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Nel corso delle lezioni si fa riferimento al sussidio n.1 che si trova in coda alle
lezioni.
NOTA PRATICA:
- occorre portare la Bibbia: si consiglia la Bibbia di Gerusalemme
GENESI 1-11 1° lezione Milano, 13 ottobre 2004
La Bibbia è il testo più tradotto e più diffuso nel mondo, più di tutti gli altri libri. È
stato tradotto in 2062 tra lingue e dialetti, ed è un libro che più di ogni altro ha
influenzato la storia dell’umanità, ha influenzato moltissimo l’arte, la cultura.
Anzitutto non è un libro, ma sono tanti, sono 73. Infatti la parola “Bibbia” viene dal
greco “biblia”, che è il plurale di “biblion” = libretto.
Quindi è un insieme di ben 73 libretti. Immaginate una biblioteca, pensate di vedere
su un primo scaffale 46 libretti: è l’AT, e su un secondo scaffale 27 libretti: è il NT.
Da Genesi fino all’Apocalisse ogni libro ha un nome e un titolo.
Sono libri molto diversi l’uno dall’altro: alcuni sono storici, altri raccontano la
vicenda di un personaggio come Abramo, Mosè, altri sono di preghiera. C’è molta
varietà di generi letterari, di tipi di racconti, ecc. Perché sono tutti assieme? Che cosa
li lega? Che cosa fa di questo un testo unico? Li lega l’idea di “Storia della
Salvezza”; cioè in questo testo, attraverso questi vari libri, noi troviamo tutto quello
che Dio ha fatto e fa per riportare gli uomini alla amicizia con sé, dopo che l’uomo a
causa del peccato (del peccato originale, ma anche degli altri peccati che commette),
infrange l’alleanza, l’amicizia con Dio e Dio, però, ripropone sempre all’uomo di
ritornare a Lui.
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Quindi possiamo dire che i due protagonisti di questa lunghissima Storia della
Salvezza che parte dal 1800 a.C. (Abramo) e continua per tutta la storia dell’umanità,
sono Dio da un lato, che si è rivelato (La teologia dice che la fede cattolica si basa
sull’auto-comunicazione di Dio. Dio ha preso l’iniziativa, ha voluto farsi conoscere
all’uomo attraverso la storia) e dall’altro l’uomo, l’interlocutore principale di Dio.
Tra questi due interlocutori c’è un dialogo, si stabilisce un patto, un’alleanza.
Ecco perché diciamo Antico e Nuovo Testamento. “Testamento” viene dal latino
“testamentum” che viene dal greco “diatheke”, che non vuol dire soltanto lasciare le
proprie “ultime volontà”, il testamento qual è normalmente inteso, ma vuol dire dire
“alleanza”. Attraverso questo giro di traduzioni, diatheke greco traduce berit ebraico,
che appunto vuol dire “patto-alleanza”.
Questi 11 capitoli sono stati scritti molto dopo il periodo in cui è stata scritta la
storia d’Abramo e cioè nel periodo dell’esilio del popolo d’Israele in Babilonia
nel VI secolo (587-538 a.C.) e poi completati nei due secoli successivi. Intorno al
IV sec. c’è la redazione definitiva del Pentateuco, i primi 5 libri della Bibbia.
popolo, vai, scendi e libera il mio popolo. Dio che libera il suo popolo dalla schiavitù
egiziana. Israele ha conosciuto questo volto di Dio, il Dio che parla, il Dio che libera,
il Dio dell’alleanza, il Dio che sul Sinai stabilisce col popolo un’alleanza. I 10
comandamenti in cui dice: se voi li osserverete, avrete questo e quest’altro.
Col passare del tempo, soprattutto quando Israele si è trovato in esilio e quindi a
contatto con una cultura diversa dalla sua, una cultura che aveva dei bellissimi miti,
della cosmogonie, cioè delle storie che raccontavano come - secondo i Babilonesi -
erano nati il cielo e la terra, le divinità, si è posto a sua volta l’interrogativo: ma
queste cose valgono anche per me o no? il Dio che Israele ha conosciuto è lo stesso
dei Babilonesi o no? Allora la riflessione, soprattutto della classe sacerdotale, che è
poi quella che ha scritto, che ha steso questi testi, ha capito che lo stesso Dio che
aveva liberato Israele dall’Egitto e che quindi si era fatto conoscere innanzi tutto in
questa veste di liberatore e di salvatore, era anche il Dio che aveva creato tutto il
mondo. E infatti soltanto nel Secondo Isaia (Is 44), troviamo espressioni di questo
tipo: Dice il Signore che ti ha riscattato, che vuol dire liberato e formato, sono io il
Signore che ha fatto tutto, oppure Is 45: Io sono il Signore non ce n’è un altro.
Nel 1800 inizia la vicenda di Abramo, soltanto nel VI secolo, nel 500, quindi 1300
anni dopo, Israele è in grado di dare una riposta a questi che sono gli interrogativi
fondamentali dell’uomo in questi 11 capitoli di Genesi che quindi non a caso sono
forse le pagine più celebri della Bibbia, le più note almeno per sentito dire, le più
divulgate nella cultura, quelle più interpretate, anche quelle più discusse, perché a
queste pagine si collegano i famosi dibattiti scienza-fede, Bibbia-scienza.
Sono anche capitoli che, contenendo queste risposte fondamentali agli interrogativi
esistenziali dell’uomo, sono un po’ il paradigma per tutta la Bibbia, noi troviamo una
quantità di riferimenti in tutta la storia della salvezza, cioè nei 73 libri – A. e NT -
spesso e volentieri si richiama a Gen 1, a Gen 2; Gesù quando parla, quando predica
dice: Ricordate com’era all’inizio? Dio creò l’uomo e la donna ecc.
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Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina:
sesto giorno.
Gen 2
1
Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. 2Allora
Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo
giorno da ogni suo lavoro. 3Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in
esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto.
4a
Queste le origini del cielo e della terra, quando vennero creati.
Questa conclusione è proprio una sorta di cosmogonia: così sono nati il cielo e la
terra. Avete notato dalla lettura che si tratta di un testo bellissimo, molto poetico, con
molte ripetizioni, con un ritmo, con le rime che si coglierebbero meglio nel testo
originale. Vediamo che c’è un soggetto principale che agisce e parla, che è Dio, e che
è soggetto di tutti i verbi: Dio creò, Dio disse, Dio benedisse.
Fatta questa lettura, uno dice: questo è un bel racconto, ci troviamo di fronte a un bel
racconto di cose cosi come sono avvenute. Non è cosi! È un racconto, ma non intende
essere una cronaca, cioè l’intento dell’autore non è dirci prima è successo questo, poi
è successo quest’altro.
Capisco che posso sconvolgere un po’ le idee che molte persone magari avevano
sulla Bibbia, ma dobbiamo assolutamente affrontare queste pagine, pensando di non
leggere un libro di storia o un libro di scienze, di cosmologia o una cronaca di
giornale perché non lo sono, altrimenti le fraintendiamo. Si fa fatica a cambiare
mentalità, le ragioni ci sono e sono molto forti come ragioni, perché è solo da due
secoli che noi siamo in grado di capire alcuni fenomeni circa la formazione della
Bibbia e il genere letterario in che tipo di testo consiste.
Fino al 1800 la Bibbia era l’unica fonte di conoscenza del passato più antico e quindi
era considerata una specie di documento, di testo storico, era l’unico che parlava delle
origini. Chiaramente non è sempre stato cosi, perché già i Padri della Chiesa nel 4°
sec. d.C. (S. Agostino, ecc.) avevano capito che non si trattava di un documento
realistico e cercavano di interpretarlo come testo simbolico. Però sta di fatto che fino
al 1800 fu cosi. Poi cosa successe? Naturalmente anche la comprensione della Bibbia
è strettamente legata alle vicende della storia.
Nel 1800 si scoprirono le grandi letterature dell’Antico Oriente, prima non si sapeva
che c’erano perché non erano stati scoperti i testi, i famosi testi dei miti babilonesi. E
allora si disse: ci sono questi testi che parlano di cose simili a quelli della Bibbia, può
darsi che abbiano preso dalla Bibbia, visto che la Bibbia è sicuramente il più antico
(parla proprio dell’orine della terra!), e si credette anche di trovare delle conferme in
campo archeologiche con i luoghi citati nella Bibbia e scoperti dall’archeologia che
stava facendo anch’essa i suoi passi.
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Allora è chiaro che, se solo fino a 200 anni fa, questi capitoli sono stati ritenuti
cronaca e storia, non stupiamoci se anche noi facciamo fatica a superare questa idea;
tanto più che, proprio 1800 anni prima, questi bellissimi capitoli hanno molto
influenzato la cultura e soprattutto l’arte, e noi che siamo nel paese in cui ci sono più
opere artistiche al mondo siamo circondati da una quantità di rappresentazioni di
scene dei personaggi della Bibbia (la creazione, Adamo ed Eva, la rappresentazione
di Michelangelo nella cappella Sistina, i mosaici di S. Marco a Venezia), che ci
rappresentano questi fatti e questi episodi proprio come se fossero successi così.
Quindi è comprensibile questa nostra mentalità che fa fatica a dire: non dobbiamo
pensare che sia accaduto esattamente come è raccontato qua.
L’autore, che nel VI secolo ha steso queste pagine, le ha scritte non per dire: le cose
sono andate così, ma per dire che senso ha il cosmo, che senso ha l’uomo, perché
l’uomo si trova nel cosmo. Anche questa acquisizione, cioè che questi capitoli
appartengono ad un certo genere letterario, che sono addirittura debitori della
mitologia dei popoli coevi dell’Antico Vicino Oriente, è estremamente recente,
perché anche nella formazione dei sacerdoti, fino alla metà del secolo scorso, cioè
fino al 1950, gli studi teologici non avevano ancora recepito le nuove acquisizioni
della critica storica della Bibbia. È stato con la metà del secolo scorso e con il
Concilio Vaticano II che si è fatta questa rivoluzione nel modo di interpretare la
Bibbia e che poi è passata anche nelle facoltà teologiche, per cui da quegli anni lì si è
cominciato a insegnare tutte queste cose.
Adesso noi, avvertiti di ciò, esaminiamo il testo. È molto lungo qui non sto a
commentarlo versetto per versetto, ho scelto alcuni punti significativi. Anzitutto avete
notato che qui si parla di 7 giorni; e uno dice già: ma se è con la creazione che inizia
tutto e quindi anche il tempo, come è possibile che questa creazione è stata fatta in un
tempo che ancora non c’era? Vedete subito che non può essere una cronaca, che non
è assolutamente possibile che Dio abbia fatto il primo giorno, il secondo giorno cosi
come noi abbiamo letto. È una contraddizione. Allora perché in 7 giorni? perché
queste pagine sono state scritte dalla classe sacerdotale e risentono della liturgia del
culto liturgico che aveva il suo culmine nel sabato, nel settimo giorno per gli ebrei,
(che per noi cristiani è la domenica). Inoltre, ho letto: la terra informe, Dio vide, Dio
disse, Dio fece, in tutto questo testo, noi ritroviamo delle espressioni, delle immagini,
dei concetti che erano presenti anche presso gli altri popoli al tempo degli ebrei.
Grazie agli studi storici, archeologici, alla ricostruzione del mondo antico che si è
avuto dal 1800 in poi, abbiamo acquisito che in queste popolazioni, che sono vissute
nella famosa mezzaluna fertile, praticamente c’era una specie di una cultura comune,
(come oggi parliamo di cultura europea, oppure se parliamo di cultura ellenistica
dopo Alessandro Magno), un insieme culturale molto simile, perché nei testi di questi
vari popoli, noi troviamo proprio elementi simili: per es. si parla di creazione
dell’uomo, si parla di una pianta dell’immortalità. E ogni popolo aveva dei miti che
sono stati scoperti solo due secoli fa.
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Che cosa è successo? È successo che i primi autori, che hanno deciso di scrivere
queste pagine, per rispondere agli interrogativi che abbiamo detto (cioè il senso del
mondo, dell’uomo, ecc.) secondo la loro esperienza religiosa, si sono trovati di fronte
ad un problema, che non sempre avevano gli strumenti adatti per scrivere queste cose,
e allora si sono serviti di strumenti presi da queste altre culture, visto che c’era questo
collegamento, e perciò hanno usato espressioni, immagini, miti presi anche da queste
altre culture, ma solo come mezzo espressivo, cioè se ne sono serviti per dire quello
che loro con la loro esperienza religiosa avevano capito. Lo vedremo molto bene in
un paio di esempi.
Gli ebrei si sono serviti di molti elementi della cosmologia degli antichi, cioè l’idea di
cosmo che avevano, però l’hanno modificata in base alla loro esperienza religiosa e
alla rivelazione che avevano da Dio. Com’era l’universo secondo agli antichi?
(naturalmente siamo molto prima di Copernico e Galileo) La terra è il centro
dell’universo. E come è collocata? È sorretta da alcune colonne, la terra è un disco
coperto a mo’ di campana dal firmamento, dove sono appesi il sole, la luna, le stelle.
Al di sopra ci sono le acque primordiali: piogge, nevi, grandine, quando si aprono le
cateratte del cielo, cioè le porte, ecco il diluvio universale. Quando piove, perché
piove? perché ci sono delle fessure, dei buchi attraverso le quali le acque primordiali
passano e arrivano sulla terra, cosi si spiegavano i fenomeni atmosferici.
Gli ebrei cosa dicono? anche per loro la terra è al centro dell’universo, c’è il
firmamento sopra, la volta celeste, le acque primordiali, però attenzione: qui c’è il
trono di Dio, Dio sta al di sopra di tutto. Nella visione degli ebrei, naturalmente Dio è
il Signore, dunque ha il suo trono sopra anche le acque primordiali; e poi la terra è
vista in una forma quadrangolare con le sue colonne, e, tra l’altro, c’era la credenza
che i venti che spiravano dai lati fossero favorevoli, invece quelli che spiravano dagli
angoli fossero nocivi.
In principio Dio creò il cielo e la terra: quando dice cielo e terra i due termini sono
usati in senso generale, per dire tutto l’esistente: quello che è in basso e quello che è
in alto. Poi l’autore passa a dire la terra era informe e deserta e le tenebre
ricoprivano l’abisso, non c’era ancora quello che vediamo adesso. Se voi cercate di
immedesimarvi nell’autore di questa pagina, vi accorgete che è come se quest’autore
guardasse le cose con gli occhi grandi e meravigliati di un bambino, come se lui si
fosse immedesimato a sua volta nella psicologia del primo uomo e allora registra le
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cose man mano che gli appaiono sotto gli occhi e secondo un certo ordine.
Ovviamente non vuol dire che Dio ha fatto così, perché come Dio ha fatto, lui non lo
sa, ma vuol far vedere che nella creazione c’è un ordine.
Ovviamente si parte dal grande: tutta la terra e il cielo, e la prima cosa che nota sono
la luce e le tenebre, poi il firmamento. L’ordine con cui lui nota le cose e che noi
abbiamo letto, è un ordine non genetico (non è che prima c’è stato questo e poi l'altro,
questo non poteva saperlo), però così facendo anche il nostro autore ebreo costruisce
una sua cosmogonia, come c’erano le cosmogonie dell’Antico Vicino Oriente.
“Cosmogonia” vuol dire cosmo = universo, gonia = generare, cioè una spiegazione
dell’origine dell’universo. La cosmogonia è una spiegazione dell’origine
dell’universo che ha sia basi mitologiche che scientifiche, ovviamente nel mondo
antico, quando non c’era la scienza, le basi erano solo mitologiche, c’erano questi
miti tramandati di padre in figlio. La scienza nasce nel VI secolo, ma in Grecia, con
Talete, nasce la filosofia e all’inizio filosofia e scienza erano la stessa cosa.
Quindi questa pagina non va assolutamente letta come una pagina di spiegazione
scientifica dell’origine del cielo e della terra, ma piuttosto come quella che vuol dare
il significato di queste cose. Il significato qual è? chiaramente che Dio sta alla base di
tutto, che Dio crea tutto. E poi nell’ordine si vede prima la luce: Dio disse, la parola
di Dio che non è soltanto una parola che comunica, ma è una parola che fa, e infatti in
ebraico si usa lo stesso termine per dire e fare.
Sia la luce e la luce fu, che vuol dire: cominciò ad esistere. Si cerca di dire che cosa è
la creazione.
Noi oggi sappiamo darci una definizione, ricordiamo quella del Catechismo: è l’atto
con cui Dio promuove all’esistenza, cioè fa esistere, fa nascere dal nulla, e al di fuori
di sé un qualcosa che prima non c’era, la conserva nella sua esistenza, perché nella
nostra fede c’e l’idea di creazione continua; Dio ha fatto esistere all’inizio e continua
a far esistere. Noi, dicendo questa definizione, ci serviamo di concetti che per noi
sono familiare perché appartengono alla nostra cultura, ma allora non c’era filosofia,
non c’èra speculazione, metafisica, non c’era l’idea del nulla, dell’eterno.
Allora l’autore per far capire concretamente tutto questo, cioè che Dio ha creato, ha
fatto esistere qualcosa, cerca di intuire come doveva essere la situazione prima che
Dio intervenisse con la sua opera creatrice, e quindi pensa che ci sia questo abisso,
queste tenebre, non perché sappia che era così, ma perché dice: se adesso il mondo è
così con le stelle, il sole, la luna che danno la luce, ecc., prima di questo doveva
essere l’opposto, cioè buio e caos. Il famoso caos di cui parlano anche gli altri miti, il
tehôm, l’abisso, il mare primordiale confuso e indistinto, dove la terra era informe e
deserta e le tenebre coprivano l’abisso. In ebraico c’è tôhû wābôhû , con questo
suono che ritorna
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L’autore ebraico si è servito anche di elementi presi dalla cultura circostante, però
cambiando. Vediamo un confronto e quindi una differenza. I babilonesi avevano un
poema chiamato Enuma Elish che vuol dire “quando in alto”; in quel poema si
raccontavano le origini del cielo e della terra come lo abbiamo letto adesso nella
Bibbia. Infatti questo poema iniziava così:
Analogia: certo anche loro parlano di caos, di qualcosa che non c'è ancora quindi
immaginano il contrario. Ma poi notiamo subito una differenza radicale, perché in
Genesi si ha una cosmogonia, cioè si spiegano quali sono state le origini del cielo e
della terra, del cosmo, qui invece leggiamo che dopo il caos gli dei furono formati, si
parla di un origine degli dei. Infatti il poema più avanti ci racconterà l’origine di
Marduk, che diventerà poi il dio principale del loro panteon.
L’autore, che conosceva questo poema, ha voluto invece insistere e far capire che per
gli ebrei non era affatto così. Prima di tutto non c’erano diverse divinità, maschili e
femminili, come abbiamo letto prima, e in secondo luogo Dio esisteva già da sempre,
non ha avuto un’origine, perché il libro incomincia: in principio Dio creò il cielo e la
terra. Dio c’era già. Quindi si è servito di un testo simile, ma nello stesso tempo ci ha
fatto capire con i mezzi che aveva allora a disposizione, questa idea di creazione, cioè
di un Dio eterno che ad un certo punto fa esistere ciò che non esisteva.
Invece l’autore biblico per paura che venisse equivocato, neppure usa i nomi propri,
ma dice: la luce maggiore e la luce minore, per far capire che il sole e la luna non
sono affatto due divinità per gli ebrei, come era per gli altri popoli, ma sono creazione
di Dio con una certa funzione: per dare luce e segnare lo scorrere del tempo e quindi
sono creazioni. Ancora insiste sull’assolutezza e l’unicità di Dio. Infatti il
monoteismo è stato il grande annuncio che il popolo ebraico ha portato contro tutti i
popoli intorno che invece erano politeisti.
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E così via quando parla degli animali, ne parla con i termini in uso allora, quindi li
distingue: domestico, selvaggio, secondo le “nozioni scientifiche” di allora; e poi si
conclude col famoso settimo giorno.
Perché sette? i numeri della Bibbia hanno sempre valore simbolico e sette è un
numero particolarmente significativo, perché indica proprio la completezza, la
perfezione, la pienezza, la totalità, e, tra l’altro, non solo qui si parla di 7 giorni, ma
addirittura il numero sette ricorre tantissime volte in questo testo: 7 sono le diverse
formule usate dallo scrittore per descrivere la creazione: Dio disse, sia, avvenne, vide
che era cosa buona, Dio fece, Dio creò, fu sera e fu mattina. Sette volte risuona il
verbo creare (bara’). Il nome di Dio (’Elohȋm) è ripetuto 35 volte (7x5).
Cielo e terra appaiono 21 volte (7x3); altro numero sacro il tre.
Ma cosa vuol dire la settimana? perché Dio fa delle cose dal primo al sesto giorno e
poi nel settimo si riposò? Perché chiaramente è un riflesso della settimana liturgica,
cioè del senso del tempo che avevano gli ebrei, sei giorni di lavoro e uno di preghiera
dedicato a Dio. Soprattutto l’autore biblico vuole sottolineare che c’è da parte di Dio
un creare e c’è un cessare da ogni lavoro. Poteva anche non esserci, poteva anche
dire: ha fatto questo e quest’altro, basta. Invece no, c’è un giorno in più in cui Dio
non crea, in cui Dio riposa.
Allora il senso di questa cosa, la rivelazione che l’autore vuole dare è proprio questo:
anche per l’uomo qual è il senso del tuo tempo? Il senso è che tu per sei giorni lavori,
ma il lavoro non è la cosa più importante nella tua vita, perché la settimana finisce
con settimo giorno, che è quello della cessazione del lavoro, della pausa, in cui tu
entri nel riposo di Dio - dicono gli ebrei - in cui tu dedichi del tempo non a fare, a
produrre, a lavorare, ma a contemplare, a pregare, a rivolgerti al tuo Creatore. Infatti
si può notare che nel settimo giorno non si dice e fu sera e fu mattina, come per tutti
gli altri, e quindi c’è questa distinzione forte, perché il settimo giorno è il giorno di
Dio, è il giorno eterno, il giorno della comunione con Dio e anche che rappresenta la
destinazione dell’uomo, che è quella di entrare al termine della sua vita e del suo
lavoro in comunione con Dio.
Ecco l’importanza liturgica del sabato per gli ebrei e della domenica per i cristiani.
Concludendo pur servendosi di elementi mitici, l’autore intesse un racconto
assolutamente originale che non ha paralleli nelle altre culture e religioni, un racconto
che vuole insegnarci questo: il mondo è stato creato, quindi dipende da Dio e nel suo
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piano originario il mondo è ordinato, è bello, quando appunto Dio dice che era buono,
in ebraico “buono” è tôb, che vuol dire anche bello.
Queste pagine si occupano quanto mai di questioni molto dibattute come il rapporto
scienza-Bibbia e scienza-fede. Fino al 1800 i capitoli Gen 1-11 erano ritenuti
documenti storici. Ma intanto il progresso dell’uomo era andato avanti, si erano fatte
scoperte, anzi il 1800 è stato un secolo di grandi scoperte nella paleontologia, nella
geologia, nella fisica. E allora nasce subito il problema: chi ha ragione? la Bibbia che
dice Dio ha creato in 7 giorni o la scienza? Chiaramente non si potevano mettere
d’accordo le due cose, c’era una clamorosa contraddizione. Questo è andato avanti
fino alla metà del secolo scorso quando c’era la tendenza ad interpretare la Bibbia in
maniera abbastanza letterale.
Poi grazie agli studi che si erano iniziati sulla Bibbia si è arrivati a queste
conclusioni: non è vero che Dio ha creato in 7 giorni come è scritto nella Bibbia.
Abbiamo assodato il senso che l’autore vuole dare a queste pagine, lo scopo che si
era prefisso. E allora si è arrivati a capire che non c’era più contraddizione, non
poteva esserci contraddizione perché la natura che è opera di Dio non poteva essere
in contrasto con la parola stessa di Dio. Voleva dire che dovevano essere interpretate
in modo diverso, ma che non potevano essere in contrasto.
Cosi possiamo dire, sfruttando le parole di due grandi (S. Agostino e Galileo) che già
da prima avevano detto che la Bibbia non vuole dire la verità scientifica sul corso del
sole e della luna; dice Galileo: la Bibbia non ci dice come va il cielo, ma ci dice come
si va in cielo. La Bibbia ci dà degli insegnamenti per la salvezza dell’anima.
Il papa Giovanni Paolo II, in un discorso nel 1980 agli scienziati di Colonia, ha
ufficialmente ribadito la cosa: fede e scienza appartengono a due ordini di
conoscenza diversi che quindi non vanno sovrapposti, perché sono due campi diversi.
Non solo, ma mi riferisco al periodo più recente, ormai si vede che tra scienza e fede
c’è una fruttuosa collaborazione; visto che si tratta di due piani diversi, possiamo dire
che sono complementari e cioè che si aiutano a vicenda mantenendo i loro diversi
campi d’indagine, perché la scienza indaga soprattutto su cosa è l’universo e come è
nato l’universo; la teologia e la fede invece ricercano il senso dell’universo, da chi
viene, chi sta all’origine di tutto. Era l’intenzione dello stesso autore biblico.
E, se vogliamo un altro testo ufficiale che dice bene come devono stare i rapporti tra
scienza e fede, rifacciamoci alla Gaudium et Spes (Costituzione pastorale sulla
Chiesa e il mondo contemporaneo del Concilio Vaticano II, dove c’è un segnale di
grande cambiamento) che dice al n. 36 : “La ricerca metodica in ogni disciplina, se
procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali, non sarà mai in
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reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà di fede hanno origine
dal medesimo Dio e dunque non possono entrare in contraddizione”.
Ha detto bene Einstein: “La scienza senza la religione è zoppa. La religione senza la
scienza è cieca”. Possiamo dire che ne abbiamo varie riprove. Perché è un dato di
fatto che nella seconda metà del XX secolo proprio gli straordinari risultati conseguiti
dalla scienza, nel campo dell’evoluzione dell’uomo, della terra, dell’universo hanno
stimolato ed in un certo senso costretto i teologi a leggere in modo nuovo la Scrittura,
proprio perché bisognava in qualche modo risolvere il problema e spiegare queste
vistose discordanze tra il racconto biblico e i risultati della scienza. E cosi si è giunti a
questa interpretazione più corretta del testo biblico che vi ho detto prima.
Oggi non è più così. Oggi proprio questi temi che vi ho citato fanno parte anche della
ricerca scientifica; cioè i due campi si sono un po’ avvicinati. E così ad esempio oggi
gli scienziati non si limitano a scoprire e ad esprimere in termini matematici le leggi
della natura, ma si chiedono: da dove vengono e cosa sarebbe il mondo se le leggi
della natura oggetto del loro studio fossero diverse da quelle che sono? Se lo
chiedono gli scienziati in quanto scienziati. Oppure come sarebbe la natura se non
avesse nessuna legge?
È solo dall’inizio del ‘900 che ci sono queste due teorie, due modelli: il big bang e lo
stato stazionario. Però è prevalsa la teoria del big bang. Come ci si è arrivati?
osservando le galassie (sistemi stellari che contengono miliardi di stelle) che noi
vediamo come strisce luminose. La galassia per antonomasia è la nostra, la Via lattea,
che contiene almeno 400 miliardi di stelle. La fisica moderna, analizzando il modo in
cui le galassie si stanno allontanando le une dalle altre, è riuscita ad arrivare a capire
che più di 13,7 miliardi di anni fa, queste galassie erano tutte riunite in un solo punto,
chiamato “big bang”, che vuol dire appunto “grande esplosione” (cfr. sussidio n.2
pag.9).
C’era una materia oscura ultracomplessa, dove ad un certo punto si verificò questa
esplosione, cioè un nucleo di idrogeno dotato di formidabile energia esplode e si
espande emanando una luce incredibilmente luminosa, che poi non si è mai più avuta
di tale intensità, e in quel momento l’universo era molti miliardi di volte più piccolo
della capocchia di uno spillo, cioè era grande come un atomo.
Poi una frazione di secondo dopo il big gang, la temperatura era scesa a 10 miliardi di
gradi, che è una temperatura 1000 volte maggiore a quella attuale del centro del
nostro sole, dopo 3 minuti era scesa a 1 miliardo di gradi, temperatura presente oggi
nelle stelle più calde. A questo punto, a questa temperatura le particelle della materia
interagiscono tra di loro e si trasformano in idrogeno e elio. Da quel punto lì ebbero
inizio materia, energia, spazio e tempo. Anche il tempo ha avuto un’ origine e avrà
una fine.
Poi circa un miliardo di anni dopo il big bang, qua e là, in questa enorme sfera di
idrogeno e elio si sviluppano delle contrazioni che si condensano fino a formare le
prime galassie e le prime stelle che vivono bruciando idrogeno che si trasforma in
elio, e liberando energia, energia risultante sotto forma di calore e luce. Così circa 4
miliardi e 55 milioni di anni fa si formò il sole. Noi di tutto questo abbiamo un’eco di
quel grande botto che fu il big bang: una radiazione, un mare di onde che ha la
temperatura di –270 gradi ed è quanto rimane dell’esplosione. Fu scoperta nel 1965
da Penzias e Wilson, insigniti del premio Nobel nel 1978, e oggi evidenziata da
satelliti e palloni-sonda, al punto che al suo interno si possono misurare variazioni di
temperature dell’ordine di 30 milionesimi di grado!
Questo dice la scienza sull’origine dell’universo. Noi abbiamo letto nella Bibbia: Dio
da un caos informe fece esistere quello che prima non c’era e quindi abbiamo sempre
detto che Dio è all’origine di tutto e, usando la terminologia di S. Tommaso, Dio è la
causa prima del mondo, anche se poi si scoprono delle leggi naturali che hanno un
loro percorso, senza tirare in ballo Dio in ogni momento, però Dio è la causa prima.
Oggi si preferisce non usare questo termine “causa” che ha altri significati, ma
comunque si dice che Dio è la spiegazione ultima del mondo.
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Questa totalità può essere descritta come una sfera simile alla superficie della terra,
con la distanza dal polo nord che rappresenta il tempo immaginario. Col big bang ha
origine tutto, l’universo comincia al polo nord e man mano che procede i paralleli
diventano più grandi e corrispondono all’espansione dell’universo col tempo
immaginario. Tutto questo si espanderebbe fino al massimo, che corrisponde
all’equatore della terra. Dopo di che comincerebbe di nuovo a contrarsi, non è infinita
questa espansione (anche se oggi ci sono diverse teorie a riguardo).
Oggi la fisica, la scienza dice: qualcuno o qualcosa è stato la causa non fisica
dell’evento della creazione cioè nell’origine della realtà. Si ammette che ci sia un
qualcosa che sfugge al nostro controllo, che sta prima dell’origine di tutto, una causa
non fisica dell’universo fisico. Perché è una causa che non risponde alle stesse leggi
dell’universo fisico. Una causa che può essere chiamata “il creatore”, per noi credenti
è Dio naturalmente, mentre per esempio per la nota astronoma Margherita Hack
(notoriamente non credente, come continua a dichiararsi) è l’energia, un’energia in sé
che è la causa non fisica di questo universo fisico.
Lei dice molto apertamente che a lei la spiegazione di Dio creatore non la soddisfa.
(Sinceramente sono rimasta un po’ male, perchè l’ha detto paragonando questa
spiegazione a una favola come la Befana o Babbo natale, credo che ci sia un po’ di
differenza!).
Don Giovanni d’Ercole, teologo che dibatteva con lei, glielo ha anche fatto notare
dicendo: allora lei prende per infantili i milioni di persone che credono in questo Dio
creatore? lei ha risposto: no, io rispetto, dico che per me è cosi.
Monod nel 1970 diceva: l’antica alleanza è infranta, l’uomo finalmente sa di essere
solo nell’immensità indifferente dell’universo da cui è venuto per caso, e quindi Dio
proprio non esiste.
Però in realtà è accaduto che proprio lo sviluppo scientifico ha fatto capire a
scienziati e non che la scienza non può mai assolutamente, in nessun caso credere di
aver raggiunto delle verità inconfutabili.
È noto che nel campo scientifico nel secolo scorso si è imposto il famoso principio
della non falsificabilità. Nessuno più oggi crede che la scienza possa raggiungere
delle verità assolute, incontrovertibili e dogmatiche, ma una teoria scientifica è vera
finché non si fanno altre scoperte che possono dimostrarla falsa e superata. Di questo
tutti gli scienziati sono convinti.
Da una recente inchiesta risulta che l’80 - 90% degli scienziati non ritiene che la
scienza possa rispondere a tutti i perché dell’uomo. Cosa invece di cui si era convinti
due secoli fa.
Questo rapporto scienza e fede si è sempre posto, perché ancora Galileo diceva: nelle
mie scoperte scientifiche ho appreso più dalla divina grazia che non con il telescopio;
oppure Pasteur (altro esponente della scienza del 1800) diceva: un po’ di scienza
allontana da Dio, ma molta ci conduce a lui.
Einstein ha sempre manifestato una profonda religiosità. Nel suo famoso libretto
“Come io vedo il mondo” scrive: “La religiosità dello scienziato consiste
nell’ammirazione estasiata delle leggi della natura, gli si rivela una mente così
superiore che tutta l’intelligenza messa dagli uomini nei loro pensieri al suo
confronto non è che un riflesso assolutamente nullo”.
Il noto scienziato italiano Antonino Zichichi, autore del libro “Perché io credo in
colui che ha fatto il mondo”, scrive: “Più progrediscono le conoscenze scientifiche e
più si spalancano altri orizzonti di stupefacente perfezione e progettualità che
implicano l’esistenza di una Mente superiore”.
Enrico Medi è stato uno scienziato profondamente credente, cattolico, che addirittura
ha preso come sua guida proprio l’Imitazione di Cristo. Altro esempio di come sia
possibile conciliare scienza e fede.
19
Occorre evitare un rischio che è quello a cui si contrappone Margherita Hack, e cioè
quello di fare di Dio un tappabuchi. Con tutto che la scienza adesso è ancora più
consapevole dei suoi limiti, là dove non arriva la scienza ci mettiamo Dio, questo è il
rischio di fare di Dio un tappabuchi. Noi siamo consapevoli che non è così che si
deve fare, però siamo anche consapevoli che il discorso di Dio si pone sempre in quel
livello e in quel piano in cui non c’è più l’oggettivo, lo sperimentabile, le leggi della
natura, ma c’è il soggettivo, il soggetto.
