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La Spezia
Paolo Veronese, San Giacomo Minore, particolare – Dublino, National Gallery of Ireland
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Le qualità dello scrittore, le significative scelte di contenuto e di stile, permettono di
cogliere la realtà e il valore della Parola per un impegno di testimonianza dinamico
e autentico nella storia.
Per questo, l’approfondimento della Lettera di Giacomo con la sua forte dimensione
comunitaria e la grande attenzione alla concretezza della vita potrà aiutare a rileggere
la nostra stessa esperienza comunitaria e richiamaci alla necessità di vivere
testimoniando, con la coerenza che ci è possibile, la fede che professiamo.
Nello strumento che offriamo, trovate una breve presentazione delle Lettere
Cattoliche, della cui raccolta fa parte la Lettera di Giacomo, la presentazione del
testo, un commento al testo e l’approfondimento di alcuni temi specifici.
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LE LETTERE CATTOLICHE
Le sette lettere del Nuovo Testamento, che non sono di san Paolo, furono ben presto
raccolte in una sola collezione, nonostante la loro origine diversa: una di san Giacomo, una
di san Giuda, due di san Pietro, tre di san Giovanni.
II titolo molto antico di «cattoliche» deriva forse dal fatto che la maggior parte di esse non
è indirizzata a comunità o persone particolari, ma riguardano piuttosto i cristiani in
generale.
La lettera di Giacomo non fu subito accolta nella Chiesa. Quando le chiese accettano la
canonicità di questa lettera, identificano comunemente il suo autore con quel Giacomo
«fratello del Signore» il cui ruolo così distinto nella prima comunità di Gerusalemme, fu
coronato dal martirio per mano dei giudei verso l’anno 62. Evidentemente questo
personaggio è distinto dall'apostolo Giacomo, figlio di Zebedeo, che Erode fece uccidere
nel 44: ma si potrebbe pensare di identificarlo con l’altro apostolo che aveva questo nome,
il figlio di Alfeo. Già gli antichi esitavano su questa identificazione e i moderni ne discutono
ancora.
Del resto, il vero problema si situa altrove e in modo più profondo. Consiste nella
attribuzione stessa della lettera a Giacomo, «fratello del Signore». Questa attribuzione,
infatti, non è senza difficoltà. Se realmente fosse stata scritta da questa personalità di
primo piano, non si comprenderebbe la difficolta che essa incontrò per imporsi alla chiesa
come scrittura canonica.
Inoltre, è stata scritta direttamente in greco, con un‘eleganza, una ricchezza di vocabolario,
un senso della retorica che sorprenderebbero molto in un galileo; forse Giacomo avrebbe
potuto farsi aiutare da un discepolo dotato di una discreta cultura ellenica, ma è una
congettura impossibile a dimostrarsi. Infine la lettera presenta un’affinità molto rilevante
con scritti la cui composizione si situa verso la fine del I sec. o all’inizio del II, specialmente
la prima lettera di Clemente romano e il Pastore d’Erma. Si è spesso affermato che queste
due opere avevano largamente utilizzato la lettera di Giacomo, ma oggi si riconosce
sempre più che queste affinità possono essere spiegate dalla utilizzazione di fonti comuni
e dal fatto che gli autori di queste differenti opere dovevano affrontare difficolta analoghe.
Di conseguenza, numerosi autori oggi pongono la composizione della lettera di Giacomo
verso la fine del I sec. o all’inizio del II.
Il carattere arcaico della sua cristologia verrebbe spiegato non dall’antichità della sua
redazione, ma perché emanerebbe da ambienti giudeo-cristiani, eredi del pensiero di
Giacomo, fratello del Signore, e chiusi agli sviluppi della teologia cristiana primitiva.
Questo scritto vuol raggiungere le «dodici tribù della diaspora», cioè forse i cristiani di
origine giudaica dispersi nel mondo greco-romano, soprattutto nelle regioni confinanti
con la Palestina, quali la Siria o l’Egitto. Che questi destinatari siano convertiti dal
giudaismo, è confermato dal corpo della lettera. L’uso costante che l'autore fa della Bibbia
lascia supporre che essa sia loro familiare, tanto più che l'autore nelle sue argomentazioni
procede più per reminiscenze spontanee e allusioni che soggiacciono ovunque, che per
citazioni esplicite. Si ispira particolarmente alla letteratura sapienziale per derivarne lezioni
di morale pratica, ma dipende anche profondamente dagli insegnamenti del Vangelo, il
suo scritto infatti non è puramente giudaico, come talvolta si è preteso. Vi si ritrovano,
invece, continuamente, il pensiero e le espressioni preferite di Gesù, anche in questo caso,
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più come utilizzazione di una tradizione orale viva, che per citazioni esplicite, prese da una
tradizione scritta.
In conclusione, è un saggio giudeo-cristiano che ripensa in modo originale le massime
della sapienza giudaica in funzione del compimento che esse hanno ricevuto sulla bocca
del Maestro.
Lo scritto si piega con molte difficolta allo stile epistolare. È quindi da considerarsi una
omelia, un saggio di quella catechesi che doveva essere in uso nelle assemblee giudeo-
cristiane del tempo. Vi si trovano una serie di esortazioni morali, collegate senza uno
stretto legame, sia in gruppi di sentenze sullo stesso argomento, sia per assonanze verbali.
Si tratta di pensieri sulla sopportazione delle prove, sull’origine della tentazione, o sul
controllo della lingua, sull’importanza della concordia e della misericordia, sull'efficacia
della preghiera. Il sacramento dell’unzione degli infermi ha un suo luogo teologico proprio
in questa lettera.
Due temi principali occupano tutta l’esortazione.
Uno esalta i poveri e riprende severamente i ricchi: questa sollecitudine verso gli umili, i
favoriti di Dio, si ricollega a una antica tradizione biblica e in modo speciale alle beatitudini
del Vangelo.
L'altro insiste sulla realizzazione di opere buone e mette in guardia da una fede sterile. Su
questo punto c’è anche una discussione polemica, che molti interpreti credono diretta
contro Paolo. Bisogna, infatti, riconoscere che vi sono contatti molto significativi tra
Giacomo e Galati-Romani, specialmente nella differente interpretazione degli stessi testi
biblici su Abramo. Non è impossibile che Giacomo abbia voluto opporsi, se non allo stesso
Paolo, almeno ad alcuni cristiani che deducevano dalla sua dottrina conseguenze nefaste.
Bisogna però ritenere due cose: innanzitutto, al di là di una opposizione superficiale
richiesta da situazioni differenti, Paolo e Giacomo sono d’accordo sulla sostanza; inoltre,
questo tema della fede e delle opere, che veniva sollevato dai dati stessi della religione
giudaica, poteva benissimo essere un argomento tradizionale di discussione che i due
autori hanno trattato in maniera indipendente.
Anche Giuda che si dice «fratello di Giacomo», sembra presentarsi come uno dei «fratelli
del Signore». Niente obbliga a identificarlo con l’omonimo apostolo; anzi egli stesso si
distingue dal gruppo apostolico.
In realtà, già dall’anno 200 questa lettera era stata accolta come Scrittura canonica dalla
maggior parte delle chiese. L’uso di fonti apocrife ha fatto sorgere qualche dubbio fin
dall’antichità, ma non c’è problema, il ricorso a scritti giudaici allora diffusi è legittimo e
non equivale in nessun modo a riconoscere loro un carattere ispirato.
Tutto lo scopo di Giuda consiste nello stigmatizzare i falsi dottori che mettono in pericolo
la fede cristiana. Minaccia loro una punizione divina, illustrata da precedenti della
tradizione giudaica; anche la descrizione che dà dei loro errori sembra influenzata da
questi ricordi del passato. I vizi e la licenza morale che rimprovera loro, soprattutto le loro
bestemmie contro il Cristo Signore e gli angeli, erano presenti nell’ambito del cristianesimo
fin dal I secolo, dovuti all’influsso delle tendenze sincretiste, denunciate dalla lettera ai
Colossesi, dalle Lettere Pastorali e dall’Apocalisse. Alcune caratteristiche invitano però a
non risalire troppo indietro nel I sec. La predicazione degli apostoli è collocata nel passato;
la fede è concepita come un dato oggettivo «trasmesso una volta per tutte»; le lettere di
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Paolo sembrano utilizzate. È vero che la seconda lettera di Pietro utilizza a sua volta quella
di Giuda, ma, come diremo subito, essa può essere posteriore alla morte di Pietro. In
conclusione si pensa agli ultimi decenni dell’epoca apostolica.
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La lettera dovrebbe essere anteriore alla morte di Pietro, 64 o 67, benché Silvano possa
averla completata qualche anno più tardi, seguendo le sue direttive e sotto la sua autorità.
Di portata essenzialmente pratica, questo scritto contiene anche una apprezzabile
ricchezza dottrinale. Vi si trova un meraviglioso riassunto della teologia cristiana comune
all’epoca apostolica, un calore commovente nella sua semplicità. Una delle idee
fondamentali verte sulla coraggiosa sopportazione delle prove, avendo il Cristo per
modello: come Lui, i cristiani devono soffrire con pazienza, felici se le loro tribolazioni
derivano dalla loro fede e dalla loro condotta santa, opponendo al male solo il bene, la
carità, l’obbedienza ai pubblici poteri e la dolcezza verso tutti.
Non c’è dubbio che anche la seconda lettera si presenti come scritta da Pietro. L’apostolo
non soltanto si nomina nell'indirizzo, ma fa anche allusione all'annuncio di Gesù circa la
sua morte e dice che è stato testimone della trasfigurazione. Inoltre, fa allusione a una
prima lettera che non può essere che la Prima Lettera di Pietro.
Se scrive una seconda volta agli stessi lettori, lo fa con un duplice disegno: metterli in
guardia contro i falsi dottori e rispondere all’inquietudine causata dal ritardo della parusia.
A rigor di termini, questa inquietudine e questi falsi dottori possono essere esistiti sin dalla
fine della vita di Pietro, ma vi sono altre considerazioni che mettono in forse l’autenticità
della lettera e suggeriscono una data più tardiva. La lingua ha notevoli differenze rispetto
alla Prima Lettera. Tutto il capitolo 2 riprende liberamente, ma chiaramente, la lettera di
Giuda. Il gruppo apostolico è messo sullo stesso piano del gruppo profetico e l'autore
parla come se non ne facesse parte. Queste difficolta autorizzano dubbi che si sono
manifestati fin dall’antichità. Non solo l'uso della lettera non è attestato con certezza prima
del III secolo, ma, in più alcuni la rigettavano. Anche molti critici moderni si rifiutano di
attribuirla a Pietro ed è difficile dar loro torto. Tuttavia, se un discepolo posteriore si è
coperto dell’autorità di Pietro, forse aveva qualche diritto a farlo, sia che appartenesse ai
circoli che dipendevano dall’apostolo, sia che utilizzasse uno scritto proveniente da lui,
adattandolo e completandolo con l’aiuto di Giuda. Questo non significa necessariamente
creare un «falso», perché gli antichi avevano idee diverse dalle nostre sulla proprietà
letteraria e sulla legittimità della pseudonimia.
Oltre il Vangelo, tre lettere di Giovanni ci sono state conservate dalla tradizione. Esse
presentano una tale parentela letteraria e dottrinale con il Vangelo, che è difficile non
attribuirle allo stesso autore, l’apostolo Giovanni. La seconda e la terza lettera, è vero,
hanno dato luogo a esitazioni di cui si trova eco in Origene, Eusebio di Cesarea, Girolamo;
per lungo tempo non furono accolte nella chiesa d’Antiochia e nelle chiese della Siria, ma
non si vede come tali lettere, semplici biglietti di circostanza senza importanza dottrinale,
sarebbero riuscite a imporsi, se realmente non fossero state opera di san Giovanni.
La terza lettera è verisimilmente la prima in ordine di tempo; tende a regolare un conflitto
d’autorità sorto in una chiesa che dipendeva dall’autorità dell’apostolo.
La seconda lettera mette in guardia un‘altra chiesa particolare contro la propaganda dei
falsi dottori che negavano la realtà dell’incarnazione.
Quanto alla prima lettera, assolutamente più importante, si presenta piuttosto come una
lettera enciclica destinata alle comunità dell’Asia minacciate dalle lacerazioni delle prime
eresie. Giovanni vi ha condensato l’essenza della sua esperienza religiosa. Partendo da temi
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paralleli successivi (luce; giustizia; amore; verità), egli vuol mostrare l’intimo legame che
esiste necessariamente tra il nostro stato di figli di Dio e la rettitudine della nostra vita
morale, considerata come fedeltà al duplice comandamento della fede in Gesù Cristo, figlio
di Dio, e dell’amore fraterno. Per lo stile e la dottrina, questa è la lettera che si avvicina di
più al Vangelo; deve dunque esserne contemporanea.
(Cfr. La Bibbia di Gerusalemme, Commento di Gianfranco Ravasi, Vol. X-XII)
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LA LETTERA DI GIACOMO
INTRODUZIONE AL TESTO
PARTICOLARITÀ STILISTICHE
L’estensore dello scritto sembra possedere una buona conoscenza della lingua greca. In
108 versetti sono adoperati 557 termini, di cui circa 350 utilizzati una sola volta nel corso
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della lettera, 63 sono unici nel panorama letterario del Nuovo Testamento, 18 del tutto
originali e circa quattro non compaiono nel greco ellenistico. Il testo si presenta ricco di
immagini, i termini scelti, verbi, sostantivi e aggettivi sono raffinati, denotano sensibilità
espressiva e comunicativa.
Le argomentazioni passano attraverso la concatenazione di frasi in cui le parole utilizzate, a
seconda dei casi, ampliano il discorso o introducono una nuova trattazione; espressioni
semplici e lapidarie sintetizzano il suo pensiero piuttosto che svolgere ampie trattazioni.
L’autore ama procedere per contrasti, esemplificazioni, evocare paragoni ed immagini,
porre interrogativi, elencare vizi e virtù, privilegiare immagini intense e contrasti acuti,
seguire lo stile profetico-apocalittico di minaccia.
Si nota l’inclinazione alla drammatizzazione, il ricorso a una sottile e forte ironia, la
predilezione di vocaboli provenienti dalla stessa radice per formare giochi di parole,
l’utilizzo del chiasmo e del parallelismo antitetico.
L’attenzione per una certa disposizione retorica è anche evidenziata da alcune scelte
stilistiche quali l’utilizzo della diatriba, le domande retoriche, gli esempi ipotetici, gli esempi
tratti dalla Scrittura, la paronomasia, l’ironia, il dialogo immaginario, l’invettiva.
