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Francesco Piazzolla

La γυνή dell’Ap: funzione materna e sponsale


della chiesa

L’universo femminile nella letteratura biblica assume – come è noto – una


valenza rappresentativa molteplice1 e, tra gli scritti del NT, soprattutto nella
letteratura giovannea il simbolo della femminilità si carica di un significato
paradigmatico e rappresentativo della comunità credente.2 In questo circuito si
inserisce anche il libro dell’Ap che, nel decorso della sua trama narrativa, rap-
presenta la chiesa attraverso diversi elementi allegorici e reali, ma nella mente
dell’autore occupa un posto speciale la cifra simbolica della “donna”, concepi-
ta come “madre” (cap. 12) e “sposa” (19,7; 21,9), così come appare dall’uso dei
termini γυνή e νύμφη che nel libro sono quasi sempre un rimando ecclesiale.3
Accanto alla figura della chiesa, donna-ideale, l’autore presenta anche l’anti-
tipo della femminilità condensato nel simbolo di Babilonia, la città-impero chiu-
sa ai valori divini e ostile alla rivelazione. Anche Babilonia nel libro dell’Ap è
chiamata γυνή4 e le sue caratteristiche non sono del tutto lontane da quelle
della comunità cristiana che, in alcuni casi, rischia di assumere i connotati della
città terrena che si oppone a Dio. Questo dato emerge soprattutto nel messaggio
del Risorto a Tiatira (2,18-29), dove si registra il problema di una chiesa che

1  Citiamo uno degli ultimi testi: Y. Simoens, Homme et Femme, de la Genèse à l’Apocalypse.

Textes – Interprétations, Paris 2014.


2  Nel quarto vangelo Maria, la madre di Gesù (Gv 2,4; 19,26), la Samaritana (Gv 4), la

Maddalena (Gv 20,13.15) e il mashal di Gv 16,21 lasciano emergere una rappresentatività comu-
nitaria della figura femminile; cf. A. Serra, Maria presso la Croce. Solo l’Addolorata? Verso una
rilettura dei contenuti di Giovanni 19,25-27 (Maria nella tradizione biblica 3/2; Bibliotheca
Berica: In Domina nostra 12), Padova 2011, 236-301; F. Manns, L’altra metà del cielo. La «que-
stione femminile» nelle tradizioni giudaica e cristiana, Napoli 2015. Anche 2Gv 1.5 utilizza un
appellativo generico femminile (κυρία) per riferirsi alla comunità cristiana; cf. J. Beutler, Le
Lettere di Giovanni. Introduzione, versione e commento (Testi e commenti), Bologna 2009, 133-
136.
3  Il termine γυνή si riferisce rare volte al mondo femminile senza un significato metaforico

(9,8; 14,4). Il sostantivo νύμφη è usato fuori da contesti ecclesiali solo nell’inno funebre di
Babilonia (18,23), dove si parla del canto dello sposo e della sposa, per indicare la gioia di cui è
privata la città corrotta nel suo giudizio.
4  Ap 17,3.4.6.7.9.18.

Liber Annuus 65 (2015) 351-378


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esprime una femminilità al negativo e nei cui registri descrittivi si intersecano


l’identità positiva e negativa della donna.
L’esame dei testi in cui si svolge lo sviluppo delle suddette dinamiche aiuta
a comprendere la carica espressiva che l’Ap conferisce alla comunità cristiana
nella sua funzione di madre e sposa, chiamata tuttavia a vigilare sulla propria
condotta per non confondersi con il male.

1.1 La γυνή madre dei credenti nella storia

La dimensione materna della comunità cristiana è particolarmente emergen-


te nel cap. 12, dove il termine γυνή costituisce un Leitmotiv della narrazione,
poiché, su 18 versetti, il lemma compare ben 8 volte. La preoccupazione dell’au-
tore è quella di fornirci, nella descrizione della γυνή, non una femminilità a sé
stante, ma in rapporto alla maternità.5 Con il cap. 12 siamo di fronte alla prima
evoluzione simbolica della chiesa che, nei capp. 2-3, è stata definita con il ter-
mine reale di ἐκκλησία.
L’autore introduce la descrizione della donna in 12,1-2, ponendola nel con-
testo di una visione6 che descrive come un σημεῖον (v. 1a), termine che nell’Ap
indica un soggetto simbolicamente descritto e la cui decifrazione è affidata alla
mente del lettore/ascoltatore.7
La figura è presentata attraverso una serie di tratti descrittivi che rimandano
al suo significato corporativo. Il termine γυνή, infatti, in diversi testi biblici,
indica Israele/Gerusalemme8 con un particolare richiamo alla fase escatologica,
quando Dio restaura il suo popolo, dopo gli eventi dell’esilio e le delusioni

5  Diversi commentatori hanno individuato alla base di Ap 12 un background mitologico,

ispirato soprattutto alla storia di Latona e Pitone che cerca di mangiare il figlio Apollo che ella ha
generato da Zeus; cf. G.B. Caird, A Commentary on the Revelation of the St. John the Divine
(Black’s New Testament Commentaries), London 19842, 147-148; S. Schreiber, “Die Sternfrau
und ihre Kinder (Offb 12). Zur Wiederentdeckung eines Mythos”, NTS 53 (2007) 436-457. In
realtà esistono molte dissomiglianze tra il mito pagano e il racconto dell’Ap, come ha dimostrato
A. Yarbro Collins, The Combat Myth in the Book of Revelation (The Harvard Dissertations in
Religion 9), Missoula MT 1976. Ap 12 sembra maggiormente ispirato a una rilettura di dati bi-
blici, alla luce della tradizione giudaica e cristiana, come si avrà modo di notare.
6  Il verbo ὤφθη introduce visioni profetiche in Ez 14; 2,1; 10,1; Dn 8,1.
7  Il termine σημεῖον al singolare nell’Ap designa tre simboli: la donna-chiesa (12,1), il drago-

Satana (12,3), i sette angeli portatori delle piaghe escatologiche (15,1). Nel caso della donna-se-
gno Ap descrive le caratteristiche e le azioni in 12,1-2.4b-5.6.13-14.16-17; anche il segno del
drago è dettagliatamente narrato in 12,3-4.7-17; ugualmente le sette piaghe vengono presentate
in 15,1 e raccontate nel cap. 16. Per quanto riguarda la donna e il drago, inoltre, l’Ap presenta
altri sviluppi nei capitoli successivi che esplicitano ulteriormente il dato simbolico sottostante (cf.
13,2.4.11; 16,13; 20,2 per il drago e 19,7; 21,2.9; 22,17 per la donna).
8  Cf. Os 1–3; Ez 16; Is 1,8; Ger 6,2.23; ecc.
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della ricostruzione post-esilica.9 A partire da questo retroterra letterario l’Ap


costruisce la sua teologia sulla comunità messianica.
Il primo elemento rappresentativo della donna è il suo essere “avvolta di
sole” (περιβεβλημένη τὸν ἥλιον v. 1b). La metafora rimanda all’immagine di
Gerusalemme in Is 60,1 dove la città è invitata a rivestirsi di luce (v. 1a), perché
viene la sua luce (v. 1b), cioè la gloria del Signore (v. 1c). Il tratto teologico
della luce che scaturisce dallo sfondo profetico si arricchisce di una dimensione
cristologica. Nella visione inaugurale del Risorto, infatti, il volto di Cristo ap-
pare come il “sole”, quando splende in tutta la sua forza (Ap 1,16). La donna-
chiesa, così, è resa partecipe di uno splendore che scaturisce dal mondo di Dio
e di Cristo. Questo elemento luminoso, inoltre, ha un valore prolettico, perché
anticipa lo status della chiesa in fase escatologica: descrivendo, infatti, la Geru-
salemme trascendente, l’autore, per due volte (21,23; 22,5), ribadisce che la
città celeste non ha più bisogno di sole e luna, ma usufruisce direttamente della
luminosità di Dio e dell’Agnello.
Il secondo elemento descrittivo, relativo alla donna, è dato dalla luna che è
sotto i suoi piedi: σελήνη ὑποκάτω τῶν ποδῶν αὐτῆς (Ap 12,1c); non si
tratta di un semplice supporto, perché la luna, nell’universo simbolico del mon-
do antico, scandisce la storia e il tempo sulla terra.10 La donna-comunità, dun-
que, con la luna sotto i piedi, esprime l’idea di una temporalità che non scon-
volge la chiesa nei suoi eventi: pur essendo nel tempo, essa sa gestire gli avve-
nimenti senza esserne travolta.11
Il terzo tratto simbolico è dato dalla corona di dodici stelle, posta sul capo
della γυνή: καὶ ἐπὶ τῆς κεφαλῆς αὐτῆς στέφανος ἀστέρων δώδεκα (v. 1d).
Il termine στέφανος è affiancato dal genitivo ἀστέρων. In 2,10 troviamo un
costrutto simile: il vincitore di Smirne consegue uno στέφανος τῆς ζωῆς; il
genitivo τῆς ζωῆς ha valore epesegetico e indica “la corona che è la vita”.12
Anche in Ap 12,1, quindi, l’espressione στέφανος ἀστέρων lascia intendere

9  Cf. Is 52,2; 54,1-6; 61,10; 62,1-5.11; 66,7-13.


10  Nel libro dell’Ap la luna diventa “come sangue” nella sezione dei sigilli (6,12) e un terzo
di essa cade sulla terra nella sezione delle trombe (8,12): tali sconvolgimenti cosmici segnano
un’anomalia che disturba la vita degli uomini. Infine nell’eone nuovo la luna, con la sua funzione
di illuminare, scompare perché Dio dà luce alla Gerusalemme celeste, mentre la sua lampada è
l’Agnello (21,23).
11  Cf. U. Vanni, L’Apocalisse. Ermeneutica, esegesi, teologia (SRivBib 17), Bologna

1988, 234.
12  Nella chiesa di Smirne, infatti, il Risorto esorta la comunità, in contrasto con la sinago-

ga (2,9), a resistere fino alla morte, per possedere la “corona della vita”. Si tratta dell’imitazio-
ne esistenziale del mistero pasquale che i credenti devono compiere nel loro contesto ecclesia-
le. Cristo, all’inizio del messaggio, si è presentato come colui che ἐγένετο νεκρὸς καὶ ἔζησεν:
la medesima dialettica morte-vita, dunque, deve caratterizzare la scelta dei cristiani di fronte
alle difficoltà.
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che la corona di cui è cinta la donna corrisponde alle stelle: qual è il senso reale
dell’espressione?
In diversi testi biblici il simbolismo stellare è un richiamo ai credenti. Nell’a-
pocalittica, ad esempio, il giusto viene paragonato alle stelle che splendono nel
firmamento (Dn 12,3). In molti documenti della tradizione giudaica posteriore
si ripete l’identificazione dei fedeli con il simbolo stellare e il candeliere del
tempio. Nel TgJ su Es 40,4b l’espressione: “introdurrai anche il candelabro e vi
preparerai sopra le sue lampade”, viene così commentata: “tu introdurrai il can-
delabro nella zona sud… e accenderai le sette lampade che corrispondono alle
sette stelle che assomigliano al giusto che risplende per l’eternità a causa della
sua giustizia”.13 Filone,14 infine, leggendo allegoricamente il riferimento alle 12
pietre che sono poste sul pettorale del giudizio (Es 28,15-21; 39,8-14), le inter-
preta come le 12 costellazioni che rappresentano nel cielo l’Israele terreno.
Anche nel libro dell’Ap si ritrovano molti elementi che rimandano alla com-
prensione delle stelle come a un simbolo dei credenti. Il punto di partenza è la
decodificazione che il Risorto stesso fa in Ap 1,20: οἱ ἑπτὰ ἀστέρες ἄγγελοι
τῶν ἑπτὰ ἐκκλησιῶν εἰσιν καὶ αἱ λυχνίαι αἱ ἑπτὰ ἑπτὰ ἐκκλησίαι εἰσίν. Il
testo può essere disposto in modo chiastico: οἱ ἑπτὰ ἀστέρες (A) ἄγγελοι τῶν
ἑπτὰ ἐκκλησιῶν εἰσιν (B) αἱ ἑπτὰ λυχνίαι (BI) αἱ ἑπτὰ ἐκκλησίαι εἰσίν (AI).
Esiste, dunque, una certa corrispondenza tra gli angeli-stelle e le chiese-cande-
labri, facendo in modo che gli angeli-stelle-candelabri siano un richiamo alla
chiesa.15 Questa simmetria sembra confermata da ulteriori indizi. Nelle auto-
presentazioni di Cristo alle singole comunità egli si proclama come “colui che
tiene nella sua destra le sette stelle” (1,16; 2,1; 3,1), ovvero possiede la realtà
vitale della chiesa. Soprattutto nel contesto di Efeso torna la corrispondenza tra
il candelabro-chiesa e le stelle-angeli. Qui infatti il Risorto si qualifica con l’e-
spressione parallelistica: ὁ κρατῶν τοὺς ἑπτὰ ἀστέρας ἐν τῇ δεξιᾷ αὐτοῦ, ὁ

13  TP su Es 40,4 (ed. J.W. Etheridge, I, 576).


14  Filone, De specialibus legibus 1,87.
15  I messaggi del Risorto sono indirizzati τῷ ἀγγέλῳ τῆς ἐν… ἐκκλησίας (cf. 2,1.8.12.18;

