Sei sulla pagina 1di 16

Abramo, l’amico/amato di Dio

Forse il personaggio che meglio rappresenta nella Bibbia il paradigma


dell’eletto, amico di Dio, amato da lui e amante di lui, colui che lo cerca e lo
desidera, è proprio Abramo.

→La Bibbia usa per lui una qualificazione del genere ed è Is 41,8:

ma tu, Israele, mio servo, we’attah yisra’el ‘avdi


Giacobbe che ti ho scelto, ya’aqov ‘asher becharticha
seme di Abramo, mio amico/ zera’ ‘avraham ‘ohabi
mio amato-amante

Nella LXX è inteso in senso passivo ed è tradotto così:


…spérma Abraam on egàpesa (con il verbo agapào in bella mostra).

→Dal testo isaiano dipende 2Cr 20,7:


“Non hai scacciato tu, nostro Dio, gli abitanti di questa regione di fronte al
tuo popolo Israele e non hai consegnato il paese per sempre alla discendenza
di Abramo, tuo amico?” (zera’ ‘avraham ‘ohavcha [nella LXX diventa
egapeménos sou]).

E anche Gc 2,23, che però, invece di egapeménos, ha phìlos: ’Abraam…phìlos


theoù.

→Con il verbo agapào anche in Dan 3,35 greco:


“e non ritirare la tua misericordia da noi, per Abramo il tuo amato
(egapeménos sou)”.

In questi stessi passaggi, per Giacobbe e per Isacco si usano piuttosto i titoli di
“servo” e “santo”, ma non quello di “amico/amato”.

La letteratura ebraica post-biblica opta piuttosto per l’attributo yadid, “amico,


favorito”, al posto di ’ohev, “amico, compagno, amato”. Probabilmente a
motivo di Ger 11,15, in cui l’espressione “Che fa il mio diletto (yedidi) nella mia
casa?...” è intesa come un riferimento ad Abramo.

Nei Detti di Rabbi Natan (43,121) si dice che 5 sono quelli che si fregiano del
titolo di yadid di Dio: Israele, Beniamino, Salomone, Gerusalemme e, primo
della lista, proprio lui, Abramo.

1
Altrettanti vengono definiti “beneamati” (’ohavim) dal Signore: Giacobbe,
Israele, Salomone, Gerusalemme e, di nuovo primo della lista, Abramo.
I Pirqé ’Avot (VI, 10) ammettono che tra le 5 proprietà che Dio s’è acquistato in
questo mondo, e cioè la Torah, i cieli e la terra, Israele e il Tempio, c’è pure
Abramo.

L’appellativo di “amico” compare anche nei testi ellenistici e pseudoepigrafici,


nonché nella letteratura cristiana (cf. 4Esd 3,14; Filone, Abramo 17; Clemente
Alessandrino, Pedagogo 3,2; Stromata 2,5; ecc.).

Nella letteratura mistica ebraica medioevale, si può persino trovare che


Abramo è definito beno, cioè “figlio suo”, vale a dire “di Dio”, ed è notevole.
Gli autori si poggiano sul fatto che il nome ’avram comincia con le lettere alef e
bet, le quali unite fanno il sostantivo ’ab, “padre”.

Persino il Corano chiama Abramo el-Chalil, cioè “l’amico di Dio”:


“Dio si è preso Abramo per amico (chalil)” (Sura 4,125 [124]), ed è l’unico a portare
questo titolo.

Abramo è amato da Dio e ama Dio. Un’etimologia possibile del suo nome è dal
babilonese Abam-rama e cioè “egli ama il Padre (Dio)”. Anche le altre possibilità
contemplate, come dall’allungamento del nome cananeo Ab-ram, “il Padre
(Dio) è sublime”, o con il suffisso Abi-ram, “mio Padre (Dio) è alto”, hanno a
che vedere comunque con Dio (inteso come ’ab) e, in qualche modo, si allude
al loro particolare rapporto, alla loro A.

L’AT conosce l’amore come fondamentale disposizione d’animo dell’uomo


giusto e pio verso la divinità (anche se non approfondisce teoricamente il
contenuto di questo sentimento). Sarebbe quella gioia sovrana della fede che
prende l’uomo pio dinanzi al “fascinosum” (cf. R. OTTO).
Abramo può essere considerato il prototipo di coloro che amano Dio, che per
principio sono i giusti, la cui fede ha i caratteri della semplicità e della purezza.
Insomma, Abramo è paradigma di quelli che cercano Dio per Dio.

Pertanto Abramo, che per i suoi rapporti intimi con Dio è chiamato ’ohev Yhwh,
“amico/amato/amante del Signore”, diventa il modello della pietà.
Non a caso anche i membri del popolo eletto, quando sono uomini di vita
interiore sicura e forte, possono essere definiti (dalla tradizione) ’ohabe Yhwh,
cioè “amanti del Signore”.

