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I primi 11 capitoli di Genesi sono di grande attualità.


Li tratta in 9 lezioni la dott.ssa biblista Ileana Mortari (Milano).
Le trascrizioni delle lezioni sono a cura della prof.ssa Maria Chinappi (Gaeta).

Nel corso delle lezioni si fa riferimento al sussidio n.1 che si trova in coda alle
lezioni.

PROGRAMMA DEL CORSO

PARROCCHIA DI OGNISSANTI (MILANO)


Catechesi adulti 2004/2005

GENESI 1-11:LE ORIGINI.


CREAZIONE,PECCATO DELL’UOMO,
MISERICORDIA DI DIO.

Relatrice: Prof.ssa Ileana Mortari

1° - 13 ottobre 2004 ore 21


LA CREAZIONE DEL MONDO

Introduzione a Genesi 1-11


Analisi e commento di Genesi 1, 1-25: 1° racconto di creazione
e di Genesi 1, 31- 2,4a
Attualizzazione: - scienza e fede
- il significato di “creazione”
- la spiegazione scientifica dell’origine dell’universo

2° - 20 ottobre 2004 ore 21


LA CREAZIONE DELL’UOMO

Analisi e commento di Genesi 2, 4b-6; 9; 19 (2° racconto di creazione)


e confronto con Genesi 1, 1-25
Introduzione a Genesi 2-3: questi capitoli sono nati per rispondere al
fondamentale interrogativo: perché il dolore e il male nella vita dell’
uomo e del mondo?
I due “racconti di creazione dell’uomo”:
Genesi 2, 4b–7 e Genesi 1, 26-27
Attualizzazione: - teorie odierne sull’anima
- scienza e Bibbia: contro e pro l’evoluzionismo
- il creazionismo
- gli interventi del Magistero
- la tesi evoluzionista di Darwin
2

- la tesi di Monod: il caso e la necessità

3° - 27 ottobre 2004 ore 21


IL GIARDINO DI EDEN E LA CREAZIONE DELLA DONNA

Analisi e commento di Genesi 2, 8-15: il giardino di Eden, in particolare:


l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male.

La questione del “Paradiso terrestre”.

Analisi e commento di Genesi 2,18-25: la creazione degli animali


e della donna; l’incontro tra l’uomo e la donna
Attualizzazione: - l’etica della creazione e l’ecologia

4° - 3 novembre 2004 ore 21


IL PECCATO ORIGINALE

Analisi e commento di Genesi 3, 1-13: il serpente tentatore e Satana;


la psicologia dell’uomo tentato e il volto ingannevole della tentazione;
il dramma della libertà; il peccato e le sue conseguenze.

Analisi e commento di Genesi 3, 14-24: le “sentenze” emesse da Dio


nei confronti del serpente, della donna e dell’uomo; il significato dei
nomi “Adamo” e “Eva”; la “speranza” di Genesi 3,15

Il peccato “originale”: perché e da quando si chiama così; in che cosa


consiste; il “dogma” del peccato originale e il Battesimo.

5°- 10 novembre 2004 ore 21


CAINO E ABELE: IL PRIMO OMICIDIO

Analisi e commento di Genesi 4, 1-16: Caino e Abele


- la responsabilità dell’uomo di fronte al peccato
- la maledizione di Dio
Riferimenti all’episodio nella successiva storia della salvezza
Attualizzazione: - la pena di morte nella storia del mondo
Occidentale

6° - 17 novembre 2004 ore 21


CRESCE LA MALVAGITA ’DEGLI UOMINI
3

Analisi e commento di Genesi 4,17-24: discendenza di Caino e


peccato di Lamech
“ “ “ 5 : il significato delle genealogie
bibliche
“ “ “ 6,1-5: il culmine del peccato
degli uomini
Riferimenti al testo nel Nuovo Testamento
Attualizzazione: - il progresso tecnologico e il parallelo
decadimento morale (es. la bioetica)
- la vendetta
- la violenza
- magia e superstizione oggi

7° - 24 novembre 2004 ore 21


IL DILUVIO UNIVERSALE

Analisi e commento di Genesi 6,5 – 7,24: il diluvio universale


- le tradizioni J e P
- il senso del castigo
- il rapporto tra il racconto del diluvio e quello della creazione
- interpretazione dell’episodio biblico con riferimento alla storia
- eziologia metastorica
- il senso del diluvio
Attualizzazione: - perché il male e le catastrofi naturali nel mondo? la
responsabilità dell’uomo

8° - 1 dicembre 2004 ore 21


FINE DEL DILUVIO – NOE’ E CAM

Analisi e commento di Genesi 8 – 9,17: la fine del diluvio e


la “alleanza” con Dio
- il “ricordo” di Dio nella Bibbia
- il Monte Ararat ieri e oggi
- la figura di Noè
- l’episodio del diluvio nella cultura e nell’arte
Analisi e commento di Genesi 9,20-27: il peccato di Cam
Analisi e commento di Genesi 9,28 e 10: la discendenza dei figli di Noè,
in particolare Nimrod
Riferimenti al testo del diluvio nel Nuovo Testamento
Attualizzazione: - la questione del monogenismo e poligenismo
4

9° - 15 dicembre 2004 ore 21


LA TORRE DI BABELE

Analisi e commento di Genesi 11,1-9: la torre di Babele


- cenni sulle ziqqurat nel mondo antico
Analisi e commento di Genesi 11,10-26 e v.32:
genealogia da Sem ad Abramo

CONCLUSIONI SU GENESI 1-11


UN’AMPIA BIBLIOGRAFIA SI TROVA NEL SUSSISIO n.1 pp.7-11
**************

NOTA PRATICA:
- occorre portare la Bibbia: si consiglia la Bibbia di Gerusalemme
GENESI 1-11 1° lezione Milano, 13 ottobre 2004

LA CREAZIONE DEL MONDO

Introduzione a Genesi 1-11

La Bibbia è il testo più tradotto e più diffuso nel mondo, più di tutti gli altri libri. È
stato tradotto in 2062 tra lingue e dialetti, ed è un libro che più di ogni altro ha
influenzato la storia dell’umanità, ha influenzato moltissimo l’arte, la cultura.

Anzitutto non è un libro, ma sono tanti, sono 73. Infatti la parola “Bibbia” viene dal
greco “biblia”, che è il plurale di “biblion” = libretto.
Quindi è un insieme di ben 73 libretti. Immaginate una biblioteca, pensate di vedere
su un primo scaffale 46 libretti: è l’AT, e su un secondo scaffale 27 libretti: è il NT.
Da Genesi fino all’Apocalisse ogni libro ha un nome e un titolo.

Sono libri molto diversi l’uno dall’altro: alcuni sono storici, altri raccontano la
vicenda di un personaggio come Abramo, Mosè, altri sono di preghiera. C’è molta
varietà di generi letterari, di tipi di racconti, ecc. Perché sono tutti assieme? Che cosa
li lega? Che cosa fa di questo un testo unico? Li lega l’idea di “Storia della
Salvezza”; cioè in questo testo, attraverso questi vari libri, noi troviamo tutto quello
che Dio ha fatto e fa per riportare gli uomini alla amicizia con sé, dopo che l’uomo a
causa del peccato (del peccato originale, ma anche degli altri peccati che commette),
infrange l’alleanza, l’amicizia con Dio e Dio, però, ripropone sempre all’uomo di
ritornare a Lui.
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Quindi possiamo dire che i due protagonisti di questa lunghissima Storia della
Salvezza che parte dal 1800 a.C. (Abramo) e continua per tutta la storia dell’umanità,
sono Dio da un lato, che si è rivelato (La teologia dice che la fede cattolica si basa
sull’auto-comunicazione di Dio. Dio ha preso l’iniziativa, ha voluto farsi conoscere
all’uomo attraverso la storia) e dall’altro l’uomo, l’interlocutore principale di Dio.
Tra questi due interlocutori c’è un dialogo, si stabilisce un patto, un’alleanza.

Ecco perché diciamo Antico e Nuovo Testamento. “Testamento” viene dal latino
“testamentum” che viene dal greco “diatheke”, che non vuol dire soltanto lasciare le
proprie “ultime volontà”, il testamento qual è normalmente inteso, ma vuol dire dire
“alleanza”. Attraverso questo giro di traduzioni, diatheke greco traduce berit ebraico,
che appunto vuol dire “patto-alleanza”.

E allora attraverso “berit”, “diatheke”, “testamentum” e “testamento”, arriviamo a


dire Antico Testamento, cioè Antica Alleanza, e Nuovo Testamento, cioè Nuova
Alleanza.

Perché “Antica” e “Nuova”? perché la Nuova Alleanza è quella portata da Gesù.


Infatti l'altro elemento fondamentale che dà unità ai questi 73 libri e a tutta la storia
della salvezza è la figura di Gesù Cristo, chiamato dopo la sua risurrezione: il
Signore; è lui centro della storia della salvezza come anche della storia dell’uomo. Ed
è molto significativo che se all’inizio della Genesi leggiamo: “In principio Dio creò il
cielo e la terra”, cosi pure all’inizio del Vangelo di Giovanni leggiamo: “In principio
era la Parola (il Verbo), e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”. Il Verbo è
Gesù. Niente è stato fatto senza la Parola, quindi niente è stato fatto senza Gesù.

Cominciamo ad entrare in argomento; affronteremo il primo libro della Bibbia, in


particolare i primi 11 capitoli della Genesi, il primo libro della Bibbia. C’è una bella
differenza tra questi 11 capitoli che parlano della creazione, di Adamo ed Eva, del
diluvio universale, della torre di Babele, e invece la fine del c. 11 e poi i successivi
che parlano di Abramo, che viene chiamato da Dio, lascia la sua terra e va dove Dio
gli dice. È importante tenere presente questa differenza, proprio perché ci troviamo di
fronte a dei testi diversissimi. Questi primi 11 capitoli della Genesi sono una cosa,
con Abramo inizia tutt’altra cosa.

Questi 11 capitoli sono stati scritti molto dopo il periodo in cui è stata scritta la
storia d’Abramo e cioè nel periodo dell’esilio del popolo d’Israele in Babilonia
nel VI secolo (587-538 a.C.) e poi completati nei due secoli successivi. Intorno al
IV sec. c’è la redazione definitiva del Pentateuco, i primi 5 libri della Bibbia.

A differenza degli altri popoli, di cui parleremo perché è molto interessante


vedere l’originalità della fede di Israele rispetto ai popoli dell’AVO (Antico Vicino
Oriente), Israele ha fatto prima, storicamente, in concreto l’esperienza di un Dio
liberatore. È Dio che chiama Mosè e che gli dice: è giunto a me il grido del mio
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popolo, vai, scendi e libera il mio popolo. Dio che libera il suo popolo dalla schiavitù
egiziana. Israele ha conosciuto questo volto di Dio, il Dio che parla, il Dio che libera,
il Dio dell’alleanza, il Dio che sul Sinai stabilisce col popolo un’alleanza. I 10
comandamenti in cui dice: se voi li osserverete, avrete questo e quest’altro.

Col passare del tempo, soprattutto quando Israele si è trovato in esilio e quindi a
contatto con una cultura diversa dalla sua, una cultura che aveva dei bellissimi miti,
della cosmogonie, cioè delle storie che raccontavano come - secondo i Babilonesi -
erano nati il cielo e la terra, le divinità, si è posto a sua volta l’interrogativo: ma
queste cose valgono anche per me o no? il Dio che Israele ha conosciuto è lo stesso
dei Babilonesi o no? Allora la riflessione, soprattutto della classe sacerdotale, che è
poi quella che ha scritto, che ha steso questi testi, ha capito che lo stesso Dio che
aveva liberato Israele dall’Egitto e che quindi si era fatto conoscere innanzi tutto in
questa veste di liberatore e di salvatore, era anche il Dio che aveva creato tutto il
mondo. E infatti soltanto nel Secondo Isaia (Is 44), troviamo espressioni di questo
tipo: Dice il Signore che ti ha riscattato, che vuol dire liberato e formato, sono io il
Signore che ha fatto tutto, oppure Is 45: Io sono il Signore non ce n’è un altro.

Allora, è alla luce di questa esperienza di fede, di un Dio liberatore, di un Dio


creatore, che Israele ha cominciato a riflettere su quelle che potevano essere state le
origini non solo del suo popolo, ma di tutta l’umanità, di tutto il mondo; e ha cercato
di rispondere ai grandi interrogativi che tutti gli uomini e tutte le culture si pongono
(e con i quali un po’ provocatoriamente ho voluto anch’io introdurre nel volantino
questo corso), cioè da dove viene il mondo? dove va l’universo? chi è l’uomo? da
dove viene? perché c’è il male, la sofferenza, il peccato? Sono tutte domande
esistenziali di fronte alle quali Israele ha cercato di dare una risposta, sulla base della
sua esperienza religiosa. Ecco perché sono state scritti dopo tanti secoli da che Israele
aveva conosciuto Dio che si era rivelato ad Abramo e poi Isacco, Giacobbe, ecc.

Nel 1800 inizia la vicenda di Abramo, soltanto nel VI secolo, nel 500, quindi 1300
anni dopo, Israele è in grado di dare una riposta a questi che sono gli interrogativi
fondamentali dell’uomo in questi 11 capitoli di Genesi che quindi non a caso sono
forse le pagine più celebri della Bibbia, le più note almeno per sentito dire, le più
divulgate nella cultura, quelle più interpretate, anche quelle più discusse, perché a
queste pagine si collegano i famosi dibattiti scienza-fede, Bibbia-scienza.
Sono anche capitoli che, contenendo queste risposte fondamentali agli interrogativi
esistenziali dell’uomo, sono un po’ il paradigma per tutta la Bibbia, noi troviamo una
quantità di riferimenti in tutta la storia della salvezza, cioè nei 73 libri – A. e NT -
spesso e volentieri si richiama a Gen 1, a Gen 2; Gesù quando parla, quando predica
dice: Ricordate com’era all’inizio? Dio creò l’uomo e la donna ecc.
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Analisi e commento di Gen 1,1-25 e di Gen 1,31-2,4a


1
In principio Dio creò il cielo e la terra. 2Ora la terra era informe e deserta e le
tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.
3
Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. 4Dio vide che la luce era cosa buona e separò
la luce dalle tenebre 5e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu
mattina: primo giorno.
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Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle
acque». 7Dio fece il firmamento e separò le acque che sono sotto il firmamento, dalle
acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne. 8Dio chiamò il firmamento cielo.
E fu sera e fu mattina: secondo giorno.
9
Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia
l'asciutto». E così avvenne. 10Dio chiamò l'asciutto terra e la massa delle acque
mare. E Dio vide che era cosa buona. 11E Dio disse: «La terra produca germogli,
erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il
seme, ciascuno secondo la sua specie». E così avvenne: 12la terra produsse germogli,
erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie e alberi che fanno
ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona.
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E fu sera e fu mattina: terzo giorno.
14
Dio disse: «Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla
notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni 15e servano da luci
nel firmamento del cielo per illuminare la terra». E così avvenne: 16Dio fece le due
luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la
notte, e le stelle. 17Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra 18e per
regolare giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che era cosa
buona. 19E fu sera e fu mattina: quarto giorno.
20
Dio disse: «Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra,
davanti al firmamento del cielo». 21Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri
viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli
alati secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. 22Dio li benedisse:
«Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si
moltiplichino sulla terra». 23E fu sera e fu mattina: quinto giorno.
24
Dio disse: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili
e bestie selvatiche secondo la loro specie». E così avvenne: 25Dio fece le bestie
selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i
rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona.
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31
Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina:
sesto giorno.

Gen 2
1
Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. 2Allora
Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo
giorno da ogni suo lavoro. 3Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in
esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto.
4a
Queste le origini del cielo e della terra, quando vennero creati.

Questa conclusione è proprio una sorta di cosmogonia: così sono nati il cielo e la
terra. Avete notato dalla lettura che si tratta di un testo bellissimo, molto poetico, con
molte ripetizioni, con un ritmo, con le rime che si coglierebbero meglio nel testo
originale. Vediamo che c’è un soggetto principale che agisce e parla, che è Dio, e che
è soggetto di tutti i verbi: Dio creò, Dio disse, Dio benedisse.
Fatta questa lettura, uno dice: questo è un bel racconto, ci troviamo di fronte a un bel
racconto di cose cosi come sono avvenute. Non è cosi! È un racconto, ma non intende
essere una cronaca, cioè l’intento dell’autore non è dirci prima è successo questo, poi
è successo quest’altro.

Capisco che posso sconvolgere un po’ le idee che molte persone magari avevano
sulla Bibbia, ma dobbiamo assolutamente affrontare queste pagine, pensando di non
leggere un libro di storia o un libro di scienze, di cosmologia o una cronaca di
giornale perché non lo sono, altrimenti le fraintendiamo. Si fa fatica a cambiare
mentalità, le ragioni ci sono e sono molto forti come ragioni, perché è solo da due
secoli che noi siamo in grado di capire alcuni fenomeni circa la formazione della
Bibbia e il genere letterario in che tipo di testo consiste.

Fino al 1800 la Bibbia era l’unica fonte di conoscenza del passato più antico e quindi
era considerata una specie di documento, di testo storico, era l’unico che parlava delle
origini. Chiaramente non è sempre stato cosi, perché già i Padri della Chiesa nel 4°
sec. d.C. (S. Agostino, ecc.) avevano capito che non si trattava di un documento
realistico e cercavano di interpretarlo come testo simbolico. Però sta di fatto che fino
al 1800 fu cosi. Poi cosa successe? Naturalmente anche la comprensione della Bibbia
è strettamente legata alle vicende della storia.

Nel 1800 si scoprirono le grandi letterature dell’Antico Oriente, prima non si sapeva
che c’erano perché non erano stati scoperti i testi, i famosi testi dei miti babilonesi. E
allora si disse: ci sono questi testi che parlano di cose simili a quelli della Bibbia, può
darsi che abbiano preso dalla Bibbia, visto che la Bibbia è sicuramente il più antico
(parla proprio dell’orine della terra!), e si credette anche di trovare delle conferme in
campo archeologiche con i luoghi citati nella Bibbia e scoperti dall’archeologia che
stava facendo anch’essa i suoi passi.
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Allora è chiaro che, se solo fino a 200 anni fa, questi capitoli sono stati ritenuti
cronaca e storia, non stupiamoci se anche noi facciamo fatica a superare questa idea;
tanto più che, proprio 1800 anni prima, questi bellissimi capitoli hanno molto
influenzato la cultura e soprattutto l’arte, e noi che siamo nel paese in cui ci sono più
opere artistiche al mondo siamo circondati da una quantità di rappresentazioni di
scene dei personaggi della Bibbia (la creazione, Adamo ed Eva, la rappresentazione
di Michelangelo nella cappella Sistina, i mosaici di S. Marco a Venezia), che ci
rappresentano questi fatti e questi episodi proprio come se fossero successi così.
Quindi è comprensibile questa nostra mentalità che fa fatica a dire: non dobbiamo
pensare che sia accaduto esattamente come è raccontato qua.

L’autore, che nel VI secolo ha steso queste pagine, le ha scritte non per dire: le cose
sono andate così, ma per dire che senso ha il cosmo, che senso ha l’uomo, perché
l’uomo si trova nel cosmo. Anche questa acquisizione, cioè che questi capitoli
appartengono ad un certo genere letterario, che sono addirittura debitori della
mitologia dei popoli coevi dell’Antico Vicino Oriente, è estremamente recente,
perché anche nella formazione dei sacerdoti, fino alla metà del secolo scorso, cioè
fino al 1950, gli studi teologici non avevano ancora recepito le nuove acquisizioni
della critica storica della Bibbia. È stato con la metà del secolo scorso e con il
Concilio Vaticano II che si è fatta questa rivoluzione nel modo di interpretare la
Bibbia e che poi è passata anche nelle facoltà teologiche, per cui da quegli anni lì si è
cominciato a insegnare tutte queste cose.

Adesso noi, avvertiti di ciò, esaminiamo il testo. È molto lungo qui non sto a
commentarlo versetto per versetto, ho scelto alcuni punti significativi. Anzitutto avete
notato che qui si parla di 7 giorni; e uno dice già: ma se è con la creazione che inizia
tutto e quindi anche il tempo, come è possibile che questa creazione è stata fatta in un
tempo che ancora non c’era? Vedete subito che non può essere una cronaca, che non
è assolutamente possibile che Dio abbia fatto il primo giorno, il secondo giorno cosi
come noi abbiamo letto. È una contraddizione. Allora perché in 7 giorni? perché
queste pagine sono state scritte dalla classe sacerdotale e risentono della liturgia del
culto liturgico che aveva il suo culmine nel sabato, nel settimo giorno per gli ebrei,
(che per noi cristiani è la domenica). Inoltre, ho letto: la terra informe, Dio vide, Dio
disse, Dio fece, in tutto questo testo, noi ritroviamo delle espressioni, delle immagini,
dei concetti che erano presenti anche presso gli altri popoli al tempo degli ebrei.

Grazie agli studi storici, archeologici, alla ricostruzione del mondo antico che si è
avuto dal 1800 in poi, abbiamo acquisito che in queste popolazioni, che sono vissute
nella famosa mezzaluna fertile, praticamente c’era una specie di una cultura comune,
(come oggi parliamo di cultura europea, oppure se parliamo di cultura ellenistica
dopo Alessandro Magno), un insieme culturale molto simile, perché nei testi di questi
vari popoli, noi troviamo proprio elementi simili: per es. si parla di creazione
dell’uomo, si parla di una pianta dell’immortalità. E ogni popolo aveva dei miti che
sono stati scoperti solo due secoli fa.
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Che cosa è successo? È successo che i primi autori, che hanno deciso di scrivere
queste pagine, per rispondere agli interrogativi che abbiamo detto (cioè il senso del
mondo, dell’uomo, ecc.) secondo la loro esperienza religiosa, si sono trovati di fronte
ad un problema, che non sempre avevano gli strumenti adatti per scrivere queste cose,
e allora si sono serviti di strumenti presi da queste altre culture, visto che c’era questo
collegamento, e perciò hanno usato espressioni, immagini, miti presi anche da queste
altre culture, ma solo come mezzo espressivo, cioè se ne sono serviti per dire quello
che loro con la loro esperienza religiosa avevano capito. Lo vedremo molto bene in
un paio di esempi.

v. 1: In principio Dio creò il cielo e la terra.


Questa affermazione dice l’origine del cosmo, abbiamo detto che non è scientifica.
Per capirla dobbiamo metterci nei panni di chi l’ha scritta e cercare di immaginarci
come vedevano allora il mondo.
Cfr. sussidio n.2 pag.7: Rappresentazioni dell’universo secondo l’Antico Oriente e
secondo la Bibbia.

Gli ebrei si sono serviti di molti elementi della cosmologia degli antichi, cioè l’idea di
cosmo che avevano, però l’hanno modificata in base alla loro esperienza religiosa e
alla rivelazione che avevano da Dio. Com’era l’universo secondo agli antichi?
(naturalmente siamo molto prima di Copernico e Galileo) La terra è il centro
dell’universo. E come è collocata? È sorretta da alcune colonne, la terra è un disco
coperto a mo’ di campana dal firmamento, dove sono appesi il sole, la luna, le stelle.
Al di sopra ci sono le acque primordiali: piogge, nevi, grandine, quando si aprono le
cateratte del cielo, cioè le porte, ecco il diluvio universale. Quando piove, perché
piove? perché ci sono delle fessure, dei buchi attraverso le quali le acque primordiali
passano e arrivano sulla terra, cosi si spiegavano i fenomeni atmosferici.

Gli ebrei cosa dicono? anche per loro la terra è al centro dell’universo, c’è il
firmamento sopra, la volta celeste, le acque primordiali, però attenzione: qui c’è il
trono di Dio, Dio sta al di sopra di tutto. Nella visione degli ebrei, naturalmente Dio è
il Signore, dunque ha il suo trono sopra anche le acque primordiali; e poi la terra è
vista in una forma quadrangolare con le sue colonne, e, tra l’altro, c’era la credenza
che i venti che spiravano dai lati fossero favorevoli, invece quelli che spiravano dagli
angoli fossero nocivi.

In principio Dio creò il cielo e la terra: quando dice cielo e terra i due termini sono
usati in senso generale, per dire tutto l’esistente: quello che è in basso e quello che è
in alto. Poi l’autore passa a dire la terra era informe e deserta e le tenebre
ricoprivano l’abisso, non c’era ancora quello che vediamo adesso. Se voi cercate di
immedesimarvi nell’autore di questa pagina, vi accorgete che è come se quest’autore
guardasse le cose con gli occhi grandi e meravigliati di un bambino, come se lui si
fosse immedesimato a sua volta nella psicologia del primo uomo e allora registra le
11

cose man mano che gli appaiono sotto gli occhi e secondo un certo ordine.
Ovviamente non vuol dire che Dio ha fatto così, perché come Dio ha fatto, lui non lo
sa, ma vuol far vedere che nella creazione c’è un ordine.

Ovviamente si parte dal grande: tutta la terra e il cielo, e la prima cosa che nota sono
la luce e le tenebre, poi il firmamento. L’ordine con cui lui nota le cose e che noi
abbiamo letto, è un ordine non genetico (non è che prima c’è stato questo e poi l'altro,
questo non poteva saperlo), però così facendo anche il nostro autore ebreo costruisce
una sua cosmogonia, come c’erano le cosmogonie dell’Antico Vicino Oriente.
“Cosmogonia” vuol dire cosmo = universo, gonia = generare, cioè una spiegazione
dell’origine dell’universo. La cosmogonia è una spiegazione dell’origine
dell’universo che ha sia basi mitologiche che scientifiche, ovviamente nel mondo
antico, quando non c’era la scienza, le basi erano solo mitologiche, c’erano questi
miti tramandati di padre in figlio. La scienza nasce nel VI secolo, ma in Grecia, con
Talete, nasce la filosofia e all’inizio filosofia e scienza erano la stessa cosa.

Quindi questa pagina non va assolutamente letta come una pagina di spiegazione
scientifica dell’origine del cielo e della terra, ma piuttosto come quella che vuol dare
il significato di queste cose. Il significato qual è? chiaramente che Dio sta alla base di
tutto, che Dio crea tutto. E poi nell’ordine si vede prima la luce: Dio disse, la parola
di Dio che non è soltanto una parola che comunica, ma è una parola che fa, e infatti in
ebraico si usa lo stesso termine per dire e fare.
Sia la luce e la luce fu, che vuol dire: cominciò ad esistere. Si cerca di dire che cosa è
la creazione.

Noi oggi sappiamo darci una definizione, ricordiamo quella del Catechismo: è l’atto
con cui Dio promuove all’esistenza, cioè fa esistere, fa nascere dal nulla, e al di fuori
di sé un qualcosa che prima non c’era, la conserva nella sua esistenza, perché nella
nostra fede c’e l’idea di creazione continua; Dio ha fatto esistere all’inizio e continua
a far esistere. Noi, dicendo questa definizione, ci serviamo di concetti che per noi
sono familiare perché appartengono alla nostra cultura, ma allora non c’era filosofia,
non c’èra speculazione, metafisica, non c’era l’idea del nulla, dell’eterno.

Allora l’autore per far capire concretamente tutto questo, cioè che Dio ha creato, ha
fatto esistere qualcosa, cerca di intuire come doveva essere la situazione prima che
Dio intervenisse con la sua opera creatrice, e quindi pensa che ci sia questo abisso,
queste tenebre, non perché sappia che era così, ma perché dice: se adesso il mondo è
così con le stelle, il sole, la luna che danno la luce, ecc., prima di questo doveva
essere l’opposto, cioè buio e caos. Il famoso caos di cui parlano anche gli altri miti, il
tehôm, l’abisso, il mare primordiale confuso e indistinto, dove la terra era informe e
deserta e le tenebre coprivano l’abisso. In ebraico c’è tôhû wābôhû , con questo
suono che ritorna
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L’autore ebraico si è servito anche di elementi presi dalla cultura circostante, però
cambiando. Vediamo un confronto e quindi una differenza. I babilonesi avevano un
poema chiamato Enuma Elish che vuol dire “quando in alto”; in quel poema si
raccontavano le origini del cielo e della terra come lo abbiamo letto adesso nella
Bibbia. Infatti questo poema iniziava così:

Quando in alto il cielo non aveva ancora ricevuto un nome,


quando sotto neppure la terra aveva un nome,
quando Apsu, il principio, padre degli dèi,
e Tiamat, la madre, stavano mescolando ancora le acque (dolci e salate)
quando ancora non esisteva nessuno degli dèi,
allora gli dèi furono formati in mezzo ad essi.

Analogia: certo anche loro parlano di caos, di qualcosa che non c'è ancora quindi
immaginano il contrario. Ma poi notiamo subito una differenza radicale, perché in
Genesi si ha una cosmogonia, cioè si spiegano quali sono state le origini del cielo e
della terra, del cosmo, qui invece leggiamo che dopo il caos gli dei furono formati, si
parla di un origine degli dei. Infatti il poema più avanti ci racconterà l’origine di
Marduk, che diventerà poi il dio principale del loro panteon.

L’autore, che conosceva questo poema, ha voluto invece insistere e far capire che per
gli ebrei non era affatto così. Prima di tutto non c’erano diverse divinità, maschili e
femminili, come abbiamo letto prima, e in secondo luogo Dio esisteva già da sempre,
non ha avuto un’origine, perché il libro incomincia: in principio Dio creò il cielo e la
terra. Dio c’era già. Quindi si è servito di un testo simile, ma nello stesso tempo ci ha
fatto capire con i mezzi che aveva allora a disposizione, questa idea di creazione, cioè
di un Dio eterno che ad un certo punto fa esistere ciò che non esisteva.

Un'altra differenza interessante si vede al quarto giorno (il 4° giorno racconta


l’origine del firmamento, del sole e della luna. In Enuma Elish noi leggiamo che la
divinità determinò l’anno, lo divise in parti, fissò tre costellazione per ognuno dei
dodici mesi, dopo aver definito i giorni dell’anno, con celesti figure fece brillare il
Dio luna, Sin, ed il Dio sole, Sha.

Invece l’autore biblico per paura che venisse equivocato, neppure usa i nomi propri,
ma dice: la luce maggiore e la luce minore, per far capire che il sole e la luna non
sono affatto due divinità per gli ebrei, come era per gli altri popoli, ma sono creazione
di Dio con una certa funzione: per dare luce e segnare lo scorrere del tempo e quindi
sono creazioni. Ancora insiste sull’assolutezza e l’unicità di Dio. Infatti il
monoteismo è stato il grande annuncio che il popolo ebraico ha portato contro tutti i
popoli intorno che invece erano politeisti.
13

E così via quando parla degli animali, ne parla con i termini in uso allora, quindi li
distingue: domestico, selvaggio, secondo le “nozioni scientifiche” di allora; e poi si
conclude col famoso settimo giorno.

Perché sette? i numeri della Bibbia hanno sempre valore simbolico e sette è un
numero particolarmente significativo, perché indica proprio la completezza, la
perfezione, la pienezza, la totalità, e, tra l’altro, non solo qui si parla di 7 giorni, ma
addirittura il numero sette ricorre tantissime volte in questo testo: 7 sono le diverse
formule usate dallo scrittore per descrivere la creazione: Dio disse, sia, avvenne, vide
che era cosa buona, Dio fece, Dio creò, fu sera e fu mattina. Sette volte risuona il
verbo creare (bara’). Il nome di Dio (’Elohȋm) è ripetuto 35 volte (7x5).
Cielo e terra appaiono 21 volte (7x3); altro numero sacro il tre.

Il primo versetto ha 7 parole, il secondo ne ha 14 (7x2), e quindi pienezza.


Complessivamente sono 21 parole. Non è casuale. Noi adesso siamo addestrati anche
dalle conoscenze raggiunte in campo letterario, interpretativo, esegetico, ad
individuare, a vedere questi elementi, mentre prima non si faceva caso. Per gli antichi
invece era molto importante questo riferimento simbolico al numero e quindi era
voluto tutto questo ripetersi del 7 per indicare questa pienezza.

Ma cosa vuol dire la settimana? perché Dio fa delle cose dal primo al sesto giorno e
poi nel settimo si riposò? Perché chiaramente è un riflesso della settimana liturgica,
cioè del senso del tempo che avevano gli ebrei, sei giorni di lavoro e uno di preghiera
dedicato a Dio. Soprattutto l’autore biblico vuole sottolineare che c’è da parte di Dio
un creare e c’è un cessare da ogni lavoro. Poteva anche non esserci, poteva anche
dire: ha fatto questo e quest’altro, basta. Invece no, c’è un giorno in più in cui Dio
non crea, in cui Dio riposa.

Allora il senso di questa cosa, la rivelazione che l’autore vuole dare è proprio questo:
anche per l’uomo qual è il senso del tuo tempo? Il senso è che tu per sei giorni lavori,
ma il lavoro non è la cosa più importante nella tua vita, perché la settimana finisce
con settimo giorno, che è quello della cessazione del lavoro, della pausa, in cui tu
entri nel riposo di Dio - dicono gli ebrei - in cui tu dedichi del tempo non a fare, a
produrre, a lavorare, ma a contemplare, a pregare, a rivolgerti al tuo Creatore. Infatti
si può notare che nel settimo giorno non si dice e fu sera e fu mattina, come per tutti
gli altri, e quindi c’è questa distinzione forte, perché il settimo giorno è il giorno di
Dio, è il giorno eterno, il giorno della comunione con Dio e anche che rappresenta la
destinazione dell’uomo, che è quella di entrare al termine della sua vita e del suo
lavoro in comunione con Dio.
Ecco l’importanza liturgica del sabato per gli ebrei e della domenica per i cristiani.
Concludendo pur servendosi di elementi mitici, l’autore intesse un racconto
assolutamente originale che non ha paralleli nelle altre culture e religioni, un racconto
che vuole insegnarci questo: il mondo è stato creato, quindi dipende da Dio e nel suo
14

piano originario il mondo è ordinato, è bello, quando appunto Dio dice che era buono,
in ebraico “buono” è tôb, che vuol dire anche bello.

Attualizzazione: scienza e fede e il significato di “creazione”

Queste pagine si occupano quanto mai di questioni molto dibattute come il rapporto
scienza-Bibbia e scienza-fede. Fino al 1800 i capitoli Gen 1-11 erano ritenuti
documenti storici. Ma intanto il progresso dell’uomo era andato avanti, si erano fatte
scoperte, anzi il 1800 è stato un secolo di grandi scoperte nella paleontologia, nella
geologia, nella fisica. E allora nasce subito il problema: chi ha ragione? la Bibbia che
dice Dio ha creato in 7 giorni o la scienza? Chiaramente non si potevano mettere
d’accordo le due cose, c’era una clamorosa contraddizione. Questo è andato avanti
fino alla metà del secolo scorso quando c’era la tendenza ad interpretare la Bibbia in
maniera abbastanza letterale.

Poi grazie agli studi che si erano iniziati sulla Bibbia si è arrivati a queste
conclusioni: non è vero che Dio ha creato in 7 giorni come è scritto nella Bibbia.
Abbiamo assodato il senso che l’autore vuole dare a queste pagine, lo scopo che si
era prefisso. E allora si è arrivati a capire che non c’era più contraddizione, non
poteva esserci contraddizione perché la natura che è opera di Dio non poteva essere
in contrasto con la parola stessa di Dio. Voleva dire che dovevano essere interpretate
in modo diverso, ma che non potevano essere in contrasto.

Cosi possiamo dire, sfruttando le parole di due grandi (S. Agostino e Galileo) che già
da prima avevano detto che la Bibbia non vuole dire la verità scientifica sul corso del
sole e della luna; dice Galileo: la Bibbia non ci dice come va il cielo, ma ci dice come
si va in cielo. La Bibbia ci dà degli insegnamenti per la salvezza dell’anima.

Il papa Giovanni Paolo II, in un discorso nel 1980 agli scienziati di Colonia, ha
ufficialmente ribadito la cosa: fede e scienza appartengono a due ordini di
conoscenza diversi che quindi non vanno sovrapposti, perché sono due campi diversi.
Non solo, ma mi riferisco al periodo più recente, ormai si vede che tra scienza e fede
c’è una fruttuosa collaborazione; visto che si tratta di due piani diversi, possiamo dire
che sono complementari e cioè che si aiutano a vicenda mantenendo i loro diversi
campi d’indagine, perché la scienza indaga soprattutto su cosa è l’universo e come è
nato l’universo; la teologia e la fede invece ricercano il senso dell’universo, da chi
viene, chi sta all’origine di tutto. Era l’intenzione dello stesso autore biblico.

E, se vogliamo un altro testo ufficiale che dice bene come devono stare i rapporti tra
scienza e fede, rifacciamoci alla Gaudium et Spes (Costituzione pastorale sulla
Chiesa e il mondo contemporaneo del Concilio Vaticano II, dove c’è un segnale di
grande cambiamento) che dice al n. 36 : “La ricerca metodica in ogni disciplina, se
procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali, non sarà mai in
15

reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà di fede hanno origine
dal medesimo Dio e dunque non possono entrare in contraddizione”.
Ha detto bene Einstein: “La scienza senza la religione è zoppa. La religione senza la
scienza è cieca”. Possiamo dire che ne abbiamo varie riprove. Perché è un dato di
fatto che nella seconda metà del XX secolo proprio gli straordinari risultati conseguiti
dalla scienza, nel campo dell’evoluzione dell’uomo, della terra, dell’universo hanno
stimolato ed in un certo senso costretto i teologi a leggere in modo nuovo la Scrittura,
proprio perché bisognava in qualche modo risolvere il problema e spiegare queste
vistose discordanze tra il racconto biblico e i risultati della scienza. E cosi si è giunti a
questa interpretazione più corretta del testo biblico che vi ho detto prima.

Ma anche dalla parte opposta assistiamo ad un fenomeno interessante, pensate che


per secoli, praticamente dal rinascimento, argomenti come l’origine dell’universo,
l’origine della vita, la natura del tempo, la coscienza, il destino finale del cosmo,
erano tutti argomenti assolutamente esclusi dal campo della scienza la quale diceva: a
noi non interessano, se ne occupino i filosofi e i teologi.

Oggi non è più così. Oggi proprio questi temi che vi ho citato fanno parte anche della
ricerca scientifica; cioè i due campi si sono un po’ avvicinati. E così ad esempio oggi
gli scienziati non si limitano a scoprire e ad esprimere in termini matematici le leggi
della natura, ma si chiedono: da dove vengono e cosa sarebbe il mondo se le leggi
della natura oggetto del loro studio fossero diverse da quelle che sono? Se lo
chiedono gli scienziati in quanto scienziati. Oppure come sarebbe la natura se non
avesse nessuna legge?

Vi faccio un solo esempio stupefacente che ho trovato in un libro del famosissimo


astrofisico Stephen Hawking, “Dal big bang ai buchi neri”, un testo celebre che parla
dell’universo. A pagina 146 scrive : “Se la velocità dell’espansione un secondo dopo
il big bang, fosse stata minore anche solo di una parte di cento mila milioni di
milioni, l’universo avrebbe esaurito la sua espansione e sarebbe tornato a contrarsi
prima di avere raggiunto lo stato presente”; quindi non ci sarebbe niente, noi non
saremmo qua, cioè è una questione di una parte minima, e comunque è un dato di
fatto che l’intera storia della scienza è stata una graduale presa di coscienza del fatto
che gli eventi non accadono in un modo arbitrario ma che riflettono un ordine
sottostante che potrebbe essere o non essere divinamente ispirato”.

Veniamo al tema trattato questa sera: la creazione.

Spiegazione scientifica dell’origine dell’universo.

Qual è il contributo della scienza sull’origine dell’universo? è notevolissimo; voi tutti


sapete, per quanto profani, che la cosmologia è la scienza che studia l’origine e le
leggi dell’universo; ora grazie agli sviluppi della fisica e della cosmologia noi siamo
in grado di dire come è nato l’universo dal punto di vista scientifico.
16

È solo dall’inizio del ‘900 che ci sono queste due teorie, due modelli: il big bang e lo
stato stazionario. Però è prevalsa la teoria del big bang. Come ci si è arrivati?
osservando le galassie (sistemi stellari che contengono miliardi di stelle) che noi
vediamo come strisce luminose. La galassia per antonomasia è la nostra, la Via lattea,
che contiene almeno 400 miliardi di stelle. La fisica moderna, analizzando il modo in
cui le galassie si stanno allontanando le une dalle altre, è riuscita ad arrivare a capire
che più di 13,7 miliardi di anni fa, queste galassie erano tutte riunite in un solo punto,
chiamato “big bang”, che vuol dire appunto “grande esplosione” (cfr. sussidio n.2
pag.9).

C’era una materia oscura ultracomplessa, dove ad un certo punto si verificò questa
esplosione, cioè un nucleo di idrogeno dotato di formidabile energia esplode e si
espande emanando una luce incredibilmente luminosa, che poi non si è mai più avuta
di tale intensità, e in quel momento l’universo era molti miliardi di volte più piccolo
della capocchia di uno spillo, cioè era grande come un atomo.

Poi una frazione di secondo dopo il big gang, la temperatura era scesa a 10 miliardi di
gradi, che è una temperatura 1000 volte maggiore a quella attuale del centro del
nostro sole, dopo 3 minuti era scesa a 1 miliardo di gradi, temperatura presente oggi
nelle stelle più calde. A questo punto, a questa temperatura le particelle della materia
interagiscono tra di loro e si trasformano in idrogeno e elio. Da quel punto lì ebbero
inizio materia, energia, spazio e tempo. Anche il tempo ha avuto un’ origine e avrà
una fine.

Poi circa un miliardo di anni dopo il big bang, qua e là, in questa enorme sfera di
idrogeno e elio si sviluppano delle contrazioni che si condensano fino a formare le
prime galassie e le prime stelle che vivono bruciando idrogeno che si trasforma in
elio, e liberando energia, energia risultante sotto forma di calore e luce. Così circa 4
miliardi e 55 milioni di anni fa si formò il sole. Noi di tutto questo abbiamo un’eco di
quel grande botto che fu il big bang: una radiazione, un mare di onde che ha la
temperatura di –270 gradi ed è quanto rimane dell’esplosione. Fu scoperta nel 1965
da Penzias e Wilson, insigniti del premio Nobel nel 1978, e oggi evidenziata da
satelliti e palloni-sonda, al punto che al suo interno si possono misurare variazioni di
temperature dell’ordine di 30 milionesimi di grado!

Questo dice la scienza sull’origine dell’universo. Noi abbiamo letto nella Bibbia: Dio
da un caos informe fece esistere quello che prima non c’era e quindi abbiamo sempre
detto che Dio è all’origine di tutto e, usando la terminologia di S. Tommaso, Dio è la
causa prima del mondo, anche se poi si scoprono delle leggi naturali che hanno un
loro percorso, senza tirare in ballo Dio in ogni momento, però Dio è la causa prima.
Oggi si preferisce non usare questo termine “causa” che ha altri significati, ma
comunque si dice che Dio è la spiegazione ultima del mondo.
17

Ora in cosmologia, i cosmologi “spiegano” l’universo postulando una legge fisica


fondamentale al di fuori del tempo che spiegherebbe l’universo come un totalità
spazio-temporale. Cf. le due immagini del foglio 9 del sussidio n.2.

Questa totalità può essere descritta come una sfera simile alla superficie della terra,
con la distanza dal polo nord che rappresenta il tempo immaginario. Col big bang ha
origine tutto, l’universo comincia al polo nord e man mano che procede i paralleli
diventano più grandi e corrispondono all’espansione dell’universo col tempo
immaginario. Tutto questo si espanderebbe fino al massimo, che corrisponde
all’equatore della terra. Dopo di che comincerebbe di nuovo a contrarsi, non è infinita
questa espansione (anche se oggi ci sono diverse teorie a riguardo).

Comunque questa è la teoria tradizionale. Ad un certo punto si comincia a invertire il


movimento, quando ha raggiunto la massima espansione e torna a contrarsi fino a
riprecipitare in quella che sembra una singolarità nel tempo reale, e si chiama “big
crunch”, cioè la grande implosione, il contrario della esplosione.

Oggi la fisica, la scienza dice: qualcuno o qualcosa è stato la causa non fisica
dell’evento della creazione cioè nell’origine della realtà. Si ammette che ci sia un
qualcosa che sfugge al nostro controllo, che sta prima dell’origine di tutto, una causa
non fisica dell’universo fisico. Perché è una causa che non risponde alle stesse leggi
dell’universo fisico. Una causa che può essere chiamata “il creatore”, per noi credenti
è Dio naturalmente, mentre per esempio per la nota astronoma Margherita Hack
(notoriamente non credente, come continua a dichiararsi) è l’energia, un’energia in sé
che è la causa non fisica di questo universo fisico.
Lei dice molto apertamente che a lei la spiegazione di Dio creatore non la soddisfa.
(Sinceramente sono rimasta un po’ male, perchè l’ha detto paragonando questa
spiegazione a una favola come la Befana o Babbo natale, credo che ci sia un po’ di
differenza!).

Don Giovanni d’Ercole, teologo che dibatteva con lei, glielo ha anche fatto notare
dicendo: allora lei prende per infantili i milioni di persone che credono in questo Dio
creatore? lei ha risposto: no, io rispetto, dico che per me è cosi.

Altri invece sono all’estremo opposto, ad esempio il famosissimo scienziato


Antonino Zichichi che lavora al gruppo di Erice, e che invece dice: più progrediscono
le conoscenze scientifiche e più si spalancano altri orizzonti straordinari, stupefacenti
di perfezione e di progettualità che implicano l’esistenza di una mente superiore; egli
dice: la scienza non mette più in dubbio l’esistenza di Dio. Non è proprio così, perché
gli scienziati sono divisi. Però lui, che è scienziato tanto quanto la Hack, ha scritto nel
’99 un libro intitolato “Perché io credo in colui che ha fatto il mondo”. Le posizioni
sono appunto contrapposte.
18

La cosa interessante è che ormai è completamente superata la presunzione della


scienza di risolvere tutto. Nel secondo Ottocento c’era un tale entusiasmo per le
scoperte scientifiche, per cui si diceva: non esiste l’inconoscibile, esiste solo
l’inconosciuto. Cioè noi non sappiamo tutto adesso, ma un giorno sapremo tutto.
Ormai neanche gli scienziati di oggi sono così ingenui.

Monod nel 1970 diceva: l’antica alleanza è infranta, l’uomo finalmente sa di essere
solo nell’immensità indifferente dell’universo da cui è venuto per caso, e quindi Dio
proprio non esiste.
Però in realtà è accaduto che proprio lo sviluppo scientifico ha fatto capire a
scienziati e non che la scienza non può mai assolutamente, in nessun caso credere di
aver raggiunto delle verità inconfutabili.

È noto che nel campo scientifico nel secolo scorso si è imposto il famoso principio
della non falsificabilità. Nessuno più oggi crede che la scienza possa raggiungere
delle verità assolute, incontrovertibili e dogmatiche, ma una teoria scientifica è vera
finché non si fanno altre scoperte che possono dimostrarla falsa e superata. Di questo
tutti gli scienziati sono convinti.

Da una recente inchiesta risulta che l’80 - 90% degli scienziati non ritiene che la
scienza possa rispondere a tutti i perché dell’uomo. Cosa invece di cui si era convinti
due secoli fa.

Questo rapporto scienza e fede si è sempre posto, perché ancora Galileo diceva: nelle
mie scoperte scientifiche ho appreso più dalla divina grazia che non con il telescopio;
oppure Pasteur (altro esponente della scienza del 1800) diceva: un po’ di scienza
allontana da Dio, ma molta ci conduce a lui.

Einstein ha sempre manifestato una profonda religiosità. Nel suo famoso libretto
“Come io vedo il mondo” scrive: “La religiosità dello scienziato consiste
nell’ammirazione estasiata delle leggi della natura, gli si rivela una mente così
superiore che tutta l’intelligenza messa dagli uomini nei loro pensieri al suo
confronto non è che un riflesso assolutamente nullo”.

Il noto scienziato italiano Antonino Zichichi, autore del libro “Perché io credo in
colui che ha fatto il mondo”, scrive: “Più progrediscono le conoscenze scientifiche e
più si spalancano altri orizzonti di stupefacente perfezione e progettualità che
implicano l’esistenza di una Mente superiore”.

Enrico Medi è stato uno scienziato profondamente credente, cattolico, che addirittura
ha preso come sua guida proprio l’Imitazione di Cristo. Altro esempio di come sia
possibile conciliare scienza e fede.
19

Occorre evitare un rischio che è quello a cui si contrappone Margherita Hack, e cioè
quello di fare di Dio un tappabuchi. Con tutto che la scienza adesso è ancora più
consapevole dei suoi limiti, là dove non arriva la scienza ci mettiamo Dio, questo è il
rischio di fare di Dio un tappabuchi. Noi siamo consapevoli che non è così che si
deve fare, però siamo anche consapevoli che il discorso di Dio si pone sempre in quel
livello e in quel piano in cui non c’è più l’oggettivo, lo sperimentabile, le leggi della
natura, ma c’è il soggettivo, il soggetto.

Se noi per esempio prendiamo un brano musicale di un grande musicista, ad esempio


Bach o Beethoven, possiamo benissimo descriverlo dal punto di vista scientifico,
calcolando quali e quante siano le oscillazioni acustiche nell’aria, gli effetti
sull’orecchio, ecc., ma così facendo non arriveremo mai a capire perché è bello quel
brano, perché è armonioso, perché ci suscita delle emozioni. Sono gli aspetti
essenziali della musica quel quid che ne fa qualcosa di unico, di straordinariamente
bello, di geniale, di creativo.

Questo lo possiamo cogliere, perché noi abbiamo il senso estetico, il senso del bello,
e il bello non è riducibile ad analisi scientifica nel modo più assoluto. Quindi la
scienza può spiegare il come dell’universo, ma non può cogliere quello che coglie la
teologia, la metafisica e cioè cogliere lo spirito divino dietro l’ordine razionale
riconosciuto dalla scienza.

Tornando adesso alla nostra prima pagina della Bibbia, vediamo che in fondo sei
secoli prima di Cristo, si diceva la stessa cosa a cui siamo arrivati oggi, e cioè che
l’universo non è autosufficiente, lo ha dimostrato anche la storia, nessuna pretesa
dell’uomo di dominare tutto e conoscere tutto, deve la sua esistenza e il suo
permanere nell’essere a un Altro che lo trascende, dipende completamente da Dio.

Tra l’altro proprio di recente, il 3 ottobre, ho letto sul giornale un titolo che mi ha
colpito: “Ora la nuova sfida è la particella di Dio”. E cioè si è iniziata al Cern la
costruzione di un acceleratore LHC, che, a differenza del precedente, vorrebbe andare
a cogliere l’unica particella ancora mancante all’appello: la particella di x, nota anche
come particella di Dio. Essa sta all’origine di un meccanismo con il quale tutte le
altre particelle acquisiscono una proprietà primordiale come la loro massa. Fino ad
ora non si è capito il meccanismo all’origine della massa, cioè della proprietà più
comune che anche le particelle più strane hanno al pari degli oggetti della vita
quotidiana, proprio perché connessa al mistero della massa c’è quello della forza
gravitazionale. Questo acceleratore LHC dovrebbe riuscire a evidenziare le
asimmetrie e le diversità di comportamento più impercettibili.

Tornando al confronto tra la pagina che abbiamo letto prima e spiegato, e il punto
della storia dove siamo arrivati oggi, vorrei farvi notare una cosa estremamente
interessante: oggi la scienza dice che all’origine di tutto, questo famoso big bang, c’è
stata una luce intensissima. Quindi non sarà un caso che nella Bibbia abbiamo letto
20

che la prima cosa che Dio ha creato è la luce. Pensate che nel ‘700 con l’illuminismo
ateo, Voltaire in testa, molti sghignazzavano per quella misteriosa primogenitura,
dicendo che sarebbe stato più logico attribuire il primo giorno al sole e alla stelle da
cui proviene la luce e invece oggi la scienza afferma che la luce è alla base di tutto,
non solo dell’universo ma della vita.

Tutto ciò che esiste nell’universo è in relazione con la lunghezza d’onda della luce.
La luce proviene da un’unica energia, quella contenuta nell’atomo di idrogeno ed è la
luce del sole che alimenta e vivifica la cellula e quindi rende possibile la vita. Lo
vedremo molto bene la prossima volta quando vedremo l’uomo come creato da Dio e
come la scienza ci dice che è venuto fuori.

Dunque luce e vita sono unite in modo sorprendente, alla base di tutto c’è la luce.
Allora per un caso che la Bibbia affermi che la creazione iniziò proprio con la luce ?
Certamente noi sappiamo che la Bibbia è un libro particolare, con un contenuto
ricchissimo che si scopre sempre di più andando avanti col tempo. Perché più si va
avanti col tempo e più si scoprono nuovi effetti della Bibbia. Oggi come oggi
potremmo notare questo: che la scienza ha messo in luce una cosa che in fondo la
Bibbia aveva detto 4000 anni fa. “Fiat lux” è l’inizio di tutto.

Per completare il discorso, se abbiamo visto come è nato l’universo e da dove viene,
diciamo anche qualcosa su dove va, questo universo. Una teoria è quella del big
crunch: gli ultimi tre minuti dell’universo saranno questa grande implosione. C’è
anche un'altra teoria che parla di una lenta morte termica dell’universo, per cui
l’espansione si protrae ma, col proseguimento dell’attività termica delle stelle, una
volta esaurito il combustibile, si giunge alla dissoluzione delle galassie in enormi
buchi neri che tutto attraggono a sé.

Veramente le ultimissime teorie dicono che negli ultimi anni ci siamo accorti che
l’universo si espande sempre più velocemente come se contenesse un motore occulto,
appunto occulto. Infatti una delle prossime sfide sarà capire che cosa è questa energia
oscura.

Abbiamo detto che il sole è nato quasi 5 miliardi di anni fa e si dice che oggi è più o
meno di mezza età, cioè si prevede che durerà ancora 2,5 miliardi di anni, l’universo
dovrebbe durare almeno 10-20 miliardi se finirà secondo la teoria del big crunch e 80
miliardi di anni se finirà nell’altro modo dell’espansione.

E della nostra meravigliosa terra che cosa succederà? Ho pensato di mostrarvi le


immagini, prese da un articolo di Focus del 2002, che dice come potrebbe finire la
terra: o con l’impatto con un asteroide che distruggerebbe tutto, oppure potrebbe
finire anche lei in un minuscolo buco nero.
21

E rispetto al sole come la mettiamo? Dice questo articolo: tra 3-4 miliardi di anni
l’idrogeno del sole si sarà tutto trasformato in elio e così cesseranno le reazioni
nucleari dovute alla fusione di idrogeno in elio, quelle reazioni che mantenevano in
vita la stella. Il sole si gonfierà sempre più fino a diventare 120 volte più grosso di
oggi, trasformandosi in una stella detta gigante rossa. Sarà così grande da raggiungere
le orbite di Mercurio e poi di Venere, che ingloberà. Allora avvicinandosi sempre più
alla terra, il calore del sole provocherà il ritiro degli oceani e la temperatura sarà di
centinaia di gradi e l’umanità non esisterà più, a meno che non abbia lasciato qualche
pianeta su navicelle spaziali. Ormai siamo nella futurologia.

Ma il pianeta Terra in sé e per sé forse si salverà tra questi 4 miliardi di anni, perché
durante la trasformazione della stella gigante rossa, il sole prenderà parte della sua
massa il che porterà a una diminuzione della forza di attrazione sulla terra e su tutto il
sistema solare, e il nostro pianeta scivolerà verso l’orbita di Marte e in quella fase il
nostro pianeta assomiglierà molto al Mercurio di oggi: non più cieli e mari azzurri,
ma un paesaggio tetro con un sole gigantesco che sembrerà avvolgere il pianeta.

Allora Plutone, il pianeta più piccolo e lontano dal sole, 6 miliardi di Km, presenterà
valori di temperatura e gravità simili a quelli terrestri attuali, si formeranno sulla sua
superficie vasti specchi d’acqua e l’atmosfera ricca di ossigeno e magari gli ultimi
uomini che son partiti con la navicella approderanno a Plutone.
Poi fra 7-8 miliardi di anni, il sole si trasformerà a poco a poco in una stella detta
nana bianca, cioè densa e compatta, con un diametro di circa 15 mila km, cioè 100
volte più piccolo di oggi, una stella fredda che in queste condizioni potrebbe vivere
ancora per centinaia di miliardi di anni.

Oggi come oggi gli scienziati sono divisi su quale dei due scenari sia il più probabile,
perché molto dipende dalla quantità di materia presente nell’universo. Ce ne sarà
abbastanza da fermare l’espansione e cominciare la contrazione una volta arrivata al
punto massimo, oppure siamo sotto la soglia necessaria ad impedire un espansione
infinita?

Allora Margherita Hack sostiene che, siccome le più recenti osservazioni provano che
la densità della materia è appena 40 centesimi di quella densità critica necessaria ad
ottenere il perfetto equilibrio tra forza di gravitazione e forza di espansione, il futuro
dell’universo è all’infinito, l’universo continuerà a espandersi all’infinito.

Però il 10 ottobre 2003 Giovanni Caprara sul Corriere della Sera scrive: l’universo
non è infinito come molti astronomi hanno immaginato, ma ha dei limiti ben definiti,
e per di più ha la forma di un pallone da calcio. In questa discussione in cui ci si
richiama anche a Platone, a Leonardo, a Keplero che avevano pensato ad uno spazio
racchiuso in una sorta di dodecaedro, grazie alle informazioni trasmesse da un
satellite, che cosa si è scoperto ? Che si sono delle onde (eco del big bang, che è
generato dalla nascita dell’universo, rumore di fondo che possiamo percepire) e più ci
22

si allontana dallo spazio, le fluttuazioni diventano sempre più piccole, fino quasi a
scomparire, e ciò costituirebbe la prova che ad un certo punto l’universo finisce.

Con i supercomputer hanno simulato un pallone cosmico che dovrebbe simulare


questo universo. Darebbero anche una risposta a quelli che pensano che l’universo sia
infinito, perché se ha questa forma da pallone da calcio, le facce pentagonali di questa
magica sfera sfaccettata, agiscono come grandi specchi che ingannano la percezione,
perché ci sarebbe questa illusione di una ripetizione all’infinito di queste facce per cui
sembrerebbe infinito. Sarà vero ? La risposta potrebbe darla un satellite costruito
dall’Unione europea proprio per scoprire se viviamo davvero in un pallone.

Vorrei concludere con un articolo del Sole 24 Ore di domenica 13 giugno 2004 dal
titolo “Inizio e fine del mondo”. Presenta due libri complementari uno sulle origini
dell’universo e l’altro sul futuro del nostro pianeta, entrambi di Martin Reese e cioè
“il nostro ambiente cosmico e il secolo finale”, perché l’umanità rischia di
autodistruggersi nei prossimi 100 anni.

È impressionante la cosa, abbiamo parlato di miliardi di anni per la fine naturale del
mondo, ma nel secolo finale Reese si pone questa domanda: riuscirà l’uomo a portare
a termine l’affascinante avventura di cui è protagonista? In questo libro non parla
tanto dell’ambiente cosmico ma del nostro ambiente quotidiano. Non sono solo le
calamità naturali, dice l’autore, come la collisione della terra con comete o asteroidi a
minacciare la sopravvivenza dell’umanità, ma ben altri pericoli, pericoli crescenti
creati dall’uomo, non più inquietanti di qualsiasi calamità naturale.

I pericoli elencati sono davvero impressionanti, a cominciare da quelli della guerra


fredda che ci ha esposto a rischi più gravi di quanto la maggior parte di noi
immagina. Il picco è stato alla crisi di Cuba all’inizio degli anni 60 quando, come
disse Kennedy, le probabilità di una guerra nucleare oscillavano tra una su tre e una
su due. Ma quel rischio non è finito con la caduta del muro di Berlino, anzi il tracollo
dell’unione sovietica e la proliferazione delle armi nucleari hanno aggravato la
situazione. Siamo stati fortunati a sopravvivere agli ultimi 50 anni scampando alla
catastrofe, afferma Reese.

Ci sono poi i rischi insiti negli sviluppi delle ricerche biologiche e informatiche. Si
può ipotizzare che nel giro di una ventina di anni, il bioterrorismo o semplicemente
un bio errore possano distruggere la vita di un milione di persone. Cosa lascia
presagire questa prospettiva per i prossimi decenni, si chiede angosciato Reese, che
non ha molta fiducia in una educazione scientifica diffusa o nell’auto controllo
scientifico? egli è abbastanza scettico sull’esistenza di forme di vita extraterrestre o
sulla possibilità di creare un habitat per l’uomo nello spazio cosmico. In definita le
prospettive future non lasciano presagire nulla di buono.
23

Ci troviamo in quella che forse è la congettura più drammatica nella storia del
pianeta, al punto che le probabilità che la nostra attuale civiltà terrestre sopravviva
fino alla fine del secolo in corso, non superano il 50%, siamo in sostanza ad un bivio.
Le nostre scelte potrebbero garantire un futuro eterno alla vita e non solo sulla terra
oppure la tecnologia del nostro secolo potrebbe mettere a repentaglio il potenziale
della vita. Insomma è del tutto verosimile che ciò che succederà sulla terra in questo
secolo farà la differenza tra una quasi eternità piena di forme di vita sempre più
complesse e stupefacenti e un'altra ridotta allo stato grezzo. Catastrofismo? Forse.
Certo è che la lettura di questo libro induce ad un pessimismo radicale che una
fiducia critica nella ragione dell’uomo può solo in parte attenuare. E qui ognuno si
affidi alla dose di speranza che ha.

Infine non si può non dire qualcosa sulle ultime notizie che i giornali ad agosto del
2004 hanno comunicato riguardo ai buchi neri, perché contrariamente a quanto
riportato dai giornali italiani, Stephen Hawking non ha rinnegato la propria teoria,
che continua ad essere eccellente e indiscutibile. Egli ha ammesso qualcosa di assai
diverso.