L’autore dimostra di padroneggiare la cultura semitica ispirandosi, per le sue esortazioni,
alla tradizione parenetica biblico-giudaica della letteratura sapienziale, sia per il contenuto
sia per lo stile.
GENERE LETTERARIO
Se l’indirizzo iniziale potrebbe subito far pensare a una lettera, il seguito dello scritto lascia
emergere che si è ben lontani dal tipico genere epistolare: non vi è alcuna menzione di
relazioni personali tra destinatario e mittente; non vi è traccia di quel dialogo con cui è
ristabilita una relazione interpersonale interrotta; l’assenza dei saluti finali suscita
l’impressione di una conclusione brusca e improvvisa.
L’andamento del discorso perde completamente il tono di una lettera per assumere quello
omiletico della tradizione cristiana, sul modello delle omelie sinagogali e della tradizione
sapienziale. L’autore sembra piuttosto rivolgersi a degli ascoltatori, per i quali lascia
emergere una forza argomentativa che trova le sue ragioni all’interno di una fede autentica
e per nulla suggerita da un mero esercizio persuasivo retorico. Esortazione e dissuasione
procedono entrambe, nella stessa direzione, al fine di evitare non solo le possibili
conseguenze per il presente ed il futuro, ma soprattutto per possedere con chiarezza i
risvolti di una fede vissuta in autenticità.
La numerosa presenza di imperativi, circa 59, la ripresa di tradizioni, proverbi della
tradizione sapienziale (Proverbi, Siracide, Sapienza) e della filosofia popolare ellenistica e di
alcuni detti della tradizione evangelica, mettono in evidenza lo scopo prevalentemente
etico dello scritto.
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punto di vista stilistico, nel suo modo di argomentare, ispirandosi alla tradizione parenetica
biblico-giudaica della letteratura sapienziale, sviluppa con armonia un discorso che è in
continuo movimento con digressioni e nuove focalizzazioni che interagiscono tra loro e
suscitano l’attenzione/reazione degli ascoltatori.
L’azione comunicativa tra l‘autore e i suoi interlocutori si estende in un contesto culturale
condiviso che, riprendendo il ricco bagaglio della tradizione sapienziale biblica, gli
permette di evocare, sia pure attraverso sequenze apparentemente staccate, la
progressione delle sue argomentazioni.
L’applicazione del metodo retorico antico, difficilmente riesce ad incanalare la lettera di
Giacomo in una vera e propria opera prodotta secondo i canoni della manualistica di una
scuola retorica, tuttavia riesce a far intravedere una strategia comunicativa che, influenzata
dalla cultura del tempo, di cui la retorica rappresenta un codice culturale di comunicazione
di primaria importanza, esprime una matrice unitaria di fondo che collega le varie parti del
discorso esortativo.
Dopo l’indirizzo e il saluto epistolare, l’esordio della lettera pone l’attenzione sulla
molteplicità delle prove/tentazioni in cui il cristiano si imbatte, con l’invito a viverle nella
gioia poiché il cammino di fede si concretizza attraverso il loro superamento: un cammino
di perfezione passa attraverso la richiesta a Dio della sapienza, consapevoli della propria
povertà e della necessita di viverla in piena comunione con lui.
Un simile progetto di vita richiede di essere consapevoli del processo che si innesca
quando ci si trova di fronte alle tentazioni: la bramosia e il superamento di ogni forma di
autoinganno che impedisce un‘autentica religiosità. Quest’ultima rappresenta il tema di
fondo che unifica le diverse parti del discorso e costituisce la tesi dell’autore.
Il secondo capitolo approfondisce dal punto di vista tematico quelle asserzioni conclusive,
concise e lapidarie di 1,26-27 e sviluppa il corpo dello scritto con l’esposizione delle
differenti motivazioni e la confutazione delle tesi contrarie.
Il rapporto tra l’autentico ascolto della Parola che conduce alla messa in pratica viene
esteso ed esplicitato attraverso l’esame attento del caso riguardante “i favoritismi” e
fortemente motivato dalla riflessione sul rapporto fede-opere. L’intero secondo capitolo è
dunque formato da due brani che seguono un analogo sviluppo: si aprono con un
annuncio tematico per giungere alle rispettive conclusioni. I lettori/ascoltatori sono così
posti nella condizione di avere piena consapevolezza di ciò che si dovrebbe o non si
dovrebbe operativamente intraprendere in vista di una fede autentica. Le argomentazioni
di Giacomo hanno poco a che fare con le questioni squisitamente paoline, come ad
esempio quelle riguardanti le comunità cristiane della Galazia che annettevano un “valore
salvifico” alle opere della Legge, complementari all’unico evento salvifico costituito dalla
morte e risurrezione di Gesù Cristo. Giacomo, al contrario, non vuole condurre i suoi
interlocutori verso una sorta di legalismo o precettistica, ma vuole aiutarli a comprendere
ciò che è implicato nella professione di fede in Gesù Cristo: un’autentica testimonianza di
fede si concretizza attraverso una prassi di vita seriamente impegnata.
Le relazioni con il prossimo procedono attraverso la comunicazione, ossia la parola,
pertanto l’invito pressante a sapersi controllare nel parlare, ad essere capaci di operare un
discernimento per evitare di ergersi a maestri sugli altri e di impartire insegnamenti
erronei, si basa sulla consapevolezza che la parola può divenire uno strumento veramente
pericoloso per la vita e la crescita della comunità.
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Non solo al maestro, ma a ogni credente è richiesto di “essere sapiente”, perché la ricerca
dell’autentica sapienza che viene dall’alto è espressione di un progetto di vita coerente con
la piena adesione alla Parola, i cui frutti si rendono evidenti. Ciò che si radica nella sapienza
mondana è nefasto e ostacola la crescita della comunità.
Un’improvvisa apostrofe chiama il lettore/ascoltatore direttamente in causa, così da
rimarcare la forza persuasiva e pedagogica di tutto il ragionamento, per invitarlo a
riflettere su ciò che discrimina la coerenza o l’incoerenza dell’agire e sollecitarlo ad un
cammino di conversione verso Dio e verso i fratelli.
Asserita l’inimicizia tra Dio e mondo, due esempi negativi, quello del commerciante e del
ricco possidente, chiariscono ciò che procede da una sapienza esclusivamente mondana: la
sicurezza di sé e le false aspettative provenienti dalle ricchezze.
Le esortazioni finali riassumono quanto l’autore della lettera ha esposto nel corso dello
scritto, raccomandando la paziente attesa del Signore, la preghiera e la solidarietà nella
fede. La sezione conclusiva può essere considerata, dal punto di vista retorico, un epilogo
con cui si rendono evidenti le ragioni dell’intero discorso orientato a modificare la prassi
degli ascoltatori-lettori. Il ricordo della parusia rende urgente e necessaria la risposta
sapiente della comunità, chiarendo che il futuro sarà determinato da ciò che si opera nel
presente.
(Cfr. Rosario Chiarazzo, Lettera di Giacomo, Città Nuova Editrice, 2011)
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PROSPETTIVA TEOLOGICA
Il discorso persuasivo della lettera di Giacomo ha come obiettivo un progetto di vita
integro, conseguenza della fede ricevuta nel Battesimo, per un autentico rapporto con Dio
e con i fratelli.
A tal fine, è tracciato un cammino di “perfezione” che non ha semplici finalità esteriori di
comportamento, quanto piuttosto l’indivisibilità del credente, ossia il coinvolgimento
totale del credente per divenire un cristiano adulto.
La Parola “impiantata” è quella Parola di verità mediante la quale è avvenuta la
generazione dei credenti per libera iniziativa di Dio e che nella sua attuazione salva e rende
liberi.
L’apparente molteplicità dei temi trattati, quali la tentazione, la povertà e la ricchezza, la
perfezione e l’intemperanza, la preghiera, la bontà di Dio, la coerenza tra parole e azioni, la
coesione tra fede ed opere, la misericordia, la sapienza, la discordia, l’amicizia, la gioia, la
pazienza, l’atteggiamento nei confronti del mondo, la malattia, rappresentano l’esigenza di
una trasformazione dei propri criteri valutativi per godere di quella nuova nascita frutto
dell’iniziativa libera e gratuita di Dio e donata al credente da Gesù Cristo per mezzo del
suo mistero di morte e risurrezione.
Nella ricerca della sapienza è donata la risposta alle molteplici domande sul significato
della vita e del mondo, poiché fondata non su una semplice osservazione della realtà, ma
sulla fede in Dio: è la scoperta di un’intima presenza che dà valore al mondo e alla storia di
ogni individuo.
Saggio è chi entra in comunione con la sapienza, una relazione di amore che permette di
scoprire l’alterità di Dio. La Parola di verità è capace di dare una risposta alla ricerca
dell’uomo se si apre ai doni di Dio.
Nella “giustizia di Dio” è racchiuso il molteplice contenuto di una verità con cui nelle
pagine della Bibbia è sintetizzato l’agire divino: Dio è giusto in quanto è fedele alle sue
promesse di salvezza e realizza concretamente ciò che promette. Egli è il solo che nella sua
misericordia rende giusto l’uomo, lo salva in virtù della libera decisione della sua grazia.
Chiedersi “ciò che è giusto” è interrogarsi sul rapporto personale con Dio, sul cercare il suo
volto per plasmare l’esistenza in unione con la sua volontà.
Tutto questo si traduce, allora, in un impegno attivo nella storia, in un dinamismo che
produce nuove condizioni di vita in vista del pieno compimento salvifico. Al contrario, il
rinnegare l’intima armonia vitale che conduce alla salvezza attraverso un agire empio, è
rivelatore di una profonda inconsistenza interiore.
Ciò che uno è, quello che fa e quel che dice, costituisce un’unità inseparabile così come lo
sono l’albero e i suoi frutti. Le parole sono la misura della rettitudine morale e spirituale del
credente che esprimono in superficie ciò che egli è nell’intimo.
La sapienza di Dio si rende evidente tramite i suoi frutti, poiché non si tratta di considerarsi
saggio, ma di esserlo realmente attraverso una vita impegnata.
Nella contrapposizione tra due forme di intendere la sapienza, emerge il sistema valoriale
con le rispettive logiche che le sorreggono.
Una sapienza “diabolica” rivela tutta la sua negatività in quegli atteggiamenti antisociali e
disordinati che distruggono la qualità delle relazioni umane. Se l’opzione fondamentale di
un individuo è per la sapienza terrena, ne consegue un’esaltazione di sé che si ripercuote
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nell’ambito di scelte concrete che portano a prediligere la ricchezza, il potere, il prestigio
per dominare e controllare il prossimo.
Il vivere nell’amicizia con Dio esclude qualsiasi forma di sistema alternativo e richiede un
continuo discernimento per affermare il primato dell’amore verso Dio e verso i fratelli.
L’opulenza e il benessere, ricercati come fine, pongono le basi per un’ingannevole fiducia
in sé nel trovare rifugio dalla fragilità della condizione umana e dall’angoscia della morte.
Tali realtà, paradossalmente, si ripropongono nella loro tragicità di fronte alla
constatazione del proprio limite, una delimitazione che può essere valicata
nell’abbandonarsi al futuro di Dio. II distacco interiore dalla ricchezza così motivata
conduce alla liberalità della condivisione con il prossimo, al superamento di steccati
presenti in ogni comunità, per cui “rinunciare” significa guadagnare quel “tesoro”
inesauribile e inattaccabile da ogni forma di corruzione. Ai credenti è chiesto, con continui
richiami, di fare in modo che la propria vita si lasci trasformare da una fede che coinvolge
tutto il proprio essere.
Nella preghiera si vive e si esprime la relazione con Dio, quel rapporto personale e
comunitario attraverso cui poter ricevere i doni che rendono capaci tutti, forti, deboli,
malati, tristi, di un cammino perseverante nella storia: la preghiera è un’esigenza richiesta
dalla fede e non una delle tante cose da fare.
La perseveranza permette di vivere la relazione con Dio nelle differenti situazioni della vita,
la gioia o il dolore, consapevoli che un cammino coerente si fonda sulla certezza della sua
Parola che produce salvezza e consolazione.
Il cammino di perfezione passa attraverso la capacità di discernere e attuare ciò che è
nell’ottica di Dio, e ai credenti viene offerto incoraggiamento e sostegno per vivere un
progetto di vita integro e totale con Dio, datore del dono splendido e gioioso della vita
piena.
II rimanere incontaminato dalle realtà mondane, allora, sta a indicare la distanza necessaria
da quello spazio negativo dove, prevalendo una logica di prepotenza e di sopruso, i deboli
e gli oppressi perdono qualsiasi diritto di sussistenza, segno invece di predilezione e di
interesse del Padre.
I lettori sono messi in guardia contro gli inganni e gli errori: le discordie minacciano la
comunità in cui il povero, che pure è stato scelto da Dio, è disprezzato; di conseguenza, la
credibilità della fede, l’integrità della preghiera e delle celebrazioni vengono meno al punto
da rendere Dio responsabile delle loro stesse mancanze. L’amore fraterno e la misericordia
vengono lesi; conflitti, calunnie e diffamazioni distruggono la pace ed il rapporto con Dio.
L’autore denuncia il pericolo che il Vangelo diventi un’opinione, oggetto di dispute tra
dotti.
Il brano che più di ogni altro ha suscitato polemiche e discussioni è quello in cui Giacomo
afferma che la fede senza le opere è morta. Il problema, allora, non è la messa in
discussione se la giustificazione provenga solo dall’atto di credere e di abbandono in Dio
che dona la salvezza, quanto piuttosto l’essere consapevoli che i “giustificati” non possono
non muoversi nella consapevolezza che le opere rendono fruttuosa e operativa la
medesima fede: si tratta di due facce di un’unica medaglia, in cui le azioni provenienti dalla
fede non rappresentano degli optional ma, al contrario, la manifestano.
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Non si nega l’importanza della fede poiché non è la fede in sé l’oggetto del dibattito, ma si
sostiene che la fede, da sola, senza le opere è inutile, così com’è superfluo offrire semplici
parole a chi ha freddo e fame.
La riflessione di Giacomo allora non si contrappone o non cerca di polemizzare in maniera
sterile contro la visione paolina della fede, ma suggerisce una prospettiva complementare
che, scevra da estremismi fideistici, si colloca nella viva concretezza del Vangelo. Del resto
anche Paolo parla di fede che opera per mezzo della carità. Giacomo denuncia la
possibilità di un cristianesimo solo verbale, abitudinario e stanco, basato più su discussioni
e discordie che su un impegno concreto nella storia.