2
Secondo la tradizione rabbinica, le dieci generazioni tra Noè e Abramo
suscitarono tutte la collera di Dio, finché non giunse lui, il patriarca, che
possedeva tutte le virtù mancate ai suoi predecessori: in Abramo Dio si
compiacque. Per amore suo, Dio s’era mostrato paziente e clemente lungo tutto
l’arco di quelle generazioni depravate. Del resto, i rabbini dicono che il mondo
stesso fu creato per i meriti di Abramo. Anzi, tutti i miracoli operati da Dio a
favore di Israele erano la conseguenza dei suoi meriti.

L’appellativo considera l’aspetto attivo della vita religiosa, senza tuttavia


scivolare nel campo rituale o etico. Non si tratta, cioè, di un’espressione
teologica, ma semplicemente empirica. Non vuole definire una vita religiosa
attiva

Il nome di Abramo compare per la prima volta in Gen 11,26, nella genealogia
di suo padre Terach, e tra il v.26 e 12,1 (il testo della sua vocazione e del nuovo
“inizio”), il suo nome c’è per ben 6 volte, accostato al fratello Nacor, alla moglie
Sara e al nipote Lot (gli ultimi due, coprotagonisti della vicenda che lo riguarda
nei cc. successivi).

In Gen 12,1-4 Abramo è presentato sulla scena come protagonista e lo resterà


per 14 capitoli (il cosiddetto “ciclo di Abramo”).
Una visione panoramica del lungo arco narrativo evidenzia 3 tappe
fondamentali della vita di Abramo e, all’interno di ciascuna di esse, una serie
di movimenti in crescendo (ma non omogeneo) che rappresentano il
“facimento” (work in progress) della personalità del patriarca.
Soprattutto la 2a tappa, cioè il centro della vicenda che lo riguarda, è strutturata
in modo che l’enfasi teologica cadesse su 22,1-19: la prova suprema del
“sacrificio” di Isacco.
La fede, con un percorso difficile da comprendere umanamente, porta il suo
frutto di vita oltre la morte o, meglio, attraverso una morte.

Ecco lo schema:
La luce dopo la notte (12,1-9)
1a tappa 1. La parola divina (vv.1-3)------- → l’assoluta gratuità divina la “vocazione” di Abramo

3
2. La risposta umana (vv.4-9)----→ a 75 anni ci vuole un gran coraggio! (testo chiave)

Il cammino (da 12,10 fino a 23,20)


A LA TERRA/IL PAESE (da 12,10 fino a 13,18)
1. problema: quella terra non produce cibo. Emigrazione e calcoli umani (12,10-13,1)
2. la generosa offerta di Abramo al nipote Lot (13,2-18)
B LA BENEDIZIONE (14,1-24)
1. due guerre “mondiali” (vv.1-4 e 5-12)
2. Abramo diventa benedizione per le nazioni (vv.13-16)
3. la benedizione del re Melchisedek per Abramo (vv.17-24)
C LA DISCENDENZA (da 15,1 fino a 18,16a)
1. prima soluzione umana: l’adozione del servo (15,1-21)
2. seconda soluzione umana: una sorta di “fittautero” ante litteram (16,1-16)
3. una soluzione divina: innanzitutto l’alleanza e quindi la promessa (17,1-27)
4. una soluzione divina: quella promessa è confermata nonostante i dubbi (18,1-16a)
B1 LA BENEDIZIONE (da 18,16 fino a 19,29)
2a tappa 1. l’intercessione di Abramo (18,16-33)
2. distruzione di Sodomia e la salvezza di Lot (19,1-29)
C1 LA DISCENDENZA (da 19,30 fino a 21,21)
1. la discendenza di Lot: una soluzione (peccaminosamente) umana (19,30-38)
2. l’abbandono della madre del figlio promesso: altri calcoli umani (20,1-18)
3. la nascita del figlio promesso: Isacco (21,1-7)----------------------------→ finalmente!
4. la cacciata di Agar e di suo figlio Ismaele (21,8-21)
B2 LA BENEDIZIONE (21,22-34)
1. l’alleanza tra Abramo e Abimèlek (vv.22-34)
C2 LA DISCENDENZA (22,1-24)
1. l’offerta-sacrificio del figlio Isacco (vv.1-19)------------------------------------→ assurdo!
OBEDIENTIA FIDEI: produzione di futuro
2. la nascita di Rebecca, la futura sposa e madre (vv.20-24)
A1 LA TERRA/IL PAESE (23,1-20)
1. l’acquisto del terreno sepolcrale (vv.1-20)

La continuazione al di là della morte: il matrimonio tra Isacco e Rebecca (24,1-67)


