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«Io ti benedico, o Padre». Il loghion di Lc 10,21-22

1. Il contesto
Il loghion di lode al Padre appare nei vangeli di Matteo e Luca, ed è considerato uno dei
più tipici e più caratteristici della fonte Q, in quanto praticamente non ci sono differenze fra il
testo di un vangelo e dell'altro1.
Il loghion è preceduto essenzialmente da Q 10,2-16, il discorso missionario e da un brano
del Sondergut lucano, il ritorno dei discepoli dalla missione. Se si pensa alla composizione del
discorso, si mette in evidenza una narrazione logica e coerente. Difatti, le istruzioni generiche
dell'introduzione sono seguite dalla missione nelle case e dalla missione nelle città. Poi si
contempla l'eventualità di non essere accolti, e il paragone di quelle città o villaggi con Sodoma,
che però alla fine dei tempi sarà trattata con più benevolenza di quelle. A questo si aggiunge il
rimprovero alle città incredule della Galilea, Corazin e Betsaida, messe a paragone con le città
pagane di Tiro e Sidone.
A proposito dell'accoglienza dei discepoli, Gesù fa vedere che in definitiva si tratta di
accogliere lui stesso (cf Mt 10,40). Questo passo sembrerebbe più antico di quello parallelo di
Marco 9,37.41, che sembra piuttosto un riassunto schematico di Q. Fleddermann ne individua tre
motivi2:
1. In Q 10,16 i verbi ἀκούειν e ἀθετεῖν sono all'interno di un'affermazione generica
sull'accoglienza, che può anche essere capita fuori dal contesto, mentre in Mc 9,37 si parla
concretamente di un bambino;
2. Nella versione di Mt 10,40 il verbo δέχεσθαι viene applicato a 'voi' (ὑμεῖς), a 'me'
(ἐμός) e al 'inviato' (ἀποστέλλων), mentre in Mc 9,37 il loghion si sovracccarica con
l'espressione 'il mio nome';
3. In Q il verbo δέχεσθαι vuol dire tanto acettare il mesaggero come credere al
messaggio, visto che si è parlato prima del discorso della missione, mentre in Mc si accenna
semplicemente alla figura del bambino.
È probabile inoltre che Gv 13,20 abbia avuto dei contatti con Mt 10,40, e che potesse
essere addirittura una variante indipendente del logion dell'accoglienza3.
Se invece si pensa al brano di transizione prima del loghion, il ritorno dei discepoli (Lc
10,17-20), siamo davanti ad un passo esclusivo del terzo Evangelista. È vero che in un'altra
occasione (Lc 9,49s) si menziona — anche se in modo circostanziale — un ritorno dei discepoli:
1
Cf F. NEIRYNCK, Q-Parallels, Leuven 2001, 84-5.
2
Cf H.T. FLEDDERMANN, Q. A Reconstruction and Commentary, Leuven 2005, 423.
3
Cf P. BORGEN, «The Independence of the Gospel of John: Some Observations» in F. VAN SEGBROECK
(ed.), The Four Gospels 1992. FS F. Neirynck 3, Leuven 1992, pp. 1815-1833.
2

è il momento in cui Giovanni dice a Gesù che hanno proibito a qualcuno di cacciare i demoni nel
suo nome. Sembra che i due detti provengano dallo stesso periodo 4. Non si accenna, invece, in
questo caso ai sentimenti o all'atteggiamento davanti al risultato della missione, ma soltanto al
loro rapporto con un discepolo "non ufficiale". Il passo parallelo di Mc 9,38-40 — non a caso —
viene subito dopo l'invito di Gesù ad accogliere i bambini. Qui si sta indicando la convenienza di
accogliere con semplicità qualcuno che lavora nel suo nome. Marco mette altresì l'accoglienza in
rapporto con la missione. La frase 'nel mio nome' (ἐν τῷ ὀνόματί μου) ha lo stesso senso dello 'a
favore di me' (ἕνεκεν ἐμοῦ) di Lc 9,24. Inviare ed accogliere trovano la loro pienezza di
significato allorché rappresentano la persona di Gesù5.
Soltanto Luca, dicevamo, narra il ritorno dei settanta(due) discepoli dopo la loro missione
e l'allegria provata dagli stessi nel vedere il risultato e il frutto del loro periplo, indicata
dall'espressione μετὰ χαρᾶς, 'con gioia', che accompagna il loro rientro 6. L'evangelista riporta poi
le parole di Gesù che invita loro a rallegrarsi perché "i vostri nomi sono scritti nei cieli" (Lc
10,20). Se c'è gioia nell'anima di discepoli nel cacciare ed esorcizzare i demoni, è più profonda
quella che sgorga dal commento di Gesù, in cui si manifesta la sua vittoria sul potere di Satana e
afferma che ciò che veramente conta è la salvezza, avere i nomi iscritti nei cieli.
Non è chiara la fonte di questa sezione. Hoffmann sostiene che sia redazionale, sulla base
di alcuni testi isolati che facevano parte della teologia missionaria di Luca 7. L'autore sembra far
riferimento ad un periodo della primitiva comunità cristiana in cui non sono più frequenti i
miracoli, ma invece i fedeli possono provare gioia nell'essere annoverati fra gli eletti. Un certo
collegamento con Q lo scorge Schürmann. Lui sostiene che in Mt 7,21 ('non chiunque mi dice:
Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei
cieli') si trovano dei vestigi di questa sezione, che inoltre servirebbe da supporto
all'inquadramento temporale di Q 10,21 (ἐν αὐτῇ τῇ ὥρᾳ) e al loghion riguardo al potere su
serpenti e scorpioni8.
Si nota ad ogni modo una grande coerenza in Q 10 fra i versetti 17 e 20, dove il tema della
gioia funge da filo rosso, formando un'inclusione 9, in modo tale da dire che non esiste un
collegamento soltanto cronologico, indicato dalla partenza e dal ritorno dei discepoli. Il v. 18,
infatti ('Io vedevo Satana cadere dal cielo come la folgore'), rende comprensibile ciò che è stato

