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Michele Bava
LE PARABOLE DI GESÙ !1
Le parabole di Gesù
Introduzione
Cosa sono le parabole di Gesù? Perché lui ne fa un uso così esteso nella e per la
sua predicazione? A chi erano dirette? Quali erano i contenuti impliciti ed espliciti
che Gesù voleva trasmettere ai suoi uditori? Perché Gesù parla in parabole?
Perché, soprattutto, ci “racconta” alcune delle più grandi verità della sua
predicazione e riguardanti la sua venuta (il tema del Regno; la salvezza; l’urgenza
dell’ora) proprio in parabole? Cosa sono le parabole? A che genere letterario
appartengono? Come sono ripartite nei sinottici? Quali e quante sono le differenze
tra un Vangelo e l’altro? Quali i significati per chi ascoltava Gesù? Per la chiesa
nascente? E per noi, oggi?
Queste sono solo alcune delle domande che una trattazione sulle parabole può porsi
e a cui non può certamente dare una risposta né in poche righe di una breve
presentazione e forse neppure in una serie di pubblicazioni e lavori di una vita.
In tal senso il libro di J. Jeremias, “Le parabole di Gesù”, che mi accingo a riportare e
commentare è uno sforzo sia esegetico che teologico di grande livello per tentare di
inquadrare il “problema”. Si perché di un “problema” si tratta: le parabole insieme alla
pletora di immagini, racconti, storie che Gesù propone ai suoi uditori ancora oggi
rappresentano un’interrogativo ed un interrogarsi per chiunque si accosti ai Vangeli e
in particolare all’Evangelo, alla Buona Novella. Chiunque in modo critico e/o
credente si accosta alle parabole si trova inevitabilmente a confrontarsi con il loro
contenuto; ad identificarsi con quei personaggi; ad interrogarsi su come quelle storie
vengono dipanate e portate a compimento in quella narrazione. Io, fossi stato uno di
quei personaggi delle parabole, che cosa avrei fatto? Io, come mi parei comportato?
E ancora, udendo quelle parole di Gesù, come avrei reagito? Come reagisco
adesso? Cosa mi dice quel testo, quel versetto?
Questo credo sia il primo aspetto che il libro mette in evidenza. Un confronto serrato
che passa attraverso l’esegesi puntuale dei passi, i rimandi alle tradizioni, il
confronto con le fonti e la critica testuale, per giungere fino a sviscerare i significati di
quelle parole o dietro ad esse. Perché Gesù ha detto così? E poi ha detto veramente
così? E questo è il secondo aspetto centrale del libro: la ipsissima vox Jesu. Quali
parole ha detto davvero Gesù? Quali invece riguardano la “storia della redazione”1
che ha portato a quella pagina del Vangelo.
La lettura del libro considera quindi sia aspetti esegetici -tanto diacronici (critica
letteraria in particolare) quanto sincronici (narratologia biblica), che ermeneutici,
conducendo chi legge attraverso un’analisi del testo fino ad una lettura che tiene
conto del contesto in cui Gesù visse e operò, interrogando il lettore sia in chiave
esistenziale che teologica.
LE PARABOLE DI GESÙ !2
Il breve studio che viene presentato qui ricalca molto da vicino lo svolgimento del
libro, con qualche breve riflessione personale nelle note e nelle conclusioni. Il lavoro
è stato strutturato come segue:
-nel primo capitolo si inquadrerà la questione (il problema) delle parabole;
-nel secondo capitolo si tratteranno alcuni aspetti generali del genere letterario
parabola (“masal" ebraico; “mathla" aramaico), si prenderanno alcune parabole in
particolare quelle cosiddette allegoriche e le parabole della crisi e si farà una loro
analisi, riportando il dettaglio di qualche versetto, vedendo alcuni aspetti sulle
cosiddette “conclusioni secondarie” e sugli aspetti parenetici, ovvero la voce della
chiesa delle origini. Sempre dallo studio di queste parabole si cercherà di trovare la
ipsissima vox Jesu applicando le dieci regole di trasformazione;
-infine, nel terzo capitolo, verranno elencati i dieci temi fondamentali delle parabole
riportando tutti gli esempi significativi possibili;
-nella conclusione si faranno alcuni commenti finali, in particolare riguardanti il
significato esistenziale delle parabole e il rapporto tra parabole e mito sia nei termini
di parallelismo esistenziale-esperienziale sia conoscitivo-sapienziale.
Il problema
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Accanto a questa interpretazione allegorica c’è quella della “teoria dell’indurimento”,
ovvero che le parabole dovevano essere per gli estranei un velo gettato sul mistero
del Regno di Dio (cf. Mc 4,10-12). Questo è un passo fondamentale e molto
discusso e che ha il suo corrispettivo in Mt 13,34-35 (cf. Sal 78,2; Os 12,11): in
particolare il v. 11 è stato tramandato isolatamente ed è stato aggiunto da Marco.
Gesù viene interrogato sulle parabole al v.10 e risponde con la formula
dell’indurimento del v. 11 stesso. In Mc 4 abbiamo in modo evidente l’attestarsi di
materiale di tre stadi della tradizione: Gesù, Chiesa primitiva, Marco proprio per gli
evidenti rimaneggiamenti, aggiunte, e cambiamenti3.
Gesù dice che Dio ha elargito ai discepoli il mistero (segreto) del Regno di Dio, una
conoscenza singolare e unica: la consapevolezza del suo inizio presente (in Gesù
stesso). A voi, dice Gesù, è dato il “mistero” del regno; mentre a quelli che sono fuori
sono state date le “parabole” (citando Is 6,9-10). Dal punto di vista linguistico ci sono
due aspetti:
1) questa antitesi si verifica perché la parola greca “parabola” corrisponde a
“masal" (ebraico) = “mathla" (aramaico) che hanno il significato corrente (vd. AT
“masal” = “hidha” enigma (cf. Sal 78,2), discorso difficilmente comprensibile,
discorso oscuro Mc 7,17) di indovinello, enigma (“mesal" in etiopico ha significato di
discorso esoterico apocalittico).
Quindi, dice Gesù, a voi il mistero è svelato, quelli di fuori si trovano invece di fronte
a degli enigmi. In Gv. 16,25 Gesù dice “in modo velato” “en paroimias” (diverso da in
parabole), sostantivo che implica da parte di Gesù l’uso di detti simbolici o figurati,
similitudini o proverbi la cui comprensione non doveva essere immediata. Il
sostantivo viene contrapposto a “parresia” = proclamare apertamente.
2) il verbo “avviene”, “ginetai", è in una forma non greca, ma in una forma di
espressione semitica e la frase andrebbe tradotta: “per quelli invece che sono di
fuori, tutto si presenta/si compie in discorsi enigmatici/in avvenimenti velati”.
Jeremias suppone che Mc 4,11 ss. NON parla delle parabole di Gesù ma della sua
predicazione in generale (predicazione che in Gv. 16,25 abbiamo detto avvenire “en
paroimias”). Il mistero (che è anche progetto oltre che segreto) del regno presente in
mezzo a loro viene svelato ai discepoli, mentre le parole di Gesù rimangono oscure
agli estranei, perché essi non riconoscono la sua missione e non fanno penitenza.
Infatti il Targum in Mc 4,12 attenua la durezza della citazione, proponendo “a meno
che” al posto di “perché non”.
Quindi questo logion 4,11, arcaico proprio per la contrapposizione tra i discepoli e
quelli di fuori, dovrebbe appartenere al periodo posteriore alla confessione di Pietro
a Cesarea di Filippo, il periodo della predicazione esoterica di Gesù.
Marco ha inserito questo logion nel cap 4 delle parabole, interpretando male il
termine greco parabole che, in questo caso, significa “in modo velato”. Infatti a Mc
4,10 doveva immediatamente seguire Mc 4,13. Con questo si hanno del passo tre
possibili diversi significati:
1) non c’è alcun mistero da svelare nelle parabole, perché il vero mistero è rivelato
solo ai discepoli, annunciando le stesse parabole, semmai, proprio il mistero del
Regno
2) Il passo Mc 4,11 ss. non rappresenta un canone particolare per l’interpretazione
delle parabole stesse (o forse si?!). Nelle parabole allora, mediante un’esegesi
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allegorica, non c’è da ricercare un senso o un significato nascosto “a quelli che
sono fuori”
3) possiamo continuare a considerare le parabole degli insegnamenti nascosti ed
esoterici, considerando proprio il significato della parola “parabola”, proprio
perché questo significato rimane nascosto e celato “a quelli che sono fuori” (a
meno che non si convertano)!
Gesù non è un saggio che esponeva delle massime morali ed una teologia
semplificata con dei racconti ed immagini facili da tenere a mente. La predicazione
evangelica è infatti sempre duplice: liberazione e scandalo, salvezza e perdizione,
vita e morte.
