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Esegesi di Gn 1‒3 1

IN PRINCIPIO DIO CREÒ IL CIELO E LA TERRA


ESEGESI DI GN 1,1‒2,3

1. Operazioni preliminari

1.1 Delimitazione
Per quanto riguarda l’inizio del testo è ovvio che si inizia in Gn1,1! Per la fine
dell’unità letteraria, possiamo considerare che i vv. 2,1-3 si presentano come una
conclusione (cfr. «compiere», e «settimo giorno» che conclude la settimana). In più la
formula di 2,4a (letteralmente: «queste le generazioni del cielo e della terra nel loro
essere creati») è usata altrove come introduzione, spesso per una genealogia (cfr. Gn
10,1; 11,10; 11,27; 25,12.19; 36,1.9; Rut 4,18), ma a volte in senso più ampio per
introdurre una «storia»1 (Gn 6,9 e in particolare Gn 37,2, letteralmente: «Queste le
generazioni di Giacobbe: Giuseppe…»).
Se consideriamo 1,1‒2,3 troviamo alcuni indizi che ne confermano l’unità
interna: la ripetizione del sostantivo «giorno» con un aggettivo numerale, l’uso
costante di ’ĕlōhîm per indicare Dio, mentre a partire da 2,4 e fino alla fine del c. 2
abbiamo sempre yhwh ’ĕlōhîm (Signore Dio).
La divisione adottata da molti commentari2 e frequente nelle Bibbie è 1,1-2,4a.
Essa è motivata soprattutto da considerazioni di ordine diacronico: la formula
«queste le generazioni» è tipica del linguaggio sacerdotale; i racconti di
creazione antichi cominciano spesso con una proposizione temporale (e quindi il
v. 4b sarebbe un inizio). In più si considera la ripetizione di «cielo e terra» in
2,4a come un’«inclusione», un espediente letterario frequente nei testi biblici per
cui l’inizio e la fine di un passo si corrispondono. A livello però di redazione
finale sembra più logico considerare 2,4a un nuovo inizio, per i motivi che
abbiamo indicato sopra. Inoltre il richiamo a «cielo e terra» potrebbe indicare
non tanto un’inclusione, quanto piuttosto una ripresa dell’inizio: la creazione
viene raccontata di nuovo come inizio di una «storia» di generazioni, cioè la
storia dell’uomo che si inserisce nella storia del mondo. Nella delimitazione che
qui proponiamo si sottolinea ancora di più il carattere di «proemio» che il
redattore finale ha voluto dare a Gn 1,1-2,3.
È evidente che per l’interpretazione di Gn 1 non è senza importanza la sua
posizione all’inizio della Bibbia. Gn 1 (e più in generale Gn 1‒11) è un’introduzione
alla storia del popolo d’Israele o meglio, alla storia del rapporto di Dio con Israele e
quindi alla storia della Rivelazione di Dio agli uomini. Ponendo Gn 1 (1‒11)
1 Cfr. J.L. SKA, Introduzione alla lettura del Pentateuco. Chiavi per l'interpretazione dei primi
cinque libri della Bibbia, Dehoniane, Bologna 1998, pp. 31-33.
2 Cfr. G. von RAD, Genesi, Paideia, Brescia, 19782, pp. 52-54; E. BIANCHI, Adamo dove sei?
Commento esegetico-spirituale a Genesi 1-11, Qiqajon, Magnano 19942, p. 89; J.A. SOGGIN, Genesi
1-11, Marietti, Genova 1991, p. 23.
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all’inizio della Bibbia, chi ha scritto o raccolto questi testi ha voluto inserire quella
che potrebbe essere considerata la storia particolare di un popolo nel quadro più
ampio della storia dell’umanità: la storia d’Israele è la storia dell’uomo. Viceversa, se
la vicenda d’Israele è caratterizzata dagli interventi salvifici di Dio in favore del suo
popolo, porre Gn 1 all’inizio della Bibbia significa che non può essere interpretato
semplicemente come una riflessione sull’origine del mondo, ma va anch’esso
considerato un intervento salvifico del Dio d’Israele in favore dell’umanità intera.

1.2 Articolazione o struttura del brano


È facile riconoscere l’articolazione di questo brano perché è esplicitata dalla
scansione settimanale: si divide in setti parti secondo i sette giorni della settimana. I
vv. 1-2 rappresentano un’introduzione, l’inizio vero e proprio della narrazione è al v.
3 con il verbo «dire». Il testo si divide facilmente in paragrafi: tutti cominciano con
l’espressione «Dio disse» e finiscono con la numerazione del giorno (vv. 3-5;6-8;9-
13;14-19; 20-23; 24-31). All’interno di ogni paragrafo (per i primi sei giorni) si ha la
proclamazione di uno o più comandi divini e la narrazione della sua/loro esecuzione;
il settimo giorno (2,1-3) esce dallo schema «comando-esecuzione» proprio per il suo
carattere conclusivo.
A questa articolazione però se ne sovrappone un’altra, quella delle otto «opere»
create: poiché esse sono distribuite in sei giorni alcuni paragrafi contengono più
comandi e più volte la formula «Dio disse». Le opere sono presentate in
progressione: Luce - Firmamento - Terra/Mare - Piante e frutti - Astri - Uccelli e
pesci - Animali – Uomo. Tutte le opere sono commentate mediante un aggettivo
ebraico: tôb, che significa «buono» (ma anche «bello»).
Questa «forma» del testo, otto opere in sette giorni, ci dà alcune indicazioni
importanti per l’esegesi:
- la struttura settenaria non è casuale: sette è un numero che indica la perfezione,
quindi parlare di mondo creato in sette giorni significa parlare di un mondo
perfettamente ordinato, non caotico (cfr. anche l’espressione del v. 2: tōhû wa bōhû);
- il riferimento ai giorni della settimana dice che Dio, creando, entra nel tempo e
quindi nella storia del mondo, ma anche che il tempo va considerato come
un’espressione dell’agire di Dio;
- lo schema «comando» - «esecuzione» rimanda certamente al potere di Dio
sulla natura e sulla storia, ma si deve tenere presente che esso è collegato al giudizio
di Dio stesso («e vide che era cosa buona»). Così la struttura di Gn 1 presenta già il
legame fra «bene» e «comandamento»;
- la progressione delle opere create dice che l’essere umano è l’«essere» più
importante creato da Dio, che ha una superiorità su tutte le altre opere create.
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1.3 Identificazione del genere letterario e Sitz im Leben


Per l’identificazione del genere letterario di Gn 1 si può partire dal suo
contenuto: è un racconto di creazione. L’analisi di racconti sullo stesso tema presenti
nel mondo antico Orientale e dei riferimenti alla creazione presenti nella Bibbia
permette di individuare alcuni modelli che vengono usati per descrivere tale
avvenimento primordiale. Si può parlare di quattro modelli di creazione3:
a) Creazione mediante un’attività: tipica è la descrizione dell’uomo plasmato
con argilla o con il fango o con la terra, come in Gn 2,7 (cfr. Is 29,16; 45,9; Ger 18,1-
12). Una descrizione simile compare presso molti popoli; citiamo due testi accadici
solo come esempio4:
Aruru lavò le sue mani, prese un grumo di creta e lo piantò nella steppa. Essa
creò un uomo [primordi]ale, Enkidu, il guerriero, seme del silenzio, la potenza di
Ninurta (Epopea di Ghilgamesh, I,84-87)5.
Interpellando dunque la dea, domandarono alla levatrice degli dèi, Mammi
l’esperta: «Sarai tu la matrice per produrre gli uomini? […]». Ma Nintu, avendo
aperto la bocca, replicò ai grandi dèi: «Da sola non posso farlo, ma, con l’aiuto di
Enki, sì, l’operazione è possibile. Lui solo può tutto purificare, che mi si porti
l’argilla adatta e io lo farò». Enki aprì allora la bocca e si rivolse ai grandi dèi: «Il
primo del mese, il sette o il quindici, decreterò una purificazione con abluzione.
Allora si immolerà un dio, prima che [?] gli dèi si purifichino con l’immersione.
Con la sua carne e il suo sangue Nintu mescolerà dell’argilla: così saranno legati
il dio e l’uomo, riuniti nell’argilla. […] Grazie alla carne divina vivrà, inoltre,
nell’uomo uno «spirito» che lo manterrà sempre vivo anche dopo la morte, e
questo «spirito» esisterà per preservarlo dall’oblio (Poema di Atraḫasîs, 192-
218)6.
b) Creazione mediante generazione: si considera il mondo come originato
dall’unione tra un principio o divinità maschile e uno femminile, tra un elemento
celeste e uno terrestre (o acquatico). Questo modello si trova in alcuni racconti
mesopotamici e fenici. Citiamo, come esempio, un testo sumerico che parla
dell’origine di albero e canna, intesi come prototipo di tutte le specie di piante:
L’immensa piattaforma del[la] Terra scintillava: verdeggiante era la sua
[super]ficie. Terra spaziosa era rivestita d’argento e lapislazzuli, ornata di diorite,
calcedonio, cornalina, antimonio, agghindata splendidamente di vegetazione e di
erbaggi: aveva qualcosa di regale. È che la nobile Terra, la santa Terra si era fatta
3 Seguiamo E. BIANCHI, Adamo, dove sei?, cit., pp. 30-36; cfr. però anche C. WESTERMANN,
Genesis 1-11. A Continental Commentary, Fortress Press, Minneapolis 1994, pp. 19-47.
4 La raffigurazione di un Dio che plasma l’essere umano quasi fosse un vaso di creta si trova
anche in alcuni dipinti egizi, Cfr. E. TESTA, Genesi. Introduzione - Storia primitiva, Marietti,
Torino - Roma 1969, pp. 61-64; F. GIUNTOLI, Genesi 1-11, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi)
2013, p. 91. In questi testi il lettore troverà anche altri esempi.
5 G. PETTINATO (a cura di), La saga di Gilgamesh, Rusconi, Milano 1992, p. 127.
6 J. BOTTÉRO - S.N. KRAMER, Uomini e Dèi della Mesopotamia. Alle origini della mitologia,
Einaudi, Torino 1992, pp. 570-571.
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bella per il Cielo, il prestigioso. E Cielo, il dio sublime, affondò il suo pene nella
Terra spaziosa; versò, insieme, nella sua vagina, il seme dei valorosi Albero e
Canna. E, tutta quanta, come una vacca irreprensibile, si ritrovò gravida del ricco
seme di Cielo7.
Tale modo di rappresentare la creazione è molto raro nella Bibbia per le sue
implicazioni incompatibili con la fede in un solo Dio (spesso coinvolge più dèi e
anche una generazione di dèi). Tuttavia, si possono trovare alcuni accenni, come Sal
90,2 dove il testo ebraico si può tradurre: «Prima che nascessero le montagne, prima
che tu generassi la terra e il mondo, da sempre e per sempre tu sei, o Dio». Altri passi
che mostrano una possibile presenza di tale idea sono Sal 139,15; Gb 1,20-21; Sir
40,1: si tratta però di una figura poetica, non di un’affermazione religiosa.
c) Creazione mediante una lotta: la creazione è il risultato di una lotta fra dèi,
che si conclude con la vittoria del dio principale su un’altra divinità o su un mostro
primordiale che rappresenta le forze del caos; alla lotta e alla vittoria è collegata la
creazione di un cosmo ordinato. L’esempio più famoso è il poema babilonese
intitolato, dalle sue prime parole, Enuma Elish («Quando in alto») nel quale la
creazione è descritta alla fine della battaglia che ha visto il dio Marduk trionfare
contro Tiamat (l’Abisso o oceano primordiale). Citiamo soltanto qualche passaggio:
A mente fresca il Signore (Marduk) contemplò il cadavere di Tiamat: voleva
tagliarne la carne mostruosa, per trarne cose belle. La tagliò in due come un
pesce da essiccare, e ne dispose una metà che incurvò come il Cielo. Ne tese la
pelle, su cui insediò guardiani, ai quali affidò la missione di impedire alle sue
acque di erompere. Traversando allora il cielo […] vi sistemò le Stazioni per i
grandi dèi; vi suscitò in costellazioni le stelle che ne sono le immagini […]. Nello
stesso fegato di Tiamat sistemò le alte zone celesti. Poi fece apparire Nanna (=
Luna) al quale affidò la notte […]. [Raccolse (?)] la bava di Tiam[at] […].
Condensata in n[uvole] la fece galleggiare (nel firmamento) […]. Aprì nei suoi
(= di Tiamat) occhi l’Eufrate e il Tigri […]. Sui suoi seni ammucchiò le
mo[ntag]ne lontane, e vi creò delle fonti, per defluire in cascate (Enuma Elish,
IV,135–V,57)8.
Il tema della lotta contro le forze o i mostri del caos primordiale trova eco in
diversi passi biblici (Is 27,1; 51,9; Sal 74,13-14; 89,11; Gb 7,12; 9,13; 26,12; 38,8-
11)9.
d) Creazione mediante la parola: questo modello si trova soprattutto in testi
egiziani. Citiamo un testo scritto dai sacerdoti di Menfi:
Così tutti gli dèi furono formati e la su Enneade completata. In verità, ogni parola
del dio realmente venne all’esistenza, attraverso quello che il (suo) cuore pensò e

7 J. BOTTÉRO - S.N. KRAMER, Uomini e Dèi della Mesopotamia, cit., p. 510.


8 J. BOTTÉRO - S.N. KRAMER, Uomini e Dèi della Mesopotamia, cit., pp. 670-674.
9 Secondo C. WESTERMANN, però, il tema della lotta contro il caos non è sempre e
necessariamente collegato a quello della creazione: cfr. C. WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., pp. 30-
33.
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la (sua) lingua comandò […]. Così Ptah fu soddisfatto, dopo che ebbe fatta ogni
cosa, come ogni parola del Dio; dopo che egli ebbe formato gli dèi, ebbe creato
le città, ebbe fondato i «nomi» ebbe posto gli dèi nei loro templi, ebbe stabilito le
loro offerte, ebbe fondato i loro templi, ebbe fatto i loro corpi, proprio come i
loro cuori avevano desiderato (Pietra di Shabaka, 55-60)10.
Passi biblici che richiamano una tale concezione sono Is 40,26; 55,10-11; Sal
33,6-9; 148,3-5.

Mentre in Gn 2 è facile rintracciare il modello di creazione tramite attività, Gn 1


combina due modelli: infatti se il tipo d) sembra prevalere, con la ripetizione della
formula «Dio disse», non si deve trascurare la presenza del verbo «fare» (Gn
1,7.16.25.26.31; 2,2.3), che rimanda al tipo a), e l’utilizzo del linguaggio di
«separazione» anch’esso tipico della descrizione dell’attività del dio (degli dèi) nella
creazione. Gn 1, quindi, non può essere ricondotto a un unico modello di racconto di
creazione ma presenta una combinazione, in certa misura originale, di modelli. In Gn
1,24 si ha anche una traccia del modello per generazione dove la terra «fa uscire»
(secondo il significato letterale del verbo ebraico yāṣa’) gli esseri viventi (si noti
anche l’uso della parola «generazione», ebraico tôledôt, in Gn 2,4)11.
La peculiarità del genere letterario di Gn 1 emerge anche dalla difficoltà di
classificarlo secondo la distinzione prosa / poesia. Da una parte, infatti, il testo
sembra presentarsi come una narrazione in prosa, dall’altra ha un andamento ritmico
(per quanto irregolare) tipico della poesia12.
Se vogliamo indagare il Sitz im Leben di Gn 1 le cose sono un po’ complicate. In
origine, infatti, i racconti di creazione presenti nelle tradizioni di vari popoli
sembrano avere il loro «contesto vitale» nei riti che vengono celebrati allo scopo di
assicurare la continuità e la stabilità del cosmo13. Gn 1 però non presuppone un tale
contesto: siamo già a un livello della storia della tradizione dei racconti di creazione
in cui essi sono separati dal loro ambito originario14. Sarebbe più logico, pertanto,
parlare per Gn 1 di Sitz im Literatur: il contesto vitale di Gn 1 è in realtà un’opera
letteraria (che, a seconda dei punti di vista, può essere la fonte sacerdotale, P, o il
Pentateuco, o tutto l’AT, o la Bibbia come insieme dei due Testamenti) di cui
costituisce la solenne ouverture.

10 E. TESTA, Genesi. Introduzione - Storia primitiva, cit., p. 34; Testa riprende J.B. Pritchard (a
cura di), Ancient Near Eastern texts relating to the Old Testament, Princeton University Press,
Princeton 1950 (19783), p. 5.
11 Cfr. C. WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., pp. 90-91.
12 Cfr. C. WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., pp. 90-91.
13 Il legame fra «creazione» e «culto» è ancora visibile nei testi liturgici in cui si trova la lode di
Dio in quanto creatore e si narra (anche solo in parte o per accenni) la sua opera all’inizio dei tempi.
14 C. WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., pp. 91-92.
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Excursus: Bibbia e mito


Una volta che si afferma l’appartenenza di Gn 1–2 al genere letterario dei
«racconti di creazione» è inevitabile porsi la domanda: si tratta, come altri racconti di
creazione, di un testo mitologico? Una risposta a questa domanda dipende molto
dall’idea e dalla definizione che si dà di «mito». Poiché questa è una domanda
importante a livello ermeneutico, usciamo un attimo dal nostro schema di analisi del
testo e ci soffermiamo su questo problema, anche se è già stato in parte affrontato nel
corso di Introduzione alla Bibbia.
Anzitutto conviene ricordare che c’è, nella tradizione cristiana, una valutazione
negativa del mito che risale ai primi secoli ed è legata proprio all’incontro tra fede
cristiana e cultura greca, incontro che privilegiò il rapporto con la filosofia, come
ricorda questo passo della Lettera Enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II (14
settembre 1998):
Secondo la testimonianza degli Atti degli Apostoli, l’annuncio cristiano venne a
confronto sin dagli inizi con le correnti filosofiche del tempo. Lo stesso libro
riferisce della discussione che san Paolo ebbe ad Atene con «certi filosofi
epicurei e stoici » (17,18). […] Per farsi comprendere dai pagani, i primi cristiani
non potevano nei loro discorsi rinviare soltanto «a Mosè e ai profeti»; dovevano
anche far leva sulla conoscenza naturale di Dio e sulla voce della coscienza
morale di ogni uomo (cfr Rm 1,19-21; 2,14-15; At 14,16-17). Poiché però tale
conoscenza naturale, nella religione pagana, era scaduta in idolatria (cfr Rm 1,21-
32), l’Apostolo ritenne più saggio collegare il suo discorso al pensiero dei
filosofi, i quali fin dagli inizi avevano opposto ai miti e ai culti misterici concetti
più rispettosi della trascendenza divina.
Uno degli sforzi maggiori che i filosofi del pensiero classico operarono, infatti, fu
quello di purificare la concezione che gli uomini avevano di Dio da forme
mitologiche. Come sappiamo, anche la religione greca, non diversamente da gran
parte delle religioni cosmiche, era politeista, giungendo fino a divinizzare cose e
fenomeni della natura. I tentativi dell’uomo di comprendere l’origine degli dei e,
in loro, dell’universo trovarono la loro prima espressione nella poesia. Le
teogonie rimangono, fino ad oggi, la prima testimonianza di questa ricerca
dell’uomo. Fu compito dei padri della filosofia far emergere il legame tra la
ragione e la religione. Allargando lo sguardo verso i principi universali, essi non
si accontentarono più dei miti antichi, ma vollero giungere a dare fondamento
razionale alla loro credenza nella divinità. Si intraprese, così, una strada che,
uscendo dalle tradizioni antiche particolari, si immetteva in uno sviluppo che
corrispondeva alle esigenze della ragione universale. Il fine verso cui tale
sviluppo tendeva era la consapevolezza critica di ciò in cui si credeva. La prima a
trarre vantaggio da simile cammino fu la concezione della divinità. Le
superstizioni vennero riconosciute come tali e la religione fu, almeno in parte,
purificata mediante l’analisi razionale. Fu su questa base che i Padri della Chiesa
avviarono un dialogo fecondo con i filosofi antichi, aprendo la strada
all’annuncio e alla comprensione del Dio di Gesù Cristo (n. 36).
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Come si vede, un punto d’incontro fra Padri della Chiesa e filosofi antichi è la
critica al mito come «superstizione» fondamentalmente irrazionale o, detto in termini
più tecnici, l’opposizione tra mŷthos e lógos. Ovviamente, questo è legato anche al
fatto che i miti greci (così come quelli di altri popoli antichi) sono intrecciati a una
concezione politeista del divino e che i racconti di creazione sono spesso anche delle
teogonie, cioè racconti della nascita delle divinità. Il termine «mito» diventava così
sinonimo di «favola», «racconto fantastico e inverosimile» tendenzialmente senza
alcun rapporto con la realtà e la storia degli uomini: «il mito […] era riconosciuto
dalla filosofia greca come privo di consistenza nella verità» (Benedetto XVI, San
Giustino, filosofo e martire, udienza generale, 21 marzo 2007). Appare del tutto
evidente che, se il mito non può avere alcuna pretesa veritativa, classificare i racconti
di Gn 1–2 come «mitici» significherebbe negare loro la qualità di Parola di Dio, che,
intrinsecamente, richiede una pretesa veritativa forte. D’altra parte, i testi biblici si
differenziano dai miti greci e anche da quelli di altri popoli del Vicino Oriente,
proprio perché escludono qualsiasi forma di politeismo e non si interessano affatto
all’origine della divinità. Su questo sfondo si comprende bene perché i Padri della
Chiesa contrapponessero la verità (tendenzialmente intesa come verità storica) dei
racconti biblici alla falsità dei miti pagani.
Se si rimane legati a questa concezione del mito e dei suoi rapporti con la
verità15, è piuttosto sorprendente l’affermazione che si trova, quasi incidentalmente e
quindi apparentemente come del tutto ovvia, nel testo di una catechesi di Giovanni
Paolo II (il corsivo è mio):
Il capitolo 2 della Genesi costituisce, in certo qual modo, la più antica
descrizione e registrazione dell’auto-comprensione dell’uomo e, insieme al
capitolo 3, è la prima testimonianza della coscienza umana. Con una
approfondita riflessione su questo testo – attraverso tutta la forma arcaica della
narrazione, che manifesta il suo primitivo carattere mitico – vi troviamo «in
nucleo» quasi tutti gli elementi dell’analisi dell’uomo, ai quali è sensibile
l’antropologia filosofica moderna e soprattutto contemporanea (Giovanni Paolo
II, udienza generale, 19 settembre 1979).
Qui non solo il papa afferma come ovvio il carattere mitico degli antichi
racconti di Genesi 2–3, ma sembra suggerire (se non capisco male) che proprio
riflettendo su questa forma del racconto è possibile scoprire una sua pretesa veritativa
che incrocia le istanze della filosofia. Questa affermazione è frutto anche di un
radicale modifica dell’idea di mito che si è prodotta soprattutto nel corso del XX
secolo grazie ai contributi di filosofi, storici delle religioni, psicologi e studiosi di