Questo lo possiamo cogliere, perché noi abbiamo il senso estetico, il senso del bello,
e il bello non è riducibile ad analisi scientifica nel modo più assoluto. Quindi la
scienza può spiegare il come dell’universo, ma non può cogliere quello che coglie la
teologia, la metafisica e cioè cogliere lo spirito divino dietro l’ordine razionale
riconosciuto dalla scienza.
Tornando adesso alla nostra prima pagina della Bibbia, vediamo che in fondo sei
secoli prima di Cristo, si diceva la stessa cosa a cui siamo arrivati oggi, e cioè che
l’universo non è autosufficiente, lo ha dimostrato anche la storia, nessuna pretesa
dell’uomo di dominare tutto e conoscere tutto, deve la sua esistenza e il suo
permanere nell’essere a un Altro che lo trascende, dipende completamente da Dio.
Tra l’altro proprio di recente, il 3 ottobre, ho letto sul giornale un titolo che mi ha
colpito: “Ora la nuova sfida è la particella di Dio”. E cioè si è iniziata al Cern la
costruzione di un acceleratore LHC, che, a differenza del precedente, vorrebbe andare
a cogliere l’unica particella ancora mancante all’appello: la particella di x, nota anche
come particella di Dio. Essa sta all’origine di un meccanismo con il quale tutte le
altre particelle acquisiscono una proprietà primordiale come la loro massa. Fino ad
ora non si è capito il meccanismo all’origine della massa, cioè della proprietà più
comune che anche le particelle più strane hanno al pari degli oggetti della vita
quotidiana, proprio perché connessa al mistero della massa c’è quello della forza
gravitazionale. Questo acceleratore LHC dovrebbe riuscire a evidenziare le
asimmetrie e le diversità di comportamento più impercettibili.
Tornando al confronto tra la pagina che abbiamo letto prima e spiegato, e il punto
della storia dove siamo arrivati oggi, vorrei farvi notare una cosa estremamente
interessante: oggi la scienza dice che all’origine di tutto, questo famoso big bang, c’è
stata una luce intensissima. Quindi non sarà un caso che nella Bibbia abbiamo letto
20
che la prima cosa che Dio ha creato è la luce. Pensate che nel ‘700 con l’illuminismo
ateo, Voltaire in testa, molti sghignazzavano per quella misteriosa primogenitura,
dicendo che sarebbe stato più logico attribuire il primo giorno al sole e alla stelle da
cui proviene la luce e invece oggi la scienza afferma che la luce è alla base di tutto,
non solo dell’universo ma della vita.
Tutto ciò che esiste nell’universo è in relazione con la lunghezza d’onda della luce.
La luce proviene da un’unica energia, quella contenuta nell’atomo di idrogeno ed è la
luce del sole che alimenta e vivifica la cellula e quindi rende possibile la vita. Lo
vedremo molto bene la prossima volta quando vedremo l’uomo come creato da Dio e
come la scienza ci dice che è venuto fuori.
Dunque luce e vita sono unite in modo sorprendente, alla base di tutto c’è la luce.
Allora per un caso che la Bibbia affermi che la creazione iniziò proprio con la luce ?
Certamente noi sappiamo che la Bibbia è un libro particolare, con un contenuto
ricchissimo che si scopre sempre di più andando avanti col tempo. Perché più si va
avanti col tempo e più si scoprono nuovi effetti della Bibbia. Oggi come oggi
potremmo notare questo: che la scienza ha messo in luce una cosa che in fondo la
Bibbia aveva detto 4000 anni fa. “Fiat lux” è l’inizio di tutto.
Per completare il discorso, se abbiamo visto come è nato l’universo e da dove viene,
diciamo anche qualcosa su dove va, questo universo. Una teoria è quella del big
crunch: gli ultimi tre minuti dell’universo saranno questa grande implosione. C’è
anche un'altra teoria che parla di una lenta morte termica dell’universo, per cui
l’espansione si protrae ma, col proseguimento dell’attività termica delle stelle, una
volta esaurito il combustibile, si giunge alla dissoluzione delle galassie in enormi
buchi neri che tutto attraggono a sé.
Veramente le ultimissime teorie dicono che negli ultimi anni ci siamo accorti che
l’universo si espande sempre più velocemente come se contenesse un motore occulto,
appunto occulto. Infatti una delle prossime sfide sarà capire che cosa è questa energia
oscura.
Abbiamo detto che il sole è nato quasi 5 miliardi di anni fa e si dice che oggi è più o
meno di mezza età, cioè si prevede che durerà ancora 2,5 miliardi di anni, l’universo
dovrebbe durare almeno 10-20 miliardi se finirà secondo la teoria del big crunch e 80
miliardi di anni se finirà nell’altro modo dell’espansione.
E rispetto al sole come la mettiamo? Dice questo articolo: tra 3-4 miliardi di anni
l’idrogeno del sole si sarà tutto trasformato in elio e così cesseranno le reazioni
nucleari dovute alla fusione di idrogeno in elio, quelle reazioni che mantenevano in
vita la stella. Il sole si gonfierà sempre più fino a diventare 120 volte più grosso di
oggi, trasformandosi in una stella detta gigante rossa. Sarà così grande da raggiungere
le orbite di Mercurio e poi di Venere, che ingloberà. Allora avvicinandosi sempre più
alla terra, il calore del sole provocherà il ritiro degli oceani e la temperatura sarà di
centinaia di gradi e l’umanità non esisterà più, a meno che non abbia lasciato qualche
pianeta su navicelle spaziali. Ormai siamo nella futurologia.
Ma il pianeta Terra in sé e per sé forse si salverà tra questi 4 miliardi di anni, perché
durante la trasformazione della stella gigante rossa, il sole prenderà parte della sua
massa il che porterà a una diminuzione della forza di attrazione sulla terra e su tutto il
sistema solare, e il nostro pianeta scivolerà verso l’orbita di Marte e in quella fase il
nostro pianeta assomiglierà molto al Mercurio di oggi: non più cieli e mari azzurri,
ma un paesaggio tetro con un sole gigantesco che sembrerà avvolgere il pianeta.
Allora Plutone, il pianeta più piccolo e lontano dal sole, 6 miliardi di Km, presenterà
valori di temperatura e gravità simili a quelli terrestri attuali, si formeranno sulla sua
superficie vasti specchi d’acqua e l’atmosfera ricca di ossigeno e magari gli ultimi
uomini che son partiti con la navicella approderanno a Plutone.
Poi fra 7-8 miliardi di anni, il sole si trasformerà a poco a poco in una stella detta
nana bianca, cioè densa e compatta, con un diametro di circa 15 mila km, cioè 100
volte più piccolo di oggi, una stella fredda che in queste condizioni potrebbe vivere
ancora per centinaia di miliardi di anni.
Oggi come oggi gli scienziati sono divisi su quale dei due scenari sia il più probabile,
perché molto dipende dalla quantità di materia presente nell’universo. Ce ne sarà
abbastanza da fermare l’espansione e cominciare la contrazione una volta arrivata al
punto massimo, oppure siamo sotto la soglia necessaria ad impedire un espansione
infinita?
Allora Margherita Hack sostiene che, siccome le più recenti osservazioni provano che
la densità della materia è appena 40 centesimi di quella densità critica necessaria ad
ottenere il perfetto equilibrio tra forza di gravitazione e forza di espansione, il futuro
dell’universo è all’infinito, l’universo continuerà a espandersi all’infinito.
Però il 10 ottobre 2003 Giovanni Caprara sul Corriere della Sera scrive: l’universo
non è infinito come molti astronomi hanno immaginato, ma ha dei limiti ben definiti,
e per di più ha la forma di un pallone da calcio. In questa discussione in cui ci si
richiama anche a Platone, a Leonardo, a Keplero che avevano pensato ad uno spazio
racchiuso in una sorta di dodecaedro, grazie alle informazioni trasmesse da un
satellite, che cosa si è scoperto ? Che si sono delle onde (eco del big bang, che è
generato dalla nascita dell’universo, rumore di fondo che possiamo percepire) e più ci
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si allontana dallo spazio, le fluttuazioni diventano sempre più piccole, fino quasi a
scomparire, e ciò costituirebbe la prova che ad un certo punto l’universo finisce.
Vorrei concludere con un articolo del Sole 24 Ore di domenica 13 giugno 2004 dal
titolo “Inizio e fine del mondo”. Presenta due libri complementari uno sulle origini
dell’universo e l’altro sul futuro del nostro pianeta, entrambi di Martin Reese e cioè
“il nostro ambiente cosmico e il secolo finale”, perché l’umanità rischia di
autodistruggersi nei prossimi 100 anni.
È impressionante la cosa, abbiamo parlato di miliardi di anni per la fine naturale del
mondo, ma nel secolo finale Reese si pone questa domanda: riuscirà l’uomo a portare
a termine l’affascinante avventura di cui è protagonista? In questo libro non parla
tanto dell’ambiente cosmico ma del nostro ambiente quotidiano. Non sono solo le
calamità naturali, dice l’autore, come la collisione della terra con comete o asteroidi a
minacciare la sopravvivenza dell’umanità, ma ben altri pericoli, pericoli crescenti
creati dall’uomo, non più inquietanti di qualsiasi calamità naturale.
Ci sono poi i rischi insiti negli sviluppi delle ricerche biologiche e informatiche. Si
può ipotizzare che nel giro di una ventina di anni, il bioterrorismo o semplicemente
un bio errore possano distruggere la vita di un milione di persone. Cosa lascia
presagire questa prospettiva per i prossimi decenni, si chiede angosciato Reese, che
non ha molta fiducia in una educazione scientifica diffusa o nell’auto controllo
scientifico? egli è abbastanza scettico sull’esistenza di forme di vita extraterrestre o
sulla possibilità di creare un habitat per l’uomo nello spazio cosmico. In definita le
prospettive future non lasciano presagire nulla di buono.
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Ci troviamo in quella che forse è la congettura più drammatica nella storia del
pianeta, al punto che le probabilità che la nostra attuale civiltà terrestre sopravviva
fino alla fine del secolo in corso, non superano il 50%, siamo in sostanza ad un bivio.
Le nostre scelte potrebbero garantire un futuro eterno alla vita e non solo sulla terra
oppure la tecnologia del nostro secolo potrebbe mettere a repentaglio il potenziale
della vita. Insomma è del tutto verosimile che ciò che succederà sulla terra in questo
secolo farà la differenza tra una quasi eternità piena di forme di vita sempre più
complesse e stupefacenti e un'altra ridotta allo stato grezzo. Catastrofismo? Forse.
Certo è che la lettura di questo libro induce ad un pessimismo radicale che una
fiducia critica nella ragione dell’uomo può solo in parte attenuare. E qui ognuno si
affidi alla dose di speranza che ha.
Infine non si può non dire qualcosa sulle ultime notizie che i giornali ad agosto del
2004 hanno comunicato riguardo ai buchi neri, perché contrariamente a quanto
riportato dai giornali italiani, Stephen Hawking non ha rinnegato la propria teoria,
che continua ad essere eccellente e indiscutibile. Egli ha ammesso qualcosa di assai
diverso.
La teoria dei buchi neri classici ha come risultato il fatto che qualunque buco nero è
identificato da tre sole quantità: la massa, la carica elettrica e il suo momento
angolare (cioè quanto gira velocemente su se stesso). Il fatto che le proprietà del buco
nero siano individuate solo da queste quantità è stupefacente per un fisico, perché
trascura tutte le informazioni, cioè la storia, di come quella massa è arrivata sul buco
nero.
Per fare un esempio, la massa può essere dovuta a particelle di un solo tipo oppure ad
una mistura di particelle e antiparticelle, per un buco nero non fa nessuna differenza.
Ma per un fisico le particelle elementari si dividono in barioni (protoni e neutroni) e
in lectoni (elettroni, positroni, mooni e neutrini). Le leggi di conversazione dicono
che non si possono trasformare le une nelle altre e che il numero totale barionico,
cioè il numero di protoni meno il numero degli anti protoni e il numero totale
lectonico si conservano separatamente. Allora se per sapere le proprietà del buco nero
conta solo la massa, vuol dire che tutti i buchi neri risultano uguali, di qualsiasi
materia siano fatti, di soli barioni o lectoni, o barioni e antibarioni, o lectoni e
antilectoni. Cioè un buco nero nasconde l’informazione sulle proprietà della materia
che lo compone. Questo è già un bel problema.
Ma il problema vero viene ora: la teoria quantistica dei buchi neri ci dice che esiste
un processo che li fa evaporare e dunque sparire. Se mettiamo assieme la teoria
classica e quella quantistica dei buchi neri, otteniamo questo risultato: dopo un po’ il
buco nero scompare e l’informazione nascosta in esso cessa di esistere. Ma è ancora
peggio di così, perché la radiazione emessa nel processo di evaporazione è totalmente
indipendente dalle proprietà della materia. L’universo perde una quantità di materia e
non se ne trova la benché minima traccia.
24
Questa è una cosa che altrove in natura non succede mai. Se ho una scatola e ho
messo dentro del ghiaccio dopo un po’ ci trovo dell’acqua non dell’olio. Ma se l’ho
messo in un buco nero e dopo un po’ ripasso, quel ghiaccio si è volatilizzato senza
lasciare alcun tipo d’informazione nel frattempo. Molti fisici pensavano che questa
descrizione dei buchi neri fosse non sbagliata ma incompleta, ci fosse ancora qualche
piega da esaminare che permettesse di recuperare l’informazione apparentemente
distrutta. Hopkins non era uno di loro e in una famosa scommessa dichiarava che le
ricerche future avrebbero confermato questa straordinaria proprietà dei buchi neri.
È bene intendersi però: una scommessa riguarda qualcosa che avverrà in futuro, chi
scommetterebbe contro di me sul risultato della partita di ieri? La teoria quantistica
della gravitazione è assai incompleta e non ci è possibile sapere al momento se questo
paradosso sopravvivrà o no quando avremo trovato una teoria vera che metta assieme
gravità e fisica quantistica. La scommessa riguarda perciò una predizione sulla forma
finale della teoria che verrà. Hopkins ha quindi cambiato idea su una proprietà che
non era stata ancora completamente esplorata, non sulla propria teoria, non sui suoi
presupposti. Non credo che egli abbia fatto marcia indietro su qualche risultato
definitivo. Ha solo perso una scommessa su un risultato ancora in fieri.
(Articolo di Mario Vietri della Scuola normale superiore di Pisa).
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
LA creazione dell’uomo
Gen 2
Gen 2,4b-9; 19
4b
Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, 5nessun cespuglio campestre
era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata – perché il Signore
Dio non aveva fatto piovere sulla terra 6e nessuno lavorava il suolo e
faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare tutto il suolo – ;
25
7
allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle
sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.
8
Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò
l’uomo che aveva plasmato. 9Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni
sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della
vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.
19
Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e
tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe
chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri
viventi, quello doveva essere il suo nome.
È ormai accertato che soprattutto per quanto riguarda i primi 5 libri della
Bibbia che costituiscono il Pentateuco, l’attuale testo biblico è il risultato di due o più
documenti scritti anteriori, le famose fonti o tradizioni (cf. sussidio n.1 p. 2). A loro
volta queste fonti sarebbero qua e là una combinazione di scritti ancora più antichi.
Quindi questi libri portano visibili le tracce di diversi rifacimenti di molte generazioni
perché questi testi sono stati tramandati, prima oralmente (cf. la tavola biblica con la
cronologia dei fatti d’Israele, dei fatti storici contemporanei della formazione della
Bibbia), e questi testi mostrano i segni di tutto il decorso e di quasi tutte le fasi
bibliche e dello sviluppo spirituale di Israele.
Ora siamo nel 10° secolo, e guardando il foglio n. 4, si vede che all’altezza del
1000 a.C. c’è “prime raccolte scritte”: tradizione jahwista 10° secolo, quella che sta
alla base del testo di Gen 2.
26
Mentre quella di Gen 1 era del 4° secolo; il testo di Gen 2 è più antico, anche se
messo dopo. L’autore è probabilmente uno scriba del regno di Salomone che ha
regnato dal 970 al 931 e ha una corte alla quale vivono questi scribi o sapienti.
Lo scriba che ha scritto il testo era imparentato con circoli di saggi che si
ponevano domande sul senso della vita, in particolare sul bene e sul male. C’è poi
una bellissima corrente biblica detta sapienziale con i famosi libri di Giobbe , Qoelet,
Siracide, ecc.
Questo autore che doveva essere dotato di grandi capacità sintetiche, risistema
con un suo personale lavorio e con un suo contributo originale, tutto il materiale
ricevuto, facendone un complesso molto interessante e ordinato proprio allo scopo di
comunicare e insegnare un messaggio di tipo religioso.
Quindi i versi che ho appena letto e che nascono da questa fonte jahwista,
vanno visti nella loro inscindibile unità con tutto il blocco successivo dei cc. 3-11 e
che in sintesi contengono questi temi: al c. 2 abbiamo il secondo racconto di
creazione e poi il racconto della creazione di Adamo poi la creazione di Eva. Il c. 3: il
peccato originale nel paradiso terrestre, la cacciata dei progenitori dal paradiso
terrestre e poi nel c. 4 la nascita e il peccato di Caino che uccide il fratello Abele. Si
vedrà ancora un peccato più grave di quello di Caino (perché c’è sempre un
peggioramento nel comportamento degli uomini): il peccato di Lamech; e quindi il
peccato dei giganti che rappresenta il culmine della malvagità umana. Dopo di che al
c. 6 scatta la punizione di Dio con il famoso diluvio universale perché ormai la
malvagità degli uomini arriva a tal punto che Dio (dice la Bibbia con un’espressione
antropomorfica) si penti di aver fatto l’uomo, e allora c’è il diluvio universale, ma
insieme la salvezza di un piccolo gruppo di viventi, sia uomini che animali, grazie a
Noè. Infine in Gen 11 abbiamo ancora un peccato di orgoglio, ma dell’umanità nel
suo insieme, con la costruzione della torre di Babele e anche qui la relativa punizione.
Tutto questo blocco, i cc. 3-11, costituisce una riflessione generale sulla
condizione umana, che tenta di rispondere a quegli interrogativi che sono propri degli
uomini di tutti i tempi, ecco perché è cosi attuale questa parte di Gen 1-11.
Al termine degli incontri c’è l’attualizzazione, proprio perché le risposte che
noi leggiamo erano le domande agli stessi interrogativi che anche noi oggi ci
poniamo, e allora, senza volerlo, mi è venuto fuori questo corso diverso dagli altri che
ho tenuto finora più biblico-esegetici. Qui era indispensabile dare uno spazio allo
stesso tipo di problema che aveva affrontato l’autore jahwista del 10° sec. a.C. così
come si pone oggi, e naturalmente, cercando le risposte che oggi diamo, sulla scorta
della parola di Dio ma anche della storia che è passata nel frattempo in questi due
millenni.
Persico e l’Egitto, il deserto arabico, sono detti della mezzaluna fertile e hanno una
coinè culturale comune, un linguaggio comune. Quindi c’erano leggende dei tempi
primordiali che erano presenti in tutti i popoli e che noi troviamo anche nella Bibbia.
Per esempio il paradiso, il paradiso terrestre che troviamo nella Bibbia, un parco
incantevole per la sua irrigazione, l’abbondanza di frutti, era presente anche in altre
culture. L’albero della vita, l’albero prodigioso che dava la vita o che dava la scienza
era presente; oppure il potere ostile, il male, sotto forma di serpente o sotto forma di
dragone in altre culture. Infine un giardino bellissimo dove passeggiano gli dèi; infatti
nel paradiso terrestre si vede Dio che passeggia e conversa con l’uomo.
Non sempre abbiamo le fonti, cioè i testi originari degli altri popoli, però
quando li abbiamo (è stato soltanto nell’800 che si sono scoperte le letterature e i miti
dei popoli orientali, prima la Bibbia era l’unico testo, e rappresentava l’unico
documento dei tempi più antichi), confrontandoli con le pagine bibliche simili, che
hanno le stesse immagini, gli stessi miti, si vede benissimo come l’autore biblico li ha
reinterpretati. Già nel primo incontro abbiamo visto come l’autore sacerdotale del VI
secolo, parte subito dicendo in principio Dio creò il cielo e la terra, mentre i miti
babilonesi parlavano dell’origine degli dei. Oppure il sole e la luna, divinità adorate
negli altri popoli, non sono neanche nominate per paura che vengano fraintese e
adorate, sono creature che adornano il firmamento come le stelle e gli altri elementi
della creazione.
nome). Perché il serpente a differenza di tutti gli altri animali non ha spina dorsale,
striscia per terra, deve affaticarsi strisciando per terra e mangiando polvere, come
dicono anche Isaia e Michea? Come mai il rapporto con la donna non è sempre
pacifico e sereno ma è spesso minacciato da tensioni e addirittura dalla violenza?
Come mai l’arrivo di una nuova vita, motivo di grande gioia, avviene in mezzo a tanti
dolori, i dolori del parto? Perché l’uomo teme Dio e soprattutto (la domanda più
grande, più terribile a cui anche noi non sappiamo dare risposta, umanamente) perché
la morte, che sembra annullare tutto? e perché la morte suscita ribellione (c’è
nell’uomo l’istinto della vita, quindi è un naturalissimo timore della morte), perché ne
abbiamo tanta paura? Potremmo trovare un comune denominatore a tutti questi
interrogativi e cioè: perché il male? perché il dolore? Se Dio è buono e ha creato tutto
buono, perché l’uomo sperimenta così spesso il male, il dolore, la sofferenza?
Può essere interessante vedere quale risposta veniva data a questa domanda dai
miti babilonesi. Per esempio il poema babilonese Enuma Elish = “quando in alto”,
inizia dicendo: Quando ancora non c’era il cielo, gli dèi furono formati (mentre
abbiamo in Gen 1: In principio Dio creò il cielo e la terra).
Appena generati, gli dei entrano in lotta con il vecchio Apsu = principio (le
acque abissali dolci) di cui turbano il riposo.
Poi il dio Ea uccide questa divinità Apsu, e Tiamat (madre degli dèi) che
rappresenta le acque salate, per vendicare la morte di Apsu, scatena contro gli dèi
draghi e mostri di ogni specie capeggiate dal demonio Kingu (nell’ebraismo non c’è
traccia di divinità maschili e femminili, c’è solo JHWH).
Ora Marduk (che era la prima divinità babilonese) a capo degli dèi e in groppa ad un
uragano si slancia contro Tiamat uccidendolo.
Alla fine vincono gli dèi contro tutte queste forze malvagie rappresentate dalle
acque dolci, dalle salate, ecc. Ea uccide anche il demonio Kingu, poi mischia il
sangue velenoso del demonio Kingu alla terra e ne trae l’uomo, che così nasce
avendo in sé, nel suo stesso essere, la maledizione del demonio che porta al male e
alla morte. Così gli dèi si sono liberati loro del male e della morte, scaricandoli
sull’uomo. Ecco come il mito babilonese spiegava la presenza e la provenienza del
male.
da Dio; costruisce un suo progetto ritenuto più sicuro e migliore di quello di Dio e
rifiuta i doni di Dio.
Tutto questo l’autore l’ha capito proprio riflettendo sulla storia di Israele, che è
appunto un continuo ripetersi dello schema, come troviamo soprattutto nell’opera
storica deuteronomista. Esempio: Giudici 2,11: 11Gli Israeliti fecero ciò che è male
agli occhi del Signore, 13abbandonarono il Signore e servirono Baal e Astarte.
Allora Dio li punì.
Più volte si è ripetuto nella storia di Israele questo schema: l’uomo sbaglia di
sua iniziativa, quindi con una sua responsabilità, Dio lo punisce, ma gli dà anche la
possibilità di pentirsi e di ritornare a Lui.
L’esempio più clamoroso di questa punizione (così come è stata interpretata
dal popolo di Israele) è stata la deportazione a Babilonia. Siccome il popolo di Israele
era stato infedele sia nei suoi sudditi che nel re (i famosi peccati dei vari re di
Israele), Dio ha punito il popolo mettendolo nelle mani degli Assiri prima e dei
Babilonesi poi.
Dunque le situazioni negative della vita dell’uomo e della storia sono in gran
parte una conseguenza di scelte sbagliate degli uomini, del peccato commesso o dal
singolo o dalle entità maggiori come popolo. “In gran parte”, non totalmente, perché
c’è anche un male che colpisce l’innocente e che costituisce sempre il grande
interrogativo della vita in ogni tempo. Su questo è soprattutto il libro di Giobbe che,
non dà una risposta, perché una risposta è impossibile darla, ma che riflette su questo
mistero.
Il nostro autore riflette su tutto questo e capisce che gli uomini, responsabili del
male, possono uscire dalla situazione negativa prendendo coscienza del proprio
errore, riconoscendo di aver sbagliato di essersi allontanati da Dio, e tornando a Dio e
al suo progetto originario. Infatti, se Dio è buono e vuole solo il bene, la situazione
negativa o addirittura perversa del mondo (che, sia l’autore, che i suoi predecessori,
avevano ampiamente constatato) non può far parte del piano originario di Dio. Ecco
l’originalità di questa intuizione. Tutto ciò che è negativo non può far parte del piano
originario di Dio, perché Dio è assolutamente buono.
Solo che l’autore nella storia ha visto solo il negativo, e allora si è chiesto: ma
qual’era questo progetto? come poteva essere il piano originario di Dio sull’uomo e
sul mondo? come facciamo a conoscerlo? Ha usato allora lo stesso procedimento
dell’autore sacerdotale. Come l’autore ha individuato ciò che doveva esserci prima
della creazione? pensando al contrario di quello che vede nella creazione, di quello
che sperimenta; la creazione è un tutto ordinato, regolare. Allora il contrario della
creazione è il caos; la creazione è luce, il contrario è la tenebra.
E così questo autore, ovviamente ispirato da Dio, passa in rassegna i mali che
nella sua interpretazione di fede costituiscono le punizioni, i castighi di Dio per le
trasgressioni dell’uomo. E quali sono? Il lavoro faticoso e duro, i conflitti con gli
animali, il parto doloroso, le malattie, la morte. Questa è l’esperienza negativa
dell’uomo. E l’autore immagina una situazione contraria di benessere, in cui non c’è
nulla di tutto questo, in cui non c’è nessun affanno, e quindi dice tra sé: questo
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dovrebbe essere il progetto di Dio, il mondo ideale, quello veramente voluto da Dio,
che Dio ha creato e che però l’uomo ha rifiutato, privilegiando il suo personale
progetto.
Il risultato di questo elaborato immaginario è il famoso paradiso terrestre, e
quindi non è una realtà storica esistita, come per tanto tempo si è creduto. D’altra
parte è anche vero che non solo fino all’800, quando si è cominciata la critica della
Bibbia, ma addirittura fino al 1950 cioè prima del Concilio Vat. II, gli stessi sacerdoti
nei seminari studiavano i primi capitoli di Genesi interpretandoli praticamente alla
lettera.
Non possiamo stupirci come c’è tanta gente che abbia ancora in mente questa
idea (e quindi come spesso si sente dire: accidenti ad Adamo, perché per colpa sua
noi siamo…!). Non è mai esistito un paradiso terrestre, non è mai esistito un Adamo e
una Eva come personaggi storici, mai!
Queste pagine sono così perché sono i risultati di riflessioni sull’esperienza,
sulla storia di autori che poi, servendosi del materiale mitico dei popoli circostanti,
l’hanno narrato comunicando però un messaggio originale.
L’idea del “paradiso terrestre” è nata immaginando il progetto perfetto, buono,
solo positivo, che doveva essere per forza l’opposto del quadro negativo che l’autore
ha sperimentato e che noi vedremo nel c. 3, dopo il cosiddetto peccato originale: la
punizione che Dio ha dato all’uomo.
Così Dio crea l’uomo perché anche l’uomo collabori con Dio nell’atto creativo,
cioè nella coltivazione della terra.
Ma il messaggio che l’autore vuole comunicarci è che questo Dio che ha creato
l’uomo non è un tiranno o un re capriccioso o un despota o una divinità che vuole
scaricare sull’uomo (come facevano le divinità babilonesi) tutto il negativo; è un
Padre invece che si prende cura di noi. Infatti dice Is 64,7: Tu, Signore, sei nostro
padre; questo ha sperimentato di Dio il popolo di Israele: la sua paternità. Dio è
Padre e un Padre che ci ama e ci forma con le sue stesse mani uno a uno con infinito
amore.
C’è poi una grande novità nella Fonte Jahwista: non solo Dio plasma l’uomo
con polvere dal suolo, ma v. 7b soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo
divenne un essere vivente, che in ebraico si dice nepeš = anima. Dio
gli ha dato forma con l’argilla, ma per farlo vivere, soffia in lui attraverso le narici
(certo perché è attraverso il naso e la bocca che noi respiriamo, quindi è molto
realistico da questo punto di vista) un alito di vita che in ebraico si dice nišmat
hajjȋm (hajah è il verbo vivere), cioè dà all’uomo qualcosa di se stesso, della sua
vita intima, perché (in ebraico si vede bene il gioco di parole) vivere è il verbo
hajah da cui JHWH e da cui haj = vita.
“Alito di vita”= nišmat hajjȋm; tecnicamente però nešāmāh sarebbe il “respiro”, che
poi è precisato da “vita”, cioè un respiro vitale, che indica che è un essere che vive.
Di solito noi usando i termini e le categorie della filosofia greca, diciamo che
l’uomo è composto di carne e spirito, corpo materiale e anima spirituale, ma qui,
secondo la tipica mentalità semitica, l’autore ci comunica la persuasione, radicata in
Israele, che solo a Dio si deve lo spirito vitale, cioè la vita, sia degli animali che
dell’uomo. C’è un soffio vitale per tutti che è lo stesso, come dice Qoelet. Ma per
sottolineare la differenza rispetto agli animali e la superiore dignità dell’uomo,
l’autore insiste sul modo personale e diretto con cui Dio comunica all’uomo il suo
stesso spirito, cioè la vita.
Allora liberiamoci per un attimo dalle categorie greche che distinguono materia
e spirito, anima e corpo, e pensiamo: c’è questo nešāmāh, questo respiro che Dio dà
sia agli animali quando li fa esistere dando loro lo spirito vitale (era l’esperienza di
tutti che gli animali respirano, vivono, hanno le funzioni vitali come l’uomo) sia agli
uomini, però l’uomo è chiaramente distinto dagli animali perché in lui questo spirito
è infuso direttamente da Dio.
L’uomo è in una posizione diversa rispetto a Dio, sta di fronte a Lui come una
persona. C’è un abisso tra gli animali e l’uomo; e quindi l’autore ci fa vedere proprio
l’unicità della creatura umana che partecipa ad un tempo della terra, della materia, ma
nello stesso tempo partecipa dello spirito insufflatogli direttamente da Dio. Quindi è
fragile (la polvere poi si decompone), è limitato, ma anche divino nel medesimo
tempo. L’uomo è contemporaneamente legato al mondo, alla terra e a Dio, e questa
unità, che è un fatto unico nella creazione, è la sua grandezza e la sua bellezza.
Oggi si parla più spesso di “anima” per indicare l’aspetto spirituale dell’uomo,
ma la parola “anima” viene dal greco psichè che è dei Greci (quindi dopo il 6° sec.)
33
Genesi 1, 26-27
Che cosa vuol dire la frase creiamo l’uomo a nostra immagine a nostra
somiglianza che in ebraico sarebbe esattamente: secondo una immagine di
somiglianza?
34
Molte spiegazioni sono state date nel corso del tempo. Di solito ogni spiegazione è
influenzata dalla mentalità, dalla concezione antropologica e dalla percezione di
quello che è il proprium dell’uomo, lo specifico umano.
Perché si dice solo dell’uomo “a immagine e somiglianza di Dio”?
- perché per esempio l’uomo ha la posizione eretta rispetto agli animali. E
dunque rispetto agli animali, è l’unico che tende verso l’alto, cioè verso Dio;
- oppure si è detto: quali sono le caratteristiche proprie dell’uomo che non hanno
gli animali? certamente l’intelligenza, la memoria, la ragione, la parola;
- ancora: è l’anima la parte più spirituale dell’uomo, perché l’uomo ha una
dimensione spirituale, una vita spirituale;
- ancora: solo all’uomo si dice di dominare sugli animali, e quindi il dominio sul
creato potrebbe essere questa immagine e somiglianza di Dio.
Tutte immagini accettabili, ma se andiamo più a fondo, ci rendiamo conto meglio
della grande genialità dell’autore Jahwista che probabilmente dopo una lunga e
faticosa ricerca ha trovato questa formula così azzeccata.
Per capire meglio, cerchiamo di rifare il suo stesso percorso. Egli voleva
innanzitutto prendere le distanze da quel politeismo (adorare più dèi) e panteismo
(adorare come divinità elementi della natura) che dominavano nel suo tempo nelle
altre culture. In Mesopotamia e in Egitto uomini e animali costituivano un miscuglio
inestricabile in un turbinio di animali sacri. C’era una quantità di divinità come
animali sacri mischiati però agli uomini.
Per esempio Seth era un’antica divinità egiziana adorata sotto l’aspetto di
coccodrillo o di ippopotamo. E sappiamo quanto era grande in Egitto il panteon degli
animali.
Oppure c’erano esseri a metà uomini e a metà animali. Nut in Egitto era la
personificazione della volta celeste rappresentata come una donna, la madre del sole
(che è una divinità). Nut ingoiava ogni sera il sole e poi lo rimetteva al mondo tutte le
mattine.
Oppure c’erano i famosi titani metà animali e metà uomini o donne. Per
esempio la dèa della guerra era una donna leonessa, mezza donna e mezza leonessa,
era la famosa Sekhmet, molto crudele. Il famoso dio Anubi era uomo con la testa di
un cane. Thot, dio della saggezza aveva la testa dell’ibis. Horus era un uomo con la
testa di falco.
Questa era la cultura con cui aveva a che fare l’autore biblico, e lui invece vuol
far capire che l’uomo non ha niente a che vedere con gli animali, e quindi non
possono esistere forme di divinazione di esseri metà uomini e metà animali, perché
c’è una netta distinzione.
Ancora una volta la natura viene smitizzata. Non esistono per l’autore jahwista
animali che possono essere considerati delle divinità.
