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Collana SAGGI DI TEOLOGIA

Collana SAGGI DI TEOLOGIA

José Ramos-Regidor, Il sacramento della penitenza


Joseph Gevaert, Il problema dell'uomo. Introduzione all'antropologia filosofica
Enda McDonagh, Dio chiama, l'uomo risponde. Saggi di teologia morale
Enda McDonagh, Dono e chiamata. Verso una teologia cristiana della moralità
Giovanni Caviglia, Le ragioni della speranza cristiana. Teologia fondamentale
Guido Gatti, Morale sessuale, educazione dell'amore
Guido Gatti, Morale cristiana e realtà economica
Enrico Gilardi, La scelta di Dio. Ateismo e fede a confronto
Gianni Colzani, L'uomo nuovo. Saggio di antropologia soprannaturale
Mario Montani, Persona e società. Ill messaggio di E. Mounier
Mario Serenthà, Gesù Cristo ieri, oggi e sempre. Saggio di cristologia
Xavier Léon-Dufour, Di fronte alla morte Gesù e Paolo
Xavier Léon-Dufour, Condividere il pane eucaristico
Luis A. Gallo, Una Chiesa al servizio degli uomini
Giovanni Battista Guzzetti, Le origini. Scienza, filosofia, teologia
Francesco Bersini, Il nuovo diritto canonico matrimoniale
Egidio Ferasin, Il matrimonio interpella la Chiesa
Sabino Palumbieri, Volto cuore mani dell'uomo
Xavier Thévenot, Principi etici di riferimento per un mondo nuovo
Antonio Contri, Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore
Giorgio Gozzelino, Vocazione e destino dell'uomo in Cristo
Autori Vari, Il nuovo Codice di Diritto Canonico
Albert Vanhoye, Sacerdoti antichi e nuovo sacerdote secondo il Nuovo Testamento
Luis Augusto Castro, Didattica missionaria
Autori Vari, Il «nuovo» Concordato
Lino Ciccone, Uomo-Donna. L'amore umano nel piano divino
Dionigi Tettamanzi, I due saranno una carne sola
Mario Bizzotto, La rinascita dell'etica
Manlio Brunetti, i laici nel Diritto Canonico
Lino Ciccone, Anziani e handicappati
Lino Ciccone, Per una cultura della vita a partire dalla famiglia
Umberto Casale, L'avventura della fede
Giovanni Battista Guzzetti, Ecologia, popolazione e morale
Umberto Casale, Benedetta fra le donne
Giorgio Gozzelino, Al cospetto di Dio
Louis-Marie Chauvet, Simbolo e sacramento
LOUIS-MARIE CHAUVET

SIMBOLO
E SACRAMENTO
UNA RILETTURA SACRAMENTALE
DELL'ESISTENZA CRISTIANA

EDITRICE ELLE DI CI
10096 LEUMANN (TORINO)
Titolo originale: Symbole et sacrement. Une relecture sacramentelle de l'existence chrétienne.
© Les Editions du Cerf, Paris 1987.

Traduzione di ARMIDO e ALBERTA RIZZI


a cura del CENTRO CATECHISTICO SALESIANO di Rivoli.

© 1990 Editrice Elle Di Ci - 10096 Leumann (Torino)


Tel. (011) 95.91.091 - Fax (011) 95.74.048 - 95.72.900
ISBN 88-01-15850-5
Introduzione

La sensibilità attuale alla diversità dei sacramenti e, più in generale, all'eterogenei-


tà di ciò che costituisce il mondo della sacramentalità ha portato alla rimozione dei
trattati classici «de sacramentis in genere». E tuttavia essa non ha soffocato, a quanto
pare, ogni interesse per una «generalità» sacramentale. Anzi, assistiamo a un ritorno
di interesse in questa direzione; ma in una prospettiva differente dal trattato generale
classico. Ne sono testimoni i numerosi scritti o convegni che, da una decina d'anni,
hanno scelto come tema il rito e il simbolo. D'altronde, la richiesta non riguarda sol-
tanto gli studenti di teologia, ma ancora i movimenti di Azione Cattolica, i catechisti,
gli animatori pastorali, gli insegnanti di religione... Al tempo stesso, e ancora in tutti
questi ambienti (almeno in Francia) si va profilando un vivo interesse per tutto ciò
che attiene ai «punti di riferimento» dell'identità cristiana, tra cui i sacramenti hanno
certamente una posizione di spicco. Si è ben consapevoli, è vero, che questi ultimi
non sono il tutto della vita cristiana; e non si accetterebbe che venissero a far concor-
renza alle Scritture o all'impegno etico. Si chiede loro, dunque, di stare al loro posto,
ma anche di occuparlo interamente: né centro unico della vita cristiana né semplice
appendice di questa.
Ciò che attualmente si va cercando attraverso questo movimento così sensibile è
in ultima analisi — così pare — una teologia del «sacramentale»; cioè una teologia
che permetta una rilettura sacramentale, parziale dal suo punto di vista, ma globale
quanto all'estensione, dell'insieme dell'esistenza cristiana. Una teologia fondamenta-
le della sacramentalità. Ed è proprio questo che noi qui proponiamo.
Lungi dal dissolvere i sacramenti nell'indeterminatezza di una sacramentalità ge-
nerale, una teologia di questo tipo si basa su di essi come su figure simboliche che
fanno simultaneamente vedere e vivere l'«(arci-) sacramentalità» costitutiva dell'in-
sieme dell'esistenza cristiana. Malgrado le apparenze, forse, questa affermazione non
ha nulla di evidente. Cosa enuncia infatti? Da una parte che le celebrazioni sacramen-
tali ci mantengono nell'ordine del figurativo; ma anche, d'altra parte, che esse appar-
tengono all'ordine di una prassi: ciò che vi è dato da vedere vi è «simultaneamente»
dato da vivere; il rivelatore agisce come operatore, e l'operatore sarebbe ridotto a nul-
la se non agisse come rivelatore.
Su cosa ci basiamo per dire questo? Non su noi stessi. Non potremo mai rendere
ragione dei sacramenti mediante una deduzione razionale necessaria. Vogliamo solo
tentare di capire quello che già crediamo, imbarcati come siamo, in quanto esperti
del battesimo o dell'eucarestia, nella sacramentalità. Sarebbe ingenuo, o addirittura
disonesto, fare «come se» non fossimo sempre-già parte in causa in questo affare. Ab-
biamo imparato dalla modernità contemporanea ad assumere appunto come decisivo
il «luogo» da cui parliamo: il luogo del nostro desiderio individuale, il luogo sociale,
storico e culturale che ci abita, ecc. Attraverso questo non facciamo altro che enuncia-
re quella sorta di legge dell'ordine simbolico che attraverserà tutto il percorso qui pro-

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posto: impossibile (com)prendere qualcosa senza riconoscervi se stessi sempre-già
(com)presi come soggetti. Ecco ciò che tutto il nostro progetto annuncia.
Nel carattere, duplice e simultaneo, di rivelatore e di operatore che abbiamo an-
nunciato prima a proposito dei sacramenti, noi abbiamo riconosciuto qualcosa di quel-
lo che la sacramentaria classica cercava attraverso le categorie di «segno» e di «causa».
Ma il nostro linguaggio è diverso. E questo cambiamento di linguaggio non ha nulla
a che vedere con un superficiale restauro di facciata: esso è invece l'espressione di
una problematica totalmente diversa — quella del linguaggio e del simbolo, e non più
quella della causa e dello strumento. Infatti solo in quanto figure simboliche i sacra-
menti possono essere pensati rigorosamente come «espressioni» (concetto a sua volta
completamente diverso dalla connotazione che ne dà il linguaggio corrente) dell'«(arci-)
sacramentalità» dell'esistenza cristiana. La rilettura globale di quest'ultima a partire
dal punto di vista, parziale, della sacramentalità richiede quindi un rovesciamento del-
l'approccio classico.
Questo rovesciamento tocca ultimamente i presupposti non criticati della metafisi-
ca e del suo profilo sempre-già onto-teologico. Il nostro discorso può pretendere di
essere rigoroso solo nella misura in cui affronta questo punto fondamentale. E questo
spiega lo spazio considerevole dedicato, soprattutto nella nostra prima parte, al pro-
cesso contemporaneo della metafisica e, correlativamente, alla rivoluzione epistemo-
logica di cui la scienza è oggi oggetto, soprattutto da parte delle varie discipline che
riguardano più direttamente l'antropologia. L'insieme della riflessione teologica qui
proposta poteva essere valido solo se noi avessimo tentato di dare spiegazioni sulle
opzioni filosofiche che la sottendono. I primi quattro capitoli hanno quindi prima di
tutto valore di critica fondamentale che apre la possibilità stessa del discorso teologico
qui sviluppato. Ma anche valore immediatamente sacramentario, perché mettono in
opera concetti o nozioni che in seguito ritornano costantemente: atti linguistici, espres-
sione, simbolo, alterità, corporeità, presenza e assenza...; tutte nozioni che apparter-
ranno per noi non al campo del metafisico ma a quello del simbolico.
Ed è appunto nell'ordine simbolico proprio alla Chiesa che la seconda parte situa
i sacramenti. Noi li intendiamo allora come un elemento tra altri dentro quell'insieme
ampio e coerente che struttura l'identità cristiana. Presenteremo questo insieme come
un rapporto tra le Scritture (livello «conoscenza»), i sacramenti (livello «riconoscimento»)
e l'etica (livello «agire») [capp. V-VIII].
All'interno di questo insieme, i sacramenti hanno una collocazione ed esercitano
una funzione originali. La terza parte è centrata su di essi in quanto atti di simbolizza-
zione dell'identità cristiana, che mettono in opera un'espressione rituale che non po-
trebbe «tradursi» in altri linguaggi, espressione «istituita» che, proprio come tale, è
«istituente» della Chiesa e dei soggetti che in essa credono (capp. IX-XI).
L'approccio proposto è inevitabilmente solidale di un certo modo di intendere i rap-
porti tra l'uomo e Dio. Nell'ambito cristiano esso si cristallizza attorno a Gesù, il Cri-
sto. La cosa emerge con frequenza lungo le prime tre parti; ma è nella quarta parte
che verrà trattata per se stessa. Confessare, con la Tradizione della Chiesa, che i sa-
cramenti sono mediazioni della comunicazione «graziosa» tra Dio e l'uomo credente
— perché è questa in definitiva la loro punta di diamante — non richiede soltanto, per
il teologo che cerca di capire ciò che crede, che sia analizzata la mediazione linguistica
e simbolica che li costituisce; richiede anche, e simultaneamente (sempre attraverso

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il simbolico), che si interroghi quella realtà che viene messa sotto il termine «Dio».
Di quale Dio parliamo dunque perché possiamo dire di lui: egli prende corpo nei sa-
cramenti, ad-viene attraverso di essi nella corporeità dei credenti? Questo interrogati-
vo inaugura tutto un percorso di cristologia elaborata in chiave trinitaria (capp. XII-XIII).
Così la nostra proposta di teologia fondamentale della sacramentalità o di rilettura
dell'insieme dell'esistenza cristiana sotto l'angolatura del sacramentale si articola at-
torno a due assi principali: quello del linguaggio e del simbolico da una parte, quello
del logos della croce dall'altra — perché solo a partire da qui si può elaborare una
cristologia trinitaria. D'altronde, il secondo asse non è estraneo al primo, e neppure
semplicemente parallelo ad esso, ma ne è necessariamente toccato e trasformato: com-
prendere diversamente l'uomo è per necessità di cose comprendere diversamente Dio.
All'incrocio tra l'uno e l'altro: i sacramenti, che li collegano simbolicamente nel ri-
spetto della loro radicale differenza...

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PARTE PRIMA

DAL METAFISICO
AL SIMBOLICO
Capitolo Primo

CRITICA DEI PRESUPPOSTI


ONTO-TEOLOGICI
DELLA SACRAMENTARIA CLASSICA

1. Il nostro interrogativo di partenza


L'interrogativo di partenza di questo nostro lavoro può essere formulato come se-
gue: come mai, per pensare teologicamente un rapporto sacramentale con Dio, espresso
in ultima istanza in termini di «grazia», gli scolastici (e qui ci limiteremo a san Tom-
maso d'Aquino) hanno privilegiato da capo a fondo la categoria della «causalità»?
Esplicitiamo le componenti dell'interrogativo. Da una parte, la grazia non può essere
un oggetto-valore, costituisce anzi il paradigma del non-oggetto e del non-valore, se
non si vuol negare il carattere grazioso e gratuito che la costituisce. Dall'altra, la cate-
goria di causalità accompagna sempre, nel discorso scolastico, un'idea di produzione
o di aumento (della grazia, appunto); essa presuppone quindi sempre uno schema di
rappresentazione di tipo produzionista, o decisamente di ordine tecnico o a volte di
ordine biologico (il germe in sviluppo), schema nel quale il concetto di «strumentante»
costituisce uno dei perni principali. Ecco: c'è eterogeneità (di fondo, a quanto pare)
tra il discorso della grazia e quello, strumentale e produzionista, della causalità. Il no-
stro interrogativo di partenza equivale dunque a chiederci perché gli scolastici hanno
privilegiato quest'ultimo, a quanto pare così inadeguato, per esprimere la modalità dei
rapporti di Dio con l'uomo nei sacramenti.
Certo, per essi si trattava di semplice analogia. Ma non esistono altri tipi di analo-
gia che siano più adeguati? E se sì, come mai gli scolastici non ne hanno cercato uno
che fosse più appropriato? I migliori tra di loro non mancavano certo di levatura o
di finezza filosofica e teologica! L'unica risposta che ci sembra possibile è di cercare
sul versante dei presupposti non-pensati, mai criticati come tali, della loro problemati-
ca. Gli scolastici non potevano pensare diversamente; e non lo potevano, a causa dei
presupposti onto-teologici che imbevevano tutta la loro cultura.

2. Il metafisico e il simbolico
Abbiamo parlato di presupposti onto-teologici. Un secondo interrogativo prelimi-
nare si presenta immediatamente: è pertinente parlare in questo modo, cioè presuppor-
re l'esistenza di un'ontoteologia, di una metafisica? I processi fatti — ormai così spes-
so — all'onto-teologia, alla metafisica, non hanno come bersaglio una chimera?

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Bisognerà allora distinguere, da una parte, le configurazioni concrete, tanto nume-
rose quanto diverse se non addirittura opposte tra di loro, che la filosofia ereditata
da Atene venticinque secoli fa ha assunto lungo la storia; dall'altra, la logica non-
pensata, i presupposti non chiariti che, con una riflessione «genealogica», si possono
riconoscere dietro figure così diverse, e che danno loro un'aria di famiglia: sono, co-
me dice Heidegger, dei «pensieri del fondamento», che puntano a «rendere ragione»
dell'intero dell'essere.
Bisognerà poi aggiungere che i grandi pensatori della metafisica hanno sempre avuto
la tendenza a non rispettarne i limiti e a prenderla così di spalle. Gli oion di Plotino,
i quasi dei Latini funzionano come delle strizzatine d'occhio che chiedono complicità,
che sollecitano l'uditore o il lettore a non lasciarsi ingannare dall'apparente adegua-
zione del discorso al reale. Lo stesso esse, in Tommaso d'Aquino, svolge un ruolo
critico capitale nei confronti di ogni rappresentazione riduttiva di Dio, nella misura
in cui questo esse, che non può venir circoscritto, non entra in nessun «genere». I grandi
pensatori hanno sempre saputo fare il passo indietro, il passo dell'umile lucidità di
fronte alla verità, che li ha trattenuti dal cadere nel dogmatismo mortale di confondere
il loro pensiero con la realtà. A volte essi si sono addirittura impegnati a pensare que-
sto scarto come tale. Ma pensare questo scarto è una cosa; pensare a partire da e al-
l'interno di questo scarto è un'altra. È qui, probabilmente, che la logica impensata
del loro pensiero dà loro quell'aria di famiglia che ci permette di parlare della metafi-
sica o, forse ancor meglio, del metafisico.
Bisognerà dunque precisare, alla fin fine, che il metafisico o l'ontoteologico (cioè
il profilo da sempre teologico del metafisico) non designa una realtà semplice che sa-
rebbe esistita allo stato puro. Con quel termine noi intendiamo un concetto metodolo-
gico, che indica una linea di tendenza o una polarità caratteristica del pensiero occi-
dentale a partire dai Greci; questa polarità è caratterizzata come «pensiero del fonda-
mento», e dunque come impossibilità di pensare a partire dallo scarto come tale tra
il discorso e il reale. Noi supponiamo con ciò stesso un'altra linea di tendenza o pola-
rità possibile del pensiero e adottiamo quindi un altro concetto metodologico, che de-
signa il tentativo di aprirsi un itinerario di pensiero a partire da e all'interno di questo
scarto: questa seconda via è quella del linguaggio o, in altri termini, del simbolico.
Precisazione capitale: quella che, a un primo approccio, abbiamo appena presentato
come linea di tendenza o polarità opposta a quella della metafisica si presenta di fatto
— essendo inscritta da capo a fondo nel luogo (o nel non-luogo) dello scarto — non
semplicemente come il modello inverso del metafisico, e dunque situato sul suo stesso
terreno, ma come un altro terreno epistemologico dell'attività di pensiero.
Questa coppia di concetti metodologici (metafisico/simbolico) ci pare abbia valore
euristico. Si tratta per noi di usarli anzitutto come strumenti di lavoro. La nostra rifles-
sione critica verterà dunque non tanto sui temi concreti della metafisica nelle moltepli-
ci sue versioni quanto sugli schemi che la comandano e ne costituiscono la logica im-
pensata. Un progetto del genere non deve però far credere che potremmo passare co-
me d'incanto dal metafisico al simbolico; avremo l'occasione di spiegarci a questo pro-
posito. Limitiamoci per ora a sottolineare che il simbolico designa un processo sempre
incompiuto, un passaggio che resta sempre da fare... Il che significa che non sostitui-
remo al precedente un nuovo sistema di sapere.

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I. LA CAUSALITÀ SACRAMENTALE IN SAN TOMMASO D'AQUINO

1. Il posto del «Trattato dei sacramenti» nella Somma teologica


Questo trattato trova posto, come è noto, nella 3a parte della Somma, sulla scia
della cristologia e della soteriologia. Ora, questa collocazione era già segnata in fili-
grana fin dalla Ila-IIae, e precisamente nel quadro della virtù di religione cioè degli
atti con cui l'uomo si unisce a Dio: atti interiori di devozione (q. 82) e di preghiera
(q. 83); atti esterni mediati dal corpo nell'adorazione (q. 84), dai doni fatti a Dio nelle
offerte (sacrifici, oblazioni, decime: q. 85-87) o nei voti (q. 88), o ancora dall'uso
delle cose consacrate nei sacramenti (semplice allusione) e dal pronunciare il nome
di Dio (giuramento, scongiuro, invocazione: q. 89-91). Come si vede, in quest'ultima
sotto-sezione Tommaso indica il posto che vi potrebbero occupare i sacramenti; ma,
come egli precisa, «è nella terza parte di quest'opera che converrà trattare del sacra-
mento» (q. 89, prol.). In quanto elementi del culto cristiano, cioè in quanto «atti este-
riori di latria», i sacramenti appartengono alla «morale». Essi sono allora l'espressione
maggiore del nostro rapporto etico con Dio, rapporto perfettamente cristiano poiché
effettuato dal Cristo che fa risalire a Dio il culto dell'umanità santificata. È, come ve-
dremo, la linea seguita recentemente da K. Barth.
Ma quest'aspetto è insufficiente; e non è neppure il più importante per Tommaso.
I sacramenti infatti non sono soltanto l'espressione cultuale della nostra riconoscenza
a Dio per la salvezza (giustificazione e santificazione) già donata; essi sono pure —
e prima di tutto — mediazioni attuali di questa salvezza, «canali» con cui beneficiamo
della grazia acquistata dal Cristo. «Lo studio del mistero del Verbo incarnato dev'es-
sere seguito da quello dei sacramenti della Chiesa, perché dal Verbo incarnato essi
ricevono la loro efficacia»: con questa frase si apre il «Trattato dei sacramenti» nella
Somma (III, q. 60, Prol.). Così al primo movimento, ascendente, del culto esterno
che sale a Dio attraverso il Cristo, corrisponde un secondo movimento, contrario, di
giustificazione e di santificazione, che discende attraverso il Cristo verso gli uomini.
Questo secondo movimento è, per Tommaso, il primo sul piano teologico. Se in base
alla loro dimensione «religiosa» i sacramenti sono segni o «proclamazioni della fede
che giustifica» (III, q. 68, a. 8), secondo la loro dimensione efficiente sono invece
mezzi con cui Dio opera la giustificazione ottenuta dal Cristo per tutti gli uomini.
Ci si può rammaricare che Tommaso abbia sottolineato in misura insufficiente, nel
trattato della parte III, la dimensione ascendente ed etica dei sacramenti avviata nelle
questioni relative agli atti esterni della virtù di religione. Questo gli avrebbe permesso
di equilibrare un trattato che, centrato sul loro aspetto di santificazione dell'uomo, è
in maniera troppo unilaterale «cristocentrico/discendente». Questa debolezza, comun-
que, mette in rilievo ancor meglio il carattere centrale della loro efficacia, e dunque
del modo di quest'efficacia: segno e causa.

2. Le innovazioni principali della Somma teologica


È noto che la dottrina della causalità sacramentale ha conosciuto, in Tommaso d'A-
quino, diverse inflessioni significative tra l'epoca del Commento alle sentenze
(1254-1256) e quella della parte III della Somma teologica (1272-1273). «Mentre nella

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Somma il sacramento in generale è un segno che ha come specifico (per i sacramenti
della Legge nuova) di causare ciò che significa, nelle Sentenze era una causa (un rime-
dio) che aveva come specifico (ciò che a noi sembra molto più arbitrario) di significare
ciò che causa»; inoltre nelle Sentenze Tommaso «concede ai sacramenti soltanto una
causalità dispositiva nei confronti della grazia», mentre nella Somma essa diventa «per-
fettiva».1 Sono queste, senza dubbio, le tre innovazioni principali della Somma in que-
sto argomento.
a) La prima consiste nel passaggio dalla priorità della funzione medicinale dei sa-
cramenti alla priorità della loro funzione santificante. L'insieme degli scolastici dei
secoli XII e XIII, e lo stesso Tommaso nel Commento alle Sentenze e nel Contra Gen-
tiles (1261-1264) sotto l'influsso della teoria del «sacramento-vaso» (un vaso conte-
nente un rimedio di grazia) di Ugo di San Vittore († 1141), consideravano i sacramen-
ti prima di tutto come dei rimedi.2 Il punto importante, in questa prospettiva, è di rile-
vare come questa analogia medicinale si inscriva direttamente nel registro della causa-
lità efficiente — il rimedio è causa della salute — mentre la santità designa una finalità.
È quanto Tommaso sottolinea fin dal suo primo articolo sui sacramenti nella Somma:
«La medicina è causa efficiente della salute: tutti i derivati del termine "medicina"
comportano quindi un riferimento a questo stesso e unico agente primo, ed è perciò
che il termine "medicamento" esprime la causalità. Invece la santità, questa realtà
sacra da cui il "sacramento" deriva il proprio nome, è una realtà tradotta piuttosto
in termini di causalità formale o finale. Il termine di sacramento non suscita perciò
sempre l'idea di una causalità efficiente».3

b) Questa netta dichiarazione di intenti, fatta all'inizio del «Trattato dei sacramen-
ti», non significa che Tommaso pensi di abbandonare l'idea di causalità efficiente: que-
st'idea tornerà, e con quale forza!, alla questione 62, dove il corpus del primo articolo
inizia con questa affermazione perentoria: «È impossibile negarlo (necesse est dicere):
i sacramenti della nuova Legge causano in un qualche modo la grazia». Ma, comin-
ciando col relegare in secondo piano la funzione medicinale dei sacramenti, l'intenzio-
ne dell'autore è quella di subordinare la nozione di causalità a quella di segno. Più
ancora: è quella di dare una definizione dei sacramenti che non si rifaccia alla causali-
tà. Delle quattro definizioni di sacramento che aveva ereditato dalla tradizione scola-
stica,4 egli mantiene in definitiva quella di sant'Agostino (sacrae rei signum). Bisogna

1
A.M. ROGUET, S. Thomas d'Aquin, Somme théologique: les sacrements, ed. de la Revue des Jeunes,
Paris-Tournai-Rome 1951, p. 266.
2
ID., ibid., pp. 260-265. Cf A. MICHEL, voce «Sacrement», DTC 14/1 (1939), col. 529; P. POURRAT,
La Théologìe sacramentaire, Gabalda, Paris 1907, p. 35.
3
S r m , q. 60, a. 1, ad 1.
4
Ecco un elenco delle principali definizioni di sacramentum nel Medio Evo. Noi sottolineiamo le quat-
tro formule mantenute da sant'Alberto Magno, e indichiamo tra parentesi le varianti (in IV Sent. d. 1, a. 5).
1. AGOSTINO:
a) «Sacrificium visibile invisibilis sacrifìcii sacramentum, id est sacrum signum» (De civ. Dei 10,5;
PL 41, 282). Alberto, attraverso Pier Lombardo: «Sacramentum est sacrae rei signum».
b) «Si enim sacramenta quamdam similitudinem earum rerum quarum sacramenta sunt non haberent,
omnino sacramenta non essent» (Ep. 98, 9, a Bonifacio, PL 33, 363).
c) «Sacramentum est in aliqua celebratione, cum rei gestae commemorano ita fit ut aliquid significare
intelligatur, quod sancte accipiendum est» (Ep. 55, 2, a Gennaro, PL 33, 205).

14
anche precisare che la scolastica aveva sentito il bisogno di completare questa defini-
zione aggiungendovi il termine di «causa» o di «efficacia»: signum... et causa rei sa-
crae (Pier Lombardo); signum efficax rei sacrae (Duns Scoto). Anche san Tommaso
la completa nella Somma, ma in maniera tale da non abbandonare la categoria di «se-
gno»: signum rei sacrae in quantum est sanctificans homines.5 «È evidente — scrive
H.F. Dondaine — che egli vuole superare l'appiattimento logico delle definizioni che
mettono sullo stesso piano significazione e causalità».6 Per arrivare a questo punto,
cioè per pensare prioritariamente i sacramenti non più in genere causae et signi7 ma
soltanto in genere signi,8 san Tommaso ha dovuto riconoscere che «la causalità non
è mai un carattere costitutivo di un'essenza».9

2. ISIDORO DI SIVIGLIA: In quest'autore il «sacrum secretum» ha la meglio sul «sacrum signum» di Ago-
stino. Questa definizione avrà autorità fino al sec. XII:
«Sacramentum est in aliqua celebratione, cum res gesta ita fit ut aliquid significare intelligatur quod
sancte accipiendum est. Ob id sacramenta dicuntur, quia sub tegumento visibilium (corporalium) rerum vir-
tus divina secretius salutem (eorumdem sacramentorum) operatur; unde et a secretis virtutibus et a sacris
sacramenta dicuntur» (Etymologiae 6, 19; PL 82, 255).
3. Nel sec. IX:
a) PASCASIO RADBERTO: «Sacramentum est quidquid in aliqua celebratione divina nobis quasi pignus
salutis traditur, cum res gesta visibilis longe aliud invisibile intus operatur, quod sancte accipiendum est.
Unde et sacramenta dicuntur a secreto, eo quod in re visibili divinitas intus aliquid ultra secretius fecit per
speciem corporalem» (Liber de corpore et sanguine Domini, PL 120, 1275).
b) RATRAMNO: Definizione molto vicina alla precedente. Vedi avanti, cap. VIII, n. 15.
c) RABANO MAURO riprende testualmente Isidoro: «Sacramenta dicuntur, quia sub tegumento...» (De
clericorum institutione 1, 24; PL 107, 309).
4. Nel sec. XII:
a) P. ABELARDO: «Est autem sacramentum invisibilis gratiae visibilis species, vel sacrae rei signum,
id est alicuius secreti» (Epitome theol. christ, 1 e 28; PL 178, 1965).
b) ALGERO DI LIEGI (reazione contro Isidoro, distinguendo tra «sacramentum» e «mysterium»): «In hoc
differunt, quia sacramentum signum est visibile aliquid significans, mysterium vero aliquid occultum ab
eo significatum» (De sacramentis corporis et sanguinis Domìni, 1, 4; PL 180, 751).
c) UGO DI SAN VITTORE: «Sacramentum est corporale vel materiale elementum oculis extrinsecus sup-
positum (foris sensibiliter expositum), ex similitudine repraesentans, ex institutione significans, et ex sancti-
ficatione conferens (continens) invisibilem (et spiritualem) gratiam» (De sacramentis I, p. 9, e. 2; PL 176,
317). (Sulla sostituzione di «conferens» a «continens» cf il nostro testo).
d) Summa sententiarum (v. 1140):
«Sacramentum est visibilis forma invisibilis gratiae in eo collatae, quam scilicet confert ipsum sacra-
mentum. Non est solummodo sacrae rei signum, sed etiam efficacia... Sacramentum non solum significat,
sed etiam confert illud cuius est signum vel significatio» (Tr. 5,1; PL 176, 117). Questa definizione eviden-
zia chiaramente — senza dubbio per la prima volta — il punto preciso su cui verte la chiarificazione scolasti-
ca: segno e causa; quest'ultimo termine compare nella definizione seguente, del Maestro delle Sentenze.
e) PIER LOMBARDO: «Sacramentum eius rei similitudinem gerit, cuius signum est [...]. Sacramentum
enim proprie dicitur quod ita signum est gratiae Dei, et invisibilis gratiae forma, ut ipsius imaginem gerat
et causa existat» (Sent. IV, d. 1, n. 2; PL 192, 839). Alberto Magno: Sacramentum est invisibilis gratiae
visibilis forma, cuius similitudinem gerat et causa existat.
f) TOMMASO D ' A Q U I N O :
— prima maniera: il sacramento è «in genere causae et signi» (in IV Sent., d. 1, q. 1, a. 1);
— seconda maniera: il sacramento è «in genere signi» (ST III, q. 60, a. 1). Cf il nostro testo.
5
ST III, q. 60, a. 2. Cf su questo punto H.F. DONDAINE, «La définition des sacrements dans le Somme
théologique», RSPT, n. 31, 1947, pp. 213-228.
6
Ibid., pp. 223-224.
7
Così in IV Sent., d. 1, q. 1, a. 1, ad 5,1 (ed. Lethielleux, Parigi 1947, t. 4, p. 16).
8
Così in ST III, q. 60, a. 1.
9
H.F. DONDAINE, art. cit., pp. 227-228.

15
L'interesse di questa prospettiva è tutt'altro che trascurabile. Definiti come segni,
i sacramenti realizzano soltanto ciò che è significato, e nel modo in cui è significato.
Di conseguenza, non si può elaborare una teologia sacramentaria se non partendo dal-
l'afro di celebrazione della Chiesa, cioè dal modo in cui essa significa ciò che intende.
È, questo, una specie di principio primo della sacramentaria; purtroppo, è stato spesso
dimenticato lungo la storia, e Tommaso stesso è stato ben lontano dallo svilupparlo
sempre in maniera conseguente. Se lo si fosse fatto, si sarebbero forse evitati molti
falsi problemi e vicoli ciechi sulla presenza eucaristica (racconto dell'istituzione preso
in maniera isolata), sulla teologia del ministero ordinato (il «noi» della preghiera litur-
gica), ecc.
c) La «decisione» (Dondaine) presa da Tommaso nella Somma, di collocare il sa-
cramento nel genere del segno invece che in quello della causa non fa che mettere in
rilievo l'impossibilità in cui egli si trovava di render conto della formula in quantum
est sanctifìcans homines in categorie che non fossero quelle della causalità. Bandita
dalla definizione dei sacramenti — e abbiamo sottolineato l'interesse di quest'opera-
zione —, la causalità torna di prepotenza nella terza questione del trattato, sull'«effetto
principale dei sacramenti, che è la grazia» (q. 62), questione che segue quelle sulla
«essenza» (q. 60) e sulla «necessità dei sacramenti» (q. 61). Non è un caso che il Com-
mento alle Sentenze affermi la causalità sacramentale soltanto con prudenti riserve an-
che quando include quella causalità nell'essenza del sacramento, mentre la Somma,
al contrario, pur escludendola da quest'ultima, l'afferma poi «senza introdurre le re-
strizioni o precauzioni del Commento».10
La ragione è che, nel frattempo, è apparsa una terza innovazione teorica: Tomma-
so è passato dalla causalità dispositiva alla causalità strumentale, secondo il titolo di
un articolo di Dondaine. 11 Questi due tipi di causalità costituiscono le due specie mag-
giori del genere «causalità efficiente». Tommaso si è sempre opposto alla teoria difesa
dalla scuola francescana (Guglielmo d'Auvergne, san Bonaventura, poi Duns Scoto),
cui è stata affibiata «l'etichetta facile» di «causalità occasionale».12 Su questo punto egli
è molto deciso, rifiutando la tesi secondo cui i sacramenti sarebbero simili a una mo-
neta di piombo (un assegno, diremmo oggi), presentando il quale si riceverebbe una
somma di danaro semplicemente perché così vuole il legislatore. Infatti «se ci attenia-
mo a questa spiegazione, i sacramenti della nuova Legge non sarebbero altro che segni
della grazia, mentre, secondo l'insegnamento dei Padri, si deve pensare che i sacra-
menti della nuova Legge non solo significano la grazia ma la causano».13
L'«occasionalismo sacramentale cercava in primo luogo di salvaguardare la libertà dell'a-
zione di Dio: costui infatti ha ordinato i sacramenti alla grazia solo in forza di un patto (expacto
divino) di cui egli stesso è il libero autore. 14 La teoria della causalità efficiente detta «dispositiva»,

10
ID., ibid., p. 223.
11
ID., «A propos d'Avicenne et de S. Thomas: de la causalité dispositive à la causalité instrumentale»,
in Revue thomiste, n. 5 1 , 1951, pp. 4 4 1 - 5 3 .
12
L. MATHIEU, Introduction à S. BONAVENTURE, Breviloquium, p. 6, «Les sacrements», ed. Franci-
scaines, Paris 1967, p. 21.
13
ST III, q. 62, a. 1.
14
Per Bonaventura «la causa unica della grazia non può essere che Dio-Trinità [...]. Non si può assolu-
tamente pensare che nel rito materiale si trovi qualche qualità fisica capace di produrre la grazia soprannatu-

16
che il primo Tommaso — quello del Commento alle sentenze — seguiva sulla scia di Alessandro
di Hales e del proprio maestro Alberto Magno, era anch'essa sensibile a questa sovrana libertà
dell'azione di Dio nei doni della grazia; ma cercava di coniugarla con una vera e propria effica-
cia del sacramento stesso. Dio solo può dunque dare la grazia, effetto ultimo (res tantum) del
sacramentum. Quest'ultimo ha sì un'efficienza propria, ma soltanto in ciò che concerne l'effetto
primo (res et sacramentum: «carattere», ornatus animae) che dispone l'anima alla recezione della
grazia. Questa disposizione, prodotta dal sacramento stesso, è esigitiva della grazia che Dio (ma
lui solo) accorda allora necessariamente, almeno se il soggetto non mette un obex grave alla
sua accoglienza.15 In questo egli seguiva lo schema della causalità di Avicenna († 1307), quel
filosofo arabo le cui opere, tradotte in latino alla metà del 12° secolo in Spagna, esercitavano
allora un influsso notevole in Occidente: la causa dispositiva prepara la materia, la causa perfet-
tiva si applica alla forma (causa disponens praeparat materiam, causa perficiens influit formam).
Osserviamo, di passaggio, che questo stesso schema di causalità veniva applicato nel Commento
in campo soteriologico: l'umanità del Cristo vi svolge soltanto una funzione dispositiva nei con-
fronti della sua divinità in ordine alla nostra salvezza;16 così pure Bonaventura: «L'umanità del
Cristo dà la grazia in quanto vi prepara, la sua divinità la conferisce».17
Ma questa spiegazione ha finito per apparire a Tommaso insufficiente per rendere
conto dell'assioma, ammesso allora da tutti gli scolastici, secondo cui i sacramenti della
nuova Legge efficiunt quod figurant. Infatti la teoria dei sacramenti come semplice
materialis dispositìo praeparans ad susceptionem gratiae (Guerrico di Saint-Quentin)
non spiegava a sufficienza in che modo, in essi, l'effetto è quella stessa realtà che vie-
ne figurata, o ancora come, in essi, la res significata et data è legata per istituzione
divina al modus significanti. I sacramenti, in altre parole, non sono una pièce teatrale
che Dio reciterebbe, in ultima analisi, da solo: il signum, quale lo pone la Chiesa cele-
brante, è la mediazione stessa del dono di grazia. Tutto il problema consisteva nell'ar-
monizzare due categorie così eterogenee come quelle di «segno» e di «causa», e nel
farlo in maniera tale che il segno in questione avesse la particolarità di significare che
esso causa e di non poter causare che per modo di significazione. Il grande merito
di Tommaso nella teologia dei sacramenti è quello di aver tentato di ridurre il più pos-
sibile l'eterogeneità del segno e della causa, pur sapendo che una omogeneità totale
era impossibile.
L'innovazione della Somma su questo punto consiste nel fatto che «san Tommaso
abbandona uno schema avicenniano di causalità per sostituirgli quello di Aristotele e
di Averroè».18 Si sa che allora in Occidente venivano utilizzati abbondantemente tra-
duzioni e commenti di Aristotele, molto sicuri, fatti da questo filosofo musulmano (†
1198). Se la coppia avicenniana dator formae efficit, praeparatio materiae disponit
permetteva di evidenziare la struttura di un duplice effetto dei sacramenti, non spiega-
va però l'ordine tra le cause. Lo schema di Aristotele rimesso in circolazione da Aver-
roè permetteva invece una tale spiegazione: causa principalis movet, causa instrumen-
talis movet mota. «In Aristotele e Averroè san Tommaso aveva saputo scoprire il luogo

rale [...]. Se i sacramenti dispongono alla grazia, è perché Dio interviene sul rito con una assistenza partico-
lare, così che la stessa forza divina è causa della grazia e opera nel soggetto la fede e la devozione richieste»
(L. M A T H I E U , op. cit., p. 23s).
15
In IV Sent., d. 1, q. 1, a. 4, ad. 1 (ed cit., p. 31, n. 123).
16
III Sent., d. 13, q. 2, a. 1, ad. 3 (ed. cit., t. 3, p. 409).
17
III Sent., A. 13, a. 2, q. 1 (ed. Vivès, 1865, t. 4, p. 286).
18
H.F. D ONDAINE , «A propos...», art. cit., p. 441.

17
proprio della comunicazione tra agenti subordinati». 19 Di colpo, i sacramenti non sono
più semplici pseudo-cause efficienti, solamente dispositive, ma vere cause che eserci-
tano la loro propria azione e imprimono il loro marchio sull'effetto prodotto, sebbene
questa azione sia sempre subordinata a quella di Dio, agente principale. Bisogna infat-
ti distinguere «una duplice azione» dello strumento: se il letto non assomiglia alla scure
(causa strumentale) ma al progetto dell'artigiano (causa principale), è perché lo stru-
mento «opera non in virtù propria, ma in virtù dell'agente principale». Ma non si può
fare un letto con un pennello; ci vuole uno strumento capace di tagliare, uno strumento
che, come la scure, lasci il proprio marchio sul prodotto. Sotto questo secondo aspet-
to, lo strumento «ha un 'azione propria, che gli compete in virtù della sua forma pro-
pria, come alla scure compete di tagliare in ragione del suo taglio, mentre le compete
di fare un letto in quanto è lo strumento dell'idea dell'artigiano. Tuttavia essa compie
l'azione strumentale soltanto esercitando la sua azione propria: soltanto tagliando, la
scure fa il letto. Così i sacramenti corporali...».20

Ma in che modo uno strumento creato può, sia pure a titolo subordinato, partecipare a un
atto che è creatore, ex nihilo, della grazia? La teoria della causalità strumentale efficiente era
possibile soltanto perché Tommaso nella Somma, diversamente da quanto aveva fatto nelle Sen-
tenze, non considerava più l'infusione della grazia come una creazione. La grazia infatti non
è una sostanza concreta ma un accidente, un modo di essere che trasforma l'uomo;21 e soltanto
degli enti, non dei modi di essere, si possono dire creati da Dio. Nulla dunque impedisce che
i sacramenti partecipino, a titolo subordinato, a questa produzione della grazia, e che si dica
in tutta verità che essi «la contengono e la conferiscono», che la grazia è data da essi, ed è data
ex opere operato. In tutto ciò non v'è nulla di reificante: «La grazia si trova nei sacramenti se-
condo una certa virtù strumentale, che è una realtà in divenire e incompiuta nel suo essere natu-
rale» (quae est fluens et incompleta in esse naturae).22 Cerchiamo di capire: «Nella causa stru-
mentale la forma dell'effetto da realizzare non si trova allo stato compiuto e permanente, ma
come il termine dell'influsso provvisorio impresso allo strumento dalla causa principale. Così
il quadro si trova allo stato di idea esemplare nella mente dell'artista, allo stato di forma mate-
rializzata nel quadro, e ciò che si trova nel pennello è soltanto una "virtù", una forza, un flusso
passeggero impresso a questo strumento dall'artista, e che avrà come termine, fuori dello stru-
mento, il quadro realizzato».23
Se è vero che ogni teologia sacramentaria mette in gioco delle rappresentazioni del
rapporto tra l'azione di Dio e l'azione dell'uomo, e che, nel cristianesimo, questo rap-
porto trova il suo luogo esemplare in Gesù Cristo,24 una teologia degna di questo no-
me deve necessariamente garantire una coerenza tra cristologia e sacramentaria. Lo
abbiamo già segnalato a proposito del Commento alle Sentenze: in ambedue i campi,
lo schema d'intelligenza è quello della causalità dispositiva. Nella Somma abbiamo a
che fare, in un caso come nell'altro, con la causalità efficiente strumentale. Mentre
nelle Sentenze Tommaso evitava di attribuire all'umanità di Cristo un'efficacia divina
nella nostra salvezza, la teoria aristotelico-averroista della comunicazione tra agenti

19
I D . , ibid., p. 450.
20
ST m , q. 62, a. 1, e. e ad 2.
21
ST Ia-IIae, q. 110, a. 2, ad 3.
22
ST III, 1 , q. 62, a. 3.
23
A.M. ROGUET, op. cit., p. 354.
24
Questo punto verrà sviluppato nella quarta parte del nostro lavoro.

18
subordinati gli permette, nella Somma, di rendere pienamente giustizia alla formula
di san Giovanni Damasceno: humana natura in Christo erat velut organum divinitatis.
Secondo H.F. Dondaine, questa formula torna «una quarantina di volte» nell'insieme
delle opere di san Tommaso; ma, per le ragioni indicate, è nella Somma che «egli ne
farà un assioma della sua cristologia».25 Al punto che, «strumento della sua divinità»,
la santa umanità di Cristo «causa in noi la grazia sia per merito che per una certa effi-
cienza».26 Come nei sacramenti, si tratta qui di un'efficienza strumentale, ma con una
duplice differenza: «L'umanità di Cristo non è, nelle mani della divinità, uno strumen-
to che possa essere mosso senza muoversi da sé. È uno strumento vivo e razionale,
che si muove al tempo stesso in cui è mosso».27 D'altra parte, «la causa efficiente prin-
cipale della grazia è Dio stesso, per il quale l'umanità di Cristo è uno strumento con-
giunto (come la mano) e il sacramento è uno strumento separato (come il bastone mos-
so dalla mano). È dunque necessario che la virtù salvifica scaturisca dalla divinità di
Cristo attraverso la sua umanità fino ai sacramenti».28 Non si potrebbe modellare più
esattamente la teologia sacramentaria sulla cristologia. I sacramenti sono a pieno titolo
i sacramenti del Verbo incarnato, da cui «ricevono la loro efficacia» e a cui «si confor-
mano in quanto uniscono il "verbo" alla cosa sensibile, come nel mistero dell'Incar-
nazione il Verbo di Dio è unito a una carne sensibile».29 Essi vengono pensati da capo
a fondo, quanto alla loro essenza, come dei prolungamenti della santa umanità di Cri-
sto. Torneremo su questo punto nell'ultima parte del nostro studio.

II. UNO SCHEMA DI RAPPRESENTAZIONE DI TIPO PRODUZIONISTA

Rendere ragione della specificità dei sacramenti in confronto con le altre mediazio-
ni della grazia è dunque dire che essi realizzano ciò che significano. Secondo quale
modalità? Per Tommaso, una sola è possibile: la causalità. Egli la consolida nella Som-
ma. Significativi sono i verbi o le formule che esplicitano questa caratteristica dei sa-
cramenti alla questione 62, dal titolo: «L'effetto principale dei sacramenti, che è la
grazia»: i sacramenti «causano la grazia», essi la «operano» o la «producono», la «con-
tengono», «aggiungono» alla grazia presa in generale «un certo aiuto divino», sono
«necessari in ordine a certi effetti speciali che la vita cristiana richiede», «conferiscono
la grazia», ricevono dalla Passione di Cristo la loro «forza produttrice (causativa) di
grazia»... E il tutto è pensato secondo l'analogia dello «strumento». Certo, come que-
st'ultimo termine, così anche le formule anteriori sono utilizzate in senso analogico.
Su questo punto Tommaso non lascia adito a dubbi: fin dall'inizio, dal primo articolo
del trattato sui sacramenti, egli precisa che è per analogia che i sacramenti possono
essere collocati nel genere «segno».

25
H.F. DONDAINE, «A propos...», art. cit., p. 452.
26
ST II, q. 8, a. 1, ad 1. Cf C . V . HÉRIS, 5. Thomas d'Aquin, Somme Théologique: le Verbe incarné,
t. 2, ed. de la Revue des Jeunes, Paris-Tournai-Rome 1927, pp. 356-364.
27
ST III, q. 7, a. 1, ad 3.
28
Ibid., q. 62, a. 5.
29
Ibid., q. 60, Prologo al «Trattato dei sacramenti» e a. 6.

19
Si tratta, in questo caso, dell'analogia detta di «attribuzione». Secondo questo tipo di analo-
gia, il termine stesso di «segno» può venire attribuito a esseri diversi secondo relazioni diverse:
come, dice Tommaso, la salute, che si applica anzitutto al corpo sano, può essere attribuita sotto
un punto di vista o una relazione diversi a ciò che la causa come la medicina o a ciò che la
significa come l'urina, così la santità, che si applica anzitutto a Dio o all'uomo che partecipa
della vita divina, può essere attribuita, secondo relazioni diverse, a ciò che la causa o la signifi-
ca: è il caso dei sacramenti. Questo vale a fortiori della nozione di «strumento», di «contenere»,
di «produzione»... e, senza dubbio, di «causalità». Se si può dire che i sacramenti sono «cause
della grazia», è per aliquem modum (q. 62, a. 1). Questo tipo di bemolle (quodammodo, qua-
si...) torna molto spesso sotto la penna di Tommaso. L'analogia vieta dunque ogni interpreta-
zione «cosista» del suo pensiero, soprattutto in un campo in cui «la grazia si trova nei sacramenti
secondo una certa virtù o forza strumentale che è una realtà in divenire e incompiuta nel suo
essere naturale», dunque secondo una modalità che è più vicina a quella in cui una forma è pre-
sente nella sua materia o nel suo soggetto che a quella, esplicitamente rifiutata, secondo cui un
contenuto è nel suo contenitore.30
Rimane tuttavia vero che, per quanto fortemente purificate dall'analogia, tutte que-
ste nozioni appartengono a uno schema costante di rappresentazione che noi chiamia-
mo tecnico o produzionista. Di qui l'interrogativo posto all'inizio di questo capitolo:
come mai, per parlare della relazione di grazia di Dio con l'uomo, Tommaso si è atte-
nuto a questo tipo di rappresentazione? La soluzione allora indicata ci orientava verso
i suoi presupposti onto-teologici non pensati e dunque non criticati come tali. Dobbia-
mo ora provare questa affermazione. Dobbiamo cioè mostrare come, seguendo la sua
china metafisica (nel senso alto di cui si diceva), il pensiero (almeno quello occidenta-
le) non può rappresentarsi il rapporto tra soggetti o il rapporto con Dio se non secondo
lo schema tecnico della causa e dell'effetto.

1. La riduzione dello schema simbolico allo schema tecnico


Sulla scia del «discorso della grazia» di Guy Lafon, partiremo dal Filebo, uno degli
ultimi dialoghi di Platone, che prendiamo come «riferimento esemplare» nella misura
in cui vi si fa riconoscere «la forza che, soprattutto in Occidente, un pensiero di questo
tipo esercita su ogni riflessione».31 Questo dialogo punta essenzialmente ad assicurare
la vittoria della sapienza sul piacere, mostrando che «non è il piacere ma l'intelligenza
ad avere la maggiore affinità e somiglianza con il bene» (Filebo 22c).
Uno dei momenti-chiave della dimostrazione è quello in cui Socrate distingue ciò
che è continuo ad-vento o genesi (genesis) e ciò che è esistenza (ousia) [53c-55a]. Il
piacere pertiene alla genesis: è un divenire permanente, sempre in vista di altro, sem-
pre sottoposto alla generazione; è infinito, cioè indefinito, senza limiti: appena giunge
al compimento, appena raggiunge un traguardo o un riposo, muore. Il bene, al con-

30
Ibid., q. 62, a. 3. Cf il commento alla Fisica di Aristotele (IV, 4), dove Tommaso enumera, seguen-
do il Filosofo, le otto modalità secondo cui una cosa può essere in un'altra. La grazia è presente nell'uomo
in quella modalità in cui una forma è presente nel soggetto cui inerisce (5 a modalità). Per i sacramenti la
cosa è un po' differente: la grazia vi è presente come ciò che è mosso si trova in ciò che lo muove (6 a
modalità), ma non «come in un vaso» (8a modalità).
31
G. LAFON, Esquissepour un christianisme, Cerf 1979, cap. 3: «Discours de la gràce», soprattutto
pp. 77-88.

20
trario, e la sapienza che ad esso avvicina, pertiene alla misura, alla proporzione, a
ciò che basta a se stesso e riposa in se stesso; è «esistenza». Questa ousia, che è «in
sé e per sé», è ciò in ordine a cui avviene il resto. E poiché «tutto l'insieme degli avve-
nimenti avviene in vista di tutto l'insieme dell'esistenza», poiché ogni genesi si realiz-
za in ordine a un'esistenza che «appartiene alla classe del bene», il piacere va necessa-
riamente classificato altrove, e non nel bene.
Ma per giungere a questa conclusione, Socrate ha dovuto illustrare la distinzione
generale genesis/ousìa con esempi idonei a farsi capire da Protagora, suo interlocuto-
re principale. Il primo è quello degli uomini innamorati di bei giovani: chi tra l'aman-
te e l'amato si trova in posizione di genesis? Chi in quella di ousia? Per illuminare
la lanterna di Protagora, Socrate lo porta a trovare un altro esempio che assomiglia
al precedente, e illustra la distinzione tra avvenimento ed esistenza. Questo secondo
esempio è tanto evidente, da bandire ogni dubbio: «La costruzione navale avviene in
vista dei battelli», e non viceversa. Lo stesso vale, viene subito precisato, «per tutti
i casi di questo genere». Ora, è questo argomento tecnico dei cantieri navali che dirime
la questione e permette a Socrate di concludere enunciando la legge generale secondo
cui ogni avvenimento è subordinato all'esistenza. Risulta automaticamente chiaro che
il primo esempio, quello dell'amore, viene assimilato da Platone all'insieme dei casi
illustrati dai battelli.
Si intrawede la difficoltà di questo ragionamento: si può assimilare il rapporto aman-
te/amato a quello costruzione navale/battello in forza del tratto comune che sembra
unirli, e cioè il rapporto tra avvenimento ed esistenza? Non c'è tra i due casi una diffe-
renza, e una differenza tale da battere in breccia lo stesso rapporto generale tra avveni-
mento ed esistenza? La costruzione navale è in ordine ai battelli. Li produce: qui è
tutto. L'amante è sì in ordine all'amato, ma non lo produce; lo fa esistere in quanto
amato, dunque in quanto suscettibile di dargli una risposta: lo fa esistere in quanto
portatore di un rischio di non-risposta. Il battello è un prodotto finito. L'amato è inve-
ce un prodotto, appunto, non finito, infinito nel senso di indefinito, da sempre in dive-
nire. Il che vuol dire che egli non è affatto un «prodotto». Perché un «soggetto» non
può mai essere tra le realtà compiute ma soltanto tra le realtà che ad-vengono, e che
ad-vengono senza fine. Il rapporto di reversibilità o di reciprocità da cui emerge e nel
quale si mantiene (se non vuol morire) ogni soggetto umano, poiché non c'è soggetto
se non per altri soggetti in un rapporto di scambio sempre aperto, vieta di pensare l'u-
mano secondo la falsariga tecnica di causalità (sia pure aggiungendovi, a cose fatte,
il correttivo di «libero arbitrio»).
Ma è proprio questo che sembra impensabile per Platone, e che caratterizza ai no-
stri occhi la china metafisica del pensiero occidentale: un'incompiutezza permanente
sfida ogni logica e disfa ogni discorso; un pensiero che non si fissasse su un termine
compiuto, su un significato ultimo, su una verità ultima designabile, non sarebbe pen-
sabile secondo Platone. «L'infinito: ecco il nemico; per vivere, bisogna abbatterlo».
Ed effettivamente, come dimostra Guy Lafon, è questa l'operazione a cui Platone si
dedica. E d'altronde è questa, in maniera più generale, secondo E. Jüngel, «la premes-
sa caratteristica dell'ultima idea della metafisica, che si comprende come teo-onto-logica
(...): la sua valutazione metafisica negativa della condizione di passaggio»; il che ha
come conseguenza quella «di occultare la dignità caratteristica di un "passare" che...

21
corrisponde al "divenire". Si coglie soltanto l'infelicità del "passare"».32 Certo, Pla-
tone afferma continuamente che il piacere deve necessariamente avere la sua parte nel-
l'ascesa dell'uomo verso il bene. Ma si tratta allora del piacere «vero e puro», che
è «quasi della famiglia» della sapienza, piacere «puro da ogni sofferenza», piacere la
cui privazione «non è né sensibile né dolorosa» (Fil., 51b), piacere ideale, regolato
sulla verità, la misura e la proporzione. Il che equivale a dire che dell'infinito, di cui
esso è una specie, non gli resta granché... Tutta la dimostrazione è appunto sottesa
dal desiderio di evacuare, per quanto possibile, ciò che pertiene alla generazione sen-
za fine a vantaggio di ciò che pertiene al bene, cioè alla perfezione compiuta, alla au-
tosufficienza, al perfettamente misurabile e proporzionato. Tutto è sottoposto al regno
del valore, del calcolo, della causa che misura, a ciò che «vale di più», a ciò che pre-
senta «più vantaggi» e maggiore «utilità»: tutte cose che sono l'appannaggio della sa-
pienza e dell'intelletto tesi verso il bene (Fil. 11b-c). Al punto che la specie del piacere
che deve entrare in composizione con la sapienza per condurre l'uomo verso il bene
e la felicità è quella di un piacere così vero e così puro, che si arriva a una mistura
in cui non c'è posto «né per la gioia né per la pena, ma per il pensiero al più alto
grado possibile di purezza» (Fil., 55a).
In quanto compimento perfetto, il bene mette a morte l'ad-venire interminabile.
L'infinito fa le spese della dimostrazione, essendo totalmente subordinato al finito, dal
momento che ogni «genesi» è subordinata all'«esistenza». Una subordinazione come
questa trova nella «causa» il suo stesso principio (Fil., 26e). E questa causa ontologica
del mondo (che rende ragione del fatto che nel mondo vi sia della causalità ontica)
viene pensata integralmente secondo lo schema produzìonista della costruzione navale
e dei battelli, cui è analogicamente assimilata la relazione tra l'amante e l'amato. Ab-
biamo già contestato l'evidenza di questa assimilazione. Tale contestazione equivale
a dire, con G. Lafon, che vi sono «avvenimenti che non sono produttori d'esistenza,
che non hanno il loro compimento nell'esistenza come in un termine: l'amore è di que-
sti, come pure la gioia e il piacere, e senza dubbio altri ancora, che testimoniano tutti,
ognuno a modo suo, la presenza del campo simbolico».33
Il discorso di Platone è debitore di una riduzione dello schema simbolico della ge-
nerazione permanente dei soggetti nelle loro relazioni con altri soggetti allo schema
tecnico-produzionista del prodotto finito, del termine fisso, della causa prima o del
significato ultimale aventi la funzione di ragioni ultime. Discorso esemplare della me-
tafisica che, pur nella molteplicità delle sue varianti e opposizioni, sembra essere sem-
pre, secondo M. Heidegger, un discorso della «fondazione che rende conto del fondo,
che gli rende ragione e gli chiede ragione» (cf avanti).

2. La metafìsica: un'onto-teo-logia causalista


Discorso esemplare della metafisica, dicevamo a proposito del Filebo di Platone.
Dobbiamo spiegarci meglio.

32
ID., op. cit., p. 79. E. JüNGEL, Dieu mystère du monde, Cerf 1983, t. 1, p. 318 (trad. ital.: Dio
mistero del mondo, Queriniana, Brescia 1982).
33
G. LAFON, op. cit., p. 88.

22
a) La metafisica secondo M. Heidegger
La metafisica nasce in Grecia con l'oblio di quella che Heidegger chiama «la diffe-
renza ontologica», cioè «la differenza dell'essere e dell'ente».34 Questo oblio è dimen-
ticato da venticinque secoli, tanto è difficile — e forse in parte inevitabile, come do-
vremo spiegare — sottrarci a ciò che sembra imporsi come un'evidenza, vale a dire
che l'ente è «ciò che è» e che l'essere è «l'essere che l'ente è».35
La metafisica infatti «considera l'ente nella sua totalità e parla dell'Essere... (Di
qui) una confusione permanente tra ente e essere».36 L'Essere vi è «determinato come
proprietà comune a tutti gli enti che, di conseguenza, diventano identici nel loro fondo
per la presenza di questa proprietà comune». Viene così rappresentato come il «ciò
che» generale e universale che sottende gli enti, che «si distende alla base» di ognuno
di loro (hypokeimenon), «essere-sussistente» permanente, sub-stratum, sub-jectum, e
infine, come dirà Descartes, substantia. Così facendo, la metafisica identifica l'essere
con l'essere-ente degli enti (la loro «entità»), dimenticando la differenza ontico-ontologica
in questa confusione tra l'ontico e l'ontologico. E crede di rendere conto dell'Essere,
mentre lo riduce onticamente alle rappresentazioni che se ne fa, dimenticando a fondo
che esso non «è» nulla di essente.37
Poiché si rappresenta l'essere, la metafisica lo concepisce come proprietà comune
della totalità degli enti; e poiché lo concepisce così — in forza della sua rappresenta-
zione — come essere-fondamento (Grund), essa è comandata da una logica del «fonda-
mentale» che richiede un «fondativo». Ed è perciò che, rappresentato come alla base
di tutti gli enti, l'essere si sdoppia e si ripete necessariamente e simultaneamente in
un vertice unico. Si riferisce cioè a un ente primo: il Bene o l'Uno (Platone), il divino
(Aristotele), Dio in se stesso, ente primo, ens increatum (Tommaso d'Aquino), a un
tempo causa prima e ultima ratio (Leibniz), archè e telos, che può essere tale soltanto
in quanto è causa sui. Così, fin da Platone, la metafisica appare — ed è questo il suo
«tratto fondamentale» — come «un'onto-teo-logia [...], un pensiero che in ogni parte
approfondisce l'ente come tale e lo fonda nel Tutto, a partire dall'essere come fondo
(logos)». Questa «logica» pensa ineluttabilmente l'essere come fondo: sia come «cosa
primordiale, la Causa prima» che come «ultima ratio, ultimo conto da rendere». Al
punto che l'essere dell'ente, inteso come fondo, non può essere concepito — se si vuol
andare fino in fondo — che come causa sui. Ecco il concetto metafisico di Dio». In
quanto interpretazione onto-teologica dell'essere dell'ente, la metafisica, ben lungi dal
precedere la teologia, procede da essa, ne è una derivazione; e in maniera fondamen-
tale, non accidentale.38
Il «ciò che» degli enti viene colto per analogia, cioè per allineamento (ana logon)
secondo il loro ordine gerarchico (taxis, ordo) sulla frontiera del vertice unico. Pur
giudicando irragionevoli le speculazioni di Platone sulle Idee, Tommaso d'Aquino ri-
conosce che quest'ultimo ha avuto perfettamente ragione di affermare l'esistenza di

34
M. HEIDEGGER, L'être-essentiel d'un fondement ou «raison», in Questions 1 (abbr. Q. 1), Gallimard
1968, p. 100.
35
I D . , Le Retour au fondament de la métaphysique, Q. 1, p. 29.
36
I D . , ibid.
37
È, questo, un tema costante nell'opera di Heidegger.
38
M. HEIDEGGER, Identité et différence, Q. 1, p. 294.

23
una «realtà prima che è (essere e) bene per essenza, e che chiamiamo Dio»; ed è ap-
punto «in ragione di questo primo, che per essenza è essere e bene, che ogni altra cosa
può essere detta essere e buona in quanto ne partecipa secondo una certa forma di assi-
milazione, d'altronde lontana e difettosa».39 L'analogia è tanto congenita alla metafi-
sica quanto lo è il substrato ontologico degli enti e il suo raddoppio in un vertice divino.
Con la sua polarizzazione esclusiva sull'essere dell'ente, la metafisica si colloca
al semplice livello di una «tecnica di spiegazione mediante le cause ultime».40 Il dio
che essa afferma appare soltanto in una prospettiva causalista di fondamento. Tutto
è comandato da un desiderio di padroneggiare la verità. Un tale dominio sulla verità
la degrada inevitabilmente a fondamento disponibile, a permanenza sostanziale, a pre-
senza oggettiva. Questo bisogno di pienezza rassicurante va collegato a un antropo-
centrismo viscerale: quello della certezza di se stessi, della presenza a sé, sulla quale
viene misurato in ultima analisi l'insieme del mondo. Tutto è così «ordinato», tutto
è giustificato, tutto è fondato a essere, e a esserci come presente. Dall'essere-sostanza
come permanenza presente alla sostanza-soggetto come presenza permanente è la stes-
sa logica, la logica del Medesimo, che si dispiega: logica utilitaria che, per paura della
differenza, di ciò che è sempre aperto (in ultima analisi, della morte), riduce l'essere
alla propria ragione e ne fa, senza avvedersene, il cemento di una realtà chiusa.
Così, malgrado la molteplicità delle scuole e i numerosi «rovesciamenti» conosciu-
ti dalla tradizione metafisica a partire dalle sue origini ateniesi, questa si è generata
lungo i secoli, secondo Heidegger, dalla stessa matrice di pensiero, da una stessa logi-
ca, quella del «fondamento»: «La metafisica pensa l'essere dell'ente sia nell'unità ap-
profondente di quanto c'è di più universale, vale a dire di ciò che è ugualmente in
ogni dove, sia nell'unità fondatrice in forza della totalità, vale a dire di quanto c'è
di più alto e che tutto domina. Così l'essere dell'ente è pensato in partenza come il
fondo che fonda. Perciò ogni metafisica è, nel suo fondo e a partire dal suo fondo,
la Fondazione che rende conto del fondo, che gli rende ragione e che, in ultima anali-
si, gli chiede ragione».41

b) La dicotomia essere/dire
È noto che alla cesura (chôrismos) platonica tra il mondo sensibile e il mondo intel-
ligibile Aristotele sostituisce un'altra cesura, all'interno dell'unico mondo che egli con-
sidera reale; separa una regione celeste sopralunare dove regna, se non una vera im-
mutabilità, almeno un'immutabile regolarità dei movimenti, da un'altra regione, in-
fralunare, che è quella del movimento locale, della generazione, della corruzione e
della morte. Per quanto intramondano, questo sistema non è meno dualista di quello
del filosofo dell'Accademia. D'altronde, la metafisica è in se stessa, secondo Heideg-
ger, di essenza dualista.
Questo dualismo cosmologico è a sua volta inseparabile da un dualismo logico (e
assiologico). Mentre, secondo Heidegger, i presocratici coglievano la physis nel suo
getto originale e la pensavano nell'identità e nella differenza della «piegatura» (Zwie-
spalt) dell'essere e del dire, Platone opera una scissione (Spaltung) dei due: il linguaggio

39
ST I, q. 6, a. 4.
40
M. H EIDEGGER , Lettre sur l'humanisme, Questions 3 (abbr. Q. 3), p. 80.
41
I D . , ldentité et différence, Q. 1, p. 292s.

24
non è più ciò che raccoglie (legein) l'Essere nella sua pro-cessione svelante e nella
sua re-cessione velante; non è più il luogo stesso del compimento del mondo: ne è
il riflesso. O piuttosto: sono le cose di questo mondo a non essere più che l'ombra
delle realtà ideali rappresentate dal pensiero e oggettivate nel discorso. E se Aristotele
rovescia il pensiero del maestro Platone accordando a «questa cosa» singolare (tode
ti) la priorità sul «che cosa» generale (ti), rimane vero che sull'insieme della sua filo-
sofia — come sottolinea J. Beaufret — plana «l'ombra del platonismo, per il quale il
fondo dell'essere è la generalità comunitaria dell'eidos». E questo movimento «non
farà che accentuarsi in seguito» nella storia della filosofia.42
Così l'essere si presenta, in definitiva, come il corrispettivo del pensiero, oggetti-
vato da esso. Sotto il variare dei temi nelle diverse tradizioni metafisiche si può ritro-
vare uno schema comune di rappresentazione dell'essere come «presenza che sta in
sé» rispetto all'uomo che pensa e parla (Heidegger). Il linguaggio non è più il luogo
di nascita dell'uomo in seno alla realtà.
Il linguaggio è l'espressione, convenzionale al livello dei suoni emessi, di un con-
tenuto mentale che è a sua volta immagine delle cose esterne: è questo il quadro gene-
rale entro cui la tradizione metafisica lo concepisce. Così, all'inizio del trattato Sul-
l'interpretazione Aristotele distingue tre elementi: 1) «i suoni emessi dalla voce»; 2)
gli «stati d'animo» di cui questi suoni sono i «simboli» o i «segni immediati»; 3) le «co-
se di cui questi stati sono le immagini» (§ 16a). I suoni o «parole emesse dalla voce»
non sono «gli stessi in tutti gli uomini»: sono dunque arbitrari o convenzionali, varia-
bili secondo le lingue. Gli stati d'animo vanno intesi come un contenuto presente non
nelle parole ma nella mente dei locutori. Questo contenuto, a differenza dei suoni, è
«identico per tutti». E cioè: che si dica «cavallo», horse o Pferd, tutti si formano la
stessa rappresentazione mentale di ciò che, tuttavia, è enunciato in maniere diverse.
E questa rappresentazione a sua volta è «identica alla cosa» di cui è immagine, cioè
il referente extralinguistico costituito dal quadrupede in questione. Tommaso d'Aqui-
no, riferendosi a questo passo di Aristotele, lo sintetizzerà dicendo: «Secondo il Filo-
sofo: voces sunt signa intellectuum, et intellectus sunt rerum similitudines».43

Tra Aristotele e Tommaso troviamo Agostino, particolarmente con il libro II del suo De doc-
trina Christiana, che T. Todorov considera «la prima opera propriamente semiotica»,44 dal mo-
mento che la teoria del segno che vi è sviluppata ingloba sia i segni non linguistici che le parole,
di cui i primi vanno considerati quasi quaedam verba visibilio (II, III, 4). «È attraverso i segni
che veniamo a conoscere le cose», aveva scritto Agostino all'inizio del suo trattato (I, II, 2).
Sìgnum est enim res, praeter speciem quam ingerii sensibus, aliud aliquìd ex sefaciens in cogì-
tationem venire (II, I, 1). Nel caso delle parole, la res significante è evidentemente il suono
emesso dalla voce; questo suono è segno in quanto «oltre all'impressione che produce sui sensi,
da se stesso fa venire in mente qualche altra cosa». Le parole (II, III, 4), come le lettere che
ne sono la trascrizione (II, IV, 5), non sono «segni naturali» come il fumo o la traccia di un
animale, ma «segni convenzionali» (signa data). La loro ragion d'essere «è di esibire e trasfon-
dere nella mente di un altro ciò che porta nella propria mente colui che fa segno» (II, II, 3).
Nihil aliud est loqui ad alterum quam conceptum mentis alteri manifestare, dirà più tardi san

42
J. B EAUFRET , Dialogue avec Heidegger, t. 1, ed. de Minuit, 1973, pp. 111-112.
43
ST I, q. 13, a. 1.
44
T. T ODOROV , Théories du symbole, Seuil 1977, p. 38.

25
Tommaso.'" Lo aliud aliquid (ciò che Tommaso chiama qui il concetto) che il segno fa venire
in mente è o dev'essere normalmente la rappresentazione immediata e fedele della realtà extra-
linguistica in questione: su questo, Agostino non ha dubbi, come non ne hanno Aristotele e Tom-
maso, anche se non sottolinea questo punto di vista nel De doctrina Christiana: «Vedendo un'or-
ma, giudichiamo che è passato un animale, di cui essa è la traccia [...]; ascoltando la voce di
un essere animato, discerniamo il sentimento della sua anima» (II, I, 1). Non è forse vero che,
nel libro XV del De Trinitate, Agostino scrive che «il verbo che risuona all 'esterno è il segno
del verbo che splende interiormente» (XV, XI, 20)? Ora, questo verbum cordis è quello «che
s'imprime nell'anima attraverso ogni oggetto di conoscenza». Come gli «stati d'animo» di Ari-
stotele, esso «non appartiene a nessuna lingua...; non è né greco né latino» (XV, X, 19). «Ante-
riore a tutti i segni in cui si traduce, esso nasce da un sapere immanente all'anima», sapere pre-
linguistico la cui sorgente segreta non può essere che l'intus Magister, il Verbo di Dio stesso
(XV, XI, 20).
Diverse sono le teorie del linguaggio nella tradizione metafisica. Esse sembrano
però fondarsi tutte su un rapporto fra tre elementi fondamentali, che possono essere
presentati come segue: 1) la parola come suono emesso dalla voce si trova in un rap-
porto convenzionale o arbitrario con 2) una realtà mentale universale che essa evoca
e che viene spesso chiamata «concetto», il quale si trova in un rapporto naturale di
somiglianza con 3) la cosa extralinguistica di cui è l'immagine. In termini contempo-
ranei: 1) il significante linguistico si trova in un rapporto convenzionale con 2) il signi-
ficato, il quale rimanda in maniera del tutto naturale al 3) referente. È dentro questo
quadro generale che Tommaso d'Aquino elabora la sua teoria della conoscenza.
La si può riassumere brevemente così: 1) la cosa imprime la sua immagine, 2a) nei sensi
attraverso la sua specie impressa (species impressa) sensibile (l'elemento particolare della co-
sa), e 2b) nella mente attraverso la sua specie impressa intelligibile (l'elemento universale della
cosa); grazie all'astrazione da parte dell'intelletto agente, la mente elabora 3) il concetto, che
è la rappresentazione mentale della cosa o la presenza della cosa stessa nella mente mediante
la sua rappresentazione mentale, e che viene designata come verbo interno (verbum cordis o
mentis); il concetto viene allora tradotto all'esterno con 4) la parola o verbo esterno, in un di-
scorso che è un giudizio.46 Per agevolare questa ripresa sintetica, abbiamo distinto quattro ele-
menti principali. Ma questa presentazione è ingannevole. Infatti per Tommaso vi sono soltanto
tre elementi separabili: la cosa; il momento dell'intellezione (formazione del concetto); il mo-
mento del giudizio. La «specie impressa» non è un in-sé. Se lo fosse, la mente conoscerebbe
non la cosa stessa ma soltanto la sua «specie», vale a dire ciò che ognuno ne coglie. Un «ideali-
smo» di tal fatta sarebbe in contraddizione diretta e fondamentale con il «realismo» professato
da Tommaso. Realismo: per lui, infatti, è proprio la cosa stessa che, attraverso la sua rappre-
sentazione mentale, è presente «naturalmente» nella mente; è la cosa stessa che noi raggiungia-
mo. La specie non è un oggetto materiale quod, ma un oggetto formale quo; non è oggetto di
conoscenza ma mezzo o piuttosto principio di conoscenza: è ciò attraverso cui raggiungiamo
la cosa stessa impressa nella mente dalla sua forma. Quanto al linguaggio, esso è solo lo stru-
mento di traduzione all'esterno — traduzione convenzionale — di ciò che si è formato così «na-
turalmente» nella rappresentazione mentale.

45
ST I, q. 107, a. 1.
46
Cf De Veritate, q. 4, a. 1-2; De Potentia, q. 8, a. 1. (Quaestiones disputatae, Marietti, Torino 1924,
vol. 1 e 3).

26
Questo «realismo», come si vede, parte dal presupposto che il reale è un oggetto,
un obiettivo da raggiungere, da cogliere. È lo stesso presupposto metafisico che co-
manda la corrente contraria, quella del nominalismo. Semplicemente, lì dove quest'ul-
timo dichiara che noi manchiamo sempre l'oggetto a cui puntiamo, perché gli univer-
sali (trascendentali, generi, specie), sempre predicati, non possono essere che delle
voces, non delle res, il primo afferma invece la riuscita dell'impresa. Nei due casi,
l'essere e l'uomo sono in situazione di faccia-a-faccia, messi in rapporto dialettico dal
linguaggio. Il linguaggio è dunque sempre pensato come l'intermediario strumentale
che permette loro, con maggiore o minor riuscita, di dialogare a vicenda. Il linguag-
gio, nell'insieme della tradizione metafisica, non è più quello che era all'aurora del
pensiero presocratico, secondo Heidegger, cioè l'ambiente nel quale l'essere e l'uomo
sorgono e, sorgendo, si incontrano.

c) Il linguaggio-strumento
Dunque, lungi dalla coappartenenza (Zusammengehörigkeit) di Sein e Dasein nel
linguaggio, la tradizione metafisica lo pensa come una proprietà particolare dell'uo-
mo. Zôon logon echon, animal rationale, l'uomo metafisico è un ente che, tra gli altri
attributi, ha anche quello di parlare. Egli possiede il linguaggio, invece di essere ori-
ginariamente posseduto, costituito dal linguaggio (il che non significa che si debba con-
siderare il linguaggio come una nuova ipostasi ultima). L'uomo utilizza il linguaggio
come uno strumento, necessario, di traduzione a se stesso (pensiero) o agli altri (voce)
delle proprie rappresentazioni mentali.
Traductor, traditor: strumento di traduzione, il linguaggio è pure, ahimé, strumen-
to di tradimento. Perché non può mai esaurire il «voler-dirsi della presenza del senso»
che, secondo J. Derrida, caratterizza il segno agostiniano.47 In confronto a questo pri-
mato assoluto della presenza del senso, verbo interiore la cui sorgente è in ultima istanza
il Verbo di Dio che illumina il cuore dell'uomo, il linguaggio rimane sempre inade-
guato. Per sua stessa natura, e non soltanto a causa della menzogna, dell'incompeten-
za o della distrazione del locutore. L'ideale, impossibile in questo mondo, sarebbe al-
lora di deporre il linguaggio — come pure di deporre il corpo — per beneficiare imme-
diatamente dell'illuminazione del senso immanente. Così, almeno in Agostino, il lin-
guaggio, per quanto prezioso e indispensabile sia e per quanto grandi siano le sue ope-
re, ostacola, in definitiva, la realizzazione dell'uomo. D'altronde, non è forse, secon-
do il dottore di Ippona, la conseguenza del peccato originale? Questo infatti ha inaridi-
to la fonte interiore della conoscenza diretta di Dio, così che Adamo ed Eva hanno
scoperto che non potevano più comunicare tra di loro se non mediante l'artificio, mol-
to imperfetto, delle parole.48 Affermazione significativa, che implica che l'uomo sa-
rebbe stato creato da Dio senza linguaggio... Senza arrivare sempre così lontano, Ago-
stino dice comunque in un altro testo, citato e commentato nello stesso senso da Tom-
maso d'Aquino, che «prima (della caduta) Dio parlava forse con i primi uomini come
parla con gli angeli, illuminando le loro menti con la stessa verità permanente».49

47
J. D ERRIDA , La Voix et le phenomène, PUF, Paris 1967, p. 37.
48
De Gen. contro Manich. II, 31.
49
Super Gen. ad litt., XI. TOMMASO D'AQUINO, ST I, q. 94, a. 1. Cf De Ver., q. 18, a. 1-2.

27
Se dunque è impossibile eludere il linguaggio, vi si aderisce però controvoglia, poiché
esso ostacola quell'ideale trasparenza di sé a sé, agli altri e a Dio, che sembra costi-
tuire uno dei presupposti fondamentali della tradizione metafisica. E dietro questo ri-
sentimento nei confronti della mediazione sensibile del linguaggio si profila un sospet-
to che verte sulla corporeità e la storicità stesse dell'uomo: è questo l'impensato che
sembra comandare il sistema nel suo insieme. La rappresentazione strumentale, sia
del corpo che del linguaggio, presuppone un'anteriorità — almeno logica — dell'uomo
nei loro confronti: essenza umana ideale che, dal suo esilio o dalla sua caduta, è pri-
gioniera — sôma-sêma — del regno del sensibile. Malgrado tutte le sue varianti, la
metafisica si è forse mai liberata da questo platonismo originale? Impossibile, in que-
ste condizioni, guardare con occhio positivo il linguaggio e il corpo come l'ambiente
in cui sorge il soggetto e in cui si fa la verità.

d) La dicotomia soggetto-oggetto
La cesura dualistica tra soggetto e oggetto è, in certo senso, antica come la metafi-
sica, essendo legata a quella tra l'essere e il dire e alla concezione strumentalista del
linguaggio. Ma è con i tempi moderni, in particolare con Descartes, che essa raggiun-
ge tutta la sua ampiezza. Heidegger ne tratta nei suoi Holzwege:50 «Con Descartes ini-
zia il compimento della Metafisica occidentale» (p. 129). Infatti, da che Platone ha
determinato «l'entità dell'ente come eidos (ad-spect, visione)», è emersa la «condizio-
ne storica», certamente ancora «lontana», di ciò che doveva compiersi nei tempi mo-
derni (p. 118s).
Il cogito di Descartes appartiene a una certa età della metafisica: quella della scienza, della
«oggettivazione dell'ente», in cui «l'uomo calcolatore» fa «venire davanti a sé ogni ente» per
ottenerne una «rappresentazione esplicativa» che sia «sicura, cioè certa» (p. 114). È così che
«l'ente viene determinato per la prima volta nella metafisica di Descartes come oggettività della
rappresentazione, e la verità come certezza della rappresentazione» (ibid.). Ora, a questo ogget-
tivismo che «fissa e blocca» l'ente davanti all'uomo in posizione di oggetto (p. 118), corrispon-
de, per un «gioco necessario e reciproco», un soggettivismo della stessa ampiezza (p. 115). Per
la prima volta, l'uomo diventa subjectum. Per la prima volta: infatti, prima d'allora la parola
subjectum non designava l'«io» ma il substratum, lo hypokeimenon, vale a dire «ciò che è disteso-
davanti (das Vor-Liegende), che, in quanto fondo (Grund), raccoglie tutto in sé». Diventando
«il primo e solo subjectum», l'uomo diventa «il centro di riferimento» dell'ente, «su cui ormai
si fonda ogni ente in quanto tale» (p. 115). Il mondo è così l'objectum che si distende di fronte
a quel sub-jectum che è l'uomo, che giace dinnanzi a lui. Il mondo diventa un «quadro» (Bild)
che l'uomo fa passare sotto i propri occhi per formulare nei suoi confronti, sovranamente e se-
renamente, i propri giudizi di verità. Il Cogito è contemporaneo di quell'età in cui, come scrive
Ricoeur, «l'uomo mette se stesso in scena, pone se stesso come la scena su cui l'esistente deve
ormai comparire, presentarsi, in una parola farsi quadro». E la cesura cartesiana radicale di sog-
getto e oggetto evidenzia un movimento che «appartiene alla tradizione metafisica», in cui la
relazione soggetto-oggetto «dimentica l'appartenenza del Dasein all'essere» e «dissimula il pro-

50
M. H EIDEGGER , «L'époque des "conceptions du monde"», in Chemins qui ne ménent nulle part,
Gallimard 1962. Cf P. R ICOEUR , «Heidegger et la question du sujet», in Le conflit des interprétations, Seuil,
Paris 1969, p. 222s (trad. ital.: Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1986). Cf anche avanti,
cap. II, nota 26.

28
cesso della verità come dis-occultamento di questa implicazione ontologica».51 Descartes pensa
di dedurre il soggetto a partire dal cogito. Ma che può dedurne, se non un io oggettivato, conce-
pito alla stregua della sostanza aristotelica, un io che di fatto è soltanto la rappresentazione del-
l'ego, e che, per svolgere la sua funzione di fundamentum inconcussum veritatis, avrà bisogno
di essere garantito in definitiva dall'Assoluto divino? Ecco il paradosso; l'opposizione soggetto-
oggetto non è mai così netta come quando il subjectum porta in sé, ma a un livello di «preminen-
za insigne»,52 i tratti oggettivi dello hypokeimenon. Paradosso che scrive a caratteri cubitali l'im-
possibilità di dedurre il sum da qualsiasi cosa...
Tutto è coerente. Lungo le sue epoche diverse, la metafisica ha dispiegato il desti-
no storico inscritto in essa fin dal suo inaugurale oblio della differenza ontologica: la
ricerca di una fondazione che rende conto e ragione di quel fondo che è l'essere del-
l'ente era necessariamente accompagnata da una rappresentazione del rapporto tra l'es-
sere e l'uomo come rapporto dialettico di uno-di-fronte-all'altro, e non più come ap-
partenenza dell'uno all'altro; questa rappresentazione richiedeva automaticamente quella
dell'essere come esterno al linguaggio e quella del linguaggio come strumento. La me-
tafisica è così, secondo la sua china più caratteristica, la logica di un discorso che ma-
schera l'istanza originaria del proprio sapere, dimenticando — secondo l'espressione
di M. Merleau-Ponty — che «ogni rapporto con l'essere è simultaneamente prendere
ed essere presi»,53 che il soggetto dell'enunciazione non è mai separabile dal soggetto
linguistico dei suoi enunciati, insomma che l'uomo non pone mai questi giudizi a par-
tire da una superba neutralità ma sempre a partire da una lingua concreta in cui l'uni-
verso è già costruito come «mondo», dunque a partire da un luogo socialmente siste-
mato e culturalmente organizzato.

3. La rappresentazione onto-teologica del rapporto tra l'uomo e Dio


L'ontologia metafisica nata in Grecia ha esercitato sulla tradizione teologica cri-
stiana, sia nella sua versione (neo-) platonica che in quella aristotelica, un influsso tan-
to più decisivo in quanto, come abbiamo visto, era essa stessa te(i)ologica fin dalla
sua origine. Il Dio cristiano è stato perciò assimilato al Sommo Bene, all'Uno senza
principio, al Motore primo, all'ens supremum, alla Causa ultima, in una parola, come
dice Heidegger, a quel «valore supremo» che è «il più ente di ogni ente».54

a) L'analogia
Parlare di questo Dìo è possibile soltanto per analogia. Secondo san Tommaso, che
prendiamo qui per guida, questa consiste in un atto di giudizio (e non in un concetto)
che verte sul rapporto dell'uomo con Dio (e non sull'essenza di Dio). Attribuendo a
Dio nomi quali Bontà, Sapienza..., questo giudizio è pertinente quanto alla realtà si-
gnificata (res significata). D'altronde, da questo punto di vista gli stessi termini si ap-
plicano anche a Dio «in senso proprio, con proprietà ancor maggiore che alle creature,

51
P. RICOEUR, op. cit., p. 227s.
52
M. HEIDEGGER, Chemins..., p. 139.
53
M. MERLEAU-PONTY, Le visibile et l'invisibile. Notes de travail, Gallimard (coll. Tel), Paris 1964,
p. 319.
54
M. HEIDEGGER, «Le mot de Nietzsche "Dieu est mort"», in Chemins..., p. 313.

29
ed è a lui che essi convengono prima di tutto». Invece il giudizio d'analogia perde la
sua pertinenza quanto al modo di significare (modus significandi), che «appartiene alla
creatura».55 Per i grammatici e i logici scolastici questi modi significandi determinava-
no le tre funzioni principali dei termini in una proposizione, rispondendo alle tre do-
mande: quid? (il Verbo è Dio: nome di essenza), quis? (il Verbo è Figlio: nome di
persona), quo? (il Verbo si distingue dal Padre per la filiazione: nome di proprietà
o nozione). Se questa era allora l'estensione dei «modi di significare», si capisce che
Tommaso sia arrivato a dire: «A proposito di Dio c'è qualcosa che è del tutto scono-
sciuto (omnino ignotum) dall'uomo in questa vita, vale a dire ciò che Dio è»;56 o anco-
ra: «Non sappiamo ciò che Dio è, ma ciò che non è, e che rapporto ha con lui tutto
il resto». 57 D'altronde, su questo punto egli non era affatto un innovatore, ma piuttosto
l'erede di una lunga tradizione onto-teologica che, specialmente nei neo-platonici (nel
trattato De divinis Nominibus di Dionigi e in molti Padri greci) aveva tentato di pensa-
re «l'incomprensibilità di Dio» (Giovanni Crisostomo) e aveva in tal modo scavato la
via della teologia negativa.58
Se quindi ci rimane «del tutto sconosciuto» ciò che Dio è, la ragione è che non esi-
ste concetto che possa inglobare Dio e l'uomo, non esiste un terzo termine che sia
comune ai due. E se, di conseguenza, il termine di bontà, «quanto a ciò che significa»,
gli conviene comunque e per prius, è a modo di negazione, ma di negazione piena,
sovreminente. Ciò implica che l'analogia funziona qui come un rapporto di rapporti,
vale a dire che «Dio è con ciò che lo concerne nello stesso rapporto in cui è la creatura
con ciò che le è proprio». Qui non si tratta perciò dell'analogia di proporzione diretta
o di attribuzione, secondo cui una stessa realtà (per esempio, la salute) si ritrova sotto
rapporti diversi in più termini (per esempio, la medicina sana come causa e l'urina
sana come segno della salute); si tratta dell'analogia di proporzionalità, secondo cui
più realtà possono trovarsi nello stesso rapporto, come la vecchiaia è in rapporto alla
vita ciò che è la sera in rapporto al giorno. La prima analogia è esclusa perché «l'infi-
nito e il finito non possono essere messi in proporzione»; è richiesta la seconda, «per-
ché il finito sta al finito come l'infinito sta all'infinito».59
Ora, su che cosa si basa, per noi, la possibilità di effettuare un rapporto del gene-
re? La risposta ci viene data nella formula del Contro Gentiles sopra citata: di Dio
sappiamo soltanto «ciò che egli non è, e che rapporto ha con lui tutto il resto». Così
ancora, nella Somma: la verità delle nostre analogie è misurata dal «rapporto della
creatura a Dio come a suo principio e a sua causa».60 Così, anteriormente a quell'atto
di giudizio che è l'analogia, viene postulato un rapporto (ordo) della creatura al suo

55
ST I, q. 13, a. 3.
S6
In ep. ad Rom., cap. 1; lect. 6.
57
Contro Gentiles, I, 30.
58
PLOTINO: «Diciamo ciò che egli non è, non diciamo ciò che è» (Enneadi 5, 3, § 14); DIONIGI, De
Divinis Nominibus, soprattutto 7, 3: il modo di conoscere Dio che è più degno di lui, è di «conoscerlo per
modo d'inconoscenza in un'unione che sorpassa ogni intelligenza».
59
De ver., q. 23, a. 7, ad 9; q. 2, a. 1 1 . Il rapporto tra i due tipi di analogia in riferimento a Dio
è in realtà più complesso, in Tommaso, di quanto appaia in queste nostre pagine. Cf su questo punto le
analisi fini di E. JÜNGEL, Dieu, Mystère du monde. Fondement de la théologie du crucifié dans le de'bat
entre théìsme et athéisme, Cerf, Paris 1983, t. 2, spec. pp. 78-85.
60
ST I, q. 13, a. 5.

30
Creatore, dell'effetto alla sua Causa. Certo, questo postulato è stato già prima «dimo-
strato» nella questione che risponde all'interrogativo «Dio esiste?». Ma, come sottoli-
nea J.L. Marion, l'interrogativo sull'esistenza di Dio si ripresenta al termine di ognu-
na delle cinque prove che Tommaso ne dà. Infatti, se la prima conduce al primo moto-
re, la seconda alla prima causa efficiente,...l'ultima a un fine ultimo, ogni volta Tom-
maso deve aggiungere, in un inciso dall'apparenza innocente: «e tutti intendono questa
realtà come Dio»; «tutti la chiamano Dio»; «ciò che tutti dicono essere Dio», ecc. «Do-
manda: chi enuncia l'equivalenza tra il termine ultimo a cui approda la dimostrazione
— e dunque il discorso razionale — e il Dio che "tutti" vi riconoscono? "Tutti", sen-
za dubbio; ma con quale diritto? Chi sono questi "tutti"? perché possono stabilire un'e-
quivalenza che né il teologo né il filosofo fondano, ma sulla quale essi si fondano?».
Ci si fonda qui su un'istanza esterna al discorso: il consenso di «tutti». «Il discorso
concettuale confessa di non produrre quest'istanza, poiché esso accede al suo risultato
ultimo soltanto attraverso l'incidente infondato di un "vale a dire" tanto meno eviden-
te quanto più pretende di esserlo».61

Dio è quindi postulato, non dimostrato dal discorso stesso. Postulato fuori discorso, perché
Tommaso — come tutti i suoi contemporanei — non poteva prendere seriamente in considera-
zione che Dio non esista. Avrebbe dovuto abbandonare non soltanto il suo statuto sociale di
religioso e di teologo ma, più ancora, il suo desiderio e, infine, la sua cultura, quella cultura
impregnata dall'evidenza dell'esistenza di Dio, di un Dio che, come nota Jüngel, «è comunque
sempre già pensato come l'essere che causa assolutamente le cose» e che, nell'analogia, è ne-
cessariamente «presupposto come la condizione, in sé incondizionata, del mondo».62 Per evitare
l'identificazione del Motore primo e di ciò che «tutti» chiamavano Dio, si sarebbe dovuto poter
far vedere che il termine della dimostrazione era già presupposto nel punto di partenza dimenti-
cato della metafisica: l'onto-teologia. Quell'identificazione si imponeva allora come una neces-
sità culturale, cioè come una di quelle molteplici evidenze che sembrano così «naturalmente»
ovvie da non poter essere rimesse in questione.
Quest'ultima osservazione manifesta l'impossibilità in cui l'uomo si trova di uscire
dal linguaggio, cioè dalla cultura e dal desiderio. Ora, anche questa impossibilità de-
v'essere pensata; deve anzi essere pensata per prima. Ma è proprio questo che l'onto-
teologia non ha mai potuto pensare, se non voleva vedersi immediatamente dissolta,
e che le ha permesso di postulare l'ens supremum divino come chiave di volta e come
fondamento della totalità degli enti. È infatti un tratto essenziale dell'onto-teologia,
come ha fatto osservare Jüngel, il presupporre una «priorità ontologica del pensiero
sul linguaggio», misconoscendo che il pensiero è «sempre già linguaggio».63 Ed è que-
sto misconoscimento che le ha resa possibile e necessaria la dottrina dell'analogia: pri-
ma del linguaggio, dunque aldilà della cultura e del desiderio, è posta come evidenza
non suscettibile di essere messa in questione (nello stesso interrogativo an sit Deus?)
l'esistenza di un «rapporto della creatura a Dio come a suo principio e a sua causa».

61
Ibid., q. 2, a. 3; J.L. MARION, L'Idole et la distance, Grasset, Paris 1977, p. 28s (trad. ital: L'idolo
e la distanza, Jaca Book, Milano 1979).
62
E. JÜNGEL, op. cit., t. 2, pp. 86-88 (sottolineature nostre).
63
I D . , ibid., p. 47.

31
b) La punta critica della teologia cristiana
Non pretendiamo, ingenuamente, di poter fare a meno dell'analogia. Lo vogliamo
o no, non cessiamo di farne uso, sia in forma di attributi cosiddetti essenziali (Dio
è giusto, buono...) che in quella di nomi di relazione (Dio è Padre, Sposo, Verbo...).
Ma la critica precedente mostra pure che non possiamo neppure riposarci tranquilli
sull'analogia: «sintesi degli opposti» (pro-cessione e re-cessione di Dio), essa non può
«in realtà sfociare, sul tracciato di una risultante, se non nell'onesta mediocrità del
compromesso», che punta — continua S. Breton — a una sintesi armoniosa dei due
linguaggi, positivo e negativo, della rivelazione; linguaggi che tuttavia «portano am-
bedue il segno di una condizione umana cui non possono sottrarsi».64
Si tratta precisamente, per noi, di consentire al linguaggio e al conflitto interno
al quale esso ci espone: conflitto difficile da assumere, e che noi siamo continuamente
tentati di cancellare per assicurare il nostro dominio sul mondo; ma conflitto dal quale
il soggetto sorge e nel quale si mantiene; al di fuori di questo conflitto noi installiamo
in maniera immaginaria il nostro subjectum al centro del mondo e scambiamo il nostro
desiderio con la realtà... In quanto dottrina che rende ragione della verità del nostro
discorso su Dio, cioè dell'adeguamento dei nostri giudizi alla realtà divina, l'analogia
cancella il conflitto interno a ogni discorso. Ora, tale conflitto non va risolto ma gesti-
to, appunto nella mediazione del linguaggio: potendo dirlo, noi possiamo anche viver-
lo come il luogo sempre aperto in cui si attua la verità di ciò che siamo nel nostro
rapporto con gli altri e con Dio.
Situando così il luogo della teologia nel cuore della mediazione del linguaggio, del-
la cultura e del desiderio, dunque nel cuore della ferita che questa mediazione apre
in ogni soggetto, noi ne collochiamo impunta critica non nel prolungamento dell'onto-
teologia negativa dell'inconoscibilità di Dio ma in direzione dello stesso soggetto cre-
dente. Certo, la teologia negativa ha sottolineato con forza che per non tacere Dio bi-
sogna tacere su Dio; ma bisogna farlo in maniera appropriata, se non si vuole che il
silenzio sia vuoto o, almeno, così equivoco da non essere più silenzio su Dio. Non
c'è silenzio appropriato su Dio che non sia mediato dal linguaggio: da un linguaggio
la cui sovrabbondanza e i cui superlativi sono richiesti sia dalla sovreminenza alla qua-
le è portata la negazione che dalla necessità di non fermarsi mai sull'una o l'altra delle
negazioni «di rilancio» come se fosse finalmente adeguata a Dio. 65 Che non vi sia di-
scorso teologico che non conosca un momento critico ineludibile di teologia negativa,
e che dunque la grande tradizione in questa direzione — Dionigi, Eckhart, Tommaso
d'Aquino — sia un punto di passaggio obbligato, è cosa evidente. Ma ciò non significa
che il compito primordiale della teologia cristiana sia quello di purificare attraverso
l'analogia, fino alla «conoscenza per modo di inconoscenza», (Dionigi), i concetti stessi
di cui ci serviamo per dire Dio; in questo caso, d'altronde, la Bibbia, così piena d'an-
tropomorfismi, non farebbe che presentarci una sottospecie di teologia per menti non
dirozzate... Questo compito primordiale verte invece, come suggerisce E. Jüngel, sul-
la valorizzazione dell'«evangelo in quanto analogia», cioè in quanto linguaggio para-

64
S. BRETON, Écriture et révélation, Ceti, Paris 1979, p. 160.
65
Cf E. JÜNGEL, op. cit., t. 2, pp. 52-62.

32
bolico che ha come caratteristica di «inserire l'uomo, in qualità di interpellato, nell'es-
sere di cui si parla».66
Ciò significa, per dirla con J. Ladrière, considerare il linguaggio in cui l'uditore si vede
impegnato nell'enunciato come un «gioco linguistico» particolare (Wittgenstein): linguaggio er-
meneutico, che ha una sua propria coerenza e non potrebbe essere «tradotto» in un altro linguag-
gio di tipo esplicativo o causalista, tanto più se si tratta di linguaggio «scientifico» ma anche
(cf capitolo seguente) nel caso di quello metafisico. Ora, come ha scritto S. Breton a proposito
di Maestro Eckhart, «il linguaggio di base», onto-teologico, anche rovesciato da un «linguaggio
di metabasi» in cui la negazione ha il sopravvento, e sublimato dal «linguaggio di anabasi» che
tenta il superamento dei primi due, continua tuttavia a mantenersi da capo a fondo.67 Da parte
sua, C. Geffré osserva: «Quale che sia il correttivo apportato dalla via negationis, il movimento
di pensiero inaugurato dallo Pseudo-Dionigi all'interno della teologia cristiana attinge alla po-
tenza del sapere umano nella sua volontà di disporre del divino in un concetto di Dio come Ente
supremo».68 In altri termini, la teologia negativa, anche nelle sue opere più sublimi di supera-
mento — per negazione — della causalità dell'essere, rimane visceralmente ancorata a un tipo
di linguaggio causalista e ontologico. Perciò non può assumere la peculiarità ineludibile di un
«gioco linguistico» che, caratterizzato dal predominio dell'«illocutorio» (cf avanti), non spunta
se non nel vivo dei soggetti presi dentro il suo movimento.
La punta critica della teologia cristiana non verte sulla purificazione apofatica dei
nostri concetti per dire Dio, ma sull'uso che noi facciamo di questi concetti, cioè sul-
l'atteggiamento, idolatrico o meno, che essi sollecitano in noi. D'altra parte, la tradi-
zione l'ha sottolineato da molto tempo: i concetti più affinati possono avere la funzio-
ne di idoli, mentre gli antropomorfismi più materiali («Signore, tu sei la mia roccia!»)
possono essere le espressioni più fini della radicale alterità di Dio».69
Allora, se la nostra critica dello schema produzionista della causalità che ha co-
mandato tradizionalmente il pensiero teologico puntasse soltanto a purificare intellet-
tualmente un concetto e a sostituirlo con un altro che ci sembrasse più adeguato, il
gioco non varrebbe la candela. Ma si tratta di ben altro: mostrando perché dobbiamo
rinunciare, nei limiti del possibile, allo schema «esplicativo» della causalità e assume-
re lo schema simbolico del linguaggio, del desiderio e della cultura, noi elaboriamo
un discorso da cui è inseparabile il soggetto credente, così come il dire è inseparabile
dall'essere o il Dasein dal Sein. In teologia come in filosofia, il soggetto non può «pren-
dere» nulla senza riconoscersi lui stesso, da questo momento, già preso. È dunque nel
vivo del soggetto che noi penetriamo attraverso la via del discorso teologico e del rigo-
re che gli compete. Qui sta, a nostro avviso, la punta critica della teologia cristiana:

66
I D . , ibid., t. 2, p. 102 e 108.
67
S. BRETON, «Les métamorphoses du langage religieux chez Maitre Eckhart», in Dire ou taire Dieu,
RSR 67/3-4, 1979, pp. 53-75. «Le langage de base, même sublime par la métabase, persévère dans le langa-
ge de l'anabase» (p. 73).
68
C. GEFFRÉ, Le Christianisme au risque de l'interprétation, Cerf 1983, p. 181.
69
Tema frequente, almeno da Dionigi in poi; cf Hiér. cél. II, 3 (SC, n. 58, p. 85 e Introd. p. 22).
F. Marty ha mostrato che, se Kant rifiuta l'antropomorfismo dogmatico (che pretende pronunciarsi su ciò
che Dio è), in compenso egli si interessa vivamente «all'antropomorfismo simbolico, che concerne in realtà
il linguaggio e non l'oggetto stesso» (cf Proleg. a ogni futura... § 57). Questo antropomorfismo simbolico
è in ultima analisi «l'umile volto di una teologia negativa che ha rinunciato a glorificarsi della propria nega-
tività» (p. 195). F. M A R T Y , La naissance de la métaphysique chez Kant. Une étude de la notion kantienne
d'analogie, Beauchesne 1980, cap. 3.

33
mostrare le condizioni che rendono possibile il passaggio, come passaggio che resta
sempre da fare, da un atteggiamento di schiavo verso un Signore che si immagina on-
nipotente, rivestito della panoplia degli attributi maestosi dell'esse, a un atteggiamento
di figlio verso un Dio rappresentato diversamente perché pensato all'ombra della cro-
ce, e dunque di fratello verso gli altri.

III. APERTURA SUL SIMBOLICO: LA MANNA


All'inizio del capitolo presente ci siamo chiesti come mai, per esprimere un rap-
porto che già in partenza si presenta come fuori «valore» perché è tutt'intero sotto il
segno della grazia, Tommaso non abbia tentato di percorrere una via diversa da quella
della causalità, in particolare quella del simbolico, via del non-valore, perché via dello
scambio reversibile mai concluso in cui emerge e diviene ogni soggetto. Ora, il Filebo
di Platone ci ha mostrato in maniera esemplare che la metafisica è nata proprio dall'e-
vacuazione e dalla messa a morte di tale prospettiva. Ciò che è senza-limite è, per
la metafisica, l'impensabile: esso sfida ogni logica. La sola logica possibile è quella
della causa prima e del fondamento ultimo della totalità degli enti, quella di un centro
che svolge la funzione di un punto fisso,70 quella di una presenza senza vuoti, costante
e stabile, che — come evidenzia Heidegger — esige appunto una rappresentazione del
tempo in cui il presente, come centro fisso, gode di un privilegio esorbitante. Dimenti-
cata la differenza onto-teologica, misconosciuto il «gioco» dell'essere nel tempo, il tempo
è diventato funzionale e misurabile, l'essere è rinchiuso ideologicamente nel suo ruolo
di fondamento. Si rende ragione di tutto; o almeno, si cerca di farlo. Ci si chiude in
una logica del Medesimo.
Alimentata da un segreto desiderio di trasparenza di sé a se stessa, questa logica
genera un pensiero senza corpo e senza morte. Idealmente, almeno. Così Platone/So-
crate arriva a scegliere, come abbiamo visto, un tipo di vita «dove non c'è posto né
per la gioia né per la pena, ma per il pensiero al suo più alto grado di purezza possibi-
le». E questa logica totalizzante dell'identico che spiega come mai il rapporto aman-
te/amato venga pensato, in ultima analisi, sul modello della costruzione navale e dei
battelli, e come mai il rapporto tra l'uomo e Dio nei sacramenti venga inevitabilmente
rappresentato secondo lo schema tecnico e produzionista della strumentalità e della cau-
salità, per quanto purificato questo schema possa essere dall'analogia...
Da parte nostra, noi crediamo che il pensiero della grazia — perché è di questo
che ultimamente si tratta nei sacramenti — richieda un altro itinerario di pensiero. Per-
ché, come la manna che ne è forse l'espressione biblica più bella, la grazia è di un
ordine diverso da quello del valore e della positività. Il suo nome è in se stesso una
domanda: Man hu? Il suo nome significa: «Che cos'è questo?». La sua consistenza
è quella di una cosa che ha tutto di una non-cosa: «qualcosa di fine come la brina»
che si scioglie al sole. E la misura che si adotta ha tutto di una non-misura: se ne rac-
coglie «chi più chi meno», ma quando la si misura si osserva, contro ogni logica del
valore, che «chi ne aveva di più» non aveva «troppo» e «chi ne aveva di meno non
ne aveva troppo poco», e che coloro che, trasgredendo il comandamento di Dio, vole-

70
A. DELZANT, la Communication de Dieu, Cerf 1978, pp. 19-22.

34
vano fame la provvista per garantire il proprio avvenire, la vedevano «infestata di ver-
mi» (Es 16,9-21). Grazia-domanda, grazia non-cosa, grazia non-valore: come pensa-
re questo puro segno che interroga, se non sulla via del simbolico, via del non-calcolo
e del non-utile? È questo, in ogni caso, il nostro interrogativo primordiale.
Ma si può forse decretare, per semplice decisione, il passaggio da una logica onto-
teologica del Medesimo, in cui i sacramenti sono comandati dalla rappresentazione
causale della strumentalità, a un pensiero simbolico dell'Altro, in cui essi si presentino
come atti di linguaggio mediatori dell'ad-venire senza fine dei soggetti come soggetti
credenti? Un passaggio come questo è possibile? Possiamo pensare altrimenti che in
chiave metafisica? E a quali condizioni? È questo l'interrogativo che comanda il capi-
tolo seguente.

35
Capitolo Secondo

OLTRE L'ONTO-TEOLOGIA?

Possiamo pensare altrimenti che in chiave metafisica o onto-teologica? Possiamo,


per semplice decisione di nostra iniziativa, decretare che cancelleremo con un tratto
di penna la problematica globale della metafisica per adottarne un'altra?
L'impresa sembra, a prima vista, estremamente problematica, perché la stessa no-
stra lingua materna nella sua morfologia e nella sua sintassi — questa lingua che, lungi
dal rivestire semplicemente il reale di colori variegati, costruisce questo reale come
«mondo», mondo di senso — è impastata di logos metafisico.
Nessuno, senza dubbio, ha cercato più vigorosamente di E. Lévinas di liberarsi del logos
greco e di interpellare il Greco per mezzo dell'Ebreo, cioè l'Essere (impersonale, anonimo, ri-
duttore violento dell'alterità alla totalità del medesimo) per mezzo dell'Altro (pura irruzione e
rottura che fa esplodere, attraverso il Volto, le pretese unificanti e l'essenza — in ultima istanza
totalitaria — del logos greco). Impresa impossibile, dichiara J. Derrida: perché il problema che
sottende il discorso di Lévinas «può dirsi soltanto dimenticandosi nella lingua dei Greci»; ma
ancora, esso «può dirsi, dimenticandosi, soltanto nella lingua dei Greci».1
La nostra perplessità di partenza si trasforma in sentimento di impossibilità, se os-
serviamo che porre il problema in termini di alternativa, come abbiamo fatto sopra,
significa situare il cammino da esplorare sullo stesso piano del precedente. A questa
condizione, la causa è persa in partenza: questo nuovo cammino non sarà che il contro-
modello del primo, altrettanto metafisico di quello. Si sarà cambiato campo, ma si re-
sterà sullo stesso terreno. Ora, sarebbe invece proprio necessario un cambiamento di
terreno, se è vero — come verificheremo subito — che il problema non può essere
separato dal modo di porlo, il quale a sua volta è costituito dal soggetto stesso che
lo pone: «È il cammino che mette tutto in cammino, e mette in cammino perché è par-
lante».2

I. L'OLTREPASSAMENTO DELLA METAFISICA SECONDO HEIDEGGER

1. Pensare la metafìsica non come una colpa ma come un evento


La «confusione permanente tra ente ed Essere» che alimenta la metafisica dev'esse-
re pensata «come un evento e non come una colpa» scrive Heidegger in Che cos 'è la

1
J. DERRIDA, «Violence et métaphysique», in L'Ecrilure et la dìfférence, Seuil 1967, p. 196(trad. ital.:
La Scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1982).
2
M. HEIDEGGER, Acheminement vers la parole, Gallimard 1976, p. 183 e 187.

36
metafisica. 3 Perché, egli precisa, una confusione del genere «non può affatto avere
il suo fondamento in una semplice negligenza del pensiero o in una leggerezza del di-
re» (p. 29). La metafisica infatti ha sempre pensato «a partire dalla rivelazione dell'Es-
sere», ma questa rivelazione le è rimasta «inavvertita» (p. 24).
L'evento (Ereignis) che dobbiamo pensare è questo destino al quale «sembra quasi
che essa sia votata senza saperlo» (p. 30), destino che, secondo il testo di Oltrepassa-
mento della metafisica è «una unica fatalità, ma forse anche la fatalità necessaria del-
l'Occidente e la condizione del suo dominio esteso a tutta la terra».4 Dominio assicura-
to dalla tecnica, la cui essenza è la «volontà di disporre» (Gestell), perché essa «mette
l'uomo in grado di utilizzare il reale come un deposito»,5 di rimettere la natura alla
ragione, esigendo da ogni cosa che «renda ragione, dia la propria ragione».6 La tecni-
ca non fa quindi che portare al suo compimento l'età metafisica del mondo come «qua-
dro» e «rappresentazione» dispiegati all'alba dei tempi moderni. Ecco ormai l'Essere
ridotto a un «fondo» puramente disponibile, a un «serbatoio di energia»7 «commesso»
alla soggettività dominatrice che lo «pone» (stellen) e lo pianifica per metterlo al pro-
prio servizio. Ma ecco che, automaticamente, l'uomo si coglie come il centro della
realtà, esaltando fino all'esagerazione la propria soggettività. Pensare questa storia come
Evento significa leggerla ontologicamente come destino storico: destino in cui si svela
l'essenza stessa del comportamento umano che chiede ragione, che mette in mora il
reale, gli ingiunge di adattarsi ai propri bisogni «nella prospettiva della calcolabilità»;8
destino, di conseguenza, che è quello stesso dell'Essere: «Il Ge-stell non è affatto il
prodotto della macchinazione umana; è, al contrario, il modo estremo della storia del-
la metafisica, cioè del destino dell'Essere».9

2. Oltrepassare la metafisica: un compito mai concluso


Allora, l'«oltrepassamento» della metafisica non è una faccenda di scuola. «Non
ci si può disfare della metafisica come ci si disfà di un'opinione. Non la si può mettere
alle spalle come una dottrina a cui non si crede più e che non si sostiene più [...].
Perché la metafisica, anche superata, non scompare. Essa torna sotto un'altra forma
e conserva la sua supremazia, come la distinzione sempre in vigore che differenzia
l'ente dall'essere».10 Oltrepassare la metafisica non sarà dunque cancellarla con un tratto
di penna come una semplice «opinione», dottrina o sistema da «confutare»; bisognerà
invece risalire alla sorgente che la fa vivere, vale a dire «la verità dell'Essere» che
è il suo «fondamento» misconosciuto. 11
Infatti «che cos'è l'Essere? L'Essere è Quello che è. Ecco ciò che il pensiero futuro
deve imparare a sperimentare e a dire. L'"Essere" non è né Dio né il fondamento

3
ID., Le retour aufondement de la métaphysique, Q. 1, p. 29.
4
ID., Dépassement de la métaphysique, in Essaìs et Conférences (abbr. EC), Gallimard 1958, p. 88.
5
ID., La Question de la technique, EC, p. 26.
6
I D . , ibid,, n. 1 (nota del traduttore francese).
7
I D . , Seminane de Zàhringen, Q. 4, Gallimard 1976, p. 330.
8
ID., Identite' et différence, Q. 1, p. 268.
9
ID., Q. 4, p. 326.
10
ID., Dépassement de la métaphysique, EC, p. 81s.
11
ID., Le retour..., Q. 1, p. 24s.

37
del mondo. L'Essere è più remoto di ogni ente e tuttavia più vicino all'uomo di qual-
siasi ente [...]. L'Essere è il più vicino. Eppure questa vicinanza rimane per l'uomo
quanto vi è di più lontano».12 Contro tutte le evidenze del «semplice buon senso» che
«si intestardisce a sostenere le esigenze dell'immediatamente utile»13 e pretende così
di disporre dell'Essere identificandolo con le sue rappresentazioni «eidetiche» (e con
il suo desiderio «erotico»), l'Essere sfugge continuamente come il non-disponibile, il
non-rappresentabile, l'«Incalcolabile».14
La verità della parola del soggetto non sorge, secondo Lacan, che in un «enunciato
che rinuncia a se stesso».15 È quanto indica, sia pure in una problematica del tutto di-
versa, E. Lévinas: il discorso filosofico è un Detto tematico che, tentando continua-
mente di risalire al Dire originario di cui è traduzione e tradimento, esige un «disdirsi»
senza fine.16 Heidegger sottoscriverebbe queste affermazioni. Ma per una ragione di-
versa: è l'Essere stesso che si ritira. È appunto ciò su cui egli attira l'attenzione depen-
nando il termine Essere nel suo Contributo alla questione dell'Essere (1955). Egli spiega
infatti: «Questa cancellatura in forma di croce [...] respinge l'abitudine quasi inestir-
pabile dì rappresentare l"'Essere" come una Presenza che ha una consistenza auto-
noma e che soltanto in seguito si presenta, a volte, all'uomo».17 Essa segna il ni-ente
dell'Essere, che non è né l'essere-ente («entità») degli enti, né un arci-ente. Più anco-
ra: ne segna il nientificare radicale, «perché esso non cessa di ritirarsi all'interno di
una differenza che lo costituisce».18
Una cancellazione come questa indica, in altre parole, che l'enunciato es gibt Sein non va
inteso nel senso di das Sein ist — il che equivarrebbe a rappresentare l'Essere «troppo facilmen-
te come un ente» — ma nel senso del dono, perché l'Essere, continua la Lettera sull 'umanesimo,
è il dono di sé nell'aperto; più precisamente: «si dona e si rifiuta a un tempo». Ed è appunto
«a partire da quest'essenza della verità dell'Essere» che bisogna pensare l'essenza dell'uomo
come «ek-sistenza estatica». Riconosciamo qui la famosa Kehre heideggeriana, quella «conver-
sione» con cui l'uomo, invece di convocare e misurare l'essere a partire dalla coscienza di sé,
si decentra da sé e non si comprende se non come sempre già investito dall'appello dell'essere.
Un capovolgimento come questo è impossibile al di fuori di una meditazione sull'«essenza del
linguaggio» come «corrispondenza all'Essere». Il rapporto del Dasein all'Essere è essenziale
e indissolubile: «Il linguaggio è la casa dell'Essere in cui l'uomo abita e in tal modo ek-siste,
appartenendo alla verità dell'Essere, sulla quale egli veglia». Dal momento che l'uomo è pensa-
to come il «Pastore dell'Essere», non può più rappresentarsi come «il Signore dell'ente».19 Egli
non ek-siste se non come parlato dal linguaggio e, dunque, come convocato e mobilitato dall'es-
sere che, nella mediazione del linguaggio, lo attira ritirandosi e viene-in-sua-presenza nel movi-
mento stesso con cui si occulta. È questo che il depennamento della parola Essere vuol indicare.
12
ID., Lettre sur l'humanisme, Q. 3, Gallimard 1966, p. l0ls.
13
I D . , De l'essence de la verité, Q 1, p. 162.
14
Postfazione a Qu'est-ce que la métaphysique?, Q. 1, pp. 79-83.
15
J. LACAN, Escrits, op. cit., p. 801.
16
E. LÉVINAS, Autrement qu'étre, M. Nijhoff, La Haye 1974, p. 8 (trad. ital.: Altrimenti che essere
o aldilà dell'essenza, Jaca Book, Milano 1983).
17
M. HEIDEGGER, Contribution à la question de l'étre, Q. l,p. 232. «Questa cancellazione, commenta
Derrida, è l'ultima scrittura di un'epoca [...]. In quanto delimita l'onto-teologia, la metafisica della presen-
za e il logocentrismo, quest'ultima scrittura è pure la scrittura prima» (J. DERRIDA, De la Grammatologie,
ed. de Minuit, 1967, p. 38).
18
J.P. RESWEBER, La pensée de M. Heidegger, Privat 1971.
19
M. HEIDEGGER, Lettre sur l'humanisme, Q. 3, pp. 104-109.

38
Oltrepassare la metafisica è meditare su ciò che essa esclude e che tuttavia è ciò
che la rende possibile: questa verità dell'Essere come «Sopravvenienza che scopre»
e dell'ente come «Arrivo che si rifugia», Differenza mantenuta «in virtù del Medesi-
mo», del «Frattanto, in cui Sopravvenienza e Arrivo sono mantenuti in rapporto, sepa-
rati l'una dall'altro e rivolti l'una verso l'altro». Si tratta dunque di pensare la «Conci-
liazione tra Sopravvenienza e Arrivo», che non è altro che pensare la Differenza «fino
alla sua origine essenziale»: quella dell'«essenza dell'essere» come «il Gioco stesso»;
quella dell'«essere pensato a partire dalla Differenza».20 Ora, è proprio da questo Gio-
co dell'essere che è decollata la metafisica; ma essa ha misconosciuto la propria origi-
ne ludica per fissarsi nelle sue rappresentazioni: il gioco di avanzata e di ritirata del-
l'essere, il suo movimento di presenza nell'assenza, è stato ridotto alla presenza di
un fondamento disponibile; la temporalità ek-statica è stata ricondotta alla solida per-
manenza di un adesso stabile; e la chiarezza logica si è sostituita al chiaroscuro della
luminosità dell'Essere. Superare la metafisica è operare questo «passo all'indietro»,
è fare questo salto nella differenza, «avanzare a rovescio» verso questo luogo origina-
rio in cui essa ha il suo soggiorno. E una prova di conversione: accettare di abbando-
nare il terreno solido e rassicurante del fondamento rappresentato e del punto fisso
stabile per lasciarsi andare verso questo esigente lasciar-essere in cui manca il terreno
sotto i piedi.
«L'essenza della metafisica è cosa diversa dalla metafisica. Un pensiero che pensa
la verità dell'Essere non si accontenta della metafisica; ma, tuttavia, non la pensa con-
tro la metafisica. Per parlare in immagine, esso non strappa la radice della filosofia.
Ne scava il fondamento e ne lavora il suolo».21 Non lasciamoci ingannare dall'imma-
gine: se non pensiamo metafisicamente, la «radice» o il «fondamento» non è localizza-
bile, come un oggetto, al di fuori di noi; è in ogni luogo, ci abita. Perciò la filosofia
di Heidegger non è un nuovo sistema che verrebbe ad aggiungersi ai precedenti. Essa
non è altra cosa che un certo modo di abitare la tradizione metafisica, di rammemorar-
la, pensando la sua essenza impensata. Essa interroga questa tradizione e trabocca
al di fuori, ma alimentandosene. Perché infatti l'oblio da cui essa è sorta? Perché l'o-
blio di quest'oblio, di cui essa si è costantemente alimentata fin nella sua volontà di
lasciarsi riaprire dall'interno dall'irrimarginabile interrogativo che l'attraversa? Un oblio
come questo non può certo essere semplicemente accidentale! Che la storia dell'essere
sia «la storia dell'oblio crescente dell'essere» non è un fatto che possa essere messo
in conto a una semplice negligenza del pensiero, ma qualcosa che deve necessariamen-
te essere pensato come un «evento». Questo Ereignis proviene dall'essere stesso, e pre-
cisamente dal suo ritirarsi. È questo ritirarsi che bisogna pensare. E pensarlo significa
meditarlo come il modo, proprio all'essere, di rivelarsi nel cuore stesso della tradizio-
ne che lo dissimula, poiché non parla se non «penetrato di una tradizione».22 Superare
la metafisica non è, in ultima analisi, se non meditare «che al destino essenziale della
metafisica pertiene, forse, che il suo fondamento le sfugga».23 L'oblio dell'essere è

20
ID., Identité et différence, 2ª parte: «La constitution onto-théo-logique de la métaphysique», Q. 1,
p. 299s.
21
Qu'est-ce que la métaphysique?, Q. 1, p. 26.
22
I D . , La Constitution..., Q. 1, p. 286. È quindi, prosegue l'autore, con un «passo all'indietro» che
si va «dalla metafisica alla sua essenza» (la quale non è metafìsica).
23
I D . , Qu'est-ce que la métaphysique?, Q. 1, p. 29.

39
interno al destino dell'essere, il cui «svelamento» è segnato dalla storia stessa del suo
«velamento». Questo oblio «fa parte dell'essenza stessa dell'essere, da esso velata».24
Per il pensatore non c'è dunque altro modo di superare questo oblio che «installarsi
e tenersi in piedi dentro di esso».25
Come si vede, la questione suscitata dalla metafisica è la questione stessa del pen-
siero. Più ancora: è la questione personale del pensatore, sempre mobilitato dal pen-
siero perché preso dentro il suo movimento. Ci si può infatti chiedere «fino a che pun-
to la metafisica fa parte della natura dell'uomo», fino a che punto questi è «legato alla
differenza inavvertita dell'essere e dell'ente» e, dunque, a un desiderio di «oggettuali-
tà» che lo induce a rappresentarsi ogni ente «come un oggetto per un soggetto», a co-
minciare dal soggetto stesso di cui fa «il primo oggetto di una rappresentazione ontolo-
gica».26 Bisogna dunque mettere in opera un'ampia, e senza dubbio insuperabile, er-
meneutica di questo cerchio in cui l'interrogante non interroga se non in quanto ha
già capito in anticipo la realtà interrogata, perché egli stesso è compreso in essa. Cir-
colo non vizioso, che corrisponde — ed esso solo — all'ek-sistere stesso dell'uomo:
questi non si comprende che in forza della tradizione che lo abita, ma la tradizione
lo abita soltanto aprendogli un avvenire da sempre anticipato nella sua lettura del passato.
Il compito dell'«oltrepassamento» da fare non può quindi mai essere una semplice
faccenda di libera decisione puntuale: pretendere di fare un salto fuori della metafisica
equivale a condannarsi ingenuamente a ripeterla. È un compito di lungo respiro, mai
compiuto, che progredisce solo regredendo, e che esige dal pensatore un cammino di
conversione. Cammino sul quale egli impara a poco a poco a prendere a rovescio la
tradizione che lo abita e di cui egli si nutre. È il compito più semplice, perché si tratta
di «lasciar essere», ma anche il più difficile, perché bisogna continuamente smaschera-
re le false evidenze su cui si basano le rappresentazioni eidetiche dell'essere, a comin-
ciare da quell'abitudine «quasi inestirpabile» di rappresentare l'Essere come una «Pre-
senza che si mantiene in sé» (cf sopra). Smascherando così i presupposti mai chiari
della metafisica, il pensatore impara ad accettare serenamente (la Gelassenheit del
lasciar-essere) di non raggiungere mai il fondamento ultimo, e quindi di orientarsi —
per quanto possibile — a partire dall'inconfortevole non-luogo di un interrogare per-
manente, che corrisponde all'essere e risponde dell'essere, se è vero che il Dasein è
«quell'ente permanente che si tiene aperto all'apertura del Sein».27 Si tratta dunque di
rinunciare a ogni «sapere calcolatore», a ogni «utilità»,28 e di imparare a pensare a par-

24
I D . , «La parole d'Anaximandre», in Chemins..., p. 405. Cf l'insieme della riflessione dell'autore
sulla traduzione di «on» e di «einai» con «ente» ed «essere» («Non è forse che, traducendo così correttamen-
te, non si pensa già in maniera scorretta?», p. 402) e sulla «aletheia» come velamento e svelamento, ritiro
e rischiaramento dell'essere (p. 405s).
25
ID., Q. 4, p. 59.
26
I D . , Dépassement de la métaphysique, EC, pp. 83-86. Cf a proposito dell'ego cogito di Descartes:
«L'oggetto originario è l'oggettualità stessa. L'oggettività originaria è Vio penso nel senso di io percepisco
che, anteriormente a ogni percettibile, si distende in avanti e si è già disteso in avanti, che è subjectum.
Nell'ordine della genesi trascendentale dell'oggetto, il soggetto è il primo oggetto della rappresentazione
ontologica. Ego cogito è cogito nel senso di me cogitare» (p. 84s).
27
ID., Qu'est-ce que la métaphysique?, Q. 1, p. 34, con la puntualizzazione che Heidegger fa sulla
«essenza estatica dell'esistenza».
28
I D . , ibid., p. 31.

40
tire da questa breccia ek-statica che è l'uomo. 29 Compito inassolvibile. Compito la
cui essenza stessa è l'impossibilità di assolverlo, di portarlo a compimento.

3. Un cammino «transitivo»
Pensare è, come tale, essere sempre in cammino. Ma questo cammino non può
essere oggettivato come una via tracciata dinnanzi a noi. È inseparabile da noi stessi.
È un be-wëgender Weg, un cammino «camminante», un cammino transitivo: «È il cam-
mino che mette tutto in cammino (der alles be-wëgende Weg)»; e «ciò che mette tutto
in cammino mette in cammino perché è parlante».30 È parlante perché è aperto all'ap-
pello primo dell'Essere, nei confronti del quale ogni parola umana è ascolto e risposta
(cf sopra). Noi non rivolgiamo la parola (an-sprechen) ad altre persone se non perché
siamo rivendicati (stesso verbo: ansprechen) dall'Essere al quale apparteniamo da sem-
pre: «Noi abbiamo inteso (gehört) quando facciamo parte (gehören) di ciò che ci è
detto».31
Non c'è dunque alcun tesoro-valore da afferrare al termine del cammino. Il tesoro
non è altro che il lavoro di avvicinamento che si compie in noi, lavoro di parturizione
di noi stessi, poiché siamo noi stessi a essere arati, rivolti, e in tal modo a fruttificare
diventando altri. E così che l'infinito dell'ad-venimento, schiacciato da Platone, — co-
me abbiamo visto — ricupera finalmente i suoi diritti. D'altronde, non illudiamoci,
può essere soltanto così: l'infinito di genesis non può essere riabilitato che nella pro-
spettiva di questo oltrepassamento della metafisica, inteso come compito che è possi-
bile appunto soltanto attraverso la sua «in-finizione» permanente.
Un cammino di pensiero come questo non è quindi quello della logica razionale
e ragionatrice, che si fissa nel sapere delle proprie rappresentazioni oggettive. «Il sa-
pere, l'accanimento del sapere, è il nemico più feroce del pensiero...».32 Il pensare
mette in questione l'uomo stesso, se è vero che si tratta di pensare la verità dell'essere,
il suo svelamento (alêtheia), strappandolo all'oblio (lêthê), nel Dasein che è il suo «là»
e non il suo semplice dirimpettaio. Sein e Dasein sono in co-appartenenza, e questa
può essere pensata perché l'Essere non è mai separabile dal linguaggio, «casa dell'Es-
sere in cui l'uomo abita e così ek-siste».33 Oltrepassare la metafisica è dunque essere
sempre «in cammino»: in cammino verso il linguaggio: Unterwegs zur Sprache.

4. Un pensiero non strumentale del linguaggio


Il cammino a ritroso della metafisica disfa a poco a poco ciò che questa aveva fatto.
Non è che lo dissolva; piuttosto, lo snoda, lo s-lega per ri-legarlo e ri-dirlo (legein/legere-

29
O. LAFFOUCRIÈRE, Le Destiti de lapensée et «la monde Dieu» chez Heidegger, M. Nijhoff, La Haye
1968, p. 31: l'uomo, secondo Heidegger, «s'imbatte nel sorgere sconcertante del problema di sé, di cui
non arriva a rendersi conto. Egli impara che non dispone di sé [...]. Arriva a pensare che, se c'è una defini-
zione dell'uomo, è del tutto diversa (da quanto pensava): l'uomo è la breccia».
30
M. HEIDEGGER, Acheminement vers la parole, op. cìt., p. 183 e 187; sopra, nota 2.
31
I D . , Logos, EC, p. 259s. Lo stesso accostamento tra «gehòren» e «hòren» nella Lettre sur l'humani-
sme, Q. 3, p. 78; sul duplice senso di «ansprechen», ibid., p. 83.
32
I D . , Que veut dire «penser»?, EC, p. 157.
33
I D . , Lettre sur l'humanisme, Q. 3, p. 106.

41
ligare) in altro modo. Oltrepassando i dualismi congeniti della metafisica, il pensiero
rimette inevitabilmente in questione la rappresentazione strumentale del linguaggio.
«L'uomo si comporta come se fosse il padrone del linguaggio, mentre è quest'ultimo
che gli detta legge». Quest'affermazione è importante per Heidegger, perché egli si
chiede se non è «prima di tutto il rovesciamento che l'uomo fa di questo rapporto di
sovranità a spingere il suo essere verso ciò che gli è estraneo».34 Ora, «quando questo
rapporto di sovranità si rovescia, strane macchinazioni si presentano alla mente del-
l'uomo. Il linguaggio diventa mezzo d'espressione», per cadere poi rapidamente — non
c'è che un passo — «al livello di semplice mezzo di pressione». Con un medesimo
movimento l'uomo, ponendosi al centro dell'universo, pretende di dominare il mondo
riferendolo a sé e si crede il padrone del linguaggio: riduzione esplicativa del mondo
e riduzione strumentale del linguaggio vanno di pari passo. Bisogna allora ripensare
tutto. «Infatti, nel senso proprio dei termini, è il linguaggio che parla. L'uomo parla
soltanto in quanto risponde al linguaggio ascoltando ciò che esso dice»; ed è in questo
modo che il linguaggio «conduce verso di noi l'essere di una cosa».35
Allora, «dove manca la parola, non c'è la cosa. Soltanto la parola disponibile con-
cede l'essere alla cosa».36 Una promozione del genere, assurda agli occhi della metafi-
sica tradizionale, può avere senso soltanto se ci si accorda con ciò attraverso cui l'es-
sere può essere accordato alla cosa: «La parola non è una semplice presa, un semplice
strumento per dare un nome a qualcosa che è presente, già rappresentata; non è soltan-
to un mezzo per indicare ciò che si presenta da solo. Al contrario, è la parola che
concede il venire-alla-presenza, vale a dire l'essere, lì dove qualcosa può fare la sua
apparizione come ente».37
Il linguaggio non è anzitutto, né fondamentalmente, un comodo strumento d'infor-
mazione, un distributore di denominazioni controllate. In maniera più originaria, esso
è appello, vocazione. Nella composizione poetica di Georg Trakl, Una sera d'inverno:
«Quando nevica alla finestra,
e lungamente suona la campana della sera»,
il «nominare (la neve, la campana...) è appello [...]. Appello a venire alla presenza,
appello ad andare nell'assenza. La neve che cade e la campana della sera che suona:
ora, qui, nella poesia, eccole indirizzate a noi in una parola. Esse si fanno presenti
nell'appello. E tuttavia non vengono a collocarsi tra ciò che è presente, qui e ora, in
questa sala. Quale delle due presenze è più elevata: quella che si distende sotto i nostri
occhi oppure quella di ciò che è appellato?».38
Il linguaggio ha senz'altro una polarità strumentale di denominazione e di etichet-
tatura. Questo aspetto utilitario di designazione fa del linguaggio un utensile di pri-
m'ordine per l'uomo. Ma questa prima polarità dev'essere articolata con una seconda,
più originaria. Talmente più originaria, che non può neppure più essere compresa co-
me una semplice polarità di senso opposto alla prima, con cui rimane articolata, ma
come appartenente a un altro «livello». A questo livello ontologico il linguaggio è di

34
ID., Bàtir, habiter, penser, EC, p. 172.
35
ID., «L'homme habite en poète...», EC, p. 227s.
36
ID., Acheminement..., p. 207.
37
ID., ibid., p. 212.
38
ID., ibid., p. 22s.

42
tutt'altro ordine rispetto a quello dello strumento utile che la retorica ha sfruttato così
bene come utensile di manipolazione e di potere. Ora, questo potere delle parole, così
facilmente mistificatore, testimonia che il linguaggio è capace di prenderci, di pren-
derci in parola. Una capacità come questa rivela che esso non è un semplice attributo
dell'uomo. La metafisica dello zôon logon echon o dell'animal rationale va qui rive-
duta anch'essa. L'uomo non possiede il linguaggio ma è piuttosto posseduto dal lin-
guaggio. E parlante solo perché da sempre parlato: l'uomo non è uomo se non «in
quanto è colui che parla».
È per questo, prosegue Heidegger, che «noi parliamo da svegli, parliamo in sogno.
Parliamo continuamente, anche quando non pronunciamo parola alcuna e ci limitiamo
ad ascoltare o a leggere; parliamo anche quando, non ascoltando più davvero e non
leggendo più, ci dedichiamo a un lavoro oppure ci abbandoniamo all'ozio».39 Ecco
dunque l'inseparabilità dell'uomo e del linguaggio. Ed ecco, automaticamente, l'im-
possibilità di trattare il linguaggio come «un semplice strumento» che l'uomo, che si
presume esistesse già prima, avrebbe creato così come la lancia o la carriola. È invece
nel linguaggio, esso stesso voce dell'Essere, che l'uomo ad-viene. È da questa matri-
ce, quella di un universo da sempre parlato come «mondo» prima di lui, che viene
generato ogni soggetto. Ed è questa «parola», questo «Detto» (Sage), che si dice senza
sosta attraverso tutti i nostri enunciati con la mediazione del discorso.40 È questa paro-
la a permettere alla neve che cade e alla campana della sera di venire-in-presenza nella
poesia.
D'altronde, la poesia non fa che manifestare ciò che «si svolge» in ogni linguaggio,
anche il più quotidiano e banale: «La poesia propriamente detta non è mai soltanto
un modo più elevato della lingua quotidiana. È invece il discorso di tutti i giorni a
essere una poesia fuggita, e quindi una poesia esauritasi nell'usura, e da cui a malape-
na si fa sentire ancora un appello».41 La metafora poetica («poietica» si dovrebbe dire,
dal momento che si tratta di una parola-azione, una parola che costruisce, che fa —
poiein — il mondo) non è una specie di escrescenza, magari morbosa, di un linguaggio
la cui pura essenza sarebbe la designazione univoca del reale; essa è invece ciò che
porta il linguaggio vicinissimo alla sua sorgente viva: «La poesia, scriveva Bachelard,
mette il linguaggio in stato d'emergenza».42 L'uomo ha vocazione poetica: è essenzial-
mente attraversato da un dire che lo costituisce e che è il dire dell'Essere. Egli deve
rispondere, cor-rispondere, a questo appello sempre in avanti dell'Essere, attento alla
sua «voce silenziosa» che lo mette alla prova. Diventare uomo è imparare a parlare
bene. Non nel senso del «parlare correttamente» secondo la grammatica o l'estetica
(questo equivarrebbe a rimanere chiusi nel sistema del valore), ma nel senso del lasciarsi-
dire, che «esige un giusto silenzio molto più dell'espressione precipitosa».43 Parlare
è anzitutto ascoltare: «I mortali parlano tanto quanto ascoltano» e dunque tanto quanto
rispondono a quella «parola parlante» che sempre li anticipa.44 Così si attua, nel lin-

39
ID., ibid., p. 22s.
40
I D . ; ibid., p. 133.
41
I D . , ibid., p. 34s.
42
G. BACHELARD, La Poétique de l'espace, p. 10 (citato da P. RICOEUR, De l'interprétation. Essais
surFreud, Seuil, 1965, p. 24s; trad. ital.: Dell'interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1966).
43
M. HEIDEGGER, Lettre sur l'humanisme, Q. 3, p. 122.
44
I D . , Acheminement..., p. 36.

43
guaggio stesso, la venuta-in-presenza di ciò che è chiamato. Non una presenza che
sia la semplice fattualità di «ciò che si distende sotto i nostri occhi»; non quindi la pre-
senza metafisica cristallizzata di ente-sussistente, se è il caso bilanciata da un'assenza
pensata, in qualche modo dialetticamente, come il rovescio della medaglia. Si tratta
invece di una «venuta-in-presenza», cioè una presenza la cui essenza stessa è la «venu-
ta», l'ad-venire, e che è dunque essenzialmente segnata dal tratto dell'assenza. Insom-
ma, una presenza significante, una presenza «umana». Presenza che non cancella «la
traccia mattutina della differenza», la quale «scompare quando la presenza appare co-
me ente-presente e trova la sua provenienza in un ente-presente supremo».45 Presenza-
traccia. Traccia di un passaggio da sempre passato, dunque traccia di un assente. Ma
pur sempre traccia, cioè segno di un avvento che chiama a prestare attenzione a un
nuovo passaggio futuro.

5. «Mantenerci in una matura vicinanza all'assenza»: discorso della grazia


Una meditazione come questa sul linguaggio conduce il pensatore in prossimità del
poeta. Ciò che infatti va ormai pensato è quella stessa realtà che il poeta tenta di nomi-
nare, è ciò che l'attira soltanto ritirandosi: «Ciò che si ritira è presente, e lo è in modo
tale da attirarci».46 Perciò Heidegger ha spesso accostato pensiero e poesia; pur abi-
tando «sui monti più separati», poiché l'uno «dice l'Essere» mentre l'altro «nomina il
sacro», ambedue «si consacrano al servizio del linguaggio e si prodigano per esso».47
È Hölderlin, il poeta del sacro, a insegnare ad Heidegger come pensare il rapporto
con la «mancanza del dio». Questo Dio dell'esperienza vivente del sacro non può evi-
dentemente essere confuso con quello dell'onto-teologia tradizionale, Causa prima, Fon-
damento ultimo, Ente supremo collocato al vertice della gerarchia degli enti. Di fronte
alla «Causa sui, l'uomo non può né cadere in ginocchio pieno di timore né suonare
strumenti, cantare e danzare». Perciò, aggiunge, «il pensiero senza-dio, che si sente
costretto ad abbandonare il Dio dei filosofi, il Dio come Causa sui, è forse più vicino
al Dio divino. Ma ciò significa soltanto che questo pensiero gli è più aperto di quanto
sia disposta a credere l'onto-teologia».48
Di fronte a questo «dio dell'abitudine», il cui trionfo è stato assicurato dall'ontoteologia che
il cristianesimo ha fatto regnare — contribuendo così alla «sdivinizzazione» (Ent-gótterung) e
alla miseria dei tempi presenti — Heidegger non vuole optare per l'ateismo,49 così come non
raccomanda un atteggiamento di indifferenza nei confronti della questione di Dio, come se que-
sta fosse sprovvista di senso. Contro le molteplici manipolazioni di cui il nome di Dio è stato
e rimane l'oggetto, egli preferisce piuttosto osservare un rispettoso silenzio.50 «Chi è — infatti
— il dio? Forse quest'interrogativo è troppo difficile per l'uomo, e posto prematuramente».51
45
ID., «Pourquoi des poètes?», in Chemins..., p. 382.
46
ID., Que veut dire «penserò?, EC, p. 159.
47
ID., Qu'est-ce que laphilosophie?, Q. 2, p. 37; «L'homme habite en poète...», EC, p. 231; Postfa-
zione a Qu'est-ce que la métaphysique?, Q. 1, p. 83; Achemìnement..., p. 42.
48
I D . , Mentite et différence, Q. 1, p. 306.
49
A meno che non lo si intenda alla maniera di Lévinas (op. cit., p. 30), che comprende l'«ateismo»
come una «posizione anteriore sia alla negazione del divino che alla sua affermazione» perché vi si afferma
l'assoluta autonomia dell'Io, pienamente indipendente e insieme pienamente responsabile, contro ogni idea
di «partecipazione» di questo Io a qualche principio, quale che sia (l'Uno, l'Essere, la Storia, il Divino...).
50
M. HEIDEGGER, Mentite et différence, Q. 1 , p. 289.
51
ID., «L'homme habite en poète...», EC, p. 239.

44
Soltanto attraverso il senso della «verità dell'essere» (che non è Dio), senso che introduce
all'«essenza del sacro»,52 l'uomo può fare spazio alla «esperienza di Dio e della sua manifesta-
zione».53 Ora, questo senso della verità dell'essere raggiunge l'uomo nella maniera più semplice
e più quotidiana del mondo «ogni volta che l'uomo apre occhi e orecchie, dischiude il proprio
cuore, si applica al pensiero e alla considerazione di un fine, domanda e rende grazie»,54 insom-
ma ogni volta che la pura empiricità fattuale e utilizzabile degli enti apre uno spiraglio per la-
sciarli apparire come gioco e dono dell'essere, ogni volta che nasce o rinasce nell'uomo un at-
teggiamento di ascolto al dono della presenza e, al tempo stesso, il senso della sua povertà e
mortalità. Lì dove l'uomo ha perduto questo gusto della gratuità, questo senso delle realtà ele-
mentari che lo induce al rispetto, egli si è chiuso a ogni possibile irruzione di una salvezza.
«D tratto dominante di questa età del mondo è forse la chiusura della dimensione dell'indenne
(cioè "della salvezza")».55
Contro l'oggettivazione invadente delle cose attraverso la rappresentazione, il cal-
colo e la pianificazione, il poeta è colui che ci richiama l'Apertura dell'Essere nella
quale dobbiamo mantenerci; ci apre in questo modo al Sacro, che è lo spazio del gioco
dell'essere e del rischio dell'aperto in cui possono avvicinarsi gli dèi. Così egli appor-
ta ai mortali «la traccia degli dèi fuggiti nell'opacità della notte del mondo».56 Così
facendo, il poeta manifesta la vocazione — sempre dimenticata — dell'uomo: mante-
nersi pronto, «vigilare» costantemente per far emergere lo spazio possibile dell'avven-
to del dio, in un atteggiamento di grazia che lascia essere la gratuità dell'essere e che
si lascia-dire da quella gratuità. C'è in Heidegger un discorso della grazia (duplice
genitivo: soggettivo e oggettivo) che ci sembra esprima in ultima istanza tutto il suo
itinerario. Infatti l'Essere, senza misura né calcolo, senza spiegazione né giustifica-
zione («la rosa è senza perché; fiorisce perché fiorisce»),57 è pura grazia, puro dono.
E cioè: pura donazione del «donato che non dona altro che la propria donazione, ma
che così donandosi tuttavia si ritira e si sottrae». Questo movimento stesso di donazio-
ne non può essere accolto che in un atteggiamento gratuito di «lasciar entrare in pre-
senza», dove l'accento cade non sulla presenza stessa ma sul lasciar come «lasciare
l'entrare in presenza».58 L'evento (Ereignis) da pensare è appunto questa «appropria-
zione» (er-eignen) del gratuito, che non può verificarsi se non in un atteggiamento al-
trettanto gratuito di «spossessamento» (Ent-eignung): «AlVEreignis di appropriazione
come tale appartiene la disappropriazione, lo spossessamento».59 Il modo umano del-
l'appropriazione dell'Essere come gioco e grazia è la disappropriazione, o in altre pa-
role la Gelassenheit. Avendo il compito di vigilare sulla rivelabilità dell'Essere por-
tandolo al linguaggio, il poeta è toccato dalla grazia, e lascia parlare la parola.
Ma come può anche il pensatore dire, nel modo che gli è proprio, questo avvento

52
ID., ibid., p. 133s.
53
Risposta di Heidegger a uno studente, del 6-11-1951. Trad. di J. Greisch. Citato in Heidegger et
la question de Dieu, Grasset 1980, p. 334.
54
M. HEIDEGGER, La Question de la technique, EC, p. 25.
55
ID., Lettre sur l'humanisme, Q. 3, p. 134. L'«indenne» è il «salvo» (salvato) - «il Sacro» - in opposi-
zione al «danno» - «das Unheil».
56
I D . , «Pourquoi des poètes?», in Chemins..., p. 383s.
57
Commento di questa massima di Angelo Silesio in Le principe de raison, Gallimard 1962, cap. 5,
pp. 97-111.
58
M. HEIDEGGER, Q. 4, p. 299s.
59
I D . , Temps et Étre, Q. 4, p. 45.

45
senza distruggerlo con un approccio «logico» irrispettoso e, in ultima analisi, em-pio?
Egli deve a sua volta spezzare il linguaggio abituale per denunciarne, nello stesso suo
dire, le rappresentazioni fissiste. È quanto fa Heidegger; e in questo non c'è desiderio
di esoterismo ma necessità richiesta dal rispetto del mistero dell'Essere. Spetta ultima-
mente al pensatore dire qualcosa come: «Il dire poetico è essere-presente vicino a...
e per il dio. Presenza suggerisce: semplice essere-pronto, che non vuole nulla, non
conta su alcun successo. Essere-presente vicino a... : puro lasciarsi dire il presente del
dio».60
Un atteggiamento come questo richiede una vigilanza costante, poiché deve con-
vertire il nostro desiderio di padroneggiare le cose con un sapere esplicativo o una
volontà calcolatrice, di cui il Dio dell'onto-teologia è precisamente la chiave segreta.
Il pensiero che, abbandonando questo Dio, è forse più aperto al «Dio divino» di quanto
comunemente si creda (cf sopra) è quello che avverte l'assenza presente degli dèi. Ma
questa assenza «non è un nulla: è la presenza della pienezza nascosta di ciò che [...]
è» e che i Greci, i profeti ebrei e Gesù chiamano «il divino». Essa è portatrice di un
«non più» che «è in se stesso un "non ancora": quello della venuta velata del suo esse-
re inesauribile».61 Il problema di Dio non può dunque essere pensato correttamente
che a partire da questa «assenza del dio» che «non è una carenza» come ricorda Hòl-
derlin.62 Il problema di Dio deve farsi strada, che «è tutt'al più una strada di campa-
gna, che non soltanto parla di rinuncia ma ha già rinunciato: alle pretese di una dottri-
na imposta per autorità e di un'opera culturale valida, o ancora a quelle di un'altra
impresa dello spirito».63 Si tratta dunque, in ultima analisi, di cercare di pensare «la
sollecitudine del poeta», che è la seguente: «senza timore davanti all'assenza apparente
del dio non allontanarsi e, in una matura prossimità all'assenza, resistere fino al mo-
mento in cui, a partire da questa relazione al dio assente, sia salvaguardata la parola
inaugurale che nomina l'Alto». 64
Il teismo del «dio abituale» dell'onto-teologia è ovviamente squalificato. Il che vale
anche dell'orientamento della «dotta ignoranza» delle teologie negative.65 Squalificato
è pure Vateismo della morte di Dio, che è un altro modo di mascherare l'assenza di
Dio. Squalificato infine l'indifferentismo, rifugio confortevole contro un'angoscia in-
confessata. Sono, queste, tre forme di nichilismo in cui «si perde la presenza dell'as-
senza»,66 tre forme di morte dell'assenza di Dio. Ora, il pensiero del problema di Dio
vive soltanto se consente alla «distretta» dell'assenza. In quanto «pastore dell'Essere»
e non «signore dell'ente»,67 l'uomo ha la vocazione di mantenersi vigile contro le mol-
teplici astuzie che gli rendono leggera una distretta di cui egli vuole soltanto sbaraz-
zarsi. Ma questa «assenza di distretta è la distretta suprema e la più nascosta [...]. L'as-
senza di distretta consiste in questo: ci si immagina di tenere in mano il reale e la realtà

60
Débat sur le kantìsme et la philosophie, Beauchesne 1972, p. 136.
61
Post-scriptum a La Chose, EC, p. 220.
62
M. HEIDEGGER, Approche de Hòlderlin, Gallimard 1962, p. 34.
63
ID.,£C, p. 221 (sopra, n. 61).
64
ID., Approche de Hòlderlin, p. 64.
65
Cf J. GREISCH, «La contrée de la sérénité et l'horizon de l'espérance», in Heidegger et la question
de Dieu, op. cit., p. 184.
66
M. HEIDEGGER, Approche de Hòlderlin, p. 34.
67
ID., Lettre sur l'humanisme, Q. 3.

46
e di sapere che cos'è il vero, senza aver bisogno di sapere dove risiede la verità».68
Contro questa suprema distretta che è l'assenza di distretta, l'assenza del dio, mante-
nendo la distretta in cui l'uomo può vivere e il dio ad-venire, «non è una carenza».
Il vuoto non è il nulla. L'assenza è proprio il luogo in cui l'uomo può pervenire alla
sua verità, saltando oltre tutti gli steccati della ragione oggettivante e calcolatrice. Il
compito è oneroso. C'è qualcosa di più difficile che questo tenersi così «in una matura
prossimità all'assenza (del dio)», che questo consentire alla «presenza dell'assenza»?
D'altronde, non siamo noi a scegliere questa prova, se è vero che, imbarcati come
siamo nella vita, il Dio di cui lasciamo morire l'assenza non si stanca di risvegliarla
in noi come una ferita lancinante.

II. TEOLOGIA E FILOSOFIA

L'itinerario dell'oltrepassamento della metafisica, di cui abbiamo appena richia-


mato alcuni momenti maggiori nel pensiero di Heidegger, sollecita il nostro interesse
di teologi. E tuttavia, gravi sono gli interrogativi che si presentano. In particolare il
seguente, assolutamente fondamentale: è possibile inscrivere una teologia nel solco di
questo pensiero senza «riciclarla» e, in ultima analisi, senza tradirla in ciò che ha di
più essenziale?

1. Filosofia e teologia secondo Heidegger


I testi principali che Heidegger ha consacrato al problema di Dio sono stati raccolti
nell'appendice dell'opera collettiva pubblicata nel 1980 su Heidegger et la question
de Dieu.69 L'Essere heideggeriano non è Dio: il leitmotiv è chiaro. Quanto al rapporto
tra la filosofia, pensiero dell'Essere, e la teologia, scienza della fede, Heidegger non
ha mai variato fondamentalmente rispetto alla sua posizione iniziale del 1927: non vi
può essere passaggio dall'una all'altra.
Fede e pensiero formano così due mondi irriducibili. Inoltre essi si oppongono co-
me sapienza di Dio e stoltezza degli uomini. Volerli fare incontrare, sia per (riconci-
liarli che per vederli combattersi, è inevitabilmente ridurli ambedue a un'ideologia:
come un pensiero che si facesse «filosofia cristiana» andrebbe incontro alla propria
rovina, così una teologia che credesse di doversi appoggiare a una filosofia si perverti-
rebbe in una ideologia di «visione cristiana del mondo». Il suo «Dio» ridiventerebbe
inevitabilmente un «valore supremo», perdendo «tutto ciò che ha di santo e sublime»
per «decadere al rango di causa»;70 un Dio del genere, nuovamente dimostrabile, sa-
rebbe «molto poco divino» e la prova della sua esistenza sfocerebbe «tutt'al più in una
bestemmia».71 Ora, sono proprio «i credenti e i loro teologi» a essere gli autori dell'«ul-
timo colpo infetto a Dio» svilendolo, in quanto «l'ente dell'ente», al rango di «valore
supremo». Essi hanno così elaborato un pensiero e un discorso che, «visti a partire

68
ID., Dépassement de la métaphysique, EC, p. 104.
69
Sopra, n. 53.
70
M. HEIDEGGER, La Question de la technique, EC, p. 35.
71
I D . , Nietzsche, I, p. 286.

47
dalla Fede, sono la bestemmia per eccellenza, una volta che li si mescoli alla teologia
della Fede».72 Infatti la fede è infedele a se stessa quando ammicca in questo modo
all'ontologia filosofica: «Se scrivessi ancora una teologia, cosa che a volte sono tenta-
to di fare, l'espressione "essere" non dovrebbe figurarvi. La fede non ha bisogno del
pensiero dell'essere. Quando ne ha bisogno, non è già più la fede. Lutero lo aveva
capito. Ma pare che lo si sia dimenticato, anche all'interno della sua Chiesa».73 È dun-
que «nell'esclusiva della rivelazione» che i teologi devono soggiornare.74 A quanto pa-
re, è stata questa la convinzione costante di Heidegger. A buon intenditor, poche parole!

2. Interrogativi
Come non restare con un punto interrogativo di fronte a questo modo di intendere
il rapporto tra pensiero e fede, tra filosofia e teologia? «Perché riflettere soltanto su
Hòlderlin e non sui Salmi, su Geremia? Ecco il mio interrogativo», scrive P. Ricoeur,
«spesso stupito» che Heidegger «abbia, a quanto pare, sistematicamente eluso il con-
fronto con il blocco del pensiero ebraico, che presenta un'estraneità assoluta rispetto
al pensiero greco».75
E soprattutto, una separazione così totale tra il mondo del pensiero e quello della
fede è sostenibile? Come è possibile, si chiede per esempio G. Morel, che la rivelazio-
ne religiosa, che è «soltanto un caso particolare di fronte allo svelamento filosofico»
non venga mai sottoposta da Heidegger a quella «messa in questione radicale e univer-
sale» che è il pensiero dell'Essere?76 E viceversa, una teologia che dovesse chiudersi
nel cerchio che va dalla fede alla fede, senza mai poter uscire, pena la perversione,
dalla «esclusiva della rivelazione», non ha un sapore molto fideista? Non si esprime
in ogni caso, continua G. Morel, un «grande disprezzo per la teologia», legato forse
a una «cattiva coscienza» inconsapevole, formulando questo desiderio di chiuderla in
una circolarità chiusa, col pretesto di salvaguardare rispettosamente la sua dignità?77
Si esprime, se non altro, incomprensione. E si capisce allora che, se ha «talora tenta-
to» di scrivere una teologia (cf sopra), Heidegger non l'abbia mai fatto...

a) L'atto teologico: una testimonianza; la teologia: un'ermeneutica


Malgrado tutto, il pensiero dell'Essere sembra aprirci una strada per la teologia.
Non vogliamo arrogarci il diritto di battezzare l'Essere heideggeriano. Si tratta di altra
cosa.
La teologia cristiana sarebbe anch'essa, non meno della filosofia sebbene per via
diversa, una «stoltezza»? Eppure Heidegger riconosce che, sotto pena di non essere
altro che un «molle guanciale», la fede deve esporsi «costantemente alla possibilità di
cadere nell'incredulità» (sopra). Ora, un rischio del genere non si calcola in anticipo,

72
I D . , «Le mot de Nietzsche "Dieu est mort"», in Chemins..., p. 313s.
73
Dìalogue avec M. Heidegger, in op. cit., p. 334.
74
Ibid., p. 335s.
75
P. RICOEUR, Nota introduttiva a Heidegger et la question de Dieu, p. 17; La Méthaphore vive, Seuil
1975, p. 397.
76
G. MOREL, Questions d'homme: l'autre, t. 2, Aubier 1977, p. 278.
77
I D . , ibid., p. 61.

48
almeno quando la teologia è ciò che dovrebbe essere sempre, cioè atto teologico. Il
teologo non è allora esterno alla sua opera: vi si gioca, vi si espone, sollecitato dall'i-
stanza non di dimostrare alcunché mediante un sapere calcolatore ma di testimoniare
ciò in cui si riconosce già in partenza coinvolto. E se è vero che egli offre una testimo-
nianza, una testimonianza che gli chiede di mettersi in ascolto della tradizione passata
e della cultura attuale, e di prendere la parola in prima persona a proprio rischio e
pericolo, la sua opera è irriducibile a un sapere che voglia rendere ragione di tutto,
rispondere ultimamente a un «perché?», insomma giustificare il mondo per giustificare
se stesso di essere al mondo e di abitarvi come soggetto credente. Di sapere, certo,
ce n'è bisogno, in teologia come in filosofia. A cominciare dal sapere «scientifico»
che riguarda la tradizione. Anzi, tanto meglio se questo sapere è immenso... Ma la
teologia, in quanto atto teologico, comincia con l'abbandono di questo sapere in quan-
to sapere o dei temi in quanto temi. Essa inizia quando tutto ciò apre al teologo una
«contrada» per un «cammino di pensiero» di cui è egli stesso il luogo nel suo rapporto
con gli altri e con Dio, rapporto vissuto nella Chiesa. Colui che tenta di pensare in
questo modo la propria fede si trova in un atteggiamento molto diverso da colui che
tenta di pensare la verità dell'Essere?
Certo, si dirà, ma questo non toglie che tu creda in Dio fin dall'inizio. Ora, «colui
che si trova sul terreno di una fede come questa può certamente seguire in qualche
modo l'istanza del nostro interrogare e parteciparvi, ma non può interrogare autenti-
camente senza rinunciare a se stesso come credente con tutte le conseguenze di questo
atto. Può soltanto fare come se.. .». 78 Ma di quale Dio parliamo? Il compito della teo-
logia è quello di rafforzare l'idea di «Dio»? In questo caso essa è per sempre in balia
di quella che Heidegger chiama l'onto-teologia. Oppure è di un altro ordine? Perché,
se è vero — come faremo vedere — che in Gesù Cristo Dio si è rivelato come essen-
zialmente umano nella sua divinità, l'intelligenza credente che si può cercare di lui
non è mai separabile dalla nostra umanità in cui egli continua a «prendere corpo»: l'u-
manità di questo Dio divino, in altri termini, ci interpella e requisisce come il luogo
in cui essa gioca se stessa. È impossibile «(com)prendere» questo Dio senza esserne
personalmente <<(com)presi». In teologia cristiana il «chi è Dio?» è inseparabile dal «chi
parla di questo Dio?». Il problema di Dio pertiene allora fondamentalmente a una teo-
logia ermeneutica.
Ma a che punto è oggi la teologia ermeneutica? È noto a quali processi l'ermeneu-
tica è stata sottoposta di recente, da parte della «teoria critica delle ideologie» sulla
scia di J. Habermas, da parte della teoria del «testo» e della «lettura» derivata dalle
correnti strutturaliste e, forse ancor più radicalmente, da parte della «grammatologia»
di J. Derrida.79 È noto pure in che modo un pensatore come Ricoeur ha tentato di far
fronte a questa sfida. Ma ha potuto farlo solo rinnovando la problematica ereditata
da Dilthey, ancora avvertibile in H.G. Gadamer. Rinnovamento così rilevante, che
lo si può caratterizzare come un «decentramento dell'uomo in rapporto a una falsa sog-
gettività o uno spossessamento della coscienza». Allora, aggiunge C. Geffré, «coloro

78
M. HEIDEGGER, Introduction à la métaphysique, p. 19 (trad. ital. : Introduzione alla metafisica, Mur-
sia, Milano 1979).
79
Ci riferiamo a C. GEFFRÉ, Le Christianisme au risque de l'ìnterprétation, op. cit., cap. 2: «L'hermé-
neutique en proces», pp. 33-64. Su Derrida vedi la nota 41 del cap. IV.

49
per i quali il termine stesso di "ermeneutica" è diventato tabù dovrebbero stare attenti
a non abbandonarsi troppo presto alla critica di un'ermeneutica sempre incorreggibil-
mente sotto il segno di un primato del soggetto, sia esso metafisico o trascendentale». 80
Se, infatti, Ricoeur rifiuta da una parte lo strutturalismo riduttivo che sfocia in una pura dis-
seminazione del senso nel gioco regolato delle differenze tra significanti, è arrivato a rifiutare
ugualmente, sull'altro fronte, un'ermeneutica romantica e psicologizzante secondo la quale il
lettore pretenderebbe di poter ridiventare contemporaneo dell'intenzione dell'autore, e restitui-
re così un senso originario o far emergere da una pluralità di linguaggi un senso identico. Non
c'è una verità bell'e fatta da cogliere «sotto» il testo; perciò l'ermeneutica deve rinunciare al
desiderio di attingere il voler-dire dell'autore. Da questo punto di vista essa ritrova l'istanza
senza dubbio più fondamentale della teoria semiotica del testo e della lettura.
La ritrova, ma non vi si identifica. Perché, se non c'è un senso dato in anticipo da scoprire
dietro il testo, non c'è neppure una semplice emergenza di effetti di senso permessi dalla struttu-
ra e dai meccanismi di funzionamento del testo. «Ciò che, infatti, dev'essere interpretato in un
testo è una proposta di mondo, di un mondo tale che io possa abitarlo per progettarvi uno dei
miei possibili più propri».81 Il «mondo del testo», quel mondo che il testo propone come possibi-
le, non è la struttura del testo più di quanto sia l'intenzione dell'autore; è ciò che il testo, come
«opera», dispiega davanti a lui come possibilità: «Ciò di cui, in ultima analisi, mi approprio,
è una proposta di mondo; questa non è dietro il testo, come lo sarebbe un'intenzione nascosta,
ma davanti, come ciò che l'opera dispiega, scopre, rivela. Allora, comprendere è comprendersi
davanti al testo».82
Il testo è «opera». Ma l'opera non è ciò che è, ciò che essa rende possibile, se non perché
è testo, testo costruito secondo articolazioni che l'analisi strutturale mette in rilievo e secondo
una storicità ineludibile. Non c'è senso dell'opera al di fuori di questa «lettera» nella positività
delle sue articolazioni strutturali e della sua alterità storica inalienabile. Proprio questa alterità
è creatrice di poter-essere, di nuove possibilità di strutturazione del mondo.83
L'analisi strutturale, la teoria critica delle ideologie, la grammatologia hanno dun-
que costretto l'ermeneutica a rispettare la mediazione della lettera e ad abbandonare
il dualismo tradizionale tra «comprensione» e «spiegazione»; «La spiegazione è ormai
il cammino obbligato della comprensione», scrive in tal senso P. Ricoeur. 84 Lo stesso
vale della successione di teologia «positiva» e teologia «speculativa»; ogni dato positi-
vo — non escluso quello delle Scritture, certo — è già costruito. Il testo cristiano è

80
C. GEFFRÉ, op. cit., p. 50
81
Ci riferiamo essenzialmente a F. BOVON e G. ROUILLER (a cura di), Exegesis. Problèmes de méthode
et exercices de lecture, Delachaux-Niestlé, Bibl. Théol., Neuchàtel-Paris 1975. P. Ricoeur ne ha scritti tre
capitoli importanti: «La tàche de l'herméneutique» (pp. 179-200), in cui traccia la storia dell'ermeneutica
in Schleiermacher, Dilthey, il primo Heidegger (Essere e tempo) e Gadamer (Verità e metodo), e mostra
la necessità di rinnovare la problematica ermeneutica di questi pensatori; i momenti principali di questo
compito di rinnovamento vengono esposti in «La fonction herméneutique de la distanciation», soprattutto
attorno alle nozioni di «discorso», di «opera» e di «mondo del testo» (pp. 201-215). I principi dell'ermeneuti-
ca filosofica esposti nel secondo capitolo vengono applicati all'esegesi biblica nel terzo: «Herméneutique
philosophique et herméneutique biblique» (pp. 216-228). La citazione è tratta dalla p. 213 (trad. ital.: Erme-
neutica filosofica ed ermeneutica biblica, Paideia, Brescia 1977).
82
ID., ibid., p. 214.
83
Sul poter-essere e il possibile, vedi in particolare R. KEARNEY, Poétique dupossible. Phénoménolo-
gie herméneutique de la figuration, Beauchesne 1984.
84
P. RICOEUR, Exegesis, op. cit., p. 209.

50
costituito dalla storia stessa delle sue interpretazioni; e la storia del cristianesimo va
trattata come un «testo».
Così intesa, l'ermeneutica non ha nulla di quella «nostalgia di un'origine identifi-
cata con la pienezza dell'essere e della verità» che sembra essere «la molla segreta del
pensiero onto-teologico», molla che a sua volta è attivata dalla «megalomania del desi-
derio dell'uomo che non accetta la propria finitudine».85 In quanto ermeneutica, la teo-
logia ha il compito non di restituire un senso originario ma, al contrario, di produrre,
a partire in particolare dal testo delle Scritture, nuovi testi, cioè nuove pratiche che
permettano l'emergenza di un nuovo mondo. La sua verità è sempre da fare: risiede
in un avvenire costante. «La verità cristiana non è dunque, sottolinea C. Geffré, un
nucleo invariante che si trasmetterebbe di secolo in secolo in forma di deposito costi-
tuito. È un ad-venire permanente aperto al rischio della storia e della libertà interpre-
tativa della Chiesa sotto la mozione dello Spirito. È notoriamente insufficiente parla-
re, sempre a proposito del contenuto della fede, di un rapporto tra un nucleo invariante
e un registro culturale variabile. Bisogna guardarsi dall'illusione di un'invariante se-
mantica che sussisterebbe aldilà di tutte le contingenze dell'espressione. Sarebbe, que-
sto, un restare fermi alla concezione veicolare e strumentale del linguaggio. Bisogna
parlare di un rapporto di rapporti».*6
Il famoso circolo ermeneutico non ha dunque nulla di un'astrazione atemporale.
È il circolo della vita stessa in ciò che ha di più storico, corporale, mortale. La doman-
da «chi è dunque Dio?» richiede allora di essere posta in maniera concreta e non a
partire dai concetti generici di «natura» e di «persona» dell'ontoteologia. Ciò significa
che essa prende corpo per noi non a partire dalle teologie dell'unione ipostatica ma
a partire dai linguaggi, storicamente e culturalmente situati, dei testimoni neotestamen-
tari. A cominciare, sicuramente, dal linguaggio della croce; perché è in colui che gli
uomini hanno ridotto a un relitto umano che Paolo riconosce para-dossalmente la rive-
lazione obliqua («para») della gloria stessa («doxa») di Dio: «follia» o esplosione della
«potenza di Dio» (1 Cor 1).

b) Il Logos della croce, tra il Giudeo e il Greco


Heidegger si richiama a quel capitolo 1° della lettera ai Corinzi, in cui Paolo tratta
come «stoltezza» agli occhi di Dio la «sapienza del mondo». E chiede: «La teologia
cristiana si deciderà finalmente a prendere sul serio la parola dell'Apostolo e, di con-
seguenza, a considerare la filosofia come una stoltezza?».87 Ma se è vero, secondo
Paolo, che il Logos della croce è «stoltezza per i Greci», esso è pure «scandalo per
i Giudei» (1 Cor 1,23). Non è né greco né giudeo: non può soddisfare — come sottoli-
nea Breton, che seguiremo su questo punto — nessuna delle due figure principali della
coscienza religiosa dell'umanità, quale Paolo la concepisce: né quella della sapienza
del Greco, mossa dal principio di ragione e dalla ricerca delle cause, né quella della
domanda di segni da parte del Giudeo, mossa dal principio della buona volontà di Dio.

85
C. GEFFRÉ, op. cit., p. 81.
16
I D . , ibid., p. 87.
" M . HEIDEGGER, Introduction à la métaphysique, p. 19.

51
Nel Verbo della Croce coincidono così due eccessi: «l'aldilà rispetto al pensiero è pure
l'aldilà rispetto al volere e al volere proprio». 88 Proviamo a precisare.
L'esegesi tomista rifiuta certo la possibilità di misurare la fede sul metro della ragione. Ma
questa viene rifiutata come fondamento-autorità, non come fondamento-appoggio. In ultima analisi,
«questa mortificazione, lungi dall'annientare la ragione, le permette di varcare, con l'audacia
di una trasgressione, la soglia della sua vera dimora» (p. 28). Al punto che l'analogia può conci-
liare il Giudeo con il Greco e interpretare «la negazione così energica di Paolo nel senso di un'e-
minenza. In fondo, la follia e stoltezza di Dio non è altro che l'eccesso di una sovra-sapienza»
(p. 29). Viceversa, l'esegesi bultmanniana intende l'incomprensibilità divina soltanto al livello
dell'esistenza personale, non più al livello del pensiero teorico. Ma, se essa interpreta il negati-
vo della croce come negazione radicale del Logos, non dice «nulla di preciso sulla rottura con
il giudaismo» (p. 47). Ora, contestare «il Dio-oggetto o super-oggetto» per sostituirlo «con un
Dio-esistenza o con un Tu assoluto» non è uscire «dalla sfera dei contrari» ma privilegiare l'uno
o l'altro dei termini e non vedere l'oltrepassamento dell'alternativa che il paradosso della Croce
impone. Perché «la Croce apre un altro spazio, un altrove che non può essere detto nell'uno
o nell'altro di questi linguaggi, anche se siamo condannati a parlarli uno alla volta» (p. 47).
Come pensare allora il dictum della croce, quella «Cosa che la croce pro-pone», in concreto:
«il Dio che si rivela nel Cristo crocifisso» (p. 78) e che non si identifica con i suoi modi di pre-
sentazione, kerigmatico e teologico, sebbene non possa esserne staccato come un puro gioiello?
Bisogna pensarlo nel solco del «Nulla increato» delle teologie negative? Ma la teologia di Paolo
« è di tutt'altro ordine» (p. 109). Essa «rifiuta una teologia ispirata dall'ontologia dei trascenden-
tali [...] per tracciare sull'"essere realissimo" delle religioni e delle filosofie il segno di con-
traddizione» (p. 110). Essa non punta dunque «a costituire nuovi attributi divini rovesciando
i primi», ma indica la «necessità di una mutazione di atteggiamento» (p. 116) nel senso di «quella
vigilanza critica che fluidifica il linguaggio per non essere vittima delle sue trappole» (p. 114),
e che è una presa di distanza per «cambiamento di piano». Ciò su cui Paolo insiste è infatti «l'im-
possibilità di dire, in uno qualsiasi dei linguaggi-oggetto (ebreo o greco, per esemplificare) di
cui potremmo disporre, la ' 'Cosa ' ' che gli sta a cuore» (p. 116). Ma è proprio questa impossibi-
lità che viene manifestata, nel discorso, dalla distanza che si cerca di prendere per «esprimersi
alla meno peggio». Ed è in questa umile spogliazione del linguaggio sempre sul punto di annul-
larsi che si manifesta la traccia «della presenza liberatrice di quella stessa realtà» a cui si mira
(P- 114).
Se questo dictum del linguaggio della croce, che è pure «la croce del linguaggio» (p. 48),
esige, in un necessario movimento d'inscrizione, e fin dall'origine, di essere esposto in discor-
so, non è meno vero che esso esercita una «funzione critica» che «converte allora in libertà l'o-
pera della necessità» (p. 120). In mezzo agli «slittamenti inevitabili» che, in questi discorsi, fini-
scono per fissare in «costitutivo dell'aldilà» ciò che è soltanto «determinazione dell'aldiqua»,
la croce viene a richiamarci che ciò che in essi si esprime è non tanto quello che Dio è quanto
«la storia dei nostri atteggiamenti» e del divenire «attraverso cui» lo diciamo (p. 119).
Il discorso kerigmatico di Paolo non sfugge a questa legge, anche quando l'Apostolo tenta
di dire ciò che deve continuamente sovvertirla. Così a lui, venuto dalle «condizioni dell'ambien-
te», s'impone un «modo necessario di concepire» che, negli «atteggiamenti» mentali dell'epoca
si configura «nell'immagine dominatrice del dominatore». È proprio questa rappresentazione
di Dio che egli cerca di dissolvere con la contro-immagine dello schiavo (p. 148s). L'inno keno-
tico di FU 2,5-11 è stato anch'esso oggetto di esegesi insufficienti, per difetto o per eccesso.
Per difetto, là dove, secondo la tradizione patristica e medievale più comune, un cambiamento

18
S. BRETON, Le Verbe et la croix, Desclée 1981, p. 9. A quest'opera rimandano le referenze tra pa-
rentesi nelle pagine che seguono.

52
in Dio stesso sembrerebbe così blasfemo che solo la natura umana del Cristo può esserne stata
toccata (tesi, questa, che ha bisogno di essere poi corretta, sul piano logico, con quella della
«communicatio idiomatum» per poter giustificare l'affermazione che «uno della Trinità ha sof-
ferto»), e che la relazione tra Dio e l'uomo può essere reale sul nostro versante, quando si dice
che Dio può toccarci, ma può essere soltanto «di ragione» sul versante di Dio, quando si dice
che Dio è toccato da noi. Una teologia del genere «resta dunque fedele fino in fondo ai rigori
di un'onto-teologia, cioè di una metafisica dell'essere in quanto essere, che contiene nella sua
eminenza, e nell'immobilità dell'eterno, l'integralità infinita delle perfezioni infinite» (p. 137).
Viceversa, alcune teologie — più recenti — del divenire di Dio non peccano forse per eccesso?
AU'onniperfezione immutabile che isolerebbe Dio in «una trascendenza di egoismo» e lo prive-
rebbe così del suo attributo più bello, l'Amore — che non è mai senza sofferenza — (p. 138),
esse sostituiscono il «teatro sublime» dello svuotamento kenotico di Dio in Gesù. Svuotamento
di un amore libero ma necessario: Dio non è libero di non essere libero. Così la «drammaturgia
kenotica» del sacrificio lascia intatto, in definitiva, il prestigio dell'essenza divina: questo libero
volere-amore che rinuncia a ogni possesso potrebbe senza dubbio evocare «la formula plotinia-
na secondo cui l'Uno si fa ciò che vuol essere, in quanto "causa di se stesso"» (p. 140s). È
sempre un «sé d'eminenza» che presiede a questo volere del volere (p. 169). Così i teologi della
sofferenza in Dio si sono mossi «in definitiva sullo stesso terreno» dei precedenti, mentre «sa-
rebbe stato necessario guadagnare un altro spazio fin dall'inizio del gioco» (p. 149).
Un altro spazio: perché, elevando «alla dignità di un assoluto la figura del Doulos», Paolo
rende caduca «l'idea stessa di un IO divino», se è vero che lo schiavo, non essendo più né da
sé né per sé, non ha altro essere che quello «di non essere». Pensare allora «il vero "divenire"»
non è staccare la kenosi divina da quella che si deve compiere in noi, secondo il versetto intro-
duttivo dell'inno: «Comportatevi così tra voi come avviene in Gesù Cristo: lui che...» (FU 2,5).
È la nostra stessa «anima» che, «espellendo da sé le magnificenze di cui faceva dono all'Altissi-
mo, opera una riduzione che la configura alla "forma di schiavo" per realizzarne la virtù» (p.
151s). Così, il Detto staurologico di Paolo ci tocca nel vivo: nel vivo del nostro desiderio, solle-
citato a convertirsi. Il messaggio teologico non può riuscire a dirsi al di fuori del nostro far
presa su di esso. È la nostra corporeità che si incarica di divenirne il luogo stesso. Il discorso
teologico è, come già dicevamo, atto teologico: testimonianza in cui nulla possiamo prendere
senza riconoscerci presi.
E tuttavia il Verbo crocifisso di Paolo si è coniugato con il «Verbo di splendore» di Giovanni
che, pur derivando dal giudaismo biblico, conserva comunque un indiscutibile «colore ellenico»
(p. 166). Rimane sempre vero che «il cristianesimo fu costretto, fin dall'inizio, a parlare greco
ed ebraico» (p. 171). Malgrado il doppio «no» paolino, si è ben presto «trasformato in compro-
messi più o meno connettivi» tra i due (p. 170). La cosa era inevitabile, nella misura in cui la
credibilità del messaggio esigeva una lettura apologetica del presente innovatore proiettandolo
in un passato che lo «prefigurasse» e in cui l'antica alleanza era sollecitata a deporre a favore
della nuova. Come si vede, era impossibile fin dall'inizio non rivestire il «dio nudo» della croce
e dunque astenersi dal «dargli l'essere che non ha». D'altronde, è pur vero che la Croce non
ci dispensa da «questa necessità molto umana». Essa non ci chiede di uscire dal nostro mondo,
ma di non restarne prigionieri: il Logos ci dice che «la fede, nella sua stessa fedeltà, proferisce
il proprio verbo di intelligenza» in una specie di «giudizio determinante», mentre il logos paoli-
no, in un «giudizio riflettente», «proferisce sulla catena delle determinazioni il giudizio che ridu-
ce la loro pretesa all'eternità senza escludere il loro servizio» (p. 181). Difficile equilibrio tra
archeo-logia e an-archia...