3,1.7.14), sintagma inteso in molti modi da parte degli esegeti (per una panoramica sulle diffe-
renti interpretazioni, cf. D.E. Aune, Revelation 1–5 [WBC 52A], Dallas TX 1997, 108-112). Una
corrispondenza intertestuale, tuttavia, spinge a intendere il costrutto “angelo della chiesa” come
un riferimento alla comunità stessa. Infatti tutti i testi di Ap 2–3 si aprono con l’espressione “an-
gelo della chiesa”, ma si chiudono – a mo’ di inclusione – con la formula sapienziale Ὁ ἔχων οὖς
ἀκουσάτω τί ὸ πνεῦμα λέγει ταῖς ἐκκλησίαις (Ap 2,7.11.17.29; 3,6.13.22). Si può ritenere,
dunque, che i due sintagmi siano un differente rimando alla comunità. Inoltre, nel decorso dei
messaggi cristologici, il Risorto inizia a parlare al singolare, ma con grande disinvoltura passa al
plurale. Basti citare come esempio il messaggio alla chiesa di Smirne dove nei vv. 9-10a si usa la
seconda persona singolare, mentre in 10b si passa al plurale: μέλλει βαλεῖν ὁ διάβολος ἐξ ὑμῶν
εἰς φυλακήν, ἵνα πειρασθῆτε· καὶ ἕξετε θλίψιν ἡμερῶν δέκα per tornare al singolare in 10c
Γίνου πιστὸς ἄχρι θανάτου, καὶ δώσω σοι τὸν στέφανον τῆς ζωῆς. Ugualmente accade nel
messaggio alla chiesa di Pergamo in 2,14-15.
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περιπατῶν ἐν μέσῳ τῶν ἑπτὰ λυχνιῶν τῶν χρυσῶν (2,1). Il senso del testo
esprime l’autorità dell’Esaltato sull’identità della chiesa e la sua presenza nella
comunità. Che si tratti di parallelismo sinonimico sembra confermato dal fatto
che, alla fine del messaggio, il Risorto intimi alla comunità di convertirsi e
tornare alle opere positive del passato (2,5a), pena la “rimozione del candela-
bro” (2,5b), cioè la perdita della propria vitalità liturgica. Il testo, dunque, alla
fine non ripete i due elementi iniziali, ma si limita a uno solo, il “candelabro”,
dal momento che ambedue rappresentano l’identità della chiesa.
Questi elementi considerati lasciano emergere che nella corona di stelle l’au-
tore esprima l’identità della donna, costituita dai credenti.
Al simbolismo cosmico delle stelle il testo aggiunge il numerale “dodici” che
nel libro dell’Ap allude tanto alle tribù d’Israele (7,5-8; 21,12), quanto agli
apostoli (21,14). Possiamo ritenere che in questo contesto non si faccia una
scelta in favore dell’una o dell’altra comunità, ma si intenda presentare la don-
na-chiesa come la risultante dell’intero popolo di Dio.
Al v. 2 emerge la prima dimensione funzionale del simbolo della γυνή ov-
vero la sua maternità: καὶ ἐν γαστρὶ ἔχουσα,16 καὶ κράζει ὠδίνουσα καὶ
βασανιζομένη τεκεῖν. La costruzione verbale del testo suggerisce, attraverso
i participi presenti e l’indicativo del verbo principale κράζει,17 l’idea di uno
status continuativo della donna in questa condizione. L’immagine del parto,
nella tradizione letteraria biblica, spesso si connette con la comunità dei creden-
ti in un momento di sofferenza18 e in vista del tempo escatologico.19
Alla base della descrizione di Ap 12 possono esserci diversi background
letterari. Il primo referente è individuabile in Is 26,17-19: la pericope profeti-
ca letterariamente è un lamento comunitario di stile sapienziale sulla situazio-
ne del passato e sulla delusione del presente. Israele riflette sulla propria sto-
ria, ma deve fare l’amara constatazione di una speranza di vittoria fallita con-
tro i nemici.20 Per descrivere questa frustrazione si usa l’immagine dei dolori

16  Siamo davanti a una costruzione semitizzante in cui il participio assume il valore del tem-

po principale; cf. R.H. Charles, A Critical and Exegetical Commentary on the Revelation of St.
John, I, Edinburgh 1920, 316.
17  La forma verbale κράζει è attestata dai migliori manoscritti (A 𝔓47 a). L’imperfetto ἔκρα-

ζεν è in C e nel codice bizantino 2351, mentre l’aoristo ἔκραξεν è riportato dai testi bizantini
tardivi. È preferibile la forma del presente storico che si ricollega alla presentazione dell’altro
“segno”, dove troviamo un altro presente storico σύρει (12,4).
18  In alcuni testi biblici l’immagine è applicata a Gerusalemme che viene descritta come una

donna che si contorce per i dolori a causa delle sue sofferenze (cf. Ger 4,31; 13,21; 22,23; Is 8,8;
21,3; Os 13,13). Anche in Rm 8,18-23 Paolo utilizza la stessa immagine per parlare del travaglio
della creazione, in vista del pieno riscatto escatologico. In modo simile i cristiani, avendo ricevu-
to le primizie dello Spirito, soffrono in vista della completa adozione a figli.
19  Al testo di Is 26,7-8 si aggiungano le immagini simili in Mc 13,8.14-23; 1En 62,4; 4Esd 4,42.
20  Cf. J.D.W. Watts, Isaiah 1–39 (WBC 24), Waco TX 1985, 342.
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del parto che diventano vani, perché non generano nessun risultato.21 Una
speranza, tuttavia, si prospetta per un intervento di Dio. Il v. 19, infatti, crea
un’antitesi con il testo precedente, interrompendo il lamento del popolo: se gli
sforzi umani non hanno prodotto risultati, l’azione divina è capace di ridona-
re la vita anche ai morti.
Un secondo modello letterario di Ap 12,2 potrebbe essere una Hodayot di
Qumran,22 dove leggiamo:
7ero angosciato
come una donna che dà alla luce il suo primo figlio
quando la prendono i dolori del parto
8e il dolore le tormenta il ventre

per dare inizio alla fornace del parto…


9dalla fornace della donna incinta
10sorge un consigliere miracoloso con la sua forza (cf. Is 9,5-6)…
12Colei che è incinta del serpente

ha un atroce dolore
e le convulsioni della fossa la conducono
a un completo terrore.

Questo inno parla di due donne che partoriscono: una genera colui che è
destinato a divenire “consigliere miracoloso” e l’altra che è “incinta di un ser-
pente”. In questo testo i qumranici pensano a due differenti comunità, identifi-
cate nelle due donne: quella vera cioè la “congregazione di santità perfetta”23 e
quella che si è smarrita nelle vie dell’empietà.24
Anche nel quarto vangelo ritorna l’immagine del parto per descrivere una
situazione ecclesiale:
La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma,
quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza,
per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nel
dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno
potrà togliervi la vostra gioia (Gv 16,21-22).

Nella prospettiva del testo evangelico succitato la figura della donna che
partorisce viene concepita in due differenti momenti: il primo negativo, rappre-
sentato dalla paura del parto, il secondo positivo, per la nascita del bambino.
Ambedue gli aspetti servono come termine di paragone per la situazione dei

21  Cf. R.E. Clements, Isaiah 1–39 (NCBC 16), Grand Rapids MI 1980, 216.
22  1QH2 XI,7 (ed. F. García Martínez, 530).
23  CD – B, XX,2 (ed. F. García Martínez, 133).
24  4Q184,8 (ed. F. García Martínez, 588).
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discepoli. Il dolore del parto è equiparato alla tribolazione di fronte alla morte
di Gesù, mentre la gioia della nascita rimanda alla sua risurrezione.
A partire da questi referenti letterari l’Ap elabora la sua concezione, pur
conservando agganci con i testi appena considerati. In comune con Is 26,17-19,
Gv 16,21-22 e la Hodayot di Qumran l’Ap presenta il simbolo della donna in-
cinta come rimando alla comunità, mentre gli altri dati sono formulati in manie-
ra differente: la nuova nascita come risurrezione, presente in Is 26,19 e Gv
16,22b, viene ripresa più tardi in Ap 12,5,25 mentre il contrasto tra la donna-
comunità e i seguaci dell’empietà nell’inno di Qumran, potrebbe richiamare la
contrapposizione tra la donna di Ap 12 e Babilonia in Ap 17–18.26
Dopo questi dati descrittivi della γυνή-chiesa il racconto è interrotto dalla
figura del drago (vv. 3-4a),27 che l’autore presenta come un altro σημεῖον. Si
tratta di Satana, come viene più tardi chiamato,28 qui raffigurato con una poten-
za straordinaria ma non infinita,29 capace di sfidare Dio stesso.30

25  A. Feuillet, “Le Messie et sa Mère d’après le chapitre XII de l’Apocalypse”, RB 66 (1959)

55-86: 61-64, ritiene che la dimensione pasquale che, l’immagine della donna partoriente presen-
ta nel quarto vangelo e nell’Ap, sia sdoppiata in due momenti narrativi differenti.
26  Cf. Serra, Maria presso la Croce, 279-303, anche se in realtà l’immagine del parto non

viene mai usata per Babilonia.


27  Il drago di cui parla Ap 12 costituisce una revisione di un simbolismo abbondantemente

attestato nella tradizione biblica. A partire dai miti del Medio Oriente, la Scrittura rielabora
l’idea di una lotta cosmica tra JHWH e Rahab (Is 51,9-10; Gb 26,12; Sal 89,11; Is 51,9) o
Leviatan (Gb 3,8; 40,25; Sal 74,14; 104,26; Is 27,2) o il drago/serpente (Sal 73,13; 148,7; Gb
7,12; Is 27,1), esseri connessi con il caos, ma ormai sottomessi a Dio. Il libro di Daniele può
essere considerato l’anello di congiunzione tra la mitologia antica e la letteratura apocalittica.
In Dn 7, infatti, i regni di Babilonia, Media, Persia e Grecia sono presentati come quattro mostri
provenienti dal mare, nemici di Israele, e in seguito annientati da Dio e dal suo regno eterno.
In questo modello danielico i miti cosmogonici assumono una dimensione storica ed escatolo-
gica. Questa trasformazione viene recepita dalla letteratura giudaica apocalittica e dallo stesso
libro dell’Ap per descrivere le situazioni di sofferenza inferte da Satana alla comunità creden-
te (cf. 1En 6-11; Giub 83-87).
28  Al v. 9 l’autore inserisce una serie di attributi identificativi del secondo segno: ὄφις ὁ

ἀρχαῖος, ὁ καλούμενος Διάβολος καὶ ὁ Σατανᾶς.


29  Il drago possiede sette teste e dieci corna, simbolo di un potere aggressivo molto forte, ma

circoscritto nel tempo. In Ap 5,6 Giovanni descrive il Cristo-Agnello con “sette teste e sette cor-
na”, per indicare la pienezza di potere; il 10 – come simbolismo numerico – richiama invece nel
libro un concetto circoscritto e ridotto (si pensi al tempo della tribolazione della chiesa in Ap
2,10). Il demoniaco e i suoi rappresentanti (la bestia del cap. 13 e quella che sormonta Babilonia
al cap. 17) vengono sempre descritti con “sette teste”, ma con “dieci corna”, dal momento che il
loro potere non è totale (cf. 13,1-2; 17,3.7.12.16). Per il drago, l’Ap parla di sette diademi (12,3)
che sono il simbolo del regno (gli antichi attribuivano ai sovrani un numero di corone corrispon-
dente a quello dei regni sotto il loro potere; 1Mac 11,13 e Giuseppe Flavio, Ant. XIII,113, dicono
ad es., che Tolomeo VI Filometore aveva due diademi rappresentanti il suo potere in Egitto e in
Asia). Solo a Satana, dunque, il testo attribuisce questo regno in pienezza, anche se esso è limi-
tato dalle “dieci corna”, ossia egli non ha una forza di attacco senza limiti.
30  Il potere della coda, che precipita giù dal cielo 1/3 delle stelle, richiama la descrizione del

quinto sigillo (6,13), dove è Dio l’agente di sconvolgimenti cosmici. Questo stravolgimento del-
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Il drago appare come antagonista della donna che, per tre volte (12,4b-6; 12,13-
14; 12,15-16), cerca di attaccare, ma in ciascun caso Dio interviene a preservarla.

Attacchi del drago Interventi di Dio


vuol divorare suo figlio (v. 4b); essa fugge nel deserto in un luogo preparato da
Dio, dove è nutrita per un tempo circoscritto (v. 6)
perseguita la donna (v. 13); essa è trasportata nel deserto dalle ali della gran-
de aquila e qui è nutrita per un tempo circoscritto
(v. 14)
travolge la donna con un fiume la terra le viene in aiuto assorbendo l’acqua dia-
d’acqua dalla sua bocca (v. 15) bolica (v. 16)

In questo quadro narrativo l’autore fornisce la rilettura ecclesiale della pro-


tologia genesiaca che parla della lotta tra il serpente e la donna (Gen 3,14). I tre
interventi del drago e di Dio in relazione alla γυνή sono articolati in modo
differente: il primo e il secondo presentano maggiori punti di contatto.31 In re-
altà queste tre aggressioni non vanno concepite in senso numerico, ma come una
molteplice modalità di affermare l’azione satanica contro la comunità messia-
nica, lungo l’arco della storia. Difatti nel v. 17 l’autore presenta un’ulteriore
persecuzione del diavolo contro la chiesa che, però, rispetto ai quadri preceden-
ti, non è più rappresentata dal simbolismo della donna, ma dalla sua “discenden-
za”. Questi tentativi di attacco, poi, non si sviluppano in modo continuativo
nella narrazione, ma interrotti da due scene: la battaglia di Michele contro Sa-
tana (12,7-9) e l’inno di vittoria della voce celeste (12,10-12).