4
Cf I. HOWARD MARSHALL, Commentary on Luke, Grand Rapids/Mich. 1978, 427.
5
Cf L.T. JOHNSON. Luke, Collegeville/Minn. 1991, 159.
6
Per SCHÜRMANN il motivo di gioia è il resoconto dei missionari con le loro esperienze esorcistiche. Cf H.
SCHÜRMANN, Il vangelo di Luca II/1, Brescia 1998, II/1, 144.
7
Cf P. HOFFMANN, Studien zur Theologie der Logienquelle, Münster 1972, 248-254.
8
Cf H. SCHÜRMANN, Traditionsgeschichtliche Untersuchungen zu den synoptischen Evangelien, Düsseldorf
1968, 146, n. 37.
9
In realtà i vv. 17 e 20 hanno diverse coincidenze. Oltre alla gioia ci sono la sottomissione dei demoni e il
ruolo del nome di Gesù. Cf J.B. GREEN, The Gospel of Luke, Grand Rapids/Mich. 1997, 418.
3

appena raccontato ('anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome'), mentre il v. 19 ('vi ho
dato il potere...') è un ampliamento missionario del v. 17. Il ragionamento di Gesù al v. 20 si
conclude in forma avversativa (πλήν), riprendendo l'inizio del brano 10. La sua unità, come dice
Schürmann, non soltanto rappresenta la conclusione adeguata al racconto dell'invio, ma anche
prepara il lettore per il loghion seguente, la confessione di Gesù11. Il linguaggio in Lc 10,17 è
tipicamente lucano, come lo è il verbo che indica il ritorno dei discepoli, ὑποστρέφειν, soltanto
presente in Luca fra i vangeli (capita complessivamente 32 volte in Luca-Atti su 35 nel NT:
altrove appare soltanto in Gal, Eb e 2Pt). Il potere di scacciare i demoni era stato prima
menzionato in Lc 9, allorché si parlava della missione dei dodici, sulla scia di Marco 6,6b-13.
Lc 10,18 ('Io vedevo Satana...') potrebbe avere un significato più generico, aplicabile a
contesti diversi. La risposta di Gesù in questo caso esprime il potere del suo nome sui demoni.
L'intima relazione esistente nel mondo semitico fra il nome e la persona stessa fa comprendere il
potere messianico di Gesù, che contempla Satana nella sua caduta. Il verbo Θεωρεῖν accenna alla
percezione visuale o mentale (cf Lc 14,29; 21,6; 23,35), e il tempo all'imperfetto fa pensare ad
un'azione continua e ad un'esperienza ripetuta, relativa alla visione. Potrebbe anche indicare —
ma è meno probabile — un'azione puntuale, visto che l'aoristo non è di uso comune per tradurre
il discorso aramaico12. Il verbo πίπτειν, 'cadere', sembra rendere in questo caso il senso passivo di
βάλλειν, 'gettare', per raffigurare Satana cacciato dal cielo. L'espressione icastica si riferisce, più
che allo splendore di luce, alla sua rapida e subitanea caduta dal cielo, e perciò alla vittoria di
Gesù per sé e per i suoi13. Il fatto rivela come il potere carismatico è stato sperimentato ed
esercitato dagli inviati. Vi si potrebbe allora intravedere il 'tempo di Gesù' libero dalle insidie di
Satana14. Tanto nelle aspettative rabbiniche come nell'ambiente neotestamentario la venuta del
messia era vista come la fine del dominio di Satana 15; per i cristiani inoltre, la sua sconfitta
sarebbe diventata un segno del ritorno della croce di Cristo (cf Apc 12,10-12; 20,1-3)16. In questo
passo, per la prima volta, Satana è menzionato come principe dei demoni nel terzo vangelo; vi
apparirà poi altre quattro volte, e due negli Atti.

10
J.A. FITZMYER, The Gospel According to Luke X-XXIV, Garden City/N.Y 1985, 859, pensa che il v. 20 sia
redazionale. NOLLAND, Luke 9:21-18:34, Dallas 1993, 565, sostiene però l'autenticità del versetto, facendo vedere la
somiglianza tematica con il v. 17, per dire che originariamente si dovevano trovare uniti soltanto quei due versetti; i
vv. 18-19 sarebbero, invece, un'aggiunta posteriore.
11
Cf H. SCHÜRMANN, Luca II/1, 143.
12
Cfr W. MICHAELIS, Θεωρεῖν, GLNT VIII, 971s, n. 161. Lc 10,18 riproduce certamente un testo aramaico, e
in questa lingua esiste soltanto un tempo al passato, che viene tradotto all'imperfetto.
13
Il passo evoca il testo di Is 14,12: 'come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell'aurora? Come mai sei
stato steso a terra, signore di popoli?' La prima parte combacia con il testo di Lc 18, mentre la seconda fa cenno alla
caduta del re della Babilonia.
14
La conosciuta espressione è di H. CONZELMANN, Il Centro del tempo. Studi sulla teologia di Luca, Casale
Monferrato 1994.
15
Cf E.E. ELLIS, The Gospel of Luke, Grand Rapids/Mich.-London 1974, 157.
16
Cf D.L. BOCK, Luke II, Grand Rapids/Mich. 1996, 1007.
4

