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1. Operazioni preliminari
1.1 Delimitazione
Per quanto riguarda l’inizio del testo è ovvio che si inizia in Gn1,1! Per la fine
dell’unità letteraria, possiamo considerare che i vv. 2,1-3 si presentano come una
conclusione (cfr. «compiere», e «settimo giorno» che conclude la settimana). In più la
formula di 2,4a (letteralmente: «queste le generazioni del cielo e della terra nel loro
essere creati») è usata altrove come introduzione, spesso per una genealogia (cfr. Gn
10,1; 11,10; 11,27; 25,12.19; 36,1.9; Rut 4,18), ma a volte in senso più ampio per
introdurre una «storia»1 (Gn 6,9 e in particolare Gn 37,2, letteralmente: «Queste le
generazioni di Giacobbe: Giuseppe…»).
Se consideriamo 1,1‒2,3 troviamo alcuni indizi che ne confermano l’unità
interna: la ripetizione del sostantivo «giorno» con un aggettivo numerale, l’uso
costante di ’ĕlōhîm per indicare Dio, mentre a partire da 2,4 e fino alla fine del c. 2
abbiamo sempre yhwh ’ĕlōhîm (Signore Dio).
La divisione adottata da molti commentari2 e frequente nelle Bibbie è 1,1-2,4a.
Essa è motivata soprattutto da considerazioni di ordine diacronico: la formula
«queste le generazioni» è tipica del linguaggio sacerdotale; i racconti di
creazione antichi cominciano spesso con una proposizione temporale (e quindi il
v. 4b sarebbe un inizio). In più si considera la ripetizione di «cielo e terra» in
2,4a come un’«inclusione», un espediente letterario frequente nei testi biblici per
cui l’inizio e la fine di un passo si corrispondono. A livello però di redazione
finale sembra più logico considerare 2,4a un nuovo inizio, per i motivi che
abbiamo indicato sopra. Inoltre il richiamo a «cielo e terra» potrebbe indicare
non tanto un’inclusione, quanto piuttosto una ripresa dell’inizio: la creazione
viene raccontata di nuovo come inizio di una «storia» di generazioni, cioè la
storia dell’uomo che si inserisce nella storia del mondo. Nella delimitazione che
qui proponiamo si sottolinea ancora di più il carattere di «proemio» che il
redattore finale ha voluto dare a Gn 1,1-2,3.
È evidente che per l’interpretazione di Gn 1 non è senza importanza la sua
posizione all’inizio della Bibbia. Gn 1 (e più in generale Gn 1‒11) è un’introduzione
alla storia del popolo d’Israele o meglio, alla storia del rapporto di Dio con Israele e
quindi alla storia della Rivelazione di Dio agli uomini. Ponendo Gn 1 (1‒11)
1 Cfr. J.L. SKA, Introduzione alla lettura del Pentateuco. Chiavi per l'interpretazione dei primi
cinque libri della Bibbia, Dehoniane, Bologna 1998, pp. 31-33.
2 Cfr. G. von RAD, Genesi, Paideia, Brescia, 19782, pp. 52-54; E. BIANCHI, Adamo dove sei?
Commento esegetico-spirituale a Genesi 1-11, Qiqajon, Magnano 19942, p. 89; J.A. SOGGIN, Genesi
1-11, Marietti, Genova 1991, p. 23.
Esegesi di Gn 1‒3 2
all’inizio della Bibbia, chi ha scritto o raccolto questi testi ha voluto inserire quella
che potrebbe essere considerata la storia particolare di un popolo nel quadro più
ampio della storia dell’umanità: la storia d’Israele è la storia dell’uomo. Viceversa, se
la vicenda d’Israele è caratterizzata dagli interventi salvifici di Dio in favore del suo
popolo, porre Gn 1 all’inizio della Bibbia significa che non può essere interpretato
semplicemente come una riflessione sull’origine del mondo, ma va anch’esso
considerato un intervento salvifico del Dio d’Israele in favore dell’umanità intera.
bella per il Cielo, il prestigioso. E Cielo, il dio sublime, affondò il suo pene nella
Terra spaziosa; versò, insieme, nella sua vagina, il seme dei valorosi Albero e
Canna. E, tutta quanta, come una vacca irreprensibile, si ritrovò gravida del ricco
seme di Cielo7.
Tale modo di rappresentare la creazione è molto raro nella Bibbia per le sue
implicazioni incompatibili con la fede in un solo Dio (spesso coinvolge più dèi e
anche una generazione di dèi). Tuttavia, si possono trovare alcuni accenni, come Sal
90,2 dove il testo ebraico si può tradurre: «Prima che nascessero le montagne, prima
che tu generassi la terra e il mondo, da sempre e per sempre tu sei, o Dio». Altri passi
che mostrano una possibile presenza di tale idea sono Sal 139,15; Gb 1,20-21; Sir
40,1: si tratta però di una figura poetica, non di un’affermazione religiosa.
c) Creazione mediante una lotta: la creazione è il risultato di una lotta fra dèi,
che si conclude con la vittoria del dio principale su un’altra divinità o su un mostro
primordiale che rappresenta le forze del caos; alla lotta e alla vittoria è collegata la
creazione di un cosmo ordinato. L’esempio più famoso è il poema babilonese
intitolato, dalle sue prime parole, Enuma Elish («Quando in alto») nel quale la
creazione è descritta alla fine della battaglia che ha visto il dio Marduk trionfare
contro Tiamat (l’Abisso o oceano primordiale). Citiamo soltanto qualche passaggio:
A mente fresca il Signore (Marduk) contemplò il cadavere di Tiamat: voleva
tagliarne la carne mostruosa, per trarne cose belle. La tagliò in due come un
pesce da essiccare, e ne dispose una metà che incurvò come il Cielo. Ne tese la
pelle, su cui insediò guardiani, ai quali affidò la missione di impedire alle sue
acque di erompere. Traversando allora il cielo […] vi sistemò le Stazioni per i
grandi dèi; vi suscitò in costellazioni le stelle che ne sono le immagini […]. Nello
stesso fegato di Tiamat sistemò le alte zone celesti. Poi fece apparire Nanna (=
Luna) al quale affidò la notte […]. [Raccolse (?)] la bava di Tiam[at] […].
Condensata in n[uvole] la fece galleggiare (nel firmamento) […]. Aprì nei suoi
(= di Tiamat) occhi l’Eufrate e il Tigri […]. Sui suoi seni ammucchiò le
mo[ntag]ne lontane, e vi creò delle fonti, per defluire in cascate (Enuma Elish,
IV,135–V,57)8.
Il tema della lotta contro le forze o i mostri del caos primordiale trova eco in
diversi passi biblici (Is 27,1; 51,9; Sal 74,13-14; 89,11; Gb 7,12; 9,13; 26,12; 38,8-
11)9.
d) Creazione mediante la parola: questo modello si trova soprattutto in testi
egiziani. Citiamo un testo scritto dai sacerdoti di Menfi:
Così tutti gli dèi furono formati e la su Enneade completata. In verità, ogni parola
del dio realmente venne all’esistenza, attraverso quello che il (suo) cuore pensò e
la (sua) lingua comandò […]. Così Ptah fu soddisfatto, dopo che ebbe fatta ogni
cosa, come ogni parola del Dio; dopo che egli ebbe formato gli dèi, ebbe creato
le città, ebbe fondato i «nomi» ebbe posto gli dèi nei loro templi, ebbe stabilito le
loro offerte, ebbe fondato i loro templi, ebbe fatto i loro corpi, proprio come i
loro cuori avevano desiderato (Pietra di Shabaka, 55-60)10.
Passi biblici che richiamano una tale concezione sono Is 40,26; 55,10-11; Sal
33,6-9; 148,3-5.
10 E. TESTA, Genesi. Introduzione - Storia primitiva, cit., p. 34; Testa riprende J.B. Pritchard (a
cura di), Ancient Near Eastern texts relating to the Old Testament, Princeton University Press,
Princeton 1950 (19783), p. 5.
11 Cfr. C. WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., pp. 90-91.
12 Cfr. C. WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., pp. 90-91.
13 Il legame fra «creazione» e «culto» è ancora visibile nei testi liturgici in cui si trova la lode di
Dio in quanto creatore e si narra (anche solo in parte o per accenni) la sua opera all’inizio dei tempi.
14 C. WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., pp. 91-92.
Esegesi di Gn 1‒3 6
Come si vede, un punto d’incontro fra Padri della Chiesa e filosofi antichi è la
critica al mito come «superstizione» fondamentalmente irrazionale o, detto in termini
più tecnici, l’opposizione tra mŷthos e lógos. Ovviamente, questo è legato anche al
fatto che i miti greci (così come quelli di altri popoli antichi) sono intrecciati a una
concezione politeista del divino e che i racconti di creazione sono spesso anche delle
teogonie, cioè racconti della nascita delle divinità. Il termine «mito» diventava così
sinonimo di «favola», «racconto fantastico e inverosimile» tendenzialmente senza
alcun rapporto con la realtà e la storia degli uomini: «il mito […] era riconosciuto
dalla filosofia greca come privo di consistenza nella verità» (Benedetto XVI, San
Giustino, filosofo e martire, udienza generale, 21 marzo 2007). Appare del tutto
evidente che, se il mito non può avere alcuna pretesa veritativa, classificare i racconti
di Gn 1–2 come «mitici» significherebbe negare loro la qualità di Parola di Dio, che,
intrinsecamente, richiede una pretesa veritativa forte. D’altra parte, i testi biblici si
differenziano dai miti greci e anche da quelli di altri popoli del Vicino Oriente,
proprio perché escludono qualsiasi forma di politeismo e non si interessano affatto
all’origine della divinità. Su questo sfondo si comprende bene perché i Padri della
Chiesa contrapponessero la verità (tendenzialmente intesa come verità storica) dei
racconti biblici alla falsità dei miti pagani.
Se si rimane legati a questa concezione del mito e dei suoi rapporti con la
verità15, è piuttosto sorprendente l’affermazione che si trova, quasi incidentalmente e
quindi apparentemente come del tutto ovvia, nel testo di una catechesi di Giovanni
Paolo II (il corsivo è mio):
Il capitolo 2 della Genesi costituisce, in certo qual modo, la più antica
descrizione e registrazione dell’auto-comprensione dell’uomo e, insieme al
capitolo 3, è la prima testimonianza della coscienza umana. Con una
approfondita riflessione su questo testo – attraverso tutta la forma arcaica della
narrazione, che manifesta il suo primitivo carattere mitico – vi troviamo «in
nucleo» quasi tutti gli elementi dell’analisi dell’uomo, ai quali è sensibile
l’antropologia filosofica moderna e soprattutto contemporanea (Giovanni Paolo
II, udienza generale, 19 settembre 1979).
Qui non solo il papa afferma come ovvio il carattere mitico degli antichi
racconti di Genesi 2–3, ma sembra suggerire (se non capisco male) che proprio
riflettendo su questa forma del racconto è possibile scoprire una sua pretesa veritativa
che incrocia le istanze della filosofia. Questa affermazione è frutto anche di un
radicale modifica dell’idea di mito che si è prodotta soprattutto nel corso del XX
secolo grazie ai contributi di filosofi, storici delle religioni, psicologi e studiosi di
15 Così si trova ancora nell’enciclica Humani Generis di Pio XII (12 agosto 1950): «le narrazioni
popolari inserite nelle Sacre Scritture non possono affatto essere poste sullo stesso piano delle
mitologie o simili, le quali sono frutto più di un’accesa fantasia che di quell’amore alla verità e alla
semplicità che risalta talmente nei Libri Sacri, anche del Vecchio Testamento, da dover affermare
che i nostri agiografi son palesemente superiori agli antichi scrittori profani» (Enchiridion Biblicum
618).
Esegesi di Gn 1‒3 8
popoli; anche dove sono più simili ai racconti mesopotamici, p. es., evitano
accuratamente tutti gli elementi incompatibili con la fede nell’unico Dio di Israele.
Per questo si può parlare, in un certo senso, di un’opera di «demitologizzazione» già
all’interno di questi racconti che pure hanno molti tratti del mito. Qui si può
recuperare il valore dell’intuizione dei Padri della Chiesa e della loro
contrapposizione tra storia biblica e mito, che va letta come sottolineatura della
differenza che si ha tra i racconti di Genesi e quelli di altre tradizioni; differenza
legata alle peculiarità della fede dell’antico Israele. Infatti, la teologia biblica del XX
secolo, se da un lato ha acquisito come un dato ineludibile la presenza del linguaggio
e di categorie mitiche nell’AT, dall’altro ha insistito sul carattere storico della fede
israelita. Basti citare questa frase di una delle più influenti teologie bibliche prodotte
nel XX secolo, quella di G. von Rad:
Sin le più antiche professioni di fede in Jahvé avevano carattere storico, ossia
collegavano il nome di quel Dio col racconto di un suo intervento nella storia20.
Se in molte religioni il mito ha anche lo scopo di fondare il culto e le verità
religiose, sicuramente non svolge questo ruolo nell’antico Israele, dove, invece, il
fondamento della fede si trova nell’intervento di Dio in favore del suo popolo21.
