Sei sulla pagina 1di 47

Jean-Noel Aletti

IL RACCONTO
COME TEOLOGIA
STUDIO NARRATIVO
DEL TERZO VANGELO
E DEL LIBRO
DEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI

EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA


Traduzione dal francese di Carlo Valentino
Traduzione della prefazione e del capitolo I di Romeo Fabbri

Prima edizione, ED, Roma: 1996


Prima edizione con aggiunte, EDB, Bologna: giugno 2009

Realizzazione editoriale: Prohemio editoriale srl, Firenze

©1996 Edizioni Dehoniane, Roma

©2009 Centro editoriale dehoniano


via Nosadella 6 - 40123 Bologna
EDB®

ISBN 978-88-10-22138-9

Stampa: Sograte, Città di Castello (PG) 2009


6 CAPITOLO
IL RACCONTO COME TEOLOGIA.
IL PADRE E I DUE FIGLI: Le 15,11-32

Dopo aver messo in evidenza alcune delle tecniche narrative di


Luca, in particolare la synkrisis, per arrivare al progetto che le ispi-
ra, mi resta da proporre, come ho annunziato nell'introduzione, un
esercizio di lettura, prendendo un'unità di dimensioni modeste dove
si ritrovino tuttavia delle componenti già studiate. Sono partito da
una lettura globale del racconto e termino con l'analisi dettagliata di
un passo. Il cammino potrebbe essere stato anche in senso inverso;
l'importante per me era introdurre a un procedimento, aiutare illet-
tore a padroneggiare un tipo di approccio che, nonostante le sue esi-
genze, lo stimolerà ad applicarlo ad altre unità dello stesso vangelo
o di altri libri del Nuovo Testamento.
Ho scelto una parabola molto conosciuta, forse troppo. Ma pos-
siamo scommettere che l'approccio narrativo ce ne farà scoprire la
continua novità e ci dimostrerà che essa si trova alla confluenza dei
grandi orientamenti teologici del racconto lucano. 1

1 Tra i numerosi studi sulla parabola, ben pochi sono specificamente narrativi; si
vedano tuttavia due articoli che non se ne discostano molto: V. Fusco, «Narrazione e dia-
logo nella parabola del figlio prodigo (Le 15,11-32»>, in G. GALLI (ed.), Interpretazione e
invenzione. La parabola del figlio prodigo tra interpretazioni scientifiche e invenzioni arti-
stiche, Atti dell'VIII Colloquio sull'interpretazione (1986), Genova 1987; e P. GRELOT, «Le
père et ses deux fils: Luc XV 41-32. Essai d'analyse structurale», in KB 84(1977). Il letto-
re vi troverà in allegato una griglia con l'aiuto della quale potrà egli stesso cimentarsi nel-
l'analisi. Il lettore più preparato potrà consultare J,-L. SKA, «Our Fathers Have Told Us»,
in Subsidia biblica 13(1990), o anche H. GROSSER, Narrativa. Manuale/Antologia, Milano
1983.
182 Capitolo 6

LA COMPOSIZIONE DEL PASSO

La delimitazione di una parabola come la nostra è abbastanza


facile, grazie all'entrata in scena degli attori e alla loro scomparsa. In
Lc 15 si succedono tre parabole sulla misericordia con tre serie di
attori2 diversi:
- l'uomo e le cento pecore (cf. vv 1-7);
-la donna e le dieci dramme (cf. vv. 8-10);
- il padre e i due figli (cf. vv. 11-32).
È invece meno agevole individuare la composizione interna del
passo. È possibile, infatti, che Luca utilizzi parecchi modelli, per farli
giocare insieme, e il lettore non sempre è in grado di individuarli
tutti. Cerchiamo di mostrare, con l'aiuto di Lc 24, l'importanza dei
principi di composizione operanti nel racconto lucano.

Un esempio: Le 24

L'episodio detto dei discepoli di Emmaus, Le 24,13-35 3, ricapito-


la tutto Luca, seguendo in questo le regole della retorica di allora:
all'uomo che non riconoscono e che domanda loro di che cosa stia-
no parlando, i due discepoli cominciano col riassumere la storia di
Gesù, fino alla sua morte (cf. vv. 19-20):
- il nome (Gesù) e il luogo di origine (Nazaret); cf. Lc 1-2;
- il ministero come descritto soprattutto nella prima sezione (cf.
Lc 4,14-9,50): Gesù riconosciuto profeta potente in parole e opere
(cf. Lc 4,32; 4,36; 5,17; 6,19; 7,16; 8,26; 9,19);
- la passione, con il nome degli oppositori (sommi sacerdoti e
capi) e il tipo di morte (croce); cf. Lc 23.
Anche Gesù riprende gli annunci da lui fatti durante il suo
ministero, sulla necessità per lui di soffrire per entrare nella gloria
(cf. v. 26):
- il «bisogna»; cf. Lc 2,49; 4,43; 9,22; 13,16.33; 17,25; 19,5; 22,37;

2 I termini attore, scena ed episodio appartenevano originariamente al vocabolario


del teatro e sono stati ripresi dall'analisi narrativa; personaggio si applica solo agli esseri
umani, mentre attore è più generico. Qui uso indifferentemente l'uno e l'altro termine.
3 Cf. l-N. ALETIl, L'arte di raccontare Gesù Cristo. La scrittura narrativa del Vange-
lo di Luca, Brescia 1991, 151-169.
Il racconto come teologia... 183

-le sofferenze da glorificazione; cf. Lc 9,22; 9,44; 13,33; 17,24-25;


18,31-33; 22,16.
Questo modello retorico, che fa di Lc 24, e di questo episodio in
particolare, una conclusione appropriata di tutto il vangelo, non è
l'unico. Vi gioca il suo ruolo anche un altro tipo di composizione,
questa volta concentrico, perché se la ripresa retorica dei temi met-
teva in rilievo il passato, questo sottolinea l'aspetto inaudito del pre-
sente, in una composizione concentrica che ruota attorno all'annun-
cio: «Egli [Gesù] è vivo»:
(donne) piene di paura (v. 3),
[angeli] dissero loro: «Perché... (v. 5), bisogna... crocifisso e il terzo
giorno risuscitare» (v. 7).

se ne andavano... , da Gerusalemme (v. 13)

donne ... , che dicono di aver visto degli angeli che affermano che egli è
vivo (vv.22-23)

fecero ritorno a Gerusalemme (v. 33)

(discepoli) pieni di paura (v. 37),


[Gesù] dice loro: «Perché ... ? (v. 38), bisogna... (v. 44) ... risuscitare il
terzo giorno» (v. 46).

Ma il narratore non si accontenta né di riprendere il passato per


mostrarne gli aspetti salienti (retorica del discorso e del racconto),
né di annunziare l'inaudito (grazie alla disposizione concentrica), ma
organizza anche gli episodi secondo una progressione drammatica (o
narrativa, da episodio a episodio) rilevata da molti commentatori:4
- vv. 1-12: Gesù viene dichiarato vivo alle donne, ma assente e
introvabile;
- vv. 13-33: Gesù è presente da straniero a due discepoli, ma non
riconosciuto; alla fine si lascia riconoscere;
- vv. 34-53: Gesù, presente in modo visibile in mezzo a tutti, si fa
riconoscere immediatamente, e rimane un certo tempo con loro.

--

4 Questo punto è stato messo in evidenza per la prima volta da 1. DUPONT, «Les disci-
ples d'Emmaus», in ID., Études sur les évangiles synoptiques, 2 voll., Louvain 1985, Il,1153-
1181.
184 Capitolo 6

La progressione non avviene solo al livello dell'incontro e del


riconoscimento, ma anche della riflessione sull'itinerario e la sua
coerenza: in termini più astrusi, il modello drammatico ha una fun-
zione veridizionale. 5
I diversi modelli hanno perciò la loro importanza per l'interpre-
tazione di Le 24, e si ha tutto l'interesse, per ogni episodio o ogni
sezione narrativa, a cercare i principi di composizione che sono ope-
ranti, sapendo d'altra parte che questo non è sufficiente, perché biso-
gna anche domandarsi se uno dei principi (il narrativo, il retorico, i
parallelismi, ecc.) regga o meno gli altri. Vediamo in che modo pro-
cedere per Lc 15,11-32.

Composizione della parabola

Gesù inizia così: «Un uomo aveva due figli» (v. 11). Questa
prima frase indica già una composizione in due parti, centrate sul-
l'uno o l'altro dei figli:
- vv. 12-24: il minore,
- vv. 25-32: il maggiore.
Una tale divisione non dice ancora quali tipi di legame il raccon-
to svilupperà, ma è utile, prima di intraprendere l'analisi, leggere il
passo prestando attenzione alle relazioni e alla loro direzione - del
padre con ciascuno dei figli, ma anche tra i figli. Infatti la tecnica nar-
rativa e retorica dominante è qui la stessa che abbiamo già incontra-
to nei capitoli precedenti, la synkrisis. In effetti, Luca non la utilizza
soltanto per gli attori del racconto primario (Gesù e Giovanni Bat-
tista, Gesù e Paolo, ecc.), ma anche per quelli di molte parabole, allo
scopo di metterli in opposizione - come il sacerdote e illevita in rap-
porto al samaritano (cf. Lc 10,30-35), il ricco in rapporto al povero
(cf. Lc 16,19-31), il fariseo in rapporto al pubblicano (cf. Lc 18,9-14),
i due servi in rapporto a un terzo (cf. Lc 18,13-26) - o, al contrario,
allo scopo di mostrare la somiglianza delle loro reazioni e dei loro
comportamenti - come quelli del pastore e della donna, in Lc 15,4-
lO. Così facendo, invita il suo lettore a individuare i tratti paralleli e

5 Sul significato di questo termine, cf. ALEITI, L'arte di raccontare, 220.


Il racconto come teologia... 185

le opposizioni, al fine di determinare quali siano sottolineati. Noi


cercheremo di farlo per Lc 15,11-32.
Ma non tutte le parabole sono costruite su un confronto grazie
al quale sia possibile intuire la composizione. Che si individui o
meno un modello retorico, è importante sempre iniziare determi-
nando le diverse scene e la loro disposizione. Per fare ciò, si prendo-
no in considerazione le componenti seguenti: i cambi di attori, di
tematica, di spazio e di tempo. Dopo un versetto di apertura (cf. v.
11), che fissa il contesto (la famiglia), la situazione iniziale (un padre
che ha due figli) e le relazioni potenziali (tra padre e figli, tra fratel-
li), e un altro versetto, che provoca le trasformazioni (cf. v. 12), il rac-
conto procede per tappe abbastanza facilmente identificabili, grazie
al fatto che il figlio minore e il maggiore non sono mai insieme:
1) scene con il più giovane (cf. vv.13-14),
- che va lontano e ritorna poi dal padre; lo spazio cambia (in
casa - in una regione lontana - di nuovo in casa), e il tempo della sto-
ria è abbastanza lungo: il viaggio, la vita da prodigo, la fame e la pri-
vazione, il lavoro nei campi, il ritorno;
2) scene con il figlio maggiore (cf. vv. 25-32),
- che ritorna dai campi e rifiuta di entrare; lo spazio non cambia
- davanti alla porta -, e il tempo della storia è abbastanza breve,
quello di una breve conversazione (con un servo, e con il padre).
Le due parti seguono, fino a un certo punto, uno stesso schema
in due tappe, in cui ciascuno dei figli è dapprima senza il padre, poi
col padre:

il figlio minore il figlio maggiore

i figli - senza il padre vV.13-20a vv.23-28


padre e figli insieme vv.20b-24 vv.29-32

Quest'ultima divisione, basata sulla presenza o sull'assenza dei


personaggi, deve evidentemente essere affinata, per mettere a nudo
altri parallelismi. È così possibile distinguere, per il figlio minore, tra
gli eventi narrati, o piuttosto riassunti da Gesù nei vv. 13-16, e il
monologo dei vv. 17-19, in relazione alla reazione che la situazione
drammatica suscita nell'attore:
186 Capitolo 6

- v. 13: viaggio e spese da prodigo;


- vv. 14-16: fame e situazione di privazione verso uno sbocco
drammatico;
- vv. 17-19: soluzione presa in considerazione per sfuggire alla
fame e alla morte: ritornare.
Le scene dedicate al figlio maggiore hanno ugualmente un'in-
troduzione, il v. 25, che fa in qualche modo da corrispondenza al v.
13. Di conseguenza, si delinea un duplice parallelismo di somiglian-
za e di opposizione:
il figlio minore il figlio maggiore

introduzione - partenza per un paese v. 13 v.23


lontano / ritorno
eventi - reazioni contrarie: ritornare / vV.14-19 vv.26-28
non ritornare

il padre esce loro incontro; discorso vV.20-24 vv.29-32


dei figli e del padre

Che cosa si può già dedurre dal parallelismo tra le scene? Le due
serie iniziano con dei fatti raccontati alla terza persona, ma finisco-
no facendo parlare gli attori, allo scopo di farci conoscere i loro sen-
timenti e soprattutto la loro interpretazione dei fatti; e nelle sezioni
interpretative (cf. vv. 20-24; vv. 29-32) l'ultima parola spetta ogni volta
al padre, segno che è la sua versione dei fatti che si impone. Anche
se ci sono tre protagonisti, il padre e i due figli, il punto di vista che
serve da riferimento è senza alcun dubbio quello del padre:

vv.23b-24a v.32

... mangiamo e facciamo festa, per- ma bisognava far festa e rallegrarsi,


ché questo mio figlio era morto ed è perché questo tuo fratello era morto
tornato in vita, era perduto ed è stato ed è tornato in vita, era perduto ed è
ritrovato stato ritrovato

In breve, questa composizione scenica bipartita permette già


un'interpretazione delle due serie: i fatti o gli eventi (cf. vv. 13-16; v.
27) hanno solo la funzione di suscitare le parole degli attori e di
manifestare così il loro rispettivo sistema di valori.
Il racconto come teologia... 187

Non è necessario aggiungere che la tecnica della synkrisis ha


certamente favorito una composizione per parallelismi successivi,
perché leggendo si percepisca il confronto tra attori, tra situazioni e
tra sistemi di valori.

