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Le parabole di Gesù

Michele Bava

Corso di Sacra Scrittura 2

Docente Don Andrea Destradi

LE PARABOLE DI GESÙ !1
Le parabole di Gesù

Introduzione

Cosa sono le parabole di Gesù? Perché lui ne fa un uso così esteso nella e per la
sua predicazione? A chi erano dirette? Quali erano i contenuti impliciti ed espliciti
che Gesù voleva trasmettere ai suoi uditori? Perché Gesù parla in parabole?
Perché, soprattutto, ci “racconta” alcune delle più grandi verità della sua
predicazione e riguardanti la sua venuta (il tema del Regno; la salvezza; l’urgenza
dell’ora) proprio in parabole? Cosa sono le parabole? A che genere letterario
appartengono? Come sono ripartite nei sinottici? Quali e quante sono le differenze
tra un Vangelo e l’altro? Quali i significati per chi ascoltava Gesù? Per la chiesa
nascente? E per noi, oggi?
Queste sono solo alcune delle domande che una trattazione sulle parabole può porsi
e a cui non può certamente dare una risposta né in poche righe di una breve
presentazione e forse neppure in una serie di pubblicazioni e lavori di una vita.
In tal senso il libro di J. Jeremias, “Le parabole di Gesù”, che mi accingo a riportare e
commentare è uno sforzo sia esegetico che teologico di grande livello per tentare di
inquadrare il “problema”. Si perché di un “problema” si tratta: le parabole insieme alla
pletora di immagini, racconti, storie che Gesù propone ai suoi uditori ancora oggi
rappresentano un’interrogativo ed un interrogarsi per chiunque si accosti ai Vangeli e
in particolare all’Evangelo, alla Buona Novella. Chiunque in modo critico e/o
credente si accosta alle parabole si trova inevitabilmente a confrontarsi con il loro
contenuto; ad identificarsi con quei personaggi; ad interrogarsi su come quelle storie
vengono dipanate e portate a compimento in quella narrazione. Io, fossi stato uno di
quei personaggi delle parabole, che cosa avrei fatto? Io, come mi parei comportato?
E ancora, udendo quelle parole di Gesù, come avrei reagito? Come reagisco
adesso? Cosa mi dice quel testo, quel versetto?
Questo credo sia il primo aspetto che il libro mette in evidenza. Un confronto serrato
che passa attraverso l’esegesi puntuale dei passi, i rimandi alle tradizioni, il
confronto con le fonti e la critica testuale, per giungere fino a sviscerare i significati di
quelle parole o dietro ad esse. Perché Gesù ha detto così? E poi ha detto veramente
così? E questo è il secondo aspetto centrale del libro: la ipsissima vox Jesu. Quali
parole ha detto davvero Gesù? Quali invece riguardano la “storia della redazione”1
che ha portato a quella pagina del Vangelo.
La lettura del libro considera quindi sia aspetti esegetici -tanto diacronici (critica
letteraria in particolare) quanto sincronici (narratologia biblica), che ermeneutici,
conducendo chi legge attraverso un’analisi del testo fino ad una lettura che tiene
conto del contesto in cui Gesù visse e operò, interrogando il lettore sia in chiave
esistenziale che teologica.

1 Cf F. La Gioia, “Come è nata la Bibbia?”, p. 219.

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Il breve studio che viene presentato qui ricalca molto da vicino lo svolgimento del
libro, con qualche breve riflessione personale nelle note e nelle conclusioni. Il lavoro
è stato strutturato come segue:
-nel primo capitolo si inquadrerà la questione (il problema) delle parabole;
-nel secondo capitolo si tratteranno alcuni aspetti generali del genere letterario
parabola (“masal" ebraico; “mathla" aramaico), si prenderanno alcune parabole in
particolare quelle cosiddette allegoriche e le parabole della crisi e si farà una loro
analisi, riportando il dettaglio di qualche versetto, vedendo alcuni aspetti sulle
cosiddette “conclusioni secondarie” e sugli aspetti parenetici, ovvero la voce della
chiesa delle origini. Sempre dallo studio di queste parabole si cercherà di trovare la
ipsissima vox Jesu applicando le dieci regole di trasformazione;
-infine, nel terzo capitolo, verranno elencati i dieci temi fondamentali delle parabole
riportando tutti gli esempi significativi possibili;
-nella conclusione si faranno alcuni commenti finali, in particolare riguardanti il
significato esistenziale delle parabole e il rapporto tra parabole e mito sia nei termini
di parallelismo esistenziale-esperienziale sia conoscitivo-sapienziale.

Il problema

Le parabole rispecchiano con chiarezza la Buona Novella, il carattere escatologico


della sua predicazione, la serietà del suo appello di penitenza, la sua opposizione al
farisaismo. Inoltre dietro al testo greco traspare la lingua materna di Gesù (l’uso
degli articoli determinativi in luogo di quelli indeterminativi è tipico per il discorso
figurato semitico). Ad esempio questo è evidente nella parabola del seminatore che
semina “a caso” anche sulla strada, ovvero il sentiero tra le stoppie, oppure sui rovi,
quando in realtà in Palestina si fa proprio così e si ara dopo la semina!!2
Le parabole di Gesù sono anche qualcosa di completamente nuovo. Non ci sono
precedenti. Potrebbero anche aver influito, insieme alle favole di animali sorte in
Grecia, al genere letterario “parabola rabbinica”.
Sono inoltre originali, sciolte, chiare rispetto al linguaggio figurato di Paolo o alle
similitudini di certe storie rabbiniche.
Le parabole che sono giunte a noi sono quelle originali e sono state tramandate in
forma molto attendibile. La narrazione conduce gli ascoltatori di Gesù in un mondo a
loro famigliare, in cui tutto appare chiaro, storie e personaggi sono note, anche se
Gesù, diciamo così, le rende diverse, originali, servendosi di quei contesti noti per
dire cose nuove su Dio, sulla sua missione, sul suo essere lì (qui!) in quel (questo!)
momento.
In realtà per noi il problema è determinare il loro originario significato. Infatti sono
state allegorizzate (lo stesso Gesù in Mc 4,14-20 o l’equivalente in Mt. 13,37-43 p.
es. spiega il significato “nascosto” della parabola del seminatore) per lungo tempo,
cercando significati nascosti o più profondi. Nel mondo ellenistico/giudaico infatti era
diffusa l’interpretazione allegorica dei miti come chiave di conoscenze esoteriche.

2 Cf. J. Jeremias, “Le parabole di Gesù”, p. 9

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Accanto a questa interpretazione allegorica c’è quella della “teoria dell’indurimento”,
ovvero che le parabole dovevano essere per gli estranei un velo gettato sul mistero
del Regno di Dio (cf. Mc 4,10-12). Questo è un passo fondamentale e molto
discusso e che ha il suo corrispettivo in Mt 13,34-35 (cf. Sal 78,2; Os 12,11): in
particolare il v. 11 è stato tramandato isolatamente ed è stato aggiunto da Marco.
Gesù viene interrogato sulle parabole al v.10 e risponde con la formula
dell’indurimento del v. 11 stesso. In Mc 4 abbiamo in modo evidente l’attestarsi di
materiale di tre stadi della tradizione: Gesù, Chiesa primitiva, Marco proprio per gli
evidenti rimaneggiamenti, aggiunte, e cambiamenti3.
Gesù dice che Dio ha elargito ai discepoli il mistero (segreto) del Regno di Dio, una
conoscenza singolare e unica: la consapevolezza del suo inizio presente (in Gesù
stesso). A voi, dice Gesù, è dato il “mistero” del regno; mentre a quelli che sono fuori
sono state date le “parabole” (citando Is 6,9-10). Dal punto di vista linguistico ci sono
due aspetti:
1) questa antitesi si verifica perché la parola greca “parabola” corrisponde a
“masal" (ebraico) = “mathla" (aramaico) che hanno il significato corrente (vd. AT
“masal” = “hidha” enigma (cf. Sal 78,2), discorso difficilmente comprensibile,
discorso oscuro Mc 7,17) di indovinello, enigma (“mesal" in etiopico ha significato di
discorso esoterico apocalittico).
Quindi, dice Gesù, a voi il mistero è svelato, quelli di fuori si trovano invece di fronte
a degli enigmi. In Gv. 16,25 Gesù dice “in modo velato” “en paroimias” (diverso da in
parabole), sostantivo che implica da parte di Gesù l’uso di detti simbolici o figurati,
similitudini o proverbi la cui comprensione non doveva essere immediata. Il
sostantivo viene contrapposto a “parresia” = proclamare apertamente.
2) il verbo “avviene”, “ginetai", è in una forma non greca, ma in una forma di
espressione semitica e la frase andrebbe tradotta: “per quelli invece che sono di
fuori, tutto si presenta/si compie in discorsi enigmatici/in avvenimenti velati”.
Jeremias suppone che Mc 4,11 ss. NON parla delle parabole di Gesù ma della sua
predicazione in generale (predicazione che in Gv. 16,25 abbiamo detto avvenire “en
paroimias”). Il mistero (che è anche progetto oltre che segreto) del regno presente in
mezzo a loro viene svelato ai discepoli, mentre le parole di Gesù rimangono oscure
agli estranei, perché essi non riconoscono la sua missione e non fanno penitenza.
Infatti il Targum in Mc 4,12 attenua la durezza della citazione, proponendo “a meno
che” al posto di “perché non”.
Quindi questo logion 4,11, arcaico proprio per la contrapposizione tra i discepoli e
quelli di fuori, dovrebbe appartenere al periodo posteriore alla confessione di Pietro
a Cesarea di Filippo, il periodo della predicazione esoterica di Gesù.
Marco ha inserito questo logion nel cap 4 delle parabole, interpretando male il
termine greco parabole che, in questo caso, significa “in modo velato”. Infatti a Mc
4,10 doveva immediatamente seguire Mc 4,13. Con questo si hanno del passo tre
possibili diversi significati:
1) non c’è alcun mistero da svelare nelle parabole, perché il vero mistero è rivelato
solo ai discepoli, annunciando le stesse parabole, semmai, proprio il mistero del
Regno
2) Il passo Mc 4,11 ss. non rappresenta un canone particolare per l’interpretazione
delle parabole stesse (o forse si?!). Nelle parabole allora, mediante un’esegesi

3 Cf J. Jeremias, op. cit., p. 13 - nota 12

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allegorica, non c’è da ricercare un senso o un significato nascosto “a quelli che
sono fuori”
3) possiamo continuare a considerare le parabole degli insegnamenti nascosti ed
esoterici, considerando proprio il significato della parola “parabola”, proprio
perché questo significato rimane nascosto e celato “a quelli che sono fuori” (a
meno che non si convertano)!

Gesù non è un saggio che esponeva delle massime morali ed una teologia
semplificata con dei racconti ed immagini facili da tenere a mente. La predicazione
evangelica è infatti sempre duplice: liberazione e scandalo, salvezza e perdizione,
vita e morte.
Occorre sempre tendere a riguadagnare il senso primigenio delle parabole. La
Formgeshichte ripartì le parabole in categorie distinguendo metafora, paragone,
allegoria, similitudine, ecc… ma in realtà l’ebraico “masal" e l’aramaico “mathla"
significano tutte queste cose e molto di più, ovvero “ogni sorta di discorso figurato,
senza che si possa fissarne uno schema”. La stessa parola greca parabola, nel NT,
ha significato di parabola, paragone, simbolo, motto, proverbio, indovinello…
Le parabole devono essere collocate nella situazione della vita concreta di Gesù.
Non sono (solo) delle opere letterarie (limite della storia delle forme) e nemmeno
intendono inculcare delle massime generiche, bensì ognuna di esse è stata
pronunciata in una concreta situazione della vita di Gesù, in una circostanza
irripetibile ed imprevedibile. Inoltre sono “strumenti” di lotta, di difesa, di opposizione
ed esigono delle risposte immediate.
Per capire le parabole occorre ricostruire il momento storico preciso della vita di
Gesù in cui lui ha pronunciato quella precisa parabola. Ciascuna delle parabole è
nata da (e in) un momento storico della vita di Gesù.
Cosa voleva dire Gesù in questa o in quell’altra ora precisa? Quale influsso ebbe la
sua parola sugli ascoltatori? Questa sono le domande da porsi. Possiamo
comprendere le parabole di Mt 13 solo se ci saremo fatti una idea della situazione
concreta in cui Gesù ha parlato.

Uno sguardo generale sulle parabole

Nel tentativo di dare una collocazione storica delle parabole troviamo anche un
primo criterio per fare uno studio delle parabole stesse:
1) collocazione storica originaria (quella in cui Gesù le pronunciava) legata ad
avvenimenti concreti
2) argomenti, immagini, storie, personaggi di cui Gesù parla che appartengono ad
una tradizione medio-orientale e palestinese
3) il vissuto storico delle parole (e quindi anche delle parabole) di Gesù nella chiesa
primitiva che ne rielaborava e tramandava i detti e tutto il suo vissuto
La critica storico letteraria è aiutata, nella ricerca della posizione storica originaria
delle parabole, dal Vangelo di Tomaso (cit. Ev Th) nel quale troviamo undici parabole
sinottiche, molte delle quali possono essere ritenute, come si dirà, originarie.

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Le 10 leggi di trasformazione

Le parabole di Gesù poggiano su un duplice terreno storico: in un primo tempo esse


poggiano sulla sua predicazione/attività; in un secondo momento hanno vissuto nella
chiesa primitiva. Noi conosciamo le parabole nella forma che ha dato loro la chiesa
primitiva e in tal senso sono state formulate dieci “leggi”:

1.la traduzione delle parabole in greco ha portato degli spostamenti di significato


2.in alcuni casi è stato tradotto (male) anche il bagaglio di immagini di Gesù (che era
ebreo)
3.le parabole vengono “abbellite” molto presto dopo la predicazione
4.passi dell’AT e temi narrativi popolari hanno influito sul testo
5.alcune parabole all’inizio rivolte ai nemici e alla folla vengono applicate alla
comunità dalla chiesa primitiva (cambio di uditorio)
6.spostamento in favore della parenesi (rispetto alla “iniziale” escatologica)
7.la chiesa primitiva riferisce le parabole alla sua situazione (missione e ritardo della
parusia) e per questo le ha ampliate e ha dato nuove interpretazioni
8.la chiesa primitiva commenta le parabole in modo allegorico ponendole al servizio
della parenesi
9.la chiesa primitiva compila raccolte di parabole (fusioni)
10.essa colloca le parabole attribuendo loro una conclusione generalizzante,
spostando di fatto il significato.

Queste dieci leggi di trasformazione, che ora analizzeremo, sono strumenti per poter
risalire al significato originario delle parabole di Gesù e per sentire la ipsissima vox
Jesu. L’incontro con lui e con la sua parola, rimuovendo il velo tra noi ed essa, può
dare piena forza al nostro annuncio (il “kerygma”) cristiano.

La lingua delle parabole

Gesù ha parlato in galileo-aramaico. Per recuperare il significato originario delle


parabole bisognerebbe riconvertirle dal greco nella lingua materna parlata da Gesù.
E’ noto infatti che le numerose varianti di traduzione offrono sicuri rimandi ai termini
aramaici soggiacenti. Tentativi di ricostruire il testo aramaico soggiacente sono stati
fatti e sono tuttora oggetto di grande interesse per i ricercatori e i biblisti e di
pubblicazioni che superano i contesti accademici4.

Immagini e spostamenti di significato nelle parabole

Alcune parole in aramaico, come per esempio la parola “banchetto” hanno il doppio
significato di “banchetto” e “nozze” (e le stessa parola in aramaico è stata tradotta in
greco in due modi diversi). Così per le incertezze sui verbi composti, che in aramaico

4 Cf. J.M. Garcia, “La vita di Gesù nel testo aramaico dei vangeli”, BUR 2005

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non esistono, e per la parola “onorato” (cf. Lc 14,10b) che in aramaico ha diversi
significati riportati, appunto, nelle traduzioni in greco delle varianti.
Quindi al cambiare dei vocaboli (a causa della traduzione), cambiano anche le
immagini e il loro patrimonio che viene tradotto dall’ambiente originario secondo
l’ambiente ellenistico.
Le parabole che Gesù presenta sono sicuramente prese dalla vita ma sono anche
arricchite con notazioni insolite (invitati che rifiutano un invito, spose che si
addormentano, ecc…) tali da suscitare l’attenzione degli uditori. Si tratta di aspetti
frequenti nella narrativa orientale e Gesù, nel raccontarle, ha aderito a questo “stile”
con piena ed originale coscienza. L’esempio è il debito di diecimila talenti del servo
malvagio (Mt 18,23-25), un debito che nessuno avrebbe potuto mai ripagare
(cinquanta volte maggiore dell’introito reale di tutta la Galilea nel 4 sec. a.C.) ma che
Gesù introduce per “shocchare” i suoi ascoltatori e far capire che l’uomo non può in
alcun modo saldare il suo debito con Dio.
Le parabole sono state talvolta abbellite (nello stile orientale) e il testo originario,
spesso ma non sempre, ci è offerto dalla redazione più semplice5. In generale poi ci
sono pochi riferimenti, nelle parabole, all’AT (grano di senape e seme che cresce da
solo) e alle narrazioni popolari, anche se Gesù attinge da quei racconti
“modificandoli” o aggiungendo dettagli funzionali alla sua narrazione e soprattutto
alla sua missione. Per esempio nel Vangelo di Tomaso la parabola del tesoro nel
campo (Ev Th 109) si rifà ad un racconto rabbinico del Midrash mentre è originaria in
Matteo (nel Midrash e nel Vangelo di Tomaso si parla più del dispetto provato per
una occasione persa che della gioia dell’uomo di aver trovato un tesoro). L’altro caso
è sempre in Mt 22,7, il re che manda i suoi soldati a distruggere la città, episodio che
manca in Luca e Tomaso.

