→La Bibbia usa per lui una qualificazione del genere ed è Is 41,8:
In questi stessi passaggi, per Giacobbe e per Isacco si usano piuttosto i titoli di
“servo” e “santo”, ma non quello di “amico/amato”.
Nei Detti di Rabbi Natan (43,121) si dice che 5 sono quelli che si fregiano del
titolo di yadid di Dio: Israele, Beniamino, Salomone, Gerusalemme e, primo
della lista, proprio lui, Abramo.
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Altrettanti vengono definiti “beneamati” (’ohavim) dal Signore: Giacobbe,
Israele, Salomone, Gerusalemme e, di nuovo primo della lista, Abramo.
I Pirqé ’Avot (VI, 10) ammettono che tra le 5 proprietà che Dio s’è acquistato in
questo mondo, e cioè la Torah, i cieli e la terra, Israele e il Tempio, c’è pure
Abramo.
Abramo è amato da Dio e ama Dio. Un’etimologia possibile del suo nome è dal
babilonese Abam-rama e cioè “egli ama il Padre (Dio)”. Anche le altre possibilità
contemplate, come dall’allungamento del nome cananeo Ab-ram, “il Padre
(Dio) è sublime”, o con il suffisso Abi-ram, “mio Padre (Dio) è alto”, hanno a
che vedere comunque con Dio (inteso come ’ab) e, in qualche modo, si allude
al loro particolare rapporto, alla loro A.
Pertanto Abramo, che per i suoi rapporti intimi con Dio è chiamato ’ohev Yhwh,
“amico/amato/amante del Signore”, diventa il modello della pietà.
Non a caso anche i membri del popolo eletto, quando sono uomini di vita
interiore sicura e forte, possono essere definiti (dalla tradizione) ’ohabe Yhwh,
cioè “amanti del Signore”.
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Secondo la tradizione rabbinica, le dieci generazioni tra Noè e Abramo
suscitarono tutte la collera di Dio, finché non giunse lui, il patriarca, che
possedeva tutte le virtù mancate ai suoi predecessori: in Abramo Dio si
compiacque. Per amore suo, Dio s’era mostrato paziente e clemente lungo tutto
l’arco di quelle generazioni depravate. Del resto, i rabbini dicono che il mondo
stesso fu creato per i meriti di Abramo. Anzi, tutti i miracoli operati da Dio a
favore di Israele erano la conseguenza dei suoi meriti.
Il nome di Abramo compare per la prima volta in Gen 11,26, nella genealogia
di suo padre Terach, e tra il v.26 e 12,1 (il testo della sua vocazione e del nuovo
“inizio”), il suo nome c’è per ben 6 volte, accostato al fratello Nacor, alla moglie
Sara e al nipote Lot (gli ultimi due, coprotagonisti della vicenda che lo riguarda
nei cc. successivi).
Ecco lo schema:
La luce dopo la notte (12,1-9)
1a tappa 1. La parola divina (vv.1-3)------- → l’assoluta gratuità divina la “vocazione” di Abramo
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2. La risposta umana (vv.4-9)----→ a 75 anni ci vuole un gran coraggio! (testo chiave)
Gen 12,1-4a: “Abramo posto all’inizio di… per tutti gli uomini”
Il Signore disse ad Abramo andò,
Abramo: come il Signore
gli aveva detto
Vattene Io
benedirò
dal tuo paese farò di te una grande nazione quelli che ti benediranno
dalla tua parentela ti benedirò maledirò
dalla casa di tuo padre renderò grande il tuo nome quelli che ti malediranno
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verso il paese in te saranno benedette
che io ti mostrerò e tu sarai fonte di benedizione tutte le famiglie della terra
Più esattamente:
Tra il primo wayyiqtol, cioè “Il Signore disse ad Abramo” (v.1), ovverosia il
“nuovo inizio” che Dio impone con il suo dire alla storia biblica dopo la
esasperante conflittualità raccontata da Gen 1-11, e l’ultimo wayyiqtol, cioè
“Abramo andò” (v.4), vale a dire l’esecuzione del comando, è indicata tutta la
grandezza del personaggio, anche con il tipo di particolare costruzione
sintattica, come si vede nello schema.
