una famiglia, esercita la sua professione,
vive la sua fede e il suo impegno a essere «luce» e «sale della terra» (Mt 5,13); il mondo
diviene la palestra nella quale apprende ad «amare l’uomo per amare Dio».
I cristiani sono chiamati a liberarsi dagli influssi del mondo segnati dal male, contrari al
Vangelo e al Battesimo, che relegano Dio in una posizione marginale. Ciò non significa
odiare o disprezzare il mondo, bensì, al contrario, amare veramente questo mondo,
l’uomo, tutta l’umanità.
L’amore si dimostra nel fatto di diffondere il vero bene, allo scopo di trasformare il mondo
secondo lo spirito salvifico del Vangelo e preparare la sua piena realizzazione nel Regno
futuro!
Dio vuole che i suoi figli siano luce e sale proprio là dove si trovano: in famiglia, nel lavoro
e nella professione, nello studio, nella prova della malattia e nel vigore del corpo. Cristo
vuole che i suoi discepoli siano «luce del mondo», perché «non si accende una lucerna per
metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono
nella casa» (Mt 5,14-15).

Regole per la revisione della vita cristiana personale e comunitaria


Anche noi possiamo accogliere queste esortazioni e leggere queste parole come un
appello alla revisione della nostra vita cristiana, a livello personale e comunitario. Si tratta
di una serie di ammonimenti e suggerimenti che ci vengono proposti come tappe di un
cammino di conversione e di rinnovamento della nostra relazione con il Signore e con i
fratelli. Il rinnovamento che Giacomo propone è scandito da una serie di verbi
all’imperativo, che rappresentano un appello alla revisione della vita cristiana. Possiamo
descrivere questo percorso secondo la categoria del «ritorno» a Dio che può guarire le
infedeltà, a se stessi e al prossimo che il Signore ci ha insegnato ad amare.
Ritorno a Dio (4,4-8). L’accusa di infedeltà che Giacomo rivolge ai destinatari del suo scritto
riprende gli oracoli profetici dell’Antico Testamento. I profeti avevano denunciato le
infedeltà del popolo di Israele all’Alleanza con Dio facendo ricorso alla simbolica nuziale;
Dio era lo sposo, il popolo la sposa, il tradimento e l’adulterio rappresentavano il peccato
di idolatria. Dio promette di capovolgere questa situazione; al popolo, sua sposa, assicura:
«Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e
nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2,21-22).
Le sue considerazioni si trasformano in un pressante appello a ritornare a Dio sulla strada
della fedeltà e dell’amore: «Torna dunque, Israele, al Signore, tuo Dio, poiché hai

