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Papa Francesco
don Marco Pozza
Nota dell’Editore
Come i tre precedenti Padre nostro, Ave Maria e Io credo, noi crediamo,
questo libro nasce come intervista televisiva. Nel passaggio dallo schermo
alla pagina scritta, domande e risposte sono state necessariamente riviste e
in alcuni casi ampliate dagli autori. Ogni capitolo, dedicato a una coppia
vizio-virtù, è arricchito da un testo di Papa Francesco che approfondisce un
tema del dialogo, e da una storia di vita che don Marco Pozza ha ricavato
dalla sua esperienza di cappellano del carcere di Padova.
L’ingiustizia e la giustizia
Nella città di Padova c’è una cappella dedicata a santa Maria della Carità:
è stata affrescata da Giotto di Bondone, tra il 1303 e il 1305, su incarico di
Enrico degli Scrovegni. È la Cappella degli Scrovegni, famosa in tutto il
mondo e considerata uno dei massimi capolavori dell’arte occidentale. Il
ciclo pittorico narra la storia della Vergine Maria e del Cristo: nella
controfacciata è dipinto il maestoso Giudizio Universale con il quale si
conclude la vicenda della salvezza umana. È il tentativo di Giotto di
narrare il mistero dell’incarnazione che taglia la storia in due, prima e
dopo Cristo.
La cosa che più mi incuriosisce, però, è che in bianco e nero Giotto ha
cercato di raccontare – per citare le parole del critico Roberto Filippetti –
«le conseguenze della venuta di Gesù nella vita di tutti i giorni: l’attrattiva
del Bene, il disgusto per il Male». E lo fa personificando le sette virtù e i
sette vizi opposti. Le sette virtù, quelle ritratte sulla parete calda, stanno
alla destra della mano del Cristo: sono le strade che conducono alla
salvezza. I sette vizi, invece, stanno alla sua sinistra su una parete umida e
gelida: conducono alla perdizione. Il bene è affascinante – sembra
suggerire Giotto – è facile seguirlo quando lo si incontra. Il male, d’altro
canto, è bruttissimo, persino difficile da tratteggiare.
Raccontare i vizi e le virtù è un’arte, più un esercizio spirituale che
gossip. È trovare il coraggio di riflettere sull’immagine dell’uomo e della
donna che trasuda dalle pagine dei Vangeli. Da un punto di vista umano,
non solo spirituale, perché, Papa Francesco, vale la pena riflettere sulla
virtù e sul vizio?
Per capire bene dove va la nostra vita. Per capire bene in quale direzione
dobbiamo andare, perché sia i vizi sia le virtù entrano nel nostro modo di
agire, di pensare, di sentire… Ci sono persone virtuose, ci sono persone
viziose, ma la maggioranza è un misto di virtù e vizi. Alcuni sono bravi in
una virtù ma hanno qualche debolezza. Perché siamo tutti vulnerabili. E
questa vulnerabilità esistenziale dobbiamo prenderla sul serio, perché
altrimenti significa fare il gioco dei vizi, essere un impedimento grande per
la virtù. È importante saperlo, come guida del nostro cammino, della nostra
vita. Per esempio, le virtù ti fanno forte, ti spingono avanti, ti aiutano a
lottare, a capire gli altri, a essere giusto, equanime. I vizi invece ti
abbattono. La virtù è come la vitamina: ti fa crescere, vai avanti. Il vizio è
essenzialmente parassitario. I vizi sono dei parassiti che vivono presso di te,
mangiano da te e ti indeboliscono, e ti buttano giù. Ogni giorno sempre più
giù. C’è un tango argentino che per me è una bella descrizione di quello che
fanno i vizi. Si chiama Barranca abajo, cioè «Giù per il burrone», e scivoli,
scivoli, sempre più in basso… Così sono i vizi.
Mi ha colpito la sua immagine della virtù come una vitamina e del vizio
come un parassita. Forse potremmo dire che il vizio è una virtù che si
rifiuta di camminare con la grazia di Dio, e da questo rifiuto nasce
l’esperienza del male. In carcere devo onestamente ammettere che a volte il
male è affascinante. Perché il vizio può affascinare più della virtù?
L’umano è un pesce: quando vede l’esca si affascina e va, va, va… C’è
sempre qualcosa che ti attira, ma i vizi sono più affascinanti perché
sembrano regalare beni e piaceri, senza chiedere nulla in cambio. Non hai
bisogno di rinforzarti, di andare avanti con lo sforzo di ogni giorno per
avere qualcosa. Il vizio è una gratuità negativa. È come quegli zii che
diseducano i bambini a forza di regalare caramelle… Che bontà! Ma poi
arriva il mal di pancia. Il vizio è così: è il piacere, il «bene» adesso e senza
sforzo, ma ti mangia da dentro.
Qualcuno potrebbe dire che sono pure virtù pagane, che poi sono state
assunte dal cristianesimo. Non è giusto dirlo, ma è lecito, pensando alla
filosofia greca e latina che opera con queste virtù.
C’è un santo in particolare che, nella sua riflessione, l’ha aiutata più di
altri? O che ha raccontato più di altri questa lotta, questo miscuglio di vizi
e di virtù dentro il cuore dell’uomo?
Non è facile fare il giudice. È un mestiere che esige tanto amore per la
giustizia e, in termini di fede, tanta santità. Perché il giudice deve entrare
proprio nel cuore della persona, coglierne le intenzioni, vedere cosa ha
fatto… Con quale legge lui deve giudicarlo? La legge giusta… Non è facile
fare il giudice, anzi. Nel Vangelo c’è la parabola della vedova e del giudice
iniquo. Lui non crede in Dio, bada solo ai suoi affari, non gli importa della
gente. Il giudice che non è onesto talvolta diventa onnipotente con la
propria disonestà. Penso, per esempio, ai processi fatti in questo periodo per
far crollare dei governi, come accade nella mia terra. Incominciano con le
fake news: i media parlano male di una persona, la distruggono. Poi,
distrutto, ormai uno straccio, l’accusato finisce davanti a un giudice. Il
giudice può rispondere a precisi interessi, non alla legge. E magari sullo
stesso caso possiamo avere dieci, quindici sentenze diverse, perché ogni
giudice si sente in diritto di creare giurisprudenza, in diritto di giudicare
secondo la propria idea del meglio, senza riferimenti oggettivi. E questo è
ingiusto. È una sorta di interpretazione personale e così non c’è giustizia
oggettiva, ma un «positivismo situazionale» che è totalmente soggettivo. Lo
si vede oggi in tanti Paesi per distruggere dirigenti politici, per far crollare
autorità, per promuovere colpi di Stato. È un’ingiustizia di oggi, questa
relatività della giustizia.
Questa è una moda, non solo nella giustizia, ma nel parlare di oggi. Siamo
caduti nella cultura dell’aggettivo. Ci siamo dimenticati dei sostantivi.
Anche con altre cose: i vecchi non servono, non sono utili, si scartano. Il
primato all’aggettivo: tu sei vecchio, tu sei malato, ti faccio fuori…. Tu sei
criminale, è un aggettivo. Io vado avanti con quell’aggettivo. Così
dimentichiamo che tu sei una persona, tu sei un uomo, tu sei una donna. È
più importante essere uomo e donna che non avere questi vizi, queste virtù.
Dio non ama l’aggettivazione della persona, ama la persona così com’è:
peccatore o non peccatore, l’amore di Dio fa giustizia. La vicinanza di Dio
ci ha giustificato, san Paolo lo dice continuamente nelle sue lettere. È
l’amore che ti giustifica, l’amore con il quale il giudice guarda quella
persona, senza lasciarsi sedurre dagli aggettivi. Questo è un criminale?
Questo è un figlio di Dio, è un fratello mio, è una persona. Anche io, senza
la grazia di Dio, avrei potuto cadere nello stesso errore. Questo è il pensiero
che deve farsi venire un giudice. Perché io lì non sono caduto e lui sì? Eh,
perché io ho avuto un’educazione così, mentre lui, poveretto, magari è nato
in una baraccopoli, o comunque nella periferia estrema, e questo non aiuta.