In secondo luogo l’autore biblico sottolinea la grande prossimità, la grande
vicinanza dell’uomo a JHWH. È solo dell’uomo “a immagine e somiglianza”, non
degli animali. Ho detto “prossimità”, “vicinanza”, non “identità”. Infatti l’espressione
è: una “immagine di somiglianza”, che tiene conto di un basilare comandamento,
perché i comandamenti storicamente erano già stati dati a Mosè sul Sinai, e già
35
Gen 1,28-30
del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito
di vita, io do in cibo ogni erba verde». E così avvenne.
31
Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona.
E qui vi faccio un’altra citazione del mito di Atrahasis (che prima ho citato per
dire l’origine dell’uomo), dove troviamo un racconto di origine che ci dà un’altra
spiegazione e vi aggiunge un altro elemento. Esso racconta che una volta l’uomo non
esisteva ancora, gli dèi erano divisi in due gruppi, gli Anunnaku, 7 grandi dèi, gli
Igigu di categoria inferiore costretti a lavorare per lasciare liberi gli Anunnaku. Ma
questo secondo gruppo un bel giorno si ribella e si astiene dal lavoro. Sciopero ante
litteram. Allora i 7 grandi dèi per i quali lavoravano gli Anunnaku decidono di creare
l’uomo per affidargli il lavoro e liberare così gli dèi dalla dura fatica.
Così l’uomo viene creato con la carne e il sangue velenoso del dio Kingu mescolato
con l’argilla, e così, creato l’uomo, gli dèi sono liberi dalla fatica del lavoro. L’uomo
viene creato così per lavorare, schiavo del lavoro da cui gli dèi sono stati liberati.
Vediamo come il racconto biblico si distanzia anche da questa spiegazione che
al tempo veniva data per capire come mai l’uomo si trovava in questo mondo e
doveva fare tanta fatica per lavorare.
37
Attualizzazione
Questo è un discorso molto grosso. Se per secoli si è avuta l’idea del corpo
identificato con la materia e dell’anima con lo spirito, a parte qualche tentativo di
congiungere, tipo Cartesio con la ghiandola pineale, adesso quello che è interessante
è che nel mondo d’oggi non c’è più quella netta contrapposizione tra la scienza e la
fede. Oggi possiamo osservare questo: la materia sembra sempre più fatta di vuoto
attraversata da particelle, campi di forza. (Se pensiamo cos’è l’atomo, che non
vediamo ad occhio nudo, ma il ferro è fatto di atomi, che a loro volta hanno i neutroni
e gli elettroni che girano; quindi c’è dentro un vuoto, flussi di energia). Anche le
masse apparentemente inerti nascondono potenziali di forza. La formula di Einstein è
E=MC2 (energia = massa per velocità al quadrato). La massa materiale può
trasformarsi in energia pura.
Quindi questa materia, che è il corpo, ha affinità con lo spirito. D’altra parte
anche l’anima e lo spirito non sono più visti come puramente spirituali. Basta vedere
le straordinarie conoscenze che negli ultimi 50 anni abbiamo raggiunto sul cervello.
Ora sappiamo quali molecole del nostro cervello sono interessate alla
produzione di endorfine e quindi anche come nascono le emozioni, i sentimenti,
elementi che prima si ritenevano solo spirituali, che invece hanno una base organica.
Ormai leggiamo articoli del tipo: “sì, abbiamo un’anima, ma è fatta di tanti
piccoli robot”; oppure: “l’anima funziona così: coscienza e computer”.
Oliver Sacks 10 anni fa a Padova tenne una conferenza rimasta famosa dal
titolo “Neurologia e anima”, sembra che le neuroscienze che studiano il cervello
siano in grado di dire tutto sull’origine anche della nostra vita affettiva, intellettiva,
emotiva.
Un articolo interessante del 2000 è questo: “Corpo e anima o semplice massa
di materia”, cioè l’uomo sarebbe un semplice ammasso di cellule che funzionano
come dei computer o è dotato di qualcosa d’altro chiamato abitualmente spirito o
anima?
Ci sono ormai famosi e numerosi neuropsicologi che sostengono che funzioni
elaborate come il senso morale, il pensiero, la socialità possono ridursi alle proprietà
della massa di cellule che costituiscono il cervello. Allora l’uomo sarebbe ridotto a un
computer. Però l’autrice dell’articolo dice giustamente: se prendo la mia poesia
preferita, posso farne una descrizione analoga a quella che fanno gli psicologi del
38
cervello, perché da un certo punto di vista non è altro che un insieme di versi
composte da parole che sono un pugno di lettere. Ma se prendo questo pugno di
lettere, tutti saranno d’accordo nel pensare che ciò non ha nulla a che fare con la
commozione che nasce dalla poesia. Ci deve essere un quid di più che fa sì che da
quelle parole, da quelle lettere nasca il proprium della poesia. Lo stesso si può dire
dell’uomo.
Lo stesso si può dire di un brano di musica: per quanto noi possiamo sezionare,
scandagliare, vedere le vibrazioni, ecc., non riusciremo mai a dimostrare la bellezza
del brano di musica. Così pure: non si riuscirà mai a dimostrare, a decifrare dal punto
di vista scientifico completamente quella che è la vita spirituale dell’uomo.
Dal punto di vista della fede, della teologia che cosa si dice?
Il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 al n. 365 dice: “L’uomo è anima e
corpo”.
Non dice: “ha un’anima e un corpo”, così risulterebbero cosificati. Ma dice:
L’unità dell’anima e del corpo è così profonda che si deve considerare l’anima come
la «forma» del corpo
(certo questo linguaggio è ancora aristotelico, tomistico); lo spirito e la materia,
nell’uomo, non sono due nature congiunte, ma la loro unione forma un’unica natura.
Ormai si fa strada questa idea che non si possa distinguere. Ho letto una
definizione di anima che ho trovato in una specie di glossario per la Divina
Commedia (quindi per capire i vari termini usati da Dante) e dice: L’anima è il
principio immateriale che dà al corpo la sua sussistenza e identità; in quanto
immateriale, l’anima non è soggetta a corruzione, perciò è immortale. Memoria,
intelletto e volontà sono le operazioni proprie dell’anima. L’anima separata dal corpo
dopo la morte gode, se è in grazia, della visione beatifica e attende la risurrezione del
corpo all’ultimo giorno del mondo con cui avrà la pienezza della gloria divina.
Questi sono termini classici, tradizionali di un linguaggio aristotelico-tomista,
perché San Tommaso ha espresso tutta la teologia cattolica in termini filosofici
aristotelici, prendendo le categorie di Aristotele.
Così il termine anima (in greco psichè) non vuole indicare la cosiddetta parte
spirituale dell’uomo in contrapposizione alla parte materiale, ma indica l’uomo in
tutta la sua completezza come essere vivente di una vita che ha il suo fondamento in
Dio. Così va inteso Mc 8,35-37 e Mt 10,39 dove appunto si dice: “chi perde la sua
vita la salverà”, e anche Mt 10,28 dice: “Non temete coloro che uccidono il corpo, ma
non l’anima, la psychè”. In questo passo, anche se sembra una contrapposizione tra
anima e corpo, in realtà si deve intendere per “anima” la vita dell’aldilà, nel senso che
il confronto non è tra corpo e anima, ma tra l’esistenza terrena che finisce (l’uomo è
come la polvere) e l’esistenza presso Dio nella risurrezione. La nostra fede ci dice che
con la morte non finisce tutto.
Magari prima avevamo l’idea di questa anima non ben definita che si staccava
dal corpo e volava via, adesso invece la teologia fa una differenza tra l’esistenza
corporea e l’esistenza che Dio ridà con la risurrezione dai morti, con la risurrezione
finale, e comunque nel frattempo la persona non sparisce del tutto, perché la sua
39
esistenza in qualche modo continua (notare che non è facile esprimersi su certi
concetti, perché per forza bisogna servirsi di certe categorie).
Oggi cosa si dice delle caratteristiche dell’anima che certamente è spirituale e
immortale?
La spiritualità, più che in termini di contrapposizione alla materia, va pensata come la
capacità di dominio libero sulla materia e come capacità di decidere di se stessi in
modo libero e definitivo di fronte a Dio. L’immortalità va pensata come un momento
di quella più generale immortalità che consiste nell’essere risuscitati da Dio, cioè
nell’essere accolti, amati, sostenuti da Lui in tutto il nostro essere.
Si sono abbandonati questi termini un po’ statici – materia, corpo, anima – e si
parla più di vita legata al corpo, alla materia, alla storia, all’esistenza terrena e vita
invece in Dio.
Dal momento in cui non si interpreta più la Bibbia alla lettera, cade anche
l’apparente problema del contrasto tra quello che dice la Bibbia (che appunto non va
40
preso alla lettera, quindi non è una verità scientifica) e quello che dice la scienza.
Quindi anche per quanto concerne l’evoluzionismo possiamo dire la stessa cosa.
Circa gli esseri viventi, in particolare l’uomo, una delle domande che più
frequentemente vengono poste (sempre nella scia del rapporto scienza e fede) è
questo: chi ha ragione? La Bibbia, che descrive l’origine dell’uomo nel modo che
abbiamo letto in Genesi, oppure la scienza che dice che l’uomo è derivato dalle
scimmie?
milioni di anni fa (cf. schema in fondo alla p.10). Abbiamo l’australopithecus nelle
due forme gracilis e robustus che già usavano i due arti (cioè le gambe, anziché i 4
arti come gli altri animali) per muoversi e afferravano con gli altri arti pietre, bastoni,
ecc. Poi a 2 milioni di anni fa risale l’homo habilis che ha il cranio e il cervello più
sviluppato, usa il linguaggio e fabbrica manufatti. E via via l’homo erectus 1 milione
di anni fa.
Poi l’homo heidelbergensis 400.000 anni fa e già compiva riti collettivi, poi l’uomo
di Neanderthal e infine l’homo sapiens 160.000 anni fa.
evoluzione con leggi sue proprie, ma dipendente da un Dio creatore secondo un suo
disegno, e invece visione di un mondo autosufficiente, capace di crearsi e
trasformarsi da sé (quella famosa energia che non si sa da dove viene, ma che dicono
c’è sempre stata) per eventi puramente casuali.
Il creazionismo
“Il caso e la necessità” è il titolo del libro (uscito nel 1970 e tradotto in 15 lingue) del
celebre biologo francese Jacques Monod, premio Nobel. È uno dei più lucidi assertori
di ateismo del XX sec.
Nel suo studio egli approfondisce la teoria molecolare del codice genetico presente in
ogni vivente: il famoso DNA. In questa struttura molecolare si inseriscono di tratto in
tratto “errori”, mutazioni casuali del codice genetico. Questi errori casuali, una volta
inseriti, vengono automaticamente tradotti e moltiplicati in milioni e miliardi di
esemplari.
Ecco dunque – secondo la sua teoria – il caso (cioè questi errori casuali) e nello
stesso tempo la necessità che tali errori si ripetano automaticamente e fedelmente
comportando i cambiamenti che abbiamo detto. Il segreto della vita è insomma
un’enorme lotteria. Secondo Monod non c’è nessun progetto, nessun programma, e
dunque nessun Programmatore. Quindi si oppone radicalmente al concetto del piano
del Creatore.
Mai prima di oggi, l’uomo ha avuto una così alta visione dell’opera e della
potenza di Dio.
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Gen 2
Nel secondo racconto di creazione dell’autore jahwista, Dio pone l’uomo, dopo
che lo ha creato, nel giardino di Eden. In questo caso ci troviamo di fronte a una
tradizione originale della cultura ebraica, perché non esiste nel mondo semitico, nelle
culture circostanti una sorta di tradizione di filone del paradiso terrestre. Ci sono dei
singoli elementi che l’autore prende anche da altre culture, però l’idea dell’Eden, del
paradiso terrestre, è assolutamente nuova. Il peccato in Gen 3 avviene proprio in
questo luogo. Quindi anche l’ambientazione è molto importante, perché è fatta con un
certo intento che l’autore ha.
8
Gen 2 Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente e vi collocò
l’uomo che aveva plasmato. 9Il Signore Dio fece germogliare dal suolo
ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui
l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del
bene e del male.
La prima domanda che viene spontanea a farsi è: che cos’è questo giardino creato da
Dio? è un giardino reale? si trova in una località identificabile? Diciamo subito di
NO, perché non esiste una località che si chiami Eden, la parola stessa Eden è un
termine delle lingue mesopotamiche che può indicare sia la steppa, sia la presenza di
una sorta di oasi nella steppa, di un luogo fertile alberato. In ebraico viene da un
nome che indica una pianura, una steppa, anche se poi per i significati assunti
successivamente evoca il paradiso terrestre. No. Sarebbe una steppa; infatti dice:
piantò a oriente di Eden – in questa steppa – un giardino, e vi collocò l’uomo.
Cominciamo a dire appunto che non è un luogo preciso, geografico. Tanto più
che, come racconta l’autore biblico, è Dio stesso che pianta il giardino. Quindi non
può essere di questo mondo, dove è l’uomo che semina, pianta e coltiva la terra.
Non solo, ma se due dei quattro fiumi, il Tigri e l’Eufrate, possono identificare
la Mesopotamia, non così gli altri due, perché uno si trova in India e uno in Africa.
Infatti la tradizione rabbinica e anche patristica normalmente identifica il Pison con il
Gange (che si trova in India) e il Ghicon con il Nilo (che si trova in Egitto).
Qual è il significato della costruzione del giardino da parte dell’autore biblico?
Utilizzare i quattro fiumi allora ritenuti più grandi di tutto il mondo. Sono, dal punto
di vista del mondo antico, un po’ la sintesi del mondo stesso, perché, se vi collocate
soprattutto in Mesopotamia, i quattro fiumi si collocano esattamente ai quattro punti
cardinali, quindi indicano simbolicamente la totalità del mondo in tutta la sua
bellezza, in tutto il suo rigoglio, in tutta la sua fecondità come si vede dalla grande
abbondanza di acqua.
Allora che cos’è in realtà questo posto? Questo luogo specifico creato da Dio
direttamente e così descritto? È un po’ il rovescio, la controfigura di quello che era il
paesaggio arido e durissimo da lavorare che era tipico della Palestina. Lo sfondo
storico-geografico della descrizione del racconto di Gen 2 è quello della Palestina,
mentre lo sfondo di Gen 1 è la terra lussureggiante della Mesopotamia.
L’intento dell’autore è quello di far vedere come doveva essere la creazione
appena uscita dalle mani di Dio. Non avendo altri termini di riferimento per
immaginarsela e rappresentarsela, prende esattamente l’opposto di quello che era il
negativo della sua esperienza: la terra, il paesaggio, il luogo dove si viveva, e ne fa il
contrario: un paesaggio fertilissimo, verdissimo, con grande abbondanza di acqua,
con tanti alberi e frutti. Così doveva essere la terra voluta da Dio.
15
Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo
coltivasse e lo custodisse.
Gesù sceglierà degli apostoli). In ebraico il verbo lāqah indica la scelta che Dio fa
di un popolo o di una persona per destinarlo ad una missione e a una comunione con
sé.
Infatti in Dt 4,20: Il Signore vi ha presi, vi ha fatti uscire dal crogiuolo di ferro,
dall’Egitto, perché foste un popolo che gli appartenesse, come oggi difatti siete. E nel
corrispondente greco, nel NT, troveremo ancora questo verbo con cui si dice che
Gesù sceglie, chiama, indica alcune persone specifiche perché diventino suoi
discepoli, e li chiama ad una particolare intimità, comunione con sé.
Questa scena prefigura, come intenzione di Dio ancora all’inizio del mondo,
quello che effettivamente poi avvenne storicamente, e che l’autore jahwista ha già
sperimentato nel X secolo, perché tutti questi fatti sono avvenuti prima di lui. Cioè
questo gesto prefigura l’elezione del popolo ebraico che Dio aveva fatto e quella
famosa terra promessa che Dio aveva appunto promesso prima ad Abramo, poi a
Isacco, a Giacobbe, ecc.
La descrizione stessa del giardino è molto simile alle varie descrizioni della
terra promessa che si trovano nella Bibbia. Ad Abramo, chiamato dalla sua terra, Dio
fa vedere la Palestina e gli dice: Io darò a te e alla tua discendenza questa terra.
Quindi il tema della “terra promessa” è un tema tipico della Bibbia e della storia di
Israele. Per esempio in Michea e in Zaccaria si descrive la terra promessa come una
terra bellissima, lussureggiante dove ciascun Israelita potrà vivere tranquillo sotto la
propria vite, sotto il proprio fico.
Dio pone l’uomo nel giardino perché lo coltivasse e lo custodisse. È una frase
molto importante perché dice quale deve essere il rapporto tra l’uomo e la natura che
Dio ha creato, e si collega a Gen 1,28: Siate fecondi, moltiplicatevi, riempite la terra,
soggiogatela e dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, su ogni essere
vivente che striscia sulla terra.
C’è la totalità del mondo anche qua: cielo, mare, terra. Qui si vede chiaramente qual è
il compito che Dio affida all’uomo nei confronti del creato: coltivare (un lavoro
dell’uomo nei confronti della terra), custodire e dominare.
“Dominare” nella traduzione italiana può sembrare un invito a spadroneggiare,
esercitare un dominio. Nell’originale ebraico rādah si indica l’azione del re che
domina, non in senso tirannico, ma nel senso che sempre Israele attribuiva alla
funzione del re: guidare, governare il proprio popolo in vista dello shalom, della vita
pienamente realizzata nella pace. Quindi ha più un significato positivo che non
negativo questo “dominare la terra”, che vuole dire appunto governarla in positivo.
Però col coltivare, custodire, governare, l’uomo non diventa padrone della terra. La
terra è di Dio, resta Dio il padrone della terra. L’uomo è un po’ il mandatario, il
fiduciario, qualcuno a cui Dio affida un compito nei confronti del creato.
16
Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di
tutti gli alberi del giardino, 17ma dell’albero della conoscenza del bene e
del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente
moriresti».
51
Qui non si dice una punizione da parte di Dio, ma si esprime quella che sarebbe
l’inevitabile conseguenza di questa pretesa dell’uomo di conoscere il bene e il male.
“Moriresti” si può intendere in due sensi: sia l’esperienza fisica del morire come
qualcosa che è innaturale per l’uomo che lo sgomenta, lo terrorizza, ma anche la
separazione dal Dio della vita, il perdere la comunione con Dio, come infatti vedremo
che accade con il peccato originale.
Questa proibizione, analogamente a quelli che erano i comandi in senso
negativo del Sinai, del Decalogo, ha questa funzione.
La creazione è buona, e per questo al centro del giardino c’è l’albero della vita,
ed è donata da Dio all’uomo, ma proprio questo dono necessita a sua volta della
proibizione, perché se non fosse così, se Dio non rendesse edotto l’uomo che non può
pretendere di fare quello che fa Dio, l’uomo seguendo il suo istinto e mettendosi al
posto di Dio, rischierebbe non solo di rovinare se stesso, ma di sfigurare la creazione
stessa, di stravolgere, di distruggere l’opera di Dio, perché, non essendone lui
l’autore, la userebbe male.
Non c’è divieto per l’albero della vita, anzi si dice: tu puoi mangiare di tutto.
Ma nel caso che l’uomo mangi dell’altro albero, cioè assuma quell’atteggiamento lì,
allora di fatto si preclude e si è vietato l’albero della vita e quindi muore (come infatti
avverrà dopo il peccato originale: Dio impedirà l’accesso all’albero della vita).
In sostanza l’autore vuole dire questo: se si mangia dell’uno, non si può
mangiare dell’altro. O si mangia dell’albero della vita e si accetta tutto come dono, si
riconosce il proprio limite di creature, oppure si mangia dell’albero della conoscenza
e del male, si pretende di mettersi al posto di Dio, e allora però si tratta tutto non
come un dono ma come qualcosa che è dovuto, qualcosa che è proprio e di fatto si
rischia di rovinarlo, proprio perché lo si sottrae a quello che è il suo vero Autore, al
suo Creatore. Se si riconosce di essere creature, di essere dipendenti da Dio, allora
bisogna lasciare che Dio sia Dio e non cercare di sostituirsi a Lui, e allora si può
usufruire in maniera corretta dei suoi doni.
Questo divieto, che in un primo tempo potrebbe sembrare molto strano o
quanto meno arbitrario (perché Dio deve dire così?), se cerchiamo di capire la logica
dell’autore, di capire il contesto, vediamo che non è più un divieto arbitrario,
dispotico, ma piuttosto è una misura di protezione, sia per l’uomo da se stesso perché
non stravolga il suo essere creatura con tutte le conseguenze negative che ne
derivano, sia a misura di protezione della creazione stessa, opera di Dio, da un uomo
che possa diventarne un padrone tiranno e spadroneggiante la creatura.
53
Perché mai l’autore del X secolo ha creato questo bel racconto con tanti
particolari annettendo a ciascuno di essi un messaggio, un significato? Proprio perché
lui vuole dare una risposta diversa da quella che davano le altre culture circa l’origine
del male, del negativo nella vita dell’uomo. Il male non deriva dalla divinità (cf. il
mito di Enuma Elish: l’uomo nasce dalla mistura del sangue avvelenato di un
demonio e della terra), ma il male molto spesso è una conseguenza di scelte libere e
responsabili dell’uomo, che si arroga dei diritti che non ha, pretende di fare quello
che non tocca a lui fare.
Dietro c’è sempre l’esperienza storica che il popolo di Israele ha già vissuto.
JHWH ha stretto con Abramo, il capostipite degli Ebrei, un’alleanza, che ha poi
rinnovato con ogni discendente di Abramo: con Isacco, Giacobbe e poi con Mosè,
rappresentante del popolo di Israele sul Sinai col dono dei dieci Comandamenti, ma a
questa condizione: che il popolo di Israele riconosca di essere il popolo scelto da Dio,
riconosca che Dio lo ha scelto con una certa missione e gli sia fedele. Perché se
invece gli sarà infedele, trasgredirà la Legge, si rivolgerà ad altri idoli, di necessità
incorrerà in situazioni negative: subirà l’invasione di popoli stranieri, diventerà
schiavo, ecc.
inizio bellissimo, armonioso, straordinario sotto il regno del dio Saturno (che era il
padre di Giove, prima che Giove diventasse il padre degli dèi). Un periodo di assoluta
pace, prosperità, senza nessuna fatica, nessun dolore, dove la terra dava
spontaneamente i suoi frutti, dove regnava la pace sia tra gli uomini che tra gli
uomini e gli animali (cf. la descrizione che ne fa Ovidio nelle Metamorfosi, oppure
Virgilio nella IV egloga).
Ci può essere un nesso tra questa idea, che si trova anche in altre culture,
dell’età dell’oro, del paradiso terrestre e il nostro Eden? Sì e no. Perché innanzitutto
ricordiamo che la creazione del giardino e la collocazione dell’uomo in esso è un po’
il riflesso di quella che è stata l’esperienza storica di Israele che ha visto Dio agire
verso il suo popolo in questo modo: tirarlo fuori dalla situazione di schiavitù in
Egitto, dal dolore, dalla sofferenza e portarlo nella terra promessa, che era apparsa
lussureggiante. Quindi lì c’è un po’ sintetizzato il percorso di Israele dal deserto alla
terra promessa.
Dovremmo cercare di cambiare l’idea che avevamo e che molto spesso si ha.
Soltanto di recente si fa questa lettura più attenta, storicizzata della Bibbia. Dobbiamo
renderci conto che non è mai esistito un paradiso terrestre o un Adamo ed Eva
perfetti, che poi hanno perso tutto a causa del peccato originale, che peraltro noi
abbiamo ereditato come abbiamo ereditato l’umanità e quindi rimpiangere un
qualcosa che in realtà non è mai esistito.
Il messaggio biblico dice: l’uomo avverte questi limiti, questa negatività, certo
che vorrebbe non avere il dolore, la malattia, la sofferenza, la morte; è giusta come
esigenza, è istintivo nell’uomo. Ebbene – ci dice il messaggio biblico – questa
positività perfetta ci sarà, ma sarà il dono finale del Regno di Dio, quando – come
dice l’Apocalisse – verrà asciugata ogni lacrima dagli occhi dell’uomo e si
manifesterà completamente la grazia di Dio, e avverrà in Cristo. E lì verrà ricuperato
anche il superamento della morte fisica, perché dice Sap 1,13-14: Dio non ha creato
la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli ha creato tutto per l’esistenza.
L’intento originario di Dio è la vita e solo la vita. Dio ha istituito un ordine di
vita. Ora nella nostra esperienza purtroppo c’è anche quella della morte, c’è una
morte fisica, ma noi nella nostra fede sappiamo che c’è un superamento di questa
esperienza negativa della morte fisica, se siamo in comunione con Gesù. Il
superamento è in Cristo. È una morte che nel progetto originario di Dio non era
accompagnata da tutto quell’insieme di angosce, di terrore che l’uomo sperimenta.
Questo famoso paradiso terrestre degli inizi non è altro che il simbolo del vero
e proprio paradiso, cioè la vita eterna, quella a cui siamo destinati, a cui siamo
chiamati da Dio fin dal momento in cui Lui ci ha creato. Allora piuttosto che
rimpiangere un Eden che non è mai esistito, dobbiamo vederlo come una sorta di
riferimento, di immagine velata di Cristo. Lui, sì, è il vero Adamo, è l’uomo perfetto,
e non è perduto, anzi vuole essere in comunione con noi, perché come dice bene
Paolo nella lettera ai Colossesi: Tutto è stato creato in Cristo e tutto verrà in Lui
ricapitolato. La nostra creazione è stata fatta alla luce di Cristo. Questo è il vero
paradiso: è l’essere in Cristo, è la luce di Cristo. È lui l’uomo perfetto. Infatti Paolo
dirà: il nuovo Adamo.
Possiamo già in un certo senso vivere anticipatamente questa condizione,
questa situazione del paradiso prima della morte terrena, già nella vita, cioè tutte le
volte che entriamo in comunione con Gesù, la cui luce è il vero paradiso, e che è già
in comunione con l’amore di Dio. Dio è amore e tutte le volte che entriamo in
comunione con l’amore salvifico di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, possiamo già in
un certo senso sperimentare un anticipo, una caparra del paradiso. Questo è il
messaggio che l’autore biblico voleva comunicarci.
56
È la prima volta che nel racconto jahwista compare quella formula che
avevamo letto tante volte in Gen 1: Dio vide che era cosa buona. Invece qui in Gen 2
è la prima volta che leggiamo: non è bene. Cioè è un riferimento al termine “bene”,
“buono”. Qui vediamo messo in pratica quel principio simboleggiato nell’albero della
conoscenza del bene e del male: è Dio che stabilisce ciò che è bene e ciò che è male.
E qui Dio dice qualcosa di importante: non è una cosa positiva, non è bene che
l’uomo sia solo.
Cosa vuol dire questa frase? Certamente anche qua c’è alle spalle l’esperienza
della terra di Israele, un ambiente inospitale, zone steppose, desertiche, dove
assolutamente un uomo non potrebbe vivere da solo. Senza l’aiuto di una famiglia, di
moglie e figli, senza l’aiuto di altre persone non si potrebbe far fronte ai vari pericoli
di una terra arida e inospitale, agli aggressori, agli animali, ecc. Come dice il Qoelet:
meglio essere in due che uno solo, perché se vengono a cadere, l’uno rialza l’altro,
invece se uno è solo e cade, non c’è nessuno che lo rialza.
Dio allora che cosa nota in quella creatura che aveva fatto con tanto amore?
Nota qualcosa di negativo: uno stato di indigenza, di bisogno. C’è una deficienza in
quest’uomo, qualcosa che manca, perché è solo, e Non è bene che l’uomo sia solo: gli
voglio fare un aiuto che gli sia simile.
L’uomo così com’è non va bene, non va bene perché per la sua completezza non gli
basta né il lavoro che Dio gli ha affidato, né il dialogo con Dio stesso. Dio ha fatto
l’uomo con una immagine di somiglianza, cioè un uomo con cui può interloquire, con
cui ha un dialogo. L’uomo ha bisogno di un aiuto che gli sia simile. Letteralmente
sarebbe “un aiuto a lui immediatamente di fronte”, cioè di qualcuno che sia la sua
immediata controparte, come qualcosa che fa il doppio di lui, cioè che gli sia
adeguato, proporzionato.
19
Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e
tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe
chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli essere
viventi, quello doveva essere il suo nome. 20Così l’uomo impose nomi a tutto
il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma
l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile.
Notiamo l’arte dell’autore che ha già in mente quello che sarà l’aiuto simile
all’uomo, e proprio per contrasto, lo farà emergere al termine della descrizione in cui
non c’è nessuno degli animali che vada bene come suo aiuto e compagno.
È inoltre importante il fatto che Dio crea gli animali, li conduce all’uomo, il
quale dà loro il nome. Nel mondo semitico orientale cosa e nome coincidono. Il nome
non è soltanto una convenzione esterna, ma chi è in grado di conoscere il nome, vuol
dire che conosce anche l’essenza di quell’essere a cui dà il nome. Il fatto che l’uomo
sia in grado di dare il nome agli animali, indica la sua netta superiorità su di loro e la
capacità che lui solo ha di conoscere, capacità che gli ha dato Dio. Però, insiste
l’autore, l’uomo dà il nome agli animali ma non trova nessuno che sia adatto a fargli
compagnia e a rompere la sua solitudine.
Tutto questo ha un significato importante, perché il messaggio dell’autore è
questo: Israele deve capire bene che tra il mondo degli animali e il mondo degli
uomini c’è una bella differenza, c’è un abisso incolmabile; e quindi non succeda che
si divinizzino gli animali come in altre culture. C’è sempre di mezzo la
preoccupazione di evitare degli errori degli Israeliti. Il fedele di JHWH ha chiaro che
Dio assegna a ogni cosa e a ogni essere il suo posto giusto e quindi distingue
nettamente tra i tre livelli: il mondo degli animali, che ha una sua funzione, il mondo
degli uomini che è superiore a quello degli animali e il mondo di Dio con cui c’è
possibilità di un rapporto, perché il Dio biblico è un Dio persona che vuole l’uomo
come persona con cui dialogare, però c’è una bella distinzione.
Per la creazione degli animali si dice che Dio plasmò dal suolo ogni sorta di
bestie, così come aveva plasmato dal suolo l’uomo. Però per l’uomo dice che gli ha
dato l’alito di vita direttamente Lui: soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo
divenne un essere vivente (Gen 1,7). Per gli animali ovviamente questa dimensione,
che è propria dell’uomo, non c’è. Ecco perché Israele non divinizzerà mai nessun
animale, come facevano gli Egiziani. C’è anche un accenno ad evitare l’uso della
magia.
Così pure diventare una sola carne non è soltanto l’unione sessuale, perché
bāśār = carne è l’uomo nella sua totalità, come essere creaturale fragile e debole,
quindi “essere una sola carne” indica una comunione in tutti i sensi, su tutti i piani
nell’incontro fra l’uomo e la donna.
Abbiamo qui la risposta a quella mancanza che Dio aveva notato: Non è bene
che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile. Solo in questo modo è
possibile superare quella condizione negativa di solitudine con un essere che è sullo
stesso piano dell’uomo. Ovviamente qui si sottolinea l’alterità dell’uomo e della
donna, del maschio e della femmina, dell’ ȋš e ’iššāh, ma il senso dell’incontro è più
ampio, è il senso dall’incontro in generale, dalla comunicazione dell’uomo con gli
altri uomini. È la grande vittoria sulla solitudine.
Mi sembra che qui sia molto evidente quello che abbiamo letto come
preoccupazione dell’autore jahwista in Gen 2: l’uomo non ha osservato quel comando
di Dio, che non era un comando tirannico, ma una messa in guardia dall’assumere
atteggiamenti che si sarebbero ritorti poi su di lui. Era l’indicazione di un Padre che
voleva proteggere la sua creatura, l’uomo e la creazione. Come se gli avesse detto: tu
sei una creatura, non voler spadroneggiare e non voler comportarti come se tu fossi il
creatore.
Negli ultimi anni, anche all’interno della Chiesa è nata e si è sviluppata una
sensibilità riguardo al tema ecologico, che va conosciuta. Come sono andate le cose?
Innanzitutto già nel ’900 il Papa in un discorso per la giornata della pace esortava a
favorire una coscienza ecologica del cristiano. Nel 1989 per la prima volta i cristiani
ortodossi hanno proposto di indire una giornata per il creato in cui i cristiani possano
celebrare le meraviglie compiute da Dio nella natura. Questo appello è stato accolto
sia da cattolici che da protestanti, così si è optato per una sorta di “tempo per il
creato” da celebrare ogni anno tra il primo settembre e il 4 ottobre (memoria di S.
Francesco d’Assisi, che ha saputo cogliere la bellezza del creato).
Poi nel 1997 c’è stata a Graz in Austria una famosa assemblea ecumenica, che
ha preso decisioni importanti, tra cui quella di dare un forte impulso alla riflessione e
all’azione della Chiesa per l’ambiente. Anzi ha sottolineato che l’impegno per “la
salvaguardia del creato” non è un optional per il cristiano, ma deve costituire una
dimensione essenziale, fondamentale dell’annunzio del Vangelo e della vita della
Chiesa. Questo impegno per la salvaguardia del creato è un elemento imprescindibile
della presenza cristiana nel mondo.
Come dice il 9° punto della Carta Ecumenica, credendo all’amore di Dio
creatore, riconosciamo con gratitudine il dono del creato, il valore e la bellezza della
natura e, consci della nostra responsabilità di fronte a Dio (è esattamente il messaggio
che emerge da Gen 2-3), dobbiamo far valere e sviluppare ulteriormente criteri
comuni per determinare ciò che è illecito sul piano etico, anche se realizzabile sotto il
profilo scientifico e tecnologico. Cioè l’uomo non può realizzare indiscriminatamente
tutto quello che ha la possibilità di realizzare; deve darsi una regola di tipo etico.
Così nel ’98 si è costituita una rete europea cristiana per l’ambiente a cui
partecipano protestanti, anglicani, ortodossi e cattolici.
A conclusione del giubileo del 2000, nella Novo Millennio Ineunte, Giovanni
Paolo II dice: Come tenerci in disparte di fronte alle prospettive di un dissesto
ecologico che rende inospitali e nemiche dell’uomo vaste aree del pianeta?
