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Mt. 1 1 ,2 5-30.

La presenza della salvezza 25 I


il vero ci si sarebbe aspettati la parola contro Cafarnao piuttosto verso
la fine del ministero di Gesù il quale lascia la Galilea solo in Mt. r 9, I .
Ma poiché Matteo e Luca collocano il detto in posti diversi, non s i sa
comunque nulla di dove e quando esso fu effettivamente pronunciato .
.zo-.14. L'introduzione esce dalla penna di Matteo (v. 20). Egli sotto­
linea dunque che gli atti miracolosi di Gesù dovreh bero naturalmente
condurre al ravvedimento, ribadendo il medesimo concetto ancora una
volta applicando ora la maledizione di Gesù contro la città che rifiuta
la proclamazione dei discepoli di Gesù a Cafarnao che non ha capito
nel modo giusto gli atti di Gesù (v. a 9,3 5 e I 1 , 5 s.). Tiro e Sidone (vv .
.2. 1 -22) sono esempi ammonitori di città pagane (/s. 23; Ez. 26-28; Gl.
4,4}, ma lì l'opera di Gesù sarebbe capita meglio (cf. 1 2,4 1 s.; 8, I 1 s.).
Il sacco invece dell'abito e la cenere sul capo sono segni di cordoglio
penitenziale (Dan. 9,3). Tanto più la maledizione vale per Cafarnao
(vv . 23 -24) che è la città di Gesù in modo particolare (9, 1 ). L'invettiva
di /s. 1 4, 1 3 - 1 5 diretta originariamente contro Nabucodonosor (cf. Ez.
26,2o; anche 28,2.8) è stata forse ripresa a questo punto perché gli abi­
tanti di Cafarnao si vantavano di avere come concittadino il famoso
profeta Gesù. Sia che il primo emistichio (v. 2 3 b) venga letto come fra­
se �nterrogativa o dichiarativa negativa, esso presuppone in ogni caso
l'idea che Cafarnao potrebbe essere innalzata fino al cielo. Tanto più
·terribile è la sorte che le viene minacciata che in Matteo viene ancor
più accentuata mediante il riferimento a Sodoma (v. a 1 0, 1 5 ). Nel con­
testo di Luca il detto serve a consolare i discepoli respinti, Matteo lo
pone in un discorso di giudizio ( r 1 , 1 6-27).

La presenza della salvezza, 1 1,.1 5-30 (cf. Le. 1 0,2 1 s.)


2 5 Quella volta Gesù prese la parola e disse: Lode a te, Padre, Signore del cie­
lo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai colti, ma le
hai rivelate ai semplici. 26 Sì, Padre, perché così ti è piaciuto.
27 Tutto mi è stato consegnato da mio Padr é. E nessuno conosce il figlio
eccetto il Padre. E nessuno conosce il Padre eccetto il figlio e colui al quale
il figlio vuole rivelare ciò.
28 Venite qui, vicino a me, voi tutti che siete affaticati e schiacciati dai
pesi, e io vi farò riposare. 29 Indossate il mio giogo e imparate da me, poi­
ché sono mite e umile di cuore. Così troverete riposo per le vostre anime.
30 Infatti il mio giogo si porta facilmente e il mio carico è leggero.
28-30 Sir. 5 1,23 ss.; 24, 19. 29 Ger. 6,1 6.
252 Mt. I I,2 5 -30. La presenza della salvezza
Qui s�no raccolti insieme tre detti i primi due dei quali appaiono
quasi alla lettera in Le. 1 0,2 1 s. (cf. a Mt. I 1 ,20-24); in questo caso è
persino comune ai due evangeli l'introduzione «in quell'ora», sebbene
Le. 1 0,2 I la formuli in stile lucano. Il terzo detto, l'invito del salvato­
re, manca in Luca. Nel Vangelo di Tommaso esso è riportato da solo,
il che fa presumere che fosse tramandato isolato e che sia stato unito
agli altri due solo da Matteo o da un suo precursore. È tuttavia diffici­
le che anche i primi due detti siano stati sempre insieme sin dal princi­
pio: infatti nel primo Dio viene invocato direttamente, nel secondo si
parla di lui in 3 a pers. Inoltre il primo logion si rivolge certo al Padre
come fa spesso Gesù, ma non dice nulla della particolare attività di
Gesù come fa il secondo. Inoltre neanche la consegna di «tutto» (v.
27) può riferirsi alla rivelazione del v. 2 5 . Forse il v. 27 è una successi­
va continuazione e interpretazione dei vv. 2 5 s. Oppure i due logia so­
no stati messi insieme soltanto perché contengono le due parole «pa­
dre» e «rivelare» ? A ciò si aggiunge che il v. 2 5 e i vv. 28-30 hanno pa­
ralleli prossimi in Sir. 5 1 , dunque nella letteratura sapienziale, mentre
ciò non è vero per il v. 2 7. In verità è possibile scorgere anche in Sir.
5 1 la sequenza ringraziamento al Padre (vv. 1 - 1 2), rivelazione della Sa­
pienza (vv. I 3 -22), invito (vv. 23 -30). Inoltre è comune a tutti e tre i
detti l'interesse per i destinatari della rivelazione, gli «incapaci» e «so­
vraccarichi». Ciò potrebbe aver indotto scribi cristiani che studiavano
gli scritti sapienziali, Matteo o i suoi predecessori, a riunire i tre logia.
A questo proposito è tipico che l'identificazione di Gesù con la Sa­
pienza appaia chiaramente in Matteo per primo (v. ai vv. 28-3 0). Resta
incerto il primo contesto dei detti. Il pronome dimostrativo «queste
cose» (v. 2 5) deve essersi riferito una volta a qualcosa di ben preciso.
Ancora più difficile è decidere se le parole risalgano proprio a Gesù.
Sicuramente lo sfondo veterotestamentario-giudaico è palese (v. sot­
to) mentre il differenziamento rispetto alla scienza scribale nel primo
e nel terzo detto potrebbe essere compatibile con una parola di Gesù,
mostrando anche una certa affinità con l'appello salvifico ai poveri (5,
3 ss.). V a confrontato anche Dan. 2 dove sono menzionati i «sapien­
ti». Più difficile è, nel detto di mezzo, il rapporto speculare tra «Pa­
dre» e «figlio», con l'uso assoluto dei due termini (v. sotto).