Mi ricorda una frase che disse un giorno don Luigi Ciotti, questo prete
torinese che ha fatto della strada la sua parrocchia. Diceva che il primo
diritto fondamentale di ogni uomo è quello di sentirsi chiamare per nome.
Penso che si avvicini molto anche all’immagine che Giotto usa per
dipingere la giustizia. È una donna che tiene in mano una bilancia di fronte
alla porta della città e pesa ogni cosa con grande giudizio. Questa è
l’immagine che Giotto ha della giustizia, che a me – ogni volta che la
guardo – fa venire in mente un peccato che lei stesso, Papa Francesco, mi
ha insegnato a confessare negli anni, che è il peccato di omissione. Dire
che uno è giusto, nella Scrittura, è come dire che è santo, perfetto, gradito a
Dio. La giustizia ha a che fare con i diritti di ciascuno. La dimenticanza,
peccato di omissione, è essa stessa una forma di ingiustizia: confessare il
bene non fatto è molto più complicato che confessare un male compiuto.
Gesù loda il buon samaritano della parabola, anche se è lontano dalla fede
del popolo di Israele. Non loda invece il sacerdote e il levita, che non hanno
fatto del bene. Questo è il peccato di omissione: non si sono fatti carico del
bene di una persona. Uno forse guarda l’orologio e prosegue per non
arrivare tardi alla messa, l’altro è schiavo dei compromessi… È sempre
peccato di omissione, c’è sempre una giustificazione che mi spinge a non
agire per il bene, sempre. Perché non hai fatto quel bene?
Come ho detto più volte, oggi più che mai abbiamo bisogno di vera
profezia. E la vera profezia è molto concreta: gente che con la sua
testimonianza dimostra che il Vangelo è possibile. La Chiesa è profetica se
tutti facciamo il nostro dovere, che è servire. La fortezza del profeta è la
capacità di dire cose forti quando serve, di piangere su un popolo che ha
abbandonato il servizio della verità, di pregare guardando Dio negli occhi.
Per tutti noi c’è una profezia: ognuno di noi è stato chiamato a diventare
pietra viva di Cristo, così come Simone è stato trasformato in Pietro.
L’incostanza – il cedimento alla noia, la perdita di una visione d’insieme
della vita, il vivere a compartimenti stagni – è il vizio che ci impedisce di
compiere la nostra profezia.
Per Giotto, la fortezza è una donna che con una mano brandisce una mazza
e con l’altra sorregge uno scudo. Ha come mantello una pelle di leone e
come elmo la testa del leone. Quando la guardo non penso che la sua sia
arroganza: presuppone la fragilità. Penso alla splendida frase di san
Paolo: «Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia
che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi»
(2Cor 4,7). Questa fragilità riesce a spingersi fino al martirio, che è la
risposta virtuosa al vizio dell’aggressività.
La fortezza è la virtù dei poveri. Il povero per sopravvivere ha bisogno di
essere forte. Se non lo è, cade. Io penso alle famiglie povere, al papà e alla
mamma che si alzano per andare a lavorare e fanno magari due ore in
autobus per andare al lavoro. Si alzano presto e tornano tardi. Tutti i giorni
lo stesso, anche la domenica perché pagano il doppio. Ne hanno bisogno
per i figli. La fortezza di quell’uomo, la fortezza di quella mamma che sa
crescere i figli nella povertà. Inventa anche i pasti con gli ingredienti meno
costosi, ma li presenta ai figli come se fossero un banchetto. È sempre la
fortezza in azione… Per questo i poveri sono beati, perché la povertà è
strettamente legata alla fortezza. Tu sei povero, ma non sei uno sconfitto. È
questo che mi seduce di quella gente che lotta per la vita e se capita un
problema, una malattia, cadono ma si rialzano subito e vanno avanti,
sempre avanti: hanno la fortezza di rialzarsi tutti i giorni, la fortezza di non
lasciarsi abbattere dall’insuccesso e dalla povertà. È vero, se sono povero è
più facile cedere alla tentazione di rubare: lo fanno tanti ricchi, perché non
posso farlo io? Quelli rubano con guanti di seta – non tutti, certo, ma ci
sono ricchi che rubano – perché non posso farlo io che sono povero? Ma la
fortezza porta alla eroicità. È la fortezza dei valori. Quando ho incontrato i
carabinieri ho ricordato la figura di quel ragazzo nemmeno ventitreenne,
Salvo D’Acquisto, che dà la vita per il suo popolo. Lui, carabiniere, per
salvare gli ostaggi di una rappresaglia nazista si accusa di un attentato che
non ha commesso, e viene fucilato al posto di altri innocenti. Quella è la
fortezza fino alla fine. Una mamma che dà la vita per i figli. Genitori che
seguono e accudiscono figli disabili. Sono «i santi della porta accanto». La
fortezza si vede meglio nei casi estremi, ma esiste anche nella quotidianità.
È una virtù nascosta, ma è la virtù che ci sorregge. Come diceva don Primo
Mazzolari: «l’Agnello c’insegna la fortezza: l’Umiliato ci dà lezioni di
dignità: il Condannato esalta la giustizia: il Morente conferma la vita: il
Crocifisso prepara la gloria».
Nella festa dei due apostoli di Roma, Pietro e Paolo, vorrei condividere con
voi due parole-chiave: unità e profezia.
Unità. Celebriamo insieme due figure molto diverse: Pietro era un
pescatore che passava le giornate tra i remi e le reti, Paolo un colto fariseo
che insegnava nelle sinagoghe. Quando andarono in missione, Pietro si
rivolse ai giudei, Paolo ai pagani. E quando le loro strade si incrociarono,
discussero in modo animato, come Paolo non si vergogna di raccontare in
una lettera (cfr. Gal 2,11 ss.). Erano insomma due persone tra le più
differenti, ma si sentivano fratelli, come in una famiglia unita, dove spesso
si discute ma sempre ci si ama. Però la familiarità che li legava non veniva
da inclinazioni naturali, ma dal Signore. Egli non ci ha comandato di
piacerci, ma di amarci. È Lui che ci unisce, senza uniformarci. Ci unisce
nelle differenze.
Il capitolo 12 degli Atti degli apostoli ci porta alla sorgente di questa
unità. Racconta che la Chiesa, appena nata, attraversava una fase critica:
Erode infuriava, la persecuzione era violenta, l’apostolo Giacomo era stato
ucciso. E ora anche Pietro viene arrestato. La comunità sembra decapitata,
ciascuno teme per la propria vita. Eppure in questo momento tragico
nessuno si dà alla fuga, nessuno pensa a salvarsi la pelle, nessuno
abbandona gli altri, ma tutti pregano insieme. Dalla preghiera attingono
coraggio, dalla preghiera viene un’unità più forte di qualsiasi minaccia. Il
testo dice che «mentre Pietro era tenuto in carcere, dalla Chiesa saliva
incessantemente a Dio una preghiera per lui» (At 12,5). L’unità è un
principio che si attiva con la preghiera, perché la preghiera permette allo
Spirito Santo di intervenire, di aprire alla speranza, di accorciare le
distanze, di tenerci insieme nelle difficoltà.