1.2 Il drago aggredisce la donna per divorarne il figlio (12,4b-6)

Nel suo primo tentativo di aggressione (12,4b) il drago si scaglia contro la

la creazione, dunque, come opera del drago, costituisce una sfida a Dio creatore del cosmo; cf.
Vanni, L’Apocalisse, 143.
31  In ambedue le scene si parla del deserto (12,6.14) e si ritrova anche un computo cronolo-

gico uguale. In 12,6 appare l’indicazione “1260 giorni” (ἡμέρας χιλίας διακοσίας ἑξήκοντα),
mentre in 12,14 si parla di “un tempo, due tempi e la metà di un tempo” (καιρὸν καὶ καιροὺς
καὶ ἥμισυ καιροῦ). Queste due differenti espressioni indicano la metà di sette cioè una parziali-
tà; l’autore fa riferimento a questo lasso cronologico usando anche “42 mesi” (11,2; 13,5), mentre
ritorna il calcolo “1260 giorni” in 11,3. Nelle ricorrenze di questa cifra il libro dell’Ap cristalliz-
za il tempo post-pasquale, dipingendolo come uno scenario in cui la protezione divina e gli assal-
ti del maligno si intersecano.
La γυνή dell’Ap: funzione materna e sponsale della chiesa 359

donna per divorarne il figlio. Il retroterra biblico a cui fa riferimento l’immagi-


ne rimanda a due testi in particolare:

Ap Καὶ ὁ δράκων ἕστηκεν Gen καὶ ἔχθραν θήσω ἀνὰ μέσον σου
12,4a ἐνώπιον τῆς γυναικὸς 3,5 καὶ ἀνὰ μέσον
τῆς τῆς γυναικὸς καὶ ἀνὰ μέσον τοῦ
μελλούσης τεκεῖν σπέρματός σου
καὶ ἀνὰ μέσον τοῦ σπέρματος
Ap ἵνα ὅταν τέκῃ τὸ τέκνον Ger κατέφαγέν με […] Ναβουχοδονο-
12,4b αὐτῆς καταφάγῃ. 28,34 σορ βασιλεὺς Βαβυλῶνος κατέ-
(LXX) πιέν με ὡς δράκων

La posizione del drago di fronte alla donna (ἐνώπιον al v. 4) ricorda l’ini-


micizia posta tra Eva e il serpente in Gen 3,15 (ἀνὰ μέσον secondo i LXX);
mentre lo scopo del drago che vuole divorare il bambino richiama l’immagine
con cui Geremia descrive Gerusalemme personificata che si lamenta perché
Nabucodonosor l’ha ingoiata come un drago.
Al v. 5 l’autore pone in rilievo che, nonostante gli attacchi del drago, si ve-
rifica l’evento del parto: καὶ ἔτεκεν υἱὸν ἄρσεν, ὃς μέλλει ποιμαίνειν πάντα
τὰ ἔθνη ἐν ῥάβδῳ σιδηρᾷ. καὶ ἡρπάσθη τὸ τέκνον αὐτῆς πρὸς τὸν θεὸν
καὶ πρὸς τὸν θρόνον αὐτοῦ. La nascita viene descritta con un’azione puntua-
le, già compiuta nel tempo: καὶ ἔτεκεν υἱὸν. Il figlio della donna, poi, è quali-
ficato con il sostantivo υἱός al quale si affianca l’aggettivo neutro ἄρσεν, sole-
cismo grammaticale. Probabilmente la scelta testuale è influenzata da Is 66,7
dove torna l’immagine della donna-Gerusalemme i cui dolori, durante il parto
di figli (ἔτεκεν ἄρσεν), sono eliminati dall’intervento di Dio.32 Con questa
combinazione grammaticale anomala l’Ap vuole compiere un’universalizzazio-
ne dell’evento, garantita dall’uso del neutro.33 Questo dato, che richiama la
valenza cosmica della nascita del bambino, sembra confermato dal testo seguen-
te dove l’autore cita il Sal 2,9, applicandolo a Cristo: ὃς μέλλει ποιμαίνειν
πάντα τὰ ἔθνη ἐν ῥάβδῳ σιδηρᾷ. Il Sal 2, già nella tradizione giudaica, è

32  Il testo di Is 66 è compreso in chiave messianica nel relativo TgIs 66 (ed. J. Ribera Florit, 253).
33  Cf. Vanni, L’Apocalisse, 246. Il neutro ἄρσεν è attestato da A e C, mentre il maschile

compare nella duplice forma di ἄρσενα (051 fam 1006 fam 1611 Oecumenius2053) e di ἄρρενα
(𝔓47 a 2351 Andrea codici bizantini). Le ultime due varianti del maschile sembrano correzioni
influenzate da Ap 12,13. La lectio difficilior fa optare per il neutro in conformità a una tradizione
testuale ben consolidata. Difatti i LXX, in numerosi contesti, rendono l’ebraico NE;b o rDkÎz con il
neutro ἄρσεν (Es 2,2; Is 66,7; Ger 37,6 LXX).
360 Francesco Piazzolla

stato inteso in chiave messianica34 e nel NT costituisce uno dei testimonia della
prima predicazione cristiana, in riferimento alla risurrezione di Cristo.35 L’ac-
costamento del Sal 2,9 alla generazione, dunque, va inteso non come un sem-
plice richiamo alla nascita di Gesù a Betlemme, ma come un rimando all’even-
to pasquale.36 In altri contesti l’Ap opera l’applicazione cristologica del Sal
2,9,37 ma una particolarità del libro è data dal fatto che, nella promessa al vin-
citore di Tiatira (Ap 2,27), il testo del Sal 2,9 venga applicato in chiave comu-
nitaria.38 L’ambivalenza di significato, dunque, permette di scorgere un possi-
bile riferimento ecclesiale al bambino nato, come dimostra più in là il testo
parlando della “discendenza della donna” (12,17), espressione che si riferisce
ai cristiani. Questo orientamento cristologico-ecclesiale del testo sembra avval-
lato anche dalla costruzione perifrastica che descrive il ruolo del figlio della
donna – ὃς μέλλει “colui che è in procinto di” – e che introduce la citazione
vera e propria del Sal 2,9: ποιμαίνειν πάντα τὰ ἔθνη ἐν ῥάβδῳ σιδηρᾷ. Tale
accomodamento testuale mostra che l’autorità del “figlio” non è ancora un dato
di fatto, ma è una realtà in fieri. Generalmente il libro dell’Ap presenta Cristo
come già in possesso del suo potere,39 mentre il regno dei credenti è sempre in
fase escatologica.40
Anche il destino ultimo del figlio, narrato in Ap 12,5b, rimanda a un aspetto
che è insieme cristologico ed ecclesiale: καὶ ἡρπάσθη τὸ τέκνον αὐτῆς πρὸς
τὸν θεὸν καὶ πρὸς τὸν θρόνον αὐτοῦ. Infatti, da una parte il testo ci parla
dell’epilogo storico della vita di Cristo, descrivendolo come “rapimento verso

34  Nel SalSal XVII,23-24, parlando del messia, figlio di Davide, si invoca Dio perché lo invii

nel tempo che Egli sa: “a frantumare l’arroganza dei peccatori come un vaso d’argilla, a disinte-
grare tutte le loro sostanze con verga di ferro”.
35  Il Sal 2 è riletto in chiave cristologica in vari testi: At 4,25-26 cita il Sal 2,1-2; At 13,33 ed

Eb 1,5; 5,5 citano il Sal 2,7; cf. I. Paul, “The Use of the Old Testament in Revelation 12”, in S.
Moyise (ed.), The Old Testament in the New Testament. Essays in Honour of J. L. North (JSNT
SS 189), Sheffield 2000, 256-276: 266.
36  Cf. Feuillet, “Le Messie et sa Mère”, 63.
37  In Ap 19,15 il Sal 2,9 viene citato, omettendo l’espressione ποιμανεῖ ἐν ῥάβδῳ σιδηρᾷ.

In Ap 19 la citazione serve a mostrare che nella fase conclusiva della storia Cristo annienterà
tutte le forze del male.
38  Questo tipo di applicazione comunitaria appare anche nelle Odi di Salomone, 29,7-8.
39  Basti citare i testi di Ap 1,5; 17,14 e 19,16 dove Cristo è proclamato sovrano, attraverso

differenti espressioni, e il cui regno è già un dato presente; inoltre nel libro la βασιλεία del Risorto
(11,15) e la sua ἐξουσία (12,10) sono dichiarate come un evento già compiuto (ἐγένετο in 11,15
e 12,10).
40  Nell’Ap i cristiani sono chiamati a procurarsi il regno come esercizio del loro sacer-

dozio (1,6; 5,10); generalmente si parla di un loro regnare (βασιλεύω) al futuro (5,10; 20,6;
22,5) e, in quanto vincitori, condividono il trono di Cristo solo alla fine del cammino eccle-
siale (3,21).
La γυνή dell’Ap: funzione materna e sponsale della chiesa 361

il trono”,41 dall’altra, però, questo richiamo rimanda a diversi contesti in cui


esseri umani glorificati sono presso il trono divino celeste.42
L’immagine complessiva che ne deriva è quella di un’identità tra la chiesa
come comunità-madre e il destino del suo figlio: essa è chiamata a generare Cri-
sto nella storia (lo suggerisce l’aoristo ἔτεκεν υἱὸν ἄρρενα), ma non senza dif-
ficoltà laceranti e dolorose (ἔκραζεν ὠδίνουσα, καὶ βασανιζομένη τεκεῖν) e
non senza attacchi da parte del male (il drago). Nella sorte pasquale del Risorto,
però, la comunità possiede già l’immagine conclusiva del suo itinerario storico.
Al v. 6 l’autore torna a interessarsi della chiesa con il simbolismo della don-
na e qui mostra il percorso che essa deve compiere: καὶ ἡ γυνὴ ἔφυγεν εἰς τὴν
ἔρημον, ὅπου ἔχει ἐκεῖ τόπον ἡτοιμασμένον ἀπὸ τοῦ θεοῦ, ἵνα ἐκεῖ τρέ-
φωσιν αὐτὴν ἡμέρας χιλίας διακοσίας ἑξήκοντα.
Si parla anzitutto del deserto come meta della fuga, immagine teologica che,
nella tradizione biblica, rappresenta un luogo con due significati particolari,
come si può notare in modo sintetico nel testo di Dt 8,14-16:
14il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore, tuo
Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile;
15che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di

serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto


sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; 16che nel deserto ti ha nu-
trito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e per provarti, per
farti felice nel tuo avvenire.

Da questo testo biblico si desume che:


1. il deserto è un luogo impervio, segnato da pericoli, e diventa un rifugio
in momenti critici della vita comunitaria;43

41  Il verbo ἁρπάζω è un hapax dell’Ap. I commentatori classici vedono un riferimento all’a-

scensione di Cristo, sebbene il termine non esprima mai questo evento cristologico nel NT.
Generalmente si parla della salita al cielo del Risorto con diverse espressioni: ἀναλαμβάνω (Mc
16,19; At 1,2.11a.22); πορεύομαι εἰς τὸν οὐρανόν (1,11b); ἀναβαίνω πρὸς τὸν πατέρα μου
(Gv 20,17); καθίζω ἐν δεξιᾷ (Ef 1,20; Eb 1,3; Ap 3,21). Il verbo ἁρπάζω descrive, invece, l’e-
sperienza trascendente di Paolo, “rapito verso il cielo” (cf. 2Cor 12,2.4), o di Filippo preso dallo
Spirito del Signore (cf. At 8,39). In ogni caso l’epilogo della vicenda cristologica comporta un suo
trasferimento nella trascendenza di Dio, rappresentata dal suo trono. Possiamo ritenere che l’auto-
re voglia esprimere, con il verbo ἁρπάζω, un richiamo all’intero mistero pasquale di morte e ri-
surrezione. Qualcosa di simile, infatti, accade nel quarto vangelo con il verbo ὑψόω (cf. 3,14; 8,28;
12,32.34) che viene assunto sia come un riferimento alla crocifissione, momento in cui material-
mente Gesù è innalzato da terra, sia con un significato traslato che accenna alla sua esaltazione
nella risurrezione; cf. la recensione di L. Lyonnet dell’opera di L. Cerfaux - J. Cambier, L’Apocalypse
de saint Jean lue aux chrétiens (LD 17), Paris 1955, in Bib 38/2 (1957) 204-207: 207.
42  I credenti glorificati sono nei pressi del trono divino (4,4; 7,9; 11,16; 20,12) o siedono su

troni cioè partecipano al potere di Dio (4,4; 20,4).