2 5-.16. L'inizio ricorda la preghiera di quell'altro Gesù che in Sir. 5 I ,


I comincia: «Ti lodo, signore e re. . . ». Solo che questo Gesù loda Dio
Mt. r r,2s-3o. La presenza della salvezza 2 53

in un certo senso per il proprio fallimento. Il celare i misteri di Dio


viene in verità sottolineato notevolmente nella setta giudaica di Qum­
ran: «Tu hai celato la fonte della conoscenza... » ( r QH I J,2 5 s.); « ... na­
sconde e sigilla il suo segreto perché non sia considerato né conosciu­
to» ( 1 QH I 6, I o s.); esso è noto solo ai membri del gruppo che prati­
cano «la discrezione riguardo ai misteri della conoscenza>> ( r QS 4,6).
Tali concetti sono già prefìgurati nell'Antico Testamento (ls. 29, 1 4 = 1
Cor. 1 , 1 9; Sal. 8,3 = Mt. 2 1 , 1 6; Sal. 1 9,8; 1 1 6,6; I I 9, 1 3o; Sap. 1 0,2 1; cf.
/s. 5 3, 1 ) e sono ripresi da Paolo (1 Cor. 1 ,26) e Giovanni ( 1 , 10 ss.). Lo
�fondo è indubbiamente quello della riflessione sapienziale giudaica
tipica di Q. Certamente la sentenza negativa, che secondo lo stile se­
mitico è unita solo con la congiunzione «e», va ben oltre: la promessa
non è data ai sapienti e agli scribi, ma agli <<incapaci», agli «immaturi».
Come mostrano i passi dell'Antico Testamento citati, non si tratta
tuttavia di una contrapposizione assoluta, ma di certo presenta un ac­
cento nuovo. Affine è la pietà di Qumran: «l miei occhi hanno con­
templato ... una sapienza celata agli uomini della conoscenza» ( I QS I 1,
6); «lodato sii tu, Signore, ... non hai disprezzato il miserabile, ... stai
con i miseri ... , per sollevare ... i poveri della grazia>> ( 1 QH 1 3,20 s.). La
consapevolezza dell'A. T. che Dio sta dalla parte dei poveri e degli op­
pressi porta a concepire la fede come un essere poveri agli occhi di
Dio nel senso che ci si aspetta tutto da lui. A monte del nome di <<que­
sti piccoli» dato ai discepoli c'è proprio questo atteggiamento (cf. a 10,
42). Il «compiacimento» di Dio è la sua volontà che dona grazia ed
elegge, come l'annuncia agli «uomini del compiacimento» il canto de­
gli angeli a natale. Anche la setta di Qumran sa che rivelazione signifi­
ca elezione ( 1 QS I I , I 5 - 1 8; 1 QH 1 8,27 ss.; 6, r 2- I 5. 2 5 ). Ma diversa­
mente da Qumran e forse anche da Q, nel caso di Gesù non si tratta di
particolari segreti escatologici, ma di quella perfetta conoscenza di
Dio di cui parla il versetto seguente. Sono soprattutto i piccoli e i po­
veri coloro ai quali viene data questa conoscenza, non l'esemplare per­
fetto osservante della legge, bensì coloro ai quali il v. 30 promette un
giogo morbido e un carico leggero. Infatti ciò che Dio rivela in Gesù
non è solo una nuova conoscenza della Scrittura, bensì la sua azione di­
vina verso l'uomo, la sua giustizia, come si esprimono /s. 56, 1 e Rom.
I , I 6 s., il suo braccio, come dice /s. 5 2, I o o il suo dito, come si legge
in Le. I I ,20. Rispetto alle prime sentenze del discorso della montagna
qui si coglie una nota nuova: ciò che lì si prometteva ai poveri è con-
2 54 Mt. I I ,2 s- 30. La presenza della salvezza