Questo rapporto tra racconti mitici ed eventi storici emerge anche dalla posizione dei
racconti di creazione all’interno del canone biblico. Gn 1–2 (e più in generale Gn 1–
11) è un’introduzione alla storia del popolo d’Israele o meglio, alla storia del rapporto
di Dio con Israele e quindi alla storia della Rivelazione di Dio agli uomini. Ponendo
Gn 1–11 all’inizio della Bibbia, chi ha scritto o raccolto questi testi ha voluto inserire
quella che potrebbe essere considerata la storia particolare di un popolo nel quadro
più ampio della storia dell’umanità: la storia d’Israele è la storia dell’uomo.
Viceversa, se la vicenda d’Israele è caratterizzata dagli interventi salvifici di Dio in
favore del suo popolo, porre Gn 1–2 all’inizio della Bibbia significa che non può
essere interpretato semplicemente come una riflessione sull’origine del mondo, ma va
anch’esso considerato un intervento salvifico del Dio d’Israele in favore dell’umanità
intera.
In altri termini: il linguaggio e il carattere mitico dei racconti di creazione non
può significare che vanno interpretati sganciandoli dall’insieme dell’Antico
Testamento e alla stregua di miti di altri popoli: piuttosto, i testi chiedono che il loro
carattere mitico sia messo in rapporto alla storia d’Israele e all’espressione storica
della fede di quel popolo22.
20 G. von RAD, Teologia dell’Antico Testamento. Volume I: Teologia delle tradizioni storiche
d’Israele, Paideia, Brescia 1972, p. 149.
21 Questa è, per lo meno, la prospettiva che ci tramandano i libri dell’AT come interpretazione
autentica della fede di Israele. Più difficile stabilire quanto tale convinzione fosse diffusa già in
un’epoca antica come pensava von Rad: l’esegesi critica degli ultimi quarant’anni ha modificato
radicalmente il quadro della datazione dei brani su cui egli si basava.
22 Cfr. C. GEFFRÉ, «Mito», cit., pp. 878-879.
Esegesi di Gn 1‒3 10
23 Cfr., p. es., M. CIMOSA, L’ambiente storico-culturale delle Scritture ebraiche, EDB, Bologna
2000, pp. 23-123.
24 In riferimento a quanto detto sopra circa i diversi «modelli» di creazione e alla combinazione
di due modelli in Gn 1, si può ricordare qui che alcuni studi hanno cercato di mostrare come il testo
attuale sia la fusione di due racconti precedenti, uno centrato sul «fare» e uno sul «dire»: però tutti i
tentativi di ricostruire in tal modo le «fonti» di Gn 1 sono risultati poco convincenti, cfr. C.
WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., pp. 82-84.
25 Per analisi più dettagliate cfr., p. es., J.L. SKA, Gn 1–11: un testo sacerdotale e i suoi
complementi, in «Ricerche Storico Bibliche» 24 (2012) pp. 49-66; F. GIUNTOLI, Alcune
osservazioni sull’origine post-esilica di Gn 1–11, in «Ricerche Storico Bibliche» 24 (2012) pp. 67-
74; F. GIUNTOLI, Genesi 1-11, cit., pp. 18-19 e 29-45.
Esegesi di Gn 1‒3 11
2. Analisi esegetica
Tratteremo più in dettaglio i punti che hanno maggiore importanza anche a
livello teologico, senza soffermarci in una spiegazione analitica di tutti i versetti e le
espressioni.
26 Per chiarire le idee a chi non è familiare con problemi di interpretazione sintattica e di
traduzione diamo le diverse possibilità. Considerando il v. 1 come principale si ha la traduzione
adottata dalla CEI: «1In principio Dio creò il cielo e la terra. 2La terra era informe e deserta e le
tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. 3Dio disse: «Sia la luce!». E la
luce fu». Se il v. 1 è considerato come subordinata temporale si può tradurre: « 1Quando Dio creò il
cielo e la terra, 2la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio
aleggiava sulle acque. 3Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu»; oppure (meglio): «1Quando Dio creò
il cielo e la terra (2la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio
aleggiava sulle acque), 3Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu». Per una più approfondita
presentazione dei problemi legati alla traduzione dei vv. 1-2 si veda F. GIUNTOLI, Genesi 1-11, cit.,
pp. 72-73.
27 Sintetizziamo (semplificando un po’) gli elementi riportati da C. WESTERMANN, Genesis 1-11,
cit., pp. 93-97, e J.A. SOGGIN, Genesi 1-11, cit., pp. 29-31.
Esegesi di Gn 1‒3 12
all’inizio di tali racconti è piuttosto quella del v. 2 e non quella del v. 1 la cui
presenza è una scelta originale dell’autore biblico;
c) la frase esprime in modo sintetico tutta la creazione, come quando nei Salmi
si loda Dio quale «creatore del cielo e della terra» (con il verbo ‘āśâ «fare»: Sal
115,15; 121,2; 124,8; 134,3; cfr. 2Cr 2,11; si veda anche Gn 14,19 con il verbo
qānâ); ciò è confermato dal fatto che Es 20,11 e 31,17 parlano della creazione di
«cielo e terra» in sei giorni, intendendo quindi i due termini come espressione
sintetica di tutta quanto elencato in Gn 1. La frase non rappresenterebbe l’inizio del
racconto, ma una sorta di intestazione o di titolo.
Decidere tra le due ipotesi è difficile, in ogni caso è importante che sia chiaro
che il v. 1 non costituisce l’inizio della narrazione dell’agire di Dio che si ha soltanto
al v. 3, mentre il v. 2 tenta in qualche modo di rappresentare la situazione precedente
la creazione, o, meglio, antitetica ad essa (vedi più sotto).
Il verbo ebraico bārā’ «creare» è usato nella Bibbia ebraica sempre e soltanto
con Dio come soggetto. Si noti che non è l’unico verbo usato per indicare la
creazione: spesso, anche in Gn 1, si usa il più generico ‘āśâ «fare» per indicare
l’attività del Signore che crea. Quindi, il fatto che bārā’ «creare» sia usato solo con
Dio come soggetto rappresenta una scelta precisa: è un termine tecnico sviluppato
dalla riflessione religiosa d’Israele, per descrivere la creazione divina come
un’«attività» del tutto peculiare, senza che l’affermazione della differenza, o
potremmo dire della trascendenza dell’operare divino, neghi la possibilità di stabilire
delle analogie tra il «fare» divino e il «fare» umano (dato che per entrambi si può
usare il verbo ‘āśâ «fare»).
Come già accennato, «cielo e terra» sono un’indicazione sintetica di tutto il
cosmo. Si tratta, in linguaggio tecnico, di un «merismo», cioè di una espressione nella
quale la totalità viene indicata con l’uso di termini contrari o che rappresentano due
estremi.
La situazione antitetica alla creazione è espressa nel v. 2 con tre frasi. Nella
prima, la terra è caratterizzata con i vocaboli tōhû e bōhû che si ritrovano insieme in
Is 34,11; Ger 4,2328. In questi passi descrivono il deserto, soprattutto in senso
negativo e di minaccia, come devastazione e desolazione; inoltre il termine tohû
compare in contesti in cui si indica la vanità, il vuoto o la nullità di qualcosa (cfr. per
es. 1Sam 12,21 dove indica la vanità o nullità degli idoli).
Le «tenebre» vanno intese, nella seconda proposizione, nel loro significato
negativo di minaccia, e compaiono in molte cosmogonie come elemento primordiale,
in opposizione alla creazione. «Abisso» traduce l’ebraico tehôm, che indica le acque
28 Solo in questi tre passi compare nella Bibbia ebraica il termine bōhû, che non ha quindi
un’esistenza propria, ma dipende sempre da tōhû, che è invece più frequente e viene usato
soprattutto nel libro di Isaia (in particolare nel Secondo Isaia). Alcuni autori pensano a uno sfondo
mitologico di queste parole, cioè che derivino da termini usati per designare divinità (tra i Sumeri o
tra i Cananei), ma l’ipotesi rimane dubbia. Inoltre va considerato che non sempre l’origine di una
parola ha significato per chi la usa!
Esegesi di Gn 1‒3 13
profonde, quelle che scorrono sotto terra29; qui indica l’oceano primordiale, le acque
non ancora imbrigliate e controllate (cfr. v. 9).
La terza proposizione del v. 2 è la più complicata da interpretare: la parola ruaḥ
che può essere tradotta sia «vento» sia «spirito». È vero che sempre nella Bibbia
quando si trova, come qui, ruaḥ ’ĕlōhîm si sta indicando lo «spirito di Dio», ma con
questa traduzione l’ultima proposizione del v. 2 andrebbe intesa in opposizione alle
prime due e non come una coordinata che continua la descrizione della situazione
antitetica alla creazione. Sembra meglio intendere che ’ĕlōhîm qui sia usato per
indicare un superlativo, come accade in alcuni versetti poetici dell’AT (cfr. Gb 1,16;
Sal 36,7; 80,11; Is 14,13) e quindi si debba tradurre «un grande vento», un «vento
impetuoso»; in effetti, il vento è un altro elemento presente nelle cosmogonie antico
orientali. Con questa traduzione il verbo rāḥap va reso «tremava, scuoteva» (come in
Ger 23,9) anziché «aleggiava» (richiamando l’uso in Dt 32,11).
Occorre soffermarsi su una possibile difficoltà del lettore moderno con questo v.
2, che evidentemente ha un problema di logica narrativa: abbiamo infatti spiegato che
il v. 1 non è l’inizio della narrazione e che la «terra» viene creata soltanto al vv. 9-10.
Come può quindi l’autore, immaginare la terra «deserta e vuota» prima che sia
creata? Se il racconto della creazione vera e propria inizia al v. 3, come può il v. 2
rappresentare una realtà che esiste prima del creato? Vuol dire che il testo contraddice
l’affermazione propria della fede cristiana per cui Dio ha creato dal «nulla»30?
La risposta alla domanda va cercata approfondendo sia la logica del v. 2 sia
quella dell’affermazione tradizionale cristiana. In entrambi i casi non si tratta, in
realtà, di fare un’affermazione su un ipotetico momento precedente la creazione,
perché, ovviamente, non esiste un «prima» della creazione dato che essa comprende
anche la creazione del tempo. Quando si parla di «creazione dal nulla» non si fa
un’affermazione sul prima della creazione ma sul contrario della creazione: si vuole
appunto affermare che tutto ciò che esiste dipende da Dio e che non è possibile
pensare nulla che esista indipendentemente dall’azione divina. Analogamente va
interpretato Gn 1,2: è il modo con cui l’autore descrive, in conformità alla cultura e
alla mentalità del suo tempo, il contrario della creazione; essendo quest’ultima vista
sopratutto come cosmo ordinato in cui la vita fiorisce, la situazione contraria è
rappresentabile dai luoghi / situazioni in cui non c’è armonia né ordine e la vita è
impossibile31. L’autore biblico accetta, quindi, una visione diffusa nell’antico Vicino
Oriente, dove la creazione era spesso vista come limitazione e trasformazione del
29 L’etimologia della parola ha quasi certamente un legame con il babilonese Tiamat, il nome
della divinità sconfitta da Marduk nella lotta primordiale e da cui scaturisce poi la creazione. Si
tratta però di un legame remoto, non di una dipendenza diretta di Gn 1,2 dalla cosmogonia
babilonese.
30 Affermazione che, tra l’altro, il cristianesimo eredita dal giudaismo, visto che si trova in 2Mac
7,28: «Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi e sappi che Dio li
ha fatti non da cose preesistenti; tale è anche l’origine del genere umano»
31 È evidente che, mentre la formulazione della «creazione dal nulla» riprende il linguaggio
filosofico, quella di Gn 1,2 utilizza piuttosto il linguaggio mitologico.
Esegesi di Gn 1‒3 14
32 Cfr. K. LÖNING - E ZENGER, In principio Dio creò. Teologie bibliche della creazione,
Queriniana, Brescia 2006, pp. 19-35.
33 Per un approfondimento di questo aspetto cfr. F. SERAFINI, «Creatore nella gratuità», in A.
POLAT (a cura di), Il Dio della Bibbia, Centro di studi biblici, Sacile (Pn) MANCA DATA, pp. 14-
17.
34 Cfr. G. RAVASI, L’uomo biblico e la scienza moderna, in «Ricerche Storico Bibliche» 24
(2012), p. 34.
Esegesi di Gn 1‒3 15
all’origine del mondo non si trova un qualche bisogno divino o una necessità delle
cose, ma semplicemente la sua volontà creatrice.
La «luce», creata il primo giorno, si contrappone alle «tenebre» rappresentando
l’antitesi della situazione caotica, del «nulla» del v. 2. In questo senso è chiaro il
motivo della sua creazione come prima opera. Nella struttura del capitolo la luce è
legata alla scansione settimanale: creando la luce, separandola dalle tenebre, si forma
il giorno, l’unità temporale che articola la descrizione dell’opera divina in questo
capitolo e che scandisce anche la vita dell’umanità.
v. 4 Con l’aggettivo «buono» non è in gioco una valutazione etica o estetica del
creato (l’ebraico ṭôb può significare anche «bello»: l’antica versione greca dei
Settanta traduce infatti con kalós, «bello»); ci si riferisce piuttosto alla sua perfezione
e armonia, alla sua conformità con lo scopo a cui è destinato35. La frase, ripetuta
all’interno del racconto, suggerisce che la contemplazione del creato («vide») non
può che portare alla constatazione della sua positività («buono/bello/perfetto») e
quindi, in ultima analisi, alla lode per il creatore (si veda l’uso della frase in Sal 34,9).