La struttura delle parabole: alcuni caratteri generali

Vediamo la parabola dei vignaioli (Mt 20,1-16) dove avviene un cosiddetto “cambio
di uditorio”.
Alcune interpretazioni:
1) la Chiesa la ha sempre considerata come una chiamata alla vigna del Signore (la
messe è molta e gli operai pochi); Origene ed Ireneo vedevano nella ripartizione
della giornata l’allegoria di cinque ere/eoni. Ma l’accento della parabola non è
nella chiamata alla vigna, ma nel pagamento fatto alla sera, nonostante i “protoi"
diventino “escatoi” e gli “escatoi” “protoi".
2) “Molti sono i chiamati, pochi gli eletti”: questo il finale della parabola come in Mt
22,14 (Mt 20,16b che non esiste!!! Infatti è attestato nel palinsesto di S. Efrem
(C) e nel Codice di Beza (D) mancando nella versione CEI6). I primi perdono il
loro “privilegio” e viene detto loro “vattene”, al v. 14. E’, secondo l’interpretazione
comune, una parabola del giudizio. Ma tutti ricevono la paga pattuita! Anche i
“protoi"! Quindi l’interpretazione comune non regge! Il senso è proprio nel finale
che manca nelle nostre Bibbie ri-tradotte (vd. nota 6).

5 Cf. J. Jeremias, op. cit., p. 34-35


6 La Bibbia di Gerusalemme, nella nota a p. 2132 riporta le varianti di C e D: “molti sono i chiamati, pochi gli
eletti”

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3) Che i primi siano ultimi e gli ultimi primi per Marco (Mc 10,31) e Matteo (Mt 20,16
e e Mt 22,14) significa che nell’eone venturo tutto l’ordine gerarchico terrestre
sarà rovesciato. Gli ultimi diventano i primi ed è proprio da loro che inizia la
retribuzione (Mt 20,8b)! Ma anche questa interpretazione è incompleta. Anche
stavolta infatti tutti ricevono la loro ricompensa pattuita, quindi l’ordine gerarchico
non è sovvertito.
4) Il contesto di Matteo non è originario, ma Matteo mette quella frase alla fine
perché “lui” vuole sottolineare il rovesciamento dell’ordine costituito. Non è
questa l’idea di Gesù! La parabola infatti vuole affermare la parità della
ricompensa nel Regno di Dio. La meraviglia degli uditori non starà quindi nel
“stessa paga per tutti” ma nella sorpresa di “una ricompensa così grande (anche)
per gli ultimi!
5) Probabilmente il versetto finale Mt 20,16 è solo un’aggiunta generalizzante che
viene fatta anche altre volte e anche negli altri sinottici. Questo significa che la
parabola terminava al v. 15. Terminando così la parabola sembra paradossale ed
ingiusta…. In realtà la parabola descrive non un atto di arbitrio, ma l’azione e il
gesto di un uomo generoso e pieno di sensibilità verso i poveri. Così agisce Dio,
dice Gesù. Così è Dio.

Perché Gesù narra questa parabola? Si tratta di una parabola a doppio vertice: 1)
l’arruolamento degli operai e la magnanima disposizione circa il pagamento del loro
lavoro; 2) la lagnanza dei “danneggiati”. In ogni parabola a doppio vertice l’accento è
messo sul secondo membro. E questo fatto accentua il perché Gesù abbia voluto
raccontarla (per voler dire chi è Dio). Forse si rivolge ai farisei che mormorano anche
loro e si scandalizzano della Buona Novella e di Gesù stesso e così si spiega la
frase “forse tu sei invidioso perché io sono buono?”. Lui dice: “Così è Dio, è talmente
buono! E così sono io! E Dio agisce adesso per mezzo mio. E voi vorreste
biasimarlo?“.
Questo è il momento storico originario della parabola, collegato alla situazione reale
della vita di Gesù.

L’esempio appena riportato evidenzia quella che si può definire, come abbiamo
visto, una legge di trasformazione delle parabole (da parte della chiesa): la chiesa
primitiva riferisce ai discepoli di Gesù molte parabole, che all’origine erano state
rivolte ad altri ascoltatori, come i farisei, gli scribi, la folla.

Altro esempio è la parabola della pecorella smarrita (Lc 15,3-7 e Mt 18,12-14). In


Luca la parabola è provocata dalla mormorazione dei Farisei circa il fatto che lui
accogliesse i peccatori e mangiasse con loro. Il senso della parabola e della risposta
finale di Gesù, in Lc 15,7, è quello che lui/Dio è contento di poter perdonare e per
questo accoglie i peccatori. In Matteo l’uditorio è completamente diverso: la parabola
infatti è raccontata da Gesù non ai farisei ma ai suoi discepoli. E cambia anche il
senso/la risposta finale Mt 18,14. E continuando Gesù dice che Dio vuole che
seguiate il caduto, il perso (il piccolo, il debole in questo caso), con la stessa cura
con cui il pastore della parabola ha ricercato la pecora smarrita. In Luca l’accento è
messo sulla gioia del pastore, qui invece sul comportamento esemplare del pastore
(esempio importante per le guide delle prime comunità).

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E’ quindi sicuramente Luca (anche la allegoria del pastore di Gv 10,6 è rivolta contro
i farisei) e non Matteo ad aver conservato la situazione originale storica in cui si
trovava Gesù, come nella parabola degli operai della vigna.
Cambiando l’uditorio (da folla/avversari a discepoli) una parabola apologetica si è
quindi trasformata in una parabola parenetica. Ci sono altri casi di differenze di
uditorio, alcune delle quali difficilmente armonizzatili tra i tre sinottici e alcune persino
in contraddizione tra loro o nello stesso singolo evangelista (cf. Lc 8,16 e Lc 11,33).
Nella parabola su Beelzebul p. es. in Mc 3,22 è rivolta agli scribi, in Mt 12,24 ai
farisei, e in Lc 11,14 alla folla. Potrebbe essere che Gesù si sia ripetuto allora.
Ma questo non è possibile perché considerando Marco comune a Luca e a Matteo si
vede come in Marco si dichiara che le parabole rivolte ai discepoli (Mc 4,21-32)
siano ben separate da quelle rivolte alla folla (Mc 4,33-34).
Come dimostrato per le due parabole analizzate, in realtà per tutti i sinottici, c’era la
tendenza a trasformare le parabole che Gesù diceva alle folle o agli avversari in
parabole rivolte ai soli discepoli (anche esempio del discorso delle beatitudini in Luca
rivolto alla folla e in Matteo ai discepoli). Nel vangelo di Tomaso tutte le parabole
senza eccezione vengono riferite al vero discepolo gnostico, corroborando le ipotesi
fatte (e considerando che gli gnostici avevano o dovevano avere conoscenze
esclusive e segrete).

Parabole, parenesi e situazione della chiesa delle origini

La parabola del cammino verso il giudice (Mt 5,25 ss. e Lc 12,58 ss.) è molto simile
nei due con una differenza terminologica solo sul fatto che Matteo “vede” e conosce
il procedimento penale ebraico mentre Luca conosce quello romano. Ma è
diversissimo il contesto in cui viene narrata.
Per Matteo la parabola è una esortazione, forse banale, per la condotta nella vita
quotidiana: “Riconciliati e accondiscendi se le cose si mettono male” (prima c’era
l’offerta all’altare e la riconciliazione con il tuo prossimo).
Per Luca invece la situazione è più drammatica. Il giudizio è alle porte, manca poco.
Risolvi la questione prima che puoi perché hai poco tempo! Si tratta di una parabola
escatologica e della crisi. Questo è un passaggio (spostamento di accento)
dall’escatologia di Luca alla parenesi di Matteo.
In Luca l’attenzione è rivolta all’azione escatologica di Dio, mentre in Matteo si
guarda al comportamento del discepolo. Ed è ancora Luca a descrivere meglio la
situazione reale di Gesù che, conscio della sua prossima ultima ora, era in attesa
della catastrofe, della fine dei tempi, del compimento escatologico. La chiesa,
sempre sospesa tra la passione e la parusia, ha spostato dall’escatologia alla
parenesi (la condotta della comunità) il contenuto di queste parabole.

Anche nella parabola della gran cena (Mt 22,1-14; Lc 14,16-24) c’è una variazione
non originaria in Luca e Tomaso che sono molto duri con i ricchi in generale e danno
una norma di buon comportamento come fa il padrone di casa. Il vero significato
della parabola però è un altro, che ancora una volta Gesù ha voluto giustificare di
fronte ai suoi critici il suo operato e la predicazione della Buona Novella ai poveri.
Poiché voi rigettate la salvezza Dio chiama a sé gli ultimi negli ultimi tempi! L’accento
escatologico è diventato parenetico.

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Così anche nella parabola del fattore infedele/amministratore scaltro (Lc 16,1 ss.).
Il vero significato, sempre escatologico, e l’unico che può spiegare perché
l’amministratore (infedele) venga lodato dal padrone (“curios"), è che i tempi sono
giunti e bisogna agire decisamente, con coraggio, abilità e saper osare in vista del
futuro. Questo fa capire che la parabola era rivolta ai dubbiosi, agli ostinati, alla folla
e non ai discepoli o alla comunità come traspare dal testo di Matteo che sembra più
un’esortazione al retto uso dei beni e un ammonimento nei riguardi dell’infedeltà.

La chiesa primitiva (in attesa della parusia che ritardava…) ha quindi riferito le
parabole alla “sua” situazione concreta operando spostamenti di accento, di uditorio
e di significato.
Questo è fondamentale per capire le cinque parabole della parusia di cui diamo un
breve accenno.

La parabola del ladro notturno (Mt 24,43 ss, Lc 12,39). C’è evidenza della traduzione
letterale dall’aramaico nell’uso del verbo “irrompere”. Gesù sta facendo riferimento a
uno scasso concreto avvenuto da poco nel villaggio e usa il fatto di cui tutti ancora
parlano. Motivo di meraviglia è il riferimento al ritorno del Figlio dell’uomo e come
dice Jeremias si tratta di un accenno contrario allo stile adottato: la parusia non è (o
dovrebbe essere) un avvenimento pauroso ma il momento della grande gioia! In
Tomaso (che ha due versioni della parabola) manca il riferimento cristologico. Senza
questa differenza in Tomaso la parabola del ladro, per come è posta, trova il
parallelo in quella del diluvio (Mt 24,37 ss. e Lc 17,26 ss.) e della pioggia di fuoco (Lc
17,28-32).
Gesù nella parabola vuole aprire gli occhi e ridestare sulla gravità della situazione
che sta arrivando. La chiesa primitiva però (vedi Luca) riferisce la parabola ai soli
discepoli o ai responsabili delle comunità dando Gesù risposta affermativa alla
domanda Pietro in Lc 12,41 (che in Matteo non c’è mentre c’è nel contesto delle
parabole sulla parusia solo la descrizione del servo fedele che attende il padrone
che si attarda), raccontando la parabola del servo fidato messo alla prova
dall’attardarsi del padrone. La parabola del ladro notturno (figura allegorica del
Cristo) diventa allora un richiamo alle guide della chiesa primitiva perché non si
rilassino dinanzi al ritardo della parusia.
Dal confronto con altri passi del NT e dell’AT (in Ap 3,3 e 1 Ts 5,4 i figli della luce
sono preparati e l’ultimo giorno -la sciagura- viene come un ladro per gli increduli)
viene confermato che Gesù ha detto la parabola alla folla e che il furto notturno era
figura della catastrofe imminente e anche questa rientra tra le parabole della crisi.
La chiesa primitiva riferisce la parabola alla sua mutata situazione, contrassegnata
dal ritardo della parusia.
Il significato escatologico in entrambe le versioni, quella di Gesù e quella della
Chiesa, è salvo. Ma Gesù parlando alla folla parla dell’inizio della tribolazione, e dice
di vigilare; la Chiesa, parlando ai suoi capi, parla della fine della prova, e di
continuare a vigilare perché il Signore tornerà all’improvviso come un ladro.

La parabola delle dieci vergini (Mt 25,1-13) è inclusa nelle parabole della parusia. La
parabola è un’allegoria della parusia di Cristo, sposo celeste. Le dieci vergini sono la
comunità in attesa, il ritardo è il differimento della parusia, la sua repentina venuta è
l’arrivo della parusia, il duro ripudio delle vergini è il giudizio finale.

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Ma era questo il senso originale? Lasciamo innanzitutto il v. 13 (è una aggiunta
parenetica riferibile, come tutte le volte che appare, alla parabola del portiere in Mc
13,35), perché al v. 5 dormono tutte e quindi non vegliavano, né le sagge (quelle con
l’olio) né le stolte (senza olio)!!
In realtà non sembra esserci alcun riferimento alla parusia. Inoltre la allegoria Sposo
= Messia non appartiene all’AT e al tardo giudaismo e affiora solo in 2Cor 11,2 ed è
presente in Mc 2,19-20 e nessuno degli ascoltatori di Gesù l’avrebbe potuta capire.
Anche qua l’arrivo repentino dello sposo (corrispondente al diluvio, al padrone che
torna, al ladro) è figura della catastrofe che giunge inaspettata. La parabola è ancora
una volta un grido d’allarme sconvolgente di fronte alla sovrastante crisi
escatologica: così Gesù ha inteso la parabola e così la folla deve averla compresa.
La chiesa non ha stravolto la parabola: la catastrofe escatologica e e la parusia
messianica sono infatti due aspetti dell’identico avvenimento. Ma anche qua si è
fatto uno spostamento di accento, da grido d’allarme alla folla a esortazione a
gruppo di discepoli.

La parabola del portiere (Mc 13,33-37; Lc 12,35-38; Mt 24,42). Ci sono nei sinottici
grandi differenze! La parabola è originaria in Marco: è il portiere che attende (e solo
a lui è dato il comando di vegliare) e non una pletora di servi che poi vengono
premiati (Luca).
Sia in Matteo che in Luca c’è un adattamento cristologico non originario anche se nei
passi di Marco ci sono delle frasi che derivano o sembrano mutuate dalla parabola
dei talenti (Mt 25,14)7 e dalla parabola del servo (Mt 24,45 e Lc 12,42).
Il nucleo della parabola è quello di Mc 13,34b (il padrone ha ordinato al portiere di
vegliare) e di aprire immediatamente la porta non appena il padrone ritorna e bussa
(Lc 12,36). Buon per lui se il padrone lo trova sveglio! Ma cosa intendeva Gesù? A
chi parlava? Ai discepoli? Facendo riferimento a quello che sarebbe accaduto sul
Gethsemani? Alla folla? Ai dottori della legge? Ovvero, non fatevi trovare
addormentati, quando verrà l’ora della crisi?
In ogni caso sembra trattarsi di un’altra parabola della crisi. La chiesa primitiva
applica la parabola, ancora una volta, alla sua situazione aggiungendo particolari,
dettagli e ricompense che però non erano il nucleo originario.

La parabola del servo cui è stato affidato il controllo o parabola del servo fidato (Lc
12,41-46; Mt 24,45-51). Matteo e Luca hanno visto nella figura del padrone il Figlio
dell’uomo che ritorna come Giudice del mondo e nella parabola una esortazione ai
discepoli di Gesù perché non si intiepidiscano nell’attesa della parusia. In Luca si è
aggiunto che la parabola era destinata solo agli apostoli, investiti di una particolare
autorità, e a cui il Signore ha dato di più e per questo devono rendergli di più. Mt
24,51a oltre ad essere un’aggiunta di Matteo ha anche un errore dalla traduzione dal
possibile aramaico in greco nella parola “dichotomeo” (“pallegh" in siriaco/aramaico),
tagliare in due, e quindi “egli lo dividerà” anziché egli “impartirà a lui” come è
nell’aramaico. Per il popolo, gli ascoltatori di Gesù, gli amministratori del Regno di
Dio a cui erano affidate le chiavi erano proprio i dottori della legge. La parabola
sembra parlare proprio di questi amministratori, ovvero dei capi religiosi di quel

7 J. Jeremias forse ignorava la “teoria delle due fonti” di Weiss (Marco e fonte Q) per cui tutto il materiale in più
rispetto a Marco, da cui attingono, che Luca e Matteo hanno in comune è desunto dalla “fonte Q” a cui si
aggiunge, per ciascuno dei due, il loro materiale proprio.

LE PARABOLE DI GESÙ !11


tempo (l’allusione di Matteo agli ipocriti sembra confermarlo). Gesù dice loro che si
avvicina la resa dei conti in cui Dio esaminerà il loro operato.
La chiesa primitiva interpreta il ritardo con il protrarsi della parusia. I servi sono i capi
delle prime comunità i quali devono vigilare e attendere con fiducia. Come si vede
anche qui è stato operato uno spostamento di uditorio che determina uno
spostamento di significato.

La parabola dei servi ai quali sono stati affidati i denari (Mt 25,14-30; Lc 19,12-27;
Vangelo dei Nazareni). Nel Vangelo dei Nazareni c’è un terzo servo che scialacqua il
denaro. In Luca e Matteo ci sono differenze.
In Luca Gesù fa riferimento ad un fatto vero, la vendetta di Archelao, al ritorno da
Roma, contro quelli che non lo volevano al trono. Ma Luca sbaglia nell’accostare il
Figlio dell’uomo al nobile personaggio perché questo o è tutto proteso verso il
denaro (Lc 19,21) o si comporta come un crudo despota che gode a vedere i suoi
nemici giustiziati (Lc 19,27).
E’ invece Matteo ad aver conservato la redazione più antica anche se, a torto, la
vede anche lui come una parabola della parusia. In Matteo i servi ricevono somme
favolose mentre in Luca vengono nominati governatori solo dopo aver fatto fruttare
quanto ricevuto. I vv. 21.23 (la ricompensa in Luca è solo terrena, qui celeste,
perché la gioia è l’entrata nel Regno; si tratta di una locuzione molto usata da
Matteo) e v. 30 (non ci sono in Luca e oltrepassano il quadro terreno della parabola:
il servo tra l’atro, al v. 28, era già stato punito!) non appartengono al testo originario.
Interessante il dato, diverso nei due sinottici, sulla diversa conservazione dell’unico
talento: sottoterra per Matteo (come prescritto secondo il diritto rabbinico), in una
pezza per Luca, cosa che è di una leggerezza inaccettabile8.
Per chi ascoltava Gesù quei servi erano i dottori della legge, i capi religiosi del
popolo. Allora Gesù avrebbe rivolto la parabola proprio ai dottori della legge. A loro è
affidata la Parola di Dio e dovranno renderne conto circa il suo utilizzo.
L’applicazione parenetica della parabola fa leva sull’aggiunta (?) di Mt 25,28-29 che,
per le comunità è sicuramente una spiegazione convincente, ma non può diventare
principio di interpretazione per tutta la parabola, divenendo anche misura della
giustizia (un po' ingiusta) divina (togliere ai poveri per dare ai ricchi). Si tratta di una
spiegazione secondaria che però diventa principale. Infatti in Matteo il mercante
diviene allegoricamente il Cristo, il suo viaggio l’ascensione, il suo ritorno la parusia,
con la divisione tra “buoni” e “cattivi”.

