Sei sulla pagina 1di 13

COMMENTO AL PROLOGO DEL VANGELO SECONDO GIOVANNI

1. Introduzione

Il prologo del vangelo di Giovanni è delle composizioni più belle che possiamo trovare nel
Vangelo. Ha un grande contenuto teologico; ecco perché l’immagine che corrisponde all’evangelista
Giovanni è quella dell’aquila,1 il vivente conosciuto che più alto è capace di volare, simboleggiando
così l’altezza e profondità teologica raggiunta di questo evangelista riguardo la conoscenza del mistero
di Cristo. San Tommaso dirà infatti, nel suo commento, che la contemplazione raggiunta da Giovanni
nel suo Vangelo è la più sublime, ampia e perfetta (parafrasando il testo di Is 6,1).

Alcuni hanno pensato che sia opera di un autore posteriore, non di Giovanni, sia a causa del
contenuto, sia perché non è di natura narrativa come il resto del vangelo, e pure i termini utilizzati in
greco (come Logos) sono di natura più filosofica. Alcuni hanno perfino avventurato che sia stato scritto
in ambiente gnostico del secolo II dopo Cristo (d.C.). Ma questo non sembra sostenibile. Anzi,
analizzando profondamente il contenuto, e perfino lo stile, vediamo che non si trovano delle differenze
sostanziali con il resto del Vangelo, ma per il contrario si osserva una solida continuità.

Ci sono quelli che pensano che l’originale dell’Apostolo non sia in greco bensì in aramaico, ed
in questo modo, la continuità di stile e contenuto con il resto del Vangelo sarebbe ancora più evidente.
Per alcuni, sarebbe un commento proprio di stile ebraico rabbinico (chiamati Midrash) sulla catechesi
di Pietro nel vangelo di Marco, sullo stesso prologo del vangelo di Marco, il che supporrebbe che Marco
era già scritto nella sua forma attuale, e sulla testimonianza del Battista (come quella di Gv 3,33).2

2. Esegesi e commento

Gv 1, 1-2: In principio era il Verbo


e il Verbo era presso Dio
e Dio era il Verbo.
Egli era in principio presso Dio.

Osserviamo qui una struttura semplice; delle proposizioni o sentenze che hanno tutte lo stesso
soggetto (‘il Verbo’). Le proposizioni sono unite (le tre prime) tramite una semplice congiunzione (‘e’,
che traduce la particella kai in greco). Questo ripetersi della congiunzione ‘e’ non è tanto elegante nel
greco classico, ma è comune nel greco del Nuovo Testamento e della versione Septuaginta (LXX).
Costituisce un fenomeno che si chiama paratassi e riflette un influsso semitico (cioè, di una lingua
semitica, che è la lingua madre degli evangelisti: sia l’ebraico che l’aramaico).

In queste poche parole vengono sottolineate parecchie idee:

1
Secondo la visione di Ez 1,10, dove si vedono i viventi, tutti e quattro con una faccia di uomo, tutti e quattro una
faccia di leone a destra, una di bue a sinistra, e tutti e quattro una faccia di aquila.
2
Così P. Perrier, Karozouthà, Mediaspil, Paris 1986, p. 198; recensione in Biblica 221 (10/86). Il Midrash sarà
usato molto in ambiente rabbinico di fine del sec I e del sec II. Basicamente, consiste nel commento didattico dei
testi sacri, cercando il suo senso profondo. Non implica necessariamente una pre-concezione teologica aliena al
testo.

1
In principio era il Verbo la preesistenza del Verbo,
e il Verbo era presso Dio vicinanza e distinzione (del Padre);
e Dio era il Verbo. la sua identità con Dio

L’ultima proposizione (Egli era in principio presso Dio) riprende il pensiero precedente e lo
sintetizza, ripetendolo ancora. Questa procedura di riassunto (o ricapitulatio) è molto comune nel
pensiero semitico e orientale. E’ anche un indizio (ci saranno altri) che ci aiuta a capire che il modo di
composizione del Prologo non differisce sostanzialmente dal resto del vangelo di Giovanni (in favore
che è lo stesso autore). Quest’ultima frase serve, allo stesso tempo di collegamento con quanto seguirà
(v.3).

Il prologo inizia con la stessa parola con la quale inizia il libro della Genesi: “in principio” [en
arché]. Nella Genesi leggiamo (1,1): In principio creò Dio il cielo e la terra. Non è questa la sola
coincidenza tra il prologo e il primo capitolo della Genesi; in v. 3 si dice infatti: tutto fu fatto per mezzo
di lui, il che guarda risonanza col e Dio disse... e così fu - frasi che si trovano nella Genesi, nel racconto
della Creazione -; Dio crea cioè per mezzo della sua parola. Anche nel v. 5 compare l'opposizione tra
luce e tenebre, come nel giorno primo della Genesi. Questo ci indica che “nel principio”, vale a dire,
quando la creazione cominciò ad esistere, il Verbo esisteva già. Giovanni usa l'imperfetto del Verbo
essere (era…); l'imperfetto indica normalmente la durata di un'azione – un’azione che dura nel passato
e può rimanere nel presente-, essendo diverso in greco l’imperfetto di altro tempo (l’aoristo), che
esprime un momento puntuale nel passato (come il passato remoto in italiano o il preterito indefinito in
spagnolo) in cui l'azione si realizza. Il Verbo era – dall’eternità- e continuava ad esistere (durava),
mentre che le cose cominceranno ad esistere (v. 3: Tutto è stato fatto per mezzo di Lui).