15 Così si trova ancora nell’enciclica Humani Generis di Pio XII (12 agosto 1950): «le narrazioni
popolari inserite nelle Sacre Scritture non possono affatto essere poste sullo stesso piano delle
mitologie o simili, le quali sono frutto più di un’accesa fantasia che di quell’amore alla verità e alla
semplicità che risalta talmente nei Libri Sacri, anche del Vecchio Testamento, da dover affermare
che i nostri agiografi son palesemente superiori agli antichi scrittori profani» (Enchiridion Biblicum
618).
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antropologia culturale16. Senza entrare nei dettagli e semplificando un po’17 possiamo


dire che oggi si tende a considerare il mito come una forma di pensiero simbolico che
tenta di dare risposta, in forma narrativa, all’enigma dell’esistenza del mondo e
dell’uomo, riconoscendo la presenza ineliminabile del trascendente o dell’assoluto
nella concretezza dell’esperienza18. In altri termini, il mito (esattamente come
l’indagine filosofica) tenta di rispondere alle domande di senso fondamentali, ma lo
fa in una forma e con modalità profondamente diverse che però, qui sta il punto, non
necessariamente ne inficiano la portata veritativa. Ovviamente, questo non significa
che ogni mito è «vero» (come d’altra parte non lo è ogni filosofia), ma
semplicemente che non esiste necessariamente un’opposizione tra mito e verità.
Riconoscere il carattere mitico dei testi di Gn 1–2 significa allora, ancora una volta,
accettare che non vogliono descrivere gli eventi del passato, ma presentare alcune
verità fondamentali sul mondo e sull’essere umano che hanno validità universale in
quanto applicabili in ogni tempo. Detto in altri termini: gli autori biblici descrivono il
mondo così come lo sperimentavano e, cercando di individuare, illuminati dalla
propria fede, le costanti fondamentali della realtà, le proiettano al momento delle
origini proprio per affermarne la perenne validità19.
D’altra parte, come vedremo nell’analisi più dettagliata dei testi, è innegabile
che i racconti di Genesi prendano volutamente una certa distanza dai miti di altri
16 Infatti, il testo di quella catechesi papale nella pubblicazione sull’Osservatore Romano del 21
settembre 1979 (ripresa in GIOVANNI PAOLO II, Insegnamenti, II,2: 1979 [luglio-dicembre],
Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1980, pp. 323-327) ha, a questo proposito, una lunga
nota, proprio per cercare di precisare il concetto di «mito» che soggiace all’affermazione. Ne
riportiamo solo l’inizio: «Se nel linguaggio del razionalismo del XIX secolo il termine «mito»
indicava ciò che non si conteneva nella realtà, il prodotto di immaginazione (Wundt), o ciò che è
irrazionale (Lévy-Bruhl), il secolo XX ha modificato la concezione del mito».
17 Il lettore interessato ad approfondire la questione può consultare l’ottima sintesi di G. BETORI,
«Mito», in P. ROSSANO - G. RAVASI - A. GIRLANDA (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia
Biblica, Cinsello Balsamo 1988, pp. 993-1012; utili anche C. GEFFRÉ, «Mito», in R. PENNA - G.
PEREGO - G. RAVASI (a cura di), Temi teologici della Bibbia, Cinsello Balsamo 2010, pp. 876-881;
A. NITROLA, Racconto, storia e teologia nella prospettiva di un teologo sistematico, in «Ricerche
Storico Bibliche» 24 (2012) pp. 207-223.
18 Mi sembrano particolarmente illuminanti le riflessioni di P. Ricouer: «Ma il mito è altra cosa
da una spiegazione del mondo, della storia e del destino, poiché esprime in termini di mondo, cioè
di ultra-mondo o di secondo mondo, la comprensione che l’uomo ha di se stesso in rapporto al
fondamento e al limite della sua esistenza… Il mito allora non può più essere definito come
negativo della scienza... esso esprime piuttosto nel linguaggio oggettivo il senso che l’uomo
acquista della sua dipendenza nei confronti di ciò che permane al limite e all’origine del mondo» (P.
RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1977, p. 403)
19 A. Nitrola ha cercato di mostrare come questa «validità» non debba essere intesa in senso
statico o astratto, ma implichi anche una tensione verso il futuro, suggerisca una prassi: «Ciò che
c’è, infatti, è un’idea, di uomo o di mondo, che provenendo da un passato si apre al suo futuro… Il
discorso dell’inizio, meglio, il racconto dell’inizio, è ben di più che una semplice comunicazione:
non solo, come pensano gli ingenui, di come è nato ciò che c’è, ma anche, come pensano quelli che
Origene chiama i più «evoluti», di come è ciò che c’è, qual è il suo ordine iscritto nella sua
«natura». È, a ben guardare, l’apertura a un futuro, al suo futuro, che è poi del mondo intero» (A.
NITROLA, Racconto, storia e teologia nella prospettiva di un teologo sistematico, cit., p. 219).
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popoli; anche dove sono più simili ai racconti mesopotamici, p. es., evitano
accuratamente tutti gli elementi incompatibili con la fede nell’unico Dio di Israele.
Per questo si può parlare, in un certo senso, di un’opera di «demitologizzazione» già
all’interno di questi racconti che pure hanno molti tratti del mito. Qui si può
recuperare il valore dell’intuizione dei Padri della Chiesa e della loro
contrapposizione tra storia biblica e mito, che va letta come sottolineatura della
differenza che si ha tra i racconti di Genesi e quelli di altre tradizioni; differenza
legata alle peculiarità della fede dell’antico Israele. Infatti, la teologia biblica del XX
secolo, se da un lato ha acquisito come un dato ineludibile la presenza del linguaggio
e di categorie mitiche nell’AT, dall’altro ha insistito sul carattere storico della fede
israelita. Basti citare questa frase di una delle più influenti teologie bibliche prodotte
nel XX secolo, quella di G. von Rad:
Sin le più antiche professioni di fede in Jahvé avevano carattere storico, ossia
collegavano il nome di quel Dio col racconto di un suo intervento nella storia20.
Se in molte religioni il mito ha anche lo scopo di fondare il culto e le verità
religiose, sicuramente non svolge questo ruolo nell’antico Israele, dove, invece, il
fondamento della fede si trova nell’intervento di Dio in favore del suo popolo21.
Questo rapporto tra racconti mitici ed eventi storici emerge anche dalla posizione dei
racconti di creazione all’interno del canone biblico. Gn 1–2 (e più in generale Gn 1–
11) è un’introduzione alla storia del popolo d’Israele o meglio, alla storia del rapporto
di Dio con Israele e quindi alla storia della Rivelazione di Dio agli uomini. Ponendo
Gn 1–11 all’inizio della Bibbia, chi ha scritto o raccolto questi testi ha voluto inserire
quella che potrebbe essere considerata la storia particolare di un popolo nel quadro
più ampio della storia dell’umanità: la storia d’Israele è la storia dell’uomo.
Viceversa, se la vicenda d’Israele è caratterizzata dagli interventi salvifici di Dio in
favore del suo popolo, porre Gn 1–2 all’inizio della Bibbia significa che non può
essere interpretato semplicemente come una riflessione sull’origine del mondo, ma va
anch’esso considerato un intervento salvifico del Dio d’Israele in favore dell’umanità
intera.
In altri termini: il linguaggio e il carattere mitico dei racconti di creazione non
può significare che vanno interpretati sganciandoli dall’insieme dell’Antico
Testamento e alla stregua di miti di altri popoli: piuttosto, i testi chiedono che il loro
carattere mitico sia messo in rapporto alla storia d’Israele e all’espressione storica
della fede di quel popolo22.

20 G. von RAD, Teologia dell’Antico Testamento. Volume I: Teologia delle tradizioni storiche
d’Israele, Paideia, Brescia 1972, p. 149.
21 Questa è, per lo meno, la prospettiva che ci tramandano i libri dell’AT come interpretazione
autentica della fede di Israele. Più difficile stabilire quanto tale convinzione fosse diffusa già in
un’epoca antica come pensava von Rad: l’esegesi critica degli ultimi quarant’anni ha modificato
radicalmente il quadro della datazione dei brani su cui egli si basava.
22 Cfr. C. GEFFRÉ, «Mito», cit., pp. 878-879.
Esegesi di Gn 1‒3 10

1.4 Contestualizzazione critica del brano: indagare la sua «storia»


Gn 1 non vuole raccontare una serie di fatti accaduti nel passato: non ha quindi
senso chiedersi se la «creazione» come è narrata in quel testo corrisponde a come
essa si è svolta secondo le nostre conoscenze scientifiche.
Se consideriamo Gn 1, la «preistoria» può essere determinata soltanto in senso
molto generale: il testo riprende diversi elementi presenti nei racconti di creazione
dell’antico Vicino Oriente e quindi chiaramente l’autore ha preso spunto da materiale
che circolava e che egli conosceva (la quantità di paralleli che si può trovare per i
racconti di creazione e del diluvio è abbastanza ampia)23. Però, si presenta come una
composizione unitaria e quindi non si può individuare una forma precedente del
racconto di cui quella attuale sarebbe uno sviluppo; né si possono individuare due
«tipi» di racconto precedenti di cui il testo attuale sarebbe una fusione24. Il testo di Gn
1, come è noto dal corso d’Introduzione all’AT, viene considerato parte de testi di
mano «sacerdotale» del Pentateuco, collocati abitualmente nel VI-V sec. a.C25.
Tenendo conto di ciò che conosciamo dei racconti di creazione presso altri popoli, e
in particolare nel antico Vicino Oriente, C. Westermann ritiene che il contributo
peculiare del “sacerdotale” (P) rispetto al materiale che egli assume dalla tradizione
sia costituito dai seguenti elementi:
1. La formula introduttiva: «Dio disse» (vv. 3; 6; 9; 11; 14; 20; 24; 26)
2. Il comando: «ci sia» (vv. 3; 6; 14); «si raccolga» (v. 14), «brulichino» (v. 20);
«produca» (v. 24).
3. Esecuzione del comando: «e fu (avvenne) così» (vv. 3 [con «luce» al posto di
«così»]; 7; 9; 11; 15; 24; 30).
4. Giudizio: «E Dio vide che era buono» (vv. 4; 10; 12; 18; 21; 25; 31).
5. Indicazione temporale: «e fu sera e fu mattina» (vv. 5; 8; 13; 19; 23; 31).
Come si può notare queste formule sono anche quelle che danno al brano la sua
peculiare struttura, individuata in precedenza. Ciò che caratterizza quindi il racconto
sacerdotale della creazione rispetto ad altri racconti è lo schema «comando -
esecuzione» e l’articolazione in giorni che è chiaramente orientata al settimo giorno.

23 Cfr., p. es., M. CIMOSA, L’ambiente storico-culturale delle Scritture ebraiche, EDB, Bologna
2000, pp. 23-123.
24 In riferimento a quanto detto sopra circa i diversi «modelli» di creazione e alla combinazione
di due modelli in Gn 1, si può ricordare qui che alcuni studi hanno cercato di mostrare come il testo
attuale sia la fusione di due racconti precedenti, uno centrato sul «fare» e uno sul «dire»: però tutti i
tentativi di ricostruire in tal modo le «fonti» di Gn 1 sono risultati poco convincenti, cfr. C.
WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., pp. 82-84.
25 Per analisi più dettagliate cfr., p. es., J.L. SKA, Gn 1–11: un testo sacerdotale e i suoi
complementi, in «Ricerche Storico Bibliche» 24 (2012) pp. 49-66; F. GIUNTOLI, Alcune
osservazioni sull’origine post-esilica di Gn 1–11, in «Ricerche Storico Bibliche» 24 (2012) pp. 67-
74; F. GIUNTOLI, Genesi 1-11, cit., pp. 18-19 e 29-45.
Esegesi di Gn 1‒3 11

2. Analisi esegetica
Tratteremo più in dettaglio i punti che hanno maggiore importanza anche a
livello teologico, senza soffermarci in una spiegazione analitica di tutti i versetti e le
espressioni.

2.1 L’introduzione (vv. 1-2)


1
In principio Dio creò (bārā’) il cielo e la terra. 2La terra era vuota (tōhû) e
deserta (bōhû), le tenebre ricoprivano l’abisso e un vento divino (ruaḥ ’ĕlōhîm)
scuoteva le acque.
Il primo problema del v. 1 è dato dalla sintassi: la frase va tradotta come una
principale («In principio Dio creò il cielo e la terra») o come una subordinata
(«Quando Dio creò il cielo e la terra»)? In questo secondo caso la principale è il v. 2
o il v. 3?26 Sono stati portati argomenti in favore sia dell’una che dall’altra ipotesi e
non è facile decidere. A favore della traduzione di Gn 1,1 come frase temporale si
osserva che27:
a) la parola iniziale in ebraico è vocalizzata come stato costrutto, cioè collegata
a ciò che segue, e quindi andrebbe tradotta nel principio di il che equivale, in italiano,
a «quando…»;
b) il modo verbale ebraico usato in 1,1 (qatal o perfetto) non è quello abituale
per l’inizio della narrazione, che è piuttosto il wayyiqtol che si trova nel v. 3;
c) i racconti babilonesi (e diversi altri racconti) di creazione iniziano di solito
con una frase temporale del tipo «quando ancora x e/o y non c’erano…»;
d) il «cielo» viene creato nei vv. 7-8 e la «terra» nei vv. 9-10; il v. 1, quindi, non
può descrivere la creazione di queste realtà.
Chi sostiene la traduzione come principale fa notare che:
a) le versioni antiche intendono la frase come una principale e anche Gv 1,1 si
richiama all’inizio della Genesi considerandolo come una frase principale;
b) è vero che i racconti di creazione cominciano spesso con una frase temporale,
ma, dal punto di vista del contenuto, la frase che corrisponde a quelle che si trovano

26 Per chiarire le idee a chi non è familiare con problemi di interpretazione sintattica e di
traduzione diamo le diverse possibilità. Considerando il v. 1 come principale si ha la traduzione
adottata dalla CEI: «1In principio Dio creò il cielo e la terra. 2La terra era informe e deserta e le
tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. 3Dio disse: «Sia la luce!». E la
luce fu». Se il v. 1 è considerato come subordinata temporale si può tradurre: « 1Quando Dio creò il
cielo e la terra, 2la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio
aleggiava sulle acque. 3Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu»; oppure (meglio): «1Quando Dio creò
il cielo e la terra (2la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio
aleggiava sulle acque), 3Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu». Per una più approfondita
presentazione dei problemi legati alla traduzione dei vv. 1-2 si veda F. GIUNTOLI, Genesi 1-11, cit.,
pp. 72-73.
27 Sintetizziamo (semplificando un po’) gli elementi riportati da C. WESTERMANN, Genesis 1-11,
cit., pp. 93-97, e J.A. SOGGIN, Genesi 1-11, cit., pp. 29-31.
Esegesi di Gn 1‒3 12

all’inizio di tali racconti è piuttosto quella del v. 2 e non quella del v. 1 la cui
presenza è una scelta originale dell’autore biblico;
c) la frase esprime in modo sintetico tutta la creazione, come quando nei Salmi
si loda Dio quale «creatore del cielo e della terra» (con il verbo ‘āśâ «fare»: Sal
115,15; 121,2; 124,8; 134,3; cfr. 2Cr 2,11; si veda anche Gn 14,19 con il verbo
qānâ); ciò è confermato dal fatto che Es 20,11 e 31,17 parlano della creazione di
«cielo e terra» in sei giorni, intendendo quindi i due termini come espressione
sintetica di tutta quanto elencato in Gn 1. La frase non rappresenterebbe l’inizio del
racconto, ma una sorta di intestazione o di titolo.
Decidere tra le due ipotesi è difficile, in ogni caso è importante che sia chiaro
che il v. 1 non costituisce l’inizio della narrazione dell’agire di Dio che si ha soltanto
al v. 3, mentre il v. 2 tenta in qualche modo di rappresentare la situazione precedente
la creazione, o, meglio, antitetica ad essa (vedi più sotto).
Il verbo ebraico bārā’ «creare» è usato nella Bibbia ebraica sempre e soltanto
con Dio come soggetto. Si noti che non è l’unico verbo usato per indicare la
creazione: spesso, anche in Gn 1, si usa il più generico ‘āśâ «fare» per indicare
l’attività del Signore che crea. Quindi, il fatto che bārā’ «creare» sia usato solo con
Dio come soggetto rappresenta una scelta precisa: è un termine tecnico sviluppato
dalla riflessione religiosa d’Israele, per descrivere la creazione divina come
un’«attività» del tutto peculiare, senza che l’affermazione della differenza, o
potremmo dire della trascendenza dell’operare divino, neghi la possibilità di stabilire
delle analogie tra il «fare» divino e il «fare» umano (dato che per entrambi si può
usare il verbo ‘āśâ «fare»).
Come già accennato, «cielo e terra» sono un’indicazione sintetica di tutto il
cosmo. Si tratta, in linguaggio tecnico, di un «merismo», cioè di una espressione nella
quale la totalità viene indicata con l’uso di termini contrari o che rappresentano due
estremi.
La situazione antitetica alla creazione è espressa nel v. 2 con tre frasi. Nella
prima, la terra è caratterizzata con i vocaboli tōhû e bōhû che si ritrovano insieme in
Is 34,11; Ger 4,2328. In questi passi descrivono il deserto, soprattutto in senso
negativo e di minaccia, come devastazione e desolazione; inoltre il termine tohû
compare in contesti in cui si indica la vanità, il vuoto o la nullità di qualcosa (cfr. per
es. 1Sam 12,21 dove indica la vanità o nullità degli idoli).
Le «tenebre» vanno intese, nella seconda proposizione, nel loro significato
negativo di minaccia, e compaiono in molte cosmogonie come elemento primordiale,
in opposizione alla creazione. «Abisso» traduce l’ebraico tehôm, che indica le acque

28 Solo in questi tre passi compare nella Bibbia ebraica il termine bōhû, che non ha quindi
un’esistenza propria, ma dipende sempre da tōhû, che è invece più frequente e viene usato
soprattutto nel libro di Isaia (in particolare nel Secondo Isaia). Alcuni autori pensano a uno sfondo
mitologico di queste parole, cioè che derivino da termini usati per designare divinità (tra i Sumeri o
tra i Cananei), ma l’ipotesi rimane dubbia. Inoltre va considerato che non sempre l’origine di una
parola ha significato per chi la usa!
Esegesi di Gn 1‒3 13

profonde, quelle che scorrono sotto terra29; qui indica l’oceano primordiale, le acque
non ancora imbrigliate e controllate (cfr. v. 9).
La terza proposizione del v. 2 è la più complicata da interpretare: la parola ruaḥ
che può essere tradotta sia «vento» sia «spirito». È vero che sempre nella Bibbia
quando si trova, come qui, ruaḥ ’ĕlōhîm si sta indicando lo «spirito di Dio», ma con
questa traduzione l’ultima proposizione del v. 2 andrebbe intesa in opposizione alle
prime due e non come una coordinata che continua la descrizione della situazione
antitetica alla creazione. Sembra meglio intendere che ’ĕlōhîm qui sia usato per
indicare un superlativo, come accade in alcuni versetti poetici dell’AT (cfr. Gb 1,16;
Sal 36,7; 80,11; Is 14,13) e quindi si debba tradurre «un grande vento», un «vento
impetuoso»; in effetti, il vento è un altro elemento presente nelle cosmogonie antico
orientali. Con questa traduzione il verbo rāḥap va reso «tremava, scuoteva» (come in
Ger 23,9) anziché «aleggiava» (richiamando l’uso in Dt 32,11).
Occorre soffermarsi su una possibile difficoltà del lettore moderno con questo v.
2, che evidentemente ha un problema di logica narrativa: abbiamo infatti spiegato che
il v. 1 non è l’inizio della narrazione e che la «terra» viene creata soltanto al vv. 9-10.
Come può quindi l’autore, immaginare la terra «deserta e vuota» prima che sia
creata? Se il racconto della creazione vera e propria inizia al v. 3, come può il v. 2
rappresentare una realtà che esiste prima del creato? Vuol dire che il testo contraddice
l’affermazione propria della fede cristiana per cui Dio ha creato dal «nulla»30?
La risposta alla domanda va cercata approfondendo sia la logica del v. 2 sia
quella dell’affermazione tradizionale cristiana. In entrambi i casi non si tratta, in
realtà, di fare un’affermazione su un ipotetico momento precedente la creazione,
perché, ovviamente, non esiste un «prima» della creazione dato che essa comprende
anche la creazione del tempo. Quando si parla di «creazione dal nulla» non si fa
un’affermazione sul prima della creazione ma sul contrario della creazione: si vuole
appunto affermare che tutto ciò che esiste dipende da Dio e che non è possibile
pensare nulla che esista indipendentemente dall’azione divina. Analogamente va
interpretato Gn 1,2: è il modo con cui l’autore descrive, in conformità alla cultura e
alla mentalità del suo tempo, il contrario della creazione; essendo quest’ultima vista
sopratutto come cosmo ordinato in cui la vita fiorisce, la situazione contraria è
rappresentabile dai luoghi / situazioni in cui non c’è armonia né ordine e la vita è
impossibile31. L’autore biblico accetta, quindi, una visione diffusa nell’antico Vicino
Oriente, dove la creazione era spesso vista come limitazione e trasformazione del

29 L’etimologia della parola ha quasi certamente un legame con il babilonese Tiamat, il nome
della divinità sconfitta da Marduk nella lotta primordiale e da cui scaturisce poi la creazione. Si
tratta però di un legame remoto, non di una dipendenza diretta di Gn 1,2 dalla cosmogonia
babilonese.
30 Affermazione che, tra l’altro, il cristianesimo eredita dal giudaismo, visto che si trova in 2Mac
7,28: «Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi e sappi che Dio li
ha fatti non da cose preesistenti; tale è anche l’origine del genere umano»
31 È evidente che, mentre la formulazione della «creazione dal nulla» riprende il linguaggio
filosofico, quella di Gn 1,2 utilizza piuttosto il linguaggio mitologico.
Esegesi di Gn 1‒3 14

caos32. Va tenuto presente che in questa concezione rimane, dopo la creazione, la


possibilità che le forze contrarie alla creazione, il caos, si ripresentino in qualche
modo nel cosmo: se ciò non accade è proprio grazie all’azione divina che continua a
sostenere il mondo. Quando il caos irrompe nel creato (come con il diluvio, in cui le
acque ricoprono la terra in una situazione di indifferenziazione che contrasta con la
separazione ordinatrice descritta in Gn 1,6-10) l’evento non può che essere attribuito
a una decisione divina. Il vantaggio di questa concezione, dal punto di vista
teologico, è quello di mantenere sempre vivo il rapporto fra Dio e il creato33 che
invece la concezione più filosofica della creazione dal nulla, concentrandosi
esclusivamente sul momento dell’inizio, rischia di dimenticare. Infatti, la concezione
dell’origine del mondo dal nulla può adattarsi anche a un Dio impersonale, a un
Assoluto che semplicemente dà inizio al tutto, lasciando poi che esso si sviluppi
secondo le sue leggi e, in fondo, disinteressandosene (o apparendo del tutto arbitrio).
Ovviamente, accettando il linguaggio mitico di Gn 1,2 si deve evitare il rischio
connesso a tale linguaggio, cioè quello di considerare queste «realtà caotiche» come
antagonisti di Dio che si pongono al suo stesso livello: anche per questo,
probabilmente, l’autore biblico evita di descrivere la creazione come manipolazione
di queste realtà, per dare spazio invece alla parola divina. In questo modo le realtà
evocate nel v. 2 non forniscono la materia per la creazione (come accade invece in
altri racconti antichi, come, p. es., l’Enuma Elish citato sopra, dove Marduk crea il
mondo con i resti di Tiamat) e quindi non hanno alcun ruolo nel racconto successivo,
servono appunto soltanto per evocare la situazione radicalmente opposta a quella del
mondo creato come voluto da Dio. Si comprende bene, quindi, perché la tradizione
cristiana non ha avuto alcuna difficoltà a leggere questo racconto nella prospettiva
della creazione dal nulla34.

