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Il libro

A Padova, nella Cappella degli Scrovegni, uno dei massimi capolavori


dell’arte occidentale, Giotto racconta il percorso della salvezza umana
attraverso le storie di Gesù e di Maria sulle pareti e il Giudizio Universale
sulla controfacciata. Nel registro inferiore, in bianco e nero quasi fossero formelle in
bassorilievo, Giotto dipinge le quattro virtù cardinali e le tre teologali alla destra del
Cristo giudice, e alla sinistra sette vizi che delle virtù rappresentano il contraltare.
Proprio a queste coppie di opposti – ingiustizia-giustizia, incostanza-fortezza, ira-
temperanza, stoltezza-prudenza, infedeltà-fede, gelosia-carità, disperazione-speranza
– è dedicata la nuova conversazione tra Papa Francesco e don Marco Pozza. Le virtù
sono le strade che conducono alla salvezza, i vizi quelle che finiscono nella
perdizione: “Le virtù ti fanno forte, ti spingono avanti, ti aiutano a lottare, a capire
gli altri, a essere giusto, equanime. I vizi invece ti abbattono. La virtù è come la
vitamina: ti fa crescere, vai avanti. Il vizio è essenzialmente parassitario”. Riflettere
su questi temi serve a “capire bene in quale direzione dobbiamo andare, perché sia i
vizi sia le virtù entrano nel nostro modo di agire, di pensare, di sentire”. Per questo,
ogni capitolo è arricchito da un testo di Papa Francesco che approfondisce un tema
del dialogo e da una storia di vita che don Marco Pozza ha ricavato dalla sua
esperienza di cappellano del carcere di Padova. Perché nella vita quotidiana vizi e
virtù procedono sempre intrecciati, e questo libro è un percorso che ci consente di
ripensare insieme il compito, difficile e necessario, del discernimento tra il bene e il
male.
Gli autori

Jorge Mario Bergoglio è nato a Buenos Aires il 17 dicembre 1936, figlio di un


ferroviere piemontese. A 21 anni è entrato come novizio nella Compagnia di Gesù.
Laureato in Filosofia, ordinato sacerdote nel 1969, vescovo di Auca nel 1992,
arcivescovo di Buenos Aires nel 1998, creato cardinale nel 2001, è stato eletto Papa
il 13 marzo 2013 con il nome di Francesco.

Marco Pozza (1979), dottore in Teologia, cappellano del carcere di Padova,


commenta il Vangelo per Rai1 e sul canale Nove di Discovery Italia ha ideato e
conduce Vizi e virtù, programma che prende spunto da questa conversazione. Per
Rizzoli è autore con Papa Francesco di Padre nostro (2017), Ave Maria (2018) e Io
credo, noi crediamo (2020), tradotti in tutto il mondo. Ha scritto il testo della Via
Crucis celebrata nella Piazza San Pietro vuota il Venerdì Santo del 2020, diventato
poi I gabbiani e la rondine (Rizzoli 2020).
Papa Francesco
in dialogo con
Marco Pozza

DEI VIZI E DELLE VIRTÙ


Dei vizi e delle virtù
Introduzione

La bellezza della vita nuova in Cristo riesce a essere comunicata meglio


dalle immagini che dai concetti. Infatti «ricorrere a immagini e metafore per
comunicare la potenza umile del Regno non è un modo per ridurne
l’importanza e l’urgenza, ma la forma misericordiosa che lascia
all’ascoltatore lo “spazio” di libertà per accoglierla e riferirla anche a sé
stesso» (Messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali
2017).
Ci sono momenti nei quali un’immagine vale molto più di una parola:
sono gli attimi in cui l’uomo e la donna hanno per maestri i loro occhi. Nel
corso della storia bimillenaria della Chiesa, moltissimi artisti hanno
aguzzato il loro ingegno misurandosi con la vita di Cristo e, ciascuno a
modo proprio, con i grandi misteri della vita cristiana: dall’incarnazione alla
croce al dono dello Spirito Santo.
Queste immagini, nel corso dei secoli, sono diventate delle catechesi
suggestive capaci di accendere la curiosità e, al tempo stesso, di rispondere
al bisogno d’infinito racchiuso in ogni creatura che abita la terra: «Dalla
secolare tradizione conciliare apprendiamo che anche l’immagine è
predicazione evangelica. Gli artisti di ogni tempo hanno offerto alla
contemplazione e allo stupore dei fedeli i fatti salienti del mistero della
salvezza, presentandoli nello splendore del colore e nella perfezione della
bellezza», si legge nell’introduzione al Compendio del Catechismo della
Chiesa Cattolica. Sono degli indizi, dunque, le immagini.
Evocano storie che fanno nascere storie.
Questa conversazione sui vizi e le virtù prende ispirazione dalla
catechesi che, nei primi anni del XIV secolo, Giotto di Bondone ha
affrescato nella Cappella degli Scrovegni a Padova. La croce di Cristo è il
punto più alto della storia, è sorgente e culmine: passare attraverso di essa,
ispirati dalla Vergine Maria, è andare incontro all’abbraccio di Cristo e dei
suoi santi. Le quattordici formelle, dentro le quali Giotto riproduce le sette
virtù opponendole a sette vizi, sono il tentativo di raccontare le
conseguenze della venuta di Cristo quaggiù: l’attrattiva del bene, il ribrezzo
del male.
Le virtù rappresentate da Giotto sono quelle tramandate dalla tradizione:
le quattro virtù cardinali – la giustizia, la fortezza, la temperanza e la
prudenza – e le tre virtù teologali: la fede, la speranza e la carità. A queste
virtù classiche, il celebre pittore contrappone sette vizi, reinterpretati alla
luce della sua visione: l’ingiustizia, l’incostanza, l’ira, la stoltezza come
contraltare delle virtù cardinali; l’infedeltà, la disperazione, la gelosia di
quelle teologali.
Le virtù, per natura, somigliano ai muscoli da potenziare: hanno bisogno
di esercizio. L’inizio, come nelle competizioni sportive, è sempre una
situazione di debolezza, di limite, di fragilità: la virtù è la forza che spinge
l’uomo a impegnarsi per ottenere un fine elevato. Il vizio, all’opposto, è
l’ammissione di un’incapacità nel fare il bene: ci si accontenta di lasciarsi
andare, di godere ciò che si vuole, senza fatica.
Riflettere sul vizio e la virtù, allora, è riflettere sulla fatica e la bellezza
del vivere quotidiano. Esattamente qui, dove l’avvento di Cristo interpella
l’uomo nella sua massima libertà, s’innesta il grande sogno di Dio, la
ragione della sua vicinanza così misteriosa all’uomo di ogni tempo: «Sono
venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). La
vita, in forma abbondante.
Questa nostra conversazione – come le tre precedenti sul Padre Nostro,
sull’Ave Maria e sul Credo – nasce da una complicità di prospettive tra loro
solo in apparenza antitetiche: il centro della Chiesa che dialoga con la
periferia di un carcere. Sono prospettive che si ricercano per completarsi, si
completano per dare testimonianza, testimoniano per annunciare Cristo con
la sua salvezza. Il carcere, in quest’ottica, è un caleidoscopio di situazioni:
in nessun altro luogo e istante della vita, come dentro un carcere mentre si
sperimenta la detenzione, è forse possibile intravedere come i fili del bene
si intrecciano inevitabilmente con quelli del male. È accorgersi che non
esiste tra di loro una separazione netta, ma appare piuttosto una zona
crepuscolare: non esistono storie impastate della sola virtù e storie
impastate solo di vizio. Esistono, invece, storie che sono una mescolanza
enigmatica di gloria e disonore, di attrattiva e disgusto, di bellezza e
menzogna. È in queste terre, che sono apparentemente terre di nessuno, che
si potrà contemplare meglio all’opera la grazia di Dio: fare in modo che la
virtù, allenandosi, ridesti l’arcangelo nascosto nell’uomo e, combattendo il
vizio, tenga a bada la bestia che sta in agguato dentro ciascuno di noi.
Mentre l’uomo sceglie da che parte stare, Dio continua a custodire la
nostalgia dell’inizio: «Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza,
dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in
terra non seminata». Fedeltà a cui il Signore rimarrà per sempre legato
anche nel tempo dell’infedeltà: «Quale ingiustizia trovarono in me i vostri
padri per allontanarsi da me e correre dietro al nulla, diventando loro stessi
nullità?» (Ger 2,2-6).
Questo viaggio, quasi una sorta di pellegrinaggio alle sorgenti, si è
lasciato ispirare da una pagina di Charles Péguy, che racconta della lotta
innata in ogni uomo tra grazia di Dio e stoltezza dell’umano. Scrive il poeta
francese: «Poiché non hanno la forza (e la grazia) di essere della natura,
credono di essere della grazia. Poiché non hanno il coraggio temporale,
credono di esser entrati nella sfera d’influenza dell’eterno. Poiché non
hanno il coraggio di essere del mondo, credono di essere di Dio. Poiché non
hanno il coraggio di essere di un partito dell’uomo, credono di essere del
partito di Dio. Poiché non sono dell’uomo, credono di essere di Dio. Poiché
non amano nessuno, credono di amare Dio» (Ch. Péguy, Cartesio e la
filosofia cartesiana, 1914). Un rischio, illudersi di amare Dio così, che è
possibile combattere con la preghiera e l’esercizio della virtù. Bontà che,
quando risplende nel gesto virtuoso della creatura, è già il preludio della
nascita del Regno di Dio in terra. Fungendo da incoraggiamento. «Bonum
est diffusivum sui» scrive san Tommaso nella sua Summa theologiae: il bene
è diffusivo di sé.
Con l’augurio che queste pagine possano fare altrettanto: appassionarci a
rendere la nostra umanità sempre più umana. Incoraggiati dalla Vergine
Maria.

Papa Francesco
don Marco Pozza
Nota dell’Editore

Come i tre precedenti Padre nostro, Ave Maria e Io credo, noi crediamo,
questo libro nasce come intervista televisiva. Nel passaggio dallo schermo
alla pagina scritta, domande e risposte sono state necessariamente riviste e
in alcuni casi ampliate dagli autori. Ogni capitolo, dedicato a una coppia
vizio-virtù, è arricchito da un testo di Papa Francesco che approfondisce un
tema del dialogo, e da una storia di vita che don Marco Pozza ha ricavato
dalla sua esperienza di cappellano del carcere di Padova.
L’ingiustizia e la giustizia
Nella città di Padova c’è una cappella dedicata a santa Maria della Carità:
è stata affrescata da Giotto di Bondone, tra il 1303 e il 1305, su incarico di
Enrico degli Scrovegni. È la Cappella degli Scrovegni, famosa in tutto il
mondo e considerata uno dei massimi capolavori dell’arte occidentale. Il
ciclo pittorico narra la storia della Vergine Maria e del Cristo: nella
controfacciata è dipinto il maestoso Giudizio Universale con il quale si
conclude la vicenda della salvezza umana. È il tentativo di Giotto di
narrare il mistero dell’incarnazione che taglia la storia in due, prima e
dopo Cristo.
La cosa che più mi incuriosisce, però, è che in bianco e nero Giotto ha
cercato di raccontare – per citare le parole del critico Roberto Filippetti –
«le conseguenze della venuta di Gesù nella vita di tutti i giorni: l’attrattiva
del Bene, il disgusto per il Male». E lo fa personificando le sette virtù e i
sette vizi opposti. Le sette virtù, quelle ritratte sulla parete calda, stanno
alla destra della mano del Cristo: sono le strade che conducono alla
salvezza. I sette vizi, invece, stanno alla sua sinistra su una parete umida e
gelida: conducono alla perdizione. Il bene è affascinante – sembra
suggerire Giotto – è facile seguirlo quando lo si incontra. Il male, d’altro
canto, è bruttissimo, persino difficile da tratteggiare.
Raccontare i vizi e le virtù è un’arte, più un esercizio spirituale che
gossip. È trovare il coraggio di riflettere sull’immagine dell’uomo e della
donna che trasuda dalle pagine dei Vangeli. Da un punto di vista umano,
non solo spirituale, perché, Papa Francesco, vale la pena riflettere sulla
virtù e sul vizio?

Per capire bene dove va la nostra vita. Per capire bene in quale direzione
dobbiamo andare, perché sia i vizi sia le virtù entrano nel nostro modo di
agire, di pensare, di sentire… Ci sono persone virtuose, ci sono persone
viziose, ma la maggioranza è un misto di virtù e vizi. Alcuni sono bravi in
una virtù ma hanno qualche debolezza. Perché siamo tutti vulnerabili. E
questa vulnerabilità esistenziale dobbiamo prenderla sul serio, perché
altrimenti significa fare il gioco dei vizi, essere un impedimento grande per
la virtù. È importante saperlo, come guida del nostro cammino, della nostra
vita. Per esempio, le virtù ti fanno forte, ti spingono avanti, ti aiutano a
lottare, a capire gli altri, a essere giusto, equanime. I vizi invece ti
abbattono. La virtù è come la vitamina: ti fa crescere, vai avanti. Il vizio è
essenzialmente parassitario. I vizi sono dei parassiti che vivono presso di te,
mangiano da te e ti indeboliscono, e ti buttano giù. Ogni giorno sempre più
giù. C’è un tango argentino che per me è una bella descrizione di quello che
fanno i vizi. Si chiama Barranca abajo, cioè «Giù per il burrone», e scivoli,
scivoli, sempre più in basso… Così sono i vizi.

Un giorno sono andato a rileggere quello che il Catechismo della Chiesa


Cattolica dice della virtù: è «una disposizione abituale e ferma a fare il
bene. Essa consente alla persona non soltanto di compiere atti buoni, ma di
dare il meglio di sé» (n. 1803). Le virtù sono il sale della vita: «Sono
venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» dice Gesù ai
discepoli nel Vangelo di Giovanni (10,10). Oggi, invece, sembra quasi che
la parola «virtù» sia fuori moda, quasi tabù: pare che per il mondo vivere
senza sia il segreto per vivere felici. Un po’ come dire: «Basta la vita,
perché averla in abbondanza?».

Chiedi ai contadini: «Perché avete voglia di avere un raccolto in


abbondanza?». Perché l’abbondanza è vita, è dare la vita: l’abbondanza non
si rinchiude in sé stessa, l’abbondanza è dare sempre. Per questo è
importante: per dare. Invece una vita debole, chinata su sé stessa, è una vita
che non serve. La carità è sempre abbondante, come l’amore. L’amore non
finisce mai.

Mi ha colpito la sua immagine della virtù come una vitamina e del vizio
come un parassita. Forse potremmo dire che il vizio è una virtù che si
rifiuta di camminare con la grazia di Dio, e da questo rifiuto nasce
l’esperienza del male. In carcere devo onestamente ammettere che a volte il
male è affascinante. Perché il vizio può affascinare più della virtù?
L’umano è un pesce: quando vede l’esca si affascina e va, va, va… C’è
sempre qualcosa che ti attira, ma i vizi sono più affascinanti perché
sembrano regalare beni e piaceri, senza chiedere nulla in cambio. Non hai
bisogno di rinforzarti, di andare avanti con lo sforzo di ogni giorno per
avere qualcosa. Il vizio è una gratuità negativa. È come quegli zii che
diseducano i bambini a forza di regalare caramelle… Che bontà! Ma poi
arriva il mal di pancia. Il vizio è così: è il piacere, il «bene» adesso e senza
sforzo, ma ti mangia da dentro.

Non mi viene spontaneo collegare la virtù con l’idea della perfezione: la


ritengo più vicina a una forma più piena di vita. Forse non è un caso se il
Catechismo della Chiesa Cattolica tratta delle virtù nella parte dedicata
alla «vocazione dell’uomo», all’avventura di diventare pienamente uomini.
Nasciamo incompiuti, vivere è realizzare questa nostra incompiutezza.
Non è una semplice coincidenza che, su sette virtù, di quattro – prudenza,
giustizia, fortezza, temperanza – parli non solo il cristianesimo ma ogni
forma di pensiero al quale stia a cuore la pienezza dell’umano: quasi un
invito a farci appassionare a rendere l’uomo sempre più uomo.

Qualcuno potrebbe dire che sono pure virtù pagane, che poi sono state
assunte dal cristianesimo. Non è giusto dirlo, ma è lecito, pensando alla
filosofia greca e latina che opera con queste virtù.

C’è un santo in particolare che, nella sua riflessione, l’ha aiutata più di
altri? O che ha raccontato più di altri questa lotta, questo miscuglio di vizi
e di virtù dentro il cuore dell’uomo?

Sì, me l’ha insegnato sant’Ignazio. Più specificamente il suo discepolo san


Pietro Favre, che ha questa capacità di discernere, di distinguere i vizi dalle
virtù. Il discernimento nasce così: perché ti attira una cosa, poi un’altra e
senti che questo non va e quello è più bello, ma è difficile, e devi prendere
posizione. La vita dell’uomo è un prendere posizione a ogni passo.
Dell’uomo che non sa prendere una posizione si dice che è un Ponzio
Pilato, che è specialista nel lavarsene le mani davanti alla realtà della vita.
Non fare scelte è già un atteggiamento non umano. Perché? Perché non è
libero! È un vizio che ti spinge alla comodità, allo stare bene con tutti. «Me
ne lavo le mani»: questo non è cristiano. A qualcuno ho detto: «Ma che
uomo prudente, non fa mai uno sbaglio… Proprio uno specialista in Ponzio
Pilato».

Come trama della nostra conversazione, Papa Francesco, scelgo gli


abbinamenti di Giotto nella Cappella degli Scrovegni, partendo dalla
riflessione sul vizio per arrivare alla proposta della virtù. L’inizio è una
specie di scelta di campo, perché vivendo l’esperienza del carcere vorrei
partire dall’ingiustizia per cercare di fare luce sulla giustizia. L’ingiustizia,
guardando la rappresentazione di Giotto, è tiranna: ha il mento
prominente, le mani-artiglio, è armata di spada e di lancia. Davanti ha la
porta di una città che sta crollando, attorno la natura è inselvatichita. «Non
è giusto!» diciamo quando un criterio si dimostra fallace, quando uno è
favorito a scapito di un altro, o quando ci si sente privati di un diritto.
Nell’esercizio della giustizia, poi, spesso è come se al mondo ci fossero due
forme: quella dei fatti e quella dei processi. Essere giusti, nella logica del
Vangelo, è conoscere la legge e applicarla in situazioni concrete:
l’immagine più bella che ho nel cuore è la figura di Giuseppe, che tra la
legge e Maria sceglie Maria, anteponendola all’onore. È facile, partendo
dall’uso arbitrario della giustizia, cadere nell’ingiustizia.