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inciampato nella tua iniquità. Preparate le parole da dire e tornate al Signore; ditegli: “Togli
ogni iniquità, accetta ciò che è bene”» (Os 14,2-3).
Le ferite da curare sono quelle provocate dalle infedeltà e dalle tentazioni che il mondo
abilmente riversa nel nostro animo, oppure dal desiderio di amare qualcuno mancando a
una promessa di fedeltà. Attorno a noi si respira un’atmosfera segnata da una profonda
solitudine, dalla cecità dinanzi a situazioni di bisogno e di povertà, dal rifiuto della propria
fragilità e debolezza, mentre si inseguono sempre più affannosamente i miti del consenso,
del benessere economico e fisico. L’infedeltà assume i contorni della voglia di evadere da
tutti e da tutto; il primo soggetto da cui ci si allontana è Dio, si trascurano i suoi doni, si
dimentica il suo volto.
I regali che i coniugi oppure gli amici si scambiano manifestano il dono di sé che
caratterizza ogni rapporto, la loro funzione è quella di rendere chi è lontano in quel
momento presente allo sguardo e all’affetto. Quando il dono non è più cercato per quello
che rappresenta e per l’amore che trasmette, ma è preso in considerazione in quanto
oggetto di un certo valore economico, non affettivo, il rapporto sponsale o amicale si
trasforma in relazione d’interessi, l’amore cessa di essere vincolo gratuito e si configura
come un bene da conquistare.
Tornare al Signore significa ritrovare in noi la capacita di sentire nuovamente la voce di Dio
che non si dimentica delle sue creature, accogliere e trasmettere il dono di «un amore che
non ha paura dell’impegno e della fatica»”.
I cristiani devono portare il messaggio di questo amore all'uomo del nostro tempo, spesso
chiuso nell’indifferenza e nell’individualismo, diventando segno della tenerezza di Dio per
quanti incontriamo quotidianamente sulle strade dell’esistenza, nella condivisione del
dolore, nell'attenzione ai problemi che travagliano la vita, nel cammino di fede.
All’appellativo: «Gente infedele!» (4,4) fanno seguito alcuni imperativi: «Sottomettetevi
dunque a Dio; resistete al diavolo, ed egli fuggirà lontano da voi. Avvicinatevi a Dio ed egli
si avvicinerà a voi» (4,7-8). L’invito a sottometterci a Dio svela la nostra identità di credenti;
quando diciamo che qualcuno è sottomesso a un’altra persona normalmente pensiamo
che sia privato della libertà e della capacita di decidere autonomamente. Non è facile
comprendere le motivazioni di coloro che preferiscono rifiutare questo invito, forse hanno
timore di essere assoggettati a un Dio che non vuole il loro bene e la loro felicita, oppure
temono di perdere la libertà di poter agire autonomamente; il rischio è quello di cadere in
balia delle passioni e della logica del mondo.
Ecco il secondo comando: resistete al diavolo, avversario di Dio; opponetevi alle sue
strategie e ai suoi intrighi, non cedete alle sue proposte. Essere sottomessi a Dio significa
riconoscere in lui la sorgente della verità e la fonte della libertà, egli ci vuole suoi amici,
come Abramo. Il movimento di avvicinamento a Dio, nelle intenzioni di Giacomo, riflette un
duplice percorso: da un lato è Dio che si muove verso i suoi figli e manifesta loro tutto il
suo amore; dall’altro sono i credenti che, dopo essersi allontanati, ora ritrovano la strada
che conduce a lui e rispondono con docilità all’invito di sedersi alla sua mensa. I tre
imperativi che abbiamo preso in considerazione implicano un profondo cambiamento
dell’esistenza: il riferimento per il suo cammino di conversione è Dio, a lui deve volgere lo
sguardo e dirigere i suoi passi. II cristiano deve svestire i panni dell’autosufficienza e
dell’arroganza, della fiducia nella ricchezza e negli idoli, per ritrovare in sé la dimensione
della povertà e dell’umiltà del cuore.

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Ritorno a se stessi (4,9-10). II ritorno alla dimensione della propria interiorità racchiude in sé
la presa di coscienza della propria situazione di peccato. Giacomo denuncia la condizione
del cristiano peccatore con due vocaboli, a cui fanno seguito alcune esortazioni di
carattere penitenziale: «Peccatori, purificate le vostre mani; uomini dall’animo indeciso,
santificate i vostri cuori» (4,8). La condizione di peccatore separa l’uomo da Dio; la via del
ritorno è segnata dall’impegno della purificazione delle mani e del cuore, a cui possiamo
aggiungere la purificazione della memoria. Quest’ultima operazione richiede «un atto di
coraggio e di umiltà nel riconoscere le mancanze compiute da quanti hanno portato e
portano il nome di cristiani». La memoria è «il luogo necessario del discernimento, in cui il
passato, anche se amaro, diviene nutrimento per il futuro».
Purificare la memoria significa rimuovere le cause che hanno generato molteplici ferite e
colpe nella storia personale e comunitaria, inginocchiarsi davanti a Dio e ai fratelli per
chiedere perdono delle tante offese che pesano sul passato, svalutano il presente e
offuscano il futuro.
Il richiamo alla purificazione del cuore e delle mani racchiude un aspetto liturgico; alla
domanda: «Chi potrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo?», il
Salmista risponde: «Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non si rivolge agli idoli, chi non
giura con inganno». Anche Gesù nel Vangelo richiama più volte il tema della purezza a
partire dal culto; i farisei e gli scribi avevano imposto una serie di prescrizioni ai comandi
del Signore, al punto da snaturarne l’autentico significato. Gesù ricorda che la vera
formalità non è quella esteriore, ma è quella del cuore, rammenta che la legge di Dio non è
fatta da una serie di precetti caricati sulle spalle, ma è una legge che aiuta l’uomo a vivere
nella libertà e nella verità. Il cuore lontano da Dio è un cuore impuro, appartiene a chi non
segue la legge del Signore, né agisce con rispetto e lealtà. E da questo cuore cattivo che
escono i vizi e le cattive inclinazioni, che sviliscono la purezza.
Giacomo invita i suoi lettori alla santità, rifuggendo ogni doppiezza e falsità, ritrovando
l’unita di se stessi, del pensare e dell’agire, del dire e del fare.
È importante recuperare la rettitudine e la purezza del cuore: il cuore è considerato la sede
degli affetti, dei desideri e della capacita di bene; ambiguità, invidie, gelosie non devono
trovare spazio nel cuore. C’è un secondo livello di purezza da recuperare: è la purezza dello
sguardo e la signoria sulle immagini che i media portano nelle nostre case. Infine,
dobbiamo riguadagnare la purezza e la bellezza del linguaggio: un’educazione prudente
insegna la virtù; preserva o guarisce dalla paura, dall’egoismo e dall’orgoglio, dai sensi di
colpa e dai moti di compiacenza, che nascono dalla debolezza e dagli sbagli umani.
L’educazione della coscienza garantisce la libertà e genera la pace del cuore. Il cammino di
ritorno al Signore comporta la disponibilità a mostrare esteriormente quello che è
avvenuto nell’intimo: «Riconoscete la vostra miseria, fate lutto e piangete; le vostre risa si
cambino in lutto e la vostra allegria in tristezza. Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi
esalterà» (Gc 4,9-10).
Questi insegnamenti si riallacciano alle grandi liturgie penitenziali del Tempio di
Gerusalemme e agli inviti del profeta Gioele: «Ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli
è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al
male». La superficialità si deve trasformare in atteggiamenti vissuti con profonda
convinzione, L’esteriorità e la superbia cedano il passo alla riflessione sulla serietà della
vita; l’unico modo per essere davvero grandi agli occhi di Dio è umiliarsi davanti al Signore
con sincerità. Purezza e menzogna si oppongono nello spazio interiore dell’uomo: la