La teoria dei buchi neri classici ha come risultato il fatto che qualunque buco nero è
identificato da tre sole quantità: la massa, la carica elettrica e il suo momento
angolare (cioè quanto gira velocemente su se stesso). Il fatto che le proprietà del buco
nero siano individuate solo da queste quantità è stupefacente per un fisico, perché
trascura tutte le informazioni, cioè la storia, di come quella massa è arrivata sul buco
nero.

Per fare un esempio, la massa può essere dovuta a particelle di un solo tipo oppure ad
una mistura di particelle e antiparticelle, per un buco nero non fa nessuna differenza.
Ma per un fisico le particelle elementari si dividono in barioni (protoni e neutroni) e
in lectoni (elettroni, positroni, mooni e neutrini). Le leggi di conversazione dicono
che non si possono trasformare le une nelle altre e che il numero totale barionico,
cioè il numero di protoni meno il numero degli anti protoni e il numero totale
lectonico si conservano separatamente. Allora se per sapere le proprietà del buco nero
conta solo la massa, vuol dire che tutti i buchi neri risultano uguali, di qualsiasi
materia siano fatti, di soli barioni o lectoni, o barioni e antibarioni, o lectoni e
antilectoni. Cioè un buco nero nasconde l’informazione sulle proprietà della materia
che lo compone. Questo è già un bel problema.

Ma il problema vero viene ora: la teoria quantistica dei buchi neri ci dice che esiste
un processo che li fa evaporare e dunque sparire. Se mettiamo assieme la teoria
classica e quella quantistica dei buchi neri, otteniamo questo risultato: dopo un po’ il
buco nero scompare e l’informazione nascosta in esso cessa di esistere. Ma è ancora
peggio di così, perché la radiazione emessa nel processo di evaporazione è totalmente
indipendente dalle proprietà della materia. L’universo perde una quantità di materia e
non se ne trova la benché minima traccia.
24

Questa è una cosa che altrove in natura non succede mai. Se ho una scatola e ho
messo dentro del ghiaccio dopo un po’ ci trovo dell’acqua non dell’olio. Ma se l’ho
messo in un buco nero e dopo un po’ ripasso, quel ghiaccio si è volatilizzato senza
lasciare alcun tipo d’informazione nel frattempo. Molti fisici pensavano che questa
descrizione dei buchi neri fosse non sbagliata ma incompleta, ci fosse ancora qualche
piega da esaminare che permettesse di recuperare l’informazione apparentemente
distrutta. Hopkins non era uno di loro e in una famosa scommessa dichiarava che le
ricerche future avrebbero confermato questa straordinaria proprietà dei buchi neri.

È bene intendersi però: una scommessa riguarda qualcosa che avverrà in futuro, chi
scommetterebbe contro di me sul risultato della partita di ieri? La teoria quantistica
della gravitazione è assai incompleta e non ci è possibile sapere al momento se questo
paradosso sopravvivrà o no quando avremo trovato una teoria vera che metta assieme
gravità e fisica quantistica. La scommessa riguarda perciò una predizione sulla forma
finale della teoria che verrà. Hopkins ha quindi cambiato idea su una proprietà che
non era stata ancora completamente esplorata, non sulla propria teoria, non sui suoi
presupposti. Non credo che egli abbia fatto marcia indietro su qualche risultato
definitivo. Ha solo perso una scommessa su un risultato ancora in fieri.
(Articolo di Mario Vietri della Scuola normale superiore di Pisa).

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

GENESI 1-11 2° lezione Milano, 20 ottobre 2004

LA creazione dell’uomo

Gen 2

Analisi e commento di Gen 2,4b-6; 9; 19: (2° racconto di creazione)


e confronto con Gen 1,1-25

Gen 2,4b-9; 19
4b
Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, 5nessun cespuglio campestre
era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata – perché il Signore
Dio non aveva fatto piovere sulla terra 6e nessuno lavorava il suolo e
faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare tutto il suolo – ;
25

7
allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle
sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.
8
Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò
l’uomo che aveva plasmato. 9Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni
sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della
vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.
19
Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e
tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe
chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri
viventi, quello doveva essere il suo nome.

Chiaramente ci si chiede: perché mai due racconti di creazione che si


sovrappongono. Essi però sono diversi tra di loro, perché il primo era lunghissimo,
dettagliatissimo con tutto l’ordine che abbiamo in Gen 1, invece questo è più sintetico
e poi parte dicendo: 4bQuando il Signore Dio fece la terra e il cielo, 5nessun cespuglio
campestre…, si sottolinea la negatività prima della creazione. Allora come sempre di
fronte al testo biblico, se non si vuole fare una lettura fondamentalista che sarebbe
assolutamente errata e cioè prendere alla lettera tutto quello che si legge, occorre un
minimo di collocazione storica e di critica storico-letteraria.

È ormai accertato che soprattutto per quanto riguarda i primi 5 libri della
Bibbia che costituiscono il Pentateuco, l’attuale testo biblico è il risultato di due o più
documenti scritti anteriori, le famose fonti o tradizioni (cf. sussidio n.1 p. 2). A loro
volta queste fonti sarebbero qua e là una combinazione di scritti ancora più antichi.
Quindi questi libri portano visibili le tracce di diversi rifacimenti di molte generazioni
perché questi testi sono stati tramandati, prima oralmente (cf. la tavola biblica con la
cronologia dei fatti d’Israele, dei fatti storici contemporanei della formazione della
Bibbia), e questi testi mostrano i segni di tutto il decorso e di quasi tutte le fasi
bibliche e dello sviluppo spirituale di Israele.

Gen 1 è di fonte Sacerdotale perché fu redatta dai sacerdoti durante l’esilio


babilonese e probabilmente è stato a lungo tramandato sotto forma di inno liturgico
che veniva cantato nel tempio, ecco perché ha quell’andamento così poetico e
cantilenante con tante ripetizioni. Così pure i brani del paradiso terrestre e del peccato
originale forma una pericope, cioè una unità coerente, completa in se stessa, costituita
dai cc. 2,4b e 3 di Genesi. Com’è nata questa narrazione? Israele (in base alle svariate
esperienze storiche che aveva avuto con JHWH, di cui la più clamorosa è la
liberazione del popolo di Israele dall’Egitto, intorno al 13° secolo), era giunto a
determinate conclusioni in base a questa sua esperienza.

Ora siamo nel 10° secolo, e guardando il foglio n. 4, si vede che all’altezza del
1000 a.C. c’è “prime raccolte scritte”: tradizione jahwista 10° secolo, quella che sta
alla base del testo di Gen 2.
26

Mentre quella di Gen 1 era del 4° secolo; il testo di Gen 2 è più antico, anche se
messo dopo. L’autore è probabilmente uno scriba del regno di Salomone che ha
regnato dal 970 al 931 e ha una corte alla quale vivono questi scribi o sapienti.

Lo scriba che ha scritto il testo era imparentato con circoli di saggi che si
ponevano domande sul senso della vita, in particolare sul bene e sul male. C’è poi
una bellissima corrente biblica detta sapienziale con i famosi libri di Giobbe , Qoelet,
Siracide, ecc.

Questo autore che doveva essere dotato di grandi capacità sintetiche, risistema
con un suo personale lavorio e con un suo contributo originale, tutto il materiale
ricevuto, facendone un complesso molto interessante e ordinato proprio allo scopo di
comunicare e insegnare un messaggio di tipo religioso.

Quindi i versi che ho appena letto e che nascono da questa fonte jahwista,
vanno visti nella loro inscindibile unità con tutto il blocco successivo dei cc. 3-11 e
che in sintesi contengono questi temi: al c. 2 abbiamo il secondo racconto di
creazione e poi il racconto della creazione di Adamo poi la creazione di Eva. Il c. 3: il
peccato originale nel paradiso terrestre, la cacciata dei progenitori dal paradiso
terrestre e poi nel c. 4 la nascita e il peccato di Caino che uccide il fratello Abele. Si
vedrà ancora un peccato più grave di quello di Caino (perché c’è sempre un
peggioramento nel comportamento degli uomini): il peccato di Lamech; e quindi il
peccato dei giganti che rappresenta il culmine della malvagità umana. Dopo di che al
c. 6 scatta la punizione di Dio con il famoso diluvio universale perché ormai la
malvagità degli uomini arriva a tal punto che Dio (dice la Bibbia con un’espressione
antropomorfica) si penti di aver fatto l’uomo, e allora c’è il diluvio universale, ma
insieme la salvezza di un piccolo gruppo di viventi, sia uomini che animali, grazie a
Noè. Infine in Gen 11 abbiamo ancora un peccato di orgoglio, ma dell’umanità nel
suo insieme, con la costruzione della torre di Babele e anche qui la relativa punizione.

Tutto questo blocco, i cc. 3-11, costituisce una riflessione generale sulla
condizione umana, che tenta di rispondere a quegli interrogativi che sono propri degli
uomini di tutti i tempi, ecco perché è cosi attuale questa parte di Gen 1-11.
Al termine degli incontri c’è l’attualizzazione, proprio perché le risposte che
noi leggiamo erano le domande agli stessi interrogativi che anche noi oggi ci
poniamo, e allora, senza volerlo, mi è venuto fuori questo corso diverso dagli altri che
ho tenuto finora più biblico-esegetici. Qui era indispensabile dare uno spazio allo
stesso tipo di problema che aveva affrontato l’autore jahwista del 10° sec. a.C. così
come si pone oggi, e naturalmente, cercando le risposte che oggi diamo, sulla scorta
della parola di Dio ma anche della storia che è passata nel frattempo in questi due
millenni.

L’autore jahwista vive in un contesto culturale che ha un patrimonio comune


anche agli altri popoli della mezzaluna fertile. Tutti i paesi collocati tra il Golfo
27

Persico e l’Egitto, il deserto arabico, sono detti della mezzaluna fertile e hanno una
coinè culturale comune, un linguaggio comune. Quindi c’erano leggende dei tempi
primordiali che erano presenti in tutti i popoli e che noi troviamo anche nella Bibbia.
Per esempio il paradiso, il paradiso terrestre che troviamo nella Bibbia, un parco
incantevole per la sua irrigazione, l’abbondanza di frutti, era presente anche in altre
culture. L’albero della vita, l’albero prodigioso che dava la vita o che dava la scienza
era presente; oppure il potere ostile, il male, sotto forma di serpente o sotto forma di
dragone in altre culture. Infine un giardino bellissimo dove passeggiano gli dèi; infatti
nel paradiso terrestre si vede Dio che passeggia e conversa con l’uomo.
Non sempre abbiamo le fonti, cioè i testi originari degli altri popoli, però
quando li abbiamo (è stato soltanto nell’800 che si sono scoperte le letterature e i miti
dei popoli orientali, prima la Bibbia era l’unico testo, e rappresentava l’unico
documento dei tempi più antichi), confrontandoli con le pagine bibliche simili, che
hanno le stesse immagini, gli stessi miti, si vede benissimo come l’autore biblico li ha
reinterpretati. Già nel primo incontro abbiamo visto come l’autore sacerdotale del VI
secolo, parte subito dicendo in principio Dio creò il cielo e la terra, mentre i miti
babilonesi parlavano dell’origine degli dei. Oppure il sole e la luna, divinità adorate
negli altri popoli, non sono neanche nominate per paura che vengano fraintese e
adorate, sono creature che adornano il firmamento come le stelle e gli altri elementi
della creazione.

Anche per i successivi capitoli 4-11 dell’autore jahwista, vedremo quali


materiali l’autore ha utilizzato dalla mitologia sumerica e egiziana e come li ha
reinterpretati, come li ha piegati ad esprimere idee e concezioni nuove, radicalmente
diverse da quelle dei popoli vicini, come radicalmente diversa e assolutamente
originale era la fede ebraica, che ha sempre costituito un problema anche per gli
storici, perché ci si chiede: come ha potuto un popolo così piccolo ed insignificante
(cosa erano gli ebrei di fronte agli egiziani, agli assiri, ai babilonesi?) mantenere
integerrima la fede senza lasciarsi schiacciare da potenze e da popolazioni molto più
grandi?
L’autore jahwista del 10° sec. vuole dare una risposta a tutta una serie di
interrogativi esistenziali fondamentali. Egli sapeva, dalle tradizioni orali, che si erano
tramandate dagli ebrei fin dal tempo di Abramo e dei patriarchi, che Dio aveva creato
tutte le cose buone e per il bene dell’uomo, o meglio sapeva che il popolo di Israele
aveva fatto l’esperienza di un Dio buono e liberatore. Di fatto però questo autore si
trova di fronte a tante realtà negative che gli suscitano altrettanti interrogativi e che
sono gli stessi che ci poniamo noi oggi. Ecco l’attualità di questi capitoli.
Ad esempio: perché il lavoro, che peraltro è necessario per trarre dalla terra il
proprio sostentamento per l’uomo, è tanto faticoso ed esaurisce e indebolisce le forze
dell’uomo al punto che può arrivare fino alla morte? Perché il morso del serpente
uccide l’uomo, se, come abbiamo letto nei racconti di creazione, Dio sottomette tutta
la creazione all’uomo?
Abbiamo letto prima che Dio conduce le creature all’uomo perché dia loro il
nome, quindi l’uomo ne conosce la natura (questo è il senso semitico del dare il
28

nome). Perché il serpente a differenza di tutti gli altri animali non ha spina dorsale,
striscia per terra, deve affaticarsi strisciando per terra e mangiando polvere, come
dicono anche Isaia e Michea? Come mai il rapporto con la donna non è sempre
pacifico e sereno ma è spesso minacciato da tensioni e addirittura dalla violenza?
Come mai l’arrivo di una nuova vita, motivo di grande gioia, avviene in mezzo a tanti
dolori, i dolori del parto? Perché l’uomo teme Dio e soprattutto (la domanda più
grande, più terribile a cui anche noi non sappiamo dare risposta, umanamente) perché
la morte, che sembra annullare tutto? e perché la morte suscita ribellione (c’è
nell’uomo l’istinto della vita, quindi è un naturalissimo timore della morte), perché ne
abbiamo tanta paura? Potremmo trovare un comune denominatore a tutti questi
interrogativi e cioè: perché il male? perché il dolore? Se Dio è buono e ha creato tutto
buono, perché l’uomo sperimenta così spesso il male, il dolore, la sofferenza?

Può essere interessante vedere quale risposta veniva data a questa domanda dai
miti babilonesi. Per esempio il poema babilonese Enuma Elish = “quando in alto”,
inizia dicendo: Quando ancora non c’era il cielo, gli dèi furono formati (mentre
abbiamo in Gen 1: In principio Dio creò il cielo e la terra).
Appena generati, gli dei entrano in lotta con il vecchio Apsu = principio (le
acque abissali dolci) di cui turbano il riposo.
Poi il dio Ea uccide questa divinità Apsu, e Tiamat (madre degli dèi) che
rappresenta le acque salate, per vendicare la morte di Apsu, scatena contro gli dèi
draghi e mostri di ogni specie capeggiate dal demonio Kingu (nell’ebraismo non c’è
traccia di divinità maschili e femminili, c’è solo JHWH).
Ora Marduk (che era la prima divinità babilonese) a capo degli dèi e in groppa ad un
uragano si slancia contro Tiamat uccidendolo.
Alla fine vincono gli dèi contro tutte queste forze malvagie rappresentate dalle
acque dolci, dalle salate, ecc. Ea uccide anche il demonio Kingu, poi mischia il
sangue velenoso del demonio Kingu alla terra e ne trae l’uomo, che così nasce
avendo in sé, nel suo stesso essere, la maledizione del demonio che porta al male e
alla morte. Così gli dèi si sono liberati loro del male e della morte, scaricandoli
sull’uomo. Ecco come il mito babilonese spiegava la presenza e la provenienza del
male.

Vedremo quanto è diversa la spiegazione dell’autore jahwista. Innanzitutto egli


non può assolutamente condividere la spiegazione del mito babilonese, perché la sua
fede gli insegna che c’è una sola divinità, un unico Dio, JHWH (il monoteismo
ebraico ha sempre resistito, con grande stupore degli storici, in un contesto che era
tutto l’opposto), e sa che questo Dio è buono ed è giusto. E quindi non è possibile che
il male venga dalla divinità, come nel mito babilonese, dove l’uomo è impastato con
il sangue di un demonio.
L’esperienza storica e personale dimostra che la responsabilità del male deve
venire da qualche altra parte. E allora, riflettendo sulla storia del popolo di Israele e
sulla sua esperienza personale, ne deduce che in gran parte il male viene dalla
responsabilità dell’uomo. Uomo che a un certo punto preferisce agire autonomamente
29

da Dio; costruisce un suo progetto ritenuto più sicuro e migliore di quello di Dio e
rifiuta i doni di Dio.
Tutto questo l’autore l’ha capito proprio riflettendo sulla storia di Israele, che è
appunto un continuo ripetersi dello schema, come troviamo soprattutto nell’opera
storica deuteronomista. Esempio: Giudici 2,11: 11Gli Israeliti fecero ciò che è male
agli occhi del Signore, 13abbandonarono il Signore e servirono Baal e Astarte.
Allora Dio li punì.
Più volte si è ripetuto nella storia di Israele questo schema: l’uomo sbaglia di
sua iniziativa, quindi con una sua responsabilità, Dio lo punisce, ma gli dà anche la
possibilità di pentirsi e di ritornare a Lui.
L’esempio più clamoroso di questa punizione (così come è stata interpretata
dal popolo di Israele) è stata la deportazione a Babilonia. Siccome il popolo di Israele
era stato infedele sia nei suoi sudditi che nel re (i famosi peccati dei vari re di
Israele), Dio ha punito il popolo mettendolo nelle mani degli Assiri prima e dei
Babilonesi poi.
Dunque le situazioni negative della vita dell’uomo e della storia sono in gran
parte una conseguenza di scelte sbagliate degli uomini, del peccato commesso o dal
singolo o dalle entità maggiori come popolo. “In gran parte”, non totalmente, perché
c’è anche un male che colpisce l’innocente e che costituisce sempre il grande
interrogativo della vita in ogni tempo. Su questo è soprattutto il libro di Giobbe che,
non dà una risposta, perché una risposta è impossibile darla, ma che riflette su questo
mistero.

Il nostro autore riflette su tutto questo e capisce che gli uomini, responsabili del
male, possono uscire dalla situazione negativa prendendo coscienza del proprio
errore, riconoscendo di aver sbagliato di essersi allontanati da Dio, e tornando a Dio e
al suo progetto originario. Infatti, se Dio è buono e vuole solo il bene, la situazione
negativa o addirittura perversa del mondo (che, sia l’autore, che i suoi predecessori,
avevano ampiamente constatato) non può far parte del piano originario di Dio. Ecco
l’originalità di questa intuizione. Tutto ciò che è negativo non può far parte del piano
originario di Dio, perché Dio è assolutamente buono.
Solo che l’autore nella storia ha visto solo il negativo, e allora si è chiesto: ma
qual’era questo progetto? come poteva essere il piano originario di Dio sull’uomo e
sul mondo? come facciamo a conoscerlo? Ha usato allora lo stesso procedimento
dell’autore sacerdotale. Come l’autore ha individuato ciò che doveva esserci prima
della creazione? pensando al contrario di quello che vede nella creazione, di quello
che sperimenta; la creazione è un tutto ordinato, regolare. Allora il contrario della
creazione è il caos; la creazione è luce, il contrario è la tenebra.
E così questo autore, ovviamente ispirato da Dio, passa in rassegna i mali che
nella sua interpretazione di fede costituiscono le punizioni, i castighi di Dio per le
trasgressioni dell’uomo. E quali sono? Il lavoro faticoso e duro, i conflitti con gli
animali, il parto doloroso, le malattie, la morte. Questa è l’esperienza negativa
dell’uomo. E l’autore immagina una situazione contraria di benessere, in cui non c’è
nulla di tutto questo, in cui non c’è nessun affanno, e quindi dice tra sé: questo
30

dovrebbe essere il progetto di Dio, il mondo ideale, quello veramente voluto da Dio,
che Dio ha creato e che però l’uomo ha rifiutato, privilegiando il suo personale
progetto.
Il risultato di questo elaborato immaginario è il famoso paradiso terrestre, e
quindi non è una realtà storica esistita, come per tanto tempo si è creduto. D’altra
parte è anche vero che non solo fino all’800, quando si è cominciata la critica della
Bibbia, ma addirittura fino al 1950 cioè prima del Concilio Vat. II, gli stessi sacerdoti
nei seminari studiavano i primi capitoli di Genesi interpretandoli praticamente alla
lettera.
Non possiamo stupirci come c’è tanta gente che abbia ancora in mente questa
idea (e quindi come spesso si sente dire: accidenti ad Adamo, perché per colpa sua
noi siamo…!). Non è mai esistito un paradiso terrestre, non è mai esistito un Adamo e
una Eva come personaggi storici, mai!
Queste pagine sono così perché sono i risultati di riflessioni sull’esperienza,
sulla storia di autori che poi, servendosi del materiale mitico dei popoli circostanti,
l’hanno narrato comunicando però un messaggio originale.
L’idea del “paradiso terrestre” è nata immaginando il progetto perfetto, buono,
solo positivo, che doveva essere per forza l’opposto del quadro negativo che l’autore
ha sperimentato e che noi vedremo nel c. 3, dopo il cosiddetto peccato originale: la
punizione che Dio ha dato all’uomo.

I due “racconti di creazione dell’uomo”: Gen 2,4b-7 e Gen 1, 26-27

Confrontiamo i due racconti di creazione.


Il primo racconto è più teocentrico: si sottolinea di più il punto di vista di Dio e si
mira ad esaltare il sabato, il giorno sacro a Dio, per ragioni liturgiche, visto che
l’autore è un sacerdote.
Il secondo racconto invece è più antropocentrico: è l’uomo al centro del racconto,
perché si mette in risalto soprattutto che 4bQuando il Signore Dio fece la terra e il
cielo, 5nessun cespuglio campestre …7allora il Signore Dio plasmò l’uomo
E dopo che l’ha collocato nel paradiso terrestre – nei vv. 9-19 – si parla ancora
di creazione delle piante e degli animali. Però l’uomo è visto subito al centro del
racconto. All’inizio il quadro abbozzato era tutto in negativo: non c’era nessun
cespuglio, nessuna erba, non c’era ancora la pioggia, nessuno lavorava il suolo.
Quindi la scena è costituita da un paesaggio stepposo, da una terra arida e polverosa,
che richiama la steppa desertica propria di quella zona palestinese dove nel 10° sec.
questo racconto è stato scritto.
Mentre il primo racconto, che descrive un rigoglioso creato, ha alle spalle dal
punto di vista esperienziale il verdissimo e lussureggiante paesaggio della
Mesopotamia (6° sec. gli Ebrei in esilio), invece il secondo racconto ha alle spalle
l’esperienza di una terra arida e stepposa, come è la Palestina, e al creato mancano
due elementi importantissimi: la pioggia e l’uomo col suo lavoro.
31

Così Dio crea l’uomo perché anche l’uomo collabori con Dio nell’atto creativo,
cioè nella coltivazione della terra.

E improvvisamente, al v. 7 leggiamo 7allora il Signore Dio plasmò l’uomo con


polvere dal suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere
vivente.
Il nostro anonimo catechista sapienziale del 10° sec. stende un racconto in cui
ogni dettaglio contiene un messaggio religioso secondo la mentalità dell’epoca. In più
il particolare che incontriamo è questa polvere dal suolo che in ebraico si dice ‘āpār
min hā’ădāmāh.
Si sa che in tutto il mondo antico si era attenti al fatto che una persona dopo la
morte si decomponeva, si trasformava in polvere, e dunque si deduceva: se l’uomo
ritornava alla polvere, probabilmente era venuto da lì. E così troviamo dei miti simili
su questa faccenda. I Babilonesi narravano come i loro dèi avevano impastato gli
uomini unendo il sangue del demonio Kingu con del fango della terra, con la polvere.
Gli Egiziani raffiguravano sulle pareti dei loro templi il dio che formava il faraone
con il fango. Anche i Greci e i Romani condividevano questa convinzione.
Così nel raccontare le origini dell’uomo, lo scrittore sacro si basa sulla stessa
credenza popolare che circolava in tutto l’Antico Vicino Oriente.
Potrebbe sembrare addirittura infantile mostrare questo Dio che modella
l’uomo come un artigiano modella un vaso. Questa immagine non è affatto infantile,
ma vuole esprimere una realtà fondamentale: l’uomo viene direttamente dalla mano
di Dio. C’è una differenza tra la creazione delle cose e la creazione dell’uomo.
L’uomo è una creatura di Dio, fatta da Dio di persona, che si è servito della terra per
plasmarlo, e dunque l’uomo è in stretta relazione con la terra.
Perché il nome “Adamo”? perché Adamo viene da ’ădāmāh = terra, quella da
cui ha preso la polvere, ‘āpār, con cui ha fatto Adamo, cioè il “terrestre”, il
“terrigno”; il significato etimologico di Adamo è il “terrigno” = fatto di terra.
L’uomo quindi è fragile, è effimero, è debole. Questo è il messaggio perenne
della Bibbia. Da subito l’uomo esce dalle mani di Dio con una propria finitezza e
fragilità; è una creatura e quindi è limitato, fragile, finito.
Più volte la Bibbia ricorda questo:
- Gb 10,9: Ricordati che come argilla mi hai plasmato e in polvere mi farai
tornare.
- Sir 33,10: Anche gli uomini provengono tutti dalla polvere, e dalla terra fu
creato Adamo.
- Is 64,7: Tu, Signore, sei nostro padre;
noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma,
tutti noi siamo opera delle tue mani.
- Sir 17,1: Il Signore creò l’uomo dalla terra e adesso lo fa tornare di nuovo.
Dunque si sottolinea che è Dio a creare l’uomo, che fa di noi ciò che vuole, e
sarebbe assurdo ribellarsi; l’origine dell’uomo è questa: è creatura di Dio.
32

Ma il messaggio che l’autore vuole comunicarci è che questo Dio che ha creato
l’uomo non è un tiranno o un re capriccioso o un despota o una divinità che vuole
scaricare sull’uomo (come facevano le divinità babilonesi) tutto il negativo; è un
Padre invece che si prende cura di noi. Infatti dice Is 64,7: Tu, Signore, sei nostro
padre; questo ha sperimentato di Dio il popolo di Israele: la sua paternità. Dio è
Padre e un Padre che ci ama e ci forma con le sue stesse mani uno a uno con infinito
amore.

C’è poi una grande novità nella Fonte Jahwista: non solo Dio plasma l’uomo
con polvere dal suolo, ma v. 7b soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo
divenne un essere vivente, che in ebraico si dice nepeš = anima. Dio
gli ha dato forma con l’argilla, ma per farlo vivere, soffia in lui attraverso le narici
(certo perché è attraverso il naso e la bocca che noi respiriamo, quindi è molto
realistico da questo punto di vista) un alito di vita che in ebraico si dice nišmat
hajjȋm (hajah è il verbo vivere), cioè dà all’uomo qualcosa di se stesso, della sua
vita intima, perché (in ebraico si vede bene il gioco di parole) vivere è il verbo
hajah da cui JHWH e da cui haj = vita.
“Alito di vita”= nišmat hajjȋm; tecnicamente però nešāmāh sarebbe il “respiro”, che
poi è precisato da “vita”, cioè un respiro vitale, che indica che è un essere che vive.
Di solito noi usando i termini e le categorie della filosofia greca, diciamo che
l’uomo è composto di carne e spirito, corpo materiale e anima spirituale, ma qui,
secondo la tipica mentalità semitica, l’autore ci comunica la persuasione, radicata in
Israele, che solo a Dio si deve lo spirito vitale, cioè la vita, sia degli animali che
dell’uomo. C’è un soffio vitale per tutti che è lo stesso, come dice Qoelet. Ma per
sottolineare la differenza rispetto agli animali e la superiore dignità dell’uomo,
l’autore insiste sul modo personale e diretto con cui Dio comunica all’uomo il suo
stesso spirito, cioè la vita.
Allora liberiamoci per un attimo dalle categorie greche che distinguono materia
e spirito, anima e corpo, e pensiamo: c’è questo nešāmāh, questo respiro che Dio dà
sia agli animali quando li fa esistere dando loro lo spirito vitale (era l’esperienza di
tutti che gli animali respirano, vivono, hanno le funzioni vitali come l’uomo) sia agli
uomini, però l’uomo è chiaramente distinto dagli animali perché in lui questo spirito
è infuso direttamente da Dio.
L’uomo è in una posizione diversa rispetto a Dio, sta di fronte a Lui come una
persona. C’è un abisso tra gli animali e l’uomo; e quindi l’autore ci fa vedere proprio
l’unicità della creatura umana che partecipa ad un tempo della terra, della materia, ma
nello stesso tempo partecipa dello spirito insufflatogli direttamente da Dio. Quindi è
fragile (la polvere poi si decompone), è limitato, ma anche divino nel medesimo
tempo. L’uomo è contemporaneamente legato al mondo, alla terra e a Dio, e questa
unità, che è un fatto unico nella creazione, è la sua grandezza e la sua bellezza.

Oggi si parla più spesso di “anima” per indicare l’aspetto spirituale dell’uomo,
ma la parola “anima” viene dal greco psichè che è dei Greci (quindi dopo il 6° sec.)
33

che indica la sostanza spirituale e quindi questo termine sarebbe anacronistico se


applicato all’Adamo della cui creazione si parla in questo capitolo.
Oggi il discorso sull’anima è estremamente interessante perché sulla scorta
della filosofia e del pensiero contemporaneo c’è di nuovo un’intersezione tra materia
e spirito (cf. la lezione sull’anima tenuta in un Liceo Scientifico).

Genesi 1, 26-27

Analizziamo adesso l’altro racconto della creazione dell’uomo, che


cronologicamente viene dopo, cioè Gen 1,26-27:
Gen 1 26Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine a nostra
somiglianza e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul
bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano
sulla terra».
27
Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio
e femmina li creò.
Sono due versetti estremamente importanti. Innanzitutto notiamo questo discorso al
plurale, perché noi abbiamo sempre visto Dio soggetto di ogni azione al singolare.
Qui dice: Facciamo l’uomo a nostra immagine.
Sono tante le interpretazioni che si danno di questo plurale. Avremo modo di
parlarne in Gen 11 perché anche lì Dio dice scendiamo a vedere cosa hanno fatto
questi uomini.
Limitiamoci a dire che questa forma è forse un plurale maiestatis del tipo greco-latino
che vuole sottolineare la solennità, l’importanza del momento. Anche perché nel v.
27 per ben tre volte si ripete che Dio creò l’uomo, che invece era stato usato una sola
volta per la creazione della natura, v. 1: In principio Dio creò il cielo e la terra…
Non solo, ma mentre prima il tono era quello cronachistico dell’osservatore che sta
fuori dalla cosa descritta, ora invece si fa più partecipato dal soggetto, è più poetico, è
lirico, perché è l’uomo stesso coinvolto in questa cosa che dice.
1. Dio creò l’uomo a sua immagine, 2. a immagine di Dio lo creò, 3. maschio e
femmina li creò.
In ebraico si coglierebbe molto bene la poeticità di questa frase, ma anche nella
traduzione si vede solo dalla ripetizione, dall’insistenza sulla cosa, che oltre tutto si
imprime meglio nella memoria e preserva da imprecisioni. Non dimentichiamo che
dietro c’è sempre la tradizione orale e che gli antichi avevano un’ottima
mnemotecnica, per cui non ci stupiamo che per generazioni sono stati tramandati (e
siamo certi che siano stati tramandati così) dei dati senza venire modificati, grazie a
questa mnemotecnica. Qui c’è proprio un insegnamento di tipo fondamentale,
basilare, e l’autore si preoccupa che venga capito bene.

Che cosa vuol dire la frase creiamo l’uomo a nostra immagine a nostra
somiglianza che in ebraico sarebbe esattamente: secondo una immagine di
somiglianza?
34

Molte spiegazioni sono state date nel corso del tempo. Di solito ogni spiegazione è
influenzata dalla mentalità, dalla concezione antropologica e dalla percezione di
quello che è il proprium dell’uomo, lo specifico umano.
Perché si dice solo dell’uomo “a immagine e somiglianza di Dio”?
- perché per esempio l’uomo ha la posizione eretta rispetto agli animali. E
dunque rispetto agli animali, è l’unico che tende verso l’alto, cioè verso Dio;
- oppure si è detto: quali sono le caratteristiche proprie dell’uomo che non hanno
gli animali? certamente l’intelligenza, la memoria, la ragione, la parola;
- ancora: è l’anima la parte più spirituale dell’uomo, perché l’uomo ha una
dimensione spirituale, una vita spirituale;
- ancora: solo all’uomo si dice di dominare sugli animali, e quindi il dominio sul
creato potrebbe essere questa immagine e somiglianza di Dio.
Tutte immagini accettabili, ma se andiamo più a fondo, ci rendiamo conto meglio
della grande genialità dell’autore Jahwista che probabilmente dopo una lunga e
faticosa ricerca ha trovato questa formula così azzeccata.
Per capire meglio, cerchiamo di rifare il suo stesso percorso. Egli voleva
innanzitutto prendere le distanze da quel politeismo (adorare più dèi) e panteismo
(adorare come divinità elementi della natura) che dominavano nel suo tempo nelle
altre culture. In Mesopotamia e in Egitto uomini e animali costituivano un miscuglio
inestricabile in un turbinio di animali sacri. C’era una quantità di divinità come
animali sacri mischiati però agli uomini.
Per esempio Seth era un’antica divinità egiziana adorata sotto l’aspetto di
coccodrillo o di ippopotamo. E sappiamo quanto era grande in Egitto il panteon degli
animali.
Oppure c’erano esseri a metà uomini e a metà animali. Nut in Egitto era la
personificazione della volta celeste rappresentata come una donna, la madre del sole
(che è una divinità). Nut ingoiava ogni sera il sole e poi lo rimetteva al mondo tutte le
mattine.
Oppure c’erano i famosi titani metà animali e metà uomini o donne. Per
esempio la dèa della guerra era una donna leonessa, mezza donna e mezza leonessa,
era la famosa Sekhmet, molto crudele. Il famoso dio Anubi era uomo con la testa di
un cane. Thot, dio della saggezza aveva la testa dell’ibis. Horus era un uomo con la
testa di falco.
Questa era la cultura con cui aveva a che fare l’autore biblico, e lui invece vuol
far capire che l’uomo non ha niente a che vedere con gli animali, e quindi non
possono esistere forme di divinazione di esseri metà uomini e metà animali, perché
c’è una netta distinzione.
Ancora una volta la natura viene smitizzata. Non esistono per l’autore jahwista
animali che possono essere considerati delle divinità.
In secondo luogo l’autore biblico sottolinea la grande prossimità, la grande
vicinanza dell’uomo a JHWH. È solo dell’uomo “a immagine e somiglianza”, non
degli animali. Ho detto “prossimità”, “vicinanza”, non “identità”. Infatti l’espressione
è: una “immagine di somiglianza”, che tiene conto di un basilare comandamento,
perché i comandamenti storicamente erano già stati dati a Mosè sul Sinai, e già
35

appartenevano al popolo ebraico. Dt 4,15: Non fatevi alcuna immagine scolpita di


idolo, la figura di maschio o femmina o di qualunque animale, perché sul Sinai avete
udito la voce di Dio, ma non avete visto alcuna figura. La grande trascendenza del
Dio degli Ebrei che non si può assolutamente raffigurare, rappresentare in alcun
modo.
Allora in che consiste questa prossimità o vicinanza che distacca l’uomo dagli
animali, ma anche da Dio, perché non è identità? Nessun uomo sarà mai divinizzato
per gli Ebrei e per i cristiani ovviamente. Questa prossimità o vicinanza sta in un fatto
fondamentale che l’autore vuole inculcare. Dio dà vita nell’uomo ad una creatura che
gli sia conforme, con cui Lui possa parlare e che sia in grado di ascoltarlo.
Davanti a Dio c’è l’umanità nel suo insieme, con una parte della quale (il
popolo di Israele) egli stabilirà un patto esplicito di alleanza. Ma davanti a Dio sta
anche il singolo individuo; ogni singolo Israelita è posto personalmente davanti e
faccia a faccia al Dio santo dell’alleanza. È evidente la conseguenza di perenne
attualità che ne deriva: a differenza dell’animale, l’uomo partecipa del divino (perché
Dio ha insufflato direttamente in lui il suo spirito) e dunque ha una sacralità che lo
distingue nettamente da qualsiasi altro essere creato.
L’uomo va rispettato, mai adorato perché è una creatura e non può essere
divinizzato, ma va rispettato. E il 5° comandamento che già l’autore jahwista
conosceva: non uccidere, viene proprio sottolineato ed esaltato da questa sua
sacralità. La vita è sacra. La vita dell’uomo è sacra dal suo concepimento fino
all’ultimo istante. Questo discorso lo riprenderemo con l’episodio di Caino e con il
messaggio dell’assoluta condanna di qualsiasi forma di omicidio.
Una conseguenza molto importante di questa sacralità (che è di grande
attualità, infatti i diritti dell’uomo soltanto nel XX sec. sono stati affermati, ma la
Bibbia lo diceva già nel X sec. a.C.) è che nel volto del fratello, di ogni uomo che,
sulla scorta di Gesù, chiamiamo fratello, anche se misero e insignificante, si
nascondono in qualche modo i lineamenti di Dio stesso. Suoneranno allora
significative le parole di Gesù: “Ogni volta che avete fatto questa cosa a uno solo dei
miei fratelli più piccoli, l’avete fatta a me” (Mt 25,40).

Gen 1,28-30

Gen 1 28Dio li benedisse e disse loro:


«Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra;
soggiogatela e dominate
sui pesci del mare
e sugli uccelli del cielo
e su ogni essere vivente,
che striscia sulla terra».
29
Poi Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su
tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme:
saranno il vostro cibo. 30A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli
36

del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito
di vita, io do in cibo ogni erba verde». E così avvenne.
31
Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona.

alito di vita anche per gli animali.


“era cosa molto buona” dice Dio dopo che ha creato l’uomo: altra differenza rispetto
agli animali.
I due racconti di creazione dell’uomo, che abbiamo visto nella loro differenza
(il più antico jahwista – c. 2 – antropocentrico, quando non c’era ancora niente, Dio
crea l’uomo che poi collabora con lui nel giardino, e invece il primo racconto
sacerdotale – c. 1 – che forse è ancora più affascinante, che insiste tanto sulla
immagine e somiglianza di Dio), vanno visti insieme; perché da una parte c’è tutto il
discorso del fango e l’alito di vita e dall’altra l’immagine e somiglianza di Dio.
Quindi si completano.
Ecco perché questo è il testo ispirato la Bibbia canonica, cioè l’insieme anche di parti
assolutamente diverse, ma che hanno un unico messaggio e che vanno letti insieme.
Naturalmente non vanno presi alla lettera, perché ovviamente Dio non ha la
forma di un uomo che impasta il fango, ma vanno colti nel messaggio che l’autore ci
rivolge e che ci consentono di rispondere alla famosa domanda: perché e come mai
l’uomo si trova nel mondo? da dove viene l’uomo?
L’autore ci dice: ci troviamo nel mondo per un’opera diretta di Dio, e non
siamo stati scagliati nel mondo per caso, né tanto meno per un caso sfortunato, come
succede nel mito babilonese per cui gli dèi, per liberarsi loro del male e della morte,
la scaricano sugli uomini. E neppure ci troviamo in un mondo assurdo, ma in un
mondo dove vige l’ordine, l’armonia, almeno nel progetto originario di Dio, quello
che l’autore deriva dal contrario della realtà che ha sperimentato. E neppure l’uomo è
stato creato perché servisse alla divinità, agli dèi con il suo lavoro.

E qui vi faccio un’altra citazione del mito di Atrahasis (che prima ho citato per
dire l’origine dell’uomo), dove troviamo un racconto di origine che ci dà un’altra
spiegazione e vi aggiunge un altro elemento. Esso racconta che una volta l’uomo non
esisteva ancora, gli dèi erano divisi in due gruppi, gli Anunnaku, 7 grandi dèi, gli
Igigu di categoria inferiore costretti a lavorare per lasciare liberi gli Anunnaku. Ma
questo secondo gruppo un bel giorno si ribella e si astiene dal lavoro. Sciopero ante
litteram. Allora i 7 grandi dèi per i quali lavoravano gli Anunnaku decidono di creare
l’uomo per affidargli il lavoro e liberare così gli dèi dalla dura fatica.
Così l’uomo viene creato con la carne e il sangue velenoso del dio Kingu mescolato
con l’argilla, e così, creato l’uomo, gli dèi sono liberi dalla fatica del lavoro. L’uomo
viene creato così per lavorare, schiavo del lavoro da cui gli dèi sono stati liberati.
Vediamo come il racconto biblico si distanzia anche da questa spiegazione che
al tempo veniva data per capire come mai l’uomo si trovava in questo mondo e
doveva fare tanta fatica per lavorare.
37

Attualizzazione

Mi sembrava indispensabile trattare argomenti collegati alla parte biblica che


abbiamo visto oggi. Noi facciamo un po’ la stessa cosa che ha fatto l’autore di allora,
cioè allora lui rispose a questi interrogativi con gli strumenti del suo tempo e la sua
cultura. Noi oggi cerchiamo di rispondere con la nostra cultura. Tra l’altro è
importante fare questo lavoro perché la comunità cristiana ha il dovere anche di un
aggiornamento culturale. Bisogna sapere dar ragione della fede che è in noi. Quindi
avere le idee un po’ chiare su questi argomenti.

Teorie odierne sull’anima

Questo è un discorso molto grosso. Se per secoli si è avuta l’idea del corpo
identificato con la materia e dell’anima con lo spirito, a parte qualche tentativo di
congiungere, tipo Cartesio con la ghiandola pineale, adesso quello che è interessante
è che nel mondo d’oggi non c’è più quella netta contrapposizione tra la scienza e la
fede. Oggi possiamo osservare questo: la materia sembra sempre più fatta di vuoto
attraversata da particelle, campi di forza. (Se pensiamo cos’è l’atomo, che non
vediamo ad occhio nudo, ma il ferro è fatto di atomi, che a loro volta hanno i neutroni
e gli elettroni che girano; quindi c’è dentro un vuoto, flussi di energia). Anche le
masse apparentemente inerti nascondono potenziali di forza. La formula di Einstein è
E=MC2 (energia = massa per velocità al quadrato). La massa materiale può
trasformarsi in energia pura.
Quindi questa materia, che è il corpo, ha affinità con lo spirito. D’altra parte
anche l’anima e lo spirito non sono più visti come puramente spirituali. Basta vedere
le straordinarie conoscenze che negli ultimi 50 anni abbiamo raggiunto sul cervello.
Ora sappiamo quali molecole del nostro cervello sono interessate alla
produzione di endorfine e quindi anche come nascono le emozioni, i sentimenti,
elementi che prima si ritenevano solo spirituali, che invece hanno una base organica.
Ormai leggiamo articoli del tipo: “sì, abbiamo un’anima, ma è fatta di tanti
piccoli robot”; oppure: “l’anima funziona così: coscienza e computer”.
Oliver Sacks 10 anni fa a Padova tenne una conferenza rimasta famosa dal
titolo “Neurologia e anima”, sembra che le neuroscienze che studiano il cervello
siano in grado di dire tutto sull’origine anche della nostra vita affettiva, intellettiva,
emotiva.
Un articolo interessante del 2000 è questo: “Corpo e anima o semplice massa
di materia”, cioè l’uomo sarebbe un semplice ammasso di cellule che funzionano
come dei computer o è dotato di qualcosa d’altro chiamato abitualmente spirito o
anima?
Ci sono ormai famosi e numerosi neuropsicologi che sostengono che funzioni
elaborate come il senso morale, il pensiero, la socialità possono ridursi alle proprietà
della massa di cellule che costituiscono il cervello. Allora l’uomo sarebbe ridotto a un
computer. Però l’autrice dell’articolo dice giustamente: se prendo la mia poesia
preferita, posso farne una descrizione analoga a quella che fanno gli psicologi del
38

cervello, perché da un certo punto di vista non è altro che un insieme di versi
composte da parole che sono un pugno di lettere. Ma se prendo questo pugno di
lettere, tutti saranno d’accordo nel pensare che ciò non ha nulla a che fare con la
commozione che nasce dalla poesia. Ci deve essere un quid di più che fa sì che da
quelle parole, da quelle lettere nasca il proprium della poesia. Lo stesso si può dire
dell’uomo.
Lo stesso si può dire di un brano di musica: per quanto noi possiamo sezionare,
scandagliare, vedere le vibrazioni, ecc., non riusciremo mai a dimostrare la bellezza
del brano di musica. Così pure: non si riuscirà mai a dimostrare, a decifrare dal punto
di vista scientifico completamente quella che è la vita spirituale dell’uomo.

Dal punto di vista della fede, della teologia che cosa si dice?
Il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 al n. 365 dice: “L’uomo è anima e
corpo”.
Non dice: “ha un’anima e un corpo”, così risulterebbero cosificati. Ma dice:
L’unità dell’anima e del corpo è così profonda che si deve considerare l’anima come
la «forma» del corpo
(certo questo linguaggio è ancora aristotelico, tomistico); lo spirito e la materia,
nell’uomo, non sono due nature congiunte, ma la loro unione forma un’unica natura.
Ormai si fa strada questa idea che non si possa distinguere. Ho letto una
definizione di anima che ho trovato in una specie di glossario per la Divina
Commedia (quindi per capire i vari termini usati da Dante) e dice: L’anima è il
principio immateriale che dà al corpo la sua sussistenza e identità; in quanto
immateriale, l’anima non è soggetta a corruzione, perciò è immortale. Memoria,
intelletto e volontà sono le operazioni proprie dell’anima. L’anima separata dal corpo
dopo la morte gode, se è in grazia, della visione beatifica e attende la risurrezione del
corpo all’ultimo giorno del mondo con cui avrà la pienezza della gloria divina.
Questi sono termini classici, tradizionali di un linguaggio aristotelico-tomista,
perché San Tommaso ha espresso tutta la teologia cattolica in termini filosofici
aristotelici, prendendo le categorie di Aristotele.
Così il termine anima (in greco psichè) non vuole indicare la cosiddetta parte
spirituale dell’uomo in contrapposizione alla parte materiale, ma indica l’uomo in
tutta la sua completezza come essere vivente di una vita che ha il suo fondamento in
Dio. Così va inteso Mc 8,35-37 e Mt 10,39 dove appunto si dice: “chi perde la sua
vita la salverà”, e anche Mt 10,28 dice: “Non temete coloro che uccidono il corpo, ma
non l’anima, la psychè”. In questo passo, anche se sembra una contrapposizione tra
anima e corpo, in realtà si deve intendere per “anima” la vita dell’aldilà, nel senso che
il confronto non è tra corpo e anima, ma tra l’esistenza terrena che finisce (l’uomo è
come la polvere) e l’esistenza presso Dio nella risurrezione. La nostra fede ci dice che
con la morte non finisce tutto.
Magari prima avevamo l’idea di questa anima non ben definita che si staccava
dal corpo e volava via, adesso invece la teologia fa una differenza tra l’esistenza
corporea e l’esistenza che Dio ridà con la risurrezione dai morti, con la risurrezione
finale, e comunque nel frattempo la persona non sparisce del tutto, perché la sua
39

esistenza in qualche modo continua (notare che non è facile esprimersi su certi
concetti, perché per forza bisogna servirsi di certe categorie).
Oggi cosa si dice delle caratteristiche dell’anima che certamente è spirituale e
immortale?
La spiritualità, più che in termini di contrapposizione alla materia, va pensata come la
capacità di dominio libero sulla materia e come capacità di decidere di se stessi in
modo libero e definitivo di fronte a Dio. L’immortalità va pensata come un momento
di quella più generale immortalità che consiste nell’essere risuscitati da Dio, cioè
nell’essere accolti, amati, sostenuti da Lui in tutto il nostro essere.
Si sono abbandonati questi termini un po’ statici – materia, corpo, anima – e si
parla più di vita legata al corpo, alla materia, alla storia, all’esistenza terrena e vita
invece in Dio.

Il Magistero, lasciando aperta la questione dell’evoluzionismo, ha affermato


che le anime sono state create immediatamente da Dio. In che modo? Come si può
spiegare questa frase? Cosa vuol dire “create immediatamente da Dio”? La creazione
di Dio non può essere concepita come identicamente la stessa nella produzione della
prima persona umana e in quella delle singole persone generate da persone
precedenti, perché nel caso di vera generazione non basta il concorso ordinario con
cui Dio coopera con ogni attività creaturale. Il fatto stesso di dare la vita vuol dire che
è Dio che ti consente di dare la vita; né si può pensare che Dio crei l’anima dal nulla e
poi la infonda nel corpo preparato dai genitori, che ha origine ovviamente dai due
genitori.
Essendo l’uomo non un conglomerato di due sostanze, ma un unico soggetto
incarnato, Dio non si limita a dare una spinta a un essere inferiore perché questo ne
produca uno superiore, la famosa anima, ma, in quanto causa principale, si serve di
esso come strumento in modo che la nuova persona umana è frutto dell’azione
immediata di Dio e dei genitori.
Questo è il grande mistero dell’origine dell’uomo che è l’unità di corpo e spirito,
di corpo e anima spirituale e immortale. I genitori la producono in quanto la persona
viva dentro una dimensione corporale (il corpo), Dio la produce come persona avente
una dimensione spirituale (anima). Il concorso di Dio nei riguardi dell’anima è
propriamente creativo (ecco la spiegazione di quel “le anime sono state create
immediatamente da Dio”) e si distingue sia da quello ordinario con cui far produrre
ad ogni essere effetti a loro connaturali, sia dalla creazione propriamente detta di
sostanze complete in cui egli non si serve di creatura alcuna.
Naturalmente tutto ciò non può costituire nessuna difficoltà per le scienze, perché
non turba affatto la regolarità dei fenomeni osservabili.

Scienza e Bibbia: contro e pro l’evoluzionismo

Dal momento in cui non si interpreta più la Bibbia alla lettera, cade anche
l’apparente problema del contrasto tra quello che dice la Bibbia (che appunto non va
40

preso alla lettera, quindi non è una verità scientifica) e quello che dice la scienza.
Quindi anche per quanto concerne l’evoluzionismo possiamo dire la stessa cosa.
Circa gli esseri viventi, in particolare l’uomo, una delle domande che più
frequentemente vengono poste (sempre nella scia del rapporto scienza e fede) è
questo: chi ha ragione? La Bibbia, che descrive l’origine dell’uomo nel modo che
abbiamo letto in Genesi, oppure la scienza che dice che l’uomo è derivato dalle
scimmie?

Cerchiamo di seguire l’evoluzione storica di questo problema. Fino all’’800 la


Bibbia era ritenuta l’unico documento storico dell’antichità, dei tempi più antichi
dell’umanità, e quindi veniva interpretata alla lettera; e quindi nessuno stupore se
quando nel 1859 uscì il celeberrimo libro “L’origine delle specie” di Darwin (1809-
1882), subito la Chiesa lo ostracizzò perché eravamo a metà dell’’800, prima che si
facessero tutte le scoperte odierne. E tra l’altro, proprio in reazione all’evoluzionismo
di Darwin, nacque in America il creazionismo.
Nello stesso tempo però, dal secondo ‘800 in poi, la Bibbia diventa oggetto di
studi critici ispirati ai metodi di ricerca e di analisi che venivano già applicati nello
studio di testi profani. Wellhausen, sempre nell’’800, individua le famose 4 fonti
prima orali e poi scritte, che confluiscono nel Pentateuco (nel IV secolo a. Cr. la
redazione definitiva) e intanto in altre civiltà dell’Antico Vicino Oriente vengono
trovati racconti molto simili a quelli del libro della Genesi, come Enuma Elish e
Ghilgamesh, e nel corso del 1900 si arriva ben presto a capire che la Bibbia non è
stata scritta né per fare storia né per dare una documentazione scientifica né per fare
cosmologia, antropologia, ecc., ma è stata scritta per rispondere a domande di senso e
di significato sulla vita dell’uomo e del mondo, e, soprattutto, per annunciare agli
uomini la storia della salvezza, cioè l’incontro tra Dio e l’uomo che è avvenuto
nell’ambito della storia umana.
Così si arriva a capire che, se la Bibbia non intendeva fare un trattato
scientifico sull’origine dell’uomo, non ha più senso contrapporla alla teoria
dell’evoluzione di Darwin, in quanto la scienza indaga su “da dove” e “come” è nato
l’uomo nel concreto, la teologia invece ricerca il “chi” e il “perché” della sua origine.
E abbiamo già visto che proprio queste erano le domande che gli autori jahwista e
sacerdotale si ponevano: far capire come da Dio fosse stato originato tutto, e l’uomo
in un modo particolare, come abbiamo visto.

Per vedere come si pongono oggi i termini del rapporto creazione ed


evoluzione, mi rifaccio ad un articolo dell’antropologo Fiorenzo Facchini.
Vorrei però prima ricordarvi alcuni dati che ci aiutano ad inquadrare il discorso
(cf. sussidio n.2 p. 10: “Tappe dell’evoluzione dell’universo e dell’uomo”). Abbiamo
detto nel primo incontro che la formazione dell’universo risale a 13,7 miliardi di anni
fa, la Via Lattea a 10 miliardi, l’origine del sole a 4 miliardi, la terra a 4 miliardi.
L’origine delle forme viventi, cioè batteri, organismi unicellulari, si è avuta a 3
miliardi e mezzo di anni fa. Quella di anfibi a 360 milioni di anni fa, quella di
mammiferi a 65 milioni di anni fa. E infine l’origine dei primati o ominidi risale a 4
41

milioni di anni fa (cf. schema in fondo alla p.10). Abbiamo l’australopithecus nelle
due forme gracilis e robustus che già usavano i due arti (cioè le gambe, anziché i 4
arti come gli altri animali) per muoversi e afferravano con gli altri arti pietre, bastoni,
ecc. Poi a 2 milioni di anni fa risale l’homo habilis che ha il cranio e il cervello più
sviluppato, usa il linguaggio e fabbrica manufatti. E via via l’homo erectus 1 milione
di anni fa.
Poi l’homo heidelbergensis 400.000 anni fa e già compiva riti collettivi, poi l’uomo
di Neanderthal e infine l’homo sapiens 160.000 anni fa.

La tesi evoluzionista di Darwin

Fiorenzo Facchini scriveva: “La teoria evolutiva è ritenuta la spiegazione più


plausibile delle forme fossili (sono residui di animali e vegetali di antichi periodi
geologici sepolti negli strati terrestri e convertiti in corpi rocciosi; e se ne occupa la
paleontologia).
È la teoria evolutiva che spiega l’origine di questi fossili pre-umani e umani, come
pure delle piante e degli animali fossili. Darwin individua le cause dell’evoluzione
fondamentalmente in due fattori:
l’evoluzione delle specie, oggi intese come mutazioni genetiche, e la pressione
selettiva operata dall’ambiente, che nel corso dell’evoluzione si è sensibilmente
modificato.”
Però sappiamo anche che la teoria evolutiva ha avuto a sua volta
un’evoluzione, una storia. Cioè è iniziata con Darwin, ma poi ha avuto ulteriori
sviluppi, specificazioni. Per esempio adesso pare che il problema ancora aperto sia
proprio la spiegazione delle cause e dei meccanismi di questa evoluzione biologica.
È opportuno fare un’ulteriore chiarificazione, cioè distinguere tre evoluzione e
evoluzionismo. A volte “evoluzionismo” viene inteso in entrambi i termini, perché
nel senso di “evoluzione” si intende il complesso delle teorie biologiche, con
riguardo ovviamente a Darwin, che sostengono (in contrasto con la teoria
dell’immutabilità o fissità della specie), che tutte le forme di vita animale o vegetale
derivano, attraverso una lenta e graduale evoluzione, da una o poche forme di vita
originarie. A questa legge ovviamente appartiene anche l’uomo. Questa è
l’evoluzione o l’evoluzionismo in tal senso.
Invece il discorso ha assunto anche un significato più ampio, per cui se si
distingue evoluzione ed evoluzionismo, per il secondo termine si intendono invece le
dottrine filosofiche secondo cui l’evoluzione è un principio generale che consente di
spiegare tutta la realtà; non soltanto un dato di fatto scientifico constatato, ma proprio
un principio che è l’origine di tutto.
Quindi secondo queste concezioni, la caratteristica dell’evoluzione è il
progresso, inteso come un processo universale e necessario verso una meta di
perfezione.
E Spencer, uno dei maggiori esponenti del positivismo, dice nell’opera
“Progresso” 1857: “Sia che si tratti dello sviluppo della terra, sia di quello della vita,
42

oppure dello sviluppo della società o del governo o dell’industria, insomma di


qualsiasi fenomeno o della letteratura o della scienza, sempre in fondo al progresso è
la stessa evoluzione che va dal semplice al complesso, attraverso successive
differenziazioni.”
E quindi l’evoluzionismo come ideologia, come teoria, come filosofia ha avuto
una enorme influenza nel secondo ‘800, nel positivismo; mentre è un po’ declinata
nel primo trentennio del nostro secolo. È noto che diversi sostenitori della teoria
evoluzionistica hanno voluto farne un uso fortemente ideologico e chiaramente
ateistico, deducendone una prova contro l’esistenza di un Creatore, cioè hanno
assunto questo principio dell’evoluzione come dimostrazione che non c’è un’azione
creativa di Dio.

Gli interventi del Magistero

All’inizio, nel 1800, ci fu chiaramente la condanna, perché quando si pensava che le


cose fossero avvenute come dice la Bibbia, chiaramente le due cose non potevano
stare insieme. Poi nel 1950 (una data importante, perché si ha un grandissimo
impulso nello sviluppo delle scienze bibliche) esce una enciclica molto importante di
Pio XII: l’Humani generis, dove si accetta un evoluzionismo moderato, cioè si dice: è
possibile ammettere un processo evolutivo nella formazione della materia e del corpo
umano, purché si salvaguardi la creazione immediata dell’anima da parte di Dio.
Allora dobbiamo sapere che da un lato la teoria evoluzionista non era ancora
sviluppata come oggi, dall’altro non erano ancora neanche sviluppate le scienze
bibliche, per cui c’è questa cautela nell’accettare il discorso, che quindi non appare
più in contrasto con quello che dice la Bibbia, purché si salvaguardi l’elemento più
importante dell’uomo che sarebbe stato creato direttamente da Dio.
Poi alla fine del XX sec. cioè nel ’96 il Papa Giovanni Paolo II in un famoso
messaggio alla Pontificia Accademia delle Scienze disse: “Nuove conoscenze (infatti
nel frattempo si era sviluppata anche la teoria evolutiva) conducono a non
considerare più la teoria dell’evoluzione una mera ipotesi.”

E quindi si stanno avvicinando i due estremi, perché in contemporanea stavano


anche affinandosi le scienze bibliche e quindi si capiva che i racconti della creazione
non erano stati fatti con un intento scientifico, ma teologico e quindi non andavano
presi alla lettera.
L’effetto di questa precisazione nell’uno e nell’altro caso è stata proprio
l’attenuazione dei contrasti. Potevamo immaginarci contrapposizione netta a metà
dell’800 quando vige la lettera - Darwin con la sua teoria. Un secolo dopo invece già
ci si avvicina e attualmente sono stati superati molti contrasti, al punto che ormai la
dottrina ufficiale della Chiesa ammette la compatibilità tra concetti di evoluzione e
creazione.
In un articolo di un moralista, Tangorra, ho trovato una citazione che mi
sembra utile, tratta dal Catechismo degli adulti della Conferenza Episcopale Tedesca,
43

e che dice: La fede nella creazione e la teoria dell’evoluzione non si contrastano


radicalmente, le affermazioni dell’uno e dell’altra offrono risposte a domande
diverse, stando su livelli diversi; se l’evoluzione si interroga sulla successione spazio-
temporale degli esseri, la dottrina della creazione invece si interroga sul fondamento
di ogni cosa trovandola in Dio. E quindi questa concezione non impedisce di
riconoscere nell’universo un processo evolutivo che si estende progressivamente fino
all’uomo.

I due concetti non sono in contrasto purché si salvaguardino alcuni punti


irrinunciabili, e cioè che a livello di principio, di fondamento, tutta la realtà creata
viene da un Dio trascendente e personale. Questa è la fede biblica, la fede cristiana.
L’evoluzione quindi va benissimo, purché ammetta appunto questo rapporto di
creazione, cioè un rapporto di radicale dipendenza da Dio, non solo agli inizi ma
anche nel corso della loro conservazione, perché c’è una creatio continua di Dio. Il
Sal 104 lo dice in maniera molto suggestiva: 27Tutti da te aspettano che tu dia loro il
cibo in tempo opportuno. 29Se nascondi il tuo volto vengono meno, togli loro il
respiro, muoiono e ritornano nella loro polvere. 30Mandi il tuo spirito, sono creati, e
rinnovi la faccia della terra.
Dio sta all’inizio, ma Dio consente anche che ci sia sempre la vita, nelle
modalità che sa Lui. È un dato di fatto il comando: moltiplicatevi. Dunque, secondo
la fede, sia l’evoluzione cosmica sia l’evoluzione biologica si sviluppano sì
obbedendo a delle leggi che la scienza ha individuato, ma nello stesso tempo
obbedendo a un progetto superiore; si sviluppano secondo un disegno superiore che
può realizzarsi, accadere attraverso eventi “casuali”, peraltro, previsto nel progetto
divino dal Creatore in un quadro di possibilità e di leggi insiti nella materia; un
disegno in cui l’uomo si presenta certamente come il punto culminante del processo
evolutivo, in quanto l’uomo ha una trascendenza rispetto alle altre creature in forza
del suo principio spirituale (il famoso nepheš, soffio di Dio, l’anima) che non deriva
da nulla di materiale e richiede un concorso particolare di Dio creatore.
Il problema è semmai precisare la natura dell’intervento divino. La risposta
teologica più convincente, elaborata da Karl Rahner (uno dei più grandi teologi del
‘900) consiste nel riconoscere che Dio non si sostituisce alle cause seconde. Dio è la
causa prima, è la spiegazione ultima del mondo, e quindi non si sostituisce alle cause
seconde, ma agisce in esse ponendo il creato nelle condizioni di potersi evolvere, cioè
le stesse leggi di natura derivano da Dio; però poi esse sono autonome, hanno la loro
evoluzione, per cui non occorre che Dio sia lì presente in ogni momento, come
nell’Islam che invece attribuisce tutto alla causa prima, non alle cause seconde.
Quindi, come si legge in “Dignità e diritti della persona umana” (un testo
elaborato dalla Commissione Teologica Internazionale), ne consegue l’onestà
intellettuale della posizione credente, secondo cui l’uomo non è un semplice prodotto
dell’evoluzione generale della materia, ma un effetto specialissimo per l’azione di
Dio, perché è stato creato a Sua immagine.
In conclusione la vera alternativa a questo punto non è tra evoluzione e
creazione, che non ha più senso mettere in contrasto, ma tra visione di un mondo in
44

evoluzione con leggi sue proprie, ma dipendente da un Dio creatore secondo un suo
disegno, e invece visione di un mondo autosufficiente, capace di crearsi e
trasformarsi da sé (quella famosa energia che non si sa da dove viene, ma che dicono
c’è sempre stata) per eventi puramente casuali.