2.2 Primo giorno (vv. 3-5)


3
Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. 4Dio vide che la luce era buona (ṭôb) e
Dio separò la luce dalle tenebre. 5Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le
tenebre notte. Venne sera e venne mattina: giorno primo.
v. 3 Dio crea parlando. Ciò che viene messo in primo piano in Gn 1 è l’ordine
divino, il fatto che Dio comanda e ciò che Egli dice si realizza. È la potenza e
l’efficacia del dire divino che è in questione qui, più che la creazione «attraverso» la
parola (a differenza di quanto accade, per es., in Gv 1 dove la creazione avviene per
mezzo della parola/lógos). Si sottolinea così la libertà divina nell’opera di creazione:

32 Cfr. K. LÖNING - E ZENGER, In principio Dio creò. Teologie bibliche della creazione,
Queriniana, Brescia 2006, pp. 19-35.
33 Per un approfondimento di questo aspetto cfr. F. SERAFINI, «Creatore nella gratuità», in A.
POLAT (a cura di), Il Dio della Bibbia, Centro di studi biblici, Sacile (Pn) MANCA DATA, pp. 14-
17.
34 Cfr. G. RAVASI, L’uomo biblico e la scienza moderna, in «Ricerche Storico Bibliche» 24
(2012), p. 34.
Esegesi di Gn 1‒3 15

all’origine del mondo non si trova un qualche bisogno divino o una necessità delle
cose, ma semplicemente la sua volontà creatrice.
La «luce», creata il primo giorno, si contrappone alle «tenebre» rappresentando
l’antitesi della situazione caotica, del «nulla» del v. 2. In questo senso è chiaro il
motivo della sua creazione come prima opera. Nella struttura del capitolo la luce è
legata alla scansione settimanale: creando la luce, separandola dalle tenebre, si forma
il giorno, l’unità temporale che articola la descrizione dell’opera divina in questo
capitolo e che scandisce anche la vita dell’umanità.
v. 4 Con l’aggettivo «buono» non è in gioco una valutazione etica o estetica del
creato (l’ebraico ṭôb può significare anche «bello»: l’antica versione greca dei
Settanta traduce infatti con kalós, «bello»); ci si riferisce piuttosto alla sua perfezione
e armonia, alla sua conformità con lo scopo a cui è destinato35. La frase, ripetuta
all’interno del racconto, suggerisce che la contemplazione del creato («vide») non
può che portare alla constatazione della sua positività («buono/bello/perfetto») e
quindi, in ultima analisi, alla lode per il creatore (si veda l’uso della frase in Sal 34,9).
Il lettore è quindi invitato ad assumere nei confronti del mondo lo stesso sguardo di
Dio.
Si può notare che il giudizio di bontà qui è riferito alla luce e non alla
separazione tra luce e tenebre suggerendo implicitamente una scala di valori: la luce è
meglio delle tenebre, nonostante anche queste abbiano chiaramente una loro funzione
nel creato.
La «separazione» rimanda, in parte, al linguaggio che si trova a volte nelle
cosmogonie antico-orientali in cui la separazione tra cielo e terra è l’evento decisivo
che permette di iniziare a descrivere il mondo, facendolo emergere dall’insieme
precedente, indistinto, confuso e caotico. La caratteristica propria di questo racconto
è quella di vedere tale separazione in senso temporale e non spaziale: separando luce
e tenebre Dio crea il giorno. Riflettendo però sul concetto di separazione, va inoltre
notato che esso svolge un ruolo importante nell’ambito del culto di Israele e
dell’ideologia ad esso connessa36, per preservare la distinzione tra sacro e profano (Lv
10,10; 11,47; 20,25; Ez 22,26; 42,20) e permettere così un corretto rapporto con la
divinità. La separazione, quindi, non è soltanto un’attività ordinatrice che struttura il
cosmo dandogli un senso, ma è anche l’operazione che permette di vivere all’interno
di tale cosmo la relazione con il creatore.
v. 5 Anche il dare un nome è un elemento presente nelle cosmogonie: nel poema
babilonese Enuma Elish «nominare» è in parallelo a «creare» e prima della creazione
nessuna cosa ha un nome37. Assegnare un nome è un segno di dominio, come accade
35 Cfr. G. RAVASI, «Dio vide che era ṭov» (Gn 1)», in «Parola Spirito e Vita» 44 (2001), pp. 11-
20.
36 Il racconto di Gn 1,1–2,3 viene attribuito a una scuola o redazione «sacerdotale» così definita
perché chiaramente legata alle idee espresse in testi biblici legati all’attività dei sacerdoti o attribuiti
a qualcuno di essi (come, p. es., il profeta Ezechiele, di cui sappiamo che era un sacerdote).
37 Il poema, infatti, inizia con queste parole: «Quando lassù il cielo non aveva ancora nome, e
quaggiù la terraferma non era ancora chiamata con un nome» (Enuma Elish, I,1-2).
Esegesi di Gn 1‒3 16

quando un sovrano cambia il nome a un suo vassallo (2Re 23,34; 24,17): si afferma,
quindi, il dominio divino sulle realtà create. Ma il nome non è puramente arbitrario
nella mentalità antica: rivela, in qualche modo, il significato di ciò che designa
all’interno dell’opera divina.
La menzione del «giorno uno», così come le successive menzioni dei giorni,
caratterizza il racconto creando un certo paradosso: l’evento dell’inizio, che ha una
carattere del tutto particolare, viene inserito nella successione dei giorni esattamente
come le normali vicende umane.

2.3 Il secondo giorno (vv. 6-8)


6
Dio disse: «Sia un firmamento in mezzo all’acqua per separare acqua da acqua».
7
Dio fece il firmamento e separò l’acqua che è sotto il firmamento dall’acqua che
sono sopra il firmamento. Così avvenne. 8Dio chiamò il firmamento cielo. Venne
sera e venne mattina: secondo giorno.
La descrizione della volta celeste in questi versetti rimanda a una concezione del
mondo in cui essa veniva immaginata come un qualcosa di solido che proteggeva il
cosmo dalle acque caotiche (le «acque che stanno sopra il firmamento»); queste
ultime potevano, a volte, cadere sulla terra da alcuni passaggi: si interpretavano così
le precipitazioni (cfr. in Gn 7,11; 8,2; 28,17; 2Re 7,2.19; Sal 78,23). Si tratta di una
visione tradizionale, che non è l’oggetto dell’interesse dell’autore, quanto il
presupposto del suo discorso, che vuole invece sottolineare che il mondo, così come è
(cioè così come lo si conosceva o pensava) è creato da Dio.
Si può notare una certa tensione tra il v. 6 (che presenta la parola efficace di
Dio) e il v. 7 (che presenta l’attività di Dio): se la parola divina realizza ciò che
proclama, che bisogno c’è di dire al v: 7 «Dio fece»? Non è una ripetizione inutile,
dato che il firmamento era già realizzato dall’ordine del v. 6? Invece di «Dio fece», ci
si aspetterebbe: «così avvenne». La combinazione dei due modelli di creazione
(mediante la parola e mediante l’attività divina) è qui evidente; si può dire che
accostandoli esplicitamente si sottolineano due aspetti del creare divino: da una parte
il coinvolgimento operoso e fattivo di Dio nel mondo, dall’altra la sua trascendenza e
la distanza che esiste tra Lui e le creature. Il lettore deve notare ancora che il testo
biblico non intende essere univoco, perché la riflessione sulla creazione richiede di
considerare la complessità del rapporto tra Creatore e creatura, maturato nella
coscienza di fede dell’Israele antico.
L’assenza del giudizio di bontà divino è un segnale che quanto è stato creato nel
secondo giorno non è perfetto e sarà completato nel terzo giorno.

2.4 Il terzo giorno (vv. 9-13)


9
Dio disse: «L’acqua che è sotto il cielo si raccolga in un unico luogo per far
apparire l’asciutto». Così avvenne. 10Dio chiamò l’asciutto terra, e chiamò la
massa d’acqua mare. Dio vide che era buono (ṭôb). 11Dio disse: «La terra produca
germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, secondo la propria specie,
Esegesi di Gn 1‒3 17

che abbiano ciascuno il proprio seme sulla terra». Così avvenne. 12La terra fece
spuntare germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie,
e alberi da frutto che hanno ciascuno il proprio seme, secondo la propria specie.
Dio vide che era buono (ṭôb). 13Venne sera e venne mattina: terzo giorno.
Due sono le opere compiute nel terzo giorno: la separazione delle acque inferiori
(vv. 9-10) e la produzione dei frutti della terra (vv. 11-12).
vv. 9-10 Come accennato, nella visione del mondo che l’autore biblico
condivide con le culture circostanti, le acque sono viste come un elemento instabile e
minaccioso, ma Dio, assegnando loro un luogo preciso e ponendo dei confini che non
possono valicare38, ne fa un elemento necessario per la vita. Inoltre, l’acqua, in
particolare il mare, veniva spesso divinizzata: nel testo biblico non c’è traccia di
questa idea dal momento che essa è presentata come creatura di Dio la cui forza è da
Lui limitata.
vv. 11-12 Dopo aver permesso alla terra asciutta di emergere, una parola di Dio
dona ad essa la capacità di essere feconda. Il regno vegetale non è creato direttamente
dalla parola di Dio, ma dalla terra39 che da Dio ha ricevuto la capacità di produrre
germogli, erbe e alberi. La vita che così sboccia è presentata come un insieme
ordinato (cfr. la frase: «secondo la propria specie») e, al contempo, variegato.

2.5 Quarto giorno (vv. 14-19)


14
Dio disse: «Ci siano lampadari nel firmamento del cielo, per separare il giorno
dalla notte; siano segni per le feste, per i giorni e per gli anni 15e siano lampadari
nel firmamento del cielo per illuminare la terra». Così avvenne. 16Dio fece i due
lampadari grandi: il lampadario maggiore per regolare il giorno e il lampadario
minore per regolare la notte, e le stelle. 17Dio li pose nel firmamento del cielo per
illuminare la terra, 18per regolare il giorno e la notte e per separare la luce dalle
tenebre. Dio vide che era buono. 19Venne sera e venne mattina: quarto giorno.
La creazione degli astri collega il quarto giorno al primo creando una certa
tensione: come può esserci luce senza che sia originata da qualcosa? Gli astri
andavano creati prima della luce! Sembra, però, che nella mentalità condivisa
dall’autore la luce fosse nettamente distinta dalla sorgente: gli astri sono così
concepiti come semplici trasmettitori, e non produttori, di una luce che esiste prima di
loro.
Risulta strano anche il fatto che gli astri non vengano chiamati con il loro nome,
sole e luna, ma semplicemente «lampadari» (o «lampade», «luminari»). Questa
particolarità si comprende pensando che, nell’antico Vicino Oriente, sole e luna erano
considerati delle divinità; anzi, i termini «sole» e «luna» erano utilizzati come nome
38 Nell’AT vi sono molti testi in cui viene ricordata la potenza di Dio che pone un limite alle
acque: cfr. Gb 38, 8-11; Sal 33,7; 104,6-9; Pr 8,29; Ger 5,22. Come già accennato, nel momento in
cui le acque superano il limite, la creazione è destinata a ricadere nel caos: cfr. Gn 7,17-24.
39 Si può forse cogliere qui un rimando all’idea di «terra madre» presente nelle culture del tempo
e ancora in alcune di oggi.
Esegesi di Gn 1‒3 18

proprio di divinità. L’autore biblico compie così un’opera di de-divinizzazione


(contrapponendosi ad altri racconti mitici) presentando gli astri come creature di Dio
e scegliendo di non chiamarli con il loro nome proprio, ma con un termine che
rimanda semplicemente alla loro funzione40.
Compito degli astri è regolare il tempo in funzione dell’uomo: il loro governare
giorno e notte permette di separare i tempi; dietro questa formulazione sta l’interesse
dell’autore per il calendario delle feste41. In questo modo, infatti, l’origine del
calendario cultuale, della divisione tra tempi sacri e profani, è fatta risalire
direttamente alla creazione. Questa separazione temporale si compirà il settimo
giorno con la santificazione del sabato.

2.6 Quinto giorno (vv. 20-23)


20
Dio disse: «Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra,
nel firmamento del cielo». 21Dio creò i grandi mostri marini (tannînim) e tutti gli
esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti
gli uccelli alati, secondo la loro specie. Dio vide che era buono. 22Dio li
benedisse: «Siate fecondi, moltiplicatevi e riempite l’acqua del mare; gli uccelli
si moltiplichino sulla terra». 23Venne sera e venne mattina: quinto giorno.
La particolarità che salta subito all’occhio è l’inserimento della benedizione (v.
22): risalta, così, la differenza fra gli «esseri viventi» e le creature inanimate. A
sottolineare la particolarità di quest’opera vi è anche la ripresa del verbo bārā’,
«creare», nel v. 21 che permette di mettere maggiormente in risalto il rapporto tra
creatore e creatura (dopo il v. 1 non era stato più usato nel racconto; ritorna poi tre
volte nel v. 27 e una volta nella conclusione, 2,3).
La parola tannîn («mostro marino», v. 21) può evocare lo sfondo mitologico
della lotta di Dio contro le forze del caos (cfr. in questo senso Is 27,1; 51,9; Sal
74,13; Gb 7,12), ma qui viene usata per indicare una creatura particolarmente
misteriosa e terribile (cfr. Sal 148,7): alcuni studiosi vedono all’opera anche in questo
versetto l’intento di depotenziamento del linguaggio mitico da parte dell’autore.
La benedizione è costruita con i verbi «siate fecondi» (pārâ) e «moltiplicatevi»
(rābâ); in genere compaiono insieme riferiti agli uomini, in particolare i patriarchi e
Israele (Gn 9,1.7; 17,20; 28,3; 35,11; 47,27; 48,4; Es 1,7; Lv 26,9; cfr. Ez 36,11 e Ger
3,16; 23,3), ma in Gn 8,17 sono riferiti anche agli animali. L’imperativo nella
benedizione non va inteso come un comando, quanto piuttosto come attribuzione di
una facoltà che appartiene propriamente agli esseri viventi e li distingue dalle altre
creature, cioè quella di riprodurre la vita. Il riferimento alla fecondità è il significato
primario e originale della benedizione attraverso cui Dio dona alle creature la

40 La tentazione di divinizzare gli astri rimane comunque presente nella storia del popolo di
Israele: cfr. Dt 4,19; Ger 44,17-19; Sap 13,1-9.
41 Opportunamente la nuova versione Cei del 2008 traduce qui l’ebraico mo‘ēd con «festa»,
correggendo la scelta precedente di «stagioni», che non corrisponde al senso del termine.
Esegesi di Gn 1‒3 19

capacità di generare la vita e di propagarla42. Si noti che le creature acquatiche


ricevono il compito di riempire il mare, mentre gli uccelli non devono riempire il
cielo, probabilmente perché quest’ultimo è immaginato come il «luogo» di Dio.

2.7 Sesto giorno (vv. 24-31)


24
Dio disse: «La terra faccia spuntare esseri viventi secondo la loro specie:
bestiame, rettili e animali selvatici, secondo la loro specie». Così avvenne. 25Dio
fece gli animali selvatici, secondo la loro specie, il bestiame, secondo la sua
specie, e tutti i rettili del suolo, secondo la loro specie. Dio vide che era buono.
26
Dio disse: «Facciamo (na‘ăśeh) l’uomo (’ādām) a nostra immagine
(beṣalmēnû), a nostra somiglianza (kidmûtēnû): dòmini (weyirdû) sui pesci del
mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i
rettili che strisciano sulla terra». 27Dio creò (bārā’) l’uomo a sua immagine; a
immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. 28Dio li benedisse, Dio disse
loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate
sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia
sulla terra». 29Dio disse: «Io vi do ogni erba che produce seme, che è su tutta la
terra, e ogni albero da frutto che produce seme: saranno il vostro cibo. 30A tutti
gli animali selvatici, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano
sulla terra che respirano, io do in cibo ogni erba verde». Così avvenne. 31Dio vide
tutto quanto aveva fatto: era molto buono!. Venne sera e venne mattina: sesto
giorno.
Anche nel sesto giorno vengono narrate due opere: la creazione degli animali
terrestri (vv. 24-25) e dell’essere umano (vv. 26-30).
vv. 24-25 La creazione degli animali riprende quanto si è affermato per le piante:
sono «fatti uscire», cioè «prodotti» dalla terra. Come spiegato sopra (cfr. p. ***)
esistevano idee di creazione mediante generazione che possono aver influenzato
l’autore; nell’insieme del testo, però, la frase vuole soprattutto ricordare il legame
degli animali con la terra: è chiaro che la loro creazione dipende dalla volontà divina.
Colpisce l’assenza di benedizione per questi esseri viventi: non si può ritenere che
l’autore la ometta, perché gli animali terrestri avrebbero qualche caratteristica diversa
dai pesci e dagli uccelli che impedisce loro di ricevere la benedizione, tant’è vero che
in Gn 8,17 si afferma esplicitamente la loro fecondità. Si può pensare che l’omissione
sia dovuta a una scelta stilistica, per cui l’autore inserisce una sola benedizione sia nel
quinto sia nel sesto giorno e, con la benedizione del settimo giorno, giunge a un totale
di tre. In tal caso, si potrebbe intendere che la benedizione del v. 28, per quanto
riferita all’uomo e alla donna, comprenda in un certo senso anche gli animali43. Si può
però pensare anche a un’altra spiegazione, partendo dall’osservazione che l’uomo e
l’animale condividono sulla terra lo stesso spazio vitale: il prevalere dell’uno può
risultare un danno per l’altro. Perciò il moltiplicarsi sulla terra degli animali,
42 Cfr. B. COSTACURTA, Benedizione e creazione in Gn 1,1-2,4a, in «Parola, Spirito e Vita» 21
(1990) pp. 23-34; J.L. SKA, «La vita come benedizione», in La Strada e la Casa. Itinerari biblici,
EDB, Bologna 2001, pp. 35-54.
43 C. WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., pp. 141-142.
Esegesi di Gn 1‒3 20

soprattutto delle bestie selvatiche e delle fiere, può essere considerato una
maledizione per l’uomo, dato che spesso danneggiano lui e le sue attività; viceversa
benedizione per l’uomo è l’assenza di animali selvatici44. In ogni caso sembra di
capire che l’autore voglia evocare una convivenza armonica ed equilibrata fra uomo e
animali (cfr. commento ai vv. 29-30). L’armonia è ribadita dalla frase «secondo le
loro specie», che evoca un ordine che si oppone all’indifferenziazione caotica.
vv. 26-31 Nella creazione dell’essere umano si intrecciano ancora il modello di
creazione mediante un’attività («facciamo») e mediante la parola («Dio disse»).
Questi versetti, data la loro importanza anche nella tradizione cristiana, richiedono
un’analisi più dettagliata.
v. 26 Qui emerge subito una difficoltà: perché il verbo plurale «facciamo»? fino
adesso si è sempre usato il singolare nel testo per i verbi con Dio come soggetto! 45. La
tradizione cristiana vi ha spesso colto un implicito riferimento alla Trinità, ma è
chiaro che una tale lettura è possibile soltanto a partire dalla Rivelazione
neotestamentaria. Nella prospettiva dell’autore dell’AT, invece, si può pensare a due
spiegazioni:
- Dio parla alla corte celeste, cioè agli angeli (cfr. l’immagine della corte celeste
in 1Re 22,19; Gb 1,6-7), coinvolgendoli nell’opera;
- il plurale va inteso come un «plurale deliberativo», cioè una forma plurale
usata per sottolineare una decisione; l’uso di questo tipo di plurale si può constatare
in 2Sam 24,14: «Davide rispose a Gad: «Sono in grande angoscia! Ebbene cadiamo
nelle mani del Signore, perché la sua misericordia è grande, ma che io non cada nelle
mani degli uomini»»; l’alternanza di singolare e plurale rende chiaro che si tratta
sempre di una scelta di Davide46.
Questa seconda spiegazione sembra preferibile, anche perché in genere i
racconti attribuiti alla tradizione sacerdotale non danno grande spazio agli angeli;
quindi non pare plausibile qui un riferimento alla corte celeste47. Poiché il plurale
deliberativo sottolinea l’importanza e la solennità della decisione divina, ciò distingue
la creazione dell’essere umano (’ādām)48 dalle altre sette opere precedenti.
Per poter capire il senso dell’espressione «a immagine, secondo somiglianza» è
utile soffermarsi sul significato dei due termini: ṣelem, «immagine», e demût,
44 B. COSTACURTA, Benedizione e creazione in Gn 1,1-2,4a, cit., p. 28.
45 Per una più ampia esposizione delle diverse interpretazioni date al verbo «facciamo», cfr. C.
WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., pp. 144-145; E. BIANCHI, Adamo dove sei?, cit., pp. 135-137.
46 Questo «plurale deliberativo» va distinto dal plurale maiestatis che si può usare in italiano,
ma non si trova praticamente mai in ebraico.
47 Cfr. G. BORGONOVO, «L’inno al creatore per la bellezza della creazione (Gn 1,1–2,4a), in G.
BORGONOVO E COLLABORATORI, Torah e storiografie dell’Antico Testamento, Elledici, Leumann
(To) 2012, p. 416. Di diverso avviso G. von RAD, Genesi, cit., p. 69. Si deve comunque tenere
presente che le due spiegazioni non si escludono a vicenda, cfr. F. GIUNTOLI, Genesi 1–11, cit., pp.
84-85 dove sono pacificamente accostate. L’idea che Dio parli ai suoi angeli è presente anche
nell’interpretazione midrashica: per un esempio, confronta i testi a cui fa riferimento E. BIANCHI,
Adamo dove sei?, cit., pp. 135-136.
48 Il termine ’ādām in ebraico non è un nome proprio, ma un nome comune, «uomo», «essere
umano».
Esegesi di Gn 1‒3 21