GLI ATIORI E LE LORO RELAZIONI

Il nome degli attori

Nessuno degli attori umani - o personaggi - ha un nome proprio


(Lazzaro, Zaccheo, ecc.),6 né si vede descritto in funzione di un'ap-
partenenza religiosa (pagano, samaritano, giudeo, fariseo, pubblica-
no, levita, sacerdote). È probabile che l'abitante della regione lonta-
na in cui si trova il figlio minore sia pagano, dato che possiede un
branco di porci - animali impuri in Israele -, ma non viene dichiara-
to tale. I valori e gli status religiosi non sono menzionati, eccetto sulla
bocca del figlio minore ai vv. 18b e 21 (<<Ho peccato contro il cielo»),
e dovremmo domandarci perché. Ugualmente, non sono usati i qua-
lificativi sociali ricco e povero, anche se il narratore - Gesù o Luca,
poco importa qui - riesce a far cogliere delle situazioni di ricchezza
e povertà senza nominarle. Si sa così che il padre possiede un patri-
monio, che la parte di eredità data al figlio minore è sostanziale, che
ha dei salariati e dei servi, che può organizzare banchetti, offrire un
vitello ben grasso, dei capretti, rivestire i suoi figli di bei vestiti, ecc.
Quanto al figlio minore, è dapprima spendaccione, poi ridotto alla
fame, ma la triste privazione, pur descritta (dal narratore) e ricono-
sciuta (dal figlio minore), non viene mai chiamata «miseria» o
«povertà». Diamone subito la ragione, perché ha la sua importanza
per l'interpretazione di altre parabole. Quando Luca inizia una para-
bola con le parole «un uomo ricco»,? vuoI dire che il tema sul quale
egli invita a riflettere è proprio quello, mentre nella nostra parabola
la ricchezza - e la miseria che le fa da pendant - è solo uno strumen-
to (sociale, ma anche narrativo) che permette di manifestare altre

6 Sulla funzione narrativa dei nomi propri in Luca, si veda la mia analisi di Le 19,1-
lO in ALETTI, L'arte di raccontare, c. I.
7 In Le 12,16; 16,1.19.
188 Capitolo 6

cose, a livello delle relazioni tra padre e figlio. Non cominciando con
l'appellativo «un uomo ricco», Luca obbliga il lettore ad andare spe-
ditamente fino alla relazione sulla quale deve vertere la sua medita-
zione e il suo discernimento.
Ma veniamo all'essenziale. I tre attori principali sono chiamati
rispettivamente padre,8 figli (maggiore e minore) e fratello. Non c'è
bisogno di molta sagacia per comprendere che saranno queste rela-
zioni a costituire un problema. A livello narrativo è del resto racco-
mandato di considerare attentamente come questi appellativi venga-
no usati dalle diverse istanze, narratore e attori: 9

padre figlio minore figlio maggiore

narratore un uomo v.1 il/i figlioli figlio


w.11.13.21 vv.11.25
(Gesù/Luca) suolil padre il minore w. 12.13 il maggiore
w. 20.22.29 v.25
padre ai servi: «questo mio fi- «figlio (mio)>>
glia» v.24 v.31
al maggiore: «questo
tuo fratello»
v.32
minore <<padre» vv. 2.1821 al padre: «non più de-
mio padre gno di
vv.17.18 essere chiamato tuo
figlio»
w.19.21
(vuoI dire al padre)
«trattami come uno dei
tuoi salariati» v. 19
maggiore al padre; «questo tuo fi-
glio» v.30

servo al maggiore: al maggiore: «tuo fra-


«tuo padre» tello» v. 27
v.27

8 Fatta eccezione per il v. 11, dove si legge «un uomo».


9 Le istanze enunciative sono collocate nella colonna di sinistra.
Il racconto come teologia... 189

Come mostra questa tavola, l'uso che il narratore fa dei nomi


padre e figlio (maggiore e minore) è neutro, non sono assiologica-
mente carichi, perché costituiscono per lui solo delle comode desi-
gnazioni. Ma procede in questo modo per lasciare agli attori, nomi-
nandosi gli uni gli altri, il compito di mostrare come essi si situano.
Così il padre è certamente padre, perché chiama i figli «mio figlio»,
«figlio (mio»> dall'inizio alla fine della storia, e vuole che tra loro essi
si considerino «fratelli». Il figlio minore non parla mai del maggiore,
anche quando è lontano, ma solo del padre, perché essendo il suo
problema quello di cercare di ritornare per mangiare, solo il padre
avrebbe potuto accettarlo sotto il suo tetto o respingerlo; è anche
disposto a vivere lì senza lo status di figlio. Il monologo (cf. vv. 17-19)
è però molto istruttivo, perché, pur volendo domandare al padre di
non considerarlo più come figlio, non gli dice «padrone» (kyrie), ma
continua a chiamarlo «padre». Cercheremo di percepire le ragioni e
l'effetto di significato di questa apparente contraddizione. Quanto al
maggiore, egli non pronuncia le parole «padre» e «fratello», segno
che per lui il figlio minore non è più fratello e che fa fatica a ricono-
scere suo padre come padre. Infine, il servo incaricato di informare
il figlio maggiore usa un linguaggio neutro e puramente di designa-
zione, perché chiama le persone col loro nome: «tuo fratello», «tuo
padre». Ma confrontando queste denominazioni con quelle del figlio
maggiore, il loro uso acquista molto più importanza: come mai il
servo trova le parole semplici e appropriate (<<padre», «fratello»),
mentre il figlio maggiore no?

Il figlio minore e il suo itinerario

Il figlio più giovane viene dapprima caratterizzato per un desi-


derio, quello di avere la sua parte di eredità. Il racconto non dice
però il motivo per cui vuole questo denaro: perché ne ha abbastan-
za di stare col padre e col fratello? Perché vuole avere le sue prime
avventure, ecc.? Le motivazioni non vengono date e, anche se allet-
tore non è vietato cercarle, bisogna evitare di dare una risposta trop-
po affrettata: quando le motivazioni sono taciute da un racconto, le
ragioni possono essere diverse: 1) perché non hanno alcuna influen-
za sull'intreccio, o 2) perché il narratore le farà apparire in seguito
190 Capitolo 6

progressivamente attraverso le azioni e le parole dell'uno o dell'al-


tro attore, o 3) perché non è su queste motivazioni che il lettore deve
concentrare la sua riflessione. Il resto della parabola non ritornerà
sulle ragioni di questa richiesta dell'eredità. Il figlio minore non dice
mai che vuole la sua libertà, godersi la vita o andare verso altri oriz-
zonti; il padre stesso non fa alcuna allusione alle ragioni che hanno
allontanato il figlio, ma parla soltanto degli effetti della sua decisio-
ne: «era perduto»; quanto al figlio maggiore, anch'egli menziona dei
fatti: il denaro dilapidato, la dissolutezza.
Si obietterà forse che il desiderio di partire avesse delle motiva-
zioni sessuali non confessate: non era né per visitare altri paesi, né
per fare del commercio, né per arricchirsi e disporre dei suoi benefi-
ci, ma per divertirsi - sapremo anche dal figlio maggiore che ha fre-
quentato le prostitute. Senza dubbio il suo desiderio non aveva
alcunché di sano, e i particolari riportati dal narratore lo suggerisco-
no immediatamente: «Dopo non molti giorni, il figlio più giovane,
raccolte le sue cose, [... ] sperperò le sue sostanze vivendo da disso-
luto» (v. 13). Sì, questo giovane era spinto dal desiderio di vivere
senza costrizioni e nel piacere. Infatti, avrebbe potuto gestire il suo
denaro, farlo fruttare, senza necessità di andare molto lontano: la
rapidità con la quale fa i bagagli, la distanza che frappone in rappor-
to alla famiglia, tutto lascia presupporre motivazioni non confessabi-
li e forse per questa ragione taciute dal racconto. Ma, lo ripetiamo,
se da una parte le annotazioni del narratore - rapidità della parten-
za, lunga distanza, dissipazione - mostrano chiaramente che questo
figlio non è partito per amore di suo padre, dall'altra non lo dicono
esplicitamente. I silenzi del narratore e degli attori sono del tutto
funzionali: il lettore non è invitato a riflettere sulle motivazioni che
hanno portato il figlio più giovane ad andare lontano e nella disso-
lutezza, ma su quelle che lo riporteranno da suo padre. Ritornerò su
questo punto a proposito dei vv. 17-19.
Domandando la sua parte di eredità, il figlio minore ha forse
commesso una colpa, e quale? Non avrebbe dovuto aspettare il tempo
stabilito e lasciare che il padre prendesse l'iniziativa? In realtà anche
su questo punto il racconto resta molto funzionale, nel senso che invi-
ta il lettore a non interrogarsi né sulla legalità né sulla moralità della
domanda del figlio: ha voluto l'eredità che gli spettava (un suo diritto)
Il racconto come teologia... 191

e il padre gliel'ha concessa, senza protestare né recriminare; non sap-


piamo che cosa pensasse quest'ultimo, se abbia posto delle domande,
formulato dei rimproveri o degli avvertimenti: segnalando il suo con-
senso, il racconto vuole semplicemente suggerire che il figlio non è
partito rubando il denaro, in breve che i beni che si porta non sono
stati male acquisiti, ma ricevuti col consenso di colui che solo poteva
offrirglieli. Fin lì tutto vien detto laconicamente, ma nulla è fuori
norma - dal punto di vista morale, s'intende; con molta abilità il nar-
ratore è arrivato alla situazione desiderata: il giovane ha voluto e rice-
vuto del denaro che gli spettava, da un padre che non appare né avaro
né geloso della sua fortuna. A questa interpretazione si potrebbe
obiettare che, più tardi, il giovane stesso ammette che il suo compor-
tamento è stato peccaminoso: «Ho peccato contro di te», dirà infatti a
suo padre. Se peccato c'era stato, non era stato quello di chiedere una
parte alla quale aveva diritto - del resto, se il padre gli avesse conces-
so qualcosa a cui non aveva diritto, il figlio maggiore avrebbe provato
un piacere sadico nell'accusarlo! Il v. 12 descrive quindi una situazio-
ne che non ha nulla di anormale. Il racconto può così prendere nuovi
sviluppi: in che modo il giovane utilizzerà il suo denaro?
Nella scena seguente, la tecnica del narratore appare con molta
evidenza: bisogna che il giovane tocchi il fondo, dopo aver perso tutto,
essere piombato nella miseria e aver sentito la fame in tutta la sua cru-
dezza. Ma segnalando che egli ha dilapidato i suoi beni con una vita
disordinata, Luca vuole anche ricordare che, se si trova in quella situa-
zione, la colpa è sua. Avrebbe potuto infatti perdere il suo denaro per
incompetenza - cattivi investimenti, ecc. - o per esserselo lasciato
rubare da amministratori disonesti (cf. Lc 16,1); invece il suo genere di
vita dimostra che non ha voluto né gestire né prevedere; la carestia è
solo una complicazione10 supplementare, non è la vera causa del
dramma, perché anche in tempo di carestia quelli che hanno denaro
possono sempre sopravvivere - il proprietario dei porci, ad esempio,
non sembra nel bisogno (cf. v. 15). Il figlio è perciò responsabile di
quanto gli accade: riceve solo ciò che si merita!

