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Una Riflessione Sulla Kenosi Su Alcuni Testi Biblici

INTRODUZIONE

Vorrei prima di tutto spiegare il termine Kenosi.


Kenosis deriva dal greco kenos che segnifica «vuoto, vanoo». L’attenzione dei
biblisti e dei teologi, comunque, si e fermata sopratutto su un versetto in cui il verbo e
usato per indicare la kenosi di Cristo: «Il quale, pur essendo di natura divina, non
considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò (ekenosen) se stesso,
assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini...» (Fil 2, 6-7).
Nella teologia cristiana kenosis esprime l'"autosvuotamento" del Logos divino
nell'incarnazione, nella realtà della sua ubbidienza verso il divin Padre, nella cosciente
accettazione della sua morte.
Nelle teologie cristiane, il concetto di kenosis indica anche il processo interiore
che porta il cristiano a svuotarsi della propria volontà incline al peccato e al male, a
svuotarsi del proprio egocentrismo, per diventare interamente recettivo alla volontà della
Divinità e potersi quindi abbandonare ad essa senza provare sentimenti di ribellione o di
paura o di privazione della libertà. Lo spogliarsi (kenosis) è premessa indispensabile e
funzionale al rivestimento con Cristo ad opera della Grazia e dello Spirito divino.
Genesi 22
Il sacrificio di Isacco
La prima tappa della storia di questa tradizione risale all’epoca prebiblica. La
leggenda cultuale di un luogo di culto cananeo, in sintesi, diceva: un giorno, il grande El
aveva salvato la vita ad un ragazzo che stava per essere immolato; invece del ragazzo
venne sacrificato un animale; da quel giorno, in quel posto sparirono per sempre i
sacrifici umani.
La seconda tappa della storia della tradizione coincide con l’arrivo, nella regione
di Bersabea, del clan di Isacco. Possiamo immaginare i fenomeni di ordine sociologico e
cultuale che portarono alla identificazione de dio di Isacco (il dio del padre) con El Olam
e all’adozione della leggenda cultuale conosciuta nella regione di Bersabea.
La terza tappa dell’evoluzione della tradizione è necessariamente posteriore alla
fusione del clan di Isacco con quello di Abramo. Dalla mescolanza dei due clans è
risultato prima la mescolanza delle loro rispettive tradizioni e infine la presentazione di
Abramo come padre di Isacco.
La quarta tappa sarebbe contemporanea della monarchia. La si vedrebbe chiara
dopo la divisione del regno davidico in due parti rivali (931 a.C.). Israele riflette sulla
sua singolare storia. Ci si interroga, e questo specialmente negli ambienti levitici e
profetici del regno del Nord, ambienti nei quali il pensiero offre tanti punti di contatto
con quello del teologo elohista. Dio stesso sembrava nemico della sua opera. È così che,
di riflessione in riflessione, i pensatori d’Israele arrivarono a fare progressivamente la
scoperta di una delle leggi più paradossali della pedagogia divina: la legge dello «scacco
apparente».
Ecco vediamo come la storia del popolo di Dio viene illustrata a meraviglia
nell’antica leggenda cultuale nella quale intanto erano stati introdotti i nomi dei due
patriarchi della regione di Bersabea: Isacco, era Israele, la discendenza di Abramo!
Isacco, era Israele votato al sacrificio, ma salvato da Dio in maniera inaspettata. Otto
secoli dopo l’Elohista, il sacrificio di Gesù ha salvato l’umanita intera: era il compimento
inatteso delle promesse fatte un tempo ai patriarchi.(robert MICHAUD)