San Tommaso di Aquino, nel suo Commento al Vangelo di San Giovanni, si interroga
pure per il significato della frase: "nel principio". Questo termine può usarsi in molti sensi -
afferma-, poiché un principio fa sempre riferimento ad un'altra identità, sta in relazione ed in ordine
ad essa. Esiste ordine nel tempo, nel sapere, nella produzione di una cosa. A proposito di questo
ultimo, la produzione di una cosa si può considerare:
1- Rispetto alla cosa prodotta; dove i principi sono la prima parte della cosa prodotta, come
i fondamenti sono i principi della casa.
2- Rispetto invece all'agente produttore, esiste un principio di intenzione: il fine che muove
l'agente ad agire; un esemplare del progetto, l'idea che esiste nella mente dell'artefice; un
principio di esecuzione: La potenza operativa.
Nel Prologo, Principio può attribuirsi alla stessa Persona del Figlio, principio di tutto
quello creato. In questo senso, dire nel principio era il "Verbo"... corrisponde a dire: Il Verbo era
nel "Figlio", ed il significato che lo stesso Verbo è Principio.
Può avere un secondo significato, in quanto significa la Persona del Padre che è principio
non solo delle creature, ma anche delle processioni divine. Il significato della frase sarebbe: Il
Figlio era nel "Padre". Così interpretano Sant’Agostino ed Origene. Coincide con: Io sto nel
Padre ed il Padre sta in Me (Gv 14,10).
Il terzo significato è quello di durata, ed allora la frase significa: "Che il Verbo esisteva
prima di tutte le cose... ", e così pure interpretano Sant’Agostino e Sant’Ireneo.

2
Nella tradizione sapienziale (cfr. Prov 8; Siracide 24)3 “in principio” sembra deva prendersi
sempre in senso assoluto (significando l’eternità). Vedremo pure più avanti anche un’opposizione tra
l’era che corrisponde al Verbo ed il venne o apparve applicato a Giovanni Battista.

La seconda frase (e il Verbo era presso Dio) aiuta a capire il vero senso dell'affermazione che
verrà dopo: e il Verbo era Dio. In effetti, se non venisse indicata la sua distinzione dal Padre (il che
compare qua con la parola Dio), bisognerebbe prendere semplicemente il Verbo come un'altra
denominazione dell'unico Dio. Questa seconda frase dunque, rileva innanzitutto la distinzione rispetto
al Padre. San Tommaso pure afferma che la preposizione ‘presso’ fa più riferimento alla distinzione
della Persona, mentre che l’imperfetto ‘era’ fa più riferimento all'uguaglianza di natura. Ci sono altri
testi che parlano della presenza “presso” o “vicino a” Dio di Gesù Cristo ad esempio; in 1 Gv 1,2: vi
annunziamo questa vita eterna che era presso il Padre (Gesù viene designato con il termine “Vita”), o
pure Gv 7, 28-29: «(…) non sono venuto da me stesso, ma è veritiero Colui che mi ha mandato, che voi
non conoscete. Io lo conosco perché sono da lui ed è lui che mi ha mandato».

Nella terza frase, Dio viene usato prima del Verbo e senza articolo (anche quando nel greco la
parola "Theos" si usa di solito con l’articolo): L'assenza di articolo non deve attribuirsi al fatto che si
tratti di "un Dio", in modo indeterminato. Ci fa capire al contrario che si tratta di un predicato e non di
un soggetto (anche se viene nominato prima)4 e un predicato essenziale, ed in questo caso, il greco non
usa l’articolo. In teologia, s’insegna che il Verbo e il Padre si distinguono e si oppongono in quanto
Persone, ma sono uniti nell'unica natura divina; cfr. Gv 10,30: Io e il Padre siamo uno.

Gv 1,3: Tutto per mezzo di lui fu fatto


e senza di lui non fu fatto nulla di ciò che è stato fatto.

Alcuni autori sostengono che qua da inizio la funzione del Verbo nella creazione del mondo.
Le due frasi successive sono unite per la congiunzione "e"; nella seconda frase si ripete in forma
negativa quello che viene già espresso nella prima. Questa figura letteraria si chiama parallelismo
antitetico (ripetizione della stessa idea – o una simile- in modo negativo); qua lo troviamo però con una
certa sfumatura nuova.

Mentre il Verbo ‘esisteva’ prima della creazione del mondo, l'insieme degli esseri è invece
arrivato all'esistenza (egéneto) in un momento preciso del tempo. Questo passo dal non essere all'essere
si è realizzato per la mediazione del Verbo. La seconda frase: «senza di lui (Verbo) non fu fatto nulla»,
non è un semplice "senza" opposto a "con", ma significa propriamente “separato di” [choris]. Un
parallelo può trovarsi nell'allegoria della Vite ed i tralci: senza di me non potete fare nulla (15,5). Già
nel solo ordine naturale, niente riceve l’esistenza al di fuori dal Verbo. Le creature ricevono il loro
essere da Dio, tramite il Verbo. San Paolo dirà anche ai Colossesi: Tutte le cose sono state create per
mezzo di Lui ed in vista di Lui (Col 1,16).

San Tommaso dirà pure che con la prima frase: Tutto è stato fatto … vengono elencati le cose
visibili, quelle menzionate da Mosè nel racconto della creazione (Gen 1). Perché si capisca che pure le

3
Prov 8,22ss, dove si parla della Sapienza divina come anteriore alla creazione; cfr. anche Gv 8,58: (…) prima
che Abramo fosse, io sono. Gv 17,24: Mi hai amato prima della creazione del mondo…
4
In greco, quando il predicato precede il soggetto, di solito non porta l’articolo.

3
creature invisibili (id., gli angeli) sono state fatte per mezzo del Verbo, è che si aggiunge l’altra
espressione: Senza di lui nulla fu fatto.5 Un’interpretazione di Origene, come la preposizione greca usata
è chōris (al di fuori di) e non senza, il senso sarebbe: “nulla fu fatto al di fuori di lui”. Le cose rimangono
nell’essere grazie all’azione del Verbo (cfr. Eb 1,3: Portando tutte le cose con la parola della sua
potenza). Secondo altra interpretazione di Origene nel commento a Giovanni, e anche quella di
Sant’Agostino, per “nulla” s’intenderebbe il peccato, del quale si dice che Dio non l’ha fatto.