Non è facile fare il giudice. È un mestiere che esige tanto amore per la
giustizia e, in termini di fede, tanta santità. Perché il giudice deve entrare
proprio nel cuore della persona, coglierne le intenzioni, vedere cosa ha
fatto… Con quale legge lui deve giudicarlo? La legge giusta… Non è facile
fare il giudice, anzi. Nel Vangelo c’è la parabola della vedova e del giudice
iniquo. Lui non crede in Dio, bada solo ai suoi affari, non gli importa della
gente. Il giudice che non è onesto talvolta diventa onnipotente con la
propria disonestà. Penso, per esempio, ai processi fatti in questo periodo per
far crollare dei governi, come accade nella mia terra. Incominciano con le
fake news: i media parlano male di una persona, la distruggono. Poi,
distrutto, ormai uno straccio, l’accusato finisce davanti a un giudice. Il
giudice può rispondere a precisi interessi, non alla legge. E magari sullo
stesso caso possiamo avere dieci, quindici sentenze diverse, perché ogni
giudice si sente in diritto di creare giurisprudenza, in diritto di giudicare
secondo la propria idea del meglio, senza riferimenti oggettivi. E questo è
ingiusto. È una sorta di interpretazione personale e così non c’è giustizia
oggettiva, ma un «positivismo situazionale» che è totalmente soggettivo. Lo
si vede oggi in tanti Paesi per distruggere dirigenti politici, per far crollare
autorità, per promuovere colpi di Stato. È un’ingiustizia di oggi, questa
relatività della giustizia.

Vista la mia appartenenza al mondo delle carceri, ho molto riflettuto su


un’accezione del verbo «giudicare». Giudicare non è chiamare una cosa
peccato, ma pensare che quella persona non possa redimersi. Il mondo
giudica e dice: «Quell’uomo è un assassino». La risposta della Chiesa è
diversa: «Una volta che ti sei confessato e hai ricevuto l’assoluzione sei un
uomo e basta, se c’è il pentimento». Papa Francesco, ricordo la bellissima
lettera che ci ha scritto per un convegno in carcere, quando ci ha
raccomandato che l’aggettivo qualificativo venga sempre dopo il
sostantivo. Voglio riportarla qui:

Caro don Marco,


ho saputo che nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova avrà luogo un convegno
per riflettere sulla pena, in particolare quella dell’ergastolo. In questa occasione vorrei
porgere il mio saluto cordiale ai partecipanti ed esprimere la mia vicinanza alle persone
detenute.
A loro vorrei dire: vi sono vicino e prego per voi. Immagino di guardarvi negli occhi
e di cogliere nel vostro sguardo tante fatiche, pesi e delusioni, ma anche di intravedere
la luce della speranza. Vorrei incoraggiarvi, quando vi guardate dentro, a non soffocare
mai questa luce della speranza. Tenerla accesa è anche nostro dovere, un dovere di
coloro che hanno la responsabilità e la possibilità di aiutarvi, perché il vostro essere
persone prevalga sul trovarvi detenuti. Siete persone detenute: sempre il sostantivo deve
prevalere sull’aggettivo, sempre la dignità umana deve precedere e illuminare le misure
detentive.
Vorrei incoraggiare anche la vostra riflessione, poiché indichi sentieri di umanità, vie
realizzabili perché l’umanità passi attraverso le porte blindate e perché mai i cuori siano
blindati alla speranza di un avvenire migliore per ciascuno.
In questo senso mi pare urgente una conversione culturale, dove non ci si rassegni a
pensare che la pena dell’ergastolo possa scrivere la parola fine sulla vita; dove si
respinga la via cieca di una giustizia punitiva e non ci si accontenti di una giustizia solo
retributiva; dove ci si apra a una giustizia riconciliativa e a prospettive concrete di
reinserimento; dove l’ergastolo non sia una soluzione ai problemi, ma un problema da
risolvere. Perché se la dignità viene definitivamente incarcerata, non c’è più spazio,
nella società, per ricominciare e per credere nella forza rinnovatrice del perdono.
In Dio c’è sempre un posto per ricominciare, per essere consolati e riabilitati dalla
misericordia che perdona: a Lui affido i vostri cammini, la vostra riflessione e le vostre
speranze, inviando a ciascuno di voi e alle persone care la Benedizione Apostolica e
chiedendovi, per favore, di pregare per me.

Dal Vaticano, 17 gennaio 2017

Sovente, invece, gli aggettivi qualificativi diventano sostantivi: «il


disoccupato», «il carcerato», «il disabile», «lo straniero». Non esiste
l’assassino, esiste la persona condannata per un reato di omicidio. Questo
perché? Perché una situazione temporanea, di emergenza o di errore,
rischia di diventare uno status definitivo, finendo con il crocifiggere
persona e dignità. Tu sei diventato il tuo errore, e questo è essere ingiusti
anche nei confronti di Dio.

Questa è una moda, non solo nella giustizia, ma nel parlare di oggi. Siamo
caduti nella cultura dell’aggettivo. Ci siamo dimenticati dei sostantivi.
Anche con altre cose: i vecchi non servono, non sono utili, si scartano. Il
primato all’aggettivo: tu sei vecchio, tu sei malato, ti faccio fuori…. Tu sei
criminale, è un aggettivo. Io vado avanti con quell’aggettivo. Così
dimentichiamo che tu sei una persona, tu sei un uomo, tu sei una donna. È
più importante essere uomo e donna che non avere questi vizi, queste virtù.
Dio non ama l’aggettivazione della persona, ama la persona così com’è:
peccatore o non peccatore, l’amore di Dio fa giustizia. La vicinanza di Dio
ci ha giustificato, san Paolo lo dice continuamente nelle sue lettere. È
l’amore che ti giustifica, l’amore con il quale il giudice guarda quella
persona, senza lasciarsi sedurre dagli aggettivi. Questo è un criminale?
Questo è un figlio di Dio, è un fratello mio, è una persona. Anche io, senza
la grazia di Dio, avrei potuto cadere nello stesso errore. Questo è il pensiero
che deve farsi venire un giudice. Perché io lì non sono caduto e lui sì? Eh,
perché io ho avuto un’educazione così, mentre lui, poveretto, magari è nato
in una baraccopoli, o comunque nella periferia estrema, e questo non aiuta.

Mi ricorda una frase che disse un giorno don Luigi Ciotti, questo prete
torinese che ha fatto della strada la sua parrocchia. Diceva che il primo
diritto fondamentale di ogni uomo è quello di sentirsi chiamare per nome.
Penso che si avvicini molto anche all’immagine che Giotto usa per
dipingere la giustizia. È una donna che tiene in mano una bilancia di fronte
alla porta della città e pesa ogni cosa con grande giudizio. Questa è
l’immagine che Giotto ha della giustizia, che a me – ogni volta che la
guardo – fa venire in mente un peccato che lei stesso, Papa Francesco, mi
ha insegnato a confessare negli anni, che è il peccato di omissione. Dire
che uno è giusto, nella Scrittura, è come dire che è santo, perfetto, gradito a
Dio. La giustizia ha a che fare con i diritti di ciascuno. La dimenticanza,
peccato di omissione, è essa stessa una forma di ingiustizia: confessare il
bene non fatto è molto più complicato che confessare un male compiuto.

Gesù loda il buon samaritano della parabola, anche se è lontano dalla fede
del popolo di Israele. Non loda invece il sacerdote e il levita, che non hanno
fatto del bene. Questo è il peccato di omissione: non si sono fatti carico del
bene di una persona. Uno forse guarda l’orologio e prosegue per non
arrivare tardi alla messa, l’altro è schiavo dei compromessi… È sempre
peccato di omissione, c’è sempre una giustificazione che mi spinge a non
agire per il bene, sempre. Perché non hai fatto quel bene?

Ed è anche emblematico che per la giustizia si arrivi addirittura a morire.


Penso non solo alla comunità che segue Cristo, ma anche al mondo laico:
quanti martiri per la giustizia ci sono? E io li tengo sempre collegati con
quel versetto del Salmo 112: «eterno sarà il ricordo del giusto». Se dovesse
scegliere un’immagine, che immagine userebbe per raccontare l’uomo
giusto?

Non certamente quella della bilancia. È vero, Giotto rappresenta la giustizia


con la bilancia, ma ci sono anche le bilance truccate, tutt’altro che giuste, in
cui novecento grammi diventano un chilo… Certo, la bilancia illustra
l’equità, ma per me l’immagine più giusta è la pace che rimane nel cuore
del giudice. Se, dopo aver emesso una sentenza, il giudice si sente in pace –
la vera pace, non la pace della pastiglia – allora significa che è stata fatta
davvero giustizia. La vera pace è una bella immagine. Il giudice in pace si
sforza di fare del suo meglio, di non avere pregiudizi. Il giudice giusto
segue il principio primario della presunzione d’innocenza dell’accusato. Tu
sei innocente fino a prova contraria e questa è la mia unica presunzione. Poi
si fa il processo e magari il giudice è addolorato di dover condannare
l’imputato: se potessi non farlo…
PAPA FRANCESCO
Il senso della giustizia

La vita in comune, strutturata intorno a comunità organizzate, ha bisogno di


regole di convivenza la cui libera violazione richiede una risposta adeguata.
Tuttavia, viviamo in tempi nei quali, tanto da alcuni settori della politica
come da parte di alcuni mezzi di comunicazione, si incita talvolta alla
violenza e alla vendetta, pubblica e privata, non solo contro quanti sono
responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali
ricade il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge.
In questo contesto, negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che
attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi
sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la
medesima medicina. Non si tratta di fiducia in qualche funzione sociale
tradizionalmente attribuita alla pena pubblica, quanto piuttosto della
credenza che mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che
richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale,
economica e di inclusione sociale.
Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e
con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società
primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente
dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le
caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I
meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo
tempo, permisero l’espansione delle idee razziste.
Stando così le cose, il sistema penale va oltre la sua funzione
propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti
delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità
preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuto verificare, neppure
per le pene più gravi, come la pena di morte. C’è il rischio di non
conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette
la scala di valori tutelati dallo Stato. Si è affievolita la concezione del diritto
penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti
più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione.
Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre
sanzioni penali alternative.
In questo contesto, la missione dei giuristi non può essere altra che
quella di limitare e di contenere tali tendenze. È un compito difficile, in
tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere
la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di
alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano
nella società. Coloro che hanno una così grande responsabilità sono
chiamati a compiere il loro dovere, dal momento che il non farlo pone in
pericolo vite umane, che hanno bisogno di essere curate con maggior
impegno di quanto a volte non si faccia nell’espletamento delle proprie
funzioni.

Crimini contro l’umanità: la schiavitù


Alcune forme di criminalità, perpetrate da privati, ledono gravemente la
dignità delle persone e il bene comune. Molte di tali forme di criminalità
non potrebbero mai essere commesse senza la complicità, attiva o omissiva,
delle pubbliche autorità.
La schiavitù, inclusa la tratta delle persone, è riconosciuta come crimine
contro l’umanità e come crimine di guerra, tanto dal diritto internazionale
quanto da molte legislazioni nazionali. È un reato di lesa umanità. E, dal
momento che non è possibile commettere un delitto tanto complesso come
la tratta delle persone senza la complicità, con azione o omissione, degli
Stati, è evidente che, quando gli sforzi per prevenire e combattere questo
fenomeno non sono sufficienti, siamo di nuovo davanti a un crimine contro
l’umanità. Più ancora, se accade che chi è preposto a proteggere le persone
e garantire la loro libertà, invece, si rende complice di coloro che praticano
il commercio di esseri umani, allora, in tali casi, gli Stati sono responsabili
davanti ai loro cittadini e di fronte alla comunità internazionale.
Si può parlare di un miliardo di persone intrappolate nella povertà
assoluta. Un miliardo e mezzo non hanno accesso ai servizi igienici,
all’acqua potabile, all’elettricità, all’educazione elementare o al sistema
sanitario e devono sopportare privazioni economiche incompatibili con una
vita degna (2014 Human Development Report, UNDP ). Anche se il numero
totale di persone in questa situazione è diminuito in questi ultimi anni, si è
incrementata la loro vulnerabilità, a causa delle accresciute difficoltà che
devono affrontare per uscire da tale situazione. Ciò è dovuto alla sempre
crescente quantità di persone che vivono in Paesi in conflitto.
Quarantacinque milioni di persone sono state costrette a fuggire a causa di
situazioni di violenza o persecuzione solo nel 2012; di queste, quindici
milioni sono rifugiati, la cifra più alta in diciotto anni. Il settanta per cento
di queste persone sono donne. Inoltre, si stima che nel mondo, sette su dieci
tra coloro che muoiono di fame, sono donne e bambine (Fondo di sviluppo
delle Nazioni Unite per le donne, UNIFEM ).

Crimini contro l’umanità: la corruzione


La scandalosa concentrazione della ricchezza globale è possibile a causa
della connivenza di responsabili della cosa pubblica con i poteri forti. La
corruzione è essa stessa anche un processo di morte: quando la vita muore,
c’è corruzione.
Ci sono poche cose più difficili che aprire una breccia in un cuore
corrotto: «Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso
Dio» (Lc 12,21). Quando la situazione personale del corrotto diventa
complicata, egli conosce tutte le scappatoie per sfuggirvi come fece
l’amministratore disonesto del Vangelo (cfr. Lc 16,1-8).
Il corrotto attraversa la vita con le scorciatoie dell’opportunismo, con
l’aria di chi dice: «Non sono stato io», arrivando a interiorizzare la sua
maschera di uomo onesto. È un processo di interiorizzazione. Il corrotto
non può accettare la critica, squalifica chi la fa, cerca di sminuire qualsiasi
autorità morale che possa metterlo in discussione, non valorizza gli altri e
attacca con l’insulto chiunque pensa in modo diverso. Se i rapporti di forza
lo permettono, perseguita chiunque lo contraddica.
La corruzione si esprime in un’atmosfera di trionfalismo perché il
corrotto si crede un vincitore. In quell’ambiente si pavoneggia per sminuire
gli altri. Il corrotto non conosce la fraternità o l’amicizia, ma la complicità e
l’inimicizia. Il corrotto non percepisce la sua corruzione. Accade un po’
quello che succede con l’alito cattivo: difficilmente chi lo ha se ne accorge;
sono gli altri ad accorgersene e glielo devono dire. Per tale motivo
difficilmente il corrotto potrà uscire dal suo stato per interno rimorso della
coscienza.
La corruzione è un male più grande del peccato. Più che perdonato,
questo male deve essere curato. La corruzione è diventata naturale, al punto
da arrivare a costituire uno stato personale e sociale legato al costume, una
pratica abituale nelle transazioni commerciali e finanziarie, negli appalti
pubblici, in ogni negoziazione che coinvolga agenti dello Stato. È la vittoria
delle apparenze sulla realtà e della sfacciataggine impudica sulla
discrezione onorevole.
Tuttavia, il Signore non si stanca di bussare alle porte dei corrotti. La
corruzione non può nulla contro la speranza.
Che cosa può fare il diritto penale contro la corruzione? Sono ormai
molte le convenzioni e i trattati internazionali in materia e hanno proliferato
le ipotesi di reato orientate a proteggere non tanto i cittadini, che in
definitiva sono le vittime ultime – in particolare i più vulnerabili –, quanto a
proteggere gli interessi degli operatori dei mercati economici e finanziari.
La sanzione penale è selettiva. È come una rete che cattura solo i pesci
piccoli, mentre lascia i grandi liberi nel mare. Le forme di corruzione che
bisogna perseguire con la maggior severità sono quelle che causano gravi
danni sociali, sia in materia economica e sociale – come per esempio gravi
frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale
dell’amministrazione – come in qualsiasi sorta di ostacolo frapposto al
funzionamento della giustizia, con l’intenzione di procurare l’impunità per
le proprie malefatte o per quelle di terzi.