Il lettore è quindi invitato ad assumere nei confronti del mondo lo stesso sguardo di
Dio.
Si può notare che il giudizio di bontà qui è riferito alla luce e non alla
separazione tra luce e tenebre suggerendo implicitamente una scala di valori: la luce è
meglio delle tenebre, nonostante anche queste abbiano chiaramente una loro funzione
nel creato.
La «separazione» rimanda, in parte, al linguaggio che si trova a volte nelle
cosmogonie antico-orientali in cui la separazione tra cielo e terra è l’evento decisivo
che permette di iniziare a descrivere il mondo, facendolo emergere dall’insieme
precedente, indistinto, confuso e caotico. La caratteristica propria di questo racconto
è quella di vedere tale separazione in senso temporale e non spaziale: separando luce
e tenebre Dio crea il giorno. Riflettendo però sul concetto di separazione, va inoltre
notato che esso svolge un ruolo importante nell’ambito del culto di Israele e
dell’ideologia ad esso connessa36, per preservare la distinzione tra sacro e profano (Lv
10,10; 11,47; 20,25; Ez 22,26; 42,20) e permettere così un corretto rapporto con la
divinità. La separazione, quindi, non è soltanto un’attività ordinatrice che struttura il
cosmo dandogli un senso, ma è anche l’operazione che permette di vivere all’interno
di tale cosmo la relazione con il creatore.
v. 5 Anche il dare un nome è un elemento presente nelle cosmogonie: nel poema
babilonese Enuma Elish «nominare» è in parallelo a «creare» e prima della creazione
nessuna cosa ha un nome37. Assegnare un nome è un segno di dominio, come accade
35 Cfr. G. RAVASI, «Dio vide che era ṭov» (Gn 1)», in «Parola Spirito e Vita» 44 (2001), pp. 11-
20.
36 Il racconto di Gn 1,1–2,3 viene attribuito a una scuola o redazione «sacerdotale» così definita
perché chiaramente legata alle idee espresse in testi biblici legati all’attività dei sacerdoti o attribuiti
a qualcuno di essi (come, p. es., il profeta Ezechiele, di cui sappiamo che era un sacerdote).
37 Il poema, infatti, inizia con queste parole: «Quando lassù il cielo non aveva ancora nome, e
quaggiù la terraferma non era ancora chiamata con un nome» (Enuma Elish, I,1-2).
Esegesi di Gn 1‒3 16
quando un sovrano cambia il nome a un suo vassallo (2Re 23,34; 24,17): si afferma,
quindi, il dominio divino sulle realtà create. Ma il nome non è puramente arbitrario
nella mentalità antica: rivela, in qualche modo, il significato di ciò che designa
all’interno dell’opera divina.
La menzione del «giorno uno», così come le successive menzioni dei giorni,
caratterizza il racconto creando un certo paradosso: l’evento dell’inizio, che ha una
carattere del tutto particolare, viene inserito nella successione dei giorni esattamente
come le normali vicende umane.
che abbiano ciascuno il proprio seme sulla terra». Così avvenne. 12La terra fece
spuntare germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie,
e alberi da frutto che hanno ciascuno il proprio seme, secondo la propria specie.
Dio vide che era buono (ṭôb). 13Venne sera e venne mattina: terzo giorno.
Due sono le opere compiute nel terzo giorno: la separazione delle acque inferiori
(vv. 9-10) e la produzione dei frutti della terra (vv. 11-12).
vv. 9-10 Come accennato, nella visione del mondo che l’autore biblico
condivide con le culture circostanti, le acque sono viste come un elemento instabile e
minaccioso, ma Dio, assegnando loro un luogo preciso e ponendo dei confini che non
possono valicare38, ne fa un elemento necessario per la vita. Inoltre, l’acqua, in
particolare il mare, veniva spesso divinizzata: nel testo biblico non c’è traccia di
questa idea dal momento che essa è presentata come creatura di Dio la cui forza è da
Lui limitata.
vv. 11-12 Dopo aver permesso alla terra asciutta di emergere, una parola di Dio
dona ad essa la capacità di essere feconda. Il regno vegetale non è creato direttamente
dalla parola di Dio, ma dalla terra39 che da Dio ha ricevuto la capacità di produrre
germogli, erbe e alberi. La vita che così sboccia è presentata come un insieme
ordinato (cfr. la frase: «secondo la propria specie») e, al contempo, variegato.
40 La tentazione di divinizzare gli astri rimane comunque presente nella storia del popolo di
Israele: cfr. Dt 4,19; Ger 44,17-19; Sap 13,1-9.
41 Opportunamente la nuova versione Cei del 2008 traduce qui l’ebraico mo‘ēd con «festa»,
correggendo la scelta precedente di «stagioni», che non corrisponde al senso del termine.
Esegesi di Gn 1‒3 19
soprattutto delle bestie selvatiche e delle fiere, può essere considerato una
maledizione per l’uomo, dato che spesso danneggiano lui e le sue attività; viceversa
benedizione per l’uomo è l’assenza di animali selvatici44. In ogni caso sembra di
capire che l’autore voglia evocare una convivenza armonica ed equilibrata fra uomo e
animali (cfr. commento ai vv. 29-30). L’armonia è ribadita dalla frase «secondo le
loro specie», che evoca un ordine che si oppone all’indifferenziazione caotica.
vv. 26-31 Nella creazione dell’essere umano si intrecciano ancora il modello di
creazione mediante un’attività («facciamo») e mediante la parola («Dio disse»).
Questi versetti, data la loro importanza anche nella tradizione cristiana, richiedono
un’analisi più dettagliata.
v. 26 Qui emerge subito una difficoltà: perché il verbo plurale «facciamo»? fino
adesso si è sempre usato il singolare nel testo per i verbi con Dio come soggetto! 45. La
tradizione cristiana vi ha spesso colto un implicito riferimento alla Trinità, ma è
chiaro che una tale lettura è possibile soltanto a partire dalla Rivelazione
neotestamentaria. Nella prospettiva dell’autore dell’AT, invece, si può pensare a due
spiegazioni:
- Dio parla alla corte celeste, cioè agli angeli (cfr. l’immagine della corte celeste
in 1Re 22,19; Gb 1,6-7), coinvolgendoli nell’opera;
- il plurale va inteso come un «plurale deliberativo», cioè una forma plurale
usata per sottolineare una decisione; l’uso di questo tipo di plurale si può constatare
in 2Sam 24,14: «Davide rispose a Gad: «Sono in grande angoscia! Ebbene cadiamo
nelle mani del Signore, perché la sua misericordia è grande, ma che io non cada nelle
mani degli uomini»»; l’alternanza di singolare e plurale rende chiaro che si tratta
sempre di una scelta di Davide46.
Questa seconda spiegazione sembra preferibile, anche perché in genere i
racconti attribuiti alla tradizione sacerdotale non danno grande spazio agli angeli;
quindi non pare plausibile qui un riferimento alla corte celeste47. Poiché il plurale
deliberativo sottolinea l’importanza e la solennità della decisione divina, ciò distingue
la creazione dell’essere umano (’ādām)48 dalle altre sette opere precedenti.
Per poter capire il senso dell’espressione «a immagine, secondo somiglianza» è
utile soffermarsi sul significato dei due termini: ṣelem, «immagine», e demût,
44 B. COSTACURTA, Benedizione e creazione in Gn 1,1-2,4a, cit., p. 28.
45 Per una più ampia esposizione delle diverse interpretazioni date al verbo «facciamo», cfr. C.
WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., pp. 144-145; E. BIANCHI, Adamo dove sei?, cit., pp. 135-137.
46 Questo «plurale deliberativo» va distinto dal plurale maiestatis che si può usare in italiano,
ma non si trova praticamente mai in ebraico.
47 Cfr. G. BORGONOVO, «L’inno al creatore per la bellezza della creazione (Gn 1,1–2,4a), in G.
BORGONOVO E COLLABORATORI, Torah e storiografie dell’Antico Testamento, Elledici, Leumann
(To) 2012, p. 416. Di diverso avviso G. von RAD, Genesi, cit., p. 69. Si deve comunque tenere
presente che le due spiegazioni non si escludono a vicenda, cfr. F. GIUNTOLI, Genesi 1–11, cit., pp.
84-85 dove sono pacificamente accostate. L’idea che Dio parli ai suoi angeli è presente anche
nell’interpretazione midrashica: per un esempio, confronta i testi a cui fa riferimento E. BIANCHI,
Adamo dove sei?, cit., pp. 135-136.
48 Il termine ’ādām in ebraico non è un nome proprio, ma un nome comune, «uomo», «essere
umano».
Esegesi di Gn 1‒3 21
sessuale specifica con un elemento nuovo l’idea di umanità creata a immagine di Dio.
Lo slittamento dal singolare «lo creò» al plurale «li creò» evidenzia ancor di più
come sia l’umanità in quanto maschio e femmina a essere immagine di Dio51.
Abbiamo qui un altro tassello per comprendere appieno la realtà dell’essere
«immagine e somiglianza» del Creatore. Ma conviene aggiungerne ancora uno, prima
di provare a fare una spiegazione sintetica.
v. 28 Dio si rivolge direttamente all’uomo e alla donna per benedirli dando loro
il dono della fecondità e il compito di dominare e soggiogare la terra. In Gn 1 ricorre
per dieci volte l’espressione «Dio disse» (vv. 3.6.9.11.14.20.26.28.29); soltanto nei
vv. 28-29 la parola divina è rivolta a un interlocutore che è esplicitato nel v. 28 («Dio
disse loro»). Uomo e donna sono le uniche creature a cui Dio rivolge la parola
sapendo di essere ascoltato.
Il contenuto della parola divina è anzitutto il dono della fecondità descritto con i
verbi pārâ, «portare frutto», «essere fecondo», rābâ, «moltiplicare», che si ritrovano
alla fine del diluvio, in riferimento a Noè e ai suoi figli (Gn 9,1), e nelle promesse ai
patriarchi (Gn 28,3;35,11; 47,27; 48,4)52. Ritorna poi il verbo «dominare» (rādâ), che
abbiamo visto nel v. 26, rafforzato dal termine kābaš, «soggiogare», che richiama
l’immagine di uno che pone i piedi su qualcosa per prenderne possesso (ma ha anche
una valenza negativa: il dominio sullo schiavo o lo sfruttamento). Riprendendo l’idea
del dominio, il v. 28 chiude il pensiero iniziato con il v. 26 e contribuisce a
precisarlo. Il dominio è, infatti, associato alla fecondità, cioè all’espansione della vita
che è possibile perché l’uomo è maschio e femmina. Questo implica un valore
positivo del dominio e della sottomissione53 di terra e animali, perché, appunto, è in
funzione della vita (e non della violenza di morte); sottolinea, inoltre, il collegamento
fra il v. 26 e il v. 27: l’uomo «domina» in quanto maschio e femmina, relazione di
fecondità.
Tornando quindi alla questione di come interpretare il linguaggio dell’immagine
e somiglianza riferito all’essere umano creato da Dio si deve notare che:
51 Ritengo invece del tutto fuorviante il tentativo di dedurre da questo versetto l’idea che Dio
abbia in sé una distinzione di genere, come è stato fatto anche recentemente (T. GUDBERGSEN, God
consists of both the Male and the Female Genders: A short note on Gn 1:27, «Vetus Tesamentum»
62 [2012] pp. 450-453). Si suppone, infatti, quello che il testo non dice (e non potrebbe voler dire),
cioè la possibilità di leggere il concetto di «immagine» in entrambi i sensi. Il brano di Genesi dice
esplicitamente che l’essere umano è immagine di Dio, ma non che Dio sia immagine dell’umano! In
effetti, questa seconda affermazione è impossibile nell’AT, perché in contrasto esplicito con il
comandamento che vieta di farsi una qualunque immagine di Dio (cfr. Es 20,4; Dt 5,8).
52 Curiosamente, tale benedizione che coinvolge non solo Israele ma tutta l’umanità si realizza
quando il popolo si stanzia in Egitto (Es 1,7): è in quel momento che la pienezza, il «riempite la
terra» a cui tende la benedizione si compie: la frase che in Es 1,7 viene tradotta «il paese ne fu
pieno» in ebraico è praticamente la stessa di Gn 1,28. Questo crea una tensione e un paradosso con
la vicenda seguente, dove il Faraone tenta di opporsi a tale fecondità, cfr. F. SERAFINI, Il Dio della
vita, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2010, pp. 14-15.
53 Questo ci sembra il significato globale del versetto, anche se l’uso del verbo kābaš introduce
una sfumatura negativa che probabilmente richiama l’ambiguità di questa facoltà umana, che può
portare anche ad esiti negativi.
Esegesi di Gn 1‒3 23
3. Interpretazione globale
Possiamo provare a sintetizzare il percorso svolto nell’analisi dettagliata del
testo, raccogliendo i dati attorno a due punti: ciò che questo racconto ci dice sul
mondo e sull’uomo.