1. Abramo e il servo in Canaan (vv.1-9)
3a tappa 2. l’incontro del servo con Rebecca al pozzo (vv.10-27)
3. l’ottenimento di Rebecca nella casa (vv.28-61)
4. Isacco , Rebecca e il servo a Canaan (vv.62-67)

conclusione Abramo, padre di una moltitudine di nazioni (25,1-6)


La morte di Abramo (25,7-11)

Il testo in generale lo presenta come l’obbediente che, senza replica alcuna,


accoglie ed esegue il comando di Dio. La cosa è sommamente delineata già
nella esposizione/presentazione del personaggio:

Gen 12,1-4a: “Abramo posto all’inizio di… per tutti gli uomini”
Il Signore disse ad Abramo andò,
Abramo: come il Signore
gli aveva detto
Vattene Io
 benedirò
 dal tuo paese  farò di te una grande nazione quelli che ti benediranno
 dalla tua parentela  ti benedirò  maledirò
 dalla casa di tuo padre  renderò grande il tuo nome quelli che ti malediranno

4
verso il paese in te saranno benedette
che io ti mostrerò e tu sarai fonte di benedizione tutte le famiglie della terra

Più esattamente:

v.1a incipit E disse il Signore:


(wayyiqtol) ( protagonista)
v.1b Va
v.1e (che) farò vedere a te
v.2a e farò di te
v.2b e benedirò te
v.2c e renderò grande (il tuo nome)
v.2d (interruzione)
e sii una benedizione

v.3ab 1a Benedirò chi ti benedirà


proposizione e chi ti maledirà maledirò
(cf. Gen 27,29; Nm 24,9b)
v.3cd 2a e saranno benedette in te
proposizione tutte le famiglie della terra

v.4a denouement E andò Abramo


(wayyiqtol) ( co-protagonista)

Tra il primo wayyiqtol, cioè “Il Signore disse ad Abramo” (v.1), ovverosia il
“nuovo inizio” che Dio impone con il suo dire alla storia biblica dopo la
esasperante conflittualità raccontata da Gen 1-11, e l’ultimo wayyiqtol, cioè
“Abramo andò” (v.4), vale a dire l’esecuzione del comando, è indicata tutta la
grandezza del personaggio, anche con il tipo di particolare costruzione
sintattica, come si vede nello schema.

Abramo, obbedendo a Dio e fidandosi della sua promessa (ossia della terra che
gli è indicata, lett. gli è “fatta vedere” [’ar’echa]), partì e continuò quel viaggio,
lasciando senza tentennamenti:
 la propria terra
 la propria parentela
 la casa di suo padre,
per non si sa bene cosa, semplicemente per una parola divina. È martellante il
“tu” insistito in questi versetti.

Va precisato che già suo padre, Terach, era uscito da Ur in Mesopotamia, e il


testo ci informa che la sua intenzione era quella di raggiungere Canaan. “Ur
dei Caldei”, però, è un evidente anacronismo, perché i Caldei non sono ancora
apparsi sulla ribalta della storia, o almeno non con questa designazione. Ma
noi sappiamo che la Genesi si rivolge a un generazione ebraica che conosce
5
l’esilio in terra caldea, nella Babilonia di qualche secolo più tardi, ed è invitata
ad uscirne, come Terach e Abramo.
La vocazione di Abramo ha dunque un retroterra familiare, continua una storia
iniziata prima di lui e non ancora conclusa, realizza un progetto paterno.
“Storia” appunto, cioè il succedersi di generazioni, figli che diventano padri,
che danno vita a intenzioni paterne. Non sappiamo nulla di Terach, padre di
Abramo. Eppure anche Abramo ha avuto un padre che lo ha generato e gli ha
insegnato qualcosa.

La tradizione ebraica tende a contrapporre Terach, servitore di idoli, ad


Abramo, lo scopritore dell’unico Dio o del Dio unico. Ma che Abramo sia
riuscito lì dove il padre non ha potuto non implica soltanto una discontinuità
generazionale. Terach s’è fermato a Charran, circa a metà strada tra Ur e la
terra promessa. Lì è morto, a 205 anni: troppo pochi, forse, per l’intero viaggio.

In At 7,4, nel discorso di Stefano, si dice che Abramo partì “dopo la morte del
padre”. Ma se si è attenti si scopre che non è così. Terach aveva 70 anni quando
generò Abramo (Gen 11,26) e Abramo aveva 75 anni quando partì da Charran
(12,4). Questo vuol dire che, sommando i numeri, il padre era ancora vivo
quando il figlio uscì di casa: aveva 145 anni. Non è un particolare trascurabile,
se si pensa che Abramo deve lasciare precisamente la “casa di suo padre”.
Infatti, è diverso se il padre era ancora vivo o era già morto.

