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Che il tema dell’Alleanza (d’ora in poi A) fosse così presente e centrale nell’AT
lo affermava già N. LOHFINK quando lo definiva “concetto inglobante”
(ID., «Il concetto di “alleanza” nella teologia biblica», in La civiltà cattolica 142 [1991] III) 353-367).
Come per altre realtà, anche per parlare di A divina abbiamo necessità di
esprimerci per analogia, in quanto si applica a Dio la relazione creata dal patto
umano. Tuttavia, la teologia biblica trascende tale categoria “naturale”, perché
presenta l’A divina come un patto di grazia e soprattutto come un insondabile
mistero d’amore, che segna in modo indelebile la storia della salvezza raccontata
nella Bibbia
(P.M. BEAUDE, «Le peuple élu et les autres selon le judaisme et le christianisme», in LV 36/181
[1987] 85-101).
Dobbiamo subito precisare che nel pensiero teologico degli autori biblici
prevale nettamente l’idea di A, di berit, con alla base una mentalità giuridica.
Certo, ci può apparire strano l’accostamento tra berit e la radice ’ahav. L’idea
dell’A, però, altro non è che l’“espressione giuridica” dell’esperienza dell’amor
di Dio. Si può dire perciò che alla base del concetto di A c’è quello di amore, un
amore promesso, giurato e mai tradito, almeno da parte di Dio.
La stessa cosa vale per il concetto giuridico di chesed, dove ha gran parte
l’amore inteso come atteggiamento gratuito di benevolenza e la disponibilità
alla lealtà. Anzi, la tendenza è di equiparare il concetto di amore a quello di
chesed: possono, infatti, essere usati come sinonimi.
È così anche per mishpat, tsedeq e ’emet, che sono trasferiti dal diritto alla
teologia e usati in genere per definire rapporti etici e religiosi.
→ Riporto un altro esempio, questa volta con la radice ’ahab (però l’A è tra
umani, Davide e Gionata).
1Sam 18,3-4:
“Gionata strinse un’A (berit) con David, perché lo amava (be’ahavatow)
come se stesso. Gionata si tolse la tunica che indossava e la donò a David, e
così fece con tutto ciò che portava, persino la spada, l’arco e la cintura”.
Qui appare l’espressione tecnica “tagliò un’A” (yichrot berit → krt berit),
accostata all’amore: be’ahavatow, “per amore di lui”.
L’amicizia conclusa tra i due, dunque, che non trascura l’aspetto emotivo, si
concretizza in un patto, una berit che li obbliga a comportarsi in modo
conforme all’amicizia, all’amore di amicizia. Questo a sottolineare il carattere
pragmatico di ’ahab, che non resta un fatto astratto.
In seguito, infatti, Gionata rafforzò il proprio legame con David, giurando di
aiutarlo contro le insidie tese a questi da Saul (1Sam 20,17ss.) e agì sempre
fedele a questo giuramento, a favore dell’amico del cuore.
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Casi come questo ci aiutano a capire come mai il vocabolo “amare” sia entrato
a far parte anche della terminologia politico-giuridica della stipulazione dei
contratti, dei patti, per esprimere sincera lealtà
(cf. la berit di vassallaggio di Asarhaddon che dice: “giurate che amerete Assurbanipal come
la vostra anima”, con il verbo ramu, cioè “amare”. Con chiaro riferimento a relazioni
politiche internazionali è adoperato ’hb in 1Re 5,15, dove il re di Tiro è detto ’ohev, amico
che stipula A con Davide).
Nella Bibbia, dunque, A (berit) e amore (la radice ’hb) è possibile trovarli
accostati a proposito di Dio e anche a proposito di uomini.