L’incontro con Cristo glorioso, oggetto della speranza cristiana, si sostiene e si rafforza non
nella prevedibilità di un dato cronologico, ma nella qualità di un rapporto costruito e
consolidato.
Il richiamo escatologico sostiene quella prassi di vita che, in linea con la tradizione
evangelica, invita ad assumere il presente come tempo opportuno in vista del pieno
raggiungimento della salvezza. La parusia rende urgente e necessaria la risposta sapiente
della comunità chiarendo che il futuro sarà determinato da ciò che si opera nel presente.
L’attesa del Signore non può ammettere forme di passività; al contrario, i credenti sono
invitati a rendere salda la relazione con Dio e con i fratelli. La fortezza che proviene dalla
fede è l'unico antidoto contro ogni sorta di tribolazione, sofferenza, prova e dubbio.
Il giudizio finale sarà commisurato al grado con cui il credente avrà adempiuto la legge
fondata sull’amore: la fede vissuta nell’ottica di un amore attivo e dinamico non teme alcun
giudizio ultimo.
(Cfr. Rosario Chiarazzo, Lettera di Giacomo, Città Nuova Editrice, 2011)
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raggruppate anche diversamente, in un‘interpretazione che certifica una celebrazione forte
della divinità di Gesù: «Gesù Cristo, Dio e Signore».
Le due comprensioni del testo non si escludono a vicenda, tuttavia è significativo che
l’autore combini la possibilità di comprendere, attraverso questa frase, una vigorosa
confessione di fede propriamente cristiana, perché essa ammette la consacrazione della
persona di Gesù di Nazareth come manifestazione dell’essenza di Dio.
Tale formulazione, che autorizza esplicitamente l'identificazione di Gesù con Dio, non è
molto frequente nei testi del Nuovo Testamento. L'equivalente si può trovare soltanto in
tre lettere: Tito, Seconda Lettera di Pietro, Seconda Lettera ai Tessalocinesi.
In quella indirizzata a Tito, in 2,13, l'interpretazione è certa: l'autore evoca senza ambiguità
la «gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo». Infatti, il contesto allude alla
Parusia di Gesù.
In 2Pt 1,1, la maggior parte dei traduttori interpreta il testo come un riferimento a «nostro
Dio e Salvatore Gesù Cristo». In 2Ts 1,12, gli esegeti sono divisi: traducono con «secondo la
grazia del nostro Dio e Signore Gesù Cristo» o con «secondo la grazia del nostro Dio e del
Signore Gesù Cristo». La datazione di questi testi e illuminante. Perché le costruzioni
grammaticali che permettono di far emergere questo elemento fondamentale di una
profonda cristologia, cioè l'enunciato della divinità di Gesù, ricorrono solo in alcuni scritti
tardivi. Tale constatazione fornisce un argomento a favore dell’ipotesi secondo la quale la
Lettera di Giacomo si inscriverebbe in questa categoria di testi.
In ogni caso, il confronto suggerisce che il pensiero religioso dell'autore esprime una
dottrina giunta a un grado di elaborazione tale da permettergli di distaccarsi dai principi
del giudaismo. Infatti, il concetto giudaico di Dio distingue la sua natura come
radicalmente esclusiva di una partecipazione all'umano. Ora, costruendo in tal modo la sua
titolatura, Giacomo non evita di suggerire tale idea.
Questa iniziativa, all'inizio della lettera, in qualche modo la apre così su una celebrazione di
Cristo in tonalità maggiore, per usare un paragone musicale.
«La prova affidabile della gloria accordata...» «Fratelli miei non vogliate trovare nei segni
esteriori la prova affidabile della gloria accordata al nostro Signore Gesù Cristo» (Gc 2,1).
L’interpretazione proposta per questo versetto non corrisponde esattamente alla lettura
che ne è stata fatta in tutta la tradizione. Sul piano del senso, questa diversa comprensione
attribuisce al versetto una portata cristologica più sostanziale.
Infatti, questo passo si inscrive coerentemente nel ragionamento che si sviluppa nella
prima parte del paragrafo, in cui si raccomanda di riconoscere il povero come un prediletto
di Dio. Gli esegeti hanno messo in evidenza la relazione che si stabilisce tra il v. 2,5 in
particolare e il messaggio del Discorso della montagna: «Beati i poveri in spirito...». In
questa logica, appare effettivamente aberrante che i credenti considerino l’abbigliamento
rutilante di un ricco come segno esteriore della benevolenza accordata da Gesù Cristo.
Tradotto in questo modo, il testo rimanda, quindi, non soltanto all‘autorità gloriosa di
Gesù, ma costituisce anche un’eco e un richiamo del suo insegnamento, inscritto in
filigrana nella lettera.
D'altronde, l'idea secondo la quale il Cristo è colui che «dà la gloria» agli uomini è meno
convenzionale della celebrazione della propria gloria, ma essa è feconda, perché
suggerisce la sua sovranità divina capace di trasmettere agli uomini la sua prerogativa
regale. Essa lo mostra così come Signore in azione nel mondo e supera la visione di un
esito statico della sua elevazione.
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Perciò, queste due menzioni del nome di Gesù Cristo, sono efficaci nel testo, perché
proclamano non soltanto la sua natura e la sua potenza divine, ma ricordano anche le linee
fondamentali del Discorso della montagna, suggerendo il suo profilo di predicatore. Tali
menzioni, d’altronde, non sono chiuse nei loro versetti, perché la seconda occorrenza, in
particolare, si inscrive in una relazione con un contesto marcato dalla risonanza del nome
di questo Signore presente tra i poveri. Inoltre, queste due citazioni si inscrivono in un
registro più nutrito di rappresentazioni metaforiche di Cristo che sfumano, completano e
rafforzano l’evocazione della sua autorità nel corso di tutta la lettera.
Metafore di Cristo.
Non meraviglia che Giacomo, raccomandando ai suoi lettori di diventare «poeti della
Parola» (Gc 1,22), alluda in qualche modo a Gesù Cristo attraverso significati metaforici.
Infatti, all’autore non sembra piacere l’uso di formule immediate, il cui senso sia tanto
evidente da poter essere pronunciate senza riflettere per assimilarne il significato
profondo. Al contrario evocando la potenza e l’azione di Cristo attraverso uno stile
immaginoso, l’autore della lettera mira a suscitare una scoperta sempre nuova delle sue
qualità essenziali.
«La Parola impiantata» e «il volto originale». In 1,21 Giacomo invita i suoi fratelli, poiché
sono stati «generati per volontà di Dio per mezzo della sua parola di verità» (1,18) a
purificarsi da ogni macchia e a ricevere «la parola che è stata impiantata e che è salvezza
per la [loro] vita». L’aggettivo emphytos, che si collega a questa entità, la Parola, e che
viene tradotto con «impiantata», costituisce l’unica occorrenza di questa parola nel Nuovo
Testamento. Prima, nella lingua greca, esso evoca l'ispirazione dei poeti che è posta in loro
dalle Muse e che si sviluppa indipendentemente dalla loro volontà cosciente. D’altronde,
per rendere conto del significato preciso della radice principale che compone questa
parola e che è collegata all'idea di «natura» o di «fisico», come del prefisso che indica
un’interiorità, sarebbe possibile immaginare un’equivalenza con l'aggettivo «incarnato»,
poiché la Parola di cui si parla viene ad abitare il corpo dei battezzati.
Giacomo 12,1-25
Perciò, liberati da ogni impurità e da ogni eccesso di malizia, accogliete con docilità
la Parola che è stata impiantata in voi, che è potenza di salvezza per le vostre vite.
Diventate allora dei «poeti», mettendo in opera la Parola e non soltanto degli
ascoltatori, che passano accanto al suo significato essenziale. Infatti, un uditore della
Parola che non la mette in pratica in quanto «poeta» assomiglia a un uomo che
guarda il suo volto originale in uno specchio. Ora è il proprio essere che egli
percepisce poi si allontana e ne dimentica subito i tratti. Chi invece fissa lo sguardo
sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non diventa un
ascoltatore smemorato, ma un «poeta» che mette in opera una energia. In questo
«mettere in opera» troverà la sua beatitudine.
Immaginando questa rappresentazione, Giacomo risolve un problema posto da Ezechiele,
nell’Antico Testamento, che si chiedeva come i fedeli possano passare dall’ascolto della
parola di Dio alla sua obbedienza e alla sua pratica. Per l'autore di questa lettera, è
necessario che gli uomini accolgano in sé questo Verbo, che si è primordialmente
«incarnato», allo scopo di comprenderlo e di compiere la sua volontà.
In questa prospettiva, il fenomeno è possibile solo perché il credente può contemplare un
Dio che condivide la sua natura. Infatti, in 1,23, Giacomo propone l'immagine affascinante
19
dello specchio della contemplazione, in fondo al quale l'uomo in meditazione scopre il suo
«volto originale».
L ‘originalità del pensiero neotestamentario consiste nell'identificare questo irraggiamento
di luce al «volto» umanizzato di Dio, cioè a quello di Gesù Cristo, nel quale il contemplativo
finisce per riconoscere il proprio volto originale.
Nel corso di questa simbiosi, che si realizza nella fase di fascinazione davanti allo specchio,
il credente può allora provare in sé il sentimento mistico di questa Parola, che riempie
ormai la sua natura e vi si sviluppa. In questo testo ispirato, Giacomo contamina il senso
delle sue metafore che si illuminano a vicenda.
Le due espressioni: la «Parola impiantata» e il «volto originale» confermano
reciprocamente un senso metaforico destinato a suggerire gli effetti dell’incarnazione di
Cristo come mezzo per riconoscere la sostanza di ogni identità e di ogni vita nella fede.
L’immagine di Gesù Cristo si delinea, così, nello sfondo di tutto il testo della lettera che si
presenta anche come messaggio ispirato.
«Il bel Nome invocato sopra di voi» e «la legge della libertà». D’altro canto, «il bel Nome
invocato sopra di voi» di cui si parla in Gc 2,7 è stato identificato da alcuni esegeti come un
riferimento al nome di Cristo, attraverso un’allusione al rituale del battesimo. L’espressione
rimane a priori abbastanza vaga, come è opportuno per evocare Dio, secondo la tradizione
ebraica. Tuttavia la natura di questa qualità inesprimibile, riassunta nel qualificativo della
bellezza, è in seguito precisata attraverso il ragionamento che si stabilisce in questa
sezione del secondo paragrafo.
Giacomo 2,7-13
Non sono loro che bestemmiano il bel Nome che è stato invocato sopra di voi?
Certo se adempite la Legge regale secondo ciò che è scritto: «amerai il tuo prossimo
come te stesso», fate bene. Ma se voi «scegliete le vostre teste», attivate il peccato e
la Legge vi denuncia come trasgressori. Poiché chiunque osservi tutta la Legge, ma
la trasgredisca in un punto solo è accusato di tutto. Infatti colui che ha detto «Non
commetterai adulterio» ha anche detto «Non ucciderai». Ora se tu non commetti
adulterio, ma uccidi, ti rendi trasgressore della Legge. Parlate e agite come persone
che saranno giudicate secondo una Legge di libertà misericordiosa. Infatti, il
giudizio sarà senza misericordia per colui che non avrà avuto misericordia. La
misericordia trionfa sul giudizio.
In realtà, nel suo complesso la frase stigmatizza coloro che «bestemmiano il bel Nome
invocato sopra di loro». Essi vengono indicati in modo più sviluppato al v. 2,6 che li
rappresenta come «tiranni». Il vocabolario metaforico diventa quindi specificamente
politico e Giacomo traccia tutta una cronologia religiosa e abbozza una sociologia
sommaria elencando le categorie della «tirannia» dei ricchi, che credono soltanto nel
potere dei loro beni materiali, nonostante la fede che ostentano; poi quella della «Legge
regale» di Dio che si rivela essere una denominazione della Legge ebraica, a partire dal
momento in cui essa entra in rapporto con la «Legge della libertà».
Nel Nuovo Testamento, quest’ultima espressione, nella sua opposizione alla Legge
mosaica, evoca l’avvento della potenza di Cristo che conferisce lo stato di piena umanità.
Ora, il termine «libertà», sia nel pensiero ebraico, con il ricordo della schiavitù in Egitto, sia
nella filosofia politica dei greci, fieri di aver inventato la democrazia, esprime in modo
eccellente un ideale quasi estetico di perfezione.
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L'analisi di queste due formule, dietro il velo della loro espressione metaforica, permette
così di individuare dei riferimenti a Cristo. Giacomo, chiaramente, cerca di arricchire la sua
evocazione lasciando immaginare che cosa rappresenta la bellezza di cui parla, e
l’equilibrio che i discepoli sono chiamati ad avvertire, in questo spirito, tra legislazione e
libertà. La teologia si insinua senza pesantezza didattica, ma traccia sottilmente un ritratto
di Cristo che emerge costantemente nel testo.
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LA LETTERA DI GIACOMO NELLA LITURGIA
La Lettera di Giacomo ha sempre suscitato nella Chiesa passioni forti e decise, dalla
tenerezza verso i poveri e i malati alla condanna dell’avidità e della maldicenza.
Non è mai mancata la presenza di qualche sua pericope nei Lezionari antichi, fin dal VII-VIII
secolo, che prevedevano la proclamazione di Gc 1,17-21 e Gc 1,22-27 (nel Tempo di
Pasqua) e di Gc 5,7-10 e Gc 5,16-20 in diverse occasioni.
Il Messale di Pio V si arricchisce di nuovi e ulteriori passi, portando a ben nove il totale
delle letture attribuite a Giacomo; ma essendosi a quel tempo notevolmente atrofizzata la
Liturgia della Parola, di fatto il popolo di Dio non beneficiò di un tale testo agiografico,
consegnandolo all’appannaggio delle dispute teologiche, ecclesiologiche e spirituali.
Oggi la Chiesa torna a misurarsi e a essere misurata da questi cinque preziosi e sferzanti
capitoletti, che non mancheranno di mostrare il loro peso nell’elaborazione liturgica della
santa assemblea.