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menzogna impedisce all’uomo di guardare con verità se stesso, di assumere il peso delle
proprie colpe e dei propri peccati. La purezza lo libera da questo pericolo.
Ritorno al prossimo (Gc 4,11-12; cf 5,12-18). L’ultima tappa del nostro percorso di revisione
della vita personale e comunitaria ci sollecita a rivedere il nostro comportamento nei
confronti del prossimo: «Non dite male gli uni degli altri, fratelli. Chi dice male del fratello,
o giudica il suo fratello, parla contro la Legge e giudica la Legge. E se tu giudichi la Legge,
non sei uno che osserva la Legge, ma uno che la giudica. Uno solo è legislatore e giudice,
Colui che può salvare e mandare in rovina; ma chi sei tu, che giudichi il tuo prossimo?»
(4,11-12). Ancora una volta Giacomo lascia emergere la sua preoccupazione per la
concordia all’interno della comunità, sembra quasi che egli voglia dire ai suoi lettori: fate
attenzione, perché la divisione tra interiorità ed esteriorità si ripercuote sulla vita
comunitaria immettendovi il veleno della maldicenza.
II credente che scredita i fratelli getta fango sulla loro condotta, si innalza a giudice dei
loro comportamenti, commette un grave peccato, perché si sostituisce a Dio, «legislatore e
giudice» (4,12). Neppure le più nobili intenzioni, fosse anche la difesa della verità, devono
spingere i cristiani a usare l’arma della menzogna contro i propri simili. Con la maldicenza
non si rende un servizio alla verità e alla carità, ma le si impedisce di affermarsi, si piega
Dio ai propri scopi facendo passare per suoi giudizi ciò che invece è calunnia.
La dimensione relazionale e fraterna all’interno della comunità non si ferma a queste
esortazioni che abbiamo fatto rientrare in un cammino di conversione e di rilettura del
vissuto personale e comunitario. Nella parte conclusiva della lettera troviamo numerosi
inviti alla preghiera, al perdono vicendevole, alla correzione fraterna, alla vicinanza con i
peccatori (5,12-20). La preghiera diviene il filo conduttore che unisce le ultime esortazioni
di Giacomo; essa non è solo affidamento a Dio, ma anche lode, supplica, confessione della
colpa e disponibilità a concedere il perdono. Richiama all’orazione chi è malato e chi gode
ottima salute (5,13); sollecita a pregare gli uni per gli altri, per ottenere il perdono: «Molto
potente è la preghiera fervorosa del giusto» (5,16). Tra i numerosi personaggi biblici in
grado di giustificare questa affermazione, Giacomo sceglie come figura esemplare il
profeta Elia: non era diverso dalle creature mortali, la sua preghiera fu esaudita per il vigore
della sua supplica e per la potenza della sua fede. Le parole di Giacomo ci invitano a
riflettere sulla qualità della nostra preghiera e interrogarci se essa è davvero espressione
della nostra fede, della fiducia in Dio, della reciprocità e della vicinanza ai nostri fratelli, sia
nelle ore tristi, come in quelle liete. Solo recuperando un senso vivo di fraternità i cristiani
sapranno dare un volto di comunione alle loro comunità e alla Chiesa.