Occorre sempre tendere a riguadagnare il senso primigenio delle parabole. La
Formgeshichte ripartì le parabole in categorie distinguendo metafora, paragone,
allegoria, similitudine, ecc… ma in realtà l’ebraico “masal" e l’aramaico “mathla"
significano tutte queste cose e molto di più, ovvero “ogni sorta di discorso figurato,
senza che si possa fissarne uno schema”. La stessa parola greca parabola, nel NT,
ha significato di parabola, paragone, simbolo, motto, proverbio, indovinello…
Le parabole devono essere collocate nella situazione della vita concreta di Gesù.
Non sono (solo) delle opere letterarie (limite della storia delle forme) e nemmeno
intendono inculcare delle massime generiche, bensì ognuna di esse è stata
pronunciata in una concreta situazione della vita di Gesù, in una circostanza
irripetibile ed imprevedibile. Inoltre sono “strumenti” di lotta, di difesa, di opposizione
ed esigono delle risposte immediate.
Per capire le parabole occorre ricostruire il momento storico preciso della vita di
Gesù in cui lui ha pronunciato quella precisa parabola. Ciascuna delle parabole è
nata da (e in) un momento storico della vita di Gesù.
Cosa voleva dire Gesù in questa o in quell’altra ora precisa? Quale influsso ebbe la
sua parola sugli ascoltatori? Questa sono le domande da porsi. Possiamo
comprendere le parabole di Mt 13 solo se ci saremo fatti una idea della situazione
concreta in cui Gesù ha parlato.
Nel tentativo di dare una collocazione storica delle parabole troviamo anche un
primo criterio per fare uno studio delle parabole stesse:
1) collocazione storica originaria (quella in cui Gesù le pronunciava) legata ad
avvenimenti concreti
2) argomenti, immagini, storie, personaggi di cui Gesù parla che appartengono ad
una tradizione medio-orientale e palestinese
3) il vissuto storico delle parole (e quindi anche delle parabole) di Gesù nella chiesa
primitiva che ne rielaborava e tramandava i detti e tutto il suo vissuto
La critica storico letteraria è aiutata, nella ricerca della posizione storica originaria
delle parabole, dal Vangelo di Tomaso (cit. Ev Th) nel quale troviamo undici parabole
sinottiche, molte delle quali possono essere ritenute, come si dirà, originarie.
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Le 10 leggi di trasformazione
Queste dieci leggi di trasformazione, che ora analizzeremo, sono strumenti per poter
risalire al significato originario delle parabole di Gesù e per sentire la ipsissima vox
Jesu. L’incontro con lui e con la sua parola, rimuovendo il velo tra noi ed essa, può
dare piena forza al nostro annuncio (il “kerygma”) cristiano.
Alcune parole in aramaico, come per esempio la parola “banchetto” hanno il doppio
significato di “banchetto” e “nozze” (e le stessa parola in aramaico è stata tradotta in
greco in due modi diversi). Così per le incertezze sui verbi composti, che in aramaico
4 Cf. J.M. Garcia, “La vita di Gesù nel testo aramaico dei vangeli”, BUR 2005
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non esistono, e per la parola “onorato” (cf. Lc 14,10b) che in aramaico ha diversi
significati riportati, appunto, nelle traduzioni in greco delle varianti.
Quindi al cambiare dei vocaboli (a causa della traduzione), cambiano anche le
immagini e il loro patrimonio che viene tradotto dall’ambiente originario secondo
l’ambiente ellenistico.
Le parabole che Gesù presenta sono sicuramente prese dalla vita ma sono anche
arricchite con notazioni insolite (invitati che rifiutano un invito, spose che si
addormentano, ecc…) tali da suscitare l’attenzione degli uditori. Si tratta di aspetti
frequenti nella narrativa orientale e Gesù, nel raccontarle, ha aderito a questo “stile”
con piena ed originale coscienza. L’esempio è il debito di diecimila talenti del servo
malvagio (Mt 18,23-25), un debito che nessuno avrebbe potuto mai ripagare
(cinquanta volte maggiore dell’introito reale di tutta la Galilea nel 4 sec. a.C.) ma che
Gesù introduce per “shocchare” i suoi ascoltatori e far capire che l’uomo non può in
alcun modo saldare il suo debito con Dio.
Le parabole sono state talvolta abbellite (nello stile orientale) e il testo originario,
spesso ma non sempre, ci è offerto dalla redazione più semplice5. In generale poi ci
sono pochi riferimenti, nelle parabole, all’AT (grano di senape e seme che cresce da
solo) e alle narrazioni popolari, anche se Gesù attinge da quei racconti
“modificandoli” o aggiungendo dettagli funzionali alla sua narrazione e soprattutto
alla sua missione. Per esempio nel Vangelo di Tomaso la parabola del tesoro nel
campo (Ev Th 109) si rifà ad un racconto rabbinico del Midrash mentre è originaria in
Matteo (nel Midrash e nel Vangelo di Tomaso si parla più del dispetto provato per
una occasione persa che della gioia dell’uomo di aver trovato un tesoro). L’altro caso
è sempre in Mt 22,7, il re che manda i suoi soldati a distruggere la città, episodio che
manca in Luca e Tomaso.
Vediamo la parabola dei vignaioli (Mt 20,1-16) dove avviene un cosiddetto “cambio
di uditorio”.
Alcune interpretazioni:
1) la Chiesa la ha sempre considerata come una chiamata alla vigna del Signore (la
messe è molta e gli operai pochi); Origene ed Ireneo vedevano nella ripartizione
della giornata l’allegoria di cinque ere/eoni. Ma l’accento della parabola non è
nella chiamata alla vigna, ma nel pagamento fatto alla sera, nonostante i “protoi"
diventino “escatoi” e gli “escatoi” “protoi".
2) “Molti sono i chiamati, pochi gli eletti”: questo il finale della parabola come in Mt
22,14 (Mt 20,16b che non esiste!!! Infatti è attestato nel palinsesto di S. Efrem
(C) e nel Codice di Beza (D) mancando nella versione CEI6). I primi perdono il
loro “privilegio” e viene detto loro “vattene”, al v. 14. E’, secondo l’interpretazione
comune, una parabola del giudizio. Ma tutti ricevono la paga pattuita! Anche i
“protoi"! Quindi l’interpretazione comune non regge! Il senso è proprio nel finale
che manca nelle nostre Bibbie ri-tradotte (vd. nota 6).
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3) Che i primi siano ultimi e gli ultimi primi per Marco (Mc 10,31) e Matteo (Mt 20,16
e e Mt 22,14) significa che nell’eone venturo tutto l’ordine gerarchico terrestre
sarà rovesciato. Gli ultimi diventano i primi ed è proprio da loro che inizia la
retribuzione (Mt 20,8b)! Ma anche questa interpretazione è incompleta. Anche
stavolta infatti tutti ricevono la loro ricompensa pattuita, quindi l’ordine gerarchico
non è sovvertito.
4) Il contesto di Matteo non è originario, ma Matteo mette quella frase alla fine
perché “lui” vuole sottolineare il rovesciamento dell’ordine costituito. Non è
questa l’idea di Gesù! La parabola infatti vuole affermare la parità della
ricompensa nel Regno di Dio. La meraviglia degli uditori non starà quindi nel
“stessa paga per tutti” ma nella sorpresa di “una ricompensa così grande (anche)
per gli ultimi!
5) Probabilmente il versetto finale Mt 20,16 è solo un’aggiunta generalizzante che
viene fatta anche altre volte e anche negli altri sinottici. Questo significa che la
parabola terminava al v. 15. Terminando così la parabola sembra paradossale ed
ingiusta…. In realtà la parabola descrive non un atto di arbitrio, ma l’azione e il
gesto di un uomo generoso e pieno di sensibilità verso i poveri. Così agisce Dio,
dice Gesù. Così è Dio.
Perché Gesù narra questa parabola? Si tratta di una parabola a doppio vertice: 1)
l’arruolamento degli operai e la magnanima disposizione circa il pagamento del loro
lavoro; 2) la lagnanza dei “danneggiati”. In ogni parabola a doppio vertice l’accento è
messo sul secondo membro. E questo fatto accentua il perché Gesù abbia voluto
raccontarla (per voler dire chi è Dio). Forse si rivolge ai farisei che mormorano anche
loro e si scandalizzano della Buona Novella e di Gesù stesso e così si spiega la
frase “forse tu sei invidioso perché io sono buono?”. Lui dice: “Così è Dio, è talmente
buono! E così sono io! E Dio agisce adesso per mezzo mio. E voi vorreste
biasimarlo?“.
Questo è il momento storico originario della parabola, collegato alla situazione reale
della vita di Gesù.