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Confessare il peccato e realizzare il Vangelo
Giunto ormai in chiusura del proprio componimento, l’autore della Lettera si rivolge ai
propri fedeli esortandoli con queste parole: «Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli
altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti». Questa disposizione è stata accolta ed
elaborata in vario modo, dando origine a varie formule penitenziali, la più conosciuta delle
quali è certamente la preghiera del Confiteor, presente nel Rito dell’unzione, nel Rito della
penitenza e nel Rito della Messa e sempre preceduta da una monizione. Nel celebrare la
riconciliazione di più penitenti con confessione e assoluzione individuale, il diacono (o un
ministro) si rivolge al popolo e dice: «Fratelli, confessate i vostri peccati e pregate gli uni
per gli altri, per ottenere il perdono e la salvezza». L’invito di Giacomo assume una forma
liturgica coram Deo e il battezzato, di fronte alla comunità, non teme di invocare su di sé e
sui propri fratelli l’azione salvifica e misericordiosa del Signore. Quindi tutto il popolo si
unisce nella supplica al Padre: «Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli, che ho molto
peccato in pensieri, parole, opere e omissioni, (battendosi il petto) per mia colpa, mia
colpa, mia grandissima colpa. E supplico la beata sempre vergine Maria, gli angeli, i santi e
voi, fratelli, di pregare per me il Signore Dio nostro». La triplice ammissione di colpa
scandita dal battersi il petto, la supplica finale rivolta alla Vergine e a tutta la schiera
celeste, amplificano eucologicamente, potenziano ritualmente, approfondiscono
teologicamente, il detto dell’apostolo Giacomo.
Rimanendo nell’ambito della riconciliazione sacramentale, si osservi come il Lezionario
accordi spazio a ben tre pericopi tratte dallo scritto neotestamentario, valorizzando la
teologale relazione esistente tra fede e opere:
1) con Gc 1,22-27 la liturgia intende favorire l’esame di coscienza del penitente facendo
leva sulle parole: «Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto
ascoltatori»;
2) con Gc 2,14-26 l’accento è molto simile: «Che giova, se uno dice di avere la fede, ma
non ha le opere?», toccando ancora il tema della coerenza e della responsabilità;
3) con Gc 3,1-12 si ricorda che «se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto».
A cifra sintetica di questi brani voglio citare la bellissima orazione di Colletta intitolata
“Uditori e operatori della Parola”, che il Messale italiano propone a libera scelta nelle ferie
del Tempo Ordinario. Così prega il sacerdote: «O Dio, nostro Padre, che in Cristo, tua
Parola vivente, ci hai dato il modello dell’uomo nuovo, fa’ che lo Spirito Santo ci renda non
solo uditori, ma realizzatori del Vangelo, perché tutto il mondo ti conosca e glorifichi il tuo
nome».
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Il tema si sviluppa poi in forma litanica nel Responsorio breve, che prorompe come grido
verso il cielo: «Vieni a liberarci, Signore, Dio dell’universo. Mostraci il tuo volto, e saremo
salvi, Dio dell’universo».
Notiamo una vistosa differenza lessicale tra la precedente traduzione CEI e quella 2008
(per ora solo nei Lezionari), che spicca fin dalle prime parole di apertura del brano dove il
«siate pazienti» (Gc 5,7) dell’attuale edizione della Liturgia delle Ore diventerà, nella nuova,
un «siate costanti». In questo contesto osserviamo come nella Colletta della III domenica di
Avvento, Anno A, avendo come Seconda lettura Gc 5,7-10, il Messale italiano compone
questa bella orazione: «Sostieni, o Padre, con la forza del tuo amore il nostro cammino
incontro a colui che viene e fa’ che, perseverando nella pazienza, maturiamo in noi il frutto
della fede e accogliamo con rendimento di grazie il vangelo della gioia».
In modo altrettanto strutturato Giacomo è presente nelle letture brevi del Tempo di
Quaresima. Per tutti i venerdì, all’ora Nona si legge Gc 1,27. Nella nuova traduzione,
leggiamo: «Religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: visitare gli
orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo».
La consonanza con la teologia e la spiritualità quaresimale è assoluta. Basti citarne il
Prefazio III, che si rivolge al Padre dicendo: «Tu vuoi che ti glorifichiamo con le opere della
penitenza quaresimale, perché la vittoria sul nostro egoismo ci renda disponibili alle
necessità dei poveri, a imitazione di Cristo tuo Figlio, nostro salvatore».
Durante i quaranta giorni, abbiamo ai Vespri altri tre brani tratti dalla Lettera, dove in
5,16.19-20 si chiede la confessione “pubblica” dei peccati, la preghiera assidua e la
correzione fraterna (venerdì dopo le ceneri, della II e IV settimana); in 2,14.17.18b l’autore
ricorda che la fede si esprime vitalmente nella carità fattiva (martedì della I e III settimana);
e infine, con Gc 4,7.8-10, la comunità è invitata a sottomettersi a Dio per vincere il peccato
(giovedì dopo le ceneri, della II e IV settimana).
Altre attestazioni le abbiamo nel Tempo Ordinario, nel Comune dei pastori, nel Comune di
un martire e nella Festa di santo Stefano.
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l’altro: «Il tuo Spirito Santo ci aiuti a credere con il cuore, e a confessare con le opere, che
Gesù è il Cristo, per vivere secondo la sua parola e il suo esempio…», fino alla XXVI quando
il presbitero chiede che «…ogni uomo (o Padre) sia ricco del tuo dono».
Un aspetto molto curioso circa l’uso liturgico della Lettera di Giacomo riguarda il suo
abbondantissimo impiego nelle Messe per varie necessita (otto pericopi in totale), con
particolare attinenza alla società civile e alla richiesta della pace e della giustizia.
Così leggiamo Gc 3,13-18 (chi semina nella pace compiendo la pace raccoglie frutti di
giustizia), o Gc 4,1-10 (le guerre e le liti vengono dalle passioni quali il desiderio di
possesso e l’invidia), o Gc 4,13-15 (il destino di ciascuno è nella volontà di Dio e non nella
propria forza economica e politica): pagine straordinariamente lucide, che rivelano una
saggezza umana e un acume spirituale vividi e pragmatici, intolleranti nei confronti di ogni
affabulazione.
Aprendo il Benedizionale, osserviamo come la Lettera sia citata per due volte, ancora nel
contesto di una Benedizione in occasione di ricorrenze civili: Gc 3,13-18 e Gc 4,1-10 si
guadagnano un posto di tutto rispetto, rivelando un’affinità elettiva con la complessità
della trama umana e civile, che alla luce della Parola di Dio è messa a nudo sia nella radice
peccaminosa sia nella vocazione alla santità. Come ricorda Gc 1,18 – testo citato nella
seconda Colletta del Comune dei pastori fondatori di Chiese – il Padre «ci ha generati per
mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature». Questo dono che
viene dall’alto è impegno che segna il cristiano fin nelle midolla, guarendolo da ogni
dicotomia per congiungere in lui fede e prassi, parola e azione, verità e carità, cura
ecclesiale e impegno civile. Senza possibilità di pie scusanti e devote fughe.
(Cfr. A cura di Marida Nicolaci, Lettera di Giacomo, Editrice San Paolo, 2012)
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PAOLO E GIACOMO: DUE PERCORSI SINGOLARI
L'opera di Paolo
Paolo appartiene al partito fariseo. Conosce quindi la Legge orale e la logica farisaica della
Legge, ma è necessario qui fare due precisazioni.
La prima: il giudaismo del primo secolo è plurale. Ad esempio, un testo come il IV libro di
Esdra non ha la medesima comprensione della Legge della Regola della Comunità di
Qumran o del Contra Apionem di Flavio Giuseppe. Il IV di Esdra, in particolare, è
un’interessante testimonianza nella misura in cui si colloca forse nell'intersezione tra Saul, il
fariseo, e Paolo, il discepolo di Gesù.
La seconda: all'interno del partito fariseo, non c’è una corrente unica. Inoltre, all'interno di
una stessa corrente, ci sono soggetti singoli che hanno storie e psicologie singolari. Da ciò
che si può arguire dai testi autobiografici di Paolo, egli sembra essere stato un fariseo
radicale per il quale la Legge era così importante, così cruciale, che mal sopportava
l’atteggiamento di alcuni discepoli giudei di Gesù nei confronti di essa, al punto che egli
cercava di espellerli dalle sinagoghe perché li considerava un pericolo nei confronti della
sua idea del giudaismo, quindi della sua identità.
L'esperienza di conversione di Paolo si può quindi spiegare se si tiene conto di questo
rapporto problematico, quasi ossessivo, nei confronti della Legge: nell’avvenimento di
Damasco, qualcosa si sbilancia nella sua comprensione della Legge. Scopre che il falso
messia a cui egli dà la caccia perseguitando i suoi discepoli è in realtà colui che gli rivela
un‘altra percezione della figura del suo Dio, quindi un’altra percezione di se stesso e della
Legge. Scopre che era prigioniero di una forza che lo spingeva, in nome della Legge, a
rifiutare il Messia.
Certo, per Paolo, la Legge è «santa» e il comandamento rimane «santo, giusto e buono»,
ma l’una e l’altro sono snaturati dalla forza del peccato. La Legge non è più una. Essa è
ambivalente. La Legge della lettera, la legge della carne, la legge interiore: attraverso la
traduzione dall’ebraico al greco, la Torah di Mosè diventa una nozione generale che
ricopre realtà complesse. Nello stesso tempo, la Legge rimane indispensabile perché rivela
l’uomo a se stesso come schiavo del peccato. È l’evento Cristo, riconosciuto da Paolo come
Messia, che può farla ridiventare «Legge dello spirito», quindi Legge di libertà; ma chi è il
Messia/Cristo? È un Messia messo a morte dalla Legge di cui il peccato si è impossessato. II
credente è quindi liberato dalla Legge, cioè egli non trova più il senso della sua vita
nell’obbedienza, nel sì a questa Legge. Paradossalmente, può, nello spirito di libertà,
compiere il senso fondamentale della Legge, il suo scopo: l’agape.
La Lettera di Giacomo
Essa ha origine in una tradizione teologica in cui Gesù è stato riconosciuto come il Messia
promesso dai profeti, senza tutta la problematicità esistenziale di Paolo. In fondo, dicendo
sì al Messia, «Giacomo» ha detto sì alla Legge nella sua piena espressione, cioè alla Legge
reinterpretata alla luce della fede pasquale. II problema del peccato di certo esiste, ma in
modo meno tragico, ancorché, tramite l'intermediazione della lingua che può deviare la
Parola in discorso falso, il peccato agisce nell'uomo e nel credente. Esiste, quindi, anche la
radicalità. Essa risiede, per esempio, nell'interpellanza rivolta ai credenti, la cui identità sta
in una forma di un paolinismo benpensante, dove la «fede» è soltanto un segno identitario
svuotato di energia viva. Sta anche nelle invettive contro gli uomini d’affari e i ricchi che si
pensano autonomi e disprezzano i poveri. Per Giacomo, la Legge è allora la Legge di
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libertà reinterpretata alla luce dell’avvenimento messianico che le conferisce il suo vero
valore. È buona notizia per coloro che si sanno poveri e mancanti davanti a Dio e davanti
agli altri, ma può diventare legge che accusa per coloro che tradiscono il vangelo facendo
distinzioni tra le persone in base a valori mondani. Giacomo ha trovato in Cristo colui che
dà senso pieno alla Legge, che la dilata all’orizzonte del mondo attribuendole la sua
singolarità universale.
Paolo e Giacomo
In definitiva, Paolo e l’autore della Lettera di Giacomo rappresentano due percorsi
differenti di riconoscimento di Cristo. Senza alcun dubbio, se ci fosse stato soltanto il
percorso di Giacomo la storia del cristianesimo non sarebbe stata la stessa: il modello
paolino di rottura è infatti dominante nel canone del Nuovo Testamento, e non è estraneo
all’emergere del cristianesimo come grandezza storica.
Tuttavia è vero che, malgrado il posto modesto nel canone del Nuovo Testamento, il
modello di continuità proposto da Giacomo deve essere accolto come legittimo nello
spazio dei possibili propri alla fede cristiana. La teologia di Giacomo dimostra che è
possibile accedere alla novità dell’avvenimento messianico per una via diversa da quella di
Paolo, una via che integra forse più agevolmente di quella l’eredità della fede ebraica.
(Cfr. Assaël-Cuvillier, La lettera di Giacomo, EDB. 2016)
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STRUTTURA DELLA LETTERA
Non è possibile individuare, nella Lettera di Giacomo, una vera e propria struttura, perché
ogni indizio di struttura o di filo conduttore sembra assente. I temi trattati, come già più
volte affermato, sono molti. Volendo presentare il contenuto dell’opera non si può fare
altro che elencare semplicemente i vari temi:
1,1 Indirizzo
1,2-12 Considerate perfetta letizia quando subite ogni sorta di prove
1,13-18 Ogni dono perfetto viene dal Padre della luce
1,19-27 Ognuno sia pronto ad ascoltare e lento a parlare
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PER APPROFONDIRE IL TESTO…
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Quanto alla «prova» o tentazione, Giacomo chiarisce: essa non viene da Dio, ma dalle
proprie passioni. Dio non è soggetto a tentazioni, che possano indurlo al male e non è
autore delle tentazioni.
Questa seconda affermazione pare in contrasto con vari testi biblici, secondo i quali Dio
mise alla prova Abramo e il popolo ebraico, come in genere i giusti, ma il punto di vista qui
è diverso: Giacomo esclude che l’uomo possa rigettare su Dio le proprie responsabilità.
«Ciascuno è tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e lo seducono».
Che all’origine del peccato ci siano le passioni della «carne» è tema ricorrente nel Nuovo
Testamento, radicato peraltro negli scritti biblici e giudaici.
Sul prolungamento dell’allusione del v. 14, la dinamica delle umane passioni é descritta
con un’immagine di ordine biologico: esse «concepiscono e generano il peccato, e il
peccato, una volta commesso, produce la morte», quella escatologica.
I doni di Dio. Giacomo ammonisce: «Non ingannatevi!». Il male non viene assolutamente
da Dio, il «Padre delle luci», ossia il creatore degli astri «luce» egli stesso, nel quale «non
c’è variazione né ombra di cambiamento», nessuna imperfezione. «Dall’alto», e
precisamente da Lui, viene «ogni buon regalo e ogni dono perfetto», come la sapienza.
Il più grande di questi doni sono la rigenerazione e la vita nuova dei credenti, temi diffusi
negli scritti neotestamentari. Dio «ci ha generati per mezzo della parola di verità», il
vangelo, che trasmette la rivelazione di Dio nel suo Figlio Gesù. Questo egli ha fatto
liberamente e generosamente, per pura grazia, affinché noi fossimo «una primizia delle sue
creature»: una nuova creazione, oppure, in senso cultuale, come popolo santo di Dio,
un’offerta a lui consacrata.