43  Si pensi a Mattatia e ai suoi figli che scappano dalla persecuzione di Antioco (1Mac 2,28-
362 Francesco Piazzolla

2. il deserto è un momento in cui Dio nutre e disseta il suo popolo;44 questo


dato emerge sia nella tradizione esodica che nei Salmi.45
Anche nel NT l’esperienza del deserto appare fondante, come si rileva dai
primi tratti narrativi dei vangeli. La predicazione del Battista si svolge nel de-
serto46 e Gesù stesso, prima di iniziare il suo ministero, vive in questo luogo
inospitale.47
Questo luogo, allora, rappresenta per la donna l’ambiente48 in cui essa riceve
nutrimento e si prepara alla sua condizione finale. L’autore segna, attraverso
l’espressione ἡμέρας χιλίας διακοσίας ἑξήκοντα, il tempo della permanenza
della γυνή nel deserto. L’Ap recepisce questa indicazione cronologica dal libro
di Daniele49 e la ripete in diversi contesti, con un computo differente. Il dato va
inteso in senso simbolico, come la metà di sette e, quindi, indica un lasso di
tempo parziale:50 nel contesto dell’Ap potremmo ritenerlo un riferimento al

29; 2Mac 5,27) oppure a Elia in 1Re 17,2-3 e 19,3-4 che fugge da Acab e Gezabele. Anche per la
comunità di Qumran la ritirata nel deserto è preludio dei tempi escatologici. In 1QM I,1-3 (ed. F.
García Martínez, 196) si parla dei “figli della luce” che attendono la battaglia finale. G.K. Beale,
The Book of Revelation (NIBC 27), Grand Rapids MI 1999, 643, cita numerosi testi rabbinici in
cui l’esperienza del deserto viene menzionata come un riferimento alla fine del tempo dell’esodo,
quando Dio torna per ristabilire Israele e restaurarlo.
44  Il deserto come luogo in cui Dio nutre Israele è attestato in differenti passi biblici (cf. Es

16,32; Dt 2,7; 8,3.15-16; 29,5; 32,10; Gs 24,7; 1Re 17,4; Ne 9,19.21; Sal 78,5.15.19; 136,16;
Os 13,5).
45  Il Sal (LXX) 77,19-20 è un testo in cui si afferma che il Signore allestisce una τράπεζα

ἐν ἐρήμῳ.
46  Cf. Mt 3,3; 11,7; Mc 1,3; Lc 3,4; Gv 1,23.
47  Cf. Mt 4,1; Lc 1,80; 4,1; Mc 1,12.
48  Il testo riprende la collocazione con una costruzione – ὅπου ἐκεῖ – di sapore semitico

mDv rRvSa; F. Blass - A. Debrunner, Grammatica del Greco del Nuovo Testamento (Suppl. GLNT
3), Brescia 1982, § 297,2, parlano di funzione pleonastica. Beale, The Book of Revelation, 648-
650, ritiene che l’Ap, usando la parola τόπος, voglia far riferimento a uno spazio sacro simile al
tempio, in cui Dio preserva e protegge la sua comunità. L’autore afferma questo sulla base di
numerosi paralleli con l’AT e la tradizione letteraria extrabiblica. In realtà sembra, però, che
l’attenzione dell’Ap non sia sul termine τόπος, ma piuttosto sul “deserto” in cui la donna è col-
locata per ricevere protezione.
49  L’espressione ha i suoi prodromi in Dn 7,25 dove l’autore descrive il tempo della persecu-

zione in cui i “santi” saranno soggetti al potere di Antioco IV Epifane. In Dn 12,7 si trova la
medesima espressione, confermata in 9,27; qui l’autore parla della sospensione del sacrificio
templare per “metà settimana”.
50  Se si volessero calcolare i giorni della persecuzione contro gli ebrei, si dovrebbe partire

dal 15 di Kisleu (6 dicembre 167 a.C. secondo 1Mac 1,54) fino al 25 di Kisleu (14 dicembre 164
a.C. secondo 1Mac 4,52) che corrisponderebbero a 1103 giorni. Probabilmente i 1260 sono un
calcolo scribale aggiunto prima della conclusione degli eventi, quando non si conosceva la ra-
pidità con cui si sarebbero svolte le vicende belliche dei Maccabei; cf. L.F. Hartman - A.A. Di
Lella, The Book of Daniel. A New Translation with Notes and Commentary (AB 23), Doubleday
1978, 215-216.
La γυνή dell’Ap: funzione materna e sponsale della chiesa 363

periodo che va dalla morte e risurrezione di Cristo fino alla parusia,51 arco cro-
nologico in cui la chiesa sperimenta la protezione divina e gli attacchi satanici.52

1.3 La battaglia celeste (12,7-9) e l’inno di vittoria (12,10-12)

Ai vv. 7-9 l’autore sposta il suo interesse narrativo su una scena celeste, in
cui presenta la vicenda dello scontro tra la chiesa e Satana a livello trascenden-
te, parlando di una battaglia tra il diavolo e Michele.53 Sulla scia dell’apocalit-
tica qumranica,54 questo intreccio stabilisce un’equiparazione tra mondo terreno
e divino, ma la preoccupazione fondamentale del testo è, ancora una volta,
fornire alla donna-chiesa la speranza di una vittoria che si è compiuta in cielo e
si appresta a realizzarsi sulla terra.55 Infatti l’epilogo della battaglia tra Michele
e Satana, che si chiude con la precipitazione di quest’ultimo sulla terra, dà ori-
gine a un canto di vittoria che costituisce una ouverture sulla comunità terrena.
Un elemento testuale, dato dal passivo teologico ἐβλήθη, permette di compren-
dere che la sconfitta di Satana è opera di Cristo e della sua risurrezione, come
sottolinea poco dopo l’inno di 12,10-12 che si presenta come un’interruzione

51  Cf. Primasius, Commentarium in Apocalypsin, dice “omnia Christianitatis tempora”.


52  A conferma di questo si può citare il parallelo di Ap 12 con la scena dei due testimoni al
cap. 11. Anche in questo contesto si ritrova il dato cronologico di parzialità, come pure un attacco
delle forze del male contro questa dimensione profetica della chiesa, rappresentata dai due per-
sonaggi, e la protezione divina nei loro riguardi; cf. P. Prigent, L’Apocalypse de Saint Jean (CNT
14), Genève 2000, 299.
53  I prodromi di una lotta in cielo tra forze trascendenti sono da ricercarsi nel racconto di Is

14,12-15, dove si parla di un essere divino precipitato nello Sheol. Il testo isaiano recupera un
antico mito mediorientale di una divinità stellare Helel figlio di Schachar che entra in lotta con
El Elyon, divinità principale. Helel però viene sconfitto e precipitato nello Sheol. Isaia storicizza
questo mito e lo applica al sovrano di Babilonia il quale, come Helel, vuole ergersi al di sopra dei
cieli, ma alla fine sarà precipitato negli inferi. Questo evento, più tardi, viene interpretato come
un riferimento alla cacciata del diavolo e dei suoi angeli dal cielo, agli inizi della creazione (cf.
Vita di Adamo ed Eva 9-17; 33,2). Anche nel libro di Daniele si trovano elementi di una lotta
trascendente che costituiscono il presupposto delle battaglie sulla terra. Lo scenario che il testo
danielico prospetta è quello per cui ogni nazione sulla terra ha un suo protettore trascendente (cf.
Dn 10,13.21 e 12,1): se Michele è il difensore d’Israele, esistono anche altri principi celesti pro-
tettori delle nazioni. In 1En 20,5 assistiamo a una variante di questo dato: Michele non è il patro-
no dell’intero popolo, bensì dei giusti d’Israele.
54  Nella tradizione letteraria qumranica l’idea della lotta celeste viene riproposta in prospet-

tiva escatologica; cf. W. Bousset, Die Religion des Judentums im neutestamentlichen Zeitalter,
Tübingen 19263, 327. Nella comunità del Mar Morto la battaglia tra i “figli della luce”, guidati
da Michele, e i figli delle tenebre, prospetta il ruolo di Satana (chiamato anche Mastema o Belial),
come quello dell’accusatore di Israele davanti a Dio; cf. 1QM XVI,11; XVII,6-7 (ed. F. García
Martínez, 217-218).
55  Cf. A. Yarbro Collins - J.J. Collins, King and Messiah as Son of God. Divine, Human and

Angelic Messianic Figures in Biblical and Related Literature, Grand Rapids MI - Cambridge
2008, 187-189.
364 Francesco Piazzolla

della scena celeste. Questo taglio narrativo avviene grazie a una voce udita dal
veggente: καὶ ἤκουσα φωνὴν μεγάλην ἐν τῷ οὐρανῷ λέγουσαν (v. 10a),
che inserisce nel racconto l’intervento della chiesa. Potrebbe trattarsi di creden-
ti già glorificati, dal momento che il sintagma φωνὴ μεγάλη torna in altri con-
testi dell’opera con riferimento ai fedeli, ormai nel mondo di Dio.56 Il canto che
essi esprimono mostra il risvolto terreno della sconfitta che il drago ha subito in
sede celeste. L’inno proclama due conseguenze della vittoria su Satana. La pri-
ma è teologica e consiste nel compimento del “regno” di Dio: ἄρτι ἐγένετο ἡ
σωτηρία καὶ ἡ δύναμις καὶ ἡ βασιλεία τοῦ θεοῦ ἡμῶν καὶ ἡ ἐξουσία τοῦ
χριστοῦ αὐτοῦ (v. 10b) che ha precipitato Satana, accusatore57 senza sosta58
dei “fratelli”: ὅτι ἐβλήθη ὁ κατήγωρ τῶν ἀδελφῶν ἡμῶν, ὁ κατηγορῶν
αὐτοὺς ἐνώπιον τοῦ θεοῦ ἡμῶν ἡμέρας καὶ νυκτός. (v. 10c). L’altro aspet-
to della sconfitta del diavolo è ecclesiale. Con il riferimento ai cristiani quali
“fratelli”59 il testo opera un aggancio esplicito dell’inno alla situazione dei fe-
deli, anch’essi vittoriosi sul male (ἐνίκησαν αὐτὸν). Il conseguimento del
trionfo dei credenti è attribuito a due cause. Si parla del sangue dell’Agnello
(διὰ τὸ αἷμα τοῦ ἀρνίου), linguaggio simbolico che richiama la passione di
Cristo e che svolge una funzione redentiva nei riguardi dei cristiani.60 L’opera
di Cristo però non si limita all’effetto della redenzione, ma costituisce un refe-

56  La φωνή μεγάλη di 12,10a parla, poco dopo, di “nostri fratelli”, riferendosi ai cristiani

sacrificati (v. 10b): questo lascia intendere che ci sia un legame tra chi proclama e le vicende
narrate nel canto. Inoltre, in altri contesti l’espressione φωνή μεγάλη si riferisce alla voce dei
redenti: in 5,11-12 descrive il canto degli esseri glorificati; in 6,10 designa il grido delle anime
dei decapitati; in 7,10; 14,2; 19,1 introduce l’inno dei salvati. L. Arcari, “Una donna avvolta nel
sole” (Apoc 12,1). Le raffigurazioni femminili nell’Apocalisse di Giovanni alla luce della lette-
ratura apocalittica giudaica (Bibliotheca Berica: In Domina nostra 13), Padova 2008, 21, ritiene
che dietro il testo ci sia un gruppo che discute di problematiche inerenti alla propria esistenza.
57  L’appellativo κατήγωρ dato a Satana costituisce un hapax dell’Ap in tutta la letteratura

greca: siamo davanti a un semitismo che traslittera il termine rwgyfq dei testi rabbinici; cf. Charles,
The Revelation of St. John, I, 327. Questa lezione anomala è presente solo in A. Altri manoscritti
hanno la forma greca più frequente κατήγορος (𝔓47 a C 046 051 ecc. ), attestata in forma di
sostantivo già in 2Mac 4,5 e Pro 18,17. È più facile pensare, però, che l’anomalo termine κατή-
γωρ, d’influenza aramaica, abbia suscitato nei copisti l’esigenza di conformare il sostantivo alle
regole della grammatica greca.
58  L’espressione ἡμέρας καὶ νυκτὸς designa la totalità del tempo, come appare in altri

contesti del libro. In 4,8 i quattro viventi “giorno e notte” cantano il trisagio; un’immagine
speculare rovesciata si ha per quanti adorano la bestia in 14,11, i quali non avranno riposo “giorno
e notte”. Questo computo temporale torna in positivo con la moltitudine dei salvati che, in 7,15,
adora Dio “giorno e notte”, mentre la triade satanica in 20,10 subisce la sorte escatologica del
tormento “giorno e notte” ovvero – come precisa ulteriormente il testo in parallelismo sinonimico
– “nei secoli dei secoli”.
59  Il termine ἀδελφός ricorre nell’Ap per designare i cristiani martirizzati (6,11; 12,10), ma

è anche l’appellativo con cui il veggente Giovanni si definisce (1,9) e con cui sono indicati i
profeti che svolgono lo stesso suo ministero (19,10; 22,9).
60  Il sangue “scioglie dai peccati” (λύω) in 1,5 e “riscatta” (ἀγοράζω) in 5,9.
La γυνή dell’Ap: funzione materna e sponsale della chiesa 365

rente esistenziale da imitare;61 per questa ragione il testo aggiunge una concau-
sa della vittoria dei credenti su Satana cioè la “parola della loro testimonianza”
o “logica del loro martirio” (διὰ τὸν λόγον τῆς μαρτυρίας αὐτῶν): l’espres-
sione indica la testimonianza data a Gesù dai cristiani, spesso in un clima di
persecuzione (1,9) e capace di arrivare fino alla morte (6,9; 20,4).62
I cristiani, dunque, partecipano al regno di Dio che si costruisce sulla terra,
beneficiando della passione di Cristo e, con la loro μαρτυρία, contribuiscono
alla sconfitta del male. Come l’Agnello sono pronti ad arrivare fino alla morte
(οὐκ ἠγάπησαν τὴν ψυχὴν αὐτῶν ἄχρι θανάτου), superando il naturale
amore per la vita.63
L’inno si chiude con un’esortazione alla gioia che riguarda il cielo e i suoi
abitanti (v. 12a),64 in contrapposizione al “guai” che investe la terra e il mare per
la presenza di Satana (v. 12b). Emerge in questo invito all’esultanza un ulterio-
re messaggio di speranza per la chiesa nel tempo: i cristiani, pur essendo anco-
ra sulla terra, sono in qualche modo già concepiti come cittadini celesti, mentre
la terra e il mare sono il palcoscenico del potere di Satana che si scatena contro
i fedeli con la sua ira, anche se per un tempo circoscritto.65
Questo inno prolettico anticipa nel canto eventi escatologici: infatti il compi-
mento del regno di Dio e di Cristo e la vittoria dei credenti, sebbene appartenga-
no alla fase finale della storia,66 sono in qualche modo già realizzati perché, nel
sacrificio di alcuni membri della comunità, si sperimenta il trionfo definitivo.