Un equilibrio del genere non è un compromesso tra le due posizioni, avente come
risultato una specie di posizione intermedia. Se la teologia non può esprimere il Detto
della croce, è però a partire da questo Detto che essa deve pensare. Questo luogo vuoto,

53
questa istanza nulla e onnipresente le chiede continuamente di fare quel passo all'in-
dietro che la libera da se stessa e la riapre. Ora, questo salto non è unicamente — né
fondamentalmente — dell'ordine di una semplice critica intellettuale alla nostra per-
manente condizione di venditori di immagini; come dicevamo sopra, esso esige e mo-
bilita noi stessi come corporeità. Il sovvertimento più affinato dei nostri concetti teo-
logici sarebbe ancora idolatria se non venisse inserito in una conversione del nostro
desiderio e della nostra pratica etica. L'ombra della croce non può profilarsi sulle ela-
borazioni della nostra mente senza distendersi sull'opera delle nostre mani. Questo è,
almeno ai nostri occhi, l'atto teologico, se vuol essere davvero discorso del testimo-
nio. Perciò — sottolinea Bréton — «il Dio che è aldilà delle forme dell'essere, della
sapienza e del potere [...] ci chiede questo corpo di mondo e di umanità senza il quale
egli non potrebbe ad-venire in mezzo a noi in verità. Proprio perché egli non è nulla
di ciò che è, deve divenire. Ora, questo "divenire" passa necessariamente attraverso
il volto dell'altro [...]: "Ero affamato, e mi avete dato da mangiare" (Mt 25,31-46)
[...]. Strana condizione di questo dio, che sembra acquistare un Io soltanto per grazia
di questi piccoli o di questi «minimi» che non esistono e la cui essenza sembra consi-
stere nella possibilità stessa di un volto. La realtà più lontana sarebbe forse anche la
più vicina?» (p. 190s).

c) Una omologia di atteggiamento


Se questo è davvero il compito teologico, non è forse anch 'esso, nel suo ordine
proprio, «stoltezza» non meno del pensiero dell'Essere? Il «Logos della croce», chiede
a sua volta J.L. Marion ad Heidegger, non è forse «un logos estraneo all'ontoteolo-
gia»?89 E se non c'è passaggio dall'Essere, anche cancellato, a Dio, anche crocifisso,
non c'è forse tra loro una omologia, non quanto al loro «oggetto» ma quanto al loro
rapporto attivo tra teologia e filosofia? Non siamo forse, in ambedue i casi, coinvolti
in uno stesso tipo di atteggiamento «grazioso», caratterizzato da un cammino sempre
«in cammino» (er-wègend), sempre transitivo, o, ancora, da un lavoro di parturizione,
da una «perlaborazione» (cf la Durcharbeitung di Freud) il cui frutto non è un oggetto
(nel caso nostro, un sapere esterno a noi) ma la nostra produzione di noi stessi come
soggetti. Lavoro che riguarda non soltanto Veidos e le sue rappresentazioni, ma anche
l'eros e il suo desiderio di estendere il proprio dominio su tutto. Lento lavoro di ap-
prendimento dello spossessamento, lavoro permanente dì lutto in cui si realizza a poco
a poco in noi stessi un consentimento «sereno», senza risentimento, alla «presenza del-
l'assenza». In termini evangelici: lavoro di conversione alla presenza dell'assenza di
un Dio che «si cancella» nella sub-umanità di questo crocifisso che gli uomini hanno
ridotto a men che nulla e nel quale la fede confessa, alla luce di un paradosso integra-
le, la gloria di Dio.
Il B|k> crocifisso non è l'EjKje cancellato. La cancellazione kenotica portata su
di lui dalla croce non rappresenta tanto il non-ente quanto il non-altro. La me-ontologia
che qui si profila non appartiene all'onto(teo)logia negativa ma all'ordine del simboli-
co: sfigurandolo fino a cancellare da lui ogni alterità, riducendolo a non-volto, a non-

" J.L. MARION, Vldole et la distance, op. cit., p. 37.

54
soggetto, a un «oggetto» di derisione (cf ls 52,14), gli uomini hanno fatto di Gesù un
me on (cf 1 Cor 1,28); cosa che Paolo esprime culturalmente con la figura dello schiavo.
Che il non-volto del crocifisso sia la «para-dossale» traccia del volto della Gloria
divina, che la faccia di Dio si mostri soltanto cancellandosi, che Dio debba dunque
essere pensato non tanto nell'ordine metafisico dell'Inconoscibile quanto in quello, sim-
bolico e storico del misconoscibile: ecco la stoltezza che il teologo tenta di esprimere
nel suo discorso. Ed ecco anche ciò che impedisce in partenza a un discorso del genere
di chiudersi su se stesso, che gli ingiunge di risalire dal suo detto verso un dire che
lo eccede e, in tal modo, di provocarlo a un «disdir*/» in cui compromette se stesso
nella parola di un testimonio.
Si tratta allora, senza dubbio, di «mantenerci in una matura prossimità all'assenza»
o, come dice Lévinas, di «mantenerci nella traccia dell'Assente». Il che significa di-
spiegare un discorso che porta sempre viva in sé la ferita di un'alterità che, sempre
eccedente, inscrive però la sua traccia nell'umile appello del prossimo; un discorso
in cui, come scrive ancora Lévinas, «Dio invisibile non significa soltanto un Dio inim-
maginabile ma un Dio accessibile nella giustizia».90 È questo il Deus absconditus con
cui si trova alle prese la teologia cristiana, inseparabile da una «staurologia»: quella
di un Dio che si cancella nella sub-umanità al punto da «esigere da noi questo corpo
di mondo e di umanità senza il quale non potrebbe ad-venire in mezzo a noi in verità»
(sopra).
Se è vero, come dice Derrida, che «noi viviamo nella differenza tra il Giudeo e il Greco,
che è forse l'unità di quella che chiamiamo la storia»," allora il nostro discorso teologico ha
senso almeno come tentativo di dire Dio dal seno stesso di questa irriducibile differenza inscritta
nella storia. Discorso in cui l'Essere del Logos greco è cancellato dall'Altro del Dabar ebraico
(quest'ultimo, checché ne pensi Lévinas, non può disfarsi del primo); discorso in cui l'ontologia
e il concetto, ineludibili, si «oltrepassano» in simbolica e in etica che tuttavia non li esaurisce;
discorso che considera perciò già in partenza vana la ricerca di un compromesso o di una via
media che neutralizzerebbe la differenza tra i due. Non è, questa, «stoltezza»?
Se la filosofia è davvero, secondo l'espressione di Breton, «il servizio di un indi-
sponibile che sfugge al sapere e che tuttavia è indispensabile», allora esiste tra la filo-
sofia e la teologia cristiana una «affinità» che «concerne non tanto i contenuti quanto
gli atteggiamenti» e che consiste nella «disponibilità, da una parte come dall'altra, nei
confronti di un indisponibile che li specifica in maniera originale».'2 Anche a nostro
avviso, è questo il loro rapporto reciproco. E un rapporto di questo genere, gratuito,
un rapporto di atteggiamenti è molto più importante di un semplice scambio di conte-
nuti, perché riguarda la parola stessa dei soggetti e il loro personale lavoro di genesi.
Heidegger non ha mai riconosciuto che la teologia potesse essere, nel suo proprio
ordine, il luogo di un lavoro così personale. Tuttavia, il consenso heideggeriano alla
spogliazione, alla pazienza, all'ascolto, contro tutte le forme di dogmatismo chiuso
o di padroneggiamento idolatrico, non è forse l'eco di una «autentica» esperienza reli-

90
E. LÉVINAS, Totalità et infini, op. cit., p. 51 (trad. ital.: Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità,
Jaca Book, Milano 1980).
" J. DERRIDA, «Violence et métaphysique», in op. cit., p. 227.
" S. BRETON, «Comment anvisager aujourd'hui une recherche philosophique qui tienne compte de la
foi?», in Revue de l'Inst. Cath. de Paris, n. 9, 1984, pp. 30-34.

55
giosa e spirituale? Un atteggiamento di «gratuità» come questo, non è il cammino che
costituisce anche la teologia..., se è vero, almeno, che questa non può essere slegata
dal soggetto credente, chiamato a dar «luogo» al Dio crocifisso a cui si appella e messo
così egli stesso in questione nel suo porre questioni a questo Dio. Un tale cammino
teologico non viene — non può venire concretamente — a sommarsi in lui con il cam-
mino filosofico: infatti, credente e pensatore formano un solo soggetto. E se, nel di-
scorso, si devono distinguere i due, non si deve mai dimenticare che è sempre Vinte-
gralità concreta del soggetto che va pensata. Ed è appunto questo che ci ha condotti
a pensare come omologhi i due approcci o i due atteggiamenti. Così, senza gettare
alcuna passerella tra l'Essere heideggeriano e Dio, noi rifiutiamo ogni divorzio tra l'i-
tinerario di pensiero teologico e quello filosofico.

III. TEOLOGIA E PSICANALISI

L'oltrepassamento della metafisica, in particolare come tentativo di superare la di-


cotomia di soggetto e oggetto, e dunque come riconoscimento dell'impossibilità di «pren-
dere» senza essere «presi», è caratteristico — dicevamo — di un'epoca del dispiega-
mento storico dell'Essere. Tutta la nostra società ne porta il contrassegno. E anzitutto
le scienze stesse, oggetto di una «rivoluzione epistemologica» che partecipa dell'ab-
battimento del modo di pensare metafisico. Infatti, contro le illusioni e le pretese del
positivismo, le scienze dette un tempo «esatte» si vedono attraversate anch'esse da questa
«svalutazione» annunciata da Heidegger e, pure a modo suo, da Lévinas. Anche in
questo campo, è impossibile non tener conto del fatto che l'osservatore è anch'egli
«preso» in ciò che tuttavia egli ha il compito di «prendere», in maniera «oggettiva»,
in un discorso senza «soggetto» (cf avanti).
Ma è indubbiamente nel campo delle scienze cosiddette dell'uomo che la costante
interferenza del soggetto e dell'oggetto si manifesta nel modo più chiaro. Questo vale
per il sociologo, per l'etnologo, per lo storiografo. E vale per il linguista: «Come se-
parare la realtà linguistica da ciò che ne pensa il soggetto linguista, da ciò che egli
ne sa, dal momento che egli vi è dentro?», si chiede J. Kristeva." Questo è esemplar-
mente vero per la psicanalisi, che costituisce appunto il sintomo maggiore dell'età at-
tuale del mondo.

1. Lo statuto aporetico della psicanalisi


Come fare una teoria scientifica di ciò che, non solo non si riduce a un rapporto
di implicazione tra soggetto osservatore e oggetto osservato, ma si vive concretamente
come una pratica tra soggetto in quanto soggetto e soggetto in quanto soggetto? Qui
l'oggetto osservabile (sogni, atti mancati, lapsus, riprese del discorso...) diventa «og-
getto» scientifico soltanto nel quadro della cura stessa, cioè nell'atto con cui il deside-
rio del paziente che lo enuncia incrocia quello dell'analista. D'altronde, l'analista-
osservatore — così come le sue eventuali «osservazioni» — appartiene anch'egli al-

J. KRISTEVA, «DU sujet en linguistique», in Langages, n. 24, 1971, pp. 107-125. Cit. p. 115.

56
l'osservabile, preso com'è e come dev'essere dal suo desiderio, nel processo del tran-
sfert, impossibilitato a vedere senza essere visto, continuando senza sosta il lavoro di
trasformazione iniziato nella sua stessa analisi.
Situazione strana, dunque, quella della psicanalisi! Del suo oscuro oggetto specifi-
co (l'inconscio) essa non può — come scrive C. Castoriadis — fare la scienza e non
deve fare la filosofia; «ne fa l'elucidazione aporetica e dialettica».'4 Alle prese con
un oggetto che è «senso, senso incarnato, senso ogni volta singolare», quindi a un
«questo irriducibile», non può tuttavia fare a meno di una formalizzazione teorica con
ottica scientifica, non può quindi fare a meno di postulare la non-singolarità dell'indi-
viduo singolare che essa incontra nella cura, e, di conseguenza, la riducibilità teorica
di questo singolare, la cui trasformazione attraverso il transfert si rivela però ogni vol-
ta un caso unico.95 La psicanalisi non è comunque una fenomenologia: non può esser-
lo, in ragione sia del suo statuto di attività essenzialmente pratica sia del suo oggetto
specifico: la realtà psichica. Anche quando cerca di esprimersi in formule simili a quelle
della scienza (i matèrni di Lacan), il discorso analitico non può quindi essere scienza
dell'inconscio: in tal caso, ignorerebbe il soggetto dell'inconscio. Anche se, d'altra
parte, esso introduce all' interrogazione filosofica, non può essere un sapere speculati-
vo: il soggetto non sarebbe più quello dell'inconscio.

Nella sua opera su Lacan et laphilosophie, A. Juranville mette bene in luce questa situazio-
ne aporetica del discorso analitico. A differenza del «discorso metafisico», che postula che vi
sia «una verità totale» e che pretende di darle una risposta piena, e, al polo opposto, del «discor-
so empirista», che postula che «non vi sia verità», il «discorso filosofico» afferma che c'è «verità
totale e verità parziale», mentre il «discorso analitico» dichiara: «C'è soltanto verità parziale»."
Ora, nel momento in cui non può enunciare che la verità parziale del significante, quest'ultimo
discorso si vede avviato in Lacan verso l'esigenza di una verità totale, che esso non può tuttavia
enunciare «senza distruggersi in quanto discorso che attiva la situazione della cura e fa testo».97
Senza quest'esigenza di verità totale (che non gli compete di enunciare), il discorso analitico
non potrebbe giustificare la finalità terapeutica della cura attraverso il lavoro di sublimazione.
Certo, un lavoro come questo non è mai finito. Da questo punto di vista, la nevrosi è «irriducibi-
le». Ma si può almeno arrivare a una «buona nevrosi»98 sostenendo (ecco la sublimazione) la
prova della «malinconia», cioè imparando il consentimento a «trovarsi solo nella prova del rea-
le». " Perché il reale, ossia «l'im-mondo», "" non è altro che ciò che mette il «mondo» in questio-
ne, ciò che lo «sfalda», la pura assenza (manque), il cui sintomo è la traccia lasciata in noi ma
continuamente mascherata dai significanti che ne occupano il vuoto. "" Dunque, «il reale è l'im-
possibile».'02 E la prova dell'Edipo non è soltanto quella dell'interdizione del godimento ma

94
C. CASTORIADIS, Les Carrefours du labyrinthe, op. cit., p. 58.
" I D . , ibid., p. 39.
96
A. JURANVILLE, Lacan et laphilosophie, PUF 1984, pp. 11-16.
" I D . , Ib., p. 438.
" J. L A C A N , Se'minaire XXIV (16-11-76), citato ibid., p. 409. Sulla «buona nevrosi», ibid., § 62, pp.
428-437.
" A. JURANVILLE, op. cit., p. 428.
' " " I D . , ibid, § 8, pp. 39^11.
"" ID., ibid., p. 85: «Ciò che fa del mondo reale un mondo vi esclude la presenza del reale come tale».
Pag. 192: «È il fantasma a sorreggere il mondo per il soggetto e mediante il soggetto, perché rende il mondo
"interessante" ritrovando nei suoi diversi elementi l'oggetto " a " » .
,02
ID., ib., p. 85.

57
quella della sua impossibilità. L'impossibile è quello della «Cosa», cioè dell'oggetto primordia-
le del desiderio (il cui posto è occupato dall'oggetto «a»).
Stando così le cose, non ci si può meravigliare che il discorso analitico punti conti-
nuamente verso il discorso filosofico. La prova lacaniana della malinconia, d'altron-
de, non è altro che «la presenza — scrive A. Juranville — della domanda sull'essere,
nella misura in cui questa permane senza poter trovare soluzione».103 Questo è infatti
il paradosso dell'interrogare filosofico: esso nasce da un desiderio di sapere, e di sape-
re totale; ma, contrariamente a certe affermazioni di Lacan che l'assimila al discorso
metafisico, cioè al «discorso del padrone»,104 questo desiderio diventa luogo possibile
di un interrogare filosofico soltanto se ogni sapere-risposta viene radicalmente messo
in dubbio e considerato impossibile: «La domanda vale per se stessa, non per il sapere
cui potrebbe condurre, ma per la prova del non-sapere che essa suppone»,105 prova
dovuta al fatto che l'essere messo in questione è «l'essere in quanto si trova anzitutto
in colui che lo mette in questione, che pone la domanda».106
Quando non sfocia in uno «psicologismo del profondo», la psicanalisi mostra con
la stessa sua storia di avere il mal di filosofia. Con i suoi Eros, Thanatos e altre Anan-
kè, Freud non aveva forse già aperto la provincia propriamente analitica su «regioni»
filosofiche? In ogni caso, è questo che Lacan mette in luce, quando rifiuta ogni ridu-
zione «medicalista» della psicanalisi e rilegge l'energetica freudiana inscrivendola «nel
campo della parola». I suoi grandi concetti di «Verità», di «Altro», di «Reale», di «As-
senza» (Manque), di «Cosa»... traboccano perciò costantemente verso la filosofia. Fa-
cendo sue delle domande filosofiche, il discorso analitico non deve trattarle filosofica-
mente ma secondo le procedure che gli sono proprie. In altre parole, esso ha il compi-
to di mostrarne il processo psichico concreto che dà loro corpo.

2. Il discorso analitico
come sintomo sociale principale del dispiegamento storico della domanda sull'Essere
L'interesse che noi abbiamo per il discorso analitico deriva appunto dal fatto che
esso dà corpo, incollandolo da capo a fondo al corpo che noi siamo, all'interrogare
filosofico quale l'abbiamo evocato sopra con Heidegger, senza tuttavia poterlo pren-
dere in conto come tale. Seguendo ancora A. Juranville, diciamo che, se l'uomo non
ha mai cessato di sapere «la presenza del non-pensiero nel più intimo del pensiero»,
questa verità gli è ormai piantata dentro in maniera radicale dal discorso analitico.107
L'imporsi di una verità come questa è caratteristica di una certa età della storia, cioè
del modo concreto in cui si realizza il dispiegamento storico della domanda dell'Esse-
re (Heidegger).
Tra le diverse epoche della storia, ognuna delle quali è segnata da un determinato modo esi-
stenziale di pensiero filosofico, l'epoca attuale è caratterizzata dalla possibilità di varcare la prova

ID., , ibid.,, p. 439s.


ID., , ibid.,, p. 365.
ID., , ibid.,, § 12, pp. 56-59.
ID., , ibid.,, p. 64.
ID., , ibid.,, p. 481.

58
della malinconia, cioè di «reggere la presenza della domanda dell'essere come domanda che ri-
mane senza poter essere risolta».108
Reggere così il mondo come «sfaldato», la verità come «parziale», il sapere come carente,
non è entrare nella fine della storia (lettura hegeliana) ma finire di entrare nella storia. Dato
che la storia prende senso dalla fuga dalla prova della malinconia, la «fine dell'ingresso del mondo
sociale nella storia» è anche la fine di questa fuga attraverso la cancellazione delle strutture
tradizionali. "" Lì dove la tradizione imponeva l'evidenza di un saper-essere che impediva il com-
piersi del lutto, la de-tradizionalizzazione attuale, con la sua «crisi sacrificale», obbliga ognuno
a denunciare l'alibi del «sacro» e ad assumere la prova del lutto assumendo la propria responsa-
bilità nella storia."0 In questa prospettiva, l'emergenza del discorso analitico, denunciando il
discorso «politico» del padrone e il discorso «clericale» dell'accademico (di devozione ai «grandi
maestri» del passato), costituisce il «sintomo sociale» dell'età presente."' Essa evidenzia che
è venuto il tempo in cui è possibile rinunciare a fuggire la prova della malinconia per accettare
questo spossessamento di cui il discorso filosofico ha prodotto da tempo il desiderio, ma che,
con mille astuzie, ha evitato di portare a compimento. Ma questa chance è al tempo stesso il
dramma della nostra epoca: la regressione nevrotica è tanto più agevole quanto più chiaramente
appaiono le difficoltà del lutto da assumere.
Sintomo di «ciò che non va» nel mondo storico, il discorso analitico è «ciò che fa maggior-
mente pensare». Esso è oggi ciò che fa problema e, in ultima istanza, «ciò a partire da cui si
interrogano tutti i discorsi»."2 Il discorso filosofico non può ignorare la «verità parziale» che
il discorso analitico proclama, così come quest'ultimo non può sostenersi — come abbiamo vi-
sto — senza una prospettiva di «verità totale» che solo la filosofia può enunciare come tale assu-
mendone simultaneamente la verità parziale che l'analisi gli intima. Così il discorso analitico,
con la sua verità parziale (quella che non può collocarsi dentro alcun sistema) è il «buon sinto-
mo» per la filosofia, cioè «il sintomo la cui verità non tappa il buco del reale». Ma non può
esserlo senza la filosofia, perché la sublimazione che il lavoro analitico comporta non può esse-
re pensata che dalla filosofia. Il conflitto tra i due discorsi è allora, a un tempo, «irriducibile»
e «condizione di verità» in ognuno dei due."3 Nel loro stesso scarto reciproco, psicanalisi e
filosofia raffigurano la contraddizione interna da cui emerge il soggetto umano.
In quanto discorso che fa testo a partire dall'essere-corpo dell'uomo, dai suoi si-
gnificanti incorporati, dai suoi logoi embioi, il discorso analitico imprime nella corpo-
ralità concreta l'interrogazione filosofica dell'uomo sempre unterwegs, sempre in cam-
mino verso la parola che lo precede. Contro tutte le scappatoie metafisiche, esso an-
nuncia che la verità si presenta a ognuno soltanto come la sua verità, e dunque me-
diante un costante lavoro di passaggio attraverso il lutto, la «castrazione», l'assenza.
Ma il pensiero filosofico viene a richiamare all'analisi che essa sarebbe un'impostura
se ognuno, cercando di fare la sua verità, non rispondesse con ciò stesso alla verità
che sempre lo sollecita.

"" ID. , ibid.,. p. 439.


109
ID. , ibid.,, p. 441.
10
ID.,, ibid., § 67, pp. 465-469.
" ID.,, ibid., § 68, pp. 469^74.
12
ID.,, ibid., p. 471.
13
ID.., ibid, p. 484.

59
IV. VERSO IL SACRAMENTO

Questa è dunque la nostra «posizione». L'itinerario di pensiero teologico del Dio


crocifìsso ci mantiene in un atteggiamento di «stoltezza» analogo all'itinerario di pen-
siero filosofico dell'Essere, sebbene non sia possibile passare dall'uno all'altro. La
teoria lacaniana, tentando l'elucidazione aporetica del suo «impossibile» oggetto, for-
nisce a questo itinerario di pensiero una consistenza antropologica che ce lo ficca in
corpo. La «stoltezza» di un pensiero come questo non è, in definitiva, la «stoltezza»
di un lutto da fare che passa attraverso il nostro corpo? Stoltezza, perché si tratta di
fare il lutto di ciò che tutto in noi si accanisce a farci credere, cioè che potremmo
sottrarci alla mediazione del simbolico, situarci fuori discorso, imparare il reale con
immediatezza passando sopra la tradizione culturale e la storia del nostro desiderio;
in una parola: che potremmo prendere i nostri «è scontato» come «naturali» per la real-
tà. Ora, sono proprio queste «evidenze» così ragionevoli a ingannarci costantemente.
Sono state queste evidenze a trascinare, come fatalmente, il pensiero a rappresentarsi
metafisicamente l'Essere come una «Presenza che consiste in se stessa», così come so-
no state loro a sollecitare il desiderio di attingere la «Cosa» tramite i suoi molteplici
sostituti. Sono queste evidenze che bisogna prendere alle spalle; cosa che esige un la-
voro costante, dal momento che esse appartengono alla prima china della ragione co-
me pure alla costituzione stessa del desiderio.
L'«itinerario di parola» che anche il teologo cristiano intraprende di fronte al Dio
crocifisso è dunque un cammino di genesi permanente, un cammino che, lungi dall'es-
sere esterno alla sua condizione di testimone, attraversa la stessa sua persona. Esso
lo obbliga così a dare a quel Gesù Cristo a cui si appella un corpo di umanità: corpo
di figli e di fratelli.
Ora, come questo «corpo di Dio» nell'umanità ha avuto, nel solco del popolo elet-
to, una positività storica in Gesù di Nazaret, c'è una positività — non meno scandalosa
sotto certi punti di vista — nella Chiesa. Positività altrettanto irriducibile di quella del
corpo a un semplice ente-sussistente; dunque, positività, come quella del corpo, sem-
pre aperta dalla parola che la abita; e comunque positività ineludibile, determinata con-
cretamente come istituzione.
Di quest'istituzione, i sacramenti sono la figura eminente. Come non inciampare
nella loro consistenza scandalosamente empirica di luogo simbolico in cui Dio prende
corpo nella nostra umanità? Quale sfida! Non è, questa, «stoltezza»? Stoltezza così dif-
ficile da sostenere, che i credenti sono continuamente tentati di addomesticarla in sag-
gezza umana: i sacramenti diventano allora il pezzo forte in cui l'istituzione dispiega
serenamente, e quindi manipola perversamente (d'altronde, in buona fede, per abitu-
dine) gli emblemi della propria legittimità e del proprio dominio sociale. Stoltezza co-
munque, che teologicamente dà da pensare...
Eccoci dunque, con i sacramenti, alle prese con la mediazione: la mediazione tutta
«sensibile» di un'istituzione, di una formula, di un gesto, di un materiale, che fungono
da luogo (escatologico) dell'avvento di Dio. Eccoci in ultima analisi rinviati al corpo
come al luogo di inscrizione di questo Dio... E questo tema che annuncia la riflessione
dei due capitoli che seguono: la mediazione (cap. Ili); il simbolo e il corpo (cap. IV).

60
Capitolo Terzo

LA MEDIAZIONE

I. LA MEDIAZIONE INELUDIBILE DELL'ORDINE SIMBOLICO

1. L'uomo esiste solo nella parola


«La cosa più immediata è l'ultima che si possa esprimere», al punto che «è caratte-
ristica dell'uomo iniziare dalla fine». ' Per imparare a cominciare dall'inizio è necessa-
ria una conversione. Cominciare dall'inizio significa rimettere in questione quanto ci
sembra sempre doversi imporre «in definitiva», cioè la nostra evidenza prima di con-
tatto immediato con il «reale» (il mondo, gli altri, noi stessi).
Infatti, contrariamente a questo primo «è ovvio», «quello che ci sembra più natura-
le non è forse che il più abituale, di una lunga abitudine che ha dimenticato l'inabituale
da cui è scaturita».2 Il reale non ci è mai presente se non in forma mediata, cioè co-
struita attraverso la rete simbolica della cultura che ci plasma. Questo ordine simboli-
co designa il sistema di rapporti tra i diversi elementi e i diversi livelli (economico,
sociale, politico, ideologico - etica, filosofia, religione...) di una cultura; sistema che
forma un tutto coerente tale da permettere al gruppo sociale e agli individui di orien-
tarsi nello spazio, di ritrovarsi nel tempo, di situarsi nel mondo in maniera significan-
te; in una parola: di situarsi in un mondo che ha «un certo senso», anche se, come
dice Lévi-Strauss, resta sempre un residuo incancellabile di significanti ondeggianti
cui non si riesce a dare dei significati adeguati.3 Dalla sensazione alla percezione c'è
un margine: la pietra ricevuta violentemente in testa provoca una sensazione di dolore
sia nell'animale che nell'uomo; ma la percezione della pietra è di un altro ordine: a
essere percepita dall'uomo non è soltanto la realtà fisica che colpisce i sensi; lo è an-
che lo «strato semiologico» in cui essa è presa dalla cultura. Perciò «quello che la per-
cezione mi offre non è l'albero che ho davanti a me ma una certa visione che l'albero
provoca in me e che è la mia risposta all'appello dell'albero».4 Ogni percezione umana
«proietta nel mondo la firma di una civiltà».5 L'acqua che percepisco non è mai riduci-
bile a una pura cosa «naturale», a meno che ne faccia un'analisi chimica; essa è inevi-

1
E. ORTIGUES, Le Discours et le symbole, Aubier-Montaigne 1962, p. 13s.
2
M. HEIDEGGER, Chemins..., p. 22.
3
C. LÉVI-STRAUSS, «Introduction à l'oeuvre de M. Mauss», in M. MAUSS, Sociologie et anthropolo-
gie, PUF 1973, p. XLIX (trad. ital.: Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965).
4
B. PARAIN, Recherches sur la nature et lafonction du langage, Gallimard 1942, p. 61.
s
M . MERLEAU-PONTY, La Prose du monde, Gallimard 1969, p. 60, 97.

61
tabilmente appresa, in un certo grado, come significante della mia cultura e del mio
desiderio. Del paesaggio che contemplo ritengo soltanto alcuni tratti: ciò che di esso
echeggia in me è relativo alle metamorfosi del mio desiderio e ai valori del sistema
socio-culturale cui appartengo, valori che ho talmente interiorizzati fin dalla fanciul-
lezza che mi appaiono come del tutto «naturali». L'oggetto percepito è sempre già co-
struito. E questo vale in tutti gli ambiti, dalla sessualità certamente (la sessualità uma-
na è ben altro che la semplice genitalità biologica) fino alla cucina: mangiare non è
soltanto assorbire una certa quantità di calorie, è assimilare alimenti socialmente isti-
tuiti, al punto che il pasto è un luogo eminente di «incontro»...
[Così], l'attività del linguaggio non viene mai a confronto (salvo che nelle scienze della natu-
ra, e anche qui la cosa non è scontata) con un universo fisico che le sarebbe eterogeneo ma
con un mondo sempre già colmato di significazione, sempre già ordinato, sempre già socialmen-
te sistemato. Certo, la realtà materiale ha un'esistenza indipendente dalla coscienza che ne pren-
dono i soggetti; ma non è con quest'universo fisico in quanto tale che il bambino viene anzitutto
a confronto; è in un mondo abitato da altri che egli si apre una strada... Lo stesso vale per gli
adulti: vestirsi, mangiare, abitare, spostarsi, lavorare, soffrire: tutto questo ci immerge costan-
temente in un mondo di riferimenti simbolici.6
Nessun soggetto emerge se non assoggettandosi a questa legge, a questo patto cul-
turale che è di ordine simbolico. Fuori di qui non c'è che regressione immaginaria
e nevrosi dovuta a polarizzazione su dettagli o frammenti del mondo che, desimboliz-
zati cioè strappati alla rete simbolica che dà loro senso, diventano in-significanti. Per-
duta la bussola, il soggetto stesso è perduto. Il soggetto si costruisce dunque nell'ordi-
ne simbolico; ma lo fa costruendo il mondo, cosa che gli è possibile nella misura in
cui fin dalla nascita eredita un mondo già culturalmente abitato e socialmente sistema-
to, insomma già parlato. L'ordine simbolico appare così come un gioco di costruzio-
ne. Un po' come quei «meccano» e quei «lego» con cui i bambini imparano a costruire
il loro rapporto con la realtà edificando case o macchine a pulegge, il linguaggio è
la mediazione in cui il soggetto si costruisce costruendo il reale come «mondo», il suo
«mondo» familiare in cui può abitare. O ancora, lo si può paragonare a quelle lenti
a contatto che il portatore non può vedere perché aderiscono ai suoi occhi, ma attra-
verso le quali è filtrata tutta la sua visione della realtà. La realtà come tale è dunque,
qui per definizione, inattingibile. Ciò che percepiamo è ciò che di essa è costruito dal-
la nostra cultura e dal nostro desiderio, ciò che di essa viene filtrato attraverso le lenti
del linguaggio. Ma la nostra percezione è talmente familiarizzata con queste lenti, e
queste sono talmente aderenti alla nostra percezione, che, per un effetto di «collage»
diventato quasi riflesso, prendiamo per naturale questo fatto culturale e per realtà i
nostri desideri.
Ciò che vale dell'ordine simbolico vale evidentemente, nello stesso tempo e allo
stesso modo, del linguaggio. Soggetto e linguaggio crescono di pari passo.
Non attingiamo mai l'uomo separato dal linguaggio, e non lo vediamo mai inventare il lin-
guaggio [...]. Quello che troviamo nel mondo è un uomo parlante, un uomo che parla a un altro
uomo, e il linguaggio insegna la definizione stessa dell'uomo.'
6
F. FLAHAULT, La Parole intermédiaire, Seuil 1978, p. 84.
' E. BENVENISTE, Problèmes de linguistique generale, t. 1, Gallimard 1966, p. 259 (trad. ital.: Proble-
mi di linguistica generale, Il Saggiatore, Milano 1971).

62
Come il corpo, anche il linguaggio 8 è non uno strumento ma una mediazione: è
nel linguaggio che l'uomo adviene come soggetto. L'uomo non gli preesiste ma si ela-
bora in seno al linguaggio. Non lo possiede come un «attributo», fosse pure di prima
importanza, ma ne è posseduto. Il linguaggio non viene dunque a tradurre a cose fatte
un'esperienza umana anteriore; esso è costitutivo di ogni esperienza in quanto espe-
rienza umana, cioè significante.

E questa la ragione per cui «nessuno tace — come scrive Brice Parain —. Ecco il nostro
primo dato. È da qui che bisogna partire». Ora, «le nostre parole creano esseri, non s'acconten-
tano di manifestare sensazioni». Quando il contadino, indaffarato a estrarre le sue patate, escla-
ma: «Toh, un verme bianco!», «questa sua esclamazione non ha lo scopo di constatare l'esisten-
za di un verme bianco... Egli non dubita dell'esistenza di tutte le altre cose che lo circondano,
e si meraviglierebbe di sentirvi fare una distinzione tra il verme bianco di cui parla e il sole
di cui non parla ma che gli fa sbottonare la camicia o togliersi il giubbotto». La sua parola non
gli esprime una «constatazione d'esistenza» ma «una minaccia»: quelle migliaia di vermi bianchi
che potrebbero distruggere il suo raccolto. La sua esclamazione mette dunque in movimento
tutto il suo mondo culturale. D'altronde, essa si sarebbe potuta ridurre a un «toh!» o a un sem-
plice sospiro o a un gesto meccanico non «pensato» di rigetto del verme bianco: anche in questi
casi il contadino sarebbe stato un soggetto parlato/parlante, così come lo è quando constata che
le patate non sono troppo guaste, quando sente la voce delle persone che lavorano in giardino
vicino a lui, quando si asciuga la fronte, quando si raddrizza per calmare un leggero mal di
spalle o quando si sente invecchiare... Il linguaggio è sempre presente, affermando ben altro
che una semplice constatazione d'esistenza, quel ben altro «che è forse l'essenziale. La luce,
la tristezza, il vento esisterebbero forse senza le parole del nostro linguaggio? Al loro posto
non vi sarebbero forse soltanto vibrazioni, urto di atomi, momenti aggrovigliati della mia dura-
ta, nuvole che fuggono sotto il cielo, alberi che gemono, un soffio d'aria, che scompaiono appe-
na apparsi, o che non appaiono nemmeno?».9 È questa anche la profonda convinzione del secon-
do Heidegger: «Quando andiamo alla fontana, quando attraversiamo il bosco, noi stiamo attra-
versando sempre il nome "fontana", il nome "bosco", anche se non enunciamo queste parole,
anche se non pensiamo alla lingua».10

2. Il linguaggio, espressione operante

a) La parola creatrice di «mondo»


Abbiamo già accennato al commento heideggeriano dei versi di Stefan Georg:
«Così ho imparato, triste, la rinuncia:
non c'è cosa lì dove manca il nome».

«Solo la parola conferisce l'essere alla cosa. Ma come una semplice parola è in grado di
compiere ciò: portare qualcosa all'essere? Succede esattamente il contrario. Prendete lo sput-
nik. Questa cosa — mettiamo che sia tale — è indipendentemente dal suo nome, che le è stato

8
Per «linguaggio» intendiamo qui anzitutto la messa in opera concreta della lingua come tale, ma anche
quei «quasi-linguaggi» che sono: da una parte, il «sopra-linguaggio» costituito dal gesto, dalla mimica e da
ogni opera artistica...; dall'altra, l'«infra-linguaggio» delle pulsioni arcaiche dell'inconscio, nella misura
in cui queste sono umane soltanto quando funzionano «senza tregua... verso e dentro il linguaggio», senza
di che non sarebbero altro che un riflesso istintuale animale o un godimento psicotico nato-morto.
9
B. PARAIN, op. cit., cap. 1 e 2 (cit. p. 14, 26, 28).
10
M. HEIDEGGER, «Pourquoi des poètes?», in Chemins..., p. 373.

63
dato dopo [...]. Eppure anche questa "cosa", ciò che essa è, il modo in cui è, non lo è forse
in nome del proprio nome? Come no? La fretta, il movimento di accelerazione... — attraverso
la tecnica — delle velocità, dentro il cui "spazio" soltanto le macchine e gli apparecchi moderni
possono essere quello che sono: se questa tecnica e accelerazione non avesse parlato agli uomini
al punto da conquistarli e da metterli sotto la propria ingiunzione; se questa ingiunzione ad af-
frettarsi non avesse sfidato l'uomo disponendo di lui; se la parola di questa disposizione non
avesse parlato — allora non ci sarebbero nemmeno sputnik: nessuna cosa è là dove manca la
parola».

Ma accettare questo significa accettare di non avere più presa sulle cose, significa
riconoscere che la parola ci precede, che noi non possiamo padroneggiarla. Il che esi-
ge una «rinuncia», un vero lutto di quel desiderio di onnipotenza che ci fa credere
che potremmo regnare su una realtà che teniamo in mano: «Rinunciando, il poeta la-
scia cadere l'opinione secondo cui qualcosa sia già, anche se la parola manca ancora»;
e con questo egli prova — perché è davvero una prova quella che egli attraversa —
che «soltanto la parola fa apparire e così venire in presenza una cosa per quello che
essa è»." Dire è dunque lasciarsi «interdire la pretesa» di dominare le cose con «la
potenza rappresentativa della parola», per «lasciar venire in presenza — attraverso
la parola — la cosa come cosa».12
11 linguaggio è creatore. Creatore di «cose». Pensiero assurdo, questo, per la meta-
fisica tradizionale, che vi vede soltanto un attributo posseduto dall'uomo e «uno stru-
mento per dare un nome a qualcosa che già esiste, che è già rappresentata» o un sem-
plice «mezzo per esibire ciò che si presenta da solo»! Ora, è appunto a questo che biso-
gna rinunciare. Perché «è invece la parola, ed essa sola, che concede il farsi presente,
cioè l'essere, dove qualcosa può fare la sua comparsa come ente».13 Il compito del
poeta è di manifestare l'essenza stessa, sempre misconosciuta, del linguaggio: essere
«vocazione», appello rivolto agli enti perché vengano in presenza pur restando nella
loro assenza, creazione dell'universo come «mondo». Questo è Vagire, eminentemen-
te operativo, il più originario dell'uomo: nella suapoièsis — e ogni linguaggio, non
dimentichiamo, è di essenza poietica, ogni linguaggio è un «poema dimenticato» —
esso fa morire gli enti nella loro semplice fattualità di realtà distesa sotto i nostri occhi,
per farli advenire come significanti dell'uomo e per l'uomo. È nel linguaggio che il
«mondo» ci diventa parlante: ci parla, nel duplice senso — transitivo e intransitivo —
dell'espressione. «La realtà — scrive da parte sua il linguista — è prodotta di nuovo
con la mediazione del linguaggio», al punto che «la "forma" del pensiero è configura-
ta dalla struttura della lingua».14

b) Il concetto di «espressione»
Heidegger se l'è presa con lo pseudo-realismo del senso comune che presuppone
sempre un contenuto sostanziale «dietro» l'espressione che ne è l'accidente: «Prima
di tutto e soprattutto, parlare è esprimersi. Nulla di più corrente della rappresentazio-
ne della parola come esteriorizzazione. Essa presuppone fin dall'inizio l'idea di un

" ID., Acheminement..., p. 148s e 152.


12
ID., ibid., p. 218.
13
ID., ibid., p. 212.
14
E. BENVENISTE, op. cit., p. 25.

64
interno che si esteriorizza. Fare della parola un'esteriorizzazione è appunto restare al-
l'esterno, tanto più che si spiega l'esteriorizzazione rinviando a un ambito di intimità».
Una rappresentazione del genere misconosce totalmente la costituzione esistenziale
dell'esser-ci, che «si esprime... non perché, in quanto "interiorità", sarebbe in prima
istanza separato da ciò che gli sarebbe esterno, ma perché, in quanto essere-al-mondo,
esso è da sempre "fuori di sé" per il fatto stesso di comprendere».15 Nello stesso sen-
so Lévinas: «Il linguaggio non esteriorizza una rappresentazione preesistente in me,
ma mette in comune un mondo fino allora mio»: è «offerta di mondo».16
Esprimersi non è dare un rivestimento esterno a un reale umano che già esiste al-
l'interno; soprattutto, non lo è nel senso romantico e commovente del «bisogno di espri-
mersi», così frequente oggi... Perché non e 'è reale umano, per quanto interiore o inti-
mo, che nella mediazione del linguaggio o del quasi-linguaggio che gli dà corpo espri-
mendolo. L'espressione, scrive in tal senso E. Ortigues, è «un atto che è per se stesso
il proprio risultato. Infatti non produce nulla all'infuori della propria manifestazione.
Si produce al di fuori, come di un attore si dice che si produce in pubblico, sulla sce-
na». Che essa sia verbale, gestuale o fisiognomica, l'espressione «designa un atto di
presenza che si manifesta per sé come un passaggio sur place dell'interno nell'esterio-
rità e dell'esterno nell'interiorità», ma in maniera tale che «non basta dire che l'espres-
sione è l'esterno, dando per scontata da qualche parte un'interiorità», dato che i due
momenti di interiorità e di esteriorità di questo processo di differenziazione «passano
l'uno nell'altro: esteriorizzarsi consiste appunto nel differenziarsi interiormente». Il
che significa che ogni «impressione» non può prendere forma (forma umana, signifi-
cante) che nell'espressione che la porta a compimento, e che ogni pensiero «si forma
esprimendosi».17

Questi aspetti del linguaggio non potevano non trovare eco nel progetto fenomenologico di
Merleau-Ponty: «Cercando di descrivere il fenomeno della parola e l'atto espresso di significa-
zione, avremo la possibilità di superare definitivamente la dicotomia classica di soggetto e og-
getto».18 Infatti il legame tra coscienza e linguaggio è intrinseco. La parola non è «un semplice
mezzo di fissaggio, o ancora l'involucro e il rivestimento del pensiero». Parola e pensiero sono
invece cosi ben «avvolti l'una nell'altro» che «l'operazione espressiva realizza o attua la signifi-
cazione, e non si limita affatto a tradurla». Insomma «non c'è pensiero che esista per se stesso
prima dell'espressione»."
Con una preoccupazione diversa, teologica stavolta, contro le derive magiche di
riti sacramentali concepiti come strumenti con cui il soggetto potrebbe manipolare l'on-
nipotenza divina, anche A. Vergote se la prende con il misconoscimento del processo
dell'espressione. Misconoscimento dovuto al fatto che si confonde l'atto di espressio-
ne nel suo momento di ad-vento con il doppiaggio che uno sguardo retrospettivo ne
percepisce in seconda istanza: doppiaggio tra «un'intenzione segreta e una manifesta-
zione pubblica». Si pensa allora inevitabilmente in termini di causa ed effetto. Ma que-

15
M. HEIDEGGER, Acheminement..., p. 16.
" E. LÉVINAS, Totalité ed infini, op. cit., p. 149.
17
E. ORTIGUES, op. cit., cap. 2: «L'expression», p. 27s.
18
M. MERLEAU-PONTY, Phénoménologie de la perception, Gallimard, coli. Tel, 1945, p. 203 (trad.
ital.: Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965).
"In., ibid., pp. 212-214.

65
sto schema non funziona proprio nel campo del linguaggio. «Infatti l'atto di espressio-
ne autentica non ha né una finalità al di fuori di sé né un movente in se stesso... //
segno espressivo è la carne stessa dell'intenzione che nasce prendendo forma signifi-
cante». L'espressione amorosa, per esempio, è «pura manifestazione. Espressione e
amore non sono l'unità fortuita del dentro e del fuori. In altre parole: in quanto mani-
festazione, l'espressione realizza ciò che significa: l'amore inventa l'espressione e questa
crea l'amore».20 Non c'è amore se non nell'espressione che se ne dà, che ci si dà,
o meglio che «esso» ci dà: dalle pulsioni più arcaiche — se è vero che, a differenza
di un semplice istinto animale, esse appartengono all'inconscio e che «il linguaggio
è la condizione dell'inconscio»21 — fino al rapporto fisico, passando per tutta la gam-
ma dei sorrisi, dei baci e delle parole. In breve, l'espressione (quasi) linguistica è la
mediazione obbligata di ogni realtà umana: «Ogni situazione dell'uomo nel mondo o
ogni presenza comune a più uomini in un qualunque orizzonte di universo è una realtà
che implica il linguaggio nella sua costituzione, nel suo advenire, nella sua realizza-
zione [...]. Ogni realtà umana ha come catalizzatore il linguaggio».22

3. Il processo di ad-vento del soggetto nel linguaggio


Ma da dove viene questa potenza creatrice del linguaggio? Evidentemente non da
una forza misterica che gli sarebbe immanente, una specie di mana quasi divina. Se
Heidegger vi scorge la manifestazione, in chiaroscuro, dell'interpellazione dell'esi-
stenza umana da parte dell'Essere sempre legato al Logos, linguistica e psicanalisi ten-
tano di mostrarcene il processo concreto. L'interesse della digressione, per quanto ra-
pida, che ci proponiamo di fare attraverso queste due discipline deriva dal fatto che
esse ci permettono di illustrare in maniera concreta due punti che saranno importanti
per la nostra riflessione sul rapporto tra Dio e l'uomo in teologia sacramentaria (e in
cristologia): come comprendere la comunicazione tra Dio e l'uomo pur preservando
la loro radicale differenza (schema della differenza/alterità)? Come comprendere che
c'è vita umana soltanto attraversata dalla morte (schema iniziatico)?

a) Un punto di vista linguistico


— La struttura triadica della persona
Secondo E. Benvéniste, i pronomi personali (o le flessioni che li sostituiscono) formano una
classe di parole che «sfuggono allo statuto di tutti gli altri segni del linguaggio». Infatti essi non
rimandano «né a un concetto» (non c'è un concetto «io» che inglobi tutti gli «io» che continua-
mente si enunciano), «né a un individuo» (uno stesso termine non può identificare qualcuno nel-
la sua particolarità e, al tempo stesso, riferirsi indifferentemente a un individuo qualsiasi). Più
precisamente, l'IO linguistico, come scrive Lacan, «designa il soggetto dell'enunciazione, [...]
ma non lo significa».23 IO può dunque rimandare soltanto a una realtà «esclusivamente linguisti-
ca», cioè a «l'atto del discorso individuale in cui è pronunciato» e di cui «designa il locutore

20
A. VERGOTE, Interprétation du langage relìgieux, Seuil 1974, p. 207s.
21
J. LACAN, conferenza del dicembre 1969, citata da A. LEMAIRE, /. Lacan, P. Mardage, Bruxelles
1977, p. 190 e 365.
22
E. ORTIGUES, op. cit., p. 202s.
23
J. LACAN, Écrits, op. cit., p. 800 (trad. ital.: Scritti, Einaudi, Torino 1974, 2 w.).

66
nell'attualità del suo enunciato». Ed è proprio nella mediazione fondamentale del «soggetto» lin-
guistico che la soggettività esistenziale ha la possibilità di emergere.
Ora, ogni discorso si produce «alla dipendenza dell'IO che vi si enuncia».24 Il che fa sì, come
dice Ortigues facendo eco a Benvéniste, che «lo è un caso unico». Infatti «anche là dove il ter-
mine IO non è pronunciato, il riferimento alla persona che parla è una condizione permanente
di significazione per l'integralità del discorso, dato che nulla ha senso se non in quanto concerne
l'uomo consapevole della propria presenza al mondo in quanto soggetto parlante e agente».25
Dall'altra parte — e qui appare lo scarto che vogliamo evidenziare dal punto di vista lingui-
stico — l'IO che è la condizione di ogni discorso ha simultaneamente due «valenze»: come «con-
tenuto dell'enunciato» è soggetto del verbo; come «autore dell'enunciazione» è soggetto del di-
scorso. D'altronde, questo «IO non è concepibile senza il TU», il corrispettivo dell'IO, così che
«la categoria della persona trova la sua condizione di integrità nella reversibilità del rapporto»
tra l'IO e il TU dell'istanza del discorso.26
A sua volta, questo rapporto linguistico IO-TU non è possibile se non nella mediazione di
un terzo. «Condizione di integrità» della categoria della persona, la reversibilità del rapporto
IO-TU si degraderebbe in relazione duale di tipo speculare se non si dispiegasse sotto l'istanza
terza del mondo sociale e cosmico. Se parlare è dir(si) a qualcuno, questo atto di enunciazione
è possibile soltanto mediante un enunciato in cui si dice qualcosa di qualcosa, e necessariamente
sotto la «categoria dell'oggetto», cioè della non-persona. Ora, è questo lo statuto del LUI (o
ESSO): fare da supporto linguistico della «non-persona». Questo LUI-ESSO impersonale è la
mediazione linguistica che permette all'IO (nella sua relazione al TU) di aprirsi all'universale;
esso situa i soggetti sotto l'istanza dell'Altro di cui non ci si può appropriare (cf infra), del Neu-
tro (ne-uter, «né l'uno né l'altro») che rende possibile ogni scambio simbolico, cioè ogni ad-
vento dell'uno nel suo rapporto all'altro. Se non fosse così innestato dal LUI-ESSO sull'altro,
l'IO linguistico non potrebbe porsi, e di conseguenza il soggetto esistenziale non potrebbe nep-
pure esistere.27 Ciò significa che questo IO non è possibile se non come aperto, sbarrato dall'in-
terno; il che gli conferisce il suo statuto unico di valenza duplice: come rappresentato, nell'e-
nunciato; e come presente, nell'atto di enunciazione.

— Lo schema della differenza/alterità nell'ordine simbolico


L'analisi che precede è gravida di conseguenze, perché ci obbliga a rivedere a fon-
do la rappresentazione tradizionale della differenza. Infatti, in quanto corrispettivo re-
versibile dell'IO, il TU linguistico ha uno statuto che può sembrare paradossale: come
tale esso occupa, sull'asse di contraddizione, il polo opposto all'IO, da cui è dunque
il più differente; e sempre come tale, è il più simile all'IO poiché designa l'interlocuto-
re in quanto capace di riprendere a sua volta, e a nome proprio, lo stesso IO linguistico
del locutore. Questa posizione paradossale è resa possibile dall'istanza terza del LUI-
ESSO, l'Altro sociale e universale, istanza sotto la quale si trovano simultaneamente
l'IO e il TU, e che permette loro, parlati dalla stessa cultura, di «capirsi».
La «differenza» non può più allora essere rappresentata secondo lo schema (me-
tafisico della distanza-lontananza. Senza dubbio è impossibile disfarsi completamen-
te di questo schema spaziale, poiché esso è apriori — secondo Kant — e appartiene
a quella simbolica primaria ineludibile che ci attraversa il corpo. Ma pensare è proprio

24
E. BENVÉNISTE, op. cit., p. 261s.
25
E. ORTIGUES, op. cit., p. 152s.
26
ID., ib., p. 153.
27
ID., ib., p. 153s; E. BENVÉNISTE, op. cit., p. 265.

67
imparare a disfarsi delle evidenze «naturali». Ora, secondo la rappresentazione tradi-
zionale, la differenza si afferma tanto meglio quanto più i due termini sono lontani
l'uno dall'altro, al punto che l'uno può definirsi perché l'altro non è. Conosciamo la
portata di questa «evidenza» in ciò che riguarda il rapporto tra l'uomo e Dio... Allora
la differenza non può che assumere una valenza negativa: come la genesis del Filebo
di Platone con cui è solidale, essa non può venire considerata luogo della verità; può
invece essere rappresentata soltanto come ostacolo alla verità, sbarramento contro quella
trasparenza ideale di sé a sé, agli altri e al mondo, che bisognerebbe tentare di ricon-
quistare, espressione di una finitudine pensata come conseguenza di una caduta pri-
mordiale o di un peccato originale. Automaticamente, l'alterità non può essere attri-
buita che a una tragica alterazione dell'io così decaduto.
Orbene, se quanto c'è di più differente (IO-TU come interlocutori radicalmente
altri) è pure quanto c'è di più simile (TU è il corrispettivo reversibile dell'IO), la diffe-
renza antropologica va pensata non come allontanamento che taglia o attenua la comu-
nicazione ma, al contrario, come alterità che la rende possibile. È questo il contrasse-
gno singolare di ogni differenza umana: che nulla è più simile all'IO del TU nella stes-
sa sua differenza; che, come soggetto, l'«uno» non è possibile che attraverso l'«altro»
riconosciuto appunto come «il mio altro simile». La differenza originaria da cui emer-
ge ogni soggetto non è più allora percepita, con risentimento, come un ostacolo alla
verità, inevitabile senza dubbio ma relativamente riducibile, bensì come il luogo stes-
so della attuazione dì ogni verità.

b) Un punto di vista psicanalitico


— Il soggetto sfaldato
Il soggetto ad-viene soltanto in questa sfaldatura dovuta alla struttura triadica del
soggetto linguistico, al di fuori del quale non potrebbe emergere: ecco quanto ci mo-
stra, per altra via, anche la psicanalisi freudo-lacaniana.
Secondo quello che Lacan ha chiamato lo «stadio dello specchio», nel bambino di 6-8 mesi
che comincia a guardar-«si» nello specchio si verifica una prima identificazione, capitale per
la sua strutturazione di soggetto. L'infans abbandona così la propria rappresentazione di corpo
frammentato. Se questa identificazione primaria all'«unità ideale» percepita nello specchio ha
dunque qualcosa di «salutare», essa rimane purtuttavia alienante: è l'epoca in cui «il bambino
che colpisce dice di essere stato colpito, quello che vede cadere piange»; lo schiavo si identifica
«al despota, l'attore allo spettatore, il sedotto al seduttore».28 Se si fermasse a questa captazione
da parte del suo doppio speculare, il bambino non potrebbe mai accedere alla sua condizione
di soggetto: come Narciso, sarebbe destinato ad affogare nell'acqua-specchio in cui vuol rag-
giungere la propria immagine.
La situazione ha come unica via d'uscita che egli possa veder.» finalmente nello specchio
come soggetto, cioè come formante un'unità simbolica di un ordine diverso da quella del suo
corpo speculare. Ora, perché possa vedersi così, bisogna che egli si senta nominato da un altro,
rappresentato da un nome, il suo nome. È da questa identificazione con il proprio nome o con
il pronome IO che egli emerge come soggetto. È da questa capacità simbolica a riconoscersi
in suoi luogotenenti, che egli attinge la possibilità di accedere alla soggettività. Questi signifi-
canti (ma anche, automaticamente, tutti gli altri significanti possibili nell'ordine simbolico, poiché

21
J. LACAN, Écrìts, op. cit., p. 113.

68
il significante è di natura sua diacritico, cioè non può «fare senso» che mediante il suo rapporto
con gli altri significanti) svolgono una duplice paradossale funzione: costituiscono la mediazio-
ne di ad-vento del soggetto, nella misura in cui questo vi è rappresentato; ma anche, e al tempo
stesso, costituiscono la mediazione di esclusione del soggetto, nella misura in cui questo vi è
soltanto rappresentato. È quindi attraverso la rottura con l'immediato speculare che inizia a ve-
rificarsi l'accesso alla soggettività: «Il soggetto mediatizzate dal linguaggio è irrimediabilmente
diviso, perché escluso dalla catena significante nel momento stesso in cui vi è "rappresenta-
to"».29 Il linguaggio spezza per sempre la coincidenza immaginaria tra sé e se stessi; mette il
reale a distanza. Ma è proprio questa distanza, questa perdita, questo «manque-à-ètre», che sal-
va il soggetto. È la Legge — legge del linguaggio, legge della cultura — che fonda il soggetto
dividendolo: «Il soggetto passa dalla sua divisione (partition) alla sua parturizione».30
Non c'è accesso al simbolico senza questa primordiale divisione operata dalla parola; divi-
sione in cui il soggetto è diventato capace di riconoscersi in ciò che lo rappresenta. Questa Spal-
tung ormai «si verifica a proposito di ogni intervento del significante: soprattutto dal soggetto
dell'enunciazione al soggetto dell'enunciato».51 Ora, questa «spaccatura» (fente) da cui nasce
e dove si mantiene il soggetto delinea pure, accentuandosi in «nuova spaccatura» (refente), la
dialettica delle sue alienazioni: lo scarto tra l'(Io) dell'enunciazione e l'«Io» dell'enunciato indu-
ce il primo (Io) a mimetizzarsi constantemente (perciò lo abbiamo messo tra parentesi) nell'«Io»
dei suoi discorsi, a cristallizzarsi nei suoi ruoli sociali, a teatralizzarsi e a mascherare in tal mo-
do la propria perdita; insomma, a confondersi con l'immagine menzognera del suo io cosciente.
La situazione dell'uomo è dunque contraddittoria. Da una parte, ciò che lo divide,
vale a dire il mondo dei significanti — anzitutto il suo nome, ma anche tutto ciò che
pertiene al linguaggio e al simbolico — è anche ciò che lo fa uomo. Ma dall'altra,
ciò che lo divide è pure il luogo della sua alienazione. L'immaginario è l'istanza psi-
chica che tende a negare la perdita, a cancellare la differenza, a colmare la distanza
nei confronti del reale. Istanza ingannevole, dunque, ma che tuttavia — bisogna sotto-
linearlo — persino nella sua dimensione d'inganno svolge una funzione positiva nel
processo di strutturazione del soggetto (lo stadio dello specchio) e che costituisce uno
sprone indispensabile a ogni «progresso».
La verità del soggetto, come si vede, dipende dal suo consentimento psichico alla
perdita (manque) che lo costituisce e che si apre in lui attraverso il linguaggio. È que-
sta la legge, legge della differenza (difference), imposta dall'accesso al significante.
Questa legge cammina di pari passo con quella della castrazione simbolica, cioè della
differenza (differance) in cui il bambino si vede obbligato dal padre «castratore» (rap-
presentante simbolico della cultura) a differire l'attesa immediata dell'oggetto deside-
rato (cf l'Edipo freudiano). Perciò la proibizione dell'incesto è «la sola tra tutte le re-
gole che possieda un carattere di universalità» e non costituisce soltanto una regola
tra altre ma, secondo l'espressione di C. Lévi-Strauss, «il fatto della regola» come
tale.32 Perché questa è la legge da cui sorge la comunità umana: legge castratrice dello
sfasamento rispetto all'oggetto immediatamente desiderato, che si inaugura alla soglia
del linguaggio mediante il distanziamento del reale immediato.

29
A. LEMAIRE, J. Lacan, op. cit., p. 123.
30
J. LACAN, op. cit., p. 843.
" ID., ibid., p. 770.
32
C. LÉVI-STRAUSS, Les structures élémentaires de la parente, PUF 1949, p. 10 (trad. ital. : Le struttu-
re elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 1969).

69
— Morte e vita: lo schema iniziatico
Per diventare qualcuno, «uno tra altri» (secondo il titolo di un'opera di D. Vasse),
bisogna dunque rinunciare a essere tutto, ad avere tutto e subito. Questo lavoro di lutto
trova nell'Edipo il suo momento strutturante decisivo; ma non è mai compiuto né mai
può esserlo, se è vero che «per ognuno c'è sempre un figlio da uccidere, il lutto —
da fare e da rifare — di una rappresentazione di pienezza», quella del «figlio meravi-
glioso che sempre rinasce», frutto immaginario della «nostalgia dello sguardo della madre
che ne ha fatto un estremo splendore»." Rifiutare questa morte equivale a perdere la
propria vita. «Si potrebbe porre il cammino analitico sotto il segno del detto evangeli-
co: chi vuol guadagnare la propria vita la perderà, mentre colui che accetta di perderla
la troverà». Certo, precisa Vergote, «si ha un certo ritegno a fare discorsi il cui tenore
un po' generale sconfina facilmente nella retorica»; e tuttavia «l'esperienza clinica mo-
stra con quale prezzo pagato alla morte l'uomo trova la propria vita». Così facendo,
la psicanalisi «riscopre la legge fondamentale dello schema iniziatico». Schema di ri-
generazione attraverso una morte simbolica messa in opera in tutti i riti di iniziazione,
schema che sembra universale: è una «legge scritta nel cuore dell'esistenza» che la morte
abiti la vita e ne sia la mediazione.34 La conquista da parte del soggetto della propria
verità e libertà non avviene una volta per tutte. Essa si fa attraverso un processo mai
finito di Durcharbeitung (Freud), di «perlaborazione» a caro prezzo. Al termine di questo
lavoro non si conquista un tesoro-oggetto. // tesoro non è altro che la lenta auto-
alterazione con cui il soggetto stesso porta frutti attraverso il dissodamento doloroso
che rivolta il campo del suo desiderio. Il tesoro non è mai dissociabile dal processo
stesso di uccisione del nostro narcisismo primario, cioè del nostro immaginario onni-
potente e onnivoro. La verità del soggetto è questo stesso cammino: «è il cammino
che tutto mette in cammino», dicevamo prima con Heidegger, tracciando un altro ap-
proccio.

4. La verità dell'uomo: consentire alla presenza della perdita


Dunque, il soggetto nasce da una breccia, e si conserva dentro di essa. Il soggetto
non può fare la propria verità se non consentendo a questa perdita che lo costituisce.
Consentire a questa presenza della perdita significa accettare di non poter uscire
dalla mediazione: quella dell'ordine simbolico che da sempre lo precede e gli permette
di umanizzarsi a partire da un mondo già umanizzato prima di lui e trasmesso a lui
come universo di senso. È impossibile cogliere il «reale», il quale è allora, per defini-
zione, ciò che l'uomo sempre fallisce. Ma l'istanza psichica dell'immaginario, sulla
base del narcisismo primario, si accanisce in ogni uomo a far credere il contrario; e
ognuno porta in sé un desiderio così intenso di onnipotenza e di padronanza delle cose,
che è come posseduto da un incoercibile bisogno di credervi e, in tal modo, di «crede-
re in se stesso». La verità del soggetto psichico, sempre aperta al problema della Veri-
tà tout-court, si fa attraverso il lutto: lutto della coincidenza immaginaria tra l'(Io) del-
l'enunciazione e l'«io» dell'enunciato; lutto della corrispondenza del soggetto con il

" S. LECLAIRE, On tue un enfant, op. cit., p. lls.


" A. VERGOTE, in X. LÉON-DUFOUR et al., Mort pour nos péchés, Bruxelles 1976, p. 73s.

70
suo Io ideale; lutto di qualsiasi beatitudine originaria da ritrovare o — che è poi la
stessa cosa — di ogni pienezza di senso da scoprire. Ed è proprio dalla perdita radicale
di questo «paradiso» e da questo consentimento alla perdita della Cosa, che emerge
per il soggetto la possibilità di cor-rispondere alla Verità.
Menzognero è l'uomo pieno di se stesso, dice la sapienza comune. Aldilà del livel-
lo psicologico e del giudizio morale in cui quest'ultima lo situa, la psicanalisi attesta
che quest'inganno è la sorte di ciascuno. Più ancora: questa rappresentazione teatrale
di sé come «pieno di sé» non è che il rovescio della rappresentazione eidetica degli
enti come pienamente fondati ontologicamente. Essa è solidale con la colpevolezza,
cioè con il desiderio irreprimibile di giustificare la propria esistenza, di fondare il mondo
di senso che ci inabita in un significato ultimo, di rendere ragione — in ultima istanza
— di tutte le cose, insomma di trovare una «fondazione che renda conto del fondo,
che gli renda ragione e che in ultima analisi gli chieda ragione» (sopra).
In definitiva, il soggetto esiste soltanto in un divenire permanente, in un advenire
in-finito, in cui deve imparare a proprie spese a fare il lutto del proprio attaccamento
ombelicale al Medesimo, a rinunciare alla riconquista del paradiso perduto, della pro-
pria origine, del fondamento ultimo che darebbe ragione della propria esistenza. Il suo
compito è quello di consentire a fare la verità assumendo la differenza, il vuoto di es-
sere, non come un male inevitabile ma come il luogo stesso della propria vita. Tutto
ciò è incluso necessariamente nel capovolgimento dell'uomo nell'ordine simbolico o
nella mediazione del linguaggio. Ed è quanto, in ogni caso, il discorso analitico ci in-
vita a pensare.

II. LO SCAMBIO SIMBOLICO


Il cammino di costante itineranza cui il soggetto umano si vede destinato non è un
cammino di erranza in un no man 's land desertica senza punti di riferimento. C'è in-
fatti la legge, eminentemente «oggettiva», dell'ordine simbolico. Questa legge si con-
cretizza in un processo, il processo di scambio simbolico, che è debitamente struttura-
to e strutturante perché costituisce le regole del gioco senza le quali non sarebbe nep-
pure possibile accettare la propria parte, dato che non ci si potrebbe «capire». Questo
processo ci interessa qui soprattutto perché ci fornisce un modello, certamente tra altri
possibili, per pensare il modo singolare secondo cui il soggetto emerge nel suo rappor-
to agli altri soggetti. La sua caratteristica principale è di funzionare nell'ordine del
non-valore. In tal modo ci apre un cammino possibile per pensare teologicamente quel-
Vadmirabile commercium tra Dio e l'uomo che si chiama la grazia.

1. Nelle società arcaiche


Nel suo celebre Saggio sul dono15 Marcel Mauss ha studiato, come è noto, un tipo
di scambio che regola l'insieme dei rapporti tra gruppi e tra individui in un certo nu-
mero di società arcaiche (Indiani della costa Pacifica dell'Alaska e del Canada, Poline-

" M. MAUSS, «Essai sur le don» (1923), in M. MAUSS, Sociologie etanthropologie, op. cit., pp. 143-279.
Citiamo in base a quest'edizione nelle pagine che seguono.

71
sia, Melanesia) e di cui si trovano ancora tracce nel diritto romano arcaico, nel diritto
germanico, ecc.

a) Fuori valore
Limitiamoci a richiamare alcuni tratti principali di questo tipo di scambio. Anzitut-
to, si tratta di un «fatto sociale totale», che riguarda gli scambi in tutti gli ambiti (cibo,
donne, feste...) e a tutti i livelli della società (p. 163s). Inoltre, si tratta di scambi di
ordine simbolico, poiché «ciò che circola è ben altro dall'utile» (p. 267). Certo, l'utile
non è assente; così, i Melanesiani conoscono lo scambio di merci (gimwali), che è
anzi «molto tenace». Ma questo non è che una dimensione, nettamente differenziata
sul piano linguistico e sociale dallo scambio simbolico generale (kula) che, contraria-
mente al principio stesso che regge lo scambio di mercato (il gimwali), non pertiene
al regime del «valore»: valore d'uso (un sacco di miglio = x giorni di cibo o x calorie)
o valore di mercato (un sacco di miglio = tante fiocine per la pesca, secondo il sistema
del baratto, o tanto danaro, secondo quello della moneta).
È impossibile capire queste società finché non si vede che il principio che ne co-
manda lo scambio generale è di un ordine diverso da quello del mercato o del valore.
È questa la ragione per cui, secondo G. Duby, i «barbari» dell'epoca franca e mero-
vingia, la cui «esistenza era tuttavia così precaria», eseguivano una «distruzione appa-
rentemente inutile delle ricchezze acquisite». Essi si accanivano a rapinare — e «con
una cupidigia che sembrava insaziabile» — ma era «soltanto per donare con maggior
larghezza». Il tesoro del loro sovrano non era percepito anzitutto come un capitale di
ricchezza ma come «un ornamento»; e «tutto il popolo» ne menava vanto. Infine, «la
società intera era percorsa dalle trame indefinitamente diversificate di una circolazio-
ne di ricchezze e di servizi suscitata da quello che ho chiamato le generosità necessa-
rie: quelle dei dipendenti nei confronti dei loro padroni, quelle dei genitori verso la
ragazza andata sposa, quelle degli amici verso i promotori di una festa, quella dei grandi
verso il re, del re verso i grandi, di tutti i ricchi verso i poveri, e infine di tutti gli
uomini verso i morti e verso Dio. Si tratta qui di scambi, che sono innumerevoli. Ma
non si tratta di commercio».16
Questo sistema di «generosità necessarie» conferisce al sacco di miglio o all'ogget-
to che vengono scambiati una realtà di un ordine diverso da quella del suo valore utili-
tario. Essi vengono dati «per nulla» — nulla dal punto di vista di questo valore —,
ma col sottinteso che una terza persona vi darà a sua volta «per nulla» del prodotto
della sua pesca, della sua raccolta, del suo artigianato o del suo bottino. Al di fuori
di questa logica — perché di logica si tratta, e non, come diceva Lévy-Bruhl nel 1910,
di una «pre-logica» di «società inferiori» che sarebbero rimaste a uno stadio infantile
— non si può capire come mai questa gente si permetta un lusso, insensato ai nostri
occhi di Occidentali, di dilapidare tutto il loro «avere» in pura perdita per fare una
festa o per mostrarsi all'altezza dei propri simili, dal momento che vivono in un uni-
verso di «privazione» in cui l'esistenza è così «precaria».

56
G. D U B Y , Guerriers etpaysans. VII-XI1 siècles: Premier essor de ì 'economie européenne, Gallimard
1973, cap. 3: «Les attitudes mentales».

72
b) Le generosità necessarie
Abbiamo messo tra virgolette i termini «precarietà», «privazione», «avere». Solle-
viamo così un problema assolutamente fondamentale: quello della lingua. M. Mauss
ha posto in termini molto corretti questo problema: «I termini che abbiamo impiegato:
presente, dono, regalo, non sono, in se stessi, del tutto esatti. Non ne troviamo altri:
ecco tutto. Questi concetti di diritto e di economia che noi amiamo contrapporre: li-
bertà e obbligazione; liberalità, generosità, lusso e risparmio, interesse e utilità, sa-
rebbe opportuno ripassarli al crogiolo» (p. 267). Né le nostre lingue né le nostre istitu-
zioni né in definitiva l'insieme delle nostre culture possono dare un nome alla realtà
in questione. Si dà senza calcolare, ma questo «regalo» è obbligatorio, perché «rifiuta-
re di dare equivale a dichiarare guerra, a rifiutare l'alleanza e la comunione» (p. 162).
Reciprocamente: non si può rifiutare il «regalo»: «Un clan, un casato, una compagnia,
un ospite non sono liberi di non chiedere l'ospitalità, di non ricevere il regalo» (p.
161 s). Ogni dono ricevuto obbliga. Impossibile prendere ciò che viene offerto senza
restituire, soprattutto a un terzo che, a sua volta, offrirà il suo contro-dono, a un quar-
to, ecc. Così che le ricchezze circolano senza sosta dall'alto in basso della società,
a tutti i livelli e in tutti i campi.
Che questi scambi «gratuiti» siano «obbligatori», che queste «generosità» siano «ne-
cessarie», che queste «liberalità» spinte fino a «non voler neppure dare l'impressione
che si desideri il contraccambio» siano «interessate» (p. 201) è cosa evidente. Ma «l'in-
teresse è analogo a quello che ci guida» (p. 271): esso verte anzitutto sul desiderio
di essere riconosciuto come soggetto, di non perdere la faccia, di non decadere dal
proprio rango, e di conseguenza di rivaleggiare per il prestigio.

2. Nella società occidentale contemporanea


Questa digressione attraverso il sistema di prestazioni simboliche non avrebbe in-
teresse per il nostro discorso se non ci apparisse rivelatrice dei nostri stessi arcaismi,
ampiamente ignorati, come pensava già M. Mauss. Il fatto che, secondo le indicazioni
di E. Benvéniste, ne troviamo delle tracce nelle nostre lingue indo-europee, soprattut-
to nel vocabolario dello scambio — appunto — («dare/prendere», «acquistare/vende-
re», «prestare/prendere a prestito») e in quello dell'«ospitalità»,37 ne è già un indice.
E tuttavia, un indice fragile. Perché da noi sono trascorsi tanti secoli di tradizione me-
tafisica, di civiltà tecnica, di valore mercantile, facendo regnare l'equivalenza, che,
per un destino storicamente inesorabile, perfino le nostre lingue hanno dimenticato l'am-
bivalenza nativa del nostro vocabolario di scambio. Perciò ci è ben difficile percepire
che il sistema fondamentale di «generosità necessarie» e di «gratuità obbligatorie», ar-
ticolato secondo un processo di dono/recezione/ricambio, continua ad abitare i nostri
scambi. Facciamo fatica a riconoscere che, tuttavia, è ancora questo che ci fa vivere
come soggetti e che struttura tutti i nostri rapporti in ciò che hanno di umanamente
essenziale. Se è vero, almeno, che ciò che ci fa vivere non è dell'ordine dell'utile ma,
come nell'amore, nell'ordine della grazia, dell'eccesso, dell'«aldilà del mercato»...

" E. BENVÉNISTE, op. cit., p. 316-318. Le Vocabulaire des institutions indo-européennes, t. 1: Econo-
mie, parente, sociélé, ed. de Minuit 1969, section 2: «Donner et prendre», pp. 65-121, e il cap. 10: «Achat
et rachat».

73
Il regalo (a patto che non venga ridotto a un oggetto-valore di utilità, come succede
a volte, per esempio, nelle attuali «liste di matrimonio») è senza dubbio ciò che, nelle
nostre istituzioni, resiste meglio all'imperialismo del «valore». J. Baudrillard vi vede
«l'illustrazione più affine» allo scambio simbolico, nella misura in cui «è indissociabile
dalla relazione concreta in cui avviene lo scambio, dal patto di trasferimento che esso
suggella tra due persone. [...] Non c'è dunque, propriamente, né valore d'uso né valo-
re di scambio economico» ma soltanto «valore di scambio simbolico». Essendo qualco-
sa di cui «ci si spoglia come di una parte di sé», esso si costituisce in un significante
che «fonda sempre al tempo stesso la presenza reciproca e la loro reciproca assenza.
Di qui l'ambivalenza di ogni materiale di scambio simbolico (sguardi, oggetti, sogni,
escrementi): medium della relazione e della distanza, il regalo è sempre amore e ag-
gressione [...]. Così la struttura di scambio (cf Lévi-Strauss) non è mai quella della
reciprocità semplice. Non sono due termini semplici ma due termini ambivalenti che
si scambiano, e lo scambio fonda la loro relazione come ambivalente». A differenza
dell''oggetto-segno, che rimanda soltanto «all'assenza della relazione», Voggetto-simbolo
(come il regalo) stabilisce la «relazione nell'assenza». Questa relazione si basa sulla
teoria generale che l'autore propone. A suo avviso, esistono quattro logiche diverse
del valore: 1) quella, funzionale, del valore d'uso, comandata dall'utilità (la macchina
come mezzo di circolazione rapida); 2) quella, economica, del valore di scambio, co-
mandata dall'equivalenza (la macchina in quanto equivale a un tot di denaro); 3) quel-
la, differenziale, del valore-segno, comandata dalla differenza codificata (la macchina
come segno di un certo status sociale); 4) infine, la logica dello scambio simbolico,
comandata dall'equivalenza. Ora, questo insieme è attraversato da «una sola grande
opposizione» che passa «tra tutto il campo del valore» (quello delle tre prime logiche)
e «il campo del non-valore, quello dello scambio simbolico»;38 più esattamente: fra
il terzo, che rappresenta lo stadio maturo dei primi due, e l'ultimo.

Tutta l'opera di Baudrillard tende infatti a mostrare che la nostra attuale «società di consu-
mo» è caratterizzata da uno «stadio in cui la merce è immediatamente prodotta come segno, co-
me valore/segno, e i segni (la cultura) come merce».3' A costituire il valore delle cose non è
il loro uso ma il segno che risulta da quest'uso e che viene così, in maniera immaginaria, a
duplicare il «reale». La produzione non è più determinata se non dai bisogni ideologici che essa
stessa crea: posta sotto il segno della crescita per la crescita, senz'altra finalità né referente che
il segno di prestigio, di potenza, di progresso, di cui essa ci riempie, la produzione non vive
che della propria riproduzione in valore/segno codificato.
A esserci venduta non è tanto la cosa quanto Videa della cosa. Attraverso le vacanze ci si
vende non tanto il ritorno alla natura quanto l'idea di natura, la «naturalità». Perché è impossibi-
le tornare alla «natura» delle società antiche: il sistema non può che duplicarla come segno.
Così nel nostro sistema tutto si fa e si disfa per effetto del codice, che simulandosi fa la paro-
dia e il duplicato di se stesso. Alla stregua del «sistema della moda» analizzato tempo fa da R.
Barthes, dove, aldilà del bello e del brutto, dell'utile e dell'inutile, si «abbandona il senso pur
senza cedere nulla dello spettacolo stesso della significazione».40 Alla stregua dell'insieme della
cultura attuale che, credendosi e dicendosi «colta», non può che prodursi in spettacolo a se stessa.

38
J. BAUDRILLARD, Pour une critique de l'economie politique du signe, Gallimard 1972, pp. 61-63
e 144-153.
" I D . , ibid., p. 178.
40
R. BARTHES, Le Système de la mode, Seuil 1967.

74
Tutto sta nella reduplicazione: tutto funziona in quello che Baudrillard chiama «l'ordine dei si-
mulacri»: il sistema non ha altro referente che il codice che lo comanda. È il regno dell'oggetto
disponibile. L'uomo può prendere tutto. Più ancora: è costretto a prendere. Ma non può resti-
tuire. La società lo gratifica dei suoi doni offrendogli tutte le «sicurezze» possibili per garantir-
gli di non perdere nulla — a causa di furto, incendio, malattia, incidente — del suo stock di
valori, fin oltre la stessa sua morte (l'assicurazione sulla vita). Ma automaticamente essa gli
toglie — è il pesante riscatto da pagare — il diritto al contro-dono. Lo scambio simbolico, arti-
colato sulla reversibilità dello scambio, è neutralizzato: lavoro, tempo libero, confort, sicurez-
za, informazione, salute fisica e psichica, sapere scientifico, «cultura», tutto è dato in maniera
unilaterale per meglio infeudare al codice regnante. E se riappare la carenza, la perdita, ecco
le teorie dell'inconscio pronte, disponibili, utilizzabili come tutto il resto per colmarla di nuovo
con un «sapere» che permette a ognuno di fare dei sogni «analitici», di vivere dei trucchi «edipi-
ci», gadget culturali che ognuno può consumare perfino in «lei Paris».41
A partire da queste riflessioni si vede chiaramente che il sogno di tornare al tempo «meravi-
glioso» della marina a vela o delle lampade a olio sarebbe la peggiore delle illusioni: mai le
società arcaiche si sono sentite particolarmente «felici». Il mito di una età dell'oro si situa, per
definizione, sempre altrove... Ma questo regno totalitario del codice non annuncia necessaria-
mente l'Apocalisse, come testimoniano i vari contro-discorsi sociali che, attraverso i desideri
multiformi di «ritorno» — ritorno alla «natura», alla «festa», al «sacro», alla «storia» — insorgo-
no, e non soltanto nelle aree marginali della società, contro la soppressione dello scambio sim-
bolico. Per quanto ingannevoli siano, questi «ritorni» costituiscono comunque a livello delle rap-
presentazioni un'autentica rivendicazione simbolica. Mediante lo sforzo a cui costringono il si-
stema per riaffermare il proprio controllo su di loro, essi gli impediscono di cristallizzarsi; sbloc-
candolo, forniscono l'ossigeno che, se per un verso gli assicura la sopravvivenza, per l'altro
evita ai nostri contemporanei l'asfissia. Contraddizione? Senza dubbio! Ma quale società umana
non vive delle proprie contraddizioni interne? La nostra società di consumo non può vivere sen-
za denuncia, secernendo così il proprio antidoto.
Analogamente ai nostri antenati, neppure noi possiamo oggi lasciare che si otturi
la perdita che ci costituisce. Perciò questa perdita, questa ferita, mascherata dal regno
del valore, non può che assillarci; come la morte, che pure tutto contribuisce a na-
sconderci. Ma non è forse qui la nostra possibile salvezza? Perché «proprio in questo
pericolo estremo» può manifestarsi al meglio «la possibilità che si levi all'orizzonte
ciò che salva».42 Questa meditazione di Heidegger sul destino storico della metafisica
che si compie nell'uomo della tecnica può essere prolungata verso l'uomo del segno,
segno inteso come «l'apogeo della merce».43 // compimento della metafisica come lo-
gica della rappresentazione e del valore non avviene forse nell'uomo del valore/segno,
dove il referente non è altro che il codice di rappresentazioni che regge il sistema,
se è vero — almeno — che «lo stadio terminale della merce è quello in cui essa si im-
pone come "codice"»? 44

3. Scambio commerciale e scambio simbolico: due poli e due livelli


Per quanto predominante sia oggi la logica del valore/segno, che è quella del mer-
cato (A), essa non può sopprimere quella del non-valore, che è la logica dello scambio
41
J. BAUDRILLARD, L'Échange symbolique et la mort, op. cit., pp. 103-105.
" M. HEIDEGGER, La Question de la technique, EC, p. 44.
" J. BAUDRILLARD, Pour une critique..., op. cit., p. 259.
44
ID., ibid.

75
simbolico (B). Le due abitano ogni società umana, ma secondo un dosaggio variabile,
di cui le società arcaiche da una parte e la nostra attuale «società di consumo» dall'altra
costituiscono le due forme estreme. Queste due logiche vanno dunque capite come due
poli la cui tensione è costitutiva di ogni società umana.
Ma questi due poli in tensione dialettica riguardano ugualmente due livelli diversi
di scambio. La logica del mercato (in forma di baratto o di moneta) è quella del valo-
re; appartiene al regime del bisogno che cerca di soddisfarsi immediatamente nel pos-
sesso degli oggetti. La logica dello scambio simbolico è di un altro ordine. Infatti ciò
che viene scambiato attraverso ignami, conchiglie o lance, come oggi da noi attraver-
so la rosa o il libro offerti in regalo, è qualcosa di più e di diverso che ciò che essi
valgono sul mercato o ciò a cui possono essere utili. E qualcosa di più e di diverso
dal loro dato immediato. Qui ci troviamo al di qua o aldilà del regime di utilità e di
immediatezza. Il principio è quello dell'eccesso. // vero oggetto dello scambio sono
i soggetti come tali. Attraverso degli oggetti, sono i soggetti che annodano o riannoda-
no alleanza, che si riconoscono come membri integrali della «tribù», che vi trovano
la loro identità facendovisi vedere al proprio posto e mettendo o rimettendo gli altri
«al loro posto». Allora, ciò che avviene nello scambio simbolico è dello stesso ordine
di ciò che avviene nel linguaggio, se è vero — come scrive F. Flahault — che «ogni
parola, per importante che sia il suo valore referenziale e informativo, viene formulata
anche a partire da un "chi sono io per te, chi sei tu per me" ed è operante in questo
campo».45 In un caso come nell'altro, abbiamo a che fare con la stessa posta in gioco:
il riconoscimento reversibile di ognuno come pienamente soggetto.
La differenza di «livello» tra il principio del mercato e quello dello scambio simbo-
lico è dunque netta. Come nel regalo, ciò che si scambia in quest'ultimo caso non ha
corso sul mercato dei valori. È aldilà di ogni mercato, «al di sopra del mercato», cioè
senza prezzo, «gratuito». Perché l'essenza simbolica del regalo si caratterizza appunto
non per il valore dell'oggetto offerto — che può essere praticamente nullo in termini
di valore d'uso o di valore commerciale, e il «nulla» offerto può tuttavia essere piena-
mente accettato come regalo —, ma per il rapporto d'alleanza di amicizia, di affetto,
di riconoscimento (dell'altro) e di riconoscenza (nei suoi confronti) che esso crea o
ricrea tra i partner. Attraverso l'oggetto sono dei soggetti a scambiarsi: a scambiarsi,
sotto l'istanza dell'Altro, il loro vuoto-di-essere e a mettersi in presenza l'uno dell'al-
tro in seno alla loro assenza così scavata, alla loro differenza così radicalmente sentita
come alterità. Non siamo più nel regime del bisogno e del possesso di oggetti, ma in
quello del «desiderio» articolato sulla domanda dell'Altro. Così, malgrado differenze
innegabili,46 sono proprio i nostri stessi arcaismi a essere evidenziati in maniera esem-
plare dai sistemi arcaici di prestazione totale. Oggi come ieri, a darci la possibilità
di ad-venire e di vivere come soggetti è questo processo, rimasto fino a poco fa impen-

•" F. F L A H A U L T , op. cit., p. 50.


46
La differenza tra il nostro regalo e le generosità necessarie dei sistemi arcaici sta nel fatto che l'unica
obbligazione a cui ci impegna la recezione dell'oggetto come «regalo» è almeno il ricambio — il contro-
dono — di una parola di «grazie» (senza di che, l'oggetto sarebbe stato acquisito come valore ma non ricevu-
to come regalo), mentre nelle società arcaiche il recettore è obbligato a dare in ricambio altri beni e a una
terza persona, perché è tutto il sistema che funziona così, a cominciare dal piano dei necessari bisogni ali-
mentari. Evidentemente, questa differenza è tutt'altro che trascurabile, poiché dà luogo a sistemi economici
e sociali quasi opposti.

76
sato, di dono/recezione/ricambio che struttura ogni rapporto significante, cioè «uma-
no» tra partner. Processo che è lo stesso del linguaggio.

4. Graziosita e gratuità
Pensare teologicamente la grazia di Dio, e più precisamente la grazia sacramenta-
le, nell'ordine dello scambio simbolico, ha per noi l'immenso vantaggio di situarla
in partenza sul registro del non-valore. L'abbiamo segnalato sopra, a partire dalla manna
nel deserto: la grazia è essenzialmente ciò che non può essere calcolato e non può es-
sere messo in stoccaggio. Secondo l'espressione di A. Delzant, essa è «aldilà dell'utile
e dell'inutile»;47 pertiene all'eccesso, a ciò che è «al di sopra del mercato». Come tale,
essa è «graziosita». Questo concetto designa qui ciò che non può, per definizione, es-
sere oggetto di un calcolo, di un prezzo, di uno scambio commerciale.
Ma questo concetto di graziosita esprime soltanto una dimensione della grazia. Ce
n'è una seconda, che in esso non traspare: la precedenza del dono di Dio, che la grazia
ugualmente comporta secondo la tradizione teologica. Bisogna dunque incrociare il
concetto di «graziosita» con quello di «gratuità». Termine altrettanto prezioso, perché
dice che noi non siamo all'origine di noi stessi ma che ci riceviamo da un dono primo.
Dono gratuito, che nulla può necessitare e che con nulla possiamo giustificare.
Per essere teologicamente cristiano, il discorso sulla grazia deve dunque coniugare
i due concetti che abbiamo ora messo in luce. Se ci limitassimo, in maniera unilatera-
le, all'aspetto di gratuità, un discorso del genere sarebbe perverso. Infatti, riempire
qualcuno di sovrabbondanti prodigalità gratuite elargite «senza desiderio di ritorno»
significa spogliarlo del dovere inalienabile di risposta che è l'esigenza di ogni ricono-
scimento dell'altro come soggetto; è quindi alienarlo, misconoscerlo come «altro». Il
soggetto non può che morire «asfissiato» se diventa 1'«oggetto» (è la parola giusta!)
di generosità gratuite a cui non può rispondere.
Ogni dono obbliga, abbiamo detto sopra; nulla può essere ricevuto come dono sen-
za comportare il contro-dono di un riconoscimento, almeno di un «grazie» o di un'e-
spressione fisionomica. Ciò significa che la gratuità del dono comporta obbligatoria-
mente, per la struttura stessa dello scambio, il contro-dono di una risposta. Di conse-
guenza, teologicamente la grazia esige non solo quella gratuità prima da cui dipende
il resto ma anche la graziosita dell'insieme del circuito, e in particolare del contro-
dono. Questa graziosita qualifica il contro-dono richiesto come senza-prezzo, senza
calcolo; in una parola: come risposta d'amore. Dunque, il controdono della nostra
risposta umana appartiene anch 'esso al concetto teologicamente cristiano di «grazia».
Capovolgimento capitale per l'intelligenza cristiana del rapporto con Dio! Un solo
esempio: se è vero che il battesimo dei bambini è un luogo fondamentale di attestazio-
ne della gratuità della grazia, in compenso non lo si può prendere come la figura esem-
plare di questa stessa grazia senza rischiare di pervertirla: essa sarebbe infatti tanto
più «grazia» quanto più entrerebbe in concorrenza con la libera risposta dell'uomo.
L'agostinismo non ha sempre evitato questo scoglio... Ora, non si può affermare Dio
a svantaggio dell'uomo: la grazia non è mai attestata con tanta efficacia nella sua inte-

47
A. DELZANT, La Communication de Dieu. Par-delà utile et inutile. Essai théologique sur l'ordre
symbolique, Cerf 1978.

77
gralità come quando si coinvolge la libertà di contro-dono dell'uomo che essa solleci-
ta. Allora, non potendo mai essere svincolata dal processo di scambio entro cui si in-
scrive come «dono», essa non può venir trattata alla maniera dell'«oggetto» o del «pro-
dotto finito», per quanto «spirituale» possa essere. La grazia richiede di essere trattata
fuori-valore, secondo il modo simbolico della comunicazione, e anzitutto della comu-
nicazione di parola. Invece di essere rappresentata come un oggetto-valore che si affi-
nerebbe attraverso l'analogia, il «tesoro» è indissociabile dal lavoro simbolico con cui
il soggetto fruttifica personalmente ad-venendo come credente.

Due elementi importanti risultano da questo capitolo. In primo luogo, la verità del
soggetto credente nel suo rapporto con Dio non può realizzarsi (come del resto quella
del soggetto tout-court) se non dentro la mediazione; è di questa che, come vedremo,
i sacramenti costituiscono l'espressione maggiore. In secondo luogo: poiché il sogget-
to è contemporaneo alla mediazione e non anteriore a essa o dissociabile da essa come
lo è lo strumento, è sempre in fase di genesi della sua verità di credente, cioè della
verità del suo rapporto con Dio. Questa non si realizza per via di «capitalizzazione»
di valori ma secondo un lavoro simbolico il cui processo non è altro che quello dello
scambio simbolico o della comunicazione di parola tra soggetti. È dunque nel solco
della mediazione linguistica e della sua efficacia simbolica che noi comprendiamo i
sacramenti e la grazia di cui sono 1'«espressione».

78
Capitolo Quarto

IL SIMBOLO E IL CORPO

Tutta la problematica fin qui trattata ci induce a parlare teologicamente dei sacra-
menti non come strumenti ma come mediazioni, cioè mezzi espressivi in cui si realiz-
za l'identificazione, e dunque l'ad-vento, il sorgere dei soggetti come credenti. Perciò:
Nella misura in cui — come vedremo nella prima sezione del presente capitolo —
la distinzione tra «segno» e «simbolo» ruota, secondo noi, attorno alla considerazione
(simbolo) o meno (segno) dei soggetti come tali, saremo indotti a pensare teologica-
mente i sacramenti come simbolo invece che come segno.
Nella misura in cui, d'altra parte, una tale realizzazione simbolica è caratterizzata
da quelli che vengono chiamati gli «atti linguistici», saremo indotti, nella seconda se-
zione, a prendere i sacramenti come atti di simbolizzazione che mettono in opera la
dimensione illocutorìa degli atti linguistici, dimensione secondo cui essi realizzano la
«performance» di istituire un rapporto di posizioni tra i soggetti e dunque un'identifi-
cazione di costoro in relazione agli altri dentro quel «mondo» particolare che è la Chiesa.
Nella misura in cui, in terzo luogo, questa dimensione illocutoria si esibisce esem-
plarmente negli atti linguistici rituali e in cui la ritualità è appunto costitutiva dell'e-
spressione liturgica, saremo indotti a pensare — e sarà la nostra terza sezione — l'effi-
cacia simbolica di questo tipo di mediazioni espressive e a situare criticamente la gra-
zia sacramentale in questa prospettiva.
Questo tre prime sezioni non fanno che accentuare la riflessione svolta nel capitolo
precedente: il simbolo, ed eminentemente il simbolo rituale, è l'epifania stessa della
mediazione in ciò che ha di più contingente e di più culturalmente determinato. Siamo
così rinviati dal simbolo al corpo, questo corpo che è la mediazione arci-simbolica
ineludibile di ogni identificazione soggettiva. Il che ci porterà allora a pensare teologi-
camente i sacramenti, che mettono appunto in opera il corpo dei credenti, come la
figura simbolica esemplare della corporalità della fede. Dal simbolo al corpo: è quindi
una stessa problematica della mediazione che si dispiega, in fedeltà alla costituzione
linguistica dell'uomo e alla prospettiva di «superamento» della metafisica.

I. SEGNO E SIMBOLO

Abbiamo distinto in precedenza due logiche all'opera nello scambio dei beni: quel-
la del mercato e del valore, centrata sugli oggetti come tali, e quella dello scambio
simbolico, al di qua o al di là del valore, centrata sul rapporto tra i soggetti come tali.
Queste due logiche, dicevamo, pertengono a due livelli diversi per principio; tuttavia

79
esse si articolano concretamente secondo due polarità in tensione dialettica. Sono que-
sti stessi due livelli e queste due polarità che ora ritroveremo con la nostra distinzione
tra segno e simbolo.
Segno e simbolo sono sempre mescolati nel concreto. È impossibile affermare in
maniera unilaterale: «questo è un segno» o «ecco un simbolo». Come per «la metafisi-
ca» e «il simbolico», i due concetti di «segno» e di «simbolo» hanno per noi un valore
in primo luogo metodologico; e la loro distinzione svolge una funzione euristica che
ci permette di operare una discriminazione in realtà empiriche complesse. Questi due
concetti hanno dunque, nel nostro lavoro, un valore soltanto relativo: a dare loro per-
tinenza è il rapporto reciproco di differenze quali noi le espliciteremo. In altri termini,
non pretendiamo definire in maniera assoluta l'essenza del simbolo; pretendiamo sol-
tanto indicarne quegli elementi che ci sembra possano caratterizzarlo in quanto diver-
so dal segno, dunque secondo un punto di vista «formale». Ma allora vedremo — è
il vantaggio principale dell'operazione — che, appartenendo a un principio diverso,
il simbolo non può essere capito sulla scia del segno, di cui sarebbe soltanto una rea-
lizzazione più «estetica» e più complessa.

1. Due livelli di linguaggio

a) Il simbolo antico
Il verbo greco symballein significa letteralmente «gettare insieme». In forma tran-
sitiva, lo si traduce, a seconda del contesto, con «raccogliere», «mettere in comune»,
«scambiare» {symballein logous: «scambiare parole»); in forma intransitiva, con «in-
contrarsi», «intrattenersi». Il sostantivo symbolè designa l'articolazione del gomito e
del ginocchio, e, più ampiamente, ogni idea di congiunzione, di riunione, di contatto
o di patto. Il symbolon antico è appunto un oggetto tagliato in due, di cui ognuno dei
due partner di un contratto riceve una parte. Ciascuna delle due metà non ha evidente-
mente alcun valore da sola, e può significare immaginativamente qualsiasi cosa. La
sua valenza simbolica le viene unicamente dal rapporto con l'altra metà. E quando,
appunto, anni o generazioni dopo, i due portatori o i loro discendenti le «simboleggia-
no» mettendole insieme, essi vi riconoscono il pegno di uno stesso contratto, di una
stessa alleanza. È quindi la comunicazione stabilita tra i due partner che fa il simbolo.
Esso è l'operatore di un patto sociale di riconoscimento reciproco e, perciò, un me-
diatore di identità.
Il campo semantico del termine «simbolo» si è esteso a ogni elemento (oggetto, pa-
rola, gesto, persona...) che, scambiato in seno a un gruppo (un po' come una parola
d'ordine), permette al gruppo come tale o agli individui di riconoscersi, di identificar-
si. Il pane e il vino dell'eucaristia, l'acqua del battesimo, il cero pasquale, l'«Agnello-
di-Dio», il sacerdote che indossa i vestimenti liturgici, la genuflessione davanti all'al-
tare, ecc. sono quindi dei mediatori di identità cristiana. Queste parole, gesti, oggetti,
persone ci introducono subito nel mondo del cristianesimo cui appartengono: ognuna
di queste realtà, in quanto appartenenti all'ordine del cristianesimo, «simboleggia» im-
mediatamente il rapporto che abbiamo con esso. Come ogni gruppo, la Chiesa si iden-
tifica attraverso i suoi simboli, a cominciare dal formulario della confessione di fede,
chiamato appunto «simbolo degli apostoli».

80
b) «Il simbolo ci introduce in un ordine di cui anch 'esso fa parte»
È questa, secondo E. Ortigues, una delle caratteristiche principali del simbolo nel-
la sua differenza rispetto al segno: «Il simbolo non rinvia, come invece fa il segno,
a qualcosa di un ordine diverso da sé, ma ha la funzione di introdurci in un ordine
di cui anch'esso fa parte e che si presuppone nella sua alterità radicale come ordine
significante». ' Il segno «rinvia a qualcosa d'altro da sé» poiché implica «una differenza
tra due ordini di rapporti: i rapporti significanti sensibili e i rapporti significati intelli-
gibili» (p. 43). Il simbolo invece, come indicano i pochi esempi cristiani riportati so-
pra, ci introduce nell'ordine culturale cui esso appartiene a titolo di simbolo, ordine
che è «qualitativamente diverso da ogni realtà semplicemente data», «ordine simboli-
co» che «suppone necessariamente nel suo principio una rottura di continuità inaugura-
le, una potenza di eterogeneità che lo situa aldilà della vita immediata» (p. 210).

— Il fonema
Il simbolo inizia dalla rottura inaugurale con ciò che è dato immediatamente. Esso trova
infatti, per così dire, il suo grado zero con il fonema. «Un fonema è un simbolo», da una parte
perché, non avendo alcun significato, non rinvia a qualcosa di un altro ordine da quello cui ap-
partiene; dall'altra, perché tuttavia esso introduce nel mondo del senso: per poter essere cono-
sciuto come fonema presuppone una convenzione umana che lo strappa al semplice stato di «ru-
more» e lo situa nella catena dei significanti destinati alla comunicazione, cioè nell'ordine uma-
no e non più animale. Segnare la differenza, in piena foresta vergine, tra una Ibi o un /ba/ o
un /ah/ e un qualsiasi grido animale o fruscio della foresta, significa riconoscere una presenza
umana, riannodare alleanza con l'umanità. Il patto sociale del simbolo inizia, sulla sponda del
linguaggio, con i fonemi.
Ma questo patto o convenzione presenta qualcosa di assolutamente singolare rispetto a ogni
altro patto: esso non è mai stato oggetto di un decreto da parte della società umana, poiché que-
sta non esiste se non come contemporanea al linguaggio. È dunque nello spazio originario dove
si fonda ogni convenzione, ogni regola del gioco, ogni possibilità di comunicazione, è qui che
il simbolo fonetico ci fa entrare. Esso è l'operatore che, introducendo differenze ogni volta re-
peribili in una scala di «rumori» naturali, ne fa un sistema culturale di comunicazione. A questo
livello intra-linguistico, il simbolo traduce «la funzione di negatività essenziale al linguaggio;
il che vuol dire che esso corrisponde, all'interno del Logos, a ciò che è azione, lavoro, operazio-
ne che trasforma il dato naturale e, come tale, lo nega, non vuole accontentarsene» (p. 186).
Il simbolo è dunque il testimonio della strutturazione intrinseca di ogni sistema di linguag-
gio. In questo senso si può parlare di un simbolo logico-matematico: vuoto di ogni contenuto
rappresentativo, pura figura della regola di linguaggio che i matematici si sono data, la variabile
x non ha un «senso» che possa essere indicato come tale; il suo «senso» si esaurisce nella regola
stessa del gioco (p. 174).
Nei due casi del simbolo fonetico e del simbolo matematico, il rapporto intrinseco tra lin-
guaggio e linguaggio è la ragion d'essere della funzione simbolica. Mentre il segno è come «una
potenza centrifuga rivolta verso l'espressione attuale e la genesi delle forme oggettive del pen-
siero», il simbolo è come «una potenza centripeta che presuppone nella sua legge intrinseca di
formazione la legge delle possibilità di riconoscimento tra soggetti». // simbolo segna dunque
il limite stesso del linguaggio: ne attesta la «struttura come tale» (p. 65), manifesta la legge

1
E. ORTIGUES, Le Discours et le symbole, op. cit., p. 65. Le citazioni nel seguito del testo rinviano
a quest'opera.

81
che lo governa interiormente, è l'operatore originario di ogni soggettività, poiché ogni soggetto
si istituisce nel linguaggio.
L'interesse della nostra regressione fino al grado-zero del simbolo fonetico (pre-
scindiamo dai problemi particolari che pone il simbolo logico-matematico) è duplice.
Da una parte, poiché Ibi è un fonema soltanto in forza dei tratti discreti che lo diffe-
renziano da /p/, /g/, /k/, ecc., comprendiamo che un elemento diventa simbolo unica-
mente per il suo rapporto con tutti gli altri elementi del sistema. Isolato, questo ele-
mento può significare qualunque cosa. L'oggetto funziona allora, come nella nevrosi,
immaginariamente: invece di ricollocarlo nell'insieme in cui trova la sua coerenza,
ci si polarizza su di esso, e questo dettaglio in sé «in-significante» diventa un'idea fissa
a cui si riconduce tutto il resto. «Uno stesso termine può essere immaginario se lo si
considera in assoluto, e simbolico se lo si comprende come valore differenziale, corre-
lativo ad altri termini che lo limitano reciprocamente... Non si può isolare un simbolo
senza distruggerlo, farlo scivolare nell'immaginario ineffabile» (p. 194, 221).
Come un frammento di vaso spezzato, un simbolo riceve dunque il proprio valore
unicamente dal posto che occupa nell'insieme. Questo posto si evidenzia dal suo inca-
stro simbolico, ottenuto facendo il collage mentale con gli altri pezzi. È questo che
permette, a partire da un coccio di porcellana trovato per strada, di dire per esempio:
«Toh!, un vaso...». È quindi chiaro che un elemento non diventa simbolo se non nella
misura in cui rappresenta il tutto (il vaso) da cui è indissociabile. Perciò ogni elemento
simbolico porta con sé l'insieme del sistema socio-culturale cui appartiene. Ed è que-
sto 0 modo in cui il simbolo diventa l'operatore di riconoscimento e di identificazione
dei soggetti come tali.

— Il simbolo propriamente detto


Ritroviamo i due tratti appena descritti in quelli che E. Ortigues chiama «i simboli
propriamente detti»: simboli religiosi o politici, mitici o poietici... Da una parte, infat-
ti, un elemento rituale funziona come simbolo in quanto correlativo degli altri elemen-
ti costitutivi della sequenza rituale in cui trova la sua collocazione. Più in generale,
nella misura in cui un rituale rimanda a un insieme di rappresentazioni religiose, a
loro volta collegate a quell'insieme coerente di valori economici, sociali, politici, etici
che si chiama cultura, si possono riconoscere nei simboli rituali — come hanno dimo-
strato le analisi di V. Turner — «delle unità di stoccaggio» di valori, norme, credenze,
ruoli sociali della comunità, degli «arsenali di informazione sui valori strutturali domi-
nanti di una cultura».2
Di conseguenza, un simbolo fa emergere tutto l'ordine simbolico cui appartiene
(o almeno tutta una parte di questo ordine, a sua volta correlativa al resto). Così il
ramo biforcato e scortecciato che i Ndembu della Zambia chiamano chishing 'a e che
usano in un rituale di caccia è (secondo quanto ci dice V. Turner attraverso l'analisi
del nome che lo designa, della sostanza di cui è fatto e dell'oggetto stesso fabbricato)
come il «precipitato» simbolico della loro lingua (la radice del termine e i suoi signifi-
cati diversi), del loro sistema di parentela e di relazioni sociali, dei valori etici che

2
V . TURNER, Les Tambours d'affliction. Analyse des rituelles des Ndembu de Zambie, Gallimard 1972,
pp. 12 e 16.

82
regolano i loro comportamenti, delle rappresentazioni del loro ambiente ecologico. Al
punto che «i Ndembu considerano il chishing 'a non tanto come un oggetto di cono-
scenza quanto come una potenza unificatrice che raccoglie tutti i poteri inerenti alle
attività, agli oggetti, alle relazioni, e alle idee che essa rappresenta».3 Questo simbolo
«propriamente detto» introduce nell'ordine rituale, religioso, sociale cui appartiene;
perciò ogni Ndembu vi riconosce, in forma quasi del tutto inconscia, la propria cultura
e quindi vi si riconosce, vi si «ritrova», vi si identifica nel suo rapporto con i consimili,
con la tradizione ancestrale, con l'universo che lo circonda e che egli abita come il
proprio mondo. Il simbolo è dunque mediazione di riconoscimento reciproco tra sog-
getti e della loro identificazione all'interno del loro mondo. D'altra parte, la sua ade-
renza al mondo dei soggetti è tale che esso smette di funzionare hic et nunc come sim-
bolo dal momento in cui si prende distanza critica nei suoi confronti.4
Si capisce allora come il simbolo, per la stessa sua essenza, sfugge al valore (salvo,
evidentemente, nei suoi contorni formali, senza di che non lo si potrebbe neppure di-
stinguere dagli altri elementi con cui forma sistema). Così, secondo le pagine superbe
che Heidegger ha consacrato all'opera d'arte, dalle scarpe di contadina dipinte da Van
Gogh è bandito ogni utilitarismo, di ordine sia tecnico che cognitivo, e anche di ordine
«estetico»: il quadro non ci dà assolutamente alcuna informazione; esso fa «ad-venire
lo sboccio come tale»;5 non serve affatto a «illustrare meglio» il prodotto-scarpe, ma
ci mostra «ciò che è in verità il paio di scarpe» (p. 36).
Infatti «nell'oscura intimità del cavo della scarpa è inscritta la fatica dei passi del lavoro [...].
Attraverso queste scarpe passa l'appello silenzioso della terra, il suo dono silenzioso del grano
che matura, il suo segreto rifiuto di se stessa nell'arido maggese del campo invernale. Attraver-
so questo prodotto ripassa la muta inquietudine per la sicurezza del pane, la gioia silenziosa
di sopravvivere ancora una volta al bisogno, l'angoscia della nascita imminente, il fremito sotto
la morte che minaccia. Questo prodotto appartiene alla terra, ed è al sicuro nel mondo della
contadina».
E quando questa si toglie le scarpe la sera, le cerca all'alba o passa loro accanto,
«sa tutto ciò» senza aver bisogno di pensarci: perché tutto ciò è simbolicamente «rac-
colto» nelle sue scarpe; attraverso queste, la contadina è così «saldata al proprio mon-
do» (p. 34s).

3
I D . , ibid., pp. 204-207 (le sottolineature sono nostre).
4
Cf T. USHTE e R. ERDOES, De mémoire indienne, Plon 1981. Dopo avere osservato che «dalla nascita
alla morte noi indiani siamo presi nelle pieghe del simbolo come in una coperta», Tahca Ushte aggiunge:
«è buffo, dal momento che non abbiamo neppure la parola per dire "simbolismo", e tuttavia il simbolismo
ci impregna nel più intimo dell'essere» (pp. 118-123). In realtà, non c'è nulla di «buffo»: dal momento in
cui diventa oggetto di riflessione critica, il simbolo degenera. Esso «aderisce» con tanta forza al mondo cul-
turale del gruppo, che funziona tanto meglio quanto meno si identifica come tale in una categoria semantica
particolare. È quanto osserva sul piano etnologico E. de Rosny: «Parlare del rito o del simbolo significa
isolarlo, guardarlo a distanza, in qualche misura demistificarlo: operazione intellettuale e desacralizzante
di cui i miei colleghi avvertono il pericolo... L'uso del termine "rito" o "simbolo" suppone una presa
di distanza tattica propria del linguaggio, che rischia di impoverire il senso stesso dell'azione indicata» (E.
DE ROSNY, Les yeux de ma chèvre. Sur les pas des mattres de la nuit en pays douala [Cameroun], Plon
1981, p. 285).
5
M. HEIDEGGER, «L'Origine de l'oeuvre d'art», in Chemins..., p. 47s. Le referenze tra parentesi nel
testo rimandano a quest'edizione.

83
Ecco dunque «l'essenza dell'arte: il mettersi in opera della verità dell'ente». Niente
a che vedere con una «imitazione o copia del reale» sulla scia della verità-adaequatio
della metafisica (p. 37). Contro questa verità-esattezza che piega tutto alla propria «in-
discrezione calcolatrice» (p. 50), l'opera d'arte, come ogni opera simbolica, manifesta
ciò che è la verità: non un già-dato preliminare, su cui basterebbe aggiustarsi con pre-
cisione ma un far-venire (p. 48), un «ad-vento» (p. 52), che, come una «radura», si
dona soltanto «riservandosi» in una sorta di «suspense» a colui che, contro ogni utilita-
rismo, sa rispettare il «posto vacante» dove essa sboccia (p. 58s). Nessuna scarpa di
contadini è più vera di quella del quadro di Van Gogh. Il simbolo concerne quanto
e 'è di più reale nel nostro mondo, e fa venire il mondo alla sua verità.

— // testimone del posto vacante


Questo compito, il simbolo può svolgerlo soltanto come testimone della fede fon-
datrice dell'umanità: legge dello scarto, della perdita, dell'alterità, del «posto vacante»
dove il reale pertiene a un ordine diverso dal dato immediato o dal valore disponibile.
Perciò, come scrive E. Ortigues, «il simbolo non esiste efficacemente se non là dove
introduce qualcosa di più della vita, qualcosa come un giuramento, un patto, una legge
sacra», qualcosa che, come la parola, «obbliga a integrare il riferimento alla morte
(l'antenato, il dio, l'assente) nel patto che annoda la relazione tra i viventi».6 In quanto
testimone del posto vacante dell'altro, il simbolo raccoglie gli enti in mondo signifi-
cante e, in seno a questo mondo, «impone una legge di riconoscimento reciproco tra
i soggetti». Un tale riconoscimento dei soggetti entro il loro mondo e tra di loro richie-
de che il simbolo sia mediatore di «un terzo termine superando una relazione duale
affascinante, "imperialista", in cui la coscienza si perde nel suo doppio fantasmati-
co».7 «Tutto il problema della simbolizzazione si situa — davvero — in questo passag-
gio dall'opposizione duale alla relazione ternaria»:8 questo problema non è altro che
quello del linguaggio, che il simbolo porta come alla sua «seconda potenza»: problema
di identificazione dei soggetti nel loro rapporto con il mondo e tra di loro.

c) Valore e non-valore
— Il segno come valore di conoscenza
Trattare una parola come segno, sul piano intra-linguistico, è definirne il valore
come rapporto di differenza: sia, sul piano paradigmatico, tra questa parola e tutte le
altre del lessico, sia, sul piano sintagmatico, tra questa parola e le altre dello stesso
enunciato. Oltrepassando questa stretta «pertinenza» intralinguistica della parola, de-
terminata dai suoi tratti «discreti», si tratta la parola come segno anche quando ci si
chiede, su un piano più generale, se essa è adatta a evocare il referente extra-linguistico
da essa inteso. A essere qui misurato è il valore dell'enunciato, in quanto dice qualco-
sa su qualcosa. Si prende così il linguaggio nella sua dimensione informativa, a riguar-
do della precisione della conoscenza che esso fornisce. L'ideale del linguaggio, in questa
prospettiva, è di tendere verso il massimo di esattezza, quindi di univocità e di equiva-

6
E. ORTIGUES, op. eh., p. 66.
7
I D . , ibid., p. 198s.
«ID., ibid., p. 205.

84
lenza: il linguaggio scientifico, che vuole essere discorso senza soggetto, costituisce
il modello che sottostà a questo ideale.

— Il simbolo come mediazione di riconoscimento


Invece, trattare le parole come simboli è interessarsi in primo luogo non all'enun-
ciato e al suo valore, ma all'enunciazione e al soggetto che vi si dice a un altro sogget-
to. Anche se il fatto di «dire qualcosa su qualcosa» non è ovviamente indifferente, l'at-
tenzione si sposta qui sull'atto di «qualcuno che lo dice a qualcuno». Infatti su questo
piano la funzione prima del linguaggio non è quella di designare un oggetto o di tra-
smettere un'informazione — cosa che ogni linguaggio pure fa — ma anzitutto quella
di assegnare un posto al soggetto nel suo rapporto con gli altri. Infatti il simbolo sta
dalla parte del soggetto, che vi si produce producendolo, che vi si mette-in-scena
mettendolo-in-opera. Gli effetti di senso che esso produce (in un rapporto, come dice
Ricoeur, non «dal senso alla cosa ma dal senso al senso»' vanno compresi come effetti
del soggetto: soggetto-gruppo o soggetto individuale; soggetto emittente o soggetto ri-
cevente; in ogni caso, questi vi si riconosce, vi si identifica.
Se, passeggiando per le vie di Pechino in mezzo a una folla in cui, unico francese o anche
unico occidentale, mi sento sperduto, all'improvviso odo distintamente il significante /pierre/
che immediatamente identifico come un significante della lingua, distinto — almeno per un fo-
nema — da /bière/, /lierre/, /fier/, la mia prima reazione non è di interessarmi al suo significato
di «pietra» in quanto distinto dai significati della stessa classe paradigmatica dei minerali come
«roccia», «ghiaia», «sasso», e, ovviamente, da tutti i significati della classe vegetale e animale...
In una circostanza come questa non mi dico: «Toh!, si tratta di una "pietra"...», ma: «Guarda
un po'! Un francese qui...». La mia reazione sarebbe stata la stessa se avessi udito /fleur/ o
/merci/ o ancora — termine eminentemente simbolico — la parola di Cambronne... Il significa-
to di queste parole non c'entra nel contesto. L'effetto subito prodotto è il riconoscimento della
«Francia» qui presente, il legame simbolicamente riannodato con la «francità» e non la cono-
scenza che la parola mi offre in quanto segno. Aver sentito uno-che-parla-francese mi ha intro-
dotto immediatamente nella comunità linguistica a cui appartengono /pierre/, /fleur/ o la parola
di Cambronne; il che mi ha identificato come membro della stessa comunità, con tutto ciò che
è intrinsecamente collegato a questa in fatto di cultura, di tradizione storica, di abitudini culina-
rie, di «verde Normandia» o di «azzurro Mediterraneo»...
La stessa analisi si può applicare, su un piano non linguistico, alla bandiera nazionale o a
una cartolina con la torre Eiffel. Nei due casi, le si può prendere come semplici segni: che cosa
significano, storicamente, il blu e il rosso nella bandiera francese? Quando e perché è stata co-
struita la torre Eiffel? Domande che riguardano l'ordine del «conoscere», dell'informazione,
dell'utilità, del valore. Ma, più spesso, rutto ciò ci importa ben poco: la semplice vista di una
bandiera francese anche in capo al mondo riannoda il legame del cittadino con la nazione-madre
e lo identifica come francese, come quella della cartolina con la torre Eiffel ne riannoda i legami
con la «pariginità». Infatti questa torre è Parigi, come la bandiera bianca, rosso e blu è la Fran-
cia. Certo, lo sono con intensità diversa, a seconda delle circostanze (per esempio l'alzabandie-
ra in un giorno di festa nazionale) e del rapporto tra la bandiera e il mondo culturale di ognuno
(per esempio, calpestare volontariamente la bandiera davanti a un ex-combattente sarebbe, agli
occhi di costui, un vero sacrilegio; un tale attentato contro la madrepatria lo ferirebbe quanto

' P. RICOEUR, De l'interprétation. Essai sur Freud, Seuil 1965, pp. 25-27 (trad.: Dell'interpretazione.
Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1966).

85
un'ingiuria rivolta a lui personalmente). Molte sono le parole, le immagini, gli elementi mate-
riali simbolici la cui denigrazione ci colpisce personalmente come un insulto...
In tutti questi casi il simbolo ci fissa all'ordine del riconoscimento e non della co-
noscenza, dell'interpellazione e non della informazione: esso è mediatore delia nostra
identità di soggetto dentro quel mondo culturale che porta con sé e di cui è come il
«precipitato» inconscio.

— Tre tratti principali del simbolo


Gli esempi appena addotti permettono di evidenziare i tratti principali che, ci pare,
caratterizzano il simbolo.
1) Se il simbolo ha necessariamente un «valore» formale caratterizzante, e se, da
questo punto di vista formale, lo si deve considerare come il testimone intrinseco di
ciò che rende possibile ogni cultura come sistema coerente di valori, la sua funzione
non è, come quella del segno, di rimandare a un aliquid aliud che a sua volta appartie-
ne al campo del valore, della misura, del calcolo: valore cognitivo delle rappresenta-
zioni in relazione al reale; valore economico dell'avere in relazione alle disponibilità
del gruppo; valore tecnico degli oggetti in relazione al lavoro da compiere; valore eti-
co dei comportamenti in relazione alle norme della società, ecc. La funzione prima
del simbolo è di articolare colui che lo emette o lo riceve con il suo mondo culturale
(sociale, religioso, economico...) e così di identificarlo come soggetto nel suo rappor-
to con gli altri soggetti. In questo modo esso annoda il patto culturale in cui si realizza
ogni riconoscimento reciproco. Al tempo stesso, il simbolo attesta quella legge del-
Vassenza (dell'Altro, dell'Antenato...) che fonda ogni società umana e, in essa, ogni
individuo come soggetto. Tutte cose che, per definizione, sfuggono al «valore».
2) // simbolo compie così la funzione primordiale del linguaggio di cui è il testimo-
ne intrinseco: funzione non principalmente di informazione sul reale (prospettiva stru-
mentale), ma di informazione del reale a cui dà «forma» significante di «mondo» met-
tendolo a distanza e strappandolo al suo stato bruto; funzione non principalmente di
denominazione, di distribuzione di etichette, ma di interpellazione, di venuta-in-
presenza; funzione non principalmente di rappresentazione degli oggetti, ma di comu-
nicazione tra i soggetti. Certo, il linguaggio svolge pure, e necessariamente, una fun-
zione di informazione, di denominazione, di rappresentazione; e perciò questa polari-
tà di segno è sempre in relazione con la sua polarità simbolica. Ma la funzione simbo-
lica è la prima, e pertiene a un livello diverso da quello del segno. È il simbolo che,
nel linguaggio, rende parlante il reale: parlante per l'uomo perché parlante dell'uomo
e addirittura parlante l'uomo. Ed è allora il simbolo che rende parlante l'uomo: «.. .l'uo-
mo dunque parla, ma perché il simbolo lo ha fatto uomo»."'
3) La differenza tra segno e simbolo ci appare così omologa a quella che esiste
tra il principio del valore di oggetto che comanda il mercato e il principio, fuori valo-
re, della comunicazione tra soggetti, che comanda lo scambio simbolico.

10
J. LACAN, Écrits, p. 276.

86
d) Simbolo e realtà
Se è esatto che segno e simbolo appartengono a due livelli differenti in linea di
principio, non è più possibile pensare il secondo come un derivato del primo. Eppure
è stato questo il presupposto costante della retorica occidentale, come ha mostrato To-
dorov nella sua opera Théories du symbole.' ' Un presupposto del genere era, d'altron-
de, intrinsecamente legato alla metafisica del linguaggio-strumento, che punta a resti-
tuire nella maniera più univoca possibile il reale percepito nel suo stato di «natura»
e quindi ad adeguarsi ad esso come a propria norma (cf la verità-adeguamento).
Secondo questa problematica, il simbolo non può essere considerato se non come un segno
più complesso, che perciò si allontana tanto più dalla norma per il fatto di essere di natura poli-
semica. Con un «cambiamento intenzionale» (p. 75) esso riveste le cose di un ornamento più
bello, ricopre la verità di gioielli, come sottolinea Agostino a proposito di Cristo, non «per rifiu-
tarne la comunicazione ma per suscitarne il desiderio attraverso questa stessa dissimulazione». '2
Perché «più le cose appaiono velate da espressioni metaforiche, più, tolto il loro velo, esse sono
attraenti».13 L'interpretazione è allora uno «spogliarello... Infatti nell'ermeneutica classica, co-
me negli strip-teases di Pigalle, la durata del processo, o anche la sua difficoltà, ne aumenta
il valore, purché si sia sicuri di arrivare alla fine al corpo stesso» (p. 75).
L'espressione simbolica non coinvolge dunque in alcun modo il corpo della verità,
che resta sempre lo stesso. È questo «uno dei paradigmi più persistenti della cultura
occidentale» fin dall'antichità: dato che «il pensiero è più importante della sua espres-
sione» (p. 116), ne può essere staccato; al punto che, lungo tutta la retorica tradiziona-
le, Inesistenza della figura si basa sulla convinzione che due espressioni, l'una con
immagine e l'altra senza, esprimono — come diceva Du Marsais (nel sec. XVIII) —
"lo stesso fondo di pensiero"» (p. 122s).
I romantici tedeschi cominciano a rivoluzionare questo modello. «Linguaggio alla seconda
potenza», scrive Novalis, il simbolo non è «un mezzo verso uno scopo» ma «lo scopo in sé»
(p. 207). Il suo «auto-telismo» lo rende «intransitivo» (p. 246): esso non rimanda a un'«idea»
che gli sarebbe esterna e gli preesisterebbe. Perciò, arriva a dire Schelling, le figure simboliche
«non significano, ma sono la cosa stessa», come la Maddalena del vangelo «non significa soltan-
to il pentimento, ma è lo stesso pentimento vivo» (p. 246). Notevole è, a questo proposito, la
formula di Goethe: il simbolo «è la cosa senza essere la cosa, eppure è la cosa» (p. 239). Tutto
l'insieme dell'ideale artistico classico è, di colpo, battuto in breccia: non si tratta più, come
pensava ancora Diderot, di imitare la natura o qualche modello ideale «che l'artista possiede
nella sua mente» (pp. 146ss). Ormai l'accento cade sull'artista che «pro-duce se stesso» nella
produzione, e non più sulla riproduzione di un modello predeterminato.
Certo, questa rivoluzione romantica comporta dei rischi. Infatti, esaltando in maniera trop-
po unilaterale la funzione espressiva rispetto a quella rappresentativa, si rischia di affondare
nella palude di una soggettività esacerbata, nelle sabbie mobili dell'«indicibile» e del «commo-
vente», nella mistica vaporosa di un esoterismo «para-psicologico» o para-religioso: il tutto ma-
gari basato su una pseudo-teoria del «simbolo per il simbolo» o dell'«arte per l'arte». A questi
rischi si sfugge soltanto ricordando che non c'è mai simbolo puro.

" T. TODOROV, Théories du symbole, Senil 1977. I riferimenti tra parentesi nel testo rinviano a que-
st'opera (trad. ital.: Teorìe del simbolo, Garzanti, Milano 1984).
n
AGOSTINO, Serm. 51,4,5. Citato da TODOROV, op. cit., p. 75.
13
ID., De doctr. christ. IV, 7,15. Citato, ibid., p. 76.

87
La simbolizzazione non è dunque né un semplice ornamento né una degenerazione
del linguaggio. Al contrario, essa dispiega la dimensione primaria del linguaggio, la
sua «vocazione» essenziale, dove l'uomo «non percepisce mai l'acqua allo stato di "rea-
l e " puro, cioè non significante per l'uomo stesso. L'acqua che vedo è sempre profon-
da, limpida, pura, fresca, oppure stagnante. Il suo reale è di essere immediatamente
metaforico di tutta la mia esistenza».14 Questa non è semplicemente «come» l'acqua:
il «come» — prosegue Vergote — «non opera la trasposizione dell'acqua alla sua signi-
ficazione simbolica» perché la similitudine istituisce un legame che rimane esterno al
reale evocato.
Qui invece il rapporto è globale e intrinseco. Al punto che nei bagni rituali, soprat-
tutto in quelli che sono articolati attorno alla simbolica iniziatica della morte e della
risurrezione, possiamo riconoscere la manifestazione più alta del reale dell'acqua. Questa
non raggiunge mai la sua verità con tanta pienezza come quando è sepolcro di morte
e bagno di rinascita: metafora stessa dell'esistere umano.
Lungi dunque dall'essere opposto al «reale», come vorrebbe la logica dominante
del segno, il simbolo concerne quanto e 'è di più reale di noi stessi e del nostro mondo.
Ci tocca nel vivo. Di qui i suoi rischi di deriva verso il «romanticismo» del «toccante».
Ma questo stesso rischio è portatore di una verità profonda. Non è infatti «in ciò che
ci toglie la parola, in quell'angoscia che ci stringe la gola, che riprendiamo contatto
con le fonti vive della parola»?" Vi sono infatti circostanze — un lutto, per esempio
— in cui le parole, impotenti o fuori luogo, non possono che cedere il posto al linguag-
gio del corpo. La rosa offerta, il bacio scambiato, o semplicemente il silenzio pieno
di una presenza dicono meglio di ogni discorso l'implacabile distanza che mi separa
dall'amico nella prova — «Non posso mettermi al tuo posto... Non sono te» — e simul-
taneamente, in questa breccia di alterità che essi manifestano, la verità della mia pre-
senza a lui: «Sono con te». La presenza reciproca non è forse mai così reale come in
questo momento in cui, per la grazia del gesto simbolico, si disegna lo scarto insor-
montabile, l'assenza radicale che rende impossibile all'uno prendere il posto dell'al-
tro. Questo gesto dispiega l'essenza stessa di ogni linguaggio, elevandolo come alla
sua seconda potenza: esso realizza la comunicazione, l'alleanza, il riconoscimento di
due soggetti nell'atto stesso in cui, su uno sfondo di morte, si riconoscono come i più
«altri». E la morte cessa così di essere un semplice destino biologico fatale; addomesti-
cata dal gesto simbolico, essa diventa «umana» e svela così la sua «verità»: non una
semplice scadenza inevitabile su cui ci si potrebbe intrattenere come su di un oggetto
esterno che ci «colpisce» soltanto quando se ne parla, ma quella stessa realtà che ci
permette di intra-tenerci e che abita il punto più vitale della nostra vita.16

2. Due polarità di ogni linguaggio


Affermare che segno e simbolo, come lo scambio di mercato e lo scambio simboli-
co, pertengono a due principi, a due logiche, a due livelli diversi, non vuol dire che

'* A. VERGOTE, Interprétation du langage relìgieux, op. cit., p. 64.


" E. ORTIGUES, op. cit., p. 33.
"• Vedere gli sviluppi notevoli sul rapporto tra morte e «intrattenimento» in G. LAFON, Le Dieu com-
mun, Seuil 1982.

88
si potrebbe scegliere l'uno a scapito dell'altro. Infatti i due sono solidali nella realtà
concreta.

a) La rivendicazione simbolica di riconoscimento in ogni discorso di «conoscenza»


Ogni discorso è suscettibile di una duplice lettura: sia, sul versante del simbolo,
come linguaggio di riconoscimento, fondatore di identità per i gruppi e gli individui,
e operatore di coesione (riuscita o meno) tra i soggetti dentro il loro mondo culturale;
sia, sul versante del segno, come linguaggio di conoscenza che tende a dare informa-
zioni e a emettere giudizi. Il mito rappresenta l'esempio più tipico del primo, nella
misura in cui — come ha messo in luce C. Lévi-Strauss — facendo giocare insieme
(«sim-boleggiando») i molteplici codici culturali di cui vive inconsciamente il gruppo
(da quello della parentela a quello della cucina), costituisce il linguaggio fondatore che
permette al gruppo stesso di riconoscersi, di identificarsi, di trovarsi uno spazio signi-
ficante sotto il sole, e che fa degli individui i soggetti di un «noi» sociale comune: tutti
vi si ritrovano. Il discorso scientifico è invece tipicamente rappresentativo del linguag-
gio di conoscenza, tanto più che vuol essere — per principio metodologico — un di-
scorso senza soggetto.
Ma, come osserva F. Flahault, sarebbe una grave illusione — di cui è esempio il
positivismo — credere che il soggetto dell'enunciazione, l'uomo scientifico, sia assen-
te dal suo discorso «oggettivo», che non cerchi anche lui di essere riconosciuto dai
suoi «pari», di trovarsi un posto tra gli altri uomini, di dare un senso umano alla sua
ricerca. Infatti «non è più nel contenuto delle sue parole che si trasmette qualcosa che
lo supera, ma nel fatto che le sue parole sono riconosciute come appartenenti alla scien-
za». Pronunciando il suo discorso, lo scienziato fruisce del fatto di «essere nel luogo
del Terzo incontestabile, di essere quell'inattaccabile " s i " impersonale ("si sa che")
o affini ("è provato che"), di troneggiare su quel garante della verità che è l'acquisi-
zione "scientifica"».17
Di qui, come ha fatto notare P. Bourdieu, quel «punto d'onore» degli scienziati
di «moltiplicare i segni di rottura con le rappresentazioni del linguaggio comune»,18
e di rivendicare, attraverso questi «tratti» di distinzione, una posizione sociale consi-
derata di prestigio. Perché «la ricerca della massimizzazione della rendita informativa
è solo per eccezione il fine esclusivo della produzione linguistica, e l'uso puramente
strumentale del linguaggio che essa comporta entra normalmente in contraddizione con
la ricerca, spesso inconscia, del profitto simbolico»,19 o, ancora, con la preservazione
e la crescita presso gli interlocutori «del loro capitale simbolico, cioè del riconosci-
mento, istituzionalizzato o meno, che essi ricevono da un gruppo».20
Il linguaggio quotidiano è anch'esso costantemente preso tra il simbolo e il segno. La con-
versazione più banale sui capricci del tempo, malgrado le sue apparenze assertive e informative,
17
F. FLAHAULT, op. cit., p. 220s. Nella nostra società molte proposizioni sono ritenute «scientifiche»
soltanto nella misura in cui «la scienza svolge la funzione degli antenati», osserva a sua volta D. SPERBER
(Le Symbolisme en general, Hermann, Paris 1974, p. 113). Cf l'analisi interessante di questo fenomeno
che l'autore propone in termini di «sapere simbolico», pp. 97-125.
" P. BOURDIEU, Ce que parler veut dire. L'economie des échanges linguistiques, Fayard 1982, p. 145,
n. 10.
" I D . , ibid., p. 60.
20
I D . , ibid., p. 68.

89
ha normalmente ben poco interesse quanto a conoscenze trasmesse. Benché molto meno appari-
scente, è molto più importante la polarità simbolica di questo parlare per non dire nulla. In
effetti, è capitale per ognuno di noi parlare a qualcuno: la comunicazione ha valore per se stes-
sa; ciò che qui viene rivendicato è un riconoscimento sociale di «presenza».
Ecco perché poche righe o eventualmente anche soltanto una firma su una cartolina possono
essere simbolicamente altrettanto efficaci, per (ri)saldare un'amicizia, quanto una lunga missiva.
Si potrebbero portare mille esempi anche nell'ambito extra-linguistico: la stretta di mano
più banale e più quotidiana può ritrovare in certe circostanze la sua potenza simbolica di allean-
za e di riconoscimento-riconoscenza. Lo stesso vino della stessa botte può essere usato per dis-
setarmi o per «innaffiare» una festa in cui ci si dice la gioia di stare assieme, la felicità di essersi
riconciliati, la stima che ci si porta. E lo scarpone più scalcagnato, miseramente abbandonato
su un marciapiede, può perdere tutto il suo valore utilitario di prodotto fabbricato per diventare
il simbolo di tutta la miseria del mondo. Le nostre giornate sono piene di letture simboliche
come queste: di cose che parlano senza sosta dentro di noi, che costantemente — e per lo più
senza che ci si pensi — annodano dei legami tra il nostro mondo e il mondo degli altri, rivendi-
cano per noi un posto significante, domandano un riconoscimento di «chi sono io per te, chi
sei tu per me». Ora, non è forse questo pane simbolico della parola che ci fa vivere, che ci
«intra-tiene»?

b) Il posto necessario della «conoscenza» in ogni espressione simbolica


Se in ogni discorso informativo si svolge una negoziazione simbolica di posti, vi-
ceversa ogni espressione simbolica tende a essere assunta in un discorso di conoscenza
in cui qualcosa viene detto di qualcosa, discorso che possa essere sanzionato da un
giudizio di valore. Salvo forse al suo grado-zero, come nel caso del fonema, il simbolo
puro non esiste; in ogni caso, non al livello del «simbolo propriamente detto».
Un minimum di sapere è necessario perché il quadro di Van Gogh già menzionato possa eser-
citare la sua potenza di simbolizzazione. Così, è probabilmente indispensabile sapere cosa sono
delle calzature e a che servono abitualmente, nonché sapere cosa fosse un tempo la vita contadi-
na, per avvertire lo scarto simbolico tra queste calzature come semplici prodotti di fabbricazio-
ne e la loro rappresentazione pittorica: sono certamente le stesse, ma pure totalmente altre. E,
senza dubbio, non è indifferente sapere che si tratta di un'opera di Van Gogh perché esse ci
parlino simbolicamente: è qualcosa della sua vita, così spesso miserabile, che qui viene metafo-
rizzato, come lo sono i suoi tormenti nelle torsioni di colori, di impasto e di spazio che caratte-
rizzano così nettamente il suo stile in altri quadri. E non è neppure indifferente, sempre in rela-
zione al funzionamento simbolico dell'opera, sapere che la rappresentazione di oggetti così «brutti»
e banali è caratteristica di una nuova età della pittura, dentro una cultura che rompe con i canoni
estetici e i gusti legittimi dell'epoca barocca, per esempio, e che un'opera come questa è l'e-
spressione di Van Gogh non come individuo isolato astrattamente dal suo mondo ma come membro
di una società concreta di cui riflette le norme convenzionali perfino nell'opposizione ad esse
e a ogni accademismo. Certo, non sono questi giudizi di conoscenza e di valore sulla collocazio-
ne di Van Gogh nella storia della pittura a produrre il godimento estetico dello spettatore. Ne
è prova il fatto che un'enciclopedia o un semplice dizionario illustrato possono fornirci questo
sapere: e a questo livello l'opera non è più arte ma semplicemente una bella tavola di illustrazio-
ni a colori, utile all'informazione del lettore. Tuttavia, come abbiamo appena visto, un sapere
come questo non è del tutto estraneo agli effetti simbolici dell'opera.
Non saper nulla di tutto ciò vorrebbe dire trovarsi nella situazione di un indiano dell'Amaz-
zonia che non conoscesse nulla del mondo dei bianchi: né le scarpe, né la vita contadina né
una qualsiasi immagine venuta dall'Occidente, afortiori se incorniciata ed esposta in un museo.
Non soltanto il quadro non gli direbbe nulla, ma egli non lo «vedrebbe» neppure. Così come,

90
stando a A. Malraux, «se Delacroix — cent'anni fa — avesse potuto guardare le opere qui pre-
sentate» cioè quelle dell'arte sumerica, «non le avrebbe viste»; perché, se anche l'Ottocento le
avesse scoperte, non sarebbero allora «diventate visibili in quanto opere d'arte», tanto i canoni
estetici dell'epoca, regolati sulla «bellezza», ostacolavano una rivelazione del genere.21
L'esperienza simbolica non basta dunque a se stessa. Non ci sono simboli che non
siano tesi verso un discorso di conoscenza, discorso di verità che è la pretesa di ogni
linguaggio. Un simbolo di cui non si potesse dire nulla si dissolverebbe nell'immagi-
nazione. Se dunque abbiamo rifiutato la retorica classica che riduceva il simbolo a una
specie di escrescenza «estetica» del segno, non è per sostituirle la teoria dei filosofi
romantici, per quanto decisivo sia stato d'altra parte il loro apporto. L'autotelismo pu-
ro e l'intransitività assoluta del simbolo, non meno dell'arte per l'arte, sono soltanto
il prodotto dell'ideologia romantica. Non resta dunque che riconoscere l'esistenza si-
multanea di due livelli e di due poli del linguaggio.

II. L'ATTO DI SIMBOLIZZAZIONE

1. Analisi
Analizzando l'atto di simbolizzazione in se stesso, ritroveremo evidentemente i tratti
fondamentali già ricordati; ma avremo anche l'occasione di fare alcune precisazioni
che ci sembrano importanti. Supponiamo, sulla scia del simbolo antico, due agenti se-
greti durante l'ultima guerra: non si conoscono ma devono collaborare in un sabotag-
gio. L'Ufficio centrale fa consegnare a ognuno dei due la metà di un biglietto di banca
tagliato in puzzle. L'atto di simbolizzazione può essere scomposto in sei elementi:
1. È un atto di congiunzione dei due pezzi del biglietto. Il simbolo non esiste che
in atto. Non appartiene all'ordine delle «idee» ma del «fare». Questo «fare» può essere
un gesto, come nel nostro caso. Ma, più in profondità, questo simbolo ha una prospet-
tiva di operatività o di realizzazione, come vedremo al 6°.
2. I due pezzi sono necessariamente distinti. Questa ovvietà va ricordata soltanto
per richiamare che si possono simboleggiare soltanto elementi distinti (cosa gravida
di conseguenze quando, per esempio, diremo che i sacramenti simboleggiano Cristo
e la Chiesa).
3. Ognuno dei due elementi non ha valore se non in relazione ali 'altro (cf i fram-
menti di vaso spezzato): metà biglietto di 1.000 lire non fa 500 lire! Preso isolatamen-
te, ognuno dei due pezzi può soltanto «regredire verso rimmaginario ineffabile» (Orti-
gues) e significare più o meno qualsiasi cosa.
4. Non conta il valore monetario del biglietto: un biglietto di 1.000 lire può servi-
re tanto quanto uno di 10.000 o quanto un pezzo di giornale: l'efficacia dell'atto di
simbolizzazione non è dipendente — salvo accidentalmente in certi casi — dal valore
di merce o dal valore d'uso dell'oggetto impiegato. Abbiamo insistito su questo punto
a proposito dello scambio simbolico. Lo stesso a proposito del dono: un «nulla» — nulla

21
A. MALRAUX, Prefazione all'opera di A. PAROT, Sumer, Gallimard 1960, p. XI.

91
dal punto di vista del valore commerciale o utilitario — può essere in questo caso così
efficace sul piano simbolico! Il simbolo è per essenza fuori valore. Ciò che conta non
è l'utilità dell'oggetto ma lo scambio che esso permette tra i soggetti.
Da qui viene, del resto, la deriva del termine di «simbolo» nelle nostre lingue occidentali:
«più è simbolico, e meno è importante» o «e meno è reale»... Perché versare dell'acqua che
scorra veramente sulla fronte dei piccoli battezzati: tre gocce bastano, dal momento che «è un
gesto simbolico»! E come non pensare qui alla «lira simbolica» versata come risarcimento e co-
me pagamento di interessi? Questa deriva è perfettamente comprensibile perché si inserisce sul
fatto indiscutibile che l'efficacia del simbolo non è legata al suo valore o alla sua utilità econo-
mica, pratica, cognitiva, morale, o anche «estetica»...
Ora, se è vero che le poche lire che tiro fuori per acquistare un calendario degli scouts o
della GIOC sono simboliche, non è perché sono — come sono di fatto — una somma molto
debole, ma perché costituiscono per me una mediazione efficace per riannodare i miei legami
con organizzazioni con cui solidarizzo senza esserne membro o attore diretto, e perché questa
efficacia non è essenzialmente legata al valore di quello che dono. Come nell'esempio eminen-
temente simbolico del dono, percepiamo qui che il simbolo, lungi dal muoversi nella direzione
dell'irreale (a meno che non si identifichi il reale con il valore economico), investe invece quan-
to c'è di più «reale» nella nostra identità.
5. e 6. L'atto di simbolizzazione è simultaneamente rivelatore e operatore. È rive-
latore di identità: infatti i due portatori si riconoscono come partner. Ed è operatore:
in quanto si riconoscono come partner, essi sono legati in un «noi» comune, sottoposti
agli stessi rischi di essere fatti prigionieri e agli stessi pericoli di morte. Il simbolo
è operatore di alleanza in quanto è rivelatore di identità.
Si può davvero parlare di un'efficacia del simbolo, un'efficacia che investe il reale
stesso. Tuto sta nel sapere di quale reale si parla. Se ce lo rappresentiamo come lo
hypokeimenon, il substrato, la sostanza ontologica, allora l'efficacia simbolica non è
pensabile. Ma, come abbiamo sviluppato nelle nostre riflessioni, non è con questo rea-
le «bruto» che noi abbiamo a che fare. A venirci incontro è sempre un reale già cultu-
ralmente costruito, un reale che parla perché è parlato. E questo reale è il più reale.

2. La performatività dell'atto di simbolizzazione


a) Racconto e discorso
L'atto di simbolizzazione, come abbiamo osservato, realizza la vocazione essen-
ziale del linguaggio: attuare l'alleanza in cui i soggetti possono emergere e riconoscer-
si come tali dentro il loro mondo. Ora, ciò corrisponde con sufficiente esattezza a quelli
che J.L. Austin chiama gli atti linguistici.22 Ogni atto linguistico è un processo, cioè
la messa in opera di quel sistema (fonemi, morfemi, lessemi, sintassi) che è la lingua.
E. Benvéniste distingue due grandi tipi di questo processo: il racconto storico, coman-
dato dalla terza persona e dal passato (anche quando, incidentalmente, vengono usati
la prima persona e il presente), e il discorso, comandato dalla prima persona in rap-
porto con la seconda e dal presente.23 Questo discorso concerne non il testo dell'enun-
ciato come tale ma l'atto d'enunciazione. Ora questo atto, questo «tentativo di discorso»

22
J.L. AUSTIN, Quand dire e 'estfaire, Seuil 1970 (trad. ital. : Quando dire è fare, Marietti, Torino 1974).
23
E. BENVÉNISTE, Problèmes de linguistique generale, t. 1, op. cit., cap. 19, soprattutto p. 242s.

92
è ogni volta unico, perché ogni volta pone FIO e al presente. Come l'IO (e dunque
il TU), questo «presente assiale del discorso» è sempre almeno «implicito»; viene «rein-
ventato ogni volta che un uomo parla, perché è letteralmente un momento nuovo, non
ancora vissuto».24

b) Constativo e performativo
Ma ciò suppone che SI dica qualcosa su qualcosa. Questo dire qualcosa su qualcosa
esige che ogni linguaggio abbia una funzione informativa, di tipo constativo secondo
Austin — per esempio, descrittivo: «ho scommesso» o «egli scommette»; ma il fatto
che la cosa venga detta «a qualcuno» esige un'altra funzione in cui è primaria la comu-
nicazione tra soggetti, una funzione che si situa nel solco del performativo come atto
linguistico, cioè come azione che cambia realmente la posizione dei soggetti per il sem-
plice fatto dell'atto di enunciazione: «io scommetto» non è una semplice informazione
o una descrizione di prestazione come in «ho scommesso» o «egli scommette»; «io scom-
metto» costituisce la prestazione, Vesecuzione come tale: con la scommessa sono real-
mente impegnato verso il mio interlocutore.
Constativo e performativo mettono in opera due funzioni differenti del linguaggio:
il primo, la sua funzione informativa; il secondo, la sua funzione comunicativa e allo-
cutiva. Tuttavia, i due non esistono mai allo stato totalmente puro: sono sempre in
tensione dialettica come due poli del linguaggio. «È un fatto che le enunciazioni per-
formative dicono qualcosa al tempo stesso in cui fanno qualcosa», osserva Austin.25
Così, «io scommetto» contiene un minimum di informazione, anche se pertiene prioritaria-
mente al performativo. E altrettanto «ti comando di chiudere la porta»: questo enunciato suppo-
ne la constatazione che c'è una porta e che è aperta, ma è fuori di dubbio che, come atto di
linguaggio, esso «significa» all'altro la sua subordinazione (reale o semplicemente desiderata),
lo rimette al suo posto (come si dice), instaura o restaura, crea o rafforza l'autorità del locutore
su di lui. Viceversa, «oggi fa bello» sembra essere pura costatazione; ma l'informazione che
qui viene trasmessa è talmente evidente che, sotto pena di prendere l'altro per uno stupido, il
senso vero della frase è un altro, e cioè: la domanda pura e semplice di annodare un legame
con qualcuno. Questa domanda dell'altro, codificata e travestita a tal punto che vi rispondiamo
in maniera quasi automatica senza mai pensarla come tale, non appartiene al performativo ma
tuttavia si colloca nella sua scia. Più precisamente, ha a che fare con quella che Austin chiama
la dimensione illocutoria del linguaggio.

c) Locutorio, illocutorio e perlocutorìo


Ogni discorso, ogni atto linguistico ha infatti, secondo Austin, tre dimensioni a se-
conda dei casi: la dimensione locutoria risiede nella «produzione di una frase dotata
di un senso e di una referenza, i due elementi che costituiscono quasi esattamente il
significato nel senso tradizionale del termine». Da questo «atto di dire qualcosa» si di-
stingue l'«atto realizzato dicendo qualcosa» che viene designato dalla dimensione illo-
cutoria dell'atto linguistico (atto inteso qui nel senso più forte), che a sua volta si di-
stingue dall'effetto esterno prodotto «dal fatto di dire qualcosa (il "dal" ha allora "un

24
ID., ibid., t. 2, pp. 73-75; t. 1, pp. 252-255.
" J.L. AUSTIN, op. cit., p. 144. Le citazioni che seguono rimandano a quest'opera.

93
senso strumentale") e che costituisce la dimensione perlocutoria dell'atto linguistico»
(p. 119, 136). L'espressione di «atto linguistico» conviene a titolo speciale all'illocuto-
rio, dal momento che questo designa un fare strettamente intralinguistico la cui espres-
sione compiuta si trova nella classe dei verbi performativi in senso stretto, come «pro-
metto», «scommetto», «mi impegno», «ti ordino»...: la relazione dei soggetti non è più
la stessa di prima.
È facile capire come l'illocutorio sia suscettibile di tutti i gradi possibili nell'uso: dal livello
più esplicito, come nei performativi in senso stretto («ti giuro», «ti prendo come sposa»), fino
al più implicito, come nell'esempio già dato della più banale informazione: «questa mattina fa
bel tempo».
Tra i due, l'illocutorio conosce un livello medio, semi esplicito, come in una frase interroga-
tiva. Così «che ore sono?» presuppone: «le chiedo di dirmi l'ora», o ancora: «le ingiungo di
rispondermi». Una domanda di questo genere costituisce infatti una situazione così nuova tra
i soggetti, che una non-risposta alla domanda chiaramente formulata viene interpretata come
un insulto personale, una negazione offensiva della presenza di chi chiede, un omicidio simboli-
co. Da tutto ciò deriva che «realizzare un atto locutorio in generale significa produrre eo ipso
un atto illocutorio» (p. 112); così che «ogni atto di discorso autentico comprende i due elementi
alla volta» (p. 149).
Ciò che l'illocutorio realizza nell'atto linguistico stesso, ilperlocutorio lo fa come
conseguenza dell'atto. Esso infatti designa l'effetto dell'atto linguistico «sui sentimen-
ti, i pensieri, gli atti dell'uditorio, o di colui che parla, o di altre persone ancora».
Vi sono verbi strettamente perlocutori, come «convincere», «persuadere», «spaventa-
re». .. ; altri che sono, secondo le circostanze, perlocutori e/o illocutori, come «coman-
dare», «ordinare», «minacciare». «Ti ordino di chiudere la porta» ha certamente un'in-
tenzionalità perlocutoria (che la porta venga effettivamente chiusa), ma può anche es-
sere soltanto un pretesto per manifestare illocutoriamente la mia autorità. Più ampia-
mente ancora, «un atto perlocutorio può sempre, o quasi sempre, essere suscitato, con
o senza premeditazione, da non importa quale enunciazione, e soprattutto da un'enun-
ciazione puramente e semplicemente constativa» (p. 120): una semplice informazione
data a qualcuno può farlo rinunciare a un progetto; sotto la sua apparente neutralità
può essere ricercato, attraverso un'insinuazione, questo stesso effetto perlocutorio (cf
la frase «non hanno più vino» di Maria a Cana, Gv 2,3).

d) Tratti distintivi
Austin è il primo a riconoscerlo: la distinzione proposta è, di fatto, poco chiara
in molti casi. Le tre dimensioni sono concretamente più o meno mischiate. Comun-
que, più di un tratto pare debba essere mantenuto.
1. Anzitutto, la distinzione tra l'effetto m?ra-linguistico illocutorio e l'effetto extra-
linguistico perlocutorio. Dire: «Le ordino di chiudere la porta» ha una portata priorita-
riamente sia intra-linguistica (relazione superiore/subordinato), sia extra-linguistica (la
chiusura della porta è ottenuta o meno; o ancora: l'enunciato ha provocato nel destina-
tario un sentimento di paura, di irritazione, o di piacere).
2. L'illocutorio, e più ancora il performativo, non appartiene all'ordine del vero
o del falso, ma del riuscito o del fallito, cioè in ultima analisi del legittimo o dell'ille-
gittimo: «Scommetto con te» può essere un atto performativo nullo e come non av-

94
venuto, se le circostanze sono difettose, per esempio se si omette di stringersi recipro-
camente la destra lì dove questo rito è convenzionalmente riconosciuto come suggello
della parola data; oppure se non sono autorizzato a impegnarmi in una scommessa di
questo tipo... E così pure: «Ti prendo in sposa», se uno dei due partner è legalmente
coniugato con un'altra persona.
3. Così, anche se «è difficile dire dove cominciano e dove finiscono le convenzio-
ni» (p. 126), si può affermare che «gli atti illocutori sono convenzionali» mentre «non
lo sono gli atti perforatori» (p. 129). La performatività dipende dunque non soltanto
da condizioni intrinseche al linguaggio ma anche dalle circostanze dell'enunciazione,
e in particolare dall'esistenza di una procedura riconosciuta, dalla sua esecuzione cor-
retta, dalla legittimità degli agenti, dei luoghi, dei momenti...
4. Quest'ultimo tratto mostra due cose: da una parte, che le manifestazioni para-
digmatiche degli atti illocutori vanno cercate sul versante degli atti linguistici verbali
e/o gestuali dei rituali, o ancora, che i rituali sono delle messe-in-scena che dispiegano
la dimensione iilocutorio-performativa del linguaggio; d'altra parte, come hanno sot-
tolineato P. Bordieu e F.A. Isambert, mostrano che la «forza illocutoria» di questo
linguaggio non va cercata in «una magia delle parole» o in qualche «mana verbale»
ma nel «consenso che le convalida». Così, un «prometto» ha valore soltanto come pat-
to tra il mio partner, me stesso e la collettività che regola le condizioni di validità della
promessa26 o come «relazione tra le proprietà del discorso, le proprietà di colui che
lo pronuncia e le proprietà dell'istituzione che lo autorizza a pronunciarlo».27 Il potere
delle parole nell'atto illocutorio, soprattutto nella sua manifestazione performativa ri-
tuale, risiede nel fatto che esse non vengono pronunciate a titolo semplicemente indi-
viduale bensì a titolo di «procuratore» del gruppo, di rappresentante del «capitale sim-
bolico» di questo.28 Esso evidenzia pure in maniera esemplare ciò che accade in ogni
linguaggio: un rapporto di ruoli, un riconoscimento, un'identificazione dentro un mondo
sociale e culturale.
5. A livello dei rituali esiste una gerarchia di gradi. Così, la codificazione sociale
appare con forza in un «ti battezzo» o ancora in un «approvo» emessi dal presidente
dell'assemblea in nome della sua funzione e nel quadro di un rituale di negoziazione.
La legittimità delle procedure (agente qualificato, formula e gesto programmati, ecc.)
ha un ruolo di grande importanza in cerimoniali di questo tipo. Viceversa, in uno «scom-
metto» enunciato nel corso di una chiacchierata tra amici, il riferimento al Terzo as-
sente (l'Altro sociale, sotto la cui istanza soltanto può essere fatta una scommessa) non
è più che implicito.
A questi livelli diversi, siamo nell'ordine del rito (nel senso ampio del termine)
e, in maniera ancor più evidente, nell'ordine di quell'«illocutorio che solo può spezza-
re la dualità tra il dire e il fare»," poiché realizza simbolicamente, per il solo fatto
dell'enunciazione, una trasformazione dei rapporti tra i soggetti sotto l'istanza del Terzo
sociale (la legge) al quale necessariamente si riferiscono (e in maniera esplicita nei

26
F.A. ISAMBERT, Rite et efficacite' symbolique, Cerf 1979, p. 194.
" P. BOURDIEU, Ce que parler veut dire, op. cit., p. 111.
28
ID., ibid., pp. 107-109.
" F.A. ISAMBERT, op. cit., p. 94.

95
grandi rituali istituiti). «Soltanto entro questo quadro il performativo acquista un sen-
so... Esso ha tutte le caratteristiche del rito, e la sua efficacia è esattamente dell'ordine
di quella simbolica».30

III. L'EFFICACIA SIMBOLICA DEI RITI

1. Alcuni esempi di efficacia simbolica nei riti tradizionali


Si tratti del rituale sciamanico del parto presso gli Indiani Cuna (di cui parla Lévi-
Strauss), del rituale di «afflizione» Ihamba presso gli Ndembu (analizzato da Turner)
o ancora del rituale di guarigione Esa presso i Douala del Camerun (presentato da E.
de Rosny), l'efficacia simbolica pertiene sempre all'ordine socio-culturale.

a) C. Lévi-Strauss
Nel primo caso, la partoriente si trova nell'impossibilità di far uscire il figlio. Senza toccarla
né amministrarle medicine, lo sciamano riesce, con un lungo incantesimo, a provocare il parto.
Egli canta un mito; un combattimento violento, intessuto di mille peripezie tra lo sciamano e
le immagini sacre (nuchu) che rappresentano gli spiriti protettori, da una parte, e la potenza
responsabile della formazione del feto, dall'altra. Questa potenza, Muu, con le figlie si è impos-
sessata dell'anima della futura madre. Ora, «la strada di Muu e il suo soggiorno non sono per
il pensiero indigeno un itinerario e un soggiorno mitici, ma rappresentano letteralmente la vagi-
na e l'utero della donna incinta, che lo sciamano e le nuchu esplorano fino a ingaggiare, nel
punto più profondo, il loro combattimento vittorioso».31 Il canto del mito costituisce dunque
«una manipolazione psicologica dell'organo malato».32 Ma questa manipolazione è possibile,
sottolinea Lévi-Strauss, soltanto perché «la malata ci crede ed è membro di una società che ci
crede. Spiriti protettori e spiriti malefici, mostri soprannaturali e animali magici, fanno parte
di un sistema coerente che fonda la concezione indigena dell'universo. La malata li accetta o,
più esattamente, non li ha mai messi in dubbio. Ciò che essa non accetta sono dei dolori incoe-
renti e arbitrari, che — essi sì — costituiscono un elemento estraneo al suo sistema, ma che,
attraverso il richiamo al mito, lo sciamano ricolloca in un insieme in cui tutto ha coesione».
Questo punto è capitale. Infatti, se la partoriente guarisce effettivamente, non è soltanto per-
ché sa e comprende il rapporto tra il mito e il suo stato somatico. Questo sapere non basta: per
noi, conoscere la relazione di causa ed effetto tra microbo e malattia non guarisce nessuno, per-
ché tale relazione è «esterna allo spirito del paziente». Invece la relazione tra le potenze evocate
nel mito e la malattia è «interna a questo stesso spirito, lo sappia o meno», presso i Cuna. «È
una relazione come tra simbolo e cosa simboleggiata... Lo sciamano fornisce alla sua malata
un linguaggio in cui si possono esprimere immediatamente stati informulati e non formulabili
in altro modo. Ed è il passaggio a questa espressione verbale (che permette, al tempo stesso,
di vivere in forma ordinata e intelligibile una esperienza attuale che, senza il linguaggio, sareb-
be anarchica e ineffabile) a provocare lo sblocco del processo fisiologico».33
Come si vede, se l'effetto «perlocutorio» extralinguistico del parto è reso possibi-
le, lo si deve alla mediazione di un effetto «illocutorio» intra-linguistico. L'efficacia

30
ID., ibid., p. 99.
31
C. LEVI STRAUSS, Anthropologie strutturale, op. cit., p. 207.
32
ID., ibid., p. 211.
33
ID., ibid., p. 218. Le sottolineature sono nostre.

96
simbolica del mito consiste nel manipolare un elemento estraneo al sistema culturale
della paziente e del suo grappo, incoerente in relazione al suo «mondo» e dunque indi-
cibile e impensabile, per «ricollocarlo in un insieme in cui tutto ha coesione».

b) V. Turner
Abbiamo un'altra illustrazione di questo stesso tipo di fenomeno nei «tamburi d'afflizione»
di V. Turner. Kamahasanyi è davvero somaticamente malato: è afflitto da un'«ombra», perse-
guitato da uno spirito malefico. V. Turner mostra che di fatto egli è ammalato di una posizione
sociale praticamente insostenibile in ragione di una contraddizione tra la sua posizione nel vil-
laggio e la sua posizione nei legami di parentela. Il lungo rituale Ihamba, che viene praticato
su di lui in presenza della comunità, si conclude con l'estrazione di un dente dal suo corpo.
Questo dente è il simbolo principale di ciò che succede, in fatto di animosità socio-culturale,
tra Kamahasanyi e i suoi simili; ne è come il concentrato.
Il rituale permette all'ammalato, tra l'altro, di parlare senza essere contraddetto. Anzi, ha
appunto lo scopo di offrirgli la possibilità di esprimere con veemenza il proprio rancore contro
coloro — in particolare i suoi parenti matrilineari — che «hanno un dente contro di lui». In ogni
caso, osserva Turner, nella sequenza finale in cui lo «stregone» estrae un dente umano dal corpo
del malato, «sentii che ciò che veniva strappato via da quest'uomo era di fatto l'animosità del
villaggio». Effettivamente, il malato è guarito somaticamente; ma al tempo stesso è anche tutto
il gruppo che viene guarito, poiché «un'esplosione spontanea di sentimenti amichevoli s'era im-
padronita della comunità del villaggio. Coloro che avevano avuto relazioni di ostilità s'erano
ora stretti cordialmente la mano».34
Anche qui l'efficacia somatica è resa possibile dall'efficacia simbolica del linguag-
gio che il rituale fornisce all'ammalato e al gruppo, e che permette di ricollocare l'ele-
mento incoerente in un insieme dove tutto ha coesione. Tutto rientra nell'ordine.

c) E. de Rosny
«Che cos'è la guarigione degli nganga (gli stregoni buoni)? — domanda a sua volta
E. de Rosny —. Secondo me, essa si definisce dal titolo dell'ultimo racconto: rientra-
re nell'ordine».35 II racconto cui l'autore si riferisce è quello di uno dei numerosi ri-
tuali di guarigione che egli analizza nella sua opera: è il rito della Esa praticato per
Kwedi. Quest'ultima «due mesi fa non ci vedeva più, non camminava più, non ci sen-
tiva più. La perdita dei suoi mezzi per comunicare era il segno del più completo ab-
bandono. Ogni giorno Loe (lo nganga) le aveva amministrato buone medicine, che l'a-
vevano aiutata a rialzarsi ma non l'avevano guarita. Restava l'essenziale: ristabilire
le relazioni turbate con il suo universo. E il mezzo migliore per realizzare questo ri-
torno alla normalità era ancora l'uso efficace dei riti. A questo fine, Loe è riuscito
a ottenere la mobilitazione generale delle forze da cui dipendeva la vita di Kwedi. Era
questo il prezzo della guarigione, e valeva bene una intera notte di lavoro».36 Anche
qui la guarigione è ottenuta mediante l'effetto simbolico del rituale che, in quanto con-
centrato codificato del sistema socio-culturale del gruppo, permette di «far rientrare
nell'ordine» l'elemento incoerente e di ristabilire relazioni «normali» tra il malato e
il suo «mondo».

" V. TURNER, Les Tambours d'affliction, op. cit., p. 192s.


35
E. DE ROSNY, Les Yeux de ma chèvre, op. cit., p. 296.
16
ID., ibid., p. 279 (sottolineature nostre).

97
D'altronde, l'autore va più lontano degli etnologi precedenti in questa direzione. Infatti, do-
po anni di lavoro paziente, a volte pericoloso, in mezzo ai Douala e ai loro nganga, ha finito
per chiedere a uno di loro, Din, di iniziarlo alla loro «visione».
Orbene, che cosa «vede» finalmente dopo lunghi mesi di preparazione rituale? «La visione
consiste nella rivelazione della violenza tra gli uomini. Mi è necessaria una grande forza di ca-
rattere per guardare in faccia la realtà bruta. Senza iniziazione, senza pedagogia, questa visione
rende nevrastenici o precipita nella spirale della violenza. La società è organizzata per nascon-
dere ai suoi membri la violenza che può scatenarsi tra di loro in qualsiasi momento. Rivelazione
pericolosa per la società: ecco perché lo nganga è una personalità inquietante».37
Diventare nganga è imparare a vedere la violenza che regna tra gli uomini e a governarla;
e la violenza è il disordine: disordine al quale appartiene la malattia. Infatti, in tutte le società
arcaiche la malattia è irriducibile a un semplice avvenimento biologico: è un disordine cultura-
le, l'effetto di una violenza dovuta a qualche spirito malefico, a qualche antenato o a qualche
consimile che perseguita questo o quel membro del gruppo. La guarigione fisica esige allora
che venga smascherata, come per Kwedi, la fonte sociale di questa afflizione. Essa richiede per-
ciò un rituale: rituale guidato da un agente qualificato che ha imparato a «vedere» la violenza,
a «corazzarsi» contro di essa e così a padroneggiarla. Questo rituale, fornendo un linguaggio
all'elemento incoerente (la malattia), lo risitua nell'ordine sociale; ristabilisce le relazioni tur-
bate del malato con il suo universo: di questo lavoro simbolico è incaricato lo nganga, ed è attra-
verso di lui che si ottengono guarigioni effettive.
I tre esempi citati lo evidenziano bene: il rito «agisce sul reale agendo sulle rappre-
sentazioni del reale».38 Se è vero che c'è guarigione somatica — effetto extralinguisti-
co perlocutorio —, essa è ottenuta attraverso un 'efficacia simbolica, di ordine Allocu-
torio. Il rituale agisce performativamente: per il fatto stesso di essere enunciato da una
«autorità» riconosciuta come abilitata a farlo, esso ristabilisce la salute del malato ri-
stabilendo il suo rapporto turbato con i membri della comunità e con la cultura del
gruppo. Così l'alleanza trionfa sulla violenza. Come il pezzo di vaso spezzato, l'ele-
mento, incoerente finché rimane isolato, viene «ricollocato in un insieme dove tutto
ha coesione» (Lévi-Strauss); tutto «rientra nell'ordine» (De Rosny); il rituale rifa «la
salute del corpo sociale» (Turner).39
Voler dare all'efficacia simbolica «un potere esplicativo analogo a quello che ha
una legge fisica di spiegare un fenomeno» sarebbe evidentemente «sbagliare strada»,
sottolinea F. Isambert. Perché l'efficacia simbolica è funzione, «da una parte, del con-
senso creato attorno alle rappresentazioni, dall'altra, del legame simbolico tra le rap-
presentazioni e la posta in gioco». Essa non può dunque venir assimilata allo schema
di causa ed effetto (come se, per esempio, fosse una specie del genere più ampio del-
l'azione psicosomatica con cui lo spirito agirebbe sul corpo). Infatti l'effetto stesso è
un «effetto simbolico», distinto dagli altri effetti — per esempio somatici — che «non
possono che essere considerati secondi». Distinzione capitale, che ci permette di non
confondere l'efficacia simbolica con i suoi effetti somatici più spettacolari e di capire
che il rito può dunque spesso puntare «ad effetti diversi dalla guarigione dei corpi.
Sono questi gli effetti che le religioni spirituali cercano».40

" I D . , ibid, p. 354.


38
P. BOURDIEU, Ce que parler veut dire, op. cit., p. 124.
" V. TURNER, op. cit., p. 302.
40
F.A. ISAMBERT, op. cit., pp. 83-85.

98
2. Efficacia simbolica e grazia sacramentale: prima apertura
Il cristianesimo appartiene a quelle religioni che si possono chiamare «spirituali»
e che nei loro rituali cercano effetti generalmente diversi da quelli corporali. Designati
con il termine generico di «grazia», questi effetti si situano fuori dell'ordine del valore
(cf la manna). Perciò la comunicazione di grazia va intesa non secondo lo schema «me-
tafisico» di causa ed effetto ma secondo quello, simbolico, della comunicazione di pa-
rola, comunicazione eminentemente operativa perché è qui che emerge il soggetto nel
suo rapporto con gli altri soggetti in seno a un «mondo» di senso. E proprio un nuovo
rapporto di collocazione, rapporto di alleanza filiale e fraterna, che l'«espressione»
sacramentale intende instaurare o restaurare nella fede.
Tuttavia, se un lavoro simbolico come questo si situa certamente nel solco dell'ef-
ficacia intra-linguistica, non può però ridursi a questo processo sociologico quando
entra in gioco la grazia di Dio: se così fosse, la teologia sarebbe una semplice versione
di un'antropologia, e si attenterebbe alla alterità assoluta di Dio. Diremo dunque che
la «grazia sacramentale» è una realtà extra-linguistica, che ha però questo aspetto sin-
golare: non può essere capita in chiave cristiana se non nel solco, intra-linguistico,
dell'alleanza filiale e fraterna instaurata, extra nos, in Cristo. Malgrado la grammati-
ca, che va sempre presa a rovescio, la grazia designa non un oggetto da ricevere ma
il lavoro simbolico di riceversi: lavoro di «perlaborazione» nello Spirito, con cui i
soggetti continuamente si ricevono da Dio in Cristo come soggetti-figli e soggetti-fratelli.
Svilupperemo a suo tempo (cap. XI) la prospettiva che a questo punto abbiamo soltan-
to aperta.

IV. IL SIMBOLO E IL CORPO


La nostra problematica di trasferimento dell'uomo nel campo del linguaggio è at-
traversata da capo a fondo dal corpo, l'essere-corpo. Infatti essa ci ha continuamente
rimandati alla mediazione del tutto contingente di una lingua, di una cultura, di una
storia, come al luogo stesso in cui si fa la verità del soggetto. Di questa positività,
al di fuori della quale il soggetto potrebbe soltanto alienarsi nel regno delle fantasie,
il corpo è l'espressione primordiale. Questa faccenda — non è difficile riconoscerlo
— è capitale per una teologia dei sacramenti, poiché la simbolica rituale che li costitui-
sce richiede la messa in scena del corpo. Ora, è in questo linguaggio eminentemente
sensibile e corporale che, secondo la tradizione ecclesiale, si compie la comunicazione
più «spirituale» di Dio (quella dello Spirito Santo in persona) e, dunque, la verità del
soggetto credente. Così, i sacramenti ci attestano che la dimensione più vera della fede
si realizza soltanto nel luogo concreto del «corpo».

1. Il linguaggio come «scrittura»

a) La materia significante
Il concetto di scrittura ci sembra una base preziosa per pensare la realtà in gioco
nel concetto di «corporeità». Il linguaggio esiste soltanto nella mediazione di una lin-
gua data, particolare, limitata. Ora, dire lingua è dire materia, materia fonica. Non
materia fonica bruta — sarebbe soltanto rumore — bensì materia fonica significante,

99
istituita come significante grazie a una scansione culturale. Perché ci sia lingua, biso-
gna che i suoni emessi dalla voce cessino di essere semplici rumori o borbottii inintel-
ligibili, e diventino fonemi. Lo diventano inscrivendo differenze riconosciute cultural-
mente come pertinenti: /a/ non è /o/, e Ibi non è /p/. Questa semplice scansione non
basta da sola a dare alla materia fonica un senso — /a/ non significa nulla — ma basta
a farla appartenere al mondo del senso.
La materia così scandita culturalmente come significante è un dato. Dato radicale
che precede ogni individuo e/a legge per ognuno come per l'insieme del gruppo. Que-
sta legge è un'istituzione, una convenzione talmente culturale, che la scansione dei
suoni in fonemi è tanto diversificata quanto lo sono i gruppi linguistici. E tuttavia essa
è caratterizzata dal fatto che nessuno ha mai potuto decidere un giorno di esserne il
creatore. Non si tratta dunque, come già abbiamo sottolineato, di un'istituzione tra
altre, ma dello spazio originario od originante di ogni istituzione. Se il linguaggio è
istituente, esso ci mostra pure che non vi sono realtà istituenti se non già istituite.
Così, nella stessa sua materialità significante la lingua raffigura la legge ineludibile
e pone il respingente primordiale contro cui viene a infrangersi ogni desiderio imma-
ginario di autopossessione, di fuga dalla mediazione e dalla contingenza, di presenza
immediata e trasparente di sé a sé. Essa resiste come resiste la materia. Ora, è facile
dimenticare una resistenza come questa. Ed è contro tale tentazione che acquista la
sua importanza il riconoscimento del linguaggio come «scrittura». «C'è sempre stata
soltanto la scrittura», sostiene J. Derrida.41 Un'affermazione come questa sfugge al-

41
J. DERRIDA, De la grammatologie, op. cit., specialmente cap. 1 e 2 (trad. ita!.: Della grammatolo-
gia, Jaca Book, Milano). Riferendoci ai concetti di «scrittura» e di «traccia» in Derrida, non rinunciamo
all'ermeneutica quale l'abbiamo abbozzata nelle sue grandi linee contemporanee al cap. 2. Non pensiamo,
infatti, che la decostruzione della metafisica operata da Heidegger porti a rinunciare a ogni filosofia del
senso. Derrida rimprovera ad Heidegger di non essere andato fino in fondo alla differenza ontico-ontologica,
cioè fino a quella «differenza» o «produzione del differire» che, senza essere «origine», sarebbe tuttavia «più
"originaria"» (ibid. p. 38). Anche se è vero che in Heidegger «il senso dell'essere non è un significato
trascendentale o transepocale» (p. 38), il filosofo tedesco rimane comunque prigioniero della metafisica in
ragione del suo gesto di risalita verso l'origine (per quanto non designabile come tale): egli continua infatti
a porre il problema del senso; ora, «ogni volta che si pone un problema di senso, non lo si può fare se
non nella chiusura metafisica») Marges de la philosophie, op. cit., p. 239s).
Quale noi l'abbiamo esposta, l'ermeneutica non ci sembra così connaturata alla metafisica e all'ontoteo-
logia come dice Derrida. Se quindi abbiamo denunciato la rappresentazione metafisica di un «volersi-dire
della presenza del senso» che sarebbe nascosta dietro il testo, non è per sfociare in una pura emergenza
di effetti di senso a partire dal solo gioco strutturale delle differenze tra i significanti. La nozione di «mondo
del testo» in Ricoeur ci sembra esprimere, da una parte, la necessità di rispettare il corpo della lettera nella
sua irriducibile positività e alterità, e, d'altra parte, li proposta di «mondo» che il testo, così com'è, apre
al soggetto lettore: il «senso» allora proposto dal testo non è già lì «sotto» il testo, cioè nel voler-dire dell'au-
tore, di cui potrei — con un buon metodo — raggiungere ['«intenzione»; è «il mondo proprio di questo te-
sto», è «il tipo di essere-al-mondo dispiegato davanti al testo». Allora, «capire è capirsi davanti al testo";
interpretare è «esporsi al testo», invéce di ridurre quest'ultimo alla soggettività (centrale) dell'autore o del
lettore. «Come lettore, mi trovo soltanto perdendomi».
Sottolineando così l'importanza di poggiare sulla «cosa del testo», cioè sulla «presa di distanza» che
la «scrittura» impone, P. Ricoeur ci sembra denunciare, a modo suo, il «logocentrismo metafisico» contesta-
to vigorosamente da J. Derrida. «Grazie alla presa di distanza attraverso la scrittura, l'appropriazione non
ha più nessuno dei caratteri di affinità elettiva con l'intenzione dell'autore. L'appropriazione è esattamente
il contrario della contemporaneità e della congenialità: è comprensione attraverso la distanza, comprensione
a distanza» (citazioni da P. RICOEUR, Exegesis, op. cit., pp. 212-215). Vedi J. GREISCH, Herméneutique
et grammatologie, Paris, ed. CNRS 1977.