L’esempio appena riportato evidenzia quella che si può definire, come abbiamo
visto, una legge di trasformazione delle parabole (da parte della chiesa): la chiesa
primitiva riferisce ai discepoli di Gesù molte parabole, che all’origine erano state
rivolte ad altri ascoltatori, come i farisei, gli scribi, la folla.
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E’ quindi sicuramente Luca (anche la allegoria del pastore di Gv 10,6 è rivolta contro
i farisei) e non Matteo ad aver conservato la situazione originale storica in cui si
trovava Gesù, come nella parabola degli operai della vigna.
Cambiando l’uditorio (da folla/avversari a discepoli) una parabola apologetica si è
quindi trasformata in una parabola parenetica. Ci sono altri casi di differenze di
uditorio, alcune delle quali difficilmente armonizzatili tra i tre sinottici e alcune persino
in contraddizione tra loro o nello stesso singolo evangelista (cf. Lc 8,16 e Lc 11,33).
Nella parabola su Beelzebul p. es. in Mc 3,22 è rivolta agli scribi, in Mt 12,24 ai
farisei, e in Lc 11,14 alla folla. Potrebbe essere che Gesù si sia ripetuto allora.
Ma questo non è possibile perché considerando Marco comune a Luca e a Matteo si
vede come in Marco si dichiara che le parabole rivolte ai discepoli (Mc 4,21-32)
siano ben separate da quelle rivolte alla folla (Mc 4,33-34).
Come dimostrato per le due parabole analizzate, in realtà per tutti i sinottici, c’era la
tendenza a trasformare le parabole che Gesù diceva alle folle o agli avversari in
parabole rivolte ai soli discepoli (anche esempio del discorso delle beatitudini in Luca
rivolto alla folla e in Matteo ai discepoli). Nel vangelo di Tomaso tutte le parabole
senza eccezione vengono riferite al vero discepolo gnostico, corroborando le ipotesi
fatte (e considerando che gli gnostici avevano o dovevano avere conoscenze
esclusive e segrete).
La parabola del cammino verso il giudice (Mt 5,25 ss. e Lc 12,58 ss.) è molto simile
nei due con una differenza terminologica solo sul fatto che Matteo “vede” e conosce
il procedimento penale ebraico mentre Luca conosce quello romano. Ma è
diversissimo il contesto in cui viene narrata.
Per Matteo la parabola è una esortazione, forse banale, per la condotta nella vita
quotidiana: “Riconciliati e accondiscendi se le cose si mettono male” (prima c’era
l’offerta all’altare e la riconciliazione con il tuo prossimo).
Per Luca invece la situazione è più drammatica. Il giudizio è alle porte, manca poco.
Risolvi la questione prima che puoi perché hai poco tempo! Si tratta di una parabola
escatologica e della crisi. Questo è un passaggio (spostamento di accento)
dall’escatologia di Luca alla parenesi di Matteo.
In Luca l’attenzione è rivolta all’azione escatologica di Dio, mentre in Matteo si
guarda al comportamento del discepolo. Ed è ancora Luca a descrivere meglio la
situazione reale di Gesù che, conscio della sua prossima ultima ora, era in attesa
della catastrofe, della fine dei tempi, del compimento escatologico. La chiesa,
sempre sospesa tra la passione e la parusia, ha spostato dall’escatologia alla
parenesi (la condotta della comunità) il contenuto di queste parabole.
Anche nella parabola della gran cena (Mt 22,1-14; Lc 14,16-24) c’è una variazione
non originaria in Luca e Tomaso che sono molto duri con i ricchi in generale e danno
una norma di buon comportamento come fa il padrone di casa. Il vero significato
della parabola però è un altro, che ancora una volta Gesù ha voluto giustificare di
fronte ai suoi critici il suo operato e la predicazione della Buona Novella ai poveri.
Poiché voi rigettate la salvezza Dio chiama a sé gli ultimi negli ultimi tempi! L’accento
escatologico è diventato parenetico.
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Così anche nella parabola del fattore infedele/amministratore scaltro (Lc 16,1 ss.).
Il vero significato, sempre escatologico, e l’unico che può spiegare perché
l’amministratore (infedele) venga lodato dal padrone (“curios"), è che i tempi sono
giunti e bisogna agire decisamente, con coraggio, abilità e saper osare in vista del
futuro. Questo fa capire che la parabola era rivolta ai dubbiosi, agli ostinati, alla folla
e non ai discepoli o alla comunità come traspare dal testo di Matteo che sembra più
un’esortazione al retto uso dei beni e un ammonimento nei riguardi dell’infedeltà.
La chiesa primitiva (in attesa della parusia che ritardava…) ha quindi riferito le
parabole alla “sua” situazione concreta operando spostamenti di accento, di uditorio
e di significato.
Questo è fondamentale per capire le cinque parabole della parusia di cui diamo un
breve accenno.
La parabola del ladro notturno (Mt 24,43 ss, Lc 12,39). C’è evidenza della traduzione
letterale dall’aramaico nell’uso del verbo “irrompere”. Gesù sta facendo riferimento a
uno scasso concreto avvenuto da poco nel villaggio e usa il fatto di cui tutti ancora
parlano. Motivo di meraviglia è il riferimento al ritorno del Figlio dell’uomo e come
dice Jeremias si tratta di un accenno contrario allo stile adottato: la parusia non è (o
dovrebbe essere) un avvenimento pauroso ma il momento della grande gioia! In
Tomaso (che ha due versioni della parabola) manca il riferimento cristologico. Senza
questa differenza in Tomaso la parabola del ladro, per come è posta, trova il
parallelo in quella del diluvio (Mt 24,37 ss. e Lc 17,26 ss.) e della pioggia di fuoco (Lc
17,28-32).
Gesù nella parabola vuole aprire gli occhi e ridestare sulla gravità della situazione
che sta arrivando. La chiesa primitiva però (vedi Luca) riferisce la parabola ai soli
discepoli o ai responsabili delle comunità dando Gesù risposta affermativa alla
domanda Pietro in Lc 12,41 (che in Matteo non c’è mentre c’è nel contesto delle
parabole sulla parusia solo la descrizione del servo fedele che attende il padrone
che si attarda), raccontando la parabola del servo fidato messo alla prova
dall’attardarsi del padrone. La parabola del ladro notturno (figura allegorica del
Cristo) diventa allora un richiamo alle guide della chiesa primitiva perché non si
rilassino dinanzi al ritardo della parusia.
Dal confronto con altri passi del NT e dell’AT (in Ap 3,3 e 1 Ts 5,4 i figli della luce
sono preparati e l’ultimo giorno -la sciagura- viene come un ladro per gli increduli)
viene confermato che Gesù ha detto la parabola alla folla e che il furto notturno era
figura della catastrofe imminente e anche questa rientra tra le parabole della crisi.
La chiesa primitiva riferisce la parabola alla sua mutata situazione, contrassegnata
dal ritardo della parusia.
Il significato escatologico in entrambe le versioni, quella di Gesù e quella della
Chiesa, è salvo. Ma Gesù parlando alla folla parla dell’inizio della tribolazione, e dice
di vigilare; la Chiesa, parlando ai suoi capi, parla della fine della prova, e di
continuare a vigilare perché il Signore tornerà all’improvviso come un ladro.
La parabola delle dieci vergini (Mt 25,1-13) è inclusa nelle parabole della parusia. La
parabola è un’allegoria della parusia di Cristo, sposo celeste. Le dieci vergini sono la
comunità in attesa, il ritardo è il differimento della parusia, la sua repentina venuta è
l’arrivo della parusia, il duro ripudio delle vergini è il giudizio finale.
La parabola del portiere (Mc 13,33-37; Lc 12,35-38; Mt 24,42). Ci sono nei sinottici
grandi differenze! La parabola è originaria in Marco: è il portiere che attende (e solo
a lui è dato il comando di vegliare) e non una pletora di servi che poi vengono
premiati (Luca).
Sia in Matteo che in Luca c’è un adattamento cristologico non originario anche se nei
passi di Marco ci sono delle frasi che derivano o sembrano mutuate dalla parabola
dei talenti (Mt 25,14)7 e dalla parabola del servo (Mt 24,45 e Lc 12,42).
Il nucleo della parabola è quello di Mc 13,34b (il padrone ha ordinato al portiere di
vegliare) e di aprire immediatamente la porta non appena il padrone ritorna e bussa
(Lc 12,36). Buon per lui se il padrone lo trova sveglio! Ma cosa intendeva Gesù? A
chi parlava? Ai discepoli? Facendo riferimento a quello che sarebbe accaduto sul
Gethsemani? Alla folla? Ai dottori della legge? Ovvero, non fatevi trovare
addormentati, quando verrà l’ora della crisi?