61  In 7,14 i “venuti dalla grande tribolazione” hanno lavato le loro vesti, rendendole bianche

nel sangue dell’Agnello, ovvero i credenti hanno partecipato alla situazione esistenziale di Cristo.
62  Il sintagma λόγον τῆς μαρτυρίας appare una sola volta e sembra essere in 12,11 un’altra

versione di “μαρτυρία Ἰησοῦ”. Alcuni autori la considerano un’interpolazione redazionale; cf.


W. Bousset, Die Offenbarung Johannis (KEK 16), Göttingen 1906, 343; Charles, The Revelation
of St. John, I, 328.
63  Cf. anche i testi di Mt 10,39; 16,25; Mc 8,35; Lc 9,24; 17,33; Gv 12,25 che parlano della

vita perduta e ritrovata.


64  L’Ap distingue i cieli e i suoi abitanti, dalla terra e dal mare, usando teologicamente il

verbo σκηνόω e il sostantivo σκηνή che nel libro si riferiscono alla dimora di Dio (cf. 7,15; 13,6;
15,5; 21,3).
65  In Ap 20,3 torna il lasso cronologico del potere di Satana con l’espressione μικρὸν χρόνον.
66  Il “regno” divino costituisce un theologoumenon tipico dell’Ap, dove mantiene una tensio-

ne costante tra passato e futuro. Nel decorso narrativo del testo l’autore proclama di fatto l’opera-
tività attuale del regno di Dio: in 11,15 si dice che “divenne il regno” (ἐγένετο) e in 12,10 che “già
si compì” (ἄρτι ἐγένετο). Ugualmente in 19,6 il regnare divino appare come un dato di fatto
(ἐβασίλευσεν); mentre in 15,3 Dio stesso è chiamato βασιλεύς. Se da una parte l’aoristo indica
un tempo preterito, esso ha anche una sfumatura ingressiva, denotando cioè l’inizio di un evento.
Potremmo considerare che questo significato assuma il regnare divino nell’Ap, quando è descrit-
to col tempo aoristo: esso ha già un suo incipit storico, ma aspetta il futuro escatologico del com-
pimento (cf. Blass - Debrunner, Grammatica, § 331). La stessa tensione tra passato e futuro si
ritrova quando l’Ap parla di Cristo come re: in 1,9 si accenna alla βασιλεία di Gesù, mentre, at-
traverso titoli particolari, si proclama la sua regalità (in 1,4 Cristo è detto ὁ ἄρχων τῶν βασιλέων
τῆς γῆς; in 17,14 κύριος κυρίων ἐστὶν καὶ βασιλεὺς βασιλέων e in 19,16 Βασιλεὺς βασιλέων
366 Francesco Piazzolla

In questo canto di Ap 12,10-12 l’autore è passato dall’immagine corporativa


della chiesa-γυνή del contesto precedente a quella distributiva della comunità,
nel termine “fratelli” (ἀδελφοί al v. 10, richiamato da αὐτοὶ al v. 11). Il libro
mantiene questa alternanza ambivalente nella parte successiva, preparando i
suoi lettori alle pericopi seguenti, quando scompare il simbolo della chiesa-
γυνή e lascia il posto ad altre immagini ecclesiali.

1.4 Il drago perseguita la donna (12,13-14)

Dopo la celebrazione innica l’attenzione del testo torna sulla lotta del drago
contro la chiesa: siamo davanti al secondo tentativo di attacco. Qui l’immagine
ecclesiale viene un’altra volta espressa dalla figura della γυνή, di nuovo presen-
tata nel ruolo di madre, τὴν γυναῖκα ἥτις ἔτεκεν τὸν ἄρσενα (v. 13), a ricor-
dare la funzione storica della comunità, chiamata a generare Cristo. Se poco
prima si è anticipata la vittoria con il canto, ora l’autore recupera la situazione
reale e, in questa seconda reazione del drago, parla di una “persecuzione” contro
la chiesa. Il verbo διώκω, che generalmente indica nel NT azioni sistematiche
contro i cristiani,67 è un hapax dell’Ap. Probabilmente il racconto parte da even-
ti concreti, ma li stilizza facendoli assurgere a un’indicazione generale che ma-
nifesta l’origine diabolica di ogni attacco contro i credenti: nell’Ap, infatti, il
drago non appare mai direttamente coinvolto in aggressioni contro la chiesa, ma
si serve di strumenti contingenti, asserviti al suo potere.68
Anche in questo caso Dio interviene in favore della donna, portandola nel
deserto; il recupero di questo tema, rispetto a 12,6, accentua il contesto esodale
del racconto: le due ali della grande aquila sono, infatti, lo sviluppo di un’im-
magine che si ritrova nell’AT per parlare dell’azione di Dio nei riguardi del suo

καὶ κύριος κυρίων). Tuttavia, soprattutto per quanto riguarda i testi di 17,14 e 19,16, l’efficacia
di questi appellativi si manifesta in contesti escatologici. Dunque c’è già una vittoria del Risorto
sulla morte, che è attuale condivisione del trono divino (3,21), ma la pienezza si compie solo
nella definitiva sconfitta del male, alla fine della storia. La medesima dialettica tra già e non an-
cora appartiene al regno dei cristiani. In 1,6 e 5,10 i credenti sono chiamati βασιλεία, mentre
circa l’azione del “regnare” il libro si altalena tra l’aoristo (20,4), il futuro (20,6) e l’incertezza
testuale del presente o del futuro che il verbo βασιλεύω ha in 5,10. Ugualmente l’Ap parla di un
“vincere” dei credenti come una realtà già compiuta: è il caso del nostro inno, dove si usa il verbo
νικάω all’aoristo (ἐνίκησαν). Così anche nella scena di 15,2 “i vincenti” sulla bestia appaiono
già in una condizione salvifica. Accanto a questa realtà compiuta l’Ap pone il non ancora della
vittoria, come emerge dalla designazione del credente, chiamato “vincitore” (il participio νικῶν),
ma che è tale solo alla fine del suo percorso ecclesiale (cf. 2,7.11.17.26 ; 3,5.12.21; 21,7).
67  Cf. l’uso del termine in Mt 5,10; 23,34; At 22,4; 26,11; 1Cor 15,9 ecc.
68  È il caso dell’impero romano rappresentato dalla prima bestia al cap. 13 e dalla donna

Babilonia al cap. 17; cf. Prigent, L’Apocalypse, 304.


La γυνή dell’Ap: funzione materna e sponsale della chiesa 367

popolo durante la traversata del deserto.69 Anche il nutrimento che la donna ri-
ceve è un ulteriore riferimento all’esodo e al dono della manna: il passivo teo-
logico τρέφεται, nel tempo presente, potrebbe essere un accenno all’eucaristia
che alimenta la chiesa fino alla parusia.70

1.5 Il drago investe la donna con nuove prove (12,15-16)

Il terzo tentativo di attacco di Satana contro la donna-chiesa è descritto con


il linguaggio simbolico dello ὕδωρ ὡς ποταμόν che il drago fa scaturire
dalla sua bocca.71 Diverse volte nei Salmi i momenti di prova sono paragona-
ti alle acque dei fiumi e, spesso, si tratta di immagini per parlare di sofferenze
inferte ai fedeli da parte di altri uomini.72 Anche in questo caso, piuttosto che
vedere allusioni a persecuzioni concrete, bisogna guardare alle prove che nel-
la storia interessano la vita della γυνή-chiesa e che Satana puntualmente su-
scita. Come è già avvenuto nei primi due quadri, anche qui la situazione della
donna non rimane senza difesa, perché la natura stessa interviene ad aiutarla:
καὶ ἐβοήθησεν ἡ γῆ τῇ γυναικὶ καὶ ἤνοιξεν ἡ γῆ τὸ στόμα αὐτῆς καὶ
κατέπιεν τὸν ποταμὸν ὃν ἔβαλεν ὁ δράκων ἐκ τοῦ στόματος αὐτοῦ (v.
16). L’immagine sembra far riferimento all’episodio dei figli di Core, inghiot-
titi dalla terra (Num 16,30-32) o al cantico pasquale di Es 15,12: “stendesti la
destra: li inghiottì la terra”.73 Il senso è quello di affermare che il fiume di
prove, scatenato da Satana contro la chiesa, non la travolge per un intervento
prodigioso di Dio sulla natura.

69  In Es 19,4 o Dt 32,11 Dio dice a Israele di averlo liberato dalle mani dell’Egitto, traspor-

tandolo su “ali di aquila”.


70  Cf. Feuillet, “Le Messie et sa Mère”, 75. Nel Corpus Johanneum la manna assume una

valenza eucaristica come si evince da Gv 6 e dalla promessa al vincitore di Pergamo che riceve
in dono la “manna nascosta” (2,17).
71  Questa immagine rimanda agli antichi miti cosmici dei mostri acquatici che nella Bibbia

simboleggiano i nemici d’Israele. D.E. Aune, Revelation 6–16 (WBC 52B), Dallas TX 1998, 706,
nota che nell’AT i nemici di JHWH sono le acque fluviali piuttosto che il mare (cf. Sal 29,3; 66,6;
Is 50,26 ecc.). Anche a Qumran i nemici di Dio, istigati da Satana, sono chiamati “fiumi di Belial”;
cf. 1QH2 XI,29.32 (ed. F. García Martínez, 532).
72  Cf. Sal 32,6; 124,4; Is 43,2.
73  H.B. Swete, The Apocalypse of St. John. The Greek Text with Introduction, Notes and

Indices, Cambridge 1907, 59, pensa che l’aprirsi della voragine nella terra potrebbe essere un’al-
lusione a un fenomeno naturale che si verifica nei territori dell’Asia Minore. L’autore cita Erodoto,
Strabone e Plinio che parlano di fiumi che scompaiono nelle viscere della terra: il Lico, per
esempio, scorre nel sottosuolo di Colossi e ancor oggi il Chrysorrhoas, che scaturisce dalle sor-
genti calde di Hierapolis, finisce nella pianura tra Hierapolis e Laodicea.
368 Francesco Piazzolla

1.6 La guerra di Satana contro i discendenti della donna (12,17)

Al v. 17 il testo ci presenta una nuova battaglia del drago contro i membri


della comunità. Se nei quadri precedenti l’autore ha usato il simbolo collettivo
della donna-chiesa ora, nel v. 17, si ribadisce la stessa azione contro i cristiani,
considerati singolarmente e qui definiti con due sintagmi:
1. “discendenti della donna” (οἱ λοιποὶ σπέρματος αὐτῆς): è l’unica vol-
ta che l’Ap utilizza il termine σπέρμα con una chiara allusione a Gen
3,15. A questo punto il testo esplicita che il figlio della donna, presenta-
to ai vv. 4-5, non è solo Cristo (vv. 4-5), ma anche la comunità dei cre-
denti;
2. “coloro che posseggono i comandamenti di Dio e la testimonianza di
Gesù Cristo” (τηροῦντες τὰς ἐντολὰς τοῦ θεοῦ καὶ ἐχόντων τὴν
μαρτυρίαν Ἰησοῦ). Questo ulteriore sintagma specifica l’identità del
gruppo a cui si fa riferimento. Con un linguaggio di stampo giudaico i
fedeli sono designati come “coloro che osservano i comandamenti”.74
Anche il TP a Gen 3,1575 parla della lotta tra Satana e gli uomini, ma
l’attenzione si focalizza non sulla vittoria dell’intera umanità, bensì sul
trionfo di quanti “osservano i comandamenti della Legge”. Esiste, dun-
que, un collegamento diretto tra la tradizione rabbinica e l’Ap, ma con
una specificazione cristiana. Infatti il sintagma τηρέω + ἐντολή appare
due volte nell’Ap ed è sempre affiancato da una spiegazione di natura
ermeneutica. Nel contesto di Ap 12,17 l’autore esplicita il senso dell’os-
servanza dei comandamenti, parlando della μαρτυρία Ἰησοῦ, mentre
in 14,12 usa il costrutto πίστις Ἰησοῦ. Pur conservando una conformità
al linguaggio giudaico, con queste aggiunte esplicative, l’autore mostra
che i veri esecutori della Legge sono coloro che hanno accolto la testi-
monianza di Gesù e credono in lui.
La pericope del cap. 12 si chiude “in tensione”, non presentando un’effettiva
conclusione agli eventi della lotta tra la donna-comunità e il drago ed estenden-
dola a tutto il decorso della storia.76

74  Il costrutto τηρέω + ἐντολή si ritrova, a proposito della Legge, in diversi passi del NT; cf.

Mt 19,17; Gv 14,15.21; 15,10; 1Gv 2,3.4; 3,22.24; 5,3.