Le cinque parabole che abbiamo esaminato (della parusia) erano in origine tutte
parabole della crisi. Esse vogliono scuotere il popolo accecato e i suoi capi di fronte
all’ora grave e temibile. La catastrofe verrà inaspettata come… La chiesa primitiva
invece spiegherà queste cinque parabole in chiave cristologica anche se Gesù si è
riconosciuto come Messia soltanto una volta in pubblico: Mc 14,62 (“Io lo sono!”).

Oltre al ritardo della parusia la chiesa delle origini iniziava a prestare la sua missione
alla sequela del Cristo e del suo Vangelo. In questi termini va vista la parabola della
gran cena o del banchetto nuziale (Mt 22,1-14; Lc 14,16-24; Ev Th 64). Aspetto
comune a tutte e tre le redazioni è il rifiuto degli invitati e la convocazione al loro
posto dei primi che capitano. Si tratta di una parabola come quella degli operai della

8 Cf. J. Jeremias, op. cit., p. 72 - nota 55

LE PARABOLE DI GESÙ !12


vigna e della pecorella smarrita, rivolte ai critici e ai nemici di Gesù, quelli che si
ostinano a non capire la sua missione.
In Luca ci sono due inviti: la massima preoccupazione del padrone in Luca è di
riempire la propria tavola: il primo invito va a vuoto ma l’invito 2a era, come in
Matteo, riferito ai pubblicani e ai peccatori di Israele, mentre il 2b ai pagani. La
chiesa missionaria interpreta la parabola come un comando missionario. Non era
questo l’intento originario di Gesù, tuttavia, e Gesù prospettava la partecipazione dei
pagani nell’ora escatologica in altro modo (cf. Mt 8,11).
Rimane in Matteo l’anomalia dell’invitato senza abito nuziale (poveraccio!), visto che
uno chiamato dalla strada era improbabile che avesse un abito adatto. Nel tempo di
Gesù non si offriva agli invitati un abito come gli esegeti hanno proposto. I vv. 11-13
sono una “amplificazione” (spesso Gesù ne fa nelle parabole, riprendendo narrazioni
note e aggiungendo o cambiando delle parti) e fanno parte, considerato il parallelo di
una parabola rabbinica del I sec d.C., di una parabola indipendente il cui inizio
poteva essere in Mt 22,2. Considerato che si tratta di una parabola della Buona
Novella l’aver introdotto una seconda parabola non ha nulla di sorprendente.
L’equivoco può nascere se la parabola si applica alla prima comunità cristiana, per il
battesimo (i buoni e i cattivi) e l’abito allora diventa segno di conversione e il modo
dignitoso con cui affrontare il giudizio.
Infine occorre dire che il cambiamento di significato di alcune parabole (in origine
rivolte ai capi religiosi e agli avversari di Gesù, come abbiamo visto) è stato voluto
per dare delle indicazioni e delle direttive ai capi delle comunità della chiesa
primitiva, direttive che provenivano direttamente da Gesù in persona.

L’allegorizzazione

La chiesa primitiva ha applicato alla sua situazione particolare le parabole


caratterizzate dal ritardo della parusia e quelle della missione, ma anche dove si
parla di premio e di castigo. Per fare questo ecco l’uso dell’allegorizzazione
cristologica (Cristo è re, padrone, sposo,…). Tutti e tre i sinottici concordano nel
vedere nelle parabole delle affermazioni enigmatiche, incomprensibili per “quelli di
fuori” (Mc 4,11 ss.).
Vediamo una breve carrellata di alcune tra queste allegorizzazioni andando a
studiare i testi:
A) Parabole comuni a Matteo e Luca.
Ladro, servo di fiducia, talenti, gran cena. Sono parabole riferite a Cristo e al suo
ritorno. Le applicazioni allegoriche (non originali o primitive) sono frutto della
tradizione e non sono originarie.
Vediamo un esempio di allegorizzazione in Matteo della parabola della gran cena
(Mt 22,1-14; Lc 14,16-24; Ev Th 64): il primo gruppo di servi, rigettati e uccisi, sono i
profeti; il secondo gruppo gli apostoli e al loro martirio (nel mezzo c’è la distruzione
del tempio); l’invio dei servi per le strade è la missione ai pagani; l’ingresso nella sala
del banchetto è il battesimo. La cena è la cena del tempo della salvezza. La visita
del re ai suoi ospiti è il giudizio. La parabola, con l’interpretazione allegorica, è
diventata uno schizzo della storia della salvezza. La parabola è in relazione con Mt
21,33-46, la parabola dei vignaioli malvagi e i passi 21,34 e 22,3 sono sovrapponibili,
anche 21,35 e 22,6. Motivazione, per entrambe le parabole, della missione ai pagani
perché Israele non aveva accolto la Buona Novella (cf. Mt 21,45).

LE PARABOLE DI GESÙ !13


Luca è più cauto in termini di allegorizzazione anche se la polis, la città, significa
Israele e la parabola raffigura la chiamata dei pagani. Matteo anche in Mt 18,12-14,
la pecorella smarrita, allude alla comunità e al dovere delle guide (il pastore) di
riportare chi era smarrito (la pecorella) alla comunità, mentre Luca rimane in un
contesto di vita quotidiana.
Gesù aveva esposto la parabola della gran cena non certo come allegoria del
banchetto messianico ma come riferimento al rifiuto dell’invito da parte dei capi di
Israele.
B) il testo di Marco.
Anche qui il Cristo è allegorizzato come sposo (Mc 2,19b-20) e come padrone di
casa (Mc 13,33-37). Jeremias considera questo logion, presente anche in Matteo e
Luca per fonti proprie, come una fonte anteriore anche a Marco stesso.

La parabola dei vignaioli malvagi/omicidi (Mc 12,1-11; Mt 21,33-44; Lc 20,9-18; Ev


Th 65) è fortemente allegorica anche in riferimento ad Is 5,1-7. Il riferimento
allegorico però è secondario come conferma lo stesso Vangelo di Tomaso e l’utilizzo,
nell’introduzione della parabola, di una traduzione erronea dei LXX di “fossato” (testo
ebraico) con “siepe” (testo dei LXX riportato anche in Marco).
Anche nell’invio dei servi il Vangelo di Tomaso rimane nell’ambito di un semplice
racconto. Marco introduce invece una progressione nella serie degli oltraggi.
Sicuramente in Marco l’allegoria che riguarda i servi rimanda ai profeti e alla loro
persecuzione. In Luca non c’è questa escalation di oltraggi e c’è invece una
simmetria stilistica tipica di Luca. Matteo invece parla di molti servi che si riferiscono,
allegoricamente, ai profeti antichi e nuovi/recenti. Quello che rimane, tolta
l’allegorizzazione, è il racconto primitivo con l’invio di un servo per volta (Luca e
Tomaso) che ritorna a mani vuote ingiuriato e scacciato.
Infine, nella parabola, c’è l’invio del Figlio. In Tomaso la chiusura è brusca: il figlio
viene ucciso e basta. Questo esclude che l’immagine possa essere stata aggiunta
dalla chiesa primitiva per la quale, invece, la resurrezione era centrale! Gesù ha
inteso la missione del figlio come la propria missione, ma per i suoi uditori non era
chiaro il riferimento del figlio al Messia, perché, al tempo di Gesù, il termine “Figlio di
Dio” NON è attestato come un attributo messianico (solo in epoca postcristiana si
riscontrano nella letteratura rabbinica rari casi di indicazione del Messia come figlio
di Dio). Nessun ebreo sentendo la parabola poteva essere indotto a pensare alla
missione del Messia. L’aspetto cristologico della parabola era velato agli uditori.
In Matteo e Luca nel racconto della morte del figlio fuori dalla città c’è un riferimento
alla vicenda di Gesù (in Marco non c’è). Ci sono però in Marco aspetti cristologici: il
figlio amato in 12,6 (reminiscenza di Mc 1,11 e 9,7); il riferimento al Salmo
118,22-23, citato dalla chiesa antica in relazione alla resurrezione. Queste allusioni
cristologiche mancano nel racconto primitivo, per esempio nel Vangelo di Tomaso
(che è la fonte autentica di quello che la storia era davvero) anche se in Ev Th 66
viene riportato il logion della pietra scartata (in Tomaso c’è la base e il logion
successivo e in Marco queste due cose vengono messe assieme in una
delucidazione della parabola).
Infine nella parabola c’è la domanda finale che sta nei tre sinottici e non in Tomaso
(c’è scritto: chi ha orecchie intenda): “che farà il padrone della vigna?”. Essa si
ricollega ad Is 5 nella forma dei LXX e non nel testo ebraico originario in cui manca
la forma interrogativa. La parabola secondo Jeremiah, spogliata del suo impianto
allegorico, in realtà si rifà ad una situazione, ancora una volta, della vita di Gesù e

LE PARABOLE DI GESÙ !14


della gente che lo ascolta: le difficoltà e la ribellione (fomentata dagli zeloti) dei
contadini nei confronti dei grandi proprietari terrieri stranieri9.
Mc 12,1 il padrone, in effetti, vive lontano, all’estero. Anche questa lontananza
spiega perché i vignaioli pensano di poter entrare in possesso della vigna uccidendo
l’unico erede (“agapetos” Mc 12,7). Uccidendolo potevano, per diritto, reclamare la
vigna. Potevano esistere clausole di cessione delle proprietà se l’erede non le
reclamava o non poteva più reclamarle. Bastava poi circondare di siepi un terreno o
mettere un segno della propria proprietà.
Forse era esagerato, nella parabola, arrivare a raccontare un gesto così estremo,
ma l’intento di Gesù era quello di evidenziare la loro brutalità. Allegoricamente
questo potrebbe essere proprio il rifiuto, nella figura del figlio, dell’ultimo e definitivo
messaggio di Dio. Ma sembra più verosimile che Mc 12,1 ss. non sia una allegoria
ma una parabola collegata ad eventi reali (o realistici).
E quindi: quale è il significato originario della parabola?
“Voi, affittuari della vigna e capi del popolo, non avete voluto accogliere il messaggio
e accumulando verso Dio ribellione rigettate persino il suo ultimo messaggero. La
misura è colma! E la vigna di Dio sarà data ad altri (Mc 12,9)”. I miti, che ereditano la
terra (Mt 5,5). In Is 5,7 la vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele. Tutti
conoscevano questo versetto e il resto si intuisce. Ancora una volta con questa
parabola Gesù vuole giustificare la presentazione della Buona Novella ai poveri. In
Matteo l’allegorizzazione, come per la gran cena, si è trasformata in uno schizzo
della storia della salvezza a partire dal Sinai. Luca è più prudente e Tomaso è libero
da ogni allegorizzazione. Per questo la formulazione originaria Dodd10 la attribuisce
a Tomaso.

Nella spiegazione della parabola del seminatore (Mc 4,13-20; Mt 13,18-23; Lc


8,11-15 questi ultimi dipendono da Marco) ci sono riferimenti allegorici che fanno
pensare al brano come opera della chiesa primitiva e NON originario.
1) Il termine “o logos” = la Parola è un termine tecnico forgiato dalla chiesa primitiva
e pochissimo usato da Gesù tranne in questo frangente dove lo utilizza, in pochi
passi, più che nel resto del testo!
2) In Mc 4,13-20 ci sono termini irreperibili altrove nei sinottici, mentre si ritrovano
negli scritti neotestamentari, p. es. in Paolo.
3) La semina all’annuncio della parola non corrisponde al vocabolario abituale di
Gesù che paragonava la predicazione con l’ammasso del raccolto.
4) Nella spiegazione la parabola diventa un’esortazione ai convertiti per esaminare
la loro coscienza per vedere quanto sul serio hanno preso la loro conversione,
venendo invece COMPLETAMENTE a mancare il profondo significato escatologico.
5) Nel vangelo di Tomaso non c’è ombra della spiegazione11
Quindi il commento della parabola del seminatore risale alla chiesa primitiva ed è
anteriore a Marco. Questo è corroborato dai due stessi paragoni. Ci sono due
paragoni risalenti rispettivamente a 4Esdr 9,31(io semino la mia legge nel vostro
cuore: la parola come semenza divina) e 4Esdr 8,41 (l’uomo è piantagione di Dio).

9 Personalmente ritengo questa interpretazione una forzatura


10 C.H. Dodd, The parables of the Kingdom, Revised Edition, London 1936
11 C’è da chiedersi come mai, vista la destinazione esoterica del Vangelo di Tomaso, Gesù non da alcun cenno di
offrire proprio in questo vangelo le spiegazioni più profonde al discepolo, a parte i “chi ha orecchie per intendere
intenda”.

LE PARABOLE DI GESÙ !15


C) il testo proprio a Matteo
Ci sono numerose interpretazioni allegoriche nelle parabole. Abbiamo già visto la
parabola delle dieci vergini12 (cf. p. 10) e quella dell’ospite senza vestito nuziale13 (cf.
p. 11).

La parabola dei due figli dissimili (Mt 21,28-32) che si conclude applicandola a
Giovanni Battista che come il padre della parabola subisce il rifiuto di chi si era
impegnato, e trova ascolto da parte di chi, almeno a parole, si era opposto.
Si tratta di una applicazione della parabola difficilmente originaria. La conclusione è
in 31b. La parabola all’origine voleva giustificare la Buona Novella e il fatto che quelli
a cui era destinata non la hanno accolta. Aggiungendo il v. 32 si pone questa
parabola sullo stesso piano di quella dei vignaioli omicidi o della gran cena. Non è
Matteo ad aggiungerla ma la ha ricevuta così.

La parabola della zizzania tra il grano (Mt 13,24-30 e sua interpretazione Mt


13,36-43). La spiegazione della parabola è una piccola apocalisse, ma il punto
saliente della parabola è l’esortazione alla pazienza14. Ci sono poi anche degli
aspetti linguistici e terminologici che difficilmente Gesù avrebbe potuto usare (l’uso di
“cosmos"; “poneros" = Il Maligno; “Basileia" = “malkuth” = il Regno di Dio; “diabolos”
che viene preferito a “satanas" che è comunque più antico e originario15; in Marco
“diabolos” non si trova infatti e si trova “satanas" nelle tentazioni Mc 1,13 e nella
zizzania Mc 4,15).
E ancora ci sono particolarità che non si inseriscono nel quadro della predicazione di
Gesù: l’espressione dei figli del Regno e quella degli angeli del Figlio dell’uomo che
si ritrovano solo in Matteo e non in altre parti del NT. O anche l’espressione “dal suo
regno (del Figlio dell’uomo)” del v. 41 che non si trova se non in Matteo e che
designa un regno (la Chiesa?) umano a cui nella parusia subentrerà il Regno di Dio
(v. 43). Nella parabola ci sono un elevato numero di parole ed espressioni che usa
solo Matteo tra tutti i sinottici!
Dinanzi a queste evidenze l’interpretazione della parabola del grano e della zizzania
proviene dallo stesso Matteo. In Ev.Th. 57 c’è la parabola ma non c’è la spiegazione/
interpretazione allegorica.

Anche la spiegazione (Mt 13,49-50) della parabola della rete (Mt 13,47-48) si fa
risalire a Matteo stesso (i pesci cattivi gettati nella fornace ardente!!!).
Le spiegazioni allegorizzanti (e quindi parenetiche) di queste due parabole sono di
Matteo. Entrambe invece, originariamente, invitavano gli impazienti alla pazienza (la
separazione tra buoni e cattivi arriverà nell’ora di Dio).

D) il vangelo di Giovanni.

12 CF. J. Jeremias, op. cit., p. 59


13 Cf. J. Jeremias, op. cit., p. 77
14 Cf. R. Bultmann, Die Geschichte der synoptischen Tradition, Gottingen 1958, p. 203
15 Cf. J. Jeremias, op. cit., p. 99 - nota 152

LE PARABOLE DI GESÙ !16


Parabola del buon pastore (Gv 10,1-30) e parabola della viete e dei tralci (Gv
15,1-10) sono con forti tratti allegorizzanti e sono spiegate esaurientemente in modo
allegorico. Nella prima Gesù prima espone la parabola e poi la spiega.

E) vangelo di Luca e passi che gli sono propri.


Le interpretazioni allegoriche di Luca non hanno la stessa ampiezza di quelle di
Matteo. Parabole allegoriche di Luca: seminatore (Lc 8,11-15); i domestici vigilanti
(Lc 12,35-38); il ladro (Lc 12,39); il servo amministratore (Lc 12,41-46); la grande
cena (Lc 14,16-24); la parabola delle mine/monete d’oro (Lc 19,11-27); dei vignaioli
(Lc 20,9-18). Probabilmente però le interpretazioni allegoriche NON sono opera di
Luca ma lui le ha semplicemente riportate (ci sono anche negli altri Vangeli sinottici)
visto anche che le tipiche espressioni stilistiche o vocaboli di Luca non sono quasi
mai riportate nei versetti “allegorizzanti”.
Nelle parabole proprie di Luca NON ci sono allegorizzazioni16 né rielaborazione in
senso allegorico. Viceversa quel materiale è stato ritoccato ed ampliato in
prospettiva parenetica.