In ogni caso sembra trattarsi di un’altra parabola della crisi. La chiesa primitiva
applica la parabola, ancora una volta, alla sua situazione aggiungendo particolari,
dettagli e ricompense che però non erano il nucleo originario.
La parabola del servo cui è stato affidato il controllo o parabola del servo fidato (Lc
12,41-46; Mt 24,45-51). Matteo e Luca hanno visto nella figura del padrone il Figlio
dell’uomo che ritorna come Giudice del mondo e nella parabola una esortazione ai
discepoli di Gesù perché non si intiepidiscano nell’attesa della parusia. In Luca si è
aggiunto che la parabola era destinata solo agli apostoli, investiti di una particolare
autorità, e a cui il Signore ha dato di più e per questo devono rendergli di più. Mt
24,51a oltre ad essere un’aggiunta di Matteo ha anche un errore dalla traduzione dal
possibile aramaico in greco nella parola “dichotomeo” (“pallegh" in siriaco/aramaico),
tagliare in due, e quindi “egli lo dividerà” anziché egli “impartirà a lui” come è
nell’aramaico. Per il popolo, gli ascoltatori di Gesù, gli amministratori del Regno di
Dio a cui erano affidate le chiavi erano proprio i dottori della legge. La parabola
sembra parlare proprio di questi amministratori, ovvero dei capi religiosi di quel
7 J. Jeremias forse ignorava la “teoria delle due fonti” di Weiss (Marco e fonte Q) per cui tutto il materiale in più
rispetto a Marco, da cui attingono, che Luca e Matteo hanno in comune è desunto dalla “fonte Q” a cui si
aggiunge, per ciascuno dei due, il loro materiale proprio.
La parabola dei servi ai quali sono stati affidati i denari (Mt 25,14-30; Lc 19,12-27;
Vangelo dei Nazareni). Nel Vangelo dei Nazareni c’è un terzo servo che scialacqua il
denaro. In Luca e Matteo ci sono differenze.
In Luca Gesù fa riferimento ad un fatto vero, la vendetta di Archelao, al ritorno da
Roma, contro quelli che non lo volevano al trono. Ma Luca sbaglia nell’accostare il
Figlio dell’uomo al nobile personaggio perché questo o è tutto proteso verso il
denaro (Lc 19,21) o si comporta come un crudo despota che gode a vedere i suoi
nemici giustiziati (Lc 19,27).
E’ invece Matteo ad aver conservato la redazione più antica anche se, a torto, la
vede anche lui come una parabola della parusia. In Matteo i servi ricevono somme
favolose mentre in Luca vengono nominati governatori solo dopo aver fatto fruttare
quanto ricevuto. I vv. 21.23 (la ricompensa in Luca è solo terrena, qui celeste,
perché la gioia è l’entrata nel Regno; si tratta di una locuzione molto usata da
Matteo) e v. 30 (non ci sono in Luca e oltrepassano il quadro terreno della parabola:
il servo tra l’atro, al v. 28, era già stato punito!) non appartengono al testo originario.
Interessante il dato, diverso nei due sinottici, sulla diversa conservazione dell’unico
talento: sottoterra per Matteo (come prescritto secondo il diritto rabbinico), in una
pezza per Luca, cosa che è di una leggerezza inaccettabile8.
Per chi ascoltava Gesù quei servi erano i dottori della legge, i capi religiosi del
popolo. Allora Gesù avrebbe rivolto la parabola proprio ai dottori della legge. A loro è
affidata la Parola di Dio e dovranno renderne conto circa il suo utilizzo.
L’applicazione parenetica della parabola fa leva sull’aggiunta (?) di Mt 25,28-29 che,
per le comunità è sicuramente una spiegazione convincente, ma non può diventare
principio di interpretazione per tutta la parabola, divenendo anche misura della
giustizia (un po' ingiusta) divina (togliere ai poveri per dare ai ricchi). Si tratta di una
spiegazione secondaria che però diventa principale. Infatti in Matteo il mercante
diviene allegoricamente il Cristo, il suo viaggio l’ascensione, il suo ritorno la parusia,
con la divisione tra “buoni” e “cattivi”.
Le cinque parabole che abbiamo esaminato (della parusia) erano in origine tutte
parabole della crisi. Esse vogliono scuotere il popolo accecato e i suoi capi di fronte
all’ora grave e temibile. La catastrofe verrà inaspettata come… La chiesa primitiva
invece spiegherà queste cinque parabole in chiave cristologica anche se Gesù si è
riconosciuto come Messia soltanto una volta in pubblico: Mc 14,62 (“Io lo sono!”).
Oltre al ritardo della parusia la chiesa delle origini iniziava a prestare la sua missione
alla sequela del Cristo e del suo Vangelo. In questi termini va vista la parabola della
gran cena o del banchetto nuziale (Mt 22,1-14; Lc 14,16-24; Ev Th 64). Aspetto
comune a tutte e tre le redazioni è il rifiuto degli invitati e la convocazione al loro
posto dei primi che capitano. Si tratta di una parabola come quella degli operai della
L’allegorizzazione
La parabola dei due figli dissimili (Mt 21,28-32) che si conclude applicandola a
Giovanni Battista che come il padre della parabola subisce il rifiuto di chi si era
impegnato, e trova ascolto da parte di chi, almeno a parole, si era opposto.
Si tratta di una applicazione della parabola difficilmente originaria. La conclusione è
in 31b. La parabola all’origine voleva giustificare la Buona Novella e il fatto che quelli
a cui era destinata non la hanno accolta. Aggiungendo il v. 32 si pone questa
parabola sullo stesso piano di quella dei vignaioli omicidi o della gran cena. Non è
Matteo ad aggiungerla ma la ha ricevuta così.
Anche la spiegazione (Mt 13,49-50) della parabola della rete (Mt 13,47-48) si fa
risalire a Matteo stesso (i pesci cattivi gettati nella fornace ardente!!!).
Le spiegazioni allegorizzanti (e quindi parenetiche) di queste due parabole sono di
Matteo. Entrambe invece, originariamente, invitavano gli impazienti alla pazienza (la
separazione tra buoni e cattivi arriverà nell’ora di Dio).
D) il vangelo di Giovanni.
F) il vangelo di Tomaso.
La parabola del ladro (Ev Th 21) ha una interpretazione gnostico-allegorica nel
termine Regno, ovvero quella Gnosi che lo gnostico possiede (gli averi) e non deve
farsi rubare. L’assenza di tratti allegorici in Tomaso sorprende ancor di più se
pensiamo che il redattore gnostico ha di certo inteso le parabole in senso allegorico /
simbolico e così voleva fossero intese.
La conferma di questa attenzione a cercare e poi custodire il segreto della Gnosi (la
Perla di Ev Th 76) sta nel “chi ha orecchie per intendere intenda!” al termine delle
parabole. Le parabole di Tomaso hanno, proprio per questo, un grande valore, in
quanto “originarie”.
Diamo solo un cenno sulle parabole doppie, ovvero quelle costruite con un
parallelismo antitetico. Si tratta però di immagini (sempre “masal" nella tradizione
rabbinica) che vengono usate per degli insegnamenti.
La critica delle forme (in tedesco: Formgeschichte, "storia delle forme") è un metodo
dell'esegesi basato sulla comprensione del contesto originale in cui un determinato
testo è nato ed è stato usato. L'ambiente nel quale il testo è cresciuto (Sitz im
Leben) sarebbe quindi la chiave per comprendere il testo. "Forma" qui è traduzione
del tedesco Gattung, ma sarebbe meglio tradurlo "genere letterario" (genre). Questo
metodo cerca di isolare le fasi pre-letterarie di un testo biblico ricostruendo la vita
sociale e le istituzioni di Israele17.
La domanda che occorre porsi è: vedere se si armonizza il contesto della parabola
che ci è stata tramandata con il senso originario della stessa. Nel Vangelo di
Tomaso, per esempio, non c’è alcun inquadramento contestuale!
La parabola del giudice (Mt 5,25 ss. e Lc 12,58 ss.) che è una parabola della crisi ed
escatologica (pag. 49) è stata inserita da Matteo in un altro contesto parenetico
(riconciliati col fratello).
La parabola della gran cena (Lc 14,16-24) è inserita in Luca in un contesto diverso
da quello di Matteo, proprio in un banchetto, e sembra voler esortare ad invitare i
poveri, gli storpi, ecc… mentre originariamente voleva giustificare la Buona
Novella18.
17 http://it.wikipedia.org/wiki/Critica_delle_forme
18 Cf. J. Jeremias, op. cit, p. 51
Mt 20,16 che vuole spiegare la parabola dei salariati della vigna (p. 7) non conviene
e mal si adatta alla narrazione precedente!