100
l'assurdo soltanto se il concetto di scrittura designa non l'utensile tecnico che gli uo-
mini hanno inventato storicamente ma una componente di ogni linguaggio.
Derrida prende il concetto di «scrittura» nel senso fondamentale di «istituzione du-
revole di un segno». Infatti «ogni grafema è di natura testamentaria»;42 è un segno fatto
per durare nell'assenza dello scrittore. Ma questo non vale forse di ogni segno lingui-
stico, compreso quello fonico? I fonemi /a/, Ibi, lei svaniscono appena emessi dalla
voce; ciò non toglie che essi siano continuamente reperibili, in maniera identica, al-
l'interno dello stesso sistema fonetico che li ha scanditi arbitrariamente, in maniera
"convenzionale, entro una scala di suoni. Allora, secondo Derrida, tutti i segni lingui-
stici sono «scritti, anche se sono fonici. L'idea stessa di istituzione — dunque di arbi-
trarietà — del segno è impensabile prima della possibilità della scrittura e fuori del
suo orizzonte» (p. 65). U «arci-scrittura» di cui qui si tratta, diversamente dal «concet-
to volgare di scrittura» che è riuscito a «imporsi storicamente soltanto dissimulando
l'arci-scrittura», non potrà evidentemente «mai essere riconosciuta come l'oggetto di
una scienza» (p. 83). Essa implica «l'istanza della traccia istituita», sigillo «in cui la
differenza appare come tale» e dove l'origine del mondo si presenta come «assenza
irriducibile nella presenza della traccia» (p. 68). In breve, si dispiega qui la traccia
dell 'ineludibile precedenza della legge.

b) La repressione logocentrica del corpo della traccia scritta


Una concezione del linguaggio come (arci-)scrittura è, secondo Derrida, «la conte-
stazione della metafisica stessa». Perché la metafisica, a partire da Platone (Fedro
274-279) fino allo stesso De Saussure, non ha cessato di considerare la scrittura come
una semplice reduplicazione della parola orale, una derivazione dal linguaggio, un sem-
plice rivestimento di questo; insomma, uno strumento comodo, un promemoria prati-
co. Ora, non è un caso che la metafisica abbia privilegiato la voce invece della lettera:
questa si presenta infatti come corpo muto e materia opaca; mentre la voce è così viva,
sottile, incapace di cristallizzarsi in materia, perché svanisce appena nata. La voce,
nel punto suo più intimo, si comprende come la cancellazione della materia signifi-
cante. Essa ha una prossimità immediata con l'anima, e dunque con il senso dell'esse-
re e l'idealità del senso, mentre la scrittura provoca la «caduta nella esteriorità del sen-
so» (p. 24).
La tradizione metafisica è logocentrica o «logo-fonocentrica». Il suo presupposto
mai chiarito di conquista del reale ultimo e di presenza trasparente a se stessi l'ha spin-
ta a scongiurare l'esteriorità, la materialità, il corpo, come altrettanti ostacoli, certa-
mente inevitabili ma parzialmente superabili, alla verità, fino all'ultima deposizione
del corpo che, nella morte, garantirà il trionfo dell'anima immortale. «Tutti i duali-
smi, tutte le teorie dell'immortalità dell'anima o dello spirito, come pure i monismi,
spiritualisti o materialisti, dialettici o volgari, sono il tema unico di una metafisica la
cui storia intera ha dovuto tendere verso la riduzione della traccia. La subordinazione
della traccia alla presenza piena riassunta nel logos, l'abbassamento della scrittura al
di sotto di una parola che sogna la propria pienezza: ecco i gesti richiesti da un'onto-
teologia che determina il senso archeologico ed escatologico dell'essere come presenza»

42
J. DERRIDA, De la grammatologie, op. cit., p. 100. Le referenze che seguono si riferiscono a quest'opera.

101
(p. 104). A vantaggio di questa presenza piena, il logocentrismo rimuove il corpo e
censura la lettera. «La storia della metafisica» — scrive altrove Derrida — è il «siste-
ma di repressione logocentrica organizzatosi per escludere o abbassare, mettere fuori
e in basso, come metafora didattica e tecnica, come materia servile o escremento, il
corpo della traccia scritta».43
Privilegiare la phonè, più vicina all'interiorità dell'io, al senso dell'essere come
presenza, alla spiritualità dell'anima, equivale a cancellare la traccia della materia si-
gnificante, a eliminarla fino a dimenticarla, e a dimenticare la dimenticanza stessa.
Equivale a tentare di riconquistare immaginariamente l'innocenza e l'onnipotenza del
paradiso perduto, quel paradiso da cui saremmo decaduti con la nostra venuta al mon-
do come caduta nell'esteriorità e nella mediazione (cf già il mito orfico). Denunciando
il logocentrismo della metafisica, J. Derrida vuole smascherare il misconoscimento
impensato che la comanda: quello della legge ineliminabile della mediazione della ma-
teria, del corpo, della storia, insomma, della mediazione della lettera. Perché «la lette-
ra insiste», secondo la parola di Lacan a proposito dell'inconscio; il linguaggio va pre-
so «alla lettera», cioè nella sua materialità e nel suo spessore significanti. «Il linguag-
gio è corpo sottile, ma è corpo. Le parole sono prese dentro tutte le immagini corpora-
li che catturano il soggetto».44 È per questo che non c'è soggetto al di fuori di questa
«inscrizione» concreta in una materia, significante e sottile certamente, ma ben sensi-
bile: quella di una lingua determinata, di una cultura particolare, di un corpo unico.
Contro il logocentrismo tradizionale e la sua diffidenza viscerale nei confronti dell'e-
steriorità, bisogna dire che il «fuori» è la mediazione del «dentro» del soggetto: non
c'è concorrenza dualistica tra i due. «Il fuori £ il dentro»:45 la cancellazione dell'ft
vuol far vedere la traccia che interdice sia la confusione dei due che la loro separazio-
ne; essa segna lo spazio intermedio sempre mobile, sempre vacillante — quello della
«differenza», cioè della «produzione del differire nel doppio senso del termine»46 —
che scandisce l'interminabile processo di significanza in cui emerge il soggetto.
La lezione che ricaviamo dall'affermazione: «Non c'è mai stata se non la scrittura»
non è per noi fondamentalmente nuova, perché riprende quel consenso alla mediazio-
ne che, come abbiamo ampiamente sottolineato in precedenza, costituisce il compito
fondamentale dell'uomo. Essa ha tuttavia il vantaggio considerevole di manifestarci
attraverso quali astuzie, sottili come la sottigliezza della materia fonica, tentiamo in-
consciamente di dissimulare la consistenza e la resistenza concrete di questa mediazio-
ne. Perché tutto in noi si accanisce a scalzare questa base, a negare i nostri limiti o
— che è poi lo stesso — a non confessarli se non come un male inevitabile di cui sareb-
be bello sbarazzarsi. Ora, contro questo desiderio megalomane di «escludere o abbas-
sare il corpo della traccia scritta», il pensiero del linguaggio come arci-scrittura ci in-
giunge non soltanto di riconoscere la legge ineludibile della mediazione, ma di lasciar-
le la sua resistenza concreta e di prendere dunque alla lettera la proposizione prima
enunciata: ciò che è più «spirituale» emerge in ciò che è più «corporale». La «gram-
matologia» ci rimanda al corpo.

4J
I D . , «Freud et la scène de l'écriture», in L'Écriture et la différence, op. cit., p. 294.
44
J. L A C A N , op. cit., p. 301.
4i
J. DERRIDA, De la grammatologie, p. 65.
46
I D . , ibid., p. 38.

102
2. «Corpo sono io»

a) Un corpo di parola
Come la lingua, il corpo è materia, materia immediatamente significante, cioè isti-
tuita culturalmente come parola. Fuori del linguaggio e della cultura, il corpo sarebbe
soltanto un oggetto o uno strumento — indispensabile certo, malgrado i suoi limiti —
di cui l'anima si servirebbe per potersi esprimere: l'uomo possederebbe un corpo co-
me possiede il linguaggio. Rimettere in questione questa concezione strumentalista del
linguaggio significa immediatamente farlo anche per il corpo. L'uomo esiste soltanto
come corporeità il cui luogo concreto è sempre il proprio corpo. Questa corporeità
è la stessa sua parola.
Secondo le espressioni di Merleau-Ponty,47 il pensiero non è affatto una «realtà in-
teriore», perché «non esiste fuori del mondo e fuori delle parole» (p. 213), perché,
come il quadro del pittore, «la parola non è illustrazione di un pensiero già fatto ma
appropriazione di questo pensiero stesso» (p. 446); questa parola è «un gesto, e la sua
significazione un mondo» perché «noi riflettiamo all'interno di un mondo già parlato
e parlante» (p. 214); il linguaggio «non esprime pensieri» (che gli preesistono) ma è
«la presa di posizione del soggetto nel mondo delle sue significazioni» (p. 225): signi-
ficazioni «già disponibili, risultato di atti d'espressione anteriori» (p. 213); insomma,
è «il corpo che parla», questo corpo — il mio corpo — che «è fatto della stessa carne
del mondo».48 Tutte queste considerazioni postulano, secondo il progetto esplicito dei-
Fautore della Fenomenologia della percezione, «che si superi definitivamente la dico-
tomia classica di soggetto e oggetto» (p. 203).49
Come meravigliarsi, in fin dei conti, che la cultura o l'ordine simbolico getti le
sue radici nell'uomo come corpo? Questo corpo infatti lo pone in maniera singolarissi-
ma nel mondo. Esso è il luogo originario di ogni coniugazione simbolica del «dentro»
e del «fuori». È quello che, a quanto pare, intende dire Lévinas quando vede il corpo
come il «regime della separazione» che permette di «superare l'alterità stessa di ciò
di cui devo vivere». È questa l'«economia» singolare dell'uomo: il corpo è il suo «mo-
do» di abitare l'altro mondo come la propria casa, la propria dimora familiare.50 Esso
è la legatura, l'anello in cui si articolano simbolicamente identità e differenza sotto
l'istanza dell'Altro.
La cicatrice ombelicale raffigura egregiamente questa situazione inaugurale del corpo, alla
frontiera tra l'io e il non-io sotto l'istanza dell'Altro. Questa cicatrice è la traccia della sutura
iniziale del piccolo umano nel suo «sacco di pelle» e quindi della sua consegna all'autonomia
di un posto in cui nessun altro potrà mai mettersi; ma essa è pure la traccia di un'apertura pri-

47
M. MERLEAU-PONTY, Phénoménologie de la perception, op. cit., p. 230. Le riferenze che seguono,
tra parentesi nel testo, rimandano a quest'opera.
48
I D . , Le Visible et l'invisible, op. cit., p. 302.
45
Si potrebbe andare ancora più avanti in questa direzione, chiedendosi con Frank Tinland: «Qual è
l'essenza dell'uomo come organismo» o «struttura corporale»? Si vedrebbe allora che «un vivente i cui piedi
fossero stati diversi, avrebbe manifestato anche forme di coscienza diverse»: affermazione che non ha chia-
ramente nulla a che vedere con un naturalismo semplicista secondo cui i piedi secernerebbero il pensiero...
(F. TINLAND, La différence anthropologìque. Essais sur les rapports de la nature et de l'artiflce, Aubier-
Montaigne 1977, cit., pp. 30 e 27).
!0
E. LÉVINAS, Totalité et Infini, op. cit., pp. 89 e 142s.

103
mordiate mantenuta nei fori attraverso i quali (occhi e orecchie anzitutto) il bambino comunica
con l'esterno e soprattutto con quegli altri corpi che, anch'essi chiusi e aperti, gli permettono
di vivere ogni comunicazione con l'universo come parlante. Si capisce allora, come sottolinea
D. Vasse, che questo rapporto di identità e di differenza vissuto corporalmente mediante la
chiusura-apertura del corpo chieda di simboleggiarsi in forma primordiale nella funzione sfinte-
rica che ne è la metafora viva (mentre l'ombelico ne è come la metafora morta), perché il sog-
getto possa sfuggire alla psicosi e strutturarsi «normalmente»."

b) Gli schemi sub-rituali della simbolica primaria


L'ipseità del soggetto richiede la rottura con la «medesimità». Una rottura del ge-
nere, di cui abbiamo appena evocato il gesto decisivo sulla soglia della consegna di
ciascuno al mondo e agli altri, passa attraverso il nostro corpo. Esso è perciò abitato
da tutta una serie di schemi sub-rituali che appartengono alla simbolica primaria: schema
verticale dell'alto e del basso, schemi orizzontali della sinistra e della destra (spazia-
le), dell'avanti e dell'indietro (temporale e spaziale). Ora, questi schemi corporali co-
stituiscono le mediazioni primarie di ogni identificazione possibile: identificarsi signi-
fica differenziarsi, ed è perciò che ogni creazione significante, a cominciare indubbia-
mente da quella del mondo, si realizza attraverso la separazione (cf Gn 1).

Nulla può parlarci in maniera significante se non è investito dal corpo e dagli schemi arcaici
che lo abitano. Così, non c'è vissuto religioso, per quanto «spirituale» possa essere, che non
sia sotteso dalla stazione verticale: come ha evidenziato uno studio di Vergote, Dio è sempre
rappresentato secondo la simbolica arcaica dell'altezza (maestà, onnipotenza, signoria...) o del-
la profondità (sorgente segreta dell'esistenza, intimìor ìntimo meo...)." Non c'è senso etico che
non sia investito da una differenza destra/sinistra (variabile secondo le culture); non c'è senso
storico che non passi attraverso quello dell'«avanti/indietro» o del «prima/dopo». " E come ogni
sentimento di potenza o di dominio, sul piano intellettuale o morale come su quello fisico, si
vive, si dice e si pensa attraverso lo schema arcaico primordiale della stazione verticale del no-
stro corpo, così ogni assimilazione, si tratti di sforzo intellettuale o di abbraccio amoroso, si
vive, si dice e si pensa attraverso lo schema primario dell'introiezione orale, con la sua ambiva-
lenza di adorazione amorosa e di aggressività distruttrice: si può amare qualcuno «fino a man-
giarlo», e si può vivere di un bisogno «divorante» di letture o di idee. Potremmo offrire molti
altri esempi di questi schemi sub-rituali, come quello della macchia in relazione a ogni senti-
mento di colpa o di peccato,54 quello del gesto di condivisione in relazione a ogni differenza,
o quello dell'apertura della mano in relazione a ogni dono, scambio o oblazione... Non si tratta
qui di fenomeni secondari che si limiterebbero a dare, secondo i diversi «temperamenti», una
tinteggiatura a uno schematismo puro e innato; si tratta, come osserva Vergote, di una topografia

51
Su tutto questo, cf D. VASSE, L'Ombilic et la voix. Deux enfants en analyse, Seuil 1974, cap. 2 (trad.
it.: L'ombelico e la voce. Due bambini in analisi, Emme ed., Milano 1976).
52
A. VERGOTE, «Équivoques et articulation du sacre», in Le Sacre. Etudes et recherches (Colloquio
Castelli), Aubier-Montaigne, Paris 1974, pp. 471-492.
" Ritroviamo qui lo schematismo kantiano ben noto; con questa differenza però — differenza capitale
— che esso non è mai «puro», perché da sempre investito dalla particolarità di un desiderio nonché di una
lingua e di una cultura.
54
Sulla simbolica primaria della macchia cf P. RICOEUR, Finitude et culpabìlité, t. 2: La symbolique
du mal, Aubier-Montaigne 1960, cap. 1: «La souillure» (trad. ital.: Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna
1974). Su quella del gesto di condivisione cf M. JOVSSB, L'Anthropologie dugeste, T. 1, Gallimard 1974,
pp. 201-230 (trad. ital.: Antropologia del gesto, ed. Paoline).

104
esistenziale, costitutiva della struttura interna dell'essere umano." «La mano ha anch'essa i suoi
sogni», diceva Bachelard.
Leib bin ich, ganz und gar, und nicht ausserdem. Questa parola di Nietzsche va
presa alla lettera. Come fa osservare Y. Ledure, egli non dice semplicemente che «L'Io
è corpo tutto e totalmente, e nient'altro»; il che sarebbe fare del corpo un semplice
attributo conferito a un Io che, logicamente e grammaticalmente, esisterebbe prima
di lui. Prendere alla lettera il Leib bin ich significa rilevare che questa lettera fa esplo-
dere la grammatica, e dunque, almeno tendenzialmente, la metafisica. «In uno scon-
volgimento salutare, la proposizione ' 'corpo sono io' ' fa capire che corpo — 3a perso-
na — garantisce la funzione di soggetto di una forma verbale alla prima persona», al
punto che «tra corpo e io non c'è più interstizio».56

c) Corporalità: un corpo di cultura, di tradizione e di natura


Questo corpo-uomo, questo corpo proprio che è ognuno, è corpo parlante/parlato.
D concetto di corporalità vuole esprimere questo ordine simbolico che fa sì che l'uo-
mo non abbia un corpo ma sia un corpo. Che cos'è questo Io-corpo? Necessariamente
un corpo proprio, irriducibile a ogni altro, e tuttavia tale da riconoscersi, in seno alla
stessa sua differenza, simile a ogni altro Io-corpo. Corpo irriducibile a ogni altro, per-
ché luogo di logoi embioi,51 di significati viventi, singolari per ognuno, secondo la
storia del suo desiderio, storia ogni volta unica e irripetibile; e tuttavia corpo legato
fin dall'origine agli altri e abitato da una cultura, se non altro per la proiezione che
inevitabilmente i genitori fanno sul loro rampollo del modello culturale di identifica-
zione che a loro volta hanno ricevuto dai loro genitori. Questo corpo proprio è quindi
parlante soltanto perché già parlato da una cultura; perché ereditario di una tradizione
e solidale di un mondo.
Così il corpo proprio di ciascuno è abitato dal sistema di valori o dalla trama sim-
bolica del suo gruppo di appartenenza, che costituisce il suo corpo sociale e culturale.
Ed è pure parlato, simultaneamente, da una tradizione storica, in fondo sempre più
o meno mitica, di cui è, spesso senza saperlo, l'anamnesi viva. È infine in dialogo
permanente con Vuniverso che, per proiezione, il corpo «antropomorfizza» (il macro-
cosmo diventa allora come il suo grande corpo vivente) e, per introiezione — «intus-
suscepzione» dice M. Jousse58 — «cosmorfizza» (il corpo diventa allora un microco-
smo). Di qui quella fonte permanente di simbolismo che costituisce per il corpo lo
scambio con il suo corpo-di-mondo, specialmente nelle alternanze del giorno e della
notte, nel ciclo delle stagioni o nelle opposizioni fondamentali cielo/terra, acqua/fuo-
co, montagne/abissi, luce/tenebre, ecc. L'io-corpo è quello che è soltanto perché tes-
suto, abitato, parlato da questo triplice corpo di cultura, tradizione e natura. È quanto
indica il concetto di corporalità: corpo proprio, certamente, ma in quanto luogo in
cui si articola simbolicamente, in maniera originale per ciascuno secondo vicende del
suo desiderio, il triplice corpo — sociale, ancestrale e cosmico — che lo costituisce

" A. VERGOTE, Interprétation du langage religioni, op. cit., p. 112.


56
Y. LEDURE, Si Dieu s'efface. La corporéitécome lieu d'una affirmation de Dieu, Desclée 1975, p. 44s.
" C. CASTORIADIS, op. cit., p. 36.
" M. JOUSSE, op. cit., t. 2: La Manducation de la parole, Gallimard 1975 (trad. hai.: La manducazio-
ne della parola, ed. Paoline, Roma 1980).

105
come soggetto. L'ipseità del soggetto come corporalità si trova così alla giuntura della
«mondanità» 0'essere-mondo, Vin-der-Welt-sein di Heidegger), dell'«alterità» (Tessere-
con, il Mit-sein di Heidegger) e della «storicità». Ognuno di noi è ciò che è soltanto
in quanto «ritiene» in se stesso e «offre» ad altri questo triplice corpo di cui egli è l'ana-
mnesi vivente.
Poiché l'esser-ci è esistenzialmente «essere-nel-mondo», il suo «modo di essere pri-
mordiale» è di «trovarsi sempre già "fuori" presso un ente»; ed è proprio «essendo
"fuori" presso l'oggetto, (che) l'esser-ci è in verità "all'interno" di sé».S9 Così pure,
poiché questo «essere-nel-mondo è un essere-nel-mondo con», ogni esser-ci «ha già
rivelato l'altro nel suo esser-ci».60 E infine, poiché — come dice altrove Heidegger
— l'Essere è tradizione (esgibt Sein), l'esser-ci è memoriale, «memoriale-pensato-
nell'Essere», memoriale vivente che, beninteso, «si differenzia essenzialmente da una
pura e semplice rievocazione presa nel senso di passato trascorso».61 Ecco perché sol-
tanto 1'«espressione» permette al soggetto di differenziarsi interiormente. Il soggetto
non è nel corpo come il nocciolo nella pesca. Il soggetto è corpo, come la cipolla è
nelle sue foglie. «Tutto è nella pelle», diceva Paul Valéry. L'ipseità è «pelle offerta»
all'alterità (Lévinas). «Il fuori % il dentro» (J. Derrida).

d) Il corpo, arci-simbolo
Il «corpo vivo» è quindi, secondo l'espressione di D. Dubarle, «come Farci-simbolo
di tutto l'ordine simbolico».62 Perché è nel corpo che si articolano il dentro e il fuori,
l'io e l'altro, la natura e la cultura, il bisogno e la domanda, il desiderio e la parola.
Questa esiste in quanto originariamente inscritta nel corpo e, dunque, onticamente,
in discorsi e in enunciati. Certo, è al di qua di questi ultimi, nei loro «spazi bianchi»,
che la parola si dice. Ma discorsi ed enunciati sono necessari per dare «luogo» a questi
spazi bianchi da cui la parola può sorgere.63 Una parola che pretendesse di dirsi in
una sorta di purezza trasparente è un'illusione. Nessuna parola sfugge alla sua laborio-
sa inscrizione in un corpo, in una storia, in una lingua, in un sistema di segni, in una
trama discorsiva. È questa la legge: legge della mediazione. Legge del corpo.
Perciò la «rivelazione», sia quella cristiana che quella ebraica, «ha potuto diventare
parola di Dio soltanto attraverso l'esodo in un corpo di scrittura».64 Lo mostreremo:
per trovare lo Spirito bisogna rifarsi alla Lettera. L'«antropologale» (D. Dubarle) è
il luogo di ogni possibile teologale. L'ordine sacramentale non potrebbe forse essere
lo spazio arci-simbolico di quest'economia?

" M. HEIDEGGER, L'Ètre et le temps, Gallimard 1964, p. 85 (trad. ital.: Essere e tempo, UTET, Tori-
no 4986).
60
I D . , ibid., 26, p. 150 e 155.
61
ID., Lettre sur l'humanisme, Q. 3, p. 108s.
" D. DUBARLE, «Pratique du symbole et connaissance de Dieu», in Le Mythe et le symbole, Beauche-
sne 1977, p. 243.
" Cf in tal senso l'insieme dell'opera, già citata, di J.P. RESWEBER, La Philosophie du langage. «As-
sente di natura sua, la parola si fa presente nel e attraverso il discorso» (p. 6), il quale caratterizza «la ma-
niera in cui il soggetto parla, la forma dell'espressione, lo stile della locuzione, mentre l'enunciato designa
la materia del linguaggio costituita dalle parole usate e dalle cose designate» (p. 43). Le sottolineature sono
nostre.
" S. BRETON, Écriture et réve'lation, Cerf 1979, p. 118.

106
V. OUVERTURE:
LA SACRAMENTALITA DELLA FEDE

Questa prospettiva ci apre un 'intelligenza teologica dei sacramenti come espres-


sione della «corporalità» della fede. Essi non ne sono certamente l'unica (cf il riferi-
mento alla Scrittura, o ancora la pratica etica). Ma ne costituiscono l'espressione sim-
bolica principale.
Nelle celebrazioni sacramentali, infatti, la fede si esercita nel contesto di una scena
rituale in cui il corpo proprio di ognuno è il luogo di articolazione simbolica, attraver-
so gesti, posizioni, parole (dette o cantate) e silenzi, del triplice corpo che lo costitui-
sce come credente: il corpo sociale Chiesa con la sua trama simbolica di valori, così
singolare da strutturare una lettura originale della storia, della vita e dell'universo (una
lettura, in ogni caso, diversa da quelle che possono fare un musulmano, un buddista
o un ateo); il corpo tradizionale che abita questo gruppo Chiesa e che sostiene l'insie-
me del rituale, specialmente attraverso il riferimento alle parole e ai gesti di Cristo
attestati dalla testimonianza apostolica delle Scritture; il corpo cosmico di un universo
ricevuto come il dono gratuito del Creatore, di un universo i cui frammenti simbolici
(acqua, pane e vino, olio, cero pasquale, ceneri...) sono riconosciuti come mediazione
«sacramentale» di Dio che è inscritto nel mondo mediante lo Spirito. I sacramenti sono
dunque fatti di materialità significante: quella di un corpo che non può viverli se non
sottomettendovisi con un comportamento già programmato, con un gesto debitamente
prescritto, con una parola istituzionalmente prevista; quella di un «noi» comunitario
presieduto da un ministro riconosciuto come legittimo; quella di una regolamentazione
in base alla tradizione apostolica vivente riferita al libro delle Scritture riconosciute
come canoniche; quella di una manipolazione di elementi e di oggetti che nessuno può
scegliere secondo le proprie convenienze.

1. Il blocco sacramentale

Nella loro materialità significante i sacramenti costituiscono così un blocco inelu-


dibile che sbarra la strada a ogni rivendicazione immaginaria di presa diretta, indivi-
duale e interiore, sul Cristo o di contatto illuminista di tipo gnostico con lui. Essi evi-
denziano le mediazioni imprescrittibili — a cominciare da quella della Chiesa — al
di fuori delle quali non è possibile la fede cristiana. Essi ci dicono che la fede ha cor-
po, che ci àncora al corpo. Meglio ancora: ci dicono che diventare credente è impara-
re a consentire, senza risentimenti, alla corporalità della fede.
Ora, abbiamo qui a che fare con il compito più difficile e più oneroso che si possa
pensare. Basta osservare con quale facilità noi ci imbattiamo nei sacramenti, almeno
quando la fede cerca di viversi come «adorazione del Padre in spirito e verità» (Gv
4,23-24) e non si lascia assopire nelle sicurezze di un'istituzione e nelle pigrizie del-
l'abitudine. Essi allora ci danno una sferzata. Ci imbattiamo nei sacramenti molto di
più che nella Parola. Certo, la Parola si presenta come «Scritture» e anche come lette-
ra; perciò, con l'immenso itinerario di mediazione culturale che essa esige oggi dai
credenti, la Parola esercita questa stessa funzione di «blocco». Ma il logocentrismo
metafisico che ci abita si accanisce a cancellare quanto più possibile lo spessore empi-
rico della lettera nella sua consistenza storica, facendo appello a un senso «spirituale»

107
pre-contenuto in maniera atemporale e astorica. In questa prospettiva, la parola di Dio
può facilmente risalire fin quasi alla sottigliezza evanescente del soffio esteriore e rie-
cheggiare, nella sua immaterialità, il soffio interiore dello Spirito di Dio e il Verbo
interiore che egli fa risuonare in noi. La Parola sembra allora fatta apposta per la di-
mensione «spirituale» della fede.
Le cose vanno diversamente con il sacramento: non è forse vero che esso obbliga
la fede a calarsi nell'esteriorità, nell'istituzione, nel corpo? Non è forse vero che biso-
gna «sottomettervisi», passare attraverso molteplici determinazioni sensibili che lo co-
stituiscono? Ci si vede perciò obbligati a giustificarlo, a portare a suo favore argomen-
ti di «convenienza», a esibirne delle «ragioni». Il fatto è che il cristianesimo, malgrado
tutti i correttivi imposti dall'Incarnazione di Dio in Gesù e dalla promessa della risur-
rezione della carne, non si è mai pienamente liberato, a quanto pare, del sospetto a
proposito del corpo. Avendo trovato nella struttura già onto-teologica della metafisica
il suo modo di pensiero fondamentale, ne ha fatto proprio il logocentrismo con i suoi
presupposti ideali di presenza trasparente e di verità piena, che troverebbero un osta-
colo nelle mediazioni. Sarebbe allora necessario purificarsi da queste. In tali condizio-
ni, i sacramenti non possono essere pensati che come rimedi o, almeno, come conces-
sioni che la divina Provvidenza, con una sapiente pedagogia, accorda alla natura uma-
na che può accedere all'intelligibile soltanto attraverso il sensibile. È chiaro che una
valutazione del genere tradisce la convinzione fondamentale che, almeno in linea di
principio, non dovrebbe essere così...
Ci si imbatte nei sacramenti, allora, come ci si imbatte nel corpo, come ci si imbat-
te nell'istituzione, nella lettera delle Scritture (almeno, quando la si rispetti nella sua
materialità storica decisamente empirica). Ci si imbatte e ci si scontra, perché sempre
e poi sempre si rimane abitati dalla nostalgia di una presenza ideale e immediata a
se stessi, agli altri e a Dio. Ora, riportandoci alla corporalità, i sacramenti infrangono
questi sogni. E a causa della mediazione corporale e rituale che li costituisce, i sacra-
menti lo fanno in maniera ancora più radicale delle Scritture (svilupperemo questo punto
capitale nel nostro capitolo sulla ritualità). Essi ci indicano così che la fede si attua
in ciò che ha di più «vero» soltanto nella più banale empiricità di una storia, di un'isti-
tuzione, di un mondo, in ultima istanza di un corpo.

2. L'arci-sacramentalità della fede


Come la scrittura empirica è la manifestazione fenomenica di queir arci-scrittura
che costituisce il linguaggio in cui ad-viene il soggetto umano, i sacramenti possono
essere considerati la manifestazione empirica dell'«arci-sacramentalità» che costitui-
sce il linguaggio della fede, dove ad-viene il soggetto credente. Questa arci-
sacramentalità è una condizione trascendentale dell 'esistenza cristiana. Essa indica che
non c'è fede che non sia inscritta in qualche luogo, che non sia inscritta in un corpo:
un corpo di cultura determinata, un corpo di storia concreta, un corpo di desiderio.
Lo dice con evidenza il battesimo, il primo sacramento della fede: l'immersione nel-
l'acqua, in coincidenza con quel «precipitato» delle Scritture cristiane che è il pronun-
ciare il nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, è la metafora dell'immersione
nei significanti — materiali, istituzionali, culturali, tradizionali — della Chiesa: as-
semblea, ministro ordinato, segno della croce in fronte, libro delle Scritture, profes-

108
sione di fede, memoria di Gesù Cristo e invocazione dello Spirito, cero pasquale...
Tutti questi elementi simbolici sono inscritti sul corpo di ogni battezzato, corpo scrit-
turale in cui vengono depositati in testamento. 5/ diventa cristiani soltanto entrando
nell'istituzione, lasciando che questa ci imprima sul corpo il suo «marchio deposita-
to», il suo «carattere».
La fede ci appare così come «sacramentale» per costituzione e non soltanto per
derivazione. L'esistenza non può essere cristiana se non come da sempre attraversata
di sacramentalità; meglio ancora: se non come da sempre inscritta nell'ordine del sa-
cramentale. Impossibile, allora, pensare la fede fuori del corpo.
* * *
Una teologia che integri pienamente e per principio la sacramentalità della fede
esige un consentimento alla corporalità, consentimento capace di guidarla a tentare di
pensare Dio secondo la corporalità. Abbiamo già annunciato questa necessità di un
nuovo pensiero di Dio per la coerenza del nostro discorso; e ne abbiamo abbozzato
la prospettiva in direzione del blocco e dell'arresto storico della Croce. La problemati-
ca dell'ineludibile mediazione del simbolo e del corpo, appena sviluppata, non fa che
rafforzare quest'imperativo. Noi lo assolveremo nell'ultima parte di questo lavoro.

109
PARTE SECONDA

I SACRAMENTI
NELLA TRAMA SIMBOLICA
DELLA FEDE ECCLESIALE
Introduzione

UNA TEOLOGIA FONDAMENTALE


DEL SACRAMENTALE

In conformità alla problematica sviluppata fino ad ora, la domanda che percorre


il nostro discorso teologico non può essere: «Perché i sacramenti?». Noi infatti rinun-
ciamo, per principio, a pretendere di risalire all'origine e a rendere ragione delle cose.
Partiamo piuttosto dal fatto, ineludibile, che siamo, nella Chiesa, dei praticanti di riti
chiamati «sacramenti» — soprattutto battesimo ed eucaristia — e che siamo sempre-già
accompagnati dalla sacramentalità. La domanda che guida la nostra riflessione teolo-
gica è quindi: Cosa significa per la fede il fatto che essa sia intessuta di sacramenti?
Cosa vuol dire dunque credere in Gesù Cristo, se questo credere è strutturalmente sa-
cramentale?
L'assunzione di una domanda di questo tipo ci porta ad elaborare non soltanto una
teologia dei sacramenti della fede ma, ad un livello più originario, una teologia fonda-
mentale del sacramentale o della sacramentalità della fede. Non risparmieremo, evi-
dentemente, una riflessione sui sacramenti propriamente detti, soprattutto il battesimo
e l'eucaristia. Li considereremo invece come le espressioni paradigmatiche di una sa-
cramentalità della fede che li supera ampiamente e che costituisce la condizione al di
fuori della quale non potrebbero assumere senso.
In questa prospettiva, la teologia sacramentale non è un semplice settore del campo
teologico, contrariamente all'abitudine contratta in seguito ai «trattati» della scolasti-
ca. Essa è invece, al modo della patristica,1 una dimensione che attraversa l'insieme
della teologia, un punto di vista particolare su di essa. Non inglobante, poiché mette
in opera una prospettiva che ha una precisa angolatura, essa merita tuttavia, nell'ottica
che ci è propria, di essere chiamata teologia fondamentale. Infatti è tutto il campo teo-
logico — dalla creazione fino all'escatologia, dalla teologia trinitaria fino all'etica, dalla
cristologia all'ecclesiologia... — che è chiamato ad essere ripensato secondo questa
dimensione costitutiva della fede che noi chiamiamo «sacramentalità».
I sacramenti, ovviamente, sono solo un elemento tra gli altri all'interno della con-
figurazione epistemica particolare della fede; come tale, questo elemento funge cri-
stianamente solo come rinvio agli altri con i quali forma un sistema; soltanto isolando-
lo (e questo significherebbe, come notavamo con E. Ortigues, farlo regredire verso
«l'immaginario ineffabile») si può essere tentati di assegnarvi Dio in pianta stabile.

1
Cf, per esempio, la maniera in cui Sant'lRENEO si riferisce alla confessione di fede battesimale all'ini-
zio e alla fine della sua Démonstration de laprédication apostolique (SC, n. 62, p. 41 e 170), e all'eucaristia
nellVtóv. Haer. IV, 17-18 (SC, n. 100, p. 575-615).

113
Cominceremo quindi con il situarli nell'ampio insieme ecclesiale dentro cui essi
trovano la loro coerenza. Chiamiamo questo insieme la struttura dell'identità cristia-
na. Porremo questa struttura nel capitolo V. I capitoli VI e VII proporranno poi una
riflessione sui rapporti tra gli elementi della struttura così individuata: rapporti tra Sa-
cramento e Scrittura da una parte, tra Sacramento ed Etica dall'altra. Poi dovremo
mostrare il processo secondo cui funzionano concretamente questi diversi elementi:
lo faremo nel capitolo Vili, nella scia del processo di scambio simbolico di cui abbia-
mo già parlato.

114
Capitolo Quinto

POSIZIONE DELLA STRUTTURA


DELL'IDENTITÀ CRISTIANA

I. LA STRUTTURAZIONE DELLA FEDE


SECONDO IL RACCONTO DI EMMAUS

Chi dice struttura dice, secondo il Vocabolario tecnico e critico della filosofia di
A. Lalande (t. Ili), «un tutto formato da fenomeni solidali, tali che ognuno dipende
dagli altri e può essere ciò che è solo in forza della sua relazione con essi». La determi-
nazione degli elementi e delle loro relazioni fornisce un «modello» della struttura in
questione. Ciò che qui proponiamo è un modello della struttura dell'identità cristiana.

1. Luca 24
Come si diventa credenti? Come si passa dalla non-fede alla fede? Questa è la do-
manda di fondo che sottende il racconto di Emmaus (Lc 24,13-35). Ora questo raccon-
to, tipicamente lucano, è costruito attorno agli stessi grandi assi dei due racconti che
lo inquadrano: il messaggio ricevuto alla tomba (24,1-12) e l'apparizione agli Undici
(24,36-53). I destinatari del messaggio o dell'apparizione sono sempre, all'inizio di
queste tre pericopi, in una situazione di non-fede: le donne sono «sconcertate» (v. 4);
Cleopa e il suo compagno hanno gli occhi chiusi (v. 16); gli Undici sono «spaventati»
(v. 37) e «increduli» (v. 41). Nei tre casi, questa situazione negativa è legata al deside-
rio di trovare, di toccare o di vedere il corpo di Gesù: le donne «non trovarono il suo
corpo» (v. 3), mentre Pietro «vide solo le bende» (v. 12); analogamente, nel racconto
di Emmaus, esse non «hanno trovato il suo corpo», e il testo precisa che, se i discepoli
hanno verificato le parole delle donne, però «lui non l'hanno visto» (v. 24). Quanto
all'apparizione agli Undici, ciò che il Risorto ingiunge ai discepoli di «vedere» (due
volte) e di «toccare» sono i segni della sua morte (v. 39). È significativo, dunque, nei
tre casi, che la visione e il toccare orientino verso il corpo morto di Gesù. Ed è non
meno significativo, sempre nei tre casi (infatti, anche nel terzo, la visione e il toccare
non bastano a dare accesso alla fede: «Essi rimanevano ancora increduli e si stupiva-
no», precisa difatti il v. 41), che lo sblocco della situazione avvenga attraverso due
elementi: da una parte l'appello alla memoria («ricordatevi» [v. 6], «cuori tardi a cre-
dere tutto quello che i profeti hanno annunciato» [v. 25]; «ecco le parole che io vi ho
rivolto...» [v. 44]); dall'altra, l'apertura delle Scritture secondo il disegno di Dio («bi-
sogna che...» [v. 7]; «Non bisognava...» + interpretazione di tutte le Scritture [v. 26-27];
«è necessario che...» + rilettura di tutte le Scritture [v. 44-45]).

115
Il passaggio alla fede richiede dunque che ci si sbarazzi del desiderio di vedere-
toccare-trovare per accettare di ascoltare una parola, venga essa dagli angeli o dal
Risorto stesso, riconosciuta come parola di Dio. Il desiderio di vedere, infatti, analogo
qui alla volontà di sapere, o il desiderio di trovare, analogo alla volontà di provare,
non possono che far misconoscere il Signore risorto perché rimandano verso il suo
corpo morto. Il racconto di Emmaus esplicita questa lezione. La cosa è tanto più sor-
prendente dal momento che è organizzata in modo identico ad altri due racconti luca-
ni: il battesimo dell'eunuco etiope (At 8,26-40) e il primo racconto della conversione
di Saulo {At 9,1-20).

2. Tre testi matriciali


Questi tre racconti descrivono l'itinerario necessario alla strutturazione della fede,
ci mostrano cioè come si effettua il divenire-cristiani. Noi siamo nel tempo della Chie-
sa, simbolizzato nei nostri tre racconti dalla strada che parte da Gerusalemme per con-
durre a Emmaus, Gaza o Damasco. Conosciamo infatti il significato teologico di Ge-
rusalemme in Luca: luogo della morte di Gesù, luogo delle sue manifestazioni come
Risorto — Luca non menziona nessuna apparizione fuori di Gerusalemme —, luogo
dell'effusione dello Spirito della promessa, Gerusalemme è il cuore pasquale verso
cui converge tutto il terzo vangelo, e la culla pentecostale da cui si dispiega la Chiesa
verso «tutta la Giudea e la Samaria, fino alle estremità della terra» (At 1,8; cf Lc 24,47).
In questo tempo della Chiesa il Signore non è più visibile. Luca insiste su questo
punto: risorto, egli è «il Vivente» — titolo divino — {Le 24,5); egli vive in Dio, come
ama sottolineare il racconto dell'Ascensione. Tuttavia VAssente è presente nel suo «sa-
cramento» che è la Chiesa: la Chiesa che rilegge le Scritture in funzione di lui; la Chie-
sa che rifa i suoi gesti in memoria di lui; la Chiesa che vive nel suo Nome la condivi-
sione fraterna. Ormai egli prende corpo e si lascia incontrare in queste testimonianze
della Chiesa. Questa infatti è una delle chiavi principali di lettura dei nostri tre testi:
la Chiesa non vi è mai menzionata come tale, ma vi è presente dappertutto in filigra-
na; se viene in qualche modo espulsa dal testo, è proprio perché ne costituisce il vero
«pre-testo».
Dietro i lineamenti del Risorto che fa, sulla strada di Emmaus, l'ermeneutica (di-
hèrmèneusen) delle Scritture in funzione del suo personale destino messianico {Le
24,25-27), come non riconoscere la Chiesa e il suo kerygma pasquale? Mettendo in
scena il Signore Gesù in persona, Luca indica che, ogni volta che la Chiesa rilegge
e annuncia la morte e la risurrezione di Gesù «secondo le Scritture», è lui che parla
attraverso di essa; la Chiesa è il suo portavoce, il suo luogotenente «sacramentale».
Al punto che, come mostra At 9,5, perseguitare la Chiesa equivale a perseguitare lo
stesso Signore Gesù. Non esiste apertura degli occhi e dello spirito al riconoscimento
del Crocifisso come Messia e Signore senza quella guida di rilettura delle Scritture
che è la Chiesa, senza la griglia di interpretazione che essa fornisce: «Capisci quello
che leggi?». «E come potrei, se non ho guida?» {At 8,30-31).
E non esiste nemmeno accesso possibile alla fede, secondo i nostri testi, senza ciò
che più tardi si chiamerà i sacramenti della Chiesa. La frazione del pane a Emmaus,
il battesimo dell'etiope, l'imposizione delle mani per il dono dello Spirito Santo a Sau-
lo appartengono al processo del passaggio dalla non-fede alla fede. Questi gesti rituali

116
non sono delle semplici appendici, ma degli elementi strutturanti della fede. È al mo-
mento della frazione del pane (Le 24,31), è al momento dell'imposizione delle mani
(At 9,17-18) che gli occhi dei discepoli di Emmaus da una parte, di Saulo dall'altra,
si aprono. E anche qui il gesto del Risorto, descritto secondo i quattro verbi tecnici
del racconto della Cena («prendere», «pronunciare la benedizione», «spezzare», «da-
re») si impone come figura della Chiesa che celebra l'eucaristia. È d'altronde possibi-
le che l'uso dell'imperfetto (epedidou: «e dava loro») al posto dell'aoristo (epedòken)
voglia sottolineare la permanenza del gesto del Signore Gesù a ogni eucaristia. Analo-
gamente, parlare di «frazione del pane» a Emmaus è un «anacronismo rivelatore. È
un termine della liturgia cristiana» che manifesta che «il racconto si fa intendere nel
tempo della Chiesa» (14a). Noi non vediamo più il Signore Gesù; tuttavia, rivela Luca
ai suoi destinatari, siamo invitati a riconoscerlo nei gesti rituali che la Chiesa fa in
suo Nome: come i gesti di miracoli operati dagli apostoli in forza «della fede nel nome
di Gesù» (At 3,6 e 16), i gesti rituali fatti dalla Chiesa in memoria di lui sono i suoi
stessi gesti.
La fede infine esiste solo per esprimersi in una vita di testimonianza. Sappiamo
che i racconti di apparizione del Risorto sono costruiti, nei Vangeli, secondo uno sche-
ma tripartito: iniziativa del Risorto che si impone ai testimoni;1 riconoscimento per
mezzo della «fede che ha occhi» (oculata fide, secondo la bella espressione di san Tom-
maso d'Aquino) del Risorto come la stessa persona del Crocifisso, ma che vive ormai
in modo totalmente altro: come sòmapneumatikon, dice Paolo; invio in missione. Que-
st'ultimo elemento esprime il fatto che nessuno può pretendere con verità di ricono-
scere Gesù come il Signore vivente senza, al tempo stesso, annunciarlo. È come dire
che non esiste recezione possibile del dono della Buona Novella della Risurrezione
senza il contro-dono della testimonianza. Questa non è una semplice conseguenza estrin-
seca della fede, ma costituisce un momento intrinseco del processo stesso di struttura-
zione della fede. Come può suggerire l'uso del verbo anistèmi — d'altronde molto dif-
fuso, è vero, nel senso banale di «alzarsi» — in Le 24,33 a proposito di Cleopa e del
suo compagno (anastantes autè tè hóra), il riconoscimento della risurrezione di Gesù
non può avvenire senza provocare la (ri)surrezione dei discepoli a testimoni. In ogni
caso il cammino che, «subito», riporta i due discepoli verso gli Undici a Gerusalemme
(Le 24,33-35) per ripartirne poi verso «tutte le nazioni» (24,47); la strada che, «dopo
alcuni giorni passati con i discepoli di Damasco» si apre per Paolo verso l'annuncio
nelle sinagoghe che «Gesù è il Figlio di Dio» (At 9,19-20); il percorso che, per l'etio-
pe, prosegue nella gioia della fede verso Gaza (At 8,39): tutto questo esprime abba-
stanza l'appartenenza della testimonianza missionaria alla strutturazione della Chiesa
e della fede.
All'inizio del libro degli Atti, nei due primi sommari relativi alle attività della pri-
ma comunità cristiana di Gerusalemme (At 2,42-47; 4,32-35), Luca ama sottolineare
che questa testimonianza richiede, insieme alla parola, una vita di koinònia. Questo
termine indica non solo l'unità dei cuori generata dalla fede nello stesso Signore,2 ma

1
Cf soprattutto, in questo senso, il passivum divinum: «si è fatto vedere» (óphte): usato 13 volte in
Luca su 22 nel NT; usato quattro volte nell'arcaica confessione di fede di 1 Cor 15,3-8.
2
Cf il tema dell'homo-thymadòn che ritorna a quattro riprese all'inizio degli Atti (1,14; 2,46; 4,24;
5,12) come una delle caratteristiche fondamentali della prima comunità.

117
anche la manifestazione attiva di questa unità nell'esercizio concreto della messa in
comune dei beni. Questa, come precisa J. Dupont, non indica un «trasferimento giuri-
dico di proprietà; ognuno rimane proprietario di quello che ha, ma l'affetto che prova
per i fratelli fa sì che egli lo metta a loro disposizione».3 L'ideale perseguito qui non
è quello della povertà volontaria, ma quello della carità fraterna: «Si abbandonano i
propri beni non per desiderio di essere poveri, ma perché non ci siano poveri tra i
fratelli».4 Ed è possibile che Luca, che dipende indirettamente («a uno stadio anteriore
a quello della redazione») da Dt 15,4, e direttamente da una tradizione cristiana «molto
antica», dia a questa condivisione concreta un valore teologico di grande peso: «Il fatto
di non avere indigenti tra di loro assumeva valore di segno: poiché la promessa di Mo-
sè si compiva in loro favore, essi sono la comunità messianica diventata realtà presen-
te».5 In ogni caso è significativo che Luca dedichi praticamente la metà del suo primo
sommario e i tre quarti del secondo alla pratica concreta della koinònia fraterna: segno
di realizzazione della comunità messianica, questa pratica è una testimonianza resa
al Cristo risorto. Un'etica del «a ciascuno secondo i suoi bisogni» (At 4,35; cf 2,45)
sembra, per l'Autore degli Atti, costituire una delle dimensioni principali della testi-
monianza missionaria: l'annuncio del Messia risorto richiede il segno concreto della
realizzazione della comunità messianica, cioè la condivisione con i più poveri tra i
fratelli. E d'altronde il fratello non è forse, secondo la teologia di At 9,5 («Sono Gesù,
sono io che tu perseguiti») o di At 5,14 — dove l'espressione «aderire al Signore» sem-
bra suggerire, secondo la nota della TOB, «una sorta di identificazione tra il Signore
e i suoi» — come il «sacramento» del Risorto (cf anche la teologia del giudizio finale
in Mt 25,31-46)?
«Volete sapere se Gesù è vivo, lui che non è più visibile ai nostri occhi?», chiede
in sostanza Luca ai suoi destinatari. «Rinunciate dunque a voler toccare, vedere, tro-
vare il suo corpo di carne, perché egli ormai si lascia incontrare solo attraverso il suo
corpo di parola, nella ripresa che la Chiesa fa del suo messaggio, dei suoi gesti e della
sua pratica. Vivete come Chiesa: è qui che lo riconoscerete». La Chiesa appare quindi
per Luca come la mediazione sacramentale fondamentale, all'interno della quale sol-
tanto può esserci il soggetto come credente. Solo che questo consentimento alla me-
diazione sacramentale della Chiesa non va da sé. Richiede un vero e proprio capovol-
gimento. Ed è questo che il racconto di Emmaus mostra in modo particolare.

3. Il racconto dei discepoli di Emmaus


Gerusalemme-Emmaus-Gerusalemme: questo avanti/indietro topografico ci appa-
re come il supporto simbolico del capovolgimento, della «trasformazione» che avviene
lungo il racconto nel cuore dei discepoli: passaggio dal misconoscimento al riconosci-
mento, dagli occhi chiusi agli occhi aperti, dalla de-missione alla missione e, al livello
del gruppo come tale, passaggio da una situazione di sfascio (Pietro «se ne andò per
conto suo», dice il v. 12) e dunque di morte a una (ri)surrezione del gruppo come Chiesa.

3
J. DUPONT, Etudes sur les Actes des Apdtres, Cerf, 1967, p. 508 (trad. ital.: Studi sugli Atti degli
apostoli, ed. Paoline, Roma 1971).
4
I D . , Ibid., p. 512.
S
I D . , ibid., p. 510.

118
I due discepoli, nella prima sezione (v. 13-17, fino alla prima fermata sulla strada), sono
infatti in uno stato di demissione: allontanandosi da Gerusalemme, voltano le spalle alla loro
passata esperienza con Gesù. Parlano tra di loro, in una sorta di relazione speculare in cui ognu-
no rinvia all'altro la stessa parola chiusa su se stessa relativa al fallimento del loro Maestro.
I loro occhi, quindi «non possono riconoscerlo». E come i loro occhi, anche il loro spirito è
chiuso. Tutto è chiuso. Essi si sono lasciati chiudere, in definitiva, con il cadavere di Gesù nel
luogo chiuso della morte: il sepolcro, la cui entrata è stata sbarrata con una grande pietra. Il
loro passato è morto; in ogni caso, non esiste più futuro.
«Allora si fermarono, con l'aria cupa»: questo arresto, che chiude la prima sequenza del no-
stro racconto, inaugura una seconda sequenza (v. 18-30) che si chiude, come la prima, su un
altro indizio topografico: «ed egli entrò per rimanere con loro». Questa sequenza, centrata sullo
scambio di parole tra i due discepoli (un solo attuante) e Gesù, si suddivide in due parti: nella
prima (v. 18-24) i discepoli hanno l'iniziativa della parola; nella seconda ce l'ha Gesù. Rispetto
alla prima sequenza, l'insieme di questa seconda è segnato dal passaggio da una relazione duale
a una relazione triangolare: invece di parlare tra di loro, in un cerchio chiuso, essi si aprono
allo straniero che li ha raggiunti. Escono dal loro discorso chiuso per parlare a qualcuno che
li ascolta. Questo atto di parola rivolto a un Terzo che diventa il testimone del loro smarrimento
sposta un po' la pesante pietra della loro tomba. Un filo di luce filtra in questa esile breccia:
il loro desiderio si sveglia di nuovo nella narrazione che fanno alla terza persona della loro spe-
ranza delusa. Il «reale», tuttavia, si impone con la sua inconfutabile evidenza: «Gesù di Naza-
ret», il «profeta» è morto, e Dio non è intervenuto in suo favore... Lo sblocco della situazione
sì rivela impossibile finché Cleopa e il suo compagno mantengono l'iniziativa della parola e
restano così in una posizione di sapere. Perché essi sanno tutto su Gesù di Nazaret. Ma la loro
conoscenza è misconoscimento: essa verte solo su dei fatti. Lo stesso avviene per le donne e
i discepoli che sono andati alla tomba e non hanno trovato il suo corpo: hanno costatato il fatto
della tomba vuota; «ma lui non l'hanno visto». Che cosa si aspettavano, d'altronde, di vedere,
toccare, trovare nella tomba se non c'era che un cadavere? Vittime di questa rivendicazione
immaginaria di vedere e di sapere, con cui vogliono assicurarsi un'onnipotente signoria sull'og-
getto del loro desiderio, essi restano chiusi nella tomba del misconoscimento.
Ora, la fede richiede un atto di spossesso, un rovesciamento di iniziativa: invece di tenere
in prima persona dei discorsi sicuri su Dio, bisogna cominciare con l'ascoltare una parola come
parola di Dio. Il riferimento aWistanza terza delle Scritture svolge qui un ruolo capitale. La-
sciando che Gesù apra loro le Scritture, i due discepoli cominciano ad entrare in un'altra intelli-
genza del «reale», diversa da quella di cui avevano fino a quel momento l'evidenza. E se il «rea-
le» del disegno di Dio e del destino di Gesù fossero diversi da quelli di cui loro avevano la con-
vinzione incrollabile? E se le Scritture rivelassero di Dio un reale che essi non avevano mai
realizzato, tanto sembrava contraddittorio con le dottrine più autorevoli? Se fosse vero, in defi-
nitiva, che colui che era passato attraverso la morte era entrato nella gloria? Intendiamoci bene:
la pietra dello scandalo, per questi Ebrei, non era che Dio potesse risuscitare qualcuno, perché
la maggioranza degli Ebrei credeva nella risurrezione finale dei morti, all'epoca di Gesù; e non
era nemmeno che Dio potesse risuscitare un uomo prima del giorno di questa risurrezione co-
mune, perché si prestava fede alle tradizioni sul «rapimento» del profeta Elia, di Enoch o di
Esdra... Lo scandalo verteva su un punto molto più radicale: poteva Dio essere ancora Dio,
il nostro Dio, il Dio dei nostri padri, se aveva risuscitato colui che era stato condannato a giusto
titolo alla morte per aver bestemmiato contro la legge di Dio data a Mosè, cioè contro Dio stes-
so? Poteva Dio contraddirsi? È possibile, come dice Paolo, che colui che è morto nella maledi-
zione di Dio — poiché la legge (Dt 21,23) dichiara «maledetto chiunque è appeso alla forca»
{Gal 3,13) — sia riconosciuto di fatto come la benedizione di Dio sulle nazioni? Chi sarebbe
dunque Dio, se lascia morire il suo Cristo e, risuscitandolo, gli dà ragione contro la sua stessa
Legge? È possibile, in definitiva, che una simile pietra di scandalo sia stata fatta rotolare da

119
Dio davanti alla tomba di Gesù? Si indovina l'ampiezza della conversione da operare: si tratta,
per i due discepoli, di accettare che la parola di Dio, secondo le Scritture, venga a «de-realizzare»
le loro evidenze più salde sul «reale» di Dio.
Il rapporto tra Gesù e le Scritture, ai loro occhi, non poteva che essere identico al suo rap-
porto con la tomba: un rapporto di morte. Le Scritture assumevano per loro il ruolo di iscrizione
funeraria che giustificava l'orazione funebre da loro pronunciata sulla tomba del «caro estinto»,
con rimpianti tanto più strazianti dal momento che avevano sperato da lui anche la liberazione
di Israele. La circolarità fra i tre luoghi del corpo di Gesù, della tomba e delle Scritture era
perfettamente chiusa: sul corpo morto si elevava il mnèmeion sepolcrale sormontato da un «messo
a morte secondo la Legge» (o «secondo le Scritture») che ne garantiva la legittimità religiosa.
Ora, ecco che i loro occhi cominciano ad «aprirsi» quando il Risorto, facendo appello alla
loro memoria, «apre» loro le Scritture (stesso verbo di-anoigó): il verbum abbreviatimi delle
Scritture («non bisognava...») è il luogo a partire dal quale il suo cadavere in qualche modo
si ricompone. «Non ci sentivamo ardere in petto il cuore...?», diranno nella post-comprensione
anamnetica che faranno, dopo la frazione del pane, di ciò che era successo sulla strada. Essi
cominciano quindi a vedere il Risorto sentendolo levarsi dalle Scritture: egli vive là dove la sua
parola risuona, dove degli uomini testimoniano di lui «secondo le Scritture». «Là», cioè nella
Chiesa. L'abbiamo detto: dietro i tratti del Risorto è lei, con il suo kerygma — questo «verbo-
abbreviato» di tutte le Scritture — che si disegna in filigrana: ogni volta che essa annuncia il
kerygma pasquale, ci vuol dire Luca, essa è il «sacramento» della parola stessa di Gesù. Il corpo
del Cristo risorto può essere riconosciuto solo a partire dal suo corpo scritturale, a sua volta
ricostituito e articolato per mezzo del suo corpo ecclesiale.
I due discepoli sono ormai sufficientemente scossi, nelle loro certezze anteriori, perché il
loro desiderio, inizialmente polarizzato dal «bisogno» — bisogno di sapere e di essere rassicura-
ti — sia trasformato in domanda — domanda che si rivolge all'altro in quanto tale, domanda
di presenza: «Resta con noi». Gesù ha smesso di essere un «oggetto» che soddisfa il loro bisogno
di spiegazione integrandosi nel loro sistema: egli è diventato il soggetto di una presenza deside-
rabile per se stessa... Ma la presenza dell'altro è, per definizione, ciò che sfugge. Lo Straniero
non è ancora riconosciuto nella sua radicale estraneità.
Non è più all'esterno, sulla strada, ma all'interno, intorno alla tavola, che i due discepoli
fanno l'esperienza decisiva dell'incontro. In questa terza sequenza (v. 30-32), il Risorto porta
a compimento l'iniziativa da lui presa: il suo «verbo» si fa carne nel pane condiviso. Allora i
loro occhi si aprono: ciò che vedono fa loro capire di che cosa si tratta, cioè dell'eucaristia della
Chiesa, come abbiamo ricordato precedentemente a proposito dei quattro verbi tecnici del rac-
conto della Cena che si ritrova qui. I loro occhi si aprono su un vuoto — «divenne loro invisibi-
le» — ma è un vuoto pieno di una presenza. Essi si aprono sul vuoto della non-visibilità del
Signore ogni volta che la Chiesa compie la frazione del pane in memoria di lui; ma questo vuoto
è abitato dalla sua presenza simbolica, perché hanno capito che quando la Chiesa prende il pane,
pronuncia la benedizione, lo spezza e lo dà, è lui, il suo Signore, che continua a prendere il
pane della sua vita offerta, che continua a rivolgere a Dio la preghiera di azione di grazie, a
spezzare il pane come il suo corpo spezzato per l'unità di tutti, che lo offre dicendo: «Questo
è il mio corpo». Nel tempo della Chiesa in cui si colloca il nostro racconto, il Cristo Gesù è
assente in quanto «il medesimo»; è presente ormai soltanto come «l'Altro». Impossibile, ormai,
toccare il suo corpo reale; possiamo «toccarlo» solo come corpo simbolizzato nella testimonian-
za che la Chiesa rende di lui, attraverso le Scritture rilette come la sua stessa parola, i sacramen-
ti effettuati come i suoi stessi gesti, la testimonianza etica della vita fraterna vissuta come l'e-
spressione del suo stesso servizio (diakonia) degli uomini. Ormai egli prende corpo nella testi-
monianza della Chiesa, e soprattutto nella ripresa della sua parola: «Questo è il mio corpo...».
«Di colpo», ci dice Luca, Cleopa e l'altro discepolo si alzano e tornano a Gerusalemme. Il
riconoscimento della sua risurrezione segna la loro personale surrezione: la sua Pasqua è diven-

120
tata la loro Pasqua; i medesimi sono diventati altri. Il loro ritorno verso Gerusalemme è il sup-
porto simbolico della trasformazione che si è operata in loro: la loro demissione si capovolge
in missione, e la dispersione del gruppo in comunione. Perché è tutto il gruppo dei discepoli
che, passato attraverso la morte, rinasce come Chiesa. Questa scaturisce dalla parola pasquale
«è risorto», a sua volta basata prioritariamente, secondo Luca, sulla testimonianza di Simone
(v. 34). I due compagni cominciano con il ricevere la testimonianza degli Undici. In seguito
aggiungono la loro personale testimonianza a quella del gruppo fondatore. La Chiesa appare
così come la comunità di coloro che, avendo incontrato il Signore risorto, ne consegnano la
testimonianza, ma che confrontano anche questa testimonianza con quella del gruppo fondatore
per verificarne l'autenticità apostolica.

4. La prova della fede o il consentimento a una perdita

Nei testi lucani che abbiamo letto riteniamo di poter mettere in luce tutta una teologia della
«sacramentalità» della Chiesa. Una simile teologia, ovviamente, non è esclusiva nel Nuovo Te-
stamento. Essa è piuttosto caratteristica di ciò che E. Kasemann chiama il «precattolicesimo»,
cioè la fase di «transizione tra la cristianità primitiva e ciò che si chiama Chiesa antica, transi-
zione caratterizzata dallo scomparire dell'attesa imminente» e dal trasferimento del «centro di
gravità» teologico dall'escatologia verso una «grande Chiesa», con un accento sempre più mar-
cato sulla «presenza sacramentale di Cristo nella Chiesa per il mondo», come si vede soprattutto
nei deutero-paolini.6 Siamo quindi consapevoli che la nostra tesi sulla struttura dell'identità cri-
stiana è relativa a una situazione di Chiesa sufficientemente istituzionalizzata perché possa esse-
re vista teologicamente come «il sacramento universale della salvezza» per il mondo (Lumen
gentium, 48). Una simile teologia non è l'unica possibile; e non è nemmeno la più antica. Tutta-
via — è necessario precisarlo? — il più antico non è necessariamente il più pertinente teologica-
mente... In questo caso, era probabilmente inevitabile che, visto che la parusia tardava a realiz-
zarsi, l'entusiasmo escatologico si addomesticasse a poco a poco: controbilanciando il «già»,
il «non ancora» dava inevitabilmente luogo a una teologia della sacramentalità della Chiesa, l'u-
nica adatta a un tempo di mezzo la cui estensione si rivelava sempre più indefinita. Chi dice
sacramento, infatti, non dice forse tempo di mezzo?

a) La mediazione simbolica della Chiesa


Come abbiamo visto, alla domanda dei suoi destinatari — che è anche la nostra
e quella di ogni credente: «Se è vero che Gesù è vivo, come mai non lo vediamo?»,
Luca risponde con «la Chiesa». Il passaggio alla fede richiede il consentimento alla
Chiesa perché è in essa che il Signore Gesù si lascia incontrare. Solo che un simile
consentimento costituisce una vera e propria prova. I nostri tre testi-matrice, e in par-
ticolare quello di Emmaus, raccontano esemplarmente l'itinerario da seguire perché
si realizzi la prodezza del passaggio alla fede. Questa prodezza richiede l'acquisizione
di una competenza, riconosciuta come donata dall'iniziativa di Cristo o dello Spirito;
competenza a volere, sapere, potere accedere all'ordine simbolico proprio della Chie-
sa, alle sue regole del gioco, soprattutto alla configurazione formata dalla sua erme-
neutica scritturaria, dalle sue celebrazioni liturgiche e dal suo impegno etico. È quanto
cerca di visualizzare lo schema della struttura dell'identità cristiana rappresentato qui
di seguito.

6
E. KASEMANN, Essais exégétiques, Delachaux-Niestlé, 1972, cap. 13 «Paul et le précatholicisme»,
pp. 256-270.

121
Daremo più avanti alcune indicazioni utili per una corretta interpretazione di que-
sto schema. Per il momento accontentiamoci di sottolineare due punti. Da una parte,
abbiamo qui un modello (tra altri possibili, indubbiamente) della struttura dell'identità
cristiana: le doppie frecce vogliono indicare che, all'interno di una struttura, ogni ele-
mento, come in un puzzle, ha «valore» solo per il suo rapporto di differenza e di coe-
renza con gli altri due. Fondamentale è dunque l'insieme, e non gli elementi presi iso-
latamente, in se stessi. Il primo beneficio dell'operazione, allora, come abbiamo an-
nunciato, è quello di situare i sacramenti in un insieme in cui tutto si tiene: l'ordine
simbolico specifico della Chiesa.
D'altra parte, questo schema esprime bene la mediazione sacramentale fondamen-
tale della Chiesa. Ne riparleremo più avanti. L'importante, per il momento, è pensare
ciò che lo schema fa vedere, cioè che la fede richiede la rinuncia all'inserimento diret-
to, gnostico potremmo dire, su Gesù Cristo. Impossibile riconoscere con verità il Si-
gnore Gesù vivente senza sganciarsi da questo immaginario — istanza psichica ambi-
valente, vista qui sotto il suo aspetto negativo di illusione — che ci porta incoercibil-
mente a desiderare di vedere, toccare, trovare, cioè in ultima analisi provare, Gesù.
Infatti, come le donne o i discepoli che corrono alla tomba, cosa possiamo vedere,
cosa ci aspettiamo di vedere e di sapere se c'è solo il cadavere di Gesù? Certo, noi
non siamo più nella situazione dei primi testimoni: noi «sappiamo» che Gesù non è
più visibile. Ma in questo ambito, come in tutto quello che riguarda gli aspetti più vita-
li della nostra esistenza, le convinzioni intellettuali sono ben lungi dall'essere le più
determinanti. Il nostro desiderio spesso è più forte di loro. E l'immaginario in noi non
smette di accanirsi ad occultare ciò che l'esperienza del reale ci impone: «Lo so bene,
però...». Tutto sta in questo «però!» che viene a negare psichicamente quello che inve-
ce «sappiamo». Ed è su questa negazione che si fondano quasi sempre le nostre cosid-
dette evidenze: non la smettiamo mai di occultare il vero con il verosimile.
Ora, l'accesso alla fede richiede l'adesione al messaggio dell'angelo ricevuto dalle
donne al sepolcro: «È risorto!». La tomba è vuota del corpo morto di Gesù come «og-
getto reale» da constatare; è piena di un «segno da credere»: la parola dell'angelo —

122
parola di Dio! — «è risorto».7 L'accesso alla fede richiede l'assunzione di questa paro-
la da cui è nata la Chiesa e che la struttura secondo la sua triplice manifestazione, scrit-
turaria, sacramentale ed etica.

b) Tre forme di una stessa tentazione «necrotica»


Ma una simile rinuncia a constatare il Cristo per accondiscendere al suo corpo sim-
bolico di parola che è la Chiesa richiede che si rinunci ad ogni cattura di Cristo nelle
reti della nostra ideologia o negli stratagemmi del nostro desiderio — nell'ambito reli-
gioso forse più ancora che in altri campi — poiché questo settore tocca immediatamen-
te il significato che noi diamo alla nostra esistenza. Sotto il suo aspetto illusorio, l'im-
maginario ci dà l'illusione di poter otturare la breccia che ci costituisce come soggetti.
Nell'ambito religioso, questo assume molteplici forme che possiamo, intorno ai tre
elementi della struttura dell'identità cristiana, ridurre a tre tentazioni tipiche.
La prima è quella di un sistema chiuso di sapere religioso che funziona concretamente come
negazione psichica dell'alterità di Dio, dell'assenza del Risorto, della non-amministrabilità del-
lo Spirito. Certo, si protesta contro una simile negazione: «Lo sappiamo bene...». Sì, lo sappia-
mo bene, «però...!». La seconda è quella della «magia» sacramentale, che A. Vergote, per evi-
tare le ambiguità di questo termine e le sue connotazioni troppo esclusivamente peggiorative,
preferisce chiamare «immaginario» sacramentale; si ricorre allora al rito sia per ottenere un
beneficio essenzialmente naturale, sia per ottenere un effetto spirituale come il perdono dei pec-
cati o qualsiasi altra grazia divina «senza che la disposizione interiore sia messa in consonanza
con l'effetto atteso».8 Anche qui non è superfluo sottolineare che la negazione cosciente di que-
sto processo non impedisce il suo funzionamento psichico effettivo. La terza forma, infine, è
quella del moralismo, inteso come il farisaismo di un comportamento attraverso il quale si desi-
dera pilotare Dio. Si può proclamare alto e forte che Dio non può mai essere asservito dall'uo-
mo, che le nostre opere buone non ci danno mai dei diritti su di lui; si può anche ricordare con
vigore la lezione data da Gesù a quelli che recriminano contro ciò che essi considerano come
ingiustizia divina — gli operai della prima ora, o il figlio maggiore della parabola del figliol
prodigo — senza tuttavia smettere psichicamente di rivendicare contro una giustizia di Dio che
si subisce con risentimento, o che si vive come perseguitati. Anche in questo ambito, sappiamo
bene, però! Solo che la confessione di questo «però» viene qui censurata in modo eminente.
Sono queste le tre forme principali — con le loro mille varianti possibili — di cattu-
ra immaginaria di Cristo, di riduzione del vangelo alla nostra ideologia, di asservi-
mento del suo messaggio al nostro desiderio o alle nostre convinzioni ormai assodate.
Sono tre modi, molto spesso sottili, di far morire la presenza della mancanza del Ri-
sorto, di ridurre la sua radicale alterità. In altre parole, tre modi di fare di lui, «il Vi-
vente», un corpo morto o un oggetto disponibile. Nel cristianesimo nessuno è garanti-
to contro questo processo di necrosi, che evidentemente ha dei legami con la nevrosi.
Questa immaginaria e mortale cattura del Vivente si abbozza o si consuma — con tutte
le varianti possibili tra questi due estremi — a partire dal momento in cui noi isoliamo
questo o quell'elemento costitutivo della fede ecclesiale. Ma, come mostra il nostro
schema della struttura dell'identità cristiana, la fede vive solo nel tenere-insieme (sim-

' L. MARIN, «Les femmes au tombeau. Essai d'analyse strutturale d'un texte évangélique», in Langa-
ges n. 22, pp. 39-48. Testo ripreso in Etudes sémiotiques, ed. Klincksieck, Paris 1971, pp. 221-231.
!
A. VERGOTE, Religion, foi, incroyance, ed. P. Mardaga, Bruxelles 1983, pp. 302-303.

123
bolizzare) i tre elementi della struttura. È la loro corretta articolazione simbolica che
le garantisce di mantenersi in buona salute.
La triplice tentazione enunciata prima consiste esattamente nell'isolare l'uno o l'al-
tro degli elementi della struttura e quindi a sopravvalutarlo a scapito degli altri due.
Allora, secondo un meccanismo ben noto nella nevrosi, l'elemento in questione diven-
ta una fissazione per lo psichismo. Lo si spreme e lo si manipola in ogni senso, senza
riuscire ad uscirne. E si ritorna allora sempre allo stesso, sul quale ci si è polarizzati
al punto da averlo quasi sostanziato. La salvezza può sopraggiungere solo attraverso
il reinvestimento dell'elemento nell'insieme in cui trova la propria coerenza.
Così, il principio «Cristo-nelle-Sm'ta/re» può essere affermato in modo talmente
unilaterale ed esclusivo da non rispettare più l'alterità simbolica del Risorto. Cancel-
lando l'empiricità storica e culturale della lettera, si livella tutto sotto l'etichetta «Pa-
rola di Dio», identificata in modo immediato e senza nessuna ermeneutica delle Scrit-
ture. I Riformatori, pur introducendo il principio della scriptum sola, non sono caduti
in questa trappola come tale. Resta vero, tuttavia, che essi l'hanno favorita e che que-
sta prima forma di tentazione è abbastanza tipica del protestantesimo tradizionale.
Il principio «Cristo-nei-sacrame/tó», da parte sua, può costituire un'altra cancella-
zione dell'alterità simbolica del Risorto. Un ex opere operato male inteso, unito allo
schema della causalità efficace e alle rappresentazioni dei sacramenti come canali o,
più ancora, contenitori della grazia, oppure come strumenti di infusione di un germe,
ha teso a far dimenticare che la loro efficacia non è di un ordine diverso da quello
della Parola, e che quindi non è più automatica di quella, simbolica, della comunica-
zione di parola. Abbiamo qui una nuova forma di confisca sul Risorto, diversa dalla
prima, ma non meno (e nemmeno più, forse, a ben guardare) gravida di conseguenze
di quella. Questa ipertrofia dei sacramenti è evidentemente una tentazione tipica del
cattolicesimo romano. Vera e propria malattia della sacramentalità, il sacramentali-
smo pastorale, con la sua inevitabile inclinazione magica, ne è stato il prezzo.
Più trans-confessionale e più contemporanea è la terza forma di tentazione: è quel-
la che sopravvaluta l'agire etico come criterio di verità cristiana al punto che il princi-
pio del «Cristo-nei-/rate///» non permette più, di fatto, al Cristo di essere riconosciuto
nella sua radicale alterità. Questo (neo-)-moralismo si presenta sotto due forme princi-
pali, che hanno mire molto diverse. Nella sua forma più mistica, il servizio del prossi-
mo può talvolta essere talmente vissuto per amore di Cristo che il suddetto Cristo for-
nisce ormai solo un pretesto a una generosa condiscendenza verso gli altri, un alibi
di buona coscienza. Conosciamo i sarcasmi di Nietzsche a questo proposito. Quando
l'immagine «Gesù Cristo» viene applicata in questo modo sul volto degli altri, la di-
stanza simbolica sia con il Cristo che con gli altri non viene più rispettata, e si ama
solo se stessi nell'altro, con l'alibi di Cristo.
Nella sua forma più politica la tentazione moralista, pur denunciando a giusto tito-
lo un'ortodossia che si vorrebbe «pura» e che negherebbe quindi le sue incidenze so-
ciali pratiche, accentua in modo così spinto l'urgenza dell'impegno al servizio della
giustizia, che il criterio dell'ortodossia diventa concretamente questa ortoprassi. La
fede rischia allora di ridursi a un modo di agire nel mondo — cosa che essa è, da certi
punti di vista — e il Regno di Dio a un «altrimenti» da questo mondo, il che è vero,
certamente. Conosciamo l'impatto di questa tentazione nella Chiesa contemporanea.
Conosciamo anche, come dimostrano le diverse teologie della liberazione, le difficoltà

124
di valutazione teologica con cui ci si scontra quando le si considera, come è giusto,
«in situazione».'
La buona salute della fede dipende dalla sua solida base sul treppiede dell'identità
cristiana; stando su un solo piede o su due, l'incidente è difficilmente evitabile. Detto
questo, l'immagine del treppiede è ingannevole nella misura in cui evoca una cosa sta-
tica. È normale che la dinamica della vita di fede comporti, a seconda delle epoche
e delle culture, e a seconda della storia personale di ognuno, degli spostamenti del
centro di gravità con l'accentuazione di questo o quell'elemento. L'immobilismo non
è un buon segno; non lo è nella vita cristiana così come non lo è nella vita umana...

c) Un compito inesauribile: consentire alla presenza della mancanza


Resta vero che l'identità cristiana è strutturata attraverso l'articolazione simbolica
dei tre elementi segnalati. Le Scritture non sarebbero forse un testo morto se non fosse
attestato il loro statuto di Parola di Dio per l'oggi, soprattutto nella proclamazione li-
turgica che ne fa la Chiesa? e se, d'altra parte, non impegnassero i soggetti che le rice-
vono in una certa pratica etica? Che valore avrebbero le celebrazioni liturgiche e sa-
cramentali se non fossero memoria viva di colui che le Scritture testimoniano come
il Dio crocifisso? e se non ingiungessero ai partecipanti di diventare concretamente,
attraverso la pratica dell'agape, ciò che hanno celebrato e ricevuto? Che cosa qualifi-
cherebbe, in ultima analisi, come «cristiana» un'etica (il cui campo, peraltro, non po-
trebbe essere diverso da quello dell'etica umana del servizio agli altri, individuale o
collettivo) se essa non fosse vissuta come risposta all'amore primo di Dio, che arriva
fino al dono del suo unico Figlio (Gv 3,16) che le Scritture ci rivelano? e se non riu-
scisse a «riabbeverarsi alle origini» (come si dice) teologalmente nella recezione di questo
dono primo nei sacramenti?
Rinunciare a ritrovare il corpo perduto di Gesù per consentire a rincontrarlo, vivo,
nella mediazione simbolica della Chiesa richiede quindi una buona sistemazione dei
tre termini nelle loro differenze. Se manca questo, affascinati da uno di questi termini,
ci si chiude in esso immaginariamente e se ne fa la dimora di Cristo. Ma Cristo, risor-
to, ha lasciato il posto. Dobbiamo consentire a questa perdita per poterlo ritrovare.
Consentire a questa perdita, abbiamo detto, è la stessa cosa che consentire al suo
simbolo: la Chiesa. Compito molto oneroso, e in due sensi opposti. Chi respinge la
Chiesa per trovare Cristo privatamente ne misconosce — almeno nelle forme tipiche
di questo atteggiamento, perché esistono anche le sfumature — la sacramentalità. Ma
la misconosce anche chi vive in essa troppo a suo agio: si dimentica allora che la Chie-
sa non è Cristo e che, se è vero che nella fede essa è riconosciuta come il luogo prima-
rio della sua presenza, essa è anche però, in questa stessa fede, la mediazione più radi-
cale della sua assenza. Per questo consentire alla mediazione sacramentale della Chie-
sa significa consentire a quello che abbiamo chiamato precedentemente, facendo eco
ad Heidegger, la presenza della mancanza di Dio. La Chiesa radicalizza la vacanza
del posto di Dio. Accettare la sua mediazione significa accettare che questa vacanza
non sia mai colmata. L'apertura di ognuno dei tre elementi della nostra struttura ad

9
Cf Théologies de la libératàon. Documents et débats. Introduzione di B. Chenu e B. Lauret, Cerf-
Centurion, 1985; J. DORÈ (ed.) Jesus et la libération en Amérique latine, Desclée, 1986.

125
opera degli altri due e l'impossibilità di identificarli l'uno all'altro o di farne un unico
blocco è, ai nostri occhi, la traccia di questa ineludibile vacanza. Ma è proprio nel
rispetto della sua radicale assenza o alterità che il Risorto può simbolicamente essere
riconosciuto. Questa è la fede, questa è l'identità cristiana secondo la fede: chi fa mo-
rire la mancanza di Cristo rifa di lui un cadavere.
Questo significa che diventare credente è un compito altrettanto inesauribile che
diventare soggetto. Questa era già la nostra conclusione al termine della riflessione
sui rapporti tra la filosofia, nel senso di Heidegger, e la teologia: parlavamo di omolo-
gia di atteggiamento. Questo capitolo specifica ora la modalità concreta, per il creden-
te, del consentimento alla mancanza, cioè la Chiesa come corpo simbolico di parola
del Risorto.

5. Estensione del nostro modello


Il modello proposto esige di essere capito in modo più estensivo di quanto lasci
intendere il senso stretto riconosciuto ai tre elementi.
Così, il nostro elemento «Scrittura» sussume tutto ciò che è di competenza dell'in-
telligenza della fede, a cominciare da quelle glosse a margine delle Scritture che costi-
tuiscono la teologia.
Esso comprende quindi non solo la Bibbia come tale, ma tutto ciò che mira all'in-
telligenza della rivelazione: il corpus catechetico o le proposte attuali di formazione
permanente dei cristiani così come il corpus teologico patristico, medievale o contem-
poraneo. Indispensabile, questa dimensione di conoscenza è tuttavia insufficiente, da
sola, per fare un cristiano. Si può possedere un eccellente bagaglio di teologia cristia-
na senza per questo riconoscersi cristiani. E la verità concreta del rapporto con Cristo
non si misura con il metro del sapere teologico...
Una seconda dimensione, quella della riconoscenza, non è certo meno necessaria.
Si tratta qui di vivere simbolicamente quello che si cerca di capire teologicamente.
Quello che noi mettiamo sotto il termine di «sacramento» sussume tutto ciò che è
di competenza della celebrazione del Dio-Trinità nella liturgia. Prima di tutto, ovvia-
mente, i due sacramenti paradigmatici che sono il battesimo e l'eucaristia; ma anche
gli altri cinque; e, in modo ancora più ampio, ogni celebrazione non strettamente sa-
cramentale, in gruppi piccoli o grandi, in una cattedrale gotica o in una banale stanza.
La preghiera è parzialmente inclusa nelle attività rituali; parzialmente soltanto perché
tra la preghiera e il rito «la frontiera è sempre mobile».10

10
A. VERGOTE, Religion, fai, incroyance, op. cit., p. 258; R. BASTIDE, «Le sacre sauvage» et autres
essais, Payot, Paris 1975, cap. 9: «L'expression de la prière chez les peuples sans écriture», pp. 125-150
(LMD 109, 1972, pp. 98-122).
Secondo la «definizione provvisoria» che R. Bastide propone, la preghiera è «una comunicazione che
può avvenire mediante degli oggetti, dei gesti, delle parole, quasi sempre con un misto dei tre, fra gli uomi-
ni e le potenze soprannaturali, in una relazione posta come asimmetrica» (p. 142). Essa ha dunque sempre
qualcosa di rituale, anche se lo scarto passa non tra la preghiera orale e i riti che appartengono alla non-
oralità, ma «tra "complessi" cerimoniali» di cui alcuni sono preghiera, cioè comunicazione con la divinità
sempre articolata su un «sentimento di dipendenza» e altri non lo sono. Se non ogni attività di culto è pre-
ghiera, però «la preghiera è sempre una attività di culto» (p. 138). Di qui la mobilità della frontiera tra pre-
ghiera e rito. Che essa sia di richiesta o di lode, che sia mistica o molto «popolare», che sia vissuta attraverso

126
Il terzo elemento del nostro modello ha immediatamente un'estensione abbastanza
ampia. Precisiamo semplicemente che il nostro elemento «Etica» sussume tutte le for-
me dell'agire dei cristiani nel mondo in quanto testimonianza resa al vangelo del
Crocifisso-Risorto, e che questo agire, come sottolinea soprattutto J.B. Metz, concer-
ne non solo la «praxis morale», interpersonale, ma anche la «praxis sociale» collettiva."
La nostra struttura Scrittura/Sacramento/Etica appare allora omologabile a una strut-
tura antropologica più fondamentale: conoscenza/riconoscenza/prassi. I due primi ter-
mini ricoprono quella «opposizione del pensare e del vivere» in cui C. Lévi-Strauss
vede «l'antinomia inerente alla condizione umana tra due schiavitù ineluttabili»: da una
parte, la necessità di «operare del discontinuo» per poter pensare il caos primordiale
come «mondo» (di qui il mito come «operatore di classificazione»); dall'altra, la neces-
sità contraria di ritrovare la «continuità del vissuto» o la permanenza dell'identità (di
qui il rito e il suo «rattoppo minuzioso» che tenta di «tappare gli interstizi»).ll È nell'a-
gire che, secondo Heidegger, non è prima di tutto una «produzione di effetto la cui
realtà è valutata a seconda dell'utilità che offre», ma un «compiere»13 la cui essenza
è di ordine etico e non tecnico, che questa doppia schiavitù antinomica trova la sua
risoluzione pratica.
Ogni soggetto umano nasce dalla possibilità di pensare il mondo, di cantarlo, di
agirvi. Logica discorsiva del segno, interpellazione identificatrice del sìmbolo, prati-
ca trasformatrice del mondo in vista di un più di essere di ciascuno: i tre elementi
si tengono e formano una struttura. La struttura dell'identità cristiana che abbiamo pro-
posto si rivela essere in ultima analisi la ripresa, originale certamente, di questa strut-
tura antropologica fondamentale.

II. NOTE SULLA FUNZIONE DELLA CHIESA NEL NOSTRO SCHEMA


Così come l'abbiamo visualizzata prima, la posizione della struttura dell'identità
cristiana richiede numerose osservazioni.

1. Una problematica di identità


Il nostro schema illustra una problematica di identità e non di salvezza. Esso non
significa: «Fuori dalla Chiesa non esiste salvezza», ma: «Fuori della Chiesa non esiste
salvezza riconosciuta». Per questo il cerchio Chiesa non è formato da una linea conti-
nua ma tratteggiata. Si tratta di un cerchio aperto: aperto sul Regno che la oltrepassa

la siderazione silenziosa del corpo o attraverso delle parole o attraverso il gesto, la preghiera è sempre una
condotta espressiva e performativa di comunicazione dell'uomo con Dio, condotta che richiede l'assimila-
zione di comportamenti rituali talvolta così interiorizzati che non appaiono nemmeno più alla coscienza.
Essa è dunque prioritariamente sussunta nel nostro schema attraverso la liturgia, anche se la travalica e se
ne differisce sotto certi aspetti.
" J.B. M E T Z , La Foi dans l'histoire et la société, Cerf, 1979, p. 73-74 (trad. ital.: Lafede, nellastorìa
e nella società, Queriniana, Brescia 1978).
12
C. LÉVI-STRAUSS, L'Homme nu, op. cit., p. 600-603.
13
M.HEIDEGGER, Lettre sur l'humanisme Q. 3, p. 73 (trad. ital.: Lettera sull'umanesimo, SEI, Torino
1975).

127
da ogni parte; aperto sul Mondo in mezzo al quale essa ha il compito di essere «sacra-
mento» di questo Regno. Aperta, la Chiesa ha però delle frontiere che la differenziano
dalle altre religioni: sono quei punti di riferimento della sua identità indicati dai tratti-
ni. Se non avesse questi segni particolari, non potrebbe evidentemente essere «sacra-
mento» del Regno.
I nostri trattini rappresentano quindi il paradosso dell 'identità cristiana. Da una
parte, essere cristiani significa appartenere alla Chiesa perché vuol dire, come mini-
mo, far propria la confessione pasquale: «Gesù è il Cristo», confessione che fa la Chiesa
e che si fa visibile per ognuno nel battesimo. Ma, d'altra parte, se è vero che essere
cristiani significa entrare in un gruppo ben definito, significa anche liberarsi da ogni
particolarismo per aprirsi all'universale. Il paradosso della Chiesa è proprio questo:
essa è fedele alle proprie particolari caratteristiche solo quando in certo senso le di-
mentica per aprirsi a questo Regno, più grande di lei, che cresce nel Mondo. È così,
e solamente così, che la Chiesa può essere detta «sacramento» di Dio. Una simile para-
dossale identità è difficile da assumere. Di qui la duplice tentazione permanente per
i cristiani: quella del ripiegamento sulla propria particolarità, in cui la Chiesa viene
rappresentata come coestesa al Regno, ridiventando quindi un cerchio chiuso: il club
dei possibili salvati; e all'opposto di questa Chiesa senza Regno, c'è la tentazione di
un Regno senza Chiesa, cioè quella della deflagrazione della Chiesa verso l'universale
del Regno in cui, in mancanza di punti di riferimento, essa perde comunque la sua
funzione di sacramento di questo Regno.

2. Diversità dei circuiti di identificazione


La nostra seconda osservazione verte sul termine, spesso usato qui, di identità. Che
la Chiesa sia mediatrice di ogni avvento all'identità cristiana può stupire solo se si di-
mentica il carattere eminentemente istituzionale di ogni identificazione: si tratta qui,
infatti, di un processo che passa necessariamente attraverso le istituzioni sociali (fami-
liari, scolastiche...) e l'interiorizzazione delle norme da esse veicolate. '* Certo, il sen-
timento di appartenenza alla Chiesa passa, soprattutto oggi, attraverso circuiti molto
diversi: ricordi d'infanzia: una buona nonna cristiana, un odore d'incenso, una grotta;
la messa alla televisione; un pellegrinaggio a Lourdes; l'eco affettiva di una celebra-
zione, tradizionale (come la «comunione solenne») o più marginale; o semplicemente
— caso abbastanza frequente, sembra — un sentimento di vivere dei valori evangelici
autentici partecipando alle lotte di liberazione degli uomini, ecc. D'altra parte, l'iden-
tificazione alla Chiesa è ormai sempre più parziale: «Ci sono cose a cui si aderisce,
ce ne sono altre che si lasciano cadere, o di cui si dubita, e cose che si lasciano sospe-
se. Non si esce dalla Chiesa, ma, un giorno, ci si accorge di esserne fuori su un punto,
e dentro su un altro».15 In questo modo la soglia di rottura indietreggia all'infinito e
la nozione di eresia diventa, di fatto, sempre più elastica. Si potrebbe dire che, al con-
trario di una volta, la tendenza globale attuale è di rimanere attaccati alla res — il van-

14
D. HAMELINE, «Mentite psychosociale et institution», in Lumière et Vie, n. 116, 1974, pp. 31-41.
15
Y . CONGAR, «Sur la transformation du sens de l'appartenance à l'Eglise», in Communio 5, 1976,
pp. 4 1 4 9 .

128
gelo continua ad esercitare un notevole potere di attrazione — ma senza il sacramen-
tum: ministeri, dogmi, sacramenti...
Un modello generale non può né vuole entrare nel dettaglio delle molteplici va-
rianti empiriche di ciò di cui cerca di rendere conto teoricamente. Pretende soltanto
che queste varianti non lo contraddicano: se manca questo, la verifica esigerebbe un
cambiamento di ipotesi e la ricerca di un altro modello più pertinente. È questo il caso
del nostro schema: esso non significa che l'identità cristiana sia concretamente pro-
porzionale al grado di ortodossia dogmatica di ognuno o al confronto del proprio com-
portamento rituale con le prescrizioni dell'autorità (per esempio la partecipazione re-
golare all'assemblea domenicale) o all'adeguazione della propria pratica etica alle norme
ufficiali. Significa soltanto che l'avvento — mai concluso — del soggetto come cristia-
no è sempre legato alla confessione di Gesù come Cristo «secondo le Scritture», a espres-
sioni rituali di questa confessione, in cui si passa dal discorso su Gesù come Cristo
e Signore a un atteggiamento pratico di recezione di lui come Cristo e Signore per
noi — il battesimo o il desiderio di riceverlo è qui il primo passaggio obbligato —
e infine a un certo modo di vivere e di agire che sia conforme al Vangelo.

3. La priorità della Chiesa rispetto agli individui cristiani


La nostra terza osservazione si riferisce alla mediazione fondamentale della Chie-
sa. Il nostro schema ha il vantaggio di mostrare che il riconoscimento di Gesù come
Cristo e Signore non può avvenire, come abbiamo detto, mediante una presa diretta
su di lui; richiede, al contrario, il consenso alla mediazione del suo corpo simbolico,
la Chiesa. Di qui il simbolo degli apostoli: «Credo la santa Chiesa». Certo, non si cre-
de alla Chiesa come si crede in Gesù-Cristo. Il cambiamento di preposizione è signifi-
cativo, ed è stato colto fin dai primi secoli: si mette la propria fede solo in Dio; la
Chiesa non crede in se stessa. Tuttavia è nella Chiesa che si confessa Gesù Cristo:
come minimo facendo proprio il kerygma pasquale da cui è nata la Chiesa: «Ecclesiale
nella sua modalità (se è lecito parlare così), scrive il P. de Lubac, la fede è teologale
sia nel suo oggetto che nel suo principio».,6 II Vangelo è comunitario per natura. Cre-
dere significa essere messi insieme da colui che viene confessato come nostro comune
Signore. È quanto viene espresso non solo dalla cena del Signore dove, come dice
Paolo in 1 Cor 1 1 , è impossibile pretendere di discernere in verità il suo corpo eucari-
stico senza discernere il suo corpo ecclesiale, ma già anche nel primo sacramento del-
l'esistenza cristiana: tutti infatti rivestono il medesimo Cristo mediante il battesimo;
per questo esso crea queir «Uomo nuovo» in cui sono escatologicamente abolite le bar-
riere tra il Giudeo e il Greco, lo schiavo e l'uomo libero, l'uomo e la donna (Gal 3,26-28;
Col 3,10-11). Ed è anche quanto esprime la preghiera liturgica sempre formulata con
il noi: noi ti rendiamo grazie, noi ti offriamo, noi ti supplichiamo... Questo «noi», dal
punto di vista linguistico, non indica, come sappiamo, una addizione o un aggregato
di «io» ma «una persona morale complessa».17

16
H. DE LUBAC, Méditation sur l'Église, Aubier, 1953, p. 25 (trad. ital.: Meditazione sulla Chiesa,
Jaca Book, Milano 1980).
17
E. ORTIGUES, op. cit., p. 156.

129
Il soggetto attivo di liturgia è Yekklèsia come tale non per un ideale democratico
— anche se la scoperta di questa verità teologica fondamentale è probabilmente legata
alla valorizzazione culturale della democrazia — ma perché e in quanto l'assemblea
è il corpo di Cristo che la presiede (cf la nostra lettura di Emmaus in questo senso)
e che esercita in mezzo ad essa e in suo favore il suo sacerdozio unico e intrasmissibile
(cf Eb 7,24-25). La realtà della celebrazione da parte della ekklèsia come corpo, come
corpo costituito potremmo dire, è fondata sul riconoscimento di questa «sacramentali-
tà» della Chiesa, mediazione concreta della presenza e dell'azione del Cristo risorto.
La Chiesa è quindi prima rispetto agli individui cristiani. Y. de Montcheuil ha in
questo senso una formula felice: «Non sono i cristiani che, riunendosi, formano la Chie-
sa; è la Chiesa che li fa cristiani».18 Non si potrebbe dire meglio il fatto che non ci
sono cristiani «prima» della Chiesa, e che essa non è una somma di individui già cri-
stiani, ^assemblea celebrante, a cominciare dall'assemblea battesimale ed eucaristi-
ca, è il luogo primario di manifestazione di questa Chiesa. Questo non vuol dire che
si è meno Chiesa in altre assemblee o durante la situazione di diaspora lungo la setti-
mana, ma che l'identità della Chiesa come Chiesa di Gesù Cristo animata dai vari cari-
smi dello Spirito si manifesta prioritariamente, sul piano della sacramentalità della Chiesa
in cui ci situiamo, in questo tipo di assemblea.
Sappiamo d'altronde che, nel Nuovo Testamento, prima di designare la Chiesa diffusa su
tutta la terra, ekklèsia indica prima di tutto l'assemblea locale dei cristiani. Essa non è una sem-
plice porzione dell'unica Chiesa di Cristo, ma la sua realizzazione integrale nella particolarità
di un gruppo e di una cultura. Il Vaticano II, presentando la Chiesa locale come «la più alta
manifestazione della Chiesa di Dio»19 ha operato, come sappiamo, una vera e propria «rivolu-
zione copernicana»: ormai «non è più la Chiesa locale che gravita intorno alla Chiesa universa-
le, ma è l'unica Chiesa di Dio che si trova presente in ogni celebrazione della Chiesa locale»;
cosicché si è portati a «pensare la Chiesa come comunione di Chiese».20 Certo, le Chiese locali
di cui il Concilio dice che «in esse e a partire da esse esiste la Chiesa cattolica, una e unica»
indicano il più delle volte le diocesi. E tuttavia anche ogni assemblea eucaristica legittima rende
«veramente presente» la Chiesa di Cristo, secondo il numero 26 di Lumen gentium.21
Da questo punto di vista è significativo il fatto che, secondo il Nuovo Testamento, «sia l'as-
semblea convocata (ek-kaleò) a dare il suo nome al gruppo (cristiano), e non il gruppo a dare
il suo nome all'assemblea».22 In altri termini, non si è trovato niente di meglio per designare
il fenomeno cristiano nascente che chiamarlo con il termine che sembrava caratterizzarlo nel
modo migliore: quello di «assemblea convocata»: cf il Qahal Yahweh del deserto, tradotto pre-
valentemente nella LXX con ekklèsia, e talvolta anche con sinagoga.
Si può d'altronde notare con F. Hahn che, mentre la terminologia cultuale dell'Antico Testa-
mento è «coscientemente evitata» nel Nuovo per designare il culto dei cristiani, «l'unica nozione
che torna con una certa regolarità» per esprimere quest'ultimo è sunerchestai o sunaghestai:
quattro volte nel passo di 1 Cor 11,17-34 e due volte in 1 Cor 14, oltre ad At 4,31; 14,27 e

" Y. DE MONTCHEUIL, Aspects de l'Église, 1948, p. 51.


" Sacrosanctum Concilium, n. 41.
20
H.M. LEGRAND, «La réalisation de l'Église en un lieu», in Initiation à la pratique de la théologie,
t. 3, Cerf, 1983, pp. 150-151.
21
Lumen gentium, n. 23. H.M. Legrand {pp. cit., p. 146) precisa che «su otto usi di "ecclesia localis",
quattro indicano la diocesi, un quinto la diocesi nel suo contesto culturale, due un raggruppamento di dioce-
si, e l'ultimo uso, unico nei testi del Vaticano II, qualifica così la parrocchia».
22
P. GRELOT, «DU sabbat juif au dimanche chrétien», in LMD 124, 1975, p. 17.

130
20,7. «Il "riunirsi" dei credenti è la caratteristica del culto cristiano».23 In breve, il radunarsi
in nome del Signore era percepito come la prima caratteristica dei cristiani, il sacramento fonda-
mentale del Cristo risorto. I cristiani sono gente che si raduna. Durante i primi secoli questa
idea si è vigorosamente mantenuta: «Andare àSTekklèsia la domenica significa sempre "unirsi
all'assemblea" o "fare Chiesa"», al punto che per la prima patristica, come ha notato P.M.
Gy, esiste «identità fra la partecipazione ali'ecclesw-assemblea e l'appartenenza alla Chiesa».24

4. Ricevere la Chiesa come una grazia


La nostra quarta osservazione si inscrive nella scia teologica di quella precedente:
l'istituzione ecclesiale va ricevuta come una grazia.
Questa affermazione presuppone evidentemente che si distingua l'istituzione-Chiesa,
oggetto del credo sanctam ecclesiam, che va riconosciuta come un dono di grazia di
Dio in quanto è nella sua visibilità stessa sacramento del Regno che viene, e l'organiz-
zazione che questa istituzione deve necessariamente darsi, che è relativa alle culture
circostanti e che resta semper reformanda. È vero che ci sono attualmente accese di-
scussioni tra le Chiese e all'interno di ognuna di esse per sapere che cosa, dell'orga-
nizzazione, appartenga o meno all'istituzione. È vero d'altra parte che sarebbe facile
mostrare per mezzo della storia, e anche per mezzo dell'attualità, le molteplici mani-
polazioni di cui la «grazia» della Chiesa-istituzione è stata oggetto; l'appello al Mistero
della Chiesa rischia sempre di fungere, di fatto, come mistificazione.
Resta il fatto che, al di là dei problemi spesso spinosi di organizzazione, il ricono-
scimento della Chiesa-istituzione come «sacramento fondamentale» del Regno richie-
derà sempre una conversione: sia perché il credente, troppo confortevolmente installa-
to nell'istituzione, dimentica che essa è solo sacramento e cancella lo scarto rispetto
a Cristo; sia, al contrario, perché il suo sospetto critico nei confronti dell'istituzione
gli fa misconoscere che essa è sacramento. L'acquiescenza troppo placida alla Chiesa
non è meno sospettabile del risentimento nei suoi confronti. Nel primo caso l'istituzio-
ne serve da rifugio comodo, e i suoi dogmi o i suoi riti servono da alibi («sacrificali»,
diremo più avanti) che dispensano dall'assumere positivamente l'assenza di Cristo a
profitto della sua presenza, immaginariamente «piena» nella Chiesa. Ma, sia pure da
un punto di partenza opposto al precedente, si può trovare questa stessa negazione del-
la presenza -delia-mancanza di Cristo anche nel secondo caso. Il risentimento nei con-
fronti di una Chiesa che ci si limita a sopportare come un inevitabile minor male, che
si subisce in mancanza di meglio e che ci si trascina come una palla al piede, non è
di fatto il sintomo di questo desiderio, «gnostico», di presa diretta su Gesù Cristo che
abbiamo denunciato in precedenza e di quello schema di pensiero, ultra-metafisico,
che, contro ciò che abbiamo chiamato il consentimento alla corporeità, non smette di
essere alimentato dal privilegio accordato a priori all'interiorità e alla trasparenza?
È proprio nella scia del nostro itinerario simbolico di rispetto della presenza-della-
mancanza che capiamo qui il credo sanctam ecclesiam, cioè la mediazione istituziona-
le della Chiesa come dono di grazia. La duplice tentazione prima ricordata mette bene

23
F. HAHN, Der urchristlische Gottesdienst, Stuttgart 1970, p. 34.
24
P.M. G Y , «Eucharistie et "Ecclesia" dans le premier vocabulaire de la liturgie chrétienne», in LMD
130, 1977, p. 30.

131
in risalto la difficoltà di una recezione della Chiesa come grazia, difficoltà da cui nes-
suno mai è definitivamente esente. Oscillando continuamente tra i due poli «proibiti»,
l'equilibrio in questo ambito non può essere che instabile. Rispetto al suo Dio crocifis-
so, la Chiesa è in definitiva altra cosa che una sorta di «spazio transìzionale» (nel sen-
so dell'«oggetto transìzionale» di Winnicott)?

5. Apertura pastorale
La riflessione proposta nell'insieme di questo capitolo è gravida, come ci si può
render conto, di conseguenze pastorali. Ne ricorderemo qui una sola, la più fonda-
mentale secondo noi. E dal momento che stiamo trattando teologia sacramentale, lo
faremo a partire dalla liturgia.
L'assemblea dei cristiani riuniti nel nome di Cristo (Mt 18,20) o in memoria di
lui è, come abbiamo detto, la prima figura sacramentale della sua presenza. Ed è que-
sto, anche, il primo scoglio per la fede perché una simile figura è il segno radicale
della sua assenza. Che sia lui, il Signore vivente, che presiede l'assemblea, che questa
sia riconosciuta come la sua «santa Chiesa» mentre è formata da membri peccatori,
come suo «corpo» mentre i suoi membri sono divisi, o come il «tempio dello Spirito»
che fa nuove tutte le cose mentre i suoi membri sono imprigionati nelle pesantezze
delle loro abitudini, ebbene tutto questo non va certo da sé. Una simile affermazione
è veramente scandalosa. Ora, la riflessione di questo capitolo mostra che il cammino
concreto del diventare-cristiani si scontra con questo originario scandalo. Gli altri scan-
dali della fede — pensiamo, per esempio, a quello della presenza eucaristica — ri-
schiano di funzionare come falsi scandali che ci mascherano il vero, o come degli alibi
attraverso i quali evitiamo segretamente il vero. Questo vero scandalo infatti è proprio
che Dio, mediante il dono dello Spirito, continua a suscitarsi un corpo nel mondo:
corpo del Risorto nella sua condizione di umiliato segnato dalle piaghe della sua mor-
te. Il vero scandalo, in definitiva, è proprio che il cammino del rapporto con Dio passa
attraverso il rapporto con l'uomo, e prioritariamente attraverso il rapporto con coloro
che la ragione del più forte ha ridotto a «meno che nulla» (supra).
È proprio questo originario scandalo per la fede che permette simbolicamente di
vedere e di vivere l'assemblea liturgica. Perché unirsi all'assemblea della domenica
invece di restarsene a casa propria a guardare la messa in televisione? Può sembrare
infatti tanto più facile sentirsi vicini a Cristo e «tutti per Dio» nel confortevole silenzio
della propria casa invece che in chiesa, dove bisogna chiudere gli occhi e, con la testa
tra le mani, tapparsi le orecchie per non essere disturbati nel proprio «téte-à-tète» con
Dio.
E tuttavia, secondo una delle più antiche tradizioni della Chiesa,25 la manifestazio-
ne sacramentale del «primo giorno della settimana»26 come giorno-memoriale della
morte-risurrezione del Signore è legata in prima istanza al raduno dei cristiani. Come
figura sacramentale originaria del Risorto, questa ecc/esia-assemblea manifesta che
la verità del rapporto con lui non solo richiede che non si cancelli la presenza di altri,

25
Cf art. cit. di P. GRELOT, in LMD 124, pp. 33-34.
26
B. BOTTE, «Les dénominations du dimanche dans la tradition chrétienne», in B. BOTTE et. al., Le
Dimanche, Cerf, 1965, pp. 7-28; J. DANIÉLOU, «Le dimanche comme huitième jour», ibid., pp. 61-89.

132
ma esige al contrario di passare attraverso di essa. Manifesta qual è il compito cristia-
no inaugurato escatologicamente con il battesimo: formare questo «Uomo nuovo» per
il quale Cristo è morto, offrendo la sua vita per la riconciliazione del Giudeo e del
Greco in un solo corpo (Ef2,15-16; Col 3,10-11). Se la Chiesa rende visibile questo
compito battesimale, sempre da ricominciare, allora l'ecclesia domenicale denuncia
come illusorio queirindividualismo in forza del quale si crede di essere tanto più cri-
stiani quanto più si è innestati direttamente su Dio nel silenzioso dialogo della medita-
zione. Certo, anch'essa ha il suo posto in una vita cristiana autentica. Non vogliamo
qui minimizzarla, ma metterla al suo posto giusto.
Teologicamente, questo posto è secondo. Il primo atteggiamento propriamente cri-
stiano arrivando all'assemblea della domenica non è quello di concentrarsi su se stessi
e su Dio, con la testa tra le mani per evitare la presenza fastidiosa degli altri. Per quan-
to necessario e lodevole sia questo raccoglimento, esso richiede teologicamente di es-
sere subordinato ad un atteggiamento contrario di decentrazione: quello della presa
di coscienza degli altri, nella loro diversità, e del loro riconoscimento come fratelli.
Questo è il significato del cerchio inglobante della Chiesa nel nostro schema. Que-
sto cerchio visualizza sulla carta quello che l'assemblea liturgica fa vedere e vivere
sacramentalmente, cioè *7 compito stesso del divenire-cristiano: imparare a smasche-
rare l'oblio che tutto in noi desidera dimenticare, l'oblio dell'umanità del Dio divino
rivelato in Gesù, e dunque l'oblio che l'alleanza con lui può essere vissuta solo nella
mediazione dell'alleanza con altri e non in un immaginario contatto diretto con lui che
presupporrebbe una presenza «piena» da parte sua. Rimandandoci a questa alleanza
con altri come al luogo stesso dell'avvento del corpo di Cristo, l'assemblea liturgica
costituisce la figura «sacramentale» fondamentale della presenza della mancanza di
Dio. Consentire a questa mancanza e quindi, simultaneamente, accogliere la richiesta
di dare a Dio questo corpo di umanità che egli aspetta da coloro che si rifanno a Gesù
Cristo costituisce, come abbiamo sottolineato, la prova più grande del divenire-cristiano.
Di una simile prova l'assemblea liturgica non è certo l'unico luogo di effettività, natu-
ralmente; ma ne è il luogo simbolico principale. Si può misurare l'ampiezza del lavoro
pastorale da fare in questa direzione. E si intravvede anche il ruolo che l'assemblea
liturgica può svolgere in questa pedagogia della fede.

133
Capitolo Sesto

IL RAPPORTO SCRITTURA/SACRAMENTO

Dopo aver posto la struttura dell'identità cristiana, è opportuno riflettere sui rap-
porti tra i sacramenti e, da una parte, la Scrittura (cap. VI), poi, dall'altra parte, l'Eti-
ca (cap. VII). Proporremo in seguito un modello di funzionamento di questa struttura
(cap. Vili).
Procederemo, in questo capitolo, attraverso tre tappe principali: la prima è un ten-
tativo di lettura storica del rapporto che la Bibbia ha mantenuto, nella sua genesi, con
la liturgia di Israele, poi delle prime comunità cristiane. La seconda, basandosi su una
riflessione fenomenologica relativa al processo di produzione della Bibbia, tenterà di
pensare la liturgia come «luogo» della Scrittura. La terza mostrerà in che senso si può
parlare di una sacramentalità della Scrittura e in che senso, al contrario, la Scrittura
apre dall'interno la sacramentalità.

I. «LA BIBBIA NATA DALLA LITURGIA»

Il titolo di questa prima parte riprende il titolo di un articolo di Ph. Béguerie. ' Una
frase di questo tipo va intesa a due livelli. A livello dei fatti, essa suppone che, tra
i molteplici settori dell'attività di Israele, quello del culto abbia svolto un ruolo decisi-
vo — il che non significa esclusivo — nell'elaborazione di ciò che sarebbe diventato
a poco a poco il corpus canonico delle Scritture. Alcuni colpi di sonda, che richiede-
rebbero evidentemente ampi commenti, ci permetteranno di verificare in un primo tem-
po, almeno parzialmente, la consistenza effettiva di questa affermazione. Confortati
da questi indizi, che riteniamo sufficientemente significativi, potremo, a un secondo
livello, proporre una interpretazione di questo radicamento della Bibbia, sia cristiana
che ebraica, nella liturgia, interpretazione che ne mostrerà il carattere non solo circo-
stanziale, ma essenziale.

1. Bibbia ebraica e liturgia


«La Bibbia è nata dalla liturgia. E questo fin dalle origini, fin dai testi più antichi
del libro santo».2

1
P. BEGUEHIE, «La Bible née de la liturgie», in LMD 126, 1976, pp. 108-116.
J
I D . , ibid., p. 109.

134
a) Conosciamo l'importanza primaria dei santuari e dei luoghi di pellegrinaggio fin dall'e-
poca della Conquista in quello che doveva diventare la Bibbia: Sichem, Gàlgala, Silo... 3
Attorno a questi santuari si trasmettono e si amalgamano le tradizioni patriarcali, antiche
0 più recenti. I sacerdoti di questi santuari sono i custodi e gli interpreti delle leggi riconosciute
dalle tribù e vegliano sulla salvaguardia e la trasmissione delle tradizioni orali che si raggruppe-
ranno e si mescoleranno a poco a poco in cicli più vasti. La Bibbia è nata dall'attività «liturgica»
(in senso ampio) di questi centri cultuali4 in cui le tribù hanno potuto darsi una fisionomia e
riappropriarsi della memoria collettiva, e identificarsi come esiti di uno stesso antenato eponimo
— un «Arameo errante», Dt 26,5 — da cui avevano ereditato questa confessione di fede in Iah-
vè, il Dio unico, che faceva la loro unità.
b) Se affrontiamo il problema dall'altro capo, cioè non più dalla sua origine ma dal suo ter-
mine, constatiamo questa stessa funzione decisiva della liturgia. Il canone delle Scritture è infat-
ti il frutto di una selezione tra le molteplici tradizioni, dapprima orali, poi scritte. Forse il cor-
pus biblico attuale ne ha conservato solo il 10% (proporzione che ha l'unico valore di indicare
un ordine di grandezza, dal momento che una valutazione precisa è evidentemente impossibile).
1 testi «che la Bibbia conserva sono sopravvissuti proprio a causa del loro uso nella liturgia.
E il loro mondo di scrittura, il loro tipo di unione provengono dal loro uso liturgico».5 Questo
vale anche per gli scritti più recenti: nel giudaismo dopo il 70 si legge Rut per la Pentecoste,
il Cantico per Pasqua, Qoelet per i Tabernacoli, Ester per la festa di Purim.6 Come molti altri,
questi scritti non sarebbero entrati nel Canone se non avessero avuto una destinazione liturgica.
«Il corpus biblico si è costituito prima di tutto in funzione di una proclamazione e di un ascolto
comunitario».7 Questa è d'altronde la legge enunciata a questo proposito da P. Beauchamp: «È
canonico ciò che riceve autorità dalla lettura pubblica».8 La Bibbia è costitutivamente fatta per
la lettura pubblica. Proprio per questo, come vedremo più avanti, l'«ecclesialità» non le è acci-
dentale, ma essenziale.
e) Possiamo osservare, in terzo luogo, che Pasqua, Pentecoste, Tabernacoli, le tre grandi
feste annuali di pellegrinaggio (Dt 16; Es 23,13-19) sono state incluse nella Bibbia in ragione
della riconversione storica di cui, in forza del memoriale liturgico, sono state oggetto. Nate in-
fatti da riti pagani di fertilità, pastorizi o agrari, esse sono state reinterpretate, talvolta fin nei
dettagli, in funzione degli eventi fondatori letti come «storia della salvezza» da parte di Iahvè
«che crea» (Is 43,1) i discendenti di Abramo come suo popolo. Così, per Pasqua, il sangue del-
l'agnello, il pane azzimo, le erbe amare si ricollegano all'esodo dall'Egitto; e, per Pentecoste,
l'offerta delle primizie della mietitura si collega all'alleanza e al dono della Legge sul Sinai;
per la festa dei Tabernacoli le capanne di fronde si collegano alla marcia nel deserto (Es 23,14-16;
Lv 23). Questa rilettura storica non fu evidentemente il frutto di un'operazione intellettuale ma

1
R. DE VAUX, Histoire ancienne d'Israel, T. 1, Gabalda, 1971, pp. 160-179: i vecchi santuari dell'e-
poca patriarcale (Sichem, Mamre, Bersabea, Ebron, legati alle peregrinazioni di Abramo, alle quali si ag-
giungeranno più tardi le tradizioni relative al clan di Isacco; Betel e Sichem, dove si trasmettono i ricordi
di Giacobbe) rivivono in questa epoca. Ma sono soppiantati da santuari nuovi: Gàlgala (tradizioni relative
al passaggio del Giordano), Sichem (questa volta in qualità di luogo principe dell'unità delle tribù), Silo
(centro di raccolta delle tribù della Palestina centrale all'epoca dei Giudici) (ID., ibid., t. 2, Gabalda, 1973,
pp. 26-32).
4
II Decalogo è stato quindi «segnato dal suo uso cultuale». J. BRIEND, «Une lecture du Pentateuque»,
Cerf, Cahiers Evangile, n. 15, 1976, pp. 32-33. Analogamente, ID., Lectures du Décalogue, in «Catéchè-
se», n. 98, 1985, pp. 95-96.
5
P. B E G U E M E , art. cit., p. 109.
6
J.A.. SANDERS, Identité de la Bible. Torah et Canon, Cerf, 1975, p. 140.
' I.H. DALMAIS, «La Bible vivant dans l'Eglise», in LMD 126, 1976, p. 7.
8
P. BEAUCHAMP, L'Un et l'Autre Testament, Seuil, 1976 (trad. ital.: L'uno e l'altro Testamento, Pai-
deia, Brescia 1985).

135
di una esperienza vìva, quella della confessione di fede, in cui il memoriale liturgico ha svolto
un ruolo essenziale.
d) È d'altronde estremamente significativo — ed è questa la nostra quarta osservazione —
che i grandi eventi fondatori di Israele (perché e in quanto appunto riconosciuti come fondatori)
ci siano presentati nella Bibbia attraverso dei racconti di tipo liturgico. In una nota che introdu-
ce la sezione di Es 12,1-13,16, la TOB fa notare che questo insieme «non si presenta come
un racconto dell'uscita dall'Egitto, ma come un insieme di testi liturgici (attinti a tradizioni di
epoche diverse) che mostra in quale modo celebrare il memoriale di questa uscita dall'Egitto».
D modo migliore di esprimere la portata di ciò che è avvenuto un tempo è di raccontarlo attra-
verso il modo in cui se ne fa memoria oggi nella liturgia. La pratica liturgica costituisce il testo
del testo, il «meta-testo», il margine che lo delimita, la pagina su cui è scritto. // vero punto
di partenza del racconto è l'assemblea celebrante nella sua attualità.
Possiamo fare delle osservazioni quasi analoghe a proposito della sezione relativa all''allean-
za del Sinai {Es 19-24). È una grandiosa liturgia, che inizia (19,10-25) con il lavaggio degli
abiti, la delimitazione del recinto sacro, il suono del corno, l'elezione dei sacerdoti, i grandi
simboli rituali del fuoco e del fumo al momento della teofania, la paura del popolo che si tiene
a distanza rispettosa, mentre Mosè funge da mediatore (20,18-21); poi il dono della Legge (De-
calogo, 20; Codice di alleanza, 21-23), infine i riti di conclusione dell'alleanza (Es 24): lettura
«liturgica» della Legge, ratificata dal popolo, sacrificio di alleanza su un altare con dodici colon-
ne con aspersione di sangue (trad. E) e un pasto di comunione (trad. J). Anche qui, la liturgia
non è un semplice quadro esterno al racconto; ne è il luogo originario, cioè sempre contemporaneo.
Nemmeno la narrazione del cammino nel deserto sfugge a questa influenza primordiale del
memoriale liturgico. Il popolo è accompagnato dalla Nube, segno della presenza di Iahvè che
lo guida e che rimane in mezzo a lui posandosi, durante le soste, su quel primo «tempio» che
è la Tenda di riunione. «Israele, in P, non è un popolo in armi..., ma una comunità dedita al
culto del Signore».' La conquista di Canaan comincia anch'essa con un'immensa processione
liturgica in occasione della traversata del Giordano (sacerdoti, leviti, Arca dell'alleanza, erezio-
ne di dodici stele...) (Gs 6). Tutto questo sfocia nella solenne celebrazione del rinnovo dell'al-
leanza sui monti Ebal e Garizim che dominano Sichem, il grande santuario della lega delle dodi-
ci tribù, in Gs 8,30-35, ripresa in modo più disteso in Gs 24. Perfino i discorsi in seconda per-
sona («Ascolta, Israele... osserverai...», ecc.) del Deuteronomio hanno avuto probabilmente ori-
gine, come osserva la TOB, «in certe cerimonie liturgiche in cui tutto Israele era effettivamente
radunato per ascoltare come un sol uomo la legge del suo Dio»; si precisa d'altronde che «proba-
bilmente quando questo insegnamento (della legge dell'alleanza) esce dal suo quadro liturgico
originario, allora abbandona il tu comunitario e si mette ad interpellare gli Israeliti con il voi,
come altrettanti individui personalmente responsabili».10
Così, i grandi momenti fondatori dell'identità di Israele sono narrati a partire dal memoriale
che egli ne fa nella sua liturgia. Se essa è in qualche modo espulsa dal testo stesso, è proprio
perché ne costituisce il «pre-testo»: non si racconta la liturgia; si racconta liturgicamente la sto-
ria di cui in essa si fa memoria. La «liturgizzazione» della narrazione relativa ai racconti delle
origini è il modo migliore di manifestare la loro funzione sempre fondatrice dell'identità di Israele.
e) Se le liturgie di alleanza appaiono come tali solo in quattro momenti della storia di Israe-
le, questi momenti sono però particolarmente significativi, nella misura in cui si tratta di fonda-
re l'identità comune del popolo (come sul Sinai, Es 19-24) o di restaurarla nei grandi momenti
di crisi: a Sichem, all'epoca della conquista e dell'installazione in Canaan, l'alleanza con Iahvè
effettua l'alleanza fra le tribù (Gs 24; Dt 27); sotto Giosia, un secolo dopo la caduta di

' TOB, Introduzione al libro dei Numeri, p. 257.


10
TOB, Introduzione al libro del Deuteronomio, p. 332.

136
Samaria, quando Giuda è minacciato sia dal politeismo che dalla pressione assira, il rinnovo
solenne dell'alleanza a Gerusalemme (2 Re 22-23) restaura l'identità religiosa e nazionale: un
solo popolo, un solo Dio, un solo Tempio; analogamente dopo il ritorno dall'esilio, il popolo,
senza re, politicamente dominato dall'impero persiano, minacciato dall'interno dalle pratiche
idolatriche e dai matrimoni misti con i pagani (Esd 9-10; MI) è salvato dalla disgregazione che
lo rode grazie alla riforma di Esdra, il cui punto culminante è il rinnovo dell'alleanza al Tempio
(Ne 8).
Molte celebrazioni di questo tipo, annuali secondo Sanders, " hanno avuto luogo lungo la
storia ebraica. Le poche celebrazioni di alleanza che la memoria collettiva ha selezionato e con-
servato nel libro santo vanno intese come esemplari: all'interno del corpus canonico esse sono
tipiche dell'identità religiosa e nazionale dell'insieme delle tribù che formano questo popolo ori-
ginale che è il «popolo di Iahvè». La funzione delle liturgie di alleanza supera ampiamente, co-
me si vede, il loro carattere episodico; essa pertiene a quella dimensione essenziale della Bibbia
che è la confessione di fede in Iahvè e, per sua mediazione, l'identità stessa di Israele.
Non si tratta di considerare la liturgia come il luogo esclusivo di nascita e di produ-
zione della Bibbia! Questo è d'altronde uno dei leit-motif di R. de Vaux: «Il culto non
crea la tradizione, serve a ricordarla»,12 il che non vieta che le tradizioni recitate in
occasione di una festa «abbiano subito le influenze di questo uso cultuale».13 La litur-
gia non ha prodotto le tradizioni come tali, ma — sotto l'influsso, evidentemente, di
molteplici fattori politici, economici e sociali — essa le ha segnate con la sua impronta
e ha svolto un ruolo decisivo nella loro conservazione come «Parola di Dio». E questo,
nella misura in cui Israele ha trovato in essa il luogo primordiale della propria identità:
la confessione di fede in Iahvè, il Dio uno e unico, confessione di fede di cui la Bibbia
non è altro che il sinuoso dispiegamento sul filo degli eventi della storia. Da questo
punto di vista, il culto è stato molto di più che un semplice settore tra altri delle attività
empiriche di Israele: è stato il catalizzatore principale di una identità che doveva tro-
vare nel canone delle Scritture il suo «esemplare» ufficiale.

2. Bibbia cristiana e liturgia

a) L'ermeneutica cristiana delle Scritture


La Bibbia cristiana non è altro che una rilettura della Bibbia alla luce della morte
e della risurrezione di Gesù Cristo, o la rilettura di queste cose compiute «secondo
le Scritture». Secondo questa ermeneutica cristiana, credere che Gesù è il Cristo di
Dio e che è vivente significa credere che egli parla nelle Scritture proclamate in suo
Nome nelle assemblee di Chiesa; oppure significa credere che le Scritture parlano di
lui. La Bibbia cristiana non è allora, nelle sue origini, che una variante delle tecniche
tradizionali di analisi delle Scritture messe in opera nei commenti midrascici o targu-
mici. Essa è un tessuto di citazioni, esplicite o implicite, delle tradizioni scritte e orali
paleo-testamentarie rilette come compiute in Cristo. Proprio per questo la rivelazione
cristiana consiste nell'articolazione stessa dell'«uno e l'altro» Testamento. Questa pie-

" J.A. SANDERS, op. cit., p. 48.


12
R. DE VAUX, op. cit., t. 1, p. 178; cf pp. 307 e 380.
» I D . , ibid., p. 380.

137
gatura che separa e congiunge i due, d'altronde, non è che la visibilizzazione di quella
che attraversa il Nuovo come tale, infarcito di Antico. 1 4
Verso il 95 Clemente di Roma cita come Scritture solo i testi paleo-testamentari: solo ad
essi riserva l'espressione ho hagios logos; ma lo fa con questa differenza fondamentale, che
il Kyrios che in essi parla è il Signore Gesù in persona.'5 Non ci si stupirà se, rivolgendosi ai
Corinzi, egli cita almeno tre volte esplicitamente delle lettere di Paolo (senza contare i numerosi
riferimenti impliciti), lettere che, secondo 1 Tm 5,27 e Col 4,16, erano destinate ad essere lette
nell'ecclesia riunita e ad essere scambiate tra le varie Chiese. Questa destinazione spiega il fatto
che le formule epistolari abituali di indirizzo e di saluto finale siano state trasformate «liturgica-
mente» e che queste lettere abbiano verosimilmente «fin dall'origine un carattere liturgico».'6
Comunque sia, Clemente di Roma, citandole, non le riporta ancora come «Scritture». Quanto
ai Vangeli, le «parole del Signore Gesù» che egli riporta sembrano riferirsi «a una collezione
di logia sia orali, sia consegnati per iscritto, e non a un vangelo preciso». Ed è probabile, conti-
nua A. Jaubert, che in un'epoca in cui ciò che era scritto trasudava ancora di una cultura massic-
ciamente orale, gli ambienti liturgici abbiano svolto un ruolo importante nella scelta e nel tenore
delle citazioni che Clemente fa."
L'influsso di questi ambienti nell'elaborazione della trasmissione di ciò che doveva diventa-
re le Scritture cristiane non sorprende più di tanto se si pensa che le prime comunità erano eredi
dell'esperienza sinagogale. Nelle assemblee cristiane, infatti, si continuavano a leggere la Leg-
ge e i Profeti, e si continuava ad «attualizzarli» attraverso la tecnica tradizionale dell'omelia-
targum o del midrash, «infilando come perle i testi biblici che trattavano un medesimo tema
o che venivano accostati gli uni agli altri in forza di una semplice parola-agrafa o di un gioco
di parole fondato su una semplice assonanza».'8 Questa specie di commento cordiale doveva
d'altronde passare attraverso le molteplici tradizioni orali che, all'epoca di Gesù, erano talvolta
attribuite a Mosè stesso, cosicché «verso la fine del primo secolo d.C. il giudaismo professò
come dogma che Legge scritta e Legge orale erano state rivelate a Mosè sul Sinai; la Legge
orale completava e spiegava la Legge scritta per renderla intelligibile e attuale per ogni genera-
zione»."
Nell'elaborazione della nuova Bibbia, secondo C. Perrot,20 sono stati determinanti tre tipi
di carismi principali. Da una parte i glossolali o oranti cristiani, specialisti della benedizione
o dell'azione di grazie (prima che i profeti cristiani riprendessero questo ruolo, come mostra
già la Didaché),2' parlavano a Gesù come a Dio in nome della comunità. D'altra parte, ipro-

14
Sull'origine della designazione di «Antico» e di «Nuovo» Testamento nel II secolo, con spostamento
semantico «dal registro teologico» di alleanza «al registro letterario» di testamento, cf A. PAUL, L'inspira-
tion et le canon des Ecritures, Cerf, Cahiers Evangile, n. 49, 1984, p. 44.
15
Vedere A. JAUBERT, Clément de Rome: Épitre aux Corìnthiens, Cerf, SC, n. 167, 1971, pp. 52, 62.
16
E. COTHENET, Saint Paul en son temps, Cerf, Cahiers Évangile, n. 26, 1978, p. 21 (trad. ital.: Pao-
lo e il suo tempo, Gribaudi, Torino 1980).
" A. JAUBERT, op. cit., p. 52 e Indice scritturano.
18
C. PERROT, «La lecture de la Bible dans les synagogues au premier siècle de notre ère», in LMD
126, 1976.
" A. PAUL, Intertestament, Cerf, Cahiers Évangile, n. 14, 1975, p. 7 (trad. ital.: Che cos'è l'Interte-
stamento, Gribaudi, Torino 1978). Non bisogna d'altronde dimenticare che «la cultura religiosa media» de-
gli Ebrei, costruita nelle sinagoghe, non si nutriva «solamente della lettera dell'Antico Testamento» (i più
non capivano l'ebraico e non sapevano leggere) «e sicuramente non si nutriva delle discussioni e delle argu-
zie dei dottori. Essi vivevano di questa tradizione viva radicata nella Scrittura, ereditata dal giudaismo post-
esilico» (R. LE DEAUT, Liturgie juive etNouveau Testament, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1965, pp. 68-69).
20
C. PERROT, «L'anamnèse néo-testamentaire», in Rev. Inst. Cath. Paris, n. 2, 1982, pp. 21-37.
21
Did. 10,7: «Lasciate che i profeti rendano grazie finché verranno». Le Costituzioni Apostoliche (com-
pilazione di testi anteriori, verso il 380 ad Antiochia) trasformano questo testo in maniera significativa:

138
feti cristiani o omeliasti facevano risuonare, attraverso Yomelia-targum, le parole della Scrittu-
ra come parole del Signore Gesù alla sua comunità o come parole di Dio sul suo Cristo. Infine,
i dottori o didascali erano i nuovi scribi incaricati di impacchettare i logia del Signore in raccon-
ti e discorsi, pacchetti che dovevano diventare quei vangeli che Giustino chiama «le memorie
degli apostoli» (/ Ap 66 e 67). Anche questo terzo carisma, dottorale, era legato alla assemblea
liturgica, e questo sia nella sua origine, poiché in essa ha trovato le sue radici, soprattutto nel-
l'attività dei profeti omeliasti, sia nella sua conclusione perché il loro lavoro di compilazione,
organizzazione e riscrittura aveva presente la proclamazione dei vangeli come Vangelo nelle
assemblee.
Le assemblee cristiane, eucaristiche e battesimali, sembrano aver funzionato, co-
me si vede, empiricamente come crogiolo decisivo di elaborazione della Bibbia cri-
stiana. Questa è, in ogni caso, la «convinzione profonda» di C. Perrot: «D pasto cri-
stiano è il luogo per eccellenza in cui la scrittura evangelica della storia si è cristalliz-
zata. Il Vangelo letto nella celebrazione eucaristica è nato in questa stessa celebrazio-
ne»; resta inteso, d'altronde, che l'autore non dimentica «gli altri luoghi produttori del
discorso cristiano».22

b) I racconti della Cena


Questo vale evidentemente in modo particolare per i racconti della Cena. Essi rea-
lizzano in modo esemplare quello che dicevamo prima a proposito dei racconti di tipo
liturgico relativi ai grandi eventi fondatori di Israele. Si presentano come racconti su
ciò che Gesù ha fatto la vigilia della sua morte, mentre ciò che raccontano direttamen-
te è di fatto il modo in cui la Chiesa rifa il pasto del Signore. Si tratta qui, infatti,
di una «formula liturgica, fissata solidamente da tempo e resa familiare dal culto»,23
formula che Paolo ha potuto ricevere, secondo una tradizione antiochena, fin dal suo
primo soggiorno ad Antiochia verso il 43, prima di «trasmetterla» ai Corinzi così come
l'aveva «ricevuta» (1 Cor 11,23). Ora, le tracce della pratica liturgica cristiana sono
percepibili solo «in negativo», nella successione scandita dei verbi tecnici della frazio-
ne del pane ebraico, nel parallelismo delle formule sul pane e sulla coppa, nella for-
mula di distribuzione «per voi», nell'introduzione teologica già ritualizzata: «Il Signo-
re Gesù, nella notte in cui fu tradito...». Cancellate dalla superficie del testo, queste
tracce ne costituiscono il vero pre-testo: non si racconta la liturgia della Chiesa, si
racconta liturgicamente la storia di cui si fa memoria per mostrare come farne memo-
ria e attualizzarla così nel corso delle generazioni. // vero punto di partenza di questi
racconti della Cena è l'ecclesia liturgica. In questo modo, in forza del loro «pre-testo»
liturgico costitutivo, questi racconti su Gesù, concentrando all'estremo i vangeli rac-
contati (è d'altronde tutto ciò che racconta Paolo sul Cristo «secondo la carne»), fun-
zionano come discorso del Signore stesso, cioè come Vangelo proclamato; il ricordo
vi arriva come memoriale, e la narrazione come proclamazione evangelica — è questo
il senso del kataggellete di 1 Cor 11,26 — o kerygmatica della «morte del Signore
fino alla sua venuta» (ibid.)-

«Lasciate che i vostri presbìteri rendano grazie» (C. Ap., VII, 26,6). Già da tempo questi ultimi hanno sosti-
tuito i «profeti», e non sono più padroni di improvvisare la loro preghiera pubblica...
" C. PERROT, Jesus et l'histoire, op. cit., p. 293.
23
J. JEREMIAS, La Demière Cène, Cerf, 1972, p. 108.

139
L'introduzione di questi racconti della Cena, in un primo tempo indipendenti, in
quelli della passione (i frammenti redazionali più antichi dei nostri vangeli) sembra
essersi verificata quando essi conobbero la forma «lunga». Una simile inserzione for-
nisce una chiave fondamentale della produzione della Bibbia cristiana: i vangeli non
avrebbero mai visto la luce se colui di cui essi rendevano testimonianza avesse lasciato
solo i bei ricordi di un «caro estinto»; essi sono nati dalla fede in lui come vivente,
e dunque dalla fede nella sua morte come morte «per i nostri peccati» (/ Cor 15,3),
«per noi»; la sua vittoria, attestata dalla sua risurrezione, è la vittoria stessa di Dio.
Ora, la liturgia è il luogo primario di questa confessione di fede. Questa infatti fu vis-
suta globalmente nell'esperienza simbolica viva del battesimo e della frazione del pane
prima di essere elaborata in discorso teologico. La confessione di Gesù come Signore
va di pari passo con quella di Gesù come Salvatore. Come dimostra soprattutto l'inno
prepaolino al Cristo di FU 2,6-11, «il sitz im Leben di questa confessione è la dossolo-
gia liturgica».24 Cantando questi inni, la comunità si pone davanti al Cristo nell'adora-
zione come si pone davanti al Signore Dio; davanti a lui essa «piega il ginocchio» e,
in piedi, con le mani levate e stese (cf Tertulliano, Apol. 30,4 e l'iconografia antica),
essa acclama il crocifisso del Golgota come Signore. Questa confessione di fede in
atto manifesta il «per noi» della morte e della risurrezione di Gesù. Essa manifesta
che è stato il motivo soteriologico a dar «luogo» alla confessione cristologica e che,
secondo l'osservazione di W. Pannenberg, «tutte le idee cristologiche hanno avuto,
per così dire, dei motivi soteriologici».23

c) Priorità della pratica liturgica


Questa priorità della pratica simbolica nella liturgia rispetto alle elaborazioni pro-
priamente teologiche fa capire perché «ci sono serie possibilità che i discorsi missiona-
ri da una parte e le formule di confessione di fede dall'altra abbiano delle origini, co-
muni o affini, nell'ambiente della tradizione liturgica».26 L'ambiente portatore del «per»
soteriologico della morte di Gesù sembra essere quello della tradizione cosiddetta «cul-
tuale», che è quella dei nostri racconti della Cena e, probabilmente, anche di Me 10,45b
(«... e dare la sua vita in riscatto per molti»).27 Per questo, come nota J. Guillet, la
Chiesa «ripetendo e trasmettendo nelle sue eucaristie le parole e i gesti del Signore»
probabilmente è arrivata a «scoprire e proclamare che il Cristo era morto per tutti gli
uomini».28
Confessione di fede in atto, la pratica liturgica delle prime comunità cristiane sem-
bra aver funzionato come il catalizzatore che permette ai vari fattori (dottrinali, apolo-
getici, morali, religiosi) e ai vari agenti (te comunità cristiane come tali con i loro pro-
blemi concreti, interni o esterni, i vari ministeri di governo, di profezia, di didascalia,
di preghiera...) di prendere insieme per dare a poco a poco corpo a questi vangeli con-
fessati come Vangelo del Signore Gesù.

2
' W. KASHER, Jesus, le Christ, Cerf, 1976, p. 253 (trad. ital.: Gesù, il Cristo, Queriniana, Brescia 1975).
2
' W. PANNENBERG, Esquissed'une christologie, Cerf, 1971, p. 37 (trad. ital.: Cristologia. Lineamen-
ti fondamentali, Morcelliana, Brescia 1974).
26
J. GUILLET, Les Premiers Mots de la foi, Centurion, 1977, pp. 97-98.
" X. LÉON-DUFOUR, «Jesus devant sa mort à la lumière des textes de l'institution eucharistique et des
dicours d'adieu», in J. DUPONT et al., Jesus aux origines de la christologie, Louvain 1975, pp. 165-166.
21
J. G U I L L E T , op. cit., p. 35.

140
«È canonico ciò che riceve autorità dalla lettura pubblica», dicevamo prima a pro-
posito della Bibbia ebraica. Questo non è meno vero, pare, per la Bibbia cristiana.
La determinazione del suo canone si è creata progressivamente. Le oscillazioni che
si sono verificate su questo piano nei secoli II e III sono «minime». In ogni modo, con-
tinua P. Grelot, un canone (nel senso di Ireneo) «esisteva nella pratica fin da quando
le Chiese locali leggevano nelle loro assemblee i testi in cui esse riconoscevano il lega-
to autentico degli apostoli». Infatti «il criterio essenziale (nel fissare il canone) fu sem-
pre l'uso antico delle comunità». E questo uso fu a sua volta prioritariamente determi-
nato dalla liturgia: «L'assemblea in Chiesa resta il luogo in cui i libri sono conservati,
letti e spiegati, così come essa è stata il luogo in cui essi furono elaborati».2'

II. L'ASSEMBLEA LITURGICA LUOGO DELLA SCRITTURA


Dal livello empirico in cui ci siamo collocati fino ad ora, passiamo a una riflessio-
ne fenomenologica attraverso cui mostreremo secondo quali processi le assemblee li-
turgiche danno «luogo» alle Scritture ebraiche e cristiane.

1. Analisi fenomenologica del processo di produzione della Bibbia

a) Questa produzione è il risultato di un rapporto fra tre elementi principali


Chiamiamo «canone 1» o «tradizione istituita» il corpus, prima orale e poi scritto,
che funziona già come canone pratico delle tradizioni in cui un clan, una tribù, l'insie-
me del popolo si riconosce e si identifica. Questo «canone 1», nel suo stadio ultimo,
corrisponde alla Bibbia canonica. Nei suoi stadi anteriori corrisponde a quelle «Bibbie
prima della Bibbia» che erano, a seconda delle epoche, i luoghi, le affiliazioni genea-
logiche, per quel clan o gruppo di clan, quella tribù o gruppo di tribù, ognuno dei
«documenti» J.E.D.P., o, ancora prima, il ciclo di Abramo, o quello di Isacco, o quel-
lo di Àbramo-Isacco, o ancora quello di Giacobbe-Israele, cicli in cui sono state inte-
grate tradizioni di diversa origine.
Il «canone 2» o «tradizione istituente» indica il processo ermeneutico di rilettura/ri-
scrittura del canone 1 in funzione delle situazioni storiche sempre cangianti. È proprio
questo processo che, secondo la congiuntura politica, economica, cultuale, amalgama
le antiche tradizioni in «cicli», in storia di questa o quella «casa» (per esempio la casa
di Giuseppe), in «documenti», li organizza in «libri» che a loro volta saranno classifi-
cati in tre grandi categorie (Legge, Profeti, Scritti) secondo un atto anamnetico in cui
«ogni generazione si ritrova di fronte al compito sempre identico e sempre nuovo di
capirsi come Israele».30 Questa ermeneutica, «anche se non scritta, è anch'essa cano-
nica», stottolinea J.A. Sanders."
L'autore illustra questo punto con numerosi esempi. Egli mostra soprattutto secon-
do quale processo ermeneutico si è effettuata l'esclusione, da parte della scuola deute-

29
P. GRELOT, «AUX origines du Canon des Ecritures», in Introduction à la Bible, Nouveau Testament,
voi. 5: L'achèvement des Ecritures, Desclée, 1977, pp. 156-177. Cit., pp. 169-177.
30
G. VON R A D , Théologie de {'Ancien Testament, t. 1, Genève, Labor et Fides, 1971 (3 a ed.), p. 109
(trad. ital.: Teologia dell'Antico Testamento, Paideia, Brescia 1972-1974, 2vv.).
" J.A. SANDERS, op. cit., pp. 159-160.

141
ronomista (a sua volta legata, all'origine, agli ambienti levitici), poi da parte della cor-
rente sacerdotale (P) del periodo della conquista di Canaan (e della monarchia Da-
vid/Salomone) al di fuori della Torah, cioè al di fuori della storia archetipica delle
origini che doveva servire come referenza paradigmatica a Israele per darsi un'identi-
tà lungo la storia. È proprio di esclusione, infatti, che bisogna parlare, visto che le
antiche confessioni di fede (Dt 26,5-9; Gs 24,2-13, già più sviluppato; cf Sai 136) in-
cludevano almeno la conquista come appartenente alla proto-storia fondatrice. Tra la
caduta del Regno del Nord nel 722 e la riforma di Giosia nel 621 legata alla «scoperta»
del «libro dell'alleanza» (Dt in una forma antica più corta) vediamo dunque effettuarsi,
per ragioni sia di storia politica che di riforma religiosa voluta dagli ambienti levitici
(in maggioranza rifugiati dal Nord dopo il 722), un processo di «mosaizzazione» della
mistica «David/Sion/Gerusalemme» che reggeva gli ambienti yahvisti del Sud. Ora,
Mosè non era morto proprio prima dell'ingresso del popolo in Canaan (Dt 31-34, di
redazione più tarda)? Vediamo il processo: «poiché si pone un problema di identità»,32
ci si riferisce a una nuova «autorità» (Mosè) per continuare a viversi come Israele in
una situazione storica inedita; e questa referenza implica una nuova delimitazione del-
la storia delle origini la cui memoria assicura ad Israele la sua identità. E così Dt si
«conficcò come un cuneo» fra le tradizioni relative all'epoca del deserto e quelle che
raccontano l'ingresso di Giosuè in Canaan. Automaticamente, la Torah poteva conclu-
dersi con la morte di Mosè ed essere interamente attribuita a lui. All'epoca dell'esilio
gli ambienti sacerdotali (P) rafforzeranno il processo abbozzato da D. E lo si può capi-
re: è a questo prezzo che Israele, ormai spogliato della sua terra, poteva continuare
a riconoscersi come Israele in una situazione che, altrimenti, sarebbe sembrata in con-
traddizione con la memoria del suo passato fondatore.33 Allora il «feno-testo» (canone
1) della Bibbia è intessuto segretamente da un «geno-testo» ermeneutico (canone 2).
Questo processo ermeneutico è evidentemente canonico anche se non scritto.
Nel processo di produzione della Bibbia il rapporto fra la tradizione istituita e la
tradizione istituente si regge a sua volta solo in riferimento ad un terzo elemento: gli
eventi riconosciuti come fondatori. Come mostra l'arcaica confessione di fede di Dt
26,5-9, la fede di Israele si fonda essenzialmente su questi eventi confessati come ge-
sta salvifiche di Iahvè.34 Per questo motivo questa confessione non appartiene né al
genere letterario della preghiera, né a quello del credo inteso come sintesi teologica
finemente elaborata delle credenze (anche se la trama del nostro credo cristiano è an-
ch'essa narrativa), ma a quello della para e semplice narrazione: si raccontano solo
«dei fatti nudi».35 Questi nudi fatti sono portatori, certo, di una teologia, non foss'altro
che in forza della selezione che ne viene fatta tra molti altri possibili. Ma ugualmente
rimangono in forma embrionale sul piano del discorso teologico come tale. L'Esateu-
co non è altro, in ultima analisi, che il dispiegamento teologico di questi nudi fatti

32
I D . , ibid., p. 120.
" I D . , ibid., l a parte, pp. 25-78.
34
G. VON R A D , op. dt., p. 112: Dt 26,5-9 sarebbe un «Credo che presenta tutti i segni di una grande
antichità» e che sarebbe stato elaborato «prima delle tradizioni yahvista ed eloista». Non tutti, però, condivi-
dono questo punto di vista, dal momento che si può vedere in questo passo il segno stesso degli ambienti
deuteronomisti: così L. ROST, «Das Ideine Credo», in Das Kleine Credo und andere Studien im Alteri Testa-
ment, Heidelberg 1965.
31
G. VON R A D , op. cit., p. 113.

142
fondatori. «In altre parole, come scrive J.A. Sanders, la raccolta J delle tradizioni sul-
le origini di Israele sarebbe in qualche modo il Sai 78 o il capitolo 15 dell'Esodo scrit-
to a caratteri cubitali, così come l'Esateuco equivarrebbe a 1 Sam 12,8 o a Dt 26, o
ancora a Gs 24 scritto in grosso».36 In definitiva, la Bibbia intera può essere considera-
ta come la trascrizione in lettere cubitali di questa confessione di fede fondamentale.

b) Il funzionamento meta-storico degli eventi riconosciuti come fondatori


Il rapporto con gli eventi fondatori merita qualche riflessione. Se la «Legge» è com-
posta prioritariamente di racconti, e solo secondariamente di disposizioni legislative,
il motivo è che questi racconti del periodo proto-storico che la Torah ricopre fanno
legge per l'identità di Israele. Di qui il loro statuto particolare. Infatti — ne abbiamo
abbozzato il processo precedentemente — la Torah si chiude, alla fine del Deuterono-
mio, alla frontiera del Giordano ed è posta sotto l'autorità di Mosè, autorità che la
sua morte consacra appena prima di varcare questa frontiera. Frontiera del Giordano
e morte di Mosè hanno quindi una portata metaforica: esse separano irreversibilmente
i tipi storici della proto-storia da tutta la storia futura di Israele. Mediante questa sepa-
razione metaforica, essi sono strappati al loro semplice statuto di eventi antichi per
essere promossi ad archetipi meta-storici dell'identità di Israele nel futuro.31 La proto-
storia originale diventa allora meta-storia originaria, cioè sempre contemporanea. In
questo modo, ormai, vivere, per Israele, significa rivivere l'itinerario della sua genesi
rituffandosi in essa anamneticamente di generazione in generazione. L'assemblea li-
turgica, come dimostra esemplarmente Dt 26,1-11 in cui tutto Israele, come un sol
uomo, riunito nel «luogo scelto da Iahvè» (il tempio di Gerusalemme) recita il suo Cre-
do («Mio padre era un Arameo errante...»), è il luogo privilegiato di questo memoriale
in cui esso viene reintegrato o confermato nella sua identità.
Lo stesso accade per i cristiani. Con una differenza — irriducibile tuttavia — : che
la barriera metaforica che li separa dalla loro origine è quella della Risurrezione di
Gesù dai morti. Vivere, per loro, significa rivivere l'itinerario fondatore di Gesù, loro
Signore (e, attraverso di lui, del popolo di Israele, poiché questo itinerario ha signifi-
cato cristiano solo come compiuto «secondo le Scritture»). Ed è sempre nel memoriale
liturgico che essi fanno di lui, che si struttura in modo decisivo la loro identità di cri-
stiani, soprattutto raccontando anch'essi il loro Credo, quel Credo pratico che è il rac-
conto della Cena (anche questo, un semplice racconto!) ripreso in memoria di lui. No-
tiamo qui di sfuggita l'importanza centrale del concetto di «memoriale»: dovremo ri-
tornarci.

2. Il rapporto del Libro con il corpo sociale


Ciò che in ultima analisi è in gioco nel processo di produzione della Bibbia che
abbiamo analizzato è l'essenza stessa di ogni testo nel suo rapporto con l'autore e con
il lettore: con il corpo sociale lettore. Le argomentazioni che seguono situano quindi
la riflessione precedente in un insieme più vasto e aprono una prospettiva più fonda-
mentale.

36
J.A. SANDERS, op. cit., p. 47.
" P. BEAUCHAMP, L'Uri et l'Autre Testament, op. cit., pp. 57-71.

143
a) Teoria semio-linguistica del testo
Cominciamo prima di tutto con il ricordare brevemente alcuni punti fondamentali
della teoria semio-linguistica del testo, così come è stata elaborata in particolare da
R. Barthes.38
Questa teoria del testo si oppone frontalmente a un certo numero di presupposti
della teoria classica. Questa infatti ritiene che, da parte dell'autore, scrivere significhi
deporre in un testo il voler-dirsi del senso presente nel pensiero dello scrittore e, da
parte del lettore, che leggere significhi decifrare il senso deposto dall'autore per poter-
lo riprodurre. Questo presuppone: 1) che la verità trascenda in modo universale ed
eterno la contingenza storica; 2) che lo stesso fondo di verità possa essere detto sotto
forme storicamente differenti, il che significa che linguaggio e situazione socio-culturale
dell'autore e del lettore sono solo dei rivestimenti accidentali di traduzione (o di tradi-
mento) della verità; 3) che la differenza tra, da una parte, il detto del testo e, dall'altra
parte, il voler-dire dell'autore o il senso colto dal lettore è ridotto a un semplice acci-
dente, mai totalmente evitabile, ma in buona misura eliminabile grazie a un migliora-
mento della tecnica o del metodo.
Contro questi presupposti, che sono quelli della metafisica classica analizzati nella
nostra prima parte, la teoria semio-linguistica ritiene che ogni testo è scritto o letto
non a partire da un luogo neutro che trascenderebbe in modo sovrano le determinazio-
ni socio-storiche, ma a partire da un «mondo» già parlato, socialmente organizzato e
culturalmente costruito. Quindi, «ogni testo è intertesto» (R. Barthes). Scrivere signi-
fica leggere o citare altri testi anteriori; e leggere significa tracciare sul testo una «scrit-
tura passiva» (T. Todorov, supra). Tutto è interpretazione. Questo non significa che
tutte le interpretazioni si equivalgano: una lettura che passa attraverso un numero mag-
giore di punti dello spazio testuale è più fedele di un'altra.
Questo ci porta a distinguere «decifrazione» e «lettura». La decifrazione è una tec-
nica di analisi, sia essa storica, semiotica o «materialista»... Benché importante per
garantire che la lettura sia fedele al testo, questa decifrazione è tuttavia solo un preli-
minare al servizio di quest'ultima, perché la lettura è l'atto simbolico di produzione
di un testo nuovo, di una parola inedita, a partire dalle regole del gioco decifrate nei
testi. Essa dà la parola. Opera umana, essa mette in gioco il lettore come soggetto,
con il suo «mondo», permettendo allo stesso testo di produrre degli effetti di senso
che «ispirano» diversamente i lettori. In un certo senso, la differenza tra decifrazione
e lettura è la stessa che esiste tra un corso di esegesi su un testo — o una sua analisi
semiotica — e un'omelia a partire da questo testo. Se la tecnica biblica, nell'omelia,
non sparisce in quanto tale per liberare una parola da parte del predicatore, e se essa
sottrae la parola agli uditori, si verifica una confusione di generi e la dittatura dell'ese-
gesi; se, al contrario, con il pretesto dell'«ispirazione», il predicatore racconta una co-
sa qualsiasi, senza un serio lavoro preliminare di decifrazione, egli tradisce il testo
e inganna gli uditori.
La non-padronanza del senso, che risulta da questa teoria del testo, non è dovuta
a un semplice accidente, disgraziato ma inevitabile. Essa è legata alla sfaldatura costi-
tutiva del soggetto nell'ordine simbolico e nel linguaggio. La «differenza» viene allora

" R. BARTHES, art. «Texte (théorie du)», in Enc. Univ. 15.

144
colta non come un ostacolo da evitare o una opposizione da cancellare, ma come alte-
rità da assumere, assunzione che va di pari passo con l'avvento del soggetto: la non-
coincidenza è il luogo stesso da cui si leva la sua parola.

b) «Il lettore è essenziale allo scritto stesso»


La riflessione precedente ci porta direttamente a far nostra l'affermazione di S. Bre-
ton in Écriture et Révélation.19 Ogni scritto infatti presuppone un movimento di in-
scrizione (in) all'interno della materia, che si conclude con il movimento opposto di
ritiro che gli dà il suo nome di s-crittura (ex). Lo scrittore si allontana allora dal suo
prodotto; può scomparire, lasciandolo come testamento. E questo è proprio il destino
di ogni scritto: non poter essere se non diventando l'altro del suo autore. Questa «mor-
te» dell'autore, celebrata lungo tutto il Livre à venir di M. Blanchot,40 è la condizione
stessa di esistenza del libro. Traccia del passaggio dell'autore, effetto di questa «omeo-
patia singolare» (p. 62) in forza della quale l'autore muore nella sua opera per affer-
mare attraverso di essa la sua vittoria sulla morte, il libro è per l'autore qualcosa che
si è staccato da lui e che in ultima analisi non è più lui. Esso è consegnato al lettore
il quale, come dice Mallarmé, ne diventa così «l'operatore»; cosicché l'essere di un
libro è funzione della sua storia e delle molteplici letture di cui è stato oggetto, e «l'o-
perazione di leggere, lungi dall'essergli estranea, è essenziale alla sua stessa costitu-
zione» (p. 34). Questo vale evidentemente anche per il discorso orale. Allora, «poiché
il lettore è essenziale allo scritto stesso, inteso non più come realtà fissa ma come "rea-
lizzazione' ', non lo si può più confinare nella condizione di un ' 'accidente " o di un
"supplemento" aleatorio. Il giudizio, individuale o sociale, che si esercita nella
"ricezione-lettura" si inscrive nel tessuto stesso del testo, dal quale è impossibile dis-
sociarlo» (p. 40). La ricezione di un discorso, sottolinea S. Breton sulla scia della Re-
torica di Aristotele, non è soltanto regolatrice di questo discorso; ne è determinante
e costitutiva (p. 39). Per questo motivo «bisogna rovesciare la prospettiva consueta.
Nel rapporto lettura-scrittura è lo scritto che, in forza della sua verità ontologica —
come si diceva un tempo — si conforma, in un movimento mai concluso di adeguazio-
ne, a una lettura normativa la quale, senza determinare nella loro materialità i conte-
nuti effettivi, prescrive ai significati le grandi linee regolatrici in cui essi possono e
devono inscriversi» (p. 70).
Evidentemente e 'è libro e libro. Nella loro pluralità i libri dividono lo «spazio scrit-
turale» in due grandi regioni (p. 28): da una parte le ermeneutiche (libri rivelati delle
varie religioni, libri filosofici, libri di letteratura o di poesia); dall'altra, le discipline
del sapere (scienze formali ed empirico-formali, scienze umane). Certo, la distinzione
concretamente non è così netta come potrebbe sembrare: ricordiamo che anche nel
caso di un discorso senza soggetto, come quello della fisica, il soggetto-autore non
è affatto assente, con il suo «mondo», il suo statuto sociale, la sua rivendicazione di
conoscenza. Resta il fatto che il rapporto del libro con il corpo sociale lettore è stato

" S. BRETON, Écriture et Révélation, op. cit., p. 40. È a questa opera che rimandiamo nel prosieguo
del nostro testo.
40
M. BLANCHOT, Le Livre à venir, Gallimard, Coli. Idées NRF, 1959, p. 334: «Il libro è senza autore
perché si scrive a partire dalla scomparsa parlante dell'autore».

145
pensato sul versante delle ermeneutiche e di tutto ciò che riguarda il senso della vita;
evidentemente non è un caso, poiché questo rapporto teorizza la «circolarità» di questo
ek-sistere umano che, alle prese con i problemi dell'origine, della morte, del senso,
della salvezza, tesse queste opere. C'è dunque tutta una gradazione empirica, nella
pluralità dei libri, compresi quelli che occupano essenzialmente lo spazio ermeneuti-
co, rispetto al rapporto del libro con il corpo lettore. Ora questa gradazione va di pari
passo con quella della loro «canonicità».
Questa canonicità infatti è un processo costitutivo della cosa testuale: più il corpo
sociale si riconosce in un testo, più questo manifesta la sua essenza di testo, nel senso
indicato precedentemente. Un simile riconoscimento funziona come canone pratico —
detto o non detto — dei valori e norme del gruppo. Esso è suscettibile di diversi gradi:
ci sono delle opere «che bisogna aver letto», sia in seguito all'attribuzione di un pre-
mio (Goncourt, Renaudot...) o di una nuova moda, passeggera o più duratura (i «nuo-
vi filosofi», Lacan...), oppure in virtù di una istituzione già venerabile (i «buoni auto-
ri» dei manuali di letteratura). Dire che bisogna aver letto questi testi significa anche,
per un verso, inferire come bisogna leggerli. Su questo piano, appare un secondo livel-
lo di canonicità, intermedio tra il livello implicito precedente e il livello esplicito. Si
verifica nelle letture di scuola o «ortodossie» che forniscono le interpretazioni norma-
tive di un testo o di un corpus. Il testo di Platone, per esempio, è esistito storicamente
solo nelle letture di scuola, non sempre convergenti. Queste tradizioni di lettura ap-
partengono alla sua stessa testualità. Ogni testo, infatti, «ha bisogno, per sostenersi,
di un corpo sociale, o di una intersoggettività che decide della sua essenza semantica»
(P- 84).
Si raggiunge un terzo livello di canonicità, questa del tutto esplicita, quando un
corpus di testi è ufficialmente l'oggetto di una interpretazione globale ortodossa: è il
caso, del resto diversamente realizzato, dei «libri santi» riconosciuti dalle diverse reli-
gioni. Più si va verso questa canonicità esplicita, più appare che la recezione da parte
del gruppo lettore è costitutiva del testo. Questa canonicità è legata al fatto che il corpo
sociale si riconosce, coscientemente o no, ufficialmente o no, nel testo. Lo vive come
esemplare rispetto alla sua identità. La sanzione canonica magisteriale non è altra cosa
che l'espressione sociale decisiva di questo processo: un'autorità, riconosciuta come
legittima dal gruppo, convalida ufficialmente questo riconoscimento e affida così il
testo al gruppo come suo autentico «esemplare». Riprendendo la coppia «geno-testo»
- «feno-testo» di J. Kristeva,41 possiamo dire che lo stabilire il canone dei «libri santi»
è il dispiegamento ultimo, a livello del feno-testo, di un processo di canonicità costitu-
tivo del geno-testo, processo che denota il rapporto essenziale del corpo lettore al te-
sto. Un simile rapporto vale per ogni testo, ma raggiunge una pregnanza particolare
nei libri ritenuti sacri dai gruppi religiosi e nei miti. Questo è tanto vero, in quest'ulti-
mo caso, che la storia inventata da qualcuno all'origine diventa mito solo perdendo
il suo autore e diventando così l'espressione collettiva codificata dell'identità del grup-
po che «ci crede».42

41
Cf R. BARTHES, art. cit.
" P. SMITH, «Mythe. Approche ethno-sociologique», in Enc. Univ. 11, 1971, p. 528. Il mito funziona
solo se suscita l'adesione. Allora si è «inclini a riconoscere come mito solo i miti degli altri».

146
c) La Bibbia: «La comunità scrive se stessa nel libro che legge»
È dunque il processo stesso di scrittura della comunità «nel libro che essa legge»
(p. 70) — processo costitutivo di ogni testo, particolarmente pregnante nei testi sacri
— che mostra ufficialmente la sanzione di canonicità. Libro e comunità sono ricono-
sciuti come inseparabili. Il libro non è nulla senza comunità, e questa trova in lui il
suo esemplare di identità. La norma, dunque, non è il Libro da solo, ma il Libro nella
mano della comunità. La Chiesa è l'impossibilità della sola scriptura.
La nostra teoria del testo e della lettura implica quello che abbiamo mostrato prece-
dentemente al livello della genesi della Bibbia sulla scia di J. A. Sanders: «L'ermeneu-
tica, anche se non scritta, è anch'essa canonica». Questo comporta che «le comunità
credenti che trovano oggi nella Bibbia la loro identità sono canonicamente obbligate
a prolungare il cammino e a perseguire la ricerca nei nostri contesti, così come le co-
munità primitive l'hanno fatto nei loro».43 La fedeltà alla Bibbia consiste nel rieffet-
tuare, in situazioni sempre mutevoli, il processo che ne ha permesso la produzione.
Il geno-testo è la norma di fedeltà al feno-testo. Si tratta di trarre del nuovo a partire
dall'antico. Soltanto a questa condizione 1'«ispirazione» della Bibbia assume senso: es-
sa diventa ispiratrice di una parola nuova. La (ri)lettura fa parte della Scrittura; l'ac-
cesso al senso è costitutivo del senso; e la recezione appartiene alla stessa rivelazione.
Né nel solo testo, né nel solo lettore, la verità biblica — verità simbolica — emerge
come emerge invece dall'incontro sempre imprevedibile tra i due.
Il corpus biblico canonico è il frutto di una lectio che funziona essa stessa come
selectio. L'abbiamo visto a livello della sua genesi empirica: la lectio/selectio socia-
le, politica e religiosa ha portato all'eliminazione di numerose tradizioni orali che,
in sé, non erano affatto meno «degne» di trovarvi posto di quanto lo fossero quelle
che alla fine sono state conservate. La liturgia ha svolto un ruolo importante sia in
questo principio di lettura selettiva sia nell'ermeneutica che ha presieduto all'organiz-
zazione interna del Libro, da una parte in Torah-Profeti-Scritti, dall'altra in Antico
e Nuovo Testamento. Così ogni libro, ogni parte, ogni Testamento della Bibbia diven-
ta un aliquid, cioè un aliud quid, «altra cosa» rispetto al resto, da cui si differenzia
pur restandogli unito. Al principio di «selezione» corrisponde un principio di «integra-
zione»; in una lettura cristiana «tutte le parti del libro "cospirano" verso la stessa uni-
tà eristica la cui verità, diffusa dappertutto, si particolarizza senza frammentarsi in ognu-
no dei "settori" in cui essa si produce».44 È proprio questo principio ermeneutico di
ispirazione selettiva della cospirazione integrativa che è al cuore della Bibbia cristia-
na. Questa esiste, costitutivamente, solo nella mano dell1'ecclesia. Un simile principio
non giustifica certo tutto quello che la Chiesa ha potuto fare della Bibbia, manipolan-
dola, più o meno consciamente, a suo vantaggio. Infatti il nostro «canone 2» ha senso
soltanto nel suo rapporto con il «canone 1»: anche la Chiesa ha potuto essere più o
meno fedele ai punti di passaggio obbligati dello spazio testuale al quale si è riferita...

43
J.A. SANDERS, op. cit., pp. 159-160.
44
S. BRETON, Écrìture..., op. cit., p. 69. Cf R. LE DEAUT, Introduction à la Bible. Nouveau Testa-
ment, voi. 1, pp. 112-113, «Principes et règles de l'exégèse juive ancienne».

147
3. La lettura del Libro nell'Ecclesia liturgica, luogo di verità della Bibbia
Nella linea della nostra riflessione precedente, ci sembra suggestivo confrontare
quello che abbiamo detto dell'essenza di un testo canonico come quello della Bibbia
con ciò che chiamiamo la «liturgia della Parola». Questa è costituita da un rapporto
fra quattro elementi principali: a) Una lettura di testi della Bibbia canonicamente rice-
vuta (l'eventuale uso di testi profani, per quanto ispiranti e pedagogicamente efficaci
siano, rimane sempre al servizio di questi); b) questi testi scritti, riferendo un'espe-
rienza passata del popolo di Dio, sono proclamati come Parola viva di Dio per l'oggi;
e) ad una assemblea (ecclesia) che vi riconosce l'esemplare della sua identità; d) sotto
la presidenza di un ministro ordinato che esercita la funzione simbolica di garante di
questa esemplarità e, per noi cristiani, dell'apostolicità di ciò che è letto.
Il secondo di questi quattro elementi richiede qualche spiegazione. Lo faremo sotto un tripli-
ce punto di vista, teologico, antropologico e rituale. Teologicamente abbiamo nel condensato
dell'omelia fatta da Gesù alla sinagoga di Nazaret, secondo Le 4,21, tutta l'essenza della lettura
delle Scritture: «Oggi questa scrittura è compiuta per voi che l'ascoltate». Si tratta dell'omelia,
certo. Ma questa non ha altro scopo che quello di dispiegare l'attualità in gioco nella lettura
stessa. Non ci ricordiamo forse di letture proclamate così bene che l'attualizzazione omiletica
era già quasi fatta prima ancora di essere cominciata?
La dimensione di attualità di queste letture come Parola ha d'altronde un supporto antropo-
logico particolarmente significativo: la voce. Da una parte, infatti, essa si basa sul Libro, lo
mantiene come scrìtto che, di essenza testamentaria come ogni scritto, rimanda all'insuperabile
alterità di un'origine irricuperabile, cioè al «posto imprendibile» del Padre. Ma d'altra parte
il Libro è costitutivamente fatto per essere letto, e letto pubblicamente. «È canonico ciò che
riceve autorità dalla lettura pubblica», sottolineavamo prima. La voce lettrice appartiene quindi
al testo biblico come tale. Per questo, nota P. Beauchamp, «lo scritto e la voce si limitano l'un
l'altro»: lo scritto «proibisce di occupare lo spazio della prima scrittura, quella del Padre», e
la voce si piega a questa proibizione; ma simultaneamente, costitutivamente orientato com'è verso
il presente della voce, lo scritto «dichiara anche che c'è altro da scrivere». La voce, quindi,
dice il processo ermeneutico di attualizzazione senza il quale la Bibbia sarebbe solo lettera mor-
ta. Nel loro rapporto intrinseco al testo, lo scritto e l'orale «compongono facendo scrivere il
libro nel libro».45
È proprio questo rapporto dinamico che permette di vedere la sequenza rituale della liturgia
della parola. Essa è di natura dialogica: il salmo costituisce la risposta dell'assemblea alla prima
lettura, mentre, oltre all'alleluia e alla parola performativa «Lode a te, Signore» rivolta come
«acclamazione alla Parola di Dio» ascoltata nel vangelo, la preghiera dei fedeli, anch'essa anti-
camente suggellata dal bacio di pace,46 conclude la liturgia della Parola. Così, tutta la simbolica
rituale dispiegata nel corso di questa liturgia esprime un intento di comunicazione tra il passato
fondatore e l'oggi.
Il rapporto fra i quattro elementi della liturgia della Parola che abbiamo individua-
to risulta omologo a quello dei quattro elementi costitutivi del testo biblico come Paro-
la di Dio. Infatti: a) il «canone 1» vi designa, come avevamo notato, le tradizioni isti-
tuite, orali poi scritte, e infine il corpus biblico come tale; b) il «canone 2», il processo
ermeneutico istituente di riscrittura in funzione dell'oggi; e) di questo processo, l'agente

45
P. BEAUCHAMP, L'Un et l'Autre..., pp. 191-192.
46
GIUSTINO, / Ap. 65; IPPOLITO, Tr. Ap. 18 e 22; TERTULLIANO, De Or. 18: «Il bacio di pace è il
sigillo della preghiera» (cioè della preghiera dei fedeli).

148
è la comunità: essa «scrive se stessa nel libro che legge»; d) infine, questa dinamica
interna allo scritto si rende visibile nell'atto istituzionale di sanzione canonica portata
da un'autorità riconosciuta come legittima dal gruppo (per i cristiani: una autorità «apo-
stolica»). Così l'insieme formato dai quattro elementi della liturgia della Parola può
essere letto come la manifestazione visibile, «sacramentale», dell'insieme formato dai
quattro elementi della produzione della Bibbia. Cosicché la proclamazione liturgica
delle Scritture è l'epifania simbolica, lo svelamento sacramentale, dei loro costituenti
interni.
Nella scia del pensiero meditante di Heidegger sullo svelamento dell'essenza della
brocca,47 possiamo dire che la Bibbia palesa la sua essenza nella proclamazione litur-
gica che ne viene fatta. Questo palesamento avviene nel radunarsi differenziato di una
sorta di «Quadripartito»: lo scritto (canone 1), deposto lì, bocconi, come testamento
della storia tutta terrena del popolo dei credenti; la voce che, proclamandolo dall'alto
dell'ambone, gli dà vita e lo fa rialzare dalla sua posizione coricata di testo «morto»
(canone 2); la comunità degli uomini che se ne nutre; il tutto, infine, autenticato come
vera Parola di Dio alla sua Chiesa (tradizione apostolica) dal ministro ordinato. Mai,
in questa prospettiva, la Bibbia raggiunge la sua verità di Bibbia come quando viene
letta nell'ecclesia celebrante. Questa è il luogo sacramentale primario della a-lètheia
di quella: ne manifesta l'essenza ecclesiale, invisibile come tale, sempre minacciata
di oblìo (lèthe). Possiamo dunque dire letteralmente: l'assemblea liturgica (l'ecclesia
nel suo significato originario) dà luogo alla Bibbia.

III. LA SACRAMENTALITÀ DELLA SCRITTURA

1. La Scrittura è sacramentale non per derivazione ma per costituzione


Abbiamo dovuto fare una lunga deviazione per esprimere l'ecclesialità della Scrit-
tura. Certo, non ignoriamo totalmente questa dimensione; ma la nostra abitudine di
lettura individuale e mentale (lì dove gli antichi, leggendo sempre almeno a mezza vo-
ce, esprimevano, con questo rapporto fra l'interiorità dello scritto e l'esteriorità della
voce, l'essenza irriducibilmente sociale di un testo), così come l'abitudine del lavoro
tecnico personale sulla Bibbia ci fanno ritenere troppo facilmente questa ecclesialità
come inessenziale. Così le manifestazioni di quest'ultima ci sembrano provenire non
dall'essenza stessa del testo, come espressione di suoi costituenti interni, ma semplice-
mente da un'istanza che in partenza le sarebbe estranea. Questo a priori, caratteristico
delle condizioni sociali che viviamo oggi, non permette allora di vedere nella procla-
mazione delle Scritture all'interno dell'assemblea cristiana nient'altro che una modali-
tà tra altre della loro presentazione. In questo modo potremmo dire che si riduce l'on-
tologia all'ontica. Certo, la lettura delle Scritture nell'assemblea è solo una delle atti-
vità a cui esse danno luogo per il soggetto credente e per la Chiesa. E tuttavia, se si
tenta, come abbiamo fatto noi, di pensare l'essenza di questo testo biblico come testo,
ciò che in un primo tempo si presenta come un'attività tra altre si rivela di un altro
ordine rispetto a queste, e non è ad esse cumulabile.

47
Infra, cap. X.

149
a) La venerazione tradizionale della Scrittura
Esattamente nella stessa prospettiva parliamo ora di una sacramentalità della Scrit-
tura. Non si tratta di un semplice accidente, ma di una dimensione costitutiva. D'al-
tronde non c'è niente di più tradizionale.
È noto il celebre passo dell'omelia XIII sull'Esodo di Origene: «Voi che assistete abitual-
mente ai divini misteri, sapete con quale rispettosa precauzione conservate il corpo del Signore
quando vi viene dato, per paura che qualche briciola cada e che una parte del tesoro consacrato
vada perduta. Infatti vi riterreste colpevoli, e in questo avete ragione, se a causa della vostra
negligenza qualcosa andasse perduto. Se, quando si tratta del suo Corpo, prendete giustamente
tante precauzioni, perché vorreste che la negligenza della Parola di Dio meriti un castigo mino-
re rispetto a quella del suo Corpo?». Come diceva già Tertulliano, basandosi sul discorso del
pane di vita secondo Gv 6: «Il pane è la parola del Dio vivente, disceso dal cielo». E sant'Am-
brogio, a proposito della Scrittura: «Mangiate prima di tutto questo nutrimento, per poter perve-
nire al nutrimento del Cristo, al nutrimento del Corpo del Signore, al banchetto sacramentale,
questa coppa dove si inebria l'amore dei fedeli».48
Potremmo moltiplicare le citazioni patristiche in questo senso: abbiamo qui a che fare con
una delle più salde tradizioni ecclesiali, sviluppata in modo particolarmente vigoroso da Orige-
ne poiché in lui il corpo eucaristico del Signore si capisce soltanto nel rapporto con il corpo
ecclesiale e anche con il suo corpo scritturistico; e questo insieme costituisce la mediazione sim-
bolica del corpo storico e glorioso del Signore Gesù.4' Per questo il pane spezzato, per lui, è
sia quello della Scrittura che quello dell'Eucaristia: «Se questi pani non fossero stati condivisi,
se non fossero stati ridotti in bocconi dai discepoli, in altre parole, se la lettera non fosse stata
spezzata e rotta boccone per boccone, il suo senso non avrebbe potuto giungere a tutti» e l'as-
semblea non sarebbe stata saziata.50
Il Vaticano II si è fatto eco fedele di questa tradizione: «La Chiesa ha sempre vene-
rato le divine Scritture, così come ha sempre venerato il Corpo stesso del Signore,
lei che non smette mai, soprattutto nella santa liturgia, di prendere il pane di vita sulla
tavola della Parola di Dio e su quella del Corpo di Cristo per offrirla ai fedeli» {Dei
Verbum, n. 21). I cristiani devono nutrirsi «della parola di Dio alle due tavole della
Bibbia e dell'Eucaristia» (Presbyterorum Ordinis, n. 18). Come vediamo, l'espressio-
ne di «pane di vita» si applica sia alle Scritture che all'eucaristia, e quella di «Parola
di Dio» sia all'eucaristia che alle Scritture; al punto che la venerazione verso la Scrit-
tura viene quasi posta, come in Origene, sullo stesso piano di quella verso il corpo
eucaristico del Signore. La ricca decorazione dei lezionari, le processioni con lumina-
rie, incenso e canti, le acclamazioni al vangelo sono d'altronde le espressioni tradizio-
nali di questa venerazione. Questa simbolizzazione rituale è la mediazione concreta
in cui prende corpo la teologia della Scrittura come tempio sacramentale della Parola
di Dìo. Lex orandi, lex credendi: si tratta qui di un vero e proprio «luogo teologico»,
sempre attuale anche se, a causa della nostra sensibilità culturale e della nostra diffi-
denza verso ciò che puzza di trionfalismo, la pompa dispiegata nella liturgia, soprat-
tutto sotto l'influsso dell'etichetta di corte, ha lasciato spazio a molta più semplicità.

41
ORIGENE, Hom. surl'Exode 13,3, SC, n. 16, p. 263; TERTULLIANO, De Or. 6; AMBROGIO, «Expos.
ps.» 118, 15,25, CSEL 62, p. 345.
"' H. D E L U B A C , Histoire et Esprit. L'intelligence de l'Ecrìture d'après Origene, ed. Aubier-Montaigne,
1950, pp. 355-373.
50
ORIGENE, Hom. sur la Genèse, 12,5, SC, n. 7, p. 211.

150
b) La lettera, «tabernacolo» della Parola
È quindi nella sua positività storica addirittura di lettera, e di lettera canonicamen-
te conchiusa, che la Scrittura viene riconosciuta come «tabernacolo» della Parola di
Dio: «Lo Spirito si fa trovare solo se la Lettera non viene schivata».51 Questo punto
è importante ai nostri occhi, perché la sacramentalità di questa Scrittura va di pari pas-
so con il rispetto della lettera come lettera, cioè con il rispetto delle sue determinazioni
sociali e culturali concrete. Sono infatti dei destini storici ogni volta singolari che me-
diano la rivelazione di Dio: quest'uomo (Abramo), questo popolo (Israele), questo Ebreo
singolare (Gesù)... E la lettera ne è la depositaria determinata socio-storicamente. La
rivelazione di Dio richiede questo deposito in un «corpo scritturale» empirico. Proprio
per questo essa resiste a tutti i tentativi di riduzione «idealista» della lettera che, facen-
do appello a un senso «spirituale» confuso con una verità intemporale, ne cancellano
la contingenza storica con il pretesto che essa è «Parola di Dio». Invece di cercare lo
Spirito nella lettera stessa, essi l'hanno già trovato a priori al di fuori di essa, perché
il suo ruolo è di essere semplicemente un trampolino verso Valiud aliquid (o la res)
che vi sarebbe già segretamente precontenuta.
Sappiamo che questa tentazione rimane sempre in agguato: il logocentrismo che
caratterizza la tradizione metafisica è segretamente animato dal desiderio di smussare
la resistenza della lettera come traccia di una irriducibile alterità socio-storica.
Allora si legge nella lettera solo l'ombra portata dalla piena luce futura, o dei «tipi»
che annunciano già la piena verità di Cristo. Di fatto si sono facilmente ricalcate le
coppie del sensibile e dell'intelligibile, dell'ombra e della luce, dell'apparenza e della
realtà, coppie metafisiche di natura atemporale e antistorica, sul tempo e la storia (pri-
ma/dopo Gesù Cristo). Una simile lettura della «storia di salvezza» non è altro che
la proiezione del verticalismo della metafisica sull'orizzontalità lineare del tempo.
Certo, i Padri e i medievali non leggevano la Scrittura soltanto secondo i suoi sensi allegorico-
tipologico, tropologico-morale e anagogico-escatologico, ma anche secondo un senso primario,
chiamato letterale. Ma, come nota P. Beauchamp, «littera non è il "senso letterale", ma sola-
mente la lettera. E a partire da qui, che differenza! Quando si fa intervenire il senso di un testo,
si preferisce alla lettera la sua equivalenza (...). Ecco che il senso letterale è esso stesso allegori-
co, se si prende alla lettera l'etimologia di questa parola: dire altra cosa».' 2 Ora, la lettera resi-
ste. Essa resiste, per esempio, a vedere in una vita «sazia di giorni» qualcosa di diverso da que-
sta sazietà terrena, che d'altronde non ha nulla di «materialista» e di cui sbaglieremmo a misco-
noscere il senso altamente «spirituale» poiché si tratta del compimento della promessa di Dio
a favore di coloro che sono fedeli alla sua parola. Essa resiste, almeno per molto tempo, ad
ogni tentativo di leggere qualcosa come «vita eterna», quando 1'«immortalità» sarà riconosciuta
nella Bibbia molto più tardi che non tra i Greci. Essa resiste, almeno per lungo tempo, anche
qui, a leggere nell'Esodo una liberazione dalla morte «eterna». Perché non ci sono arrivati pri-
ma, questi uomini della Bibbia, quando altri avevano già fatto questo passo in ispirito?
«E tuttavia è a questa resistenza che va il nostro rispetto, perché essa è la sostanza della Scrittura
e l'altro nome di ciò che si chiama storia».53 C'è dunque, ineliminabile, una «pertinenza teologi-
ca della storia».54

51
P. BEAUCHAMP, Le Récit, la lettre et le corps, Cerf, 1982, p. 8.
" I D . , ibid., p. 61.
" ID., ibid., p. 66.
54
P. GISEL, Vérité et histoire, op. cit., cap. 1 : «La question du Jesus historique ou la pertinence théolo-
gique de l'histoire».