Appello alla responsabilità


Desidero rivolgere un invito a tutti gli studiosi del diritto penale, e a quanti,
nei diversi ruoli, sono chiamati ad assolvere funzioni concernenti
l’applicazione della legge penale. Tenendo presente che scopo
fondamentale del diritto penale è tutelare i beni giuridici di maggiore
importanza per la collettività, ogni compito e ogni incarico in questo ambito
ha sempre una risonanza pubblica, un impatto sulla collettività. Questo
richiede e implica al tempo stesso una più grave responsabilità per
l’operatore di giustizia, in qualunque grado esso si trovi, dal giudice, al
funzionario di cancelleria, all’agente della forza pubblica.
Ogni persona chiamata ad assolvere un compito in questo ambito dovrà
tenere continuamente presente, da un lato, il rispetto della legge, le cui
prescrizioni sono da osservare con un’attenzione e un dovere di coscienza
adeguati alla gravità delle conseguenze. Dall’altro lato, occorre ricordare
che la legge da sola non può mai realizzare gli scopi della funzione penale;
occorre anche che la sua applicazione avvenga in vista del bene effettivo
delle persone interessate. Questo adeguamento della legge alla concretezza
dei casi e delle persone è un esercizio tanto essenziale quanto difficile.
Affinché la funzione giudiziaria penale non diventi un meccanismo cinico e
impersonale, occorrono persone equilibrate e preparate, ma soprattutto
appassionate – appassionate! – della giustizia, consapevoli del grave dovere
e della grande responsabilità che assolvono. Solo così la legge – ogni legge,
non solo quella penale – non sarà fine a sé stessa, ma al servizio delle
persone coinvolte, siano essi i responsabili dei reati o coloro che sono stati
offesi. Al tempo stesso, operando come strumento di giustizia sostanziale e
non solo formale, la legge penale potrà assolvere il compito di presidio
reale ed efficace dei beni giuridici essenziali della collettività. E dobbiamo
andare, certamente, verso una giustizia penale restaurativa.
In ogni delitto c’è una parte lesa e ci sono due legami danneggiati: quello
del responsabile del fatto con la sua vittima e quello dello stesso con la
società. Tra la pena e il delitto esiste una asimmetria e il compimento di un
male non giustifica l’imposizione di un altro male come risposta. Si tratta di
fare giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore.
Nella visione cristiana del mondo, il modello della giustizia trova
perfetta incarnazione nella vita di Gesù, il quale, dopo essere stato trattato
con disprezzo e addirittura con violenza che lo portò alla morte, in ultima
istanza, nella sua risurrezione, porta un messaggio di pace, perdono e
riconciliazione. Questi sono valori difficili da raggiungere ma necessari per
la vita buona di tutti.
E per quanto riguarda la pena, bisogna pensare a fondo al modo di
gestire le carceri, al modo di seminare speranza di reinserimento; e pensare
se la pena è capace di portare lì questa persona; e anche
l’accompagnamento a questo. E ripensare sul serio l’ergastolo, che è una
pena di morte nascosta.
Le nostre società sono chiamate ad avanzare verso un modello di
giustizia fondato sul dialogo, sull’incontro, perché là dove possibile siano
restaurati i legami intaccati dal delitto e riparato il danno recato. Non credo
che sia un’utopia, ma certo è una grande sfida. Una sfida che dobbiamo
affrontare tutti se vogliamo trattare i problemi della nostra convivenza civile
in modo razionale, pacifico e democratico.
MARCO POZZA
Mattutino
La notte in carcere

La notte in galera ha orecchie potentissime. Il giorno, invece, ha occhi che


sono di un’acutezza colorata: la notte porta consiglio, s’insegna ai bambini
prima di una decisione da acciuffare. Magari, in carcere, la notte portasse
consiglio: sta di fatto invece che al risveglio ti lascia addosso un sacco di
domande. Domande agguerrite, letali, pungenti. Una sola persona, però, a
cui chiedere risposta: «In Marocco, adesso, chissà cosa stanno facendo».
L’uomo appollaiato alla finestra è beduino: i moreschi son gente tollerante, i
beduini intransigenti. La sua terra è di quelle dove si mescolano favole e
poesie, la accarezza il vento, le burrasche la attraversano come fossero
coltelli: «Ogni città ha la sua medina,» dice quando si volta «ogni medina
ha il suo bazar, ogni bazar ha la sua casa aperta per gli ospiti». Di notte,
quand’era laggiù, amava attraversare il deserto in compagnia: «Ero
giovanissimo, un ragazzo, mi affascinava il turismo: incontrare i turisti,
fargli una proposta di viaggio, fargli assaporare la magia della mia terra è
stato il mio lavoro per anni». Le dune di Merzouga, l’odore colorato delle
pelli di Fes e Meknes, gli incantatori di serpenti nella piazza di Marrakech.
Le oasi beduine, i cammelli, le notti sotto le stelle: «Quando partivano per
tornarsene a casa, sentivo una forte nostalgia: iniziavo a piangere, mi
accorgevo di essermi affezionato a loro».
Dall’oceano viene il vento, nel vento volano le cicogne, diceva suo
nonno.
Era un beduino-viaggiatore anche lui.

Signore, apri le mie labbra.


E la mia bocca proclami la tua lode. (Invitatorio)

La peggior menzogna, qui dentro, è non esporsi, per il rischio


d’incontrarsi.
Continua a guardare oltre le sbarre: anche qui le stelle suonano in cielo,
la luna fa la birichina là in mezzo, l’autostrada sostituisce le rotte sulle
sabbie. Le montagne, in lontananza, richiamano la catena dell’Atlante: i
viaggi con il nonno, le peripezie di bambino. Le città che sono immensi
laghi di luce. Qui, invece, la città è stretta, non ha vie d’uscita, è un paese
lastricato di ferro e cemento, tutto chiuso ventiquattr’ore su ventiquattro:
«Di notte, qui dentro, ritrovo in sogno mia figlia, la mia compagna». Fissa
l’oscurità, come si fissa un qualcosa di accecante. «Non ci sono più, le ho
ammazzate io.» La gelosia è figlia dell’orgoglio ma ama spargere in giro la
voce di essere la sorella gemella dell’amore: ama afferrarti il collo, l’amore
invece ti prende per mano. «Lei era una turista: le ho fatto da guida, mi
sono innamorato follemente di lei e sono venuto qui in Italia. Con lei sono
diventato padre, lei con me è diventata madre. Poi, un giorno, ho visto
tuttobuio: le ho ammazzate io, tutte e due.» È l’inizio della notte, buia come
il capo d’imputazione: sarà omicidio premeditato, aggravato dalla crudeltà.
Mattanza di coltelli, coltellate. La galera, d’ora in avanti, non sarà più solo
una condanna da espiare, ma una memoria impossibile da muovere:
«Quando penso alle volte che ho poggiato la mano sul volto delle mie due
donne, la vergogna sta di casa sulla mia brutta faccia». E il giovane beduino
di Marrakech scopre d’essersi fatto assassino: qui la notte non porta
consiglio, procura angoscia. Angoscia folle, assassina pure lei, sempre in
stato di parto: «Il male è affascinante,» parla come se stesse ragionando tra
sé «ma è distruttivo: il fatto è che non ti accorgi mentre lo stai vivendo. Il
bene, invece, è suggestivo: te ne accorgi, però, quando sei già seduto in
braccio al male». Il bene somiglia molto alle città marocchine: sono
immensi laghi di luce. Per assaporarlo, però, pare necessario adocchiarlo
dai laghi delle tenebre.
Qui dentro, di primo mattino, basta una scintilla di memoria a far
scoppiare un incendio: «Quello che ho fatto è di un’ingiustizia folle: ho
tolto la vita alla mia compagna» racconta per raccontarselo ancora una
volta. «Non è bastato: l’ho tolta anche alla nostra bambina. A metterla al
mondo e a cacciarla dal mondo è stato lo stesso uomo. Sono stato io.» Sono
infiniti i modi di combattere, vincere: anche di seppellire, di seppellirsi.
«Tante volte, da bambino, quando capitava di vedere delle preferenze
dicevo: “Non è giusto”. Mi sentivo come derubato del mio diritto di essere
rispettato. Poi, quel giorno, son diventato il volto dell’ingiustizia: ho
ammazzato una doppia vita. Di giorno,» lo ammette non riuscendo a farne a
meno «è come se arginassi questo pensiero, ma la notte me lo rigetta
addosso ch’è da morire.» In carcere poche volte la notte ti dà ragione, il più
delle volte la toglie: si prendono la rivincita cose che, di giorno, hai
disprezzato silenziandole.
In Marocco chi non resiste si infila nel naso una foglia di menta fresca.
Qui in carcere, chi non resiste deve imparare a farlo. È di notte, da queste
parti, che ci si allena alla resistenza: rumori amplificati, pensieri e assenze
amplificate. La notte è la prova che un giorno non è sufficiente per capire.
Per accettare di non riuscire a capire: «Una sera, quando vivevo a casa dei
miei suoceri, ho sentito al TG di una mamma che ha ucciso il suo bambino.
Dentro di me dicevo: “Ma come è possibile fare un gesto del genere?”. Un
giorno, poi, quel gesto l’ho fatto io: sono sprofondato in un incubo dal quale
non sono più uscito». E il deserto, quello sabbioso di Merzouga, s’è fatto
ferroso, un’estesa colata di ferro e pazzia. «Mi hanno arrestato, ingiustizia,
il giorno del compleanno. Quando gliel’ho detto, uno dei poliziotti mi ha
offerto da bere. Avrei voluto sprofondare a terra: quella gentilezza non me
la meritavo, non meritavo d’essere trattato così. Però, forse, ne avevo
bisogno.» La colorazione del cielo è l’annunciazione di un giorno in
procinto d’arrivare: sarà l’ennesimo di un ergastolo tutto da scontare.

Se ascoltaste oggi la sua voce! “Non indurite il cuore,


come a Merìba, come nel giorno di Massa
nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova,
pur avendo visto le mie opere.” (Invitatorio)

In cella, sul tavolo, c’è un album di fotografie marocchine: fette di


melone, i bambini legati sulle spalle, uomini pigiati nelle viuzze, il sole nei
cortili delle case e i serpenti arrotolati al collo dei giocolieri. Fes, Meknes,
Essaouira, Marrakech, Rabat. La capitale Casablanca. Foto personali: risate
giovanili, corse nervose, magliette sdrucite, pantaloni piegati fino al
ginocchio, costumi vistosi. Conquista dell’acqua, dell’aria. Conquista della
libertà. Quaggiù ogni città ha il suo carcere, ogni carcere ha le sue celle,
ogni cella ha i suoi ricordi aperti sul mondo: «Io quand’ero bambino mi
immaginavo tutta un’altra vita. Questa non è vita. Però io ho tolto la vita,
una doppia-vita: l’ingiustizia d’avermi tolto la libertà è il prezzo da pagare
per essere stato ingiusto quella maledetta volta». Non solo quella volta: «Il
male è un grandissimo bastardo. Si presenta con i prestanomi: invidia,
gelosia, odio, diffidenza. All’inizio non ci mette la faccia: poi, quando ti ha
fatto firmare il contratto, si strappa via la maschera e si dichiara. È già tardi,
però, per tentare di scappargli via». Ti ha fatto chiamare giustizia
l’ingiustizia, e viceversa. Anche il diavolo è nei dettagli: è la prova vivente
dell’esistenza della confusione.
«Impiccarmi? Non sono capace: ci vorrebbe una dose di coraggio che
non ho per riuscire a farlo.» Dunque, che fare: esistere, sopravvivere,
vivere? «Qui dentro, la vita certi giorni è una cosa impossibile. Un girone
infernale.» Quello che dovrebbe essere il paese della giustizia riparata,
sovente diventa terra dei poveri depredati. E la giustizia da scudo dei deboli
diventa un club per i potenti: anche il male ha i suoi fanfaroni da sistemare.
«Approfitto del tempo: provo a recuperare il tempo perduto, a riparare una
storia frantumata. Sono come una macchina che si vorrebbe mandare a
demolire.» L’esempio calza su misura per l’uomo di Marrakech: «Da
ragazzo, a un certo punto, ho dovuto abbandonare la scuola per aiutare la
mia famiglia: il mio primo lavoro è stato quello di fare il meccanico».
Imparando a riparare le macchine, senz’accorgersi si imparerà un giorno a
riparare le storie. Per non cestinarle: «Servono uomini con gli stivali ai
piedi per muoversi nel fango» mi ammonisce. Il suo è un sorriso triste.
Anche il carcere, lentamente, si sta risvegliando. Poco distante da qui,
nel tribunale della città, anche le leggi si stanno rivestendo per una nuova
giornata di processi, faldoni, accuse: anche oggi, forse, accadrà che le
mosche piccole rimarranno impigliate nel labirinto dei cavilli mentre quelle
grosse sfonderanno il codice penale: «La giustizia dovrebbe essere uno
scudo per i deboli, invece è una sorta di scudo per i potenti» mi confida.
«Non cerco scusanti: rimarrò per sempre un assassino, io ho ucciso. Con
altri, però, qui dentro la giustizia è stata ingiusta.» Giustizia ingiusta,
parrebbe quasi un ossimoro se solamente non la si incontrasse in carne e
ossa. Fuori dalla cella, fra poco sembrerà d’essere in una drogheria di
Rabat: l’aria impregnata dell’odore delle spezie, di incensi drogati di varia
natura, di dubbia provenienza. Voci, vociare e suoni provenienti da tutto il
mondo, pigiati come se il corridoio della galera fosse una viuzza di
Casablanca. Qui, qualcuno, sopravviverà anche grazie all’odio. È la vita:
«A quest’ora, nelle oasi di Merzouga, i beduini si svegliano per preparare il
tè ai pellegrini che son ancora nelle tende» rievoca il suo vecchio mestiere.
«Era il mio momento: non era più notte, non era ancora giorno. Come dirti?
Era una sorta di promessa.»
Nessuno, poi, promette così tanto come colui che sa di non mantenere.
Certe notti è un peccato prendere sonno: ci sono storie disposte a
lasciarsi guardare senza opporre resistenza. Di giorno fanno le preziose, di
notte diventano preziose. Dall’oceano viene il vento e nel vento volano le
cicogne.

Di notte, mentre tutti dormono, tutto è lì per te. A tua disposizione.


Poi «ci sono (anche) notti che non accadono mai» (A. Merini).
Ciò non toglie che la notte abbia la forma di ciò che ti manca:
un’ingiustizia giusta. Nessuna preghiera, ma una fede immensa.
Che domattina sia diverso.
L’incostanza e la fortezza
Giotto ha dipinto l’incostanza come una donna che si regge in precario
equilibrio su una ruota che corre verso il basso. Il mantello svolazzante
lascia intendere che sia sul punto di cadere: arriva la tentazione, cade!
Penso all’incostanza e mi viene in mente una frase: «Ci proverò domani!».
Oppure si iniziano mille attività senza portarne a compimento nessuna.
Vivere la vita da incostanti è come vivere continuando a disegnare l’ideale
senza però cercare di concretizzarlo. Vorrei seguire il Signore, ma… Vorrei
sposarmi, ma… Vorrei cambiare vita, ma… La parte angelica della virtù, se
non si lascia interpellare dalla realtà, rischia di rimanere qualcosa di
vacuo. In più, si corre anche il rischio di non calcolare la provvidenza con i
suoi agguati.

Sì, l’incostanza è il «ma». C’è sempre come un freno: domani, lo farò


domani… È una catena di «ma, ma, ma…» o di «domani, domani,
domani…». Ma questa catena di «oggi no, forse domani» indebolisce la
vita: l’incostanza porta a una debolezza della libertà e l’incostante finisce
nelle mani dei vizi che lo dominano. Non va avanti, non ha il coraggio di
prendere la volontà o l’ideale e renderli concreti oggi, in questo momento.
La filosofia del «ma però»…

Papa Francesco, quando lei si rivolge ai giovani parla spesso della


speranza, dei sogni, degli ideali da perseguire. È la speranza il contraltare
dell’incostanza?

Un giovane che cade vittima dell’incostanza – e ce ne sono tanti – perde la


volontà, è abulico. E se perdi la volontà e non sei capace di andare avanti,
per vincere i problemi, per superare gli ostacoli che incontri nella vita,
finirai nella droga. Non parlo di stupefacenti, di tossicodipendenza: parlo di
una vita drogata dall’abulia. È brutto dirlo, è una tragedia: il numero dei
suicidi giovanili è molto grande. In gran parte i giovani si suicidano perché
hanno perso ogni illusione, non trovano nella vita una strada per andare
avanti, e finiscono distrutti, autodistrutti. L’incostanza ti autodistrugge.
Questo «domani, domani, domani…» che mai arriverà.

E forse è per questo che Giotto si inventa l’incostanza come «parassita»


della fortezza.

Eh, ti mangia da dentro.

La risposta della virtù all’incostanza è la fortezza, che io tengo sempre


molto legata anche al tema della profezia.

Come ho detto più volte, oggi più che mai abbiamo bisogno di vera
profezia. E la vera profezia è molto concreta: gente che con la sua
testimonianza dimostra che il Vangelo è possibile. La Chiesa è profetica se
tutti facciamo il nostro dovere, che è servire. La fortezza del profeta è la
capacità di dire cose forti quando serve, di piangere su un popolo che ha
abbandonato il servizio della verità, di pregare guardando Dio negli occhi.
Per tutti noi c’è una profezia: ognuno di noi è stato chiamato a diventare
pietra viva di Cristo, così come Simone è stato trasformato in Pietro.
L’incostanza – il cedimento alla noia, la perdita di una visione d’insieme
della vita, il vivere a compartimenti stagni – è il vizio che ci impedisce di
compiere la nostra profezia.

Per Giotto, la fortezza è una donna che con una mano brandisce una mazza
e con l’altra sorregge uno scudo. Ha come mantello una pelle di leone e
come elmo la testa del leone. Quando la guardo non penso che la sua sia
arroganza: presuppone la fragilità. Penso alla splendida frase di san
Paolo: «Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia
che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi»
(2Cor 4,7). Questa fragilità riesce a spingersi fino al martirio, che è la
risposta virtuosa al vizio dell’aggressività.
La fortezza è la virtù dei poveri. Il povero per sopravvivere ha bisogno di
essere forte. Se non lo è, cade. Io penso alle famiglie povere, al papà e alla
mamma che si alzano per andare a lavorare e fanno magari due ore in
autobus per andare al lavoro. Si alzano presto e tornano tardi. Tutti i giorni
lo stesso, anche la domenica perché pagano il doppio. Ne hanno bisogno
per i figli. La fortezza di quell’uomo, la fortezza di quella mamma che sa
crescere i figli nella povertà. Inventa anche i pasti con gli ingredienti meno
costosi, ma li presenta ai figli come se fossero un banchetto. È sempre la
fortezza in azione… Per questo i poveri sono beati, perché la povertà è
strettamente legata alla fortezza. Tu sei povero, ma non sei uno sconfitto. È
questo che mi seduce di quella gente che lotta per la vita e se capita un
problema, una malattia, cadono ma si rialzano subito e vanno avanti,
sempre avanti: hanno la fortezza di rialzarsi tutti i giorni, la fortezza di non
lasciarsi abbattere dall’insuccesso e dalla povertà. È vero, se sono povero è
più facile cedere alla tentazione di rubare: lo fanno tanti ricchi, perché non
posso farlo io? Quelli rubano con guanti di seta – non tutti, certo, ma ci
sono ricchi che rubano – perché non posso farlo io che sono povero? Ma la
fortezza porta alla eroicità. È la fortezza dei valori. Quando ho incontrato i
carabinieri ho ricordato la figura di quel ragazzo nemmeno ventitreenne,
Salvo D’Acquisto, che dà la vita per il suo popolo. Lui, carabiniere, per
salvare gli ostaggi di una rappresaglia nazista si accusa di un attentato che
non ha commesso, e viene fucilato al posto di altri innocenti. Quella è la
fortezza fino alla fine. Una mamma che dà la vita per i figli. Genitori che
seguono e accudiscono figli disabili. Sono «i santi della porta accanto». La
fortezza si vede meglio nei casi estremi, ma esiste anche nella quotidianità.
È una virtù nascosta, ma è la virtù che ci sorregge. Come diceva don Primo
Mazzolari: «l’Agnello c’insegna la fortezza: l’Umiliato ci dà lezioni di
dignità: il Condannato esalta la giustizia: il Morente conferma la vita: il
Crocifisso prepara la gloria».

