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cepito qui come già compiuto, come divenuto realtà in Gesù. In Gesù
si presenta il Dio davanti al quale l'uomo non può essere più sapiente
e ricco, né ha più bisogno d'esserlo, bensì può osare consegnarsi a lui,
aspettarsi tutto da lui e vivere andandogli incontro senza paura.
1.7. Una serie di manoscritti legge in ordine inverso: «Nessuno co
nosce il Padre se non il figlio e nessuno il figlio se non il Padre», ma
l'ultima frase del versetto ·mal si collega con questa formulazione. So
prattutto questa è la comune concezione greca e anche gnostica: il Pa
dre è l'Ignoto; la lontananza del Dio invisibile è il vero problema la
cui soluzione è poi portata dal figlio. Ma nel nostro detto la situazione
è capovolta: lo Sconosciuto vero, colui che non è capito da nessuno se
non dal Padre, è colui del quale anche il Battista dubita (vv . 2 s.), che
la sua propria patria rifiuta (vv . 20- 24) e che ha appena ringraziato
Dio (v. 2 5 ) per questo insuccesso. Così è anche secondo Mt. I 6, I 7 e
Gal. I , I 6: è Dio che rivela il figlio agli uomini. « Conoscere» non è un
fatto prevalentemente intellettuale; nell'Antico Testamento denota
l'elezione (A m. 3,2: «Voi solo conosco di tutte le stirpi della terra»),
anche quella della moglie da parte del marito, anzi il compimento del
l'atto sessuale. In greco «conoscere» e « generare» sono affini dal pun
to di vista linguistico, come in tedesco kennen («conoscere») e Kind
(«figlio, bambino»). Così anche nel nostro testo si deve pensare a una
comunione personale. Ai tempi di Gesù i greci parlavano di una mu
tua conoscenza tra dio e uomo, ma in questa concezione entrambi i
soggetti si fondono perché dio è concepito in larga misura quale ener
gia della natura con la quale l'uomo può sentirsi una cosa sola. Il Nuo
vo Testamento ha imparato dall'Antico che si ha vera conoscenza di
Dio solo quando egli ci conosce (Gal. 4,9; I Cor. 8,2 s.; 1 J, I 2; cf. già
Es. J J, I 2 s.; I Re 8,J9·4J). Così l'amore del Padre verso il figlio, un
amore che elegge, è la ragione per cui il figlio conosce a sua volta il
Padre e può rivelarlo ad altri. Al tempo di Gesù, negli ambienti in cui
l'ora della fine si pone al centro dell'interesse, diventa però importan
te anche il momento della visione negli eventi escatologici ( I QpHab
7,2- 5; 4 Esd. 4,2 I ss.; in particolare Hen. aeth. 62, I -3 .9); in questa si
tuazione rimangono uniti la conoscenza di questi eventi finali e il ri
conoscimento di colui che li porterà. Così a Qumran sono unite insie
me elezione, conoscenza di Dio e rivelazione ( r QS 4,22; cf. I QH 2 1 -
.14, passim) e già l'Antico Testamento aspetta la conoscenza di Dio per
la fine dei tempi. Il paese sarà allora pieno della conoscenza di Dio (/s.
Mt. 1 1 ,2 5 -Jo. La presenza della salvezza 25 5
I 1 ,9), il suo nome sarà conosciuto nel popolo (/s. 52,6) a tutti quanti,
dal più pic�olo al più grande (Ger. 3 1 ,3 3 s.). Questo è lo sfondo con
tro il quale si deve capire il nostro detto. Completamente nuova è l'e
sclusività con cui dapprima uno soltanto, il figlio, è colui che è stato
eletto da Dio e lo conosce realmente. Tuttavia qui non si dice, come
nella mistica, «nessuno conosce il Padre tranne il figlio», bensì <<nes
suno conosce il figlio tranne il Padre». Questa è appunto la contesta
zione, che tutti gli uomini lo disconoscono. Se si intendesse ciò come
una parabola (nessuno in genere conosce il figlio come il Padre e nes
suno il Padre come il figlio) allora si potrebbe far risalire il detto a Ge
sù: limitandosi ad alludere velatamente alla sua posizione particolare
questa parabola si allineerebbe ad altre affermazioni di Gesù. A dire il
vero, già l'idea alla base della parabola non è convincente - anche a
quel tempo, in molti casi, si sarebbe dovuto parlare piuttosto dell'ami
co o della moglie! Ma più che mai risulterebbe allora difficile capire
l'introduzione e soprattutto la breve frase finale che non parla più me
taforicamente del «figlio». Sarà allora meglio pensare a una sentenza
con la quale la comunità ha descritto il compimento escatologico arri
vato con Gesù, in particolare perché le espressioni «il figlio» e «il Pa
dre», usate assolutamente, appaiono anche altrove nei detti riferiti alla
fine ultima (Mc. 1 3,3 2: v. ad loc.; 1 Cor. I 5,28). La vicinanza del no
stro detto ad altri sulla Sapienza o il Logos (v. ai vv. 28-30), che era
sovente considerato «figlio» di Dio, potrebbe spiegare anche la pro
venienza di questa espressione da una tradizione sapienziale a for
te orientamento escatologico. In questa direzione indica già l'inizio:
«Tutto mi è stato consegnato dal Padre mio (o forse: dal Padre, secon
do buoni manoscritti)», parole che suonano come quelle di un detto,
formulato a sua volta nel linguaggio delle attese escatologiche (Dan.
7, 1 4), pronunciato dal Gesù già glorificato (Mt. 28, 1 8; v. ad loc. ). Per
Q questa era probabilmente una sentenza di capitale importanza che
descriveva, in termini simili a quelli di Gal. 1 , 1 5 s., l'esperienza pa
squale della comunità. Come il Figlio dell'uomo viene rivelato agli
eletti secondo Hen. aeth. 48,7 e 62,7, così avvenne a pasqua. Un pic
colo gruppo di eletti conosce già il Figlio dell'uomo al quale è dato
ogni potere (28, 1 8 !), una visione che il mondo avrà solo al momento
del giudizio. Nuova è tuttavia la conclusione con la quale termina il
detto: il figlio stesso e i suoi discepoli, come è certamente implicito già
in 1 0,26 con una terminologia affatto simile e viene affermato definiti-
2 56 Mt. 1 1,25-30. La presenza della salvezza