Il detto gesuanico sembra accennare ad una visione — Gesù che contempla la cacciata e la
caduta di Satana — senza che debba necessariamente trattarsi di un'esperienza del Cristo
preesistente17. Un'altra possibilità è che il detto sia capito simbolicamente, una soluzione che
preferiscono non pochi esegeti18. Subito dopo la dichiarazione su Satana si menziona il potere
dato ai discepoli nello svolgimento della loro missione: 'ecco, io vi ho dato il potere di
camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà
danneggiare'. La prima parte di Lc 10,19 mette in evidenza la potestà di Gesù, lα ἐξουσία che
viene conferita ai discepoli su due versanti: nel primo, la capacità di dominare i serpenti e gli
scorpioni, animali dannosi che di solito rappresentano le forze del male. Non si tratta soltanto di
sapersi districare in mezzo a loro, quanto di contrastare e annientare le forze negative che
rappresentano19. Nel secondo la potestà si esercita su ogni potenza (δύναμις) del nemico (cf Apc
12,9). La costruzione sintattica non è simmetrica: mentre la prima frase si enuncia all'infinito, la
frase parallela è proposizionale; secondo Grelot, questo potrebbe indicare una traduzione da un
testo aramaico20.
La seconda parte del versetto è negativa: 'nulla vi potrà danneggiare'. L'uso del verbo
ἀδικεῖν col senso di 'danneggiare' appare soltanto in questo passo e nell'apocalisse (cf Apc 2,11,
7,2s; 9,4.10.19; 11,5). La frase è enfatica, a giudicare dalla doppia negazione (οὐδὴν…οὐ μή)
che esalta, per contrasto, il potere conferito ai discepoli. L'attualità di questo brano radica nella
decisione divina di finirla col potere del male, realizzando con la venuta di Cristo la prima fase
del suo disegno salvifico (il regno, però, avrà la sua pienezza alla fine dei tempi). I cristiani che
vivono in mezzo alla tribolazione hanno già parte nella vittoria della comunità dell'amore, e nella
loro tensione contemplano un futuro in cui saranno liberi dagli ultimi attacchi della sofferenza e
della morte. Da una parte il regno di Dio è in fase di attuazione; dall'altra, il regno di Satana
viene ormai minato21.
La gioia del ritorno è collegata all’ammonimento: non si devono rallegrare per gli
esorcismi compiuti, ma per l’avere i loro nomi scritti nei cieli (Lc 10,20). Sia all'inizio che alla
fine del passo si parla di sottomissione degli spiriti maligni (τὰ δαιμόνια in v. 17 e τὰ πνεύματα
nel v. 20) e si mette in risalto la consapevolezza dell’essere destinati alla salvezza come valore
supremo22. Il posto in cielo e nella vita dell'aldilà va dato in ricompensa non in quanto missionari
ma in quanto discepoli di Gesù.
17
Questa visione apocalittica serve appunto di sfondo alla costruzione lucana del racconto sul ritorno dei
settanta(due). Cf F. BOVON, Luca 2: 9,51-19,27, Brescia 2007, 77.
18
Cf I. HOWARD MARSHALL, Luke, 428. J. NOLLAND, Luke, 563s, pensa che ci siano tutti e due.
19
Cf Num 21,6-9; Dt 8,15; 1Re 12,11; sal 91,13; vid W. HENDRIKSEN, Exposition of the Gospel of Luke,,
Grand Rapids/Mich. 1978, 581.
20
Cf P. GRELOT, Étude critique de Luc 10,19, RSR 69 (1981) 87-100(89).
21
Cf C. GHIDELLI, Luca, Roma 1977, 233.
22
La forma passiva significa azione divina; cf I. HOWARD MARSHALL, Luke, 430.
5

Il gaudio che trapela dai discepoli tornanti dalla missione trova la sua risposta in quello di
Gesù che esulta nello Spirito: il giubilo escatologico pervade l'interpretazione lucana della
missione dei settanta(due), che riporta il loghion di confessione di Gesù al Padre subito dopo il
ritorno dei discepoli. Si può scorgere, infatti, una sezione che inizia in Lc 9,51, dove si intravede
il destino della missione di Gesù a Gerusalemme, sottolineato dall'impegno che devono avere
coloro che vogliono seguirlo nel cammino del regno e nella sua predicazione (Lc 9,57-62). La
missione dei discepoli (Lc 10,1-20) sta poi a confermarlo. L'inquadramento lucano presenta un
filo narrativo più armonico di quello matteano. Difatti, nel primo vangelo, al discorso della
missione (Mt 10,5-23) seguono i detti sul discepolo e il maestro, sul vero timore e la fiducia (Mt
10,24-31), sul confessare o negare Gesù davanti agli uomini (Mt 10,32s, par Lc 12,8s), e altri
detti che finiscono col loghion sull'accoglienza (Mt 10,40-41). Prima della lode al Padre si
inseriscono, nel primo vangelo, il racconto su Giovanni Battista in carcere e i detti sulle città
incredule (Mt 11, 1-24).
Il risultato raggiunto durante la missione dei discepoli riflette l'autorità di Gesù, della quale
partecipano pure coloro che hanno portato a termine il viaggio; lo si evidenzia dal modo con cui
si rivolgono a Gesù, chiamandolo 'Signore' — dopo aver udito le sue immediate parole di invio e
accoglienza23 — e dalla loro sorpresa nel vedere che persino i demoni si sottomettono nel suo
nome. D'altro canto si anticipa la futura attività missionaria della Chiesa: Gesù dirige lo sguardo
verso Gerusalemme annunciando il regno di Dio, anche per mezzo dei discepoli 24. La missione
già iniziata — con l'immagine della messe abbondante e della preghiera per ottenere gli operai
necessari — dona alla pericope una dimensione apocalittica che ricorda sia il giudizio finale (cf
Mi 4,11-13; Is 63,1-6) che la riunione di Israele alla fine dei tempi, profetizzata da Isaia (Is
27,12s). Contemplando nel contesto la visione apocalittica di Gesù stesso, si scorgono non pochi
motivi per affermare che la missione in Luca 10 è portatrice di un denso e profondo contenuto
escatologico.