È l’immagine suggestiva di fra Cristoforo appena uscito dall’incontro


fallimentare con don Rodrigo. Così scrive meravigliosamente Manzoni
all’inizio del capitolo VII dei Promessi sposi: «Il padre Cristoforo arrivava
nell’attitudine d’un buon capitano che, perduta, senza sua colpa, una
battaglia importante, afflitto ma non scoraggito, sopra pensiero ma non
sbalordito, di corsa e non in fuga, si porta dove il bisogno lo chiede, a
premunire i luoghi minacciati, a raccoglier le truppe, a dar nuovi ordini». I
santi sono l’immagine perpetua della fortezza cristiana, l’esatto contrario
dell’omertà: i santi son gente imprevedibile, dal momento che partecipano
alla vita.

È bellissima quella descrizione. Fra Cristoforo è l’immagine (non


l’immaginetta…) di un santo molto umano, che sperimenta la fatica e i
fallimenti dell’esistenza, che ha peccato e grazie al Signore ha trovato la
forza di rialzarsi.

Un conto è la forza, un altro la fortezza.

La fortezza è la capacità di rialzarsi. O di lasciarsi aiutare ad alzarsi.


PAPA FRANCESCO
Il coraggio e la profezia

Nella festa dei due apostoli di Roma, Pietro e Paolo, vorrei condividere con
voi due parole-chiave: unità e profezia.
Unità. Celebriamo insieme due figure molto diverse: Pietro era un
pescatore che passava le giornate tra i remi e le reti, Paolo un colto fariseo
che insegnava nelle sinagoghe. Quando andarono in missione, Pietro si
rivolse ai giudei, Paolo ai pagani. E quando le loro strade si incrociarono,
discussero in modo animato, come Paolo non si vergogna di raccontare in
una lettera (cfr. Gal 2,11 ss.). Erano insomma due persone tra le più
differenti, ma si sentivano fratelli, come in una famiglia unita, dove spesso
si discute ma sempre ci si ama. Però la familiarità che li legava non veniva
da inclinazioni naturali, ma dal Signore. Egli non ci ha comandato di
piacerci, ma di amarci. È Lui che ci unisce, senza uniformarci. Ci unisce
nelle differenze.
Il capitolo 12 degli Atti degli apostoli ci porta alla sorgente di questa
unità. Racconta che la Chiesa, appena nata, attraversava una fase critica:
Erode infuriava, la persecuzione era violenta, l’apostolo Giacomo era stato
ucciso. E ora anche Pietro viene arrestato. La comunità sembra decapitata,
ciascuno teme per la propria vita. Eppure in questo momento tragico
nessuno si dà alla fuga, nessuno pensa a salvarsi la pelle, nessuno
abbandona gli altri, ma tutti pregano insieme. Dalla preghiera attingono
coraggio, dalla preghiera viene un’unità più forte di qualsiasi minaccia. Il
testo dice che «mentre Pietro era tenuto in carcere, dalla Chiesa saliva
incessantemente a Dio una preghiera per lui» (At 12,5). L’unità è un
principio che si attiva con la preghiera, perché la preghiera permette allo
Spirito Santo di intervenire, di aprire alla speranza, di accorciare le
distanze, di tenerci insieme nelle difficoltà.
Notiamo un’altra cosa: in quei frangenti drammatici nessuno si lamenta
del male, delle persecuzioni, di Erode. Nessuno insulta Erode – e noi siamo
tanto abituati a insultare i responsabili. È inutile, e pure noioso, che i
cristiani sprechino tempo a lamentarsi del mondo, della società, di quello
che non va. Le lamentele non cambiano nulla. Ricordiamoci che le
lamentele sono la seconda porta chiusa allo Spirito Santo: la prima è il
narcisismo, la seconda lo scoraggiamento, la terza il pessimismo. Il
narcisismo ti porta allo specchio, a guardarti continuamente; lo
scoraggiamento, alle lamentele; il pessimismo, al buio, all’oscurità. Questi
tre atteggiamenti chiudono la porta allo Spirito Santo. Quei cristiani non
incolpavano ma pregavano. In quella comunità nessuno diceva: «Se Pietro
fosse stato più cauto, non saremmo in questa situazione». Nessuno. Pietro,
umanamente, aveva motivi di essere criticato, ma nessuno lo criticava. Non
sparlavano di lui, ma pregavano per lui. Non parlavano alle spalle, ma
parlavano a Dio. E noi oggi possiamo chiederci: «Custodiamo la nostra
unità con la preghiera, la nostra unità della Chiesa? Preghiamo gli uni per
gli altri?». Che cosa accadrebbe se si pregasse di più e si mormorasse di
meno, con la lingua un po’ tranquillizzata? Quello che successe a Pietro in
carcere: come allora, tante porte che separano si aprirebbero, tante catene
che paralizzano cadrebbero. E noi saremmo meravigliati, come quella
ragazza che, vedendo Pietro alla porta, non riusciva ad aprire, ma corse
dentro, stupita per la gioia di vedere Pietro (cfr. At 12,10-17). Chiediamo la
grazia di saper pregare gli uni per gli altri. San Paolo esortava i cristiani a
pregare per tutti e prima di tutto per chi governa (cfr. 1Tm 2,1-3). «Ma
questo governante è…», e i qualificativi sono tanti; io non li dirò, perché
questo non è il momento né il posto per dire i qualificativi che si sentono
contro i governanti. Che li giudichi Dio, ma preghiamo per i governanti!
Preghiamo: hanno bisogno della preghiera. È un compito che il Signore ci
affida. Lo facciamo? Oppure parliamo, insultiamo, e basta? Dio si attende
che quando preghiamo ci ricordiamo anche di chi non la pensa come noi, di
chi ci ha chiuso la porta in faccia, di chi fatichiamo a perdonare. Solo la
preghiera scioglie le catene, come a Pietro; solo la preghiera spiana la via
all’unità.
La seconda parola, profezia. Unità e profezia. I nostri apostoli sono stati
provocati da Gesù. Pietro si è sentito chiedere: «Tu, chi dici che io sia?»
(cfr. Mt 16,15). In quel momento ha capito che al Signore non interessano le
opinioni generali, ma la scelta personale di seguirlo. Anche la vita di Paolo
è cambiata dopo una provocazione di Gesù: «Saulo, Saulo, perché mi
perseguiti?» (At 9,4). Il Signore lo ha scosso dentro: più che farlo cadere a
terra sulla via di Damasco, ha fatto cadere la sua presunzione di uomo
religioso e per bene. Così il fiero Saulo è diventato Paolo: Paolo, che
significa «piccolo». A queste provocazioni, a questi ribaltamenti di vita
seguono le profezie: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia
Chiesa» (Mt 16,18); e a Paolo: «È lo strumento che ho scelto per me,
affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni» (At 9,15). Dunque, la
profezia nasce quando ci si lascia provocare da Dio: non quando si gestisce
la propria tranquillità e si tiene tutto sotto controllo. Non nasce dai miei
pensieri, non nasce dal mio cuore chiuso. Nasce se noi ci lasciamo
provocare da Dio. Quando il Vangelo ribalta le certezze, scaturisce la
profezia. Solo chi si apre alle sorprese di Dio diventa profeta. Ed eccoli
Pietro e Paolo, profeti che vedono più in là: Pietro per primo proclama che
Gesù è «il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16); Paolo anticipa il
finale della propria vita: «Mi resta soltanto la corona di giustizia che il
Signore […] mi concederà» (2Tm 4,8).
Oggi abbiamo bisogno di profezia, ma di profezia vera: non di parolai
che promettono l’impossibile, ma di testimonianze che il Vangelo è
possibile. Non servono manifestazioni miracolose. A me fa dolore quando
sento proclamare: «Vogliamo una Chiesa profetica». Bene. Cosa fai, perché
la Chiesa sia profetica? Servono vite che manifestano il miracolo
dell’amore di Dio. Non potenza, ma coerenza. Non parole, ma preghiera.
Non proclami, ma servizio. Tu vuoi una Chiesa profetica? Incomincia a
servire, e stai zitto. Non teoria, ma testimonianza. Non abbiamo bisogno di
essere ricchi, ma di amare i poveri; non di guadagnare per noi, ma di
spenderci per gli altri; non del consenso del mondo, quello stare bene con
tutti (da noi si dice «stare bene con Dio e con il diavolo», stare bene con
tutti); no, questo non è profezia. Ma abbiamo bisogno della gioia per il
mondo che verrà; non di quei progetti pastorali che sembrano avere in sé la
propria efficienza, come se fossero dei sacramenti, progetti pastorali
efficienti, no, ma abbiamo bisogno di pastori che offrono la vita: di
innamorati di Dio. Così Pietro e Paolo hanno annunciato Gesù, da
innamorati. Pietro, prima di essere messo in croce, non pensa a sé ma al suo
Signore e, ritenendosi indegno di morire come Lui, chiede di essere
crocifisso a testa in giù. Paolo, prima di venire decapitato, pensa solo a
donare la vita e scrive che vuole essere «versato in offerta» (2Tm 4,6).
Questa è profezia. Non parole. Questa è profezia, la profezia che cambia la
storia.
Gesù ha profetizzato a Pietro: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò
la mia Chiesa». Anche per noi c’è una profezia simile. Si trova nell’ultimo
libro della Bibbia, dove Gesù promette ai suoi testimoni fedeli «una
pietruzza bianca, sulla quale sta scritto un nome nuovo» (Ap 2,17). Come il
Signore ha trasformato Simone in Pietro, così chiama ciascuno di noi, per
farci pietre vive con cui costruire una Chiesa e un’umanità rinnovate. C’è
sempre chi distrugge l’unità e chi spegne la profezia, ma il Signore crede in
noi e chiede a te: «Tu, vuoi essere costruttore di unità? Vuoi essere profeta
del mio cielo sulla terra?». Fratelli e sorelle, lasciamoci provocare da Gesù
e troviamo il coraggio di dirgli: «Sì, lo voglio!».
MARCO POZZA
Lodi
Il risveglio

Scrutate da lontano all’albeggiare della giornata, le finestre delle celle con


la luce accesa lavorano al contrario, come le finestre di una casa:
mantengono intrappolato dentro l’interno, tengono fuori l’esterno. È uno
spreco consegnare al soffitto il primo sguardo del mattino: «A svegliarmi è
il rumore delle chiavi con cui gli agenti aprono le porte della cella» mi
racconta l’uomo che, con la moka in mano, si sta preparando il caffè. «È un
risveglio brusco. Appena alzato, vedo le sbarre, scappo a lavarmi la faccia:
voglio vedere come mi sono svegliato.» Il carcere, vedendolo così, ringrazia
d’essere riuscito a uccidere il bambino ch’è stato: ti scopri uomo quando,
appena alzato, invece che guardare dalla finestra guardi allo specchio.
Scordando di spalancare gli occhi sul mondo. Certi mattini iniziano sempre
quando si è addormentati: «La brezza del mattino ha segreti da dirti. Non
tornare a dormire» (Rumi). Gli occhi aperti, ancor prima delle finestre: ed è
tutt’altro mattino.

Già l’ombra della notte si dilegua,


un’alba nuova sorge all’orizzonte:
con il cuore e la mente salutiamo
il Dio di gloria. (Lodi mattutine)

L’interno della cella è finto-vintage: due letti, una tavola scartavetrata,


un frigorifero, due armadi di fortuna. Al di là della porticina, un water dove
sostare a far i bisogni e, giusto di fronte, il fornello per cucinare le pietanze.
Sopra la carta igienica stanno appese, ai chiodi, le pentole, le cipolle, il
basilico. Sotto, il Dash. Con i vestiti si riempiono gli ultimi spazi rimasti
vuoti: è la forma più evoluta, e meno vivibile, di «ottimizzazione degli
spazi abitativi». Per svegliarsi, comunque, basta un caffè. Se non ti basta,
dovrà bastarti: qui non ci sono principesse che svegliano i principi
addormentati. «La mia colazione è molto povera: un caffè, due biscotti da
inzupparci dentro, un meccanismo di pensieri ai quali dare retta subito,
hanno fame.» Il pensiero più onnivoro, che è sempre il ricordo dell’ultima
colazione fatta a casa: «Sorseggiavo il caffè con mia moglie, la bambina.
Poi mi piaceva guardare fuori dalla finestra». L’uomo, dall’Albania, si è
portato in dote in Italia la sua balbuzie. La balbuzie del cuore prima che
quella delle sillabe: «Mi ricordo di una mattina di gennaio: faceva
freddissimo. Mi sono svegliato presto perché la bambina, che dormiva
assieme a noi due nel letto, mi colpiva dandomi calci. Mi sono alzato, fuori
nevicava: l’ho presa in braccio, siamo andati vicino alla finestra e mi sono
accorto che lei voleva parlare con la neve. Siamo rimasti lì a fissare il
paesaggio mezz’ora: era bellissimo». Adesso, fuori dalla finestra della cella,
una cascata di spazzatura ha preso il posto della neve: quattro gabbiani
infradiciati di fognatura stanno appollaiati dinanzi alla cella. Attendono gli
avanzi, un’avance: «Njeriu meson kur eshte i ri dhe kupton kur plaket. È un
proverbio albanese: l’uomo impara da giovane, ma capisce solo quando
invecchia». I proverbi si vedono in azione, non si spiegano a parole.
Sono come i disegni dei bambini: non si raccontano, si guardano.
Il carcere è una fortezza, il bastione dove vengono mandati in vacanza
gli assaltatori che hanno fallito. È la fortezza dell’incostanza: «Mi sono
sposato a ventidue anni: quel giorno ho promesso a mia moglie che mi sarei
preso cura di lei, della nostra famiglia per il resto della vita. Ho promesso,
non ho mantenuto: ho fallito come figlio, come marito, come papà.
Costante un cazzo». Promesse sprecate, occasioni disattese, giuramenti
traditi: incostanza, per l’appunto. «Mia figlia è un’orfana con un padre ch’è
vivo ma assente.» Di stabile, dentro le celle, ci sono solamente i chiodi che
tengono fisse le mensole appese: tutto il resto è in equilibrio precario. Una
fortezza in fase di non-equilibrio stabile: «Qui le cose più stabili sono le
cose provvisorie: così ti vedi costretto a vivere alla giornata». Funziona
come fuori, comunque: nulla è più definitivo di ciò che è provvisorio.
L’emergenza diventa quotidianità, l’informazione si tramuta in spavento,
l’uomo si fa di burro. O di bronzo, a seconda della giornata che si trova ad
azzannare.
L’uomo, però, può diventare tutto ciò che sceglie di essere: deve,
dunque, perché può. La tempesta è l’occasione del cipresso per mostrare la
sua fortezza alla foresta: «Come posso spiegartelo?» riflette mentre mescola
il caffè con lo zucchero, dividendolo in due bicchierini. «Son stato
incostante nel bene: non sono nato cattivo, semplicemente sono stato un
debole, non sono stato capace di fiutare la trappola nascosta nella strada che
stavo per imboccare.» L’arresto è il traguardo dell’incostanza: «Ricordo il
giorno, il mese, l’anno, com’ero vestito, cosa stavo facendo. Ricordo tutto
esattamente: è stato uno shock. Con l’accusa come aggravante: omicidio.
Non ho dormito tutta la notte: quella sera è entrata in carcere anche la mia
famiglia. Pur libera, dall’altra parte dell’Adriatico». Sono i proverbi che,
quando metton piede a terra, diventano storia: «E keqja vjen me krahet e
zogut e ik me kamet e breshkes (“Il male arriva con le ali di un uccello e va
via con il passo di una tartaruga”), ripeteva il nonno quando voleva
spiegarci una cosa usando un proverbio per farsi capire meglio. Il mio è
male-tartaruga».
Stordito dall’aroma del caffè, anche l’altro compagno di cella si sveglia.
Nel vederlo fare le prime manovre per scendere dal letto, penso che se il
mattino ha una marcia in più, quella marcia a certi uomini proprio non
entra: ha problemi di deambulazione mattutina. Alzatosi, si affaccia alla
finestra, mette fuori il naso e sbiascica qualche parola. «Che ha detto,
scusa?» Me la traduce: «Dice che è così freddo che servirebbero tre
passamontagna invece che un berretto». Buon sangue non mente, penso.
Ridiamo tutti e tre: «Mi viene in mente un film che ho visto nel carcere
dov’ero prima» rientra dopo la digressione. «C’era una scena dove il
protagonista diceva: “La mattina la gente si sveglia e dice: ‘Da oggi cambio
vita’. Invece non lo fa mai”. Qui dentro c’è gente che vive anni così» mi
dice. Verso sera, non solo nelle galere, i bidoni della spazzatura sono pieni
di propositi scaduti: «Mia figlia. È grazie a lei che ho trovato il coraggio di
espormi nei confronti del mio passato: “Basta,” le ho detto un giorno “da
oggi si cambia!” e sto tentando in tutti i modi di resistere alla tentazione di
vivere al ribasso».
Il compagno ritorna a dormire, con il caffè in corpo: certe colazioni, al
tempo della galera, servono per trovare la forza di ritornare in branda. È un
elisir: «Lui dice che dormendo non pensa ai problemi che ha» lo giustifica
l’amico mentre si prepara a scendere al lavoro. Poi, quando si risveglia,
maledirà chi l’avrà fatto svegliare: di notte il pipistrello sta accucciato sul
muro, ma la mattina ti piomba addosso. «Ma che problema avete che non la
smettete di parlare?» borbotta da sotto le coperte sdrucite. Vorrebbe che la
gente contasse fino a mezzogiorno prima. «Il brutto è che mai nessuno lo
viene a trovare» mi confida sottovoce. Intuisco che per svegliarsi basti un
semplice caffè, ma per alzarsi servirebbe un sorriso.
Al cancello si deve gridare il nome per farsi aprire. Quando invece
devono chiamare loro, gli agenti, prendono il cognome e lo articolano come
se fossero a pascolare le vacche sui monti: «Anche questa è fortezza – si
dice così?» chiede a fugare il dubbio. «Non si deve cedere alle
provocazioni, altrimenti non finisce mai.» Avrà, forse, letto il Catechismo
della Chiesa Cattolica: «La fortezza è la virtù morale che, nelle difficoltà,
assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene. Rafforza la
decisione di resistere alle tentazioni» (n. 1808). Anche il catechismo, come
i proverbi, qui lo incontri in carne e ossa: «Devo resistere, farmi forza,
continuare a credere che le cose possono cambiare, che posso farle
cambiare. Altrimenti il pensiero di tutti questi anni di galera mi strangola».
Gettato l’amo di una domanda, abboccano fondali di risposte qui dentro.
«Nei dieci minuti di telefonata settimanale che faccio a casa, sento sempre
le parole che ho bisogno di sentire per tentar di resistere.» Nessuno s’illuda
granché, son le parole più semplici: Mi manchi, papà. Fa’ il bravo, figliolo.
Non aver paura: ti sto aspettando. Parole su misura per padri, figli, sposi:
«Sono un padre in carcere, un figlio in carcere, un marito in carcere: sono
attaccabile su tutti i fronti».
Spiegare è già giustificare: «Per anni mi son detto: “Amen, son fatto
così”; sono stanco. Non è vero che sono fatto così; lo sto già dimostrando,
ma vorrei mettesse radici profonde, come il pino che il nonno ha piantato
davanti casa, in Albania. Regge da cent’anni». Da queste parti la lezione
giace in ogni dove: vivere è (r)esistere. Reiniziare a esistere dopo essersi
uccisi. Uccidendosi. «Il volto della mia bambina: sento il cuore spezzarsi
nel non poterla abbracciare la mattina. E poi il volto di mia madre: mi si
spezza il cuore al solo pensiero di non riuscire a ritrovarlo quando uscirò.
Vorrei tornasse a essere orgogliosa di me.»