Abramo, obbedendo a Dio e fidandosi della sua promessa (ossia della terra che
gli è indicata, lett. gli è “fatta vedere” [’ar’echa]), partì e continuò quel viaggio,
lasciando senza tentennamenti:
la propria terra
la propria parentela
la casa di suo padre,
per non si sa bene cosa, semplicemente per una parola divina. È martellante il
“tu” insistito in questi versetti.
In At 7,4, nel discorso di Stefano, si dice che Abramo partì “dopo la morte del
padre”. Ma se si è attenti si scopre che non è così. Terach aveva 70 anni quando
generò Abramo (Gen 11,26) e Abramo aveva 75 anni quando partì da Charran
(12,4). Questo vuol dire che, sommando i numeri, il padre era ancora vivo
quando il figlio uscì di casa: aveva 145 anni. Non è un particolare trascurabile,
se si pensa che Abramo deve lasciare precisamente la “casa di suo padre”.
Infatti, è diverso se il padre era ancora vivo o era già morto.
Per es., Rashi, nel suo commentario, se lo chiede: se Terach viveva ancora
“perché la Scrittura ha menzionato la morte di Terach prima della partenza
di Abramo?”
La risposta che il grande rabbino del medioevo dà non è granché:
“affinché questo fatto non diventasse noto a tutti, ché, altrimenti, avrebbero
detto: «Abram non ha osservato il dovere di onorare suo padre, ma lo ha
abbandonato quando era vecchio e se ne è andato per la sua strada!». È per
questo che la Scrittura chiama Terach «morto». Gli empi infatti, anche
quando sono in vita, sono chiamati morti, mentre i giusti, anche quando sono
morti, sono chiamati vivi. Sta scritto infatti: «Benayahu, figlio di Yehoyada‘,
figlio di un uomo vivente» (cf. 2Sam 23,20)”.
Ciò che conta, però, è che se lo sia domandato. In realtà, Stefano nel suo
discorso non aveva torto. Il padre di Abramo era morto davvero quando il
figlio partì per continuare un viaggio che lui non aveva più la forza di
proseguire; quando il figlio è andato più avanti di lui; quando è stato
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abbastanza maturo per lasciare la casa paterna, per distaccarsi interiormente
dagli affetti familiari.
La prima prova di Abramo è il suo distacco dal padre, dalla sua
protezione affettiva, legale, per proseguire il suo cammino in solitudine.
L’ultima sua prova sarà il distacco dal figlio della promessa: permettere
a Isacco di fare la sua strada.
Si sente, allora, come il testo e la sua strategia narrativa sta costruendo il suo
personaggio nelle fattezze del prototipo.
Abramo non è il primo a cui Dio rivolge la sua parola. Infatti, Dio ha già parlato
all’umanità, fin dalle origini: ad Adamo ed Eva, a Caino, a Noè. Ma le parole
da lui rivolte agli uomini delle precedenti generazioni avevano tutte una
intrinseca necessità: parole di rimprovero, di castigo o di messa in guardia da
un pericolo imminente.
Quel “vattene” in ebraico suona, più che come un ordine, come un consiglio.
Lech-lecha, cioè “va’ per te”, nel tuo interesse: “È meglio per te che tu te ne vada”,
ti conviene. Rashi dice: “Per il tuo vantaggio e per il tuo bene”. Infatti, Abramo
non conseguirà la sua felicità e la sua fertilità, finché rimane nella sua terra di
origine. Dio, invece, lo vede già quale deve essere, quale è chiamato a
diventare.
Abramo, in effetti, non sa dove va: “E partì senza sapere dove andava” (Eb 11,8).
A pensarci bene:
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non è difficile sentire, nell’intimo della coscienza, la voce divina quando
accusa o rimprovera, come Adamo o Caino.
Più difficile è dare fiducia alla sua parola quando avverte di una
disgrazia futura che è ancora possibile evitare, come Noè.
Ma è estremamente difficile credere, come Abramo, che la parola di Dio
abbia ragione quando chiede di lasciare il certo per l’incerto, la propria
terra per una terra ancora invisibile.
“Il Signore disse ad Abram” (12,1): da dove viene la parola di Dio, da dove parla?
Forse il narratore lo sa, ma non lo dice. Nel caso di Abramo, essa viene dal
futuro. Non è una voce che ricorda il passato, che induce a fare i conti con la
propria coscienza. Quella di Abramo è una vocazione, la prima vocazione
profetica della storia. Si tratta di seguire segnali appena percettibili, di
muovere passi incerti in una direzione sconosciuta. È questo che distingue
l’esperienza di Abramo da quella di quanti lo hanno preceduto: la sua tensione
rivolta al futuro. Ecco perché Abramo viene percepito come l’“amato di Dio”.