«somiglianza». Il primo viene utilizzato normalmente per indicare la statua, la


scultura, l’effige, una riproduzione di qualcosa, anche l’idolo: l’essere umano sarebbe
così una copia, una statua che riproduce l’originale. Il secondo, invece, è un termine
astratto che indica somiglianza, analogia. I due termini non si contrappongono49, ma
rimandano ad una superiorità dell’essere umano rispetto al creato data dalla sua
particolare relazione con Dio.
Si tratta ora di capire in che senso l’essere umano è immagine somigliante di Dio.
Basandosi sul significato del termine ṣelem, «immagine», che poteva indicare la
statua che i monarchi si facevano erigere nelle province del regno come segno del
loro diritto di sovranità, dire che l’essere umano è immagine somigliante di Dio
significa affermare che egli è segno della sovranità di Dio sulla terra, o, in altri
termini, rappresentante di Dio sulla terra. Questa spiegazione sembra logica
all’interno del v. 26 che pone l’accento sul fine per cui l’essere umano è immagine: il
compito di dominare (ebraico rādâ, un verbo che si addice appunto ai re o a chi
governa, cfr. p. es. 1 Re 4,24; Sal 72,8) gli animali50..In più, tenendo conto del divieto
di farsi immagini della divinità tipico dell’Antico Testamento (cfr. Es 20,4; Dt 5,8), si
può scorgere in sottofondo una certa polemica con alcune forme di culto, che
faticano, appunto, ad accettare la libertà della presenza di Dio in mezzo al suo
popolo, cercando in qualche modo di fissarla. In realtà, Dio è assolutamente libero
nei confronti dell’uomo, pur avendogli accordato il privilegio di una relazione
particolare d’amore e se si vuole riconoscere i segni della sua presenza basta volgere
lo sguardo al prossimo. Ma per capire fino in fondo cosa significa essere «immagine
e somiglianza» di Dio occorre analizzare i versetti seguenti.
v. 27 Se si confronta questo versetto con il v. 26 si notano alcune modifiche
significative. Come abbiamo accennato sopra, mentre il v. 26 utilizza il più generico
verbo ‘āśâ, «fare», ora per tre volte si ripete il più tecnico e preciso verbo bārā’,
«creare», riservato all’agire divino e indice quindi della singolarità assoluta del suo
operare. Nella prima parte del v.27, inoltre, per due volte si ritrova l’espressione «a
sua immagine» che, nella seconda parte, si specifica in «maschio e femmina». La
costruzione della frase, infatti, usa la tecnica poetica della ripetizione e del
parallelismo:
Creò Dio l’essere umano a immagine di lui

a immagine di Dio creò lui

maschio e femmina creò loro


Come si vede nella terza parte l’elemento che equivale a «immagine» è
«maschio e femmina»: solo perché è maschio e femmina l’essere umano è immagine
di Dio! In questo modo viene sviluppata l’idea espressa nel v. 26: la differenza
49 La similitudine tra i due termini si comprende confrontando Gn 1,27 con Gn 5,1: in entrambi
si parla della creazione dell’essere umano, maschio e femmina, ma in Gn 1,27 si dice che Dio lo
fece a sua ṣelem, «immagine», mentre in Gn 5,1 a sua demût, «somiglianza».
50 Cfr. G. von RAD, Genesi, cit., pp. 70-71.
Esegesi di Gn 1‒3 22

sessuale specifica con un elemento nuovo l’idea di umanità creata a immagine di Dio.
Lo slittamento dal singolare «lo creò» al plurale «li creò» evidenzia ancor di più
come sia l’umanità in quanto maschio e femmina a essere immagine di Dio51.
Abbiamo qui un altro tassello per comprendere appieno la realtà dell’essere
«immagine e somiglianza» del Creatore. Ma conviene aggiungerne ancora uno, prima
di provare a fare una spiegazione sintetica.
v. 28 Dio si rivolge direttamente all’uomo e alla donna per benedirli dando loro
il dono della fecondità e il compito di dominare e soggiogare la terra. In Gn 1 ricorre
per dieci volte l’espressione «Dio disse» (vv. 3.6.9.11.14.20.26.28.29); soltanto nei
vv. 28-29 la parola divina è rivolta a un interlocutore che è esplicitato nel v. 28 («Dio
disse loro»). Uomo e donna sono le uniche creature a cui Dio rivolge la parola
sapendo di essere ascoltato.
Il contenuto della parola divina è anzitutto il dono della fecondità descritto con i
verbi pārâ, «portare frutto», «essere fecondo», rābâ, «moltiplicare», che si ritrovano
alla fine del diluvio, in riferimento a Noè e ai suoi figli (Gn 9,1), e nelle promesse ai
patriarchi (Gn 28,3;35,11; 47,27; 48,4)52. Ritorna poi il verbo «dominare» (rādâ), che
abbiamo visto nel v. 26, rafforzato dal termine kābaš, «soggiogare», che richiama
l’immagine di uno che pone i piedi su qualcosa per prenderne possesso (ma ha anche
una valenza negativa: il dominio sullo schiavo o lo sfruttamento). Riprendendo l’idea
del dominio, il v. 28 chiude il pensiero iniziato con il v. 26 e contribuisce a
precisarlo. Il dominio è, infatti, associato alla fecondità, cioè all’espansione della vita
che è possibile perché l’uomo è maschio e femmina. Questo implica un valore
positivo del dominio e della sottomissione53 di terra e animali, perché, appunto, è in
funzione della vita (e non della violenza di morte); sottolinea, inoltre, il collegamento
fra il v. 26 e il v. 27: l’uomo «domina» in quanto maschio e femmina, relazione di
fecondità.
Tornando quindi alla questione di come interpretare il linguaggio dell’immagine
e somiglianza riferito all’essere umano creato da Dio si deve notare che:
51 Ritengo invece del tutto fuorviante il tentativo di dedurre da questo versetto l’idea che Dio
abbia in sé una distinzione di genere, come è stato fatto anche recentemente (T. GUDBERGSEN, God
consists of both the Male and the Female Genders: A short note on Gn 1:27, «Vetus Tesamentum»
62 [2012] pp. 450-453). Si suppone, infatti, quello che il testo non dice (e non potrebbe voler dire),
cioè la possibilità di leggere il concetto di «immagine» in entrambi i sensi. Il brano di Genesi dice
esplicitamente che l’essere umano è immagine di Dio, ma non che Dio sia immagine dell’umano! In
effetti, questa seconda affermazione è impossibile nell’AT, perché in contrasto esplicito con il
comandamento che vieta di farsi una qualunque immagine di Dio (cfr. Es 20,4; Dt 5,8).
52 Curiosamente, tale benedizione che coinvolge non solo Israele ma tutta l’umanità si realizza
quando il popolo si stanzia in Egitto (Es 1,7): è in quel momento che la pienezza, il «riempite la
terra» a cui tende la benedizione si compie: la frase che in Es 1,7 viene tradotta «il paese ne fu
pieno» in ebraico è praticamente la stessa di Gn 1,28. Questo crea una tensione e un paradosso con
la vicenda seguente, dove il Faraone tenta di opporsi a tale fecondità, cfr. F. SERAFINI, Il Dio della
vita, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2010, pp. 14-15.
53 Questo ci sembra il significato globale del versetto, anche se l’uso del verbo kābaš introduce
una sfumatura negativa che probabilmente richiama l’ambiguità di questa facoltà umana, che può
portare anche ad esiti negativi.
Esegesi di Gn 1‒3 23

- certamente l’umanità creata a immagine di Dio è chiamata ad essere il suo


rappresentante in terra;
- l’immagine e somiglianza di Dio va colta nell’essere reso capace di entrare in
dialogo con Dio, nell’essere il «tu» a cui Dio si rivolge54;
- questo l’essere umano lo può fare solo in quanto maschio e femmina cioè
essere che sa entrare in una relazione paritetica e di reciprocità;
- solo all’interno di una relazione di comunione tra maschio e femmina può
essere vissuto il compito di dominare la terra per la vita;
- solo all’interno di una relazione di comunione si vive la chiamata ad essere il
«tu» di Dio.
Per completare la discussione si può far cenno a un punto che ha attirato
l’attenzione dei Padri della Chiesa: come mai il v. 27, nel descrivere l’opera divina,
non riprende il termine «somiglianza», ma usa soltanto «immagine»? Citiamo al
proposito il commento di Origene:
Nel riferire la creazione dell’uomo Mosè prima di ogni altro dice: E Dio disse:
Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza. Poi di seguito aggiunge: E
Dio fece l’uomo; a immagine di Dio lo fece; maschio e femmina li fece, e li
benedisse. Il fatto che egli dica: a immagine di Dio lo fece, mentre non fa
menzione della somiglianza, non ci suggerisce altro che questo, cioè che l’uomo
ricevette l’onore dell’immagine di Dio nella sua prima creazione, mentre la
perfezione della somiglianza a Dio era riservata a lui solo alla fine dei tempi. Lo
scopo di ciò è che l’uomo acquisisca tale somiglianza per mezzo dei suoi sforzi
di imitare Dio, in modo che, mentre la possibilità di raggiungere uno stato di
perfezione gli era stata data fin dal principio grazie all’onore dell’immagine, egli
possa però alla fine, per mezzo delle opere da lui compiute, ottenere per sé la
perfetta «somiglianza» (Origene, Sui Principi 3,6,1)55.
L’osservazione è suggestiva e interessante perché sottolinea lo spazio della
libertà nella costruzione della propria personalità e identità, o meglio, della propria
umanità56. Se l’essere umano è l’unica creatura chiamata a «rispondere» a Dio, a
entrare in dialogo con lui, è chiaro che ciò è possibile soltanto come scelta libera e
non come costrizione: senza la libertà di entrambi gli attori non c’è dialogo! Ma
proprio in questo dialogo con Dio e il prossimo, in questo tessuto di relazioni
orizzontali e verticali in cui opera delle scelte libere l’essere umano si «compie».

54 Cfr. C. WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., pp. 155-158


55 Ho ripreso la citazione da A. L OUTH (a cura di), La Bibbia Commentata dai Padri. Antico
Testamento 1/1: Genesi 1-11, Città Nuova, Roma 2003, pp. 57-58. In quel volume il lettore potrà
trovare altri passi con riflessioni analoghe.
56 Per una ripresa moderna di questo suggerimento di Origene e altri Padri, si veda A. WÉNIN,
Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo. Lettura narrativa e antropologica della Genesi. I: Gn
1,1–12,4, EDB, Bologna 2008, pp. 28-33. Egli legge il compito soprattutto nella prospettiva di
umanizzazione della componente che accomuna l’uomo all’animale, cioè come dominio
dell’animalità interiore.
Esegesi di Gn 1‒3 24

Rimane, però, il dubbio che l’omissione del termine «somiglianza» nel v. 27


abbia questo valore per l’autore biblico: in Gn 5,1 si riprende il momento della
creazione usando soltanto il termine «somiglianza» («nel giorno in cui Dio creò
l’uomo, lo fece a somiglianza di Dio») e poi nel v. 3 si ripetono entrambi i termini in
riferimento alla nascita di Set: «Adamo aveva centotrenta anni quando generò un
figlio a sua immagine, secondo la sua somiglianza, e lo chiamò Set». Sembra dunque
che l’autore biblico possa evocare il concetto di «immagine e somiglianza» anche con
uno solo dei due termini.
vv. 29-30 Agli esseri umani e agli animali Dio dona il cibo, che è per entrambi
vegetale; la distinzione che viene posta tra il cibo per gli uomini (prevalentemente
frutti) e quello degli animali (erba) richiama la classificazione del mondo vegetale
suggerita nel v. 11. Questa assegnazione evoca uno scenario in cui non c’è conflitto
per la sopravvivenza fra essere umani e bestie selvatiche (conflitto che invece era ben
sperimentabile da chi scriveva) e fa riferimento a un quadro ideale dell’epoca
primordiale che si ritrova in molte culture. Inoltre, evoca anche la descrizione dell’età
futura di salvezza in passi come Is 11,2-9; 65,25; Ez 34,25; Os 2,20 (cfr. anche Mc
1,13). Questo conferma, tra l’altro, che il dominio a cui è chiamato l’uomo non è
quello della sopraffazione, ma quello della promozione della vita. Ovviamente,
l’autore è ben consapevole che sia gli esseri umani sia gli animali nella realtà si
nutrono anche di carne e infatti Gn 9,3 riprende Gn 1,29 aggiungendo alla dieta
umana gli animali. Tenendo conto dell’insieme dell’AT, non si possono leggere
questi versetti come idealizzazione di una dieta vegetariana, che corrisponderebbe
alla volontà Dio più di quella che include la carne animale. Piuttosto, l’autore proietta
all’inizio quello che la fede d’Israele attende come compimento della storia:
l’eliminazione di tutte le contraddizioni che si sperimentano nell’esistenza concreta,
tra cui quella che per conservare la vita, nutrendosi, occorre anche sottrarla ad altre
creature57.
v. 31 Nella formula conclusiva del sesto giorno, si nota la variazione rispetto alle
precedenti riguardo al giudizio su ciò che è stato fatto: si dice non soltanto «buono»,
ma «molto buono»; l’affermazione va intesa, con ogni probabilità, in riferimento al
compimento del creato, visto che non ci sono altre opere da descrivere. Si tratta
ovviamente di un’affermazione di fede che invita a riconoscere la perfezione
dell’opera divina al di là delle contraddizioni e perturbazioni dell’ordine creato che
l’uomo sperimenta58.

57 Le piante non sembra fossero considerate esseri viventi.


58 Cfr. G. von RAD, Genesi, cit., pp. 72-73.
Esegesi di Gn 1‒3 25

2.8 Settimo giorno (2,1-3)


1
Così furono compiuti (waykullû) il cielo, la terra e tutte le loro schiere. 2Dio, nel
settimo giorno, compì (waykal) il lavoro che aveva fatto e cessò (wayyišbōt) nel
settimo giorno ogni suo lavoro che aveva fatto. 3Dio benedisse il settimo giorno e
lo consacrò, perché in esso aveva cessato (šābat) ogni lavoro che egli aveva fatto
creando.
Si possono evidenziare due idee che vengono collegate dall’autore in questi
versetti. La prima, che può apparire quasi ovvia, è quella che l’opera creativa di Dio
ha un termine, un completamento / compimento (si usa il verbo ebraico kālâ). Da una
parte questo ribadisce che l’opera divina ha una sua perfezione e non è necessario
fare aggiunte; dall’altro evoca la peculiarità dell’«inizio» rispetto alla storia
successiva. In quest’ultimo senso il «cessare di»59 creare da parte di YHWH indica che
i suoi successivi interventi nel mondo, gli interventi nella storia d’Israele che tutto
l’Antico Testamento descrive, hanno un carattere diverso, pur manifestando la stessa
potenza e la stessa volontà salvifica. E la diversità sta in questo: che mentre in Gn 1
opera soltanto la libertà divina, in tutte le altre pagine della Bibbia essa si interseca
con la libertà umana. Il completamento della creazione apre quindi lo spazio
dell’autonomia del cosmo e della libertà umana.
La seconda idea è quella della santificazione e benedizione del settimo giorno,
che viene collegata alla prima mediante la ripetizione del verbo kālâ nel v. 2. La
«consacrazione» o «santificazione» nel linguaggio anticotestamentario è una forma
particolare di separazione: indica che una realtà o una persona è legata in modo
particolare alla sfera del divino, cui è riservata per eccellenza la qualifica di «santo»,
e perciò distinta da tutte le altre realtà «profane». Il settimo giorno, quindi, sottolinea
non solo il fatto che il mondo ha origine da Dio, ma che esso ha il suo senso nella
relazione con il creatore. Siccome, poi, lo schema settenario evoca in sé l’idea di
perfezione, accentuata dal linguaggio del completamento che si ha in questi versetti,
si deve riconoscere che il succedersi dei tempi nella storia ha la sua meta ultima nella
«santificazione» dell’umanità e dell’intero creato. Ciò è sottolineato anche dal fatto
che per il settimo giorno non viene ricordata la scansione temporale «sera, mattina»:
esso diventa così preannuncio di quel giorno ultimo, quello del compimento
escatologico, che il profeta Zaccaria annuncia essere senza notte, né giorno (Zc 14,7).
Tutto questo viene rafforzato dal concetto di benedizione che, come abbiamo
visto, nelle due precedenti ricorrenze all’interno del racconto è legato alla fecondità e
alla vita. Ora il tempo è una delle dimensioni del mistero della vita, che si trova
compresa fra i due momenti del nascere e del morire: la vita, inserendosi nella
struttura temporale donata da Dio, sperimenta la pienezza della sua forza e fecondità.
Accogliendo la scansione del tempo in sei giorni di «lavoro»60 e uno «santificato»,
59 Sembra questo il senso primario del verbo ebraico šābat utilizzato in Gn 2,2-3.
60 L’uso di tale termine (ebraico, melā’kâ) in Gn 2,2-3 è abbastanza sorprendente in base al
contesto precedente dove Dio viene descritto principalmente impegnato a «parlare» e si può
spiegare soltanto in riferimento a Es 20,8-11 dove il comandamento del riposo in giorno di sabato è
Esegesi di Gn 1‒3 26

riconoscendo che la relazione con Dio è parte necessaria e ineludibile dell’esistenza,


la vita non viene limitata, ma valorizzata. Da qui si comprende anche la ripresa del
«riposo divino» nel Decalogo, per rafforzare il comando del «riposo sabbatico» (Es
20,8-11): si vuole sottrarre l’essere umano all’illusione che siano soltanto le proprie
forze, il proprio lavoro, le proprie abilità ad assicurare (tramite la tranquillità e il
benessere) la prosperità della vita. Come Dio manifesta la propria potenza e la
propria libertà non soltanto creando, ma anche cessando di creare, per lasciare spazio
all’altro (l’essere umano) con cui vuole dialogare, così l’uomo manifesta la propria
potenza e la propria libertà smettendo di lavorare e lasciando spazio alla
manifestazione dell’Autore della vita e al dialogo con il prossimo61.

3. Interpretazione globale
Possiamo provare a sintetizzare il percorso svolto nell’analisi dettagliata del
testo, raccogliendo i dati attorno a due punti: ciò che questo racconto ci dice sul
mondo e sull’uomo.

Il mondo
a) Riguardo il mondo, il testo afferma che esso ha un suo ordine e una sua
armonia. Questo appare da diversi espedienti letterari: anzitutto l’articolazione stessa
del brano secondo lo schema numerico settenario che richiama l’idea di perfezione;
poi dalla disposizione ordinata e progressiva delle opere create (prima si creano gli
ambienti, poi le creature che li abitano, ponendo alla fine gli esseri viventi che
abitano la terra); dal linguaggio della separazione, che distingue le realtà le une dalle
altre; infine dal commento esplicito circa la bontà/bellezza/perfezione delle diverse
opere («Dio vide che era buono»). Questa insistenza sull’assoluta positività della
struttura del cosmo serve anche a far comprendere al lettore che esso, nella sua intima
essenza, corrisponde al progetto di divino; quindi le forze naturali non possono essere
considerate nemiche dell’umanità. Potremmo dire che la Bibbia rigetta, in questa sua
prima pagina, l’idea di una natura «matrigna» e quella di un universo dominato dalle
leggi del caso.
b) L’autore, pur utilizzando linguaggio e immagini simili a quelli dei racconti di
altri popoli, se ne distacca volutamente in diversi aspetti, soprattutto per sottolineare
l’unicità del Dio d’Israele e la sua trascendenza rispetto a qualsiasi realtà mondana. Il
cosmo è voluto da YHWH, nasce dalla sua libera decisione e dipende da Lui: tutto ciò
che compone il creato non va divinizzato (per questo, p. es., gli astri sono designati
con termini che ne indicano la funzione di dispensatori di luce e non con i loro nomi),
contro le abitudini dei popoli antichi che diventavano anche una costante tentazione
per Israele. Secondo l’autore biblico c’è un legame fra questo aspetto e quello che
abbiamo evidenziato nel capoverso precedente: il mondo può essere e rimanere bello,

motivato con il riferimento al riposo divino nel settimo giorno.


61 Cfr. A. WÉNIN, Il sabato nella Bibbia, Dehoniane, Bologna 2006, pp. 35-40.
Esegesi di Gn 1‒3 27

buono e ordinato solo se si riconosce tale sua condizione strutturale, senza divinizzare
e idolatrare nessuna creatura. L’idolatria, negando la correttezza dei rapporti tra le
creature e di loro con il Creatore compromette non solo la percezione della verità del
mondo, ma anche la sua stessa stabilità.
c) Complementare a questa osservazione è quella legata al linguaggio della
separazione (cfr. 1,4.6.7.14.18). Esso rimanda alla concezione degli ambienti
sacerdotali (a cui con ogni probabilità appartiene l’autore del brano) che ritiene molto
importante la distinzione non solo dei tempi e delle feste (cfr. 1,14.18), ma anche del
puro e dell’impuro per la celebrazione appropriata del culto. Questo linguaggio
suggerisce di considerare quindi il mondo come il luogo nel quale e attraverso il
quale si può entrare in relazione con Dio (questa è primariamente la funzione del
culto). Non è un malintesa «fuga dal mondo» che consente il dialogo con Dio, ma la
contemplazione del cosmo e l’agire in esso, riconoscendone le leggi, che sono state
poste in esso dal Signore. Eliminare tale aspetto dal cosmo, considerandolo
completamente sganciato da Dio significa negarne un aspetto fondamentale. In altri
termini: sia divinizzando la natura, sia considerandola in chiave puramente
materialista, senza alcun rapporto con Dio, diventa impossibile per l’essere umano
fruire della bontà e della bellezza del cosmo; di più: l’uomo rischia di perdere la
propria identità e/o di distruggere l’armonia del creato.