151
c) Lo sdoppiamento della lettera in «figura». L'idolo e l'icona
Ci si può tuttavia chiedere se l'elogio rispettoso della lettera-sacramento non sia
suscettibile di una pericolosa deviazione idolatrica. E bisogna anche precisare cosa ci
sia nel concetto di idolatria: si tratta infatti di una nozione fumosa, di cui ci si serve
per operare gli amalgami più disparati, purché in definitiva l'«idolatra» sia sempre l'al-
tro. .. Si potrà come minimo convenire, con J.L. Marion, che l'atteggiamento idolatri-
co non stia né in «qualche frode del prete», né nella «stupidità della folla» che identifi-
cherebbe puramente e semplicemente il dio a sua immagine, ma nella «sottomissione
del dio alle condizioni umane dell'esperienza del divino»." Questo aspetto ha il van-
taggio di smascherare l'idolatria possibile in ogni sistema religioso (e in ogni uomo),
per quanto anti-idolatrico si proclami e si voglia: idolatria concettuale del discorso chiuso
su Dio; idolatria etica (farisaica, pelagiana...) di ogni pretesa di avere dei diritti su
Dio in nome di una buona condotta; idolatria psichica della riduzione di Dio alle espe-
rienze (soprattutto le più «calde») che si dice di aver fatto di lui... Tutti modi, più o
meno sottili, di mettere le mani sul divino, di fissarlo definitivamente, di asservirlo
a noi (e, contemporaneamente, di asservire noi stessi). Ogni volta l'idolatra che son-
necchia in noi cerca di assicurarsi il divino smussandone la radicale alterità. Questo
è il processo idolatrico: lavoro di riassorbimento della differenza di Dio.
La venerazione della lettera si trasforma così in idolatria nel momento in cui lo
scritto, diventato fisso, non viene più percepito come testimone di un tempo passato
altro e figura di un altro tempo futuro, cioè dal momento in cui il presente diventa
il tutto — il tutto, subito — inglobante. Il «Dio» scoperto allora nella lettera viene as-
servito agli apriori ideologici, morali, sociopolitici del presente; la cosiddetta «Parola
di Dio» viene infatti manipolata per servire ad essi da giustificazione trascendente.
L'icona, al contrario, «custodisce e rivela ciò su cui essa si basa: lo scarto presente
in essa del divino e del suo volto». Invece di assorbire l'alterità di Dio, essa «preserva
e sottolinea» la non-visibilità proprio di ciò che essa fa vedere.56 Certo, la tecnica dei
vari elementi estetici dell'icona codificati nelle Chiese d'Oriente (strutture geometri-
che: triangoli, quadrati, cerchi, aureole...; sistemi di prospettiva, soprattutto la pro-
spettiva rovesciata; simbolismo dei colori e della luce...)," tende proprio a far vedere
il «prototipo» invisibile; ma lo fa secondo un codice complesso i cui elementi sono
appunto riconosciuti come manifestazione della irriducibile distanza di ciò che essi
mostrano.58
La lunghezza della disputa iconoclasta — e la durezza omicida a cui, tenuto conto
delle implicazioni politiche, essa diede luogo per più di un secolo in Oriente — e la
difficoltà del E concilio di Nicea nel trovare i concetti che permettessero di giustifica-
re adeguatamente la venerazione delle icone e di differenziarla nettamente dall'idolatria59

" J.L. MARION, L'Idole et la distarne, op. cit., p. 23.


s6
I D . , ibid.
57
E. SENDLER, L'Icòne, imagede l'invisible. Élémentsde théologie, esthétique et technique, DDB, 1981.
58
Cf soprattutto l'opera teologicamente molto precisa d i C . VON SCHÒNBORN, L'Icónedu Christ. Fon-
dements théologiques élaborés entre le let le II Concile de Nicée (325-787), Fribourg (Svizzera), ed. Univ.,
1976.
" Cf la distinzione fra la «latreia» o «latreiotikè proskynèsis», adorazione dovuta a Dio solo, e la «timè-
tikè proskynèsis», venerazione d'onore resa non solo all'immagine come tale ma a colui che essa rappresenta

152
sono significative: dall'icona all'idolo c'è solo un passo; i confini sono così vicini che
ci si potrebbe ingannare se non si stesse attenti; e tuttavia questo passo varca un abisso...
Le Scritture sono sacramentali, nella loro positività di lettera, proprio in questa
prospettiva iconica. La lettera infatti è mediazione della rivelazione di Dio solo nella
misura in cui — come sottolinea P. Beauchamp — costituisce figura. La lettera infatti
è rivelatrice solo come testimone, post-factum, di un «essere stato»; ma questa post-
comprensione si sostiene a sua volta solo in forza di un poter-essere che si enuncia
quasi imperativamente come dover-essere: «La figura converte il ricordo in deside-
rio».60 La lettera quindi accede a figura — e quindi a mediazione sacramentale della
rivelazione — solo scindendosi in due: testimonianza sull'essere stato della creazione,
dell'esodo o della manna, essa è nello stesso tempo testimonianza sul dover-essere di
una nuova creazione, di un nuovo esodo, di una nuova manna... In quanto figura, essa
è via di mezzo, passaggio, transito verso qualcosa di altro rispetto a se stessa, qualco-
sa di altro che è l'altro da sé. «Il Giordano è il Giordano attraversato da Giosuè, poi
da Elia: è questo per Giovanni Battista, e perché è questo egli attende Gesù».61
Infine, ciò che secondo i cristiani si gioca in questo scarto simbolico è l'identità
e la differenza dell'uno e l'altro Testamento, in quel punto della loro piegatura in cui
la differenza si rivela nel loro stesso giustapporsi. Ultima rilettura del cielo e della
terra, di Dio e dell'uomo che a un tempo essa separa radicalmente (nulla di meno divi-
no di questo «meno che nulla» di uomo crocifisso) e riunisce stranamente (niente di
più divino di questo sotto-uomo sfigurato che ha detto: «Chi ha visto me ha visto il
Padre»), la croce è la «lettera finale che mette il sigillo a tutte le altre», il precipitato
del libro, «come se Gesù fosse stato crocifisso sul libro»,62 lui che la Chiesa confessa
come «morto per i nostri peccati secondo le Scritture» (secondo la modalità de re e
non soltanto de dicto che è propria di 1 Cor 15,3, come fa notare S. Breton).63
La lettera, quindi, sempre in transito (e questo sia all'interno dello stesso Antico
Testamento, sia nel suo rapporto con il Nuovo), ha uno statuto iconico di scarto. Essa
è parola al presente solo come lettera tesa tra il passato che racconta e il futuro che
annuncia. Proprio per questo resiste a ogni appropriazione gnostica di una presenza
piena. Come l'icona, essa salvaguarda così la radicale alterità della Parola divina che
tuttavia fa risuonare. È il presente di Dio che essa attesta: dono al presente e in presen-
te. Ma, come nel sacramento, questo presente si realizza solo nel memoriale escatolo-
gico che ne mantiene lo scarto o la «differenza». Sappiamo quanto le prime comunità
cristiane siano state tentate dall'«entusiasmo» (semi-) gnostico: esse «rischiavano con-
tinuamente di allineare il loro salvatore ai signori e salvatori delle religioni misteriche
di salvezza» e quindi «di riassorbire la storia, cioè la verità della croce, nel mito». Paolo,

(ciDenz. -Schón., 600-603). I Latini dell'impero carolingio sfortunatamente non hanno capito questa distin-
zione, in mancanza di una traduzione adeguata (concilio di Francoforte, nel 794).
60
P. BEAUCHAMP, Le Récit..., p. 48.
61
I D . , ibid., p. 42.
" I D . , ibid., pp. 92-93.
" S. BRETON, Ecriture..., p. 122. Così: «È scritto: "Tu adorerai il Signore tuo Dio"» è una proposi-
zione modale de dicto, in cui il modo verte direttamente sulla proposizione stessa; mentre: «Cristo è morto
per i nostri peccati secondo le Scritture» è una proposizione modale de re, «in cui il modo fa parte integrante
della proposizione stessa»; così che bisognerebbe tradurre: «Cristo è scritturariamente morto per i nostri
peccati».

153
che tuttavia «rifiuta di appellarsi alla memoria di un Cristo secondo la carne, secondo
la linea giudeo-cristiana», si riferisce però vigorosamente «alla memoria del Crocifis-
so, contro la risoluzione pre-gnostica».64 Di qui l'importanza dell'«annuncio della morte
del Signore» nel pasto cristiano. Mettendo in risalto il fondamento storico del Golgota,
egli non fa altro che prolungare il gesto di cui tutto il Libro dà testimonianza: il sacra-
mento è il precipitato delle Scritture.

2. Il sacramento, precipitato delle Scritture


Alla positività delle Scritture come lettera e come canone debitamente chiuso ri-
sponde la positività dei riti. Come le prime, anche i secondi esistono solo come dati
ricevuti da una tradizione che nessuno ha il diritto di manipolare a suo piacimento.
Essi sono testimoni di una precedenza o di un'origine di cui non si può appropriare
che è legge per il gruppo come tale e, al suo interno, per gli individui. Alla resistenza
della lettera, essi aggiungono quella del corpo. La lettera-sacramento si precipita in
corpo-sacramento nelle mediazioni espressive dei riti: gesti, posizioni, oggetti, luoghi
e tempi, agenti con ruoli differenziati...
Dalla tavola delle Scritture alla tavola del sacramento la dinamica è tradizionale
e irreversibile. Tradizionale nel senso che, da Emmaus in poi, si vede il momento pro-
priamente sacramentale preceduto da un momento scritturario; irreversibile nel senso
che una simile organizzazione non ha nulla di arbitrario: non si va mai dalla tavola
del sacramento a quella delle Scritture. Questo fatto tradizionale è meno banale di quanto
sembri, come verrà dimostrato dalle tre osservazioni che seguono.

a) Evangelizzazione e sacramentalizzazione
Sul piano pastorale, la dinamica liturgica delle due tavole pone le molteplici e do-
lorose domande che ben conosciamo sulla sacramentalizzazione dei male-evangelizzati
(quando non addirittura dei non-evangelizzati). Nell'impossibilità di entrare qui nel
dettaglio di problemi tanto complessi quanto importanti, segnaliamo semplicemente
che la sacramentalizzazione ha pertinenza cristiana, oggi come al tempo di Luca, solo
nella scia di una preliminare evangelizzazione. Questo non significa però che sia pos-
sibile accontentarsi di questa semplice lettura cronologica. Infatti ogni atto liturgico
è anche un atto di evangelizzazione, anche se, ovviamente, l'evangelizzazione deve
avere il suo spazio primario al di fuori della liturgia; questa, dunque, deve continua-
mente essere evangelizzata per rimanere autenticamente cristiana. In secondo luogo,
così come è stata la frazione del pane a Emmaus che ha permesso all'evangelizzazione
sulla strada di «prendere» in modo decisivo, analogamente le espressioni liturgiche e
sacramentali della fede sono una dimensione costitutiva della stessa evangelizzazione.
Di qui l'insistenza attuale per un itinerario catechetico «strutturato sacramentalmente».65

64
C. PERROT, «L'anamnèse néo-testamentaire», art. tit., pp. 33-36.
" R. MARLÉ, «Une démarche structurée sacramentellement», in Catéchèse, n. 87, 1982, pp. 11-27.

154
b) Parola-Scrittura e Parola-Sacramento

La dinamica delle due tavole ci mostra d'altronde che è sempre la Parola a deporsi
sia nel rito sacramentale che nella Bibbia. A rigor di termini, sarebbe opportuno quin-
di parlare, rispettando il sacramentum in ogni caso, di liturgia della Parola nella mo-
dalità di Scritture e di liturgia della Parola nella modalità di pane e vino. Questa os-
servazione non se la prende con l'uso come tale che chiama «liturgia della Parola» il
momento delle letture, ma con i rischi che questo uso ha comportato. Pensiamo so-
prattutto alla fallace dicotomia tra Parola e Sacramento, dicotomia moderna ampia-
mente debitrice alla Riforma e sovradeterminata dall'Illuminismo e, più recentemente,
dall'opposizione fede-religione. Contro l'inflazione sacramentalista del Medio Evo (detto
in modo molto grossolano), il ritorno alla «Parola» fu un movimento teologicamente
sano, a condizione però di non scivolare nell'opposizione della «Parola» ai sacramenti.
Che il sacramento sia sempre sacramento della Parola nello Spirito ricorda che es-
so non ha un effetto automatico o «magico» superiore alla Scrittura. Di più: sarà sem-
pre nella modalità della comunicazione effettuata dalla parola (rimanendo inteso, co-
me abbiamo mostrato nella nostra prima parte, che questa esiste solo per essere in-
scritta nel corpo) che dobbiamo intendere la comunicazione di Dio nel sacramento.
Come la formula battesimale ben esprime, il sacramento è il precipitato delle Scrit-
ture cristiane. Il «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» è infatti, per
la Chiesa, una sorta di concentrato di tutte le Scritture. Unita al segno di croce come
caratteristica distintiva del cristiano, questa formula funziona come il simbolo per ec-
cellenza dell'identità cristiana, simbolo che chiede di essere iscritto nel corpo, cioè
nel vissuto. Unendosi all'acqua o al pane, il Verbo si precipita in sacramento. Sant'A-
gostino non dice niente altro nella sua celebre formula: Accedit verbum ad elementum,
et fit sacramentum. Il verbum di cui si tratta qui può essere inteso al triplice livello
del Cristo-Verbo (è lui il soggetto operatore del sacramento, e non il ministro), delle
Scritture che sono state lette nella celebrazione, e infine della formula sacramentale
stessa, pronunciata in persona Christi.
È necessario osservare a questo proposito che il livello 2 (la lettura delle Scritture)
è la mediazione che assicura la coerenza del rapporto tra il Cristo-Parola (livello 1)
e la formula sacramentale pronunciata in suo nome (livello 3). Si tratta dunque di ri-
spettare, nella stessa celebrazione eucaristica, la modalità sacramentale concreta se-
condo cui Cristo parla. Ora, egli parla secondo quelle letture della Scrittura, adatte
per esempio alla quaresima, e non secondo altre. Se manca questa assunzione del sa-
cramentum scritturano concreto, si celebra un Cristo intemporale e si legittima quel
cristianesimo semi-gnostico che Paolo (e altri) hanno combattuto. Lo stesso Cristo che
prende corpo nell'eucaristia lo fa secondo le diverse «forme» nelle quali ha parlato
prima nelle Scritture. Questo principio, fedele sia alla lettera delle Scritture che alla
natura stessa di ogni liturgia, ci sembra troppo misconosciuto. Il movimento liturgico
e teologico che va dalla prima tavola alla seconda significa concretamente che il «que-
sto è il mio corpo» dovrebbe essere pronunciato sullo sfondo delle Scritture proclama-
te in una certa domenica di quaresima o del tempo pasquale o della festa di Ognissan-
ti... Una preghiera eucaristica che non faccia loro eco perde in questo modo qualcosa
di importante: si tratta certo di celebrare un sacramento della Chiesa, ma in modo tale
che la Chiesa si «veri-fichi» in questa assemblea, questa domenica, dove sono state
lette queste Scritture...

155
c) La manducazione del Libro
Abbiamo già fatto a più riprese allusione alla manna. Ne abbiamo detto il non-valore
e vi abbiamo visto una figura eminente del dono di grazia di Dio. La manna di Es
16 è la prova della privazione della padronanza e dell'appropriazione: la si riceve dal
cielo giorno dopo giorno senza poterne fare provvista. Secondo la stessa lettera del
Libro, questa prova è la figura di un'altra prova: «Egli ti ha nutrito di manna... per
farti capire che l'uomo non vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla bocca del
Signore» (Dt 8,3, assunto da Gesù, anch'egli sottoposto alla prova, secondo Mt 4,4
e par.). I racconti di vocazione dei profeti lo testimoniano (Es 3; Is 6; Ger 1; Ez 2-3):
la Parola è dura da mandar giù. Ezechiele ne fa l'amara esperienza quando, obbeden-
do alla voce di Iahvè, mangia il Libro coperto di oracoli di disgrazia. Questo nutri-
mento indigesto gli riempie tuttavia le viscere, al punto che le sue parole di profeta
sono pronunciate come Parole di Iahvè in persona (Ez 2,8-3,4). E d'altronde è proprio
quando la parola investe il corpo del profeta,66 quando il suo corpo diventa così para-
bola viva, che egli può dire in piena verità: «Non sono io che parlo, ma Iahvè». Questo
è forse «il fatto principale della profezia biblica»: che «nessun uomo è tanto presente
nella sua parola quanto colui che dice: "Così attraverso un altro", cioè Dio».67 Tutta-
via, per chi la rumina e ne diventa tanto intimo da lasciarsi abitare da essa, questa
dura Parola ha «la dolcezza del miele» (Ez 3,3). Anche il visionario dell'Apocalisse
ne fa l'esperienza: il libro che egli mangia, su ordine della voce del cielo, è amaro
nelle sue viscere e ha la dolcezza del miele nella sua bocca (Ap 10,8-10).
Ed è questa stessa amara parola che Gesù dà da mangiare, secondo il discorso del
pane di vita (Gv 6,22-71). Parola così «dura» che «molti dei suoi discepoli» non posso-
no più ascoltarla e l'abbandonano (6,60-66). Lo «scandalo» (6,61), infatti, è duro da
sopportare. Catechesi sulla fede in Gesù come Verbo di Dio, il discorso fa apparire
anche un duplice scandalo, da una parte sull'origine celeste di Gesù, dall'altra sul suo
passaggio attraverso la morte. La combinazione del Sai 78,24 e di Es 16,15 («diede
loro da mangiare un pane che viene dal cielo») che il discorso sfrutta, sullo sfondo
dell'Esodo e della Sapienza, secondo la tecnica del midrash, permette infatti di far ri-
saltare questo duplice scandalo. Da una parte: come fa Gesù, questo Gesù di cui cono-
sciamo bene il padre e la madre (v. 42), a pretendere di essere il Verbo-Pane-Manna
«disceso dal cielo»? E dall'altra parte, se è proprio questo che egli pretende, come può
allora Dio lasciare che passi attraverso la morte, poiché egli afferma: «Il pane che io
vi darò è la mia carne (sottinteso: consegnata) per la vita del mondo» (v. 51)? Come
può Dio non strappare il suo Messia ai nemici e assicurargli il trionfo? Se la prima
difficoltà, sv&Tidentità di Gesù, era già difficile da digerire, la seconda, sulla modalità
di realizzazione della sua missione, era semplicemente impossibile da digerire: Dio
non sarebbe più Dio! Come d'altronde viene dimostrato dalle varie esegesi giudaiche
del quarto poema del Servo (Is 52,13-53,12), l'interpretazione della figura del Servo
sofferente in funzione di un Messia identificato a una persona singola era praticamente
impensabile. Nell'ambiente giudaico in cui viveva Gesù questa figura era sempre

66
Si tratta sia del corpo proprio del profeta, sia del suo corpo familiare (Isaia e i suoi figli: Is 8,18)
o del suo corpo coniugale, vivente (Osea e la sua sposa: Os 1-3), morto (la vedovanza di Ezechiele: Ez
24,15-27) o mai realizzato (il celibato di Geremia: Ger 16,1-9).
67
P. BEAUCHAMP, L'Un et l'Autre Testament, op. cit., p. 76.

156
oggetto di una interpretazione di tipo collettivo, relativa soprattutto all'Israele stritola-
to dall'esilio e poi rimasto fedele nella fede di fronte alla persecuzione di Antioco IV
e infine ricolmato di onori. Ora, questa interpretazione «rendeva possibile l'applica-
zione del testo a ogni giusto sofferente». E probabilmente, secondo P. Grelot, la figura
del servo sofferente fu interpretata secondo questa angolatura dalle prime comunità
cristiane in funzione di Gesù, l'unico Giusto; in seguito esse inglobarono in questa
stessa ermeneutica la messianità stessa di Gesù.68 In ogni caso, solo mediante questo
lungo «détour» il passaggio del Messia di Dio attraverso la morte ha potuto cominciare
a diventare concepibile. Per gli Ebrei, questo rimaneva comunque uno scandalo inso-
stenibile (cf 1 Cor 1,22-25).
Ed è proprio questo scandalo a fare da sfondo al discorso del pane di vita. Non
bisogna infatti cadere in errore: la domanda dei Giudei «Come può costui dare da man-
giare la sua carne?» (v. 52) non pertiene a una problematica onto-teologica relativa
al «come» di ciò che più tardi verrà chiamata la transustanziazione. La sua posta in
gioco è di un altro ordine, ben più radicale, lo stesso del tempo dell'Esodo: la fede
o l'incredulità. Il racconto della moltiplicazione dei pani e il discorso del pane di vita
in Giovanni 6 sono infatti redatti sullo sfondo dell'Esodo; e i Giudei «mormorano»
contro Gesù (v. 41) così come hanno mormorato contro Mosè e contro Dio nel deserto
a Mara e in occasione del segno della manna (Es 15,24 e 16,2.7.12); e «discutono
tra di loro» come aveva fatto il popolo in occasione del suo processo con Mosè e con
Dio (Es 17,2; Nm 20,3). Al cuore del nostro discorso sta la fede in Gesù. La domanda
del v. 52 assume allora tutta la sua ampiezza: Chi sarebbe dunque Dio, se lasciasse
morire il suo inviato dal cielo?
Anche se i versetti 51-58 fanno passare in primo piano il mistero dell'eucaristia
(senza che sia necessario immaginare qui una interpretazione tardiva, come sosteneva
Bultmann), resta il fatto che il discorso del pane di vita non è un discorso sull'eucari-
stia come tale, ma una catechesi sulla fede in Gesù come Verbo di Dio passato attra-
verso la morte per la vita del mondo. Ma questa catechesi viene espressa in linguaggio
eucaristico, attraversata com'è dall'inizio alla fine dal tema della manducazione. E questo
è molto più forte per esprimere l'eucaristia che un discorso che la prenda direttamente
per oggetto. Infatti la manducazione dell'eucaristia fornisce a Giovanni l'esperienza
simbolica privilegiata per attestare l'essenza della fede. La fede è la manducazione,
la lenta ruminazione (come suggerisce il verbo trògein usato al v. 54 e che indica l'atto
di masticare accuratamente il cibo, come era prescritto per il pranzo pasquale) dello
scandalo del Messia crocifisso per la vita del mondo. La manducazione dell'eucaristia
è proprio la grande esperienza simbolica in cui ci è dato di provare, fino ad «assuefar-
ci», con viscere e anima, fino a che ci passi attraverso il corpo e sia assimilato nel
nostro agire quotidiano, questo amaro scandalo della fede.
Solo che, a forza di essere enunciato in un contesto di ripetizione rituale che, per
sua natura, tende a smussare gli spigoli più vivi del messaggio evangelico, lo scandalo
del Messia crocifisso per la vita del mondo finisce quasi per essere una cosa scontata.
Integrato in una cultura circostante cristianizzata, addomesticato in religione più o me-
no dominante, reso accettabile da una «teoria della redenzione», il «logos della croce»

" P. GRELOT, Les Poèmes du Serviteur. De la lecture crìtique à l'hermèneutique, Cerf, 1981, p. 137
epp. 183-189.

157
ha perso il suo acme non assimilabile e non utilizzabile di «follia di Dio» per ridiventa-
re saggezza umana. Ed è proprio contro questo svigorimento che l'esperienza simboli-
ca della manducazione, della ruminazione e dell'ingestione del pane eucaristico come
corpo del Signore ci sembra insostituibile. Sperimentandovi concretamente la consi-
stenza e la resistenza di questa materia compatta che è il pane, noi vi facciamo simbo-
licamente la prova della resistenza del mistero di Dio crocifisso a ogni logica. Un si-
mile mistero è essenzialmente restio alle sue pur inevitabili addomesticazioni da parte
della ragione e delle sue «ragioni».
Al di qua dei nostri pur necessari discorsi, è una parola dunque che ci viene data
da ascoltare nell'eucaristia. Secondo la distinzione agostiniana, che doveva poi fare
fortuna nella scolastica medievale, tra la manducazione sacramentale e la manducazio-
ne spirituale, la prima è vana se non conduce alla seconda, cioè «a mangiare e a bere
fino ad aver parte allo Spirito».69 Una simile manducazione spirituale attraverso la man-
ducazione sacramentale è possibile, secondo una tematica spesso sviluppata dai Padri,
solo se prima si è mangiato il Libro e ruminato la Parola secondo lo Spirito. Nei sacra-
menti, come in tutte le altre mediazioni ecclesiali, il Cristo si lascia assimilare sempre
come Parola, a un tempo amara e dolce. Ecco che allora viene sbloccata ogni sacra-
mentalità che fosse tentata di chiudersi su se stessa: l'efficacia dei sacramenti può ca-
pirsi soltanto secondo la modalità della comunicazione della Parola, Parola che si co-
munica solo se portata a noi e in noi dallo Spirito (per questo motivo, d'altronde, do-
vrebbe essere normale — come sottolinea J.J. von Allmen — che la lettura della Scrit-
tura sia «preceduta da una epiclesi»).70

* * *

La dinamica che va dalla tavola delle Scritture a quella del sacramento non è asso-
lutamente un semplice fatto banale, come abbiamo visto. Lo esplicheremo nel prossi-
mo capitolo: è scrìtto che la lettera vuole investire il corpo del popolo. Il sacramento
è appunto la grande figura simbolica di quanto è stato scritto. Esso fa vedere ciò che
dice la lettera delle Scritture che si precipitano in lui. E lo fa vivere, poiché ciò che
esso segna sul corpo sociale della Chiesa e sul corpo di ognuno diventa una ingiunzio-
ne a «veri-ficarlo» nel quotidiano. Esso è quindi il simbolo dell'assunzione dello scrit-
to nella «vita», del transito della lettera verso il corpo. A questa condizione la Lettera
è vivificata dallo Spirito; a questa condizione essa ad-viene come Parola. Ma questo
ci porta verso il terzo elemento della nostra struttura di identità cristiana: l'Etica.

" AGOSTINO, Tr. 26,11 et 27,11 sur l'evang. de Jean, DDB, Bibl. aug., n. 72, 1977, p. 509 e 561.
70
J.J. VON ALLMEN, Célébrer le salut. Doctrine et pratique du eulte chrétien, Cerf-Labor et Fides,
1984, p. 140 (trad. ital.: Celebrare la salvezza, Elle Di Ci, Leumann 1987). La bella epiclesi della liturgia
della Chiesa Riformata di Francia che l'autore cita a questo proposito (p. 146) dovrebbe far riflettere i cattolici.

158
Capitolo Settimo

IL RAPPORTO SACRAMENTO/ETICA

Tra la «vita» e il «culto», tra il «profetismo» e il «sacerdozio», tra 1'«intenzione»


e 1'«istituzione» esiste una tensione autenticamente evangelica. Questa tensione fa sì
che non sia automatico fare del culto rituale nella religione che proclama l'«adorazione
in spirito e verità» (Gv 4,23-24). // «sacro», infatti, non è cristiano sempre e comun-
que, anche se la fede non può d'altra parte pretendere di ignorarlo.
Questa è, d'altronde, la domanda che sottostà al presente capitolo: come evitare
la tentazione di opporre la pratica etica alla pratica rituale senza cedere a quella, con-
traria, di ridurre la tensione che deve rimanere tra di esse? La prima tentazione è quel-
la che oggi più ci minaccia: la «vita», l'impegno profetico, la sincerità dell'intenzione,
l'urgenza dell'evangelizzazione avrebbero l'aureola di tutti i prestigi dell'«autentici-
tà», mentre i riti, il «sacerdozio», l'istituzione, la sacramentalizzazione porterebbero
tutti i peccati del mondo: ricupero, alienazione, gli arcaismi più torbidi... Una simile
opposizione è antropologicamente ingenua e teologicamente insostenibile. Ma non è
certo meno criticabile la tentazione contraria. È facile infatti lasciarsi andare a dimen-
ticare la tensione evangelica tra il polo della pratica rituale e quello della pratica etica
e, troppo fiduciosi nell'apparato rituale (sia gerarchico che dogmatico) dell'istituzio-
ne, fare come se i riti nel cristianesimo fossero scontati. La Chiesa andava così bene
quando super-sacramentalizzava in modo sereno? E va così male, come si sente talvol-
ta dire oggi, per la semplice ragione che gestisce le sue pratiche rituali in modo meno
confortevole? Ma non è l'implacabile tensione tra il polo sacramentale dell'istituzione
e il polo etico della verifica che la tiene evangelicamente in piedi e in buona salute
sotto «la legge dello Spirito»?
Procederemo riflettendo dapprima sullo statuto del culto nel giudaismo. Poi mo-
streremo il rapporto di similitudine e di differenza che il culto ha, in regime cristiano,
con quello, giudeo, da cui è nato. Questo ci porterà, in un terzo tempo, a elaborare
una riflessione teologica più globale sulla tensione che caratterizza il rapporto fra Sa-
cramento ed Etica.

I. LO STATUTO STORICO-PROFETICO DEL CULTO GIUDAICO

Sia chiaro, le società tradizionali cosiddette «senza storia» hanno la loro storia...
e il loro sentimento della storia radicato nella successione delle generazioni e nei rac-
conti. Tuttavia esse non sembrano vivere il tempo come storia nel senso che precisere-
mo più avanti, e non hanno nemmeno un termine per dirla.

159
Nella cultura bantu, per esempio — come dimostra uno studio di A. Kagamé —
l'appercezione e le seriazione del tempo «si fondano su tre fattori» di tipo essenzial-
mente cosmico e ciclico: l'alternanza del giorno e della notte, le stagioni determinate
dal sole e i mesi fondati sulla luna. Tempo ciclico, dunque? Non esattamente: ci si
rappresenta il tempo «nella modalità di una spirale, che dà l'impressione di un ciclo
aperto. Ogni stagione, ogni generazione che inizia, ogni quarto nome dinastico ritor-
nano sulla stessa verticale, ma a un livello superiore».1

1. La fede in un Dio che interviene nella storia


Rispetto a questo tempo «spirale» scandito fondamentalmente dai grandi cicli co-
smici, la Bibbia opera una vera e propria rottura. Essa valorizza infatti subito degli
avvenimenti colti come momenti di avvento di novità inedita. Questa nuova rappre-
sentazione del tempo, in cui il domani non è fondato sull'eterno ritorno dello Stesso,
corrisponde a quello che noi intendiamo con «storia». Il giudaismo mette in risalto la
dimensione profetica degli avvenimenti: essi aprono un futuro nuovo, a sua volta proiet-
tato su di una escatologia meta-storica che trascina l'oggi in avanti e fornisce la chiave
di lettura del passato. Il mito delle origini diventa dunque portatore del mito di una
nuova genesi del mondo e dell'umanità proiettata sulVeschaton: è a partire dall'Ome-
ga che si può leggere YAlfa.
Per questo il primo luogo di manifestazione di Dio non è la creazione come tale,
ma la storia. «La fede di Israele — scrive in questo senso G. von Rad — è interamente
fondata su una teologia storica. Essa sa di essere basata su dei fatti della storia, co-
struita e modellata da avvenimenti nei quali essa decifra l'intervento della mano di Iah-
vè».2 Di fatto, come mostrano in particolare certi salmi, la creazione del mondo è inte-
sa parallelamente alla creazione di Israele come popolo di Dio al momento dell'Esodo,
forse addirittura nella dipendenza da essa. Non è certo un caso che il verbo bara, ri-
servato unicamente all'azione creatrice di Dio, venga applicato alla creazione di Israe-
le (Is 54,5). K. Barth l'ha giustamente sottolineato: la creazione del mondo è, biblica-
mente, il presupposto dell'alleanza. È il Dio di Israele, il Dio della storia, il Dio del-
l'alleanza che crea l'universo.3
Bisogna anche guardarsi, sempre su questo punto, da una valutazione unilaterale
che, soprattutto in certi ambienti protestanti, ha dato luogo a una onto-teologia scola-
stica in cui sembra persa di vista l'unità della creazione dell'universo e della storia
della salvezza. Quando K. Barth sottolinea con ragione che anche la creazione appar-
tiene all'economia della grazia, lo fa a rischio di misconoscere la consistenza propria
del mondo, il cui vero essere consisterebbe soltanto nel significato della redenzione.
Precisata questa importante sfumatura, resta il fatto che la teologia storica di cui
parla G. von Rad è veramente caratteristica della Bibbia. Vediamo così apparire fin
dalla primissima parola della Bibbia qualcosa di molto singolare rispetto ai miti co-
smogonici delle religioni tradizionali. Bereshit: non «all'inizio (Dio creò)...», ma, come

1
A. KAGAMÉ, «Aperception empirique du temps et conception de l'histoire dans la pensée bantu», in
Les Cultures et le temps, Payot-Unesco, Paris 1975, p. 114 e 125.
1
G. VON RAD, op. cit., p. 98.
3
K. BARTH, Dogmatique HI, 1.

160
fa notare la nota della TOB, «in un inizio (in cui Dio creò)...». «Ciò che sembrava
essenziale al narratore della Genesi — scrive a questo proposito A. Néher — non è
ciò che avvenne all'inizio, ma il fatto che ci fu un inizio (...). Ciò che è primordiale
è il "tempo" stesso. La creazione si è manifestata attraverso l'apparizione di un tem-
po (...). In un inizio, il tempo si è messo in movimento e, dopo, la storia avanza irresi-
stibilmente».4 La parola divina è prima di tutto creatrice di storia, e ogni nuova parola
di Dio fa sorgere un nuovo avvenimento/avvento. Gli Ebrei potevano così apparire
a A. Heschel come i «costruttori del tempo».5
Il tempo biblico è prioritariamente pensato non come quello dell'Essere metafisi-
co, ma come quello del Poter-essere storico, e quindi come quello d e l l ' a r o simboli-
co in connessione con la libertà umana che viene con ciò stesso strappata alla Anagkè
o al Fatum cieco; è un tempo di rischio, ma suscettibile proprio per questo di generare
l'in-edito invece di riprodurre il sempre-detto dell'eterno ritorno dello Stesso. La tem-
poralità biblica è proprio la storia dell'armonizzazione difficile, del matrimonio spes-
so infelice, dell'alleanza sempre da riannodare tra il progetto di Dio e quello dell'uo-
mo libero. C'è qui, in qualsiasi modo si giri il problema, una rottura decisiva rispetto
ai miti a-storici delle religioni tradizionali.

2. Il culto giudaico, memoriale storico-profetico

a) Il memoriale
Proprio nella misura in cui la sua identità è fondata sulla relazione con un Dio en-
trato nella storia, Israele, nel suo culto, è rimandato alla sua responsabilità nella sto-
ria, e più precisamente ad altri. Teologicamente è il concetto di memoriale che espri-
me nel modo migliore l'essenza storica e profetica di questo culto. Questo termine,
come sappiamo, viene dalla radice ZKR («ricordarsi»). Zikkaròn o azkarah sono spes-
so tradotti dalla LXX con mnèmosunon o anamnèsis.6
Il campo semantico di questa nozione è sempre delimitato, o direttamente o sem-
plicemente come sfondo, dalla liturgia.7 Certo, la sua portata semantica di richiamo
di Dio e/o a Dio a partire dalla sua azione negli eventi fondatori supera ampiamente
il quadro strettamente rituale e abbraccia infatti tutta l'attività identificatrice di Israele,

* A. NEHER, «Vision du temps et de l'histoire dans la culture juive», in Les Cultures et le temps, op.
cit., pp. 171-174.
5
A. HESCHEL, Les Bàtisseurs du temps, ed. de Minuit, Paris 1960.
6
X. LÉON-DUFOUR, Le Partage du pain eucharistique selon le Nouveau Testament, Seuil, 1982, p.
131 (trad. ital.: Condividere il pane eucaristico secondo il Nuovo Testamento, Elle Di Ci, Leumann 1983):
«Né "mneia" (menzione, anniversario), né "mnèma" o "mnèmeion" (emblema, monumento commemo-
rativo, tomba), né "mnèmè" (facoltà della memoria, ricordo di tipo psicologico)», il termine «anamnèsis»
ha un significato dinamico di «atto di richiamare alla memoria», mentre «mnèmosunon», che evoca il
monumento-ricordo, come le dodici stele erette come memoriale della traversata del Giordano (Gs 4,7) han-
no un significato più statico.
7
Cf M. THURIAN, L'Eucharistie: mémorialdu Seigneur, sacrìfice d'action de grace et d'intercession,
Delachaux-Niestlé, Neuchàtel 1963, la parte. «Memoriale» designa una stele commemorativa, il pettorale
del sommo sacerdote (Es 28,12-29), il suono delle trombe (Nm 10,10), la festa della Pasqua (Es 12,14;
13,9), il nome YHWH (Es 3,15; Os 12,6), il fumo dell'olocausto, sia in quanto tale (Lv 2,2), sia in un
senso spiritualizzato (preghiera, elemosina: Sir 35,1-9; At 10,4; o ancora il popolo di Israele esiliato consi-
derato come la porzione scelta consumata sull'altare come profumo soave per Dio: Bar 4,3).

161
a cominciare dall'insieme della produzione biblica. Tuttavia è proprio nell'attività ri-
tuale che si effettua esemplarmente questo processo anamnetico.
Ne è paradigma il memoriale della Pasqua. Nel settimo giorno della festa degli
Azzimi, giorno al quale il rituale sacerdotale di Es 12,1-20 ha unito quello della Pa-
squa, viene comandato al padre di famiglia: «Tu trasmetterai questo insegnamento (bi-
sognerebbe tradurre, letteralmente: tu "haggaderai") a tuo figlio in quel giorno: "Per
questo il Signore ha agito in mio favore alla mia uscita dall'Egitto"» (Es 13,8). La
Mishna commenta: «Di generazione in generazione, ciascuno deve riconoscersi come
se fosse lui stesso uscito dall'Egitto» (Pes. 10,5). Anche se non viene usato il termine
di memoriale, è la stessa prospettiva che apre la «finzione deuteronomista» in cui Mo-
sè proclama: «Il Signore nostro Dio ha stabilito con noi un'alleanza sull'Oreb. H Si-
gnore non ha stabilito questa alleanza con i nostri padri, ma con noi che siamo qui
oggi tutti in vita» (Dt 5,2-3). La portata di questi e di molti altri testi è chiarissima:
essi segnano «l'inserzione di coloro che fanno l'anamnesi nell'evento stesso che la ce-
lebrazione commemora».8 Ed è questo che permette al salmista di rendere i fedeli che
si ricordano contemporanei di ciò che avvenne un tempo sotto Davide: «Noi — gli
fa dire — abbiamo trovato l'arca» (Sai 132,6). Ed è quello che gli permette anche di
mostrare «come una "liturgia di Sion", che conduce i fedeli tutto intorno alla città
facendoli meditare sul senso dei ricordi richiamati da monumenti e muraglie, fa "ve-
dere" ai pellegrini questa storia passata ("una volta ce lo avevano detto, ma ora l'ab-
biamo visto") (Sai 48,9), fa loro rivivere questa storia, li rende partecipi di eventi
lontani». Gli esiliati che «piangono sulle rive dei fiumi di Babilonia» temono di «di-
menticare Gerusalemme» (Sai 137) proprio perché la memoria viva delle promesse
legate a questa città è la refutazione concreta del loro presente di morte e pegno di
un nuovo avvenire.9 La memoria del passato fa quindi muovere il presente, rimette
in piedi, in vista di un nuovo inizio, coloro che sono prostrati nel silenzio e nell'op-
pressione dell'esilio.
Certo, c'è memoria e memoria. C'è la memoria che è un semplice atto di memoriz-
zazione di ricordi fissati che si recuperano dal passato così come si recuperano delle
fotografie ingiallite dal tempo dal fondo di un cassetto. Questa memoria, che idealizza
immaginariamente il passato come «il buon vecchio tempo in cui tutto andava talmente
meglio!», è alienante: invece di mobilitare le energie in vista di compiti presenti, getta
nel letargo di un passato di sogno. Ridotto all'aneddoto, questo passato, a cui si è strap-
pato tutto quello che era sofferenza, lotta, promessa di un futuro, non ha più storia:
semplice ricordo al quale, come dice J.B. Metz, si è sottratto il futuro.10
Ma c'è anche la memoria che è un atto vivo di com-memorazione. È in questo atto
di memoria comune che un popolo o un gruppo si rigenerano. Il passato delle origini
viene strappato alla sua «passeità» per diventare la viva genesi dell'oggi. Questo viene
allora ricevuto al «presente», come «dono di grazia». Processo di reviviscenza, dun-
que, in cui il ricordo della sofferenza vissuta, dell'oppressione subita e della lotta in-
gaggiata per liberarsene svolge un ruolo motore: domani sarà migliore di ieri; e il pre-

8
J.J. VON ALLMEN, Essai sur le repas du Seigneur, Delachaux-Niestlé, Neuchàtel 1966, p. 24.
' L. MONLOUBOU, «Le mémorial», in A A . V V . , L'Eucharistie dans la Bible, Cerf, Cahiers Evangile,
n. 37, 1981, pp. 11-13.
,0
J.B. METZ, op. cit., cap. VI.

162
sente è colmo di questa viva speranza. Ogni progetto di futuro sembra radicarsi nel
risveglio di questa tradizione: l'uomo ha futuro solo perché ha memoria. I governi
totalitari lo sanno bene: la loro arma per eccellenza è la cancellazione della memoria
collettiva dei gruppi che essi opprimono, a cominciare, quando è strategicamente pos-
sibile, da quella della loro lingua. Un gruppo infatti vede svanire la sua identità nella
misura in cui perde la sua memoria collettiva, o nella misura in cui questa memoria
non è più portatrice anticipatamente di un nuovo futuro possibile. Le «rivoluzioni» lo
dimostrano: quando il futuro viene dichiarato realizzato, quando l'escatologia è pro-
clamata pienamente avvenuta nel presente, è urgente inventare una nuova utopia, pena
la morte.
Nel suo memoriale pasquale, Israele riceve il suo passato in presente, e questo do-
no garantisce una promessa di futuro: l'«oggi» del Deuteronomio trova la sua essenza
in questa rilettura/raccolta (relegere) del passato che anticipa il futuro. È sotto il regi-
me del futuro anteriore.

b) Il memoriale, il rito e la storia: Dt 26,1-11


Ed è proprio al futuro anteriore che inizia il racconto dell'offerta delle primizie
in Dt 26,1-11: «Quando sarai entrato nel paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità
e lo possiederai (...)», ecco cosa tu, Israele, farai... {Dt 26,1). Abbiamo qui un esem-
pio significativo di quello che P. Beauchamp chiama la deuterosi, cioè quel ripiega-
mento del discorso su se stesso, quella sorta di bolla creata nel discorso in cui la legge
chiede imperativamente di osservare la legge, in cui la profezia dichiara che la parola
di Dio consiste nel fatto che Dio parli, in cui la sapienza enuncia: «Inizio della sapien-
za: acquisisci la sapienza» (Prv 4,7)." Ciò che qui Mosè enuncia, nella finzione di
una bolla che ci riporta al tempo della legge prima mentre siamo (poiché Israele è già
da tempo in possesso della sua terra) in quello della legge seconda (deutero-nomio),
è appunto che questa terra è sempre da conquistare, o piuttosto da ricevere. Questa
è in ogni caso la posta in gioco essenziale di questo discorso che è organizzato nel
seguente modo:
A - (l-3a): Livello «STORIA DA VIVERE»
RACCONTO in forma di prescrizione, con un «TU» al FUTURO («Quando sarai
arrivato nel paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità... ecco cosa farai...»)
B - (3b-4): Livello «RITO DA COMPIERE»
DISCORSO rituale, con un «IO» al PRESENTE
(«Io dichiaro oggi... che sono arrivato...»
— trasmissione dell'offerta al sacerdote)
C - (5-9): Livello «MEMORIALE-CONFESSIONE DI FEDE»
DISCORSO in forma di RACCONTO delle origini, con un «NOI» al PASSATO
(«Mio padre era un Arameo errante...»)
B' - (10): Livello «RITO DA COMPIERE»
DISCORSO RITUALE, con un «IO» al PRESENTE
(«E ora, ecco che porto le primizie dei frutti del suolo che tu, Iahvè, mi hai dato»
— gesto di presentazione dei doni e prosternazione)

" P. BEAUCHAMP, L'Un et l'Autre..., p. 120.

163
A' - (11): Livello «STORIA DA VIVERE»
RACCONTO in forma di prescrizione, con un «TU» al FUTURO ETICO della
condivisione con i non-possedenti che sono:
• il levita (rappresentante interno della vocazione di Israele)
• l'emigrato (rappresentante esterno).
Ricordiamo prima di tutto che questo racconto risponde a una situazione storica
ben precisa in cui Israele, diventato sedentario, si interessa alla fecondità del suo suolo
e delle sue greggi ed è tentato di fare appello ai Baal dei Cananei, divinità della fecon-
dità e della vegetazione. Il Dio della storia può essere anche il Dio della natura? Que-
sta è la domanda a cui il nostro testo risponde, mostrando che il Dio dell'Esodo, colui
che «ha fatto venire» Israele nella terra che gli ha donato, è anche colui che rende pos-
sibile a Israele di «far venire» i frutti del suolo che gli dona (infra, cap. Vili).
La sezione C è al centro di questo testo. La sua forma letteraria è quella di un rac-
conto delle origini, a partire dàll'Arameo errante fino all'arrivo in questo paese «dove
scorrono latte e miele» passando attraverso la schiavitù in Egitto, il grido del popolo
verso Iahvè, «il Dio dei nostri padri» e l'intervento liberatore di questi «con mano forte
e braccio potente». Gli eventi originali del passato sono tuttavia raccontati come origi-
nari, cioè fondatori dell'identità attuale di Israele: le gesta dell'Esodo sono evento/av-
vento. Questo è possibile nella misura in cui il racconto funziona come discorso gra-
zie, da una parte, al rito verbale-gestuale alla prima persona presente («Io» collettivo,
in cui tutto Israele è rappresentato come un sol uomo) che lo inquadra e, dall'altra,
al pronome «noi» che innesta il racconto sul presente del narratore e gli permette di
diventare una confessione di fede liturgica. Questo «noi» confessante — dobiamo no-
tarlo — è possibile solo nel quadro rituale in cui si enuncia. La sezione (B-B') che
inquadra il racconto delle origini e gli permette di accedere a discorso in «noi», pur
riconoscendo l'ineludibile alterità empirica del passato delle origini, lo strappa alla sua
pura «passeità» aneddotica per manifestarne il presente fondatore: di qui il gesto ritua-
le di oblazione, che fa ciò che dice il memoriale: Iahvè dona oggi la terra promessa
a Israele. Il rituale è l'operazione simbolica che permette a Israele di identificarsi co-
me popolo di Iahvè e di vivere nella fedeltà a questa identità.
Questo stesso gesto rituale esercita anche una funzione decisiva rispetto al livello
della «storia da vivere» (A-A'), soprattutto in rapporto all'etica prescritta al versetto
1 1 . L'atto simbolico di spossessione con il quale Israele entra veramente in possesso
della terra in quanto promessa da Iahvè (infatti l'oggetto da ricevere, come bene espri-
me la sezione A, è la terra, non come cosa bruta, ma come contrassegnata dalla Parola
di Iahvè che l'ha promessa, come «aperta» dalla Legge) chiede di essere «veri-ficato»
nell'atto etico di condivisione con i non-possedenti.
11 non-possesso è infatti il tema comune a queste due categorie di personaggi: «il
levita e Vemigrato che sono in mezzo a te». Lo sono ognuno secondo una modalità
diversa: il levita lo è per vocazione; gli emigrati, invece, hanno uno «statuto sociale
intermedio tra i cittadini israeliti e gli schiavi: sono liberi, ma non possono possedere
della terra e devono affittare i loro servigi (Dt 24,14). Di fatto sono assimilati agli
indigenti, alle vedove, agli orfani e a tutti coloro che sono economicamente deboli».I2
12
L. DEROUSSEAUX, Le droit du pauvre dans un peuple defrères: Es 22,20-26, Cerf, Assemblées du
Seigneur, n. 61, 1972, p. 6.

164
In opposizione all'emigrato, estemo a Israele, il levita rappresenta ciò che di più inter-
no ad esso esiste. I leviti hanno infatti una identità particolare; la loro tribù non ha
ricevuto proprietà territoriale ma soltanto qualche città; quindi, visto che il ricavato
delle offerte al Tempio è insufficiente, sono ridotti a vivere della generosità pubblica
(Dt 18,6-8). In questo modo essi ricordano ad Israele, alla sua parte più intima, la
propria identità: anche se è entrato in possesso della terra, Israele può vivere come
Israele solo continuando, lungo le generazioni, a riceverla dalla mano di grazia di Iahvè.
Il gesto rituale dell'offerta delle primizie, vero e proprio sacramentum o visibile
verbum (come direbbe Agostino) del memoriale-confessione di fede che esso inqua-
dra, è l'«espressione» (nel senso forte che abbiamo riconosciuto a questo concetto) in
cui l'identità di Israele si effettua enunciandosi. Finché era di fatto nel deserto, sotto
il regime della manna, cioè del puro segno non-cosa, del non-possesso, della mera
attesa, Israele non poteva far altro che vivere della grazia di Dio o del solo cielo (senza
la terra e senza il suo lavoro). Ma questo regime del deserto era transitorio: la promes-
sa divina lo conduceva verso una terra. Proprio per questo, come nota significativa-
mente Gs 5,12, «la manna cessò l'indomani, quando ebbero mangiato dei prodotti del
paese». Ma una volta in possesso di questo paese, era grande la tentazione di dimenti-
care la lezione del deserto, cioè di appropriarsi della terra come pura cosa non-segno,
come puro possesso senza spossessione, come pura pretesa senza attesa: Israele ri-
schiava allora di vivere unicamente della sola terra, dimenticando il cielo da cui gli
era venuta la manna, e di cadere così in disgrazia. Contro questa tentazione, il Deute-
ronomio non smette di ricordare Y«oggi» del dono di Dio e di proclamare all'imperati-
vo: «Israele ricordati... Guardati dal dimenticare». L'oblazione delle primizie è la fi-
gura in cui si incontrano il segno e la cosa, il non-possesso e il possesso, l'attesa e
la pretesa , il cielo e la terra, la grazia di Dio e il lavoro dell'uomo. È la figura della
storia che Israele deve vivere nella fedeltà alla propria identità: nel deserto il regime
della manna era solo un transito verso questa storia promessa; ma il possesso della
terra senza la memoria della manna farebbe di questa storia un affare pagano.
Figura simbolica del racconto delle origini — semplice narrazione di fatti nudi ri-
conosciuti come eventi fondatori, l'abbiamo notato prima — che esso proclama in me-
moriale, il rito dell'offerta delle primizie rimanda Israele alla sua responsabilità nella
storia. D versetto 11 sul quale sfocia il testo ingiunge in definitiva a Israele di essere
verso altri che non possiedono come Dio è stato verso di lui quando non possedeva
nulla. Il riconoscimento di Dio e la riconoscenza a Dio manifestata dall'offerta di rap-
presentanti simbolici della terra può essere vera solo se si veri-fica nel riconoscimento
del povero: è nella pratica etica della condivisione che si compie la liturgia di Israele.
Il rito è la figura simbolica della congiunzione tra l'amore per Dio e l'amore per il
prossimo in cui Israele riconoscerà presto, come testimonia lo scriba interrogato da
Gesù (Lc 10,26-27), non solo il duplice comandamento principale, ma il principio stesso
di tutta la legge.

c) Una crisi rituale


Un simile rimando alla pratica storica della «liturgia del prossimo» (E. Lévinas)
ha come inevitabile conseguenza una crisi rituale. Vero e proprio coltello del sacrifi-
cio, la Parola infatti sacrifica la primitiva ingenuità rituale: Israele non può più essere,
come le religioni pagane, in uno stato di tranquillo possesso del suo culto. L'appello

165
alla responsabilità etica crea, rispetto a queste religioni, una rottura che ha conseguen-
ze, sia culturali che religiose, talmente importanti da continuare ad alimentare i com-
portamenti e i giudizi dei nostri contemporanei sulla pratica teologica, e anche il no-
stro stesso interrogarci teologico.
La crisi rituale è stata attivata in modo particolare dai profeti.13 Ricordiamo Am
5,21-27; Os 6,6 (cfMt 9,13 e 12,7); Is 1,10-17; Ger 7,1-28; Mc 6,6-8; Sal 50,12-15;
51,18-19; Sir 34,24-35,4, ecc. Tutti se la prendono duramente con il formalismo cul-
tuale. Tutti fustigano un culto in cui Dio viene onorato solo con le labbra. Tutti esigo-
no che il cuore sia in armonia con ciò che il culto esprime, e che questo conduca alla
pratica del Diritto e della Giustizia — le due assise del trono di Dio (Sai 89,15 e 97,2)
— verso la vedova, l'orfano, lo straniero. La memoria rituale della liberazione dalla
schiavitù in Egitto? Sì, ma in vista della liberazione degli schiavi il settimo anno. La
circoncisione della carne? Sì, ma in vista della circoncisione del cuore. L'offerta delle
primizie? Sì, ma in vista del rispetto dei beni altrui, della condivisione con i più pove-
ri, del rispetto del salariato... I sacrifici? Sì, ma in vista del sacrificio delle labbra ver-
so Dio e di quello delle buone opere verso altri.
È chiaro: la dimensione storico-profetica del culto giudaico come memoriale spez-
za la circolarità mitica semplice e la ricorrenza cosmica a spirale della ritualità vissuta
nella prima ingenuità. Certo, il giudaismo rimane in regime di ingenuità simbolica:
da una parte il suo calendario scorre nel ciclo cosmico dei giorni, mesi, stagioni e an-
ni; dall'altra questa dimensione ciclica, che sia cosmica o che si basi sulle grandi sta-
gioni antropologiche del gruppo, secondo le sue generazioni successive, o degli indi-
vidui, secondo le grandi tappe della loro vita, rimane costitutiva della simbolica ritua-
le. Ma c'è la storia, e quindi l'impegno della responsabilità esistenziale di Israele nel-
l'avvento di questo nuovo esodo in cui l'umanità, attraverso di lui, Israele — «la sal-
vezza infatti viene dai Giudei» (Gv 4,22) — sarà liberata da Dio da ogni tipo di schia-
vitù. È nella modalità di una ingenuità seconda, questa volta critica, che Israele deve
vivere la sua liturgia.

II. LO STATUTO ESCATOLOGICO DEL CULTO CRISTIANO

1. Escatologia
L'annuncio della risurrezione di Gesù e del dono dello Spirito promesso segna l'inaugura-
zione dei «tempi ultimi» (Eb 1,2): il futuro è già cominciato. Per questo — come mostrano le
antiche anafore che fanno memoria, nell'anamnesi, sia della venuta finale del Signore Gesù che
della sua morte e risurrezione — la memoria cristiana è escatologica: è una memoria di futuro.
«Escatologia»: questo termine è certamente il più caratteristico della differenza cristiana ri-
spetto al giudaismo. E tuttavia continua a fare difficoltà a molti cristiani. A causa di uno sposta-
mento di significato, spesso evoca soltanto il «non ancora» della Parusia, a sua volta interpretata
troppo letteralmente in funzione dell'immagine del «ritomo» di Cristo. L'escatologia tende allo-
ra ad evocare soltanto un lontano futuro, più o meno rimandato alle calende greche, un aldilà

13
I rapporti tra {profeti e il culto sono complessi. «Per gli uni, i profeti sono legati al culto; per altri
ne sono agli antipodi; e tra queste due tesi estreme, si manifesta tutta una gamma di opinioni» (J. ASURMEN-
DI, Isaie 1-39, Cerf, Cahiers Évangile, n. 23, 1978, pp. 55-57).

166
che ha come unica «presa» sulla storia quella di segnarne la fine. E si dimentica troppo facilmen-
te che essa è l'ultima manifestazione della forza risuscitatrice del Cristo che trasfigura già da
ora l'umanità mediante il dono dello Spirito. Si dimentica troppo facilmente, in definitiva, che
essa è un momento costitutivo della Pasqua del Signore: essa dice l'avvenire della sua risurre-
zione nel mondo.
Certo, il Risorto rimane segnato dalle piaghe della sua morte: risuscitandolo dai morti, Dio
non l'ha ricondotto al suo stato di «prima» dell'Incarnazione, se così si può dire; è nella sua
umanità stessa, con la morte che ne è parte costitutiva, che egli è stato trans-figurato. Per que-
sto, se è vero che il dono dello Spirito, diffuso su ogni carne a Pentecoste, inaugura la partecipa-
zione dell'umanità e dell'universo (Rm 8,18-24) alla Pasqua del Signore, la «sacramentalità»
della storia e del mondo che ne risulta rimane però tragica. Il mondo continua a viversi come
non ancora riscattato: «Siamo stati salvati, ma lo siamo stati in speranza» (Rm 8,24).
Resta il fatto che l'escatologia continua a dirci che non si può confessare Gesù come risorto
senza confessarlo simultaneamente come risuscitante il mondo; essa dice che non si può mai
isolarlo come un «In-Faccia che si tiene in sé» e che, anche qui, non possiamo «(com)prendere»
nulla senza essere noi stessi «(com)presi»... Lungi dunque dal mettere tra parentesi la storia co-
me un semplice preludio a un aldilà metastorico, l'unico che avrebbe un vero peso di reale,
l'escatologia richiede al contrario la storia presente come il luogo stesso della sua possibilità.
Svalutare la storia è anche necessariamente svalutare l'escatologia. Lo statuto escatologico del
culto nel cristianesimo implica quindi la ripresa dello statuto storico-profetico di quello del giu-
daismo di cui è erede.

2. G e s ù e il culto

a) La critica dei sacrifici negli ambienti ebraici ed ellenistici


«È la misericordia che io voglio, e non i sacrifici» (Os 6,6, ripreso in Mt 9,13 e
12,7); «questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Is
29,13, ripreso in Me 7,6-7 e Mt 15,8-9); il Tempio è «casa di preghiera» (Is 56,7)
e non «covo di banditi» (Ger 7,11) (ripreso in Mt 21,13 e par.). Gesù è stato fortemen-
te critico nei confronti del formalismo cultuale. In questo non innovava, ma riprende-
va il messaggio dei profeti. E non innovava nemmeno, pare, riassumendo la legge nel
duplice comandamento d'amore per Dio e per il prossimo (Mt 22,34-40); secondo Le
10,27-28 è uno scriba che parla così, e viene poi approvato da Gesù; secondo Me
12,28-34, è quest'ultimo che riassume la legge in questi termini, ma lo scriba non è
da meno perché rincara: «Bene, maestro, hai detto il vero (...), questo vale di più di
tutti gli olocausti e i sacrifici». La critica profetica nei confronti del formalismo cul-
tuale aveva creato — lo si vede — una corrente viva all'interno del giudaismo. Ritro-
viamo questa corrente a Qumran dove, senza rifiutare i sacrifici offerti da un sacerdo-
zio legittimo e in un Tempio purificato, si esalta «l'offerta delle labbra» più che la car-
ne degli olocausti (1 Qs 9,3-5), così come in Filone e, in modo più radicale, tra i Batti-
sti (cf infra), i Mandei e «in ogni ambiente giudeo-cristiano, di tipo settario, conosciu-
to dagli scritti clementini (recognitiones 1,37-55) e nel vangelo agli Ebioniti: "Sono
venuto a distruggere i sacrifici", dichiara Gesù in quest'ultimo scritto».14
Questa corrente critica, radicata prima di tutto nel profetismo, partecipa però an-
che di una corrente più vasta, di fonte ellenistica. Molteplici sono le testimonianze

14
C. PERROT, Jesus et l'histoire, op. cit., pag. 144.

167
in questo senso, riportate soprattutto da R.K. Yerkes, 15 da Isocrate, nei secoli V-IV
a.C. («Compi i tuoi doveri verso gli dèi come ti hanno insegnato i tuoi antenati, ma
sii convinto che il più bel sacrificio, il gesto più nobile sarà quello di dimostrarti l'uo-
mo migliore e più giusto» [Nicoclete, 20]), fino a Seneca, lo stoico, nel I secolo della
nostra era («Un uomo buono è gradito agli dèi con un'offerta di pane, ma un uomo
malvagio non sfugge alla propria empietà nemmeno se versa un fiume di sangue» [De
benef. I, 6,3]). E la letteratura ermetica fa spesso l'elogio dell'unico sacrificio spiri-
tuale (logikè thusia), quello del cuore puro e della preghiera di azione di grazie (eu-
charistia), a detrimento dei sacrifici spirituali che sono stati banditi perché Dio non
ha bisogno di nulla per se stesso.
Ed è proprio alla confluenza della duplice critica, profetica ed ellenistica, che tro-
viamo, all'epoca di Gesù, Filone di Alessandria. Il suo vocabolario «eucaristico» è sta-
to oggetto di uno studio accurato di J. Laporte.16 Dio non ha bisogno di nulla (Spec.
Leg. I, 293) e, se ci prescrive di offrirgli qualcosa, lo fa per esercitarci alla pietà (Her.
123). Filone non misconosce dunque il valore dei sacrifici rituali offerti al Tempio
di Gerusalemme, anzi ne ha grande stima, dal momento che sono prescritti dalla To-
rah. Tuttavia, al culmine della gerarchia dei sacrifici, per lui c'è il «sacrificio eucari-
stico» (tès eucharistias thusia, Spec. Leg. I, 285). Questo appartiene alla categoria dei
«sacrifici di pace» (zebah shelamim) descritti in Lv 3 e 7, sacrifici di comunione in
cui il meglio della vittima (grasso, reni, fegato) veniva bruciato sull'altare, e il rima-
nente veniva attribuito in parte ai sacerdoti, e l'altra parte ritornava all'offerente che
la consumava con la famiglia e con gli amici.
Fra i «tre tipi particolari del sacrificio di comunione: il sacrificio di lode, tódah,
il sacrificio spontaneo, nedàbah, offerto per devozione al di fuori di qualsiasi prescri-
zione o promessa, il sacrificio votivo, nèdèr, al quale l'offerente si è obbligato con
un voto»,17 lo zebah tódah, che corrisponde probabilmente al «sacrificio eucaristico»,
occupa per Filone un posto importante. Secondo H. Cazelles, tódah è il sostantivo di
un verbo (yadah) che si incontra solo al modo causativo e che si può tradurre con «fare
eucaristia».18 D'altronde, quando nel II sec. d.C. l'ebreo Aquila vuole ritradurre in
greco la Bibbia in un modo che gli sembri più fedele all'ebraico di quanto lo sia la
LXX, traduce lo zebah tódah del Sai 50,14-23 non con tès aineseòs thusia («sacrificio
di lode» o, secondo l'aramaico, come indica la TOB, «la lode come sacrificio») ma
con tès eucharistias thusia («sacrificio di azione di grazie»).
Per Filone questo «sacrificio eucaristico» rituale, tuttavia, ha valore agli occhi di
Dio solo se esprime l'atteggiamento del cuore, al punto che l'offerta delle buone di-
sposizioni interiori vale molto di più di tutti i sacrifici (Spec. Leg. I, 271-272). È que-
st'offerta che realizza in verità il sacrificio eucaristico: la vera oblazione è quella del-
l'anima unita a Dio (Quaest. et sol. in Exodum II, 71-72). E le disposizioni spirituali
si spingono molto in là: «Conviene criticare i propri motivi di rendere grazie, e sce-

" R.K. YERKES, Sacrifice in greek and roman religion and in earlyjudaism, London 1953, pp. 115-196.
" J. LAPORTE, La Doctrine eucharistique de Philon d'Alexandrie, Beauchesne, Paris 1972.
" R. DE V A U X , Les Institutions de l'Ancien testament, t. 2 lnsttiutions militaires, institutions religieu-
ses. Cerf, 1982 (4 a ed.), p. 294.
'* H. CAZELLES, «Eucharistie, bénédiction et sacrifice dans l'Ancien testament», in LMD 123, 1975,
pp. 10-17.

168
gliere quindi i migliori, perché vale di più rendere grazie per l'amore di Dio piuttosto
che con uno scopo interessato (Spec. Leg. I, 283)».19
Si capisce meglio allora che negli ambienti giudaici, più critici di Filone nei con-
fronti del sacerdozio e dei sacrifici del Tempio, ma anche più impregnati della corren-
te di spiritualizzazione dei sacrifici, l'accento «eucaristico» si sia spostato dalla vittima
animale verso le preghiere. Così lo zebah tódah, sacrificio sanguinoso di comunione,
era all'origine «accompagnato da un'offerta, minhah, di dolci senza lievito e di pane
lievitato»20 e da preghiere, soprattutto da salmi di azione di grazie. Ora, all'epoca di
Gesù, questo sacrificio si era a tal punto spiritualizzato in alcuni circoli critici nei con-
fronti del Tempio (tra i Battisti, per esempio), che tutto il peso sacrificale fu trasferito
dalla vittima — che era scomparsa, perché i sacrifici sanguinosi erano disapprovati
— sui salmi di azione di grazie, accompagnati al più dall'offerta vegetale come unico
supporto simbolico rituale.21 Il sacrificio «eucaristico» era dunque diventato essenzial-
mente il «sacrificio delle labbra» (cf Os 14,3), cioè la confessione di fede espressa
in azione di grazie verso Dio che salva il suo popolo. Questo è lo zebah tódah, Vaine-
seòs (eucharistias) thusia che Eb 13,15 raccomanda di offrire a Dio attraverso Gesù,
l'unico Sommo Sacerdote: «Per mezzo di lui offriamo continuamente a Dio un sacrifi-
cio di lode (Sai 50,14-23), cioè il frutto delle labbra (cf Os 14,3) che confessano il
suo nome». «Fare eucaristia» significa quindi prioritariamente confessare Dio come
salvatore; e questa confessione di azione di grazie ha una connotazione immediata-
mente sacrificale. Si capisce, in questa prospettiva, che la proclamazione rituale della
«morte del Signore fino alla sua venuta» (1 Cor 11,26) «corrisponda esattamente alla
tódah»22 e che essa abbia potuto segnare per le prime comunità cristiane «la sostituzio-
ne dell'antica tòdah con il Cristo del pasto cristiano»." E in questo modo le prime
comunità cristiane si iscrivevano nel solco della corrente profetica e dei circoli critici
del giudaismo contemporaneo di cui abbiamo parlato.24

" «Il metodo (secondo Filone) consiste nel dividere bene l'azione di grazie, come il sacerdote divide
la vittima aiutandosi con il coltello sacrificale (Spec. Leg. I, 210-211). Prima di tutto, non deve attribuirsi,
per dimenticanza, i benefici di Dio (...). E non deve nemmeno fare di Dio la causa di qualsiasi male (...).
Poi, deve dividere l'azione di grazie in modo logico, andando dal generale al particolare nell'evocazione
delle opere e dei doni di Dio (...). Tutti devono rendere grazie, anche l'uomo dì virtù media, "secondo
il potere delle sue mani" e secondo il valore dei doni ricevuti» (J. LAPORTE, op. cit., p. 66).
20
R. DE V A U X , Les Institutions de L'Ancien Testament, t. 2, op. cit., p. 295 (trad. ital.: Le Istituzioni
dell'Antico Testamento, Marietti, Torino 1977).
21
C. PERROT, «Les repas eucharistiques», in L'Eucharistie, Profac, Fac. di teologia di Lyon, 1971,
pp. 89-91; H. C A Z E L L E S , art. cit., 11-12.
22
X. LEON-DUFOUR, Le Partage dupaìn eucharistique..., op. cit., p. 57.
23
C. PERROT, «Le repas du Seigneur», in LMD 123, 1975, p. 44.
24
Cf in questo senso la preghiera «'abodah»: inizialmente essa accompagnava i sacrifici offerti al Tem-
pio; all'epoca di Gesù era passata nella liturgia sinagogale delle «diciotto benedizioni» in cui Israele e la
sua preghiera vengono presentati a Dio come un sacrificio (testo tradotto in L. BOUYER, Eucharistie, De-
sclée, 1966, p. 80; trad. ital.: L'Eucaristia, Elle Di Ci, Leumann 1983). Nel suo Dialogo con Trifone Giu-
stino, verso il 150, non fa che calcare la mano su ciò che già appartiene alla tradizione ebraica: «Che le
preghiere e le eucarestie fatte da persone degne siano i soli sacrifici perfetti e graditi a Dio, questo lo dico
anch'io» (117,2).

169
b) L'atteggiamento di Gesù
Gesù, questo «discepolo del Battista» (C. Perrot), ha chiaramente fatto sua questa
corrente critica. Come tutti gli ebrei pii, egli ha probabilmente recitato ogni giorno
la preghiera del mattino, di mezzogiorno e della sera;25 ha frequentato regolarmente
la sinagoga («secondo la sua abitudine», precisa Le 4,16) il giorno di sabato. Ha fre-
quentato anche il Tempio (11 menzioni nei vangeli, contro 14 per le sinagoghe). Il
fatto che non venga mai presentato mentre sta pregando, ma solo mentre sta insegnan-
do, è forse il segno di un'intenzione cristologica post-pasquale. J. Dupont è categori-
co: quando Gesù si trovava al Tempio, «va da sé» che vi pregasse con i suoi fratelli
ebrei.26 Sembra tuttavia dubbio che abbia partecipato ai sacrifici come tali. Rovescian-
do i tavoli degli agenti di cambio e dei mercanti di colombe al tempio, egli ha effettua-
to, secondo C. Perrot, molto di più di una semplice «purificazione». Come lascia capi-
re Me 11,16 — «e non lasciava che nessuno trasportasse un oggetto nel Tempio», dove
il termine «oggetto» o «vaso» indica probabilmente «il materiale del Tempio» — egli
ha di mira direttamente i sacrifici come tali: «Egli ferma la marcia del culto sacrificale».27

Il suo atteggiamento è stato sempre così vigoroso e brusco? «È difficile pronunciarsi», dice
l'autore stesso. Gesù manda il lebbroso che ha appena purificato a presentarsi ai sacerdoti per
offrire il sacrificio prescritto {Me 1,44). Se è vero che «i figli sono esenti» dal pagare l'imposta
del Tempio, tuttavia, «affinché non si scandalizzino», l'imposta verrà comunque pagata (Mt
17,24-27) (p. 150). E se è vero che, prima di presentare la propria offerta all'altare, bisogna
riconciliarsi con il proprio fratello, è anche vero che questo non dispensa dall'offerta rituale
(Mt 5,23-24). È vero però che la teologia di un Matteo, per il quale «non passerà nemmeno
uno iota della legge» (5,18) può essere sospettata di esagerazione...
Sappiamo tuttavia che le primissime comunità giudeo-cristiane hanno continuato ad andare
al Tempio (At 3,1) e che il problema del comportamento da tenere nei confronti delle prescrizio-
ni della Legge ha provocato un conflitto intemo che ha rischiato di degenerare in scisma (At
15). Ma questo autorizza a dedurne che Gesù non avesse polemizzato contro il culto sacrificale
del Tempio? Non necessariamente: «Una volta che il Tempio era stato distrutto, Luca poteva
ridiventare senza grande pericolo un "uomo del Tempio" per meglio radicare la religione nuo-
va nell'Israele di sempre (Le l,5s e 24,53)» (p. 154). Forse, in ultima analisi, bisogna vedere
nell'atteggiamento di Gesù su questo punto «un certo compromesso» (p. 145). In ogni caso per
noi rimane poco chiaro.
E meno chiaro di quanto talvolta non si sia pensato è stato anche il suo atteggiamento sull'a-
pertura diretta agli «eretici» samaritani (Mt 10,5-6) e ai pagani, nonostante i molti segni a loro
destinati. Anche su questo punto, il suo atteggiamento sembra essere stato «un po' contradditto-
rio» (p. 121-126).
In entrambi i casi (sacrifici e apertura ai pagani) Gesù non sembra aver dato una
consegna chiara. Nella scia dei profeti egli contesta il formalismo cultuale, condivi-
dendo d'altronde in questo le opinioni di certi rabbini farisei: che il sabato sia per l'uo-
mo e non l'uomo per il sabato, che il culto sia gradito a Dio soltanto se il cuore è
in armonia con ciò che esso esprime, che la riconciliazione sia una condizione più im-
portante della purezza del cuore... queste massime non erano certo rare, e forse erano

" J. JEREMIAS, Abba. Jesus et son Pére, Seuil, 1972 (trad. ital.: Abba, Paideia, Brescia 1968).
26
J. DUPONT, «Jesus et la prière liturgique», in LMD 95, 1968.
27
C. PERROT, op. cit., pp. 146-147. Le referenze nel prosieguo del testo rimandano a quest'opera.

170
addirittura correnti alla sua epoca.28 Tuttavia la sua «autorità» personale e la «novità»
del suo messaggio e dei suoi atteggiamenti (perdona i peccati, va a mangiare a casa
dei peccatori, guarisce i lebbrosi...) erano già tali che la sua condanna a morte per
«bestemmia» (contro la Legge di Mosè, e dunque contro Dio stesso) presuppone che
egli sia stato polemico in modo nuovo nei confronti del culto del Tempio. Di fatto sembra
che egli abbia pronunciato in prima persona una frase a proposito del Tempio che è
stata decisiva nella sua condanna, dal momento che il Tempio svolgeva un ruolo di
simbolo dell'identità religiosa e nazionale giudaica. E questa frase ha messo in un tale
imbarazzo le prime comunità che queste l'hanno messa in bocca di «falsi testimoni»
e che, a seconda degli ambienti, le è stato dato un tenore più o meno radicale, dalla
soppressione pura e semplice del Tempio, secondo il punto di vista degli Ellenisti espres-
so da Luca in At 6,13-15, fino alla ricostruzione escatologica del Tempio di cui parla
Mt 26,61, passando attraverso la sua sostituzione con un altro «non fatto da mano d'uo-
mo» secondo Me 14,58; Giovanni da parte sua associa questa frase al gesto profetico
di purificazione del Tempio, e la mette, sembra a giusto titolo, sulla bocca di Gesù
stesso,29 dandole un'esegesi chiaramente pasquale: «Ma lui parlava del tempio del suo
corpo» (Gv 2,19-22).
L'atteggiamento di Gesù nei confronti del Tempio e del Sacerdozio ebraico può
essere affrontato, sul piano storico, soltanto mettendo in opera due criteri, messi in
luce da E. Kàsemann e ripresi da C. Perrot: il criterio di differenza permette di pensa-
re che la frase di Gesù contro il Tempio non può provenire né da ambienti giudaici
né da comunità cristiane, che ne sono state molto imbarazzate; il criterio di coerenza,
invece, colloca questa frase nell'insieme del messaggio e degli atteggiamenti di Gesù
e lascia pensare che sia in armonia con questo insieme. È difficile, in ogni caso, non
metterla in rapporto con 1'«atteggiamento spesso conflittuale di Gesù, con la novità
e la stranezza dei suoi gesti, la radicalità del suo appello, l'insistenza dimostrata e il
significato da dare alla sua persona».30 Questa ermeneutica di «retrodizione storica»
ci permette allora di designare il Gesù della storia senza cadere nelle illusioni dello
storicismo; in questo modo non trascuriamo la comunità pasquale che, costitutiva del-
l'essenza stessa del testo evangelico, è la mediazione obbligata del nostro discorso.
In questa prospettiva la frase di Gesù contro il Tempio, frase probabilmente autentica
ma di cui non conosceremo mai l'esatto tenore, annuncia un superamento della critica
profetica sul formalismo cultuale e un nuovo statuto del culto come tale. Ma questa
novità poteva palesarsi soltanto dopo la Pasqua.
In conclusione, sembra che Gesù abbia annunciato l'avvento di un nuovo regime
cultuale, ma che non abbia dato ai suoi delle consegne chiare su questo punto. Questo
spiega il fatto che le diverse correnti cristiane abbiano potuto, in seguito, fondarsi su
questa o quella delle sue frasi o atteggiamenti, «conservatrice» o aperta, per giustifica-
re la propria condotta nei confronti del Tempio. Ricollocate nell'insieme del suo mes-
saggio e nella prospettiva della sua risurrezione, queste contraddizioni dovevano pro-

21
C. DODD, Le Fondateur du Christianisme, Seuil, 1972, pp. 80-85 (trad. ital.: Il fondatore del cristia-
nesimo, Elle Di Ci, Leumann 1975); K. SCHUBERT, Jesus à la lumière dujudaisme du premier siede, Cerf,
1974, pp. 41-69.
" H. COUSIN, LeProphète assassine, J.P. Delarge, 1976, pp. 47-50 (trad. ital.: Il Profeta assassinato,
Boria, Roma 1977).
30
C. PERROT, op. cit., pp. 66-67.

171
gressivamente risolversi nel senso della novità, una novità la cui radicalità sarà a poco
a poco capita allo stesso livello di quella della sua confessione come «Cristo», «Signo-
re» e, infine, «Figlio di Dio».

3. La lacerazione pasquale
La novità, quindi, si manifesta dopo la Pasqua, a mano a mano che le prime comu-
nità effettuano la loro lettura della morte e della risurrezione di Gesù «secondo le Scrit-
ture». La promessa fatta ai Padri viene dichiarata compiuta mediante il dono dello Spi-
rito, ricevuto dal Padre e diffuso dal Cristo risorto (At 2,33). Ora, questo dono dello
Spirito, nella febbre escatologica dell'epoca, era vivamente atteso, per esempio tra i
Battisti e a Qumran, collegato al perdono dei peccati. I bagni quotidiani praticati nella
comunità di Qumran esprimevano l'ideale di una purificazione interiore e l'attesa di
una futura, radicale purificazione (Regola 2,25-3,12). Ultima preparazione alla fine
dei tempi, il battesimo di Giovanni per il perdono dei peccati era vissuto come il prelu-
dio al battesimo messianico nello Spirito Santo e nel fuoco (cf Le 3,16). Qualunque
sia la sua eventuale parentela con Qumran, la setta battista «segna una tappa molto
netta aldilà dell'Essenismo. Essa crede alla venuta imminente di un Messia fondatore
di un regno in cui, secondo la profezia di Ezechiele, lo Spirito di Dio sarà donato al-
l'uomo in una lustrazione di acqua pura che lo renda capace di praticare i comanda-
menti, per una giustizia fino a quel momento costantemente disattesa».31 Ci sono tutti
i motivi per pensare che la profezia di Ez 36, 24-28 sull'aspersione di acqua pura e
il dono dello Spirito per cambiare il cuore di pietra di Israele in cuore di carne, e ren-
derlo quindi capace di camminare secondo la Legge, abbia conosciuto un notevole suc-
cesso all'epoca. E quella di Ger 31,31-34, a cui la precedente fa eco, non doveva certo
essere da meno su questo punto: Dio stava per realizzare una nuova alleanza iscriven-
do la sua legge nel profondo del cuore del suo popolo perché tutti potessero metterla
fedelmente in pratica e giungere alla vera conoscenza di lui.32

a) La metafora della lacerazione


Annunciando la risurrezione di Gesù e il dono dello Spirito, i primi convertiti pro-
clamavano la realizzazione di queste profezie di Ezechiele e di Geremia. Con l'inau-
gurazione del Regno escatologico di Dio, era entrato nella storia qualcosa di radical-
mente nuovo. Una delle grandi metafore di questa novità, nel Nuovo Testamento, è
quella della lacerazione. Dapprima i cieli si squarciano in occasione del battesimo di
Gesù, permettendo così allo Spirito di discendere su di lui (Me 1,9-11 ; cf Zs 63,11-19).

" H. CAZELLES, Naissance de l'Église, op. cit., p. 95.


32
Ezechiele, che era sacerdote di Gerusalemme, «si ricorda qui (36,25) delle purificazioni rituali al
Tempio, e il simbolismo dell'acqua come fonte di vita e di purificazione svolge qui un ruolo profondo (cf
Ez Al)». Ma questa purificazione si accompagna a un «cambiamento completo»: mediante il dono del suo
Spirito, Dio fa dell'uomo dotato di un cuore e di uno spirito nuovi «una nuova creatura», capace finalmente
di «mettere in pratica le leggi e i costumi del Signore» (36,27). «(...) Anche Geremia è arrivato alla stessa
conclusione». In entrambi i casi, d'altronde, l'oracolo prosegue in forma di alleanza: «Voi sarete il mio
popolo e io sarò il vostro Dio (...). Siamo molto vicini alla frase di Gesù secondo Giovanni:. "Nessuno
che non sia nato dall'acqua e dallo spirito può entrare nel Regno di D i o " (Gv 3,5)» (J. ASURMENDI, Le
Prophète Ezéchiel, Cerf, Cahiers Evangile, n. 38, 1981, pp. 52-53).

172
Poi, come il vino nuovo del Vangelo non può che far esplodere le vecchie botti della
Legge, così è impossibile aggiustare il vecchio vestito di quest'ultima mettendovi una
toppa nuova: «Altrimenti il rattoppo nuovo squarcia il vecchio e si forma uno strappo
peggiore» (Me 2,21-22). «Sei tu il Messia?», chiede il sommo sacerdote durante il pro-
cesso. «Lo sono», risponde Gesù; allora, in un gesto rituale, «il sommo sacerdote lace-
rò i suoi abiti» (Me 14,63). Più sorprendente ancora è la menzione, fatta dai tre sinotti-
ci, della lacerazione totale («nel mezzo», dice Luca 23,45; «dall'alto in basso», notano
Me 15,38 e Mt 27,51) del velo del Tempio al momento della morte di Gesù; il Santo
dei Santi è ormai vuoto; il tempio della presenza di Dio è il corpo del Risorto (Giovan-
ni) o la comunità dei fedeli (Paolo). Fra la lacerazione dei cieli e quella del velo del
Tempio si esprime teologicamente un nuovo statuto del culto inaugurato dal compi-
mento pasquale e pentecostale della promessa.
In Gesù, Cristo e Signore, il tessuto religioso del giudaismo è stato lacerato. Qual-
cosa di radicalmente nuovo è avvenuto in lui, qualcosa che verrà chiamato «redenzio-
ne del mondo». D'altronde questa novità non sarà semplice da esprimere, perché biso-
gnerà dimostrare che ciò che annuncia è davvero «secondo le Scritture». Ora, la do-
manda che si pone a questi Giudei compiuti che pensano di essere i primi cristiani
è di grande portata: se Gesù di Nazaret è il Cristo di Dio, se, risuscitandolo dai morti
e concedendogli di diffondere lo Spirito della promessa, Dio lo ha manifestato come
la salvezza offerta agli uomini, che ne è allora delle due grandi istituzioni divine sal-
vatrici dell'alleanza mosaico: la Legge e il Tempio?
Paolo, come sappiamo, si è interrogato essenzialmente in rapporto alla Legge: co-
me espressione della volontà divina, essa rimane buona e santa; ma come strumento
di salvezza diventa maledizione perché la giustificazione avviene non mediante la leg-
ge ma per mezzo della fede in Cristo. Ora, tanto è radicale la sovversione da lui effet-
tuata in rapporto alla Legge, altrettanto stupefacente è il suo silenzio rispetto al Tem-
pio. E tuttavia il compimento delle Scritture non richiedeva di essere espresso teologi-
camente sia secondo l'asse dei sacrifici e del sacerdozio (su quest'ultimo punto Paolo
è assolutamente muto) sia secondo quello della legge?
Bisognerà aspettare la lettera agli Ebrei perché questo problema — fondamentale
in questa prospettiva — venga affrontato di petto. L'operazione era difficile: era ne-
cessario un teologo di grande portata, dotato di «un'audacia a stento pensabile», ritiene
A. Vanhoye.33 Bisognava infatti passare al di sopra del sacerdozio di Aronne per ri-
collegarsi a quello di Melchisedek, personaggio senza genealogia che permetteva quindi
di parlare di un «sacerdozio eterno»; bisognava poi subordinare il sacerdozio di Aron-
ne e dei figli di Levi a quello di Melchisedek, mediante la subordinazione di Abramo
(e dunque dei suoi discendenti, soprattutto Aronne e Levi) a quest'ultimo, a cui aveva
fatto pagare la decima! Il risultato di questa operazione altamente rabbinica — tutto
sommato pericolosa, perché rischiava di rinverdire nei destinatari la nostalgia degli
splendori del Tempio — è che l'autore di Ebrei, applicando a Cristo il termine di «sa-
cerdozio» o di «sommo sacerdote», opera una trasmutazione altrettanto vigorosa e sov-
versiva del «sacerdozio» e dei sacrifici di quella che Paolo aveva fatto nei confronti
della Legge. Infatti, se si applica il «sacerdozio» a Cristo non lo si può applicare a

" A . VANHOYE, Prétres anciens, prètre nouveau selon le Nouveau Testament, Seuil, 1980 (trad. ital.:
Sacerdoti antichi e nuovo sacerdote secondo il Nuovo Testamento, Elle Di Ci, Leumann 1985).

173
nessun altro; non esiste una misura comune tra questo «sacerdozio» di Cristo e quello
dei sacerdoti della linea di Aronne, che viene abolito da Gesù essendo in lui portato
a compimento. È tutto il sistema giudaico che, attraverso il Tempio suo simbolo, è
diventato caduco come mezzo di accesso a Dio: il Santo dei Santi è vuoto. I cristiani
non hanno più altro Tempio che il corpo glorificato di Gesù, né altro altare che la sua
croce, né altro sacerdote e sacrificio che la sua stessa persona: Cristo è la loro unica
liturgia possibile.

b) Una differenza teologale


Teologicamente il culto cristiano è, semplicemente, di un altro ordine rispetto al
culto giudaico, di cui tuttavia è l'erede. La differenza non va certamente collocata a
livello morale: abbiamo visto precedentemente quanti giudei pii, all'epoca di Gesù,
fossero coscienti delle esigenze etiche, sia interiori — purezza di cuore, rettitudine,
senso dell'azione di grazie — che esteriori — riconciliazione, pratica della giustizia,
condivisione con i più poveri... —, che il culto richiede per essere gradito a Dio; già
da tempo i profeti avevano fatto questo passo. La differenza è di ordine teologale. Più
precisamente, essa è interamente fondata sulla rilettura di tutto l'insieme del sistema
religioso che la confessione di Gesù come Cristo impone. Tutto si fonda dunque su
Pasqua e Pentecoste. In breve, la differenza è escatologica.
Noi possiamo leggerla nella prospettiva della teologia paolina della giustificazione
mediante la fede. Certo, lo sconvolgimento provocato nella sua vita di fariseo zelante
dalla conversione al Signore Gesù conferisce al suo discorso un andamento talvolta
polemico. Ma «il tema dell'alleanza rimaneva fondamentale nel primo secolo». La Legge
veniva allora intesa «a un tempo come la rivelazione divina e la risposta dell'uomo
a Dio nel quadro dell'alleanza, senza essere assolutamente staccata dal dono gratuito
dell'Alleanza e senza pervenire a una falsificazione religiosa che valutasse il modo di
acquisire i meriti».34 La presentazione caricaturale di un giudaismo strettamente lega-
lista all'epoca di Gesù non può più essere sostenuta. E bisognerà addolcire alcune af-
fermazioni di Paolo stesso in quello che lasciano intendere sull'atteggiamento effettivo
dei Giudei, soprattutto di ambiente fariseo, in questo campo.
Resta il fatto che, secondo una regressione genealogica, che possiamo far valere
in questo ambito come in molti altri, il pensiero giudaico della Legge, tematizzato nel-
le sue espressioni teologiche di primo grado, non corrisponde puramente e semplice-
mente al pensare giudaico della Legge, il cui schema, al di qua dei temi, è più origina-
rio. I correttivi storici apportati al primo non invalidano la critica che Paolo tenta di
mettere in opera, al secondo grado, al livello del pensare stesso della Legge. È stato
necessario porre il problema, inevitabile, della differenza cristiana, perché questo pen-
sare, fino ad allora impensato come tale, venisse alla luce. Come dimostra Paolo, que-
sta differenza è interamente sospesa alla confessione di Gesù come Cristo: è Lui che
ne è il rivelatore.
Certo, poiché la Legge è un dono di Dio, il compimento dei suoi precetti non è
che una risposta al suo appello primo. Nondimeno i Giudei pretendono di essere giu-
stificati proprio mediante la pratica delle «opere» della Legge, soprattutto cultuali,

34
C. PERROT, op. cit., 153.

174
anche se resta inteso che questi meriti non hanno nulla di automatico perché richiedo-
no una autentica purezza di cuore, la cui quintessenza, in certo modo, è l'atteggiamen-
to «eucaristico» di cui parlava Filone. Paolo non fa altro che sviluppare questa accen-
tuazione eucaristica. Ma non lo fa solo in direzione delle esigenze morali richieste in
risposta ai benefici di Dio; lo fa in modo teologale ed escatologico in direzione del
Cristo e del dono dello Spirito. È questo che cambia tutta la lettura del sistema. Infatti
l'azione di grazie del cristiano è Cristo stesso, e non più in prima istanza la sua pratica
fedele della Legge e la rettitudine del suo cuore riconoscente. Il principio stesso della
giustificazione è diverso rispetto al giudaismo: è identificato a Cristo, l'unico soggetto
che abbia pienamente compiuto la Legge, che gli era stata inscritta dallo Spirito fin
nel profondo del suo essere. D'ora in poi essere cristiani significa vivere sotto «la leg-
ge dello Spirito» (espressione che è «una specie di riassunto di Ger 31,33 e di Ez 36,27»,
precisa la nota della TOB su Rm 8,2), essere «abitati» dallo «Spirito di Dio», cioè aver
parte allo «Spirito del Cristo» (Rm 8,9). La modalità nuova della giustificazione va
intesa a partire e in funzione di questo principio nuovo, cristo-pneumatico: non più
la pratica delle opere della Legge (il che rimetterebbe in discussione il principio stes-
so), ma la fede in Gesù come Cristo e Signore. Paolo si colloca, lo vediamo, in una
prospettiva di compimento della religione dei Padri in ciò che essa gli sembra avere
di più «spirituale»; ma questo compimento, in quanto proclamato nella Pasqua di Gesù
e nel dono dello Spirito, non avviene, per lui, senza lacerazioni.

c) Un nuovo statuto del culto


È evidente che, se lo spirito della Legge consisteva sempre, in definitiva, nel ten-
dersi verso Dio con la forza delle proprie braccia, cioè delle opere (il che, nell'ambito
delle prescrizioni rituali, richiedeva la presenza di una casta sacerdotale tra il popolo
e Dio), la legge dello Spirito rovescia la prospettiva. Non si tratta più di «salire» verso
Dio — anche se in risposta alla «discesa» originaria avvenuta con l'alleanza e il dono
della Legge — ; si tratta ormai di accogliere la salvezza da Dio stesso, radicalmente
donata come grazia «discesa» verso di noi in Gesù, «Cristo», «suo Figlio» (Rm 1,1-4,
ecc.). Costui infatti ha suggellato, nella sua Pasqua e soprattutto nel compimento di
questa Pasqua costituito dal dono dello Spirito, l'alleanza nuova annunciata da Gere-
mia e Ezechiele, e che consiste nell'iscrizione che Dio fa della sua legge direttamente
nel cuore dell'uomo (Ger 31,33) e nel dono del suo Spirito (Ez 36,26-27). Non dob-
biamo più, allora, issarci verso Dio attraverso le opere buone, rituali e morali, o tra-
mite una casta sacerdotale; dobbiamo invece accoglierlo nella nostra esistenza storica
come un dono di grazia: siamo tutti infatti «giustificati gratuitamente per la sua grazia,
in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù» (Rm 3,24). Ribaltamento fantasti-
co e incredibile, per Paolo!
Il Vangelo non può essere usato come una toppa per aggiustare il vecchio abito
della Legge. La «ripresa» è impossibile, la lacerazione inevitabile. Esso sovverte radi-
calmente il sistema, lo mina in modo decisivo alla sua stessa radice. Lo statuto del
culto, evidentemente, è trasformato in modo altrettanto radicale. Poiché Dio raggiun-
ge ormai il suo popolo — sia Greci che Giudei — in modo diretto in Cristo risorto
e mediante il dono dello Spirito, e non più attraverso la duplice istituzione della sal-
vezza rappresentata dalla Legge e dal Tempio (sacrifici e casta sacerdotale), il culto

175
primo dei cristiani è quello dell'accoglienza di questa grazia di Dio nella loro vita
quotidiana attraverso la fede e la carità teologali.
Possiamo illustrare la differenza cristiana con questo schema:

Preciseremo più avanti perché diamo i titoli di «vetustà» e di «novità», invece di


quelli di «Antico» e di «Nuovo Testamento», ai nostri due schemi. Sottolineiamo, per
il momento, che essi non hanno valore assoluto, ma valgono solo in relazione l'uno
all'altro. Gli stessi elementi si ritrovano in ciascuno, ma situati in modo diverso; e
questo provoca una modifica del sistema. Il culto (e la legge) non si trova più, infatti,
in posizione di intermediario nel secondo schema. Secondo il senso di rotazione (A)
rappresentato all'esterno, esso funge da rivelatore simbolico, il che permette all'esi-
stenza umana di essere vissuta come esistenza propriamente cristiana, cioè come atto
sacerdotale di un popolo che fa della sua stessa vita il luogo primo del suo culto «pneu-
matico»; secondo il senso di rotazione (B) rappresentato all'interno, esso funge come
operatore simbolico che rende possibile questo atto sacerdotale e sacrificale «gradito
a Dio» attraverso Gesù Cristo e nello Spirito Santo. Il nostro elemento «Sacramento»
è quindi situato come pratica simbolica che viene da (senso A) e rimanda a (senso
B) l'elemento «Etica»: il Risorto si lascia incontrare prima di tutto in questo quotidia-
no; la corporeità è la mediazione fondamentale della liturgia cristiana, come d'altron-
de è espresso dal vocabolario cultuale del Nuovo Testamento.

4. II vocabolario cultuale dei cristiani alle origini


È stata fatta spesso questa osservazione: il vocabolario sacrale e cultuale usato nel-
l'Antico Testamento - latreia, leitourgia, thusia, prosphora, hiereus, naos, thusiastè-
ron... — non indica mai, nel Nuovo, le attività liturgiche dei cristiani, né i ministri
che le presiedono. Queste espressioni vengono usate, naturalmente, per i riti e i mini-
stri giudei o pagani, ma, per quanto concerne il cristianesimo, vengono applicate solo
in direzione del Cristo da una parte (nel senso che egli porta a compimento e quindi
abolisce il culto e il sacerdozio dell'antica alleanza) e dall'altra in direzione della vita
quotidiana dei cristiani. Quello che qui ci interessa è questo secondo aspetto, stretta-
mente dipendente dal primo di cui già abbiamo parlato.

176
a) Il Nuovo Testamento
Secondo Rm 12,1 l'offerta del «corpo», cioè di tutta la persona, costituisce la thusia iòsa
hagia che piace a Dio. Paolo prende a prestito dai Greci (indubbiamente attraverso le correnti
giudaiche che l'avevano fatta loro, come già abbiamo visto) l'espressione logikè latreia per in-
dicare questo «sacrificio vivo e santo». Si tratta qui, come nota E. Kasemann, di una «espressione-
chiave (...) che in un primo tempo è servita alla polemica degli Ellenisti più illuminati contro
le offerte cultuali "irragionevoli" delle religioni popolari». Ma, come mostra il versetto 2, Pao-
lo la trasforma in funzione dell'escatologia inaugurata nella Pasqua del Cristo. Infatti, «in un
tempo escatologico, non c'è più nulla di profano, se non quello che l'uomo profana o demoniz-
za», cosicché in ragione del cambiamento della signoria del mondo, «la dottrina del culto coinci-
de necessariamente con l'etica cristiana».35
In 2 Cor 9,12 la colletta organizzata da Paolo presso i cristiani della Grecia e dell'Asia Mi-
nore in favore dei fratelli di Gerusalemme che soffrono la carestia (cf At 11,28-30), colletta
il cui ricavato è raccolto nel corso dell'assemblea domenicale in Galazia e a Corinto «il primo
giorno di ogni settimana» (7 Cor 16,1-2), è considerata come la leitourgia che fa abbondare
le «eucaristie» verso Dio. C'è di più: la parte dei Filippesi a questa stessa colletta è la thusia
gradita a Dio, il «profumo di buon odore» (FU 4,18). Quest'ultima espressione è applicata in
Ef 5,2 (dove si riferisce all'olocausto che fuma sull'altare: Es 29,18) alla morte del Cristo inter-
pretata come sacrificio, lui «che ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave
odore».
Questo è anche il sacrificio spirituale di cui parla l'ultimo capitolo della lettera agli Ebrei.
L'abbiamo detto: Ebrei fa una lettura cristologica esclusivamente sacerdotale. Il «sacerdozio»
si addice solo a Cristo. Eterno, esclusivo, intrasmissibile (cf Eb 7,24), esso è tuttavia partecipa-
to da coloro che sono diventati «i compagni del Cristo» (3,14). Questa è in ogni caso l'implica-
zione di Eb 10,14: «Con un'unica oblazione egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono
santificati». Ora teleioun-teleiòsis, che designa questo compimento o questo atto di «rendere per-
fetti», è applicato prima di tutto a Cristo (5,9). E soprattutto, come rileva A. Vanhoye, questo
verbo greco o il suo sostantivo traduce, nella LXX, l'atto rituale (quello del riempire le mani)
che «nel Pentateuco serve a designare la consacrazione del sommo sacerdote»." Coloro che so-
no santificati da Cristo vengono al tempo stesso «sacerdotalizzati» da lui; la loro teleiòsis è la
loro partecipazione alla propria consacrazione. Ed è per questo — pare — che la lettera ci pre-
senta i cristiani come dei proserchomenoi, dei «processionanti» che «avanzano verso Dio», più
precisamente verso il santuario celeste che ha aperto loro il Cristo, l'unico Sommo sacerdote.
Sugli otto usi neotestamentari di proserchomenoi in questo senso di «avvicinarsi a Dio», sette
si trovano nella lettera agli Ebrei; e l'ottavo ne conferma il significato cultuale perché si trova
in 1 Pt 2,4 («Avvicinatevi a lui, la pietra viva...») in cui la teologia del popolo sacerdotale è
esplicita. Secondo J. Colson, il verbo proserchomai è «un termine tecnico dell'Antico Testa-
mento per indicare il cammino del sacerdote che entra nel Tempio per il suo ministero e avanza
verso l'altare per offrire il suo sacrificio».37 La vita della comunità cristiana viene quindi pre-
sentata come una lunga liturgia sacerdotale.
Non c'è quindi da meravigliarsi che la lettera, nel suo ultimo capitolo, sfoci sull'esercizio
di questo sacerdozio dei cristiani. Esso si traduce in due modi: da una parte con il sacrificio

3S
E. KASEMANN, Essais exégétiques, op. cit., cap. 2: «Il culto nella vita quotidiana», pp. 17-24. Tutta-
via, «'abad» o «'abodah» è tradotto nel Pentateuco della L X X con «latreuein-latreia» se sì tratta di un servi-
zio religioso non sacerdotale; con «leitourgein-leitourgia» se questo servizio è riservato ai ministri consacra-
ti per questo ufficio. Ma il fatto che Paolo usi altrove questi ultimi termini per il «sacrificio» della vita quoti-
diana dei cristiani non lascia dubbi sullo sfondo sacerdotale di Rm 12,1.
" A. V A N H O Y E , op. cit., p. 196.
" J. COLSON, Ministre de Jésus-Christ ou le Sacerdoce de l'Évangile, Beauchesne, 1967, p. 133.

177
delle labbra, quello della confessione di fede, in azione di grazie, di Dio salvatore in Gesù (cf
supra); dall'altra con quello della «beneficienza e dell'aiuto reciproco comunitario (koinónia)
perché questi sono i sacrifici che piacciono a Dio» (Eb 13,15-16). Ritroviamo qui la stessa vena
liturgico-sacrificale a proposito dell'esercizio concreto della carità fraterna mediante la condivi-
sione che avevamo trovato prima nella colletta di Paolo.
Questa corrente di spiritualizzazione del sacerdozio e del sacrificio nel senso della confes-
sione di fede e della pratica della carità si sviluppa ulteriormente, in Paolo, in una prospettiva
missionaria. «Ministro (leitourgos) di Gesù Cristo tra i pagani, esercitando l'ufficio sacro del
Vangelo di Dio — hierourgounta: sacrificando come sacerdote il Vangelo di Dio — perché i
pagani divengano una oblazione (prosphora) gradita, santificata dallo Spirito Santo»: così Paolo
esprime la grazia che Dio gli ha donato (Rm 15,16). Il suo «sacerdozio» è la sua attività missio-
naria; il coltello del sacrificio con il quale i pagani diventano un'offerta spirituale è il Vangelo!
Lo stesso tipo di metafora, sullo sfondo cultuale, lo troviamo in FU 2,17, a proposito del suo
eventuale martirio: «Anche se il mio sangue deve essere versato in libagione per il sacrificio
(thusia) e per l'offerta (leìtourgia) della vostra vita, sono contento». La fede dei Filippesi è il
sacrificio liturgico sul quale Paolo è pronto a versare il sangue, come si versavano libagioni
di vino, di acqua o di olio sui sacrifici ebraici {Es 29,40; Nm 28,7) o pagani (cf anche la stessa
espressione in 2 Tm 4,6). La metafora del sacrificio di soave odore torna in Paolo, in questa
prospettiva missionaria, in 2 Cor 2,4-16: Dio gradisce come un'offerta di soave odore Fazione
apostolica di Paolo destinata a far conoscere il Cristo in ogni luogo e in ogni tempo.
L'annuncio del Vangelo come latreia spirituale (Rm 1,9) o come attività sacerdotale viene
sviluppato in 1 Pt 2,4-10: più precisamente si tratta di proclamare le mirabilia Dei (v. 9). Il
tema del popolo sacerdotale, presente in Es 19,6; Is 61,6; 2 Mac 2,17 è sfruttato abbastanza
poco nel Nuovo Testamento. Lo si trova in Filone, che distingue due gradi: «Il sommo sacerdo-
te che sacrifica per la nazione intera esercita il sacerdozio universale che la nazione compie nel-
l'umanità» (Spec. Leg. II, 164).38 Questa è esattamente la prospettiva di Es 19,5-6 e di Is 61,6:
«Contrariamente alle nazioni pagane che, nonostante la loro appartenenza di diritto a Iahvè, vi-
vono lontane dalla sua presenza protettrice, il popolo di Israele fruisce della situazione privile-
giata dei sacerdoti, gli unici che possono penetrare nel luogo santo».39 Dio insomma dice ad
Israele: «Voi sarete rispetto alle nazioni quello che i sacerdoti sono rispetto a voi». In questa
prospettiva di elezione, diversa da quella, cristologico-sacerdotale, di Ebrei, si colloca 1 Pt;
e questo è il motivo per cui tutti i termini sono collettivi (genos, ethnos, laos, oikos, e perfino
il neologismo creato dalla LXX per tradurre il senso corporativo del sacerdozio: hierateuma).
Così «l'accento di tutto questo passo è posto non sulla dignità particolare di ogni battezzato,
ma sulla missione comunitaria della Chiesa, come viene sottolineato dal parallelismo tra i ver-
setti 5 e 9».40 Questo sacerdozio che è la Chiesa ha il compito di offrire delle thusias pneumati-
kas, soprattutto quella della confessione di fede (v. 9) e, come dimostrano le esortazioni rivolte
alle diverse categorie di cristiani nel prosieguo della lettera, quella della loro condotta etica che,
anche «senza parole» (3,1) deve portare testimonianza alla Parola. In modo più preciso, un simi-
le «sacerdozio universale» del popolo di Dio «non ha un rapporto originario con il problema
dei ministeri nella Chiesa» ma con «il ministero della Chiesa nel mondo»; essa è incaricata di
esercitare «una funzione sostitutiva, mediatrice, vicaria», e il suo sacrificio spirituale è di «esse-
re presso il mondo presenza di Dio, e davanti a Dio presenza del mondo».4'
L'espressione oikos pneumatikos usata in 1 Pt 2,5 ci rimanda a un tema spesso sfruttato da
Paolo. La Chiesa è infatti il nuovo naos di Dio (45 usi di naos nel Nuovo Testamento, contro
i 69 di hieron, che è sempre riservato al Tempio di Gerusalemme). Tempio dello Spirito, i cri-
38
J. LAPORTE, op. cit., p. 130.
" E. COTHENET, «La première épitre de Pierre», in Le Ministère et les ministères... op. cit., p. 141.
40
ID., ibid., p. 143.
41
J.J. VON ALLMEN, op. cit., p. 93.

178
stiani lo sono individualmente nel loro corpo (1 Cor 6,19) ma soprattutto — secondo una pro-
spettiva che ritroviamo anche in certi scritti ebraici contemporanei (a Qumran, per esempio)
— lo sono collettivamente (1 Cor 3,16; 2 Cor 6,16; cf Ez 37,27 e Lv 26,12; £/2,21-22). Il
Santo dei Santi è vuoto, dicevamo prima: il «corpo di Cristo» formato dai cristiani (1 Cor 12,27)
è il nuovo tempio, fatto di «pietre vive», in cui Dio ha scelto di porre la sua dimora, mediante
lo Spirito, in mezzo agli uomini.

b) Il II secolo
Durante tutto il II secolo verrà fedelmente mantenuta la rotta neotestamentaria su questo punto.
È vero che Clemente di Roma, in un discorso articolato (Cor 40-44), la Didachè (13,3) e Ireneo
(Adv. Haer. IV, 8,3), in modo incidentale, ricordano il sacerdozio del Tempio a proposito dei
ministri della Chiesa; ma si tratta, nei tre casi, di una comparazione funzionale e non di una
qualifica di questi come sacerdoti. Come dice M. Jourjon, Clemente «ritiene che questi capi
(i ministri della Chiesa) stiano alla Chiesa come i sacerdoti e i leviti stavano al popolo di Dio»
perché Dio ha voluto che ci fosse un ordine (taxis) nella Chiesa come c'era nell'antica allean-
za. 42 D'altronde l'insieme della sua lettera non permette di andare oltre questa interpretazione
di semplice comparazione: intessuta di citazioni antisacrificali della Scrittura (soprattutto Sol
49 e 50), essa mira a ricondurre i «dissidenti» di Corinto all'obbedienza ai loro vescovi e presbi-
teri, obbedienza che, come umile confessione del loro peccato, costituisce precisamente il sacri-
ficio «eucaristico» che Dio gradisce (Cor 18 e 52). Sicché, come scrive M. Jourjon, «il vero
sacrificio non è un sacrificio»; e il termine stesso di sacrificio è, per Clemente, «la metafora
di ciò che nella Chiesa avviene nella fede, nell'obbedienza e nell'umiltà».43
E il capitolo 14 della Didachè testimonia questo stesso «addio ai sacrifici». Ciò che la Chie-
sa compie nel Giorno del Signore riunendosi per l'eucaristia e la frazione del pane è «sacrificio»
(«il vostro sacrificio», dice due volte il testo) in quanto è il compimento del «sacrificio puro»
annunciato da MI 1,11. Anche qui l'assemblea realizza la profezia di Malachia attraverso l'u-
miltà del cuore, espressa in Did. 14,1-2, la confessione dei peccati e la riconciliazione fraterna
(cf Mt 5,24): «Tutto sembra indicare che, mediante la confessione dei peccati e il perdono al
fratello, l'assemblea domenicale in vista dell'azione di grazie con la frazione del pane è costitui-
ta in sacrificio».44
La rotta anti-sacrificale del Nuovo Testamento viene quindi saldamente mantenuta. Così sa-
rà lungo tutto il II secolo, con una più forte accentuazione polemica negli Apologisti.45 Questo
risulta, da una parte, dal fatto che mai i ministri della Chiesa vengono designati come hiereis
o sacerdoti, e che l'eucaristia non viene indicata come thusia nel senso assoluto più tardivo di
«sacrificio di Cristo»; dall'altra, risulta dall'uso generale del tema «Dio non ha bisogno di sacri-
fici». Questo tema, che ritroviamo nella lettera di Barnaba (cap. 2), in Giustino (Dial. 41,70
e 117), in Ireneo (Adv. Haer. IV, 17-18), nella lettera a Diogneto (3,4), in Clemente di Alessan-
dria (Paed. IH, 89-91), ecc., è illustrato da un florilegio di citazioni bibliche anti-sacrificali
che, secondo P. Prigent, era di origine come minimo giudeo-cristiana, se non semplicemente
giudaica.46

42
M. JOURJON, «Remarques sur le vocabulaire sacerdotal de la 1a Clementis», in Epektasis, Mélanges
J. Daniélou, Beauchesne, 1972, p. 109. Cf anche A. JAUBERT, Clément de Rome: Lettre aux Corìnthiens,
SC, n. 167, pp. 80-83.
43
M. JOURJON, Les Sacrements de la liberté chrétienne selon l'Église ancienne, Cerf, 1981, p. 147
e pp. 11-14; A . JAUBERT, op. cit., p. 173, nota.
44
M. JOURJON, Les Sacrements..., p. 15; cf pp. 74-75.
45
È significativo, a questo proposito, il modo in cui è citato MI 1,10-11: Giustino (Dial. 41,2) ne ac-
centua l'aspetto negativo, mentre Did. 14,3 ne mette in rilievo solo gli aspetti positivi; Ireneo, da parte
sua, (Adv. Haer. IV, 17,5) combina le due dimensioni.
46
P. PRIGENT, L'Épitre de Barnabé, Cerf, SC, n. 172, 1971, note delle pp. 82-91.

179
È solo all'inizio del III secolo, in modo ancora timido con Tertulliano,'" e poi più chiara-
mente con Cipriano48 — che conosce anche, come molto più tardi Agostino, questo florilegio
antisacrificale45 — per imporsi poi massicciamente nel IV secolo, che i termini di «sacrificio»
e di «sacerdozio» qualificheranno in modo preciso l'eucaristia e i ministri che la presiedono.

c) Portata teologica

— Sovversione
Assistiamo, quindi, nel Nuovo Testamento, a un vero e proprio «dirottamento» del
vocabolario cultuale. Certo, questo dirottamento era già praticato in alcune correnti
del giudaismo contemporaneo (cf Qumran, Filone, i Battisti...) e aveva le sue origini
negli oracoli profetici (in particolare). È inoltre storicamente verosimile che, privile-
giando la spiritualizzazione del culto, le prime comunità volessero, come le correnti
analoghe in seno o al margine del giudaismo, prendere le distanze rispetto a quanto
di più ufficiale in esso c'era. È anche probabile che dovessero evitare i rischi di confu-
sione con i culti misterici dei pagani: la tendenza degli scrittori cristiani a «escludere
le parole che fossero in un modo o nell'altro in relazione con i culti pagani contempo-
ranei» è stata dimostrata da C. Mohrmann per i secoli II-III;50 tuttavia l'urgenza era
indubbiamente minore, su questo punto, agli inizi. Ma non ci si può fermare qui. Per
quanto probabile e comprensibile sia stato storicamente, questo smarcamento deve es-
sere anche oggetto di una lettura specificamente teologica.
Il fenomeno dell'«addio ai sacrifici», infatti, è troppo massiccio nel Nuovo Testa-
mento e anche in seguito perché si possa evitare di interpretarlo in un modo che non
sia al livello stesso della lacerazione escatologica in gioco, secondo le testimonianze
della Chiesa apostolica, nell'evento di Pasqua-Pentecoste, con tutte le conseguenze nei
confronti della Legge (Paolo) e del Tempio (Ebrei). In altri termini, l'ermeneutica teo-
logica di quello che abbiamo chiamato un dirottamento del vocabolario cultuale deve
essere omogenea all'ermeneutica cristologica e pneumatologica attestata nell'insieme
del Nuovo Testamento. La conclusione che si impone, secondo noi, è quella di una
vera e propria sovversione anti-sacrificale e anti-sacerdotale. Avremo occasione di
precisare in che senso essa non chiuda la porta a una possibile ripresa del vocabolario
sacrale nel cristianesimo. Ma anche questo non deve minimizzarne la portata: lo statu-
to del «sacerdozio» e del «sacrificio» è nuovo, della novità stessa di Gesù Cristo e del
compimento della promessa attraverso il dono dello Spirito. H sacerdozio nuovo, quindi,
è quello del popolo di Dio. Il tempio della nuova alleanza è formato dall'insieme dei
cristiani, pietre viventi disposte insieme dallo Spirito Santo sulla pietra angolare costi-
tuita da Cristo stesso. E l'opera sacra, il culto, il sacrificio che è gradito a Dio sono
la confessione di fede vissuta nelVagdpè della condivisione al servizio dei più poveri,
della riconciliazione e della misericordia.

" Tertulliano applica «sacrificium» all'eucaristia in un senso assoluto in De Or. 19,1 e 4, e «sacrifica-
re» in Ad. Scap. 2; il prete è «sacerdos» in De exhort. cast., 11,2.
" CIPRIANO. Vedere soprattutto la sua celebre Ep. 63 a Caecilius, passim.
49
CIPRIANO, «Ad Quirinium» 1,16 (CSEL 3,1, p. 49-50); AGOSTINO, Città di Dio X, 6.
50
C. MOHRMANN, «Sacramentum dans les plus anciens textes chrétiens», in Études sur le latin des chré-
tiens, t. 1, Roma, 1958, pp. 233-244; t. 3, Roma, 1965, pp. 181-182.

180
— Memoria rituale e memoria esistenziale
Così, la memoria rituale della morte e della risurrezione di Gesù è cristiana solo
se si veri-fica in una memoria esistenziale il cui luogo è il corpo stesso del credente.
Paolo stesso ne dà testimonianza, in una prospettiva più che altro battesimale (2 Cor
4,10); il quarto Vangelo, in una prospettiva soprattutto eucaristica. Sappiamo infatti
che questo Vangelo introduce il racconto della lavanda dei piedi là dove ci si aspette-
rebbe quello della Cena: «Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, faccia-
te anche voi» (Gv 13,15). «Si impone l'accostamento all'anamnesi», commenta X. Léon-
Dufour: «Fate questo in memoria di me». Infatti questo kathós giovanneo «ha valore
più di generazione che di esemplarità (...), come se Gesù dicesse: "Agendo così, vi
dò la facoltà di agire anche voi nello stesso modo"». Questo kathós, potremmo dire,
ha valore di sacramentum, cioè di dono da parte di Cristo, e non semplicemente di
exemplum. Per questo, «secondo Giovanni, la comunità è fondata e si mantiene sia
attraverso il servizio reciproco sia attraverso il culto eucaristico: "l'aver parte con"
(Gv 13,8) corrisponde alla "comunione" (1 Cor 10,16)». In definitiva è «Gesù stesso
che, nei suoi discepoli, compie il servizio che deve caratterizzarli».51 Lavarsi i piedi
gli uni gli altri significa vivere esistenzialmente la memoria di Cristo che l'eucaristia
fa vivere ritualmente.
È proprio questo rimando della memoria rituale alla memoria esistenziale che co-
stituisce i sacramenti, primo fra tutti l'eucaristia; una «memoria pericolosa», secondo
l'espressione di J.B. Metz. Pericolosa per la Chiesa e per ognuno, non semplicemente
perché la sequela Chrìsti trascina ogni credente sul cammino crocifisso della libera-
zione (sia economica che spirituale, sia collettiva che personale), ma anche perché questa
«sequela di Cristo» è «sacramentalmente» luogo del Cristo stesso che continua a com-
piere, attraverso coloro che a lui si rifanno, la liberazione per la quale ha dato la vita.
La narrazione rituale, a ogni eucaristia, del motivo per cui Cristo ha offerto la sua
vita rimanda i cristiani alla loro responsabilità di assunzione della storia nel suo nome:
in questo modo essi diventano la sua memoria vivente nel mondo, impegnato anch'es-
so «sacramentalmente» nel corpo di umanità che essi contribuiscono a suscitare in lui.

III. LA LETTERA, IL RITO E IL CORPO

1. Capovolgimento del sacro


Alla categoria ebraica di «sacralizzazione» mediante elezione al di fuori del profa-
no, si è dunque sostituita quella di «santificazione» del profano, al punto che, nella
scia del Nuovo Testamento, il luogo primario della liturgia o del sacrificio dei cristiani
è l'etica del quotidiano santificata dalla fede e dalla carità teologali. Nella stessa pro-
spettiva, alla categoria di «intermediario» tra Dio e gli uomini (l'intermediario della
Legge e del Sacerdozio sacrificale) si è sostituita quella di «mediazione», cioè di luogo

51
X. LÉON-DUFOUR, Le Partage dupain eucharìstique..., op. cit., pp. 287-288. L'autore rimanda a
O. DE DINECHIN, «"Kathós". La similitude dans l'évangile selon saint Jean», RSR 58, 1970, pp. 195-236;
p. 333, n. 8.

181
in cui si effettua la nuova comunicazione di Dio agli uomini resa possibile da Cristo
e dallo Spirito; e questo luogo è la corporeità stessa.
La sovversione anti-sacrale che è qui in gioco non va confusa con la «desacralizza-
zione» che recentemente è stata a volte esaltata, e che non era altro che la conseguenza
(cristallizzata dal Maggio '68) di una ideologia che opponeva «fede» e «religione», due
concetti del resto interessanti, ma che perdono il loro valore se, dal livello di discerni-
mento critico che essi operano nell'atto di credere, si pretende di applicarli a diverse
categorie di credenti. Se c'è qualcosa di radicale nella critica che la cristologia e la
pneumatologia del Nuovo Testamento operano a proposito del culto, bene, questo qual-
cosa non verte minimamente sulla sacralità come tale, ma sul suo statuto. In altri ter-
mini, il «sacro» non è affatto negato, ma capovolto. La fede in Cristo infatti non fa
numero con il sacro, non più di quanto un «operatore» in matematica fa numero con
le cifre che addiziona e moltiplica. Come operatore, essa indica quale tipo di relazione
è instaurata nel cristianesimo tra le manifestazioni religiose e sacre e l'etica del quoti-
diano: relazione critica, poiché essa prende a rovescio, per assumerla cristianamente,
questa sacralità, al di fuori della quale, tuttavia, non potrebbe nemmeno esistere. Essa
investe dunque il sacro di un esponente critico che lo rimanda a un'etica sacramentale.
Il sistema simbolico dell'identità cristiana non trae dunque in nessun modo la sua
originalità dal fatto che renderebbe i cristiani «migliori» degli ebrei, dei musulmani
o di altri. La sua differenza è teologale — Pasqua e Pentecoste, o l'escatologia — e
non morale. Questa differenza, l'abbiamo sottolineato, è nella continuità del profeti-
smo biblico e delle correnti giudaiche contemporanee a Gesù che abbiamo menziona-
to. Tuttavia, a causa dell'escatologia inaugurata — secondo l'ermeneutica neo-
testamentaria — nella Risurrezione di Gesù e nel dono dello Spirito, si dà soluzione
di continuità perfino rispetto a queste correnti più critiche nei confronti del giudaismo
nazionalista e istituzionale. Come si può facilmente capire da un punto di vista storico,
la portata della lacerazione è stata compresa in modo relativamente lento, soprattutto
negli ambienti giudeo-cristiani. Di qui il «conflitto delle ermeneutiche», anche all'in-
terno delle prime comunità. Questo conflitto, più o meno occultato nelle redazioni fi-
nali delle nostre testimonianze neotestamentarie, è anch'esso canonico. Esso esprime
canonicamente l'impossibilità della pretesa di cogliere adeguatamente il mistero Gesù
Cristo.

2. Il passaggio dal Libro al corpo


La corporeità, come abbiamo notato, è il luogo primordiale della liturgia cristiana.
Lo è in quanto investita dallo Spirito diffuso su ogni carne dal Risorto. Abbiamo chiu-
so il nostro capitolo precedente osservando che l'elemento «Sacramento» funge da sim-
bolo del transito dalla lettera verso il corpo. Questo transito è inscritto nelle Scritture.
Il fatto che la comunità si sia scritta nel Libro che essa legge è il segno che quest'ulti-
mo, nella sua essenza stessa, vuole raggiungere tutto il «volume» del corpo sociale
del popolo. Questo è d'altronde l'acme delle profezie di Ger 31 ed Ez 36 nella prospet-
tiva della nuova alleanza: il Libro, mediante l'azione dello Spirito stesso di Dio, farà
corpo con il popolo. Secondo l'ermeneutica cristiana, Gesù «morto secondo le Scrittu-
re» (cfsuprà) per molti, «crocifisso sul libro» (P. Beauchamp), è stato il soggetto ulti-
mo che, con il crisma dello Spirito (Mt 3,16 e par.) si è pienamente incorporato il

182
Libro. Battezzati nella sua morte per vivere dello «Spirito di colui che l'ha risuscitato»
(Rm 8,11), i suoi discepoli hanno il compito di imparare a poco a poco ad incorporarsi
questo Libro riscritto come Vangelo.
Là dove le religioni pagane hanno privilegiato, anche se non in modo esclusivo,
i segni cosmici del vedere nelle manifestazioni della divinità, l'ebraismo ha privilegia-
to, anch'esso in modo non esclusivo, il segno dell''intendere. Il Dio di Israele, infatti,
non sopporta immagini scolpite. Vederlo significa morire; a stento lo si può vedere
di spalle (Es 33,18-23). Non ci sono immagini, c'è a stento un Nome, ma pronunciar-
lo è proibito. La sua mediazione di rivelazione è la parola; e la fedeltà a lui consiste
essenzialmente nel docile ascolto (hyp-akoè: obbedienza) della sua Legge. Israele cer-
tamente non ignorava i segni cosmici delle teofanie; e tantomeno la pratica etica in
cui la Parola chiedeva di investire il corpo.
Ma Pasqua e Pentecoste conferiscono a quest'ultimo elemento un significato nuo-
vo. La differenza cristiana privilegia il segno del vivere non in ragione di un semplice
affinamento della «ragion pratica» che avrebbe scoperto nel «fare etico» (come quello
della massima kantiana: «Non fare ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te»)
la verità della religione e di ogni religione. Rabbi Hillel dichiarava d'altronde, a pro-
posito di questa massima già ben nota, che «questa è tutta la Torah; il resto non è altro
che la sua spiegazione».52 Anche qui è l'escatologia che chiede ai cristiani di privile-
giare il vivere, se non al livello tematico del loro «feno-testo», almeno a quello, sche-
matico, della genesi propriamente cristiana del loro discorso. Perché la risurrezione
di Gesù e il dono dello Spirito designano la corporeità come luogo escatologico di Dio.
Dio chiede di prendere corpo, corpo di Cristo, mediante lo Spirito.
Questa è, per noi, la portata teologica di un'etica vissuta come il luogo primario
della liturgia che Dio gradisce. Il corpo è allora, mediante lo Spirito, la lettera viva
in cui il Cristo risorto prende escatologicamente corpo e si lascia visibilmente leggere
da tutti gli uomini. Il luogo di rivelazione di Dio è l'esistenza stessa dell'uomo come
luogo di iscrizione della lettera del Libro — la lettera ultima della Croce — mediante
lo Spirito: «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta
da tutti gli uomini. È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi,
scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra,
ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (2 Cor 3,2-3).
Abbiamo mostrato precedentemente che la proclamazione del Libro nell'ecclesia
celebrante è la manifestazione sacramentale della sua stessa essenza. Ora cogliamo in
modo più preciso la posta in gioco di questa affermazione: ciò che è simbolicamente
figurato e (simultaneamente, tenuto conto di cosa sia 1'«espressione» simbolica) effet-
tuato nella liturgia è il rapporto essenziale del Libro con il corpo sociale della Chiesa
in cui esso chiede di inscriversi. L'elemento «Sacramento» è quindi il luogo simbolico
del passaggio, sempre da farsi, dalla Scrittura all'Etica, dalla lettera al corpo. La
liturgia è la grande pedagogia in cui impariamo ad acconsentire a questa presenza
della mancanza di Dio che ci chiede di dargli corpo in questo mondo, compiendo così
il sacramento in «liturgia del prossimo», e la memoria rituale di Gesù Cristo in memo-
ria esistenziale.

52
Talmud Bab., Shabbat 31a, citato da C. PERROT, op. cit., p. 144.

183
3. Una ingenuità «terza»
È ancora più difficile, allora, fare del culto nel cristianesimo di quanto lo sia nel-
l'ebraismo. Se per quest'ultimo il culto può essere vissuto solo in una ingenuità critica
seconda, dal punto di vista cristiano esso può essere vissuto solo in una ingenuità che
possiamo chiamare «terza». Sempre ingenuità, certo, poiché ogni azione simbolica
«prende» l'insieme del soggetto invece di rivolgersi in prima istanza al suo cervello.
Ma ingenuità affetta da un coefficiente critico che, in ragione di Pasqua e Pentecoste,
raddoppia la critica profetica del culto o, piuttosto, secondo l'ermeneutica cristiana,
ne proclama il compimento mediante il dono dello Spirito.
Grazie a questo dono dello Spirito fatto dal Risorto, il passaggio dalla lettera al
corpo è ormai escatologicamente possibile. Questo passaggio dalla Chiesa all'Etica,
simboleggiato dal Sacramento, ci apre al processo di funzionamento della struttura del-
l'identità cristiana. E questo l'oggetto del prossimo capitolo.

184
Capitolo Ottavo

FUNZIONAMENTO DELLA STRUTTURA:


IL PROCESSO DI SCAMBIO SIMBOLICO

Un modello di struttura non è un «prèt-à-porter». Quello che abbiamo proposto in-


dica soltanto che ogni identità cristiana è basata sulla stessa «sagoma» fondamentale
(il «pattern» dei semiotici): non lo si può indossare se si passa la testa nell'apertura
prevista per le braccia... Ma, una volta assicurata questa fedeltà al taglio di base del
modello, ognuno può vestirsi del cristianesimo a modo suo: lo stile delle maniche, la
lunghezza dell'abito, il tessuto e i colori variano all'infinito. Uno diventa cristiano in
seguito a un pellegrinaggio a Lourdes, un altro per la testimonianza di vita di un cri-
stiano; un terzo a contatto con una pagina di vangelo che l'ha sconvolto... Enorme
è quindi la diversità dei percorsi di accesso alla fede. Il processo strutturale che co-
manda questo accesso, tuttavia, funziona secondo le stesse regole del gioco. Esamine-
remo ora questo processo; e lo faremo a partire dal processo di scambio simbolico.
Prima di tutto ricordiamone alcuni elementi. Al di qua o al di là dell'utile o dell'i-
nutile, lo scambio simbolico — l'abbiamo detto nel II capitolo —- è nell'ordine del non-
valore. Di qui il suo interesse fondamentale per pensare il rapporto gratuito e di grazia
che avviene nei sacramenti tra l'uomo e Dio. L'abbiamo illustrato con l'esempio del
regalo, e più fondamentalmente ancora, con quello della parola. Quest'ultima, a dire
il vero, non va trattata soltanto come un esempio tra altri, ma come l'esemplare di
ciò che avviene tra tutti i soggetti e in ogni soggetto. Nel linguaggio lo scambio simbo-
lico, contemporaneo al soggetto, ha il suo luogo originario. E a partire di qui si capi-
sce nel modo migliore perché esso, che è «gratuito», sia «obbligatorio». Ogni dono
ricevuto obbliga. È vero del regalo: dal momento in cui l'oggetto offerto, oggetto ar-
bitrario il cui valore di mercato o di uso non appartiene all'essenza stessa del regalo,
viene ricevuto come regalo, esso obbliga il ricevente al contro-dono di un'espressione
di riconoscenza. Vero e proprio sacramentum di alleanza e di riconoscenza recipro-
che, il regalo è una parola visibile. Ed è appunto dalla parola che esso trae la sua es-
senza di regalo. Infatti ogni parola ricevuta come tale obbliga. Non rispondere, volon-
tariamente, a chi ci rivolge la parola, significa non ricevere questa parola come dono,
significa rompere l'alleanza mandando in corto circuito la comunicazione; se questo
è involontario, significa aver misconosciuto, per una distrazione la cui analisi mostre-
rebbe che forse non è così innocente come si crede, l'alleanza proposta. La risposta
può anche non essere verbale: un cenno del capo, uno sguardo che esprime l'interesse
che si prova per ciò che viene detto, bastano spesso, secondo i casi, al contro-dono.
Inversamente, i modi di negare l'altro come altro e di rompere la comunicazione sono
anch'essi molto varii e forse ancor più sottili. Comunque sia, ogni atto di linguaggio

185
— l'abbiamo sottolineato — ha una dimensione illocutoria che ne fa, esplicitamente
o no, una parola data nella quale in definitiva è sempre il sé che viene donato, il sé
che si consegna e si «es-pone» quindi al rischio di essere misconosciuto. Questo è il
piano della parola che ci fa vivere come soggetti.
Riprendendo la grafia di A. Delzant, possiamo scrivere così questo processo di scam-
bio simbolico:

Dono e Recezione, che occupano i due poli dell'asse di contraddizione, sono in


opposizione. Chi dona perde in avere, e chi riceve invece ne guadagna. Questo è vero,
sia pure su un piano diverso, tanto a livello dello scambio di parole quanto a livello
dello scambio di beni; su un piano diverso, diciamo noi, perché nello scambio di paro-
le è perdendosi che si guadagna. Ora, anche in questo caso, o meglio in modo esem-
plare in questo caso, gli interlocutori occupano le due postazioni dell'asse delle con-
traddittorie: niente è più diverso (ma anche più simile) — l'abbiamo visto — di un
IO rispetto a un TU, poiché il TU è il reversibile dell'IO. Recezione e contro-dono
sono, da parte loro, sull'asse di implicazione. Sappiamo perché: ogni Recezione di
Dono come dono obbliga necessariamente al Contro-dono. Di questo processo di scam-
bio simbolico esamineremo il funzionamento cristiano a partire dalla preghiera eucari-
stica. Verificheremo in seguito l'esattezza di questa analisi confrontandola con un te-
ma teologico preciso, anch'esso eucaristico: quello del «sacrificio».

I. LA PREGHIERA EUCARISTICA N. 2
Il nostro intento qui non è quello di riflettere a partire dai vari pezzi o ingranaggi
direttamente osservabili che costituiscono la preghiera eucaristica — dialogo, azione
di grazie, Sanctus, prima epiclesi, ecc. — ma di individuare il principio che li articola
eucaristicamente tra di loro o che assicura l'«eucaristicità» dell'insieme. Per far que-
sto, proponiamo un'analisi narrativa del testo.1

1. Analisi narrativa
Ogni testo, anche se non narrativo dal punto di vista del suo genere letterario, si
avvale di una narratività. Il testo si ferma, in linea di principio, quando il programma
narrativo che l'ha provocato è concluso (o ritenuto tale). È facile ritrovare il program-
ma narrativo che dà l'avvio al testo della preghiera eucaristica: come il sacerdote an-
nuncia imperativamente nel dialogo iniziale («Rendiamo grazie al Signore nostro Dio»)

1
Modellate sullo stesso schema della n. 2, le altre preghiere eucaristiche del Vaticano II darebbero
globalmente lo stesso risultato.

186
e come ripete nel modo di un «è» impersonale che funge da ottativo («È veramente
cosa buona e giusta renderti grazie»), si tratta per «noi» (soggetto operatore) di attri-
buire Voggetto «grazia» (o «gloria»)2 al soggetto recettore che è «Dio», in questo caso
Dio Padre. Ci si rende facilmente conto che è proprio questo programma che viene
dichiarato compiuto nella dossologia finale, dove «per Cristo, con Cristo e in Cristo»
il «noi» ecclesiale rende a «Dio Padre onnipotente» e «nell'unità dello Spirito Santo»
«ogni onore e gloria nei secoli dei secoli». Si può scrivere questo programma narrativo
(PN) principale secondo uno schema che sarà costantemente seguito qui:

Dal punto di vista narrativo, se il compimento di questo programma d'azione di


grazie andasse da sé, non ci sarebbe testo, molto semplicemente. Il fatto che ci sia
del testo significa che noi non siamo di colpo competenti per realizzare questa perfor-
mance. Non ci viene naturale, insomma, rendere cristianamente grazie a Dio. Fare
eucaristia richiede alla Chiesa che essa acquisisca competenza. Ed è proprio questo
conseguimento di competenza che il testo permette al soggetto ecclesiale. Questo testo
fa così percorrere all'assemblea un itinerario che, attraverso un certo numero di «tra-
sformazioni», mira a convertirla: la preghiera eucaristica non cambia Dio ma cambia
noi; precisamente, tutte le trasformazioni sono espresse come l'opera differenziata del
Dio-Trinità.
Tra il dialogo iniziale in cui viene annunciato il programma principale e la dossolo-
gia finale che lo compie, la narratività è alimentata da tre programmi narrativi (PN
1; PN 2; PN 3). Il primo è comandato da verbi di azione di grazie o di glorificazione:
include l'azione di grazie iniziale e il Sanctus.3 II secondo programma è comandato
da un verbo di domanda rivolto al Padre («Tu che sei veramente santo..., Signore,
noi ti preghiamo») e include tutta la sequenza che dipende da questa prima domanda,
cioè l'epiclesi sui doni, il racconto dell'istituzione e l'anamnesi. Anche il terzo pro-
gramma è comandato da un altro verbo di domanda («Ti chiediamo umilmente») e in-
globa l'epiclesi di comunione sull'assemblea e le varie domande che a questa epiclesi
sono associate: memento dei vivi e dei defunti e supplica escatologica finale."
Nel PN 1, il «noi» ecclesiale rende grazie a Dio per ciò che egli ha fatto mediante
la sua «Parola vivente», il suo «Figlio prediletto Gesù Cristo». La creazione è soltanto
menzionata. E ciò che si chiama abitualmente «storia di salvezza» è interamente foca-

2
Nella nostra lingua attuale, «rendere grazie» e «rendere gloria» sono praticamente equivalenti (ma alle
origini non era così).
' Nella preghiera eucaristica n. 4, questo PN 1 include, inoltre, tutta la storia di salvezza che segue
il Sanctus. Era quanto succedeva, d'altronde, nelle antiche anafore antiochene, come quella detta di Gerusa-
lemme (cf A. TARBY, La Prière eucarìstique de l'Eglise de Jérusalem, Beauchesne, 1972) che è servita
da modello alla nostra preghiera eucaristica n. 4.
4
Stesse osservazioni a proposito dei PN 2 e 3 in merito alle nostre preghiere eucaristiche n. 3 e 4.

187
lizzata su Gesù nella sua incarnazione, morte e risurrezione. Sia che essa venga stret-
tamente limitata all'evento Gesù Cristo, o addirittura — come in certi prefazi propri
a una determinata domenica o festa — a un aspetto relativamente ristretto del suo mi-
stero, sia che al contrario essa venga notevolmente dilatata alle diverse «tappe» della
storia di salvezza — come nelle antiche anafore antiochene o nella nostra preghiera
eucaristica n. 4 — questa sequenza racconta sempre a passato biblico riletto cristolo-
gicamente. Vi si rende grazie a Dio di averci salvato in Gesù Cristo. L'oggetto messo
in circolazione in questo PN 1 e a noi donato da Dio è dunque Gesù Cristo come corpo
storico (nato dalla Vergine Maria e crocifisso) e ormai glorioso. Di qui:

Nel PN 2 il «noi» ecclesiale supplica il Padre di inviare il suo Spirito di santifica-


zione per fare del pane/vino il corpo e il sangue di Cristo. Ma il compimento di questo
programma presuppone che Gesù stesso si sia consegnato come corpo e sangue sacra-
mentale alla Cena: è quanto mostra il racconto dell'istituzione. L'anamnesi, con il suo
verbo principale «ti offriamo» («e ti rendiamo grazie» = «noi ti offriamo rendendoti
grazie» secondo l'anafora della Tradizione Apostolica di Ippolito, di cui la nostra pre-
ghiera eucaristica è un semplice plagio, con l'aggiunta di una prima epiclesi e dei me-
mento), non fa che esprimere la recezione effettiva di Gesù Cristo come corpo e san-
gue sacramentali. Abbiamo dunque, in questo PN 2, tre sotto-programmi narrativi,
che possiamo raffigurare così:

Questi tre sotto-programmi, prima che venga lanciato il nuovo programma di do-
manda che viene in seguito, segnano la realizzazione del primo tra di essi. Questo chiede
l'ottenimento, mediante lo Spirito, di Gesù Cristo nella modalità di corpo e sangue
sacramentali; l'anamnesi la dichiara realizzata, ma — punto importante, sul quale tor-
neremo — in un atto di oblazione, cioè di spossessione.
L'insieme del nostro PN 2 si può dunque scrivere così:

Anche il PN 3 è supplicativo, ma in una prospettiva escatologica fortemente mar-


cata nella finale. La supplica è di natura essenzialmente ecclesiale: facendosi oggetto
della sua domanda, la Chiesa supplica il Padre di inviare su di lei lo Spirito per diven-
tare ciò che ha ricevuto nel PN 2, recezione che si compirà ritualmente nella comunio-
ne. Che cosa ha ricevuto? Il corpo sacramentale di Cristo. Che oggetto chiede ora?
Di diventare il corpo ecclesiale di questo stesso Cristo. Il PN 3, nel suo primo sotto-
programma (l'epiclesi di comunione), si può scrivere così:

188
Questo stesso PN 3 si conclude con una supplica escatologica. L'oggetto richiesto
qui è infatti «la vita eterna» in compagnia di tutti coloro che «hanno vissuto nella tua
amicizia», i santi «di tutti i tempi». Ciò che viene chiesto è quindi la partecipazione
dell''ecclesia qui riunita al Regno pienamente compiuto. Questo sotto-programma è di
conseguenza lo sviluppo del primo in prospettiva escatologica: si tratta di diventare
fin da ora il corpo ecclesiale di Cristo (PN 3 a) ma nella speranza di ciò che ancora
non è compiuto, il Regno. Di qui:

Tra questi due sottoprogrammi le intercessioni per i vivi e per i defunti non aggiun-
gono nulla di fondamentale. Non fanno che sviluppare in modo concreto la prospettiva
ecclesiale ed escatologica del «già/non ancora» che caratterizza il PN 3: l'intercessio-
ne per i vivi è centrata sull'ora della Chiesa del PN 3a, quella per i defunti è orientata
verso il «non ancora» del Regno del PN 3b.
La dossologia finale segna la realizzazione anticipata dalla Chiesa presente del PN
principale annunciato, realizzazione che tuttavia sarà compiutamente realizzata «per
i secoli dei secoli» solo nel Regno. Possiamo notare che il compimento di questa «per-
formance» da parte del «noi» richiede una competenza di cui Dio stesso è il soggetto
operatore in ognuno dei tre programmi. È Dio, ci dice il testo, che ci rende capaci
di celebrare la sua gloria. Ma lo fa solo se noi siamo attivi, con il nostro discorso di
preghiera, esprimendogli la nostra riconoscenza e le nostre domande. E la domanda
cristiana fondamentale, quella da cui tutte le altre derivano, non è, qui come in Le
11,13, quella dello Spirito?

2. Il processo simbolico di «eucaristicità»


Il processo di scambio simbolico che comanda l'eucaristicità del nostro testo ri-
chiede, per poter apparire chiaramente, tre osservazioni preliminari.

a) Tre chiavi di lettura


— Lo statuto del racconto dell'istituzione
Si tratta anche qui di un racconto, in «egli»: questo «egli» che è la deixis della non-
persona, dell'assenza. La narrazione avviene ripassato. Ora, questo racconto alla ter-
za persona e al passato è incastonato in un discorso di preghiera in «noi/tu» al presen-
te. Dal punto di vista letterario questo brusco cambiamento di registro crea l'effetto
di uno iato non giustificato da nulla. Nulla, se non qualcosa che appunto non è scritto
nel testo, e che tuttavia è costitutivo del testo perché ne è il vero «pre-testo»: l'azione
rituale. Solo questa infatti permette di comprendere ciò che si presenta di primo acchi-
to come letterariamente incoerente.

189
Particolarmente significativo a questo riguardo è il brusco passaggio dal «farete
questo in memoria di me» che chiude il racconto e si rivolge ai discepoli radunati in-
torno a Gesù nella Cena di duemila anni fa, al «.facciamo memoria» che apre il discor-
so di anamnesi. Solo l'azione rituale permette di capire questa sostituzione. Sembra
di riascoltare il rito del memoriale giudaico di cui abbiamo già parlato: «Noi abbiamo
gridato verso Iahvè, il Dio dei nostri padri...» (Dt 26); «Non con loro (i nostri padri),
ma con noi, viventi oggi, Egli fa alleanza» (et Dt 5,2-3). «Per questo il Signore ha
agito in mio favore alla mia uscita dall'Egitto» (Es 13,8). Di fatto è proprio questa
azione rituale di viva com-memorazione che permette alla Chiesa presente di ricono-
scersi come interpellata dal «voi» del passato.
D'altronde questo «voi», come ciò che precede («prendete, mangiate»), è una cita-
zione di Gesù. Ora, ogni citazione gioca sui due livelli e sulle due polarità di ogni
atto di linguaggio che abbiamo messo in luce: si cita un passo non solo per il suo valo-
re informativo intrinseco ma in ragione del suo autore. In certi casi — come qui —
questo secondo aspetto, simbolico, primeggia sul primo e gli conferisce la sua vera
portata: come si cita un testimone a comparire in giudizio,5 si cita qualcuno in un testo
perché è un «nome» per il corpo sociale, perché è «canonicamente» riconosciuto come
una «autorità». Il processo d'altra parte è ambiguo: in questo modo si può evitare di
compromettersi in prima persona schierandosi dietro questo «monumento». E, visto
che si cita in proprio favore, è facile manipolare la citazione, anche senza falsificarla
materialmente, con la semplice selezione del o dei passi che si mettono in azione nel-
l'opera. Visto che il morto o l'assente non sono lì a rispondere, è facile impadronirsi
di lui convocandolo alla sbarra dei testimoni in favore della tesi che si sostiene.
Ora, la sostituzione del «noi» presente al «voi» di un tempo esprime che la trappola
di una cattura da parte della Chiesa di Gesù attraverso la citazione è sventata: è la Chiesa
che riconosce se stessa citata a comparire da Gesù, che le ordina di ubbidire. Invocan-
do la testimonianza di Gesù, è la Chiesa che è convocata da lui. Lungi dall'imposses-
sarsi di lui, essa si vede da lui presa. Questo gioco di linguaggio dove, come a teatro
(e perfino nel teatro della vita quotidiana) il discorso si rivolge a qualcun altro rispetto
al destinatario linguisticamente indicato come tale, qui è capitale: il passaggio, alla
fine del racconto dell'istituzione, dal «voi» al «noi» è la manifestazione esplicita dello
statuto velato di questo stesso racconto. L'abbiamo detto, infatti: anche a livello del
Nuovo Testamento, si tratta di un racconto liturgico in cui la Chiesa che fa eucaristia
si profila come in filigrana dietro la persona e le azioni di Gesù alla Cena. Questo
racconto della Chiesa su Gesù al passato funziona infatti come discorso del Signore
Gesù alla Chiesa presente. Per questo la Chiesa, con i suoi gesti e con il tono di voce
«liturgico» del sacerdote — tono diverso da quello che conviene alla narrazione di una
«bella storia» — fa ciò che il racconto enuncia; lo eseguisce. Lo eseguisce come rac-
conto per lasciarlo succedere come discorso, riconoscendosi contemporaneamente presa
nella rete dei significanti che dispiega, al punto da sostituire immediatamente il «noi
facciamo memoria» dell'anamnesi al «farete memoria» della citazione. Essa è così gio-

' C f R. BARTHES, S/Z, Seuil, 1976, p. 29 (trad. ital.: S/Z, Einaudi, Torino 1981). L'autore sottolinea
che il verbo «citar» in linguaggio tauromachico designa «il colpo di tallone, l'inarcarsi del torero che chia-
mano la bestia alle banderillas. Nello stesso modo si cita il significato a comparire».

190
cala, nel duplice senso del termine. Questo racconto è il suo recitativo: essa è convo-
cata da colui di cui invoca la testimonianza e, appellandosi a lui, essa compita la sua
propria identità.
Come vedremo più avanti, il linguaggio rituale è di ordine pragmatico. Per questo
la Chiesa qui non tiene un semplice discorso teologico sulla sua identità. Attraverso
il linguaggio originario del simbolo, essa vive la sua identità manifestandola. Cosa
fa d'altro, infatti, in questo racconto dell'istituzione, se non sottomettersi, proclaman-
dola simbolicamente, alla signoria di questo Gesù di Nazaret al quale si riferisce in
un linguaggio che fa atto? Se non, quindi, riconoscere in atto che essa può essere Chiesa
solo ricevendosi da lui, suo Signore, in una radicale dipendenza (che è d'altronde la
condizione della sua libertà)? Simbolo, il racconto dell'istituzione dell'eucaristia è an-
che il racconto dell'istituzione della Chiesa: la introduce «nell'ordine di cui fa lui stes-
so parte», cioè nell'ordine di questa dipendenza eristica che fa la sua identità.

— Il discorso di anamnesi e l'offerta


La preghiera di anamnesi esplicita la posta in gioco del racconto dell'istituzione
che abbiamo messo in luce. La posta in gioco? È il fatto, come abbiamo messo in evi-
denza, che esso effettua la confessione di fede in atto della Chiesa che riconosce la
sua dipendenza di esistenza nei confronti di Gesù, suo Signore. Ora, è proprio questo
che l'anamnesi sviluppa nel suo verbo principale: «noi ti offriamo». Questo punto è
importante: nel momento in cui, secondo la nostra analisi narrativa, la Chiesa sta per
ricevere il pane e il vino come corpo e sangue sacramentali del suo Signore, ecco che
essa li offre...
Un paradosso di questo genere è d'altronde tradizionale. Infatti l'oblazione dell'a-
namnesi, senza essere probabilmente primitiva (cf Did. 9-10; anafora del III secolo
di Addai e Mari), viene chiaramente espressa fin dall'anafora di Ippolito, e poi nelle
più importanti anafore del IV-V secolo. Avviata dalla proposizione participiale «fa-
cendo dunque memoria di...», l'anamnesi prosegue con una frase principale al presen-
te: «noi ti offriamo» (prospheromen, offerimus) (canone romano, Giacomo greco e Gia-
como siriaco, Const. Ap. Vili, Serapione). A meno che, come nelle anafore di Basilio
e di Crisostomo in cui la frase principale è fatta di verbi che esprimono la lode e l'azio-
ne di grazie, l'offerta non diventi oggetto di una seconda proposizione participiale:
in questo caso non perde comunque rilievo, perché viene sviluppata dalla ricca formu-
la ta sa ek tòn sòn prospeherontes (tua ex tuis tibi offerentes).6 Quest'ultima formula
lo mostra bene: attraverso la sua offerta nell'anamnesi, la Chiesa confessa la sua radi-
cale dipendenza nei confronti di Dio come Creatore (il pane e il vino sono le primizie

6
Testi greci e latini di queste anafore in A. HÀNGGI - 1 . PAHL, Prex eucharìstica, Fribourg (Svizzera),
ed. Universitaires, 1968; Giacomo greco, 248-249; Giacomo Siriaco, 271; Basilio, 236-237; Crisostomo,
226-227. K. STEVENSON, «L'offrande eucharistique», in LMD 154, 1983, pp. 81-106. L'autore segnala al-
cune eccezioni. La tradizione alessandrina in particolare usa spesso il verbo di offerta, nell'anamnesi, al
passato: «Noi abbiamo offerto» (anafora di Serapione: Prexeuch., 130-131); «Abbiamo presentato» (anafo-
ra di Marco e anafora di Basilio ales. prim.): indizio di antichità, secondo l'autore (p. 88), che attesta la
forza della tradizione di offerta in questo momento dell'anamnesi. Vedere anche il quadro sinottico di alcu-
ne anamnesi ed epiclesi antiche in L.M. CHAUVET, «Histoire de la liturgie eucharistique», in AGAPE, L'Eu-
charistie, de Jesus aux chrétìens d'aujourd'huì, ed. Droguet-Ardant, 1981, pp. 346-351.

191
della creazione, che rappresentano metonimicamente) e come Salvatore in Cristo (questo
pane e questo vino sono offerti in quanto «sacramenti» del corpo e del sangue di Cristo).
L'anamnesi è quindi il luogo fondamentale dell'offerta della Chiesa. Ora, dispie-
gando, come abbiamo visto, lo statuto del racconto dell'istituzione — racconto di cui
essa è letterariamente un embolismo — essa «esprime» la recezione al presente e in
presente del Cristo come corpo sacramentale da parte della Chiesa. Paradosso, dun-
que: questa recezione avviene nella modalità dell'oblazione. Come in Dt 26,1-11, la
modalità cristiana dell'appropriazione è la disappropriazione; quella del «prendere»
è il «rendere», il «rendere grazie». Dal momento che la grazia è al di fuori dell'ordine
del valore, la Chiesa rendendo a Dio la sua stessa grazia — il Cristo Gesù donato come
sacramento — la riceve. Questo punto è importante: considerato nel solo quadro del-
l'anamnesi, il dono di Dio, ricevuto dalla Chiesa nella memoria verbo-rituale che essa
ne fa, richiede da lei il contro-dono dell'offerta come azione di grazie; considerato
invece nell'insieme della preghiera eucaristica, questo stesso dono implica un contro-
dono diverso da questa oblazione rituale nell'anamnesi. Questo contro-dono sarà espres-
so nel PN 3 come quello di una pratica etica. Nell'insieme del processo di scambio
che la totalità della preghiera eucaristica mette in movimento l'oblazione anamnetica
non occupa dunque il posto del contro-dono, ma quello della recezione. Abbiamo det-
to perché: l'appropriazione di questo non-oggetto che è la «grazia» può avvenire solo
nella modalità della disappropriazione. In altri termini, il processo di scambio simbo-
lico con Dio non può fermarsi all'offerta rituale, come se la pratica rituale potesse
renderci esenti nei suoi confronti. L'offerta cultuale è solo la figura simbolica di un
contro-dono da «veri-ficare» altrove: nella storia.

— Il contro-dono della pratica etica (PN 3)


L'oggetto del PN 3 è precisamente questo contro-dono da «veri-ficare» altrove ri-
spetto al rito. Questo piano sviluppa quanto era già implicito nell'oblazione rituale del
PN 2. Infatti il «noi ti offriamo» dell'anamnesi non è un semplice enunciato constatativo-
informativo, ma un atto di linguaggio auto-implicativo. Perciò rendere a Dio ciò che
egli ci dona significa disappropriarsi non tanto di qualche cosa, quanto piuttosto di
se stessi. In altri termini, l'offerta «oggettiva» di Cristo da parte della Chiesa mette
quest'ultima in un atteggiamento di offerta soggettiva. Questo è in ogni caso, secondo
la celebre formula di Agostino, quanto viene espresso «nel sacramento dell'altare ben
noto ai fedeli, in cui viene manifestato alla Chiesa che in ciò che essa offre, è essa
stessa offerta» (Città di Dio, X, 6). Anche qui abbiamo un simbolo nel senso più forte:
«questo sacrificio è il simbolo di ciò che noi siamo» (S. 227).
Ed è appunto questo che viene dispiegato nel nostro PN 3, in cui l'assemblea chie-
de a Dio, attraverso lo Spirito, di diventare nella sua esistenza storica presente e per
i secoli dei secoli il corpo di colui che essa riceve in sacramento. Ricevendo, nell'of-
ferta, il corpo sacramentale di Cristo (PN 2), essa chiede di diventare il suo corpo
ecclesiale. Questa unione in un solo corpo mediante lo Spirito, agente operatore del-
l'unità della Chiesa secondo la tradizione e nella scia di 1 Cor 12, ha una portata im-
mediatamente etica. Infatti, per diventare storicamente ed escatologicamente il corpo
di colui che essi offrono sacramentalmente, i membri dell'assemblea sono impegnati
a vivere la loro personale oblazione in questa consegna di sé agli altri alla sequela di

192
Cristo che si chiama l'agape fraterna. La teologia scolastica, d'altronde, l'ha sottoli-
neato con forza: se l'effetto primo (res et sacramentum) dell'eucaristia è il corpo e
il sangue di Cristo, il suo effetto ultimo (res tantum), cioè la grazia che essa prevede
per i partecipanti, è la carità teologale vissuta nella carità fraterna. Il vivere-in-grazia
fraterna è quindi il luogo in cui chiede di prendere corpo il rendere-grazie sacramentale.
Questa dimensione etica non è semplicemente una conseguenza estrinseca del pro-
cesso eucaristico: essa gli appartiene a titolo di elemento intrinseco. È per questo d'al-
tronde, secondo il nostro studio del vocabolaria cultuale del Nuovo Testamento, che
essa è il luogo fondamentale della liturgia cristiana: è l'etica che deve diventare pro-
priamente «eucaristica». La grazia è data sempre come compito, e il corpo sacramen-
tale come ingiunzione a dare al Risorto questo corpo di mondo che egli richiede da
noi. Verifichiamo qui, concretamente, quello che abbiamo detto in precedenza: ap-
partiene alla grazia, nella sua gratuità, di integrare la libera risposta dell'uomo.

b) Funzionamento della struttura


Tenuto conto della nostra analisi narrativa e delle chiavi di lettura che abbiamo da-
to, possiamo scrivere il processo di eucaristicità nel seguente modo:

— Il processo eucaristico
Il processo eucaristico può essere letto nel modo seguente. Il posto del dono è spe-
cificato come «Scrittura». Corrisponde infatti a un PN che altro non è che una lettura
cristiana della Bibbia, strettamente focalizzata nella nostra preghiera eucaristica n. 2
su Gesù Cristo, molto più sviluppata secondo i momenti della storia di salvezza rico-
nosciuti come più importanti in altre. Questo è il dono di Dio, P«evento fondatore»
che apre l'eucaristia della Chiesa: il «fare grazia» di Dio che, «dopo avere a più ripre-
se e in molti modi parlato un tempo ai padri per mezzo dei profeti» ci ha finalmente
parlato nel suo Figlio (Eb 1,1-2) Gesù Cristo, «nato da donna e sottoposto alla legge»
(Gal 4,4), morto e risorto. Questo dono, in cui Dio fa grazia, è quindi ultimamente
espresso, nella lettura cristiana, nel corpo storico e ormai glorioso di Cristo. Dono
raccontato come irreversibilmente passato. Non è infatti della nostra storia personale
che rendiamo grazie, ma di una storia radicalmente altra e passata; ma raccontandola

193
nell'anamnesi rituale, manifestiamo il riconoscimento, in questa storia altra, della sto-
ria più nostra.
Il posto della recezione viene specificato come «Sacramento». Il fatto che sia strut-
turalmente situato come contraddittorio rispetto al precedente corrisponde, da una parte,
all'economia generale di ogni scambio simbolico in cui, anche a livello dell'atto lin-
guistico di comunicazione, destinatore e destinatario sono nella più radicale differenza
linguistica (cfsupra) e, dall'altra parte, all'interno di questa economia generale, alla
negazione della semplice «passeità» di ciò che tuttavia viene raccontato nel PN 1 come
irreversibilmente passato. Infatti il testo afferma che lo stesso Gesù Cristo, donato un
tempo da Dio come corpo storico risuscitato dai morti, è oggi ricevuto da noi, al pre-
sente, come corpo sacramentale. Solo che, come la manna, non si riceve la grazia
di Dio come un «oggetto» afferrabile: la riceve chi apre le mani al giorno per giorno.
Per questo Voblazione è costitutiva della recezione. Come Israele riceve la sua terra
solo offrendola attraverso le primizie che la simboleggiano (perché questa terra non
è una semplice cosa, ma è marcata dal segno della parola che ne fa dono), così i cri-
stiani si appropriano del dono di Dio solo disappropriandosene attraverso il rendere
grazie oblativo.
E posto del contro-dono è specificato come «Etica». È l'implicazione obbligata della
recezione. Questa etica è quella del multi unum corpus in Christo (Agostino) simbo-
leggiato dalla recezione dell'unico pane condiviso tra tutti come corpo eucaristico di
Cristo. Consiste dunque essenzialmente nell'agape fraterna. Ma, dal momento che es-
sa è radicata, in forza dello Spirito, nel sacramento, ha una dimensione teologale che
la specifica come propriamente cristiana. Conformemente al kathós giovanneo ricor-
dato nel capitolo precedente, o a Mt 25, è dunque Vagape di Dio stesso in Cristo che
viene impegnata escatologicamente in questa agape fraterna. La recezione sacramen-
tale del «fare grazia» gratuito di Dio nel «rendere grazie» simbolico dell'oblazione ri-
chiede dunque di verificarsi in un vivere-in-grazia fraterno. Il momento «Sacramento»
appare così come l'espressione simbolica che simultaneamente manifesta ciò che fa
della pratica etica la «liturgia» o il «sacrificio eucaristico» che Dio sollecita da noi (ri-
velatore) e che la rende possibile come tale (operatore). Che questa etica della giusti-
zia e della misericordia sia il contro-dono in cui si effettua la verità del «sacramento»
è d'altronde conforme a una lunga e salda tradizione patristica: la Chiesa è infatti, per
i Padri, il corpus verum di Cristo in quanto è la veritas del suo corpus mysticum (cioè,
fino alla metà del XII secolo, del suo corpo «in mistero», il suo corpo sacramentale).
Disgraziatamente questa veritas sarà dimenticata: ci ritorneremo. Questo «diventare
corpo ecclesiale» fin da ora ha d'altronde una dimensione segnata dal «non ancora».
Se dunque il nostro PN 3 mette in risalto il contro-dono etico, al tempo stesso indica
che il Regno a venire non è mai al termine degli sforzi dell'uomo o dell'umanità in
divenire.

— Il processo di identità cristiana


L'insieme di questo processo di eucaristicità esprìme l'insieme del processo di identità
cristiana. Questo, ancora una volta, non significa che l'accesso alla fede avverrà sem-
pre secondo una progressione cronologica che parta dalle Scritture per sfociare all'E-
tica passando attraverso il Sacramento. Significa che un accesso di questo tipo richiede

194
sempre un rapporto strutturale tra questi tre elementi, rapporto che funziona secondo
il processo indicato. 1) Qualunque siano le modalità concrete, l'avvento alla fede si
fonda sempre prioritariamente sull'attestazione che, «conformemente alle Scritture»,
Gesù è il Cristo proposto gratuitamente da Dio per la salvezza di tutti. 2) La recezione
o l'accoglienza di questa testimonianza riguarda, ovviamente, la fede personale del
soggetto. Ma questa non è mai una semplice «opera» umana: è essa stessa un dono
di Dio. Inoltre è irriducibile a un semplice cambiamento di opinione soggettivo e indi-
viduale poiché è l'assunzione personale della fede della Chiesa universale e apostoli-
ca. Il sacramento — a cominciare dal battesimo — esprime questa duplice dimensione,
di dono gratuito e di ecclesialità. 3) Infine, senza il contro-dono di una pratica etica
mediante la quale il soggetto «veri-fica» ciò che ha ricevuto nel sacramento, l'identità
cristiana sarebbe nata morta. D'altronde l'etica attinge la sua identità cristiana nella
sua qualità di risposta «liturgica» (cf la «liturgia del prossimo») al dono primo di Dio.
Di conseguenza, come la liturgia deve essere oggetto di una rilettura etica per essere
cristiana (supra, cap. VI), così, inversamente, un'etica che non venisse riletta liturgi-
camente, cioè come risposta teologale alla grazia prima di Dio, perderebbe, per quan-
to generosa (7 Cor 13,1-3), la sua identità cristiana.

3. Funzione del momento «Sacramento»: un punto di passaggio


Il processo di eucaristicità è quindi solo una modalità particolare del processo di
identità cristiana. Vi si coglie agevolmente la funzione del momento «Sacramento».
La esprimeremo in due proposizioni: il sacramento non è che un punto di passaggio;
ma è tutto questo.
Solamente punto di passaggio, il sacramento non ha né l'origine né la fine in se
stesso; non è né punto di partenza né punto di arrivo. Il punto di partenza è il dono
di Dio. La fede stessa, che non è mai il semplice frutto logico dei nostri sforzi intellet-
tuali o morali, è un dono, dono offerto a chi lo desidera e lo cerca e che, quando è
ricevuto, apre un nuovo compito di ricerca insospettato all'inizio: «Non mi cercheresti
se non mi avessi già trovato» (Agostino). E il punto di arrivo è la liturgia missionaria
della pratica etica: qui si verifica la recezione del dono di Dio. La nostra stessa parola
«messa» conserva tracce di questa prospettiva missionaria ed etica. «Non ci sono più
dubbi oggi sul significato fondamentale di questo vocabolo: missa = Missio = dimis-
sio». Ora, dimissìo è un termine tecnico romano che indicava la dislocazione di una
riunione ufficiale.7 Così «si è potuto designare il culto a partire e con l'aiuto di ciò
che gli mette fine, a partire e con l'aiuto di ciò che deve avvenire una volta che si
è concluso: implicitamente lo si capisce tutto intero come il preludio a un congedo
missionario»; il culto incarica coloro che l'hanno celebrato «di andare a fare e a essere
ciò che sarà stato loro insegnato a fare e a essere».8 In mancanza di questo contro-dono
obbligato, il circuito dello scambio sarebbe spezzato: non è un dono che si sarebbe
ricevuto come tale; ci si sarebbe semplicemente appropriati delle idee (magari molto
alte) su Dio, oppure si sarebbe semplicemente arricchito il proprio bagaglio culturale
religioso.

' J.A. JUNGMANN, Missarum solemnia, t. 1, op. cit., p. 218 (trad. ital.: Missarum solemnia, Marietti,
Torino).
' J.J. VON ALLMEN, Célebrer le saliti, op. cit., p. 55.

195
Che il momento «Sacramento» sia solo un punto di passaggio vuol dire che, nel
processo di alleanza con Dio, non si salda con esso un debito da pagare a colpi di prati-
che rituali. Questo debito, d'altronde, debito di esistenza, non è da pagare: siamo in-
solvibili su questo piano, e in questa prospettiva, come vedremo, non possiamo che
illuderci immaginariamente. Il debito non è da pagare, ma da assumere simbolicamen-
te nel rapporto storico ed etico verso gli altri. Il «rendere-grazie» dell'offerta rituale
— il nostro momento «Sacramento» — è esattamente il simbolo che ci fa vedere e ci
fa vivere questa etica dell'alleanza con gli altri come mediazione concreta dell'allean-
za di Dio con noi. Essa si veri-fica nella nostra pratica di «vivere-in-grazia» fraterna,
in cui diventiamo verso gli altri come Dio, secondo la confessione che facciamo di
lui nel rendere-grazie oblativo, è verso di noi.
Quest'ultimo punto rende chiaro che, se il sacramento è un semplice punto di pas-
saggio, è però un punto di passaggio obbligato. Dobbiamo ricordare che questa obbli-
gazione non va intesa qui in una problematica di salvezza, ma di identità? E che, anche
in questa prospettiva, non implica che ogni soggetto credente sia sacramentalizzato
di fatto, ma che la sua identità cristiana, possibile solo in Chiesa, è, almeno obliqua-
mente, strutturata da una referenza al battesimo e all'eucaristia? È in quanto elemento
strutturante dell'identità cristiana che il sacramento non è un dato facoltativo.

4. Ebraismo e cristianesimo
Ci si può chiedere se il processo messo in luce precedentemente sia caratteristico
del cristianesimo. Si può avere in particolare la sensazione che, astrazion fatta, evi-
dentemente, per il riferimento a Gesù, potrebbe essere applicato anche all'identità ebrai-
ca. Ed è questo che verificheremo. Questo ci porterà, al tempo stesso, ad assumere
il nostro schema anteriore «vetustà/novità» per palesare la differenza cristiana.

a) L'identità ebraica: il racconto dell'offerta delle primizie (Dt 26,1-11)


Se torniamo al racconto dell'offerta delle primizie (Dt 26,1-11) è facile verificare che abbia-
mo a che fare con lo stesso tipo di articolazione fra Scrittura, Sacramento ed Etica di quello
messo in luce a partire dalla preghiera eucaristica. Il testo tuttavia è più complesso che in que-
st'ultimo caso. Ognuna delle cinque sezioni individuate nel capitolo precedente (I, 2, b) funzio-
na secondo il processo di scambio simbolico, nel modo seguente:
A — • Dono da parte di Dio: «La terra che Iahvè tuo Dio ti dona».
• Recezione da parte di Israele: «Quando sarai entrato» (lett. «quando tu verrai»)... «e
avrai preso possesso...».
• Contro-dono da parte di Israele: «Prenderai dei frutti del suolo...» (lett. «prenderai le
primizie che avrai fatto venire dalla terra...»).
B — • Dono da parte di Dio: «Questa terra che Iahvè ha giurato ai nostri padri di donarci».
• Recezione da parte di Israele = la sua parola di riconoscenza: «Dichiaro oggi che sono
arrivato...» (lett. «che sono venuto...»).
• Contro-dono da parte di Israele: trasmissione del paniere al sacerdote e deposizione
davanti all'altare.
C — • Dono da parte di Israele: «Abbiamo gridato verso Iahvè, il Dio dei nostri padri».
• Recezione da parte di Dio: «Ha visto la nostra miseria».
• Contro-dono da parte di Dio = uscita dall'Egitto e dono della terra: «Iahvè ci fece veni-
re in questo luogo e ci donò questa terra».

196
B' — • Dono da parte di Dio: la terra «che tu mi hai donato, Iahvè».
• Recezione da parte di Israele = la parola che riconosce questo dono: «E ora, ecco che
io porto (lett, «ecco che io ho fatto venire») le primizie dei frutti che tu mi hai donato, Iahvè».
• Contro-dono da parte di Israele: deposizione delle primizie e prosternazione davanti
a Iahvè.
A' — • Dono da parte di Dio: «Tutta la felicità che Iahvè tuo Dio ti ha donato».
• Recezione da parte di Israele: non manifestata come tale nel testo, ma presupposta dal-
le sezioni anteriori e dalla sua implicazione, il contro-dono.
• Contro-dono da parte di Israele: «Tu sarai nella gioia con il levita e l'emigrato che sono
in mezzo a te».
Due verbi compaiono in ognuna delle cinque sezioni: «donare» e «venire». È significativo
che ognuno di essi si trovi in una posizione particolare nella sezione C; il soggetto operatore
del verbo «far venire» qui è Dio, mentre nel rimanente del testo è Israele; e, se «donare» ha
sempre Dio come soggetto, questo dono si trova in C al posto del contro-dono, mentre occupa
il posto del dono iniziale nelle altre quattro sezioni. La sezione C ha quindi un posto particolare
nel testo: Israele può «far venire» frutti dalla sua terra, e deve «farli venire» al tempio per offrir-
ne le primizie perché Iahvè per primo lo ha «fatto venire» in questo paese (C); e se, in C, Dio
«dona» la terra in risposta al grido del popolo oppresso, questo stesso dono si trova in posizione
iniziale nelle altre sezioni. Questo significa che la sezione C, quella del memoriale, anche se
al centro del testo dal punto di vista letterario, funge di fatto come il vero e proprio punto di
partenza della narratività di questo testo. Incentrati attorno alle gesta liberatrici di Iahvè e al
dono della terra, gli eventi fondatori raccontati nel memoriale sono il vero elemento scatenante
dell'insieme del racconto. È quanto, d'altronde, mostra l'inizio del testo (sezione A), in cui il
dono della terra da parte di Iahvè mette in moto tutto il seguito, cioè tutto ciò che Dio prescrive
a Israele di fare in risposta al suo dono.
Questo dono primo di Dio viene ricevuto da Israele nell'atto liturgico della narrazione che
egli ne fa in forma di memoriale. La recezione viene così figurata nel nostro testo dalle virgolet-
te stesse che seguono il «tu dirai», cioè dalla liturgia che introduce questa presa di parola e che
è, l'abbiamo detto, il vero «pre-testo» del testo. Ora, questa liturgia si dispiega nelle due se-
quenze rituali (B-B') che inquadrano il racconto-memoriale. La parola rituale, alla prima perso-
na del presente indicativo, è d'altronde perfettamente esplicita: «Io dichiaro oggi che sono venu-
to nel paese...» (B), e «E ora ecco che porto...» (B') sono la solenne attestazione della recezione
presente della terra. // rito effettua quindi al presente ciò che il memoriale proclama al passato:
è proprio a «noi» — «noi che siamo qui oggi, vivi» (Dt 5,3) — che la terra fu donata. Usando
gli stessi verbi «donare» e «venire», i redattori deuteronomisti vogliono esprimere che «l'itinera-
rio liturgico rende ogni Israelita contemporaneo alla storia divina passata, poiché Iahvè dona
oggi la fertilità come un tempo donò il paese (...). Venire al santuario per portare i ' 'frutti della
terra" significa ormai fare proprio l'itinerario passato del popolo che è entrato in Canaan».'
Il dono della terra da parte di Dio al «noi» del popolo e al passato (C), ricevuto in «io» e
al presente da Israele in un atto liturgico di parola (B-B'), suscita da parte di quest'ultimo una
risposta. Essa viene espressa in «tu» e al futuro, e copre dunque tutto l'insieme delle prescrizioni
A - A ' , cioè tutto l'itinerario di Israele una volta «venuto» nella terra: farvi venire dei frutti, veni-
re al tempio e farvi venire questi frutti per offrirli, e infine condividere la sua prosperità con
il levita e l'emigrato. Il contro-dono è dunque quello dell'obbedienza alla parola di Dio che,
attraverso Mosè, fa legge. Questa legge manifesta che l'oggetto del dono non è semplicemente
una terra bruta, ma una terra in quanto promessa, con il marchio di garanzia della Parola: una

* F. DUMORTIER, Le Dieu de l'histoire devenu le Dieu de la nature: Dt 26,4-10, Ceri, Assemblées du


Seigneur, n. 14, 1973, pp. 24-25.

197
terra sbarrata dall'Altro. Dio non dona soltanto un suolo da coltivare ma un paese da costruire,
un vicinato da edificare, in cui la sollecitudine dell'Altro vissuta nella sollecitudine per gli altri
e, più precisamente, per i poveri, deve avere uno spazio di primo piano. Viene così ad abboz-
zarsi in questo testo lo sdoppiamento della lettera in «figura» di cui abbiamo parlato precedente-
mente: secondo l'ermeneutica cristiana, l'eredità promessa sarà il Cristo e, in lui, un nuovo rap-
porto di alleanza tra gli uomini reso escatologicamente possibile dall'agape diffusa nei cuori
dallo Spirito Santo (Rm 5,5). In ogni caso ciò che costituisce D cuore del centro-dono richiesto
ad Israele nel nostro testo (sezione A') è già questa sollecitudine di essere verso gli altri come
Dio è stato verso di lui.

In questo racconto, ai livelli di discorsi intrecciati in modo complesso, il registro


della prescrizione raddoppia, come in sovraimpressione, il gioco di scambio simboli-
co interno: possiamo scriverlo così:

Il processo attraverso cui Israele si identifica come l'Israele di Iahvè è strutturato


in modo assolutamente identico a quello che caratterizza i cristiani. La confessione
di fede-memoriale che racconta gli eventi fondatori come gesta di Iahvè salvatore è
— l'abbiamo mostrato — una sorta di condensato delle Scritture: queste non sono altro
che lo sviluppo, a caratteri grossi, di quella. Il ruolo di questa confessione di fede nel
testo è del tutto analogo a quello della «storia di salvezza» raccontata come dono di
Dio nel PN 1 della nostra preghiera eucaristica. La recezione, da parte sua, avviene
anch'essa nella modalità dell'oblazione: la terra viene ricevuta come dono di grazia
solo attraverso il rendere grazie oblativo della riconoscenza. La disappropriazione «sa-
crificale» è, per Israele come per la Chiesa, la condizione dell'appropriazione del do-
no di Dio. E questa offerta rituale, in cui Israele esprime la sua riconoscenza/ricono-
scimento di Dio come Dio e verso Dio, è a sua volta solo un punto di passaggio, figura
simbolica di un vivere-in-grazia in cui si deve veri-ficare il rendere-grazie liturgico.
Lungi dal costituire il contro-dono finale che regola il debito verso Dio, il rito rimanda
Israele all'assunzione della storia. Lungi dallo scaricare Israele della sua responsabili-
tà nella storia su un Dio che funge da alibi sacralizzato, esso invece lo apre sulla «litur-
gia del prossimo», a cominciare dai «poveri». Solo nella pratica storica della condivi-
sione con gli altri il sacrificio rituale di Israele arriva alla sua verità e Israele come
tale arriva alla sua identità. Come vediamo, quindi, Dt 26,1-11 è un testo pieno di
«eucaristicità».

198
b) La differenza cristiana: «vetustà» e «novità»

Ma allora, dov'è la differenza cristiana? Nel processo di scambio simbolico non


appare. Questo funziona secondo lo stesso meccanismo fondamentale in entrambi i ca-
si. La differenza — che noi sappiamo essere escatologica — appare invece nel nostro
schema di vetustà/novità (capitolo precedente). Ora, come avevamo precisato allora
senza commentarlo ulteriormente, «vetustà» e «novità» non sono puramente e sempli-
cemente identificabili all'Antico e al Nuovo Testamento. La novità infatti attraversava
già l'Antico Testamento: ricordiamo soprattutto i profeti, il riassunto della legge che
lo scriba fornisce a Gesù, i Battisti, molti rabbini farisei, Filone, ecc. E d'altra parte,
secondo la Chiesa, non è già Cristo che parlava nelle Scritture, e lo Spirito Santo non
aveva «parlato per mezzo dei profeti»? Il nostro schema «vetustà» non copre quindi
l'Antico Testamento come tale, ma ciò che ha portato questo Testamento a diventare
«vecchio» condannando la novità Gesù Cristo. Esso rappresenta ciò che ha fatto sì
che la novità che lo attraversava e lo lavorava sia stata soffocata. Anche se, come dire-
mo più avanti, costituiva un esodo progressivo fuori dal «sacrificale», cioè fuori dal
regime delle «opere» come mezzo di salvezza, è stato tuttavia chiuso nel «sacrificale».
Da chi è stato chiuso? Nessuno, indubbiamente, lo ha fatto deliberatamente... Nessu-
na decisione di un potere in carica, regale e/o sacerdotale, poteva provocare per de-
creto un simile sviamento. Esso viene da più lontano: non rientra nel potere di nessuno
perché è l'opera, sconosciuta, di tutti, come si capisce dalla morte di Gesù, almeno
se si vuole intendere la sua morte come «per tutti» e leggerla come un processo tra
Dio e gli uomini, senza cercare dei capri espiatori (gli Ebrei o i loro capi) che scagio-
nino gli altri o che — stesso sistema, ma più sottile — li sovra-colpevolizzino soltanto
nell'ordine dell'«interiorità». Possiamo esprimerlo anche così: la vetustà raffigura la
Legge, non come lettera (sappiamo che lo Spirito non viene riconosciuto senza la let-
tera) ma come chiusa nella lettera, mentre la corrente profetica (e non solamente lei!)
aveva incessantemente chiamato alla (ri)vivificazione di questa lettera e aveva infine
annunciato un'era nuova, in cui sarebbe stata scritta nel cuore dell'uomo dallo Spirito
di Dio.
Inversamente, la «novità» non è la Chiesa come tale, ma Gesù il Cristo. Lui sola-
mente ha compiuto ogni novità. La Chiesa, invece, subisce sempre la minaccia di far
regredire il Vangelo verso la vetustà di una lettera in cui lo Spirito è soffocato, di un
rituale che ridiventa un'«opera buona» e un mezzo di salvezza, di un corpo di ministri
reinseriti come intermediari sacerdotali tra l'uomo e Dio. Vuol dire allora che la legge
dello Spirito mette la Chiesa in un lavoro di costante «pasqua» dalla vetustà che la mi-
naccia verso la novità che essa proclama compiuta in Cristo. Questa genesi è dunque
un compito che la Chiesa deve svolgere per se stessa, convertendosi a colui che essa
confessa come l'Uomo nuovo. E simultaneamente essa ha la missione di farla realiz-
zare nell'umanità.
Il passaggio dalla vetustà alla novità non va dunque assimilato alla successione sto-
rica del tempo di Israele e del tempo della Chiesa. Bisogna considerare il rapporto
dell'uno e l'altro Testamento prima di tutto su di un piano paradigmatico e non crono-
logico: il primo, in quanto ha ultimamente soffocato la novità dello Spirito di cui era
portatore, è la figura esemplare di ciò che produce la vetustà; il secondo, in quanto
proclama il compimento di questa novità in Cristo, è la figura esemplare di ciò che

199
sarà, secondo la promessa di Dio, l'umanità nuova già in genesi. Ora, la piegatura
che unisce e differenzia l'uno e l'altro nel nostro canone biblico rappresenta esemplar-
mente, dal punto di vista della Bibbia stessa, il compito affidato a tutta l'umanità pre-
sa collettivamente e insieme a ogni uomo preso singolarmente.
Secondo la Bibbia, infatti, quello che è in gioco per Israele è rappresentativo di quello che
deve valere per tutte le nazioni: la benedizione di Abramo è finalizzata a quella delle nazioni
(«in te saranno benedette tutte le nazioni della terra») secondo la promessa di Gn 12,3, reiterata
in Gn 18,18 e 22,18, rinnovata a Isacco (26,4), poi a Giacobbe (28,14) e dichiarata compiuta
in Gal 3,8 e At 3,25. Questo ritornello dello Yahvista è formulato diversamente nel «Sacerdota-
le», ma le armoniche sono altrettanto universali: la benedizione dell'uomo, creato «maschio e
femmina» a immagine di Dio in Gn 1,27-28 è reiterata a Noè e ai suoi figli (9,1-7) e si accompa-
gna ad un'alleanza con tutta l'umanità in Noè (9,9-17). Certo, è sempre attraverso la discenden-
za di Abramo che la benedizione divina può raggiungere i popoli. I salmi insistono su questo:
ciò che capita ad Israele deve essere annunciato ai più lontani: «Andate a dire alle nazioni: il
Signore è Re!» (Sai 96,10). E le Nazioni possono a loro volta riconoscere il Signore e lodarlo
a partire da ciò che egli ha fatto per Israele: «Lodate il Signore, nazioni tutte... perché il suo
amore verso di noi...» (Sai 117). Anche se, «certo, quell'uomo è nato in Filistea, a Tiro o in
Nubia», di Sion si può dire che «in essa ogni uomo è nato» (Sai 87,4-5). Questo è in ogni caso
il modo in cui, dal punto di vista biblico, il divenire dell'umanità si gioca in quello del popolo eletto.
L'elezione è, sì, una scelta particolare, ma non significa esclusione degli altri. È semplice-
mente la condizione di ogni amore. Infatti c'è amore solo nella scelta. Chi, con il pretesto di
amare tutti, pretendesse di non amare nessun soggetto particolare in modo privilegiato, non po-
trebbe amare nessuno: non può che chiudersi nel narcisismo. L'amante che si sceglie una futura
compagna di vita non indurisce il suo cuore nei confronti delle altre donne; il suo amore di scel-
ta, psichicamente vissuto in modo corretto, lo porta al contrario a liberarsi per un'agape più
ricca in profondità e in estensione. Questa è la «differenza» nell'ordine simbolico, l'abbiamo
sottolineato: essa non è esclusione e rivalità concorrenziale (cf l'immaginario edipico); è media-
zione di comunicazione e di alleanza (ef l'emergenza simbolica dell'«altro simile» nell'atto di
linguaggio di IO-TU). Nell'ordine simbolico, l'universale è dato solo nella mediazione concreta
del particolare.