Il creazionismo

Il creazionismo è nato nel secondo ‘800 per reazione a Darwin. Si tratta di


gruppi protestanti che rifiutano categoricamente – anche oggi – la visione
evoluzionistica del mondo, per cui le specie viventi e in genere l’insieme della realtà
sarebbero il risultato del lento lavorio di forze naturali, e sostengono che solo Dio è il
creatore dell’universo e di tutto ciò che lo abita, ed è creatore in maniera diretta,
indipendente dalle leggi della natura. Dio avrebbe agito esattamente come riferiscono
alla lettera i primi capitoli della Genesi, scritti da Mosè – dicono loro – sotto sua
ispirazione.
L’americano Fergusson nel suo interessante libretto “L’universo e il Dio
creatore” dice: “Il creazionismo si radica nella convinzione protestante della
infallibilità della Scrittura (e siamo tutti d’accordo che la Scrittura sia infallibile),
l’intera teoria dell’ispirazione asserisce l’infallibilità della Scrittura su tutti gli
argomenti di cui parla (e qui naturalmente non siamo più d’accordo), storia, scienza,
morale, religione. Lo Spirito Santo dettò le parole agli scrittori in modo da escludere
la possibilità di qualsiasi errore in nessun campo”.
È molto importante questo convincimento protestante sul carattere della
Scrittura, come pure un altro convincimento: “La Bibbia è un libro che propone dei
fatti e contiene affermazioni scientifiche precise al pari di quelle che si possono
trovare sulle pubblicazioni del XX secolo (sono veramente strabiliata dall’esistenza
di movimenti di questo tipo!). Uno degli argomenti più frequentemente utilizzati
contro la teoria dell’evoluzione è costituito dall’affermazione in Gen 1 che piante e
animali genereranno altri simili; quando Dio dice: crescete e moltiplicatevi. Questa
frase viene solitamente intesa come preclusiva della possibilità per una specie di
produrne un’altra”, come sostiene Darwin: da una specie più semplice ne nasce una
più complessa.
Allora i creazionisti dicono: l’universo è molto più giovane di quanto la scienza
moderna ci dica. I sei giorni della creazione, sommati alle genealogie della Bibbia, ci
permettono di far risalire la nascita dell’universo intorno al 4.004 a.C. e precisamente
alle ore 9 del mattino del 26 ottobre 4.004 a.C. Se invece si vogliono considerare i sei
giorni della creazione ciascuno come mille anni (che è una possibile interpretazione,
così come è suggerito dal Sal 90,4), allora si ottiene un universo vecchio quasi 10.000
anni.
Ma in ogni caso, 4.000 o 10.000 che siano, si ha un universo molto più giovane
rispetto ai 13,7 miliardi di anni calcolati dalla moderna cosmologia. Ovviamente, a
causa di queste rivendicazioni, il creazionismo adesso è ai ferri corti con l’attuale
ortodossia scientifica, perché contraddice la fisica della teoria del big bang,
45

contraddice l’affermazione geologica secondo cui le rocce devono avere milioni di


anni e i fiumi e i mari devono aver avuto a disposizione milioni di anni per
raggiungere la loro forma attuale. Contraddice l’affermazione della paleontologia
secondo cui i fossili devono essere antichi milioni di anni. Contraddice inoltre la
teoria della biologia secondo cui le specie evolvono e si differenziano attraverso
processi di selezione naturale e di mutazione genetica.
Il creazionismo è invece convinto che non vi siano alternative dal punto di
vista teologico, se non contestare le affermazioni delle scienze naturali. Quindi loro
sono tornati indietro di cento, centocinquanta anni. Non vi possono essere
simultaneamente creazione ed evoluzione, l’uno esclude l’altro.
Di conseguenza i creazionisti fondamentalisti hanno chiesto per anni (e tuttora
qualcuno si batte per questo) che nelle scuole non si insegni nel modo più assoluto
l’evoluzionismo, o almeno se ne mettano in risalto i difetti, le lacune.
In un articolo di Avvenire del 2003 leggiamo: Nel nord Kentucky è in corso di
allestimento un Museo della creazione in cui, partendo dal primo versetto della
Bibbia e interpretando alla lettera i primi due capitoli di Genesi, questi creazionisti
hanno ricostruito la storia della vita sulla terra. Qui tra dinosauri di varie specie
compaiono numerosi esemplari di homo sapiens (perché secondo loro sono nati
contemporaneamente) e i dinosauri abitavano la terra fino a 5.000/6.000 anni fa.
(Mentre la paleontologia ha dimostrato che si estinsero 75 milioni di anni fa).
In un articolo del Sole 24 Ore del 2004 in occasione della scomparsa della
teoria dell’evoluzione dal curriculum delle scuole medie, ho trovato delle
informazioni tratte da un articolo di Paola Dessì: “Creazionisti all’assalto”, dove si
dice che questi creazionisti non sostengono più che la teoria dell’evoluzione contrasti
con le credenze religiose e quindi non vada insegnata. I creazionisti degli anni ‘80
affermano invece che il creazionismo è una teoria scientifica e va insegnato nelle
scuole pubbliche in ossequio al primo emendamento della Costituzione USA che
dice: Il Congresso non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi
religione o proibirne il libero culto.
Cioè l’insegnamento paritario del creazionismo viene chiesto in nome della
libertà di credenza e di parola. Quindi sembra che abbandonino il fondamentalismo, e
che questi fondamentalisti si trasformino in custodi della libertà, perché appunto
rivendicano la loro libertà di insegnare la loro teoria. Però in questo passaggio ci sono
due elementi davvero difficili da accettare: cioè bisognerebbe accettare l’idea che il
creazionismo sia una teoria scientifica e che a sua volta l’evoluzionismo sia una sorta
di religione, di ideologia, non tanto di scienza. Si sono ribaltati i termini.
In realtà – come mostra con chiarezza Paola Dessì - molte delle posizioni
creazionistiche si limitano a spingere alle conseguenze estreme un ragionamento
tipico della tradizione antiscientifica: dato che la scienza non spiega tutto, è
necessario far ricorso a un sapere diverso di tipo intuitivo o di matrice religiosa che
sia in grado di colmare ogni lacuna. Ma ciò che chiamiamo “scienza” – dice
ironicamente l’articolista – è nato proprio in queste antitesi.
È impressionante come ancora adesso hanno molta voce in capitolo in USA.
46

Un legame tra il processo di evoluzione e addirittura la figura di Cristo è


stabilito dal gesuita Teilhard de Chardin, filosofo e paleontologo cattolico (1881-
1955) nella cui visione il mondo è in movimento verso un punto di convergenza
conclusivo, il punto omega, coincidente con Cristo, che nel compimento della parusia
si rivelerà unificante del tutto. Anche la teoria di Chardin è sicuramente suggestiva.

La tesi di Monod: il caso e la necessità

“Il caso e la necessità” è il titolo del libro (uscito nel 1970 e tradotto in 15 lingue) del
celebre biologo francese Jacques Monod, premio Nobel. È uno dei più lucidi assertori
di ateismo del XX sec.
Nel suo studio egli approfondisce la teoria molecolare del codice genetico presente in
ogni vivente: il famoso DNA. In questa struttura molecolare si inseriscono di tratto in
tratto “errori”, mutazioni casuali del codice genetico. Questi errori casuali, una volta
inseriti, vengono automaticamente tradotti e moltiplicati in milioni e miliardi di
esemplari.
Ecco dunque – secondo la sua teoria – il caso (cioè questi errori casuali) e nello
stesso tempo la necessità che tali errori si ripetano automaticamente e fedelmente
comportando i cambiamenti che abbiamo detto. Il segreto della vita è insomma
un’enorme lotteria. Secondo Monod non c’è nessun progetto, nessun programma, e
dunque nessun Programmatore. Quindi si oppone radicalmente al concetto del piano
del Creatore.

Ma paradossalmente è proprio dalle scoperte scientifiche più recenti in biologia


che viene la più clamorosa smentita alle tesi di Monod. Grazie al super microscopio
elettronico che ingrandisce 80.000 volte, noi siamo in grado di esplorare dentro il
miliardesimo di miliardesimo di millimetro. E così si è scoperto che una cellula è
composta da 20 amminoacidi la cui funzione dipende da 2.000 enzimi specifici. I
biologi calcolano che la probabilità che un migliaio di enzimi differenti si raggruppi a
caso, in modo ordinato fino a formare un cellula vivente nel corso di diversi miliardi
di anni, è di uno più mille zeri. E per affrontare una molecola di RNA, l’acido
ribonucleico, la natura avrebbe dovuto moltiplicare i tentativi a caso per un milione di
miliardi di anni, tempo centomila volte più esteso dell’età complessiva del nostro
universo, il quale è di 13,7 miliardi di anni.
Ma allora, come dice Jean Guitton nel libro “Dio e la scienza”: Il “caso” non è
altro che la nostra incapacità di capire un ordine superiore. Per Dio, che sa tutto e
vede tutto, ovviamente il caso non esiste, piuttosto combinando ad ogni istante ogni
genere di incontro tra oggetti, fatti e persone, Dio (o i metodi che Lui escogita) si
serve degli infiniti incroci che ne possono derivare per creare l’ordine del mondo. E
qua, come aveva ben visto Pascal, c’è il caso, sì, ma governato dalla saggezza. O,
come disse Albert Einstein, il caso è Dio che passeggia in incognito.
47

Sull’argomento si è espresso il narratore contemporaneo Emilio Fermi in


“Sulle tracce di Dio” alle pp. 12-14.
Come dice il grande astrofisico Stephen Hawking, l’intera storia della scienza è
stata una graduale presa di coscienza del fatto che gli eventi non accadono in modo
arbitrario, ma che riflettono un ordine sottostante; dal big bang ai buchi neri,
Hawking dimostra la necessità e la plausibilità del principio antropico forte, ma
comunque del rimando ad una Mente ordinatrice e organizzatrice. Si può davvero
affermare che oggi tutte le cose, soprattutto i cieli sopra di noi, ma anche quegli
invisibili enti che si incurvano all’interno degli atomi, narrino più ancora che in
passato la gloria di Dio. (Si usava dire che la natura, soprattutto il firmamento,
l’universo è l’espressione della grandezza e della gloria di Dio). Ma oggi possiamo
veramente dire che ancora di più ci si stupisce che alcuni scienziati sono giunti alla
fede proprio studiando la scienza, cioè facendo ricerca e vedendo i prodigi della
scienza.
Queste realtà incredibili danno più che in passato gloria a Dio, tanto che le
grandi scoperte scientifiche del 900 costituiscono attualmente per molte persone colte
e di mente aperta uno dei più validi motivi di apertura alla fede. Già Galileo aveva
scritto più di 400 anni fa: “Il mondo che ci circonda, la natura, è un libro
meraviglioso dove nemmeno una virgola è posta a caso”.
E ancora di più allora la creazione, le bellezze, le meraviglie del creato che si
scoprono innumerevoli e sempre più stupefacenti, devono far crescere in noi il
sentimento dello stupore e del ringraziamento a Dio per tutto quello che ha fatto
esistere. Lo dice anche il Catechismo al n. 293.

Mai prima di oggi, l’uomo ha avuto una così alta visione dell’opera e della
potenza di Dio.

Circa il rapporto scienza e fede, possiamo concludere che Dio non è


un’invenzione umana e le leggi fondamentali della natura scoperte dagli scienziati ne
sono la prova.

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GENESI 1-11 3° lezione Milano, 27 ottobre 2004

Il giardino di Eden e la creazione della donna

Gen 2

Analisi e commento di Gen 2,8-15: il giardino di Eden, in particolare: l’albero


della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male.
48

Nel secondo racconto di creazione dell’autore jahwista, Dio pone l’uomo, dopo
che lo ha creato, nel giardino di Eden. In questo caso ci troviamo di fronte a una
tradizione originale della cultura ebraica, perché non esiste nel mondo semitico, nelle
culture circostanti una sorta di tradizione di filone del paradiso terrestre. Ci sono dei
singoli elementi che l’autore prende anche da altre culture, però l’idea dell’Eden, del
paradiso terrestre, è assolutamente nuova. Il peccato in Gen 3 avviene proprio in
questo luogo. Quindi anche l’ambientazione è molto importante, perché è fatta con un
certo intento che l’autore ha.
8
Gen 2 Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente e vi collocò
l’uomo che aveva plasmato. 9Il Signore Dio fece germogliare dal suolo
ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui
l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del
bene e del male.

In questo secondo racconto di creazione, prima viene l’uomo e poi la natura


nella quale Dio colloca l’uomo. Notiamo subito: “tanti alberi graditi alla vista e buoni
da mangiare” e soprattutto due alberi in posizione centrale in questo giardino.
Qual è il simbolismo dell’albero? L’albero faceva già parte di una simbologia
molto diffusa nel mondo orientale e quindi anche nell’AT. Ed è abbastanza intuitivo:
in un paesaggio della Palestina, molto arido, secco, bruciato dal sole, l’albero è
innanzitutto un grande segno di vita, perché indica la presenza di acqua (altrimenti
l’albero non potrebbe esistere) e la possibilità di refrigerio, di frescura che deriva
dall’ombra, e poi naturalmente indica fecondità, perché l’albero dà dei frutti. Non
solo, ma poiché l’albero sovrasta con la sua altezza tutti gli altri esseri viventi,
intuitivamente si formò l’idea di vederlo come un emblema religioso, che collega la
terra al cielo, quindi alla divinità. Infatti presso i Sumeri, il dio della vegetazione era
chiamato Dumuzi ed era venerato come albero della vita. Anche i Cananei, che
abitavano la Palestina prima che vi arrivassero gli Ebrei, veneravano degli alberi
ritenuti sacri e addirittura costruivano lì nei boschi presso questi alberi dei luoghi di
culto. Tra l’altro, questo rappresentò sempre una forma di tentazione per Israele di
adeguarsi a questi culti e quindi (come purtroppo ha fatto tante volte) tralasciare il
culto a JHWH.
Insomma presso questi popoli, l’albero era considerato un’espressione di
fertilità, di vita, di benessere, e, in particolare, proprio l’albero della vita era un
simbolo per esprimere nell’Antico Oriente la vita piena, realizzata, eterna. Era un po’
il segno dell’immortalità e della comunione con la divinità.
10
Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e
formava quattro corsi. 11Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno
a tutto il paese di Avìla, dove c’è l’oro 12e l’oro di quella terra è fine; qui
c’è anche la resina odorosa e la pietra d’onice. 13Il secondo fiume si
chiama Ghicon: esso scorre intorno a tutto il paese d’Etiopia. 14Il terzo
49

fiume si chiama Tigri: esso scorre ad oriente si Assur. Il quarto fiume è


l’Eufrate.

La prima domanda che viene spontanea a farsi è: che cos’è questo giardino creato da
Dio? è un giardino reale? si trova in una località identificabile? Diciamo subito di
NO, perché non esiste una località che si chiami Eden, la parola stessa Eden è un
termine delle lingue mesopotamiche che può indicare sia la steppa, sia la presenza di
una sorta di oasi nella steppa, di un luogo fertile alberato. In ebraico viene da un
nome che indica una pianura, una steppa, anche se poi per i significati assunti
successivamente evoca il paradiso terrestre. No. Sarebbe una steppa; infatti dice:
piantò a oriente di Eden – in questa steppa – un giardino, e vi collocò l’uomo.
Cominciamo a dire appunto che non è un luogo preciso, geografico. Tanto più
che, come racconta l’autore biblico, è Dio stesso che pianta il giardino. Quindi non
può essere di questo mondo, dove è l’uomo che semina, pianta e coltiva la terra.
Non solo, ma se due dei quattro fiumi, il Tigri e l’Eufrate, possono identificare
la Mesopotamia, non così gli altri due, perché uno si trova in India e uno in Africa.
Infatti la tradizione rabbinica e anche patristica normalmente identifica il Pison con il
Gange (che si trova in India) e il Ghicon con il Nilo (che si trova in Egitto).
Qual è il significato della costruzione del giardino da parte dell’autore biblico?
Utilizzare i quattro fiumi allora ritenuti più grandi di tutto il mondo. Sono, dal punto
di vista del mondo antico, un po’ la sintesi del mondo stesso, perché, se vi collocate
soprattutto in Mesopotamia, i quattro fiumi si collocano esattamente ai quattro punti
cardinali, quindi indicano simbolicamente la totalità del mondo in tutta la sua
bellezza, in tutto il suo rigoglio, in tutta la sua fecondità come si vede dalla grande
abbondanza di acqua.
Allora che cos’è in realtà questo posto? Questo luogo specifico creato da Dio
direttamente e così descritto? È un po’ il rovescio, la controfigura di quello che era il
paesaggio arido e durissimo da lavorare che era tipico della Palestina. Lo sfondo
storico-geografico della descrizione del racconto di Gen 2 è quello della Palestina,
mentre lo sfondo di Gen 1 è la terra lussureggiante della Mesopotamia.
L’intento dell’autore è quello di far vedere come doveva essere la creazione
appena uscita dalle mani di Dio. Non avendo altri termini di riferimento per
immaginarsela e rappresentarsela, prende esattamente l’opposto di quello che era il
negativo della sua esperienza: la terra, il paesaggio, il luogo dove si viveva, e ne fa il
contrario: un paesaggio fertilissimo, verdissimo, con grande abbondanza di acqua,
con tanti alberi e frutti. Così doveva essere la terra voluta da Dio.
15
Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo
coltivasse e lo custodisse.

Con questa frase riusciamo ancora meglio a identificare il luogo creato


dall’autore jahwista, perché il verbo prendere in ebraico è lāqah, che vuol dire non
soltanto prendere, ma scegliere, eleggere, indica proprio l’azione; nella Bibbia si usa
tutte le volte che si dice che Dio sceglie qualcuno o un popolo. (Come anche nel NT
50

Gesù sceglierà degli apostoli). In ebraico il verbo lāqah indica la scelta che Dio fa
di un popolo o di una persona per destinarlo ad una missione e a una comunione con
sé.
Infatti in Dt 4,20: Il Signore vi ha presi, vi ha fatti uscire dal crogiuolo di ferro,
dall’Egitto, perché foste un popolo che gli appartenesse, come oggi difatti siete. E nel
corrispondente greco, nel NT, troveremo ancora questo verbo con cui si dice che
Gesù sceglie, chiama, indica alcune persone specifiche perché diventino suoi
discepoli, e li chiama ad una particolare intimità, comunione con sé.
Questa scena prefigura, come intenzione di Dio ancora all’inizio del mondo,
quello che effettivamente poi avvenne storicamente, e che l’autore jahwista ha già
sperimentato nel X secolo, perché tutti questi fatti sono avvenuti prima di lui. Cioè
questo gesto prefigura l’elezione del popolo ebraico che Dio aveva fatto e quella
famosa terra promessa che Dio aveva appunto promesso prima ad Abramo, poi a
Isacco, a Giacobbe, ecc.
La descrizione stessa del giardino è molto simile alle varie descrizioni della
terra promessa che si trovano nella Bibbia. Ad Abramo, chiamato dalla sua terra, Dio
fa vedere la Palestina e gli dice: Io darò a te e alla tua discendenza questa terra.
Quindi il tema della “terra promessa” è un tema tipico della Bibbia e della storia di
Israele. Per esempio in Michea e in Zaccaria si descrive la terra promessa come una
terra bellissima, lussureggiante dove ciascun Israelita potrà vivere tranquillo sotto la
propria vite, sotto il proprio fico.

Dio pone l’uomo nel giardino perché lo coltivasse e lo custodisse. È una frase
molto importante perché dice quale deve essere il rapporto tra l’uomo e la natura che
Dio ha creato, e si collega a Gen 1,28: Siate fecondi, moltiplicatevi, riempite la terra,
soggiogatela e dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, su ogni essere
vivente che striscia sulla terra.
C’è la totalità del mondo anche qua: cielo, mare, terra. Qui si vede chiaramente qual è
il compito che Dio affida all’uomo nei confronti del creato: coltivare (un lavoro
dell’uomo nei confronti della terra), custodire e dominare.
“Dominare” nella traduzione italiana può sembrare un invito a spadroneggiare,
esercitare un dominio. Nell’originale ebraico rādah si indica l’azione del re che
domina, non in senso tirannico, ma nel senso che sempre Israele attribuiva alla
funzione del re: guidare, governare il proprio popolo in vista dello shalom, della vita
pienamente realizzata nella pace. Quindi ha più un significato positivo che non
negativo questo “dominare la terra”, che vuole dire appunto governarla in positivo.
Però col coltivare, custodire, governare, l’uomo non diventa padrone della terra. La
terra è di Dio, resta Dio il padrone della terra. L’uomo è un po’ il mandatario, il
fiduciario, qualcuno a cui Dio affida un compito nei confronti del creato.
16
Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di
tutti gli alberi del giardino, 17ma dell’albero della conoscenza del bene e
del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente
moriresti».
51

È una frase importantissima. Perché mai Dio dà questo comando all’uomo? Il


peccato originale consisterà proprio nel trasgredire questo comando.
Esaminiamo la frase: Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino. Qui si dice:
Dio ha fatto una cosa bellissima e l’ha donata all’uomo, gli ha dato la possibilità di
mangiare di tutti questi frutti. Insieme a questo dono, però, accompagna un comando
in negativo. (Questo modo di esprimersi, questo stile ricalca lo stile dei
Comandamenti, della Legge). Come sempre, l’autore costruisce il racconto sulla base
della sua esperienza: Israele aveva già fatto al Sinai l’esperienza del dono della Legge
da parte di Dio, Legge che conteneva anche comandi in negativo.
L’albero della conoscenza del bene e del male, collegato a quello della vita, è
un elemento assolutamente nuovo e originale dell’autore biblico. Se “l’albero della
vita” è attestato in altre culture, l’albero della conoscenza del bene e del male è
nuovo, originale. L’autore l’ha creato proprio per comunicarci il messaggio che
adesso vedremo.
Tutti gli alberi del giardino e in particolare quello della vita significano che
tutta la creazione è grazia, è dono che Dio fa all’uomo. Ma se è dono, qual è allora
l’atteggiamento corretto da parte dell’uomo? Quello di riceverlo come dono. Il dono
va ricevuto, non va arraffato o rapinato.
E cos’è allora il secondo albero? E perché invece del secondo albero si dice che non
ne deve mangiare, perché quando tu ne mangiassi, moriresti?

L’albero della conoscenza del bene e del male.


“Conoscenza” a noi evoca subito un’attività di tipo intellettuale: conoscere è
conoscere con la ragione. Nel mondo semitico il verbo conoscere non indica soltanto
un’attività di tipo intellettuale e razionale, ma coinvolge anche la dimensione volitiva,
la dimensione esistenziale. E quindi il conoscere indica anche la decisione, non
soltanto la conoscenza intellettuale, il volere.
Quanto poi ai due termini antitetici “bene e male”, sono le due facce della
realtà morale.
Cosa vuol dire “conoscere il bene e il male”? vuol dire conoscere non soltanto
intellettualmente, ma sapere, quindi stabilire, decidere, volere che cosa è bene e che
cosa è male.
Ora soltanto Dio può fare questo; in realtà fa questo, perché il senso del bene e
del male proviene da Dio. Solo Dio decide ciò che è bene e ciò che è male.
Per questo si dice: se l’uomo è una creatura di Dio e quindi può ricevere in
dono tutto quello (che è tantissimo) che Dio gli vuol dare, però deve ricordarsi che
sempre creatura è. E non può pretendere di svolgere lui – creatura – quella funzione
che invece è propria del Creatore: il decidere che cosa è bene e che cosa è male.
Questo è il senso di quel comando: è far prendere atto all’uomo di quella che è
la sua realtà. L’uomo può usufruire di tutti i frutti, in particolare di quest’albero della
vita, ma non deve accedere a questa dimensione, pretendere lui di stabilire cos’è bene
e male, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti.
52

Qui non si dice una punizione da parte di Dio, ma si esprime quella che sarebbe
l’inevitabile conseguenza di questa pretesa dell’uomo di conoscere il bene e il male.
“Moriresti” si può intendere in due sensi: sia l’esperienza fisica del morire come
qualcosa che è innaturale per l’uomo che lo sgomenta, lo terrorizza, ma anche la
separazione dal Dio della vita, il perdere la comunione con Dio, come infatti vedremo
che accade con il peccato originale.
Questa proibizione, analogamente a quelli che erano i comandi in senso
negativo del Sinai, del Decalogo, ha questa funzione.
La creazione è buona, e per questo al centro del giardino c’è l’albero della vita,
ed è donata da Dio all’uomo, ma proprio questo dono necessita a sua volta della
proibizione, perché se non fosse così, se Dio non rendesse edotto l’uomo che non può
pretendere di fare quello che fa Dio, l’uomo seguendo il suo istinto e mettendosi al
posto di Dio, rischierebbe non solo di rovinare se stesso, ma di sfigurare la creazione
stessa, di stravolgere, di distruggere l’opera di Dio, perché, non essendone lui
l’autore, la userebbe male.

Questi due alberi rappresentano un po’ l’uno il rovescio dell’altro. Se la


creazione è benedizione e dono, va ricevuta come dono, consapevoli del proprio
essere creatura. Se invece ci si atteggia a conoscitori del bene e del male, cioè a
creatore, si pretende di sapere tutto, in questo caso si vede tutto come qualcosa che è
dovuto, non come un dono, e si fa di quello che è dovuto quello che si vuole. L’uomo
rischia di mettere le sue mani sopra il dono come un padrone e purtroppo rischia di
distruggerlo.

Non c’è divieto per l’albero della vita, anzi si dice: tu puoi mangiare di tutto.
Ma nel caso che l’uomo mangi dell’altro albero, cioè assuma quell’atteggiamento lì,
allora di fatto si preclude e si è vietato l’albero della vita e quindi muore (come infatti
avverrà dopo il peccato originale: Dio impedirà l’accesso all’albero della vita).
In sostanza l’autore vuole dire questo: se si mangia dell’uno, non si può
mangiare dell’altro. O si mangia dell’albero della vita e si accetta tutto come dono, si
riconosce il proprio limite di creature, oppure si mangia dell’albero della conoscenza
e del male, si pretende di mettersi al posto di Dio, e allora però si tratta tutto non
come un dono ma come qualcosa che è dovuto, qualcosa che è proprio e di fatto si
rischia di rovinarlo, proprio perché lo si sottrae a quello che è il suo vero Autore, al
suo Creatore. Se si riconosce di essere creature, di essere dipendenti da Dio, allora
bisogna lasciare che Dio sia Dio e non cercare di sostituirsi a Lui, e allora si può
usufruire in maniera corretta dei suoi doni.
Questo divieto, che in un primo tempo potrebbe sembrare molto strano o
quanto meno arbitrario (perché Dio deve dire così?), se cerchiamo di capire la logica
dell’autore, di capire il contesto, vediamo che non è più un divieto arbitrario,
dispotico, ma piuttosto è una misura di protezione, sia per l’uomo da se stesso perché
non stravolga il suo essere creatura con tutte le conseguenze negative che ne
derivano, sia a misura di protezione della creazione stessa, opera di Dio, da un uomo
che possa diventarne un padrone tiranno e spadroneggiante la creatura.
53

Perché mai l’autore del X secolo ha creato questo bel racconto con tanti
particolari annettendo a ciascuno di essi un messaggio, un significato? Proprio perché
lui vuole dare una risposta diversa da quella che davano le altre culture circa l’origine
del male, del negativo nella vita dell’uomo. Il male non deriva dalla divinità (cf. il
mito di Enuma Elish: l’uomo nasce dalla mistura del sangue avvelenato di un
demonio e della terra), ma il male molto spesso è una conseguenza di scelte libere e
responsabili dell’uomo, che si arroga dei diritti che non ha, pretende di fare quello
che non tocca a lui fare.
Dietro c’è sempre l’esperienza storica che il popolo di Israele ha già vissuto.
JHWH ha stretto con Abramo, il capostipite degli Ebrei, un’alleanza, che ha poi
rinnovato con ogni discendente di Abramo: con Isacco, Giacobbe e poi con Mosè,
rappresentante del popolo di Israele sul Sinai col dono dei dieci Comandamenti, ma a
questa condizione: che il popolo di Israele riconosca di essere il popolo scelto da Dio,
riconosca che Dio lo ha scelto con una certa missione e gli sia fedele. Perché se
invece gli sarà infedele, trasgredirà la Legge, si rivolgerà ad altri idoli, di necessità
incorrerà in situazioni negative: subirà l’invasione di popoli stranieri, diventerà
schiavo, ecc.

La questione del “Paradiso terrestre”.


Normalmente all’inizio della Genesi si trova la descrizione del paradiso
terrestre, dove è avvenuto il peccato originale. Noi però finora la parola “paradiso”
non l’abbiamo mai incontrata. (Non c’è un altro racconto dove si parla di paradiso
terrestre). Il paradiso terrestre è questo luogo ideale, lussureggiante, bellissimo, che
abbiamo letto.
Come mai questa apparente discordanza? È una questione di termini: la parola
“giardino” in ebraico è gan, dalla radice che significa proteggere, custodire. Poi con
la traduzione dell’AT dall’ebraico al greco (III – II sec. a.C.), la parola gan è stata
resa con il greco paràdeisos, che in realtà è una parola di origine persiana pairi-daéza
che vuol dire cinta, recinto, ma anche parco regale, lussureggiante.
Per questa ragione è rimasto poi il termine paradiso, perché dal greco si è passati al
latino, con la famosa Vulgata di S. Girolamo (IV sec. d.C.), da cui in italiano
“paradiso”.
“Eden” non corrisponde a nessun luogo geografico specifico, perché l’autore
voleva piuttosto presentare quello che doveva essere il mondo ideale e perfetto, uscito
dalle mani di Dio. Infatti è proprio questo il messaggio dell’autore. Il progetto
originario di Dio era fare un mondo bello, armonioso in cui l’uomo fosse felice. Poi
per colpa dell’uomo questo luogo è stato rovinato, è decaduto e la terra in cui vive ora
l’uomo non è più questo paradiso terrestre.
Quindi Eden o gan o paradiso terrestre è un’utopia.
Viene spontaneo chiedersi se c’è un nesso tra questo luogo ideale, utopistico e
la famosa età dell’oro che è altrettanto un tempo, un luogo ideale, utopico, e che si
trova anche in altre culture. Ad esempio di età dell’oro parla molto la cultura romana.
Nella mitologia romana, l’età dell’oro indicava la prima età del mondo. Anche qua un
54

inizio bellissimo, armonioso, straordinario sotto il regno del dio Saturno (che era il
padre di Giove, prima che Giove diventasse il padre degli dèi). Un periodo di assoluta
pace, prosperità, senza nessuna fatica, nessun dolore, dove la terra dava
spontaneamente i suoi frutti, dove regnava la pace sia tra gli uomini che tra gli
uomini e gli animali (cf. la descrizione che ne fa Ovidio nelle Metamorfosi, oppure
Virgilio nella IV egloga).
Ci può essere un nesso tra questa idea, che si trova anche in altre culture,
dell’età dell’oro, del paradiso terrestre e il nostro Eden? Sì e no. Perché innanzitutto
ricordiamo che la creazione del giardino e la collocazione dell’uomo in esso è un po’
il riflesso di quella che è stata l’esperienza storica di Israele che ha visto Dio agire
verso il suo popolo in questo modo: tirarlo fuori dalla situazione di schiavitù in
Egitto, dal dolore, dalla sofferenza e portarlo nella terra promessa, che era apparsa
lussureggiante. Quindi lì c’è un po’ sintetizzato il percorso di Israele dal deserto alla
terra promessa.

Ma poi soprattutto per un’altra ragione si diversifica l’Eden biblico dall’età


dell’oro dei Romani e di altri popoli, perché nella Bibbia troviamo delle
raffigurazioni, delle rappresentazioni in termini simili o identici di terra bella,
lussureggiante, a indicare quello che sarà il Regno di Dio negli ultimi tempi.
Esempio Is 11: 6Il lupo dimorerà insieme con l’agnello. 8bIl bambino metterà la mano
nel covo di serpenti velenosi. Si riferisce non al passato, ma al futuro, a quello che
sarà la realizzazione del Regno di Dio. Is 51,3: Davvero il Signore ha pietà di Sion,
rende il suo deserto come l’Eden, la sua steppa come il giardino del Signore.
Isaia 51 veniva letto come commento del Pentateuco, in particolare di Gen 2,
nel ciclo triennale della lettura sinagogale. Nelle sinagoghe ebraiche si legge
continuativamente il Pentateuco e a commento si usano letture tratte dai profeti
collegate al tema. E allora alla lettura di Genesi si affianca come commento Isaia, che
descrive questa situazione del Regno di Dio con tanti riferimenti, per es. all’albero
della vita. Anche in Is 65,22: Come i giorni dell’albero della vita, tali saranno i
giorni del mio popolo. Anche in Apocalisse troviamo descrizioni del genere: Al
vincitore darò da mangiare dell’albero della vita che sta nel paradiso di Dio (2,7b).
Nell’Apocalisse si descrive ampiamente questa città di Dio, questo luogo ideale.
Il paradiso terrestre, di cui tanto si parla, non ha niente a che vedere con una
situazione che sia veramente esistita, come l’età dell’oro nei popoli antichi, ma
rappresenta piuttosto la proiezione del desiderio e del bisogno dell’uomo di avere una
terra perfetta, bella, armoniosa, solo positiva; e qui possiamo trovare un’analogia con
altre culture. Però nel popolo ebraico questo riferimento, più che al passato, è nel
futuro; sicuramente è molto più forte questa accentuazione verso il futuro che non
verso il passato, rispetto alle altre culture.
In pratica il paradiso terrestre, l’Eden, è la rappresentazione anticipata di una
felicità perfetta, di una beatitudine che ci sarà; certamente ci sarà. Non che c’è stata
agli inizi e che poi si è perduta per sempre. Ci sarà certamente e sarà la
manifestazione del Regno di Dio.
55

Dovremmo cercare di cambiare l’idea che avevamo e che molto spesso si ha.
Soltanto di recente si fa questa lettura più attenta, storicizzata della Bibbia. Dobbiamo
renderci conto che non è mai esistito un paradiso terrestre o un Adamo ed Eva
perfetti, che poi hanno perso tutto a causa del peccato originale, che peraltro noi
abbiamo ereditato come abbiamo ereditato l’umanità e quindi rimpiangere un
qualcosa che in realtà non è mai esistito.

Il messaggio biblico dice: l’uomo avverte questi limiti, questa negatività, certo
che vorrebbe non avere il dolore, la malattia, la sofferenza, la morte; è giusta come
esigenza, è istintivo nell’uomo. Ebbene – ci dice il messaggio biblico – questa
positività perfetta ci sarà, ma sarà il dono finale del Regno di Dio, quando – come
dice l’Apocalisse – verrà asciugata ogni lacrima dagli occhi dell’uomo e si
manifesterà completamente la grazia di Dio, e avverrà in Cristo. E lì verrà ricuperato
anche il superamento della morte fisica, perché dice Sap 1,13-14: Dio non ha creato
la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli ha creato tutto per l’esistenza.
L’intento originario di Dio è la vita e solo la vita. Dio ha istituito un ordine di
vita. Ora nella nostra esperienza purtroppo c’è anche quella della morte, c’è una
morte fisica, ma noi nella nostra fede sappiamo che c’è un superamento di questa
esperienza negativa della morte fisica, se siamo in comunione con Gesù. Il
superamento è in Cristo. È una morte che nel progetto originario di Dio non era
accompagnata da tutto quell’insieme di angosce, di terrore che l’uomo sperimenta.
Questo famoso paradiso terrestre degli inizi non è altro che il simbolo del vero
e proprio paradiso, cioè la vita eterna, quella a cui siamo destinati, a cui siamo
chiamati da Dio fin dal momento in cui Lui ci ha creato. Allora piuttosto che
rimpiangere un Eden che non è mai esistito, dobbiamo vederlo come una sorta di
riferimento, di immagine velata di Cristo. Lui, sì, è il vero Adamo, è l’uomo perfetto,
e non è perduto, anzi vuole essere in comunione con noi, perché come dice bene
Paolo nella lettera ai Colossesi: Tutto è stato creato in Cristo e tutto verrà in Lui
ricapitolato. La nostra creazione è stata fatta alla luce di Cristo. Questo è il vero
paradiso: è l’essere in Cristo, è la luce di Cristo. È lui l’uomo perfetto. Infatti Paolo
dirà: il nuovo Adamo.
Possiamo già in un certo senso vivere anticipatamente questa condizione,
questa situazione del paradiso prima della morte terrena, già nella vita, cioè tutte le
volte che entriamo in comunione con Gesù, la cui luce è il vero paradiso, e che è già
in comunione con l’amore di Dio. Dio è amore e tutte le volte che entriamo in
comunione con l’amore salvifico di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, possiamo già in
un certo senso sperimentare un anticipo, una caparra del paradiso. Questo è il
messaggio che l’autore biblico voleva comunicarci.
56

Analisi e commento di Gen 2,18-25: la creazione degli animali e della donna


18
Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio
fare un aiuto che gli sia simile».

È la prima volta che nel racconto jahwista compare quella formula che
avevamo letto tante volte in Gen 1: Dio vide che era cosa buona. Invece qui in Gen 2
è la prima volta che leggiamo: non è bene. Cioè è un riferimento al termine “bene”,
“buono”. Qui vediamo messo in pratica quel principio simboleggiato nell’albero della
conoscenza del bene e del male: è Dio che stabilisce ciò che è bene e ciò che è male.
E qui Dio dice qualcosa di importante: non è una cosa positiva, non è bene che
l’uomo sia solo.
Cosa vuol dire questa frase? Certamente anche qua c’è alle spalle l’esperienza
della terra di Israele, un ambiente inospitale, zone steppose, desertiche, dove
assolutamente un uomo non potrebbe vivere da solo. Senza l’aiuto di una famiglia, di
moglie e figli, senza l’aiuto di altre persone non si potrebbe far fronte ai vari pericoli
di una terra arida e inospitale, agli aggressori, agli animali, ecc. Come dice il Qoelet:
meglio essere in due che uno solo, perché se vengono a cadere, l’uno rialza l’altro,
invece se uno è solo e cade, non c’è nessuno che lo rialza.
Dio allora che cosa nota in quella creatura che aveva fatto con tanto amore?
Nota qualcosa di negativo: uno stato di indigenza, di bisogno. C’è una deficienza in
quest’uomo, qualcosa che manca, perché è solo, e Non è bene che l’uomo sia solo: gli
voglio fare un aiuto che gli sia simile.
L’uomo così com’è non va bene, non va bene perché per la sua completezza non gli
basta né il lavoro che Dio gli ha affidato, né il dialogo con Dio stesso. Dio ha fatto
l’uomo con una immagine di somiglianza, cioè un uomo con cui può interloquire, con
cui ha un dialogo. L’uomo ha bisogno di un aiuto che gli sia simile. Letteralmente
sarebbe “un aiuto a lui immediatamente di fronte”, cioè di qualcuno che sia la sua
immediata controparte, come qualcosa che fa il doppio di lui, cioè che gli sia
adeguato, proporzionato.
19
Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e
tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe
chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli essere
viventi, quello doveva essere il suo nome. 20Così l’uomo impose nomi a tutto
il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma
l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile.

Questo secondo racconto di creazione procede diversamente rispetto al primo.


In Gen 1 l’uomo arrivava solo alla fine come culmine della creazione. In Gen 2
invece troviamo la creazione dell’uomo, il giardino con i due alberi simbolici e poi la
necessità di qualcuno che sia simile all’uomo, ma prima si parla di tutti questi
animali.
57

Notiamo l’arte dell’autore che ha già in mente quello che sarà l’aiuto simile
all’uomo, e proprio per contrasto, lo farà emergere al termine della descrizione in cui
non c’è nessuno degli animali che vada bene come suo aiuto e compagno.
È inoltre importante il fatto che Dio crea gli animali, li conduce all’uomo, il
quale dà loro il nome. Nel mondo semitico orientale cosa e nome coincidono. Il nome
non è soltanto una convenzione esterna, ma chi è in grado di conoscere il nome, vuol
dire che conosce anche l’essenza di quell’essere a cui dà il nome. Il fatto che l’uomo
sia in grado di dare il nome agli animali, indica la sua netta superiorità su di loro e la
capacità che lui solo ha di conoscere, capacità che gli ha dato Dio. Però, insiste
l’autore, l’uomo dà il nome agli animali ma non trova nessuno che sia adatto a fargli
compagnia e a rompere la sua solitudine.
Tutto questo ha un significato importante, perché il messaggio dell’autore è
questo: Israele deve capire bene che tra il mondo degli animali e il mondo degli
uomini c’è una bella differenza, c’è un abisso incolmabile; e quindi non succeda che
si divinizzino gli animali come in altre culture. C’è sempre di mezzo la
preoccupazione di evitare degli errori degli Israeliti. Il fedele di JHWH ha chiaro che
Dio assegna a ogni cosa e a ogni essere il suo posto giusto e quindi distingue
nettamente tra i tre livelli: il mondo degli animali, che ha una sua funzione, il mondo
degli uomini che è superiore a quello degli animali e il mondo di Dio con cui c’è
possibilità di un rapporto, perché il Dio biblico è un Dio persona che vuole l’uomo
come persona con cui dialogare, però c’è una bella distinzione.
Per la creazione degli animali si dice che Dio plasmò dal suolo ogni sorta di
bestie, così come aveva plasmato dal suolo l’uomo. Però per l’uomo dice che gli ha
dato l’alito di vita direttamente Lui: soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo
divenne un essere vivente (Gen 1,7). Per gli animali ovviamente questa dimensione,
che è propria dell’uomo, non c’è. Ecco perché Israele non divinizzerà mai nessun
animale, come facevano gli Egiziani. C’è anche un accenno ad evitare l’uso della
magia.

La creazione della donna; l’incontro tra l’uomo e la donna (J)


21
Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si
addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto.
22
Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una
donna e la condusse all’uomo. 23Allora l’uomo disse:
«Questa volta essa
è carne dalla mia carne
e osso dalle mie ossa.
La si chiamerà donna
perché dall’uomo è stata tolta».
24
Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua
moglie e i due saranno una sola carne.
58

v. 21 Dio fece scendere un torpore sull’uomo, ci si chiede: perché Dio


addormenta l’uomo per creare la donna? Tra le varie interpretazioni che sono state
date, una interpretazione parla di una specie di anestesia preparatoria, perché Dio sta
per fare un’operazione chirurgica.
Ma qual è il senso? Qui la parola “torpore” è tardēmāh, un sonno molto
profondo, che normalmente però nella Bibbia non è usata per indicare il normale
sonno dell’uomo. Indica sempre un sonno particolare, per esempio lo troviamo in
Gen 15 nell’episodio di alleanza fra Dio e Abramo. Anche lì Abramo è colto da un
torpore profondo, da questo tardēmāh.
Il significato è che l’uomo non può vedere Dio in atto di creazione, quando
opera. Può vedere solo il risultato dell’opera di Dio. Creare è proprio di Dio, è il
segreto di Dio, solo lui lo conosce, solo lui sa farlo; e l’uomo non può assistervi, ecco
perché ha questo torpore quando Dio crea la donna.
Da notare che né la donna è spettatrice della creazione dell’uomo, né l’uomo
della donna. La donna non c’era ancora quando Dio ha creato l’uomo e l’uomo dorme
quando Dio crea la donna.
Quindi l’autore avverte che l’agire di Dio nel mondo ha sempre qualcosa di
misterioso, è impossibile pretendere di capire tutto quello che esce dalle mani di Dio.
La creazione della donna è messa in relazione alla creazione degli animali. È
un parallelismo antitetico. C’è un parallelismo perché si dice:
19
Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche
e poi
22
Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna
“Plasmò” è parallelo e nello stesso tempo antitetico, perché c’è chiaramente una
notevole differenza: le bestie selvatiche sono plasmate dal suolo, la donna invece
dalla costola dell’uomo.
Qua non è propriamente la “costola” come pensiamo, perchè sēlā‘ in ebraico ha
tanti significati: può indicare il dorso di un monte o il lato, l’altare del tabernacolo o i
due battenti delle porte. Noi diciamo “costola” perché è stato tradotto così nella
traduzione greca della LXX, poi è passato nel latino e in italiano.
Quindi più che la costola, indica un lato, una parte dell’uomo. Il racconto è
simbolico. È inutile pretendere di arrivare a determinare tutti i particolari.
Qual è in senso di questo racconto, il messaggio dell’autore? vuol dire che Dio
ha plasmato la donna con un elemento, con una parte tratta dall’uomo (che poi sia la
costola o un muscolo o un’altra cosa, non ha importanza).
Dobbiamo cercare di cogliere il senso importante. Le due conseguenze
fondamentali di questa affermazione sono:
1) La donna è tratta dall’uomo, quindi c’è un profondo legame tra i due, che li
separa chiaramente sia dal mondo animale sia del mondo divino. Dio dice:
occorre un aiuto che gli sia simile, che gli corrisponda, che sia adatto,
proporzionato a lui. Sarà appunto la donna. Può anche essere che l’autore abbia
usato l’espressione della “costola” perché aveva presente un’espressione che
ritorna spesso nella Bibbia (e che troviamo nel v. 23: questo è osso dalle mie
ossa). Dire “osso delle mie ossa” significa una parentela. Quindi può darsi che
59

abbia usato questa espressione semplicemente perché aveva questo significato.


E comunque il primo significato è: la donna corrisponde all’uomo.
2) In secondo luogo, e qui siamo ad una acquisizione veramente rivoluzionaria
per l’epoca, non c’è superiorità dell’uomo sulla donna, ma comunanza di
natura, solidarietà tra i due.
Nella visione antropologica del tempo, la donna non era della stessa sostanza
dell’uomo: stava in mezzo tra l’uomo e l’animale! Qui invece si afferma
chiaramente che essa è della stessa pasta dell’uomo.
Insomma la donna ha la stessa dignità dell’uomo, è pari a lui. Questo è
rivoluzionario, data
la società decisamente maschilista del tempo dell’autore. È noto che la
condizione della
donna nella società ebraica era decisamente di una certa inferiorità. L’autore
qui stabilisce il
più grande, autentico principio femminista della storia: la parità, la pari
dignità.

Conclusione di questo bellissimo episodio è il parallelismo con gli animali: Dio


conduce la donna all’uomo, come a lui aveva condotto gli animali perché desse loro i
nomi. Questa volta dirà il nome della donna, ma c’è un inno, un canto,
un’esclamazione molto poetica dell’uomo che riconosce in questo essere non un altro
essere come gli animali che aveva visto prima, ma l’altro da sé; e quindi prende
coscienza anche di sé nell’incontro con la donna. È la scoperta dell’alterità di cui per
la prima volta l’uomo fa uso nel linguaggio, nella parola, perché prima non avevamo
mai visto l’uomo parlare. È nell’incontro con l’altro da sé (col quale può entrare in
una comunione profonda, in un rapporto ovviamente diverso da quello che può avere
con il resto della creazione) che l’uomo usa il linguaggio, comincia a usare la parola.
La si chiamerà donna ( ’iššāh),perché dall’uomo ( ȋš ) è stata
tolta.
Qui ancora l’uomo dà il nome, non tanto per indicare una sua superiorità, un
suo dominio sugli esseri, ma per indicare la sua conoscenza, la sua sapienza. L’uomo
si rende ben conto della natura dell’essere che ha di fronte che è della sua stessa
natura.
Il gioco di parole è intraducibile in italiano. In ebraico l’uomo è ȋš e la donna è
’iššāh (è come se noi dicessimo uomo-uoma), si vede benissimo come c’è una
profonda unità: ȋš - ’iššāh , il maschile e il femminile, e perciò dice: 24Per questo
l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno
una sola carne.
Normalmente con questa frase si intende l’unione fisica tra l’uomo e la donna,
l’unione sessuale; certamente c’è dentro anche questo, però c’è molto di più, perché il
verbo dābaq = unire, non indica soltanto l’unione sessuale, ma indica una serie di
significati molto più ampi: è l’aderire a una persona, è l’essere amici, l’essere in
comunione, è anche il rapporto filiale tra i genitori e i figli.
60

Così pure diventare una sola carne non è soltanto l’unione sessuale, perché 
bāśār = carne è l’uomo nella sua totalità, come essere creaturale fragile e debole,
quindi “essere una sola carne” indica una comunione in tutti i sensi, su tutti i piani
nell’incontro fra l’uomo e la donna.
Abbiamo qui la risposta a quella mancanza che Dio aveva notato: Non è bene
che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile. Solo in questo modo è
possibile superare quella condizione negativa di solitudine con un essere che è sullo
stesso piano dell’uomo. Ovviamente qui si sottolinea l’alterità dell’uomo e della
donna, del maschio e della femmina, dell’ ȋš e ’iššāh, ma il senso dell’incontro è più
ampio, è il senso dall’incontro in generale, dalla comunicazione dell’uomo con gli
altri uomini. È la grande vittoria sulla solitudine.

Attualizzazione : l’etica della creazione e l’ecologia

Se pensiamo a questo comando di Dio, a questo senso del dono e a come


invece se l’uomo pretende di farsi Dio, di spadroneggiare, rischia di distruggere la
creatura stessa di Dio, e se pensiamo alla situazione in cui si trova la natura, il creato
oggi come oggi, vengono veramente i brividi a vedere come l’uomo purtroppo si sta
autodistruggendo. Sta distruggendo la natura e se stesso. È la famosa questione della
ecologia.
Ecologia dal greco oikos logos = discorso sulla dimora, l’abitazione. (oikos =
luogo), è stata coniata dal biologo tedesco Haeckel nel 1869 per indicare la “scienza
delle relazioni di un organismo con il mondo esteriore che lo condiziona”. Oggi è una
disciplina che studia l’ambiente naturale come struttura organica di sistemi e
sottosistemi col compito di individuare delle patologie, cioè degli elementi che
incrinano.
Non occorrono molte parole per richiamare la realtà ormai drammatica delle
condizioni in cui il progresso stesso dell’uomo ha ridotto il nostro pianeta. Stiamo
letteralmente distruggendo gli ultimi polmoni rimasti sulla terra: le foreste dell’Africa
e dell’Amazzonia. L’effetto serra favorisce il dissesto idrico-geologico, provocando
catastrofiche alluvioni che abbiamo visto negli ultimi anni. Si rischia anche
l’estinzione di centinaia di specie di vegetali e di animali; le piogge acide distruggono
la vegetazione, inaridiscono il suolo. Non parliamo poi dell’inquinamento in città e
nella campagna per l’eccesso di concimi, pesticidi, liquami, ecc., tutti inquinanti che
facilmente passano nella catena alimentare, nella falda acquifera, instaurando quel
deleterio circolo vizioso, da cui la diffusione di malattie, per es. i tumori, col risultato
tragico di 10 milioni di morti all’anno, di cui 170.000 in Italia. Sotto di noi terreni e
acqua avvelenate e sopra di noi il buco nello strato di ozono che si allarga sempre più.
Bisogna veramente decidere di cambiare rotta se non vogliamo che entro 50
anni l’umanità rischi davvero grosso riguardo alla sua sopravvivenza. Non dobbiamo
illuderci sulla situazione in cui viviamo, proprio perché quello stesso progresso che ci
ha portato a scoperte sensazionali, purtroppo crea conseguenze negative sull’uomo e
sulla natura a causa di un progresso incontrollato.
61

Mi sembra che qui sia molto evidente quello che abbiamo letto come
preoccupazione dell’autore jahwista in Gen 2: l’uomo non ha osservato quel comando
di Dio, che non era un comando tirannico, ma una messa in guardia dall’assumere
atteggiamenti che si sarebbero ritorti poi su di lui. Era l’indicazione di un Padre che
voleva proteggere la sua creatura, l’uomo e la creazione. Come se gli avesse detto: tu
sei una creatura, non voler spadroneggiare e non voler comportarti come se tu fossi il
creatore.

Negli ultimi anni, anche all’interno della Chiesa è nata e si è sviluppata una
sensibilità riguardo al tema ecologico, che va conosciuta. Come sono andate le cose?
Innanzitutto già nel ’900 il Papa in un discorso per la giornata della pace esortava a
favorire una coscienza ecologica del cristiano. Nel 1989 per la prima volta i cristiani
ortodossi hanno proposto di indire una giornata per il creato in cui i cristiani possano
celebrare le meraviglie compiute da Dio nella natura. Questo appello è stato accolto
sia da cattolici che da protestanti, così si è optato per una sorta di “tempo per il
creato” da celebrare ogni anno tra il primo settembre e il 4 ottobre (memoria di S.
Francesco d’Assisi, che ha saputo cogliere la bellezza del creato).
Poi nel 1997 c’è stata a Graz in Austria una famosa assemblea ecumenica, che
ha preso decisioni importanti, tra cui quella di dare un forte impulso alla riflessione e
all’azione della Chiesa per l’ambiente. Anzi ha sottolineato che l’impegno per “la
salvaguardia del creato” non è un optional per il cristiano, ma deve costituire una
dimensione essenziale, fondamentale dell’annunzio del Vangelo e della vita della
Chiesa. Questo impegno per la salvaguardia del creato è un elemento imprescindibile
della presenza cristiana nel mondo.
Come dice il 9° punto della Carta Ecumenica, credendo all’amore di Dio
creatore, riconosciamo con gratitudine il dono del creato, il valore e la bellezza della
natura e, consci della nostra responsabilità di fronte a Dio (è esattamente il messaggio
che emerge da Gen 2-3), dobbiamo far valere e sviluppare ulteriormente criteri
comuni per determinare ciò che è illecito sul piano etico, anche se realizzabile sotto il
profilo scientifico e tecnologico. Cioè l’uomo non può realizzare indiscriminatamente
tutto quello che ha la possibilità di realizzare; deve darsi una regola di tipo etico.
Così nel ’98 si è costituita una rete europea cristiana per l’ambiente a cui
partecipano protestanti, anglicani, ortodossi e cattolici.
A conclusione del giubileo del 2000, nella Novo Millennio Ineunte, Giovanni
Paolo II dice: Come tenerci in disparte di fronte alle prospettive di un dissesto
ecologico che rende inospitali e nemiche dell’uomo vaste aree del pianeta?
Tutto questo cammino non è rimasto lettera morta, perché proprio a partire dal
2000 si celebra ogni anno anche in Italia la festa del creato il 4 ottobre, che si
aggiunge alla più laica Giornata Internazionale dell’Ambiente che invece è il 5
giugno.
È importante che come cristiani prendiamo coscienza della necessità che la
Chiesa inserisca nella sua pastorale anche questa attenzione, ormai irrinunciabile. È
un segno del nostro tempo, perché in passato, prima della seconda rivoluzione
industriale della fine dell’800 e soprattutto prima del XX secolo che ha sfornato una
62

serie di innovazioni scientifiche a un ritmo impressionante, si vedeva la natura


veramente con altri occhi. Già i Padri della Chiesa hanno cantato in modo mirabile le
meraviglie del creato. S. Ambrogio, nella settimana santa del 387 ha dedicato ogni
giorno dei 6 giorni della settimana santa una omelia proprio a ciascuno dei 6 giorni
della creazione, lodando Dio per gli spettacoli meravigliosi della natura.
Poi è da ricordare S. Francesco d’Assisi col suo stupendo “Cantico delle
creature”, e dopo di lui S. Bonaventura e altri teologi e mistici hanno sempre insistito
su questo aspetto.
Oggi, nell’età postmoderna, c’è il rischio di non avere più occhi per vedere e
cuore per cogliere la bellezza delle forme e dei colori. Noi non possiamo più vedere il
cielo come lo vedeva S. Ambrogio o S. Francesco o S. Bonaventura; c’è un
inquinamento luminoso che desta enormi preoccupazioni. Non solo già da un bel po’
di anni in Europa non vediamo il cielo come lo si può vedere dall’Africa, ma solo in
Italia l’inquinamento luminoso cresce del 10% l’anno, e più avanti di questo passo
sembra che nel 2025 non riusciremo più neanche a vedere le stelle!.

Cosa vuol dire etica della creazione?


Nell’ambito cristiano si fa oggi questo discorso, l’etica della creazione: vuol
dire sentirsi responsabili della creazione che Dio ha donato all’uomo, non per farne
uno strumento del proprio piacere, del proprio potere, ma per custodirla (perché lo
coltivasse e lo custodisse). Avere doveri ben precisi verso la creazione, quindi
preoccuparsi per la salvaguardia di quelle specie che pare stiano sparendo, ricostruire
gli spazi vitali naturali se sono stati contaminati e contrastare soprattutto la tendenza
all’aumento illimitato della produzione, del profitto senza limite, del consumo
sfrenato come se le risorse fossero inesauribili. Occorre recuperare un senso di
moderazione, di sobrietà. Un tempo si diceva: “Piuttosto che dare un pesce, è meglio
insegnare a pescare”. Ma adesso dobbiamo dire: “Salviamo l’acqua in modo tale che
anche domani i pesci ci siano a nuotare”.
C’è una rappresentanza del Consiglio ecumenico delle chiese già dal 1988 alle
varie conferenze ONU sul clima. Quindi c’è un contributo che le chiese possono dare
a questo riguardo a livello planetario, sia per una ragione teologica in quanto l’uomo
sta distruggendo la creazione avuta in dono da Dio, sia per una maggiore etica, in
quanto i principali responsabili delle emissioni di gas serra sono i paesi ricchi del
nord del mondo.
Teniamo presente che il 20% della popolazione mondiale della quale facciamo
parte anche noi, sfrutta l’80% delle risorse e quindi c’è tutta una serie di discorsi di
giustizia che vanno recuperati. Queste tematiche si possono approfondire in
occasione delle giornate del creato e si possono prendere varie iniziative.

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GENESI 1-11 4° lezione Milano, 3 novembre 2004

IL PECCATO ORIGINALE
63

Gen 3

Analisi e commento di Gen 3,1-13: il serpente tentatore e Satana


1a
Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore
Dio

Come negli incontri precedenti ho spiegato il simbolismo del cosmo presso gli
antichi orientali, il simbolismo dell’albero, ecc., adesso bisogna spiegare il
simbolismo del serpente, perché va interpretato. È un simbolo molto complesso,
perché ad un tempo ha valenze positive e negative. Quindi voleva dire tante cose il
serpente al tempo del nostro autore (l’autore Jahwista del 10° sec. a.C., periodo di
Salomone).
Perché negativo e positivo? Perché ad esempio, siccome il serpente
normalmente sta rintanato in cavità, in macchie boscose impenetrabili e
improvvisamente esce fuori, sembra appartenere al mondo degli inferi, quindi della
morte. E d’altra parte, siccome ama il sole, viene anche identificato con la vita. Infatti
presso gli Egiziani veniva interpretato addirittura come Rā‘, il dio del sole che
respinge ogni male, ed era anche nel copricapo del faraone come simbolo della vita.
E poi è associato alla vita anche perché dal suo veleno si ricavavano dei farmaci
salutari. Gli Egiziani erano molto esperti in questo campo.
Ora la presenza dell’articolo nel testo biblico (il serpente) ha la sua importanza,
non è un vezzo, vuol dire che questo serpente era noto ai lettori. L’autore parla di un
qualcosa che i suoi lettori conoscevano. E cos’era? Era con ogni probabilità il
serpente sacro, il dio serpente, che non solo presso gli Egizi, ma anche in Canaan
(dove si trovavano gli Israeliti) rappresentava la divinità della vegetazione. Veniva
visto anche come guardia dei santuari e dei confini. Insomma era un simbolo della
vita, custode dell’erba vitale. Questo lo si trova nella mitologia mesopotamica.
E poi, soprattutto, era un mezzo efficace per la divinazione, cioè la profezia, la magia,
per prevedere eventi futuri. Non a caso in ebraico “praticare la divinazione” si dice
con una parola nāhaš che ha la stessa radice di serpente: hanāhāš = il serpente.
I lettori del nostro autore avevano in mente questo tipo di serpente considerato
una divinità e usato come strumento di magia. Per gli Ebrei praticare la magia era un
peccato grave, assolutamente vietato dal Decalogo proprio perché con la magia
l’uomo pretende di dominare la realtà, il mistero con le sue mani e non di riceverlo da
Dio.
Quindi innanzitutto che cosa si preoccupa di dire questo autore? Dice: il
serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Dice
chiaramente che il serpente non è affatto una divinità, né può essere ritenuto un
mezzo di divinazione, ma è una creatura fatta dal Signore Dio, come le altre creature
di cui abbiamo letto nei capitoli precedenti.
Il serpente però era comunque collegato ad azioni contrarie alla volontà divina
e quindi, con ogni probabilità, il nostro autore l’ha scelto proprio per personificare
64

una forza ostile a Dio, un essere astuto e menzognero. Questo probabilmente, da


un’esegesi scientifica del testo, emerge come intenzione dell’autore.
Subito però verrebbe spontaneo chiedersi: ma come, non ci hanno sempre detto
che il serpente che tenta Eva ed Adamo è il diavolo, è Satana? Chiariamo anche
questo. Non si può dire che lo sia in questo testo nel momento in cui fu scritto, nel
10° sec. a.C., però, come ho già accennato e come sempre più capirete in questo
corso biblico, la Bibbia è parola viva, è soggetta a molte interpretazioni successive,
ed effettivamente le tradizioni posteriori (ma non prima del 1° sec. a.C. cioè con il
giudaismo) hanno interpretato il serpente come la personificazione del male e quindi
come Satana. E perché possiamo dire questo? Proprio perché nei testi scritti dopo
quella data, noi troviamo questa identificazione.
- Sap 2: La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo e ne fanno esperienza
coloro che gli appartengono. (Il libro della Sapienza è l’ultimo libro dell’AT scritto
in greco).
- Gv 8,44: Il diavolo è padre della menzogna, (e qui vedremo appunto quanto è
menzognero il serpente), omicida fin dal principio. Si collega alla morte entrata per
mezzo del serpente.
- Ap 12: Il serpente antico, Satana. Quindi lo si definisce chiaramente. Qui siamo già
nel NT, e si vede chiaramente come nelle successive riletture si è colta questa valenza
che allora l’autore antico non aveva dato, ma che era implicita nella Parola di Dio e
che è stata fatta esplicitare successivamente.