Notiamo un’altra cosa: in quei frangenti drammatici nessuno si lamenta
del male, delle persecuzioni, di Erode. Nessuno insulta Erode – e noi siamo
tanto abituati a insultare i responsabili. È inutile, e pure noioso, che i
cristiani sprechino tempo a lamentarsi del mondo, della società, di quello
che non va. Le lamentele non cambiano nulla. Ricordiamoci che le
lamentele sono la seconda porta chiusa allo Spirito Santo: la prima è il
narcisismo, la seconda lo scoraggiamento, la terza il pessimismo. Il
narcisismo ti porta allo specchio, a guardarti continuamente; lo
scoraggiamento, alle lamentele; il pessimismo, al buio, all’oscurità. Questi
tre atteggiamenti chiudono la porta allo Spirito Santo. Quei cristiani non
incolpavano ma pregavano. In quella comunità nessuno diceva: «Se Pietro
fosse stato più cauto, non saremmo in questa situazione». Nessuno. Pietro,
umanamente, aveva motivi di essere criticato, ma nessuno lo criticava. Non
sparlavano di lui, ma pregavano per lui. Non parlavano alle spalle, ma
parlavano a Dio. E noi oggi possiamo chiederci: «Custodiamo la nostra
unità con la preghiera, la nostra unità della Chiesa? Preghiamo gli uni per
gli altri?». Che cosa accadrebbe se si pregasse di più e si mormorasse di
meno, con la lingua un po’ tranquillizzata? Quello che successe a Pietro in
carcere: come allora, tante porte che separano si aprirebbero, tante catene
che paralizzano cadrebbero. E noi saremmo meravigliati, come quella
ragazza che, vedendo Pietro alla porta, non riusciva ad aprire, ma corse
dentro, stupita per la gioia di vedere Pietro (cfr. At 12,10-17). Chiediamo la
grazia di saper pregare gli uni per gli altri. San Paolo esortava i cristiani a
pregare per tutti e prima di tutto per chi governa (cfr. 1Tm 2,1-3). «Ma
questo governante è…», e i qualificativi sono tanti; io non li dirò, perché
questo non è il momento né il posto per dire i qualificativi che si sentono
contro i governanti. Che li giudichi Dio, ma preghiamo per i governanti!
Preghiamo: hanno bisogno della preghiera. È un compito che il Signore ci
affida. Lo facciamo? Oppure parliamo, insultiamo, e basta? Dio si attende
che quando preghiamo ci ricordiamo anche di chi non la pensa come noi, di
chi ci ha chiuso la porta in faccia, di chi fatichiamo a perdonare. Solo la
preghiera scioglie le catene, come a Pietro; solo la preghiera spiana la via
all’unità.
La seconda parola, profezia. Unità e profezia. I nostri apostoli sono stati
provocati da Gesù. Pietro si è sentito chiedere: «Tu, chi dici che io sia?»
(cfr. Mt 16,15). In quel momento ha capito che al Signore non interessano le
opinioni generali, ma la scelta personale di seguirlo. Anche la vita di Paolo
è cambiata dopo una provocazione di Gesù: «Saulo, Saulo, perché mi
perseguiti?» (At 9,4). Il Signore lo ha scosso dentro: più che farlo cadere a
terra sulla via di Damasco, ha fatto cadere la sua presunzione di uomo
religioso e per bene. Così il fiero Saulo è diventato Paolo: Paolo, che
significa «piccolo». A queste provocazioni, a questi ribaltamenti di vita
seguono le profezie: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia
Chiesa» (Mt 16,18); e a Paolo: «È lo strumento che ho scelto per me,
affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni» (At 9,15). Dunque, la
profezia nasce quando ci si lascia provocare da Dio: non quando si gestisce
la propria tranquillità e si tiene tutto sotto controllo. Non nasce dai miei
pensieri, non nasce dal mio cuore chiuso. Nasce se noi ci lasciamo
provocare da Dio. Quando il Vangelo ribalta le certezze, scaturisce la
profezia. Solo chi si apre alle sorprese di Dio diventa profeta. Ed eccoli
Pietro e Paolo, profeti che vedono più in là: Pietro per primo proclama che
Gesù è «il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16); Paolo anticipa il
finale della propria vita: «Mi resta soltanto la corona di giustizia che il
Signore […] mi concederà» (2Tm 4,8).
Oggi abbiamo bisogno di profezia, ma di profezia vera: non di parolai
che promettono l’impossibile, ma di testimonianze che il Vangelo è
possibile. Non servono manifestazioni miracolose. A me fa dolore quando
sento proclamare: «Vogliamo una Chiesa profetica». Bene. Cosa fai, perché
la Chiesa sia profetica? Servono vite che manifestano il miracolo
dell’amore di Dio. Non potenza, ma coerenza. Non parole, ma preghiera.
Non proclami, ma servizio. Tu vuoi una Chiesa profetica? Incomincia a
servire, e stai zitto. Non teoria, ma testimonianza. Non abbiamo bisogno di
essere ricchi, ma di amare i poveri; non di guadagnare per noi, ma di
spenderci per gli altri; non del consenso del mondo, quello stare bene con
tutti (da noi si dice «stare bene con Dio e con il diavolo», stare bene con
tutti); no, questo non è profezia. Ma abbiamo bisogno della gioia per il
mondo che verrà; non di quei progetti pastorali che sembrano avere in sé la
propria efficienza, come se fossero dei sacramenti, progetti pastorali
efficienti, no, ma abbiamo bisogno di pastori che offrono la vita: di
innamorati di Dio. Così Pietro e Paolo hanno annunciato Gesù, da
innamorati. Pietro, prima di essere messo in croce, non pensa a sé ma al suo
Signore e, ritenendosi indegno di morire come Lui, chiede di essere
crocifisso a testa in giù. Paolo, prima di venire decapitato, pensa solo a
donare la vita e scrive che vuole essere «versato in offerta» (2Tm 4,6).
Questa è profezia. Non parole. Questa è profezia, la profezia che cambia la
storia.
Gesù ha profetizzato a Pietro: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò
la mia Chiesa». Anche per noi c’è una profezia simile. Si trova nell’ultimo
libro della Bibbia, dove Gesù promette ai suoi testimoni fedeli «una
pietruzza bianca, sulla quale sta scritto un nome nuovo» (Ap 2,17). Come il
Signore ha trasformato Simone in Pietro, così chiama ciascuno di noi, per
farci pietre vive con cui costruire una Chiesa e un’umanità rinnovate. C’è
sempre chi distrugge l’unità e chi spegne la profezia, ma il Signore crede in
noi e chiede a te: «Tu, vuoi essere costruttore di unità? Vuoi essere profeta
del mio cielo sulla terra?». Fratelli e sorelle, lasciamoci provocare da Gesù
e troviamo il coraggio di dirgli: «Sì, lo voglio!».
MARCO POZZA
Lodi
Il risveglio
Il bullismo, gli haters online, l’hate speech sono tutte forme di rancore,
odio o superiorità che incoraggiano la discriminazione, la violenza nei
confronti della persona per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi.
E non vuole, diciamo così, negoziare con Dio. Dio lo mette alla prova: «Ti
farò capo di un altro popolo». Ma Mosè rifiuta: «No, o tutti o nessuno».
Questo sì che è un bravo leader; ce ne vorrebbero oggi di leader così.
La vigilanza è un po’ la virtù del padrone del campo, diciamo così, che
guarda come stanno le cose e prende delle decisioni. Gesù continuamente ci
parla di vigilare. «Vigilate. Non siate stolti come queste ragazze che vanno
a nozze e si dimenticano l’olio delle lucerne.» Arrivano poi tardi perché non
hanno previsto, non hanno vigilato. State attenti, vigilate e orate per farvi
trovare pronti. La vigilanza è un po’ unita, sì, alla pazienza e anche alla
mansuetudine.
Zelo, forse? Lo zelo ricorda un po’ l’ira, no? Quando Gesù distrugge i
banchi dei cambiavalute e caccia i mercanti dal Tempio. È lo zelo che
distrugge la sporcizia. È un violento, direbbe qualcuno. Ma no, è lo zelo che
lo porta a far piazza pulita e a mettere le cose al loro posto.
PAPA FRANCESCO
Conflitto e perdono
Il conflitto inevitabile
Il perdono e la riconciliazione sono temi di grande rilievo nel cristianesimo
e, con varie modalità, in altre religioni. Il rischio sta nel non comprendere
adeguatamente le convinzioni dei credenti e presentarle in modo tale che
finiscano per alimentare il fatalismo, l’inerzia o l’ingiustizia, oppure,
dall’altro lato, l’intolleranza e la violenza.