Gv 1, 4-5: In lui era (è) la vita


e la vita era la luce degli uomini;
e la luce nelle tenebre brilla
e le tenebre non la compresero (vinsero).

Ci troviamo davanti ad un passaggio di difficile interpretazione. Sono stati storicamente dei


disaccordi sia sui dettagli sia sull'interpretazione generale. Come costruire la prima frase? Come capire
l'ultimo verbo? In che momento ci troviamo: prima o dopo l'Incarnazione?

La prima difficoltà dunque (sulla prima frase) è di carattere testuale. Si può leggere in due
modi (l’ultima frase del v. 3 e la prima del v. 4):
1- …ciò che è stato fatto (v.3).
In lui era la vita… (v.4) (il punto viene dopo il v.3, come indicato prima).

2- Ciò che è stato fatto (v.3), in lui era vita (v.4). (Unisce fine del 3 con inizio del 4).

I manoscritti greci non avevano punteggiatura. Soltanto compaiono i punti nei manoscritti a
partire del secolo V. P. Boismard afferma, infatti, che fino al secolo IV si imponeva la seconda lettura,
e che poi è stata abbandonata.6 Gli argomenti per preferire quest’ultima lettura sono:

1 - Sembra essere stata questa l'interpretazione universalmente ricevuta nella tradizione cristiana prima
del secolo IV. Abbiamo come testimonianze le più antiche traduzioni del Vangelo: la Vetus latina,
l'antica siriaca, la Saidica dell'Egitto. Tutte queste traduzioni sono l'eco di una tradizione che risale
almeno ai secoli II e III. Inoltre, possiamo allegare come testimoni gli autori più antichi che hanno citato
questi versetti. Nel secolo II: Sant’Ireneo, Taziano, Teofilo Antiocheno e tutti gli gnostici dell'Egitto
(Naaseniani), Valentiniani. Tra i secoli II e III: Clemente di Alessandria, Origene e Tertulliano. Infine,
nel secolo IV: Eusebio di Cesarea, Atanasio, Cirillo di Gerusalemme, Epifanio, Ilario, Agostino,
Girolamo e Ambrogio.

In favore invece dell'altra interpretazione, la testimonianza più antica conosciuta sarebbe di


Alessandro di Alessandria dagli inizi del secolo V. L'origine alessandrina di questa nuova
interpretazione è esplicitamente affermata da Sant’Ambrogio (San Tommaso afferma che il Crisostomo
leggeva anche in questo modo). Comincerà a estendersi ampiamente ben entrato il secolo V.
2 - Unendo le espressioni, sembra guardarsi molto meglio il ritmo delle frasi. Così le frasi che
seguono:

5
Cfr. Tommaso di Aquino, Commento al Vangelo di San Giovanni, I, lez. II, 2 (ed. Marietti, n. 84).
6
Cf. M.E., Boismard o.p., El prólogo de San Juan, Madrid 1970. Anche L. Bouyer, Le quatrième évangile,
Tournai - Paris 1956.

4
(Quanto è stato fatto), è vita in Lui,
e la vita è la luce degli uomini,
e la luce brilla nelle tenebre,
e le tenebre non la vinsero.

3 - Il testo sembra essere stato modificato (dalla seconda lettura alla prima) al tempo della polemica
contro l’arianesimo, forse per privare agli ariani dell’uso che facevano di questo versetto in favore della
loro dottrina. Gli ariani, supponendo che il Verbo era qualcosa di creato, o quella di pneumatomici, che
supponevano che lo Spirito Santo era creato nel Verbo, che è la Vita.

Aquino afferma che St. Agostino spiega la lettura scelta (la seconda) come che nel Verbo si
trova la forma esemplare di tutte le cose create. E lui sembra anche prendere spunto per questa lettura,
dicendo che vi si trovano con l’essere divino (lez II, 3, 92).

Riguardo all’interpretazione della parola ‘luce’, collegata con la parola ‘vita’, possiamo dire
che ci sono due interpretazioni: La prima interpreta sia la vita come la luce naturali, il che entrerebbe
nella logica del racconto perché nei vv. 9-10 viene ancora menzionato il termine ‘luce vera’, con un
chiaro riferimento al Verbo di Dio (come affermando che la prima volta [v.4] si riferisce alla luce
naturale; la seconda [v.9] alla luce del Verbo). Avrebbe pure in favore che si conserva un certo
parallelismo tematico con i cinque primi versetti della Genesi (1, 1-5), dove pure viene menzionata la
creazione della luce e la separazione delle tenebre. Questa interpretazione è possibile, a condizione di
accettare che pure la luce e la vita naturali sono immagini della luce del Verbo.

L’altra interpretazione – forse più probabile - sostiene che si tratta della ‘vita e la luce del
Verbo’, ma non ancora nell’Incarnazione né la Rivelazione (vengono menzionate più avanti) bensì
nell’illuminazione naturale (in quanto ogni intelletto creato riceve la sua luce dell’intelligenza divina),
e nel processo naturale di mozione e dare vita (“Dio opera in tutto quello che si muove ed opera” –
dirà San Tommaso).7

L’altro problema è a proposito dell’ultimo verbo utilizzato nel v.5, in greco, che si traduce come
“vinsero”: katalambano. Propriamente significa: attaccarsi, afferrarsi (seize, take hold). Ne derivano
questi significati:
a) prendere, afferrare;
b) mantenere, forzare, vincere;
c) prendere con l'intelligenza, comprendere (comprehend).

1 - Alcuni autori, seguendo a San Cirillo di Alessandria, prendono il verbo nel senso figurativo
di comprendere intellettualmente. La luce è la Parola di Dio non appena può illuminare l'intelligenza
degli uomini. Le tenebre sono gli stessi uomini, capaci di ricevere l'illuminazione della Parola ma pure
di rifiutarla. Il Cristo-luce ha brillato in mezzo a loro (con la Rivelazione), ma gli uomini non hanno
compreso con la sua intelligenza il senso di questa luce.8

7
Cfr. Summa Theologiae, I, 105, 5.
8
San Cirillo lo commenta così: “La luce, il Figlio brilla nelle creature, nelle tenebre, benché le tenebre non arrivino
a conoscere la luce. Quello è, al mio giudizio quello che significa la frase: «le tenebre non la compresero…» La
luce è ignorata dalle tenebre, perché la natura razionale che stava nella terra, cioè, l'uomo, è arrivato piuttosto a
dare colto alla creatura che al Creatore”.