PREGHIERA
O Padre, che ci chiami ad essere perfetti come Tu sei perfetto, apri la nostra mente
all’ascolto della tua parola di verità, perché possiamo conoscere la tua Sapienza. Aiutaci a
perseverare nelle prove, a non vantarci nella ricchezza, a non attribuire a Te le tentazioni
della vita. Aiutaci a conoscere le passioni che ci allontano da Te e producono male, perché
in tutto possiamo piacere a Te, che ci ami sempre con un amore immutabile e fedele. Tu
che vivi e regni con il Figlio nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen
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ACCOGLIERE E METTERE IN PRATICA LA PAROLA (1,19-27)
Preparate prossimamente dal richiamo alla rigenerazione, le esortazioni di Giacomo
toccano argomenti piuttosto disparati.
In una prima serie, Giacomo esorta ad accogliere e mettere in pratica la Parola, a non
discriminare i poveri e a tenere a freno la lingua. Ammonendo, inoltre, che senza le opere
la fede è morta, sottolinea che la vera sapienza è mite e pacifica. La prima esortazione
riguarda le relazioni interpersonali. Come già raccomandava il Siricide, l’uomo saggio
dev’essere «pronto ad ascoltare» e «lento a parlare»; soprattutto, deve guardarsi da parole
dettate dalla passione dell’ira. La collera infatti «non opera la giustizia di Dio», ossia il bene
che egli esige dall’uomo.
All’opposto dell’insipienza dell’iracondo, la «mitezza» dispone l’animo all’ascolto. Giacomo
esorta perciò a liberarsi dalla cattiveria e da ogni sozzura spirituale per poter «accogliere la
Parola», quella divina del vangelo, che è stata seminata e come «impiantata» nell’intimo
dei credenti e che ha il potere di salvare.
Ascoltare e accogliere non è sufficiente è necessario essere «facitori» della Parola. Giacomo
porta come esempio uno che si guarda allo specchio e poi se ne va, dimenticando com’era
l’aspetto del suo volto.
Punto di contatto tra l’esempio addotto e chi ascolta ma non fa, è la leggerezza del
comportamento, per cui il gesto iniziale non ha conseguenze.
Diversamente dall’«ascoltatore smemorato», colui che «fissa lo sguardo sulla legge
perfetta, la legge della libertà» e la mette in pratica, è «beato» perché non solamente
ascolta, ma fa l’«opera» che Dio gli chiede.
La «legge perfetta» è la stessa Parola, in quanto norma di vita, «perfetta» perché è un dono
che discende dal «Padre della luce» e rende perfetto e integro chi la osserva.
È detta «legge della libertà» non nel senso degli stoici (libero è colui che non è schiavo
delle passioni), bensì nell’orizzonte biblico-giudaico (dono di Dio, la libertà consiste nel
vivere secondo la Torah) e nella prospettiva della fede cristiana: la libertà dei figli di Dio.
La vera pietà. Riagganciandosi all’inizio del brano, Giacomo introduce una considerazione
di principio. Colui che, abbandonandosi all’ira, non tiene a freno la sua lingua, non si illuda
di essere «religioso»: costui inganna se stesso («il suo cuore»).
La vera religiosità, quella «pura e senza macchia davanti a Dio», consiste infatti nelle opere
di misericordia («visitare gli orfani e le vedove nelle [loro] sofferenze») e nel conservarsi
«incontaminato dal mondo».
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SALMO 1
Beato l'uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e
non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la
sua legge medita giorno e notte.
È come albero piantato lungo corsi d'acqua, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non
appassiscono e tutto quello che fa, riesce bene.
Non così, non così i malvagi, ma come pula che il vento disperde; perciò non si alzeranno i
malvagi nel giudizio né i peccatori nell'assemblea dei giusti, poiché il Signore veglia sul
cammino dei giusti, mentre la via dei malvagi va in rovina
PREGHIERA
O Signore, insegnaci ad ascoltare perché possiamo riconoscere la tua voce che ci parla
nelle Sacre Scritture, che ci sussurra nell’intimo della coscienza, che canta nella bellezza del
creato e che ci interroga attraverso i fratelli e i poveri. Fa’ che, con mitezza e umiltà,
accogliamo la tua Parola e ci lasciamo condurre da essa a vivere secondo la tua volontà
che è anche la nostra felicità. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. AMEN
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LA FEDE VISSUTA IN AUTENTICITÀ (2,1-26)
Ricchi e poveri nella Chiesa. Sono i fatti concreti a dimostrare la fede e la religiosità
autentica. Come esempio, Giacomo porta il diverso comportamento nei confronti del ricco
e del povero che si rileva nelle riunioni della comunità.
La comune fede in Gesù Cristo, «Signore della gloria», deve essere immune da quei
riguardi personali, che inducono a favorire le persone ricche e influenti. Giacomo porta un
esempio concreto, che descrive con vivacità. Nella riunione della comunità cristiana entra
un ricco, abbigliato in modo splendido e con un anello d’oro al dito; entra anche un
povero, vestito miseramente. II primo è fatto accomodare; I‘altro viene lasciato in piedi,
oppure lo si fa sedere per terra («sotto il mio sgabello»). Così si opera un’ingiusta
discriminazione e ci si comporta da «giudici dai giudizi perversi».
Dall’esempio, Giacomo risale a considerazioni di carattere più generale.
Prima osservazione: Dio non «ha scelto» i ricchi, ma coloro che sono «poveri agli occhi del
mondo». In realtà, grazie alla fede, essi sono ricchi, perché «eredi del Regno» di Dio,
«promesso a quelli che lo amano». Ritorna qui il tema del rovesciamento delle sorti.
Perché, allora, «disonorare» i fratelli poveri?
Seconda osservazione: sono proprio i ricchi a opprimere i credenti. Benché l‘espressione
«vi trascinano davanti ai tribunali» si possa riferire a membri della comunità, ai quali più
oltre è diretta un’invettiva, il seguito fa pensare piuttosto a nemici della fede cristiana: essi
«bestemmiano il bel nome che è stato invocato sopra di voi».
Terza considerazione: chi onora il povero compie perfettamente la Legge («regale» perché
di origine divina e in rapporto con il Regno di Dio), il cui primo precetto é: «Amerai il
prossimo tuo come te stesso». Chi invece si lascia guidare da favoritismi personali, fa un
peccato: la Legge lo accusa come trasgressore. Dal momento, infatti, che tutti e singoli i
suoi comandamenti vengono da Dio, colui che la trasgredisce anche in un punto solo
diventa trasgressore dell’intera Legge. L’assioma è illustrato per mezzo del quinto
comandamento: «se tu non commetti adulterio, ma uccidi, ti rendi trasgressore della
Legge».
La conclusione rimanda al giudizio ultimo, basato su quella «legge di libertà» che si
riassume nel precetto dell’amore di Dio e del prossimo. Giacomo ammonisce: «Il giudizio
sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia». La «misericordia»
dell’uomo, che traduce in gesti concreti il precetto dell’amore, non teme il giudizio: ne esce
vincitrice, perché Dio stesso assicura che userà misericordia verso chi è stato
misericordioso.
La fede e le opere. Primo argomento. Giacomo mette a fuoco lo stretto legame tra fede e
opere, al quale già si riferiva allorché insisteva su «mettere in pratica la Parola», ossia la
«legge perfetta, la legge della libertà», la «legge regale» dell’amore.
Fin dalla prima battuta, Giacomo denuncia una fede inerte, che non avendo le «opere»,
non può «salvare» il credente. A sostegno della sua tesi porta un esempio concreto: non
basta dire una parola buona a un fratello o a una sorella che sono nella necessità, se non si
provvede loro ciò di cui abbisognano. «Così anche la fede», se non possiede le «opere», se
non si traduce in fatti positivi, è come se fosse «morta». Viceversa, se uno ha le «opere», è
in grado di mostrare la propria fede a partire da esse.
Secondo argomento. La fede, nella fattispecie, credere che Dio è «uno» (è la fede di
Israele), la possiedono anche i demoni: «Dio, lo credono e tremano!». Dunque, la nuda
35
fede, quella «senza le opere», è sterile: non giova alla salvezza. Chi si illude del contrario è
un insensato!
Terzo argomento: l’esempio di Abramo, «nostro padre» perché i credenti sono tutti sua
discendenza. Giacomo afferma che il patriarca fu dichiarato giusto da Dio («fu giustificato»)
non «per la fede», bensì «per le sue opere», precisamente per il fatto che, in obbedienza al
comando divino, «offri Isacco, suo figlio, sull’altare». Nel comportamento di Abramo si
vede bene che egli non solamente ebbe fede in Dio, ma che questa cooperava con «le
opere di lui», sì che appunto «per le opere divenne perfetta» ed efficace; se, invece, non
avesse agito secondo il comando di Dio («senza le opere»), sarebbe rimasta “sterile”: Dio
non lo avrebbe considerato “giusto”, la sua fede non lo avrebbe salvato. In questo modo
«si compì» il testo della Scrittura: «Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come
giustizia», «credette» con fede «perfetta», dimostrata dalla sua obbedienza a Dio, e per
questa fede Dio lo dichiarò “giusto” e lo considerò suo “amico”.
Conclusione: «Vedete: l’uomo è giustificato per le opere e non soltanto per la fede».
Ultimo esempio, tratto dalle Scritture, è la storia di Raab: questa donna peccatrice «fu
giustificata per le opere» e non solamente per la fede perché accolse gli esploratori
mandati da Giosuè e salvò la loro vita facendoli ripartire «per un’altra strada». Questo
episodio conferma in modo definitivo la tesi di Giacomo: «come il corpo senza lo spirito è
morto, così anche la fede senza le opere è morta».
ISAIA 57,11-19
Chi hai temuto? Di chi hai avuto paura per farti infedele? E di me non ti ricordi, non ti curi?
Non sono io che uso pazienza da sempre? Ma tu non hai timore di me.
Io divulgherò la tua giustizia e le tue opere, che non ti gioveranno.
Alle tue grida ti salvino i tuoi idoli numerosi. Tutti se li porterà via il vento, un soffio se li
prenderà. Chi invece confida in me possederà la terra, erediterà il mio santo monte.
Si dirà: "Spianate, spianate, preparate la via, rimuovete gli ostacoli sulla via del mio
popolo".
Poiché così parla l'Alto e l'Eccelso, che ha una sede eterna e il cui nome è santo.
"In un luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, per
ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi.
Poiché io non voglio contendere sempre né per sempre essere adirato; altrimenti davanti a
me verrebbe meno lo spirito e il soffio vitale che ho creato.
Per l'iniquità della sua avarizia mi sono adirato, l'ho percosso, mi sono nascosto e
sdegnato; eppure egli, voltandosi, se n'è andato per le strade del suo cuore.
Ho visto le sue vie, ma voglio sanarlo, guidarlo e offrirgli consolazioni. E ai suoi afflitti io
pongo sulle labbra: "Pace, pace ai lontani e ai vicini – dice il Signore – e io li guarirò".
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Dagli Atti del CG XXIII.
n. 44. Comunità in missione aiutano ad uscire dall’autoreferenzialità e a stabilire un vero
incontro con le persone, in particolare i giovani e le famiglie, lasciandoci stupire,
interpellare ed evangelizzare dal mistero che ciascuno/a porta in sé. Ci sembra importante
passare da una mentalità di autorealizzazione individualistica all’assunzione coraggiosa del
cetera tolle, e da una fede debole che non accetta le contrarietà e difficoltà della vita, alla
capacità di riaffermare la fiducia di essere nelle mani di Dio. Si impara così a gestire i
conflitti, senza paura di affrontarli, armonizzando le differenze, vincendo la tentazione delle
chiacchiere non costruttive.
PREGHIERA
O Signore, tu sai che spesso ci facciamo condizionare dalle apparenze del mondo invece di
riconoscere la “gloria” che viene solo a te. Tu sai che siamo deboli e insicuri nel cammino
della fede e spesso facciamo discriminazioni anche senza accorgercene. Aiutaci a
riconoscere in ogni uomo un fratello e insegnaci ad amarlo con tutto il cuore, con tutta
l’anima e con tutte le nostre forze, come ha fatto il tuo unico Figlio, il Signore nostro della
gloria, Gesù Cristo. Egli vive e regna con Te nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli
dei secoli. AMEN
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LE RELAZIONI ATTRAVERSO LA PAROLA (3,1-12)
Tenere a freno la lingua. Viene ora ripresa e sviluppata l’esortazione a «frenare la lingua».
Giacomo inizia mettendo in guardia dalla ricerca ambiziosa del ruolo di «maestro, titolo e
ruolo attestati negli scritti del Nuovo Testamento. Tale funzione comporta una grave
responsabilità e, di conseguenza, espone a «un giudizio più severo». Tutti, infatti, anche i
maestri, tra i quali Giacomo si colloca, spesso commettiamo degli errori. Questa
considerazione fa da ponte verso il tema principale della sezione: «Se uno non pecca nel
parlare, costui è un uomo perfetto». L’ideale di perfezione è quello biblico: non la virtù in
se stessa, bensì aderire senza riserve alla volontà di Dio, manifestata dalla sua Legge.
Chi sa «frenare la lingua» è «capace di tenere a freno anche tutto il corpo», ossia l’intera
persona.
Con immagini colorite e attingendo alla tradizione sapienziale biblica, Giacomo mostra
quanto è importante dominare «la lingua»; fuori metafora: evitare i peccati che si
commettono quando si offende il prossimo oppure si parla a sproposito.
Due paragoni, il morso in bocca ai cavalli e il timone delle navi, illustrano il concetto: chi sa
dominare la lingua avrà il controllo di tutta la sua condotta. L’osservazione conclusiva
sottolinea l’analogia con gli esempi addotti: pur essendo un piccolo membro del corpo
umano, la lingua, come personificata, «può vantarsi di grandi cose», è in grado cioè di
causare effetti smisurati.
Una nuova immagine riprende e sviluppa l’idea. La lingua è come «un piccolo fuoco», che
può incendiare un‘intera foresta. La lingua è «fuoco» nel senso peggiore: è «il mondo del
male». Quanto segue ne è la dimostrazione. «Inserita nelle nostre membra, contagia tutto
il corpo»: con la sua perversità avvelena l’intera persona. «Traendo la sua fiamma dalla
Geenna», luogo delle potenze diaboliche, essa «incendia tutta la nostra vita», ossia può
essere per l’uomo causa di rovina.
Un ultimo paragone è tratto dal regno animale: l’uomo è riuscito a domare «ogni sorta di
bestie», ma nessuno è capace di domare la lingua, «un male ribelle, piena di veleno
mortale».