2. Il loghion
Mt 1125Ἐν ἐκείνῳ τῷ καιρῷ ἀποκριθεὶς ὁ καὶ οὐδεὶς ἐπιγινώσκει τὸν υἱὸν εἰ μὴ ὁ
Ἰησοῦς εἶπεν, Ἐξομολογοῦμαί σοι, πάτερ, πατήρ, οὐδὲ τὸν πατέρα τις ἐπιγινώσκει εἰ
κύριε τοῦ οὐρανοῦ καὶ τῆς γῆς, ὅτι ἔκρυψας μὴ ὁ υἱὸς καὶ ᾧ ἐὰν βούληται ὁ υἱὸς
ταῦτα ἀπὸ σοφῶν καὶ συνετῶν καὶ ἀποκαλύψαι.
ἀπεκάλυψας αὐτὰ νηπίοις· 26ναί, ὁ πατήρ, ὅτι Lc 1021Ἐν αὐτῇ τῇ ὥρᾳ ἠγαλλιάσατο [ἐν] τῷ
οὕτως εὐδοκία ἐγένετο ἔμπροσθέν σου. πνεύματι τῷ ἁγίῳ καὶ εἶπεν, Ἐξομολογοῦμαί
27
Πάντα μοι παρεδόθη ὑπὸ τοῦ πατρός μου, σοι, πάτερ, κύριε τοῦ οὐρανοῦ καὶ τῆς γῆς,
23
"Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha
mandato": Lc 10,16.
24
Luca fa trasparire l'attività missionaria del suo tempo; egli conosce dalla prassi comunitaria il ritorno dalle
missioni e il consueto resoconto della missione svolta.
6

ὅτι ἀπέκρυψας ταῦτα ἀπὸ σοφῶν καὶ τοῦ πατρός μου, καὶ οὐδεὶς γινώσκει τίς
συνετῶν, καὶ ἀπεκάλυψας αὐτὰ νηπίοις· ναί, ἐστιν ὁ υἱὸς εἰ μὴ ὁ πατήρ, καὶ τίς ἐστιν ὁ
ὁ πατήρ, ὅτι οὕτως εὐδοκία ἐγένετο πατὴρ εἰ μὴ ὁ υἱὸς καὶ ᾧ ἐὰν βούληται ὁ
ἔμπροσθέν σου. 22Πάντα μοι παρεδόθη ὑπὸ υἱὸς ἀποκαλύψαι.

Anche se in questo caso ci limiteremo al testo di Q riportato dai due evangelisti, si vede
che l'intero detto in Lc 10,21-24 è diviso in due loghia paralleli: i vv. 21-22 indicano la lode
messianica, i vv. 23-24 contengono un macarismo, sviluppando l'appello alla gioia espresso
prima. Il collegamento fra il ritorno dalla missione e la lode al Padre, unita alla beatitudine dei
discepoli, è palese. La confessione di Gesù prende spunto dal contemplare l'azione divina nella
missione dei suoi. Luca si fa più esplicito di Matteo nel presentare il rapporto di Gesù col Padre,
e nel contempo ci dice che, appunto da quella ineffabile intimità, deriva la grazia che permette ai
discepoli di essere i destinatari della rivelazione e partecipare al mistero del Figlio 25. L'unità
narrativa di Lc 10,21-24 mette in evidenza l'intenzione di Luca di presentare il messaggio del
regno di Dio: l'euloghia di Gesù, infatti, accenna all'attività rivelatrice del Padre, affidata in
maniera speciale al Figlio, e allo stesso tempo indica la situazione privilegiata dei discepoli come
beneficiari di quella rivelazione. Si tratta allo stesso tempo di una preghiera di ringraziamento26.
Il collegamento temporale — che in realtà è più profondo: rivela un collegamento
semantico e narrativo — viene fatto dalle parole 'in quell'ora' (ἐν αὐτῇ τῇ ὥρᾳ), che segnala la
missione di settanta(due) ma nel contempo è anche un termine tecnico per indicare la
manifestazione messianica predetta dai profeti. Il grido giubilante del Maestro sgorga appunto al
momento del loro ritorno, unendosi alla loro gioia. Pur essendo più simile a Q, l'espressione
αὐτός(ῆ,όν) + articolo + nome temporale, è lucana27. In Matteo l'espressione parallela è 'in quel
tempo' (ἐν ἐκείνῳ τῷ καιρῷ, ripetuta poi in 12,1 e 14,1), mentre il macarismo si troverà fra la
parabola del seminatore e la sua spiegazione, come punto di riferimento, nel cap. 13, delle altre
parabole28. Così Matteo preserva meglio il dimostrativo, e Luca l'indicazione cronologica
originale.
Per far vedere i sentimenti di Gesù nella sua lode al Padre, Luca aggiunge che "esultò nello
Spirito Santo" (Lc 10,21), un'introduzione che non viene riscontrata nel testo parallelo di Mt
11,25. Luca sembra l'evangelista che più enfatizza questa virtù tipicamente cristiana 29. Difatti, la