F) il vangelo di Tomaso.
La parabola del ladro (Ev Th 21) ha una interpretazione gnostico-allegorica nel
termine Regno, ovvero quella Gnosi che lo gnostico possiede (gli averi) e non deve
farsi rubare. L’assenza di tratti allegorici in Tomaso sorprende ancor di più se
pensiamo che il redattore gnostico ha di certo inteso le parabole in senso allegorico /
simbolico e così voleva fossero intese.
La conferma di questa attenzione a cercare e poi custodire il segreto della Gnosi (la
Perla di Ev Th 76) sta nel “chi ha orecchie per intendere intenda!” al termine delle
parabole. Le parabole di Tomaso hanno, proprio per questo, un grande valore, in
quanto “originarie”.

Originariamente l’insieme delle parabole era privo di interpretazione allegorica come


lo sono il testo proprio di Luca e il Vangelo di Tomaso. Gesù si è limitato ad
impiegare le similitudini abituali e famigliari ai suoi uditori prese quasi tutte dall’AT:
Dio = padre, padrone, giudice; uomini = figli, servi, debitori, invitati; popolo di Dio =
vigna, gregge; il giudizio = la mietitura; il tempo della salvezza = il banchetto, le
nozze; l’inferno = il fuoco, le tenebre; i salvati = gli invitati a nozze.
L’interpretazione allegorica delle parabole ha inizio molto presto, precede gli stessi
Vangeli, ed è sorta su un “terreno” palestinese. In ogni caso le spiegazioni
allegoriche che troviamo nelle parabole di Gesù NON sono originarie. Prescindendo
da queste spiegazioni o interpretazioni possiamo comprendere il senso originario
delle parabole di Gesù.

Le parabole doppie e fusioni di parabole

Diamo solo un cenno sulle parabole doppie, ovvero quelle costruite con un
parallelismo antitetico. Si tratta però di immagini (sempre “masal" nella tradizione
rabbinica) che vengono usate per degli insegnamenti.

16 Cf. J. Jeremias, op. cit., p. 106 - nota 199

LE PARABOLE DI GESÙ !17


Vediamo la parabola/immagine del tesoro del campo e della perla (Mt 13,44-46). E’
originario questo raddoppiamento delle immagini? In effetti sembrerebbe di no (nel
Vangelo di Tomaso quelle due immagini stanno in posti diversi e lontani: il campo in
Ev Th 109, la perla al 76). Le parabole doppie sembrerebbero originariamente
indipendenti. Molte di esse sono legate, accoppiate con altri partner come in Mc
4,21-25 dove sono accoppiate l’immagine della lampada e quella della misura. Nelle
similitudini Gesù si è servito dell’accoppiamento per quelle immagini che egli voleva
rendere più evidenti, prendendole dalla natura e dal mondo degli animali.

La tendenza della tradizione a raccogliere le parabole ha portato talvolta alla loro


fusione, ad esempio parabola della gran cena Mt 22,1-14. Infatti come abbiamo visto
si tratta, molto probabilmente, dell’intrecciarsi di due parabole, quella degli invitati/
non invitati (Mt 22,1-10) e la parabola dell’invitato senza abito di nozze (Mt
22,11-13).
Anche la parabola dei talenti in Luca pare la fusione di due storie: quella dei servi a
cui sono dati i talenti a cui si aggiunge la storia di un pretendente al trono che una
volta riconosciuti i suoi diritti torna ricompensando gli amici e punendo i nemici. C’è
anche il caso (Lc 13,24-30) di una parabola nuova che sorge dalla fusione di altre
due.

Redazione e contesto delle parabole

La critica delle forme (in tedesco: Formgeschichte, "storia delle forme") è un metodo
dell'esegesi basato sulla comprensione del contesto originale in cui un determinato
testo è nato ed è stato usato. L'ambiente nel quale il testo è cresciuto (Sitz im
Leben) sarebbe quindi la chiave per comprendere il testo. "Forma" qui è traduzione
del tedesco Gattung, ma sarebbe meglio tradurlo "genere letterario" (genre). Questo
metodo cerca di isolare le fasi pre-letterarie di un testo biblico ricostruendo la vita
sociale e le istituzioni di Israele17.
La domanda che occorre porsi è: vedere se si armonizza il contesto della parabola
che ci è stata tramandata con il senso originario della stessa. Nel Vangelo di
Tomaso, per esempio, non c’è alcun inquadramento contestuale!

La parabola del giudice (Mt 5,25 ss. e Lc 12,58 ss.) che è una parabola della crisi ed
escatologica (pag. 49) è stata inserita da Matteo in un altro contesto parenetico
(riconciliati col fratello).

La parabola della gran cena (Lc 14,16-24) è inserita in Luca in un contesto diverso
da quello di Matteo, proprio in un banchetto, e sembra voler esortare ad invitare i
poveri, gli storpi, ecc… mentre originariamente voleva giustificare la Buona
Novella18.

17 http://it.wikipedia.org/wiki/Critica_delle_forme
18 Cf. J. Jeremias, op. cit, p. 51

LE PARABOLE DI GESÙ !18


Anche Mt 18,23 ss., la parabola del debitore infedele, è inserita in un contesto (la
domanda di Pietro sul perdono) che difficilmente poteva essere il fine originario, visto
che nella parabola non si parla di rinnovare il perdono.

La tradizione aggiunge ad una parabola o alla sua interpretazione situazioni e


transizioni create dal redattore riguardanti il Sitz im Leben, l’ambiente e il momento
storico in cui quel racconto viene redatto. Ad esempio certi discorsi che Gesù
pronuncia davanti a tutti ma poi spiega solo a un gruppo ristretto. Si tratta di uno
schema utilizzato spesso nei racconti rabbinici del 1 sec d.C.
Abbiamo visto che le spiegazioni di alcune parabole (seminatore Mc 4,13 ss. e
zizzania Mt 13,36 ss.) sono composizioni secondarie. I dati riguardanti la situazione
vanno esaminati parabola per parabola per vedere se sono originari o di carattere
redazionale.
Viene portato l’esempio di Lc 12,41, la domanda di Pietro. Questa domanda è
assente in Matteo ma la cosa che induce a pensare ad un aggiunta redazionale è
anche che la risposta di Gesù non ha nulla a che vedere con il significato primitivo
delle due parabole, ovvero delle grida di allarme in chiave escatologica rivolte alla
folla e agli scribi, e non delle esortazioni indirizzate agli apostoli (o ai capi delle
comunità).

Introduzione e conclusione delle parabole

Le parabole di Gesù hanno due forme di introduzione fondamentali:


1) la parabola che inizia con un nominativo, stile preferito da Luca (il seminatore Mc
4,3, Ev Th 9; il ricco stolto Ev Th 63, i vignaioli omicidi Mc 12,1, Ev Th 65; il creditore
Lc 7,41; il buon samaritano Lc 10,30; l’uomo della campagna Lc 12,16; il fico secco
Lc 13,6; e così via…)
2) la parabola che inizia con un dativo (stile preferito da Matteo), in aramaico:
“Masal. Le melekh se…”. Ovvero: “voglio raccontarti una parabola. A che paragonerò
la cosa?”
Mc 4,30 e Lc 13,20: “A cosa possiamo paragonare il Regno dei cieli, con quale
parabola possiamo descriverlo?” Alla base di tutte queste espressioni sta il “Le”
aramaico, che è una abbreviazione del tipo: “la cosa sta nei riguardi di… come
con…” risposta alla domanda “a cosa possiamo paragonare?”. Oppure il “Le” è una
abbreviazione di “avviene come…”.
C’è uno spostamento di asse del paragone. In Mt 13,45 il Regno di Dio non è simile
ad un mercante, ma simile ad una perla, ecc… Sarebbe più corretto scrivere:
“avviene come ad un mercante….”. Al greco “omoios estin" (è simile) soggiace la
particella in aramaico “Le”. Mt 13,31 non va tradotto “il regno di Dio è simile ad un
granello di senape” ma “avviene col regno di Dio come con un granello di senape“
oppure “il regno di Dio si comporta come un granello di senape”. Il regno viene
paragonato non al chicco ma all’alto arbusto che da quello proviene. Oppure in Mt
13,33 non è “simile al lievito” ma alla pasta già pronta e lievitata. Oppure ancora in
Mt 13,47 non è paragonato ad una rete da pesca ma alla sorte che, al suo avvento,
toccherà ai pesci una volta pescati. In Ev Th il Regno è molto più spesso paragonato
ad un uomo (96, 109, 8).

LE PARABOLE DI GESÙ !19


Il dativo si trova tre volte in Mc; sei in Lc; quindici in Mt; nove in Tomaso.
L’espressione “omoia estin" si trova dieci volte in Matteo, otto volte in Tomaso, due in
Marco e Luca. Manca nel testo proprio di Luca.
C’è anche una forma interrogativa (p. es. Mc 9,50 oppure Mt 6,27 oppure Mt 7,9)
che non ha altri paralleli nella letteratura contemporanea di Gesù. In casi come
questi ci troviamo dinanzi agli ipsissima verba Domini, maniere insistenti di
interrogare che Gesù ha impiegato nelle controversie con i suoi avversari o nei suoi
discorsi alla folla.

Come si interpretano o si devo interpretare le parabole? Questo si chiedeva la


chiesa e in questo senso le conclusioni di alcune parabole sono state rimaneggiate.
In quali casi siamo davanti ad un ampliamento/amplificazioni? Ci sono amplificazioni
sia sul materiale della parabola sia sul commento o sua applicazione. Alcune
aggiunte, che in verità sono generalmente comunque poche, sono malaccorte
(parabola del vino nuovo in otri vecchi: Lc 5,39; Ev Th 47b).
O anche in Lc 12,41-46 parabola del servo-amministratore. Ai vv 47-48 è aggiunto
un logion che non c’è in Matteo che mal si adatta al contenuto della parabola (in cui
non si parla della conoscenza o meno del volere del padrone). Cf. anche Mt 21,41b
“che gli consegneranno i frutti a suo tempo” e Mc 12,9 in cui questo logion non c’è.
Matteo ancora aggiunge una forma a lui caratteristica: “e la ci saranno grida e
stridore di denti”.
Otto parabole si concludono bruscamente senza spiegazione: Mc 4,26-29 il
contadino paziente; Mc 4,30-32 il chicco di senape; Mt 13,33, Lc 13,20 il lievito; Mt
13,34 il tesoro nel campo; Mt 13,45 la perla; Mt 24,45-51, Lc 12,42-46 il servo-
amministratore; Lc 13,6-9 il fico infruttuoso; Lc 15,11-32 l’amore del padre.
Tutte le parabole in Tomaso sono senza spiegazione tranne Ev Th 21b (il campo), 64
(il banchetto) e 76 (la perla - aggiunta parenetica). Si è teso a dare fin dall’inizio una
spiegazione alle parabole che non ne avevano. Questa cosa si vede in tre casi:
Mc 4,13-20, Mt 13,36-43.49.

Mt 20,16 che vuole spiegare la parabola dei salariati della vigna (p. 7) non conviene
e mal si adatta alla narrazione precedente!

C’è una amplificazione nella conclusione della parabola delle 10 vergini (Mt 25,13);
ugualmente la conclusione della parabola del ricco stolto (Lc 12,21) che, per
esempio, non c’è in Ev Th 63. Ci sono parabole trasmesse con diverse o concorrenti
applicazioni/spiegazioni. L’immagine della lampada sotto il moggio in Mt 5,16 è
applicata ai discepoli, mentre in Mc 4,22 e Ev Th 33b è applicata alla Buona Notizia.
In Lc 11,34-36 è applicata alla luce interiore. Idem per l’immagine del sale Mt 5,13
differisce da Mc 9,50.
Ugualmente nella parabola della cena Lc 14,12-14 è diverso da Mt 22,14. Lc 14,11
(o anche Lc 18,14b che però è una conclusione morale “banale” della parabola) è
simile al codice D e a Hillel e non viene considerata, in questo caso, come
secondaria!
In ogni caso NON sappiamo se è stato Gesù ad aver usato immagini differenti
oppure una sola che è originaria e che è stata tramandata senza spiegazione ed
arricchita in seguito.

LE PARABOLE DI GESÙ !20


Molto spesso una spiegazione già data è stata trasformata o ampliata, p. es. Lc
16,8. O i vignaioli omicidi (Mc 12,1-9) che ha tre stadi di ampliamento: Mc 12,10 ss.
= Mt 21,42; Mt 21,44 e Lc 20,18; infine Mt 21,43.
Si veda Mt 5,14-15 e Ev Th 32.33: in Tomaso si allude alla predicazione; in Matteo si
parla della testimonianza. Passo di Mt 18,35 “cristianizzato” da Matteo (vedi nota 78
su termine “adelfos”, fratello nella fede, che anche Gesù usava in questo senso, e
che Matteo designa precisamente come fratello della comunità cristiana, visto anche
che originariamente il termine aveva valenza di connazionale o prossimo).
Il conclusivo “Chi ha orecchie per intendere intenda” in Ev Th si trova almeno in
cinque parabole proprio perché lo gnostico approfondisse il senso nascosto della
parabola. E comunque è una aggiunta secondaria.
In ogni caso si sono aggiunti dei logia generalizzanti a conclusione delle parabole e
questo rafforza il senso di queste aggiunte secondarie e/o degli ampliamenti. Si
tratta di aggiunte secondarie nel contesto, ovvero non che questi logia siano di
dubbia autenticità ma che non sono stati originariamente pronunciati come
conclusioni delle parabole. Nel vangelo di Tomaso abbiamo infatti visto che NON ci
sono.
In pochissime delle parabole che abbiamo appena elencato Gesù parla di norme di
vita o di aspetti morali, ma bensì evidenzia aspetti escatologici o di minaccia o di
esortazione. Le nuove conclusioni hanno spostato l’accento delle parabole. Così la
parabola degli operai della vigna nella quale Gesù vuole giustificare il suo annuncio
della Buona Novella, con la chiusa “gli ultimi saranno i primi…” diventa un
ammaestramento astratto sulle precedenze del Regno dei Cieli. Oppure la parabola
del fattore infedele che voleva spingere gli esitanti a prendere una decisione in vista
della crisi imminente viene trasformata da un finale “chi è fedele nelle piccole
cose…”. Nelle conclusioni secondarie a parlare è il predicatore o il maestro cristiano
che vuole spiegare la Parola del Signore. Le parabole di Gesù sono state adattate
alla comunità già da subito per la catechesi e la parenesi. E soprattutto questo si
trova in Luca (o la sua fonte propria) che mostra Gesù come maestro di sapienza in
vista della parenesi, mentre Matteo si è servito, per lo stesso fine, dell’allegoria.
Conoscendo questi aspetti e “neutralizzandoli” possiamo sperare di trovare il
significato originario delle parabole di Gesù.

Il messaggio delle parabole di Gesù

Applicando le leggi di trasformazione (pag. 6) alle parabole di Gesù otteniamo una


semplificazione sorprendente del loro aspetto globale. Rintracciamo così dieci gruppi
/tematiche che ricapitolano tutta la sua predicazione e nei quali possiamo collocare
tutte le sue parabole:

• presenza della salvezza


• la misericordia di Dio verso i peccatori
• la grande certezza
• l’imminenza della catastrofe
• la minaccia del “troppo tardi”
• l’imperativo dell’ora

LE PARABOLE DI GESÙ !21


• adesione vissuta
• la via della passione e la rivelazione della gloria del Figlio dell’uomo
• compimento
• azioni con intento di parabola

Presenza della salvezza

In Lc 7,22; Mt 11,5 Gesù si richiama a Is 35,5 ss. e Is 61,1. E’ un grido di gioia di


Gesù: l’ora è giunta! Questo risponde Gesù a Giovanni.
E ancora in Lc 4,18 ss. riprende ancora Is 61,1 ss: il momento è questo e oggi si
adempie la parola della Scrittura (Lc 4,21). Mc 2,19 (lo sposo in mezzo agli invitati) è
escatologia realizzata (in parole e fatti) in quanto la festa nuziale, in Oriente, è
simbolo del tempo della salvezza (Ap 19,7).
Alla festa nuziale i tre sinottici aggiungono le immagini dei vestiti nuovi e non
rattoppati (Mc 2,21), degli otri vecchi e il vino nuovo…: tutti simboli del tempo della
salvezza. Il nuovo mantello del cosmo (o la tenda) steso dal Cristo (Atti 10,11 ss.)
come immagine di un nuovo cosmo ristabilito puro da Dio.
In Mc 2,21 è giunto il tempo nuovo e non si rappezza il vecchio abito/mantello.
Anche il vino (nuovo) è un simbolo del tempo della salvezza (Mc 2,22; Gn 9,20; Gn
49,11-12; Gv 2,11 le nozze di cana; ecc…). Gesù è iniziatore ed artefice del tempo
messianico. Anche l’immagine della mietitura e della vendemmia si associano al
tempo della salvezza (Mt 9,37 ss.; Lc 10,2; Ev Th 73). Anche la parabola del fico
ricorda la mietitura (Mc 13,28 ss.; Mt 24,32 ss.; Lc 21,29-31). Alle porte sta il Messia
(=la sovranità di Dio)! Lo potete capire dai segni (terribili). Ma forse non era questo il
senso originario perché il contesto attuale (i segni premonitori) è una composizione
secondaria. L’albero del fico verdeggiante è invece indice di una benedizione
imminente (Gioele 2,22), un segno annunciatore del tempo di salvezza. Infatti il fico
perde le sue foglie ma i suoi germogli sono i precursori dell’estate. Il tempo della
salvezza è giunto perché è presente il Salvatore. La lampada è accesa (Mc 4,21; Mt
5,15; Lc 8,16; Ev Th 33b) e il significato originario (dove il moggio è un recipiente
vuoto rovesciato) doveva essere: “non si accende una lampada per poi spegnerla
subito dopo. Al contrario la si pone sul candeliere…” (Mt 5,15). Gesù, molto
probabilmente, ha pronunciato tali parole riferendosi alla sua missione, in una
situazione in cui gli si diceva di essere più prudente. Ma egli non poteva risparmiarsi!
Nella missione di Gesù è inclusa l’idea di salvezza riportata in figure quali: il pastore
(Mt 15,24 le pecore perdute di Israele; Lc 19,10 la pecorella smarrita; Lc 12,32 che
raccoglie il suo gregge; Mt 14,27 che da la vita per il gregge; Mt 25,32 che separerà i
capri; Mc 14,28 che cammina davanti al suo gregge); il medico (Mc 2,17 venuto dai
malati); il maestro (Mt 10,24 e Lc 6,40 che istruisce i suoi discepoli); il messo (Mc
2,17); il padrone di casa; il servitore; il pescatore; il costruttore (Mc 14,58); il re.
Si tratta di immagini della salvezza che hanno un senso e una testimonianza per i
credenti. Per gli altri il mistero del Figlio dell’uomo è e rimane nascosto. La Buona
Novella annunziata da Gesù è il grande dono della salvezza (cf. Is 61) del tempo
messianico. Mc 2,5: “figlio, ti sono (passivo per evitare di pronunciare il nome di Dio)
perdonati i peccati”. Uno di questi doni è la vittoria su Satana che Gesù racconta con
ricchezza di immagini (Lc 10,18 - passo molto sobrio ritenuto, a torto, ironico nel
commentare le azioni dei discepoli; Lc 11,20; Lc 13,16).