Il mondo
a) Riguardo il mondo, il testo afferma che esso ha un suo ordine e una sua
armonia. Questo appare da diversi espedienti letterari: anzitutto l’articolazione stessa
del brano secondo lo schema numerico settenario che richiama l’idea di perfezione;
poi dalla disposizione ordinata e progressiva delle opere create (prima si creano gli
ambienti, poi le creature che li abitano, ponendo alla fine gli esseri viventi che
abitano la terra); dal linguaggio della separazione, che distingue le realtà le une dalle
altre; infine dal commento esplicito circa la bontà/bellezza/perfezione delle diverse
opere («Dio vide che era buono»). Questa insistenza sull’assoluta positività della
struttura del cosmo serve anche a far comprendere al lettore che esso, nella sua intima
essenza, corrisponde al progetto di divino; quindi le forze naturali non possono essere
considerate nemiche dell’umanità. Potremmo dire che la Bibbia rigetta, in questa sua
prima pagina, l’idea di una natura «matrigna» e quella di un universo dominato dalle
leggi del caso.
b) L’autore, pur utilizzando linguaggio e immagini simili a quelli dei racconti di
altri popoli, se ne distacca volutamente in diversi aspetti, soprattutto per sottolineare
l’unicità del Dio d’Israele e la sua trascendenza rispetto a qualsiasi realtà mondana. Il
cosmo è voluto da YHWH, nasce dalla sua libera decisione e dipende da Lui: tutto ciò
che compone il creato non va divinizzato (per questo, p. es., gli astri sono designati
con termini che ne indicano la funzione di dispensatori di luce e non con i loro nomi),
contro le abitudini dei popoli antichi che diventavano anche una costante tentazione
per Israele. Secondo l’autore biblico c’è un legame fra questo aspetto e quello che
abbiamo evidenziato nel capoverso precedente: il mondo può essere e rimanere bello,
buono e ordinato solo se si riconosce tale sua condizione strutturale, senza divinizzare
e idolatrare nessuna creatura. L’idolatria, negando la correttezza dei rapporti tra le
creature e di loro con il Creatore compromette non solo la percezione della verità del
mondo, ma anche la sua stessa stabilità.
c) Complementare a questa osservazione è quella legata al linguaggio della
separazione (cfr. 1,4.6.7.14.18). Esso rimanda alla concezione degli ambienti
sacerdotali (a cui con ogni probabilità appartiene l’autore del brano) che ritiene molto
importante la distinzione non solo dei tempi e delle feste (cfr. 1,14.18), ma anche del
puro e dell’impuro per la celebrazione appropriata del culto. Questo linguaggio
suggerisce di considerare quindi il mondo come il luogo nel quale e attraverso il
quale si può entrare in relazione con Dio (questa è primariamente la funzione del
culto). Non è un malintesa «fuga dal mondo» che consente il dialogo con Dio, ma la
contemplazione del cosmo e l’agire in esso, riconoscendone le leggi, che sono state
poste in esso dal Signore. Eliminare tale aspetto dal cosmo, considerandolo
completamente sganciato da Dio significa negarne un aspetto fondamentale. In altri
termini: sia divinizzando la natura, sia considerandola in chiave puramente
materialista, senza alcun rapporto con Dio, diventa impossibile per l’essere umano
fruire della bontà e della bellezza del cosmo; di più: l’uomo rischia di perdere la
propria identità e/o di distruggere l’armonia del creato.
L’uomo e la donna
a) L’essere umano ha una posizione particolare nel mondo espressa sia dal suo
essere creato per ultimo (quale vertice della creazione) sia dall’essere «immagine e
somiglianza» di Dio. Questa espressione implica da una parte un peculiare rapporto
con tutte le altre creature, che il testo esprime con il linguaggio del dominio (che va
visto però in funzione della vita); dall’altra uno speciale rapporto con il Signore:
l’uomo e la donna sono la creatura che sta davanti a Lui, che può interloquire con Lui
e riconoscere quindi la dipendenza del creato dal suo creatore. Questo significa,
implicitamente, che l’uomo ha una responsabilità particolare in quanto è l’unica
creatura che può (e deve) prendere coscienza della sua identità in rapporto al Signore.
Possiamo riformulare lo stesso concetto facendo riferimento alla «parola» che gioca
un ruolo fondamentale nel testo: infatti, solo nell’uomo e nella donna, uniche creature
che sanno parlare, il creato originato dalla Parola divina può rispondere al suo
creatore, pronunciare una parola libera che riconosce il dono ricevuto.
b) Per approfondire questo aspetto si può riflettere sullo schema comando-
esecuzione tipico del brano. Perché l’autore insiste nel ripetere: «Dio disse… (così)
fu / avvenne»? Certamente per sottolineare l’efficacia e la potenza della Parola
divina. Ma non possiamo pensare che per l’autore biblico tale efficacia si dispieghi
soltanto agli inizi del tempo; per lui è ovvio che la Parola di Dio realizza sempre ciò
che comanda. Ma una volta che l’essere umano è stato creato, l’esecuzione della
parola divina nel mondo è affidata anche alla sua libertà e responsabilità: dopo la
Esegesi di Gn 1‒3 28
creazione dell’uomo e della donna, infatti, Dio si rivolge a loro (cfr. vv. 28-29),
perché a questo punto è necessario che la Parola sia ascoltata.
c) La libertà e responsabilità dell’uomo e della donna appare implicitamente
anche dalla struttura del racconto, articolato sulla scansione settimanale. Essa
rimanda allo scorrere del tempo nella storia umana e quest’ultima è appunto il campo
delle scelte libere e consapevoli. In altri termini: inquadrando l’intervento primordiale
di Dio nell’unità temporale che scandisce l’attività umana, l’autore del brano
sottolinea il legame ineludibile che si pone fra l’agire degli uomini e quello del
Signore, fra le scelte umane e le scelte divine. Questa contiguità significa appunto che
l’uomo è in qualche modo chiamato ad accogliere l’opera divina e a proseguirla.
Sotto questo aspetto, il sabato ricorda che il compimento dell’agire umano (in quanto
«immagine e somiglianza» dell’agire divino) è la «santificazione» cioè il rapporto
con il Signore. Trascurare questo significato del sabato significherebbe sganciare la
propria attività nel creato dal senso globale che lo sostiene.
d) Tutto questo può essere ribadito riprendendo un’osservazione proposta dai
maestri ebrei: la formula «Dio disse» ricorre dieci volte nel brano (vv.
3.6.9.11.14.20.24.26.28.29); abbiamo così dieci parole, esattamente come nel
Decalogo (cfr. Es 34,28; Dt 4,13; 10,4). La Torà divina (noi di solito traduciamo
Legge, ma il senso del termine si può avvicinare anche a quello di Rivelazione: è la
manifestazione della volontà di Dio per il suo popolo) non è qualcosa che appare a un
certo punto della storia, come un evento tra gli altri, ma si colloca all’origine del
mondo, quindi è anche ciò che lo muove verso il suo compimento. La forza teologica
di tale interpretazione sta ovviamente anzitutto nell’affermare implicitamente
l’universalità della Torà: ciò che è rivelato a un popolo, Israele, è in realtà anche ciò
che governa il cosmo e riguarda quindi, in qualche modo tutti l’umanità. Ma
possiamo leggerla anche nella prospettiva della Parola, che abbiamo evidenziato
sopra: la parola della Legge, il comando, è rivolto all’uomo e alla donna e
nell’obbedienza ad esso sta la possibilità di vivere nell’armonia, bellezza e bontà che
corrispondono al progetto di Dio e all’essenza profonda dell’umanità e del creato.
Ascoltare la parola divina è esattamente ciò che corrisponde alla vocazione e alla
natura stessa dell’uomo e del cosmo: la mancanza di quella Parola nel mondo
(mancanza che si realizza quando l’uomo e la donna si rifiutano di accoglierla e
metterla in pratica) lo trascina inevitabilmente verso la situazione di caos (v. 2) da cui
essa lo aveva «separato». Per questo la creazione non è collocata «fuori» dalla storia,
ma ne costituisce l’inizio (come indica la scansione settimanale); e non si tratta di una
storia anonima e priva di senso, ma della storia del rapporto tra Dio e l’uomo, quindi
di una storia d’amore: la storia del Dio che continua a far risuonare la sua Parola
anche quando sembra che non ci sia più nessuno disposto ad ascoltarla: «In principio
era la Parola…la Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,1.14).
Esegesi di Gn 1‒3 29
1. Contestualizzazione testuale
vv. 18-25: rapporto uomo-donna. L’unità della sottoparte è data dal tema: nel v.
18 Dio individua la presenza di una realtà negativa, la solitudine dell’uomo,
che viene risolta con la creazione della donna. Il v. 25, menzionando la
nudità dei due, lega strettamente il c. 2 con il c. 3.
Anche la seconda parte può essere suddivisa in tre sottoparti:
3,1-7: il superamento del limite posto da Dio. Questa sottoparte è incentrata sul
dialogo tra la donna e il serpente.
vv. 8-19: le conseguenze del superamento. Anche qui l'inizio della sottoparte è
marcato dall'ingresso di un personaggio assente nei precedenti vv. 1-7: Dio
che appare come giudice. Si può dividere in due brani: l’interrogatorio (vv.
8-13) e il giudizio (vv. 14-19).
vv. 20-24: conclusione. L’uomo e la donna sono cacciati dal giardino, che non è
più quindi lo sfondo della scena, e Dio pone dei nuovi limiti.
2. Contestualizzazione critica
63 Anche riguardo a Gn 3 ci sono delle ipotesi che fanno pensare che il testo attuale sia il
risultato della fusione di elementi appartenenti a racconti diversi. Ad un’attenta lettura, si nota, ad
esempio, che uomo e donna ricevono una doppia punizione: una come singoli (v.16 per la donna;
v.17-19 per l’uomo), una come coppia: la cacciata dal giardino (vv.22-24). Cfr. C. WESTERMANN,
Genesis 1-11, cit., p. 195.
64 Nella tradizione cristiana questa lettura si è sviluppata nell’idea che «i nostri progenitori
Adamo ed Eva sono stati costituiti in uno stato di “santità e di giustizia originali”. La grazia della
santità originale era una “partecipazione alla vita divina”» (CCC, 375; cfr. anche i nn. 376-379). Il
lettore tenga comunque presente che questo insegnamento tradizionale cristiano non si basa
esclusivamente sull’esegesi di questi capitoli di Genesi, ma sulle riflessioni dei Padri della Chiesa
che riprendevano, in parte, alcune idee già elaborate dalla tradizione giudaica. Faccio notare
soltanto una cosa curiosa: nel testo di Gen 2,4–3,24 non c’è nessuna indicazione temporale (a parte
quella indiretta di 3,8, con il riferimento alla «brezza del giorno») che permetta di separare le azioni
descritte: il lettore ha la netta impressione che avvengano tutte una di seguito all’altra senza
significative interruzioni, come se si svolgessero tutte nello stesso momento. E la prima azione
dell’uomo e della donna è la trasgressione.
Esegesi di Gn 1‒3 33
3. Commento esegetico
3.1 Introduzione
4
Queste sono le generazioni (’ēlleh tôledôt) del cielo e della terra, quando
vennero creati. Nel giorno in cui YHWH Dio fece terra e cielo 5non c’era ancora
alcun cespuglio campestre sulla terra, nessuna erba campestre era ancora
spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non c'era
uomo (’ādām) che lavorasse il suolo (’ădāmâ) – 6una polla d'acqua sgorgava
dalla terra e irrigava tutto il suolo – 7YHWH Dio plasmò l'uomo (’ādām) con
polvere del suolo (’ădāmâ) e soffiò nelle sue narici un respiro vitale e l'uomo
divenne un essere vivente.
65 Cfr. J.-L. SKA, L’Antico Testamento spiegato a chi ne sa poco o niente, San Paolo, Cinisello
Balsamo 2011, p. 53; F. GIUNTOLI, Genesi 1-11, cit., p. 44.
66 Cfr. J.L. SKA, Introduzione, cit., pp. 31-33.
Esegesi di Gn 1‒3 34
Con la seconda parte del v. 4 iniziano una serie di frasi subordinate, rette da
«quando», che si concludono nel v. 7 dove appare la frase principale introdotta da
«allora». Se in Gn 1 il caos iniziale è caratterizzato dalla presenza dell’acqua che
tutto sovrasta, in Gn 2,5 è presentata la situazione inversa: non c’è acqua e quindi non
c’è vita. Se nel primo racconto di creazione, l’acqua rappresenta l’elemento negativo
che deve essere limitato, in Gn 2 è segno di benedizione, la cui mancanza è causa di
sterilità. Così, il mondo, prima della creazione dell’uomo, si presenta come una realtà
totalmente negativa: non c’erano cespugli, erba, il Signore non aveva fatto piovere,
nessun «terrestre» lavorava il suolo. La comprensione del v. 6 nel contesto è
problematica e anche la traduzione del termine ebraico ’ēd (abbiamo seguito la scelta
della versione CEI: «polla d’acqua») è incerta. Non si capisce bene se l’autore voglia
insistere sull’assenza d’acqua (cfr. v. 5 che menziona la mancanza di pioggia) o su
una sua presenza non regolata (che sarebbe forse il senso del v. 6)67.
Nel v. 7, Dio, come un vasaio, plasma l’uomo (hā’ādām). Il verbo yāṣar,
«plasmare, modellare, formare», spesso utilizzato per indicare l’azione creatrice di
Dio, mette in luce come ciò che viene creato è frutto del lavoro di Dio, dipende dalle
sue mani. Mentre in Gn 1 Dio crea con la parola, qui si «sporca le mani» e alla fine,
come un artista, contempla la sua opera. Ciò che viene creato è l’’ādām: con questo
termine ebraico l’autore rendere anche visivamente il legame tra l’essere umano, ’e la
terra, ’adāmâ, da cui è tratto. Il termine ’ādām non va, a questo punto, inteso come
nome proprio di persona, ma indica ogni essere umano, anzi, ogni «terrestre» tratto
dalla «terra».