Mai Gesù Cristo ha invitato a fomentare la violenza o l’intolleranza. Egli
stesso condannava apertamente l’uso della forza per imporsi agli altri: «Voi
sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le
opprimono. Tra voi non sarà così» (Mt 20,25-26). D’altra parte, il Vangelo
chiede di perdonare «settanta volte sette» (Mt 18,22) e fa l’esempio del
servo spietato, che era stato perdonato ma a sua volta non è stato capace di
perdonare gli altri (cfr. Mt 18,23-35).
Se leggiamo altri testi del Nuovo Testamento, possiamo notare che di
fatto le prime comunità, immerse in un mondo pagano colmo di corruzione
e di aberrazioni, vivevano un senso di pazienza, tolleranza, comprensione.
Alcuni testi sono molto chiari al riguardo: si invita a riprendere gli avversari
con dolcezza (cfr. 2Tm 2,25). Si raccomanda «di non parlare male di
nessuno, di evitare le liti, di essere mansueti, mostrando ogni mitezza verso
tutti gli uomini. Anche noi un tempo eravamo insensati» (Tt 3,2-3). Il libro
degli Atti degli apostoli afferma che i discepoli, perseguitati da alcune
autorità, «godevano il favore di tutto il popolo» (cfr. At 2,47; 4,21.33; 5,13).
Tuttavia, quando riflettiamo sul perdono, sulla pace e sulla concordia
sociale, ci imbattiamo in un’espressione di Cristo che ci sorprende: «Non
crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare
non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la
figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e nemici dell’uomo saranno
quelli della sua casa» (Mt 10,34-36). È importante situarla nel contesto del
capitolo in cui è inserita. Lì è chiaro che il tema di cui si tratta è quello della
fedeltà alla propria scelta, senza vergogna, benché ciò procuri contrarietà, e
anche se le persone care si oppongono a tale scelta. Pertanto, tali parole non
invitano a cercare conflitti, ma semplicemente a sopportare il conflitto
inevitabile, perché il rispetto umano non porti a venir meno alla fedeltà in
ossequio a una presunta pace familiare o sociale. San Giovanni Paolo II ha
affermato che la Chiesa «non intende condannare ogni e qualsiasi forma di
conflittualità sociale: la Chiesa sa bene che nella storia i conflitti di interessi
tra diversi gruppi sociali insorgono inevitabilmente e che di fronte a essi il
cristiano deve spesso prender posizione con decisione e coerenza» (Lett.
enc. Centesimus annus, 14).
Il vero superamento
Quando i conflitti non si risolvono ma si nascondono o si seppelliscono nel
passato, ci sono silenzi che possono significare il rendersi complici di gravi
errori e peccati. Invece la vera riconciliazione non rifugge dal conflitto,
bensì si ottiene nel conflitto, superandolo attraverso il dialogo e la trattativa
trasparente, sincera e paziente. La lotta tra diversi settori, «quando si
astenga dagli atti di inimicizia e dall’odio vicendevole, si trasforma a poco a
poco in una onesta discussione, fondata nella ricerca della giustizia» (Pio
XI, Lett. enc. Quadragesimo anno, 1931).
Più volte ho proposto «un principio che è indispensabile per costruire
l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto. […] Non significa puntare
al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su
di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle
polarità in contrasto» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013).
Sappiamo bene che «ogni volta che, come persone e comunità, impariamo a
puntare più in alto di noi stessi e dei nostri interessi particolari, la
comprensione e l’impegno reciproci si trasformano […] in un ambito dove i
conflitti, le tensioni e anche quelli che si sarebbero potuti considerare
opposti in passato, possono raggiungere un’unità multiforme che genera
nuova vita» (Discorso alle Autorità, Riga, 24 settembre 2018).
MARCO POZZA
Ora terza
La scuola
A quel tempo – erano i tempi nei quali Ira batteva Temperanza dieci a
zero – lui correva impazzito, all’impazzata: a seguire i resoconti trascritti
nei fascicoli, pare fosse accecato d’ira, che provasse e riprovasse fino
all’esaurimento pur di riuscire a fiaccare i rivali d’armi. Oggi, invece, pare
persino fiero del suo nuovo vocabolario: «L’ira la conosco assai: un giorno
mi capita in cella il solito tipo che ti fa saltare i nervi da quant’è cocciuto e
testardo» racconta alla professoressa. «Non volendo mettergli le mani
addosso, a calci e pugni ho rotto il bagno della cella.» Per questo esiste la
scuola: per scaricare nelle parole ciò che, un tempo, si scaricava altrove.
C’è una massa di pensieri in cerca di affitto, un mondo di universi nascosti
che spingono dietro una penna e sgomitano per poter passare ed entrare in
circolazione. Ecco perché per qualcuno scrivere è incontrarsi, fare un
esercizio di pazienza: «I prof, qui dentro, hanno cuore e pazienza. Io sono
un disastro su più fronti, ma la loro costanza mi commuove. Credono che io
possa arrivare a dei traguardi ai quali manco io credo veramente così tanto».
Le aule sono laboratori di artigianato. «Fatto in casa» sta scritto nei
cervelli che qui dentro si ricostruiscono con l’ago e il filo. Certe volte anche
con l’aratro: «Le materie sono difficili da memorizzare: il diritto, l’italiano,
la storia, l’economia aziendale, inglese, francese». Materie che non
finiscono nelle aule, ma vanno dritte persino dentro i pasti: ci si ritrova a
pensare ripulendo la cella, gettando la spazzatura, lavando i panni o
attendendo l’ora d’aria. La cosa curiosa è che per chi va a scuola il giornale
ha vita breve: appena letto scade, tutt’al più gli si cambia la destinazione
d’uso. Omero, il grande Omero dell’antichità, stamattina invece era ancora
giovanissimo: «Un giorno, studiando, ho scoperto la cosa più bella finora»
confessa con un filo di sano orgoglio. Ci sta tutto! «Che la prima parola che
si legge nell’Iliade è la parola più cattiva, ira. Cioè, a scuola, ho imparato
che l’ira esiste da quando esiste l’uomo, e che quello che dice Omero capita
anche dentro le nostre celle. È pazzesco se ci pensi: son passati millenni e
lui ancora ti parla al cuore.» Prego, benvenuti a scuola! Omero ringrazia per
la preferenza accordata: «L’ira funesta del Pelide Achille, che infiniti danni
agli Achei addusse, cantami, o Diva».
La temperanza invece è una signora d’una bellezza gelosa, gioiosa:
vuole che si serva lei, da sola. Per ripagarti al più presto il biglietto sborsato
per andare a trovarla: «Per me il carcere è stata una benedizione, non un
fallimento: mi sta mostrando quant’è brutto il male. Toglie gli affetti, taglia
le amicizie, trancia vite a dismisura. Ti mangia dentro facendoti sentire un
perdente: ti fa vincere qualche partitella ma il campionato lo perdi». Se
impari qualcosina ogni giorno, nessuno dei giorni è perduto, tanto meno se
vissuto in galera. L’ira, da queste parti, la si vince artigianalmente: «Tengo
in ordine la mia cella,» è il suo esercizio per fare aumentare il primato della
temperanza sull’ira «spazzolo via la polvere, lavo le lenzuola, svuoto i
cestini, pulisco i vetri. Anche i telai e le sbarre: sono fissato in materia di
pulizia. Il panno della polvere è l’oggetto che più uso: lo passo in tutti i
centimetri. Il bagno lo lavo con il gomito, non mi vergogno: voglio vivere
bene, non sospettare di essere diventato disumano». Mostrarsi collerici con
il nemico è il primo passo per regalargli la vittoria. Imparare, oggi, ad
arginare le passioni negative è risparmiarsi, domani, cento giorni di dolore.