Quanto sia incontrollabile e operi in modo perverso, appare dal fatto che «con essa
benediciamo il Signore e Padre e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di
Dio». La metafora della sorgente e quella degli alberi sottolineano l’assurda contraddizione
tra maledire e benedire. L’ammonimento: «Non dev’essere così, fratelli miei!» funge da
conclusione.
SALMO 112
Beato l'uomo che teme il Signore e nei suoi precetti trova grande gioia.
Potente sulla terra sarà la sua stirpe, la discendenza degli uomini retti sarà benedetta.
Prosperità e ricchezza nella sua casa, la sua giustizia rimane per sempre.
Spunta nelle tenebre, luce per gli uomini retti: misericordioso, pietoso e giusto.
Felice l'uomo pietoso che dà in prestito, amministra i suoi beni con giustizia.
Egli non vacillerà in eterno: eterno sarà il ricordo del giusto.
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Cattive notizie non avrà da temere, saldo è il suo cuore, confida nel Signore.
Sicuro è il suo cuore, non teme, finché non vedrà la rovina dei suoi nemici.
Egli dona largamente ai poveri, la sua giustizia rimane per sempre, la sua fronte s'innalza
nella gloria.
Il malvagio vede e va in collera, digrigna i denti e si consuma.
Ma il desiderio dei malvagi va in rovina.
PREGHIERA
O Padre, donaci di imparare a dominare la nostra lingua, perché le nostre parole nascano
dall’amore per la verità, per il bene e per la giustizia. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli.
AMEN
39
I FRUTTI DELL’AUTENTICA SAPIENZA (3,13-4,3)
La vera sapienza. Dal tema della «lingua» si passa a considerazioni di carattere più
generale.
Avendo di mira in modo particolare i «maestri», poiché anch’essi peccano con la lingua,
Giacomo porta il discorso sulla vera sapienza. Chi pretende di essere «saggio e
intelligente», lo dimostri con i fatti, dando prova di «mite sapienza». Se, al contrario, essi
nutrono in cuore «gelosia amara e spirito di contesa», non si vantino di essere sapienti:
mentirebbero «contro la verità».
C’è, infatti, una «sapienza che viene dall’alto» e c’è una sapienza meramente umana, che è
sotto l’influsso nefasto del maligno. Questa sapienza terrena si manifesta nei
comportamenti che Giacomo sta biasimando: «gelosia e spirito di contesa»; più in genere,
nel «disordine» che sconvolge la vita comunitaria e in «ogni sorta di cattive azioni».
La sapienza che viene da Dio si manifesta, invece, in quegli atteggiamenti, che
contraddistinguono il vero sapiente.
Anzitutto: l’uomo saggio è innocente nella sua condotta.
Segue una serie di aggettivi, che declinano il primo in ordine ai rapporti interpersonali:
«pacifica», «mite» e affabile, «arrendevole» verso chi è superiore per rango e autorità;
inoltre, «piena di misericordia», la virtù cristiana per eccellenza che si traduce in «buoni
frutti» (ossia, le opere di misericordia), «imparziale», che non fa ingiuste discriminazioni,
«sincera», senza finzioni e ipocrisie: atteggiamenti diametralmente opposti alla violenza e
all’arroganza, che caratterizzano la falsa sapienza.
In conclusione, coloro che operano la pace porteranno il «frutto di giustizia», una vita in
armonia con Dio, «seminato nella pace».
Andando alla radice della «gelosia e spirito di contesa», che è frutto di sapienza terrena,
Giacomo esorta a cambiare vita: «Sottomettetevi a Dio»; «umiliatevi davanti al Signore».
«Le guerre e le liti» che travagliano la comunità nascono dalle «passioni» che si agitano nei
suoi membri. Mentre smaschera le brame nascoste («siete pieni di desideri»), critica le
rivalità («uccidete, siete invidiosi... combattete e fate guerra») ed evidenzia il penoso
fallimento delle aspirazioni («non riuscite a ottenere»), Giacomo fa prendere coscienza
dell’orientamento profondo che è necessario ribaltare. Qual è la ragione del fallimento?
I veri credenti affidano a Dio le loro necessita e i legittimi desideri, nella certezza di essere
esauditi; invece, coloro che sono tormentati dalle passioni non pregano; oppure lo fanno
«male», dal momento che si rivolgono a Dio per ottenere ciò che permette loro di
«spendere nei piaceri».
Giacomo apostrofa severamente i falsi sapienti: «peccatori!», «adulteri»; gente «dall’animo
doppio. Li pone di fronte all’alternativa: o amare Dio o «amare il mondo», le realtà terrene
ricercate in modo possessivo e orgoglioso. Nella logica dell’alleanza «amare Dio» è
inconciliabile con ogni forma di idolatria. Viceversa, «amare il mondo» equivale a essere
«nemico di Dio». A questo riguardo Giacomo adduce due citazioni bibliche.
La prima si dovrebbe tradurre: «fino alla gelosia (Dio) desidera lo spirito che fece abitare in
noi». Si tratta del soffio vitale dato all’uomo nella creazione e che il Dio «geloso» desidera
appassionatamente. In altri termini: Dio non tollera che la sua creatura abbia altri dei.
Con la seconda citazione «Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà la sua grazia»,
Giacomo sottolinea che Dio concede una «grazia più grande», quella di diventare «eredi
del regno», non ai sapienti che peccano di orgoglio e prepotenza, bensì ai poveri e agli
umili.
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DOMANDE PER RIFLETTERE E CONDIVIDERE
1) Come compendo “mitezza e sapienza” di cui parla Giacomo?
2) Pensando alla mia esperienza, quale sapienza ho maturato? Quali valori, atteggiamenti
umani, insegnamenti, che ho sperimentato e capito, aiutano a vivere una vita buona?
SALMO 112
A te Signore innalzo l’anima mia; mio Dio,
in te confido: che io non resti deluso!
Non trionfino su di me i miei nemici!
Chiunque in te spera non resti deluso;
sia deluso chi tradisce senza motivo.
Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza; io spero in te tutto il giorno.
Ricordati, Signore, della tua misericordia e del tuo amore, che è da sempre.
I peccati della mia giovinezza e le mie ribellioni,
non li ricordare: ricordati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.
Buono e retto è il Signore, indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia, insegna ai poveri la sua via.
Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà
per chi custodisce la sua alleanza e i suoi precetti.
Per il tuo nome, Signore,
perdona la mia colpa, anche se è grande.
C'è un uomo che teme il Signore?
Gli indicherà la via da scegliere.
Egli riposerà nel benessere,
la sua discendenza possederà la terra.
Il Signore si confida con chi lo teme:
gli fa conoscere la sua alleanza.
I miei occhi sono sempre rivolti al Signore,
è lui che fa uscire dalla rete il mio piede.
Volgiti a me e abbi pietà,
perché sono povero e solo.
Allarga il mio cuore angosciato,
liberami dagli affanni.
Vedi la mia povertà e la mia fatica
e perdona tutti i miei peccati.
Guarda i miei nemici: sono molti, e mi detestano con odio violento.
Proteggimi, portami in salvo;
che io non resti deluso, perché in te mi sono rifugiato.
Mi proteggano integrità e rettitudine, perché in te ho sperato.
O Dio, libera Israele da tutte le sue angosce.
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Dalle Costituzioni art. 21.
Ognuna di noi è personalmente responsabile
di quanto ha promesso al Signore.
Pratichi perciò il distacco e la dipendenza inerente ad ogni povertà,
liberandosi dall'individualismo e dal desiderio di possedere.
Sia discreta nel domandare,
semplice e leale nel dipendere dalla Superiora,
ricordando che il solo permesso ottenuto
non le garantisce di essere povera
nello spirito delle beatitudini.
Esprima la povertà anche con un forte senso
di appartenenza alla comunità e
una fraterna attenzione ai bisogni delle sorelle.
Chi ha il compito di provvedere
ciò che è necessario o utile, sia preveniente e generosa.
PREGHIERA
O Padre, donaci la mitezza che ci rende disponibili alla tua Sapienza, perché ci lasciamo
guidare nelle vie della tua giustizia e della tua volontà. Tu che vivi e regni nei secoli dei
secoli. AMEN
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LA CONFERMA DELLA SCELTA RADICALE (4,4-12)
L’appello alla conversione si fa esplicito e insistente. Occorre «sottomettersi a Dio»
obbedendo ai suoi comandi, e «umiliarsi davanti a lui», riconoscendolo come unico
Signore; «avvicinarsi a lui» in senso non cultuale, bensì personale; «resistere al diavolo» e
alle sue insidie; «purificare le mani», cessando di compiere il male, e «santificare i cuori»,
rinnovandosi interiormente; «fare lutto» e «piangere», compresi della propria miseria, in
segno di penitenza. All’appello si intreccia la promessa di salvezza: «resistete al diavolo, ed
egli fuggirà lontano da voi»; «avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a voi» rinnovando le
sue benedizioni; «umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà».
L’esortazione si concretizza in altri due ammonimenti.
Mossi da orgoglio, i falsi sapienti sono facili a giudicare e a parlare male del prossimo.
Giacomo mette in guardia dalla maldicenza e denuncia chi presume di giudicare il fratello:
«Chi dice male del fratello, o giudica il suo fratello, parla contro la Legge e giudica la
Legge», anziché osservarla. Disprezza, infatti, la «legge regale» dell’amore del prossimo. A
ciò si aggiunge che ergersi a giudice equivale a mettersi al posto di Dio, il solo «legislatore
e giudice» di tutti, l’unico «che può salvare e mandare in rovina».
Il secondo ammonimento è rivolto ai ricchi, più esattamente a coloro che cercano di
arricchirsi mediante il commercio. II loro ragionare è simile a quello del ricco della parabola
lucana. Simile è pure la risposta di Giacomo, accompagnata da una riflessione sapienziale
sulla brevità della vita. Un uomo di fede dovrebbe piuttosto affidarsi alla volontà di Dio. Il
ragionamento presuntuoso dei ricchi mercanti è espressione di «arroganza». Il loro vantarsi
è «malvagio» perché disprezza la signoria di Dio.
Andando oltre il tema toccato negli ultimi versetti, la sentenza conclusiva è «chi dunque sa
fare il bene e non lo fa, commette peccato».
SALMO 32
Beato l'uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato.
Beato l'uomo a cui Dio non imputa il delitto e nel cui spirito non è inganno.
Tacevo e si logoravano le mie ossa, mentre ruggivo tutto il giorno.
Giorno e notte pesava su di me la tua mano, come nell'arsura estiva si inaridiva il mio
vigore. Ti ho fatto conoscere il mio peccato, non ho coperto la mia colpa.
Ho detto: "Confesserò al Signore le mie iniquità" e tu hai tolto la mia colpa e il mio
peccato.
Per questo ti prega ogni fedele nel tempo dell'angoscia; quando irromperanno grandi
acque non potranno raggiungerlo.
Tu sei il mio rifugio, mi liberi dall'angoscia, mi circondi di canti di liberazione:
"Ti istruirò e ti insegnerò la via da seguire; con gli occhi su di te, ti darò consiglio.
43
Non siate privi d'intelligenza come il cavallo e come il mulo: la loro foga si piega con il
morso e le briglie, se no, a te non si avvicinano".
Molti saranno i dolori del malvagio, ma l'amore circonda chi confida nel Signore.
Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti! Voi tutti, retti di cuore, gridate di gioia!
PREGHIERA
Padre, fa’ che non dimentichiamo mai che ci sono frutti nella vita che si raccolgono solo
sapendo attendere e pazientare. Insegnaci la pazienza del tuo Figlio, che per amore ha
sopportato la croce, vincendo la morte e aprendo per ogni uomo le porte della
resurrezione. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. AMEN
44
LE ILLUSORIE CERTEZZE (4,13-5,6)
Sulla scia degli ammonimenti precedenti, Giacomo rivolge un‘invettiva ai «ricchi», che già
prima ha accusato di opprimere i poveri.
Con il linguaggio degli antichi profeti Giacomo annuncia ai ricchi la catastrofe che incombe
su di loro e per la quale devono piangere con alti lamenti. Come in una visione, vede le
loro ricchezze imputridite, le loro vesti lussuose rose dalle tarme, l’oro e l’argento dei loro
forzieri arrugginiti...; una ruggine che li consumerà come fuoco divoratore, quando la
ricchezza accumulata testimonierà contro di loro davanti al tribunale di Dio.
Ironicamente, soggiunge: «Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni!», quelli del
giudizio divino.
L’origine della loro ricchezza è messa a nudo con espressioni nelle quali si coglie l’eco dei
testi biblici: le «grida» degli operai, ai quali i grandi proprietari terrieri hanno sottratto il
salario dovuto, sono giunte «agli orecchi del Signore onnipotente». Mentre i lavoratori
soffrivano nell’indigenza, i ricchi padroni si davano a «piaceri e delizie», ingrassando come
animali da macello «per il giorno della strage», quello del giudizio.
In breve, accusa Giacomo, «avete condannato e ucciso il giusto, identificato con il povero
oppresso, che non è in grado di opporre resistenza.
SALMO 24
Del Signore è la terra e quanto contiene:
il mondo, con i suoi abitanti.
È lui che l'ha fondato sui mari e sui fiumi l'ha stabilito.
Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non si rivolge agli idoli, chi non giura con inganno.
Egli otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.
Alzate, o porte, la vostra fronte,
alzatevi, soglie antiche, ed entri il re della gloria.
Chi è questo re della gloria?
Il Signore forte e valoroso, il Signore valoroso in battaglia.
Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi, soglie antiche, ed entri il re della gloria.
Chi è mai questo re della gloria?
Il Signore degli eserciti è il re della gloria.
45
Dagli Atti del CG XXIII.
n. 67. La vita consacrata ha bisogno di rinnovarsi perché lo Spirito Santo si manifesta in
modo diverso secondo le epoche. A noi affida oggi la ricerca di strade nuove per far
giungere la freschezza del Vangelo agli uomini e alle donne, specialmente ai giovani.
A noi tocca svegliare il mondo sull’importanza vitale dell’educazione evangelizzatrice,
cooperare a favore di una società più giusta, dove anche i più vulnerabili possano inserirsi
con la dignità dei figli di Dio e dare il proprio apporto.
n. 68. Come FMA sentiamo la gioia di seguire Gesù che ci invia ad aprire cammini insieme
ai giovani, come hanno fatto don Bosco, madre Mazzarello e tante nostre sorelle. Il
profondo rinnovamento del modo di intendere l’amore verso il prossimo, soprattutto
grazie al Magistero degli ultimi Papi, chiama in causa le nostre comunità e la proposta
educativa che esse offrono.