25
Cf C. GHIDELLI, Luca, 234.
26
Cf M. DIBELIUS, Die Formengeschichte des Evangeliums, Tübingen 51966, 279-287.*
27
Appare 9 volte nei vangeli, 2 negli Atti. Cf J.C. HAWKINS, Horæ Sinopticæ, Oxford 1909, 16.
28
Cf H.T. FLEDDERMANN, Q, 437.
29
Luca è l'unico evangelista a mettere l’accento sull'ambiente gioioso dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme
allorché "tutta la folla dei discepoli esultando cominciò a lodare Dio"(Lc 19,37). Poi, chiude il suo vangelo nella
stessa atmosfera di letizia, quando nel raccontare l'ascensione dice che i discepoli tornarono alla Città Santa 'con
grande gioia' (μετὰ χαρᾶς μεγάλης Lc 24,52). Se poi si da uno sguardo retrospettivo al gaudio manifestato fin
dall'annuncio della nascita di Giovanni Battista a Zaccaria, e al resto dei racconti dell'infanzia che fungono da
7

statistica conferma che, secondo queste caratteristiche, Luca può essere chiamato il 'vangelo
della gioia': delle 320 ricorrenze complessive dei termini che coprono il campo semantico della
gioia nel NT, 53 si trovano nel terzo vangelo e 26 negli Atti degli Apostoli; una quarta parte del
vocabolario del NT è di origine lucana.
Il verbo ἀγαλλιᾶσθαι — di grande portata teologica — viene usato un'altra volta in Lc 1,47
e appare soltanto una volta in Matteo e due in Giovanni, mentre il nome ἀγαλλίασις riccorre una
sola volta negli altre tre vangeli, appunto in Giovanni. Il verbo è attestato en Q. Gesù giubila
nello Spirito, e la preghiera e la glorificazione sono ispirate dal Pneuma, che agisce in modo
specialissimo sulla sua persona così come l'ha guidato all'inizio (cf Lc 1,35; 3,42; 4,1.14). La
menzione dello Spirito in Lc 10,21 funge da anello di collegamento fra la scena precedente del
ritorno della missione, e quella successiva del macarismo, tutti e due illuminate dalla luce
pneumatica. Vi spicca inoltre, e non per caso, la filiazione di Gesù. Difatti, il Padre viene
chiamato eccezionalmente 'mio Padre' da colui che è chiamato Figlio. Dietro l'evocazione Πάτερ
si scorge il caratteristico rivolgersi di Gesù al Padre come Abba.
Un'altra caratteristica di questo passo è la ripetizione del modello "affidamento della
missione-interludio-ritorno" già vista in Lc 9, nella missione degli Apostoli. Essendo Luca poco
amico delle ripetizioni30, la missione dei dodici si intende come indirizzata a Israele, mentre
quella dei settantadue si apre in una prospettiva più universale, ai samaritani prima e ai gentili in
un secondo momento. Così viene raccontato in Atti 8 sulla scia del discorso di Gesù all'inizio del
libro31.
Anche se l'abbinamento confessione-macarismo in Lc 10,21-24 è coerente, sembra più
armonica e probabile l'unità di Mt 11,25-30 (la lode seguita dal "venite a me voi tutti che siete
affaticati e oppressi). Secondo le osservazioni di Norden 32, si troverebbe nel passo matteano un
modello tripartito, tipico della letteratura filosofico-mistica dell'ellenismo, con le seguenti
componenti: a) ringraziamento (vv. 25-26); b) rivelazione di un mistero (v. 27); c) chiamata e
appello (vv. 28-30). Paragonando poi il v. 27 con i due versetti precedenti, esso sembra
un'interpretazione o commentario cristologico sul ringraziamento e lode al Padre33.
Eliminando però, la seconda parte dei rispettivi brani (Mt 11,28-30; Lc 10,23-24), siamo
davanti ad un testo sostanzialmente identico, in cui si scopre l'influenza teologica dei LXX, dove
gioia e confessione vanno frequentemente appaiate. Oltre al fatto che ogni evangelista costruisce
ouverture solenne e festosa all'intero vangelo, si scoprono diversi momenti della vita di Gesù che scandiscono
questa qualità caratteristica della nuova alleanza.
30
Cf L.T. JOHNSON, The Gospel of Luke, Collegeville/Min. 1991, 170.
31
"Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra:
At 1,8; cf B. ESTRADA, La missione nel quadro vocazionale dei Vangeli, RSB 2/2 (1990) 103s.
32
Cf E. NORDEN, Dio ignoto. Ricerche sulla storia della forma del discorso religioso, Brescia 2002, 391-
418.
33
Cf D.A. HAGNER, Matthew 1-13, Dallas/TX 1993, 316.
8