Quando vi sarete convertiti a lui con tutto il cuore


e con tutta l’anima,
per fare ciò che è giusto davanti a lui,
e allora egli ritornerà a voi
e non vi nasconderà più il suo volto. (Cantico di Tobia)
Morte, miseria, rischio: tre volte grande è l’uomo. Tre volte santo è Dio:
«Il male è affascinante, questo lo sapevo. Non immaginavo, però, che il
bene lo fosse altrettanto». Ritorna sui suoi passi, gli pare di avere esagerato
per difetto: «Forse di più». In fondo alle scale, al cancello, mi saluta: saluta
l’agente che gli apre l’altro cancello: lo attende il lavoro, le mani subito in
pasta. Lavori in corso.
L’ho letta dipinta sul muro della sua cella, l’avrà sicuramente rubata a
suo nonno, l’uomo dei proverbi che s’incarnano: Nderi vjen e iken, por
turpi vjen e nuk iken («L’onore va e viene, la vergogna arriva e non se ne
va»).
Certe vergogne, però, sono buongiorno medicinali.
Perdere un’ora, a quest’ora, è rincorrerla per tutte le ore.
L’ira e la temperanza
L’ira, nella visione di Giotto, è una donna che si sta strappando le vesti, fa
le smorfie con la bocca, ha un naso molto piccolo e due occhi che
somigliano a delle lame. A guardarla bene, è chiaro che possiede dei
lineamenti luciferini, diabolici. Anche il corpo della persona irosa parla:
collo gonfio, sguardo acceso, voce rauca, narici dilatate. Possiede dei
connotati che la tengono legata al peccato originale. Una persona irosa
sostiene sempre di avere ragione, ma raramente ne ha una buona per essere
furiosa.

L’ira distrugge. L’ira è una tempesta il cui scopo è distruggere. Pensiamo al


bullismo fra i giovani. Il bullismo oggi è terribile. È molto presente nelle
scuole. Anche i piccoli hanno la capacità di distruggere l’altro. È l’ira che
ammazza, che ferisce il debole. In Argentina alcuni mesi fa un gruppo di
ragazzi se l’era presa con un giovane di origine paraguayana. Lo hanno
ammazzato di botte e l’hanno lasciato lì, come se fosse un gioco. L’ira è
incosciente. Quando un ragazzo che aveva partecipato al pestaggio ha
incontrato un amico, gli ha detto semplicemente, per aggiornarlo su quello
che era successo: «Ah, abbiamo ammazzato uno. Andiamo a cena?». Non si
era reso conto di quello che aveva fatto. È l’ira che ti porta a questo.

Il bullismo, gli haters online, l’hate speech sono tutte forme di rancore,
odio o superiorità che incoraggiano la discriminazione, la violenza nei
confronti della persona per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi.

Il bullismo nasce quando invece di cercare la propria identità si sminuisce e


si attacca l’identità altrui. E quando nei gruppi giovanili, a scuola, nei
quartieri avvengono episodi di aggressione, di bullismo, si vede la povertà
dell’identità di chi aggredisce. L’unico modo per «guarire» dal bullismo è
condividere, vivere insieme, dialogare, ascoltare l’altro, prendersi del tempo
perché è il tempo che fa la relazione. Ognuno di noi ha qualcosa di buono
da dare all’altro, ognuno di noi ha bisogno di ricevere qualcosa di buono
dall’altro.

C’è un altro territorio dell’ira: la violenza domestica.

La violenza domestica sulle donne: è qualcosa di terribile! Con la pandemia


e le chiusure sono aumentate le donne picchiate. Pare che per alcuni uomini
l’ira sia l’unico modo di sentirsi persone, picchiando, ammazzando perfino,
senza rendersi conto di quello che fanno, e andando avanti a lungo. Ma l’ira
è terribile, ci rende simili al diavolo. La sua vocazione è distruggere. L’ira
trasforma nel suo contrario tutto ciò che è giusto. Chi è posseduto dall’ira è
propenso alla dimenticanza dei suoi doveri: il padre diventa avversario, il
figlio uccide il padre, la madre diventa matrigna, il cittadino nemico del
governante. Per questo dobbiamo stare attenti a non affrontare i problemi
nei momenti di ira.

La prima parola che viene pronunciata dalla letteratura occidentale –


nell’Iliade – è, in maniera inaspettata, proprio la parola ira: «L’ira
rovinosa del Pelide Achille, che infiniti lutti addusse agli Achei, canta(mi) o
diva». È l’esplosione della collera di Achille che mette in moto la
narrazione della guerra di Troia: la guerra è già in corso, ma il lettore ha
modo di conoscerla a partire dall’esplosione di questa rabbia. In che
rapporto sta l’ira di Achille con l’ira di Dio, di cui sentiamo parlare tante
volte anche nei testi della Scrittura?

L’ira di Dio è contro l’ingiustizia, contro Satana. È rivolta contro il male,


non quello che deriva dalla debolezza umana, ma il male di ispirazione
satanica: la corruzione generata da Satana, dietro al quale vanno singoli
uomini, singole donne, intere società. L’ira di Dio intende portare giustizia,
«pulire». Il diluvio è il risultato dell’ira di Dio, lo dice la Bibbia. È una
figura dell’ira di Dio, che secondo la Bibbia ha visto troppe cose brutte e
decide di cancellare l’umanità. Quello biblico, secondo gli esperti, è un
racconto mitico. (Adesso spero che qualcuno non sostenga che il Papa ha
detto che la Bibbia è un mito!) Ma il mito è una forma di conoscenza. Il
diluvio è un racconto storico, dicono gli archeologi, perché hanno trovato
tracce di un’inondazione nei loro scavi. Un diluvio grande, forse a causa di
un innalzamento della temperatura e dello scioglimento dei ghiacciai:
quello che succederà adesso se proseguiamo sulla stessa strada. Dio ha
scatenato la sua ira, ma ha visto un giusto, l’ha preso e l’ha salvato. La
storia di Noè dimostra che l’ira di Dio è anche salvatrice.

Infatti penso a questo episodio, e poi alla grande mediazione da parte di


Mosè, quando, nel capitolo 32 dell’Esodo, dice a Dio: «Innanzitutto calma
la tua collera. Poi ricordati che il popolo è tuo e se proprio devi cancellare
tutti, allora cancella anche me».

E non vuole, diciamo così, negoziare con Dio. Dio lo mette alla prova: «Ti
farò capo di un altro popolo». Ma Mosè rifiuta: «No, o tutti o nessuno».
Questo sì che è un bravo leader; ce ne vorrebbero oggi di leader così.

La virtù che combatte l’ira è la temperanza. Giotto la dipinge come una


donna che ha una cintura di cuoio addosso e la bocca cucita da una
briglia. E qui mi viene in mente un proverbio che diceva sempre la mia
nonna: «Uccide più la lingua che la spada». Però se c’è un’immagine che
io lego alla temperanza è quella del temperino che si usava a scuola:
serviva per temperare la matita perché scrivesse meglio. «Ha una buona
tempra» diciamo di uno che ha una buona resistenza. Forse sbaglio, ma
quando vedo il pancione di una mamma incinta a me viene in mente la
temperanza. Penso: Riesce a moderare tutti gli eccessi per cercare di
salvaguardare la bellezza che c’è dentro di lei.

La temperanza è collegata alla speranza: è capace di guardare oltre, come la


mamma incinta sta guardando al parto, al figlio che avrà, e sogna con gli
occhi del figlio. La temperanza sempre è legata alla fecondità. Perché io
«tempero» le mie esigenze per dare vita a un’altra persona. La temperanza,
le parole giuste… Aveva ragione tua nonna: uccide più la lingua. Io vorrei
tornare un po’ sull’ira, la mancanza di temperanza. Il chiacchiericcio
uccide, è un atto d’ira a bassa voce. Io ti dico una cosa e sporco l’altro. È ira
in tono minore, ma può uccidere. Manca la temperanza di lasciar crescere
l’altra persona, di rispettare l’altra persona. No, io la uccido con la mia
lingua e punto. L’iracondo ha bisogno di distruggere, si sente persona
quando distrugge, quando attacca. Invece la persona dotata di temperanza
ha capito che si devono far crescere le cose in pace. Tempo fa, dovevo
prendere una decisione su un’opera apostolica che incominciava e mi hanno
detto: «Ma dobbiamo mettere le regole adesso? Ma è incominciata solo sei
mesi fa! Ancora non la conosciamo, lasciamola crescere». Perché tu non
puoi mettere il bastone alla pianta quando è piccolina, tu devi lasciarla
crescere e vedere se è dritta o no, e se è inclinata è il caso di affiancarle il
bastone. La temperanza è molto vicina alla pazienza: è lasciare crescere e
vedere.

Nella preghiera di compieta che recitiamo il martedì sera c’è


un’espressione che mi piace da impazzire. Nella lettura breve si dice:
«Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come il leone ruggente
va in giro cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede» (1Pt 5,8-9).
In che rapporto, Papa Francesco, sta la temperanza con la vigilanza?

La vigilanza è un po’ la virtù del padrone del campo, diciamo così, che
guarda come stanno le cose e prende delle decisioni. Gesù continuamente ci
parla di vigilare. «Vigilate. Non siate stolti come queste ragazze che vanno
a nozze e si dimenticano l’olio delle lucerne.» Arrivano poi tardi perché non
hanno previsto, non hanno vigilato. State attenti, vigilate e orate per farvi
trovare pronti. La vigilanza è un po’ unita, sì, alla pazienza e anche alla
mansuetudine.

Come possiamo chiamare l’ira buona?

Zelo, forse? Lo zelo ricorda un po’ l’ira, no? Quando Gesù distrugge i
banchi dei cambiavalute e caccia i mercanti dal Tempio. È lo zelo che
distrugge la sporcizia. È un violento, direbbe qualcuno. Ma no, è lo zelo che
lo porta a far piazza pulita e a mettere le cose al loro posto.
PAPA FRANCESCO
Conflitto e perdono

Il conflitto inevitabile
Il perdono e la riconciliazione sono temi di grande rilievo nel cristianesimo
e, con varie modalità, in altre religioni. Il rischio sta nel non comprendere
adeguatamente le convinzioni dei credenti e presentarle in modo tale che
finiscano per alimentare il fatalismo, l’inerzia o l’ingiustizia, oppure,
dall’altro lato, l’intolleranza e la violenza.
Mai Gesù Cristo ha invitato a fomentare la violenza o l’intolleranza. Egli
stesso condannava apertamente l’uso della forza per imporsi agli altri: «Voi
sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le
opprimono. Tra voi non sarà così» (Mt 20,25-26). D’altra parte, il Vangelo
chiede di perdonare «settanta volte sette» (Mt 18,22) e fa l’esempio del
servo spietato, che era stato perdonato ma a sua volta non è stato capace di
perdonare gli altri (cfr. Mt 18,23-35).
Se leggiamo altri testi del Nuovo Testamento, possiamo notare che di
fatto le prime comunità, immerse in un mondo pagano colmo di corruzione
e di aberrazioni, vivevano un senso di pazienza, tolleranza, comprensione.
Alcuni testi sono molto chiari al riguardo: si invita a riprendere gli avversari
con dolcezza (cfr. 2Tm 2,25). Si raccomanda «di non parlare male di
nessuno, di evitare le liti, di essere mansueti, mostrando ogni mitezza verso
tutti gli uomini. Anche noi un tempo eravamo insensati» (Tt 3,2-3). Il libro
degli Atti degli apostoli afferma che i discepoli, perseguitati da alcune
autorità, «godevano il favore di tutto il popolo» (cfr. At 2,47; 4,21.33; 5,13).
Tuttavia, quando riflettiamo sul perdono, sulla pace e sulla concordia
sociale, ci imbattiamo in un’espressione di Cristo che ci sorprende: «Non
crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare
non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la
figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e nemici dell’uomo saranno
quelli della sua casa» (Mt 10,34-36). È importante situarla nel contesto del
capitolo in cui è inserita. Lì è chiaro che il tema di cui si tratta è quello della
fedeltà alla propria scelta, senza vergogna, benché ciò procuri contrarietà, e
anche se le persone care si oppongono a tale scelta. Pertanto, tali parole non
invitano a cercare conflitti, ma semplicemente a sopportare il conflitto
inevitabile, perché il rispetto umano non porti a venir meno alla fedeltà in
ossequio a una presunta pace familiare o sociale. San Giovanni Paolo II ha
affermato che la Chiesa «non intende condannare ogni e qualsiasi forma di
conflittualità sociale: la Chiesa sa bene che nella storia i conflitti di interessi
tra diversi gruppi sociali insorgono inevitabilmente e che di fronte a essi il
cristiano deve spesso prender posizione con decisione e coerenza» (Lett.
enc. Centesimus annus, 14).

Le lotte legittime e il perdono


Non si tratta di proporre un perdono rinunciando ai propri diritti davanti a
un potente corrotto, a un criminale o a qualcuno che degrada la nostra
dignità. Siamo chiamati ad amare tutti, senza eccezioni, però amare un
oppressore non significa consentire che continui a essere tale; e neppure
fargli pensare che ciò che fa è accettabile. Al contrario, il modo buono di
amarlo è cercare in vari modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli
quel potere che non sa usare e che lo deforma come essere umano.
Perdonare non vuol dire permettere che continuino a calpestare la dignità
propria e altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere. Chi
patisce ingiustizia deve difendere con forza i diritti suoi e della sua
famiglia, proprio perché deve custodire la dignità che gli è stata data, una
dignità che Dio ama. Se un delinquente ha fatto del male a me o a uno dei
miei cari, nulla mi vieta di esigere giustizia e di adoperarmi affinché quella
persona – o qualunque altra – non mi danneggi di nuovo né faccia lo stesso
contro altri. Mi spetta farlo, e il perdono non solo non annulla questa
necessità bensì la richiede.
Ciò che conta è non farlo per alimentare un’ira che fa male all’anima
della persona e all’anima del nostro popolo, o per un bisogno malsano di
distruggere l’altro scatenando una trafila di vendette. Nessuno raggiunge la
pace interiore né si riconcilia con la vita in questa maniera. La verità è che
«nessuna famiglia, nessun gruppo di vicini, nessuna etnia e tanto meno un
Paese ha futuro, se il motore che li unisce, li raduna e copre le differenze è
la vendetta e l’odio. Non possiamo metterci d’accordo e unirci per
vendicarci, per fare a chi è stato violento la stessa cosa che lui ha fatto a
noi, per pianificare occasioni di ritorsione sotto forme apparentemente
legali» (Omelia, Maputo, 6 settembre 2019). Così non si guadagna nulla e
alla lunga si perde tutto.
Certo, «non è un compito facile quello di superare l’amara eredità di
ingiustizie, ostilità e diffidenze lasciata dal conflitto. Si può realizzare
soltanto superando il male con il bene (cfr. Rm 12,21) e coltivando quelle
virtù che promuovono la riconciliazione, la solidarietà e la pace» (Discorso
alla cerimonia di benvenuto, Colombo, 13 gennaio 2015). In tal modo, «a
chi la fa crescere dentro di sé, la bontà dona una coscienza tranquilla, una
gioia profonda anche in mezzo a difficoltà e incomprensioni. Persino di
fronte alle offese subite, la bontà non è debolezza, ma vera forza, capace di
rinunciare alla vendetta» (Discorso ai bambini del Centro Betania, Tirana,
21 settembre 2014). Occorre riconoscere nella propria vita che «quel
giudizio duro che porto nel cuore contro mio fratello o mia sorella, quella
ferita non curata, quel male non perdonato, quel rancore che mi farà solo
male, è un pezzetto di guerra che porto dentro, è un focolaio nel cuore, da
spegnere perché non divampi in un incendio» (Videomessaggio al TED 2017
di Vancouver, 26 aprile 2017).