L’uomo e la donna
a) L’essere umano ha una posizione particolare nel mondo espressa sia dal suo
essere creato per ultimo (quale vertice della creazione) sia dall’essere «immagine e
somiglianza» di Dio. Questa espressione implica da una parte un peculiare rapporto
con tutte le altre creature, che il testo esprime con il linguaggio del dominio (che va
visto però in funzione della vita); dall’altra uno speciale rapporto con il Signore:
l’uomo e la donna sono la creatura che sta davanti a Lui, che può interloquire con Lui
e riconoscere quindi la dipendenza del creato dal suo creatore. Questo significa,
implicitamente, che l’uomo ha una responsabilità particolare in quanto è l’unica
creatura che può (e deve) prendere coscienza della sua identità in rapporto al Signore.
Possiamo riformulare lo stesso concetto facendo riferimento alla «parola» che gioca
un ruolo fondamentale nel testo: infatti, solo nell’uomo e nella donna, uniche creature
che sanno parlare, il creato originato dalla Parola divina può rispondere al suo
creatore, pronunciare una parola libera che riconosce il dono ricevuto.
b) Per approfondire questo aspetto si può riflettere sullo schema comando-
esecuzione tipico del brano. Perché l’autore insiste nel ripetere: «Dio disse… (così)
fu / avvenne»? Certamente per sottolineare l’efficacia e la potenza della Parola
divina. Ma non possiamo pensare che per l’autore biblico tale efficacia si dispieghi
soltanto agli inizi del tempo; per lui è ovvio che la Parola di Dio realizza sempre ciò
che comanda. Ma una volta che l’essere umano è stato creato, l’esecuzione della
parola divina nel mondo è affidata anche alla sua libertà e responsabilità: dopo la
Esegesi di Gn 1‒3 28

creazione dell’uomo e della donna, infatti, Dio si rivolge a loro (cfr. vv. 28-29),
perché a questo punto è necessario che la Parola sia ascoltata.
c) La libertà e responsabilità dell’uomo e della donna appare implicitamente
anche dalla struttura del racconto, articolato sulla scansione settimanale. Essa
rimanda allo scorrere del tempo nella storia umana e quest’ultima è appunto il campo
delle scelte libere e consapevoli. In altri termini: inquadrando l’intervento primordiale
di Dio nell’unità temporale che scandisce l’attività umana, l’autore del brano
sottolinea il legame ineludibile che si pone fra l’agire degli uomini e quello del
Signore, fra le scelte umane e le scelte divine. Questa contiguità significa appunto che
l’uomo è in qualche modo chiamato ad accogliere l’opera divina e a proseguirla.
Sotto questo aspetto, il sabato ricorda che il compimento dell’agire umano (in quanto
«immagine e somiglianza» dell’agire divino) è la «santificazione» cioè il rapporto
con il Signore. Trascurare questo significato del sabato significherebbe sganciare la
propria attività nel creato dal senso globale che lo sostiene.
d) Tutto questo può essere ribadito riprendendo un’osservazione proposta dai
maestri ebrei: la formula «Dio disse» ricorre dieci volte nel brano (vv.
3.6.9.11.14.20.24.26.28.29); abbiamo così dieci parole, esattamente come nel
Decalogo (cfr. Es 34,28; Dt 4,13; 10,4). La Torà divina (noi di solito traduciamo
Legge, ma il senso del termine si può avvicinare anche a quello di Rivelazione: è la
manifestazione della volontà di Dio per il suo popolo) non è qualcosa che appare a un
certo punto della storia, come un evento tra gli altri, ma si colloca all’origine del
mondo, quindi è anche ciò che lo muove verso il suo compimento. La forza teologica
di tale interpretazione sta ovviamente anzitutto nell’affermare implicitamente
l’universalità della Torà: ciò che è rivelato a un popolo, Israele, è in realtà anche ciò
che governa il cosmo e riguarda quindi, in qualche modo tutti l’umanità. Ma
possiamo leggerla anche nella prospettiva della Parola, che abbiamo evidenziato
sopra: la parola della Legge, il comando, è rivolto all’uomo e alla donna e
nell’obbedienza ad esso sta la possibilità di vivere nell’armonia, bellezza e bontà che
corrispondono al progetto di Dio e all’essenza profonda dell’umanità e del creato.
Ascoltare la parola divina è esattamente ciò che corrisponde alla vocazione e alla
natura stessa dell’uomo e del cosmo: la mancanza di quella Parola nel mondo
(mancanza che si realizza quando l’uomo e la donna si rifiutano di accoglierla e
metterla in pratica) lo trascina inevitabilmente verso la situazione di caos (v. 2) da cui
essa lo aveva «separato». Per questo la creazione non è collocata «fuori» dalla storia,
ma ne costituisce l’inizio (come indica la scansione settimanale); e non si tratta di una
storia anonima e priva di senso, ma della storia del rapporto tra Dio e l’uomo, quindi
di una storia d’amore: la storia del Dio che continua a far risuonare la sua Parola
anche quando sembra che non ci sia più nessuno disposto ad ascoltarla: «In principio
era la Parola…la Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,1.14).
Esegesi di Gn 1‒3 29

L’UOMO, LA DONNA E IL GIARDINO: ESEGESI DI GN 2,4‒3,24

1. Contestualizzazione testuale

1.1 Delimitazione e contestualizzazione letteraria


I limiti del testo sono Gn 2,4 e Gn 3,24. L’espressione utilizzata in Gn 2,4a
(«queste le generazioni…»), infatti, è usata come introduzione sia di una genealogia
(Gn 10,1;11,10; 11,27; 25,12.19; 36,1.9; Rut 4,18), sia di un racconto (Gn 6,9; 37,2).
Gn 3,24 costituisce la fine del racconto dal momento che riporta l’uscita dei
protagonisti dal luogo in cui si è svolta la narrazione di Gn 2,4‒3,24; in 4,1-2, inoltre,
vengono presentati due nuovi personaggi, Caino e Abele, che danno inizio ad una
nuova sezione.
Collocato dopo il primo racconto di creazione, Gn 2,4‒3,24 è strettamente legato
a quanto segue: se in Gn 2 è descritto il progetto che Dio ha sull’uomo (un progetto
che vede l’essere umano in armonia con Dio, con il creato, con gli altri) e in Gn 3 il
suo venir meno (nel momento in cui l’essere umano decide di non fidarsi più della
parola di Dio ma di quella del serpente), nei testi narrativi presenti in Gn 4‒11 viene
mostrato come il male, la violenza, la disarmonia, dilaghino all’interno delle relazioni
umane. Il rapporto tra fratelli è segnato dalla violenza e dalla morte (Gn 4); l’umanità
stessa si trova coinvolta in una spirale di violenza che mette a rischio la creazione
(Gn 6-9); in Gn 11,1-9 gli uomini sembrano aver recuperato l’unità e l’armonia: ma i
desideri di farsi un nome con il lavoro delle proprie mani, di non disperdersi su tutta
la terra, ricordano la prima tentazione dell’uomo: gareggiare con Dio per prendere il
suo posto.

1.2 Struttura del brano


Il brano, rispetto a Gn 1, ha uno stile più vivace e più propriamente narrativo.
Invece di scandire il testo con formule, dando ad esso solennità e un ritmo quasi
liturgico, come avviene nel brano precedente, costruisce scene che gli permettono di
presentare man mano i diversi personaggi (Dio, uomo, donna, serpente) e lo sfondo
su cui interagiscono (il giardino). Si può dividere in due parti, 2,4-25; 3,1-24,
individuabili dall’ingresso in scena, in Gn 3,1, di un nuovo personaggio, il serpente.
La prima parte può essere a sua volta divisa in diverse sottoparti:
vv. 4-7: introduzione. Nei vv. 5-6 si trova una serie di frasi subordinate, rette da
«quando», strettamente legate alla frase principale che si trova nel v. 7.
vv. 8-17: il giardino e l’uomo. La differenza fra questa sottoparte e la precedente è
data dal nuovo spazio creato da Dio, il giardino. All’interno di essa,
l’inclusione dei vv. 8-15 (v. 8 «giardino in Eden»; v. 15 «giardino di Eden»)
individua due brani: vv. 8-15 descrizione del giardino; vv. 16-17: comando
di Dio che determina la relazione uomo-alberi del giardino.
Esegesi di Gn 1‒3 30

vv. 18-25: rapporto uomo-donna. L’unità della sottoparte è data dal tema: nel v.
18 Dio individua la presenza di una realtà negativa, la solitudine dell’uomo,
che viene risolta con la creazione della donna. Il v. 25, menzionando la
nudità dei due, lega strettamente il c. 2 con il c. 3.
Anche la seconda parte può essere suddivisa in tre sottoparti:
3,1-7: il superamento del limite posto da Dio. Questa sottoparte è incentrata sul
dialogo tra la donna e il serpente.
vv. 8-19: le conseguenze del superamento. Anche qui l'inizio della sottoparte è
marcato dall'ingresso di un personaggio assente nei precedenti vv. 1-7: Dio
che appare come giudice. Si può dividere in due brani: l’interrogatorio (vv.
8-13) e il giudizio (vv. 14-19).
vv. 20-24: conclusione. L’uomo e la donna sono cacciati dal giardino, che non è
più quindi lo sfondo della scena, e Dio pone dei nuovi limiti.

1.3 Genere letterario


A differenza di Gn 1, Gn 2,4‒3,24 è una vera e propria narrazione. Essa sembra
appartenere al genere letterario proprio di quei racconti che presentano un crimine e
la sua punizione, un modello diffuso in molte culture, sia nella lettura epica sia in
quella tragica. Narrazioni appartenenti a questo genere letterario si trovano altrove
nell’Antico Testamento, ma il carattere peculiare del racconto contenuto in Gn 2-3 è
di essere collocato in un’epoca primordiale dove le realtà presenti nell’oggi di chi
scrive o legge trovano la loro origine e una nuova chiave di lettura. Questa
contestualizzazione spiega perché tutto ciò che accade avvenga all’interno di un
confronto diretto tra uomo e Dio. La proibizione, il peccato e il giudizio non sono,
infatti, mediate da una legge, dalla parola di un profeta, da un fenomeno naturale,
come avviene ad esempio in Gs 7, ma tutto si realizza all’interno di un rapporto
diretto tra Creatore e creature proprio perché ciò che viene narrato non è un fatto che
si colloca nella storia, ma in un’epoca primordiale, originale.
Due sembrano essere gli scopi che si possono raggiungere utilizzando un
racconto appartenente al genere letterario «crimine-punizione» collocato in un’epoca
primordiale: narrare i diversi modi in cui l’essere creato, come singolo e come
comunità, si oppone al suo Creatore; partendo dal presente di chi scrive, spiegare
attraverso degli elementi eziologici il senso di alcune realtà negative presenti nella
vita dell’uomo e della donna.

2. Contestualizzazione critica

2.1 Contestualizzazione storica


Il testo non pretende di raccontare un fatto storico, o di trasmettere verità
scientifiche: il suo scopo è tentare di dare, attraverso dei racconti ambientati in
Esegesi di Gn 1‒3 31

un’epoca primordiale, delle chiavi di lettura che permettano di interpretare la storia


degli uomini e la storia del mondo come storia di salvezza (cfr. l’excursus sul mito
sopra). Non si può quindi trattarlo come una fonte storiografica cercando di
individuare un'epoca o un luogo preciso in cui si sarebbero svolti i fatti in esso
narrati.

2.2 Contesto storico originario del passo


Anzitutto ricordiamo, come già evidenziato nel corso d Introduzione all’AT, che
il racconto va attribuito a una mano diversa da quella che ha steso Gn 1,1‒2,3. Oltre
alle differenze di stile indicate nel paragrafo sulla struttura si noti il carattere
marcatamente antropocentrico di questo secondo racconto. Mentre in Gn 1 lo sguardo
tendeva ad abbracciare il cosmo con una contemplazione che potremmo definire più
oggettiva, qui tutte le realtà, già a partire dalla terra «non lavorata» nel v. 5, per poi
passare agli alberi e agli animali, sono viste principalmente nella loro relazione con
l’essere umano. A questo carattere antropocentrico del racconto corrisponde una
visione più antropomorfica del Dio creatore, rappresentato non solo come un
artigiano che «plasma» le creature, ma addirittura come colui che non riesce a
realizzare immediatamente ciò che desidera, dovendo perfezionare il proprio lavoro
anche attraverso tentativi non pienamente riusciti (cfr. i vv. 18-20). Questo ci ricorda
che nell’Antico Testamento non solo non esiste un modo univoco per parlare della
creazione, ma non esiste nemmeno un modo univoco per parlare del Dio creatore.
Un’immagine unica, fissa e statica non dà ragione della complessità del rapporto tra il
Signore e le sue creature e nemmeno della sua identità. Il Dio che si è rivelato a
Israele non può essere fissato in una statua (il Decalogo vieta qualsiasi immagine del
divino, cfr. Es 20,4; Dt 5,8): quindi neppure in un ritratto letterario. Il Dio creatore
non è soltanto l’Onnipotente, ma è anche quello che si «sporca le mani» con il fango;
non è soltanto l’Essere perfettissimo che crea un cosmo ordinato, ma è anche colui
che si impegna a risolvere le storture e le difficoltà che in esso sorgono.
Entrando nel dettaglio di questo racconto, non è semplice ricostruire i diversi
stadi di formazione del testo, risalire al suo contesto originale. In esso ritroviamo
diversi elementi presenti nei racconti di creazione del Vicino Oriente: l’autore ha,
evidentemente, preso spunto da materiale che circolava e che egli conosceva. Questi
testi sono però stati riletti e fatti propri a partire dall’esperienza del Dio salvatore e
liberatore, dalla fede di Israele in un unico Dio.
Per alcuni studiosi, il testo sarebbe nato dalla combinazione di due racconti
distinti62: un racconto della creazione dell’uomo e della donna (Gn 2,4b-8.18-24) e
una narrazione della perdita del giardino paradisiaco (Gn 2,9-17; 3,1-24).
Quest’ultima ipotesi nasce dalla necessità di motivare le tensioni presenti in
particolare nel racconto di Gn 2. È evidente, infatti, che Gn 2,15 si presenti come una
ripetizione di quanto già detto al v. 8, mentre i vv. 9-14 si dilunghino nella
62 Cfr. C. WESTERMANN, Genesis 1-11, pp. 191-196; E. TESTA, Genesi. Introduzione - Storia
primitiva, cit., p. 54.
Esegesi di Gn 1‒3 32

descrizione del giardino e i vv. 16-17 sull’esposizione di un comando spostando


l’attenzione del lettore da quello che era l’argomento principale, la creazione degli
esseri viventi: uomo, animali, donna. Il v. 25, inoltre, sembra essere un’aggiunta dal
momento che il v. 24 presenta un carattere di conclusione in cui la creazione
dell’umanità raggiunge il suo compimento. Volendo togliere da Gn 2 i versetti
sospetti (vv. 9-17.25) si ottiene un tipico «racconto di creazione» in cui si rivela come
la creazione dell’essere umano trovi il suo compimento solo nel momento in cui
nasce la relazione, in cui uomo e donna si rapportano uno all’altro eliminando la
realtà negativa della solitudine.
I versetti tolti dal c. 2 sono, però, strettamente legati a Gn 3: i vv. 9-15
contengono la descrizione del giardino e degli alberi che giocheranno un ruolo
fondamentale nel racconto della trasgressione; il comando dei vv. 16-17 prepara la
trasgressione successiva; il tema della nudità presente nel v. 25 sarà ripreso nel c. 3.
Ecco allora nascere l’ipotesi che Gn 2,1-8.18-24 e Gn 2,9-17; 3,1-24 formassero,
inizialmente, due racconti separati: il primo era un racconto di creazione, il secondo
un racconto di trasgressione ambientato nel giardino dell’Eden. Sarebbe stato l’autore
finale a collegare insieme i due testi, spostando i primi versetti del secondo racconto
all’interno del primo e aggiungendo il v. 25 come versetto ponte tra le due parti,
ottenendo così un unico racconto in cui viene narrata, ambientata in un’epoca
primordiale, la prima trasgressione da parte della creatura e la prima punizione da
parte del Creatore63. In ogni caso, la forma attuale del testo, facendo seguire alla
descrizione dell’attività creatrice di Dio il racconto della trasgressione dell’uomo e
della donna, genera sul lettore un effetto preciso: il creato descritto in Gen 2 non è
quello in cui ci troviamo a vivere, è piuttosto un quadro ideale64.
Per quanto riguarda la datazione della stesura del testo, nell’ipotesi
«documentaria» il testo veniva attribuito in genere allo Jahvista (J) del IX sec. a.C.;
studi più recenti tendono a considerarlo un racconto sorto in epoca post-esilica, tra gli

63 Anche riguardo a Gn 3 ci sono delle ipotesi che fanno pensare che il testo attuale sia il
risultato della fusione di elementi appartenenti a racconti diversi. Ad un’attenta lettura, si nota, ad
esempio, che uomo e donna ricevono una doppia punizione: una come singoli (v.16 per la donna;
v.17-19 per l’uomo), una come coppia: la cacciata dal giardino (vv.22-24). Cfr. C. WESTERMANN,
Genesis 1-11, cit., p. 195.
64 Nella tradizione cristiana questa lettura si è sviluppata nell’idea che «i nostri progenitori
Adamo ed Eva sono stati costituiti in uno stato di “santità e di giustizia originali”. La grazia della
santità originale era una “partecipazione alla vita divina”» (CCC, 375; cfr. anche i nn. 376-379). Il
lettore tenga comunque presente che questo insegnamento tradizionale cristiano non si basa
esclusivamente sull’esegesi di questi capitoli di Genesi, ma sulle riflessioni dei Padri della Chiesa
che riprendevano, in parte, alcune idee già elaborate dalla tradizione giudaica. Faccio notare
soltanto una cosa curiosa: nel testo di Gen 2,4–3,24 non c’è nessuna indicazione temporale (a parte
quella indiretta di 3,8, con il riferimento alla «brezza del giorno») che permetta di separare le azioni
descritte: il lettore ha la netta impressione che avvengano tutte una di seguito all’altra senza
significative interruzioni, come se si svolgessero tutte nello stesso momento. E la prima azione
dell’uomo e della donna è la trasgressione.
Esegesi di Gn 1‒3 33

Ebrei che non hanno vissuto la deportazione in Babilonia, e forse anche in


contrapposizione a quello di tipo «sacerdotale» conservato in Gn 165 .

3. Commento esegetico

3.1 Introduzione
4
Queste sono le generazioni (’ēlleh tôledôt) del cielo e della terra, quando
vennero creati. Nel giorno in cui YHWH Dio fece terra e cielo 5non c’era ancora
alcun cespuglio campestre sulla terra, nessuna erba campestre era ancora
spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non c'era
uomo (’ādām) che lavorasse il suolo (’ădāmâ) – 6una polla d'acqua sgorgava
dalla terra e irrigava tutto il suolo – 7YHWH Dio plasmò l'uomo (’ādām) con
polvere del suolo (’ădāmâ) e soffiò nelle sue narici un respiro vitale e l'uomo
divenne un essere vivente.

Il termine tôledôt indica il frutto dell’atto di generazione, la progenie, i figli, la


discendenza. L’espressione ’ēlleh tôledôt dovrebbe, dunque, essere resa con «questi
sono i discendenti» o, anche, «questa è la genealogia» dal momento che la genealogia
comprende l’elenco dei discendenti di una persona. Ma vi sono alcuni testi, Gn 6,9;
25,19; 37,2, nei quali questo significato non si adatta al contesto, poiché, se vi è una
genealogia, essa è appena accennata. Sembra allora che ’ēlleh tôledôt debba, in questi
casi, essere tradotto con «questo è l’inizio della storia». Ma, il racconto che segue
narra dei discendenti del personaggio che appare nella formula: così, Gn 6,9
introduce il racconto su Noè e la sua famiglia; Gn 25,19 la storia di Esaù e Giacobbe,
figli di Isacco; Gn 37,2 quella di Giuseppe e dei suoi fratelli, figli di Giacobbe.
L’espressione può, quindi, essere sempre tradotta con «questa è la generazione di»
mettendo in evidenza il diverso uso che ne viene fatto: può introdurre una genealogia
o un racconto.
L’uso dell’espressione in Gn 2,4a rientra nel secondo caso, ma la sua
comprensione non è semplice poiché presenta come generatori il cielo e terra e ciò
che segue sarebbe il racconto di quello che è stato generato dal cielo e dalla terra. Ma
nella Bibbia sembra non esservi traccia dell’idea di esseri viventi generati dal cielo e
dalla terra: Dio è l’unico creatore e cielo e terra sono sue creature. Questa intuizione è
evidente anche nel testo ebraico di Gn 2,4a in cui il verbo bārā‘, «creare», non è in
una forma attiva ma passiva: non sono i cieli e la terra che generano, ma essi sono
stati generati. La storia che ha ora inizio, quindi, narra di ciò che è stato generato da
cielo e terra, cioè, per mezzo loro, da Dio66 come esplicitato nel v. 4b: «Quando il
Signore Dio fece la terra e il cielo».

65 Cfr. J.-L. SKA, L’Antico Testamento spiegato a chi ne sa poco o niente, San Paolo, Cinisello
Balsamo 2011, p. 53; F. GIUNTOLI, Genesi 1-11, cit., p. 44.
66 Cfr. J.L. SKA, Introduzione, cit., pp. 31-33.
Esegesi di Gn 1‒3 34

Con la seconda parte del v. 4 iniziano una serie di frasi subordinate, rette da
«quando», che si concludono nel v. 7 dove appare la frase principale introdotta da
«allora». Se in Gn 1 il caos iniziale è caratterizzato dalla presenza dell’acqua che
tutto sovrasta, in Gn 2,5 è presentata la situazione inversa: non c’è acqua e quindi non
c’è vita. Se nel primo racconto di creazione, l’acqua rappresenta l’elemento negativo
che deve essere limitato, in Gn 2 è segno di benedizione, la cui mancanza è causa di
sterilità. Così, il mondo, prima della creazione dell’uomo, si presenta come una realtà
totalmente negativa: non c’erano cespugli, erba, il Signore non aveva fatto piovere,
nessun «terrestre» lavorava il suolo. La comprensione del v. 6 nel contesto è
problematica e anche la traduzione del termine ebraico ’ēd (abbiamo seguito la scelta
della versione CEI: «polla d’acqua») è incerta. Non si capisce bene se l’autore voglia
insistere sull’assenza d’acqua (cfr. v. 5 che menziona la mancanza di pioggia) o su
una sua presenza non regolata (che sarebbe forse il senso del v. 6)67.
Nel v. 7, Dio, come un vasaio, plasma l’uomo (hā’ādām). Il verbo yāṣar,
«plasmare, modellare, formare», spesso utilizzato per indicare l’azione creatrice di
Dio, mette in luce come ciò che viene creato è frutto del lavoro di Dio, dipende dalle
sue mani. Mentre in Gn 1 Dio crea con la parola, qui si «sporca le mani» e alla fine,
come un artista, contempla la sua opera. Ciò che viene creato è l’’ādām: con questo
termine ebraico l’autore rendere anche visivamente il legame tra l’essere umano, ’e la
terra, ’adāmâ, da cui è tratto. Il termine ’ādām non va, a questo punto, inteso come
nome proprio di persona, ma indica ogni essere umano, anzi, ogni «terrestre» tratto
dalla «terra».
La versione italiana della CEI legge «Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo»
traducendo ‘āpār: «con la polvere», anche se in ebraico non c’è nessuna preposizione
corrispondente a «con», perché in quella lingua si può indicare la materia di una cosa
anche senza usare una preposizione (accusativo di materia). Ma ‘āpār può anche
essere inteso come una qualificazione del termine «uomo» (complemento predicativo
dell’oggetto), traducendo: «Dio plasmò l’uomo polvere», l’essere umano è polvere,
non solo fatto con la polvere. Questa idea si ritrova sia in Gn 3,19, «polvere tu sei e
polvere tornerai», sia in Sal 103,14: «Dio si ricorda che noi siamo polvere». In questo
suo essere plasmato con la polvere dalla terra, l’uomo è così intimamente legato ad
essa da apparire fin da subito un essere fragile, debole, finito, tanto da caratterizzarsi
per il suo essere «polvere dal suolo».
Soltanto il soffio divino68 permette a questo fantoccio di polvere di diventare un
essere vivente: ci si riferisce qui al respiro, che viene individuato come ciò che
appunto caratterizza i viventi. Nel nostro testo, la presenza dell’«alito di vita»
caratterizza l’uomo rispetto agli animali: anch’essi, infatti, sono plasmati dal suolo
ma non ricevono quel soffio che procede da Dio. Ma, in Gn 7,22 esso è riconosciuto
presente anche negli animali. L’«alito di vita», quindi, è ciò che fa di un corpo
plasmato con la polvere un corpo vivente, è una forza vivificante. La capacità di
67 Cfr. G. von RAD, Genesi, cit., 92; C. WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., 200-201
68 Anche il «soffiare» (cfr. Is 54,16), come il «plasmare» (Is 44,12), rimanda all’attività
dell’artigiano.
Esegesi di Gn 1‒3 35

vivere e di respirare, però, non cambia affatto la condizione dell’essere umano, che
rimane precaria: quando Dio ritira il suo soffio, l’uomo ritorna polvere: «togli loro il
respiro: muoiono, e ritornano nella loro polvere» (Sal 104,29; cfr. Gb 34,14-15)69.
L’uomo è così un essere in tensione: tratto dalla polvere, polvere lui stesso, ha in sé
quell’«alito di vita» che lo lega a Dio e lo fa essere un vivente.
D’altra parte, l’aspetto di precarietà, esplicito nel testo, contrasta con quanto
emerge, più implicitamente e in sottofondo, con la menzione dell’essere umano nel v.
5, prima ancora che venga creato. L’assenza di vegetazione è spiegata infatti non
soltanto con la mancanza della pioggia che viene da Dio, ma anche con la mancanza
del lavoro dell’uomo. La fecondità del suolo è quindi connessa strettamente alla
presenza degli esseri umani: è necessario anche il loro contributo perché la terra sia
ricca e prospera, assuma, cioè, quella dimensione positiva che la distingue dal vuoto
del deserto. La dimensione del lavoro, che caratterizza il rapporto tra l’uomo e la
terra, viene evocata ancora prima che l’essere umano sia creato ed è quindi, per
l’autore, una delle sue caratteristiche fondamentali. Essa ha una valenza
fondamentalmente positiva, perché contribuisce a trasformare ciò che non ha vita in
un luogo fertile e abitabile; segna perciò, in qualche modo, la grandezza dell’uomo.