Più che i compiti per casa, qui a contare sono i pensieri nuovi che si aiuta
a far nascere in cervelli che il maltempo ha sfibrato. Educare è
improvvisarsi postini di buone letture da recapitare nei cuori straziati dal
male. Poi sedere, in attesa di giorni migliori: «È meraviglioso quando un
prof ti consiglia un libro da leggere. Quando sono nervoso, prendo in mano
un libro e mi ci butto dentro per fare a pugni con quelle parole. Adoro I
promessi sposi: è una storia d’amore, di coraggio, di debolezza, affetto,
costanza, vita e morte. È la vita che si combatte a denti stretti. Mi piace
quando, leggendo, imparo come fanno a nascere dei sentimenti come
l’invidia, la gelosia. Anche la pace, la serenità. Quando chiudo un libro, poi,
mi sembra di essere diventato un po’ amico dei suoi personaggi». La
letteratura, a volte, è una preghiera di riserva: la scuola è una chiesa
senz’altare e balaustre.
La rabbia è cieca, muta, sorda: qui, dentro questo matto mondo di matti,
si conta fino a dieci non per tacere la rabbia ma per poi gridarla più forte.
Rabbiosi con il male che li ha fatti diventare rabbia della società: «Il male è
una lusinga che ti cerca, ti trova, ti seduce e ti avvinghia. Cadi tra le sue
braccia come cade una pera dall’albero: quando t’accorgi d’essere finito lì,
ormai è troppo tardi». Il fatto, poi, che certe scoperte si ottengano con
strumenti rudimentali, le rende ancora più belle: «Un tempo l’ira mi
rendeva alquanto menefreghista,» la sua chiarezza di spirito è da lodare
«“Che me ne importa?” dicevo. Oggi ho imparato quant’è importante
meditare, anche sull’uso delle parole. In carcere le parole sono una specie di
terapia: quando acceleri devi stare attento a non sbandare, quando tiri il
freno devi fare attenzione a non addormentarti. In passato ho spacciato
droga in misure folli: ho dovuto subire una condanna per spaccio di droga
per sapere che nessuna droga è più potente di una parola detta bene».
Questo ti farà ridere. Avevo un parente, cugino di mio papà, che era uno
stolto tipico, ma stolto preso dall’avarizia. Era avaro, e aveva tanto. Non
aveva figli, la moglie era una brava donna, abitavano in una bella villa. Era
così avaro che per risparmiare dava alla mamma metà dello yogurt al
mattino e metà al pomeriggio. Lo stolto fa sempre ridere, è una specie di
pagliaccio esistenziale. È morto quest’uomo, io non sono andato al funerale,
ma tre giorni dopo ho chiamato una cugina che c’era stata e le ho chiesto
notizie. «Sì, il dolore,» mi ha raccontato «ma la tragedia è stata alla fine,
quando dovevano chiudere la bara e non riuscivano.» «Ma perché?»
«Voleva portarsi dietro tutto.» La stoltezza anche nella ricchezza, la
stoltezza di credere che il Paradiso è qui. Sono atteggiamenti stolti, di
persone che non sanno della prudenza della vita, non sanno della lotta della
vita, non sanno della generosità, non sanno dare una carezza, non sanno
nulla. Sanno solo ridere di qualsiasi cosa.
Contrapposta alla stoltezza c’è la virtù cardinale della prudenza. Giotto la
raffigura come una donna che siede in cattedra, in mano ha il compasso e
nell’altra tiene uno specchio: come a dire che bisogna andare avanti però
guardandosi alle spalle e imparando dal passato. Per memoria affettiva,
collego la prudenza al codice stradale, perché mia mamma, quando parto
da casa, mi ripete sempre: «Mi raccomando, sii prudente!». Il
cristianesimo, negli anni, mi ha allargato l’orizzonte: prudenza è leggere
gli eventi umani alla luce di Dio, distinguendo ciò che conduce a Dio e ciò
che allontana, sentendoci responsabili delle azioni che compiamo. La
prudenza non esclude il coraggio, non dice che dobbiamo aver paura di
osare. Adoro l’introduzione al Pater: «Obbedienti alla parola del Salvatore
[…] osiamo dire». La prudenza è anche un criterio per giudicare un Papa:
alcuni dicono «È troppo imprudente!», altri «È prudente». Quant’è difficile
essere prudenti dentro la storia degli uomini, alla luce dei misteri di Dio?
Sì, lo Spirito è quello che ti aiuta. Tu devi chiedere per essere prudente,
chiedere allo Spirito che ti assicuri quel «fiuto» per intuire la giusta
direzione delle cose. L’intuito ispirato dallo Spirito è essenziale. C’è
qualcosa che ci impensierisce, ma con la preghiera invochiamo lo Spirito
che ci guidi nel governo. Se vuoi governare senza lo Spirito Santo non farai
cosa buona. Sbaglierai tanto. Pregare, fare che le cose maturino da sole,
saper stare zitto e solo dopo parlare e decidere. La prudenza non è, ripeto, la
virtù dell’equilibrio. È virtù di governo. A me piace avvicinarla alla
saggezza: il prudente dev’essere saggio, e la saggezza è un dono di Dio, ce
la dà Dio.
PAPA FRANCESCO
«Non uno spirito di timidezza ma di prudenza»
Il profumo degli agrumi rallegra i tre diversi cremini. Il gusto del cioccolato
è espresso nella sua purezza nei due cioccolatini, al latte e fondente. La
pralina finale è il valore aggiunto: miele e rosmarino. Li sistema nella
confezione con la cura di un orafo: venticinque praline che racchiudono sei
gusti, ripetuti più volte. Quelle praline di cioccolato sono la risposta:
potrebbe bastare. La domanda alla quale il cioccolato è risposta, però, è
ingrediente-madre qui dentro. Le sue mani somigliano a quelle di un
musico sulla tastiera, di un pittore con il suo pennello, di un artista
all’opera. A tradirlo è il volto, l’unica storia che ogni uomo può giurare
essere sua: «Sì, sono io» conferma con un sorriso mansueto. Di quella pace,
però, c’è ben poco nella sua vecchia storia: «Un giorno si è presentato da
me un imprenditore che, senza che ci fossimo parlati, mi consegna del
denaro» mi racconta mentre indossa i guanti di lattice. «Capisco che si era
già accordato con il mio amico. Vedevo la paura nei suoi occhi, io avevo
paura, ma ho dovuto mostrarmi sicuro mentre facevo quel gesto. Nel mio
ambiente era l’unico modo per potere stare in piedi: mascherare la paura
con la strafottenza. Quell’estorsione è stata la prima di altre. Mi ha
cambiato la vita: mi ha spalancato le porte del carcere.»
Il cioccolato ti ascolta, non ti giudica mai. Cosicché gli uomini si
possono dividere in due tipologie: quelli a cui piace il cioccolato e quelli
che non vogliono ammetterlo. Anche in galera gli uomini si possono
dividere in due categorie: quelli a cui il male piace ancora e quelli ai quali
ha sbriciolato la vita. Colui che sta parlando appartiene nettamente ai
secondi: «Non mi rendevo conto che in ogni estorsione non prendevo
solamente dei soldi dalle vittime, ma anche un pezzetto della loro vita:
toglievo loro la tranquillità, la sostituivo con la paura e il timore del futuro».
Durante il suo racconto, prepara gli ingredienti per una nuova lavorazione:
lo zucchero, la pasta di cacao, l’estratto di vaniglia, le mandorle, la pasta
d’arancia, il rosmarino essiccato, le arachidi. L’olio di semi di girasole e
quello di bergamotto. «Non mi accorgevo, nell’attimo di un’estorsione, che
stavo avvelenando anche la mia vita: lentamente si stava riempiendo di
inquietudine, di violenza. Mi chiedevo: “Ma se facessero a me queste
cose?”. Non son più riuscito a trovare un modo per uscire da questa
malavita. Chiudevo gli occhi, andavo avanti.» Pretendere di vedere
chiudendo gli occhi è stoltezza.
A quel tempo si digeriva meglio la stupidità del dolore.
Quante volte, di fronte alle fatiche, alle difficoltà – per esempio nel mio
sacerdozio, come in tutte le storie d’amore – uno va da un superiore e
questo dice: «Tieni duro, tieni duro, tieni duro…». Fa leva cioè sulla forza
di volontà. La volontà è una forza potentissima, eppure a volte può
diventare nemica della virtù. Ho sempre in mente la figura di donna
Prassede. Di lei il Manzoni dice – nel capitolo XXV dei Promessi sposi –
che di idee «n’aveva poche, ma a quelle poche era molto affezionata». E
poi: «Tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva
spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prendere per cielo il suo cervello». Il
rischio della volontà è di farci incaponire nel nostro orgoglio, invece di
aprirci alla sorpresa di Dio.