La Storia di Giuseppe, Genesi 37-50


La meravigliosa storia di Giuseppe ci è narrata nei capitoli 37-50 del libro della
Genesi. Essa sta tra i racconti dei patriarchi, ai quali è fatta la promessa della Terra, e la
narazione epica dell’Esodo dalla schiavitù egiziana, che costituisce il primo passo verso
l’ingresso nella terra promessa. Giuseppe, figlio della prediletta Rachele, figlio prediletto
dal padre e, per conseguenza, malvisto dai fratelli.
Nel conteso attuale della Bibbia, la storia di Giuseppe ha la funzione di fare da
ponte tra i patriarchi e l’Esodo. Le ultime parole di Giuseppe, esprimono molto bene il
nesso tra la promessa divina ai patriarchi e l’Esodo: «Dio vi visiterà e vi farà risalire da
questo paese verso il paese che Egli ha promesso con giuramento ad Abramo, Isacco e
Giacobbe» (Gn 50,24).
Tutti conosciamo la Storia di Giacobbe (37,2), la storia di una famiglia dapprima
unita e concorde, poi lacerata dall’odio tra fratelli che culmina nella eliminazione di
Giuseppe. Questi, sono usciti dalla famiglia, percorre una vicenda avventurosa, finisce in
schiavitù presso un egiziano facoltoso nella cui casa viene tentato dalle lusinghe della
seduzione famminile e diffamato da una falsa calunnia conosce l’abbiso miserevole della
prigione. Giuseppe ha raggiunto il vertice della sua carriera: si sposa e ha due figli, i quali
colmano la sua felicità. L’Egitto è divenuto la «terra promessa» di Giuseppe, dove egli ha
trovato il successo, l’amore, la ricchezza e la gioia della famiglia.
La energia narrativa sembrava spegnersi nell’esaltazione del successo e della
felicità di Giuseppe come lieto fine di una vicenda pervasa e guidata dal principio della
trasformazione: dall’afflizione alla gioia, dal rifiuto all’accoglienza, dalla impotenza alla
gloria del potere. Il passato di Giuseppe era afflizione e angoscia, che ora è il presente
doloroso dei suoi fratelli. «I fratelli di Giuseppe vennero da lui... Giuseppe vide i suoi
fratelli e li riconobbe» (42, 6-7). Ma «essi non lo riconobbero» (42,8).
Vediamo infatti all’inizio la famiglia è unita, i fratelli si riconoscono come tali; poi
la crisi: si odiano, non si parlano, gli uni complotano contro l’altro fino a pensare di
ucciderlo; infine, la riconciliazione, il dialogo fraterno, la pacificazione e la riunificazione
dell’intera famiglia. Ma la soluzione aviene attraverso una prova cui Giuseppe sottopone
i fratelli: l’equilibrio finale è raggiunto mediante un processo di conversione e di
purificazione che lo rende diverso da quello iniziale, quasi vissuto con naturalezza innata.
Tutto l’asse del racconto è sostenuto e governato da un principio che lo unifica e gli dà
una struttura: è ciò che abbiamo chiamato il principio della trasformazione. (Ant
BONORA)
Dal punto di vista più strettamente religioso, il significato di tutte le peripezie di
Giuseppe verrà spiegato chiaramente dallo stesso protagonista ai suoi fratelli (cf. Gn 45,
4-9 e 50, 20).
La persona di Giuseppe venduto, umiliato, glorificato, che perdona
generosamente e benefica i fratelli è tanto vicina a quella di Gesù redentore che egli ne è
una delle più belle figure. Inoltre egli è un magnifico esempio di virtù «bibliche»:
incrollabile fede in Dio; onestà a tutta prova; perdono delle offese, ricambiate con i più
grandi benefici.
Ora Giacobbe può davvero chiudere i suoi giorni in pace. Prima di morire però,
chiama i suoi figli e, spingendo innanzi lo sguardo, annunzia alle tribù che da essi
avranno origine il loro futuro destino (cf. Gn 49). L’annuncio più importante riguarda la
tribù di Giuda che avrà una parte di primo piano tra le dodici: da essa usciranno i più
famosi re ebrei, e soprattutto Davide, al quale i popoli porteranno tributi e obbedienza
(Gn 49, 9-10). In seguito si leggerà in questo testo il più illustre discendente di Giuda, il
Messia (Gn 49, 9-10) di cui Giacobbe annunzia la dignità regale. I profeti, più tardi, e
soprattutto Gesù stesso col suo insegnamento, riveleranno la natura e le caratteristiche di
questo regno che i vangeli chiameranno regno di Dio o regno dei Cieli. (Antonio
Girlanda ANTICO TEST PAG 103).