la propria cornice temporale, si nota in Luca un inquadramento della pericope in rapporto alla
missione dei discepoli, in base al verbo ἀγαλλιᾶσθαι. Matteo indica, invece, che Gesù sta
'rispondendo' (ἀποκριθείς), e con questo participio collega il ringraziamento al giudizio sulle
città incredule (Corazin e Betsaida), e allo stesso tempo sposta il soggetto Ἰησοῦς prima del
verbo34. Il participio ἀποκριθείς suppone anche una continuità di dialogo fra Gesù e il Padre.
La frase iniziale riflette il modello di una preghiera giudaica di ringraziamento (cf Dan
2,19-23)35. Fra i due testi c'è soltanto una differenza: l'ἔκρυψας, 'hai nascosto', di Matteo, diventa
ἀπέκρυψας in Luca, amico dei prefissi preposizionali nei verbi. Il terzo evangelista
probabilmente lo fa per abbinarlo all'altro aoristo, ἀπεκάλυψας, esaltando nel gioco di parole la
volontà del Padre che rivela e nasconde. Hoffmann vi scopre un'influenza del concetto di
rivelazione nel tardo giudaismo, in contrasto con il nascondimento, che si riferisce più ad un
fatto vicino che lontano36. Il verbo ἀποκρύπτειν si trova in altri tre passi, tutti dell'epistolario
paolino (1Cor 2,7, Ef 3,9, Col 1,26), come participio passivo di perfetto, ἀποκεκρυμμένον,
sempre legato al mistero (in 1Cor 2,7, alla 'sapienza nel mistero') che Dio ha determinato
dall'eternità. Nel greco classico ed ellenistico il termine aggiungeva, all'azione di nascondere,
quella di 'soterrare'. Nell'uso lucano ἀποκρύπτειν indica, quindi, il disegno salvifico verso
l'umanità che Dio ha conservato nella sua infinita e profonda sapienza. Il verbo κρύπτειν è,
invece, più frequente: appare 18 volte nel NT e specialmente in Matteo, 7 volte. L'evangelista lo
impiega a proposito della città edificata sopra un monte (cf Mt 5,14), e in modo particolare alla
fine del discorso delle parabole (cf Mt 13,35), in cui citanto il salmo 78,2, si allude a loro come
discorso profetico di rivelazione che manifesta ciò che era nascosto 'fin dalla creazione (del
mondo)'37. Gesù loda il Padre perché ha nascosto le realtà del mistero del Regno ai σοφοί e ai
συνητοί e invece le ha rivelate ai νήπιοι. Nella riconoscenza di Gesù si scopre la "contingenza e
paradossalità della rivelazione"38, dove la preferenza storico-salvifica per i νήπιοι come
destinatari del messaggio non ha dei modelli nella letteratura veterotestamentaria. Il parallelo più
vicino sarebbe il rotolo dei Hodayot di Qumran39, ma in questo caso si intende una sapienza
esoterica40.
Il Padre è allo stesso tempo 'Signore del cielo e della terra', un'espressione più ricca di
quella di Signore del mondo, della creazione e della storia, impiegata nell'ebraismo
contemporaneo a Gesù (cf Gen 24,3; Gdt 9,12; Tob 7,17; 2 Esd 5,11s). In questo caso non si
34
Cf H.T. FLEDDERMANN, Q, 438.
35
Cf F. BOVON, Luca 2: 9,51-19,27, 89s.
36
Cf P. HOFFMANN, Studien, 111-113.
37
Cf A. OEPKE, κρύπτω κτλ., GLNT V, 1161-1165.
38
Cf H. CONZELMANN, συνίημι κτλ., GLNT XIII, 255.
39
"Tu hai rivelato le vie della verità e le opere della malvagità, la sapienza e la follia, (...) la giustizia (...) le
opere della verità..." 1QH 5,20s.
40
Cf H.-J. RITZ, κρύπτω, DENT 2, 115.
9

accenna soltanto alla signoria del Padre nell'ambito celeste e terreno, ma anche al suo
beneplacito (εὐδοκία) divino, secondo il quale può nascondere e rivelare. Sulla particella ὅτι
poggia la lode di riconoscenza: nel mistero svetta il misterioso ταῦτα che indica l'accettazione o
il rifiuto del messaggio, dei messaggeri e di Gesù stesso; in definitiva, la venuta della βασιλεία.
La prima espressione di esultanza da parte di Gesù nei confronti del Padre che rivela e
nasconde, trova eco nella rivelazione del v. 22, corrispondente a un detto didattico e di
proclamazione. Oltre alla reciprocità della conoscenza fra il Padre e il Figlio viene messo in
evidenza il rapporto mistero-rivelazione come fonte di gaudio, e nello stesso tempo il
beneplacito (εὐδοκία) del Padre spicca come sorgente di giubilo 41. Quella rivelazione supera ogni
capacità umana e così il Figlio si mostra come colui che può rivelare il Padre; da quel potere
scaturiscono poi, nell'orizzonte delle manifestazioni cristologiche, le guarigioni e l'annuncio del
regno42. Luca presenta l'εὐδοκία come piano salvifico di Dio, espresso sia nella vita di Gesù che
negli origini del cristianesimo, realizzati nella presenza (ἔμπροσθέν σου) del Padre43.
Lc 10,22 ha la funzione di 'detto aggiuntivo' che approfondisce il loghion fondamentale sul
mistero-rivelazione, in quanto orienta le affermazioni del v. 21 verso la conoscenza dell'evento
salvifico di Gesù, verso la manifestazione della sua persona come l'unico che può rivelare agli
uomini i misteri di Dio. Questa affermazione viene corroborata e introdotta dal πάντα μοι
παρεδόθη, 'tutto mi è stato donato', con cui Gesù fa vedere un rapporto specialissimo con il
Padre. Il verbo παραδιδόναι, consegnare', si riferisce tanto alla trasmissione da maestro a
discepolo come al trasferimento di potere e autorità. Forse nel caso di Gesù sono presenti tutti e
due le realtà. Il soggetto πάντα può, infatti, essere interpretato nei due sensi, anche se qui sembra
prevalere il contesto della rivelazione44. In ogni caso vi si riconosce una dimensione cosmica e
trascendente: nel Gesù che parla, Luca contempla il risorto innalzato alla destra del Padre, il
preesistente. Vi si intravedono le genti e i confini della terra come sua eredità e possedimento (cf
sal 2,8), e i poteri conferiti al 'Figlio dell'uomo' (cf Dan 7,14). Quel πάντα è il "tutto" per
eccellenza, ogni potestà in cielo e in terra, e se lo consideriamo sotto una prospettiva apocalittica,
comprende anche la capacità e il contenuto della sua attività rivelatrice, che verrà menzionata in
seguito. Per Schürmann questo concetto di rivelazione trascende di gran lunga la παράδωσις
rabbinica: dal Gesù terreno non si aspetta una tradizione di scuola, ma la comunicazione
immediata da parte del Figlio di Dio, da colui che si identifica col Padre45.