5
2 - Altri autori, appoggiandosi sui versetti 10 e 11: ... il mondo non lo conobbe... i suoi non lo
riceverono, interpretano che si parla della luce della Fede.

In queste due interpretazioni, abbastanza approssimate l’una l’altra in quanto al senso, il


racconto sarebbe situato già nella prospettiva dell'Incarnazione. Concretamente, la Luce designa al
Verbo fatto carne; e le tenebre designano gli uomini. Gli uomini non hanno voluto comprendere
l'insegnamento portato dal Verbo-luce, non hanno voluto riceverlo, non hanno creduto in Lui.

3 - Infine, altri autori, seguendo a Origene e la maggioranza dei Padri greci, danno al verbo il
suo senso proprio: “Afferrare, mantenere, violentare, superare”, e di lì, per estensione, il senso di
"vincere". San Giovanni Crisostomo sostiene che la luce è Cristo, le tenebre sono il regno dell’errore;
il combattimento è sempre tra la luce (che non può essere mai vinta) e questo regno di morte (s’inserisce
nella tematica giudaica di “combattimento della luce e le tenebre”).

Sembra più accettabile quest’ultima opinione. Le prime due si situano nella prospettiva
dell’Incarnazione, ma questa non viene ancora raccontata (si racconterà solo nel v. 14). La prospettiva
dei vv. 4-5 è ancora fuori dal tempo. Può darsi che si applichi al combattimento tra le angeli buoni e
cattivi (coincide con quanto rivelato nel NT) – gli angeli buoni in quanto sostenuti dal Verbo-.
Sembrerebbe coincidere con l’interpretazione che Sant’Agostino fa della luce nel primo racconto della
Genesi.

Gv 1, 6-8: Ci fu un uomo mandato da Dio; il suo nome era Giovanni. Questi venne come testimone per
rendere testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma per
rendere testimonianza alla luce.

Per quest’espressione (“ci fu”, “ecco”) si utilizza il verbo greco egéneto, che introduce una
prospettiva temporale (non già quell’eterna del Verbo): il tempo degli uomini. Si oppone all’imperfetto
era.
Questi versetti rompono la catena che si manifestava fin ora: gli argomenti Verbo- luce;
vediamo qua che tutto si sviluppa in un ritmo più prosaico (mentre che i precedenti erano in modo più
poetico, con delle frasi più bilanciate), e con delle frasi subordinate (unite per: questi; affinché) – e non
coordinate per “e” [kai]. Lontano da essere un argomento per negare l’autenticità giovannea, è una
prova che l’evangelista cambia prospettiva. Giovanni (il Battista) significa “quello che ha trovato
grazia”, oppure: “Dio ha fatto misericordia”. L’uso che si fa qua di ‘luce’ sembra confermare che si
tratta della luce del Verbo.

v. 9: Era la luce vera, la quale illumina ogni uomo, (quella) che viene al mondo.

Qua da inizio il percorso storico del Verbo. È un versetto difficile. Una difficoltà è che
nell'ultima frase figura il participio greco del verbo ‘venire’ [erchómenon]: (venendo = che viene), il
che può riferirsi ad «ogni uomo» - se fosse accusativo maschile- o può essere riferito a «luce» - se
nominativo neutro-. Grammaticalmente potrebbe essere tutte e due. Nel primo caso si tratta di “ogni
uomo che viene (veniente) al mondo”; così lo capirono varie versioni antiche (Vetus Latina; Vulgata),
ed alcuni Padri (Crisostomo, Cirillo di Alessandria). Nel secondo caso si tratta della “luce vera che
viene al mondo”, come lo capirono i padri latini.

6
Interpretarlo come riferito all'uomo sembra andare di accordo con certi commenti rabbinici, di
carattere semitico. Riferito invece alla “luce”, sembra andare meglio col pensiero di Gv; (cfr. 3,19: la
luce venne nel mondo; 12,46: io, luce, sono venuto nel mondo affinché ...).

Giovanni usa il termine: vera [alethinòs] che significa la qualità di chi è realmente quello che
significa il suo nome. Così in Gv 17,3, e 1Gv 5,20, Dio si chiama ‘vero’ in opposizione agli idoli; in
6,32, Gesù si chiama ‘pane vero’ in opposizione alla manna, che non era vero pane del cielo. Non
significa allora soltanto verace o sincero (quello che dice il vero); per quello si utilizza altro termine
[alethés]. La ‘luce vera’ indica qui tutte le caratteristiche essenziali della luce, e l’unico che le possiede
tutte. A differenza del v.5, qui la luce illumina gli uomini, il che vuol dire che gli uomini ricevono la
sua luce ed il beneficio del suo splendore; un'illuminazione che non si limita ai soli ebrei, bensì a tutti
quelli che raggiunge l'irradiazione del Verbo.

Tanti tra gli autori interpretano qui l'Incarnazione, perché nei versetti precedenti si parlava del
Battista. Ma molti dei Padri antichi hanno capito l'espressione come riferita alle diverse manifestazioni
del Verbo anteriori all'Incarnazione. Il participio presente “che viene” implica piuttosto un'azione
ripetuta o duratura.

v. 10: Era nel mondo


e il mondo fu fatto per mezzo di lui
e il mondo non lo riconobbe.