C’è una amplificazione nella conclusione della parabola delle 10 vergini (Mt 25,13);
ugualmente la conclusione della parabola del ricco stolto (Lc 12,21) che, per
esempio, non c’è in Ev Th 63. Ci sono parabole trasmesse con diverse o concorrenti
applicazioni/spiegazioni. L’immagine della lampada sotto il moggio in Mt 5,16 è
applicata ai discepoli, mentre in Mc 4,22 e Ev Th 33b è applicata alla Buona Notizia.
In Lc 11,34-36 è applicata alla luce interiore. Idem per l’immagine del sale Mt 5,13
differisce da Mc 9,50.
Ugualmente nella parabola della cena Lc 14,12-14 è diverso da Mt 22,14. Lc 14,11
(o anche Lc 18,14b che però è una conclusione morale “banale” della parabola) è
simile al codice D e a Hillel e non viene considerata, in questo caso, come
secondaria!
In ogni caso NON sappiamo se è stato Gesù ad aver usato immagini differenti
oppure una sola che è originaria e che è stata tramandata senza spiegazione ed
arricchita in seguito.
Per parlare della salvezza (= il suo messaggio) comunque Gesù ha parlato solo per
immagini e non in parabole! Questo perché i racconti in parabole sono stati impiegati
da Gesù come 1) armi polemiche, poi 2) come grida di minaccia e di allarme e infine
3) come mezzi per illustrare i suoi insegnamenti.
a) Gesù orienta lo sguardo di questi avversari verso i poveri. L’immagine del medico
(Mc 2,17); la parabola dei due figli che si comportano in modo diverso (Mt 21,28-31)
che non ha a che vedere con l’interpretazione del no degli ebrei e il si dei pagani.
Parabola dei due debitori (Lc 7,41-43) raccontata a Simone nel contesto di un invito,
della presenza di una donna e di un fariseo. Gesù cerca di far capire a Pietro che
solo quelli che (ri)conoscono la portata del loro grosso debito possono capire la
bontà (il perdono dei peccati) e avere una tale riconoscenza. Dio le ha perdonato i
peccati per avere lei mostrato una sì grande riconoscenza e gratitudine che,
attraverso Gesù stesso e gli atti che la donna fa a lui, sono rivolti a Dio.
b) I critici devono rispondere alle accuse che Gesù fa loro: il figlio che dice di si al
padre e poi non fa il suo dovere (Mt 21,28-31), i vignaioli omicidi ((Mc 12,1-9; Ev Th
65), gli invitati che rifiutano l’invito (Mt 22,1-10; Lc 14,16-24; Ev Th 64).
19Personalmente non sono d’accordo: la tentazione avviene nel momento successivo al conferimento di uno
“stato” che è quello, appunto, che si ottiene con il battesimo. Cercare un Sitz im Leben in questo caso è
fuorviante.
La parabola della pecorella smarrita (Lc 15,4-7; Mt 18,12-14; Ev Th 107 dove dice
che “il Regno dei cieli è simile a un pastore che ….”) e quella della dracma smarrita
(Lc 15,8-10) sono legate a quella del figliol prodigo (non fosse altro che la precedono
nel racconto di Luca): due sono i figli, uno si perde fuori e lontano da casa e l’altro
proprio in casa.
I farisei, nella loro domanda o sconcerto dinanzi a Gesù che accetta l’invito dei
peccatori o dei pubblicani (gente impura come i pastori… che Gesù prende a
modello per se e per illustrare il comportamento di Dio) lo accusano di non essere un
uomo pio.
Nessuno, in Palestina, avrebbe abbandonato il suo gregge. Se deve farlo o da il suo
gregge in custodia ad altri oppure lo porta nel recinto o in una grotta. Infatti il termine
“e eremos", nel deserto, può significare anche un luogo chiuso, una grotta. Rispetto
a Tomaso in Luca e Matteo non è il valore della pecora a muovere il pastore alla
ricerca. In Matteo si parla di uno dei più piccoli e in Luca sembra si tratti di una
bestia più debole. Il pastore si mette sulle spalle la pecora e questo è un quadro
Le dracme o dramme sono le monete con cui le donne della Palestina araba ornano
la loro fronte che rappresentano la loro dote, la loro ricchezza e non se le tolgono
mai, nemmeno durante il sonno. Dieci dramme sono poca cosa. Le parabole si
concludono con una perifrasi che doveva evitare di attribuire dei sentimenti a Dio (la
gioia). Il ritrovamento però, nonostante il presunto basso valore dei beni, causa una
gioia straripante in entrambi i casi. Così esulterà Dio. Il futuro utilizzato dice il tempo
escatologico. Dio è così: egli vuole la salvezza dei perduti, il loro sbandamento lo
addolora e egli gode del loro ritorno. La gioia del perdono. La gioia di perdonare di
Dio è più grande di tutte le gioie e vuole ricondurre a casa gli smarriti (e strapparli a
Satana). In questo senso Gesù è ancora una volta il rappresentante di Dio.
La difesa della Buona Novella è il tema della parabola del padrone generoso o degli
operai inviati nella vigna (Mt 20,1-15). “Il regno dei cieli è simile a…” (il “Le”
aramaico): il suo apparire è in analogia con la resa dei conti.
Al v. 6 c’è una urgenza straordinaria di terminare il lavoro della vendemmia. Al v. 13 il
padrone si rivolge al più facinoroso apostrofandolo con “etairé", ovvero “caro mio”,
come a persona di cui non si conosce il nome, di solito usato nel NT quando ci si
rivolge ad una persona che ha commesso qualcosa in modo bonario ma anche di
rimprovero.
Si ritrova un parallelo con un racconto del Talmud di Gerusalemme di un operaio che
però, nelle due ore lavorate, aveva fatto quanto gli altri in dodici, ed è raccontata per
commemorare un giovane rabbi morto che nei suoi pochi anni di vita aveva fatto di
più di altri in cento anni. La parabola quindi mostra la ricompensa dell’attività. In
quella di Gesù invece si mostra la magnanimità e bontà del padrone e gli ultimi
arrivati, come i primi, non hanno nessun merito. La priorità anche storica spetta alla
parabola di Gesù comunque.
La parabola ha un contesto molto reale: disoccupazione e carestia forse20. Dio rende
partecipi della sua salvezza anche gli immeritevoli (v. 15) e Gesù agisce come
agirebbe/agisce Dio che è tanto buono.
La parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14) è detta (v. 9) proprio ai farisei,
che hanno un’alta opinione di sé e ripongono la loro fiducia in loro stessi anziché in
Dio. Nella parabola si trovano una moltitudine di termini e proposizioni semitiche.
Il fariseo digiuna due volte a settimana, ed è un merito, perché per osservanza è
tenuto a digiunare solo una volta all’anno durante Yom Kippur. Il suo sacrificio è
grande: alla sua mortificazione personale egli aggiunge anche le privazioni
economiche. I pubblicani invece cercavano di estorcere al popolo più del dovuto ed
erano considerati dei briganti. Si batte il petto o meglio il cuore come sede del
peccato come segno di grande pentimento.
La dottrina di Paolo sulla giustificazione trova le sue origini nella predicazione di
Gesù e proprio in questo passo, al v. 14a, dove il termine “giustificato”,
“dedicaiomenos” = come uno al quale Dio ha accordato la sua grazia, è l’unico nei
vangeli ad assumere lo stesso senso che avrà nella letteratura paolina. Il “min”
La parabola dei due debitori insolvibili (Lc 7,41-43). Qui Gesù parla di Dio. Tutte le
parabole della Buona Novella sono apologie della Buona Novella stessa. Queste
parabole Gesù le ha dette non per i peccatori ma per i giusti, che si giudicavano
troppo bene anche in relazione ai disprezzati e ai peccatori che Gesù invece
chiamava a se; le ha dette a chi si scandalizzava di lui e della Buona Novella. Loro si
e gli chiedono: perché frequenti quella gentaglia? Gesù risponde: “perché hanno
bisogno di me e di sentirsi amati e perdonati. E perché così è Dio!”
La grande certezza
Questo tema è e riguarda una parte essenziale della predicazione di Gesù. Ci sono
due parabole in particolare: la parabola del granello di senape (Mc 4,30-32; Mt 13,31
ss.; Lc 13,18 ss.; Ev Th 20) e la parabola del lievito (Mt 13,33; Lc 13,20 ss.; Ev Th
96). Sono entrambe molto palestinesi! Già a partire dalle tre misure di farina (se’a)
che sono una quantità enorme, la parola traduce un termine tutto palestinese. In
queste parabole ci sono allitterazioni e giochi di parole nella retroversione in
aramaico. La vera traduzione con il “Le” aramaico sarebbe: “Avviene col regno di Dio
come con un granello di senape (con un pezzo di lievito)”. In tal modo il paragone è
con lo stadio finale di grande arbusto del granello. La senape non è un albero e le
misure di farina sono eccessive: ma questa è la realtà di Dio!