75  Cf. M. McNamara, The New Testament and the Palestinian Targum to the Pentateuch

(AnBib 27), Rome 1966, 221-222.


76  Il v. 18 è un versetto di transizione, poiché colloca il drago sulla spiaggia del mare, pronto

a una nuova battaglia. Il cap. 13, infatti, si aggancia a questo dato, descrivendo due bestie che
sono l’incarnazione del demoniaco e costituiscono la sua concretizzazione storica nell’attacco ai
credenti: in questo modo il v. 18 prepara il nuovo scenario che sta per essere narrato. Esiste una
variante testuale che, al posto della terza persona singolare dell’aoristo “stette” (ἐστάθη), riferi-
to al drago, presenta la prima persona “stetti” (ἐστάθην), riferito al veggente. La prima persona
è attestata da minuscoli e manoscritti latini, siriaci e copti, mentre la terza singolare è nel 𝔓47 a
La γυνή dell’Ap: funzione materna e sponsale della chiesa 369

Il quadro completo che emerge dal complesso linguaggio del testo è quello
di una chiesa che è chiamata a generare Cristo nel tempo, osservando i coman-
damenti di Dio cioè accogliendo la rivelazione di Cristo. Nel suo percorso ter-
reno la comunità non manca di aggressioni sataniche, ma Dio la preserva dagli
attacchi distruttivi; le sorti celesti, rappresentate dalla vittoria di Michele sul
drago e dal trionfo dei martiri, sono la garanzia dell’esito definitivo stabilito in
cielo e che la chiesa già pregusta nei suoi membri vittoriosi su Satana.

2. Una chiesa in pericolo di promiscuità: la donna-Gezabele

Come si è accennato all’inizio il simbolismo antropologico della donna


nell’Ap si riferisce anche a Babilonia, la città-impero chiusa ai valori cristologi-
ci. Per sei volte, infatti, essa è definita γυνή, numero che esprime la difettosità
della femminilità di Babilonia, incapace di generare o di avere una relazione che
non sia πορνεία. Alcuni tratti descrittivi della γυνή rappresentativa del male,
tuttavia, ricorrono anche in un contesto ecclesiale problematico che è quello
della chiesa di Tiatira. Qui è operativa la profetessa Gezabele,77 personaggio che
costituisce una sorta di trait d’union tra la donna-chiesa e donna-Babilonia,78
perché essa, pur essendo un’esponente di un gruppo ecclesiale, mantiene alcuni
aspetti in comune con il simbolo negativo della γυνή. Gezabele, inoltre, non
appare come una figura isolata nella comunità, dal momento che il testo parla di

A C ecc. È preferibile, sia per ragioni di critica esterna che interna, conservare la terza persona
singolare.
77  L’autore indica con l’appellativo Ἰεζάβελ un personaggio storico di Tiatira di cui ignoria-

mo il nome reale, ma che svolge un ministero profetico nella comunità (è chiamata προφῆτις in
2,20). La frase di 2,20 – ἀλλὰ ἔχω κατὰ σοῦ ὅτι ἀφεῖς τὴν γυναῖκα Ἰεζάβελ, ἡ λέγουσα
ἑαυτὴν προφῆτιν – grammaticalmente crea problemi dal momento che ci aspetteremmo qui un
accusativo che concordi con τὴν γυναῖκα; alcuni manoscritti infatti correggono con l’accusativo
(a1 1854 2050) o con la relativa ἣ λέγει (cf. 1006 1611 1841 2351). Forse tale incongruenza
nasce da un’allusione al testo dell’AT (cf. 2Re 20,5.7), dove il nome Ιεζαβελ compare sempre
con γυνή al nominativo; cf. Beale, The Book of Revelation, 263. Secondo la tecnica dell’ironia,
l’Ap appella la leader del movimento eretico di Tiatira con un nome del passato, la regina
Gezabele, moglie di Acab re d’Israele (869-850), figlia di Etbaal re di Tiro e che la Bibbia pre-
senta come la causa dell’introduzione di culti pagani nel Nord del paese (cf. 1Re 16,31). Contro
lo stile sincretistico della sovrana si scaglia il profeta Elia nella sua predicazione, fino al confron-
to sanguinario sul Monte Carmelo tra l’unico profeta di JHWH e i profeti pagani (1Re 18). In 2Re
9,22 la regina Gezabele è accusata di essere artefice di “prostituzioni e di magie”; nei testi prece-
denti non c’è menzione di questo dato che probabilmente va inteso come una metafora atta a in-
dicare l’abbandono del culto in onore di JHWH. Il TPs J a 2Re 9,22 (ed. M. McNamara, 282)
parafrasa l’espressione “prostituzioni e magie” con “idoli e magie”.
78  H. Stenström, “Female Imagery in the Book of Revelation”, in G.G. Xeravits (ed.), Religion

and Female Body in Ancient Judaism and Its Environments (DCLS 28), Berlin - Boston 2015,
213-224: 221.
370 Francesco Piazzolla

seguaci del suo insegnamento,79 ed esprime così il volto di un gruppo ecclesiale


soggetto a promiscuità. L’Ap non ricusa di descrivere questa parte della chiesa
con gli stessi termini con cui definisce la società imperiale, manifestando, attra-
verso questi indizi linguistici, che anche la comunità cristiana corre il pericolo di
assumere gli stessi connotati di Babilonia. L’esame di queste espressioni aiuta a
comprendere in che cosa consista la promiscuità della chiesa.
Parlando della profetessa Gezabele il testo in 2,20 così la descrive: καὶ δι-
δάσκει καὶ πλανᾷ τοὺς ἐμοὺς δούλους πορνεῦσαι καὶ φαγεῖν εἰδωλόθυ-
τα. Il versetto presenta due verbi principali (διδάσκει / πλανᾷ) e una subordi-
nata oggettiva con altri due verbi all’infinito (πορνεῦσαι/φαγεῖν); ambedue le
coppie verbali, poi, sono legate da un καὶ esplicativo. La disposizione dei ter-
mini può essere intesa secondo un parallelismo sintetico, per cui si avrebbe: un
insegnamento (διδάσκει) che è traviamento (πλανᾷ) e che consiste in una pro-
stituzione (πορνεῦσαι), meglio specificata nell’atto del mangiare gli idolotiti
(φαγεῖν εἰδωλόθυτα). Si potrebbe, dunque, intendere che l’errata dottrina del
gruppo ecclesiale che fa capo a Gezabele, offra un insegnamento ingannevole,
paragonabile a un’infedeltà cultica che la Bibbia spesso chiama prostituzione e
che, nel concreto, corrisponde al mangiare “idolotiti”.
L’inganno (πλανάω) dottrinale80 che Gezabele esercita riguarda i “servi di
Cristo”, linguaggio che nel libro è connesso con i “profeti”.81 Questo primo
dato associa l’atteggiamento della chiesa-Gezabele a Babilonia. Il verbo
πλανάω infatti rimanda nell’Ap a un traviamento che consiste nell’idolatria e
nella magia, operate da Babilonia,82 e la cui radice è il demoniaco.83 Si può ri-
tenere che il pervertimento che donna-Babilonia esercita a livello internaziona-
le, si verifichi anche nella comunità di Tiatira, quando la dottrina alternativa di
Gezabele assume le caratteristiche del male.

79  Il testo parla di “amanti” (τοὺς μοιχεύοντας al v. 22) e di “figli” (τέκνα al v. 23), volen-

do forse intendere con il participio “amanti” quanti si lasciano sedurre dalla dottrina della profe-
tessa, mentre con il sostantivo “figli” gli adepti del gruppo eterodosso; cf. Prigent, L’Apocalypse,
141. Si potrebbe però comprendere le due designazioni come un duplice modo di riferirsi allo
stesso gruppo.
80  Il verbo πλανάω nell’AT rimanda a un errato esercizio della profezia. Infatti, in alcuni

testi esiste un nesso tra il ministero profetico e la funzione di sviare (cf. Dt 13,6; Mic 3,5; Is 30,10;
Ger 23,32).
81  Per due volte l’Ap specifica, in funzione appositiva, il termine δοῦλος con il sostantivo

προφήτης (cf. 10,7; 11,18); inoltre in 1,1 e 22,6 si parla dei servi (δοῦλοι) in connessione con
la rivelazione (1,1) e con il sintagma ὁ θεὸς τῶν πνευμάτων τῶν προφητῶν (22,6).
82  Lo sviamento assume manifestazioni storiche nel potere costituito e che l’Ap rimanda ai

due simboli dell’impero: la bestia che “inganna tutti gli abitanti della terra” (13,14) e Babilonia
che, con le sue stregonerie, ha fuorviato tutti i popoli (18,23) e li “ha corrotti” (ἔφθειρεν τὴν γῆν
in 19,2).
83  Per il nesso con l’idolatria e la magia, cf. 13,14; 18,23; 19,20. Per il diavolo come origine

dell’inganno, cf. 12,9; 20,3.8.10.


La γυνή dell’Ap: funzione materna e sponsale della chiesa 371

Il secondo tratto che avvicina la chiesa a Babilonia consiste nella “prostitu-


zione” di cui si macchia Gezabele (2,20.22). Si discute se il termine nell’Ap
possa avere un significato reale84 o se, sulla base dell’AT, indichi un’aberrazio-
ne idolatrica; nel nostro contesto l’autore lo usa in senso traslato, dal momento
che pone la radice πορν- (il verbo πορνεύω al v. 20 e il sostantivo πορνεία al
v. 22) in parallelo con il “mangiare idolotiti” (2,13), pratica consistente nell’as-
sumere carni dei culti pagani.85 Questa azione che l’Ap condanna, a differenza
della più sfumata linea paolina,86 sembra interessare tre comunità ecclesiali. Nel
contesto della chiesa di Efeso si parla, infatti, dei “Nicolaiti” (2,6),87 una fazio-
ne che, secondo gli scrittori antichi,88 invitava a promiscuità tra paganesimo e
cristianesimo. Questo gruppo di dissidenti dottrinali si ritrova anche nel mes-
saggio alla comunità di Pergamo, dove l’autore specifica il contenuto del loro
insegnamento. In questo contesto Giovanni introduce un nuovo personaggio,
Baalam,89 di cui condanna la dottrina che consiste nel βαλεῖν σκάνδαλον ἐνώ-

84  In Ap 9,21; 21,8 e 22,18 il circuito semantico πορν- sembra legato a una valenza letterale.
85  Il termine εἰδωλόθυτος sembra essere il peggiorativo di un concetto neutrale che nella
religione pagana si esprimeva con i termini ἱερόθυτος o θεόθυτος. Forse si tratta di un neolo-
gismo coniato dal giudaismo nel periodo ellenistico in opposizione ai culti pagani; cf. H.
Conzelmann, 1 Corinthians. A Commentary on the First Epistle to the Corinthians (Hermeneia),
Philadelphia PA 1975, 139. Nel mondo mediterraneo antico era usanza molto comune nutrirsi dei
sacrifici offerti alle divinità. Quando il numero delle vittime era superiore alla possibilità che gli
astanti avevano di mangiare, allora la carne era mandata al macellum e venduta pubblicamente a
basso costo, oppure gratuitamente distribuita in occasione di feste.
86  Nel giudaismo come nel cristianesimo esistono varie proibizioni riguardo alla possibilità

di mangiare di queste carni. R. Penna, “Il caso degli ‘idolotiti’: un test sulla sorte del cristianesi-
mo da Paolo all’Apocalisse”, in E. Bosetti - A. Colacrai (ed.), Apocalypsis: percorsi nell’Apoca-
lisse in onore di Ugo Vanni, Assisi 2005, 225-244, nota che nella chiesa apostolica il problema
viene affrontato diversamente. In At 15,29 il Concilio di Gerusalemme proibisce gli “idolotiti”
che, poco prima, ha definito ἀλισγημάτων τῶν εἰδώλων (15,20), formulazione che accenna
all’impurità e alla contaminazione rituale delle carni immolate agli idoli. Paolo, pur salvaguar-
dando l’atteggiamento di netto distacco dall’idolatria (cf. 1Cor 10,14.20), afferma la nullità reli-
giosa di quelle carni e invita a salvare il principio della carità: se i neofiti rimangono scandaliz-
zati da tale atteggiamento, allora bisogna evitare di cibarsi di queste carni.
87  Ireneo (Adv. Haer. I,26,3) e Ippolito (Ref. VII,36,7) attribuiscono la sua costituzione a

Nicola, uno dei sette diaconi di cui si parla in At 6,5. Essendo egli un pagano convertito al giu-
daismo e poi al cristianesimo, dovette mantenere una certa indipendenza dalle pratiche ebraiche,
conservando un atteggiamento critico nei confronti di esse. J. Lightfoot, Horae hebraicae IV,
204-205, citato da Aune, Revelation 1–5, 149, pensa che la parola “Nicolaiti” non designi un
gruppo che prende il nome da un fondatore, ma è un termine che viene dall’aramaico hlwkyn
(verbo lka = mangiare) e che si traduce con “lasciaci mangiare/permettici di mangiare”: in tal
caso piuttosto che di un nome simbolico si dovrebbe parlare di un appellativo che si riferisce a
una prassi comportamentale.
88  Cf. Aune, Revelation 1–5, 149.
89  La tradizione haggadica rilegge alcuni testi del libro dei Numeri con un riferimento a