LE PARABOLE DI GESÙ !22


I tre momenti della tentazione di Gesù e le immagini in forma di racconto che li
accompagnano (Mc 1,12 ss.; Mt 4,1-11; Lc 4,1-13) erano originariamente separati.
Si tratta infatti di tre versioni del racconto della tentazione. Esse hanno come oggetto
il superamento della tentazione di una falsa attesa messianica. Jeremias afferma
che il Sitz im Leben delle tre tentazioni è il tempo subito precedente al venerdì
santo19. Il nucleo di questa narrazione non è attribuibile alla chiesa primitiva (a cui i
regni della terra, p. es., non interessavano affatto). Secondo Lc 22,31 c’è una lotta
con Satana, poco prima del tradimento nell’orto degli ulivi. E’ Gesù stesso ad aver
raccontato ai discepoli distinti “masal" del suo trionfo sulla tentazione: Gesù è l’uomo
forte nella cui casa il ladro non può rubare (Mc 3,27). Satana è sconfitto!

Per parlare della salvezza (= il suo messaggio) comunque Gesù ha parlato solo per
immagini e non in parabole! Questo perché i racconti in parabole sono stati impiegati
da Gesù come 1) armi polemiche, poi 2) come grida di minaccia e di allarme e infine
3) come mezzi per illustrare i suoi insegnamenti.

La misericordia di Dio verso i peccatori

Si tratta di quelle parabole che contengono la Buona Novella annunciata ai poveri.


Parabola della pecorella smarrita e della dramma smarrita (Lc 15,2); parabola dei
due debitori (Lc 7,40); sentenza sui malati (Mc 2,16); parabola del fariseo e del
pubblicano (Lc 18,9); parabola dei due figli (Mt 21,23). Originariamente sono rimaste
parabole rivolte alla folla e agli avversari e non sono state trasformate in parabole
rivolte ai discepoli. Sono quindi “attendibili”, originarie.
Il Sitz im Leben di queste parabole è una difesa, una giustificazione, un’arma contro i
critici e i nemici della Buona Novella indignati dall’annuncio di Gesù (che Dio vuole
avere a che fare con i peccatori!). Come?

a) Gesù orienta lo sguardo di questi avversari verso i poveri. L’immagine del medico
(Mc 2,17); la parabola dei due figli che si comportano in modo diverso (Mt 21,28-31)
che non ha a che vedere con l’interpretazione del no degli ebrei e il si dei pagani.

Parabola dei due debitori (Lc 7,41-43) raccontata a Simone nel contesto di un invito,
della presenza di una donna e di un fariseo. Gesù cerca di far capire a Pietro che
solo quelli che (ri)conoscono la portata del loro grosso debito possono capire la
bontà (il perdono dei peccati) e avere una tale riconoscenza. Dio le ha perdonato i
peccati per avere lei mostrato una sì grande riconoscenza e gratitudine che,
attraverso Gesù stesso e gli atti che la donna fa a lui, sono rivolti a Dio.

b) I critici devono rispondere alle accuse che Gesù fa loro: il figlio che dice di si al
padre e poi non fa il suo dovere (Mt 21,28-31), i vignaioli omicidi ((Mc 12,1-9; Ev Th
65), gli invitati che rifiutano l’invito (Mt 22,1-10; Lc 14,16-24; Ev Th 64).

19Personalmente non sono d’accordo: la tentazione avviene nel momento successivo al conferimento di uno
“stato” che è quello, appunto, che si ottiene con il battesimo. Cercare un Sitz im Leben in questo caso è
fuorviante.

LE PARABOLE DI GESÙ !23


c) Gesù difende e giustifica l’annuncio della Buona Novella ai disprezzati e agli
abbandonati. Questo annuncio si esprime nel modo migliore nella parabola del
figliolo prodigo o del padre misericordioso (o dell’amore del padre) in Lc 15,11-32.
Non si tratta di una allegoria ma di una storia presa dalla vita vera: “Padre ho
peccato verso il cielo e verso te” significa che c’è un padre terreno. Il figlio minore,
secondo Dt 21,17, pretende di essere liquidato e di poter organizzare
indipendentemente la sua vita.
Il padre tratta il figlio che ritorna non come un servo ma come un ospite d’onore. Fa
portare una veste nuova (segno della salvezza), segno di grande onore in Oriente;
l’anello è simbolo di pieni poteri; i calzari li portavano solo gli uomini liberi. Mangiare
il vitello grasso rappresenta un’occasione di festa del tutto particolare. Questi aspetti
mostrano il perdono del padre e il pieno reintegro del figlio quale figlio. La parabola
descrive la bontà divina: Dio è così! Super buono!
Questo è il senso della prima parte del racconto (vv.11-24). Poi c’è 24-32 che si
conclude come al v. 24. E’ una parabola col doppio punto focale come Mt 20,1-15, gli
operai inviati nella vigna o del padrone generoso, Mt 22,1-14, gli invitati alle nozze, e
Lc 16,19-31, parabola di Lazzaro e del ricco. Questa seconda parte sia per ragioni
lessicali che di contesto non è una allegorizzazione o genera uno spostamento di
significato né è una aggiunta: è originaria. Gesù ha aggiunto questa parte perché è
raccontata a uomini che si sentivano come il fratello maggiore, gente che in quel
momento si scandalizzava dell’evangelo. A loro lui dice che l’amore è tanto grande
che i morti resuscitano, gli smarriti tornano a casa, e quindi di non essere freddi e
ingrati o duri. Gesù quindi deve giustificare la Lieta Novella dinanzi a questi critici. E
la giustificazione è proprio questo amore sconfinato di Dio.
La parabola rimane con il finale aperto. I suoi ascoltatori sono (o si sentono) nella
situazione del figlio maggiore. Gesù cerca di conquistarseli, non li condanna ma li
vuole aiutare a vincere lo scandalo del Vangelo. La difesa (apologetica) di Gesù
nella parabola è evidente. Tutto era nato da Lc 15,2 dove i farisei lo accusano di
stare e mangiare con i peccatori. Gesù dice loro che il suo atteggiamento
corrisponde in toto all’amore sconfinato che ha Dio verso i peccatori che ritornano a
lui: Gesù pretende di attualizzare nel suo agire l’amore di Dio verso il peccatore
pentito. Gesù reclama per se la dignità di vicario e rappresentante di Dio.

La parabola della pecorella smarrita (Lc 15,4-7; Mt 18,12-14; Ev Th 107 dove dice
che “il Regno dei cieli è simile a un pastore che ….”) e quella della dracma smarrita
(Lc 15,8-10) sono legate a quella del figliol prodigo (non fosse altro che la precedono
nel racconto di Luca): due sono i figli, uno si perde fuori e lontano da casa e l’altro
proprio in casa.
I farisei, nella loro domanda o sconcerto dinanzi a Gesù che accetta l’invito dei
peccatori o dei pubblicani (gente impura come i pastori… che Gesù prende a
modello per se e per illustrare il comportamento di Dio) lo accusano di non essere un
uomo pio.
Nessuno, in Palestina, avrebbe abbandonato il suo gregge. Se deve farlo o da il suo
gregge in custodia ad altri oppure lo porta nel recinto o in una grotta. Infatti il termine
“e eremos", nel deserto, può significare anche un luogo chiuso, una grotta. Rispetto
a Tomaso in Luca e Matteo non è il valore della pecora a muovere il pastore alla
ricerca. In Matteo si parla di uno dei più piccoli e in Luca sembra si tratti di una
bestia più debole. Il pastore si mette sulle spalle la pecora e questo è un quadro

LE PARABOLE DI GESÙ !24


realistico perché la bestia può essere davvero spossata se ha cercato invano di
riunirsi al gregge e si è perduta.

Le dracme o dramme sono le monete con cui le donne della Palestina araba ornano
la loro fronte che rappresentano la loro dote, la loro ricchezza e non se le tolgono
mai, nemmeno durante il sonno. Dieci dramme sono poca cosa. Le parabole si
concludono con una perifrasi che doveva evitare di attribuire dei sentimenti a Dio (la
gioia). Il ritrovamento però, nonostante il presunto basso valore dei beni, causa una
gioia straripante in entrambi i casi. Così esulterà Dio. Il futuro utilizzato dice il tempo
escatologico. Dio è così: egli vuole la salvezza dei perduti, il loro sbandamento lo
addolora e egli gode del loro ritorno. La gioia del perdono. La gioia di perdonare di
Dio è più grande di tutte le gioie e vuole ricondurre a casa gli smarriti (e strapparli a
Satana). In questo senso Gesù è ancora una volta il rappresentante di Dio.

La difesa della Buona Novella è il tema della parabola del padrone generoso o degli
operai inviati nella vigna (Mt 20,1-15). “Il regno dei cieli è simile a…” (il “Le”
aramaico): il suo apparire è in analogia con la resa dei conti.
Al v. 6 c’è una urgenza straordinaria di terminare il lavoro della vendemmia. Al v. 13 il
padrone si rivolge al più facinoroso apostrofandolo con “etairé", ovvero “caro mio”,
come a persona di cui non si conosce il nome, di solito usato nel NT quando ci si
rivolge ad una persona che ha commesso qualcosa in modo bonario ma anche di
rimprovero.
Si ritrova un parallelo con un racconto del Talmud di Gerusalemme di un operaio che
però, nelle due ore lavorate, aveva fatto quanto gli altri in dodici, ed è raccontata per
commemorare un giovane rabbi morto che nei suoi pochi anni di vita aveva fatto di
più di altri in cento anni. La parabola quindi mostra la ricompensa dell’attività. In
quella di Gesù invece si mostra la magnanimità e bontà del padrone e gli ultimi
arrivati, come i primi, non hanno nessun merito. La priorità anche storica spetta alla
parabola di Gesù comunque.
La parabola ha un contesto molto reale: disoccupazione e carestia forse20. Dio rende
partecipi della sua salvezza anche gli immeritevoli (v. 15) e Gesù agisce come
agirebbe/agisce Dio che è tanto buono.

La parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14) è detta (v. 9) proprio ai farisei,
che hanno un’alta opinione di sé e ripongono la loro fiducia in loro stessi anziché in
Dio. Nella parabola si trovano una moltitudine di termini e proposizioni semitiche.
Il fariseo digiuna due volte a settimana, ed è un merito, perché per osservanza è
tenuto a digiunare solo una volta all’anno durante Yom Kippur. Il suo sacrificio è
grande: alla sua mortificazione personale egli aggiunge anche le privazioni
economiche. I pubblicani invece cercavano di estorcere al popolo più del dovuto ed
erano considerati dei briganti. Si batte il petto o meglio il cuore come sede del
peccato come segno di grande pentimento.
La dottrina di Paolo sulla giustificazione trova le sue origini nella predicazione di
Gesù e proprio in questo passo, al v. 14a, dove il termine “giustificato”,
“dedicaiomenos” = come uno al quale Dio ha accordato la sua grazia, è l’unico nei
vangeli ad assumere lo stesso senso che avrà nella letteratura paolina. Il “min”

20 Cf. J. Jeremias, op. cit., p. 125

LE PARABOLE DI GESÙ !25


aramaico cui fa riferimento Gesù è tradotto con un comparativo o con un’esclusione
(“più giustificato di…” oppure “lui è giustificato mentre tu…”).
Il v. 14 parla del comportamento di Dio al giudizio finale in cui umilierà i superbi ed
esalterà gli umili. La preghiera del fariseo è una preghiera presa dalla vita e riportata
anche nel Talmud. E’ una preghiera di ringraziamento a Dio che gli ha dato la sua
parte e, per quanta fatica faccia, reca con se la promessa della vita del mondo
futuro. Il fariseo a ragione ringrazia Dio e non si può ridire nulla della sua preghiera.
Il pubblicano invece ha uno sfogo di disperazione e si dimentica anche di essere nel
tempio e di dover avere un atteggiamento corporeo idoneo. Deve cambiare vita e
inoltre deve restituire il denaro estorto. Anche la sua implorazione è senza speranza.
Eppure… La conclusione di Gesù sorprende e sorprende soprattutto i suoi uditori del
tempo. Li shocca. Sembra non ci sia ragione per la risposta di Gesù. Cosa non
aveva fatto il fariseo? Di cosa si è reso colpevole. Il pubblicano riprende, nella sua
implorazione, il Sal 51,3 “Mio Dio abbi pietà di me, per quanto peccatore”. Dio dice di
si al peccatore disperato (Sal 51,19): è Dio dei disperati, la sua misericordia verso i
contriti di cuore è sconfinata. Così è Dio. Ed ora Egli agisce così attraverso me,
Gesù. E se voi che siete cattivi date cose buone ai vostri figli, figuratevi il Padre che
è buono se non da a chi gli chiede (Mt 7,9-11; Lc 11,11-13; Mt 12,34). Dice ai farisei:
voi siete dei ciechi nei riguardi della bontà del Padre (…) perché non credete che Dio
sia capace di offrire i doni del tempo della salvezza (“pneuma aghion" Lc 11,13; cose
buone Mt 7,9-11) a coloro (eventualmente indegni) che glieli domandano.

La parabola dei due debitori insolvibili (Lc 7,41-43). Qui Gesù parla di Dio. Tutte le
parabole della Buona Novella sono apologie della Buona Novella stessa. Queste
parabole Gesù le ha dette non per i peccatori ma per i giusti, che si giudicavano
troppo bene anche in relazione ai disprezzati e ai peccatori che Gesù invece
chiamava a se; le ha dette a chi si scandalizzava di lui e della Buona Novella. Loro si
e gli chiedono: perché frequenti quella gentaglia? Gesù risponde: “perché hanno
bisogno di me e di sentirsi amati e perdonati. E perché così è Dio!”

La grande certezza

Questo tema è e riguarda una parte essenziale della predicazione di Gesù. Ci sono
due parabole in particolare: la parabola del granello di senape (Mc 4,30-32; Mt 13,31
ss.; Lc 13,18 ss.; Ev Th 20) e la parabola del lievito (Mt 13,33; Lc 13,20 ss.; Ev Th
96). Sono entrambe molto palestinesi! Già a partire dalle tre misure di farina (se’a)
che sono una quantità enorme, la parola traduce un termine tutto palestinese. In
queste parabole ci sono allitterazioni e giochi di parole nella retroversione in
aramaico. La vera traduzione con il “Le” aramaico sarebbe: “Avviene col regno di Dio
come con un granello di senape (con un pezzo di lievito)”. In tal modo il paragone è
con lo stadio finale di grande arbusto del granello. La senape non è un albero e le
misure di farina sono eccessive: ma questa è la realtà di Dio!
Sono parabole del contrasto. Il minuscolo seme e l’arbusto di 2-3 metri. Il pochissimo
lievito rispetto alla massa enorme di farina. L’uomo orientale a differenza
dell’occidentale non guarda lo sviluppo, ma il succedersi di due condizioni
diametralmente opposte. Il seme che muore e da frutto è un segno della morte e
resurrezione alla vita. Ed è Dio a richiamare la vita dalla morte. Così intesero queste

LE PARABOLE DI GESÙ !26


parabole gli uditori di Gesù: da qualcosa che agli occhi degli uomini è nulla, Dio da
origine al suo imponente dominio regale.
Con queste parabole Gesù tenta forse di chiarire dei dubbi sulla sua missione: quello
che era il tempo della salvezza annunciato da Gesù era molto diverso da quello che
la gente si immaginava. L’immagine dell’albero come segno della potenza mondana
era noto (Ez 31 - l’Assiria come il grande cedro; o forse anche Dn 4,7-14). Idem per
la massa di farina (malvagia) fatta lievitare. Gesù applica due significati opposti a
queste immagini.