lO Si tratta di un termine tecnico che designa le peripezie che impediscono a un certo


attore di realizzare ciò che desidera, ecc.
192 Capitolo 6

Ma, ancor più che sulla responsabilità del giovane, il narratore si


focalizza sul modo in cui egli cerca di tirarsi fuori dalla brutta situa-
zione: non mendicando o rubando, ma mettendosi al servizio di un
proprietario, per poter mangiare. Questa situazione è assiologica-
mente carica, nella misura in cui esprime il decadimento avvenuto, a
livello della condizione sociale e della sussistenza: il figlio ricco e
gaudente è diventato un porcaro famelico. La morte non è lontana,
ed egli stesso intravede questo sbocco fatale (cf. la fine del v. 17).
Viene allora il monologo, che costituisce il climax della scena, nella
misura in cui tutto ciò che precede tende a far sì che il giovane possa
esprimersi sul suo itinerario passato e futuro. L'interpretazione data
a questo monologo è molto varia. Molti vi vedono una conversione
interiore, un pentimento sincero, un inizio di relazione ritrovata con
il padre - non è forse, come sempre accade, grazie alla lontananza
che gli occhi del figlio si sono potuti aprire? Ma queste interpreta-
zioni, belle ed edificanti, non sono tuttavia narrativamente fondate.
Sono consapevole di andare qui controcorrente, essendo la frase:
«Mi alzerò e andrò da mio padre» considerata come il tipo stesso del
discorso di conversione e che sembra esprimere la vera tenerezza di
un figlio penitente. Com'è possibile che si tratti solo di un imbroglio?
Vediamo come procede il narratore.
Sopprimiamo provvisoriamente il monologo (i vv. 17-19) e leg-
giamo la parabola come segue:
[Il figlio minore] avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiava-
no i porci; ma nessuno gliene dava. Vedendo lo stato in cui si trovava,
decise di ritornare dal padre. Quando era ancora lontano il padre lo
vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il
figlio gli disse: «Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non
sono più degno di esser chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai
servi...

Le parole che il giovane pronunzia ai piedi del padre suonano


allora come una confessione e un atto di contrizione: egli ritoma per-
ché sa di aver peccato contro il padre, contro la sua tenerezza e la sua
bontà. Ma il discorso preparato a distanza cambia totalmente la pro-
spettiva, perché il giovane non inizia affatto con una dichiarazione di
peccato o una presa di coscienza del dolore che ha potuto causare al
padre. Avrebbe potuto esprimere il suo pentimento in tanti modi:
Il racconto come teologia... 193

«Ho causato dolore a mio padre, che forse mi crede morto», «Ho
preferito il mio comodo all'amore di mio padre», ecc.
Se il giovane fosse davvero pentito del suo atteggiamento di
indipendenza e della sua indifferenza verso i sentimenti paterni, il
monologo - e la sua ripresa nella scena dell'incontro - avrebbe
dovuto iniziare in modo diverso:
Rientrato in se stesso, si disse: «Ho dimenticato mio padre, la sua tene-
rezza, la sua bontà e la sua generosità. Sì, mi alzerò, andrò da lui e gli
dirò: "Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te ... "».

Ma non è il pentimento che spinge il figlio a ritornare in se stes-


so, bensì la fame: il suo punto di riferimento non è né il dispiacere né
l'amore del padre, ma i salariati che hanno pane in abbondanza. La
motivazione è la volontà di mangiare e quindi di vivere, anche a prez-
zo della propria dignità filiale: è meglio essere un salariato con lo sto-
maco pieno che un figlio decaduto o morto! Anche se il salariato è
dipendente dal suo padrone, almeno ha la possibilità di essere nutri-
to per il suo lavoro. Si vede allora che la soluzione del ritorno è l'ul-
tima chance che il giovane si dà per non morire: cercherà di suggeri-
re al padre di prenderlo come semplice salariato. Volendo essere one-
sto, il suo discorso avrebbe dovuto iniziare così: «Padre, sono tornato
perché muoio di fame e non ne posso più; preferisco vivere da opera-
io, ma con lo stomaco pieno». Non essendo menzionata questa prima
verità, la confessione del peccato serve da copertura: la prima cosa
alla quale il giovane pensa è di riempirsi lo stomaco, e l'ultima che
desidera confessare al padre è che il suo ritorno è dettato da questo
motivo - il fatto stesso che la prima parte del monologo (cf. v. 17)
scompaia dalle affermazioni che si propone di fare e che poi fa
davanti al padre lo mostra chiaramente. Questo dimostra che uno
stomaco vuoto non impedisce sempre di far bene i calcoli e di nascon-
dere i bisogni estremi sotto la parvenza del discorso religioso. La
menzogna è flagrante. Per inciso, si può cogliere qui la funzione
importante che il racconto lucano accorda ai monologhi,l1 per il fatto

- -

11 Sul monologo e la sua funzione, cf. P. SELLEW, <<Interior Monologue as a Narrative


Device in the Parables of Luke», in JBL 111(1992).
194 Capitolo 6

che permettono al lettore di andare oltre le apparenze, di farlo eRtra-


re nelle motivazioni vere degli attori e di valutare la distanza, talvol-
ta enorme, che separa le parole dai sentimenti, racchiusi nel profon-
do del cuore.
Quelli che vedono in questo monologo il marchio di una conver-
sione obietteranno forse che il giovane riconosce il suo peccato e che
vuole confessarlo davanti al padre:
Sì, mi leverò, andrò da mio padre e gli dirò: «Padre, ho peccato contro
il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio;
trattami come uno dei tuoi salariati».

In effetti, si tratta di una vera e propria confessione, del resto


breve: «Ho peccato»; e perché mai il figlio non dovrebbe pensare ciò
che dice? Ammettiamolo provvisoriamente. Notiamo soltanto che
alla fine della sua dichiarazione egli vuole aggiungere: «Trattami
come uno dei tuoi salariati». Ora, se aggiunge queste parole, non è
per chiedere una condizione «di penitenza» - avrebbe del resto
potuto scegliere qualcosa di ancora più basso, la condizione di schia-
vo, ma lo schiavo non riceve alcun salario e dipende totalmente dal
padrone, che può fare di lui ciò che vuole, mentre il salariato gode di
maggiore indipendenza, e riceve un salario per il lavoro che compie.
Se propone a suo padre di fare di lui un salariato è perché in quella
casa i salariati mangiano bene, come ha riconosciuto a se stesso. Il
calcolo è innegabile. Ci sarà senz'altro confessione del peccato, e
forse il giovane pensa un po' a quello che dice, ma si tratta di una
confessione molto interessata; ha prima di tutto una funzione retori-
ca, quella di una captatio benevolentiae, il che, in parole chiare, vuoI
dire: il figlio confessa al padre il proprio peccato per ottenere il cam-
bio di condizione sperato, perché da salariato possa almeno mangia-
re bene. Il meno che si possa dire è che la dichiarazione del figlio non
è gloriosa, anche se salva le apparenze. Ma solo chi non ha conosciu-
to la miseria, il decadimento e la fame estrema si scandalizzerà o
storcerà la bocca di fronte a un calcolo simile; a dire il vero, io stes-
so, trovandomi in una condizione simile, non posso escludere di
ricorrere a formule - soprattutto religiose - che mi potessero tirar
fuori da essa. Ammiriamo, di passaggio, la finezza di un narratore
che non si fa illusioni su certi discorsi di pentimento.
Il racconto come teologia... 195

Riserviamo a più tardi la concezione che il figlio minore si fa


della giustizia e che traspare dalle sue parole, e consideriamo le tra-
sformazioni alle quali egli è sottoposto durante la scena dell'incon-
tro. Notiamo innanzitutto che tra il monologo e la sua ripresa - tron-
ca, perché manca il «trattami come uno dei tuoi salariati» -, il narra-
tore descrive il padre che accoglie il «redivivo». Il lettore deve per-
cepire l'effetto di significato di questa descrizione. Leggiamo dappri-
ma il brano senza di essa:
Rientrato in se stesso, si disse: «Quanti salariati in casa di mio padre
[...]. Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: "Padre, ho peccato con-
tro il cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo
figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati"». Partì e si incamminò
verso suo padre e gli disse: «Padre, ho peccato contro il cielo e contro
di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio». Ma il padre
disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello ... ».

Senza la frase di accoglienza - il padre che corre, si getta al collo


del figlio e lo copre di baci -, le affermazioni del figlio suonano
come un colpo di poker: il giovane gioca il tutto per tutto; che cosa
ha da perdere, al punto in cui si trova? Ma, d'altra parte, la sua auda-
cia si basava probabilmente sulla conoscenza che aveva del padre:
se ha pensato di poter costruire questo tipo di discorso, è perché
aveva la sensazione che sarebbe andata bene. C'è quindi al tempo
stesso fiducia (nella bontà del padre) e calcolo (questo funzionerà),
e con entrambi gli elementi egli tenta la fortuna. Ma se rileggiamo
ora il passo con il v. 20b - quando era ancora lontano, il padre lo
vide, ecc. -, appare evidente che il giovane può dire ciò che vuole:
dopo tutte le effusioni di tenerezza del padre, non ha più nulla da
temere e la sua dichiarazione è senza rischio. Come va allora com-
presa? Ancora come calcolo o, al contrario, come espressione di un
vero e proprio pentimento?
Il narratore, a dire il vero, lascia che domini l'ambiguità. Infatti,
da una parte le parole usate suonano giuste: è vero che ha peccato e
ritiene di non poter più restare figlio; non ha in ogni caso la tracotan-
za di dire al padre che lo ama, e si rimette completamente alla sua
volontà. D'altra parte, però, non menziona la vera ragione che gli ha
fatto intraprendere la strada del ritorno, una fame da morire: «Sono
ritornato perché morivo di fame, e perché ho pensato di poter trova-
196 Capitolo 6

re presso di te cibo e alloggio», e il narratore non dice: «Preso da


rimorso - o da pentimento -, il figlio cadde ai piedi del padre e gli
disse... ». Il narratore lascia il lettore con i suoi dubbi, ma così facen-
do rimane coerente, poiché il padre non ha avuto bisogno delle belle
parole del figlio per correre a gettarglisi al collo e coprirlo di baci:
non sono le parole del figlio che determinano l'agire del padre. È un
punto sul quale ritornerò.
Due silenzi del figlio minore richiedono un'iIJterpretazione: 1)
davanti al padre non pronunzia il fatidico «trattami come uno dei tuoi
salariati»: ha forse abbandonato questa idea, perché ha ormai capito
- dopo le manifestazioni di affetto ricevute - che il padre non le darà
alcun peso? 2) La scena termina senza alcuna menzione di ringrazia-
mento o di azione di grazie: resta forse nell'ingratitudine? A proposi-
to del primo silenzio, la sintassi autorizza una risposta sicura: infatti il
figlio sta ancora recitando la sua lezione quando il padre lo interrom-
pe - il greco va letto come segue: «Ma il padre disse ai servi.. .». Il
padre non ha voluto sentirne di più: quando il giovane gli dichiara di
non meritare più di essere figlio, taglia corto, rifiutando questa even-
tualità e, al contrario, si affretta a (ri)dare al figlio tutti i segni della sua
dignità. Il racconto sviluppa qui una forte opposizione:
- il figlio: «Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio»;
- il padre: «Mettetegli il vestito più bello, l'anello al dito e i cal-
zari ai piedi, perché questo mio figlio ... ».
Se perciò il giovane non ha pronunciato l'ultima richiesta (<<trat-
tami come uno dei tuoi salariati»), c'è un motivo molto semplice:
non ne ha avuto il tempo. Quanto al secondo silenzio, non è affatto
un segno di ingratitudine. Se il giovane non pronuncia nemmeno un
semplice: «Grazie, papà!», è perché il narratore ha voluto terminare
questa prima parte sull'interpretazione del padre: ciò che deve atti-
rare l'attenzione del lettore non è il fatto che il giovane possa passa-
re dall'ingratitudine alla confusione, e poi all'azione di grazie per il
perdono ricevuto - si sarà notato, spero, che i sentimenti e le reazio-
ni del figlio alle effusioni del padre, ammesso che ce ne siano stati,
sono passati tutti sotto silenzio. Sì, l'importante è che il ritorno del
giovane dia al padre la possibilità di manifestare i suoi sentimenti e
le sue riflessioni. In breve, lo scopo primario del racconto non è di
descrivere l'itinerario di conversione o di filiazione del giovane, ma
Il racconto come teologia... 197

piuttosto la reazione e l'interpretazione del padre. La prima focaliz-


zazione sui calcoli del figlio ha solo la funzione di manifestare al con-
trario l'assenza di calcolo da parte del padre, e di focalizzarsi infine
su di essa.