La radice ’hb, “amare”, pare essere diffusa solo nell’area cananaica. Anzi,
negli altri dialetti semitici è rara, mentre nell’AT è d’uso frequente. Già
questa nota fa supporre che l’uso linguistico biblico abbia conferito a ’ahab,
per ragioni oggettive e teologiche, un particolare connotato semantico
(Il verbo ricorre 140 volte nell’AT al Qal. 36 volte si trova al participio attivo Qal ’oheb
significando generalmente “amico” e 16 volte al participio Piel significando “amante”.
Tra i sostantivi derivati dalla radice ci sono ’ahaba [infinito e sostantivo verbale
“amore”], ’ahab, ’ohab).
Si pensi che la LXX in genere la traduce con agapào, dando centralità a questo
verbo che in epoca prebiblica era raramente usato non avendo la potenza e
la passione espressi con eràn e nemmeno il calore di philèin. Aveva, cioè, un
significato piuttosto blando e vago (“essere contento di qualcosa” e
“salutare, trattare con i dovuti onori” con riferimento soprattutto al
contegno esteriore).
Ci sono altri verbi in ebraico per dire “amare”, naturalmente con sfumature
e accentuazioni diverse, come il comunissimo racham; le radici chafats,
“desiderare”, e ratsah, “gradire” (precedute da be e il nome di persona o cosa
che suscita l’affetto, per cui: “compiacersi di”); le radici chashaq, “sentirsi
vicino”, e chabab, “preferire”.
Sono invece più profani i sostantivi dodim e yedidot, dalla radice yadad, “aver
caro”. Mentre yadid, “diletto”, si trova anche nell’espressione yedid Yhwh,
“diletto del Signore”.
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a) Il rapporto primario d’amore fra uomini è quello tra uomo e donna
(si può trovare l’espressione ’ahabat nashim, cioè “amore di donna” come
punto di comparazione per l’amore verso l’amico, che è un'altra cosa),
e quindi da intendersi evidentemente in senso sessuale.
C’è poi l’amore per il prossimo, per lo straniero, per se stesso, ecc. (o
per degli oggetti, condizioni, situazioni, ecc.)
b) Del rapporto d’amore tra Dio e uomini, per es. il suo popolo Israele, si
parla in epoca relativamente recente. I primi a farlo sono Osea,
Geremia e il deuteronomista ed esattamente quando essi vogliono
approfondire il problema del fondamento dell’elezione divina di
Israele, che sta appunto nell’amore di Dio.
Per quel che riguarda Dio, l’A, ossia il patto di grazia benevole (chesed) e
d’amore (’ahava), si presenta come un mistero insondabile del Dio trascendente
e santo, che è fedeltà misericordiosa.
Non c’è una spiegazione razionale di ciò che possiamo chiamare A di amore
sancita da Dio con Israele, con Abramo, con Davide e via dicendo, se non nella
prospettiva della sbalorditiva carità di Dio, che ama di un amore di
predilezione e perciò sceglie chi vuole, legandosi alla creatura di suo
gradimento.
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sostanzialmente nell’amore gratuito di Dio in quanto decisione della sua
volontà sovrana e del tutto indipendente.
Si capisce allora perché i temi di A, amore, fedeltà e anche elezione sono intrecciati
e intercomunicanti tra loro.
L’azione di Dio che si fa A si spiega con l’amore ch’egli nutre per il popolo:
“Ti ho amato di un amore eterno (’ahavat ‘olam ’ahavtich),
perciò ti ho attratto a me per la mia fedeltà (chesed)” (Ger 31,3).
Solo a causa del proprio amore e della propria fedeltà misericordiosa Dio ha
redento e amato Israele, l’ha innalzato e portato nei tempi antichi, prima che
questi fosse un popolo.
I padri sono usciti dall’Egitto e hanno ricevuto la terra in eredità perché Dio li
ha amati, li ha scelti, li ha prediletti (cf. anche v.38 e 10,15).