Per es., Rashi, nel suo commentario, se lo chiede: se Terach viveva ancora
“perché la Scrittura ha menzionato la morte di Terach prima della partenza
di Abramo?”
La risposta che il grande rabbino del medioevo dà non è granché:
“affinché questo fatto non diventasse noto a tutti, ché, altrimenti, avrebbero
detto: «Abram non ha osservato il dovere di onorare suo padre, ma lo ha
abbandonato quando era vecchio e se ne è andato per la sua strada!». È per
questo che la Scrittura chiama Terach «morto». Gli empi infatti, anche
quando sono in vita, sono chiamati morti, mentre i giusti, anche quando sono
morti, sono chiamati vivi. Sta scritto infatti: «Benayahu, figlio di Yehoyada‘,
figlio di un uomo vivente» (cf. 2Sam 23,20)”.

Ciò che conta, però, è che se lo sia domandato. In realtà, Stefano nel suo
discorso non aveva torto. Il padre di Abramo era morto davvero quando il
figlio partì per continuare un viaggio che lui non aveva più la forza di
proseguire; quando il figlio è andato più avanti di lui; quando è stato

6
abbastanza maturo per lasciare la casa paterna, per distaccarsi interiormente
dagli affetti familiari.
 La prima prova di Abramo è il suo distacco dal padre, dalla sua
protezione affettiva, legale, per proseguire il suo cammino in solitudine.
 L’ultima sua prova sarà il distacco dal figlio della promessa: permettere
a Isacco di fare la sua strada.

Si sente, allora, come il testo e la sua strategia narrativa sta costruendo il suo
personaggio nelle fattezze del prototipo.

Abramo non è il primo a cui Dio rivolge la sua parola. Infatti, Dio ha già parlato
all’umanità, fin dalle origini: ad Adamo ed Eva, a Caino, a Noè. Ma le parole
da lui rivolte agli uomini delle precedenti generazioni avevano tutte una
intrinseca necessità: parole di rimprovero, di castigo o di messa in guardia da
un pericolo imminente.

Con Abramo è diverso, perché le parole di Dio non hanno un antefatto


narrativo che le giustifichi, ed esse stesse non si giustificano, non presentano
una esplicita motivazione. Dio dice ad Abramo di andarsene: perché?

Quel “vattene” in ebraico suona, più che come un ordine, come un consiglio.
Lech-lecha, cioè “va’ per te”, nel tuo interesse: “È meglio per te che tu te ne vada”,
ti conviene. Rashi dice: “Per il tuo vantaggio e per il tuo bene”. Infatti, Abramo
non conseguirà la sua felicità e la sua fertilità, finché rimane nella sua terra di
origine. Dio, invece, lo vede già quale deve essere, quale è chiamato a
diventare.

Della parola che Dio rivolge ad Abramo colpisce:


 da un lato, la estrema precisione con cui si qualifica la rinuncia
 dall’altro lato, la grande indeterminatezza con cui si prospetta il
guadagno.

Sulle cose da abbandonare si insiste con una determinazione progressiva:


→dalla tua terra →dalla tua patria →dalla casa di tuo padre.

Le cose da guadagnare, invece, sono lasciate ad un’assoluta imprecisione:


→verso la terra che io ti farò vedere.

Abramo, in effetti, non sa dove va: “E partì senza sapere dove andava” (Eb 11,8).
A pensarci bene:
7
 non è difficile sentire, nell’intimo della coscienza, la voce divina quando
accusa o rimprovera, come Adamo o Caino.
 Più difficile è dare fiducia alla sua parola quando avverte di una
disgrazia futura che è ancora possibile evitare, come Noè.
 Ma è estremamente difficile credere, come Abramo, che la parola di Dio
abbia ragione quando chiede di lasciare il certo per l’incerto, la propria
terra per una terra ancora invisibile.

“Il Signore disse ad Abram” (12,1): da dove viene la parola di Dio, da dove parla?
Forse il narratore lo sa, ma non lo dice. Nel caso di Abramo, essa viene dal
futuro. Non è una voce che ricorda il passato, che induce a fare i conti con la
propria coscienza. Quella di Abramo è una vocazione, la prima vocazione
profetica della storia. Si tratta di seguire segnali appena percettibili, di
muovere passi incerti in una direzione sconosciuta. È questo che distingue
l’esperienza di Abramo da quella di quanti lo hanno preceduto: la sua tensione
rivolta al futuro. Ecco perché Abramo viene percepito come l’“amato di Dio”.
Viene costruito già nella sua esposizione come un’altra cosa rispetto ai più, un
esempio per tutti coloro che vi si confronteranno.

Abramo, dunque, è chiamato da Dio e posto all’inizio di… Come mai? In vista
della benedizione per tutte quante le nazioni della terra. Questa è la sua
missione, quella che lo fa grande.
Sebbene in nuce, brilla qui l’idea della mediazione: la benedizione potrà
raggiungere gli altri in ragione della relazione con Abramo:
→se da lui ci si allontana si rischia l’esclusione dalla benedizione,
→se, invece, gli si resta uniti la benedizione è assicurata.