La versione italiana della CEI legge «Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo»
traducendo ‘āpār: «con la polvere», anche se in ebraico non c’è nessuna preposizione
corrispondente a «con», perché in quella lingua si può indicare la materia di una cosa
anche senza usare una preposizione (accusativo di materia). Ma ‘āpār può anche
essere inteso come una qualificazione del termine «uomo» (complemento predicativo
dell’oggetto), traducendo: «Dio plasmò l’uomo polvere», l’essere umano è polvere,
non solo fatto con la polvere. Questa idea si ritrova sia in Gn 3,19, «polvere tu sei e
polvere tornerai», sia in Sal 103,14: «Dio si ricorda che noi siamo polvere». In questo
suo essere plasmato con la polvere dalla terra, l’uomo è così intimamente legato ad
essa da apparire fin da subito un essere fragile, debole, finito, tanto da caratterizzarsi
per il suo essere «polvere dal suolo».
Soltanto il soffio divino68 permette a questo fantoccio di polvere di diventare un
essere vivente: ci si riferisce qui al respiro, che viene individuato come ciò che
appunto caratterizza i viventi. Nel nostro testo, la presenza dell’«alito di vita»
caratterizza l’uomo rispetto agli animali: anch’essi, infatti, sono plasmati dal suolo
ma non ricevono quel soffio che procede da Dio. Ma, in Gn 7,22 esso è riconosciuto
presente anche negli animali. L’«alito di vita», quindi, è ciò che fa di un corpo
plasmato con la polvere un corpo vivente, è una forza vivificante. La capacità di
67 Cfr. G. von RAD, Genesi, cit., 92; C. WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., 200-201
68 Anche il «soffiare» (cfr. Is 54,16), come il «plasmare» (Is 44,12), rimanda all’attività
dell’artigiano.
Esegesi di Gn 1‒3 35
vivere e di respirare, però, non cambia affatto la condizione dell’essere umano, che
rimane precaria: quando Dio ritira il suo soffio, l’uomo ritorna polvere: «togli loro il
respiro: muoiono, e ritornano nella loro polvere» (Sal 104,29; cfr. Gb 34,14-15)69.
L’uomo è così un essere in tensione: tratto dalla polvere, polvere lui stesso, ha in sé
quell’«alito di vita» che lo lega a Dio e lo fa essere un vivente.
D’altra parte, l’aspetto di precarietà, esplicito nel testo, contrasta con quanto
emerge, più implicitamente e in sottofondo, con la menzione dell’essere umano nel v.
5, prima ancora che venga creato. L’assenza di vegetazione è spiegata infatti non
soltanto con la mancanza della pioggia che viene da Dio, ma anche con la mancanza
del lavoro dell’uomo. La fecondità del suolo è quindi connessa strettamente alla
presenza degli esseri umani: è necessario anche il loro contributo perché la terra sia
ricca e prospera, assuma, cioè, quella dimensione positiva che la distingue dal vuoto
del deserto. La dimensione del lavoro, che caratterizza il rapporto tra l’uomo e la
terra, viene evocata ancora prima che l’essere umano sia creato ed è quindi, per
l’autore, una delle sue caratteristiche fondamentali. Essa ha una valenza
fondamentalmente positiva, perché contribuisce a trasformare ciò che non ha vita in
un luogo fertile e abitabile; segna perciò, in qualche modo, la grandezza dell’uomo.
aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi
9
graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l'albero della vita in mezzo al
giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva da
10
primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno a tutto il paese di Avìla, dove
c'è l'oro e l'oro di quella terra è fine; qui c'è anche la resina odorosa e la pietra
12
d'ònice. Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre intorno a tutto il paese
13
quarto fiume è l'Eufrate. Il Signore Dio prese (wayyiqqaḥ) l'uomo e lo pose nel
15
I vv. 8.15, in inclusione, narrano di Dio che prende l’uomo tratto dalla terra per
collocarlo un giardino da lui piantato. Dio fa passare l’uomo da un luogo desertico,
senza acqua e vegetazione, ad un giardino ricco d’acqua, di vegetazione e fertile. Nel
v. 15 troviamo il verbo lāqaḥ, «prendere», che è utilizzato anche per indicare
l’elezione di un uomo o di un popolo compiuta da Dio (Dt 4,20.34). Scopo di questa
elezione e di questo essere posto nel giardino sono la coltivazione e la custodia. Il
verbo šāmar, «custodire», viene utilizzato anche per indicare l’osservanza della
69 Dal punto di vista esegetico non sembra fondata l’interpretazione, che ha avuto una certa
fortuna nella tradizione cristiana, che vede in questo soffio divino l’infusione dell’«anima»
nell’uomo. Infatti, la visione antropologica dell’Antico Testamento non distingue due “parti”
nell’essere umano, ma tende a considerarlo come un’unità vivente; cfr. G. von RAD, Genesi, cit.,
pp. 93-94; C. WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., pp. 206-207. Va anche sottolineata la differenza
rispetto ad altri miti antichi che collocano nell’uomo il respiro divino, cfr. G. BORGONOVO, «La
grammatica dell’esistenza alla luce della storia d’Israele (Gn 2,4b–3,24)», in G. BORGONOVO E
COLLABORATORI, Torah e storiografie dell’Antico Testamento, cit., p. 416.
Esegesi di Gn 1‒3 36
70 Non si può vivere senza acqua e senza cibo, ma si può vivere senza oro, profumo, onice: sono
cose in fondo superflue, ma che aiutano l’uomo a vivere bene, contento, in pienezza, non
semplicemente a sopravvivere.
71 Nei profeti l’immagine del giardino dell’Eden e degli elementi che lo compongono viene
ripresa è proiettata in una dimensione escatologica: Is 51,3.6-16; 54,11-12; 60; 65,20-22; Ez 47,1ss;
Gl 4,18; Zc 13,1 dove vengono descritti fiumi d’acqua che escono dal tempio. In Ap 2,7 c’è l’albero
della vita che si trova nel «paradiso» di Dio (il termine ebraico gan, «giardino», è stato tradotto
nella LXX con parádeisos che, nel linguaggio profano, indica un giardino con vigne e alberi da
frutto, mentre nella letteratura intertestamentaria rimanda al luogo dell’aldilà destinato ai giusti:
questo significato si ritrova anche nel NT: cfr. Lc 23,43; 2Cor 12,4); nella descrizione della
Gerusalemme celeste si ritrovano le pietre preziose (Ap 21,18-21), dal trono di Dio scaturisce un
fiume d’acqua viva (Ap 22,1; 22,17); vi si trova l’albero della vita (Ap 22,2.14).
72 Cfr. G. PEREGO, Atlante Biblico interdisciplinare, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)
1998, p. 17.
73 Cfr., p. es., l’epopea di Gilgamesh, poema mesopotamico di cui E. TESTA, Genesi.
Introduzione - Storia primitiva, cit., p. 58, riporta il seguente brano: «Ti voglio rivelare o Ghilgameš
un segreto… circa una pianta ti voglio narrare: Questa pianta, simile a un licio spinoso… Le sue
spine pungeranno le tue mani come una rosa. Ma se le tue mani prendono la pianta, tu otterrai la
vita».
Esegesi di Gn 1‒3 37
Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi
16
del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare,
17
74 In questa prospettiva si comprende perché la trasgressione del comando porta alla maledizione
del suolo (Gen 3,17-19), cioè a una frattura nel rapporto fra ’ādām e ’ădāmâ, con la conseguenza
che il lavoro umano diventa faticoso e spesso infruttuoso.
Esegesi di Gn 1‒3 38
va precisata tenendo conto dei rapporti fra Gen 2 e Ez 28,1-19, un passo dove si fa
riferimento all’«Eden giardino di Dio» e alla creazione (v. 13). Nell’oracolo profetico
il re di Tiro viene accusato di aver uguagliato la sua mente a quella di Dio (vv. 2.6),
di aver detto di sé «io sono Dio» (v. 9). Il suo essere uguale a Dio, però, non rimanda
all’onniscienza posseduta dal re, ma al suo orgoglio, alla sua superbia che lo portano
a voler giudicare da solo, a pensare che la sapienza che possiede non è dono di Dio
ma sua conquista75. L’albero rappresenta dunque anche il desiderio dell’uomo e/o la
pretesa di determinare, esclusivamente a partire dalla sua capacità conoscitiva, la
realtà, ciò che è bene o male. In tal senso, il contenuto della parola divina corrisponde
alla sua forma di comando, perché la logica del comandamento è appunto quella di
indicare cosa è bene e cosa è male
Si noti che l'albero della vita non rientra nella proibizione, ciò significa che se
l’albero della conoscenza del bene e del male non è per l’uomo, lo è quello della vita:
non solo gli animali, non solo il giardino, ma la vita è a disposizione dell’uomo. Ma
questo è vero solo se accetta di riceverla in obbedienza e in dipendenza del creatore:
può prendere dell’albero della vita solo se rinuncia a prendere il frutto dell’albero
della conoscenza del bene e del male; è signore della vita solo se accetta di non essere
lui Dio, di non essere lui l’origine della vita che riceve come dono da un Altro76.
Se il terrestre mangerà dell’albero della conoscenza morirà. L’espressione
ebraica môt tāmût (infinito assoluto + yiqtol 2 m. sg. del verbo mût «morire») va
tradotta «certamente morirai» ed è analoga a môt yāmût (infinito assoluto + yiqtol 3
m. sg.: l’unica differenza è il cambio di persona) utilizzata in testi giuridici per
indicare la pena di morte (cfr. per es. Es 21,12.15.16.17): si potrebbe quindi intendere
anche Gn 2,17 come minaccia della pena capitale. Tale interpretazione sembra, però,
non potersi applicare al nostro racconto dal momento che, dopo aver mangiato
dell’albero, l’uomo e la donna non vengono uccisi. Non sembra che tale espressione
vada intesa, nel contesto del racconto, nel senso «diventerai mortale», come se
l’essere umano fosse stato creato immortale. Contro una tale interpretazione sta non
solo la descrizione dell’uomo come «polvere», che abbiamo illustrato, ma anche la
formulazione di Gn 3,22: «Poi YHWH Dio disse: “Ecco, l'uomo è diventato come uno
di noi quanto alla conoscenza del bene e del male. Che ora egli non stenda la mano e
non prenda anche dell'albero della vita, ne mangi e viva per sempre!”». Se
l’immortalità è legata all’albero della vita, non è una caratteristica strutturale
dell’essere umano, anche se era una possibilità per lui: il divieto, infatti, riguardava
soltanto l’albero della conoscenza del bene e del male, non l’albero della vita. Quindi,
75 Cfr. C. WESTERMANN, Genesis 1-11. A Continental Commentary, Fortress Press, Minneapolis
1994, 245-246.
76 Commentando il significato dell’espressione «albero di vita» abbiamo visto come esso sia
identificato con la sapienza e con i frutti che essa dona alla vita di chi la segue. Se l’uomo accetta di
non mangiare dell’albero della conoscenza riconoscendo che la sapienza, la conoscenza della realtà,
è dono di Dio, può godere dei frutti della sapienza rappresentati dall’albero della vita. Nel momento
in cui mangia, smette di essere un uomo sapiente e, quindi, perde anche la possibilità di godere
dell’albero della vita.
Esegesi di Gn 1‒3 39
implicito nel racconto sembra essere che l’immortalità è una condizione che uomo e
donna si sono negati come possibilità disobbedendo al comandamento divino77.
L’espressione «certamente morirai» di Gen 2,17 va perciò intesa o nel senso che
l’orizzonte dell’esistenza umana diventerà la morte e non la vita per sempre, oppure,
e mi pare l’interpretazione preferibile, in senso letterale, come sembra suggerire
anche l’uso della locuzione temporale: «nel giorno in cui». Letta così, la frase crea
una contraddizione con il seguito del racconto, perché uomo e donna, nel momento in
cui mangiano del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, non
muoiono: non si può che pensare alla contraddizione dell’amore di Dio, che si volge
alle sue creature anche quando disobbediscono alla sua parola.78
Un’ultima osservazione a proposito del giardino e del comando, che può essere
utile per approfondire quello che abbiamo cercato di spiegare a proposito del
carattere “mitico” di questi racconti e del loro rapporto con la storia di Israele. Va
notata, infatti, l’analogia fra la narrazione di Gen 2,4–3,24 e la storia d’Israele esposta
nei libro da Giosuè a 2 Re79: come Israele arriva nella terra promessa, così l’uomo è
posto nel giardino; come la permanenza di Israele nella terra è legata all’obbedienza
alla Torà, così la permanenza dell’uomo nel giardino è legata all’obbedienza al
comandamento divino; come Israele perde la terra per aver abbandonato l’alleanza
con Yhwh e aver trasgredito i suoi comandi, andando in esilio verso oriente, a
Babilonia, così l’uomo e la donna sono scacciati dal giardino80. Il linguaggio del v. 15
conferma l’analogia: i verbi ebraici, che abbiamo tradotto con «lavorare» (‘ābad) e
«conservare» (šāmar) in Gen 2,15, sono gli stessi che designano il «servire» Yhwh
(cfr., p. es., Es 3,12; 4,23; Dt 6,13; Gdc 2,7; 1Sam 7,3; Ger 2,20; Sal 100,2) e
l’«osservare» i comandamenti (cfr., p. es., Dt 4,6; 5,1; 6,25; 7,11.12; 8,1; 16,12).