E poi:
“Ma tu, Israele mio servo, Giacobbe, che ti ho scelto (becharticha),
discendente di Abramo mio amato (’ohavi)” (Is 41,8)
(Attenzione: l’atteggiamento di Dio verso il re Ciro mostra però che tale amore che elegge
non è limitato a Israele: Ciro è favorito perché è strumento obbediente della volontà
divina, il mediatore prescelto delle decisioni divine:
“Radunatevi, tutti voi, e ascoltatemi. Chi di essi ha predetto tali cose? Uno che io amo
[lett. Yhwh amò lui → ’ahevo] compirà il mio volere su Babilonia e, con il suo braccio,
sui Caldei” [Is 48,14]).
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La parenesi deuteronomista ha sfruttato efficacemente, per le sue affermazioni
etico-teologiche e per parlare di A, il concetto di un amore vero, sincero (al di
fuori della figura del matrimonio).
Quanto Israele possiede è dono di Dio e Dio glielo ha dato per l’amore che gli
porta. Dio ha già salvato gli antenati del popolo, a cominciare dal tempo dei
patriarchi, e a motivo del proprio giuramento ha guidato il popolo fuori
dall’Egitto, gli ha promesso il paese e l’ha fatto diventare numeroso.
L’amore di Dio è un concreto operare, un efficace agire a favore del popolo
eletto.
Capiamo che in questa concezione l’amore è sottratto alla sfera originale della
sensualità/sessualità per divenire il simbolo teologico della ragione
fondamentale per la quale Dio opera a favore del suo popolo elargendogli ogni
benedizione, benché il popolo lo contraccambi con un amore debole e
incostante
(Gli esperti sottolineano che, in base ai rapporti intercorrenti tra Osea e il deuteronomista,
è del tutto possibile che il secondo abbia ripreso l’immagine dal primo
[Osea adopera le metafore:
sia dell’amore paterno → 11,1: “Quando Israele era fanciullo, io l’amavo
(’ohavehu)…” e → 11,4: “…(lo traevo) con legami di amore (ba‘avotot ’ahava)”;
sia dell’amore sponsale → 3,1: “Va’, ama (’ehav) una donna che ama un altro ed è
adultera, così come ama (che’ahavat) Dio i figli di Israele”]).
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Insomma, il deuteronomista riprendendo dal profeta (Osea) l’idea dell’amore
ha voluto rendere intellegibile a Israele, pareneticamente, l’idea del perché si
deve obbedienza al Dio dell’A, della berit.
E dopo lo shock dell’esilio, con la domanda se valesse ancora l’A stipulata dal
Dio fedele con un Israele infedele, l’attenzione è tutta spostata sul “nuovo
inizio” che Dio è disposto a donare e, con esso, il suo favore:
“Il Signore, tuo Dio, circonderà il tuo cuore ed il cuore della tua progenie
perché tu ami (lett. “per amare” → le’ahavah) il Signore, tuo Dio, con
tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima affinché tu possa vivere” (Dt 30,6).
L’amore di Dio per il popolo e l’amore del popolo per Dio si ritrovano: è la
formula dell’A (hayiti lachem le’lohim we’attem tihyu-li le‘am).
In questo rapporto di reciproco amore Dio resta sempre quello che inizia,
mentre il popolo deve corrispondere con la sua azione, altrimenti ne viene
maledizione.
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Tornando al punto di prima, esplicito ancora meglio che la motivazione del
patto-A sinaitica e dell’elezione di Israele, “l’amato per eccellenza”, è già in Dt
7,7-8, preceduto però dallo statuto dell’elezione nel v.6:
6 Perché popolo santo tu sei per Yhwh, tuo ki ’am qadosh ’attah laYhwh, ‘eloheka
Dio; beka bachar Yhwh, ‘eloheka
te scelse Yhwh, tuo Dio, lihyot lo leam segullah
per essere per lui come popolo proprietà mikkol ha’ammim ‘asher
tra tutti i popoli che sono ’al-pene ha’adamah
sulla faccia della terra
Anche in Dt 10,15:
“…eppure solo i tuoi padri il Signore predilesse ed amò (chashaq Yhwh
le’ahabah), e scelse (wayyibchar) la loro discendenza dopo di loro, voi, fra tutti
i popoli: come quest’oggi”.