3.2 Il giardino e l’uomo.


Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che
8

aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi
9

graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l'albero della vita in mezzo al
giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva da
10

Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il 11

primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno a tutto il paese di Avìla, dove
c'è l'oro e l'oro di quella terra è fine; qui c'è anche la resina odorosa e la pietra
12

d'ònice. Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre intorno a tutto il paese
13

d'Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre ad oriente di Assur. Il


14

quarto fiume è l'Eufrate. Il Signore Dio prese (wayyiqqaḥ) l'uomo e lo pose nel
15

giardino di Eden, perché lo coltivasse (le‘obdāh) e lo custodisse (lešomrāh).

I vv. 8.15, in inclusione, narrano di Dio che prende l’uomo tratto dalla terra per
collocarlo un giardino da lui piantato. Dio fa passare l’uomo da un luogo desertico,
senza acqua e vegetazione, ad un giardino ricco d’acqua, di vegetazione e fertile. Nel
v. 15 troviamo il verbo lāqaḥ, «prendere», che è utilizzato anche per indicare
l’elezione di un uomo o di un popolo compiuta da Dio (Dt 4,20.34). Scopo di questa
elezione e di questo essere posto nel giardino sono la coltivazione e la custodia. Il
verbo šāmar, «custodire», viene utilizzato anche per indicare l’osservanza della

69 Dal punto di vista esegetico non sembra fondata l’interpretazione, che ha avuto una certa
fortuna nella tradizione cristiana, che vede in questo soffio divino l’infusione dell’«anima»
nell’uomo. Infatti, la visione antropologica dell’Antico Testamento non distingue due “parti”
nell’essere umano, ma tende a considerarlo come un’unità vivente; cfr. G. von RAD, Genesi, cit.,
pp. 93-94; C. WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., pp. 206-207. Va anche sottolineata la differenza
rispetto ad altri miti antichi che collocano nell’uomo il respiro divino, cfr. G. BORGONOVO, «La
grammatica dell’esistenza alla luce della storia d’Israele (Gn 2,4b–3,24)», in G. BORGONOVO E
COLLABORATORI, Torah e storiografie dell’Antico Testamento, cit., p. 416.
Esegesi di Gn 1‒3 36

legge, dell'alleanza (Gn 17,9-10; 18,19; Es 19,5; 20,6; Dt 4,2.6): il compito


dell’uomo, quindi, non è semplicemente quello di fare il «guardiano», ma di
conservare il dono di Dio; mentre il verbo ‘ābad, «lavorare, coltivare», ha spesso
anche il senso di «servire» arrivando ad indicare anche il servizio liturgico (Es 3,12):
l’azione dell’uomo verso la terra, quindi, deve essere connotata dal rispetto, lo stesso
che si ha nei confronti di Dio o del padrone da cui si è a servizio. Non si può negare
che l’autore veda l’essere umano anzitutto come un lavoratore del suolo. Ma la
prospettiva è chiara: tale attività si colloca nel quadro di un mondo creato da Dio, a
cui l’attività umana è subordinata. In altri termini: l’uomo lavorando conserva il
giardino nel suo rigoglio, ma è chiamato anche a riconoscere che il giardino non è
opera sua: è dono di chi ve lo ha posto.
L’abbondante presenza d’acqua, gli alberi e l’oro fine, la resina e l’onice, che
dicono ricchezza e bellezza70, caratterizzano il giardino71. Il paesaggio concreto che ha
ispirato questa immagine è sicuramente quello della Mesopotamia, la «mezza luna»
fertile collocata tra il Tigri e l’Eufrate gli ultimi due fiumi menzionati nel v. 14.
L’identificazione dei primi due fiumi, invece, non è semplice: per alcuni si
tratterebbe del Gange e del Nilo; per altri sarebbero degli affluenti del Nilo; per altri
ancora il Danubio e il Nilo. Il paese di Avìla si ritrova in altri testi biblici dove viene
collocato a sud-est dell’Egitto (Gn 25,18; 1Sam 15,7), ma la sua precisa collocazione
non è determinabile; Etiopia, invece, sembra indicare l’alto Egitto (Is 11,11; 20,3; Ez
30,4)72.
Nel giardino si trovano due alberi: l’albero della vita, presente anche in altri
racconti mitologici dell’area semitica73, e l’albero della conoscenza del bene e del
male che non ha paralleli in altri testi extra-biblici.
L’albero della vita riappare nel libro sapienziale dei Proverbi. In Pr 3,13-18 è la
sapienza a divenire un albero di vita per chi la segue, albero i cui frutti sono

70 Non si può vivere senza acqua e senza cibo, ma si può vivere senza oro, profumo, onice: sono
cose in fondo superflue, ma che aiutano l’uomo a vivere bene, contento, in pienezza, non
semplicemente a sopravvivere.
71 Nei profeti l’immagine del giardino dell’Eden e degli elementi che lo compongono viene
ripresa è proiettata in una dimensione escatologica: Is 51,3.6-16; 54,11-12; 60; 65,20-22; Ez 47,1ss;
Gl 4,18; Zc 13,1 dove vengono descritti fiumi d’acqua che escono dal tempio. In Ap 2,7 c’è l’albero
della vita che si trova nel «paradiso» di Dio (il termine ebraico gan, «giardino», è stato tradotto
nella LXX con parádeisos che, nel linguaggio profano, indica un giardino con vigne e alberi da
frutto, mentre nella letteratura intertestamentaria rimanda al luogo dell’aldilà destinato ai giusti:
questo significato si ritrova anche nel NT: cfr. Lc 23,43; 2Cor 12,4); nella descrizione della
Gerusalemme celeste si ritrovano le pietre preziose (Ap 21,18-21), dal trono di Dio scaturisce un
fiume d’acqua viva (Ap 22,1; 22,17); vi si trova l’albero della vita (Ap 22,2.14).
72 Cfr. G. PEREGO, Atlante Biblico interdisciplinare, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)
1998, p. 17.
73 Cfr., p. es., l’epopea di Gilgamesh, poema mesopotamico di cui E. TESTA, Genesi.
Introduzione - Storia primitiva, cit., p. 58, riporta il seguente brano: «Ti voglio rivelare o Ghilgameš
un segreto… circa una pianta ti voglio narrare: Questa pianta, simile a un licio spinoso… Le sue
spine pungeranno le tue mani come una rosa. Ma se le tue mani prendono la pianta, tu otterrai la
vita».
Esegesi di Gn 1‒3 37

beatitudine, lunghi giorni, ricchezza e onore, benessere. In Pr 11,30 l’albero di vita è


il frutto che appartiene all’uomo saggio, sapiente, mentre in Pr 13,12 è un desiderio
soddisfatto e in Pr 15,4 una lingua benevola, capace di trasmettere calma, serenità. Da
questi testi risulta, quindi, che l’albero della vita può rappresentare sia la sapienza,
come realtà che appartiene all’uomo saggio e retto; sia anche i frutti che si
riscontrano nella vita del saggio: una lingua benevole, un desiderio soddisfatto, la
beatitudine interiore, la salute fisica.
Per la spiegazione del significato dell’albero della conoscenza del bene e del
male è soffermarsi sul comando divino:

Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi
16

del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare,
17

perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti (môt tāmût)».

La prima parola di Dio all’uomo è un comando (mentre nel racconto di Gen 1 è


una benedizione). Prima di riflettere sul significato di tale comando nel quadro del
racconto occorre ricordare un aspetto implicito nella sua formulazione. Il comando fa
appello alla libertà dell’interlocutore, alla sua capacità di scegliere: indica una
condotta come sbagliata, ma non suggerisce strumenti coercitivi al di fuori della
parola stessa; si limita a evocare le conseguenze negative della disobbedienza:
«certamente morirai»..
Per capire il senso specifico del comando seguiamo due piste: il contesto e il
contenuto. Il contesto suggerisce un legame della prescrizione divina con il tema del
«lavoro», che è la caratteristica dell’essere umano che abbiamo visto fin qui dominare
il racconto. Il mangiare i frutti degli alberi del giardino, infatti, dipende anche
dall’efficacia del lavoro umano che lo conserva e lo mantiene rigoglioso. La stretta ed
evidente relazione tra «lavorare» e «mangiare», ovvero conservare la propria vita, che
si ha nell’esperienza umana può portare a pensare che sia soltanto la capacità
lavorativa dell’uomo a impedirgli di morire. Assolutizzare il lavoro dell’uomo
significa passare dalla logica di chi conserva il giardino e ne raccoglie i frutti a quella
di chi lo vede semplicemente come un prodotto della propria attività, a propria
completa disposizione. Il comando, quindi, indicando che non tutto è a disposizione
dell’uomo, segnala il limite della sua attività invitandolo, fondamentalmente, a
riconoscere la propria creaturalità e quella della realtà che lo circonda: il mondo non
è un prodotto dell’attività umana e non è lui l’artefice della sua esistenza74.
Per quanto riguarda il contenuto del comando, dobbiamo ritornare al significato
dell’albero della conoscenza del bene e del male. L’espressione «bene e male» può
essere intesa come espressione polare che, attraverso l’uso di concetti opposti (bene e
male), vuole indicare il tutto. L’albero sarebbe, dunque, quello dell’onniscienza, che
permetterebbe all’uomo di essere come Dio, l’unico a conoscere tutto. Questa
interpretazione è possibile ed è quella che porterà avanti il serpente (Gen 3,4-5), ma

74 In questa prospettiva si comprende perché la trasgressione del comando porta alla maledizione
del suolo (Gen 3,17-19), cioè a una frattura nel rapporto fra ’ādām e ’ădāmâ, con la conseguenza
che il lavoro umano diventa faticoso e spesso infruttuoso.
Esegesi di Gn 1‒3 38

va precisata tenendo conto dei rapporti fra Gen 2 e Ez 28,1-19, un passo dove si fa
riferimento all’«Eden giardino di Dio» e alla creazione (v. 13). Nell’oracolo profetico
il re di Tiro viene accusato di aver uguagliato la sua mente a quella di Dio (vv. 2.6),
di aver detto di sé «io sono Dio» (v. 9). Il suo essere uguale a Dio, però, non rimanda
all’onniscienza posseduta dal re, ma al suo orgoglio, alla sua superbia che lo portano
a voler giudicare da solo, a pensare che la sapienza che possiede non è dono di Dio
ma sua conquista75. L’albero rappresenta dunque anche il desiderio dell’uomo e/o la
pretesa di determinare, esclusivamente a partire dalla sua capacità conoscitiva, la
realtà, ciò che è bene o male. In tal senso, il contenuto della parola divina corrisponde
alla sua forma di comando, perché la logica del comandamento è appunto quella di
indicare cosa è bene e cosa è male
Si noti che l'albero della vita non rientra nella proibizione, ciò significa che se
l’albero della conoscenza del bene e del male non è per l’uomo, lo è quello della vita:
non solo gli animali, non solo il giardino, ma la vita è a disposizione dell’uomo. Ma
questo è vero solo se accetta di riceverla in obbedienza e in dipendenza del creatore:
può prendere dell’albero della vita solo se rinuncia a prendere il frutto dell’albero
della conoscenza del bene e del male; è signore della vita solo se accetta di non essere
lui Dio, di non essere lui l’origine della vita che riceve come dono da un Altro76.
Se il terrestre mangerà dell’albero della conoscenza morirà. L’espressione
ebraica môt tāmût (infinito assoluto + yiqtol 2 m. sg. del verbo mût «morire») va
tradotta «certamente morirai» ed è analoga a môt yāmût (infinito assoluto + yiqtol 3
m. sg.: l’unica differenza è il cambio di persona) utilizzata in testi giuridici per
indicare la pena di morte (cfr. per es. Es 21,12.15.16.17): si potrebbe quindi intendere
anche Gn 2,17 come minaccia della pena capitale. Tale interpretazione sembra, però,
non potersi applicare al nostro racconto dal momento che, dopo aver mangiato
dell’albero, l’uomo e la donna non vengono uccisi. Non sembra che tale espressione
vada intesa, nel contesto del racconto, nel senso «diventerai mortale», come se
l’essere umano fosse stato creato immortale. Contro una tale interpretazione sta non
solo la descrizione dell’uomo come «polvere», che abbiamo illustrato, ma anche la
formulazione di Gn 3,22: «Poi YHWH Dio disse: “Ecco, l'uomo è diventato come uno
di noi quanto alla conoscenza del bene e del male. Che ora egli non stenda la mano e
non prenda anche dell'albero della vita, ne mangi e viva per sempre!”». Se
l’immortalità è legata all’albero della vita, non è una caratteristica strutturale
dell’essere umano, anche se era una possibilità per lui: il divieto, infatti, riguardava
soltanto l’albero della conoscenza del bene e del male, non l’albero della vita. Quindi,
75 Cfr. C. WESTERMANN, Genesis 1-11. A Continental Commentary, Fortress Press, Minneapolis
1994, 245-246.
76 Commentando il significato dell’espressione «albero di vita» abbiamo visto come esso sia
identificato con la sapienza e con i frutti che essa dona alla vita di chi la segue. Se l’uomo accetta di
non mangiare dell’albero della conoscenza riconoscendo che la sapienza, la conoscenza della realtà,
è dono di Dio, può godere dei frutti della sapienza rappresentati dall’albero della vita. Nel momento
in cui mangia, smette di essere un uomo sapiente e, quindi, perde anche la possibilità di godere
dell’albero della vita.
Esegesi di Gn 1‒3 39

implicito nel racconto sembra essere che l’immortalità è una condizione che uomo e
donna si sono negati come possibilità disobbedendo al comandamento divino77.
L’espressione «certamente morirai» di Gen 2,17 va perciò intesa o nel senso che
l’orizzonte dell’esistenza umana diventerà la morte e non la vita per sempre, oppure,
e mi pare l’interpretazione preferibile, in senso letterale, come sembra suggerire
anche l’uso della locuzione temporale: «nel giorno in cui». Letta così, la frase crea
una contraddizione con il seguito del racconto, perché uomo e donna, nel momento in
cui mangiano del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, non
muoiono: non si può che pensare alla contraddizione dell’amore di Dio, che si volge
alle sue creature anche quando disobbediscono alla sua parola.78
Un’ultima osservazione a proposito del giardino e del comando, che può essere
utile per approfondire quello che abbiamo cercato di spiegare a proposito del
carattere “mitico” di questi racconti e del loro rapporto con la storia di Israele. Va
notata, infatti, l’analogia fra la narrazione di Gen 2,4–3,24 e la storia d’Israele esposta
nei libro da Giosuè a 2 Re79: come Israele arriva nella terra promessa, così l’uomo è
posto nel giardino; come la permanenza di Israele nella terra è legata all’obbedienza
alla Torà, così la permanenza dell’uomo nel giardino è legata all’obbedienza al
comandamento divino; come Israele perde la terra per aver abbandonato l’alleanza
con Yhwh e aver trasgredito i suoi comandi, andando in esilio verso oriente, a
Babilonia, così l’uomo e la donna sono scacciati dal giardino80. Il linguaggio del v. 15
conferma l’analogia: i verbi ebraici, che abbiamo tradotto con «lavorare» (‘ābad) e
«conservare» (šāmar) in Gen 2,15, sono gli stessi che designano il «servire» Yhwh
(cfr., p. es., Es 3,12; 4,23; Dt 6,13; Gdc 2,7; 1Sam 7,3; Ger 2,20; Sal 100,2) e
l’«osservare» i comandamenti (cfr., p. es., Dt 4,6; 5,1; 6,25; 7,11.12; 8,1; 16,12).
Inoltre il verbo nûaḥ allo hifil (che abbiamo tradotto «pose») può anche significare
«dare riposo», «far stare tranquillo», ed indica la situazione di Israele nella terra di
Canaan (cfr., p. es., Dt 12,10; 25,19; Gs 1,13; 21,44; 22,4; 23,1). È evidente che
l’autore di Gen 2,4–3,24 non solo conosceva bene la vicenda che aveva portato il suo
popolo all’esilio (e quindi deve aver scritto questo brano dopo quegli avvenimenti),
ma anche che usa quel paradigma per interpretare la storia dell’intera umanità.
L’autore propone un’implicita universalizzazione della relazione fra Israele e il suo
Dio, perché ciò che regola quel rapporto (l’alleanza e la Torà) è anche ciò che
struttura il rapporto tra Dio e l’umanità intera. D’altro canto, l’infedeltà di Israele
all’alleanza con il suo Dio diventa la chiave di lettura della situazione dell’intera

77 Cfr. C. WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., p. 225.


78 Cfr. G. BORGONOVO, «L’inno al creatore per la bellezza della creazione (Gn 1,1–2,4a», cit.,
444.
79 Gli studiosi attribuiscono la redazione di questi libri a una scuola ispirata dalla teologia del
libro del Deuteronomio e che per questo viene chiamata «deuteronomista».
80 Cfr. G. BORGONOVO, «La grammatica dell’esistenza alla luce della storia d’Israele (Gn 2,4b–
3,24)», in G. BORGONOVO E COLLABORATORI, Torah e storiografie dell’Antico Testamento,
Elledici, Leumann (To) 2012, 434-438; l’autore riprende un’intuizione di L. ALONSO SCHÖKEL,
Motivos sapienciales y de alianza en Gn 2-3, in “Biblica” 43 (1962) 295-315.
Esegesi di Gn 1‒3 40

umanità, segnata dal rifiuto della relazione con il creatore sin dalle sue origini. Il
rifiuto dell’uomo e della donna non è però la fine della storia dell’umanità, così come
l’esilio non è la fine della storia d’Israele: l’amore di Dio apre nuove vie e modalità
di vita con Lui.

3.3 Il rapporto uomo-donna


Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che
18

gli sia simile». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e
19

tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in
qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva
essere il suo nome. Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del
20

cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile.
Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse
21

una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la
22

costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo.


Allora l'uomo disse: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa.
23

La si chiamerà donna perché dall'uomo è stata tolta».


Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due
24

saranno una sola carne Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne
. 25

provavano vergogna.

Tutto ciò che è stato detto finora riguarda l’hā’ādām, la persona umana maschio
e femmina. Ora si aggiunge una specificazione particolare: questo «terrestre»
raggiunge la sua completezza nel momento in cui accetta l’alterità, si riconosce
maschio e femmina. Gn 2 dice narrativamente ciò che Gn 1 esprime in una frase:
«Dio creò l’uomo a propria immagine, a propria immagine lo creò, maschio e
femmina li creò». L’umanità può essere intesa in pienezza solo quando la si intende
come relazione tra maschio e femmina.
Nel v. 18, l’espressione «non è bene» (lō’ ṭôb) è forte, soprattutto se confrontata
con Gen 1, dove è ripetuto per sette volte «Dio vide che era cosa buona (ṭôb)».
L’espressione indica chiaramente che la «solitudine» è contraria al desiderio e al
progetto di Dio; in altri termini: la creazione dell’uomo non è ancora completa dopo
che Dio lo ha plasmato (2,7) e lo ha posto nel giardino per coltivarlo e custodirlo
(2,8.15). Per uscire da questa situazione negativa viene progettato un «aiuto» per
l’uomo. Qui ricorre il termine ebraico ‘ēzer, «aiuto», «soccorso», che spesso è
riferito, nell’Antico Testamento, all’intervento di Dio che salva dai pericoli o libera
dai nemici (Es 18,4; Dt 33,7.26.29; Os 13,9; Sal 20,3; 89,20; 121,1.2; 124,8; 146,5);
in alcuni Salmi «aiuto» è un appellativo divino (Sal 33,20; 70,6; 115,9.10.11) 81. Ciò
sembra implicare che la solitudine è un pericolo «mortale»: se il Signore non
completa la sua opera, l’essere umano non è veramente vivo. Nello stesso tempo,
l’uso del termine sottolinea come questo completamento può venire solo da Dio:
infatti, un «aiuto» portato da uomini sarebbe inutile (cfr. Is 30,15; Ez 12,14).