Baalam che spinge gli israeliti all’idolatria. Pseudo-Filone, LAB 18,13; Filone, Mos. I,294-299;
Giuseppe Flavio, Ant. IV,126-130, parlano del mago Baalam che induce Balak a far mangiare
carni sacrificate agli idoli. Questi testi combinano Num 25,3 con Num 31,16, mostrando che fu
372 Francesco Piazzolla

πιον τῶν υἱῶν Ἰσραὴλ φαγεῖν εἰδωλόθυτα καὶ πορνεῦσαι (2,14); poco più
tardi (2,15) si specifica che in realtà si tratta sempre dei Nicolaiti. Il parallelo
tra il φαγεῖν εἰδωλόθυτα, i seguaci di Baalam e i Nicolaiti nel contesto di
Pergamo permette, dunque, di comprendere l’identità del gruppo. A Tiatira,
inoltre, la pratica degli idolotiti, come a Pergamo, viene paragonata a una pro-
stituzione, ma in più l’autore definisce tale atteggiamento come τὰ βαθέα τοῦ
Σατανᾶ (2,24), espressione in uso presso gli gnostici che però parlano di “pro-
fondità di Dio”.90
Da questi pochi dati si potrebbe pensare che il pericolo ecclesiale nelle co-
munità succitate sia quello di un’accondiscendenza a usanze pagane che suscita
una posizione intransigente nei confronti di questi gruppi ecclesiali. L’Ap, dun-
que, mette in guardia le chiese dal pericolo di accondiscendere ad uno stile di
vita paganeggiante.91 Questo modus vivendi, che deve aver caratterizzato alcuni
membri delle comunità d’Asia Minore, avvicina ulteriormente la chiesa ai trat-
ti della γυνή-Babilonia. L’Ap, infatti, in numerosi contesti accusa Babilonia di
prostituzione intendendola, nel caso della città imperiale, sia come tendenza
idolatrica92 sia come vita estremamente lussuosa.93 Se questo atteggiamento
libertino Babilonia lo esercita coinvolgendo tutti i popoli e i loro potenti,94 nel
caso della chiesa, invece, si tratta di un contesto circoscritto che tocca comunque
una categoria determinante nella comunità: “i servi-profeti” (2,20).

Baalam a suggerire a Balak re di Moab di indurre gli israeliti al peccato di fornicazione, unendo-
si a donne pagane (per uno studio approfondito sulle tradizioni haggadiche relative a Baalam, cf.
G. Vermes, “The story of Balaam – The Scriptural origin of Haggadah”, in Id., Scripture and
Tradition in Judaism: Haggadic Studies [Studia post-biblica 4], Leiden 1961, 127-177). L’errore
di Baalam compare anche in Gd 11 e 2Pt 2,15; nel contesto di questi passi il mago è connesso con
il peccato di idolatria (Gd) o con il comportamento dei falsi profeti (2Pt) e sulla stessa linea si
muove il testo dell’Ap che collega Baalam con la dottrina dei Nicolaiti (cf. Ap 2,15).
90  Cf. C.K. Barrett, “Gnosis and the Apocalypse of John”, in A.H.B. Logan - A.J.M.

Widderburn (ed.), The New Testament and Gnosis. Essays in Honour of Robert McL. Wilson,
Edinburgh 1983, 125-137: 128; Ireneo, Adv. Haer. II,28,9.
91  Cf. E.B. Allo, Saint Jean. L’Apocalypse (ÉB), Paris 1921, 125; Prigent, L’Apocalypse, 133;

E. Schüssler Fiorenza, “Apocalyptic and Gnosis in the Book of Revelation and Paul”, JBL 92/4
(1973) 565-581: 570.
92  A proposito di Babilonia l’Ap usa l’immagine del bere dal “vino dell’ira della prostituzio-

ne” (14,8; 18,3) o “dal vino della prostituzione” (17,2): si tratta di un linguaggio tradizionale nei
profeti per descrivere Ninive (Na 3,4), Tiro (Is 23,15) o la stessa Sion (Is 1,21). L’idea è quella di
una morale lasciva e idolatra.
93  Nella descrizione della città-Babilonia in 17,4 si accentua l’aspetto del lusso, definito nel

testo τὰ ἀκάθαρτα τῆς πορνείας αὐτῆς. I dettagli della descrizione richiamano quelli di Tiro
in Ez 28,12. In Ap 17,4 Babilonia inebria con la coppa dei suoi abomini (ποτήριον χρυσοῦν ἐν
τῇ χειρὶ αὐτῆς γέμον βδελυγμάτων) cioè con le idolatrie.
94  Nel caso dell’impero si parla di un’influenza planetaria (πεπότικεν πάντα τὰ ἔθνη in 14,8

e 18,3a; οἱ κατοικοῦντες τὴν γῆν in 17,2; ἔφθειρεν τὴν γῆν in 19,2) che coinvolge i centri di
potere (οἱ βασιλεῖς τῆς γῆς μετ᾽ αὐτῆς ἐπόρνευσαν in 17,4) che piangono sulla sua distruzione,
dopo essersi con lei contaminati (18,9).
La γυνή dell’Ap: funzione materna e sponsale della chiesa 373

Possiamo riassumere dicendo che, attraverso il linguaggio parallelo con


donna-Babilonia, Giovanni manifesta il pericolo costante del gruppo ecclesia-
le che da γυνή ideale può assumere i tratti dell’anti-tipo antropologico, rap-
presentato dalla città imperiale; questo accade quando la chiesa accondiscen-
de a una dottrina fuorviante e scade in un’infedeltà che assume i segni della
prostituzione.

3. La γυνή sposa dell’Agnello

Il simbolismo della chiesa come γυνή torna nuovamente alla fine del libro,
dove il termine designa una nuova funzione della donna quale “moglie” dell’A-
gnello (19,7; 21,9), colei che giuridicamente è congiunta a Cristo attraverso il
contratto nuziale.95 Questo ulteriore status non compare ex abrupto nell’opera,
ma è anticipato da una serie di indizi linguistici e tematici che costituiscono la
fase preparatoria dell’immagine matrimoniale.96
Nel linguaggio dell’amore che il Risorto manifesta nella prima parte del li-
bro, come legame con la sua comunità, si percepisce già la dimensione sponsa-
le. In Ap 1,5, all’interno del dialogo liturgico tra il lettore e la chiesa, la reazio-
ne dell’assemblea è costituita da una dossologia in cui la comunità riconosce
Cristo come ἀγαπῶντι ἡμᾶς. Ugualmente accade nel messaggio alla chiesa di
Filadelfia dove siamo in un contesto critico per la comunità, a causa di problemi
con i fedeli della sinagoga (3,9a). In questa situazione l’Esaltato annuncia alla
chiesa che dopo le tribolazioni arriva un capovolgimento di sorti in cui gli stes-
si Giudei si prostrano davanti alla comunità. La ragione di questo ribaltamento
è data dal fatto che Cristo ama la sua chiesa: ὅτι ἐγὼ ἠγάπησά (3,9b); il Risor-
to, dunque, appare soggetto attivo dell’amore nei confronti del gruppo ecclesia-
le.97 Infine l’attenzione amorosa di Cristo salvaguarda la comunità nell’ora del-
la prova escatologica, quando gli attacchi delle forze avverse contro la chiesa
(20,7-15), definita “accampamento dei santi” e “città amata”, non prevarranno.
Il participio ἠγαπημένη (20,9), riferito alla comunità in questo contesto, mani-
festa ancora una volta la cura di Dio nei riguardi del gruppo ecclesiale che non

95  La designazione della “sposa” col termine γυνή è tipico del greco in ambiente palestinese,

sia che si tratti della donna nel momento in cui viene stipulato il contratto matrimoniale, sia che
si designi la donna nel momento successivo alla coabitazione; cf. H.L. Strack - P. Billerbeck,
Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch. II: Das Evangelium nach Markus,
Lukas und Johannes und die Apostelgeschichte, München 1924, 393).
96  F. Piazzolla, Le Sette Beatitudini dell’Apocalisse. Studio esegetico e teologico-biblico,

Assisi 2010, 191-196.


97  Anche in Ap 3,19 Cristo parla di una sua azione pedagogica e correttiva della comunità,

motivata dall’amore (in questo caso, però, il testo usa il verbo φιλέω e non ἀγαπάω).
374 Francesco Piazzolla

viene lasciato in preda ai nemici, dal momento che questi vengono definitiva-
mente sconfitti (cf. 20,9b-15).
Un secondo aspetto anticipatore del linguaggio matrimoniale si può indivi-
duare nel settenario epistolare (Ap 2–3), dove il Risorto si rivolge ai credenti,
mostrando una profonda consapevolezza della loro situazione ecclesiale. Rivol-
gendosi alla chiesa Cristo rivela di conoscerla (οἶδα)98 a fondo. Dal momento
che nei LXX il verbo οἶδα traduce l’ebraico ody, e in alcuni contesti questo
termine indica il rapporto sessuale,99 possiamo pensare ad una valenza sponsa-
le che emerge da questa indicazione.
Dati questi indizi preparatori il lettore del libro giunge finalmente alla con-
clusione, dove ormai il linguaggio matrimoniale diventa esplicito. Le ultime due
volte in cui compare il termine γυνή l’autore lo pone in un costrutto che quali-
fica la chiesa in una relazione di appartenenza a Cristo: γυνὴ αὐτοῦ (19,7) e
γυνή τοῦ ἀρνίου (21,9). Sarà utile considerare brevemente i contesti in cui
questi sintagmi si ritrovano.
La prima ricorrenza dell’espressione γυνὴ αὐτοῦ (19,7) si riscontra nell’inno
di Ap 19,1b-8.100 Sulla scia del canto funebre di 18,21b-24 questo testo descrive
la reazione celeste alla sconfitta della grande prostituta. Il contenuto di questo
materiale liturgico101 è la risposta del creato davanti alla portata dell’evento,
originato dall’intervento divino. Gli elementi costitutivi dell’inno sono quattro:
1. due proclamazioni di vittoria di Dio, in cui è protagonista la “voce”102 e
il testo è aperto dall’alleluia:
a. Μετὰ ταῦτα ἤκουσα ὡς φωνὴν μεγάλην ὄχλου πολλοῦ ἐν τῷ οὐρανῷ
λεγόντων· ἁλληλουϊά· ἡ σωτηρία καὶ ἡ δόξα καὶ ἡ δύναμις τοῦ θεοῦ ἡμῶν,
ὅτι ἀληθιναὶ καὶ δίκαιαι αἱ κρίσεις αὐτοῦ· ὅτι ἔκρινεν τὴν πόρνην τὴν
μεγάλην ἥτις ἔφθειρεν τὴν γῆν ἐν τῇ πορνείᾳ αὐτῆς, καὶ ἐξεδίκησεν τὸ
αἷμα τῶν δούλων αὐτοῦ ἐκ χειρὸς αὐτῆς (vv. 1-2);
b. καὶ δεύτερον εἴρηκαν· ἁλληλουϊά· καὶ ὁ καπνὸς αὐτῆς ἀναβαίνει εἰς τοὺς
αἰῶνας τῶν αἰώνων (v. 3);
2. un’acclamazione responsoriale del mondo celeste (24 anziani + 4 esseri
viventi), come reazione alle due proclamazioni e dove l’alleluia chiude:

98  Cf. Ap 2,2.9.13.19; 3,1.8.15. Nell’Ap il verbo οἶδα, alla prima persona singolare, ha

sempre Cristo come soggetto.


99  Cf. G.J. Botterweck, “ody”, GLAT III, 558-596: 563, 575.
100  I manoscritti a2 gig co Apr in 19,7 sostituiscono γυνὴ con νύμφη. Potrebbe trattarsi di

un’assimilazione ad Ap 21,2.9 e 22,17.


101  E. Schüssler Fiorenza, The Book of Revelation: Justice and Judgement, Philadelphia PA

1985, 164-165, elenca una serie di “literary forms” riscontrabili nell’Ap.