Israele dimostra di amare chi lo ama, cioè Dio, nel suo comportamento. Infatti,
Israele quando amava Dio, lo seguiva docilmente:
“Io (Dio) ricordo la fedeltà della tua giovinezza, l’amore (’ahavat) del tempo
del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non
seminata” (Ger 2,2).
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Ho detto dall’inizio della storia della salvezza, partendo però dal patto con
Noè. Il che significa che l’A non è un dato primo, cioè non dipende dal
progetto creatore in quanto tale e non è coincidente con la creazione.
Infatti, Dio la introduce all’indomani delle devastazioni causate dalla colpa
e che minacciano la sopravvivenza di Israele e del mondo.
La vicenda di Noè lo dimostra. Per salvare questo giusto dal cataclisma con
cui Dio sta per annientare tutta la terra corrotta dal male degli umani, questi
stabilisce con Noè una berit (Gen 6,18).
Dopo Gen 1-11, che finisce con la torre babelica e la dispersione, Dio attiva
un dispositivo complesso per assicurare la benedizione, e dunque la vita, a
tutti: l’elezione di Abramo.
È vero, qui non troviamo il termine berit, ma la logica è quella dell’A che
viene formalizzata da parte di Dio con Abramo in due tappe:
1. Dio si impegna solennemente con una berit a realizzare la promessa di
una discendenza per il patriarca (Gen 15);
2. Siccome, però, essa tarda a venire e, di conseguenza, Abramo inventa
soluzioni umane (Gen 16), Dio propone una berit bilaterale:
- ripete il suo giuramento: Abramo sarà padre di una moltitudine
(Gen 17,2-8)
- invita Abramo a fare di lui il suo Dio circoncidendo tutti i maschi
(Gen 17,9-14). Abramo porterà così nel suo corpo, sia individuale
che sociale, il segno indelebile della differenza che rappresenta il
fatto di essere legati al Dio della benedizione tramite un’A eterna
(berit ‘olam).
Il seguito della Torah racconta come l’A è estesa al popolo dei discendenti di
Abramo (i bene Israel), una volta che questi sono liberati dalla schiavitù
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dell’Egitto. L’elezione di Israele si innesta infatti su quella del patriarca
Abramo, al quale Dio aveva promesso una discendenza numerosa e la terra.
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Purtroppo, Israele viola il patto con la costruzione del vitello d’oro.
L’A è così distrutta e, dopo il perdono, dev’essere rifatta, ristabilita.
Le due tavole poste nell’arca testimoniano non soltanto l’A, ma anche la sua
rottura da parte di Israele e la fedeltà benevola di Dio che va al di là della
colpa e la ristabilisce.
Dio, però, aveva preso l’iniziativa di una berit ‘olam con Davide e la sua
discendenza (2Sam 23,5): gli aveva promesso un legame privilegiato (“Io gli
sarò padre ed egli mi sarà figlio”) e un trono consolidato per sempre (2Sam 7,12-
16). L’iniziativa è situata da Davide stesso nel contesto dell’elezione e dell’A
(2Sam 7,23-24).
→ La questione terminologica.
Con A, che in ebraico è berit (ma si usa anche il termine ‘edut, “testimonianza”), si
designa correntemente il legame in virtù del quale sono muniti in generale Dio
e l’umanità e, in particolare, al suo interno, il popolo di Israele.