cepito qui come già compiuto, come divenuto realtà in Gesù. In Gesù
si presenta il Dio davanti al quale l'uomo non può essere più sapiente
e ricco, né ha più bisogno d'esserlo, bensì può osare consegnarsi a lui,
aspettarsi tutto da lui e vivere andandogli incontro senza paura.
1.7. Una serie di manoscritti legge in ordine inverso: «Nessuno co­
nosce il Padre se non il figlio e nessuno il figlio se non il Padre», ma
l'ultima frase del versetto ·mal si collega con questa formulazione. So­
prattutto questa è la comune concezione greca e anche gnostica: il Pa­
dre è l'Ignoto; la lontananza del Dio invisibile è il vero problema la
cui soluzione è poi portata dal figlio. Ma nel nostro detto la situazione
è capovolta: lo Sconosciuto vero, colui che non è capito da nessuno se
non dal Padre, è colui del quale anche il Battista dubita (vv . 2 s.), che
la sua propria patria rifiuta (vv . 20- 24) e che ha appena ringraziato
Dio (v. 2 5 ) per questo insuccesso. Così è anche secondo Mt. I 6, I 7 e
Gal. I , I 6: è Dio che rivela il figlio agli uomini. « Conoscere» non è un
fatto prevalentemente intellettuale; nell'Antico Testamento denota
l'elezione (A m. 3,2: «Voi solo conosco di tutte le stirpi della terra»),
anche quella della moglie da parte del marito, anzi il compimento del­
l'atto sessuale. In greco «conoscere» e « generare» sono affini dal pun­
to di vista linguistico, come in tedesco kennen («conoscere») e Kind
(«figlio, bambino»). Così anche nel nostro testo si deve pensare a una
comunione personale. Ai tempi di Gesù i greci parlavano di una mu­
tua conoscenza tra dio e uomo, ma in questa concezione entrambi i
soggetti si fondono perché dio è concepito in larga misura quale ener­
gia della natura con la quale l'uomo può sentirsi una cosa sola. Il Nuo­
vo Testamento ha imparato dall'Antico che si ha vera conoscenza di
Dio solo quando egli ci conosce (Gal. 4,9; I Cor. 8,2 s.; 1 J, I 2; cf. già
Es. J J, I 2 s.; I Re 8,J9·4J). Così l'amore del Padre verso il figlio, un
amore che elegge, è la ragione per cui il figlio conosce a sua volta il
Padre e può rivelarlo ad altri. Al tempo di Gesù, negli ambienti in cui
l'ora della fine si pone al centro dell'interesse, diventa però importan­
te anche il momento della visione negli eventi escatologici ( I QpHab
7,2- 5; 4 Esd. 4,2 I ss.; in particolare Hen. aeth. 62, I -3 .9); in questa si­
tuazione rimangono uniti la conoscenza di questi eventi finali e il ri­
conoscimento di colui che li porterà. Così a Qumran sono unite insie­
me elezione, conoscenza di Dio e rivelazione ( r QS 4,22; cf. I QH 2 1 -
.14, passim) e già l'Antico Testamento aspetta la conoscenza di Dio per
la fine dei tempi. Il paese sarà allora pieno della conoscenza di Dio (/s.
Mt. 1 1 ,2 5 -Jo. La presenza della salvezza 25 5