Isaia 52, 13; 53, 12


Il profeta ora si abbandona a una specie di sogno o visione della Gerusalemme
restaurata dopo l’esilio.
Questa sezione si apre con un canto degli Israeliti per i quali l’esilio è già una realtà del
passato.
La salvezza si realizza attraverso la sofferenza, la gloria si raggiunge attraverso la
croce, la liberazione attraverso la schiavitù, la gioia attraverso il dolore. Anche
l’innocente soffre ed è messo alla prova! È il paradosso della fede biblica che trova la sua
piena attuazione e manifestazione nella morte-risurezione di Gesù Cristo. (ANTONIO
BONORA)
Questo terzo Canto del Servo è composto di tre parti: all’inizio e alla fine (Is 52,
13-15 e 53, 11-12) ci sono due oracoli di Jahve che annunciano la liberazione del Servo
in termini di innalzamento e di esaltazione agli occhi di molte genti. In questi due oracoli
troviamo da cinque volte il termine molti che spesso è in parallelo con i potenti e i re di
questa terra, e sta evidentemente a significare la moltitudine di tutte le nazioni che
assistono alla liberazione di Israele dalla schiavitù babilonese.
Al centro si situa invece una lunga lamentazione collettiva (Is 53, 1-10) sul destino
di sofferenze e di passione che è toccato al Servo prima della sua glorificazione.
Questa sofferenza vicaria del Servo è da lui consapevolmente scelta e quindi
volontaria: «maltrattato, si lasciò umiliare» (Is 53, 7). La stessa immagine dell’agnello
condotto al macello, che in Geremia 11, 10 esprimeva piuttosto l’incoscienza di chi non
sa cosa l’attende, qui è chiaramente significativa della sottomissione, della volontaria
non-resistenza del Servo, come una pecora che non apre neppure la bocca.
Isaia 53 è l’unico testo di tutto l’Antico Testamento in cui si parla di un sacrificio
umano come compimento della volontà di Dio, oltre al sacrificio di Isacco, che
dichiarava già come i sacrifici animali avessero senso in quanto segni, sacramenti del
sacrificio umano, cioè dell’amore e dell’ubbidienza dell’uomo a Dio fino alla morte.
In Is 53, 8 si legge il Servo «Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del
mio popolo». Qui si vede una grande distinzione tra il Servo innocente e il resto del
popolo peccatore. Con questo passo, il testo di Is 53 fa un salto in senso propriamente
messianico, poichè il Servo del Signore deve portare, proprio i peccati del «suo» popolo,
del popolo di Dio. L’eccezione assoluta dal peccato non può essere in definitiva, che
quella del Messia.
Egli che è stato proclamato Servo di Jahve fin dal battesimo ( cf. Gv 1, 29) è
venuto per essere «disprezzato e reietto dagli uomini» (Is 53, 3), per dare la sua vita in
riscatto per molti (Mc 10,45). Due elementi teologici fondamentali dei Canti del Servo si
ritrovano ancora nelle parole dell’istituzione eucaristica, con cui viene spiegato il
significato redentivo del dono della propria vita: la vicarietà del suo sacrificio per i
«molti», le moltitudini che ne fanno il lamento in Is 53, e l’alleanza nuova ed eterna che
si instaura fra Dio e gli uomini con la sua morte espiatrice.

Tuttavia il cristiano dovrebbe anche sempre ricordare che il suo Signore e


Salvatore è tale proprio in quanto è il Messia di Israele, cioè Colui che ha adempiuto
nella sua persona la missione regale, profetica e sacerdotale di tutto Israele. E dovrebbe
quindi saper riconoscere che la storia stessa di Israele è una profezia- fosse pure
inconsapevole del suo Messia, il Messia sofferente e crocifisso. (85-88 ALBERTO
mello).