La parabola del seminatore (Mc 4,3-8; Mt 13,3-8; Lc 8,5-8; Ev Th 9) è molto semitica


(vd. la tecnica palestinese della semina p. 3). Occorre prescindere dalla spiegazione
che riduce la portata escatologica alla parenesi. Si tratta di una parabola del
contrasto perché ad una semina anche non andata bene si contrappone lo stadio
finale del raccolto, ovvero l’avvento del regno di Dio con risultati (il trenta, il sessanta
e il cento PER uno) comunque eccezionali!
Gesù è colmo di letizia e certezza: l’ora di Dio viene e con essa un raccolto
abbondante oltre ogni preghiera ed immaginazione. Giustino vede nella parabola
non una esortazione agli uditori ad esaminare se stessi, ma un incoraggiamento al
predicatore cristiano a non disperare mai del suo lavoro: Dio fa scaturire da inizi
disperati una splendida fine! Anche questa è una parabola che vuole fugare i dubbi
sulla sua missione: il seminatore, nonostante le contrarietà della semina (la stessa
predicazione di Gesù), non si scoraggia e ha fiducia che gli sarà donata una ricca
messe.

Parabola della semente che cresce per suo conto (Mc 4,26-29) è una parabola del
contrasto. La messe cresce senza che il seminatore faccia nulla, “automate”. Alla
fine, ecco il contrasto, il grano è maturo. Così è il Regno di Dio: allorché viene l’ora
di Dio giunge con certezza il suo regno. La messe è paragonata all’avvento del
regno di Dio. Gli uomini possono solo attendere ed avere pazienza come ce l’ha
l’uomo che getta il seme della parabola. La parabola viene intesa come opposizione
agli sforzi degli zeloti di provocare con la forza la redenzione messianica. Alcuni dei
suoi stessi discepoli erano ex-zeloti: cosa aspettava Gesù a dare il segno per
abbattere il potere corrotto e insediare un regno dei giusti? Perché Gesù non agiva?
Gesù con questa parabola risponde ai dubbi sulla sua missione e alle speranze
deluse. Dio agirà: ha seminato e tutto si compirà con certezza al momento del
raccolto. Occorre pazientare e avere fiducia in Lui.

Queste quattro parabole hanno questo contrasto tra inizio e fine. Ma


nell’infinitesimale è già attivo l’immenso. Nel presente è già attivo ciò che accadrà e
nel passato ciò che è presente. Gesù ha la salda certezza che l’ora di Dio viene, sta
già sorgendo. Chi conosce il mistero del Regno o lo intravvede (Mc 4,11) lo sa già; si
intravvede nel nascosto, nel piccolo lo splendore del Regno futuro. Gesù ha una
certezza: da un nulla e nonostante ogni insuccesso Dio conduce a compimento
senza mai arrestarsi ciò che ha iniziato. Su cosa poggi la certezza di Gesù?

Risposta: la parabola del giudice iniquo (Lc 18,2-8) e la parabola dell’amico


chiamato nottetempo (Lc 11,5-8).
Alla vedova (in AT, come gli orfani, essere indifeso) viene ingiustamente ritenuta una
somma di denaro o una parte di eredità. L’ostinazione della vedova lo porta a cedere

LE PARABOLE DI GESÙ !27


(vv. 7-8 sono una costruzione aramaica: “affinché ella con il suo piagnisteo non mi
metta a terra”). Pur con la dichiarazione al v. 1 questa parabola non è una istruzione
alla preghiera. Perché Gesù la racconta? Dio ascolta e interverrà certamente per i
suoi eletti: la loro pena gli è a cuore. Per questo non dovete temere il tempo della
tribolazione. La parabola è narrata ai discepoli o a degli ebrei devoti (gli eletti?)21.

Nella parabola dell’amico chiamato nottetempo (Lc 11,5-8) siamo in una tipica
situazione di villaggio palestinese. Si sa chi ha ancora qualcosa che gli avanza del
giorno. La porta è chiusa e aprirla fa molto rumore (togliere un chiavistello inserito in
alcuni anelli che tengono chiusa la porta è rumoroso). Il senso originario della
parabola non è quello di una esortazione alla preghiera: il centro della parabola è
l’amico a cui si chiede il pane e che si va a supplicare (che come Dio darà a chi gli
chiede) e non, come fa Luca, il supplicante (infatti conclude dicendo “chiedete e vi
sarà dato, …”). La costruzione della domanda è: “Potete immaginare che qualcuno
di voi se viene un amico…. gli dica: lasciami in pace?”. La risposta è: “impossibile”,
“non potrebbe esser mai”. Anche se non lo aiuta per amicizia almeno lo aiuta per
non apparire scortese (= per liberarsi dell’importuno). Quindi è l’amico disturbato il
centro della parabola che non tratta dell’insistenza della preghiera ma della certezza
dell’esaurimento della preghiera! Ed è quindi come la parabola del giudice. Se già un
amico fa una cosa del genere per l’altro in difficoltà figuratevi Dio! Lui aiuta chi ha
bisogno e dà questo suo aiuto sovrabbondante con certezza. Dio ascolta senza
dubbio l’appello dei suoi. Gesù applica la saggezza (e la tenacia) del mendicante ai
discepoli.

Conclusione: nelle quattro parabole del contrasto si tratta della certezza di Gesù nei
confronti dei dubbi sulla sua missione; nelle ultime due parabole invece Gesù vuole
rassicurare i discepoli che Dio li libererà dagli affanni futuri. In tutte c’è la sicurezza di
Gesù che Dio compirà quello che ha promesso e la sua pietà è una certezza.

L’imminenza della catastrofe

Il messaggio di Gesù non è solo annuncio di salvezza ma anche annuncio di


sventura, ammonimento e richiamo alla penitenza.

La parabola dei ragazzi sulla strada (Mt 11,16 s.; Lc 7,31 s.) è antica22 e Gesù la
dice al margine di un accusa di essere un mangione e un beone (Deut. 21,20).
I ragazzi sulla strada sono dei guastagiochi e non sono mai contenti, perché o alcuni
non vogliono giocare proprio ad alcun gioco oppure litigano perché propongono due
diversi giochi, uno opposto all’altro. La danza è legata al gioco delle nozze e veniva
fatta dagli uomini. La lamentazione era un altro gioco (il gioco del funerale) che
facevano però le ragazze. Per far quadrare il riferimento alle ingiurie contro il Battista
e contro Gesù stesso, si è proposto invece che nel gruppo dei ragazzi della parabola
ci sono dei compagni che si sono presi carico di fare la parte più pesante del gioco e
altri che hanno quelle più leggere, il ballo e i lamenti, e proprio questi ultimi cercano

21Cf. J. Jeremias, op. cit., p. 192 - nota 52. Quella degli eletti, molto probabilmente, è la comunità che si
nasconde dietro i discorsi figurati di Enoch (libro di Enoch 46,8).
22 Cf. J. Jeremias, op. cit, p. 197 - nota 1

LE PARABOLE DI GESÙ !28


di imporre la loro volontà ai primi dando loro dei “guastafeste”. La spiegazione è che
Dio manda i suoi ultimi messaggeri (il Battista e Gesù) prima della catastrofe ma voi
(i farisei) sapete solo comandare e litigare! Volete piegarli alla vostra volontà e se
non stanno al vostro gioco li accusate di essere dei guastafeste. La sapienza di Dio
infatti compie opere che dovrebbero essere evidenti e invece non le vedete! Non
vedete il segnale ammonitore di Dio.
Ci sono altre immagini e racconti che dicono quanto l’ora sia tarda:

L’immagine dell’occhio che è lampada del corpo (Mt 6,22-23; Lc 11,34-36); la sorte
di Sodoma e Gomorra (Lc 17,28 s.); il diluvio! (Mt 24,37-39; Lc 17,26 ss. ma anche
Mt 7,24-27 e Lc 6,47-49 la casa sulla roccia).
Gesù apporta il tempo della salvezza ma sa che la via alla salvezza e alla rinascita
passa per la sventura e la rovina, per il diluvio di fuoco e acqua.

E ancora il padrone di casa che dormiva finché vennero i ladri (Mt 24,43 s.; Lc 12,39
s.; Ev Th 21); il ricco stolto (Lc 12,16-20; Ev Th 63). Nel Vangelo di Tomaso (Ev Th
72) il passo di Lc 12,13-15 che precede la parabola del ricco stolto è un logion
separato. In Luca si vuole stressare il concetto della poca o nulla importanza dei
beni terreni rispetto all’importanza della vita.

Gesù, nella parabola del ricco stolto (Lc 12,16-20), vuole ancora una volta porre
l’accento sull’imminente catastrofe escatologica e l’imminente giudizio, non sulla vita
dell’uomo su cui pende continuamente una spada di damocle. Inutile accaparrare
beni poco prima del diluvio! Questa la riflessione che Gesù vuole scatenare nei suoi
uditori.

La Parabola del pretendente al trono è rivolta ai nemici; la parabola del servo a cui
viene affidata la sorveglianza, la parabola dei talenti e quella del custode sono rivolte
ai capi del popolo in particolare gli scribi.
Per questi “custodi della Parola di Dio” il giudizio sarà particolarmente duro, ora che
arriva. Loro avevano una grande responsabilità e ne risponderanno a breve. Chi
conosceva (o supponeva di conoscere) la volontà di Dio (Lc 12,47-48a) sarà punito
più duramente di chi non conosceva la legge.

La parabola dei cattivi vignaioli (Mc 12,1 ss.; Mt 21,33-46; Lc 20,9-19) era rivolta ai
sinedriti. Da Is 5 la vigna è simbolo di Israele. Ma Gesù non parla della vigna ma dei
fittavoli, ovvero i capi. E quest’ultima generazione dovrà pagare il debito accumulato
con il padrone della vigna (Dio).

Ci sono altre parabole: la parabola albero buono e albero cattivo (Mt 7,16-20; Lc
6,43 ss.); della pagliuzza e della trave (Mt 7,3-5; Lc 6,41 ss. “ipocriti”; Ev Th 26); dei
ciechi che guidano i ciechi (Mt 15,14; Lc 6,39; Ev Th 34) tutte dette contro i farisei.
Tutte dicono loro che sono malvagi e incorreranno nel giudizio di Dio molto presto.
Anche la parabola del buon pastore (Gv 9,40) è detta contro di loro la cui venuta
svela i loro misfatti. Parabola rivolta a Gerusalemme: Dio abbandona il tempio che
voi avete sconsacrato (Lc 13,34-3; Mt 23,37-38): immagine della chioccia e dei
pulcini. Ad Israele tutto è rivolta la parabola dell’albero di fico (Lc 13,6-9) e quella del
sale divenuto insipido (Mt 5,13 e Lc 14,34 lo rivolge ai discepoli; Mc 9,50 alla folla).
La traduzione, scorretta, di Luca e Matteo è “il sale diventa stolto”.

LE PARABOLE DI GESÙ !29


Queste parabole (della crisi) sono dette in un contesto concreto ed unico cosa che è
fondamentale per la loro comprensione. Non si tratta di raccomandazioni etiche o
morali ma intendono risvegliare e richiamare alla penitenza un popolo accecato e in
particolare i suoi capi.

La minaccia del troppo tardi

La parabola del fico (Lc 13,6-9). L’albero di fico è già li da sei anni e sfrutta il terreno
sottraendo nutrimento alla vigna. L’ortolano tenta di fare ciò che di solito non si fa:
concimare. L’annuncio del giudizio della storia del fico (presa da una tradizione più
antica) diventa un appello alla penitenza nella sua conclusione. La misericordia di
Dio giunge ad una sospensione anche nel caso di una condanna già decisa.
L’ortolano è forse Gesù? Le parabole dovevano essere intese in modo diverso dai
discepoli rispetto alle masse. Forse questo è proprio il caso! Ma il termine ultimo
fissato da Dio è giunto o giungerà presto e nessuno ha il potere di prolungarlo o
evitarlo (cf Mt 6,27 e Lc 12,25 sul potere di prolungare la propria vita).

Il “troppo tardi” è descritto da due parabole apparentate: la parabola delle dieci


vergini (Mt 25,1-12; Lc 13,25-27) e la parabola del convito (Lc 14,15-24; Mt 22,1-10).
La prima parabola conterrebbe elementi che non possono essere accostati alla
tradizione rabbinica nel caso di un matrimonio (l’ora tarda, il ritardo dello sposo…) e
quindi sembrerebbe una allegoria della comunità primitiva posta in bocca a Gesù
con la quale si voleva ammonire la comunità ad attendere trepidante la parusia
(aggiunta o interpretazione parenetica). In realtà per un problema di dispersione
delle fonti non possiamo essere certi che non fosse così (cf. Deut 33,2) soprattutto
se non ci si metteva d'accordo sull’ammontare del contratto nuziale (da qui il ritardo
e/o l’ora tarda). E comunque la tradizione dell’arrivo alla sera dello sposo è una
tradizione che, sebbene possa variare da villaggio a villaggio, è palestinese. Gesù fa
quindi riferimento a fatti di vita reale e vissuta. La sposa veniva infatti condotta dalle
amiche nella casa dello sposo. Appena lui arrivava le donne andavano con le
candele o le lampade ad accoglierlo e condurlo dalla sposa per andarla a prendere
per portarla alla cerimonia nuziale e al banchetto. Il ritardo dello sposo era un segno
che non si era trovato in fretta un accordo per i regali per i parenti della sposa, il che
significava che essi gli concedevano la sposa solo dopo grandissima esitazione. Era
un buon segno per la sposa e per il suo valore.
La comunità paleocristiana che avrebbe allegorizzato la parabola si sarebbe
paragonata con la sposa (che non è affatto nominata) e non con le dieci vergini. E
poi non avrebbe inventato una storia del tutto contrastante con la realtà. Quello che
qui abbiamo davanti è il modo di parlare di Gesù e non della Chiesa delle origini.
La parabola delle dieci vergini è una di quelle con il dativo (aramaico “le”) iniziale:
“Così accade all’avvento del regno di Dio, come quando giovani fanciulle….”. Il
regno di Dio allora non è paragonato alle vergini, ma allo sposalizio. Le lampade
(“lampades") di cui si parla sono delle fiaccole imbevute di olio. Le stolte non
avevano calcolato che serviva più olio per il prolungarsi della festa.
Questa è una parabola della crisi. Il giorno dello sposalizio è arrivato (Ap 19,6-9).
L’ora della pienezza, che sarà preceduta dall’ora della prova, giungerà

LE PARABOLE DI GESÙ !30


improvvisamente come lo sposo mezzanotte. E per chi non si farà trovare pronto
sarà troppo tardi!

La parabola della grande cena (Mt 22,1-10; Lc 14,15-24; Ev Th 64). Anche questa è
una parabola della crisi. In Matteo la parabola è stata rielaborata diventando un
compendio allegorico della salvezza (cf. p. 13). In Luca e Tomaso si è conservata la
versione più originale. La frase finale viene intesa e riferita sia in Luca che in Tomaso
come il banchetto celeste dell’avvento messianico. Però forse originariamente era
riferito al padrone di casa anche se l’aspetto della “minaccia” lo mantiene solo se è
riferito a Gesù. In realtà si tratta di una vera minaccia se i primi invitati dicono solo
che arriveranno in ritardo per altri motivi. In quel caso infatti i posti saranno tutti
occupati e loro non troveranno posto al banchetto. La storia comunque risulta
abbastanza irreale. Infatti Gesù pare richiamarsi ad una storia raccontata in
aramaico nel Talmud palestinese. Gesù utilizza la conclusione di questa storia nella
storia di Lazzaro e del ricco epulone. E’ la storia di una buona azione compiuta da
Bar Majan che approntò un banchetto per i consiglieri ma questi non vennero. Allora
per non buttare tutto invitò i poveri (“miskene") che dovevano venire a mangiare. Il
senso della storia è: un uomo ricco (un pubblicano/gabelliere) organizza un
banchetto per inserirsi nella società dabbene, ma tutti lo snobbano di comune
accordo offrendo pretesti molto banali per non partecipare. Allora, arrabbiato, invita i
mendicanti per far vedere che risorse che ha a disposizione e non volendo più avere
nulla a che fare con i primi invitati.
Come nel caso del giudice iniquo, del pastore disprezzato, Gesù paragona Dio ad un
gabelliere per mostrarci la bontà e la collera di Dio. Gesù non è disturbato, come per
il giudice, dal comportamento del gabelliere, anzi. Il finale della parabola, durissimo,
fa tacere e trasalire gli eventuali uditori di Gesù che avevano sogghignato nei
confronti del gabelliere e soprattutto immaginando i ricchi invitati sorridere al vedere
il corteo di mendicanti sfilare verso la casa del gabelliere stesso. La casa è piena, la
misura è colma: sprangate le porte. Nessuno entrerà più!

L’imperativo dell’ora

Dalla minaccia del troppo tardi -> (ne consegue) l’imperativo dell’ora: occorre agire!

La parabola del debitore (Mt 5,25 ss.; Lc 12,58 ss.). Gesù nel dire la pena si riferisce
a norme giuridiche non ebraiche al fine di rendere impressionante la condanna (in
particolare l’essere gettati in prigione per una cosa del genere). Gesù esorta: metti
l’affare in chiaro. Riconosci il tuo debito fin quando sei in tempo!

La parabola dell’amministratore infedele (Lc 16,1-8). All’appropriazione indebita


l’amministratore aggiunge anche il falso in atto pubblico (vv. 5-7). Si tratta di grosse
cifre di denaro che Gesù pompa apposta23. Il “curios” (il padrone) è Gesù (i vv. 9-13
sono un’ampliamento non originario). La parabola presenta come modello uno
scellerato24: qualcosa, una storia o una figura che deve essere stato raccontata a

23 Cf. J. Jeremias, op. cit., p. 30 ss.


24 Non molto diverso dal giudice disonesto e dal ricco gabelliere che invita gli ospiti al banchetto

LE PARABOLE DI GESÙ !31


Gesù con molto sdegno da parte di chi lo raccontava. Gesù invece e come spesso
avviene, spiazza i suoi uditori: loda l’imbroglione! Ma voi, rivolto ai suoi uditori, siete
come lui! Solo che lui ha colto la criticità della situazione e si è dato da fare! Egli ha
agito audacemente, con decisione ed intelligenza anche se, e Gesù non lo nega, in
modo disonesto.

La parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31).