Inoltre il verbo nûaḥ allo hifil (che abbiamo tradotto «pose») può anche significare
«dare riposo», «far stare tranquillo», ed indica la situazione di Israele nella terra di
Canaan (cfr., p. es., Dt 12,10; 25,19; Gs 1,13; 21,44; 22,4; 23,1). È evidente che
l’autore di Gen 2,4–3,24 non solo conosceva bene la vicenda che aveva portato il suo
popolo all’esilio (e quindi deve aver scritto questo brano dopo quegli avvenimenti),
ma anche che usa quel paradigma per interpretare la storia dell’intera umanità.
L’autore propone un’implicita universalizzazione della relazione fra Israele e il suo
Dio, perché ciò che regola quel rapporto (l’alleanza e la Torà) è anche ciò che
struttura il rapporto tra Dio e l’umanità intera. D’altro canto, l’infedeltà di Israele
all’alleanza con il suo Dio diventa la chiave di lettura della situazione dell’intera
umanità, segnata dal rifiuto della relazione con il creatore sin dalle sue origini. Il
rifiuto dell’uomo e della donna non è però la fine della storia dell’umanità, così come
l’esilio non è la fine della storia d’Israele: l’amore di Dio apre nuove vie e modalità
di vita con Lui.
gli sia simile». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e
19
tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in
qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva
essere il suo nome. Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del
20
cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile.
Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse
21
una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la
22
saranno una sola carne Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne
. 25
provavano vergogna.
Tutto ciò che è stato detto finora riguarda l’hā’ādām, la persona umana maschio
e femmina. Ora si aggiunge una specificazione particolare: questo «terrestre»
raggiunge la sua completezza nel momento in cui accetta l’alterità, si riconosce
maschio e femmina. Gn 2 dice narrativamente ciò che Gn 1 esprime in una frase:
«Dio creò l’uomo a propria immagine, a propria immagine lo creò, maschio e
femmina li creò». L’umanità può essere intesa in pienezza solo quando la si intende
come relazione tra maschio e femmina.
Nel v. 18, l’espressione «non è bene» (lō’ ṭôb) è forte, soprattutto se confrontata
con Gen 1, dove è ripetuto per sette volte «Dio vide che era cosa buona (ṭôb)».
L’espressione indica chiaramente che la «solitudine» è contraria al desiderio e al
progetto di Dio; in altri termini: la creazione dell’uomo non è ancora completa dopo
che Dio lo ha plasmato (2,7) e lo ha posto nel giardino per coltivarlo e custodirlo
(2,8.15). Per uscire da questa situazione negativa viene progettato un «aiuto» per
l’uomo. Qui ricorre il termine ebraico ‘ēzer, «aiuto», «soccorso», che spesso è
riferito, nell’Antico Testamento, all’intervento di Dio che salva dai pericoli o libera
dai nemici (Es 18,4; Dt 33,7.26.29; Os 13,9; Sal 20,3; 89,20; 121,1.2; 124,8; 146,5);
in alcuni Salmi «aiuto» è un appellativo divino (Sal 33,20; 70,6; 115,9.10.11) 81. Ciò
sembra implicare che la solitudine è un pericolo «mortale»: se il Signore non
completa la sua opera, l’essere umano non è veramente vivo. Nello stesso tempo,
l’uso del termine sottolinea come questo completamento può venire solo da Dio:
infatti, un «aiuto» portato da uomini sarebbe inutile (cfr. Is 30,15; Ez 12,14).
81 Cfr. J.L. SKA, «Gli voglio fare un alleato che sia suo omologo» (Gn 2,18). A proposito del
termine ‘ezer, «aiuto», in La strada e la casa. Itinerari biblici, EDB, Bologna 2001, pp. 131-140.
Esegesi di Gn 1‒3 41
L’«aiuto» è precisato con una parola ebraica difficile da tradurre: kenegdô, alla
lettera: «come di fronte a lui». L’autore sta forzando il linguaggio combinando due
preposizioni, «come» (ke-) e «davanti» (neged): tale combinazione si trova soltanto
qui e nel successivo v. 20 in tutto l’Antico Testamento. Così, rimanda sia all’analogia
e alla somiglianza (cfr. la traduzione CEI 1974: «che gli sia simile»), sia allo stare
uno davanti all’altro, all’essere «controparte» (così la nuova versione CEI: «che gli
corrisponda»). La forzatura linguistica sottolinea la complessità della relazione fatta
di uguaglianza e pari dignità, ma anche di opposizione differenza.
Nei vv. 19-20, il fallimento divino al primo tentativo di creare un «aiuto» per
l’essere umano è un efficace espediente letterario che, come in altri racconti antichi di
creazione, sottolinea la differenza fra uomini e animali, ma anche una certa loro
somiglianza. Si noti che, come l’essere umano, gli animali sono «plasmati» dal suolo:
ma, pur ripetendo lo stesso procedimento creativo, non si ottiene un risultato
soddisfacente; la relazione con gli animali, così come la relazione con il «giardino»,
non porta a compimento l’essere umano. Non è in essa che egli trova «aiuto». Infatti,
la relazione con gli animali è caratterizzata da un certo dominio, come fa capire
l’imposizione del nome da parte dell’uomo82 (a differenza di quanto avveniva nel
capitolo precedente, dove era Dio a dare un nome alle realtà create, cfr. sopra il
commento a 1,5, p. xxx).
Nei vv. 21-23, Dio fa scendere un torpore sull’essere umano che si trova, così, in
una situazione di impotenza (cfr. l’uso dello stesso termine ebraico, tardēmâ, in Gen
15,12; 1Sam 26,12). Questo già sottolinea una differenza con la creazione degli
animali alla quale, secondo la logica narrativa implicita, l’uomo avrebbe anche potuto
assistere, essendo presente sullo stesso suolo. In altri termini: mentre l’uomo ha forse
la possibilità di conoscere l’origine degli animali, non può vedere l’origine della
donna che rimane per lui avvolta nel mistero83 e va accolta come dono, che si può
conoscere soltanto in Dio. Mentre l’uomo può dare un nome agli animali, e Dio glieli
conduce davanti proprio a questo scopo, attestando così la sua superiorità, lo stesso
non può avvenire per la donna.
82 Alcuni autori ritengono che in primo piano stia l’aspetto di ordinamento e razionalizzazione
della realtà che il nominare, come atto umano, produce; cfr. C. WESTERMANN, Genesis 1-11, cit.,
pp. 228-229.
83 Cfr. Pr 30,18-19 «Tre cose sono troppo ardue per me, anzi quattro, che non comprendo
affatto: la via dell'aquila nel cielo, la via del serpente sulla roccia, la via della nave in alto mare, la
via dell'uomo in una giovane donna».
Esegesi di Gn 1‒3 42
Per dare origine alla donna, Dio prende dall’uomo una «costola»84. Non plasma
ancora dalla terra, come aveva fatto prima, non riparte daccapo, ma parte da ciò che
già c’è. Tutto ciò sottolinea l’uguaglianza di uomo e donna, ma anche che la
creazione della donna è il compimento della creazione dell’uomo. Questo, dato il
genere letterario del racconto, indica la realtà profonda dell’essere umano di ogni
tempo.
L’esclamazione dell’uomo è caratterizzata anzitutto dal linguaggio della
contemplazione: il dimostrativo femminile zō’t «costei», che ricorre tre volte nel
versetto85, richiama infatti alcuni passi del Cantico dei Cantici, dove viene usato in
riferimento all’amata («Chi è costei che sorge come l'aurora, bella come la luna,
fulgida come il sole», Ct 6,10; cfr. anche 3,6; 8,5). L’espressione «sei la mia carne, le
mie ossa» si ritrova altre volte nella Bibbia ebraica per ricordare legami di famiglia,
di fraternità oppure di alleanza (Gen 29,13-15; Gdc 9,2-3; 2Sam 5,1; 2Sam 19,13-14).
Il riconoscimento di tale legame implica l’obbligo di prendersi cura e di tutelare la
vita dell’altro. L’uomo quindi proclama che ciò che cura la sua vita e quella della
donna è esattamente il loro legame reciproco. Allo stesso tempo l’esito non sempre
felice dei rapporti famigliari e di alleanza (che vivono l’esperienza del tradimento)
ricorda al lettore che anche questo legame apparentemente forte e primordiale è
sottoposto alla fragilità costitutiva della libertà umana.
Nella seconda parte della dichiarazione, sembra che l’uomo dia un nome alla
donna («la si chiamerà»), come ha fatto con gli animali, ma questa interpretazione
ovvia86 ha alcune controindicazioni: la prima è che nel seguito del racconto si dice più
esplicitamente che l’uomo dà un nome alla donna (cfr. Gen 3,20!). La seconda è data
dal gioco fonetico che si ha in ebraico fra ’iššâ, «donna», e ’îš, «uomo»87. Va notato
che il termine ’îš compare qui per la prima volta nella narrazione, finora si era usato il
termine ’ādām per indicare l’uomo88. Questo implica che nel momento in cui l’essere
umano prende coscienza dell’esistenza dell’altro, di un tu, diverso da sé, che gli sta di
84 Questa è la resa abituale del termine ebraico ṣēlā‘, il cui significato preciso rimane incerto: in
altri passi dell’AT compare, infatti, come termine architettonico (cfr., p. es., 1Re 6,5.8) e si pensa
che il suo significato fondamentale possa essere «fianco» o «lato». Questo uso del vocabolo
potrebbe spiegare perché l’autore scelga, per descrivere la formazione della donna, il verbo ebraico
bānâ, che abitualmente ha il significato di «costruire», «edificare». Il fatto che la maggior parte
delle ricorrenze di ṣēlā‘ nell’Antico Testamento sia in relazione con il santuario o l’arca (nei cc..
25–30 e 36–38 dell’Esodo, c.. 6 di 1 Re e c-. 41 di Ezechiele) ha fatto pensare che anche in Gn 2,22
ci possa essere un’allusione al tempio, ma è difficile esserne certi. Le spiegazioni sull’origine e il
significato dell’immagine della «costola» tratta dall’uomo per creare la donna sono molteplici, cfr.
una breve rassegna in H.-J. FABRY, “ ֵצלָ עṣēlā‘”, in H.-J. FABRY - H. RINGGREN (a cura di), Grande
Lessico dell’Antico Tesamento. Volume VII, Brescia, Paideia 2007, pp. 699-701.
85 La traduzione italiana promossa dalla CEI sembra ritenere la prima occorrenza del
dimostrativo come legato al sostantivo «volta» («Questa volta è osso dalle mie ossa»), ma non pare
sia logico secondo le abituali regole della sintassi ebraica.
86 Cfr. C. WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., p. 231.
87 Siccome in ebraico i termini femminili hanno spesso la desinenza -â, ’iššâ può essere
facilmente interpretato come il femminile di ’îš; in realtà dal punto di vista etimologico le cose
sembrano più complesse e diversi studiosi negano che ci sia un legame tra i due termini.
88 I due termini ebraici possono sovrapporsi nel significato di «uomo», ma rispetto ad ’ādām,
che ha anche il senso ampio di «essere umano», «umanità», ’îš sottolinea maggiormente la
mascolinità e può assumere il valore di «marito».
Esegesi di Gn 1‒3 43
fronte, riconosce anche se stesso; nel riconoscimento della «donna», l’uomo si coglie
propriamente come «uomo» (ovviamente, vale anche il viceversa). Così, in realtà,
l’uomo non sta «nominando» soltanto la creatura che gli sta di fronte, ma sta
nominando anche se stesso; le due azioni sono inscindibili. Perciò, se l’azione di dare
un nome alla donna può essere paragonata all’azione di dare un nome agli animali,
emerge anche la differenza tra i due atti: nominando gli animali, l’uomo scopriva
soltanto una realtà esterna a sé; nominando la donna, scopre se stesso. La relazione,
quindi, non è di superiorità, come pareva implicito con gli animali, ma di reciprocità:
i due termini ’iššâ, «donna», e ’îš, «uomo», sembrano richiamarsi a vicenda e dire la
profonda uguaglianza tra i due esseri umani che stanno uno davanti all’altro. Ciò che
la frase esprime è il riconoscimento dell’opera divina che ha portato a termine la
creazione dell’essere umano: adesso si può riconoscere la vera identità dei due che
sono «uomo» e «donna».
Il v. 24 introduce un commento del narratore che non sembra immediatamente
legato al contesto. Se però teniamo presente quanto abbiamo detto a proposito
dell’espressione «carne della mia carne e osso delle mie ossa», si comprende meglio:
ha, infatti, a che fare però con la questione dell’identità e della tutela della vita.
L’uomo nasce come «figlio di» e si definisce in rapporto ai genitori, che gli donano la
vita e si prendono cura di lui. Fintanto che è «figlio», è questa la relazione che lo
definisce, tutela e promuove la sua esistenza. Di fronte alla donna, l’uomo deve
ridefinirsi e affidare la sua vita non ai genitori, ma a colei che gli sta di fronte: non
deve essere più «figlio di», ma «marito di», deve scegliere una nuova relazione di
cura, tutela e promozione della vita. Se non compie questa scelta non sarà veramente
’îš e rimarrà “incompiuto”.