Tutto questo cammino non è rimasto lettera morta, perché proprio a partire dal
2000 si celebra ogni anno anche in Italia la festa del creato il 4 ottobre, che si
aggiunge alla più laica Giornata Internazionale dell’Ambiente che invece è il 5
giugno.
È importante che come cristiani prendiamo coscienza della necessità che la
Chiesa inserisca nella sua pastorale anche questa attenzione, ormai irrinunciabile. È
un segno del nostro tempo, perché in passato, prima della seconda rivoluzione
industriale della fine dell’800 e soprattutto prima del XX secolo che ha sfornato una
62
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
IL PECCATO ORIGINALE
63
Gen 3
Come negli incontri precedenti ho spiegato il simbolismo del cosmo presso gli
antichi orientali, il simbolismo dell’albero, ecc., adesso bisogna spiegare il
simbolismo del serpente, perché va interpretato. È un simbolo molto complesso,
perché ad un tempo ha valenze positive e negative. Quindi voleva dire tante cose il
serpente al tempo del nostro autore (l’autore Jahwista del 10° sec. a.C., periodo di
Salomone).
Perché negativo e positivo? Perché ad esempio, siccome il serpente
normalmente sta rintanato in cavità, in macchie boscose impenetrabili e
improvvisamente esce fuori, sembra appartenere al mondo degli inferi, quindi della
morte. E d’altra parte, siccome ama il sole, viene anche identificato con la vita. Infatti
presso gli Egiziani veniva interpretato addirittura come Rā‘, il dio del sole che
respinge ogni male, ed era anche nel copricapo del faraone come simbolo della vita.
E poi è associato alla vita anche perché dal suo veleno si ricavavano dei farmaci
salutari. Gli Egiziani erano molto esperti in questo campo.
Ora la presenza dell’articolo nel testo biblico (il serpente) ha la sua importanza,
non è un vezzo, vuol dire che questo serpente era noto ai lettori. L’autore parla di un
qualcosa che i suoi lettori conoscevano. E cos’era? Era con ogni probabilità il
serpente sacro, il dio serpente, che non solo presso gli Egizi, ma anche in Canaan
(dove si trovavano gli Israeliti) rappresentava la divinità della vegetazione. Veniva
visto anche come guardia dei santuari e dei confini. Insomma era un simbolo della
vita, custode dell’erba vitale. Questo lo si trova nella mitologia mesopotamica.
E poi, soprattutto, era un mezzo efficace per la divinazione, cioè la profezia, la magia,
per prevedere eventi futuri. Non a caso in ebraico “praticare la divinazione” si dice
con una parola nāhaš che ha la stessa radice di serpente: hanāhāš = il serpente.
I lettori del nostro autore avevano in mente questo tipo di serpente considerato
una divinità e usato come strumento di magia. Per gli Ebrei praticare la magia era un
peccato grave, assolutamente vietato dal Decalogo proprio perché con la magia
l’uomo pretende di dominare la realtà, il mistero con le sue mani e non di riceverlo da
Dio.
Quindi innanzitutto che cosa si preoccupa di dire questo autore? Dice: il
serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Dice
chiaramente che il serpente non è affatto una divinità, né può essere ritenuto un
mezzo di divinazione, ma è una creatura fatta dal Signore Dio, come le altre creature
di cui abbiamo letto nei capitoli precedenti.
Il serpente però era comunque collegato ad azioni contrarie alla volontà divina
e quindi, con ogni probabilità, il nostro autore l’ha scelto proprio per personificare
64
La prima parte del brano consiste in un dialogo tra questo serpente e la donna.
Però teniamo presente che in questo episodio c’è una descrizione in forma simbolica,
figurata e tipica, ma molto realistica e con mirabile psicologia, di quella che è la
tentazione, di quello che succede tutte le volte che un uomo viene tentato.
1b
Egli disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: non dovete mangiare di
nessun albero del giardino?».
Se voi ricordate quanto aveva detto Dio ad Adamo in Gen 2, vedete che non era
affatto così. Aveva detto: di tutti gli alberi del giardino tu puoi mangiare, eccetto
uno.
Allora il serpente comincia col deformare la parola di Dio, col deformare l’ordine di
Dio. In che modo? Prima di tutto aumentando la gravità del comando: non dovete
mangiare di nessun albero, mentre lui ne aveva proibito uno solo. In secondo luogo
elimina l’aspetto di concessione del dono di tutti gli altri, cioè la condizione alla
quale aveva concesso di poter mangiare di tutti gli alberi. Non era una proibizione
arbitraria, era il mettere in guardia l’uomo dal fatto che, se toccava quell’unico
albero, rovinava se stesso e rovinava la natura.
Queste parole, che deformano il comando di Dio, suscitano l’inquietudine in
Eva, che quindi comincia a dubitare. Infatti:
65
2
Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi
possiamo mangiare, 3ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino
Dio ha detto: “Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti
morirete”».
Da un lato vediamo che Eva difende Dio, perché rettifica la parola del serpente
chiarendo come è stato veramente il comando, tra l’altro però comincia a insinuarsi il
dubbio nel cuore di Eva, perché aggiunge lei stessa un ulteriore elemento al comando
di Dio: non lo dovete neppure toccare. Naturalmente Dio non aveva detto questo, ha
detto solo di non mangiarlo.
È descritta molto bene la psicologia: il serpente, con la sua domanda subdola,
ha suscitato il sospetto facendo intuire un’immagine falsa di Dio: despota. A quel
punto, anche se c’è un debole tentativo di Eva di difendere la parola di Dio, con
questa aggiunta – non dovete assolutamente toccare – si sente che è cambiato il suo
atteggiamento verso questo comando e che le dà molto fastidio questa cosa. E anche
lei comincia a vedere in modo diverso le parole di Dio; è come se dicesse: perché non
devo avere tutto? Qui possiamo interpretare, attualizzando, il così detto meccanismo
– come dicono gli psicologi – della frustrazione. L’essere privati di una sola cosa
(cos’è un albero di fronte a tutto quanto il giardino?) porta a sentirsi privati di tutto e
quindi anche della propria libertà. Noi abbiamo un’esperienza dei bambini che
vogliono proprio quell’unica cosa che noi neghiamo. Ce ne sono tante altre cose che
noi concediamo.
Questo è un meccanismo psicologico di sempre della mente umana che qui
mette in luce molto bene il nostro autore: se c’è qualcosa che resta fuori dal campo di
quella che io reputo la mia giusta libertà, lo sento proprio come mancanza di libertà, è
come se io venissi privata della libertà stessa. E allora, pur di non accogliere il
comando che viene da Dio, l’uomo è capace addirittura di renderlo ancora più forte,
di aggiungere qualche elemento. Però è lui che aggiunge l’elemento. Questo non
dovete neppure toccarlo fa sentire appunto l’essere protagonisti della cosa.
Secondo elemento (che dalla traduzione non si capisce, ma che si vede nel testo
originale). Quando dice altrimenti morirete, c’è proprio un cambio di quello che
aveva detto Dio, perché nell’ebraico c’è il kȋ causale (non mangiatelo perché
morirete ), nel senso che, come conseguenza di questo fatto, vi succederà questo; vi
avverto. Invece Eva qui usa un’altra parola che è il pen, è una condizione che indica
il finale, la finalità (se voi lo toccherete, se voi lo mangerete, vi succederà questo),
quindi questo sarà il mio castigo nei vostri confronti. Anche qua c’è una leggera
variazione.
Qui possiamo riflettere su questo elemento nella nostra situazione personale
provandoci a chiedere se tante volte anche noi non rischiamo di lamentarci con Dio
per qualcosa di negativo che ci succede, dimenticandoci in quel momento tutto quello
che di positivo invece abbiamo ricevuto da Dio. È una situazione in cui l’uomo si può
sempre trovare.
66
Quindi il serpente comincia già a raggiungere il suo scopo di far apparire Dio
non come colui che ha messo tutto a disposizione dell’uomo, facendogli però
realmente presente il suo limite di creatura, ma come colui che priva l’uomo della
libertà. Il mentitore ha sfigurato il volto di Dio che dona nel volto di Dio che
ostacola, che proibisce, che ti vieta di accedere a quell’albero. E poi rincalza nella
menzogna usando una serie di frasi ambigue:
4
Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! 5Dio sa che
quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi, diventereste come
Dio, conoscendo il bene e il male».
Subito il serpente dice: non è vero, anzi Dio apposta ha detto questo, perché è
geloso delle sue prerogative, non vuole nessun concorrente tra i piedi, non vuole
condividere il suo sapere supremo.
Anche qui c’è tutto un gioco di ambiguità, perché nel v. 5 si dice: si
aprirebbero i vostri occhi. Allora nella bocca del serpente questa frase può voler dire
acquistare una visione che l’uomo altrimenti non ha. “Aprirsi” gli occhi vuol dire
poter conoscere qualcosa che prima non conosceva. In realtà invece, quando poi nella
parte finale anche Dio riprenderà questo concetto (l’uomo è diventato come uno di
noi), intende non in questo modo, ma nel senso che l’uomo col peccato è diventato
cosciente del suo limite di creatura e purtroppo lo rifiuta perché vorrebbe andare
oltre.
Anche “diventereste come Dio” è ambiguo, perché la parola può significare sia
Dio, sia qualunque essere sovrumano o angelico.
“conoscendo il bene e il male” vuol dire poter decidere ciò che è bene e ciò che è
male, cosa che l’uomo, creatura, non può fare, ma soltanto Dio. Mentre invece nella
frase del serpente sembra poter conoscere tutto in teoria e in pratica: l’onniscienza,
l’onnipotenza, aver aperte le vie a tutto.
Possiamo accorgerci che con queste parole del serpente abbiamo proprio una
definizione del peccato, anche se la parola “peccato” e “caduta” non compare mai nel
c. 3. (Poi vedremo come lo si è applicato). Che cos’è il “peccato”? possiamo definirlo
come un atto di ribellione. Alla base di ogni peccato c’è un atto in cui l’uomo si
rivolta, si ribella contro Dio, pretendendo di sostituirsi a Lui, di arrogarsi la sua
sapienza, la sua divinità, la sua signoria sul bene e sul male. È questa la radice di ogni
peccato.
A questo punto Eva è molto impressionata da tutte le bellissime cose che il
serpente le ha messo davanti e comincia a pensare proprio che Dio ha proibito di
mangiare i frutti dell’albero della conoscenza e del male solo per invidia. Per il
pensiero di Eva, Dio diventa un malvagio, un despota geloso della sua autorità, che
vuole difendersi da un possibile concorrente. E così, insinua il serpente: Dio sa, ma
non ha voluto dire all’uomo come stavano veramente le cose per paura di lui, e quindi
gli ha dato questo ordine.
Eva ormai ha spostato il suo punto di vista, non considera più l’amore di Dio
con cui l’ha colmata di doni e felicità, ma si convince che Dio è ingiusto e che quindi
disobbedire è quasi un suo dovere. Anche perché è estremamente attratta da queste
67
tre prospettive menzognere che il serpente le ha messo davanti: non solo non
morirete, ma vivrete in eterno, sarete come Dio, onnipotenti, avrete una sapienza
infinita, l’onniscienza.
Queste tre prospettive sono la sintesi delle tentazioni fondamentali di ogni
uomo, perché effettivamente nell’uomo c’è una spinta, un desiderio, un bisogno,
un’ansia di eternità, di superare la morte, di onnipotenza, di ogni scienza, c’è il
desiderio di arrivare, di andare sempre oltre. Solo che bisogna vedere come lo si può
realizzare in maniera autentica o non invece in maniera illusoria, come succede qua.
Eva, e con lei Adamo, si illude di raggiungere tutto ciò non riconoscendo il suo status
di creatura, volendo a tutti i costi superarla e diventare lei padrona di tutte le cose.
Anche qua c’è tanta psicologia. La donna, che sente di far qualcosa che non va
bene, non vuole essere sola a compiere quella mossa azzardata, quella sorta di
esperimento: proviamo a mangiare e vediamo cosa succede. C’è la complicità nel
male di due esseri. Da notare che c’è innanzitutto il bisogno che qualcun altro faccia
il male con noi.
Forse l’episodio più drammatico e che riguarda una persona giovane adolescente è il
famoso caso di Erika e Omar nel 2001, in cui c’è stato questo coinvolgimento che è
difficile districare tra questi due giovani.
Notiamo un’altra cosa: sia l’uomo che la donna nel cedere di fronte alla
tentazione, in fin dei conti si sono sottratti alla loro responsabilità, non hanno saputo
decidere liberamente e davvero responsabilmente, perché la donna si è lasciata
ingannare dal serpente e l’uomo ha subito seguito la donna. Allora entrambi, mentre
cercano quella autonomia e quella libertà che li renderebbe simili a Dio, in realtà
agiscono sottraendosi alla libertà e alla responsabilità.
È come se ci fosse un po’ di ironia nel racconto. La donna non decide ma
obbedisce al serpente, l’uomo non decide ma obbedisce alla donna. Invece di
assumersi delle responsabilità, si lasciano ingannare, tentare.
Anche qua ci sono ragioni di riflessione per tutti i tempi e anche per noi.
Quante volte è più comodo non assumersi delle responsabilità e trincerarsi dietro il
“ma tanto tutti fanno così”, perché costa fatica avere il coraggio di prendere certe
posizioni e difenderle, quando magari invece tutto intorno a noi si va in senso
opposto. E quindi c’è già una possibilità del peccato, una radice del peccato, ci si
69
sottrae alla decisione, alla libertà vera che impaurisce e si lascia che altri decidano per
noi.
Però qui succede qualcosa di molto grave: l’uomo abbandona la logica con cui
era stato creato – nel progetto originario di Dio – la logica di ricevere un dono, di
essere in comunione, di essere in armonia (quel meraviglioso idillico paradiso
terrestre) e si entra invece nella logica del possesso e del consumo. Se di dà ascolto a
questo desiderio insaziabile, allora tutto deve diventare oggetto per noi, da poter
manipolare, da poter consumare. Lo sguardo di Eva le mostra il frutto come
finalizzato al suo piacere e al suo possesso.
Ormai il peccato è stato commesso ed è entrato nel mondo. Come dice Sap
2,24: Per l’invidia del diavolo il male è entrato nell’umanità. E poi purtroppo è
straripato. Adesso si capisce in che senso il nostro autore voleva dare una risposta sul
problema del male e della responsabilità del male così diversa da quella che davano i
miti del suo tempo.
Dio è completamente escluso da ogni responsabilità nei confronti del male. Tra
l’altro, non è presente quando succede questo episodio, ma soprattutto il nostro autore
70
Dopo il peccato non succede quello che aveva promesso il serpente, che ciò
avrebbero avuto tutta questa sapienza, questa potenza e questa immortalità. Non solo,
ma non succede neanche quello che aveva detto Dio, cioè morirete. Non muoiono
(poi capiremo che cosa voleva dire questa parola di Dio: “morire”), però si aprirono
gli occhi. È vero che si aprono, non però per l’onniscienza che diceva il serpente, e si
accorsero di essere nudi. Questo vuol dire che nell’esperienza del peccato si fa
appunto un’esperienza nuova, si conosce qualcosa che prima non si conosceva. Però
è qualcosa di negativo. In questo caso che cosa sanno che prima non sapevano? si
accorsero di essere nudi, è il momento della vergogna.
Di che cosa “si accorgono”? per molto tempo questa nudità è stata interpretata
nel senso sessuale (come anche il peccato originale era stato interpretato come un
peccato di tipo sessuale). Possiamo dire che non si tratta tanto di vergogna sessuale,
ma del fatto che i due hanno ormai perso l’armonia della relazione, sia con Dio che
tra di loro e si trovano male, si trovano a disagio. Certo c’è un nesso anche con la
dimensione sessuale, perché la nudità fa parte del pudore, il coprire la nudità fa parte
del pudore, però soprattutto, al di là di questo, si indica una situazione di grande
disagio nei confronti l’uno dell’altro e nei confronti di Dio.
Quella conoscenza che li avrebbe dovuto rendere onnipotenti, onniscienti,
uguali a Dio, li riduce invece ad una incapacità di guardarsi in volto l’un l’altro, ad un
grande imbarazzo nel rapporto con Dio e con gli altri, che li spinge addirittura a
nascondersi. Volevano essere simili a Dio e invece hanno perso anche la loro dignità
di uomini. Perché nel mondo semitico l’abito ha questo significato: non solo coprire
il corpo (significato morale), ma soprattutto conferire dignità alla persona che lo
indossa. Per cui l’accorgersi di essere nudi è rendersi conto che hanno perso la loro
dignità.
C’è appunto questa consapevolezza e intrecciarono foglie di fico e se ne fecero
cinture. Trovandosi di fronte a questa difficoltà del loro limite, sentito come penoso e
vergognoso, non sono capaci più di accettarsi ed ecco allora il ricorso a una copertura
un po’ fittizia, da qui l’espressione “foglia di fico” che è rimasta anche nella nostra
cultura, simbolo di una difesa molto modesta del proprio essere, di una dignità
conquistata miseramente, ma che certamente non ha niente a che vedere con quella
meravigliosa dignità che avevano prima nel progetto originario di Dio, dell’armonia
tra loro e con le cose.
8
Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del
giorno, e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo
agli alberi del giardino.
71
Ecco la conseguenza del peccato: l’uomo non è più capace di stare davanti a
Dio. Perché, se l’Eden era lo spazio della comunione con Dio, ora in un certo senso è
come se già Adamo non fosse più lì, non occorre che Dio lo scacci. L’uomo
sperimenta in concreto che spezzare il rapporto con il proprio Creatore, porta a
perdere la propria dignità di creatura, a scoprirsi limitato, debole e a trovarsi in
grande imbarazzo e difficoltà di fronte a Dio. Infatti dal v. 9 al v. 19 vedremo che
l’autore biblico pone quest’uomo di fronte a Dio, non più come il suo Creatore, ma
come colui che gli fa un processo. Abbiamo proprio la struttura del processo con
l’istruttoria, l’interrogatorio, la sentenza e l’esecuzione della sentenza: la punizione).
9
Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». 10Rispose: «Ho
udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi
sono nascosto».
A questa domanda di Dio «Dove sei?» Adamo non sa rispondere, perché dopo
il peccato, dopo aver infranto questa armonia, non è più capace di situarsi, di
collocarsi, di trovarsi nella posizione in cui Dio l’ha voluto, e quindi ha dato una
risposta un po’ confusa: ho avuto paura e mi sono nascosto.
Ecco da dove nasce il timore di Dio, la paura di Dio. Nel progetto originario di
Dio c’era solo un rapporto di armonia e quindi di venerazione, di timore (come dice
la Bibbia, ma in senso positivo di venerazione e amore), ora invece è solo paura.
E poi incomincia l’interrogatorio: seconda fase del processo.
11
Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato
dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». 12Rispose l’uomo:
«La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho
mangiato». 13Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». rispose la
donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
l’uomo accusa la donna e lei accusa il serpente. Addirittura Adamo sembra quasi far
ricadere su Dio stesso la colpa di avergli dato una compagna così. Sembra quasi che
questi due facciano nei confronti di Dio quel ragionamento che tanto spesso noi
sentiamo o magari noi stessi facciamo: perché mai ci hai creato, ci hai fatti, se poi
sapevi che saremmo caduti?
Qui vediamo subito una maledizione: poiché tu hai fatto questo, sii tu
maledetto.
La maledizione è molto frequente nel testo biblico. Per capirlo, dobbiamo sapere qual
è il contrario, cioè la benedizione. Abbiamo trovato spesso questa parola in Gen 1: a
ogni giorno Dio benedisse le sue opere, e poi anche verso l’uomo e la donna in Gen 2
si dice: Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi». Quindi la
benedizione è il fatto che Dio comunica la sua energia di vita all’uomo. La
maledizione è il contrario di questo, è il non concedere il dono da parte di Dio e
ritrarre il suo dono, e comunque è prendere chiaramente le distanze da qualcosa che
viene maledetto. La maledizione del serpente, che in questo testo l’autore del 10° sec.
personifica l’ostilità a Dio e il simbolo del male, significa che Dio non ha niente a che
vedere con il male, con l’origine della tentazione del male.
Poi vengono le sentenze relative prima al serpente, che è stato maledetto, poi
alla donna e poi all’uomo, nell’ordine inverso dell’interrogatorio che era rivolto
prima all’uomo, poi alla donna e infine al serpente.
Come vanno spiegate queste “maledizioni”, queste punizioni? Vanno spiegate
in senso eziologico, cioè spiegano la causa di situazioni, di dati che l’uomo
sperimenta nella sua vita. Questo è un procedimento che era molto frequente nel
mondo antico, lo si trova anche presso i latini e i greci. Eziologia, cioè raccontare una
73
storia, una leggenda per far capire come è venuto fuori un certo uso, un certo luogo,
una certa mentalità.
Con queste sentenze cosa spiega l’autore? Per quanto riguarda il serpente
spiega perché mai il serpente strisci per terra e mangi la polvere. Infatti è l’unico
animale che si comporta così, proprio perché porta su di sé la maledizione di Dio, in
quanto simbolo del male.
Poi nel v. 15 dice: Io porrò inimicizia tra te e la donna, anche lì c’è un
significato eziologico che spiega perché mai l’uomo ha il terrore del serpente, perché
mai il morso del serpente è mortale per l’uomo. Di fatto si sperimenta questo, pur
essendo il serpente una creatura di Dio come tutte le altre.
Poi abbiamo la punizione della donna che riguarda i dolori del parto. Però
notiamo che la maledizione si ha solo verso il serpente. Dio non maledice né l’uomo
né la donna. Maledice il serpente, quindi dichiara la totale estraneità rispetto al male,
mentre per la donna e per l’uomo si parla di punizioni, che hanno sempre un carattere
eziologico. Infatti l’autore voleva dare una sua risposta originale a domande che sono
proprie degli uomini di tutti i tempi: perché l’arrivo di una nuova vita, che è un
motivo di immensa gioia, deve avvenire invece il mezzo a tanti dolori? Questa è una
spiegazione eziologica.
Così pure quando dice: Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti
dominerà. Qui “istinto” , più che il termine originale, è indicato il desiderio di
74
“possedere”. Quindi questa frase dice che dopo il peccato si è creata una tensione tra
l’uomo e la donna che non c’era, perché c’era solo armonia nel progetto di Dio.
Anche questa è una situazione che l’uomo sperimenta.
“come uno di noi” Perché il plurale? Le spiegazioni più frequenti sono due:
75
Dobbiamo ricordare l’ampia spiegazione data dei due alberi in Eden, per capire
questo versetto che evidentemente si ricollega ad essi. Avevamo detto: se l’uomo
accoglie tutto come dono, non deve conoscere e sperimentare l’atteggiamento
opposto della rapina, dello spadroneggiare, perché distruggerebbe tutto, se viceversa
77
assume questo atteggiamento, non può più accedere all’albero della vita, proprio
perché Dio vuole proteggere la creazione dall’atteggiamento piratesco dell’uomo.
Inoltre poiché l’albero della vita indica l’immortalità, il gesto di Dio è di
misericordia: resi immortali, gli uomini sarebbero rimasti sempre peccatori. L’uomo
ferito, ormai, se mangiasse anche dell’albero della vita, rimarrebbe sempre così.
23
Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo
da cui era stato tratto.
La punizione non è che l’uomo muoia, semplicemente Dio ribadisce che non
può mangiare dell’albero della vita, e poi lo scaccia. Dice Stancari: è come se Dio
volesse mettere una dilazione nel tempo, un rinvio tra le due cose, il peccato e la
morte. Inserisce una prospettiva nuova, la misericordia di Dio dilaziona la morte
perché vuole, attraverso un’altra strada, salvare l’uomo, vuole operare la salvezza
all’interno della storia umana.
24
Scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la
fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita.
Qui abbiamo ancora degli elementi presi dalla mitologia orientali. I cherubini
erano dei colossi alati, mezzo uomini e mezzo animali, che in Mesopotamia venivano
posti come statue gigantesche a custodire templi e palazzi o anche l’albero della vita.
Inoltre la spada fiammeggiante, nella mitologia ugaritica era simbolo della
proibizione.
Abbiamo concluso l’analisi del c. 3; abbiamo visto come l’autore sia riuscito a
comporre in Gen 2-3 una splendida pagina di teologia relativa alla bontà originale
della creazione, la dinamica del peccato, il suo effetto deleterio a cui si contrappone
la fedeltà di Dio e la speranza nella redenzione.
2. farsi degli dèi con altre cose, con esperienze che illudono, che ingannano;
3. rompere la relazione o la solidarietà con Dio e con gli altri esseri, e viverla
invece in questa forma che abbiamo già visto tra Adamo ed Eva, questa forma di
tensione, di odio.
Tutto questo è peccato. Infatti, anche senza questi termini che adesso vi ho
spiegato, nell’episodio di Adamo ed Eva abbiamo ritrovato tutti questi elementi: la
ribellione a Dio, la rottura di un legame armonioso, la speranza illusoria, l’inganno,
ecc. Questo perché il nostro autore voleva ben sottolineare la responsabilità
dell’uomo. Certo per lui Adamo era il primo uomo, perché un inizio ci deve essere
stato, però nello stesso tempo questo Adamo era anche un simbolo al di là della
storia, un archetipo, un elemento che aveva un valore universale e che rappresentava
il comportamento negativo di ogni uomo.
Sarà poi successivamente, soprattutto col NT, che si farà molta più luce su
questo mistero del peccato e di un peccato universale, generalizzato. (Ancora però
non si usa il termine “originale”).
Un peccato generalizzato, perché? Perché se prendiamo il NT vediamo che la
missione principale del Figlio di Dio che è venuto nel mondo è proprio questa: di
togliere il peccato.
Lo dice Giovanni in Gv 1,29: Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il
peccato dal mondo! Quindi dicendo “il peccato”, vuol dire tutta questa situazione
negativa che c’è nell’umanità, non soltanto i singoli peccati. Ancora in 1Gv 3,8: Il
Figlio di Dio è apparso per distruggere le opere del diavolo, che appunto sono il
male e il peccato.
Il testo classico a questo riguardo è Rm 5,12-19. Paolo dice chiaramente: tutti
hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per
la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. E in questo capitolo,
Paolo contrappone l’antico Adamo che ha peccato, al nuovo Adamo che ha ricreato
l’uomo, che ha ridato la nuova vita all’uomo. Paolo dice: in Adamo tutti gli uomini
hanno peccato, ma non dice come, non spiega come.
Questo l’avrebbe fatto il grande Padre della Chiesa, S. Agostino. È a lui che
dobbiamo l’utilizzo del termine “originale” affiancato a questo primo peccato
dell’umanità. È lì che salta fuori, prima non c’era, né nell’AT né nel NT. È lui che
parla di “peccato originale” siamo già nel 4° sec. d.C., intendendo con questa parola
sia il primo peccato in senso cronologico, sia il peccato che affligge l’umanità fin
dall’inizio. E anch’egli insiste su questa universalità del peccato originale che tocca
tutti gli esseri umani, prima ancora dei singoli peccati personali, che tocca a tutti gli
uomini in quanto discendenti di Adamo peccatore da cui contraggono il peccato e
quindi, per questo solo fatto, sarebbero condannati alla morte eterna, se Cristo non li
liberasse. Cristo libera tutti gli uomini da questo peccato con il Battesimo.
Questa teoria, questa menzione di S. Agostino del peccato originale poi fu
accolta in vari Sinodi e nel II Concilio provinciale di Orange nel 6° sec. e influenzò
tantissimo la teologia del Medioevo con Tommaso D’Aquino, ecc.
Il Concilio di Trento è quello che ha definito nella maniera più completa e
sistematica la dottrina del dogma del peccato originale. È quindi proprio un dogma. Il
79
“dogma” è una verità di fede rivelata da Dio e contenuta nella Scrittura (la Bibbia) e
nella Tradizione (la Chiesa), verità definita ufficialmente e che il cristiano è tenuto a
credere, altrimenti pecca di eresia.
Il Concilio di Trento dice: “Il peccato originale si trasmette da Adamo per
propagazione. È in ognuno come proprio, può essere tolto solo per i meriti dell’unico
mediatore Gesù Cristo mediante il Battesimo, anche se nei battezzati, pur battezzati,
rimane la concupiscenza, che non è peccato in senso proprio, ma un’inclinazione al
peccato, un’inclinazione peraltro contro cui il cristiano può lottare e riuscire anche
vittorioso con la grazia di Cristo”.
Praticamente dal punto di vista dogmatico nella Chiesa questa dottrina del
peccato originale è stata fissata nel Concilio di Trento e non ci sono stati poi più
interventi di carattere ufficiale da parte del Magistero ecclesiastico.
CCC, 389: “La dottrina del peccato originale è, per così dire, «il rovescio»
della Buona Novella che Gesù è il Salvatore di tutti gli uomini, che tutti hanno
bisogno della salvezza e che la salvezza è offerta a tutti grazie a Cristo. La Chiesa,
che ha il senso di Cristo, ben sa che non si può intaccare la rivelazione del peccato
originale senza attentare al Mistero di Cristo”.
Notiamo che questo non è tanto una nuova acquisizione, ma un recupero di
quello che già aveva capito Paolo, il quale in Rom 5 diceva: “Dove è abbondato il
peccato per colpa di Adamo, è sovrabbondata la grazia, ed è più grande il bene che
ci viene da Cristo del male che ci viene da Adamo”. Non sono neanche sullo stesso
piano, come dire che Cristo ha riparato il male, ma è sovrabbondante.
Il terzo capitolo del Catechismo della Chiesa Cattolica parla del peccato
originale, la prova della libertà e riprende tutto il racconto di Gen 3. Cosa fa però?
Spesso e volentieri fa riferimento a tutti i documenti e ai Padri della Chiesa che vi ho
citato io prima. Chiaramente usa ancora delle espressioni che sembrerebbero prendere
alla lettera il discorso che abbiamo fatto prima. Finché dice per esempio: Il
Battesimo, donando la vita della grazia di Cristo, cancella il peccato originale e
volge di nuovo l’uomo verso Dio.
Quindi ancora si ha l’impressione di questo peccato originale come una sorta di
macchia ereditata, senza alcuna colpa, che viene cancellata. Si serve, come
espressioni, di tutti i documenti precedenti. Però mi fa piacere che ad un certo punto
dica, nel n. 404: “Tuttavia, la trasmissione del peccato originale è un mistero che
non possiamo comprendere appieno”.
Almeno prende le distanze da quello che potrebbe sembrare un dogma di fede che si
sia trasmesso così. Visto che il testo va interpretato correttamente nel modo che vi ho
fatto vedere e quindi appunto dice che è un mistero.
Allora come la mettiamo? Non è facile, questo è uno degli argomenti su cui
anche in teologia è a livello di studio, non è facile dare delle definizioni o dare delle
sentenze tout-court. Innanzitutto mi sembra importante questo che ho trovato anche
in altri articoli, cioè che, a differenza dei secoli passati, quando si sottolineava e si
insisteva di più su questa condizione negativa in cui tutti gli uomini nascono e che il
Battesimo cancella, andando avanti nel tempo sempre più invece si afferma il risvolto
positivo, come dice anche il Catechismo, che la nozione del peccato originale è il
risvolto negativo di quello che invece è più importante per noi, cioè il sapere che
l’uomo, tutti gli uomini da sempre sono soggetto di amore da parte del Padre, che ci
ha destinati fin dalla fondazione del mondo ad essere conformi all’immagine di
Cristo. Quindi innanzitutto ricuperare questo essere creati in Cristo ed essere redenti
in Cristo e sapere che il paradiso terrestre ci sta davanti e non dietro e sarà appunto il
Regno di Dio e deve essere tutto ricapitolato in Cristo.
Quanto poi al modo in cui concretamente sia avvenuto questo peccato e si sia
trasmesso agli uomini, mi rifaccio ad una pagina molto significativa del libro
“Adamo, dove sei?” di Enzo Bianchi, fondatore della comunità monastica di Bose:
“L’Adamo di cui parla Rom 5 è il rappresentante simbolico di tutta l’umanità che
esce dalle mani di Dio. Fare di Adamo un individuo empiricamente responsabile
81
dell’entrata del peccato nel mondo in senso causale significa cercare il capro
espiatorio per tutti. Adamo non è il peccatore causale che spiega tutto il peccato del
mondo, ma è il peccatore inaugurale”.
Cioè quello che, essendo il primo uomo, che inaugura l’umanità nella colpa, dà
inizio a questa situazione che poi però avrebbe toccato tutti gli uomini. Questa è la
grande esperienza che l’autore ci vuole dire: che l’uomo di fatto incontra la
tentazione, incontra il fascino della seduzione del male e cede. E per questo “Paolo
può dire, proprio in Rm 5,12: Tutti hanno peccato. Non dobbiamo dunque ricercare
in Adamo il responsabile universale del peccato, ma il primo di una serie. In lui si
rivela chi siamo noi: omnis homo Adam, ogni uomo è Adamo”.
Allora il peccato originale cosa può voler dire? Può voler dire il peccato
anteriore alla libertà dell’individuo (cioè prima che l’individuo abbia la responsabilità
di compierlo), il quale se ne trova oggettivamente segnato per il fatto che entra in un
mondo peccatore. A questo tutti ci arriviamo. In qualche modo nell’esperienza
dell’uomo c’è insita nelle sue azioni una maniera di influenzare gli altri che sono
intorno a lui. Di fatto ogni bimbo che nasce entra in un mondo che è gravato dal
peccato, a livello di creato, di natura, di politica. E quindi in un certo senso il male ci
precede. Nessun bambino, nascendo, è soggettivamente peccatore, ma, entrando in un
mondo toccato dalla dimensione negativa del peccato, ne è un po’ contaminato.
E il Battesimo inserisce nella vita in Cristo colui che da subito è immesso in
una realtà che purtroppo conosce male e peccato. Quindi il desiderio di dare il
Battesimo ai bambini è collocare subito il bambino nella sfera di influenza positiva
del Cristo, perché a sua immagine è stato creato. Forse in questo senso si può
rileggere il così detto “peccato originale”.