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DUE SAPIENZE A CONFRONTO
Poniamo a confronto la Sapienza che viene da Dio e la sapienza del mondo; esse
rappresentano due logiche opposte e incompatibili, due stili di vita antitetici uno all’altro.
L’Apostolo Paolo presenta questo contrasto opponendo la parola della Croce, rivelatrice
della potenza di Dio, alla sapienza del mondo incapace di offrire un’autentica salvezza (cf
1Cor 1,18-25; 2,1-5). Nella struttura della lettera di Giacomo il brano dedicato alla sapienza
si trova al centro dello scritto. II tema era già stato anticipato quando l’autore aveva
domandato: «Se qualcuno di voi è privo di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti con
semplicità e senza condizioni, e gli sarà data».
Ascoltiamo le parole di Giacomo: «Chi tra voi è Saggio e intelligente? Con la buona
condotta mostri che le sue opere sono ispirate a mitezza e sapienza. Ma se avete nel
vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non dite menzogne contro
la verità. Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrestre, materiale, diabolica;
perché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni.
Invece la Sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena
di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace
viene seminato nella pace un frutto di giustizia» (3,13-18).
Nell’indicare le qualità della sapienza proveniente dall’alto, Giacomo ci offre un ritratto
ideale del cristiano abitato dal dono di Dio; le caratteristiche della sapienza si fondono
nella persona fino quasi a definirla e divenire lo stile di vita del discepolo di Gesù. In questo
modo il cristiano diviene una figura esemplare per il suo comportamento, la sua condotta
luminosa sarà degna di stima e capace di attrarre anche altri a camminare sulla medesima
strada, lo si riconosce per la sua schiettezza, amabilità, per il suo amore per la verità e la
ricerca continua della pace e della concordia con i suoi fratelli.

Sapienza e mitezza (Gc 3,13-14)


Giacomo assume come punto di partenza delle sue riflessioni una domanda, in parte
presupponendo di conoscere già la risposta; egli chiede ai suoi interlocutori: «Chi tra voi è
saggio e intelligente?» (3,13). Potremmo riformulare l’interrogativo chiedendoci: chi tra noi
è capace di penetrare con acutezza e profondità di pensiero il mistero di Dio? Oppure c’è
qualcuno in grado di comprendere gli eventi della storia, prevedere avvenimenti, giudicare
in maniera concreta l’agire degli uomini? Dove trovare, all’interno della comunità cristiana,
figure di credenti che si lasciano guidare dalla sapienza di Dio, la attingono al pozzo della