Il vero superamento
Quando i conflitti non si risolvono ma si nascondono o si seppelliscono nel
passato, ci sono silenzi che possono significare il rendersi complici di gravi
errori e peccati. Invece la vera riconciliazione non rifugge dal conflitto,
bensì si ottiene nel conflitto, superandolo attraverso il dialogo e la trattativa
trasparente, sincera e paziente. La lotta tra diversi settori, «quando si
astenga dagli atti di inimicizia e dall’odio vicendevole, si trasforma a poco a
poco in una onesta discussione, fondata nella ricerca della giustizia» (Pio
XI, Lett. enc. Quadragesimo anno, 1931).
Più volte ho proposto «un principio che è indispensabile per costruire
l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto. […] Non significa puntare
al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su
di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle
polarità in contrasto» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013).
Sappiamo bene che «ogni volta che, come persone e comunità, impariamo a
puntare più in alto di noi stessi e dei nostri interessi particolari, la
comprensione e l’impegno reciproci si trasformano […] in un ambito dove i
conflitti, le tensioni e anche quelli che si sarebbero potuti considerare
opposti in passato, possono raggiungere un’unità multiforme che genera
nuova vita» (Discorso alle Autorità, Riga, 24 settembre 2018).
MARCO POZZA
Ora terza
La scuola

Il temperino è oggetto vietato nelle patrie galere: il suo essere contundente


lo rende perseguibile di agguati, minacce, incursioni e scorribande. Certi
divieti, poi, diventano in un battibaleno semplici consigli, avvertenza per il
vivere, nulla di più: il potere di aggirarli, rendendoli appetitosi, è l’arte
antica di sedurre. Nelle galere la morale è sin troppo facile: vietato tutto. «A
me il temperino piaceva un sacco in quei pochi mesi che sono andato a
scuola» racconta divertito uno dei ragazzi in aula. «Mi svagavo affilando
tantissimo le punte delle matite per poi usarle come punteruolo sulla pelle
degli altri, per rigare il banco con dei graffiti, per rompere le scatole alla più
bella della classe.» Chi parla, se ci si fida delle sentenze definitive in
Cassazione, è uno dei criminali da tenere d’occhio, a debita distanza. A
guardarlo, però, sembra appena sceso alla fermata del bus: i libri in mano,
l’astuccio, le penne, i quaderni. Il temperino no, però: è fatto divieto.
Nella scuola della galera, a sessant’anni potresti essere al secondo anno
di ragioneria, a quaranta frequentare l’ultimo anno di università: a settanta ti
può capitare d’incontrare qualcuno che ti parla di Talete, di Anassimandro.
Altri, sul punto di collassare per troppa galera, imparano per la prima volta
ad abbinare correttamente il soggetto, il verbo e il complemento oggetto.
Chiedere, poi, della consecutio temporum sarebbe chiedere troppo. Stop!
«A scuola ci sono andato pochissimo,» accende il rewind della memoria
«non avevo testa, non ne capivo il senso: pensa che mi han bocciato in
prima elementare, questo dice tutto. Qui in carcere, invece, sono tornato a
riprendere in mano dei libri: quando parlavo con gli altri, mi vergognavo
della mia ignoranza.» Il che, qui dentro, è tutto dire: se andare a scuola è
costoso, chi prova l’ignoranza attesta che costa molto di più. Imparare
qualcosa di nuovo è far diventare te stesso un po’ nuovo.
Temperare è verbo del temperino: un verbo che dipinge il trattenersi, il
non lasciarsi vincere da qualcosa, il non cedere. Osservare qualcuno che
tempera una matita è suggerimento di calma, evocazione di pace, tempo
della cura. Gli uomini sottosviluppati in temperanza diventan bestie piene
d’ira, iraconde: «La temperanza l’ho conosciuta la sera stessa dell’arresto,
dentro una questura del Sud Italia. Quel giorno ho trascinato in carcere la
famiglia al completo: mamma, papà, fratello. Il commissario, fissandomi,
mi rinfaccia la vecchia promessa: “Te l’avevo detto che ti avrei rovinato.
Promessa mantenuta”. In quell’attimo assorbii tutto come fossi una spugna,
non reagii minimamente. Rimasi così sobrio che sorpresi addirittura me
stesso».
Insegnare il bello con l’attrattiva del bello, non con l’orrore del brutto: in
carcere la scuola è avamposto di gentilezza.
Oppure non è scuola.

Venga su noi, Signore,


il dono dello Spirito,
che in quest’ora discese
sulla Chiesa nascente. (Inno dell’Ora terza)

A quel tempo – erano i tempi nei quali Ira batteva Temperanza dieci a
zero – lui correva impazzito, all’impazzata: a seguire i resoconti trascritti
nei fascicoli, pare fosse accecato d’ira, che provasse e riprovasse fino
all’esaurimento pur di riuscire a fiaccare i rivali d’armi. Oggi, invece, pare
persino fiero del suo nuovo vocabolario: «L’ira la conosco assai: un giorno
mi capita in cella il solito tipo che ti fa saltare i nervi da quant’è cocciuto e
testardo» racconta alla professoressa. «Non volendo mettergli le mani
addosso, a calci e pugni ho rotto il bagno della cella.» Per questo esiste la
scuola: per scaricare nelle parole ciò che, un tempo, si scaricava altrove.
C’è una massa di pensieri in cerca di affitto, un mondo di universi nascosti
che spingono dietro una penna e sgomitano per poter passare ed entrare in
circolazione. Ecco perché per qualcuno scrivere è incontrarsi, fare un
esercizio di pazienza: «I prof, qui dentro, hanno cuore e pazienza. Io sono
un disastro su più fronti, ma la loro costanza mi commuove. Credono che io
possa arrivare a dei traguardi ai quali manco io credo veramente così tanto».
Le aule sono laboratori di artigianato. «Fatto in casa» sta scritto nei
cervelli che qui dentro si ricostruiscono con l’ago e il filo. Certe volte anche
con l’aratro: «Le materie sono difficili da memorizzare: il diritto, l’italiano,
la storia, l’economia aziendale, inglese, francese». Materie che non
finiscono nelle aule, ma vanno dritte persino dentro i pasti: ci si ritrova a
pensare ripulendo la cella, gettando la spazzatura, lavando i panni o
attendendo l’ora d’aria. La cosa curiosa è che per chi va a scuola il giornale
ha vita breve: appena letto scade, tutt’al più gli si cambia la destinazione
d’uso. Omero, il grande Omero dell’antichità, stamattina invece era ancora
giovanissimo: «Un giorno, studiando, ho scoperto la cosa più bella finora»
confessa con un filo di sano orgoglio. Ci sta tutto! «Che la prima parola che
si legge nell’Iliade è la parola più cattiva, ira. Cioè, a scuola, ho imparato
che l’ira esiste da quando esiste l’uomo, e che quello che dice Omero capita
anche dentro le nostre celle. È pazzesco se ci pensi: son passati millenni e
lui ancora ti parla al cuore.» Prego, benvenuti a scuola! Omero ringrazia per
la preferenza accordata: «L’ira funesta del Pelide Achille, che infiniti danni
agli Achei addusse, cantami, o Diva».
La temperanza invece è una signora d’una bellezza gelosa, gioiosa:
vuole che si serva lei, da sola. Per ripagarti al più presto il biglietto sborsato
per andare a trovarla: «Per me il carcere è stata una benedizione, non un
fallimento: mi sta mostrando quant’è brutto il male. Toglie gli affetti, taglia
le amicizie, trancia vite a dismisura. Ti mangia dentro facendoti sentire un
perdente: ti fa vincere qualche partitella ma il campionato lo perdi». Se
impari qualcosina ogni giorno, nessuno dei giorni è perduto, tanto meno se
vissuto in galera. L’ira, da queste parti, la si vince artigianalmente: «Tengo
in ordine la mia cella,» è il suo esercizio per fare aumentare il primato della
temperanza sull’ira «spazzolo via la polvere, lavo le lenzuola, svuoto i
cestini, pulisco i vetri. Anche i telai e le sbarre: sono fissato in materia di
pulizia. Il panno della polvere è l’oggetto che più uso: lo passo in tutti i
centimetri. Il bagno lo lavo con il gomito, non mi vergogno: voglio vivere
bene, non sospettare di essere diventato disumano». Mostrarsi collerici con
il nemico è il primo passo per regalargli la vittoria. Imparare, oggi, ad
arginare le passioni negative è risparmiarsi, domani, cento giorni di dolore.

Non impareranno dunque tutti i malfattori,


che divorano il mio popolo come il pane
e non invocano il Signore?
Ecco, hanno tremato di spavento,
perché Dio è con la stirpe del giusto.
Voi volete umiliare le speranze del povero,
ma il Signore è il suo rifugio. (Sal 14 [13],4-6)

Più che i compiti per casa, qui a contare sono i pensieri nuovi che si aiuta
a far nascere in cervelli che il maltempo ha sfibrato. Educare è
improvvisarsi postini di buone letture da recapitare nei cuori straziati dal
male. Poi sedere, in attesa di giorni migliori: «È meraviglioso quando un
prof ti consiglia un libro da leggere. Quando sono nervoso, prendo in mano
un libro e mi ci butto dentro per fare a pugni con quelle parole. Adoro I
promessi sposi: è una storia d’amore, di coraggio, di debolezza, affetto,
costanza, vita e morte. È la vita che si combatte a denti stretti. Mi piace
quando, leggendo, imparo come fanno a nascere dei sentimenti come
l’invidia, la gelosia. Anche la pace, la serenità. Quando chiudo un libro, poi,
mi sembra di essere diventato un po’ amico dei suoi personaggi». La
letteratura, a volte, è una preghiera di riserva: la scuola è una chiesa
senz’altare e balaustre.
La rabbia è cieca, muta, sorda: qui, dentro questo matto mondo di matti,
si conta fino a dieci non per tacere la rabbia ma per poi gridarla più forte.
Rabbiosi con il male che li ha fatti diventare rabbia della società: «Il male è
una lusinga che ti cerca, ti trova, ti seduce e ti avvinghia. Cadi tra le sue
braccia come cade una pera dall’albero: quando t’accorgi d’essere finito lì,
ormai è troppo tardi». Il fatto, poi, che certe scoperte si ottengano con
strumenti rudimentali, le rende ancora più belle: «Un tempo l’ira mi
rendeva alquanto menefreghista,» la sua chiarezza di spirito è da lodare
«“Che me ne importa?” dicevo. Oggi ho imparato quant’è importante
meditare, anche sull’uso delle parole. In carcere le parole sono una specie di
terapia: quando acceleri devi stare attento a non sbandare, quando tiri il
freno devi fare attenzione a non addormentarti. In passato ho spacciato
droga in misure folli: ho dovuto subire una condanna per spaccio di droga
per sapere che nessuna droga è più potente di una parola detta bene».

La benedizione delle parole: «Nel nome della parola, andate in guerra».


L’insegnante è un cecchino che colpisce in aeternum: nessuno potrà mai
calcolare dove arriverà il suo influsso.
Fuori dall’aula, anni fa uno studente ha appeso un cartello, come grazie
dopo la maturità: «Scusate il disordine, siamo impegnati a imparare».
Il temperino è oggetto vietato, la temperanza è lettura consigliata.
Per fare ordine, è prima necessario fare disordine.
La stoltezza e la prudenza
Secondo Giotto, la stoltezza è il vizio opposto alla quarta delle virtù umane,
la prudenza. La stoltezza è una donna fisicamente pesante, ma
interiormente inconsistente, con la testa fra le nuvole, la mano sinistra che
cerca di mimare la testa di uno struzzo. Immagino la persona stolta come
colei che, prestando poca attenzione alla realtà, non vuole vedere un
problema: è un cieco che pretende di vedere chiudendo gli occhi. È una
forma di diserzione della realtà, vivere a propria insaputa. Essere stolti
nella propria storia che cosa potrebbe significare?

Per me significa non avere memoria. Lo stolto ha la faccia di chi crede un


po’ a tutto, ma è incapace di lasciare le tracce di qualcosa nella sua vita. Ma
la traccia è Dio. Non avendo memoria, lo stolto non ha storia. È comodo
fare lo stolto, ma la stoltezza ti trascina in basso, perché un uomo o una
donna che non ha memoria, non saprà mai amare. Per avere amore, ci vuole
la memoria: la memoria che io sono stato amato. L’amore viene
dall’esperienza, nasce lì. Tu hai parlato di tua nonna: nasce dall’amore che
abbiamo ricevuto da piccolini. Gli stolti non hanno memoria della vita.
Vivono nel limbo, un limbo comodo. Stanno sempre lì, ma non sono
fecondi.

Lei ha citato più volte i versi di un poeta argentino, Francisco Luis


Bernárdez: «Tutto ciò che sull’albero è fiorito / vive di ciò che giace
sotterrato»…

Le radici e la memoria. Non si può andare avanti senza memoria. La


memoria è la fortezza che ci dà vita. Lo stolto non ha storia, vive in un
continuo presente. Senza farsi problemi, senza fare storie.
Essere stolti è un po’ come decidere di mettere in quarantena la propria
umanità, che è ciò che ci rende unici e irripetibili. «A immagine e
somiglianza» di Dio.

Stoltezza significa non volere o non essere capaci di ascoltare la Parola: lo


stolto non lascia entrare la Parola di Dio, non la capisce, la fraintende. È la
Parola che rende liberi, e questa sordità non lascia posto all’amore e alla
libertà: la stoltezza rende schiavi della menzogna, schiavi delle creature
invece che seguaci del Creatore. Gli stolti non si rendono conto dell’amore
di un Dio che – sono le parole del profeta Geremia – dice «mi ricordo di te,
dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento,
quando mi seguivi nel deserto, in terra non seminata» e scelgono di
allontanarsi da Lui «e correre dietro al nulla, diventando loro stessi nullità».

Mi ritorna alla mente quell’ammonimento che, nel Vangelo, Gesù rivolge a


un uomo ricco: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E
quello che hai preparato di chi sarà?» (cfr. Lc 12,16-21). Una domanda
che ha in sé una risposta: è non illudendosi di essere padroni del proprio
destino che si diventa saggi, capaci di guardare a ciò che è essenziale.
Capaci di confrontarsi anche, soprattutto, con la morte. Essere stolti è non
calcolare che un giorno ci sarà la morte?

Questo ti farà ridere. Avevo un parente, cugino di mio papà, che era uno
stolto tipico, ma stolto preso dall’avarizia. Era avaro, e aveva tanto. Non
aveva figli, la moglie era una brava donna, abitavano in una bella villa. Era
così avaro che per risparmiare dava alla mamma metà dello yogurt al
mattino e metà al pomeriggio. Lo stolto fa sempre ridere, è una specie di
pagliaccio esistenziale. È morto quest’uomo, io non sono andato al funerale,
ma tre giorni dopo ho chiamato una cugina che c’era stata e le ho chiesto
notizie. «Sì, il dolore,» mi ha raccontato «ma la tragedia è stata alla fine,
quando dovevano chiudere la bara e non riuscivano.» «Ma perché?»
«Voleva portarsi dietro tutto.» La stoltezza anche nella ricchezza, la
stoltezza di credere che il Paradiso è qui. Sono atteggiamenti stolti, di
persone che non sanno della prudenza della vita, non sanno della lotta della
vita, non sanno della generosità, non sanno dare una carezza, non sanno
nulla. Sanno solo ridere di qualsiasi cosa.
Contrapposta alla stoltezza c’è la virtù cardinale della prudenza. Giotto la
raffigura come una donna che siede in cattedra, in mano ha il compasso e
nell’altra tiene uno specchio: come a dire che bisogna andare avanti però
guardandosi alle spalle e imparando dal passato. Per memoria affettiva,
collego la prudenza al codice stradale, perché mia mamma, quando parto
da casa, mi ripete sempre: «Mi raccomando, sii prudente!». Il
cristianesimo, negli anni, mi ha allargato l’orizzonte: prudenza è leggere
gli eventi umani alla luce di Dio, distinguendo ciò che conduce a Dio e ciò
che allontana, sentendoci responsabili delle azioni che compiamo. La
prudenza non esclude il coraggio, non dice che dobbiamo aver paura di
osare. Adoro l’introduzione al Pater: «Obbedienti alla parola del Salvatore
[…] osiamo dire». La prudenza è anche un criterio per giudicare un Papa:
alcuni dicono «È troppo imprudente!», altri «È prudente». Quant’è difficile
essere prudenti dentro la storia degli uomini, alla luce dei misteri di Dio?

Per alcuni la prudenza sarebbe una virtù pura, senza contaminazione. È


come se fosse un ambiente sterilizzato. La prudenza però è la virtù del
governo. Non si può governare senza prudenza, anzi. Chi governa senza
prudenza governa male e fa cose brutte, prende decisioni cattive, che
distruggono il popolo, sempre. La prudenza nel governo non è sempre
equilibrio. Talvolta la prudenza dev’essere squilibrata, per prendere
decisioni che producano un cambiamento. Però la prudenza è una virtù
essenziale per chi governa: gli uomini sono passionali, e c’è bisogno di
qualcosa che ci dica «Fermati, fermati a pensare». Non è così facile avere
prudenza. Ci vuole tanta riflessione, tanta preghiera, ma soprattutto ci vuole
empatia. L’asettico, diciamo quello che non si sporca mai, quello che si lava
nel disinfettante, non è il vero prudente. La prudenza va di pari passo con la
simpatia, con l’empatia, per le situazioni, le persone, il mondo, i problemi.
Simpatia vuol dire «patire con»: se non sei capace di patire con le cose, non
hai simpatia e non sarai mai prudente. Questo è difficile da capire, ma la
prudenza non è soltanto la virtù del calcolo, del pro e contro, è anche la
virtù del cuore. Prendiamo Gesù, per esempio. Tante volte prima delle sue
decisioni il Vangelo riporta una frase: «ne ebbe compassione». La
compassione, il «patire con», aiuta Gesù a prendere decisioni prudenti.
Già l’esercizio della prudenza è una questione molto delicata nella mia vita
di sacerdote; non oso immaginare che cosa significhi essere prudente per
un Papa che si trova a prendere una decisione di fronte a Dio e di fronte
alla storia. Un giorno lei, da buon gesuita, ha risposto con un’altra
domanda a una questione simile: «Sono un incosciente? Difetto un po’ di
prudenza? Non saprei cosa dire, ma mi guidano l’istinto e lo Spirito Santo,
e prego molto».