Vorrei inoltre citare a questo proposito una interessante considerazione di un
altro grande biblista, don Bruno Maggioni, contenuta nel suo libro “Il Dio di Paolo”
sulla prima lettera ai Corinti. A pagina 71-72 di questo libro Maggioni riporta l’inno
contenuto in Fil 2,6-11 là dove si dice: Cristo Gesù non considerò una preda (la CEI
traduce: un tesoro geloso) l’essere alla pari con Dio, ma spogliò se stesso divenendo
uomo. Gli interpreti antichi scorgevano per lo più in questo brano proprio il rovescio
della arroganza di Adamo, che scioccamente tentò al contrario di rapire le prerogative
di Dio (come abbiamo visto in Gen 3,6). Ora l’antitesi tra Adamo che rapisce le
prerogative di Dio (tenta di farlo) e Cristo Gesù che invece si spoglia di queste
prerogative divenendo uomo, divenendo servo, l’antitesi è suggestiva anche perché
può essere prolungata lungo tutto l’inno di Filippesi.
E veramente, se ci pensiamo, la vicenda di Cristo è il rovescio della storia di
Adamo, e cioè da una parte abbiamo un semplice uomo – Adamo – che tenta di
innalzarsi fino a Dio quasi per rapirne le prerogative, dall’altra abbiamo il Figlio di
Dio che umilmente discende tra gli uomini, spogliandosi delle sue prerogative. Da
una parte l’arroganza, dall’altra il dono, ed è proprio questo Signore, questo Gesù che
si spoglia delle sue prerogative che deve essere il nostro modello.
82
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Gen 4,1-16
1
Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino e
disse: «Ho acquistato un uomo dal Signore». 2Poi partorì ancora suo
fratello, Abele. Ora Abele era pastore di greggi, e Caino lavoratore del
suolo.
3
Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al
Signore, 4anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il
Signore gradì Abele e la sua offerta, 5ma non gradì Caino e la sua offerta.
Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. 6Il Signore disse
allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? 7Se
agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il
peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu
dominalo».
8
Caino disse al fratello Abele: Andiamo in campagna. Mentre erano in
campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. 9Allora il
Signore disse a Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?». Egli rispose: «Non lo
so. Sono forse il guardiano di mio fratello?». 10Riprese: «Che hai fatto? La
voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! 11Ora sii maledetto,
lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo
83
fratello. 12Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti:
ramingo e fuggiasco sarai sulla terra». 13Disse Caino al Signore: «Troppo
grande è la mia colpa per ottenere perdono? 14Ecco, tu mi scacci oggi da
questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e
fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere». 15Ma il
Signore gli disse: «Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette
volte!». Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse
chiunque lo avesse incontrato. 16Caino si allontanò dal Signore e abitò nel
paese di Nod, a oriente di Eden.
Ioab, colpevole a sua volta di aver ucciso due capi di esercito sotto il padre Davide, e
Simei che invece è colpevole di spergiuro. Poi troviamo spesso nella storia di Israele,
nella storia della monarchia, soprusi di capi prepotenti nei confronti dei deboli. Poi
troviamo relazioni violente tra tribù e tribù, tra popoli che sarebbero legati da rapporti
di parentela o di mutuo aiuto (cf. Amos).
L’autore allora si chiede: perché succedono queste cose? C’è un passo nel
profeta Malachia che esprime molto bene questo problema: Non abbiamo forse tutti
noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con
perfidia l’uno contro l’altro, profanando l’alleanza dei nostri padri? (Ml 2,10).
Questo è il grande interrogativo. Perché? Come risponde il nostro autore a
questo interrogativo? Egli aveva ricuperato un racconto preesistente che riguardava i
Cainiti, un gruppo che abitava in una regione marginale rispetto a Israele e che però
conduceva una vita piuttosto inquieta e raminga, ed era visto con un certo disprezzo,
anche con un po’ di paura, perché ovviamente facevano rapine, ecc. Israele ormai si
era sedentarizzata: da nomade che era stato, era diventato un popolo di agricoltori.
Siccome questi invece non erano agricoltori, li vedeva piuttosto male. E allora questo
racconto li descriveva come discendenti da un personaggio eponimo (cioè da cui
deriva il nome o di un gruppo o di una tribù o di un popolo o di una città). In questo
caso i Cainiti derivavano da un certo Caino, Qajin in ebraico.
C’è un sottofondo storico a questo discorso, perché questi Qeniti o Cainiti,
venendo dal sud, si erano aggregati agli Israeliti durante la marcia nel deserto (cf.
libro dei Numeri 10,29 ss.), ma non si erano mai sedentarizzati. Forse stavano anche
loro in Canaan, ma ritornarono subito alla vita nomade e vivevano anche di rapine ai
margini delle regioni coltivate. E allora il nostro autore si chiede: come mai questi
non si sono fermati come gli altri nella terra promessa? Perché hanno preferito la
condizione di nomadi ancora e non di agricoltori nella famosa e bellissima terra
promessa? Se gli Israeliti da nomadi erano diventati sedentari, i Cheniti invece
avevano fatto il percorso inverso.
Infatti, come dice Gen 4, Caino, il loro capostipite, era agricoltore, poi invece
viene cacciato e diventa nomade, ramingo, fuggiasco sarà: è la pena che riceve.
Appunto per sua colpa Caino era stato allontanato dalla terra coltivata, e allora ci si è
chiesti: come mai? Perché? Che colpa ha commesso? E si è pensato a questo
fratricidio, motivo connesso a sua volta con quello della rivalità.
Anche questo è l’elemento storico che sta dietro a questo racconto, della
rivalità che effettivamente c’era fra gli agricoltori e i pastori. Cioè popoli che già
sedentarizzati che vivevano di agricoltura, invece quelli che ancora si spostavano con
le loro greggi dove c’erano i pascoli, facevano la transumanza, ecc.
Il nostro autore cosa ha fatto? ha preso questo racconto che già esisteva e lo ha
inserito in Gen 1-11 esattamente a questo punto, dopo il peccato originale, perché gli
serviva un episodio truce, tragico, agghiacciante, perché che cosa di peggio della
pazzia di un proprio familiare, fratello o patricidio o matricidio? Proprio perché a lui
serviva far vedere come purtroppo nell’uomo cresce il male, la malvagità, la violenza.
Se il primo peccato era un peccato contro Dio, qui troviamo una narrazione
simbolica specifica in cui l’autore ci mostra quella che dovrebbe essere la solidarietà
85
fraterna e che invece è continuamente smentita dalla realtà. Lui aveva in mente gli
episodi storici del fratricidio di Salomone verso il proprio fratello maggiore, e quindi
era un dato di fatto di cui cercava una spiegazione. Il dato di fatto è: perché gli
uomini facilmente arrivano a questa insofferenza reciproca, non accettano la
differenza l’uno dall’altro e arrivano addirittura ad ammazzare? Caino infatti è
diventato l’emblema dell’omicida, l’omicida per antonomasia. In Caino, si può dire, è
raffigurato ogni uomo che uccide, che uccide l’altro. L’altro anche se non è fratello di
sangue, è fratello perché è figlio di Dio. Quindi ogni omicidio è l’uccisione di un
fratello.
questo figlio, questo che si chiama Caino. È la seconda spiegazione che si può dare
del nome Caino, ne vedremo delle altre. La prima spiegazione è: “Caino” in quanto
capostipite eponimo dei Cainiti o Cheniti. Adesso invece “Caino” perché acquistato.
2a
Poi partorì ancora suo fratello Abele.
Notate che adesso si dice solo partorì suo fratello Abele. Non c’è nessun grido
di gioia per questa seconda nascita, non c’è un nesso con il nome; anzi la spiegazione
è insita nel nome stesso, perché in ebraico hebel, da cui Abele, vuol dire soffio,
vanità, vapore, nulla. Come vedremo Abele è proprio un po’ una nullità: non parla,
ovviamente non genera perché viene ammazzato, quindi non ha una continuità, una
discendenza, non interviene, cioè è una figura molto passiva, sembra semplicemente
una sorta di contrappunto, di controfigura di Caino.
Tuttavia Abele, nascendo come secondo dopo un altro, instaura la fraternità.
Perché Caino è anche un fratello? Perché appunto c’è un altro figlio di sua madre, che
è suo fratello.
2b
Ora Abele era pastore di greggi, e Caino lavoratore del suolo.
In questi due personaggi l’autore tipizza due modelli sociali, due condizioni: Caino
rappresenta la civiltà sedentarizzata, agricola; Abele incarna quella nomadico-
pastorale. E quindi la rivalità, che poi vedremo sorgere tra di loro, può essere una
rivalità anche nell’ambito del lavoro, dell’attività. L’autore qui vuole dire che la
differenza di attività invece di essere come vorrebbe Dio (un’occasione di
collaborazione, di comunione, perché se si fanno cose diverse ci si integra a vicenda,
ci si completa a vicenda, ci si aiuta l’un l’altro), purtroppo diventerà occasione di
conflitto. Del resto c’erano conflitti nell’antichità tra queste due classi sociali.
Così anche in questo episodio Dio mostra la sua preferenza per il secondo,
quello che si chiamava hebel, soffio, vanità, nullità. La frase “Dio gradì il sacrificio
di Abele”, secondo il linguaggio biblico vuole dire che quando Dio posa il suo
sguardo su una persona o una cosa, vuol dire che lo benedice, che gli conferisce
fecondità. E quindi probabilmente vuol dire che di fatto Abele, pur essendo pastore,
pur facendo un’attività forse meno importante dell’agricoltura, però conosceva la
prosperità e quindi vuol dire che era benedetto da Dio e quindi era felice. “Dio gradì
il sacrificio di Abele”, vuol dire le cose di Abele andavano bene, perché era
benedetto da Dio.
È probabilmente questo che fa scattare l’invidia di Caino, aggravando la
rivalità tra i due che forse era già nata per il fatto che a questo primogenito dava un
po’ fastidio la presenza di un fratello.
5b
Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Lo dice chiaramente il testo.
Quindi ai motivi di ostilità si aggiunge anche la gelosia, perché, secondo Caino,
siccome al fratello le cose andavano bene, Dio aveva preferito quell’altro. E può
anche essere, visto che la logica di Dio era questa.
Qui entra in campo ancora il nome di Caino, che potrebbe connettersi a
un’altra radice verbale (simile a quella già vista qanah, acquistare), qānā’, che vuol
dire “essere geloso”. Allora qui “Caino” vorrebbe dire “colui che è geloso”, cosa che
gli si attaglia perfettamente.
La frase 5bCaino ne fu molto irritato, letteralmente in ebraico si dice: 5bUn’ira
bruciante si accese in Caino, perché l’invidia, la gelosia è come un fuoco che
consuma e produce anche effetti esteriori. Infatti dopo dice: Il suo volto era
abbattuto.
88
Questi due versetti probabilmente sono stati aggiunti in un secondo tempo per
spiegare meglio la dinamica del peccato di Caino e del peccato in generale. Quindi
potremmo ricordare l’episodio di Gen 3 come era avvenuta la dinamica del peccato
là: è il serpente che insinua e fa vedere un volto diverso di Dio, ed Eva ci casca e poi
anche Adamo. Qui invece vediamo cosa succede: Dio interviene e come un Padre
paziente si rivolge a Caino per fargli capire che non ha ragione ad irritarsi perché lui
tanto è ancora il primogenito, e finora è tutto bene: Se agisci bene, non dovresti forse
tenerlo alto il tuo volto? Può sì camminare a testa alta! E allora perché non è così?
Perché non ha la testa alta? Perché non è tranquillo, sereno, il suo volto è abbattuto?
Proprio perché non accetta la diversità del fratello.
Il fratello poteva essere stato privilegiato da Dio, perché Dio si comporta
sempre così. Il fratello poteva essere in una situazione migliore economicamente, più
prospera, ma perché quell’altro doveva prendersela per questo? Non accetta la
diversità del fratello. E quello che viene dopo dipende solo da lui.
Questo episodio è molto importante perché fa vedere molto bene la
responsabilità soggettiva nel caso del peccato. Infatti JHWH dice: Se agisci bene,
cioè se reprimi i sentimenti sbagliati, puoi continuare a tenere alto il tuo volto. Ma se
non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta. Questa immagine, tra
l’altro, era frequente anche nei testi babilonesi, assiri, perché era una specie di
demone, lo si vedeva accovacciato pronto a saltare addosso all’uomo. Ma tu
dominalo.
Il v. 7 è molto difficile e oscuro, perché ci sono delle questioni testuali. Però
alla luce di altri testi si può spiegare così: il peccato ha una grande forza di seduzione,
è come un animale accovacciato alla porta di casa (“alla tua porta” vuol dire: la porta
89
del tuo cuore. Si tratta di una metafora), pronto a saltarti addosso alla prima
occasione, basta lasciare aperto uno spiraglio della porta, e quello si infila e si insedia
nella casa. Ma tu dominalo, dice JHWH, cioè sta all’uomo esercitare la sua capacità
di discernimento del bene e del male. Saper dire di no a ciò che è male, questa è la
sua responsabilità che è chiamato ad esercitare in tutta libertà. Dio non ha fatto delle
marionette, ma degli uomini liberi e responsabili, che purtroppo possono anche
scegliere in maniera sbagliata.
Qui si vuol far vedere proprio questo, che il peccato non è qualcosa di
ineluttabile, è vero che si può essere illusi, ingannati. In Gen 3 l’avevamo visto bene:
il serpente era riuscito nel suo intento: mostrare a Eva un volto diverso da quello reale
di Dio, e quindi l’aveva ingannata. È vero che possono esserci delle situazioni sociali,
psicologiche, che spingono alla prevaricazione dell’uno sull’altro, come in questo
caso la differenza di successo, ma è altrettanto vero che ad ogni persona umana resta
sempre la possibilità di esercitare la sua signoria, cioè la sua capacità di dominare, di
governare l’istintualità. Infatti dice: verso di te è il tuo istinto, ma tu dominalo.
Purtroppo l’uomo può essere assalito da questa tentazione del peccato o da questo
inganno o da questa seduzione, però può dominarlo. Questo versetto è proprio parola
di Dio permanente che ha una validità continua in ogni tempo, è proprio Torah,
istruzione, è attualissima, va bene per ciascuno di noi, ci invita ad aprire gli occhi e a
vigilare continuamente su di noi, sul nostro cuore, sul fatto di non lasciarci ingannare
o sedurre dal male. Prima di accusare forze esterne a noi, dobbiamo sempre fare un
serio esame di coscienza ed essere capaci anche di autodenunciarci.
Quindi Dio ha fatto un tentativo per fermare Caino, ma Caino non accetta la
parola di Dio e questa è la sua seconda colpa. Non solo cede al demone del peccato,
ma lascia libero ingresso al demone del peccato nel suo cuore che si impadronisce di
lui ed ecco la tragedia. La parola di Dio non è capita perché Caino non l’ha voluta
ascoltare, non l’ha messa in pratica e quindi, nonostante l’ammonimento di JHWH,
Caino attua il suo piano omicida. Detto in maniera estremamente stringata, lapidaria:
non si dice niente di quello che ha potuto pensare Caino. Subito dopo l’invito di Dio
tu dominalo, punto.
8
Caino disse al fratello Abele: Andiamo in campagna. Mentre erano in
campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise.
La leggenda dice che probabilmente lo ha colpito con una pietra. È un peccato
ancora più grave di quello originale, perché qui c’è stato anche un tentativo da parte
di Dio di distogliere Caino dal male, mentre invece Adamo ed Eva non avevano
avuto questa attenzione. Non è intervenuto Dio, se non dopo.
Cosa vuol dire tuo fratello? Vuol dire che, siccome è fratello, Caino lo deve
custodire, così come Adamo era tenuto a custodire la terra, come il popolo di Israele
deve custodire i comandamenti di Dio. E, più ancora di quanto Adamo deve fare con
la terra, Caino dovrebbe custodire cioè rispettare, difendere al vita del fratello. Questo
significa la domanda Dov’è, appunto cosa hai fatto verso tuo fratello?
Non dimentichiamo il terzo significato di “Caino”: da qajin = lancia, che può
sottolineare ulteriormente la violenza in Caino. È il nome di un’arma e lo ritroviamo
anche in Caino.
9b
Caino risponde: «Non lo so. Sono forse guardiano di mio fratello?».
In ebraico è suggestivo il suono: hašōmēr ’āhȋ ’ānōkȋ = il custode di mio
fratello io? È una risposta piuttosto arrogante, sarcastica, che ci fa vedere come il
cuore di Caino è rimasto indurito e assolutamente privo di pentimento verso il
fratello. Non c’è la benché minima lontanissima traccia di rimorso.
Non solo, ma qui troviamo un’altra analogia con il peccato originale di Adamo
ed Eva, perché essi non riconoscevano la loro responsabilità, ma scaricavano la colpa
Adamo su Eva e Eva sul serpente. Qui addirittura è come se Caino intentasse un
processo a Dio stesso: Sono forse io il custode di mio fratello? Ma io no! Tu devi
essere il custode di tutti! Tanto più che l’epiteto “Dio custode della vita dell’uomo” è
frequentissimo nella Bibbia. Esempio: Sal 121: Il Signore è il mio custode; Sal 127:
Se il Signore non custodisce la città, invano veglia la sentinella; ecc.
Quindi da parte di Caino non c’è speranza di presa di coscienza. Sarebbe
inutile continuare l’interrogatorio. Infatti subito dopo Dio dice:
10
Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!
Questa è un’esclamazione molto forte con cui lo scrittore vuole esprimere nella
maniera più forte possibile l’orrore di Dio per questa azione. Cosa hai fatto? E
soprattutto Dio vuole porre Caino di fronte al fatto compiuto, e della cui gravità
evidentemente non si rende conto.
Poi Caino sperimenta qualcosa che non avrebbe mai immaginato, perche Dio
dice: La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Probabilmente aveva
già seppellito il cadavere del fratello, ma il sangue dell’ucciso ha levato un grido di
lamento che ha raggiunto il trono di Dio.
Erano così convinti gli antichi Ebrei di questa cosa che, per evitare questa
specie di grido di giustizia, usavano coprire con molta sabbia e terra tutte le tracce di
sangue quando succedeva un omicidio. Perché? Perché secondo la mentalità semitica
il sangue è il simbolo della vita, perché, grazie al sangue, noi possiamo vivere. Non
solo, ma il sangue e la vita sono proprietà di Dio, che è Creatore di tutto. Quindi
quando l’uomo uccide, attenta alla proprietà stessa di Dio, e allora Dio interviene,
deve intervenire. Ecco perché c’è quella frase: il sangue dell’ucciso grida, che Dio
intervenga per “vendicarlo”, cioè per fare giustizia.
Sarà Gesù stesso a ricordare che non andrà dimenticato tutto il sangue
innocente versato sopra la terra, fin dal sangue del giusto Abele (Mt 26,35). Si
riferisce proprio a questo episodio per dire: in qualche modo Dio interverrà a
91
protezione dei deboli. Sal 10: Tu, Signore, vedi l’affanno e il dolore, tutto tu guardi e
prendi nelle tue mani.
Uno scrittore jiddish, Singer, dice: “Credo che in qualche punto dell’universo
debba esserci un archivio in cui sono conservate tutte le sofferenze e gli atti di
sacrificio dell’uomo. Non esisterebbe giustizia divina se la storia di un misero non
ornasse in eterno l’infinita biblioteca di Dio”. Molto suggestiva questa frase.
La voce del sangue grida. In ebraico “grida” è zā‘aq. “Il grido degli oppressi”
ritorna spesso nella Bibbia, essi chiedono a Dio diritto e giustizia. Infatti il Signore
non resta indifferente davanti al crimine di Caino e fa giustizia. Non applica però
quella che era la legislazione corrente dell’antico Israele: la legge del taglione (chi
uccide sia ucciso, occhio per occhio, dente per dente). La pena deve essere uguale
come gravità alla colpa, all’offesa recata.
Sentenza di JHWH
Qui c’è un punto interrogativo, potrebbe esserci anche quello esclamativo. E poi c’è il
timore che venga applicata la legge del taglione, perché
chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere.
Allora Caino è punito, deve espiare il suo peccato, però è ancora sotto la protezione
del Signore, che lo tutelerà contro ogni vendetta. Quindi il “segno” non era tanto per
indicarlo al ribrezzo, alla riprovazione di chi lo vedesse, ma per proteggerlo, per
difenderlo da chi lo volesse uccidere per vendicare Abele.
93
Infine anche qui, analogamente a Gen 3 (Adamo ed Eva cacciati dal paradiso
terrestre), abbiamo un’espulsione:
16
Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese di Nod, a oriente di
Eden.
maledizione, il tema dei conflitti e quindi anche delle guerre, l’invidia, l’odio, la
violenza, la gelosia. Tutti elementi che purtroppo sono di grande attualità.
dimenticano la dimensione civile del loro stato di vita; e Paolo ricorda loro che hanno
l’obbligo di inserirsi come gli altri nelle regole del gioco di un’esistenza storica calata
nel tempo e nelle strutture politiche di allora, dove la pena di morte era normalissima.
I Greci, i Romani, tutti l’avevano. Quindi non è tanto una giustificazione o una
adesione della pena di morte.
Ma se poi guardiamo il Vangelo, soprattutto i Sinottici che ci riportano la
predicazione di Gesù, vediamo che qui non ci sono assolutamente dubbi, perché Gesù
rimette in discussione in modo radicale l’ideologia del prezzo di sangue. Gesù
propone una strategia assolutamente nuova per superare il male che non fa capo a
nessun elemento cruento di punizione, ma all’amore che trasforma anche il malvagio,
perché l’amore e il perdono sono l’unica via di rigenerazione che Gesù ci propone,
che lui pratica innanzitutto e che ci insegna e comanda e che è infinitamente
superiore ad ogni vendetta. Infatti i passi emblematici sono:
Mt 5,38-39: Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma
io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu
porgigli anche l’altra.
Mt 5,43-44: Avete inteso che fu detto: Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo
nemico (questa era l’etica dell’AT), ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per
i vostri persecutori.
Quindi Gesù abolisce qualsiasi pretesa di far giustizia colpendo la persona del
colpevole, anche di un assassino. È Dio che protegge ogni vittima, è lui che saprà
come far giustizia.
Matteo dice ancora : Non giudicate per non essere giudicati, perché col giudizio con
cui giudicate sarete giudicati e con la misura con cui misurate sarete misurati.
È il giudizio di Dio che conta ed è un giudizio di misericordia il suo, mentre il
giudizio dell’uomo è relativo. Il giudizio di Dio relativizza ogni giudizio umano e
ogni pretesa di assolutezza del giudizio umano.
Possiamo concludere che il NT non presenta assolutamente dei testi che in
qualche modo possano giustificare o legittimare direttamente e volutamente la
sanzione capitale. Piuttosto è presente quell’invito a rinunciare alla sicurezza dettata
dal diritto come qualcosa che possa risolvere tutti i mali: noi abbiamo delle ottime
leggi, rifacciamoci a queste leggi e siamo a posto!
Il precetto di Gesù mette in luce una nuova logica che Dio vorrebbe nel suo
progetto di umanità: quella di far punire in qualche modo il colpevole (perché non è
giusto neanche lasciar passare le colpe), però facendo prendere coscienza al peccatore
di quello che ha fatto, come ha fatto Dio con Caino, e far sì che lui cambi vita. Questa
è la migliore vendetta. Questo per quanto concerne la Scrittura.
Poi come sono andate le cose nella storia? Nella storia civile, nella storia della
Chiesa?
Nell’ambito della Chiesa ci sono state posizioni contro la pena capitale, specialmente
nell’età patristica, ma anche a favore. Valga per tutti il grande teologo medioevale
Tommaso D’Aquino la cui posizione rimarrà a lungo nella teologia cristiana. Lui
dice: “Il bene comune è migliore del bene particolare di una sola persona. Si deve
97
quindi sottrarre un bene particolare per conservare il bene comune. Ora la vita di
alcuni uomini pestiferi impedisce il bene comune. Il peccato riduce l’uomo ad
animale e quindi va soppresso, l’uomo che è così pestifero che reca danno , che
rovina la società”.
Poi c’è stato il tribunale dell’Inquisizione che è nato nel 1231, istituito da Papa
Gregorio IX e poi Sisto IV, su sollecitazione della regina Isabella di Castiglia, ha
istituito nel 1468 la famigerata Inquisizione spagnola e Papa Paolo III nel 1542 ha
istituito la Congregazione della sacra romana e universale inquisizione. Certamente è
una pagina oscura della storia della Chiesa. Pensate che in Spagna il Tribunale
dell’inquisizione tra il 1540 e 1700 (circa in un secolo e mezzo) avrebbe giustiziato
circa 800 persone facendo uso dell’esecuzione capitale mediante il rogo. Dobbiamo
dire che purtroppo ci sono stati grossi errori storici da parte della Chiesa e che però
tutto va visto un po’ nell’ottica di questo cammino che ci deve portare a superare le
posizioni negative.
Pensate che persino nello Stato del Vaticano la pena di morte era in vigore fino
a pochi anni fa, fu abolita nel 2001 nella nuova costituzione dello Stato Pontificio. È
vero comunque che non era mai stata applicata, perché di fatto Paolo VI l’aveva già
abolita nel 1967.
Oggi come oggi cosa possiamo dire? Certamente è stato fatto molto cammino
dal tempo di Caino e dal tempo dell’Inquisizione. E qui mi sono rifatta a un
interessante articolo di Padre Sorge, gesuita, direttore di “Aggiornamenti sociali”, che
dice: Nel caso della pena di morte la Chiesa e il mondo hanno un po’ camminato
insieme, perché da un lato le nuove situazioni storiche e culturali del mondo hanno
contribuito a una migliore comprensione del Vangelo, dall’altra la grande rivelazione
che Gesù Cristo è venuto non per condannare ma per salvare, ha aiutato a capire che
l’uomo non perde la sua dignità neppure quando sbaglia, e quando sbaglia
pesantemente. Pertanto la giustizia, pur compiendo il suo corso col dovuto rigore non
può usare strumenti che offendono la dignità delle persone. Certamente torture e pena
di morte offendono la dignità delle persone, la sacralità della vita umana. Ora la
spinta al superamento della pena di morte è partita da alcuni eretici valdesi nel Medio
Evo e poi ha avuto un enorme impulso nell’Illuminismo soprattutto dal nostro grande
Cesare Beccaria e si è allargata negli ultimi due secoli anche nella Chiesa, pur
rimanendo molti cristiani favorevoli alla pena di morte. Invece si va sempre più
estendendo il fronte dei contrari sia tra i fedeli che tra i pastori e teologi.
Dopo il Concilio Vat. II, vari episcopati nel mondo sono intervenuti
manifestando chiaramente la loro opposizione alla pena di morte. Forse il più famoso
di questi documenti è quello dell’episcopato francese dal titolo “La pena di morte”
del 1978. Poi il Catechismo della Chiesa Cattolica rinnovato nel 1992 al n. 2266
ricorda la posizione tradizionale della Chiesa che “giustificava” il ricorso alla pena
capitale: Difendere il bene comune della società esige che si ponga l’aggressore in
stato di non nuocere. A questo titolo, l’insegnamento tradizionale della Chiesa ha
riconosciuto fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di
infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di
estrema gravità, la pena di morte (CCC, 2266).
98
Dunque c’è ancora molto da fare, sia nel mondo che nella Chiesa dove il passo
definitivo sarà quello di escludere in assoluto anche in linea di principio la pena di
morte.
Non sarà facile perché – come dice Quasimodo – in una celebre poesia: “Sei
ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo, eri nella carlinga con
le ali maligne, le meridiane di morte, ti ho visto dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. Ti ho visto, eri tu con la tua scienza esatta, …….lo sterminio
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri,
come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta. E questo sangue odora
come nel giorno quando il fratello disse all’altro fratello: Andiamo ai campi. E
quell’eco fredda tenace è giunta fino a te, dentro la tua giornata. Dimenticate, o figli,
le nuvole di sangue salite dalla terra, dimenticate i padri, nelle loro tombe affondano
nella cenere, gli uccelli neri e il vento coprono il loro cuore”.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
LA MALVAGITÀ DILAGA
Di fronte a questa affermazione, può sorgere una prima domanda: da dove salta
fuori la moglie di Caino? perché, se stiamo alla “storicità” dell’autore che intendeva
raccontare le origini dell’umanità, visto che Adamo ed Eva, unici esseri viventi,
avevano generato due maschi, come è possibile che salti fuori questa moglie?
Innanzitutto qualcuno di voi risponderà: ma non va interpretato alla lettera, è
un racconto simbolico, archetipico! Però questa sera colgo l’occasione per rispondere
a questa domanda, facendovi vedere come è venuto fuori questo testo.
Il racconto di Caino ha conosciuto tre tappe successive (cf. “Cosa sappiamo
della Bibbia”, vol. 3°).
La prima tappa era un racconto popolare trasmesso oralmente e staccato dal
racconto di Adamo ed Eva, quindi era a sé stante e raccontava la vita di un
antico eroe, detto Caino, che visse in un’epoca già avanzata dell’umanità,
quando la terra era tutta popolata e c’erano le città e si esercitava sia la pastorizia
che l’agricoltura. Perché, volendo interpretare alla lettera, chiaramente era
assurdo che i due fratelli contemporaneamente facessero uno il pastore e l’altro
100
l’agricoltore, visto che, storicamente, c’è stata prima la fase nomade della
pastorizia e dopo quella agricola. Quindi il racconto popolare di Caino è nato in
questo contesto. E Caino risultava il fondatore di una famosa tribù beduina, detta
appunto dei Cainiti, da Caino. Una tribù che abitava nel deserto a sud di Israele e
che effettivamente è esistita. La storia includeva anche il matrimonio di Caino
forse con una giovane di un clan che stava nel deserto, e questa coppia ebbe un
figlio di nome Enoch. Questa prima storia, tramandata oralmente presso i
Cainiti, venne conosciuta dai vicini Israeliti, che la modificarono.
Ci fu una seconda tappa in cui saltò fuori la figura del fratello Abele (hebel =
soffio, colui che non ha una consistenza in sé) che è più una controfigura di
Caino.
Poi soprattutto abbiamo la terza tappa, e siamo già all’epoca di Salomone. Un
anonimo scrittore ebreo notò che quella parte che narrava del lavoratore espulso
dalla terra coltivabile (cf. Gen 4,16) e condannato a vagare per sempre come
ramingo, si prestava molto bene per approfondire il grosso spinoso tema del
male nel mondo. Perché il male nel mondo? voi sapete che tutti questi testi di
Gen.1-11 rispondono a domande fondamentali circa il senso della vita,
l’esistenza di alcune dimensioni come quella del male, etc. E così, con alcuni
ritocchi, decide di aggiungerla al racconto di Adamo ed Eva, facendo di Caino il
primo figlio di Adamo ed Eva, nonostante le incoerenze che ne sarebbero
risultate, come il fatto di parlare di Caino che si sposa con una donna quando
Caino era solo la terza persona dell’umanità, secondo la storia delle origini.
18
A Enoch nacque Irad; Isad generò Mecuiaèl e Mecuiaèl generò
Metusaèl e Metusaèl generò Lamech. 19Lamech si prese due mogli: una
chiamata Ada e l’altra chiamata Zilla. 20Ada partorì Iabal: egli fu il padre
di quanti abitano sotto le tende presso il bestiame. 21Il fratello di questi si
chiamava Iubal: egli fu il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto.
22
Zilla, a sua volta partorì Tubalkàin, il fabbro, padre di quanti lavorano il
rame e il ferro. La sorella di Tubalkàin fu Naama.
Qui abbiamo una genealogia: si dice quale figlio nacque da ogni padre. Però si
aggiunge anche qualcosa; non è solo un arido elenco di nomi. Si dice che Caino
partorì Enoch e poi divenne costruttore di una città (ecco il nesso con la civiltà
urbana), che chiamò Enoch, dal nome del figlio. “Enoch” in ebraico significa
“inaugurazione”.
Questo discorso della città è molto importante, perché i figli del vagabondo –
Caino – trovano invece una dimora stabile, una sede fissa. In ebraico “città” si dice
‘ȋr che è simile al sumerico ‘ur da cui tanti nomi di città sumeriche: Ur, Uruch, ecc.
La città indicava originariamente un luogo che dava rifugio, che metteva al sicuro dai
nemici, dagli animali.
Abbiamo una genealogia di 7 generazioni, quindi un periodo in sé concluso e
di Lamech si dice che prese due donne: Ada e Zilla. E quindi adesso troviamo un
fenomeno interessante, nuovo, che non risponde al progetto di Dio, perché qui
101
troviamo per la prima volta la poligamia: due mogli, mentre invece avevamo letto in
Gen 2,24: Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua
moglie e i due saranno una sola carne.
Poi da questo discendente di Caino – Lamech – nacquero tre figli, ciascuno dei
quali è visto come l’iniziatore di una dimensione della civiltà. Infatti Iubal, padre di
tutti i suonatori di cetra e di flauto. E come sempre, il nome ha un significato
collegato al senso, al significato della persona. Se questo è stato l’iniziatore degli
strumenti di suono, si chiama necessariamente Iubal, dajôbēl, corno, tromba, da cui
“giubileo” perché veniva annunciato col suono della tromba.
Tubalkàin, padre di quanti lavorano il rame e il ferro. Troviamo ancora qajin,
un quinto significato di Caino, che in questo caso rimanda proprio all’opera del
fabbro: kai vuol dire “fabbro ferraio”, anche in altre lingue semitiche. Abbiamo
quindi il sorgere della civiltà.
La civiltà nasce dai discendenti di Caino, che era stato maledetto, quindi se ne
deduce che si dà un giudizio negativo della civiltà, e questo è il riflesso di
un’esperienza storica vissuta dagli Ebrei, che per lungo tempo furono nomadi:
attraversarono il deserto e poi vissero ancora per un periodo nello stadio nomadico, e
in questo stadio avevano subito diverse volte prepotenze, violenze e umiliazioni da
parte di poteri locali. A parte la terribile schiavitù in Egitto, un grosso Stato che
esercita un potere negativo sugli Ebrei, poi al tempo dei Giudici, quando c’è la lotta
con i Filistei, poi l’esilio a Babilonia: qui c’è chiaramente una polemica dell’autore
con la cultura circostante, che era ostile al mondo nomadico a cui Israele si sentiva
legato e anche perché effettivamente le grandi città mesopotamiche, cananee (i
Cananei erano quelli che stavano in Palestina prima dell’arrivo degli Ebrei) col loro
lusso, coi loro artisti, coi loro templi, coi loro culti costituivano quasi l’emblema di
una vita non troppo morale e corrotta e di una religiosità falsa.