La psicologia dell’uomo tentato e il volto ingannevole della tentazione

La prima parte del brano consiste in un dialogo tra questo serpente e la donna.
Però teniamo presente che in questo episodio c’è una descrizione in forma simbolica,
figurata e tipica, ma molto realistica e con mirabile psicologia, di quella che è la
tentazione, di quello che succede tutte le volte che un uomo viene tentato.
1b
Egli disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: non dovete mangiare di
nessun albero del giardino?».

Se voi ricordate quanto aveva detto Dio ad Adamo in Gen 2, vedete che non era
affatto così. Aveva detto: di tutti gli alberi del giardino tu puoi mangiare, eccetto
uno.
Allora il serpente comincia col deformare la parola di Dio, col deformare l’ordine di
Dio. In che modo? Prima di tutto aumentando la gravità del comando: non dovete
mangiare di nessun albero, mentre lui ne aveva proibito uno solo. In secondo luogo
elimina l’aspetto di concessione del dono di tutti gli altri, cioè la condizione alla
quale aveva concesso di poter mangiare di tutti gli alberi. Non era una proibizione
arbitraria, era il mettere in guardia l’uomo dal fatto che, se toccava quell’unico
albero, rovinava se stesso e rovinava la natura.
Queste parole, che deformano il comando di Dio, suscitano l’inquietudine in
Eva, che quindi comincia a dubitare. Infatti:
65

2
Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi
possiamo mangiare, 3ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino
Dio ha detto: “Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti
morirete”».

Da un lato vediamo che Eva difende Dio, perché rettifica la parola del serpente
chiarendo come è stato veramente il comando, tra l’altro però comincia a insinuarsi il
dubbio nel cuore di Eva, perché aggiunge lei stessa un ulteriore elemento al comando
di Dio: non lo dovete neppure toccare. Naturalmente Dio non aveva detto questo, ha
detto solo di non mangiarlo.
È descritta molto bene la psicologia: il serpente, con la sua domanda subdola,
ha suscitato il sospetto facendo intuire un’immagine falsa di Dio: despota. A quel
punto, anche se c’è un debole tentativo di Eva di difendere la parola di Dio, con
questa aggiunta – non dovete assolutamente toccare – si sente che è cambiato il suo
atteggiamento verso questo comando e che le dà molto fastidio questa cosa. E anche
lei comincia a vedere in modo diverso le parole di Dio; è come se dicesse: perché non
devo avere tutto? Qui possiamo interpretare, attualizzando, il così detto meccanismo
– come dicono gli psicologi – della frustrazione. L’essere privati di una sola cosa
(cos’è un albero di fronte a tutto quanto il giardino?) porta a sentirsi privati di tutto e
quindi anche della propria libertà. Noi abbiamo un’esperienza dei bambini che
vogliono proprio quell’unica cosa che noi neghiamo. Ce ne sono tante altre cose che
noi concediamo.
Questo è un meccanismo psicologico di sempre della mente umana che qui
mette in luce molto bene il nostro autore: se c’è qualcosa che resta fuori dal campo di
quella che io reputo la mia giusta libertà, lo sento proprio come mancanza di libertà, è
come se io venissi privata della libertà stessa. E allora, pur di non accogliere il
comando che viene da Dio, l’uomo è capace addirittura di renderlo ancora più forte,
di aggiungere qualche elemento. Però è lui che aggiunge l’elemento. Questo non
dovete neppure toccarlo fa sentire appunto l’essere protagonisti della cosa.
Secondo elemento (che dalla traduzione non si capisce, ma che si vede nel testo
originale). Quando dice altrimenti morirete, c’è proprio un cambio di quello che
aveva detto Dio, perché nell’ebraico c’è il kȋ causale (non mangiatelo perché
morirete ), nel senso che, come conseguenza di questo fatto, vi succederà questo; vi
avverto. Invece Eva qui usa un’altra parola che è il pen, è una condizione che indica
il finale, la finalità (se voi lo toccherete, se voi lo mangerete, vi succederà questo),
quindi questo sarà il mio castigo nei vostri confronti. Anche qua c’è una leggera
variazione.
Qui possiamo riflettere su questo elemento nella nostra situazione personale
provandoci a chiedere se tante volte anche noi non rischiamo di lamentarci con Dio
per qualcosa di negativo che ci succede, dimenticandoci in quel momento tutto quello
che di positivo invece abbiamo ricevuto da Dio. È una situazione in cui l’uomo si può
sempre trovare.
66

Quindi il serpente comincia già a raggiungere il suo scopo di far apparire Dio
non come colui che ha messo tutto a disposizione dell’uomo, facendogli però
realmente presente il suo limite di creatura, ma come colui che priva l’uomo della
libertà. Il mentitore ha sfigurato il volto di Dio che dona nel volto di Dio che
ostacola, che proibisce, che ti vieta di accedere a quell’albero. E poi rincalza nella
menzogna usando una serie di frasi ambigue:
4
Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! 5Dio sa che
quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi, diventereste come
Dio, conoscendo il bene e il male».

Subito il serpente dice: non è vero, anzi Dio apposta ha detto questo, perché è
geloso delle sue prerogative, non vuole nessun concorrente tra i piedi, non vuole
condividere il suo sapere supremo.
Anche qui c’è tutto un gioco di ambiguità, perché nel v. 5 si dice: si
aprirebbero i vostri occhi. Allora nella bocca del serpente questa frase può voler dire
acquistare una visione che l’uomo altrimenti non ha. “Aprirsi” gli occhi vuol dire
poter conoscere qualcosa che prima non conosceva. In realtà invece, quando poi nella
parte finale anche Dio riprenderà questo concetto (l’uomo è diventato come uno di
noi), intende non in questo modo, ma nel senso che l’uomo col peccato è diventato
cosciente del suo limite di creatura e purtroppo lo rifiuta perché vorrebbe andare
oltre.
Anche “diventereste come Dio” è ambiguo, perché la parola può significare sia
Dio, sia qualunque essere sovrumano o angelico.
“conoscendo il bene e il male” vuol dire poter decidere ciò che è bene e ciò che è
male, cosa che l’uomo, creatura, non può fare, ma soltanto Dio. Mentre invece nella
frase del serpente sembra poter conoscere tutto in teoria e in pratica: l’onniscienza,
l’onnipotenza, aver aperte le vie a tutto.
Possiamo accorgerci che con queste parole del serpente abbiamo proprio una
definizione del peccato, anche se la parola “peccato” e “caduta” non compare mai nel
c. 3. (Poi vedremo come lo si è applicato). Che cos’è il “peccato”? possiamo definirlo
come un atto di ribellione. Alla base di ogni peccato c’è un atto in cui l’uomo si
rivolta, si ribella contro Dio, pretendendo di sostituirsi a Lui, di arrogarsi la sua
sapienza, la sua divinità, la sua signoria sul bene e sul male. È questa la radice di ogni
peccato.
A questo punto Eva è molto impressionata da tutte le bellissime cose che il
serpente le ha messo davanti e comincia a pensare proprio che Dio ha proibito di
mangiare i frutti dell’albero della conoscenza e del male solo per invidia. Per il
pensiero di Eva, Dio diventa un malvagio, un despota geloso della sua autorità, che
vuole difendersi da un possibile concorrente. E così, insinua il serpente: Dio sa, ma
non ha voluto dire all’uomo come stavano veramente le cose per paura di lui, e quindi
gli ha dato questo ordine.
Eva ormai ha spostato il suo punto di vista, non considera più l’amore di Dio
con cui l’ha colmata di doni e felicità, ma si convince che Dio è ingiusto e che quindi
disobbedire è quasi un suo dovere. Anche perché è estremamente attratta da queste
67

tre prospettive menzognere che il serpente le ha messo davanti: non solo non
morirete, ma vivrete in eterno, sarete come Dio, onnipotenti, avrete una sapienza
infinita, l’onniscienza.
Queste tre prospettive sono la sintesi delle tentazioni fondamentali di ogni
uomo, perché effettivamente nell’uomo c’è una spinta, un desiderio, un bisogno,
un’ansia di eternità, di superare la morte, di onnipotenza, di ogni scienza, c’è il
desiderio di arrivare, di andare sempre oltre. Solo che bisogna vedere come lo si può
realizzare in maniera autentica o non invece in maniera illusoria, come succede qua.
Eva, e con lei Adamo, si illude di raggiungere tutto ciò non riconoscendo il suo status
di creatura, volendo a tutti i costi superarla e diventare lei padrona di tutte le cose.

Il dramma della libertà; il peccato e le sue conseguenze

Poi il testo continua con grande forza penetrativa psicologica:


6
Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli
occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne
mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anche egli ne
mangiò.

Adesso si accorge che l’albero è buono. È il meccanismo della frustrazione che


fa desiderare proprio quello che è proibito. Qui l’autore mette il desiderio di vita
(l’albero buono da mangiare, cioè per vivere), gradito agli occhi, quindi il piacere
dei sensi e desiderabile per acquistare saggezza.

Cerchiamo di vedere il senso perenne, universale di queste parole


(attualizzazione). Che cosa può succedere a noi uomini, a noi creature? Può
succedere che di fronte alle cose, agli esseri, alle persone, agli animali, a tutto, la
tentazione è quella della voracità di voler avere tutto, possedere tutto. E l’uomo è
capace di questo, è capace di una voracità senza fine, di una brama che non si
accontenta mai, è insaziabile. Infatti S. Paolo in 1Tm 6,10 l’avrebbe detto molto
bene: La radice di tutti i mali è la cupidigia, cioè il desiderio insaziabile che non si
ferma di fronte a niente. Paolo dice: quella cupidigia insaziabile che è idolatria, che
arriva poi a fare delle cose le nostre divinità, e non più di Dio. Questa è la grande
illusione: che la felicità derivi dall’avere sempre di più, dal possedere tutto, dall’avere
tutto per sé, sotto il proprio dominio.
Eva è molto attratta da questo albero così appetibile e, accondiscendendo alla
tentazione, non sta a pensarci neppure un attimo, non riflette, subito – dice il testo –
prese del suo frutto e ne mangiò. Praticamente, possiamo dire che già nel momento in
cui ha aderito al modo falso del serpente di presentare Dio, nel suo cuore aveva già
peccato. Poi il fatto di prendere il frutto non è che la logica conseguenza. È nel cuore
innanzitutto che l’uomo pecca.
Possiamo capire ancora meglio il senso di quel comando di Dio, perché per
l’uomo vivere, realizzarsi secondo il progetto originario di Dio, che l’autore ci ha
presentato in Gen 2, è poter mangiare tutti i frutti degli alberi del giardino tranne
68

quello proibito, e ora, interpretando sempre il linguaggio simbolico, sappiamo ancora


meglio in che cosa consiste quel frutto proibito. Era proprio quel desiderio
insaziabile, illimitato, perché (oggi esistono studi scientifici e psicologici su questo),
non può essere regola del desiderio il solo fatto del desiderio stesso in quanto tale,
perché il desiderio in sé è insaziabile, e abbandonarsi ad esso è abbandonarsi alla
massima sregolatezza.
Era esattamente questo che Dio voleva evitare alla sua creatura: essere schiavo
del suo desiderio insaziabile. Dio voleva rendere l’uomo veramente felice facendo sì
che l’uomo accogliesse i suoi doni e non pretendesse di sostituirsi a Lui.
Prese del suo frutto e ne mangiò. Verrebbe subito spontaneo dire: ma come,
non era una mela? In tutte le raffigurazioni dell’arte che ci sono state nei secoli
(perché questi capitoli hanno veramente ispirato la cultura occidentale) vediamo
sempre la mela famigerata. È stata la traduzione latina, la Vulgata, e qui giocando
sull’assonanza delle parole in latino e cioè malus (il melo) e malum (al neutro vuol
dire il male) e malum sempre al neutro vuol dire frutto del melo, cioè la mela. Si è
giocato su questa vicinanza dei termini e si è tradotto con “mela”. Anche la tradizione
popolare ha sempre identificato, in quell’albero, il melo, per questa ragione, non
perché lo dicesse il testo biblico che invece parla solo di frutto.
6c
Poi ne diede anche al marito che era con lei e anche egli ne mangiò.

Anche qua c’è tanta psicologia. La donna, che sente di far qualcosa che non va
bene, non vuole essere sola a compiere quella mossa azzardata, quella sorta di
esperimento: proviamo a mangiare e vediamo cosa succede. C’è la complicità nel
male di due esseri. Da notare che c’è innanzitutto il bisogno che qualcun altro faccia
il male con noi.
Forse l’episodio più drammatico e che riguarda una persona giovane adolescente è il
famoso caso di Erika e Omar nel 2001, in cui c’è stato questo coinvolgimento che è
difficile districare tra questi due giovani.
Notiamo un’altra cosa: sia l’uomo che la donna nel cedere di fronte alla
tentazione, in fin dei conti si sono sottratti alla loro responsabilità, non hanno saputo
decidere liberamente e davvero responsabilmente, perché la donna si è lasciata
ingannare dal serpente e l’uomo ha subito seguito la donna. Allora entrambi, mentre
cercano quella autonomia e quella libertà che li renderebbe simili a Dio, in realtà
agiscono sottraendosi alla libertà e alla responsabilità.
È come se ci fosse un po’ di ironia nel racconto. La donna non decide ma
obbedisce al serpente, l’uomo non decide ma obbedisce alla donna. Invece di
assumersi delle responsabilità, si lasciano ingannare, tentare.
Anche qua ci sono ragioni di riflessione per tutti i tempi e anche per noi.
Quante volte è più comodo non assumersi delle responsabilità e trincerarsi dietro il
“ma tanto tutti fanno così”, perché costa fatica avere il coraggio di prendere certe
posizioni e difenderle, quando magari invece tutto intorno a noi si va in senso
opposto. E quindi c’è già una possibilità del peccato, una radice del peccato, ci si
69

sottrae alla decisione, alla libertà vera che impaurisce e si lascia che altri decidano per
noi.
Però qui succede qualcosa di molto grave: l’uomo abbandona la logica con cui
era stato creato – nel progetto originario di Dio – la logica di ricevere un dono, di
essere in comunione, di essere in armonia (quel meraviglioso idillico paradiso
terrestre) e si entra invece nella logica del possesso e del consumo. Se di dà ascolto a
questo desiderio insaziabile, allora tutto deve diventare oggetto per noi, da poter
manipolare, da poter consumare. Lo sguardo di Eva le mostra il frutto come
finalizzato al suo piacere e al suo possesso.

Come mai l’autore ha parlato della donna prima che dell’uomo?


La prima spiegazione è: come l’uomo è stato creato a immagine di Dio (maschio e
femmina Dio li creò), così ovviamente nel presentare la caduta (la difficoltà a
mantenere la fiducia in Dio), sono coinvolti entrambi, l’uomo e la donna. Però è
anche vero che lì appare una priorità, un primo passo, una maggiore responsabilità
della donna rispetto all’uomo.
Si possono dare due spiegazioni:
 teniamo presente che l’autore polemizza contro situazioni o idee del suo
tempo: polemizzava contro i riti magici, metteva in guardia Israele contro i culti
degli altri popoli. Qui nel nostro brano è la stessa cosa. Siccome siamo in epoca
salomonica e dalla storia sappiamo che Salomone aveva diverse mogli (era
normale la poligamia), queste mogli però con Salomone avevano avuto un effetto
molto negativo: lo avevano spinto a volgersi al culto di altri dèi. Purtroppo c’era
questo fatto storico che preoccupava l’autore.
 Inoltre la prostituzione sacra era diffusissima presso tutti gli altri popoli,
all’infuori di Israele, cioè i famosi culti cananei della fertilità, dove la
sacerdotessa, chiamata prostituta sacra, si univa al sacerdote in un’unione sessuale
che doveva simboleggiare la fecondità della vita; e quindi a primavera c’erano
questi riti che dovevano non solo simboleggiare ma influenzare, secondo la
mentalità antica della magia, le stesse forze della natura, e quindi erano necessari
per assicurarsi fecondità e abbondanza di frutti della natura. Siccome questo era
assolutamente escluso dalla fede ebraica (che non concepisce la divinità in forma
sessuata. Israele era l’unico popolo a praticare il monoteismo e aveva una
altissima visione di Dio), chiaramente c’era una critica velata dell’autore a questo
ruolo della donna. Quindi la spiegazione più probabile che si può dare è questa.

Ormai il peccato è stato commesso ed è entrato nel mondo. Come dice Sap
2,24: Per l’invidia del diavolo il male è entrato nell’umanità. E poi purtroppo è
straripato. Adesso si capisce in che senso il nostro autore voleva dare una risposta sul
problema del male e della responsabilità del male così diversa da quella che davano i
miti del suo tempo.
Dio è completamente escluso da ogni responsabilità nei confronti del male. Tra
l’altro, non è presente quando succede questo episodio, ma soprattutto il nostro autore
70

vuole distinguersi chiaramente da tutte le altre teorie che invece imputavano


un’origine del male da una discendenza divina.
7
Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi;
intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

Dopo il peccato non succede quello che aveva promesso il serpente, che ciò
avrebbero avuto tutta questa sapienza, questa potenza e questa immortalità. Non solo,
ma non succede neanche quello che aveva detto Dio, cioè morirete. Non muoiono
(poi capiremo che cosa voleva dire questa parola di Dio: “morire”), però si aprirono
gli occhi. È vero che si aprono, non però per l’onniscienza che diceva il serpente, e si
accorsero di essere nudi. Questo vuol dire che nell’esperienza del peccato si fa
appunto un’esperienza nuova, si conosce qualcosa che prima non si conosceva. Però
è qualcosa di negativo. In questo caso che cosa sanno che prima non sapevano? si
accorsero di essere nudi, è il momento della vergogna.
Di che cosa “si accorgono”? per molto tempo questa nudità è stata interpretata
nel senso sessuale (come anche il peccato originale era stato interpretato come un
peccato di tipo sessuale). Possiamo dire che non si tratta tanto di vergogna sessuale,
ma del fatto che i due hanno ormai perso l’armonia della relazione, sia con Dio che
tra di loro e si trovano male, si trovano a disagio. Certo c’è un nesso anche con la
dimensione sessuale, perché la nudità fa parte del pudore, il coprire la nudità fa parte
del pudore, però soprattutto, al di là di questo, si indica una situazione di grande
disagio nei confronti l’uno dell’altro e nei confronti di Dio.
Quella conoscenza che li avrebbe dovuto rendere onnipotenti, onniscienti,
uguali a Dio, li riduce invece ad una incapacità di guardarsi in volto l’un l’altro, ad un
grande imbarazzo nel rapporto con Dio e con gli altri, che li spinge addirittura a
nascondersi. Volevano essere simili a Dio e invece hanno perso anche la loro dignità
di uomini. Perché nel mondo semitico l’abito ha questo significato: non solo coprire
il corpo (significato morale), ma soprattutto conferire dignità alla persona che lo
indossa. Per cui l’accorgersi di essere nudi è rendersi conto che hanno perso la loro
dignità.
C’è appunto questa consapevolezza e intrecciarono foglie di fico e se ne fecero
cinture. Trovandosi di fronte a questa difficoltà del loro limite, sentito come penoso e
vergognoso, non sono capaci più di accettarsi ed ecco allora il ricorso a una copertura
un po’ fittizia, da qui l’espressione “foglia di fico” che è rimasta anche nella nostra
cultura, simbolo di una difesa molto modesta del proprio essere, di una dignità
conquistata miseramente, ma che certamente non ha niente a che vedere con quella
meravigliosa dignità che avevano prima nel progetto originario di Dio, dell’armonia
tra loro e con le cose.
8
Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del
giorno, e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo
agli alberi del giardino.
71

Ecco la conseguenza del peccato: l’uomo non è più capace di stare davanti a
Dio. Perché, se l’Eden era lo spazio della comunione con Dio, ora in un certo senso è
come se già Adamo non fosse più lì, non occorre che Dio lo scacci. L’uomo
sperimenta in concreto che spezzare il rapporto con il proprio Creatore, porta a
perdere la propria dignità di creatura, a scoprirsi limitato, debole e a trovarsi in
grande imbarazzo e difficoltà di fronte a Dio. Infatti dal v. 9 al v. 19 vedremo che
l’autore biblico pone quest’uomo di fronte a Dio, non più come il suo Creatore, ma
come colui che gli fa un processo. Abbiamo proprio la struttura del processo con
l’istruttoria, l’interrogatorio, la sentenza e l’esecuzione della sentenza: la punizione).
9
Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». 10Rispose: «Ho
udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi
sono nascosto».

A questa domanda di Dio «Dove sei?» Adamo non sa rispondere, perché dopo
il peccato, dopo aver infranto questa armonia, non è più capace di situarsi, di
collocarsi, di trovarsi nella posizione in cui Dio l’ha voluto, e quindi ha dato una
risposta un po’ confusa: ho avuto paura e mi sono nascosto.
Ecco da dove nasce il timore di Dio, la paura di Dio. Nel progetto originario di
Dio c’era solo un rapporto di armonia e quindi di venerazione, di timore (come dice
la Bibbia, ma in senso positivo di venerazione e amore), ora invece è solo paura.
E poi incomincia l’interrogatorio: seconda fase del processo.
11
Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato
dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». 12Rispose l’uomo:
«La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho
mangiato». 13Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». rispose la
donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».

Guardate come è la risposta di Adamo alla domanda di Dio Chi ti ha fatto


sapere che eri nudo? Hai forse mangiato di quell’albero? L’uomo non solo non sa
più dove è (si nasconde di fronte a Dio), ma non è capace di riconoscere la propria
responsabilità e di dire come sono andate veramente le cose. Non solo, ma in questo
caso, quella donna che Dio aveva fatto perché fosse un aiuto a lui simile, la sua
compagnia, diventa semplicemente il mezzo, lo strumento, l’occasione di ribellione e
di accusa di Dio stesso, come dire: bell’aiuto che mi hai dato! È per colpa tua che
sono caduto nella colpa!
Allora Dio interroga la donna, ma anche lei scarica la sua responsabilità su un
altro: Il serpente mi ha ingannata. Lei si difende, però inconsapevolmente dice una
grande verità teologica. Il serpente mi ha ingannato perché in fondo certo l’uomo è
responsabile delle sue azioni e delle sue scelte, però è anche vero che in fondo in
fondo spesso sbaglia perché ingannato, illuso da seduzioni false.
Ormai vediamo che di fronte a Dio non c’è più l’Adam, l’uomo fatto dalla
adamah, dalla terra nella sua polarità – maschio e femmina – che lo contraddistingue,
ma c’è un Adam diviso. L’uomo e la donna che si accusano a vicenda, o meglio,
72

l’uomo accusa la donna e lei accusa il serpente. Addirittura Adamo sembra quasi far
ricadere su Dio stesso la colpa di avergli dato una compagna così. Sembra quasi che
questi due facciano nei confronti di Dio quel ragionamento che tanto spesso noi
sentiamo o magari noi stessi facciamo: perché mai ci hai creato, ci hai fatti, se poi
sapevi che saremmo caduti?

Terza fase del processo: le “sentenze” emesse da Dio (vv. 14-20).


14
Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu
maledetto più di tutto il bestiame, più di tutte le bestie selvatiche! Sul tuo
ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. 15Io
porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti
schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».
16
Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con
dolore partorirai i figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti
dominerà».
17
All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai
mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: “Non ne devi mangiare”,
maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i
giorni della tua vita. 18Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba
campestre. 19Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché tornerai
alla terra, poiché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere
ritornerai!».
20
L’uomo chiamò la moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.

Qui vediamo subito una maledizione: poiché tu hai fatto questo, sii tu
maledetto.
La maledizione è molto frequente nel testo biblico. Per capirlo, dobbiamo sapere qual
è il contrario, cioè la benedizione. Abbiamo trovato spesso questa parola in Gen 1: a
ogni giorno Dio benedisse le sue opere, e poi anche verso l’uomo e la donna in Gen 2
si dice: Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi». Quindi la
benedizione è il fatto che Dio comunica la sua energia di vita all’uomo. La
maledizione è il contrario di questo, è il non concedere il dono da parte di Dio e
ritrarre il suo dono, e comunque è prendere chiaramente le distanze da qualcosa che
viene maledetto. La maledizione del serpente, che in questo testo l’autore del 10° sec.
personifica l’ostilità a Dio e il simbolo del male, significa che Dio non ha niente a che
vedere con il male, con l’origine della tentazione del male.
Poi vengono le sentenze relative prima al serpente, che è stato maledetto, poi
alla donna e poi all’uomo, nell’ordine inverso dell’interrogatorio che era rivolto
prima all’uomo, poi alla donna e infine al serpente.
Come vanno spiegate queste “maledizioni”, queste punizioni? Vanno spiegate
in senso eziologico, cioè spiegano la causa di situazioni, di dati che l’uomo
sperimenta nella sua vita. Questo è un procedimento che era molto frequente nel
mondo antico, lo si trova anche presso i latini e i greci. Eziologia, cioè raccontare una
73

storia, una leggenda per far capire come è venuto fuori un certo uso, un certo luogo,
una certa mentalità.
Con queste sentenze cosa spiega l’autore? Per quanto riguarda il serpente
spiega perché mai il serpente strisci per terra e mangi la polvere. Infatti è l’unico
animale che si comporta così, proprio perché porta su di sé la maledizione di Dio, in
quanto simbolo del male.
Poi nel v. 15 dice: Io porrò inimicizia tra te e la donna, anche lì c’è un
significato eziologico che spiega perché mai l’uomo ha il terrore del serpente, perché
mai il morso del serpente è mortale per l’uomo. Di fatto si sperimenta questo, pur
essendo il serpente una creatura di Dio come tutte le altre.

Il significato dei nomi “Adamo” e “Eva”: la “speranza” di Gen 3,15


15
Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe.
Qui c’è un fortissimo senso teologico: innanzitutto nel serpente tentatore
scaraventato a terra si vuole indicare l’umiliazione che rende bene l’idea dell’idolo
ridotto alla polvere. Anche pensando alle successive identificazioni che nella
interpretazione della Scrittura si sarebbero fatte tra il serpente e Satana, qua si vede
proprio come Satana è vinto, è prostrato. Diceva una tavoletta di El Amarna: hanno
posto i nostri nemici a mangiare la polvere. Il grande nemico di Dio, il male, è
costretto a mangiare la polvere, quindi già si intuisce che sarà vinto. E poi pensate
alla vergogna di strisciare nel fango, all’umiliazione. Tutto questo lo si dice molto
bene.
Inoltre l’altro grande significato teologico è che si parlerà di una eterna lotta, di
una lotta che continuerà sempre (per cui parla al futuro) tra l’umanità e il male. Una
lotta che purtroppo, finché c’è l’umanità, ci sarà, perché è così, questa è l’esperienza
di tutte le generazioni.
Però se il serpente insidia il calcagno, la donna ti schiaccerà la testa. Quindi
certamente il male continua ad insidiare l’uomo, ma ci sarà un momento in cui sarà
vinto. Le successive relazioni della Chiesa avrebbero visto in questa donna, Maria,
che generando il Redentore Gesù, che avrebbe sconfitto il male con la sua missione,
con la sua morte e risurrezione, assumerà questo significato.

Poi abbiamo la punizione della donna che riguarda i dolori del parto. Però
notiamo che la maledizione si ha solo verso il serpente. Dio non maledice né l’uomo
né la donna. Maledice il serpente, quindi dichiara la totale estraneità rispetto al male,
mentre per la donna e per l’uomo si parla di punizioni, che hanno sempre un carattere
eziologico. Infatti l’autore voleva dare una sua risposta originale a domande che sono
proprie degli uomini di tutti i tempi: perché l’arrivo di una nuova vita, che è un
motivo di immensa gioia, deve avvenire invece il mezzo a tanti dolori? Questa è una
spiegazione eziologica.
Così pure quando dice: Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti
dominerà. Qui “istinto” , più che il termine originale, è indicato il desiderio di
74

“possedere”. Quindi questa frase dice che dopo il peccato si è creata una tensione tra
l’uomo e la donna che non c’era, perché c’era solo armonia nel progetto di Dio.
Anche questa è una situazione che l’uomo sperimenta.

Infine, per quanto concerne l’uomo, si dice “maledetto”, non l’uomo, ma il


suolo, perché ora sarà faticoso trarre frutto dal suolo. Anche qui tante volte si sente
dire: “il lavoro è colpa del peccato originale”. Non è vero, perché anche nel progetto
originario di Dio abbiamo letto: Dio pose Adamo nel giardino perché lo custodisse e
lo coltivasse. E Dio stesso lavora: plasma l’uomo, gli animali, ecc.
Solo che prima del peccato, prima della rottura dell’armonia, il lavoro era agevole,
piacevole, dopo invece costa fatica, sudore. E ancora una volta c’è una spiegazione
della fatica del lavoro per l’uomo.
Lo stesso dicasi della morte, perché l’altra punizione è: tornerai in polvere.
Chiaramente, se l’uomo era creatura, anche prima del peccato avrebbe conosciuto la
morte, non era immortale, perché è la conseguenza dell’essere limitato, ma sarebbe
stata un’esperienza non tragica, drammatica, come è per noi oggi, sarebbe stata una
sorta di passaggio indolore all’altra vita. Noi sappiamo bene cos’è la morte per
l’uomo, cioè un istinto di vita che lo fa rifuggire da essa.

Questa parte si conclude con l’affermazione: 20L’uomo chiamò la moglie Eva,


perché ella fu la madre di tutti i viventi. Anche qua c’è un livello eziologico, perché
“Eva” viene dall’ebraico hawwāh che è uguale al verbo hājah cioè vivere. In
ebraico vuol proprio dire: colei che dà la vita. È interessante notare in questa
denominazione è che ci sarà lo stesso una continuità della vita, nonostante il peccato.
Quindi quella morte preconizzata da Dio non è da intendersi in senso fisico, ma in
senso spirituale di distacco da Lui, di rottura dell’armonia, di rottura della comunione
con Dio.
21
Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì
Bellissimo questo versetto, perché se abbiamo interpretato il fatto di accorgersi
di essere nudi da parte di Adamo ed Eva come un prendere coscienza della propria
nullità, della propria miseria, del proprio limite, ora su questa nudità dell’uomo
peccatore entra ancora in azione Dio con un gesto d’amore. Bellissimo: Dio che come
un padre di famiglia si preoccupa di coprire con la veste i suoi figli. Fuor di metafora,
al di là del simbolo, questo significa che Dio riesce a ridare anche alla sua creatura
ribelle una qualche dignità, che nasconda quel limite che l’uomo percepisce e di cui si
vergogna.
22
Il Signore Dio disse: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi per la
conoscenza del bene e del male. Ora egli non stenda più la mano e non
prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre!».

“come uno di noi” Perché il plurale? Le spiegazioni più frequenti sono due:
75

 un plurale di deliberazione che corrisponde al nostro plurale maiestatis e


sottolinea la solennità del momento, l’importanza del momento;
 oppure, secondo la concezione assai diffusa nell’AT, Dio era pensato come il
Re del cielo, che aveva come re terreni una corte, un consiglio, costituito
ovviamente di esseri spirituali, gli angeli. E quindi è come se qui stesse
parlando alla sua corte (cf. 1Re 22; Gb 1,6).

“l’uomo è diventato come uno di noi”. La spiegazione più immediata di questa


affermazione è che, avendo l’uomo gustato dell’albero della conoscenza del bene e
del male, quindi facendo quello che Dio gli aveva proibito di fare, l’uomo è arrivato a
conoscere concretamente il male e a decidere lui che cos’è bene e male. Quindi ha
sperimentato l’infelicità che consegue all’allontanamento da Dio.
Ma per contrasto con la maggior conoscenza del male, c’è pure un
approfondimento della conoscenza del bene, così come la malattia mette
maggiormente in risalto e fa apprezzare la situazione felice della salute. Per questo
JHWH può dire con verità, anche se ovviamente per analogia, in un senso delimitato
che l’uomo è diventato simile a Lui, perché Dio conosce perfettamente i due stati
diversi del bene e del male, l’uomo, sperimentando il male, apprezza ancora di più il
bene. La frase si richiama chiaramente a Gen 1,26 quando Dio aveva detto:
“Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza.
Il fatto che troviamo il plurale riferito a Dio sia in 1,26 che in 3,22 è indice del
fatto che il redattore finale ha messo in relazione i due passi, è la mano dello stesso
autore che ha scritto questo.
Pierre Grelot, in un’ottima pagina di esegesi, ha rilevato con efficacia la natura
profonda del peccato e la coscienza personale, sociale dei progenitori nel commettere
la colpa. E infrangendo il comando di Dio, hanno compiuto il peccato per eccellenza,
quello che sta alla radice di ogni peccato e che consiste nell’usurpare il privilegio
unico del Creatore credendosi capaci di conoscere da soli il bene e il male, cioè tutto.
Infatti l’autore biblico ha avvertito in maniera acuta che in nessun ambito
l’uomo potrebbe, saprebbe agire senza prendere posizione rispetto a Dio. Qualsiasi
cosa faccia, l’uomo deve scegliere: o accettarsi come creatura o rifiutarsi di essere
creatura e credere di essere lui una divinità. Questa è la legge assoluta dell’esistenza
più o meno percepita, accolta o respinta.
Così Adamo, dotato di libertà (dono di Dio), aveva due possibilità: o
riconoscersi creatura davanti a Dio oppure non riconoscersi creatura, e dunque volere
a tutti i costi superare i propri limiti facendo di se stesso il creatore dei valori. Cioè,
come dice Isaia 5,20, arrivando poi magari a chiamare il bene, male, e il male, bene.
Il biblista Franco Festorazzi, in un libro sulle origini, mette in luce il nesso fra i
due versetti 1,26: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza” e 3,22: “ora
l’uomo è diventato come uno di noi” che chiaramente si richiamano. E cioè Dio crea
l’uomo a sua immagine e somiglianza, il che comporta l’idea di vita e di dominio,
come si vede poi dal successivo v. 28, quando Dio dà all’uomo di dominare sugli
esseri viventi, quindi lo rende partecipe un po’ del suo dominio. E poi dice all’uomo:
76

“Siate fecondi e moltiplicatevi”, e quindi lo rende partecipe della prosecuzione della


vita.
Il superamento della prova (cioè se Adamo ed Eva non avessero ceduto alla
tentazione del peccato) probabilmente avrebbe rafforzato e confermato
definitivamente l’uomo in tale situazione. L’amicizia con Dio sarebbe stata così
intima e tangibile da orientare con facilità al bene tutte le energie e le tendenze
spontanee, e da preservare l’uomo dalla sofferenza e dalla morte angosciosa così
come noi oggi la sperimentiamo. Grazie all’amicizia con Dio, poi l’uomo avrebbe
potuto tutto comprendere in Dio, da cui tutto deriva e tutto va. E questa superiore
sapienza gli avrebbe consentito di convivere senza problemi con la finitezza e il
limite creaturale.
Ma su tutto questo l’uomo è stato messo alla prova. Perché? Perché Dio ha
dato all’uomo la libertà che è il dono più grande, e quindi ha voluto correre questo
rischio. E l’uomo non l’ha superata questa prova cadendo nel peccato di
disobbedienza, ribellione e sfiducia in Dio.
La caduta peraltro non distrugge comunque totalmente la somiglianza con Dio,
come si vedrà in Gen 5,1-3. Adamo ed Eva generano Caino, quindi la vita la possono
ancora dare, cioè “siate fecondi e moltiplicatevi” vale sempre, è sempre un elemento
di somiglianza, e anche in Gen 9,6: a immagine di Dio egli ha fatto l’uomo viene
ribadito. Quindi non cancella la somiglianza con Dio, ma ne diminuisce di molto la
portata, come è dimostrato dall’introduzione, dopo il peccato, della morte come
angoscia e della ribellione della natura contro l’uomo: spine e cardi produrrà per te
la terra. A causa dell’uomo, Dio maledice la terra.
Dunque Dio ha creato l’uomo simile ad un essere divino, l’uomo con la colpa
mostra di voler giungere da solo a quel dominio che già in parte gli era stato donato.
Così l’esperienza del male gli dà questa “autonomia”, ma come essa si rivela lontana
dalla situazione desiderata, cioè dal fatto che l’uomo sperava di diventare come Dio.
Al contrario delle aspettative dell’uomo, onniscienza e onnipotenza, questa prova
diventa principio della sua rovina.
Così in 3,22a dicendo l’uomo è diventato come uno di noi, Dio ammette che
l’uomo ha raggiunto in parte il suo scopo, perché, come Lui, ha raggiunto una
conoscenza più profonda del male e quindi del bene (come ho detto prima). Ma
quanto è amara questa frase l’uomo è diventato come uno di noi. Non è ironica, è
amara. L’affermazione di Dio, di fronte alla rovina della creatura da lui tanto
beneficata, dice tutto il dispiacere di Dio, che l’uomo abbia sperimentato il male.
22b
Ora egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della
vita, ne mangi e viva sempre!

Dobbiamo ricordare l’ampia spiegazione data dei due alberi in Eden, per capire
questo versetto che evidentemente si ricollega ad essi. Avevamo detto: se l’uomo
accoglie tutto come dono, non deve conoscere e sperimentare l’atteggiamento
opposto della rapina, dello spadroneggiare, perché distruggerebbe tutto, se viceversa
77

assume questo atteggiamento, non può più accedere all’albero della vita, proprio
perché Dio vuole proteggere la creazione dall’atteggiamento piratesco dell’uomo.
Inoltre poiché l’albero della vita indica l’immortalità, il gesto di Dio è di
misericordia: resi immortali, gli uomini sarebbero rimasti sempre peccatori. L’uomo
ferito, ormai, se mangiasse anche dell’albero della vita, rimarrebbe sempre così.
23
Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo
da cui era stato tratto.

La punizione non è che l’uomo muoia, semplicemente Dio ribadisce che non
può mangiare dell’albero della vita, e poi lo scaccia. Dice Stancari: è come se Dio
volesse mettere una dilazione nel tempo, un rinvio tra le due cose, il peccato e la
morte. Inserisce una prospettiva nuova, la misericordia di Dio dilaziona la morte
perché vuole, attraverso un’altra strada, salvare l’uomo, vuole operare la salvezza
all’interno della storia umana.
24
Scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la
fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita.

Qui abbiamo ancora degli elementi presi dalla mitologia orientali. I cherubini
erano dei colossi alati, mezzo uomini e mezzo animali, che in Mesopotamia venivano
posti come statue gigantesche a custodire templi e palazzi o anche l’albero della vita.
Inoltre la spada fiammeggiante, nella mitologia ugaritica era simbolo della
proibizione.

Abbiamo concluso l’analisi del c. 3; abbiamo visto come l’autore sia riuscito a
comporre in Gen 2-3 una splendida pagina di teologia relativa alla bontà originale
della creazione, la dinamica del peccato, il suo effetto deleterio a cui si contrappone
la fedeltà di Dio e la speranza nella redenzione.

Il peccato “originale”: perché e da quando si chiama così; in che consiste; il


“dogma” del peccato originale e il Battesimo

Perché questo brano è sempre stato chiamato il “peccato originale”, dal


momento che, nella lettura del testo e anche in ebraico, non troviamo né la parola
“peccato” né la parola “originale”?
Innanzitutto, cosa vuol dire “peccato”? questo lo troviamo sì nei Salmi e in altre
pagine dell’AT.
Ci sono tre termini che indicano il peccato secondo la Bibbia:
1. innanzitutto il rifiutare Dio e la sua Parola, tutte le volte che Israele si rivolge
agli idoli;
78

2. farsi degli dèi con altre cose, con esperienze che illudono, che ingannano;
3. rompere la relazione o la solidarietà con Dio e con gli altri esseri, e viverla
invece in questa forma che abbiamo già visto tra Adamo ed Eva, questa forma di
tensione, di odio.
Tutto questo è peccato. Infatti, anche senza questi termini che adesso vi ho
spiegato, nell’episodio di Adamo ed Eva abbiamo ritrovato tutti questi elementi: la
ribellione a Dio, la rottura di un legame armonioso, la speranza illusoria, l’inganno,
ecc. Questo perché il nostro autore voleva ben sottolineare la responsabilità
dell’uomo. Certo per lui Adamo era il primo uomo, perché un inizio ci deve essere
stato, però nello stesso tempo questo Adamo era anche un simbolo al di là della
storia, un archetipo, un elemento che aveva un valore universale e che rappresentava
il comportamento negativo di ogni uomo.
Sarà poi successivamente, soprattutto col NT, che si farà molta più luce su
questo mistero del peccato e di un peccato universale, generalizzato. (Ancora però
non si usa il termine “originale”).
Un peccato generalizzato, perché? Perché se prendiamo il NT vediamo che la
missione principale del Figlio di Dio che è venuto nel mondo è proprio questa: di
togliere il peccato.
Lo dice Giovanni in Gv 1,29: Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il
peccato dal mondo! Quindi dicendo “il peccato”, vuol dire tutta questa situazione
negativa che c’è nell’umanità, non soltanto i singoli peccati. Ancora in 1Gv 3,8: Il
Figlio di Dio è apparso per distruggere le opere del diavolo, che appunto sono il
male e il peccato.
Il testo classico a questo riguardo è Rm 5,12-19. Paolo dice chiaramente: tutti
hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per
la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. E in questo capitolo,
Paolo contrappone l’antico Adamo che ha peccato, al nuovo Adamo che ha ricreato
l’uomo, che ha ridato la nuova vita all’uomo. Paolo dice: in Adamo tutti gli uomini
hanno peccato, ma non dice come, non spiega come.
Questo l’avrebbe fatto il grande Padre della Chiesa, S. Agostino. È a lui che
dobbiamo l’utilizzo del termine “originale” affiancato a questo primo peccato
dell’umanità. È lì che salta fuori, prima non c’era, né nell’AT né nel NT. È lui che
parla di “peccato originale” siamo già nel 4° sec. d.C., intendendo con questa parola
sia il primo peccato in senso cronologico, sia il peccato che affligge l’umanità fin
dall’inizio. E anch’egli insiste su questa universalità del peccato originale che tocca
tutti gli esseri umani, prima ancora dei singoli peccati personali, che tocca a tutti gli
uomini in quanto discendenti di Adamo peccatore da cui contraggono il peccato e
quindi, per questo solo fatto, sarebbero condannati alla morte eterna, se Cristo non li
liberasse. Cristo libera tutti gli uomini da questo peccato con il Battesimo.
Questa teoria, questa menzione di S. Agostino del peccato originale poi fu
accolta in vari Sinodi e nel II Concilio provinciale di Orange nel 6° sec. e influenzò
tantissimo la teologia del Medioevo con Tommaso D’Aquino, ecc.
Il Concilio di Trento è quello che ha definito nella maniera più completa e
sistematica la dottrina del dogma del peccato originale. È quindi proprio un dogma. Il
79

“dogma” è una verità di fede rivelata da Dio e contenuta nella Scrittura (la Bibbia) e
nella Tradizione (la Chiesa), verità definita ufficialmente e che il cristiano è tenuto a
credere, altrimenti pecca di eresia.
Il Concilio di Trento dice: “Il peccato originale si trasmette da Adamo per
propagazione. È in ognuno come proprio, può essere tolto solo per i meriti dell’unico
mediatore Gesù Cristo mediante il Battesimo, anche se nei battezzati, pur battezzati,
rimane la concupiscenza, che non è peccato in senso proprio, ma un’inclinazione al
peccato, un’inclinazione peraltro contro cui il cristiano può lottare e riuscire anche
vittorioso con la grazia di Cristo”.
Praticamente dal punto di vista dogmatico nella Chiesa questa dottrina del
peccato originale è stata fissata nel Concilio di Trento e non ci sono stati poi più
interventi di carattere ufficiale da parte del Magistero ecclesiastico.

Chiaramente soltanto dal secolo scorso, dal secondo ’800 in poi si è


interpretata la Bibbia nel modo che noi ora facciamo, mentre prima la si interpretava
come un documento antico e quindi veniva interpretata alla lettera storicamente, ci
spieghiamo benissimo perché vengano usate queste espressioni di una trasmissione
fisica, biologica da Adamo, ritenuto appunto il primo uomo, non un nome simbolico
per indicare l’uomo fatto di polvere.
Allora la domanda che tutti ci poniamo è: oggi come oggi, se la teologia e
quindi la Chiesa e il Magistero hanno recepito questo modo diverso di interpretare la
Bibbia, si possono ancora usare queste espressioni? Cosa diciamo, quando si fa la
catechesi ai bambini, oppure cosa diciamo ai genitori quando vengono a chiedere il
Battesimo?
Le cose sono un po’ in questi termini: innanzitutto il Vat. II fa riferimento in
alcuni documenti a questo peccato originale, ad esempio nella Gaudium et Spes, e lo
dice in questi termini: “L’uomo, costituito da Dio in stato di santità, tentato dal
maligno, fin dagli inizi della storia abusò della propria libertà, erigendosi contro Dio
e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di Dio. Quello che ci viene
manifestato dalla Rivelazione divina concorda con la stessa esperienza. Infatti se
l’uomo guarda dentro al suo cuore, si scopre anche inclinato al male e immerso in
molteplici mali, che non possono certo derivare dal suo Creatore, che è buono”.
In questa espressione c’è il succo di Gen 3, senza però prendere alla lettera
l’Adamo ed Eva, la mela, ecc. È molto significativo, siamo al Concilio Vaticano II,
non si poteva non prescindere dall’evoluzione che c’era stata nella Chiesa
nell’interpretazione di Gen 3.
Nel Catechismo della Chiesa Cattolica se ne parla al n. 388 : IL PECCATO
ORIGINALE – UNA VERITÀ ESSENZIALE DELLA FEDE (Certo se è stato
stabilito come dogma dal Concilio di Trento, è ovvio). “Col progresso della
Rivelazione viene chiarita anche la realtà del peccato.[…] Bisogna conoscere Cristo
come sorgente della grazia per conoscere Adamo come sorgente del peccato. È lo
Spirito Paraclito, mandato da Cristo risorto, che è venuto a convincere (cioè a far
conoscere) «il mondo quanto al peccato» (Gv 16,8), rivelando colui che del peccato è
il Redentore”.
80

CCC, 389: “La dottrina del peccato originale è, per così dire, «il rovescio»
della Buona Novella che Gesù è il Salvatore di tutti gli uomini, che tutti hanno
bisogno della salvezza e che la salvezza è offerta a tutti grazie a Cristo. La Chiesa,
che ha il senso di Cristo, ben sa che non si può intaccare la rivelazione del peccato
originale senza attentare al Mistero di Cristo”.
Notiamo che questo non è tanto una nuova acquisizione, ma un recupero di
quello che già aveva capito Paolo, il quale in Rom 5 diceva: “Dove è abbondato il
peccato per colpa di Adamo, è sovrabbondata la grazia, ed è più grande il bene che
ci viene da Cristo del male che ci viene da Adamo”. Non sono neanche sullo stesso
piano, come dire che Cristo ha riparato il male, ma è sovrabbondante.
Il terzo capitolo del Catechismo della Chiesa Cattolica parla del peccato
originale, la prova della libertà e riprende tutto il racconto di Gen 3. Cosa fa però?
Spesso e volentieri fa riferimento a tutti i documenti e ai Padri della Chiesa che vi ho
citato io prima. Chiaramente usa ancora delle espressioni che sembrerebbero prendere
alla lettera il discorso che abbiamo fatto prima. Finché dice per esempio: Il
Battesimo, donando la vita della grazia di Cristo, cancella il peccato originale e
volge di nuovo l’uomo verso Dio.
Quindi ancora si ha l’impressione di questo peccato originale come una sorta di
macchia ereditata, senza alcuna colpa, che viene cancellata. Si serve, come
espressioni, di tutti i documenti precedenti. Però mi fa piacere che ad un certo punto
dica, nel n. 404: “Tuttavia, la trasmissione del peccato originale è un mistero che
non possiamo comprendere appieno”.
Almeno prende le distanze da quello che potrebbe sembrare un dogma di fede che si
sia trasmesso così. Visto che il testo va interpretato correttamente nel modo che vi ho
fatto vedere e quindi appunto dice che è un mistero.

Allora come la mettiamo? Non è facile, questo è uno degli argomenti su cui
anche in teologia è a livello di studio, non è facile dare delle definizioni o dare delle
sentenze tout-court. Innanzitutto mi sembra importante questo che ho trovato anche
in altri articoli, cioè che, a differenza dei secoli passati, quando si sottolineava e si
insisteva di più su questa condizione negativa in cui tutti gli uomini nascono e che il
Battesimo cancella, andando avanti nel tempo sempre più invece si afferma il risvolto
positivo, come dice anche il Catechismo, che la nozione del peccato originale è il
risvolto negativo di quello che invece è più importante per noi, cioè il sapere che
l’uomo, tutti gli uomini da sempre sono soggetto di amore da parte del Padre, che ci
ha destinati fin dalla fondazione del mondo ad essere conformi all’immagine di
Cristo. Quindi innanzitutto ricuperare questo essere creati in Cristo ed essere redenti
in Cristo e sapere che il paradiso terrestre ci sta davanti e non dietro e sarà appunto il
Regno di Dio e deve essere tutto ricapitolato in Cristo.
Quanto poi al modo in cui concretamente sia avvenuto questo peccato e si sia
trasmesso agli uomini, mi rifaccio ad una pagina molto significativa del libro
“Adamo, dove sei?” di Enzo Bianchi, fondatore della comunità monastica di Bose:
“L’Adamo di cui parla Rom 5 è il rappresentante simbolico di tutta l’umanità che
esce dalle mani di Dio. Fare di Adamo un individuo empiricamente responsabile
81

dell’entrata del peccato nel mondo in senso causale significa cercare il capro
espiatorio per tutti. Adamo non è il peccatore causale che spiega tutto il peccato del
mondo, ma è il peccatore inaugurale”.
Cioè quello che, essendo il primo uomo, che inaugura l’umanità nella colpa, dà
inizio a questa situazione che poi però avrebbe toccato tutti gli uomini. Questa è la
grande esperienza che l’autore ci vuole dire: che l’uomo di fatto incontra la
tentazione, incontra il fascino della seduzione del male e cede. E per questo “Paolo
può dire, proprio in Rm 5,12: Tutti hanno peccato. Non dobbiamo dunque ricercare
in Adamo il responsabile universale del peccato, ma il primo di una serie. In lui si
rivela chi siamo noi: omnis homo Adam, ogni uomo è Adamo”.
Allora il peccato originale cosa può voler dire? Può voler dire il peccato
anteriore alla libertà dell’individuo (cioè prima che l’individuo abbia la responsabilità
di compierlo), il quale se ne trova oggettivamente segnato per il fatto che entra in un
mondo peccatore. A questo tutti ci arriviamo. In qualche modo nell’esperienza
dell’uomo c’è insita nelle sue azioni una maniera di influenzare gli altri che sono
intorno a lui. Di fatto ogni bimbo che nasce entra in un mondo che è gravato dal
peccato, a livello di creato, di natura, di politica. E quindi in un certo senso il male ci
precede. Nessun bambino, nascendo, è soggettivamente peccatore, ma, entrando in un
mondo toccato dalla dimensione negativa del peccato, ne è un po’ contaminato.
E il Battesimo inserisce nella vita in Cristo colui che da subito è immesso in
una realtà che purtroppo conosce male e peccato. Quindi il desiderio di dare il
Battesimo ai bambini è collocare subito il bambino nella sfera di influenza positiva
del Cristo, perché a sua immagine è stato creato. Forse in questo senso si può
rileggere il così detto “peccato originale”.
Vorrei inoltre citare a questo proposito una interessante considerazione di un
altro grande biblista, don Bruno Maggioni, contenuta nel suo libro “Il Dio di Paolo”
sulla prima lettera ai Corinti. A pagina 71-72 di questo libro Maggioni riporta l’inno
contenuto in Fil 2,6-11 là dove si dice: Cristo Gesù non considerò una preda (la CEI
traduce: un tesoro geloso) l’essere alla pari con Dio, ma spogliò se stesso divenendo
uomo. Gli interpreti antichi scorgevano per lo più in questo brano proprio il rovescio
della arroganza di Adamo, che scioccamente tentò al contrario di rapire le prerogative
di Dio (come abbiamo visto in Gen 3,6). Ora l’antitesi tra Adamo che rapisce le
prerogative di Dio (tenta di farlo) e Cristo Gesù che invece si spoglia di queste
prerogative divenendo uomo, divenendo servo, l’antitesi è suggestiva anche perché
può essere prolungata lungo tutto l’inno di Filippesi.
E veramente, se ci pensiamo, la vicenda di Cristo è il rovescio della storia di
Adamo, e cioè da una parte abbiamo un semplice uomo – Adamo – che tenta di
innalzarsi fino a Dio quasi per rapirne le prerogative, dall’altra abbiamo il Figlio di
Dio che umilmente discende tra gli uomini, spogliandosi delle sue prerogative. Da
una parte l’arroganza, dall’altra il dono, ed è proprio questo Signore, questo Gesù che
si spoglia delle sue prerogative che deve essere il nostro modello.
82

Ma allora perché Dio ci ha creato se sapeva – visto che è onnisciente – che


l’uomo poi avrebbe trasgredito il suo comando e si sarebbe trovato in tutta la
situazione che ho detto?
Dice Giovanni Damasceno, un Padre della Chiesa greca dei primi secoli: Perché in
questo modo Dio ha dimostrato che il bene è più forte del male, perché Dio sapeva
che avrebbe potuto comunque recuperare quest’uomo che a causa della libertà, che
peraltro era il dono stesso di Dio, poteva anche peccare. Allora se l’uomo ha la libertà
veramente, la usa, e usare la libertà vuol dire scegliere o per il bene o per il male,
altrimenti sarebbe un burattino, un fantoccio; sarebbe molto più comodo per lui, ma
non sarebbe veramente un soggetto, responsabile, autonomo e interlocutore di Dio.
Però il bene di Dio è più grande di qualsiasi male.
Duns Scoto, un autore medioevale ha detto: “Se l’uomo non avesse peccato, il
mondo intero sarebbe stato interamente glorificato appena creato”.

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GENESI 1-11 5° lezione Milano, 10 novembre 2004

CAINO E ABELE: IL PRIMO OMICIDIO

Gen 4,1-16

1
Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino e
disse: «Ho acquistato un uomo dal Signore». 2Poi partorì ancora suo
fratello, Abele. Ora Abele era pastore di greggi, e Caino lavoratore del
suolo.
3
Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al
Signore, 4anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il
Signore gradì Abele e la sua offerta, 5ma non gradì Caino e la sua offerta.
Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. 6Il Signore disse
allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? 7Se
agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il
peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu
dominalo».
8
Caino disse al fratello Abele: Andiamo in campagna. Mentre erano in
campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. 9Allora il
Signore disse a Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?». Egli rispose: «Non lo
so. Sono forse il guardiano di mio fratello?». 10Riprese: «Che hai fatto? La
voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! 11Ora sii maledetto,
lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo
83

fratello. 12Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti:
ramingo e fuggiasco sarai sulla terra». 13Disse Caino al Signore: «Troppo
grande è la mia colpa per ottenere perdono? 14Ecco, tu mi scacci oggi da
questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e
fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere». 15Ma il
Signore gli disse: «Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette
volte!». Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse
chiunque lo avesse incontrato. 16Caino si allontanò dal Signore e abitò nel
paese di Nod, a oriente di Eden.

Il c. 4, che racconta un altro grave peccato, il primo omicidio della storia,


chiaramente si collega al capitolo precedente, quello del primo peccato di superbia, di
non fiducia, che porta alla separazione da Dio. Infatti la struttura del c. 4° ricorda un
po’ quella del c. 3°: la tentazione, l’arte del serpente, qui c’è la sorda irritazione che
sorge in Caino verso il fratello, poi l’azione negativa (il delitto commesso), quindi il
richiamo da parte di Dio, la sentenza e l’esecuzione della sentenza.
Possiamo dire che forse l’autore aveva presente il c. 3 quando ha steso questo
c. 4 e quindi anche per questo capitolo potremmo ripetere tutto quello che abbiamo
detto per il c. 3. Si tratta di episodi emblematici, non tanto episodi di cronaca, ma
episodi che hanno un valore universale, che si riferiscono alla condizione umana in
quanto tale.
In Gen 1-2 avevamo visto i rapporti fondamentali dell’uomo con la creazione.
Gen 1,28 diceva Dio all’uomo e alla donna: riempite la terra, soggiogatela e
dominate sui pesci del mare. Quindi si sottolinea questo tipo di rapporto.
In Gen 2,24 il rapporto è tra l’uomo e la donna: per questo l’uomo
abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie.
In Gen 4 invece viene considerata la dimensione della fraternità, il rapporto
dell’uomo nella sua dimensione sociale e i suoi legami con altri uomini. E siccome
noi sappiamo che tutti gli uomini sono figli di Dio perché da Lui creati, ne consegue
che sono anche fratelli tra di loro.
Se in Gen 3 si è voluto mostrare il rapporto, o meglio la rottura del rapporto tra
l’uomo e Dio, qui si vede l’infrangersi del rapporto tra uomo e uomo, anzi in
particolare tra un fratello e un fratello.
Come mai il nostro autore jahwista ha voluto scrivere un brano come quello
che abbiamo letto, quindi con uno scopo preciso? Proprio perché si era posto questa
domanda: come mai spesso esistono relazioni violente anche tra persone tra le quali
non dovrebbero esserci relazioni violente, cioè parenti, fratelli, amici, sia a livello
familiare stretto che a livello sociale? Se il nostro autore si pone questa domanda, è
perché alle spalle, nella storia del popolo di Israele, ha già constatato questo dato di
fatto.
La redazione finale di tutta questa parte è sempre del tempo dell’esilio e quindi
teniamo presenti i fatti successi nei secoli precedenti. Ad esempio la presenza di
fratricidi all’interno delle famiglie, purtroppo. 1°Re 2: Salomone, figlio di Davide,
appena diventato re, fa uccidere il fratello maggiore Adonia; poi il capo dell’esercito
84

Ioab, colpevole a sua volta di aver ucciso due capi di esercito sotto il padre Davide, e
Simei che invece è colpevole di spergiuro. Poi troviamo spesso nella storia di Israele,
nella storia della monarchia, soprusi di capi prepotenti nei confronti dei deboli. Poi
troviamo relazioni violente tra tribù e tribù, tra popoli che sarebbero legati da rapporti
di parentela o di mutuo aiuto (cf. Amos).
L’autore allora si chiede: perché succedono queste cose? C’è un passo nel
profeta Malachia che esprime molto bene questo problema: Non abbiamo forse tutti
noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con
perfidia l’uno contro l’altro, profanando l’alleanza dei nostri padri? (Ml 2,10).
Questo è il grande interrogativo. Perché? Come risponde il nostro autore a
questo interrogativo? Egli aveva ricuperato un racconto preesistente che riguardava i
Cainiti, un gruppo che abitava in una regione marginale rispetto a Israele e che però
conduceva una vita piuttosto inquieta e raminga, ed era visto con un certo disprezzo,
anche con un po’ di paura, perché ovviamente facevano rapine, ecc. Israele ormai si
era sedentarizzata: da nomade che era stato, era diventato un popolo di agricoltori.
Siccome questi invece non erano agricoltori, li vedeva piuttosto male. E allora questo
racconto li descriveva come discendenti da un personaggio eponimo (cioè da cui
deriva il nome o di un gruppo o di una tribù o di un popolo o di una città). In questo
caso i Cainiti derivavano da un certo Caino, Qajin in ebraico.
C’è un sottofondo storico a questo discorso, perché questi Qeniti o Cainiti,
venendo dal sud, si erano aggregati agli Israeliti durante la marcia nel deserto (cf.
libro dei Numeri 10,29 ss.), ma non si erano mai sedentarizzati. Forse stavano anche
loro in Canaan, ma ritornarono subito alla vita nomade e vivevano anche di rapine ai
margini delle regioni coltivate. E allora il nostro autore si chiede: come mai questi
non si sono fermati come gli altri nella terra promessa? Perché hanno preferito la
condizione di nomadi ancora e non di agricoltori nella famosa e bellissima terra
promessa? Se gli Israeliti da nomadi erano diventati sedentari, i Cheniti invece
avevano fatto il percorso inverso.
Infatti, come dice Gen 4, Caino, il loro capostipite, era agricoltore, poi invece
viene cacciato e diventa nomade, ramingo, fuggiasco sarà: è la pena che riceve.
Appunto per sua colpa Caino era stato allontanato dalla terra coltivata, e allora ci si è
chiesti: come mai? Perché? Che colpa ha commesso? E si è pensato a questo
fratricidio, motivo connesso a sua volta con quello della rivalità.
Anche questo è l’elemento storico che sta dietro a questo racconto, della
rivalità che effettivamente c’era fra gli agricoltori e i pastori. Cioè popoli che già
sedentarizzati che vivevano di agricoltura, invece quelli che ancora si spostavano con
le loro greggi dove c’erano i pascoli, facevano la transumanza, ecc.
Il nostro autore cosa ha fatto? ha preso questo racconto che già esisteva e lo ha
inserito in Gen 1-11 esattamente a questo punto, dopo il peccato originale, perché gli
serviva un episodio truce, tragico, agghiacciante, perché che cosa di peggio della
pazzia di un proprio familiare, fratello o patricidio o matricidio? Proprio perché a lui
serviva far vedere come purtroppo nell’uomo cresce il male, la malvagità, la violenza.
Se il primo peccato era un peccato contro Dio, qui troviamo una narrazione
simbolica specifica in cui l’autore ci mostra quella che dovrebbe essere la solidarietà
85

fraterna e che invece è continuamente smentita dalla realtà. Lui aveva in mente gli
episodi storici del fratricidio di Salomone verso il proprio fratello maggiore, e quindi
era un dato di fatto di cui cercava una spiegazione. Il dato di fatto è: perché gli
uomini facilmente arrivano a questa insofferenza reciproca, non accettano la
differenza l’uno dall’altro e arrivano addirittura ad ammazzare? Caino infatti è
diventato l’emblema dell’omicida, l’omicida per antonomasia. In Caino, si può dire, è
raffigurato ogni uomo che uccide, che uccide l’altro. L’altro anche se non è fratello di
sangue, è fratello perché è figlio di Dio. Quindi ogni omicidio è l’uccisione di un
fratello.