Ci si rifà stavolta alla favola egiziana del viaggio di Si-Osiris e di suo padre nel regno
dei morti, racconto portato in palestina da ebrei alessandrini. Questa parabola si
riallaccia anche a quella dei funerali di Bar Majan e del povero scriba. La colpa del
ricco non viene espressa da Gesù e questo dimostra come la storia doveva essere
ben nota ai suoi uditori. Lazzaro (= Dio aiuta) è l’unica figura di personaggio di una
parabola che abbia un nome. Gli uditori conoscevano la storia del ricco e del pio
scriba… non del povero Lazzaro. Gesù cambia la storia! Lazzaro muore e sta
accanto ad Abramo, al vertice di tutti i giusti. Il NT distingue tra l’”ades" (gli inferi
intermedi subito dopo la morte) e la “geenna" finale. Non è la ricchezza a
condannare il ricco né la povertà a salvare Lazzaro. In realtà considerato il racconto
di Osiride, chi sulla terra è malvagio ottiene la condanna e viceversa chi è buono, chi
è empio viene punito, chi è pietoso viene ricompensato. Al v. 26 mostra che Gesù
ignora la dottrina del Purgatorio: c’è una voragine che separa Lazzaro dal ricco.
Questo prima chiede di mandare Lazzaro e poi addirittura di resuscitare un morto e
di mandarlo ai fratelli per ammonirli. Ma gli viene risposto che hanno già la Legge e i
profeti (Mt 5,17).
E’ una parabola a due vertici 1) vv. 19-23; 2) vv. 24-31. La prima parte era nota ai
contemporanei di Gesù (il ribaltamento del premio nella vita eterna). Gesù introduce
una novità sull’epilogo. Gesù spostando il peso della parabola sul secondo vertice
non vuole impartire insegnamenti sulla vita oltre la morte ma vuole ammonire la
gente dinanzi all’ora che è tarda. La parabola dovrebbe chiamarsi la parabola dei sei
fratelli. Il centro diventano loro. Loro vivono nell’egoismo e sono sordi alla Parola di
Dio. Per essi neppure una resurrezione dai morti basterebbe, per lenire il loro
scetticismo. Chi non si inchina alla Parola di Dio, non sarà indotto alla conversione
nemmeno da un miracolo. Vd Lc 11,30 il segno di Giona. La parusia è l’ultimo segno
che Dio darà (Mc 8,12). Allora, che si deve fare?

Gesù risponde con la parabola dell’invitato senza veste di nozze (Mt 22,11-13) che
sta all’interno della parabola del banchetto nuziale (Mt 22,1-14) e con altre immagini:
vigilate, accendete le lampade, indossate l’abito nuziale. L’abito cui si fa riferimento
non è un vestito speciale ma è un abito pulito di fresco. L’invitato non risponde: forse
si è intrufolato senza invito. Oppure era solo stolto: non sia aspettava che la
chiamata al pranzo di nozze avvenisse così presto. Si tratta anche in questo caso di
una parabola della crisi. L’appello può arrivare in qualunque momento. Questa cosa
viene confermata da un parallelo rabbinico del Midrash (rabbi Eliezer): “in ogni
istante siano le tue vesti bianche”, e fa penitenza il giorno prima della tua morte, cioè
sempre. E ancora chi ha le vesti sudicie non viene ammesso al banchetto (Rabbi
Ben Zakkai).
Gesù aveva in mente Is 61,10 (lo stesso capitolo del commento nella sinagoga di
Nazareth): Dio riveste i redenti con l’abito nuziale della salvezza (libro di Enoch
62,15-16). Anche l’apocalisse parla della “linda veste di bisso”.

LE PARABOLE DI GESÙ !32


Indossa la veste prima del diluvio sembra dire Gesù, un giorno prima dell’ispezione
degli invitati alle nozze: indossala adesso! Ritorna alla casa, ritorna ad essere come i
fanciulli. Diventare come un bambino è abbassarsi dinanzi a Dio, diventare piccini
dinanzi a Dio.
In tutta la letteratura rabbinica non c’è un parallelo in cui si usa come appellativo per
Dio Abba (Mc 14,36): qui è la ipsissima vox Jesu. Nessuno osava applicare a Dio
questa parola. Gesù parla al suo padre celeste con la stessa fiducia e confidenza
con cui un bimbo parla al padre. Qui si spiega anche Mt 18,3 (ri-diventare come i
bambini). “Se non riuscite a dire Abba non potete entrare nel Regno di Dio”.
Questo, insieme alla veste, è l’inizio della conversione ad una nuova vita: chiamare
Dio Abba.

Questo ha in mente Gesù quando dice la parabola dei posti a tavola (Lc 14,7-11 con
varianti di traduzione). C’è, nella storia, un riferimento a Prov 25,6 ss. Inoltre anche
Rabbi Ben Azzai usa parole dure che Gesù usa contro gli scribi che pretendono i
posti d’onore (Mc 12,39; Lc 20,46; Mt 23,6). Il v. 11 è una frase di Hillel (20 a.C.) e
quindi non è una conclusione generalizzante. Ma Gesù le ha dato lo stesso
significato? Non sembra affatto, perché se Hillel parla di una norma di vita (o di
mensa), Gesù la riferisce all’operato escatologico di Dio il quale nel giudizio umilierà
i superbi e innalzerà gli umili. Quello di Gesù è un ammonimento escatologico.

L’immagine della ricompensa del servitore (Lc 17,7-10). E’ in dubbio il fatto che la
parabola sia stata rivolta ai soli discepoli come direbbe il contesto. Gesù sembra dire
che noi non abbiamo meritato la lode di Dio, siamo solo dei servi e tutte le buone
opere non giustificano alcuna pretesa dinanzi a lui. La conversione è altro: distacco
dal peccato, obbedienza alle parole di Gesù, alla legge di Dio. I discepoli devono
accettare il giogo di Gesù, ovvero mettersi alla sua sequela. “Occorre che capiate
quale è la situazione escatologica attuale (cf. l’amministratore infedele) e mutiate
vita!”. “Sarete messi alla prova (Mt 7,24-27; Lc 6,47-49 parabola della casa e delle
fondamenta; cf Is 28,15-16)”. Chi conosce e segue la Legge ha stabilità. Gesù
aggiunge: “chi ascolta le mie parole e le segue” avvicinandosi all’altezza della Torah.
Non basta solo ascoltare: occorre ubbidire.

Mc 10,25: immagine del cammello. La parola “camilos" (gomena) sembra più


pertinente a “camelos” (cammello) ma contrasta con un modo di dire rabbinico su un
elefante che passa o tenta di passare per la cruna di un ago. Seguire Gesù è un atto
decisivo e definitivo senza guardarsi indietro (l’aratore palestinese) e lasciando che i
morti seppelliscano i morti. “Chi mi è vicino è vicino al fuoco; chi mi è lontano è
lontano dal Regno”. Chi rifiuta la chiamata di Gesù si esclude dal Regno di Dio.

Parabola della torre e della guerra (Lc 14,28-32). E’ una di quelle parabole che
chiamano alla prova di sé (Ev Th 98). Questa parabola inizia con: “chi di voi…” come
a nella ricompensa del servitore (p. 32): si tratta di un logion che Gesù utilizza di
solito dinanzi alla folla o agli avversari. Si tratta di parabole che richiamano alla
prudenza. Ora se gli uomini esaminano i loro propositi quanto di più non lo farà Dio!
Non si applica a Dio il fare cose a metà o di lasciarle lì incompiute.

La parabola del ritorno dello spirito immondo (Mt 12,43-45b; Lc 11,24-26). E’ una
parabola palestinese sia per il linguaggio che per il contenuto. Uno spirito impuro per

LE PARABOLE DI GESÙ !33


un ebreo è un demone. Questo spirito non trova pace nel deserto che è la sua sede
naturale (*i Djinn e gli Efreeti della tradizione beduina). Il sette è numero della
totalità: ovvero tutto l’immaginabile in fatto di seduzione demonica (i sette vizi). Il v.
44a in realtà si dovrebbe tradurre “se la ritroverà vuota…”. La ricaduta non è nulla di
fatale o inevitabile ma è una colpa. La casa non deve restare vuota se uno spirito
avverso è stato cacciato, ma un nuovo padrone vi deve regnare: Dio e la parola di
Gesù!

Adesione vissuta

La parabola del tesoro nel campo (Mt 13,44; Ev Th 109). “Così accade all’avvento
del Regno di Dio, che un uomo trova un tesoro…” (il dativo “Le” aramaico iniziale cf.
p. 33, 35). Le cose di valore si seppellivano perché in Palestina c’erano spesso
guerre. La formulazione della parabola è più antica della redazione di Matteo.

La parabola della perla (Mt 13,45; Ev Th 76). Le perle avevano un valore immenso
(Cleopatra ne aveva una dal valore di cento milioni di sesterzi25). La lezione di
Tomaso sembra quella originaria: il grosso commerciante vendette tutto il carico, non
tutti i suoi averi.
Le due parabole utilizzano all’inizio motivi prediletti dalla narrazione orientale.
Tuttavia Gesù sorprende i suoi uditori, come spesso avviene quando si riallaccia
trame narrative ben note ai suoi ascoltatori, ponendo l’accento su altro rispetto a
quello che loro si aspettavano. Al v. 44: “Va, pieno di gioia”, ovvero dice un’adesione
completa alla Buona Novella. Tutto impallidisce dinanzi allo splendore che si è
rinvenuto. La Buona Novella nel suo avvento sopraffà, dona grande letizia, orienta
tutta la vita al compimento atteso da Dio; provoca una decisione irresistibile.

La parabola del grosso pesce (Ev Th 8). Una vita orientata in questo modo è una
vita nell’amore, come quella di Gesù messosi al servizio del prossimo (Mt 22,27 “Io
sto in mezzo a voi come uno che serve”).

Questo amore -per il prossimo- è come quello che Gesù racconta nella parabola del
buon samaritano (Lc 10,30-37).
Episodio del dottore della Legge che chiede a Gesù come ereditare la vita eterna (Lc
10,25-29). Il dottore della legge è colpito dall’insegnamento di Gesù. Gesù dice: tutta
la sapienza teologica non serve a nulla, se l’amore verso Dio e verso il compagno (e
non il prossimo) non determinano l’orientamento di vita. La domanda su cosa
significhi “compagno” era lecita perché la risposta era discussa (farisei, esseni,
rabbini avevano tutti risposte diverse). Al v. 29 “misein" significa in greco tradotto dal
semitico “amare di meno, non amare” ed è opposto al greco “agapan”. Sin dove
arriva il mio obbligo? Questo il senso della domanda. Gesù narra una storia che si
riallaccia, nell’ambientazione scenica, ad un avvenimento reale. Sia il sacerdote che
il levita ritengono l’uomo morto: per questo non lo toccano. Il sacerdote non può (Lv
21,1 ss.) in ogni caso toccarlo. Il levita solo se deve adempiere al culto ma
scendendo dal tempio… a meno che non andava da Gerico a Gerusalemme. Il terzo
(la regola dei tre dei racconti popolari orientali…) è un laico e gli uditori di Gesù si

25 Cf. J. Jeremias, op. cit., p. 244

LE PARABOLE DI GESÙ !34


fanno l’idea che il racconto è un pò anticlericale. Ma loro si aspettano un israelita
laico e non un samaritano, cosa sconveniente e ritenuta un’offesa. Gesù li stupisce!
Utilizzando un esempio estremo. Al tempo di Gesù gli Ebrei odiavano i samaritani e
viceversa. Il samaritano probabilmente era un commerciante (aveva olio e vino) e
passava spesso su quella strada (infatti dice all’albergatore che sarebbe ritornato).
Lo scriba chiedeva qualcosa sull’oggetto dell’amore: chi devo trattare come
compagno? Gesù risponde ponendo una domanda sul soggetto dell’amore (chi ha
agito come compagno?). Compagno, ed è questa la risposta di Gesù, deve essere
chiunque ha bisogno del tuo aiuto, soprattutto poveri, indigenti, disprezzati…

Il giudizio universale (Mt 25,31-46)26.


Al v. 35 sono enumerate le opere di carità corporale. Nel Midrash Dio dice al popolo:
“Figli miei se voi avete dato da mangiare ai poveri, io ve lo ascrivo come se aveste
sfamato me stesso”. Fratelli = “adelfoi”. Gesù solo qua si auto-definisce re-Messia (e
giudice?). Al v. 41 usa il termine “diabolos” che è più recente di “satanas". Nel libro
egiziano dei morti è il morto stesso ad avere coscienza di aver dato da mangiare, da
bene, aver vestito, ecc… Qui è MOLTO diverso visto che i giusti non sanno di aver
compiuto quelle opere! Tutta la pericope del giudizio sembra essere originale e
originaria della predicazione di Gesù (anche nel suo riconoscersi tra gli ultimi che
vengono soccorsi dai giusti). Al v. 32: come verranno giudicati i pagani? Gesù
distingue il giudizio presente da quello escatologico. Gesù nel presente, ai peccatori,
concede il perdono di Dio (non è lui a perdonare, ma Dio!!); nel giudizio finale Dio
chiede conto della fede vissuta (le beatitudini) che è, anche questa, pura e libera
grazia di Dio, e non ha nulla a che fare col merito. Si fa riferimento anche a Mt 10,32
ss. “Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al
Padre mio….”. Ma qui si riferiva ai “suoi”. E i pagani? Con quello che dice in Mt
25,31-36 egli, di fatto, è andato incontro anche ai pagani, in forma occulta, nei
poveri, negli indigenti, nei disperati e allorché quelli danno prove d’amore per loro ne
danno prova a lui. Rabbi ben Zakkai dice: “come il sacrificio espiatorio purifica
Israele, così la carità i pagani”. In essi avviene una giustificazione ad opera
dell’amore (idem per Paolo).

La parabola del servo infido o senza pietà (Mt 18,23-25) parla proprio di questo
amore che perdona.
Si tratta di una parabola con dativo iniziale ovvero: “così avviene con l’avvento del
Regno dei Cieli”. Il servitore, vista l’enormità della cifra, è un satrapo e il debito è il
mancato ricavato dalle imposte di una provincia (di cui lui era responsabile). In ogni
caso si tratta di una cifra enorme, impensabile. Il senso del grande debito deve
imprimere nella mente di chi ascolta il contrasto con il piccolo debito di cento denari

26 Gesù nell’immagine mitica del giudizio sintetizza l’escaton e in questo potente affresco dice tutte le verità che
saranno. Dinanzi a parole e immagini di verità come queste di Mt 25,31-46 dette da Gesù, peraltro molto
probabilmente originarie (ipsissima verba Domini) e quindi dette proprio da Gesù in persona, come ci dobbiamo
porre? Come la si mette con la de-mitizzazione? Per Bultmann (Cf nella bibliografia “Nuovo Testamento e
Mitologia”) la raffigurazione neotestamentaria dell’universo è mitica. In estrema sintesi: la rappresentazione
dell’evento della salvezza è coerente con questa immagine mitica del mondo; NT è tutto un discorso mitologico
e in quanto tale non è credibile dagli uomini di oggi, giacché per costoro la figura mitica del mondo si è dissolta;
tale visone mitica del mondo non era affatto cristiana ma desunta dalla cultura ellenistica ed orientale; è assurdo
e impossibile accettare come vera la visione mitica del mondo del NT; miracoli ed escatologia mitica devono
essere liquidate; la morte, noi oggi lo sappiamo, non è la pena del peccato; ai nostri giorni non si può
comprendere la dottrina della soddisfazione vicaria attraverso la morte di Gesù; altrettanto incomprensibile è la
resurrezione di Gesù. E per questo occorre de-mitizzare.

LE PARABOLE DI GESÙ !35


al v. 28. Dio = re; debitore = uomo. Al v. 25: la vendita della moglie è vietata nel
mondo giudaico -> il re e i suoi servi sono dei pagani! Anche qua la vendita della
famiglia è inutile rispetto al debito: uno schiavo costava da cinquecento a duemila
denari. (10000 talenti = 100 milioni di denari -> 1 talento = 1000 denari). Il re è in
collera, ecco perché dice quelle cose al servo. Al v. 27 “to daneion" è “il prestito” ma
la forma siriana restituisce “il debito”, che è più corretto. Al v. 29: la richiesta del
subalterno è, parola per parola, la stessa identica richiesta del servo infido al re.
Questa però, rispetto all’altra, è una promessa adempibile (100 denari sono poca
cosa). La persona non poteva essere venduta (in quanto il debito inferiore al “valore”
di uno schiavo) ma poteva, secondo l’uso orientale, essere messa in prigione e
pagare lavorando per il debitore. Per gli ebrei questo era un uso sconosciuto. Al v.
31: i servi non sono normali schiavi ma alti funzionari (greco “oi sindoiloi"). La tortura
non può essere applicata secondo il diritto ebraico: si tratta invece di pratiche
orientali usate contro governatori infedeli o morosi.
Si tratta di una parabola sul giudizio finale che è insieme esortazione ed
ammonimento: guai a te se non passi ad altri il perdono che hai ricevuto per i tuoi
grandi torti. Dio allora ritirerà la remissione dei debiti e ti mostrerà l’orrore del
giudizio27. Gesù, diversamente da Paolo, preferisce non usare il vocabolario
teologico, ma piuttosto in sua vece metafore, parabole e fatti figurati, ovvero il
linguaggio dei simboli”.
I discepoli di Gesù devono stare sicuri e fiduciosi delle promesse e della fedeltà del
Padre come gli uccelli del cielo (Mt 6,26; Lc 12,24) e i gigli del campo (Mt 6,28-30;
Lc 12,27 ss.). Gesù vieta ai discepoli di “darsi pensiero ansiosamente”, di far fatica
per nutrirsi (gli uccelli->genere mascile) ed abbigliarsi (i gigli nel campo->genere
femminile): infatti loro devono essere presi completamente e in maniera decisiva
dalla missione che lui ha assegnato loro (Mc 6,8), senza lasciarsi trattenere da nulla,
persino il saluto (che in oriente prevedeva un lungo scambio di battute e quindi
perdita di tempo. Lc 10,4b). Essi, i discepoli, hanno un Padre che pensa per loro e li
chiama per nome, come il pastore le pecore (Gv 10,3). L’ora della prova è vicina;
vicina è la crisi. Gesù prega per Pietro e lui deve guidare i suoi fratelli e pregare per
loro nell’ora del vaglio in cui si separa la pula dal grano (Lc 22,31 ss.), ora in cui Dio
ha permesso a Satana di agire. L’intercessione di Gesù per Pietro e quella sua nei
confronti dei fratelli li porterà fuori da ogni prova. Essi, mandati alle pecore smarrite
della casa di Israele, hanno pieno potere di sciogliere e legare, piena potestà di
giudicare, secondo quanto Gesù ha accordato loro (Mt 18,18; Mt 16,19). La
responsabilità è enorme e il tempo stringe. Questo compito necessita di purezza e
saggezza: “siate prudenti come serpenti e semplici come colombe” (Mt 10,16; Ev Th
39b).