41
Non ci sono delle ragioni serie per dubitare dell'autenticità del detto, secondo i risultati degli studi storico-
redazionali. Per uno status quæstionis sul loghion; cf D. A. HAGNER, Matthew 1-13, Dallas 1993, 317.
42
Cf H. SCHÜRMANN, Luca II/1, 181s.
43
Cf F. BOVON, Luca 2: 9,51-19,27, 93.
44
Secondo J. JEREMIAS, Teologia del Nuovo Testamento, Brescia 1972, 74 il testo vuol dire: "il Padre mio mi
ha trasmesso la rivelazione completa".
45
H. SCHÜRMANN, Luca II/1, 176.
10

Matteo 11,26s e Luca 10,22 praticamente coincidono. Mt usa però il verbo ἐπιγινώσκειν,
(cf Mt 7,16.20; 14,35; 17,12) enfatizzato dalla ripetizione, mentre il γινώσκειν di Lc (una sola
volta) sembra l'originale di Q46. Il terzo evangelista, dicevamo, è amico dei verbi con delle
preposizioni: se la forma originale fosse stata ἐπιγινώσκειν, senz'altro Luca l'avrebbe così
riportata, senza cambiarla. Un esempio che conferma quest'ipotesi è il parallelo nel loghion
dell'albero e dei frutti, nel discorso della Montagna: Matteo impiega il verbo composto
ἐπιγινώσκειν frente al semplice γινώσκειν di Luca. Sembra che Luca, con l'uso di γινώσκειν,
voglia evitare l'ambiguità, essendo il verbo ἐπιγινώσκειν a volte impiegato per il semplice
riconoscere (cf At 12,14). Riguardo al contenuto, la frase mira in primo luogo a chi è il Figlio, a
colui che ha una comprensione del mistero della natura intima di Dio come Padre. Cio è
segnalato dal πάντα all'inizio del versetto, indicando una pienezza di significato all'interno di
quella relazione peculiare del Figlio con il Padre, e non soltanto nella sua funzione messianica.
Si è di fronte ad un rapporto personale, tutto singolare sul quale si fonda il conferimento di ogni
potere. Si capisce allora la contestualizzazione cristologica realizzata da Luca nei vv. 21 e 23s.
L’evangelista sottolinea, inoltre, lo status privilegiato di Colui che ha ricevuto da Dio tutta
la scienza e rivelazione, non a modo di delega dal punto di vista dell’autorità o
dell’insegnamento, ma in quanto destinatario ed erede. Il πάντα μοι παρεδόθη poggia sulla
profondità ontologica della relazione Padre-Figlio. Ci si stabilisce anche un contrasto con tutti gli
altri che, almeno inizialmente, sarebbero esclusi da questa conoscenza. Il detto non distingue né
separa le persone della terra con pensieri terreni, da quelle del cielo con dei pensieri celesti, ma
mette in evidenza quell'intimità familiare enunciata in modo solenne. Le radici di questa
conoscenza mutua non sono da cercare negli orizzonti del pensiero ellenistico orientale o
nell’ambiente gnostico47. La sua radice è semitica: Jeremias fa notare che la pericope riflette un
originale aramaico dove manca il pronome reciproco, il che comporta uno stretto parallelismo
che attribuisce al Padre e al Figlio le stesse qualità e poteri. Il mutuo conoscersi viene dichiarato
dalla doppia frase a sfondo semitico (con il verbo ‫)ידע‬, ed implica molto di più della conoscenza
intellettuale48. Ciononostante si potrebbero scorgere delle influenze orientali, specialmente irano-

46
NOLLAND, Luke 9:21-18:34, 573, sostiene proprio il contrario. Secondo lui, l’attività redazionale di Luca
sarebbe indirizzata a semplificare la forma originale. La sua tesi spiega bene il motivo per il quale Luca non ripete la
forma verbale, ma non tanto bene quando si tratta della radice verbale con la preposizione ἐπί.
47
Così sostiene T. AVERDSON, Das mysterium Christi. Eine Studie zu Mt 11,25-30, Uppsala-Leipzig 1937,
115-122.
48
Cf. J. JEREMIAS, Teologia del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1972, 74s. Pace F, HAHN,
Christologische Hoheitstitel. Ihre Geschichte im frühen Christentum, Göttingen 1964, 321-326. Che il Padre
conosca il Figlio significa per HAHN sceglierlo e legittimarlo; che il Figlio conosca il Padre vorrebbe dire
riconoscerlo e rispettarlo, e vivere in unione e in solidarietà con Lui. Sulla sua scia, P. HOFFMANN, Die
Offenbarung des Sohnes: Die apokalyptischen Voraussetzungen und ihre Verarbeitung in Q-Logion Mt 11,27 par Lk
10,22, Kairos 12 (1970) 270-288, pensa che conoscere il Figlio è sapere sul suo ruolo nei progetti del Padre, e
conoscere il Padre sarebbe penetrare nei disegni segreti del suo piano di salvezza.
11