Che coppia, donna Prassede e don Ferrante. Lei aveva tutta la volontà di
Dio nel cervello e lui nella metafisica. La peste non è sostanza, neppure
accidente, dunque non esiste. E così se ne va a letto a morire tranquillo,
«prendendosela con le stelle». Bella coppia, don Ferrante e donna Prassede:
non so come facevano a stare insieme… Ma è così: l’infedeltà è prendere
l’io al posto di Dio, non «fidarsi» di Dio, mettergli accanto, anzi davanti, le
cose mie. È l’idolatria.
Tutto torna. «Poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per
vomitarti dalla mia bocca» dice l’Apocalisse.
È questo. È tiepido. Ma a tutti noi, che vogliamo servire Dio con una
vocazione religiosa, noi sacerdoti e suore, dico: per favore, abbiate più
paura di questa semi-fede, di questa aria viziata, che di una tentazione forte,
perché la tentazione forte è facile da vedere. La tiepidezza entra, ti
addormenta, e alla fine ti accorgi che hai perso la fede.
PAPA FRANCESCO
«La tua fede ti ha salvato»
L’ultima immagine di sé che ricorda è con una pietra in mano. Davanti c’è
una pattuglia della Polizia di Stato, dietro ci sono i vetri appena frantumati
delle finestre di una casa, delle portiere di un’automobile. Guarda il male, il
male ti si appiccica, si sente cantilenare in quelle colline di bollicine dorate:
è pur sempre terra del Prosecco DOC . Quella casa è casa sua, l’auto è il
mezzo di locomozione dei suoi genitori. Tutto ridotto in frantumi: «Ero a
piedi, scalzo, sfinito dal vivere. Cercavo di scappare da una comunità, ero
in stato confusionale. Mi hanno ammanettato, sbattuto in galera.
Condannato». A farlo arrestare sono gli stessi che l’hanno fatto venire al
mondo: «A denunciarmi sono stati mio padre e mia madre: minacce e
aggressione verso di loro, ecco l’accusa». Nell’altra cella, quella di fronte,
un napoletano ha fatto scrivere, sopra la finestra, ciò che diceva sua
mamma, donna meridionale e spiccia: ch’è meglio il rumore delle sbarre di
quello delle campane. «Avevo cercato di scegliere il male minore» si
confessa senza voler confessarsi. «Non mi accorgevo che era pur sempre un
male.» È lui: il male mangia seduto vicino a noi, dorme nel nostro stesso
letto, ci tira su le coperte e ci chiede come stiamo, se può esserci utile in
qualcosa.
Peccato sia come i pipistrelli: rifugge la luce del giorno.
Per me la gelosia, l’invidia sono il vizio giallo, giallo come l’itterizia, il mal
di fegato che ti fa diventare giallo. Il giallo è un po’ il colore della morte. I
cadaveri tendono a essere gialli, no? Per me l’invidia è un vizio del fegato,
perché quando è ammalato il fegato, diventa gialla tutta la vita. È brutto
desiderare che l’altro non vada avanti… Ho visto casi brutti di invidia, il
desiderio di non lasciare che le altre persone fossero felici, in una famiglia
che ho dovuto aiutare come prete. Cose da non credere: distruggere la
felicità altrui, ma non perché io voglio avere, per pura rabbia. È una
malattia essenzialmente distruttiva.
Mi colpisce che nel Vangelo Dio parli di sé come di un Padre che mette al
mondo sempre almeno due figli. Ognuno di essi, poi, è amato in base
all’amore di cui ha bisogno. Come risposta, però, si imbatte nella sindrome
del figlio unico: la tentazione di esistere solo noi ci spinge a dire: «L’altro
non può essere ciò che io non sono». Il massimo che guadagna l’invidioso è
ridurre un po’ l’insoddisfazione che prova. La gelosia fa come la ruggine
con il ferro: lentamente consuma.
Pensiamo a tante lotte nate dalla gelosia, a tante calunnie fabbricate dalla
gelosia, perché la gelosia non ha scrupoli. Va avanti con sé stessa e se deve
uccidere, uccide con la lingua. Se deve sporcare, sporca sempre gli altri
perché non abbiano quello che io ho, perché non crescano. C’è una musica
dell’invidia. L’invidia, la gelosia hanno un tono, un modo di esprimersi con
una specie di vibrato, che è «nostalgioso» e noioso. Quando io sento parlare
una persona che mi parla della situazione con questo tono, mi metto sempre
sulla difensiva perché temo che stia per distruggere qualche persona. È un
vizio che ha la propria musica: dobbiamo capirla per riconoscerla.
Riflettendo anche sulla storia della Chiesa, viene da pensare che anche se
non erano fratelli, Pietro e Paolo a un certo punto sono riusciti a dire: «Sì,
siamo diversi però c’è un Padre che è unico». Dispiace dirlo, ma la gelosia
rode anche la vita della Chiesa.
Però nella Bibbia una delle espressioni che più mi fanno battere il cuore è
una frase pronunciata da Dio, che ci raccomanda: «Fate attenzione, perché
io sono un Dio geloso». Quella gelosia è tutt’altra cosa…
Tutt’altra cosa. È, diciamo così, la gelosia della mamma, del papà che
difendono i figli: «State attenti, non toccate i miei figli, eh!». È un modo di
dire, ma non è la gelosia gialla del fegato, è un’altra cosa.
Le cose belle possono anche non durare per sempre: per il tramonto non
è un motivo valido per apparire stasera uguale a com’era un’altra sera.
Gelosia, invece, è intestardirsi a ritornare sempre nel medesimo posto dove
hai perduto la felicità la prima volta: «Quando sono entrato in carcere, per
la seconda volta, ho sentito il rumore dei cancelli che si chiudevano dietro
di me: mi sono sentito morire, avevo una paura assassina di rivivere quello
che avevo già vissuto. Era come ricominciare daccapo una storia che
pensavo fosse finita per sempre. Sono tornato con il pensiero a mia
moglie». Certi volti riappaiono più nitidi all’ora in cui il sole tramonta: e
tutto si riduce a quella persona che ti appare in quell’ora.
È quella la vera anagrafica del cuore.
Fuori dalla cella, nella torre di Babele delle altre celle, si spande
ovunque l’appetito della cena. Odore di fritto, profumo di basilico: penne
all’arrabbiata, al pesto o in bianco. Filetto di merluzzo, scatolame, aragosta
o tonno di fortuna. Il cibo, qui dentro, fa da spartiacque: c’è chi cucina e chi
prepara da mangiare. Si cucina quando si è soli, si prepara da mangiare
quando si è in compagnia. Lui, l’uomo del colloquio, si sta preparando la
pizza: lo strazio è alle stelle. Gli piace la pizza. Di più: gli piace far piacere
la pizza, fare il pizzaiolo è il suo mestiere. Mi spiega la pizza: «Deve avere
il bordo alto, impasto morbido, se la pieghi non deve spezzarsi. Mi piace
guardarla mentre sta cuocendo, la accompagno, me la guardo crescere»
finalmente ritrova il sorriso. «Sono un uomo del Sud, per me la pizza è la
felicità: non è un primo, un secondo, un dessert.» Ci credo, tanto quanto
credo alla sua bontà. Assomiglia davvero a una pizza anche lui: qui in
galera si fa sempre in quattro per render felici gli altri. Quattro spizzichi di
pizza.