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sua parola e diventano con le loro parole, il loro stile di vita e le loro azioni punti di
riferimento e guide spirituali per i loro fratelli e sorelle?
Dobbiamo essere sinceri: la domanda di Giacomo ci costringe a riflettere se il nostro modo
di vivere è dettato dalla sapienza e dalla capacita di valutare con attenzione fatti e parole
alla luce del messaggio evangelico.
La domanda che Giacomo rivolge ai suoi lettori si collega a un secondo interrogativo che
abbiamo già incontrato all’inizio del quarto capitolo della lettera: «Da dove vengono le
guerre e le liti che sono in mezzo a voi?» (4,1). L’uomo incapace di mostrare saggezza,
equilibrio, intelligenza si chiude ad accogliere i doni di Dio che lo Spirito diffonde nel cuore
e si priva della pace, ciò che Cristo risorto offrì ai suoi discepoli apparendo loro la sera del
giorno di Pasqua (Gv 20,19). Giacomo sollecita i destinatari della lettera a scoprire il
legame che esiste tra una vita buona e saggia e la disponibilità a costruire rapporti fraterni
dettati dalla pace e dalla giustizia.
La vera sapienza non è acutezza e profondità di pensiero, non è una nuova teoria in grado
di interpretare la complessità del vivere e penetrare le leggi della natura, ma ha un aspetto
profondamente pratico e concreto; si presenta allo sguardo del credente come un dono
che Dio concede ai fedeli che lo invocano. Giacomo afferma che essa «viene dall’alto», la
sua funzione è legata alla vita e alla capacita di giudicare.
La letteratura sapienziale sottolinea il duplice aspetto della sapienza come dono di Dio e
arte del vivere bene; il fedele la invoca dall’Altissimo affinché Dio gli conceda «di parlare
con intelligenza e di riflettere in modo degno dei doni ricevuti» (Sap 7,15); grazie ad essa
può giungere alla conoscenza autentica delle cose e affinare la propria capacità operativa,
può comprendere la struttura del cosmo, l'alternarsi delle stagioni, la posizione degli astri
del cielo e la forza degli elementi della natura. La sapienza è un bene superiore alla
ricchezza e alla prudenza, il fedele la desidera come consigliera, amica, sposa: «Se la
ricchezza è un bene desiderabile in vita, che cosa c’è di più ricco della sapienza, che opera
tutto? Se è la prudenza ad agire, chi più di lei è artefice di quanto esiste? Se uno ama la
giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Ella infatti insegna la temperanza e la
prudenza, la giustizia e la fortezza, delle quali nulla è più utile agli uomini durante la vita»
(Sap 8,5-7).
Il cristiano è chiamato a «mostrare» la sapienza che Dio gli dona attraverso la coerenza tra
il suo dire e il suo fare, quello che si vede è una condotta «bella», non tanto in senso
estetico o morale, ma in quanto esemplare, degna di ammirazione e di lode, improntata a
saggezza e mitezza. Giacomo ci propone un nuovo modo di considerare il cristiano: è un
uomo saggio e mite che rifugge da ogni forma di prepotenza e di autoaffermazione, da
ogni pigrizia e da ogni convenienza arrendevole; bandisce l’arroganza e la presunzione;
vive la relazione con i fratelli lasciandosi guidare dalla mansuetudine e dalla fiducia; è un
uomo di fede che fonda il suo stile mite di vivere sull’amore di Dio, sulla speranza e sulla
promessa di ereditare il Regno dei cieli.

La sapienza che viene dal mondo (3,15-16)


L’Apostolo Giacomo contrappone due diversi tipi di sapienza: quella che viene dall’alto, da
Dio, e quella legata al mondo, i cui effetti giungono a intaccare e distruggere la convivenza
nella comunità: «Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrestre, materiale,
diabolica; perché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive
azioni» (3,15-16). La sapienza mondana è descritta usando tre aggettivi: «terrestre,
materiale, diabolica» (3,15).
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Il credente che abbraccia la mentalità del mondo sceglie ciò che è terreno, il suo sguardo
non sa elevarsi verso l’alto, a malapena riesce a scorgere il sentiero stretto e tortuoso su
cui procedere, Dio non è più presente nei suoi pensieri, non è più il punto di riferimento
delle sue azioni, all’amore e al dono preferisce i miraggi dell’egoismo e dell’orgoglio. Il
secondo aggettivo che qualifica la sapienza mondana lascia intravedere un sistema di
valori fondato su ciò che è materiale, visibile, concreto; mostra un uomo che non riesce a
desiderare le cose del cielo, ma preferisce quelle della terra. La terza caratteristica della
sapienza mondana richiama l’ostilità a Dio: essa è diabolica, la sua forza sta nella divisione
dell’uomo da se stesso, dagli altri, da Dio e nell’opposizione a tutto ciò che è luminoso,
puro, gratuito.
Il credente che si lascia ammaestrare dalla sapienza mondana dimentica di contemplare il
volto di Dio e di ascoltare la sua voce, si lascia prendere dalla gelosia e dall’invidia, dalle
rivalità e dalle contese; trascura la sua identità di discepolo di Gesù, il suo impegno a
cercare la verità. Il prezzo da pagare è una profonda amarezza nella sua vita, perché
vorrebbe possedere, ma non vi riesce; l’ambizione personale gli impedisce di costruire
relazioni autenticamente fraterne, libere e arricchenti.
Gli atteggiamenti che Giacomo denuncia sono contrari alla carità e alla «legge regale»
dell’amore verso il prossimo (2,8); impoveriscono lo spirito di comunione e la fraternità
all’interno della comunità cristiana. Senza ricerca della verità anche la vita del cristiano
diviene sterile e inefficace, è risucchiata dal vortice dell’incapacità a mostrare il valore e la
bellezza della fede e il suo fondamento nella parola ascoltata e accolta, nella solidarietà
verso i fratelli. I suoi frutti sono simili quelli di un albero cattivo: acerbi e amari, come lo è
una vita priva di amore.