Sono ancora tre proposizione collegate con ‘e’ (anche se la seconda ha un senso avversativo,
come “però”). Ci domandiamo innanzitutto sul senso del termine ‘mondo’ che qua sembra significare
gli uomini dell’intera creazione (secondo anche il senso di Gv 3,19: la luce venne nel mondo, ma gli
uomini hanno amato più le tenebre che la luce), come suggerisce pure il riferimento di che tutto il
mondo fu fatto per mezzo di lui. Il mondo non è malo in se stesso; Dio lo ama e ha inviato suo Figlio
per salvarlo (cfr. 3,16), ma il mondo non ha voluto accettare il messaggio del Verbo: E a partire di
questo punto che ‘mondo’ passa a prendere perfino un significato peggiorativo in Giovanni, opposto a
Cristo ed ai suoi fedeli (cfr. cap. 17 e 1 Gv 5, 19),9 arrivando a dire che è tutto sotto il potere del Maligno
(12,31; 14,30).10

Questo era nel mondo si riferisce soprattutto alla presenza del Creatore nella sua opera (cfr.
Sap 13,1ss; Rom 1, 19-23), poiché si aggiunge che il mondo fu fatto per mezzo di lui, opera che molti
uomini non riconosceranno come strada per raggiungere il Creatore – diventando inescusabili per quello
(cfr. Rom 1,20; Sap 13, 5.8).

v. 11: Venne nella sua proprietà (ai suoi) e i suoi non lo accolsero.

Qua è usato questo termine che designa i suoi (lo quale permette il parallelismo antitetico tra
le due proposizioni o emistichi). Qua sembra venga indicato il popolo eletto di Israele, ma non nella

9
1 Gv 5,19: Sappiamo che noi siamo da Dio mentre il mondo giace tutto in potere del maligno.
10
Gv 12,3: Ora c'è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo sarà cacciato fuori. Gv 14,30: Io
non m'intratterrò più a lungo con voi, perché viene il principe del mondo.

7
venuta di Cristo ma in tutte le visite precedenti che il Verbo realizzò tramite i profeti. Questo conserva
la logica con il discorso precedente (prima si parlò del mondo; ora di Israele) e con le parole di Gesù
nell’ingresso a Gerusalemme il giorno delle Palme.11

vv. 12-13: A quanti però lo accolsero diede il potere di divenire figli di Dio, a coloro che credono nel
suo nome, i quali non da sangue né da volontà di carne né da volontà di uomo ma da Dio furono
generati.

Qua vediamo che si trova una particella avversativa, che si traduce come però, il che vuol dire
che ‘alcuni di Israele lo accolsero’, non tutti l’hanno rifiutato (quello che si chiama “il resto di Israele”).
Ricevere è uguale a credere nella terminologia del Vangelo. Questi, per la Fede, diventano Figli di Dio.
Esiste qua in piccolo problema di traduzione (quello che si chiama ‘critica testuale’), perché molte
versioni presentano una lettura diversa dell’ultimo verbo; invece di plurale (furono generati) leggono
in singolare: è stato generato o fu generato. La lettura in plurale – come l’abbiamo presentata - viene
attestata da tutti i manoscritti greci conosciuti (minuscoli ed maiuscoli), più San Giovanni Crisostomo.
Il singolare, invece, appare in alcune versioni antiche, come la siriaca, l’etiopica e alcune della Vetus
Latina, ed anche in alcuni dei padri dei primi quattro secoli: San Giustino, Sant’Ireneo; Sant’Ipolito e
Tertuliano; Apolinare di Laodicea, Sant’Ambrogio, San Girolamo e Sant’Agostino.

La lettura in plurale si deve capire così: A quanti hanno creduto in Cristo, Dio li ha dato potere
di essere figli di Dio (…) i quali da Dio furono generati. Ma sembra una ripetizione innecessaria
(tautologia), perché non ha tanto senso dire che si può arrivare a essere quello che ormai si è già (se
credono, sono già figli di Dio). Gli interpreti moderni che accettano il plurale, affermano che esiste
comunque qua una spiegazione circa il ‘modo’: “Come (in quale modo) si arriva ad essere figli di Dio”.
Invece, la lettura in singolare sembra più semplice in quanto al senso: Cristo ha dato potere a quanti
credono di diventare figli di Dio, perché Lui era già Figlio di Dio12 (cfr. 11,25; 12,36: Credete alla
luce, affinché diventiate figli della luce; 14,12).

Accettando la lettura al singolare (si parla del Verbo che si incarna), si potrebbe interpretare
quel: «né del sangue» come un’allusione al parto verginale di Maria, e non soltanto alla concezione
verginale (il che sarebbe figurato con l’espressione: né della carne). Così il padre De la Potterie, s.j.

La contrapposizione: «non lo accolsero… a quanti però lo accolsero», è normale nello stile


semitico. La vediamo ancora in Giovanni, ad esempio in Gv 3, 31-32: Egli testimonia ciò che ha visto
e udito, ma nessuno accoglie la sua testimonianza. Colui che accoglie la sua testimonianza, ratifica
che Dio è verace.

v. 14: E il Verbo si fece carne


e dimorò fra noi

11
Mt 23,37: Gerusalemme, Gerusalemme! (...) Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come la chioccia
raccoglie i suoi pulcini sotto le ali.
12
Allora la lettura resterebbe così: A quanti però lo accolsero diede il potere di divenire figli di Dio, a chi credono
nel suo nome; il quale non da sangue né da volontà di carne né da volontà di uomo, ma da Dio fu generato.

8
e abbiamo visto la sua gloria,
gloria come di Unigenito dal Padre,
pieno di grazia e di verità.

Per alcuni commentatori, qua da inizio la seconda parte del Prologo. Esiste, infatti,
un’opposizione ben nota con l’inizio in 1,1.
- In 1,1 si diceva: era il Verbo; qua invece si dice che si fece (egéneto).
- In 1,1: era presso Dio; qua invece: dimorò fra noi.
- In 1,1: E’ Dio; qua invece si fece carne. «Carne» era già stata menzionata nel versetto
precedente come quello che rappresenta la corruzione e la debolezza umane: Lui ha assunto
tutto questo, ma senza lasciare di essere Dio (nella prima lettera di Giovanni si parla di Gesù
Cristo venuto in carne [cfr. 1 Gv 4, 2] come quello che si è rivestito della nostra umanità).