A mio parere si può leggere Ct 8,6 (l’unico versetto del Cantico dei Cantici che
menziona il Dio d’Israele) come un commento di questa affermazione: «Mettimi
come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è
l'amore, tenace come il regno dei morti è la passione: le sue vampe sono vampe di
fuoco, una fiamma divina!». Certamente la prima parte del versetto fa riferimento
all'abbraccio e al desiderio dell'amato. L'uso del termine «sigillo» però rimanda anche
alla manifestazione della propria identità: è l'amata che rivela al mondo chi è l'amato
(e viceversa).
Inoltre, parlando di «cuore» e di «braccio», il testo sembra intenzionalmente alludere allo
Shemà: «questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore [...] te li legherai alla mano
[...]» (cfr. Dt 6,6-8): il linguaggio dell’amore è così volutamente accostato al linguaggio
utilizzato per la parola di Dio; nell’amore umano si rivela l’amore divino89.
L’osservazione finale fa riferimento alla nudità che va compresa a partire dalla
considerazione che, nell’Antico Testamento, l’abito simboleggia la dignità umana e
sociale di chi lo indossa. La nudità rimanda a situazioni estreme, in cui la libertà è
compromessa, come la schiavitù o la prigionia, quando al denudato viene tolta ogni
sicurezza e esposto alla mercé di qualsiasi passante (per questo motivo, in diversi
passi profetici, la punizione minacciata è «scoprire le nudità», cfr. Is 3,17; 47,2-3;
Ger 13,22; Ez 16,37; Os 2,5; Na 3,5). Anche la vergogna non va semplicemente
89 L. MAZZINGHI, Cantico dei Cantici, Cinisello Balsamo (Mi), 2011, p. 106.
Esegesi di Gn 1‒3 44
legata al pudore, ma è connessa all’idea che qualcuno subisce un’esperienza per cui
la precedente posizione e importanza sociale vengono meno, esponendolo alla
vergogna e all’umiliazione.
Se l’uomo e la donna non provano vergogna nel loro essere nudi significa che
possono esporsi all’altro senza paura di essere umiliati, ritrovarsi davanti all’altro
nella situazione di massima debolezza senza venire offesi, senza che l’altro gli faccia
del male: si accettano nella loro creaturalità, in ciò che li rende uguali. Anche su
questo aspetto gioca poi il prosieguo del racconto: ascoltando la voce del serpente,
uomo e donna mangiano il frutto dell’albero del bene e del male, nella convinzione
che i loro occhi si apriranno e diventeranno come Dio (3,5); i loro occhi
effettivamente si aprono e scoprono di essere nudi (3,7)!
alla donna: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun (di tutti) albero
del giardino (mikkōl ‘ēṣ haggān)?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli
2
alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al
3
giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti
morirete». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che
4 5
gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne
mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. Allora si
7
aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico
e se ne fecero cinture.
90 Per questo paragrafo vedi soprattutto A. WÉNIN, Non di solo pane…, cit., pp. 51-58.
91 Il modo di agire e le dimensioni del serpente ne fanno un simbolo perfetto della tentazione: le
sue dimensioni non fanno pensare che possa essere pericoloso al punto di uccidere; mentre, quando
striscia sul terreno è difficile da vedere perché si mimetizza rendendo difficoltoso difendersi. Così è
la tentazione che rivela il suo potere mortifero solo dopo che ci sei caduto.
Esegesi di Gn 1‒3 45
Da Gen 2,4 fino alla fine del cap. 3, Dio viene chiamato Yhwh ’elohîm “il
Signore Dio”, ma il serpente lo chiama solo ’elohîm “Dio” (3,1.5)… Mentre in
Gen 1, il Dio enfaticamente presentato come unico e con tutto sotto controllo
riceve una denominazione sufficiente con il semplice ’elohîm “Dio”, l’aggiunta
del nome proprio in Gen 2-3 risulta molto adatta per rappresentare il rapporto
personale esistente fra Dio e la prima coppia. Si consideri che , non essendoci che
un Dio, non serve che abbia un altro nome se non quello di “Dio”. È così che si
procede, ad esempio, nelle lingue oggi parlate in contesti culturali monoteistici.
Invece l’Antico Testamento racconta che, nella sua manifestazione nella storia,
Dio ha “rischiato” facendosi avanti con un nome proprio, che sarebbe una cosa
tipica dei contesti politeistici, dove è necessario distinguere di quale dio si sta
parlando. Si potrebbe spiegare questo fatto supponendo che appartenga ad una
tappa della rivelazione divina progressiva nella quale si esorta alla monolatria
(adorazione di un unico Dio), senza ancora arrivare pienamente alla formulazione
del monoteismo (esistenza di un unico Dio). Nonostante ciò, quando emergono le
affermazioni radicali del monoteismo nell’Antico Testamento, al validità del
nome proprio di Dio non viene meno. Il nome “superfluo” permette un
inaspettato livello di familiarità con Dio, situazione che non viene vanificata,
nella ricezione del testo, nemmeno dal divieto di rinunciare tale nome: si rinuncia
a pronunciare un nome che comunque si conosce e, in tal modo, si esprime
riverenza verso colui che ci ha aperto la sua intimità con l rivelazione del proprio
nome.
Dunque con denominazione ’elohîm “Dio”, il serpente rivolge lo sguardo verso
Dio da una distanza che esclude un rapporto personale94.
Nei vv. 2-3 troviamo la reazione della donna che, all’apparenza, sembra
rispondere bene, ma in realtà presenta già i segni del morso del serpente, del suo
essere stata catturata dalle ingannevoli parole dell’animale. Per prima cosa afferma
che loro possono mangiare degli alberi del giardino, ma dimenticandosi di mettere in
relazione questo diritto con Dio, di riconoscerlo come un dono ricevuto, così come
aveva fatto l’uomo parlando della donna (Gn 2,23). Non per nulla, anche la donna usa
’elohîm “Dio”, invece che Yhwh ’elohîm, ponendosi “a distanza” dal Signore. Poi,
sbaglia albero dal momento che l’albero che sta al centro del giardino è quello della
vita non della conoscenza: questa confusione rivela la confusione della donna che
coglie nella proibizione di mangiare dell’albero della conoscenza una proibizione di
vivere, una limitazione della vita. Infine, richiama la seconda parte del comando di
Dio: ma, mentre questi ha semplicemente affermato che non ci si doveva appropriare,
mangiandolo, del principio della conoscenza del bene e del male, non ha negato la
possibilità di entrarne in contatto, di toccarlo, come afferma la donna dandosi da sola
un nuovo limite. Quelle parole che dovevano portare l’uomo a scegliere la vita,
diventano ora una minaccia di castigo, che però, paradossalmente è sfumato nella sua
formulazione rispetto a Gen 2,17, perché si omette il rafforzativo (quello che in
italiano si traduce «certamente»).
94 C. JÓDAR ESTRELLA, Una conoscenza per la vita, cit., pp. 14-16.
Esegesi di Gn 1‒3 47
Nei vv. 4-5 il serpente riprende la parola per sferrare l’attacco definitivo: la
donna nomina la morte come conseguenza che incombe su coloro che oseranno
toccare l’albero e il serpente si affretta a negare quella realtà paurosa, «No, non
morirete affatto», contraddicendo esplicitamente le parole di Dio (Gn 2,16). Poi,
svela il motivo perché il Signore ha mentito loro mettendo in luce il volto di un Dio
geloso, cattivo, che vuole impedire all’uomo di raggiungere la felicità per
salvaguardare il proprio privilegio; di un Dio che, in definitiva, ha paura dell’uomo
che percepisce come un nemico da combattere. La donna viene messa davanti ad una
scelta: accettare di essere dipendente da Dio, di lasciarsi insegnare da Dio ciò che
bene per sé; ascoltare la voce del serpente decidendo da sé ciò che è bene per la
propria felicità.
Il serpente dice che mangiare dell’albero porterebbe a un aumento della
conoscenza (Gen 3,4) e alla donna sembra che sia così (3,6). Ma il punto non è se
il frutto è davvero in grado di produrre un tale effetto. La cosa determinante è che
si sta dando per scontato ‒ ecco il pregiudizio ‒ che la conoscenza occupi
praticamente il primo posto tra le cose desiderabili. E questo è semplicemente
falso: la conoscenza in quanto tale non è garanzia di vita riuscita. In altre parole,
la conoscenza non salva95.
Nel v. 6, il narratore, attraverso lo sguardo della donna, mette in luce come
appare ora l’albero ai suoi occhi: ritroviamo la caratteristica «buono da mangiare»
propria di tutti gli alberi creati da Dio (Gn 2,9), mentre nuovo appare il suo essere
«gradito (ta’ăwâ) agli occhi» e «desiderabile (neḥmād) per acquisire saggezza». Il
sostantivo ta’ăwâ, «ingordigia, brama, desiderio» appare insieme al verbo ’wh,
«avere appetito, bramare», in Num 11,4 dove indicano l’appetito smodato,
l’ingordigia del popolo che nel deserto non si accontentano più del dono della manna,
ma vogliono carne e hanno nostalgia del cibo che veniva loro dato gratuitamente in
Egitto (Num 11,5-6). Il Signore risponde mandando le quaglie, ma molti del popolo
si fanno dominare dall’ingordigia che li porta alla morte (Num 11,34: il luogo si
chiama Kibrot-Taavà che in ebraico, qibrôt ta’ăwâ, suona: «sepolcri del desiderio»).
Il legame fra la brama/desiderio e la morte si vede anche in Dt 7,25:
Darai alle fiamme le sculture dei loro dèi. Non bramerai (taḥmōd) e non
prenderai per te l'argento e l'oro che le ricopre, altrimenti ne resteresti come preso
in trappola, perché sono un abominio per il Signore, tuo Dio.
Il legame con la morte qui e chiaramente motivato dall’idolatria. Il meccanismo
del desiderio / bramosia porta alla morte quando si ha l’illusione di poter accumulare
beni (cibo, ricchezze) e trovare in essi ragioni di vita. L’illusione è che i beni salvano,
ma invece diventano una trappola, proprio perché scatenano il meccanismo
dell’idolatria: si cerca la “salvezza” non in Dio ma nell’oro e nell’argento. In altri
termini: invece di riconoscere che la propria vita dipende dal dono divino (cfr. Gn
2,16: «potrai mangiare di tutti gli alberi») e che solo in Lui, quindi, può trovare
95 C. JÓDAR ESTRELLA, Una conoscenza per la vita, cit., p. 36.
Esegesi di Gn 1‒3 48
3.5.1 L'interrogatorio
8
Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l'uomo
con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il
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Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo passo nel
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giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha
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fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di
non mangiare?». Rispose l'uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato
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dell'albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?».
13
Quando Dio chiede «dove sei?» si comincia a parlare di paura: «ho udito il tuo
passo (la tua voce) nel giardino, ho avuto paura perché sono nudo e mi sono
nascosto» (v. 10). L’essere nudo suscita paura anche nei confronti di Dio, anche
davanti a Lui l’uomo non può più rimanere esposto, senza difese97. La risposta di
Adamo è piuttosto comica: si stanno nascondendo da Dio, ma quando lui chiama
rispondono rivelando dove sono e perché si sono nascosti. Davanti a Dio non ci si
può nascondere, ci si può solo far scoprire riconoscendo la propria situazione. Dio
continua a cercare l’uomo, a prendersi cura di lui, ma secondo verità: se l’uomo e la
donna hanno peccato, prendersene cura vorrà dire svelargli il loro peccato, fargli
prendere coscienza di ciò che hanno fatto. Questo è lo scopo delle domande che Dio
rivolge loro. Esse non cercano una risposta che informi il Signore di qualcosa che lui
non conosce: Dio sa già cosa è accaduto, ma desidera mettere l’altro davanti al suo
misfatto, fargli prendere coscienza di ciò che ha fatto.
Ma, l’uomo e la donna non esprimono le motivazioni interiori che li hanno spinti
alla scelta, non si assumono le proprie responsabilità, limitandosi a descrivere le
circostanze esterne per trovare dei colpevoli. Davanti all’accusa di Dio o si confessa
la propria colpa mettendo termine al groviglio del male, o non si confessa e ci si
difende e, il mezzo migliore per farlo, è accusare a propria volta, pronti a lasciar
morire l’altro pur di salvare se stessi. Alla fine, sia l’uomo che la donna svelano che il
vero colpevole, il responsabile di tutto è Dio: l'uomo, infatti, incolpa la donna, che è
quella che «Dio ha dato»; la donna, invece, incolpa il serpente, che è «una creatura
fatta da Dio» (Gn 3,1). In questo giro di follia accusatoria viene rivelato qualcosa
dell’esperienza del peccato, del male: esso si rivela come una realtà davanti alla quale
l'uomo deve prendere posizione, ma che possiede anche una carica misteriosa, per cui
il male che l’uomo fa sembra vivere di vita propria, crescere senza che egli possa
controllarlo, rivelando una capacità di morte di cui l’uomo non era consapevole
all’inizio98.