La sapienza che viene dall’alto (Gc 3,17-18)


La vera sapienza è un dono da chiedere a Dio senza esitazione, con insistenza, nel
domandarla il cristiano deve avere un cuore puro, libero da ogni colpa. Giacomo descrive
la sapienza con sette qualità che hanno la loro origine in Dio; elencandole una dopo l’altra
ne risulta un programma di vita: «La sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi
pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per
coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia» (Gc 3,17-
18).
Non usa parzialità, né tanto meno ricorre all’inganno; si mostra indulgente e generosa, dai
frutti di bontà, che produce in abbondanza, è possibile riconoscerla. La sapienza è realtà
pacificatrice, chi la possiede sa opporsi a qualsiasi forma di rivalità e di contesa, ma
soprattutto è consapevole di dover portare il suo contributo per costruire relazioni fraterne
a partire dall’ambito familiare, dal gruppo di amici, dal posto di lavoro.
È mite, in quanto riesce ad abbracciare una serie di atteggiamenti improntati a
benevolenza, dolcezza, moderazione, equilibrio, amabilità, cordialità; è arrendevole; non
tiene conto delle proprie posizioni, ma acconsente ad accogliere in modo docile le
riflessioni degli altri; sa essere prudente, perché desidera che si affermi la concordia.
Nell’elenco delle qualità che la sapienza possiede Giacomo aggiunge la misericordia; anche
questa caratteristica ha la sua origine in Dio, ricco di bontà verso tutte le sue creature. La
misericordia non è solo benevolenza verso i poveri e gli indigenti; è un cuore capace di
amare, accogliere e perdonare come il Signore Gesù ci ha insegnato. La sapienza che viene
dall’alto è imparziale e sincera, non ammette nessun favoritismo, né parzialità di giudizio; si
tiene lontana da ogni forma di ipocrisia e di doppiezza, perché Dio vede nell’intimo e
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conosce i segreti nascosti del cuore dell’uomo, non lascerà impunito chi si è allontanato da
lui.
Gli aggettivi che Giacomo usa per descrivere la sapienza che viene dall’alto possono essere
accostati al famoso Inno della carità dell’Apostolo Paolo (1Cor 13,4-8). Le qualità della
sapienza corrispondono ai cataloghi di vizi e virtù delle lettere ai cristiani di Efeso e di
Filippi: «Comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni
umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di
conservare l’unita dello spirito per mezzo del vincolo della pace»; oppure all’elenco dei
frutti dello Spirito Santo: «amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà,
mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22).