Riguardo all’espressione «dimorò fra noi», letteralmente si utilizza un verbo che significa:
“piantare o mettere la tenda”. La “tenda” era la dimora abituale di Dio con il suo popolo, specialmente
durante il tempo del deserto e nei primi secoli anche dopo l’ingresso del popolo nella Terra Santa. I
profeti parlano di Dio che pianta la sua tenda in Israele (cfr. Gioele 4, 17.21; Zac 2, 14). Nel Siracide
24, 8 il Creatore ordina alla Sapienza: piantare la sua dimora in Giacobbe (cfr. Ap 21, 3). L'umanità di
Cristo è il Tabernacolo della Nuova Alleanza, il posto perfetto della presenza di Dio.

Questo va in rapporto con quanto segue: Ed abbiamo visto la sua gloria. Nell’umanità di Cristo
si manifesta la gloria di Dio. Può darsi che si riferisca a momenti speciali, come la scena della
Trasfigurazione in che si parla del "Figlio molto amato", che è la stessa cosa che "Figlio unico."

Una certa difficoltà sorge per alcuni interpreti riguardo alle parole: grazia e verità (nel testo:
pléres chàritos kaì aletheìas). Si domandano sul senso di queste parole, affermando che non è possibile
che nel linguaggio di San Giovanni la parola ‘grazia’ abbia lo stesso significato di quella che capiamo
teologicamente e ‘verità’ come quella che capiamo filosoficamente. Questi stessi autori suggeriscono
allora che questa formula potrebbe corrispondere ad una molto usata nell’AT (il famoso hesed w emet):
«misericordia (o povertà) e fedeltà».

Questa parola hesed appare nell’A.T, tra altri in Es 34,6.13 L'idea fondamentale è quella di
mostrarsi buono verso qualcuno, fargli il bene; frequentemente questo bene si fa più per un obbligo di
ordine morale che per un dovere di stretta giustizia. Quando Dio è soggetto di questo hesed, la parola
prende allora una sfumatura di misericordia. Nel contesto dell'Esodo, infatti, appare chiaro come Dio si
inclina ancora verso il suo popolo dopo la ribellione del Vitello di oro; Dio esercita la sua misericordia
dimenticando il suo peccato e mostrandosi lento alla collera. Per Dio, questo «hesed» è l’amore
misericordioso, l'amore delle viscere, come quello di una madre.

L'altra parola ebraica di Esodo 34,6 è «emet», che i greci e latini hanno tradotto a volte per
"verità" ed a volte per "fedeltà". L'idea della parola è la “fermezza, stabilità, solidità”. Il sostantivo

13
Es 34,6: Il Signore, il Signore! Dio di pietà e misericordia, lento all'ira e ricco di grazia (amore) e verità …
L’espressione in ebraico è: rab hesed w emet, ma in greco sarebbe piuttosto (quella dell’Esodo): pieno di
compassione e veritiero (o fedele) [poluélos kai alēthinòs].

9
indica quello che è stabile, solido. Il contesto di Esodo è che Dio conserva il suo amore misericordioso;
significando il termine la stabilità, la permanenza della grazia e della misericordia divine. Una volta che
Dio promise misericordia, questa è per sempre. Secondo quest’opinione, il Prologo ripeterebbe
quest’espressione dell’Esodo significando che il Figlio di Dio è apparso sulla terra per mostrare l’amore
misericordioso e la fedeltà proprie di Dio.

Ma questa interpretazione non sembra sufficiente. Dobbiamo invece interpretare: «grazia e


verità» come le parole richiamano, pur se coincide con il significato teologico e filosofico dei termini:
1 - I termini che utilizza San Giovanni sono precisi: Sono usate i termini precisi che significano
chiaramente grazia [charis] e verità [aletheia], quando esistevano altre parole per parlare di
misericordia e fedeltà. Sarebbe prestarsi a un equivoco usare l’una per l’altra.
2 - Così lo traducono pure degli importanti autori: Cardinale Journet, Bouyer, Origene, lo cita San
Tommaso nella Catena Aurea.
3 - Anche così traduce la Vulgata e la Neo Vulgata: Plenum gratiae et veritatis (quest’ultima tenendo
in conto le osservazioni della critica).
4 - Esiste un progresso del NT rispetto all'Antico: Giovanni non si limita a ripetere l'Esodo.

Questo ha una corrispondenza con quello che si legge nel v. 17: Perché la Legge è stata data
da Mosè; la grazia e la verità sono venute da Gesù Cristo. Si lascia in chiaro che la grazia e la verità
sono allora degli elementi propri del Nuovo Testamento, diverso dall’Antico, e in qualche modo opposti
– nel senso che superano- alla Legge. Quest’ultima era soprattutto esteriore, quella portata di Gesù
Cristo conduce al vero culto: è spirituale e interiore. Come dirà pure Cristo alla donna Samaritana: (Gv
4,23) Ma viene un'ora, ed è adesso, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità.
Allora, sembra che «grazia» e «verità» abbiano ormai nel testo tutta la ricchezza del significato
teologico che conosciamo.

Nota teologica: L’espressione si fece carne viene certamente interpretata in modo proprio nella dottrina
cattolica, il che vuol dire che non si tratta di un’umanità apparente o solo un aspetto di umanità
(docetismo), non si tratta di una nozione astratta come dire che si è fatto umanità in genere, o che si
abbia fatto cultura o popolo, o che abbia cominciato ad abitare Dio negli uomini in modo nuovo ma non
fosse un vero e proprio uomo ove il Verbo si incarna (di fatto, carne fa riferimento a quello ben concreto
che è parte della natura umana di ogni singolo uomo).
Alcuni hanno capito l’espressione si fece carne come ‘mutazione’ (Eutiche, chi parlava di due
nature in Cristo che si fondevano per generare una terza, lo quale va contro quello affermato prima: E
Dio era il Verbo e pure Mal 3,6: Io sono Dio e non muto). Altri l’hanno interpretata come che Cristo
abbia assunto la carne, ma senza l’anima (Ario, Apollinare). Il Verbo prenderebbe il posto dell’anima
nel caso di Gesù. Ma Gesù stesso parla della sua ‘anima’: Mt 26,38: «Triste è l'anima mia fino alla
morte: rimanete qui e vegliate con me».