Non è casuale che Gen 12,1-4a stia lì come (nuovo) cominciamento, un nuovo
bereshit. E non è casuale neanche il fatto che sia, tutto sommato, un testo
brevissimo. È diventato così importante da essere inteso come una vera e
propria chiave di lettura, una chiave di volta dell’intera costruzione del ciclo
di Abramo e non solo
(alcuni esperti, come G. VON RAD, lo definiscono il kerigma dello J, una sorta di
“essenziale buona notizia” capace di rianimare la speranza dopo la deprimente storia di
Gen 1-11, così violenta e insensata).

Il testo è deciso a espandere una luce vitale anche sul prosieguo dei racconti
biblici ove violenza e insignificanza, come si sa, si perpetueranno.

Pochi versetti, solo 3, però gravidi come giammai.


8
Per 5 volte vi appare la radice ebraica brk, che vuol dire “benedire-
benedizione”, quando la radice che sta per “maledire-maledizione” (qll/’rr) si
incontra anch’essa per 5 volte, ma spalmata sull’ampio testo dei primi undici
capitoli di Genesi. Una sproporzione evidente, quasi ad annunciare che
nonostante tutto il male e la maledizione che da lì deriva, questi non possono
avere la meglio rispetto al grumo di futuro che in Abramo si concentra.

Già la forma del testo, dunque, è un “lieto annuncio”, un kerigma, proprio lì


dove viene disegnata la primitiva sagoma di Abramo.
Non si può certo negare che la benedizione stia al centro del breve racconto,
come il fatto che essa sia questione centrale nella trama veterotestamentaria e
non solo.

E se Abramo è intensamente benedetto, tanto da esserne vettore per altri, un


motivo c’è. Prima ancora che Abramo realizzi l’obbedienza al v.4 (“e andò”),
aderendo pienamente al volere di Dio, è Dio che prende gratuitamente
l’iniziativa. Dio, cioè, non si rassegna al disastro sfociato nell’affronto della
torre babelica, nella dispersione confusionaria e mortifera delle lingue (Gen
11,1-9). Bisognava andare avanti, oltre la disobbedienza di Adamo. Bisognava,
nonostante tutto, costruire futuro. E Dio dona futuro.

Dio cova il desiderio di ricominciare dopo il disastro della disobbedienza


adamitica ed Abramo (nonostante i 75 anni d’età!) si rende disponibile alla
mossa posta da Dio per far rifiorire l’umano deserto.

Dire Abramo, allora, significa richiamare l’inesauribile desiderio di vita di/in


Dio; significa ricordare che la salutare benedizione di Dio vuol radicarsi nella
terra sconquassata dal male per raggiungere ogni persona, ogni nazione, ogni
popolo. Abramo è e resta un valido modello/paradigma/prototipo della fede:
 tanto del singolo
 quanto della comunità di cui il singolo fa parte.
Il singolo e la comunità, d’altro canto, non possono non rapportarsi ad Abramo
per godere della benedizione e per continuarne la mediazione, come dicevo.

Di per sé, Dio concede ad Abramo la promessa della terra prima della sua
obbedienza:
“Vattene… verso la terra che io ti indicherò
(lett. ti farò vedere [’ar’echa])”,
anche se però la promessa viene in modo esplicito in 12,7:
9
“Alla tua discendenza io darò questa terra”,
cioè dopo la sua obbedienza (v.4).

In Gen 15,6 è detto:


“Egli credette al Signore che glielo accreditò a giustizia”,
sottolineando così la fede del patriarca.

Il ciclo narrativo, però, collega la promessa all’obbedienza:


“…perché tu hai fatto questo… io ti benedirò… moltiplicherò… “
(Gen 22,16-17).

Questo aspetto è ulteriormente sottolineato nell’AT:


“Abramo non fu forse trovato fedele nella prova e non gli fu ciò computato a
giustizia?” (1Mac 2,52; cf. anche Gen 26,5).

Interessante come Abramo è configurato nell’“elogio dei padri” del Siracide


(44,19-21). Ancora prima che fosse proclamata la legge al Sinai, Abramo
dimostrava di osservarla attraverso la propria circoncisione. La sua giustizia è
quindi più collegata alla sua obbedienza che alla sua fede.

Il giudaismo rabbinico si pone su questa scia e preferisce considerare la vita di


Abramo come una somma di atti di obbedienza, per cui Abramo avrebbe già
osservato tutta quanta la legge.

Paolo in Rm 4,10-11 fa, invece, un altro ragionamento: Abramo fu giustificato


per la fede prima della circoncisione e prima della grande prova. Pertanto è la
fede e non l’osservanza della legge che giustifica.

Posizione differente è quella di Gc 2,17.21: Gen 15,6 sarebbe una predizione che
si realizza in Gen 22.