I 1 ,9), il suo nome sarà conosciuto nel popolo (/s. 52,6) a tutti quanti,
dal più pic�olo al più grande (Ger. 3 1 ,3 3 s.). Questo è lo sfondo con­
tro il quale si deve capire il nostro detto. Completamente nuova è l'e­
sclusività con cui dapprima uno soltanto, il figlio, è colui che è stato
eletto da Dio e lo conosce realmente. Tuttavia qui non si dice, come
nella mistica, «nessuno conosce il Padre tranne il figlio», bensì <<nes­
suno conosce il figlio tranne il Padre». Questa è appunto la contesta­
zione, che tutti gli uomini lo disconoscono. Se si intendesse ciò come
una parabola (nessuno in genere conosce il figlio come il Padre e nes­
suno il Padre come il figlio) allora si potrebbe far risalire il detto a Ge­
sù: limitandosi ad alludere velatamente alla sua posizione particolare
questa parabola si allineerebbe ad altre affermazioni di Gesù. A dire il
vero, già l'idea alla base della parabola non è convincente - anche a
quel tempo, in molti casi, si sarebbe dovuto parlare piuttosto dell'ami­
co o della moglie! Ma più che mai risulterebbe allora difficile capire
l'introduzione e soprattutto la breve frase finale che non parla più me­
taforicamente del «figlio». Sarà allora meglio pensare a una sentenza
con la quale la comunità ha descritto il compimento escatologico arri­
vato con Gesù, in particolare perché le espressioni «il figlio» e «il Pa­
dre», usate assolutamente, appaiono anche altrove nei detti riferiti alla
fine ultima (Mc. 1 3,3 2: v. ad loc.; 1 Cor. I 5,28). La vicinanza del no­
stro detto ad altri sulla Sapienza o il Logos (v. ai vv. 28-30), che era
sovente considerato «figlio» di Dio, potrebbe spiegare anche la pro­
venienza di questa espressione da una tradizione sapienziale a for­
te orientamento escatologico. In questa direzione indica già l'inizio:
«Tutto mi è stato consegnato dal Padre mio (o forse: dal Padre, secon­
do buoni manoscritti)», parole che suonano come quelle di un detto,
formulato a sua volta nel linguaggio delle attese escatologiche (Dan.
7, 1 4), pronunciato dal Gesù già glorificato (Mt. 28, 1 8; v. ad loc. ). Per
Q questa era probabilmente una sentenza di capitale importanza che
descriveva, in termini simili a quelli di Gal. 1 , 1 5 s., l'esperienza pa­
squale della comunità. Come il Figlio dell'uomo viene rivelato agli
eletti secondo Hen. aeth. 48,7 e 62,7, così avvenne a pasqua. Un pic­
colo gruppo di eletti conosce già il Figlio dell'uomo al quale è dato
ogni potere (28, 1 8 !), una visione che il mondo avrà solo al momento
del giudizio. Nuova è tuttavia la conclusione con la quale termina il
detto: il figlio stesso e i suoi discepoli, come è certamente implicito già
in 1 0,26 con una terminologia affatto simile e viene affermato definiti-
2 56 Mt. 1 1,25-30. La presenza della salvezza