Ogni uomo, ci dice esemplarmente la Bibbia nella sua lettera, soprattutto nella fi-
gura che essa assume mediante la duplicazione simbolica in «Antico» e «Nuovo», è
in situazione di «uomo vecchio»; e ogni uomo è in genesi verso l'«uomo nuovo». Ogni
uomo, ma anche l'umanità come tale. Questa umanità raggiunge la propria verità, se-
condo la rivelazione biblica, solo morendo alla vetustà che la abita — questa violenza
che impone agli altri e che trova il suo alibi fondamentale in «Dio» — ed effettuando
la sua conversione «pasquale» dal sacrificale a quello che chiameremo 1'«antisacrifica-
le». La Chiesa, «sacramento del Regno che viene», ha esattamente il compito di pro-
durre nel mondo e per il mondo la figura di questo passaggio al quale tutti collettiva-
mente e ognuno personalmente è chiamato. Ma può produrre questa figura solo a con-
dizione di diventare incessantemente se stessa.
Così, per tornare al problema che ci ha portato a sviluppare questa riflessione, la
differenza cristiana non appare nel nostro processo di identità perché gli elementi che
ne costituiscono il meccanismo non lasciano trasparire l'escatologia eristica e pneu-
matica come tale. Ed è proprio questa che, all'interno di uno stesso gioco di identifica-
zione, segna la singolarità cristiana. Per leggere quest'ultima nel nostro schema del
processo di identità, bisogna dunque ricordarsi che l'«oggetto» messo in circolazione

200
nello scambio è Cristo stesso e che egli viene a noi, nel suo triplice corpo, mediante
lo Spirito: è lui l'oggetto di grazia del dono annunciato nelle Scritture; è l'eredità pro-
messa (cfRm 3-8); è lui l'oggetto sacramentalmente ricevuto nel «rendere grazie» del-
la Chiesa: è tutta la liturgia dei cristiani; è lui l'oggetto affidato alla responsabilità eti-
ca dei credenti: mediante il «sacrificio spirituale» della loro agape, egli si crea un cor-
po nell'umanità. Questo «oggetto» non cambia la struttura del gioco stesso. Ma — ed
è questo che il nostro schema «vetustà/novità» mette in luce — ne richiede un'altra
lettura; e questo cambia tutto...

II. VERIFICA: LO STATUTO ANTI-SACRIFICALE


DELLO SCAMBIO SIMBOLICO NEL CRISTIANESIMO
La riflessione che proponiamo qui ha lo scopo di verificare, a partire da un tema
particolare, la giustezza del processo di identità cristiana messo in luce precedente-
mente. La scelta del tema sacrificale si spiega con due ragioni: da una parte, questo
tema emerge esplicitamente dalla preghiera eucaristica analizzata in precedenza, assi-
curando così una omogeneità all'insieme di questo capitolo; dall'altra parte, ci sembra
che esso metta in gioco uno schema antropologico e religioso assolutamente fonda-
mentale, che sta alla pari, sembra, solo con lo schema iniziatico.
«Sacrificio» è un termine che non gode di buona fama in molti ambienti cristiani.
Fra i termini che appartengono al vocabolario cattolico tradizionale, oggi è senz'altro
uno dei più sospettati. Da solo solleva simbolicamente tutto un «mondo», quello di
un passato, non molto lontano, in cui, attraverso il catechismo e il modello cristiano
che vi era proposto, esso funzionava come pezza d'appoggio fondamentale
dell'istituzione-Chiesa (e, parallelamente, della società). Basta aprire il Catéchisme à
l'usage des diocèses de France del 1947 per valutarne l'importanza: la pluralità delle
simboliche linguistiche in soteriologia neo-testamentaria è stata ridotta al solo registro
del sacrificio di espiazione; di conseguenza vengono presentati secondo questo sche-
ma quasi esclusivo la messa («sacrificio di propiziazione»), il ministero presbiterale
(«sacerdozio») e l'ideale della vita cristiana (sofferenze offerte in sacrificio con Gesù
per amore riparatore).10
Anche se è opportuno essere critici rispetto a questo modello di cristianesimo, bi-
sogna tuttavia guardarsi dal giudicarlo con la sensibilità culturale più recente — è, d'al-
tronde, una regola aurea in storia che nessuno abbia il diritto di giudicare il passato
in funzione dei valori culturali del presente — e dal bruciare troppo affrettatamente

10
Catéchisme à l'usage des diocèses de France, Tours, Marne, 1947: § 96: «Sì, Gesù ha veramente
riscattato tutti gli uomini per mezzo della sua vita, delle sue sofferenze e della sua morte, ha meritato loro
il perdono dei loro peccati e le grazie necessarie per ottenere il cielo». Una nota aggiunge: «Gesù Cristo
ha potuto soffrire perché è uomo, ma le sue sofferenze e la sua morte hanno un prezzo infinito perché egli
è Dio». Dopo aver sottolineato al § 97 che «per riscattarci, Gesù Cristo ha sofferto una crudele agonia»,
una nota aggiunge: «Ma la più grande sofferenza di Gesù Cristo durante la Passione fu di sentirsi schiacciato
dal numero e dalla laidezza dei nostri peccati e dall'ingratitudine degli uomini». Si era perduto di vista il
quadro feudale del diritto germanico in cui era nata la teoria anselmiana della «soddisfazione», quadro a
partire dal quale questa si comprende in modo molto più fine, come fa notare W. KASPER, Jesus le Christ,
Cerf, 1976, pp. 332-333.

201
quello che, a sua volta troppo in fretta, si era adorato. La tentazione diventa ancora
più pericolosa per molti cristiani perché essi hanno, come si suol dire, dei conti da
regolare con il proprio passato. Cerchiamo, a nostra volta, di vederci chiaro in funzio-
ne della nostra problematica.

1. Il principio di base: in sacramento


La «rappresentazione» sacramentale
Un principio sacramentario fondamentale deve essere affermato fin dall'inizio: se
la morte di Gesù è espressa teologicamente come sacrificio, anche la sua rappresenta-
zione sacramentale nella forma del memoriale sarà necessariamente espressa come
sacrificio. Sacrificio-in-memoriale, sacrificio-in-sacramento: le lineette che mettiamo
qui tra le parole vogliono indicare che il Cristo-che-offre-la-sua-vita «sacrificalmente»
giunge a noi soltanto nel memoriale sacramentale che la Chiesa fa di lui. Secondo la
formula di Agostino, il Cristo che è stato immolato (sacrificato) una volta per tutte
viene immolato quotidie in sacramento. L'espressione non deve essere tradotta con
mei sacramento», nel qual caso si potrebbe pensare che la verità dell'immolazione si
trovi «dentro» il sacramentum, come il nocciolo si trova dentro la polpa della pesca,
o che si trovi «dietro» di lui che la nasconderebbe come un velo; bisogna tradurre con
«in sacramento» o «sacramentalmente». Si tratta di una modalità de re del tutto analoga
a ciò che Agostino afferma della Pascha cristiana annuale o del corpo eucaristico del
Signore: Cristo è risorto molto tempo fa; perché allora nessuno può darci del bugiardo
quando affermiamo ad ogni solennitas pasquale: «Oggi Cristo è risorto»? Perché quel-
lo che è avvenuto un tempo giunge a noi ogni anno (e anche ogni domenica) per cele-
brationem sacramenti. ' '

Sfortunatamente si è perduta di vista la forza di questo linguaggio simbolico che permetteva


ad Agostino di affermare: «Poiché voi siete il corpo di Cristo e le sue membra, è il vostro stesso
mistero che riposa sulla tavola del Signore, è il vostro proprio mistero che voi ricevete (...).
Siate quello che vedete, e ricevete quello che siete». Abbiamo già citato questo passo e altri
simili, come: «Questo sacrificio (eucaristico) è il simbolo di ciò che noi siamo».12 In questo lin-
guaggio simbolico Agostino non confonde per nulla il Cristo e la Chiesa — si simbolizzano ele-
menti differenti — ma esprime quello che è in gioco nel sacramentum: il matrimonio indissolu-
bile di Cristo e della Chiesa, l'impossibilità di dire l'uno, come un semplice «In-Faccia», senza
dire l'altro. Il sacramentum esprime precisamente la congiunzione simbolica dei due. Il linguag-
gio agostiniano, qui, non è dunque un semplice gioco di parole che, grazie ai suoi ornamenti,
aiuta ad entrare meglio spiritualmente nella profondità del mistero, o che riveste il discorso teo-
logico con un pizzico di festività. Questo linguaggio tocca il cuore più vero della stessa essenza
del linguaggio, essenza po(i)etica. Se gioco di parole c'è, sempre, è perché il linguaggio è es-
senzialmente gioco. In questa prospettiva, un simile linguaggio è teologicamente rigoroso per-
ché è il più omogeneo al mistero che esprime. Il Cristo in «sacrificio» non giunge a noi se non
nella mediazione espressiva del sacramentum. Volerlo cercare «dietro» è, come abbiamo detto,
sbucciare la cipolla per trovare la cipolla.
Ora, questo linguaggio doveva apparire più tardi come insufficientemente «realista». Il mo-
mento decisivo di questa evoluzione fu, come sappiamo, la negazione da parte di Berengario

11
AGOSTINO, Ep 98,9 a Bonifacio (PL 33,363).
12
ID., S. 272 (PL 38, 1246-1248); S. 227 (PL 38, 1099-1101).

202
di Tours, verso la metà dell'XI secolo, della presenza eucaristica, negazione che probabilmente è
meno radicale di quanto appaia di primo acchito se la si intende, come è necessario, come una
reazione contro l'ultra-realismo eucaristico quasi generale all'epoca. Allora, infatti, ci si rappre-
sentava la caro Christi in modo talmente aderente alla species che il vero miracolo era il manteni-
mento da parte di Dio del velo sensibile (tegumentum) per impedire di vedere il vero corpo di
Cristo. Una simile rappresentazione era evidentemente culturalmente propizia a una fioritura di
miracoli eucaristici. '3 II terreno, d'altra parte, era stato lungamente preparato a un simile fiorire,
soprattutto da quando regnava la teoria sacramentaria di Isidoro di Siviglia. L'identità fra sacra-
mentimi e sacrum secretimi14 portava infatti a intendere il sacramento, al contrario di sant'Ago-
stino (sacrum signum: segno rivelatore), come un velo (tegumentum) che nasconde una realtà se-
greta. La prima grande controversia eucaristica, nel IX secolo, tra Pascasio Radberto e Ratramno
si alimentava, nei due avversari, alla stessa teoria del tegumentum." Solo che venne sfruttata
in modo diverso intorno alla coppia, allora centrale, figura/veritas. D primo, partendo subito dalla
fede, affermava che la parola di Gesù secondo Gv 6: «Io sono il pane di vita...» non poteva
che essere una veritas, mentre il secondo partendo dalla nostra modalità di conoscenza, vedeva
nella stessa parola una figura, poiché una figura è la designazione di una realtà in modo velato,
lì dove invece la veritas la designa senza veli. 16 Il tegumentum eucaristico obbligava di conse-
guenza Ratramno a sottolineare la sua funzione di figura. Egli non negava peraltro la presenza
eucaristica: il Cristo vi è presente vere, ma in figura e non in ventate. Ratramno non conosceva
ancora l'opposizione tra la «figura» e la «verità». La corrente, tuttavia, si orienta già in questo
senso. Ne è testimone re Carlo il Calvo che chiedeva precisamente a Ratramno di rispondere
alla sua domanda: il Cristo è presente nell'eucaristia «in mìsterio an in ventate»?11
La posizione di questa alternativa, tuttavia, doveva avvenire solo con la dialettica, di cui
Berengario è uno dei più grandi rappresentanti.18 Ora, come ha sottolineato H. de Lubac, tra
le mani di questo dialettico la simbolica sacramentaria patristica si disgrega. Infatti, per Beren-
gario, non può esserci via di mezzo tra la figura e la realtà. Il «veramente in figura» di Ratramno
è diventato per lui insostenibile. «Mistero» e «ragione» infatti ai suoi occhi si oppongono, men-
tre, per Agostino «più c'è mistero, più c'è ragione». Berengario «separa costantemente ciò che
la tradizione univa... Tutte le inclusioni simboliche si trasformano nella sua intelligenza in anti-
tesi dialettiche».19
Vero e proprio trauma nella coscienza della Chiesa, l'affare Berengario ebbe importanti ri-
cadute: nell'immediato provocò, nel 1059, l'imposizione all'eretico di una confessione di fede
ultra-realista nella presenza di Cristo nell'eucaristia.20 A più lungo termine, e in modo più im-

13
E. DUMOUTET, Corpus Domini. Aux sources de lapiété eucharistique medievale, Beauchesne, 1942,
3a parte. Cf Infra la nostra riflessione sulla presenza eucaristica di Cristo, cap. X.
14
Supra, cap. 1, n. 4.
15
RATRAMNO: «Corpus et sanguis Domini propterea mysteria dicuntur, quod secretam et reconditam
habent dispositionem, id est aliud sint quod exterius innuant, et aliud quod interius invisibiliter operentur.
Hinc etiam et sacramenta vocitantur, quia tegumento corporalium rerum virtus divina secretius salutem ac-
cipientium fideliter dispensar» (De corp. et sang. Dom., 47-48, PL 121, 147. Cf PASCASIO, PL 120, 1275).
16
Cf su questo punto il cap. «Histoire d'un écart grandissant» di E. MARTELET, Résurrection, eucharì-
stìe et genèse de l'homme, Desclée, 1972, pp. 131-160, soprattutto pp. 138-144.
17
PL 121, 129 C.
18
«È segno di un cuore grande — scrive Berengario — ricorrere alla dialettica in tutte le cose. Ricorrer-
vi, infatti, significa ricorrere alla ragione; in modo tale che colui che non vi ricorre, essendo fatto a immagi-
ne di Dio secondo la sua ragione, disprezza la sua dignità e non può rinnovarsi di giorno in giorno a immagi-
ne di Dio». Citato da P. VIGNAUX, Philosophie au Moyen Age, A. Colin, Paris 1958, p. 23.
19
H. DE LUBAC, Corpus mysticum, op. cit., pp. 260-266 (trad. ital.: Corpus mystìcum, Gribaudi, Tori-
no 1968).
20
D-S 690: il corpo di Cristo è toccato e spezzato dalle mani dei preti e frantumato dai denti sensuali-
ter, non solum sacramento, sed in ventate.

203
portante, le grandi scolastiche del XIII secolo reagirono, è vero, contro questo ultra-realismo
sensualista grazie al finissimo concetto aristotelico di «sostanza» — concetto di cui non si dispo-
neva nell'epoca anteriore —, ma rimasero comunque così profondamente anti-berengariane da
compiere quello che H. de Lubac ha chiamato «cesura funesta» tra il corpo eucaristico e il corpo
ecclesiale. D trauma di Berengario ebbe l'effetto di creare un considerevole spostamento nella
problematica tradizionale del triplice corpo di Cristo: lì dove i Padri vedevano il suo corpo ec-
clesiale come la veritas del suo corpo mistico eucaristico (il suo corpo in mistero o in sacramen-
to), si sottolinea ormai il legame tra quest'ultimo e il vero corpo nato da Maria, morto e risorto,
perché non ci sia più nessuna ambiguità sulla realtà di Cristo nel pane e nel vino. La Chiesa
non viene più colta come la veritas del corpo che essa riceve «in mistero»: è soltanto la res signi-
ficata et non contenta. La veritas è contenuta nell'eucaristia stessa, che è il corpus verum; la
Chiesa diventa allora, nella seconda metà del XII secolo, il corpus mysticum in un senso che
verrà preso nel XIII secolo in modo assoluto, cioè senza rapporto con il mistero eucaristico.
La prospettiva agostiniana, di cui ancora dava testimonianza un Algero di Liegi, all'inizio del
XII secolo, evocando la «co-corporalità» e la «co-sacramentalità» eucaristica di Cristo e della
Chiesa,21 è ormai sconosciuta.
Quel che si guadagna così in «realismo», almeno secondo la rappresentazione metafisica che
si ha allora del «reale», soprattutto nella problematica aristotelica della sostanza, lo si perde in
simbolismo. Questo ha due conseguenze: da una parte il corpo ecclesiale, pur rimanendo la fi-
nalità ultima dell'eucaristia, viene espulso dal simbolismo intrinseco di quest'ultima al quale
in Agostino apparteneva così fortemente, e questo ha come significativo effetto di produrre una
ecclesiologia più giuridica che comunionale e sacramentale, al punto che nel XITI secolo si potrà
parlare della Chiesa come corpus mysticum senza più legami con l'eucaristia! D'altra parte, si
fa propria almeno questa parte della formula del 1059 che dichiara Cristo presente nell'eucari-
stia «non solum sacramento, sed in veritate». Così sarà nel XIII secolo e, contro i Riformatori,
al concilio di Trento.22

E infine, lì dove, secondo il linguaggio patristico si diceva: il Cristo è veramente


presente e veramente offerto in sacrificio nell'eucaristia perché «in sacramento» (in
mistero, in figura, in simbolo), ormai si dice: il Cristo vi è veramente presente e vera-
mente offerto, sebbene, per quanto necessariamente, in sacramento. Questa concezio-
ne sacramentaria, in cui il reale è presupposto come un'entità «dietro» il sacramentale,

21
PL 180, 794.
21
Anche se il concilio di Trento è più sfumato su questo piano, perché afferma una volta che il Cristo
«presente sotto la modalità sacramentale, è qui per noi in tutta la verità del suo essere», rimane però segnato
da questa prospettiva: questa formula infatti non bilancia i quattro contineri, i tre esse o vere esse che hanno
per soggetto «il corpo e il sangue di Cristo» e i tre existere che hanno «Cristo» per soggetto che si incontrano
nei capitoli 1, 3 e 4 e nei canoni 1, 3, 4 della «Dottrina sull'eucaristia». Che Trento abbia rifiutato — di
misura, è vero — l'espressione di conversio sacramentalis, l'unica che avrebbe potuto aprire la strada a
un vero dialogo con i Riformatori, sì inscrive nella stessa logica. Questa non è solamente dettata dalla pro-
spettiva antiprotestante del concilio; viene da ben più lontano: secondo il modo in cui si concepiva la «rap-
presentazione sacramentale» già da lungo tempo, il «reale» era presupposto come necessariamente aldilà
del «sacramentale». Nel XIII secolo, per esempio, san Bonaventura sottolineava: «Bisogna necessariamente
che in questo sacramento il corpo di Cristo sia contenuto (contineri) non solamente in figura ma in verità
(non tantum figurative, verum etiam veraciter) come l'oblazione che conviene a questo tempo» (il «tempo
della grazia rivelata»), anche se ha nettamente affermato in precedenza che «in ciascuna delle specie sensibi-
li è contenuto tutto il Cristo, totalmente, non in modo circoscrittivo, ma sacramentalmente (sacramentali-
ter)» (Breviloquium p. 6, e. 9,3; ibid. e. 9,1). Sacramentaliter è quindi insufficiente ai suoi occhi per dire
veraciter. Sant'Alberto Magno scriveva, da parte sua: «La nostra immolazione (eucaristica) non è solamen-
te rappresentazione (repraesentatio) ma immolazione vera e propria (vera), cioè oblazione mediante (per)
le mani dei preti della realtà immolata» (In TV Sent., d. 13, a. 23).

204
è arrivata fino nel nostro XX secolo.23 Essa è evidentemente tributaria, fondamental-
mente, di una ontologia metafisica.
Questa analisi ci fa misurare l'importanza del problema della «rappresentazione
sacramentale». Essa giustifica la nostra affermazione di partenza: se la realtà eristica
non ci viene altrimenti che nella sua mediazione espressiva, se non se ne può parlare
altrimenti che perché e in quanto sacramentale («in sacramento», «in simbolo», «in me-
moriale»), allora la rappresentazione sacramentale del sacrificio di Cristo deve neces-
sariamente essere chiamata essa stessa sacrificio. Ma questo dipende da una domanda
preliminare: si può parlare della vita e della morte di Gesù come di un sacrificio?

2. La vita e la morte di Gesù: un sacrificio?


La lettura sacrificale della morte di Gesù non è, dal punto di vista neotestamenta-
rio, né la più primitiva (ma questo non significa minore pertinenza teologica rispetto
ad altre!) e nemmeno la più importante. In Paolo, per esempio, la teologia della croce
viene sviluppata, come ha mostrato X. Léon-Dufour, secondo tre simboliche princi-
pali, nessuna delle quali è sacrificale o cultuale: la simbolica giudiziaria in cui, nel
quadro di un processo di alleanza, tutti sono sottoposti al giudizio di condanna ma so-
no giustificati mediante l'obbedienza di uno solo, il nuovo Adamo; la simbolica politi-
ca, in cui gli uomini, sotto il dominio (hypo) del peccato, della legge, della morte,
sono riscattati o liberati da Cristo, passando così da uno statuto di schiavi a uno statuto
di figli liberi; infine, la simbolica interpersonale in cui gli uomini, che erano in uno

2!
Il modo in cui, per esempio, M. Lepin traduce sant'Agostino nella sua celebre opera L'idée du sacri-
fice de la Messe d'après les théologiens depuis l'origine jusqu'à nos jours (Beauchesne, 2" ed., 1926) è
eloquente. Diamone due esempi particolarmente significativi perché appartengono ai testi citati lungo tutto
il Medioevo e fino ai nostri giorni come auctoritates in materia di teologia dei sacramenti:
(A) Agostino: «Res ipsa cuius sacramentum est...».
= «la realtà stessa di cui essa (l'eucaristia) è il sacramento...».
M. Lepin: «La realtà stessa di cui questo sacramento è il simbolo» (p. 75).
(B) Agostino: «Cuius rei sacramentum quotidianum esse voluit ecclesiae sacrificium: quae, cum ipsius ca-
pitis corpus sit, se ipsam per ipsum discit offerte».
= «Ha voluto che sia sacramento quotidiano di questa realtà il sacrificio della Chiesa che, essendo il
corpo di cui egli è la testa, impara ad offrire se stessa attraverso di lui».
M. Lepin: «Di questa verità, ha voluto che una figura fosse contenuta nel sacrificio quotidiano in cui
la Chiesa, essendo il corpo di questo capo, impara dal suo esempio ad offrire se stessa» (p. 79).
Ecco: duplicando ogni volta sacramentum con un secondo termine («simbolo» in A, «figura» in B), M.
Lepin strappa la realtà al suo sacramentum. Ne fa un in-sé, nascosto dentro o dietro il simbolo o la figura
che lo riveste o lo ricopre, là dove, secondo Agostino, questa «realtà» è indissociabile dalla sua «espressio-
ne» sacramentale. Infatti, per quest'ultimo, la res in questione non è il Cristo preso isolatamente ma, come
vedremo più avanti, il Christus totus, testa e membra, il multi unum corpus in Chrìsto, o ancora, come
precisa nella frase che precede il passo (A) citato, «la società del suo corpo e delle sue membra che è la
santa Chiesa». Presi come siamo in essa, dunque, non possiamo slegarla dal sacramentum nel quale essa
giunge a noi. È questa stessa incomprensione del simbolismo patristico che, nella stessa epoca (1926), ha
portato uno storico dei dogmi tanto competente come J. Geiselmann a parlare del «carattere a-metabolista»
(anche se non «anti-metabolista» come in Berengario) «della concezione agostiniana del sacramento» (Die
Eucharistielehre der Vorscholastik, Paderborn, 1926, p. 281). Tutto questo movimento di spostamento se-
mantico nella concezione del sacramentum e della «rappresentazione sacramentale» ci sembra legato con
la desimbolizzazione di Cristo e della Chiesa come reazione contro Berengario: il rapporto Cristo-Chiesa
nell'eucaristia non rientra in P. Lombardo, secondo M. Lepin, nei «punti secondari» (p. 157)?

205
stato di inimicizia con Dio, vengono reintegrati nell'alleanza e nella pace con lui, gra-
zie alla riconciliazione effettuata da Cristo che è morto per loro (hyper).1*
Nessuno di questi linguaggi ha come sfondo il culto e i sacrifici del Tempio. È
vero che Paolo si serve, a cinque riprese, del linguaggio sacrificale per esprimere la
portata soteriologica della morte di Cristo (supra); questo però non è certo un registro
dominante in lui. Ma, come abbiamo precedentemente segnalato, le diverse simboli-
che paoline sono esse stesse suscettibili di essere attraversate dai due assi maggiori
di rilettura della morte di Cristo come «secondo le Scritture»: quello della Legge e quello
del Tempio. Paolo si interessa soprattutto al primo, la lettera agli Ebrei essenzialmente
al secondo.
Abbiamo ricordato prima «l'audacia a stento credibile» di cui fa sfoggio l'autore
di Ebrei nella sua cristologia sacerdotale e nella sua soteriologia sacrificale. Vi abbia-
mo letto una vera e propria trasmutazione e sovversione del culto vetero-testamentario.
Abbiamo indicato che la teleiòsis («azione di rendere perfetti») designava nel Penta-
teuco e nella sua traduzione della LXX il rito di consacrazione del sommo sacerdote
mediante il riempimento delle mani. Ora, come nota A. Vanhoye, la consacrazione
sacerdotale di Gesù, il Figlio, si effettua secondo un movimento esattamente inverso
rispetto a quello del sommo sacerdote vetero-testamentario. Questi, infatti, «preso tra
gli uomini» (Eb 5,1), poteva esercitare la sua funzione di mediatore tra Dio e gli uomi-
ni solo se separato da questi ultimi, secondo un movimento ascendente di purificazio-
ne/separazione che lo situava in posizione di intermediario. La consacrazione sacerdo-
tale di Gesù coincide, al contrario, con il suo movimento discentente di «kenosis» (cf
FU 2,7) o di solidarietà fraterna con gli uomini (Eb 2,17-18) fino alla morte (4,15-16).
È questa «fraternità» con gli uomini, liberamente consentita nel «docile ascolto» (ob-
bedienza) del Padre e filialmente offerta in una supplicante preghiera mescolata a la-
crime (5,7) che l'ha «reso perfetto» come Figlio-in-umanità e ha costituito il suo «rito»
di consacrazione come sacerdote «esclusivo» e «per l'eternità» (7,24). La sua glorifi-
cazione segna l'esaudimento (5,7) del suo «sacrificio», che non è altro che l'offerta
filiale della sua stessa debolezza. Così egli è divenuto nella sua persona l'unico media-
tore del nostro passaggio verso Dio. Partecipando, contrariamente all'intermediario,
dei due termini che egli unisce, Cristo ci apre un accesso diretto a Dio (9,24). La sua
«liturgia» sacerdotale (8,6) offerta «dallo Spirito eterno» (9,14) abolisce in un colpo
solo il sacerdozio antico come istituzione di salvezza e, come aveva sottolineato Pao-
lo, la legge («infatti un cambiamento di sacerdozio comporta necessariamente un cam-
biamento di legge»: 7,12). In questo modo tutto il sistema religioso e nazionale ebrai-
co diventa caduco in quanto mezzo di salvezza.
Ora, questo «sacrificio» dei sacrifici non può essere limitato soltanto alla morte di
Gesù, che ha senso soltanto nella logica della sua vita di dono. Il suo morire-per è
l'espressione ultima del suo vivere-per. Egli non è venuto per soffrire e morire, ma
per annunciare attraverso la sua vita — fino alla morte come prezzo della sua fedeltà
— la Buona Novella del Regno di Dio imminente, Regno di grazia e di misericordia
offerto a tutti, e quindi per rimettere Dio e gli uomini in libertà, cioè per distruggere

24
X. LÉON-DUFOUR, Face à la mori: Jesus et Paul, Seuil, 1979, cap. 5, soprattutto pp. 182-197 (trad.
ital.: Di fronte alla morte, Gesù e Paolo, Elle Di Ci, Leumann 1982).

206
le barriere in cui la «vetustà» degli uomini li aveva rinchiusi «servendosi» dell'autorità
stessa di Dio riconosciuta nella Legge ebraica.
Il sacerdozio e il sacrificio di Gesù si sono esercitati esistenzialmente e non ritual-
mente. Il suo sacrificio è consistito precisamente nell'effettuare questa «novità» in cui
il culto prende corpo nella vita stessa attraverso la fede, la speranza e la carità. Il sacri-
ficio della sua stessa vita è, in altri termini, il rifiuto di usare Dio a suo profitto. Così
almeno possiamo leggere la triplice tentazione nel deserto; la sua collocazione all'e-
sordio della vita missionaria di Gesù nei Sinottici evidenzia che essa l'ha attraversata
tutta e dove, nuovo Israele, egli assume senza cadere la tentazione fondamentale che
aveva fatto soccombere il vecchio Israele: quella di servirsi di Dio, di «tentarlo» con
il ricatto («visto che sei il protetto di Dio...» insinua Satana) e dimenticare così che
Dio è Dio (cf Mt 4,1-11 e i riferimenti al Dt). È questo anche il senso del suo scandalo-
so grido sulla croce — «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» — dove,
morendo come «l'Abbandonato di Dio» (J. Moltmann), egli vive fino alla fine la prova
del non-uso del suo Dio e Padre, che pure è così vicino. Ed è quanto suggerisce anche
l'inno cristologico di FU 2,6-11: contrariamente ad Adamo, il «terroso», il cui pecca-
to, tipico di tutta l'umanità, fu di voler essere «come un dio», Gesù, nuovo Adamo,
che «era di condizione divina, non ha considerato come una preda l'essere uguale a Dio».
Egli è vissuto ed è morto facendo il contrario del peccato fondamentale di Israele
che è anche il peccato paradigmatico dell'Uomo. Il peccato dell'Uomo, infatti, è di
vivere la sua relazione con Dio secondo un rapporto di forza e di concorrenza, rappor-
to il cui paradigma è quello dello schiavo che cerca di impadronirsi dell'onnipotenza
del suo padrone e di sostituirsi a lui. Si tratta qui, come sappiamo, di un meccanismo
assolutamente fondamentale, se dobbiamo credere alla celebre dialettica hegeliana schia-
vo/padrone.25 Sappiamo anche che, secondo Freud, l'accesso del bambino alla sua iden-
tità di soggetto è possibile solo attraverso il «lutto» o il «sacrificio» psichico del padre
idealizzato, il quale non è altro che il suo proprio doppio ideale. E se, secondo il supe-
ramento dell'Edipo proposto da Lacan (supra), si sostituisce l'impossibilità stessa del-
la Cosa (l'oggetto primordiale del desiderio) alla sua semplice proibizione come og-
getto materno di onni-godimento, non si fa altro che radicalizzare la legge del necessa-
rio superamento del rapporto schiavo/padrone perché il soggetto viva: bisogna allora
imparare il difficile consentimento alla non-padronanza, alla mancanza, alla castrazio-
ne, là dove la nostra immaginaria padronanza del reale ci chiude nella nevrosi e ci
lascia quindi nella schiavitù.

25
Ricordiamo che la molla di questa dialettica è la «lotta per il riconoscimento». In questa lotta Hegel,
secondo la formula di J. Hyppolite, mira «essenzialmente a mostrare che il padrone si rivela nella sua verità
come schiavo dello schiavo, e lo schiavo come padrone del padrone». Il padrone fa lavorare lo schiavo e
riserva per sé il godimento. Ma gioire di una cosa significa dipenderne. Lavorarla, invece, significa farla
dipendere da sé. Grazie alla resistenza che le cose oppongono allo schiavo che le lavora, la coscienza di
quest'ultimo si educa e si eleva. Così egli progredisce nella coscienza di sé e arriva a superare il padrone.
Nell'attesa rimane schiavo, e il padrone può a sua volta progredire nella coscienza di sé solo uscendo dalla
sua situazione di padronanza mediata dal riferimento allo schiavo. L'uno e l'altro fanno così le spese della
situazione, e saranno necessarie altre figure di rapporto umano perché sia possibile un progresso storico
(J. HYPPOLITE, Genèse et strutture de la Phénoménologie de l'esprit de Hegel, Aubier-Montaigne, 1946,
pp. 166-167; trad. ital.: Genesi e struttura della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, La Nuova Italia,
Firenze 1972).

207
Un simile consentimento alla non-padronanza, sempre da reiterare, riecheggia a
ciò che il pensiero meditante di Heidegger chiama il lasciar-essere. Ed evoca anche
quella «interruzione di garanzia» richiesta da E. Jungel nella sua opera Dio, mistero
del mondo: quando Descartes, nell'epoca moderna, dispiegando apertamente un po-
stulato che fu, in fondo, quello dell'insieme della tradizione metafisica, stabilisce la
necessità di Dio per garantire la continuità dell'Ego certo di se stesso nell'atto del Co-
gito, fa di questo Dio necessario un Padrone di cui l'uomo è lo schiavo; schiavo felice
perché in lui trova la sicurezza di sé e del suo mondo; ma questo schiavo è anche il
padrone del padrone (cf Hegel): un Dio necessario all'uomo è sempre un Dio disponi-
bile, un Dio necessario all'uomo è sempre un Signore onnipotente, ma che ultimamen-
te si rivela dipendente dall'uomo (t. 1, pp. 170-193). Impossibile lasciare un simile
Dio essere Dio. Ora, per pensare teologicamente Dio, bisogna imparare a condiscen-
dere a un Dio che non sia il garante delle nostre certezze.
Nessuno va verso sé senza lasciare se stesso e rinunciare quindi a fondare se stes-
so. Questo lasciar essere «sacrificale» ci sembra aprire un cammino di pensiero perlo-
meno altrettanto eloquente di quello del sacrificio rituale o della giustizia feudale che
esige riparazione, per esprimere teologicamente il significato della vita e della morte
di Gesù come «per tutti gli uomini». Ci permette soprattutto di capire meglio perché
la Bibbia, nella sua costante preoccupazione di rispettare la radicale differenza o santi-
tà di un Dio che tuttavia essa proclama vicino all'umanità più profonda dell'uomo,
veda il peccato primordiale nell'idolatria, cioè nella riduzione di Dio alle condizioni
dell'esperienza che noi facciamo di lui, riduzione che è soltanto la nostra proiezione
immaginaria in lui. Ci permette al tempo stesso di leggere in modo non rituale l'inter-
pretazione rituale che la tradizione ha fatto della morte di Gesù come sacrificio: il «sa-
crificio» della sua vita donata fino alla morte è quello del consentimento alla sua con-
dizione di Figlio-in-umanità e di Fratello degli uomini. Conformemente allo schema
psichico della filiazione (sul quale, in opposizione a quello della schiavitù, torneremo
nel nostro ultimo capitolo), un simile consentimento richiede da Gesù da una parte
la rinuncia a voler possedere se stesso, cioè il riconoscimento della sua dipendenza
di Figlio nei confronti del Padre; dall'altra, ed è questo il corollario obbligato dello
schema di filiazione, l'acconsentire alla sua «autonomia» umana, e dunque il rifiuto
della tentazione di «usare» Dio per scaricare su di lui la responsabilità da assumere
come uomo. Il suo sacrificio, in altri termini, è di aver consentito a servire Dio, e
quindi gli uomini, invece di servirsi di lui, e quindi di loro, per la sua causa, che pure
è buona e giusta; di aver rinunciato ad appropriarsi della divinità, a «giocare a Dio»,
a farsi dio al posto di Dio, e quindi a farsi idolatrare dagli uomini; di aver lasciato
che Dio suo Padre fosse Dio e di aver consentito integralmente all'umanità; di aver
conservato la sua filiale fiducia verso il Padre anche nelle occasioni più sconcertanti,
accolte come l'espressione della missione che egli gli affidava, e fino all'incomprensi-
bile silenzio del Padre che, lasciandolo morire, non interviene per salvare la sua cau-
sa. // sacrificio di Gesù è la sua «kenosis», il movimento esattamente contrario al pec-
cato di Adamo, in cui egli consente a vivere quel «fino alla fine dell'umano» che è
la morte vissuta nel silenzio di un Dio che non interviene nemmeno per risparmiarla
al giusto.
Un simile sacrificio «anti-sacrificio», diremo — pertiene più allo schema iniziatico

208
del «morire per vivere» o del «chi perde vince»26 che allo schema propriamente sacrifi-
cale. Anche se il linguaggio sacrificale si è imposto fin dal Nuovo Testamento per le
ragioni già indicate di rilettura del sistema del Tempio in funzione di Cristo, esso non
è, al di fuori di questa prospettiva, assolutamente obbligato in sé per esprimere il si-
gnificato della vita e della morte di Gesù. È solo una simbolica tra molte altre possibi-
li. Di conseguenza non gli accordiamo nessun privilegio particolare in sé. Resta il fat-
to che, a condizione che sia riferita alle altre simboliche con le quali forma una figura
i cui interstizi, mai riempiti, esprimono l'irriducibilità del mistero alle sue espressioni,
la simbolica sacrificale deve avere il suo posto: nulla di più che il suo posto, tutto il
suo posto. Dal punto di vista neo-testamentario, essa solo poteva tematizzare in modo
coerente il «secondo le Scritture» secondo l'asse del Tempio. Dal punto di vista ritua-
le, d'altronde, sarebbe un'ingenuità credere o lasciar credere che l'atto di mangiare
e di bere ciò che è presente come corpo e sangue di Cristo potrebbe, qualunque ne
sia la «spiritualizzazione», non dare l'impulso a qualche arcaica simbolica sacrificale
con i suoi inevitabili e ambivalenti fantasmi di aggressività distruttrice e di assimila-
zione amorosa: fede d'uomo, la fede dei cristiani non può pretendere di fare l'econo-
mia di questa simbolica primaria!27 La demitologizzazione necessaria in questo ambito
— la stessa che noi abbiamo appena effettuato — non potrebbe essere spinta fino a
una radicale demitizzazione senza che noi sprofondiamo, come Bultmann, nel nuovo
mito di una fede senza residui mitici... Possiamo dunque interpretare la vita e la morte
di Gesù come «sacrificio» («anti-sacrificio», nel senso che preciseremo). Privilegere-
mo questo registro di linguaggio anche a proposito dell'eucaristia, a causa del regime
rituale in cui essa avviene e a causa del mangiare/bere il corpo e sangue di Cristo che
in essa si effettua. Si tratta dunque, qui, di un «sacrificio-in-sacramento». Ma un «sa-
crificio» veramente singolare...

3. La tesi di R. Girard
Sacrificio talmente singolare che, secondo R. Girard,28 non si dovrebbe affatto par-
lare di «sacrificio» dal punto di vista di Gesù: sono i cristiani che, a cominciare dai
vangeli, avrebbero effettuato questa lettura sacrificale denunciata da Gesù stesso. Ci-
tando qui R. Girard, siamo coscienti delle passioni, favorevoli o sfavorevoli, che le
sue opere hanno scatenato. La sua tesi può essere oggetto di gravi riserve sul piano
epistemologico («una ontologia della violenza», ritiene A. Simon), biblico (riduzione
di tutti i sacrifici biblici allo stesso modello: quello del capro espiatorio, e ultimamente
del linciaggio riconciliatore) e teologico.29

26
Vedi in questo senso A. VERGOTE, «La mort rédemptrice du Christ à la lumière de l'anthropologie»,
in X. LÉON-DUFOUR et al., Mort pour nos péchés, Bruxelles, Fac. Univ. S. Louis, 1976, pp. 70-83.
" J.C. SAGNE, «L'interprétation analytique du rite de l'eucharistie», in L'Eucharistie, Profac, Lyon
1971, pp. 153-164.
28
R. GIRARD, La Violence et la sacre, Grasset, 1972 (trad. ital. : La violenza e il sacro, Adelphi, Mila-
no 1980); Des choses cachés depuis la fondanoti du monde, Grasset, 1978 (trad. ital.: Delle cose nascoste
fin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983).
25
A. SIMON, in Esprit 1973/11, pp. 515-527. Biblicamente, le affermazioni perentorie che riguardano
la critica da parte dei profeti non semplicemente del formalismo cultuale ma anche «del principio stesso
del sacrificio» sono difficilmente sostenibili dal punto di vista storico. Si rimane confusi da una simile sicu-

209
Queste serissime riserve non possono tuttavia occultare l'interesse della (coerentis-
sima) tesi girardiana. In particolare ci sembra che essa abbia messo il dito su due ele-
menti principali: prima di tutto il sacrificio; poi la denuncia da parte di Gesù dei suoi
elementi speciosi.
Il sacrificio è un processo attraverso il quale un gruppo si scarica su di un «capro
espiatorio» della violenza intestina che, frutto della «rivalità mimetica», minaccia la
sua esistenza, e della colpa che questa violenza genera. Dal momento che questo mec-
canismo funziona ancor meglio perché il gruppo ne ignora la reale posta in gioco (in
mancanza di ciò, deve affrontare — come nelle nostre società — una «crisi sacrifica-
le»), esso è legato, per sua stessa natura, a un processo di misconoscimento della re-
sponsabilità. Nel suo significato stretto, questo processo è religioso e rituale. Ora, dal
momento che esso ha, indubbiamente, una reale efficacia simbolica, che permette ef-

rezza (i testi profetici sono «troppo numerosi e troppo espliciti per permettere il benché minimo dubbio»)
[«Des choses...», p. 473, n. 54], tanto più che l'autore non cita nessun esegeta a fondamento delle sue affer-
mazioni perentorie.
Sul piano dell'ermeneutica teologica, è difficile non essere severi. Fin dalle sue origini (soprattutto con
la scenografia sacrificale della Passione nei vangeli), la Chiesa avrebbe fatto una lettura sacrificale del desti-
no di Gesù, tradendolo così su quello che l'autore considera la punta di diamante del suo messaggio. Ci
si deve chiedere cosa ne è, teologicamente, di questa Chiesa congenitamente infedele a Cristo... e di conse-
guenza cosa ne è dei vangeli stessi, poiché essi sono nati dalla fede di questa Chiesa. E ci si deve chiedere
con altrettanta fermezza come faccia R. Girard a sapere, lui, cosa ne era del «vero» Gesù, visto che non
c'è una sola frase dei vangeli che non sia già una teologia di questa Chiesa che avrebbe misconosciuto l'es-
senza del suo messaggio. C'è qui, come minimo, un vizio metodologico nei confronti dell'essenza del testo
evangelico.
L'autore riconosce che la Chiesa — come la società, d'altronde — non può vivere il messaggio della
non-violenza assoluta o del non-sacrificio radicale poiché non esiste un vivere-insieme possibile, tanto so-
ciale quanto religioso, se non attraverso il meccanismo vittimale. La domanda di fondo è allora la seguente:
l'impossibilità della Chiesa di vivere in un regime non-sacrificale può essere responsabile di un tradimento
fondamentale del Vangelo di Cristo, Vangelo che in questo caso annuncerebbe soltanto una escatologia trans-
storica? In altri termini, il «non ancora» è o non è costitutivo del Vangelo di Cristo? Questo si fa carico
della storia stessa? Il «divenire» è o non è essenziale all'essere cristiano? Il Regno di Dio irrompe nella
storia o solamente fuori dalla storia? Perché presupporre che Gesù non poteva conciliare il suo annuncio
effettivo della venuta imminente del Regno con la possibilità di un lasso di tempo, anche relativamente bre-
ve, dopo la sua morte? In questo caso si sarebbe sbagliato di grosso, il che però non renderebbe conto né
delle sue parole sulla crescita del Regno (anche se rimodellate dalle comunità cristiane) né soprattutto del
suo discorso escatologico all'ultima Cena dove, come mostra per esempio X. Léon-Dufour, egli attesta che
il gruppo dei suoi discepoli continuerà a vivere per un certo tempo dopo di lui (art. cit., cap. 6, n. 27,
pp. 160-161). Da tutto questo appare che il dibattito verte, in definitiva, sul rapporto storia/escatologia
e, simultaneamente, sulla Chiesa, la Chiesa che non è che «sacramento» del Regno che già viene, la Chiesa-
istituzione soprattutto con il suo sacramento dell'eucaristia. R. Girard ci sembra in ultima analisi troppo
«cristiano» per poterlo esssere davvero...
In ultima analisi, infatti, «come non essere cristiani?», chiede B. Lauret, se si segue R. Girard fino
in fondo (Lumière et Vie, 146,1980, pp. 43-53). Il cristianesimo non diventa in quest'ultimo «il bel fiore
di una metafora culturale di cui Gesù sarebbe l'esempio morale o addirittura il rivelatore»? E questo Gesù
non appare un po' troppo come «l'uomo esemplare di una società che sarebbe sfuggita alla violenza mimeti-
ca per impegnarsi in relazioni sociali interamente dominate dall'amore», come la semplice illustrazione (certo,
drammatica per lui) di un Dio ridotto a sua volta a un «Principio»: quello dell'interdetto della violenza?
La cristologia girardiana presenta evidenti «zaffate gnostiche». Essa appare troppo come la semplice chiave
di un'antropologia. È questa, lo sappiamo, una tentazione ricorrente nella storia della Chiesa, tentazione
che fu già quella dell'arianesimo e che, all'epoca dell'illuminismo e della teologia liberale, si è espressa
nel tentativo di pensare «la religione nei limiti della semplice ragione», riducendo il mistero di Cristo alla
semplice figura esemplare di una morale universale.

210
fettivamente al gruppo di riconciliarsi spurgando (catharsis) le forze di violenza che
lo minacciano dall'interno, il suo beneficio viene riportato su una divinità del retro-
mondo. Il «dio» funziona quindi come alibi sacralizzato (misconosciuto evidentemen-
te come tale) che dispensa gli uomini dall 'assumere la propria responsabilità nella
storia, dall'incidere nelle cause reali delle loro divisioni e dall'operare eticamente per
una riconciliazione tra di loro.
Questo processo religioso può essere veicolato in riti non immediatamente sacrifi-
cali, visto che ogni rituale può essere ultimamente ricondotto, secondo l'autore, a quello
del sacrificio così inteso. Più ancora, il processo sacrificale si maschera in ciò che
appare come non religioso: ogni opera letteraria (soprattutto il teatro), ogni istituzione
sociale (soprattutto giudiziaria) o politica (le «guerre dei capi» sul piano nazionale o
internazionale...) sono dei succedanei del sacrificio, nella misura in cui permettono
al gruppo di espungere la sua violenza, di designare dei colpevoli legali, di gestire
le tensioni interne che minacciano il tessuto sociale. In questo modo, secondo l'autore,
i testi evangelici (soprattutto i racconti della passione) prodotti dalle prime comunità
cristiane hanno fatto funzionare sacrificalmente il non-sacrificio per eccellenza che è
la morte di Gesù designando dei colpevoli: gli Ebrei.
Ora, Gesù è appunto venuto per smascherare questo processo sacrificale «nascosto
fin dalla fondazione del mondo». Ha potuto farlo perché l'Antico Testamento aveva
aperto la strada in questo senso. Esso, infatti, può essere visto come un «esodo pro-
gressivo fuori del sacrificale». Contrariamente ai miti delle varie religioni, la Bibbia
ha questo di singolare: che Dio prende le parti delle vittime sacrificate (e questo fin
dall'inizio, cf Abele) e che, di conseguenza, invece di «benedire» il gruppo che si ri-
concilia a buon mercato sulla pelle di una vittima sacralizzata, lo rimanda all'assun-
zione etica delle vittime: l'immigrato, lo schiavo, l'orfano, ecc. Questo capovolgimento
esodico è particolarmente esplicito nei profeti e culmina nel canto del Servo sofferente
(Is 52-53), anche se il processo sacrificale non vi è ancora totalmente abolito, dal mo-
mento che il Servo rimane la vittima espiatrice di un Dio ancora giustiziere. Su questo
sfondo biblico, R. Girard opera una lettura particolarmente felice, a nostro parere,
dei testi di maledizione contro i farisei (Mt 23,29-36; Le 11,49-53; Gv 8,43-44), di
quelli della passione di Gesù e del martirio di Stefano (At 7,51-58), della parabola dei
vignaioli omicidi, ecc. La frase del Sai 118: «La pietra scartata dai costruttori è diven-
tata testata d'angolo», applicata a Gesù, può, da sola, riassumere l'insieme della sua
lettura di questi testi.
Possiamo presentarla sinteticamente così: Cristo ha rivelato un Dio non violento,
nel senso di non vendicatore e non giustiziere. Se c'è violenza in Gesù, è una violenza
non sacrificale: smascherando la violenza degli uomini allo scopo di spingerla allo stre-
mo, egli la spinge all'estremo, fino al suo parossismo; ne diventa così la vittima, per-
ché il suo messaggio di rivelatore di ciò che doveva rimanere nascosto viene recepito
dagli uomini come intollerabile. Si può dunque vedere in Gesù «a un tempo la più grande
violenza e insieme niente più violenza, perché essa priva gli uomini di ogni aiuto sa-
crificale». Infatti il Regno di Dio che egli annuncia è quello della «non-violenza asso-
luta», quello della reciprocità perfetta: ecco perché lui stesso «deve» morire, vittima
di un mondo sempre violento. Di colpo «gli dèi della violenza vengono screditati dal-
l'annuncio di un Dio d'amore; la macchina è guasta, l'espulsione non funziona più».
Ogni culto sacrificale è ormai colpito da interdetto: Cristo «sottrae agli uomini le loro

211
ultime grucce rituali. Bisogna riconciliarsi senza il sacrificio o perire». La salvezza
si trova precisamente in questa rinuncia degli uomini a scaricarsi del loro compito sto-
rico di riconciliazione proiettandolo su un dio: un simile dio non è che un alibi che
essi si danno (senza saperlo) per gestire al minor prezzo possibile la loro colpevolezza
gettata su una vittima designata da tutti, unanimemente, come colpevole. Cristo è quindi
il «rivelatore universale» che dice «la responsabilità assoluta dell 'uomo nella storia:
volete che la vostra dimora vi sia lasciata? Ebbene, vi è lasciata». Messi alle strette,
agli uomini non resta che assumere la propria responsabilità etica, rinunciando a qual-
siasi immagine di un Dio giustiziere che fornisca la sua cauzione trascendente alle loro
sottili manovre per continuare a credersi innocenti.30

4. L'anti-sacrificale

a) Un terzo termine obbligato


Ci si può permettere di dubitare che questo processo sacrificale sia la chiave unica
di intelligenza dei riti, delle religioni e delle società stesse. Anche il fatto che Gesù
sia il rivelatore universale di questa chiave unica, cioè che la cristologia sia ultima-
mente la risposta all'antropologia dell'autore, ci lascia vigorosamente perplessi: se no,
come non essere cristiani? Il nostro interesse per la tesi girardiana non deriva dunque,
assolutamente, da una adesione senza condizioni, ma dal fatto che essa ci sembra toc-
care un punto fondamentale, cioè la tensione che caratterizza in regime cristiano (sulla
scia dell'ebraismo) il rapporto tra rito ed etica. R. Girard la legge come una opposi-
zione: o il regime sacrificale della demissione, oppure il regime etico della responsabi-
lità. Abbiamo sottolineato nel capitolo precedente che una simile tensione non doveva
essere né cancellata, né trasformata in opposizione. Ora, c'è nella tesi girardiana un
misconoscimento della condizione escatologica della Chiesa. Il Regno non sacrificale
della reciprocità perfetta può essere vissuto infatti so\o fuori dalla storia; esso non si
può quindi accontentare della via di mezzo della Chiesa e dei suoi sacramenti.
Per questo l'alternativa tra sacrificio o non-sacrificio ci sembra non sostenibile.
Le manca un terzo termine, che chiamiamo «anti-sacrificio». Questo «anti-sacrificio»
non è una negazione dello schema sacrificale che tutti ci inabita. Una simile negazio-
ne, infatti, vive dello stesso modello di rappresentazione dell'affermazione del sacrifi-
cale che vuole combattere. Come ogni «entusiasmo escatologico» o «gnostico», essa
non è che una maniera distorta di otturare questa «presenza-della-mancanza» (di Dio)
che facciamo tanta fatica a sopportare senza risentimento. Essa è in ultima analisi una
maschera di una metafisica della trasparenza di sé a sé che misconosce la radicale con-
tingenza della storicità e della corporeità.
Il regime anti-sacrificale a cui il Vangelo chiama si fonda sul sacrificale, ma per
rovesciarlo e quindi rimandare la pratica rituale, punto di passaggio simbolico che strut-
tura l'identità cristiana, verso la pratica etica, luogo di veri-fica della prima. Solo che
il passaggio dalla vetustà sacrificale alla novità del Vangelo, rappresentato dal rappor-
to dell'uno e l'altro Testamento, rapporto esso stesso rappresentativo del compito di

!0
Le citazioni di R. Girard nel paragrafo precedente sono tratte da «Discussion avec René Girard».
in Esprit, 1973/11, pp. 553-556.

212
conversione che spetta a ogni società e a ogni uomo, non è mai concluso. E la Chiesa,
sotto la legge anti-sacrificale dello Spirito, è sempre minacciata di regredire a sua vol-
ta verso il sacrificale, cioè di asservire nuovamente Dio, e quindi gli uomini, alla sua
«buona causa» attraverso un sistema chiuso, dogmatico morale o rituale...

b) La tentazione del ritorno al sacrificale


Una simile tentazione è facile da verificare lungo tutta la storia. L'applicazione del
vocabolario sacrale (sacrificale e sacerdotale), a partire dal terzo secolo, all'eucaristia
e ai ministri che la presiedono non è qui, come tale, in causa.31
Tuttavia, la sacerdotalizzazione dei ministri comportava un rischio di regressione
verso il sacrificale. Il primo pericolo era quello di ricuperare progressivamente
Feucaristia-sacrificio e i preti sacerdoti come dei nuovi intermediari tra Dio e gli uo-
mini. Un simile scivolamento era storicamente difficile da evitare completamente, so-
prattutto a partire dal momento in cui, nel IV secolo, l'Impero divenne ufficialmente
cristiano e la Chiesa un'istituzione consolidata che voleva conquistare a Cristo il mon-
do pagano. Il vescovo, poi i preti nelle campagne, presiedendo l'eucaristia e le altre
celebrazioni, apparvero ai nuovi convertiti dal paganesimo come attori in un ruolo ab-
bastanza simile a quello dei sacerdoti pagani. Questo fenomeno era ancora meno evi-
tabile dal momento che il clero della Chiesa stava effettivamente per sostituire i «mini-
stri» civili nel «servizio» sociale e religioso della città, e dal momento che, in seguito
alle invasioni barbariche in cui la Chiesa rimaneva l'unica organizzazione abbastanza
solida suscettibile di farsi carico dei numerosi compiti che fino ad allora erano stati
di pertinenza del potere civile, esercitava un ruolo sempre più predominante nella società.
Strettamente dipendente da questo primo pericolo, il secondo stava nell'uve che
si rischiava di fare della qualifica sacerdotale dei ministri: in un primo tempo un uso
esclusivo in cui, da dimensione inglobata del ministero ordinato, il «sacerdozio» ha
finito per essere inteso come un insieme inglobante, che bastava da solo a definirlo
tutto intero;32 poi, una fecalizzazione unilaterale sull'attività cultuale dei preti, al pun-
to che, «nel Medioevo, la maggioranza dei sacerdoti non esercitano il ministero della
parola — in generale non ne sarebbero stati capaci — e non sembrano avere quasi nes-
suna coscienza di una responsabilità di evangelizzazione»;33 infine una confisca del
sacerdozio battesimale del popolo di Dio da parte dei preti, confisca che, è bene notar-
lo, non rispetta nemmeno la «differenza di natura» tra il primo e il sacerdozio dei mini-
stri, che purtuttavia allora veniva costantemente sottolineato.34

3
' La sacerdotalizzazione dei ministri è legittima se rispetta la radicale trasmutazione del «sacerdozio»
operata dalla lettera agli Ebrei. A questa condizione essa è anche ricca di significato: in forza della sua
ordinazione (e non del suo battesimo, mediante il quale egli appartiene al «sacerdozio comune»), il ministro
è l'espressione «sacramentale» dell'identità della Chiesa come comunità in cui prende corpo l'attività sacer-
dotale unica ed esclusiva di Cristo.
32
Per questo motivo la qualifica «ministero ordinato» rimane preferibile a quella di «ministero sacerdo-
tale» o di «sacerdozio ministeriale» che qualificano troppo esclusivamente il ministero con una delle sue
dimensioni. A maggior ragione l'uso assoluto di «sacerdozio» per i preti deve essere accuratamente evitato.
33
P.M. G Y , «Evangelisation au Moyen Age», in Humanisme elfoi chrétienne, Beauchesne, 1976, p. 572.
34
La Summa Theologica di san Tommaso, per esempio, ignora quasi completamente il sacerdozio bat-
tesimale comune. Se l'autore vi fa qualche allusione in III, q. 82, a. 1, lo fa per sottolineare che l'unione
dei «laici» al Cristo è soltanto «spirituale», cioè si esercita soltanto «mediante la fede e la carità» e non «per

213
Le pratiche hanno evidentemente svolto in questo affare un ruolo altrettanto im-
portante delle teorie. Pensiamo per esempio alla moltiplicazione delle messe celebrate
per riscattare i lunghi mesi o anni di digiuno imposti ai peccatori nel quadro della peni-
tenza a tariffa dell'alto Medioevo,3S o, visto che le pene non espiate in questo mondo
dovevano esserlo nell'altro, alle fondazioni delle messe offerte (con i soldi alla mano,
sia chiaro) per questo o quel defunto: la nuova geografia dell'aldilà, stabilita in modo
preciso a partire dal 1175 con il purgatorio come «terzo luogo»,36 ha evidentemente
contribuito ad accrescerne sensibilmente il successo. Questa moltiplicazione delle messe-
riscatto comportò la moltiplicazione delle ordinazioni «assolute», dunque una infla-
zione di un corpo sacerdotale che faceva l'ufficio di intermediario e intercessore. Il
pullulare di preti-altaristi, incaricati esclusivamente della funzione di riscatto e di espia-
zione attraverso le messe, è indubbiamente uno degli effetti sociali più visibili di que-
sta massiccia corrente. Che le pratiche abbiano sovente distorto, e talvolta tradito, il
discorso dogmatico della Chiesa, è chiaro; e non si confonderà questo con quelle, e
nemmeno con molte teologie. Resta il fatto che, almeno al livello delle rappresentazio-
ni e delle pratiche più comuni, la corrente sembra essere stata massicciamente sacrifi-
cale; Fanti-sacrificale veniva mantenuto soltanto in certi discorsi ed era vissuto da una
«élite».

5. Sacrifìcio di espiazione e sacrificio di comunione


Il sacrificio di tipo riscatto o espiazione è più suscettibile di scivolare verso un do
ut des di natura mercantile di quanto non lo sia quello di tipo comunione che, invece,
mette più immediatamente in gioco il riconoscimento dell'esistenza come dono. Tutta-
via ci si sbaglierebbe ad immaginare che l'anti-sacrificale cristiano possa assumere questo
ad esclusione di quello. Infatti, come scriveva tempo fa M. Mauss, «non c'è sacrificio
in cui non intervenga una qualche idea di riscatto» o «qualcosa di contrattuale».37 Il
crinale anti-sacrificale, di conseguenza, passa non tra schema di espiazione e schema
di comunione, ma fra l'atteggiamento servile e l'atteggiamento filiale nei confronti di
tutto il sacrificale.

mezzo di un potere sacramentale». Questo si collega a quanto egli dice del «carattere» battesimale come
«configurazione al sacerdozio di Cristo»: esso dà ai fedeli soltanto «il potere di ricevere gli altri sacramenti
della Chiesa», a differenza del «carattere» dell'ordinazione sacerdotale che «deputa certi uomini a trasmette-
re agli altri i sacramenti» (III, q. 63, a. 6). Il primo è un «potere passivo», il secondo un «potere attivo»
(Suppl., q. 34, a. 2). Noi non neghiamo che una simile teologia dica qualcosa di importante sulla differenza
tra il sacerdozio battesimale e il «sacerdozio ministeriale». Ma lo dice in modo tale da riflettere, giustificare
e rafforzare l'erosione progressiva dell'attività liturgica dell'assemblea a profitto del clero, che la storia
delle pratiche dell'eucaristia illustra con abbondanza.
" Il Penitenziale «a» di Vienna precisa che «per suo conto proprio, il prete potrà celebrare solo sette
messe al giorno, ma, a richiesta dei penitenti, potrà dirne tante quante è necessario, anche oltre le venti
messe quotidiane». Testo in C. VOGEL, Le Pécheur et lapénitence au Moyen Age, Cerf, 1969, p. 30 (trad.
ital.: Il peccatore e la penitenza nel Medioevo, Elle Di Ci, Leumann 1988).
56
J. LE GOFF, La Naìssance du purgatoire, Gallimard, 1981, pp. 166-173 e soprattutto pp. 437-439
(trad. ital.: La nascita del Purgatorio, Einaudi, Torino 1982).
" H. HUBERT e M. MAUSS, «Essai sur la nature et la fonction du sacrifice» (1899), in M. MAUSS, Oeu-
vres, 1: Les fonctions sociales du Sacre, ed. de Minuit, 1968, pp. 304-305 (trad. ital.: Saggio sulla natura
e la funzione del sacrificio, Morcelliana, Brescia 1981).

214
La dimensione «comunione» non è meno prioritaria nel cristianesimo, come mo-
stra il legame originale tra todah ed eucharistia. Di conseguenza, se è vero che la di-
mensione «propiziazione» (intendiamo: «riconciliazione» o «perdono»), così fortemen-
te sottolineata a proposito del «sacrificio della messa» nel concilio di Trento contro
i Riformatori, è costitutiva dell'eucaristia, è anche vero che essa va intesa all'interno
della sua natura di «sacrificio di azione di grazie»: è rendendo grazie, rendendo a Dio
la sua Grazia, il Cristo offerto in sacramento, che noi siamo resi a noi stessi, cioè
instaurati o restaurati nella nostra condizione di figli, e così riconciliati.
È evidente la posta in gioco di ciò che chiamiamo l'anti-sacrificale: non la negazio-
ne del sacrificale o di una parte di esso (il suo elemento di riconciliazione) ma l'esi-
genza di convertire al Vangelo tutto il sacrificale per viverlo in maniera filiale (quindi
fraterna) e non più servile. Proprio per questo la realizzazione di questa fraternità,
fondata sulla nostra comune filiazione, mediante la pratica etica della riconciliazione
tra gli uomini costituisce il luogo primo del nostro «sacrificio». Questo è quanto fa
vedere e fa vivere l'anti-sacrificio dell'eucaristia.

6. Un'etica eucaristica: Ireneo e Agostino


Secondo le celebri pagine di sant'Ireneo nel Adv. Haer. IV, 17-18, l'oblazione è
il luogo pedagogico fondamentale in cui impariamo a fare nostro l'atteggiamento stes-
so di Gesù, cioè a passare dall'atteggiamento adamico di schiavo, considerando imma-
ginariamente la potenza divina come una preda di cui impadronirsi, a un atteggiamen-
to di figlio, felice di lasciare che solo Dio sia Dio e di riconoscersi sua creatura, frutto
di grazia del suo amore paterno. «C'erano sacrifici nel popolo (ebraico), ce ne sono
anche nella Chiesa», scrive Ireneo. Solo che — aggiunge — «ne è stata cambiata la
specie: l'offerta non viene più fatta da schiavi ma da uomini liberi». Infatti l'oblazione
eucaristica delle «primizie della creazione» è, nella dipendenza stessa di cui è testimo-
nianza nei confronti di Dio, «il marchio distintivo della libertà»: offerta in azione di
grazie, essa manifesta che «Dio non ha bisogno di nulla» e che si aspetta una cosa sola
dall'uomo: che gli «esprima la sua riconoscenza». Non è dunque per se stesso — ri-
prende Ireneo al seguito degli apologisti cristiani del II secolo e sulla scia di Filone
e di molte correnti giudaiche (supra) — che Dio sollecita un'oblazione, ma per noi:
«Siamo noi che abbiamo bisogno di offrire a Dio i beni che gli consacriamo. Infatti,
riconoscendo in questo modo che non abbiamo nulla da offrire da noi stessi e che non
possiamo presentare a Dio se non quello che viene da lui come un dono (cf il ta sa
ek ton sonprospherontes delle anafore antiche), noi cessiamo di essere «sterili e ingra-
ti»; da «a-charistoi» diventiamo «eu-charistoi»; da ingrati diventiamo recanti grazia.
E diventare recanti grazia verso Dio richiede che diventiamo recanti grazia verso gli
altri. Perché riconoscere ciò che Dio fa per noi, riconoscere ciò che egli ha fatto ulti-
mamente nel dono di suo Figlio che «ricapitola» in sé tutti i doni del Padre e che costi-
tuisce il «sacrificio puro» offerto «da tutta la terra» {MI 1,10-11) significa essere solle-
citati ad essere verso gli altri come Dio è verso di noi. L'oblazione eucaristica ci inse-
gna così come «servire Dio» invece di asservirlo a noi; ci insegna cosa vuol dire passa-
re dal regime di schiavitù a quello di filiazione e, per suo tramite, di fraternità. Facen-
doci diventare come figli nel Figlio, essa ci dona gli uni agli altri come fratelli. Ecco
perché — continua a ripetere Ireneo riprendendo un florilegio anti-sacrificale di 17

215
citazioni bibliche — il sacrificio che Dio gradisce non è altro che quello, nella sequela
di Cristo, dell'obbedienza alla sua parola e della pratica della giustizia e della miseri-
cordia verso gli altri. Questa è la pasqua anti-sacrificale che, in comunione con quella
di Cristo, l'eucaristia ci manifesta simbolicamente e ci dà da realizzare eticamente.
Echi del tutto simili ci giungono dalle non meno celebri pagine di sant'Agostino
nella Città di Dio (X, 5-6): «Si deve credere che Dio non ha bisogno non solo di bestia-
me, e nemmeno di qualsiasi altra cosa corruttibile e terrestre, ma nemmeno della giu-
stizia dell'uomo: tutto ciò che onora Dio avvantaggia l'uomo e non Dio». E a sua volta
Agostino usa un florilegio di una dozzina di citazioni bibliche. Egli precisa allora la
funzione del sacramentum eucaristico: esso è «il sacrificio visibile, cioè il sacramento
o segno sacro del sacrificio invisibile». Ora, che cos'è questo sacrificio invisibile? È
l'obbedienza e l'amore con i quali Cristo si è consegnato al Padre e agli uomini, of-
frendo con sé tutta l'umanità di cui si era fatto fratello. In comunione con lui, è la
nostra stessa vita donata agli altri mediante la pratica della misericordia. Perché «il
vero sacrificio è la misericordia». O anche, questo vero sacrificio invisibile è la prati-
ca dell'«amore di Dio e del prossimo» che riassume tutta la legge e che, precisa Ago-
stino, era significata dai sacrifici del tempio; consiste in definitiva in «ogni opera com-
piuta per stabilirci in una santa società con Dio».
Ora, questa «santa società» viene realizzata prioritariamente nella Chiesa.n In quanto
corpo di Cristo in cui tutti, secondo la varietà dei doni dello Spirito, sono membri gli
uni degli altri, essa è infatti il luogo stesso di comunione con Dio e con gli altri. Queste
magistrali pagine di Agostino culminano quindi nella presentazione della Chiesa come
«il sacrificio universale» offerto a Dio tramite Cristo. E l'eucaristia è il sacrum signum
di questo sacrificio universale: «Questo è il sacrificio dei cristiani: che noi che siamo
numerosi formiamo un solo corpo in Cristo (multi unum corpus in Christo). È quanto
la Chiesa compie nel sacramento dell'altare, ben noto ai fedeli, in cui le viene manife-
stato che in ciò che essa offre è lei stessa offerta». L'eucaristia quindi è la rivelazione
e il compimento di questo «vero sacrificio» che è il divenire dei cristiani in Chiesa-
corpo di Cristo. Essi lo diventano nell'atto in cui, offrendo il Cristo «in sacramento»,
sono offerti «per lui, con lui e in lui», secondo la dossologia della preghiera eucaristi-
ca. Il sacrificio sacramentale è quello del Christus totus, Testa e Corpo.
Così presentato, questo sacrificio è anche «il simbolo di ciò che noi siamo» (S. 227).
Impossibile qui dire «il Cristo» senza dire simultaneamente «la Chiesa»: l'eucaristia
è la sym-bolizzazione sacramentale dei due. Il sacrificio dei cristiani espresso nel sa-
cramentum non è Cristo preso isolatamente, ma l'unum corpus ecclesiale da vivere
«in lui». È così che il suo sacrificio diventa il nostro sacrificio, e la sua pasqua la no-
stra pasqua. Impossibile pensare teologicamente il primo senza il suo avvolgimento
simbolico con il secondo nel sacramento. Chi dice simbolo — l'abbiamo sottolineato
— dice differenza tra i due termini simboleggiati; ma chi dice simbolo dice anche in-
terdizione di pensare l'uno al di fuori del suo rapporto con l'altro: in questo caso, im-
possibilità per l'uno di diventare sacramento senza il suo rapporto con l'altro. Si rifiuta

38
Si tratta qui della Chiesa come societas sanctorum e non come semplice communio sacramentorum.
Distinzione importante elaborata durante la controversia con i Donatisti: questi appartengono alla seconda,
ma non alla prima. Cf Y . M . CONGAR, Introduction aux Traités anti-donatistes de S. Augustin, I, Bibl. aug.,
n. 28, DDB, pp. 97-115.

216
così ogni signoria del sacrificio di Cristo che, con il pretesto del «realismo», avverreb-
be a detrimento della verità del sacrificio dei partecipanti nei loro rapporti reciproci
come membri dello stesso corpo di Cristo. Il sacramentum non può effettuare in verità
un rapporto a Cristo senza effettuare simultaneamente, sempre in verità, un rapporto
con gli altri, rapporto che chiede di prendere storicamente corpo nella pratica della
riconciliazione tra gli uomini. L'«anti-sacrificio» dell'eucaristia, lungi dal servirci da
alibi, ci mette con le spalle al muro. È il grande simbolo dell'«esodo fuori dal sacrifi-
cale» di cui parlava R. Girard.
Nonostante le loro differenze di cultura e di sensibilità, Ireneo e Agostino si incon-
trano sul terreno dell'eucaristia. Entrambi ce la presentano come la grande pedagogia
in cui l'uomo «impara a servire Dio» (Ireneo), in cui la Chiesa, corpo di cui Cristo
è la testa, «impara ad offrire se stessa attraverso di lui» (Agostino). Precisazione im-
portante: nei due casi, una simile pedagogia pertiene non a un semplice exemplum esterno
a noi, ma a un sacramentum in cui il Cristo è lui stesso il primo impegnato. Mediante
l'oblazione eucaristica noi impariamo a fare nostro il suo atteggiamento «anti-sacrificale»,
lui che fu pienamente nostro Fratello perché è pienamente situato come Figlio. Impa-
riamo a riconoscerci come di altri e per altri riconoscendoci come di Dio e per Dio.
Questa è la condizione dell'avvento alla libertà. Come sacrificio della libertà, l'eucari-
stia ci restituisce a noi stessi e agli altri (questa è la sua dimensione di riconciliazione)
nell'atto stesso in cui noi ci «rendiamo» a Dio rendendogli filialmente ogni grazia (e
questa è la sua dimensione, sempre primaria, di «sacrificio di azione di grazie»).
La grazia dell'eucaristia è ultimamente il nostro personale avvento come uomini
eucaristici, cioè come figli per Dio e fratelli per gli altri, in comunione con il Figlio
e il Fratello di cui vi facciamo memoria. Questa grazia ci è data come compito: essa
ci ingiunge di rinunciare al Dio-alibi che il nostro desiderio continua a fabbricare per
dare corpo nella storia al Dio crocifisso che, sottraendoci le nostre «grucce rituali», ci
vuole liberi nella dimora che egli lascia alla nostra responsabilità. La pratica del du-
plice comandamento d'amare Dio e il prossimo, con le sue implicazioni socio-politiche,
è il «vero sacrificio», la liturgia prima che impariamo dall'anti-sacrificio eucaristico.

CONCLUSIONE
RISCHI E FORTUNE DEL VOCABOLARIO SACRIFICALE

«Sacrificio»: ecco, indubbiamente, uno dei termini più insidiosi del vocabolario cri-
stiano. A. Vergote ha smontato in modo egregio, antropologicamente, il théologou-
mène del Dio giustiziere che sacrifica suo Figlio al posto nostro e ne ha manifestato
il carattere difficilmente, meglio, francamente insostenibile in teologia cristiana.39
I «Colpitelo, Signore, colpitelo!» rivolti al Dio che scaglia la sua ira sul Figlio per salvarci,
nei sermoni di Bourdaloue e altri,40 devono essere chiamati con il loro nome: una perversione

" A. VERGOTE, «La mort rédemptrice...», in X. LÉON-DUFOUR, A. VERGOTE et al., Mortpour nos
péches, Bruxelles 1976.
40
Per esempio, BOSSUET, «Sermon sur la Passion de Jésus-Christ» (26 marzo 1660), in Oeuvres choi-
sies par J. Calvet, Hatier, Paris 1921, pp. 101-108.

217
di Dio. Sappiamo da dove viene, dal punto di vista psichico, questo bisogno di un Dio punitore;
inutile insistervi. Precisiamo soltanto che, dal punto di vista freudiano, la religione è essenzial-
mente una gestione della colpa, come ha sottolineato J. Gagey;41 e volere che non sia così, con
il pretesto della «maggiore età» adulta e critica, significa appunto rafforzare (ingenuamente) ciò
che si vuole negare. Aggiungiamo anche che il Dio tutto amore, che a volte si invoca per reazio-
ne contro il Dio vendicatore, può essere non meno perverso, anche se in modo più sottile, di
quest'ultimo: quando l'amore, con il pretesto del perdono, non può più sanzionare nulla, quan-
do non è più strutturato da una legge e dunque da un divieto, questo «troppo amore» di cui non
ci si può mai sdebitare perché si consuma solo chiedendo sempre di più, rischia di essere vissuto
immaginificamente come un debito insolvibile; si viene allora afferrati in un cerchio infernale
da cui non si può uscire, poiché la confessione della verità — questo amore è persecutore —
è supremamente interdetta.42
A parte quest'ultima osservazione, il linguaggio sacrificale richiede quindi di esse-
re usato pastoralmente solo con estrema prudenza. Rimane però, per le ragioni fornite
prima, inevacuabile. Ci sembra perfino, come rappresentante simbolico dell'insieme
delle attività e istituzioni cultuali di Israele, teologicamente prezioso. Sotto l'angolatu-
ra «Scrittura» esprime il compimento, mediante superamento critico, del culto vetero-
testamentario in Cristo. Sotto l'angolatura «Sacramento» costituisce, attraverso i riti
dell'oblazione e della comunione, un simbolo particolarmente pregnante dell'identità
filiale e fraterna che unisce i credenti a Dio e tra di loro in Cristo. Sotto l'angolatura
«Etica» permette di fare una lettura «liturgica» della loro pratica di giustizia e di mise-
ricordia. Questo linguaggio (anti-)sacrificale, inteso correttamente, esprime dunque
una delle dimensioni costitutive dell'identità cristiana. E la sua «espressione» eucari-
stica manifesta in modo esemplare il processo secondo il quale il cristiano perviene
alla verità della propria identità.

1
J. GAGEY, Freud et le christianisme, op. cit., soprattutto il cap. 9.
1
M. BELLET, Le Dieu pervers, op. cit., pp. 15-49.

218
PARTE TERZA

L'ATTO DI SIMBOLIZZAZIONE
DELL'IDENTITÀ CRISTIANA
La nostra seconda parte ha situato i sacramenti come un elemento fra altri nell'in-
sieme della configurazione epistemica propria della Chiesa. È giunto ormai il momen-
to di precisare teologicamente qual è l'originalità o la «specificità» di questo elemento,
qual è la sua differenza rispetto agli altri. È questo l'oggetto della terza parte.
Lo faremo in tre momenti principali. Prima di tutto (cap. IX) ci interesseremo del-
la modalità di espressione particolare che li costituisce: la ritualità. Poi, li affrontere-
mo sotto l'angolatura della dialettica tra l'istituto e l'istituente. Se è vero che essi sono
la più istituita delle varie mediazioni della Chiesa (capitolo X), è anche vero che essi
ne sono, in quanto espressione simbolica operante, la più istituente (capitolo XI). Sa-
remo così condotti ad incontrare lungo il nostro percorso un certo numero di problemi
sacramentari classici: da quello dell'istituzione dei sacramenti da parte di Gesù Cristo
fino a quello della grazia sacramentale.

220
Capitolo Nono

I SACRAMENTI,
ATTI DI SIMBOLIZZAZIONE RITUALE

L'IMPEGNO RADICALE DELLA CHIESA NEI SACRAMENTI

Come intendere l'originalità del Sacramento in rapporto alla Scrittura e all'Etica


che sono, anch'esse, mediazioni ecclesiali della nostra relazione a Dio? L'itinerario
teologico fin qui proposto condanna recisamente come falsa pista qualsiasi riflessione
che veda nei sacramenti un «più» o una «altra cosa» rispetto alle Scritture. «Ci si va
a infilare in vicoli ciechi quando si vuol vedere questa differenza a livello quantitativo,
come se il sacramento desse più della Parola», scrive giustamente J.J. Von Allmen.1
La differenza, a nostro parere, va presa dalla parte del sacramentum stesso, cioè dalla
parte della modalità di mediazione messa in opera.
E in questa prospettiva che si inscrive K. Rahner. Un sacramento, scrive, è «un
atto di compimento della Chiesa da parte di se stessa in un impegno assoluto».2 II teo-
logo tedesco sviluppa questa tesi a partire dal problema dell'efficacia dell'azione di
Dio nelle varie forme di proclamazione della Parola da parte della Chiesa. Egli ne trae
una convinzione fondamentale: il dono della salvezza da parte di Dio non è più legato
all'annuncio propriamente rituale e sacramentale della Parola di quanto lo sia al suo
annuncio nella modalità delle Scritture o della testimonianza etica. Per questo «il con-
cetto di opus operatum non basta da solo a segnare il limite tra un sacramento e altri
eventi (di grazia)».1 O ancora, come scriveva più recentemente lo stesso autore, l'o-
pus operatum, cioè la Parola efficace di Dio, e Yopus operantis, cioè «l'agire persona-
le, libero, eticamente religioso dell'uomo», «non si distinguono come azione di grazia
di Dio nell'uomo e compimento solamente umano». Infatti «perfino l'agire libero del-
l'uomo, là dove non è colpa, è evento della grazia». Le due nozioni suddette si distin-
guono «come storia istituzionale, esplicita, che trabocca nella visibilità ecclesiale nei
sacramenti», da una parte, e come «agire salvifico solamente esistenziale dell'uomo
nella grazia di Dio» dall'altra.4 Non si può dunque dedurre l'originalità dei sacramenti
— la loro «differenza specifica» — dal solo criterio di efficacia.
E non la si può dedurre nemmeno dal grado di fede richiesto, come se Yex opere
operato permettesse al recettore di «approfittare» della grazia a prezzo scontato. Il fat-

1
J.J. VON ALLMEN, Célébrer le salut, op. cit., p. 166.
2
K. RAHNER, «Parole et eucharistie», in Ecrits théologiques, t. 9, DDB, 1968, p. 78 (trad. ital.: Saggi
teologici, Paoline, Roma 1965). Cf I D . , Église et sacrement, DDB, 1970, pp. 35-39 (trad. ital.: Chiesa
e sacramenti, Morcelliana, Brescia 1973).
J
I D . , «Parole et eucharistie», p. 72.
4
ID., Traile fondamental de la fai. Introduction au concept du christianisme, Centurion, 1983, p. 475
(trad. ital.: Corso fondamentale sulla fede, Paoline, Alba 1977). Le sottolineature sono nostre.

221
to che Dio si proponga sempre nei sacramenti perché ne è l'agente operatore (signifi-
cato positivo dell'ex opere operato), o che né il ministro né il soggetto recettore, in
ragione del loro grado di fede o di santità possano essere all'origine del dono di grazia
di Dio o necessitarlo (significato negativo dell'ex: opere operato), non rende i sacra-
menti più «automaticamente» efficaci: essi non possono accontentarsi di meno fede per
effettuare la comunicazione del soggetto con Dio di quanta ne richieda la lettura delle
Scritture o il servizio per gli altri. La nozione di validità non è altro che la trascrizione
nell'ambito della gestione dei sacramenti dell'affermazione precedente secondo la quale
Dio solo è il loro principio di operazione: la Chiesa ne è soltanto la depositaria e non
la proprietaria. La nozione di efficacia (soggettiva) tradizionalmente sottolinea il fatto
che, come diceva Agostino a proposito del battesimo, «ognuno riceve secondo la sua
fede». La fede non è la misura del dono, ma è la misura della sua recezione. I sacra-
menti «diventano efficaci solo incontrando la libertà dell'uomo nel suo atto di apertura».5
In queste condizioni, l'originalità dei sacramenti può essere presa solo da parte della
Chiesa che vi si impegna radicalmente e vi gioca così tutta la sua identità. Noi faccia-
mo dunque nostra la prospettiva di Karl Rahner. Soltanto che l'affermazione teologica
dell'impegno radicale della Chiesa chiede di essere verificata più da vicino nei fatti,
cioè nello spessore concreto della mediazione che costituisce i sacramenti. Questa me-
diazione è rituale. Noi non intendiamo certo dedurre la tesi teologica qui enunciata
da una antropologia rituale. La sua pertinenza infatti può essere provata teologicamen-
te solo all'interno della coerenza propria alla fede cristiana. Ma in teologia sacramen-
taria noi siamo d'acchito nell'ordine dell'espressione simbolica, al punto che la «real-
tà» di ciò che viene effettuato non è separabile dal sacramentum in cui trova corpo,
come abbiamo sottolineato al capitolo precedente, con il principio dell' in sacramento.
Se, dunque, è esatto che i sacramenti ricevono la loro singolarità dal carattere radicale
dell'impegno della Chiesa che li celebra, questo richiede di essere verificato nella loro
modalità concreta, cioè rituale.
Dopo aver messo in risalto prima di tutto (I) la legge, fondamentalmente pratica,
della ritualità, proporremo (II) una lettura teologica di alcune componenti principali
di essa, lettura relativa alla radicalità dell'impegno della Chiesa nei sacramenti che
costituisce uno degli obiettivi principali di questo capitolo. Sottolineeremo in seguito
(III) il rapporto essenziale tra la ritualità e l'uomo totale come corporeità, proponendo
infine (IV) una ripresa dell'insieme sotto l'angolatura della corporeità della fede. Ag-
giungiamo che la riflessione che proporremo nel capitolo XI sulla particolarità del «gioco
di linguaggio» rituale avrebbe potuto, e addirittura sotto certi aspetti dovuto, trovare
posto qui. Abbiamo tuttavia optato per il suo inserimento nel quadro della nostra ri-
flessione sull'espressione simbolica operante, che la richiama in modo più immediato.

I. LA LEGGE FONDAMENTALE DELLA RITUALITÀ RELIGIOSA:


UNA PRATICA SIMBOLICA
Per delimitare l'oggetto della nostra presente riflessione sarebbero necessarie qui
numerose precisazioni terminologiche: estensione della nozione di «rito» in etologia e

!
I D . , ibid., p. 460.

222
in antropologia;6 nozioni di «ritualità», «ritualismo» e «rituale»;7 vari gradi di ritualità:
dai riti maniaci fino ai rituali istituiti passando attraverso i riti di interazione;8 tipolo-
gia dei riti istituiti religiosi: riti di passaggio di tipo «stagionale» (socio-tribali), di tipo
«misterico» (aggregazione a una «confraternita») o di attribuzione di potere (riti di in-
vestitura); riti di colloquio o del «quotidiano», di tipo «purificazione» (esorcismi, sa-
crifici di espiazione) o di tipo «comunione» (adorcismi, sacrifici di comunione), ecc.
Come tutto quello che è «-urgia», dalla chir-urgia fino alla metall-urgia, la lit-urgia
è una pratica. Questa è la legge fondamentale del rito. E opportuno esplicitarlo, data
l'enorme portata per la liturgia in generale e per il nostro argomento in particolare.

1. L'essenza pragmatica del linguaggio rituale


In quanto rituali, i sacramenti non sono prima di tutto di ordine cognitivo, ordine
della «-logia», ma di ordine pratico. Certo, essi trasmettono anche delle informazioni
in materia di dottrina e di etica; ma non operano sul piano discorsivo proprio della
teo-logia.
Ogni rituale religioso è di essenza così pratica che si dà sempre come pertinente
all'instaurazione o alla restaurazione di una comunicazione con Dio, gli dèi, gli spi-

8
Cf J. HUXLEY, (a cura di), Le Comportement rituel chezl'homme et chez l'animai, Gallimard, 1971.
I «riti», tra gli animali, di corteggiamento prenuziale, di delimitazione del territorio, di preparazione o di
conclusione della lotta sono considerati come «formalizzazioni adattative» di comportamento (p. 23) che
permettono una economia di energie nei perpetui adattamenti di «ethos» che la vita di gruppo richiede. An-
che i riti umani sono questo, certo. Ma gli antropologi, più sensibili alla rottura della «cultura» rispetto alla
«natura», sono più reticenti degli etologi a parlare di «riti» tra gli ammali. Così L. D E HEUSCH («Introduc-
tion à une ritologie generale» nel Centro di Royamont, L'Unite de l'honme, Seuil, 1974) intitola la prima
parte del suo intervento: «L'animale cerimoniale e l'uomo rituale» (pp. 679-687) perché «la cerimonia è
prima del linguaggio, ma il rito no» (p. 687).
7
La «ritualità» è una dimensione costitutiva dell'uomo. «Ritualismo» ne designa una devianza più o
meno patologica, soprattutto in direzione della coazione a ripetere e della nevrosi ossessiva (Freud), cioè
in direzione del «rubricismo». Un «rituale» è una sequenza formata da un insieme di riti programmati (se-
condo una tradizione orale o dei libri liturgici).
1
Possiamo distinguere tre gradi di ritualità. Il grado 3 è quello dei «rituali istituiti», come la firma
di un trattato, una prestazione di giuramento sulla Bibbia, un matrimonio in comune o in chiesa; essi hanno
sempre un'efficacia di tipo performativo. Ma, prima di questo grado 3, l'unico che ci interessa qui, esiste
un grado 2 che corrisponde ai «riti di interazione» studiati da E. GOFFMAN (Les Rites d'interaction, ed.
de Minuit, 1974): sono dei concentrati di apprendistato sociale (codici di proprietà, di cortesia, di conve-
nienza, comportamenti apparentemente «spontanei» per evitare di perdere la faccia o di farla perdere ad
altri in una discussione, nella metropolitana, in una banca o in un'aula, a seconda delle circostanze di luogo,
tempo o persona...). A un livello più primario, scopriamo dei riti di primo grado: riti più o meno maniaci
o magici (sputarsi sulle mani prima di cominciare ad abbattere un albero o di sollevare un oggetto pesante,
scendere la scala cominciando con il piede sinistro, farsi il segno di croce prima di un concorso sportivo...),
riti caratterizzati da Freud come sottoposti a una coazione a ripetere in cui egli individuava l'opera della
pulsione di morte; pur avendo eventualmente coscienza del loro carattere irrazionale, il soggetto avverte
una vera e propria frustrazione se li omette. E.H. EWKSON e J. AMBROSE radicano la ritualità nell'esperien-
za preverbale del lattante (in J. HUXLEY, op. cit., pp. 139-158 e 170-175). Tra i vari gradi di ritualità,
per esempio tra il legame madre-lattante e una celebrazione eucaristica, si svolge uno stesso processo fonda-
mentale di ritualizzazione, anche se in modi di formalizzazione molto diversi (ERIKSON, «Ontogénie de la
ritualisation», in HUXLEY, op. cit., p. 142). Non ci interessiamo ulteriormente a questo aspetto, che abbia-
mo segnalato qui solo per attirare l'attenzione sul fatto che la ritualità, a differenza dell'apprendimento della
lettura o del camminare, non è accidentale all'uomo: si può diventare pienamente soggetti senza saper leg-
gere né poter mai camminare; non è possibile diventarlo senza ritualizzazione.

223
riti..., e questo in forza del semplice fatto che viene eseguito secondo le norme sociali
di legittimità e di validità. Ogni rituale religioso pretende quindi di agire in certo modo
ex opere operato. Il fare ha la priorità sul dire; o meglio ciò che è realmente detto
è ciò che è fatto; di modo che la maniera di dire è qui più decisiva del «contenuto»
di ciò che è detto, essendo il contenuto dell'enunciato largamente determinato dal con-
testo dell'enunciazione. Questo significa che il linguaggio rituale chiede di essere trat-
tato nel quadro di una pragmatica e non soltanto di una semantica.
Ora, secondo la teoria della diversità dei «giochi di linguaggio» formulata da L.
Wittgenstein e ripresa da J. Ladrière (infra, cap. XI), il linguaggio liturgico ha questo
di specifico: che dispiega l'auto-implicazione costitutiva del linguaggio della fede. La
mette in scena come tale secondo un intento pragmatico che è impossibile considerare
come semplicemente accidentale. Nelle sue diverse espressioni (azioni di grazie o sup-
plica, confessione o invocazione...), la sua unità è garantita dalla sua modalità illocu-
zionaria, modalità che si cristallizza nella performatività delle formule sacramentali.
L'operatività simbolica è costitutiva della «testualità» stessa della liturgia: essa appar-
tiene alla sua stessa essenza di testo o alla specificità del gioco di linguaggio che gli
è propria.
Per questo i riti non si adattano né al didatticismo né al moralismo. Le logomachie
esplicative o moralizzanti con cui si pretende di salvarli impediscono loro, di fatto,
di lavorare sul registro che è loro proprio; questo rimedio è un veleno. E, per sopram-
mercato, questi discorsi, spesso desiderosi di strappare i riti liturgici alla «magia», ri-
schiano di procedere loro stessi da un'altra onnipotenza magica: quella della parola
che crede di cambiare il mondo con il suo mona. La parola magica non è forse, come
dice Lue de Heusch, un «discorso-macchina»? Il mago «converte la tecnica in linguag-
gio, così come fa del linguaggio una tecnica».9
L'illusione è molto più facile per noi Occidentali che, abitati da venticinque secoli
di tradizione logocentrica, fissiamo «spontaneamente» la nostra attenzione sulle «idee»
che il rito evoca piuttosto che sul lavoro che esso effettua. Dobbiamo dunque liberarci
da un a priori profondamente radicato nella nostra cultura per riconoscere che il ritua-
le non è tanto di natura mentale quanto «comportamentale». Esso funziona al livello
dei significanti e delle «figure» che essi formano, e non prima di tutto al livello dei
significati e dei «contenuti» ideali. D'altronde è questo il motivo per cui la condotta
intonatoria è spesso più «performante» in questo ambito del contenuto degli enunciati
stessi. «Non dite quello che fate, fate quello che dite»: ecco la legge di base della liturgia.
«La messa è un raduno». Va bene! Ma perché questa idea «passi», è molto più effi-
cace organizzare lo spazio della celebrazione in modo che i partecipanti possano ve-
dersi (invece di vedere solo le spalle) piuttosto che sgolarsi a discorrere sull'assemblea
domenicale. «L'altare è la tavola del pasto eucaristico». D'accordo anche su questo!
Ma che la sua disposizione e il suo allestimento ricordino allora una tavola, e non una
pietra sacrificale o un deposito di carte, libri di canti, occhiali e altri oggetti eterocliti!
Si insiste: «L'eucaristia è una condivisione». Certo! Ma che il prete cominci allora,
quando spezza l'ostia per la condivisione dello stesso corpo del Signore, con il non
consumare da solo il pane che ha appena spezzato!
Il rito funziona prima di tutto al di qua dei significati. Ed ecco che ci priva del

' L. DE HEUSCH, op. cit., p. 701.

224
nostro desiderio di padronanza e del nostro potere. Ed ecco perché, in una cultura il
cui stesso fondamento è costituito da una lunga tradizione metafisica e tecnica di «ispe-
zione» del reale (supra, cap. II), la de-padronanza che esso richiede è così difficile
da accettare con serenità, a meno di cadere (tentazione contraria) nel «simbolismo»
esoterico di certe correnti di «parapsicologia» che attualmente fioriscono. Si è già nella
preghiera assumendo semplicemente la posizione rituale dell'inginocchiarsi; vi si è,
come al grado zero, prima che sia stata detta una qualunque parola, e anche quando
la preghiera avesse eventualmente come unico contenuto il «Signore, ti parlo» o, addi-
rittura, solo il corpo in preghiera, il corpo-preghiera. Il rito delle letture della Bibbia
nell'assemblea comincia molto prima che venga proclamato: «Lettura dal libro del pro-
feta Isaia»; funziona dal momento in cui l'assemblea si siede e il lettore si alza e pren-
de il libro o va a prendere posizione davanti al libro. È questo tipo di funzionamento
specifico che spiega il fatto che una famiglia, per quanto duramente provata dalla mor-
te di una persona cara, non ritenga scandaloso (anche se le eccezioni diventano sempre
meno rare) il fatto che il prete proclami ritualmente durante il funerale: «Rendiamo
grazie al Signore nostro Dio».

2. Il linguaggio rituale nella nostra cultura


Tutto questo non significa evidentemente che ci si debba disinteressare della quali-
tà teologica degli enunciati nella liturgia e del loro tasso di credibilità per i partecipan-
ti. Da una parte infatti, anche all'interno di un'«area di udibilità»10 che ne determina
prioritariamente la portata, questa qualità rimane una delle componenti del funziona-
mento della liturgia. E soprattutto, d'altra parte, fa sempre più parte della cultura at-
tuale la rivendicazione della comprensibilità di quello che è enunciato, pena il sospet-
to di una mistificazione. Che ci sia in questa rivendicazione una parte di illusione o
anche una buona dose di pretesa e una nuova forma di ingenuità (tanto più pericolosa
dal momento che si pretende giustamente, essendo «maggiorenni», di non essere più
ingenui), non è una ragione per rifiutare di capire la domanda che vi si formula collet-
tivamente. E la liturgia attuale, pena il rischio di essere vittima di quello che A. Ver-
gole chiama un fenomeno di «desimbolizzazione», cioè di isolamento e di rottura ri-
spetto alla cultura circostante, deve integrare questa rivendicazione di intelligenza. Una
simile richiesta comporta certamente il rischio della deriva «logomachica» che abbia-
mo denunciato prima. Ma il «sospetto» è un elemento così caratteristico della cultura
attuale che le nostre celebrazioni devono parlare con sufficiente chiarezza al «cervel-
lo» per poter parlare al «cuore».

La riforma post-tridentina e, forse in misura ancora maggiore, la corrente ultramontana del-


la seconda metà dell'ultimo secolo avevano generato un ethos liturgico molto segnato dalla on-
nipotente maestà divina e dall'umile rispetto che il popolo cristiano deve avere nei suoi confron-
ti: alla pompa liturgica degli «ornamenti» sacerdotali sontuosamente ricamati, dell'oro dei cibo-
ri, della sopraelevazione del trono, le convenienze richiedevano che il popolo rispondesse con
un'umile sottomissione al cerimoniale, con numerosi segni esteriori di rispetto, con atteggia-
menti fortemente interiorizzati di adorazione e di pentimento, un silenzio «sacro» giudicato

10
L'espressione è di J.Y. HAMELINE, «Aspects du rite», in LMD 119, p. 108.

225
l'unico conforme alla buona creanza nel luogo santo... La riforma del Vaticano II, anch'essa
certamente espressione di una mutazione culturale molto più ampia e profonda, ha generato un
ethos completamente diverso: richiedendo al popolo cristiano una «partecipazione piena, cosciente
e attiva»," essa ha prodotto una vera e propria rivoluzione, di cui probabilmente, durante il
concilio, non si era capita la reale portata. Infatti lì dove la barriera «sacra» del latino fungeva
da schermo protettore, l'uso della lingua vernacolare (del resto così intelligibile da avere come
primo effetto di far capire ai destinatari che non capivano...) e l'uso di riti sensibilmente sempli-
ficati e compiuti in faccia al popolo per essere resi più eloquenti, richiedono a quest'ultimo di
«andare a vedere dentro». Di colpo, il rapporto dei cristiani con le celebrazioni liturgiche ha
perduto la sua innocenza primigenia per diventare critica e comportare questo sospetto in cui
si crede, a torto o a ragione, di vedersi svelare il meccanismo di funzionamento del rituale fino
a quel momento sconosciuto. Un simile svelamento comporta quello che R. Girard chiama una
crisi sacrificale'2 che oggi è facile verificare: dal momento in cui salta l'unanimità culturale
del gruppo, e il sospetto di mistificazione, in un primo tempo avanzato da una «élite» (di cui
i preti, agenti tradizionalmente specializzati nel culto, sono stati ampiamente parte attiva), è,
se non ammesso, almeno respirato da ognuno con l'aria del tempo, la crisi del rito è in effetti
inevitabile.

Per lasciare ai nostri riti cristiani l'opportunità di funzionare sul registro simbolico
che è loro proprio, bisogna necessariamente tener conto di alcuni elementi fondamen-
tali della nostra cultura. Certo, in quanto agire simbolico che mira non ad operare una
trasformazione del mondo come l'agire tecnico, ma a lavorare i soggetti nei loro rap-
porti con Dio e tra di loro, l'efficacia dei riti non è mai padroneggiabile: il simbolo,
per sua natura, sfugge. D loro funzionamento resta però parzialmente regolabile. In
questo senso, fare astrazione dagli attuali «valori» culturali che alimentano i progetti
dei nostri contemporanei, soprattutto dal sospetto critico e dalla rivendicazione di in-
telligibilità, significa togliere ai nostri riti la possibilità di funzionare simbolicamente.
Questo significa anche che l'appello ai vari arcaismi, psichici e sociali, che vengono
effettivamente messi in gioco nelle attività rituali, è a sua volta sospettabile. Esso può
infatti dar luogo a un vero e proprio ricatto, che non è altro che un immaginario rifu-
gio in un passato idealizzato e che, con l'alibi di «indicibile», non è che un neo-
romanticismo che rischia di sfociare nelle molteplici forme di «teosofia» e di esaltazio-
ne dell'«occulto» che fioriscono sulle incertezze dell'epoca attuale. Eccoci dunque pre-
venuti rispetto a questo non-padroneggiabile che già abbiamo ricordato e che sottoli-
neeremo ancora in seguito.
Questi vari elementi di riflessione non rimettono assolutamente in discussione la
legge fondamentale della ritualità come pratica simbolica. Essi vogliono soltanto, una
volta dispiegata la portata fondamentale di questa legge, evitarne interpretazioni inge-
nue che, con il pretesto di «scienza» — soprattutto etnologica — sono portate, in con-
nessione con il gusto culturale attuale per l'esotico e gli oggetti antichi, a incepparsi
sulla differenza capitale di apprendimento del rituale nelle società omeostatiche, cioè
relativamente stabili e chiuse, come le società tradizionali studiate dagli etnologi o i
folkloristi, e in una società aperta, pluralista e sempre cangiante come la nostra.

" Sacrosanctum Concilium, n. 14.


12
Cf R. GIRARD, La Violence et le sacre, Grasset, 1972, pp. 76-77.

226
II. LETTURA TEOLOGICA
DI ALCUNE COMPONENTI PRINCIPALI DELLA RITUALITÀ

Pratica simbolica: questa legge fondamentale regge le varie dimensioni di ogni ri-
tualità. Noi ne prenderemo in considerazione quattro (senza pretese di esaustività), che
esprimono bene la modalità concreta secondo cui la Chiesa si vede «radicalmente im-
pegnata» nei sacramenti.

1. La rottura simbolica

a) La natura di frontiera dei riti (eterotopia)


Chi dice rito dice sempre rottura simbolica con l'ordinario, l'effimero, il quotidia-
no. Sia esso chiesa, tempio, luogo santo, bosco sacro o semplice spazio intorno a un
albero o in mezzo alla piazza del villaggio, sia esso permanente oppure occasionale,
il luogo del rituale religioso è sempre «consacrato», cioè messo a parte, strappato al
suo statuto di spazio neutro da un marchio simbolico almeno provvisorio. Gli Ebrei,
per esempio, delimitarono il loro campo ai piedi della montagna in occasione della
teofania del Sinai (Es 19,12). Lo stesso vale del tempo: la temporalità rituale è vissuta
in modo diverso da quella della vita comune. Il tempo del sabbato ebraico o quello
della domenica cristiana è diverso da quello della settimana: un tempo questo era for-
temente segnato da riti che andavano dal vestito «speciale della festa» all'interdizione
dei lavori «servili» passando attraverso il suono delle campane, gli incontri sulla piaz-
za del villaggio o al caffè, il pasto più abbondante...
Gli oggetti o materiali manipolati nel rituale sono anch'essi separati dal loro uso
utilitaristico abituale: un calice d'oro serve a bere proprio come un bicchiere, ma è
di un ordine talmente diverso che, al limite, la sua forma e i suoi rutilanti ornamenti
decorativi lasciano appena intravvedere la sua funzione di strumento per bere. Analo-
gamente, le nostre ostie sono state talmente strappate al loro statuto di pane ordinario
che, diventate piatte, bianche e rotonde, solo con grande fatica ricordano ancora il pane.
Quello che abbiamo detto degli oggetti o dei materiali, la cui destinazione rituale
può essere permanente oppure occasionale, può essere detto anche degli agenti del ri-
to: gli officianti «sacerdotali» possono avere, a seconda dei gruppi e dei tipi di rituale,
uno statuto di «consacrati» permanenti oppure essere solo provvisoriamente ricono-
sciuti socialmente adatti a compiere questa o quella funzione rituale. Ma, in tutti i casi,
chiunque non può fare qualunque cosa. La ritualità richiede l'attribuzione di ruoli e
di funzioni determinate, spesso legate d'altronde a riti di purificazione per permettere
il contatto con un «sacro» sempre ritenuto pericoloso.
Come il luogo, il tempo, gli oggetti o materiali e gli agenti, anche il linguaggio
del rituale è specifico. Può essere una «lingua sacra», come è il linguaggio segreto tal-
volta confidato nel corso dell'iniziazione, oppure una lingua diventata più o meno morta
(ebraico, greco, siriaco, latino, slavo antico...). Ma può essere anche la lingua verna-
colare, slegata allora dal suo uso abituale, sia in forza degli stessi enunciati più o meno
rigorosamente formalizzati (vocabolario e immagini tradizionali, molte ridondanze,
abbondanza di formule ripetitive...), sia in forza del ritmo e del tono particolari della
voce che ripete con insistenza o biascica le formule, che proclama in modo alto e chiaro

227
suppliche, giubilazioni o azioni di grazie, o che modula gli enunciati secondo le molte-
plici possibilità del mormorio, della cantilena o del canto.
Potremmo allungare la lista, soprattutto al livello dei gesti e delle posizioni del cor-
po. Gli elementi dati bastano ampiamente a mostrare la «natura di frontiera» dei riti.13
Essi sono infatti sempre in posizione liminale, in margine all'ordinario e alle soglie
del «sacro». Il loro topos è diverso da quello di tutti i giorni. Eterotopici, essi lavorano
su di un'altra scena. Bisogna trovare la giusta distanza. Per quanto riguarda le nostre
liturgie cristiane, il problema è quello di situare lo scarto simbolico tra le due soglie
del «troppo» o del «non abbastanza».

b) Negoziare tra due soglie

— Lo ieratismo
C'è una soglia di eterotopia massimale al di là della quale il rito non può più fun-
zionare. Da strano, diventa estraneo. Insufficientemente ancorato ai valori culturali,
palesi o latenti, del gruppo, desimbolizzato, esso tende a non funzionare più se non
come regressione verso l'immaginario di ognuno. Può allora essere elaborata tutta una
fantasmatica sul piano psichico, e il simbolismo è stato privato delle sue possibilità
di successo.
Questo pericolo incombe in particolare su ogni sensibilità troppo viva al carattere
«sacro» dei sacramenti. Con il pretesto della loro messa a parte, essi diventano talmen-
te ieratici, fissati, venerabili e intoccabili che non si evolvono più con la cultura e non
tollerano più nessuna spontaneità di espressione. È il caso, d'altronde, di chiedersi quale
«sacro» o «senso del sacro» verrebbe in questo caso salvaguardato. «È il sacro pensato
come potenza e autorità esteriori, il sacro di una trascendenza verso la quale ogni pros-
simità verrebbe considerata come una effrazione sacrilega»: è questo il parere di A.
Vergote. Ora, prosegue l'autore, «come non riconoscere in questo sacro quello di un'au-
torità indecidibile alla quale il super-ego delega inconsciamente la sua potenza inquie-
tante?». Di qui la parentela di questo rito con il «cerimoniale ossessivo: formalizzazio-
ne rigorosa e rigida, isolamento rispetto alle forme vive della cultura, assenza o forte
riduzione dell'intenzione simbolizzante e, in numerosi credenti, angoscia per il non-
compimento del rito».14
Questa sorta di ricatto alla eterogeneità del rito è d'altronde alimentata dal conser-
vatorismo cultuale. Infatti, in forza della sua programmazione, di cui parleremo più
avanti, il rito tende ad autoriprodursi lungo le generazioni e i secoli, secondo un pro-
cesso che spesso non ha più molto a che vedere con le condizioni originarie della sua
produzione. Sulla scia del sociologo americano A . L . Stinchcombe, L. Voyé ha sotto-
lineato che i comportamenti rituali appartengono a quei processi sociali che, nati sotto
l'impulso di un certo numero di fattori sociali (economici, politici, etici, religiosi...),
tendono ad auto-mantenersi in ragione degli effetti sociali che generano e che sono
avvertiti come benefici, senza più mantenere i loro legami con i moventi originari che

13
J.Y. HAMELINE, art. cit., p. 107.
14
A. VERGOTE, Dette et désir, op. cit., p. 136.

228
li hanno fatti nascere. Esiste una disgiunzione tra la logica della loro produzione e la
logica della loro riproduzione. 15

La pratica domenicale tradizionale ne è, secondo l'autore, un buon esempio. Aldilà delle


motivazioni «teologiche» che gli attori possono darne a livello cosciente, essa è rivelatrice di
motivazioni non conscie, che pertengono ai benefici sociali (come il desiderio di integrare certi
valori di distinzione, soprattutto mediante l'identificazione con uno strato sociale superiore in
cui andare a messa è «bon ton») o psichici (gestione del senso di colpa) e che sono di fatto molto
più determinanti nel suo mantenimento delle ragioni religiose che se ne possono dare. Come
la valorizzazione del crudo o del marcio, del cotto o del bollito secondo le culture è rivelatrice
di un codice culturale non cosciente (C. Lévi-Strauss), come il tipo di fotografie fatte da amatori
è, in funzione dei soggetti, degli angoli di ripresa, della qualità ricercata nel prodotto, l'espres-
sione non cosciente di questo o quello strato socio-culturale (P. Bourdieu), come il tipo di habi-
tat cercato (H. Raymond) o il modo di vestirsi (R. Barthes)'6 sono, almeno statisticamente, dei
simboli di questo o quel «mondo» socio-culturale, così la pratica domenicale è una condotta sim-
bolica rivelatrice di norme e di valori che sono tanto più influenti quanto meno sono coscienti.
E come, secondo R. Girard, la presa di coscienza di quello che egli chiama il meccanismo vitti-
mario provoca una «crisi sacrificale», così quella dei moventi psichici o sociali della pratica do-
menicale rischia di «annullare la sua efficacia», una efficacia che è tanto più garantita quanto
più i suoi motivi reali, spesso interiorizzati fin dall'infanzia, sembrano «andare da sé», essere
assolutamente «naturali» e quindi non suscettibili di venir rimessi in discussione."
È questo che, almeno in parte, spiega lo scarto spesso notato dai sociologi della religione
tra la richiesta dei riti di passaggio alla Chiesa (soprattutto battesimo, matrimonio e sepoltura;
recentemente, in Francia, anche la comunione solenne) e il contenuto delle credenze. Il divario
può essere talmente accentuato che la richiesta sacramentale può convivere con una non-credenza
dichiarata;ls in questo caso rischia addirittura di essere oggetto di una insistenza ancora maggio-
re. H fatto è che le reazioni psichiche arcaiche scatenate intorno alla nascita, all'amore e alla
morte, come le norme sociali di comportamento imposte ad ognuno in questi casi dall'ambiente
sociale sono tanto più potenti quanto più sono latenti. Si tratta appunto di «sacro» per i richie-
denti. Un simile «sacro» è aureolato di religione, ma è fondamentalmente «anonimo», e rimanda
a quella onnipresenza latente e fluttuante o a quella «regione di essere» che è «il fondo del " c ' è "
delle profondità». Un simile sacro è avvertito essenzialmente come «inviolabile»." Di fatto ciò
che anima in maniera sconosciuta la richiesta alla Chiesa dei riti di passaggio sembra proprio
appartenere alla sfera di ciò che è avvertito come talmente sacro che non lo si può tradire senza
tradire se stessi e senza tradire il proprio «mondo» socio-culturale, tradizionale e attuale. Ci so-
no, come si suol dire, cose «che-non-si-fanno». Non chiedere il matrimonio alla Chiesa significa
in molti casi decadere ai nostri propri occhi e agli occhi dei propri cari. Va da sé che l'acco-
glienza dei richiedenti, se vuol essere «evangelica», non potrà trascurare il peso concreto di que-
sto «reale»: il che non significa comunque garantire l'automaticità della risposta...

15
L. V O Y É , Sociologie du geste relìgieux, ed. Ouvr., Bruxelles 1973, pp. 213-218.
16
Ci C. LÉVI-STRAUSS, Le Cru et le cuit, Plon, 1964, Introduzione (trad. ital.: // crudo e il cotto, Il
Saggiatore, Milano 1980); P. BOURDIEU et al., Un artmoyen: essai sur les usages sociaux de laphotogra-
phie, ed. de Minuit, 1965; H. RAYMOND, N. HAUMONT, L'Habitatpavillonnaire, Inst. de Soc. Urb., Cen-
tro di Rie. di Urban, Paris; R. BARTHES, Système de la mode, Seuil, 1967 (trad. ital.: Sistema della moda,
Einaudi, Torino 1970). In un modo più generale, vedere soprattutto P. BOURDIEU, La Distinction. Critique
social du jugement, ed. de Minuit, 1979.
17
L. VOYÉ, op. cit., p. 212.
" Cf J. SUTTER, «Opinion des Francais sur leurs croyances et leurs comportaments religieux», in LMD
122, 1975, pp. 59-83; L. V O Y É , op. cit., p. 224.
" A. VERGOTE, «Équivoques et articulation du sacre», art. cit. (supra, cap. IV, n. 52).

229
Conservatori per natura, i riti subiscono però, come ogni organismo vivente, delle
mutazioni che, simili a quelle scoperte dalla genetica, sembrano poi trasmettersi in modo
ereditario, al punto da sfociare talvolta in rami che degenerano. Ogni mutazione tende
infatti in certo modo a fossilizzarsi. Il rito è composto allora da strati di sedimentazio-
ne sovrapposti. Per ogni generazione l'ultimo strato sembra il più vivo, e si trova sem-
pre il mezzo, come dimostra con abbondanza la storia della liturgia cristiana, di legit-
timare, quasi sempre mediante Vallegoria, gli strati anteriormente accumulati: sappia-
mo che alcuni accessori d'uso all'origine essenzialmente pratici, come l'amitto o il
manipolo, sono diventati «ornamenti sacerdotali» legittimati allegoricamente accostan-
doli a virtù o atteggiamenti spirituali di cui il prete, preparandosi a dire la messa, deve
rivestirsi. Così le linee principali della celebrazione eucaristica sono state annegate sotto
un ammucchiarsi di riti, segni, oggetti, preghiere. Diventata irriconoscibile, la litur-
gia stava per asfissiare sotto le sue «ricchezze» troppo grandi. Girando intorno a un'orbita
in virtù dell'energia cinetica acquisita, estranea all'attrazione culturale, essa non par-
lava più ai cristiani se non a una specie di livello secondo, in riferimento a una imme-
moriale tradizione che faceva sì che per i cristiani d'Europa come per i Bororos d'A-
mazzonia o gli Azandes d'Etiopia i simboli rituali non avessero più altra giustificazio-
ne che un «non si sa perché, ma si è fatto sempre così». Che cosa, infatti, poteva far
(ancora?) funzionare simbolicamente una unzione fatta di nascosto da un pollice appe-
na umettato con un olio preso da un flacone minuscolo, opaco, pieno di cotone idrofilo
di proprietà dubbia, se non che «si è sempre fatto così»? La malattia era così grave
che i più trovavano normale che non si capisse: non bisognava rispettare il «mistero»
e il suo «segreto sacro»? E non bastava che i preti possedessero, loro, gli specialisti
del sacro, la chiave del misterioso funzionamento dei riti e ne assicurassero il corretto
compimento mediante la giusta, o addirittura scrupolosa, esecuzione delle rubriche?
Fissati nell'orbita rubricista dell'immutabile, staccati dai valori culturali che alimenta-
no la modernità respirata da ogni uomo, volente o nolente, con l'aria del tempo, questi
riti liturgici, troppo eterogenei rispetto al mondo circostante, non potevano che diven-
tare in-significanti.

— La banalizzazione
Per reazione contro questo conservatorismo rituale, e in legame con la valorizza-
zione del «profetismo» evangelico, si sono visti recentemente nella Chiesa cattolica
dei gruppi colti da una tale febbre di «celebrare Gesù Cristo nella vita» che a loro vol-
ta, in modo opposto alla corrente precedente, hanno sottratto ai riti la loro possibilità
di funzionare. C'è infatti anche una soglia di eterotopia minimale al di sotto della qua-
le questa possibilità viene loro impedita. Banalizzati, con il pretesto di essere «nella
vita», in un linguaggio, in gesti e in oggetti che vogliono situarsi al livello del quotidia-
no, spesso affogati in uno sproloquio esplicativo e moralizzatore, i riti non sono più
che dei pretesti per fare un'altra cosa. E l'ideologia di ognuno può darsi alla pazza
gioia, ancora più rigida della costrizione della programmazione rituale che si vuole
combattere.
Questa forma di tentazione è stata, in questi ultimi decenni e almeno in Francia,
la più dominante tra il clero e i laici cosiddetti «impegnati». Indubbiamente essa era
storicamente inevitabile: quando il brodo culturale continua a bollire in una marmitta
di cui si è chiuso ermeticamente il coperchio, tutto finisce per saltare; e i danni sono

230
proporzionali alla pressione. Certo, la corrente contestataria di una liturgia troppo sta-
tica ha avuto, malgrado gli eccessi, grandi meriti, e vi ritorneremo. Ma, in mancanza
di una sufficiente riflessione sulla natura della ritualità, essa ha talvolta trasformato
la liturgia in un mini-corso di teologia o in analisi delle pratiche militanti: tutte cose
importanti, ma che hanno il loro posto altrove...
Questo richiede un minimo di scarto simbolico rispetto al linguaggio, ai gesti e agli
atteggiamenti della vita normale. Certo, questo scarto deve essere pastoralmente ne-
goziato in funzione di diversi fattori: prima di tutto il fattore «cultura», che sembra
richiedere meno rottura e programmazione per il buon funzionamento della liturgia
nei nostri paesi occidentali oggi di quanto non ne richiedesse una volta; e poi anche
altri fattori, come il numero (non si celebra in un gruppo di dieci come in una grande
folla), il luogo {idem, a seconda che si sia riuniti in una stanza normale o in una catte-
drale), la frequenza (una celebrazione quotidiana sarà più snella, anche se non neces-
sariamente meno rituale per evitare di doversi investire troppo soggettivamente ogni
giorno, di una messa domenicale, o a maggior ragione, di una solennità festiva), l'età
media del gruppo (bambini, giovani, adulti) o la sua ideologia dominante... Il limite
sul quale i riti possono funzionare non è sempre lo stesso. Ma non è certo mascheran-
dola sotto una pretesa spontaneità «naturale» (cosa c'è di più culturale e perfino di più
ideologico di questa ricerca febbrile del «naturale»? che cosa c'è di più contraddittorio
di questo spontaneismo a comando?) che si può salvare la ritualità liturgica. Si può
certamente, attraverso questo procedimento, fare opera pedagogica molto positiva per
la fede, ed è talvolta necessario passare per questo cammino con certi gruppi: «Il saba-
to è per l'uomo» e non il contrario. Resta però il fatto che, in questo caso, si rimuove
semplicemente il problema.

c) Lettura teologica dell'eterotopia rituale


Per quanto critica sia nei confronti della «sacralizzazione» (cf supra), la fede cri-
stiana non può viversi al di fuori della religione, e nemmeno fuori dei riti. Essa non
può evidentemente fare a meno delle leggi antropologiche e sociologiche di qualsiasi
funzionamento rituale, a cominciare da quella della rottura simbolica. Se manca que-
sto, il demone rituale che si era creduto di scacciare ritorna al galoppo con altri sette,
più forti di lui, mascherati sotto un dogmatismo o un moralismo molto più pericolosi
e non meno ingenui della «magia» religiosa di cui ci si vuole sbarazzare.
Ora, proprio all'interno delle sue ambivalenze, la rottura rituale esercita una fun-
zione simbolica altamente costruttiva per la fede. Essa crea infatti un vuoto rispetto
ali 'immediato e ali 'utilitario. In quanto rituale, la liturgia è essenzialmente aldilà del-
l'utile o dell'inutile. Non ha, come tale, utilità didattica perché non è un mini-corso
di teologia o una seduta di catechesi; e nemmeno utilità morale perché la sua funzione
non è quella di «ricaricare le batterie» o di rimobilitare le truppe parrocchiali o l'elite
«di choc», e nemmeno, su un piano più affettivo, favorire calde esperienze spirituali;
non ha nemmeno utilità estetica perché non è uno «spettacolo» e nemmeno una «festa»
nel senso ormai classico dato a questa nozione soprattutto da R. Caillois. Certo, c'è
anche — e deve esserci — dell'estetica, della morale, della didattica nella liturgia. Ma
questi elementi empirici non le sono essenziali: una liturgia molto sobria, e dunque
relativamente poco «festiva» può essere molto più operativa per effettuare il passaggio
sacramentale dei partecipanti con il Cristo che una celebrazione in cui la «festa» è tal-

231
mente presente da non permettere più la rottura pedagogica senza la quale non può
prendere corpo il senso dell'alterità di Dio. Che i partecipanti trovino nella celebrazio-
ne motivi per tirarsi su il morale, o elementi di catechesi che li illuminino, o una rifles-
sione teologica che vogliano in seguito meditare è altamente auspicabile, perfino indi-
spensabile da certi punti di vista: non si taglia la vita a pezzi, e d'altronde questi ele-
menti — lo abbiamo sottolineato prima — appartengono alle rivendicazioni culturali
del tempo senza cui la liturgia non potrebbe nemmeno più funzionare al suo livello
proprio, che è tuttavia diverso. Tutto questo è dunque buono e bello. Ma non toglie
che la ritualità funzioni a un altro livello, simbolico.
Ora, a questo livello simbolico, la ritualità, attraverso il suo uso non utilitario degli
oggetti, luoghi e linguaggio che le sono propri, effettua uno sganciamento decisivo
rispetto al mondo ordinario. Si crea così un vuoto, spazio di respirazione, di libertà,
di gratuità in cui Dio può farsi presente. Senza questo sganciamento ci sono forti pro-
babilità che la celebrazione di Gesù Cristo funzioni di fatto (e indubbiamente in buona
fede) come un alibi di autocelebrazione soddisfatta. La rottura simbolica permette di
fare l'esperienza viva di questo «mollare la presa» rispetto al nostro sapere teologico,
alle nostre «buone opere» etiche, alle nostre esperienze personali di Dio — in breve,
rispetto ai molteplici stratagemmi psichici e ideologici che mettiamo in opera incon-
sciamente per sottomettere il Vangelo ai nostri desideri — senza il quale non esiste
accoglienza possibile della grazia e gratuità di Dio.
Questo «mollare la presa» ha valore tanto più strutturante per la fede quanto meno
è cosciente come tale. Infatti la simbolica della rottura rituale ci sembra così importan-
te proprio perché noi non la padroneggiamo; è lei, invece, che padroneggia noi. In
essa non si formula un discorso sull'alterità e la gratuità di Dio; si effettua una pratica
viva di questa alterità e gratuità. Una simile pratica è più decisiva per il lavoro simbo-
lico che essa compie in noi di quanto lo siano i discorsi, per quanto indispensabili essi
siano sul piano del discernimento critico che bisogna operare per evitare le deviazioni
della pratica. Non è un banchetto pantagruelico che si consuma per simboleggiare ri-
tualmente la sazietà al banchetto escatologico, ma soltanto un po' di pane e un po'
di vino. Non è un bicchiere qualunque che si usa per il vino del Regno ma una coppa
che, senza essere necessariamente d'oro e incrostata di gemme, si manifesta come al-
tra rispetto a un semplice utensile. Non è una Bibbia di lavoro più o meno sporca,
e tantomeno un semplice foglio di carta che si usa per leggere le Scritture come Parola
di Dio, come se bastasse disporre semplicemente del testo scritto perché la rubrica
«lettura» sia eseguita: la rilegatura, la decorazione e il volume del lezionario, come
anche lo stile dell'ambone o del pulpito da cui si fanno le letture, o la posizione del
lettore e il tono di voce che egli adotta sono i supporti simbolici prioritari del ricono-
scimento delle Scritture come «Parola di Dio»; e sono addirittura molto più efficaci
di tutti i nostri discorsi — pure necessari a tempo debito — su questo argomento. Dal
momento che un'identità non è mai il frutto di un ragionamento, ma l'origine dei di-
scorsi che si tengono, è attraverso queste espressioni simboliche che ci impregnano
tanto più quanto più funzionano al di qua delle nostre «ragioni» di credere che ognuno
è iniziato al mistero di Cristo. Voler rovesciare il processo, con il pretesto che è l'ara-
tro che lavora e non i buoi, significa condannarsi in partenza a vani sforzi in cui mai
il campo umano potrà fruttificare cristianamente.
Come nei vari esempi precedenti, il semplice fatto, in un week-end di lavoro, di

232
rassettare le proprie carte, di disporre una tavola di fronte agli altri, con una distanza
spaziale sufficiente perché il gruppo non imprigioni simbolicamente (e dunque real-
mente a livello ideologico) il Cristo che si sta per celebrare, o anche il fatto di ornare
questa tavola, anche se in modo relativamente semplice, come conviene in una sala
banale, tutto questo appartiene a quel «linguaggio silenzioso»20 che parla, e che parla
illocutoriamente, molto più dei discorsi. Che Dio sia il Differente, che la sua differen-
za, pensata sul registro simbolico dell'Altro, sia Grazia: ecco quello che si dice «per-
formativamente» e prima di qualsiasi discorso nella rottura rituale; ecco ciò che vi
si dice facendolo mediante una pratica simbolica in cui non ci accontentiamo di parlare
sulla grazia di Dio (possono essere solo parole più o meno vuote) ma in cui approntia-
mo, mediante un effettivo sganciamento rispetto all'utile, uno spazio di gratuità in cui
Dio può farsi presente. Ambigua, l'eterotopia rituale? certo! D'altronde è proprio per
questo che l'operatore critico della fede deve incessantemente esercitare la sua vigi-
lanza. Ma, proprio all'interno di questa ambivalenza che tocca il punto più umano del-
la nostra umanità, quante possibilità ci sono anche per la strutturazione della fede! Molto
prima di formularsi in un credo, la confessione di fede nell'alterità e gratuità di Dio
si effettua in atto e prende corpo in noi nella mediazione di questa simbolica primaria
impensata.

2. La programmazione e la reiterazione simboliche


a) La metonimia rituale
Secondo la sua etimologia indo-europea, il sanscrito rita significherebbe «ciò che
è conforme all'ordine».21 Di fatto è caratteristico di ogni rituale religioso di essere ac-
colto da una tradizione. Non si inventa mai un rituale; esso è, per natura, programma-
to in anticipo, il che gli permette automaticamente di essere reiterato identicamente,
a intervalli regolari, ogni anno, stagione, settimana, luna nuova, oppure a ciascuna
stagione della vita umana, a ogni generazione o per ogni evento importante per la vita
del gruppo. È ciò che, d'altronde, indica ancora il sostantivo o l'aggettivo «rituale»
in italiano.
La programmazione è costitutiva del rito religioso in quanto si fa come gli antenati
hanno fatto, come il fondatore (mitico, storicizzato o storico) ha fatto. Più ancora, perché
essi (si ritiene) hanno fatto così. I riti religiosi puntano dunque, come un indice, verso
l'origine, attraverso la ripetizione identica, di generazione in generazione, dello «stes-
so» programmato néiVillo tempore fondatore. Mettendo tra parentesi il tempo che se-
para l'oggi dall'antenato eponimo o dal fondatore storico (Mosè, Gesù, Maometto),
essi funzionano secondo il simbolismo dell'elisione metonimica. Costituiscono così il
serbatoio primario della memoria collettiva del gruppo. Rituffando anamneticamente
quest'ultimo nel tempo primordiale in cui è nato, il rituale fa da sbarramento alle forze
di morte che, senza tregua, minacciano di vanificare la sua identità e il significato del
mondo.
D'altronde, la sua ripetizione regolare ha un effetto iniziatico di primaria impor-
tanza. A forza di reiterare gli stessi gesti e le stesse formule in circostanze identiche

20
E.T. HALL, Le Language silencieux, Marne, 1973, cap. X: «L'espace parie».
21
L. BENOIST, Signes, symboles et mythes, PUF, 1975, p. 95.

233
e secondo un ritmo periodico relativamente rigoroso, esso fa passare i valori del grup-
po nel corpo di ciascuno, fino al punto in cui questi finiscono per attaccarsi talmente
alla sua pelle (anche qui, infatti, soprattutto qui, tutto è nella «pelle») che gli sembrano
del tutto «naturali». L'iniziazione, ultimamente, è forse altro rispetto a questa incuba-
zione di una cultura mediante lenta impregnazione? Certo, questo processo è portatore
di gravi ambiguità: fra l'iniziazione a un sistema di valori cristiani e l'iniziazione al
Vangelo, c'è spesso qualcosa di più che un margine. E d'altra parte la programmazio-
ne e la reiterazione rituali sono a loro volta così piene di trappole che possono deviare
verso ogni tipo di condotta, psicologicamente patologica o socialmente alienante: ri-
tualismo, rubricismo, bisogno morboso di purificazione o di espiazione, smobilitazio-
ne sociale, conservatorismo, difesa dell'ordine stabilito, routine...

b) Lettura teologica della programmazione rituale


Resta il fatto che, ben gestite, anch'esse svolgono una funzione simbolica eminen-
temente positiva nella strutturazione della fede. Dal momento che essa non è che sim-
bolica, l'elisione metonimica del tempo, lungi dal colmare la distanza con l'origine,
la approfondisce. Viene così manifestata l'irriducibilità dell'assenza del fondatore (Gesù
Cristo, in questo caso) e l'impossibilità in cui noi ci troviamo di riconquistare la nostra
origine cristiana. E, poiché è simbolica, essa effettua un rapporto di comunicazione
viva con questa origine fondatrice. Così, quando rifacciamo il pasto del Signore, quando
lo rifacciamo come lui l'ha fatto (secondo quanto ci consegnano le tradizioni evangeli-
che) e perché egli l'ha fatto così; quando dunque prendiamo nelle nostre mani ciò che
lui stesso ha preso, cioè del pane e del vino, e quando ripetiamo delle parole che non
sono nostre ma di lui — più ancora: perché esse sono di lui, e non appartengono a
noi che potremmo, tuttavia, «tradurle» in un linguaggio più comprensibile e più poeti-
co — noi facciamo qualcosa di assolutamente primordiale per la fede: confessiamo in
atto il carattere inafferrabile di un rito sul quale non abbiamo potere perché lo eseguia-
mo e lo viviamo come originato in Gesù, il Signore. Confessiamo così in atto che la
nostra identità sta solo nella nostra sospensione a lui, che la Chiesa esiste solo per rice-
vere lui, il suo Signore; confessiamo in atto ciò che diciamo nel credo usando la moda-
lità del discorso: Gesù, il crocifisso, è il nostro Signore.21 Non stiamo più allora di-
scorrendo teologicamente sulla sua signoria, ma la stiamo vivendo simbolicamente fin
nel nostro corpo; il nostro proprio corpo, ma anche, simultaneamente, il corpo sociale
della Chiesa. Anche qui, questo processo è tanto più pregnante quanto più, da una par-
te, si effettua al di qua della presa di coscienza che noi ne facciamo e, dall'altra, non
è l'oggetto di un discorso (per quanto indispensabile come ripresa critica) ma di un
agire. C'è qui, sul piano dell'antropologia rituale, un impegno radicale della Chiesa
e del credente, tanto più radicale perché si situa al di qua dei nostri discorsi giustificativi.

22
L'argomentazione precedente non chiude la porta all'ipotesi di una celebrazione dell'eucaristia con
cose diverse dal pane e dal vino, per esempio in Africa. Il problema è difficile. Gesù ha istituito come segno
sacramentale della sua vita consegnata a noi il pane e il vino come tali (con la loro carica simbolica così
forte dal punto di vista biblico) o il pasto come tale (pasto in cui pane e vino avrebbero essenzialmente un
valore culturale di alimentazione di base e di bevanda di festa)? In ogni caso è sempre attraverso un atto
della Chiesa interpretante che questo rito è riconosciuto come «sacramento», o che un certo modo di fare
è riconosciuto come «la cena del Signore». Cf L . M . CHAUVET, «Sacrements et institution», in CERIT, La
Théologie à l'épreuve de la vérité, Cerf, 1984, pp. 230-232.

234
Conviene aggiungere che la radicale dipendenza così confessata si situa proprio
nei confronti di quel Gesù di Nazaret che, la vigilia della sua morte, radunò i suoi
per la sua cena d'addio. La programmazione rituale come confessione di fede in atto
simbolizza, prima di ogni discorso, lo scandaloso «détour» che si impone alla fede a
causa dell'umanità e della storia singolari di quest'uomo, morto come un criminale,
e che noi confessiamo come il Signore del mondo. Cogliamo, attraverso questa devia-
zione attraverso la ebraicità di colui che tuttavia riconosciamo come eccedente ogni
ebraicità, la posta in gioco del problema tradizionale dell'istituzione dei sacramenti
da parte di Gesù Cristo. Ma lo facciamo qui in modo concreto e a partire dal terreno
stesso in cui il problema si pone, cioè a partire dall'atto stesso della celebrazione. Il
discorso teologico su questo punto consiste allora nel dispiegare in un discorso coeren-
te questo carattere inafferrabile del rito che è già vissuto simbolicamente nella celebra-
zione stessa. Torneremo su questo.
Nella stessa prospettiva, la programmazione rituale è l'atto di proclamazione sim-
bolica dell'identità del gruppo cristiano non soltanto come unica Chiesa universale di
Gesù Cristo, che si riceve dalla sua grazia, ma simultaneamente come Chiesa apostoli-
ca. Rifare ciò che gli antenati hanno fatto lungo le generazioni è anche metonimica-
mente rifare ciò che le prime comunità apostoliche hanno fatto. Come il battesimo,
attraverso l'acqua e la formula di Mt 28,19, l'eucaristia non è proprietà di nessun gruppo
particolare, né nel tempo né nello spazio. La si può ricevere solo da una tradizione.
Reiterandola identicamente lungo i secoli (almeno, è chiaro, nei suoi punti principali),
la Chiesa confessa in atto la sua origine apostolica.

c) La negoziazione pastorale
Evidentemente, la programmazione deve essere negoziata pastoralmente, fra il «trop-
po» e il «non abbastanza», secondo gli stessi fattori di luogo, di numero, ecc. di quelli
menzionati precedentemente a proposito dello scarto simbolico.

— Il fissismo
Allo ieratismo dell'eterotopia massimale corrisponde il fissismo, o il rubricismo,
di una programmazione troppo rigida. Le critiche che possiamo rivolgere a questa co-
dificazione troppo rigorosa sono dello stesso tipo di quelle ricordate precedentemente
a proposito della eccessiva rottura dei riti rispetto al vissuto: sacro di pura trascenden-
za esteriore che non tollera nessuna prossimità, pena il sacrilegio, e che non è che
la proiezione inquieta dell'onnipotenza del super-ego; conservatorismo che fissa i riti
in pezzi da museo (tanto mirabili quanto venerabili) e che in questo modo, con il prete-
sto del rispetto della «tradizione» — quale «tradizione»? dobbiamo chiederci qui, come
precedentemente «quale sacro?» — impedisce ogni creatività (la quale, come dimostra
la storia, si sfoga allora nei margini della celebrazione); deriva ritualista verso un for-
malismo di routine e verso la nevrosi ossessiva in caso di non-compimento integrale
delle rubriche. In breve, attutimento considerevole degli spigoli vivi del messaggio
evangelico, e simultaneamente, desimbolizzazione culturale. Inutile sviluppare ulte-
riormente queste trappole, spesso denunciate da qualche decennio con il rischio, d'al-
tronde, di generare l'eccesso inverso... Aggiungiamo che una programmazione trop-
po rigida trascina il rituale verso l'intolleranza: esclude coloro che non si sottomettono
alle sue rigorose regole o che non sono «conformi».

235
— La deprogrammazione
Ma, al contrario, anche una insufficienza di programmazione è pericolosa. La cor-
rente che è esistita (bisogna parlare soltanto al passato?) in questo senso, era alimenta-
ta sia da una ideologia «spontaneista» o «naturalista» desiderosa di ritrovare, nella scia
del Maggio 1968, una innocente «autenticità» aldilà delle determinazioni istituzionali
giudicate oppressive, sia da una ideologia «militante» ansiosa di rinvigorire «profetica-
mente» la liturgia con un appello a quel «vero della vita» che sarebbero soprattutto le
lotte collettive contro le ingiustizie strutturali generate dalle classi dominanti. Questa
corrente di deprogrammazione è portatrice del rischio di una nuova intolleranza, che
forse è ancora più temibile della prima. Infatti all'interno di un rituale troppo rigorosa-
mente programmato, ognuno può quantomeno gestire il suo spazio di evasione: chi
medita, chi dice il rosario, chi recita preghiere sul suo messale, attività più o meno
al margine dell'azione liturgica stessa, ma di cui non ci si sente colpevoli perché i cam-
mini per unirsi «in intenzione» a ciò che fa il prete sono molti, e perché ci si affida
a un rito che è fatto in certo senso per camminare «da solo»... Quando la programma-
zione è insufficiente, invece, il tasso di prevedibilità necessario a ogni rituale è troppo
debole. Si rischia allora di ingenerare malessere, o addirittura angoscia, tra i parteci-
panti («Cosa ci inventeranno ancora?») e, in ogni caso, di non lasciare più spazio di
respirazione personale sufficiente. Ognuno è costretto ad adeguarsi all'ideologia, spesso
predicatoria, che ormai si impone al rito. E allora quest'ultimo non può più svolgere
una delle sue funzioni positive principali (pericolosa, del resto): la sua funzione pro-
tettiva rispetto all'investimento della soggettività e all'attenzione permanente richiesta
a ciascuno perché capisca ««7» senso di ogni formula e gesto. Quando l'ideologia si
impadronisce del rito che è, di sua natura, a-ideologico, gli fa creare una nuova intol-
leranza che diventa rapidamente più insopportabile ancora della prima. Ne deriva, no-
nostante le buone intenzioni, un «élitismo» di fatto che scomunica praticamente coloro
che non sono capaci di entrare nel nuovo stampo ideologico, e una sorta di neopelagia-
nesimo in cui il rito diventa l'espressione autogiustificativa del «giusto pensiero» del
gruppo e la ricompensa della sua «buona condotta». Sotto il rivestimento di Gesù Cri-
sto e dello Spirito, è il sé che continua a dirsi nella preghiera liturgica. Il destinatario
obliquo (il gruppo) la vince sul destinatario diretto (Dio) che gli serve da alibi.

Quando un gruppo deprogramma fino a questo punto il rituale, spossessa la comunità di ciò
che tuttavia è suo. Non ci sono più punti di riferimento; cancellazione più o meno sistematica
del vocabolario referenziale e dei gesti tradizionali; sopravvalutazione di una creatività che non
si rende conto che, per il semplice fatto che il codice è inconoscibile, il discorso, eventualmente
comprensibile in ognuna delle sue parole o frasi, ha perduto la sua area di udibilità e che per
questo non può più essere inteso. Allora funziona in modo altrettanto oscuro del latino di un
tempo, con in meno la familiarità di certe assonanze o espressioni che facevano sì che almeno
si «sentisse» quello che non si sarebbe stati in grado di dire... Quando ci si appropria del rito,
non rispettando più il suo carattere imprendibile, il rito si vendica. Così, quando un gruppo è
talmente obnubilato dalle trappole, certo realissime, della programmazione al punto da non vo-
ler più fare qualcosa di diverso dallo «spontaneo» e dall'«autentico», esso è vittima di gravi equi-
voci: non c'è nulla di più manipolatore di un potere mascherato sotto le generosità demagogiche
dell'uguaglianza, e nulla è più censurante di uno spontaneismo libertario che pretende di «espri-
mersi» in verità; infatti quasi sempre si esprimono soltanto gli effimeri sentimenti o convinzioni
del momento, che il gruppo si aspetta. Una buona improvvisazione richiede la lunga maturazione

236
di una tradizione sufficientemente digerita da poter essere resa in modo personale. Non si mal-
tratta impunemente il rito. I piccoli gruppi relativamente stabili che celebrano spesso fra di loro,
per esempio quotidianamente, sanno bene, talvolta dopo amare esperienze, quanto sia impor-
tante dar fiducia, soprattutto attraverso la rottura e la programmazione simboliche, alla funzio-
ne protettrice del rito, pena vedere ciascuno così imperativamente sottomesso a un permanente
investimento personale da rendere la celebrazione insopportabile dal punto di vista psico-sociale.

— La programmazione oggi
La critica che abbiamo rivolto all'insufficienza di programmazione non ci fa asso-
lutamente dimenticare o minimizzare, sia chiaro, quella che abbiamo rivolto prece-
dentemente alla corrente contraria. Sembra d'altronde che, come la legge della rottura
simbolica, quella della programmazione richiede oggi più flessibilità di un tempo, te-
nuto conto dell'evoluzione culturale nei nostri paesi occidentali. La situazione su que-
sto punto attualmente è tale che è auspicabile, come scrive M. Scouarnec, «considera-
re i programmi liturgici come dei canovacci» sui quali si può ricamare in modo relati-
vamente flessibile, come si faceva d'altronde nella Chiesa almeno dei primi tre seco-
l i . " E questo non per un immaginario archeologismo di imitazione della «Chiesa pri-
mitiva», che non è più «imitabile» di quella del medioevo; né per semplice desiderio
di fare moderno; ma semplicemente perché i nostri riti liturgici non siano desimboliz-
zati e abbiano così le loro opportunità di funzionare cristianamente.
Per evitare la mediocrità delle «improvvisazioni» affrettate o di una «creatività» teologica-
mente non pertinente o insufficientemente ritualizzata, deve essere fatto un serio lavoro. La co-
sa essenziale di questo difficile lavoro consiste nel rendere eloquenti per i partecipanti i cano-
vacci e gli enunciati rituali abituali, cioè nel decodificare e nel ricodificare le formule tradizio-
nali. Queste sarebbero dunque riprese per quanto riguarda la loro costruzione rituale e i loro
termini o espressioni più significativi, e inoltre esplicitate in un linguaggio più contemporaneo.
Ovviamente si indovina subito la trappola che insidia una simile spiegazione: quella del ritorno
a una «-logia» discorsiva, teologica o morale. Ora, questa decodificazione deve rimanere, so-
prattutto nella sequenza centrale, fortemente ritualizzata: formule sobrie, ritmate, senza «spie-
gazione», pronunciate con una certa solennità, seguite immediatamente dal gesto che ne segna
la portata «performativa»... Per esempio: «Per seguire Gesù Cristo, unico Signore, / rinunciate
a vivere sotto il regno del peccato, / regno della legge del più forte e delfognuno per sé"?»,
ecc. «La Chiesa crede in Dio, Padre e Creatore. Crede che egli dona la terra a tutti, / che fa
ogni uomo a sua immagine / e che ci dona quindi ogni uomo come fratello da amare. E voi,
credete in questo Dio, Padre e Creatore del cielo e della terra?», ecc.
Così facendo, si celebra il battesimo della Chiesa cattolica e apostolica. Non si è «inventato»
nulla che non appartenga alla fede tradizionale di questa Chiesa. Ma lo si è celebrato come il
battesimo in questa comunità di Chiesa qui, nel nostro tempo, comunità che è la realizzazione
concreta integrale dell'unica Chiesa di Gesù.

3. Una economia simbolica di sobrietà


Dal punto di vista etologico, i comportamenti «rituali» (nel senso di J. Huxley) so-
no formalizzazioni adattative di comportamento che permettono una economia di ener-

13
M. SCOUARNEC, Vivre, croire, célébrer, Paris, ed. Ouvr., 1983, p. 70 (trad. ita!.: Vivere, credere,
celebrare, Elle Di Ci, Leumann 1984).

237
già. Ritroviamo questa caratteristica in antropologia: la ritualità funziona in modo eco-
nomico. Certo, spesso si ha profusione di mezzi (oggetti molteplici; formule ripetute
fino al logoramento); ma è una profusione dì piccoli mezzi: per similarità metaforica,
il sangue delle vittime sparso sul popolo e sull'altare è pegno di alleanza con Dio; per
contagio metonimico, la terra viene rappresentata tutta intera attraverso alcuni prodot-
ti tratti da essa.
Analogamente è il poco di pane o di acqua a rappresentare la condizione di eserci-
zio del simbolismo eucaristico o battesimale. A condizione, sia chiaro, che questo «poco»
non sia «troppo poco», cioè che costituisca un supporto sufficiente perché la simboliz-
zazione possa funzionare. La deriva del simbolo verso l'insignificanza ci ha giocato
pessimi tiri in liturgia. Ma non è con un copioso banchetto che si simboleggerà il ban-
chetto pasquale al quale Cristo invita il suo popolo, e nemmeno con festosi trastulli
in una piscina che si vivrà sacramentalmente la morte e la risurrezione con lui. Basta
un po' di pane, un gesto sobrio, una parola debitamente regolata. Il rito funge così
da sbarramento, con la sua sobrietà, all'esuberanza romantica di una soggettività asse-
tata di «espressione-spontanea-e-totale». Esso mette in certo modo il me «in disponibi-
lità». Sottomesso all'ascesi rituale, questo me può essere infatti disponibile per acco-
gliere l'Altro e ciò che l'Altro gli vuole donare.
Questa economia di mezzi è teologicamente una grande figura simbolica del non
ancora escatologico del Regno tuttavia già inaugurato nella Chiesa. Contro tutte le
forme di impazienza teologica, il rituale protegge dal sogno sempre rinascente di un
Regno senza Chiesa. La sua umile discrezione ci guarda dal «crederci». Ci conduce
verso quel!'«humour» che è la virtù cardinale mediante la quale il credente si mette
in sintonia con la pazienza di Dio. Anche qui, il proprio della ritualità è farci vivere
questa umile sacramentalità escatologica nella modalità di pratica simbolica, molto prima
che noi la pensiamo come tale, e in modo più radicale di quanto avvenga nei nostri
discorsi.

4. Una simbolica indiziale

a) Il posizionamento mediante il rituale


L'abbiamo detto prima: il rito non è prima di tutto un problema di contenuto men-
tale ma di indizio «comportamentale». In questo senso esso appartiene a ciò che in ci-
bernetica si chiama la «digitalità», in opposizione ali'«analogia». L'analogia conviene
al mondo del discorso: si sfuma un 'idea, la si modalizza in diversi modi. Nell'ambito
della fede o dell'etica, per esempio, le posizioni sono generalmente analogiche: si col-
locano su un continuum graduale, sempre mobili. Si è più o meno credenti («Signore,
io credo, vieni in aiuto alla mia poca fede!»), cosi come l'agire etico è più o meno
evangelico.
Il rituale si vive in regime digitale, indiziale, deittico: esso posiziona. Non si può
essere battezzati a metà, così come non si può fare una semi-comunione. Non esiste
negoziazione (se non interiore, ma non è questo il piano su cui ci situiamo qui) a que-
sto stadio. Come un indice, esso designa agli altri il nostro statuto. È questa d'altronde
una delle sue funzioni essenziali, che si può scomporre in tre aspetti: da una parte esso
delimita il gruppo, fornendogli dei punti di riferimento simbolici della sua identità.

238
In secondo luogo il rituale integra gli individui nel gruppo; ognuno vi riceve così il
suo nome e si vede «significare» il suo posto: nulla più del suo posto, tutto il suo posto.
Infine, esso distribuisce dei ruoli differenziati a individui o a sottogruppi, operazione
indispensabile al funzionamento della comunità: quando il potere non viene dato no-
minalmente a qualcuno o ad alcune persone, esso rimane sempre da prendere; ed è
effettivamente preso e manipolato tanto meglio quanto più rimane occultato.
La funzione digitale del rito è probabilmente uno degli elementi che spiegano la
forte domanda dei riti di passaggio alla Chiesa, domanda ampiamente sganciata dal
contenuto delle credenze, come già abbiamo segnalato. Al limite, ciò che viene do-
mandato si riduce a un semplice diagramma indiziale: si desidera essere riconosciuti
come «cristiani», avere un posto nella Chiesa e potere così avere il diritto di richiedere
in seguito un matrimonio o una sepoltura religiosa. Si tratta di poter esibire le insegne
del «cristianesimo».
Il referente in definitiva può essere soltanto il codice cristiano stesso, praticamente
svuotato del suo «contenuto».

b) Credere e far credere


Abbiamo ricordato, al capitolo IV, la dimensione illocutoria degli atti di linguag-
gio rituali, e in questa scia, il loro intento performativo. Il performativo, dicevamo
allora seguendo F. A. Isambert, «ha tutte le caratteristiche del rito e la sua performance
è esattamente dell'ordine dell'efficacia simbolica». Funzionando, per questo motivo,
a un livello altro rispetto a quello del valore informativo, l'atto o discorso di autorità
che è il rito non richiede prima di tutto dì essere compreso nel suo contenuto per esse-
re riconosciuto efficace; basta che sia riconosciuto come valido, il che implica che l'a-
gente sia abilitato per questo compito e che lo eseguisca secondo le forme richieste.
L'efficacia riconosciuta a questi atti autorizzati non dipende evidentemente da qualche
potere segreto delle parole stesse, ma dal consenso sociale di cui essi sono il simbolo
codificato.
La legittimità degli agenti rituali e la validità dei loro atti sono quindi direttamente
legati al «capitale simbolico» (P. Bourdieu) di cui sono investiti: il gruppo vi si ricono-
sce. Per questo «la credenza di tutti, che preesiste al rituale, è la condizione dell'effi-
cacia del rituale»24 e la «prima efficacia del rito» è di «far credere al rito stesso».25
Perché venga ritenuto vero, il rito deve essere riconosciuto culturalmente e socialmen-
te come verosimile. L'efficacia reale che gli viene attribuita è dipendente dalla sua «ac-
cettabilità sociale». Bisogna qui «includere nel reale la rappresentazione del reale».
L'abbiamo sottolineato a proposito dell'efficacia simbolica: proprio «agendo sulla rap-
presentazione del reale» i riti agiscono «sul reale».26
Questo rapporto intrinseco (ma sconosciuto) del rituale con il codice culturale è
tale che V. Turner vede nei riti dei luoghi di stoccaggio dei «valori strutturali domi-

24
P. BOURDIEU, Ce que parler veut dire, op. cit., p. 133.
25
F.A. ISAMBERT, «Réforme liturgique et analyses sociologiques», in LMD 128, 1976, p. 84. In modo
più ampio, cf il colloquio dell'Ecole francaise de Rome, Faire croire. Modalités de la diffusion et de la
reception des messages religieux du XII au XV siede, Ecole Francaise di Roma, Palazzo Farnese, 1981.
26
P. BOURDIEU, Ce que parler veut dire, op. cit., pp. 42, 124, 136.

239
nauti di una cultura».2' In questo modo possiamo capire un po' meglio quali molle
arcaiche abbiano scatenato l'indignazione di un certo numero di cattolici di fronte alla
riforma liturgica del Vaticano II. P. Bourdieu ne ha tentato un'analisi. Egli mostra
che le formule di indignazione denunciano degli «errori» che vertono sulla legittimità
degli agenti (comunione dalle mani dei laici o presenza di suonatori di chitarra), dei
luoghi (prima comunione al Palasport o preghiera in una chiesa da cui è assente il San-
tissimo), del linguaggio («pane di vita» invece di «ostia», il dare del tu a Dio o parole
cambiate nella preghiera eucaristica), dell'abbigliamento (professione di fede in blue-
jeans o sacerdote senza pianeta), di oggetti (ceste invece che cibori, o pane normale
invece delle ostie), ecc. 28
Il più delle volte si tratta di dettagli. E spesso queste modifiche di dettagli possono
agevolmente essere giustificate teologicamente e pastoralmente. Ora, e nonostante le
spiegazioni date in modo anche molto pertinente sia nella forma che nel contenuto,
continuano a sussistere dei blocchi. Oltre ai fattori psichici che entrano qui in gioco
e che espliciteremo in seguito, è V «accettabilità» sociale di questi cambiamenti che
è qui in discussione: non corrispondendo più alle rappresentazioni che «sempre» ne
sono state fatte, il rituale ha.perduto gli attributi simbolici della sua legittimità. L'«er-
rore» qui denunciato si riferisce alla cifra o al codice che regge ciò che tradizional-
mente si intende con liturgia «cattolica». Questa cifra (sconosciuta come tale) sembra
essere fondata soprattutto, secondo il parere di F.A. Isambert, sull'opposizione tra «or-
dinario» (profano) e «non ordinario» (sacro). L'«errore» che imbroglia tutto sta nella
trasgressione di questa opposizione che viene ricevuta culturalmente come fondamen-
tale: l'ostia è diventata del pane normale, l'altare si è trasformato in tavola, il prete
non porta più certe insegne essenziali della sua funzione (come la pianeta), mentre i
laici sembrano aver usurpato un ruolo che non appartiene loro. In breve, si è rotto
il codice.™ E quando il codice è rotto, qui come in qualsiasi altro linguaggio, non ci
si capisce più. Potete allora sempre spiegare: ogni parola, ogni frase della vostra spie-
gazione sarà capita, ma non verrà ricevuto niente.
E le reazioni, non sempre di indignazione, ma almeno di sorpresa e di rimpianto
nei confronti delle riforme liturgiche sono lungi dall'essere l'esclusiva di una frazione
di praticanti regolari. Alcune inchieste sociologiche mostrano che esse appartengono
in gran parte a quella massa di praticanti stagionali, che rappresentano la cosiddetta
«religione popolare»30 che provano tanta più nostalgia per la liturgia «di una volta» (molto
idealizzata, del resto) quanto più sono rimasti ai margini rispetto all'evoluzione della
Chiesa. Ciò che essi pretendono prioritariamente dal rito è allora inevitabilmente la

21
V . TURNER, Les Tambours d'affliction, op. cit., p. 16.
28
P. BOURDIEU, Ce queparler..., pp. 103-109.
2
' F.A. ISAMBERT, art. cit., pp. 81-86.
10
I D . , Le Sem du sacre. Fète et religìon populaire, ed. de Minuit, 1982. Opera fondamentale sulle
tre nozioni di «religione popolare», di «festa» e di «sacro»; tre termini che «appaiono come solidali» (p. 14)
e in cui i due primi dipendono ampiamente dal terzo, che costituisce la «nozione-chiave per eccellenza»
(p. 13). Tre termini in cui interferiscono, spesso in modo polemico, «elaborazione dotta» ed «elaborazione
militante» (pp. 15-16). Le differenze di interpretazione di cui la «religione popolare» è stata oggetto, da
una parte in una teologia e in una pastorale «critiche» in Francia, dall'altra nella linea, non meno «critica»,
della teologia della liberazione in America latina, ci sembrano molto significative a questo riguardo. Cf
i contributi di S. GALILEA, D. IRRARAZAVAL e J.L. CARAVIAS, in J. DORÈ (ed.), Jesus et la libération en
Amerique latine, Desclée, 1986, pp. 109-163.

240
riproduzione del modello più «ufficiale», la sua conformazione al codice tradizionale.
Ancora abbastanza spesso questo codice è quello della majestas di un Dio onnipotente
e lontano di cui conviene ingraziarsi i favori di protezione, codice prodotto dalla rifor-
ma post-tridentina e rafforzato considerevolmente durante il periodo ultramontano del-
l'ultimo secolo.31 Meno Yethos liturgico del prete e dei laici più impegnati nella vita
della comunità è conforme a questo codice (e questo capita spesso), e più viene smi-
nuito il tasso di credibilità dell'atto rituale.

c) Lettura teologica
Anche qui si misurano le ambiguità del rito. Il posizionamento che la sua natura
«digitale» effettua, nella modalità di attribuzione di identità, di statuto e di ruolo, è
capitale per la vita del gruppo e per quella degli individui come soggetti. Ma ci si può
limitare a chiedergli questo. E la credenza teologica nell'efficacia dell'ordine del ri-
tuale può anche essere altro che una credenza sociologica in quella del rituale dell'or-
dine stabilito: ciò che si attribuisce allora generosamente all'azione gratuita di Dio non
è più che un alibi religioso che maschera una domanda di conformazione ali 'ordine
sociale. Dio diventa allora la semplice cifra sconosciuta di questo. Nessuno d'altronde
è immune da questo formalismo cultuale, generalmente abbastanza sottile da non esse-
re confessato.
In ragione del posizionamento senza sfumature che esso effettua, il rito può dun-
que rendere praticamente inudibile la perentorietà della parola evangelica, al di fuori
della quale, tuttavia, la liturgia perde il suo statuto cristiano. Si intuiscono le tentazioni
che, oltre un certo formalismo, lo minacciano. Delimitare il gruppo assegnandogli dei
contrassegni della sua identità è certamente indispensabile; ma questo può portare la
Chiesa a snaturarsi mediante un ripiegamento geloso sul suo particolarismo di fronte
alle «aggressioni» esterne (mondo o altre religioni), oppure, se il ghetto si mette in
assetto da crociata, mediante un proselitismo conquistatore, mentre il Vangelo le chie-
de di rimanere aperta e accogliente all'universale di un Regno che la supera. Assegna-
re ad ognuno uno statuto ed un ruolo non è certo meno importante; ma questo può
portare a un atteggiamento di etichettamento delle persone, chiuse per sempre nel loro
statuto ufficiale; e questo è antievangelico, perché il Vangelo di grazia e di misericor-
dia offre a tutti, indipendentemente dal loro passato, le possibilità di conversione e
di rinnovamento. Questa stessa distribuzione dei ruoli può fissare i detentori del pote-
re in un «personaggio» di funzionario, lì dove il Vangelo chiede che il più grande eser-
citi il suo potere come un servizio di tutti. Infine il rituale, che è probabilmente la
più conservatrice delle istituzioni della Chiesa, rischia di funzionare in modo talmente
«sacrificale» da assicurare soltanto la sicurezza dei cristiani, facendo loro dimenticare
la violenza della conversione al Vangelo.
Tuttavia, malgrado, o meglio nel seno stesso di queste pericolose minacce di deri-
va verso il formalismo, il posizionamento della Chiesa e, in essa, degli individui che
il rituale effettua ha una portata teologica importante. Anche qui, essa è legata non
prima di tutto al discorso, ma alla pratica. Inscrivendo simbolicamente sul corpo di
ognuno i contrassegni di identità della Chiesa, il rituale attesta la differenza cristiana.

31
F.A. ISAMBERT, op. cit., pp. 278-280.

241
E la attesta non come una rottura che esclude — schema «metafisico», abbiamo detto,
di una differenza rappresentata come concorrenza, distanza-allontanamento e infine
opposizione — ma come una messa in comunicazione (cf il rapporto linguistico Io-
Tu). In questa problematica la Chiesa, in quanto differente, può essere ricevuta come
una grazia che Dio fa ai cristiani e, da un punto di vista differente, ai non-cristiani.
Così, «credere alla grazia particolare di fraternità e di filiazione che siamo invitati a
gustare in Chiesa è per noi il cammino per credere efficacemente alla grazia universa-
le di fraternità e di filiazione, e di operare per la sua manifestazione». E «credere alla
grazia universale di fraternità e di filiazione, promessa, offerta e accessibile a tutti gli
uomini è il cammino per poter rendere grazie per questa grazia particolare di fraternità
e di filiazione che dei cristiani sono chiamati a vivere in Chiesa».32
Imprimendo su ognuno i suoi contrassegni, a loro volta differenziati a seconda del-
lo statuto che si ha (catecumeno, battezzato, cresimato, sposato...) o a seconda della
funzione che si esercita (ministero ordinato, ministero «riconosciuto»...), la Chiesa pro-
duce se stessa nella sua visibilità istituzionale di sacramento di Gesù Cristo. Vi raffi-
gura, vi es-pone, vi proclama in modo radicale la sua identità.

5. Evangelizzare la ritualità

a) Dal punto di vista formale


Gli sviluppi precedenti l'hanno mostrato: i riti sono portatori di ambiguità tali da
essere capaci di tutto, del meglio e del peggio, dal punto di vista cristiano. Legata alla
p/Parola — non quia dicitur, sed quia creditur, come sottolineava Agostino a proposi-
to del battesimo — e allo Spirito, la loro cristianità effettiva viene alterata nella misura
in cui essi se ne distaccano per autoriprodursi soltanto in funzione dei benefici psichici
o sociali che la loro semplice messa in opera procura. Senza sognare una loro messa
tra parentesi a beneficio del riferimento a una «pura Parola» o a un collegamento diret-
to con lo Spirito Santo, sogno che abbiamo continuamente denunciato, non possiamo
non porci la domanda: a quale «Gesù Cristo» si riferiscono concretamente questi riti?
Quale memoria «pericolosa» di lui compiono? Quale modello di Chiesa contribuiscono
a creare per questo tempo? L'ultima parte del nostro lavoro espliciterà queste doman-
de. È chiaro fin da ora che viene richiesta dai sacramenti una sorta di Aufhebung dei
riti: quelli assumono questi, ma li assumono cristianamente solo «superandoli».
Sotto questa angolatura le vigorose critiche che abbiamo rivolto alla corrente criti-
ca dei riti, soprattutto nella sua tendenza a banalizzarli e a deprogrammarli, richiedo-
no di essere correttamente collocate. Certo, gli argomenti teologici avanzati da questa
corrente non erano, in parte, che una copertura che mascherava ideologie più o meno
confessate; d'altra parte, i mezzi adottati per ridare vita ai riti ci sembrano essere stati
antropologicamente ingenui, privi di una sufficiente considerazione delle leggi speci-
fiche del linguaggio rituale; infine, le conseguenze pastorali si sono verificate talvolta
infelici. Ma questo non può far dimenticare il duplice intento di questa corrente conte-
stataria: da una parte reinserire il vigore della Parola cristiana nella liturgia, vigore

12
H. DENIS, G. PALIARD, P.G. TREBOSSEN, LeBaptème despetits enfants. Histoire, dottrine, pastora-
le, Centurion, 1979, p. 80.

242
sensibilmente smussato dal fissismo e dal conservatorismo rituali; dall'altra risimbo-
lizzare questi riti, troppo separati dalla cultura circostante. E come non far nostro que-
sto duplice intento? Per questo, nonostante i suoi eccessi, le sue ingenuità, le sue deri-
ve, questa corrente critica non può essere messa sullo stesso piano della corrente iera-
tica opposta. Non ci si può limitare a non darla vinta a nessuna delle due parti.
Dal punto di vista formale delle condizioni dell'evangelizzazione dei riti, enunce-
remo tre proposte. 1) Contro la corrente di banalizzazione-deprogrammazione che ha
eccessivamente ignorato le leggi proprie del linguaggio rituale, evangelizzare i riti si-
gnifica prima di tutto rispettarli come riti, e non pretendere dunque di salvarli «usan-
doli» come discorsi teologici o morali, il che equivarrebbe a snaturarli. 2) Contro la
corrente ieratica e fissista, evangelizzare i riti richiede di risimbolizzarli, e soprattutto
di tener conto della rivendicazione di intelligenza e di comprensione che alimenta i
nostri contemporanei, soprattutto nell'ambito religioso; anche se (l'abbiamo detto) es-
si vivono di un principio altro rispetto a quello della «-logia» o della «conoscenza di-
scorsiva», i nostri riti hanno la possibilità di funzionare bene al loro livello simbolico
e «-urgico» solo se viene dato spazio a questa rivendicazione caratteristica del nostro
sistema simbolico attuale. 3) Infine, sempre contro questa stessa corrente, evangeliz-
zare i riti implica che essi siano presi alle spalle dall'operatore critico della fede; che
è fede viva solo se critica, in forza della Parola ricevuta secondo lo Spirito, le espres-
sioni religiose e sacre senza le quali non potrebbe tutavia nemmeno essere. Il rimando
alle Scritture e all'Etica, a lungo esplicitato precedentemente, è qui la condizione fon-
damentale di questa cristianizzazione.

b) Dal punto di vista materiale


Dal punto di vista materiale del «contenuto», la rottura rituale deve essere evange-
lizzata in modo tale che l'alterità di Dio vi sia manifestata non certo — come nel sacro
di tipo ieratico — come opposizione al mondo, ma come santità comunicata gratuita-
mente all'uomo perché santifichi l'insieme del «profano». Questo profano da santifica-
re nel quotidiano dell'esistenza non è allora in concorrenza con il «sacro», così come
i cristiani non devono vivere in «séparés» sociologici rispetto all'insieme dell'umanità,
e certi momenti della vita non dovrebbero essere riservati per la «religione»; anche
se, come abbiamo visto, dei segni di differenza devono apparire a tutti questi livelli.
Evangelizzare la programmazione rituale significherà essenzialmente manifestare la
portata della messa in contiguità metonimica che il rito effettua tra la Chiesa attuale
e Gesù, suo Signore. Invece di riprodursi semplicemente in modo abitudinario, il rito
battesimale o eucaristico rimanda allora i partecipanti alla parola e alla pratica di quel
Gesù di Nazaret che essi confessano come loro Signore. Un simile rimando li fa im-
battere inevitabilmente sulla croce, richiamando così il carattere pericoloso della pra-
tica alla quale la memoria sacramentale li chiama. Quanto al posizionamento mediante
la ritualità, abbiamo già notato precedentemente ciò che può significare la sua evange-
lizzazione: apertura all'universale del Regno, contro la tentazione del ripiegamento
particolaristico sulle frontiere della Chiesa: conversione e rinnovamento sempre pos-
sibili, contro la tentazione di ridurre le persone a uno statuto, una funzione, un'eti-
chetta; forza violenta del Vangelo che risveglia l'istituzione Chiesa, contro la sua ine-
vitabile tentazione di addormentarsi nella sicurezza di un funzionamento «sacrifica-

243
le»... Lo si indovina: un simile «superamento» dei riti in sacramenti della Parola ri-
chiede una vigilanza costante e rimane un'opera da rimettere continuamente in cantiere.

III. UNA SIMBOLIZZAZIONE DELL'UOMO TOTALE


COME CORPOREITÀ

Da qualunque verso si prendano, i riti ci rimandano al corpo. Questo, precisiamo-


lo, non ne è una semplice condizione, bensì il luogo stesso. La liturgia infatti lo richie-
de non solo perché, «materia» sostanzialmente «informata» dall'anima, esso deve ne-
cessariamente esservi impegnato affinché l'omaggio reso a Dio sia totale: lo richiede
perché esso ne è la scena che gli dà «luogo». Qui viene detto in modo eminente che
la componente più «spirituale» della comunicazione con Dio che la liturgia, per sua
natura, ha di mira, avviene nella mediazione dell'elemento più «corporale».
Abbiamo definito in precedenza l'uomo come corporeità, concetto che articola,
neH'«archi-simbolo» del corpo proprio di ogni soggetto, un triplice rapporto: con il
sistema culturale del gruppo (corpo sociale), con la sua memoria collettiva (corpo tra-
dizionale) e con l'universo (corpo cosmico). Una simile articolazione simbolica si ef-
fettua in modo originale per ognuno, soprattutto secondo la storia del suo desiderio;
ma ognuno è se stesso solo perché è abitato da questo triplice corpo. Ora, è proprio
questa corporeità che la ritualità religiosa simbolizza. Lo verificheremo nelle sue tre
dimensioni, cosmica, sociale e tradizionale, e poi nella sua dimensione individuale di
messa in scena del desiderio.

1. La simbolizzazione dell'autoctonia umana

a) Elementi della simbolica primaria


Come ogni rituale religioso, i sacramenti della Chiesa richiedono la messa in opera
di elementi materiali che raffigurano la condizione cosmica dell'uomo, la sua «autoc-
tonia», la sua inalienabile appartenenza alla terra, il suo «essere-al-mondo». L'acqua
(l'acqua della matrice materna, dell'oasi o della pioggia che dà la vita; ma anche l'ac-
qua del diluvio o del mare che devasta o annega); il fuoco (il fuoco che riscalda e rin-
vigorisce, ma anche che brucia e distrugge: fuoco dello Spirito Santo e fuoco dell'in-
ferno), la cenere o la terra (la terra-madre della nostra nascita e sussistenza, ma anche
la terra sepolcrale della nostra tomba e del nostro ritorno alla polvere), il pane (il pane
bianco delle nostre gioie e delle nostre sazietà, ma anche il pane bigio delle nostre
lacrime e dei nostri vuoti incolmati), la luce (la luce che illumina e rassicura, ma anche
che accieca e smaschera i tradimenti), ecc.: nella liturgia questi elementi muoiono al
loro statuto di semplici oggetti bruti o esseri-sussistenti per metaforizzare la nostra
stessa esistenza. Molto al di qua della coscienza che ne abbiamo o dell'intenzione che
vi colleghiamo, essi ci inviano arcaicamente l'eco del nostro indissolubile matrimonio
con la terra, della nostra originaria condizione esistenziale di essere-al-mondo.
Questa autoctonia dell'uomo inchiodato al cosmo si simbolizza anche arcaicamente
attraverso la voce, la cui ritualità mette in opera tutte le possibilità: dal grido o le la-
mentazioni fino al silenzio — quel silenzio che è come il troppo-pieno di un linguaggio

244
ridotto al soffio — passando attraverso la proclamazione, l'incantamento, il canto col-
lettivo, l'esultazione... Questo linguaggio orale, che è anch'esso, come vediamo, lin-
guaggio del corpo, linguaggio inscritto nella materia (supra), si combina con un lin-
guaggio gestuale eposturale, anch'esso modulato da tutte le possibilità del corpo: dal-
la transe e la danza, di cui in Occidente rimangono solo pochissime tracce come il
battito ritmato delle mani o il discreto ondeggiare del corpo che una salmodia può pro-
durre, fino al raccoglimento — quel silenzio posturale che è come il troppo-pieno di
un gesto ridotto al puro «qui» del corpo — passando attraverso l'inginocchiamento,
la prosternazione, l'atteggiamento di ascolto, la processione, l'atto di manducazione...
È vero che le nostre liturgie sono relativamente povere quanto a espressioni del
corpo; resta però il fatto che questi gesti e atteggiamenti (ai quali si partecipa non solo
eseguendoli personalmente, ma anche vedendo i vari attori liturgici compierli) ci lavo-
rano molto di più di quanto noi ne siamo consapevoli. Essi vengono infatti da un vec-
chio fondo di schemi sub-rituali che ci parlano continuamente. L'abbiamo sottolineato
precedentemente, seguendo A. Vergote: la stazione verticale, il gesto condivisore de-
stra/sinistra o davanti/dietro, l'introiezione o la proiezione mediante i fori del corpo,
l'apertura o la chiusura della mano, la sporcizia che macchia la pelle o la purificazione
che la toglie, ecc. sono altrettanti schemi sub-rituali che appartengono alla simbolica
primaria inscritta nella «topica» del corpo. Questa topografia è esistenziale, così che
ogni «idea» di dominazione o di libertà (stazione verticale), ogni coscienza etica (gesto
di condivisione), ogni assimilazione, fino alla più intellettuale (introiezione), ecc., pas-
sano attraverso 1'«economia» secondo la quale questi schemi corporali sono investiti
da ognuno. Collegamento simbolico alla frontiera tra l'«ipseità» e la «illeità», il corpo
si antropomorfizza nel macrocosmo dell "universo e si «cosmorfizza» lui stesso in mi-
crocosmo. È questa permanente osmosi dell'uomo con il suo corpo cosmico che la
liturgia mette in scena attraverso i materiali che impiega e le posture e i gesti che
dispiega.
Conosciamo l'ambivalenza del simbolismo cosmico della «natura» e dei suoi cicli
sempre rinascenti: simbolismo facilmente ammaliatore e sempre minacciato di regre-
dire verso l'immaginario indomabile se è troppo legato alla «buona madre» proiettata
nella natura benefattrice e troppo slegato dalla legge del padre, rappresentante della
cultura e della storia. Resta il fatto che, attraverso i materiali e gli oggetti, attraverso
il corpo, attraverso l'impostazione architettonica e la decorazione plastica dello spazio
sacro, attraverso la pietra dell'altare, il legno della croce o delle sedie, la fiamma del
cero pasquale o l'odore dell'incenso, al di qua perfino delle nostre intenzioni esplicite,
è l'universo intero che nella liturgia viene celebrato come creazione.

b) Una teologia della creazione31


La ritualità cristiana è la confessione in atto di Dio creatore. Lo è in forza della
sua messa in opera pratica, prima degli enunciati che l'esprimono. Essa situa «perfor-
mativamente» i partecipanti in una relazione di dipendenza nei confronti di una positi-
vità che li precede. Ma questa positività non è semplicemente quella delle cose brute.
È una positività simbolica, aperta dalla parola, poiché Dio crea, cioè organizza il tohu-
bohu originario come «mondo» (Gn 1), attraverso la parola. Positività che giunge dun-

" Vedere gli sviluppi più ampi a questo proposito nella nostra conclusione generale.

245
que di colpo come dono e che, per questo, non appartiene né semplicemente allo sche-
ma artigianale della fabbricazione, di tipo «creazionista», né semplicemente allo sche-
ma biologico della generazione, di tipo emanatista: i due grandi schemi che hanno ali-
mentato la tradizione filosofica e religiosa occidentale a proposito della creazione. Ora,
come ogni dono, quello della creazione viene ricevuto solo mediante un contro-dono:
in questo caso, quello della creatività umana, incaricata di conformare l'universo al
dono del Creatore; incaricata quindi di renderlo abitabile da tutti, culturalmente ed
economicamente. La nozione cristiana di creazione, irriducibile alla creatività umana
che procede da essa, ma ad essa indissolubilmente legata, esprime dunque a un tempo
la dipendenza dell'uomo come creatura nei confronti di Dio e la sua responsabilità sto-
rica nella gestione di un universo e di un'esistenza riconosciuti come un dono gratuito.
La liturgia cristiana presenta quindi il mondo come ciò di cui non si può usare in
modo arbitrario: essa esige che si faccia dell'universo un mondo per tutti, e non sol-
tanto per i benestanti. E ce lo presenta anche come ciò di cui non si può usare in modo
semplicemente utilitaristico. Essa epifanizza l'eccesso simbolico che il reale, in quan-
to creato, tiene in riserva. Lasciato alla sua «profanità», dunque non sacralizzato, a
questo mondo è vietata la profanazione. Le cose più elementari — l'acqua, il pane,
il vino, ecc. — richiedono rispetto.
Il pane, allora, non è eucaristizzabile a qualsiasi condizione. Non lo è quando,
sottratto ai poveri — che tuttavia l'hanno fabbricato — da un sistema economico ingiu-
sto, è diventato simbolo di «de-creazione». Offrire a Dio questo pane impastato con
la morte dei poveri è un assassinio e un sacrilegio (Sir 34,24-25). Comunicarsi con
questo pane significa «mangiare la propria condanna»: come vi si potrebbe infatti «di-
scernere il corpo del Signore» (1 Cor 11,17-34)? Già molto prima di Paolo il salmista
accusava in nome di Dio «tutti quei malfattori che mangiano il mio popolo mangiando
il loro pane» (Sai 53,5). L'economia teologale del culto è inseparabile dall'economia
sociale della cultura. È quanto simboleggia in modo esemplare / 'oblazione a Dio del
pane e del vino, «frutti della terra e del lavoro dell'uomo», simbolo che (cfsupra) non
costituisce il contro-dono finale dell'uomo, ma la figura «sacramentale» di un contro-
dono da veri-ficare nella pratica etica della giustizia e della condivisione. Simbolo che
esprime la recezione del «dato» (nel duplice senso) dell'universo come «offerta».