Sono parabole del contrasto. Il minuscolo seme e l’arbusto di 2-3 metri. Il pochissimo
lievito rispetto alla massa enorme di farina. L’uomo orientale a differenza
dell’occidentale non guarda lo sviluppo, ma il succedersi di due condizioni
diametralmente opposte. Il seme che muore e da frutto è un segno della morte e
resurrezione alla vita. Ed è Dio a richiamare la vita dalla morte. Così intesero queste
Parabola della semente che cresce per suo conto (Mc 4,26-29) è una parabola del
contrasto. La messe cresce senza che il seminatore faccia nulla, “automate”. Alla
fine, ecco il contrasto, il grano è maturo. Così è il Regno di Dio: allorché viene l’ora
di Dio giunge con certezza il suo regno. La messe è paragonata all’avvento del
regno di Dio. Gli uomini possono solo attendere ed avere pazienza come ce l’ha
l’uomo che getta il seme della parabola. La parabola viene intesa come opposizione
agli sforzi degli zeloti di provocare con la forza la redenzione messianica. Alcuni dei
suoi stessi discepoli erano ex-zeloti: cosa aspettava Gesù a dare il segno per
abbattere il potere corrotto e insediare un regno dei giusti? Perché Gesù non agiva?
Gesù con questa parabola risponde ai dubbi sulla sua missione e alle speranze
deluse. Dio agirà: ha seminato e tutto si compirà con certezza al momento del
raccolto. Occorre pazientare e avere fiducia in Lui.
Nella parabola dell’amico chiamato nottetempo (Lc 11,5-8) siamo in una tipica
situazione di villaggio palestinese. Si sa chi ha ancora qualcosa che gli avanza del
giorno. La porta è chiusa e aprirla fa molto rumore (togliere un chiavistello inserito in
alcuni anelli che tengono chiusa la porta è rumoroso). Il senso originario della
parabola non è quello di una esortazione alla preghiera: il centro della parabola è
l’amico a cui si chiede il pane e che si va a supplicare (che come Dio darà a chi gli
chiede) e non, come fa Luca, il supplicante (infatti conclude dicendo “chiedete e vi
sarà dato, …”). La costruzione della domanda è: “Potete immaginare che qualcuno
di voi se viene un amico…. gli dica: lasciami in pace?”. La risposta è: “impossibile”,
“non potrebbe esser mai”. Anche se non lo aiuta per amicizia almeno lo aiuta per
non apparire scortese (= per liberarsi dell’importuno). Quindi è l’amico disturbato il
centro della parabola che non tratta dell’insistenza della preghiera ma della certezza
dell’esaurimento della preghiera! Ed è quindi come la parabola del giudice. Se già un
amico fa una cosa del genere per l’altro in difficoltà figuratevi Dio! Lui aiuta chi ha
bisogno e dà questo suo aiuto sovrabbondante con certezza. Dio ascolta senza
dubbio l’appello dei suoi. Gesù applica la saggezza (e la tenacia) del mendicante ai
discepoli.
Conclusione: nelle quattro parabole del contrasto si tratta della certezza di Gesù nei
confronti dei dubbi sulla sua missione; nelle ultime due parabole invece Gesù vuole
rassicurare i discepoli che Dio li libererà dagli affanni futuri. In tutte c’è la sicurezza di
Gesù che Dio compirà quello che ha promesso e la sua pietà è una certezza.
La parabola dei ragazzi sulla strada (Mt 11,16 s.; Lc 7,31 s.) è antica22 e Gesù la
dice al margine di un accusa di essere un mangione e un beone (Deut. 21,20).
I ragazzi sulla strada sono dei guastagiochi e non sono mai contenti, perché o alcuni
non vogliono giocare proprio ad alcun gioco oppure litigano perché propongono due
diversi giochi, uno opposto all’altro. La danza è legata al gioco delle nozze e veniva
fatta dagli uomini. La lamentazione era un altro gioco (il gioco del funerale) che
facevano però le ragazze. Per far quadrare il riferimento alle ingiurie contro il Battista
e contro Gesù stesso, si è proposto invece che nel gruppo dei ragazzi della parabola
ci sono dei compagni che si sono presi carico di fare la parte più pesante del gioco e
altri che hanno quelle più leggere, il ballo e i lamenti, e proprio questi ultimi cercano
21Cf. J. Jeremias, op. cit., p. 192 - nota 52. Quella degli eletti, molto probabilmente, è la comunità che si
nasconde dietro i discorsi figurati di Enoch (libro di Enoch 46,8).
22 Cf. J. Jeremias, op. cit, p. 197 - nota 1
L’immagine dell’occhio che è lampada del corpo (Mt 6,22-23; Lc 11,34-36); la sorte
di Sodoma e Gomorra (Lc 17,28 s.); il diluvio! (Mt 24,37-39; Lc 17,26 ss. ma anche
Mt 7,24-27 e Lc 6,47-49 la casa sulla roccia).
Gesù apporta il tempo della salvezza ma sa che la via alla salvezza e alla rinascita
passa per la sventura e la rovina, per il diluvio di fuoco e acqua.
E ancora il padrone di casa che dormiva finché vennero i ladri (Mt 24,43 s.; Lc 12,39
s.; Ev Th 21); il ricco stolto (Lc 12,16-20; Ev Th 63). Nel Vangelo di Tomaso (Ev Th
72) il passo di Lc 12,13-15 che precede la parabola del ricco stolto è un logion
separato. In Luca si vuole stressare il concetto della poca o nulla importanza dei
beni terreni rispetto all’importanza della vita.
Gesù, nella parabola del ricco stolto (Lc 12,16-20), vuole ancora una volta porre
l’accento sull’imminente catastrofe escatologica e l’imminente giudizio, non sulla vita
dell’uomo su cui pende continuamente una spada di damocle. Inutile accaparrare
beni poco prima del diluvio! Questa la riflessione che Gesù vuole scatenare nei suoi
uditori.
La Parabola del pretendente al trono è rivolta ai nemici; la parabola del servo a cui
viene affidata la sorveglianza, la parabola dei talenti e quella del custode sono rivolte
ai capi del popolo in particolare gli scribi.
Per questi “custodi della Parola di Dio” il giudizio sarà particolarmente duro, ora che
arriva. Loro avevano una grande responsabilità e ne risponderanno a breve. Chi
conosceva (o supponeva di conoscere) la volontà di Dio (Lc 12,47-48a) sarà punito
più duramente di chi non conosceva la legge.
La parabola dei cattivi vignaioli (Mc 12,1 ss.; Mt 21,33-46; Lc 20,9-19) era rivolta ai
sinedriti. Da Is 5 la vigna è simbolo di Israele. Ma Gesù non parla della vigna ma dei
fittavoli, ovvero i capi. E quest’ultima generazione dovrà pagare il debito accumulato
con il padrone della vigna (Dio).
Ci sono altre parabole: la parabola albero buono e albero cattivo (Mt 7,16-20; Lc
6,43 ss.); della pagliuzza e della trave (Mt 7,3-5; Lc 6,41 ss. “ipocriti”; Ev Th 26); dei
ciechi che guidano i ciechi (Mt 15,14; Lc 6,39; Ev Th 34) tutte dette contro i farisei.
Tutte dicono loro che sono malvagi e incorreranno nel giudizio di Dio molto presto.
Anche la parabola del buon pastore (Gv 9,40) è detta contro di loro la cui venuta
svela i loro misfatti. Parabola rivolta a Gerusalemme: Dio abbandona il tempio che
voi avete sconsacrato (Lc 13,34-3; Mt 23,37-38): immagine della chioccia e dei
pulcini. Ad Israele tutto è rivolta la parabola dell’albero di fico (Lc 13,6-9) e quella del
sale divenuto insipido (Mt 5,13 e Lc 14,34 lo rivolge ai discepoli; Mc 9,50 alla folla).
La traduzione, scorretta, di Luca e Matteo è “il sale diventa stolto”.
La parabola del fico (Lc 13,6-9). L’albero di fico è già li da sei anni e sfrutta il terreno
sottraendo nutrimento alla vigna. L’ortolano tenta di fare ciò che di solito non si fa:
concimare. L’annuncio del giudizio della storia del fico (presa da una tradizione più
antica) diventa un appello alla penitenza nella sua conclusione. La misericordia di
Dio giunge ad una sospensione anche nel caso di una condanna già decisa.
L’ortolano è forse Gesù? Le parabole dovevano essere intese in modo diverso dai
discepoli rispetto alle masse. Forse questo è proprio il caso! Ma il termine ultimo
fissato da Dio è giunto o giungerà presto e nessuno ha il potere di prolungarlo o
evitarlo (cf Mt 6,27 e Lc 12,25 sul potere di prolungare la propria vita).