Sì, lo Spirito è quello che ti aiuta. Tu devi chiedere per essere prudente,
chiedere allo Spirito che ti assicuri quel «fiuto» per intuire la giusta
direzione delle cose. L’intuito ispirato dallo Spirito è essenziale. C’è
qualcosa che ci impensierisce, ma con la preghiera invochiamo lo Spirito
che ci guidi nel governo. Se vuoi governare senza lo Spirito Santo non farai
cosa buona. Sbaglierai tanto. Pregare, fare che le cose maturino da sole,
saper stare zitto e solo dopo parlare e decidere. La prudenza non è, ripeto, la
virtù dell’equilibrio. È virtù di governo. A me piace avvicinarla alla
saggezza: il prudente dev’essere saggio, e la saggezza è un dono di Dio, ce
la dà Dio.
PAPA FRANCESCO
«Non uno spirito di timidezza ma di prudenza»

Dice l’apostolo Paolo: «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te


mediante l’imposizione delle mie mani» (2Tm 1,6). Siamo vescovi perché
abbiamo ricevuto un dono di Dio. Non abbiamo firmato un accordo, non
abbiamo ricevuto un contratto di lavoro in mano, ma mani sul capo, per
essere a nostra volta mani alzate che intercedono presso il Signore e mani
protese verso i fratelli. Abbiamo ricevuto un dono per essere doni. Un dono
non si compra, non si scambia, non si vende: si riceve e si regala. Se ce ne
appropriamo, se mettiamo noi al centro e non lasciamo al centro il dono, da
Pastori diventiamo funzionari: facciamo del dono una funzione e sparisce la
gratuità, e così finiamo per servire noi stessi e servirci della Chiesa. La
nostra vita, invece, per il dono ricevuto, è per servire. Lo ricorda il Vangelo,
che parla di «servi inutili» (Lc 17,10): un’espressione che può voler dire
anche «servi senza utile». Significa che non ci diamo da fare per
raggiungere un utile, un guadagno nostro, ma perché gratuitamente abbiamo
ricevuto e gratuitamente diamo (cfr. Mt 10,8). La nostra gioia sarà tutta nel
servire perché siamo stati serviti da Dio, che si è fatto nostro servo.
Sentiamoci chiamati per servire mettendo al centro il dono di Dio.
Per essere fedeli a questa nostra chiamata, alla nostra missione, san
Paolo ci ricorda che il dono va ravvivato. Il verbo che utilizza è
affascinante: ravvivare letteralmente, nell’originale greco, è «dare vita a un
fuoco», anazopyreîn. Il dono che abbiamo ricevuto è un fuoco, è amore
bruciante a Dio e ai fratelli. Il fuoco non si alimenta da solo, muore se non è
tenuto in vita, si spegne se la cenere lo copre. Se tutto rimane com’è, se a
scandire i nostri giorni è il «si è sempre fatto così», il dono svanisce,
soffocato dalle ceneri dei timori e dalla preoccupazione di difendere lo
status quo. Ma «in nessun modo la Chiesa può limitarsi a una pastorale di
“mantenimento”, per coloro che già conoscono il Vangelo di Cristo. Lo
slancio missionario è un segno chiaro della maturità di una comunità
ecclesiale» (Benedetto XVI, Esort. ap. postsin. Verbum Domini, 95). Perché
la Chiesa sempre è in cammino, sempre in uscita, mai chiusa in sé stessa.
Gesù non è venuto a portare la brezza della sera, ma il fuoco sulla terra.
Il fuoco che ravviva il dono è lo Spirito Santo, datore dei doni. Perciò
san Paolo continua: «Custodisci, mediante lo Spirito Santo [che è in noi,] il
bene prezioso che ti è stato affidato» (2Tm 1,14). E ancora: «Dio non ci ha
dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» (v. 7).
Non uno spirito di timidezza, ma di prudenza. Qualcuno pensa che la
prudenza è la virtù «dogana», che ferma tutto per non sbagliare. No, la
prudenza è virtù cristiana, è virtù di vita, anzi, la virtù del governo. E Dio ci
ha dato questo spirito di prudenza. Paolo mette la prudenza all’opposto
della timidezza. Che cos’è allora questa prudenza dello Spirito? Come
insegna il Catechismo, la prudenza «non si confonde con la timidezza o la
paura», ma «è la virtù che dispone a discernere in ogni circostanza il nostro
vero bene e a scegliere i mezzi adeguati» (Catechismo della Chiesa
Cattolica, 1806). La prudenza non è indecisione, non è un atteggiamento
difensivo. È la virtù del Pastore, che, per servire con saggezza, sa
discernere, sensibile alla novità dello Spirito. Allora ravvivare il dono nel
fuoco dello Spirito è il contrario di lasciar andare avanti le cose senza far
nulla. Ed essere fedeli alla novità dello Spirito è una grazia che dobbiamo
chiedere nella preghiera. Egli, che fa nuove tutte le cose, ci doni la sua
prudenza audace; ispiri il nostro Sinodo a rinnovare i cammini per la
Chiesa in Amazzonia, perché non si spenga il fuoco della missione.
Il fuoco di Dio, come nell’episodio del roveto ardente, brucia ma non
consuma (cfr. Es 3,2). È fuoco d’amore che illumina, riscalda e dà vita, non
fuoco che divampa e divora. Quando senza amore e senza rispetto si
divorano popoli e culture, non è il fuoco di Dio, ma del mondo. Eppure
quante volte il dono di Dio non è stato offerto ma imposto, quante volte c’è
stata colonizzazione anziché evangelizzazione! Dio ci preservi dall’avidità
dei nuovi colonialismi. Il fuoco appiccato da interessi che distruggono,
come quello che recentemente ha devastato l’Amazzonia, non è quello del
Vangelo. Il fuoco di Dio è calore che attira e raccoglie in unità. Si alimenta
con la condivisione, non con i guadagni. Il fuoco divoratore, invece,
divampa quando si vogliono portare avanti solo le proprie idee, fare il
proprio gruppo, bruciare le diversità per omologare tutti e tutto.
Ravvivare il dono; accogliere la prudenza audace dello Spirito, fedeli
alla sua novità; san Paolo rivolge un’ultima esortazione: «Non vergognarti
[…] di dare testimonianza […] ma, con la forza di Dio, soffri con me per il
Vangelo» (2Tm 1,8). Chiede di testimoniare il Vangelo, di soffrire per il
Vangelo, in una parola di vivere per il Vangelo. L’annuncio del Vangelo è il
criterio principe per la vita della Chiesa: è la sua missione, la sua identità.
Poco dopo Paolo scrive: «Sto già per essere versato in offerta» (v. 4,6).
Annunciare il Vangelo è vivere l’offerta, è testimoniare fino in fondo, è farsi
tutto per tutti (cfr. 1Cor 9,22), è amare fino al martirio. Ringrazio Dio
perché nel Collegio cardinalizio ci sono alcuni fratelli cardinali martiri, che
hanno saggiato, nella vita, la croce del martirio. Infatti, sottolinea
l’apostolo, si serve il Vangelo non con la potenza del mondo, ma con la sola
forza di Dio: restando sempre nell’amore umile, credendo che l’unico modo
per possedere davvero la vita è perderla per amore.
Guardiamo insieme a Gesù crocifisso, al suo cuore squarciato per noi.
Iniziamo da lì, perché da lì è scaturito il dono che ci ha generato; da lì è
stato effuso lo Spirito che rinnova (cfr. Gv 19,30). Da lì sentiamoci
chiamati, tutti e ciascuno, a dare la vita.
MARCO POZZA
Ora sesta
Il lavoro

Il profumo degli agrumi rallegra i tre diversi cremini. Il gusto del cioccolato
è espresso nella sua purezza nei due cioccolatini, al latte e fondente. La
pralina finale è il valore aggiunto: miele e rosmarino. Li sistema nella
confezione con la cura di un orafo: venticinque praline che racchiudono sei
gusti, ripetuti più volte. Quelle praline di cioccolato sono la risposta:
potrebbe bastare. La domanda alla quale il cioccolato è risposta, però, è
ingrediente-madre qui dentro. Le sue mani somigliano a quelle di un
musico sulla tastiera, di un pittore con il suo pennello, di un artista
all’opera. A tradirlo è il volto, l’unica storia che ogni uomo può giurare
essere sua: «Sì, sono io» conferma con un sorriso mansueto. Di quella pace,
però, c’è ben poco nella sua vecchia storia: «Un giorno si è presentato da
me un imprenditore che, senza che ci fossimo parlati, mi consegna del
denaro» mi racconta mentre indossa i guanti di lattice. «Capisco che si era
già accordato con il mio amico. Vedevo la paura nei suoi occhi, io avevo
paura, ma ho dovuto mostrarmi sicuro mentre facevo quel gesto. Nel mio
ambiente era l’unico modo per potere stare in piedi: mascherare la paura
con la strafottenza. Quell’estorsione è stata la prima di altre. Mi ha
cambiato la vita: mi ha spalancato le porte del carcere.»
Il cioccolato ti ascolta, non ti giudica mai. Cosicché gli uomini si
possono dividere in due tipologie: quelli a cui piace il cioccolato e quelli
che non vogliono ammetterlo. Anche in galera gli uomini si possono
dividere in due categorie: quelli a cui il male piace ancora e quelli ai quali
ha sbriciolato la vita. Colui che sta parlando appartiene nettamente ai
secondi: «Non mi rendevo conto che in ogni estorsione non prendevo
solamente dei soldi dalle vittime, ma anche un pezzetto della loro vita:
toglievo loro la tranquillità, la sostituivo con la paura e il timore del futuro».
Durante il suo racconto, prepara gli ingredienti per una nuova lavorazione:
lo zucchero, la pasta di cacao, l’estratto di vaniglia, le mandorle, la pasta
d’arancia, il rosmarino essiccato, le arachidi. L’olio di semi di girasole e
quello di bergamotto. «Non mi accorgevo, nell’attimo di un’estorsione, che
stavo avvelenando anche la mia vita: lentamente si stava riempiendo di
inquietudine, di violenza. Mi chiedevo: “Ma se facessero a me queste
cose?”. Non son più riuscito a trovare un modo per uscire da questa
malavita. Chiudevo gli occhi, andavo avanti.» Pretendere di vedere
chiudendo gli occhi è stoltezza.
A quel tempo si digeriva meglio la stupidità del dolore.

Tu placa le tristi contese,


estingui la fiamma dell’ira,
infondi vigore alle membra,
ai cuori concedi la pace. (Inno dell’Ora sesta)

Il segno distintivo dell’uomo sono le sue mani: sono simboli, rivelazioni.


Gli fisso le mani, faccio due calcoli: sono passati oltre quindici anni da quei
misfatti perpetrati in una terra d’intricata bellezza com’è la Sicilia di mare
aperto. La sua faccia è rimasta legata a quelle gesta omicide, lerce, stolte.
Minaccioso, ha accompagnato l’angoscia in casa degli altri, la vergogna
dentro casa sua. Dopo decenni passati in gattabuia, le mani sono le stesse. A
mutare è stata la destinazione d’uso di quelle mani: «Memorizzale» mi
dico. «Le mani che ieri hanno procurato morte possono diventare mani che,
domani, metteranno al mondo una scatola di praline al cioccolato.» Mettere
le proprie mani in buone mani è prudenza spicciola, una sorta di
intelligenza di riserva: «Sono stato un imprudente a pensare che quella
fosse la vita. Era normale rubare un motorino, una macchina, un giubbino.
Dal venderli per fare soldi a prendermi direttamente i soldi il passo è stato
così breve che manco me ne sono accorto. Poi, quando ho visto aprirsi
questo cancello, ho capito che era tardi». Troppo tardi.
Non così troppo-tardi, però.
Sarà del tempo mutare la destinazione d’uso delle mani: «Bollire 375 ml
di latte, poi aggiungere 125 g di preparato, poco alla volta, e mixare
eliminando eventuali grumi. Fare bollire un minuto e servire» c’è scritto nel
preparato per la cioccolata calda che ha appena spostato sul tavolo. Anche
questo, qui dentro, «è frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Lo
presentiamo a te, [Signore], che diventi per noi cibo di vita eterna» (dalla
liturgia). Mixare, far bollire, aggiungere, servire: tutti verbi di prudenza,
ordine sequenziale, allergici all’improvvisazione. Idee chiare e cioccolata
densa. «Mi hanno arrestato all’improvviso» abbassa gli occhi quando, un
tempo, si sarebbe sforzato a usarli come un mitra, un mantra. «La cosa più
orrenda è stata quella di dover salutare i miei tre figli che ancora stavano
dormendo. Da allora, liberi, non li ho più visti: sono oltre cinquemila notti
che sogno quei volti addormentati, lasciati da soli dentro quel maledetto
mondo di squali.» Per trasformare la prudenza in stoltezza basterà poco più
di niente.
Prende le altre confezioni di praline, le accatasta con cura millimetrica:
poi apre la porta e le consegna alla catena di produzione umana. Faranno
squadra con le focacce veneziane, i torroncini ricoperti al cioccolato.
Panettoni: canditi e uvetta, albicocca-pesca-lavanda, cioccolato e fichi.
Quello zenzero, mandarino e gelsomino è roba da far ammattire il palato:
Premiato al concorso WineHunter Award 2020, porta scritto sulla
confezione. «I premi fanno piacere,» è stupito del mio stupore «ma qui il
premio più bello è lo stipendio a fine mese. Fuori prendevo i soldi senza
faticare, qui invece sono il frutto del mio lavoro quotidiano. Il giorno in cui
ricevo la busta paga è il giorno più bello, credimi: lo aspetto con ansia e,
dopo averli inviati a casa, mi sento in pace. Più uomo, più padre, più marito.
È stato il primo passo per staccarmi dalla mia vita passata: non volevo più
che i vecchi amici mi mantenessero.» Ritorno ossessivamente a squadrare le
mani, portano la fede all’anulare sinistro: com’è possibile che una bestia
diventi un angelo?
«A morte, schifosi! Gettate via la chiave, dopo averli chiusi dentro!»
gridano fuori da questo paese di ferro-cemento. La guerra in corso, da
queste parti, è tra stoltezza e prudenza. La prima sguaina la spada: «Costa
meno buttarli via che mettersi a ripararli». La seconda gioca di fioretto:
«Siam venuti al mondo per riparare cose rotte». È prudenza pasticciera far
convivere assieme lo zenzero, il mandarino, il gelsomino. È prudenza,
invece che gettare, riciclare il passato per produrre futuro, nel tempo
presente. Come con la pesca, l’albicocca, la lavanda: una nasce per terra, le
altre in alto, sui rami. Quando si mettono in cooperativa tra di loro, nasce un
sodalizio sensuale: «Mentre lavoro il cioccolato, immagino il volto di chi lo
gusterà: “Chissà se saprà chi l’ha fatto!” ogni tanto dico tra me e me.
Immagino un bimbo che chiede un altro cioccolatino alla mamma, oppure
un signore che si lecca le labbra appena mangiato, o una donna che chiude
gli occhi mentre lo assapora. Mi sento più uomo quando penso a queste
cose. Mi scopro ogni giorno un po’ diverso». Il cioccolato è sontuoso,
avvolgente, nero.
Lavorare il cioccolato, in carcere, è un doppio-lavoro: lavorando la
materia si lavora la propria storia. È così semplice da apparire stolto il non
volerlo capire: impastando il buono si diventa buoni, lavorando la bellezza
si diventa belli. «Sono fastidiosi come la mosca sul naso» mi disse un
giorno un signore parlando dei carcerati. Attenzione! La mosca, secoli
addietro, divenne annunciazione. Giotto, quand’era a bottega dal grande
Cimabue, dipinse una mosca sul naso di un volto dipinto dal maestro.
Cimabue si accorse ch’era finta solo dopo aver fatto più volte, con la mano,
il gesto di cacciarla via, tanta era la perfezione artistica di quell’insetto
dipinto da un principiante. La stoltezza, a volte, è una prudenza mancata:
«Il male è cresciuto dentro di me lentamente. La fame, a casa nostra, non
era una tragedia per la quale chiedere aiuto, ma una vergogna della quale
sbarazzarsi il prima possibile. A qualsiasi costo». Lavorare il cibo sarà
materia da storia d’amore. Capita, al ristorante, che ci s’innamori prima dei
prodotti e poi delle persone che li lavorano. Qui dentro, invece, ci
s’innamora al contrario: sono le persone, con le loro storie frastagliate e
frastornate, che rendono ancor più saporita la materia che (ri)esce sempre
nuova dalle loro mani.

Custodiscimi come pupilla degli occhi,


all’ombra delle tue ali nascondimi,
di fronte ai malvagi che mi opprimono,
ai nemici mortali che mi accerchiano. (Sal 17 [16],8-9)

All’osteria la maggioranza se la spassa pensando che basti un carcere per


far dormire sonni tranquilli, convinti che tutto vada bene così. I prudenti,
invece, amano star seduti vicino ai bidoni delle immondizie, amano andare
in vacanza nei luoghi della spazzatura. Sognano che nessuno, di tutti coloro
che esistono, possa andar perduto senza che qualcuno gli tenda una mano:
«Quando torno in cella dopo il lavoro,» ormai ha deposto le sue vesti
liturgiche di pasticciere «una delle prime cose che faccio è controllare se mi
è arrivata della posta: da casa o da qualche volontario. Sapere che c’è
qualcuno che, fuori, mi pensa ha il potere di mettermi il cuore in pace».
Non solo la pace del tempo presente: «Con il mio passato ho fatto pace, me
lo sono perdonato: perché voglio che il mio futuro sia tutta un’altra cosa».
Lavori in corso, perché «la prudenza ha un solo occhio, ma il senno di poi
ne ha tanti» (Goethe).