Quindi qui c’è sottostante una critica alla civiltà, ma anche – se vogliamo
attualizzare – un richiamo al fatto che la civiltà è sempre ambigua. E noi, che
veniamo dopo 2000 anni, ben lo sappiamo. Da un lato essa porta sicuramente degli
straordinari risultati positivi, dall’altro però porta in sé sempre l’insidia dell’uomo
che, vedendo dei bei risultati, si sente sempre più orgoglioso di sé e tenta di sostituirsi
a Dio. È sempre il peccato originale che salta fuori.
Così, purtroppo, al progresso della civiltà non corrisponde quasi mai un
progresso nel bene, anzi è proprio il contrario. E qui lo vediamo nel terribile canto di
Lamech:
23
Lamech disse alle mogli:
«Ada e Zilla, ascoltate la mia voce;
mogli di Lamech, porgete l’orecchio al mio dire:
Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura
e un ragazzo per un mio livido.
24
Sette volte sarà vendicato Caino
ma Lamech settantasette».
102
Infatti la fede ebraica conosce una storia: la storia della salvezza, e quindi
conosce delle tappe e quindi ci sono anche dei momenti non molto positivi come
questo, ma teniamo comunque presente il valore di questa legge del taglione.
25
Adamo si unì di nuovo alla moglie, che partorì un figlio e lo chiamo Set.
«Perché – disse – Dio mi ha concesso un’altra discendenza al posto di
Abele, poiché Caino l’ha ucciso».
Anche a Set nacque un figlio, che egli chiamò Enos. 26Allora si cominciò ad
invocare il nome del Signore.
sumerica: si arriva a una longevità di 72.000 anni! È un regno di 456.000 anni nel
quale si sono succeduti 10 re. E un altro di 8 re è di 241.000 anni.
È possibile che gli antichi Babilonesi intendessero con quelle cifre, non degli
anni, ma dei giorni. Allora le cose sarebbero molto ridimensionate, perché si
arriverebbe a cifre abbastanza normali: 70/80 anni ciascuno. Ma in ogni caso resta il
fatto che i Babilonesi davano un valore simbolico ai numeri, come sempre nel mondo
semitico, per cui ad esempio dire che un re era stato sul trono 30.000 anni, significava
dire che aveva governato particolarmente bene, anche se in realtà era stato sul trono 8
o 10 anni. Ma dire 30.000 voleva dire il massimo.
Analogamente l’autore biblico considera la longevità un segno della benedizione
di Dio, come si vede bene da altri passi, ad esempio:
Is 65,20: Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni, né un vecchio
che dei suoi giorni non giunga alla pienezza; poiché il più giovane morirà a
100 anni e chi non raggiunge 100 anni sarà considerato maledetto. Questo
era indice della grazia di Dio.
Pr 10,27: Il timore del Signore prolunga i giorni, ma gli anni dei malvagi sono
accorciati.
Quindi c’è questo nesso stretto, secondo l’autore biblico, tra la longevità e la
benedizione da parte di Dio. È evidente che nei primissimi tempi, quando gli uomini
seguivano Dio ed erano da lui benedetti, vivevano a lungo, e poi successivamente
questa longevità diminuisce, man mano che ci si allontana da Dio. Ecco perché
Adamo, nonostante il peccato originale, visse 930 anni, e Matusalemme dura 969
anni, e Lamech, il padre di Noè, 777 anni; Noè “solo” 500!
qualche racconto mitico, in cui l’eroe protagonista non muore, visto che era troppo
bravo, troppo buono, ma viene portato ancora vivo direttamente nel regno degli dèi.
Qui un po’ si dice la stessa cosa, perché non si dice che è morto, si dice non fu più
perché Dio l’aveva preso.
E si era precisato due volte (v. 22 e v. 24) che egli camminò con Dio.
“Camminare con Dio” vuol dire che era in comunione con Dio, quindi è un modello
di fede. Camminare con Dio vuol dire camminare nella fede, ma camminare nella
fede vuol dire vincere la morte, riuscire a superare la morte, fuggire la morte. E
questo Enoch non conosce neppure la morte fisica. Noi oggi sappiamo cosa vuol dire
vincere la morte, perché sappiamo che la vita continua nell’aldilà e ci porterà alla
comunione totale con Dio. Ma qui già si vuol far notare questa cosa addirittura
superando la morte fisica.
Lutero ha commentato questo versetto dicendo una cosa interessante e cioè che
già nel mondo delle origini Dio ha voluto attestare come esempio manifesto che dopo
questa vita ha preparato un’altra vita in cui gli uomini vivranno con Dio; e ciò perché
noi non disperiamo della morte, ma affermiamo con certezza che quanti credono alle
promesse del Signore, vivranno e saranno rapiti presso Dio.
%%%%%%%%%%%%
E infatti a conclusione di questa prima parte di Gen 3-11 troviamo quei Setiti
(discendenti di Set) nuovamente capaci di riconoscere i diritti di Dio sopra l’umanità,
come si vede dal fatto che lo invocano, esercitano il culto di Dio.
Ricapitolando:
i cc. 1-11 mostrano degli esempi in assoluto emblematici, archetipici di quelli
che sono i rapporti dell’uomo con se stesso, con l’altro, con Dio, e delle vicende
positive e negative della sua vita e anche della società in cui conduce la sua esistenza.
Esempi di grandissima attualità, tanto è vero che noi troviamo sempre delle
applicazioni anche nel nostro tempo.
Questi esempi sono contenuti in 6 grandi quadri:
1. Gen 2,4b-24: il peccato originale;
2. Gen 4,3-16: Caino che uccide il fratello Abele (il peccato originale in ambito
sociale)
3. Gen 6,1-4: il capitolo dei giganti
4. il diluvio universale
5. Gen 9,20-27: Noè pianta la vigna: riinizio dell’agricoltura, del rapporto
positivo dell’uomo con la terra;
6. Gen 11: Babele. Qui addirittura veniamo a toccare la sfera internazionale
perché Babele è l’emblema del potere, di tutti i tipi di potere.
Questi sei quadri ci presentano i fatti della preistoria biblica, non della
preistoria scientifica, storica. Quindi hanno un valore paradigmatico. E a parte
l’episodio di Noè e della vigna, che sta un po’ a sé, ognuno di questi sei racconti
prende come oggetto di descrizione la condizione umana o addirittura l’intera
umanità. Ha un suo messaggio che occorre cogliere analizzando i vari racconti, le
tradizioni e la concezione che l’autore aveva di Dio, cioè la teologia dell’autore.
In Grecia erano i famosi titani, erano famosi per le loro imprese, anche per la loro
longevità. Ad esempio Gilgamesh, il grande eroe dell’epopea sumero-babilonese, era
nato da un re e da una dea, dunque era per 2/3 divino e per 1/3 umano.
Che cosa significano tutti questi racconti, miti, leggende di unioni tra esseri
divini e esseri umani? Chiaramente esprimono l’aspirazione dell’uomo a superare in
qualche modo i limiti della propria creaturalità, limiti connessi alla vita e alla creatura
umana. E allora non ci stupiamo che anche nella mitologia cananaica, vicina ad
Israele e che Israele conosceva, si parli di unioni di uomini di stirpe divina con donne
molto belle.
Lo sfondo storico è una pratica cultuale diffusissima presso i Cananei e anche
presso altri popoli e che costituì sempre un’enorme tentazione per Israele, codificata
poi nel famoso episodio del vitello d’oro durante l’esodo, quando Mosè va a prendere
le tavole della Legge sul monte Sinai.
Questi culti erano le famose “ierogamie”, cioè matrimoni sacri o riti di
fecondità. Si chiamavano anche “prostituzione sacra” o “prostituzione cultuale”.
Consisteva nel fatto che c’erano dei sacerdoti e soprattutto delle sacerdotesse, dette
ieroduli o ierodule, personaggi che avevano una sacralità e che stavano sempre nel
tempio della divinità; si riteneva che questo sacerdote o sacerdotessa partecipasse in
un certo senso dell’energia della divinità. Chiaramente la fecondità era sempre vista
come un dono della divinità. Allora, se il sacerdote o la sacerdotessa avevano questo
collegamento col divino, di conseguenza l’unione sessuale con la sacerdotessa o con
il sacerdote doveva garantire di poter usufruire di queste energie divine, portatrici
della fecondità. Ecco perché si chiamavano ierogamoi cioè matrimoni sacri o
prostituzione sacra, nel senso che erano unioni tra persone che non erano coniugate,
però appunto con questa finalità.
Questa concezione era tanto radicata che nell’antichità pagana che spesso la
donna sterile partecipava nei santuari a culti con queste componenti misteriche
orgiastiche, arrivando in queste cerimonie (che erano accompagnate da suoni, canti
molto forti) ad accoppiarsi con la persona sacra, il sacerdote, sperando di riceverne la
fertilità!
Israele venne a contatto più volte con questi riti della fertilità, perché erano
diffusissimi nell’ambiente cananaico. Ricordate sempre che il popolo di Israele era un
popolo piccolo, povero, semplice, in mezzo a un mare di Babilonesi, Cananei con
tutti i loro usi e costumi. Gli Israeliti hanno sempre difeso saldamente la loro fede
jahwista, però purtroppo anche loro a volte sono caduti, e infatti pare che siano
passati questi usi anche nella pratica religiosa degli Israeliti provocando naturalmente
tutte le critiche, gli anatemi dei profeti e dei giusti. Di questo abbiamo una
documentazione infinita dai libri dei Re, dal Deuteronomio, dai profeti, addirittura
nel libro dei Numeri c’è la sentenza di morte contro gli Israeliti che erano stati
implicati nel culto idolatrico sessuale di Baal Peor.
Perché tutto questo? Perché questa grande critica a chi seguiva questa linea? Proprio
perché si trattava di un peccato gravissimo secondo la fede di Israele, e cioè il
pretendere di interferire col piano divino per ottenere qualcosa a proprio vantaggio: la
fecondità.
109
Per far capire tutto questo, il nostro autore riprende un mito, diffusissimo
nell’antichità, che parla appunto di giganti nati dall’unione sessuale fra divinità e
donne mortali, e lo rielabora demitologizzandolo, cioè togliendo gli elementi
mitologici e facendo di questo episodio l’esempio del male più grave a cui arriva
l’umanità e che provocherà l’ira di Dio e il diluvio.
Questo peccato, narrato in 6,1-4, fa già parte di quel grande peccato che poi si
dice nel v. 5 e che normalmente nelle Bibbie è messo sotto il titolo “il diluvio”, e così
c’è questa separazione, invece andrebbero visti più uniti, perché c’è un legame tra il
c. 6 (prima parte) e il c. 6 (seconda parte) in cui si comincia a parlare di Noè.
Anche qua l’autore vuole rispondere a quelle domande di carattere universale
che man mano noi stiamo ripercorrendo, specialmente quella relativa alla durata della
vita, già preparata nel c. 5 con la longevità dei patriarchi. La domanda è questa: come
mai l’uomo, che pur desidera vivere a lungo e brama la vita (perché c’è un istinto
naturale della vita), non riesce ad assicurarsela e vede che gli sfugge di mano? Da
cosa dipende la brevità dell’esistenza umana? Ricordate tanti Salmi che dicono:
l’uomo è come un soffio, è come l’erba che fiorisce al mattino e alla sera dissecca.
Questo è il problema, e c’è un modo sbagliato di affrontare questo problema
che il nostro autore ci vuol far vedere, ed è proprio l’episodio di Gen 6,1-4, che lui ha
demitologizzato. Cosa vuol dire “che l’ha demitologizzato”? nei miti si parlava di
esseri semidivini nati dall’unione di divinità e di uomini, qua il nostro autore sacro
parla di unioni sessuali tra figli di Dio e figlie degli uomini. Naturalmente,
storicamente si riferisce alla prostituzione sacra, ai riti di fertilità che erano
assolutamente condannati.
Ma in particolare cosa vuol dirci in questi versi? Vuol dire che la vita
dell’uomo dipende da Dio, dipende da quel soffio – rûah – che in Gen 2 Dio
insuffla nel corpo di fango che Lui ha costruito con le sue mani, e l’uomo allora vive.
Dio soffiò nelle sue narici un alito di vita. E quindi la vita viene da Dio e l’uomo
deve accoglierla come un dono da Dio, cercando di obbedire a Lui e alle leggi che ha
posto nella creazione, tra cui questa che è il limite della caducità, della fragilità
dell’uomo, il quale non può non morire perché è una creatura. L’uomo allora è tenuto
a obbedire anche alla propria ora, al momento della propria morte, sapendo che
comunque non perde tutto, non perde la vita, perché la pienezza della vita è data
dalla comunione con Dio, dal camminare con Lui. Vedete quanto era importante
quell’episodio di Enoch, quello è il senso della vita. Quello che l’uomo non deve fare
– dice l’autore jahwista – è pretendere di arraffare la vita come un bottino, di
accaparrarsela con tutti i mezzi possibili e immaginabili, anche quelli non leciti,
quelli che – secondo la Scrittura – non stanno nello spazio della via della vita e cioè
con espedienti di tipo magico. Proprio perché questa pretesa dell’uomo di
determinare la vita con ogni mezzo nei suoi effetti e nelle sue modalità è una
intromissione nel mondo divino, diventa un pregiudicare, un compromettere la
creazione stessa che è opera di Dio, perché abbiamo visto nella creazione il grande
ordine che Dio stabilisce. La creazione è il contrario del caos che c’era prima, è il
“cosmos”, è ordine. Non esiste nella Bibbia nessun animale con poteri divini o
110
divinizzato, perché c’è una distinzione chiara e netta tra il mondo di Dio e il mondo
creato.
Tutte queste pretese di utilizzare dei mezzi diversi da quelli che ci ha dato Dio
per poter prolungare la vita o determinare il destino come vogliamo noi, sono contrari
alla fede di JHWH. Questo è anche il peccato più grande, perché, se nei peccati
precedenti (il peccato originale di Adamo ed Eva, quello di Caino) il disordine frutto
del peccato si era inserito nei fondamentali rapporti dell’essere umano e cioè il
rapporto del lavoro (il suolo produrrà spine e cardi, aveva detto Dio ad Adamo, e in
Gen 4: il suolo non ti darà più i suoi prodotti, perché tu gli hai fatto bere il sangue di
tuo fratello, dice a Caino), ora invece il peccato e il disordine che ne consegue tende
addirittura a far saltare i limiti stessi della condizione umana e a pretendere di
invadere la sfera divina, proprio come si dice in questo incontro tra esseri divini e
esseri umani, con la conseguenza di provocare un altro disordine, un interferire di
piani diversi nell’ordine della creazione.
Ecco perché il nostro autore demitologizza l’episodio dei giganti, dice “i figli
di Dio”, in ebraico è benȇ hā’elōhȋm che probabilmente non sono delle divinità, ma
sono i figli di Set, i discendenti di quel Set la cui nascita da Adamo lo poneva in
stretta relazione con l’immagine e somiglianza di Dio che in parte è richiamato (Gen
5,1-3). Col figlio di Set, Enos, si cominciò ad invocare il nome del Signore (Gen
4,26).
Per questo i discendenti di Set possono essere chiamati “figli di Dio”,
contrapposti alle “figlie dell’uomo” che sarebbero invece qui i discendenti di Caino,
il maledetto, colui che non è più a immagine e somiglianza di Dio perché ha perso il
favore di Dio.
All’autore importa sottolineare che coloro che commettono questo peccato così
grave di intromissione tra la sfera umana e la sfera divina, non sono esseri semidivini
che non esistono; perché per il mondo ebraico, per il mondo biblico non si danno
esseri semidivini.
Quando poi apparirà Gesù, il Figlio di Dio, anche lì quante discussioni si
faranno per chiarire che questo Gesù non è un essere semidivino, ma è la
straordinaria realtà di un uomo completamente uomo, che nello stesso tempo è
completamente Dio, ed è un unicum. Nella storia e nella cultura non esiste un fatto
analogo, perché di essere semidivini ne troviamo in tutte le culture, ma un Dio che si
fa uomo, e che è uomo e Dio ad un tempo - Gesù di Nazaret il Figlio di Dio - non
esiste, non ci sono persone di questo tipo in nessuna religione.
Allora il nostro autore vuol far vedere che questo peccato così grave non è
compiuto da esseri semidivini, che non esistono, ma da uomini. Ecco perché con
“figli di Dio” non indica tanto degli essere semidivini, ma i discendenti dalla linea
positiva di Adamo, fatta a immagine di Dio. Tanto è vero che poi il grande castigo
del diluvio universale si abbatterà sull’umanità, non sugli esseri semidivini; è sulla
terra. E la cosa risulta ancora più chiara se si guarda la significativa crescita della
distorsione che, a causa del peccato dell’uomo, si approfondisce nel rapporto uomo-
donna.
111
L’attualizzazione qui è evidentissima: noi oggi abbiamo metodi che una volta
neanche si sognavano. È noto che nel 1978 è nata la prima bambina grazie alla
fecondazione in vitro, la Louise Brown, inglese, poi la sorella è nata allo stesso
modo. A loro volta loro hanno avuto dei figli naturali. Sono risultati strabilianti. Però
c’è stato il famoso intervento di Giovanni Paolo II – Donum vitae – sulla legittimità
di alcuni metodi e non di altri. Pensate che al 25/7/2003 sono ben 1 milione e 400.000
i bambini nati in provetta!
Questo è positivo, però sappiamo anche quali scenari da incubo può aprire
questa scoperta, queste capacità dell’uomo che prima non aveva, quando si parla di
clonazione, quando si parla di utilizzo di parti animali. Noi in Italia abbiamo il
112
Comitato nazionale di bioetica che sta studiando tutti i problemi connessi con la
biotecnologia, con l’ingegneria genetica, ecc.; sappiamo che occorre che l’uomo non
vada avanti a ruota libera senza alcun freno, perché rischia veramente di
autodistruggersi.
4
C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i figli
di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivamo loro dei
figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi.
Questo versetto da molti esegeti è ritenuto una glossa, cioè un insieme di una o
più parole non appartenenti al testo originale, ma aggiunte successivamente con
l’intenzione di spiegare il testo, di migliorarlo o di adattarlo. Normalmente queste
note venivano fatte al margine o tra le righe del testo e molte poi penetrarono nel
testo stesso, come in questo caso.
Questa nota dice che i giganti esistevano anche dopo quel periodo delle origini.
Infatti ne abbiamo una conferma dal libro dei Numeri (Nm 13,32-33), quando gli
esploratori della terra di Canaan riferiscono che quel paese divora i suoi abitanti;
tutta la gente che vi abbiamo notato è gente di alta statura; vi abbiamo visto i giganti
(nefilim), figli di Anak, della razza dei giganti, di fronte ai quali ci sembrava di
essere come locuste e così dovevamo sembrare a loro.
È significativo quanto dicono gli apocrifi giudaici a proposito dei nefilim, cioè
dei giganti. Secondo l’Apocalisse siriaca di Baruc, i giganti furono eroi combattenti,
ma che avevano perso sapienza e assennatezza.
Secondo il libro dei Giubilei e di Enoch etiopico, i giganti corruppero ogni
carne, non solo fra gli uomini, ma addirittura fra gli animali (gli uccelli, i rettili, i
pesci) e infine si divorarono reciprocamente. Essi apportarono ogni sorta di calamità
e soprattutto fornicazione, idolatria e violenza senza fine, che furono la causa del
diluvio.
Inoltre, secondo il De Vaux, qui l’autore sacro si riferisce a una leggenda
popolare sui nefilim, che sarebbero dei titani orientali nati dall’unione tra esseri
mortali e celesti. Senza pronunciarsi sul valore di questa credenza e velandone
l’aspetto mitologico, come sempre l’autore sacro opera una demitologizzazione,
l’autore richiama solo il ricordo di una razza insolente di superuomini come un
esempio di perversità crescente che giustifica il diluvio.
Ecco perché è stata posta qui questa glossa, il v. 4, che è seguito poi dal v. 5:
5
Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che
ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male.
Con i giganti siamo arrivati al massimo, al culmine della malvagità umana che
ormai è cresciuta in maniera smisurata. Il Signore constata che si moltiplica il male
degli uomini, cresce la loro disobbedienza, si aggrava la violenza sulla terra. Anzi, il
Signore vede; e il vedere di Dio introduce già un’azione Il Signore vide che la
malvagità; questo è il senso biblico del vedere di Dio: ogni pensiero e progetto che
esce dal cuore dell’uomo non è che malvagità, sempre.
113
Se il cuore umano con Caino era stato visto come minacciato dal peccato che
stava accovacciato, pronto a balzare per farlo sua preda (Gen 4,7), ora il Signore vede
che esso non fa che concepire disegni malvagi. L’uomo non resiste alla tentazione.
Questo è il grande messaggio di questa pagina, purtroppo. L’uomo non è in grado di
dominare l’istinto che è in lui e concepisce disegni malvagi, anzi ormai la corruzione
dell’uomo è tale che è minacciato il suo stesso essere uomo.
Come si vede dal testo della Bibbia di Gerusalemme, con il v. 5 inizia un
nuovo episodio : il diluvio. D’altra parte il discorso del diluvio è strettamente legato
alla parte precedente, non solo perché con il peccato di Gen 6 giunge al culmine la
malvagità dell’uomo, ma per un altro motivo. Che cos’è il diluvio? È annientamento
della separazione originaria fra acque superiori e acque inferiori, è un precipitare
delle acque che sono sopra il firmamento e che si ricongiungono con le acque che
sono sopra la terra, perché si aprono le cateratte del cielo e quindi precipita l’acqua
che sta al di sopra delle cateratte e si ricongiungono quindi le acque di sopra con
quelle di sotto. C’è un vero e proprio ritorno al caos!
Se il diluvio è tutto questo, allora il diluvio lo hanno iniziato gli uomini,
proprio nel loro tentativo di unirsi al cielo, di assimilarsi al divino, e dunque di
annientare ogni separazione e ogni differenza fra terra e cielo, fra livello umano e
livello divino.
Vediamo come vengono ripresi i testi dei cc. 4-6 nell’ambito della Scrittura.
Innanzitutto il 70 volte 7 di Lamech ricorda facilmente Mt 18,21-22, quando
alla richiesta dei discepoli di quante volte si può arrivare a perdonare (essi dicono:
fino a 7? che sembrava già un numero altissimo), Gesù risponde 70 volte 7.
E qui si introduce il tema del perdono nell’Antico e nel NT. Già nell’AT si
parla di Dio che perdona (cf. Lv 19 e Sir 27), Gesù riprenderà e approfondirà questo
tema così importante. Troveremo Stefano in At 7 che muore perdonando. Il cristiano
è chiamato a perdonare sempre, ad essere più grande dell’offesa che gli viene fatta. E
perché perdonare? Perdonare per amore, come Cristo e come il Padre (cf. Col 3 e Ef
4).
Un’altra ripresa del nostro testo è quella che si riferisce ad Enoch. In Eb 11
vengono ripresentate le grandi figure dell’AT sotto il profilo della fede. Infatti si dice:
Per fede Enoch fu trasportato via.
Attualizzazione
114
Concludo questo discorso con la citazione del Prefazio della Messa sulla pace che
dice: La vendetta è disarmata dal perdono. Ecco, credo che la soddisfazione più
grande che si possa provare non sia quella della vendetta, ma vedere che colui che
ha sbagliato capisce di avere sbagliato e cerca di rimediare al suo errore. È in
questa direzione che, seguendo l’insegnamento di Gesù, noi dobbiamo muoverci.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
IL DILUVIO UNIVERSALE
Gen 6,5-7,24
Qui è espresso un giudizio sulla storia degli uomini fino a quel momento.
Come osserva nel suo libro sulla Genesi il grande biblista Von Rad, purtroppo a
partire dalla prima caduta di Adamo, il peccato è cresciuto come una valanga. E con
l’ultimo episodio (6,1-4) ha raggiunto uno dei suoi vertici. Che cosa ne deduce Dio?
che l’uomo ha usato male la sua libertà: ogni disegno concepito dal cuore degli
uomini non era altro che male.
Il “cuore” nel linguaggio biblico non è solo la sede del sentimento, ma anche
dell’intelletto e della volontà. L’affermazione dunque si riferisce a tutta la vita
dell’uomo.
6
E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in
cuor suo.
“Il Signore si pentì”: viene spontaneo chiedersi: ma come, Dio può pentirsi,
lui che è perfetto in tutto quello che fa? In effetti queste parole non vanno prese alla
lettera. Ci troviamo di fronte a una caratteristica tipica dell’autore jahwista (del X o
meglio del VII sec. a.C.) che si caratterizza per il frequente uso di antropomorfismi,
cioè modi per cui si attribuisce a Dio un sentimento umano (dal greco antropos =
uomo, morfè = forma). Quindi forme umane attribuite a Dio, sentimenti umani
attribuiti a Dio.
118
E qui il testo ha un forte antropomorfismo, perché per ben due volte si dice che
Dio si pente. Si pente di aver creato l’uomo. Questo linguaggio antropomorfico rivela
un verità profonda: il disegno di Dio, un progetto bellissimo, è frustrato, è vanificato
nella storia. Per questo Dio soffre. Anche questo è un altro antropomorfismo. Se ne
addolorò in cuor suo, abbiamo letto.
Il Dio biblico non è il Dio impassibile della filosofia, il Motore immobile
dell’universo di Aristotele, che, tutto sommato, noi non riusciamo a toglierci dalla
testa. Provate a pensare: quando diciamo “Dio” ci viene in mente questa divinità
astratta in cui c’è tutta la potenza, tutta la bontà, ecc., ma appunto astratta. Invece il
Dio della Bibbia, il Dio che si è rivelato e che noi possiamo conoscere attraverso la
sua Parola è un Dio che prova sentimenti, che ama e perciò può anche soffrire, perché
l’amore spesso è collegato alla sofferenza. Quindi non è quel Dio onnipotente,
imperturbabile che non può né patire né morire, come diceva certa teologia.
Per l’uomo dell’AT – dice ancora Von Rad – JHWH è una persona, è la
volontà più vivente e sensibile. E così l’autore biblico preferisce correre il rischio di
una diminuzione della grandezza, della assolutezza di Dio (cosa che succede se usa
un linguaggio antropomorfico, se ne dà una rappresentazione simile a quella
dell’uomo) piuttosto che sacrificare qualcosa della ricca personalità di Dio e della sua
viva partecipazione a tutto ciò che è umano e terreno.
7
Il Signore disse: «Cancellerò dalla terra l’uomo che ho creato: con l’uomo
anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito
d’averli fatti».
8
Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.
Nel v. 7, jahwista, c’era scritto: 7Il Signore disse: «Cancellerò dalla terra
l’uomo che ho creato: con l’uomo anche il bestiame ecc. ».
Qui sembra, come in tanti altri passi della Bibbia, che Dio agisca in prima
persona per sconvolgere la natura. Ma non è così. Dobbiamo tener presente che nella
Bibbia non si distingue, secondo la mentalità semitica, tra “causa prima” e “cause
seconde”, espressione tipica del linguaggio aristotelico-tomista. Dio sta all’origine di
tutto, ma la causalità prima o ultima o finale opera a livello trascendente e in quanto
120
tale non si sostituisce alle altre cause, cioè alle “cause seconde”, quelle della natura e
della storia, né si appropria della loro azione.
Dio ottiene i suoi fini di salvezza e di bene servendosi di quanto avviene nella
natura o nella storia, servendosi anche di quanto c’è di negativo, perfino del male;
perfino la malvagità degli uomini può servire al bene nell’ottica di Dio, perché nella
Bibbia davvero il bene è sempre più grande del male.
Allora non va attribuito direttamente a Dio la formazione del diluvio, perché
appunto Dio è solo la causa prima di tutto, poi la natura segue una sua logica e vede
un succedersi di cause ed effetti che si spiegano al loro interno, senza ricorrere
continuamente a Dio. Ma nella mentalità semitica non c’era questa distinzione.
Nella Bibbia il bene è sempre più grande del male; basta ricordare il bellissimo
episodio di Giuseppe in Gen 45, quando si fa riconoscere dai suoi fratelli e dice: io
sono il vostro fratello che voi avete venduto agli Egiziani; ora che io sono potente,
perché sono il gran visir d’Egitto, temete una mia ritorsione, una mia vendetta, ma
Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita. Cioè il male che voi
avete fatto è servito per un bene più grande.
Ritornando al discorso dell’autore biblico che non distingue tra cause prime e
cause seconde, specie nell’AT si esprime spesso in immagini antropomorfiche a
colori forti, è quasi impaziente di cogliere la presenza salvifica di Dio negli
avvenimenti, e attribuisce tutto a Dio in prima persona.
Le tradizioni J e P
Ora vediamo questo celebre episodio, il racconto del diluvio, che è come un
tessuto intrecciato da due nastri di diverso colore: Jahwista e Sacerdotale (cf. sussidio
n.1 pp.2-3).
descritto più diffusamente: «Cancellerò dalla faccia della terra l’uomo, il bestiame,
ecc.
A differenza dello Jahwista che con l’espressione antropomorfica aveva dato
voce ai sentimenti divini, qui si riporta solo il giudizio di Dio: io li distruggerò. Si
dice il tutto in modo più conciso; per esprimere questa totale corruzione basta un solo
vocabolo: “violenza”, una parola che è propria della tradizione Sacerdotale, qui usata
per la prima volta, una parola che esprime tutta la gravità della sciagura. Infatti
“violenza” in ebraico si dicehāmās (che ben conosciamo, essendo la sigla del
movimento terroristico arabo), che alla lettera significa “delitto”. Questa parola
indica l’oppressione violenta e dunque la rottura fondamentale di un ordine giuridico.
Questo arbitrio violento, secondo il giudizio sacerdotale e profetico, è il peccato più
grave commesso contro JHWH, e comporta anche la punizione più grave, e cioè il
diluvio, che è una sorta di sconsacrazione della terra che era stata creata “molto
buona”.
21
Quanto a te, prenditi ogni sorta di cibo da mangiare e fanne provvista:
sarà di nutrimento per te e per loro».
22
Noè eseguì ogni cosa; come Dio gli aveva comandato, così fece.
Noè riceve l’ordine di far entrare nell’arca, oltre i suoi familiari, una coppia di
animali di ciascuna specie. Il testo sacerdotale è schematico, ripetitivo: gli uccelli
secondo la loro specie, il bestiame secondo la propria specie, ecc. Chiaramente
questo “secondo la propria specie” non può non richiamare l’altro testo sacerdotale,
quello della creazione in Gen 1, cioè quell’opera di ordinamento e separazione che
era stata l’opera di Dio con cui Egli aveva vinto il caos e attuato la creazione o
cosmos, ordine.
Qualcuno domanderà: come mai adesso sono diventate 7 le coppie che prima
invece erano una per ogni animale? Prima abbiamo letto il testo sacerdotale, mentre
questo è il testo jahwista. Si distingue anche tra animali puri e animali impuri.
Qui si vede bene come il redattore ha mantenuto ugualmente i due testi
paralleli, anche se non concordi, e alla più che logica obiezione che uno potrebbe
fare: ma non poteva eliminare i doppioni e semplificare il tutto? si risponde che non
lo ha fatto perché l’autore biblico aveva un profondo senso di rispetto per il testo
sacro e la tradizione tramandata per centinaia e centinaia di anni, e quindi non si
permetteva di modificare questo testo, preferiva mantenere queste fonti con i loro
doppioni e contraddizioni, piuttosto che eliminare una parte del patrimonio
tradizionale della fede di Israele, troppo veneranda per poter essere anche
minimamente modificata.
Noè fece quanto il Signore gli aveva comandato. È la seconda volta che troviamo
questo schema narrativo, la prima volta era in 6,22.
Teniamo presente che nella declamazione della trasmissione orale, come è
sempre stata di questi testi nella prima fase, questo schema ha il vantaggio di
permettere una più facile memorizzazione; così pure le ripetizioni servono a questo
scopo. È anche una tecnica per evidenziare i passaggi più importanti del racconto.
6
Noè aveva 600 anni, quando venne il diluvio, cioè le acque sulla terra.
7
Noè entrò nell’arca e con lui i suoi figli, sua moglie e le mogli dei suoi
figli, per sottrarsi alle acque del diluvio. 8Degli animali puri e di quelli
impuri, degli uccelli e di tutti gli esseri che strisciano sul suolo 9un maschio
e una femmina entrarono a due a due nell’arca, come Dio aveva
comandato a Noè.
10
Dopo 7 giorni, le acque del diluvio furono sopra la terra; 11nell’anno
seicentesimo della vita di Noè, nel secondo mese, il 17 del mese, in quello
stesso giorno, eruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del
cielo si aprirono. 12Cadde la pioggia sulla terra per 40 giorni e 40 notti.
È un testo jahwista tranne i vv. 6 e 11, che dicono l’età di Noè e sono
sacerdotali. Infatti è una caratteristica della tradizione sacerdotale quella del computo
dell’età, delle genealogie, ecc. Possiamo ricordare che la data del “secondo mese”, al
v. 11: il 17 del mese, è il mese che corrisponde al nostro maggio-giugno, nell’ipotesi
che l’anno iniziasse col mese di Nissan.
Per capire la descrizione del diluvio, dobbiamo tener presente la cosmologia
ebraica (cf. sussidio n.2 a p. 7, fig. 2 dove si vedono le acque primordiali in alto, il
grande abisso in basso, e nella fig. 1 sono evidenziate le cateratte, le porte del cielo).
È evidente che secondo il racconto biblico, sia Sacerdotale che Jahwista, il diluvio
appare come una catastrofe universale, per cui l’intera terra venne invasa dalle acque
superiori e inferiori. Fu totalmente sommersa e tutti gli esseri viventi vengono
distrutti, eccetto quelli che si trovano nell’arca.
Poi c’è il numero 40 che è ben noto come numero biblico con un valore
simbolico, come hanno i numeri nella Bibbia: 40 è un tempo in sé compiuto ed è
anche simbolo della maledizione, come si vede appunto in questo caso del diluvio,
dove il diluvio è una punizione per la malvagità degli uomini.
sono sotto il cielo. 20Le acque superarono in altezza di 15 cubiti i monti che
avevano ricoperto.