Metafora della città sul monte (Mt 5,14b; Ev Th 32). I discepoli sono cittadini della
svettante città/tempio escatologica di Dio (Is 2,2-4). Avendo la Buona Novella essi
hanno TUTTO per svolgere il loro compito. Se hanno fede, nulla sarà loro
impossibile (Mt 17,20; Lc 17,6). Ma accanto al Vangelo sorge lo scandalo (Mc 6,3

27 Il pensiero di Gesù si contrappone alla dottrina ebraica delle due misure (ripresa e cambiata da Gesù: Mt 7,1
ss.; Lc 6,37 ss.; Mt 6,14 ss.; Mt 5,7; Mt 25,31 ss.): questa afferma che Dio nel governo del mondo applica sia
misericordia che giustizia/giudizio; nel giudizio universale applicherà solo il giudizio (e non la misericordia).
Questa dottrina è attestata anche da 4 Esdra e da Enoch Etiopico (Libro di Enoch 38,6). Gesù invece insegna
che la misura della misericordia è valida anche nel giudizio finale. Quando Dio usa, nel giudizio, l’una o l’altra?
Chi fa cattivo uso del dono di Dio cade sotto l’asprezza del giudizio, ma come in Mt 6,14 ss.: se voi perdonerete
agli altri allora il Padre perdonerà a voi.

LE PARABOLE DI GESÙ !36


“ed era per loro motivo di scandalo”) e quindi neppure loro saranno risparmiati
dall’odio che colpirà Gesù.
Inermi come pecore Gesù li manda tra i lupi (Mt 10,16; Lc 10,3). Così è il prendere la
propria croce: chi mi segue, dice Gesù, deve rischiare una vita altrettanto difficile
quanto la via crucis di un condannato in cammino verso il patibolo. Rinnegare se
stessi è esporre senza riguardi la propria persona. Per quanto grandi le prove essi
sono nelle mani di Dio che veglia su di loro e da questo stesso dono imparano come
metaniere la loro umiltà a salvaguardia della farisaica presunzione della
giustificazione (Lc 17,7-10).

La via della passione e la rivelazione della gloria del Figlio dell’uomo

La confessione di Pietro a Cesarea di Filippo è centrale e decisiva nella missione di


Gesù. Alla proclamazione pubblica segue ora il messaggio esoterico che ha per
oggetto la passione e il trionfo del Figlio dell’uomo (Is 53). Questo messaggio è
composto da tante immagini figurate: il calice che deve bere (Mc 10,38); il pastore
che dona la vita (Gv 10,11-15); la spada che lo deve colpire (Mc 14,27 = Zac 13,7);
la pietra che deve essere gettata (Mc 8,31); il chicco di grano che deve morire (Gv
12,24). La morte dell’innocente per riscatto e sacrificio per tutti quelli che sono
perduti. Il passaggio alla morte del Figlio dell’uomo è solo il passaggio verso il trionfo
finale di Dio. Il nuovo tempio che Gesù costruisce con la sua predicazione e di cui
egli stesso diverrà la chiave di volta è già in costruzione e in tre giorni verrà compiuto
(Mc 14,58 ss.). La parusia del Figlio dell’uomo illuminerà e farà chiarezza ( Mt 24,27)
su tutto (anche sulla sua stessa missione).

Compimento

I segni del compimento sono espressi in un vero e proprio linguaggio dei simboli: il
trono di Dio (Mc 14,58); il figlio dell’uomo assiso alla sua destra (Mc 14,62);
l’eliminazione del malvagio (Mc 13,2; Mt 19,28; Lc 17,26-30); il giudizio sui vivi e sui
morti (Mt 12,41 ss.); la cacciata di Satana (Lc 10,18); la morte che non regna più (Lc
20,36); il dolore che ha fine (Mt 11,5). I rapporti si rovesciano: ciò che è nascosto
diviene palese (Mt 6,4.6.18; Mt 10,26: “non vi è nulla di nascosto che non sarà
svelato…”; Mc 4,22; Lc 12,2. Nei tre passi il senso sembra diverso perché viene
applicato a contesti diversi. In Matteo fa riferimento al momento del Giudizio; in
Marco indica la sorte del messaggio di Gesù; in Luca come ammonimento
sull’ipocrisia dei farisei. Il senso originario invece era quello del rovesciamento
escatologico dei rapporti; i poveri diventano ricchi; gli ultimi i primi; i piccoli diventano
grandi; gli affamati sazi… (…); la colpa è rimessa; i puri di cuore contemplano Dio; il
raccolto è riposto nei granai eterni; i figli di Dio sono nelle dimore del Padre… La
comunione tra Dio e l’uomo, distrutta dal peccato, è ristabilita. La comunità
messianica di cui parla Gesù è diversa da tutte le altre comunità del tempo. I farisei
(“perisa" da cui deriva in aramaico il loro nome è sinonimo di “qaddisa”, santo,
separato) ritenevano di essere la comunità santa separata dagli altri che non sanno
nulla della Legge. Essi attendono il Messia che con possente parola elimina i
peccatori. Gli esseni, come comunità della nuova alleanza, si spostò da

LE PARABOLE DI GESÙ !37


Gerusalemme per dedicarsi ad una vita pura e ascetica. E poi c’erano i seguaci del
battista.
Gesù fece esattamente il contrario di tutti questi tentativi.
Tra i suoi adepti vi erano persone che non si sarebbero potute giustificare (come
credevano i farisei) in alcun modo dinanzi a Dio (la donna siro-fenicia…). E per
questo tutti erano irritati dal comportamento di Gesù che non faceva alcuna cernita.

Gesù risponde a questa irritazione in due parabole: la parabola della zizzania tra il
grano (Mt 13,24-30; Ev Th 57) e quella della rete a strascico (Mt 13,47 ss.).
Troviamo il solito dativo: “le cose stanno con il regno di Dio come con un uomo…”. Il
paragone è non con l’uomo ma con il raccolto. Il proprietario non ha affatto colpa che
sia cresciuta la zizzania, seminata da un suo nemico. Essendoci troppa zizzania non
va tolta perché, adesso, si distruggerebbe il raccolto. Si aspetta quindi.

E poi: “Così accade all’avvento del regno di Dio come al momento della cernita dei
pesci”. Il regno non è paragonato ad una rete, ma alla cernita.
Si tratta di due parabole escatologiche: trattano del giudizio finale. Il regno=giudizio
viene paragonato ad una separazione.
Nella prima parabola si deve attendere perché 1) gli uomini non sanno fare una
cernita perché non possono vedere nel cuore; 2) è Dio ad aver stabilito l’ora della
separazione, quando la misura è colma. Poi viene la fine. E allora la comunità di Dio
farà la sua apparizione.

Azioni con intento di parabola

Gesù ha anche “agito” in parabole: le parabole attualizzate. Si veda l’episodio di


Zaccheo (Lc 19, 5 ss.), e l’accoglienza che lui riserva a chi è disprezzato.

Anche l’ultima cena è una parabola attualizzata nella quale partecipò i suoi della
potenza espiatoria della propria morte. Gesù con le proprie azioni proclama il
sorgere del tempo di salvezza (cacciata del tempio; entrata sull’asina in
Gerusalemme; designazione dei dodici apostoli = designazione delle dodici tribù;
elezione di Simone a Cefa, pietra di fondamento del nuovo Tempio…). Lava i piedi ai
discepoli. Perdona l’adultera. Scrive nella sabbia come a dire ai dottori della Legge:
“quanti mi rinnegano saranno scritti nella polvere” ovvero saranno annientati (Ger.
17,13). Il pianto su Gerusalemme…

Le parabole attualizzate proclamano il compimento della “escata", del tempo della


salvezza; tempo della salvezza che è già cominciato. Le parabole attualizzate sono
azioni kerygmatiche di Gesù. Gesù non ha solo proclamato il messaggio delle
parabole ma lo ha anche vissuto incarnandole nella sua persona. Gesù non
annuncia solo il messaggio del Regno di Dio; egli lo è, è quel messaggio!

LE PARABOLE DI GESÙ !38


Conclusione

Tutte le parabole di Gesù costringono l’uditore a prendere posizione verso la sua


persona e il suo messaggio (esse sono implicitamente considerate come una auto
testimonianza cristologica: se si parla della bontà di Dio è in Gesù che questa bontà
è attiva).
Esse sono colme del mistero del regno di Dio (Mc 4,11) ovvero della escatologia
realizzantesi. L’ora del compimento è giunta, è qua. Lc 4, 16-30: è sorto l’anno di
grazia di Dio, perché è giunto il Salvatore, la cui occulta maestà traluce dietro ogni
parola, gesto e parabola.

Le parabole vogliono dire, raccontare qualcosa che riguarda la vita, lo stato, la


situazione attuale di una persona, di una comunità, della folla, dei discepoli o degli
avversari. Tali storie e narrazioni pongono l’uditore dinanzi ad una scelta, dinanzi al
dover prendere una decisione. Una decisione per la vita. Un tale effetto, per
esempio, ha la parabola che il profeta Nathan racconta a Davide dopo l’episodio di
Uria (cf. 2Sam 12,1-13). Le parabole di Gesù vogliono dire proprio una esperienza
viva, vogliono toccare sul vivo la vita delle persone che lo circondano. Bellissimo in
tal senso è l’episodio del film di Zeffirelli quando Gesù racconta la parabola del figliol
prodigo nella casa di Levi con Pietro alle porte. Dopo la parabola, viva, vera, agente
nella vita di entrambi i due si abbracciano e si riconoscono come fratelli. Inoltre come
abbiamo visto le parabole dicono chi è Dio, come è buono!, dicono che l’ora è
giunta, che occorre prendere la veste, che occorre star pronti perché lo sposo e il
padrone stanno tornando, anzi, sono già presenti. Quindi c’è un aspetto esistenziale
insieme comunque ad un aspetto conoscitivo. Le parabole velano i significati: solo
chi ha orecchie per intendere le può intendere.
Ma questo è come per il mito. Nel mito la situazione attuale, concreta, reale di chi
legge o ascolta viene toccata, raggiunta, realizzata28. Ma il mito non è solo questo.
L’esperienza della narrazione si fa viva e si incarna negli ascoltatori che diventano
quella storia, quei personaggi. Non è un caso che i miti venissero raccontati o
raffigurati nei riti iniziatici, nei riti di passaggio; che avessero rilevanza nei momenti
importanti (la vita, il nascere, il conoscere, l’imparare, l’osare, il morire) del ciclo di
esistenza di un singolo o di una comunità, ripetendo gesti cosmici all’interno di riti
che li attualizzassero29. La loro comprensione o meglio il fatto che venissero
incarnati nell’iniziato costituiva l’attuazione del passaggio.
Anche per Gesù avviene la stessa cosa: le sue parabole, per la folla, vogliono
essere la preparazione, il momento di passaggio e di crescita per quanti lo seguono,
non solo una fotografia esistenziale. Dicono verità fondanti. Preparano ciò che sta
per avvenire e avviene. Ai discepoli Gesù spiega tutto proprio come fa un maestro
iniziatico, conducendo il suo allievo ad una conoscenza ed a una esperienza
superiori o introducendolo in un altro livello di sapienza e sapere.
Questo accostamento viene proposto e sottolineato perché è Gesù stesso che usa
un numero spropositato di immagini, storie, racconti, figure. E mai a caso. Anzi,
sempre per evidenziare un qualcosa, preparare l’uditorio, dire parole verità sulla
crisi, sull’escaton, sul compimento, su chi è Dio, sulla sua missione di salvezza, sulla

28 Cf. W.F. Otto, Il mito, p. 17


29 Cf. M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, p. 19, 23, 37

LE PARABOLE DI GESÙ !39


impellenza dell’ora, sul senso. Gesù racconta storie che appartengono alla
tradizione giudaica e che vengono cambiate quasi completamente. Sono storie note
che chi ascoltava Gesù conosceva molto bene. Gesù, cambiandole, lascia i suoi
uditori di stucco. Li colpisce.
Lui racconta miti, leggende, racconti, ma “mithos” inteso come parola di verità,
parola vera, “autorivelazione dell’essere”30 e “esperienza originaria rivelantesi”31.
Questo è il significato profondo della parola mito: “Mithos è la “storia” nel senso
dell’accaduto o di ciò che sta accadendo, conformemente all’essere. La “parola” che
da notizia del reale (…), qualcosa che deve divenire vero attraverso tale
espressione, (…) la parola che da notizie oggettive, autoritativa”32
Le parabole raccontano questa verità o “cose nascoste fin dalla fondazione del
mondo” (Mt 13,35). E sono parola vera ed autoritativa. Tale verità (Mt 13,35 che
riprende Sal 78,2) non è per tutti ma è nascosta ai più: ecco il discorso in parabole
(Mc 4,10-12).
La funzione del mito è la medesima: avere un accesso ad un sapere, ad una
conoscenza iniziatica o esoterica. Non è in nulla diverso per il discorso in parabole.
Proprio nelle parabole, infatti, vengono fatti alcuni discorsi fondamentali sul Regno,
sulla salvezza, sul come è Dio, sull’urgenza dell’ora, sul Giudizio. Vengono dette
verità che ci riguardano e non si tratta di favolette legate ad una visione del mondo.
Si tratta di verità, di parole vere (amen!) nella accezione che la parola vera ha, come
abbiamo visto, nel termine mito.
Come il mito ci interroga sul nostro essere nel momento in cui leggiamo e viviamo
quelle storie, le facciamo nostre, portandoci ad un livello di conoscenza superiore,
così è per le parabole. E viceversa.

Infine molte delle immagini che vengono raccontate e presentate a chi ascolta Gesù,
sono fondanti in termini di fede; da questo ne consegue che le immagini, le storie, le
narrazioni, il mito sono quindi fondanti per la fede stessa. Ci interrogano perché
interrogano la nostra fede, la fede con la quale crediamo e la fede nelle cose in cui
crediamo. Togliere alla fede immagini, storie, narrazioni e mito significa rischiare di
spogliarla di contenuti e in particolare di alcuni di quei contenuti che ne reggono le
fondamenta e non sono proponibili e comprensibili (a parte un’esperienza mistica) in
altro modo se non con l’ascolto di una narrazione.

30 Cf. W.F. Otto, op. cit., p. 32


31 Cf. W.F. Otto, op. cit., p. 33
32 W.F. Otto, op. cit., p. 31

LE PARABOLE DI GESÙ !40


Indice
Introduzione 2
Il problema 3
Uno sguardo generale sulle parabole 5
Le 10 leggi di trasformazione 6
La lingua delle parabole 6
Immagini e spostamenti di significato nelle parabole 6
La struttura delle parabole: alcuni caratteri generali 7
Parabole, parenesi e situazione della chiesa delle origini 9
L’allegorizzazione 13
Le parabole doppie e fusioni di parabole 17
Redazione e contesto delle parabole 18
Introduzione e conclusione delle parabole 19
Il messaggio delle parabole di Gesù 21
Presenza della salvezza 22
La misericordia di Dio verso i peccatori 23
La grande certezza 26
L’imminenza della catastrofe 28
La minaccia del troppo tardi 30
L’imperativo dell’ora 31
Adesione vissuta 34
La via della passione e la rivelazione della gloria del Figlio dell’uomo 37
Compimento 37
Azioni con intento di parabola 38
Conclusione 39
Indice 41
Bibliografia 42
LE PARABOLE DI GESÙ !41
Bibliografia

J. Jeremias, Le parabole di Gesù; Paideia Editrice Brescia, Brescia 1967,1973

F. La Gioia, Come è nata la Bibbia? Introduzione generale alla sacra Scrittura;


Phasar Edizioni, Firenze 2011

L. Moraldi (a cura di), I Vangeli gnostici - Vangeli di Tomaso, Maria, Verità, Filippo;
ed. Adelphi, Milano 1993, 2000

P. Sacchi (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento - volume primo; ed. UTET,
Torino 1981, 1989

J. M. Garcia, La vita di Gesù - nel testo aramaico dei vangeli; ed. BUR, Milano 2005

B. D. Ehrman, Gesù non l’ha mai detto - millecinquecento anni di errori e


manipolazioni nella traduzione dei Vangeli; ed. Mondadori, Milano 2007

J. Ratzinger, Gesù di Nazareth; ed. Rizzoli, Milano 2007

R. Bultmann, Gesù; ed. Queriniana, Brescia 1972, 2008

J. Neusner, Un rabbino parla con Gesù; ed. San Paolo, Torino 2007

R. Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia - il manifesto della demitizzazione; ed.


Queriniana, Brescia 1970, 2005

W. F. Otto, Il mito; ed. il nuovo melangolo, Genova 2007

K. Kerenyi, Miti e misteri; ed. Bollati Boringhieri, Torino 2010

M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno; ed. Borla, Roma 2007

LE PARABOLE DI GESÙ !42

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