2. La simbolizzazione della socialità e della tradizione

a) Il rito come «dramma sociale»


Un rituale non è mai di ordine individuale, tranne che nella sua devianza nevrotica.
È questo d'altronde il presupposto della scuola funzionalista in sociologia ed etnolo-
gia: i rituali religiosi sono, secondo l'espressione di V. Turner, dei «drammi sociali»,
e i loro elementi sono come espressioni dei valori culturali dominanti di un gruppo
(supra). L'abbiamo mostrato a proposito della loro efficacia simbolica: questa è legata
alla loro capacità di «far rientrare nell'ordine» — l'ordine simbolico dei valori econo-
mici, sociali, politici, ideologici che forniscono al gruppo la sua identità e coesione
— gli elementi che appaiono di primo acchito come incoerenti o che turbano l'armonia
sociale. R. Bastide ha d'altronde mostrato che perfino il «sacro selvaggio» della pos-
sessione o della trance, con il rischio di cadere nell'isteria — pericolo sempre pos-

246
sibile — è di fatto debitamente regolato, dalla A alla Z (dall'entrata ritualmente cana-
lizzata nella trance fino all'uscita effettuata secondo un acquietamento progressivo e
programmato), dal gruppo sociale, soprattutto dai suoi rappresentanti «sacerdotali». 34

b) Un esempio: l'iniziazione tradizionale e il suo segreto


I rituali esoreistici di guarigione ci sono serviti in precedenza per esprimere la dimensione
sociale dei riti sotto il loro aspetto di efficacia simbolica. I rituali di passaggio ci permettono
di cogliere meglio il gioco di tutto il corpo sociale stesso in un affare che, tuttavia, riguarda
direttamente solo alcuni dei suoi membri. Scegliamo di fermarci sui riti di iniziazione di tipo
socio-tribale. Mostreremo che i soggetti sono parlati nelle metafore rituali sia come corpo «an-
cestrale» che come corpo sociale.
Prendiamo come esempio l'iniziazione etnica dei giovani fatta nel paese Bobo (Burkina-Faso,
ex Alto Volta) descritta da A . T . Sanon.3' Vi ritroviamo i tre momenti distinti classicamente
dagli etnologi in questo tipo di iniziazione: la separazione con il mondo materno e femminile,
il tempo di emarginazione al di fuori del villaggio, la reintegrazione, con un nuovo statuto, nel
villaggio. La simbolica principale che sottende l'insieme di questi sette giorni è quella della mor-
te/rigenerazione. Essa sfocia in una «triplice nascita»: «nascita della comunità del villaggio rin-
novata nei suoi valori fondatori, nascita di una generazione nuova nella linea della tradizione,
nascita infine di ogni membro situato nella sua generazione e nella comunità secondo l'autentica
tradizione» (p. 87).
Quest'ultima nascita si vive nel corpo dì ciascuno, poiché questo corpo è il luogo stesso in
cui ciascuno ammucchia il «sapere globale» trasmesso, il «terreno in cui la parola iniziatica vie-
ne seminata con gesti, atteggiamenti, ritmi, e se necessario, flagellazioni» (p. 82). Ma questa
morte all'infanzia e questa nascita a un nuovo statuto, segnate per ciascuno dalle prove subite,
l'apprendistato e la restituzione della lingua segreta (il IMO), la rottura con il villaggio, poi il
ritorno ad esso, prima in posizione curva, prima di ritrovare la stazione verticale per darsi alla
danza, sono anche di pertinenza della classe degli iniziati come tale. Questa classe forma un
vero e proprio «corpo comunitario» in cui «ogni corpo è necessario al corpo degli altri. Tutto
il gruppo registra e ripete, si muove, si slancia e ritorna al riposo. I corpi si incatenano ai corpi
mediante il legame della tradizione ritornata viva nell'atto stesso della sua trasmissione», so-
prattutto al momento dell'apprendistato ritmato, quasi salmodico, della lingua segreta (p. 82).
D'altronde ciascuno può essere iniziato solo come membro di questo corpo collettivo. E questo
corpo, che avrà il suo posto particolare all'interno della comunità del villaggio, fino a quando
gli succederà una nuova promozione di iniziati, comprende se stesso solo nel suo rapporto con
il corpo del villaggio o etnico che, attraverso i suoi giovani, rifa il suo personale passaggio ini-
ziatico. Perché questo passaggio, fatto una sola volta, rimane per ognuno «uno statuto perma-
nente. Basterà un gesto, una frase, una semplice parola come bis la perché ogni iniziato o una
classe di età ritrovi l'atteggiamento conveniente»; il «segno», allora, come nota acutamente A.T.
Sanon, «riprende la sua dimensione di simbolo» (p. 92): introduce di colpo nell'ordine di cui
fa parte; in questo caso: nell'ordine dei «valori fondatori» dell'identità del gruppo trasmessi in
occasione dell'iniziazione. Anche se messa a parte rispetto agli iniziati, la comunità del villag-
gio è parte integrante a pieno titolo del processo iniziatico. Non solo perché riguarda i suoi figli,
non soltanto per il fatto che tutto il villaggio vive come sospeso a ciò che avviene laggiù nella
foresta e prepara attivamente il ritorno dei suoi nuovi membri; ma, molto più ancora, perché
ai giovani viene inculcata la sua tradizione fondatrice.

34
R. BASTIDE, Le Sacre sauvage, Payot, 1975, p. 216.
35
A . T . SANON e R. LUNEAU, Enraciner V'Evangile. Initiations africaines et pédagogie de la fai, Cerf,
1982, 2a parte. Nel prosieguo del testo ci riferiamo a quest'opera.

247
La trasmissione di una simile tradizione non è nell'ordine di un sapere intellettuale che biso-
gna imparare a memoria. Al contrario di quanto capita da noi, dove la cultura è «ciò che rimane
quando si è dimenticato tutto», laggiù, in certo senso, non c'è niente da dimenticare perché si
consegna solo ciò che può e deve restare. Ma lo si consegna mediante una pedagogia «a misura
di vita» (p. 101) in cui si fa simbolicamente, «gli uni con gli altri e gli uni mediante gli altri»
(p. 102), ciò che viene detto: bisogna imparare la solidarietà? la si vive intensamente nel corpo
a corpo iniziatico; bisogna imparare il rispetto degli anziani? lo si vive nella sottomissione agli
iniziatori; si tratta di imparare a venerare gli antenati o il dio e a trattare con loro? lo si fa invo-
candoli, vivendo in loro compagnia, rivelando il «segreto»; bisogna imparare come comportarsi
nel gruppo nei confronti della sessualità, della morte, dei vari clan e funzioni sociali? Tutta l'i-
niziazione è lì per inculcare «come essere un uomo in un modo che differenzi l'uomo dalla don-
na, l'adulto dal bambino, il figlio dal padre, il fratello maggiore dal minore, una promozione
da un'altra promozione, pur salvaguardando fondamentalmente la loro eguaglianza di membra
di un corpo vivente» (p. 124); bisogna conoscere il mondo? questo mondo è proprio quello al
quale io sono iniziato, il mio mondo ancestrale, ritagliato per essere la mia terra, il mio villag-
gio, il mio territorio e il mio paese», un mondo in cui ciascuno sa «situarsi collocando ogni esse-
re al suo posto» (pp. 117-118).
Il sapere trasmesso nell'iniziazione è quindi un saper-fare, una delle cui modalità è il saper-
dire. Tutto sta nell'aggiustamento di sé rispetto agli altri, agli antenati (e agli dèi), al mondo,
in cui si impara quindi a trovare il proprio posto situando il resto al suo posto. Questo aggiusta-
mento, creazione di un mondo di senso, è l'atto simbolico di coerenza per eccellenza in cui
ogni elemento, come quello di un puzzle o un pezzetto di vaso spezzato, può trovare il suo posto
significante nel grande insieme culturale ereditato dalla tradizione. Essere iniziato significa quindi
imparare la verità, non nel senso di esattezza intellettuale trasmessa con il sapere, ma nel senso
di giustezza pratica trasmessa con la saggezza. L'iniziato è colui che ha investito talmente nel
suo essere-corpo i valori fondatori del gruppo da sapersi situare con giustizia rispetto ai vari
elementi dell'universo, ai diversi statuti e funzioni degli altri, e alle potenze soprannaturali con
le quali ha imparato a trattare. Essere iniziato significa veramente «entrare in umanità» (p. 125),
pervenire a una piena umanità di soggetto. L'efficacia simbolica dell'iniziazione sta appunto
nel fatto che l'atto di ricevere è un atto di riceversi.
Questo tesoro di grazia che non ha altro contenuto, come vediamo, se non / 'avvento del sog-
getto, collettivo e personale, trova il suo simbolo principale nel «segreto». Segreto di pulcinel-
la? Certo, perché si tratta dell'ostensione di una maschera, e questa maschera «si rivela velando
pienamente il suo segreto» (p. 95). C'è dunque un segreto del segreto, che è la parola più forte
dell'iniziazione, «quella che non si dice» e che è «ciò che ognuno sa, ma che nessuno dice» per-
ché questo «rimanda a un non-detto e a un indicibile» (pp. 99-100). Se non è dicibile da nessuno,
anche se è saputo da ciascuno, è perché esso non è altro che ciò che ha effettuato l'iniziazione:
il lavoro simbolico in cui, comunitariamente e personalmente, ognuno ha imparato a situarsi
secondo un saper-vivere nuovo nel suo «mondo». L'iniziato infatti è diventato veggente; le cose
della vita gli parlano, può affrontarle senza tema di essere vittima delle forze disordinate del
mondo, vi si può orientare senza tema di perdersi. E tutta la nuova promozione ormai questo
lo sa, sulla scia dei vecchi iniziati. Tutti sono conniventi, dividono lo stesso segreto, che non
possono dire perché non è dicibile al di fuori dell'esperienza iniziatica in cui lo si impara con
il corpo, e che tuttavia li fa talmente vivere da stabilire tra di loro, nel loro modo di capirsi
attraverso quella tal specie di albero, quell'interdetto sociale, quel modo particolare di prendere
posto nel gruppo o di prendervi la parola, quel gesto, quella parola, quel rito, la solidarietà più
fondamentale che ci sia: quella di una identità culturale. I segni allora sono ben di più e ben
altra cosa che dei segni: sono dei simboli. Il segreto del segreto è il passaggio simbolico a questa
identità culturale effettuata dall'iniziazione; è l'appropriazione da parte di ciascuno del sistema
di valori del gruppo.

248
Lo si vede: l'iniziazione è un formidabile processo di riproduzione del sistema socio-culturale;
forse il più «performativo» di quelli che l'uomo ha inventato. Per questo motivo essa caratteriz-
za esemplarmente la drammatica sociale che impregna ogni rituale. Ma essa si rivela anche,
al tempo stesso, esemplarmente portatrice delle ambiguità del rituale, soprattutto di quelle che
appartengono alla sua dimensione indiziale (supra): infeudazione dei soggetti al gruppo, diffi-
coltà o addirittura impossibilità per loro di liberarsi dal proprio statuto o funzione, chiusura del
gruppo nel suo particolarismo... D'altronde non si possono dimenticare le possibili devianze
patologiche del processo iniziatico, soprattutto rispetto all'allungamento della sua durata e alla
durezza delle prove che vengono subite. La conversione cristiana di una simile iniziazione ri-
chiede dunque un lavoro di grande portata.

c) Iniziazione tradizionale e iniziazione cristiana


Questo lavoro di conversione al Vangelo non può limitarsi a un semplice restauro di faccia-
ta. Deve essere compiuto in profondità. Accontentiamoci qui di mettere in luce una difficoltà,
tra le tante, di un simile compito. Essa è legata al fatto che una iniziazione veramente cristiana
deve gestire tutta una serie di paradossi, tesa com'è tra: 1) la trasmissione di una eredità e l'ap-
propriazione critica di quest'ultima da parte della fede; 2) l'identificazione mediante dei segni
ecclesiali di appartenenza e l'apertura all'universale di un Regno che supera la Chiesa; 3) una
trasmissione gerarchica della tradizione apostolica e un esercizio del potere degli iniziatori co-
me servizio; 4) la necessità di mettere un termine all'iniziazione, termine che tuttavia non fini-
sce mai nel cristianesimo. Questo significa che l'iniziazione funziona bene dal punto di vista
propriamente cristiano solo se rimane in equilibrio instabile: se si privilegia troppo il primo ter-
mine di ciascuno di questi paradossi, cioè il polo «attestatario», l'iniziazione cristiana rischia
di ridursi alla riproduzione di un sistema di valori nelle mani dell'istituzione; se, al contrario,
si privilegia troppo — come avviene attualmente in Occidente — il secondo termine di questi
paradossi, cioè il polo «contestatario», l'iniziazione cristiana rischia di essere resa impossibile,
in mancanza di un sufficiente supporto istituzionale. Questo significa che non può esserci un
sistema di iniziazione cristiana pienamente soddisfacente. Se oggi essa si rivela particolarmente
difficile come «iniziazione», non è sicuro che funzionasse così bene come si è creduto un tempo
come «cristiana». È significativo, da questo punto di vista, che i Padri del IV secolo si siano
amaramente lamentati, in piena «età d'oro» dell'iniziazione, dell'adesione troppo «sociologica»
(come talvolta si dice oggi) della maggior parte dei nuovi convertiti alla fede cristiana; come
se, dal momento in cui è in via di «installazione» tranquilla, l'iniziazione perdesse inevitabil-
mente la sua forza evangelica...
La posta in gioco di queste riflessioni critiche è evidentemente di grande importanza per la
strategia pastorale dell'iniziazione cristiana. In questa strategia non si dimenticherà tuttavia il
notevole interesse pedagogico dell'iniziazione tradizionale. Certo, dal momento che non si può
esportare un elemento da un sistema simbolico in un altro senza fargli produrre effetti completa-
mente diversi, non si tratta di trasporre la pedagogia dell'iniziazione africana nella nostra cultu-
ra. E tuttavia, una simile pedagogia ci dà da pensare. L'iniziazione cristiana, infatti, non è an-
ch'essa un atto di trasmissione della tradizione nel quale la comunità cristiana continua a rice-
versi trasmettendola? Non è forse un processo di recezione di questa tradizione nella modalità
«misterica»? Ci sono altri modi per entrare nel segreto dei «misteri del Regno» se non quello
di lasciarsi prendere in essi? Impossibile qui pretendere di «vedere» sulla modalità del semplice
«sapere»: i ciechi, dichiara aspramente Gesù ai farisei, sono coloro che pretendono di vedere/sa-
pere, cioè di padroneggiare un sistema di conoscenza di Dio (cf Gv 9,41); costoro, che credono
di essere «dentro», in realtà sono «fuori», così che, «pur guardando, non vedono» (Me 4,11-12).
Il frutto dell'iniziazione al «mistero del Regno di Dio» in Cristo (ibid.) è indissociabile dal cam-
mino percorso: non dunque un «qualcosa», ma questo cammino stesso come processo di genera-
zione permanente dei soggetti come «cristiani». Un simile cammino iniziatico è anche simbolico:

249
«Si è capito, scrive A . T . Sanon, quando ci si sente presi dall'interno, coinvolti direttamente,
messi in stato di partecipazione» (p. 144). Abbiamo qui, forse, l'espressione più caratterizzata
della prova che ogni soggetto come tale deve assumere: l'impossibilità di «prendere» senza esse-
re «presi» (supra). Prova di dolore, di spossessione, di rinuncia a raggiungere la «Cosa», come
esprime esemplarmente il segreto della maschera. Passaggio attraverso la morte perché sia pos-
sibile un divenire nuovo. Questa simbolica iniziatica fondamentale, vissuta dal principio alla
fine nella corporeità dei soggetti, non fa eco, come sottolinea Paolo a proposito del battesimo
in Rm 6, alla Pasqua del Signore Gesù?

d) La crisi rituale nella nostra società «critica»


La precedente riflessione mirava a mettere a fuoco, sommariamente, alcuni aspetti della com-
plessità dei rapporti possibili tra una iniziazione pagana tradizionale e l'iniziazione cristiana.
Ora, questa complessità è duplicata dalla differenza fra società chiusa e società aperta. Questa
osservazione è tanto più importante qui, dal momento che vogliamo, basandoci sull'iniziazione,
mostrare il rapporto tra la ritualità e la socialità umana.
La simbolizzazione di questa socialità nei rituali è evidentemente meno caratterizzata nella
nostra società occidentale aperta e instabile di quanto lo sia nelle società tradizionali che, inve-
ce, sono di tipo stabile e chiuso. La «crisi sacrificale» dovuta al sospetto critico e all'esplosione
culturale rende i nostri riti liturgici globalmente molto meno funzionali di un tempo sul piano
sociale. Alla logica di comunione nella stabilità gerarchica, che caratterizza le società tradizio-
nali, si è sostituita un'altra logica: quella della differenziazione e della competizione per l'ugua-
glianza.36 Il consenso unanime rispetto ai valori che assicurano l'omogeneità sociale ha lasciato
il posto al diritto alla differenza o alla richiesta di autonomia; e questo fino alla promozione,
o all'esaltazione, del conflitto.
E come potrebbe l'iniziazione, ogni iniziazione, dentro o fuori del cristianesimo, non tro-
varsi a mal partito? E d'altronde è per questo che oggi se ne parla tanto: se ne parla tanto di
più quanto meno essa è praticata ed è invece diventata «oggetto» di studio, di sapere, di folklo-
re. Se rimane «dell'iniziatico»,37 esso non trova più luoghi istituzionali stabili in cui dispiegarsi
socialmente. Quando tutto il corpo sociale è in stato di mutazione permanente (o si rappresenta
come tale), sia rispetto al suo passato, sia rispetto al suo sapere, sia rispetto all'insieme delle
sue acquisizioni, non può evidentemente più esserci posto per delle istituzioni iniziatiche stabili;
tranne che ai margini della società, in cui fioriscono appunto le mistiche dell'estremo oriente
o i fenomeni di bande... Troppo diluito, l'iniziatico non può dar luogo ad una iniziazione. E
d'altronde a quale mondo si può avere il desiderio di essere iniziati, quando il sospetto è inevita-
bilmente portato su tutto il modello ereditato (morale e religioso soprattutto) e quando, in parti-
colare attraverso i mass-media, si è confrontati a una molteplicità di possibili modelli di identifi-
cazione? In mancanza di una sufficiente strutturazione simbolica, in mancanza di punti di riferi-
mento sufficientemente maturati, bambini, giovani e adulti si trovano nell'incapacità di operare
una cernita nella valanga di informazioni politiche, morali, religiose e di dar loro un pizzico
di coerenza...
Questo non significa che l'iniziazione cristiana sia irreversibilmente in via di estenuazione.
Vuol dire che va cercato un nuovo modello (e viene già cercato, talvolta con successo) dove,
pur avendo cura di mantenere e di promuovere sotto certi aspetti il polo attestatario e istituzio-
nale dell'iniziazione, ci si adoperi a coniugarlo con il suo polo contestatario e critico. Tensione
difficile da mantenere. Ma, l'abbiamo detto, è questa insuperabile tensione, uscita dal Vangelo
stesso prima di essere sovradeterminata da un tipo di società, che tiene la fede sveglia e viva.

16
Cf J. BAUDRILLARD, Pour une critique de l'economie politique du signe, op. cit., soprattutto il cap. :
«La genesi ideologica dei bisogni», pp. 59-94.
37
A. PASQUIER, «Recherches pour une initiation chrétienne», Cahiers Ephrem XV, 1982, CNER, Paris.

250
3. La simbolizzazione dell'ordine occulto del desiderio
La simbolizzazione del rapporto a uno stesso universo, a una stessa cultura, a una
stessa tradizione si effettua in modo originale in ognuno, secondo la storia propria del
suo desiderio. Come ogni religione, il cristianesimo è, sotto questo aspetto, un tentati-
vo di gestione della colpa. La ritualità ha un'importanza tutta particolare in questo
ambito: nei suoi due schemi principali, iniziatico e sacrificale, essa ha a che fare, co-
me ha mostrato A. Vergote, con l'impurità e con il debito.38 Abbiamo ricordato prece-
dentemente alcune devianze patologiche che la minacciano in modo particolare. Infat-
ti, mettendo in scena «l'ordine occulto del desiderio, dell'impensato del collettivo, dei
fantasmi originari, a un tempo occultati e reattivi nel gioco delle scene rituali e delle
figure di agenti e di oggetti»,39 essa è il luogo di un vissuto psichico intenso, propizio
al ritorno del «rimosso».
Così, anche aldilà del contenuto propriamente cristiano riconosciuto nella comu-
nione eucaristica, l'atto di manducazione, sovradeterminato d'altronde dalla dimen-
sione sacrificale che gli è esplicitamente associato, «non può non evocare dei fantasmi
orali immancabilmente ambivalenti poiché, da una parte, essi esprimono il desiderio
di distruggere, di uccidere — aggressività, pulsione di morte — e d'altra parte il desi-
derio di assimilarsi, di incorporarsi, di appropriarsi, di identificarsi».40
O ancora, il fatto che alcuni genitori ci tengano tanto — e talvolta con una forza
che sconcerta i pastori — al battesimo del loro bambino dipende, al di qua delle loro
convinzioni di fede, da quello che viene toccato in loro nel più vivo delle loro fibre
inconsce: una simile domanda rituale è prima di tutto l'espressione di molle arcaiche
che vengono scatenate in occasione di ogni rapporto con l'origine e con il suo «miste-
ro». Che il prodotto-bambino di cui essi sono i genitori possa fiorire in opera-figlio
richiede per loro, in modo tanto più imperativo quanto meno cosciente, che vengano
compiuti su di lui i gesti che sono stati compiuti un tempo su loro stessi e, prima anco-
ra, sui loro genitori e antenati. La genealogia che, come ha dimostrato G. Rosolato,
richiede la referenza simbolica ad almeno tre generazioni41 — da qui l'influenza dei
nonni, soprattutto nell'ambito religioso — può stabilirsi in modo umano, cioè signifi-
cante, solo attraverso l'iscrizione simbolica sul bambino di questa parola, in questo
caso rituale, da cui essi stessi sono stati segnati all'origine.
La nascita umana si dice in questo modo come un di più e un'altra cosa rispetto
a un semplice evento simbolico, e la vita come un di più e altra cosa rispetto a un
semplice stato di fatto che sarebbe possibile dominare. Un debito di esistenza, ricevu-
to da un Altro come un dono si esprime qui in modo spesso impensato.42 Questo stesso
debito mette in moto sul piano psichico dei fantasmi di pagamento o di riparazione

" A. VERGOTE, Dette et désir, op. cit., cap. 4: «L'impur et la dette dans le rite».
39
J.Y. HAMELINE, art. cit., p. 108.
40
J.C. SAONE, «L'interprétation analytique de l'eucharistie», art. cit., pp. 153-154.
41
G. ROSOLATO, Essai sur le symbolique, Gallimard, 1969, cap.: «Trois générations d'hommes dans
le mythe religieux et la genealogie», pp. 59-96.
42
A questo riguardo è significativa, per esempio, la scelta della poesia di K. Gibran: «I vostri figli
non sono figli vostri; sono i figli e le figlie della Vita stessa...» come una delle letture per il battesimo dei
bambini. Scelta frequente, sia da parte di cristiani relativamente lontani dalla Chiesa che da parte dei cristia-
ni più «impegnati»... Perviene in questo modo al linguaggio qualcosa che abitualmente rimane impensato.

251
estremamente ambigui, come quello dell'espulsione del grande capro espiatorio miti-
co che può essere rappresentato da «Satana» o dal «peccato originale». Il rito funziona
allora prioritariamente come un tranquillante rispetto ad una eventuale disgrazia che
potrebbe capitare al bambino.
Si indovina allora che la pastorale può solo cadere in una impasse se, con il pretesto della
«fede vera», misconosce l'importanza di queste motivazioni impensate o se le spazza via con
un colpo di mano come «magiche». La fede più «vera» è sempre fede di uomo, e l'elemento
più «vero» della vita umana non si trova necessariamente lì dove si pensa che sia. Resta comun-
que il fatto che, se la fede deve farsi carico della simbolica primaria della colpa e dello schema
sacrificale che le corrisponde, non lo fa per consacrarle, ma per convertirle al Vangelo. Il batte-
simo cristiano richiede questo capovolgimento che, invece di scaricare i genitori dalla loro col-
pa mediante l'espulsione della vittima satanica caricata della loro colpa, li costringe ad assumer-
si in prima persona simbolicamente il loro debito di esistenza nel compito pedagogico di apertu-
ra del bambino alla fede che essi hanno professato.
Il simbolismo sacramentale funziona necessariamente attraverso le nostre pulsioni
più arcaiche e meno riconoscibili, contraffatte e distorte come sono per poter superare
la barriera della censura e manifestarsi alla coscienza. E tuttavia è proprio un lavoro
di questo genere nell'inconscio che, oltre all'aspetto socio-culturale impensato esplici-
tato in precedenza, spiega la forte resistenza della domanda dei riti di passaggio agli
assalti delle messe in discussione critiche e alla quasi non-credenza pratica, se non teo-
rica, che spesso li accompagnano. A. Vergote arriva fino al punto di dire, in questo
senso: «Noi crediamo che il formalismo di certe pratiche religiose appartenga più a
questo processo psicologico che a ragioni di ordine sociale. In questo modo è facile
capire che la pratica dei riti religiosi diminuisca quando scompare il clima di colpa».43
Checché se ne pensi di questa valutazione, il favore in cui sono tenuti i riti di passag-
gio sul piano pratico, nonostante il sospetto teorico di irrazionalità che gli stessi richie-
denti esprimono a loro riguardo, è un sintomo dell'indomabile lavoro del desiderio
che in essi si effettua. Ancora più sintomatica è l'aggressività che si verifica, a volte
fino all'eccesso, quando i dispositivi pastorali non corrispondono più alle attese: un
simile eccesso smette di sorprendere se considerato alla luce di quanto abbiamo appe-
na analizzato.
La ritualità religiosa ha inevitabilmente una funzione di gestione della colpa. Per
questo essa mette in scena la contraddizione stessa che costituisce il desiderio: «aspi-
rare a ciò che rifiuta: chiudersi su un possesso»." La sua soddisfazione, infatti, è la
sua morte. Esso vive solo per essere «desiderio del desiderio dell'Altro», secondo un
indefinito processo di incompiutezza. L'essenza dell'uomo è proprio quella di essere
aperto, in forza di una breccia insanabile, e, quindi, di cercare la quiete senza mai
poterla trovare. Questa inquietudine costitutiva dell'uomo ha strettamente a che fare
con l'origine, con quella parte dell'origine che l'avvento al linguaggio necessariamen-
te effettua, con quella «partizione» primaria da cui il soggetto procede alla sua «partu-
rizione» (J. Lacan), e quindi con la morte che non è altro che il contrario del problema
dell'origine. Il dramma dell'ec-sistere non è altro che il dramma del conflitto nell'uo-
mo tra Eros e Thanatos. L'essenza onto-teologica della metafisica può essere intesa

43
A. VERGOTE, Dette et désir, op. eh., p. 142.
44
ID., Interprétation du language religieux, op. cit., p. 153.

252
come il tentativo, tipico dell'Occidente dalla Grecia in poi, di gestire questa contraddi-
zione interna mediante una strada diversa da quella delle religioni tradizionali: invece
di tentare di colmare la breccia — che d'altronde si riapre continuamente — con miti,
riti, credenze, spiriti e dèi, si è cercato di farlo con delle «ragioni».45 Ma non è la stes-
sa prova fondamentale — quella della «melanconia» (supra) — che, da una parte e dal-
l'altra, si è in questo modo tentato di gestire, schivandola, attraverso cammini diversi?
Resta il fatto che, come ora espliciteremo, i riti religiosi svolgono in questa situazione
un ruolo particolare.

4. L'originalità dei riti religiosi nella simbolizzazione dell'uomo


Si può dire che ogni opera umana esprima l'uomo nella sua interezza, nel suo rap-
porto con una società, una tradizione, un universo. Ogni opera umana è simbolica-
mente portatrice del desiderio dell'uomo e della sua contraddizione interna.
Ma non tutte le opere umane lo sono allo stesso grado o allo stesso titolo. E questo
è vero anche all'interno delle opere artistiche ed ermeneutiche (tra cui le opere religio-
se). Ci sembra che una duplice caratteristica segni l'espressione rituale religiosa.

a) La messa in scena della corporeità come tale


Da una parte, come abbiamo sottolineato, è il corpo stesso dell'uomo, con le sue
mille possibilità vocali, gestuali, posturali, che viene messo in scena come tale nel suo
rapporto con il mondo, con gli altri, con gli antenati. È questo «come tale» che qui
è pertinente. Infatti esso non è soltanto la condizione, ma il luogo stesso della liturgia.
Questa è l'espressione dell'uomo come corpo vivo, corpo singolare di desiderio in cui
si raccoglie (relegere) e si collega (religare) archi-simbolicamente il triplice corpo co-
smico, sociale e ancestrale che gli permette di diventare parola.

b) Il «sacro»
D'altra parte, questa messa in scena della corporeità umana viene vissuta nel rito
religioso come sacra.
Nozione difficile, quella di «sacro». «Concetto-imbuto», scrive F.A. Isambert, tipico di ciò
che P. Bourdieu chiama «una modalità di pensiero sostanzialista» in cui, dopo essere passati
dall'aggettivo al sostantivo," si scivola «dal sostantivo alla sostanza, dalla costanza del sostanti-
vo alla costanza della sostanza».47 Così, in R. Otto e M. Eliade, il «sacro» passa dal concetto
logico alla realtà ontologica; questo perché «c'è evidentemente, una teologia soggiacente all'o-
pera di M. Eliade».48

45
E. MOKIN, Le Parodiarneperdu: la nature humaine, Seuil, 1973, p. I l i : «Tra la visione oggettiva
e la visione soggettiva, c'è quindi uno iato che l'uomo apre fino alla lacerazione, e che viene colmata dai
miti e dai riti della sopravvivenza, che in ultima analisi integrano la morte. Con "Sapiens" si abbozza dun-
que la dualità del soggetto e dell'oggetto, legame inscindibile, rottura insormontabile che, in seguito e in
mille modi, tutte le religioni e le filosofie tenteranno di superare e di approfondire».
46
F.A. ISAMBERT {Le Sens du sacre, op. cìt.) nota che, se è vero che Durkheim «non usa molto il so-
stantivo "sacro" e preferisce attenersi all'aggettivo (Hubert e Mauss sono meno riservati su questo punto)»,
tuttavia egli getta «le basi di una vera e propria filosofia del sacro»: da «principio-attributo», il sacro diventa
«proprietà-oggetto, principio di ogni religione» (pp. 256-257).
47
P. BOURDIEU, La Dìstinction, op. cit., p. 20.
48
F.A. ISAMBERT, Le Sens du sacre p. 264.

253
Ora, «sacro» è un aggettivo qualificativo delle cose (oggetti, luoghi, personaggi, ecc.)- Pre-
so come sostantivo, non designa una cosa. Come ha mostrato A. Vergote,4' è un semantema
che evoca nelle nostre culture la profondità, l'interiorità nascosta, la sorgente misteriosa, lì do-
ve il semantema «Dio» evoca piuttosto l'altezza, la potenza, la maestà; ma la profondità può
anche evocare Dio, e la «altezza» il sacro. Siamo in ogni modo su un asse di verticalità. Si vede
da questo che il sacro, da una parte, non può essere identificato a «Dio» — anche se orienta
verso di lui — e, d'altra parte, non può essere opposto al «profano». Il suo opposto è invece
ciò che non si riesce a strappare alla semplice «orizzontalità» dell'esistenza, ciò che riduce la
vita a un puro dato biologico, una parentesi tra nascita e morte. Il sacro appartiene dunque,
almeno nella nostra cultura, a questo al di qua dell'esistenza, a questo «fondo del "c'è" delle
profondità» che fa di essa qualcosa di un altro ordine rispetto al semplice dato bruto. Ogni atten-
tato a questo al di qua che tocca l'essenza più intima della vita sia del gruppo che di ciascuno
può essere avvertita solo come un «sacrilegio». Questo al di qua non si manifesta come tale,
è chiaro. E prende consistenza solo per proiezione su di un al di là (rappresentato in modo mol-
to diverso a seconda delle culture, al punto da dar luogo, come da noi, a un al di là «profano»
come la Storia, la Scienza, ecc.), a sua volta mediatizzata da oggetti, persone, luoghi, formule
con la qualifica di «sacri». Punto capitale: senza queste mediazioni non c'è «sacro»: sia come
«al di qua» che come «al di là». «Né il mito né il rito sono espressioni di un sacro; essi sono
primi, e se esiste un sacro è perché essi lo istituiscono».50 H sacro non spiega il rito: è il rito
che lo instaura.
Il motivo per cui i riti sono sempre strettamente collegati con il sacro sta nel fatto
che essi hanno come funzione di esserne (secondo i loro rapporti con i miti) le media-
zioni culturali prioritarie di istituzione. In un quadro religioso, essi costituiscono la
mediazione privilegiata del rapporto dell'uomo con YAltro divino o divinizzato. Que-
sta è appunto la loro seconda caratteristica rispetto alle altre opere culturali in cui l'uo-
mo si esprime. Non solo essi epifanizzano il corpo come tale del soggetto umano, ma
10 presentano, con l'insormontabile contraddizione del suo desiderio, all'Altro divino,
mediante la supplica o la giubilazione, la domanda o la lode. Questo carattere allocuti-
vo, che lo distingue da qualsiasi spettacolo o arte religiosa, gli conferisce, come al
«simbolo teologale», ciò che D. Dubarle chiama una «potenza ana-forìca»:51 il rito pre-
tende di portare l'uomo nella sua interezza «verso l'alto». Così vettorizzato, esso ri-
volge all'Altro, riconosciuto come partner (certo superiore) di comunicazione, il desi-
derio dell'uomo, soprattutto nel discorso allocutivo in «tu» della preghiera.
Secondo i suoi elementi esistenziali espliciti, questo desiderio verte sul consegui-
mento di beni di tipo piuttosto spirituale (perdono, riconciliazione, purificazione, azione
di grazie, coraggio morale...) o di tipo più materiale (salute, raccolta fruttuosa, ecc.),
senza che d'altronde la linea di divisione tra i due sia sempre ben netta. Ma il desiderio
non ha di mira soltanto questi oggetti empirici di bisogno; al di là di essi, attraverso
di essi, viene formulata una «domanda» dell'Altro. È l'uomo desiderante come tale
che si es-pone alla divinità. È il dramma stesso del suo ec-sistere che gli presenta.
11 fatto che la preghiera liturgica si formuli così spesso come un grido, a carattere ripe-
titivo, è significativo di questa posta in gioco: gli «Abbi pietà! Abbi pietà!», gli «Ascol-

" A. VERGOTE, «Equivoques et articulation du sacre», art. cit., p. 478.


50
ID., Ibid., p. 485.
" D. DUBARLE, «Pratique du symbole et connaissance de Dieu», in S. BRETON et al., Le Mythe et le
symbole, Beauchesne, 1977, p. 228.

254
taci, esaudiscici», i «Lode a te! Gloria a te!», gli «alleluia» sono altrettanti grida-preghiere
usciti direttamente da un desiderio che supera in estensione e in profondità i motivi
puntuali della domanda o del ringraziamento e che si rivolge ultimamente all'Altro de-
siderato per se stesso. È in questa direzione, almeno, che la preghiera cristiana orien-
ta, pedagogia di conversione dal desiderio, passando a poco a poco dal semplice recla-
mo di oggetti di bisogno (materiali, morali e perfino spirituali) alla domanda di Dio
come tale, in termini evangelici: la domanda del «Regno e della sua giustizia» (Mt 6,33)
e la* domanda dello Spirito (Le 11,13).
La ritualità liturgica è quindi l'espressione simbolica dell'uomo nella sua corporei-
tà totale e come essere di desiderio. Producendo al di fuori l'uomo tutto intero come
corpo di natura e cultura, di storia e di desiderio, alla faccia dell'Altro divino, essa
«gioca» di fronte a quest'ultimo l'angoscia esistenziale di questo essente singolare che,
sempre alla ricerca dell'oggetto perduto che potrebbe soddisfare il suo desiderio, può
tuttavia vivere soltanto la non-soddisfazione di ciò a cui aspira, e che impara così a
riconoscere la domanda dell'Altro (chiamato Dio nelle religioni) che si formula nei
suoi bisogni.

IV. LA CORPOREITÀ DELLA FEDE

Ritroviamo, al termine di questa riflessione sulla ritualità, un tema già abbozzato


alla fine del capitolo IV. Il prolungamento che qui ne facciamo è motivato dalla consi-
stenza nuova che la riflessione precedente sulla ritualità gli fornisce.

1. La differenza sacramentale,
o l'impegno radicale della Chiesa nei sacramenti

a) Una tensione fondamentale...


L'abbiamo detto: i riti sono capaci delle cose peggiori e di quelle migliori. Lungo
le pagine precedenti abbiamo individuato un certo numero dei rischi principali che pe-
sano su di essi. Eterotopia, programmazione, digitalità sono infatti sempre suscettibili
di favorire una regressione immaginaria. Certo, la ritualità non ha il monopolio di questo
tipo di rischi. Tuttavia, proprio in ragione della sua saturazione di umanità, essa forni-
sce un terriccio particolarmente propizio alla germinazione di questa zizzania. Quante
nevrosi sono state favorite o alimentate dal pio assistere al «santo sacrificio della mes-
sa», dalla «teofagia» della comunione ecucaristica, dal desiderio di «dire tutto» nell'o-
scuro segreto del confessionale! A quante strategie sociali e politiche (conforto del po-
tere stabilito, mantenimento di privilegi culturali o economici...) i battesimi o i matri-
moni, le messe o le confessioni sono servite da alibi! Quante mistificazioni in questo
ambito, molto spesso, d'altronde, in perfetta buona fede!
Queste trappole psichiche e sociali non sono d'altronde mai totalmente evitabili.
Per questo motivo quando, contro la prevalenza dell'abitudine o della «routine» nella
pratica domenicale, si vuol far prevalere l'abitudine contraria, non è affatto sicuro che
si diventi più autenticamente «credenti», né che ci si sacrifichi di meno a un nuovo
ordine sociale, a una nuova «routine» e in ultima analisi a una nuova «alienazione» di

255
sé; da cui ci si difende evidentemente con tanto più accanimento quanto meno convin-
centi sono le «ragioni» avanzate." Comunque sia, i rischi dei riti sacramentali sono
tali che non stupisce vederli così spesso sospettati, o denigrati, in nome della «sinceri-
tà» o delP«autenticità» della fede o in nome dell'audacia tutta «profetica» della Parola.
Tuttavia, questi stessi rischi costituiscono le loro chances quando la fede li sa assu-
mere per cambiare loro di segno. Impossibile uscire da questa tensione, salvo, come
abbiamo detto, sognare una fede fuori del corpo e un Dio meraviglioso, a immagine
del proprio io ideale, le cui eccellenze onto-teologiche non potrebbero essere rimesse
in discussione dal Logos della croce. La sconcertante alterità e santità di questo Dio
crocifisso non si confessa mai così bene come nel suo ritiro, mediante lo Spirito, nella
corporeità umana. Precisamente, i riti sacramentali come luoghi di grazia nel tutto umano
— il troppo umano — della materialità significante dei gesti, posture, oggetti e parole
che li costituiscono sono non la sola figura, ma la figura più eminente di questa pro-
cessione dal Dìo divino nella sua recessione nel cuore del più umano. E questo pro-
prio in ragione della loro specifica modalità di espressione, irriducibile ad altro. Per
questo, se la confessione della Parola di Dio neU'empiricità della lettera delle Scritture
fa scandalo, quella di questa stessa Parola che agisce nel «troppo umano» dei gesti sa-
cramentali raddoppia questo scandalo. L'abbiamo notato: l'evanescenza del «verbo»
nel primo caso permette, basandosi sul logocentrismo metafisico, di cancellare par-
zialmente il corpo della traccia scritta e di addomesticare così relativamente lo scanda-
lo in questione. Ma il sacramento non offre — almeno è più difficile — questa scappa-
toia: si inciampa in esso, diremmo, come si inciampa nel corpo... E ci si accanisce
allora a darne delle «ragioni» di «convenienza».
Anche se i riti sacramentali rischiano di favorire l'idolatria e la magia, essi tuttavia
sono la confessione in atto della strana alterità di Dio. Anche se rischiano di smobilita-
re rispetto ai compiti storici, essi sono tuttavia un punto di passaggio simbolico che
chiede di verificarsi nella storia. Anche se rischiano di farsi garanti di tutte le pesan-
tezze dell'istituzione Chiesa, essi tuttavia la raffigurano, nel suo impegno radicale, co-
me il sacramento fondamentale di Dio.
In definitiva essi cristallizzano le tensioni profonde più irriducibili che mantengono
in piedi la Chiesa e la fede.

b) Tensione espressa in modo radicale


Non è evidentemente sul piano delle «intenzioni» soggettive della Chiesa o dei cre-
denti che si colloca la singolarità dei sacramenti. Su questo piano infatti la Chiesa è
impegnata nella sua ermeneutica delle Scritture o nella sua testimonianza etica. La lo-
ro differenza consiste nella modalità antropologica secondo cui la Chiesa si attesta in
essi nella sua identità di Chiesa-di-Cristo (e si vede nello stesso tempo contestata da
essi, perché sempre in situazioni di carenza e di scarto rispetto a Colui che essa annun-
cia). Questa modalità è antropologicamente insuperabile. Insuperabile nel senso che,
come «espressioni rituali», essi sono degli atti che si presentano come performativi al
più alto livello, e non delle semplici idee; delle pratiche che vogliono essere efficaci

" A. VERGOTE, Religion, fai, incroyance, op. cit., p. 281 : «Sulla base delle nostre ricerche, crediamo
in ogni caso di poter affermare che ci sono delle correlazioni positive tra la pratica religiosa e il grado di
convinzione di fede».

256
e non dei discorsi didattici; degli avviluppi simbolici e non degli sviluppi discorsivi.
E a questo bisogna aggiungere una precisazione fondamentale: questo insieme prag-
matico è «ricevuto» dalla Chiesa come proveniente da Gesù Cristo, come atto del suo
Signore, atto sul quale essa confessa di non avere potere (cf capitolo successivo). È
in questo modo che capiamo il carattere «assoluto» dell'impegno della Chiesa che, se-
condo K. Rahner, segna la differenza dei sacramenti rispetto alle altre mediazioni ec-
clesiali di comunicazione di Dio. Questa differenza, come vediamo, è presa dalla par-
te del sacramentum stesso, cioè degli atti di Chiesa tutti umani che lo costituiscono;
atti che, impegnando strutturalmente la Chiesa nella sua identità di Chiesa di Cristo,
sono ricevuti come mediazioni concrete dell'impegno primo di Dio che vi si propone
in prima persona come dono gratuito e di grazia della «salvezza». È quindi a partire
e all'interno del sacramentum e dunque dell'opus operantis Ecclesiae che Vopus ope-
ratum di Dio si dà a capire teologicamente. Di conseguenza «noi abbiamo perfetta-
mente il diritto, teologicamente parlando, di concepire i sacramenti come il caso più
radicale, più intenso della Parola di Dio come parola della Chiesa, proprio lì dove questa
parola, come impegno assoluto della Chiesa, è ciò che si chiama opus operatum»."
Le componenti della pragmatica rituale che abbiamo analizzato — eterotopia, program-
mazione, messa in scena del corpo, ecc. — costituiscono per noi le mediazioni antro-
pologiche e sociali concrete di una simile «differenza sacramentale».
Ciò che è vero per la Chiesa presa collettivamente lo è anche per ogni credente,
almeno se ci si vuole situare al livello dell'ordine rituale e non delle «intenzioni» di
ognuno. Un percorso sacramentale «impegna», come si suol dire. È un passo che si
deve valicare ogni volta. E non si può negoziare a questo stadio: il passo o lo si valica
o non lo si valica; il gesto o lo si effettua o non lo si effettua. Impossibile qui giocare
sull'«analogia»: il rito «posiziona», a seconda che «vi si passi» o meno, che vi «si sotto-
metta» o no, in un percorso che non può essere semplicemente mentale, ma che richie-
de un passaggio all'atto. L'immersione battesimale, primo sacramentum del cristiano,
è assolutamente esemplare su questo punto: il corpo è interamente immerso nell'ordi-
ne simbolico proprio della Chiesa metaforizzato dall'acqua. Accettando così di impe-
gnarsi nel gesto sacramentale della Chiesa, non ci si rifa più alle proprie idee teologi-
che, per quanto penetranti siano, né alle proprie opere etiche, per quanto generose
siano, né ai propri sentimenti religiosi, per quanto sinceri. Tutto questo fa agire, cer-
to, ma non è questo che agisce nel rito sacramentale. L'io è allora disponibile per l'Al-
tro che egli può «lasciar fare» nella mediazione della Chiesa. Lo lascia fare effettuan-
do un gesto che non viene da lui, dicendo parole che non sono le sue, prendendo in
mano degli elementi che non ha scelto. Ciò che allora simboleggia è la condizione stessa
della fede; mette in gioco il suo essere di credente, radicalmente, senza riservarsi delle
uscite di sicurezza. Ed è proprio in questo atto di disappropriazione che viene restitui-
to a se stesso.
Quando tutto sembra oscurarsi per il credente, quando il terreno delle sue convin-
zioni più salde gli manca sotto i piedi, quando l'angoscia lo afferra alla gola sentendo
il corpo attraversato dall'idea che Dio potrebbe non esserci, cosa gli rimane d'altro
per poter ancora, forse, comunicare con «Dio», se non il suo corpo? Cosa gli rimane
d'altro se non il suo corpo che prende in mano quello che prende la Chiesa — un po'

53
K. RAHNER, Tratte fondamenta! de la fai, op. cit., p. 473.

257
di pane e di vino — e che dice quello che dice la Chiesa — «il mio corpo per voi»
—, che prende e che dice questo come i gesti e le parole di colui che la Chiesa confessa
come suo Signore? Ma quando la fede ha perduto l'illusione delle sue buone «ragioni»,
quando non ha altro che il corpo, non è proprio allora che essa è eminentemente fede?

2. L'incorporazione della fede


Cosa ci dice dell'essenza della fede il fatto che sia intessuta da riti chiamati sacra-
menti? Questa era la nostra domanda di partenza. Questo fatto non ci dice soltanto
che la fede, prendendoci tutti interi, non può essere vissuta al di fuori del corpo, del
gruppo, della tradizione. Ci dice molto di più di questo, un «molto di più» che non
coinvolge meno del superamento della metafisica così come l'abbiamo presentato nel-
la prospettiva del linguaggio e, contro il logocentrismo, del linguaggio inscritto nella
resistenza empirica di una materia significante. Il fatto sacramentario ci dice che la
corporeità è la mediazione stessa in cui la fede prende corpo ed effettua la verità che
la abita. Ce lo dice con tutta la forza pragmatica di una espressione rituale che parla
attraverso le sue azioni e agisce nella modalità di parola, di corpo-parola. Ci dice che
il corpo, che è tutta la parola dell'uomo, è l'inaggirabile mediazione in cui la Parola
di un Dio impegnato nel più umano della nostra umanità chiede di inscriversi per po-
tersi far sentire. Ci dice quindi che la fede richiede questo consentimento al corpo,
alla storia, al mondo che fa di essa una realtà pienamente umana.

258
Capitolo Decimo

L'ISTITUITO SACRAMENTALE

LA DIALETTICA DELL'ISTITUENTE E DELL'ISTITUITO


Non può esserci istituente che non sia già istituito. Meglio: il più istituente è il più
istituito. Una simile affermazione, apparentemente paradossale, si situa nel filo diretto
di quella simbolica che, rovesciando gli schemi di rappresentazione di ciò che abbia-
mo chiamato «la metafisica», ne smaschera le fallaci dicotomie: il più spirituale non
si realizza forse nel più corporale? L'esteriorizzazione espressiva non è forse la me-
diazione della differenziazione interna? Il più vicino al soggetto non è ciò che gli sem-
bra più lontano? e se l'uomo è parlante, non è perché egli è sempre-già parlato?
Il linguaggio è la mediazione più istituente dei soggetti proprio perché è il più isti-
tuito. Lo è in quanto lingua, materia fonica istituita come significante grazie a una
suddivisione culturale. Abbiamo sottolineato, pensandolo come «scrittura», che si trat-
ta qui di un dato radicale che precede ognuno ed è legge per ognuno in seno al gruppo,
e che questa legge ha una singolarità: nessuno mai ha potuto decretarla come tale. Questo
significa, diremmo allora, che questo istituito non è una legge fra altre, ma costituisce
lo spazio originario di ogni istituzione e di ogni cultura. Ora, è proprio a partire da
questo assoggettamento primordiale all'istituito linguistico che si effettua l'emergenza
dei soggetti. La messa in opera della lingua nel discorso o l'atto di linguaggio è la
mediazione istituente dei soggetti in ciò che essi hanno a un tempo di più sociale e
di più singolare, poiché l'architettura formale della lingua vi viene assunta ogni volta
in modo nuovo, secondo un processo che ne fa un evento ogni volta inedito: un evento
di parola.
Qui tentiamo di comprendere teologicamente i sacramenti secondo questa dialetti-
ca dell'istituente e dell'istituito. Nell'ordine simbolico proprio della Chiesa o nel «gio-
co di linguaggio» proprio della fede possiamo, da una parte, guardarli come elementi
della lingua materna cristiana e, dall'altra, considerare la loro messa in opera come
atti di linguaggio che effettuano l'identità della Chiesa e dei soggetti che vi si esprimo-
no. Oggetto del presente capitolo è il primo punto, relativo all'istituito. Il secondo ver-
rà trattato nel capitolo seguente.

I. L'ISTITUZIONE DEI SACRAMENTI DA PARTE DI GESÙ CRISTO:


LA POSTA IN GIOCO DEL PROBLEMA
Tra le diverse mediazioni ecclesiali, i sacramenti occupano una posizione eminen-
temente istituzionale. Essi sono i muri portanti di integrazione ecclesiale proprio perché

259
la Chiesa vi è impegnata istituzionalmente nella sua globalità. Per questo motivo sono
strettamente gestiti da essa, così strettamente che essa decreta di avere su di loro ogni
potere, «restando salva la loro sostanza», comunque, secondo la formula del concilio
di Trento. Questa eccezione evidentemente è fondamentale.
Ci troviamo allora in una situazione paradossale: da una parte, chiamando sacra-
menti degli atti rituali che essa riceve come istituiti da Gesù Cristo, e sulla cui substan-
tia essa dichiara, di conseguenza, di non avere potere, la Chiesa attesta che nulla le
sfugge così tanto, originalmente e originariamente, come questi elementi; ma dall'al-
tra parte, se nulla le appartiene di meno teologicamente, nulla però è più in suo potere
concretamente, poiché lei sola è abilitata, in un atto ermeneutico all'interno della fede,
a fissare il limite del suo potere su di loro. ' Nulla, insomma, è più regolato dalla Chie-
sa di ciò che essa riconosce sfuggire al suo potere. «Decisione della Chiesa, decisione
di Cristo sono la stessa cosa», diceva Simone di Firenze al concilio di Trento per signi-
ficare che la comunione sub utraque non poteva essere considerata come di «diritto
divino»:2 questo genere di formula ci fa capire in tutta la sua portata il paradosso di
cui trattiamo!
Ce ne fa anche misurare i pericoli: fissare il limite del suo potere per mettere in
risalto ciò che può essere soltanto in potere di Dio significa, per la gerarchia ecclesia-
le, sacralizzare e rafforzare il proprio potere. L'occultamento del suo potere effettivo
dietro il potere teorico riconosciuto solo a Dio è gravido di rischi di manipolazione
mistificante del suo «mistero».
Ma i pericoli di questa inevitabile collusione tra l'enunciato di verità e il potere
enunciatore non devono tuttavia mascherare l'interesse teologico della posta in gioco.
C'è, in essa, qualcosa di omologo a quella del linguaggio sul piano antropologico. Il
linguaggio è mediazione istituente dei soggetti perché, come abbiamo appena ricorda-
to, è sempre già-istituito, senza che nessun membro del gruppo abbia mai potuto (al
contrario dello strumento) decretarne l'esistenza come tale all'origine. Mutatis mutan-
dis, non c'è nulla di più istituente della Chiesa nella sua identità di Chiesa-di-Cristo
che questo più istituito che sono i sacramenti «istituiti da nostro Signore Gesù Cristo»
(Trento, D-S 1601), istituito che nessuna comunità o credente nella Chiesa, nemmeno
al livello più alto della gerarchia, ha potuto stabilire. Come per il linguaggio, la Chie-
sa può regolarne il buon uso, ma non può darseli come tali. Questo, almeno, ci sembra
l'interesse principale del problema, classico, dell'istituzione dei sacramenti da parte
di Gesù Cristo.
Non riprenderemo qui il dossier storico di questo problema. Basti ricordare che esso si è
posto come tale solo con la scolastica, anche se, come ha notato Y. Congar, il Medioevo è stato
«molto meno esigente di noi sull'istituzione dei sacramenti; esso ammetteva facilmente una isti-

1
L'ermeneutica che A. Duval propone della dottrina e dei canoni tridentini sul sacramento della peni-
tenza porta l'autore a ritenere che il dibattito fondamentale, per l'insieme del concilio, vertesse «in fin dei
conti sul potere sacramentale di cui la Chiesa è depositaria». Egli precisa: «L'origine, la natura, l'estensione
della ' 'potestas" nella Chiesa di Cristo: questo è indubbiamente il problema centrale del concilio di Trento,
e forse il meno studiato» (A. D U V A L , Des sacrements au concile de Trente, Cerf, 1985, cap. 4; «La confes-
sione cit., pp. 175-176). Cf D-S, 1728.
1
Sul «diritto divino» a Trento vedere A. D U V A L , op. cit., pp. 194-202.

260
tuzione mediatamente divina»,3 media(ta)zione particolarmente ampia in san Bonaventura.4 Per
gli scolastici, per esempio san Tommaso, c'è equivalenza tra l'istituzione dei sacramenti da par-
te di Dio («Dio», cioè «il Cristo stesso, che è a un tempo Dio e uomo», III, q. 64, a. 2, ad 1),
e la loro efficacia di grazia la cui fonte è Dio solo: «Poiché la virtù del sacramento viene solo
da Dio, ne risulta che solo Dio ha istituito i sacramenti» (q. 64, a. 2). In linguaggio scolastico
dire che Dio (o il Cristo come Dio) ne è Vinstitutor equivale a dire che ne è Yauctor, l'agente
creatore e operatore. Per questo, anche se, nelle sue determinazioni concrete, una simile istitu-
zione passa attraverso la mediazione della Chiesa, essa rimane, nella sua fonte, legata a Cristo:
«Come gli apostoli non possono costituire un'altra Chiesa, così non possono trasmettere un'al-
tra fede, o istituire altri sacramenti. Infatti la Chiesa è stata costituita "in forza dei sacramenti
che sgorgarono dal fianco del Cristo crocifisso"» (q. 64, a. 2, ad 3). Si vede la posta in gioco
per san Tommaso: poiché l'efficacia dei sacramenti proviene da Cristo, nessun altro se non lui,
nemmeno gli apostoli, ha potuto istituirli. Solo lui, per esempio, ha potuto istituire la conferma-
zione («non conferendola, ma promettendola»), perché lui solo poteva, secondo la sua promes-
sa, trasmettere lo Spirito Santo (q. 72, a. 1, ad 1).
Dopo la scolastica, soprattutto fra i teologi controversisti del XVI secolo contro i Riformato-
ri, e poi al momento della disputa modernista, il problema è stato posto in limiti molto più stret-
ti, troppo stretti. Si volevano fornire delle «prove» storiche dell'istituzione di ciascuno dei sette
sacramenti. Si è consumata allora molta energia a cavillare su una questione che diventava sem-
pre più mal posta quanto più aumentava la polemica. Si era vittime di una confusione in merito
allo stesso statuto epistemologico del problema e di un errore di metodo. Infatti voler dedurre
l'istituzione dei sacramenti da parte di Gesù Cristo da «prove» storiche significa situare il pro-
blema su di un terreno che non è il suo e dimostrare inevitabilmente solo ciò che si era già deci-
so in anticipo. Questo problema è un bell'esempio, tra altri, di una cattiva apologetica che opera
una lettura «dogmatista» prestabilita della storia. Tuttavia bisogna distinguere il modo, spesso
sbagliato, con cui si è voluto risolvere la modalità di istituzione dei sacramenti dalla portata
della questione. Ciò che qui si esprime ha un valore fondamentale: ne va, come abbiamo indica-
to con Tommaso d'Aquino, della natura stessa dei sacramenti come atti di salvezza da parte
di Cristo stesso.
I sacramenti sono la proclamazione simbolica principale dell'identità della Chiesa.
Ora, essa consiste essenzialmente nella sua dipendenza originale e originaria nei con-
fronti di Cristo. È questo che si gioca simbolicamente in essi. Ed è esattamente questo
che si dispiega discorsivamente nell'affermazione teologica, e poi dogmatica a Trento,
della loro istituzione da parte di Gesù Cristo. Fondamentalmente essa non significa
altro che l'identità della Chiesa come Chiesa del Cristo, che esiste solo perché si rice-
ve da lui, serva e non proprietaria della salvezza, istituita da un Altro e non istituente
di se stessa, dono della grazia del Padre mediante il Cristo nello Spirito.
In questa formula (o in quella, identica nel significato, del salva illorum substan-
tia), la Chiesa non si contenta di dire che effettuando un atto sacramentale essa si rico-
nosce dipendente da Cristo, suo Signore. Si potrebbe infatti sempre supporre che, co-
me in altre mediazioni della sua comunione con Dio, essa si possa inventare quegli
atti in cui esprime la sua dipendenza. E invece essa si riconosce sprovvista di questa
3
Y. CONGAR, «L'idea di sacramenti maggiori o principali», in Concilium, n. 31, 1968, pp. 25-34.
4
Per S. BONAVENTURA, Cristo ha istituito il matrimonio e la penitenza «confirmando, approbando et
consummando»; la confermazione e l'estrema unzione «insinuando et initiando»; il battesimo, l'eucaristia
e l'ordine «initiando et consummando et in semetipso suscipiendo» (Breviloquium, p. 6, e. 4,1). Ci J. Brr-
TREMIEUX, «L'institution des sacrements d'après saint Bonaventura», Ephem. theol. lovan., 9, 1932, pp.
234-252; H. BARIL, La Dottrine de saint Bonaventure sur l'institution des sacrements, Montreal 1954.

261
stessa possibilità: non solo — dice in sostanza — io pongo un atto in cui mi confesso
come dipendente da Cristo, ma riconosco che non ho nemmeno il potere di inventarmi
da sola un simile atto; mi è dato come una grazia, lo ricevo come un istituito che già
sempre mi precede e che, proprio perché non ho potere su di esso, e la sua origine
è un posto imprendibile, mi rivela ciò che io sono. I sacramenti rimandano dunque
la Chiesa a questo posto vacante del suo Signore che essa non può occupare senza
distruggersi e di cui può fare solo memoria. Così lì dove, come abbiamo sottolineato
a proposito della simbolica della programmazione rituale, la celebrazione sacramenta-
le costituisce per la Chiesa la mediazione antropologica più radicale della sua dipen-
denza nei confronti di Cristo e quindi la più alta confessione in atto della sua identità,
l'affermazione dell'istituzione dei sacramenti da parte di Cristo costituisce per lei il
dispiegamento discorsivo ultimo di questa posta in gioco. Abbiamo qui una bella illu-
strazione dell'adagio lex orandi, lex credendi: il concetto riprende, al suo livello pro-
prio, la posta in gioco del simbolo.
Questa è la legge della fede espressa teologicamente dall'istituzione dei sacramenti
da parte di Gesù Cristo, legge la cui intera forza si esprime nell'atto simbolico della
loro celebrazione: allora infatti essa cessa di essere una semplice «idea»; il credente
si imbatte nella scandalosa contingenza di un rituale che oppone, nella sua positività
di dato programmato, una resistenza insuperabile alla fuga immaginaria verso un Dio
slegato dalla nostra corporeità e storicità. L'istituito sacramentale raffigura quindi per
noi lo sbarramento contro cui urta il nostro desiderio di cancellare l'empiricità scan-
dalosa di Gesù di Nazaret come Cristo e Signore, e anche, a monte e a valle di lui,
l'empiricità della lettera delle Scritture come Parola di Dio e quella della Chiesa come
sacramento fondamentale del Regno. Ora, non è proprio nelFinfrangersi su questo in-
terdetto originario che il nostro desiderio impara ad elaborare il lutto di un Dio che
è solo la proiezione immaginaria di noi stessi, e a strutturarsi a poco a poco cristiana-
mente? La legge dei sacramenti è dura. Forse è necessario averla sperimentata in tutta
la sua durezza, fino al desiderio di affondarli, per comprenderne la portata strutturante
per la fede. In ogni caso è questa la prospettiva secondo cui affronteremo il mistero
del corpo eucaristico del Signore.

n. IL CORPO EUCARISTICO DEL SIGNORE:


UNA FIGURA ESEMPLARE
DELLA RESISTENZA DELL'ISTITUITO SACRAMENTALE

La presenza eucaristica di Cristo ha qualcosa di particolarmente scandaloso per la ragione


credente. A dire il vero, sembra che non sia stato sempre così. Alle origini della Chiesa, la
pietra dello scandalo verteva più immediatamente sulla risurrezione di Gesù da parte di Dio,
quel Gesù che era stato crocifisso per aver bestemmiato contro la legge di Dio (cf supra). Ora,
questo primissimo scandalo, decisivo per la fede, sembra essere parzialmente svanito come tale
nella misura in cui, con il passar del tempo, si è dimenticata la sua portata storica e teologica
concreta per le prime comunità di origine ebraica, e alcune «teorie» della salvezza hanno addo-
mesticato il logos della croce. Si ha la sensazione che a questo scandalo primario abbia dato
in certo modo il cambio quello della presenza di Cristo nell'eucaristia, soprattutto a partire dal
XII secolo, epoca in cui la pietà verso la presenza eucaristica si è molto sviluppata, portando
i nuovi teologi di «scuola» a scrutare il mistero della presenza reale con tutte le possibili risorse

262
dell'intelligenza. E se non tutti sono arrivati fino a questa specie di agnosticismo, traccia di mi-
stica che Pascal doveva esprimere più tardi di fronte all'eucaristia, «il più strano e il più oscuro
segreto» del Deus absconditus,' tutti vi hanno colto una sfida per la ragione; forse la sfida estre-
ma, poiché la conversione dal pane al corpo di Cristo sembra a san Tommaso «più miracolosa
della creazione».'
Ricorderemo quindi prima di tutto in che modo la scolastica e il concilio di Trento hanno
espresso questa sfida. Ne proporremo in seguito un approccio tramite la via della simbolica,
con la preoccupazione portante di manifestare in che modo la presenza eucaristica del Signore
costituisca l'espressione esemplare della resistenza del mistero di Dio a qualsiasi appropriazio-
ne da parte del soggetto. In questo modo metteremo in risalto tutta la posta in gioco dell'istituito
sacramentale, oggetto del presente capitolo.

1. La «transustanziazione»: un cambiamento radicale


Il concetto di «transustanziazione» serve aptissime per esprimere la modalità della
presenza eucaristica di Cristo. L'adozione dogmatica di questo avverbio da parte del
concilio di Trento7 significa almeno due cose. Il termine di «transustanziazione» è molto
pertinente prima di tutto nella misura in cui esprime V integralità del cambiamento o
della conversione della sostanza che viene effettuata nell'eucaristia. Precisiamo su questo
punto che, come dimostra in modo particolare la scelta deliberata della coppia «sostanza-
specie» invece di quella, aristotelica, di «sostanza-accidenti», il concilio non ha voluto
legare l'espressione della sua fede a una filosofia, la filosofia aristotelica, e questo an-
che se, come ha mostrato soprattutto E. Schillebeeckx, «numerosi dati permettono di
stabilire senza il minimo dubbio che tutti i padri conciliari senza eccezione hanno in-
terpretato il dogma in termini aristotelici».8 Che «transustanziazione» sia un termine
impiegato dalla Chiesa «in modo molto appropriato» significa, d'altra parte, che esso
non è un assoluto, e che è quindi teoricamente possibile esprimere la specificità della
presenza di Cristo nell'eucaristia in modo diverso. Questo è il nostro compito erme-
neutico presente.

a) La grande scolastica
La problematica che abbiamo accennato ci permette di prenderne in considerazione solo tre
elementi, che riteniamo principali per il nostro intento. E siccome li troviamo nettamente affer-
mati anche nella Summa theologica di san Tommaso, ci limiteremo essenzialmente a questa opera.

— Conversio totius substantiae


L'abbiamo sottolineato al capitolo VITI: il ricorso alla coppia concettuale aristotelica di «so-
stanza» e di «accidente» per pensare in modo ragionato la transustanziazione eucaristica, cioè
la conversio totius substantiae, ha permesso ai grandi scolastici del XIII secolo di reagire contro
l'ultra-realismo che la prima reazione contro Berengario aveva attizzato e che appare nella pro-
fessione di fede che gli fu imposta nel 1059. La situazione più comune nei secoli XI-XII, rispet-
to alla quale bisogna intendere la resistenza di Berengario con l'arma della dialettica, era d'al-

5
PASCAL, Oeuvres, Paris, ed. Brunscvicg, 1914, 88-89.
6
STin, q. 75, a. 8, ad 3.
' Trento, can. 2 sul Santissimo Sacramento dell'eucaristia, D-S, 1652.
" E. SCHILLEBEECKX, La Présence du Christ dans l'eucharistie, Cerf, 1970, p. 50.

263
fronde tale che, in mancanza di un concetto sufficientemente raffinato per esprimere la «realtà
ultima» degli essenti, ci si rappresentava la presenza eucaristica in modo molto «sensualista»;
soltanto il ricorso al concetto aristotelico molto sottile di «sostanza» permetterà di liberarsi di
questa rappresentazione.
Così, per un anti-aristotelico come Pier Damiani (t 1072), la species, secondo l'opinione
di E. Dumoutet, «sembra essere stata analoga a un vetro trasparente, attraverso il quale in certe
circostanze — che, anche se miracolose, sono comunque nella logica delle cose — è possibile
scorgere la carne reale e sanguinante di Cristo».' Secondo questa rappresentazione si ha una
sorta di aderenza immediata della species panis alla species carnis.10 Ora, Lanfranco di Canter-
bury, uno dei principali avversari di Berengario, professa un ultra-realismo in cui, come scrive
J. de Montclos, basterebbe un miracolo «perché gli involucri (del pane e del vino) che ricoprono
la carne e il sangue di Cristo vengano tolti e appaiano la carne e il sangue così come sono in
realtà». Questi aderiscono quindi direttamente alle «essenze secondarie» (espressione frequente
in Lanfranco) delle specie eucaristiche." Si capisce che Lanfranco veda Vimmolatio vera di Cristo
alla messa nella frazione del pane e nella sua manducazione alla comunione...
Precisando con Aristotele che la sub-stantia o il sub-jectum è solo una pura essenza che deve
essere attuata nei suoi accidenti,12 Tommaso d'Aquino (come altri nel XIII secolo) la scioglie
da tutte le rappresentazioni che sono necessarie per caratterizzare gli accidenti: estensione, divi-
sione, movimento locale, corruzione, gusto, colore, ecc. La «realtà ultima» degli enti non è dunque
né un questo né un quello, né nulla che può essere raggiunto dalla conoscenza sensibile. Sempli-
ce potenza ad esistere per sé tramite la sua attuazione in accidenti, la sostanza è prima di tutto
una categoria di intelligibilità degli enti: «Essa non offre la presa — scrive Tommaso — a nessun
organo di senso né all'immaginazione, ma soltanto all'intelligenza, il cui oggetto è l'essenza
delle cose, come dice Aristotele».13 In questo modo si esorcizza qualsiasi rappresentazione spa-
ziale della presenza eucaristica: soltanto il segno sacramentale, fatto degli accidenti che riman-
gono invariati dopo la conversione sostanziale, può essere diviso, moltiplicato, trasportato, ecc.
La realtà del corpo glorioso di Cristo, invece, presente «nella modalità di sostanza e non nella
modalità di quantità» (il primo degli accidenti),'4 sfugge a tutto questo: il Cristo, presente «se-
condo la modalità speciale del sacramento» non vi si trova «come in un luogo» e non è sottomes-
so a uno spostamento locale.15 E le specie non sono tanto un velo che lo nasconde quanto un
segno che lo rivela nell'unico modo possibile, cioè non in specie propria, cosa possibile solo
in cielo, ma in specie aliena.16 Questa è infatti una delle finalità della permanenza delle specie
come segni: «Gli accidenti del pane sussistono in questo sacramento perché il corpo di Cristo
si veda in essi e non nel suo aspetto proprio»."

' E. DUMOUTET, Corpus Domini, op. di., p. 108.


10
J. GEISELMANN, Die Eucharistielehre der Vorscholastik, Paderborn 1926, p. 416. Nei casi estremi,
in cui si arriva a negare la separabilità degli accidenti e della sostanza, si arriva a professare come questo
teologo del XII secolo: «II biancore e la rotondità non possono essere separati dal corpo, il quale è bianco
e rotondo, in modo tale che se il corpo non è spezzato, queste qualità non lo sono» (ibid.).
11
J. DE MONTCLOS, Lanfranc et Bérenger, Louvain 1971, p. 378.
11
ST, I, q. 3, a. 6: «Subiectum comparata- ad accidens sicut potentia ad actum; subiectum enim secun-
dum accidens est aliquo modo in actu».
"Ibid., III, q. 76, a. 7.
"Ibid, a. 1, ad 3.
"Ibid, q. 75, a. 1, ad 3.
16
Ibid., q. 76, a. 8; BONAVENTURA, Brevil., p. 6, e. 9,4: la mutazione tocca Cristo non in se stesso
(«in ipso») ma solamente nelle specie («in eis»). Per questo (ibid. e. 9,5) il Cristo non è presente «ut occu-
pans locum».
" S r m , q. 75, a. 6.

264
— Fuori da ogni «fisicismo»
La novità di questo discorso (d'altronde non legato all'aristotelismo come tale, poiché la se-
conda professione di fede imposta a Berengario nel 1079 comporta già l'espressione substantia-
liter converti1' e il termine stesso di transsubstantiatio sembra essere apparso già prima del 1153)"
non consiste nell'affermazione ontologica della presenza: questa era già nettamente affermata
in Ambrogio e nei Padri greci. La trasformazione (verbo metaballò) del pane e del vino in corpo
e sangue di Cristo richiesta per esempio dalle epiclesi delle anafore di san Giovanni Crisostomo
o di quella usata da Cirillo di Gerusalemme equivale alla mutatio del pane e del vino per mezzo
della parola di Cristo secondo sant'Ambrogio.20 La novità verte sul fatto che, rispetto alla teolo-
gia dell'epoca prescolastica, l'espressione ontologica della presenza può essere intesa solo al
di fuori di ogni «fisicismo» e di ogni rappresentazione più o meno grossolana. La «transustanzia-
zione» ha dunque un intento diametralmente opposto a quello che gli si attribuisce normalmen-
te.21 Inoltre, che si tratti di una «conversione», cioè di una trasformazione o di un divenire, e
non di una successione di due realtà, richiede che ci sia non già annichilimento della sostanza
del pane, ma passaggio da questa in quella del corpo di Cristo:22 c'è un divenire del pane in
corpo di Cristo, e questo suppone che lo si concepisca come una «conversione da sostanza a
sostanza».23 Questa conversio totius substantiae ha un elemento assolutamente singolare: non
è né una creazione, né una semplice conversione nel senso abituale del termine: una creazione
implica il passaggio dal non-essere all'essere, e in questo senso l'eucaristia è più vicina a una
conversione; una conversione non può intendersi come una trasformazione radicale di sostanza,
e in questo senso l'eucaristia è più simile a una creazione. È all'incrocio di questi due concetti
che sta la formula di «conversione di tutta la sostanza».

— Sacrificium intellectus
In terzo luogo la teoria scolastica della transustanziazione vuole essere interamente subordi-
nata alla fede tradizionale della Chiesa e soprattutto, oltre al racconto dell'istituzione, alla sua
espressione liturgica condensata nella formula di comunione così spesso commentata dai Padri:
«Il Corpo di Cristo. - Amen». Abbiamo fatto notare l'importanza della pratica liturgica, in que-
sto ambito come in molti altri, soprattutto dei vari segni di rispetto e di venerazione nel corso
della celebrazione, in attesa, a partire dal XII secolo, di quelli che dovevano poi svilupparsi
in modo consistente in Occidente al di fuori della messa. Evidentemente gli scolastici cercano
di rendere conto nella loro teoria della transustanziazione di tutto questo peso concreto delle
pratiche, ivi compresa — e, forse, sotto certi aspetti, soprattutto — di quella dell'adorazione
eucaristica.24 Ora, per quanto preziosa sia stata la filosofia di Aristotele, ci si vede costretti a
rompere con essa, e a farlo in modo franco e deciso. Questo fu l'atteggiamento di Tommaso
d'Aquino di fronte all'insolubile problema posto dalla permanenza degli accidenti del pane e
del vino senza il loro subjectum di inesione, la sostanza.25 Assolutamente cosciente di essere,
su questo punto, in contraddizione con Aristotele, come dimostrano le difficoltà espresse all'inizio

'• D-S 700.


" J. DE GHELLINCK, «Eucharistie au XII siècle en Occident», in DTC 5, 1913, 1287-1293.
20
AMBROGIO, De Sacr. IV, 14-16; De Myst. 52 (SC 25 bis, pp. 108-111 e 187); CIRILLO DI GERUSA-
LEMME, Cat. Myst. V , 7 (SC 126, p. 155); Anafora di GIOVANNI CRISOSTOMO, in A . HANGGI e I. PAHL,
Prex eucharistica, op. cit., p. 226.
21
E. SCHILLEBEECKX, La Présence du Christ..., cit., pp. 7 - 1 1 .
22
ST, III, q. 75, a. 3.
" Ibid., q. 76, a. 1, ad 3.
" Ibid., q. 75, a. 2: infatti se la sostanza del pane e del vino sussistesse dopo la consacrazione, «si
avrebbe qui una sostanza alla quale sarebbe impossibile accordare l'adorazione di latria».
" Analogamente, BONAVENTURA, Brevil., p. 6, e. 9,5: gli accidenti rimangono «senza soggetto» («praeter
subiectum»).

265
della q. 77, art. 1, Tommaso si vede costretto a cercare una soluzione che sia la meno zoppican-
te possibile facendo ricorso al primo degli accidenti, la quantità: essa viene data come soggetto
di individuazione agli altri." Ma si intuisce quanto poteva esserci di drammatico, per un uomo
così sensibile come lui alla capacità della ratio, in questo sacrificio dell'intelletto.
Il nostro sforzo di intelligenza della presenza eucaristica in tutta la sua radicalità,
anche se avviene attraverso una strada diversa da quella seguita da Tommaso d'Aqui-
no e dai suoi contemporanei, non pretende di rendere ragione del mistero della fede
più di quanto abbiano fatto loro. Noi almeno, fin dall'inizio, tenuto conto della proble-
matica simbolica che abbiamo adottato, abbiamo rinunciato a dare «ragioni» ultime di
qualsivoglia cosa; e le nostre argomentazioni precedenti dimostrano che non si tratta
qui di pigrizia intellettuale. Facciamo quindi totalmente nostro il sacrificium intellec-
tus di san Tommaso. Ma lo facciamo in un modo diverso da lui.

b) Limite principale della transustanziazione scolastica


Nel canone 3 sui sacramenti, il concilio di Trento ha sottolineato che i sacramenti
non sono uguali tra di loro. E i canoni sull'eucaristia la qualificano in modo eminente:
la sanctissima eucharistia è un sacrosanctum o un admirabile sacramentum. Per anto-
nomasia lo si chiama anche il «Santo Sacramento». Questo dipende soprattutto dal fat-
to che in essa è «contenuto veramente, realmente e sostanzialmente... il Cristo tutto
intero» (canone 1), e questo sia prima del suo uso nella comunione sia dopo la celebra-
zione (canone 4). Secondo i termini di san Tommaso fin dal primo articolo del suo
trattato dell'eucaristia, la differenza tra questa e gli altri sacramenti è duplice: da una
parte essa «contiene» il Cristo stesso absolute, mentre gli altri sacramenti sono efficaci
solo in ordine ad aliud, cioè relativamente alla loro applicazione al soggetto. Da qui
deriva la seconda differenza: il suo effetto primo (res et sacramentum) è in ipsa mate-
ria, mentre nel battesimo è in suscipiente.21
Ora, una simile affermazione, anche se non dimentica che la finalità ultima del-
l'eucaristia è la grazia di santificazione data a colui che la riceve (il quale viene quindi
«proiettato nel corpo mistico di Cristo», secondo la bella espressione di Bonaventu-
ra),28 ci sembra pericolosa. Parlando della «piena realizzazione» (perfectio) dell'euca-
ristia nella consacrazione stessa della materia, in quanto essa contiene «in maniera as-
soluta» Messe di Cristo, si rischia infatti di minimizzare due elementi, secondo noi ca-
pitali e legati fra di loro: da una parte non si tiene più conto della destinazione umana
che la materia in questione implica: pane e vino; dall'altra si lascia sfumare un aspetto
fondamentale del mistero: il Cristo dell'eucaristia è il Christus totus; la «testa» quindi
non è isolabile dal «corpo», la Chiesa, da cui essa rimane tuttavia pienamente distinta.
Ma questi due elementi potevano essere presi in considerazione in modo pieno solo
su di un terreno di riflessione diverso da quello della sostanza metafìsica.
Come i suoi predecessori e contemporanei, Tommaso non dimentica la finalità ec-
clesiale dell'eucaristia. Ma, come abbiamo sottolineato con H. de Lubac, la «dicotomia

26
ST III, q. 77, a. 2.
11
Ibid., q. 73, a. 1, ad 3.
28
BONAVENTURA, Brevil., p. 6, e. 9,6: mediante la manducazione spirituale del sacramento, che consi-
ste nel «macerare il Cristo mediante la riflessione della fede e ad assimilarlo a sé mediante il fervore dell'a-
more», il credente «non in se transformet Christus, sed ipse potius taiiciatur in eius corpus mysticum».

266
funesta» nella quale ci si è lasciati chiudere per reazione contro Berengario tra sacra-
mentum e res ha provocato una «espulsione» fuori dal simbolismo intrinseco del sacra-
mento di ciò che i Padri avevano considerato come la sua realtà ultima, cioè la Chiesa
come verità del corpus mysticum eucarìstico: questa ne rimane soltanto la finalità estrìn-
seca. Se si aggiunge a questa evoluzione la assunzione (centrale per l'intelligenza sco-
lastica del «come» della conversione eucaristica) della realtà nella modalità della so-
stanza metafisica, si capisce che non ci si poteva più accontentare di assumere il lin-
guaggio di Agostino, già citato: «Se dunque voi siete il corpo di Cristo e le sue mem-
bra, è il vostro stesso mistero che riposa sulla tavola del Signore, è il vostro stesso
mistero che voi ricevete...». Non si poteva fare a meno di sospettare di questo linguag-
gio, giudicato insufficientemente «realista». Nella prospettiva della «sostanza» aristo-
telica come espressione della realtà ultima degli essenti, si poteva esprimere l'integra-
lità e la radicalità della presenza reale di Cristo nel sacramento solo mettendo tra pa-
rentesi, almeno durante il tempo dell'analisi del «come» della conversione eucaristica,
la relazione alla Chiesa. È esattamente quanto avviene in Tommaso d'Aquino: egli
sottolinea con forza, è vero, il rapporto tra l'eucaristia e la Chiesa a monte e a valle
della sua analisi della conversione sostanziale, ma la mette tra parentesi nel corso di
quest'ultima. Questa soluzione è probabilmente inevitabile se si può cogliere la realtà
ultima delle cose solo nella modalità dell'essente-sussistente.
Ma si può pensare Yesse di Cristo nell'eucaristia senza la relazione di ad-esse alla
Chiesa, alla comunità celebrante, ai soggetti credenti ai quali essa è destinata? Questo
è per noi il limite principale dell'operazione scolastica in questo ambito. Inversamen-
te, se si assume dal principio alla fine Yad relativo ai soggetti come costitutivo di un
esse che, in quanto sacramentale, non può che essere adesse, si può rendere ragione
della radicalità di ciò che è in gioco, secondo la fede della Chiesa, nella «transustan-
ziazione» o almeno, se ci si pone su di un terreno diverso da quello della sostanza,
della radicalità di ciò che il prefisso trans non smette mai di ricordare, un po' come
un semaforo lampeggiante? Questa è la nostra domanda.

2. Un approccio simbolico al mistero del corpo eucaristico del Signore


Riteniamo che, per esprimere teologicamente la posta in gioco integrale della pre-
senza eucaristica, il ricorso al concetto di «sostanza» non sia l'unica strada possibile.
Cerchiamo di mostrarlo.

a) L'ad-esse costitutivo dell'esse sacramentale


Abbiamo sottolineato in precedenza che ogni riflessione sacramentaria ha il suo
luogo di vita prioritaria nella celebrazione stessa. Questo è per noi un principio fonda-
mentale, che del resto si accorda con il tomismo più stretto, poiché i sacramenti vi
sono considerati come in genere signi.

— L'insieme della celebrazione


Impossibile, dicevamo nel capitolo VI, capire il sacramento se non come precipita-
to delle Scritture in cui il Signore vivo parla all'assemblea che egli presiede. I vari
riti della celebrazione eucaristica non sono giustapposti a caso; si incastrano secondo

267
un'architettura coerente, formando così un vasto insieme strutturato che deve essere
a sua volta considerato come un solo grande simbolo, un solo tutto sacramentale. Ogni
elemento si comprende solo come sim-bolizzante con gli altri all'interno di questo in-
sieme.
Così intesa, la presenza eucaristica appare come la cristallizzazione della presenza
di Cristo nell'assemblea (ecclesia) riunita in suo nome e da lui presieduta, e nelle Scrit-
ture proclamate come sua parola viva. Sottolineare la verità di questo duplice modo
di presenza non indebolisce per nulla quella della terza, come pare si sia talvolta temu-
to. Al contrario, la verità della presenza eucaristica è tanto più riconosciuta quanto
più la verità delle altre due modalità di presenza, che la precedono e ad essa conduco-
no, è presa sul serio. Il Cristo che viene-in-presenza nel pane e nel vino non cade bru-
scamente «dal cielo» (se ci è consentita l'espressione): esso viene dall'assemblea, e
per questo la grazia dell'eucaristia è il Cristo testa e corpo. Questo è il primo scandalo
del mistero della fede, a cui la fissazione su quello della conversione della sostanza
non lascia lo spazio che gli spetta: questi uomini e queste donne, peccatori, formano
il corpo di Cristo, la santa Chiesa di Dio, il quale sceglie «ciò che nel mondo è nulla
per ridurre a nulla le cose che sono» (1 Cor 1,28). Colui che viene-in-presenza nel-
l'eucaristia è inoltre il Verbo di Dio annunciato nelle Scritture. Per questo la comunio-
ne eucaristica è fruttuosa solo se è ruminazione, secondo lo Spirito (Gv 6,63) della
Parola, amara e dolce (Ez 2,8-3,3; Ap 10,8-9) che Dio dà da mangiare come una man-
na (Dt 8,3). Questo è il secondo scandalo del mistero della fede, al di fuori del quale
quello della presenza eucaristica rischia di giocare concretamente solo come falso scan-
dalo: quello del Dio crocifisso per la vita del mondo. La dinamica architettonica del
vasto sacramentum formato dall'insieme della celebrazione impone quindi dall'inizio
alla fine l'assunzione del «per» relazionale nel concetto stesso di «presenza» eucaristica.

— L'insieme della preghiera eucaristica


La stessa osservazione si impone a partire dalla preghiera eucaristica. Il racconto
dell'istituzione può essere capito solo come cristallizzazione dell'insieme della storia
della salvezza nell'antica alleanza e in Gesù (il nostro PN 1) e in vista del futuro della
Chiesa (il nostro PN 3). Inoltre, esso è «ministerialmente» dicibile come memoria viva
solo nello Spirito: implica dunque, normalmente, una epiclesi. La «presenza» sacra-
mentale del Cristo (PN 2) può essere capita solo a partire dalla duplice memoria che
articola l'insieme della preghiera eucaristica: memoria del passato in forma di azione
di grazie (PN 1) e memoria di futuro in forma di supplica (PN 3). Questo non mini-
mizza affatto la verità della presenza, ma costringe a situarla, come dice C. Perrot,
all'interno di una «duplice distanza tra l'ieri del Golgota e il futuro della Parusia»: il
suo rapporto con la Parusia gli impedisce di essere ridotto a una semplice evocazione
storica della croce che assimilerebbe il pasto cristiano ai riti funerari greci; il suo rap-
porto con il Golgota gli impedisce di rimanere nello statuto ebraico dell'attesa; e lo
scarto tra i due blocca la sua verità stessa di presenza con l'elemento dell'assenza e
impedisce di concepirla come una presenza «piena», alla maniera gnostica.2'

C. PERROT, «L'anamnèse néo-testamentaire», art. cit., p. 33-35.

268
— Il racconto dell'istituzione
Punto focale della preghiera eucaristica, il racconto dell'istituzione (da intendere
anch'esso, come abbiamo visto, nel suo rapporto con l'epiclesi e l'anamnesi) inscrive
la venuta-in-presenza del Cristo in questa stessa dinamica di relazione. Prima di tutto,
al livello delle parole citate, il «prendete, mangiate,... bevete» e, più ancora, Y«hy-
per» sono essenziali al significato dell'azione. Quest'ultima non è una semplice deri-
vazione né una semplice finalità estrinseca di un esse che potrebbe bastare a se stesso.
La relazione salvifica che esso significa («per», «in favore di») indica che qui non ci
si può accontentare, con il pretesto del «realismo», di pensare la realtà in gioco come
il semplice esse di un essente-sussistente, ma che bisogna concepirla proprio come «pre-
senza», cioè come essere-per, essere-verso. In altri termini, l'esse è costitutivamente
ad-esse. I gesti di dono e di condivisione indicano d'altronde la stessa cosa, con tutta
la forza che si può riconoscere a queste «parole incorporate» di ordine rituale. E il
materiale (pane e vino) qui usato non è certo da meno, come preciseremo.

— Pane e vino, secondo la Bibbia


«Nell'universo della Bibbia, il pane indica prima di tutto l'alimento di cui nessuno
può fare a meno e anche, metaforicamente, il nutrimento in generale».30 Si capisce
che con una simile carica semantica tradizionale, esso abbia potuto rappresentare per
Gesù, nel «Padre Nostro», l'insieme dei doni che ci sono quotidianamente necessari
e che, durante l'Ultima Cena, egli abbia potuto prenderlo come il simbolo del più grande
dei doni, quello della sua stessa vita. Si capisce anche come, in sintonia con le tradi-
zioni profetiche e sapienziali sul rapporto pane-manna-parola-di-Dio-banchetto esca-
tologico, Gesù abbia potuto presentare se stesso come il pane di vita.31 Il pane rappre-
senta dunque a un tempo, metaforicamente, il primordiale dono di Dio, e, per metoni-
mia, l'insieme della terra e del lavoro dell'uomo. Egli unisce così il «culto» e la «cultu-
ra», in conformità, d'altronde, con l'etimologia comune di questi due termini sia in
ebraico che in greco che in latino.32 Parallelamente anche il vino beneficia di una cari-
ca biblica di ampiezza altrettanto vasta. Ma, non necessario alla vita (a differenza del
pane), esso fa intervenire «un elemento di gratuità che suggerisce non più la sussisten-
za terrena, ma una pienezza di vita, come quella che può essere prodotta dalla felici-
tà».33 Di qui il suo rapporto con la gioia messianica.
Ora, non solo la scolastica non ha tenuto conto di questa carica semantica del pane
e del vino secondo la Bibbia nella sua analisi del «come» della conversione, ma l'ha
esclusa addirittura per principio, poiché la realtà ultima degli essenti era identificata
con la loro sostanza ontologica. Ci verrà obiettato che, dal punto di vista metafisico,
l'analisi del «come» non solo può, ma deve fare astrazione dalla finalità. L'obiezione

50
X. LÉON-DUFOUR, Le Partage du pain eucharistique selon le Nouveau testament, op. cit., p. 72.
11
I D . , Ibid., pp. 297-298.
12
G. BORNKAMM, art. «Latreuò», Th. Wort. z. N.T. IV, 58-68 (trad. ital. : voce Latreuò in Grande Les-
sico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia, voi. VI). Il latino «colere» e «cultus» significa a un tempo
la cultura della terra e dello spirito («colere artes») e il culto reso agli dèi («colere deos»); in greco «latris»
significa il salario dell'operaio, e «latreia» o «latreuein» hanno lo stesso senso dell'ebraico «'abodal» o «'abad»
che indicano non solo il servizio divino (la liturgia) ma anche il lavoro manuale.
33
X. L É O N - D U F O U R , op. cit. (n. 30), p. 73.

269
è certamente pertinente da questo punto di vista. Ma allora è tutto il processo della
metafisica, così come l'abbiamo fatto nella prima parte di questo lavoro, che è coin-
volto. Si fa fatica a vedere, in ogni caso, ciò che rende possibile slegare il «come»
dal «per cosa» o meglio dal «per chi», in un ambito in cui si tratta essenzialmente, da
parte di Cristo, di un dono di sé agli uomini, dono talmente segnato come tale che
avviene nella modalità di cibo e bevanda. Come è possibile mettere tra parentesi ciò
che, per origine e per destinazione, fa sì che pertenga alla realtà «sostanziale» del
pane in quanto pane (e non pietra o pezzo di legno, e neanche acqua oppure olio desti-
nato soltanto ad essere applicato all'esterno del corpo) di essere per venire incorpora-
to nell'uomo? Ci è dunque difficile poter pensare il reale del dono di Cristo nell'euca-
ristia diversamente che come «presenza», come «essere-per», come ad-esse.

b) L'essenza della brocca e del pane

— La brocca secondo Heidegger


D nostro punto di vista biblico si amplia insensibilmente in punto di vista filosofico
e antropologico. Su questo piano, tutta la problematica sviluppata nella prima parte
di questo lavoro l'ha sottolineato: tranne il caso in cui si riduce il reale a ciò che posso-
no dirne le scienze empirico-formali, la realtà ultima di un oggetto non può mai essere
identificata con le sue componenti fisico-chimiche. Essa è assimilabile alla loro so-
stanza metafisica, che non c'entra nulla con le sue componenti fisico-chimiche? È quanto
si è pensato tradizionalmente dal punto di vista aristotelico. Ma, come abbiamo argo-
mentato con Heidegger, la rappresentazione della realtà ultima degli essenti come hy-
pokeimenon, sub-stratum, sub-jectum o sub-stantia non è neutra. Questa rappresenta-
zione è caratteristica di un certo modo di comprendersi nel mondo, modo a sua volta
caratteristico di una certa cultura ellenistica che doveva, anche se con sensibili muta-
zioni, invadere l'Occidente e che presupponeva una rottura tra l'Essere e il Linguag-
gio. Abbiamo lungamente spiegato perché si impone un «superamento» della metafisi-
ca, superamento richiesto dal dispiegamento storico del problema dell'Essere nell'«età»
in cui siamo. Ricordiamo inoltre che, situandoci sulla strada del simbolico, non siamo
più sullo stesso terreno de «la» metafisica, di cui daremmo soltanto una nuova versione.
Che cos'è il reale, su questo altro terreno, il reale di una brocca, per esempio,
termine che indica qui un utensile qualsiasi destinato a contenere un liquido che può
essere servito come bevanda (una brocca nel senso stretto del termine, una bottiglia,
un vaso...)? Come mostra con umorismo il film «Les dieux sont tombés sur la tète»,
una bottiglia di Coca-Cola caduta dal «cielo» (da un aereo) sul territorio dei Boscima-
ni, nell'Africa del sud, appena usciti dall'età della pietra, non può che essere una cosa
strana, magica e in ultima analisi pericolosa che bisogna andare a buttare là in fondo,
al termine del mondo. Cosa affascinante che, ben levigata, trasparente e luccicante,
brilla al sole. Si può, soffiandoci dentro, ottenere dei suoni musicali curiosi; ce ne
si può servire come mattarello per appiattire degli oggetti abbastanza molli... Ma que-
sta bottiglia non ha nulla, per i Boscimani, di una bottiglia: non hanno né il termine
per l'oggetto come tale o per il vetro di cui è fatta, né l'uso della cosa. Il reale «botti-
glia» può esistere solo là dove la cultura permette di dirlo e di concepirne l'uso al qua-
le esso è prioritariamente destinato. Esso è inseparabile da un apprendimento priorita-
riamente umano, a cui tuttavia non può essere ridotto.

270
Heidegger ha dedicato pagine molto belle a meditare sull'essenza della brocca.34 Possiamo
riassumere la sua argomentazione in quattro punti.
1. Prima di tutto, l'essenza della brocca non si lascia avvicinare dalla scienza. Certo, quan-
do essa si pronuncia sul materiale, la forma e l'uso di una brocca o quando dichiara che riempire
una brocca significa «cambiare un contenuto (cioè dell'aria) con un altro» (per esempio del vi-
no), essa «rappresenta qualcosa di reale, secondo il quale essa regola oggettivamente i suoi pro-
cedimenti». Ma, chiede Heidegger, «questa realtà è la brocca? No. La scienza raggiunge soltan-
to ciò che la sua modalità propria di rappresentazione ha ammesso preliminarmente come ogget-
to possibile per essa (...). Essa annulla questa cosa che è la brocca, nella misura in cui essa
non ammette le cose come il reale che è determinante (...). Il sapere della scienza ha già distrut-
to le cose in quanto cose, molto prima dell'esplosione della bomba atomica», dimentica «la "co-
sità" della cosa» che non può essere pensata secondo la ragione calcolante, ma soltanto secondo
il pensiero meditante.
2. Secondo quest'ultimo, si tratta di permettere al vuoto della brocca, delimitato tra il fondo
e le pareti, di essere «il suo vuoto», al vino di non essere un semplice liquido, ma proprio del
vino, e al gesto del suo essere versato di non essere un semplice travaso ma una offerta. A que-
sto livello di pensiero, la «cosità» della brocca «non consiste affatto nella materia che la costitui-
sce, ma nel vuoto che contiene». Ora, in che modo questo vuoto contiene? Prendendo ciò che
è versato e trattenendolo in sé. Ma c'è un terzo carattere essenziale alla brocca, che regge l'uni-
tà dei due precedenti: il versare; infatti la brocca come brocca è conformata a questo Ausgies-
sen. «D doppio "contenere" del vuoto si fonda sul "versare"». Fa parte dell'essenza della brocca
di essere conforme a questa possibilità di versamento.
3. Ora, «versare dalla brocca significa offrire», secondo il duplice senso di schenken (versa-
re da bere e offrire a un tempo). Così che «ciò che fa della brocca una brocca dispiega il suo
essere nel versamento di ciò che si offre». Un simile versamento non è evidentemente un sem-
plice atto di riempimento di bicchieri. «Nell'acqua versata, la sorgente indugia. Nella sorgente,
le rocce rimangono presenti, e in essa il pesante sonno della terra che riceve dal cielo la pioggia
e la rugiada. Le nozze del cielo e della terra sono presenti nell'acqua della sorgente. Sono pre-
senti nel vino, a noi dato dal frutto della vigna, nella quale la sostanza nutritiva della terra e
la forza solare del cielo sono affidate l'una all'altra». Cielo e terra sono così presenti nell'essere
della brocca, in quanto rimangono «indugiate» in ciò che si versa e questa offerta appartiene
alla sua «cosità». D'altronde, la bevanda che così si offre è «destinata ai mortali» per placare
la loro sete, animare i loro piaceri, rallegrare le loro riunioni. Talvolta, anche, viene offerta
«come consacrazione» agli dèi immortali. Ora, «questo versamento della libagione come beve-
raggio (offerto agli dèi immortali) è il vero versamento. Nel versare il beveraggio consacrato,
la brocca versante dispiega il suo essere come il versamento che offre». Certo, questa dimensio-
ne di offerta sacrificale non appare sempre. Può deperire in «semplice fatto di riempire o di
versare, fino alla sua decomposizione finale nel volgare spaccio di bevande». Allora non appare
più questo «fare dono» che compie il versamento «in modo essenziale» e che la libagione reli-
giosa dispiega. Almeno appare che questo «fare dono» come modalità essenziale del versamento
avviene «fino a che questo versamento trattiene in sé la terra e il cielo, i divini e i mortali»,
i quali sono «insieme presenti» in lui, «preso nella semplicità di un unico Quadripartito»."

34
M. HEIDEGGER, La Chose, EC, pp. 199-205 (trad. ital.: Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976).
" Cf il paniere dogon di cui A. VAN EYCK scrive: «La capienza di un paniere dogon è illimitata; infatti,
con il suo bordo rotondo e il fondo quadrato, esso è a un tempo paniere e granaio; a un tempo sole, firma-
mento e sistema cosmico; a un tempo miglio e le forze che fanno spuntare il miglio. Mi sembra che degli
uomini per i quali tutte le cose sono unificate a tal punto che una sola tra di esse può rappresentarle tutte
portino in loro stessi questa unità essenziale» (ne Le Sens de la ville, Seuil 1972, p. 108). Questo testo è
citato da M. VILLELA-PETIT nell'opera collettiva Heidegger et la question de Dieu, op. cit., p. 86.

271
4. D termine che ci si presenta immediatamente allo spirito a proposito di questa unione del
Quadripartito è quello di simbolo. Heidegger non lo usa qui nella sua conferenza del 1950 sulla
«Cosa» ma, e in un contesto assolutamente analogo, in una conferenza dell'anno seguente dal
titolo «Costruire, abitare, pensare». L'essenza di un ponte, infatti — spiega Heidegger secondo
una riflessione dello stesso tipo di quella della brocca —, consiste nel «riunire presso di sé la
terra e il cielo, i divini e i mortali». È proprio in questo che consiste la sua cosità. Esso non
è prima di tutto una cosa, nel senso che sarebbe prima di tutto, semplicemente, un vero ponte,
poi un simbolo, nel senso che si vedrebbe in lui tutto quello che abbiamo espresso. «In quanto
esso è questa cosa, riunisce il Quadripartito» ed è simbolo. «Esso non è mai prima di tutto un
semplice ponte e poi un simbolo»: la sua «cosità», diremo, non avviene altrove se non nella sua
espressione simbolica.36 Analogamente, la brocca è essenzialmente simbolo dei Quattro. Que-
sto è il suo reale più reale che non può mai essere separabile dal destino dell'uomo nel suo
rapporto con il cosmo, con gli altri e con gli dèi. Il simbolo, notavamo al capitolo IV, trascina
con sé l'uomo e il suo «mondo»: tocca il più reale del soggetto.
È chiaro che un simile reale è di un ordine totalmente altro rispetto a quello della
«sostanza» metafisica e che è per essa addirittura impensabile: ne sfida la logica inter-
na. Su questo cammino non si ottengono mai risposte ultime, ci si arricchisce soltanto
di certi scorci o prospettive che, restituendo all'uomo il senso dell'elementare, gli fan-
no provare il peso delle cose nelle loro semplicità da cui scaturisce ogni domanda es-
senziale.

— // reale del pane


Frutto del sole e della pioggia del cielo, frutto «della terra e del lavoro dell'uomo»,
il pane quando può essere così pane come quando viene condiviso dai mortali in un
pasto che li «intra-tiene»? Andiamo più lontano: il pane non è un semplice composto
di sostanze nutritive. Oggi si possono fabbricare delle pillole che avrebbero le stesse
qualità nutritive del pane e che fornirebbero lo stesso numero di calorie, ma nessuno
direbbe — tranne una evoluzione, sempre possibile, del linguaggio in questo senso —
che qui c'è del «pane». Il pane è un alimento socialmente istituito, anche se nelle no-
stre società opulente non ha più il posto e il significato fondamentali che aveva all'epo-
ca in cui «guadagnarsi il pane» e «mangiare il pane» bastavano ad evocare l'insieme
del ciclo produzione-consumazione. Ma, allo stesso modo in cui, secondo A. Vergote,
la figura del pastore o del buon pastore «conserva pienamente il suo valore simbolico»
anche per i «cristiani lontani da ogni civiltà pastorizia» perché, «diversamente da una
psicologia positivista» o da una concezione troppo naturalistica del simbolo, «la cultu-
ra ci mostra che la metafora e il simbolo, come realtà culturali trasmesse, creano e
mantengono il loro potere evocatore»,37 anche il pane rimane tuttora nelle nostre so-
cietà un simbolo fondamentale del nutrimento e del pasto.
L'intra-tenimento che il pane-pasto permette non è soltanto biologico; è anche, e
altrettanto, simbolico. Se viene socialmente prodotto per placare la fame, è anche so-
cialmente istituito come simbolo di ciò che si condivide (in un pasto, appunto), condi-
visione che appartiene allo scambio dei soggetti nella loro comune fraternità di destino
nella vita e nella morte e nella loro comune appartenenza ad una cultura. È essenziale

" M. HEIDEGGER, Bàtir, habiter, penser, EC, pp. 180-182.


37
A. VERGOTE, Religion, fai, incroyance, op. cit., pp. 291-292.

272
al pane l'essere condiviso con altri in un pasto. E quando questo non avviene, per
molte possibili ragioni, richiama comunque simbolicamente questa destinazione che
fa sì che per l'uomo mangiare non sia riducibile ad un atto utilitaristico. Per questo
il pane, il pane-pasto, è mediazione di intra-tenimento di parola quanto di vita biologi-
ca. È nutrimento del «cuore» quanto del corpo.
Capita che sia presentato a Dio come la parola più alta di riconoscenza dell'uomo;
riconoscenza di Dio come Dio, cioè come colui che fa dono del pane e ultimamente
dell'esistenza stessa, poiché il pane funziona allora come frammento simbolicamente
rappresentativo di tutta la creazione; e simultaneamente riconoscenza verso Dio. Il pa-
ne non è mai così pienamente pane come in questo gesto di oblazione riconoscente
in cui riunisce in sé il cielo e la terra, gli uomini credenti che si «intra-tengono» condi-
videndolo e il donatore a cui essi si rivolgono come «a Dio»: si stabilisce così con lui
e tra di loro una nuova comunione di vita. E nessun pane è prima di tutto un semplice
pane «reale», e poi in seguito solamente e in certe circostanze un simbolo di questo
raduno. Ogni pane è essenzialmente questo simbolo, anche se soltanto nell 'atto simbo-
lico di oblazione religiosa si dispiega la sua essenza di pane.

e) Posta in gioco della nostra problematica

— Solo un approccio
Questa via simbolica è evidentemente insufficiente per esprimere la portata della
presenza eucaristica. Non basta infatti dire che il pane non è mai così pane come nel
gesto religioso in cui lo si riconosce come dono di grazia di Dio; bisogna dire che
non lo è mai così tanto come nel gesto religioso, e più precisamente cristiano, in cui,
offrendolo, la Chiesa lo riconosce come il dono di Dio in se stesso, come l'autocomu-
nicazione di Dio stesso in Cristo: «Il corpo di Cristo. - Amen!». Impossibile per la
fede evitare questo: il pane dell'eucaristia (e anche il vino, certo) è comunicazione
del Cristo stesso nella sua morte e risurrezione; è mediazione sacramentale non di sem-
plice comunione con Cristo, ma di comunione al Cristo. Il prefisso trans-, dicevamo
prima, ci ricorda la radicalità di ciò che la Chiesa tradizionalmente crede su questo
punto. Il sacrìficium intellectus da fare qui non è meno grave per noi di quanto lo sia
stato per Tommaso d'Aquino. Mai potremo passare dall'offerta del pane come gesto
di riconoscenza di un dono di grazia di Dio alla sua offerta eucaristica come mediazio-
ne dell'offerta di Cristo stesso. Ora, è proprio di questo che si tratta, come mostra
soprattutto l'offerta dell'anamnesi, l'unica vera offerta della Chiesa: è il Cristo stesso
che vi è offerto in sacramento a Dio, ed è lui che costituisce l'azione di grazie della
Chiesa («ti offriamo rendendoti grazie»).

— La «risposta» è il cammino
Forse si può avere la sensazione che la logica metafisica della sostanza permettesse
di andare oltre nell'intelligenza del mistero più di quanto faccia la logica del simbolo.
Questa impressione è senz'altro giustificata se si misura il progresso in questione se-
condo il metro di una problematica la cui logica interna mira a «fermare» gli essenti.
Ma ciò che può sembrare un progresso profondo su questo piano, addirittura intrepi-
do, deve arrestarsi bruscamente, l'abbiamo visto, di fronte a una sorta di assurdità

273
metafisica che richiede l'appello a un secondo «miracolo» con cui Dio dovrebbe soste-
nere nell'essere il primo degli accidenti, la quantità, per darlo come soggetto di inesio-
ne agli altri, cioè per fargli svolgere il ruolo di una sostanza (supra). D'altronde, ciò
che sembra guadagnato in «realismo» spingendosi così lontano, si perde in simboli-
smo, chiusi come si è in una stretta logica del reale.
Da parte nostra, pensiamo che la strada che abbiamo imboccato, senza offrire mag-
giori garanzie di evitare lo scandalo della fede, offra numerosi vantaggi importanti.
1. Prima di tutto, rispetto al sacrificium intellectus, la rottura richiesta dal mistero
non interrompe bruscamente un lungo cammino ontologico. Essa è reale, certamente,
ma risuona di tutta una problematica simbolica che, nel suo stesso rigore, è per natura
non compatta, non strettamente lineare, potremmo dire, tessuta interamente nel cuore
stesso di questa frattura che l'uomo è in se stesso e per gli altri. Gli interstizi gli sono
necessari per poter respirare, lì dove l'onto-teologia ha appunto come intento segreto
quello di turare ogni falla; e la verità vi si dà solo in una schiarita.
2. Rispetto al tipo di risposta, poi, che il cammino della simbolica permette, si
sa che non può mai trattarsi di una soluzione definitiva data a un problema. Poiché,
su questo terreno, il cammino è sempre transitivo, la risposta è fatta di tutto il cammi-
no stesso. Essa risiede, se vogliamo, nel nuovo modo di porre la domanda che questo
cammino permette, in un modo diverso di lasciarsi abitare da essa, nello spostamento
che la strada stessa ne effettua nell'uomo interrogante. Lì dove il cammino metafisico
della sostanza non è che una preparazione a una risposta che unicamente è decisiva,
il cammino simbolico del rapporto fra la terra, il cielo, i divini e i mortali come costi-
tutivo della realtà del pane appartiene alla risposta stessa: c'è una «co-rispondenza»
possibile fra lo strano mistero del Cristo che si offre come pane di vita e la singolare
stranezza dell'uomo che giunge alla sua verità quando condivide la sua vita come un
pane.

— Ho àrtos alethinós
Poiché il mistero del corpo eucaristico del Signore può essere espresso su questo
terreno solo se porta con sé la ricchezza simbolica del pane evocato lungo tutto il cam-
mino, è chiaro che, per esprimerne tutta la radicalità, non soltanto si può, ma si deve
non dire più: «Questo pane non è più del pane». Un simile enunciato doveva invece
essere mantenuto sul terreno della sostanza metafisica, poiché esprimeva su questo piano
l'implicazione obbligata della conversio totius substantiae formulata dogmaticamente
al concilio di Trento. Sul terreno totalmente altro del simbolico, e perché esso è altro
al punto che il verbo «essere» non ha originariamente più lo stesso statuto per il fatto
che il Sein è inseparabile dal Da-Sein umano e dunque dal linguaggio — da cui rimane
tuttavia distinto —, dire che «questo pane è il corpo di Cristo» richiede che si sottolinei
con ancora più forza che si tratta sempre di pane, ma di pane essenziale, di pane che
non è mai così pane come in questo mistero. Si ritroverà dunque il linguaggio biblico
di Giovanni 6: Questo è IL pane, il «pane vero», Vàrtos alethinós in cui si svela la
verità sempre dimenticata (a-lethéia) del pane, cioè che il pane che nutre l'uomo nel
più umano della sua umanità è quello della parola e che questa parola in cui esso ad-
viene comunicandosi agli altri è essa stessa, secondo la fede, mediazione in cui prende
corpo la Parola consegnata da Dio in Gesù Cristo all'umanità fino alla morte. Il corpo

274
eucaristico di Cristo, a questo livello di pensiero, è il pane per eccellenza, «il pane
di vita», il panis substantialis et supersubstantialis, come dicevano i Padri. Il vere,
realiter et substantialiter del concilio di Trento è colto in un campo totalmente altro
rispetto a quello dell'onto-teologia classica.

d) Radicalità

— La precedenza dell'ordine simbolico e la resistenza del reale


Ci si può chiedere se l'integrazione del soggetto in ciò che abbiamo detto del «rea-
le» non sfoci, malgrado tutto, in una sorta di riduzione soggettivistica di questo reale,
rendendo allora la nostra posizione inconciliabile con quella della fede della Chiesa
nella «presenza reale». Conviene dunque ricordare, da una parte, che il reale, secondo
la nostra problematica del simbolico, resiste a qualsiasi attacco «in ultima istanza» da
parte del soggetto. Giungendo al soggetto solo mediato dal linguaggio, esso è, in defi-
nitiva, ciò che sempre manca. La prova del reale è proprio per lui la prova della
presenza-della-mancanza: impossibile uscire dalla mediazione e dunque dall'ordine sim-
bolico. Ora, non c'è nulla di meno suscettibile di riduzione soggettivista delle regole
del gioco che costituiscono questo ordine simbolico, poiché si diventa soggetti solo
essendovi assoggettati. Questa è V irriducibile precedenza, resistente come la scrittura
e il corpo (Derrida, supra), che fa legge per tutti.
In questa prospettiva, l'ordine simbolico è la mediazione più radicale della resi-
stenza del reale a qualsiasi riduzione soggettivistica. Allora, e questo è il punto focale
della nostra attuale riflessione, la presa in conto integrale della presenza eucaristica
non richiede necessariamente che la si pensi nella modalità della sostanza metafisica.

— La resistenza dei sacramenti


A dire il vero, questa riflessione non apre soltanto sull'eucaristia; vale per tutti i
sacramenti e anche, più in generale, per l'insieme della fede in quanto «archisacra-
mentale» (supra). Dover leggere come Parola di Dio all'assemblea ciò che viene con-
segnato nella lettera delle Scritture canoniche, anche questo raffigura lo sbarramento
insuperabile delle mediazioni istituzionali, al di fuori delle quali non esiste identità cri-
stiana. Ma il logocentrismo metafisico cancella agevolmente — l'abbiamo sottolineato
— questa mediazione della lettera a vantaggio della «Parola». Con i sacramenti, inve-
ce, ci si imbatte in modo inevitabile nell'empiricità del sensibile e del corpo. Ora, la
logica non-pensata che governa l'onto-teologia censura questi come «caduta» dell'i-
deale trasparenza interiore nell'esteriorità. Malgrado l'Incarnazione e la Risurrezio-
ne, il cristianesimo non si è mai davvero ripreso da questo sospetto nei confronti del
corpo. I sacramenti, allora, possono essere assunti solo con risentimento, anche se ci
si sforza di mostrarne in modo positivo la «convenienza».
Certo, la riconciliazione con il corpo non è sufficiente per una riconciliazione fon-
damentale con essi, ma ne è la premessa. Infatti, rimandandoci all'esteriorità e all'em-
piricità concretissime della materia, del corpo e dell'istituzione, i sacramenti costitui-
scono la figura principale delle imprescrittibili mediazioni di una fede che esiste solo
inscritta da qualche parte. E non c'è nulla di più difficile, ripetiamolo, che imparare

275
a consentire senza risentimento a una simile condizione, perché essa blocca il nostro
desiderio di presa della «cosa» e di padronanza del «reale».

— // corpo eucaristico, figura simbolica esemplare di questa resistenza


La resistenza di Cristo a qualsiasi riduzione da parte della nostra «fede» trova nel-
l'eucaristia la sua espressione radicale. Questa radicalità, espressa nella formula di
«corpo di Cristo», vi è figurata dalla esteriorità e anteriorità della maniera significante
in cui questi si dà. H corpo del Cristo glorioso ci viene presentato infatti come, fuori
di noi e di fronte a noi, da una parte, e come antecedente alla sua recezione da parte
nostra nella comunione. Abbiamo qui la figura simbolica esemplare di questo sbarra-
mento insuperabile delle mediazioni del nostro rapporto con Dio, che dobbiamo impa-
rare ad assumere senza risentimento.
Ci troviamo allora, con questo mistero della fede, in una situazione paradossale.
Da una parte infatti la presenza eucaristica del Signore è probabilmente, proprio in
ragione dell'anteriorità, dell'esteriorità, della materialità del sacramento in cui si dà,
la più minacciata di perversione idolatrica, o feticista, di tutte le affermazioni della
fede. Dall'altra parte, però, e per le stesse ragioni di anteriorità, esteriorità e materia-
lità, essa è forse la figura più radicale dell'interdetto di idolatria fatto al credente.
L'idolatria — come abbiamo precisato — è la riduzione di Dio alle condizioni di ciò
che noi pensiamo, diciamo o sperimentiamo di lui. L'oggetto sul quale essa si fissa
può essere relativamente sottile: il discorso o anche il concetto apparentemente più
raffinato per esprimere Dio o il rapporto con lui, oppure l'impegno etico apparente-
mente il più generoso in suo nome, possono essere idolatrici quanto una statua di pie-
tra o di legno. Se, nella Bibbia, la Legge è sotto il segno dell'interdetto delle immagini
scolpite di Dio, è perché il peccato di idolatria in quanto riassorbimento della differen-
za di Dio, misconoscimento della sua radicale alterità/santità, oblio di Dio (nel senso
di dimenticanza che Dio soltanto è Dio) è appunto il peccato fondamentale dell'uomo
(Gn 3), come lo fu di Israele al tempo dell'Esodo. Questo significa che la tentazione
idolatrica di asservire Dio «sistemandolo» e «usandolo» per le nostre cause, anche le
più «religiose» e le più «generose», continua ad abitarci.
Ora, nella sua figura sacramentale di esteriorità materiale, di anteriorità al pro-
prio uso e ài permanenza dopo la celebrazione, la presenza eucaristica di Cristo pro-
clama la irriducibilità di Dio, di Cristo e del Vangelo ai nostri concetti, ai nostri di-
scorsi, alle nostre ideologie, alle nostre esperienze. Essa è quindi il grande simbolo
dell'interdetto dell'idolatria che ci viene fatto. Essa svela, pur nascondendola, la diffe-
renza di Dio. Questo è lo statuto che abbiamo riconosciuto all'«icona»: essa cerca di
dare a vedere il «prototipo» divino invisibile, ma in modo tale da sottolinearne la alte-
rità. Essa preserva quindi simbolicamente la differenza radicale di Dio, ma lo fa con
una tale santa riserva da essere sempre minacciata di venire pervertita in idolo. L'abis-
so che separa l'icona dall'idolo è profondo, ma molto stretto, e si può sbagliare sponda
se non si sta molto attenti. Lo stesso vale dei sacramenti, le più insidiose delle media-
zioni ecclesiali della fede, ma anche tuttavia (nei loro rapporti, ovviamente, con le
altre mediazioni) le più alte tra esse, poiché ne va della recezione del dono di grazia
di Dio. E ne va anche, e più radicalmente ancora, della presenza eucaristica di Cristo:
la più minacciata di perversione idolatrica fra tutte le mediazioni della fede, e tuttavia
la più esemplare icona dell'alterità e della precedenza di Cristo, Signore della Chiesa.

276
Che l'«icona» dell'eucaristia — concetto usato qui nel suo rapporto con quello di
«idolo»38 — preservi quindi, nella sua consistenza materiale e nella sua esteriorità spa-
ziale su cui pure la fede si scontra, l'assoluta «differenza» di Cristo richiede che la
presenza di quest'ultimo sia fondamentalmente segnata dall'assenza. Precisiamo: pre-
senza e assenza non sono, nell'ordine simbolico, due realtà piene dialetticamente inse-
parabili, un po' come il recto e il verso di un foglio di carta; non formano due entità
contabili. Non sono bivalenti, ma formano una sola realtà ambivalente. Allora, il ra-
gionamento che segue non minimizza la radicalità di ciò che abbiamo espresso prece-
dentemente sulla presenza eucaristica del Signore, come se ritirassimo con una mano
quello che abbiamo concesso con l'altra, o come se cercassimo «in definitiva» di mini-
mizzarlo. È il concetto stesso di «presenza» — in ciò che ha di essenzialmente simboli-
co e umano sul piano filosofico e in ciò che ha di essenzialmente pneumatologico (im-
portanza delle epiclesi) ed escatologico sul piano strettamente sacramentario — che
esige l'importante precisazione che abbiamo annunciato.

e) Una presenza nella modalità di Aperto: la frazione del pane

— Presenza e assenza
«Cristo è presente», diciamo continuamente nella liturgia. È presente nell'assem-
blea riunita nel suo nome, nelle Scritture proclamate come sua Parola, nell'eucaristia
fatta in memoria di lui. È presente non come una «cosa» ma nella modalità di dono
della sua vita e di venuta-in-presenza. U adesse di una presenza è di un ordine diverso
dal semplice esse di una cosa bruta. Il concetto di «venuta-in-presenza» segna precisa-
mente l'assenza da cui ogni presenza è costitutivamente bloccata: nulla ci è più vicino
dell'altro nella sua stessa alterità (cf la struttura triadica della persona linguistica); nul-
la ci è più presente di ciò che, per principio, ci sfugge (a cominciare da noi stessi).
Il duplice movimento di processione e di recessione (processione nella recessione stes-
sa) che riconosciamo teologicamente a Dio, e prioritariamente a partire dalla rivela-
zione «paradossale» della gloria di Dio nel volto del Crocifisso, appartiene anche al-
l'uomo: la nostra meditazione sull'Essere heideggeriano, perfino nella sua cancellatu-
ra, ci ha quantomeno permesso di pensarlo.
In questa prospettiva, mantenere l'enunciato della fede «Cristo è presente» nella
sua integralità richiede che la figura dell'assenza che il sacramentum del pane e del
vino sostiene, sia altrettanto presa in considerazione della figura della presenza che

38
Non dimentichiamo che i difensori delle icone, al tempo della dura controversia iconoclasta dell'VIII
secolo in Oriente, mai hanno voluto assimilare l'eucaristia a una icona. Per una duplice ragione: 1) Gli ico-
noclasti dicevano che la sola icona che abbiamo il diritto di venerare è il corpo eucaristico di Cristo (affer-
mazione che essi fondavano sull'anafora di san Basilio, dove il pane e il vino, nell'anamnesi, sono chiamati
gli «antitupa» del corpo e del sangue di Cristo). 2) D'altra parte, l'eucaristia è il corpo del Signore, dato
che la materia del pane è santificata e trasformata dallo Spirito. Diversamente stanno le cose per le icone:
se esse santificano, secondo la tradizione orientale, lo fanno soltanto in ragione della loro partecipazione
relazionale all'ipostasi di Cristo, come precisano san Giovanni Damasceno e Teodoro Studita (C. VON SCHÒN-
BORN, L'Icòne du Chrìst, op. cit,, p. 226). Il II concilio di Nicea, nel 787, tiene conto di questa distinzione.
Nella nostra problematica, per contro, e nel quadro della distinzione concettuale che facciamo tra l'idolo
e l'icona, una problematica iconica dell'eucaristia può essere del tutto pertinente.

277
esso costituisce. Ne va del concetto stesso di «presenza» e, nell'eucaristia, della sua
effettuazione pneumatica e del suo statuto escatologico. L'eucaristia ci appare quindi
come la figura paradigmatica di questa presenza-della-mancanza di Dio, al di fuori
della quale la fede non sarebbe più fede, che ci tiene in piedi, come guardiani notturni,
nella speranza e che ci richiede di vivere nell'amore per dare a Dio questo corpo di
umanità e di mondo di cui ci ha affidato la responsabilità. Se ci teniamo in questa «ma-
tura prossimità alla mancanza» la parola di Dio ci raggiunge come un appello e noi
impariamo a diventare credenti.

— Una presenza inscritta, mai circoscritta


Il «qui» della presenza eucaristica, nella sua materialità empirica significante, ci
rimanda al «qui» debitamente istituito e debitamente iscritto da qualche parte della fe-
de. Ci rimanda al corpo, cioè alle determinazioni storiche, sociali, economiche, cultu-
rali fino a quelle, le più singolari, del nostro desiderio, come al luogo in cui si fa la
verità della nostra fede. Come il linguaggio abita ciascuno solo nell'istituito di una
lingua particolare, come l'universale si apre al soggetto solo mediante Viscrizione di
questi in un corpo particolare, così la Parola di Dio poteva farsi intendere solo me-
diante la sua deposizione in un corpo di tradizioni e di scritture determinato, fino alla
sua presa di corpo ultimo, secondo la fede cristiana, nella singolarità dell'uomo Gesù
di Nazaret. Dio infatti non è in un posto qualsiasi, ma da qualche parte.39
Questo da qualche parte, nella Bibbia, è prioritariamente lo spazio della tavola pro-
piziatoria che, sull'Arca dell'alleanza, è inquadrata dai due Kheroubim con le ali uni-
te. Colui al quale il salmista si rivolge dicendo: «Tu che sei seduto tra i Kheroubim»
ha proprio qui la sua sede, in questo spazio eminentemente inscritto; ma questo spazio
è aperto, il trono è vuoto. È nella modalità di spazio aperto che la Gloria di Dio abita
questo luogo, come è nella modalità di chiaroscuro che Dio, presente nella nube, pre-
sente come nube, aveva accompagnato il suo popolo nel deserto. La presenza divina
è veramente inscritta, ma mai circoscritta.
Per questo i grandi testimoni biblici, quando incontrano Dio, si vedono consegnati ad un
lungo cammino di itineranza. Abramo, che aveva lasciato la sua patria per un'altra terra, deve
esiliarsi da questa terra finalmente raggiunta dopo un'interminabile deviazione e mendicarne
un piccolo pezzo di terreno per seppellirvi la moglie; Mosè non entra nella terra promessa dove
ha condotto il popolo; e questo stesso popolo, una volta installato in Canaan, deve continuamen-
te ricordarsi del tempo della manna nel deserto dìsappropriandosi simbolicamente, con l'offerta
delle primizie, di questa terra che è tuttavia diventata sua... Lo storia dei profeti è anch'essa,
da questo punto di vista, la ripresa fedele di questa storia archetipica di Israele. Poiché Dio è
«lì» con lui, Israele non è condannato all'errabondaggio; ma poiché Dio è «lì» con lui nella mo-
dalità di «nube» o di spazio aperto, Israele si vede aprire a un permanente esodo, quello che
abbiamo chiamato, con R. Girard, l'esodo fuori dal sacrificale. Lo scopo, in definitiva, non
è mai raggiunto, poiché è il fatto stesso di essere in cammino che permette ad Israele di ricono-
scere in verità il «qui» della presenza di Dio. In mancanza di questo, quando Israele si riposa
sulla presenza del suo Dio nel Tempio come su di una garanzia incondizionata di salvezza, la
Gloria di Iahvè abbandona il luogo santo per andare ad abitare altrove (£z 8-11; cf Ger 7).

" Su ciò che segue, sul piano biblico, cf le belle pagine di J. POHIER, QuandjedisDieu, 1977, p. 25-31.

278
— La frazione del pane
Ora, il pane eucaristico come «qui» del Signore glorioso si presenta come una real-
tà chiusa, compatta, senza smagliature. Senza smagliature? Ma questo pane non è for-
se destinato alla più simbolica apertura che ci sia, visto che è presente solo per essere
spezzato: «Il pane che noi spezziamo non è comunione al corpo di Cristo? Poiché c'è
un solo pane, noi siamo tutti un solo corpo perché tutti partecipiamo a quest'unico
pane» (] Cor 10,16-17)? Allora il grande sacramentum della presenza di Cristo non
è il pane come tale nella sua compattezza piena. O meglio, è sì il pane, ma nella sua
essenza stessa di pane-nutrimento, di pane-pasto, di pane-condivisione. Nella frazione
del pane viene manifestata la sua realtà ultima, che ne dispiega l'essenza. Come indi-
cano il «lo spezzò e lo diede» e il «per voi e per molti» del racconto dell'istituzione,
il gesto della frazione del pane è il simbolo per eccellenza dell'ad-esse del Cristo che
offre la sua vita. Il fatto che questo gesto sia a sua volta inquadrato nella liturgia, da
una parte, da quello in cui, in nome di Cristo, ci si scambia la pace gli uni gli altri
e, dall'altra, dal percorso di comunione in cui, in comunione con gli altri, si comunica
al Cristo stesso, è particolarmente espressivo sul piano sacramentale. La frazione del
pane, infatti, unisce simbolicamente allo stesso livello, se così si può dire, le due di-
mensioni di cui ciascuno di questi due gesti mette in risalto un aspetto particolare: quello
della comunione tra i membri (ma «nella carità di Cristo») per il primo; quello della
comunione al Cristo stesso (ma nella carità fraterna) per il secondo. La frazione del
pane, in quanto condivisione tra i membri e per la loro unità dello stesso corpo spezza-
to per tutti, manifesta sacramentalmente l'indissolubile rapporto a Cristo e agli altri
che essa esprime sim-bolicamente.
Allora è proprio dall'interno stesso della frattura che prioritariamente «ciò parla».
Ed è dal vuoto di questa frattura che il «corpo spirituale» — sòma pneumatikon, 1 Cor
15,44; cf Rm 8,11 — che è il Cristo glorioso si fa riconoscere come a Emmaus. Que-
sto vuoto, in quanto per gli altri, è essenziale al sacramentum: aprendo il pane dall'in-
terno, manifesta che la presenza del Cristo ad-viene nella modalità di Aperto. D'altron-
de il fatto che sia essenziale a un tale vuoto l'essere per la condivisione fa capire che,
se va pensato me-ontologicamente, la me-ontologia in questione va catalogata non sot-
to la categoria dell'Essere metafisico, ma sotto quella dell''Altro simbolico, con le sue
mediazioni storiche concrete: quelle del rapporto con gli altri, a cominciare da coloro
che gli uomini hanno ridotto a meno che nulla attraverso un sistema economico che
schiaccia i più poveri e/o attraverso un sistema culturale che ne fa dei «capri espiatori».
«Siate quello che vedete e ricevete ciò che siete»: abbiamo detto quanto questo lin-
guaggio simbolico di Agostino, che chiede ai cristiani di dare a Cristo, con la loro
pratica etica, questo corpo di umanità che la loro recezione del suo corpo eucaristico
implica, ci porti nelle immediate vicinanze del mistero. È proprio il Cristo risorto che
viene ricevuto nella comunione; ma viene ricevuto per quello che è, cioè dono di Dio
stesso, solo se articolato con il suo corpo ecclesiale. Il simbolo richiede la radicale
distinzione dei due; ma richiede anche il loro indissolubile rapporto intrinseco. La res
dell'eucaristia non è forse il Christus totus, Testa e membra?
Va da sé che la frazione del pane dovrebbe normalmente essere messa maggior-
mente in risalto nelle nostre celebrazioni. Il vuoto del pane spezzato appartiene in mo-
do essenziale e non accidentale al sacramentum eucaristico e, di conseguenza, al suo
stesso mistero.

279
Capitolo Undicesimo

L'ISTITUENTE SACRAMENTALE

UNA EFFETTUAZIONE DI IDENTITÀ


Attraverso la posta in gioco dell'affermazione teologica e dogmatica concernente
l'istituzione dei sacramenti da parte di Gesù Cristo, abbiamo mostrato in che senso
si possono riconoscere in essi le più istituite delle mediazioni ecclesiali del rapporto
con Dio. E abbiamo presentato il corpo eucaristico del Signore come la figura simboli-
ca esemplare di questo istituito che sempre ci precede. Ora, è proprio negli atti stessi
in cui si riconosce come radicalmente istituita da Cristo, come esistente solo nel rice-
versi da lui, suo Signore, che la Chiesa perviene alla propria identità. L'istituito sacra-
mentale è la mediazione istituente di questa identità.
Ricordiamo d'altronde che, nella nostra problematica, l'identità non dipende sem-
plicemente dalle determinazioni seconde che, come l'appartenenza a una certa asso-
ciazione socio-culturale o a un certo partito politico, risultano da scelte esistenziali del
soggetto. Essa lo costituisce esistenzialmente; tocca il suo più «reale». Per questo dire
che la Chiesa perviene alla sua identità di Chiesa di Cristo nell'atto in cui fa memoria
di Gesù come suo Signore, in cui lo fa impegnandosi tutta intera nella sua visibilità
di corpo istituzionale e tradizionale, significa dire che essa è in atto di portare a com-
pimento la sua stessa essenza. E questa non è altra cosa, prioritariamente, che la sua
comunione al Padre mediante il Cristo nello Spirito. I sacramenti sono istituenti della
Chiesa perché effettuano questo rapporto di comunione: comunione nella dipendenza
che, dal punto di vista simbolico, visto che si tratta di una dipendenza d'origine rico-
nosciuta come un dono, è la condizione stessa della sua libertà (cf lo schema simbolico
della comunicazione o anche quello della filiazione). Ora dunque dobbiamo pensare
teologicamente i sacramenti come evento di grazia.

I. LA DUPLICE IMPASSE DELLA SACRAMENTARIA

1. L'impasse «oggettivista»
Questa prima impasse' è rappresentata dal modello onto-teologico di cui abbiamo
effettuato la «decostruzione» critica lungo tutta la nostra prima parte, modello che si

1
Parlare di impasse significa necessariamente operare un atto di giudizio storicamente e culturalmente
situato. Questa relatività ci ricorda che la teologia scolastica, che qui consideriamo globalmente, a causa

280
è veicolato nelle mentalità e vi domina ancora abbastanza diffusamente con il catechi-
smo imparato, fino negli anni '60, durante l'infanzia.
Questo modello è stato presentato nella nostra prima parte in modo abbastanza ca-
pillare da autorizzarci a ricordarne ora soltanto gli elementi dominanti.
Un primo elemento del modello «oggettivista» scaturisce dalla sua rappresentazione del rap-
porto tra Chiesa, Regno e Mondo. La Chiesa vi si pensa come attualmente o potenzialmente
coestensiva al Mondo, al punto che all'epoca cosiddetta di «cristianità», per essere pienamente
del Mondo, bisognava essere pienamente di Chiesa. Grazie all'istituzione Chiesa, il Mondo è
aperto sull'aldilà del Regno. Ed è proprio alla frontiera tra il Mondo e il Regno, a un tempo
nel Mondo ma anche in qualche modo al di sopra di esso, che si colloca il dispositivo essenziale
della Chiesa, cioè il clero e i sacramenti. Il passaggio tra Mondo e Regno si effettua prima di
tutto attraverso di essi, come attraverso dei canali, o imboccature di strettoie.
Si capisce che l'insistenza, nei sacramenti, questi «segni sensibili istituiti da nostro Signore
Gesù Cristo», verta sulla loro capacità di assicurare un simile passaggio. La loro capacità di
«significare» è relativamente poco considerata. L'attenzione viene fissata sulla loro finalità di
produzione o di aumento della grazia («per produrre o aumentare la grazia»). Di qui l'insistenza
massiccia sulla loro efficacia oggettiva. Le immagini classiche sono quelle dello strumento —
con il rischio di favorire una rappresentazione della grazia come un «prodotto», per quanto «spi-
rituale» —, del rimedio — con il rischio di lasciar intendere una sorta di efficacia automatica
che assicurerebbe la salute dell'anima come una medicina procura quella del corpo — e del ca-
nale — con il rischio di evocare il passaggio attraverso i sacramenti come una necessità per la
salvezza: che un prete o anche un laico qualsiasi si trovi «provvidenzialmente» presente appena
prima che il neonato non ancora battezzato muoia, ed eccolo salvato dal battesimo; dannato —
certo, di una damnatio mitissima, precisava Agostino — o votato al «limbo» nel caso contrario.
Certo, queste immagini erano ampiamente affinate dall'analogia, l'abbiamo detto. Alcuni
studi storici hanno mostrato che esse si sono comunque imposte massicciamente nelle mentalità
e che sono state agevolmente utilizzate, senza che questo sia stato necessariamente oggetto di
un calcolo machiavellico, da tutta una «pastorale della paura», secondo l'espressione di J. Delu-
meau.2 Questo insieme di immagini favorisce delle rappresentazioni fortemente individualiste
dei sacramenti, sia da parte del soggetto recettore al quale conferiscono la «salvezza», sia da
parte dell'agente sacerdotale definito essenzialmente dai poteri indelebili che ha ricevuto grazie
alla sua ordinazione.
L'insistenza sull'oggettività va a detrimento dell'assunzione del soggetto concreto. Certo,
gli viene richiesta la pietà e la retta intenzione perché il sacramento possa essere ricevuto in
modo veramente fruttuoso. Ma questo appartiene solo al bene esse di quest'ultimo e non al suo
esse. È in ogni caso difficile non considerare come significativo il fatto che nelle sedici lezioni
sui sacramenti del Catéchisme à t'usage des diocèses de France del 1947, il termine «fede» non

della sua perfetta coerenza con l'insieme della cultura e soprattutto delle rappresentazioni religiose dell'epo-
ca, non aveva nulla in sé che ci permetta oggi, dall'esterno e a partire da un altro universo culturale, di
qualificarla come «erronea» e nemmeno «meno buona» di quella che presentiamo noi. Parlare di «impasse»
a suo proposito non è altro dunque che formulare su di essa un giudizio di alterità nella misura in cui, ali-
mentata a tutti i livelli (economico, sociale, culturale) da una comprensione del mondo, della storia, di Dio
altra rispetto a quella che ci abita e che ci «parla», essa non ci sembra più «trasponibile» nella nostra cultura.
Non lo è più perché, in definitiva, l'«età» in cui attualmente si trova l'Occidente (cf Heidegger) ci costringe
a criticare i suoi impensati presupposti metafisici. È a questo livello, molto fondamentale, che essa sembra,
a noi, essere una impasse.
2
J. DELUMEAU, Le Péchéet lapeur. La culpabilisation en Occident, XIH-XVIIIsiècles, Fayard, 1983,
soprattutto i cap. 8 e 9 (trad. ital.: Il peccato e la paura, Il Mulino, Bologna 1987).

281
compaia quasi mai, non più di quello di «Chiesa».3 Dal punto di vista della natura del sacramen-
to, l'assunzione del soggetto è ridotta alla semplice conditio sìne qua non di non mettere ostacoli
(l'obex del peccato mortale o di una pena canonica) alla recezione della grazia che discende
attraverso il canale sacramentale. Il sacramento viene quindi trattato fin dall'inizio come uno
strumento disponibile, come un «ob-getto» che Dio ha «posto davanti» (ob-jacere) ali'uomo-
soggetto per «produrre» le grazie di cui questi ha bisogno.

Abbiamo lungamente spiegato perché questo schema produzionista, con la dicoto-


mia soggetto-oggetto che l'accompagna, non ci sembri più sostenibile e perché, di con-
seguenza, dobbiamo pensare i sacramenti non come degli intermediari tra Dio e l'uo-
mo, ma come delle mediazioni «espressive» della Chiesa e del credente, al modo e
in seno al linguaggio. Fino a che ci si rappresenta la loro efficacia nella modalità della
causalità metafisica, possono essere salvati solo a detrimento dell 'impegno dell 'uomo
in essi. La storia della sacramentaria lo dimostra: si è sempre diffidato di questa assun-
zione dell'umano nella loro essenza stessa, tant'è vero che i due sacramenti in cui la
«quasi-materia» è l'uomo (penitenza e matrimonio) sono quelli che hanno dato più filo
da torcere ai teologi. Certo, non si dimentica mai che i sacramenti sono per la Chiesa
e i credenti, né che la fede personale è la misura della recezione fruttuosa della grazia
che viene sempre offerta. Ma è solo a titolo dei loro effetti, e non a quello della loro
natura che essi richiedono questa presa in conto dei soggetti credenti.
Questa teologia classica dei sacramenti, ritiene a giusto titolo A. Vergote, «spin-
gendo all'estremo il teocentrismo verticale, ha privato il rito dei suoi significati pro-
priamente umani e ha preparato una ripresa antropologica del rito chiusa alla sua intel-
ligenza teologica».4 Di fatto, gli ultimi decenni hanno visto la comparsa di una viva
reazione contro la quasi-espulsione dell'uomo concreto fuori dai sacramenti. Reazione
tanto più vigorosa quanto più la «mutazione culturale» era meno padroneggiata e meno
sicura di se stessa e, d'altra parte, quanto più il coperchio della marmitta in cui bolliva
questa nuova cultura era chiuso bene: fu una vera e propria esplosione. Evidentemente
non senza danni.
Questo movimento critico era alimentato da una richiesta tanto profonda quanto
legittima: reintrodurre l'uomo concreto nelle celebrazioni liturgiche e nel discorso sa-
cramentario. Ma la congiuntura era tale da rendere facile la caduta da Scilla a Cariddi.
Di fatto ci si è talvolta intrappolati in una nuova impasse, contraria a quella preceden-
te. Tuttavia, prima che alcune correnti arrivassero fino a questo punto, il concilio Va-
ticano II aveva proposto una strada che chiameremo «media». La esamineremo rapida-
mente prima di passare all'impasse «soggettivista».

1
Catéckisme à l'usage des diocèses de France (1947), op. cit. Con due eccezioni, però, anche se non
hanno significato rispetto all'intelligenza della natura dei sacramenti: q. 194: «Colui che riceve il battesimo
si impegna a credere in Gesù Cristo e a praticare i suoi comandamenti, a rinunciare al demonio e al pecca-
to»; q. 228: «Prima di comunicarmi, devo parlare a Nostro Signore facendo degli atti di fede, di contrizione,
di amore e di desiderio». Quanto alla Chiesa, essa è menzionata solo a proposito del battesimo che ci fa
«figli di Dio e della Chiesa» (q. 187).
4
A. VERGOTE, Interprétatìon du langage religieux, op. cit., p. 201.

282
2. La via media del Vaticano II

Prenderemo in considerazione, in questo rapido abbozzo, solo alcuni degli elementi


caratteristici del modello del Vaticano II, quelli che forniscono dei correttivi diretti
agli elementi messi in luce nel modello precedente. Non ci fermeremo quindi su aspet-
ti tanto importanti come il ritorno alle fonti bibliche della liturgia e della sacramenta-
ria, la riscoperta del «memoriale», la rivalutazione della pneumatologia soprattutto at-
traverso le epiclesi, la riemergenza teologica della Chiesa locale, ecc. Questi elementi
sono comunque presenti alla nostra riflessione; ne costituiscono anzi lo sfondo, senza
il quale ciò che segue non avrebbe potuto vedere la luce.

Come abbiamo fatto prima, partiremo dalla rappresentazione del rapporto tra Chiesa, Regno
e Mondo. Vengono qui effettuati degli spostamenti considerevoli: con un miliardo di Cinesi non
cristiani — per prendere solo questo esempio — la Chiesa non può più considerarsi, nemmeno
relativamente, come coestensiva al Mondo. Di qui la valorizzazione della categoria teologica
di Regno. Più ampio della Chiesa (che supera da ogni parte), il Regno ricorda che è impossibile
assegnare delle frontiere allo Spirito. Il Vaticano II è molto chiaro su questo punto: «Lo Spirito
Santo offre a tutti, in un modo che Dio conosce, la possibilità di essere associati al mistero pa-
squale», cosicché la grazia può agire «invisibilmente» nel cuore di «tutti gli uomini di buona
volontà».5 La Chiesa non è dunque chiusa su se stessa, come una fortezza per «salvati»; può
capirsi solo in osmosi con il Mondo di cui fa parte e con il Regno che, come il granello di sena-
pa, cresce lentamente in questo Mondo o che, come il lievito, lavora invisibilmente la pasta
umana. Non è lei il regno; ma ne è, nel e per il Mondo, il «sacramento», cioè il «segno» e insie-
me «il germe e l'inizio sulla terra».6 In quanto sacramento del Regno, essa ha dei criteri di iden-
tità, dei segni che le sono propri: Scritture, confessione di fede, sacramenti, per prendere solo
i più tipici. Essere cristiani richiede che vengano fatti propri, almeno oggettivamente, questi
segni. Se in questo modo si può essere salvati senza appartenere alla Chiesa, in compenso non
ci si può dire di Chiesa o cristiani senza essere differenziati dai non-cristiani da questi segni,
a cominciare dal battesimo. Al detto: «Fuori dalla Chiesa non c'è salvezza» si è così sostituito
il detto: «Fuori dalla Chiesa non c'è salvezza riconosciuta» (Mons. R. Coffy).
Criteri principali di una Chiesa che, in una congiuntura di deflagrazione culturale e di esplo-
sione demografica, ha più che mai bisogno di manifestare la sua identità propria, i sacramenti
vedono valorizzata la loro natura di segni. Questa valorizzazione è d'altronde richiesta da tutto
il movimento culturale che rivendica la reintroduzione dell'uomo concreto in essi. Nell'orbita
del Vaticano II, è in ogni caso molto chiaro che la loro funzione di «mezzo», senza essere misco-
nosciuta, è subordinata alla loro qualità significante.
Contro ciò che si riteneva derivare, secondo un gergo teologico-pastorale molto approssima-
tivo, da una teologia classica troppo «cosificante», «puntualista» e «individualista», si centra l'at-
tenzione sulla verità «parlante» dei segni liturgici (materiali, linguaggio) e del modo di celebra-
re, sull'assunzione del vissuto umano, sulla «sacramentalità diffusa» dell'esistenza umana nella
fede, sulla dimensione prioritariamente ecclesiale dei sacramenti. Si sottolinea così che il sacra-
mento della riconciliazione è già cominciato dal momento in cui si va a trovare il fratello per
riconciliarsi con lui, che l'eucaristia non può essere scissa dalla «sacramentalità» (in senso am-
pio) della condivisione concreta con i più poveri, ecc. E, sul piano ecclesiale, si chiede con
vigore: la comunità concreta è il segno vivente di ciò che essa celebra? Se non è riconciliatrice
nel mondo, non è in contraddizione con il sacramento della riconciliazione che essa celebra in
mezzo al mondo? Se non si assume il carico degli immigrati, cosa significa l'accoglienza in

' Gaudium et spes, 22, § 5; cf Lumen gentiwn, 16.


6
Lumen gentium, 5.

283
essa di immigrati mediante il battesimo? Eccetera. I sacramenti sono la proclamazione della Chiesa:
essi dicono al mondo ciò che essa è e ciò che è chiamata a diventare; essi la contestano nel mo-
mento in cui la attestano.
Questo tipo di interrogativi non è esente da rischi (lo vedremo subito) ma ha introdotto uno
slancio dinamico considerevole alla pastorale (almeno in Francia) da venti a trent'anni a questa
parte (e forse, in alcuni casi, anche da molto prima). E questo è bene. Simultaneamente, e in
collegamento da una parte con il ritorno alle fonti bibliche, e dall'altra con il riequilibrio del
principio cristologia) da parte del principio pneumatologico, soprattutto in ecclesiologia e in
sacramentaria, si rimette in risalto, contro l'onnipotenza del clero e l'inflazione dei «poteri sa-
cerdotali», il ruolo di tutta l'Ecclesia come «soggetto attivo della liturgia» (Y. Congar) a titolo
del suo «sacerdozio battesimale».
Via intermedia, il Vaticano II propone quindi un correttivo importante al modello
«oggettivista» anteriore. Quest'ultimo può essere rappresentato secondo uno schema
lineare molto semplice, in cui i sacramenti sono interposti tra Dio e l'uomo:

Il circuito esterno mostra: a) che Dio non è legato ai sacramenti (né alla Chiesa
come tale) per salvare gli uomini, e che quindi il Regno è più grande della Chiesa;
b) che i sacramenti sono dei «culmini» della vita cristiana, delle espressioni rivelatrici
dell'azione della grazia di Dio nella vita degli uomini; e) che sono degli atti di ricono-
scenza dell'uomo verso Dio, aspetto che la scolastica non ignorava, ma che, per le
ragioni indicate, non prese in considerazione nei suoi trattati dei sacramenti (supra,
cap. I).
Il circuito interno del nostro schema 2 manifesta, da parte sua, che: a') Dio è il
soggetto-operatore dei sacramenti; b') questi sono delle «fonti» della vita cristiana de-
gli uomini, vita in cui devono veri-ficarsi; e') questa vita quotidiana diventa quindi
una «liturgia» che rende gloria a Dio.
Tutto il problema, lasciato aperto dal Vaticano II, teso tra due correnti teologiche
che non sempre è riuscito ad armonizzare — quella, più tradizionale, di tipo scolastico
e tridentino, che privilegia i sacramenti come «mezzi», e quella, più nuova, che insiste
sulla loro funzione di segni espressivi — sta nel conciliare il duplice senso di rotazione
del circuito. Si rimane, su questo piano, alla coppia eterogena di «segno» e di «causa»,
ma con una accentuazione nuova del primo termine. Il presente capitolo tende appunto
a cercare di mettere in luce una strada che permetta di pensare i sacramenti simulta-
neamente come «rivelatori» e «operatori».

284
3. L'impasse «soggettivista»

La trasgressione di questa via intermedia era una tentazione, per le ragioni cultura-
li ricordate prima. Il «teocentrismo verticale» (A. Vergote), che la teologia aveva spin-
to fino all'estremo, ha condotto questa stessa teologia, per reazione, a una ripresa an-
tropologica dei riti che si è rivelata più o meno riduttiva teologicamente. Il modello
«soggettivista» è anch'esso legato a una certa rappresentazione del rapporto tra la Chiesa,
il Regno e il Mondo. Questo modello ha conosciuto delle espressioni molto varie, ad-
dirittura contraddittorie. La qualifica di «soggettivista» che gli applichiamo deve esse-
re presa sia da parte del soggetto-gruppo che da parte del soggetto-individuo. Il punto
comune principale ai vari movimenti che ci sembrano compresi in questo modello è
la reazione contro la Chiesa-istituzione intesa come «sacramento» di Gesù Cristo. Pos-
siamo evidenziarne due grandi tipi, usciti da punti di partenza diversi, se non opposti.
Il primo, transconfessionale all'interno del cristianesimo, ma abbastanza facile da re-
perire all'interno dello stesso mondo cattolico, parte «dal basso», cioè da una rivendi-
cazione antropologica di reintroduzione del vissuto umano nei sacramenti. Il secondo,
al quale assoceremo soprattutto il nome di K. Barth, parte invece da una teologia pre-
cisa «dall'alto»: quella della rivendicazione di Dio sull'uomo, rivendicazione così tra-
scendente e libera da non poter mai essere mediata dall'azione umana, neanche da quella
della Chiesa nei sacramenti.

a) Prima corrente: il punto di partenza «dal basso»


La reazione contro la Chiesa-istituzione può assumere una forma di tipo estremista: si rias-
sorbe la Chiesa nel Regno. La sincerità tende a diventare il criterio della verità; la generosità
o l'ortoprassi diventa il criterio dell'ortodossia. Si battezza frettolosamente come cristiano ogni
uomo di buona volontà oppure ogni buona azione. Il riferimento allo Spirito Santo che agisce
in ogni uomo e che supera l'istituzione Chiesa, al punto che si oppongono «carisma» e «istituzio-
ne», serve come argomentazione tanto più comoda quanto più i criteri di discernimento sono
indefiniti. I criteri di appartenenza alla Chiesa sono quindi cancellati a vantaggio di un Regno
di Dio reso presente dappertutto dallo Spirito. Abbiamo qui a che fare con una nuova versione
di uno gnosticismo continuamente rinascente.
Un'altra forma di questa corrente, molto meno estremista, ci interessa di più. Ci si colloca
grosso modo nella scia del Vaticano II, e in particolare si riconosce l'importanza di criteri di
Chiesa. Ma invece di accettarli dalla Tradizione vivente, salvo poi smascherarne criticamente
le trappole, il gruppo tende a darsi da se'i suoi personali criteri di «valore» di Chiesa. Concreta-
mente, oggi, in questo tipo di atteggiamento, si riscontrano tutte le sfumature. Ciò che è incri-
minato, è la trappola in cui sembrano cadere certi gruppi che pretendono di giudicare la verità
dell'appartenenza alla Chiesa a partire da una ideologia particolare: si tende allora a rinchiudere
la Chiesa nelle proprie griglie di analisi, il che porta spesso ad un atteggiamento di scomunica
(pratica, se non teorica) verso la Chiesa della moltitudine o la religione cosiddetta «sociologi-
ca». Gli interrogativi, indovinati dal punto di vista pastorale, ai quali il Vaticano II ha aperto
la strada, rischiano allora di essere spinti fino all'estremo secondo una logica unilaterale. Sul
piano ecclesiologico, a forza di voler spingere sempre di più le comunità cristiane ad essere
i segni viventi di ciò che esse celebrano, si sfocia su di un elitarismo che dimentica la condizione
escatologica della Chiesa e la frase di Gesù: «Sono venuto a chiamare non i giusti ma i peccato-
ri». Sul piano dell'antropologia cristiana, a forza di voler celebrare ciò che appare «cristiano»
soltanto secondo i criteri di giudizio che ci si è dati, a forza anche di voler «celebrare il vissuto»,
si finisce con il poter celebrare soltanto se si è «validamente» vissuto (secondo i criteri del gruppo,

285
naturalmente) e si cade in una sorta di neo-pelagianesimo. Sul piano pastorale, infine, le esigen-
ze di ammissione ai sacramenti possono essere tali da sfociare in un rigorismo di tipo «malthu-
siano», vigorosamente selettivo.
Certo, non ci si può che augurare che i sacramenti siano celebrati e vissuti come espressioni
autenticamente significative del «vissuto»; e non ci si può che rallegrare di una pastorale che
cerca di interpellare la comunità nel suo dire, nel suo apparire e nel suo fare, a partire da essi.
Non contestiamo affatto, perciò, la legittimità e l'urgenza di una pastorale che ingiungano alle
comunità di conformare le loro azioni, le loro scelte prioritarie e la loro organizzazione alla
Parola che esse annunciano simbolicamente nei sacramenti. E i frutti ci sembrano anche notevo-
li. Ma se l'esigenza di diventare ciò che si celebra viene spinta troppo al livello della coscienza,
dell'intenzione, della verifica nell'azione, si rischia di sprofondare in una esacerbazione della
soggettività che finisce per portare alla rovina la sacramentalità che si vuole invece salvare.

In altre parole, si tende a dimenticare che il circuito tra Dio, gli uomini e i sacra-
menti funziona nei due sensi. Del nostro schema n. 2 si considera solo il circuito ester-
no, spinti come si è a sottolineare la dimensione sacramentale di «celebrazione del vis-
suto», o più precisamente di «celebrazione di Gesù Cristo nel vissuto». I sacramenti
sono colti troppo unilateralmente come atti di riconoscimento di ciò che Dio ha fatto
e di riconoscenza per ciò che ha fatto nella «vita». Tanto si mette dunque in rilievo
la loro dimensione di «culmine», tanto ci si mostra sospettosi nei confronti di quella
di «fonte»: proprio quella che veniva essenzialmente assunta nel modello «oggettivi-
sta». La tendenza (vissuta in modo molto diverso secondo i gruppi o gli individui) è
ài portare l'impasse sulla loro dimensione di efficacia (o sulla loro funzione di opera-
tori), o di respingere tutto questo con il pretesto della «magia». Questa tendenza è coe-
rente con quella, segnalata prima, di darsi i propri criteri di Chiesa (criteri molto ideo-
logici, dietro l'alibi di «Vangelo»): si celebra l'azione di Gesù Cristo nella «vita», ma
ci si è dati i criteri di discernimento di questa azione.
Sembra imporsi qui una duplice critica. Prima di tutto al livello strettamente teolo-
gico: quale criterio permette, da una parte, di affermare, nella fede, l'azione di Cristo
o dello Spirito nel vissuto — e quindi di confessarne la dimensione di «sacramentalità»
— e, dall'altra parte, di non riconoscere simultaneamente, e afortiorì (salvo natural-
mente rimanere critici) questa azione nell'atto sacramentale in cui la Chiesa si impe-
gna tutta intera? Non c'è, quantomeno, un'incoerenza? Non si può obiettare che si
sostituisce alla «magia» rituale che si vuol denunciare un'altra forma di «magia», in-
dubbiamente più sottile ma non meno pericolosa: quella di un discorso totalitario che
impone un po' dappertutto una lettura «sacramentale» del vissuto? E se si arriva a spie-
gare in che cosa questa lettura non è necessariamente «magica», bisogna allora conce-
dere che non lo è neppure la comprensione dei sacramenti come operatori di comuni-
cazione con Dio. In breve, ci si può interrogare teologicamente sulla consistenza di
ciò che si battezza come «già fatto» da Dio nella vita quando si intendono ormai i sa-
cramenti solo come la celebrazione di questo «già fatto».
A livello filosofico, poi, si sostituisce un «soggettivismo esistenziale» all'«oggetti-
vismo essenzialista» del modello che si combatte. Ma in questo modo si sostituisce
al precedente un nuovo «nocciolo duro», acciecati come si è dall'idea che il soggetto
potrebbe essere in possesso immediato del suo vissuto e che potrebbe quindi «espri-
merne» all'esterno il contenuto interiore preliminare senza che questa «espressione»
lo colpisca in qualche cosa. Secondo l'adagio scolastico, «i contrari sono dello stesso

286
genere». Questo modello, contrario a quello che si vuole denunciare, si muove infatti
sullo stesso terreno metafisico del primo. Lì dove il primo era alimentato dallo schema
della «produzione», questo è alimentato dallo schema della «traduzione»: invece di es-
sere considerati come strumenti di produzione della grazia da ottenere, i sacramenti
vengono considerati come strumenti di traduzione della grazia già data. Essi rimango-
no sempre degli strumenti attraverso i quali il soggetto-substrato (sub-iectum) pone
davanti a sé (ob-iectum) le sue esperienze soggettive per «esprimerle». Si misconosce
qui totalmente la natura della mediazione espressiva di cui abbiamo parlato, e su cui
torneremo più avanti.

b) Seconda corrente: il punto di partenza «dall'alto» (K. Barth)


Può destare sorpresa il vedere menzionato qui questo grande teologo della Chiesa
riformata. Il suo punto di partenza non è forse completamente opposto a quello che
abbiamo appena ricordato? È stata infatti una sensibilità molto viva alla trascendenza
assoluta di Dio — soli Deo gloria — e all'efficacia sovrana della sua libera parola che
ha condotto K. Barth a reagire contro la concezione tradizionale dei sacramenti, lì do-
ve la corrente precedente reagiva in nome della reintegrazione dell'esperienza umana
nella pratica e nella teologia dei sacramenti. Quest'ultima parte dal basso, mentre Barth
parte dall'alto, se così si può dire. Nei due casi, tuttavia, si cancella la dimensione
propriamente istituente dei sacramenti, cioè la loro natura di eventi di grazia, per rea-
zione contro una concezione tradizionale che si ritiene sfociare nella «magia». Questa
cancellazione, tuttavia, conosce parecchie sfumature, a seconda dei gruppi o delle per-
sone, nella corrente «dal basso»; è molto netta, invece, in Barth.
Nella sua qualità di fedele erede di Calvino, Barth prova una vera e propria ossessione nei
confronti di tutto ciò che potrebbe avere anche solo un vago odore di «sinergismo», cioè di ogni
teologia dell'«e» che presupporrebbe o sfocerebbe in una collusione tra l'azione di Dio e l'azio-
ne dell'uomo. Una simile collusione sinergetica rappresenta per lui la bestemmia per eccellenza
perché, presupponendo che la giustificazione viene in parte da Dio e in parte dall'uomo, nega
la assoluta gratuità della salvezza. Ora, nella sua opera sulla «giustificazione» in K. Barth, H.
Kiing ha mostrato che «Barth ha inteso male il cooperari del concilio di Trento»: questo coope-
rali non ha nulla del sinergismo che Barth vi vuole vedere, poiché la partecipazione dell'uomo
viene anch'essa da Dio. «Dio fa tutto, ma dal fatto che faccia tutto non ne consegue che lo faccia
da solo; al contrario».
Si potrebbe dire che, nella scia di san Bernardo,7 il decreto sulla giustificazione del concilio
di Trento non solo ha respinto l'idea che questa sia ex nobis, ma anche che sia nobiscum, nel
senso sinergetico dipartirli... partim; ma, così facendo, ha voluto sottolineare nello stesso tem-
po che essa richiede di essere data non sine nobis. Poiché quello che deve essere salvato è il
libero arbitrio stesso, la grazia giustificante è data interamente in ilio; poiché il principio di que-
sta salvezza si trova interamente nella grazia, esso proviene interamente ex illa. Nella giustifica-
zione, l'assentimento della fede è dunque simultaneamente tutto e nulla. Tutto perché questo

' H. K O N O , La Justification: la dottrine de Karl Barth. Réflexion catholique, DDB, 1965, pp. 310-313
(trad. ital.: La giustificazione, Queriniana, Brescia 1969); S. BERNARDO, De gratia et libero arbitrio I, 2
e XIV, 46-47: «A Deo ergo sine dubio nostrae fit salutis exordium, nec per nos utique, nec nobiscum. Ve-
runi consensus et opus, etsi non ex nobis, non iam tamen sine nobis [...]. Non partim gratia, partim liberum
arbitrium, sed totum singula opere individuo peragunt: totum quidem hoc, et totum illa, sed ut totum in
ilio, sic totum ex illa».

287
assentimento è richiesto come condizione sine qua non della giustificazione soggettiva. Nulla
nel senso che questa condizione non è una «causa» della giustificazione: la fede non è un'«opera»
che la meriti.8
«Se ciò che lei sviluppa nella sua seconda parte come dottrina della Chiesa cattolica romana
è effettivamente la dottrina di questa, allora devo ammettere che la mia dottrina sulla giustifica-
zione concorda con essa», scrive Barth nella sua elogiativa prefazione alla tesi di Kung. Che
lo stesso Barth tuttavia si mostri «assolutamente» sorpreso9 di fronte a questo accordo della dot-
trina cattolica romana con la sua fa riflettere. Se infatti si può pensare a ragione, con H. Bouil-
lard, che il disaccordo «è certamente molto minore di quello che Barth ha creduto leggendo le
definizioni del Concilio di Trento», in compenso si può «esitare», prosegue lo stesso autore,
«nel dire che esiste una concordanza di fondo tra la dottrina barthiana della giustificazione e
la dottrina cattolica».10 Si rimane infatti ancora più perplessi su questo punto se si pensa che
nell'ultimo volume della Kirchliche Dogmatik, non ancora redatto nel 1957, data della lettera-
prefazione ricordata prima, la dottrina del battesimo esprime un approccio del sacramento com-
pletamente diverso da quello sviluppato nella Chiesa cattolica romana, e addirittura opposto ad
essa e, come riconosce esplicitamente Barth, alla tradizione. Ora, tutto l'essenziale si gioca qui
sulla concezione del rapporto tra Dio e l'uomo nella salvezza, il che costituisce il cuore stesso
della dottrina della giustificazione.

Dopo aver presentato, nella prima parte della sua opera, il battesimo di Spirito («l'a-
zione di Dio»), K. Barth presenta nella seconda parte il battesimo di acqua («l'azione
dell'uomo»). La sua «ragion d'essere» (pp. 53-71) non sta altrove se non nel comanda-
mento di Gesù Cristo: «Esso è un atto di libera obbedienza all'ordine di Gesù Cristo,
una pressante sollecitazione a riconoscere il retto fondamento e il carattere obbligato-
rio di questo ordine». Quanto al suo «scopo» (pp. 71-105), esso è «un movimento ver-
so Gesù Cristo, in conformità al suo ordine».11 Più interessanti per il nostro intento
sono le pagine dedicate a ciò che l'autore chiama il «senso» del battesimo di acqua
(pp. 106ss). Significa causargli «un grave pregiudizio» cercarne la santità in una «effi-
cacia divina che gli sarebbe immanente» cioè «in un'opera e in una parola di Dio che
diventano evento in virtù di ciò che degli uomini vogliono e fanno quando battezzano
o sono battezzati». Perché allora «non si sfugge al seguente dilemma»: «o» la volontà
e l'azione degli uomini vi sono «completamente dominate» da quelle di Dio «che sono
loro immanenti», nel qual caso «il battesimo dello Spirito integra a sé il battesimo di
acqua e lo rende in ultima analisi superfluo»; «oppure» questa volontà e azione degli
uomini vi diventano e vi sono «come tali» quelle di Dio stesso, nel qual caso «è il batte-
simo di acqua che integra a sé il battesimo dello Spirito e lo rende superfluo». Di con-
seguenza, in entrambi i casi «il battesimo cristiano si trova "docetizzato"» (p. 106).
La posizione di un simile dilemma appartiene, ci sembra, a uno schema di rappre-
sentazione tipicamente sinergetico. Contro iìpartim... partim di un «e Dio... e l'uo-
mo», le cui azioni sarebbero addizionabili, Barth arriva al dilemma: «o Dio... o l'uo-
mo». Si rovescia qui la posizione dello schema sinergetico, ma rimanendo prigionieri
nella modalità della concorrenza o dell'esclusione dei due termini. Barth si rivela qui

1
TRENTO, Decreto sulla giustificazione (1547), cap. 8, DS 1532.
' H . KUNG, op. cit., p. 12.
10
H. BOUILLARD, Karl Barth, t. 2, Aubier-Montaigne, 1957, p. 123; cf pp. 77-78, n. 6.
" K. BARTH, Dogmatique IV, 4: Le Fondement de la vie chrétienne (1 a parte: «D battesimo di Spirito»;
2" parte: «Il battesimo di acqua»). Citiamo secondo l'edizione francese di Labor et Fides, Genève 1969,
p. 105. Le referenze che nel testo seguono rimandano a questa edizione.

288
ultimamente in disaccordo con la «dottrina cattolica romana della giustificazione» che
respinge anch'essa, ma in modo diverso, il sinergismo, oppure la sua presentazione
del battesimo di acqua è essa stessa, per varie ragioni che andrebbero individuate, non
conforme all'accordo che egli ha creduto di poter riconoscere tra la sua dottrina della
giustificazione e quella di Trento? Resta il fatto che l'opposizione è molto netta a pro-
posito del battesimo; e, come abbiamo mostrato, la presentazione che egli fa di que-
st'ultimo è direttamente tributaria di una dottrina della giustificazione.
Opposizione radicale, infatti, secondo la stessa confessione dell'autore: «Bisogna
dire un no categorico» alla sacramentalità del battesimo, così come era riconosciuta
tradizionalmente. «Esso non è in se stesso né un mistero né un sacramento. È chiaro
che noi ci opponiamo per principio e ab ovo ad una antichissima e fortissima tradizio-
ne ecclesiastica e teologica, come pure a tutte le sue varianti» (pp. 106-107). Infatti,
per quanto antica e forte essa sia, una simile tradizione non corrisponde ai testi del
Nuovo Testamento relativi al battesimo. Dopo aver esaminato questi testi alle pagine
115-132,' 2 l'autore infatti conclude: «In breve, presi sul serio, tutti questi testi sem-
brano in ogni caso indicare che l'atto del battesimo ha un senso completamente diver-
so dal senso sacramentale (...). È estremamente verosimile che secondo il Nuovo Te-
stamento l'atto battesimale non vada affatto inteso come un'opera e una parola della
grazia purificante e rinnovatrice dell'uomo; in altre parole, non bisogna vedervi un
"mistero" o un "sacramento", nel senso della tradizione teologica che è diventata
predominante». Il suo «senso» va dunque ricercato «nel suo carattere di azione pura-
mente umana che risponde al fare e al dire di Dio» (p. 133).
La posizione presenta almeno il vantaggio di essere perfettamente chiara: «Il batte-
simo non compie nulla: esso non fa che riconoscere e proclamare la crisi provocata
da Dio stesso». Esso la «attesta». «Esso è, in rapporto a Gesù Cristo, l'atto umano
di obbedienza che consiste nell'osare riflettere l'atto di giudizio di Dio, che è come
tale il suo atto di riconciliazione. Non appartiene dunque a una decisione arbitraria.
Certo, è un'azione umana, libera e responsabile, ma proprio a questo titolo esso segue
soltanto la giustificazione e la santificazione compiute e rivelate da Dio in Gesù Cri-
sto, cioè la purificazione e il rinnovamento dell'uomo peccatore» (pp. 165-166).
Nella scia di Calvino, ma ancora più radicalmente di quanto avvenisse nel Rifor-
matore di Ginevra, la sacramentaria di Barth si dispiega sull'unico registro della cono-
scenza o della riconoscenza. Il suo risonante Neìn! del 1943 alla pratica del battesimo
dei bambini è evidentemente perfettamente coerente con questa posizione di princi-
pio.13 Il battesimo non è affatto operatore della grazia; esso è solo il rivelatore del
già-qui della grazia concessa da Dio nel «battesimo dello Spirito». Delle due dimen-
sioni della sacramentaria di Tommaso d'Aquino, la dimensione «ascendente» di culto
che esprime la riconoscenza dell'uomo verso Dio attraverso Gesù Cristo (dimensione
sfortunatamente non sfruttata come tale nel Trattato dei sacramenti), e la dimensione
«discendente» di strumento (subordinato a Dio, chiaramente) di trasmissione della gra-
zia divina, Barth conserva solo la prima, arrivando così a quella che si può chiamare,

12
Sono soprattutto: At 22,16; Eb 10,22; £/5,25s; Tt 3,5; Gal 3,27; Rm 6,3ss; Col 2,12; Gv 3,5; Me
16,16; / Gv 5,5-8; Gv 19,32-37.
13
K. BARTH, «La doctrine ecclésiastique du baptème», in Fox et Vie 47, 1949, pp. 1-50. Lo stesso in
Dogm. TV, 4.

289
rispetto alla tradizione, una «non-sacramentaria». Preciseremo nell'ultima parte del
nostro lavoro in cosa questa non-sacramentaria sia, non tanto necessitata dal presup-
posto transtrinitario di Barth con le sue implicazioni in ecclesiologia e in teologia della
creazione, ma almeno in coerenza con esso.
Ritroviamo dunque in Barth lo stesso «soggettivismo esistenziale» che avevamo tro-
vato nella corrente chiamata «dal basso», anche se il punto di partenza è nei due casi
opposto. Questo «soggettivismo» è altrettanto «onto-teologico» dell'«oggettivismo» con
il quale è in polemica: si rovescia la posizione dei termini, ma si rimane sullo stesso
terreno metafisico. Il modello diventa allora:

Schema 3

Il sacramento (freccia inferiore) è solo la traduzione festiva del già-qui della grazia
data da Dio all'uomo nella sua esistenza etica. Serve da trampolino (freccia superiore)
a partire dal quale l'uomo esprime a Dio la sua riconoscenza per la grazia già ricevuta.
Se si riprende lo schema triangolare n. 2, vediamo che funziona solo nel senso esterno
della rotazione. Malgrado le apparenze, Barth ultimamente si oppone come scolastico
alla scolastica. Vecchia storia, di cui la Riforma protestante, poi la riforma cattolica
ci hanno lasciato la convinzione che è possibile uscirne solo cambiando terreno. Sosti-
tuire un soggettivismo esistenziale, che tende a sacrificare l'azione di Dio nei sacra-
menti, all'oggettivismo essenzialista, che tende a sacrificarvi quella dell'uomo, non
fa che allontanare il problema. L'esistenzialismo teologico postula una coscienza sog-
gettiva centrale che potrebbe essere in possesso immediato delle sue esperienze umane
e che potrebbe allora tradurle al di fuori nei sacramenti come segni di riconoscenza
verso Dio e per obbedienza all'ordine di Gesù Cristo. I sacramenti, in questa prospet-
tiva, non vengono affatto colti come mediazioni di linguaggio che fanno avvenire il
reale come umano o significante, ma come strumenti di traduzione di un reale umano
già preesistente o come dei rivestimenti festivi ed ecclesiali di cui questo reale si abbi-
glierebbe. La critica filosofica che abbiamo rivolto precedentemente alla corrente «dal
basso» vale anche per quella «dall'alto». Tutto questo, beninteso, non impedisce a K.
Barth di aver comunque scritto pagine molto ricche sul culto come Mitte der Gemeinde. '"

IL I SACRAMENTI, ESPRESSIONI SIMBOLICHE OPERANTI

Uscire dalla duplice impasse che abbiamo segnalato ci sembra possibile solo nella
prospettiva dell'ordine simbolico. Precisiamo qui due cose. Da una parte, se la via
intermedia del Vaticano //apre una sacramentaria equilibrata, dove la funzione sacra-
mentale di «rivelatore» si integra con quella di «operatore», permettendo al circuito
del nostro schema di funzionare nei due sensi, essa però non tenta — come abbiamo

14
ID., Dogm. IV, 2, 3, Genève 1971 (testo del 1955), pp. 30, 95-96. Cf anche il bel testo di K. BARTH
in Connattre Dieu et le servir (Neuchàtel 1945, p. 178) citato da J.J. VON ALLMEN, Célebrer le salut, op.
cit., p. 164.

290
fatto notare — di articolare i due in modo rigoroso; e forse non è questo il ruolo di
un concilio. O meglio: l'articolazione rimane quella della sacramentaria classica; in
modo tale che se l'aspetto «rivelatore» dei sacramenti svolge un ruolo prioritario sul
piano pastorale, il loro aspetto «operatore» di mezzi di salvezza rimane determinante
sul piano strettamente teologico. D'altra parte ricordiamo che uscire dalla duplice im-
passe precedente non può affatto significare, nella nostra problematica, dare (final-
mente!) la «buona» soluzione. Quello che possiamo dire può essere solo un approccio
al mistero, e la chiave di questo approccio si trova nel cammino stesso di approccio.
Intendendo i sacramenti come «espressioni simboliche operanti» siamo evidente-
mente sulla linea della problematica del linguaggio e del simbolo sviluppata nella no-
stra prima parte. Ci basiamo soprattutto sul concetto di «espressione» e sulle nozioni
di «illocutorio», di «performativo» e di «efficacia simbolica dei riti». Ricordiamo, su
quest'ultimo punto, la prospettiva aperta nel capitolo IV. I riti delle religioni tradizio-
nali, che tendono ad una efficacia empiricamente verificabile (per esempio la guari-
gione), la ottengono in forza della mediazione di un'efficacia simbolica, cioè di un
nuovo rapporto tra i soggetti e/o tra questi e il loro «mondo» socio-culturale. Ora, i
riti cristiani hanno una finalità di un altro ordine, non valutabile, indicata dal termine
«grazia». Suggerivamo allora, rimandando al presente capitolo il compito della dimo-
strazione, che questa «grazia sacramentale», in quanto appartenente all'ordine dell'al-
leanza, richiede di essere capita nella scia, intra-linguistica, dell'efficacia simbolica
(instaurazione illocutoria di un nuovo rapporto tra gli uomini), anche se non può esse-
re ridotta a un semplice meccanismo socio-linguistico.
Oltre alle nozioni che sono state ricordate, ci sono due punti che condizionano lo
sviluppo di questa problematica. Il primo, già annunciato precedentemente, riguarda
il carattere originale del «gioco di linguaggio» rituale, originalità legata soprattutto alla
sua modalità illocutiva. Anch'esso legato a questa modalità particolare, il secondo si
riferisce all'efficacia simbolica: essa deve essere analizzata come «espressione», cioè
come «operazione» inseparabile dalla «rivelazione» che vi si effettua. Sviluppiamo dun-
que prima di tutto questi due punti.

1. Linguaggio della fede e linguaggio della liturgia


come «giochi di linguaggio» specifici
La presente riflessione si basa sui lavori condotti da J. Ladrière nella scia della
teoria della pluralità dei giochi di linguaggio di L. Wittgenstein. Secondo quest'ulti-
mo, la messa in opera del linguaggio si effettua ogni volta secondo una modalità con-
creta paragonabile a un gioco. Chi dice gioco dice regole. Queste regole sono conven-
zionali ma, come abbiamo visto, nessun gruppo o individuo ha mai potuto esserne l'au-
tore: l'origine del linguaggio sfugge sempre. In questo senso, le regole che costitui-
scono il linguaggio come gioco e ogni gioco di linguaggio non sono arbitrari: ogni
gioco è l'espressione di una «forma di vita».15 Esso costituisce così un sistema di co-

" G.G. GRANGER, art. «Wittgenstein», in Enc. Univ. 16, 1968, p. 998; questa formula, sotto la penna
di Wittgenstein, «non ha nessuna connotazione esistenziale affettiva: i sentimenti che possono accompagna-
re un gioco di linguaggio devono essere guardati come secondi rispetto ad esso, come una interpretazione
possibile. Il gioco di linguaggio è forma di vita nel senso che si inserisce in un comportamento totale di
comunicazione e che il significato dei simboli è relativo a questa totalità».