Il figlio maggiore e i suoi rimproveri

Dopo che in casa si è cominciato a far festa, il figlio minore


scompare di scena, anche se resta presente nel racconto nelle parole
degli altri due protagonisti, il figlio maggiore e il padre. Arriva allo-
ra il figlio maggiore, che si trovava nei campi. Con questa informa-
zione il racconto vuole già far capire
- che la vita del figlio maggiore è dominata dal lavoro campe-
stre, al ritmo delle stagioni?
- che, nonostante la sua condizione di figlio, le sue condizioni
sono in realtà quelle di un salariato?
- che il figlio minore era andato via per sfuggire a questa vita
faticosa?
Come nella prima parte, il narratore riporta i fatti laconicamen-
te, ma il lettore non può non leggere l'informazione senza quello che
è stato detto del figlio minore, costretto ad andare nei campi per
poter avere qualche soldo e di conseguenza da mangiare:

V. 15 - il figlio minore v. 25 - il figlio maggiore


allora andò e si mise a servizio di uno
degli abitanti di quella regione, che lo
mandò nei campi a pascolare i porci il figlio maggiore si trovava nei campi

Se il figlio minore era partito per evitare di lavorare i campi, la


sua vita di prodigo ve lo aveva riportato, e in una situazione degra-
dante - con degli animali impuri! Ma l'annotazione relativa al figlio
maggiore (<<si trovava nei campi») segnala anche, indirettamente,
che la ricchezza del padre non implica il dolce far niente, anche per
i figli. Il dialogo dei vv. 29-32 è così già narrativamente preparato.
La sorpresa del figlio maggiore nel sentire la musica e le danze
non è la stessa del lettore, già avvertito dal narratore che si è comin-
ciato a far festa (cf. v. 24b). Ma lo stesso lettore non può non essere
198 Capitolo 6

sorpreso per un'altra ragione, perché se il racconto fin qui è stato


pieno di silenzi, questo è enorme: perché il padre non ha mandato
subito a cercare il figlio maggiore nei campi per avvertirlo del ritor-
no del fratello? Ancora peggio: perché ha voluto che si cominciasse
la festa senza di lui? Si deve vedere in questo una mancanza di
amore, di delicatezza, una dimenticanza dovuta all'immensa gioia
dell'incontro? Nessuna di queste ragioni psicologiche è da esclude-
re, ma il narratore impedisce al lettore di decidere quale sia quella
giusta. Il seguito del racconto, con le rimostranze del figlio maggio-
re, potrebbe del resto favorire un'altra interpretazione: il figlio mag-
giore aveva senz'altro detto al padre che cosa pensava dell'agire del
fratello, e il padre, desideroso di restituire a quest'ultimo la sua
dignità, non può onestamente invitare l'altro, che non può né vuole
prendere in considerazione una conclusione simile. Indipendente-
mente da queste ipotesi, dobbiamo notare ancora una volta che l'as-
senza del figlio maggiore è un artificio narrativo la cui funzione è di
mostrare che la decisione viene dal solo padre e che è irreversibile;
il figlio maggiore può soltanto unirsi alla festa, cioè condividere le
scelte del padre, o al contrario rifiutarle e ribellarsi. In breve, il rac-
conto mette il figlio maggiore davanti a un fatto compiuto, allo scopo
di provocare la sua reazione, perché, come abbiamo visto con lo stu-
dio della composizione, questa parabola è condotta in modo tale che
le reazioni degli attori si manifestino progressivamente e apertamen-
te, attraverso la parola; sono esse che devono interessare il lettore e
obbligarlo a interrogarsi sui suoi propri valori.
La scena finale (cf. vv. 29-32) alterna i punti di vista del figlio
maggiore (cf. vv. 29-30) e del padre (cf. vv. 31-32). Il testo, quindi, fa
sì che il figlio maggiore possa esprimere il suo rammarico. Attraver-
so le sue recriminazioni, il lettore apprende come egli sia stato fede-
le per tanti anni - soprattutto mentre il figlio minore si dava alla
bella vita. La tecnica è quella messa in evidenza sopra, la synkrisis,
che permette al tempo stesso di mettere a confronto la condotta dei
figli e il modo in cui il padre - secondo il figlio maggiore - ha sanzio-
nato il loro rispettivo comportamento. Non dimentichiamo che, nella
tavola seguente, il punto di vista è quello del figlio maggiore.
Il racconto come teologia... 199

condotta dei figli retribuzione paterna

figlio ti servo da tanti anni non mi hai mai dato un ca-


maggiore non ho mai trasgredito un pretto per far festa con i miei
tuo comando amici
figlio minore tuo figlio ha divorato i tuoi a- per lui hai ammazzato il vitel-
veri con le prostitute lo grasso

Come indica la tavola, il figlio maggiore comincia parlando di


sé; ciò significa evidentemente che assume se stesso come punto di
riferimento! Egli riassume la sua condotta in tre punti: 1) una vita di
servizio, 2) esemplare, pienamente fedele 3) per tutto il tempo. Si
sarà notato certamente che egli non considera il tempo trascorso
sotto il segno della vicinanza paterna, della gioia di essere rimasto
col padre o della tenerezza e dell'amore reciproco, ma considera i
loro rapporti solo in termini di legge (paterna), cioè di obbedienza ai
comandamenti e di conseguente retribuzione: io ti ho fatto del bene
e tu mi devi la ricompensa, ti ho fatto del male e merito la tua puni-
zione. Senza dubbio questa visione della vita familiare è incompleta
e di parte: ci troviamo di fronte a un giovane che descrive la sua esi-
stenza di figlio come uno schiavoP Non ha forse anch'egli bisogno
di convertire il suo modo di vedere?
In realtà la tavola mostra che la situazione è più complicata. Il
figlio maggiore menziona, dei rapporti col padre, solo i suoi doveri e
i suoi diritti a causa di ciò che ha appena sentito dalla bocca del
servo, cioè che il padre ha trattato sontuosamente colui che ha dila-
pidato il suo patrimonio. L'opposizione, e quindi l'ingiustizia, delle
retribuzioni viene ben evidenziata:
- io ho fatto bene tutto e non mi hai dato niente,
-lui ha fatto tutto male e gli hai dato tutto.
La recriminazione del figlio maggiore è tipica delle persone
fedeli, che si domandano a che cosa serva affaticarsi se poi l'autori-
tà si mostra così indulgente verso i grandi criminali e gli imbroglioni
matricolati. Come dice il proverbio, la virtù esige di essere incorag-

12 Il verbo greco utilizzato dal figlio, douleuein, connota, a seconda dei contesti, il ser-
vizio o la schiavitù. Qui il narratore gioca evidentemente su questa duplice connotazione.
200 Capitolo 6

giata. È giusto e pedagogicamente corretto dire a un figlio che ha


dilapidato con perfetta cognizione di causa il patrimonio della fami-
glia: «Vieni, figlio mio, e non parliamone più»? La misericordia non
è in tal caso sinonimo di debolezza? Non spinge a una vita facile e
libertina?
Infine, la protesta del figlio maggiore non è così fuori luogo
come si potrebbe pensare. E gli stessi scritti sapienziali biblici racco-
mandano al padre di punire i figli per il loro bene, perché non c'è
peggiore educazione della debolezza:

Pr 3,12: «Figlio mio, non disprezzare l'istruzione di YHWH e non ti


stancare dei suoi rimproveri, perché YHWH corregge chi ama, come
un padre il figlio prediletto».
Pr 13,24: «Chi risparmia il bastone odia suo figlio, chi lo ama è pronto
a correggerlo».
Pr 19,18: «Correggi tuo figlio finché c'è speranza, ma non ti trasporti
l'ira fino a ucciderlo».
Pr 29,17: «Correggi il figlio e ti farà contento e ti procurerà consolazio-
ni».
Sir 42,1.5: «Non ti vergognare delle cose seguenti [...] di correggere
spesso i tuoi figli ... ».

Il figlio maggiore ha quindi dalla sua parte la vecchia pedagogia


umana e le Scritture. L'eccessiva generosità di alcuni genitori spiega
i disordini dei loro figli, e una buona lezione non ha mai fatto male
a nessuno ... E su questo punto, checché ne dicano i commentatori
che non hanno capito molto delle tecniche lucane, il figlio maggiore
e il minore ragionano allo stesso modo. Quando rientra in se stesso,
il figlio minore sa in effetti che il ritorno a casa non avverrà senza
che ne segua una sanzione: avendo abusato dei suoi privilegi di figlio
- avere del denaro e poterlo spendere senza misura - il rimedio è
dargli una punizione proporzionata. Il maggiore avrebbe apprezzato
il ragionamento del minore ... I due riflettono secondo gli stessi cri-
teri, nel senso che vedono la retribuzione proporzionata alla condot-
ta che si suppone debba sanzionare: la ricompensa per chi ha agito
bene, la punizione per chi ha agito male. Il maggiore si sentiva quin-
di in diritto di sperare una ricompensa in rapporto alla sua fedeltà,
così come il minore aveva ragione di aspettarsi di essere privato dei
suoi privilegi.
Il racconto come teologia... 201

Qual è dunque la differenza tra i fratelli? Innanzitutto a livello


del comportamento. Anche il tono che adottano non è lo stesso:
quello del minore è umile, quello del maggiore, invece, arrogante.
Ma in questo sono entrambi fedeli al personaggio che rappresenta-
no: il colpevole ha sempre interesse a riconoscere i suoi torti e a umi-
liarsi, mentre chi è dalla parte della ragione in genere lo proclama
alto e forte: quanti figli obbedienti, di fronte alla debolezza dei loro
genitori nei riguardi di un fratello o una sorella licenziosi, non hanno
ripetuto le parole che Luca mette sulla bocca del figlio maggiore
della parabola! Altra differenza tra i fratelli: uno, non avendo nulla
da perdere, ha la faccia tosta di ritornare dal padre, mentre il secon-
do, forte della sua fedeltà, rifiuta di unirsi alla sua famiglia. Proprio
questa è infatti la differenza che li separa: il minore, pur sapendosi
non più degno di essere figlio, continua a dire «padre», presagendo
vagamente - o esattamente - che sarà trattato con clemenza, mentre
il maggiore, anche se è da sempre presso il padre, non lo vede più
così. È l'immagine del padre, immagine paterna forgiata a partire da
schemi basati sulla retribuzione, che gli impedisce di comprendere le
ragioni e le scelte del padre reale. È perciò invitato ad aprirsi alle vie
di questo padre, e il lettore con lui.

Il padre, le sue reazioni e i suoi valori

All'inizio della parabola, il padre resta fuori scena. Dividendo i


suoi beni tra i figli, egli non fa che permettere le trasformazioni suc-
cessive. Ma se da una parte si dice che ha un patrimonio, dei salaria-
ti e che nella sua casa si mangia in abbondanza, nulla si sa dei suoi
sentimenti e dei suoi valori, fino a quando il figlio minore arriva in
vista della tenuta familiare. È precisamente in questo momento che
il personaggio del padre prende consistenza. Il narratore raggiunge
qui il vertice della sua arte, tanto sa opporre con discrezione i calco-
li del figlio minore, basati sulla legge - ho torto, devo perciò rinun-
ziare ai privilegi passati, ma cercherò di ottenere quello che potrò -,
al non-calcolo del padre che, scorgendo il figlio da lontano - segno
evidente che lo aspettava continuamente -, è preso da pietà, corre a
gettarglisi al collo e lo copre di baci. La prontezza e la rapidità con
le quali sono eseguite le azioni sottolineano la forza del sentimento
202 Capitolo 6

interiore segnalato al v. 20b: «Fu preso da profonda commozione».


La successione dei verbi merita di essere rilevata, perché dimostra
che è la pietà, e solo essa, che muove i gesti del padre - correre, get-
tarsi al collo e baciare (cf. v. 29):
[quando il figlio minore era ancora lontano]
il padre lo vide
e fu preso da pietà
[lett.: «da compassione viscerale», gr. esplanchnisthei] e, correndo,
gli si gettò al collo
e lo coprì di baci.