È quando si è tristi che si amano maggiormente i tramonti: sorridere loro
in quelle sere è cercare una boccata di speranza. È accompagnare a casa
l’amore: «Finito il colloquio, quando ritorno in cella, con la mente seguo
mia moglie nella strada verso casa: “Adesso è arrivata a quello stop, fra
poco girerà a destra. Poi dritti fino alla rotatoria”. Non vedo l’ora di
telefonarle per sapere se è arrivata, se è andato tutto bene. Quando ho finito,
inizio a ricalcolare il percorso e il tempo per il prossimo colloquio». Il
cuore è una giostra impazzita: cercare di silenziarlo è come firmarsi una
condanna a morte immediata. «Vedo immagini di famiglie alla tv e sento
mancarmi i bambini. Vedo immagini di pizzerie e penso a quanto stia
sudando mia moglie per portare avanti la nostra catena di pizzerie. Sento le
storie di droga che racconta la tv e rivedo me stesso: “Quanto cretino son
stato a firmarmi questa condanna?” mi dico spesso.» È tardi, forse no.
L’ora esatta?
Paragonarsi all’altro, non amando sé stesso per quello che si è: è così che
nasce l’invidia. Un gradino sopra tutti, tossicomani del male: «Senti il
bisogno di essere qualcuno, ti convinci d’essere invincibile. Sei così
sfacciato da dire la più oca delle frasi: “Tu non sai con chi hai a che fare,
bello!”». Lo dici, ma non credi a quello che stai dicendo. Dunque sei un
bugiardo che si sbugiarda davanti al mondo: «Ero solo un cretino che stava
passando un periodo d’insoddisfazione personale». Tutto qui il vizio: era
convinto anche Napoleone che fosse più facile governare gli uomini
facendo leva sui vizi piuttosto che sulle virtù. Certi vizi, poi, smettono di
piacere: è allora che diventano virtù. Amarsi quando meno si sente di
meritarlo è spostare la gelosia per far in modo che passi l’amore.
In carcere i portafogli, ufficialmente, non hanno diritto di cittadinanza:
sono vietate tutte le forme di commercio. Qui, spesse volte, la moneta non è
di ferro, di bronzo, di carta: è l’allegria di un sorriso, la quiete di una
carezza, la maestà di un gesto d’amore puro. Fare economia, in galera, è
investire sulla virtù: tentar la fortuna è giocare con il vizio: «Siamo tutti
impastati di vizi e di virtù,» e così mi saluta l’uomo della pizza «ci sono
giorni in cui vinci per aver sposato la virtù e giorni in cui perdi per aver
giocato con il vizio. È dal loro impasto,» per lui è un termine tecnico «che
nasce la vita». La libertà, anche quella d’andare contro sé stessi, per poi
perdersi e rischiare di ritrovarsi. Una volta per sempre: «Sono dentro per un
errore di calcolo, stavolta: non mi hanno tolto dei giorni che mi spettavano,
così non posso stare a casa a finire di scontare la pena». Amen. Anzi no:
rabbia.
Anche la rabbia è vizio. «Allora è tutto un vizio questa vita!» dirà
qualcuno. «Fai del male e ricorda, fai del bene e dimentica, diceva sempre
mia mamma.» Così mi saluta.
Esco dalla cella. Fingo d’andarmene, poi ritorno. Lo spio dietro il marasma
dei galeotti che stanno facendo su e giù nel corridoio: c’è chi ha deciso di
vivere così tutto il giorno. Tutto l’ergastolo. Lui, invece, fissa l’orologio. Il
gabbiano.
Questa è l’ora nella quale, al pizzaiolo, s’intenerisce il cuore.
L’ora in cui riapre la pizzeria. Stasera l’aprirà sua moglie, a nome suo.
Amore, gelosia.
La disperazione e la speranza
Arriviamo all’ultima coppia, che fa divampare tutta la bellezza di questo
ciclo pittorico: il viaggio di Giotto dalla disperazione alla speranza. Giotto
coglie la disperazione nell’attimo di impiccarsi. Ha il volto devastato, i
pugni contratti: il suicidio è la tragica conseguenza del male scelto. Questo
forse è il peccato capitale, quello contro lo Spirito: non credere più in
nulla, non curarsi più di nulla, non interessarsi di nulla, non godere di
nulla, non odiare nulla, certe volte non trovare neanche un motivo per
morire. Verrebbe da dire che la disperazione è una rabbia che non riesce a
trovare una valvola di sfogo. Come è possibile arrivare a questo punto?
Credo di sì. Una società disperata che proprio per questo ripone tutte le sue
speranze in piccole cose senza importanza. Poi si accorge che lì non troverà
mai la felicità e ne cerca un’altra, un’altra, un’altra… E poi contano anche
le necessità materiali: il bisogno genera disperazione. E la disperazione è
anche di chi deve prendere decisioni, magari impopolari, davanti alla
complessità dei problemi. E poi c’è la disperazione figlia della
rassegnazione, che è un veleno: siamo rassegnati alle guerre, al traffico
d’armi, a tanta gente che non ha da mangiare, ai bambini senza istruzione,
che sono la maggioranza nel mondo… C’è una via d’uscita, c’è un rimedio.
E io penso a questa crisi della pandemia. Da una crisi non si esce uguali. O
usciamo migliori o peggiori: dobbiamo cogliere questa possibilità per
diventare migliori.
Mi emoziona sempre rileggere un verso di Charles Péguy: «Quel che è
facile e istintivo è disperare: è la grande tentazione». La salvezza è la
speranza, e Giotto la dipinge come è una donna con le mani protese verso il
Paradiso: la postura del suo corpo, la posizione del suo capo, le braccia,
tutto, in lei, richiama l’Ascensione di Cristo. È il mondo stesso a
protendersi verso il futuro, a nutrire fiducia nella sua realizzazione,
attendendone la venuta.
Gesù. Gesù è la mia speranza, il Dio fatto carne, Dio fatto per noi, uno di
noi che ci accompagna. Dio che si è fatto vicino come aveva detto Mosè nel
Deuteronomio: «quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il
Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?». Si è
fatto vicino a noi per camminare con noi, e questo è Gesù Cristo. Il Dio
della synkatábasis, della condiscendenza. È questa la mia speranza.
Rileggo spesso una pagina della mistica Simone Weil, è una di quelle che
più m’incuriosiscono di quest’anima inquieta: «In modo generale» scrive
nella sua opera L’ombra e la grazia. Investigazioni spirituali «non
desiderare la sparizione di nessuna delle proprie miserie, bensì la grazia
che le trasfiguri». È anche una sorta di avviso per i naviganti: il vizio e la
virtù non esistono in purezza: tutto è innestato nella vita, dove nulla è del
tutto perfetto e nulla è del tutto imperfetto. In questo intreccio esistenziale,
discernere è confidare nel Signore e fare il bene; abitare la terra e vivere
con fede, come suggerisce il Salmo 37. Abitare il tempo con pazienza,
dunque, senza nutrire il desiderio sciocco di possederlo. Attraversare la
vita tutta, lasciarci attraversare dalla vita tutta. E io concludo, Papa
Francesco, con la serenità nel cuore, perché ancora una volta mi ha
confermato che non esiste un uomo tutto virtuoso e non esiste un uomo tutto
vizioso. Vediamo il bene che vorremmo fare, facciamo il male che non
vorremmo fare. Siamo un miscuglio di vizi e virtù. Però a immagine di Dio.
Anime oranti che vagano nella notte della città. Qui dentro è tutto di ferro,
anche i dispiaceri gli assomigliano molto: hanno la memoria di ferro. La
ruggine consuma il ferro delle grate di questa cella, come l’invidia dilapida
gli animi invidiosi, resi ciechi dal male. Quand’è tutto buio, buio pesto e
assassino, riparte il solito infinito processo, pieno di commi, cavilli e
interpretazioni: la sera mette sotto processo l’intera giornata. Che ripete: «Io
sono innocente, però. Lo so che lo dicono tutti qui dentro, ma con me è
proprio così». A scavalcare la grata con lo sguardo, ci si accorge che fuori è
tutta oscurità. È l’ora di compieta in questo mare di cemento: sarà mai
possibile, stanotte, immaginare il mare al posto del cemento? «Il sonno per
me è un surrogato della morte,» mi confida quest’uomo dall’aspetto così
gioviale da apparirmi stonato in questa boscaglia di matti «un modo per non
essere presente a me stesso. Peccato che, quando mi risveglio, mi ritrovi
nella medesima situazione della sera prima.» La qual cosa è di una evidenza
stupefacente: «Il mio sonno è senza più sogni da tantissimi anni: avrò
sognato due-tre volte in questa carcerazione. Oppure sogno e la mia mente
poi dimentica». Certi fiori, comunque, per tutta risposta fioriranno sul
cemento.