Dio interroga l’uomo e la donna, ma non dà la parola al serpente. Nel racconto il
serpente è all’origine di tutto: interrogare il serpente significherebbe cercare di capire
dove comincia il male, quale è la sua spiegazione ultima; non farlo, invece, sembra
sottolineare come il male in fondo rimanga un mistero che non si può mai rinchiudere
in un perché, che non si può mai capire fino in fondo. D’altra parte, se è vero che è il
serpente a dare inizio a tutto, è ancor più vero che i veri responsabili sono l’uomo e la
donna ed è da loro che Dio si aspetta una assunzione di responsabilità.
97 Di per sé l’uomo e la donna non sono nudi perché si sono coperti di foglie, ma la loro reazione
evidenzia come davanti a Dio non ci siano difese possibili, non bastano le foglie per camuffarsi.
98 L’uomo, responsabile del male che compie, si ritrova anche un po’ vittima di questo mistero
del male che, nonostante tutto, lo trascende. Il mistero del male rivela che esso è sempre più grande
di ciò di cui l’uomo si sente capace e che vuole nel momento in cui lo compie: cfr. l’esperienza di
Davide e Betsabea: inizia con un adulterio e finisce con un omicidio (2Sam 11-12); la morte
Giovanni Battista: inizia con un banchetto, c’è un giuramento e finisce con un omicidio (Mc 6,17-
29).
Esegesi di Gn 1‒3 50
3.5.2 La sentenza
Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu maledetto più
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di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere
mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua
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donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli.
Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». All'uomo disse: «Poiché hai
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ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero, di cui ti avevo comandato:
Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo
per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba
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campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra,
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La differenza tra le tre versioni riguarda i pronomi: nel testo ebraico «essa» si
riferisce alla discendenza; nel testo greco si trova «egli» in riferimento ad un ben
preciso discendente; il testo latino ha «ella» riferito alla donna. Se, come accadeva ai
padri, l’esegesi viene fatta sul testo latino, il pronome femminile non può che indicare
Maria che lotta contro il serpente100, allegoricamente interpretato come il demonio101.
Se l’esegesi viene fatta sul testo greco, il pronome «egli» verrà attribuito al Messia e
99 Nella Bibbia, maledire contiene l’idea di «prendere le distanze»: quando Dio maledice prende
le distanze da qualcosa di malvagio, di sbagliato.
100 Da qui ha origine l’iconografia tradizionale che rappresenta Maria mentre schiaccia la testa
del serpente.
101 L’identificazione del serpente con il demonio è molto antica. Si trova anche in Sap 2,24 che
interpreta Gn 3.
Esegesi di Gn 1‒3 51
quindi, per i cristiani, si annuncia la vittoria di Gesù sul demonio. Se, invece, si parte
dal testo ebraico, come fanno oggi gli esegeti, si dovrà dire che la maledizione del v.
15 sottolinea semplicemente l’esistenza di una forte ostilità fra il genere umano,
discendente della donna, e la discendenza del serpente. Si tratta quindi di un elemento
eziologico (cfr. punto 1.3), che però nel racconto evidenzia come il rapporto degli
animali con l’uomo non è solo di dominio e conoscenza (come appariva in Gn 2), ma
anche di insidia e pericolo.
Quando Dio passa a pronunciare la sentenza sull’uomo e la donna li vuole
aiutare a prendere coscienza di quello che è accaduto esplicitando le conseguenze
mortali, negative, della loro scelta: già dopo aver mangiato il frutto non c’è più
comunione tra uomo e donna (si difendono uno dall’altro e si accusano), armonia tra
uomo e giardino (lo usano per nascondersi), tra Dio e l’uomo (si nasconde, ha paura).
Gli elementi presenti nelle «punizioni» vanno colti nella loro valenza simbolica,
non interpretati in senso letterale come se la donna partorisse solamente e non
lavorasse, o l’uomo lavorasse solamente e fosse immune dal dolore; o come se solo
l’uomo fosse destinato a morire: ciò che fa il narratore è semplicemente descrivere le
conseguenze del peccato che toccano i due elementi più «divini» presenti nell’uomo e
nella donna. Infatti, quando la donna partorisce è portatrice del mistero della vita e, in
questo, è simile a Dio; quando l’uomo lavora opera quello che fa Dio che crea le cose
facendole.
Dal momento che in Gn 3 il peccato è presentato come «voler essere simili a
Dio», il partorire e il lavorare possono diventare due momenti di massimo pericolo
per l’uomo e per la donna, situazioni nelle quali la tentazione si può far sentire: «ho
fatto un figlio: io sono Dio»; «ho creato questa cosa: io sono Dio». L’esperienza della
sofferenza nel parto e nel lavoro se, da un lato, è la conseguenza del peccato e ricorda
come ormai l’armonia si sia rotta, dall’altro diventa via di salvezza, perché, nel
momento in cui la donna e l’uomo sono più simili a Dio, la sofferenza ricorda loro di
essere diversi da Dio, di non essere Dio, riconducendoli alla dimensione creaturale.
Quella che appare a prima lettura una «punizione» svela così il suo vero significato di
opportunità di conversione e di nuova apertura al riconoscimento del dono divino. lo
schema giuridico-processuale non è, dunque, la chiave ermeneutica corretta per
questo passo102.
Le conseguenze del peccato riguardano anche il rapporto uomo-donna: il
desiderio, l’istinto che porta la donna verso l’uomo le ricorda il suo bisogno, la sua
debolezza, la sua incompletezza. In questa situazione si rivelano le conseguenze del
peccato poiché colui che è più forte, invece di difendere la debolezza, la sfrutta per
dominare, usa la propria forza per schiacciare l’altro. I due non riescono più a porsi
uno di fronte all’altro, essere per l’altro «aiuto», poiché il desiderio di dominio, di
prevalere sull’altro, ha preso il sopravvento.
A questo punto, l’uomo, che è il forte che domina il debole, potrebbe illudersi di
essere Dio, ma la morte lo mette davanti alla sua verità facendogli scoprire di non
essere Dio, ma di aver bisogno della Sua salvezza. Il testo non dice che la morte non
fosse già iscritta nella realtà dell’uomo dal momento che, fin dall’inizio, si presenta
l’essere umano come tratto dalla terra, come polvere: l’elemento nuovo è l’angoscia
davanti alla morte.
Il v. 20 per molti esegeti è una inserzione successiva, ma è interessante che
venga collocata qui: si è appena finito di parlare di morte e si afferma che la donna è
chiamata Eva, la madre dei viventi. La vita, benché ferita, è destinata a proseguire
ancora perché continua la benedizione di Dio rappresentata dal dono delle tuniche
che consentono all'uomo e alla donna di coprirsi eliminando la propria vergogna.
All’interno del racconto questa azione di Dio, che «fa» le tuniche, si
contrappone a quella goffa dell’uomo e della donna che si «fanno» cinture per coprire
al propria nudità (v. 7). Va notato, però, che iIl linguaggio è cultuale e si fa
riferimento al vestimento appropriato per incontrare Dio. Infatti, l’uso del verbo
«fare» con oggetto una «tunica» si trova in Gen 37,3; Es 28,4; Es 28,40; Es 39,27.
Invece l’uso del verbo «rivestire» (lābaš hifil) in riferimento a una tunica si trova in
Es 29,5; Es 29,8; Es 40,14; Lv 8,13; Is 22,21. Tutti i passi citati, con l’esclusione di
Gen 37,3 e Is 22,21 si riferiscono alle vesti sacerdotali: «rivestire» con una tunica
nell’AT conferisce una dignità (sacerdotale o di alto ufficiale di corte, cfr. Is 22,21) e
in Gen 37,3 la tunica particolare di Giuseppe è un segno d’amore del padre (che l’ha
«fatta») nei suoi confronti. Si può dunque affermare che nel lavoro di Dio descritto in
questo versetto c’è sicuramente l’aspetto del prendersi cura dell’altro, rappresentato
in questo caso dall’uomo e dalla donna, incapaci di provvedere a se stessi vesti
adeguate.
3.6 Conclusione
Il Signore Dio disse allora: «Ecco l'uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del
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bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell'albero della vita, ne
mangi e viva sempre!». Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il
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suolo da dove era stato tratto. Scacciò l'uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i
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cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all'albero della vita.
3. Interpretazione globale
Possiamo raccogliere il messaggio del brano intorno ad alcuni punti.
Un primo aspetto che emerge dal testo è la complessità e ambivalenza della
realtà umana, che possiamo scorgere in due momenti. Il primo è l’atto creatore
divino: l’uomo è da una parte fatto con la polvere della terra, dall’altra è animato dal
soffio divino. Quindi da una parte è legato al mondo «materiale» in cui si muove,
dall’altra è animato da uno «spirito» che lo avvicina al Signore. L’esistenza umana è
quindi caratterizzata da queste due dimensioni e deve sempre evitare la tentazione di
negarne o trascurarne una, privilegiando l’altra. Il secondo momento del racconto in
cui emerge l’ambivalenza, che può diventare ambiguità, dell’esistenza umana è la
creazione della donna. Posta come «aiuto» accanto all’uomo ella può svolgere questo
compito soltanto se la sua differenza e alterità viene rispettata105. Così il rapporto con
103 L’albero della vita, con i suoi frutti, riappare al termine della Bibbia, nel libro
dell’Apocalisse (Ap 2,7; 22,2.14.19): esso ritorna ad essere un dono offerto a tutti coloro che
ascoltano lo Spirito, la Parola del Signore, che le rimangono fedeli fino al martirio.
104 Per approfondire il tema del lavoro può essere utile A. BONORA, «Lavoro» in P. ROSSANO -
G. RAVASI - A. GIRLANDA (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, cit., pp. 776-788.
105 Seguiamo la logica del racconto, ma ovviamente si potrebbe fare lo stesso discorso a ruoli
invertiti fra maschio e femmina.
Esegesi di Gn 1‒3 54
l’altro, con il compagno o la compagna, appare sia necessario e ineludibile per una
vita veramente umana, sia occasione costante in cui calpestare e tradire la dignità
umana, cercando di asservire l’altro al proprio disegno. In questo senso lo
«scaricabarile» in risposta all’interrogatorio divino è paradigmatico dell’incapacità di
vivere la solidarietà.
Il brano ci dice qualcosa, e questo è un secondo aspetto, sulla vocazione
dell’uomo: preso per coltivare e custodire, proseguire l’opera di Dio (cfr. il «soffio»
in Gn 2,7). Qui si inserisce il comandamento, la parola di Dio, che mira appunto a
tutelare la relazione rappresentata dal soffio: da una parte, infatti, il fatto che il
Signore «parli» con l’uomo (il parlare si fa sempre con la gola, come il respirare)
indica che lo riconosce e lo costituisce come interlocutore, dall’altra fa appello alla
sua libertà, che è appunto ciò che avvicina l’essere umano a Dio. Poiché la vita
umana dipende dalla relazione con il suo Signore, il comandamento è esattamente
fonte di vita e di libertà, non ciò che la opprime e la distorce (come invece insinua il
serpente e come anche una certa interpretazione pseudo-religiosa, che traspare dalle
parole di Eva, porta a pensare).
Paradossalmente (passiamo a un terzo punto) l’uomo può essere simile a Dio
(nel respiro e nel lavoro) nel momento in cui riconosce di non essere Dio e
comprende che si deve fidare di Lui e della sua Parola (che ha l’evidenza del dono e
dell’amore, non della sapienza che tutto spiega). Viceversa il peccato nasce dal
desiderio di essere come Dio, che si concretizza in desideri e bramosie particolari: in
altri termini l’oltrepassamento del limite dell’esistenza creaturale è realizzato
simbolicamente nella trasgressione di un divieto all’apparenza banale e specifico.
Così il peccato viene presentato come spinto e sostenuto dal desiderio che diventa
ingordigia, che non sa accettare il limite costituivo dell’esperienza umana e va
sempre in cerca di «altro» (cfr. Davide e Betsabea, ma anche l’idolatria, che è ricerca
di «altri» dei). Il desiderio ha una valenza positiva nel momento in cui è desiderio
dell’altro ma custodendo e riconoscendo la differenza, come nel rapporto uomo
donna: se il limite, la mancanza sono costituivi dell’esperienza umana lo è anche il
desiderio di colmare in qualche modo questo limite, questa mancanza e questa
solitudine. Il punto è che il desiderio si compie se non assimila a sé, come fa la
bramosia o l’ingordigia, ma riconosce l’altro come diverso da sé, accoglie il proprio
limite accettando che sia completato dal dono e non dalla proiezione del proprio io.
Quindi, anche se l’autore biblico individua nella bramosia il meccanismo
fondamentale del peccato, sarebbe sbagliato sostenere che l’autore individua il
desiderio come «fonte» del male: egli descrive prima l’intervento del serpente e poi il
meccanismo della bramosia nella donna, così l’origine del male rimane misteriosa,
perché non si può pensare che esso sia «connaturale» alla donna e all’uomo, pur
essendo vero che il male si realizza perché essi vi acconsentono e ne portano la
responsabilità.
Infine, come ultimo aspetto, va riconosciuto che la realtà segnata dal peccato se
da una parte si configura come allontanamento da Dio (cfr. il nascondersi dell’uomo)
Esegesi di Gn 1‒3 55
non significa lontananza di Dio, come mostra efficacemente la finale del racconto,
con la preoccupazione del Signore di rivestire le sue creature. Egli si prende cura
dell’uomo anche quando questi si mostra incapace di rimanere fedele e obbediente
alla sua parola.