La manifestazione di tenerezza ha la sua origine nel più profon-


do dell'essere, ed è lì che il figlio minore è raggiunto da colui che egli
chiama «padre». Il racconto d'altra parte non dice nulla dei senti-
menti del figlio minore: anch'egli è preso da commozione, trascinato
dalle lacrime, sconvolto dall'inaudita tenerezza del padre? Il raccon-
to non dice nulla per lasciare al breve discorso composto dal figlio
minore (<<Padre, ho peccato... ») tutto il suo peso di ambiguità: vero
pentimento, falso pentimento, calcolo? Probabilmente, un po' del-
l'uno e un po' dell'altro. Ma è l'assenza di calcolo nel padre che deve
attirare l'attenzione del lettore, un padre che non ha aspettato il
grido di pentimento del figlio per correre ad abbracciarlo follemen-
te. Come hanno mostrato le analisi sul figlio minore e sul maggiore,
la parabola non ci propone un percorso sull'essere figlio, ma ci rive-
la piuttosto fin dove arriva la paternità - ma di chi? Di quale padre
si tratta? Di tutti i padri umani? Di Dio Padre e di lui soltanto? È
ancora troppo presto per rispondere. Ascoltiamo innanzitutto le
parole del figlio minore e del padre.
La dichiarazione del figlio minore: «Non sono degno di essere
chiamato tuo figlio» ha un effetto completamente diverso, poiché il
padre lo ristabilisce subito nella sua dignità, senza condizioni né con-
tropartita. La serie degli ordini mira chiaramente a provocare la sor-
presa, perché non solo il figlio riceve degli abiti e potrà mangiare,13

13 I commentatori non mancano di rimandare a dei testi biblici in cui si ritrovano gli
elementi della sequenza dei vv. 22-23; si vedano, tra gli altri, 2Cr 28,15 (rivestire, mettere
dei sandali, dare da mangiare e bere) e Dn 10,3 (dove l'assenza di cibo e di profumo indi-
ca la penitenza e il dolore).
Il racconto come teologia... 203

ma ritrova tutto con eccesso: il vestito più bello, il vitello grasso e la


festa. L'eccesso del dono esprime quello della gioia paterna, che
cerca di essere comunicativa - tutti sono invitati. Sono però le
ragioni, enunciate alla fine, a dare tutto il loro peso agli ordini del
padre. Mi permetto di insistere ancora su questo punto: è dalla
bocca del padre - non del narratore o del figlio minore - che
apprendiamo quale sia il desiderio di un padre, quale sia la felicità
di un figlio, ecc. 14
[Perché] questo mio figlio era morto, ed è tornato in vita, era perduto
ed è stato ritrovato (v. 24a).

Prima sorpresa: il padre non riprende la parola peccato, per sot-


tolinearla: «Se sapessi il male che mi hai fatto!», «Sei pentito del tuo
peccato?». Il figlio minore non avrebbe quindi peccato? Il fatto è che
il padre, più che all'offesa arrecatagli, pensa alle sue conseguenze per
il figlio, alla morte che lo privava del proprio figlio! Ecco come
ragiona un padre. Seconda sorpresa, consolante se mai: il discorso
paterno non considera affatto le ambigue motivazioni che hanno
spinto il giovane a ritornare; poco importa che egli sia ritornato per
ragioni non proprio nobili, per calcolo o perché spinto dalla fame;
per il padre conta una sola cosa: che egli ora sia lì e che possa recu-
perarlo alla vita, alla gioia di figlio. Apprendiamo poi che durante
tutto il tempo della separazione il padre ha sempre considerato il
giovane come suo figlio; in nessun momento lo ha ripudiato e i segni
di affetto al suo ritorno indicano certamente che l'attesa è stata
dolorosa, mai però piena di amarezza o di irritazione. La filiazione
non era perciò legata al merito, ma veniva da una decisione paterna
intangibile, era una condizione che non si poteva perdere: tu sei e
resterai mio figlio, dovunque tu sia andato e qualsiasi cosa tu abbia
fatto. Apprendiamo anche che la separazione fu per il figlio una
morte; infatti, il padre non dice: «Lo credevo morto e invece è vivo»,
ma: «Era morto ed è tornato in vita». C'è stato un passaggio. È qui

14 È molto utile distinguere, a livello metodologico, chi (narratore, quale attore) dice
che cosa, e in che punto del racconto (inizio e/o fine), perché l'effetto di significato non è
mai lo stesso.
204 Capitolo 6

che si riconosce la paternità di questo uomo, che dice di volere la vita


e afferma che il dono più bello che il figlio ha ora, lì, davanti a lui, è
la vita, ma non una vita qualsiasi, bensì quella di un figlio ritornato
da suo padre, di un figlio che ora sa di essere rimasto figlio anche
durante il suo vagabondare, amato oltre ogni sua immaginazione; il
suo ritorno era stato un lungo cammino verso questa vita, senza che
allora egli nemmeno lo sapesse, molto al di là dei suoi calcoli. Il testo
non dice da quale morte sia stato colpito - questo rientra nei suoi
silenzi; ma il lettore può facilmente indovinarlo, e io non mi sostitui-
rò a lui.
Apprendiamo infine dalla bocca del padre che la paternità non
consiste soltanto nel mettere al mondo i figli e dar loro un tetto; essa
ha ben altre dimensioni. Essere padre significa anche non imporre la
propria presenza, ma aspettare, accogliere. Se il figlio minore ha
capito di essere figlio soltanto di fronte a un padre accogliente, che
lo ha così aperto alla vera libertà e alla dignità filiale, da parte sua il
padre ha potuto rivelare le dimensioni estreme della sua paternità
solo perché il figlio prodigo è ritornato. Forse per questo il padre
intonerà il felix culpa? Attenzione a non sbagliarsi sulla logica del
racconto: in nessun momento il padre dichiara: «Oh, figlio mio, hai
fatto proprio bene ad andartene lontano e darti alla bella vita, così
ho potuto mostrarti la mia misericordia». In realtà l'accento viene
posto sul ritorno, sull'«è vivo», «è stato ritrovato». Ciò che il figlio ha
fatto bene a fare è stato di voler tornare, di osare presentarsi davan-
ti al padre, quali ne siano state le ragioni! Non ha disperato del
padre, il che lo ha salvato e lo ha aperto all'immensità del suo amore.
Alle recriminazioni del figlio maggiore, il padre risponde soltan-
to: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo» (v. 31).
Notiamo innanzitutto che non respinge come infondata, cattiva o
fuori luogo la concezione che il figlio maggiore si fa della retribuzio-
ne: «Non hai capito niente», «Ciò che conta per me non è la fedeltà
o il servizio», ecc.
Dice semplicemente di essere stato obbligato a superare questo
tipo di prospettiva: «Bisognava far festa e rallegrarsi»; e ciò a causa
del ritorno del fratello. Il padre invita il figlio maggiore a entrare in
un'altra logica, quella di un padre per il quale conta prima di tutto il
ritorno alla vita del proprio figlio, quella di un fratello che dovrebbe
Il racconto come teologia... 205

rallegrarsi di ritrovare colui senza il quale egli stesso non sarebbe più
fratello; il padre infatti gli ha restituito suo fratello!
Se la motivazione finale ci informa che, per questo uomo, la gioia
più grande, il colmo della paternità è di vedere dei figli che si ricono-
scano fratelli, quelle che precedono arricchiscono già la rivelazione
che egli fa del suo essere padre. Dice infatti al figlio maggiore: «Tutto
ciò che è mio è tuo». Il suo essere padre consiste nel condividere
tutto con i propri figli, nel non custodire nulla gelosamente. Anche
qui salta agli occhi l'assenza di calcolo. Se l'immagine che il figlio
maggiore si fa di lui è quella di un uomo tirchio o poco riconoscente
- «non mi hai dato mai un capretto}} -la ragione sta nel fatto che egli
stesso non ha voluto o osato vivere di questa liberalità, ha avuto
paura di suo padre, paura di chiedere... Ma il padre gli indica ora che
questa immagine non ha più ragion d'essere e che devono rallegrar-
si, fare festa insieme. Rispettando le paure e le concezioni che il figlio
ha della giustizia, il padre si mostra ancora infinitamente padre; la
sua pazienza si è così esercitata per entrambi i figli, per quello che era
stato per lungo tempo assente e per quello che era rimasto sempre
presente, ma non per questo lo aveva conosciuto meglio.

Personaggi tipo e loro funzione

La parabola apre quindi entrambi i figli - ma anche e soprattut-


to il lettore - a un tipo di paternità sorprendente. Il nostro interro-
gativo può perciò prendere nuovi sviluppi: quale padre descrive la
parabola? Vuole essa fornire in questo uomo un esempio di ciò che
dovrebbe essere ogni paternità quaggiù? Ma le obiezioni sollevate
dal figlio maggiore, che ha dalla sua parte sia una sapienza secolare
che le Scritture, mostrano che, se tutti i padri di famiglia si compor-
tassero come quello della parabola, i risultati sarebbero disastrosi.
Dando un colpo di spugna sul passato, senza spiegazione, senza
messa a punto, senza condizione ecc., un padre umano si esporrebbe
egli stesso, e tutta la famiglia con lui, alla rovina, né aiuterebbe il pro-
prio figlio a crescere nella libertà. In realtà, il padre descritto dalla
parabola rappresenta Dio Padre, e lui soltanto, che si rallegra per il
ritorno dei peccatori, cercando, soprattutto attraverso il perdono, di
farli entrare nel suo disegno misericordioso, in questa logica folle, e
206 Capitolo 6

per questo al di fuori della nostra portata. Quanto ai due figli, che
ragionano secondo gli stessi principi a livello della retribuzione,
anche se a partire da comportamenti diametralmente opposti, essi
rappresentano ciascuno una parte della nostra umanità, gli infedeli e
i fedeli, i giusti e i peccatori. La tecnica del narratore consiste pro-
prio nel portare le persone fedeli e obbedienti a conformarsi alle vie
di Dio, a rallegrarsi del fatto che i peccatori siano stati perdonati e
reintegrati nella loro dignità di figli. Non dimentichiamo infatti che
il padre esce ed esorta il figlio maggiore a unirsi a quelli che fanno
festa (cf. v. 28): la parabola si rivolge a coloro che sono fedeli. Questa
tipologia degli attori si basa evidentemente sulle analisi narrative
che ho fatto, ma anche sul finale delle due parabole precedenti (cf.
vv. 7.10) e soprattutto sui primi due versetti del capitolo, dove i fari-
sei e gli scribi mormorano nel vedere Gesù che accoglie i peccatori
e mangia con loro.
Ho detto che qui il padre rappresenta Dio soltanto. Ma il con-
fronto con le due parabole precedenti non indica forse il contrario?
Gesù infatti fa là appello a due esperienze umane, quella del pasto-
re e quella della casalinga: «Chi di voi, se ha cento pecore... » (v. 4) e
«Quale donna, se ha dieci dramme ... ». Perché non dovrebbe essere
lo stesso con il padre della parabola? Lungi da me l'affermare che
questo attore non ha dei tratti che si incontrano in molti genitori, a
cominciare dalla pazienza e dalla misericordia. Ma il racconto non
vuole fornire programmi o strategie educative; la sua presentazione
del padre, con le sue reazioni e le sue parole, procede per eccesso,
proprio per sconvolgere le nostre idee sulla giustizia e la retribuzio-
ne, messe sulle labbra del figlio maggiore. Il racconto infatti termina
con l'interpretazione del padre, non con l'accordo o l'entrata del
figlio maggiore nella sala del banchetto. Si sarà notata in proposito
la rottura del parallelismo tra le due parti:

v.24 v.32

(il padre): «Questo mio figlio era (il padre): «Questo tuo fratello era
morto ed è tornato in vita, era perdu- morto ed è tornato in vita, era perdu-
to ed è stato ritrovato». to ed è stato ritrovato».
E cominciarono a far festa.
Il racconto come teologia... 207