Come un giocatore disperato che tenta il tutto per tutto pur di ribaltare
una partita: eccola la speranza, la cosa più difficile. «È sperare la cosa più
difficile, la cosa più facile è disperare, ed è la grande tentazione» (Ch.
Péguy). È l’ultimo rischio da correre: «Quando tutto ciò che riuscivo a fare
era guardare il lastrone della branda a pochi centimetri dai miei occhi, la
disperazione mi ha fatto fare la cosa più piccola che ricordassi: recitare
un’Ave Maria. È difficile descrivere con parole ciò che ha iniziato ad
accadere dentro me». Non ne posso più, ne ho fin sopra i capelli, non ci
capisco più niente, madonnina mia. Un po’ come dire: «Se t’importo ancora
un pochino, è ora che te la vedi tu». È l’audacia al tempo della disperazione,
parole sull’orlo di labbra senza più parole. Gli ultimi battiti prima di un
elettrocardiogramma piatto: «A distanza di anni,» finalmente un accenno,
pur prostrato, di sorriso «non ho ancora capito come abbia potuto una
semplice orazione sostenermi così tanto. È come se mi fosse stato fatto un
dono che non riesco ancora a comprendere».
È che certi vuoti si riempiono soltanto della parte nata apposta per venire
in loro soccorso: «Come se il vuoto atroce degli istanti prima del mio
prendere sonno fosse stato riempito da una presenza che mi consola». Da
parole nate apposta per imbastire guerra alla disperazione, con l’armatura
della speranza: «Prega per noi peccatori, [Maria,] adesso e nell’ora della
nostra morte». Adesso, soprattutto: perché la morte non avanzi e ci strappi
la carne ancora prima che le sia stato fissato un appuntamento dall’Alto.
L’appuntamento con la speranza – è cosa accertata – è vestito in borghese:
«Un frate passato per caso davanti alla mia cella, incontri “casuali”, il mio
compagno di cella che le peripezie passate in compagnia hanno trasformato
in un fratello». Piccole rivelazioni, rivoluzioni.
La rivoluzione della speranza, in borghese.
Il tutto che diventa nulla, per poi metterti di fronte al nulla: benvenuto
nella disperazione. È il sentimento maiuscolo di chi non riesce ad attendersi
più nulla dalla vita: «Quando mi sdraio sul letto, la mia faccia è a venti
centimetri dal letto a castello sopra il mio: mi sembra di essere dentro una
bara. Non so nemmeno come abbia fatto a resistere». Resistere, quando il
presente è una sofferenza, il futuro si prospetta di sofferenza, la vita
t’appare una sofferenza un po’ troppo lunga: «Quando si fa fatica a
sopportare di raggiungere la fine di una giornata, pensare di doverlo fare per
anni ti confina in uno stato di prostrazione profonda, di abbattimento».
Nessun significato, non è più vita: «Non vedevo più nessun motivo per il
quale valesse la pena continuare a vivere». A sperare.
Quand’è disperato, poi, l’uomo è una casa scoperta: «Togliermi di
mezzo, questo è stato il pensiero» fa retromarcia con la memoria tra gli anni
passati. «Forse, però, avrei solo dato un ulteriore dispiacere ai miei genitori,
già provati.» La disperazione, certi giorni, è un essere onnivoro e geloso che
non accetta che tu ti ammazzi: vuole vedere che soffri fino all’ultimo, in
silenzio, muto. Come un barbaro che passeggia tra sbadigli, pianti, noia e
angoscia. In mezzo, se ci sta, ficcaci pure la tua vita: «L’accidia è come la
muffa, rovina le cose» mi confida. L’uomo, a questo punto, sarà un albero
con le radici secche. Tutto chiaro, quasi ovvietà.
Il pasto preferito per un demonio sempre in agguato.
Fatto sta che, certe volte, il senso di una vita è nascosto nell’ultima
pagina di un libro monotono. Arrivare a leggerla è scoprire ch’era stata
scritta apposta per te. È farsi leggere da quella frase: «Ripensando a quello
che mi ha portato in carcere,» sta combattendo la sua personale battaglia tra
vizi e virtù mentre parla «non posso negare che sia stata proprio la voglia di
fare agli altri più male di quanto ne avessi ricevuto, sebbene a quel tempo
non ne fossi pienamente consapevole». È una legge dell’anima, è difficile
dimostrarla: guardar fuori è un po’ come sognare, guardarsi dentro è
svegliarsi. Andare a mettersi in ginocchio di fronte alla speranza, quella
rinnegata con l’inganno della non-speranza: «Mi aveva catturato, del male,
l’idea di poter non rispettare più nessuna regola, non essere più legato a
niente, paradossalmente di essere “libero” di provare a ottenere tutto ciò che
volevo con l’uso della forza». L’illusione, l’ambasciatrice della
disperazione: è lì, sempre, che cerca di buttare giù la porta. L’accusa è di
scasso: «Ho firmato la mia rovina, sono entrato in carcere». Il non-detto ad
arte è l’arte di mascherarsi della disperazione: «Guardandomi dentro, mi
sono reso conto che sono caduto in questa trappola perché, in fondo, ero
molto solo».
Accorgersi è aver imboccato la strada che riporta a casa: «In carcere mi
sono bastati pochi incontri, fatti con le persone giuste, per farmi afferrare da
ciò che è bene, stavolta. È come se i sentimenti più bui, che in passato mi
hanno portato a fare del male fino a uccidere, si stessero sfuocando. E
riappare sulla penombra ciò ch’è bene». Ch’era sempre stato bene, anche al
tempo del male: la sera, quando cala, nasconde le città ma, sovente, svela
l’uomo a sé stesso.
Queste sono le fonti dei testi di Papa Francesco che approfondiscono alcuni
temi toccati nella conversazione:
Il coraggio e la profezia
Omelia durante la Santa Messa nella solennità dei santi apostoli Pietro e
Paolo, Basilica di San Pietro, 29 giugno 2020
Conflitto e perdono
Fratelli tutti. Lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale, 237-
245, Assisi, 3 ottobre 2020
www.rizzoli.eu
COPERTINA || PER LA FOTOGRAFIA, © DANIELE GAROFANI | ART DIRECTOR: FRANCESCA LEONESCHI | GRAPHIC
DESIGNER: MAURO DE TOFFOL / THEWORLDOFDOT
Indice
Copertina
L’immagine
Il libro
Gli autori
Frontespizio
Dei vizi e delle virtù
Introduzione
Nota dell’Editore
L’ingiustizia e la giustizia
PAPA FRANCESCO. Il senso della giustizia
MARCO POZZA. Mattutino – La notte in carcere
L’incostanza e la fortezza
PAPA FRANCESCO. Il coraggio e la profezia
MARCO POZZA. Lodi – Il risveglio
L’ira e la temperanza
PAPA FRANCESCO. Conflitto e perdono
MARCO POZZA. Ora terza – La scuola
La stoltezza e la prudenza
PAPA FRANCESCO. «Non uno spirito di timidezza ma di prudenza»
MARCO POZZA. Ora sesta – Il lavoro
L’infedeltà e la fede
PAPA FRANCESCO. «La tua fede ti ha salvato»
MARCO POZZA. Ora nona – L’esperienza del male
La gelosia e la carità
PAPA FRANCESCO. Il valore unico dell’amore
MARCO POZZA. Vespri – La cena-senza-famiglia
La disperazione e la speranza
PAPA FRANCESCO. La speranza non delude
MARCO POZZA. Compieta – La nostalgia del bene
Fonti
Copyright