L’altro giudaismo, quello ellenistico, e soprattutto Filone insistono, in


continuità con Paolo, principalmente sulla fede e la fiducia di Abramo nelle
promesse divine, in particolare quelle relative al giudizio finale e al regno di
Dio, e attribuiscono alla sua epoca il sorgere della fede nel mondo futuro.

La leggenda giudaica, poi, racconterà che è stato Abramo il primo a professare


il monoteismo e anche il primo proselito a esercitare la missione.

10
Il testo tardivo di Sap 10,5 definisce Abramo, senza però nominarlo, “il giusto”
(ho dìkaios):
“Quando i popoli furono confusi, unanimi nella loro malvagità, ella (la
Sapienza) riconobbe il giusto, lo conservò davanti a Dio senza macchia e lo
mantenne forte nonostante la sua tenerezza per il figlio”.

Alla luce di ciò, si capisce meglio perché Dio è definito puntualmente:


 innanzitutto come “il Dio di Abramo”
(Gen 24,27.42.48; 31,53; Est 4,17f.17y; Sal 47,10)
 in seguito, come “Dio di Abramo e di Isacco”
(Gen 28,13; 31,42; 32,10)
 infine, come “Dio di Abramo, di Isacco, di Gacobbe”
(Es 3,6.15-16; 4,5; 1Re 18,36; 1Cr 29,18; 2Cr 30,6).

Dio stesso si definisce “Dio di Abramo” (Gen 26,24).

Anche la terra che Dio ha promesso ad Abramo e ai suoi discendenti, a un certo


punto è chiamata “il paese di Abramo” (Tb 14,7).

La Bibbia si riferisce spesso alla berit che Dio strinse, prima di tutto, con
Abramo e, in seguito, con Isacco e Giacobbe (Es 2,24; Lv 26,42; Dt 29,12; 2Re
13,23).
Il testo che racconta la grande A stretta tra Dio e Abramo è Gen 17 (del P).

A motivo di questo speciale privilegio (evidenziato dalla carrellata appena


presentata) la tradizione intra ed extra-biblica ha considerato sempre Abramo
come l’“amico/amato” di Dio.
E dal momento che Abramo rispose generosamente a Dio, la tradizione gli
conferì anche il titolo di “servo di Dio” (Gen 26,24; Es 32,13; Dt 9,27; 2Mac 1,2;
Sal 105,6.42).

Nella letteratura ebraica di tipo mistico, come per es. nel Sefer Jezirà, che era
leggendariamente attribuito ad Abramo medesimo, il patriarca è descritto così:
“Poi venne Abramo, il nostro progenitore e contemplò (…). Allora il
Padrone di Tutto gli si rivelò e lo pose nel Suo seno, lo baciò sulla testa e
lo chiamò “Suo diletto” (Is 48,8) e lo costituì come suo figlio e stabilì
un’alleanza con lui e con il suo seme per sempre, “ed egli credette al
Signore, che glielo accreditò come giustizia” (Gen 15,6) ed egli stipulò
un’alleanza fra le dieci dita dei suoi piedi che è la carne della circoncisione e

11
stipulò un’alleanza fra le dita delle sue mani, e questa è la lingua ed Egli levò
le 22 lettere sulla sua lingua e gli rivelò le loro fondamenta”.

È evidente l’associazione tra:


 la dilezione amorosa (lo baciò sulla testa e lo chiamò “Suo diletto”)
 la berit stipulata (stabilì un’alleanza con lui).

Come non può non essere notato l’accostamento tra:


 lo pose nel suo Seno (probabile allusione alla sua assunzione in cielo)
 lo costituì come suo figlio (davvero notevole: Abramo, un mortale, è
adottato come figlio di Dio).

E poi, Abramo avrebbe ricevuto due forme di alleanza:


 il patto della circoncisione (collegato a quel che potremmo considerare
l’aspetto formale)
 il patto con la lingua (connesso invece al linguaggio e, perciò, alle 22
lettere dell’alfabeto ebraico, con cui è stato creato i mondo).

È la seconda che diventa una dichiarazione di eccezionalità del personaggio,


perché le sacrissime lettere alfabetiche sarebbero state consegnate ad Abramo,
cioè a un singolo individuo eletto. Un privilegio unico, più che raro. Sarebbe
questa per i rabbini un’ulteriore prova della straordinaria intimità tra Dio e
Abramo.

Secondo gli studiosi, in questo genere di letteratura, che come si sa cerca di far
echeggiare i testi scritturistici molto più reticenti, ci sarebbe un parallelismo
voluto tra:
 ciò che è detto di Abramo, come per es. in questo brano del Sefer Jezirà
 la descrizione di Enoch e della sua assunzione in 3Enoch.