vamente in 28,19 s., rivelano questo mistero. Egli è il Signore univer­


sale eletto da Dio già mentre è colui che nessuno riconosce. Ma sol­
tanto Dio ne è veramente a conoscenza e, viceversa, solo il figlio è in
grado di conoscere l,opera di Dio e mediante lui coloro che si fanno
donare da lui tale conoscenza e vengono quindi coinvolti nel suo rap­
porto filiale con Dio. Più tardi Giovanni dirà spesso parole simili ( Gv.
3,3 5 s.; 5 , 1 9-26, ecc.).
28-30. L'ultimo detto ha moltissimi punti di contatto con Sir. 5 1 ,23-
27; cf. anche 6,24-3 I. In entrambi i testi il giogo della Sapienza è colle­
gato con la promessa del riposo. Ora nel giudaismo la sapienza è stata
in larga misura identificata con la legge (Sir. 24,2 3), anche della quale i
rabbi parlavano chiamandola il giogo del regno di Dio al quale ci si
doveva sottoporre (Str.-Bill. al v. 29 A b.c). A ciò penserà anche Mat­
teo, in particolare alle minute leggi irrealizzabili dell'osservanza fari­
saica della legge (23,4; cf. Atti 1 5 , 1 o). Ma se fino a questo punto il te­
sto si era limitato a dire che Dio (v. 25) o il figlio (v. 27) avrebbe «rive­
lato» la sapienza nascosta di Dio, ora Gesù chiama tutti a sé per dare
loro finalmente «riposo». Qui egli non è più soltanto il portatore e
l'araldo della «sapienza di Dio)>, ma si sostituisce a questa Sapienza.
Come Gesù anche la Sapienza chiama: «Avvicinatevi a me, incolti»
(Sir. 5 I ,2J). Ancora una volta Matteo è l'unico che tramanda l'identi­
ficazione di Gesù con la figura della Sapienza (v. excursus a 23,34-39).
Il «giogo» non indica probabilmente solo quello dell'uso quotidiano
che il caricatore si mette sulle spalle per portare i contenitori o i cari­
chi appesi a destra e a sinistra, ma anche il giogo che il conquistatore
impone ai vinti (ad es. Ger. 28, I 0- 1 4). Così in una iscrizione cuneifor­
me si legge: «Condannò tutti a un giogo senza riposo>). È questa an­
che l'idea del Siracide che invita a piegare il collo sotto il giogo della
legge per trovare poi il grande riposo una volta fatto il lavoro, che è
solo breve rispetto alla ricompensa. Ma ciò che Gesù dice è proprio
questo: non sono la fatica e il lavoro a portare al riposo, ma la sequela
dietro colui che è lui stesso mite e umile (cf. a 2 1 , 5). Appartenendo egli
stesso a coloro che si affaticano e sono aggravati, egli può accogliere il
discepolo nella propria vita di totale apertura a Dio e donargli così la
vera pace (v. a I O, I J), come dice il v. 29 riecheggiando Ger. 6, 1 6.

I tre detti vogliono ribadire la divinità di Dio. Che solo il figlio la


riveli significa che non possiamo concepire Dio noi stessi, ma che ne
Mt. 1 1 ,2 5-30. La presenza della salvezza 257
possiamo parlare correttamente solo s e l o capiamo alla luce d i Gesù
come colui che è Dio nel suo donare e amare, dunque nel suo movi­
mento verso il figlio e attraverso il figlio verso i figli. Non c'è un Dio
in sé: c'è solo il Dio che in quanto padre si protende verso il figlio e i
figli. Al medesimo tempo il nostro passo ribadisce che anche il figlio
non sta semplicemente a nostra disposizione, come dando per sconta­
to di poterne approfittare a piacere. Chi sia il figlio noi non lo sappia­
mo affatto: lo sa solo il Padre. Se ce lo immaginiamo sposo dell'anima
o riformatore sociale continuiamo a dipingerlo secondo l'immagine
che ne abbiamo noi, come dimostra anche la serie infinita di raffigura­
zioni artistiche. Così la via che porta a Dio passa per il diventare po­
veri, il diventare incapaci della comprensione di Dio, anzi per il logo­
rio spirituale; giacché ai poveri, agli incapaci, agli sfiniti viene promes­
so che essi otterranno ciò che tutta la scienza e tutta l'attività coronata
dal successo non riescono a raggiungere: la tranquillità nella quale l'uo­
mo può capire la propria vita come un dono di Dio e diventa libero
per servire veramente Dio e il prossimo. Forse Matteo è stato consa­
pevole dell'affinità di queste parole con gli ultimi versetti del suo van­
gelo. Analogamente a quanto fatto in I I ,2 7 il Risorto dichiara che gli
è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra; i discepoli vengono invi­
tati ad avvicinarsi a Gesù in I I ,28 e ad andare nel mondo in 2 8, I 9 s.;
come in I I ,29 essi devono imparare da lui, così in 28 ,20 devono inse­
gnare (i rispettivi verbi greci hanno la medesima radice: «imparare per
diventare discepolo>> / «per fare discepoli>>). Come qui viene promessa
loro la pace, così in 2 8,20 la presenza di Gesù fino alla fine del mondo.
Così Gesù si trova, cronologicamente, al centro tra i maestri di sa­
pienza giudaici che invitano alla legge (Sir. 5 I ; cf. 24; Prov. 1 ,20 ss.; 8 , I
ss.) e i cristiani di un'epoca più tarda che riprendono questa parola
(Ev. Thom. 90) o ne formulano essi stessi di simili (Od. Sal. 3 3), con le
quali invitano però alla liberazione da questo mondo materiale me­
diante la conoscenza celeste che viene donata agli iniziati. Gesù ha in
mente qualcosa di totalmente diverso nella sostanza: la sequela che
dona la libertà dalla legge e dai canoni del mondo e che pure, proprio
in questo modo, pone al servizio del mondo.

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