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Potrebbe provenire dalla radice:
barah I (sinonimo di ’akal), “mangiare” (cf. 2Sam 3,35; 12,7; 13,6.10): in tal
caso, berit designa in origine uno dei riti che sanciscono un’unione, il
pasto (E. MEYER)
++++
(I) La berit è fatta innanzitutto tra uomini ed è nelle usanze umane. L’AT ha
diversi esempi. In questo caso con berit si intende “un contratto bilaterale che
crea una relazione giuridica tra due contraenti”.
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Tra l’altro, “non presuppone necessariamente l’uguaglianza tra i contraenti e
nemmeno l’uguaglianza di diritti e doveri” (E. LIPINSKI). Essa punta
sostanzialmente a instaurare lo shalom tra persone o gruppi quando sono
assenti legami di sangue.
Va ricordato pure che la berit non è sempre volontaria, perché può essere
imposta da uno forte a uno più debole (1Sam 11,1-2) oppure estorta con
l’astuzia (Gs 9).
(II) La berit è fatta anche tra la divinità e gli uomini o, meglio, il popolo che si
ritiene gli appartenga. Va detto, però, che questo è un fenomeno tipico di
Israele nell’AVO. Infatti, se ne conosce un solo altro esempio, nel mondo
sumero, a Lagash nel XXI sec. a.C.
Probabilmente i testi biblici più antichi ad evocare il legame tra Dio e Israele
sul modello di una berit sono quelli di Osea (fine VIII sec.): la metafora
coniugale. Questa sarà ripresa un secolo e mezzo più tardi in un contesto
analogo da Geremia (Ger 2,2.20.25.31) e Ezechiele (Ez 16).
Infatti, la formula di A (“Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo”) si rifà
molto probabilmente a una formula di contratto matrimoniale attestata
nell’AVO.
In buona sostanza consiste nel regolare con trattati i rapporti politici tra Stati,
ma anche tra sovrani e dirigenti.
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Gli studiosi sono riusciti a mettere in evidenza anche una struttura ricorrente
(in tedesco Bundesformular) nei documenti di A con i seguenti elementi:
Secondo i più, questo schema è stato adottato in Israele al tempo della riforma
di Giosia
(L. PERLITT nel 1969 sostenne invece che l’idea di A esistesse già prima del movimento
deuteronomico. Per altri, probabilmente all’origine dell’idea di A sta il tema del
“giuramento” e dei “voti”, praticati fin dalle origini nelle religioni dell’AVO e in Israele.
Infatti giuramento e voti implicano una relazione con un’obbligazione mutua tra Dio e
l’uomo. Nel 1878 J. WELLHAUSEN aveva ritenuto che l’idea di A fosse uno sviluppo
tardivo e comunque successivo alla predicazione dei grandi profeti e che
precedentemente la relazione Dio-Israele era pensata secondo la categoria del “legame
naturale”, quale quello di padre-figlio).
Nel suo desiderio di scuotersi di dosso il giogo del potere assiro ormai
indebolito, Giosia formula il legame tra Dio e Israele in termini che indicano
chiaramente che è a Dio e non al sovrano straniero che Israele è legato da un
trattato e dalle leggi che lo strutturano: questa A garantisce la libertà di Israele
(2Re 23,1-3).
La teologia di questi testi, sulla scia dei profeti dei secoli precedenti, promuove
l’idea che Israele è costituito dal suo legame esclusivo con Dio (Yhwh).
(A) Per i sacerdoti l’esilio è certamente la fine dell’A, quella conclusa da Dio con
Israele al Sinai. Ma non è tutto finito. C’è un’A eterna (berit ‘olam) che Dio ha
stabilito con Abramo che rimane attuale e che assicura ai suoi discendenti la
benedizione. Essa infatti dipende solo dalla fedeltà di Dio. A Israele basta
mostrare che è pronto a ricevere da Dio la vita praticando la circoncisione (Gen
17). Questa concezione prevale in P (il Sacerdotale nel Pentateuco).
In più, insieme con la circoncisione, il sabato sarà il nuovo segno dell’A con
Dio.