L’accostamento tra i due autorevolissimi individui è fatto tramite il linguaggio


che sottolinea l’amore smisurato di Dio per entrambi.

Per Abramo, l’abbiamo già visto.

Per Enoch, invece, nel 3Enoch la sua traslazione/assunzione è descritta come


motivata dal:
“grande amore e dalla grande misericordia con cui Egli (Dio) mi ha amato
ed è stato innamorato di me, più che di ogni altro figlio dei cieli”.

12
Per i rabbini, le due figure furono non solo amate ed elette, ma anche
immediatamente portate alla presenza di Dio:
 Abramo fu posto nel seno di Dio (una qualche forma di
elevazione/assunzione)
 Enoch è stato assunto.

Per Abramo, però, il linguaggio d’amore e di intimità culmina esplicitamente


nello stato di figlio d’adozione, quel che in ebraico è l’espressione wesamo beno,
“e lo pose (sam)/costituì come suo figlio”.

Anche per Enoch, sebbene in modo meno esplicito. In un passo degli Hekhalot
c’è il sostantivo na’ar, “ragazzo”, che possiamo accostare al concetto di “figlio”.
Eccolo:
“Ho riposto più gioia in costui che in tutti voi, così che egli sarà principe e
condottiero su tutti voi nell’alto dei cieli. Immediatamente essi vennero
avanti verso di me e si prostrarono davanti a me (…). E poiché io ero il più
piccolo fra di loro e più giovane rispetto a tutti loro, di giorni, di mesi ed anni
per questo mi chiamarono ragazzo (na‘ar)”.

Il parallelismo, dunque, è possibile e di fatto esiste, ed è servito senz’altro a


sottolineare con forza l’eccezionalità dei due, in modo particolare di Abramo,
l’amico di Dio.

Certo, il testo biblico non dice in maniera esplicita tante cose, perché, lo
abbiamo ricordato, preferisce mostrare (showing) più che raccontare (telling).
Abramo appare normalmente un personaggio silenzioso o comunque di poche
parole. Agisce, obbedendo. Questo succede anche nel testo dove si racconta la
berit stipulata tra lui e Dio: Gen 15, con tutto quel rituale strano.

La promessa di Dio, dunque, è pura grazia. Abramo è l’amato di Dio, vale a


dire è il destinatario di una gratuita dedizione d’amore di Dio, che non soltanto
promette dei doni ma anche una relazione personale con lui. La menzione che
della berit di Dio con il patriarca fa Ne 9,7-8, ricorda che Dio ha scelto Abramo,
l’ha fatto uscire da Ur, gli ha dato il nome nuovo, l’ha trovato fedele e… ha
fatto con lui un’A, cioè la promessa di dargli terra e discendenza. Quindi, alla
radice dell’A sta la volontà amorosa e benefica di Dio.

Senza perciò far torto al quadro teologico, bisogna ammettere che il primato
dell’iniziativa spetta a Dio ed è totalmente immeritata da parte di Abramo, cioè

13
non presuppone nulla in lui, se non la disponibilità ad accoglierla come dono.
Di fatto Abramo “credette al Signore” (15,6).

Si potrebbe dire che la berit di Dio con Abramo presenta due caratteristiche
fondamentali e cioè che è libera e incondizionata. A questo punto, nemmeno
la fede del patriarca dev’essere considerata un presupposto per
l’impegno/promessa di Dio: la fede infatti è l’attuazione umana, nella forma
della fiducia e della speranza, della promessa divina.

È anche vero, però, che i testi mostrano in tutta la vicenda un uomo che merita
con la sua obbedienza l’amore privilegiato di Dio. Abramo ebbe fede, sebbene
anche lui qualche defaillance l’ha avuta… non sarebbe stato umano se no.

La tradizione ebraica esplora pure questa possibilità: nei confronti dell’amore


di Dio si può iniziare anche dalla parte dell’uomo, vale a dire dall’amore
umano per Dio che non è solo la risposta all’amore di Dio. E Abramo fa
all’uopo!

I rabbini partono sempre da una domanda e questa volta è: perché il comando


di Dio di andarsene compare in una sezione (Gen 11,27-12,4) nella quale
vengono raccontate semplicemente la sua nascita e la sua genealogia? Detto
diversamente: in relazione alla scelta di Dio cos’era o cosa aveva Abramo per
farlo preferire ad altri?

Essi considerano anche che il movimento, che normalmente va dall’alto verso


il basso (è Dio che accondiscende, prende l’iniziativa e non potrebbe essere
diversamente), in realtà può essere valutato pure come una risposta al
movimento dal basso verso l’alto. Cioè, nasce dal basso una tensione che poi
trova una risposta dall’alto. Si potrebbe sostenere in qualche modo che nella
tradizione ebraica l’amore di Dio per l’uomo, in questo caso per Abramo, è
anche conseguenza dell’amore dell’uomo e di Abramo per Dio.