Analisi e commento di Gen 4,1-16: Caino e Abele


1
Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino e disse:
«Ho acquistato un uomo dal Signore».

Vi ricordo che il versetto precedente, l’ultimo del c. 3, parlava della cacciata di


Adamo ed Eva dal paradiso terrestre dopo il primo peccato: 24Scacciò l’uomo e pose a
oriente del giardino di Eden i cherubini, per custodire la via all’albero della vita.
Ora però vediamo che c’è una continuità nella vicenda di Adamo ed Eva. Adamo ed
Eva sono marito e moglie, quindi Adamo si unisce a sua moglie la quale concepisce e
partorisce un figlio.
Nell’avvertimento a non accostarsi all’albero del bene e del male Dio aveva
detto: se no morirete. Però non è da intendersi come morte fisica, perché in effetti non
sono morti, sono morti nel senso virtuale, perché hanno rotto il loro rapporto con Dio,
sono stati cacciati. Però sono vivi, altrimenti non poteva continuare la storia e la vita.
Non solo, ma come sappiamo, nella Bibbia ogni nascita è segno di benedizione
da parte di Dio, perché è segno della fecondità. In effetti Adamo ed Eva, pur essendo
stati duramente castigati, non erano stati maledetti. La maledizione riguardava solo il
serpente. E la maledizione vuol dire la presa di distanza totale da parte di Dio verso la
realtà. Quindi Dio non ha maledetto Adamo ed Eva poiché ha concesso loro una
discendenza, vuol dire anzi che, nonostante il peccato, la cacciata, li ha benedetti.
Dunque la prima coppia non solo non è stata maledetta, ma viene benedetta
nella fecondità. È per questo che la donna, dopo aver avuto il figlio, grida: Ho
acquistato un uomo dal Signore. In ebraico acquistare si dice qānah e l’accostamento
del verbo qānah con il nome proprio Qajin, Caino, fa capire che per lo jahwista
questo può essere il significato proprio del nome Caino. Sappiamo che in ebraico i
nomi avevano una forza più grande, non erano soltanto delle convenzioni, ma
esprimevano anche una realtà. Qui allora c’è questo nesso tra la gioia di aver avuto in
dono (ho acquistato un uomo dal Signore) e il nome proprio “Caino”.
Questa è una spiegazione di tipo eziologico (dal greco aitia che vuol dire
cause). Cioè il nome dice che cosa sta all’origine di questa realtà: il fatto che Eva ha
avuto in dono, ha acquistato questo figlio dal Signore. Poiché la madre ha avuto
86

questo figlio, questo che si chiama Caino. È la seconda spiegazione che si può dare
del nome Caino, ne vedremo delle altre. La prima spiegazione è: “Caino” in quanto
capostipite eponimo dei Cainiti o Cheniti. Adesso invece “Caino” perché acquistato.
2a
Poi partorì ancora suo fratello Abele.

Notate che adesso si dice solo partorì suo fratello Abele. Non c’è nessun grido
di gioia per questa seconda nascita, non c’è un nesso con il nome; anzi la spiegazione
è insita nel nome stesso, perché in ebraico hebel, da cui Abele, vuol dire soffio,
vanità, vapore, nulla. Come vedremo Abele è proprio un po’ una nullità: non parla,
ovviamente non genera perché viene ammazzato, quindi non ha una continuità, una
discendenza, non interviene, cioè è una figura molto passiva, sembra semplicemente
una sorta di contrappunto, di controfigura di Caino.
Tuttavia Abele, nascendo come secondo dopo un altro, instaura la fraternità.
Perché Caino è anche un fratello? Perché appunto c’è un altro figlio di sua madre, che
è suo fratello.
2b
Ora Abele era pastore di greggi, e Caino lavoratore del suolo.

In questi due personaggi l’autore tipizza due modelli sociali, due condizioni: Caino
rappresenta la civiltà sedentarizzata, agricola; Abele incarna quella nomadico-
pastorale. E quindi la rivalità, che poi vedremo sorgere tra di loro, può essere una
rivalità anche nell’ambito del lavoro, dell’attività. L’autore qui vuole dire che la
differenza di attività invece di essere come vorrebbe Dio (un’occasione di
collaborazione, di comunione, perché se si fanno cose diverse ci si integra a vicenda,
ci si completa a vicenda, ci si aiuta l’un l’altro), purtroppo diventerà occasione di
conflitto. Del resto c’erano conflitti nell’antichità tra queste due classi sociali.

Entrambi offrono sacrifici al Signore. È un’esperienza comune a tutti i popoli


antichi: il rapporto con la divinità era vissuto in questo modo, offrendo dei sacrifici.
Però l’autore nota che il Signore gradì solo Abele e la sua offerta e non Caino.
Sono state tentate tante spiegazioni per spiegare questa differenza. Vi dico quella che
mi è sembrata la più convincente, anche perché quando il testo fu redatto nella forma
finale, Israele aveva già alle sue spalle una lunga esperienza di Dio, di rapporto con
JHWH. Allora per spiegare questa frase un po’ strana, possiamo rifarci a due aspetti
di questa esperienza storico-religiosa di Israele:
 il rapporto tra il primogenito e il secondogenito
 un tratto tipico dell’agire di JHWH.
1. In tutta la Scrittura il rapporto tra il figlio primogenito e il secondo, il minore, è
particolarmente sottolineato, perché il primogenito è colui a cui spetta per diritto la
parte doppia di eredità: a due fratelli si dava 2/3 al primo e 1/3 al secondo. Il
primogenito era colui che durante la vita aveva sempre una precedenza, una priorità
sui fratelli, perché sarebbe diventato a sua volta il capo famiglia e quindi con un ruolo
di riguardo. Anche in questo caso lo si vede bene, perché il grido di gioia della madre
87

ha accompagnato la nascita del figlio primogenito, di Caino, mentre del secondo si


dice solo partorì ancora. Anzi, se guardiamo bene, questo “ancora suo fratello
Abele” sembra quasi che voglia indicare questo secondo come uno che è un po’ di
troppo, un di più, che spezza per Caino la possibilità di essere lui il solo figlio che
avrebbe avuto tutta l’eredità, che avrebbe avuto tutto. Quindi fin dagli inizi possiamo
immaginarci la situazione: Caino cresce in famiglia avvertendo in Abele un po’ un
ostacolo, una minaccia, qualcosa insomma che gli dà fastidio.
2. Nella preferenza di JHWH per Abele, vediamo un tratto tipico dell’agire di Dio.
Nella storia di Israele si vede che sempre Dio ha delle predilezioni, delle preferenze
per i più piccoli, il più debole, il secondo, quello non considerato, quello disprezzato,
o addirittura scartato dagli uomini, dimostrando così che il suo amore è gratuito. Dio
ama ciascuno per quello che è, non in funzione dei meriti, di doti particolari, di
capacità. Qui gli esempi sono tantissimi: nella discendenza di Abramo, Isacco che è il
secondo, soppianta Ismaele che è il primogenito; poi Giacobbe figlio di Isacco
soppianterà Esaù; Giuda, che era solo il quartogenito dei 12 figli di Giacobbe, ha
invece un posto di prim’ordine, perché da lui uscirà nientemeno che la dinastia
regale, davidica. Da Giuda infatti poi si sarebbe chiamato “regno di Giuda”. Inoltre
Davide, che era il più piccolo tra i suoi fratelli, è scelto da Dio come re, e quale re
sarà il grande Davide.

Così anche in questo episodio Dio mostra la sua preferenza per il secondo,
quello che si chiamava hebel, soffio, vanità, nullità. La frase “Dio gradì il sacrificio
di Abele”, secondo il linguaggio biblico vuole dire che quando Dio posa il suo
sguardo su una persona o una cosa, vuol dire che lo benedice, che gli conferisce
fecondità. E quindi probabilmente vuol dire che di fatto Abele, pur essendo pastore,
pur facendo un’attività forse meno importante dell’agricoltura, però conosceva la
prosperità e quindi vuol dire che era benedetto da Dio e quindi era felice. “Dio gradì
il sacrificio di Abele”, vuol dire le cose di Abele andavano bene, perché era
benedetto da Dio.
È probabilmente questo che fa scattare l’invidia di Caino, aggravando la
rivalità tra i due che forse era già nata per il fatto che a questo primogenito dava un
po’ fastidio la presenza di un fratello.
5b
Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Lo dice chiaramente il testo.
Quindi ai motivi di ostilità si aggiunge anche la gelosia, perché, secondo Caino,
siccome al fratello le cose andavano bene, Dio aveva preferito quell’altro. E può
anche essere, visto che la logica di Dio era questa.
Qui entra in campo ancora il nome di Caino, che potrebbe connettersi a
un’altra radice verbale (simile a quella già vista qanah, acquistare), qānā’, che vuol
dire “essere geloso”. Allora qui “Caino” vorrebbe dire “colui che è geloso”, cosa che
gli si attaglia perfettamente.
La frase 5bCaino ne fu molto irritato, letteralmente in ebraico si dice: 5bUn’ira
bruciante si accese in Caino, perché l’invidia, la gelosia è come un fuoco che
consuma e produce anche effetti esteriori. Infatti dopo dice: Il suo volto era
abbattuto.
88

Se confrontiamo questo episodio con quello di Gen3, vediamo che là il peccato


consisteva nel trasgredire un esplicito comando di Dio (non mangiate dell’albero
della conoscenza del bene e del male), che era stato fatto per il bene dell’uomo. Qui
invece è diverso: si tratta di una situazione, l’essere fratelli, che purtroppo (l’autore
questo l’ha constatato nella sua esperienza personale, nella storia del suo popolo) ha
in se stessa spesso germi di conflittualità, perché i conflitti nascono proprio là dove
due persone di uguale dignità sono poste l’una accanto all’altra; dovrebbero andare
d’accordo, in armonia, ma spesso non è così, sorgono interessi contrastanti o
economici o di altro genere. In questo caso sappiamo anche che uno era agricoltore e
uno pastore, quindi c’erano attriti, c’erano difficoltà tra queste due categorie. I due
impersonano proprio queste due categorie sociali che effettivamente erano state in
contrasto tra di loro.
Allora che cosa fare di fronte a questa tentazione che agisce in Caino di
prevalere sull’altro, di tirarlo via di mezzo perché gli dà fastidio, perché ostacola i
suoi programmi? Qui troviamo due versetti, il 6 e il 7:
6
Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il
tuo volto? 7Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci
bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e
tu dominalo».

Questi due versetti probabilmente sono stati aggiunti in un secondo tempo per
spiegare meglio la dinamica del peccato di Caino e del peccato in generale. Quindi
potremmo ricordare l’episodio di Gen 3 come era avvenuta la dinamica del peccato
là: è il serpente che insinua e fa vedere un volto diverso di Dio, ed Eva ci casca e poi
anche Adamo. Qui invece vediamo cosa succede: Dio interviene e come un Padre
paziente si rivolge a Caino per fargli capire che non ha ragione ad irritarsi perché lui
tanto è ancora il primogenito, e finora è tutto bene: Se agisci bene, non dovresti forse
tenerlo alto il tuo volto? Può sì camminare a testa alta! E allora perché non è così?
Perché non ha la testa alta? Perché non è tranquillo, sereno, il suo volto è abbattuto?
Proprio perché non accetta la diversità del fratello.
Il fratello poteva essere stato privilegiato da Dio, perché Dio si comporta
sempre così. Il fratello poteva essere in una situazione migliore economicamente, più
prospera, ma perché quell’altro doveva prendersela per questo? Non accetta la
diversità del fratello. E quello che viene dopo dipende solo da lui.
Questo episodio è molto importante perché fa vedere molto bene la
responsabilità soggettiva nel caso del peccato. Infatti JHWH dice: Se agisci bene,
cioè se reprimi i sentimenti sbagliati, puoi continuare a tenere alto il tuo volto. Ma se
non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta. Questa immagine, tra
l’altro, era frequente anche nei testi babilonesi, assiri, perché era una specie di
demone, lo si vedeva accovacciato pronto a saltare addosso all’uomo. Ma tu
dominalo.
Il v. 7 è molto difficile e oscuro, perché ci sono delle questioni testuali. Però
alla luce di altri testi si può spiegare così: il peccato ha una grande forza di seduzione,
è come un animale accovacciato alla porta di casa (“alla tua porta” vuol dire: la porta
89

del tuo cuore. Si tratta di una metafora), pronto a saltarti addosso alla prima
occasione, basta lasciare aperto uno spiraglio della porta, e quello si infila e si insedia
nella casa. Ma tu dominalo, dice JHWH, cioè sta all’uomo esercitare la sua capacità
di discernimento del bene e del male. Saper dire di no a ciò che è male, questa è la
sua responsabilità che è chiamato ad esercitare in tutta libertà. Dio non ha fatto delle
marionette, ma degli uomini liberi e responsabili, che purtroppo possono anche
scegliere in maniera sbagliata.
Qui si vuol far vedere proprio questo, che il peccato non è qualcosa di
ineluttabile, è vero che si può essere illusi, ingannati. In Gen 3 l’avevamo visto bene:
il serpente era riuscito nel suo intento: mostrare a Eva un volto diverso da quello reale
di Dio, e quindi l’aveva ingannata. È vero che possono esserci delle situazioni sociali,
psicologiche, che spingono alla prevaricazione dell’uno sull’altro, come in questo
caso la differenza di successo, ma è altrettanto vero che ad ogni persona umana resta
sempre la possibilità di esercitare la sua signoria, cioè la sua capacità di dominare, di
governare l’istintualità. Infatti dice: verso di te è il tuo istinto, ma tu dominalo.
Purtroppo l’uomo può essere assalito da questa tentazione del peccato o da questo
inganno o da questa seduzione, però può dominarlo. Questo versetto è proprio parola
di Dio permanente che ha una validità continua in ogni tempo, è proprio Torah,
istruzione, è attualissima, va bene per ciascuno di noi, ci invita ad aprire gli occhi e a
vigilare continuamente su di noi, sul nostro cuore, sul fatto di non lasciarci ingannare
o sedurre dal male. Prima di accusare forze esterne a noi, dobbiamo sempre fare un
serio esame di coscienza ed essere capaci anche di autodenunciarci.
Quindi Dio ha fatto un tentativo per fermare Caino, ma Caino non accetta la
parola di Dio e questa è la sua seconda colpa. Non solo cede al demone del peccato,
ma lascia libero ingresso al demone del peccato nel suo cuore che si impadronisce di
lui ed ecco la tragedia. La parola di Dio non è capita perché Caino non l’ha voluta
ascoltare, non l’ha messa in pratica e quindi, nonostante l’ammonimento di JHWH,
Caino attua il suo piano omicida. Detto in maniera estremamente stringata, lapidaria:
non si dice niente di quello che ha potuto pensare Caino. Subito dopo l’invito di Dio
tu dominalo, punto.
8
Caino disse al fratello Abele: Andiamo in campagna. Mentre erano in
campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise.
La leggenda dice che probabilmente lo ha colpito con una pietra. È un peccato
ancora più grave di quello originale, perché qui c’è stato anche un tentativo da parte
di Dio di distogliere Caino dal male, mentre invece Adamo ed Eva non avevano
avuto questa attenzione. Non è intervenuto Dio, se non dopo.

La responsabilità dell’uomo di fronte al peccato

A questo punto, sempre in parallelo con il c. 3, troviamo l’interrogatorio di


Dio:
9
Allora il Signore disse a Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?».
90

Cosa vuol dire tuo fratello? Vuol dire che, siccome è fratello, Caino lo deve
custodire, così come Adamo era tenuto a custodire la terra, come il popolo di Israele
deve custodire i comandamenti di Dio. E, più ancora di quanto Adamo deve fare con
la terra, Caino dovrebbe custodire cioè rispettare, difendere al vita del fratello. Questo
significa la domanda Dov’è, appunto cosa hai fatto verso tuo fratello?
Non dimentichiamo il terzo significato di “Caino”: da qajin = lancia, che può
sottolineare ulteriormente la violenza in Caino. È il nome di un’arma e lo ritroviamo
anche in Caino.
9b
Caino risponde: «Non lo so. Sono forse guardiano di mio fratello?».
In ebraico è suggestivo il suono: hašōmēr ’āhȋ ’ānōkȋ = il custode di mio
fratello io? È una risposta piuttosto arrogante, sarcastica, che ci fa vedere come il
cuore di Caino è rimasto indurito e assolutamente privo di pentimento verso il
fratello. Non c’è la benché minima lontanissima traccia di rimorso.
Non solo, ma qui troviamo un’altra analogia con il peccato originale di Adamo
ed Eva, perché essi non riconoscevano la loro responsabilità, ma scaricavano la colpa
Adamo su Eva e Eva sul serpente. Qui addirittura è come se Caino intentasse un
processo a Dio stesso: Sono forse io il custode di mio fratello? Ma io no! Tu devi
essere il custode di tutti! Tanto più che l’epiteto “Dio custode della vita dell’uomo” è
frequentissimo nella Bibbia. Esempio: Sal 121: Il Signore è il mio custode; Sal 127:
Se il Signore non custodisce la città, invano veglia la sentinella; ecc.
Quindi da parte di Caino non c’è speranza di presa di coscienza. Sarebbe
inutile continuare l’interrogatorio. Infatti subito dopo Dio dice:
10
Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!
Questa è un’esclamazione molto forte con cui lo scrittore vuole esprimere nella
maniera più forte possibile l’orrore di Dio per questa azione. Cosa hai fatto? E
soprattutto Dio vuole porre Caino di fronte al fatto compiuto, e della cui gravità
evidentemente non si rende conto.
Poi Caino sperimenta qualcosa che non avrebbe mai immaginato, perche Dio
dice: La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Probabilmente aveva
già seppellito il cadavere del fratello, ma il sangue dell’ucciso ha levato un grido di
lamento che ha raggiunto il trono di Dio.
Erano così convinti gli antichi Ebrei di questa cosa che, per evitare questa
specie di grido di giustizia, usavano coprire con molta sabbia e terra tutte le tracce di
sangue quando succedeva un omicidio. Perché? Perché secondo la mentalità semitica
il sangue è il simbolo della vita, perché, grazie al sangue, noi possiamo vivere. Non
solo, ma il sangue e la vita sono proprietà di Dio, che è Creatore di tutto. Quindi
quando l’uomo uccide, attenta alla proprietà stessa di Dio, e allora Dio interviene,
deve intervenire. Ecco perché c’è quella frase: il sangue dell’ucciso grida, che Dio
intervenga per “vendicarlo”, cioè per fare giustizia.
Sarà Gesù stesso a ricordare che non andrà dimenticato tutto il sangue
innocente versato sopra la terra, fin dal sangue del giusto Abele (Mt 26,35). Si
riferisce proprio a questo episodio per dire: in qualche modo Dio interverrà a
91

protezione dei deboli. Sal 10: Tu, Signore, vedi l’affanno e il dolore, tutto tu guardi e
prendi nelle tue mani.
Uno scrittore jiddish, Singer, dice: “Credo che in qualche punto dell’universo
debba esserci un archivio in cui sono conservate tutte le sofferenze e gli atti di
sacrificio dell’uomo. Non esisterebbe giustizia divina se la storia di un misero non
ornasse in eterno l’infinita biblioteca di Dio”. Molto suggestiva questa frase.
La voce del sangue grida. In ebraico “grida” è zā‘aq. “Il grido degli oppressi”
ritorna spesso nella Bibbia, essi chiedono a Dio diritto e giustizia. Infatti il Signore
non resta indifferente davanti al crimine di Caino e fa giustizia. Non applica però
quella che era la legislazione corrente dell’antico Israele: la legge del taglione (chi
uccide sia ucciso, occhio per occhio, dente per dente). La pena deve essere uguale
come gravità alla colpa, all’offesa recata.

Sentenza di JHWH

Sulla falsariga di Gen 3 qui abbiamo tre sentenze:


1. sii maledetto. Quella maledizione che in Gen 3 ha colpito solo il serpente, qui
colpisce anche Caino, proprio perché uccidere l’uomo significa uccidere
l’immagine di Dio, perché l’uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio. E
quindi uccidere l’uomo è quasi come commettere una sorta di deicidio, perché si
uccide l’immagine di Dio. Qui Dio maledice un singolo – Caino – per la sua
colpa, non l’intera umanità, non l’umanità in quanto tale, proprio perché è stata la
libertà personale di Caino che lo ha fatto cadere e ha provocato questa sentenza.
12
2. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti. Qui c’è un
aggravamento rispetto alla punizione di Adamo: Con dolore ne trarrai il cibo,
spine e cardi produrrà per te (Gen 3,17). Nel nostro racconto addirittura la terra
nega ogni prodotto. Ecco perché poi Caino non era più agricoltore, perché Caino
ha dato da bere alla campagna il sangue del fratello e allora la campagna gli
negherà i suoi frutti, come dice Pr 22: Semina malvagità, raccogli disgrazia.
3. ramingo e fuggiasco sarai sulla terra. Qui completa l’oggetto della
maledizione. Non solo viene escluso dai frutti della terra (appunto non sarà più
agricoltore), ma viene completamente escluso, scomunicato dalla comunità
umana, dagli uomini che abitano in quella terra. Infatti nell’originale ebraico il
termine “ramingo” si dice nāwad che vuol dire muoversi qua e là, vagabondare,
e “fuggiasco” si dice nāwa‘ (L’ebraico ama molto questi giochi di suoni) che
vuol dire “andare a tentoni come un cieco”. Questa è la terza pena: vagabondare e
andare a tentoni. È la rappresentazione di una specie di contrappasso, quel criterio
punitivo (reso famoso da Dante nella Divina Commedia) per cui la pena deve
corrispondere al delitto commesso, deve essere uguale o simile.
Allora Caino, che aveva spezzato la relazione di fratellanza con il fratello, è
condannato a essere escluso da ogni relazione, ad essere solitario, perseguitato,
vagabondo, senza amici, un fuggiasco insomma, che non ha più tregua. Questo è
molto grave per una cultura profondamente sociale come quella ebraica.
92

Così Caino sperimenta la maledizione della solitudine e, poiché la solitudine è


insopportabile perché l’uomo è fatto per i rapporti sociali, finalmente adesso anche
lui viene scosso e sembra mettersi sulla via del pentimento. Sotto il peso della pena,
Caino crolla, ammette la sua colpevolezza. Questa è una delle due interpretazioni del
versetto successivo:
13
Disse Caino al Signore: «Troppo grande è la mia colpa per ottenere
perdono?”

Qui c’è un punto interrogativo, potrebbe esserci anche quello esclamativo. E poi c’è il
timore che venga applicata la legge del taglione, perché
chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere.

Quest’uomo ora si sente lui in pericolo, perché chiunque potrebbe ritenersi


vendicatore della morte di suo fratello o dell’Abele di turno. E questo crea paura,
angoscia. (Naturalmente qui c’è sottintesa la legislazione di Nm 35,19 in cui appunto
c’era questa modalità).
Dietro questa punizione si coglie anche una caratteristica della società
dell’antico Israele, perché il singolo individuo era una nullità fuori del suo clan (cioè
del gruppo che gli dà identità, forza, sostegno) e perdeva anche ogni garanzia di
incolumità, era esposto a qualsiasi sopruso.
15
Ma il Signore gli disse: «Ebbene, chiunque ucciderà Caino (se mai ci sarà
qualcuno che applicherà la legge del taglione e quindi ucciderà Caino)
subirà la vendetta sette volte!”

Per “vendetta” si intende il ristabilimento della giustizia. Il numero sette indica un


qualcosa di perfetto, di totale. Quindi vuol dire: se anche qualcuno ti colpirà, Dio poi
farà giustizia di lui.
Anche qui c’è un parallelo con Gen 3: dopo il peccato, Dio aveva mostrato la
sua misericordia verso Adamo ed Eva vestendo per loro abiti di pelli, e l’abito era il
ridare una dignità all’uomo, perché in Israele questo è il significato dell’abito.
Qui in 4,15-17 vediamo che di nuovo Dio interviene per manifestare ancora la sua
misericordia e il suo desiderio di proteggere la vita dei suoi figli, anche di chi si è
macchiato di un terribile delitto come il fratricidio.
Caino ormai non è più forte e spavaldo come l’avevamo visto all’inizio del
capitolo. Ora ha paura, è ferito dentro, è solo, è minacciato, potrebbe essere anche lui
come Abele un soffio, un uomo inconsistente e Dio prende le sue difese:
15b
Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque
l’avesse incontrato.

Allora Caino è punito, deve espiare il suo peccato, però è ancora sotto la protezione
del Signore, che lo tutelerà contro ogni vendetta. Quindi il “segno” non era tanto per
indicarlo al ribrezzo, alla riprovazione di chi lo vedesse, ma per proteggerlo, per
difenderlo da chi lo volesse uccidere per vendicare Abele.
93

Questo ha un significato di carattere universale, perenne, proprio perché ogni


creatura è stata creata a immagine e somiglianza di Dio, è nelle mani di Dio, quando
anche fosse un assassino, il più terribile degli assassini. Nessuno ha il diritto di
prendere il posto di Dio nel giudizio ultimo su quell’uomo. Da qui viene fuori il
discorso su cui mi fermerò nella attualizzazione: il problema della pena di morte.
Neppure lo Stato può sostituirsi a Dio nel togliere quella vita che Dio ha dato. Non
solo, ma qui si rivela la volontà divina custode ordinatrice.
Quello spirito omicida che si è impadronito di Caino non deve allargarsi in
cerchi sempre più grandi, come purtroppo vediamo che tuttora succede, specialmente
in certe popolazioni dell’Africa dove ci sono odi atavici per cui una tribù vince
sull’altra, poi dopo questa si vendica e va avanti all’infinito. Non c’è mai fine se ci si
vendica. Dio vorrebbe fermare subito questa spirale.
Qual è il “segno”? anche qui tante cose sono state dette; certo il sottofondo
storico può essere quelle sorti di tatuaggi, di segni di riconoscimento, magari
l’acconciatura dei capelli o delle vesti o il tatuaggio che indicava l’appartenenza a un
clan, a una tribù oppure o una categoria di persona.
In ogni caso, “segno” in ebraico è ’ôt ; tutte le volte che si vede questa parola
nella Bibbia (il “segno” dell’alleanza, i famosi segni dell’Esodo, i prodigi che farà
Mosè, i segni profetici), si vuole indicare il dominio assoluto di Dio sulla natura e
sulla storia. Quindi questo segno, qualunque esso sia, indica che è Dio l’unico
padrone della vita di Caino; nessun altro può arrogarsi il compito di spezzarla. Dio
continua a custodire la vita di Caino mettendo su di lui un proprio sigillo di
appartenenza e di protezione.

Infine anche qui, analogamente a Gen 3 (Adamo ed Eva cacciati dal paradiso
terrestre), abbiamo un’espulsione:
16
Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese di Nod, a oriente di
Eden.

Veramente non troviamo nessun “Nod” nelle località dell’antico Israele.


Probabilmente, visto che Nod ripete la stessa radice di nād , errante indica una
condizione più che un luogo preciso.
Qual è la risposta che il nostro autore jahwista ha dato all’interrogativo detto
all’inizio? Perché il conflitto tra fratelli, tra gruppi imparentati, tra gruppi in relazione
di amicizia? Per tutte le relazioni che ha ben individuato in questa ristesura
reinterpretata di quell’antico episodio che in origine aveva solo valore eziologico:
parlava di questi Cheniti che discendevano da Caino che appunto aveva lasciato
l’agricoltura per una colpa. Quindi possiamo dire che Gen 4 ci presenta il “peccato
originale”, però nell’ambito sociale, nell’ambito delle relazioni tra gli uomini.

Riferimenti all’episodio nella successiva storia della salvezza


94

Gen 1-11 rappresenta un po’ un’introduzione generale a tutta la Bibbia. Sono


capitoli basilari per tutta la storia della salvezza che viene raccontata successivamente
nella Sacra Scrittura. Non a caso, infatti, nella storia della salvezza spesso si fa
riferimento a personaggi ed episodi che si trovano in questi primi 11 capitoli. Infatti
le figure di Caino e Abele sono più volte riprese in varie parti dell’AT e del NT.
Spesso nella tradizione biblica l’immagine di due fratelli, uno contrapposto all’altro,
è ripreso proprio come esempio di contrapposizione del giusto (naturalmente
raffigurato da Abele), nei confronti del malvagio (rappresentato da Caino).
- In Sap 10,3 è evidente l’allusione a Caino e Abele, anche se non vengono nominati,
perché si dice: Un ingiusto, allontanatosi da essa (la sapienza), nella sua collera perì
per il suo furore fratricida.
- Nel NT abbiamo Mt 23,35 in un pesantissimo “guai a voi” di Gesù a scribi e farisei
ipocriti: guai a voi scribi e farisei ipocriti che perseguite i profeti, ricada su di voi
tutto il sangue innocente versato sopra la terra, dal sangue del giusto Abele fino al
sangue di Zaccaria, il sacerdote ucciso tra il santuario e l’altare.
- La lettera agli Ebrei cita bene in due passi dove fa la rassegna dei patriarchi e dice:
Per fede Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino e in base ad essa
(la fede) fu dichiarato giusto, attestando Dio stesso di gradire i suoi doni (Eb 11,4).
- Una parte della tradizione rabbinica propone di leggere non tanto “Abele offrì un
sacrificio migliore”, ma “offrì anche se stesso insieme al sacrificio”. È molto
suggestiva questa interpretazione. E del resto in tal senso il testo assume una apertura
enorme: Abele non compie un rito esteriore che resta fuori di lui, ma implica se
stesso nella sua offerta, offre il sacrificio ma anche se stesso. Questa è una delle tante
interpretazioni per cui sarebbe stato più gradito a Dio il sacrificio di Abele di quello
di Caino, proprio perché Abele avrebbe offerto anche se stesso.
Questo infatti – dirà Paolo – è il vero culto spirituale: offrire se stessi, i propri corpi,
la propria vita come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio (Rm 12,1).
- E ancora Eb 12,24: Voi vi siete accostati […] al Mediatore della Nuova Alleanza e
al sangue dell’aspersione dalla voce più eloquente di quello di Abele. È il sangue di
Cristo a cui – dice la lettera agli Ebrei – noi ci siamo accostati, e quindi possiamo
dedurre che si può vedere in Abele una figura di Cristo. Il sangue versato da Abele,
innocente, è il sangue versato da Gesù che ci ha salvato.

- Quanto a Caino, è presentato come esempio da non imitare assolutamente in 1Gv


3,12: Questo è il messaggio: che ci amiamo gli uni gli altri. Non come Caino, che era
dal maligno e uccise il suo fratello, perché le sue opere erano malvage.
- Nella lettera di Giuda: Guai a loro! (i falsi dottori) Perché si sono incamminati per
la strada di Caino (Gd 11).
- Nella letteratura del secolo scorso (il ’900) il tema è stato ripreso da John Steinbeck
nel romanzo “All’est dell’Eden” il cui tema principale è costituito dagli elementi
narrativi del nostro racconto.
Da questo episodio emergono una quantità di elementi di grandissima attualità:
non solo la pena di morte, ma anche la vendetta, il tema della benedizione e
95

maledizione, il tema dei conflitti e quindi anche delle guerre, l’invidia, l’odio, la
violenza, la gelosia. Tutti elementi che purtroppo sono di grande attualità.

Attualizzazione: la pena di morte nella storia del mondo occidentale

La pena di morte era tranquillamente contemplata in tutto il mondo antico e


quindi anche in Israele. Es 21,12: Colui che colpisce un uomo causandone la morte,
sia a sua volta punito con la morte. Allora subito qualcuno dice: se c’è scritto nella
Bibbia che è possibile colpire di morte l’omicida, allora vuol dire che si può fare!
Questo sarebbe un classico ragionamento da fondamentalisti, cioè da testimoni di
Geova: prendere la frasetta e dire: la Bibbia dice così, quindi è così.
Però la Bibbia non è affatto una astratta raccolta di frasette che poi si applicano
letteralmente, ma è la storia della salvezza; e siccome è una storia, indica un
cammino, dei passaggi, delle tappe. Dio ha voluto rivelarsi entrando nella nostra
storia, accettando i nostri limiti e con tanta pazienza ha aiutato gli uomini, il popolo.
E allora ha lasciato passare anche dei comportamenti non molto ortodossi perché
doveva a poco a poco far capire agli uomini quello che era meglio, portarli sempre
verso il meglio, verso l’orizzonte della verità.
La parola di Dio è come un seme che si apre la strada faticosamente sotto il
terreno sordo e opaco dell’esistenza dell’uomo. E quindi assolutamente non ci si deve
fermare alla singola frase e vedere invece quali altri passi ci rivelano più chiaramente
le intenzioni di Dio, perché questo non è sufficiente; c’era in Israele la pena di morte,
la troviamo nei vari codici legislativi in Esodo, Numeri, Deuteronomio, ecc.
- Ma prima di tutto c’è il 5° comandamento che dice “Non uccidere”. Quindi se va
applicato alla lettera anche questo, non uccidere in tutti i sensi, è non uccidere.
- ma poi ci sono tre passi dell’AT per esempio:
 Ez 18,23: Forse che io ho piacere della morte del malvagi - dice il Signore - o
non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva? Questo è molto chiaro:
non bisogna ammazzare il malvagio, ma consentirgli di vivere e di migliorare.
 Sap 12,18-19: Tu padrone della forza, giudichi con mitezza e ci governi con
molta indulgenza. Con tal modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il
giusto deve amare l’umanità.
 Giobbe: Il Signore soltanto ha in mano l’anima di ogni vivente.
Quindi nell’AT vien fuori molto bene che non è affatto secondo la parola di Dio la
pena di morte.

Nel NT troviamo un solo riferimento esplicito alla pena di morte in


Rm 13,4: L’autorità è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora
temi, perché non invano essa porta la spada (dell’autorità). Essa infatti è al servizio
di Dio per la giusta condanna di chi opera il male.
Sembrerebbe a favore dell’applicazione della pena di morte, però nel complesso di
Paolo questa frase è piuttosto un monito ai cristiani entusiasti della fede che rischiano
di dimenticarsi di essere anche cittadini. Sono talmente presi dalla fede che
96

dimenticano la dimensione civile del loro stato di vita; e Paolo ricorda loro che hanno
l’obbligo di inserirsi come gli altri nelle regole del gioco di un’esistenza storica calata
nel tempo e nelle strutture politiche di allora, dove la pena di morte era normalissima.
I Greci, i Romani, tutti l’avevano. Quindi non è tanto una giustificazione o una
adesione della pena di morte.
Ma se poi guardiamo il Vangelo, soprattutto i Sinottici che ci riportano la
predicazione di Gesù, vediamo che qui non ci sono assolutamente dubbi, perché Gesù
rimette in discussione in modo radicale l’ideologia del prezzo di sangue. Gesù
propone una strategia assolutamente nuova per superare il male che non fa capo a
nessun elemento cruento di punizione, ma all’amore che trasforma anche il malvagio,
perché l’amore e il perdono sono l’unica via di rigenerazione che Gesù ci propone,
che lui pratica innanzitutto e che ci insegna e comanda e che è infinitamente
superiore ad ogni vendetta. Infatti i passi emblematici sono:
Mt 5,38-39: Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma
io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu
porgigli anche l’altra.
Mt 5,43-44: Avete inteso che fu detto: Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo
nemico (questa era l’etica dell’AT), ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per
i vostri persecutori.
Quindi Gesù abolisce qualsiasi pretesa di far giustizia colpendo la persona del
colpevole, anche di un assassino. È Dio che protegge ogni vittima, è lui che saprà
come far giustizia.
Matteo dice ancora : Non giudicate per non essere giudicati, perché col giudizio con
cui giudicate sarete giudicati e con la misura con cui misurate sarete misurati.
È il giudizio di Dio che conta ed è un giudizio di misericordia il suo, mentre il
giudizio dell’uomo è relativo. Il giudizio di Dio relativizza ogni giudizio umano e
ogni pretesa di assolutezza del giudizio umano.
Possiamo concludere che il NT non presenta assolutamente dei testi che in
qualche modo possano giustificare o legittimare direttamente e volutamente la
sanzione capitale. Piuttosto è presente quell’invito a rinunciare alla sicurezza dettata
dal diritto come qualcosa che possa risolvere tutti i mali: noi abbiamo delle ottime
leggi, rifacciamoci a queste leggi e siamo a posto!
Il precetto di Gesù mette in luce una nuova logica che Dio vorrebbe nel suo
progetto di umanità: quella di far punire in qualche modo il colpevole (perché non è
giusto neanche lasciar passare le colpe), però facendo prendere coscienza al peccatore
di quello che ha fatto, come ha fatto Dio con Caino, e far sì che lui cambi vita. Questa
è la migliore vendetta. Questo per quanto concerne la Scrittura.

Poi come sono andate le cose nella storia? Nella storia civile, nella storia della
Chiesa?
Nell’ambito della Chiesa ci sono state posizioni contro la pena capitale, specialmente
nell’età patristica, ma anche a favore. Valga per tutti il grande teologo medioevale
Tommaso D’Aquino la cui posizione rimarrà a lungo nella teologia cristiana. Lui
dice: “Il bene comune è migliore del bene particolare di una sola persona. Si deve
97

quindi sottrarre un bene particolare per conservare il bene comune. Ora la vita di
alcuni uomini pestiferi impedisce il bene comune. Il peccato riduce l’uomo ad
animale e quindi va soppresso, l’uomo che è così pestifero che reca danno , che
rovina la società”.
Poi c’è stato il tribunale dell’Inquisizione che è nato nel 1231, istituito da Papa
Gregorio IX e poi Sisto IV, su sollecitazione della regina Isabella di Castiglia, ha
istituito nel 1468 la famigerata Inquisizione spagnola e Papa Paolo III nel 1542 ha
istituito la Congregazione della sacra romana e universale inquisizione. Certamente è
una pagina oscura della storia della Chiesa. Pensate che in Spagna il Tribunale
dell’inquisizione tra il 1540 e 1700 (circa in un secolo e mezzo) avrebbe giustiziato
circa 800 persone facendo uso dell’esecuzione capitale mediante il rogo. Dobbiamo
dire che purtroppo ci sono stati grossi errori storici da parte della Chiesa e che però
tutto va visto un po’ nell’ottica di questo cammino che ci deve portare a superare le
posizioni negative.
Pensate che persino nello Stato del Vaticano la pena di morte era in vigore fino
a pochi anni fa, fu abolita nel 2001 nella nuova costituzione dello Stato Pontificio. È
vero comunque che non era mai stata applicata, perché di fatto Paolo VI l’aveva già
abolita nel 1967.
Oggi come oggi cosa possiamo dire? Certamente è stato fatto molto cammino
dal tempo di Caino e dal tempo dell’Inquisizione. E qui mi sono rifatta a un
interessante articolo di Padre Sorge, gesuita, direttore di “Aggiornamenti sociali”, che
dice: Nel caso della pena di morte la Chiesa e il mondo hanno un po’ camminato
insieme, perché da un lato le nuove situazioni storiche e culturali del mondo hanno
contribuito a una migliore comprensione del Vangelo, dall’altra la grande rivelazione
che Gesù Cristo è venuto non per condannare ma per salvare, ha aiutato a capire che
l’uomo non perde la sua dignità neppure quando sbaglia, e quando sbaglia
pesantemente. Pertanto la giustizia, pur compiendo il suo corso col dovuto rigore non
può usare strumenti che offendono la dignità delle persone. Certamente torture e pena
di morte offendono la dignità delle persone, la sacralità della vita umana. Ora la
spinta al superamento della pena di morte è partita da alcuni eretici valdesi nel Medio
Evo e poi ha avuto un enorme impulso nell’Illuminismo soprattutto dal nostro grande
Cesare Beccaria e si è allargata negli ultimi due secoli anche nella Chiesa, pur
rimanendo molti cristiani favorevoli alla pena di morte. Invece si va sempre più
estendendo il fronte dei contrari sia tra i fedeli che tra i pastori e teologi.
Dopo il Concilio Vat. II, vari episcopati nel mondo sono intervenuti
manifestando chiaramente la loro opposizione alla pena di morte. Forse il più famoso
di questi documenti è quello dell’episcopato francese dal titolo “La pena di morte”
del 1978. Poi il Catechismo della Chiesa Cattolica rinnovato nel 1992 al n. 2266
ricorda la posizione tradizionale della Chiesa che “giustificava” il ricorso alla pena
capitale: Difendere il bene comune della società esige che si ponga l’aggressore in
stato di non nuocere. A questo titolo, l’insegnamento tradizionale della Chiesa ha
riconosciuto fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di
infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di
estrema gravità, la pena di morte (CCC, 2266).
98

Ma il numero successivo dice anche: Se i mezzi incruenti sono sufficienti per


difendere le vite umane dall’aggressore e per proteggere l’ordine pubblico e la
sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio
rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla
dignità della persona umana (CCC, 2267).
Quindi si tiene proprio come “extrema ratio”.
Tre anni dopo queste dichiarazioni del Catechismo, con l’enciclica
“Evangelium vitae” del 1995, Giovanni Paolo II saluta con favore la sempre più
diffusa avversione dell’opinione pubblica alla pena di morte anche solo come
strumento di legittima difesa sociale, visto che oggi la società moderna può
reprimere efficacemente il crimine in modi che, mentre rendono inoffensivo colui che
l’ha commesso, non gli tolgono definitivamente la possibilità di redimersi (EV, 27).
Qui è tradotto in pratica uno dei passi contrari alla pena di morte dell’AT: Ez
18,26: Non voglio la morte del peccatore ma che desista dalla sua condotta e viva.
Questo perché nel disegno di Dio tutta la vita dell’uomo è tempo di conversione, di
redenzione. E nessuno può interrompere questa possibilità. Mentre la pena di morte e
un po’ anche l’ergastolo si fondano sulla falsa persuasione che la persona sia
irredimibile, che non ci sia più niente da fare per superarla.
Pertanto l’immutato contesto della società odierna – specifica l’enciclica – la
soppressione del reo potrebbe essere ipotizzata solo in casi di assoluta necessità,
quando c’è la difesa della società e non fosse possibile altrimenti, ma – aggiunge
subito – questi casi sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti.
È noto che uno di questi casi nelle discussioni di morale su questa faccenda
sicuramente era Hitler che poteva rientrare in questo caso. Oggi come oggi un
cardinale tedesco si è pronunciato sullo stesso argomento nei confronti di Osama Bin
Laden che capeggia il terrorismo. Però dire “questi casi sono ormai molto rari, se non
addirittura praticamente inesistenti” il Papa lo diceva nel ’95, adesso anni dopo
abbiamo questa situazione.
È un modo di dichiarare l’effettivo superamento della pena di morte e delle sue
ragioni tradizionali. Queste puntualizzazioni sono state poi recepite nell’edizione
ufficiale del Catechismo della Chiesa Cattolica in lingua latina.
Altre volte è intervenuto il Papa in occasione dell’esecuzione, in America,
della pena capitale, contro appunto questa esecuzione. Si pensi al famoso caso O’Dell
contro cui intervenne anche il Papa. Questo caso è stato poi ripreso dal famoso film
“Uomo morto in cammino”.
Quindi in varie occasioni il Papa ha chiesto con forza di bandire la pena di morte. Il
giubileo del 2000 fu visto come l’occasione di una moratoria universale di tutte le
esecuzioni capitali. A questo scopo si è costituita nel 1999 la lega di cittadini e
parlamentari per l’abolizione della pena di morte nel mondo entro il 2000 e
significativamente si è dato il nome “Nessuno tocchi Caino”.
Purtroppo non è stato raggiunto questo scopo, perché non solo non sono
cessate le esecuzioni, ma nel 2002 sono state oltre 4000 le vittime del boia in tutto il
mondo, dalla Cina tristemente nota per il record delle esecuzioni capitali. Pare che
l’80% avvenga in Cina fino agli USA.
99

Dunque c’è ancora molto da fare, sia nel mondo che nella Chiesa dove il passo
definitivo sarà quello di escludere in assoluto anche in linea di principio la pena di
morte.
Non sarà facile perché – come dice Quasimodo – in una celebre poesia: “Sei
ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo, eri nella carlinga con
le ali maligne, le meridiane di morte, ti ho visto dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. Ti ho visto, eri tu con la tua scienza esatta, …….lo sterminio
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri,
come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta. E questo sangue odora
come nel giorno quando il fratello disse all’altro fratello: Andiamo ai campi. E
quell’eco fredda tenace è giunta fino a te, dentro la tua giornata. Dimenticate, o figli,
le nuvole di sangue salite dalla terra, dimenticate i padri, nelle loro tombe affondano
nella cenere, gli uccelli neri e il vento coprono il loro cuore”.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

GENESI 1-11 6° lezione Milano, 17 novembre 2004

LA MALVAGITÀ DILAGA

Gen 4,17-24; 5; 6,1-5

Analisi e commento di Gen 4,17-24: discendenza di Caino e peccato di Lamech


17
Ora Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch; poi divenne
costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio.

Di fronte a questa affermazione, può sorgere una prima domanda: da dove salta
fuori la moglie di Caino? perché, se stiamo alla “storicità” dell’autore che intendeva
raccontare le origini dell’umanità, visto che Adamo ed Eva, unici esseri viventi,
avevano generato due maschi, come è possibile che salti fuori questa moglie?
Innanzitutto qualcuno di voi risponderà: ma non va interpretato alla lettera, è
un racconto simbolico, archetipico! Però questa sera colgo l’occasione per rispondere
a questa domanda, facendovi vedere come è venuto fuori questo testo.
Il racconto di Caino ha conosciuto tre tappe successive (cf. “Cosa sappiamo
della Bibbia”, vol. 3°).
 La prima tappa era un racconto popolare trasmesso oralmente e staccato dal
racconto di Adamo ed Eva, quindi era a sé stante e raccontava la vita di un
antico eroe, detto Caino, che visse in un’epoca già avanzata dell’umanità,
quando la terra era tutta popolata e c’erano le città e si esercitava sia la pastorizia
che l’agricoltura. Perché, volendo interpretare alla lettera, chiaramente era
assurdo che i due fratelli contemporaneamente facessero uno il pastore e l’altro
100

l’agricoltore, visto che, storicamente, c’è stata prima la fase nomade della
pastorizia e dopo quella agricola. Quindi il racconto popolare di Caino è nato in
questo contesto. E Caino risultava il fondatore di una famosa tribù beduina, detta
appunto dei Cainiti, da Caino. Una tribù che abitava nel deserto a sud di Israele e
che effettivamente è esistita. La storia includeva anche il matrimonio di Caino
forse con una giovane di un clan che stava nel deserto, e questa coppia ebbe un
figlio di nome Enoch. Questa prima storia, tramandata oralmente presso i
Cainiti, venne conosciuta dai vicini Israeliti, che la modificarono.
 Ci fu una seconda tappa in cui saltò fuori la figura del fratello Abele (hebel =
soffio, colui che non ha una consistenza in sé) che è più una controfigura di
Caino.
 Poi soprattutto abbiamo la terza tappa, e siamo già all’epoca di Salomone. Un
anonimo scrittore ebreo notò che quella parte che narrava del lavoratore espulso
dalla terra coltivabile (cf. Gen 4,16) e condannato a vagare per sempre come
ramingo, si prestava molto bene per approfondire il grosso spinoso tema del
male nel mondo. Perché il male nel mondo? voi sapete che tutti questi testi di
Gen.1-11 rispondono a domande fondamentali circa il senso della vita,
l’esistenza di alcune dimensioni come quella del male, etc. E così, con alcuni
ritocchi, decide di aggiungerla al racconto di Adamo ed Eva, facendo di Caino il
primo figlio di Adamo ed Eva, nonostante le incoerenze che ne sarebbero
risultate, come il fatto di parlare di Caino che si sposa con una donna quando
Caino era solo la terza persona dell’umanità, secondo la storia delle origini.
18
A Enoch nacque Irad; Isad generò Mecuiaèl e Mecuiaèl generò
Metusaèl e Metusaèl generò Lamech. 19Lamech si prese due mogli: una
chiamata Ada e l’altra chiamata Zilla. 20Ada partorì Iabal: egli fu il padre
di quanti abitano sotto le tende presso il bestiame. 21Il fratello di questi si
chiamava Iubal: egli fu il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto.
22
Zilla, a sua volta partorì Tubalkàin, il fabbro, padre di quanti lavorano il
rame e il ferro. La sorella di Tubalkàin fu Naama.

Qui abbiamo una genealogia: si dice quale figlio nacque da ogni padre. Però si
aggiunge anche qualcosa; non è solo un arido elenco di nomi. Si dice che Caino
partorì Enoch e poi divenne costruttore di una città (ecco il nesso con la civiltà
urbana), che chiamò Enoch, dal nome del figlio. “Enoch” in ebraico significa
“inaugurazione”.
Questo discorso della città è molto importante, perché i figli del vagabondo –
Caino – trovano invece una dimora stabile, una sede fissa. In ebraico “città” si dice
‘ȋr che è simile al sumerico ‘ur da cui tanti nomi di città sumeriche: Ur, Uruch, ecc.
La città indicava originariamente un luogo che dava rifugio, che metteva al sicuro dai
nemici, dagli animali.
Abbiamo una genealogia di 7 generazioni, quindi un periodo in sé concluso e
di Lamech si dice che prese due donne: Ada e Zilla. E quindi adesso troviamo un
fenomeno interessante, nuovo, che non risponde al progetto di Dio, perché qui
101

troviamo per la prima volta la poligamia: due mogli, mentre invece avevamo letto in
Gen 2,24: Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua
moglie e i due saranno una sola carne.
Poi da questo discendente di Caino – Lamech – nacquero tre figli, ciascuno dei
quali è visto come l’iniziatore di una dimensione della civiltà. Infatti Iubal, padre di
tutti i suonatori di cetra e di flauto. E come sempre, il nome ha un significato
collegato al senso, al significato della persona. Se questo è stato l’iniziatore degli
strumenti di suono, si chiama necessariamente Iubal, dajôbēl, corno, tromba, da cui
“giubileo” perché veniva annunciato col suono della tromba.
Tubalkàin, padre di quanti lavorano il rame e il ferro. Troviamo ancora qajin,
un quinto significato di Caino, che in questo caso rimanda proprio all’opera del
fabbro: kai vuol dire “fabbro ferraio”, anche in altre lingue semitiche. Abbiamo
quindi il sorgere della civiltà.
La civiltà nasce dai discendenti di Caino, che era stato maledetto, quindi se ne
deduce che si dà un giudizio negativo della civiltà, e questo è il riflesso di
un’esperienza storica vissuta dagli Ebrei, che per lungo tempo furono nomadi:
attraversarono il deserto e poi vissero ancora per un periodo nello stadio nomadico, e
in questo stadio avevano subito diverse volte prepotenze, violenze e umiliazioni da
parte di poteri locali. A parte la terribile schiavitù in Egitto, un grosso Stato che
esercita un potere negativo sugli Ebrei, poi al tempo dei Giudici, quando c’è la lotta
con i Filistei, poi l’esilio a Babilonia: qui c’è chiaramente una polemica dell’autore
con la cultura circostante, che era ostile al mondo nomadico a cui Israele si sentiva
legato e anche perché effettivamente le grandi città mesopotamiche, cananee (i
Cananei erano quelli che stavano in Palestina prima dell’arrivo degli Ebrei) col loro
lusso, coi loro artisti, coi loro templi, coi loro culti costituivano quasi l’emblema di
una vita non troppo morale e corrotta e di una religiosità falsa.
Quindi qui c’è sottostante una critica alla civiltà, ma anche – se vogliamo
attualizzare – un richiamo al fatto che la civiltà è sempre ambigua. E noi, che
veniamo dopo 2000 anni, ben lo sappiamo. Da un lato essa porta sicuramente degli
straordinari risultati positivi, dall’altro però porta in sé sempre l’insidia dell’uomo
che, vedendo dei bei risultati, si sente sempre più orgoglioso di sé e tenta di sostituirsi
a Dio. È sempre il peccato originale che salta fuori.
Così, purtroppo, al progresso della civiltà non corrisponde quasi mai un
progresso nel bene, anzi è proprio il contrario. E qui lo vediamo nel terribile canto di
Lamech:
23
Lamech disse alle mogli:
«Ada e Zilla, ascoltate la mia voce;
mogli di Lamech, porgete l’orecchio al mio dire:
Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura
e un ragazzo per un mio livido.
24
Sette volte sarà vendicato Caino
ma Lamech settantasette».
102

Qui vediamo un aggravamento della situazione rispetto a Caino, perché se


Caino si era pentito solo quando costretto dalla gravità della punizione, ora Lamech è
addirittura orgoglioso della sua condotta immorale, ed esalta l’omicidio; lui non solo
non ha bisogno di Dio che lo difenda, come era stato per Caino, ma si difende da se
stesso, cioè si vendica, e con quale ferocia! È il massimo della violenza di ogni
prepotente: il farsi giustizia da solo, e con quale arroganza! Perché qui Lamech agisce
unicamente a proprio vantaggio contro chiunque, anche debole come un ragazzo,
stabilendo da sé la misura della vendetta, sentendosi un po’ un dio in terra. Infatti nel
contesto attuale, questo canto appare proprio come una celebrazione della propria
autoaffermazione, un canto di vanagloria; ed è un terribile inno alla vendetta che
viene proposta come criterio di comportamento umano.
Però purtroppo sappiamo che la logica della vendetta è quella di essere senza
misura, perché a sua volta provoca una vendetta sempre più grave, ecc. È una catena
senza fine, perché se alla ferita si risponde con una ferita, questa sarà solo l’inizio di
una catena continua, fino a che uno dei due contendenti non sia fisicamente
eliminato. Per questo Lamech dice Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura, ha
tagliato subito i ponti, ha tagliato corto, e, prima di subire a sua volta una vendetta, è
arrivato alla conclusione del procedimento: Ho ucciso un uomo per una mia
scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Non solo chi ha offeso deve essere
eliminato, ma con lui anche quelli che gli sono legati da solidarietà sociale. Siamo
ormai nella “legge della giungla” che consente una violenza senza limiti e senza
riguardi per nessuno, perché qui troviamo non solo 7 volte – come si diceva per
Caino – ma 77 volte e quindi un numero illimitato.
A questo punto possiamo dire che migliore di questa “legge della giungla” (che
peraltro si era instaurata, perché se il nostro autore biblico ha costruito i suoi racconti
in questo modo, è perché fa sempre riferimento alla realtà) si sarebbe rivelata la
successiva “legge del taglione” che troviamo in due passi della Bibbia:
 Es 21,24-25: Occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per
piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido;
 Lv 24,19-21: Se uno farà una lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli
ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli
si farà la stessa lesione che egli ha fatta all’altro. Chi uccide un capo di
bestiame, lo pagherà; ma chi uccide un uomo sarà messo a morte.

La famosa legge del taglione è rimasta proverbiale. Perché “taglione”?


qualcuno dice che deriva dal latino “talio-onis” (cfr.“tagliare”), ma è più interessante
l’altra etimologia, sempre dal latino: “talis”, cioè a colui che è responsabile di lesioni
personali si infligge la pena consistente in una uguale lesione, “tale e quale” a quella
provocata.
Questa legge ha il merito, in una società dominata da violenza, di arginare una
vendetta senza limiti. Non è certo positiva. Infatti Gesù dirà: Vi è stato detto “occhio
per occhio, dente per dente”, ma io vi dico: amate i nemici. Col NT abbiamo
veramente il compimento del messaggio biblico. Gesù porta ad un comportamento
totalmente positivo.
103

Infatti la fede ebraica conosce una storia: la storia della salvezza, e quindi
conosce delle tappe e quindi ci sono anche dei momenti non molto positivi come
questo, ma teniamo comunque presente il valore di questa legge del taglione.
25
Adamo si unì di nuovo alla moglie, che partorì un figlio e lo chiamo Set.
«Perché – disse – Dio mi ha concesso un’altra discendenza al posto di
Abele, poiché Caino l’ha ucciso».
Anche a Set nacque un figlio, che egli chiamò Enos. 26Allora si cominciò ad
invocare il nome del Signore.

È molto interessante questo passaggio, perché ci fa vedere come l’autore sacro


è convinto che la storia umana non può essere solo un cammino costellato da
violenze e omicidi, perché esiste un altro itinerario da percorrere, un’altra
generazione che incomincia dagli stessi Adamo ed Eva, persone che sappiamo ferite
dalla colpa, ma ancora capaci di generare. E la generazione nel mondo semitico, e
nella Bibbia, è sempre segno della benedizione di Dio. Quindi, nonostante tutto
(infatti Dio non aveva maledetto Adamo ed Eva, aveva maledetto il serpente), la
fecondità continua.
Eva partorisce Set, che in ebraico è šēt, assonante col verbo šāt = “porre” ,
cioè Eva vuol dire: Dio mi ha concesso, mi ha posto un’altra discendenza. Quindi Set
ha il significato di essere un dono di Dio: Dio ha concesso ancora di generare.
Anche Set ha un figlio, Enoš, che vuol dire caduco, mortale, fragile. Quindi
vuol dire sempre “uomo”, cioè è molto simile ad Adam; però mentre Adam sottolinea
la provenienza dalla terra, Enoš indica la fragilità della creatura umana.
Poi abbiamo l’interessantissimo v. 26b: Allora (dalla generazione positiva) si
cominciò ad invocare il nome del Signore. “Signore” è il Tetragramma sacro JHWH,
con cui Dio si rivela a Mosè in Es 3. Viene spontaneo obiettare: ma come? Del
Tetragramma si parla per la prima volta in Esodo, com’è che compare già qua? La
spiegazione più logica che si dà è che probabilmente il nome era già presente, lo
sappiamo anche da testimonianze archeologiche, però con l’Esodo abbiamo la
spiegazione del significato, il senso di questo nome, che veramente è un po’ difficile
da spiegare, si possono dare tante spiegazioni in quanto deriva dal verbo hājah
=vivere, e quindi: “io sono colui che è”, ma anche “colui che fa essere”, “che fa
esistere”,“che sono sempre presente”.
La cosa interessante è:
1. nella discendenza di Set, e non di Caino, si invoca Dio come JHWH;
2. questa invocazione del nome è precedente la formazione del popolo eletto, cioè
del popolo ebraico con Abramo, perché da lì comincerà la storia degli Ebrei;
qui siamo ancora nella storia universale. Quindi c’è questa rivelazione
cosmica, universale che è aperta a tutte le creature e che è molto interessante.

Analisi e commento di Gen 5: il significato delle genealogie


104

Qui siamo nella tradizione sacerdotale, la quale privilegia le genealogie.


1
Questo è il libro della genealogia di Adamo. Quando Dio creò l’uomo,
lo fece a somiglianza di Dio; 2maschio e femmina li creò, li benedisse e li
chiamò uomini quando furono creati. 3Adamo aveva 130 anni quando
generò a sua immagine, a sua somiglianza, un figlio e lo chiamò Set. 4Dopo
aver generato Set, Adamo visse ancora 800 anni e generò figli e figlie.
5
L’intera vita di Adamo fu di 930 anni; poi morì.
6
Set aveva 105 anni quando generò Enos; 7dopo aver generato Enos,
Set visse ancora 807 anni e generò figli e figlie. 8 L’intera vita di Set fu di
912 anni; poi morì.

Non si parla di Caino; la discendenza di Adamo è Set.