291
municazione completo in se stesso, inseparabile dal contesto al quale dà «forma»: «Es-
so determina, attraverso la forma particolare che prende in un contesto determinato,
la qualità propria che caratterizza una certa forma dell'esperienza».16
Allora, «il senso di una espressione dipende dal contesto, cioè dalle condizioni del
suo uso. Non c'è un uso unico della lingua, e non c'è dunque una sola specie di senso,
e nemmeno, allora, una sola specie di criterio di senso. In particolare, non c'è soltanto
il linguaggio scientifico e non sarebbe possibile ridurre una teoria del senso a ciò che
viene indicato dalla pratica scientifica» (I, p. 93). Linguaggio scientifico, linguaggio
filosofico, linguaggio poetico, linguaggio religioso... non si possono «tradurre» l'uno
attraverso l'altro. E, all'interno del linguaggio religioso, il linguaggio rituale, per esem-
pio, come linguaggio simbolico originario dell'esperienze religiosa, non potrà mai es-
sere reso dal linguaggio riflessivo secondo, con il suo necessario apparato concettuale,
che è il discorso teologico come tale, per quanto necessaria sia, d'altra parte, questa
ripresa speculativa come sforzo di autocomprensione richiesto dalla dinamica stessa
dello sviluppo della fede (II, pp. 169-194).

a) Il linguaggio della fede


Come sottolinea J. Ladrière, esiste un «gioco di linguaggio» talmente particolare
della fede da essere intraducibile in un altro linguaggio: «C'è nel linguaggio della fede
una modalità specifica di significazione» la quale «deve essere messa in evidenza in
ciò che essa ha di specifico»; bisogna quindi «lasciare che la fede parli il suo proprio
linguaggio per capire in che modo essa parli» (I, pp. 235-236).
Il gioco di linguaggio proprio della fede ha questo di caratteristico — tra altri ele-
menti, certo — : che è auto-implicativo. Questo significa che la dimensione illocutoria
vi è predominante. Non è certamente l'unico tipo di linguaggio che abbia questa pro-
prietà. Ogni linguaggio, l'abbiamo visto, ne partecipa in qualche misura, poiché è im-
possibile parlare di qualunque cosa senza dirci, non foss'altro che nei vuoti del nostro
discorso (supra). Quello che caratterizza il linguaggio della fede è che esso è costituito
dalla predominanza dell'auto-implicazione. Esso si verifica dunque soltanto secondo
una modalità illocutiva; rendendo effettivi gli atteggiamenti di adesione, di fiducia,
di impegno, ecc. che esprime, esso ha qualcosa di «performativo» (I, p. 230).
Infatti, il locutore vi prende necessariamente posizione, sotto forma di assenso o
di proclamazione, nei confronti degli enunciati che riporta, tipo: «Dio è luce», «Gesù
è il Cristo», «Questo pane è il corpo di Cristo», «Il battesimo è remissione dei peccati»,
ecc. Dicendo: «io credo in Dio», nota A. Vergote, il credente «dà una forma espressi-
va al suo atteggiamento verso Dio e compie nello stesso tempo questo atteggiamento
assumendolo e confermandolo per se stesso e davanti a Dio» (come davanti agli altri);
«in altri termini, il suo enunciato è espressivo e performativo».1'
Allora, la realtà sostenuta dalle funzioni referenziale e predicativa degli enunciati
della fede non può, visto che questi enunciati sono auto-implicativi per essenza, essere
separata da essi, per quanto rimanga irriducibile ad essi e venga precisamente espressa

16
J. LADRIÈRE, L'articulatìon du sens. T. 1: Discours scientifique et parole de fai; t. 2: Les langages
de la fai, Cerf 1984. Cit. I, p. 10. Le referenze nel testo rimandano a quest'opera.
" A. VERGOTE, Religion, fai, incroyance, op. cit., p. 258.

292
come tale. «Non solo — scrive J. Ladrière — il linguaggio della fede non ha una fun-
zione esplicativa (nei confronti dell'esperienza percettiva), ma è esso stesso ed esso
soltanto che rende presenti le realtà di cui parla. Ciò di cui parla è proprio quello che
opera in lui», e si realizza «nell'espressione che esso mette in opera» (I, pp. 232-233).
Dire che «Dio è Padre» o che «Gesù è il Cristo» può essere sostenuto solo se, formu-
lando questi enunciati, io mi identifico e divento in qualche modo come figlio per Dio
e come discepolo di Gesù Cristo. La realtà espressa nell'enunciato della fede, in que-
sto caso la paternità di Dio e la «cristicità» di Gesù, avviene a sua volta per il fatto
che alcuni uomini prendono posizione nei suoi confronti sostenendola: nel dirlo, essi
danno a Dio un corpo di figlio e al Cristo un corpo di membri-fratelli.
Cristo non può essere vivo se nessuno si rifa a lui: la sua risurrezione è inseparabi-
le dalla testimonianza che gli uomini — prima di tutto quelli che formano la Chiesa
— danno di lui. Certo, non è la fede che fa Dio come Padre o Gesù come Signore.
Ma l'identità di Dio come Padre o di Gesù come Cristo e Signore sarebbe ridotta a
nulla se nessuno la chiamasse confessandola e non si riconoscesse nell'atto stesso co-
me figlio per Dio e come discepolo di Gesù. Il linguaggio della fede è quindi rivelatore
dell'identità di Dio come Padre e di noi come figli e fratelli, e nel rivelare questa iden-
tità conferisce una effettività sia alla paternità di Dio che alla nostra filiazione e fraternità.

b) Il linguaggio liturgico
Quello che abbiamo detto vale per i diversi «giochi» nei quali si diversifica il lin-
guaggio della fede: linguaggio teologico, linguaggio dell'esperienza mistica, linguag-
gio fondatore delle origini nella sua forma di racconto o nella sua forma di kerygma,
linguaggio rituale, ecc. Ma è chiaro che più il gioco di linguaggio è di forma attestata -
ria, più appare la modalità auto-implicativa del linguaggio della fede. È questo il caso,
in particolare, del linguaggio liturgico.

— La modalità illocutiva del linguaggio liturgico


Il «gioco di linguaggio» specifico dei sacramenti è caratterizzato prioritariamente
dalla sua essenza rituale. Diciamo proprio: «essenza». La ritualità non è un semplice
abito festivo che rivestirebbe un linguaggio teologico di tipo discorsivo; essa è, al con-
trario, costitutiva degli enunciati liturgici come tali. Essa non è soltanto un contesto
intorno al testo, ma il testo del testo, il «pre-testo» essenziale al testo stesso. Di essen-
za «-urgica», l'intento dei testi rituali (testi fatti sia da gesti, posture, spostamenti, luo-
ghi, oggetti, musica, elementi decorativi... che da enunciati orali) è pragmatico: essi
non cercano né di formulare un discorso scientifico o ipotesi teologiche, né di tematiz-
zare delle regole di etica, né di trasmettere delle informazioni. È l'operatività che li
caratterizza, al punto che le formulazioni verbali vi giocano non come semplici com-
menti di un'azione che sarebbe a loro esterna, ma come azioni esse stesse simboliche.
Che esprima una lode, una credenza, una domanda, un desiderio, una confessione...
la liturgia appartiene dunque sempre a un tipo di linguaggio particolare la cui unità
sembra assicurata, tra altre cose, dalla sua modalità illocutiva. È sempre l'instaurazio-
ne di un nuovo rapporto di posto tra la comunità e Dio che essa cerca di effettuare
e che pretende di effettuare. Ed è sempre, anche, l'instaurazione o la restaurazione
della coesione dei membri del gruppo, della loro riconciliazione, della loro comunione

293
in una stessa identità che è in gioco nell'atto di linguaggio rituale: esso non tende a
tematizzare discorsivamente i criteri della comunità, ma a costituirla enunciandoli. Il
«noi» al presente, caratteristico della preghiera liturgica cristiana anche quando essa
viene espressa dal prete (costui agisce allora come portatore del «capitale simbolico»
dell'assemblea di Chiesa), funziona veramente come operatore illocutivo della comunità.

— La performatività delle formule sacramentali


Il carattere altamente performativo di ciò che chiamiamo, in senso stretto, le «for-
mule sacramentali» si inscrive in questa logica. Questo è evidente per il «io ti battez-
zo», in cui il gesto rende visibile l'essenza operativa di una formula che si vuole emi-
nentemente atto di linguaggio. Questo non è meno vero per il famoso «racconto dell'i-
stituzione». Certo, nessuna caratteristica linguistica ne manifesta il carattere perfor-
mativo. In quanto racconto alla terza persona e al passato, esso non si presenta nem-
meno come discorso. Ma l'analisi che ne abbiamo proposto ha mostrato che ciò che
si presenta dal punto di vista letterario come all'opposto del discorso e del performati-
vo, funziona di fatto, proprio in ragione del suo pre-testo liturgico, come un atto di
linguaggio in cui la Chiesa presente è talmente coinvolta e «giocata» da «eseguire» (nel
duplice senso del termine) questo racconto per assumerlo come discorso del Signore
Gesù.
Chiavi di volta della struttura architettonica delle celebrazioni cristiane, le formule
sacramentali, con il loro carattere così eminentemente performativo al punto che il
gesto si unisce alla parola per manifestarne l'intento operativo, sono i simboli in cui
si è depositata la dimensione illocutiva dell'insieme del linguaggio rituale e, al di là
di questo, del linguaggio della fede. Attraverso, il più delle volte, il portatore ufficiale
del suo capitale simbolico che è il ministro ordinato, la Chiesa vi si impegna tutta inte-
ra come «sacramento» di Gesù Cristo, cioè a un tempo come istituzione e come «miste-
ro». Essa vi gioca la sua identità stessa, proclamandovi simbolicamente ciò che essa
è e ciò che essa deve diventare. A livello del linguaggio, abbiamo qui il più espressivo
dispiegamento della sua essenza e della sua verità.

2. L'efficacia simbolica dei sacramenti. Esempio: il sacramento della riconciliazione


Lo sviluppo precedente fa comprendere che non possiamo dire nulla della realtà
della «grazia sacramentale» al di fuori dell'espressione liturgica (il sacramentum) che
la Chiesa ne dà nei suoi atti di celebrazione. Per questo, prima di arrivare alla grazia
stessa, dobbiamo chiarire il problema dell'espressione operante, poiché è secondo questa
modalità concreta che la Chiesa parla celebrando i sacramenti.
Abbiamo ormai dei buoni fondamenti per questa delucidazione. 1. Prima di tutto
quello dell'«espressione» linguistica: essa è operante perché è esprimendosi (il che ri-
chiede una esteriorizzazione) che si effettua la differenziazione interiore che costitui-
sce il soggetto. «Atto che è a se stesso il suo proprio risultato» — come abbiamo detto
—, l'espressione «è la carne stessa dell'intenzione che nasce nel prendere forma signi-
ficante». L'espressione fa ciò che significa, cioè il soggetto nel più reale del suo rap-
porto con sé, con gli altri, con il mondo, con Dio. 2. È questo che si gioca nella di-
mensione illocutiva del linguaggio e che si manifesta esplicitamente nei performativi.

294
3. Ed è sempre secondo questa problematica fondamentale che abbiamo parlato del
simbolo: la realtà umana di alleanza tra soggetti che esso esprime, lo effettua espri-
mendolo. (Il matrimonio potrebbe fornircene una espressione esemplare).
Questa problematica ci permette, pensiamo, di uscire dalla duplice impasse onto-
teologica esaminata precedentemente. I sacramenti non sono degli strumenti di produ-
zione della grazia perché la loro operazione, di ordine simbolico, è inseparabile dalla
rivelazione che essi effettuano. Ma non sono nemmeno dei semplici strumenti di tra-
duzione della grazia già presente, poiché la rivelazione che essi ne fanno è inseparabile
da un lavoro simbolico, ogni volta nuovo, all'interno del soggetto come credente. Lo
schema «internista» della traduzione non funziona meglio di quello, «esternista», della
produzione. Esso sostituisce, secondo una via «nominalista», un imperialismo del sog-
getto — che si crede padrone del senso e delle sue esperienze esteriori — all'imperiali-
smo della cosa che il precedente imponeva attraverso la via «realista».

a) I sacramenti come rivelatori (in quanto operatori)


Che i sacramenti siano dei rivelatori che fanno simbolicamente vedere ciò che iden-
tifica l'esistenza umana anteriore ad essi come esistenza cristiana; che manifestino,
di conseguenza, il già-qui della grazia nell'esperienza credente; che abbiano quindi
una funzione espressiva di risposta a ciò che Dio ha fatto e di riconoscenza per quello
che ha fatto: tutto questo non solo non lo neghiamo, ma lo rivendichiamo. Lo rivendi-
chiamo prima di tutto a titolo di ciò che la Chiesa esprime nella loro stessa celebrazio-
ne. Prendiamo l'esempio della celebrazione del sacramento della riconciliazione. Es-
so si articola in quattro grandi momenti:
1. Prima di tutto il momento «Chiesa». «Accogliersi vicendevolmente», come dice il ritua-
le, o fare Chiesa significa manifestare almeno due cose: da una parte, come ogni sacramento,
si tratta di un evento di Chiesa; all'interno dell'ecclesialità manifestata dal «noi» linguistico che
corre lungo tutta l'azione liturgica ognuno è personalmente coinvolto dal perdono di Dio. La
riconciliazione ha luogo in Chiesa, come esplicitano in modo chiaro i Praenotanda del rituale,
perché essa è «più che la somma delle conversioni individuali. È la Chiesa come corpo che viene
provocata a cambiare volto e comportamento». '8 D'altra parte, questo esprime che «la penitenza
comporta anche la riconciliazione con i fratelli ai quali il peccato nuoce»; i penitenti sono così
riconciliati con Dio «nello stesso tempo», precisa il rituale, «che con la Chiesa che il loro pecca-
to ha ferito». " Karl Rahner ha testé ricordato questa «verità dimenticata»: la riconciliazione con
Dio (res sacramenti) è mediata dalla riconciliazione con la Chiesa (la pax ecclesiae come res
et sacramentimi): questo, lo sappiamo, appariva chiaramente nel sistema antico della riconcilia-
zione {ci infra).1'' Aggiungiamo che questo momento «Chiesa» non si limita, ovviamente, all'i-
nizio della celebrazione. Esso costituisce piuttosto una dimensione che la attraversa tutta. Si di-
spiega d'altronde in modo consistente nel primo elemento del momento «Sacramento», come
vedremo.
Cosa manifesta questa dimensione ecclesiale del sacramento rispetto al vissuto anteriore del
peccatore? In primo luogo essa attesta che il «contro Dio», costitutivo formale del peccato, non

" Célébrer lapénitence et la réconciliation. Le nouveau rituel, Chalet-Tardy, Orientations doctrinales


et pastorales, n. 8, 1978, cf n. 13.
"W.,n.7e8.
20
K. RAHNER, «Verités oubliées concernant le sacrement de pénitence», in Ecrits théologiques, t. 2,
DDB, 1960, pp. 149-194; soprattutto pp. 188-192.

295
può mai essere slegato dal «contro gli altri» (e «contro se stessi») che ne è il costitutivo «materia-
le». La materia prima del peccato non è altro che quella della colpa, anche se il peccato richiede
una lettura teologale della colpa morale (cf il momento «Parola» qui di seguito). La mediazione
ecclesiale del rapporto a Dio nel sacramento manifesta così il peso umano essenziale del pecca-
to: attenta Dio non direttamente in lui stesso ma nella sua alleanza; lo ferisce ferendo altri (e
anche lo stesso soggetto peccatore) nel più umano della sua umanità. Non si è mai cristiani se
non si è membri dell'alleanza. Peccare contro Dio è sempre allora, in qualche modo, peccare
contro la Chiesa. L'ecclesialità del sacramento esprime allo stesso tempo che la grazia del per-
dono ricevuta dal peccatore nel suo atto di pentimento più personale è irriducibile ad un caso
individuale: essa è mediata dalla Chiesa e, come ha sottolineato san Tommaso trattando della
contrizione e degli altri atti del penitente come «parti integranti» del sacramento (III, q. 90),
è quindi tessuta di sacramentalità. Come ogni grazia, quella della conversione, per quanto inti-
ma e personale, ha una dimensione ecclesiale e una polarità sacramentale. Il sacramento è quin-
di il rivelatore della dimensione umana ed ecclesiale del peccato e del perdono.
2. Il momento «Parola», poi (letture, omelia, esame di coscienza). Il fatto che la lettura
delle Scritture come Parola di Dio preceda l'«esame di coscienza» esprime strutturalmente che
non si può confessare il proprio peccato se non confessando «nello stesso tempo» l'amore di
Dio, secondo l'espressione del rituale. Confessio peccati, confessio laudis, diceva sant'Agosti-
no sulla scia del salmo 51,19. La Chiesa non crede al peccato, ma al perdono dei peccati, al
punto che nessuno si scopre peccatore se non è peccatore perdonato. È la grazia del perdono
sempre offerto che rivela il peccato, così come è nelle braccia del padre che il figlio prodigo
scopre la vera dimensione del suo peccato. Ofelix culpa! canta la Chiesa nella veglia pasquale:
la sovrabbondanza della grazia nel Nuovo Adamo è rivelatrice dell'abbondanza del peccato nel
primo Adamo (Rm 5). L'istanza ultima di giudizio del peccato non è dunque la nostra coscienza,
per quanto necessaria — «la mia coscienza non mi rimprovera nulla, ma non per questo io sono
giusto» (1 Cor 4,4) —, ma la parola di grazia e di misericordia offerta in Gesù. Il peccato viene
ultimamente rivelato solo come eliminato. L'«esame di coscienza» diventa allora confessione
di lode e insieme confessione del peccato a Dio.
Questo secondo momento del sacramento manifesta al peccatore che egli ha potuto, nel suo
vissuto anteriore, riconoscere la sua colpa come peccato solo se si è lasciato interpellare teologi-
camente, in un modo o nell'altro, dalla Parola di misericordia, e che il suo eventuale rimorso
è potuto diventare pentimento «cristiano» solo davanti al perdono di Dio sempre offerto in Cri-
sto, «fino a settanta volte sette». In altri termini, questa dimensione del sacramento è rivelatrice di
ciò che ha fatto del vissuto precedente del peccatore penitente un vissuto autenticamente «cristiano».
3. Il momento «Sacramento», in terzo luogo. A sua volta esso presenta tre elementi:
— una espressione sacramentale comunitaria che consiste, da una parte, in una preghiera
comune di confessione e, dall'altra, in un percorso comune verso il ministro del perdono. Que-
sto punto è importante: esso manifesta, come dice l'Introduzione al rituale, che «la Chiesa tutta
intera, in quanto popolo sacerdotale [...], intercede per i peccatori»; così, «quando i ministri
del sacramento perdonano in nome di Dio, essi esercitano la loro funzione proprio nel cuore
di una azione della Chiesa di cui sono i servitori»." I Padri, d'altronde, erano perfettamente
espliciti su questo punto, quando intendevano sempre il ministero di riconciliazione esercitato
dal vescovo come l'espressione della preghiera di supplica rivolta dall'ecclèsia a Dio. 22 Di qui

21
Nouveau rituel, Orientations doctrinales et pastorales, n. 20.
22
«Mentre tutta l'assemblea prega per il peccatore», il vescovo, secondo la Didascalia degli apostoli
(il, 12) gli impone le mani (37); secondo Tertulliano (De Paen, 9) «incaricando tutti i fratelli di essere suoi
intercessori per ottenere il suo perdono», o ancora, secondo Ambrogio, domandandolo «con le lacrime del
popolo tutto intero», ricercando «il patrocinio del popolo santo affinché interceda in suo favore» il peccatore
viene riconciliato (39) (De paen, I, 89 e II, 91, trad. R. Gryson, SC 179).

296
il tema agostiniano della Chiesa (la Chiesa locale, nella sua comunione con le altre Chiese) co-
me «pietra» o come «colomba» che lega o slega, ritiene o rimette.23 In breve, la comunità cele-
brante, come realizzazione concreta dell'Ecclesia, non è soltanto recettrice del perdono; essa
svolge un ruolo «ministeriale» attivo nella riconciliazione. È attraverso la Chiesa che si viene
riconciliati con Dio.
— All'interno di questa espressione sacramentale ecclesiale prende posto un secondo mo-
mento sacramentale: l'itinerario personale verso il ministro del sacramento, itinerario che sfo-
cia normalmente nella confessione verbale dei peccati. Questa esteriorizzazione manifesta sa-
cramentalmente che ogni conversione a Dio deve passare dal cuore agli atti.
— A questo itinerario risponde il momento sacramentale in senso stretto, in cui il ministro,
agendo come servitore dell'azione della Chiesa, come portatore del suo «capitale simbolico»,
pronuncia la parola di perdono. Il concilio di Trento ha affermato che essa era «come un giudi-
zio» prima di tutto per esprimere che ciò che dice il prete, in quanto rappresentante autorizzato
della Chiesa e in nome di Dio, si effettua performativamente, al modo di una parola di giudizio
che proscioglie o condanna l'imputato per il semplice fatto di venire pronunciata da una persona
legittima e secondo una procedura legittima. Il paragone si ferma qui. Esso consiste quindi es-
senzialmente nella performatività dell'atto di linguaggio in questione.
Lasciando da parte la dimensione ecclesiale di questo momento «Sacramento», di cui abbia-
mo parlato sopra, fermiamoci sulla sua punta di diamante: il perdono di Dio. D sacramento esprime
qui che nessuno è proprietario del perdono. Nessuno può perdonare se non ha già beneficiato
lui stesso del perdono. Il perdonante può agire solo come testimone di una parola che viene
da più lontano di lui. Perdonante e perdonato sono quindi insieme, sebbene in posizione molto
diversa, è ovvio, sotto l'istanza terza di un perdono che viene da altrove, da un «posto vacante»
che è quello di Dio soltanto." È proprio di questo posto vacante che il prete, nel sacramento,
è il testimone simbolico. Da questo punto di vista, l'itinerario sacramentale presso la Chiesa
e il suo ministro non fa che dispiegare l'itinerario di richiesta di perdono fatta presso colui che
si era ferito: essa manifesta, mediante la funzione simbolica suddetta che il prete vi esercita,

Cf la «punta» della preghiera di assoluzione secondo Constit Apost. Vili, 9: «Restituite questi penitenti
alla vostra santa Chiesa». Analizzando questi testi e alcuni altri rappresentativi della tradizione siriana, E.P.
SIMAN conclude: «È sempre la Comunità ecclesiale che prega per il penitente e che lo integra nella sua co-
munione», anche nella penitenza privata, d'altronde sconosciuta dalla branca siriana orientale (nestoriana)
e di cui si può parlare nella branca occidentale «solo a partire dalla seconda metà del XII secolo» (L'expé-
rience de l'Esprit par l'Église d'après la tradìtion syrìenne d'Antioche, Beauchesne, 1971, pp. 110-118;
cit. p. 118 e 117).
23
Tema importante in Agostino: Pietro (Mt 16,16-19) come tipo del confessante = la Chiesa = la Co-
lomba dello Spirito Santo che, come agente della santità e dell'unità della Chiesa, rimette i peccati. Da qui
le frasi rivolte dal vescovo di Ippona ai fedeli: «Anche voi legate, anche voi slegate. Infatti colui che è legato
è separato dalla vostra comunità e poiché è separato dalla vostra comunità, è legato da voi. Quando è ricon-
ciliato, è slegato da voi, perché anche voi pregate per lui» (5. Guelf 16, 2). Queste chiavi non sono state
ricevute da un uomo solo, ma dalla Chiesa nella sua unità [...]. «La Colomba lega, la Colomba slega; l'edi-
ficio costruito sulla pietra lega e slega» (S. 295, 2). E a proposito di Gv 20,22-23: «Se dunque gli apostoli
rappresentavano la Chiesa in persona, è la pace della Chiesa che rimette i peccati, e l'allontanamento dalla
pace della Chiesa ritiene i peccati [...]. La pietra ritiene, la pietra rimette; la Colomba ritiene, la Colomba
rimette» (De Bapt. e. Donili, 18,23). Cf A.M. BONNARDIÈRE, «TU es Petrus. La péricope de Mt 16,12-23
dans l'oeuvre de saint Augustin», Irenikon 34, 1961, pp. 451-499.
24
«Non si può dare il perdono senza essere attraversati da esso come da una parola che, per operare
una rigenerazione, taglia da parte a parte ciò che ostruiva l'apertura al futuro. Tutto avviene come se il
perdono venisse da un posto che non può essere occupato né dall'uno né dall'altro; un posto vacante che
rende possibile la circolazione di questa parola efficace» (M. BALLEYDIER, «Essai sur le pardon», in L.M.
CHAUVET, M. BALLEYDIER, F. DENIAU, L'Aveu et le pardon, Chalet, 1979, p. 65.

297
ciò che è avvenuto allora; essa lo esprime, ed esprimendolo, facendolo venire al linguaggio del
corpo e della parola, lo compie. Essa dispiega così l'essenza stessa del perdono.
4. Il momento «azione di grazie» ed «etica» termina la celebrazione: momento di ricono-
scenza verso Dio per il perdono ricevuto. Laus Dei, ipse cantator, diceva ancora Agostino. Per
questo la lode riconoscente verso Dio richiede di verificarsi nel «contro-dono» della pratica con-
creta verso gli altri della riconciliazione, della giustizia e della misericordia. Il sacramento giun-
ge alla verità solo quando diventiamo ciò che vi abbiamo celebrato e ricevuto.
Quest'ultimo momento manifesta che ogni pentimento autentico porta in sé, come uno dei
suoi costituenti interni, un voto di cambiamento di vita. Senza questo voto, sarebbe soltanto
un simulacro.
Il fatto, massicciamente affermato dalla scolastica, che un peccatore è perdonato
da Dio nel suo movimento interno di pentimento, e di conseguenza molto prima del
sacramento stesso, è perfettamente coerente con la prospettiva che abbiamo sviluppa-
to. D sacramento è la manifestazione simbolica degli elementi che costituiscono questo
pentimento come autenticamente cristiano e quindi come luogo del perdono di Dio.
Ma questo pentimento a sua volta non è slegato dal sacramento: ne è «parte integrante»
(san Tommaso). La celebrazione sacramentale manifesta quindi che l'atto di conver-
sione più personale e più «interiore» può «prendere» solo in Chiesa, e che è sempre-già
strutturato dall'ecclesiale e dal sacramentale. Questa infatti è la struttura dell'alleanza
nuova: c'è grazia, a cominciare da quella della conversione o della fede, solo nella
mediazione (attuale o virtuale) della sacramentalità della Chiesa. Fa parte della stessa
natura della conversione a Cristo di essere originariamente attraversata di ecclesialità
(non ci si converte mai a lui in quanto semplici individui, ma in quanto membri di
lui, effettivi o in divenire) e tesa verso la sacramentalità. Questo non implica eviden-
temente che ogni evento di conversione — né di diritto, né di fatto — debba necessa-
riamente sfociare in un itinerario sacramentale: numerosi ostacoli psicologici, sociali,
storici, culturali... possono creare interferenze. Ma questo implica che la conversione
dispiega la sua essenza e giunge alla sua verità nella sua espressione sacramentale.
Il sacramento gioca quindi come il rivelatore che fa simbolicamente vedere ciò che
ha fatto dell'esistenza umana anteriore una esistenza propriamente cristiana. In una
logica razionalista in cui vita di fede e riti sacramentali sono messi in concorrenza,
si arriva fatalmente alla domanda: «A che prò il sacramento se sono già perdonato?»,
quando non si arriva fino a rappresentarsi il sacramento come tanto più «utile» ed «ef-
ficace» quanto meno ci si converte nella vita concreta! Nell'ordine simbolico, il sacra-
mento della riconciliazione manifesta invece la sua funzione tanto più quanto più dà
corpo alla conversione anteriore. Un sacramento che non fosse rivelatore del già-qui
della grazia porterebbe solo alla «magia». Ma questa funzione di rivelatore è possibile
solo in quanto esso è operatore.

b) I sacramenti come operatori (in quanto rivelatori)


Anche qui, diciamolo chiaramente, se affermiamo l'operatività dei sacramenti non
lo facciamo per ragioni a priori e astratte, ma proprio in ragione della pratica tradizio-
nale della Chiesa. La semplice considerazione della liturgia di un battesimo, di una
eucaristia o di un sacramento della riconciliazione attesta infatti chiaro e tondo la pre-
tesa della Chiesa di effettuare ciò che i riti esprimono. Questa pretesa di operatività

298
appartiene al sacramentum stesso. Prendere sul serio questo sacramentum è indispen-
sabile: la sacramentaria non può dire nulla sulla res che la fede proclama se non a
partire dall'atto di celebrazione. E si tratta di un rituale, di cui abbiamo detto la speci-
ficità. Come la metafora non può tradursi in un linguaggio esplicativo, come l'atto
illocutivo nel quale un soggetto prende posizione hic et mine nei riguardi di altri a pro-
posito di un enunciato non può essere trasposto in un linguaggio constativo, così il
linguaggio religioso, e soprattutto rituale, in cui i soggetti prendono posizione rispetto
a Dio e agli altri su ciò che essi enunciano, non può essere reso in un linguaggio teori-
co. Questo significa che prendere sul serio il sacramentum come mediazione insupera-
bile di ogni discorso sacramentario equivale a prendere sul serio la specificità dell'at-
to di linguaggio illocutivo-performativo-rituale che lo costituisce. Se manca questo,
non sapremmo nemmeno più di che cosa parliamo quando diciamo «sacramento». La
«non-sacramentaria» a cui giunge K. Barth è, secondo noi, l'effetto (per ragioni che
superano d'altronde questo ambito) di questo misconoscimento del sacramentum. In
altri termini, rifiutare l'operatività dei sacramenti come «eventi di grazia» (nel senso
che preciseremo) ci pare sostenibile solo se si cambia il sacramentum stesso nei suoi
momenti espressivi (parole e gesti) principali.
Solo che bisogna aggiungere subito che la stessa pratica liturgica ci attesta che l'o-
peratore sacramentale non esce mai dall'espressione simbolica: solo in quanto rivela-
tore egli può esercitare la sua funzione di operatore. Questo «in quanto» è evidente-
mente fondamentale: agendo solo nella modalità simbolica di espressione rivelatrice,
l'operatore sacramentale non può essere assimilato (nemmeno analogicamente, secon-
do noi) a uno strumento; e il suo effetto non può essere assimilato a un prodotto finito.
Ciò che vi si effettua non è di ordine fisico, né morale, né metafisico, ma simbolico.
Questo simbolico, lo abbiamo detto, è il più «reale». Così, la morte/rigenerazione con
il Cristo nel battesimo è simbolica. Essa non è un «reale» nascosto dietro o sotto l'atto
di linguaggio verbo-rituale che l'esprime metaforicamente. Ma non è nemmeno un sem-
plice «come se» — paragone non equivale affatto a metafora o simbolo — che dissolve-
rebbe il reale in un simbolismo vaporoso. Essa è — secondo la fede, è chiaro — comu-
nione del credente a Cristo nella sua morte/risurrezione. Comunione in sacramento,
cioè il cui stesso reale non è separabile dall'espressione simbolica che gli dà forma,
anche se non è riducibile a questa forma. Tutto il problema, qui, come si vede, sta
nel modo in cui si pensa la realtà: essa non è dell'ordine degli essenti-sussistenti, ma
dell'ordine dell'avvento permanente dei soggetti come credenti.
È questo il punto che dobbiamo ora esplicitare evocando la «grazia sacramentale».
Lo faremo nella scia di quanto abbiamo annunciato al capitolo IV: irriducibile a ogni
effettuazione simbolica intra-linguistica, la grazia dei sacramenti va tuttavia pensata
in questa prospettiva.

3. La grazia sacramentale

a) Nella scia dell'intra-linguistico


. Abbiamo visto che l'efficacia simbolica delle espressioni religiose rituali è tale da
creare una instaurazione o una restaurazione di rapporto sociale tra i membri del gruppo
in nome del Terzo assente che li raduna — l'Antenato, il Dio, la Legge... —, il che

299
conferisce a questo processo di riconoscimento reciproco e di distribuzione (o redistri-
buzione) di posti il suo carattere «sacro». Illustriamo questo richiamo di ordine gene-
rale con l'esempio del battesimo. Lo considereremo in un primo tempo su di un piano
strettamente socio-linguistico, prima di pensarlo sul piano propriamente teologico.

— Il battesimo: punto di vista socio-linguistico


L'enunciazione rituale della formula: «Io ti battezzo nel nome del Padre e del Fi-
glio e dello Spirito Santo» costituisce un atto di linguaggio eminentemente performati-
vo. Proferito da un'autorità legittima (normalmente un ministro ordinato) che agisce
conformemente alle prescrizioni che condizionano per tutti la validità sociale del rito
e che assicurano il consenso del gruppo, questo atto di linguaggio, come in ogni rito
di passaggio o di istituzione, «consacra una differenza», secondo l'espressione di P.
Bourdieu; esso la «fa conoscere e riconoscere» e così «la fa esistere in quanto differen-
za sociale». L'efficacia simbolica è «assolutamente reale nel senso che trasforma real-
mente la persona consacrata: prima di tutto perché trasforma la rappresentazione che
gli altri agenti se ne fanno [...] e poi perché trasforma la rappresentazione che la per-
sona interessata si fa di se stessa e i comportamenti che si crede tenuta ad adottare
per conformarsi a questa rappresentazione». Cosicché «l'indicativo in questo caso è
un imperativo [...]: ' 'Diventa ciò che tu sei". Questa è la formula che sottende la ma-
gia performativa di tutti gli atti di istituzione».25 Agli occhi di tutti, il battezzato è real-
mente altro rispetto a quello che era prima. L'efficacia simbolica del rito sta nel suo
cambiamento di statuto e, poiché il descrittivo funziona qui come prescrittivo, nel do-
vere che gli è «significato» di conformarsi ormai a questo nuovo statuto. Il rituale ef-
fettua performativamente il passaggio da fuori-la-Chiesa al gruppo-Chiesa. Tutti rico-
noscono il neofita come uno dei loro. E tutti possono interpretare questa appartenenza,
conformemente alla dottrina ufficiale e qualunque sia la loro adesione personale attra-
verso la fede a questa dottrina, come filiazione verso lo stesso Dio chiamato Padre
— Padre di Gesù, il Figlio — e come fraternità nuova all'interno della comune allean-
za di cui egli è ormai proclamato solidale.

— Il Battesimo: punto di vista teologico


Se è vero che la grazia battesimale non può essere teologicamente ridotta all'effica-
cia simbolica degli atti di linguaggio, essa va comunque pensata in questa prospettiva.
Il rapporto nuovo con Dio che il battesimo instaura è infatti inseparabile da un nuovo
rapporto di alleanza tra gli uomini. L'Altro assente-presente, il Terzo testimone in no-
me del quale si crea il «noi» comune di questa nuova alleanza che è la Chiesa ha per
nome Gesù Cristo. Immergendo gli uomini nella sua morte per farli passare con lui
a una vita nuova (Rm 6), il battesimo instaura tra di essi un rapporto dì fraternità,
a sua volta fondato su di un rapporto di filiazione in lui, il Figlio, mediante lo Spirito.
I due aspetti sono profondamente legati in Paolo. Rivestendo il medesimo Cristo
mediante il battesimo, i cristiani diventano infatti membri di questo «unico uomo nuo-
vo» e di questo «unico corpo» che Cristo ha formato dando la propria vita perché ven-
ga distrutto il «muro di separazione» che divide l'umanità (cioè, per Paolo, il Giudeo

2S
P. BOURDIEU, Ce que parler veut dire, op. cit., pp. 124-127.

300
e il Greco) (Ef 2,14-16). Ora, secondo lo stesso Paolo, con il battesimo è proprio que-
sto «Uomo nuovo» che vede la luce. Noi moriamo ali'«Uomo vecchio» (il vecchio «Ada-
mo» collettivo, colui che è sottomesso al regno del peccato) per rivestire l'«Uomo nuo-
vo» (il nuovo «Adamo» collettivo di cui il Cristo rappresenta la «personalità corporati-
va»). In lui le barriere erette dalla Legge tra le due grandi parti dell'umanità sono esca-
tologicamente abolite: secondo la razza (Giudeo e Greco), secondo lo statuto sociale
(lo schiavo e l'uomo libero), secondo la differenza umanamente più fondamentale: la
differenza sessuale (uomo e donna). Il fatto che Paolo dispieghi a tre riprese questa
simbolica battesimale è significativo (7 Cor 12,13; Gal 3,26-28; Col 3,9-11): il pas-
saggio battesimale dallo statuto di «schiavi» a quello di «figli», grazie allo «Spirito del
Figlio» che Dio ha inviato nei nostri cuori e che ci permette di gridare: «Abbà, Padre!»
(Gal 4,6-7) va di pari passo con il passaggio alia fraternità nel nome di questo stesso
Figlio.
D'altra parte, questo cambiamento duplice e simultaneo di rapporto con Dio e con
gli altri viene effettuato dal battesimo in maniera programmatica. Dal momento infatti
che è escatologico, rimane da realizzare in un'etica. La grazia viene data come un com-
pito da svolgere. Per questo, soprattutto in Paolo, l'indicativo «dogmatico» del «voi
siete morti al peccato con il Cristo» si coniuga con Yimperativo etico del «morite dun-
que» (Rm 6,11-12; Col 3,3-5). La grazia battesimale designa quindi questo permanen-
te lavoro simbolico di conversione di noi stessi in cui, in forza dello Spirito, si verifica
il nostro avvento di soggetti credenti. Essa ha a che fare con quella «perlaborazione»
dolorosa del campo del nostro desiderio che ci restaura a poco a poco all'immagine
di Cristo e ci rende così altri. Questa ri-creazione battesimale nel Nuovo Adamo si
presenta esattamente come l'inverso della «de-creazione» originale nel vecchio Ada-
mo: da schiavo geloso di un Dio rappresentato perversamente come un padrone onni-
potente a sua volta geloso dei suoi privilegi (come insinua il serpente di Gn 3,1-5),
il nostro desiderio si vede cambiato in filiale riconoscenza del Padre; e, simultanea-
mente — poiché il mito della trasgressione originale manifesta che all'immagine falsa-
ta di un Dio geloso corrisponde un'immagine falsata degli altri — da violento verso
gli altri, considerati immaginariamente come rivali da asservire e perfino da uccidere
(Caino e Abele, Gn 4), il nostro desiderio si vede trasformato in alleanza fraterna.
Il passaggio a questo nuovo statuto richiede che in noi avvenga una vera e propria
elaborazione del lutto — morte all'uomo vecchio — che, nell'insieme delle religioni,
viene fatto vivere secondo la simbolica dello schema iniziatico, per quanto diversifica-
te siano, evidentemente, le modalità concrete e le rappresentazioni culturali. La grazia
battesimale va pensata teologicamente secondo questo lavoro iniziatico di parto o di
rigenerazione di noi stessi secondo lo Spirito di Dio. Infatti, «se non nasce dall'alto»
(primo probabile significato del greco anóthen) o «se non nasce di nuovo» (secondo
senso, indispensabile per capire l'obiezione di Nicodemo sull'impossibilità di «entrare
una seconda volta nel ventre materno»), cioè «se non nasce dall'acqua e dallo Spirito»,
«nessuno può entrare nel regno di Dio» (Gv 3,3-5). La grazia battesimale non è affatto
un «valore» percepibile, gestibile o accumulabile da ricevere. Lo è così poco che viene
invece presentata simbolicamente come un lavoro di gestazione in cui impariamo a
riceverci da Dio come figli e, quindi, dagli altri come fratelli.
Il dialogo di Gesù con la Samaritana ci richiede di esprimerci nello stesso modo: il dono
di Dio non è qualcosa, per quanto spirituale, che colmerebbe un bisogno; è un altro modo di

301
essere e di vivere, che scava «in colui» che beve di quell'acqua («l'acqua viva» dello Spirito)
il pozzo del suo desiderio, e che diventa quindi in lui «una fonte zampillante di vita eterna» (Gv
4,13-15). Lo stesso tipo di processo si sviluppa a proposito del cibo: Gesù, dopo aver sostituito
all'acqua empirica un'acqua simbolica di cui «si può parlare» ma che non si può «manipolare»,
sostituisce poi un nutrimento simbolico a quello, nell'ordine del «valore» e dell'utilità, che i
discepoli sono andati a comprare in città (v. 8.31-38). Da parte della Samaritana, in ogni caso,
il capovolgimento di rappresentazione è tale che è il suo desiderio stesso che si converte: da
bisogno si converte in domanda, cosicché Gesù, il richiedente iniziale, si vede riconosciuto e
richiesto per se stesso alla fine del racconto.26

— Lavoro simbolico e grazia


La grazia (battesimale, in questo caso) ci appare quindi non come un «qualcosa»
da ricevere (fosse anche un «germe»), ma come un riceversi: riceversi da Dio come
figli e dagli altri come fratelli, perché i due aspetti, pur simbolicamente distinti, sono
legati in maniera indissolubile. Noi la intendiamo quindi come un lavoro simbolico
che tocca il punto più reale dei soggetti credenti: lavoro fondamentale di ristruttura-
zione del loro rapporto con Dio e con gli altri. La violenza del desiderio verso un Dio
rappresentato immaginariamente come un padrone onnipotente di cui noi saremmo gli
schiavi, e verso gli altri considerati come un potenziale nemico, è chiamata a conver-
tirsi in alleanza con un Dio da cui noi riceviamo filialmente la nostra esistenza e verso
l'altro riconosciuto come fratello da amare. Una conversione di questo tipo è il compi-
to fondamentale assegnato al credente. Ed è anche il compito più difficile da realizza-
re, tanto forte è la nostalgia che ci inabita di un Dio meraviglioso rivestito di una onni-
potenza, che, essendo la nostra, ci fa desiderare psichicamente di rimanere suoi schia-
vi e di espiare la felicità di esistere che gli avremmo sottratto. Come il cammello, che,
secondo l'aforisma di Nietzsche, «vuol essere ben caricato», non è forse vero che noi
aneliamo colpevolmente a «le cose pesanti, più difficili a portare»?27 Proprio per que-
sto la conversione in questione è sempre da fare. E questo compito permanente di morte
all'«uomo vecchio», quello della violenza, è una grazia, di cui il battesimo è l'espres-
sione simbolica esemplare.
Il sacramento è dunque «evento di grazia»: non perché costituisca un campo in cui
un tesoro-oggetto sarebbe nascosto, ma perché rovescia simbolicamente quel campo
che noi stessi siamo e lo rende così fruttuoso convertendolo alla filiazione e alla frater-
nità che proclama inaugurate escatologicamente in colui che la Chiesa confessa come
il Figlio e come nostro fratello. Intendiamo quindi la «grazia sacramentale» nella scia
del rapporto di collocazione o del riconoscimento che il linguaggio effettua nella sua
modalità illocutiva (e performativa). Viene così conferita effettività alla paternità di
Dio, al corpo di Cristo e al tempio dello Spirito nel nostro mondo.

" F. G E N U Y T , «L'entretien avec la Samaritaine, Gv 4,1-42. Analyse sémiotique», in Sémiotique et Bi-


ble n. 36, 1984, p. 16.
27
F. NIETZSCHE, Ainsiparlati Zarathoustra, «Des trois métamorphoses», Gallimard, coli. «Idées», 1971,
p. 35 (trad. ita!.: Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1968).

302
b) Una realtà tuttavia extra-linguistica
Pensare la grazia sacramentale nella scia dell'efficacia simbolica di tipo illocutorio
o performativo ci fornisce uno schema di elaborazione che ci sembra relativamente
adeguato a quanto abbiamo detto della «grazia», ma non costituisce assolutamente una
«spiegazione» del mistero. Come la scolastica non pretendeva di spiegare la grazia sa-
cramentale attraverso la causalità e la strumentalità, così nemmeno noi vogliamo ren-
derne ragione. In caso contrario, postuleremmo una sorta di potere magico delle paro-
le, secondo una energetica molto più meccanica e «fisicista» di quanto non fosse nello
schema produzionista che cerchiamo di superare.
D'altra parte, come tutto ciò che è di Dio, la grazia viene posta da noi come irridu-
cibile a qualsiasi «spiegazione». In caso contrario, ridurremmo il teologale all'antro-
pologale, e la teologia non sarebbe più che una sorta di variante delle scienze umane.
Ora, nel momento in cui la sua radicale alterità viene misconosciuta o cancellata, Dio
ha interesse per noi soltanto come idea culturale o come cifra dell'umanità; ma non
si dà la propria fede a una «idea» o a una «cifra»... Fuori discussione, quindi, ridurre
la grazia al meccanismo socio-linguistico dell'efficacia simbolica.
Una cosa è essere proclamato figlio per Dio e fratello per gli altri in Gesù Cristo,
essere riconosciuto come tale dal gruppo ed esserlo quindi veramente sul piano socia-
le; altro è esserlo sul piano teologale della fede, della speranza e della carità. Chi può
garantire, per esempio, che il battezzato (supposto qui adulto) non agisca in modo fit-
tizio, per interesse — come riferiscono molte discussioni teologiche su alcuni casi in
certe epoche della storia — oppure spinto da un inconscio desiderio di protezione con-
tro una colpevolezza angosciante, di espulsione del «capro espiatorio» satanico, di im-
maginaria innocenza ricoperta per cancellazione di una sozzura insopportabile allo sguar-
do dell'impeccabile immagine che si fa di se stesso? Chi può giudicare, in altri termi-
ni, della verità della sua fede e della sua conversione? Di conseguenza è impossibile
pronunciarci sulla recezione effettiva del dono di Dio, recezione che, come sottolinea-
va Agostino a proposito del battesimo, è sempre dipendente dalla fede: Accipit qui-
sque secundum fidem suam.2i II rito può essere perfettamente efficace sul piano sim-
bolico dello statuto nuovo del soggetto nella Chiesa, senza che tuttavia questa efficacia
intra-linguistica sia accompagnata da quella, extra-linguistica, riguardante il dono e
la recezione della grazia stessa.

4. Bilancio
Tenuto conto di quanto precede, ci si può domandare cosa guadagniamo a pensare
la grazia nella scia dell'effetto simbolico degli atti di linguaggio rituale a cui essa è
tuttavia irriducibile. Di fatto il guadagno non ci sembra di poco conto, e su tre piani:
a) Prima di tutto, a livello del discorso della grazia, riteniamo che pensarla sul
registro simbolico dell'avvento dei soggetti significhi situarla su di un terreno che le
è omogeneo — quello del non-valore —, invece di doverci riferire, come la scolastica
e l'onto-teologia che la sottende, a un concetto che le è del tutto eterogeneo come quel-
lo di causalità.

28
AGOSTINO, De Bapt. e. Don. Ili, 15.

303
b) Poi, a livello dello statuto epistemologico del nostro discorso, il fatto che noi
poniamo la grazia come irriducibile, perché di un altro ordine, a tutto quello che pos-
siamo dirne, e soprattutto all'efficacia simbolica degli atti di linguaggio, non squalifi-
ca affatto la riflessione proposta. Questo è anzi pienamente conforme alla nostra pro-
blematica, poiché abbiamo rinunciato a pretendere di rendere ragione delle cose.
c) Infine, proponendo questo discorso, non facciamo altro che il nostro lavoro di
teologi: rendere pensabile quello che crediamo, rimanendo inteso che questa intelli-
genza è ermeneuticamente inseparabile da quella che abbiamo di noi stessi come uo-
mini nella cultura di questo tempo. Come la Scrittura è già a sua volta, in quanto testi-
monianza, una interpretazione, così «la risposta della fede appartiene al contenuto stesso
della rivelazione».29 Tra le diverse modalità di questa risposta — la preghiera, l'impe-
gno etico, l'esperienza liturgica... —, la scrittura teologica è a un tempo anamnesi e
profezia: «Essa può attualizzare l'evento fondatore come evento contemporaneo solo
producendo un nuovo testo e nuove figure storiche».30 Ed è proprio un «nuovo testo»
che, nella fedeltà creatrice alla tradizione ecclesiale che ci abita, noi abbiamo tentato
di scrivere qui. Non tentare questo lavoro ermeneutico in relazione alla cultura che
respiriamo significherebbe abdicare al nostro compito.
Certo, in ragione della tradizione metafisica che ci abita fin nel nostro linguaggio
e, più precisamente, fino nella nostra grammatica, è inevitabile che ci rappresentiamo
la grazia, come un «oggetto» datoci dal «soggetto» Dio. Ma pensare significa sempre
scoprire le evidenze prime. Questo è vero teologicamente. Dobbiamo quindi continua-
mente rovesciare questo schema oggettivante, con il rapporto di causalità, di strumen-
talità e di produzione che esso implica. Coscienti dei limiti di questo schema, gli sco-
lastici hanno tentato di purificarlo mediante l'analogia. Era il loro modo di manifesta-
re che non erano affatto prigionieri delle rappresentazioni onto-teologiche nel cui qua-
dro non potevano non pensare. Ma, pur criticando queste rappresentazioni, la dottrina
dell'analogia ne consacrava la legittimità e vi installava la tradizione teologica: allora
era impossibile pensare diversamente.
Riteniamo, da parte nostra, che oggi possiamo pensare diversamente situandoci,
per quanto possibile, su di un altro terreno — sempre mobile — rispetto a quello della
metafisica tradizionale: il terreno dell'ordine simbolico. Così facendo, abbiamo la con-
vinzione di prolungare il gesto di apertura che la grande scolastica, in ciò che essa
ha di migliore (a nostro avviso) ha cercato di praticare nei suoi stessi confronti. Ma,
a differenza della scolastica, non ci accontentiamo di pensare questa rottura come un
momento necessario all'interno del quadro metafisico: tentiamo di pensare proprio a
partire da questa rottura. Qui c'è evidentemente qualcosa di più di una sfumatura: è
un altro pensiero teologico che cerca di elaborarsi. Questo, in ogni caso, è il nostro
modo di trarre del nuovo partendo dall'antico. Questo è il nostro modo di riconoscerci
eredi di una grande tradizione: meditare su ciò che essa esclude e che tuttavia è quello
che la rende possibile, così come lo esprime essa stessa nei passi indietro critici che
pratica nei suoi stessi confronti attraverso i molteplici quasi o quomodo. Ed è proprio
questo che abbiamo imparato più di ogni altra cosa da Heidegger: ogni passo avanti
nel pensiero si effettua alla rovescia.

29
C. GEFFRÉ, Le Christianisme au risque de l'interprétation, op. cit., p. 20.
)0
I D . , ibid., p. 74.

304
UN GRAZIOSO «LASCIAR-ESSERE»

Situata nell'ordine simbolico, la grazia appare a un tempo come gratuita, cioè sempre
preveniente e da nulla necessitata, e come graziosa, cioè irriducibile a qualsiasi «ispe-
zione», quindi a qualsiasi «valore» (concettuale, energetico, morale...)- La generosità
dell'Essere di cui parla Heidegger (es gibt Sein) le fa eco. Omologo, abbiamo detto,
è il cammino verso l'uno e l'altra; omologo anche perché questo cammino «che mette
tutto in cammino mette in cammino per il fatto che è parlante» e che è quindi «transiti-
vo», è lo stesso atteggiamento del soggetto nei due casi: atteggiamento di accoglienza
e di ascolto verso un imprendibile in cui noi siamo già presi; atteggiamento grazioso
di «lasciar-essere» e di «lasciarsi-dire» che ci richiede di elaborare il lutto di qualsiasi
padronanza. Che cos'è la grazia? Non la potremo mai definire come un «In-Faccia»
che esisterebbe in sé. Possiamo soltanto esprimere il lavoro simbolico di genesi che
essa effettua in noi: lavoro di permanente passaggio al «rendere grazie» — così diven-
tiamo come figli per Dio — e al «vivere-in-grazia» — e così diventiamo simultanea-
mente come fratelli per l'altro — che ci fa cor-rispondere a quel Dio che «fa grazia»
rivelato in Gesù.

305
PARTE QUARTA

SACRAMENTARIA
E CRISTOLOGIA TRINITARIA
Introduzione

DAL DISCORSO SACRAMENTARIO


AL DISCORSO CRISTOLOGICO

Il modo in cui si intende l'azione di Dio nell'azione sacramentale tutta umana della
Chiesa rimanda inevitabilmente al modo in cui si intende il rapporto di Dio con l'uo-
mo, rapporto che è necessariamente fondato nel cristianesimo su colui che il concilio
di Calcedonia ha definito come «consostanziale al Padre secondo la divinità, conso-
stanziale a noi secondo l'umanità», senza che fra le sue due «nature» ci siano confusio-
ne o cambiamento, e nemmeno divisione o separazione. Per questo ogni teologia de-
gna di questo nome richiede coerenza tra il suo discorso sacramentario e il suo discor-
so cristologico. Questo non significa che sarebbe possibile ricalcare semplicemente
la struttura della Chiesa o dei sacramenti su quella del Verbo incarnato. Y. Congar
ha mostrato bene «la verità e i limiti di un parallelo» tra i due.1 Resta il fatto che ci
si può augurare da un discorso cristologico l'ecclesiologia e la sacramentaria che gli
sono conseguenti, e che la sacramentaria permette, al contrario, di risalire verso la
cristologia.
Una simile risalita è d'altronde tradizionale. Per Ignazio di Antiochia il disprezzo
dell'eucaristia non può che andare di pari passo con un docetismo cristologico.2 Ana-
logamente Tertulliano, contro Marcione, può scrivere che egli «ha dimostrato nel Van-
gelo la verità del corpo e del sangue del Signore» sul piano cristologico «a partire dal
sacramento del pane e del calice».3 E sappiamo che, contro gli Gnostici, l'eucaristia
appare ad Ireneo come la vera pietra di paragone dell'ortodossia cristologica e trinita-
ria: «Per noi, il nostro modo di pensare si accorda all'eucaristia, e l'eucaristia in cam-
bio conferma il nostro modo di pensare».4
In un contesto socio-culturale completamente diverso e secondo una problematica
teologica molto diversa da quella dei Padri, ritroviamo una analoga risalita dalla sa-
cramentaria alla cristologia nella scolastica latina a proposito di una quaestio diventata
allora importante: quella della modalità di produzione della grazia sacramentale. Ab-
biamo segnalato al capitolo I il parallelismo tra sacramentaria e soteriologia sia nel
san Tommaso prima maniera del Commento alle Sentenze che nel san Tommaso se-
conda maniera della Somma Teologica: nel primo caso (come in san Bonaventura) il

' Y. CONGAR, «Dogma cristologico ed ecclesiologia. Verità e limiti di un parallelo», in A. GRILLMEIER,


ecc., Das Konzil von Chalkedon, Bd. Ili, Wurzburg 1954, pp. 239-268.
1
IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Smym. 7,1; Rom 7,3 (SC, n. 10, Cerf 1957).
3
TERTULLIANO, «Adv. Marcionem», 5,8,3 in CCSL, t. 1, p. 686.
4
IRENEO, Adv. Haer. IV, 18,5 (SC, n. 100, op. cit.).

309
sacramento svolge, come l'umanità di Cristo, un semplice ruolo di «disposizione» alla
recezione della grazia di salvezza; nel secondo caso, ai due viene riconosciuta una ve-
ra e propria efficacia, subordinata all'azione divina.
È questo rapporto tra sacramentaria e cristologia che interroghiamo nella nostra
ultima parte. Lo faremo in due capitoli. Il capitolo XII vorrebbe mostrare che i sacra-
menti vanno pensati non nella scia dell'unione ipostatica, come ha fatto la scolastica,
ma in quella della Pasqua di Cristo presa in tutta la sua estensione, cioè a partire dalla
sua morte (dunque anche dalla sua vita concreta senza la quale la sua morte non può
essere teologicamente intesa come «morte per noi») e dalla sua risurrezione, che inclu-
de il dono dello Spirito a Pentecoste da cui nasce la Chiesa visibile e la Parusia. Mo-
streremo che un simile spostamento ha una portata considerevole.
Intesi, in questa prospettiva, come i simboli di un Dio che continua a darsi un cor-
po di mondo e di umanità, i sacramenti ci richiedono quindi di domandarci: di quale
Dio parliamo dunque, perché possiamo riconoscere in essi il dono della sua grazia?
Infatti affermare teologicamente la «grazia sacramentale», cioè la comunicazione di
Dio con l'uomo all'interno dell'azione tutta umana della Chiesa, richiede, secondo noi,
una sovversione delle nostre rappresentazioni onto-teologiche «semplici» di Dio. Ed
è proprio un pensare di Dio, a partire dalla Croce, come umano nella sua divinità,
che il capitolo XIII tenterà di elaborare.
In questo modo crediamo che il nostro lavoro possa trovare una sua unità. Che
la nostra condizione di cristiani sia strutturata da atti rituali nei quali la Chiesa ricono-
sce degli eventi di grazia è per noi un dato acquisito della tradizione ecclesiale. Quale
intellectus fidei possiamo darne? Il chiarimento di questa domanda fondamentale ri-
chiede, come abbiamo detto, che noi incrociamo due assi fondamentali di riflessione:
Yasse della simbolica, che ci consente un nuovo pensare dell'uomo; e, in coerenza
con il primo, l'asse di una cristologia trinitaria che ci apre a un nuovo pensare di Dio.
È a quest'ultimo punto che si riferisce la nostra IV parte.

310
Capitolo Dodicesimo

I SACRAMENTI DELLA PASQUA NUOVA

Questo capitolo vuole mostrare che il rapporto tra Dio e l'uomo nei sacramenti
va inteso non prima di tutto a partire dall'unione ipostatica, come ha fatto la teologia
scolastica, ' ma a partire dalla Pasqua di Cristo (E). Valuteremo le conseguenze di questo
spostamento.

I. IL PUNTO DI PARTENZA DELLA SACRAMENTARIA SCOLASTICA:


L'UNIONE IPOSTATICA
Procederemo in due tempi: prima di tutto tenteremo di mostrare la logica interna
che ci sembra esistere tra la teoria sacramentaria di san Tommaso d'Aquino da una
parte, e la sua cristologia, pneumatologia ed ecclesiologia dall'altra. Ne diremo in se-
guito le implicazioni a livello della sua rappresentazione del rapporto tra Dio e l'uomo.

1. Tommaso d'Aquino: la logica interna del rapporto


tra la sua sacramentaria e gli altri settori della sua teologia

a) Una sacramentaria che prolunga direttamente la cristologia


«Dopo lo studio dei misteri del verbo incarnato deve venire quello dei sacramenti
della Chiesa, perché è dal Verbo Incarnato che essi traggono la loro efficacia»: questo
è il primo enunciato di san Tommaso nel suo «Trattato dei sacramenti» della Summa
Theologica (III, q. 60). Come annuncia questo Prologo, i sacramenti sono pensati co-
me prolungamenti della cristologia; più precisamente, come vedremo, dell'unione ipo-
statica.
Certo, dal punto di vista dei loro effetti, essi derivano dalla passione di Cristo: i
segni di cui sono fatti ne sono la commemorazione (signum rememorativum), ne mani-
festano l'effetto attuale di grazia (signum demonstrativum) e ne annunciano la finalità,
la gloria futura (signum praenuntiativum). ' Di fatto Tommaso non smette di ripetere,
sotto punti di vista diversi, che i sacramenti operantur in virtute passionis Christi e
che la loro efficacia deriva interamente da essa in quanto è causa sufficiens humanae
salutis.2

1
ST HI, q. 60, a. 3.
2
Ibid., q. 61, a. 1, ad 3. Ricordiamo che, nella Summa, gli «acta et passa» di Gesù vengono detti «cau-
sare» (strumentalmente) la grazia della salvezza non soltanto «nella modalità di merito», ma «mediante una
certa efficienza» (in, q. 8, a. 1, ad 1; cf q. 49, a. 1, ad 3).

311
Ma tale efficacia, a sua volta, è possibile solo in ragione della grazia dell'unione
ipostatica. Infatti, la «grazia capitale» di Cristo nei confronti della Chiesa e di tutti
gli uomini (III, q. 8) ha il suo fondamento nella sua «grazia personale» in quanto sin-
gularis homo (q. 7); questa è immediatamente legata alla «grazia di unione» (q. 2-6).
Per questo, quando pensa i sacramenti sotto l'angolatura non più della loro efficacia
ma della loro essenza o natura, Tommaso li situa interamente nel prolungamento del-
l'unione ipostatica: essi sono conformati ad essa, poiché «uniscono il "verbo" alla
cosa sensibile, come nel mistero dell'incarnazione il Verbo di Dio è unito a una carne
sensibile».3 Una simile conformatio, secondo la lingua degli scolastici, non è affatto
una semplice imitazione o un ricalco esteriore; ha una portata ontologica.4 Lo vedia-
mo bene quando Tommaso analizza la questione della modalità di causalità dei sacra-
menti: «La causa principale della grazia è Dio stesso, per il quale l'umanità di Cristo
è uno strumento congiunto (come la mano rispetto alla volontà) e il sacramento uno
strumento separato (come il bastone, mosso a sua volta dallo strumento congiunto, la
mano). Bisogna dunque che la virtù salutare discenda dalla divinità di Cristo attraver-
so la sua umanità fino ai sacramenti».5 Impossibile pensarli di più come prolungamenti
della santa umanità del Verbo incarnato, come sacramenta humanitatis ejus.6 La sa-
cramentaria è la replica esatta della cristologia, e le domande critiche che si possono
porre alla prima derivano prioritariamente dalle interrogazioni a cui si può sottoporre
la seconda.
Il situare il Trattato dei sacramenti nella scia della cristologia ha il vantaggio —
non certo di poco conto! — di sottolineare che essi sono atti di Cristo. Ma non è privo
di inconvenienti. Infatti, se nella Summa i «misteri» della vita di Cristo occupano un
posto abbastanza importante — superiore a quello della recente neo-scolastica —, essi
sono però trattati in modo astorico, conformemente, d'altronde, sia alla mentalità del-
l'epoca, sia alla tecnica tanto rigorosa e precisa quanto astratta e impersonale della
quaestio/disputatio/determinatio da cui nasce ciascun articulus. Il tessuto concreto della
storia di Gesù non è preso in considerazione come luogo teologicamente pertinente
per capire il significato della sua morte come «morte per noi». Per questo motivo, tutto
si è già giocato teologicamente nella prima parte della cristologia, cioè nell'anione ipo-
statica. La Redenzione, il cui peso è portato essenzialmente dalla passione e dalla cro-
ce (q. 46-50), non è altro che lo sviluppo conseguente, e anche oneroso, di ciò che
è già inscritto nell'Incarnazione. La Risurrezione, da parte sua, non occupa molto l'at-
tenzione. D'altronde nelle Somme medievali, come nota J. Dorè, «essa era affrontata
a partire dal mistero primo dell'Incarnazione del Verbo, in modo tale che essa appari-
va molto più come la restituzione del Verbo incarnato al suo "stato" normale (o a
ciò che "avrebbe dovuto esserlo"), un momento velato dagli abbassamenti consentiti
dalla vita terrena, che come l'accesso dell'uomo Gesù a una nuova condizione, conse-
cutiva a una vita di fedeltà e di fede, compimento di una vera storia di Gesù Cristo».7

!
Ibid., q. 60, a. 6.
4
Su questo punto vedere M.D. CHENU, Introduction à l'étude de saint Thomas d'Aquin, op. cit., pp.
86-87.
5
ST HI, q. 60, a. 6.
6
Ibid., q. 80, a. 5.
' J. DORÈ, «La résurrection à l'épreuve du discours théologique», in Visage du Christ, RSR, Desclée,
Paris 1977, p. 283.

312
Come la storia concreta di Gesù, anche la sua risurrezione non viene veramente assun-
ta come luogo principale di elaborazione della cristologia.
D'altra parte si osserva che Tommaso, nella sua parte soteriologica, supera i van-
geli e segue infatti, a partire dalla passione, i vari articoli cristologici della seconda
parte del Credo.8 Ci si può allora chiedere perché, prima di trattare i sacramenti, egli
non abbia continuato l'operazione prendendo in considerazione la terza parte del Sim-
bolo della fede, parte tradizionalmente pneumatologica ed ecclesiologica. Probabil-
mente una delle ragioni è che i trattati della Chiesa non esistevano ancora come tali,
come vedremo. In ogni caso la non presa in considerazione, nel quadro dell'esaltazio-
ne di Cristo, dell'invio dello Spirito a Pentecoste come agente della nascita e della cre-
scita missionaria della Chiesa visibile rafforza evidentemente il carattere astorico del
«Trattato dei sacramenti».
Innestata dunque direttamente sulla cristologia, e su una cristologia fondamental-
mente determinata dall'unione ipostatica, una simile sacramentaria è statica. Non ha
più quella dinamica che, nei Padri, le derivava dalla sua iscrizione nel movimento sto-
rico dell'«economia» rivelata in «misteri» dalle Scritture, misteri che erano figura di
quello di Cristo e della Chiesa dispiegatosi fino a noi, al soffio dello Spirito, in evento
di salvezza nei sacramenti. La scolastica pagava in questo modo la frattura semantica
che aveva a poco a poco fatto perdere al sacramentum il suo rapporto originario con
il mysterium biblico e che si era rafforzata con la teoria recente da cui era emerso il
settenario. In breve, una sacramentaria pensata prioritariamente a partire dall'unione
ipostatica e, analogicamente, sulla sua stessa modalità, non può inscriversi nel movi-
mento della storia concreta, come fa invece una sacramentaria pensata a partire dalla
Risurrezione del Crocifisso e dunque dalla presa di corpo escatologica del Risorto nel
mondo attraverso lo Spirito di Pentecoste.

b) Una sacramentaria pneumatologicamente debole

— Una pneumatologia precisa e abbondante


Evitiamo prima di tutto un malinteso. Tommaso, per limitarci a lui, ha sviluppato
una pneumatologia precisa e abbondante.
Non ci fermeremo sulla sua pneumatologia intra-trinitaria. Più importante per il nostro in-
tento è il rapporto tra questa e la creazione. Procedendo nel modo di volontà e di amore, lo
Spirito è, per appropriazione, il principio di tutto ciò che esce dalla volontà e dall'amore liberi
di Dio: tutta la creazione (Contra Gentiles IV, 20), la creatura dotata di ragione (IV, 21), il
ritorno di questa verso Dio (IV, 22). Proprio per questo la grazia, senza la quale questo ritorno
dell'uomo a Dio è impossibile, va attribuita in special modo allo Spirito Santo. La missione
dello Spirito è conforme alla sua processione: «Lo Spirito Santo è l'Amore. È dunque il dono

' Ricordiamo il piano della III Parte della Summit: I) Cristologia: 1) il mistero dell'incarnazione (q.
1-26); 2) il mistero della redenzione («acta et passa» del Cristo salvatore studiati in quattro grandi momenti:
[a] q. 27-39: l'ingresso di Cristo nel mondo (verginità di Maria, annuncio a Maria, nascita di Cristo, mani-
festazione ai Magi, circoncisione, battesimo operato da Giovanni); [b] q. 40-45: la sua vita sulla terra (ten-
tazioni, insegnamento, miracoli, trasfigurazione); [e] q. 46-52: la sua uscita dal mondo (passione, morte,
sepoltura, discesa agli inferi): [d] q. 53-59: la sua esaltazione (risurrezione, ascensione, seduta alla destra,
potere di giudicare il mondo). II) / sacramenti (q. 60 - Suppl. q. 68). Ili) Ifini ultimi (Suppl. q. 69-99).

313
della carità che assimila l'anima allo Spirito Santo, ed è a ragione della carità che si considera
una missione dello Spirito Santo».'
Allora, se si domanda ciò che caratterizza principaliter il regime della nuova alleanza, ciò,
che ne fa tutta la virtus, Tommaso risponde: «È la grazia dello Spirito Santo, che è dato dalla
fede al Cristo»;10 e se un'opera umana riceve da Dio un'efficacia meritoria, questo avviene «in
quanto essa procede dalla grazia dello Spirito Santo» poiché «il valore del merito viene dalla
virtù dello Spirito Santo che ci muove verso la vita eterna», e perché è questo stesso Spirito
che «abitando l'uomo mediante la grazia», è «causa.sufficiente di vita eterna»." Di qui il posto
che egli riserva ai doni dello Spirito Santo, alle beatitudini e ai frutti dello Spirito nella struttura
virtuosa del fedele (Ia-IIae, q. 70).
In queste condizioni non ci si meraviglierà che la sua pneumatologia si estenda alla Chiesa
e ai sacramenti. «L'anima che vivifica il corpo (che è la Chiesa) è lo Spirito Santo. Per questo,
dopo la fede nello Spirito Santo, ci viene richiesto di credere la santa Chiesa cattolica, come
indica il simbolo», scrive Tommaso nella sua Exposìtio in symbolum.12 D'altronde, precisa nella
Summa, non è preferibile dire, conformemente all'uso più corrente, credo sanctam ecclesiam,
piuttosto che in sanctam ecclesiam? Si crede in Dio; si crede la Chiesa. Se si vuole conservare
l'espressione in ecclesiam, bisogna «riferirsi allo Spirito Santo che santifica la Chiesa», in modo
tale che il senso sia: Credo in spirìtum sanctum sanctificantem Ecclesiam. "
Anche a proposito dei sacramenti, Tommaso ha delle formule pneumatologiche estre-
mamente forti dal punto di vista proprio dei concetti tecnici impiegati: «Nella persona
di Cristo, l'umanità causa la nostra salvezza mediante la grazia sotto l'azione della
virtù divina che è l'agente principale. Analogamente nei sacramenti della legge nuova
che derivano da Cristo, la grazia è causata da essi a titolo strumentale, ma per mezzo
della virtù dello Spirito Santo che agisce in essi a titolo di agente principale, secondo
Gv 3,5: " S e uno non rinasce dall'acqua e dallo Spirito..."». 1 4 E, a proposito dei tre
battesimi di acqua, di sangue e di spirito: «Il battesimo di acqua trae la sua efficacia
dalla passione di Cristo alla quale l'uomo è configurato mediante il battesimo; e, aldi-
là, come dalla sua causa prima, dallo Spirito Santo».15 Citiamo ancora un passo sul
quale torneremo tra poco e che riguarda la pratica orientale dell'eucaristia dove l'epi-
clesi allo Spirito svolge un ruolo tradizionalmente di primo piano. Tommaso riporta,
come auctoritas che pone una difficoltà, questa frase di san Giovanni Damasceno: «E
in forza della sola virtù dello Spirito Santo che si fa la conversione dal pane al corpo
di Cristo». Soluzione: «Non si esclude con questo la virtù strumentale che si trova nel-
la forma di questo sacramento (cioè le parole della consacrazione). Così, quando si

9
STI, q. 43, a. 5, ad 2; C. Geni. IV, 21;H.D. DONDAINE, Saint Thomas d'Aquin, Somme Théologique
I, q. 33-43, La Triniti, t. 2, ed. de la Revue des Jeunes, 1950, n. 135 e pp. 423-453; C.V. HÉRIS, stessa
edizione della Somme, Ia-IIae, q. 109-114, La gràce, 1961, pp. 387-390; C. BAUMGARTEN, La Gràce du
Christ, Desclée, 1963, cap. 4: «La théologie de la gràce selon saint Thomas d'Aquin», pp. 83-104.
10
57/Ia-IIae, q. 106, a. 1; q. 107, a. 1, ad 3.
11
Ibid., q. 114, a. 3.
12
Exp. in Symb., a. 9. Cf Y. CONOAR, Esquisses du mystère de l'Églìse, op. cit.; pp. 59-91.
13
ST Ila-nae, q. 1, a. 9, ad 5.
"Ibid., Ia-IIae, q. 112, a. 1, ad 3.
I!
Ibid., III, q. 66, a. 11; ibid., a. 12: «La virtù dello Spirito Santo agisce nel battesimo d'acqua me-
diante la sua virtù che vi è nascosta; nel battesimo di penitenza, mediante la conversione del cuore; ma
nel battesimo di sangue, essa agisce mediante il più intenso fervore di amore ("dilectio") e di attaccamento
("affectio") secondo Gv 15,13: "Non c'è amore più grande di chi dà la sua vita per coloro che ama"».

314
dice che solo l'artigiano fabbrica un coltello, non si esclude la virtù del suo martel-
lo».16 Anche qui Tommaso riconosce allo Spirito un ruolo di agente principale. In que-
sta vena ecclesiologica e sacramentale bisognerebbe citare tutto il commento di Gv 6.
Consideriamone solo questa affermazione: «L'unità ecclesiale è fatta dallo Spirito Santo
[...]. Colui che mangia e beve spiritualmente diventa partecipante dello Spirito Santo
attraverso il quale noi siamo uniti al Cristo di una unione di fede e di carità e mediante
il quale diventiamo membri della Chiesa». " Ritroviamo qui tutto l'Agostino dei tratta-
ti 26-27 sul Vangelo di Giovanni, di cui molti passaggi erano diventati sentenze classi-
che fin dall'alto Medioevo...
— Una pnematologia che non è tuttavia all'altezza rispetto al principio cristologico
Come è possibile, di fronte a simili testi, cogliere ancora una debolezza pneumato-
logica nella sacramentaria di san Tommaso? Sono necessarie quindi, a questo punto,
numerose osservazioni. La prima è che san Tommaso, nei suoi testi pneumatologici
più forti, non fa che «leggere» i testi della Scrittura su questo argomento, soprattutto
quelli di Giovanni e di Paolo di cui sappiamo quanto spazio diano, insieme con gli
Atti, allo Spirito. Tenuto conto di testi come Gv 3 e / Cor 10 a proposito del battesi-
mo, o come Gv 6 a proposito dell'eucaristia, è impensabile non sottolineare, e con
forza, il ruolo dello Spirito in questi sacramenti.
D'altra parte Tommaso non faceva che riprendere in questo modo quello che era
un patrimonio comune della grande tradizione, sia occidentale che orientale, della Chie-
sa. Più precisamente, non faceva che riprendere la fortissima pneumatologia battesi-
male ed eucaristica dello stesso Agostino, anche se, in quest'ultimo, l'asse Spirito-
santificazione del pane in corpo eucaristico è nettamente meno accentuato dell'asse
Spirito-santificazione dell'assemblea in corpo ecclesiale.18 Analogamente, la vena teo-
logica agostiniana relativa alla Chiesa come sacramento dell'unità dello Spirito19 non
poteva non avere incidenze su una scolastica che «rimane nei suoi principi, nel suo
spirito, nelle sue strutture dominata dalla teologia di Agostino».20
16
Ibid., q. 78, a. 4, obj. 1 e ad 1.
" Super Evang. S. Ioan. Lectura, e. 6, lect. 7, 3-5. C f M. CORBIN, «Le pain de la vie. La lecture de
Jean VI par S. Thomas d'Aquin», in Visages du Christ, RSR 65/1, 1977, pp. 107-138.
" «Attraverso la venuta del Verbo, il pane e il vino diventano corpo e sangue del Verbo; attraverso
la venuta del fervore dello Spirito, voi siete stati cotti e siete diventati il pane del Signore» (Serm. Denis
6,1). «Viene dunque lo Spirito Santo, dopo l'acqua e il fuoco, e voi diventate il pane che è il corpo di Cristo»
(S. 227). Si è così potuto scrivere a proposito di Agostino: «Il problema di una azione dello Spirito Santo
sull'offerta eucaristica sembra totalmente al di fuori del suo campo di interesse», mentre l'azione dello stes-
so Spirito sull'assemblea che diventa il corpo ecclesiale di Cristo è invece costantemente messa in risalto.
B . BOBRINSKOY, «Saint Augustin et l'eucharistie», va Parole et Pain, n. 52, 1972, pp. 346-353; cit., p. 351;
«L'Esprit du Christ dans les sacrements chez Jean Chrisostome et Augustin», in C. KANNENGIESSER (ed.),
Jean Chrisostome et Augustin, Beauchesne, 1975, pp. 247-279. Cf M.F. BERROUARD, Saint Augustin, Hom.
sur l'év. de Jean XVH-XXXIII, Bibl. aug. n. 72, n. 7 1 : «L'eucharistie, sacrement de la participation à l'E-
sprit du Christ», pp. 830-832. Tuttavia, in De Trìn. Ili, 4,10, Agostino scrive: «La consacrazione che ne
fa un così grande sacramento non viene che dall'azione invisibile dello Spirito di Dio». Serm. 8,3: «Sanctifi-
catio nulla divina et vera est nisi a Spiritu sancto» (PL 38,72).
" La Chiesa come «societas sanctorum» è «l'opera propria dello Spirito Santo» e quindi il luogo concre-
to della comunione intra-trinitaria poiché lo Spirito che procede dal Padre e dal Figlio «tamquam ab uno
principio» è il «nexus amborum», la loro «charitas substantialis et supersubstantialis» (Sur l'év. de Jean,
tr. 14,9; 105, 3; De Bapt. e. Don. I, 17, 26, ecc.).
20
M.D. CHENU, Introduction à l'étude de S. Thomas d'Aquin, op. cit., p. 45.

315
Raccogliendo qua e là i frutti di questa tradizione pneumatologica, Tommaso non faceva inoltre
che prolungare una dottrina molto viva nell'alto Medioevo. Secondo Isidoro di Siviglia il sacra-
mento non si compie forse operante invisibiliter Spirìtu Dei? Isidoro poteva basarsi su di una
tradizione liturgica mozarabica che, come la cugina gallicana, dava grande spazio allo Spirito
Santo perfino nelle preghiere eucaristiche, d'altronde molto più influenzate, nei due casi, dalle
anafore siriane orientali che dal Canone romano. Quando Beda il Venerabile, nell'VIII secolo,
afferma a sua volta che il sacramento è compiuto ineffabili Spiritus sanctificatione, non fa che
esprimere la liturgia che gli è familiare. Si citerà addirittura in P. Lombardo e Alberto Magno
una formula del Liber de corpore et sanguine Domini (cap. 4) di Pascasio Radberto (IX secolo)
attribuita ad Agostino: Sicut per Spiritum sanctum vera Christi caro sine coitu creatur, ita per
eundem ex substantia panis et vini idem corpus et sanguis consecratur. Lo stesso Pascasio ha
d'altronde delle formule che, da sole, sarebbero potute bastare ad evitare la disgraziata disputa
sull'epiclesi tra Oriente e Occidente: la consacrazione si opera per sacerdotem super altare in
verbo Christi per Spiritum Sanctum, oppure virtute Spiritus Sancii per verbum Christi; o ancora
la formula che Tommaso cita nella Summa come di Agostino: In verbo Creatoris et in virtute
Spiritus sancti.2' Y. Congar fornisce tutta una raccolta di testimonianze sulla vitalità della pneu-
matologia sacramentaria in questo IX secolo in particolare, ma anche nei secoli XI-XII, e perfi-
no in un testo così solenne come la professione di fede imposta da Innocenzo III ai Valdesi nel
1208, in cui si dice che la Chiesa celebra i sacramenti inaestimabili et invisibili virtute Spiritus
sancti cooperante.22
Allora, ciò che stupisce nell'ecclesiologia o nella sacramentaria di Tommaso non
è che ci siano delle belle formule sull'azione dello Spirito, ma che, rispetto a quelle
relative a Cristo, ce ne siano così poche. Certo, si possono citare dei testi pneumatolo-
gici, dei bei testi anche, alcuni dei quali hanno un peso teorico innegabile (per esempio
rispetto alla causalità). L'abbiamo fatto. Ma, a snocciolarli così, si rischia di falsare
la prospettiva d'insieme.
Se le statistiche hanno un qualche interesse, non si può non riconoscere come si-
gnificativo che il Cristo (il verbo incarnato, la passione di Cristo, il sacerdozio di Cri-
sto, il potere di eccellenza di Cristo, ecc.) sia menzionato quasi in ognuno dei 38 arti-
coli del «Trattato dei sacramenti» in generale — e spesso molte volte nel corso dello
stesso articolo, arrivando a superare ampiamente il centinaio di luoghi — mentre lo
Spirito Santo, oltre alle menzioni non commentate della formula battesimale, vi appa-
re solo cinque volte. Nessuna di queste cinque menzioni dà luogo, d'altronde, a uno
sviluppo pneumatologico.23 L'unico passo che abbia una certa forza dal punto di vista
pneumatologico si trova in q. 64, a. 3, diff. 1, dove, dopo la citazione di Gv 1,33,
Tommaso sottolinea che «battezzare nello Spirito Santo significa conferire interiormente
la grazia dello Spirito Santo». Aggiungiamo che il qualificativo «spirituale», usato di
frequente, non ha significato pneumatologico: «realtà spirituale» equivale a «realtà in-
telligibile» e si oppone a «realtà sensibile» (q. 60, a. 4 e 5); «potenza spirituale» designa

21
PASCASIO RADBERTO, Uber de corp. et song. Dom., 3 e 12; PL 120, 1279 e 1310; TOMMASO, ST
ffl, q. 82, a. 5, s.c.
22
D-S 793. La formula pseudo-agostiniana di Pascasio riportata da Tommaso si ritrova in questo stesso
documento, D-S 794. Cf Y. CONGAR, «Le ròle du Saint-Esprit dans l'eucharistie selon la tradition occiden-
tale», in Je crois en l'Esprit-Saint, t. 3, op. cit., pp. 320-330.
21
Semplice citazione di 2 Cor 1,21 (q. 63, q. 1, s.c.) o di Gv 3,5 (q. 65, a. 4, diff. 2); ricordo che
la confermazione è il sacramento del dono dello Spirito (q. 65, a. 1, e. e ad 4); rifiuto di dedurre da Ef
4,30 che il «carattere» sacramentale sarebbe da attribuire allo Spirito Santo piuttosto che a Cristo (q. 63, a. 3).

316
la categoria dell'essere nella quale si classifica il carattere sacramentale (q. 63, a. 2);
e se il sacramento ha una «virtù spirituale», è «dalla sua benedizione per mezzo del
Cristo» che la riceve (q. 62, a. 4, ad 3). È necessario quindi constatarlo: quasi nulla
riequilibra, dal lato pneumatologico, il peso massiccio del principio cristologico.
L'unica menzione dello Spirito che abbia un reale impatto dal punto di vista dei
sacramenti in genere si trova nel «Trattato della grazia»; essa è citata supra, n. 14.
Per il battesimo ne abbiamo due, citate supra, n. 15. Per Y eucaristia, altre due, citate
supra, n. 16 e 21. Certo, il principio enunciato in questi cinque casi, sempre lo stesso,
è di primaria importanza dal punto di vista teorico: lo Spirito Santo è «agente principa-
le» o «causa prima» della grazia sacramentale. D'accordo. Ma come può avvenire che
Tommaso non ne ridica una sola parola nella sua serratissima analisi dei sacramenti
in generale, soprattutto quando ne considera l'essenza (q. 60), l'effetto principale, che
è la grazia (q. 62) e la causa (q. 64)? Certo nella quaestio 64 sulla causa dei sacramen-
ti, egli ripete molte volte che «la virtù del sacramento viene da Dio solo» che ne è
la «causa principale» e Yinstitutor, e questo implica evidentemente le tre persone divi-
ne poiché esse agiscono sempre in comune nelle loro opere ad extra. Ma quando attri-
buisce, per appropriazione, questa opera di santificazione a una di esse, non la attri-
buisce prima di tutto allo Spirito («dono della santificazione»), ma al Cristo («autore
della santificazione»):24 lo Spirito, in Tommaso, esercita una funzione di «oggetto» più
che di «principio».
Per questo, lungo tutta l'elaborazione della causalità sacramentale, non si tratta dello
Spirito. È «il Cristo» che «produce l'effetto interiore dei sacramenti in quanto è Dio
e in quanto è uomo». Così che il principio che guida da cima a fondo la sacramentaria
di Tommaso non è pneumatologico, ma quasi esclusivamente cristologico. Le poche
eccezioni che abbiamo incontrato sembrano appartenere alla tecnica dell'«esposizione
reverenziale»: «Quando san Tommaso incontra sul suo cammino le opinioni dei Padri,
le riconduce o le riduce al suo senso personale, interpretandole nella direzione del suo
sistema e delle sue idee. Invece di dire che i Padri si sono più o meno sbagliati, o
che lui pensa in modo diverso da loro, li espone reverenter, così come egli chiama
questo modo di fare», peraltro tradizionale nella Scolastica dopo Abelardo.25 Tipica
di questo metodo è la maniera in cui risolve le difficoltà che vengono dall'epiclesi nel-
la Chiesa orientale, in III, q. 78, a. 4 e q. 82, a. 5: gli Orientali non hanno torto;
ma lo Spirito viene reso presente solo «per la virtù di Cristo di cui il prete proferisce
le parole».
Si può rilevare qui, allora, quella tendenza «cristomonista» che, secondo Y. Con-
gar,26 ha segnato la teologia latina, soprattutto nell'epoca scolastica; tendenza che si
accentua ancora di più dopo il XIII secolo. Questa debolezza della pneumatologia sa-
cramentaria è, in buona parte, lo scotto dell'insistenza scolastica sulla causalità come
elemento specifico che caratterizza i sacramenti della legge nuova. Tutto è sospeso
al Cristo da cui, a motivo dell'unione ipostatica, l'umanità possiede un «potere d'ec-
cellenza» sui sacramenti (strumenti separati) ed è lo strumento (congiunto) della sua

24
S I I , q. 43, a. 7.
21
P. MANDONNET, citato da M.D. CHENU, Introduction à l'étude de S. Thomas d'Aquin, op. cit., p. 125.
26
Y . CONGAR, «Pneumatologie et "christomonisme" dans la tradition latine?», in Ecclesia a Spirita
Sancto edocta, Mélanges Mons. G. Philips, Gembloux, 1970, pp. 41-63.

317
divinità che, sola, ha il «potere sovrano» su di essi (potestas auctoritatis); è dunque
«dalla loro istituzione da parte di Cristo che i sacramenti traggono la loro virtù».27 La
«virtù dello Spirito Santo» è così sottomessa in essi all'azione di Cristo: sacramenta
humanitatìs eius. In una simile sacramentaria il principio cristolagico, costantemente
affermato, non ha un vero corrispettivo pneumatologico. Lo Spirito Santo è l'oggetto
di riflessione puntuale, per esempio in occasione della confermazione. Ma non viene
davvero sviluppata nessuna pneumatologia nel «Trattato dell'ordine».28 E, in quello
della penitenza, sulle sette referenze fatte a Gv 20,22-23, soltanto tre collegano il po-
tere di ritenere o di rimettere i peccati al «ricevete lo Spirito Santo», e per indicare:
1) che il prete agisce come «strumento e ministro di Dio»; 2) che, senza il dono dello
Spirito Santo, il prete agisce validamente, ma «in modo sconveniente»; 3) che questa
parola non implica potere di giurisdizione, ma soltanto potere di ordine dato dal Cri-
sto.29 Questa riflessione è in ogni caso troppo puntuale per apparire come una dimen-
sione della sacramentaria. La pneumatologia è coperta dal principio cristologico della
causalità; lo Spirito è costantemente canalizzato da Cristo. E questo dà una sacramen-
taria fortemente istituzionale. Ecco la conseguenza principale, ai nostri occhi, di tutto
questo affare: l'insistenza sulla causalità sacramentale va di pari passo con una stretta
aderenza dei sacramenti all'unione ipostatica e alla santa umanità di Cristo che essi
prolungano, e, contemporaneamente, con una tendenza ad accentuare troppo una isti-
tuzione che, dotata della potestas di Cristo, tende ad assicurarsi il controllo della liber-
tà dello Spirito.

c) Una sacramentaria troppo slegata dall'ecclesiologia


Questo terzo enunciato, come i due precedenti, richiede prima di tutto di essere
anch'esso sfumato. Per san Tommaso i sacramenti sono degli atti di Cristo; è lui che
ne è Vauctor. Ma sono degli atti di Cristo nella Chiesa. Tommaso li chiama molto
spesso sacramenta Ecclesiae. Per agire in persona Christi, ci vuole l'intenzione di fa-
re ciò che fa la Chiesa, al punto che questa intenzione viene precisata come facere
quod facit Christus et Ecclesia, dove il verbo al singolare esprime bene che le due
azioni sono una sola. 30 1 sacramenti sono delleprotestationesfidei Ecclesiae, cosicché
il ministro agisce nel battesimo in persona totius Ecclesiae, ex cujus fide suppletur

" STIII, q. 64, a. 3.


28
Certo, in STSuppl. q. 35, a. 4, Tommaso afferma che «gli apostoli hanno ricevuto il potere dell'ordi-
ne prima dell'Ascensione, quando è stato detto loro: "Ricevete lo Spirito Santo..."». Ma alla q. 37, a.
5, ad 2, scrive che «il Signore ha affidato ai suoi discepoli la funzione principale del potere sacerdotale
prima della sua passione, all'ultima cena» e che, «dopo la sua risurrezione, ne ha loro commissionato la
funzione secondaria, che consiste nel legare e slegare». J. LÉCUYER commenta: «S. Tommaso si trova, in-
fatti, di fronte a una duplice tradizione. La più antica è favorevole alla collazione del sacerdozio ai discepoli
nella sera di Pasqua [...]. La seconda opinione, che pone l'ordinazione degli apostoli nella sera della Cena,
appare soltanto nel XII secolo, in relazione con l'opinione che fa della tradizione degli "strumenti" il rito
essenziale dell'ordinazione, in Alberto Magno e già in Onorio di Autun» (ed. della Summa nella Revue des
Jeunes, «L'ordre» [Suppl. q. 34-40], 1968, pp. 175-176).
" STSuppl. q. 18, a. 4; q. 19, a. 5, obj. 1 e ad 1; q. 20, a. 1, obj. 1 e ad 1. Non può essere un caso
— notiamo di sfuggita — se, qui come nell'eucaristia (supra), lo Spirito Santo è spesso oggetto di una «diffi-
coltà» in inizio di articolo. Come se «disturbasse» continuamente il «sistema»...
10
STIII, q. 64, a. 8, ad. 1.

318
id quod deestfideì ministro.31 E se il prete separato dalla Chiesa può consacrare vali-
damente il corpo e il sangue di Cristo (res et sacramentum), in cambio la res ultima
dell'eucaristia rimane comunque Yunitas corporìs mystici.32 Inutile moltiplicare le ci-
tazioni: la dimensione ecclesiale è quasi costantemente presente nella sacramentaria
di Tommaso. Com'è allora che rimaniamo insoddisfatti? Ci sono almeno tre ragioni.
La prima, congiunturale, si riferisce al fatto che i trattati di ecclesiologia non esi-
stevano ancora come tali nel XIII secolo. Certo, nel XII secolo si erano sviluppate
delle questioni ecclesiologiche, ma nel quadro di una questione cristologica relativa
alla «grazia capitale» di Cristo. Per questo motivo la sacramentaria non poteva essere
sviluppata nel prolungamento dell'ecclesiologia.
La seconda ragione è più importante, e si riferisce agli accenti fondamentali del-
l'ecclesiologia nel XIII secolo. Ne sottolineiamo due, messi in risalto da H. de Lubac
e da Y . M . Congar.
Per quanto riguarda il primo, accontentiamoci di ricordare l'incidenza, evocata pre-
cedentemente, della controversia su Berengario: una «cesura funesta» viene introdotta
tra il corpo eucaristico e il corpo ecclesiale, il quale perde il suo antico senso di veritas
corporìs Christi. Questa cesura è in qualche modo consacrata dalla teologia con la for-
mulazione precisa della distinzione fra sacramentum tantum/res et sacramentum/res
tantum durante gli anni 1130-1140 nella Summa Sententiarum e nel De Sacramentis
di Ugo di san Vittore, distinzione già ben abbozzata un poco prima in Algero di Liegi
e nella scuola di Anselmo di Laon. Il corpo eucaristico è la res et sacramentum; l'unità
ecclesiale, la res et non sacramentum. Il primo è res significata et significans, la se-
conda res significata et non significans. Con il Lombardo questa distinzione diventa:
corpus verum (eucaristia) = res significata et contenta; corpus mysticum (la Chiesa)
= res significata et non contenta. Commento di H. de Lubac: «Così, la realtà ultima
del sacramento, quella che ne era un tempo la cosa e la verità per eccellenza, viene
espulsa dal sacramento. Il simbolismo diventa estrinseco: si potrà ormai passarla sotto
silenzio senza nuocere all'integrità del sacramento. A partire dal momento in cui di-
venta corpus mysticum il corpo ecclesiale si separa già dall'eucaristia».33 Si arriverà
così, nel XIII secolo, a parlare del «corpo mistico» in maniera assoluta, senza fare più
riferimento all'eucaristia. «L'espressione designerà allora, commenta da parte sua Y.
Congar, il corpo sociale che è la Chiesa [...] e si potrà parlare del papa come di un
caput (secundarium) del corpo mistico: cosa che rimaneva impossibile finché l'espres-
sione manteneva una referenza eucaristica, perché designava allora il corpo che è il
Cristo stesso, di cui egli è soltanto il capo».34
La cesura viene accentuata, d'altra parte, dalla costituzione della questione de Christo
capite, già trattata nelle Sentenze di P. Lombardo (IH, d. 13). Questa questione si spo-
sta verso la fine del XII secolo per diventare il trattato De grafia capitis che il XIII
secolo conoscerà. Lo spostamento è teologicamente importante, e sembra avere ac-
compagnato quello del corpus mysticum. Fino alla metà del XII secolo, infatti, e anche
oltre, è lo Spirito Santo che, conformemente all'ecclesiologia agostiniana, viene con-

31
Ibid., a. 9, ad 1.
" Ibìd., q. 73, a. 3.
33
H. DE LUBAC, Corpus mysticum, op. cit., p. 283.
34
Y . CONGAR, L'Église, de saint Augustin à l'epoque moderne, op. cit., pp. 168-169.

319
siderato Vartifex, l'«operatore» (Ugo di san Vittore), l'agente efficiente dell'unità del-
la Chiesa, e non il Cristo per la sua grazia di capo.35 Certo, il Cristo stesso è conside-
rato come principio e fonte delle ricchezze interiori del suo corpo; ma è lo Spirito,
lo stesso nella Testa e nel corpo, che rende possibile questa comunicazione: è «parteci-
pando dello Spirito di Cristo» (participans Spiritum Chrìsti) che «si diventa membra
del corpo di Cristo».36 Dottrina pienamente agostiniana (supra). Nel XIII secolo non
si intendono più così le cose: la «santa umanità» di Cristo si distanzia dallo Spirito
Santo come agente e causa efficiente dell 'unità ecclesiale. La pienezza di grazia che
il Cristo possiede in forza dell'unione ipostatica è comunicata alla Chiesa attraverso
il canale della sua umanità santa: «Bisogna dunque che la virtù salutare discenda dalla
divinità di Cristo attraverso la sua umanità fino ai sacramenti». Tommaso avrebbe an-
che potuto scrivere «fino alla Chiesa».37 Parallelamente, nota Y. Congar, «si parla me-
no, nel XII secolo, della nascita della Chiesa a Pentecoste; il tema tradizionale cono-
sciuto anche in Oriente, della sua nascita dal costato di Cristo in croce, è invece estre-
mamente frequente».38
In terzo luogo la Chiesa, per l'insieme degli scolastici, evoca poco la comunità lo-
cale, soprattutto l'assemblea liturgica concreta in quanto realizzazione, particolare ma
integrale, della Chiesa universale. L'ekklesia nel Nuovo Testamento era prima di tut-
to, come sappiamo, la comunità locale.39 E nella prima patristica questo stesso caratte-
re concreto dtlVekklesia veniva colto in modo così netto che vi si affermava «con for-
za l'identità fra la partecipazione alTecdesuz-assemblea e l'appartenenza alla Chiesa».40
All'epoca scolastica, in mancanza di una percezione sufficientemente viva dell'assem-
blea concreta come Chiesa, era praticamente impossibile mettere in rilievo la sacra-
mentalità della Chiesa e pensare i sacramenti a partire da essa. La dimensione eccle-
siale di questi ultimi veniva sempre affermata, ma non poteva più essere colta come
una delle loro dimensioni intrinsecamente costitutive.
Se san Tommaso ha saputo essere originale su molti punti della sacramentaria, non
ha però potuto correggerne la traiettoria scolastica. Essendo erede di una pneumatolo-
gia relativamente debole in questo ambito, facendo sua la sostituzione di Cristo allo
Spirito come operatore efficiente dell'unità del «corpo mistico» ecclesiale, poco sensi-
bile alla sacramentalità concreta dell'assemblea-Chiesa, egli ha contribuito, da parte
sua, ad accentuare la tendenza istituzionale della sacramentaria.

" UGO DI SAN VITTORE, De Sacr. I, 6,17 (PL 176,274). RUPERTO DI DEUTZ: «Quod, eum sint multi,
sic per unam fidem unumque Spiritum in unum corpus ecclesiae sunt coniuncti» (De div. off. II, 6; PL 170,
38). Cf Y. CONGAR, ibid.. pp. 160-161.
" UGO DI SAN VITTORE, ibid., PL 176, 417.
17
57/III, q. 62, a. 5.
I!
Y. CONGAR, L'Église..., p. 164, con numerose referenze in nota.
" Nota della TOB su At 5,11. Cf 1 Cor 11,18; 14,23; Mt 18,17.
40
P.M. G Y , «Eucharistie et "ecclesia" dans le premier vocabulaire de la liturgie chrétienne», in LMD
130, 1977, p. 30. È in questa prospettiva, nota l'autore, che bisogna capire Ireneo: «Tutti coloro che non
accorrono all'ecclesia non partecipano a questo Spirito [...]. Infatti lì dove c'è l'ecclesia, lì c'è anche lo
Spirito; e lì dove c'è lo Spirito di Dio, lì c'è l'ecclesia e ogni grazia» (Adv. Haer. DI, 24,1). Lo stesso,
Ippolito, «a sua volta impregnato di Ireneo» (p. 31): «Si sarà impazienti di andare all'ecclesia lì dove fiorisce
lo Spirito» (Tr. Ap., 35).

320
d) Una sacramentaria dì tipo fortemente istituzionale
Esiste una coerenza tra il primato del principio cristologico in sacramentaria e la
teologia della processione dello Spirito ex Patre et Filio. Non diciamo necessità (il
Filioque in Agostino fonda una ecclesiologia di comunione); diciamo soltanto coeren-
za. In ogni caso, rispetto a un contesto di Cristianità stabilita, è possibile che l'osser-
vazione di O. Clément sia pertinente: «Il filioquismo [...], mettendo lo Spirito, quanto
alla sua esistenza ipostatica, nella dipendenza del Figlio, ha indubbiamente contribuito
a maggiorare l'aspetto istituzionale e autoritario della Chiesa romana».41 L'osserva-
zione può d'altronde essere illustrata direttamente da una frase dello stesso Tommaso
nel suo Contra errores Graecorum: «L'errore di coloro che dicono che il vicario di
Cristo, il Pontefice della Chiesa romana, non ha il primato della Chiesa universale
è simile all'errore di coloro che dicono che lo Spirito Santo non procede dal Figlio».42

Questa inclinazione istituzionale è illustrata in ecclesiologia dall'importanza crescente del


potere del papa, la cui teologia si formula a partire da Gregorio VII e trova un primo vertice
con Innocenzo III (inizio XIII sec.) per culminare nella bolla Unam Sanctam di Bonifacio Vili
nel 1302. Le diverse teorie che si affrontano, talvolta aspramente, a questo proposito partecipa-
no tutte di un bisogno comune: si aspira allora a un ideale di unità, di cui il papa sarebbe la
chiave di volta; così come si aspira a un ideale teologico di sintesi, di cui le Summae forniscono
il diagramma. D'altronde, sia che si tenga una posizione apertamente teocratica, sia che ci si
fermi a una posizione più sfumata, si ha sempre a che fare con «una teologia di un potere sacer-
dotale di fronte (e al di sopra) a un potere regale. Nella linea gregoriana, il potere papale diven-
ta una parte della visione teologica della Chiesa».43 Potere supremo, pensato nel XII secolo co-
me plenitudo potestatis, il cui detentore è chiamato vicarius Christi. Le due nozioni sono consa-
crate da Innocenzo III: il «pontefice supremo» è «non vicario di un semplice uomo, ma veramen-
te vicario del vero Dio».44 Non ha quindi paura di applicare a sé, come papa, ciò che era detto
di Cristo nei trattati della grazia capitale: «La pienezza dei sensi si trova con tutta la sua forza
nella testa, mentre le membra ne ricevono soltanto una parte».45 Così, almeno fra certi canonisti
e curialisti, il potere papale diventa «un potere quasi divino».46
Non si tratta certo di far discendere tutto questo movimento dalle tesi teologiche
ricordate precedentemente sull'indebolimento della pneumatologia a causa del raffor-
zamento della cristologia in sacramentaria, o sulla separazione progressiva del corpus
mysticum dalla sua orbita eucaristica: Gregorio VII è anteriore alla nascita di questi
movimenti teologici...! Ma è difficile non riconoscere un'aria di famiglia e una coe-
renza interna tra questi aspetti. Si assiste in ogni caso, con la scolastica, a un passag-
gio da una ecclesiologia fortemente pneumatologica e «sacramentale» a una ecclesiolo-
gia più istituzionale e giuridica, passaggio favorito teologicamente da uno sconfina-
mento crescente della santa umanità di Cristo sullo Spirito Santo, e reso, se non neces-
sario, almeno possibile dal Filioque.

41
O. CLÉMENT, L'Église orthodoxe, PUF, 1961, p. 50.
42
TOMMASO D'AQUINO, Contra errores Graecorum, e. 32, § «Quod Pontifex romanus...», in Opuscu-
la omnia, t. 3, ed. Lethielleux, Paris 1927, p. 322. Cf anche p. 303.
43
Y. CONGAR, L'Église..., p. 178.
44
PL 214, 292. Cf J.M.R. TILLARD, L'Évèque de Rome, Cerf, 1982, p. 132.
45
Citato da Y. CONGAR, L'Église..., p. 255.
" Ibid., p. 256.

321
D'altronde, sul piano strettamente sacramentario, questa tendenza istituzionale è
nettamente marcata nella teologia del sacramento dell'ordine e in quella del posto del
ministro che celebra l'eucaristia. La messa in rilievo, soprattutto con P. Lombardo,
della nozione di carattere, ubifitpromotiopotestatis, come costitutivo del sacramento
dell'ordine, è eminentemente significativa.47 Solo che, per il Lombardo, il signaculum
sacrum che è l'ordine trasmetteva non soltanto una spiritualis potestas ma anche un
officium (ibid.). E, conformemente alla tradizione antica della Chiesa, il prete non po-
teva esercitare validamente la sua potestas nell'eucaristia se era colpito da interdetto
da parte della Chiesa quanto al suo officium. Ma la distinzione tra potere d'ordine e
potere di giurisdizione, che si era introdotta progressivamente a partire dalla metà del
XII secolo, doveva sfociare, giustificando nel contempo la pratica delle ordinazioni
assolute praticate fin dall'alto Medioevo, nel riconoscimento della validità dell'eserci-
zio del primo senza il secondo. Ognuno dei preti, indipendentemente dal suo incarico
pastorale e dal suo inserimento nella comunità ecclesiale, era quindi il detentore di
un potere di ordine che possedeva in modo personale e indelebile, per partecipazione
al sacerdozio di Cristo. La pneumatologia in tutto questo? Dimenticata, cancellata, mi-
sconosciuta. ..

Nello stesso tempo il rituale dell'ordinazione rovescia il rapporto tra potere delle chiavi e
potere di «fare» l'eucaristia che prevaleva ancora nell'alto Medioevo. A quest'epoca il «sacerdo-
zio» era visto ancora «primariamente come potere di legare e di slegare».4S Certo, questa carica
pastorale era allora intesa più come disciplinare che come propriamente evangelizzatrice. Essa
lasciava comunque sussistere la tradizione antica: «Poiché l'eucaristia è vista principalmente co-
me il sacramento della nostra incorporazione al Cristo, poiché è fruttuosa e addirittura, secondo
alcuni, valida solo se è celebrata nella comunione della Chiesa, appartiene in certo modo alle
chiavi rimesse alla Chiesa».49
Ma a questa data l'inversione era già fatta. Si è fatta attraverso il Pontificale romano-germanico,
compilazione (realizzata a Magonza verso il 960) di tradizioni gallicane e germaniche mescolate
ad elementi romani, che, al servizio della politica religiosa degli Ottoni, finisce con l'impiantar-
si pienamente a Roma verso il 1150.so Questo Pontificale fu dunque la referenza per la teologia
scolastica dell'ordinazione. Ora, attraverso il rito centrale della «consegna» della patena e del
calice, «materia» «informata» dalle parole: «Ricevi il potere di offrire il sacrificio della mes-
sa. ..», il Pontificale mette prioritariamente in rilievo il potere dato al prete di consacrare l'euca-
ristia. Tommaso d'Aquino può allora scrivere: «Il prete ha due funzioni: una, la principale, ha
come scopo il corpus verum di Cristo; l'altra, secondaria, il corpus mysticum di Cristo. Questa
seconda funzione dipende dalla prima, e non vale il contrario. Molti sono così promossi al sa-
cerdozio, a cui è affidata solo la prima funzione: come i religiosi, che non hanno cura d'anime.
Non ci si aspetta la legge dalla loro bocca, si chiede loro soltanto di consacrare [...]. Altri sono
chiamati a compiere quell'altra funzione di cui il corpo mistico è l'oggetto. Il popolo attende
la legge dalla loro bocca...»." Non si può essere più chiari. Si capisce anche, poiché il sacerdo-
zio è essenzialmente costituito dal potere di fare il corpus verum dell'eucaristia, che i vescovi
non siano più che dei superiores sacerdotes (ibid.).

" P. LOMBARDO, Sent. IV, d. 24, e. 13, n. 127.


41
Y. CONGAR, L'Ecclésiologie du haut Moyen Age, Cerf, 1968, pp. 138-151.
« I D . , Ibid., pp. 146-147.
50
C. VOOEL, Introduction aia sources de l'histoire du eulte chrétìen au Moyen Age, Spoleto 1966,
pp. 187-203.
51
STSuppl., q. 36, a. 2, ad 1.

322
Nella scia di questa valorizzazione unilaterale del «sacerdozio» come potere di con-
sacrare, l'attenzione degli scolastici tende a polarizzarsi sull'azione del prete in perso-
na Christi. Certo, come ha mostrato B.D. Marliangeas, questa espressione, soprattut-
to in san Tommaso, non è mai slegata da quella di in persona Ecclesiae.52 Ma la Chie-
sa in questione rimane una entità molto generale: gli scolastici non pensano più alla
Chiesa locale, lo abbiamo notato; questa d'altronde non interviene più, concretamen-
te, nella chiamata e nell'ordinazione dei ministri, lasciando il campo libero, in certo
modo, per una discesa in linea diretta del sacerdozio di Cristo sull'ordinando. La no-
zione di in persona Christi, d'altronde molto preziosa perché esprime la rappresentati-
vità ministeriale del prete rispetto a Cristo, soffre allora di uno squilibrio.
Si osserva, parallelamente, una analoga rottura di equilibrio nella teologia della
preghiera eucaristica, di cui si è persa di vista l'unità d'insieme a beneficio di una stretta
focalizzazione sul momento della consacrazione. Questo movimento, come ha notato
P.M. Gy, è andato «di pari passo con la promozione della causalità efficiente».53 Dun-
que solo le parole di Cristo alla Cena appartengono alla substantia sacramenti, le altre
parti della preghiera eucaristica servono solo ad decorem o ad solemnitatem. Certo,
l'insieme dei teologi, dopo il 1170 (epoca in cui questa nuova quaestio è nata), riten-
gono che questa substantia può trovare il suo significato solo a partire dall'insieme
della preghiera e in particolare dal racconto in cui sono incluse le parole di Gesù alla
Cena.54 Ma non è l'opinione di Tommaso d'Aquino: «L'intenzione (del prete) fa sì
che le parole vengono capite come proferite ex persona Christi, anche se questo non
era espresso dal racconto delle parole precedenti».55 E se si obietta, con P. Lombardo,
che il prete non dice offero, ma offerimus, quasi ex persona Ecclesiae,56 Tommaso
replica: «n prete, nelle preghiere che pronuncia alla messa, parla nelle vesti della Chiesa,
perché si tiene nella sua unità (in persona Ecclesiae, in cujus unitate consistit). Ma
nella consacrazione del sacramento parla nelle vesti di Cristo (in persona Christi) di
cui fa le funzioni in forza del suo potere di ordine».57 Tagliando così, nel momento
della consacrazione, l'in persona Christi dall'in persona Ecclesiae, Tommaso prolun-
ga fino alle sue ultime conseguenze il movimento di «cesura funesta» tra il Cristo e
la Chiesa nato un secolo prima di lui.

e) Bilancio
Questo è il punto di arrivo, non necessario, certo, ma logico, di una sacramentaria
che oggi ci sembra aver coniugato in modo troppo unilaterale: 1) una causalità effi-
ciente strumentale intesa in modo tale che ogni formula deprecativa può solo essere

52
B.D. MARLIANGEAS, Cléspour une théologie du ministère: In persona Christi, in persona Ecclesiae,
Beauchesne, 1978, pp. 63-146.
" P.M. G Y , «Les paroles de la consécration et l'unite de la prière eucharistique selon les théologiens
de P. Lombard à S. Thomas d'Aquin», in Lex orandì, lex credendi, Mélanges Vagaggìni, Stud. Anselm.
79, Roma 1980, pp. 221-233. Cit., p. 230.
54
In caso contrario, come dice Prévostin con acutezza, non si capirebbe più il ruolo ministeriale e rap-
presentativo del prete: «Tunc sacerdos uteretur illis verbis significative et tanquam propriis, non representa-
tive et tanquam Domini» (P.M. G Y , ibid., p. 228).
" ST III, q. 78, a. 1, ad 4.
" P. LOMBARDO, Sent. IV, d. 13. Cf B.D. MARLIANGEAS, op. cit., pp. 55-60.
" III, q. 82, a. 7, ad 3. Cf B.D. MARLIANGEAS, op. cit., pp. 118-122.

323
giudicata insufficiente per la realizzazione del sacramento; 2) un principio cristologico
talmente valorizzato come fondamento di questa efficienza che la pneumatologia non
conta quasi più; 3) un collegamento così diretto di questa efficienza all'unione ipostati-
ca che la mediazione concreta della Chiesa ne viene ampiamente cancellata e il potere
di ordine del prete, quasi totalmente separato dalla Chiesa (resta ancora tuttavia ^ i n -
tenzione»), diventa una sorta di assoluto... Questo non impedisce comunque alla sa-
cramentaria di san Tommaso di avere le sue grandezze, inuguagliate su molti punti
tra gli altri scolastici.
Se i rapporti che abbiamo stabilito tra questi diversi elementi non sono il semplice
effetto di una necessità logica intrinseca (come se un certo elemento sacramentario do-
vesse obbligatoriamente accompagnarsi con una data insistenza cristologica, con un
dato elemento trinitario o una data tendenza ecclesiologica), non sono però nemmeno
l'effetto di un semplice caso. Il rilievo che assumono l'unione ipostatica, la santa uma-
nità di Cristo, il Filioque, l'eucaristia come corpus verum e la Chiesa come corpus
mysticum, la funzione del papa come «vicario di Cristo» e capo di questa Chiesa, la
definizione del «sacerdozio» come recezione del potere di consacrare il pane e il vino,
la potenza delle parole dette dal prete in persona Christi, senza altro legame con la
Chiesa se non l'intenzione di fare ciò che essa fa, questo rilievo, dicevamo, ci sembra
significativo di una cultura, di una nuova episteme. Ne abbiamo disegnato a grandi
linee, all'inizio del nostro lavoro, i contorni economici, sociali, istituzionali principa-
li. La coerenza di questo «sapere» teologico scolastico è assicurata da una «archeolo-
gia» tanto più influente quanto meno cosciente, tanto più pregnante culturalmente quanto
più sembra imporsi «naturalmente».

2. I presupposti di questa sacramentaria relativamente al rapporto tra Dio e l'uomo


La logica che comanda il discorso di san Tommaso è rigorosamente la stessa sia
in sacramentaria che in cristologia. Semplicemente, come è doveroso, la prima è un
gradino sotto (strumento separato), rispetto alla seconda (strumento congiunto). L'af-
fermazione dell'azione di Dio nell'azione umana della Chiesa non pone più problemi
di fondo una volta ammessa l'unione ipostatica.
Quest'ultima rappresenta indubbiamente uno scandalo per la fede, scandalo avver-
tito più vigorosamente dalla scolastica quanto più la rappresentazione che lo sottende
è articolata su di uno schema spaziale di distanza verticale. La trascendenza di Dio
appare allora spontaneamente come tanto meglio affermata e salvaguardata quanto più
questa distanza, infinita, è sottolineata come allontanamento (o come opposizione, do-
ve Dio allora è rappresentato come ciò che l'uomo non è). Il «miracolo» dell'Incarna-
zione ne guadagna in splendore poiché annulla in Gesù questa incommensurabile di-
stanza. Lungi dunque dal rimettere in causa le rappresentazioni onto-teologiche di Dio,
l'Incarnazione non fa che rafforzarle. Certo, a livello tematico, la fede nel Verbo in-
carnato genera necessariamente un nuovo discorso su Dio e il suo rapporto di amore
salvatore con gli uomini. Ma questi temi nuovi non rimettono in causa lo schema fon-
damentale di rappresentazione di Dio, schema di cui abbiamo detto l'appartenenza im-
pensata a «la» metafisica.
Non dimentichiamo, dicendo questo, gli sviluppi importanti dedicati dalla scolasti-
ca alla teologia negativa, all'analogia e ai presupposti trinitari al di fuori dei quali l'Incar-

324
nazione del Verbo rimarrebbe impensabile. Resta il fatto che, come mostra il piano
della 1a Pars della Summa Theologica di san Tommaso, dove Dio viene studiato prima
di tutto nella sua essenza e nella sua operazione (q. 2-26), poi nelle sue persone (q.
27-43), infine come principio e fine dell'universo creato, l'apertura intra-trinitaria di
Dio è seconda rispetto alla semplicità della sua essenza in sé. Certo, è sempre in quanto
teologo e non come semplice «filosofo» che Tommaso affronta l'essere di Dio. Questi
non viene però pensato subito trinitariamente: a comandare lo schema fondamentale
della rappresentazione è sempre la nozione «semplice» di Ens supremum che di lui si ha.
Per questo, il motivo principale per cui il mistero Gesù Cristo scandalizza la ragio-
ne dello scolastico credente consiste, come mostrano i tratti dell'Incarnazione, nella
domanda: Come è possibile che Dio abbia potuto farsi uomo? Questa domanda presup-
pone che si sappia preliminarmente cosa ne è di Dio. Ed effettivamente, proprio per-
ché lo si sa (anche se nella modalità negativa del non-sapere), ci si arena su Gesù:
poiché, secondo gli attributi di super-eccellenza che gli sono riconosciuti fin dall'ini-
zio, Dio è semplice, perfetto, infinito, immutabile, eterno..., come è possibile che ab-
bia assunto la natura dell'uomo che è composto, incompiuto, finito, sottomesso alla
generazione, al divenire e alla corruzione...? Si proiettano così apriori su Gesù, attra-
verso la strada della sua natura divina, le rappresentazioni onto-teologiche che si han-
no di Dio; ci si imbatte soltanto (si fa per dire!) sul modo in cui l'unione di questa
con la natura umana è stata possibile.
Ma non si arriva fino alla domanda radicale: Di quale Dio parliamo perché possia-
mo dire che si è rivelato integralmente in Gesù? Chi dunque è Dio perché noi possia-
mo dire in verità che si è fatto uomo in Gesù? Invece di meditare sul rovesciamento
delle rappresentazioni di Dio richiesto dall'evento Gesù Cristo e prima di tutto dalla
sua morte «per noi», la scolastica ha continuato a lasciarsi guidare da queste rappre-
sentazioni. Probabilmente non poteva fare diversamente. In un certo senso si sapeva
fin troppo bene che «Gesù è Dio» per lasciar rimettere in discussione questo «Dio»
meditando che «Dio è Gesù»; restando inteso, peraltro, che questa inversione dei ter-
mini richiede in un tempo secondo che si ritorni alla prima formulazione: la cristolo-
gia non può essere unilateralmente «dal basso».
In conclusione, dunque, come rileva C. Geffré, «anche se è vero che (Tommaso
d'Aquino) ha una percezione molto viva dell'aldilà concettuale di Dio identificato con
l'Essere assoluto, della sua Alterità irriducibile, sembra difficile affermare che sfugga
al destino della metafisica occidentale, cioè almeno al movimento di questa come ten-
tativo di spiegazione della realtà a partire da un fondamento supremo». Per questo,
«anche se rimane un modello di epistemologia teologica», la teoria dei nomi divini svi-
luppata da Tommaso ( l a , q. 13) opera una «riduzione rigorosa degli attributi biblici
di Dio, soprattutto quando sono espressi sotto forma verbale (verbi di azione), all'at-
tualità pura dell'essere [...]. Nella sua volontà di spiegazione, la teologia-scienza ren-
de ragione del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe a partire da qualcosa di anterio-
re, una certa esperienza umana del divino, cioè l'idea di Dio concepito come Essere
assoluto. Il criterio ermeneutico per sapere quale nome, biblico o no, convenga pro-
priamente a Dio sarà la sua convertibilità con Dio concepito come Essere Primo».58
E proprio questa problematica che il nostro ultimo capitolo tenterà di «superare».

51
C. GEFFRÉ, op. cìt., pp. 156-157. Cf ID., art. «Dieu. 2. l'affirmation de Dieu», Enc. Univ. 5, pp.
577-580.

325
II. IL NOSTRO PUNTO DI PARTENZA: LA PASQUA DI CRISTO

1. La tradizione liturgica

Il fatto che il punto di partenza della teologia sacramentaria sia da cercare non dalla
parte dell'unione ipostatica, ma dalla parte della Pasqua di Cristo presa in tutta la sua
estensione (e includendo di conseguenza la Chiesa o il fatto cristiano) è una delle le-
zioni principali della tradizione liturgica della Chiesa fin dalla più lontana antichità.

a) Il battesimo e l'iniziazione cristiana


Quali che siano le formule (cristologica o trinitaria) e la simbolica battesimale usate (simbo-
lica di remissione dei peccati o purificazione e di dono dello Spirito, di morte e di risurrezione,
o ancora di nuova nascita), è sempre alla Pasqua di Cristo e/o al suo compimento pentecostale
che il battesimo nel Nuovo Testamento viene riferito. D'altronde, come pensa G. Kretschmar,"
il rito battesimale alle origini era probabilmente accompagnato da riti diversi a seconda delle
Chiese; questa diversità iniziale, verosimilmente ancora più ampia che nell'eucaristia (più fer-
mamente ritualizzata, quest'ultima, intorno a tradizioni ricevute a proposito dell'ultima Cena),
è stata a poco a poco ridotta e codificata intorno a tre grandi gesti (i primi due sono rimasti
per molto tempo difficilmente distinguibili in certe Chiese): il battesimo stesso, messo in rap-
porto prioritariamente con la morte/risurrezione del Signore; il suo compimento mediante un
rito legato al dono dello Spirito; infine la partecipazione al banchetto escatologico. Questa trilo-
gia che, in certe Chiese, può risalire all'epoca apostolica, finirà con l'imporsi. Nel suo sviluppo
esemplare all'epoca delle grandi catechesi mistagogiche, essa manifesta che il divenire cristiano
iniziale e iniziatico è situato tutto intero sotto la mozione della risurrezione del Crocifisso, par-
tecipata, grazie al dono dello Spirito a Pentecoste, dall'umanità, partecipazione a sua volta inte-
sa come pegno escatologico dell'avvento di una «nuova creazione» in genesi. Mai l'iniziazione
cristiana è stata liturgicamente vissuta altrimenti che a partire da Pasqua-Pentecoste-Parusia.

b) L'anamnesi eucaristica
Questo è altrettanto vero per l'eucaristia. Su questo punto la cosa è forse ancora più sorpren-
dente. In conformità alla teologia paolina in cui la cena del Signore è essenzialmente annuncio
della «morte del Signore fino alla sua venuta» (1 Cor 11,26), le anamnesi delle preghiere eucari-
stiche antiche non fanno mai menzione dell'Incarnazione come tale;60 anche quando vi si fa l'e-
lenco minuzioso degli aspetti del mistero celebrato: sofferenza, morte, sepoltura e discesa agli
inferi, risurrezione, ascensione, seduta alla destra, parusia, giudizio. L'incarnazione non è cer-
to esclusa: l'azione di grazie iniziale per la creazione e la storia di salvezza è sempre finalizzata
da essa; ma l'anamnesi è sempre muta a suo proposito, mostrando così che la si può intendere
solo a partire dal «mistero pasquale» di Cristo, e non anteriormente a lui. Questo punto è tanto
più significativo perché le anafore di cui parliamo si sono sviluppate in un momento in cui la
Chiesa si batteva contro le eresie sul terreno dell'unione ipostatica. Anche quando la teologia

" G. KRETSCHMAR, «Nouvelles recherches sur l'initiation chrétienneé», LMD 132, 1977, pp. 7-32.
60
Questo è vero in tutte le tradizioni antiche, sia siriane occidentale e orientale, che alessandrina, ro-
mana, ecc. Le anamnesi non fanno menzione neanche della Pentecoste. Ed è spiegabile: da una parte, il
nucleo anamnetico centrale, che verte sulla morte e risurrezione di Gesù (Tr. Ap. ; Addai e Mari) si è svilup-
pato nel IV secolo seguendo l'articolo cristologico del Credo; ora, in quest'ultimo, la Pentecoste non è men-
zionata, come non lo è d'altronde neanche nel 3° articolo. Inoltre, lo Spirito non è oggetto di memoriale,
ma potenza di memoriale.

326
era polarizzata su questo fronte, la Chiesa continuava, nella sua pratica liturgica, a vivere il
mistero di Cristo sul terreno pasquale.

c) L'anno liturgico nei primi tre secoli


Possiamo fare lo stesso tipo di osservazione in relazione alla genesi dell'anno liturgico. «Per
i primi secoli cristiani Pasqua è la festa, non solo la festa per eccellenza, la festa delle feste,
come dice oggi il martirologio, ma la sola festa, accanto alla quale non può esisterne nessun'al-
tra».61 Dal punto di vista storico, è necessario distinguere due problemi a questo proposito: quello
della Pasqua settimanale della domenica; quello dell'origine della Pasqua cristiana annuale.

— La Pasqua settimanale della domenica


I quattro Vangeli sono d'accordo: Gesù è risuscitato e si è manifestato ai suoi «il primo gior-
no della settimana». Questa menzione unanime procede probabilmente da una intenzione teolo-
gica, e anche verosimilmente liturgica: si tratta di fondare l'abitudine, già presa molto presto
nelle varie Chiese, di riunirsi in quel giorno in memoria del Signore Gesù risuscitato. Se, al
posto della sua denominazione ebraica («primo giorno della settimana») o pagana («giorno del
sole»), le Chiese hanno cercato di introdurre una denominazione propriamente cristiana (kyria-
kè hèméra, oppure «ottavo giorno»),62 è proprio perché questo giorno, in rottura con il significa-
to primario del sabato ebraico centrato sul riposo di Dio creatore, è essenzialmente il giorno
della risurrezione di Cristo." In certo senso si può dire che questo giorno, per l'assemblea di
Chiesa a cui ha dato luogo, è nel tempo quello che il pane e il vino dell'eucaristia, in quanto
elementi della creazione e del lavoro degli uomini, sono nel mondo e nella storia: sacramento
della morte-risurrezione-parusia del Signore. La Pasqua di Cristo si inscrive sacramentalmente
nella carne del mondo mediante il pane e il vino, nella carne del tempo mediante la domenica.
L'assemblea della domenica (realizzazione esemplare dell'ekklèsia)64 sembra un'istituzione
quasi altrettanto antica della Chiesa: in ogni caso sembra essersi imposta fin dalla fondazione
delle Chiese, almeno in ambiente pagano, poiché Paolo, in 1 Cor 16,1-2, ne attesta la regolarità
a Corinto e nelle Chiese di Galazia." Ora, questo giorno-memoriale celebra «la totalità del mi-
stero di Cristo», secondo la sua triplice dimensione di «memoriale della morte e della risurrezio-
ne di Gesù» e di «anticipazione concreta del Giorno finale», e la cena del Signore è «naturalmen-
te il momento forte dell'intera celebrazione».66 In altri termini, l'assemblea domenicale è la ce-
lebrazione della Pasqua del Signore presa in tutta la sua estensione. È Pasqua ogni domenica.
E sembra che, per un certo periodo, la Chiesa non abbia conosciuto altro ciclo liturgico all'in-
fuori di questa Pasqua settimanale.

61
I.H. DALMAIS, in A.G. MARTIMORT, L'Église enprìère. Introduction à la liturgie, Desclée, 1968,
p. 218 (trad. ital.: La Chiesa in preghiera, Desclée, Roma 1963).
62
B. BOTTE e J. DANIÉLOU, art. cit. supra, cap. V , n. 26.
63
W. RORDORF, Sabbat et dimanche dans l'Eglise ancienne (testi), Delachaux et Niestlé, Neuchàtel
1972, p. XVII.
" P. GRELOT, art. cit. supra, cap. V , n. 22.
" La colletta in favore della Chiesa di Gerusalemme a Corinto e in Galazia ha luogo infatti «il primo
giorno di ogni settimana». Fatta, evidentemente, nel corso dell'assemblea cristiana, «essa ha un posto analo-
go a quello che occupava nel giudaismo la raccolta settimanale del paniere dei poveri, la vigilia del sabato»
(P. GRELOT, art. cit., nn. 31-32; C. PERROT, Jesus et l'histoire, op. cit., p. 296); X. LÉON-DUFOUR, Le
Partage du pain eucharìstique selon le Nouveau testament, op. cit., pp. 26-30.
66
P. GRELOT, art. cit., p. 46.

327
— La Pasqua cristiana annuale
II problema dell'origine della Pasqua cristiana annuale è difficile e rimane ancora controver-
so tra gli specialisti. Il punto della ricerca recente è stato fatto da T.J. Talley, a cui noi qui
ci ispiriamo.
«La maggior parte» degli specialisti «ritiene attualmente che la Pasqua dei quartodecimani
fosse la forma originaria della celebrazione della comunità primitiva, e non una deviazione limi-
tata alla provincia di Asia», anche se si può continuare a pensare che il suo trasferimento dal
14 di Nisan alla domenica sia suscettibile di «risalire all'epoca apostolica». Comunque sia, «sembra
certo» per J.T. Talley che la Pasqua cristiana annuale sia «nata direttamente dalla celebrazione
di Pesach prescritta dalla Legge», che abbia prolungato «questa celebrazione della redenzione
in memoriale e in attesa escatologica della parusia» e che essa abbia avuto così per oggetto «la
memoria della passione, l'esperienza della risurrezione e l'attesa del ritorno prossimo di colui
che era stato rivelato come il Messia».67
Tuttavia, non è sicuro storicamente che questa Pasqua annuale sia stata celebrata in tutte
le Chiese. Così, la tesi di K. Holl nel 1927 secondo cui la Pasqua annuale sarebbe stata scono-
sciuta a Roma fino alla metà circa del II secolo o che si sarebbe conosciuto inizialmente «solo
un ciclo liturgico settimanale» è ritornata in primo piano. In ogni caso, esistono almeno parec-
chi dotti di chiara fama che pensano sempre che, nella comunità primitiva di Roma, non ci sia
stata osservanza annuale della pascha prima che essa venisse introdotta da Sotero verso il 165
sotto un'influenza venuta da Oriente, in cui la celebrazione della domenica di Pasqua istituita
a Gerusalemme verso il 135 si estese a partire da lì ad Alessandria e dappertutto nella cristianità
ellenistica».68
È quindi possibile che, almeno in certe Chiese, la Pasqua settimanale della domenica sia
stata largamente anteriore alla Pasqua annuale. Quest'ultima, celebrata in una lunga vigilia not-
turna, non è in ogni modo che il dispiegamento delP«unica festa propriamente cristiana», cioè
della memoria della morte-risurrezione-parusia del Signore Gesù. Questo elimina qualsiasi idea
di semplice «anniversario», come dice d'altronde Tertulliano, «perché gli anniversari tornano,
per i pagani, solo una volta all'anno; per te, ritorna ogni otto giorni».69 Più ancora, la celebra-
zione settimanale dei cristiani, centrata tuttavia sul corpo spezzato e il sangue versato di Cristo,
ha luogo non il giorno della morte di Gesù, il venerdì, ma il giorno della sua risurrezione, la
domenica.
A partire da questo nucleo settimanale poi annuale (o: e annuale), l'anno liturgico cristiano
si è sviluppato, sembra a partire dalla fine del II secolo, in Cinquantina gioiosa. Se, al tempo
del papa Siricio alla fine del IV secolo, questa Pentecoste designa anche il cinquantesimo giorno
della Pasqua, anteriormente il termine significa l'insieme del periodo dei cinquanta giorni come
laetissimum spatium. Di qui l'interdizione, «durante tutta la Pentecoste», di digiunare o di pre-
gare in ginocchio, come la domenica, come dichiarano Tertulliano e altri testimoni.70 «Si tratta
quindi, commenta O. Casel, dell'unico giorno che comincia con Pasqua e continua durante la
Pentecoste. Tutta la durata dei cinquanta giorni forma, nella fede dei cristiani, un giorno radio-
so».71 E questa «grande domenica di cinquanta giorni», come la chiama J. T. Talley, «è fino
allora osservata dappertutto».72

" J.T. TALLEY, «Le temps liturgique dans l'Église ancienne. État de la recherche», inLMD 147, 1981,
pp. 29-60; eh., pp. 30 e 34.
" ID., Ibid, pp. 32-33.
" TERTULLIANO, De idolatria, 14. Citato da O. CASEL, op. ci'/., p. 42.
70
ID., «De corona», 3 (CSEL 70, p. 158); ID., De baptismo, 19,2 (SC, n. 35). Analogamente, Actes
de Paul (citati da O. CASEL, Lafète de Pàques dans l'Église des Pères, Cerf, 1963, pp. 37-38).
" O. CASEL, op. cit., p. 44.
" J.T. TALLEY, art. cit., p. 38.

328
Per essere più precisi, diciamo che il ciclo liturgico nell'insieme delle Chiese, almeno a par-
tire dalla seconda metà del II secolo e durante il III, comprendeva: 1) la pasqua settimanale;
2) la pasqua annuale. Tutte e due celebravano in un unico blocco la morte e risurrezione del
Signore nell'attesa della sua seconda venuta;73 3) infine un prolungamento di questa pasqua an-
nuale nella «grande domenica di cinquanta giorni» della Pentecoste che commemorava insieme
la risurrezione del Crocifisso, la sua ascensione, il dono dello Spirito e anticipava il suo ritorno
glorioso, senza che si stacchino ancora l'Ascensione e la Pentecoste come feste particolari nel
40° e nel 50° giorno.74

d) Gli sviluppi dell 'anno liturgico a partire dal IV secolo


Solo all'inizio del IV secolo comincia la frammentazione della «settimana delle settimane»
che forma la Cinquantina gioiosa e si cerca di adattare l'anno liturgico alla cronologia lucana.
Questo processo si sviluppa progressivamente, ma sembra ormai consolidato nell'insieme delle
Chiese «verso la fine di questo secolo».75

— Il ciclo pasquale
Oltre alla definizione del sacratissimum triduum crucifixi, sepulti et ressuscitati (Ambrogio
e Agostino) (a),76 si instaura (b) la festa della pentecoste nel cinquantesimo giorno (con una vi-
gilia battesimale che fa da parallelo a quella di Pasqua), poi, scalando i giorni, (e) la festa del-
VAscensione al quarantesimo giorno.77 Infine (d) il digiuno pasquale primitivo di uno o più gior-
ni, legato alla «sottrazione dello Sposo», viene esteso, ma in una prospettiva più direttamente
penitenziale, a tre settimane, segnate dalle tre domeniche di scrutini prebattesimali (con i loro
vangeli «battesimali» della Samaritana, del cieco-nato e della risurrezione di Lazzaro), 78 poi,
nel corso del IV secolo, a quaranta giorni (dalla prima domenica di quaresima fino all'apertura
del «triduum»); questo fu, come sappiamo, il tempo ultimo della preparazione dottrinale, mora-
le e sacramentale dei candidati al battesimo e, parallelamente, alla riconciliazione dei penitenti
(che avviene il giovedì santo).

" Verso il 140, l'Epistola Aposlolorum testimonia della «concezione, cara all'Antichità cristiana, se-
condo la quale il Signore ritornerebbe nel corso della notte pasquale o in occasione della Pentecoste» (CA-
SEL, op. cit., p. 21). Questa concezione si radicherebbe d'altronde nell'interpretazione «escatologica e mes-
sianica» che gli Ebrei avevano dato dei riti della Pasqua «almeno a partire dal primo secolo della nostra
èra»: R. LE DÉAUT, art. «Judaisme», Dict. de Spir., t. 8, Beauchesne, 1974, col. 1515. L'autore cita Mekh.
Ex. 12,42 come «un articolo che fa legge»: «È in Nisan che essi furono liberati, è in Nisan che lo saranno
ancora». E aggiunge: «Si arrivò perfino a situare intorno alla mezzanotte l'apparizione del Messia, tradizio-
ne confermata da san Girolamo (PL 26,184 D)».
'* Questo è in ogni caso il quadro d'insieme che abbozza A. CHAVASSE, «Le cycle pascal» in L'Églìse
enprière, ed. del 1968 (supra, n. 61), p. 694. Analogamente, P. JOUNEL, «Le cycle pascal» nella nuova
edizione de L'Église en prìère, t. 4, Desclée, 1983, pp. 45-46.
" J.T. TALLEY, art. cit. (n. 67), pp. 37-39.
" Le tre dimensioni di questo triduum rimangono ancora profondamente legate. Al tempo di san Leo-
ne, la Chiesa romana continua a leggere integralmente il racconto della passione, della morte e della risurre-
zione di Gesù perché è qui, come precisa san Leone, il «totum paschale sacramentum» (S. 59, 1; SC 74,
1961, p. 128s). Quando tutta la giornata di giovedì apparterrà a questo «triduum», la domenica di Pasqua
ne sarà esclusa: questo contribuirà alla frammentazione del «sacramento pasquale». Si indovinano le conse-
guenze teologiche di questa sorta di disgiunzione tra la morte e la risurrezione di Gesù.
77
Questo non è d'altronde fatto in modo semplice. Se infatti la Pentecoste, secondo una prima tradizio-
ne, fu centrata sulla missione universale della Chiesa nella scia di At 2, in compenso un'altra tradizione,
ancora più radicata nel giudaismo che la collegava al rinnovamento dell'alleanza e alla ascesa di Mosè al
Sinai, la combinava con l'ascensione: cf R. CABIÉ, Lapentecdte, L'evolution de la Cinquantainepascale
au cours des cinqpremiers siècles, Desclée, Paris-Tournai 1965. J.T. TALLEY, art. cit., p. 39.
" A. CHAVASSE, «Structure du Carème», in LMD 31, 1952, pp. 75-119.

329
— Natale-Epifania
Infine, in questo stesso IV secolo vede la luce la festa cristiana di Natale. Essa appare per
la prima volta nel Cronografo del 354, in testa alla Depositio martyrum redatta nel 336; la sua
origine potrebbe risalire a Roma verso il 330. Questo Natale, festeggiato a Roma il 25 dicem-
bre, è situato in Oriente il 6 gennaio con il nome di Epifania. In entrambi i casi, si tratta di
sostituire la festa di Cristo «sole di giustizia» (MI 4,2) e «luce del mondo» (Gv 8,12) «a quella
del Sol invictus, che era il simbolo dell'ultima resistenza del paganesimo», dal momento che
il solstizio d'inverno cadeva il 25 dicembre in Occidente e il 6 gennaio in Egitto e in Arabia.
D'altronde, la creazione di questa festa è stata verosimilmente favorita dal dogma di Nicea di
cui costituiva una proclamazione liturgica fondamentale." Dal punto di vista semantico, sottoli-
neiamo infine che, se Natale vuol dire anniversario della nascita, esso significava anche, nell'e-
tichetta di corte, la glorificazione dell'imperatore, il suo accesso alla porpora, la sua apoteosi.
Il termine greco epiphania riprende soprattutto questo secondo senso, applicandolo sia all'in-
gresso trionfale di un sovrano in una città, sia alla manifestazione di soccorso di una divinità
in occasione della inaugurazione ufficiale della sua statua in una città. Questa apparitio o epi-
phania si trova applicata a Cristo in Tt 2,13, passo letto alla messa di Natale. È proprio questa
idea di «manifestazione» o di adventus (termine molto vicino ai precedenti nel linguaggio politi-
co di corte) che si trova applicata dappertutto a Cristo il 25 dicembre o il 6 gennaio, con una
estensione variabile: a Roma, il 25 dicembre, manifestazione del Verbo ai pastori, poi alle na-
zioni attraverso i Magi; in Oriente, oltre a questa duplice manifestazione, quella che viene fatta
della messianità di Gesù in occasione del suo battesimo e perfino, in certe Chiese, il primo se-
gno della manifestazione della sua «gloria» a Cana (Gv 2,11). Mentre l'Occidente aveva riporta-
to, fin dalla fine del IV secolo, la manifestazione ai Magi al 6 gennaio, l'Oriente (dal 370 in
Cappadocia) aveva riportato al 25 dicembre la duplice manifestazione ai pastori e ai Magi, e
conservava per il 6 gennaio solo la festa del battesimo del Signore.
Da tutto questo risulta con chiarezza che Natale-Epifania sono intelligibili cristianamente
solo mediante il loro rapporto con Pasqua. Infatti i termini stessi di Natale (adventus) o Epifa-
nia ci rimandano al trionfo di Cristo. Trionfo paradossale, certo, poiché si manifesta nell'umiltà
della carne, ma trionfo dello stesso ordine di quello della croce vista nella luce della risurrezio-
ne. Poi, questo rapporto viene affermato indirettamente dal legame primitivo messo in Oriente
tra le manifestazioni dell'infanzia di Gesù e la sua manifestazione all'inizio della missione (bat-
tesimo e Cana): l'infanzia richiede di essere letta a partire dalla missione, con la morte e risur-
rezione a cui essa conduce. È quanto mostra anche la prospettiva escatologica molto marcata
del tempo dell'avvento (fine del IV secolo in Gallia, verso il 550 a Roma). Che questo tempo
cominci, a Roma, con la lettura del vangelo della parusia del Cristo risorto è altamente signifi-
cativo: la Chiesa può aspettare il Cristo già venuto a Natale solo accogliendolo come colui che
viene oggi nella Parola e nell'eucaristia, e facendo memoria della sua seconda venuta alla fine
dei tempi. Il presente di Cristo è cristianamente affermabile solo nella memoria della sua venuta
passata e del suo eterno «a venire».
Agostino, quindi, ha in certo senso ragione quando vede nel Natale un semplice anniversa-
rio, un Natale in testa alle Depositiones Martyrum. Egli non gli riconosce il carattere di un sa-
cramentum, carattere da lui riservato alla sola festa di Pasqua; soltanto Pasqua infatti effettua
ogni anno il nostro transitus dalla morte alla vita con Cristo.80 Questo significa, allora, che il
natale di Gesù non potrebbe essere una festa propriamente cristiana se non fosse a sua volta
celebrato in sacramento, cioè nella memoria di Pasqua. D'altronde, a Natale, la Chiesa celebra
non solo la «nascita di Gesù» ma, come dice la liturgia, «l'avvento del Signore Gesù». Circa
cinquantanni dopo Agostino, san Leone si compiacerà appunto di sottolineare l'«oggi» sacra-

" P. JOUNEL, op. cit., (supra, n. 74), pp. 91-96; J.T. TALLEY, art. cit., pp. 41-42 e 47-48.
80
H. GAILLARD, «Noel, memoria ou mystère», in LMD 59, 1959, pp. 37-70.

330
mentale di Natale come «mistero».8' Natale è festa cristiana solo come portatore delle primizie
del sacramentumpaschale: è all'interno dell'oggi della risurrezione che Vhodie Christus natus,
che la Chiesa canta ai vespri del giorno di Natale, può essere proclamato.

e) Lettura teologica del dossier: un punto di partenza pasquale


Lex orandi, lex credendi: se è vero che la Chiesa crede come prega, la liturgia è
un luogo teologico di prim'ordine. Ora, la Chiesa dei primi secoli conosceva un'unica
festa: Pasqua. Mentre c'era tutto, nei Vangeli e negli Atti, per costruire tutto insieme
un anno liturgico che avrebbe compreso Natale, Epifania, Battesimo, Quaresima, Gio-
vedì, Venerdì e Sabato Santo, domenica di Pasqua, Ascensione il 40° giorno, Pente-
coste il 50° e infine la Parusia, è teologicamente significativo che non lo si sia fatto
per i primi tre secoli. Si è seguito il Luca del terzo Vangelo che situa l'ascensione
la sera di Pasqua (Le 24,50-53), oppure la teologia giovannea che suggerisce la glori-
ficazione e l'ascensione di Gesù nel momento della sua elevazione sulla croce (verbo
hypsoo), la «tradizione dello Spirito» al momento della morte (Gv 19,30) e l'effusione
di quest'ultimo sui discepoli la sera di Pasqua (Gv 20,22-23); o ancora si è mantenuta
l'unità del duplice linguaggio di «risurrezione» e di «esaltazione/ascensione» delle di-
verse tradizioni primitive messo in luce da X. Léon-Dufour?82 È tutto il mistero della
Pasqua di Cristo — morte, risurrezione/esaltazione, dono dello Spirito, parusia — che
viene celebrato in un unico blocco nel memoriale. Che viene celebrato prima di tutto
ogni domenica, e poi in occasione della Pasqua annuale.
Questa unità misterica o sacramentale si è progressivamente parcellizzata a partire
dal IV secolo. R. Taft ha certo ragione di reagire contro una rappresentazione troppo
semplice del processo in questo ambito: sarebbe impossibile ridurre l'evoluzione litur-
gica a un passaggio lineare da una escatologia pre-nicena verso uno storicismo costan-
tiniano.83 Non si può negare tuttavia che, secondo un ritmo differenziato a seconda
delle Chiese o delle scuole e con periodi di riflusso, la tendenza, globalmente, è stata
proprio questa.
Questo processo di sviluppo dell'anno liturgico non era privo di ambiguità. Il ri-
schio maggiore era quello di vedere indebolirsi il lato misterico di ogni celebrazione
propriamente cristiana; di dimenticare il suo oggi escatologico di memoriale a vantag-
gio di una semplice idea di «anniversario» di questo o quel momento della vita di Ge-
sù; di sopravvalutare l'esemplarità a detrimento della sacramentalità, cioè di smussare
la «pointe» cristiana della liturgia il cui oggetto, la morte del Cristo risorto, è a un
tempo — secondo l'espressione di san Leone — et sacramentum et exemplum: data
in sacramento, essa è grazia divina di salvezza (conferuntur divina), mentre, data in
exemplo, richiede il nostro sforzo etico umano di imitazione (exiguntur humana).%i
È dunque il memoriale escatologico della Pasqua, cioè la specificità stessa della liturgia

" M.B. DE Soos, Le Mystère liturgique d'après saint Leon le Grand, Munster, 1972 (Liturgiewissen-
schaftliche Quellen und Forschungen, Heft 34), pp. 22-27; G. HUDON, Laperfection chrétienne selon les
sermons de saint Leon, Ceri, 1959, Sezione: «Le Sacramentum de la Nativité», pp. 191-200.
82
C f X . LÉON-DUFOUR, Résurrection de Jesus et message pascal, Seuil 1971, cap. 2 (trad. Hai.: Risur-
rezione di Gesù e messaggio pasquale, Paoline, Roma 1973).
" R. TAFT, «Historicisme: une conception à revoir», in LMD 147, 1981, pp. 61-83.
" LEONE M A G N O , Sermons 59,1 (SC 74, p. 129); 54,5 (p. 104); 50,4 (p. 80-81). Studio di «sacramen-
tum» ed «exemplum» in M.B. DE Soos, op. cit. (supra n. 81), pp. 78-98.

331
cristiana, che rischiava di fare le spese dello scaglionamento dei misteri lungo il tempo
annuale. Il ciclo liturgico correva il rischio di essere colto solo come un grande socio-
dramma che festeggiava l'anniversario delle grandi tappe della vita di Gesù o che mi-
mava, secondo la loro successione cronologica, i diversi momenti della Pasqua.
Rischiando di perdere su questo piano, la Chiesa tuttavia si dava delle possibilità
di guadagnare su di un altro piano. Prima di tutto culturalmente, essa si forniva la
presa su una massa di cristiani che, all'epoca del passaggio sociologico verso una Chiesa
pienamente «moltitudinista» in cui l'escatologia aveva perduto il suo peso originale di
imminenza, e in cui l'eventualità del martirio non era quasi più presente per poter ria-
nimare il fervore delle origini, potevano solo trovare troppo forte per il loro gusto
il concentrato domenicale o annuale della Pasqua. Poi teologicamente, articolando il
tempo degli uomini su quello di Cristo, la Chiesa restituiva alla storia concreta, con
le sue lentezze e pesantezze, il suo peso di luogo della salvezza che una escatologia
troppo vigorosa aveva talvolta stemperato. Inevitabile, il fenomeno quindi era anche
auspicabile sotto molti punti di vista, anche se minacciato da possibilità di deviazioni.
È chiaro dunque che l'elaborazione di un ciclo liturgico annuale nel cristianesimo
è un'operazione perfettamente legittima teologicamente. Ma per comprenderne la po-
sta in gioco su questo piano, bisognerebbe cominciare con il dimenticarlo. A questa
condizione, infatti, ci si ricorderà che un ciclo simile non è necessariamente richiesto
dall'identità cristiana, come mostrano i primi tre secoli. Ciò che viene richiesto è la
memoria rituale della Pasqua presa in tutti i suoi aspetti — morte, risurrezione, dono
dello Spirito, parusia — che forma un solo mistero, memoria inscritta nel tempo ogni
«giorno del Signore».
Prendere sul serio questa storia della liturgia (l'iniziazione cristiana, l'anamnesi
eucaristica, l'anno liturgico) come luogo teologico, prendere sul serio, con Y. Con-
gar, il fatto che «il luogo privilegiato della tradizione» della Chiesa non sono gli scritti
teologici o omiletici dei Padri, ma i «monumenti» liturgici che ci hanno lasciato le Chie-
se,85 significa essere portati a elaborare un discorso teologico che parte non dall'unio-
ne ipostatica ma da Pasqua. Certo, l'unione ipostatica (o ciò che si è chiamato così
nel quadro delle culture dei secoli IV-V, poi dalla scolastica) non è un affare seconda-
rio. Ma è teologicamente seconda: la tradizione liturgica della Chiesa l'ha letta a ritro-
so, cioè a partire dalla risurrezione di Gesù, il crocifisso. Così facendo, d'altronde,
questa tradizione liturgica prolungava la tradizione evangelica. Sappiamo infatti che
il kerygma primitivo era interamente centrato sull'annuncio della risurrezione del Cro-
cifisso. E sappiamo anche che i nuclei redazionali più antichi dei nostri Vangeli sono
i racconti della passione, elaborati a partire dalla fede nella risurrezione, e che si è
quindi andati, per «cerchi concentrici sempre più inglobanti» in qualche modo (fino
al battesimo di Gesù in Marco, fino alla sua nascita in Matteo e Luca, fino alla sua
contemplazione come Verbo «prima» della sua venuta nella carne in Giovanni), da Pa-
squa verso l'Incarnazione, e non viceversa. I racconti dell'infanzia sprizzano così «lo
splendore della risurrezione».86 Le confessioni di fede, da parte loro, il cui Sitz im

" Y . CONGAR, La Tradition et les traditions, t. 2, Fayard, 1963, cap. 6: «I monumenti della tradizione»
(1. La liturgia; 2.1 Padri; 3. Le espressioni spontanee del cristianesimo). Cit., p. 186 (trad. ital.: La Tradi-
zione e le tradizioni, Paoline, 1964-1965, 2 vv).
" C. PERROT, Les Récits de l'enfance de Jesus, Cahiers Évangile, n. 18, 1976, pp. 6-7.

332
Leben principale sembra essere stato la liturgia battesimale,8' testimoniano la stessa
prospettiva.88
Come in molti altri ambiti del pensiero, il problema del punto di partenza in teolo-
gia dei sacramenti è decisivo. Per noi lo è doppiamente. Partire da Pasqua, così come
l'abbiamo presentato precedentemente, e non dall'unione ipostatica, significa in pri-
mo luogo situare i sacramenti nella dinamica di una storia, quella di una Chiesa nata,
nella sua visibilità storica, dal dono dello Spirito a Pentecoste e sempre in genesi dal
corpo di Cristo lungo la storia. Partire da Pasqua significa di conseguenza essere in
grado di articolare la sacramentaria non soltanto sul principio cristolagico, ma anche
sul principio pneumatologico. Infine, significa essere portati, a proposito del proble-
ma decisivo del rapporto tra Dio e l'uomo posto in modo insuperabile dall'affermazio-
ne tradizionale dell'azione di Dio nell'azione umana della Chiesa che pone i gesti sa-
cramentali, a chiedersi: di quale Dio parliamo, dunque, per poter affermare questo?
Come in cristologia, secondo quanto abbiamo detto prima, dobbiamo progredire a ri-
troso comprendendo l'Incarnazione a partire dalla morte e dalla risurrezione. A questa
stregua, il primo scandalo per la fede non è più l'unione come tale, senza confusione
né separazione, della divinità e dell'umanità in Cristo, o il suo «come», ma cosa sia
mai questo Dio perché noi possiamo confessare la sua piena rivelazione nell'uomo Ge-
sù, messo a morte in nome della legge dello stesso Dio.

2. L'inclusione della vita concreta di Gesù nel mistero pasquale

a) La pertinenza teologica della storia


L'abbiamo sottolineato: la Pasqua che la Chiesa celebra settimanalmente o annual-
mente comprende non solo il momento risurrezione (quindi anche esaltazione, dono
dello Spirito e parusia), ma anche il momento morte, nella sua positività storica. Nel
mistero di Cristo questi due momenti sono inseparabili. Infatti il significato teologico
della risurrezione è legato al fatto che si tratta della risurrezione di Gesù; meglio: di
Gesù che è stato crocifisso. La domanda che viene da ciò posta non è dunque sempli-
cemente: come Dio ha potuto risuscitare qualcuno? E nemmeno: come Dio ha potuto
risuscitare qualcuno prima della risurrezione collettiva alla fine dei tempi? Queste due
domande non sono pertinenti dal punto di vista del giudaismo dell'epoca di Gesù in
cui la maggioranza credeva alla risurrezione collettiva all'ultimo giorno, e, attraverso
i «rapimenti» di Elia, Enoch o Esdra, conosceva dei precedenti di «anticipazione» della
risurrezione generale. La domanda posta è inseparabile dal destino concreto di Gesù:
cosa significa che Dio abbia risuscitato questo Gesù che è stato crocifisso in nome del-
la legge di Dio? Chi dunque è Dio, se ha dato ragione a colui che era stato condannato
a giusto titolo per bestemmia contro la sua stessa legge? Dio allora si contraddirebbe?
Oppure l'avremmo in ultima analisi misconosciuto? La pietra d'inciampo, dal punto
di vista del giudaismo, è proprio questa: l'identità di Dio.

17
«La confessione di fede cristiana trova certamente qui (nelle liturgie battesimali) la sua origine» (P.
GRELOT, Introduction à la Bible. Nouveau testament, voi. 5, op. cit., p. 78).
" O. CULLMANN, La Foi et le eulte dans l'Église primitive, Delachaux et Niestlé, Neuchàtel 1963,
2a parte: «Le prime confessioni di fede cristiana». Cit., pp. 68-69 (trad. ital.: Lafede e il culto della Chiesa
primitiva, A V E , Roma 1974).

333
Allora, la risurrezione di Gesù può essere intesa teologicamente, dal punto di vista
neo-testamentario, solo a partire dal processo storico mediante il quale Gesù è stato
condannato. Dal duplice processo: processo religioso prima di tutto, per bestemmia
contro (la legge di) Dio; processo politico, poi, poiché nel Regno di Dio annunciato
da Gesù sono i poveri ad essere re. Ora, questo processo è quello della storia stessa
di Gesù. Il suo morire-per si può capire solo come l'espressione del suo vivere-per
e dunque del suo modo concreto di esprimere in parole e di manifestare in atti la novità
del Regno di Dio di cui annuncia la venuta imminente: regno di grazia e di misericor-
dia aperto a tutti coloro che, in un atteggiamento di povertà, riconoscono che non han-
no nessuna giustizia da far valere davanti a Dio e accettano così di lasciarsi accogliere
da lui accogliendo il messaggio di Gesù. La storia concreta di Gesù, intesa nel suo
rapporto di similitudine e di differenza con l'intelligenza che i suoi fratelli di razza,
di cultura e di religione avevano di Dio e del rapporto con Dio, è teologicamente perti-
nente per l'intelligenza della sua morte e della sua risurrezione.
Se mancasse questa assunzione della storia empirica di Gesù in seno al giudaismo
della sua epoca, il nostro punto di partenza (il mistero pasquale) non cambierebbe nul-
la di fondamentale rispetto al punto di partenza dell'unione ipostatica. Rimarremmo
infatti nell'astratto, avendo a che fare non con Gesù-Cristo, ma con un Cristo semi-
gnostico che, pensato fuori della storia (anche se ne viene proclamata l'incarnazione
nella storia), funzionerebbe alla maniera degli dèi signori e salvatori delle religioni
misteriche. E insieme, i suoi acta et passa storici vanno assunti come elementi princi-
pali: senza di essi, infatti, la sua morte svaporerebbe in una nuova puntualità mitica
e perderebbe la consistenza propriamente «umana» senza la quale non potrebbe nem-
meno più avere4a sua pertinenza soteriologica di «morte per noi».

b) L'incarnazione letta a partire dalla Pasqua


Andiamo ancora più avanti nella nostra avanzata a ritroso, al modo degli stessi Van-
geli: è la sua incarnazione in quanto tale, in quanto è quella di quest'uomo singolare
che fu nella stòria, che richiede di essere inclusa nel mistero pasquale. «Per noi uomini
e per la nostra salvezza discese dal cielo», dice il Credo. La teologia scolastica non
ha mai dimenticato questa finalità soteriologica dell'«incarnazione redentrice». Ma, come
— l'abbiamo mostrato — aveva messo tra parentesi Yad dell'esse eucaristico nell'ana-
lisi del come della transustanziazione, così essa aveva fatto l'economia di questo «per»
storico in quella del come dell'unione ipostatica. Ora, come nell'eucaristia, questo «per»
relazionale è anche costitutivo del mistero: la cristologia non può mai, nemmeno nello
spazio della riflessione onto-teologica sul come, essere separata dalla soteriologia. Al-
lora è l'esse stesso di Dio che esige, e fin dall'inizio, di essere ripensato. Elaborata
nella scia del mistero pasquale, e non dell'unione ipostatica, la nostra sacramentaria
ci ingiunge dunque di regredire criticamente fino ai nostri presupposti su Dio; e quin-
di di porre la domanda radicale già annunciata: di quale Dio parliamo dunque per po-
ter sostenere, nella fede, che egli si lascia incontrare nella mediazione del più materia-
le, del più corporale, del più istituzionale degli atti della Chiesa costituiti dai riti? Que-
sta è la domanda di cui ci faremo carico nel nostro ultimo capitolo.

334
Capitolo Tredicesimo

I SACRAMENTI,
FIGURE SIMBOLICHE
DELLA CANCELLAZIONE DI DIO

LA GRAZIA SACRAMENTALE,
O L'AVVENTO DI DIO NELLA CORPOREITÀ
\
Affermare teologicamente la grazia sacramentale significa affermare, nella fede,
che il Cristo risorto continua a prendere corpo mediante lo Spirita nel mondo e nella
storia, e che in questo modo Dio continua a fare il suo avvento nelli corporeità umana.
Il corpo inteso — come abbiamo fatto noi — come l'arci-simbolo/in cui si collegano,
ognuno in modo originale, i rapporti alla tradizione storica, alla società presente e al-
l'universo che ci abitano e intessono la nostra identità, è quindi confessato come luogo
di Dio.
Certo, è vero che generalmente noi non avvertiamo nel modo più «drammatico»
la nostra esistenza storica come luogo di Dio nelle celebrazioni liturgiche. Abbiamo
anche sottolineato che, nel funzionamento della struttura di identità cristiana, il mo-
mento Sacramento era solo un punto di passaggio simbolico che richiedeva di veri-
ficarsi nel momento Etico, ed impossibile a reggere come tale se non a partire dal do-
no primo di Dio come Parola, attestato nelle Scritture. Di conseguenza è del tutto nor-
male che l'etica concreta — questa «liturgia prima», come abbiamo detto — del rap-
porto con gli altri mediante la pratica della giustizia e della misericordia venga avver-
tita come il luogo prioritario della cancellazione di Dio, da cui sale, insopprimibile,
la domanda tragica lanciata ironicamente al salmista: «Dov'è il tuo Dio?». «Dov'è?
È qui... È appeso alla forca», mormora una voce in E. Wiesel di fronte ad un adole-
scente impiccato dalle S.S. ad Auschwitz. E J. Moltmann, citando questa espressione
sconvolgente della teologia della croce in bocca ad un ebreo, prosegue: «Ogni altra
risposta sarebbe una bestemmia. Non può esserci altra risposta cristiana alla domanda
posta da questa tortura».1 Questo, almeno, ci sembra conforme a quello «scandalo per
i Giudei» e «follia per i Greci» che il Logos della croce, secondo Paolo (1 Cor 1) an-
nuncia.
Se dunque questo scandalo prende prioritariamente corpo nell'esistenza storica con-
creta, con il suo eccesso di male, in compenso esso trova la sua espressione simbolica

' J. MOLTMANN, Le Dieu crucifié. La croix du Christ, fondement et critique de la théologie chrétienne,
Cerf-Mame, 1974, p. 319 (trad. ital.: Il Dio crocifisso, Queriniana, Brescia 1973).

335
principale nelle celebrazioni sacramentali. Infatti, in quanto attività rituali, esse met-
tono in scena la corporeità umana come tale, attraverso le sue molteplici possibilità
espressive: posture, gesti, voce parlata o cantata, supplicante o giubilante. Così facen-
do, esse «epifanizzano» il triplice corpo, sociale, storico e cosmico, che abita il sog-
getto credente: il corpo-Chiesa (cf il «noi» costante delle liturgie e il significato di que-
sto «noi» come realizzazione particolare ma integrale della Chiesa universale); il cor-
po storico e di tradizione di questa Chiesa (cf la ripresa di parole e gesti reiterati lungo
le generazioni e interpretati come provenienti dalla tradizione apostolica); infine il corpo
dell'universo come creazione (cf la rappresentazione simbolica di questa attraverso al-
cuni dei suoi frammenti, come il pane e il vino, l'acqua, l'olio, la luce...). Inoltre,
queste espressioni rituali sono di natura essenzialmente pragmatica, avendo di mira
la comunicazione dell'uomo con Dio. Allora, sul piano della strutturazione simbolica
dell'identità cristiana, dove, se non nelle attività rituali chiamate «sacramenti», si raf-
figura che Dio ad-viene nella corporeità, che chiede di iscriversi da qualche parte nel-
l'umanità, che la sua gloria stessa richiede che gli sia dato corpo nel mondo?
Per questo l'affermazione dogmatica secondo cui i sacramenti sono degli eventi
di grazia è, secondo noi, inseparabile sul piano teo-logico dall'umanità di Dio, e, sul
piano economico, dalla sacramentalità della storia e del mondo. La fede nel Dio croci-
fisso osa affermare, nonostante tutto e tutti, che «egli fa Dio» nell'umanità, che vi fa
«corpo di Cristo», secondo l'espressione di san Paolo. I sacramenti sono le figure sim-
boliche primordiali di questa lettura effettuata nelle Scritture; ma lo sono solo per veri-
ficare questa nella pratica etica. Il nostro ultimo capitolo presuppone dunque: 1) che,
pena lo scadimento in ciò che abbiamo chiamato una «non-sacramentaria», l'afferma-
zione tradizionale della Chiesa secondo cui si effettua una comunicazione di Dio al-
l'uomo nei sacramenti — comunicazione chiamata con il bel termine di «grazia» —
venga mantenuta con forza; 2) ma che questa grazia sacramentale possa essere capita
solo mediante l'esplosione della nozione semplice di Dio, esplosione trinitaria che può
essere a sua volta pensata solo nella scia del Logos della croce. Procederemo quindi
prima di tutto con un breve percorso di cristologia (I); poi con un breve percorso di
pneumatologia (II); diremo in seguito in cosa il rapporto di Dio e dell'uomo affermato
nei sacramenti (la «grazia sacramentale») richieda la sovversione delle nostre rappre-
sentazioni di Dio effettuate nel duplice percorso precedente (III); mostreremo infine
come, a contrario, la non-sacramentaria di K. Barth ci sembri essere coerente con pre-
supposti trans-cristologici e trans-trinitari (IV).

I. IL POLO CRISTOLOGICO:
I SACRAMENTI, MEMORIA DEL CROCIFISSO RISORTO

1. Il Dio crocifisso

a) Quattro tesi
Poniamo, per cominciare, quattro tesi generali. La prima dichiara che chi è Dio
ci viene rivelato in Gesù il Cristo.

336
Precisiamo, per alleggerirla delle sue pretese, non tanto all'universale, quanto alla suprema-
zia di cui si è orgogliosamente coperto questo universale, che essa non implica né «l'unicità
di esclusione», secondo la quale al di fuori della fede cristiana tutte le credenze religiose sareb-
bero solo vana idolatria; né «l'unicità di inclusione», secondo cui i «germi di verità» contenuti
nelle diverse religioni sarebbero monopolizzati, previa «purificazione», dal cristianesimo che
li salverebbe dispiegando ciò che essi hanno di «autentico»; e neanche «l'unicità di indifferen-
za», secondo cui la fede cristiana, che non avrebbe nulla di «religioso», si situerebbe in un altro
luogo e non avrebbe di conseguenza nulla da escludere né da includere di ciò che dicono le reli-
gioni.2
Ciò che di Dio si dice in Gesù non è la proprietà di nessuno, anche se solo i cristiani testimo-
niano del Detto della croce come tale; infatti essi ne danno testimonianza solo riconoscendo che
questo non appartiene loro affatto, dal momento che egli è «morto per tutti». Questo Universale
richiede la Particolarità cristiana per poter essere (la cristicità di Gesù sarebbe ridotta a nulla
se nessuno la proclamasse), ma la Particolarità cristiana consiste neldkfarsi di ciò che la fa
tuttavia esistere.3 Questa contraddizione, impossibile da risolvere in una armoniosa sintesi degli
opposti, trova nella croce il suo simbolo. La verità di Dio manifestata in Gesù sì realizza quindi
nella misura in cui, verità del Logos della croce, i cristiani la attestano nell'umiltà; che l'attesti-
no richiede la Chiesa come suo «sacramento»; che la attestino nell'umiltà ne indica la perversio-
ne nel momento in cui essi ne fanno un sistema ideologico che ne utilizza l'universalità come
mantello per mascherare il loro desiderio di supremazia.
Seconda tesi: il Dio rivelato in Gesù è un Dio umano nella sua divinità, o ancora,
come scrive E. Jùngel, un Dio «che si determina lui stesso a non essere Dio senza
l'uomo», così che «l'umanità di Dio fa già parte della sua divinità». Questo è in ogni
caso, secondo l'autore, il significato della dottrina della pre-esistenza del Figlio di Dio
identificato con Gesù.4 Implicazione eco-nomica di questa teo-logia: la nostra «divi-
nizzazione» (termine, del resto, molto ambiguo, come vedremo) va di pari passo con
la nostra «umanizzazione», liberando evidentemente queste due nozioni dalle loro sem-
plici connotazioni psicologiche. Avremo l'occasione di spiegarci sull'umanità di Dio
presa qui in considerazione. Sottolineiamo soltanto che, legata alla prima, questa tesi
richiede che noi rinunciamo a proiettare su Gesù, per via della sua «natura divina»,
le nostre rappresentazioni a priori di Dio: sono proprio queste che vanno convertite.
La nostra terza tesi è intrinsecamente legata alla precedente: da nessuna parte Dio
è più divino che nella umanità, nella sotto-umanità del Crocifisso. Anche E. Jùngel,
come J. Moltmann, l'ha notato: «Il fatto che Dio sia diventato uomo era, per la dottri-
na trinitaria classica, un evento che non determinava costitutivamente l'essere trino
di Dio stesso... Si poteva pensare Dio come Dio senza aver pensato il crocifisso come
Dio. La morte di Gesù non concerneva il concetto della divinità così come la vita di
quest'uomo non interessava il concetto dell'essenza divina».5 Quest'ultima afferma-
zione ricorda che la croce non può essere semplicemente identificata nel momento ter-
minale della storia di Gesù: noi l'intendiamo, per le ragioni indicate precedentemente,
come il simbolo metonimico dell'insieme della sua vita e della sua missione, come
«l'integrale della sua esistenza».6

2
S. BRETON, Uniate et monothéisme, Cerf 1981, pp. 120-131.
J
«La fede cristiana sarà dunque tanto più singolare quanto meno lo sarà» (ID., ibid., p. 135).
4
E. JÙNGEL, op. cit., t. 1, p. 55.
' I D . , ibid., p. 54.
6
I D . , ibid., t. 2, p. 219.

337
Infine, quarta tesi, una simile rivelazione della gloria di Dio nell'umanità sfigurata
del Crocifisso può reggere solo se si pensa Dio in modo trinitario. È questa, come
sappiamo, la tesi centrale dell'opera di J. Moltmann: Il Dio crocifisso.1
È significativo a questo proposito che, volendo riconciliare il cristianesimo e VAujklàrung,
dando al concetto ciò di cui si tratta nella «religione manifesta» — questa verità della teologia
che i teologi avevano dimenticato —, Hegel abbia centrato la sua riflessione sull'«oscura parola»
che costituisce il dolore della coscienza infelice: «Dio stesso è morto», e che questo pensiero
della croce si fondi per lui su di una dottrina trinitaria (come questa esige quella).8 Anche se,
come afferma E. Jùngel alla fine della sua notevole analisi di questo problema, è opportuno
prendere nettamente le distanze da Hegel — perché quest'ultimo, contro la tesi centrale dell'au-
tore, si muove in regime di necessità: Dio ha bisogno dell'uomo per diventare Dio, come l'uo-
mo ha bisogno di Dio per poter arrivare a compimento —, non bisogna dimenticare questa reci-
proca esigenza di rapporto fra teologia della croce e teologia trinitaria: Gesù Cristo crocifisso
è il «vestigium trinitatis».9 Dio è solo nella modalità di Aperto.

b) Il grido di Gesù in croce: un maximum cristolagico


Poiché la nostra riflessione è centrata sulla rivelazione, del tutto «para-dossale»,
della gloria di Dio nell'umanità di Gesù crocifisso, prendiamo come luogo primario
di questa rivelazione il grido, eminentemente paradossale, che Gesù, secondo Marco
e Matteo, ha lanciato sulla croce e che, secondo loro, fu la sua unica parola: «Dio
mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Me 15,34; Mt 27,46). Qui si svolge qual-
cosa di parossistico. Ma si tratta di un parossismo o di un maximum cristologico. Que-
sto significa che il grido in questione non potrebbe essere interpretato in modo «psico-
logistico», e nemmeno essere immaginato isolato in se stesso e per se stesso dall'insie-
me dei testi evangelici e dalle altre componenti della confessione di fede. Se manca
questo, si rischia di dar luogo a una sorta di ruminazione nevrotica più o meno esalta-
ta... Dobbiamo trattarlo, in particolare, in modo biblico.
Ora, è significativo, sul piano biblico, che le prime generazioni cristiane abbiano
cercato di smorzare il tenore insostenibile di questo grido. «Diversi manoscritti — no-
ta X. Léon-Dufour — non hanno timore di trasformare il tenore della frase di Gesù
sostituendola con la frase seguente: "Spirito mio, Spirito mio, ecco che mi abbando-
ni!". Era il modo di sopprimere lo scandalo di un abbandono da parte di Dio... In
ogni caso, è un fatto che Luca sostituisce la sentenza di Gesù con la parola di un uomo
pieno di fiducia in Dio: "Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito"... Giovanni,
da parte sua, che ha trasformato il racconto della passione in una ascesa trionfale sul
trono della croce, presenta un Cristo che, solennemente, dichiara a tutti: "Tutto è com-
piuto". La situazione è chiara: fin dal primo secolo si constata una reale difficoltà a
prendere alla lettera la frase di Gesù: "Dio mio Dio mio perché mi hai abbando-

' J. MOLTMANN, op. cit., cap. 6, pp. 225-324. La teologia latino-americana della liberazione si è spes-
so inscritta in questa prospettiva; cf per esempio J. SOBRINO, La mort de Jesus et la libération dans l'histoi-
re (cap. 8 in J. DORÈ [ed.], Jesus et la libération en Amérique latine, op. cit., pp. 233-290).
* G.W.F. HEGEL, La Phénomenologie de l'esprit, trad. J. Hyppolite, t. 2, Aubìer-Montaigne 1941,
pp. 258-290 (trad. ital.: Fenomenologìa dello Spirito, La Nuova Italia, Firenze 1972).
' E. JUNGEL, op. cit., t. 1, pp. 97-153. Sul Crocifisso come «vestigium trinitatis», op. cit., t. 2, pp.
192-231.

338
nato?"».10 Cristologi della portata di J. Moltmann o W. Kasper fanno lo stesso tipo
di osservazione. Quest'ultimo sottolinea che «già all'interno della tradizione biblica
il fatto che Gesù sia morto nell'abbandono di Dio fu considerato come sconvolgente»."
Presso molti Padri, sia greci che latini (questi ultimi del resto tratti in inganno dalla traduzio-
ne scorretta di «le parole che urlo» in «le parole dei miei peccati», Sai 22,2), si è tentato di elimi-
nare lo scandalo in diversi modi: in questo grido, Gesù parla a nome dell'umanità peccatrice
abbandonata da Dio; o ancora, si tratta di un dialogo tra la sua natura umana e la sua natura divina...
L'interpretazione biblica del grido di Gesù richiede d'altronde che venga inteso come una
ripresa del Sai 22,2. Si tratta qui di una interpretazione antica della comunità post pasquale,12
oppure di una parola «autentica» di Gesù?'3 I ricercatori rimangono divisi su questo punto.14
La posizione di H. Cousin ci sembra la più coerente: l'uso del Sai 22,2 da parte di Matteo e
Marco «è anteriore a questi autori». Citata in aramaico da Me 15,34, essa suggerisce che la co-
munità cristiana palestinese «vi vedesse prima di tutto una affermazione positiva: Gesù è il giu-
sto sofferente annunciato da Davide e dai profeti. Una Chiesa greca, invece, correva il grosso
rischio di essere prima di tutto impressionata da questo grido di disperazione. [...] L'autore (Luca)
la previene sopprimendo il Sai 22,2 e sostituendolo con una preghiera più ammissibile per dei
cristiani greci: «Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito»; è, questa volta, un riferimento
al &/31,6 n ». 15
Comunque stiano le cose su questo punto di «autenticità», tutto sommato seconda-
rio, è più importante chiedersi se questo grido vada interpretato in funzione dell'insie-
me del Salmo 22, e soprattutto della sua finale di fiducia, oppure no. In caso positivo
— e questa è l'opinione di W. Kasper, che ci vede comunque l'espressione di uno stato
di derelizione —, la parola del crocifisso si inserirebbe, come nota X. Léon-Dufour,
in una «struttura vetero-testamentaria familiare ai credenti, quella della lamentazione
biblica» il cui fine «è sempre la lode».16 Quest'ultimo fornisce tuttavia dei buoni indizi
esegetici che «impegnano a non introdurre i sentimenti del salmista nel grido di Gesù.
Questo deve essere esaminato in se stesso».17 In questa ipotesi, la lode su cui sfocia
qualsiasi lamentazione troverebbe la sua eco non nel Sai 22,25, ma nella confessione
di fede del centurione: «Veramente questo uomo era Figlio di Dio» (Me 15,39; Mt
27,54). 18

10
X. LÉON-DUFOUR, «La mort rédemptrice du Christ selon le Nouveau Testament», in X. LÉON-DUFOUR
et al., Mort pour nos péchés, op. cit., p. 40.
" W. KASPER, Jesus, le Christ, Cerf, 1976, pp. 176.
12
In questo senso: l'uso molto frequente dei salmi nei racconti della passione (12 usi in quello di Mat-
teo, di cui 4 riferimenti al salmo 22).
13
In questo senso: il criterio di discontinuità rispetto alla Chiesa primitiva, soprattutto il fatto che una
frase di questo tipo facesse l'effetto di uno scandalo e rischiasse di essere male interpretata.
14
M. GOUROES, Les Psaumes et Jesus, Cahiers Evangile, n. 25, 1978, p. 56. L'autore fornisce d'al-
tronde buoni argomenti in favore di ognuna delle due tesi (pp. 54-56). J. MOLTMANN ritiene che questa
frase sia «certamente» una interpretazione molto antica della comunità post-pasquale (pp. cit., p. 171). W.
KASPER è più riservato: «Potrebbe trattarsi di una interpretazione molto antica della morte di Gesù, alla luce
della resurrezione» (op. cit., p. 177).
15
H. COUSIN, Le Prophète assassine. Histoire des textes évangéliques de la Passion, ed. J.P. Delarge,
Paris 1976, p. 142.
16
X. LÉON-DUFOUR, Face à la mort: Jesus et Paul, op. cit., p. 163; W. KASPER, op. cit., p. 176.
17
X. LÉON-DUFOUR, ibid., pp. 153-154.
" ID., ibid., p. 164. L'ipotesi sarebbe ulteriormente rafforzata dal suggerimento di E. JÙNGEL: la «phònè
megàle» che modalizza le ultime parole del Crocifisso (Me 15, Mt 27) avrebbe valore di «phònè theou» (op.
cit., t. 2, p. 222; l'autore si riferisce soprattutto a Ignazio di Antiochia, Philad. 7,1).

339
D'altronde esegeti e cristologi sembrano accordarsi almeno su tre punti fondamentali.
Prima di tutto, essi rifiutano l'ipotesi bultmanniana di un crollo di Gesù nella fede.
Il suo grido, in quanto salmico, è una preghiera: «Mio Dio...». E se Gesù muore su
un «perché?» di incomprensione dei cammini di Dio, egli fa di questo perché una pre-
ghiera.
In secondo luogo, questo grido deve essere inteso biblicamente nel suo rapporto
con la missione di Gesù. La sua morte appariva, secondo l'espressione di J. Moltmann,
come la «morte della sua causa. È questo prima di tutto che costituisce la caratteristica
unica della sua morte in croce». " Più precisamente, questa singolarità deve essere let-
ta, come sottolinea E. Jungel, «in funzione della legge, del conflitto della legge "con
se stessa" che Gesù aveva provocato e al quale, contemporaneamente, si era esposto.
Vittima di questo conflitto, egli muore come un criminale, cioè, secondo la legge, co-
me "maledetto" da Dio {Gal 3,13), abbandonato da Dio. Lui che, in forza del suo
abbandono a Dio, aveva scatenato questo conflitto, eccolo dunque che muore nell'ab-
bandono totale da parte di Dio».20 In ogni caso, contrariamente a Luca che interpreta
questo abbandono come quello dell'abbandono del giusto a Dio, Marco e Matteo sem-
brano presentarlo come un abbandono del giusto da parte di Dio.
Ma, aggiunge Jungel, il grido salmico ripreso da Gesù morente «può esprimere
l'abbandono da parte di Dio solo perché la relazione con Dio ne è la condizione».21
Esegeti e cristologi sottolineano infatti il paradosso di ciò che viene indicato da questo
grido: prova di derelizione, cioè di abbandono da parte di Dio, ma derelizione vissuta
nella fede, la notte della fede, di cui abbiamo qui l'espressione parossistica. Così, da
un punto di vista molto biblico, X. Léon-Dufour dice: «Dio lascia morire Gesù, lo
ha abbandonato ai suoi nemici, non l'ha liberato, e i nemici avevano ragione di beffar-
si di Gesù: "Se lo ama, che lo liberi" (Mt 27,43 e par.). L'affermazione è chiara:
Gesù è in uno stato di derelizione, quello della morte che è, in sé, separazione dal
Dio vivente». Simultaneamente, tuttavia, «Gesù proclama la sua fede, la certezza che
Dio "conduce il gioco", nonostante le apparenze. Il paradosso è al culmine: l'espe-
rienza di abbandono è simultaneamente gridata e negata in un dialogo che proclama
la presenza di colui che sembra assente».22 Alcuni cristologi vanno più lontano, veden-
do qui un evento in Dio stesso: qui ci viene rivelato Dio, scrive W. Kasper, «come
colui che si ritira appunto nella sua prossimità»; Gesù «è quindi diventato, in questo
vuoto estremo, forma vuota per la pienezza di Dio».23 Il fatto che Dio si sia identifica-
to con l'uomo Gesù votato alla morte — ed è proprio questo che dice la fede pasquale
— significa, scrive da parte sua E. Jungel, che «Dio si è identificato con l'abbandono
di Gesù da parte di Dio», che «Dio definisce se stesso quando si identifica con Gesù
morto». È questa una idea dura (cf Hegel) «alla quale perfino la teologia cristiana ha
continuato a sottrarsi».24 Sentiremo echi analoghi più avanti nelle affermazioni di J.
Moltmann.