La parabola della grande cena (Mt 22,1-10; Lc 14,15-24; Ev Th 64). Anche questa è
una parabola della crisi. In Matteo la parabola è stata rielaborata diventando un
compendio allegorico della salvezza (cf. p. 13). In Luca e Tomaso si è conservata la
versione più originale. La frase finale viene intesa e riferita sia in Luca che in Tomaso
come il banchetto celeste dell’avvento messianico. Però forse originariamente era
riferito al padrone di casa anche se l’aspetto della “minaccia” lo mantiene solo se è
riferito a Gesù. In realtà si tratta di una vera minaccia se i primi invitati dicono solo
che arriveranno in ritardo per altri motivi. In quel caso infatti i posti saranno tutti
occupati e loro non troveranno posto al banchetto. La storia comunque risulta
abbastanza irreale. Infatti Gesù pare richiamarsi ad una storia raccontata in
aramaico nel Talmud palestinese. Gesù utilizza la conclusione di questa storia nella
storia di Lazzaro e del ricco epulone. E’ la storia di una buona azione compiuta da
Bar Majan che approntò un banchetto per i consiglieri ma questi non vennero. Allora
per non buttare tutto invitò i poveri (“miskene") che dovevano venire a mangiare. Il
senso della storia è: un uomo ricco (un pubblicano/gabelliere) organizza un
banchetto per inserirsi nella società dabbene, ma tutti lo snobbano di comune
accordo offrendo pretesti molto banali per non partecipare. Allora, arrabbiato, invita i
mendicanti per far vedere che risorse che ha a disposizione e non volendo più avere
nulla a che fare con i primi invitati.
Come nel caso del giudice iniquo, del pastore disprezzato, Gesù paragona Dio ad un
gabelliere per mostrarci la bontà e la collera di Dio. Gesù non è disturbato, come per
il giudice, dal comportamento del gabelliere, anzi. Il finale della parabola, durissimo,
fa tacere e trasalire gli eventuali uditori di Gesù che avevano sogghignato nei
confronti del gabelliere e soprattutto immaginando i ricchi invitati sorridere al vedere
il corteo di mendicanti sfilare verso la casa del gabelliere stesso. La casa è piena, la
misura è colma: sprangate le porte. Nessuno entrerà più!
L’imperativo dell’ora
Dalla minaccia del troppo tardi -> (ne consegue) l’imperativo dell’ora: occorre agire!
La parabola del debitore (Mt 5,25 ss.; Lc 12,58 ss.). Gesù nel dire la pena si riferisce
a norme giuridiche non ebraiche al fine di rendere impressionante la condanna (in
particolare l’essere gettati in prigione per una cosa del genere). Gesù esorta: metti
l’affare in chiaro. Riconosci il tuo debito fin quando sei in tempo!
Gesù risponde con la parabola dell’invitato senza veste di nozze (Mt 22,11-13) che
sta all’interno della parabola del banchetto nuziale (Mt 22,1-14) e con altre immagini:
vigilate, accendete le lampade, indossate l’abito nuziale. L’abito cui si fa riferimento
non è un vestito speciale ma è un abito pulito di fresco. L’invitato non risponde: forse
si è intrufolato senza invito. Oppure era solo stolto: non sia aspettava che la
chiamata al pranzo di nozze avvenisse così presto. Si tratta anche in questo caso di
una parabola della crisi. L’appello può arrivare in qualunque momento. Questa cosa
viene confermata da un parallelo rabbinico del Midrash (rabbi Eliezer): “in ogni
istante siano le tue vesti bianche”, e fa penitenza il giorno prima della tua morte, cioè
sempre. E ancora chi ha le vesti sudicie non viene ammesso al banchetto (Rabbi
Ben Zakkai).
Gesù aveva in mente Is 61,10 (lo stesso capitolo del commento nella sinagoga di
Nazareth): Dio riveste i redenti con l’abito nuziale della salvezza (libro di Enoch
62,15-16). Anche l’apocalisse parla della “linda veste di bisso”.
Questo ha in mente Gesù quando dice la parabola dei posti a tavola (Lc 14,7-11 con
varianti di traduzione). C’è, nella storia, un riferimento a Prov 25,6 ss. Inoltre anche
Rabbi Ben Azzai usa parole dure che Gesù usa contro gli scribi che pretendono i
posti d’onore (Mc 12,39; Lc 20,46; Mt 23,6). Il v. 11 è una frase di Hillel (20 a.C.) e
quindi non è una conclusione generalizzante. Ma Gesù le ha dato lo stesso
significato? Non sembra affatto, perché se Hillel parla di una norma di vita (o di
mensa), Gesù la riferisce all’operato escatologico di Dio il quale nel giudizio umilierà
i superbi e innalzerà gli umili. Quello di Gesù è un ammonimento escatologico.
L’immagine della ricompensa del servitore (Lc 17,7-10). E’ in dubbio il fatto che la
parabola sia stata rivolta ai soli discepoli come direbbe il contesto. Gesù sembra dire
che noi non abbiamo meritato la lode di Dio, siamo solo dei servi e tutte le buone
opere non giustificano alcuna pretesa dinanzi a lui. La conversione è altro: distacco
dal peccato, obbedienza alle parole di Gesù, alla legge di Dio. I discepoli devono
accettare il giogo di Gesù, ovvero mettersi alla sua sequela. “Occorre che capiate
quale è la situazione escatologica attuale (cf. l’amministratore infedele) e mutiate
vita!”. “Sarete messi alla prova (Mt 7,24-27; Lc 6,47-49 parabola della casa e delle
fondamenta; cf Is 28,15-16)”. Chi conosce e segue la Legge ha stabilità. Gesù
aggiunge: “chi ascolta le mie parole e le segue” avvicinandosi all’altezza della Torah.
Non basta solo ascoltare: occorre ubbidire.
Parabola della torre e della guerra (Lc 14,28-32). E’ una di quelle parabole che
chiamano alla prova di sé (Ev Th 98). Questa parabola inizia con: “chi di voi…” come
a nella ricompensa del servitore (p. 32): si tratta di un logion che Gesù utilizza di
solito dinanzi alla folla o agli avversari. Si tratta di parabole che richiamano alla
prudenza. Ora se gli uomini esaminano i loro propositi quanto di più non lo farà Dio!
Non si applica a Dio il fare cose a metà o di lasciarle lì incompiute.
La parabola del ritorno dello spirito immondo (Mt 12,43-45b; Lc 11,24-26). E’ una
parabola palestinese sia per il linguaggio che per il contenuto. Uno spirito impuro per
Adesione vissuta
La parabola del tesoro nel campo (Mt 13,44; Ev Th 109). “Così accade all’avvento
del Regno di Dio, che un uomo trova un tesoro…” (il dativo “Le” aramaico iniziale cf.
p. 33, 35). Le cose di valore si seppellivano perché in Palestina c’erano spesso
guerre. La formulazione della parabola è più antica della redazione di Matteo.
La parabola della perla (Mt 13,45; Ev Th 76). Le perle avevano un valore immenso
(Cleopatra ne aveva una dal valore di cento milioni di sesterzi25). La lezione di
Tomaso sembra quella originaria: il grosso commerciante vendette tutto il carico, non
tutti i suoi averi.
Le due parabole utilizzano all’inizio motivi prediletti dalla narrazione orientale.
Tuttavia Gesù sorprende i suoi uditori, come spesso avviene quando si riallaccia
trame narrative ben note ai suoi ascoltatori, ponendo l’accento su altro rispetto a
quello che loro si aspettavano. Al v. 44: “Va, pieno di gioia”, ovvero dice un’adesione
completa alla Buona Novella. Tutto impallidisce dinanzi allo splendore che si è
rinvenuto. La Buona Novella nel suo avvento sopraffà, dona grande letizia, orienta
tutta la vita al compimento atteso da Dio; provoca una decisione irresistibile.
La parabola del grosso pesce (Ev Th 8). Una vita orientata in questo modo è una
vita nell’amore, come quella di Gesù messosi al servizio del prossimo (Mt 22,27 “Io
sto in mezzo a voi come uno che serve”).
Questo amore -per il prossimo- è come quello che Gesù racconta nella parabola del
buon samaritano (Lc 10,30-37).