81 Cfr. J.L. SKA, «Gli voglio fare un alleato che sia suo omologo» (Gn 2,18). A proposito del
termine ‘ezer, «aiuto», in La strada e la casa. Itinerari biblici, EDB, Bologna 2001, pp. 131-140.
Esegesi di Gn 1‒3 41

L’«aiuto» è precisato con una parola ebraica difficile da tradurre: kenegdô, alla
lettera: «come di fronte a lui». L’autore sta forzando il linguaggio combinando due
preposizioni, «come» (ke-) e «davanti» (neged): tale combinazione si trova soltanto
qui e nel successivo v. 20 in tutto l’Antico Testamento. Così, rimanda sia all’analogia
e alla somiglianza (cfr. la traduzione CEI 1974: «che gli sia simile»), sia allo stare
uno davanti all’altro, all’essere «controparte» (così la nuova versione CEI: «che gli
corrisponda»). La forzatura linguistica sottolinea la complessità della relazione fatta
di uguaglianza e pari dignità, ma anche di opposizione differenza.
Nei vv. 19-20, il fallimento divino al primo tentativo di creare un «aiuto» per
l’essere umano è un efficace espediente letterario che, come in altri racconti antichi di
creazione, sottolinea la differenza fra uomini e animali, ma anche una certa loro
somiglianza. Si noti che, come l’essere umano, gli animali sono «plasmati» dal suolo:
ma, pur ripetendo lo stesso procedimento creativo, non si ottiene un risultato
soddisfacente; la relazione con gli animali, così come la relazione con il «giardino»,
non porta a compimento l’essere umano. Non è in essa che egli trova «aiuto». Infatti,
la relazione con gli animali è caratterizzata da un certo dominio, come fa capire
l’imposizione del nome da parte dell’uomo82 (a differenza di quanto avveniva nel
capitolo precedente, dove era Dio a dare un nome alle realtà create, cfr. sopra il
commento a 1,5, p. xxx).
Nei vv. 21-23, Dio fa scendere un torpore sull’essere umano che si trova, così, in
una situazione di impotenza (cfr. l’uso dello stesso termine ebraico, tardēmâ, in Gen
15,12; 1Sam 26,12). Questo già sottolinea una differenza con la creazione degli
animali alla quale, secondo la logica narrativa implicita, l’uomo avrebbe anche potuto
assistere, essendo presente sullo stesso suolo. In altri termini: mentre l’uomo ha forse
la possibilità di conoscere l’origine degli animali, non può vedere l’origine della
donna che rimane per lui avvolta nel mistero83 e va accolta come dono, che si può
conoscere soltanto in Dio. Mentre l’uomo può dare un nome agli animali, e Dio glieli
conduce davanti proprio a questo scopo, attestando così la sua superiorità, lo stesso
non può avvenire per la donna.

82 Alcuni autori ritengono che in primo piano stia l’aspetto di ordinamento e razionalizzazione
della realtà che il nominare, come atto umano, produce; cfr. C. WESTERMANN, Genesis 1-11, cit.,
pp. 228-229.
83 Cfr. Pr 30,18-19 «Tre cose sono troppo ardue per me, anzi quattro, che non comprendo
affatto: la via dell'aquila nel cielo, la via del serpente sulla roccia, la via della nave in alto mare, la
via dell'uomo in una giovane donna».
Esegesi di Gn 1‒3 42

Per dare origine alla donna, Dio prende dall’uomo una «costola»84. Non plasma
ancora dalla terra, come aveva fatto prima, non riparte daccapo, ma parte da ciò che
già c’è. Tutto ciò sottolinea l’uguaglianza di uomo e donna, ma anche che la
creazione della donna è il compimento della creazione dell’uomo. Questo, dato il
genere letterario del racconto, indica la realtà profonda dell’essere umano di ogni
tempo.
L’esclamazione dell’uomo è caratterizzata anzitutto dal linguaggio della
contemplazione: il dimostrativo femminile zō’t «costei», che ricorre tre volte nel
versetto85, richiama infatti alcuni passi del Cantico dei Cantici, dove viene usato in
riferimento all’amata («Chi è costei che sorge come l'aurora, bella come la luna,
fulgida come il sole», Ct 6,10; cfr. anche 3,6; 8,5). L’espressione «sei la mia carne, le
mie ossa» si ritrova altre volte nella Bibbia ebraica per ricordare legami di famiglia,
di fraternità oppure di alleanza (Gen 29,13-15; Gdc 9,2-3; 2Sam 5,1; 2Sam 19,13-14).
Il riconoscimento di tale legame implica l’obbligo di prendersi cura e di tutelare la
vita dell’altro. L’uomo quindi proclama che ciò che cura la sua vita e quella della
donna è esattamente il loro legame reciproco. Allo stesso tempo l’esito non sempre
felice dei rapporti famigliari e di alleanza (che vivono l’esperienza del tradimento)
ricorda al lettore che anche questo legame apparentemente forte e primordiale è
sottoposto alla fragilità costitutiva della libertà umana.
Nella seconda parte della dichiarazione, sembra che l’uomo dia un nome alla
donna («la si chiamerà»), come ha fatto con gli animali, ma questa interpretazione
ovvia86 ha alcune controindicazioni: la prima è che nel seguito del racconto si dice più
esplicitamente che l’uomo dà un nome alla donna (cfr. Gen 3,20!). La seconda è data
dal gioco fonetico che si ha in ebraico fra ’iššâ, «donna», e ’îš, «uomo»87. Va notato
che il termine ’îš compare qui per la prima volta nella narrazione, finora si era usato il
termine ’ādām per indicare l’uomo88. Questo implica che nel momento in cui l’essere
umano prende coscienza dell’esistenza dell’altro, di un tu, diverso da sé, che gli sta di
84 Questa è la resa abituale del termine ebraico ṣēlā‘, il cui significato preciso rimane incerto: in
altri passi dell’AT compare, infatti, come termine architettonico (cfr., p. es., 1Re 6,5.8) e si pensa
che il suo significato fondamentale possa essere «fianco» o «lato». Questo uso del vocabolo
potrebbe spiegare perché l’autore scelga, per descrivere la formazione della donna, il verbo ebraico
bānâ, che abitualmente ha il significato di «costruire», «edificare». Il fatto che la maggior parte
delle ricorrenze di ṣēlā‘ nell’Antico Testamento sia in relazione con il santuario o l’arca (nei cc..
25–30 e 36–38 dell’Esodo, c.. 6 di 1 Re e c-. 41 di Ezechiele) ha fatto pensare che anche in Gn 2,22
ci possa essere un’allusione al tempio, ma è difficile esserne certi. Le spiegazioni sull’origine e il
significato dell’immagine della «costola» tratta dall’uomo per creare la donna sono molteplici, cfr.
una breve rassegna in H.-J. FABRY, “‫ ֵצלָ ע‬ṣēlā‘”, in H.-J. FABRY - H. RINGGREN (a cura di), Grande
Lessico dell’Antico Tesamento. Volume VII, Brescia, Paideia 2007, pp. 699-701.
85 La traduzione italiana promossa dalla CEI sembra ritenere la prima occorrenza del
dimostrativo come legato al sostantivo «volta» («Questa volta è osso dalle mie ossa»), ma non pare
sia logico secondo le abituali regole della sintassi ebraica.
86 Cfr. C. WESTERMANN, Genesis 1-11, cit., p. 231.
87 Siccome in ebraico i termini femminili hanno spesso la desinenza -â, ’iššâ può essere
facilmente interpretato come il femminile di ’îš; in realtà dal punto di vista etimologico le cose
sembrano più complesse e diversi studiosi negano che ci sia un legame tra i due termini.
88 I due termini ebraici possono sovrapporsi nel significato di «uomo», ma rispetto ad ’ādām,
che ha anche il senso ampio di «essere umano», «umanità», ’îš sottolinea maggiormente la
mascolinità e può assumere il valore di «marito».
Esegesi di Gn 1‒3 43

fronte, riconosce anche se stesso; nel riconoscimento della «donna», l’uomo si coglie
propriamente come «uomo» (ovviamente, vale anche il viceversa). Così, in realtà,
l’uomo non sta «nominando» soltanto la creatura che gli sta di fronte, ma sta
nominando anche se stesso; le due azioni sono inscindibili. Perciò, se l’azione di dare
un nome alla donna può essere paragonata all’azione di dare un nome agli animali,
emerge anche la differenza tra i due atti: nominando gli animali, l’uomo scopriva
soltanto una realtà esterna a sé; nominando la donna, scopre se stesso. La relazione,
quindi, non è di superiorità, come pareva implicito con gli animali, ma di reciprocità:
i due termini ’iššâ, «donna», e ’îš, «uomo», sembrano richiamarsi a vicenda e dire la
profonda uguaglianza tra i due esseri umani che stanno uno davanti all’altro. Ciò che
la frase esprime è il riconoscimento dell’opera divina che ha portato a termine la
creazione dell’essere umano: adesso si può riconoscere la vera identità dei due che
sono «uomo» e «donna».
Il v. 24 introduce un commento del narratore che non sembra immediatamente
legato al contesto. Se però teniamo presente quanto abbiamo detto a proposito
dell’espressione «carne della mia carne e osso delle mie ossa», si comprende meglio:
ha, infatti, a che fare però con la questione dell’identità e della tutela della vita.
L’uomo nasce come «figlio di» e si definisce in rapporto ai genitori, che gli donano la
vita e si prendono cura di lui. Fintanto che è «figlio», è questa la relazione che lo
definisce, tutela e promuove la sua esistenza. Di fronte alla donna, l’uomo deve
ridefinirsi e affidare la sua vita non ai genitori, ma a colei che gli sta di fronte: non
deve essere più «figlio di», ma «marito di», deve scegliere una nuova relazione di
cura, tutela e promozione della vita. Se non compie questa scelta non sarà veramente
’îš e rimarrà “incompiuto”.
A mio parere si può leggere Ct 8,6 (l’unico versetto del Cantico dei Cantici che
menziona il Dio d’Israele) come un commento di questa affermazione: «Mettimi
come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è
l'amore, tenace come il regno dei morti è la passione: le sue vampe sono vampe di
fuoco, una fiamma divina!». Certamente la prima parte del versetto fa riferimento
all'abbraccio e al desiderio dell'amato. L'uso del termine «sigillo» però rimanda anche
alla manifestazione della propria identità: è l'amata che rivela al mondo chi è l'amato
(e viceversa).
Inoltre, parlando di «cuore» e di «braccio», il testo sembra intenzionalmente alludere allo
Shemà: «questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore [...] te li legherai alla mano
[...]» (cfr. Dt 6,6-8): il linguaggio dell’amore è così volutamente accostato al linguaggio
utilizzato per la parola di Dio; nell’amore umano si rivela l’amore divino89.
L’osservazione finale fa riferimento alla nudità che va compresa a partire dalla
considerazione che, nell’Antico Testamento, l’abito simboleggia la dignità umana e
sociale di chi lo indossa. La nudità rimanda a situazioni estreme, in cui la libertà è
compromessa, come la schiavitù o la prigionia, quando al denudato viene tolta ogni
sicurezza e esposto alla mercé di qualsiasi passante (per questo motivo, in diversi
passi profetici, la punizione minacciata è «scoprire le nudità», cfr. Is 3,17; 47,2-3;
Ger 13,22; Ez 16,37; Os 2,5; Na 3,5). Anche la vergogna non va semplicemente
89 L. MAZZINGHI, Cantico dei Cantici, Cinisello Balsamo (Mi), 2011, p. 106.
Esegesi di Gn 1‒3 44

legata al pudore, ma è connessa all’idea che qualcuno subisce un’esperienza per cui
la precedente posizione e importanza sociale vengono meno, esponendolo alla
vergogna e all’umiliazione.
Se l’uomo e la donna non provano vergogna nel loro essere nudi significa che
possono esporsi all’altro senza paura di essere umiliati, ritrovarsi davanti all’altro
nella situazione di massima debolezza senza venire offesi, senza che l’altro gli faccia
del male: si accettano nella loro creaturalità, in ciò che li rende uguali. Anche su
questo aspetto gioca poi il prosieguo del racconto: ascoltando la voce del serpente,
uomo e donna mangiano il frutto dell’albero del bene e del male, nella convinzione
che i loro occhi si apriranno e diventeranno come Dio (3,5); i loro occhi
effettivamente si aprono e scoprono di essere nudi (3,7)!

3.4 Il superamento del limite posto da Dio90


Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse
1

alla donna: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun (di tutti) albero
del giardino (mikkōl ‘ēṣ haggān)?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli
2

alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al
3

giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti
morirete». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che
4 5

quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio,


conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare,
6

gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne
mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. Allora si
7

aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico
e se ne fecero cinture.

In Gn 3,1 appare un nuovo personaggio, il serpente91, mentre, fino al v. 7, Dio


scompare, è assente, quasi volesse mettere in risalto l’autonomia dell’uomo e della
donna che, custodendo e coltivando il giardino, entrano in contatto con i suoi diversi
elementi compresi gli animali e il serpente. Dice C. Jódar al proposito:
Il racconto si apre in un modo che ricorda le favole. Ci troviamo con un animale
parlante, il serpente, con articolo determinativo come se fosse l’unico della sua
specie, descritto come paradigma di un unico tratto… l’astuzia. Questo tipo di
impostazione narrativa non è tipica dell’Antico Testamento e invita a spostare il
bilancio interpretativo dalla rappresentazione (il serpente in sé) alla
significazione, ossia a ciò che il serpente simboleggi e, in quanto astuto , a ciò
che sta per dire.
Nella storia della ricezione del testo , la ricerca di un valore simbolico per il
serpente è stata una costante. Un’interpretazione molto antica, ebraica e cristiana,
è che rappresenti il diavolo… Tuttavia… (nel) racconto… l’accento è piuttosto

90 Per questo paragrafo vedi soprattutto A. WÉNIN, Non di solo pane…, cit., pp. 51-58.
91 Il modo di agire e le dimensioni del serpente ne fanno un simbolo perfetto della tentazione: le
sue dimensioni non fanno pensare che possa essere pericoloso al punto di uccidere; mentre, quando
striscia sul terreno è difficile da vedere perché si mimetizza rendendo difficoltoso difendersi. Così è
la tentazione che rivela il suo potere mortifero solo dopo che ci sei caduto.
Esegesi di Gn 1‒3 45

antropologico. Vale a dire non interessa tanto il tentatore, ma la tentazione e la


risposta umana alla sfida che la tentazione rappresenta92
Quest'ultimo viene presentato come «la più astuta (‘ărûm) delle bestie» (v. 1). Il
termine ‘ărûm, «astuto», crea un gioco fonetico con il termine ‘ărûmmîm, «nudi»,
presente in Gn 2,25 e 3,7 (nella forma ‘êrûmmîm): gioco che si trasforma in relazione
interessante dal momento che il serpente con la sua astuzia provocherà un
cambiamento nella percezione della nudità dell’uomo.
Definendo il serpente astuto, e quindi anche sapiente93, il narratore gli attribuisce
il compito tipico della sapienza che è quello di dare ragioni per vivere: il serpente
sapiente si propone come fonte di felicità;
Il serpente interviene con una strategia ben precisa in modo da prendere la
donna alla sprovvista senza darle la possibilità di difendersi. Inizia con una semplice
frase che, nelle traduzioni, viene spesso riportata come domanda, «è vero che Dio ha
detto: non dovete mangiare di nessun albero del giardino?», ma che di per sé, in
ebraico, non suona come una domanda: inizia, infatti, con l’espressione ’ap kî che
andrebbe resa con «allora, bene». Il serpente non inizia con una domanda ma con una
constatazione, «Allora, Dio ha detto che non dovete mangiare di nessun albero del
giardino»: ci si aspetta sì una reazione dell'interlocutore, ma non con il tono di una
domanda, piuttosto di chi dice una cosa ovvia. Questa osservazione grammaticale è
importante all’interno dell’economia del racconto: la tentazione del serpente non
inizia, infatti, con una domanda brutale e precisa, che porterebbe la donna a chiudersi
in una posizione difensiva, ma chiacchierando, favorendo un tono di dialogo molto
più spontaneo.
Il serpente inizia riprendendo le parole di Dio, ma apportando alcune decisive
modifiche. Mentre il Signore ha detto: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del
giardino (mikkōl ‘ēṣ haggān), ma dell’albero della conoscenza del bene e del male
non devi mangiare» (Gn 2,16-17); il serpente afferma: «Non dovete mangiare di tutti
gli alberi del giardino (mikkōl ‘ēṣ haggān)». Dio ha donato tutti gli alberi e ne ha
proibito uno: ma il serpente utilizza proprio la parte positiva del comando, in cui si
menzionava il dono di Dio, inserendo proprio lì il limite. Le parole del serpente
suonano, così, ambigue: da un lato dicono la verità, perché, non potendo mangiare i
frutti di un albero, l’essere umano non può mangiare di tutti gli alberi; ma dall’altro,
prive di una parola che ricordi il dono fatto dal Signore, insinuano il dubbio che Dio
abbia proibito tutti gli alberi. Ecco, allora, che Dio appare un dispotico, un essere
irragionevole, incomprensibile: uno che ti fa vedere tutto, tutto ciò che è bello e
desiderabile e poi, di fatto, te lo nega.
È interessante anche notare dal punto di vista formale come il serpente parla di
Dio:
92 C. JÓDAR ESTRELLA, Una conoscenza per la vita. Genesi 3 e il discernimento vocazionale,
Editrice Rogate 2018, pp. 11-12.
93 Cfr. libro dei Proverbi in cui ritroviamo il termine ‘ărûm, «astuto», applicato al sapiente: Pr
12,16.23; 13,16; 14,8.15.18; 22,3; 27,12.
Esegesi di Gn 1‒3 46

Da Gen 2,4 fino alla fine del cap. 3, Dio viene chiamato Yhwh ’elohîm “il
Signore Dio”, ma il serpente lo chiama solo ’elohîm “Dio” (3,1.5)… Mentre in
Gen 1, il Dio enfaticamente presentato come unico e con tutto sotto controllo
riceve una denominazione sufficiente con il semplice ’elohîm “Dio”, l’aggiunta
del nome proprio in Gen 2-3 risulta molto adatta per rappresentare il rapporto
personale esistente fra Dio e la prima coppia. Si consideri che , non essendoci che
un Dio, non serve che abbia un altro nome se non quello di “Dio”. È così che si
procede, ad esempio, nelle lingue oggi parlate in contesti culturali monoteistici.
Invece l’Antico Testamento racconta che, nella sua manifestazione nella storia,
Dio ha “rischiato” facendosi avanti con un nome proprio, che sarebbe una cosa
tipica dei contesti politeistici, dove è necessario distinguere di quale dio si sta
parlando. Si potrebbe spiegare questo fatto supponendo che appartenga ad una
tappa della rivelazione divina progressiva nella quale si esorta alla monolatria
(adorazione di un unico Dio), senza ancora arrivare pienamente alla formulazione
del monoteismo (esistenza di un unico Dio). Nonostante ciò, quando emergono le
affermazioni radicali del monoteismo nell’Antico Testamento, al validità del
nome proprio di Dio non viene meno. Il nome “superfluo” permette un
inaspettato livello di familiarità con Dio, situazione che non viene vanificata,
nella ricezione del testo, nemmeno dal divieto di rinunciare tale nome: si rinuncia
a pronunciare un nome che comunque si conosce e, in tal modo, si esprime
riverenza verso colui che ci ha aperto la sua intimità con l rivelazione del proprio
nome.
Dunque con denominazione ’elohîm “Dio”, il serpente rivolge lo sguardo verso
Dio da una distanza che esclude un rapporto personale94.
Nei vv. 2-3 troviamo la reazione della donna che, all’apparenza, sembra
rispondere bene, ma in realtà presenta già i segni del morso del serpente, del suo
essere stata catturata dalle ingannevoli parole dell’animale. Per prima cosa afferma
che loro possono mangiare degli alberi del giardino, ma dimenticandosi di mettere in
relazione questo diritto con Dio, di riconoscerlo come un dono ricevuto, così come
aveva fatto l’uomo parlando della donna (Gn 2,23). Non per nulla, anche la donna usa
’elohîm “Dio”, invece che Yhwh ’elohîm, ponendosi “a distanza” dal Signore. Poi,
sbaglia albero dal momento che l’albero che sta al centro del giardino è quello della
vita non della conoscenza: questa confusione rivela la confusione della donna che
coglie nella proibizione di mangiare dell’albero della conoscenza una proibizione di
vivere, una limitazione della vita. Infine, richiama la seconda parte del comando di
Dio: ma, mentre questi ha semplicemente affermato che non ci si doveva appropriare,
mangiandolo, del principio della conoscenza del bene e del male, non ha negato la
possibilità di entrarne in contatto, di toccarlo, come afferma la donna dandosi da sola
un nuovo limite. Quelle parole che dovevano portare l’uomo a scegliere la vita,
diventano ora una minaccia di castigo, che però, paradossalmente è sfumato nella sua
formulazione rispetto a Gen 2,17, perché si omette il rafforzativo (quello che in
italiano si traduce «certamente»).
94 C. JÓDAR ESTRELLA, Una conoscenza per la vita, cit., pp. 14-16.
Esegesi di Gn 1‒3 47

Nei vv. 4-5 il serpente riprende la parola per sferrare l’attacco definitivo: la
donna nomina la morte come conseguenza che incombe su coloro che oseranno
toccare l’albero e il serpente si affretta a negare quella realtà paurosa, «No, non
morirete affatto», contraddicendo esplicitamente le parole di Dio (Gn 2,16). Poi,
svela il motivo perché il Signore ha mentito loro mettendo in luce il volto di un Dio
geloso, cattivo, che vuole impedire all’uomo di raggiungere la felicità per
salvaguardare il proprio privilegio; di un Dio che, in definitiva, ha paura dell’uomo
che percepisce come un nemico da combattere. La donna viene messa davanti ad una
scelta: accettare di essere dipendente da Dio, di lasciarsi insegnare da Dio ciò che
bene per sé; ascoltare la voce del serpente decidendo da sé ciò che è bene per la
propria felicità.
Il serpente dice che mangiare dell’albero porterebbe a un aumento della
conoscenza (Gen 3,4) e alla donna sembra che sia così (3,6). Ma il punto non è se
il frutto è davvero in grado di produrre un tale effetto. La cosa determinante è che
si sta dando per scontato ‒ ecco il pregiudizio ‒ che la conoscenza occupi
praticamente il primo posto tra le cose desiderabili. E questo è semplicemente
falso: la conoscenza in quanto tale non è garanzia di vita riuscita. In altre parole,
la conoscenza non salva95.
Nel v. 6, il narratore, attraverso lo sguardo della donna, mette in luce come
appare ora l’albero ai suoi occhi: ritroviamo la caratteristica «buono da mangiare»
propria di tutti gli alberi creati da Dio (Gn 2,9), mentre nuovo appare il suo essere
«gradito (ta’ăwâ) agli occhi» e «desiderabile (neḥmād) per acquisire saggezza». Il
sostantivo ta’ăwâ, «ingordigia, brama, desiderio» appare insieme al verbo ’wh,
«avere appetito, bramare», in Num 11,4 dove indicano l’appetito smodato,
l’ingordigia del popolo che nel deserto non si accontentano più del dono della manna,
ma vogliono carne e hanno nostalgia del cibo che veniva loro dato gratuitamente in
Egitto (Num 11,5-6). Il Signore risponde mandando le quaglie, ma molti del popolo
si fanno dominare dall’ingordigia che li porta alla morte (Num 11,34: il luogo si
chiama Kibrot-Taavà che in ebraico, qibrôt ta’ăwâ, suona: «sepolcri del desiderio»).
Il legame fra la brama/desiderio e la morte si vede anche in Dt 7,25:
Darai alle fiamme le sculture dei loro dèi. Non bramerai (taḥmōd) e non
prenderai per te l'argento e l'oro che le ricopre, altrimenti ne resteresti come preso
in trappola, perché sono un abominio per il Signore, tuo Dio.
Il legame con la morte qui e chiaramente motivato dall’idolatria. Il meccanismo
del desiderio / bramosia porta alla morte quando si ha l’illusione di poter accumulare
beni (cibo, ricchezze) e trovare in essi ragioni di vita. L’illusione è che i beni salvano,
ma invece diventano una trappola, proprio perché scatenano il meccanismo
dell’idolatria: si cerca la “salvezza” non in Dio ma nell’oro e nell’argento. In altri
termini: invece di riconoscere che la propria vita dipende dal dono divino (cfr. Gn
2,16: «potrai mangiare di tutti gli alberi») e che solo in Lui, quindi, può trovare
95 C. JÓDAR ESTRELLA, Una conoscenza per la vita, cit., p. 36.
Esegesi di Gn 1‒3 48

compimento il proprio desiderio di pienezza, si indirizza il proprio sguardo su ciò che


non ci appartiene, che ci è sottratto e negato, o meglio, in questo caso, su ciò che sta
al di là dei limiti creaturali, considerando che sia l’esistenza di tale limite a impedire
che il nostro desiderio di vita piena trovi soddisfazione. Non a caso i termini usati qui
ritornano nel Decalogo96:
Non desidererai (taḥmōd) la moglie del tuo prossimo. Non bramerai
(tit’awweh) la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né
la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga
al tuo prossimo (Dt 5,21)
Attraverso i suoi gesti (prendere, mangiare, dare), la donna realizza la
trasgressione di chi cerca di sostituirsi a Dio: invece di accostarsi alla realtà
obbedendo alla parola ricevuta dal Signore, sceglie di acconsentire a ciò che il suo
sguardo ha colto come un bene per sé diventando criterio di misura della propria
felicità.
La nuova realtà in cui uomo e donna si vengono a trovare è molto diversa da
quella promessa dal serpente: i loro occhi si aprono, ma, invece di conoscere il bene e
il male, conoscono il loro essere nudi. Il bisogno di coprirsi rimanda a una nudità che
non è più senza vergogna, senza paura, perché i due non sono più in comunione: il
gesto di amicizia del condividere il frutto con l’uomo rompe (paradossalmente!) la
relazione.