Il figlio maggiore è entrato, ha abbracciato suo fratello, ha


festeggiato il suo ritorno? Il narratore non lo dice, perché questa è la
decisione che gli ascoltatori (farisei, scribi) e il lettore devono pren-
dere, senza che si possa forzarli, perché la necessità alla quale fa
appello il padre lascia intatta la nostra libertà. Il «bisognava» della
festa e della gioia viene dal cuore stesso di Dio, che non può non
comunicare ai suoi figli dignità e gioia: il fatto che il padre abbia
avuto tanta fretta di festeggiare, senza indugio e con tutta la sua casa,
il ritorno alla vita del figlio, mostra che il «bisogna» è quello del-
l'amore estraneo a ogni calcolo, del perdono senza condizioni. I prin-
cipi del figlio maggiore e del figlio minore passano attraverso il cal-
colo, quello della retribuzione, una giustizia che il padre non respin-
ge, ma che capovolge in nome di un altro principio, che viene questa
volta dal cuoreP5
Se ciascuno dei protagonisti ha una funzione tipica - il padre
rimanda a Dio, il figlio minore ai peccatori e il maggiore ai giusti -,
non è tuttavia senza interesse notare come il narratore, con molta
finezza, mescoli un po' le carte. Così il figlio minore è un gaudente
disposto a tutto per sopravvivere, ma che sa anche utilizzare, nel
momento opportuno, il discorso religioso; il figlio maggiore, da parte
sua, ne sa più del padre - che pure è Dio - sulla giusta retribuzione
e sull'educazione; e il padre, che, come ho detto, rappresenta Dio, ha
delle reazioni e parole che vengono dal cuore; dei tre protagonisti, è
lui il più umano - raramente un narratore ha mostrato così bene
['umanità di Dio!
Rimane un altro interrogativo: il lettore di oggi non può non
notare l'assenza della madre; nella parabola il polo femminile è rap-
presentato, in modo poco brillante, dalle prostitute: il racconto
vedrebbe quindi la donna solo in rapporto con il piacere e la dissolu-
tezza? È chiaro che la componente femminile non è assente dal capi-
tolo, poiché la seconda parabola descrive una donna che cerca assi-
duamente la sua dramma perduta. E se viene preso un padre per darci
un esempio di misericordia, non è perché una madre non avrebbe

-----

15 Il verbo greco esprime lo sconvolgimento che viene dal più profondo dell'essere -le
viscere -, che è al tempo stesso compassione, pietà, tenerezza, e apre a ogni indigenza.
208 Capitolo 6

pietà del figlio come un padre - e più di lui -, ma perché il contesto


descritto dalla parabola è quello del diritto familiare (il contesto giu-
ridico ha le sue regole). Al padre spettava vegliare sull'educazione dei
figli, castigarli, dividere fra loro l'eredità dando di più al maggiore,
assumere e pagare i salariati, ecc.: nel diritto familiare di allora la
legge era quella del padre, ed è in rapporto a questa legge patema che
il racconto descrive le diverse concezioni che gli uni e gli altri hanno
della punizione e della ricompensa, specialmente in funzione del
modello biblico sapienziale. Più che la componente maschile, il testo
mette in evidenza il suo ruolo, non senza del resto sovvertire !'imma-
gine trasmessa dalla tradizione,16 nella misura in cui il padre della
parabola ha le reazioni di una madre; ci si ricordi dei bei passi di Isaia:
si dimentica forse una donna del bambino delle sue viscere... ?
Oltre a questo aspetto culturale, anche il linguaggio teologico ha
avuto la sua influenza, nella misura in cui Dio è «il Padre celeste»
che fa cadere la sua pioggia sui buoni e sui cattivi, il Padre di nostro
Signore Gesù Cristo e, per questo, il Padre dei battezzati. È giocan-
do su tutte le possibili variazioni del ruolo paterno che il racconto si
costruisce e si applica a diversi livelli.

LA PARABOLA NEL MACRO-RACCONTO. L'INTERTESTUALITÀ LUCANA

Le parabole sulla misericordia di Lc 15

I parallelismi esistenti tra le tre parabole di Lc 15 mostrano,


come abbiamo visto, !'importanza della synkrisis nel racconto luca-
no. E, a dire il vero, alcune analogie, che però bisogna fare attenzio-
ne a non forzare, indicano un altro tipo di composizione, questa volta
alternata:
a = il pastore dalle cento pecore - ne perde una, si mette alla sua
ricerca, e la ritrova;
b = la donna dalle dieci dramme - ne perde una e rovista dap-
pertutto, e la ritrova;

16 Per le stesse ragioni (il contesto del diritto familiare) non bisogna enfatizzare l'as-
senza di figlie.
Il racconto come teologia... 209

A = il padre, il cui figlio minore era perduto ed è ritrovato;


B = il padre invita suo figlio maggiore a rallegrarsi per il fratel-
lo minore perso e ritrovato.
Gli episodi a e A hanno in comune la supposizione di un erra-
re in terra lontana, mentre gli episodi b e B avvengono in casa o
davanti alla porta. Ma niente, dal punto di vista narrativo, autoriz-
za a concludere, con l'uno o l'altro commentatore, che il figlio mag-
giore sia perduto, come la dramma. Il padre non gli dice che egli sia
stato - o è - perduto, ma invita anche lui, che condivide tutti i suoi
beni, a rallegrarsi per il ritorno del fratello perduto. La sfumatura è
importante. Altra differenza: se, in a e b sono il pastore e la donna
che partono alla ricerca dell'attore perduto e dicono ai loro amici
che l'hanno (ri)trovato, in A e B, al contrario, il padre non parte
per il paese straniero per cercare di ritrovare il figlio minore, né
dice: «l'ho (ri)trovato», ma «è stato ritrovato»; nemmeno va nei
campi per avvertire il figlio maggiore; però, quando essi sono sulla
strada del ritorno, nelle vicinanze di casa, il padre esce ogni volta
per accoglierli.
Questa differenza deriva senza dubbio dal fatto che la pecora e
la dramma non sono attori umani, che possano avere desiderio di
ritornare e/o di convertirsi. Ma allora, qual è la pertinenza delle
prime due parabole, apparentemente contraddittorie? Com'è possi-
bile scegliere una pecora o una dramma come esempi di «peccatori
che si convertono» (cf. vv. 7 e lO)? Le pecore sono stupide - basta
che una cominci a correre e tutte le altre le vanno dietro - ma non
certo peccatrici; quanto alle monete, non sono esse che si perdono,
ma noi che le perdiamo.
L'esegesi ha, in un recente passato, attribuito la contraddizione
tra le parabole (cf. vv. 4-6; vv. 8-9) e la loro rispettiva morale (cf. vv.
7 e lO) a strati redazionali diversi: le parabole a Gesù e le conclusio-
ni alla Chiesa primitiva.
Ma questo significa tenere in poco conto la strategia narrativa di
questi tre racconti, in cui l'insistenza non viene posta sul desiderio di
conversione, ma sul desiderio e sull'agire di Dio, che va alla ricerca
dei suoi figli perduti e che vuole la festa e la gioia.
210 Capitolo 6

Lc 15: i suoi antecedenti e la sua portata

Gesù racconta le tre parabole di Lc 15 perché i farisei e gli scri-


bi si scandalizzano nel vedere che accoglie i peccatori e mangia con
loro. Ma non è la prima volta che egli si trova in compagnia dei col-
lettori di tasse - i pubblicani - e dei peccatori.
Fin dall'inizio del suo ministero sceglie uno di loro, Levi, e accet-
ta di partecipare al banchetto che quest'ultimo prepara in suo onore,
provocando già i mugugni degli stessi attori (cf. Lc 5,27-32). Il paral-
lelismo merita di essere brevemente commentato:

Le 5,27-32 Le 15,1-2.7

[Gesù] vide un pubblicano di nome


Levi seduto al banco delle imposte, e
gli disse: «Seguimi!». Egli, lasciando
tutto, si alzò e lo seguì.
Levi gli preparò un grande banchetto
nella sua casa...
...
e c'era una folla di pubblicani e d'al- Si avvicinavano a lui tutti i pubblica-
tra gente seduta con loro a tavola, ni e i peccatori per ascoltarlo.
I farisei e i loro scribi mormoravano I farisei e gli scribi mormoravano:
e dicevano ai suoi discepoli: «Perché «Costui riceve i peccatori e mangia
mangiate e bevete con i pubblicani e con loro».
i peccatori?».
Gesù rispose: «Non sono i sani che Allora [Gesù] disse loro questa para-
hanno bisogno del medico, ma i mala- boIa: «[ ...] ci sarà più gioia in cielo
ti; io non sono venuto a chiamare i per un peccatore convertito, che per
giusti, ma i peccatori a convertirsi». novantanove giusti che non hanno
bisogno di conversione».

Se si fa eccezione per la vocazione di Levi, gli attori e la sequen-


za degli avvenimenti sono ogni volta gli stessi: 1) pubblicani e pecca-
tori si avvicinano a Gesù, 2) questo provoca i mugugni dei farisei e
degli scribi 3) e la spiegazione finale di Gesù. Ora, in ciascuna delle
due situazioni, è il comportamento di Gesù che fa problema: egli
accoglie i peccatori e mangia con loro. Certamente si obietterà che i
farisei e gli scribi hanno l'arroganza dei benpensanti; può darsi, ma
se essi non frequentano i pubblici peccatori non è in nome di regole
sociali o per riflessi di classe, ma perché così prescrivono le Scrittu-
Il racconto come teologia... 211

re: è vietato frequentarli, avere a che fare con loro, associarsi a loro
nei processi, eccY È su questo sfondo biblico che si può comprende-
re che cosa abbia di provocante, o addirittura di scioccante, non la
risposta di Gesù: «Sono venuto a chiamare i peccatori a convertirsi»,
ma il suo modo di procedere: invece di rimproverarli, di biasimarli,
come Giona a Ninive o Giovanni Battista sulla riva del Giordano,
mangia e fa festa con loro.
I parallelismi della tavola sollevano un problema sulla situazio-
ne retorica degli ascoltatori e, di conseguenza, sulla strategia del rac-
conto. Il lettore infatti non può non constatare che da Lc 5 a Lc 15 le
élite del popolo d'Israele non sembrano aver fatto alcun progresso
nella comprensione della missione di Gesù. Il narratore vuole forse
far comprendere che ciò deriva dalla loro cecità e dalla loro cattiva
volontà? O che la missione di Gesù è talmente inaudita che rimane
al di fuori della portata di tutti i nostri schemi sulla retribuzione?
Il racconto risponde positivamente alle due domande, perché,
da una parte, Gesù stigmatizza la resistenza delle élite, che, a diffe-
renza dei peccatori, non hanno riconosciuto la giustizia di Dio:
È venuto Giovanni il Battista che non mangia pane e non beve vino, e
voi dite: «Ha perso la testa». È venuto il Figlio dell'uomo che mangia e
beve, e voi dite: «Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani
e dei peccatori» (Lc 7,33-34).

Dall'altra, egli non si limita a stigmatizzare i rifiuti alla conver-


sione, con esempi concreti, ma cerca anche di far entrare scribi e fari-
sei nelle motivazioni, negli effetti e nelle poste in gioco delle sue
scelte. Lo fa appoggiandosi sulla nostra esperienza umana più pro-
fonda e più comune, per radicalizzarla e mostrare come essa possa
dirci qualcosa di inaudito di Dio. Così dichiara: «Chi di voi non lasce-
rebbe le novantanove pecore nel deserto per andare a cercare la
centesima?». Certo, un pastore degno di questo nome ama e vigila
sul suo gregge, chiama per nome tutte le bestie, che, da parte loro,
riconoscono la sua voce; ma proprio perché egli sa fin dove può arri-
vare il loro istinto gregario, mai abbandonerà o lascerà sole tante

I7 I testi sono abbastanza numerosi. Cf. ad es. Es 23,1; Sal 1,1; 26,5; Pr 4,14.
212 Capitolo 6

pecore, pena lo smembramento di tutto il gregge e il rischio di peri-


re. Perché mai Gesù forza la misura e procede per esagerazione?
Molto semplicemente perché solo questa può riflettere l'eccesso
della misericordia divina. La funzione di Lc 15 - e si comprenderà
come il viaggio a Gerusalemme, con la cristologizzazione che favori-
sce, sia stato un tempo ideale per questo - è perciò quella di invita-
re gli ascoltatori e il lettore a percepire che il ministero di Gesù può
essere compreso solo a partire da questo eccesso, che viene da Dio
stesso. Gesù non è perciò solo l'enunciatore di queste parabole;
attraverso di esse ci parla anche del suo comportamento, delle sue
scelte, e ci chiede di riconoscere in esse quelle di Dio suo Padre. Le
15 sottolinea, se ce ne fosse stato bisogno, l'unità della scrittura luca-
na (cf. c. 3), perché è nel coinvolgimento di se stesso come araldo che
Gesù rende testimonianza al vangelo di Dio.
Le parabole di Lc 15 si offrono quindi alla meditazione di colo-
ro che ben conoscono la Bibbia e quanto essa dice sul modo di trat-
tare i peccatori, ma non sono l'ultima parola del narratore sulla que-
stione; infatti l'episodio di Zaccheo (cf. Lc 19,1-10) riprende, con una
reale progressione, questi racconti parabolici: 18

Lc15 Le 19,1-10

collettori di tasse e peccatori intorno Gesù si fa invitare da un collettore


a Gesù d'imposte
farisei e scribi mormorano: tutti mormorano:
«Costui accoglie i peccatori» «È andato ad alloggiare da un pec-
catore»

risposta di Gesù: risposta di Gesù:


«Ho ritrovato la mia pecora perduta» «Sono venuto a cercare e salvare ciò
che era perduto»

«mio figlio» «figlio di Abramo»


festa di tutta la casa gioia (di Zaccheo)

Tra i due episodi la progressione è netta. Mentre in Le 15 Gesù


lascia che tutti i peccatori vengano da lui, in Le 19 egli stesso si invita

18 Su questi parallelismi, si veda ALETIl, L'arte di raccontare, 17-34.


Il racconto come teologia... 213

a casa di un peccatore ben noto; in Lc 15 solo i farisei e gli scribi mor-


morano, in Lc 19 è invece tutta la città, almeno tutte le persone pre-
senti, indipendentemente dal gruppo religioso di appartenenza; in Le
15 colui che cerca e trova è un attore della parabola, in Le 19 è inve-
ce Gesù stesso che passa di là per cercare e trovare Zaccheo, colui che
era perduto; in Le 15, inoltre, un giovane ritrova la sua dignità di figlio
in un racconto fittizio, mentre in Le 19 è dalla bocca stessa di Gesù che
Zaccheo si sente dire che è figlio di Abramo. Non c'è dubbio che le
parabole di Le 15 preparano l'episodio dell'incontro tra Gesù e Zac-
cheo, che sottolinea, se mai ce ne fosse bisogno, come il ministero di
Gesù metta in atto il disegno misericordioso di Dio. È tutta la sezio-
ne del viaggio verso Gerusalemme 19 che si trova così a essere propo-
sta come una venuta verso i peccatori, come una preoccupazione
costante di cercare e ritrovare colui che era perduto, come un invito a
entrare nella famiglia di Dio, a ricevere la dignità di figli. La ripresa
degli stessi motivi - accoglienza dei peccatori, lamentele, invito a far
proprie le scelte di Gesù, che sono le stesse di Dio - non è pura ripe-
tizione, ma una tecnica narrativa di approfondimento cara a Luca.
In Le 15, proprio come in Le 19, le frasi sulle quali si basa l'in-
terpretazione di Gesù provengono dalle Scritture, in particolare da
Ez 34, che è una diatriba contro i pastori d'Israele. Le reminiscenze20
sono così nette che certamente non sfuggono allettare attento:
Così dice il Signore Dio: «Guai ai pastori d'Israele, che pascono se stes-
si! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte,
vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate
il gregge. Non avete reso la forza alle pecore deboli, non avete curato
le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le
disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite... ».

Anche la permanenza del figlio minore in una regione lontana


ha il suo punto di appoggio in Ez 34, dove, dopo aver fustigato i capi

19 AI narratore piace parlare di viaggi durante quello di Gesù verso Gerusalemme,


per indicare che quest'ultimo viaggio non è soltanto fisico: si tratta di un esodo in tutti i
sensi del termine.
20 Per evocare un evento che ha avuto luogo in un tempo precedente a quello del
racconto, o anche per designare scritti (narrativi o non) anteriori, ai quali un episodio fa
allusione, i narratologi utilizzano il termine analessi.
214 Capitolo 6

del popolo che hanno cura solo di se stessi e lasciano il gregge in


stato di abbandono, l'oracolo annunzia, in termini positivi, l'opera di
Dio (vv.lls):
Così dice il Signore Dio: «Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne
avrò cura [...],le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse [...]. Le
ritirerò dai popoli e le radunerò da tutte le regioni. Le ricondurrò nella
loro terra e le farò pascolare sui monti d'Israele [...]. lo stesso condur-
rò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore
Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella
smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata... ».

Bisognerebbe citare tutto il capitolo, tanti sono gli echi che si


trovano in Lc 15 e 19. Ma più che sottolineare la colpa delle élite
religiose, il narratore lucano mostra chiaramente che Gesù è colui
attraverso il quale Dio viene ora a cercare le pecore perdute e a
riportarle alla vita. Raccontando queste parabole, Gesù riprende
tutta la storia d'Israele, nella sua lunga attesa della salvezza. Ma è
anche tutto il ministero di Gesù, e perfino tutto il racconto, che tro-
vano la loro traiettoria in un'estensione, come vedremo, sempre più
grande.

I due figli: Israele e le nazioni?


L'interpretazione più ovvia della parabola del padre e dei due
figli, quella che prende in considerazione la situazione (cf. Lc 15,1-2)
e il contesto più ampio (cf. Le 5,27-30 e 19,1-10) del macro-racconto,
ma anche le allusioni bibliche (cf. Ez 34), consiste nel fare del figlio
minore il rappresentante dei peccatori e del maggiore quello dei giu-
sti, gli uni e gli altri membri del popolo eletto. Ma storicamente, si sa,
questa parabola è stata proiettata in un contesto più ampio, in cui il
figlio minore simboleggiava le nazioni pagane e il maggiore Israele.
Possiamo chiederci se un tale ampliamento sia autorizzato dalla
dinamica della parabola e si situi nella stessa direzione del macro-
racconto (Luca e Atti).
Nel capitolo precedente abbiamo visto che, anche se lo spazio in
cui si svolge il ministero di Gesù non va al di là delle frontiere del-
l'Israele di allora, rimane altrettanto vero che la questione dei destina-
tari del vangelo e della salvezza, e quindi del rapporto Israele-nazioni,
Il racconto come teologia... 215

pervade tutta l'opera lucana. Se ne trovano tracce anche nella parabo-


la del padre e dei due figli?
Il contesto prossimo e lontano della parabola fa sì che il lettore
l'applichi più spontaneamente ai rapporti tra i giusti e i peccatori del
popolo eletto. Del resto è vero che prima di partire per un paese lon-
tano, pagano -la presenza di porci lo indica in modo inequivocabile
-, il figlio minore ha la dignità di figlio e che il suo cammino non cor-
risponde esattamente a quello dei pagani, di cui i libri biblici non
dicono mai che avevano fatto parte del popolo eletto prima di allon-
tanarsene per darsi all'idolatria. 21
Il racconto di Le 15,11-32 viene tuttavia narrato in modo tale da
lasciare al lettore un margine di libertà abbastanza ampio, in relazio-
ne alle applicazioni che può farne. In effetti, Luca ha tolto ogni rife-
rimento esplicito al contesto religioso ebraico, alla Legge mosaica;
l'unica frase religiosa, quella del figlio minore - «ho peccato contro
il cielo e contro di te» -, resta generica: certo, il cielo designa la divi-
nità, ma si tratta di un elemento comune a tutte le religioni. Non è
del resto sul livello religioso che il racconto oppone i due figli, anche
se, a differenza del minore, il maggiore sarebbe un eccellente osser-
vante della Legge mosaica, ma nel fatto che uno dei due ha voluto
essere indipendente, si allontana dal padre, approfittando del suo
patrimonio, senza freno né morale. Dopo tutto non va dimenticato
che la parabola culmina nelle scene interpretative (cf. vv. 21-24 e 29-
32), perché è lì che si possono leggere e meditare i valori da correg-
gere o da fare propri.
Il narratore ha fatto in modo che la situazione si applichi ai rap-
porti familiari, di ogni cultura e civiltà, mostrando come in una
determinata situazione, cioè quella di uno dei figli che si rifà vivo
dopo una lunga scappatella, i membri della famiglia, fratelli e padre,
reagiscono, per escluderlo o al contrario per accogliere il redivivo,
per riconoscerlo o meno come figlio e fratello. Ma come si sa è pro-
prio del simbolismo familiare il potersi applicare a contesti diversi,
in particolare religiosi, quando i membri di un gruppo devono vive-
re la filiazione e la fraternità. In rapporto all'insieme dell'opera luca-

21 Tale fu invece la situazione dei samaritani, secondo gli stessi libri biblici.
216 Capitolo 6

na che descrive il progresso dell'evangelizzazione, la tipologizzazio-


ne dei ruoli resta pienamente coerente: si può infatti dire che il
padre, il vero Dio, vuole che i due gruppi, pagani ed ebrei, abbiano
la stessa dignità filiale, senza restrizione né discriminazione alcuna,
anche per coloro che l'hanno riconosciuto molto tempo dopo i loro
«fratelli» ebrei (il figlio maggiore); la sfida lanciata da Dio, il padre,
a questo figlio maggiore obbediente - gli ebrei scrupolosamente
fedeli alla sua volontà, cioè alle regole della Torah -, è che egli rico-
nosca come veri fratelli quelli che vengono da lontano, dal paganesi-
mo: sapranno essi accettare il disegno di Dio che ha voluto che i gen-
tili siano anch'essi pienamente suoi figli, sapranno avvicinarsi a loro
e trattarli da fratelli, ecc.? In breve, le tecniche usate dal narratore
mostrano che questa interpretazione è non solo possibile, ma auto-
rizzata. Questa parabola, racconto dalle molteplici connotazioni, ci
mostra la costanza con la quale Luca ha proceduto e sviluppato le
grandi questioni trattate e, attraverso di esse, ci apre alla sua teoria
del racconto.

AL DI LÀ DEL CONCETIO, IL RACCONTO

L'interesse, o meglio, l'importanza della parabola del padre e


dei due figli sta nel fatto che è l'unico passo in cui Gesù non si limi-
ta a dire che egli deve cercare coloro che sono perduti, ma spiega più
a lungo il tipo di necessità che ha generato e guidato la sua missio-
ne. La portata di questo racconto non va sottovalutata, perché solo
un altro racconto, un racconto nel racconto,22 permette a Gesù di
dire come egli stesso veda e viva il «bisogna», le situazioni estreme
in cui lo porta il suo ministero. Che né lui né Luca riassumano o
riprendano l'esperienza attraverso un concetto, che ci sia quindi solo
un racconto per descrivere il tipo di necessità alla quale egli obbedi-
sce, sottolinea il carattere non ideologico del «bisogna», ma anche il
carattere insuperabile che il racconto ha per Luca.
Il cammino di Gesù, attraverso il «bisognava» della misericor-
dia, della festa per il ritorno dei peccatori, ecc., non ha altra spiega-

22 Chiamato per questa ragione metadiegetieo.


Il racconto come teologia... 217

zione che questa fedeltà di un amore che non può che arrivare
all'estremo. Solo meditando continuamente questa parabola è possi-
bile entrare nella logica paradossale del «bisogna»/«bisognava»,
nella logica e nella coerenza - due parole così spesso legate alla con-
cettualizzazione! - paradossale delle vie di Dio. Forse non è stato
mai detto in modo così appropriato e in modo così pudico come, in
Gesù, Dio racconti la sua avventura di Padre, perché, ascoltandolo,
le nostre orecchie si aprano e noi possiamo comprendere perché il
racconto lucano sia coestensivo alla testimonianza.
CONCLUSIONE
QUALE TIPO DI RACCONTO IN LUCA?

I narratologi si interrogano molto sul carattere popolare dei rac-


conti evangelici. Che in certi episodi sia possibile discernere alcuni
tratti dei racconti popolari, è un dato innegabile. Il secondo capitolo
di questo studio ha ripreso la questione, ancora più attuale per il fatto
che, descrivendo e menzionando numerose apparizioni e visioni,
Luca e Atti sembrano apparentarsi con i racconti popolari. Ma come
abbiamo visto, il racconto lucano nella sua totalità è sostenuto da un
processo di veridizione e di verificazione, e le teofanie non vengono
lì menzionate in primo luogo per mostrare l'irruzione del meraviglio-
so nel nostro mondo, ma per attirare l'attenzione sulle scelte parados-
sali di Dio. Una volta situate nella trama del racconto, tutte le tecni-
che di Luca si rivelano proprio come quelle di un letterato, la cui
opera è ampia e brillante. È anche vero che il carattere episodico del
racconto lucano 1 ha fatto nascere dubbi sulla sua struttura narrativa;
in altri termini, taluni l'hanno considerato come un'opera teologica
con la maschera del racconto. Oggi questo sospetto non ha più ragion
d'essere, non soltanto per i diversi episodi, di cui abbiamo potuto
verificare la bellezza, ma anche per il dittico, che forma una vera e
propria macro-unità narrativa. Mi auguro che questo saggio abbia
messo in evidenza le rare qualità della narrazione lucana.
Quanto alle influenze esercitate su Luca, in primo luogo va men-
zionata la Bibbia greca (LXX), ma, al termine del nostro percorso,

l L'osservazione vale anche per gli altri vangeli.