Deuteronomio 34, 1-12


La morte di Mosè
Questi versetti finali sono una elaborazione di quanto i deuteronomisti hanno
scritto in 3,27. La notizia che Mosè fu sepolto nella «valle di fronte a Bet-Peor» può dare
l’impressione che sia indicato il luogo di una tomba ben conosciuta; tuttavia il versetto 6
afferma che il luogo esatto della sepoltura di Mosè è sconosciuto.
Evidentemente al tempo in cui queste parole furono scritte, la tomba di Mosè non
era più visitata e tantomeno conosciuta, sebbene lo scrittore conoscesse la tradizione
relativa alla regione in cui era avvenuta la morte di Mosè.
Qui Mosè è presentato come un unico ed insostituibile capo (cf. Dt 18,18). Il
versetto 12 descrive Mosè con un linguaggio normalmente riservato soltanto a Dio. Tale
ritratto potrebbe diventare opprimente. Sebbene Mosè venga ricordato come un grande
capo, altri dovranno prendere il suo posto se Israele dovrà rimanere fedele all’alleanza. In
seguito perfino Gesù riconoscerà la pretesa dei farisei di assumere l’ufficio mosaico (cf.
Mt 23,2). Anche Gesù credeva che la sua missione era di portare a compimento «la legge
e i profeti» (cf. Mt 5, 17-18), e perciò di portare a compimento l’ufficio di Mosè. Così le
generazioni successive che riconobbero lo speciale ruolo di Mosè nella vita di Israele,
riconobbero anche ciò che Mosè aveva fatto per la prima generazione degli israeliti, altri
lo devono fare per ogni generazione successiva.(DEUTERONOMIO LESLIE HOPPE)

Romani 4
Paolo intende affermare una vera causalità della risurrezione di Cristo in rapporto
alla giustificazione: le voci discordanti provenivano tutte da un certo disagio a far
rientrare una tale affermazione negli schemi abituali della teologia della redenzione. Ma
tuttavia una nuova questione si pone: cioè se tali considerazioni riguardano in realtà il
trattato de Christo redemptore, dove si ha l’abitudine di parlare della sola redenzione
oggettiva, fondata esclusivamente sulla categoria del merito. Si potrebbe quasi dire che
esso è stabilito per accostare la risurrezione alla sola redenzione soggettiva.
Il teologo P. Prat si esprime come se egli la collegasse alla sola redenzione
soggettiva, così conclude la sua esposizione con una citazione di Newman dove questi
oppone chiarissimamente la riconciliazione, operata dalla morte di Cristo sulla Croce, e la
giustificazione, operata dall’invio dello Spirito Santo: «L’opera di Cristo comprende due
cose: ciò che egli ha fatto per tutti gli uomini e ciò che egli fa per ciascuno di loro; ciò
che egli ha fatto per noi e ciò che egli fa nel cielo; ciò che egli ha fatto in persona e ciò
che egli fa mediante il suo Spirito: egli riconcilia offrendo se stesso sulla croce, egli
giustifica col mandarci il suo Spirito».
Ora, è certo che una sintesi della redenzione fondata sulla causalità meritoria
permette di distinguere nettamente fra un aspetto oggettivo, in quanto Cristo ha meritato
la nostra salvezza, e un aspetto soggettivo, in quanto questi meriti ci sono applicati
mediante la fede e i sacramenti, e pertanto salvaguarda pienamente l’opera propria di
Cristo contro quelli che tendono a considerare solamente la parte dell’uomo, divenuto,
grazie all’esempio di Cristo, capace di salvarsi da se stesso.
Morte E Risurrezione: Unico Mistero Di Salvezza
Un’attenzione troppo esclusiva accordata alla resurrezione potrebbe suggerire che
questo ritorno della umanità a Dio in Cristo si è operata un poco alla maniera di un
processo di ordine biologico. È evidente che l’Uomo-Dio compie un tale ritorno per un
atto di libertà. Per san Giovanni come per san Paolo, è mediante un atto di obbedienza e
di amore, che Cristo, è «passato» egli stesso e ci ha fatti «passare» con lui al Padre. Anzi,
la morte di Cristo ha un valore di redenzione, non perchè essa costituisce un processo di
ordine biologico, ma perchè essa è l’espressione suprema dell’amore e dell’obbedienza.
Morte e risurrezione si trovano indissolubilmente unite: la morte implica già la
risurrezione. Si tratta di due aspetti di un solo e unico mistero, un poco come la
remissione dei peccati e la infusione della vita divina, come san Paolo lo suggerisce
precisamente in Rom 4, 25. Si sa con quale forza il Nuovo Testamento inculca questa
indissolubile unità.
Come la tradizione ha tenuto a sottolinearlo, mediante la sua morte, è vero, Cristo
ci ha riuniti a Dio, ma in quanto questa morte è il supremo atto di amore e dunque
essenzialmente una vittoria sulla morte. Vediamo come la Scrittura presenta lo schema,
del ritorno a Dio: nei due casi morte e glorificazione di Cristo restano strettamente
associate. Così ricordiamo quella che dice san Paolo che Cristo «è stato consegnato per i
nostri peccati e che è risuscitato per la nostra giustificazione» (Rom 4, 25).