Viene costruito già nella sua esposizione come un’altra cosa rispetto ai più, un
esempio per tutti coloro che vi si confronteranno.
Abramo, dunque, è chiamato da Dio e posto all’inizio di… Come mai? In vista
della benedizione per tutte quante le nazioni della terra. Questa è la sua
missione, quella che lo fa grande.
Sebbene in nuce, brilla qui l’idea della mediazione: la benedizione potrà
raggiungere gli altri in ragione della relazione con Abramo:
→se da lui ci si allontana si rischia l’esclusione dalla benedizione,
→se, invece, gli si resta uniti la benedizione è assicurata.
Non è casuale che Gen 12,1-4a stia lì come (nuovo) cominciamento, un nuovo
bereshit. E non è casuale neanche il fatto che sia, tutto sommato, un testo
brevissimo. È diventato così importante da essere inteso come una vera e
propria chiave di lettura, una chiave di volta dell’intera costruzione del ciclo
di Abramo e non solo
(alcuni esperti, come G. VON RAD, lo definiscono il kerigma dello J, una sorta di
“essenziale buona notizia” capace di rianimare la speranza dopo la deprimente storia di
Gen 1-11, così violenta e insensata).
Il testo è deciso a espandere una luce vitale anche sul prosieguo dei racconti
biblici ove violenza e insignificanza, come si sa, si perpetueranno.
Di per sé, Dio concede ad Abramo la promessa della terra prima della sua
obbedienza:
“Vattene… verso la terra che io ti indicherò
(lett. ti farò vedere [’ar’echa])”,
anche se però la promessa viene in modo esplicito in 12,7:
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“Alla tua discendenza io darò questa terra”,
cioè dopo la sua obbedienza (v.4).
Posizione differente è quella di Gc 2,17.21: Gen 15,6 sarebbe una predizione che
si realizza in Gen 22.
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Il testo tardivo di Sap 10,5 definisce Abramo, senza però nominarlo, “il giusto”
(ho dìkaios):
“Quando i popoli furono confusi, unanimi nella loro malvagità, ella (la
Sapienza) riconobbe il giusto, lo conservò davanti a Dio senza macchia e lo
mantenne forte nonostante la sua tenerezza per il figlio”.
La Bibbia si riferisce spesso alla berit che Dio strinse, prima di tutto, con
Abramo e, in seguito, con Isacco e Giacobbe (Es 2,24; Lv 26,42; Dt 29,12; 2Re
13,23).
Il testo che racconta la grande A stretta tra Dio e Abramo è Gen 17 (del P).
Nella letteratura ebraica di tipo mistico, come per es. nel Sefer Jezirà, che era
leggendariamente attribuito ad Abramo medesimo, il patriarca è descritto così:
“Poi venne Abramo, il nostro progenitore e contemplò (…). Allora il
Padrone di Tutto gli si rivelò e lo pose nel Suo seno, lo baciò sulla testa e
lo chiamò “Suo diletto” (Is 48,8) e lo costituì come suo figlio e stabilì
un’alleanza con lui e con il suo seme per sempre, “ed egli credette al
Signore, che glielo accreditò come giustizia” (Gen 15,6) ed egli stipulò
un’alleanza fra le dieci dita dei suoi piedi che è la carne della circoncisione e
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stipulò un’alleanza fra le dita delle sue mani, e questa è la lingua ed Egli levò
le 22 lettere sulla sua lingua e gli rivelò le loro fondamenta”.
Secondo gli studiosi, in questo genere di letteratura, che come si sa cerca di far
echeggiare i testi scritturistici molto più reticenti, ci sarebbe un parallelismo
voluto tra:
ciò che è detto di Abramo, come per es. in questo brano del Sefer Jezirà
la descrizione di Enoch e della sua assunzione in 3Enoch.
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Per i rabbini, le due figure furono non solo amate ed elette, ma anche
immediatamente portate alla presenza di Dio:
Abramo fu posto nel seno di Dio (una qualche forma di
elevazione/assunzione)
Enoch è stato assunto.