Il cristiano: sapiente e mite, beato e felice


I diversi aggettivi usati da Giacomo per descrivere le qualità della sapienza concorrono a
tracciare il cammino di perfezione del cristiano che mette al centro della sua esperienza
spirituale e del suo percorso di discepolato la pagina evangelica delle beatitudini (Mt 5,1-
12). Il quadro e le riflessioni che fin qui abbiamo svolto ora si completano con le ultime
pennellate di colore: il cristiano è chiamato ad assumere come documento fondamentale
del suo essere discepolo la pagina delle beatitudini del Vangelo e a guardare a Gesù come
al Maestro che vive in prima persona il messaggio che annuncia. Lui è il povero per
eccellenza, è mite e assetato di giustizia, è misericordioso e puro di cuore, operatore di
pace e perseguitato.
La sapienza è il primo requisito assegnato in quest’ultima descrizione del cristiano, non è il
frutto dell’intelligenza, ma della verità e della carità attinta dal cuore stesso di Dio. «Il
sapere non è mai solo opera dell’intelligenza. Può certamente essere ridotto a calcolo e ad
esperimento, ma se vuole essere sapienza capace di orientare l'uomo alla luce dei principi
primi e dei suoi fini ultimi, deve essere “condito” con il “sale” della carità. [...] Le esigenze
dell’amore non contraddicono quelle della ragione. Il sapere umano è insufficiente e le
conclusioni delle scienze non potranno indicare da sole la via verso lo sviluppo integrale
dell’uomo.
C’è sempre bisogno di spingersi più in là: lo richiede la carità nella verità.
Andare oltre, però, non significa mai prescindere dalle conclusioni della ragione né
contraddire i suoi risultati. Non c’è l’intelligenza e poi l’amore: ci sono l’amore ricco di
intelligenza e l’intelligenza piena di amore.
La mitezza ci è proposta da Gesù nella pagina evangelica delle beatitudini (Mt 5,5): mite è
la persona che rifiuta la logica della violenza e pone in Dio ogni sua attesa. Gesù stesso è il
Maestro «mite e umile di cuore» (Mt 11,29) che abbraccia la logica dell’amore e del
servizio; i poveri, gli sconfitti da un sistema di potere oppressivo, i malati rifiutati da tutti,
sono i destinatari privilegiati della predicazione del Regno di Dio.
Il profeta Zaccaria aveva preannunciato la venuta di un Re mite e umile che avrebbe fatto
scomparire i carri da guerra da Gerusalemme e portato la pace fino agli ultimi confini della
terra (Zc 9,9-10). San Paolo raccomanda di mettere in pratica la virtù della mitezza, che è
uno dei frutti dello Spirito Santo e all’interno della comunità cristiana è il criterio fondante
per le relazioni fraterne; non è un caso che l’Apostolo ponga la mitezza accanto al domino
di sé (Gal 5,22), quasi per indicarci che queste virtù camminano insieme.
Senza il dominio di sé, il cristiano corre il rischio di far dipendere la sua vita dalle sue
capacita e dalla sua intelligenza, anziché abbandonarsi fiducioso nelle mani del Padre.
Nelle pagine della Bibbia è espressa l’idea che la vera perfezione agli occhi di Dio risieda in
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un comportamento mite, capace di opporre alla violenza l’amore per il prossimo: «Figlio,
compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso» (Sir 3,17).
La mitezza di Gesù è una scelta interiore, radicale, che qualifica il tipo del suo rapporto con
gli altri. La mitezza di Gesù è perfetta; la nostra si costruisce faticosamente giorno dopo
giorno tra lentezze, entusiasmi, sconfitte, asprezze e sprazzi di serenità. La nostra mitezza
deve crescere fino a raggiungere la misura piena che è Cristo, fino a diventare buona, bella,
beata e felice. Il cristiano, sapiente e mite, trova nelle beatitudini evangeliche il riferimento
per il suo percorso verso un’esistenza perfetta (Mt 5,3-12).
Perché non fermarsi a contemplare ogni tanto la bellezza di questa sapienza? Perché non
attingere alla fonte incontaminata dell’amore di Dio la sapienza del cuore, che ci
disintossica dalle scorie della menzogna e dell’egoismo?
“Per coloro che fanno opera di pace – scrive san Giacomo – viene seminato nella pace un
frutto di giustizia” (Gc 3,18), ma per fare opere di pace bisogna essere uomini di pace,
mettendosi alla scuola della “sapienza che viene dall’alto”, per assimilarne le qualità e
produrne gli effetti. Se ciascuno, nel proprio ambiente, riuscisse a rigettare la menzogna e
la violenza nelle intenzioni, nelle parole e nelle azioni, coltivando con cura sentimenti di
rispetto, di comprensione e di stima verso gli altri, forse non risolverebbe tutti i problemi
della vita quotidiana, ma potrebbe affrontarli più serenamente ed efficacemente.
Nel nostro percorso abbiamo optato per una lettura della vita del cristiano nel suo
rapporto con Dio, con la comunità e con il mondo, e questo ci ha portato a toccare diversi
ambiti e ad affrontare molti temi esistenziali. Il cammino di perfezione del cristiano si
fonda sulla fede «nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria» e accoglie la
vocazione a essere forte e paziente nelle prove; pieno di fiducia in Dio; ascoltatore docile
della sua «parola di verità» e suo pronto esecutore con una religiosità vera, ricca di carità e
di sollecitudine verso i poveri; sapiente e mite, coerente e lieto, misurato nel parlare,
costruttore di comunione. «Beato chi medita queste cose e colui che, fissandole nel suo
cuore, diventa saggio; se le metterà in pratica, sarà forte in tutto, perché la luce del Signore
sarà la sua strada» (Sir 50,28-29).
(Cfr. Dino Pessani, La fede alla prova – Riflessioni sulla Lettera di Giacomo, Ed. Ancora, 2013)