Romani 6
Effettivamente Dio ha avuto compassione di noi per mezzo di Cristo perchè, non
peccando più in avvenire, non solo procuriamo a noi un merito, ma su di noi facciamo
anche regnare la sua grazia. Toglie invece il regno alla grazia di Dio e lo consegna al
peccato colui che ritorna di nuovo all’uomo vecchio, cioè ai costumi della vita passata. È
per du e motivi che abbiamo ricevuto la misericordia: sia perchè fosse annientato il regno
del diavolo sia perchè fosse predicata la sovranità di Dio a quanti non ne avevano
conoscenza, e proprio per questo ci è stata richiesta onestà di vita. Colana testi patristici
ambrosiaster pag 146
I prossimi versetti mostra il completamente rifiuto del peccato; il battesimo come
l’espressione della morte per peccato è di rissurezione nella grazia. Il battesimo non
contraddice la fede, ma completa: esso muore per il corpo, esso rinascere nello spirito.
Senza peccato, Cristo aveva un corpo come il nostro, appartenendo nel ambito del
peccato, ma diventando spirituale Egli appartiene solo nel ambito divino. Il battesimo non
distrugge il peccato. Fino quando il corpo non diventerà immortale, il peccato può
recuperare il posto, «Infatti l’anima che ha peccato, è detto, essa stessa morra» (Rom 6,
9). Il risultato è l’obbligattivita di rispettare il nostro corpo.
«Ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rom 6, 23).
In questo ultimo versetto apostolo dichiara che questo dono è stato dato a noi da Dio
mediante Cristo Signore nostro, affinchè rendiamo grazie a Dio Padre per mezzo di
nessun altro se non di suo Figlio. Sfsarsit

Colossesi 1, 24

La rivelazione apostolica di un mistero.

L’autore di Colossesi tratta qui della natura, del contenuto e dei pericoli del
ministero del Vangelo. Egli presenta un’immagine idealizzata, collocata in modo vago
nella realtà storica del ministero di Paolo. «I ministri che soffrono per la comunità
cristiana lo fanno con gioia, seguendo l’esempio di Paolo» (Fil 1,18; 2,17). Essi
continuano a sperimentare nella carne le tribolazioni che Cristo ha sperimentato della
sua rissurezione, perchè queste tribolazioni non sono finite con la sua morte. Si può
dire, quindi, che i suoi ministri completano ciò che ancora manca alle sofferenze di
Cristo. Come quella di Cristo, così la loro sofferenza è accettata a vantagio del suo
corpo, la Chiesa (cf. v. 18).
La parola di Dio è chiamata un «mistero» che è rivelato ora ai santi (cf. v. 2),
ma che precedentemente era nascosto. Quello più specifico del mistero è Cristo stesso
che attraverso, la predicazione diventa presente agli uditori, i pagani secondo il piano
di Dio. Dio volle far conoscere la ricchezza e la speranza della gloria, che è Cristo.
Questo è lo stesso Cristo che i ministri proclamano, e questo avviene esortando e
insegnando a «ogni» persona con «ogni» sapienza, così che «ogni» persona sia resa
perfetta. La perfezione viene soltanto «in Cristo», cioè, all’interno del suo corpo e non
al suo esterno (Fil 3, 12-15). La perfezione in Cristo è il fine del ministero, il quale è
sia lavoro che lotta, ma che deve essere compiuto sotto la potente forza dell’energia di
Cristo che è all’opera nei suoi ministri.
In definitiva, questa è la conoscenza del mistero di Dio che è Cristo, poichè è in
lui che «tutti» i tesori della sapienza e della conoscenza sono nascosti.