L’espressione si fece carne, si deve a quattro motivi secondo San Tommaso:


1) Per mostrare la verità dell’Incarnazione, per prevenire l’eresia dei Manichei, che pensavano che la
carne fosse creatura del diavolo.
2) Per mostrare la benevolenza di Dio verso di noi: Assume la carne, che è più lontana ancora dell’anima
umana all’eccellenza di Dio, è un segno ancora più grande della sua misericordia.

10
3) Per mostrare la vera natura dell’unione particolarissima che c’è in Cristo: Agli altri uomini Dio si
unisce mediante l’anima; in Cristo si unisce con la carne e l’anima.
4) Per illustrare la convenienza della redenzione umana: L’uomo era infermo nella carne; la carne aveva
allora bisogno di essere risollevata.

v. 15: Giovanni rende testimonianza a lui e proclama:


«Questi era colui di cui dissi:
"Colui che viene dopo di me, perché era prima di me,
ebbe la precedenza davanti a me,
perché era prima di me"».

Questo versetto sembra di interrompere il filo tra vv. 14 e 16. Utilizza due espressioni: "dopo di
me", "prima di me", che possono essere intese in senso locale e anche temporale. La prima immagine è
quella di due che corrono, dei quali l’ultimo supera il primo (senso locale). Ma il pensiero si alza dal
senso locale a quello temporale qualitativo: Cristo è venuto dopo e dietro il Battista, ma va davanti a
Lui e occuperà un posto più alto, più dignitoso, più importante. Questo è ciò che Giovanni il Battista
dice in 3,30: Egli deve crescere e io invece diminuire. Il Battista indica la ragione per la quale è passato
avanti, “perché era prima di me”. L’anteriorità di Cristo è davvero ontologica, nello stesso senso in cui
Gesù si esprime in 8,58: “Prima che Abramo fosse io sono". Non è semplicemente una precedenza nel
tempo o nello spazio.

v. 16: [Perché] E della sua pienezza,


noi tutti abbiamo ricevuto,
e grazia su grazia.

Il Figlio unigenito è apparso pieno di grazia e di verità, e noi abbiamo ricevuto dalla sua
pienezza. La maggior parte delle edizioni critiche del NT cominciano dalla congiunzione "perché"
(causale) ("perché o a causa della sua pienezza ..."). Alcuni pensano che sotto l'influenza della esegesi
dei tempi di Origene abbiano rimpiazzato la congiunzione primitiva "kai" = "e" che sarebbe più antica.
Il "perché" (‘oti) si sarebbe unito all'ultima frase del Battista: "... esisteva prima di me perché dalla sua
pienezza noi tutti abbiamo ricevuto ..."

- Dalla sua pienezza, noi tutti abbiamo ricevuto: "Pleroma" (pienezza) è l’unica ricorrenza in San
Giovanni. Corrisponde al pieno di grazia e di verità del v. 14. Ma possiamo domandarci su quale
pienezza parla qui Giovanni. E' la pienezza della divinità di Cristo, che la sua umanità ha in virtù
dell'unione ipostatica? O indica la pienezza della grazia che deve diffondersi in noi? Gesù Cristo
possiede in sé la pienezza della divinità - "di grazia e di verità" - che ha ricevuto dal Padre. Da quella
pienezza della vita divina ci comunica adesso a noi, i credenti.

I teologi distinguono di solito fra tre tipi di pienezza: di sufficienza (quella dei santi quando
compiono atti meritori), quella di ridondanza (sarebbe applicata alla Madonna, in quanto eccelle i meriti
di tutti i santi e partecipa di un ordine superiore), quella di efficienza o sovrabbondanza (quella di Cristo,
che gli compete in quanto uomo ed autore della Grazia allo stesso tempo. E’ una pienezza del tutto
singolare e con efficienza propria, facendola Lui partecipare ai giusti).

11
- e grazia su grazia (chàrin anti chàritos): E' un’espressione dura. Molti autori traducono la
proposizione greca (anti) come "su", quindi: "grazia su grazia". Segnala la sovrabbondanza di grazia
dell'economia del Nuovo Testamento. Ma la preposizione greca indica piuttosto una opposizione o
sostituzione, ma nessun accumulo. Per M.-J. Lagrange: "Giovanni sembra guardare la liberalità divina.
Gv non ha segnato l’accumulazione che avrebbe chiesto la particella greca “epi” (sopra), forse perché
la prima grazia era la condizione che permetteva di ricevere la seconda. Non ci sono parecchie grazie,
ma una gradazione sapientemente ordinata. La seconda viene al posto della prima, perché è più elevata.

Per i Padri greci (Origene, Cirillo di Alessandria, Crisostomo) l'evangelista qui segnala la
sostituzione dell’economia dell’AT per quella del NT. La Legge antica sarebbe già una grazia del Verbo
di Dio, come sembrerebbe indicare il v. 17. Aquino sembra pure proporre questa soluzione – citando
espressamente il Crisostomo-. Si domanda inoltre se non bastasse ormai con la prima grazia. E risponde
di no, perché la Legge solo dava la conoscenza del peccato, ma non lo toglieva. Come detto in Eb 7,19:
La legge non conduce nulla in perfezione.14

Una seconda spiegazione è offerta dal Boismard è che queste ‘grazie’ sono da una parte la
grazia che è in pienezza nel Verbo incarnato (v.14), e in secondo luogo la grazia che noi abbiamo
ricevuto (v.16). Ambedue, quella di Cristo e quella nostra sono messe l’una di fronte all'altra e si
corrispondono: Riceviamo la grazia in armonia con quella che è in pienezza nel Verbo fatto carne.

v.17: Poiché la legge fu data per mezzo di Mosè,


la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.