Episodio del dottore della Legge che chiede a Gesù come ereditare la vita eterna (Lc
10,25-29). Il dottore della legge è colpito dall’insegnamento di Gesù. Gesù dice: tutta
la sapienza teologica non serve a nulla, se l’amore verso Dio e verso il compagno (e
non il prossimo) non determinano l’orientamento di vita. La domanda su cosa
significhi “compagno” era lecita perché la risposta era discussa (farisei, esseni,
rabbini avevano tutti risposte diverse). Al v. 29 “misein" significa in greco tradotto dal
semitico “amare di meno, non amare” ed è opposto al greco “agapan”. Sin dove
arriva il mio obbligo? Questo il senso della domanda. Gesù narra una storia che si
riallaccia, nell’ambientazione scenica, ad un avvenimento reale. Sia il sacerdote che
il levita ritengono l’uomo morto: per questo non lo toccano. Il sacerdote non può (Lv
21,1 ss.) in ogni caso toccarlo. Il levita solo se deve adempiere al culto ma
scendendo dal tempio… a meno che non andava da Gerico a Gerusalemme. Il terzo
(la regola dei tre dei racconti popolari orientali…) è un laico e gli uditori di Gesù si
La parabola del servo infido o senza pietà (Mt 18,23-25) parla proprio di questo
amore che perdona.
Si tratta di una parabola con dativo iniziale ovvero: “così avviene con l’avvento del
Regno dei Cieli”. Il servitore, vista l’enormità della cifra, è un satrapo e il debito è il
mancato ricavato dalle imposte di una provincia (di cui lui era responsabile). In ogni
caso si tratta di una cifra enorme, impensabile. Il senso del grande debito deve
imprimere nella mente di chi ascolta il contrasto con il piccolo debito di cento denari
26 Gesù nell’immagine mitica del giudizio sintetizza l’escaton e in questo potente affresco dice tutte le verità che
saranno. Dinanzi a parole e immagini di verità come queste di Mt 25,31-46 dette da Gesù, peraltro molto
probabilmente originarie (ipsissima verba Domini) e quindi dette proprio da Gesù in persona, come ci dobbiamo
porre? Come la si mette con la de-mitizzazione? Per Bultmann (Cf nella bibliografia “Nuovo Testamento e
Mitologia”) la raffigurazione neotestamentaria dell’universo è mitica. In estrema sintesi: la rappresentazione
dell’evento della salvezza è coerente con questa immagine mitica del mondo; NT è tutto un discorso mitologico
e in quanto tale non è credibile dagli uomini di oggi, giacché per costoro la figura mitica del mondo si è dissolta;
tale visone mitica del mondo non era affatto cristiana ma desunta dalla cultura ellenistica ed orientale; è assurdo
e impossibile accettare come vera la visione mitica del mondo del NT; miracoli ed escatologia mitica devono
essere liquidate; la morte, noi oggi lo sappiamo, non è la pena del peccato; ai nostri giorni non si può
comprendere la dottrina della soddisfazione vicaria attraverso la morte di Gesù; altrettanto incomprensibile è la
resurrezione di Gesù. E per questo occorre de-mitizzare.
Metafora della città sul monte (Mt 5,14b; Ev Th 32). I discepoli sono cittadini della
svettante città/tempio escatologica di Dio (Is 2,2-4). Avendo la Buona Novella essi
hanno TUTTO per svolgere il loro compito. Se hanno fede, nulla sarà loro
impossibile (Mt 17,20; Lc 17,6). Ma accanto al Vangelo sorge lo scandalo (Mc 6,3
27 Il pensiero di Gesù si contrappone alla dottrina ebraica delle due misure (ripresa e cambiata da Gesù: Mt 7,1
ss.; Lc 6,37 ss.; Mt 6,14 ss.; Mt 5,7; Mt 25,31 ss.): questa afferma che Dio nel governo del mondo applica sia
misericordia che giustizia/giudizio; nel giudizio universale applicherà solo il giudizio (e non la misericordia).
Questa dottrina è attestata anche da 4 Esdra e da Enoch Etiopico (Libro di Enoch 38,6). Gesù invece insegna
che la misura della misericordia è valida anche nel giudizio finale. Quando Dio usa, nel giudizio, l’una o l’altra?
Chi fa cattivo uso del dono di Dio cade sotto l’asprezza del giudizio, ma come in Mt 6,14 ss.: se voi perdonerete
agli altri allora il Padre perdonerà a voi.
Compimento
I segni del compimento sono espressi in un vero e proprio linguaggio dei simboli: il
trono di Dio (Mc 14,58); il figlio dell’uomo assiso alla sua destra (Mc 14,62);
l’eliminazione del malvagio (Mc 13,2; Mt 19,28; Lc 17,26-30); il giudizio sui vivi e sui
morti (Mt 12,41 ss.); la cacciata di Satana (Lc 10,18); la morte che non regna più (Lc
20,36); il dolore che ha fine (Mt 11,5). I rapporti si rovesciano: ciò che è nascosto
diviene palese (Mt 6,4.6.18; Mt 10,26: “non vi è nulla di nascosto che non sarà
svelato…”; Mc 4,22; Lc 12,2. Nei tre passi il senso sembra diverso perché viene
applicato a contesti diversi. In Matteo fa riferimento al momento del Giudizio; in
Marco indica la sorte del messaggio di Gesù; in Luca come ammonimento
sull’ipocrisia dei farisei. Il senso originario invece era quello del rovesciamento
escatologico dei rapporti; i poveri diventano ricchi; gli ultimi i primi; i piccoli diventano
grandi; gli affamati sazi… (…); la colpa è rimessa; i puri di cuore contemplano Dio; il
raccolto è riposto nei granai eterni; i figli di Dio sono nelle dimore del Padre… La
comunione tra Dio e l’uomo, distrutta dal peccato, è ristabilita. La comunità
messianica di cui parla Gesù è diversa da tutte le altre comunità del tempo. I farisei
(“perisa" da cui deriva in aramaico il loro nome è sinonimo di “qaddisa”, santo,
separato) ritenevano di essere la comunità santa separata dagli altri che non sanno
nulla della Legge. Essi attendono il Messia che con possente parola elimina i
peccatori. Gli esseni, come comunità della nuova alleanza, si spostò da
Gesù risponde a questa irritazione in due parabole: la parabola della zizzania tra il
grano (Mt 13,24-30; Ev Th 57) e quella della rete a strascico (Mt 13,47 ss.).
Troviamo il solito dativo: “le cose stanno con il regno di Dio come con un uomo…”. Il
paragone è non con l’uomo ma con il raccolto. Il proprietario non ha affatto colpa che
sia cresciuta la zizzania, seminata da un suo nemico. Essendoci troppa zizzania non
va tolta perché, adesso, si distruggerebbe il raccolto. Si aspetta quindi.
E poi: “Così accade all’avvento del regno di Dio come al momento della cernita dei
pesci”. Il regno non è paragonato ad una rete, ma alla cernita.
Si tratta di due parabole escatologiche: trattano del giudizio finale. Il regno=giudizio
viene paragonato ad una separazione.
Nella prima parabola si deve attendere perché 1) gli uomini non sanno fare una
cernita perché non possono vedere nel cuore; 2) è Dio ad aver stabilito l’ora della
separazione, quando la misura è colma. Poi viene la fine. E allora la comunità di Dio
farà la sua apparizione.
Anche l’ultima cena è una parabola attualizzata nella quale partecipò i suoi della
potenza espiatoria della propria morte. Gesù con le proprie azioni proclama il
sorgere del tempo di salvezza (cacciata del tempio; entrata sull’asina in
Gerusalemme; designazione dei dodici apostoli = designazione delle dodici tribù;
elezione di Simone a Cefa, pietra di fondamento del nuovo Tempio…). Lava i piedi ai
discepoli. Perdona l’adultera. Scrive nella sabbia come a dire ai dottori della Legge:
“quanti mi rinnegano saranno scritti nella polvere” ovvero saranno annientati (Ger.
17,13). Il pianto su Gerusalemme…
Infine molte delle immagini che vengono raccontate e presentate a chi ascolta Gesù,
sono fondanti in termini di fede; da questo ne consegue che le immagini, le storie, le
narrazioni, il mito sono quindi fondanti per la fede stessa. Ci interrogano perché
interrogano la nostra fede, la fede con la quale crediamo e la fede nelle cose in cui
crediamo. Togliere alla fede immagini, storie, narrazioni e mito significa rischiare di
spogliarla di contenuti e in particolare di alcuni di quei contenuti che ne reggono le
fondamenta e non sono proponibili e comprensibili (a parte un’esperienza mistica) in
altro modo se non con l’ascolto di una narrazione.
L. Moraldi (a cura di), I Vangeli gnostici - Vangeli di Tomaso, Maria, Verità, Filippo;
ed. Adelphi, Milano 1993, 2000
P. Sacchi (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento - volume primo; ed. UTET,
Torino 1981, 1989
J. M. Garcia, La vita di Gesù - nel testo aramaico dei vangeli; ed. BUR, Milano 2005
J. Neusner, Un rabbino parla con Gesù; ed. San Paolo, Torino 2007