220 Conclusione

bisogna anche ammettere l'importanza della letteratura ellenistica,


anche se spesso più per la forma che per la sostanza; a questo riguar-
do, non ci sono più dubbi: Luca è un grande scrittore ellenistico.
La consistenza della narrazione lucana - sia detto per inciso a
tutti coloro che fanno di Luca uno specialista di chiasmi - permette
di determinare con certezza le micro-unità che scandiscono il testo,
di scartare le divisioni che non rispettano le diverse istanze o livelli
del discorso. Così, per la parabola del padre e dei due figli il lettore
non deve mancare di cogliere lo sviluppo «climactico»2 che porta cia-
scuna delle parti verso il confronto delle interpretazioni, quella del
figlio da una parte e quella del padre dall'altra, perché in definitiva
ciò a cui esorta Gesù - e Luca con lui - è una riflessione sui valori
espressi da ciascuno dei personaggi:

Le 15,21-24a Lc 15,29-32
interpretazioni del figlio interpretazione del figlio
minore e del padre maggiore e del padre

discorso del figlio minore discorso del figlio maggiore


dichiarazione del padre risposta del padre

Questa parabola è stata scelta per concludere questo saggio


sulle tecniche narrative di Luca e sulla loro importanza teologica,
proprio perché è sintomatica del suo modo di procedere: gli eventi
sono continuamente oggetto di una riflessione, di una ripresa erme-
neutica e teologica, da parte degli attori stessi del racconto. La teo-
logia lucana si nasconde così dietro gli eroi del suo racconto, e se,
come narratore, egli rimane discreto non è né per paura né per astu-
zia - anche se ogni retorica ha la sua parte di astuzia -, ma perché il
racconto resta per lui il luogo oggettivo di manifestazione della veri-
tà e del senso degli eventi. L'operazione di veridizione è proprio il
filo che guida il progetto narrativo lucano.
Non si può perciò negare al dittico lucano la forza retorica che
pretende di avere. Certo, ogni opera di persuasione è determinata

2 Dal termine greco climax, scala; si tratta ogni volta di una salita o di una progres-
sione continua verso il dialogo figlio-padre.
Quale tipo di racconto in Luca? 221

dalla cultura in seno alla quale essa opera; il suo tenore veridiziona-
le dà nondimeno a essa una portata e un interesse sempre attuali.
Esiste pertanto una retorica del racconto - il dittico lucano ne è la
prova irrefutabile. È evidente che queste affermazioni hanno di mira
coloro che rifiuterebbero di chiamare retorica ilil raccontilo di Luca:
è proprio a partire dalla loro articolazione narrativa - e solo a parti-
re da essa - che bisogna percepirne la forza persuasiva.

Unità deL progetto Lucano?

La questione relativa al dittico Luca!Atti è, a livello tecnico,


abbastanza semplice: tutte le analisi effettuate in questo saggio
hanno dimostrato l'unità profonda del progetto narrativo di Luca, e
Tannehill aveva ragione di sottolineare questa unità nella continui-
tà, da Gesù ai suoi discepoli. Il lettore esperto deve aver percepito
nel corso di queste pagine perché bisognava valorizzare questa unità
per altre vie. Ma se l'unità è così forte, perché Luca ha fatto due rac-
conti legati l'uno all'altro, ma nondimeno autonomi? La distinzione
tra il ministero di Gesù e quello dei discepoli dopo di lui - distinzio-
ne che si è poi ripercossa nell'ordinamento canonico con quella tra
vangeli e Atti degli apostoli - non spiega tutto, perché Luca l'ha
valorizzata grazie alla synkrisis: il duplice racconto diventa così l'oc-
casione di una continua relazione e confronto tra Cristo e gli aposto-
li, per le ragioni spiegate nel corso di queste pagine. In breve, lungi
dal rompere l'unità di scrittura, il dittico la rafforza a tutti i livelli.
Quanto alle grandi linee di forza che hanno guidato il racconto
lucano, i capitoli precedenti ne hanno dimostrato il tracciato; non è il
caso quindi di riprendere qui la mia dimostrazione, né di riassumere
i miei sviluppi. Invito soltanto il lettore frettoloso - che vuole forse
conoscere direttamente i risultati evitando il lungo cammino che li
prepara - a leggerli. Ho l'ingenuità di credere che non si annoierà.
Al termine della lettura del racconto lucano, è possibile pronun-
ziarsi sull'immagine che Luca vuole che i lettori abbiano di lui, come
autore e come narratore? È difficile pensare che egli non abbia
conosciuto i consigli dei manuali di allora, secondo i quali lo scritto-
re raggiunge l'apice quando le sue tecniche s'impongono anche con
la loro discrezione. In L'arte di raccontare Gesù Cristo, ho già sotto-
222 Conclusione

lineato la discrezione lucana, a proposito delle allusioni e delle cita-


zioni bibliche; aggiungo che il suo modo di mettere in parallelismo
gli attori - in altre parole, di praticare la synkrisis - deve avere del
capolavoro, dato che la sua estensione massimale è rimasta a lungo
ignorata. L'anonimato nel quale il narratore ha voluto restare, come
gli altri evangelisti, indica del resto che non è il suo nome che egli
vuole vedere riconosciuto - non imponiamo le nostre suscettibilità
di autori agli scritti di quel tempo -, ma la qualità e la verità della sua
opera: il narratore aveva capito che ciò che era in gioco era piutto-
sto l'immagine del movimento cristiano presso i letterati del suo
tempo, che facessero parte o meno del movimento cristiano. Su que-
sto punto, la sua scrittura non è priva di affinità con quelle di un Filo-
ne o di un Giuseppe Flavio.

Come progredire nell'analisi narrativa?

Ci auguriamo che queste pagine abbiano dimostrato che l'anali-


si dei racconti, senza poter essa stessa diventare un racconto, stimo-
la sempre di più il desiderio di visitare i racconti biblici ed evangeli-
ci, anche quelli che si crede di conoscere bene. Terminando queste
pagine con un esercizio di lettura, ho voluto soltanto dare alcune
indicazioni di metodo, per favorire uno studio personale più rispet-
toso delle componenti del racconto di Luca. È vero che l'interpreta-
zione dei silenzi e delle enfasi di un racconto suppone una certa
esperienza, ma bisogna pur cominciare un giorno a volare con le pro-
prie ali. Seguendo le tappe dell'analisi e la griglia di lettura alla fine
del volume, il lettore può già cercare di leggere da solo le parabole
lucane la cui forma narrativa è più elaborata,3 prima di affrontare gli
episodi del racconto primario.
Mi sia permesso, per finire, di ricordare tre punti da non dimen-
ticare mai nello studio narrativo dei testi lucani: 4 1) la messa in evi-
denza delle scene e della loro rispettiva funzione è un punto di par-

3 Cf. Le 10,30-35; 11,5-8; 14,16-24; 16,1-8; 16,19-31; 18,10-14; 19,12- 27. Come ho fatto
nel capitolo 6, si comincerà con l'analizzare le parabole per se stesse, prima di rileggerle
nel loro contesto.
4 Questi principi valgono evidentemente anche per gli altri vangeli.
Quale tipo di racconto in Luca? 223

tenza infrangibile, tanto più che la maggior parte degli episodi luca-
ni sono composti secondo i modelli narrativi, e ciò, fin dagli annunci
a Zaccaria e a Maria; 2) il lettore trarrà sempre vantaggio dal chie-
dersi chi (del narratore e degli attori) dice che cosa e su chi, perché
l'effetto di significato deriva proprio da questo; 3) infine, la parabo-
la del padre e dei due figli (cf. c. 6) ha dimostrato che, per interpre-
tare correttamente un episodio, è importante vedere se esso insiste
sul racconto degli eventi o sulla loro valutazione, da parte degli atto-
ri stessi e/o del narratore.

Un racconto teologico

Ma il fatto più importante, per questo saggio e per la collana in


cui esso si inserisce, è la funzione di testimonianza che Luca dà al suo
duplice racconto (cf. c. 1). La narrazione, che non è né romanzo, né
biografia, né agiografia, né apologia, ma ha qua e là i tratti dell'uno
e dell'altro di questi diversi generi, si presenta in definitiva come una
testimonianza, con tutto ciò che questa suppone di testimoni accre-
ditati - a cominciare dalle Scritture - e del progetto veridizionale.
Ma non è soltanto testimonianza alla verità degli eventi: attraverso
il racconto di essi si manifestano in pienezza, indissociabilmente,
l'identità di Gesù e il disegno misericordioso di Dio. Racconto in cui
il narratore coinvolge se stesso, nelle sezioni in <<noi» del libro degli
Atti, indicando così che è a partire da ciò che egli ha sperimentato
che la sua testimonianza può offrire tutto il suo peso.
I! racconto lucano ha quindi una forza narrativa che lo fa regge-
re per se stesso; bisogna perciò ammettere che gli eventi e gli attori
che lo popolano non sono al servizio di una tesi esterna alla dinami-
ca del racconto. È in effetti attraverso la sua logica e le sue articola-
zioni che quest'ultimo è teologia o cristologia. Forse l'opera lucana
è il primo saggio di cristologia veramente narrativa.
INDICE

Prefazione alla seconda edizione p. 5

INTRODUZIONE ....................................................................» 7
NARRAZIONE E TEOLOGIA ......................................................» 7
LUCA: UN NARRATORE DEGNO DI QUESTO NOME? ..................» 8
QUALE METODO? » 11
IL DITTICO LUCANO » 12
L'ITINERARIO PROPOSTO » 13
IL TESTO DEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI » 14

CAPITOLO 1
UNA TEORIA DELLA TESTIMONIANZA » 17
CONDIZIONI E COMPONENTI DELLA TESTIMONIANZA » 18
QUALI TESTIMONI E QUALE TESTIMONIANZA? » 22
TESTIMONIANZA E SPIRITO SANTO » 26
CONCLUSIONE » 32

CAPITOLO 2
QUALE POSTO PER DIO
NEL RACCONTO LUCANO? » 35
VOCI CELESTI, VISIONI E APPARIZIONI » 36
L'INIZIATIVA DIVINA E SUA INTERPRETAZIONE » 40
LE TEOFONIE DI CONFERMA » 41
QUANDO IL CIELO NON PARLA? » 46
LA FUNZIONE DEGLI INTERVENTI CELESTI » 50
242 Indice

LE SCELTE DI DIO p. 51
L'INIZIATIVA DIVINA E IL SUO RICONOSCIMENTO » 54
LA PROCLAMAZIONE DELLE VIE DIVINE » 61
RACCONTO E PIANO DIVINO DI SALVEZZA » 68

CAPITOLO 3
GESÙ E I DISCEPOLI.
LE RAGIONI DI UN PARALLELISMO » 71
IL PARALLELISMO, TECNICA DOMINANTE IN LUCA/ATTI.......... » 72
I PARALLELISMI TRA PIETRO E PAOLO » 75
IL PARALLELISMO TRA PIETRO, GLI APOSTOLI E GESÙ .. » 79
IL PARALLELISMO TRA GESÙ E PAOLO » 82
ESTENSIONE DELLA SYNKRISIS:
LA FUNZIONE DI AT 27,9-28,11 » 85
LA FUNZIONE DEL PARALLELISMO: IMITARE PAOLO? » 90
IL FINALE DEL LIBRO DEGLI ATTI......................... » 92
SYNKRISIS E TIPOLOGIA » 97
CONCLUSIONE » 102

CAPITOLO 4
IL VANGELO E L'IMPLICAZIONE
DEI SUOI ARALDI.
UNA CERTA IDEA DI TESTIMONIANZA » 105
GESÙ, ARALDO E OGGETTO DEL VANGELO » 106
LA PARADOSSALE TESTIMONIANZA DI PAOLO IN AT 22 » 117
CONCLUSIONE .. » 143

CAPITOLO 5
IL VANGELO E I SUOI DESTINATARI.
ISRAELE E LE NAZIONI IN LUCA/ATTI » 145
IL RACCONTO EVANGELICO (LUCA) » 146
GLI ATTI DEGLI APOSTOLI » 163

CAPITOLO 6
IL RACCONTO COME TEOLOGIA.
IL PADRE E I DUE FIGLI: Le 15,11-32 » 181
LA COMPOSIZIONE DEL PASSO » 182
GLI ATTORI E LE LORO RELAZIONI.......................................... » 187
Indice 243

LA PARABOLA NEL MACRO-RACCONTO.


L'INTERTESTUALITÀ LUCANA p. 208
AL DI LÀ DEL CONCETTO, IL RACCONTO » 216

CONCLUSIONE
QUALE TIPO DI RACCONTO IN LUCA? » 219

ALLEGATO 1: LA COMPOSIZIONE DEL LIBRO DEGLI ATTI.............. » 224


ALLEGATO 2: GRIGLIA DI LETTURA » 225

BIBLIOGRAFIA » 231

INDICE DEI PASSI STUDIATI » 239

Potrebbero piacerti anche