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LA POVERTÀ NELL’ARTE: Poveri in riva al mare
Il quadro appartiene al
periodo blu di Picasso, una
fase molto importante
nella formazione artistica
del famoso pittore: tale
periodo prende il nome
dall’utilizzo quasi totale
del colore blu, ed inoltre i
lavori che appartengono a
questa fase hanno per
soggetto dei temi tristi.
In questa composizione, i
protagonisti sono una
famiglia povera: un padre,
una madre ed il loro
bambino, che si trovano in
riva al mare, con
l’espressione triste, i piedi
nudi e con la testa
abbassata, rassegnati al
proprio destino, privi di
qualunque aiuto, mesti ed
infreddoliti.
“Poveri in riva al mare” è
stato realizzato da Picasso
quando aveva solo 22
anni, dimostrando la sua
grande maturità a livello
artistico.
Da un punto di vista
tecnico, è possibile notare
le forti linee marcate
attorno ai protagonisti, che mettono in
Pablo Picasso “Poveri in riva al mare”, 1903 risalto le parti ombrose nei panneggi dei
Cleveland Museum of Art, Cleveland loro vestiti; inoltre la scelta di
rappresentarli tutti distaccati ed in silenzio è stato un atto volontario da parte di Picasso, il
quale ha voluto rappresentare l’impossibilità di comunicare tra i vari protagonisti, distanti e
tristi.
Non c’è alcun calore umano, né luce di speranza… il colore freddo che comunica l’estrema
povertà della famiglia rappresentata, un’indigenza che annichilisce ogni forma di umanità e
annienta qualsiasi tipo di vita interiore: ogni personaggio è chiuso in se stesso e rifiuta di
aprirsi al mondo nel gesto espressivo delle braccia conserte. Unico tentativo di
comunicazione sono le mani del bambino, rivolte verso i genitori in una frustrata ricerca
del conforto degli affetti umani.

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BIBLIOGRAFIA

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Dehoniane Bologna, 2016;

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60
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Saggioro L., Una fede incarnata. Breve commento pastorale alla lettera di Giacomo, Editore
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Stancari P., A partire da Gerusalemme. Lettera di Giacomo, Lettera di Giuda e Seconda


lettera di Pietro. Una lettura spirituale, Editore Apostolato della Preghiera

Taliercio G., Fede e opere, Apostolato della Preghiera Edizioni, 2004;


Rivista, Parole di vita, 2014 / n. 4, Enigmatica o troppo chiara? Introduzione alla lettera di
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Rivista, Parole di vita, 2017 / n. 5, Paolo e Giacomo, Queriniana

Manicardi L., Lettera di Giacomo, Edizioni Qiqajon – DVBD

https://www.youtube.com/watch?reload=9&v=M738lBPxgxo

https://dondoglio.wordpress.com/2013/05/27/tortona-2013-paolo-e-giacomo/

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INDICE

Premessa p. 03

Le Lettere Cattoliche p. 05

La Lettera di Giacomo p. 10
Autore, data, luogo di composizione p. 10
Destinatari e ambiente culturale p. 10
Inserimento nel Canone p. 11
Particolarità stilistiche p. 11
Genere letterario p. 12
Contenuto e strategia compositiva p. 12

Prospettiva Teologica p. 15

Gesù Cristo nella Lettera di Giacomo p. 17

La lettera di Giacomo nella Liturgia p. 22

Paolo e Giacomo: due percorsi singolari p. 26

Giacomo e Martin Lutero: storia di un malinteso? p. 27

Struttura della Lettera di Giacomo p. 29

Per approfondire il testo p. 30


Perseveranza nelle prove (1,2-18) p. 30
Accogliere e mettere in pratica la Parola (1,19-27) p. 33
La fede vissuta in autenticità (2,1-26) p. 35
Le relazioni attraverso la parola (3,1-12) p. 38
I frutti di un’autentica sapienza (3,13-4,3) p. 40
La conferma della scelta radicale (4,4-12) p. 43
Le illusorie certezze (4,13-5,6) p. 45
Una comunità in cammino (5,7-20) p. 47

62
Per riflettere p. 49
Amore per Dio, Amore per il mondo p. 49
Due sapienze a confronto p. 54

La povertà nell’arte p. 59

Bibliografia p. 60

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