caldaiche, in alcune espressioni semitiche similari, come ad esempio nei racconti sul Figlio
dell’uomo di Daniele ed Enoc49.
L'altra differenza fra i testi dei due vangeli è quella dello ἐπιγινώσκειν τὸν υἱὸν/τὸν πατέρα
(conoscere il Figlio/il Padre), in Matteo e il γινώσκειν τίς ἐστιν ὁ υἱὸς/ὁ πατήρ (conoscere chi è il
Figlio/il Padre), in Luca. Fra le diverse proposte d'interpretazione sembra prendere il
sopravvento quella che cerca di non contrapporre troppo i testi, avvicinando il senso lucano a
quello matteano. L'attività redazionale di Luca, infatti, tiene conto dell'enigma sull'identità di
Gesù, che trapela non poche volte nel suo vangelo (cf Lc 8,25; 9,9.18-20). Luca, in realtà, ha
continuato con il discorso in prima persona del v. 21. Così ha voluto sottolineare il 'chi sono io',
il Figlio, di fronte a 'chi è Dio', il Padre. Una volta visto così, non è difficile capire che
'conoscere chi è' qualcuno equivale a conoscere la persona stessa e rapportarsi ad essa50.
In Lc 10,23s, il detto termina con un nuovo riferimento alla gioia: 'beati gli occhi che
vedono ciò che voi vedete'. Il macarismo si riallaccia al giubilo di 10,21 motivato dal fatto che i
nomi degli inviati sono stati scritti in cielo. L'origine del gaudio radica appunto nel contemplare
il compimento delle attese veterotestamentarie che i discepoli hanno compreso, grazie alla
rivelazione ricevuta dal Figlio, e che fa di loro il primo nucleo della comunità salvifica 51. La
beatitudine non promette benessere, ma annuncia la salvezza escatologica di cui i discepoli già
colgono i primi frutti. A differenza dell'apocalittica intertestamentaria, nel presente loghion non
viene fatta alcuna divisione fra buoni e cattivi, perché il messaggio di salvezza è indirizzato a
tutti.
Lo stesso macarismo appare in Mt 13,16s, brano che funge da cerniera fra la parabola del
seminatore e la sua interpretazione. Anche se i contesti dei due vangeli sono diversi — nel primo
vangelo il loghion si collega a Is 6,9s, sull'accoglienza del messaggio divino, mentre nel terzo si
collega alla rivelazione del Padre — , sia Matteo che Luca rivelano una fonte comune nel detto;
nell'alternare i verbi di sguardo βλέπειν-ἰδεῖν con delle piccole variazioni nell'uno e nell'altro
vangelo (Mt 13,17; Lc 10,23b-24) si dimostra che il secondo termine della coppia è
teologicamente più pregnante del primo; la maggiore l'intensità di ἰδεῖν rispetto a βλέπειν mette
in forte risalto appunto l’attesa di quelli che aspettavano l'era messianica. In Matteo il contesto è
di conoscenza e di comprensione dei detti di Gesù: i discepoli — contrapposti a coloro che
rifiutano l'annuncio, a cui si indirizza l'oracolo di Isaia 52 — hanno ricevuto la luce per capirli e
l'hanno assecondata; perciò la beatitudine è indirizzata in modo speciale a coloro che hanno visto

T. AVERDSON, Mysterium Christi, 116.


49

Cf J. NOLLAND, Luke 9:21-18:34, 575.


50
51
Cf H. SCHÜRMANN, Luca II/1, 187s.
52
Certamente non c'è nascondimento della verità da parte di Dio, altrimenti il suo regno sarebbe diviso; cf
D.A. HAGNER, Matteo 1-13, 373
12

nella fede e partecipano all'eone salvifico. Nel contesto lucano, invece, l'espressione è rivolta a
coloro che prendono parte alla proclamazione del regno mediante l'attività missionaria.
'Profeti e re' in Lc 10,24 sono i grandi personaggi del tempo della promessa; in Mt 13,17 si
dice invece 'profeti e giusti', il che permette di scorgere nel primo vangelo, da una parte, la sua
predilezione per la giustizia come qualità determinante nella realizzazione del progetto di Dio, e
dall'altra, la grandezza morale di coloro che hanno meritato non solo di attendere l'arrivo dell'era
messianica ma anche di contemplarla.
Ancora una volta la gioia scaturisce dal vedere e udire, dal vivere e sperimentare in prima
persona la dimensione escatologica, presente nella vita e negli insegnamenti di Gesù. Il Figlio si
rivela, schiudendo il καιρός salvifico; il riferimento storico e cristologico mette a fuoco l'ascolto
della predicazione di Gesù ed il fatto di vivere l'allegria della sua presenza. Allo stesso tempo da
quella rivelazione scaturisce un contrasto fra sapienza divina ed umana. I 'saggi e prudenti' non
sarebbero in grado di assecondare l'azione divina. Essa si manifesta invece ai piccoli, a coloro
che, pur non nascondendo le loro limitazioni, sono aperti all'aiuto e all'illuminazione di Dio.
Lc 10,21-22 rappresenta un insieme di preghiera ed insegnamento. Gesù svela la sua
persona che vive nell'intimità di una rivelazione unica, in quanto erede del Padre. L'ardimento
cristiano che fin dai primi tempi della chiesa si rivolgeva a Dio stesso chiamandolo Abba, è un
riflesso di questa manifestazione gesuanica. La volontà del padre e del Figlio ha un ruolo
determinante nel cammino del regno che intraprendono i νήπιοι.
La somiglianza di linguaggio con il Quarto vangelo ha fatto sí che taluni chiamino questo
passo il 'loghion giovanneo', o per dirlo con le parole di Hase, "un meteorite piombato dal cielo
giovanneo"53. Subito appare la domanda: può il Gesù storico aver avuto una tale autocoscienza?
Non è impossibile che Gesù si sia considerato unico Figlio, il che fa parte della sua coscienza
messianica54. La frase: "al quale il Figlio lo voglia rivelare" mette in evidenza il suo ruolo unico
ed insostituibile nel processo della rivelazione.
Una teologia così elevata potrebbe far pensare ad una cristologia post-pasquale 55. Alcuni
però pensano che si possa risalire a Gesù stesso 56, il che farebbe anche vedere la cornice storico-
teologica di non pochi passi giovannei57, nella vita e nella missione di Gesù.

53
K.A. VON HASE, Di Geschichte Jesu, Leipzig 1876, 422.
54
Cf J. ERNST, Il Vangelo secondo Luca II, Brescia 1985, 487.
55
Cf W.D. DAVIES, D.C. ALLISON, A critical and exegetical commentary on the Gospel according to Saint
Matthew I, Edinburgh 1988, 282.
56
Cf. I. HOWARD MARSHALL, The Divine Sonship of Jesus, Int. 21 (1967) 89-103.
57
Cf D.A. HAGNER, Matteo 1-13, 317.

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