(B) Anche per i profeti dell’esilio, soprattutto Geremia ed Ezechiele, l’A al Sinai
è fallita. E allora le oppongono una “nuova A” basata sul perdono della colpa
di Israele (cf. Ger 31,31-34; 32,36-41; Ez 16,59-63) e sulla sua purificazione
dall’idolatria (cf. Ez 36,25-32): Dio scriverà la sua Legge nel cuore dell’uomo.
Si potrebbero citare passi come Dt 6,4-9 (lo Shema‘), ma anche 10,12-13; 11,1;
30,15-16, ecc. Anche se in queste citazioni si parla dell’amore con cui Israele
deve rispondere all’amore che Dio, per primo, ha avuto per il suo popolo.
Amare Dio (come conseguenza dell’amore che Dio ha per Israele) ed osservare
i comandamenti sono due facce della stessa medaglia e non è possibile
separarli. Infatti, amare Dio, temerlo, seguirlo, osservare la legge sono sinonimi
o quasi. Anche se per la nostra mentalità moderna questo è paradossale (amore
e obbedienza).
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Sempre nel Deuteronomio si possono leggere passaggi in cui si paragona la
relazione tra Dio e Israele, quindi l’A, a quella di un padre e suo figlio (1,31;
8,5; 14,1)
(soprattutto D.J. MCCARTHY dimostra che l’immagine della relazione padre-figlio fa
anch’essa parte del vocabolario dell’A, benché nel contesto dei passi citati del
Deuteronomio non si parli di amore).
Il lessico è senz’altro preso dal mondo delle relazioni parentali, della famiglia,
però va pure detto che lo stesso linguaggio si ritrova, sorprendentemente,
anche nel mondo delle relazioni internazionali
(cf. 2Re 16,7: qui, quando il re Acaz di Giuda dice al re di Assiria “sono tuo servo e tuo
figlio”, riconosce, in termini giuridici, di essere vassallo del sovrano assiro).
La relazione tra vassallo e sovrano deve avere per la mentalità antica la stessa
forza affettiva della relazione padre-figlio
(addirittura nel vocabolario diplomatico dell’AVO si troverebbe la fonte lontana del
vocabolario giovanneo sull’amore!).
Israele assume lo status di figlio e questo vuol dire che tutti i figli di Israele
(bene Israele) sono, in un certo senso, “figli di Dio”, ciascuno come individuo e
tutti insieme come personalità corporativa.
Anche i rabbini spiegano che ciò non significa che la peculiarità dei figli di
Israele impedisca che Dio abbia una speciale attenzione per ognuno
singolarmente.
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Leggiamo, come esempio, un tardo Midrash (Shalosh Pisqa’ot):
“«Efraim, mio diletto figlio». L’assemblea di Israele disse: “Signore di tutti i mondi,
in tutti i miei giorni sono stato amato da te, e tu mi hai portato più vicino a te
come figlio amato dal padre. Mi hai trasportato nel deserto sulle ali di aquila, mi
hai guidato con la colonna della nube durante il giorno e con la nube di fuoco
durante la notte, mi hai dato la Torah, ti sei comportato con rispetto e con
splendore verso di me, hai innalzato il mio corno sopra tutte le nazioni, mi hai
vendicato presso i miei nemici”. E così disse il Santo, benedetto egli sia: “Mi sono
comportato con te come un padre che ha misericordia per il suo unico amato e
diletto figlio che anela a suo padre, e questo è il motivo per cui sta scritto: «Efraim,
figlio mio diletto», il mio cuore si è convertito alla misericordia verso di lui, perché
egli è il mio unico figlio, come chi ha un solo figlio che fa il suo volere”.
→ Per concludere
L’A di Dio con Israele si fonda sulla sua “benevolenza”, la sua chesed, che è il
suo amore leale con il quale garantisce stabilità all’A e con il quale qualifica
anche l’elezione, che sta all’origine dell’A.
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