21
Perì ogni essere vivente che si muove sulla terra, uccelli, bestiame e
fiere e tutti gli esseri che brulicano sulla terra e tutti gli uomini. 22Ogni
essere che ha un alito di vita nelle narici, cioè quanto era sulla terra
asciutta morì.
23
Così fu sterminato ogni essere che era sulla terra: dagli gli uomini,
agli animali domestici, ai rettili e agli uccelli del cielo; essi furono
cancellati dalla terra e rimase solo Noè e chi stava con lui nell’arca.
24
Le acque furono travolgenti sopra la terra 150 giorni.
Il modo in cui sono descritti i motivi che portano al diluvio e il diluvio stesso,
richiamano molti elementi dei racconti della creazione: 6,6 : il Signore si pentì di
aver fatto l’uomo, come in Gen 1.7: Dio fece il firmamento; Gen 1,16: Dio fece i due
luminari.
O anche 7,22: Ogni essere che ha un alito di vita nelle narici ricorda Gen 2,6:
Dio soffiò nelle narici un alito di vita. In questo continuo rapporto con la creazione si
descrive con efficacia il pathos di un Dio che si vede frustrato nella sua qualità di
creatore. La sua creatura gli si è deteriorata e corrotta contro sua voglia, gli si è
rivoltata contro, ed egli non ha altra scelta che distruggerla.
Il rifarsi alla creazione esprime anche la radicalità della distruzione operata dal
diluvio. La punizione dell’uomo infatti investe anche gli animali estendendosi a tutto
il creato. L’uomo è inserito in un flusso di relazioni da cui non può fare astrazione, è
responsabile del creato, il suo agire malvagio contagia anche la terra, porta
distruzione anche nell’ambiente. È per questo che si parla di de-creazione e di
anticreazione, cioè ritorno al caos che c’era prima della creazione, ritorno al nulla.
È questa anche la sconsolata percezione che attanaglia pure l’uomo di fronte
alle grandi catastrofi della terra, quando quello che egli ha costruito con tanta fatica
sembra ridotto a nulla. Di queste catastrofi, cataclismi e tragedie, il diluvio è un
simbolo riassuntivo, perché è un’espressione di condanna del male: le acque attuano
questa condanna con la loro irruzione catastrofica e mortale; ma nello stesso tempo è
125
espressione di salvezza, perché mediante l’arca Dio salva il giusto e un nucleo di tutta
la creazione.
*****************************
Cominciamo dalla questione “diluvio”, termine che la Bibbia usa solo qui e nel
Sal 29.
Si definisce “diluvio” – secondo il vocabolario italiano – la pioggia che cade a dirotto
e per lunghissimo tempo. Qui si parla di una vera e propria catastrofe dovuta
all’acqua di sopra e di sotto.
Ora, quando e dove si verificò un tale fenomeno? Non poteva essere accaduto
in Israele, in quanto tale flagello non può avere come cornice il paese montagnoso di
Canaan. L’argomento e anche la sua espressione letteraria non sono di origine
palestinese, vanno cercate nel mondo mesopotamico.
Se in una cartina si osserva la zona tra il monte Ararat a nord e il Golfo Persico
a sud est, occorre sapere che questa zona non solo conserva il ricordo di
un’inondazione catastrofica che risaliva ad un passato lontanissimo, ma possiede
leggende sumero-babilonesi che hanno conservato e ingrandito tale ricordo e che
sono più antiche dei racconti della Bibbia. Cioè abbiamo:
1. Il poema di Atrahasis, tavoletta II e III, il più antico del periodo paleo-
babilonese, prima del 3000 a.C.;
2. il racconto sumerico del diluvio. I Sumeri sono una popolazione più antica, la
cui civiltà è fiorita dal 3000 al 2000 circa a.C.;
3. l’epopea di Ghilgamesh, tavoletta XI, del 2300 a.C. (cf. sussidio n.1 pp.4-5-6).
Ora il testo biblico, che risale al 7° o 5° sec. a.C., è più recente dei tre testi
babilonesi. Israele li ha conosciuti durante il suo esilio in Babilonia. E la Bibbia
presenta ben 17 punti (o tòpoi) in comune con questi testi, in cui anche i dettagli sono
identici. Se ne deduce una sicura dipendenza letteraria del testo biblico dai testi
mesopotamici.
C’è di più: non solo in Israele e in Mesopotamia, ma in altri popoli di tutt’altra
parte del mondo troviamo vari miti e leggende riguardanti un diluvio universale. Pare
che un ricordo ancestrale stia alla base di queste leggende diffusesi dal III millennio
in poi.
Per soddisfare la nostra curiosità abbiamo chiarito dicendo tutto quello che
finora siamo in grado di dire sulla base di dati scientifici circa un fatto che dovrebbe
essere accaduto nella realtà tantissimi anni fa.
Ma all’autore biblico questo non interessava affatto. Egli voleva dare una
risposta agli interrogativi fondamentali degli uomini di tutti i tempi. E qui la domanda
era: perché l’uomo nella sua vita sperimenta la catastrofe, la distruzione di ciò che
aveva costruito nel suo ambiente di vita? Perché questi grandi sconvolgimenti
cosmici che attentano sistematicamente alla vita dell’uomo, che di fronte alla natura
impazzita, si sente sempre canna fragile e instabile?
127
Ora, per dare la risposta a questa domanda, l’autore si serve di materiale mitico
che trova nel suo ambiente, lo reinterpreta e demitologizza – come abbiamo visto per
i giganti – per dare la risposta che vedremo.
Questo è il quarto mito che spieghiamo (dopo il peccato originale nel paradiso
terrestre, Caino e Abele e l’origine dei giganti). Il “mito” è l’espressione simbolica e
approssimativa di una verità che la mente umana può solo intuire, non avendo ancora
gli strumenti per un’analisi scientifica. Come disse Giovanni Paolo II, il termine
“mito” non designa un contenuto fabuloso, da favole, ma semplicemente un modo
arcaico di esprimere un contenuto più profondo.
Eziologia metastorica
Possiamo ora completare questo discorso del mito, dicendo qual è il genere
letterario utilizzato in questi testi: si chiama eziologia metastorica.
“Eziologia” = discorso relativo alle cause
“Metastoria”= al di là della storia.
Questa eziologia metastorica è un modo di parlare della storia dell’uomo di
sempre, di ogni epoca, riportandola alle origini, cioè alle cause originarie. Allora la
risposta dell’autore vale per il diluvio, ma vale anche per tutte le forme di catastrofi
che gli Ebrei hanno conosciuto nella loro storia, come l’esodo, l’esilio, ecc. Tutti fatti
che cercano una risposta di senso, di significato. E così sul senso del diluvio qual è
l’eziologia metastorica?
Il diluvio ci ricorda come il mondo sia davvero fragile e come, a causa della
violenza e del peccato dell’uomo, possa comunque ripiombare nel caos dal quale è
uscito ed essere così distrutto: decreazione, anticreazione. Ma nello stesso tempo il
racconto del diluvio ci richiama al fatto che, per opera di Dio, il mondo può essere
purificato e uscire rinnovato dall’acqua. Dunque alla fine mette in risalto ancora una
volta la volontà di salvezza di Dio e rinvia alla speranza in una salvezza futura.
Questo è il senso del diluvio.
Sul rapporto uomo-disastri naturali vedi l’apologo arabo del giardino che a
causa del peccato dell’uomo diventa un deserto.
Attualizzazione
Non dimentichiamo che da solo il male morale è responsabile della maggior parte
dei mali fisici e psichici e in parte di quelli cosmici o del loro aggravamento.
Mario Rigoni Stern, che fu testimone di eccezione della guerra sul fronte russo,
ci offre questa riflessione circa il rapporto fra l’uomo e la natura: Oggi, alle soglie del
2000, i fiumi vanno in piena rasentando disastri in molto minor tempo che qualche
diecina di anni fa, perché asfalto e cemento non trattengono l’acqua, e su per le
montagne sono rimasti pochi uomini a curare i torrenti: basta una pioggia violenta di
poche ore per provocare allarme e paure. Ricordiamo l’alluvione che sommerse il
Polesine nel 1951, che per 195 giorni coperse 113.000 ettari provocando molti morti,
e l’altro del 1966, che ancora tanti danni e vite costò nelle valli alpine e a Firenze e a
Venezia.
Si può ricordare inoltre l’altra tragedia del Vajont: oltre 2000 morti il 9 ottobre 1963.
Gen 8-9
Analisi e commento di Gen 8,1-9,17: la fine del diluvio e la “alleanza” con Dio
Quindi non c’è proprio niente da fare. Evidentemente tutti questi tentativi, che
peraltro sono veramente considerevoli, sono approdati al nulla. Ma perché?
Come sempre, c’è una questione di interpretazione. In effetti il libro della
Genesi, quando descrive la fine del diluvio, non dice che l’arca si incagliò sul monte
Ararat, come interpretano tutti, ma sui monti dell’Ararat, al plurale.
Per la Bibbia, Ararat non è il nome di un monte, ma di una nazione, come si
vede dalle altre tre volte in cui viene menzionata in 2Re, Is 37, Ger.51. E la nazione
corrisponde all’antico Urartu, cioè l’attuale Armenia. Per questo tutti i biblisti sono
d’accordo che la traduzione corretta sarebbe “sui monti dell’Armenia” e non l’Ararat.
Pertanto, ben lontano dal precisare il luogo, la Bibbia dà una localizzazione molto
vaga, che può essere in qualsiasi posto dell’Armenia, visto che essa è tutta un vasto
altopiano. Se vogliamo pensare soltanto alla parte montuosa, ha un’estensione di più
di 230 km. Quindi è un po’ difficile precisare un luogo particolare.
Negli anni ‘80 poi sui monti dell’Ararat è addirittura iniziato il turismo e lo sci
alpino!
Allora possiamo dire che questa benedetta arca non è esistita. Perché? Prima di
tutto, se guardiamo le dimensioni (era la metà di un transatlantico attuale), sono
dimensioni che non sono mai state conseguite dall’ingegneria navale prima del 1800.
Il racconto è ambientato nella preistoria, quando ancora non si conosceva l’uso
dei metalli. Quindi come si poteva costruire una nave così senza strumenti metallici?
Inoltre ci sarebbero volute centinaia di persone per costruire un’arca del genere. E
come avrebbero potuto soltanto Noè e i tre figli con le mogli?
La cosa pittoresca e difficile da ammettere è quella in merito agli animali che
Noè e i suoi dovevano introdurre nell’arca. Come poterono riunire una coppia di tutte
le specie esistenti per salvarle dall’estinzione? Furono capaci di percorrere tutto il
pianeta per portarli fin lì?
Inoltre oggi si sa che esistono sulla terra 1.700 specie di mammiferi, 10.087 di
uccelli, 987 di rettili e circa 1.200.000 di insetti; anzi si calcola che in quell’epoca le
specie di mammiferi erano 15.000, gli uccelli 25.000, ecc.
Gli zoologi hanno stimato che il nostro pianeta può avere tra i 5 e 10 milioni di
specie animali ancora non identificati, sconosciuti agli occhi della scienza nei ghiacci
polari, nelle terre tropicali e così via. Caricare l’arca di questo bagaglio sarebbe stato
impossibile. E come potevano otto persone in tutto dar da mangiare, da bere, pulire e
accudire tante bestie? E come potè Noè con la sua gente creare l’ambiente adeguato
per ognuna? Perché un animale vive nei ghiacci, un altro vive nell’Equatore, ecc.
Un’altra ragione che si oppone all’idea del diluvio universale è che, secondo la
Bibbia, piovve per 40 giorni e 40 notti senza smettere. Però sappiamo che il ciclo
idrologico di evaporazione che provoca le piogge risulta essere incapace di causare
una simile quantità di acqua.
Certo, per loro era diluvio universale, perché una catastrofe del genere doveva
essere accaduta nella Mesopotamia da cui nacque il racconto mitico, e praticamente
le terre allora conosciute erano intorno al bacino mediterraneo. Quindi quel diluvio,
per loro, per lo scrittore biblico, poteva essere “universale”.
133
Dal punto di vista storico si parla delle epoche post-glaciali che possono aver
dato luogo a fenomeni di questo tipo. Però non si può interpretare alla lettera che si
trattasse di un vero e proprio diluvio universale.
Secondo le annotazioni cronologiche che abbiamo visto soprattutto nel
documento Sacerdotale, il diluvio dura complessivamente un anno lunare (gli anni
lunari hanno il mese di 27 giorni + 10 giorni e quindi alla fine diventano un intero
anno solare) che inizia nel seicentesimo anno della vita di Noè e termina nell’anno
601 della vita di Noè.
Qual è l’intenzione teologica saliente del racconto del diluvio? Non è
descrivere un fatto storico così come è avvenuto, bensì dimostrare la possibilità della
“decreazione”, il contrario della creazione di Gen 1. Per volere di Dio questo mondo
è nato, e per volere di Dio questo mondo può anche finire.
Del resto ci sono moltissimi elementi che collegano il racconto della creazione
e il racconto del diluvio:
lo stesso termine tehôm parla dell’abisso in Gen 1,2 e Gen 7,11;
la superficie delle acque ‘al-penȇ hammājim: Gen 1 e Gen 7,18;
anche il ruolo del vento, rûah, Gen 1 e Gen 8,1.
Quindi il diluvio è una decreazione, un’anticreazione, un ritorno al caos. Il
mondo ha avuto un inizio e può anche avere una fine, non è eterno. La malvagità
dell’uomo ha provocato la catastrofe, ma – come sappiamo nella logica di Dio – Dio
punisce, ma dà sempre una possibilità di ricominciare. Dio perdona. Dio interviene in
senso positivo. Aveva lui stesso intessuto le vesti di pelle per i due progenitori, dopo
la cacciata dal paradiso terrestre, aveva messo il segno sulla fronte di Caino perché
non venisse ucciso, secondo la legge del taglione, e qui salva un “resto”. Restò solo
Noè e chi era con lui nell’arca. Il verbo “restare”, šā’ar usato in 7,23 è affine al
vocabolo “resto” š’ērȋt, che è il termine tecnico della letteratura profetica per
designare il “resto salvato”, cioè la porzione che all’interno del popolo, sia pur
degenere, resta fedele a Dio. E con questa annotazione si apre dal diluvio un piccolo
spiraglio di speranza, e si annuncia ormai la seconda parte del racconto del diluvio
che è la ri-creazione.
Davvero l’episodio del diluvio spezza a metà i capitoli di Gen 1-11, perché si
tratta di una distruzione della terra, di un ritorno al caos, ma per la bontà di Dio e il
perdono (e un’altra possibilità che vuole dare all’uomo), anche di una ri-creazione, di
una rinnovata creazione. Noè, potremmo dire, è un po’ il secondo Adamo.
18
Noè uscì con i figli, la moglie e le mogli dei figli. 19Tutti i viventi e tutto il
bestiame e tutti gli uccelli e tutti i rettili che strisciano sulla terra, secondo
la loro specie, uscirono dall’arca.
20
Allora Noè edificò un altare al Signore; prese ogni sorta di animali mondi
e di uccelli mondi e offrì olocausti sull’altare.
21
Il Signore ne odorò la soave fragranza e disse tra sé: «Non maledirò più il
suolo a causa dell’uomo, perché l’istinto del cuore umano è incline al male
fin dall’adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto.
22
Finché durerà la terra, seme e messe, freddo e caldo, estate e inverno,
giorno e notte non cesseranno».
corruzione dell’umanità resta un male irriducibile, Dio ne prende atto, però non è
rassegnato o rinunciatario.
Che cosa fa Dio, oltre a provare compassione per quest’uomo? Sceglie un’altra
strada per restaurare la condizione della umanità: non più la maledizione, ma la
benedizione. Però la benedizione a un uomo che lui ha scelto, che ha eletto. Ecco la
nuova strada che Dio sceglie: quella della ELEZIONE (dal latino eligere, cioè
scegliere). Sceglie un uomo, un essere umano, un popolo (il popolo di Israele),
sceglie qualcuno perché sia il tramite della sua salvezza per tutta l’umanità.
Qui abbiamo visto che Dio aveva scelto Noè, infatti lo benedice: Dio benedisse
Noè e i suoi figli (9,1). La benedizione su un uomo che Egli ha eletto e che è secondo
il suo cuore. Infatti sarà Noè e poi i discendenti benedetti da Noè (ci sarà anche
quello che sarà maledetto) via via fino (al c. 10 e al c. 11) ad Abramo, nostro padre
nella fede, che viene eletto per portare avanti la storia della salvezza.
22
Finché durerà la terra, seme e messe, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e
notte non cesseranno.
Si parla delle stagioni, dell’alternarsi del giorno e della notte. Teniamo presente che
naturalmente l’autore biblico ha una scarsissima conoscenza della meteorologia; non
si poteva sapere allora da che cosa erano provocate le stagioni; quindi per lui i cicli
stagionali non erano qualcosa di scontato, di assicurato per sempre, di regolare,
perché dipendono dai movimenti della terra. Il cosmo, secondo l’autore biblico, non è
tanto permeato di leggi fisiche, che lui ancora non può conoscere, ma intriso dello
stesso dramma dell’uomo. Nel senso che è sempre Dio che interviene; solo la
misericordia, la grazia divina possono assicurare e garantire la stabilità dell’universo,
altrimenti è il caos.
E allora il fatto che le stagioni si susseguono regolarmente, è, per lo scrittore
jahwista, il segno che JHWH guarda con bontà e misericordia la condizione umana, è
un segno del suo perdono e della sua benedizione. Certo, perché l’alternanza delle
stagioni è fondamentale per la riuscita del lavoro, per ottenere i frutti della terra, per
la sopravvivenza dell’uomo. E quindi il ritorno di questa alternanza e questa
promessa di Dio (finché durerà la terra sarà così: seme e messe, freddo e caldo non
cesseranno) è la garanzia, è l’impegno che Dio prende verso l’uomo, è il simbolo
della ritrovata armonia della creazione dopo la catastrofe del diluvio.
Non solo, ma Dio torna a pronunciare gli elementi di benedizione sugli animali
così come era stata pronunciata il 5° giorno della creazione: Siate fecondi e
moltiplicatevi. Così in 8,17: Tutti gli animali d’ogni specie falli uscire, perché
possano diffondersi sulla terra, siano fecondi e si moltiplichino. Sono quasi le stesse
parole. Come si vede, c’è sempre un nesso tra la creazione e questa ricreazione dopo
il diluvio.
Qual era allora l’intenzione dell’autore jahwista e poi del redattore che unisce
le tradizioni jahwista e sacerdotale in questo racconto del diluvio? È quella di
utilizzare la tradizione preesistente che veniva dalla Mesopotamia (i vari poemi
sumerici, babilonesi che trattavano del diluvio), di servirsi di quei testi che erano nati
prima, nel 2.000 a.C., e che poi erano passati in Palestina, perché si prestavano molto
bene a servire come esempio della potenza, della giustizia e della misericordia di Dio,
in quanto proprio attraverso questa catastrofe universale si vede certamente la
giustizia di Dio che punisce adeguatamente il male terribile a cui era arrivato l’uomo
(abbiamo visto il crescendo: da Adamo ed Eva fino ai giganti); ma nello stesso
tempo, proprio per le proporzioni colossali di questo fatto, si vede altrettanto la
misericordia di Dio che supera l’orrore del male provocato dall’uomo e torna ad
amarlo. Così il nostro autore fa vedere che la misericordia di Dio è più grande e più
potente del male dell’uomo, tanto che fa cessare il diluvio e si serve di Noè per far
arrivare ancora il suo messaggio di vita e di salvezza agli uomini.
Difatti è evidente in tutto il racconto la netta contrapposizione di Noè rispetto
agli altri uomini e anche rispetto a tutti coloro che l’avevano preceduto. I grandi
personaggi su cui ci siamo soffermati sono: Adamo ed Eva che hanno peccato, Caino
che si adira col fratello per il suo successo e arriva ad ucciderlo, i Cainiti peccano
anche loro di fronte al successo della città, i Setiti erano caduti non solo nella
poligamia come Lamec, ma addirittura nel libertinaggio, infatti in 6,2 si legge che i
giganti presero per mogli quante ne vollero delle donne molto belle che erano lì.
Siamo ormai arrivati alla degenerazione, al libertinaggio.
Tutti questi personaggi che abbiamo esaminato (anche se non sono storici, non
vanno presi alla lettera, ecc.) fanno vedere che purtroppo di fronte alla tentazione
spesso e volentieri l’uomo cade e non sa resistere. Così Dio ricomincia da capo con
uno – Noè – che invece ha resistito alla prova.
La figura di Noè
Noè riceve da Dio il comando di fare un’arca gigantesca. A parte che le
dimensioni non vanno prese alla lettera, però certamente doveva essere ben strano
obbedire a questo ordine, perché non c’era nessuna avvisaglia di un diluvio, né dal
punto di vista atmosferico né della zona che è arida, desertica, non c’era traccia di
pioggia. E quindi sia nel deserto che sulla terra ferma a eccolo a costruire questa
strana cosa, chissà quanto hanno preso in giro Noè e i suoi! Ma lui sopporta l’ironia,
le frecciate, la presa in giro e fa tutto secondo ciò che Dio gli aveva comandato
(6,22).
Naturalmente non sa dare altra ragione se gli chiedono: ma perché fai questo?
Me l’ha ordinato Dio, io obbedisco. E quindi ci mostra una fede totale, una
sottomissione totale di un uomo obbediente in tutto, che tra l’altro non parla mai. Di
parla di lui, si dice quello che Dio dice a lui, si dice che obbedisce, però non parla
mai, è sempre muto.
Il messaggio è molto chiaro: se l’uomo obbedisce a Dio, se segue i suoi
comandi (cf. Sal 119 che è tutto imperniato sulla Legge), non gli deve pesare una
obbedienza faticosa, di tipo schiavistico, imposta, ma la sua è l’obbedienza nel senso
137
dell’amore alla Legge di Dio, alla volontà di Dio. Se si segue questa legge, questa
volontà, si è nella felicità, si è nel bene. Se invece l’uomo disobbedisce, di fatto vuole
il suo male, si autodistrugge. È proprio il messaggio che emerge da questi primi
capitoli della Bibbia, perché anche la punizione è più un far prendere atto al soggetto
– Adamo, Caino, ecc. – dell’errore che ha fatto e fargli toccare con mano come il
peccare, il cedere alla tentazione, non solo non gli ha portato quello che lui sperava –
i doni che il serpente aveva promesso ad Eva – ma gli fa addirittura perdere la sua
dignità (si accorgono di essere nudi, ecc.).
È Dio che indica a Noè le misure dell’arca, il materiale che deve impiegare,
perfino la forma della costruzione. Questo significa che chi costruisce la sua vita con
le misure di Dio, sopravviverà sempre a qualsiasi tempesta; chi invece non ascolta la
sua voce, affogherà.
Qui ritorna la benedizione di Dio sull’uomo, su Noè e i suoi figli con le stesse
parole del primo capitolo, quello della creazione: Gen 1,28: Siate fecondi e
moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela.
In secondo luogo però notiamo una novità: Il timore e il terrore di voi sia in
tutte le bestie selvatiche. Che cosa è successo? Che anche nella nuova creazione, Dio
riconosce che ormai c’è stato uno sconvolgimento, un turbamento: la creazione è
stata turbata da un clima di violenza con cui ormai sembra dover fare i conti la
sopravvivenza dell’umanità sulla terra. Infatti non c’è più l’armonia che c’era prima
nel paradiso terrestre con gli animali. Adesso gli animali hanno paura degli uomini, e
addirittura Dio concede all’uomo di cibarsi anche degli animali, mentre in Gen.1
aveva detto che dava loro in cibo ogni erba verde.
Potremmo dire quindi che l’uccisione degli animali è una violenza – perché di
fatto lo è – tollerata da Dio perché questa però sia al servizio dei bisogni vitali
dell’uomo, cioè per cibarsi e ripararsi dal freddo con la pelle degli animali. (Certo qui
nell’attualizzazione vengono fuori dei grossi problemi: l’essere vegetariani o meno).
138
Dio però impone una condizione: 4Soltanto non mangerete la carne con la sua
vita, cioè con il sangue che tuttavia può essere utilizzato – come dice il libro del
Levitico – nei sacrifici espiatori.
Lv 17,11: Poiché la vita della carne è nel sangue, vi ho concesso di porlo
sull’altare in espiazione delle vostre vite. Perché il sangue espia, cioè purifica dai
peccati in quanto è la vita. È noto il senso sacro che hanno gli Ebrei del sangue. I
testimoni di Geova, interpretando alla lettera questo versetto, rifiutano di fare le
trasfusioni.
Ricordiamo però che fu anche il Concilio di Gerusalemme a stabilirlo, nel 15
d.C. Quindi di per sé dovrebbe valere anche per noi cristiani, anche se poi la cosa si è
persa, perché la nostra cultura era di tipo diverso, era occidentale. E’ la famosa
macellazione kashèr, che tuttora gli Ebrei fanno, cioè quella di non soffocare gli
animali in modo che resti il sangue, ma di ucciderli in modo da far uscire tutto il
sangue (anche i musulmani fanno così, non dimentichiamo che ci sono molti elementi
in comune fra ebrei e musulmani).
Qui c’è chiaramente l’ordine di non mangiare il sangue. Il sangue è il simbolo
della vita. La vita è di Dio, la vita è sempre dono di Dio. E quindi, nonostante l’atto
di violenza compiuto nell’uccidere l’animale per cibarsene (non il gusto di uccidere
per uccidere), la vita resta sacra e dono di Dio.
Astenersi dal sangue significa che l’uomo, ogni volta che mangia carne di
animali, deve sapere, deve ricordarsi che comunque non può depredare, non può
mangiare gli animali come se fossero cosa sua, ma ricordarsi che la vita appartiene a
Dio e che gli è concesso questo solo in vista del suo nutrimento.
Vediamo i due estremi del rischio che si corre nel rapporto con gli animali, e
cioè equipararli agli uomini, quindi esagerare nell’attenzione (adesso poi si parla
addirittura di veterinari dietologi e di psicologi per i cani e i gatti!) e dall’altra parte
invece considerare gli animali alla stregua di cose inanimate, quindi torturarli,
maltrattarli (è il cosiddetto “specismo”). Ci vuole il rispetto. Gli animali sono
creature di Dio e quindi chi maltratta o tortura un animale fa un’offesa a Dio.
Nello stesso tempo l’animale è sottomesso all’uomo, come abbiamo letto qua.
Perché Dio ci ha dato gli animali? per nutrircene, per coprirci, per rallegrare la nostra
vita. Questo è giusto e bello. Ci sono persone depresse che, occupandosi di un cane o
di un gatto, riescono a risollevarsi. Anche per i bambini disabili si possono fare cose
straordinarie con gli animali, perché sono creature di Dio.
Comunque il concedere all’uomo di cibarsi anche di ciò che ha la vita e il
sangue, è un segno che la situazione dell’uomo (pur salvato, perdonato e ancora
benedetto da Dio) è diversa dalla condizione originaria ideale. In pratica questa non
durò neppure lo spazio di un mattino, cioè è un’idealizzazione che l’autore ha fatto
sulla scorta dell’esperienza negativa, immaginando un paradiso terrestre e una
situazione degli uomini al contrario di quella che sperimentava, e quindi idilliaca.
5
Del sangue vostro io domanderò conto; e a ognuno domanderò conto di suo fratello.
Qui troviamo un altro comandamento che già avevamo visto con Caino, cioè il
divieto di uccidere l’essere umano. L’omicidio si può ricollegare con il discorso della
139
pena di morte che facemmo la volta scorsa. Noi siamo custodi dei nostri fratelli e
delle nostre sorelle.
Oltre alla benedizione e al perdono, qui c’è addirittura da parte di Dio (è lui
che si impegna unilateralmente) il discorso di una alleanza, il rinnovo della berȋt =
alleanza o patto. Il termine berȋt ricorre ben sette volte in questo brano, questo è
importante per individuare il tema che sta a cuore all’autore, il tema più importante.
“La mia alleanza”: insiste sul fatto che è Dio a volerla, è lui che ne fissa
sovranamente i contenuti, e si impegna lui per primo – in forma assoluta e
incondizionata – a rispettare.
E poi la controparte di Dio, che sono non solo Noè e i suoi, cioè i giusti, ma
tutta l’umanità e le generazioni future. Questo è bellissimo. Ci sarà un’altra alleanza
che Dio stabilirà con Abramo e i suoi discendenti (e quindi il popolo di Israele e noi
che discendiamo da Abramo, nostro padre nella fede), ma questa alleanza che
precede l’altra è un’alleanza con tutta l’umanità. Ciò vuol dire che il messaggio di
salvezza di Dio è per tutti, deve in qualche modo arrivare a tutti, tramite il suo popolo
– ebrei, cristiani – ma appunto universale. Questa alleanza sì che è universale (più
che il diluvio!), perché la controparte è tutta l’umanità, è ogni essere vivente uscito
dall’arca. Il popolo eletto sarà scelto non per escludere, ma come segno e benedizione
per tutti i popoli sui quali Dio ha già steso il suo piano di salvezza universale e
gratuita.
L’impegno che Dio si prende è quello di non distruggere più la terra con il
diluvio, anche se sa che l’uomo continuerà a fare il male, come è detto in 8,21.
Dio pone il segno dell’arcobaleno. Qua troviamo l’apporto delle culture
circostanti e dei relativi miti, perché anche nei popoli vicini l’arcobaleno era
140
l’immagine della pace tra le divinità e gli uomini, perché è il segno che Dio depone il
suo arco, cioè non combatte più con l’uomo, non lancia più le frecce, ma depone
l’arco, si disarma. Questa suggestiva immagine dell’arcobaleno ha sempre colpito gli
uomini, anche perché si accompagna alla cessazione di fulmini, piogge, disastri
meteorologici. E quindi Dio adotta questo segno come ricordo, come simbolo della
sua alleanza. Poi il bello è che dice che è un segno soprattutto per lui, che quando lo
vedrà, si ricorderà di questa alleanza che ha promesso e garantito agli uomini e non
interverrà più a punirli.
Gen 9,18-19
18
I figli di Noè che uscirono dall’arca furono Sem, Cam e Iafet; Cam è il
padre di Canaan. 19Questi tre sono i figli di Noè e da questi fu popolata
tutta la terra.
Lo vide Cam, il figlio minore, che raccontò ai fratelli la cosa. I due invece non
guardano, ma lo coprono. E qui la reazione di Noè quando si riprende dall’ebbrezza:
maledice in modo terribile Canaan, il figlio di Cam (come già sapevamo da 9,18:
Cam è il padre di Canaan). Solo di Cam aveva detto che aveva un figlio. Questo
episodio risulta un po’ strano.
«Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!». Perché deve
maledire il figlio di Cam e non lui? Come sempre c’è una questione di testo ebraico:
nell’ebraico non c’è scritto che Cam vide il padre scoperto o nudo – come traduciamo
noi – ma che vide “la nudità di suo padre”, ‘erwat ’ābȋw. Ora ‘erwāh = nudità,
ricorre ben 30 volte nel libro del Levitico e fa sempre un esplicito riferimento ai
rapporti sessuali.
L’interpretazione di Enzo Bianchi è: c’è stato un incesto di Cam con il padre. E
questo naturalmente sarebbe molto grave. Ma non è così, perché nella Bibbia quando
si proibisce di vedere la nudità di un uomo, non si intende tanto proibire dei rapporti
sessuali con lui, specialmente da parte di un uomo (visto che era sottinteso che
l’omosessualità non era assolutamente neanche da pensare, era totalmente vietata),
ma si proibisce di avere rapporti con la moglie di lui. Quando si dice che vide la
nudità dell’uomo, vuol dire che desiderò o che ebbe rapporti sessuali con la moglie
dell’uomo. Così leggiamo in Levitico ai cc. 18 e 20 (si spiega sempre la Bibbia con la
Bibbia).
Ecco dunque il peccato di Cam: mentre il padre era ubriaco, egli giacque con la
madre, ebbe un rapporto incestuoso con lei. E quando Noè, riavutosi dall’ebbrezza, se
ne accorse, lanciò questa terribile maledizione, perché suo figlio aveva commesso
uno dei peccati più gravi, più aberranti per la Bibbia: l’incesto.
Ecco perché non maledice il figlio, ma il futuro nipote. Intanto perché Cam era
già stato benedetto da Dio quando era uscito dall’arca coi fratelli (Gen 9,1: Dio
benedisse Noè e i suoi figli) e poi perché la maledizione cade soprattutto sul frutto
dell’incesto: sul figlio di Cam, che è Canaan.
Quanto ai fratelli, abbiamo letto: Cam raccontò della cosa ai due fratelli, si
capisce che si tratta di un invito esplicito ai due fratelli perché facciano con la madre
la stessa cosa che aveva fatto lui. Ma essi non videro la nudità del loro padre, perché
entrarono nella tenda a ritroso. Questa è l’immagine per far capire che i due fratelli si
rifiutarono di fare la stessa cosa che aveva fatto Cam, cioè coprirono la madre della
nudità e non commisero incesto con lei. Per questo poi Noè li benedice.
A questo punto viene spontaneo chiedersi: come mai la Bibbia ha conservato il
ricordo di un peccato che in fondo riguardava la famiglia di Noè e le loro questioni
private? La risposta è data dal fatto che i tre figli di Noè non sono soltanto i suoi tre
figli, ma sono – secondo la mentalità semitica – i capostipiti, gli antenati, gli eponimi
delle tre grandi stirpi da cui dovevano derivare tutte le popolazioni, che, come dice il
c. 10, avrebbero ricoperto di nuovo tutta la terra.
Sem infatti era l’antenato del Semiti, cioè di tutte le popolazioni della
Palestina, della Mesopotamia, della zona orientale. Jafet era l’antenato dei popoli del
nord e dell’ovest di Israele, cioè dell’Asia Minore e delle isole del Mediterraneo, tra
cui i famosi Filistei (Jafet = Filistei) che gli Israeliti non riuscirono mai a sottomettere
143
(a parte l’episodio di Davide e Golia). I Filistei furono sempre nemici di Israele. Cam,
padre di Canaan, era il capostipite dei popoli del sud, cioè l’Egitto con i suoi dintorni
e le sue zone di influenza. Da Cam e da Canaan, ovviamente, discendevano i
Cananei, che erano i grandi nemici di Israele che gli Ebrei effettivamente sottomisero
quando conquistarono la terra promessa. Infatti la maledizione diceva: Sarai schiavo
dei tuoi fratelli.