Il rimando è ancora al testo dello Shema’, che comincia con il ricordare il


fondamento della fede ebraica, l’unicità di Dio, e subito dopo il tema
dell’amore nei confronti di Dio. Questa saldatura tra i due elementi: unicità di
Dio e amore per lui è per i rabbini un dato importante.

Essi si chiedono perché, rispetto per es. a Dt 30,20, il principio dell’amore per
Dio è annunciato in successione a quello della sua unicità?

14
Maimonide risponde facendo questo ragionamento: un determinato tipo di
amore scaturisce proprio dal fatto che Dio è uno e unico. Cioè, l’amore
totalizzante dell’uomo per lui discende dall’unicità di Dio: è come se l’uomo,
avendo a disposizione una certa quantità d’amore, la utilizzasse totalmente nei
confronti del Dio unico. Ecco come l’amore diventa totalizzante. Non ci
sarebbe in questo ragionamento nulla di emotivo o sentimentale.

Se normalmente s’immagina che l’amore è pertinente all’emozione,


Maimonide, che è un razionalista, preferisce sostenere che il principio
dell’amore nei confronti di Dio è di ascendenza intellettuale. Egli suggerisce di
essere presi totalmente dal pensiero di Dio, dalla riflessione su di lui. Il
tentativo, inizialmente intellettuale, di comprendere che cosa è Dio sfocia
nell’amore per lui. La investigazione intellettuale svela la totalità di Dio che, in
quanto tale, non può essere altro che l’oggetto della totalità dell’amore
dell’uomo. Interessante!

La questione si allarga al rapporto tra amore e timore di Dio, perché sempre


nel Dt 6, un po’ più avanti dello Shema’, e cioè al v.13, è espresso chiaramente
l’obbligo di temere Dio. Il quadro perciò è più complesso: esiste un precetto di
amare Dio e uno di temerlo. Ma che tipo di relazione può esistere tra le due
modalità di rapportarsi a Dio? Chi davvero ha la precedenza? Cosa è più
importante: temere o amare Dio? Forse, almeno dal punto di vista cronologico,
il timore precede l’amore.

I chassidim sostengono addirittura che l’amore è il risultato di un momento di


timore. È come se dicessero che, se non si ha il timore di Dio, non si sarà in
grado di amarlo. Il timore naturalmente non va confuso con la paura. L’altezza,
la grandezza, la grandiosità dell’assolutezza di Dio incutono il sentimento di
riverenza, questo è il timore (cf. R. OTTO).

Ora, nello Shema’ si parla di amare Dio con tutto il cuore, e i rabbini trovano
strano questo “tutto”. Come sarebbe possibile amare Dio con mezzo cuore? O
una parte di esso? Non si può certo provar sentimento solo con un pezzo di
cuore. Se questo è chiaro, perché una simile ridondanza nel testo?

La parola “cuore” in ebraico è passibile di doppia scrittura: comunemente è lev,


ma si trova anche levav, cioè è scritta con bue bet. Questo particolare suggerisce
ai rabbini la presenza di una sorta di doppiezza ed è quello che confermerebbe
l’impiego del “tutto” che precede “cuore”. Insomma, è come se il cuore fosse

15
formato da due parti rappresentate dalla doppia bet. Ecco perché si aggiunge
“tutto”.

La tradizione sia talmudica che midrashica suggerisce che si deve amare Dio
sia con lo yetser tov, cioè “l’istinto al bene”, sia con lo yetser ra‘, cioè “l’istinto al
male”, e questi sarebbero le due bet di levav, le due parti del cuore umano.

La natura dell’uomo è, nel profondo, doppia, perché in lui vi sono questi due
istinti (assenti nell’animale, cf. la scrittura di wayyatser di Gen 2,7 e 18) che lo
costringono perennemente a scegliere. Questa caratteristica fa parte della sua
identità più profonda, è sua propria ed è insita nel cuore.

Ecco perché i rabbini affermano che l’uomo deve amare Dio con tutte le parti
che lo compongono, con entrambe le tendenze del cuore (cf. Berakhot 54a).

Ci si chiede però cosa potesse dire amare Dio anche con l’istinto al male? Ed
essi rispondono con due letture:
 la prima suggerisce l’idea che, nel momento in cui domino l’istinto del
male, indirizzando verso Dio la capacità di dominare la tendenza
malvagia, pratico una forma di amore verso Dio
 la seconda suggerisce l’idea di amare Dio anche nella trasgressione, nel
peccato, quindi persino quando si disattende la richiesta di Dio nei
confronti dell’uomo. Pure nel momento in cui si è per es. adirati, occorre
mantenere lo spazio dell’amore nei confronti di Dio.

Questo confermerebbe l’istanza totalizzante nei confronti di Dio, di cui si


diceva prima.

16

Potrebbero piacerti anche