Vengono chiamati ben 10 nomi. Cos’è la genealogia? Il dizionario la definisce
come la serie dei discendenti di un individuo o di una famiglia. In questo caso è
chiaramente la serie dei discendenti di Adamo. Certo non va presa alla lettera, perché
i nomi sono simbolici. Non è mai esistito Adamo. “Adamo” vuol dire “uomo”, Set
vuol dire creatura posta da Dio, cioè donata da Dio.
Però nel mondo antico e in quello biblico troviamo spesso delle genealogie,
non tanto per il gusto di dire: questo ha generato quest’altro e così via, ma perché nel
mondo antico era una sorta di genere letterario, cioè un modo caratteristico di fare
storia presso le tribù nomadiche sulla base della discendenza da un capostipite ideale.
Anche se non ci presenta la successione reale, biologica dei personaggi, la
genealogia è importante come documento giuridico con lo scopo di motivare al
tempo dell’autore le relazioni che c’erano tra i vari gruppi e i conseguenti reciproci
impegni. Infatti, derivando da uno stesso capostipite, un po’ tutti si riconoscono
apparentati e familiari tra di loro, e questa parentela permette di inserirsi in una
ordinata convivenza sociale.
Ora l’autore sacerdotale ha voluto presentarci un quadro completo nella nostra
discendenza di uomini e di donne, proprio dal capostipite stesso dell’umanità, e così
ci ha lasciato nei primi 11 capitoli di Genesi ben tre genealogie:
 la prima è in 5,1-32;
 la seconda sarà in Gen 10, dopo il diluvio;
 la terza dopo Babele e, seguendo la linea di Sem, figlio di Noè, si
arriverà fino ad Abramo, il capostipite del popolo ebraico.
L’autore sacerdotale ha voluto collegare il primo uomo con Abramo, col quale
entriamo già nella storia. Cosa dobbiamo notare in questa genealogia? Certamente
colpisce il numero enorme di anni di vita degli uomini. Si parla di 800/900 anni.
Come sempre, c’è un parallelo nella cultura antica. Per esempio è possibile che
questo autore abbia avuto presente la lista dei re sumeri che era divisa anche quella in
re pre-diluviani, durante il diluvio e post-diluviani, perché pare che il diluvio sia stato
un fenomeno generalissimo. E molto più alte addirittura erano le cifre di questa lista
105

sumerica: si arriva a una longevità di 72.000 anni! È un regno di 456.000 anni nel
quale si sono succeduti 10 re. E un altro di 8 re è di 241.000 anni.
È possibile che gli antichi Babilonesi intendessero con quelle cifre, non degli
anni, ma dei giorni. Allora le cose sarebbero molto ridimensionate, perché si
arriverebbe a cifre abbastanza normali: 70/80 anni ciascuno. Ma in ogni caso resta il
fatto che i Babilonesi davano un valore simbolico ai numeri, come sempre nel mondo
semitico, per cui ad esempio dire che un re era stato sul trono 30.000 anni, significava
dire che aveva governato particolarmente bene, anche se in realtà era stato sul trono 8
o 10 anni. Ma dire 30.000 voleva dire il massimo.
Analogamente l’autore biblico considera la longevità un segno della benedizione
di Dio, come si vede bene da altri passi, ad esempio:
 Is 65,20: Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni, né un vecchio
che dei suoi giorni non giunga alla pienezza; poiché il più giovane morirà a
100 anni e chi non raggiunge 100 anni sarà considerato maledetto. Questo
era indice della grazia di Dio.
 Pr 10,27: Il timore del Signore prolunga i giorni, ma gli anni dei malvagi sono
accorciati.
Quindi c’è questo nesso stretto, secondo l’autore biblico, tra la longevità e la
benedizione da parte di Dio. È evidente che nei primissimi tempi, quando gli uomini
seguivano Dio ed erano da lui benedetti, vivevano a lungo, e poi successivamente
questa longevità diminuisce, man mano che ci si allontana da Dio. Ecco perché
Adamo, nonostante il peccato originale, visse 930 anni, e Matusalemme dura 969
anni, e Lamech, il padre di Noè, 777 anni; Noè “solo” 500!

In questo c. 5 da un lato constatiamo che trova piena realizzazione il comando


divino di Gen. 1,28: Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra (questo è un
dato di fatto; la genealogia lo dimostra); dall’altro che purtroppo l’umanità si
allontana progressivamente dalla fonte della vita, cioè da Dio.
I vv. 21-24 hanno un andamento diverso da quello che abbiamo visto nelle
prime genealogie. Ad un certo punto troviamo Enoch
21
Enoch aveva 65 anni quando generò Matusalemme. 22Enoch camminò con
Dio; dopo aver generato Matusalemme, visse ancora per 300 anni e generò
figli e figlie. 23L’intera vita di Enoch fu di 365 anni. 24Poi Enoch camminò
con Dio e non fu più perché Dio l’aveva preso.

Perché è così importante Enoch? Intanto ha una posizione significativa: è il 7°


patriarca (e il numero 7 è importante), poi emerge come un’eccezione, perché dopo
riprende: 25 Matusalemme aveva 187 anni quando generò Lamech.
Intanto si dice che visse “solo” 365 anni rispetto agli altri che vivono 800/900 anni.
“Solo” per modo di dire, perché siccome 365 vuol dire un anno per ogni giorno
dell’anno, il significato è invece di una pienezza di vita, pur se più corta delle altre. E
quindi è un elemento molto positivo.
Di lui si dice che camminò con Dio e non fu più perché Dio l’aveva preso.
Cosa significa? Come sempre dietro questo personaggio c’è certamente l’eco di
106

qualche racconto mitico, in cui l’eroe protagonista non muore, visto che era troppo
bravo, troppo buono, ma viene portato ancora vivo direttamente nel regno degli dèi.
Qui un po’ si dice la stessa cosa, perché non si dice che è morto, si dice non fu più
perché Dio l’aveva preso.
E si era precisato due volte (v. 22 e v. 24) che egli camminò con Dio.
“Camminare con Dio” vuol dire che era in comunione con Dio, quindi è un modello
di fede. Camminare con Dio vuol dire camminare nella fede, ma camminare nella
fede vuol dire vincere la morte, riuscire a superare la morte, fuggire la morte. E
questo Enoch non conosce neppure la morte fisica. Noi oggi sappiamo cosa vuol dire
vincere la morte, perché sappiamo che la vita continua nell’aldilà e ci porterà alla
comunione totale con Dio. Ma qui già si vuol far notare questa cosa addirittura
superando la morte fisica.
Lutero ha commentato questo versetto dicendo una cosa interessante e cioè che
già nel mondo delle origini Dio ha voluto attestare come esempio manifesto che dopo
questa vita ha preparato un’altra vita in cui gli uomini vivranno con Dio; e ciò perché
noi non disperiamo della morte, ma affermiamo con certezza che quanti credono alle
promesse del Signore, vivranno e saranno rapiti presso Dio.

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Abbiamo concluso la prima grande parte di Gen 3-11.


Gen 1-2 creazione della terra, creazione dell’uomo
Gen 3-11 c’è il peccato originale con il c. 3 e poi gli altri peccati. Questa parte di Gen
3-11 ci mostra la prima grande tentazione dell’uomo verso Dio
o Gen 3: la tentazione di autonomia morale (Adamo), la pretesa di decidere da sé
che cosa è bene e che cosa è male; la ribellione a Dio;
o Gen 4: il peccato di Caino, il quale elimina il fratello perché è di ostacolo ai
suoi progetti, gli dà fastidio, è di ostacolo alla sua affermazione, e quindi indica
la ribellione a ogni dovere familiare e il disprezzo dei vincoli familiari;
o Gen 4,23-24: Lamech che addirittura si compiace con orgoglio del proprio
illimitato potere di vita (perché ha già due mogli, quindi vuol generare più
figli) e di morte con la vendetta 70 volte 7, indica il rifiuto di ogni etica civile.
Tutto questo ha provocato la maledizione da parte di Dio: quella verso il serpente
(Gen 3,14) e quella verso Caino (Gen 4,11). Ma non c’è solo la maledizione,
troviamo sempre anche la misericordia di Dio verso l’uomo, la compassione di Dio
che confeziona lui stesso abiti di pelle per i due progenitori e con il “segno” che è a
difesa di Caino. Poi soprattutto nella parte successiva abbiamo visto la nuova
benedizione verso Adamo ed Eva che generano Set e poi Enos e si cominciò ad
invocare il nome del Signore.
Insomma la linea negativa si contrappone a una linea positiva, costituita da
quei giusti – Set, Enos, Noè e Sem figlio di Noè – che davvero non si allontanano da
Dio, che cercano Dio come supremo Signore, che ricostruiscono il regno di Dio quasi
fossero nuovi Adami innocenti.
107

E infatti a conclusione di questa prima parte di Gen 3-11 troviamo quei Setiti
(discendenti di Set) nuovamente capaci di riconoscere i diritti di Dio sopra l’umanità,
come si vede dal fatto che lo invocano, esercitano il culto di Dio.

Ricapitolando:
i cc. 1-11 mostrano degli esempi in assoluto emblematici, archetipici di quelli
che sono i rapporti dell’uomo con se stesso, con l’altro, con Dio, e delle vicende
positive e negative della sua vita e anche della società in cui conduce la sua esistenza.
Esempi di grandissima attualità, tanto è vero che noi troviamo sempre delle
applicazioni anche nel nostro tempo.
Questi esempi sono contenuti in 6 grandi quadri:
1. Gen 2,4b-24: il peccato originale;
2. Gen 4,3-16: Caino che uccide il fratello Abele (il peccato originale in ambito
sociale)
3. Gen 6,1-4: il capitolo dei giganti
4. il diluvio universale
5. Gen 9,20-27: Noè pianta la vigna: riinizio dell’agricoltura, del rapporto
positivo dell’uomo con la terra;
6. Gen 11: Babele. Qui addirittura veniamo a toccare la sfera internazionale
perché Babele è l’emblema del potere, di tutti i tipi di potere.
Questi sei quadri ci presentano i fatti della preistoria biblica, non della
preistoria scientifica, storica. Quindi hanno un valore paradigmatico. E a parte
l’episodio di Noè e della vigna, che sta un po’ a sé, ognuno di questi sei racconti
prende come oggetto di descrizione la condizione umana o addirittura l’intera
umanità. Ha un suo messaggio che occorre cogliere analizzando i vari racconti, le
tradizioni e la concezione che l’autore aveva di Dio, cioè la teologia dell’autore.

Analisi e commento di Gen 6,1-4: il culmine del peccato degli uomini


1
Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero
loro figlie, 2i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne
presero per mogli quante ne vollero. 3Allora il Signore disse: «Il mio spirito
non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di 120
anni».
4
C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i
figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivamo loro dei
figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi.

È un racconto breve, ma un po’ complicato e strano. Teniamo presente che


dietro ci sono i miti, i racconti diffusissimi nell’antichità di tutti i popoli, di unioni tra
esseri divini o semi-divini e esseri umani. Per es. nella mitologia greca gli eroi
saltano fuori dall’unione di una dea o di un dio e di un uomo o una donna. In tutte le
culture ci sono miti e leggende relative a questi esseri eccezionali, perché l’essere
eccezionale deve avere in sé qualcosa di divino e sono appunto questi eroi o giganti.
108

In Grecia erano i famosi titani, erano famosi per le loro imprese, anche per la loro
longevità. Ad esempio Gilgamesh, il grande eroe dell’epopea sumero-babilonese, era
nato da un re e da una dea, dunque era per 2/3 divino e per 1/3 umano.
Che cosa significano tutti questi racconti, miti, leggende di unioni tra esseri
divini e esseri umani? Chiaramente esprimono l’aspirazione dell’uomo a superare in
qualche modo i limiti della propria creaturalità, limiti connessi alla vita e alla creatura
umana. E allora non ci stupiamo che anche nella mitologia cananaica, vicina ad
Israele e che Israele conosceva, si parli di unioni di uomini di stirpe divina con donne
molto belle.
Lo sfondo storico è una pratica cultuale diffusissima presso i Cananei e anche
presso altri popoli e che costituì sempre un’enorme tentazione per Israele, codificata
poi nel famoso episodio del vitello d’oro durante l’esodo, quando Mosè va a prendere
le tavole della Legge sul monte Sinai.
Questi culti erano le famose “ierogamie”, cioè matrimoni sacri o riti di
fecondità. Si chiamavano anche “prostituzione sacra” o “prostituzione cultuale”.
Consisteva nel fatto che c’erano dei sacerdoti e soprattutto delle sacerdotesse, dette
ieroduli o ierodule, personaggi che avevano una sacralità e che stavano sempre nel
tempio della divinità; si riteneva che questo sacerdote o sacerdotessa partecipasse in
un certo senso dell’energia della divinità. Chiaramente la fecondità era sempre vista
come un dono della divinità. Allora, se il sacerdote o la sacerdotessa avevano questo
collegamento col divino, di conseguenza l’unione sessuale con la sacerdotessa o con
il sacerdote doveva garantire di poter usufruire di queste energie divine, portatrici
della fecondità. Ecco perché si chiamavano ierogamoi cioè matrimoni sacri o
prostituzione sacra, nel senso che erano unioni tra persone che non erano coniugate,
però appunto con questa finalità.
Questa concezione era tanto radicata che nell’antichità pagana che spesso la
donna sterile partecipava nei santuari a culti con queste componenti misteriche
orgiastiche, arrivando in queste cerimonie (che erano accompagnate da suoni, canti
molto forti) ad accoppiarsi con la persona sacra, il sacerdote, sperando di riceverne la
fertilità!
Israele venne a contatto più volte con questi riti della fertilità, perché erano
diffusissimi nell’ambiente cananaico. Ricordate sempre che il popolo di Israele era un
popolo piccolo, povero, semplice, in mezzo a un mare di Babilonesi, Cananei con
tutti i loro usi e costumi. Gli Israeliti hanno sempre difeso saldamente la loro fede
jahwista, però purtroppo anche loro a volte sono caduti, e infatti pare che siano
passati questi usi anche nella pratica religiosa degli Israeliti provocando naturalmente
tutte le critiche, gli anatemi dei profeti e dei giusti. Di questo abbiamo una
documentazione infinita dai libri dei Re, dal Deuteronomio, dai profeti, addirittura
nel libro dei Numeri c’è la sentenza di morte contro gli Israeliti che erano stati
implicati nel culto idolatrico sessuale di Baal Peor.
Perché tutto questo? Perché questa grande critica a chi seguiva questa linea? Proprio
perché si trattava di un peccato gravissimo secondo la fede di Israele, e cioè il
pretendere di interferire col piano divino per ottenere qualcosa a proprio vantaggio: la
fecondità.
109

Per far capire tutto questo, il nostro autore riprende un mito, diffusissimo
nell’antichità, che parla appunto di giganti nati dall’unione sessuale fra divinità e
donne mortali, e lo rielabora demitologizzandolo, cioè togliendo gli elementi
mitologici e facendo di questo episodio l’esempio del male più grave a cui arriva
l’umanità e che provocherà l’ira di Dio e il diluvio.
Questo peccato, narrato in 6,1-4, fa già parte di quel grande peccato che poi si
dice nel v. 5 e che normalmente nelle Bibbie è messo sotto il titolo “il diluvio”, e così
c’è questa separazione, invece andrebbero visti più uniti, perché c’è un legame tra il
c. 6 (prima parte) e il c. 6 (seconda parte) in cui si comincia a parlare di Noè.
Anche qua l’autore vuole rispondere a quelle domande di carattere universale
che man mano noi stiamo ripercorrendo, specialmente quella relativa alla durata della
vita, già preparata nel c. 5 con la longevità dei patriarchi. La domanda è questa: come
mai l’uomo, che pur desidera vivere a lungo e brama la vita (perché c’è un istinto
naturale della vita), non riesce ad assicurarsela e vede che gli sfugge di mano? Da
cosa dipende la brevità dell’esistenza umana? Ricordate tanti Salmi che dicono:
l’uomo è come un soffio, è come l’erba che fiorisce al mattino e alla sera dissecca.
Questo è il problema, e c’è un modo sbagliato di affrontare questo problema
che il nostro autore ci vuol far vedere, ed è proprio l’episodio di Gen 6,1-4, che lui ha
demitologizzato. Cosa vuol dire “che l’ha demitologizzato”? nei miti si parlava di
esseri semidivini nati dall’unione di divinità e di uomini, qua il nostro autore sacro
parla di unioni sessuali tra figli di Dio e figlie degli uomini. Naturalmente,
storicamente si riferisce alla prostituzione sacra, ai riti di fertilità che erano
assolutamente condannati.
Ma in particolare cosa vuol dirci in questi versi? Vuol dire che la vita
dell’uomo dipende da Dio, dipende da quel soffio – rûah – che in Gen 2 Dio
insuffla nel corpo di fango che Lui ha costruito con le sue mani, e l’uomo allora vive.
Dio soffiò nelle sue narici un alito di vita. E quindi la vita viene da Dio e l’uomo
deve accoglierla come un dono da Dio, cercando di obbedire a Lui e alle leggi che ha
posto nella creazione, tra cui questa che è il limite della caducità, della fragilità
dell’uomo, il quale non può non morire perché è una creatura. L’uomo allora è tenuto
a obbedire anche alla propria ora, al momento della propria morte, sapendo che
comunque non perde tutto, non perde la vita, perché la pienezza della vita è data
dalla comunione con Dio, dal camminare con Lui. Vedete quanto era importante
quell’episodio di Enoch, quello è il senso della vita. Quello che l’uomo non deve fare
– dice l’autore jahwista – è pretendere di arraffare la vita come un bottino, di
accaparrarsela con tutti i mezzi possibili e immaginabili, anche quelli non leciti,
quelli che – secondo la Scrittura – non stanno nello spazio della via della vita e cioè
con espedienti di tipo magico. Proprio perché questa pretesa dell’uomo di
determinare la vita con ogni mezzo nei suoi effetti e nelle sue modalità è una
intromissione nel mondo divino, diventa un pregiudicare, un compromettere la
creazione stessa che è opera di Dio, perché abbiamo visto nella creazione il grande
ordine che Dio stabilisce. La creazione è il contrario del caos che c’era prima, è il
“cosmos”, è ordine. Non esiste nella Bibbia nessun animale con poteri divini o
110

divinizzato, perché c’è una distinzione chiara e netta tra il mondo di Dio e il mondo
creato.
Tutte queste pretese di utilizzare dei mezzi diversi da quelli che ci ha dato Dio
per poter prolungare la vita o determinare il destino come vogliamo noi, sono contrari
alla fede di JHWH. Questo è anche il peccato più grande, perché, se nei peccati
precedenti (il peccato originale di Adamo ed Eva, quello di Caino) il disordine frutto
del peccato si era inserito nei fondamentali rapporti dell’essere umano e cioè il
rapporto del lavoro (il suolo produrrà spine e cardi, aveva detto Dio ad Adamo, e in
Gen 4: il suolo non ti darà più i suoi prodotti, perché tu gli hai fatto bere il sangue di
tuo fratello, dice a Caino), ora invece il peccato e il disordine che ne consegue tende
addirittura a far saltare i limiti stessi della condizione umana e a pretendere di
invadere la sfera divina, proprio come si dice in questo incontro tra esseri divini e
esseri umani, con la conseguenza di provocare un altro disordine, un interferire di
piani diversi nell’ordine della creazione.
Ecco perché il nostro autore demitologizza l’episodio dei giganti, dice “i figli
di Dio”, in ebraico è benȇ hā’elōhȋm che probabilmente non sono delle divinità, ma
sono i figli di Set, i discendenti di quel Set la cui nascita da Adamo lo poneva in
stretta relazione con l’immagine e somiglianza di Dio che in parte è richiamato (Gen
5,1-3). Col figlio di Set, Enos, si cominciò ad invocare il nome del Signore (Gen
4,26).
Per questo i discendenti di Set possono essere chiamati “figli di Dio”,
contrapposti alle “figlie dell’uomo” che sarebbero invece qui i discendenti di Caino,
il maledetto, colui che non è più a immagine e somiglianza di Dio perché ha perso il
favore di Dio.
All’autore importa sottolineare che coloro che commettono questo peccato così
grave di intromissione tra la sfera umana e la sfera divina, non sono esseri semidivini
che non esistono; perché per il mondo ebraico, per il mondo biblico non si danno
esseri semidivini.
Quando poi apparirà Gesù, il Figlio di Dio, anche lì quante discussioni si
faranno per chiarire che questo Gesù non è un essere semidivino, ma è la
straordinaria realtà di un uomo completamente uomo, che nello stesso tempo è
completamente Dio, ed è un unicum. Nella storia e nella cultura non esiste un fatto
analogo, perché di essere semidivini ne troviamo in tutte le culture, ma un Dio che si
fa uomo, e che è uomo e Dio ad un tempo - Gesù di Nazaret il Figlio di Dio - non
esiste, non ci sono persone di questo tipo in nessuna religione.
Allora il nostro autore vuol far vedere che questo peccato così grave non è
compiuto da esseri semidivini, che non esistono, ma da uomini. Ecco perché con
“figli di Dio” non indica tanto degli essere semidivini, ma i discendenti dalla linea
positiva di Adamo, fatta a immagine di Dio. Tanto è vero che poi il grande castigo
del diluvio universale si abbatterà sull’umanità, non sugli esseri semidivini; è sulla
terra. E la cosa risulta ancora più chiara se si guarda la significativa crescita della
distorsione che, a causa del peccato dell’uomo, si approfondisce nel rapporto uomo-
donna.
111

In origine com’era? Dio aveva creato l’uomo maschio e femmina, quindi


dualità, parità. Poi si passa a vedere, dopo il peccato originale, un rapporto di
prevaricazione dell’uno sull’altra (Gen 3,16: Verso tuo marito sarà l’istinto, ma lui ti
dominerà). Quindi già si è rotto l’equilibrio, c’è una prevaricazione dell’uomo sulla
donna. Poi Lamech che comincia ad avere due mogli. Poi questi “figli di Dio”, cioè
questi uomini che sbagliano, che peccano, cosa fanno? Ne presero per mogli quanti
ne vollero, poligamia totale o –come dice qualcuno – riduzione della donna ad
oggetto. Quindi si tratta di peccati di uomini e per di più appartenenti alla stirpe
benedetta da Dio, quella discendenza di Set.
Allora qual è il messaggio che ci dice l’autore? La vita dell’uomo è nelle mani
di Dio e viene solo da Lui. Tutti i tentativi dell’uomo di moltiplicare la vita e quindi i
discendenti sono sbagliati; questo è infatti il senso della poligamia: avere molti figli,
perché per gli antichi il figlio rappresentava la continuazione di sé. Quando non c’era
ancora l’idea della vita eterna, dell’immortalità, l’avere figli (una discendenza) era
appunto una forma di immortalità. E quindi quanti più se ne avevano, tanto più si era
realizzati. Allora ecco la poligamia, per avere tanti figli.
Ma rapire la vita ad ogni costo è attentare alla signoria di Dio, e, lungi
dall’essere la via della vita, questa strada si rivela piuttosto come la via della morte,
perché in realtà l’uomo si abbrevia la vita.
Ecco allora il senso del v. 3: «Il mio spirito (rûah = spirito), dice il Signore,
non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di 120 anni».
Troviamo una bella riduzione rispetto agli 800/900 che avevamo visto prima. E
poi si dice nel Sal 90,10: Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più
robusti. Qui ormai siamo al livello che ormai conosciamo anche noi.
Quindi il risultato delle pretese dell’uomo è il contrario di quello che egli si era
prefissato. Mentre l’uomo cerca di padroneggiare e dominare la vita, se ne trova
dominato; mentre cerca di allungarla, se la trova abbreviata.
È la risposta a quell’interrogativo che si pone l’autore, e cioè: qual è il modo
giusto di porsi di fronte alla vita che è limitata e che per forza conosce la morte? La
risposta non è quella di pretendere di allungarla con i nostri mezzi, di moltiplicarla
con i nostri mezzi, ma quella di riconoscere la propria dipendenza da Dio; perché,
quando l’uomo crede di essersi assicurata la vita, è allora che gli sfugge dalle mani o
addirittura gli si rivolta contro.

L’attualizzazione qui è evidentissima: noi oggi abbiamo metodi che una volta
neanche si sognavano. È noto che nel 1978 è nata la prima bambina grazie alla
fecondazione in vitro, la Louise Brown, inglese, poi la sorella è nata allo stesso
modo. A loro volta loro hanno avuto dei figli naturali. Sono risultati strabilianti. Però
c’è stato il famoso intervento di Giovanni Paolo II – Donum vitae – sulla legittimità
di alcuni metodi e non di altri. Pensate che al 25/7/2003 sono ben 1 milione e 400.000
i bambini nati in provetta!
Questo è positivo, però sappiamo anche quali scenari da incubo può aprire
questa scoperta, queste capacità dell’uomo che prima non aveva, quando si parla di
clonazione, quando si parla di utilizzo di parti animali. Noi in Italia abbiamo il
112

Comitato nazionale di bioetica che sta studiando tutti i problemi connessi con la
biotecnologia, con l’ingegneria genetica, ecc.; sappiamo che occorre che l’uomo non
vada avanti a ruota libera senza alcun freno, perché rischia veramente di
autodistruggersi.
4
C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i figli
di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivamo loro dei
figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi.

Questo versetto da molti esegeti è ritenuto una glossa, cioè un insieme di una o
più parole non appartenenti al testo originale, ma aggiunte successivamente con
l’intenzione di spiegare il testo, di migliorarlo o di adattarlo. Normalmente queste
note venivano fatte al margine o tra le righe del testo e molte poi penetrarono nel
testo stesso, come in questo caso.
Questa nota dice che i giganti esistevano anche dopo quel periodo delle origini.
Infatti ne abbiamo una conferma dal libro dei Numeri (Nm 13,32-33), quando gli
esploratori della terra di Canaan riferiscono che quel paese divora i suoi abitanti;
tutta la gente che vi abbiamo notato è gente di alta statura; vi abbiamo visto i giganti
(nefilim), figli di Anak, della razza dei giganti, di fronte ai quali ci sembrava di
essere come locuste e così dovevamo sembrare a loro.
È significativo quanto dicono gli apocrifi giudaici a proposito dei nefilim, cioè
dei giganti. Secondo l’Apocalisse siriaca di Baruc, i giganti furono eroi combattenti,
ma che avevano perso sapienza e assennatezza.
Secondo il libro dei Giubilei e di Enoch etiopico, i giganti corruppero ogni
carne, non solo fra gli uomini, ma addirittura fra gli animali (gli uccelli, i rettili, i
pesci) e infine si divorarono reciprocamente. Essi apportarono ogni sorta di calamità
e soprattutto fornicazione, idolatria e violenza senza fine, che furono la causa del
diluvio.
Inoltre, secondo il De Vaux, qui l’autore sacro si riferisce a una leggenda
popolare sui nefilim, che sarebbero dei titani orientali nati dall’unione tra esseri
mortali e celesti. Senza pronunciarsi sul valore di questa credenza e velandone
l’aspetto mitologico, come sempre l’autore sacro opera una demitologizzazione,
l’autore richiama solo il ricordo di una razza insolente di superuomini come un
esempio di perversità crescente che giustifica il diluvio.
Ecco perché è stata posta qui questa glossa, il v. 4, che è seguito poi dal v. 5:
5
Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che
ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male.

Con i giganti siamo arrivati al massimo, al culmine della malvagità umana che
ormai è cresciuta in maniera smisurata. Il Signore constata che si moltiplica il male
degli uomini, cresce la loro disobbedienza, si aggrava la violenza sulla terra. Anzi, il
Signore vede; e il vedere di Dio introduce già un’azione Il Signore vide che la
malvagità; questo è il senso biblico del vedere di Dio: ogni pensiero e progetto che
esce dal cuore dell’uomo non è che malvagità, sempre.
113

Se il cuore umano con Caino era stato visto come minacciato dal peccato che
stava accovacciato, pronto a balzare per farlo sua preda (Gen 4,7), ora il Signore vede
che esso non fa che concepire disegni malvagi. L’uomo non resiste alla tentazione.
Questo è il grande messaggio di questa pagina, purtroppo. L’uomo non è in grado di
dominare l’istinto che è in lui e concepisce disegni malvagi, anzi ormai la corruzione
dell’uomo è tale che è minacciato il suo stesso essere uomo.
Come si vede dal testo della Bibbia di Gerusalemme, con il v. 5 inizia un
nuovo episodio : il diluvio. D’altra parte il discorso del diluvio è strettamente legato
alla parte precedente, non solo perché con il peccato di Gen 6 giunge al culmine la
malvagità dell’uomo, ma per un altro motivo. Che cos’è il diluvio? È annientamento
della separazione originaria fra acque superiori e acque inferiori, è un precipitare
delle acque che sono sopra il firmamento e che si ricongiungono con le acque che
sono sopra la terra, perché si aprono le cateratte del cielo e quindi precipita l’acqua
che sta al di sopra delle cateratte e si ricongiungono quindi le acque di sopra con
quelle di sotto. C’è un vero e proprio ritorno al caos!
Se il diluvio è tutto questo, allora il diluvio lo hanno iniziato gli uomini,
proprio nel loro tentativo di unirsi al cielo, di assimilarsi al divino, e dunque di
annientare ogni separazione e ogni differenza fra terra e cielo, fra livello umano e
livello divino.

Riferimenti al testo nel NT

Vediamo come vengono ripresi i testi dei cc. 4-6 nell’ambito della Scrittura.
Innanzitutto il 70 volte 7 di Lamech ricorda facilmente Mt 18,21-22, quando
alla richiesta dei discepoli di quante volte si può arrivare a perdonare (essi dicono:
fino a 7? che sembrava già un numero altissimo), Gesù risponde 70 volte 7.
E qui si introduce il tema del perdono nell’Antico e nel NT. Già nell’AT si
parla di Dio che perdona (cf. Lv 19 e Sir 27), Gesù riprenderà e approfondirà questo
tema così importante. Troveremo Stefano in At 7 che muore perdonando. Il cristiano
è chiamato a perdonare sempre, ad essere più grande dell’offesa che gli viene fatta. E
perché perdonare? Perdonare per amore, come Cristo e come il Padre (cf. Col 3 e Ef
4).
Un’altra ripresa del nostro testo è quella che si riferisce ad Enoch. In Eb 11
vengono ripresentate le grandi figure dell’AT sotto il profilo della fede. Infatti si dice:
Per fede Enoch fu trasportato via.

Attualizzazione
114

- il progresso tecnologico non sempre corrisponde ad un progresso morale;


basterebbe pensare al grossissimo problema della bioetica, cioè allo scarto che
continuamente constatiamo tra lo sviluppo sul piano scientifico-tecnologico e la
dimensione etica che non sempre è rispettata. Fortunatamente oggi abbiamo una
commissione di bioetica che studia questa problematica.

- La magia. Riguardo alla magia mi sono rifatta ad un intervento di Mattai su


Famiglia Cristiana del ’95 che riprende il discorso dell’AT e dice: Già la legge
della prima alleanza, la Torah, nelle pratiche magiche e divinatorie denuncia
un’offesa grave a Dio, Signore del tempo e della storia, una diffidenza nei suoi
confronti, un sottrarsi al suo piano sorprendente ma sempre indirizzato al bene
delle persone, e questo spiega la durezza delle norme dell’AT:
 Es 22: Non lascerai vivere colei che pratica la magia.
 Lv 19: Non praticherete nessuna sorta di divinazione o di magia.
 Lv 19,31: Non vi rivolgete a negromante e agli indovini, non li
consultate per non contaminarvi per mezzo loro, io sono il Signore
vostro Dio.
E così pure tutto l’arco del paranormale, divinazione, sortilegio, augurio, magia,
consultazione degli spiriti o degli indovini è dichiarato abominio. Abominio che
Dio condanna nel Dt 18,9-12. Questo atteggiamento di riprovazione continua
viene accentuata nel NT, nella dottrina dei Padri e dei grandi Dottori medievali.
Attualmente la Chiesa, di fronte alla recrudescenza del fenomeno, non solo nella
aree culturalmente arretrate, ma anche in quelle più avanzate, ha fatto sentire la
sua parola. Anzitutto il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 ha ribadito
l’inconciliabilità tra credenze magiche e fede cristiana. Cf. CCC 2115 e 2117 nei
quali viene condannata ogni forma di divinazione, di magia e di stregoneria.
Per quanto attiene ai Vescovi, oltre al documento della CEI sulle sette del 1993,
sono da ricordare il documento dei Vescovi toscani su magia e superstizione del
1994 e quello dei Vescovi campani sullo stesso argomento del 1995.
Però rimane sempre aperto un problema: per quali ragioni spesso tra la Chiesa che
parla e i fedeli sembra esistere incomunicabilità di linguaggio? Una maggiore
partecipazione dei laici nella pastorale ecclesiale riuscirà a superare questo
divario. E quindi è molto importante il ruolo dei laici nella educazione del popolo
cristiano su questo argomento.

- La violenza. Per quanto concerne la violenza leggiamo un passo molto


importante della Populorum Progressio del 1967 ai numeri 30 e 31: “Si danno
certo delle situazioni la cui ingiustizia grida verso il cielo. Il nostro è il Dio della
giustizia e quindi non può tollerare l’ingiustizia. Quando popolazioni intere,
sprovviste del necessario, vivono in uno stato di dipendenza tale da impedire loro
qualsiasi iniziativa e responsabilità, e anche ogni possibilità di promozione
culturale e di partecipazione alla vita sociale e politica, grande è la tentazione di
respingere con la violenza simili ingiurie alla dignità umana. Quali sono queste
115

situazioni? Soprattutto sono quelle dell’America Latina dove si è sviluppata negli


anni ’70 la teologia della liberazione.
Il documento prosegue al n. 31: E tuttavia lo sappiamo: l’insurrezione
rivoluzionaria – salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che
attentasse gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuocesse in modo
pericoloso al bene comune del paese – è fonte di nuove ingiustizie, qui è molto
chiara l’extrema ratio, cioè l’unico caso in cui è possibile ricorrere a questo tipo di
reazione quando proprio non c’è nessun’altra possibilità, e i diritti della persona
sono gravemente calpestati e il bene comune è reso impossibile. Altrimenti
l’insurrezione rivoluzionaria, salvo in questo caso, è fonte di nuove ingiustizie,
purtroppo lo sappiamo benissimo: violenza porta violenza, introduce nuovi
squilibri, e provoca nuove rovine. Non si può combattere un male reale a prezzo
di un male più grande.

- la vendetta. È presente sia in Gen 4: Chiunque ucciderà Caino, subirà la


vendetta sette volte e poi soprattutto in Gen 5,23-24: il canto di vendetta di
Lamech.
Che cosa vuol dire “vendetta”, “vendicarsi”? il vocabolario dice: è l’offesa morale
o il danno materiale che si arreca ad altri per ottenere soddisfazione di una offesa
o di un danno subito. Perché l’uomo desidera vendicarsi? Perché nasce questo
sentimento? Il desiderio della vendetta è un sentimento che si può provare dopo
aver subito un torto, un danno, soprattutto se è grave.
Ma – come dice lo scrittore Ignazio Silone nel libro “Il seme sotto la neve” – la
vendetta è un piatto che le persone perbene mangiano freddo, solo i cafoni
reagiscono a sangue caldo ai torti ricevuti. È vero, perché se si lascia passare un
po’ di tempo, il fuoco del sentimento negativo della vendetta si attenua.
Anzitutto si osserva che già subito dopo aver compiuto una vendetta, si prova un
sapore amaro. È stupenda la frase di Manzoni riferita a Gertrude la quale si
vendica verso la serva carceriera che le aveva carpito il biglietto con cui
comunicava con il paggio: Gertrude, masticando e assaporando la soddisfazione
di questa vendetta che aveva ricevuta dal padre, si stupiva di trovarci così poco
sugo, in paragone del desiderio che ne aveva avuto (c. 10).
È veramente un’osservazione psicologica straordinaria. Chissà cosa si aspettava di
provare come soddisfazione, una volta ottenuta la vendetta, perché il padre caccia
questa serva!
Si legge in un altro libro: La mia vendetta non mi dà alcun sollievo; il mio cuore
ancora più vuoto di sempre e, nonostante il calore della notte, ho le membra
intirizzite (Sinuhe l’egiziano).
Se già la vendetta esercitata subito, lascia questo boccone amaro, a maggior
ragione, lasciando passare del tempo, ci si rende conto di quanto sia inutile e
infruttuosa. Oppure, purtroppo, feconda solo di altro male, di altra vendetta.
L’unico risultato che può avere è questo.
In un film su Santa Rita si vede proprio bene come la vendetta non conduce ad
altro che a un vicolo cieco e come grande merito di questa santa è stato tra gli altri
116

anche quello di spezzare la terribile spirale, perdonando agli uccisori di suo


marito.
Perché è così negativa la vendetta? Alberoni in uno dei suoi interventi sul Corriere
della Sera del 2003 lo dice molto bene: La vendetta ti inchioda al passato, al
momento dell’atto compiuto dal malvagio ti costringe ad essere come era lui
allora. La vendetta blocca ogni capacità di rinnovarsi. Le persone vendicative
sono ossessionate, dannate. E se la vendetta si installa nella società l’avvelena e
la dilania con una malvagità che può durare decenni, secoli, e che nessuno riesce
a spegnere.
Pensiamo alle sanguinose faide familiari, all’odio religioso in Irlanda, a quello
etnico in Burundi, in Ruanda. Dove non riesce il perdono, odio chiama odio,
sangue chiama sangue senza fine.
Su Famiglia Cristiana ho trovato un articolo su Laura Brumenfeld, “Vendetta sì,
ma contro chi?”: Nel 1986 a Gerusalemme spararono a suo padre. Per 12 anni ha
cercato di vendicarsi per poi scoprire che il passato rende schiavi e inchioda alla
negatività di chi ha compiuto il gesto.
E come sempre anche su questo argomento è il NT che dice la parola definitiva.
Se già la legge del taglione è un passo avanti rispetto alla legge della giungla,
ancora più avanti ci porta il discorso di Gesù, che arriva a dire: Io vi dico di non
opporvi al malvagio e nel discorso della montagna, Mt 5,39: Se uno ti percuote la
guancia destra, tu porgigli anche l’altra. Parole che lasciano un po’ smarriti,
perché uno dice: allora devo dare l’occasione di fare altra violenza? Non è una
prescrizione legale questa, perché, se la interpretassimo così, queste parole
sarebbero paradossali, impraticabili. Invece vanno interpretate in questo modo: è
un paradosso che Gesù usa, per far capire che chiede di non vendicarsi mai per
nessun motivo, chiede di non compiere nessun gesto che sia suscitato dalla
volontà di vendetta. Questo è il senso di tali parole. Difficile, ma comprensibile
all’interno della logica del regno di Dio, perché, come sempre, Gesù non dà
risposte di tipo matematico che risolvono ogni caso, ogni problema. Se uno si
chiede come deve agire il cristiano di fronte alle offese, Gesù non dà una risposta
matematica, non dà una formula, ma ti dice: non vendicarti mai. Di fronte ad una
offesa, guarda dentro al tuo cuore, cerca di chiarire a te stesso i tuoi sentimenti e,
se vedi che ci sono desideri di vendetta, sradicali del tutto. Essi non possono
dirigere correttamente le tue azioni, perché si tratterebbe solo di una risposta
negativa, mentre invece tu devi dare una risposta “in negativo”, cioè non fare il
male. Come infatti poi spiega in tutta la sua predicazione.
E allora si capisce il proverbio popolare che dice “la miglior vendetta è il
perdono”, proprio perché ti dimostra quello che ha detto un altro grande
personaggio della cultura greca, il famoso Diogene. “Come posso vendicarmi dei
miei nemici?”, gli chiede un tale, e lui risponde: “Rendendoti migliore di loro”.
Certo la miglior vendetta è il perdono, il perdono a chi si è pentito e lo chiede,
oppure anche, se uno non arriva a chiederlo, cercare almeno di rendere cosciente
la persona del male che ha fatto. Cioè non si dice un perdono a buon mercato che
cancelli il male che è stato fatto; quello che è stato fatto resta purtroppo ed è molto
117

grave, ma si chiede innanzitutto di sradicare il sentimento di vendetta nel proprio


cuore e fare di tutto perché l’altro migliori.

Concludo questo discorso con la citazione del Prefazio della Messa sulla pace che
dice: La vendetta è disarmata dal perdono. Ecco, credo che la soddisfazione più
grande che si possa provare non sia quella della vendetta, ma vedere che colui che
ha sbagliato capisce di avere sbagliato e cerca di rimediare al suo errore. È in
questa direzione che, seguendo l’insegnamento di Gesù, noi dobbiamo muoverci.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

GENESI 1-11 7° lezione Milano, 24 novembre 2004

IL DILUVIO UNIVERSALE

Gen 6,5-7,24

Analisi e commento di Gen 6,5-7,24: il diluvio universale


5
Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che
ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male.

Qui è espresso un giudizio sulla storia degli uomini fino a quel momento.
Come osserva nel suo libro sulla Genesi il grande biblista Von Rad, purtroppo a
partire dalla prima caduta di Adamo, il peccato è cresciuto come una valanga. E con
l’ultimo episodio (6,1-4) ha raggiunto uno dei suoi vertici. Che cosa ne deduce Dio?
che l’uomo ha usato male la sua libertà: ogni disegno concepito dal cuore degli
uomini non era altro che male.
Il “cuore” nel linguaggio biblico non è solo la sede del sentimento, ma anche
dell’intelletto e della volontà. L’affermazione dunque si riferisce a tutta la vita
dell’uomo.
6
E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in
cuor suo.

“Il Signore si pentì”: viene spontaneo chiedersi: ma come, Dio può pentirsi,
lui che è perfetto in tutto quello che fa? In effetti queste parole non vanno prese alla
lettera. Ci troviamo di fronte a una caratteristica tipica dell’autore jahwista (del X o
meglio del VII sec. a.C.) che si caratterizza per il frequente uso di antropomorfismi,
cioè modi per cui si attribuisce a Dio un sentimento umano (dal greco antropos =
uomo, morfè = forma). Quindi forme umane attribuite a Dio, sentimenti umani
attribuiti a Dio.
118

E qui il testo ha un forte antropomorfismo, perché per ben due volte si dice che
Dio si pente. Si pente di aver creato l’uomo. Questo linguaggio antropomorfico rivela
un verità profonda: il disegno di Dio, un progetto bellissimo, è frustrato, è vanificato
nella storia. Per questo Dio soffre. Anche questo è un altro antropomorfismo. Se ne
addolorò in cuor suo, abbiamo letto.
Il Dio biblico non è il Dio impassibile della filosofia, il Motore immobile
dell’universo di Aristotele, che, tutto sommato, noi non riusciamo a toglierci dalla
testa. Provate a pensare: quando diciamo “Dio” ci viene in mente questa divinità
astratta in cui c’è tutta la potenza, tutta la bontà, ecc., ma appunto astratta. Invece il
Dio della Bibbia, il Dio che si è rivelato e che noi possiamo conoscere attraverso la
sua Parola è un Dio che prova sentimenti, che ama e perciò può anche soffrire, perché
l’amore spesso è collegato alla sofferenza. Quindi non è quel Dio onnipotente,
imperturbabile che non può né patire né morire, come diceva certa teologia.
Per l’uomo dell’AT – dice ancora Von Rad – JHWH è una persona, è la
volontà più vivente e sensibile. E così l’autore biblico preferisce correre il rischio di
una diminuzione della grandezza, della assolutezza di Dio (cosa che succede se usa
un linguaggio antropomorfico, se ne dà una rappresentazione simile a quella
dell’uomo) piuttosto che sacrificare qualcosa della ricca personalità di Dio e della sua
viva partecipazione a tutto ciò che è umano e terreno.
7
Il Signore disse: «Cancellerò dalla terra l’uomo che ho creato: con l’uomo
anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito
d’averli fatti».
8
Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.

Continua il linguaggio antropomorfico. “Cancellerò dalla faccia della terra”: a


prima vista sembra una punizione terribile da parte di Dio per l’uomo malvagio. Di
fatto però anche qui si ha lo stesso meccanismo che avevamo notato in Gen 3. Perché
Dio castiga, qual è il senso della punizione di Dio? Fondamentalmente è mettere
l’uomo in guardia dalle conseguenze negative del suo comportamento errato. Là Dio
avvertiva l’uomo delle conseguenze di una sua scelta di decidere lui che cosa è bene e
che cosa è male: “altrimenti morirete”, cioè sarete separati da Dio; non è la morte nel
senso fisico, ma è la morte spirituale. Qui Dio rivela all’uomo che egli ha imboccato
una via di male e di morte con il peccato originale e che quindi si distrugge da sé. La
punizione è l’esplicitazione del risultato delle scelte sbagliate dell’uomo. In un certo
senso il castigo è addirittura necessario, perché indica con forza e con chiarezza
inequivocabile l’assoluta incompatibilità del peccato con la santità di Dio.
In virtù della sua logica interna il castigo rivela Dio; è un po’ la teofania, cioè
la manifestazione di Dio, appropriata al peccatore. Perché delle due, una: o il
peccatore capisce e accoglie questo gesto di Dio e cambia vita, si converte e non
commette più il peccato oppure non lo riconosce, lo rifiuta, si ostina nell’indurimento
del suo cuore e allora necessariamente il peccatore sarà separato da Dio, almeno fino
a quando non si ravvedrà.
119

E al castigo così inteso si collega quindi la calamità naturale, cioè la disgrazia


collettiva: carestia, fuoco, malattia, uragani, il diluvio. La calamità è un colpo
collettivo che manifesta (ecco la funzione del castigo) a quale punto il peccato agisce,
non solo nella storia umana, ma nel complesso della creazione (cf. Ap 6; 8,6-11; 19).
Infatti con le sue scelte negative l’uomo purtroppo travolge con se stesso anche
quello che lo circonda. Ecco perché abbiamo letto “Cancellerò dalla faccia della
terra l’uomo e con lui il bestiame, rettili, ecc.”. Questo perché l’uomo è inserito in un
flusso di relazioni da cui non può prescindere, da cui non può fare astrazione, anzi
egli è responsabile direttamente dell’ambiente in cui vive, del mondo in cui è inserito,
del creato in cui è posto (cfr. Gen 2 dove l’uomo riceve da Dio il mandato di
custodire e coltivare il giardino).
Il prof. Ravasi, nel suo commento a Gen 1-11 (p. 132) riporta il testo di una
bellissima riflessione islamica che cerca di spiegare ad esempio l’esistenza dei deserti
ricorrendo al peccato dell’uomo. È una parabola.
All’inizio il mondo era tutto un giardino fiorito. Dio, creando l’uomo, gli
disse: «Ogni volta che compirai una cattiva azione, io farò cadere sulla terra un
granellino di sabbia». Ma gli uomini, che sono malvagi, non ci fecero caso. Che cosa
avrebbero significato uno, cento, mille granellini di sabbia in un immenso giardino
fiorito? Passarono gli anni e i peccati degli uomini aumentarono: torrenti di sabbia
inondarono il mondo. Nacquero così i deserti, che di giorno in giorno diventarono
sempre più grandi. Ancor oggi Dio ammonisce gli uomini dicendo loro: «Non
riducete il mio mondo fiorito ad un immenso deserto!».

Questa parabola, questa immagine rende benissimo la realtà di coinvolgimento


della natura e dell’ambiente nel peccato dell’uomo.
Dio interviene con il diluvio universale: un castigo molto pesante certamente,
ma lo è proprio perché nell’ottica di Dio, potremmo dire: a mali estremi, estremi
rimedi. Come Caino solo dopo la grave punizione, si rende conto del suo peccato,
così Dio spera che, dopo il gravissimo castigo del diluvio, faccia l’umanità
degenerata al massimo.
Però, come già sappiamo, nella logica di Dio alla punizione si accompagna
sempre un atto di misericordia. Ricordate gli abiti di pelle che Dio stesso confeziona
per Adamo ed Eva dopo il peccato originale, e ancora il segno di riconoscimento per
proteggere Caino dalla vendetta. In questo caso il gesto di misericordia di Dio è
l’elezione gratuita (=al di là dei suoi eventuali meriti) di un uomo: Noè, che trovò
grazia agli occhi del Signore (v. 8).

Nel v. 7, jahwista, c’era scritto: 7Il Signore disse: «Cancellerò dalla terra
l’uomo che ho creato: con l’uomo anche il bestiame ecc. ».
Qui sembra, come in tanti altri passi della Bibbia, che Dio agisca in prima
persona per sconvolgere la natura. Ma non è così. Dobbiamo tener presente che nella
Bibbia non si distingue, secondo la mentalità semitica, tra “causa prima” e “cause
seconde”, espressione tipica del linguaggio aristotelico-tomista. Dio sta all’origine di
tutto, ma la causalità prima o ultima o finale opera a livello trascendente e in quanto
120

tale non si sostituisce alle altre cause, cioè alle “cause seconde”, quelle della natura e
della storia, né si appropria della loro azione.
Dio ottiene i suoi fini di salvezza e di bene servendosi di quanto avviene nella
natura o nella storia, servendosi anche di quanto c’è di negativo, perfino del male;
perfino la malvagità degli uomini può servire al bene nell’ottica di Dio, perché nella
Bibbia davvero il bene è sempre più grande del male.
Allora non va attribuito direttamente a Dio la formazione del diluvio, perché
appunto Dio è solo la causa prima di tutto, poi la natura segue una sua logica e vede
un succedersi di cause ed effetti che si spiegano al loro interno, senza ricorrere
continuamente a Dio. Ma nella mentalità semitica non c’era questa distinzione.
Nella Bibbia il bene è sempre più grande del male; basta ricordare il bellissimo
episodio di Giuseppe in Gen 45, quando si fa riconoscere dai suoi fratelli e dice: io
sono il vostro fratello che voi avete venduto agli Egiziani; ora che io sono potente,
perché sono il gran visir d’Egitto, temete una mia ritorsione, una mia vendetta, ma
Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita. Cioè il male che voi
avete fatto è servito per un bene più grande.
Ritornando al discorso dell’autore biblico che non distingue tra cause prime e
cause seconde, specie nell’AT si esprime spesso in immagini antropomorfiche a
colori forti, è quasi impaziente di cogliere la presenza salvifica di Dio negli
avvenimenti, e attribuisce tutto a Dio in prima persona.

Le tradizioni J e P

Ora vediamo questo celebre episodio, il racconto del diluvio, che è come un
tessuto intrecciato da due nastri di diverso colore: Jahwista e Sacerdotale (cf. sussidio
n.1 pp.2-3).

Gen 6,9-13 (P)


9
Questa è la discendenza di Noè. Noè era un uomo giusto e integro tra i
suoi contemporanei e camminava con Dio. 10Noè generò tre figli: Sem, Cam
e Iafet. 11Ma la terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza.
12
Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta perché ogni uomo aveva
pervertito la sua condotta sulla terra.
13
Allora Dio disse a Noè: «È venuta per ma la fine di ogni uomo, perché
la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò insieme
con la terra.

La genealogia, toledot in ebraico, è tipica della tradizione Sacerdotale. Si dice che


Noè è un uomo giusto, di dirittura morale, camminava con Dio, e poi nei versetti 11-
13 viene riassunta sotto i termini di “corruzione” e di “violenza” un po’ tutta la storia
del peccato dell’uomo e viene enunciato il decreto di condanna: io vi cancellerò dalla
faccia della terra; decreto che peraltro nei vv. 5-8 della tradizione Jahwista era stato
121

descritto più diffusamente: «Cancellerò dalla faccia della terra l’uomo, il bestiame,
ecc.
A differenza dello Jahwista che con l’espressione antropomorfica aveva dato
voce ai sentimenti divini, qui si riporta solo il giudizio di Dio: io li distruggerò. Si
dice il tutto in modo più conciso; per esprimere questa totale corruzione basta un solo
vocabolo: “violenza”, una parola che è propria della tradizione Sacerdotale, qui usata
per la prima volta, una parola che esprime tutta la gravità della sciagura. Infatti
“violenza” in ebraico si dicehāmās (che ben conosciamo, essendo la sigla del
movimento terroristico arabo), che alla lettera significa “delitto”. Questa parola
indica l’oppressione violenta e dunque la rottura fondamentale di un ordine giuridico.
Questo arbitrio violento, secondo il giudizio sacerdotale e profetico, è il peccato più
grave commesso contro JHWH, e comporta anche la punizione più grave, e cioè il
diluvio, che è una sorta di sconsacrazione della terra che era stata creata “molto
buona”.

Gen 6,14-17 (P)


14
Fatti un’arca di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la
spalmerai di bitume dentro e fuori. 15Ecco come devi farla: l’arca avrà 300
cubiti di lunghezza, 50 di larghezza e 30 di altezza. 16Farai nell’arca un
tetto e a un cubito più sopra la terminerai; da un lato metterai la porta
dell’arca. La farai a piani: inferiore, medio e superiore. 17Ecco io manderò
il diluvio, cioè le acque, sulla terra, per distruggere sotto il cielo ogni
carne, in cui c’è soffio di vita; quanto è sulla terra perirà.

Il termine “arca”, tēbāh in ebraico, in realtà indica il cestello e si incontra


anche in Es 2,3.5 dove indica la cesta galleggiante sul Nilo in cui era stato posto il
piccolo Mosè per salvarlo dalla strage dei bambini maschi, così come l’arca avrebbe
salvato Noè e quelli con lui. In Esodo tēbāh era un cestello, qui invece le dimensioni
sono notevoli, per un totale di 70.000 m3 che la rendono per quei tempi una specie di
grattacielo galleggiante. Era lunga come la metà di un transatlantico odierno,
galleggiante sull’acqua perché posta su una chiatta. È interessante notare che le
misure dell’arca sono in realtà quelle del Tempio di Gerusalemme. Il Tempio per gli
Ebrei è il luogo di salvezza, così quest’arca è luogo di salvezza dell’umanità buona.

Gen 6,18-22 (P)


18
Ma con te io stabilisco la mia alleanza. Entrerai nell’arca tu e con te i
tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli. 19Di quanto vive, di ogni carne,
introdurrai nell’arca due di ogni specie, per conservarli in vita con te:
siano maschi e femmina. 20Degli uccelli secondo la loro specie, del
bestiame secondo la propria specie e di tutti i rettili del suolo secondo la
loro specie, due d’ognuna verranno con te, per essere conservati in vita.
122

21
Quanto a te, prenditi ogni sorta di cibo da mangiare e fanne provvista:
sarà di nutrimento per te e per loro».
22
Noè eseguì ogni cosa; come Dio gli aveva comandato, così fece.

Noè riceve l’ordine di far entrare nell’arca, oltre i suoi familiari, una coppia di
animali di ciascuna specie. Il testo sacerdotale è schematico, ripetitivo: gli uccelli
secondo la loro specie, il bestiame secondo la propria specie, ecc. Chiaramente
questo “secondo la propria specie” non può non richiamare l’altro testo sacerdotale,
quello della creazione in Gen 1, cioè quell’opera di ordinamento e separazione che
era stata l’opera di Dio con cui Egli aveva vinto il caos e attuato la creazione o
cosmos, ordine.

Gen 7,1-5 (J)


1
Il Signore disse a Noè: «Entra nell’arca tu con tutta la tua famiglia,
perché ti ho visto giusto dinanzi a me in questa generazione. 2D’ogni
animale mondo prendine con te 7 paia, il maschio e la sua femmina; degli
animali che non sono mondi un paio, il maschio e la sua femmina. 3Anche
degli uccelli mondi del cielo, 7 paia, maschio e femmina, per conservarne
in vita la razza su tutta la terra. perché tra 7 giorni farò piovere sulla terra
per 40 giorni e 40 notti; cancellerò dalla terra ogni essere che ho fatto».
5
Noè fece quanto il Signore gli aveva comandato.

Qualcuno domanderà: come mai adesso sono diventate 7 le coppie che prima
invece erano una per ogni animale? Prima abbiamo letto il testo sacerdotale, mentre
questo è il testo jahwista. Si distingue anche tra animali puri e animali impuri.
Qui si vede bene come il redattore ha mantenuto ugualmente i due testi
paralleli, anche se non concordi, e alla più che logica obiezione che uno potrebbe
fare: ma non poteva eliminare i doppioni e semplificare il tutto? si risponde che non
lo ha fatto perché l’autore biblico aveva un profondo senso di rispetto per il testo
sacro e la tradizione tramandata per centinaia e centinaia di anni, e quindi non si
permetteva di modificare questo testo, preferiva mantenere queste fonti con i loro
doppioni e contraddizioni, piuttosto che eliminare una parte del patrimonio
tradizionale della fede di Israele, troppo veneranda per poter essere anche
minimamente modificata.
Noè fece quanto il Signore gli aveva comandato. È la seconda volta che troviamo
questo schema narrativo, la prima volta era in 6,22.
Teniamo presente che nella declamazione della trasmissione orale, come è
sempre stata di questi testi nella prima fase, questo schema ha il vantaggio di
permettere una più facile memorizzazione; così pure le ripetizioni servono a questo
scopo. È anche una tecnica per evidenziare i passaggi più importanti del racconto.

Gen 7,6-12 (J)


123

6
Noè aveva 600 anni, quando venne il diluvio, cioè le acque sulla terra.
7
Noè entrò nell’arca e con lui i suoi figli, sua moglie e le mogli dei suoi
figli, per sottrarsi alle acque del diluvio. 8Degli animali puri e di quelli
impuri, degli uccelli e di tutti gli esseri che strisciano sul suolo 9un maschio
e una femmina entrarono a due a due nell’arca, come Dio aveva
comandato a Noè.
10
Dopo 7 giorni, le acque del diluvio furono sopra la terra; 11nell’anno
seicentesimo della vita di Noè, nel secondo mese, il 17 del mese, in quello
stesso giorno, eruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del
cielo si aprirono. 12Cadde la pioggia sulla terra per 40 giorni e 40 notti.

È un testo jahwista tranne i vv. 6 e 11, che dicono l’età di Noè e sono
sacerdotali. Infatti è una caratteristica della tradizione sacerdotale quella del computo
dell’età, delle genealogie, ecc. Possiamo ricordare che la data del “secondo mese”, al
v. 11: il 17 del mese, è il mese che corrisponde al nostro maggio-giugno, nell’ipotesi
che l’anno iniziasse col mese di Nissan.
Per capire la descrizione del diluvio, dobbiamo tener presente la cosmologia
ebraica (cf. sussidio n.2 a p. 7, fig. 2 dove si vedono le acque primordiali in alto, il
grande abisso in basso, e nella fig. 1 sono evidenziate le cateratte, le porte del cielo).
È evidente che secondo il racconto biblico, sia Sacerdotale che Jahwista, il diluvio
appare come una catastrofe universale, per cui l’intera terra venne invasa dalle acque
superiori e inferiori. Fu totalmente sommersa e tutti gli esseri viventi vengono
distrutti, eccetto quelli che si trovano nell’arca.
Poi c’è il numero 40 che è ben noto come numero biblico con un valore
simbolico, come hanno i numeri nella Bibbia: 40 è un tempo in sé compiuto ed è
anche simbolo della maledizione, come si vede appunto in questo caso del diluvio,
dove il diluvio è una punizione per la malvagità degli uomini.

Gen 7,13-24 (P)


13
In quello stesso giorno entrarono nell’arca Noè con i figli Sem, Cam e
Iafet, la moglie di Noè, le tre mogli dei suoi tre figli: 14essi e tutti i viventi
secondo la loro specie e tutto il bestiame secondo la propria specie e tutti i
rettili che strisciano sulla terra secondo la loro specie, tutti i volatili
secondo la loro specie, tutti gli uccelli, tutti gli esseri alati. 15Vennero
dunque a Noè nell’arca, a due a due, di ogni carne in cui è il soffio di vita.
16
Quelli che venivano, maschio e femmina d’ogni carne, entrarono come gli
aveva comandato Dio: il Signore chiuse la porta dietro di lui. Bellissimo
questo gesto! Il Signore chiuse la porta, si assicurò che fossero in salvo.
17
Il diluvio durò sulla terra 40 giorni: le acque crebbero e sollevarono
l’arca che si innalzò sulla terra. 18Le acque furono travolgenti e crebbero
molto sopra la terra e l’arca galleggiava sulle acque. 19Le acque furono
sempre più travolgenti sopra la terra e coprirono tutti i monti più alti che
124

sono sotto il cielo. 20Le acque superarono in altezza di 15 cubiti i monti che
avevano ricoperto.
21
Perì ogni essere vivente che si muove sulla terra, uccelli, bestiame e
fiere e tutti gli esseri che brulicano sulla terra e tutti gli uomini. 22Ogni
essere che ha un alito di vita nelle narici, cioè quanto era sulla terra
asciutta morì.
23
Così fu sterminato ogni essere che era sulla terra: dagli gli uomini,
agli animali domestici, ai rettili e agli uccelli del cielo; essi furono
cancellati dalla terra e rimase solo Noè e chi stava con lui nell’arca.
24
Le acque furono travolgenti sopra la terra 150 giorni.

Il brano è di stile sacerdotale (secondo la propria specie), invece il v. 16 (il


Signore chiuse la porta dietro di lui) è jahwista, lo si capisce proprio per
l’antropomorfismo, per la vivacità della scena, per lo spazio dato ai sentimenti di Dio;
è bellissimo questo versetto che esprime tutta la preoccupazione di Dio per la
sicurezza dell’uomo giusto e di quelli che sono con lui. Il v. 17, sacerdotale, nella
prima parte ripete quanto detto dallo Jahwista in 6,12: il diluvio durò 40 giorni.
Poi nei vv. 22-23 lo Jahwista sottolinea lo sterminio di tutti gli esseri viventi e
la salvezza di Noè. Infine il v. 24 è sacerdotale: Le acque furono travolgenti sopra la
terra 150 giorni, cioè 5 mesi.