3.5 Le conseguenze del superamento

3.5.1 L'interrogatorio
8
Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l'uomo
con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il
9

Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo passo nel
10

giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha
11

fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di
non mangiare?». Rispose l'uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato
12

dell'albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?».
13

Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».

Nel v. 8 riappare Dio, o meglio, l’uomo e la donna ricominciano a sentire la sua


voce, i suoi passi (per questa immagine antropomorfica, che rappresenta cioè Dio con
tratti umani, cfr. anche 2Sam 5,24), e si nascondono in mezzo agli alberi del giardino.
Se, prima di mangiare del frutto, il giardino era il luogo da custodire e coltivare,
luogo in cui incontrare Dio e vivere una sana relazione con l’altro, ora da esso l’uomo
e la donna traggono le difese per nascondersi da Dio e per difendersi dall’altro.

96 Si veda il commento a questo comandamento in F. SERAFINI, Accogliere la libertà,


condividere la vita. Commento esegetico e teologico al Decalogo, San Paolo, Cinisello Balsamo
2018, pp. 88-95.
Esegesi di Gn 1‒3 49

Quando Dio chiede «dove sei?» si comincia a parlare di paura: «ho udito il tuo
passo (la tua voce) nel giardino, ho avuto paura perché sono nudo e mi sono
nascosto» (v. 10). L’essere nudo suscita paura anche nei confronti di Dio, anche
davanti a Lui l’uomo non può più rimanere esposto, senza difese97. La risposta di
Adamo è piuttosto comica: si stanno nascondendo da Dio, ma quando lui chiama
rispondono rivelando dove sono e perché si sono nascosti. Davanti a Dio non ci si
può nascondere, ci si può solo far scoprire riconoscendo la propria situazione. Dio
continua a cercare l’uomo, a prendersi cura di lui, ma secondo verità: se l’uomo e la
donna hanno peccato, prendersene cura vorrà dire svelargli il loro peccato, fargli
prendere coscienza di ciò che hanno fatto. Questo è lo scopo delle domande che Dio
rivolge loro. Esse non cercano una risposta che informi il Signore di qualcosa che lui
non conosce: Dio sa già cosa è accaduto, ma desidera mettere l’altro davanti al suo
misfatto, fargli prendere coscienza di ciò che ha fatto.
Ma, l’uomo e la donna non esprimono le motivazioni interiori che li hanno spinti
alla scelta, non si assumono le proprie responsabilità, limitandosi a descrivere le
circostanze esterne per trovare dei colpevoli. Davanti all’accusa di Dio o si confessa
la propria colpa mettendo termine al groviglio del male, o non si confessa e ci si
difende e, il mezzo migliore per farlo, è accusare a propria volta, pronti a lasciar
morire l’altro pur di salvare se stessi. Alla fine, sia l’uomo che la donna svelano che il
vero colpevole, il responsabile di tutto è Dio: l'uomo, infatti, incolpa la donna, che è
quella che «Dio ha dato»; la donna, invece, incolpa il serpente, che è «una creatura
fatta da Dio» (Gn 3,1). In questo giro di follia accusatoria viene rivelato qualcosa
dell’esperienza del peccato, del male: esso si rivela come una realtà davanti alla quale
l'uomo deve prendere posizione, ma che possiede anche una carica misteriosa, per cui
il male che l’uomo fa sembra vivere di vita propria, crescere senza che egli possa
controllarlo, rivelando una capacità di morte di cui l’uomo non era consapevole
all’inizio98.
Dio interroga l’uomo e la donna, ma non dà la parola al serpente. Nel racconto il
serpente è all’origine di tutto: interrogare il serpente significherebbe cercare di capire
dove comincia il male, quale è la sua spiegazione ultima; non farlo, invece, sembra
sottolineare come il male in fondo rimanga un mistero che non si può mai rinchiudere
in un perché, che non si può mai capire fino in fondo. D’altra parte, se è vero che è il
serpente a dare inizio a tutto, è ancor più vero che i veri responsabili sono l’uomo e la
donna ed è da loro che Dio si aspetta una assunzione di responsabilità.

97 Di per sé l’uomo e la donna non sono nudi perché si sono coperti di foglie, ma la loro reazione
evidenzia come davanti a Dio non ci siano difese possibili, non bastano le foglie per camuffarsi.
98 L’uomo, responsabile del male che compie, si ritrova anche un po’ vittima di questo mistero
del male che, nonostante tutto, lo trascende. Il mistero del male rivela che esso è sempre più grande
di ciò di cui l’uomo si sente capace e che vuole nel momento in cui lo compie: cfr. l’esperienza di
Davide e Betsabea: inizia con un adulterio e finisce con un omicidio (2Sam 11-12); la morte
Giovanni Battista: inizia con un banchetto, c’è un giuramento e finisce con un omicidio (Mc 6,17-
29).
Esegesi di Gn 1‒3 50

3.5.2 La sentenza
Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu maledetto più
14

di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere
mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua
15

stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno». Alla


16

donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli.
Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». All'uomo disse: «Poiché hai
17

ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero, di cui ti avevo comandato:
Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo
per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba
18

campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra,
19

perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!».


L'uomo chiamò la moglie Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi. Il Signore Dio
20 21

fece all'uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì.

Le punizioni sono date in senso inverso rispetto all’interrogatorio: il serpente a


cui Dio non aveva chiesto niente è il primo ad essere punito. Viene maledetto99 e
posto in relazione con la polvere elemento simbolico che rimanda alla morte. Nel suo
rapporto con i viventi è segnato dalla sconfitta, è vinto da coloro che dovrebbero
essere sue vittime.
Nella tradizione della Chiesa, il v. 15 è stato letto, da Ireneo in poi, come il primo
preannuncio del Vangelo, cioè della salvezza dell’uomo attuatasi in Gesù Cristo.
Oggi gli esegeti respingono questa interpretazione ritenendola una lettura inadeguata
del testo. Infatti, essa non si fonda sul testo ebraico ma sulle versioni greche e latine:

Ebraico Greco Latino


Io porrò inimicizia tra te e Io porrò inimicizia tra te e Io porrò inimicizia tra te e
la donna, la donna, la donna,
tra la tua discendenza tra la tua discendenza tra la tua discendenza
e la sua discendenza, e la sua discendenza, e la sua discendenza,
essa ti schiaccerà la testa egli ti schiaccerà la testa ella ti schiaccerà la testa
e tu le insidierai il e tu le insidierai il e tu le insidierai il
calcagno calcagno calcagno

La differenza tra le tre versioni riguarda i pronomi: nel testo ebraico «essa» si
riferisce alla discendenza; nel testo greco si trova «egli» in riferimento ad un ben
preciso discendente; il testo latino ha «ella» riferito alla donna. Se, come accadeva ai
padri, l’esegesi viene fatta sul testo latino, il pronome femminile non può che indicare
Maria che lotta contro il serpente100, allegoricamente interpretato come il demonio101.
Se l’esegesi viene fatta sul testo greco, il pronome «egli» verrà attribuito al Messia e
99 Nella Bibbia, maledire contiene l’idea di «prendere le distanze»: quando Dio maledice prende
le distanze da qualcosa di malvagio, di sbagliato.
100 Da qui ha origine l’iconografia tradizionale che rappresenta Maria mentre schiaccia la testa
del serpente.
101 L’identificazione del serpente con il demonio è molto antica. Si trova anche in Sap 2,24 che
interpreta Gn 3.
Esegesi di Gn 1‒3 51

quindi, per i cristiani, si annuncia la vittoria di Gesù sul demonio. Se, invece, si parte
dal testo ebraico, come fanno oggi gli esegeti, si dovrà dire che la maledizione del v.
15 sottolinea semplicemente l’esistenza di una forte ostilità fra il genere umano,
discendente della donna, e la discendenza del serpente. Si tratta quindi di un elemento
eziologico (cfr. punto 1.3), che però nel racconto evidenzia come il rapporto degli
animali con l’uomo non è solo di dominio e conoscenza (come appariva in Gn 2), ma
anche di insidia e pericolo.
Quando Dio passa a pronunciare la sentenza sull’uomo e la donna li vuole
aiutare a prendere coscienza di quello che è accaduto esplicitando le conseguenze
mortali, negative, della loro scelta: già dopo aver mangiato il frutto non c’è più
comunione tra uomo e donna (si difendono uno dall’altro e si accusano), armonia tra
uomo e giardino (lo usano per nascondersi), tra Dio e l’uomo (si nasconde, ha paura).
Gli elementi presenti nelle «punizioni» vanno colti nella loro valenza simbolica,
non interpretati in senso letterale come se la donna partorisse solamente e non
lavorasse, o l’uomo lavorasse solamente e fosse immune dal dolore; o come se solo
l’uomo fosse destinato a morire: ciò che fa il narratore è semplicemente descrivere le
conseguenze del peccato che toccano i due elementi più «divini» presenti nell’uomo e
nella donna. Infatti, quando la donna partorisce è portatrice del mistero della vita e, in
questo, è simile a Dio; quando l’uomo lavora opera quello che fa Dio che crea le cose
facendole.
Dal momento che in Gn 3 il peccato è presentato come «voler essere simili a
Dio», il partorire e il lavorare possono diventare due momenti di massimo pericolo
per l’uomo e per la donna, situazioni nelle quali la tentazione si può far sentire: «ho
fatto un figlio: io sono Dio»; «ho creato questa cosa: io sono Dio». L’esperienza della
sofferenza nel parto e nel lavoro se, da un lato, è la conseguenza del peccato e ricorda
come ormai l’armonia si sia rotta, dall’altro diventa via di salvezza, perché, nel
momento in cui la donna e l’uomo sono più simili a Dio, la sofferenza ricorda loro di
essere diversi da Dio, di non essere Dio, riconducendoli alla dimensione creaturale.
Quella che appare a prima lettura una «punizione» svela così il suo vero significato di
opportunità di conversione e di nuova apertura al riconoscimento del dono divino. lo
schema giuridico-processuale non è, dunque, la chiave ermeneutica corretta per
questo passo102.
Le conseguenze del peccato riguardano anche il rapporto uomo-donna: il
desiderio, l’istinto che porta la donna verso l’uomo le ricorda il suo bisogno, la sua
debolezza, la sua incompletezza. In questa situazione si rivelano le conseguenze del
peccato poiché colui che è più forte, invece di difendere la debolezza, la sfrutta per
dominare, usa la propria forza per schiacciare l’altro. I due non riescono più a porsi

102 A. Wénin, Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’umano. Lettura narrativa e antropologica


della Genesi, EDB, Bologna 2008, pp. 81-89, mostra come la prospettiva del Dio «giudice» sia
adottata dai personaggi umani nel racconto, ma essa corrisponde alla distorsione dell’immagine
divina promossa dal serpente.
Esegesi di Gn 1‒3 52

uno di fronte all’altro, essere per l’altro «aiuto», poiché il desiderio di dominio, di
prevalere sull’altro, ha preso il sopravvento.
A questo punto, l’uomo, che è il forte che domina il debole, potrebbe illudersi di
essere Dio, ma la morte lo mette davanti alla sua verità facendogli scoprire di non
essere Dio, ma di aver bisogno della Sua salvezza. Il testo non dice che la morte non
fosse già iscritta nella realtà dell’uomo dal momento che, fin dall’inizio, si presenta
l’essere umano come tratto dalla terra, come polvere: l’elemento nuovo è l’angoscia
davanti alla morte.
Il v. 20 per molti esegeti è una inserzione successiva, ma è interessante che
venga collocata qui: si è appena finito di parlare di morte e si afferma che la donna è
chiamata Eva, la madre dei viventi. La vita, benché ferita, è destinata a proseguire
ancora perché continua la benedizione di Dio rappresentata dal dono delle tuniche
che consentono all'uomo e alla donna di coprirsi eliminando la propria vergogna.
All’interno del racconto questa azione di Dio, che «fa» le tuniche, si
contrappone a quella goffa dell’uomo e della donna che si «fanno» cinture per coprire
al propria nudità (v. 7). Va notato, però, che iIl linguaggio è cultuale e si fa
riferimento al vestimento appropriato per incontrare Dio. Infatti, l’uso del verbo
«fare» con oggetto una «tunica» si trova in Gen 37,3; Es 28,4; Es 28,40; Es 39,27.
Invece l’uso del verbo «rivestire» (lābaš hifil) in riferimento a una tunica si trova in
Es 29,5; Es 29,8; Es 40,14; Lv 8,13; Is 22,21. Tutti i passi citati, con l’esclusione di
Gen 37,3 e Is 22,21 si riferiscono alle vesti sacerdotali: «rivestire» con una tunica
nell’AT conferisce una dignità (sacerdotale o di alto ufficiale di corte, cfr. Is 22,21) e
in Gen 37,3 la tunica particolare di Giuseppe è un segno d’amore del padre (che l’ha
«fatta») nei suoi confronti. Si può dunque affermare che nel lavoro di Dio descritto in
questo versetto c’è sicuramente l’aspetto del prendersi cura dell’altro, rappresentato
in questo caso dall’uomo e dalla donna, incapaci di provvedere a se stessi vesti
adeguate.

3.6 Conclusione
Il Signore Dio disse allora: «Ecco l'uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del
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bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell'albero della vita, ne
mangi e viva sempre!». Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il
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suolo da dove era stato tratto. Scacciò l'uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i
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cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all'albero della vita.

In questi versetti conclusivi riappare l’albero della vita, assente in Gn 3,1-21, e


viene riportata due volte la scacciata dell’uomo e della donna dal giardino dell’Eden.
Le parole del Signore, «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la
conoscenza del bene e del male», richiamano la scelta compiuta dall’essere umano:
creato e chiamato a realizzare la propria esistenza in obbedienza alla parola di Dio, ha
disobbedito scegliendo di non vivere come creatura ma come essere che ha in sé la
ragione della propria esistenza.
Esegesi di Gn 1‒3 53

Come già sottolineato commentando Gn 2,9, la possibilità di mangiare


dell’albero della vita è legata al non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e
del male: fino a quando uomo e donna vivono come creature che riconoscono di non
avere in loro stesse la fonte della conoscenza sapienziale della realtà, ma che questa è
un dono che ricevono obbedendo alla parola del Signore, possono godere anche dei
frutti dell’albero della vita che rappresentano quei beni che fanno della vita una realtà
degna di essere vissuta, una realtà ricca di benedizione.
Ma ora che uomo e donna hanno mangiato dell’albero della conoscenza, non
possono più accedere direttamente all’albero della vita: quella vita piena e
abbondante è loro proibita dal momento che hanno scelto di non riceverla più come
dono.
Come custodi della via che conduce all’albero103 vengono posti i cherubini,
immaginati con testa da uomo e ali (Es 25,18-22; 1Re 6,23-28; 2Cr 3,10-13), con
piedi bovini o corpo di animale (Ez 1,5-28; 10,1-22; 41,18-25), e la «fiamma della
spada folgorante», posta non nelle mani ma accanto ai cherubini, che potrebbe
corrispondere al fulmine descritto in Ger 47,6 come «spada del Signore».
L’uomo viene allontanato dal giardino per lavorare la terra. A una prima lettura,
il lavoro sembra essere la punizione per la trasgressione commessa, ma questo non è
vero dal momento che già in Gn 2,15 si afferma che l’uomo è posto nel giardino per
lavorarlo e custodirlo. Il lavoro non è un castigo ma fa parte di ciò che definisce
l’essenza stessa dell’essere umano creato da Dio: ciò che ora cambia è che il lavoro
assume un carattere alienante, faticoso, penoso, poiché si è rotta l’armonia esistente
tra uomo e creato104.

3. Interpretazione globale
Possiamo raccogliere il messaggio del brano intorno ad alcuni punti.
Un primo aspetto che emerge dal testo è la complessità e ambivalenza della
realtà umana, che possiamo scorgere in due momenti. Il primo è l’atto creatore
divino: l’uomo è da una parte fatto con la polvere della terra, dall’altra è animato dal
soffio divino. Quindi da una parte è legato al mondo «materiale» in cui si muove,
dall’altra è animato da uno «spirito» che lo avvicina al Signore. L’esistenza umana è
quindi caratterizzata da queste due dimensioni e deve sempre evitare la tentazione di
negarne o trascurarne una, privilegiando l’altra. Il secondo momento del racconto in
cui emerge l’ambivalenza, che può diventare ambiguità, dell’esistenza umana è la
creazione della donna. Posta come «aiuto» accanto all’uomo ella può svolgere questo
compito soltanto se la sua differenza e alterità viene rispettata105. Così il rapporto con
103 L’albero della vita, con i suoi frutti, riappare al termine della Bibbia, nel libro
dell’Apocalisse (Ap 2,7; 22,2.14.19): esso ritorna ad essere un dono offerto a tutti coloro che
ascoltano lo Spirito, la Parola del Signore, che le rimangono fedeli fino al martirio.
104 Per approfondire il tema del lavoro può essere utile A. BONORA, «Lavoro» in P. ROSSANO -
G. RAVASI - A. GIRLANDA (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, cit., pp. 776-788.
105 Seguiamo la logica del racconto, ma ovviamente si potrebbe fare lo stesso discorso a ruoli
invertiti fra maschio e femmina.
Esegesi di Gn 1‒3 54

l’altro, con il compagno o la compagna, appare sia necessario e ineludibile per una
vita veramente umana, sia occasione costante in cui calpestare e tradire la dignità
umana, cercando di asservire l’altro al proprio disegno. In questo senso lo
«scaricabarile» in risposta all’interrogatorio divino è paradigmatico dell’incapacità di
vivere la solidarietà.
Il brano ci dice qualcosa, e questo è un secondo aspetto, sulla vocazione
dell’uomo: preso per coltivare e custodire, proseguire l’opera di Dio (cfr. il «soffio»
in Gn 2,7). Qui si inserisce il comandamento, la parola di Dio, che mira appunto a
tutelare la relazione rappresentata dal soffio: da una parte, infatti, il fatto che il
Signore «parli» con l’uomo (il parlare si fa sempre con la gola, come il respirare)
indica che lo riconosce e lo costituisce come interlocutore, dall’altra fa appello alla
sua libertà, che è appunto ciò che avvicina l’essere umano a Dio. Poiché la vita
umana dipende dalla relazione con il suo Signore, il comandamento è esattamente
fonte di vita e di libertà, non ciò che la opprime e la distorce (come invece insinua il
serpente e come anche una certa interpretazione pseudo-religiosa, che traspare dalle
parole di Eva, porta a pensare).
Paradossalmente (passiamo a un terzo punto) l’uomo può essere simile a Dio
(nel respiro e nel lavoro) nel momento in cui riconosce di non essere Dio e
comprende che si deve fidare di Lui e della sua Parola (che ha l’evidenza del dono e
dell’amore, non della sapienza che tutto spiega). Viceversa il peccato nasce dal
desiderio di essere come Dio, che si concretizza in desideri e bramosie particolari: in
altri termini l’oltrepassamento del limite dell’esistenza creaturale è realizzato
simbolicamente nella trasgressione di un divieto all’apparenza banale e specifico.
Così il peccato viene presentato come spinto e sostenuto dal desiderio che diventa
ingordigia, che non sa accettare il limite costituivo dell’esperienza umana e va
sempre in cerca di «altro» (cfr. Davide e Betsabea, ma anche l’idolatria, che è ricerca
di «altri» dei). Il desiderio ha una valenza positiva nel momento in cui è desiderio
dell’altro ma custodendo e riconoscendo la differenza, come nel rapporto uomo
donna: se il limite, la mancanza sono costituivi dell’esperienza umana lo è anche il
desiderio di colmare in qualche modo questo limite, questa mancanza e questa
solitudine. Il punto è che il desiderio si compie se non assimila a sé, come fa la
bramosia o l’ingordigia, ma riconosce l’altro come diverso da sé, accoglie il proprio
limite accettando che sia completato dal dono e non dalla proiezione del proprio io.
Quindi, anche se l’autore biblico individua nella bramosia il meccanismo
fondamentale del peccato, sarebbe sbagliato sostenere che l’autore individua il
desiderio come «fonte» del male: egli descrive prima l’intervento del serpente e poi il
meccanismo della bramosia nella donna, così l’origine del male rimane misteriosa,
perché non si può pensare che esso sia «connaturale» alla donna e all’uomo, pur
essendo vero che il male si realizza perché essi vi acconsentono e ne portano la
responsabilità.
Infine, come ultimo aspetto, va riconosciuto che la realtà segnata dal peccato se
da una parte si configura come allontanamento da Dio (cfr. il nascondersi dell’uomo)
Esegesi di Gn 1‒3 55

non significa lontananza di Dio, come mostra efficacemente la finale del racconto,
con la preoccupazione del Signore di rivestire le sue creature. Egli si prende cura
dell’uomo anche quando questi si mostra incapace di rimanere fedele e obbediente
alla sua parola.

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