" J. MOLTMANN, op. cit., p. 174.


20
E. JUNGEL, op. cit., t. 2, p. 220.
21
ID., ibid.
22
X. LÉON-DUFOUR, «La mort rédemptrice...», art. cit., p. 42. Analogamente, in Face à la mort.,.,
op. cit., pp. 149-150.
23
W. KASPER, op. cit., p. 177.
24
E. JUNGEL, op. cit., t. 2, pp. 223-224.

340
Che Gesù sia morto come «l'Abbandonato da Dio», secondo l'espressione di que-
st'ultimo, pur avendo «piena coscienza della vicinanza benevolente di Dio», non ri-
chiede, come fa l'autore del Dio crocifisso e nella scia dell'interpretazione luterana
e calvinista della discesa agli inferi, che si debba arrivare fino a evocare «il tormento
dell'inferno».25 L'integralità del Detto della croce che si mormora in questo abbando-
no ci sembra poter essere più o meno delimitato da due proposizioni: da una parte,
Gesù ha vissuto il fino alla fine dell'ek-sistere umano, cioè la morte, la morte sempre
vissuta nel silenzio di Dio che non interviene nemmeno per risparmiarla al giusto, la
morte che non può giustificarsi in definitiva con nessuna «ragione»; d'altra parte, que-
sta morte è legata alla fede: conformemente alla legge, Gesù sopporta nella sua perso-
na la maledizione dei senza-Dio, proprio lui che ha costantemente «lasciato Dio essere
Dio».26 Nel suo abbandono, biblicamente interpretato, ne va dunque dell'essere stesso
di Dio. È quanto viene significato, in ogni caso, dalla confessione di fede della Chiesa
rappresentata in Marco e in Matteo dal centurione: «Veramente quest'uomo era Figlio
di Dio!».
Se è vero che la rivelazione di Dio trova così nella croce di Gesù la sua svolta deci-
siva, se il rapporto di Dio e dell'uomo trova anch'esso qui il suo punto focale (e, solo
a partire da qui, nell'Incarnazione), questo richiede che la rappresentazione di «Dio»
sia portata su di un piano diverso da quello dell'onto-teologia. Questa infatti ha sem-
pre a che fare, in definitiva, con un Dio usato come «principio di validazione dell'uo-
mo attraverso se stesso»27 (cf Descartes). Essa si impedisce in questo modo, per la
sua stessa logica, di lasciare Dio essere Dio. Perché questo lasciar-essere ci sottrae
«Dio»: «Dio è vicino a noi in quanto è colui che si è ritirato»; e simultaneamente ci
sottrae a noi stessi: «Dio è vicino a noi soltanto allontanandoci da noi stessi». E tuttavia
l'extra nos storico e concreto della croce ci ordina proprio questo essenziale decentra-
mento.28

2. Una meontologia simbolica


Neanche nelle sue espressioni più negative l'onto-teologia può pensare radicalmente
la cancellatura di «Dio» che qui è in gioco. L'abbiamo detto (cap. II): la me-ontologia
qui richiesta non si colloca nella scia della teologia apofatica. Se quest'ultima infatti
conduce verso l'inconoscenza di Dio, lo fa in maniera intemporale, a partire da una
logica concettuale e trasportando Dio sul versante della totalità delle perfezioni del-
l'Essere puro. Ora, noi ci scontriamo qui con l'impatto storico della croce. Certo, He-
gel ci ha insegnato che il concetto può (e addirittura deve) essere riletto come storia;
e la rilettura del Venerdì santo storico come «Venerdì santo speculativo» costituisce
appunto un momento alto della dialettica della conoscenza.29 Tuttavia non seguiremo
questo cammino, che rimane eminentemente onto-teo-logico.30

21
J. MOLTMANN, op. cit., pp. 172-173.
26
E. JUNGEL, op. cit., t. 2, p. 229.
27
I D . , ibid., p. 227.
28
I D . , ibid., t. 1, p. 284 e 286.
2
' Cf, tra gli altri, La Phénotnenologie de l'esprit, op. cit., lo sviluppo sulla «religione manifesta» (o
rivelata) t. 2, pp. 258-290.
30
L'idea-guida hegeliana secondo cui l'infinito può manifestarsi solo nel finito, grazie al movimento
storico mediante il quale quest'ultimo si supera e nega se stesso fino a morire (e Cristo è appunto il grande

341
L'assunzione dello scandalo della croce nella sua empiricità storica richiede una
meontologia che «superi» quella dell'onto-teologia negativa, e che appartenga dunque
ad un'altra epistemologia: quella, simbolica, dell'Altro, e non quella, metafìsica, del-
VEssere realissimo. Non è infatti l'umanità «in generale» (la «natura umana») ad esse-
re qui in gioco come luogo della rivelazione di Dio. È l'umanità di questo Gesù croci-
fisso. Più precisamente: è questa umanità concreta in quanto, come quella del servo
sofferente, è «stritolata», «disprezzata», «considerata un nulla» dagli uomini, al punto
che «la sua apparenza non era più quella di un uomo e il suo aspetto non era più quello
dei figli di Adamo» (Is 53,2-3; 52,14). Questa meontologia del servo sotto-umanizzato,
ridotto alle frange dell'animalità — come una «pecora muta» (Is 53,7) — è ripresa nel
salmo 22: il supplicante, «schernito dalle genti, rigettato dal popolo» non è nemmeno
«un uomo» (22,7); si vede come preda delle belve, circondato dai tori, dai leoni, dai
cani, ridotto al suo semplice corpo; un corpo, d'altronde, che è ormai solo una carica-
tura derisoria di corpo: corpo così disfatto, così distrutto, così liquefatto che viene già
trattato come morto da coloro che si dividono le sue vesti (Sai 22,18-19). Come il
servo, il salmista tocca qui il fondo del «nulla» dì umanità. Impossibile essere abbas-
sato (ci FU 2,8) di più: un semplice vacillare supplementare, e il limite della morte,
continuamente sfiorato, sarebbe definitivamente varcato. Come il servo, «schernito»
dalle «perversità» degli uomini (Is 53,5), il salmista è la vittima delle forze bestiali
dell'odio.
Ed ora ecco che — e questo è sicuramente il culmine dei nostri testi — Dio scagio-
na la vittima, salvandola appena aldilà (servo) o appena al di qua (salmista) della mor-
te. All'improvviso, gli occhi degli uomini si aprono: essi hanno accusato il giusto, l'han-
no punito, l'hanno annoverato tra i peccatori; ma il giudizio opposto di Dio svela la
verità: il male di cui essi hanno investito il giusto non è altro che il loro stesso male.31
Erano i nostri peccati, erano «le colpe delle folle» che il servitore portava (Is 53,13).
Sì, «la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d'angolo» (Sai 118,22). Quanto
al supplicante del salmo 22, questa stessa parola si realizza per lui nel momento in
cui, bruscamente, accede alla lode (v. 22-27).
Impossibile, come si vede, confessare la vittoria di Dio nel giusto senza rimetterci
personalmente in discussione: è il nostro stesso male, è il peccato della moltitudine
che ha condannato Gesù, che ha schernito il suo corpo e l'ha stritolato fino al sangue.
La confessione della gloria di Dio sullo sfigurato della croce va di pari passo con lo
svelamento del nostro peccato: la condanna del giusto rende palese la nostra ingiusti-
zia. Come dire Dio, allora, a partire dalla croce senza essere noi stessi implicati fino
al midollo del nostro desiderio? Viene qui richiesto un capovolgimento del desiderio,

simbolo storico concreto di questo movimento), è sottesa da una costante minaccia verso la differenza con-
creta tra l'uomo e Dio; come fa notare E. Jiingel, Hegel non ha (o non ha sufficientemente) riconosciuto
«nel crocifisso il Dio umano che è nella stessa misura umano e divino perché preserva l'uomo dal diventare
Dio e lo libera perché sia uomo e nient'altro che uomo» (op. cit., t. 1, p. 146). D'altra parte, la logica
finalista che regge la dialettica hegeliana verso ciò che Heidegger chiama la «parusia dell'assoluto», secondo
una presentazione del movimento della coscienza che «comincia con l'estrema violenza della volontà della
parusia»" ci riconduce all'onto-teologia o, più precisamente, manifesta l'essenza della metafisica, perfino
in Hegel, come una «onto-teo-logica» (M. HEIDEGGER, «Hegel e il suo concetto dell'esperienza», in Che-
mins..., op. cit., Gallimard, coli. Idées, soprattutto le ultime pagine, pp. 245-252).
31
P. BEAUCHAMP, Psaumes nuil et jour, op. cit., p. 241.

342
che non solo confessi la nostra ingiustizia proprio lì dove pretendevamo di essere auto-
rizzati a buon diritto, il diritto di Dio stesso, a condannare il giusto, ma che confessi
simultaneamente un Dio completamente altro dal Dio meraviglioso del nostro deside-
rio infantile, un Dio tanto più facilmente manipolabile «in perfetta buona fede» al ser-
vizio delle nostre ideologie quanto più la sua maestà sublime altro non è che la proie-
zione idealizzata della nostra personale megalomania.
La meontologia simbolica evocata precedentemente viene quindi doppiamente ri-
chiesta: perché la riduzione di Gesù alla condizione infraumana di me on (1 Cor 1,28;
Is 42,14; Sai 22,7) non è il semplice frutto concettuale di una logica di purificazione
delle rappresentazioni di Dio, bensì l'effetto storico delle forze «demoniache» della
buona coscienza degli uomini; e perché noi non possiamo raffigurarci lo sfigurato del-
la croce come figura di Dio stesso se non a patto che la nostra personale ingiustizia
«esploda» (nel duplice senso del termine) in questa confessione di fede. D'altronde il
titolo di «Figlio di Dio» dato a Gesù dal centurione romano ai piedi della croce (Me
15,39; cf 1,1), titolo che è stato in seguito privilegiato dall'insieme della tradizione
ecclesiale come espressione esemplare della confessione di fede, ci colloca immedia-
tamente nel campo del simbolico. Lo schema della filiazione sarà per noi una guida
tanto più preziosa quanto più la assumiamo come espressiva del compito umano più
fondamentale: la sua applicazione al rapporto di Gesù con il Padre non può essere sle-
gata dalla nostra implicazione. Questa è la strada del simbolico, lo sappiamo: impossi-
bile capire senza essere capiti.

3. Il Figlio e il Padre
Conosciamo la tesi centrale del «Dio crocifisso» di J. Moltmann: l'abbandono di
Gesù «mette in gioco la divinità del suo Dio e la paternità di suo Padre che egli aveva
reso così vicine agli uomini [...]. L'abbandono espresso dal grido che egli lancia spi-
rando e correttamente interpretato dalle parole del salmo 22 deve dunque essere stret-
tamente inteso come un evento tra Gesù e suo Padre, e quindi come un evento tra Dio
e Dio. L'abbandono sulla croce che separa il Figlio dal Padre è un evento in Dio stes-
so, è dissenso in Dio — "Dio contro Dio" — se si deve comunque mantenere che
Gesù ha testimoniato ed è vissuto della verità di Dio».32 Vecce homo che designa il
rigettato, il maledetto, è anche un ecce Deus. «Dio è questo e Dio è così. Da nessuna
parte Dio è più grande che in questa umiliazione [...]. Da nessuna parte Dio è più
divino che in questa umanità [...]. Ciò che succede al Cristo in croce è qualcosa che
succede a Dio stesso»: non «morte di Dio», ma (e solamente) «morte in Dio».33

a) Lo schema simbolico di paternità/filiazione


L'intelligenza teologica di questa interpretazione intra-divina della morte dell'uo-
mo Gesù è possibile solo se, rinunciando allo schema metafisico della differenza (nella
fattispecie, quella dell'uomo e di Dio) come distanza e allontanamento, noi pensiamo
questa differenza secondo lo schema simbolico dell'alterità. Ogni differenza, secondo

32
J. MOLTMANN, op. cit., pp. 176-177.
33
ID., ibid., pp. 232-235.

343
questo schema, è intrinsecamente legata a una identità o similitudine dei due termini.
Identità e differenza sono allora espressi come «co-appartenenti» l'una all'altra, come
mostra Heidegger.34 Non dunque come due realtà piene che sarebbero soltanto in rap-
porto dialettico inseparabile, un po' come il recto e il verso di un foglio di carta; ma
come due realtà che avvengono soltanto se sbarrate l'una dall'altra (come succede
con la presenza e l'assenza, l'abbiamo notato). In una simile prospettiva, la differenza-
alterità non è mai così «realizzata» come nella relazione di identità-similitudine con
gli altri. L'alterità è il luogo simbolico da cui si può effettuare qualsiasi comunicazio-
ne. Perché l'altro è un soggetto, e non un oggetto; perché, come abbiamo esplicitato,
ogni relazione a un oggetto qualsiasi è significante, cioè umana, solo se l'oggetto in
questione è già investito dal soggetto, dal suo desiderio e dalla sua cultura.
L'atto di linguaggio è evidentemente il luogo non solo esemplare, ma originario
di un simile rapporto. Anche questo l'abbiamo mostrato a partire dalla struttura triadi-
ca della persona linguistica: sotto l'istanza «neutra» del EGLI che preclude ogni rap-
porto di immediatezza del soggetto locutore con gli altri e con se stesso, IO è possibile
solo nel suo rapporto con il suo più differente che è il TU (IO reversibile); ed è proprio
da questa falla incolmabile di alterità che nascono la similitudine e la reciprocità che
permettono la comunicazione. Secondo la teoria freudiana «ortodossa», la risoluzione
del complesso di Edipo si effettua in condizioni analoghe: il divenire-figlio richiede
il lutto del «padre idealizzato» (l'onnipotente non «castrato»), cioè il consentimento al-
la finitudine del padre; e un simile consentimento segna anche il riconoscimento della
differenza e, insieme, della similitudine tra il figlio e il padre: la «castrazione simboli-
ca» del figlio (come quella, nel suo psichismo, del padre) articola simultaneamente,
da una parte, la mancanza da cui egli nasce come soggetto, la sua finitudine, la sua
mortalità, e, dall'altra parte, la sua identificazione (secondaria) con il padre, anch'egli
mortale. Il figlio è V«altro simile» del padre.
Abbiamo imparato da Heidegger che lo Stesso (das Selbe) non è l'Uguale (das Glei-
che): «nell'Uguale, infatti, ogni differenza si abolisce mentre, nello Stesso, le diffe-
renze appaiono».35 Nell'alterità che attraversa la sua ipseità, il figlio è lo stesso del
padre, non il suo uguale (nel senso detto). Il linguaggio si esaurisce qui in paradossi
costantemente cancellati. J. Derrida l'ha sottolineato, come già abbiamo notato: l'im-
possibilità di esprimere adeguatamente «nella coerenza del Logos» ciò che ne è dell'al-
ter ego (da cui Lévinas pretende appunto di difendersi, ma che non può evitare, alme-
no nelle sue metafore), almeno se, come è doveroso, i due termini vengono presi allo
stesso livello e non come epiteto e sostantivo, non è forse il «segno che il pensiero
si toglie il fiato nella regione dell'origine del linguaggio come dialogo e differenza»?
Non c'è nulla qui di «irrazionale»: questa origine è appunto la «condizione concreta
della razionalità», ma «non potrebbe essere "compresa" nel linguaggio».36 Quest'ulti-
mo, in questa situazione, non può che ritorcersi metaforicamente su se stesso e, così,
risalire verso il suo sito originario: il simbolo. Il discorso psicanalitico, questo discor-
so che fa atto, trova qui, secondo noi, la sua singolare e insostituibile pertinenza: è

34
M. HEIDEGGER, Identité et différence, in Q. 1 , pp. 257-276 (trad. ital. : Identità e differenza, in «Aut-
Aut», nn. 187-188, 1982, pp. 2-38).
" I D . , ibid., p. 280.
" J. DERRIDA, Violence et métaphysique, op. cit., p. 187.

344
ciò che ci ha portato ad avvalerci di lui per evocare il problema dell'origine attraverso
lo schema simbolico della filiazione.
Se parlare di Dio significa inevitabilmente parlare dell'uomo; se parlare del rap-
porto dell'uomo con Dio significa inevitabilmente parlare del rapporto tra gli uomini;
più ancora: se tutto questo non può essere fatto altrimenti che a partire dalla nostra
umanità (a patto, ovviamente, che la teologia abbia qualcosa da dire anche sull'antro-
pologia), come non tentare di elaborare il nostro discorso sul rapporto tra l'uomo e
Dio in Gesù crocifisso a partire dallo schema simbolico di alterità-similitudine che ab-
biamo appena ricordato? E come fare altrimenti, per quanto qui ci riguarda, se, come
riteniamo di aver mostrato, questo schema, interamente articolato sull'accoglienza della
«presenza-della-mancanza», ci porta vicinissimi all'«ek-sistere» umano? Andiamo più
lontano ancora: se la tradizione cristiana ha privilegiato i termini di «figlio» e di «pa-
dre» per chiamare Gesù e il suo Altro simile nella loro identità, come evitare un simile
schema?

b) Il compimento del Figlio


In ogni caso, questo schema ci apre un approccio interessante al mistero della mor-
te di Gesù, cioè alla sua fecondità salvatrice «per la moltitudine». Infatti il carattere
unico di questa morte non è legato né alla sofferenza fisica del crocifisso, né a qualche
impressionante nobiltà delle ultime sue tragiche ore. Al contrario, tanto la morte di
Socrate, di certi stoici, di molti zeloti e di quei martiri cristiani le cui «passioni» riferi-
scono la commovente testimonianza agli occhi dei loro carnefici talvolta sconcertati,
fu una «bella morte», tanto quella di Gesù appare pietosa: la sua agonia fu piena «di
spaventi e di angoscia» {Me 14,33); morì supplicando «con alte grida e lacrime colui
che poteva salvarlo dalla morte» (Eb 5,7). Ora, è proprio questa dimensione anti-estetica
che ci permette di leggerne teologicamente la singolarità: da figlio che era, continua
la lettera agli Ebrei, egli apprese attraverso le sue sofferenze l'obbedienza e fu condot-
to fino alla sua teleiòsis (Eb 5,8-9). Come abbiamo già notato (cap. 8), questa teleiòsis
designa la sua consacrazione sacerdotale mediante il rito (qui metaforizzato) del «riem-
pimento delle mani»; essa designa così il suo «compimento». Liberamente consentita
nel «docile ascolto» (hyp-akoè) della Parola del Padre, la sua morte consacra dunque
il suo compimento di Figlio-in-umanità, non (al contrario del sommo sacerdote antico)
per sottrazione a una troppo stretta solidarietà con l'umanità, ma al contrario per im-
mersione radicale in questo «fino alla fine» dell'umanità che è la morte, e la morte
vissuta nel silenzio di Dio. È questa fraternità con gli uomini, dolorosamente offerta,
«con grida e lacrime», come una preghiera (una preghiera-sacrificio, secondo la cor-
rente di spiritualizzazione del sacrificio di cui abbiamo parlato), ed esaudita da Dio,
che lo porta al suo compimento di Figlio.

c) L'Altro simile di Dio


Questo compimento trova la sua espressione teologica esemplare nel grido del Sai
22,2: Gesù si rivela al centurione (tipo del credente) come «Figlio» vivendo il suo rap-
porto con Dio come con «colui che si ritira nella sua prossimità», secondo la bella espres-
sione di W. Kasper. Dio quindi si manifesta ritirandosi. Ed è proprio nel momento
in cui l'assenza di Dio si radicalizza in questo crocifisso che la Chiesa lo confessa come

345
l'Altro simile del Padre. Questa è in ogni caso «l'immagine del Dio invisibile» (Col
1,15) che ci offrono Marco, Matteo e la lettera agli Ebrei.
Diventare figli, abbiamo detto, significa imparare — ma si tratta qui di un appren-
dimento al di qua di ogni sapere, di un apprendimento che «si produce» in uno con
il divenire-soggetto — a riconoscere nell'altro un «simile» proprio nella sua alterità;
e significa simultaneamente apprendere a consentire a questa alterità radicale, al di
fuori della quale non esiste similitudine. Il prezzo di un tale consentimento è pesante:
nientemeno che l'«elezione» per una libertà responsabile dell'altro, il fratello, respon-
sabilità indeclinabile di cui nessun altro — perché «altro», appunto — mi può scarica-
re; nientemeno che la consegna di ciascuno a Se-stesso attraverso e per l'Altro. Il «sa-
crificio» richiesto dall'inesauribile avvento alla filiazione e alla fraternità è così onero-
so perché distrugge l'immaginaria onnipotenza alla quale tutto in noi si accanisce a
ricorrere per dispensarci, nei limiti del possibile, dal coraggio di essere, dal coraggio
di ek-sistere in una insostituibile autonomia.
Morendo come l'«Abbandonato da Dio», Gesù viene lasciato a se stesso, conse-
gnato alla sua irriducibile finitudine di essere-per-la-morte, al suo mondo, ai suoi ne-
mici, senza che Dio intervenga per salvarlo, lui che è il Giusto. Ora, è nella prova
di questo totale lasciar-essere-Dio, di questa radicale differenza da Dio, così altro che
si riserva nel suo silenzio, che si rivela pienamente la sua similitudine con il Padre.
Abbiamo visto proprio in questo il suo «anti-sacrificio», quello della sua filiazione e
della sua fraternità, cioè: da una parte, la sua rinuncia a «usare» Dio a suo vantaggio
o a «giocare» a Dio e il suo consentimento a lasciare che Dio sia Dio; d'altra parte,
e simultaneamente, la sua acquiescenza alla solidarietà fraterna con gli uomini fino
a una morte ingiusta che aveva tutta l'aria di una sconfessione della sua missione.

d) Salvezza: esemplarità e solidarietà


Prosciogliendo, attraverso la risurrezione, la vittima di tutti — perché se è morto per tutti,
vuol dire che egli è il morto di tutti — Dio fa «scoppiare» l'ingiustizia di tutti. Sicuri del loro
buon diritto — il diritto di «Dio» in persona, la sua legge — gli uomini credevano tuttavia di
fare opera di giustizia; credevano di sapere cosa ne è di Dio, ma questo sapere era solo ideolo-
gia religiosa; credevano di avvalersi dell'Altro, ma erano guidati solo dal loro desiderio di auto-
giustificazione. Ecco che la debolezza del crocifisso si rivela come forza di Dio. Che forza que-
sta debolezza, poiché rivela agli uomini la loro perversità: il male che hanno buttato addosso
alla loro vittima era il loro stesso male; e in questo riconoscimento consiste la loro salvezza,
la salvezza del mondo.
Considerato ciò che è l'uomo, ogni uomo che, come il primo Adamo, da «terroso» che era,
volle farsi uguale a Dio (Gn 3,5), «non bisognava» (cf soprattutto Le 24) che vivesse nella storia
un soggetto unico che facesse saltare questo idolatrico misconoscimento di Dio, misconosci-
mento a sua volta misconosciuto, dimenticato, mascherato sotto le facciate di tradizioni religio-
se, di discorsi teologici, di giustizia etica? Ma quale figlio di Adamo avrebbe potuto operare
una simile sovversione?
Bisognava, «secondo le Scritture», che Dio stesso vi si mescolasse. Gesù, confessa la fede
cristiana, è il nuovo Adamo (Rm 5), che, pur essendo di natura divina, «non ha considerato come
una preda la sua uguaglianza con Dio», ma se «ne è svuotato» fino alla morte (FU 2,6-11) affin-
ché, riconoscendo finalmente la loro ingiustizia, gli uomini potessero entrare in una conversio-
ne che è la loro salvezza.
Il fatto che questo sia avvenuto una volta nella storia è sufficiente a cambiarle il volto. Qual-

346
cosa di nuovo è accaduto nell'umanità, che si chiama «salvezza», qualcosa che riguarda sia Dio
che il mondo: «La trasformazione, la crisi, la rivoluzione stessa dell'immagine di Dio conduce
alla crisi, al cambiamento, in una parola alla redenzione del mondo».37 Questa «redenzione» ri-
chiede, per essere compresa teologicamente, che vengano incrociate le due categorie di «esem-
plarità» e di «solidarietà». L'esemplarità, da sola, ci darebbe di Gesù solo un modello di profe-
ta o di martire da imitare, e rischierebbe di darci in pasto al peggiore dei perfezionismi moraliz-
zanti. Al contrario, la solidarietà, da sola, porterebbe all'automatismo di una sostituzione che
ci metterebbe fuori gioco. Non si vede bene, d'altronde, come sarebbe possibile riconoscere
in qualcuno un «esempio», più ancora, un «esemplare», senza automaticamente riconoscersi so-
lidali con lui.

e) Dio altrimenti
Gesù non è morto per una «idea»; nemmeno per un'idea nuova di Dio. Ma la sua
morte implica ugualmente una «rivoluzione dell'immagine di Dio». Viene qui richie-
sta una esplosione della nozione semplice di Dio. La rivelazione «para-dossale» della
gloria di Dio nel volto sfigurato di colui che gli uomini hanno ridotto a nulla può esse-
re sostenuta solo se questa nozione semplice viene presa al contrario per aprirsi inte-
riormente. La cancellatura di «Dio» in colui che è morto nella morphè doulou (FU 2,1)
ha, come abbiamo sottolineato, una portata meontologica, non nel senso dell'onto-
teologica negativa tradizionale, ma nel senso simbolico e storico, poiché essa è l'effet-
to dell'azione degli uomini. In essa è l'umanità del Dio divino che ci viene rivelata.
Questa formula non deve essere intesa in modo semplicemente metaforico (salvo ri-
cordarsi che la metafora tocca il più «reale» dell'«ek-sistere» umano). Essa non signifi-
ca soltanto che Dio è più umano di noi, che siamo così spesso inumani. Essa dice che
l'esse di Dio stesso può dirsi solo come bloccato dall'Altro simbolico di cui l'altro
storico è la mediazione concreta. Essa dice quindi, superando l'opposizione metafisica
dell'immutabilità e del divenire, che — secondo la formula di C. Geffré — «il pro-
prium di Dio, potremmo dire, è di diventare altro pur rimanendo Dio»; oppure, secon-
do la formula di E. Jungel, che appartiene all'esse di Dio di venire al mondo solo «la-
sciandosi cacciare dal mondo»,38 cioè come Dio crocifisso in nome di «Dio» (la legge),
annullato dagli uomini. Conformemente all'agape giovannea, essa dice Dio come es-
senzialmente Dono. Essa dice quindi Dio altrimenti.
Simbolica, questa cancellatura di Dio colpisce direttamente anche noi stessi con
un esponente critico. Essa infatti rimette in discussione, e in maniera concreta, i rap-
porti storici tra gli uomini incapaci di sopportare un Dio che non sia per i «buoni» e
contro i «cattivi», che paga gli operai dell'ultima ora come quelli della prima, che fa
festa per il ritorno del figlio dilapidatore dell'eredità, che toglie a quelli che non hanno
e dà a quelli che hanno, che dichiara ciechi quelli che pretendono di essere veggenti,
ecc. Un Dio simile, insopportabile, che sfida qualsiasi ordine stabilito (soprattutto re-
ligioso) e tutte le buone ragioni (anche qui, soprattutto religiose) che ci diamo, non
può che essere rigettato, espulso, sacrificato. Il «bestemmiatore» non può nemmeno
avere diritto alla morte dei falsi profeti, la lapidazione: gli si sottrae la sua morte con-
dannandolo al supplizio riservato agli agitatori politici e ai criminali. È questa sotto-

" W. KASPER, op. cit., p. 252.


" C. GEFFRÉ, op. cit., p. 166; E. JUNGEL, op. cit., t. 1, p. 96. L'essere di Dio è nel suo «venire».

347
umanità storica e simbolica, e non la meontologia del Nulla increato, che la nostra
cancellatura raffigura.
Impossibile allora separare la kenosi divina da quella che dobbiamo compiere in
noi stessi: la nostra corporeità deve diventarne il luogo primo. Qui si dice che il più
lontano è anche il più vicino, che il più divino è anche il più umano... Ci viene richie-
sto di dare a questo Dio il corpo di umanità che egli sollecita da noi. La corporeità
è il suo luogo. Colui il cui essere è di «non essere» (cf / Cor 1,18; FU 2,5-8), ridotto
al nulla dagli uomini, trova in tutti coloro che sono stati ridotti a dei «non-altri» il suo
«sacramento».

II. IL POLO PNEUMATOLOGICO:


I SACRAMENTI, MEMORIA NELLO SPIRITO SANTO

1. Premessa: necessità di un terzo termine


Il polo cristologico della sacramentaria è teologicamente sostenibile solo attraverso
la sua tensione con un secondo polo, questa volta pneumatologico. Per due motivi,
che espliciteremo rapidamente.
Il primo è che la memoria, sia esistenziale che rituale, di Gesù Cristo, come me-
moria viva che fa fiorire il presente (personale e collettivo) è possibile solo se Dio
stesso vi si mescola in qualche modo. Lo «Spirito» è il nome personale tradizional-
mente dato a ciò che, di Dio, dà vigore presente e futuro a questa memoria del passato.
In mancanza di ciò, questa memoria o rimanderebbe a un Cristo antistorico e mitico,
oppure rimanderebbe a un Gesù visto come semplice profeta o martire esemplare. In
un caso come nell'altro, non sarebbe più una memoria «sacramentale», che implica
cioè l'impegno del Crocifisso risorto nell'oggi storico dei credenti. Che il passato di
quanto viene commemorato nel racconto dell'istituzione possa esserci dato sacramen-
talmente nel presente e ci possa aprire un futuro richiede che lo Spirito lo porti alla
memoria della Chiesa. Per questo il racconto, pronunciato in forma di memoriale, è
inseparabile dalla domanda epicletica dello Spirito.
D'altronde, pensata a partire dalla croce, l'umanità di Dio implica la differenza
tra «Dio» e «Dio»: nella fattispecie, tra ciò che la tradizione apostolica chiama il Padre
e il Figlio. Accogliamo queste due denominazioni come quelle che sono state privile-
giate dalla tradizione ecclesiale. Se dunque, sulla base di questa tradizione, pensiamo
la differenza tra Dio e Dio secondo lo schema simbolico di paternità/filiazione, ci vie-
ne obbligatoriamente richiesto di fare appello a un terzo termine.
Infatti, dal momento in cui esiste il soggetto, quindi il linguaggio, non si è due ma
tre (il terzo designa l'istanza culturale e sociale, l'ordine simbolico, VAltro alla cui
legge l'uno e l'altro sono sottoposti per potersi «intendere»). Questo vale eminente-
mente per l'avvento del piccolo d'uomo come soggetto-figlio nel suo rapporto con il
genitore colto come soggetto-padre (cf l'Edipo); infatti il «simbolico esige il riconosci-
mento dell' (e da parte dell') Altro, ma anche [...] il riconoscimento nell'Altro come
luogo della Legge».39

" G. ROSOLATO, Essai sur le symbolique, Gallimard, 1969, p. 118.

348
Allora, se noi ammettiamo che i termini di «Padre» e di «Figlio» convengano in
modo privilegiato, secondo la tradizione ecclesiale, per qualificare l'identità di Dio
e di Gesù, il loro rapporto esige l'appello a un terzo termine X: il suo nome è «Spiri-
to». Questo vale anche, ovviamente a un livello diverso, per il rapporto di filiazione
instaurato da Gesù tra i credenti e Dio, conformemente a Gal 4,6 e Rm 8,15-16: non
è infatti lo Spirito che permette loro di gridare: «Abbà! Padre!» e di riconoscere che
non sono più «schiavi, ma liberi»? Attraverso lo Spirito, dunque, Dio, come Padre
e Figlio, «supera lo scoglio del faccia-a-faccia estatico»; e sempre mediante lo Spirito
si realizza, oltre a questa «comunione differenziata di Dio», l'apertura di questo Dio
«a ciò che non è divino».40

2. Lo Spirito, o Dio differente

a) Il Neutro
È significativo che, a differenza dei nomi di Padre e di Figlio tratti dall'antropolo-
gia, il nome di «Spirito», invece, sia tratto dalla cosmologia. Questo nome è di fatto
legato biblicamente a una triplice simbolica cosmica. Prima di tutto a quella dello spa-
zio. Come suggerisce H. Cazelles, la ruah ebraica va probabilmente messa in rapporto
con gli dèi dell'atmosfera e dell'aria in Egitto e a Ugarit. Essa designa «all'origine
lo spazio vitale indipendente dall'uomo e da cui l'uomo dipende per la sua vita. È l'am-
biente tra terra e cielo che può essere calmo o violento [...]. Può essere simbolo di
vuoto e di evanescenza, ciò che l'uomo non può cogliere come coglie invece i solidi
o dispone dell'acqua».41 Senza questo spazio vitale tra Dio e lui, l'uomo, a corto di
ruah, potrebbe solo morire. Vive solo se mantiene lo scarto da Dio. Paradosso dello
Spirito: rende «partecipi» di Dio nella misura in cui ne mantiene la radicale differenza.
Questa è, secondo H. Cazelles, l'opera dello Spirito che plana sulle acque primordiali
in Gn 1,2: «Come Shou, il dio dell'atmosfera in Egitto», esso «si interpone tra il cielo
e la terra [...] perché appaia l'atmosfera, perché gli uomini e gli animali possano re-
spirare e diventare dei "soffi di vita"». 42
Legata alla simbolica precedente, anche quella del vento o del soffio è frequente
nella Bibbia: vento violento o turbine che, associato al carro e ai cavalli di fuoco, rapi-
sce Elia in cielo (2 Re 2,11) o che, impadronendosi dei «profeti» e di Saul, li mette
in trance (7 Sani 10,6; 19,20-24); o, al contrario, brezza leggera, «stormire di un sof-
fio tenue» che segna il discreto e inaccessibile passaggio di Dio nella vita di Elia (1
Re 19,12-13). Violento come la tempesta o discreto come la brezza, lo Spirito avvolge

40
C. GEFFRÉ, op. cit,, p. 183. Chiaramente lo Spirito, come terzo termine propriamente divino, non
è assolutamente dedotto dalla nostra problematica. Ne accogliamo al contrario la rivelazione a partire dalle
Scritture e dalla loro interpretazione ecclesiale. Ma non è un caso, secondo noi, che il riconoscimento di
Dio come «Padre» e di Gesù come «Figlio» abbia portato la Chiesa a confessare un terzo termine: lo Spirito.
Questo terzo termine era «necessario» dal punto di vista della simbolica antropologica che regge il rapporto
di paternità-filiazione.
41
H. CAZELLES, «L'Esprit Saint dans l'Ancien Testament», in Les Quatre fleuves, n. 9, Beauchesne,
1979, pp. 5-22.
42
I D . , «Esprit et Rollali dans l'Ancien Testament», in L'Esprit Saint dans la Bible, Cahiers Évangile,
n. 52, 1985, pp. 22-24.

349
Gedeone come un mantello (fide 6,34); penetra certi giudici, come Sansone dalla for-
za sovrumana (Gdc 14,6-19); «viene in» Ezechiele (Ez 2,2; 3,24), «cade su» di lui (11,5),
lo «porta» o lo «rapisce» (3,12-14; 8,3, ecc.). Così, esso penetra l'uomo come il soffio
che fa vivere: l'alito di vita (neshama) che Iahvè soffia nelle narici dell'uomo per far-
ne un essere vivente (Gn 2,7) è interpretato come mah nel Sai 104,29-30 o in Ez
37,5.6.8.10; basta che Iahvè ritiri il suo soffio, e arriva la morte. Talvolta questa sim-
bolica della penetrazione dello Spirito nel più intimo dell'uomo viene evocata attraver-
so l'olio dell'unzione che penetra il corpo del re Saul (1 Sam 10,1.6) o del re David
(1 Sam 16,13). La penetrazione dello Spirito è tale che il corpo stesso dei profeti di-
venta parola, con il costante paradosso che essi possono dire: «Oracolo di Iahvè», «Pa-
rola dell'Altro» nel momento stesso in cui questa Parola li investe fin nel loro corpo
diventato così parabola viva.
Alla simbolica del «violento colpo di vento» è associata nel racconto della Penteco-
ste quella del fuoco. Fra le molteplici, e sovente opposte, simboliche del fuoco che
l'Antico Testamento conosce (il fuoco della benefica presenza di Dio, il fuoco del giu-
dizio che consuma i cattivi...), ce n'è una che è particolarmente messa in risalto nelle
teofanie: quella della santità di Dio, della sua alterità, manifestata dalla nube luminosa
dell'Esodo o dal fumo del Sinai. Quest'ultimo è del resto interpretato dal Deuterono-
mio come fuoco (Dt 4,12; cf 5,4). Il fuoco, che nessuno può afferrare senza esserne
consumato, è il simbolo dell'assoluta alterità di Dio che nessuno può vedere senza mo-
rire (Es 33,23). Per questo Dio parla al suo popolo sul Sinai «dal centro del fuoco»,
così come rivela il suo nome a Mosè (Es 3) dal «centro del Roveto» ardente. Ma se
questo fuoco lo mantiene distante, esso è anche il luogo in cui egli comunica con l'uo-
mo. Il fuoco è dunque un simbolo particolarmente espressivo della duplice funzione
paradossale dello Spirito Santo: agente a un tempo della recessione di Dio fuori dal
mondo nella sua assoluta santità e della processione di Dio nel mondo per comunica-
zione della sua santità all'uomo. «Lo Spirito si offre al pensiero nei termini di questo
paradosso — scrive P. Beauchamp —: la comunicazione della proprietà per eccellenza
di Dio solo in un atto che, essendo divino, ha una qualità insuperabile». Come la Sa-
pienza, a cui è così simile — prosegue lo stesso autore —, esso è attirato dal suo con-
trario: di Dio «mostra la trascendenza proprio toccando nel più intimo l'estremo della
sua creazione».43
Spazio vitale fra cielo e terra, vento violento o soffio esile, fuoco che brucia senza
consumare o che permette all'uomo di comunicare con Dio senza morire, questi vari
simboli mirano tutti alla radicale alterità/santità di Dio. Lo Spirito è Dio inafferrabile,
sempre sorprendente, sempre sfuggente; è Dio ingestibile, che sorpassa costantemente
le istituzioni religiose; è Dio onnipresente, che rinnova la faccia della terra e penetra
fin nel fondo del cuore dell'uomo, ma al tempo stesso non definibile secondo le cate-
gorie umane e senza un posto assegnabile tra le opere umane. Senza nome proprio,
lo Spirito è una specie di anti-nome di Dio. Senza volto, si lascia dire solo attraverso
delle figure cosmiche (lo spazio, il vento, il fuoco, l'acqua anche, nel quarto vangelo).
Femminile in ebraico, è neutro nella lingua che è stata la più determinante per la teolo-
gia cristiana, il greco: to pneuma.
Questa posizione neutrale è nella logica della sua simbolica cosmica. Per designarlo,
43
P. BEAUCHAMP, Le Récit, la lettre et le corps, op. cit., pp. 131-132.

350
il concilio di Costantinopoli non esiterà ad applicargli il neologismo di «il signoriale»
(to kyrion). Dio al Neutro. Ne-uter: né l'uno né l'altro del Padre e del Figlio, egli
è la loro stessa Differenza e, al tempo stesso, in quanto garante della differenza, per-
mette la loro comunione. E allo stesso modo, preservando la differenza di Dio, rende
possibile la sua comunicazione con l'uomo; e mettendo un po' di distanza tra gli uomi-
ni rende possibile la comunicazione tra di loro a Pentecoste. In quanto mediatore della
differenza tra Dio e Dio, lo Spirito è, secondo la teologia di sant'Agostino, il nexus
amborum, la charitas substantialis et supersubstantialis del Padre e del Figlio, e «pro-
cede dal Padre e dal Figlio» tamquam ab uno principio;" e a partire dalla differenza-
alterità da lui instaurata il linguaggio può effettuare l'alleanza tra soggetti. In Dio lo
Spirito è, secondo la formula di O. Clément, «quel misterioso terzo che compie la dif-
ferenza senza la minima separazione».45

b) «Il rivelante non rivelato»


La neutralità dello Spirito, come le sue differenze simboliche cosmiche, sono lo
sfondo delle varie ermeneutiche che di lui sono state tradizionalmente fatte. Queste
continuano infatti a situarlo a un tempo come V «ai-di là» di Dio e come V «ai-di qua»
dell 'uomo: lo Spirito è Dio nella sua differenza assoluta e insieme nella sua comunica-
zione con il più intimo dell'uomo; Dio come lo sconosciuto aldilà di ogni parola e co-
me ispiratore del non detto in cui si mormora, al di qua degli enunciati e nelle falle
del discorso umano, la verità di ogni parola; Dio come apertura ek-statica, che è in
se stesso solo uscendo da se stesso, e come donantesi un rispondente umano alla sua
immagine, di conseguenza anch'esso ek-statico, che si trova solo nel perdersi; Dio
onnipresente, e proprio per questo mai sistemabile e definibile, mai padroneggiabile
dall'uomo.
Questa posizione paradossale dello Spirito è tale che tradizionalmente si è fatto di
lui non tanto un «oggetto» di conoscenza quanto il principio di qualsiasi (in)conoscen-
za di Dio, non tanto il «rivelato» quanto il «rivelante». Non è tanto ciò che va pensato
teologicamente quanto ciò che dà da pensare: omologo all'ex gibt di Heidegger che
permette di «lasciar essere», esso è l'istanza donatrice che permette al credente di la-
sciare che Dio sia Dio e quindi di stabilire una vera comunicazione con lui. La sua
funzione «economica» non verte tanto su dei contenuti di pensiero come tali, quanto
sulla verità sempre da fare dei nostri atteggiamenti verso Dio, cioè sul passaggio mai
compiuto da una relazione di schiavi a una relazione di figli: «Figli voi siete: Dio infat-
ti ha inviato nei nostri cuori lo Spirito di suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Tu dunque
non sei più schiavo, ma figlio» (Gal 4,6-7). Lo Spirito è ciò che rende possibile la
nostra filiazione nel Figlio; è ciò che l'attesta e la sostiene in noi, ciò che ci permette
di accedere alla preghiera di domanda e di azione di grazie, ciò che ci permette di
diventare degli «uomini eucaristici». È ciò che trasforma i nostri discorsi su Dio in
parola vera, ciò che effettua la verità dell'auto-implicazione che caratterizza, come
abbiamo visto, il linguaggio della fede. Sul piano degli atti di linguaggio del credente,

" AGOSTINO, In Io. evang., tr. 105, 3 (PL 35, 1904). Cf B. DE MARGERIE, La frinite chrétienne dans
l'histoire, Beauchesne, 1975, pp. 159-172; Y. CONGAR,7«croisenl'Esprit-Saint, t. 3, op. cit.,pp. 116-134.
4!
O. CLÉMENT, Le Visage intérieur. Stock, 1978, pp. 80-81.

351
non compete tanto alla loro dimensione locutoria, come oggetto di discorso, quanto
alla loro dimensione illocutoria — «rende possibile degli atti discorsivi "eucaristici"»,
cioè tenuti da «figli» — e alla loro dimensione perlocutoria cioè, nella fattispecie, la
loro «dimensione martirologica» di testimonianza.46 Certo, esso è anche oggetto di di-
scorso, come stiamo facendo noi ora. Ma questo oggetto è tale che gli enunciati su
di lui hanno pertinenza solo nel rimandare alle due ultime dimensioni suddette del lin-
guaggio: la verità di un simile «oggetto» sta solo nella sua «risoluzione» nel linguaggio
o nella sua disseminazione nella scrittura, e ultimamente nel corpo.
C'è della verità nella frase di san Gregorio di Nazianzio: «L'Antico Testamento
predicava chiaramente il Padre e più oscuramente il Figlio; il Nuovo ha predicato il
Figlio e insinuato la divinità dello Spirito. Ora, lo Spirito abita in noi e si manifesta
a noi più chiaramente».47 C'è della verità nel senso che lo Spirito, nella sua identità
pienamente divina, sembra come sfuggire alla lettera stessa della Scrittura. I Padri l'han-
no notato spesso: presente dappertutto nelle Scritture in quanto principio ispiratore della
memoria selettiva della comunità e al tempo stesso principio della loro cospirazione
eristica, lo Spirito vi ha tuttavia poco spazio. Nella lettera delle Scritture il suo posto
è come vacante. Essa funge da vuoto, come il bianco che permette ai «gramma» di
essere a un tempo differenziati e collegati in parole, alle parole in frasi, alle frasi in
discorso, ai discorsi in libri, ai libri in parti dotate ciascuna della pienezza di un'«ope-
ra» compiuta ma il cui compimento è percepibile solo nel rimando agli altri: «È pro-
prio lo Spirito Santo che compie la Legge e la Profezia, proprio come la Sapienza ha
la funzione di unirle».48 E infine, lo Spirito è il bianco che differenzia e collega l'Uno
e l'Altro Testamento: ispiratore, esso scinde la lettera in «figura», la pone in se stessa
solo aprendola ad altro da sé, a una nuova scrittura; la lettera ispirata è quindi posta
dallo Spirito solo come transito verso l'altro da essa. È di questa «pasqua» che il rap-
porto dell'uno e l'altro Testamento è figura. Ed è questa stessa «pasqua» che fa cospi-
rare le varie figure della lettera in un unico principio, cristico, di integrazione.
Così il paradosso dello Spirito, enunciato precedentemente, trova nella lettera del-
le Scritture la sua figura: presente dappertutto nella lettera in ciò che essa ha di più
storicamente determinato e di più irriducibilmente opaco, ne è il grande assente. In
quanto «sigillo di ogni lettera»,49 la croce di Cristo porta questo paradosso al suo mas-
simo teologico: «in forza dello Spirito eterno» il Cristo «ha offerto se stesso a Dio co-
me vittima senza macchia» (Eb 9,14). Lo Spirito è quindi ciò che differenzia radical-
mente «l'Uno inaccessibile dell'origine» e l'unico, il «solamente uno» che ci rappre-
senta venendo ad occupare lo spazio dell'altro estremo di Dio: «l'altro estremo del
limite umano»,50 quello della morte in una carne simile a quella del peccato, quella
dell 'ecce homo che non ha più nemmeno figura umana (cf Is 52,14), quella dello schiavo
ridotto a nulla dagli uomini e che muore nell'abbandono di Dio. E simultaneamente,
lo Spirito è ciò che collega questi estremi e fa confessare al centurione ai piedi della
croce l'Altro simile del Padre.

46
J. GREISCH, «Le témoignage de l'Esprit et la philosophie», in R. LAURENTIN et al., L'Esprit Saint,
ed. univ. Saint-Louis, Bruxelles 1978, p. 90.
47
GREGORIO DI NAZIANZIO, Discours 31, 26 (SC n. 250), il quinto dei «discorsi teologici».
41
P. BEAUCHAMP, Le Récit..., op. cit., p. 131.
4
» I D . , ibid., p. 36.
J0
I D . , ibid., p. 133.

352
«Non c'è cammino verso la Sapienza, perché tutti i suoi cammini sono in lei, e
per questo si dice: "Principio della Sapienza: acquisisci la Sapienza" (Prv 4,7)»; per
questo anche «nessun sapiente può vantarsi di essere sapiente». «Non-sapere» per ec-
cellenza, la sapienza è «la domanda delle domande».51 Puro dono di grazia di Dio,
essa è il principio stesso di ogni conoscenza di Dio. Lo stesso vale dello Spirito. Esso
è, per riprendere l'espressione di Heidegger (ma su un piano completamente diverso),
«il cammino che mette tutto in cammino», cammino «camminante», abbiamo sottoli-
neato, cioè non fuori di noi ma in noi, cammino che non è altro che il lavoro di transi-
to, di «pasqua» che si effettua in noi stessi, cammino interminabile perché è solo in
forza del suo camminare. Cammino di «perlaborazione» che, vangando il campo che
noi siamo, ci fa diventare come figli: lo Spirito «con gemiti inesprimibili», in noi che
«gemiamo interiormente» e siamo, con la creazione, «nelle doglie del parto», ci lavora
in vista della nostra adozione filiale (Rm 8,18-28), e grazie alle sue grida noi possiamo
dire: «Abbà, Padre!» (Rm 8,15-16; Gal 4,6). Domanda delle domande, lo Spirito è
quindi l'aldilà del linguaggio, il rovescio della lettera, il soffio che fa corpo. Attraver-
so di lui il Libro, esemplare della comunità, giunge alla sua verità: lo Spirito lo inscri-
ve nel corpo di quest'ultima, facendone così la testimone prima del Dio vivente. Lo
si è notato spesso: Gesù non ha lasciato nessuno scritto. La lettera di Dio, che suggella
ogni altra lettera, si inscrive nel suo corpo crocifisso solo come spremuta fino alla can-
cellazione: in questo modo essa lascia traspirare lo Spirito. Secondo Gv 19,30, Gesù,
rendendo il suo ultimo respiro, paredóken to pneuma. Questa è la sua «tradizione»,
affinché la lettera possa passare al corpo, secondo la promessa dell'alleanza nuova (Ez
36,26-28; Ger 31,31-34).
«Neutralizzazione» di Dio, «bianco» di Dio, «anti-nome» di Dio, lo Spirito è questo
terzo termine che, in quanto appartenente in pieno a Dio stesso, sovverte in noi ogni
padronanza idolatrica di Dio (padronanza concettuale, etica, rituale...) e riapre quindi
senza tregua, come «domanda delle domande», il problema dell'identità di Dio: Dio
cancellato, da nessuna parte così divino come nella sua abolizione nell'umanità sfigu-
rata del Crocifisso. Cosa può sussurrarci di Dio, questo Spirito che ha «tutti i nomi»
e che è quindi «il solo che non si può nominare», se non, come dice liricamente Grego-
rio di Nazianzio, far salire in noi un «inno di silenzio»,51 soffio inarticolato, «gemito
inesprimibile» (Rm 8,26), discorso che si scioglie in puro «grido» verso il Padre (Rm
8,17; Gal 4,6). Differenza tra Dìo e Dio, lo Spirito è simultaneamente la differenza
tra Dio e l'uomo. Differenza che si inscrive — ed è quanto ora mostreremo — nella
differenza tra gli uomini e, in ciascuno, in quella differenza del corpo e della parola
da cui emerge ogni soggetto.

3. Lo Spirito, o la differenza di Dio che si inscrive nella corporeità umana


Abbiamo sottolineato questo paradosso dello Spirito: lo Spirito è Dio in quanto dif-
ferente, non gestibile, che si sottrae, come il vento che soffia dove vuole (Gv 3,8),
al dominio del sapere o dell'istituzione; e simultaneamente, è Dio nella realtà più inti-
ma dell'uomo, al punto da inscriversi nella corporeità per «divinizzarla». È Dio come

51
ID., L'Un et l'Autre Testament, op. cit., pp. 120-121.
52
GREGORIO DI NAZIANZIO, Poèmes dogmatiques, PG 37, 508.

353
il più lontano e il più vicino. Meglio: per evitare le ambiguità di questo linguaggio
spaziale e per conformarci alla nostra problematica del simbolico, è la Differenza stes-
sa di Dio mai così ben confessata nella sua radicale alterità come nella sua comunica-
zione all'uomo.
Ovunque nella Bibbia appare questa paradossale impregnazione dell'uomo da par-
te del Dio Santo attraverso la ruah: dalla creazione dell'uomo (Sai 104,29-30; cf Gn
2,7) fino alla risurrezione finale, quando lo Spirito ridarà vita alle ossa disseccate (Ez
37), o alle ultime nozze di Dio con l'umanità, quando questo stesso Spirito ispirerà
alla Sposa la parola escatologica: «Vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,17.20), passando at-
traverso la sua irruzione sui profeti che fa del loro stesso corpo la viva parola dell'Al-
tro (supra) nell'attesa, secondo il voto di Mosè, che tutto il popolo «diventi un popolo
di profeti su cui Iahvè avrà messo il suo spirito» (Nm 11,29). Il compimento della pro-
messa fatta ai Padri sta proprio nell'effusione dello Spirito su ogni carne (At 2,17-18;
Gì 3,1-5), che realizza il voto di Mosè (At 2,18). Verificheremo questa iscrizione del-
la Differenza di Dio mediante lo Spirito nel corpo dell'umanità attraverso: a) gli scritti
paolini; b) il racconto della Pentecoste; e) l'espressione liturgica della Chiesa.

a) Paolo
Paolo, che può designare il corpo risorto solo come «corpo pneumatico» (1 Cor
15,44), ricorda continuamente l'azione dello Spirito come trasformatrice della parte
più intima dell'uomo (passaggio dalla schiavitù alla filiazione), della Chiesa e, ultima-
mente, dell'insieme dell'umanità e dell'universo.
Sul piano personale, prima di tutto, lo Spirito «che sonda tutto, perfino le profon-
dità di Dio» (1 Cor 2,10), trasforma l'«uomo psichico» in «uomo pneumatico», capace
di esprimere «ciò che è pneumatico in termini pneumatici», capace di «giudicare tutto»
senza essere «giudicato da nessuno», e capace quindi di comprendere l'apparente «fol-
lia» di Dio come «saggezza» (1 Cor 2,10-16). Questa conoscenza del mistero di Dio
che lo Spirito insegna dall'interno (ibid., 13) all'uomo spirituale è anche agape: «L'a-
more di Dio infatti è stato diffuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato
donato» (Rm 5,5). Lo Spirito quindi fa passare coloro in cui «abita» (Rm 8,11) dallo
statuto di «schiavi» a quello di «figli adottivi» (supra).
Ma questa partecipazione allo Spirito non ha nulla di individuale: essa si effettua
mediante l'integrazione alla Chiesa. Infatti «noi siamo stati battezzati in un solo Spiri-
to per essere un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o uomini liberi» (/ Cor 12,13).
E se il tema del «tempio dello Spirito» è applicato da Paolo al corpo proprio di ciascu-
no (1 Cor 6,19), lo è molto di più al corpo della Chiesa: «Non sapete che siete il tem-
pio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se qualcuno distrugge il tempio di Dio,
Dio lo distruggerà. Perché il tempio di Dio è santo, e questo tempio siete voi» (1 Cor
3,16-17; cf 2 Cor 6,16). «Co-costruendo» i cristiani sul Cristo come «pietra angolare»
in naòs hàgios (Ef'2,20-22), edificandoli in oikos pneumatikòs sulla «pietra viva» che
è il Cristo per farne collettivamente un «sacerdozio santo» capace di offrire dei «sacri-
fici spirituali» (1 Pt 2,4-5), lo Spirito fa della Chiesa il luogo di abitazione di Dio nella
e per l'umanità e il mondo.
La Chiesa del battesimo «in un unico Spirito» infatti è il segno della riconciliazione
del Giudeo e del Greco, dello schiavo e dell'uomo libero, ecc. a cui tutta l'umanità

354
è chiamata, il segno di questo «Uomo nuovo» che è rivestito da tutti al battesimo (Col
3,9-11) e per l'avvento del quale Cristo ha dato la vita (Efl,15-16). Più ancora: ciò
che è destinato ad essere «ricapitolato» in Cristo supera l'umanità. In solidarietà con
essa, è Y«universo intero» che aspira, in quanto creazione di Dio, ad essere anch'esso
«liberato dalla schiavitù e dalla corruzione per avere parte alla libertà e alla gloria dei
figli di Dio» (7?m8,21; cf/y 55,13 e 65,17). Così, in solidarietà con «noi che possedia-
mo le primizie dello Spirito» e che «gemiamo interiormente, attendendo l'adozione (hyio-
thesia) e la liberazione (apolùtrosis) per il nostro corpo» (Rm 8,22-23), l'universo co-
me mondo è a sua volta nel «dolore», nelle doglie del parto di quella salvezza che Pao-
lo chiama l'avvento di una «nuova creazione» e che egli collega alla risurrezione del
Signore e all'effusione dello Spirito.
La funzione propria dello Spirito, quindi, è di investire l'umanità e l'universo della
forza resurrezionale di Cristo. Cristo infatti è risuscitato non semplicemente per se
stesso, ma «per noi» (cf Rm 4,25) come «primogenito di una moltitudine di fratelli»
(Rm 8,29; Eb 1,6). La Pentecoste manifesta questo «per noi» della risurrezione: me-
diante l'effusione dello Spirito, l'umanità è resa partecipe della Pasqua del Signore,
ed è quindi in transito, con lui, verso il Padre. Questo è in ultima analisi il cuore della
tesi di E. Jungel: «Dio è il mistero del mondo in quanto Spirito Santo. Lo è in quanto
questo Spirito è la relazione invisibile ma potente che riporta da una parte il Figlio
di Dio visibile come uomo al Padre invisibile che è nei cieli, e dall'altra parte questo
stesso Figlio di Dio visibile come uomo a noi stessi, affinché ci attiri tutti a lui (Gv
12,32)».53 Mediante lo Spirito, il più divino è il più segretamente inscritto nel mondo.
Questo è proprio il mistero che esprimono, extra nos, i sacramenti.

b) La Pentecoste
«Non avendo Dio bocca, né lingua, né gola, decise con un prodigio che un rumore invisibile
fosse prodotto nell'aria, un soffio articolato in parole che, mettendo in movimento l'aria e do-
nandole una forma e trasformandola in fuoco a forma di fiamme, come il soffio attraverso una
tromba, facesse riecheggiare una voce tale che i più lontani credevano di udirla bene come i
più vicini [...]. Una voce riecheggiava dal centro del fuoco che discendeva dal cielo, voce che
riempiva di stupore, e si articolava nel dialetto abituale agli ascoltatori. Attraverso di essa, le
cose dette si esprimevano in modo talmente chiaro che sembravano essere viste piuttosto che
udite».'4
Questo commento di Filone sull'evento del Sinai, come anche il Midrash di Rabbi Johanan
su Es 20,18 («la voce di Dio, come fu pronunciata, si divise in 70 voci, in 70 lingue perché
tutte le nazioni potessero comprendere»55) manifestano che il racconto della Pentecoste ce la
presenta come una nuova teofania sinaitica.
Il fuoco dello Spirito fa qui vedere quello che la voce di Dio (o meglio, le voci
di Dio, che sono viste da tutto il popolo, secondo Es 20,18) fa sentire.56 E quello che
viene fatto sentire, quello che è messo in luce dallo Spirito, non è solo che Dio parla

" E. JUNGEL, op. cit., t. 2, p. 249.


54
FILONE DI ALESSANDRIA, De decal. 9 e 11. Citato in A A . V V . , Une lecture des Actes des apótres,
Cahiers Évangile, n. 21, 1977, p. 25.
" ID., ibid.
!<i
Cf Am 1,1: «Parole che Amos vide...»; /s 2,1: «Parola che Isaia vide...». I profeti sono dei «veggen-
ti»; ma l'oggetto della loro visione è quello della loro missione: la Parola di Iahvè.

355
tutte le lingue (At 2,9-10; cf la simbolica della totalità nelle 70 lingue del Midrash),
ma anche che, con riferimento al racconto della torre di Babele, di cui quello della
Pentecoste segna l'inversione, Dio può essere inteso solo attraverso una diversità di
lingue.
Babele infatti (Gn 11,1-9) è il mito dell'umanità che rifiuta la differenza di Dio:
per «farsi un nome» gli uomini immaginano di costruire una torre «la cui sommità toc-
chi il cielo». E questa l'impurità per eccellenza poiché, come ha mostrato M. Douglas
analizzando «le abominazioni del Levitico», è impuro ogni vegetale, animale o umano
che trasgredisca i suoi limiti, cioè, in termini levi-straussiani, che cavalchi molte cate-
gorie classificatorie; al contrario è puro e santo ciò che si tiene separato, differenziato
dal resto, e che quindi resta nei suoi limiti senza sorpassarli.57 A Babele l'indifferen-
ziazione immaginaria e sacrilega che gli uomini vogliono stabilire con Dio è essa stes-
sa l'espressione dell'indifferenziazione che regna tra di loro. Parlando tutti «la stessa
lingua e con le stesse parole», rimandandosi quindi i loro discorsi «l'uno all'altro» co-
me allo specchio, abitando tutti lo stesso paese, essi vivono nell'uniformità. Ora, quando
le differenze tra di loro e con Dio (i due sono correlativi nel testo) sono abolite, regna
il totalitarismo di una onnipotenza «fallica» che, come la torre che si erge verso il cie-
lo, si considera la Verità di Dio stesso e, riempiendo ogni breccia, erige i discorsi
«ricevuti» in sapere assoluto. A ognuno viene allora ordinato, sotto pena di morte, di
adeguarsi alla stessa ideologia. Ma sappiamo che sotto questo regime di identità uni-
forme e di ripetizione dei discorsi ufficiali covano la rivolta e la violenza. Dio lancia
l'interdetto su questa indifferenziazione. Disloca, crea spazio, separa, permettendo così
a ciascuno di poter «respirare», di non essere più a corto di ruah, cioè di arrivare a
se stesso come soggetto nella sua differenza. Al regime totalitario dello Stesso, Dio
oppone quello, simbolico, dell'Altro. La punizione di Dio, che scende dal cielo per
«mescolare le lingue» e «disperdere gli uomini su tutta la faccia della terra» è la salvez-
za dell'uomo.
L'anti-Babele della Pentecoste fa appunto vedere che la salvezza dell'umanità sta
nel rispetto della differenza. Rispetto della differenza/santità di Dio che «all'improvvi-
so» (At 2,2) sorprende coloro che «si trovano riuniti tutti insieme» (v. 1), «sconcerta»
e «meraviglia» (v. 7 e 12) la folla di coloro che rappresentano «tutte le nazioni che
sono sotto il cielo» (v. 5) e si manifesta nei simboli del non padroneggiabile: il vento
e il fuoco (v. 2-3), mentre la voce (phonè, v. 6, tradotto spesso con «rumore») si fa
sentire dall'interno di questi elementi teofanici. Ma anche, rispetto della differenza
tra gli uomini: le «lingue di fuoco» si dividono (v. 3) e tutti sono riempiti dello stesso
Spirito per parlare però altre lingue (v. 4), così che ciascuno «li sentiva parlare nella
sua lingua». È in quanto creatore della differenza tra gli uomini che lo Spirito è creato-
re di comunicazione tra loro. Aprendo la mancanza tra di loro, permette loro di non
mancarsi; così come aprendo in ciascuno la mancanza di Dio, ci permette di non man-
carlo. Lo Spirito è quindi al posto del desiderio. È l'Aperto in Dio stesso, l'Aperto
che è Dio stesso, Aperto che egli inscrive tra gli uomini e in ciascuno.
Differenza tra Dio e Dio, instauratrice della loro comunione (teo-logia), differenza
tra Dio e l'uomo, instauratrice della loro possibile comunicazione (economia), lo Spi-

" M. DOUGLAS, De la souillure. Essai sur les notions de pollutìon et de tabou, Maspero, Paris 1971,
cap. 3: «Les abominations du Lévitique» (trad. ital.: Purezza e perìcolo. Il Mulino, Bologna 1975).

356
rito è questa Differenza di Dio che prende corpo (antropologia) nella differenza tra
i soggetti umani da cui scaturisce ogni reciprocità e simultaneamente in questa diffe-
renza interna al soggetto tra il corpo e la parola, lì dove lo stesso corpo può ad-venire
come vera parola.

c) La liturgia, e soprattutto l'epiclesi


È proprio a partire dal più «corporale» che, nella scia della Bibbia, la tradizione
ecclesiale ha tentato di discernere il più «spirituale» di Dio. Questo è il caso, in parti-
colare, della liturgia. Ma, più in generale, è il caso di tutta la vita ecclesiale nel suo
insieme.
Vediamo allora due carismi pneumatici che fanno difficoltà a Paolo: quello dei glos-
solali che, lanciando mediante lo Spirito una parola nostra verso Dio, rischia di non
costruire una comunità, nella misura in cui la loro preghiera rimane incomprensibile;
quello dei profeti che, lanciando mediante lo Spirito una parola di Dio verso di noi,
rischia di annunciare rivelazioni stravaganti. Per «chiarificare» la preghiera dei primi
e «mondare» la parola dei secondi, l'apostolo «affianca a ciascuno dei due carismi di-
fettosi due altri carismi di accompagnamento»: 1'«interpretazione delle lingue» e il «di-
scernimento degli spiriti» (1 Cor 12,10; cf 1 Cor 14). Egli sottolinea in questo modo
che ogni parola detta in nome di Dio «deve sottomettersi alla prova della ricezione
ecclesiale». Attraverso una sorta di dialettica dell'«uno» e del «molteplice», Paolo si-
gnifica, da una parte, che «i cristiani che, nella loro diversità, non ricerchino instanca-
bilmente l'unità, non sono nello Spirito»; e inversamente, d'altra parte, che «l'autorità
ecclesiale che, nell'esclusiva preoccupazione di unità, non si apre alla diversità non
è neanch'essa nello Spirito».58 In ultima istanza, è «il frutto» prodotto nel comporta-
mento esistenziale dallo Spirito — «amore, gioia, pace, pazienza, ecc.» — che permet-
te il retto discernimento.
Stessa prospettiva in Didachè 11,8, oppure nel Pastore di Erma (n. 43): il discerni-
mento dello Spirito può avvenire solo «tropologicamente», a partire dal comportamen-
to etico.59 Il corpo è il luogo di verifica dello Spirito. Lo Spirito, infatti, come dimo-
strano le frequenti immagini dei Padri, è paragonato volentieri al sigillo messo in noi
del Verbo espresso dalla bocca del Padre, o al punto di impatto in noi del raggio che
è il Figlio che emana dalla Luce del Padre. Dio si dispiega fino all'uomo a partire
dal Padre mediante il Figlio nello Spirito Santo, e l'uomo risale così nello Spirito fino
al Padre.60 Lo Spirito si trova dunque alla cerniera della teo-logia e dell'economia,
come sottolineano soprattutto (ma non soltanto) i Padri greci del IV secolo.
Di qui l'importanza primordiale in loro dell' esperienza liturgica come luogo teolo-
gico di manifestazione della piena divinità dello Spirito. Contro Macedonio e gli pneu-

58
C. PERROT, «L'Esprit Saint chez Paul», in L'Esprit Saint dans la Bible, Cahiers Evangile, n. 52,
1985, pp. 54-55.
" Did. 11,8: «Ogni uomo che parla sotto l'ispirazione dello Spirito è profeta solo se ha i modi di vivere
("tropoi") del Signore. Si riconoscerà dunque dal loro modo di vivere il falso profeta e il profeta»; HER-
MAS, Pasteur 43: «Prova con la sua vita l'uomo che detiene lo Spirito divino».
60
«La strada della conoscenza di Dio va dunque dallo Spirito, "uno", attraverso il Figlio, "uno", fino
al Padre "uno" e, in senso inverso, la bontà essenziale, la santità naturale, la dignità regale sgorgano dal
Padre, attraverso il Monogenito, fino allo Spirito» (BASILIO, Tr. du S. Esp., 18).

357
matomachi, essi argomentano infatti a partire dalla «divinizzazione» effettuata nel bat-
tesimo. Così si esprime Atanasio, riferendosi al battesimo: «Se, in forza della parteci-
pazione dello Spirito, noi diventiamo partecipi della natura divina, scellerato sarebbe
chiunque dicesse che lo Spirito appartiene alla natura creata e non a quella di Dio.
È per questo infatti che coloro in cui esso si trova sono divinizzati. Se si divinizza,
nessun dubbio che la sua natura non sia (quella) di Dio».61 Stesso argomento battesi-
male in Gregorio di Nazianzio e in Teodoro di Mopsuestia62 o, a partire dalla peniten-
za, in Ambrogio.63 In Basilio l'argomentazione decisiva in favore della divinità dello
Spirito viene fatta a partire dalla dossologia liturgica («Gloria al Padre con il Figlio
con lo Spirito Santo»).64 Lex orandi, lex credendi: l'adagio, sul quale ci siamo già di-
lungati, vale in modo particolare a proposito dello Spirito Santo, poiché il luogo teolo-
gico tradizionale principale dell'affermazione della sua divinità è l'esperienza antro-
pologica vissuta nella liturgia.
Il rimando dello Spirito al corpo è una dimensione costante delle liturgie antiche.
Più ancora: in liturgia, la pneumatologia integra non soltanto il corpo della Chiesa e
dei credenti, ma, in solidarietà con questo corpo, la materia dell'universo come «mon-
do». Di qui l'importanza tradizionale dell'epiclesi per la consacrazione del pane/vino
in corpo/sangue di Cristo, ma anche, come nella tradizione siriana, per quella dell'ac-
qua battesimale o quella del «myron».65
Non è questo il luogo per riprendere il dossier liturgico e teologico dell'epiclesi.66 Accon-
tentiamoci di mettere in risalto due elementi generali a questo proposito.
Prima di tutto, come ricorda Y. Congar, «perfino tra i Padri che appartengono all'ambito
siriano occidentale in cui troviamo le epiclesi più formali, l'invocazione designa tutta la pre-
ghiera eucaristica»67 (talvolta, almeno), il che implica che l'epiclesi si può comprendere solo
a partire dall'insieme e che ogni prospettiva di concorrenza tra Vazione di Cristo e quella dello
Spirito crea un falso problema. Sfortunatamente, la determinazione «scolastica» di un «momen-
to» preciso della consacrazione, nei secoli XII-XIII, doveva creare, un secolo più tardi, gravi
malintesi tra Oriente e Occidente. Questi malintesi sono oggi quasi totalmente eliminati tra le
Chiese, come è dimostrato dai vari accordi bilaterali o multilaterali tra di esse, e dai testi recenti
di Fede e Costituzione.1'''
In secondo luogo, lo Spirito appare sempre come l'agente dell'incorporazione del Cristo ri-
sorto nella Chiesa e negli elementi del sacramento (acqua, myron, pane, e vino). Precisiamo

61
ATANASIO DI ALESSANDRIA, Lettres à Sérapion I, 24 (SC, n. 15, 1947), p. 126.
" GREGORIO DI NAZIANZIO, Discours 31, 28, op. cit.; TEODORO DI MOPSUESTIA, Homélies catéchéti-
ques 9, 15, ed. Tonneau-Devreesse, Città del Vaticano 1949, p. 237.
" AMBROGIO, «Traité du Saint-Esprit», III, 137 (CSEL 79, 208). Analogamente, La pénitence I, 8, 37
(SC, n. 179, 1971, p. 85. Vedere l'introduzione di R. Gryson, p. 42 e la n. 2, p. 84).
" BASILIO, Traité du Saint Esprit, 1, ed. B. Piriche (SC, n. 17), p. 109: «Vado dunque a spiegare,
con il suo aiuto, il fatto che si possa dire " c o n " lo Spirito Santo».
65
E.P. SIMAN, L'Espérìence de l'Esprit par l'Eglise d'après la tradition syrienne d'Antioche, op. cit.,
pp. 227-229. «Tavola comparativa delle epiclesi dei tre principali misteri».
66
Vedere l'insieme del dossier, con abbondante bibliografia, in Y . CONGAR, Je crois en l'Esprit Saint,
t. 3, op. cit., pp. 294-341; E.P. SIMAN, op. cit., pp. 214-244.
67
Y . CONGAR, ibid., p. 295.
" J.E. DESSEAUX, Dialogues théologiques et accords oecuméniques, Cerf, 1982; Fot et constitution,
«Baptème, eucharistie, ministère», Centurion/Presses de Taizé, 1982 (documento detto «di Lima»), nn. 14-18:
«L'eucaristia, invocazione dello Spirito» (trad. ital.: Battesimo-Eucaristia-Ministero, Elle Di Ci, Leumann
1982). Punti di vista cattolici su questo documento in Istina 1982/1 e Irenikon 1982/2.

358
tuttavia che, anche a partire dall'epoca (IV secolo) in cui si accentua la forza dei verbi che indi-
cano l'azione dello Spirito sugli elementi («manifestare», «santificare», «fare», «cambiare»), l'e-
piclesi rimane sempre finalizzata dalla «santificazione» dei soggetti mediante la loro partecipa-
zione agli elementi così consacrati: è sempre in vista della Chiesa e, in essa, dei soggetti creden-
ti, che lo Spirito «trasforma» i doni, mai per se stessi. Questo vale sia per il battesimo e l'unzio-
ne che per l'eucaristia. È significativo, in questa prospettiva, che lo Spirito appaia come l'agen-
te operatore del triplice corpo di Cristo: il suo corpo storico, nato da Maria coperta dalla «nube»
dello Spirito (Le 1) e il suo corpo glorioso pneumatizzato; il suo corpo sacramentale (prima epi-
clesi); il suo corpo ecclesiale (seconda epiclesi).
Lo Spirito appare quindi nettamente nella liturgia come / 'agente di seppellimento
del Verbo nella carne; più precisamente, dopo Pasqua, come l'agente del nascondi-
mento del Risorto nella carne, quindi «sacramentale», dell'umanità e del mondo. Nella
prospettiva sia biblica che liturgica che abbiamo abbozzato, lo Spirito rappresenta, co-
me scrive K. Barth, «il momento dell'appropriazione di Dio da parte dell'uomo».69
Lo Spirito, il «Dio-segreto» — suggerisce da parte sua O. Clément — è «non volto
ma rivelatore di volti, non santa Faccia ma santità di ogni faccia umana, Dio che si
annulla nell'esistenza personale dell'uomo».70 Momento dell'appropriazione di Dio,
in ciò che ha di più divino, da parte dell 'uomo in ciò che egli ha di più umano. Lo
Spirito ha come «missione» di suscitare al Risuscitato un corpo di umanità e di mondo.
Per mezzo di lui, il Risuscitato ad-viene come risuscitante. Al suo soffio, il Verbo
diventa il nostro Verbo: parola che non è mai così vicina alla verità come quando na-
sce dalle falle dei nostri discorsi o si mormora in un «inno di silenzio»; allora infatti
essa ci tocca nel vivo, facendo corpo con il nostro corpo. Lo Spirito è l'agente di que-
sta somatizzazione della parola. Non però nel senso isterico di questa somatizzazione,
che colmerebbe immaginariamente ogni falla tra il corpo e la parola. L'identità della
parola e del corpo che lo Spirito effettua è simbolica: essa mantiene cioè rigorosamen-
te la differenza dei due. Proprio per questo il criterio principale del discernimento del-
lo Spirito sta nella capacità del soggetto da lui abitato a testimoniare l'Altro: come
nei profeti, il suo corpo-parola è testimone della parola dell'Altro; il che, per i cristia-
ni, richiede sempre una verifica ecclesiale.

d) Il nuovo corpo scritturale di Dio


Lo Spirito quindi appare come l'agente di una nuova iscrizione del Verbo. Questo
verbo — l'abbiamo detto — è il Logos della croce, cioè il Verbo della tri-unità divina
in quanto immerso nel «fino in fondo» dell'umanità che è la morte. È questo Detto
in-audito di Dio come Dio cancellato nell'infraumanità di un «meno che nulla» che
lo Spirito porta al corpo-Chiesa e, in essa, al corpo di ogni cristiano.
In quanto parola, questo Logos della croce non può avere la consistenza piena di
un concetto (Be-griff). Per questo motivo Heidegger, sostituendo «glossa, lingua, lin-
gua, linguaggio nell'accezione metafisica in cui sono normalmente intesi», chiama il
significato di «parola»: «il Dire» (die Sage), cioè «quel che è detto da questo Dire, quel

" Inversamente, il Figlio rappresenta «il momento dell'appropriazione dell'uomo da parte di Dio» (K.
BARTH, Dogmatique I, 1, 2; p. 165).
70
O. CLÉMENT, Le Visage intérieur, op. cit., p. 81.

359
che ha da esser detto».71 La parola ad-viene dunque solo come sfaldata. Così come
è sfaldato il Verbo della Croce; anche quando questo Verbo è espresso, come è giusto,
a partire dalla risurrezione. La risurrezione infatti fa breccia nel tessuto del linguag-
gio. La si può dire solo lasciando aperto l'interstizio che separa e unisce dei signifi-
canti opposti: carne/spirito; apparire/sparire; toccare/non toccare; presenza/assenza...
Di questi interstizi la tomba aperta è la grande metafora. La risurrezione è la breccia
assoluta, la pura differenza insuturabile. Ma proprio perché fa breccia essa consente
di parlare e di vivere. Lì dove il senso è chiuso non c'è più parola possibile. La risur-
rezione ci rimanda quindi a questo dictum della croce, questa «Cosa che la croce pro-
pone», di cui abbiamo parlato precedentemente, citando S. Breton, che non verte tanto
sulla «costituzione di nuovi attributi divini che rovesciano i primi» (quelli dell'Essere
realissimo), ma sulla «necessità di una mutazione di atteggiamento». Il Logos della
croce, aprendo «un altro spazio» rispetto a quello del concetto, è anche la manifesta-
zione della «croce del linguaggio»: non può dirsi né in ebraico né in greco, e ci con-
danna tuttavia a parlarli volta a volta.72
Lo Spirito è proprio l'agente che rende possibile l'espressione del Verbo crocifis-
so, facendogli conquistare uno spazio diverso da quello del concetto: quello della con-
versione degli atteggiamenti, quello del corpo. Allora, la mediazione prioritaria della
rivelazione di Dio nel cristianesimo non è più soltanto quella del cosmo e del vedere,
e nemmeno quella della parola della Legge e dell'intendere, ma, riprendendo questi
ultimi, e soprattutto la seconda, in una sorta di «Aufhebung», quella del corpo e del
vivere. Una simile ripresa della Parola in vista del suo dispiegamento nella corporeità,
e soprattutto nellapraxis etica, era d'altronde inscritta nel Libro stesso, come abbiamo
sottolineato (cf Ez 36; Ger 31). Così, il battesimo nello Spirito Santo (At 1,5) alla Pen-
tecoste può essere inteso, secondo l'ermeneutica cristiana delle Scritture, come il com-
pimento della «promessa fatta ai Padri» (At 13,32-33). Era scritto infatti che la pratica
storica del popolo da cui il Libro era nato doveva diventare il nuovo spazio scritturale
della rivelazione di Dio. Era scritto che il corpo doveva diventare la lettera viva di
Dio tracciata dalla mano dello Spirito. È così, in ogni caso, che Paolo, «ispirandosi,
senza seguirli né citarli, ai testi di Ger 31,33 e di Ez 11,19 e 36,26 relativi alla nuova
alleanza» intende le cose.73 Non c'è un'altra lettera di raccomandazione da ricevere
per autenticare la sua apostolicità se non l'esistenza stessa della comunità di Corinto:
infatti, «con ogni evidenza, voi siete una lettera di Cristo affidata al nostro ministero,
scritta non con l'inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra,
ma su tavole di carne, sui vostri cuori» (2 Cor 3,2-3). L'«alleanza nuova», quella «non
della lettera» (che «uccide») «ma dello Spirito» (che «dà la vita») (ibid., v. 6), si realiz-
za appunto in questo passaggio, attraverso lo Spirito, dalla lettera al corpo.
Certo, la lettera del Libro rimane, e segna il posto intoccabile della nostra origine
cristiana. Perfino in Paolo, l'opposizione gramma/pneuma non implica per nulla la
cancellazione della lettera: «Non c'è nel pensiero di Paolo — scrive M. Carrez — Spi-
rito che non prenda forma e non si esprima attraverso un testo».74 Ma la Scrittura sa-

" M. HEIDEGGER, Acheminement vers la parole, op. cit., pp. 131-133.


12
S. BRETON, Le Verbe et la croix, op. cit.
11
M. CARREZ, La Deuxième Epttre aux Corinthiens, in Cahiers Évangile, n. 51, 1985, p. 21.
74
M. CARREZ, op. cit., p. 22.

360
rebbe «lettera che uccide» se, mediante lo Spirito, non risalisse alla sua fonte viva per
fare del corpo-Chiesa il suo luogo di verità. Conformemente a questo programma pre-
scritto dal Libro e simbolizzato dalla liturgia, la rivelazione di Dio richiede che, alla
sequela di Gesù il Cristo, la Parola si faccia carne nell'agire dei cristiani. Il Segno
della lettera giunge alla sua verità quando effettua il transito verso il simbolo del cor-
po: Cristo può essere annunciato solo se la lettera della croce, deposta in testamento
dalla tradizione apostolica nel Libro, investe attraverso lo Spirito l'esistenza dei cri-
stiani e diventa così testimonianza. Lì dove degli uomini danno corpo alla loro confes-
sione del Risorto, rifacendo alla sua sequela il cammino della croce per la liberazione
dei loro fratelli (e quindi anche per la loro personale liberazione), lì si realizza il corpo
di Cristo di cui la Chiesa è la promessa escatologica nel e per il mondo.
Questa ingiunzione, fatta ai credenti, di incorporarsi il libro nella loro prassi etica
trova nel marchio del corpo fatto dai sacramenti la sua grande espressione simbolica.
Nella letteratura paolina, l'iscrizione del dono dello Spirito in ognuno si effettua attraverso
il battesimo «in un solo Spirito» (1 Cor 12,13), come anche, in un contesto probabilmente batte-
simale, mediante l'unzione e il sigillo dello Spirito: «Colui che ci conferma con voi in Cristo
e che ci dona l'unzione è Dio, lui che ci ha segnati con il suo sigillo e ha messo nei nostri cuori
la caparra dello Spirito» (2 Cor 1,21-22)." Questa unzione e questo marchio «mediante il sigillo
dello Spirito promesso» (£y 1,13; cf 4,30) sono verosimilmente da intendere in senso metafori-
co, come avvenne per lo stesso Gesù in occasione del suo battesimo nel Giordano secondo i
Vangeli: unto dallo Spirito, egli fu così designato, nella scia dell'unzione materiale del re (7
Sam 16,13), poi (dopo l'esilio) del sommo sacerdote (Lev 4,3; Es 30,22-23) e soprattutto in
quella dell'unzione metaforica del profeta (Is 61,1-2; cf Le 4,17) come mashiah-christos e come
«figlio» di Dio (cf Sai 2,7). Anche se le testimonianze relative all'uso materiale dell'unzione
di olio e della consegna o del sigillo (sphragis, signaculum, character) in occasione del battesi-
mo dei cristiani non superano l'inizio del III secolo (Tertulliano, De Bapt. 7; Ippolito, Tr. Ap.,
21), è possibile che questo uso risalga a un'epoca più remota, vista l'amplissima documentazio-
ne della metafora dell'unzione e del sigillo.76

Comunque sia, il dono dello Spirito ha preso forma di iscrizione e di marchio sul
corpo stesso del neofita. Questo marchio ha un duplice valore di autentificazione (il
sigillo è il timbro usato per attestare l'autenticità di un atto) e di indelebilità. Così,
alla sequela di Gesù che «il Padre ha marchiato con il suo sigillo» (Gv 6,27), il battez-
zato è autenticato nella sua identità e nella sua missione di discepolo di Gesù. Come
la circoncisione fu per Abramo il «sigillo della giustizia ricevuta dalla fede quando
era incirconciso» (Rm 4,11), la consegna in forma di croce fatta sulla fronte del battez-
zato è il marchio indelebile (il «carattere») della sua appartenenza al Cristo da parte
dello Spirito. Questa incisione simbolica, da parte dello Spirito, della lettera del Cristo

75
Cf le analisi approfondite di J.R. VILLALON SU questo testo e i seguenti, Sacrements dans l'Esprit,
Beauchesne 1977, pp. 78-200. La lettura sacramentale dell'«unzione» e del «sigillo» fu comune tra i Padri.
In ogni caso, queste due immagini bibliche sono state tradotte sia in oriente che in occidente da due gesti
simbolici: unzione e segno della croce (B. BOTTE, «Le vocabulaire ancien de la confirmation», LMD 54,
1958, p. 19).
76
II rito dell'imposizione delle mani che, secondo L. Ligier, «tutto l'Oriente ha conosciuto un giorno
come Roma», si è combinato dappertutto con quello dell'unzione d'olio profumato (tranne che fra i Bizanti-
ni, che hanno solo la crismazione). E come stupirsene, tenuto conto della ricchezza biblica del tema dell'un-
zione nel suo rapporto con la venuta dello Spirito? (L. LIGIER, La Confirmation, Beauchesne 1973, p. 101).

361
(quella della croce) sul corpo stesso dell'iniziato fa vedere e inaugura che cos'è il di-
ventare cristiano: veri-ficare questo sacramentum nel quotidiano della pratica etica,
diventando personalmente, nella corporeità, vivente «lettera di Cristo» (Paolo, supra).
Il corpo — meglio, la corporeità, nel senso che abbiamo dato a questo concetto
— è il nuovo luogo della lettera che lo Spirito ispira. Questo è, di nuovo, il paradosso
dello Spirito: inscrive la radicale differenza del Dio santo nel più umano del corpo
dell'uomo. Attira il mondo verso il Risorto ritirando quest'ultimo, nel suo corpo pneu-
matizzato, nel mondo. La faccia degli uomini più disprezzati del mondo è santa faccia
del Risorto nella sua condizione di umiliato perché egli nasconde quest'ultimo nell'u-
manità. Lo Spirito, questo neutro, questo senza volto, questo nome comune tratto dal-
la simbologia cosmica, è l'agente dell'occultamento del Dio divino nel corpo persona-
le di Gesù, nel corpo di storia che gli dà la Chiesa e, articolando questi due corpi,
nel corpo simbolico dell'eucaristia in cui il primo si dà solo per veri-ficarsi in corpo
ecclesiale, come ha mostrato la nostra analisi della preghiera eucaristica.
La nostra antropologia del più spirituale che ad-viene nel più corporale, dell' (archi-)-
scrittura come mediazione concreta, nella sua stessa «materialità» sensibile, della pa-
rola, e, in questa scia, del corpo come luogo archi-simbolico insuperabile dove si ef-
fettua la verità del soggetto, trova nella vena pneumatologica che abbiamo seguito la
sua espressione propriamente teologica. La corporeità che l'uomo è costituisce il luo-
go di Dio. Ecco, in definitiva, quello che ci dice della fede o dell'identità cristiana
il fatto che sia tessuta da riti che la Chiesa chiama sacramenti. È questa l'opera dello
Spirito.

III. I SACRAMENTI, LUOGHI DI GRAZIA

1. La sovversione trinitaria delle nostre rappresentazioni di Dio

a) Sovversione
J. Moltmann ha ragione: «Una radicale teologia della croce non può dare al proble-
ma del Cristo morente una risposta teista. Essa svuoterebbe la croce».77 Che Dio non
sia «da nessuna parte più divino che nell'umanità (del Crocifisso)» è sostenibile solo
rovesciando «la nozione semplice di Dio».78 Lo scandalo qui espresso è certamente
difficile da assumere. Non semplicemente sul piano del nostro pensare Dio — il che
già non è poco! — ma più ancora sul piano della conversione del desiderio e degli
atteggiamenti che egli richiede da noi.
Un simile scandalo non è d'altronde nuovo: ricordiamo quello delle comunità di
Marco e di Matteo di fronte a questo Gesù che muore pronunciando come unica parola
il grido del suo abbandono e che è confessato dal centurione, «vedendo come era mor-
to» (!), come «Figlio di Dio»; abbiamo segnalato le edulcorazioni a cui questo grido
ha dato luogo in alcuni manoscritti. Ricordiamo anche lo sconvolgimento di Paolo e

77
J. MOLTMANN, Le Dieu crucifié, op. cit., p. 259.
78
ID., ibìd., pp. 233 e 231.

362
la sua trasformazione radicale, che ci confida in FU 3,7-14, quando scopre che il «ma-
ledetto da Dio» secondo la Legge è di fatto benedizione per tutte le nazioni (Gal 3,13-14).
Come potrebbe questo «messia crocifisso», «follia per i pagani», non essere «scandalo
per i Giudei» (1 Cor 1,23)? Questo stesso scandalo del «Dio crocifisso», ma rivestito
ormai di termini dogmatici, è enunciato dal secondo concilio di Costantinopoli (553):
«Colui che è stato crocifisso nella carne [...] è Uno della Trinità» (can. 10).
«Non è che in quanto azione del Dio trinitario che lo scandalo della croce è soppor-
tabile per il credente», scrive H. Urs von Balthasar.79 E, quasi facendogli eco, W.
Kasper: «La croce può essere interpretata solo come rinuncia di Dio a se stesso».80
All'abbandono del volere proprio del Figlio al Padre corrisponde una sorta di non-
potere del Padre che si spossessa di ogni potere di dominio su suo Figlio. Ora, parten-
do dalla «nozione semplice» di Dio e di tutti i suoi attributi essenziali di Essente supre-
mo, Tonto-teologia classica non poteva pensare in tutta la sua portata questa rinuncia
di Dio a se stesso. Certo, essa esprimeva la novità del Dio cristiano rivelato in Gesù
rispetto alla teodicea dei «filosofi». Ma continuava a riportare sempre questo Dio alla
sua rappresentazione pre-trinitaria di Essente supremo: «Dio dell'identità, della coin-
cidenza con se stesso, della perfezione che non è affetta da nessuna alterità, dell'auto-
sufficienza e della contemplazione di sé». Essa misconosce in ultima analisi, nel suo
sforzo di pensiero speculativo — come fa notare G. Geffré — «la differenza tra il lin-
guaggio religioso che è quello dell'invocazione e il linguaggio filosofico che è quello
dell'attribuzione», riconducendo il primo al secondo, impotente a cogliere che la ri-
nuncia al Dio della filosofia non va per nulla di pari passo con una demissione del
pensiero.81 Come sappiamo, il progetto di E. Jungel è di mostrare che una simile ri-
nuncia è invece il cammino per pensare rigorosamente l'essere stesso del Dio vivente.
A motivo dei suoi presupposti, la teologia classica proiettava inevitabilmente su
Gesù, attraverso la sua natura divina, una rappresentazione pre-trinitaria di Dio. A
forza di dire che Gesù era Dio (e le lotte dei primi secoli sul fronte trinitario e cristolo-
gico le davano infatti delle buone ragioni per sottolinearlo costantemente), essa arriva-
va a dimenticare che una simile affermazione richiedeva un nuovo pensiero di «Dio»
stesso. Dimenticanza indubbiamente inevitabile. Questo nuovo pensiero, infatti, im-
plicava — come scrive E. Jungel — che «il Dio metafisicamente prodotto» perisse «a
causa della sua stessa perfezione». Congenitamente legata alla «valutazione negativa
della condizione passeggera», alla svalutazione di ciò che diviene (genesis) a vantag-
gio di ciò che rimane (ousia) [cila nostra analisi di Filebo al capitolo I], l'ontoteologia
poteva spingere la sua critica della rappresentazione di Dio (ma con quale vigore!)
solo in direzione dell'impensabile.82 Essa poteva mantenere la radicale differenza di
Dio solo schematizzandola spazialmente come lontananza, e ultimamente come oppo-
sizione. Dio si definisce allora come ciò che l'uomo non è (eterno, perfetto, immutabi-
le, inalterabile...). Abbiamo criticato con grande vigore questa (ontoteo)logica.

79
H. URS VON BALTHASAR, Le Mystèrepascal, in Mysterium salutis, t. 12, Cerf, 1972, p. 133 (trad.
ital.: «Mysteriumpaschale», in Mysterium salutis, Queriniana, Brescia, voi. VT);Pàques, le Mystère, Cerf,
1981, p. 133.
*° W. KASPER, op. cit., p. 251.
!L
C. GEFFRÉ, op. cit., pp. 180-184.
82
E. JUNGEL, op. cit., t. 1, pp. 317-320.

363
b) Una elaborazione di lutto in noi stessi
Questo non significa che sarebbe semplice pensare l'umanità del Dio divino nel
campo del simbolico. Ne siamo stati avvertiti da Heidegger: non ci si disfa della meta-
fisica come ci si disfa di un'opinione; «superarla» non significa cancellarla con un trat-
to di penna, ma al contrario ripercorrerne il viaggio, a ritroso, fino alla sua essenza
sconosciuta e così ribaltarla criticamente, mentre continua ad abitarci. Il simbolico per
noi rappresenta proprio questa presa a ritroso. Il simbolico è appunto la stessa impos-
sibilità di portare a compimento il pensiero, presi come siamo sempre-già in esso co-
me soggetti con il nostro «mondo». Ma è questa impossibilità che fa pensare; è questa
«differenza» («differance») che fa vivere; è il pane della «mancanza» che ci nutre. Il
simbolico ci tiene sotto la legge di questo oportet transire che S. Breton ritiene critica-
mente da Maestro Eckhart e che denuncia «l'errore» di credere che smetteremmo di
passare una volta raggiunto il punto sublime del «nulla per eccellenza». Il «bisogna»
che ci ingiunge è questo inesauribile compito in cui «il nostro Dio, nel suo passaggio
attraverso il linguaggio, si fa complice della leggerezza dei nostri transiti», e dove «le
nostre negazioni sono, prima di tutto, l'ironia di una "distanza presa" e costantemen-
te reiterata».83 Questo è il compito teologico, e più precisamente teo-logico che può
cor-rispondere a un Dio di cui, secondo la tesi fondamentale di Jungel, «l'essere è nel
venire», nell'atto stesso della sua venuta.84
Che dobbiamo tenerci nella presenza della mancanza di Dio; che leggiamo la figu-
ra radicale della presenza di questa mancanza nel volto del crocifisso; che questo ri-
chieda in noi la testimonianza (summartureó) dello «Spirito di Dio» che, unendosi al
nostro spirito, ci fa elaborare il lutto dello «spirito di schiavitù» per farci accedere allo
«spirito di adozione filiale» (Rm 8,14-16): tutto questo non può essere oggetto di un
semplice sapere, foss'anche «negativo»; tutto questo giunge a noi concretamente solo
nella modalità della kenosi. Il versetto introduttivo dell'inno cristologico di FU 2,5-11
lo dice: l'annuncio della kenosi divina non può essere slegato dal suo compimento in
noi. Il Logos della croce ci richiede di dare corpo in noi stessi, mediante un'elabora-
zione di lutto, alla meontologia divina. L'atto teologico è quindi sollecitato a pervenire
alla sua verità di atto teo-logico: testimonianza. Questo è appunto il cammino «transi-
tivo» che il simbolico ci apre. Teologicamente, è questa l'opera dello Spirito.
Di conseguenza, il Dio «al di sopra di noi» può essere cristianamente detto solo
a partire dal Dio «in mezzo a noi». Certo, come ha mostrato soprattutto una ricerca
di A. Vergote, la rappresentazione di Dio come «al di sopra» di noi (o alla sorgente
del più intimo di noi stessi, il che appartiene allo schema della verticalità) sembra ine-
liminabile, legata com'è alla simbolica primaria della nostra stazione verticale85 e ap-
partenente quindi a quella «topografia esistenziale» che struttura il soggetto umano.86

" S. BRETON, «Les Métamorphoses du language religieux chez Maitre Eckhart», art. cit., RST67/3-4,
1979, pp. 74-75.
,4
E. JUNGEL, op. cit., t. 2, pp. 250, 265. Si tratta, per l'autore, di un venire trinitario in cui Dio,
come Padre, viene da Dio; come Figlio, viene verso Dio; come Spirito, viene come Dio (pp. 250-265).
Jungel mostra poi perché «spiegare questi concetti fondamentali dell'essere di Dio è il compito di una teolo-
gia narrativa» (p. 266ss).
85
A. VERGOTE, «Equivoques et articulation du sacre», art. cit. (supra, cap. 4, n. 52).
" I D . , Interprétation du language religieux, op. cit., cap. 4: «La déhiscence verticale».

364
E d'altra parte è sostenuta e rafforzata da venticinque secoli di quella tradizione meta-
fisica che, di natura originariamente onto-teologica, ha sempre proiettato Vhypokei-
menon degli essenti su un culmine «divino» che li tiene e li fonda. Ora, il Detto della
croce ha operato una torsione di questo schema, che resta tuttavia inalienabile.
I nostri necessari discorsi sono allora segnati intrinsecamente dal «segno di con-
traddizione»: la «Cosa» che la croce pro-pone può essere detta solo nello spazio sem-
pre aperto che separa e unisce il greco e l'ebreo, senza mai poterli conciliare in una
risultante media. Ora, è proprio mantenendo aperta questa falla che possiamo lasciare-
che-si-dica il mistero e lasciarci-dire al tempo stesso in lui.
L'indicativo del Dio crocifisso in forma di schiavo non sopporta la padronanza di
un sapere. La sua Parola può dirsi solo come «imperativo categorico di vita e di azio-
ne»87 che gli dà luogo tra di noi. All'elaborazione di lutto che questo richiede si unisce
simultaneamente il dovere di un agire etico che dà corpo a questo Dio. Questo agire
passa prioritariamente attraverso quella pratica della giustizia e della misericordia in
cui abbiamo riconosciuto la «liturgia del prossimo», sacrificio spirituale che conferisce
effettività storica al multi unum corpus in Christo simbolizzato dal «sacramento del-
l'altare» (Agostino). L'etica del «vivere-in-grazia», soprattutto nei riguardi di coloro
che gli uomini hanno ridotto allo stato di schiavi, è il luogo di veri-fica, la veritas del
«rendere grazie» filiale dell'eucaristia.
La sovversione di «Dio» non è prima di tutto una semplice questione di concetto,
anche se, chiaramente, il discorso concettuale è un momento critico necessario in que-
sto campo. Essa richiede il passaggio dal discorso al corpo. Questo passaggio, in cui
il nostro corpo di desiderio, di storia e di società diventa il luogo di verità della nostra
parola, è l'opera dello Spirito. Questo terzo termine divino è rigorosamente necessa-
rio perché possiamo confessare l'umanità del crocifisso come la rivelazione del volto
stesso di Dio. Nello Spirito la paternità di Dio si dà una effettività nel mondo suscitan-
dosi un corpo di figlio. È nello Spirito che Dio, in Gesù, si cancella nell'umanità. Dio
aperto. Aperto in se stesso: lo Spirito è proprio la differenza che rende possibile la
comunicazione tra Dio e Dio, Padre e Figlio. Aperto sul mondo, al punto che non
può essere pensato senza il mondo: lo Spirito è proprio la differenza che rende possibi-
le la presa di corpo escatologico di Dio nell'umanità. Ed è questo che i sacramenti
simboleggiano.

2. La grazia sacramentale
«L'uomo parla di Dio. Ora, la corporeità traccia la parola fondamentale, la sola
che l'uomo possa intendere [...]. Il corpo crea così il luogo di Dio in cui l'uomo potrà
riconoscerlo, formula un linguaggio nel quale l'uomo potrà intendere il mistero. Spo-
sando il mistero dell'uomo il mistero di Dio prende corpo nell'uomo».88
In mezzo al mondo, il mystèrion della Chiesa, e, nel cuore della Chiesa, il mystè-
rion dei sacramenti costituiscono i grandi simboli di questo mistero di Dio che prende
corpo nell'uomo. I sacramenti ne costituiscono il simbolo prioritario perché sono la

*' S. BRETON, Le Verbe et la croix, op. cit., p. 154.


!!
Y . LEDURE, Si Dieu s'efface. La corporeità corrane lieu d'une affirmation de Dieu, Desclée, 1975,
pp. 66-67.

365
proclamazione fondamentale dell'essenza «sacramentale» della Chiesa nella sua visibi-
lità istituzionale, e il simbolo radicale, perché portano al corpo e in un intento «-urgico»
di compimento; la Parola di cui lo Spirito fa vivere la Chiesa. La presa di corpo esca-
tologico di Dio che essi così simboleggiano richiede tuttavia due condizioni per poter
essere sostenuta teologicamente.
Essa richiede da una parte che Dio possa essere pensato secondo la corporeità.
È proprio questa possibilità che abbiamo verificato nel nostro duplice percorso di cri-
stologia e dì pneumatologia. Il fatto che possiamo confessare la gloria stessa di Dio
nell'infra-umanità di colui che gli uomini hanno ridotto a meno che nulla rivoluziona
ogni rappresentazione di «Dio». La cancellatura così operata sull'Esse maestoso di «Dio»
è la traccia di una me-ontologia storica e simbolica che porta a pensare Dio nel suo
mistero come Colui che «si cancella» mediante lo Spirito nell'umanità e che conferisce
quindi a quest'ultima la possibilità di diventare il luogo «sacramentale» in cui egli prende
corpo. Per le ragioni ricordate sopra, i sacramenti — e soprattutto, sempre, il battesi-
mo e l'eucaristia che ne sono i due paradigmi — sono appunto le «espressioni» simbo-
liche principali di questa cancellazione di Dio mediante lo Spirito nella carne, diventa-
ta sacramentale, del mondo.
Una simile presa di corpo richiede, d'altra parte, di essere pensata nell'ordine del-
la grazia. Dal punto di vista simbolico, essa è sia aldilà di ogni oggetto — perché fuori
del campo dei valori — sia al di qua di ogni soggetto, poiché quest'ultimo, come cre-
dente, non può mai precederla: invece da essa procede, potendosi solo ricevere da lei
in una genesi permanente della sua identità di figlio-per-Dio e di fratello-per-gli-altri
in Cristo.
Le due condizioni ricordate si tengono necessariamente: l'affermazione teologica,
e anche dogmatica, della «grazia sacramentale» non è che il dispiegamento concreto
dell'affermazione generale del mondo come luogo escatologico di Dio o del «corpo
di Cristo» in genesi mediante lo Spirito. Senza quest'ultima, la prima perderebbe la
sua pertinenza, che si ridurrebbe a un elemento isolato immaginariamente dall'insie-
me simbolico che caratterizza la lettura cristiana della storia e dell'universo. Ma senza
la prima, la seconda rischierebbe di svanire nel nulla. Certo, l'affermazione concreta
del mondo o del corpo come luogo di Dio non si verifica soltanto nei sacramenti, come
è stato sottolineato in tutta la seconda parte di questo lavoro. Ma è proprio in essi che
si dà / 'espressione simbolica primordiale. Il loro riconoscimento come «luoghi di gra-
zia» perderebbe la sua pertinenza se non fossero «rivelatori» di questa presa di corpo
escatologico di Dio nell'umanità. Ma quest'ultima a sua volta rischierebbe di essere
privata di ogni peso effettivo se non trovasse dei luoghi concreti di cristallizzazione.
Come «operatori» simbolici della «grazia», i sacramenti sono appunto questi luoghi con-
creti primari. Lo scandalo sul quale ci fanno inciampare — scandalo della mediazione
tutta «materiale» del corpo, dell'istituzione e del cosmo nel nostro rapporto tutto «spi-
rituale» con Dio — ci svela un altro scandalo, molto più fondamentale, ma che tutto
in noi si accanisce a dimenticare: quello che è implicato nelle nostre molteplici affer-
mazioni, esplicite o meno, sul «qui» della presenza e dell'azione di Dio, di Cristo o
dello Spirito nella preghiera, nella comunicazione di parola fra credenti, nell'azione
etica. Solo che la forza indomabile del «logocentrismo» che ci abita ci maschera una
evidenza che dovrebbe tuttavia acciecarci: cioè che anche queste affermazioni ci pas-
sano attraverso il «corpo». Ma la loro mediazione puramente verbale di espressione

366
ne smussa l'acme scandaloso; e l'abitudine finisce per rendercele così verosimili da
considerarle scontate!
Lo vediamo: la difficoltà di fondo, per noi, non sta nell'affermazione della «grazia
sacramentale» come tale, ma in ciò che essa presuppone, cioè l'umanità del Dio divino
rivelata nello scandalo della croce, scandalo irriducibile a ogni «ragione» e che conti-
nua a lavorarci quando osiamo «figurarci» gli sfigurati di questo mondo come l'imma-
gine di nostro Signore crocifisso e trasfigurare così il tragico della nostra storia in sto-
ria di «salvezza». Una simile «follia» trova nell'affermazione dei sacramenti come luo-
ghi di grazia la sua più espressiva formulazione.

IV. CONTRO-PROVA: LA NON-SACRAMENTARIA DI K. BARTH

Abbiamo già parlato di quel gigante della teologia contemporanea che è K. Barth. Lui stesso
ha sottolineato che il «no categorico» che egli oppone alla sacramentalità del battesimo, cioè
alla sua natura di mediazione di un evento di grazia, si scontra frontalmente, per princìpio e
«ab ovo», con ciò che egli riconosce essere «una antichissima e fortissima tradizione ecclesiasti-
ca e teologica»85 che, secondo lui, sarebbe in contraddizione con il Nuovo Testamento. Ora,
una teologia degna di questo nome — l'abbiamo notato all'inizio di quest'ultima parte — ha
una sacramentaria che è in coerenza con la sua cristologia, la sua dottrina trinitaria e la sua
ecclesiologia. È questa coerenza di fatto (non diciamo di diritto) che, a titolo di contro-prova,
vorremmo delineare in Barth.
Opponendosi sistematicamente alla sacramentaria classica, K. Barth esprimeva il suo timo-
re, quasi viscerale, di mettere in discussione l'azione sovranamente libera e gratuita di Dio fa-
cendola entrare in composizione «sinergetica» con l'azione umana che la Chiesa effettua nei sa-
cramenti. Ora, ci si chiede come possa avvenire che il cristocentrismo così marcato della sua
teologia non l'abbia portato a superare questa paura.
Di fatto, la sua cristologia è portatrice, almeno nella sua tendenza generale e in alcune delle
sue espressioni, della sua «non-sacramentaria». La sua insistenza unilaterale sull'iniziativa divi-
na minimizza il ruolo dell'umanità perfino nello stesso Cristo. Di qui la sua tendenza a com-
prendere «il Verbo fatto carne» come «il Verbo che abita la carne» e ad amare una formula co-
me: «Dio nella carne» in cui la natura umana di Cristo è «l'abito, il tempio e l'organo del Figlio
di Dio».90 L'azione di Dio, scrive ancora H. Bouillard, assume in lui «un rilievo così esclusivo
che quella dell'Uomo-Dio sembra riassorbirsi in essa, e che la condotta umana di Gesù appare
solo come il velo dell'unica azione divina»." Questa logica comporta una sorta di esclusivismo
del linguaggio sostitutivo in soteriologia: il «per noi» è massicciamente tradotto con «al nostro
posto». In breve, l'autore della Dogmatica «tende a vedere in Gesù Cristo solo l'evento dell'a-
zione divina: Dio che si nasconde nel suo contrario per agire da solo, al posto dell'uomo».'2
Ma allora, si chiede H. Urs von Balthasar, la croce è qualcosa di diverso da un «monologo di
Dio con se stesso», un «incubo senza realtà»?" Senza realtà, nella misura in cui l'Incarnazione
e la croce di Cristo non sono «veramente condizionate dal peccato, ma dalla sua rinuncia a se
stesso decisa nell'eternità».'4

89
K. BARTH, Dogm. IV/4, pp. 106-107.
" H. BOUILLARD, Karl Barth, t. 2/1, Aubier-Montaigne, 1957, p. 122.
" I D . , ibid., p. 118.
" I D . , ibid., t. 2/2, p. 292.
" H. URS VON BALTHASAR, Karl Barth. Darstellung und Deutung seiner Theologie, Koln 1951, p. 380.
" I D . , ibid., p. 255s.

367
E questo che fa dire a H. Zahrnt: «Non ce lo aspetteremmo: Barth, il rigoroso teologo della
Rivelazione, colloca il suo punto di vista non al di sotto ma al di sopra della Rivelazione, non
nel tempo, ma nell'eternità». Nonostante le apparenze, «il suo vero punto di partenza non è l'e-
vento dell'Incarnazione, ma la preesistenza di Cristo». «Tutto non solo è già deciso nell'eterni-
tà, ma è già realizzato; ciò che si produce nel tempo non è che l'esecuzione della decisione ori-
ginaria di Dio». La storia umana è soltanto il quadro o la scena in cui si svolge «la storia della
salvezza». Essa non viene assunta per se stessa, ma soltanto (come la creazione, infra) dal punto
di vista della grazia della salvezza. Propriamente parlando, non vi succede nulla; vi si svolge
ciò che è già «successo» nell'elezione gratuita in Cristo decisa dall'eternità. «L'Incarnazione non
è dunque in Barth un evento realmente nuovo, un nuovo intervento di Dio, ma soltanto il rivesti-
mento nuovo di ciò che esisteva già anteriormente: "D Verbo si è fatto carne" significa per
Barth: "Il Verbo ha preso carne"». 95 Tipica in questo senso la formula barthiana: «È il Verbo
che parla, che agisce, che strappala vittoria [...], il Verbo incarnato, certo, dunque [...] il Ver-
bo nella carne e per mezzo della carne; ma il Verbo e non la carne».96
Di qui il paradosso: non c'è forse nessuna teologia in cui siano tanto presenti gli eventi e
la storia; ma forse non c'è nessuna teologia in cui succedano così poche cose dal punto di vista
propriamente storico. Che la Parola di Dio sia sovrana, che questa Parola riassuma in Cristo
lo svolgimento di tutta la storia, nessun cristiano lo metterà in dubbio; e saremo grati a Barth
di averlo espresso con una forza e un genio forse ineguagliati. Ma Barth non è passato, senza
farci attenzione, dietro lo specchio? Ciò che «ci turba di più» — confessa H. Bouillard alla fine
del suo lungo studio su Barth — è proprio il fatto che egli «si sia messo in certo senso dal punto
di vista di Dio (del Dio che parla nella Bibbia) per contemplare da là la sua opera». Per questo,
pare, ha ceduto alla tentazione che il suo discorso teologico sulla Parola di Dio «rivesta l'appa-
renza di una gnosi caduta dal cielo».97
Andiamo ancora più avanti in questa prospettiva. Sappiamo che Barth, in rottura con ogni
teologia che parte classicamente dal De Deo uno, tiene un discorso che vuole essere insieme
trinitario e cristologico: trinitario nella misura in cui l'essere di Dio, coincidendo con la sua
azione, è fin dall'inizio posto come il «suo essere in quanto ama» e il suo «essere nella libertà»
(Dogm. II/l); cristologico perché l'elezione gratuita di Dio, che comanda tutto il punto di vista
barthiano e che costituisce «il Vangelo in nuce», non ha altro principio, contenuto e termine
che Gesù Cristo (Dogm. II/2). Ora, e per le stesse ragioni di sovra-temporalità di quelle esposte
precedentemente, questo discorso presuppone di fatto un riferimento, indubbiamente non rico-
nosciuto, a un Dio pre-trinitario: c'è sempre, diremmo con S. Breton (supra, cap. I) un «Sé
di eminenza» che presiede segretamente a questo volere-amore di Dio che predestina per grazia
le sue creature in Cristo. Per questo, pur sviluppando, nella scia del suo rigoroso pensiero di
«Dio in Cristo», una teologia dell'umanità di Dio e della sofferenza di Dio (fino a far portare
la nostra riprovazione, al nostro posto, a Dio in suo Figlio), Barth è rimasto come a metà strada
in questa direzione: la croce di Gesù è sì rivelazione di Dio; ma non è, propriamente parlando,
evento in Dio. Una sorta di «riserva trans-cristologica», secondo J. Moltmann, permette ultima-
mente a Barth di evitare la totale identificazione del Dio nascosto con il Dio rivelato. Per que-
sto, prosegue lo stesso autore, «in modo curioso», Barth «pensa in maniera troppo teologica e
in maniera non abbastanza decisamente trinitaria. Sottolineando sempre e con ragione che Dio
era in Cristo, che Dio stesso si è umiliato, che Dio stesso era in croce, egli usa una nozione
semplice di Dio che non è ancora sviluppata trinitariamente».'8 Egli pensa Dio, infatti, «pre-
trinitariamente» e «trans-cristologicamente». E poteva d'altronde essere diversamente, tenuto

" H. ZAHRNT, Auxprises avec Dieu. La théologie protestante au XX siede, Cerf 1969, pp. 147-149
(trad. ital. : Alle prese con Dio, Queriniana, Brescia 1969).
96
Dogm. 1/2, p. 149.
"' H. BOUILLARD, op. eh., t. 2/2, p. 300.
98
J. MOLTMANN, op. cit., p. 230.

368
conto del suo punto di vista sovra-storico? La «nozione semplice» di Dio che egli teneva in riser-
va non gli permetteva di ipotizzare un «il Verbo e la carne» che non fosse, ai suoi occhi, segreta-
mente portatore del sacrilegio sinergetico...
Lo stesso e permanente timore di creare una sorta di ibrido tra Dio e l'uomo si ritrova nel-
Vecclesiologia barthiana. Da una parte, certo, Barth reagisce energicamente contro la cancella-
zione, fatta dalla teologia liberale, del mistero della Chiesa visibile. Insiste: «È nella Chiesa
e per mezzo della Chiesa che si accede alla fede», al punto che la Chiesa è «il luogo accessibile
e lo strumento utilizzabile della grazia»." Malgrado la forza di quest'ultima espressione, egli
non intende tuttavia riconoscere alla Chiesa un ruolo di partecipazione attiva alla salvezza. Per
evitare il sinergismo, è costretto a limitare il ruolo «strumentale» della Chiesa: essa è solo uno
strumento passivo nelle mani di Dio. Infatti, come nota A. Dumas, è «la dottrina dell'elezione
(che) costituisce in Barth il fondamento principale della sua teologia della Chiesa». Questa Chie-
sa esiste a titolo primario, «indipendentemente dalla Caduta». E l'autore, a sua volta, svela in
questa ecclesiologia «uno svolgimento antistorico che Dio compie in se stesso, in favore dell'uo-
mo, certamente, ma al di fuori di lui: una grande azione intra-trinitaria fin nella sua manifesta-
zione in Gesù Cristo respinto ed eletto al posto nostro». Egli nota tuttavia nel «vecchio Barth»
una tendenza a riequilibrare la sua ecclesiologia dando alla Chiesa e all'uomo la loro specifica
«parte attiva nella storia di salvezza». Svela questa tendenza nella sezione della Dogm. IV/4
che abbiamo analizzato a proposito del battesimo, nella misura in cui «il battesimo di acqua»
richiede che l'uomo «si impegni verso Dio» in risposta al «battesimo di Spirito» in cui «Dio si
rivolge verso l'uomo». Ma — l'abbiamo chiarito precedentemente — questo «correttivo» non
cambia nulla di fondamentale, a nostro parere. D fatto è, come osserva d'altronde A. Dumas,
che «il vecchio Barth ha paura che il sacramento sia concepito come un ibrido confuso di due
libertà (quella di Dio che convoca, quella dell'uomo che risponde) quando gli si attribuisce la
virtù di comunicare la grazia».101'
Il fatto che Barth non possa pensare l'azione di Dio nella mediazione attiva dell'uomo
(dell'uomo-Gesù: «il Verbo e non la carne»; dell'uomo-in-Chiesa, strumento passivo) emerge
anche dalla sua teologia della creazione. Numerosi sono gli interpreti della sua opera che l'han-
no sottolineato: da una parte, gli si è riconoscenti per aver ricordato che la creazione è un miste-
ro di fede e che, come tale, deve essere considerata non come una sorta di in-sé appartenente
alla teodicea, ma come un momento dell'economia della grazia {Dogm. HI/1); ma, d'altra parte,
non si è forse spinto troppo lontano? Considerata non dal punto di vista temporale, ma dal punto
di vista dell'elezione eterna, la creazione non precede la redenzione; procede da essa. Essa è
allora soltanto, come scrive Barth stesso, «la produzione dello spazio in cui deve svolgersi la
storia dell'Alleanza di grazia», «il teatro e il quadro [...] previsti nell'elezione eterna di Gesù
Cristo» della storia di salvezza. Ci si chiede allora: c'è ancora spazio per una autonomia (relati-
va) del creato? Il mondo e la storia hanno ancora una consistenza propria? Non sembra. Infatti
l'universo, l'uomo, la storia si capiscono, secondo Barth, solo per analogia con Dio a partire
da Cristo. Si tratta qui, ovviamente, non dell'analogia entis, costantemente ricusata, ma dell'a-
nalogia relationis, che è anche analogia revelationis o analogia fidei: analogia rivelata da Dio
e che può essere ricevuta solo nella fede in Cristo. Di qui il giudizio di R. Prenter: «Se l'unità
della creazione e della redenzione può essere resa visibile al credente dall'esegesi analogica,
bisogna allora che l'analogia della redenzione costituisca l'essere del mondo creato. In altri ter-
mini, la funzione propria dell'esistenza creata sarà di dare un'immagine della redenzione [...].
Si diffonde allora sul mondo della creazione presentato da una simile esegesi un vero e proprio
chiarore platonico. Il mondo, in certo modo, non deve essere "se stesso", trova il suo "vero
essere" solo nel significato della redenzione». Si ha a che fare con un «certo docetismo della

" K. BARTH, L'Église, Labor et Fides, Genève 1964, pp. 49-50 (testo del 1927).
100
A. DUMAS, «L'Église dans la théologie de Karl Barth», in Les Quatre Fleuves, n. 5, 1975, pp. 57-69.

369
creazione». Giudizio «indubbiamente troppo severo», ma che «si farà fatica, secondo noi, a eli-
minare completamente», commenta H. Bouillard.101
Si avverte quindi in tutti i settori della teologia questa impossibilità riflessa in Barth di pensa-
re nello stesso tempo, senza concorrenza né sinergismo di addizione, l'azione di grazia di Dio
e l'azione libera dell'uomo. Abbiamo riconosciuto qui un presupposto tipicamente metafisico:
la trascendenza di Dio può essere capita solo secondo lo schema verticalista della distanza e,
in ultima analisi, dell'opposizione rispetto all'uomo. Un simile presupposto appartiene a sua
volta a una «nozione semplice», onto-teologica di Dio: Barth pensa, nonostante le apparenze,
pre-trinitariamente e trans-cristologicamente. Non si tratta di mettere in discussione ^ortodos-
sia» della cristologia barthiana. E non vogliamo nemmeno dire che la sua non-sacramentaria
sia la conseguenza obbligata della sua cristologia. Semplicemente, pretendiamo che ci sia coe-
renza tra una tendenza della sua cristologia, tendenza se non «nestoriana» quantomeno sponta-
neamente «anti-monofisita» come in Calvino, che lo conduce a slegare, per quanto questo sia
fattibile nel quadro della tradizione ereditata dai concili di Efeso e di Calcedonia, la divinità
dall'umanità, e la sua posizione sulla non-sacramentalità (in senso tradizionale) del battesimo.
Il Verbo nella e mediante la carne..., ma il Verbo e non la carne: il fatto è che, a tutti i livelli
e non semplicemente nell'ambito cristologico, a Barth manca la dimensione di quello che abbia-
mo chiamato la sacramentalità.

CONCLUSIONE

1. Grazia sacramentale e umanità del Dio divino


a) Karl Barth aveva buone ragioni di sospettare la sacramentaria classica, sia sul
piano pastorale (sacramentalismo eccessivo) sia sul piano propriamente teologico (sche-
ma di tipo produzionistico che, anche se purificato dall'analogia, non si faceva suffi-
cientemente carico dei soggetti e del loro vissuto etico e che aveva come conseguenza
quello che abbiamo chiamato il «regime sacrificale»). Tuttavia, la sua critica è troppo
fondata su presupposti onto-teologici (nozione pre-trinitaria di Dio e concezione stru-
mentalista delle mediazioni del rapporto dell'uomo con lui) per poter essere pertinen-
te. Essa sfocia, di fatto, in una sacramentaria che, in-operante, perde l'aspetto essen-
ziale del suo interesse. Barth esprime, è vero, una dimensione importante del battesi-
mo quando sottolinea il suo carattere di risposta riconoscente dell'uomo per la giustifi-
cazione di cui Dio lo ha già anteriormente gratificato. Ma, considerando solo questa
dimensione, può giustificare il battesimo di acqua e la sua santità solo come obbedien-
za della Chiesa a un ordine del suo Signore. Alla ricerca dell'intelligenza della sua
fede, il teologo allora si chiede: cosa significa un simile ordine? Che portata ricono-
scono dunque al battesimo di acqua le prime comunità perché Mt 28 ne faccia risalire
l'ordine allo stesso Risorto? K. Barth non dà risposta a questa domanda: si copre die-
tro la «Parola di Dio» come dietro un assoluto caduto direttamente dal cielo. E d'al-
tronde non può fare diversamente, convinto com'è a priori che il battesimo di acqua
non possa essere un evento di salvezza; se mancasse questo, la sovrana libertà di Dio
sarebbe, ai suoi occhi, gravemente compromessa. L'abbiamo detto: malgrado le appa-
renze forse, Barth risponde alla scolastica da scolastico. Non ha affatto «superato» il
dualismo metafisico della «natura» e della «soprannatura».

101
H. BOUILLARD, op. cit., t. 2/1, pp. 193-194. Stesso giudizio di H. ZAHRNT, op. cit., pp. 123-125,
137-138.

370
b) I sacramenti perdono la parte essenziale del loro interesse se la loro dimensione
di «rivelatori» della grazia di Dio che fonda l'etica come cristiana non si incrocia con
la loro dimensione di «operatori» e quindi di evento di grazia. Solo che la messa in
risalto di questa seconda dimensione può sfuggire allo schema produzionista — con
il quale Barth giustamente polemizza — solo se «superiamo» la metafisica (strumenta-
lità e causalità) mediante il simbolico (mediazione del linguaggio e del simbolo, dove
«rivelatore» e «operatore» sono indissolubilmente legati l'uno all'altro in quanto omo-
genei l'uno all'altro). In questo campo del simbolico, il rapporto tra Dio e l'uomo è
pensato secondo lo schema dell'alterità, schema che «supera» quello, dualista, della
natura e della grazia che sottende l'onto-teologia classica. Un simile schema richiede
che «Dio», da una parte, e il nostro rapporto con lui, dall'altra, siano espressi insieme
nella modalità di Aperto.
Per quanto riguarda Dio, il presente capitolo ha mostrato che il Logos della croce
ci prescrive imperativamente di rovesciare la nozione semplice e di elaborare quindi
un pensiero in cui Dio si manifesti come Dio appunto rinunciando a «Dio». Impossibi-
le allora dire questo Dio altrimenti che come umano nella sua divinità; e impossibile
dire l'umanità di questo Dio divino senza lasciarci dire noi stessi, secondo un percorso
di pensiero essenzialmente transitivo.
In questa scia, // rapporto di Dio con noi richiede di essere trattato non come oggetto-
valore, ma come incessante «perlaborazione» simbolica attraverso cui lo Spirito ci la-
vora in vista della nostra personale nascita alla filiazione e alla fraternità. È quanto
abbiamo indicato con il concetto di «grazia». La «grazia sacramentale» esprime così
l'effettività storica che Dio conferisce alla sua paternità divina suscitando al suo Cristo
un corpo di figli e di fratelli. Così l'essenziale umanità di questo Dio divino trova nei
sacramenti la sua «espressione» simbolica esemplare.

2. L'equilibrio del duplice principio, cristologico e pneumatologico,


in sacramentaria
Abbiamo sostenuto, nel capitolo precedente, una sacramentaria in cui la pneuma-
tologia fungesse da principio a pari dignità con la cristologia. Ne abbiamo espresso
le conseguenze concrete. Il presente capitolo non fa che rinforzare evidentemente que-
sta prospettiva.
Si dovrà però evitare il pericolo di passare da una tendenza «cristomonista» a una
tendenza «pneumatomonista». In mancanza di un ancoraggio sufficiente nel suo polo
cristologico (polo della sua particolarità istituzionale), la Chiesa andrebbe verso l'uni-
versalismo di un Regno che, senza punti di riferimento di identità, non sarebbe in gra-
do di differenziarsi dall'insieme degli uomini di buona volontà e, di conseguenza, non
avrebbe più nulla da comunicare loro dal punto di vista della particolarità cristiana;
al tempo stesso, i sacramenti potrebbero solo essere aperti a tutti coloro che sono ani-
mati dallo «Spirito», senza che possano intervenire qui dei criteri istituzionali di di-
scernimento.102 Inversamente, in mancanza di un ancoraggio sufficiente nel suo polo

102
J. MOLTMANN (L'Église dans la force de l'Esprit. Une contribution à l'ecclésiologie moderne, Cerf,
1980, pp. 319-322; trad. ital.: La Chiesa nella forza dello Spirito, Queriniana, Brescia 1976) si spinge trop-
po avanti in questo senso.

371
pneumatologico (polo della sua apertura all'universale), la Chiesa si sposterebbe verso
il particolarismo di un gruppo strettamente ripiegato sui suoi contrassegni di identità;
e la partecipazione ai sacramenti sarebbe sottomessa a strette regole di ortodossia e
di «purità» che minacciano continuamente la liturgia di sprofondare nel giuridicismo.
Attraverso l'universale dello Spirito, che supera ogni istituzione, il particolarismo cri-
stico può riuscire a fondare la sua pretesa all'universalità del «per tutti»; ma attraverso
la particolarità di Gesù Cristo, iscritta nella giudaicità di quest'uomo singolare e della
storia di Israele a partire dalla quale la sua «cristicità» assume senso «secondo le Scrit-
ture», l'universale pneumatologico può evitare di svanire nei miraggi delle buone in-
tenzioni e della sincerità di ciascuno, cioè di dissolvere la singolarità dell'identità cri-
stiana.

3. Il tempo intermedio
L'irriducibile tensione tra l'universale dello Spirito e il particolare di Gesù Cristo
che attraversa i sacramenti non è altro, in ultima analisi, che l'espressione della con-
traddizione escatologica che definisce l'identità della Chiesa.
I sacramenti sono il simbolo di questa contraddizione prima di tutto in quanto me-
moria di Gesù Cristo. Non memoria di Gesù semplicemente: questa sarebbe una me-
moria senza futuro escatologico, e il suo passato si limiterebbe al ricordo di un bell'e-
sempio (il più bello, il più nobile, il più santo forse) di profeta e di martire. Né, all'in-
verso, memoria del Cristo solo: questa sarebbe una memoria senza passato propria-
mente storico, e il suo futuro sfumerebbe in un aldilà mitico. Memoria di Gesù-Cristo,
la memoria sacramentale denuncia quindi i «due eccessi» che minacciano la teologia
cristiana della storia: da una parte l'eccesso «escatologista» che, accentuando unilate-
ralmente la «discontinuità assoluta» tra la storia «profana» e la storia «della salvezza»
(Barth, Bultmann, Urs von Balthasar), sfocia, come in quest'ultimo, in una sorta di
«voluttà apocalittica» dove «la storia non è più che il "quadro esteriore" in cui si svol-
ge il dramma della salvezza»; dall'altra parte, l'eccesso «incarnazionista» che, facen-
do mostra di un «ottimismo evoluzionista» troppo marcato (Teilhard de Chardin, certi
teologi politici), tende a minimizzare la rottura escatologica, cioè a ridurre l'escatolo-
gia a una teleologia.103 Contro la prima corrente, la memoria cristiana sottolinea l'im-
pegnativa esemplarità etica della storia di Gesù, il Cristo, fino al dono «martiriale»
della sua vita; in mancanza di questo, la sua identità eristica e la sua funzione salvatri-
ce svanirebbero in un mito intemporale. Contro la seconda, essa mantiene la gratuita
«sacramentalità» della sua Pasqua «per noi uomini e per la nostra salvezza»; in man-
canza di questo, la sua esemplarità non differirebbe fondamentalmente da quella di
tutti i profeti e i giusti martiri. Il sacramento dice quindi il tempo escatologico intermedio.

101
C. GEFFRÉ, op. cit., pp. 198-200.

372
Conclusione

SACRAMENTO:
CREAZIONE, STORIA ED ESCATOLOGIA

Una teologia fondamentale della sacramentalità che permetta una rilettura globale
dell'esistenza cristiana: questo era il nostro progetto di partenza. Questo progetto in-
cludeva, evidentemente, una rilettura possibile del mondo come creazione. Ora, que-
sta dimensione, sicuramente importante, dell'esistenza cristiana è stata oggetto solo
di qualche allusione qua e là: l'ampiezza assunta dal nostro lavoro non ci ha permesso
di includervi il capitolo previsto su questo punto. Vorremmo, nel finale, tentare di
aprire una prospettiva in questa direzione.
Due grandi schemi sembrano avere alimentato la tradizione filosofica e religiosa
occidentale a proposito della creazione.1 Lo schema artigianale della fabbricazione,
di tipo «creazionista», aveva il vantaggio di liberare il Creatore da ogni necessità e
di sottolineare il carattere libero, voluto, della sua opera; ma aveva l'inconveniente,
assimilando il «principio» alla «causa», di modellare troppo il Creatore sulle rappre-
sentazioni umane e di presentare il mondo in modo troppo statico, come un prodotto
finito. Lo schema biologico della generazione o quello della diffusione della luce a
partire dalla sua sorgente, schema di tipo emanatista, aveva il vantaggio di slegare
il principio creatore dalla rappresentazione causale e di promuovere così un pensiero
dinamico della creazione come sempre in via di realizzazione; ma aveva l'inconve-
niente di legare troppo questa stessa creazione a una sorta di necessità interna del prin-
cipio divino. Sia chiaro, tra questi due modelli esistono tutte le sfumature possibili.
Schemi complementari, come si vede, e probabilmente mai pienamente conciliabi-
li. Schemi, anche, indubbiamente irriducibili, nati dall'impossibilità di sfuggire alla
domanda sulle origini. Ma pensare significa imparare a interrogare, e così a «supera-
re» quello che di primo acchito sembra imporsi come una evidenza spontanea e irrecu-
sabile, sapendo che un simile superamento è altrettanto interminabile quanto sono in-
superabili gli schemi della simbolica primaria che ci abitano (nella fattispecie, quello
di una causa o di una sorgente all'origine).
Ora, secondo la Bibbia, Dio crea per mezzo della sua parola: «Dio disse... E que-
sto fu» (Gn 1). Questa modalità verbale situa immediatamente l'opera divina nell'ordi-
ne simbolico e non in quello, «causalista», del prodotto finito, e nemmeno in quello,
«principiale», della derivazione di essenza per gradi di partecipazione. Una simile mo-
dalità apre quindi l'ontologico per mezzo del simbolico: l'Essere è segnato con

1
S. BRETON, art. «Création. 2: La Création dans les synthèses philosophico-religieuses», Eric. Univ.,
5, pp. 64-66.

373
l'impronta dell'Altro. In quanto creato, il mondo degli essenti è posto come un dono.
Teologicamente, il mondo è confessato come creazione in quanto è segnato dalla paro-
la; e questa parola lo fa immediatamente diventare un'offerta. Questa è d'altronde la
funzione dell'albero proibito in Gn 2-3. Questo interdetto non riserva gelosamente a
Dio, un Dio che paventerebbe la concorrenza dell'uomo, una porzione quantitativa
del mondo, contrariamente a quanto insinua appunto il serpente, presentando un Dio
perverso geloso come lo è lui. L'interdetto non ha un valore calcolatore di sottrazione;
ha valore simbolico: tutto è per voi; ma non dimenticate che tutto è oggetto di un do-
no. È necessario l'interdetto perché appaia il dono. Il culmine biblico della creazione
è in questo dono.

Dono gratuito, necessitato da nulla, che precede ogni esistenza, che proibisce al-
l'uomo come «peccato» ogni pretesa di risalire all'origine per autoporsi nell'esistenza
o per fondare, da solo, il suo mondo. Dono di grazia, anche, irriducibile a ogni valore
o calcolo, sempre in eccesso, e di conseguenza impossibile da giustificare con una «ra-
gione» ultima. Non c'è una risposta-sapere alla domanda: «Perché c'è dell'essente e
non piuttosto il nulla?». La creazione dice dunque una non riassorbibile precedenza.
Precedenza positiva, che blocca qualsiasi esacerbazione della soggettività che preten-
desse di ridurre la creazione alla creatività umana. Ma precedenza la cui stessa positi-
vità, perché legata alla parola (di Dio), non è riducibile alla semplice fattualità bruta
del prodotto finito, chiamando così l'uomo a fare storicamente dell'universo che rice-
ve un «mondo», un mondo abitabile, un mondo cioè in cui ognuno possa trovare il
suo giusto posto.
Dal punto di vista biblico, la creazione fa appello alla creatività umana, alla quale
tuttavia non potrebbe essere ridotta. Per questo l'atto di creazione mediante la parola
divina è un atto di differenziazione. Dio crea mettendo ordine, e quindi del gioco, nel
caos primordiale, instaurando la differenza. Differenza luce/tenebre, cielo/terra, ecc.
Differenza che culmina, il sesto giorno, in quella differenza fondamentale, non valuta-
bile, non quantificabile, che è la differenza sessuale, che appartiene all'«immagine di
Dio»: infatti si dice che l'uomo è stato creato a immagine di Dio come coppia, come
«maschio e femmina» (Gn 1,27); la creazione non è buona finché l'ish non trova l'«al-
tro simile a lui» in una ishah (Gn 2,18-24). Differenza inscritta metaforicamente come
mancanza, mancanza-di-essere, nella carne dell'uomo mediante la costola sottratta. Dif-
ferenza che non può essere assunta senza la presa di distanza nei confronti dell'origine
parentale, che bisogna lasciare (Gn 2,24). E questa triplice differenza antropologica
(in rapporto a sé: la costola; in rapporto agli altri: la differenza sessuale; in rapporto
all'origine: lasciare padre e madre) rimanda a e trova il suo senso nella differenza-
santità di Dio che crea ritirandosi dal mondo (per essere celebrato il settimo giorno),
e di cui l'albero proibito costituisce, come abbiamo visto, il simbolo.
Il termine di «dono» unisce i due aspetti, insieme distinti e indissociabili, della crea-
zione: la positività di una precedenza insuperabile; l'appello di cui la parola segna questa
positività perché sia assunta dall'uomo in maniera creatrice, affinché ciascuno possa
trovare il suo posto e vivere in questo universo strutturato come mondo. Da una parte
dunque, la pura contingenza di un reale che è «qui», un punto è tutto, e che la nozione
di creazione designa non come «fabbricato da» (schema artigianale dell'«azione su»),
né come «derivante da» (schema emanatista energetico della «partecipazione di»), ma
puramente e semplicemente come «posto». Una tale «posizione» è accessibile solo al

374
pensiero meditante. Per natura essa è inafferrabile dal pensiero scientifico, il che indi-
ca che l'«azione» creatrice non potrebbe, evidentemente, essere sommata con qualsiasi
altra cosa — è il culmine della creazione ex nihilo — e che il suo pensiero può nascere
solo con l'interrogazione stupita su questa apparente evidenza e questa apparente ba-
nalità che «c'è» qualcosa e non il nulla, stupore che conferisce al reale un volto com-
pletamente diverso. Questo «c'è» è un «posto». Ma questo «posto» si dà — ed è il se-
condo aspetto — solo come «donato» (cf l'es gibt di Heidegger). Perché è scaturita
dalla parola, la «posizione» è «donazione». Questo dono non si aggiunge, in un tempo
logicamente secondo, a un reale che in qualche modo gli preesiste; è costitutivo di
questo reale nel suo stesso avvento, un po' come una domanda o un problema viene
con il suo «dato». Appartiene quindi teologicamente alla nozione di creazione il chia-
mare alla responsabilità storica dell'uomo.
Fondamentalmente ciò che la dottrina della creazione propone (proposizione di un
possibile e non necessità di una evidenza) è l'apertura di una parola. Di fronte a una
immergenza del divenire nei rischi di un puro caso, così come nelle determinazioni
costringenti di una teleologia (o di una archeologia), essa propone l'emergenza di una
parola responsabile. Confessare la creazione significa ad-venire alla libertà: il dato del-
l'universo è ricevuto come un'offerta.2
L'espressione principale di questa offerta fatta all'uomo, ritenuto quindi libero e
responsabile, è quella dell'offertorio a Dio. La «recezione» del mondo come creazio-
ne, cioè come «dono», implica il «contro-dono» dell'offertorio. In questo modo la con-
fessione della creazione si carica di sacramentalità. È nel «mistero-sacramento» del-
l'oblazione che il «mistero» della creazione trova la sua «espressione» (nel senso forte
di questo concetto). «Benedetto sei tu, Dio dell'universo, che ci doni questo pane, frutto
della terra e del lavoro dell'uomo»: rendendo visibile il gesto di presentazione dei doni
alla messa, questa formula, ispirata alle benedizioni giudaiche della tavola, è la con-
fessione di fede in atto di Dio come creatore. Il gesto di disappropriazione è la media-
zione concreta dell'appropriazione del mondo come «donato», come offerto al presen-
te e nel presente alla libertà responsabile dell'uomo.
Esiste sacramentalità solo all'incrocio di queste due dimensioni, cosmica e storica,
evocate dall'oblazione del pane come frutto della terra e del lavoro dell'uomo. Senza
la terra non c'è lavoro; ma senza il lavoro, la terra non è «materia». Il pane è materia
eucaristica solo come rapporto del cosmo alla storia. Ma questo rapporto, implicato
nella nozione di creazione, è ambivalente: può dar luogo a una «decreazione», così
come può dispiegare la creazione.3
Rappresentante simbolico di tutto ciò che nutre l'uomo, il pane è gravido della «mor-
te» di quest'ultimo nel suo lavoro.4 Morte per la vita. Se assimilato, infatti, trasforma
la morte in vita, nega questa morte per dare vita alla vita. Ora, quando non è consuma-
to da coloro che l'hanno prodotto, esso diventa pane di morte. Quando un sistema eco-

2
A. DUMAS, Nommer Dieu, op. cit., cap. XV: «La création, par-delà le hasard et revolution», pp.
275-287.
3
La trasgressione originale come «de-creazione»: cf X. THÉVENOT, Les péchés, que peut-on dire?, Mul-
house, Salvator 1983, cap. II, pp. 25-49 (trad. ital.: Il peccato. Che cosa possiamo dirne?, Elle Di Ci,
Leumann 1985).
4
Cf E. DUSSEL, «Le pain de la célébration: signe communautaire de justice», in Concilium, n. 172,
1982, pp. 89-101.

375
nomico ingiusto sottrae ai poveri il pane che essi hanno fabbricato, quando lo distri-
buisce solo a quelli che sono economicamente forti, esso è di fatto un simbolo di «de-
creazione»: in questo modo, lo de-sacramentalizza. Il pane non è eucaristizzabile a
qualsiasi condizione. «Offrire un sacrificio prelevato sui beni dei poveri è come im-
molare un figlio alla presenza di suo padre. Il pane degli indigenti è la vita dei poveri;
colui che glielo sottrae è un assassino» (Sir 34,24-25). Offrire a Dio questo pane impa-
stato della morte dei poveri è un sacrilegio. Comunicarsi con questo pane tolto a colo-
ro che l'hanno prodotto significa «mangiare la propria condanna»: impossibile «discer-
nervi il corpo del Signore», cioè quel corpo sacramentale in cui si incastrano indisso-
lubilmente la Testa e le membra (1 Cor 11,17-34). Il salmista accusa a nome di Dio
tutti quei «malfattori che mangiano il mio popolo e mangiano il loro pane» (Sai 53,5).
Pretendere di mangiare il corpo di Cristo per la vita, quando questo pane, strappato
dalla bocca dei poveri, è portatore di morte, equivale ad auto-condannarsi. L'econo-
mia teologale del culto sacramentale è inseparabile dall'economia sociale del lavoro
di cultura.
Il sacramento ci presenta quindi il mondo come ciò di cui non possiamo usare in
modo arbitrario: esso esige che noi facciamo del reale un «mondo» per tutti, e non
soltanto per i benestanti. E ci presenta anche il mondo come irriducibile a un semplice
oggetto disponibile, e quindi come ciò di cui non possiamo usare in modo semplice-
mente utilitaristico. Esso epifanizza l'eccesso simbolico che il reale, in quanto creato,
tiene in riserva. Ci rivela la «sacramentalità» del mondo come creazione. Lasciato alla
sua profanità, dunque non sacralizzato, questo mondo viene così sottratto alla profana-
zione. Le cose più elementari — l'acqua, il pane, il vino... — richiedono «rispetto».
Questo rispetto, che è presa di distanza, sganciamento dall'utilitarismo divorante,
apre l'opacità del reale. L'apre con la parola. Solo la parola umana di creatività può
farlo cor-rispondere alla parola divina di creazione che lo pone come «ordinato», se
è vero che questa parola creatrice ordina imperativamente al caos di mettersi in ordine
per essere ultimamente ordinato all'uomo. In quanto creato, il reale si «distingue»; il
commercio con lui richiede il rispetto di questa «distinzione». La creazione dice il mondo
come «a faglie», irriducibile alla sua opacità positiva che, tuttavia, resiste. Essa è «po-
sizione», ma posizione fratturata dalla parola che lo «ordina». Rispondere della crea-
zione significa aprirla, come si apre la totalità compatta di un pane in vista di una con-
divisione. Per questo, come dimostrano le preghiere eucaristiche, se è vero che la fra-
zione del pane è memoria del gesto e delle gesta storiche di Gesù che ha condiviso
la sua vita come un pane, essa è però anche memoria delle gesta creatrici di Dio me-
diante la «sua Parola vivente» (inizio della preghiera eucaristica n. 2).

I sacramenti non ci rimandano alla «storia della salvezza» senza rimandarci alla
creazione; così come, biblicamente, questa è impensabile senza quella, che essa tutta-
via supera: è il Dio di Israele, il Dio dell'alleanza, il Dio della storia che crea il mon-
do, secondo la Genesi. Il fare memoria sacramentale, focalizzato sulla Pasqua di Ge-
sù, perderebbe ogni spessore storico (e sarebbe quindi riconducibile ai miti greci degli
dèi salvatori) se non riprendesse la storia di Israele. Ma, a sua volta, la storia di Israe-
le, nella sua particolarità, può essere confessata come storia di salvezza solo su di uno
sfondo di universalità. Per questo la tradizione biblica, partendo dalla creazione stori-
ca di Israele come popolo di Dio attraverso l'Esodo, ha ampliato questa particolarità
storica in universalità cosmica. Una simile apertura era necessaria perché il Dio di

376
Israele fosse il Dio di tutti e di tutto. Era necessaria perché Israele, pur rimanendo
Israele, fruisse dell'essere universale.5 Era necessaria perché la promessa potesse al-
largarsi a tutte le nazioni e, infine, perché potesse essere affermata l'universalità eri-
stica di quell'Ebreo singolare che era Gesù. La confessione della creazione è nata dal-
l'impossibilità dell'«Israele soltanto».
Il «profano» del mondo e della storia è così riconosciuto come il luogo sacramenta-
le possibile di una storia santa. Esso richiede di essere trattato con rispetto, come dice-
vamo prima. Non per essere sacralizzato — il che gli sottrarrebbe la sua autonomia
— ma per non essere profanato da un uso arbitrario e utilitario. Trattare il mondo co-
me un'offerta, un offertorio per gli altri; farne così una «casa» fraterna in cui ciascuno
possa trovare il suo posto: questa è l'implicazione etica, dalle dimensioni economica
e politica universali, del suo riconoscimento come creazione nel gesto eucaristico del-
l'offertorio: questa è l'esigenza pratica del tua ex tuis tibi offerentes delle anafore anti-
che (supra): per questo, appunto, l'oblazione anamnetica a Dio del Cristo che ha preso
corpo nelle rappresentazioni metonimiche della creazione e della storia umana trova
il suo compimento nel gesto del pane spezzato per la vita di tutti. Il sacramento è il
grande luogo simbolico in cui si attesta l'inseparabilità tra il riconoscimento della gra-
zia della creazione e l'esigenza di dono in risposta che l'uomo deve storicamente offri-
re a Dio ordinando questo mondo in modo tale che cor-risponda alla sua ordinazione
divina primordiale. Simbolo insuperabile, se è vero che il «gioco di linguaggio» ritua-
le, «-urgico» e pragmatico per natura, raffigura il passaggio richiesto da un tale rico-
noscimento: passaggio dal discorso al corpo, dalle parole alla pratica.
La «sacramentalità» del «profano» non deve tuttavia far dimenticare che il Signore
risorto che vi prende corpo mediante lo Spirito rimane segnato dalle piaghe della sua
morte. Escatologia. Da una parte, il fatto che sia proprio il Signore di gloria che pren-
de escatologicamente corpo nel mondo impedisce quella frattura tra storia «profana»
e storia «di salvezza» in cui l'escatologia scade in escatologismo; frattura caratteristica
delle teologie della «rottura» redentrice, in cui la creazione, insufficientemente rispet-
tata nella sua autonomia, trova senso, al limite, solo nella redenzione. Ma, d'altra par-
te, il fatto che la Signoria di Cristo rimanga quella dell'umiltà della croce e che prenda
corpo nella condizione tragica degli sfigurati della storia — che diventano così i nostri
giudici (Mt 25,31-46) — impedisce di operare, all'inverso, una lettura evoluzionista
di continuità tra la storia «profana» e la storia «di salvezza»; lettura caratteristica delle
teologie troppo «naturalistiche» della storia, in cui l'escatologia tende a confondersi
con una teleologia.6
Il sacramento dice quindi il tempo escatologico intermedio. Tempo di un «già» ma
bloccato da un «non ancora», pena il ridurre il «Regno» a un semplice «altrimenti» (d'al-
tronde neppure evidente) di questo mondo. Tempo di un «non ancora» ma attraversato
da un «già», pena il ridurre il «Regno» a un «altro mondo» senza rapporto con questo
mondo qui. Il sacramento è il portatore della gioia del «già» e della disperazione del
«non ancora». È il testimone di un Dio che non ha finito di venire: testimone colmo
di meraviglia di un Dio che viene continuamente; testimone paziente, talvolta fino alla
stanchezza, di un Dio che «è» qui solo nella modalità di passaggio. Sacramento-traccia...

s
P. BEAUCHAMP, L'Un et l'Autre Testament, op. cit., cap. III: «Les sages», soprattutto pp. 116-118.
6
C. GEFFRÉ, op. cit., cap. IX: «Eclatement de l'histoire et Seigneurie du Christ», pp. 189-208.

377
INDICE DEI NOMI PROPRI

A Barthes R. 74, 144, 146, 190, 229


Basilio di Cesarea 191, 277, 358
Abelardo P. 15, 317 Bastide R. 126, 246, 247
Addai e Mari (anafore di) 191, 326 Baudrillard J. 74-75, 250
Alberto Magno 14, 17, 204, 316, Baumgartner C. 314
318 Beauchamp P. 135, 143, 148, 151,
Alessandro di Hales 17 152, 153, 156,163,182,342,350,
Algero di Liegi 15, 204, 319 352-353, 377
Ambrogio di Milano 150, 265, 296, Beaufret J. 25
329, 358 Beda il Venerabile 316
Amorose J. 223 Béguerie P. 134, 135
Anselmo di Laon 319 Bellet M. 218
Aristotele 17, 18, 20, 23, 24, 25, 26, Benoist L. 233
145, 264, 265 Benvéniste E. 62, 64, 66-67, 73, 92,
Asurmendi J. 166, 172 93
Atanasio di Alessandria 358 Berengario di Tours 203, 204, 205,
Agostino 14-15, 25, 26, 27, 87, 158, 263, 265, 267, 319
165, 180, 192, 194,195, 202,203, Bernardo di Chiaravalle 287
204, 205, 206, 215-217, 222, 242, Berrouard M.F. 315
267, 281, 296-297, 298, 303, 315, Bittremieux J. 261
316, 321, 329-330, 351 Blanchot M. 145
Austin J.L. 92-94 Bobrinskoy B. 315
Averroè 17, 18 Bonaventura (san) 16, 17, 204, 261,
Avicenna 17 264, 265, 266, 309
Bonifacio VIII 321
Bornardière A.M. 297
B Bornkamm G. 269
Bossuet 217
Bachelard G. 43, 105 Botte B. 132, 327, 361
Belleydier M. 297 Bouillard H. 288, 367, 368, 370
Balthasar H. U. von 363, 367, 372 Bourdieu P. 89, 95, 98, 229,
Baril H. 261 239-240, 253, 300
Barnaba (Pseudo-) 179 Bouyer L. 169
Barth K. 17, 160, 285, 287-290, 299, Bovon F. 50
336, 367-370, 372 Breton S. 32, 33, 52-54, 55, 106,

378
145-147, 153, 254, 337, 360, 364, Daniélou J. 327
365, 368, 373 Delumeau J. 281
Briend J. 135 Delzant A. 34, 77, 186
Bultmann R. 52, 208, 372 Deniau F. 297
Denis H. 242
Derousseaux L. 164
Derrida J. 27, 36, 38, 49, 55,
c 100-102, 106, 275, 344
Descartes R. 28, 29, 40, 207, 341
Cabié R. 329 Desseaux J.E. 358
Caillois R. 231 Didachè 179, 357
Calcedonio (concilio di) 309, 370 Didascalia degli apostoli 296
Caravias J.L. 240 Diderot D. 87
Carrez M. 360 Dinechin O. de 181
Casel O. 328-329 Diogneto (Lettera a) 179
Castoriadis C. 57, 105 Dionigi (Pseudo-) 30, 32, 33
Cazelles H. 168, 169, 172, 349 Dodd C. 170-171
Chauvet L.M. 191, 234, 297 Dondaine H.F. 15-19, 314
Chavasse A. 329 Doré J. 125, 240, 312, 338
Chenu B. 125 Douglas M. 356
Chenu M.B. 312, 315, 317 Dubarle D. 106, 254
Cipriano 180 Duby G. 72
Cirillo di Gerusalemme 265 Dumas A. 369, 375
Clément O. 321, 351, 359 Dumortier F. 197
Clemente di Alessandria 179 Dumoutet E. 203, 264
Clemente di Roma 138, 179 Duns Scoto 15, 16
Colson J. 177 Dupont J. 118, 170
Congar Y. 128, 216, 260, 261, 284, Durkheim E. 253
309, 314, 316, 317, 319-322, 332, Dussel E. 375
351, 358 Duval A. 260
Costituzioni apostoliche 138, 297
Corbin M. 315
Cothenet E. 138, 178
Cousin H. 171,339
Cullmann O. 333 E
Eckhart (Maestro) 32, 33, 364
Eliade M. 253
D Erdoes R. 83
Erikson E.H. 223
Dalmais I.H. 135, 327 Erma 357
Damiani P. 264 Eyck A. van 271

379
F H
Filone di Alessandria 168-169, 175, Habermas J. 49
180, 215, 355 Hahn F. 130, 131
Flahault F. 62, 76, 89 Hall E.T. 233
Freud S. 54, 70, 207, 223 Hameline D. 128
Hameline J.Y. 225, 228, 251
Hänggi A. 191, 265
Hegel G.F.W. 207, 338, 340, 342
Heidegger M. 12, 22, 23-24, 28, 29,
G 34, 36-49, 51, 54, 55, 56, 58, 61,
63-65, 66, 70, 75, 83, 100, 106,
Gadamer H.G. 49, 50 126, 127, 149, 208,270-272, 281,
Gagey J. 218 305, 342, 344, 351, 353, 359, 360
Gaillard H. 330 Héris C.V. 19, 314
Galilea S. 240 Heschel A. 161
Geffré C. 33, 49, 50, 51, 304, 325, Heusch L. de 223, 224
347, 349, 363, 372, 377 Hubert H. 214, 253
Geiselmann J. 205, 264 HudonG. 331
Genuyt F. 302 Huxley J. 223, 238
Ghellinck J. de 265 Hyppolite J. 207
Giacomo di Gerusalemme (anafora
di) 191-192
Giovanni Crisostomo 30, 191, 265 I
Giovanni Damasceno 19, 277
Girard R. 209-211, 212, 217, 226, Ignazio di Antiochia 309, 339
278 Innocenzo III 316, 321
Gisel P. 152 Ippolito di Roma 148, 191, 320, 361
Giustino 148, 169, 179 Irrarazaval J.L. 240
Goethe J.W. 87 Ireneo di Lione 113, 179,275-276,
Goffman E. 223 217, 309, 320
Gourges M. 339 Isambert F.A. 95, 96, 98, 239-241,
Granger G.G. 291 253
Gregorio di Nazianzo 352, 353, 358 Isidoro di Siviglia 15, 203, 316
Gregorio VII 321
Greisch J. 45, 46, 100, 352
Grelot P. 130, 132, 141, 157, 327, J
333
Guerrico di Saint-Quentin 17 Jaubert A. 138, 179
Guglielmo d'Auvergne 16 Jeremias J. 139, 169
Guillet J. 140 Jounel P. 329, 330
Gy P.M. 131,213,320,323 Jourjon M. 179

380
Jousse M. 104, 105 338, 339, 340
Jüngel E. 2 1 , 2 2 , 3 0 , 3 1 , 3 2 , 2 0 8 , Leone Magno 329, 330, 331
337-338, 339-341, 342, 347, 355, Lepin M. 205
363 Lévinas E. 36, 38, 44, 55, 65, 103,
Jungmann J.A. 195 106, 165
Juranville A. 57-59 Lévi-Strauss C. 61, 69, 89, 97-98,
127, 229
Lévy-Bruhl 72
K Ligier L. 361
Lombardo P. 14, 15, 205, 316, 319,
Kagamé A. 160 322, 323
Kannengiesser C. 315 Lubac H. de 129, 150, 203-204, 266,
Kant I. 33, 67 319
Käsemann E. 121, 171, 177 Luneau R. 247
Kasper W. 140, 201, 339, 340, 345,
347, 363
Kearny R. 50 M
Kretschmar G. 326
Kristeva J. 56, 146 Mallarmé S. 145
Küng H. 287-288 Malraux A. 91
Marco (anafora di) 191
Margerie B. de 351
L Marin L. 123
Marion J.L. 31, 54, 152
La Bonnardière A.M. 297 Marie R. 154
Lacan J. 38, 57, 66, 68-69, 86,102, Marliangeas B. 323
207, 252 Martelet G. 203
Ladrière J. 33, 224, 291-293 Martimort A.G. 327
Laffoucrière O. 41 Marty F. 33
Lafon G. 2 0 , 2 1 , 2 2 , 8 8 Mathieu L. 16
Lanfranco di Canterbury 264 Mauss M. 61, 71-73, 214, 253
Laporte J. 168-169, 178 Merleau-Ponty M. 29, 61, 65, 103
Lauret B. 125, 210 Metz J.B. 127, 162, 181
Leclaire S. 70 Michel A. 14
Lécuyer J. 318 Mohrmann C. 180
Le Déaut R. 138, 147, 329 Moltmann J. 206, 335-337, 338-341,
Ledure Y. 105, 365 343, 362, 368, 371
Le Goff J. 214 Monloubou L. 162
Legrand H.M. 130 Montcheuil Y. de 130
Lemaire A. 69 Montclos J. de 264
Léon-Dufour X. 140, 161,169,181, Morel G. 48
206, 209, 210,217,269,327. 331. Morin E. 253

381
N Resweber J.P. 38, 106
Ricoeur P. 28, 29,43,48, 49-50, 85,
Neher A. 161 100, 104
Nicea (II concilio di) 152, 277 Roguet A.M. 14, 18
Nietzsche F. 105, 124, 302 RordorfW. 327
Novalis F. 87 Rosny E. de 83, 96, 97-98
Rosolato G. 251, 348
Rost L. 142
o Rouillier G. 50
Ruperto di Deutz 320
Origene 150
Ortigues E. 61, 65, 66, 81-82, 84,
88, 91, 113, 129
Otto R. 253
s
Sagne J.C. 209, 251
Sanders J.A. 135, 137, 141-142,
P
143, 147
Pani I. 191, 265 Sanon A.T. 247-250
Paliard C. 242 Saussure F. de 101
Pannenberg W. 140 San Vittore Ugo di 15, 319-320
Parain B. 61,63 Schelling F.W. 87
Pascal B. 263 Schillebeeckx E. 263, 265
Pascasio Radberto 15, 203, 316 Schubert K. 170
Pasquier A. 250 Scouarnec M. 237
Paul A. 138 Sendler E. 152
Perrot C. 138, 139, 154, 167, 169, Serapione 297', 358
170-171, 174, 183, 268, 327, 332, Simon A. 209
357 Siricio 328
Platone 21-23, 24, 25, 34, 41, 101 Smith P. 146
Plotino 12, 30 Sobrino J. 338
Pohier J. 278 Soos M.B. de 331
Pontificale romano-germanico 322 Sotero 328
Pourrat P. 14 Sperber D. 89
Presocratici 24 Stevenson K. 191
Prigent P. 179 Summa Sententiarum 15, 319
Sutter J. 229

R
T
Rabano Mauro 15
Rahner K. 221-222, 257, 295 Tarby A. 187
Ratramno 15, 203 Taft R. 331

382
Talley J.Y. 328-329 Vaux R. de 135, 137, 168, 169
Teillhard de Chardin 372 Vergote A. 65, 66,70, 88,104,105,
Tertulliano 140, 148,150,180,296, 123,126, 209,217, 225, 228, 229,
309, 328, 361 251, 252, 254, 256, 272, 282, 285,
Teodoro di Mopsuestia 358 292, 364
ThévenotX. 375 Vignaux P. 203
Thurian M. 161 Villalon J.R. 361
Tillard J.M.R. 321 Villela-Petit M. 271
Tinland F. 103 Vogel C. 214, 322
Tommaso d'Aquino 11, 12, 13-19, Von Allmen JJ. 158,162,178,195,
20, 23, 25, 26, 27, 29-31, 32, 34, 221, 290
52, 117,213,261,20-257,273, Von Rad G. 141, 142, 160
289, 296, 298, 309, 311-325 Von Schònborn C. 152, 277
Todorov T. 25, 87, 144 Voyé L. 228, 229
Trebossen P.G. 242
Trento (concilio di) 204, 260, 263,
274-275, 287-288
Turner V. 82, 97, 98, 240, 246 w
Wiesel E. 335
U Wittgenstein L. 224, 291

Ushte T. 83
Y
V Yerkes R.K. 168
Valéry P. 106
Vanhoye A. 173, 177, 206
Vasse D. 70, 104 Z
Vaticano II (concilio) 121,130,150,
186, 226, 283-284, 285, 290 Zahrnt H. 368

383
INDICE

Introduzione pag. 5

PARTE PRIMA
DAL METAFISICO AL SIMBOLICO

Capitolo Primo: Critica dei presupposti onto-teologici della sacramentaria classica » 11


1. Il nostro interrogativo di partenza » 11
2. Il metafisico e il simbolico » 11
I. La causalità sacramentale in san Tommaso d'Aquino » 13
1. Il posto del «Trattato dei sacramenti» nella Somma teologica » 13
2. Le innovazioni principali della Somma teologica » 13
II. Uno schema di rappresentazione di tipo produzionista » 19
1. La riduzione dello schema simbolico allo schema tecnico » 20
2. La metafisica: un'onto-teo-logia causalista » 22
a) La metafisica secondo M. Heidegger ._ » 23
b) La dicotomia essere/dire » 24
c) Il linguaggio-strumento » 27
d) La dicotomia soggetto-oggetto » 28
3. La rappresentazione onto-teologica del rapporto tra l'uomo e Dio » 29
a) L'analogia » 29
b) La punta critica della teologia cristiana » 32
III. Apertura sul simbolico: la manna » 34

Capitolo Secondo: Oltre l'onto-teologia? » 36


I. L'oltrepassamento della metafisica secondo Heidegger » 36
1. Pensare la metafisica non come una colpa ma come un evento » 36
2. Oltrepassare la metafisica: un compito mai concluso » 37
3. Un cammino «transitivo» » 41
4. Un pensiero non strumentale del linguaggio » 41
5. «Mantenerci in una matura vicinanza all'assenza»: discorso della grazia ... » 44
II. Teologia e filosofia » 47
1. Filosofia e teologia secondo Heidegger » 47
2. Interrogativi » 48
a) L'atto teologico: una testimonianza; la teologia: un'ermeneutica » 48
b) Il Logos della croce, tra il Giudeo e il Greco » 51
c) Una omologia di atteggiamento » 54
III. Teologia e psicanalisi » 56
1. Lo statuto aporetico della psicanalisi » 56
2. Il discorso analitico come sintomo sociale principale del dispiegamento storico
della domanda sull'Essere » 58
IV. Verso il sacramento » 60

384
Capitolo Terzo: La mediazione » 61
I. La mediazione ineludibile dell'ordine simbolico » 61
1. L'uomo esiste solo nella parola » 61
2. Il linguaggio, espressione operante » 63
a) La parola creatrice di «mondo» » 63
b) Il concetto di «espressione» » 64
3. E processo di ad-vento del soggetto nel linguaggio » 66
a) Un punto di vista linguistico » 66
b) Un punto di vista psicanalitico » 68
4. La verità dell'uomo: consentire alla presenza della perdita » 70
II. Lo scambio simbolico » 71
1. Nelle società arcaiche » 71
a) Fuori valore » 72
b) Le generosità necessarie » 73
2. Nella società occidentale contemporanea » 73
3. Scambio commerciale e scambio simbolico: due poli e due livelli » 75
4. Graziosità e gratuità » 77

Capitolo Quarto: Il simbolo e il corpo » 79


I. Segno e simbolo » 79
1. Due livelli di linguaggio » 80
a) Il simbolo antico » 80
b) «Il simbolo ci introduce in un ordine di cui anch'esso fa parte» » 81
c) Valore e non-valore » 84
d) Simbolo e realtà » 87
2. Due polarità di ogni linguaggio » 88
a) La rivendicazione simbolica di riconoscimento in ogni discorso di «cono-
scenza» » 89
b) Il posto necessario della «conoscenza» in ogni espressione simbolica ... » 90
II. L'atto di simbolizzazione » 91
1. Analisi » 91
2. La performatività dell'atto di simbolizzazione » 92
a) Racconto e discorso » 92
b) Constativo e performativo » 93
c) Locutorio, illocutorio, perlocutorio » 93
d) Tratti distintivi » 94
III. L'efficacia simbolica dei riti » 96
1. Alcuni esempi di efficacia simbolica nei riti tradizionali » 96
a) C. Lévi-Strauss » 96
b) V. Turner » 97
c) E. de Rosny » 97
2. Efficacia simbolica e grazia sacramentale: prima apertura » 99
IV. Il simbolo e il corpo » 99
1. Il linguaggio come «scrittura» » 99
a) La materia significante » 99
b) La repressione logocentrica del corpo della traccia scritta » 101
2. «Corpo sono io» » 103
a) Un corpo di parola » 103
b) Gli schemi sub-rituali della simbolica primaria » 104
c) Corporalità: un corpo di cultura, di tradizione e di natura » 105
d) Il corpo, arci-simbolo » 106

385
V. Ouverture: la sacramentalità della fede » 107
1. Il blocco sacramentale » 107
2. L'arci-sacramentalità della fede » 108

PARTE SECONDA
I SACRAMENTI NELLA TRAMA SIMBOLICA DELLA FEDE ECCLESIALE

Introduzione: Una teologia fondamentale del sacramentale » 113

Capitolo Quinto: Posizione della struttura dell'identità cristiana » 115


I. La strutturazione della fede secondo il racconto di Emmaus » 115
1. Luca 24 » 115
2. Tre testi matriciali » 116
3. Il racconto dei discepoli di Emmaus » 118
4. La prova della fede o il consentimento a una perdita » 121
a) La mediazione simbolica della Chiesa » 121
b) Tre forme di una stessa tentazione «necrotica» » 123
c) Un compito inesauribile: consentire alla presenza della mancanza » 125
5. Estensione del nostro modello » 126
II. Note sulla funzione della Chiesa nel nostro schema » 127
1. Una problematica di identità » 127
2. Diversità dei circuiti di identificazione » 128
3. La priorità della Chiesa rispetto agli individui cristiani » 129
4. Ricevere la Chiesa come una grazia » 131
5. Apertura pastorale » 132

Capitolo Sesto: Il rapporto scrittura/sacramento » 134


I. «La Bibbia nata dalla liturgia» » 134
1. Bibbia ebraica e liturgia » 134
2. Bibbia cristiana e liturgia » 137
a) L'ermeneutica cristiana delle Scritture » 137
b) I racconti della Cena » 139
c) Priorità della pratica liturgica » 140
II. L'assemblea liturgica luogo della scrittura » 141
1. Analisi fenomenologica del processo di produzione della Bibbia » 141
a) Questa produzione è il risultato di un rapporto fra tre elementi principali » 141
b) Il funzionamento meta-storico degli eventi riconosciuti come fondatori » 143
2. Il rapporto del Libro con il corpo sociale » 143
a) Teoria semio-linguistica del testo » 144
b) «Il lettore è essenziale allo scritto stesso» » 145
c) La Bibbia: «La comunità scrive se stessa nel libro che legge» » 147
3. La lettura del Libro nell'Ecclesia liturgica, luogo di verità della Bibbia ... » 148
III. La sacramentalità della Scrittura » 149
1. La Scrittura è sacramentale non per derivazione ma per costituzione » 149
a) La venerazione tradizionale della Scrittura » 150
b) La lettera, «tabernacolo» della Parola » 151
c) Lo sdoppiamento della lettera in «figura». L'idolo e l'icona » 152

386
2. Il sacramento, precipitato delle Scritture » 154
a) Evangelizzazione e sacramentalizzazione » 154
b) Parola-Scrittura e Parola-Sacramento » 155
c) La manducazione del Libro » 156

Capitolo Settimo: Il rapporto sacramento/etica » 159


I. Lo statuto storico-profetico del culto giudaico » 159
1. La fede in un Dio che interviene nella storia » 160
2. Il culto giudaico, memoriale storico-profetico » 161
a) Il memoriale » 161
b) Il memoriale, il rito e la storia: Dt 26,1-11 » 163
c) Una crisi rituale » 165
II. Lo statuto escatologico del culto cristiano » 166
1. Escatologia » 166
2. Gesù e il culto » 167
a) La critica dei sacrifici negli ambienti giudaici ed ellenistici » 167
b) L'atteggiamento di Gesù » 170
3. La lacerazione pasquale » 172
a) La metafora della lacerazione » 172
b) Una differenza teologale » 174
c) Un nuovo statuto del culto » 175
4. Il vocabolario cultuale dei cristiani alle origini » 176
a) Il Nuovo Testamento » 177
b) Il II secolo » 179
c) Portata teologica » 180
III. La lettera, il rito, e il corpo » 181
1. Capovolgimento del sacro » 181
2. Il passaggio dal Libro al corpo » 182
3. Una ingenuità «terza» » 184

Capitolo Ottavo: Funzionamento della struttura: il processo di scambio simbolico » 185


I. La preghiera eucaristica n. 2 » 186
1. Analisi narrativa » 186
2. Il processo simbolico di «eucaristicità» » 189
a) Tre chiavi di lettura » 189
b) Funzionamento della struttura » 193
3. Funzione del momento «Sacramento»: un punto di passaggio » 195
4. Giudaismo e cristianesimo » 196
a) L'identità ebraica: il racconto dell'offerta delle primizie (Dt 26,1-11) » 196
b) La differenza cristiana: «vetustà» e «novità» » 199
II. Verifica: lo statuto anti-sacrificale dello scambio simbolico nel cristianesimo » 201
1. Il principio di base: in sacramento. La «rappresentazione» sacramentale ... » 202
2. La vita e la morte di Gesù: un sacrificio? » 205
3. La tesi di R. Girard » 209
4. L'anti-sacrificale » 212
a) Un terzo termine obbligato » 212
b) La tentazione del ritorno al sacrificale » 213
5. Sacrificio di espiazione e sacrificio di comunione » 214
6. Un'etica eucaristica: Ireneo e Agostino » 215
Conclusione: Rischi e fortune del vocabolario sacrificale » 217

387
PARTE TERZA
L'ATTO DI SIMBOLIZZAZIONE DELL'IDENTITÀ CRISTIANA

Capitolo Nono: I sacramenti, atti di simbolizzazione rituale » 221


L'impegno radicale della Chiesa nei sacramenti » 221
I. La legge fondamentale della ritualità religiosa: una pratica simbolica » 222
1. L'essenza pragmatica del linguaggio rituale » 223
2. Il linguaggio rituale nella nostra cultura » 225
II. Lettura teologica di alcune componenti principali della ritualità » 227
1. La rottura simbolica » 227
a) La natura di frontiera dei riti (eterotopia) » 227
b) Negoziare tra due soglie » 228
c) Lettura teologica dell'eterotopia rituale » 231
2. La programmazione e la reiterazione simboliche » 233
a) La metonimia rituale » 233
b) Lettura teologica della programmazione rituale » 234
c) La negoziazione pastorale » 235
3. Una economia simbolica di sobrietà » 237
4. Una simbolica indiziale » 238
a) Il posizionamento mediante il rituale » 238
b) Credere e far credere » 239
c) Lettura teologica » 241
5. Evangelizzare la ritualità » 242
a) Dal punto di vista formale » 242
b) Dal punto di vista materiale » 243
III. Una simbolizzazione dell'uomo totale come corporeità » 244
1. La simbolizzazione dell'autoctonia umana » 244
a) Elementi della simbolica primaria » 244
b) Una teologia della creazione » 245
2. La simbolizzazione della socialità e della tradizione » 246
a) Il rito come «dramma sociale» » 246
b) Un esempio: l'iniziazione tradizionale e il suo segreto » 247
c) Iniziazione tradizionale e iniziazione cristiana » 249
d) La crisi rituale nella nostra società «critica» » 250
3. La simbolizzazione dell'ordine occulto del desiderio » 251
4. L'originalità dei riti religiosi nella simbolizzazione dell'uomo » 253
a) La messa in scena della corporeità come tale » 253
b) Il «sacro» » 253
IV. La corporeità della fede » 255
1. La differenza sacramentale, o l'impegno radicale della Chiesa nei sacramenti » 255
a) Una tensione fondamentale » 255
b) Tensione espressa in modo radicale » 256
2. L'incorporazione della fede » 258

Capitolo Decimo: L'istituito sacramentale » 259


La dialettica dell'istituente e dell'istituito » 259
I. L'istituzione dei sacramenti da parte di Gesù Cristo: la posta in gioco del problema » 259
II. Il corpo eucaristico del Signore: una figura esemplare della resistenza all'istituito
sacramentale » 262

388
1. La «transustanziazione»: un cambiamento radicale » 263
a) La grande scolastica » 263
b) Limite principale della transustanziazione scolastica » 266
2. Un approccio simbolico al mistero del corpo eucaristico del Signore » 267
a) L'ad-esse costitutivo dell'esse sacramentale » 267
b) L'essenza della brocca e del pane » 270
c) Posta in gioco della nostra problematica » 273
d) Radicalità » 275
e) Una presenza nella modalità di Aperto: la frazione del pane » 277

Capitolo Undicesimo: L'istituente sacramentale » 280


Una effettuazione di identità » 280
I. La duplice impasse della sacramentaria » 280
1. L'impasse «oggettivista» » 280
2. La via media del Vaticano II » 283
3. L'impasse «soggettivista» » 285
a) Prima corrente: il punto di partenza «dal basso» » 285
b) Seconda corrente: il punto di partenza «dall'alto» (K. Barth) » 287
II. I sacramenti, espressioni simboliche operanti » 290
1. Linguaggio della fede e linguaggio della liturgia come «giochi di linguaggio»
specifici » 291
a) Il linguaggio della fede » 292
b) Il linguaggio liturgico » 293
2. L'efficacia simbolica dei sacramenti. Esempio: il sacramento della riconcilia-
zione » 294
a) I sacramenti come rivelatori (in quanto operatori) » 295
b) I sacramenti come operatori (in quanto rivelatori) » 298
3. La grazia sacramentale » 299
a) Nella scia dell'intra-linguistico » 299
b) Una realtà tuttavia extra-linguistica » 303
4. Bilancio » 303
Un grazioso «lasciar-essere» » 305

PARTE QUARTA
SACRAMENTARIA E CRISTOLOGIA TRINITARIA

Introduzione: Dal discorso sacramentario al discorso teologico » 309

Capitolo Dodicesimo: I sacramenti della Pasqua nuova » 311


I. Il punto di partenza della sacramentaria scolastica: l'unione ipostatica » 311
1. Tommaso d'Aquino: la logica interna del rapporto tra la sua sacramentaria
e gli altri settori della sua teologia » 311
a) Una sacramentaria che prolunga direttamente la cristologia » 311
b) Una sacramentaria pneumatologicamente debole » 313
c) Una sacramentaria troppo slegata dall 'ecclesiologia » 318
d) Una sacramentaria di tipo fortemente istituzionale » 321
e) Bilancio » 323
2. I presupposti di questa sacramentaria relativamente al rapporto tra Dio e l'uomo » 324

389
II. Il nostro punto di partenza: la Pasqua di Cristo » 326
1. La tradizione liturgica » 326
a) Il battesimo e l'iniziazione cristiana » 326
b) L'anamnesi eucaristica » 326
c) L'anno liturgico nei primi tre secoli » 327
d) Gli sviluppi dell'anno liturgico a partire dal IV secolo » 329
e) Lettura teologica del dossier: un punto di partenza pasquale » 331
2. L'inclusione della vita concreta di Gesù nel mistero pasquale » 333
a) La pertinenza teologica della storia » 333
b) L'incarnazione letta a partire dalla Pasqua » 334

Capitolo Tredicesimo: I sacramenti, figure simboliche della cancellazione di Dio » 335


La grazia sacramentale, o l'avvento di Dio nella corporeità » 335
I. Il polo cristologico: i sacramenti, memoria del Crocifisso risorto » 336
1. Il Dio crocifisso » 336
a) Quattro tesi » 336
b) Il grido di Gesù in croce: un maximum cristologico » 338
2. Una meontologia simbolica » 341
3. Il Figlio e il Padre » 343
a) Lo schema simbolico di paternità/filiazione » 343
b) Il compimento del Figlio » 345
c) L'Altro simile di Dio » 345
d) Salvezza: esemplarità e solidarietà » 346
e) Dio altrimenti » 347
II. Il polo pneumatologico: i sacramenti, memoria nello Spirito Santo » 348
1. Premessa: necessità di un terzo termine » 348
2. Lo Spirito, o Dio differente » 349
a) Il Neutro » 349
b) Il «rivelante non rivelato» » 351
3. Lo Spirito, o la differenza di Dio che si inscrive nella corporeità umana . » 353
a) Paolo » 354
b) La Pentecoste » 355
c) La liturgia, e soprattutto l'epiclesi » 357
d) Il nuovo corpo scritturale di Dio » 359
III. I sacramenti, luoghi di grazia » 362
1. La sovversione trinitaria delle nostre rappresentazioni di Dio » 362
a) Sovversione » 362
b) Una elaborazione di lutto in noi stessi » 364
2. La grazia sacramentale » 365
IV. Contro-prova: la non-sacramentaria di K. Barth » 367
Conclusione » 370
1. Grazia sacramentale e umanità del Dio divino » 370
2. L'equilibrio del duplice principio, cristologico e pneumatologico, in sacramen-
taria » 371
3. Il tempo intermedio » 372

Conclusione: Sacramento: creazione, storia ed escatologia » 373

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ISBS - Castelnuovo Don Bosco (Asti) - 1990

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