Il rapporto tra il racconto del diluvio e quello della creazione

Il modo in cui sono descritti i motivi che portano al diluvio e il diluvio stesso,
richiamano molti elementi dei racconti della creazione: 6,6 : il Signore si pentì di
aver fatto l’uomo, come in Gen 1.7: Dio fece il firmamento; Gen 1,16: Dio fece i due
luminari.
O anche 7,22: Ogni essere che ha un alito di vita nelle narici ricorda Gen 2,6:
Dio soffiò nelle narici un alito di vita. In questo continuo rapporto con la creazione si
descrive con efficacia il pathos di un Dio che si vede frustrato nella sua qualità di
creatore. La sua creatura gli si è deteriorata e corrotta contro sua voglia, gli si è
rivoltata contro, ed egli non ha altra scelta che distruggerla.
Il rifarsi alla creazione esprime anche la radicalità della distruzione operata dal
diluvio. La punizione dell’uomo infatti investe anche gli animali estendendosi a tutto
il creato. L’uomo è inserito in un flusso di relazioni da cui non può fare astrazione, è
responsabile del creato, il suo agire malvagio contagia anche la terra, porta
distruzione anche nell’ambiente. È per questo che si parla di de-creazione e di
anticreazione, cioè ritorno al caos che c’era prima della creazione, ritorno al nulla.
È questa anche la sconsolata percezione che attanaglia pure l’uomo di fronte
alle grandi catastrofi della terra, quando quello che egli ha costruito con tanta fatica
sembra ridotto a nulla. Di queste catastrofi, cataclismi e tragedie, il diluvio è un
simbolo riassuntivo, perché è un’espressione di condanna del male: le acque attuano
questa condanna con la loro irruzione catastrofica e mortale; ma nello stesso tempo è
125

espressione di salvezza, perché mediante l’arca Dio salva il giusto e un nucleo di tutta
la creazione.
*****************************

Prima di proseguire la lettura e il commento dei capp.8 e 9, occorre rispondere


a una serie di domande che il c. 7 indubbiamente suscita: come va interpretata questa
pagina? alla lettera o no? perché ci sono delle informazioni che si contraddicono,
come per es. la durata del diluvio? 40 giorni o 150 giorni? C’è stato veramente un
diluvio universale, come pare di vedere da 7,19 (le acque coprirono tutti i monti più
alti che sono sotto tutto il cielo)? Fu sterminato ogni essere che era sulla terra? rimase
solo Noè e chi stava con lui nell’arca?

Cominciamo dalla questione “diluvio”, termine che la Bibbia usa solo qui e nel
Sal 29.
Si definisce “diluvio” – secondo il vocabolario italiano – la pioggia che cade a dirotto
e per lunghissimo tempo. Qui si parla di una vera e propria catastrofe dovuta
all’acqua di sopra e di sotto.
Ora, quando e dove si verificò un tale fenomeno? Non poteva essere accaduto
in Israele, in quanto tale flagello non può avere come cornice il paese montagnoso di
Canaan. L’argomento e anche la sua espressione letteraria non sono di origine
palestinese, vanno cercate nel mondo mesopotamico.
Se in una cartina si osserva la zona tra il monte Ararat a nord e il Golfo Persico
a sud est, occorre sapere che questa zona non solo conserva il ricordo di
un’inondazione catastrofica che risaliva ad un passato lontanissimo, ma possiede
leggende sumero-babilonesi che hanno conservato e ingrandito tale ricordo e che
sono più antiche dei racconti della Bibbia. Cioè abbiamo:
1. Il poema di Atrahasis, tavoletta II e III, il più antico del periodo paleo-
babilonese, prima del 3000 a.C.;
2. il racconto sumerico del diluvio. I Sumeri sono una popolazione più antica, la
cui civiltà è fiorita dal 3000 al 2000 circa a.C.;
3. l’epopea di Ghilgamesh, tavoletta XI, del 2300 a.C. (cf. sussidio n.1 pp.4-5-6).

Ora il testo biblico, che risale al 7° o 5° sec. a.C., è più recente dei tre testi
babilonesi. Israele li ha conosciuti durante il suo esilio in Babilonia. E la Bibbia
presenta ben 17 punti (o tòpoi) in comune con questi testi, in cui anche i dettagli sono
identici. Se ne deduce una sicura dipendenza letteraria del testo biblico dai testi
mesopotamici.
C’è di più: non solo in Israele e in Mesopotamia, ma in altri popoli di tutt’altra
parte del mondo troviamo vari miti e leggende riguardanti un diluvio universale. Pare
che un ricordo ancestrale stia alla base di queste leggende diffusesi dal III millennio
in poi.

Interpretazione dell’episodio biblico con riferimento alla storia


126

Il punto di partenza è forse una catastrofe naturale legata ai due fiumi


mesopotamici – Tigri ed Eufrate – che per un tratto di 350 km scorrono prima di
giungere alla foce nel Golfo Persico. E per questo tratto di 350 km corrono su un
piano quasi perfetto, il dislivello è solo di 34 metri.
In caso di forti piogge e dello scioglimento delle nevi a primavera, le acque si
trasformavano in un’enorme massa che dilagava distruggendo tutto. Oggi si ammette
l’esistenza di una grande inondazione che deve aver ricoperto anche i territori della
pianura mesopotamica e altre regioni vicine e che accadde intorno al 6.000-5.000 a.C.
Il diluvio biblico è pertanto accertato dai biblisti nella nuova accezione di
diluvio mesopotamico. Questo per la Mesopotamia, e per il Perù, la Persia, l’India,
ecc. è sempre la fine della glaciazione, cioè nel primo periodo che i geologi collocano
intorno a un milione di anni fa, il primo periodo dell’era quaternaria, detta anche
antropozoica, perché vi compare l’uomo, e poi neozoica, quando gli immensi
ghiacciai che coprivano gran parte della terra cominciarono a sciogliersi a causa
dell’innalzamento della temperatura.
Gli studiosi dicono che furono sufficienti 6-12 gradi in meno della temperatura
media odierna per coprire di ghiaccio il nord Europa, parte dell’Inghilterra e della
Germania, tutta la Russia e le Alpi fino ai margini della pianura padana; ma anche
che sono sufficienti solo 2 o 3 gradi in più della temperatura media attuale per
provocare altri diluvi.
Dunque abbiamo tre racconti mesopotamici e due biblici sul diluvio universale,
con dei punti in comune, ma anche con notevoli differenze. Ed è da queste differenze
che si coglie ancora una volta il taglio originale dell’autore biblico, la nuova
interpretazione che egli dà del mito, della leggenda del diluvio.
Abbiamo già visto che la causa del diluvio nella Bibbia è il peccato dell’uomo
giunto ai massimi livelli. Nel poema di Atrahasis invece si dice che circa 1200 anni
dopo la creazione, i popoli si erano moltiplicati al punto da dar fastidio agli dèi con il
loro baccano, così Enlil decise di distruggere l’umanità, salvando tuttavia Atrahasis,
che è il Noè babilonese.
Inoltre in tutti e tre i racconti babilonesi l’eroe salvato viene benedetto dagli dèi
e diviene a sua volta un essere divino. Niente di tutto questo ovviamente accade a
Noè.

Per soddisfare la nostra curiosità abbiamo chiarito dicendo tutto quello che
finora siamo in grado di dire sulla base di dati scientifici circa un fatto che dovrebbe
essere accaduto nella realtà tantissimi anni fa.
Ma all’autore biblico questo non interessava affatto. Egli voleva dare una
risposta agli interrogativi fondamentali degli uomini di tutti i tempi. E qui la domanda
era: perché l’uomo nella sua vita sperimenta la catastrofe, la distruzione di ciò che
aveva costruito nel suo ambiente di vita? Perché questi grandi sconvolgimenti
cosmici che attentano sistematicamente alla vita dell’uomo, che di fronte alla natura
impazzita, si sente sempre canna fragile e instabile?
127

Ora, per dare la risposta a questa domanda, l’autore si serve di materiale mitico
che trova nel suo ambiente, lo reinterpreta e demitologizza – come abbiamo visto per
i giganti – per dare la risposta che vedremo.

Questo è il quarto mito che spieghiamo (dopo il peccato originale nel paradiso
terrestre, Caino e Abele e l’origine dei giganti). Il “mito” è l’espressione simbolica e
approssimativa di una verità che la mente umana può solo intuire, non avendo ancora
gli strumenti per un’analisi scientifica. Come disse Giovanni Paolo II, il termine
“mito” non designa un contenuto fabuloso, da favole, ma semplicemente un modo
arcaico di esprimere un contenuto più profondo.

Eziologia metastorica

Possiamo ora completare questo discorso del mito, dicendo qual è il genere
letterario utilizzato in questi testi: si chiama eziologia metastorica.
“Eziologia” = discorso relativo alle cause
“Metastoria”= al di là della storia.
Questa eziologia metastorica è un modo di parlare della storia dell’uomo di
sempre, di ogni epoca, riportandola alle origini, cioè alle cause originarie. Allora la
risposta dell’autore vale per il diluvio, ma vale anche per tutte le forme di catastrofi
che gli Ebrei hanno conosciuto nella loro storia, come l’esodo, l’esilio, ecc. Tutti fatti
che cercano una risposta di senso, di significato. E così sul senso del diluvio qual è
l’eziologia metastorica?

Il senso del diluvio

Il diluvio ci ricorda come il mondo sia davvero fragile e come, a causa della
violenza e del peccato dell’uomo, possa comunque ripiombare nel caos dal quale è
uscito ed essere così distrutto: decreazione, anticreazione. Ma nello stesso tempo il
racconto del diluvio ci richiama al fatto che, per opera di Dio, il mondo può essere
purificato e uscire rinnovato dall’acqua. Dunque alla fine mette in risalto ancora una
volta la volontà di salvezza di Dio e rinvia alla speranza in una salvezza futura.
Questo è il senso del diluvio.
Sul rapporto uomo-disastri naturali vedi l’apologo arabo del giardino che a
causa del peccato dell’uomo diventa un deserto.

Attualizzazione

Perché il male e le catastrofi nel mondo? qual è la responsabilità dell’uomo?


Qui ci troviamo di fronte a uno dei quattro fondamentali aspetti del male:
128

1. il male cosmico, flagelli della natura: terremoti, eruzioni vulcaniche,


inondazioni, cicloni, tifoni, carestie, siccità, epidemie, invasioni di animali
distruttori;
2. il male fisico: la malattia, la mutilazione, la degradazione della vita, la morte;
3. il male psichico: la depressione, le angosce, i traumi.
Questi sono i tre mali naturali.
4. il male morale, cioè il cattivo uso da parte dell’uomo della sua libertà; e questo
- sia a livello personale, cioè la libertà rivolta al male anziché al bene che
porta a egoismo, orgoglio, odio, ribellione, omicidio, vendetta, violenza,
incapacità di dominare i propri istinti
- sia a livello sociale, che porta a nazionalismo, militarismo, asservimento
politico ed economico, eliminazione o umiliazione degli avversari, culto del
sesso, potere e denaro.

Non dimentichiamo che da solo il male morale è responsabile della maggior parte
dei mali fisici e psichici e in parte di quelli cosmici o del loro aggravamento.

Le catastrofi naturali e la responsabilità dell’uomo

Recenti statistiche affermano che l’uomo è responsabile per il 90% delle


malattie attuali che derivano dall’inquinamento.
In tutto il racconto del diluvio viene sottolineata la solidarietà del genere
umano con il mondo creato. Le persone sono così la chiave di volta della stessa
creazione (cf. Rm 8,19-22).
Come si manifesta oggi tale solidarietà, sia negli aspetti negativi che in quelli
positivi? Come è possibile vivere nel modo corretto così che, anziché inquinamento,
ci sia salvaguardia del creato?
Riconosciuta questa dimensione misterica del dolore e della tragedia, l’autore
della Genesi ci riporta al suo tema costante e cioè la riflessione nei primi 11 capitoli.
E, data la particolare qualità del racconto del diluvio che coinvolge le strutture del
territorio, il regime delle acque, la pianificazione del terreno, il pensiero può correre a
quel particolare peccato contro la natura che è il disprezzo per gli equilibri cosmici.
Infatti certe inondazioni, disastri ecologici, catastrofi con le loro dimensioni di
vittime e di dolori, non nascono perché Dio fa piovere sulla terra, ma perché l’uomo
non ha saputo vivere nel rispetto dell’armonia della natura, ma vi è piombato sopra
come un tiranno devastatore.
Quindi c’è un atteggiamento ecologico biblico che consiste nel ritrovare (anche
l’ecologia è un tema che può rientrare nella educazione alla fede) il quadro delle
armonie graduali iscritte da Dio nella natura. Inquinare e scardinare i ritmi della
natura, spezzare la trama degli elementi, disprezzare la materia, tutto questo è un
peccato grave contro il Creatore. Forse noi non abbiamo ancora del tutto chiara
questa percezione: il valore di peccato che ha questo andare contro la natura. Tanti
diluvi non sono da imputare a Dio, ma alle scelte egoistiche dell’uomo.
129

Mario Rigoni Stern, che fu testimone di eccezione della guerra sul fronte russo,
ci offre questa riflessione circa il rapporto fra l’uomo e la natura: Oggi, alle soglie del
2000, i fiumi vanno in piena rasentando disastri in molto minor tempo che qualche
diecina di anni fa, perché asfalto e cemento non trattengono l’acqua, e su per le
montagne sono rimasti pochi uomini a curare i torrenti: basta una pioggia violenta di
poche ore per provocare allarme e paure. Ricordiamo l’alluvione che sommerse il
Polesine nel 1951, che per 195 giorni coperse 113.000 ettari provocando molti morti,
e l’altro del 1966, che ancora tanti danni e vite costò nelle valli alpine e a Firenze e a
Venezia.
Si può ricordare inoltre l’altra tragedia del Vajont: oltre 2000 morti il 9 ottobre 1963.

GENESI 1-11 8° lezione Milano, 1 dicembre 2004

FINE DEL DILUVIO – NOE’ E CAM

Gen 8-9

Analisi e commento di Gen 8,1-9,17: la fine del diluvio e la “alleanza” con Dio

Gen 8,1-14 (P)


1
Dio si ricordò di Noè, di tutte le fiere e di tutti gli animali domestici che
erano con lui nell’arca. Dio fece passare un vento sulla terra e le acque si
abbassarono. 2Le fonti dell’abisso e le cateratte del cielo furono chiuse e fu
trattenuta la pioggia dal cielo; 3le acque andarono via via ritirandosi dalla
terra e calarono dopo 150 giorni.(ricordiamo che alla fine del c. 7 si dice:
“le acque restarono alte sopra la terra 150 giorni”, perciò siamo a 300
giorni, quasi un anno)
4
Nel 7° mese, il 17 del mese, l’arca si posò sui monti dell’Ararat.
5
Le acque andarono via via diminuendo fino al 10° mese. Nel 10° mese,
il primo giorno del mese, apparvero le cime dei monti. 6Trascorsi 40 giorni,
Noè aprì la finestra che aveva fatta nell’arca e fece uscire un corvo per
vedere se le acque si fossero ritirate. 7Esso uscì andando e tornando finché
si prosciugarono le acque sulla terra. 8Noè poi fece uscire una colomba,
per vedere se le acque si fossero ritirate dal suolo; 9ma la colomba, non
trovando dove posare la pianta del piede, tornò a lui nell’arca, perché
c’era ancora l’acqua su tutta la terra. Egli stese la mano, la prese e la fece
130

rientrare presso di sé nell’arca. 10Attese altri 7 giorni e di nuovo fece uscire


la colomba dall’arca 11e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco,
essa aveva nel becco un ramoscello di ulivo. 12Noè comprese che le acque si
erano ritirate dalla terra. Aspettò altri 7 giorni, poi lasciò andare la
colomba; essa non tornò più da lui.
13
L’anno 601 della vita di Noè, il primo mese, il primo giorno del mese,
le acque si erano prosciugate sulla terra; Noè tolse la copertura dell’arca
ed ecco la superficie del suolo era asciutta. 14Nel secondo mese, il 27 del
mese, tutta la terra fu asciutta.

Il ricordo di Dio nella Bibbia


“Dio si ricordò di Noè”. Qui c’è un concetto molto importante dal punto di vista
biblico. Il “ricordo”, “zacar”, nella Bibbia non è una semplice memoria nel passato,
ma è un atto efficace che opera nel presente. Ovviamente si tratta del “ricordo” di
Dio: Dio si ricordò di Noè. Spesso si trova l’espressione “Dio si ricordò degli
uomini”. Questo ricordarsi di Dio vuol dire intervenire per la salvezza dell’uomo.
Infatti chiudendo le cateratte del cielo e facendo abbassare le acque, Dio salva Noè
con tutto quello che c’era nell’arca.

Il Monte Ararat ieri e oggi


Il v. 3 è in parte jahwista e in parte sacerdotale e abbiamo letto che l’arca si
posò sui monti dell’Ararat. È veramente esistita questa arca di Noè? E’ uno dei soliti
problemi che ci poniamo in questi primi 11 capitoli di Genesi. Cosa si può dire
dell’Ararat? (cf. Ariel Alvarez Valdès, Cosa sappiamo della Bibbia? 1° vol., p.17).
Dice Valdès: Esiste una montagna che ha il privilegio di essere la più visitata, scalata,
studiata e pubblicizzata dai mezzi di comunicazione, si tratta del celebre Monte
Ararat. È famosa perché secondo la Bibbia fu il luogo dove si incagliò l’arca
equipaggiata da Noè dopo la fine del diluvio.
L’Ararat è una piccola catena montuosa di 13 km di lunghezza che si trova tra
le attuali nazioni della Turchia e dell’Armenia, con due cime principali: l’Ararat
maggiore, 5516 m di altezza coperto sempre dalla neve, e l’Ararat minore, di 4300 m.
Secondo la tradizione, l’arca di Noè sarebbe arrivata a quella più alta, ad
un’altezza di circa 2000 m.
Vediamo ora cosa è successo nella storia. Già i primi cristiani che abitavano
nei dintorni costruirono lì un tempio chiamato “il tempio dell’arca”, in cui tutti gli
anni festeggiavano la data in cui erano usciti Noè e tutti gli animali dall’arca. Poi nel
7° secolo vi fu un monaco che disse di aver trovato per ispirazione divina un pezzo di
legno dell’arca, che ancora adesso è conservata dagli Armeni in un prezioso
reliquiario. Ma fu un pastore di un piccolo paese chiamato Bainsik, che un certo
giorno di fine secolo 1700, disse di aver visto una strana barca sul monte sacro.
Questo scatenò una tale febbre di spedizioni che sarebbe arrivata fino ai nostri giorni.
- 10 agosto 1707: prima famosa scalata di Pitton de la Tournefort
- 27 settembre 1829: scalata di Parrot (grande archeologo) e Dorpat;
- 17 agosto 1834: scalata dei russi Spasski e Antonov;
131

- 8 agosto 1835: scalata da parte di Berends;


- 29 giugno 1840: ultima eruzione del vulcano con scosse di terremoto; una
frana distrugge il monastero della valle di Jakob, che sorgeva in una conca
della cima del monte a 1734 m;
- 29 luglio 1845: scalata del geologo Abich
- 18-26 agosto 1850: una spedizione russa che si accampa per 5 giorni sulla
cima.
-
Tutte queste spedizioni che risultato hanno avuto? Nel 1892 il dott. Nouri, un
arcidiacono della chiesa cristiana malabarese dell’India, in un viaggio dell’Ararat,
assicurò di aver incontrato l’arca di Noè nelle nevi perenni e di aver esplorato il suo
interno. Siccome nessuno gli credeva, volle dimostrare le prove che aveva portato
con sé, ma purtroppo……….gliele avevano rubate!
Nel 1916, in piena guerra mondiale, un aviatore russo Vladimir Roscovitsky fu
protagonista di uno degli episodi più eclatanti riguardo all’arca. Un giorno di agosto,
pilotando l’aereo, avvistò una gigantesca nave, e subito comunicò al ritorno la sua
scoperta. Immediatamente lo zar Nicola II inviò una spedizione di 150 uomini, che
assicurarono di averla potuta studiare, fotografare, misurare e disegnare. Ma l’anno
seguente, con lo scoppio della rivoluzione russa, sparirono tutti i documenti e le
prove!
Trent’anni dopo, il 20 gennaio 1945, la stampa australiana pubblicò le
dichiarazioni di una giovane di Sidney che affermava che il suo fidanzato, pilota della
Royal Air France, le aveva mostrato due foto dove si vedevano i resti dell’arca di
Noè; però non è più possibile vederle perché ……lui era stato abbattuto durante la
seconda guerra mondiale, mentre volava sopra la Turchia!
Poi c’è stato il missionario e storico americano, dott. Aaron Smith, un esperto
del problema del diluvio. Egli, dopo un lavoro di molti anni, ha redatto una storia
letteraria sulla questione dell’arca di Noè.
Sul diluvio universale esistono 80.000 opere in 72 lingue, di cui 70.000
menzionano il relitto della nave leggendaria!
Nel 1951 il dott. Smith con 40 uomini fa per 12 giorni vane ricerche sulla cima
ghiacciata dell’Ararat. “Anche se non trovammo alcuna traccia dell’arca di Noè – egli
dichiara in seguito – pure la mia fede nella descrizione biblica del diluvio universale
si è rafforzata. Ci ritorneremo”.
Infatti, incitato dal dott. Smith, un giovane esploratore francese della
Groenlandia intraprende l’anno dopo (1952) l’ascensione del monte vulcanico, ma
anche lui torna a mani vuote.
Si fanno sempre nuove spedizioni, di cui la più recente è del 1955: il francese
Navarra all’alba riuscì ad estrarre inaspettatamente dei blocchi di ghiaccio sulla vetta
del monte tre pezzi di una trave e soprattutto un pezzo di legno calafatato di catrame,
così come la Bibbia sostiene che fosse stata confezionata la barca. Ma quando si
credeva di aver trovato i resti della nave, il pezzo di legno fu sottoposto alla prova del
carbonio 14 che dimostrò che risaliva al 6° sec…..d.C!
132

Quindi non c’è proprio niente da fare. Evidentemente tutti questi tentativi, che
peraltro sono veramente considerevoli, sono approdati al nulla. Ma perché?
Come sempre, c’è una questione di interpretazione. In effetti il libro della
Genesi, quando descrive la fine del diluvio, non dice che l’arca si incagliò sul monte
Ararat, come interpretano tutti, ma sui monti dell’Ararat, al plurale.
Per la Bibbia, Ararat non è il nome di un monte, ma di una nazione, come si
vede dalle altre tre volte in cui viene menzionata in 2Re, Is 37, Ger.51. E la nazione
corrisponde all’antico Urartu, cioè l’attuale Armenia. Per questo tutti i biblisti sono
d’accordo che la traduzione corretta sarebbe “sui monti dell’Armenia” e non l’Ararat.
Pertanto, ben lontano dal precisare il luogo, la Bibbia dà una localizzazione molto
vaga, che può essere in qualsiasi posto dell’Armenia, visto che essa è tutta un vasto
altopiano. Se vogliamo pensare soltanto alla parte montuosa, ha un’estensione di più
di 230 km. Quindi è un po’ difficile precisare un luogo particolare.
Negli anni ‘80 poi sui monti dell’Ararat è addirittura iniziato il turismo e lo sci
alpino!

Allora possiamo dire che questa benedetta arca non è esistita. Perché? Prima di
tutto, se guardiamo le dimensioni (era la metà di un transatlantico attuale), sono
dimensioni che non sono mai state conseguite dall’ingegneria navale prima del 1800.
Il racconto è ambientato nella preistoria, quando ancora non si conosceva l’uso
dei metalli. Quindi come si poteva costruire una nave così senza strumenti metallici?
Inoltre ci sarebbero volute centinaia di persone per costruire un’arca del genere. E
come avrebbero potuto soltanto Noè e i tre figli con le mogli?
La cosa pittoresca e difficile da ammettere è quella in merito agli animali che
Noè e i suoi dovevano introdurre nell’arca. Come poterono riunire una coppia di tutte
le specie esistenti per salvarle dall’estinzione? Furono capaci di percorrere tutto il
pianeta per portarli fin lì?
Inoltre oggi si sa che esistono sulla terra 1.700 specie di mammiferi, 10.087 di
uccelli, 987 di rettili e circa 1.200.000 di insetti; anzi si calcola che in quell’epoca le
specie di mammiferi erano 15.000, gli uccelli 25.000, ecc.
Gli zoologi hanno stimato che il nostro pianeta può avere tra i 5 e 10 milioni di
specie animali ancora non identificati, sconosciuti agli occhi della scienza nei ghiacci
polari, nelle terre tropicali e così via. Caricare l’arca di questo bagaglio sarebbe stato
impossibile. E come potevano otto persone in tutto dar da mangiare, da bere, pulire e
accudire tante bestie? E come potè Noè con la sua gente creare l’ambiente adeguato
per ognuna? Perché un animale vive nei ghiacci, un altro vive nell’Equatore, ecc.
Un’altra ragione che si oppone all’idea del diluvio universale è che, secondo la
Bibbia, piovve per 40 giorni e 40 notti senza smettere. Però sappiamo che il ciclo
idrologico di evaporazione che provoca le piogge risulta essere incapace di causare
una simile quantità di acqua.
Certo, per loro era diluvio universale, perché una catastrofe del genere doveva
essere accaduta nella Mesopotamia da cui nacque il racconto mitico, e praticamente
le terre allora conosciute erano intorno al bacino mediterraneo. Quindi quel diluvio,
per loro, per lo scrittore biblico, poteva essere “universale”.
133

Dal punto di vista storico si parla delle epoche post-glaciali che possono aver
dato luogo a fenomeni di questo tipo. Però non si può interpretare alla lettera che si
trattasse di un vero e proprio diluvio universale.
Secondo le annotazioni cronologiche che abbiamo visto soprattutto nel
documento Sacerdotale, il diluvio dura complessivamente un anno lunare (gli anni
lunari hanno il mese di 27 giorni + 10 giorni e quindi alla fine diventano un intero
anno solare) che inizia nel seicentesimo anno della vita di Noè e termina nell’anno
601 della vita di Noè.
Qual è l’intenzione teologica saliente del racconto del diluvio? Non è
descrivere un fatto storico così come è avvenuto, bensì dimostrare la possibilità della
“decreazione”, il contrario della creazione di Gen 1. Per volere di Dio questo mondo
è nato, e per volere di Dio questo mondo può anche finire.
Del resto ci sono moltissimi elementi che collegano il racconto della creazione
e il racconto del diluvio:
 lo stesso termine tehôm parla dell’abisso in Gen 1,2 e Gen 7,11;
 la superficie delle acque ‘al-penȇ hammājim: Gen 1 e Gen 7,18;
 anche il ruolo del vento, rûah, Gen 1 e Gen 8,1.
Quindi il diluvio è una decreazione, un’anticreazione, un ritorno al caos. Il
mondo ha avuto un inizio e può anche avere una fine, non è eterno. La malvagità
dell’uomo ha provocato la catastrofe, ma – come sappiamo nella logica di Dio – Dio
punisce, ma dà sempre una possibilità di ricominciare. Dio perdona. Dio interviene in
senso positivo. Aveva lui stesso intessuto le vesti di pelle per i due progenitori, dopo
la cacciata dal paradiso terrestre, aveva messo il segno sulla fronte di Caino perché
non venisse ucciso, secondo la legge del taglione, e qui salva un “resto”. Restò solo
Noè e chi era con lui nell’arca. Il verbo “restare”, šā’ar usato in 7,23 è affine al
vocabolo “resto” š’ērȋt, che è il termine tecnico della letteratura profetica per
designare il “resto salvato”, cioè la porzione che all’interno del popolo, sia pur
degenere, resta fedele a Dio. E con questa annotazione si apre dal diluvio un piccolo
spiraglio di speranza, e si annuncia ormai la seconda parte del racconto del diluvio
che è la ri-creazione.
Davvero l’episodio del diluvio spezza a metà i capitoli di Gen 1-11, perché si
tratta di una distruzione della terra, di un ritorno al caos, ma per la bontà di Dio e il
perdono (e un’altra possibilità che vuole dare all’uomo), anche di una ri-creazione, di
una rinnovata creazione. Noè, potremmo dire, è un po’ il secondo Adamo.

Gen 8,15-22: si intrecciano le due tradizioni jahwista e sacerdotale


15
Dio ordinò a Noè:
16
«Esci dall’arca tu e tua moglie, i tuoi figli e le mogli dei tuoi figli con te.
17
Tutti gli animali d’ogni specie che hai con te, uccelli, bestiame e tutti i
rettili che strisciano sulla terra, falli uscire con te, perché possano
diffondersi sulla terra, siano fecondi e si moltiplichino su di essa».
134

18
Noè uscì con i figli, la moglie e le mogli dei figli. 19Tutti i viventi e tutto il
bestiame e tutti gli uccelli e tutti i rettili che strisciano sulla terra, secondo
la loro specie, uscirono dall’arca.
20
Allora Noè edificò un altare al Signore; prese ogni sorta di animali mondi
e di uccelli mondi e offrì olocausti sull’altare.
21
Il Signore ne odorò la soave fragranza e disse tra sé: «Non maledirò più il
suolo a causa dell’uomo, perché l’istinto del cuore umano è incline al male
fin dall’adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto.
22
Finché durerà la terra, seme e messe, freddo e caldo, estate e inverno,
giorno e notte non cesseranno».

Notiamo ancora quel robusto antropomorfismo del redattore jahwista: 21Il


Signore ne odorò la soave fragranza del sacrificio offerto da Noè per ringraziare Dio
della salvezza. Le narici di Dio, sede dello sbuffare collerico di condanna, questa
volta invece si apre per aspirare il dolce profumo delle vittime immolate da Noè.
Poi ancora l’antropomorfismo del v. 21: Non maledirò più il suolo a causa
dell’uomo. Nel c. 6 avevamo letto: Dio si pentì di aver creato l’uomo e avevamo
detto che non va preso alla lettera, perché Dio non può pentirsi o maledire; Dio può
solo benedire. Sono degli antropomorfismi che usa il nostro autore.
Piuttosto qui c’è da notare che, se Dio aveva maledetto l’uomo in Gen 6
proprio perché il suo istinto lo portava al male, qui c’è la stessa motivazione (l’autore
è lo jahwista che ha giocato su questo motivo), ma per provocare la reazione opposta
di Dio; qui dice: Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo, perché l’istinto del
cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza. È la stessa cosa che aveva
provocato la decisione di annientare tutta la creazione.
Come possiamo spiegare questa cosa? lo stesso motivo che ha provocato il
diluvio ora ferma Dio, anzi gli fa dire: non lo farò più, non colpirò più ogni essere
vivente come ho fatto. Quindi stiamo tranquilli, una decreazione o un’anticreazione,
finché il mondo vive la sua vicenda, non ci sarà. Ci sarà solo la fine del mondo, dopo
basta, non lo ricrea più, perché questo appunto l’ha detto Dio.
Ciò vuol dire che Dio accetta l’uomo così com’è. Avendo capito che è così
cattivo fin dall’adolescenza, cioè ha l’istinto al male dentro di sé, decide di non
risolvere più la situazione negativa come aveva fatto prima distruggendo l’umanità,
ma di seguire un’altra strada.
Innanzitutto si manifesta ancora una volta – come tanto spesso nella Bibbia –
la misericordia di Dio. Rahămȋm : le viscere di Dio che si commuovono per
l’uomo, e che porteranno alla salvezza di tutta l’umanità nel sacrificio di Cristo, come
dirà Paolo in Rom 5,6-8: Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli
empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un
giusto… Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora
peccatori, Cristo è morto per noi.
Quindi l’uomo è comunque oggetto della misericordia di Dio, che è più grande
del peccato dell’uomo. Questo è un notevole insegnamento della Bibbia: la
misericordia di Dio è sempre più grande del peccato dell’uomo. Purtroppo la
135

corruzione dell’umanità resta un male irriducibile, Dio ne prende atto, però non è
rassegnato o rinunciatario.

Che cosa fa Dio, oltre a provare compassione per quest’uomo? Sceglie un’altra
strada per restaurare la condizione della umanità: non più la maledizione, ma la
benedizione. Però la benedizione a un uomo che lui ha scelto, che ha eletto. Ecco la
nuova strada che Dio sceglie: quella della ELEZIONE (dal latino eligere, cioè
scegliere). Sceglie un uomo, un essere umano, un popolo (il popolo di Israele),
sceglie qualcuno perché sia il tramite della sua salvezza per tutta l’umanità.
Qui abbiamo visto che Dio aveva scelto Noè, infatti lo benedice: Dio benedisse
Noè e i suoi figli (9,1). La benedizione su un uomo che Egli ha eletto e che è secondo
il suo cuore. Infatti sarà Noè e poi i discendenti benedetti da Noè (ci sarà anche
quello che sarà maledetto) via via fino (al c. 10 e al c. 11) ad Abramo, nostro padre
nella fede, che viene eletto per portare avanti la storia della salvezza.
22
Finché durerà la terra, seme e messe, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e
notte non cesseranno.
Si parla delle stagioni, dell’alternarsi del giorno e della notte. Teniamo presente che
naturalmente l’autore biblico ha una scarsissima conoscenza della meteorologia; non
si poteva sapere allora da che cosa erano provocate le stagioni; quindi per lui i cicli
stagionali non erano qualcosa di scontato, di assicurato per sempre, di regolare,
perché dipendono dai movimenti della terra. Il cosmo, secondo l’autore biblico, non è
tanto permeato di leggi fisiche, che lui ancora non può conoscere, ma intriso dello
stesso dramma dell’uomo. Nel senso che è sempre Dio che interviene; solo la
misericordia, la grazia divina possono assicurare e garantire la stabilità dell’universo,
altrimenti è il caos.
E allora il fatto che le stagioni si susseguono regolarmente, è, per lo scrittore
jahwista, il segno che JHWH guarda con bontà e misericordia la condizione umana, è
un segno del suo perdono e della sua benedizione. Certo, perché l’alternanza delle
stagioni è fondamentale per la riuscita del lavoro, per ottenere i frutti della terra, per
la sopravvivenza dell’uomo. E quindi il ritorno di questa alternanza e questa
promessa di Dio (finché durerà la terra sarà così: seme e messe, freddo e caldo non
cesseranno) è la garanzia, è l’impegno che Dio prende verso l’uomo, è il simbolo
della ritrovata armonia della creazione dopo la catastrofe del diluvio.
Non solo, ma Dio torna a pronunciare gli elementi di benedizione sugli animali
così come era stata pronunciata il 5° giorno della creazione: Siate fecondi e
moltiplicatevi. Così in 8,17: Tutti gli animali d’ogni specie falli uscire, perché
possano diffondersi sulla terra, siano fecondi e si moltiplichino. Sono quasi le stesse
parole. Come si vede, c’è sempre un nesso tra la creazione e questa ricreazione dopo
il diluvio.

Abbiamo detto che il diluvio universale non è da prendere alla lettera. Al


massimo poteva essere “universale” per loro, però non è questo che ci vuol dire.
L’autore non espone un fatto storico. Scrive un racconto didattico allo scopo di
insegnare qualcosa servendosi del materiale mitico adatto.
136

Qual era allora l’intenzione dell’autore jahwista e poi del redattore che unisce
le tradizioni jahwista e sacerdotale in questo racconto del diluvio? È quella di
utilizzare la tradizione preesistente che veniva dalla Mesopotamia (i vari poemi
sumerici, babilonesi che trattavano del diluvio), di servirsi di quei testi che erano nati
prima, nel 2.000 a.C., e che poi erano passati in Palestina, perché si prestavano molto
bene a servire come esempio della potenza, della giustizia e della misericordia di Dio,
in quanto proprio attraverso questa catastrofe universale si vede certamente la
giustizia di Dio che punisce adeguatamente il male terribile a cui era arrivato l’uomo
(abbiamo visto il crescendo: da Adamo ed Eva fino ai giganti); ma nello stesso
tempo, proprio per le proporzioni colossali di questo fatto, si vede altrettanto la
misericordia di Dio che supera l’orrore del male provocato dall’uomo e torna ad
amarlo. Così il nostro autore fa vedere che la misericordia di Dio è più grande e più
potente del male dell’uomo, tanto che fa cessare il diluvio e si serve di Noè per far
arrivare ancora il suo messaggio di vita e di salvezza agli uomini.
Difatti è evidente in tutto il racconto la netta contrapposizione di Noè rispetto
agli altri uomini e anche rispetto a tutti coloro che l’avevano preceduto. I grandi
personaggi su cui ci siamo soffermati sono: Adamo ed Eva che hanno peccato, Caino
che si adira col fratello per il suo successo e arriva ad ucciderlo, i Cainiti peccano
anche loro di fronte al successo della città, i Setiti erano caduti non solo nella
poligamia come Lamec, ma addirittura nel libertinaggio, infatti in 6,2 si legge che i
giganti presero per mogli quante ne vollero delle donne molto belle che erano lì.
Siamo ormai arrivati alla degenerazione, al libertinaggio.
Tutti questi personaggi che abbiamo esaminato (anche se non sono storici, non
vanno presi alla lettera, ecc.) fanno vedere che purtroppo di fronte alla tentazione
spesso e volentieri l’uomo cade e non sa resistere. Così Dio ricomincia da capo con
uno – Noè – che invece ha resistito alla prova.

La figura di Noè
Noè riceve da Dio il comando di fare un’arca gigantesca. A parte che le
dimensioni non vanno prese alla lettera, però certamente doveva essere ben strano
obbedire a questo ordine, perché non c’era nessuna avvisaglia di un diluvio, né dal
punto di vista atmosferico né della zona che è arida, desertica, non c’era traccia di
pioggia. E quindi sia nel deserto che sulla terra ferma a eccolo a costruire questa
strana cosa, chissà quanto hanno preso in giro Noè e i suoi! Ma lui sopporta l’ironia,
le frecciate, la presa in giro e fa tutto secondo ciò che Dio gli aveva comandato
(6,22).
Naturalmente non sa dare altra ragione se gli chiedono: ma perché fai questo?
Me l’ha ordinato Dio, io obbedisco. E quindi ci mostra una fede totale, una
sottomissione totale di un uomo obbediente in tutto, che tra l’altro non parla mai. Di
parla di lui, si dice quello che Dio dice a lui, si dice che obbedisce, però non parla
mai, è sempre muto.
Il messaggio è molto chiaro: se l’uomo obbedisce a Dio, se segue i suoi
comandi (cf. Sal 119 che è tutto imperniato sulla Legge), non gli deve pesare una
obbedienza faticosa, di tipo schiavistico, imposta, ma la sua è l’obbedienza nel senso
137

dell’amore alla Legge di Dio, alla volontà di Dio. Se si segue questa legge, questa
volontà, si è nella felicità, si è nel bene. Se invece l’uomo disobbedisce, di fatto vuole
il suo male, si autodistrugge. È proprio il messaggio che emerge da questi primi
capitoli della Bibbia, perché anche la punizione è più un far prendere atto al soggetto
– Adamo, Caino, ecc. – dell’errore che ha fatto e fargli toccare con mano come il
peccare, il cedere alla tentazione, non solo non gli ha portato quello che lui sperava –
i doni che il serpente aveva promesso ad Eva – ma gli fa addirittura perdere la sua
dignità (si accorgono di essere nudi, ecc.).
È Dio che indica a Noè le misure dell’arca, il materiale che deve impiegare,
perfino la forma della costruzione. Questo significa che chi costruisce la sua vita con
le misure di Dio, sopravviverà sempre a qualsiasi tempesta; chi invece non ascolta la
sua voce, affogherà.

Gen 9,1-7 (P)


1
Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi
e riempite la terra. 2Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie
selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto
striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere.
3
Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le
verdi erbe. 4Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo
sangue. 5Del sangue vostro anzi, ossia della vostra vita, io domanderò
conto; ne domanderò conto ad ogni essere vivente e domanderò conto della
vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello. 6Chi sparge il sangue
dell’uomo dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché ad immagine di Dio
Egli ha fatto l’uomo. 7E voi, siate fecondi e moltiplicatevi, siate numerosi
sulla terra e dominatela».

Qui ritorna la benedizione di Dio sull’uomo, su Noè e i suoi figli con le stesse
parole del primo capitolo, quello della creazione: Gen 1,28: Siate fecondi e
moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela.
In secondo luogo però notiamo una novità: Il timore e il terrore di voi sia in
tutte le bestie selvatiche. Che cosa è successo? Che anche nella nuova creazione, Dio
riconosce che ormai c’è stato uno sconvolgimento, un turbamento: la creazione è
stata turbata da un clima di violenza con cui ormai sembra dover fare i conti la
sopravvivenza dell’umanità sulla terra. Infatti non c’è più l’armonia che c’era prima
nel paradiso terrestre con gli animali. Adesso gli animali hanno paura degli uomini, e
addirittura Dio concede all’uomo di cibarsi anche degli animali, mentre in Gen.1
aveva detto che dava loro in cibo ogni erba verde.
Potremmo dire quindi che l’uccisione degli animali è una violenza – perché di
fatto lo è – tollerata da Dio perché questa però sia al servizio dei bisogni vitali
dell’uomo, cioè per cibarsi e ripararsi dal freddo con la pelle degli animali. (Certo qui
nell’attualizzazione vengono fuori dei grossi problemi: l’essere vegetariani o meno).
138

Dio però impone una condizione: 4Soltanto non mangerete la carne con la sua
vita, cioè con il sangue che tuttavia può essere utilizzato – come dice il libro del
Levitico – nei sacrifici espiatori.
Lv 17,11: Poiché la vita della carne è nel sangue, vi ho concesso di porlo
sull’altare in espiazione delle vostre vite. Perché il sangue espia, cioè purifica dai
peccati in quanto è la vita. È noto il senso sacro che hanno gli Ebrei del sangue. I
testimoni di Geova, interpretando alla lettera questo versetto, rifiutano di fare le
trasfusioni.
Ricordiamo però che fu anche il Concilio di Gerusalemme a stabilirlo, nel 15
d.C. Quindi di per sé dovrebbe valere anche per noi cristiani, anche se poi la cosa si è
persa, perché la nostra cultura era di tipo diverso, era occidentale. E’ la famosa
macellazione kashèr, che tuttora gli Ebrei fanno, cioè quella di non soffocare gli
animali in modo che resti il sangue, ma di ucciderli in modo da far uscire tutto il
sangue (anche i musulmani fanno così, non dimentichiamo che ci sono molti elementi
in comune fra ebrei e musulmani).
Qui c’è chiaramente l’ordine di non mangiare il sangue. Il sangue è il simbolo
della vita. La vita è di Dio, la vita è sempre dono di Dio. E quindi, nonostante l’atto
di violenza compiuto nell’uccidere l’animale per cibarsene (non il gusto di uccidere
per uccidere), la vita resta sacra e dono di Dio.
Astenersi dal sangue significa che l’uomo, ogni volta che mangia carne di
animali, deve sapere, deve ricordarsi che comunque non può depredare, non può
mangiare gli animali come se fossero cosa sua, ma ricordarsi che la vita appartiene a
Dio e che gli è concesso questo solo in vista del suo nutrimento.
Vediamo i due estremi del rischio che si corre nel rapporto con gli animali, e
cioè equipararli agli uomini, quindi esagerare nell’attenzione (adesso poi si parla
addirittura di veterinari dietologi e di psicologi per i cani e i gatti!) e dall’altra parte
invece considerare gli animali alla stregua di cose inanimate, quindi torturarli,
maltrattarli (è il cosiddetto “specismo”). Ci vuole il rispetto. Gli animali sono
creature di Dio e quindi chi maltratta o tortura un animale fa un’offesa a Dio.
Nello stesso tempo l’animale è sottomesso all’uomo, come abbiamo letto qua.
Perché Dio ci ha dato gli animali? per nutrircene, per coprirci, per rallegrare la nostra
vita. Questo è giusto e bello. Ci sono persone depresse che, occupandosi di un cane o
di un gatto, riescono a risollevarsi. Anche per i bambini disabili si possono fare cose
straordinarie con gli animali, perché sono creature di Dio.
Comunque il concedere all’uomo di cibarsi anche di ciò che ha la vita e il
sangue, è un segno che la situazione dell’uomo (pur salvato, perdonato e ancora
benedetto da Dio) è diversa dalla condizione originaria ideale. In pratica questa non
durò neppure lo spazio di un mattino, cioè è un’idealizzazione che l’autore ha fatto
sulla scorta dell’esperienza negativa, immaginando un paradiso terrestre e una
situazione degli uomini al contrario di quella che sperimentava, e quindi idilliaca.
5
Del sangue vostro io domanderò conto; e a ognuno domanderò conto di suo fratello.
Qui troviamo un altro comandamento che già avevamo visto con Caino, cioè il
divieto di uccidere l’essere umano. L’omicidio si può ricollegare con il discorso della
139

pena di morte che facemmo la volta scorsa. Noi siamo custodi dei nostri fratelli e
delle nostre sorelle.

Gen 9,8-17: l’alleanza


8
Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: 9«Quanto a me, ecco io stabilisco la
mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi; 10con ogni
essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e bestie selvatiche, con tutti
gli animali che sono usciti dall’arca. 11Io stabilisco la mia alleanza con voi:
non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio, né più il
diluvio devasterà la terra».
12
Dio disse: «Questo è il segno dell’alleanza che io pongo tra me e voi e
tra ogni essere vivente che è con voi per le generazioni eterne. 13Il mio arco
pongo sulle nubi ed esso sarà il segno dell’alleanza tra me e la terra.
14
Quando radunerò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi
15
ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e tra ogni essere che vive in
ogni carne e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni
carne. 16L’arco sarà sulle nubi e io lo guarderò per ricordare l’alleanza
eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra».
Disse Dio a Noè: «Questo è il segno dell’alleanza che io ho stabilito tra me
e ogni carne che è sulla terra».

Oltre alla benedizione e al perdono, qui c’è addirittura da parte di Dio (è lui
che si impegna unilateralmente) il discorso di una alleanza, il rinnovo della berȋt =
alleanza o patto. Il termine berȋt ricorre ben sette volte in questo brano, questo è
importante per individuare il tema che sta a cuore all’autore, il tema più importante.
“La mia alleanza”: insiste sul fatto che è Dio a volerla, è lui che ne fissa
sovranamente i contenuti, e si impegna lui per primo – in forma assoluta e
incondizionata – a rispettare.
E poi la controparte di Dio, che sono non solo Noè e i suoi, cioè i giusti, ma
tutta l’umanità e le generazioni future. Questo è bellissimo. Ci sarà un’altra alleanza
che Dio stabilirà con Abramo e i suoi discendenti (e quindi il popolo di Israele e noi
che discendiamo da Abramo, nostro padre nella fede), ma questa alleanza che
precede l’altra è un’alleanza con tutta l’umanità. Ciò vuol dire che il messaggio di
salvezza di Dio è per tutti, deve in qualche modo arrivare a tutti, tramite il suo popolo
– ebrei, cristiani – ma appunto universale. Questa alleanza sì che è universale (più
che il diluvio!), perché la controparte è tutta l’umanità, è ogni essere vivente uscito
dall’arca. Il popolo eletto sarà scelto non per escludere, ma come segno e benedizione
per tutti i popoli sui quali Dio ha già steso il suo piano di salvezza universale e
gratuita.
L’impegno che Dio si prende è quello di non distruggere più la terra con il
diluvio, anche se sa che l’uomo continuerà a fare il male, come è detto in 8,21.
Dio pone il segno dell’arcobaleno. Qua troviamo l’apporto delle culture
circostanti e dei relativi miti, perché anche nei popoli vicini l’arcobaleno era
140

l’immagine della pace tra le divinità e gli uomini, perché è il segno che Dio depone il
suo arco, cioè non combatte più con l’uomo, non lancia più le frecce, ma depone
l’arco, si disarma. Questa suggestiva immagine dell’arcobaleno ha sempre colpito gli
uomini, anche perché si accompagna alla cessazione di fulmini, piogge, disastri
meteorologici. E quindi Dio adotta questo segno come ricordo, come simbolo della
sua alleanza. Poi il bello è che dice che è un segno soprattutto per lui, che quando lo
vedrà, si ricorderà di questa alleanza che ha promesso e garantito agli uomini e non
interverrà più a punirli.

Gen 9,18-19
18
I figli di Noè che uscirono dall’arca furono Sem, Cam e Iafet; Cam è il
padre di Canaan. 19Questi tre sono i figli di Noè e da questi fu popolata
tutta la terra.

Questi due versetti costituiscono la conclusione della storia del diluvio e il


passaggio alla tavola delle nazioni (c. 10), cioè tutti i discendenti che ripopoleranno
tutta la terra. Se il diluvio non è stato fisicamente universale, sta di fatto però che il
redattore finale del testo, che ha unito le due tradizioni jahwista e sacerdotale, lo
presenta con una terminologia che invece è certamente universale, perché egli vuol
far vedere questa globalità. Il diluvio ha colpito l’intera terraferma, ha distrutto tutti
gli esseri viventi, eccetto Noè e i suoi animali nell’arca, e ora che c’è stato il diluvio,
il mondo viene di nuovo ricreato.
Dunque c’è stato un mondo, l’era di prima, e ne incomincia uno nuovo; e Noè
è la cerniera, il punto di passaggio tra questo mondo vecchio che muore e il mondo
nuovo che rinasce; ed è reso da Dio degno di essere l’inizio di tutta una nuova razza,
la nostra, e quindi davvero è una sorta di secondo Adamo dell’umanità.
Enzo Bianchi ha delle riflessioni veramente interessanti: lui estrae come
insegnamento perenne, generale da questa pagina che abbiamo letto, il fatto che
anche le disgrazie, le catastrofi più gravi non devono abbatterci completamente. Il
cristiano non può chiudersi in se stesso, rifiutare la vita anche dopo le tragedie più
grandi, come può essere la perdita di un familiare. Certo soffre indicibilmente, fa il
lutto, ma poi questo lutto deve rielaborarlo, perché la vita va avanti. Nessuna tragedia
può abbattere completamente tanto da non vivere più, come purtroppo si sa di alcune
persone che però non hanno questa speranza cristiana. Enzo Bianchi diceva: Nei
momenti di maggior sconforto io vado a rileggermi proprio questa pagina biblica in
cui Dio benedisse Noè e i figli, e dice: siate fecondi.
Nonostante il più grande flagello, il turbamento della natura, i dolori che
possono coglierci a causa della malvagità dell’uomo, Dio ci è vicino. Il bene di Dio,
il perdono, la misericordia e la compassione di Dio è sempre più grande di qualsiasi
tragedia che possa abbattersi su di noi.
141

Analisi e commento di Gen. 9,20-27: il peccato di Cam


20
Ora Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna.
21
Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua
tenda. 22Cam, padre di Canaan, vide il padre scoperto e raccontò della cosa
ai due fratelli che stavano fuori. 23Allora Sem e Iafet presero il mantello, se
lo misero tutti e due sulle spalle e, camminando a ritroso, coprirono il
padre scoperto; avendo rivolto la faccia indietro, non videro il padre
scoperto.
24
Quando Noè si fu risvegliato dall’ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il
figlio minore; 25allora disse: «Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi
sarà per i suoi fratelli!».
26
Disse poi: «Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo!
Dio dilati Iafet e questi dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo
schiavo!».

È un episodio un po’ strano, un po’ curioso. Notiamo intanto che Noè,


capostipite della neonata umanità, fa l’agricoltore, quindi ritorna alla destinazione
originaria dell’uomo che era quella di coltivare e custodire il giardino (cf. Gen 2,15 e
Gen 3,23).
Questo ritorno all’agricoltura viene dopo che c’è già stato nel c. 5 lo sviluppo
delle arti e dei mestieri, che hanno marciato di pari passo con l’espansione, ma
purtroppo anche con la corruzione dell’umanità. E ora la prima azione che Noè
compie nel mondo ricreato, nel mondo nuovo, la prima attività nel mondo post
diluviano (che rende l’uomo di nuovo imitatore dell’attività di Dio in Eden -Gen 2,8:
Dio piantò un giardino in Eden) è piantare la vigna.
Se Adamo col suo peccato aveva portato la sofferenza e la sterilità sulla terra
(Gen 3,18: Spine e cardi produrrà per te il suolo), Noè invece con la sua bontà, la
sua obbedienza, il suo camminare secondo Dio, porta il sollievo e la consolazione nel
mondo, perché il vino che si ricava dalla vigna è una bevanda piacevole. Infatti Noè
si ubriaca. Questo ci può sembrare un po’ strano. Come mai? Certamente ha trovato
buono il vino e l’ha bevuto, un po’ troppo. Enzo Bianchi dice: non so se essere
d’accordo o no e lo spiega così: intanto è proprio dell’uomo in situazione di grande
difficoltà cercare conforto in qualcosa, che può essere anche il vino. Il vino è sempre
stato fonte di conforto e consolazione. Tra l’altro notiamo che il nome “Noè”
significa anche “consolazione”, oppure può significare “riposo”. Dice Enzo Bianchi:
Noè era un giusto che camminava con Dio, che obbediva, ma talmente traumatizzato
dalla catastrofe del diluvio che, forse per portarne il peso, ogni tanto beveva il vino.
Comunque la Bibbia dice che quest’uomo si è ubriacato e conseguenza della
sbornia è che giacque scoperto all’interno della sua tenda. (ricordiamo che il
mantello, che di giorno serviva per coprirsi, era anche la coperta di notte). Quindi
Noè in preda ai fumi dell’alcool, si dimentica di coprirsi.
142

Lo vide Cam, il figlio minore, che raccontò ai fratelli la cosa. I due invece non
guardano, ma lo coprono. E qui la reazione di Noè quando si riprende dall’ebbrezza:
maledice in modo terribile Canaan, il figlio di Cam (come già sapevamo da 9,18:
Cam è il padre di Canaan). Solo di Cam aveva detto che aveva un figlio. Questo
episodio risulta un po’ strano.
«Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!». Perché deve
maledire il figlio di Cam e non lui? Come sempre c’è una questione di testo ebraico:
nell’ebraico non c’è scritto che Cam vide il padre scoperto o nudo – come traduciamo
noi – ma che vide “la nudità di suo padre”, ‘erwat ’ābȋw. Ora ‘erwāh = nudità,
ricorre ben 30 volte nel libro del Levitico e fa sempre un esplicito riferimento ai
rapporti sessuali.
L’interpretazione di Enzo Bianchi è: c’è stato un incesto di Cam con il padre. E
questo naturalmente sarebbe molto grave. Ma non è così, perché nella Bibbia quando
si proibisce di vedere la nudità di un uomo, non si intende tanto proibire dei rapporti
sessuali con lui, specialmente da parte di un uomo (visto che era sottinteso che
l’omosessualità non era assolutamente neanche da pensare, era totalmente vietata),
ma si proibisce di avere rapporti con la moglie di lui. Quando si dice che vide la
nudità dell’uomo, vuol dire che desiderò o che ebbe rapporti sessuali con la moglie
dell’uomo. Così leggiamo in Levitico ai cc. 18 e 20 (si spiega sempre la Bibbia con la
Bibbia).
Ecco dunque il peccato di Cam: mentre il padre era ubriaco, egli giacque con la
madre, ebbe un rapporto incestuoso con lei. E quando Noè, riavutosi dall’ebbrezza, se
ne accorse, lanciò questa terribile maledizione, perché suo figlio aveva commesso
uno dei peccati più gravi, più aberranti per la Bibbia: l’incesto.
Ecco perché non maledice il figlio, ma il futuro nipote. Intanto perché Cam era
già stato benedetto da Dio quando era uscito dall’arca coi fratelli (Gen 9,1: Dio
benedisse Noè e i suoi figli) e poi perché la maledizione cade soprattutto sul frutto
dell’incesto: sul figlio di Cam, che è Canaan.
Quanto ai fratelli, abbiamo letto: Cam raccontò della cosa ai due fratelli, si
capisce che si tratta di un invito esplicito ai due fratelli perché facciano con la madre
la stessa cosa che aveva fatto lui. Ma essi non videro la nudità del loro padre, perché
entrarono nella tenda a ritroso. Questa è l’immagine per far capire che i due fratelli si
rifiutarono di fare la stessa cosa che aveva fatto Cam, cioè coprirono la madre della
nudità e non commisero incesto con lei. Per questo poi Noè li benedice.
A questo punto viene spontaneo chiedersi: come mai la Bibbia ha conservato il
ricordo di un peccato che in fondo riguardava la famiglia di Noè e le loro questioni
private? La risposta è data dal fatto che i tre figli di Noè non sono soltanto i suoi tre
figli, ma sono – secondo la mentalità semitica – i capostipiti, gli antenati, gli eponimi
delle tre grandi stirpi da cui dovevano derivare tutte le popolazioni, che, come dice il
c. 10, avrebbero ricoperto di nuovo tutta la terra.
Sem infatti era l’antenato del Semiti, cioè di tutte le popolazioni della
Palestina, della Mesopotamia, della zona orientale. Jafet era l’antenato dei popoli del
nord e dell’ovest di Israele, cioè dell’Asia Minore e delle isole del Mediterraneo, tra
cui i famosi Filistei (Jafet = Filistei) che gli Israeliti non riuscirono mai a sottomettere
143

(a parte l’episodio di Davide e Golia). I Filistei furono sempre nemici di Israele. Cam,
padre di Canaan, era il capostipite dei popoli del sud, cioè l’Egitto con i suoi dintorni
e le sue zone di influenza. Da Cam e da Canaan, ovviamente, discendevano i
Cananei, che erano i grandi nemici di Israele che gli Ebrei effettivamente sottomisero
quando conquistarono la terra promessa. Infatti la maledizione diceva: Sarai schiavo
dei tuoi fratelli.

Questo brano infatti rientra in un certo genere letterario (= l’insieme di testi


che presentano caratteristiche simili nei contenuti e nello stile): le benedizioni e le
maledizioni di carattere politico, che ha lo scopo di mostrare come le sorti delle tribù
sono in un certo senso predeterminate dalla benedizione o maledizione dei rispettivi
eponimi (l’eponimo è il personaggio da cui prende il nome una famiglia, una città o
una popolazione).
Ora, quando Israele si impossessò della terra promessa (cosa che era già
avvenuta quando lo scrittore scrive), che allora si chiamava Canaan, sconfisse i suoi
abitanti – i Cananei - , conquistò e schiavizzò il popolo e la narrazione di questi fatti
sta nel libro di Giosuè al c. 24.
Quanto ai Filistei, che gli Israeliti non riuscirono mai a dominare, gli Ebrei si
chiesero effettivamente a lungo perché mai i Filistei rimanevano nella terra che era
stata promessa agli Ebrei. Finché riflettendo, ispirati da Dio, trovarono la risposta a
questa domanda in questo modo: i Filistei rimasero nel paese non perché Dio non
potesse scacciarli (è noto che tutta la conquista è vista sotto la guida di Dio
considerato come guerriero), ma perché questa era stata la volontà di Dio fin
dall’inizio, cioè Dio aveva disposto che anche i Filistei avessero una parte di terra
promessa.
Solo i Cananei storicamente, a causa dei peccati abominevoli di cui si
macchiavano (i riti di fertilità, i pali sacri, le orge) dovevano essere ridotti in
schiavitù e perciò sottomessi ai popoli cui dovevano essere consegnati.

Quindi questo episodio nella Bibbia ha questa funzione: non tanto per il
racconto dell’incesto, ma per la valutazione di carattere politico. Il diluvio era il
prototipo di tutte le catastrofi e fu scritto proprio per spiegare (e ancora troviamo la
famosa “eziologia metastorica”, cioè la ricerca delle cause al di là della storia) la
situazione che era già presente nella storia di Israele, cioè la schiavitù dei Cananei e
la sopravvivenza dei Filistei a dispetto delle originarie idee e aspettative che avevano
gli Israeliti.

Attualizzazione: la questione del monogenismo e poligenismo

Tutti discendiamo da una sola coppia – Adamo ed Eva – oppure da più coppie?
Il problema si pone per la questione del “peccato originale”. Fino al secolo scorso si
interpretava alla lettera la Bibbia e si diceva: il peccato originale si è trasmesso
fisicamente e teologicamente da Adamo ai suoi discendenti; chiaramente derivava di
144

conseguenza che per la Bibbia non poteva esserci stata che un’unica coppia
all’origine dell’umanità.
Dal punto di vista scientifico però la cosa non regge, perché sono stati trovati
resti di uomini preistorici in punti diversi della terra e sono localizzati più o meno
nello stesso periodo. Allora, dapprima la Chiesa difendeva il monogenismo, secondo
cui l’intero genere umano deriva da un’unica coppia, però senza un chiaro
fondamento nella Bibbia che parla di Adamo sia come persona singola, sia come
persona corporativa (cioè l’emblema dell’uomo in quanto tale); dunque il
monogenismo non è una dottrina definita. Tuttavia essa viene insegnata dal
Magistero della Chiesa perché in caso contrario (accettando cioè il poligenismo)
sembrerebbero minacciate l’unità della storia della salvezza e soprattutto la dottrina
del peccato originale, così come era intesa prima delle più recenti interpretazioni.
Però la teologia non ritiene cogente sostenere questo, cioè non è un dogma,
non è una dottrina. Anzi si pensa che si possa conciliare (oggi come oggi con i
risultati ultimi dell’interpretazione esegetica della Bibbia e quindi anche del peccato
originale) anche con il poligenismo, che è il contrario del monogenismo, cioè la
dottrina secondo cui il genere umano deriva da più coppie.
Infatti nella “Humani generis” (1950) il poligenismo viene condannato perché
non appariva conciliabile con il peccato originale. Oggi la teologia, con una migliore
ermeneutica delle fonti bibliche, ha proposto diverse ipotesi per spiegare il peccato
originale senza necessariamente ricorrere alla dottrina del monogenismo. Quindi non
esistono più le ragioni che portavano Pio XII con l’Humani Generis nel 1950 a
sostenere il monogenismo.
In un articolo del 3 maggio 2000 si legge: “Ecco il DNA di Adamo ed Eva: erano
africani, 18 donne e 10 uomini progenitori di tutte le razze. Al 2000 hanno
individuato nei vari punti della terra questi uomini e queste donne all’origine delle
varie razze. Tutto questo è possibile ricostruire grazie al genoma umano, una vera e
propria miniera d’oro che fa luce sulla preistoria. E quindi, guardando il DNA dei
resti preistorici, tutti i gruppi etnici discendono da 18 progenitori femminili e 10
maschili, eredi di un’era primordiale vissuta nel cuore dell’Africa nera 150.000 anni
or sono. Esattamente nella famosa fossa dove c’è l’Etiopia. Sull’altopiano etiopico
c’è una fossa e pare che sia stata lì l’origine della razza umana dal punto di vista
scientifico”

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

GENESI 1-11 9° lezione Milano, 15 dicembre 2004

LA TORRE DI BABELE

Gen. 11
145

Gen 11,1-9
1
Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. 2Emigrando
dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi
si stabilirono. 3Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e
cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da
cemento. 4Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui
cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la
terra». 5Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini
stavano costruendo. 6Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e
hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto
avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. 7Scendiamo dunque e
confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua
dell’altro». 8Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di
costruire la città. 9Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore
confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la
terra.