Galateni 6

Benchè alcuni abbiano ceduto alle pressioni del giudaizzanti (Gal 5, 4),
rimangono tra i Galati altri che vivono secondo lo Spirito. Paolo si rivolge a queste
persone e le spinge ad adempiere perfettamente la legge di Cristo aiutandosi
vicendevolmente con benevolenza per condividere il peso di qualsiasi problema che si
presenti.
Il versetto 6 si stacca dal contesto: sembra infatti essere senza legami con
quanto precede e segue. Si tratta, di fatto, di un’osservazione eminentemente pratica. Il
versetto è indirizzato a coloro ch vengono istruiti (catecumeni) e insiste perchè queste
persone condividano tutto ciò che hanno con il loro istruttore, cioè, perchè diano un
contributo finanziario o di altro genere per mantenere il loro maestro.
I prossimi versetti esortano i lettori ad essere fedeli a uno stile di vita guidato
dallo Spirito piuttosto che a uno dominato dalla carne. Queste esortazioni non
descrivono ciò che uno dovrebbe attendersi in ricompensa per un tale comportamento.
Ciò e abbastanza normale in un contesto di famiglia. La generalizzazione di Paolo
sintetizza qui bene questo concetto.
Poi vediamo che Paolo ripete le sue critiche ai giudaizzanti che continuano a far
pressione sui Galati perchè si facciano circoncidere, mentre essi stessi non
obbediscono interamente alla Torah. Essi cercano solamente una soddisfazione
personale e il raggiungimento di un scopo di cui vantarsi diffusamente.
La fierezza e il vanto di Paolo stanno nella redenzione operata dalla passione e
morte di Gesù. Unito a questo avvenimento e avendone compreso il significato, Paolo
ha rigettato uno stile di vita misurato su osservanze esterne della legge, ed è stato
creato di nuovo. Questa è ciò che conta realmente. Coloro che hanno accettato questo
tipo di stile di vita come un modo di vivere significativo sono realmente il popolo
eletto di Dio, l’Israele di Dio, l’autentica comunità cristiana. Ad essi Paolo invia
auguri di pace e di misericordia.
Le sue righe finali sono concise come il saluto di questa lettera. Il suo corpo
mostra già le conseguenze fisiche delle sue fatiche e sofferenze nel ministero (2 Cor
11, 23-35). La benedizione finale è insolitamente breve e formale, benchè addolcita,
delicatemente dal suo appellativo affettuoso «Fratelli». Anche in chiusura Paolo fa un
ultimo tentativo per riattivare il loro radicamento emotivo al Vangelo che egli aveva
predicato.
CONCLUSIONE

Ci ricordiamo il celebre passo di Paolo di (Fil 2, 5-7) ci apre a quel mistero di


Cristo che, dal punto di vista teologico e biblico, va sotto il nome di kenosi. Il Figlio di
Dio decide, con un atto libero, di spogliarsi di se stesso, ossia estraniarsi dalla sua forma
divina e prendere la natura umana, cioè di servo, poiché tale è la nostra natura dal punto
di vista di Dio. Il Figlio di Dio si è adattato a vivere la nostra vita passibile di sofferenza e
di tutto ciò che l’essere come noi comporta, eccetto il peccato. Ciò non significa che
Gesù, facendosi uomo, ha cessato di essere Dio. Il potere di morire in croce e risorgere è
di Dio, per questo motivo rimane Dio, e ne ha consapevolezza.
La kenosi per noi è essenziale, per Gesù no, però l’ha prodotta in se stesso per
poter regalare a noi i suoi sentimenti. Dobbiamo perciò imparare ad avere in noi i
sentimenti di Gesù, l’annullato, se vogliamo vivere realmente e creare una società
cristiana, altrimenti ci illudiamo di farlo. Così dobbiamo cominciare dall’essenziale, con
Gesù Cristo, esponendo alla kenosi del Signore il nostro ego com’è; sapendo che Gesù ci
sostiene, accetando questo programma senza paura, perchè Gesù ci tiene per mano in
questo suo cammino.

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