Quindi questo episodio nella Bibbia ha questa funzione: non tanto per il
racconto dell’incesto, ma per la valutazione di carattere politico. Il diluvio era il
prototipo di tutte le catastrofi e fu scritto proprio per spiegare (e ancora troviamo la
famosa “eziologia metastorica”, cioè la ricerca delle cause al di là della storia) la
situazione che era già presente nella storia di Israele, cioè la schiavitù dei Cananei e
la sopravvivenza dei Filistei a dispetto delle originarie idee e aspettative che avevano
gli Israeliti.
Tutti discendiamo da una sola coppia – Adamo ed Eva – oppure da più coppie?
Il problema si pone per la questione del “peccato originale”. Fino al secolo scorso si
interpretava alla lettera la Bibbia e si diceva: il peccato originale si è trasmesso
fisicamente e teologicamente da Adamo ai suoi discendenti; chiaramente derivava di
144
conseguenza che per la Bibbia non poteva esserci stata che un’unica coppia
all’origine dell’umanità.
Dal punto di vista scientifico però la cosa non regge, perché sono stati trovati
resti di uomini preistorici in punti diversi della terra e sono localizzati più o meno
nello stesso periodo. Allora, dapprima la Chiesa difendeva il monogenismo, secondo
cui l’intero genere umano deriva da un’unica coppia, però senza un chiaro
fondamento nella Bibbia che parla di Adamo sia come persona singola, sia come
persona corporativa (cioè l’emblema dell’uomo in quanto tale); dunque il
monogenismo non è una dottrina definita. Tuttavia essa viene insegnata dal
Magistero della Chiesa perché in caso contrario (accettando cioè il poligenismo)
sembrerebbero minacciate l’unità della storia della salvezza e soprattutto la dottrina
del peccato originale, così come era intesa prima delle più recenti interpretazioni.
Però la teologia non ritiene cogente sostenere questo, cioè non è un dogma,
non è una dottrina. Anzi si pensa che si possa conciliare (oggi come oggi con i
risultati ultimi dell’interpretazione esegetica della Bibbia e quindi anche del peccato
originale) anche con il poligenismo, che è il contrario del monogenismo, cioè la
dottrina secondo cui il genere umano deriva da più coppie.
Infatti nella “Humani generis” (1950) il poligenismo viene condannato perché
non appariva conciliabile con il peccato originale. Oggi la teologia, con una migliore
ermeneutica delle fonti bibliche, ha proposto diverse ipotesi per spiegare il peccato
originale senza necessariamente ricorrere alla dottrina del monogenismo. Quindi non
esistono più le ragioni che portavano Pio XII con l’Humani Generis nel 1950 a
sostenere il monogenismo.
In un articolo del 3 maggio 2000 si legge: “Ecco il DNA di Adamo ed Eva: erano
africani, 18 donne e 10 uomini progenitori di tutte le razze. Al 2000 hanno
individuato nei vari punti della terra questi uomini e queste donne all’origine delle
varie razze. Tutto questo è possibile ricostruire grazie al genoma umano, una vera e
propria miniera d’oro che fa luce sulla preistoria. E quindi, guardando il DNA dei
resti preistorici, tutti i gruppi etnici discendono da 18 progenitori femminili e 10
maschili, eredi di un’era primordiale vissuta nel cuore dell’Africa nera 150.000 anni
or sono. Esattamente nella famosa fossa dove c’è l’Etiopia. Sull’altopiano etiopico
c’è una fossa e pare che sia stata lì l’origine della razza umana dal punto di vista
scientifico”
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LA TORRE DI BABELE
Gen. 11
145
Gen 11,1-9
1
Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. 2Emigrando
dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi
si stabilirono. 3Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e
cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da
cemento. 4Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui
cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la
terra». 5Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini
stavano costruendo. 6Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e
hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto
avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. 7Scendiamo dunque e
confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua
dell’altro». 8Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di
costruire la città. 9Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore
confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la
terra.
Vediamo ora come da questi due racconti originari siamo arrivati a quello che
abbiamo letto.
I due racconti nacquero probabilmente a Babilonia, nella Mesopotamia. Da che cosa
lo si capisce? Dai materiali usati per la costruzione, perché si parla di mattoni cotti al
sole e di bitume. Perché in Babilonia che è una zona alluvionale, non si trovava in
abbondanza né legname né pietra, come invece si trova in Palestina. E quindi
dovevano proprio fabbricarsi il materiale da costruzione.
Si parla di questa Babilonia che effettivamente era una grande città del mondo
antico. Con ogni probabilità le cose sono andate così (cfr. “Cosa sappiamo della
Bibbia”, vol.4°,p.30): c’erano questi due racconti babilonesi che incominciavano ad
essere diffusi anche al di fuori di Babilonia e quindi vennero conosciuti anche dagli
Ebrei, che invece erano nomadi beduini, perché avevano fatto la traversata del
deserto di ritorno dall’Egitto. Questi nomadi provavano un certo disprezzo per le
grandi città e per la loro vita, perché si trattava di un potere della città piuttosto
oppressivo che sfruttava diverse popolazioni.
Quindi agli Ebrei nomadi o comunque con una forte esperienza di nomadismo,
la vita della grande città (della metropoli con le sue vicende, col miscuglio di popoli,
difficoltà di comunicazione) apparvero come una maledizione, un castigo di Dio per i
peccati. Infatti questa città era stata fondata da Nimrod, che era un discendente di
Cam, quello maledetto dei tre figli di Noè.
Allora questi due racconti cominciavano ad assumere un altro significato: non
tanto la celebrazione della città e della torre come in origine, ma la città vista come
segno di idolatria e di orgoglio. E infatti, una volta trasformati, i racconti risultavano
così composti:
Testo A Testo B
1
Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole.
2
Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una
pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono.
3a
Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco».
3b
Il mattone servì loro da pietra e il bitume da
cemento.
4a
Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città
4b
e una torre, la cui cima tocchi il cielo
4c
e facciamoci un nome,
4d
per non disperderci su tutta la terra».
5
…la città…
5
Ma il Signore scese a vedere……la torre che gli
uomini stavano costruendo.
6a
Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola;
147
6b
questo è l’inizio della loro opera e ora quanto
avranno in progetto di fare non sarà loro
impossibile.
7
Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno
la lingua dell’altro».
8
Il Signore li disperse di là su tutta la terra
8b
ed essi cessarono di costruire la città.
9
Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la
terra
9b
e di là il Signore li disperse su tutta la terra.
politico-militari assiro-babilonesi. E quando di dice “aveva una sola lingua, una sola
parola, una sola bocca”, vuol dire non tanto che c’era un’unica lingua uguale parlata
da tutti, ma un popolo di uno stesso sentimento che gode di un governo centrale, che
venera uno stesso dio nazionale, e quindi indica questa unità politica prima di tutto.
Le stesse parole: poiché in ebraico dābār vuol dire sia parola sia fatto, qui potremmo
tradurre non con “parole” ma con “le stesse imprese”, avevano uguali imprese. E
quindi costituivano una civiltà uniforme, uniformata, un’unica opera culturale.
Ora questa unità non era stata raggiunta pacificamente con un accordo previo
preso tra pari, ma era stata raggiunta perché uno aveva prevaricato sugli altri; cioè la
parola unica, la cultura unica, la nazionalità unica è quella del più forte, del padrone,
che si è imposto sugli altri e ha imposto unicità di lingua e di cultura.
E questo come facciamo a dirlo? Lo sappiamo perché già in Gen 10,8 si
leggeva che Nimrod, uno dei discendenti, cominciò a essere potente sulla terra.
Nimrod, discendente del maledetto Cam, aveva costituito a Babele il primo regno
universale. Ma aveva costituito questo regno a prescindere da Dio, rifiutando Dio,
credendo di avere lui tutto il potere. Infatti discendeva da un personaggio che era
stato maledetto. Quindi l’autore biblico ci dice tutto il giudizio negativo su questa
azione, su questa impresa di Nimrod, che aveva costituito questo grosso impero.
2
Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e
vi si stabilirono.
“Sennaar” è un nome che indica probabilmente la regione di Sumer cioè dei Sumeri,
che è la parte meridionale della Mesopotamia, dove fiorì la splendida civiltà dei
Sumeri.
Qui sono usati tre verbi tipici del passaggio dalla cultura nomade a quella sedentaria:
o “emigrare” (emigrando dall’oriente),
o “trovare”; qui la CEI ha tradotto gli uomini capitarono, in realtà in ebraico c’è
il verbo māsā’, cioè trovarono questo luogo;
o vi si stabilirono: jāšab.
Teniamo presente che un antico traduttore aramaico aveva tradotto il v. 1: Gli uomini
di comune accordo si alzarono per ribellarsi. Quindi aveva intuito ed espresso più
chiaramente la realtà di questa nazione tutta unita; in realtà era un progetto nato in
contrapposizione a Dio per ribellarsi, cioè non avevano accettato la divisione della
terra fatta fraternamente secondo il progetto divino. Dio aveva creato dei popoli
differenziati, perché la creatività di Dio è immensa. Dio non ama l’uniformità, ama la
diversità nella concordia. Questo era il suo progetto.
Invece questi uomini vogliono radunarsi nella più grande pianura esistente,
quella di Sennaar e fare un’impresa comune e imporre il loro modello fattuale a tutti
gli altri uomini. Infatti anche nel capitolo precedente si era notato che Nimrod,
fondatore di Babele, da quella città si spostò ad Assur e costruì Ninive e altre città
(cf. Gen 10,11). E anche qua si sottolinea la ribellione al volere di Dio.
Ecco perché alcuni dicono che, anziché intitolare questo episodio “La torre di
Babele”, come vediamo anche nella traduzione della CEI, sarebbe meglio intitolarlo
“La città con una torre nel suo centro”, visto che gli uomini scelgono di dimorare
150
proprio una grande città piuttosto che stare nelle diverse località, nei diversi villaggi,
come aveva stabilito Dio; quindi sarebbe il caso di mettere in rilievo nel titolo la città,
l’urbanizzazione.
3a
Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco».
Questo discorso del materiale edilizio facciamoci mattoni, cuociamoli al fuoco, e poi
si parla ancora di mattoni e di bitume, ci fa capire che questo racconto, in particolare
il racconto A (dove appunto si parla di questo, mentre in B si parla solo della torre e
non del materiale edilizio) faceva parte di un particolare genere letterario (si chiama
così l’insieme di testi che presentano caratteristiche simili nel contenuto e nello stile).
C’era un genere letterario babilonese chiamato “della ziqqurat”, cioè della
torre. E il v. 3b che spiega: 3bIl mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento, è
probabilmente una nota esplicativa aggiunta dall’autore che sente la necessità di
spiegare ai suoi lettori ebrei l’uso seguito dai Babilonesi, cioè i mattoni invece di
pietre e il bitume al posto della calce. Questo perché la Mesopotamia, come dice la
parola stessa, essendo una terra tra due fiumi, era costituita da materiale alluvionale,
era una regione costituita dai detriti deposti dai fiumi ed era priva di legname, pietra e
metalli, che invece si trovavano in Israele. Per le costruzioni si poteva solo disporre
di argilla, canne e bitume, che servivano per le modeste abitazioni della gente, mentre
per la costruzione di mura, torri e templi, il materiale edilizio veniva per lo più
importato dalla Siria e dall’Egitto, oppure costruito con l’argilla, cuocendo i mattoni.
4a
Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo.
Anche qui troviamo tre elementi tipici del genere letterario babilonese:
- il consiglio dei lavoratori che si consultano,
- il piano di costruzione su come doveva essere la città e la torre
- l’approvazione degli dèi.
1. Qui però il consiglio non è tanto ricercato come nell’ambiente assiro-
babilonese dalla divinità, ma è reciproco, cioè gli uomini si parlano tra di loro e
dicono “venite, costruiamoci”, quasi per darsi coraggio reciprocamente a compiere
questa mastodontica costruzione. E questo “costruiamoci” sottolinea proprio che
la costruzione sarà esclusivamente per coloro che si accingono a farla, cioè a loro
vantaggio.
2. Il piano di costruzione appare invece analogo a quello dei paralleli
babilonesi, cioè fondare una città con la sua ziqqurat.
3. Il terzo elemento, l’approvazione degli dèi, qui ovviamente non
compare, visto che il testo è polemico nei confronti di questa impresa.
Cos’è che si vuole costruire? Una città e una torre. Qui naturalmente viene
subito da chiedersi: saranno simboliche o saranno storiche? Sono realmente esistite
questa città e questa torre? Pare proprio di sì. Da vari commentari risulta che si tratta
di una città e una torre realmente esistite. La città è Babilonia e la ziqqurat, detta
Etemenanki, era la torre che si trovava in ogni città a quell’epoca.
La città di Babilonia
151
L’area sacra di Babilonia era cinta da una doppia cinta muraria, le cui mura
esterne lunghe 27 km erano sufficientemente forti e ampie da permettere ai carri da
guerra di percorrerle, era fornita di 9 torri e possedeva 9 porte.
Sul lato nord si trova la monumentale porta di Ishtar. Da questa porta partiva la
così detta “via delle processioni”, che portava verso sud, fino alla cittadella, al tempio
Esagila dedicato a Marduk e alla famosa ziqqurat Etemenanki.
152
Questo ai tempi della gloriosa Babilonia, mentre invece oggi tutti i resti si
presentano come una serie di colline, dette tell, che ricoprono cumuli di rovine a una
certa distanza l’una dall’altra.
Quanto alla torre di Babilonia, noi siamo in grado di dire parecchio perché di
queste ziqqurat ne sono state trovate circa 33 in Mesopotamia e poi si sono trovati
molti documenti e sigilli su cui sono scolpite queste caratteristiche torri, e pare che
esse risalgano al 4° millennio a.C., al tempo dei Sumeri. Da allora fino alla metà del
3° millennio, il terrapieno sopraelevato si trasformava in due terrazze che poi
aumentarono sempre più fine a 7 terrazze a gradoni, come era appunto la Etemenanki,
la torre di Babele. Essa era detta anche “casa dei 7 gradini del cielo e della terra.”
Sappiamo dai testi che questa costruzione costituiva oggetto di grandi meraviglie e
153
stupore dei viaggiatori e pare che fosse addirittura considerata l’ottava meraviglia del
mondo.
La tavoletta di Esagila è conservata al Louvre di Parigi e contiene le misure
precise della costruzione della torre, infatti la tavoletta è a caratteri cuneiformi e
sopra ci sono tutti i calcoli secondo le unità di misura del tempo.
Comunque l’altezza totale era di 90 m, la base quadrata di 90 m per lato e la
terrazza più alta aveva 24 m di lunghezza e 21 di larghezza, e l’ultima terrazza era
sormontata da un tempietto detto “Sahuru” (=il tempio della sommità”), che era
considerato la dimora del dio Marduk, e quindi il tempietto era in alto, dove si
pensava che scendesse la divinità.
Infatti Etemenanki cosa vuol dire?
e = casa; “temen” = il fondamento; an = cielo; ki = terra, in sumerico. Quindi vuol
dire “casa del fondamento del cielo e della terra”, perché questa torre era una sorta di
microcosmo che riproduceva il macrocosmo. Le 7 terrazze volevano riprodurre i 7
pianeti allora conosciuti. Quindi si voleva rappresentare in questa torre tutto
l’universo, la totalità.
Il centro della torre dove c’era questa tempietto, dal punto di vista teologico era
veramente considerato come il nesso tra la terra e il cielo, e dunque la torre era il
fondamento; ecco perché si chiamava il quel modo, “casa del fondamento del cielo e
della terra”.
Poi il tempio vicino, quello dedicato a Marduk, non il tempietto sopra la torre,
ma l’altro, si chiamava Esagil (e =casa; sa =alza; gil =capo) = “casa che alza il
capo”, oppure “casa che raggiunge il cielo”.
E infatti questi templi e queste torri, soprattutto le ziqqurat, dovevano sembrare
per i lontani spettatori così alte da toccare il cielo, da raggiungere il cielo.
Presso gli orientali, Babele godeva la fama di città santa secondo la religione
pagana, una fama molto radicata che diede origine a una famosa leggenda. Si dice
infatti che Sargon I, il Grande, dopo aver distrutto Babilonia, ne portò un po’ di terra
nella sua nuova capitale Akkad, da cui il nome del regno di Accadi, per conferirle un
po’ della santità della città conquistata. Fra i nomi più antichi di questa famosa città,
c’è proprio il sumerico Ka-dingir-ra-ki, cioè “casa della porta del Dio”. Quindi si
capisce perché la città stessa Babilonia venne chiamata così, casa del Dio, Bāb-ili o
Bāb-ilāni.
La città era stato un passaggio obbligato per gli dèi che volevano realizzare
l’incontro con i loro fedeli. La torre di Babele, la cui cima tocchi il cielo, era un
tramite che doveva assicurare la comunicazione tra terra e cielo, e aveva un valore
religioso perché era il tramite per l’incontro con la divinità, ma anche politico
insieme; era la garanzia per la città di Babilonia che il proprio dio sarebbe sceso sulla
terra nel luogo esatto dove c’era bisogno di lui nella sua città e presso il suo re.
Questo per i Babilonesi, ma per gli Ebrei che vedevano Babilonia come una
città imperialista, tutto questo era anche segno di grande arroganza e superbia, perché
questa pretesa di essere la raffigurazione dell’intero universo (i 7 gradoni che
evocavano i 7 pianeti), questa pretesa di essere microcosmo sembrava veramente
eccessiva. Quindi la ziqqurat è il segno di una religiosità di tipo trionfalistico, che
154
avalla il potere (c’era infatti uno stretto nesso tra religione, potere e arte); quel potere
che si confonde con questa religiosità trionfalistica e si pone addirittura come sfida al
Signore del cielo e della terra, del tempo e delle vicende umane. Questa era la lettura
che ne davano gli Ebrei.
Ricapitoliamo tutto ciò che abbiamo detto finora per capire il messaggio del
brano.
Abbiamo detto che la diversità etnico-culturale-linguistica che si ricordava alla fine
del c. 10 era il segno di una benedizione di Dio, che continua così il suo discorso, il
suo messaggio sul significato della differenza, che è segno del volere di Dio. Una
differenza in vista di una pacifica armonia, ma non un uniformismo noioso!
Infatti nel corso di Gen 1-11 abbiamo visto innanzitutto che
- Dio crea l’uomo come maschio e femmina, quindi con una differenziazione al
suo interno. Non è che ha creato solo uomini o solo donne. Che noia sarebbe
stato!
- Poi la differenza sociale tra la cultura della pastorizia e quella dell’agricoltura
raffigurate da Abele e Caino (Gen 4).
- Poi la distinzione molto chiara, senza confusioni, come facevano i popoli
vicini, tra il cielo e la terra, cioè tra piano religioso e piano umano. (Cf. Gen
6,1-4 il gravissimo peccato dei cosiddetti giganti e delle figlie dell’uomo).
- E ora è introdotto anche il piano culturale internazionale. La diversità tra i
popoli e le culture è un segno di questa estrema varietà, immensa multiformità
dell’energia creatrice di Dio. È voluta da Dio e benedetta da Lui.
Ma purtroppo, e qui ritorna il discorso di fondo che il nostro autore ha assunto in
questo brano, il peccato dell’uomo rende insopportabile la differenza, che anziché
suscitare interesse e collaborazione, suscita dominio.
Infatti abbiamo visto: il dominio dell’uomo sulla donna (Verso tuo marito sarà
il tuo istinto, ma egli ti dominerà); la gelosia di Caino verso Abele invece della
pacifica collaborazione; l’arroganza, la tirannia dei giganti e ora questa prepotenza a
livello di potere statuale. E allora come nei casi precedenti l’intervento di Dio,
necessario, non fa altro che manifestare il male che è già contenuto nella patologia
umana.
Il “castigo” non è tanto una decisione arbitraria di Dio, ma il far prendere
coscienza all’uomo che ha sbagliato, che ha commesso peccato e dargli la possibilità
di cambiare.
v. 1: Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Qui ci troviamo di fronte
a una entità politico-nazionale che ha instaurato un regime totalitario. Infatti al v. 4 si
dice: Venite, costruiamoci una città e una torre, cioè costruiamoci qualcosa che duri
nel tempo e che sia l’unità del potere politico e religioso. La città rappresenta il
potere politico, la torre il potere religioso (una torre che deve toccare il cielo).
Allora cosa vediamo? Che non solo la cultura, ma anche la tecnica è utilizzata
come strumento del disegno totalitario, è la tecnica raffinata di usare mattoni e
bitume, non solo, ma chi fa i mattoni? gli schiavi.
155
linea comune tra le diversità, però è questo che ha voluto Dio: che gli uomini
facessero questa fatica, mentre riesce più comodo imporsi.
C’è un particolare molto interessante per la sua attualità in questo racconto: per
costruire la torre vengono impiegati – come realmente facevano i Babilonesi –
mattoni e bitume, cioè la miglior tecnica allora disponibile. Così come oggi la tecnica
migliore è messa a servizio del potere. E purtroppo la mentalità prevalente è che tutto
ciò che è tecnicamente utilizzabile, lo si possa fare, anche se presenta problemi dal
punto di vista morale.
vede quell’orgoglio umano che è alla base della colpa originale e di ogni colpa.
L’uomo vuole fare a meno di Dio. Infatti abbiamo visto in Gen 1-11 le tre grandi
colpe dell’umanità: quella dell’autonomia di Adamo ed Eva; quella dell’abuso della
vita, dei giganti; quella dell’abuso del potere in Babilonia.
L’intervento di Dio ha lo scopo di far capire all’uomo che solo Dio è il vero
dominatore sovrano e che l’uomo deve prendere coscienza del suo errore. Quindi
l’intervento di Dio serve a togliergli ogni illusione, sia pura momentanea, sulle sue
possibilità di realizzazione indipendentemente dall’aiuto e dalla comunione con Dio.
Dio colpisce ancora una volta l’ambizione smodata degli uomini e distrugge
quell’unità che l’umanità ha raggiunto in modi indebiti e a prezzo di tante vittime.
Confonde le lingue, così che gli uomini, che ora non si capiscono più, devono per
forza dividersi.
Ma in secondo luogo questa azione punitiva di Dio è a un tempo anche
preveniente, così da evitare peccati ancora più gravi e quindi di dover intervenire e
punire ancora più duramente in caso di ostinazione.
E così cosa fa Dio? confonde la lingua l’uno dell’altro e li disperde di là su
tutta la terra, li allontana dal loro presunto centro unitario e distrugge questa unità che
era falsa, cioè non autentica, non raggiunta con opportuni accordi, ma imposta.
Li disperse. Notiamo un’analogia con l’allontanamento di Adamo ed Eva dal
paradiso terrestre e con l’allontanamento di Caino dal consorzio umano. Questi
episodi si possono sempre leggere in parallelo: peccato originale di Adamo ed Eva,
peccato originale nell’ambito familiare (Caino), peccato originale nell’ambito sociale
(torre di Babele).
Eziologia
Perché vengono costruiti questi racconti? Per dare una spiegazione, per far
vedere quali sono le cause di un certo fenomeno. Il fenomeno che interessava l’autore
è: perché gli uomini parlano lingue diverse e non si capiscono? Col racconto di Gen
11 si poteva spiegare, cioè dire l’eziologia, la causa di questo fenomeno.
Inoltre si vuole spiegare il nome di “Babilonia” con un significato diverso da
quello che abbiamo visto, perché in accadico il nome della città Babilu o Babilani
significava “porta del dio degli dei”. Siccome l’autore vuole polemizzare contro
Babilonia e quindi anche contro il suo significato di centro politico, religioso,
polemizza anche contro questa etimologia. Come può essere chiamata “porta di Dio”
una città che –dicevano i profeti – sarebbe stata ridotta a macerie, come infatti è
avvenuto? Se non ha più la ziqqurat, come possono gli dèi abitare in essa? Se non c’è
più armonia, come può essere detta “terra santa”, come era chiamata allora?
Il suo nome è piuttosto Babel 9Per questo la si chiamò Babele, perché là il
Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la
terra.
Ecco un altro significato, che questa volta non viene dal Babilu, Babilani, ma
dall’ebraico “balal”, nella forma aramaica “balbel”, usata in siriaco o arabo, col senso
di confondere, mescolare. Quindi indica confusione di labbra e di mente, di regimi e
159
popoli, anche perché effettivamente dal punto di vista storico e quindi sul piano della
memoria storica, senz’altro il redattore del testo avrà avuto in mente tanti episodi
connessi ai processi di urbanizzazione che ovviamente in Babilonia erano stati al
massimo grado, cioè l’afflusso, la concentrazione in aree urbane di masse
culturalmente, etnicamente, linguisticamente eterogenee, quindi la difficoltà di capirsi
e anche fatti legati alla politica autoritaria della grande superpotenza del tempo volta
a “babilonizzare” le diverse culture delle genti sottomesse, soffocandone l’identità.
E allora l’intervento di Dio non è tanto punitivo, (la “punizione” sta nel far
prendere coscienza agli uomini del loro peccato), ma addirittura è provvidenziale; è
una benedizione, non una maledizione. Perché Dio interviene a distruggere l’opera
che vuole rendere monolitico il mondo, l’opera degli uomini che vogliono
uniformare, e invece salva la pluralità delle lingue e delle culture.
Solo così, anche il più piccolo dei popoli, come era quello ebraico (sempre in
mezzo fra i due grandi potenti che erano gli Egiziani a ovest e gli Assiro-Babilonesi a
est) potrà trovare il suo posto ed essere rispettato. Anzi, in Abramo diventerà
benedizione per tutte le famiglie della terra; e questo non per una solidarietà imposta,
ma per una solidarietà donata da Dio e accolta come benedizione.
Nel libro della Genesi possiamo scorgere come due grandi tavole di un dittico:
la prima è costituita da Gen 1-11 e ha per protagonista Adamo, l’Uomo, l’Uomo di
tutti i tempi, di tutte le regioni del nostro pianeta. Infatti abbiamo visto l’attualità di
tutti questi capitoli. L’uomo che purtroppo non è in grado di resistere alla tentazione
dell’autonomia ai vari livelli. Abbiamo visto il peccato di Adamo ed Eva, di Caino,
ecc.
Ma in Dio prevale la misericordia. E, nonostante la cattiveria radicale
dell’uomo, il Dio creatore si dimostra anche il Dio salvatore. Infatti:
- Egli salva Adamo ed Eva dalla morte nonostante la minaccia: Se mangerete
di quell’albero, morirete.
- salva un resto dell’umanità da cui si ricostituiranno tutte le genti.
- salva la discendenza di Sem dopo Babele.
La seconda tavola del dittico è costituita da Gen 12-50, che ha per soggetto
Abramo e tutta la sua discendenza fino a Giuseppe, che morì a 110 anni.
Allora per il primo dittico abbiamo un quadro generale di tutta l’umanità, di
tutti i problemi umani fondamentali. Nel primo dittico è comparsa più volte la
maledizione (Dio maledice il serpente, maledice il suolo a causa di Adamo, maledice
Caino e Canaan).
Il secondo dittico invece è inaugurato dalla vocazione di Abramo e dalla
grande ouverture di Gen 12,2-3: Benedirò coloro che ti benediranno e in te si
diranno benedette tutte le famiglie della terra. Ben cinque volte ricorre il verbo
benedire in Gen 12,2-3. È proprio questa la grande promessa di cui è depositario il
popolo ebraico a nome di tutte le famiglie della terra, e che per noi cristiani troverà la
piena realizzazione in Gesù di Nazaret, dove troveremo il sì definitivo di Dio Padre
all’umanità, colui che farà passare la benedizione di Abramo a tutte le genti, come
dice San Paolo in Gal 3,14.
Abbiamo così congiunto il primo dittico a tutta la storia della salvezza che
parte con Abramo.
161
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
La fonte J era con ogni probabilità la riduzione di un poema epico, in origine orale,
in forma di prosa scritta. Nasce nella Palestina del sud – regno di Giuda - al tempo
dei primi re Davide e Salomone (1.000 a.Cr. – X sec. a.Cr.)
Si chiama così perchè adotta il nome di Dio “Jahwé” (cfr. Gen.4, 26); inizia col
racconto della creazione e si conclude con il libro dell’Esodo; conosce le tradizioni
mitiche egiziane e mesopotamiche e le sfrutta con abilità per delineare la sua storia.
162
Sotto una forma figurata e con ricchezza narrativa, dà una risposta profonda alle
gravi questioni che si pongono ad ogni uomo.
Nel complesso ha una visione positiva del cammino della storia: conosce la
debolezza umana, ma è convinta che la benedizione divina darà sicurezza di vita
al popolo e, proprio grazie a questa sicurezza, la fede si rafforzerà.
Esprime una teologia della Promessa e della Benedizione, che vede l’elezione
gratuita da parte di Dio, nonché una preferenza verso il figlio minore: Abele è
preferito a Caino, Isacco a Ismaele,etc.
Ha uno stile molto semplice e vivace, un forte colorito popolare, ricco di immagini;
Dio è spesso presentato con arditi antropomorfismi, ha un volto molto umano (cfr. 2°
racconto di creazione: Dio forma l’uomo dalla polvere come un vasaio, passeggia
con l’uomo nel giardino di Eden,etc.)
La fonte P nasce dopo la caduta del regno di Giuda (587) e prende forma
letteraria tra il 536 e il 450 a.Cr. Ne sono autori i sacerdoti di Gerusalemme
163
Nella parte che precede la storia di Abramo adotta il nome di Dio “Elohim”;
inizia anch’essa col racconto della creazione e prosegue fino al tempo della
conquista della Palestina.
Mostra poi particolare interesse per la storia dell’alleanza di Dio con gli
uomini, di cui distingue quattro tappe: creazione del mondo e dell’uomo fino
alla catastrofe del diluvio, alleanza di Dio con l’intera umanità rappresentata
da Noè (Gen. 9,9-17), alleanza con Abramo e i patriarchi, alleanza con Mosè
sul monte Sinai.
I fatti sono presentati in maniera schematica, che non mira alla precisione
dei dettagli, come nei testi narrativi.
LA SAGA DI GILGAMESH
L’eroe Gilgamesh è per due terzi dio e per un terzo uomo, visto che sua madre era
una dea e suo padre, sommo sacerdote, un uomo; dalla madre aveva ereditato la
grande bellezza, la forza e l’irrequietezza, dal padre aveva ereditato la mortalità.
All’esordio della storia, il re di Uruk è già un uomo nella piena maturità, un essere
superiore alla media per bellezza e forza, e per le brame insoddisfatte della sua natura
semidivina a causa delle quali non trova chi gli stia a pari né in amore né in guerra.
Ma intanto il demone della sua attività frenetica sta consumando i sudditi, che si
trovano costretti ad invocare l’aiuto degli dei
cibo degli uomini, pascolare le pecore, combattere con il lupo e il leone; alla fine,
giunge alla grande e civile città di Uruk, dove diventa molto amico di Gilgamesh.
Con lui decide che “a causa del male che c’è in questa terra, essi andranno nella
foresta a distruggere il male.” La foresta è il “Paese del Vivente”, o “Foresta dei
Cedri” situato da qualche parte agli estremi confini della terra e della realtà: al suo
centro sorge la montagna che manda i sogni, sede e degli dei e degli Inferi.
Proprio allora lo vede la dea Ishtar che desidera il suo amore e cerca di corteggiarlo
con promesse allettanti. Ma Gilgamesh la rifiuta e la dea adirata manda una siccità di
sette anni come punizione per l’affronto subito. Anche Enkidu offende la dea Ishtar
insultandola. Così gli dei, radunati a concilio, decretano che uno dei due dovrà
morire: Enkidu.
Gigamesh, che ha perso l’amico più caro, è ora consapevole dell’inevitabilità della
morte e si rende conto che lui pure, il grande re di Uruk, è mortale; ripensa ai suoi
antenati e in particolare a Utnapishtim, unico superstite del diluvio universale (una
sorta di Noè sumerico) che pareva avesse trovato la vita eterna e fosse quindi entrato
nel novero degli dei.
Gilgamesh parte così alla ricerca dell’immortalità, perché ci deve essere un modo
per sfuggire alla morte. Compie lunghe peregrinazioni attraverso lande selvagge,
vivendo come un povero cacciatore vestito di pelli di animali, finchè giunge ai passi
montani dove uccide alcuni leoni (il gruppo del guerriero affiancato da due leoni
rampanti è entrato nell’iconografia del mondo classico).
Giunge così alla montagna del sole e ai suoi orrendi guardiani, per metà uomini e
per metà draghi con coda di scorpione,e poi arriva al giardino del sole, o giardino
degli dei, una sorta di paradiso terrestre.
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Qui Siduri, una specie di Circe omerica, istruisce Gilgamesh su come attraversare le
acque della morte, per arrivare a Utnapishtim, l’eroe ormai immortale. Ma, per
giungere fino a lui, egli deve attraversare quell’Oceano che per tutti gli antichi
costituiva il confine ultimo della terra conosciuta, una barriera insuperabile, perché
comunicava con le acque della morte.
Nel viaggio di ritorno deve attraversare vaste zone desertiche e quando, bruciato
dalla calura e carico di polvere, giunge presso una fonte d’acqua, egli vi si tuffa. Ma
il serpente ha sentito il profumo dell’erba della vita, si avvicina e la
mangia,dileguandosi. Gilgamesh lo vede fuggire e cambiare pelle: l’erba della vita ha
subito fatto effetto sull’animale e lo ha fatto ridiventare giovane.
Ma lui, Gilgamesh, ormai non possiede più quell’erba e scoppia allora in grida
disperate. Dopo tanto viaggiare, deve tornarsene a Uruk con le mani vuote.
La “morale” del poema è dunque che l’uomo, nonostante tutti i suoi sforzi, non può
evitare la morte, suo inesorabile destino e Gilgamesh fa incidere la sua storia sulla
pietra perchè tutti possano leggerla, concludendola così: ”Cari uomini, ho sprecato
tutta la mia vita cercando, ma senza trovare niente; non sprecate anche la vostra a
cercare: è una ricerca inutile.”
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