Da una prima lettura si vedono delle incongruenze:


 l’ultimo versetto del c. 10 dice: Queste furono le famiglie dei figli di Noè
secondo le loro generazioni, nei loro popoli. Da costoro si dispersero le
nazioni sulla terra dopo il diluvio (Gen 10,32). Qui invece nel c. 11 abbiamo
letto: 1Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Allora qui o è
saltato un pezzo oppure che cosa è successo?
 Inoltre in Gen 4,17 avevamo letto che Caino costruisce la prima città e la
chiama Enoc, come suo figlio. Ma anche qui in Gen 11 sembra che questa sia
la prima città che viene costruita, perché questi uomini che si sono trasferiti
dall’oriente dicono: facciamo una città.
 Ancora in Gen 10,6-10, nella genealogia, si diceva che Nimrod regna a
Babilonia. In Gen 11 invece la costruzione della città è interrotta: cessarono di
costruire la città.
 E poi in 11,4 compare una torre, perché dice costruiamoci una città e una
torre, ma poi non si parla più di “torre”, si dice il Signore scese a vedere la
città e la torre, ma dopo si parla solo di “città”.
Come spiegare tutte queste incongruenze? Si tratta di due racconti che poi vennero
fusi insieme. Nel primo si celebrava con ammirazione ed entusiasmo la costruzione di
una città che era un po’ il simbolo di tutta la civiltà e del progresso umano. Invece nel
secondo si raccontava lo sforzo di tutto un popolo pio per costruire una ziqqurat o
torre religiosa. Era un edificio religioso assai comune in Mesopotamia. Ne sono stati
trovati dagli archeologi almeno una trentina, purtroppo non completi, perché restano
solo le rovine. Però si può intuire che ogni città aveva la sua ziqqurat.
Dunque abbiamo due racconti che celebrano una città e una torre. In origine abbiamo
questi due racconti che parlano di questi due elementi, ma senza parlare di intervento
divino e di castigo.
146

Vediamo ora come da questi due racconti originari siamo arrivati a quello che
abbiamo letto.
I due racconti nacquero probabilmente a Babilonia, nella Mesopotamia. Da che cosa
lo si capisce? Dai materiali usati per la costruzione, perché si parla di mattoni cotti al
sole e di bitume. Perché in Babilonia che è una zona alluvionale, non si trovava in
abbondanza né legname né pietra, come invece si trova in Palestina. E quindi
dovevano proprio fabbricarsi il materiale da costruzione.

Si parla di questa Babilonia che effettivamente era una grande città del mondo
antico. Con ogni probabilità le cose sono andate così (cfr. “Cosa sappiamo della
Bibbia”, vol.4°,p.30): c’erano questi due racconti babilonesi che incominciavano ad
essere diffusi anche al di fuori di Babilonia e quindi vennero conosciuti anche dagli
Ebrei, che invece erano nomadi beduini, perché avevano fatto la traversata del
deserto di ritorno dall’Egitto. Questi nomadi provavano un certo disprezzo per le
grandi città e per la loro vita, perché si trattava di un potere della città piuttosto
oppressivo che sfruttava diverse popolazioni.
Quindi agli Ebrei nomadi o comunque con una forte esperienza di nomadismo,
la vita della grande città (della metropoli con le sue vicende, col miscuglio di popoli,
difficoltà di comunicazione) apparvero come una maledizione, un castigo di Dio per i
peccati. Infatti questa città era stata fondata da Nimrod, che era un discendente di
Cam, quello maledetto dei tre figli di Noè.
Allora questi due racconti cominciavano ad assumere un altro significato: non
tanto la celebrazione della città e della torre come in origine, ma la città vista come
segno di idolatria e di orgoglio. E infatti, una volta trasformati, i racconti risultavano
così composti:

Testo A Testo B
1
Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole.
2
Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una
pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono.
3a
Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco».
3b
Il mattone servì loro da pietra e il bitume da
cemento.
4a
Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città
4b
e una torre, la cui cima tocchi il cielo
4c
e facciamoci un nome,
4d
per non disperderci su tutta la terra».
5
…la città…
5
Ma il Signore scese a vedere……la torre che gli
uomini stavano costruendo.
6a
Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola;
147

6b
questo è l’inizio della loro opera e ora quanto
avranno in progetto di fare non sarà loro
impossibile.
7
Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno
la lingua dell’altro».
8
Il Signore li disperse di là su tutta la terra
8b
ed essi cessarono di costruire la città.
9
Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la
terra
9b
e di là il Signore li disperse su tutta la terra.

Nel racconto A si narrava di un gruppo di uomini che decidono di costruire una


città per diventare famosi, per avere un punto di riferimento ben preciso e poi, mentre
stanno realizzando questa impresa, Dio interviene scendendo dal cielo e confondendo
le loro lingue.
Nel racconto B si diceva: alcuni cittadini, che avevano paura di allontanarsi
troppo e di perdere i contatti con gli altri, per mantenersi uniti, decidono di costruire
una torre: costruiamoci una torre, la cui cima tocchi il cielo. Questi insistono di più
sulla torre, enorme, altissima, che si possa vedere da molto lontano e che sia quindi
un punto di sicurezza per non disperdersi.
Anche qui però si dice (nel racconto rielaborato dagli Ebrei) che JHWH scende
e li disperde.
Anche lì quindi si interrompe la costruzione della torre che gli uomini stavano
costruendo.
Poi con il tempo, questi due racconti che erano arrivati in terra di Israele ed erano
stati trasformati con l’aggiunta dell’intervento di JHWH (perché si era visto nella
città un simbolo negativo), vennero uniti, e in questa forma si tramandarono di padre
in figlio in tutto il periodo del nomadismo di Israele.
Qui si voleva indicare la superiorità del Dio degli Ebrei, che domina, che
interrompe la costruzione della città e della torre. Quindi il messaggio è: JHWH è
superiore alle altre divinità per le quali era stata costruita la città (ovviamente era
Marduk, erano gli dèi babilonesi).
Poi, quando il popolo di Israele arrivò in Palestina – intorno al 1.100 a.C.,
portarono con loro anche questa leggenda popolare tra le loro tradizioni e vi facevano
vedere questo Dio potente che castiga gli idolatri e ne conoscono il Nome, perché
ormai avendo fatto l’esperienza dell’Egitto e dell’esodo, attraverso Mosè hanno
ricevuto la rivelazione del nome di Dio (Es 3). Nel testo originale Gen 11,5 c’è
proprio JHWH.
Allora questo episodio entra a far parte delle tradizioni orali, che il popolo
ebraico trasmetteva di generazione in generazione per far crescere la fede in JHWH,
finché venne trovato e messo per iscritto al tempo di Salomone (10° sec. a.C.)
dall’autore jahwista, il quale pensò di servirsi di questo racconto e quindi di inserire
degli elementi suoi per concludere tutto il discorso che aveva portato avanti nei primi
capitoli di Genesi. Quindi, come aveva dimostrato che il peccato dell’uomo (il
148

peccato di autonomia e di orgoglio) lo porta a staccarsi da Dio e quindi a


sperimentare il negativo, il male, la sofferenza, così anche questo episodio poteva
dimostrare che pure la comunità sociale e politica, se si stacca da Dio, se vuole fare
tutto a prescindere da Dio, si disintegra e si spezza.

Analisi e commento di Gen 11,1-9: la torre di Babele

Il c. 10 si era concluso mostrando come nell’ambito della grande tavola dei


popoli si era creato un legame di fratellanza universale, un atteggiamento di serenità e
di pace che sembrava aver fatto dimenticare la tragica storia umana dei capitoli
precedenti, cioè abbiamo nella terra popolazioni diverse, differenziate nella cultura e
nelle lingue.
Invece con l’inizio di questo capitolo ricompare quell’inclinazione al male
nell’uomo che Dio aveva già riconosciuto in lui fin dall’adolescenza; Gen 8,21: Non
maledirò più il suolo perché l’uomo è incline al male fin dall’adolescenza, è quando
Dio decide di cambiare la sua strategia.
Qui abbiamo invece ancora il peccato dovuto alla malvagità del cuore umano,
commesso però non da un singolo individuo, ma da un gruppo, da una comunità
umana organizzata in società. Questo vuol dire che esistono anche peccati non
individuali, dei mali di cui non si può individuare un preciso responsabile, un singolo,
ma dovuti a tante persone. Sono i cosiddetti “peccati sociali”, spesso legati alle
strutture sociali che l’uomo si è dato e che comportano difficoltà, guai, mali,
sofferenze, non solo a un singolo, ma a interi popoli.
Qui il nostro autore vuole rispondere a degli interrogativi, e cioè: Se, come dice
la Bibbia, tutti gli uomini e tutti i popoli sono figli di Dio (e quindi dovrebbero essere
fratelli, cf. Gen 4), perché parlano delle lingue diverse e tra loro incomprensibili?
Perché questa incapacità di capirsi spesso sfocia in conflitti e guerre? Perché spesso
vediamo stati e città che vogliono prevaricare sugli altri o addirittura sempre divisi e
nemici tra di loro? Insomma perché c’è questo istinto negativo di imporsi agli altri? O
addirittura questo orgoglio umano che vuole sostituirsi a Dio?
Possiamo dire di avere qui una sorta di “peccato originale” a livello sociale,
addirittura anche a livello internazionale, quindi in un ambito molto più allargato
rispetto al peccato di Caino, che invece poteva essere considerato una sorta di
“peccato originale” all’interno della famiglia, come quello di Adamo era il primo
peccato dell’uomo che pecca di orgoglio nei confronti di Dio.
Il nostro autore si è servito di questi due racconti, che poi erano stati uniti, per
rispondere a questi interrogativi. E comincia dicendo: Tutta la terra aveva una sola
lingua e le stesse parole.
Analizziamo questi tre elementi. Tutta la terra è un’espressione per dire “tutta
l’umanità”, tutti gli uomini. Detta così, sembrerebbe una cosa positiva; ma non è così
come sembra, perché nell’originale il v. 1 inizia dicendo: “Tutta la terra fu un labbro
solo”. È un’espressione idiomatica, cioè propria di una certa lingua; infatti è
un’espressione frequente nelle lingue semitiche; ne troviamo molti paralleli nei testi
149

politico-militari assiro-babilonesi. E quando di dice “aveva una sola lingua, una sola
parola, una sola bocca”, vuol dire non tanto che c’era un’unica lingua uguale parlata
da tutti, ma un popolo di uno stesso sentimento che gode di un governo centrale, che
venera uno stesso dio nazionale, e quindi indica questa unità politica prima di tutto.
Le stesse parole: poiché in ebraico dābār vuol dire sia parola sia fatto, qui potremmo
tradurre non con “parole” ma con “le stesse imprese”, avevano uguali imprese. E
quindi costituivano una civiltà uniforme, uniformata, un’unica opera culturale.
Ora questa unità non era stata raggiunta pacificamente con un accordo previo
preso tra pari, ma era stata raggiunta perché uno aveva prevaricato sugli altri; cioè la
parola unica, la cultura unica, la nazionalità unica è quella del più forte, del padrone,
che si è imposto sugli altri e ha imposto unicità di lingua e di cultura.
E questo come facciamo a dirlo? Lo sappiamo perché già in Gen 10,8 si
leggeva che Nimrod, uno dei discendenti, cominciò a essere potente sulla terra.
Nimrod, discendente del maledetto Cam, aveva costituito a Babele il primo regno
universale. Ma aveva costituito questo regno a prescindere da Dio, rifiutando Dio,
credendo di avere lui tutto il potere. Infatti discendeva da un personaggio che era
stato maledetto. Quindi l’autore biblico ci dice tutto il giudizio negativo su questa
azione, su questa impresa di Nimrod, che aveva costituito questo grosso impero.
2
Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e
vi si stabilirono.
“Sennaar” è un nome che indica probabilmente la regione di Sumer cioè dei Sumeri,
che è la parte meridionale della Mesopotamia, dove fiorì la splendida civiltà dei
Sumeri.
Qui sono usati tre verbi tipici del passaggio dalla cultura nomade a quella sedentaria:
o “emigrare” (emigrando dall’oriente),
o “trovare”; qui la CEI ha tradotto gli uomini capitarono, in realtà in ebraico c’è
il verbo māsā’, cioè trovarono questo luogo;
o vi si stabilirono: jāšab.
Teniamo presente che un antico traduttore aramaico aveva tradotto il v. 1: Gli uomini
di comune accordo si alzarono per ribellarsi. Quindi aveva intuito ed espresso più
chiaramente la realtà di questa nazione tutta unita; in realtà era un progetto nato in
contrapposizione a Dio per ribellarsi, cioè non avevano accettato la divisione della
terra fatta fraternamente secondo il progetto divino. Dio aveva creato dei popoli
differenziati, perché la creatività di Dio è immensa. Dio non ama l’uniformità, ama la
diversità nella concordia. Questo era il suo progetto.
Invece questi uomini vogliono radunarsi nella più grande pianura esistente,
quella di Sennaar e fare un’impresa comune e imporre il loro modello fattuale a tutti
gli altri uomini. Infatti anche nel capitolo precedente si era notato che Nimrod,
fondatore di Babele, da quella città si spostò ad Assur e costruì Ninive e altre città
(cf. Gen 10,11). E anche qua si sottolinea la ribellione al volere di Dio.
Ecco perché alcuni dicono che, anziché intitolare questo episodio “La torre di
Babele”, come vediamo anche nella traduzione della CEI, sarebbe meglio intitolarlo
“La città con una torre nel suo centro”, visto che gli uomini scelgono di dimorare
150

proprio una grande città piuttosto che stare nelle diverse località, nei diversi villaggi,
come aveva stabilito Dio; quindi sarebbe il caso di mettere in rilievo nel titolo la città,
l’urbanizzazione.
3a
Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco».
Questo discorso del materiale edilizio facciamoci mattoni, cuociamoli al fuoco, e poi
si parla ancora di mattoni e di bitume, ci fa capire che questo racconto, in particolare
il racconto A (dove appunto si parla di questo, mentre in B si parla solo della torre e
non del materiale edilizio) faceva parte di un particolare genere letterario (si chiama
così l’insieme di testi che presentano caratteristiche simili nel contenuto e nello stile).
C’era un genere letterario babilonese chiamato “della ziqqurat”, cioè della
torre. E il v. 3b che spiega: 3bIl mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento, è
probabilmente una nota esplicativa aggiunta dall’autore che sente la necessità di
spiegare ai suoi lettori ebrei l’uso seguito dai Babilonesi, cioè i mattoni invece di
pietre e il bitume al posto della calce. Questo perché la Mesopotamia, come dice la
parola stessa, essendo una terra tra due fiumi, era costituita da materiale alluvionale,
era una regione costituita dai detriti deposti dai fiumi ed era priva di legname, pietra e
metalli, che invece si trovavano in Israele. Per le costruzioni si poteva solo disporre
di argilla, canne e bitume, che servivano per le modeste abitazioni della gente, mentre
per la costruzione di mura, torri e templi, il materiale edilizio veniva per lo più
importato dalla Siria e dall’Egitto, oppure costruito con l’argilla, cuocendo i mattoni.
4a
Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo.
Anche qui troviamo tre elementi tipici del genere letterario babilonese:
- il consiglio dei lavoratori che si consultano,
- il piano di costruzione su come doveva essere la città e la torre
- l’approvazione degli dèi.
1. Qui però il consiglio non è tanto ricercato come nell’ambiente assiro-
babilonese dalla divinità, ma è reciproco, cioè gli uomini si parlano tra di loro e
dicono “venite, costruiamoci”, quasi per darsi coraggio reciprocamente a compiere
questa mastodontica costruzione. E questo “costruiamoci” sottolinea proprio che
la costruzione sarà esclusivamente per coloro che si accingono a farla, cioè a loro
vantaggio.
2. Il piano di costruzione appare invece analogo a quello dei paralleli
babilonesi, cioè fondare una città con la sua ziqqurat.
3. Il terzo elemento, l’approvazione degli dèi, qui ovviamente non
compare, visto che il testo è polemico nei confronti di questa impresa.
Cos’è che si vuole costruire? Una città e una torre. Qui naturalmente viene
subito da chiedersi: saranno simboliche o saranno storiche? Sono realmente esistite
questa città e questa torre? Pare proprio di sì. Da vari commentari risulta che si tratta
di una città e una torre realmente esistite. La città è Babilonia e la ziqqurat, detta
Etemenanki, era la torre che si trovava in ogni città a quell’epoca.

La città di Babilonia
151

Babele o Babilonia è una megalopoli, un’enorme città che si trovava


sull’Eufrate a circa 80 km a sud dell’odierna Bagdad. Secondo Gen 10,10 fu fondata
da Nimrod, discendente di Cam, come capitale del suo regno; mentre la tradizione
religiosa babilonese attribuiva la sua fondazione allo stesso dio Marduk, il primo
degli dèi babilonesi, il più importante del pantheon babilonese.
Storicamente, Babilonia o Babel fu quasi certamente fondata dai Sumeri, la
prima delle tre civiltà che si sono succedute in quella regione (Sumeri, Assiri,
Babilonesi), nel 2450 a.C.
Sappiamo che poi fu letteralmente rasa al suolo, completamente distrutta da
Sargon il Grande nel 2350 a.C. (Sargon era il fondatore della dinastia di Accad. Gli
Accadi vennero dopo i Sumeri).
Intorno al 2000 a.C. Babilonia fu espugnata, e successivamente retta da
governatori nominati a Ur. Poi sotto il famoso re babilonese Hammurabi – 1700 a.C.
– (famoso per il codice di leggi, la cui stele originale si trova al Louvre) e sotto i suoi
successori fu molto ampliata e divenne una vera e propria metropoli molto fiorente.
Praticamente era il centro e il cuore di tutto il mondo antico. Fin quando intorno al
1595 a.Cr. subì l’assalto degli Ittiti che la devastarono. Conobbe alterne vicende
(ricostruita, abbattuta, ecc.), finché raggiunse di nuovo enorme splendore sotto il
famosissimo re Nabucodonosor (600-562 a.C. - è il periodo di regno di
Nabucodonosor), che era della dinastia babilonese.
Nabucodonosor si vantò di aver “costruito come reggia” la grande Babilonia.
Quindi era molto orgoglioso di questa città che aveva realizzato in tanto splendore.
Questo dal punto di vista dei Babilonesi, mentre dal punto di vista degli Ebrei,
soprattutto dei profeti, ci sono una quantità di critiche, di invettive contro Babilonia,
soprattutto in Isaia e in Geremia, i quali dicevano: “Ecco, cadrà la grande
Babilonia !”. Profetizzavano che essa sarebbe caduta e ne sarebbero rimaste solo le
macerie. E così avvenne, quando nell’ottobre del 539 i Persiani sotto il re Ciro
conquistarono la città, la quale venne semidistrutta; gli edifici principali furono
risparmiati. In base ad un decreto del re, i templi e le statue vennero addirittura
ricostruiti.
Ma poi con Serse, nel 478, che combatteva i ribelli, fu ridotta in macerie, come
avevano profetizzato Isaia e Geremia.
I Persiani però a loro volta furono vinti dai Macedoni, guidati dal celeberrimo
Alessandro Magno, che voleva ricostruire la città, ma morì in essa, giovanissimo,
senza aver potuto realizzare il suo progetto.

L’area sacra di Babilonia era cinta da una doppia cinta muraria, le cui mura
esterne lunghe 27 km erano sufficientemente forti e ampie da permettere ai carri da
guerra di percorrerle, era fornita di 9 torri e possedeva 9 porte.
Sul lato nord si trova la monumentale porta di Ishtar. Da questa porta partiva la
così detta “via delle processioni”, che portava verso sud, fino alla cittadella, al tempio
Esagila dedicato a Marduk e alla famosa ziqqurat Etemenanki.
152

Questo ai tempi della gloriosa Babilonia, mentre invece oggi tutti i resti si
presentano come una serie di colline, dette tell, che ricoprono cumuli di rovine a una
certa distanza l’una dall’altra.

Perché si chiamava “Babilonia”? Il nome viene dal greco Babilon, che


rispecchia il babilonese Bāb-ili e Bāb-ilāni, neo babilonese, adattamento del nome
sumerico Ca-dingir-ra = “porta del dio”.
Bab-ili (el = dio, bab = porta) “porta del dio”o “porta degli dèi” = Bab-ilani.
Perché l’hanno chiamata così? Teniamo presente che questa città fu per
millenni il punto di riferimento fondamentale della Mezzaluna fertile. Una tavoletta
di argilla conservata al British Museum di Londra riproduce con ingenua concezione
una sorta di carta geografica di tutto il mondo, e la città di Babilonia è posta
esattamente al centro di essa. Quindi aveva proprio una sovranità internazionale.
Effettivamente non mancano motivi per questa esaltazione, se ricordiamo che questa
celebre città divenne effettivamente almeno due volte – con Hammurabi e con
Nabucodonosor – la capitale di tutto il mondo orientale. E come nota Parrot, un
grande studioso del mondo antico, la sua stessa posizione geografica era quanto mai
favorevole, perché era situata sulla riva dell’Eufrate, in mezzo a un magnifico
palmeto, con una riserva d’acqua praticamente inesauribile, e beneficiava inoltre di
una posizione davvero privilegiata sull’importantissima via di transito che collegava
il Mediterraneo e il Golfo Persico.
Nabucodonosor era un po’ il re ideale, amante della pace, delle costruzioni
sfarzose. Il suo lungo regno di ben 42 anni è caratterizzato da uno sviluppo senza
precedenti delle scienze, specie dell’astronomia, della matematica e dell’arte, intese
però non come fini a se stesse, ma come riflesso e manifestazione della vita religiosa.
C’era allora un nesso strettissimo tra arte e religione. Infatti a quei tempi l’attività
artistica più interessante e colossale, grandiosa, era proprio quella degli edifici
dedicati al culto. Quindi c’era questo nesso tra arte e religione da un lato, ma
dall’altro c’era anche un nesso tra arte e potere. Ci sono stati dei re che hanno reso
splendida Babilonia e il potere a sua volta era legato alla religione, tanto che il re era
assimilato ad una divinità.
La costruzione forse più gigantesca dell’antica Mesopotamia è costituita
proprio dal tempio e dalla torre di Babilonia.

Cenni sulle ziqqurat nel mondo antico

Quanto alla torre di Babilonia, noi siamo in grado di dire parecchio perché di
queste ziqqurat ne sono state trovate circa 33 in Mesopotamia e poi si sono trovati
molti documenti e sigilli su cui sono scolpite queste caratteristiche torri, e pare che
esse risalgano al 4° millennio a.C., al tempo dei Sumeri. Da allora fino alla metà del
3° millennio, il terrapieno sopraelevato si trasformava in due terrazze che poi
aumentarono sempre più fine a 7 terrazze a gradoni, come era appunto la Etemenanki,
la torre di Babele. Essa era detta anche “casa dei 7 gradini del cielo e della terra.”
Sappiamo dai testi che questa costruzione costituiva oggetto di grandi meraviglie e
153

stupore dei viaggiatori e pare che fosse addirittura considerata l’ottava meraviglia del
mondo.
La tavoletta di Esagila è conservata al Louvre di Parigi e contiene le misure
precise della costruzione della torre, infatti la tavoletta è a caratteri cuneiformi e
sopra ci sono tutti i calcoli secondo le unità di misura del tempo.
Comunque l’altezza totale era di 90 m, la base quadrata di 90 m per lato e la
terrazza più alta aveva 24 m di lunghezza e 21 di larghezza, e l’ultima terrazza era
sormontata da un tempietto detto “Sahuru” (=il tempio della sommità”), che era
considerato la dimora del dio Marduk, e quindi il tempietto era in alto, dove si
pensava che scendesse la divinità.
Infatti Etemenanki cosa vuol dire?
e = casa; “temen” = il fondamento; an = cielo; ki = terra, in sumerico. Quindi vuol
dire “casa del fondamento del cielo e della terra”, perché questa torre era una sorta di
microcosmo che riproduceva il macrocosmo. Le 7 terrazze volevano riprodurre i 7
pianeti allora conosciuti. Quindi si voleva rappresentare in questa torre tutto
l’universo, la totalità.
Il centro della torre dove c’era questa tempietto, dal punto di vista teologico era
veramente considerato come il nesso tra la terra e il cielo, e dunque la torre era il
fondamento; ecco perché si chiamava il quel modo, “casa del fondamento del cielo e
della terra”.
Poi il tempio vicino, quello dedicato a Marduk, non il tempietto sopra la torre,
ma l’altro, si chiamava Esagil (e =casa; sa =alza; gil =capo) = “casa che alza il
capo”, oppure “casa che raggiunge il cielo”.
E infatti questi templi e queste torri, soprattutto le ziqqurat, dovevano sembrare
per i lontani spettatori così alte da toccare il cielo, da raggiungere il cielo.
Presso gli orientali, Babele godeva la fama di città santa secondo la religione
pagana, una fama molto radicata che diede origine a una famosa leggenda. Si dice
infatti che Sargon I, il Grande, dopo aver distrutto Babilonia, ne portò un po’ di terra
nella sua nuova capitale Akkad, da cui il nome del regno di Accadi, per conferirle un
po’ della santità della città conquistata. Fra i nomi più antichi di questa famosa città,
c’è proprio il sumerico Ka-dingir-ra-ki, cioè “casa della porta del Dio”. Quindi si
capisce perché la città stessa Babilonia venne chiamata così, casa del Dio, Bāb-ili o
Bāb-ilāni.
La città era stato un passaggio obbligato per gli dèi che volevano realizzare
l’incontro con i loro fedeli. La torre di Babele, la cui cima tocchi il cielo, era un
tramite che doveva assicurare la comunicazione tra terra e cielo, e aveva un valore
religioso perché era il tramite per l’incontro con la divinità, ma anche politico
insieme; era la garanzia per la città di Babilonia che il proprio dio sarebbe sceso sulla
terra nel luogo esatto dove c’era bisogno di lui nella sua città e presso il suo re.
Questo per i Babilonesi, ma per gli Ebrei che vedevano Babilonia come una
città imperialista, tutto questo era anche segno di grande arroganza e superbia, perché
questa pretesa di essere la raffigurazione dell’intero universo (i 7 gradoni che
evocavano i 7 pianeti), questa pretesa di essere microcosmo sembrava veramente
eccessiva. Quindi la ziqqurat è il segno di una religiosità di tipo trionfalistico, che
154

avalla il potere (c’era infatti uno stretto nesso tra religione, potere e arte); quel potere
che si confonde con questa religiosità trionfalistica e si pone addirittura come sfida al
Signore del cielo e della terra, del tempo e delle vicende umane. Questa era la lettura
che ne davano gli Ebrei.

Ricapitoliamo tutto ciò che abbiamo detto finora per capire il messaggio del
brano.
Abbiamo detto che la diversità etnico-culturale-linguistica che si ricordava alla fine
del c. 10 era il segno di una benedizione di Dio, che continua così il suo discorso, il
suo messaggio sul significato della differenza, che è segno del volere di Dio. Una
differenza in vista di una pacifica armonia, ma non un uniformismo noioso!
Infatti nel corso di Gen 1-11 abbiamo visto innanzitutto che
- Dio crea l’uomo come maschio e femmina, quindi con una differenziazione al
suo interno. Non è che ha creato solo uomini o solo donne. Che noia sarebbe
stato!
- Poi la differenza sociale tra la cultura della pastorizia e quella dell’agricoltura
raffigurate da Abele e Caino (Gen 4).
- Poi la distinzione molto chiara, senza confusioni, come facevano i popoli
vicini, tra il cielo e la terra, cioè tra piano religioso e piano umano. (Cf. Gen
6,1-4 il gravissimo peccato dei cosiddetti giganti e delle figlie dell’uomo).
- E ora è introdotto anche il piano culturale internazionale. La diversità tra i
popoli e le culture è un segno di questa estrema varietà, immensa multiformità
dell’energia creatrice di Dio. È voluta da Dio e benedetta da Lui.
Ma purtroppo, e qui ritorna il discorso di fondo che il nostro autore ha assunto in
questo brano, il peccato dell’uomo rende insopportabile la differenza, che anziché
suscitare interesse e collaborazione, suscita dominio.
Infatti abbiamo visto: il dominio dell’uomo sulla donna (Verso tuo marito sarà
il tuo istinto, ma egli ti dominerà); la gelosia di Caino verso Abele invece della
pacifica collaborazione; l’arroganza, la tirannia dei giganti e ora questa prepotenza a
livello di potere statuale. E allora come nei casi precedenti l’intervento di Dio,
necessario, non fa altro che manifestare il male che è già contenuto nella patologia
umana.
Il “castigo” non è tanto una decisione arbitraria di Dio, ma il far prendere
coscienza all’uomo che ha sbagliato, che ha commesso peccato e dargli la possibilità
di cambiare.

v. 1: Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Qui ci troviamo di fronte
a una entità politico-nazionale che ha instaurato un regime totalitario. Infatti al v. 4 si
dice: Venite, costruiamoci una città e una torre, cioè costruiamoci qualcosa che duri
nel tempo e che sia l’unità del potere politico e religioso. La città rappresenta il
potere politico, la torre il potere religioso (una torre che deve toccare il cielo).
Allora cosa vediamo? Che non solo la cultura, ma anche la tecnica è utilizzata
come strumento del disegno totalitario, è la tecnica raffinata di usare mattoni e
bitume, non solo, ma chi fa i mattoni? gli schiavi.
155

Quindi l’unificazione creata dal potere totalitario produce anche la schiavitù,


anzi si regge su di essa; i grandi imperi antichi (ad es. i Greci e i Romani) non si
basavano, con tutte le loro stupende realizzazioni, su questa massa enorme di schiavi,
di gente non considerata uomini?
Anche la tecnica, che in sé è buona e sta nello spazio dello sviluppo benedetto
dal Signore, lo sviluppo del lavoro, è ormai strumento di asservimento, crea vittime, è
piegata ai fini del male.
Lo scopo di questa impresa di costruire città con torre è duplice:
a) anzitutto farsi un nome: “Facciamoci un nome per non disperderci su tutta
la terra”, cioè realizziamoci, diventiamo potenti, grandi, famosi, duriamo
nel tempo. Anche perché per gli antichi questo era l’unico modo di vincere
la morte: lasciare fama di sé, lasciare un nome.
Si costruisce una cultura monolitica, un imperialismo a tutti i livelli. E qui per
es. Isaia dice: “Tu, re di Babilonia pensavi: salirò in cielo, mi farò uguale
all’altissimo” (Is 14), oppure Ezechiele: “Perché tu, principe di Tiro, hai detto: io
sono un dio, hai creato la tua potenza e ammassato oro e argento”.
Questo per dire che in tutta la Bibbia c’è una critica a tutte queste forme di
imperialismo.
Questo progetto agli occhi di Israele suona come la sfida della razza umana ai
limiti dello spazio (stabilirsi tutti sullo stesso luogo, costruire una torre che tocca il
cielo) e ai limiti del tempo (farsi un nome). Insomma padroneggiare su tutto, spazio e
tempo.
Questo cosa vuol dire? Rinnegare la propria condizione di creature, di esseri
limitati, di esseri umani che dipendono da Dio; e così si disobbedisce al preciso
ordine di Dio che avevamo sentito in Gen.1,28 e 9,1 (Siate fecondi e riempite la
terra) e che in parte era stato realizzato dai tre figli di Noè, dei quali si dice in 9,19 e
in 10 che avevano popolato tutta la terra con le loro differenziazioni. Ma qui invece
vediamo che si pretende di avere una unificazione monolitica.
Secondo scopo dell’impresa era: per non disperderci su tutta la terra. Quindi
si vuole creare un’unica cultura, annullare le differenze, creare una struttura
imperialistica e monoculturale da imporre a tutto il mondo. L’uomo si crede padrone
del mondo e del proprio destino, e vuole anche imporlo a chi non è d’accordo con lui.

Questa è un po’ la caratteristica, l’esperienza reale dei grandi imperi del


passato: impero egiziano, babilonese (e tra questi due imperi il piccolo stato di Israele
si sentiva schiacciato), poi l’impero macedone, l’impero romano, il sacro romano
impero medioevale, l’impero napoleonico e arriviamo al 20° secolo con le dittature
nazista e comunista. Poi c’è stata la bipolarità, USA-URSS, la famosa guerra fredda e
adesso l’imperialismo USA.

Dio è contrario a queste mire imperialistiche, perché, quando l’uomo cerca di


realizzare una superpotenza imperialistica, in realtà atomizza, riduce al niente le varie
entità o unità etnico-politiche e mette in crisi le possibilità di accordo e di intesa sul
piano internazionale. Certo è molto più difficile mettersi d’accordo e trovare una
156

linea comune tra le diversità, però è questo che ha voluto Dio: che gli uomini
facessero questa fatica, mentre riesce più comodo imporsi.
C’è un particolare molto interessante per la sua attualità in questo racconto: per
costruire la torre vengono impiegati – come realmente facevano i Babilonesi –
mattoni e bitume, cioè la miglior tecnica allora disponibile. Così come oggi la tecnica
migliore è messa a servizio del potere. E purtroppo la mentalità prevalente è che tutto
ciò che è tecnicamente utilizzabile, lo si possa fare, anche se presenta problemi dal
punto di vista morale.

Un’antica traduzione aramaica – il targum – osserva che, durante la


costruzione della torre, quando un operaio cadeva dalle impalcature, nessuno se ne
preoccupava, ma quando si guastava un mattone, erano problemi senza fine. Se si
spezzava un mattone, allora tutti si rattristavano e piangevano! E cioè: l’uomo è
considerato meno di un mattone!
Purtroppo è sempre così. Infatti ecco perché questi capitoli di Gen 1-11 sono
veramente di una attualità incredibile, perché toccano quei punti che purtroppo non
sono stati affatto superati dalla storia. La storia non è stata magistra vitae in questo.
E così sia al tempo di Babele come ai giorni nostri siamo di fronte all’illusione
di sempre dell’uomo: l’onnipotenza e l’eternità. Pensiamo anche a questi paradisi in
terra che sono stati le pro esse delle grandi dittature, da quella comunista a quella
cinese. È un paradiso però imposto agli altri. E poi come è finito? Sono finiti anche
quelli, come erano finiti i grandi imperi antichi.
Non si vuole abitare la terra facendone un giardino, così come era il comando
del Signore ad Adamo, ma si vuole farsi un nome, avere successo, dominare sugli
altri. È la politica e la tecnica totalitaria, entrambe idolatriche.
Ma questo progetto imperialistico non viene sottoscritto da Dio, il quale vuole
piuttosto che i suoi figli vivano fino in fondo la ricchezza della diversità, anche se
questo comporta più problemi che una rassicurante piatta omogeneità.
E allora che cosa succede? È quello che abbiamo letto nei vv. 5-7: Il Signore
scese a vedere la città, scendiamo…ancora una volta troviamo un forte
antropomorfismo. È interessante cogliere lo spirito polemico con cui lo scrittore
sottolinea certi particolari: Il Signore scese a vedere. Il fatto che il Signore debba
scendere lui, è già una sconfessione delle pretese dei costruttori della torre di
raggiungere Dio con la loro costruzione.
Poi il fatto che viene a vedere città e la torre, è indizio dell’unione dei due
brani. Scese a vedere la città e la torre perché i due brani parlavano dell’una e
dell’altra; e qui sono stati unificati.
Infine l’uso del plurale (Scendiamo dunque, confondiamo la loro lingua)
l’abbiamo ritrovato in Gen 1,26: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza,
e in Gen 3,22: L’uomo è diventato come uno di noi. Anche in Is 6: Chi andrà per
noi?
Ritroviamo ancora una volta il plurale di deliberazione o di decisione, questo
perché in ebraico non c’è il “pluralis maiestatis”. Cioè “facciamo” vuol dire “voglio
fare questo”. Quindi si vede la decisione di JHWH.
157

Dietro la discesa di JHWH ci può essere un elemento polemico nei confronti


della teologia dello ziqqurat, perché là si parlava di discesa processionale della
divinità dal santuario in cima alla torre (il santuario è abitazione del dio nazionale),
per benedire i fedeli convenuti lungo la via della processione. L’intervento divino era
sempre positivo, benefico, ricco di favori, mentre invece nel nostro testo Dio scende
per esprimere il suo giudizio negativo sulla gigantesca opera umana e per “punire”,
cioè far prendere coscienza agli uomini del loro peccato.
6
Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola;
questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà
loro impossibile. 7Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non
comprendano più l’uno la lingua dell’altro».
C’era nel genere letterario della ziqqurat e dei miti coevi un motivo molto
frequente: quello della gelosia degli dèi verso gli uomini. Probabilmente è rimasta
una traccia di questo motivo che sembra affiorare in queste frasi; sembra quasi che
Dio sia seccato di questo lavoro degli uomini e voglia impedirlo.
Certamente l’autore biblico non voleva dire che Dio è un Dio geloso (c’è il
tema della gelosia nella Bibbia, ma in tutt’altro senso), ma piuttosto sottolineare
l’assoluta sovranità di Dio sugli uomini.
Il v. 6 può essere facilmente frainteso. Le tre frasi del soliloquio di Dio
contengono tre accuse verso i costruttori della città e della torre:
1. hanno tutti una lingua sola, cioè all’ombra della torre hanno unificato la
loro cultura e religione, e si sono centralizzati contro il comando di Dio di
stare su tutta la terra;
2. questo è l’inizio della loro opera, cioè sono diventati sedentari; e questo è
sempre stato visto come un grosso pericolo da Israele che ricordava il
periodo della traversata del deserto come il periodo ideale, perché
sedentarizzarsi vuol dire rischiare di fare come gli altri popoli. Difatti qui
dice: sono diventati sedentari e hanno realizzato opere grandiose, frutto di
superbia e di prepotenza;
3. ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile, cioè
hanno acquistato come ideale l’ardimento, sono temerari, così che nessuna
forza al mondo potrà mai trattenerli; si credono onnipotenti come Dio, si
credono dei titani. Nella mitologia greca i Titani erano i figli e nipoti di
Urano e Gea che si ribellarono al padre Urano. E quindi essere titano si
dice di chi è insofferente e ribelle a tutto ciò che lo limita. E questo è il
comportamento di tali uomini.
Ora non il singolo uomo, ma tutta la collettività ha ceduto alla tentazione primordiale,
che è quella di fare da sé, raggiungere il dominio del cosmo, non per intervento
benefico di Dio che l’aveva comandato all’uomo, in comunione con Lui (riempite la
terra, soggiogatela, dominate su ogni essere vivente) bensì con le sole forze umane.
Questa è la grande tentazione, la tentazione più seducente che l’uomo prova nella
storia della salvezza: fare da sé, costruire da solo la propria felicità, realizzare da solo
il proprio destino. “Facciamoci un nome, non disperdiamoci”; ancora una volta si
158

vede quell’orgoglio umano che è alla base della colpa originale e di ogni colpa.
L’uomo vuole fare a meno di Dio. Infatti abbiamo visto in Gen 1-11 le tre grandi
colpe dell’umanità: quella dell’autonomia di Adamo ed Eva; quella dell’abuso della
vita, dei giganti; quella dell’abuso del potere in Babilonia.
L’intervento di Dio ha lo scopo di far capire all’uomo che solo Dio è il vero
dominatore sovrano e che l’uomo deve prendere coscienza del suo errore. Quindi
l’intervento di Dio serve a togliergli ogni illusione, sia pura momentanea, sulle sue
possibilità di realizzazione indipendentemente dall’aiuto e dalla comunione con Dio.
Dio colpisce ancora una volta l’ambizione smodata degli uomini e distrugge
quell’unità che l’umanità ha raggiunto in modi indebiti e a prezzo di tante vittime.
Confonde le lingue, così che gli uomini, che ora non si capiscono più, devono per
forza dividersi.
Ma in secondo luogo questa azione punitiva di Dio è a un tempo anche
preveniente, così da evitare peccati ancora più gravi e quindi di dover intervenire e
punire ancora più duramente in caso di ostinazione.
E così cosa fa Dio? confonde la lingua l’uno dell’altro e li disperde di là su
tutta la terra, li allontana dal loro presunto centro unitario e distrugge questa unità che
era falsa, cioè non autentica, non raggiunta con opportuni accordi, ma imposta.
Li disperse. Notiamo un’analogia con l’allontanamento di Adamo ed Eva dal
paradiso terrestre e con l’allontanamento di Caino dal consorzio umano. Questi
episodi si possono sempre leggere in parallelo: peccato originale di Adamo ed Eva,
peccato originale nell’ambito familiare (Caino), peccato originale nell’ambito sociale
(torre di Babele).

Eziologia

Perché vengono costruiti questi racconti? Per dare una spiegazione, per far
vedere quali sono le cause di un certo fenomeno. Il fenomeno che interessava l’autore
è: perché gli uomini parlano lingue diverse e non si capiscono? Col racconto di Gen
11 si poteva spiegare, cioè dire l’eziologia, la causa di questo fenomeno.
Inoltre si vuole spiegare il nome di “Babilonia” con un significato diverso da
quello che abbiamo visto, perché in accadico il nome della città Babilu o Babilani
significava “porta del dio degli dei”. Siccome l’autore vuole polemizzare contro
Babilonia e quindi anche contro il suo significato di centro politico, religioso,
polemizza anche contro questa etimologia. Come può essere chiamata “porta di Dio”
una città che –dicevano i profeti – sarebbe stata ridotta a macerie, come infatti è
avvenuto? Se non ha più la ziqqurat, come possono gli dèi abitare in essa? Se non c’è
più armonia, come può essere detta “terra santa”, come era chiamata allora?
Il suo nome è piuttosto Babel 9Per questo la si chiamò Babele, perché là il
Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la
terra.
Ecco un altro significato, che questa volta non viene dal Babilu, Babilani, ma
dall’ebraico “balal”, nella forma aramaica “balbel”, usata in siriaco o arabo, col senso
di confondere, mescolare. Quindi indica confusione di labbra e di mente, di regimi e
159

popoli, anche perché effettivamente dal punto di vista storico e quindi sul piano della
memoria storica, senz’altro il redattore del testo avrà avuto in mente tanti episodi
connessi ai processi di urbanizzazione che ovviamente in Babilonia erano stati al
massimo grado, cioè l’afflusso, la concentrazione in aree urbane di masse
culturalmente, etnicamente, linguisticamente eterogenee, quindi la difficoltà di capirsi
e anche fatti legati alla politica autoritaria della grande superpotenza del tempo volta
a “babilonizzare” le diverse culture delle genti sottomesse, soffocandone l’identità.
E allora l’intervento di Dio non è tanto punitivo, (la “punizione” sta nel far
prendere coscienza agli uomini del loro peccato), ma addirittura è provvidenziale; è
una benedizione, non una maledizione. Perché Dio interviene a distruggere l’opera
che vuole rendere monolitico il mondo, l’opera degli uomini che vogliono
uniformare, e invece salva la pluralità delle lingue e delle culture.
Solo così, anche il più piccolo dei popoli, come era quello ebraico (sempre in
mezzo fra i due grandi potenti che erano gli Egiziani a ovest e gli Assiro-Babilonesi a
est) potrà trovare il suo posto ed essere rispettato. Anzi, in Abramo diventerà
benedizione per tutte le famiglie della terra; e questo non per una solidarietà imposta,
ma per una solidarietà donata da Dio e accolta come benedizione.

Analisi e commento di Gen 11,10-26 e v. 32: genealogia da Sem ad Abramo


10
Questa è la discendenza di Sem: Sem aveva 100 anni quando generò
Arpacsad, due anni dopo il diluvio; 11Sem, dopo aver generato Arpacsad,
visse 500 anni e generò figli e figlie.
È un testo della tradizione sacerdotale, che predilige le genealogie, i conti, le
età, e si ricollega alla genealogia dei patriarchi prediluviani. Si nota subito che prima
del diluvio i patriarchi arrivavano a circa 900 e più anni, e ora invece da Sem arriva a
600 anni e poi, man mano che si scende nella genealogia, si arriva a Terach, padre di
Abramo, che morì a 205 anni.
26
Terach aveva 70 anni quando generò Abram, Nacor e Aran.
32
L’età della vita di Terach fu di 205 anni; Terach morì in Carran.
Siccome la longevità è vista come un segno della benedizione di Dio,
purtroppo man mano che l’umanità si allontana da Dio, perde il dono della longevità
che è una benedizione di Dio. Per questo Adamo vive 950 anni e Terach invece solo
205. E poi in Gen 6 abbiamo visto che Dio stabilisce 120 anni come limite massimo,
inoltre in un Salmo si legge: 70, al massimo 80 sono gli anni dell’uomo.
Soprattutto questa genealogia è importante perché collega tutto il blocco di
Gen 1-11 ad Abramo, nostro padre nella fede, con cui abbiamo ancora un nuovo
inizio. E Abramo è, in un certo senso, l’uomo antibabelico per eccellenza, perché non
è l’uomo orgoglioso che vuole essere autonomo da Dio, ma l’uomo che sa ascoltare,
che attende una parola, che non vuole diventare grande, farsi un nome, svuotare il
cielo di Dio.
Se confrontiamo le frasi dell’episodio di Babele con quelle della vocazione di
Abramo, vediamo subito una contrapposizione:
160

 A Babele si gridava: Venite, facciamoci la città, la torre; e invece Dio


dice ad Abramo: Vai dalla tua patria verso la terra che io ti mostrerò,
quindi: non fai tu, per te.
 A Babele si diceva: costruiamoci una torre la cui cima raggiunga il cielo;
invece ad Abramo è Dio che promette: Io farò di te un grande popolo.
 A Babele si voleva farsi un nome; e Dio dice ad Abramo: Io renderò
grande il tuo nome.
 Se il tentativo di unificazione forzata produce solo incomunicabilità e
confusione, è invece da Dio che Abramo si dispone a ricevere il dono
dell’unità di tutte le famiglie della terra, che si realizzerà attraverso di lui
(cf. Gen 12,3: In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra).

Conclusioni su Gen 1-11

Nel libro della Genesi possiamo scorgere come due grandi tavole di un dittico:
la prima è costituita da Gen 1-11 e ha per protagonista Adamo, l’Uomo, l’Uomo di
tutti i tempi, di tutte le regioni del nostro pianeta. Infatti abbiamo visto l’attualità di
tutti questi capitoli. L’uomo che purtroppo non è in grado di resistere alla tentazione
dell’autonomia ai vari livelli. Abbiamo visto il peccato di Adamo ed Eva, di Caino,
ecc.
Ma in Dio prevale la misericordia. E, nonostante la cattiveria radicale
dell’uomo, il Dio creatore si dimostra anche il Dio salvatore. Infatti:
- Egli salva Adamo ed Eva dalla morte nonostante la minaccia: Se mangerete
di quell’albero, morirete.
- salva un resto dell’umanità da cui si ricostituiranno tutte le genti.
- salva la discendenza di Sem dopo Babele.

La seconda tavola del dittico è costituita da Gen 12-50, che ha per soggetto
Abramo e tutta la sua discendenza fino a Giuseppe, che morì a 110 anni.
Allora per il primo dittico abbiamo un quadro generale di tutta l’umanità, di
tutti i problemi umani fondamentali. Nel primo dittico è comparsa più volte la
maledizione (Dio maledice il serpente, maledice il suolo a causa di Adamo, maledice
Caino e Canaan).
Il secondo dittico invece è inaugurato dalla vocazione di Abramo e dalla
grande ouverture di Gen 12,2-3: Benedirò coloro che ti benediranno e in te si
diranno benedette tutte le famiglie della terra. Ben cinque volte ricorre il verbo
benedire in Gen 12,2-3. È proprio questa la grande promessa di cui è depositario il
popolo ebraico a nome di tutte le famiglie della terra, e che per noi cristiani troverà la
piena realizzazione in Gesù di Nazaret, dove troveremo il sì definitivo di Dio Padre
all’umanità, colui che farà passare la benedizione di Abramo a tutte le genti, come
dice San Paolo in Gal 3,14.
Abbiamo così congiunto il primo dittico a tutta la storia della salvezza che
parte con Abramo.
161

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

SUSSIDIO N.1 PER CORSO GenESI 1-11

PERCHE’ LEGGERE GENESI 1 – 11 ?

Le prime pagine della Bibbia hanno un valore extra-temporale,


in quanto offrono una risposta ad interrogativi di sempre.

Da dove viene il mondo?


Quando e dove finirà l’universo?
Chi è l’uomo?
Da dove viene e dove è destinato?
E’ davvero esistito il Paradiso terrestre?
E dov’era?

Perché il male, il dolore, la sofferenza, la fatica, la morte?


Perché Dio ha creato l’uomo,
pur sapendo che avrebbe peccato?
Che cos’è il peccato originale?
Perché il Battesimo ai bambini?
Perché l’odio, la violenza, la vendetta?
Sono davvero impossibili rapporti pacifici tra i popoli?
Perché il lavoro è fatica?

Perché le catastrofi naturali?

Cos’è stato in realtà il diluvio universale?


Da dove ha origine la diversità di lingue e culture?
Che significato ha l’episodio della torre di Babele?
LE “FONTI” O “TRADIZIONI” JAHWISTA(J) E SACERDOTALE (P)
(cfr. “La Bibbia di Gerusalemme” pp. 23-28)

La fonte J era con ogni probabilità la riduzione di un poema epico, in origine orale,
in forma di prosa scritta. Nasce nella Palestina del sud – regno di Giuda - al tempo
dei primi re Davide e Salomone (1.000 a.Cr. – X sec. a.Cr.)

Si chiama così perchè adotta il nome di Dio “Jahwé” (cfr. Gen.4, 26); inizia col
racconto della creazione e si conclude con il libro dell’Esodo; conosce le tradizioni
mitiche egiziane e mesopotamiche e le sfrutta con abilità per delineare la sua storia.
162

Sotto una forma figurata e con ricchezza narrativa, dà una risposta profonda alle
gravi questioni che si pongono ad ogni uomo.

Tiene in gran conto le benedizioni e maledizioni; sottolinea infatti la malvagità


dell’uomo, che cresce dal primo peccato (p.originale) fino al tempo del diluvio e
della grande Babilonia, nella perversione universale; ma nello stesso tempo al
male commesso dall’uomo contrappone sempre una prospettiva di salvezza,
che verrà compiuta dal Messia.

Nel complesso ha una visione positiva del cammino della storia: conosce la
debolezza umana, ma è convinta che la benedizione divina darà sicurezza di vita
al popolo e, proprio grazie a questa sicurezza, la fede si rafforzerà.

Esprime una teologia della Promessa e della Benedizione, che vede l’elezione
gratuita da parte di Dio, nonché una preferenza verso il figlio minore: Abele è
preferito a Caino, Isacco a Ismaele,etc.

Ha uno stile molto semplice e vivace, un forte colorito popolare, ricco di immagini;
Dio è spesso presentato con arditi antropomorfismi, ha un volto molto umano (cfr. 2°
racconto di creazione: Dio forma l’uomo dalla polvere come un vasaio, passeggia
con l’uomo nel giardino di Eden,etc.)

La fonte P nasce dopo la caduta del regno di Giuda (587) e prende forma
letteraria tra il 536 e il 450 a.Cr. Ne sono autori i sacerdoti di Gerusalemme
163

esiliati a Babilonia, che a loro volta si basarono su un’antica tradizione


riguardante il culto, il sacerdozio e il tempio di Gerusalemme.

La sigla P viene dall’espressione tedesca “Prisken Codex” = “Tradizione


Sacerdotale”; a differenza della tradizione Jahwista, non è un’opera narrativa,
ma didattica; ed è una riflessione teologica non tanto sulle azioni dell’uomo,
quanto piuttosto su quelle di Dio, sui suoi giudizi, i suoi comandi e le norme
di vita che offre all’uomo in vista della salvezza.

Nella parte che precede la storia di Abramo adotta il nome di Dio “Elohim”;
inizia anch’essa col racconto della creazione e prosegue fino al tempo della
conquista della Palestina.

Sottolinea il carattere universale della salvezza: Jahwè è il Dio non solo di


Israele, ma di tutte le nazioni e di tutte le epoche; Gen.1 (P) presenta infatti la
creazione del mondo intero ad opera della Parola e la descrizione della creazione
è uno splendido inno, una litania liturgica, una celebrazione di Dio Creatore.

Mostra poi particolare interesse per la storia dell’alleanza di Dio con gli
uomini, di cui distingue quattro tappe: creazione del mondo e dell’uomo fino
alla catastrofe del diluvio, alleanza di Dio con l’intera umanità rappresentata
da Noè (Gen. 9,9-17), alleanza con Abramo e i patriarchi, alleanza con Mosè
sul monte Sinai.

I fatti sono presentati in maniera schematica, che non mira alla precisione
dei dettagli, come nei testi narrativi.

Ha uno stile astratto, dottrinale, ripetitivo e abbondante; ama i computi e


le genealogie (vedi Gen. 5, 10 e 11), la cui intenzione non è tanto quella di
offrire un rapporto di discendenza, ma quella di tracciare, sia pure attraverso
aridi nomi e in modo schematico, la storia della salvezza.
164

LA SAGA DI GILGAMESH

L’epopea di Gilgamesh (o Ghilgamesh), mitico re mesopotamico di Uruk, proviene


da un’epoca di cui si era perduto ogni ricordo finchè nell’Ottocento gli archeologi
non cominciarono a riportare alla luce le città sepolte del Medio Oriente.

La celebre saga intitolata a Gilgamesh e tramandata dapprima oralmente, sorge


verso il 2.300 a.Cr. per narrare di un eroe sumero che gli dei vogliono punire per il
suo orgoglio.

Il poema scritto, di cui abbiamo redazioni in accadico e in altre lingue dell’Antico


Oriente, risale all’inizio del 2° millennio a.Cr. e il suo redattore finale è
Sinleqiunnini. E’ diviso in 12 parti (o tavolette di argilla, scoperte da un inglese nel
1839) e ha un posto di diritto nella letteratura mondiale: non solo perché precede
l’epica omerica di almeno un millennio e mezzo, ma anche e soprattutto per la natura
e la qualità della vicenda che narra, un miscuglio di avventura allo stato puro, di
morale e di tragedia.

Il racconto è incompleto e forse destinato a rimanere tale; ma è a tutt’oggi il più bel


poema epico che il passato ci abbia tramandato fino alla comparsa dell’Iliade omerica
(VIII sec. a.Cr.), presenta qualche tratto storico (Gilgamesh ha i tratti di Gudea re di
Lagash – 2.100 a.Cr.) e descrive con una certa esattezza le condizioni civili e sociali
del tempo che l’Autore ha preso per sfondo della narrazione, e cioè l’età sumerica
arcaica del 2.300 a.Cr.

L’eroe Gilgamesh è per due terzi dio e per un terzo uomo, visto che sua madre era
una dea e suo padre, sommo sacerdote, un uomo; dalla madre aveva ereditato la
grande bellezza, la forza e l’irrequietezza, dal padre aveva ereditato la mortalità.

All’esordio della storia, il re di Uruk è già un uomo nella piena maturità, un essere
superiore alla media per bellezza e forza, e per le brame insoddisfatte della sua natura
semidivina a causa delle quali non trova chi gli stia a pari né in amore né in guerra.
Ma intanto il demone della sua attività frenetica sta consumando i sudditi, che si
trovano costretti ad invocare l’aiuto degli dei

Gli dei cominciano a fornire a Gilgamesh un compagno e antagonista: Enkidu,


l’uomo “naturale” allevato assieme agli animali, veloce come una gazzella.
Quest’ultimo viene sedotto da una prostituta della città, e la perdita dell’innocenza
costituisce un passo irrevocabile verso l’incivilimento dell’uomo selvatico. Ora gli
animali lo rifiutano, e a poco a poco gli viene insegnato a indossare abiti, mangiare il
165

cibo degli uomini, pascolare le pecore, combattere con il lupo e il leone; alla fine,
giunge alla grande e civile città di Uruk, dove diventa molto amico di Gilgamesh.

Con lui decide che “a causa del male che c’è in questa terra, essi andranno nella
foresta a distruggere il male.” La foresta è il “Paese del Vivente”, o “Foresta dei
Cedri” situato da qualche parte agli estremi confini della terra e della realtà: al suo
centro sorge la montagna che manda i sogni, sede e degli dei e degli Inferi.

Il custode della foresta è Humbaba, l’eterno Mostro-Mandriano, simile all’uomo


brutto d’aspetto e armato di clava incontrato da Cynon: è una divinità di natura
selvaggia destinata a rimanere inalterata nei secoli quanto le foreste stesse.
Gilgamesh uccide Humbaba e taglia gli alberi di cedro: è questo il primo “disastro
ecologico” di cui vi sia memoria! Il cielo, per punire l’eroe sumero, maledice col
fuoco la terra, che diventa terribilmente arida.

Ma, per aver ucciso il mostro, il re Gilgamesh, riccamente vestito e incoronato,


viene onorato con una fastosa cerimonia di glorificazione.

Proprio allora lo vede la dea Ishtar che desidera il suo amore e cerca di corteggiarlo
con promesse allettanti. Ma Gilgamesh la rifiuta e la dea adirata manda una siccità di
sette anni come punizione per l’affronto subito. Anche Enkidu offende la dea Ishtar
insultandola. Così gli dei, radunati a concilio, decretano che uno dei due dovrà
morire: Enkidu.

Quest’ultimo scende vivo nell’oltretomba, per riprendere un tamburo e la sua


bacchetta, misteriosi e forse sciamanici, che Gilgamesh vi aveva lasciato cadere. Ma
facendo ciò infrange tutti i tabù e rimane intrappolato negli Inferi.

Gigamesh, che ha perso l’amico più caro, è ora consapevole dell’inevitabilità della
morte e si rende conto che lui pure, il grande re di Uruk, è mortale; ripensa ai suoi
antenati e in particolare a Utnapishtim, unico superstite del diluvio universale (una
sorta di Noè sumerico) che pareva avesse trovato la vita eterna e fosse quindi entrato
nel novero degli dei.

Gilgamesh parte così alla ricerca dell’immortalità, perché ci deve essere un modo
per sfuggire alla morte. Compie lunghe peregrinazioni attraverso lande selvagge,
vivendo come un povero cacciatore vestito di pelli di animali, finchè giunge ai passi
montani dove uccide alcuni leoni (il gruppo del guerriero affiancato da due leoni
rampanti è entrato nell’iconografia del mondo classico).

Giunge così alla montagna del sole e ai suoi orrendi guardiani, per metà uomini e
per metà draghi con coda di scorpione,e poi arriva al giardino del sole, o giardino
degli dei, una sorta di paradiso terrestre.
166

Qui Siduri, una specie di Circe omerica, istruisce Gilgamesh su come attraversare le
acque della morte, per arrivare a Utnapishtim, l’eroe ormai immortale. Ma, per
giungere fino a lui, egli deve attraversare quell’Oceano che per tutti gli antichi
costituiva il confine ultimo della terra conosciuta, una barriera insuperabile, perché
comunicava con le acque della morte.

Gilgamesh lo supera con l’aiuto del barcaiolo Urshanabi e arriva da Utnapishtim


(siamo alla tavoletta XI), che gli fa un resoconto del diluvio (dove troviamo alcune
somiglianze, ma anche notevoli differenze rispetto al diluvio narrato nella Bibbia), i
cui autori sono Enlil, dio della tempesta, e Ishtar, dea della guerra.

A questo punto Utnapishtim rivela a Gilgamesh il tanto desiderato segreto


dell’immortalità: basta raccogliere la “pianta della vita”, situata nel profondo
dell’abisso, e cibarsene. Gilgamesh riesce ad impadronirsi di questa pianta; le spine
di cui è ricoperta gli pungono le mani, ma lui la tiene stretta e riemerge alla
superficie dell’oceano. Tuttavia, invece di cibarsene subito, essendo egli re di Uruk,
decide di portare l’erba nella sua città, affinchè con lui possa ritornare giovane anche
tutto il suo popolo.

Nel viaggio di ritorno deve attraversare vaste zone desertiche e quando, bruciato
dalla calura e carico di polvere, giunge presso una fonte d’acqua, egli vi si tuffa. Ma
il serpente ha sentito il profumo dell’erba della vita, si avvicina e la
mangia,dileguandosi. Gilgamesh lo vede fuggire e cambiare pelle: l’erba della vita ha
subito fatto effetto sull’animale e lo ha fatto ridiventare giovane.

Ma lui, Gilgamesh, ormai non possiede più quell’erba e scoppia allora in grida
disperate. Dopo tanto viaggiare, deve tornarsene a Uruk con le mani vuote.

Il ritorno è descritto in termini piuttosto sommari e lascia inspiegate molte cose. E’


come lo spezzarsi di un incantesimo, quando alla fine delle tribolazioni e delle
ricerche e dopo aver quasi raggiunto il premio, d’improvviso tutto ritorna alla
normalità e ci si ritrova al punto di partenza.

La “morale” del poema è dunque che l’uomo, nonostante tutti i suoi sforzi, non può
evitare la morte, suo inesorabile destino e Gilgamesh fa incidere la sua storia sulla
pietra perchè tutti possano leggerla, concludendola così: ”Cari uomini, ho sprecato
tutta la mia vita cercando, ma senza trovare niente; non sprecate anche la vostra a
cercare: è una ricerca inutile.”

L’ultimo atto, la morte di Gilgamesh, esiste solo in sumerico. E’ un lamento


solenne intonato durante l’elaborato rito esequiale che vede doni, paludamenti,
banchetti, nonché il pane e il vino offerti dal defunto sovrano agli dei dell’oltretomba
nel momento del suo ingresso nella “Terra da cui non c’è ritorno”.
167

Gilgamesh venne deificato e collocato tra gli dei degli Inferi.

“L’epopea di Gilgamesh” è pubblicata dalla Fabbri Editori, nella collana “I grandi


classici della letteratura straniera”

BIBLIOGRAFIA

SULLA BIBBIA IN GENERALE

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A. Zichichi, Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo, Il Saggiatore

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J. Arnould, La teologia dopo Darwin, Queriniana 2.000

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SULLE TEMATICHE DEL 3° INCONTRO

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