102  Mentre in 19,1 si parla esplicitamente della voce, in 19,3 l’avverbio temporale “per la

seconda volta” (δεύτερον) lascia supporre che il soggetto sia lo stesso di 19,1, anche se il verbo
è al plurale (εἴρηκαν).
La γυνή dell’Ap: funzione materna e sponsale della chiesa 375

καὶ ἔπεσαν οἱ πρεσβύτεροι οἱ εἴκοσι τέσσαρες καὶ τὰ τέσσαρα ζῷα καὶ


προσεκύνησαν τῷ θεῷ τῷ καθημένῳ ἐπὶ τῷ θρόνῳ λέγοντες· ἀμὴν ἁλλη-
λουϊά (v. 4);
3. una nuova esortazione alla lode, introdotta dalla “voce”:
Καὶ φωνὴ ἀπὸ τοῦ θρόνου ἐξῆλθεν λέγουσα· αἰνεῖτε τῷ θεῷ ἡμῶν πάντες
οἱ δοῦλοι αὐτοῦ [καὶ] οἱ φοβούμενοι αὐτόν, οἱ μικροὶ καὶ οἱ μεγάλοι (v. 5);
4. un inno aperto dalla “voce” e dall’alleluia:
Καὶ ἤκουσα ὡς φωνὴν ὄχλου πολλοῦ καὶ ὡς φωνὴν ὑδάτων πολλῶν καὶ
ὡς φωνὴν βροντῶν ἰσχυρῶν λεγόντων· ἁλληλουϊά, ὅτι ἐβασίλευσεν κύρι-
ος ὁ θεὸς [ἡμῶν] ὁ παντοκράτωρ 7χαίρωμεν καὶ ἀγαλλιῶμεν καὶ δώσωμεν
τὴν δόξαν αὐτῷ, ὅτι ἦλθεν ὁ γάμος τοῦ ἀρνίου καὶ ἡ γυνὴ αὐτοῦ ἡτοίμα-
σεν ἑαυτὴν 8καὶ ἐδόθη αὐτῇ ἵνα περιβάληται βύσσινον λαμπρὸν καθαρόν·
τὸ γὰρ βύσσινον τὰ δικαιώματα τῶν ἁγίων ἐστίν (vv. 6-8).
Due elementi letterari costanti, messi in relazione all’interno del testo, hanno
la funzione di introdurre una nuova unità: la “voce” (vv. 1.3.5.6) e l’alleluia (vv.
1.3.4.6).103 Nel nostro testo la φωνὴ potrebbe essere identificabile con il canto
dei redenti.104 Il motivo dell’ἁλληλουϊά, invece, esplicita al massimo la cele-
brazione di Dio e dà all’intero contenuto della dossologia un tono di lode. In
questo contesto l’Ap imita la modalità celebrativa dell’AT dove l’alleluia richia-
ma gli inni salmodici, soprattutto pasquali.105 Così Ap 19,1-10 rilegge in chiave
cristologica la vittoria pasquale, applicandola all’Agnello in un contesto esca-
tologico ed ecclesiale.
Da un punto di vista contenutistico notiamo che le due proclamazioni di
vittoria (19,1-2 e 19,3) hanno una funzione retrospettiva e guardano al giudizio
avvenuto su Babilonia.106
L’invito alla lode (v. 5), invece, introduce l’inno di 19,6-8, dove finalmente
la comunità cristiana sofferente e perseguitata riceve il riscatto dalla sua condi-
zione di tribolazione.107 Il testo di 19,6-8, infatti, presenta due tematiche che

103  Solo in 19,4 l’alleluia è la conclusione dell’acclamazione. Prigent, L’Apocalypse, 401,

nota che nel libro dei Salmi l’alleluia apre o chiude un inno o, in alcuni casi, è posto sia all’inizio
che alla fine del testo.
104  Data la forte opposizione, tra il quadro di Babilonia nel cap. 18 e la vittoria dei credenti

nel cap. 19, non si esclude che possa trattarsi anche di cristiani che hanno ormai raggiunto la di-
mora celeste. Già in 7,9-10 e 12,10 lo stesso costrutto è applicato ai martiri e il contenuto della
loro dossologia non è diverso da quello qui esposto. Si può infine notare che le ragioni del canto
sono di sapore squisitamente ecclesiale.
105  L’antecedente biblico è il contesto dei salmi alleluiatici (cf. Sal 106; 111–113; 135; 146–150).
106  Qui Babilonia è chiamata πόρνη, termine che si ritrova in 17,5.15.16.17, nella forma del verbo

πορνεύω in 17,2.3 18,9 e del sostantivo πορνεία in 17,2.3; 18,9. Il tema del giudizio (κρίνω) torna
anche in 18,8.20. La celebrazione di Dio, consistente nella condanna di Babilonia e nella vendetta del
sangue dei suoi servi, è un elemento narrativo che l’autore ha già presentato nell’inno di 16,5-7.
107  Qui si menzionano due categorie di personaggi: i servi (δούλοι), termine che non viene

esplicitato, e quanti temono il nome di Dio (φοβούμενοι), categoria costituita da piccoli e grandi.
376 Francesco Piazzolla

sono motivo del canto della chiesa: l’istaurazione del regno (19,6) e il tempo
delle nozze tra l’Agnello e la sua sposa che si è preparata, ricevendo in dono la
veste sponsale (19,7-8). Sul tema del regno – come si è avuto occasione di ve-
dere – il libro torna ripetute volte, anticipandone la realizzazione innica in di-
versi contesti. Anche l’aspetto delle nozze appare nel linguaggio allusivo accen-
nato, ma ora esplicitamente, al v. 7, si afferma l’evento matrimoniale, guardan-
dolo in una duplice valenza: dal punto di vista dell’Agnello (ἦλθεν ὁ γάμος
τοῦ ἀρνίου) e nella prospettiva della chiesa (ἡτοίμασεν ἑαυτὴν).
La condizione escatologica, descritta nei termini nuziali, recupera un dato
biblico che proviene dalla tradizione profetica e che, in chiave messianica, si
ritrova anche nella parabole sinottiche.108 Ap 19,7 riprende l’aspetto gioioso ed
escatologico della metafora matrimoniale e, con un’espressione particolare –
ἡτοίμασεν ἑαυτὴν – il testo fa riferimento all’opera attiva della donna-sposa
che ha realizzato la propria identità. La condizione della comunità, tuttavia, non
è solo il frutto del suo impegno, ma comporta il dono dell’intervento divino.
Infatti al v. 8, in parallelismo sintetico, l’autore aggiunge καὶ ἐδόθη αὐτῇ ἵνα
περιβάληται βύσσινον λαμπρὸν καθαρόν. Lungo il decorso del testo il sim-
bolismo abbigliamentare appare nella duplice valenza di uno status che la chiesa
si impegna a realizzare, ma che è anche un’azione dall’alto.109 Se il testo ha
preparato il linguaggio sponsale, come descrittivo del rapporto Cristo-chiesa, ora
mostra che solo al termine del cammino ecclesiale si verificano in pienezza tutti
gli aspetti di questa relazione nei termini dell’alleanza e dell’unione intima.110

Il medesimo linguaggio si ritrova in 11,18 dove però i servi sono identificati con “profeti e santi”.
Nel contesto del cap. 11 l’autore ha presentato il ribaltamento escatologico dei martiri perseguita-
ti e uccisi, con un riferimento ai due testimoni che hanno svolto un ministero profetico (11,3.6).
108  Cf. Piazzolla, Le Sette Beatitudini, 191-203.
109  Ibid., 170-179. Nel contesto della chiesa di Sardi si nota la duplice valenza della veste

(ἱμάτιον) che, in 3,4a indica la condotta dei credenti (ἐμόλυναν τὰ ἱμάτια αὐτῶν), mentre in 3,4.b
(περιπατήσουσιν μετ᾽ ἐμοῦ ἐν λευκοῖς) e 3,5 (περιβαλεῖται ἐν ἱματίοις λευκοῖς) si riferisce al
dono del Risorto come condizione finale del fedele, al termine del cammino ecclesiale. Anche il
vestito “di sacco” dei due testimoni (11,3) esprime una prassi penitenziale dei due profeti e, quindi,
si riferisce a un operato umano. Nella terza beatitudine (16,15) la vigilanza e la custodia delle vesti
(ὁ γρηγορῶν καὶ τηρῶν τὰ ἱμάτια αὐτοῦ) alludono alla condotta morale. In altri contesti, invece,
il simbolismo abbigliamentare indica una condizione celeste che viene dal dono di Dio. È il caso
dell’ἱμάτιον con cui sono cinti (περιβάλλω) i 24 vegliardi (4,4), o della στολή λευκή che viene
offerta da Dio ai martiri che gridano giustizia sulla loro condizione (6,11). Ugualmente la chiesa di
Filadelfia è invitata a tornare a un nuovo contatto con Cristo e a “comprare” da lui ἱμάτια λευκὰ. La
donna del cap. 12, come si è visto, è “avvolta di sole” nel senso che comunica dello splendore di Dio
e di Cristo che è una condizione di dono. Tuttavia lo status celeste appare non solo il frutto del dono
divino, ma è anche un impegno della chiesa: in 7,9-17 la grande folla dei redenti è quella passata
attraverso la grande tribolazione (7,14), nella quale ha lavato la sua στολή, rendendola bianca nel
sangue dell’Agnello (v. 14); si tratta di un’imitazione esistenziale di Cristo, soprattutto nella passione.
110  Cf. M. Kiddle, The Revelation of St. John (Moffatt New Testament Commentary), London

1947, 379.
La γυνή dell’Ap: funzione materna e sponsale della chiesa 377

4. La sposa e la città: due simboli della chiesa

L’ultima menzione della γυνή come sposa si trova in 21,9, nel contesto di
una visione: qui l’angelo dice a Giovanni che sta per mostrargli la νύμφην τὴν
γυναῖκα τοῦ ἀρνίου e, in 21,10, il veggente contempla la città santa di Geru-
salemme che scende dal cielo. In questa pericope l’Ap aggancia il simbolismo
ecclesiale della donna alla descrizione della città trascendente, lasciando inten-
dere che, nella fase escatologica, la figura della “moglie dell’Agnello” evolve
in quella della πόλις celeste, metafora della convivenza con il divino.
Nel mondo rinnovato, accanto al linguaggio della “moglie dell’Agnello”,
l’Ap pone il termine complementare νύμφη in riferimento alla chiesa, in due
ricorrenze:
1. in 21,2 si parla della visione della santa Gerusalemme che discende dal
cielo ed essa è paragonata a una νύμφη che si è “adornata” per il suo
marito (τῷ ἀνδρὶ αὐτῆς). L’immagine riprende l’inno di 19,7-8 in due
aspetti. Anzitutto si ribadisce il tema nuziale, anche se in questo caso non
si parla di “nozze dell’Agnello”, ma della “sposa” acconciatasi per suo
“marito”. In seconda istanza lo status conclusivo della chiesa, come già
nel simbolismo abbigliamentare di 19,7-8, è opera della sua preparazione
(il verbo κοσμέω), ma al contempo è dono di Dio, poiché Gerusalemme
scende “dal cielo, da Dio”;
2. in 21,9-10 l’angelo mostra in visione al veggente Giovanni la νύμφη
chiamata anche τὴν γυναῖκα τοῦ ἀρνίου, espressione che, in funzione
appositiva, svela l’identità dei due simbolismi: la νύμφη è la γυνή. Il
testo prosegue poi con la descrizione della santa Gerusalemme celeste
che costituisce l’ultima visione del libro (21,10–22,5).
Da questi due contesti si comprende che il termine νύμφη ha un valore in
funzione delle altre due immagini alle quali si affianca, γυνή e πόλις; in questo
modo esso permette di comprendere che siamo di fronte a un simbolismo plu-
rimo, indicante tuttavia la medesima entità.
L’ultima ricorrenza del termine νύμφη è in Ap 22,17 dove la “sposa” e lo
“Spirito” invocano il secondo ritorno di Cristo. Siamo alla fine del libro dell’Ap
e la comunità cristiana è riportata alla sua condizione reale e intra-storica. A
questo punto il testo riprende un contatto tra la chiesa e lo Spirito, già accenna-
to nel settenario epistolare (Ap 2–3). Qui, infatti, al termine di ogni messaggio
cristologico, si raccomanda alle chiese di ascoltare il messaggio dello Spirito:
Ὁ ἔχων οὖς ἀκουσάτω τί τὸ πνεῦμα λέγει ταῖς ἐκκλησίαις.111 In Ap 22,17,
però, non c’è più un’esortazione ad ascoltare, ma si assiste a un’azione sinerge-

111  Cf. 2,7.11.17.29; 3,6.13.22.


378 Francesco Piazzolla

tica in cui chiesa e Spirito invocano il secondo avvento di Cristo: τὸ πνεῦμα


καὶ ἡ νύμφη λέγουσιν· ἔρχου. Si può dire che, mentre le parole del Risorto di
Ap 2–3 esortano la comunità a conformarsi ai dettami cristologici, attraverso lo
Spirito che ne attualizza il messaggio, alla fine del libro, invece, la νύμφη, resa
consapevole della parola dello sposo, può invocare insieme al πνεῦμα l’avven-
to di Cristo, perché egli porti a compimento l’unione sponsale.

Conclusioni

L’immagine ecclesiale che l’Ap fornisce attraverso il percorso antropologico


della donna (γυνή-νύμφη) è ricco di spunti riflessivi. Il testo mostra che la
chiesa svolge la funzione di madre nella storia, dove è chiamata a generare
Cristo e a realizzare il regno. Nonostante le aggressioni del male essa conosce
di essere protetta da Dio che garantisce la sua vittoria finale, anche se deve
passare attraverso la morte violenta di alcuni suoi membri, occasione in cui
imita il percorso vitale dell’Agnello.
La condizione terrena della chiesa, però, non esclude la presenza di una fem-
minilità oscura che la investe, facendole assumere i tratti della γυνή-Babilonia.
Questo accade quando la comunità si lascia trascinare da valori alternativi e
accomodanti: Gezabele a Tiatira rappresenta una tipizzazione di questa possibi-
lità che allontana la chiesa dal suo modello femminile ideale di sposa e madre,
per farla divenire amante e prostituta. Se la donna-chiesa, invece, segue i dettami
cristologici si proietta in direzione escatologica, realizzando la sua identità e
“preparandola”, in vista della fase in cui diventa “moglie” dell’Agnello. Questa
condizione la comunità può contemplarla e cantarla nelle sue liturgie, senza
però fuggire in un idilliaco stato ultraterreno. Il libro, infatti, alla sua conclusio-
ne riporta la chiesa nella realtà della sua storia, dove essa già vive l’identità
dell’essere νύμφη del Risorto e, con lo Spirito che attua in lei il messaggio
cristologico, invoca la celebrazione definitiva delle sue nozze con l’Agnello.

Francesco Piazzolla
Professore invitato Studium Biblicum Franciscanum, Jerusalem

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