Anche per Enoch, sebbene in modo meno esplicito. In un passo degli Hekhalot
c’è il sostantivo na’ar, “ragazzo”, che possiamo accostare al concetto di “figlio”.
Eccolo:
“Ho riposto più gioia in costui che in tutti voi, così che egli sarà principe e
condottiero su tutti voi nell’alto dei cieli. Immediatamente essi vennero
avanti verso di me e si prostrarono davanti a me (…). E poiché io ero il più
piccolo fra di loro e più giovane rispetto a tutti loro, di giorni, di mesi ed anni
per questo mi chiamarono ragazzo (na‘ar)”.
Certo, il testo biblico non dice in maniera esplicita tante cose, perché, lo
abbiamo ricordato, preferisce mostrare (showing) più che raccontare (telling).
Abramo appare normalmente un personaggio silenzioso o comunque di poche
parole. Agisce, obbedendo. Questo succede anche nel testo dove si racconta la
berit stipulata tra lui e Dio: Gen 15, con tutto quel rituale strano.
Senza perciò far torto al quadro teologico, bisogna ammettere che il primato
dell’iniziativa spetta a Dio ed è totalmente immeritata da parte di Abramo, cioè
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non presuppone nulla in lui, se non la disponibilità ad accoglierla come dono.
Di fatto Abramo “credette al Signore” (15,6).
Si potrebbe dire che la berit di Dio con Abramo presenta due caratteristiche
fondamentali e cioè che è libera e incondizionata. A questo punto, nemmeno
la fede del patriarca dev’essere considerata un presupposto per
l’impegno/promessa di Dio: la fede infatti è l’attuazione umana, nella forma
della fiducia e della speranza, della promessa divina.
È anche vero, però, che i testi mostrano in tutta la vicenda un uomo che merita
con la sua obbedienza l’amore privilegiato di Dio. Abramo ebbe fede, sebbene
anche lui qualche defaillance l’ha avuta… non sarebbe stato umano se no.
Essi si chiedono perché, rispetto per es. a Dt 30,20, il principio dell’amore per
Dio è annunciato in successione a quello della sua unicità?
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Maimonide risponde facendo questo ragionamento: un determinato tipo di
amore scaturisce proprio dal fatto che Dio è uno e unico. Cioè, l’amore
totalizzante dell’uomo per lui discende dall’unicità di Dio: è come se l’uomo,
avendo a disposizione una certa quantità d’amore, la utilizzasse totalmente nei
confronti del Dio unico. Ecco come l’amore diventa totalizzante. Non ci
sarebbe in questo ragionamento nulla di emotivo o sentimentale.
Ora, nello Shema’ si parla di amare Dio con tutto il cuore, e i rabbini trovano
strano questo “tutto”. Come sarebbe possibile amare Dio con mezzo cuore? O
una parte di esso? Non si può certo provar sentimento solo con un pezzo di
cuore. Se questo è chiaro, perché una simile ridondanza nel testo?
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formato da due parti rappresentate dalla doppia bet. Ecco perché si aggiunge
“tutto”.
La tradizione sia talmudica che midrashica suggerisce che si deve amare Dio
sia con lo yetser tov, cioè “l’istinto al bene”, sia con lo yetser ra‘, cioè “l’istinto al
male”, e questi sarebbero le due bet di levav, le due parti del cuore umano.
La natura dell’uomo è, nel profondo, doppia, perché in lui vi sono questi due
istinti (assenti nell’animale, cf. la scrittura di wayyatser di Gen 2,7 e 18) che lo
costringono perennemente a scegliere. Questa caratteristica fa parte della sua
identità più profonda, è sua propria ed è insita nel cuore.
Ecco perché i rabbini affermano che l’uomo deve amare Dio con tutte le parti
che lo compongono, con entrambe le tendenze del cuore (cf. Berakhot 54a).
Ci si chiede però cosa potesse dire amare Dio anche con l’istinto al male? Ed
essi rispondono con due letture:
la prima suggerisce l’idea che, nel momento in cui domino l’istinto del
male, indirizzando verso Dio la capacità di dominare la tendenza
malvagia, pratico una forma di amore verso Dio
la seconda suggerisce l’idea di amare Dio anche nella trasgressione, nel
peccato, quindi persino quando si disattende la richiesta di Dio nei
confronti dell’uomo. Pure nel momento in cui si è per es. adirati, occorre
mantenere lo spazio dell’amore nei confronti di Dio.
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