La prima parte si riferisce al patto del Sinai (Es 34,11-27). La seconda parte è più difficile. Una
buona parte degli interpreti moderni ha capito che "la grazia e fedeltà" che Dio aveva rivelato a Mosè
sul luogo dell'Esodo, ora, dall'Incarnazione in poi, è stata raggiunta a tutti gli uomini in modo molto più
perfetto. E' infatti per mezzo di Gesù Cristo che gli uomini ottengono il pieno effetto della "grazia e
fedeltà" divine. Ma anche se teologicamente corretta, questa interpretazione non sembra inquadrarsi
perfettamente nel contesto.

Origene capisce "grazia e verità" in modo diverso rispetto a v.14. Qui si tratterebbe di qualità
umane che sarebbero depositati nel cuore dell'uomo dal Verbo incarnato. Nel AT, "grazia e verità"
("hesed we'emet") veniva detta anche dagli uomini, facendo riferimento alla "pietà e fedeltà" che si deve
dimostrare sia a Dio sia agli uomini stessi. Che si tratti di uomini si segue soprattutto dal verbo "egeneto"
= "divenne" (sono diventati), che secondo Boismard, "male potrebbe essere inteso degli attributi divini
manifestati agli uomini da Cristo." Inoltre, così come nel v. 3 la Creazione "è stata fatta" per mezzo del
Verbo, così in v.17 è la ricreazione soprannaturale quella che "è stata fatta" per mezzo di Gesù Cristo.
Quello pertanto, che "diviene" in v. 17, dovrebbe essere una realtà nell'ordine della creazione.

Quando il v. 14 parla di "grazia e di verità", certamente che lì viene inteso dagli attributi divini.
Poi, in v. 16 si afferma che “tutti abbiamo ricevuto dalla sua pienezza”. I termini: ‘piena’, ‘pienezza’,
‘ricevere’, suggeriscono l'idea di una realtà che esiste in pienezza in Cristo e da Cristo si diffonde a noi

14
Cfr. Lez. X, II (204).

12
per riempirci. Analogamente, San Paolo parla in Col 2, 9-10: Poiché è in lui che dimora corporalmente
tutta la pienezza della divinità, e voi siete stati riempiti in lui, che è il capo di ogni principio e potenza.
Dio abita con pienezza in Cristo ed i cristiani ricevono una partecipazione alla vita divina in Cristo. La
grazia e la verità di Dio "si sono fatte" in noi per mezzo di Gesù Cristo; sono arrivate ad essere il nostro
proprio bene. La grazia e la verità sono la nuova legge, la legge della grazia.

v. 18: Dio nessuno l'ha visto mai. L'Unigenito Dio, che è nel seno del Padre, egli lo ha rivelato.

Il nessuno l’ha mai visto sembra in contrasto con altri passi della Scrittura:
- Isaia 6,1: Vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato
- Mt 5,8: Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
- 1 Tito 6,16: il solo che possiede l'immortalità e abita una luce inaccessibile.

Si può vedere Dio in tre modi, secondo la teologia:


1) Attraverso una creatura a lui soggetta, presentata alla vista corporea, (come Abramo che vide tre
uomini e adorò un solo Signore: Gen 18,2).
2) Mediante una visione immaginaria, come Isaia che vide il Signore seduto su un trono elevato (Is
6,1).
3) Mediante specie intelligibili astratti dai sensi – per astrazione razionale-, da parte di coloro che
riflettendo la grandezza del creato intravedono la grandezza del creatore (cfr. Sap 13,5; Rm 1,21).
4) Mediante un’illuminazione spirituale infusa da Dio all’intelligenza spirituale, nella
contemplazione (come Giacobbe: Gen 28, 13-19).

Con nessuna di queste conoscenze è possibile raggiungere la visione della essenza divina,
perché nessuna immagine creata, sia dai sensi esterni, sia che si formi nell’immaginazione o
nell’intelligenza, può rappresentare l’essenza divina in se stessa. L’uomo conosce un oggetto nella sua
essenza, quando la mente lo riproduce così come è; non può esistere perciò una specie intenzionale (di
conoscenza) con la quale possiamo giungere alla visione diretta dell’essenza divina. Orbene, nessuna
immagine creata può rappresentare l’essenza divina, perché nessuna realtà finita può riprodurre
l’infinito così come esso è; ma ogni specie creata è finita.

L’intelligenza creata può arrivare alla contemplazione dell’essenza divina, nella gloria, come
dice San Giovanni stesso nella sua lettera (1 Gv 3,2: Noi lo vedremo così come egli è), e nel vangelo:
Gv 17,3: Questa è la vita eterna: che conoscano te, unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù
Cristo. E’ rivelato così, e da altronde, non si arriverebbe alla felicità perfetta senza la contemplazione
dell’essenza divina; indispensabile per la beatitudine (cfr. Mt 5,8: Perché vedranno Dio). Bisogna però
ricordare tre cose:
a) Non sarà mai vista da un occhio corporeo, né da un altro senso, né dall’immaginazione.
b) Finché rimane unita al corpo l’intelligenza umana non può vedere Dio; intanto si libera delle
passioni e si purifica degli affetti terreni, tanto più avanza nella contemplazione (Es 33,20: Nessun uomo
può contemplare me e restare vivo…)
c) Nessuna intelligenza creata, pur godendo della visione della divina essenza, può contemplarla
fino in fondo: I beati vedono l’essenza divina tutta intera (tota) però non la vedono totalmente (non
totaliter), perché ciò significherebbe comprenderla, esaurirla. Il Figlio l’ha rivelata (la Trinità).

13

Potrebbero piacerti anche