La dimensione sociale dell’evangelizzazione, indicata esplicitamente nella Evangelii
gaudium, interpella tutta la missione e apre nuovi ambiti di attenzione verso i giovani più
poveri. Nel terreno del carisma è deposto un seme di profezia non ancora pienamente
sviluppato. In un tempo inedito, l’audacia è un atto di amore nei confronti del futuro.
PREGHIERA
O Padre, fa’ che impariamo a riconoscere dalle divisioni e dai conflitti che ci sono tra noi le
ambizioni e i desideri sbagliati che li causano, perché per amore Tuo possiamo superare
ogni istinto che ci porta ad affermarci contro il bene, contro il diritto dell’altro, contro la
giustizia, la verità e la misericordia. E così somigliare sempre più al tuo Figlio Gesù che ci ha
salvati a gloria del tuo nome. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. AMEN
46
UNA COMUNITÀ IN CAMMINO (5,7-20)
Nelle battute conclusive Giacomo esorta tutti i «fratelli» alla pazienza e alla costanza «fino
alla venuta del Signore». La «venuta del Signore» è vicina. È questa la convinzione delle
prime comunità cristiane. Ora è il tempo della costanza paziente, della quale è modello
l’agricoltore. Egli «aspetta... il prezioso frutto della terra» e della propria fatica fino a che
non siano cadute le prime piogge, quelle autunnali, e le ultime, in primavera. Così, «anche
voi» siate pazienti e costanti nell’attesa: «rinfrancate i vostri cuori», per essere perseveranti
nella fede anche in mezzo alle prove.
Come «modello di sopportazione e di costanza» Giacomo addita i profeti, i quali «hanno
parlato nel nome del Signore»: la vicenda di Geremia è eloquente.
Porta poi l’esempio della «pazienza di Giobbe»: i destinatari della lettera conoscono anche
«la sorte finale che gli riserbò il Signore». Giustamente ora consideriamo «beati» tali
personaggi. La storia di Giobbe, in particolare, ci assicura che il Signore è «ricco di
misericordia» e compassionevole, qualità sulle quali si fonda la fiducia dei credenti.
Al tema della Parusia si collega l’ammonimento: «Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli
altri, per non essere giudicati». «Ecco, il giudice è alle porte».
Alla prospettiva del giudizio, che domina la nostra lettera, come del resto tutto il Nuovo
Testamento, s’ispira anche l’ultima raccomandazione, che riporta l’eco dell’insegnamento
di Gesù: «Non giurate né per il cielo, né per la terra... il vostro “sì” sia sì, e il vostro “no”
no...». All’autore della lettera sta particolarmente a cuore la coesione della comunità,
favorita dall’onesta e dalla sincerità nei rapporti interpersonali.
Pregate! Ricollegandosi all’inizio, l’ultimo accorato invito riguarda la preghiera.
Riallacciandosi all’invito iniziale a chiedere il dono della sapienza, Giacomo conclude lo
scritto esortando a pregare in ogni circostanza della vita: quando si è nella prosperità,
inneggiando a Dio, quando si è nell’afflizione affidandogli le proprie angustie. Chi è
malato, faccia venire i «presbiteri, gli “anziani”. Essi pregheranno per lui «ungendolo con
olio nel nome del Signore»: con il potere da lui conferito e compiendo il gesto che ha
insegnato ai suoi apostoli, essi agiranno in suo nome e la loro preghiera, «fatta con fede»,
darà al malato la guarigione (lo «salverà»): sarà il Signore stesso a «sollevare» l’ammalato,
liberandolo dal suo abbattimento e dalla sua infermità. Oltre che fisico e psicologico, il
sollievo è soprattutto spirituale: «se ha commesso peccati, gli saranno perdonati»,
s‘intende da Dio.
Le indicazioni di Giacomo sono rilevanti in ordine al rito sacramentale dell’Unzione degli
infermi.
L’invito, che si pone sulla scia dell’indicazione precedente, a «confessare» i propri peccati e
a pregare «per essere guariti» non si riferisce di per sé al sacramento della Penitenza,
riguarda piuttosto l’aiuto spirituale, che i credenti sono tenuti a donarsi reciprocamente.
Confessare pubblicamente («gli uni agli altri») i propri peccati, ossia riconoscersi peccatori,
è segno della volontà di conversione e favorisce il perdono reciproco.
Con la preghiera d’intercessione, l’intera comunità impetra «gli uni per gli altri» la grazia
della guarigione, nel senso di salvezza spirituale. L’efficacia della «preghiera del giusto» è
illustrata dall’esempio di Elia.
Sviluppando l’ultima raccomandazione, Giacomo sollecita a non abbandonare a se stesso il
fratello che «si allontana dalla verità», ossia non vive secondo la fede. Chi «riconduce il
peccatore dalla sua via di errore» sappia che non solamente «lo salverà dalla morte»
escatologica, ma «coprirà una moltitudine di peccati»: quelli del fratello e anche i propri.
47
DOMANDE PER RIFLETTERE E CONDIVIDERE
1) Perdonarsi a vicenda, pregare gli uni per gli altri, aiutarci a ritrovare la via della verità.
Cosa posso fare per cercare di vivere secondo i consigli dell’apostolo Giacomo?
Salmo 92
È bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo, annunciare al mattino
il tuo amore, la tua fedeltà lungo la notte, sulle dieci corde e sull'arpa, con arie sulla cetra.
Perché mi dai gioia, Signore, con le tue meraviglie, esulto per l'opera delle tue mani.
Come sono grandi le tue opere, Signore, quanto profondi i tuoi pensieri!
L'uomo insensato non li conosce e lo stolto non li capisce: se i malvagi spuntano come
l'erba e fioriscono tutti i malfattori, è solo per la loro eterna rovina, ma tu, o Signore, sei
l'eccelso per sempre.
Ecco, i tuoi nemici, o Signore, i tuoi nemici, ecco, periranno, saranno dispersi tutti i
malfattori.
Tu mi doni la forza di un bufalo, mi hai cosparso di olio splendente.
I miei occhi disprezzeranno i miei nemici e, contro quelli che mi assalgono, i miei orecchi
udranno sventure.
Il giusto fiorirà come palma, crescerà come cedro del Libano; piantati nella casa del
Signore, fioriranno negli atri del nostro Dio.
Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno verdi e rigogliosi, per annunciare quanto è
retto il Signore, mia roccia: in lui non c'è malvagità.
PREGHIERA
Padre, fa’ che non dimentichiamo mai che ci sono frutti nella vita che si raccolgono solo se
si sa attendere e pazientare. Insegnaci la pazienza del tuo Figlio che per amore ha
sopportato la croce, vincendo la morte e aprendo per ogni uomo le porte della
resurrezione. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. AMEN
(Per i commenti Cfr. Francesco Mosetto, Lettera agli Ebrei, Lettere di Giacomo, Pietro, Giovanni,
Giuda, ELLEDICI, 2014)
(Per i testi biblici e le domande Cfr. La lettera di Giacomo, Diocesi di Pistoia – Ufficio Catechistico
Diocesano, 2017-18)
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PER RIFLETTERE…
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In base a quale criterio nello stesso tempo ci è comandato e proibito di amare il mondo?
Secondo quali motivazioni l’Apostolo Giovanni impedisce di amare il mondo, mentre Gesù
nel Vangelo ci chiede di amarlo? L’invito ad amare il mondo significa donare a tutti, in
primo luogo alle persone e alle realtà che si rendono nemiche di Dio, l’amore che viene da
lui, rendere tutti partecipi dell’amore che fluisce dalla Croce del Redentore. L’amicizia per il
mondo non deve portare ad accettare lo stile di vita e il corredo di valori che il mondo
esalta; per un cristiano l’amore per Dio è esclusivo, totale, assoluto. «Ci vien proibito quindi
di amare nel mondo ciò che in se stesso il mondo ama, e ci viene comandato di amare nel
mondo ciò che in se stesso il mondo odia, cioè l’opera di Dio e le innumerevoli
consolazioni della sua bontà».
L’amicizia per il mondo non è in opposizione con l’amore per Dio. Il mondo è il luogo ove
il cristiano conduce la sua esistenza, si costruisce una famiglia, esercita la sua professione,
vive la sua fede e il suo impegno a essere «luce» e «sale della terra» (Mt 5,13); il mondo
diviene la palestra nella quale apprende ad «amare l’uomo per amare Dio».
I cristiani sono chiamati a liberarsi dagli influssi del mondo segnati dal male, contrari al
Vangelo e al Battesimo, che relegano Dio in una posizione marginale. Ciò non significa
odiare o disprezzare il mondo, bensì, al contrario, amare veramente questo mondo,
l’uomo, tutta l’umanità.
L’amore si dimostra nel fatto di diffondere il vero bene, allo scopo di trasformare il mondo
secondo lo spirito salvifico del Vangelo e preparare la sua piena realizzazione nel Regno
futuro!
Dio vuole che i suoi figli siano luce e sale proprio là dove si trovano: in famiglia, nel lavoro
e nella professione, nello studio, nella prova della malattia e nel vigore del corpo. Cristo
vuole che i suoi discepoli siano «luce del mondo», perché «non si accende una lucerna per
metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono
nella casa» (Mt 5,14-15).
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inciampato nella tua iniquità. Preparate le parole da dire e tornate al Signore; ditegli: “Togli
ogni iniquità, accetta ciò che è bene”» (Os 14,2-3).
Le ferite da curare sono quelle provocate dalle infedeltà e dalle tentazioni che il mondo
abilmente riversa nel nostro animo, oppure dal desiderio di amare qualcuno mancando a
una promessa di fedeltà. Attorno a noi si respira un’atmosfera segnata da una profonda
solitudine, dalla cecità dinanzi a situazioni di bisogno e di povertà, dal rifiuto della propria
fragilità e debolezza, mentre si inseguono sempre più affannosamente i miti del consenso,
del benessere economico e fisico. L’infedeltà assume i contorni della voglia di evadere da
tutti e da tutto; il primo soggetto da cui ci si allontana è Dio, si trascurano i suoi doni, si
dimentica il suo volto.
I regali che i coniugi oppure gli amici si scambiano manifestano il dono di sé che
caratterizza ogni rapporto, la loro funzione è quella di rendere chi è lontano in quel
momento presente allo sguardo e all’affetto. Quando il dono non è più cercato per quello
che rappresenta e per l’amore che trasmette, ma è preso in considerazione in quanto
oggetto di un certo valore economico, non affettivo, il rapporto sponsale o amicale si
trasforma in relazione d’interessi, l’amore cessa di essere vincolo gratuito e si configura
come un bene da conquistare.
Tornare al Signore significa ritrovare in noi la capacita di sentire nuovamente la voce di Dio
che non si dimentica delle sue creature, accogliere e trasmettere il dono di «un amore che
non ha paura dell’impegno e della fatica»”.
I cristiani devono portare il messaggio di questo amore all'uomo del nostro tempo, spesso
chiuso nell’indifferenza e nell’individualismo, diventando segno della tenerezza di Dio per
quanti incontriamo quotidianamente sulle strade dell’esistenza, nella condivisione del
dolore, nell'attenzione ai problemi che travagliano la vita, nel cammino di fede.
All’appellativo: «Gente infedele!» (4,4) fanno seguito alcuni imperativi: «Sottomettetevi
dunque a Dio; resistete al diavolo, ed egli fuggirà lontano da voi. Avvicinatevi a Dio ed egli
si avvicinerà a voi» (4,7-8). L’invito a sottometterci a Dio svela la nostra identità di credenti;
quando diciamo che qualcuno è sottomesso a un’altra persona normalmente pensiamo
che sia privato della libertà e della capacita di decidere autonomamente. Non è facile
comprendere le motivazioni di coloro che preferiscono rifiutare questo invito, forse hanno
timore di essere assoggettati a un Dio che non vuole il loro bene e la loro felicita, oppure
temono di perdere la libertà di poter agire autonomamente; il rischio è quello di cadere in
balia delle passioni e della logica del mondo.
Ecco il secondo comando: resistete al diavolo, avversario di Dio; opponetevi alle sue
strategie e ai suoi intrighi, non cedete alle sue proposte. Essere sottomessi a Dio significa
riconoscere in lui la sorgente della verità e la fonte della libertà, egli ci vuole suoi amici,
come Abramo. Il movimento di avvicinamento a Dio, nelle intenzioni di Giacomo, riflette un
duplice percorso: da un lato è Dio che si muove verso i suoi figli e manifesta loro tutto il
suo amore; dall’altro sono i credenti che, dopo essersi allontanati, ora ritrovano la strada
che conduce a lui e rispondono con docilità all’invito di sedersi alla sua mensa. I tre
imperativi che abbiamo preso in considerazione implicano un profondo cambiamento
dell’esistenza: il riferimento per il suo cammino di conversione è Dio, a lui deve volgere lo
sguardo e dirigere i suoi passi. II cristiano deve svestire i panni dell’autosufficienza e
dell’arroganza, della fiducia nella ricchezza e negli idoli, per ritrovare in sé la dimensione
della povertà e dell’umiltà del cuore.
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Ritorno a se stessi (4,9-10). II ritorno alla dimensione della propria interiorità racchiude in sé
la presa di coscienza della propria situazione di peccato. Giacomo denuncia la condizione
del cristiano peccatore con due vocaboli, a cui fanno seguito alcune esortazioni di
carattere penitenziale: «Peccatori, purificate le vostre mani; uomini dall’animo indeciso,
santificate i vostri cuori» (4,8). La condizione di peccatore separa l’uomo da Dio; la via del
ritorno è segnata dall’impegno della purificazione delle mani e del cuore, a cui possiamo
aggiungere la purificazione della memoria. Quest’ultima operazione richiede «un atto di
coraggio e di umiltà nel riconoscere le mancanze compiute da quanti hanno portato e
portano il nome di cristiani». La memoria è «il luogo necessario del discernimento, in cui il
passato, anche se amaro, diviene nutrimento per il futuro».
Purificare la memoria significa rimuovere le cause che hanno generato molteplici ferite e
colpe nella storia personale e comunitaria, inginocchiarsi davanti a Dio e ai fratelli per
chiedere perdono delle tante offese che pesano sul passato, svalutano il presente e
offuscano il futuro.
Il richiamo alla purificazione del cuore e delle mani racchiude un aspetto liturgico; alla
domanda: «Chi potrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo?», il
Salmista risponde: «Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non si rivolge agli idoli, chi non
giura con inganno». Anche Gesù nel Vangelo richiama più volte il tema della purezza a
partire dal culto; i farisei e gli scribi avevano imposto una serie di prescrizioni ai comandi
del Signore, al punto da snaturarne l’autentico significato. Gesù ricorda che la vera
formalità non è quella esteriore, ma è quella del cuore, rammenta che la legge di Dio non è
fatta da una serie di precetti caricati sulle spalle, ma è una legge che aiuta l’uomo a vivere
nella libertà e nella verità. Il cuore lontano da Dio è un cuore impuro, appartiene a chi non
segue la legge del Signore, né agisce con rispetto e lealtà. E da questo cuore cattivo che
escono i vizi e le cattive inclinazioni, che sviliscono la purezza.
Giacomo invita i suoi lettori alla santità, rifuggendo ogni doppiezza e falsità, ritrovando
l’unita di se stessi, del pensare e dell’agire, del dire e del fare.
È importante recuperare la rettitudine e la purezza del cuore: il cuore è considerato la sede
degli affetti, dei desideri e della capacita di bene; ambiguità, invidie, gelosie non devono
trovare spazio nel cuore. C’è un secondo livello di purezza da recuperare: è la purezza dello
sguardo e la signoria sulle immagini che i media portano nelle nostre case. Infine,
dobbiamo riguadagnare la purezza e la bellezza del linguaggio: un’educazione prudente
insegna la virtù; preserva o guarisce dalla paura, dall’egoismo e dall’orgoglio, dai sensi di
colpa e dai moti di compiacenza, che nascono dalla debolezza e dagli sbagli umani.
L’educazione della coscienza garantisce la libertà e genera la pace del cuore. Il cammino di
ritorno al Signore comporta la disponibilità a mostrare esteriormente quello che è
avvenuto nell’intimo: «Riconoscete la vostra miseria, fate lutto e piangete; le vostre risa si
cambino in lutto e la vostra allegria in tristezza. Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi
esalterà» (Gc 4,9-10).
Questi insegnamenti si riallacciano alle grandi liturgie penitenziali del Tempio di
Gerusalemme e agli inviti del profeta Gioele: «Ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli
è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al
male». La superficialità si deve trasformare in atteggiamenti vissuti con profonda
convinzione, L’esteriorità e la superbia cedano il passo alla riflessione sulla serietà della
vita; l’unico modo per essere davvero grandi agli occhi di Dio è umiliarsi davanti al Signore
con sincerità. Purezza e menzogna si oppongono nello spazio interiore dell’uomo: la
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menzogna impedisce all’uomo di guardare con verità se stesso, di assumere il peso delle
proprie colpe e dei propri peccati. La purezza lo libera da questo pericolo.
Ritorno al prossimo (Gc 4,11-12; cf 5,12-18). L’ultima tappa del nostro percorso di revisione
della vita personale e comunitaria ci sollecita a rivedere il nostro comportamento nei
confronti del prossimo: «Non dite male gli uni degli altri, fratelli. Chi dice male del fratello,
o giudica il suo fratello, parla contro la Legge e giudica la Legge. E se tu giudichi la Legge,
non sei uno che osserva la Legge, ma uno che la giudica. Uno solo è legislatore e giudice,
Colui che può salvare e mandare in rovina; ma chi sei tu, che giudichi il tuo prossimo?»
(4,11-12). Ancora una volta Giacomo lascia emergere la sua preoccupazione per la
concordia all’interno della comunità, sembra quasi che egli voglia dire ai suoi lettori: fate
attenzione, perché la divisione tra interiorità ed esteriorità si ripercuote sulla vita
comunitaria immettendovi il veleno della maldicenza.
II credente che scredita i fratelli getta fango sulla loro condotta, si innalza a giudice dei
loro comportamenti, commette un grave peccato, perché si sostituisce a Dio, «legislatore e
giudice» (4,12). Neppure le più nobili intenzioni, fosse anche la difesa della verità, devono
spingere i cristiani a usare l’arma della menzogna contro i propri simili. Con la maldicenza
non si rende un servizio alla verità e alla carità, ma le si impedisce di affermarsi, si piega
Dio ai propri scopi facendo passare per suoi giudizi ciò che invece è calunnia.
La dimensione relazionale e fraterna all’interno della comunità non si ferma a queste
esortazioni che abbiamo fatto rientrare in un cammino di conversione e di rilettura del
vissuto personale e comunitario. Nella parte conclusiva della lettera troviamo numerosi
inviti alla preghiera, al perdono vicendevole, alla correzione fraterna, alla vicinanza con i
peccatori (5,12-20). La preghiera diviene il filo conduttore che unisce le ultime esortazioni
di Giacomo; essa non è solo affidamento a Dio, ma anche lode, supplica, confessione della
colpa e disponibilità a concedere il perdono. Richiama all’orazione chi è malato e chi gode
ottima salute (5,13); sollecita a pregare gli uni per gli altri, per ottenere il perdono: «Molto
potente è la preghiera fervorosa del giusto» (5,16). Tra i numerosi personaggi biblici in
grado di giustificare questa affermazione, Giacomo sceglie come figura esemplare il
profeta Elia: non era diverso dalle creature mortali, la sua preghiera fu esaudita per il vigore
della sua supplica e per la potenza della sua fede. Le parole di Giacomo ci invitano a
riflettere sulla qualità della nostra preghiera e interrogarci se essa è davvero espressione
della nostra fede, della fiducia in Dio, della reciprocità e della vicinanza ai nostri fratelli, sia
nelle ore tristi, come in quelle liete. Solo recuperando un senso vivo di fraternità i cristiani
sapranno dare un volto di comunione alle loro comunità e alla Chiesa.
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DUE SAPIENZE A CONFRONTO
Poniamo a confronto la Sapienza che viene da Dio e la sapienza del mondo; esse
rappresentano due logiche opposte e incompatibili, due stili di vita antitetici uno all’altro.
L’Apostolo Paolo presenta questo contrasto opponendo la parola della Croce, rivelatrice
della potenza di Dio, alla sapienza del mondo incapace di offrire un’autentica salvezza (cf
1Cor 1,18-25; 2,1-5). Nella struttura della lettera di Giacomo il brano dedicato alla sapienza
si trova al centro dello scritto. II tema era già stato anticipato quando l’autore aveva
domandato: «Se qualcuno di voi è privo di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti con
semplicità e senza condizioni, e gli sarà data».
Ascoltiamo le parole di Giacomo: «Chi tra voi è Saggio e intelligente? Con la buona
condotta mostri che le sue opere sono ispirate a mitezza e sapienza. Ma se avete nel
vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non dite menzogne contro
la verità. Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrestre, materiale, diabolica;
perché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni.
Invece la Sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena
di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace
viene seminato nella pace un frutto di giustizia» (3,13-18).
Nell’indicare le qualità della sapienza proveniente dall’alto, Giacomo ci offre un ritratto
ideale del cristiano abitato dal dono di Dio; le caratteristiche della sapienza si fondono
nella persona fino quasi a definirla e divenire lo stile di vita del discepolo di Gesù. In questo
modo il cristiano diviene una figura esemplare per il suo comportamento, la sua condotta
luminosa sarà degna di stima e capace di attrarre anche altri a camminare sulla medesima
strada, lo si riconosce per la sua schiettezza, amabilità, per il suo amore per la verità e la
ricerca continua della pace e della concordia con i suoi fratelli.
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sua parola e diventano con le loro parole, il loro stile di vita e le loro azioni punti di
riferimento e guide spirituali per i loro fratelli e sorelle?
Dobbiamo essere sinceri: la domanda di Giacomo ci costringe a riflettere se il nostro modo
di vivere è dettato dalla sapienza e dalla capacita di valutare con attenzione fatti e parole
alla luce del messaggio evangelico.
La domanda che Giacomo rivolge ai suoi lettori si collega a un secondo interrogativo che
abbiamo già incontrato all’inizio del quarto capitolo della lettera: «Da dove vengono le
guerre e le liti che sono in mezzo a voi?» (4,1). L’uomo incapace di mostrare saggezza,
equilibrio, intelligenza si chiude ad accogliere i doni di Dio che lo Spirito diffonde nel cuore
e si priva della pace, ciò che Cristo risorto offrì ai suoi discepoli apparendo loro la sera del
giorno di Pasqua (Gv 20,19). Giacomo sollecita i destinatari della lettera a scoprire il
legame che esiste tra una vita buona e saggia e la disponibilità a costruire rapporti fraterni
dettati dalla pace e dalla giustizia.
La vera sapienza non è acutezza e profondità di pensiero, non è una nuova teoria in grado
di interpretare la complessità del vivere e penetrare le leggi della natura, ma ha un aspetto
profondamente pratico e concreto; si presenta allo sguardo del credente come un dono
che Dio concede ai fedeli che lo invocano. Giacomo afferma che essa «viene dall’alto», la
sua funzione è legata alla vita e alla capacita di giudicare.
La letteratura sapienziale sottolinea il duplice aspetto della sapienza come dono di Dio e
arte del vivere bene; il fedele la invoca dall’Altissimo affinché Dio gli conceda «di parlare
con intelligenza e di riflettere in modo degno dei doni ricevuti» (Sap 7,15); grazie ad essa
può giungere alla conoscenza autentica delle cose e affinare la propria capacità operativa,
può comprendere la struttura del cosmo, l'alternarsi delle stagioni, la posizione degli astri
del cielo e la forza degli elementi della natura. La sapienza è un bene superiore alla
ricchezza e alla prudenza, il fedele la desidera come consigliera, amica, sposa: «Se la
ricchezza è un bene desiderabile in vita, che cosa c’è di più ricco della sapienza, che opera
tutto? Se è la prudenza ad agire, chi più di lei è artefice di quanto esiste? Se uno ama la
giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Ella infatti insegna la temperanza e la
prudenza, la giustizia e la fortezza, delle quali nulla è più utile agli uomini durante la vita»
(Sap 8,5-7).
Il cristiano è chiamato a «mostrare» la sapienza che Dio gli dona attraverso la coerenza tra
il suo dire e il suo fare, quello che si vede è una condotta «bella», non tanto in senso
estetico o morale, ma in quanto esemplare, degna di ammirazione e di lode, improntata a
saggezza e mitezza. Giacomo ci propone un nuovo modo di considerare il cristiano: è un
uomo saggio e mite che rifugge da ogni forma di prepotenza e di autoaffermazione, da
ogni pigrizia e da ogni convenienza arrendevole; bandisce l’arroganza e la presunzione;
vive la relazione con i fratelli lasciandosi guidare dalla mansuetudine e dalla fiducia; è un
uomo di fede che fonda il suo stile mite di vivere sull’amore di Dio, sulla speranza e sulla
promessa di ereditare il Regno dei cieli.
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LA POVERTÀ NELL’ARTE: Poveri in riva al mare
Il quadro appartiene al
periodo blu di Picasso, una
fase molto importante
nella formazione artistica
del famoso pittore: tale
periodo prende il nome
dall’utilizzo quasi totale
del colore blu, ed inoltre i
lavori che appartengono a
questa fase hanno per
soggetto dei temi tristi.
In questa composizione, i
protagonisti sono una
famiglia povera: un padre,
una madre ed il loro
bambino, che si trovano in
riva al mare, con
l’espressione triste, i piedi
nudi e con la testa
abbassata, rassegnati al
proprio destino, privi di
qualunque aiuto, mesti ed
infreddoliti.
“Poveri in riva al mare” è
stato realizzato da Picasso
quando aveva solo 22
anni, dimostrando la sua
grande maturità a livello
artistico.
Da un punto di vista
tecnico, è possibile notare
le forti linee marcate
attorno ai protagonisti, che mettono in
Pablo Picasso “Poveri in riva al mare”, 1903 risalto le parti ombrose nei panneggi dei
Cleveland Museum of Art, Cleveland loro vestiti; inoltre la scelta di
rappresentarli tutti distaccati ed in silenzio è stato un atto volontario da parte di Picasso, il
quale ha voluto rappresentare l’impossibilità di comunicare tra i vari protagonisti, distanti e
tristi.
Non c’è alcun calore umano, né luce di speranza… il colore freddo che comunica l’estrema
povertà della famiglia rappresentata, un’indigenza che annichilisce ogni forma di umanità e
annienta qualsiasi tipo di vita interiore: ogni personaggio è chiuso in se stesso e rifiuta di
aprirsi al mondo nel gesto espressivo delle braccia conserte. Unico tentativo di
comunicazione sono le mani del bambino, rivolte verso i genitori in una frustrata ricerca
del conforto degli affetti umani.
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BIBLIOGRAFIA
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Dehoniane Bologna, 2016;
Bottini G.C., Giacomo e la sua lettera. Una introduzione (Studium Biblicum Franciscanum
Analecta, 50), Franciscan Printing Press, Jerusalem, 2000;
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Monastero di San Giulio, 2006
Chester A. – Martin R.P., La teologia delle lettere di Giacomo, Pietro e Giuda (Teologia del
Nuovo Testamento), Paideia, Brescia, 1998;
60
Fabris R., Lettera di Giacomo. Introduzione, versione, commento (Scritti delle origini cristiane,
17), EDB, Bologna, 2004;
Mosetto F., Lettera agli ebrei – Lettere di Giacomo, Pietro, Giovanni, Giuda, Elledici, 2015;
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Bibbia dai testi antichi, 53), San Paolo, Cinisello Balsamo, 2012.
Parisi G., Mostrami la tua fede. La lettera di Giacomo. Una fede comprovata, che non può
rimanere nascosta, Editore Multimedia (Aversa)
Pessani D., La fede alla prova – Riflessioni sulla lettera di Giacomo, Ancora, 2013;
Saggioro L., Una fede incarnata. Breve commento pastorale alla lettera di Giacomo, Editore
Aurelia
https://www.youtube.com/watch?reload=9&v=M738lBPxgxo
https://dondoglio.wordpress.com/2013/05/27/tortona-2013-paolo-e-giacomo/
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INDICE
Premessa p. 03
Le Lettere Cattoliche p. 05
La Lettera di Giacomo p. 10
Autore, data, luogo di composizione p. 10
Destinatari e ambiente culturale p. 10
Inserimento nel Canone p. 11
Particolarità stilistiche p. 11
Genere letterario p. 12
Contenuto e strategia compositiva p. 12
Prospettiva Teologica p. 15
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Per riflettere p. 49
Amore per Dio, Amore per il mondo p. 49
Due sapienze a confronto p. 54
La povertà nell’arte p. 59
Bibliografia p. 60
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