«Mi dispiace, signora. Non riusciamo più a garantire le spedizioni»


risponde la voce al telefono della pasticceria. L’uomo del cioccolato, che
sorseggia il caffè e si gusta una pralina, assomiglia a una gondola
veneziana: gongola per troppa soddisfazione nel sentire ch’è tutta esaurita
la richiesta. «Fra poco metteranno i nostri cioccolatini nell’armadietto delle
medicine da quanto bene fanno!» Ride.

Io non rido affatto.


Mi verrebbe da prendere per il bavero la stoltezza: per aver gettato-via.
Di fare la più bella carezza alla prudenza: per aver cercato di recuperare.

Davanti a me c’è il risultato di una vita salvata dal cioccolato.


L’infedeltà e la fede
Le prime quattro virtù – prudenza, temperanza, fortezza e giustizia – sono
chiamate virtù cardinali, ma potrebbero anche essere definite virtù umane,
dal momento che possono essere vissute da qualsiasi uomo e donna, a
prescindere dal dono della fede. Poi ci sono le tre virtù teologali – la fede,
la speranza, la carità – che sono invece soprannaturali: è Dio a renderle
possibili, è Lui che ci offre la grazia di credere, sperare, amare. È Dio il
soggetto e l’oggetto delle virtù. La prima è la fede, alla quale Giotto
contrappone un’infedeltà dipinta con lo sguardo bieco. È un essere che
ripone la fiducia in un idolo-statuetta che tiene nella mano destra.
Quell’idolo con una mano l’ammalia offrendogli un arbusto in fiore, con
l’altra lo stringe con una cordicella, strozzandolo. L’infedeltà è legata al
tradimento: ci si inizia a perdere piano piano, come nel gioco del
nascondino. Infedeltà, nella vita cristiana, è volersi mettere al posto di Dio.
L’infedele ama confondere i ruoli: la differenza tra Eva e Maria è che Eva
prende mentre Maria accoglie. Sono due sguardi diversi.

Infedeltà è anche l’attaccamento alle superstizioni, a vie di salvezza diverse


da quelle di Dio, che sostituiscono Dio. Mi viene in mente Rachele, la
moglie di Giacobbe, che scappa dalla casa del padre Labano portando con
sé i terafim, i «piccoli dei» della famiglia. Il padre se ne accorge e va a
cercare lei e Giacobbe. Rachele si rende conto che il padre cercava i
terafim, li copre con un tappeto e ci si siede sopra. Il padre chiede a tutti
dove sono i terafim, ma nessuno lo sa, e Rachele rifiuta di alzarsi fingendo
di avere il ciclo: aveva nascosto i terafim sotto la gonna per portarseli via.
Questa donna era attaccata all’idolatria: aveva un atteggiamento di
infedeltà. Molti cristiani, che pure hanno ricevuto il dono della fede, hanno
la tentazione di cercare anche idoli complementari. Sono cristiani, credono
in Gesù Cristo, recitano il Credo, eppure hanno bisogno di una specie di
uscita di sicurezza. E vanno a farsi leggere la mano, vanno dalla
fattucchiera per un incantesimo, dall’indovino. È un’infedeltà
complementare all’atto di fede. La fede non basta. Anche l’infedeltà nel
matrimonio è qualcosa di complementare, non è l’essenziale. C’è gente che
vive di complementarità, dimenticando l’essenziale della vita: in questo
caso il dono della fede. Infedeltà è dire a Dio: «Sì, credo in te ma per
sicurezza mi tengo aperta un’altra porta». Rachele è l’esempio
dell’infedeltà nella fede.

Quante volte, di fronte alle fatiche, alle difficoltà – per esempio nel mio
sacerdozio, come in tutte le storie d’amore – uno va da un superiore e
questo dice: «Tieni duro, tieni duro, tieni duro…». Fa leva cioè sulla forza
di volontà. La volontà è una forza potentissima, eppure a volte può
diventare nemica della virtù. Ho sempre in mente la figura di donna
Prassede. Di lei il Manzoni dice – nel capitolo XXV dei Promessi sposi –
che di idee «n’aveva poche, ma a quelle poche era molto affezionata». E
poi: «Tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva
spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prendere per cielo il suo cervello». Il
rischio della volontà è di farci incaponire nel nostro orgoglio, invece di
aprirci alla sorpresa di Dio.

Che coppia, donna Prassede e don Ferrante. Lei aveva tutta la volontà di
Dio nel cervello e lui nella metafisica. La peste non è sostanza, neppure
accidente, dunque non esiste. E così se ne va a letto a morire tranquillo,
«prendendosela con le stelle». Bella coppia, don Ferrante e donna Prassede:
non so come facevano a stare insieme… Ma è così: l’infedeltà è prendere
l’io al posto di Dio, non «fidarsi» di Dio, mettergli accanto, anzi davanti, le
cose mie. È l’idolatria.

Il contraltare dell’infedeltà è esattamente il dono della fede, che Giotto


dipinge in maniera sublime: in mano ha una chiave, sulla sinistra c’è
stampato il Credo e sulla destra c’è una croce che, guarda caso, scalfisce
gli idoli lì sotto. Ricordo il sottotitolo di un manuale di teologia sulla fede:
«La domanda di Dio, la risposta dell’uomo». Come posso, però, dire di sì a
una realtà che supera la mia comprensione? A una realtà che, sovente,
parla attraverso un silenzio che assomiglia al mutismo? Il tema della fede
riguarda il mio rapporto con Dio. Se guardo la mia storia vedo che per
anni io ho cercato Dio dove volevo. Poi Lui è arrivato da dove meno me lo
sarei aspettato. Ha deluso la mia volontà, ma ha sorpreso le mie attese,
guarda caso sempre in momenti in cui io avvertivo il silenzio di Dio. Quasi
che la mia fede fosse una cosa asettica. Io mi sento in buona compagnia,
perché, Papa Francesco, lei ha raccontato spesso, per esempio facendo
visita al collegio romano di Villa Nazareth, la fatica della fede: «Tante volte
mi trovo in crisi con la fede, a volte ho avuto l’audacia di rimproverare
Gesù e anche di dubitare. Questo sarà la verità? Ma sarà un sogno?». Può
la fede crescere di pari passo con il dubbio?

Succede perché siamo umani, e la fede è un dono talmente grande che,


quando lo riceviamo, non riusciamo a crederci. Sarà una cosa possibile? Il
diavolo ti mette i dubbi, poi la vita, poi le tragedie: perché Dio permette
questo? Ma una fede senza dubbi non va. Pensa a santa Teresina del
Bambin Gesù: credi che non avesse dei dubbi? Leggi il finale della sua vita.
Dice che, nei momenti più brutti della sua malattia, chiedeva di portare
acqua benedetta sul letto, prendere il cero benedetto per allontanare il
nemico. Non vedeva nulla, non sentiva nulla, ma la fede talvolta ha dei
deserti interiori. Il problema è quando non hai pazienza. Gesù uomo,
nell’Orto degli ulivi, era forse contento? «Perché mi hai abbandonato?»
Pensare di essere abbandonati da Dio è un’esperienza di fede che hanno
avuto tanti santi e anche tante persone di oggi, che si sentono abbandonate
di Dio, ma non perdono la fede. Custodiscono il dono: in questo momento
non sento nulla, ma custodisco il dono della fede. Al cristiano che non è
mai passato attraverso questi stati d’animo manca qualcosa, perché vuol
dire che si accontenta. Le crisi di fede non sono mancanze contro la fede.
Al contrario, rivelano il bisogno e il desiderio di entrare sempre di più nella
profondità del mistero di Dio. Una fede senza queste prove mi fa dubitare
che sia vera fede, perché se c’è la fede il diavolo va lì a cercare di
distruggerla.

Ricordo quel passaggio del Diario di un curato di campagna in cui


Bernanos dice che non si «perde» la fede. La fede cessa di plasmare la vita.
E vorrei fare una domanda che so essere delicata, ma riguarda il cuore
della fede. E se un giorno si arrivasse a tradire la fede? Io mi ritrovo
tantissimo in quella pagina del Vangelo in cui Pietro, accanto al fuoco,
indietreggia di fronte alle domande di una serva, e rinnega tre volte Cristo.
Penso a tante mie sere simili a quella! Quanto conta il tradimento, riletto
alla luce della fede?

È brutto tradire la fede. Pensiamo a Giuliano l’Apostata, che sceglie le


donne, i beni terreni e respinge il dono della fede. Ma tutti noi abbiamo
tradito la fede preferendole i beni di adesso. Ma il problema è il tradimento
tiepido della fede. La semi-fede, la demi-foi della quale parla Joseph
Malègue nel suo romanzo Agostino Méridier. La storia di quell’abate che
alla fine lascia la Chiesa perché è vissuto nella semi-fede, la metà della
fede, e quella fede tiepida ti trascina lentamente sempre più giù… E poi
racconta dell’altro, quello che è andato su quella strada, ha lasciato la fede,
ha lasciato il sacerdozio, si è sposato, ha avuto dei figli e poi con gli anni
torna di nascosto alla messa, la domenica, perché ne sente il bisogno.
Quell’aria di semi-fede è più pericolosa di una chiara tentazione contro la
fede, perché è come il monossido di carbonio, che esce dalle stufe difettose,
ti addormenta e ti uccide senza che tu te ne accorga. State attenti quando c’è
la tiepidezza di fede, la semi-fede: si scivola lentamente e la fede diventa
un’abitudine, o magari un’esperienza culturale soltanto, e non si sente, non
si vive. La fede è un dono, e se non sei capace di custodirla quel dono si
rovina.

Tutto torna. «Poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per
vomitarti dalla mia bocca» dice l’Apocalisse.

È questo. È tiepido. Ma a tutti noi, che vogliamo servire Dio con una
vocazione religiosa, noi sacerdoti e suore, dico: per favore, abbiate più
paura di questa semi-fede, di questa aria viziata, che di una tentazione forte,
perché la tentazione forte è facile da vedere. La tiepidezza entra, ti
addormenta, e alla fine ti accorgi che hai perso la fede.
PAPA FRANCESCO
«La tua fede ti ha salvato»

L’ultimo episodio che l’evangelista Marco narra del ministero itinerante di


Gesù, il quale poco dopo entrerà a Gerusalemme per morire e risorgere,
riguarda il «cieco di Gerico». Bartimeo è l’ultimo a seguire Gesù lungo la
via: da mendicante ai bordi della strada a Gerico, diventa discepolo che va
insieme agli altri verso Gerusalemme. Il racconto di Marco suggella tre
passi fondamentali per il cammino della fede.
Anzitutto guardiamo a Bartimeo: il suo nome significa «figlio di
Timeo». E il testo lo specifica: «il figlio di Timeo, Bartimeo» (Mc 10,46).
Ma, mentre il Vangelo lo ribadisce, emerge un paradosso: il padre è assente.
Bartimeo giace solo lungo la strada, fuori casa e senza padre: non è amato,
ma abbandonato. È cieco e non ha chi lo ascolti; e quando voleva parlare lo
facevano tacere. Gesù ascolta il suo grido. E quando lo incontra lo lascia
parlare. Non era difficile intuire che cosa avrebbe chiesto Bartimeo: è
evidente che un cieco voglia avere o riavere la vista. Ma Gesù non è
sbrigativo, dà tempo all’ascolto. Ecco il primo passo per aiutare il cammino
della fede: ascoltare. È l’apostolato dell’orecchio: ascoltare prima di
parlare.
Al contrario, molti di quelli che stavano con Gesù rimproveravano
Bartimeo perché tacesse (cfr. v. 48). Per questi discepoli il bisognoso era un
disturbo sul cammino, un imprevisto nel programma prestabilito.
Preferivano i loro tempi a quelli del Maestro, le loro parole all’ascolto degli
altri: seguivano Gesù, ma avevano in mente i loro progetti. È un rischio da
cui guardarsi sempre. Per Gesù, invece, il grido di chi chiede aiuto non è un
disturbo che intralcia il cammino, ma una domanda vitale. Quant’è
importante per noi ascoltare la vita! I figli del Padre celeste prestano ascolto
ai fratelli: non alle chiacchiere inutili, ma ai bisogni del prossimo. Ascoltare
con amore, con pazienza, come fa Dio con noi, con le nostre preghiere
spesso ripetitive. Dio non si stanca mai, gioisce sempre quando lo
cerchiamo. Chiediamo anche noi la grazia di un cuore docile all’ascolto.
Vorrei dire ai giovani, a nome di tutti noi adulti: scusateci se spesso non vi
abbiamo dato ascolto; se, anziché aprirvi il cuore, vi abbiamo riempito le
orecchie. Come Chiesa di Gesù desideriamo metterci in vostro ascolto con
amore, certi di due cose: che la vostra vita è preziosa per Dio, perché Dio è
giovane e ama i giovani; e che la vostra vita è preziosa anche per noi, anzi
necessaria per andare avanti.
Dopo l’ascolto, un secondo passo per accompagnare il cammino di fede:
farsi prossimi. Guardiamo Gesù, che non delega qualcuno della «molta
folla» che lo seguiva, ma incontra Bartimeo di persona. Gli dice: «Che cosa
vuoi che io faccia per te?» (v. 51). Che cosa vuoi: Gesù si immedesima in
Bartimeo, non prescinde dalle sue attese; che io faccia: fare, non solo
parlare; per te: non secondo idee prefissate per chiunque, ma per te, nella
tua situazione. Ecco come fa Dio, coinvolgendosi in prima persona con un
amore di predilezione per ciascuno. Nel suo modo di fare già passa il suo
messaggio: così la fede germoglia nella vita.
La fede passa per la vita. Quando la fede si concentra puramente sulle
formulazioni dottrinali, rischia di parlare solo alla testa, senza toccare il
cuore. E quando si concentra solo sul fare, rischia di diventare moralismo e
di ridursi al sociale. La fede invece è vita: è vivere l’amore di Dio che ci ha
cambiato l’esistenza. Non possiamo essere dottrinalisti o attivisti; siamo
chiamati a portare avanti l’opera di Dio al modo di Dio, nella prossimità:
stretti a Lui, in comunione tra noi, vicini ai fratelli. Prossimità: ecco il
segreto per trasmettere il cuore della fede, non qualche aspetto secondario.
Farsi prossimi è portare la novità di Dio nella vita del fratello, è
l’antidoto contro la tentazione delle ricette pronte. Chiediamoci se siamo
cristiani capaci di diventare prossimi, di uscire dai nostri circoli per
abbracciare quelli che «non sono dei nostri» e che Dio ardentemente cerca.
C’è sempre quella tentazione che ricorre tante volte nella Scrittura: lavarsi
le mani. È quello che fa la folla nel Vangelo di oggi, è quello che fece Caino
con Abele, è quello che farà Pilato con Gesù: lavarsi le mani. Noi invece
vogliamo imitare Gesù, e come lui sporcarci le mani. Egli, la via (cfr. Gv
14,6), per Bartimeo si è fermato lungo la strada; Egli, la luce del mondo
(cfr. Gv 9,5), si è chinato su un cieco. Riconosciamo che il Signore si è
sporcato le mani per ciascuno di noi, e guardando la croce ripartiamo da lì,
dal ricordarci che Dio si è fatto mio prossimo nel peccato e nella morte. Si è
fatto mio prossimo: tutto comincia da lì. E quando per amore suo anche noi
ci facciamo prossimi, diventiamo portatori di vita nuova: non maestri di
tutti, non esperti del sacro, ma testimoni dell’amore che salva.
Testimoniare è il terzo passo. Guardiamo i discepoli che chiamano
Bartimeo: non vanno da lui, che mendicava, con un’acquietante monetina o
a dispensare consigli; vanno nel nome di Gesù. Infatti gli rivolgono solo tre
parole, tutte di Gesù: «Coraggio! Alzati, ti chiama!» (Mc 10,49). Solo Gesù
nel resto del Vangelo dice coraggio!, perché solo Lui risuscita il cuore. Solo
Gesù nel Vangelo dice alzati, per risanare lo spirito e il corpo. Solo Gesù
chiama, cambiando la vita di chi lo segue, rimettendo in piedi chi è a terra,
portando la luce di Dio nelle tenebre della vita. Tanti figli, tanti giovani,
come Bartimeo cercano una luce nella vita. Cercano amore vero. E come
Bartimeo, nonostante la molta gente, invoca solo Gesù, così anch’essi
invocano vita, ma spesso trovano solo promesse fasulle e pochi che si
interessano davvero a loro.
Non è cristiano aspettare che i fratelli in ricerca bussino alle nostre porte;
dovremo andare da loro, non portando noi stessi, ma Gesù. Egli ci manda,
come quei discepoli, a incoraggiare e rialzare nel suo nome. Ci manda a
dire a ognuno: «Dio ti chiede di lasciarti amare da Lui». Quante volte,
invece di questo liberante messaggio di salvezza, abbiamo portato noi
stessi, le nostre «ricette», le nostre «etichette» nella Chiesa! Quante volte,
anziché fare nostre le parole del Signore, abbiamo spacciato per parola sua
le nostre idee! Quante volte la gente sente più il peso delle nostre istituzioni
che la presenza amica di Gesù! Allora passiamo per una ONG , per una
organizzazione parastatale, non per la comunità dei salvati che vivono la
gioia del Signore.
Ascoltare, farsi prossimi, testimoniare. Il cammino di fede nel Vangelo
termina in modo bello e sorprendente, con Gesù che dice: «Va’, la tua fede
ti ha salvato» (v. 52). Eppure Bartimeo non ha fatto professioni di fede, non
ha compiuto alcuna opera; ha solo chiesto pietà. Sentirsi bisognosi di
salvezza è l’inizio della fede. È la via diretta per incontrare Gesù. La fede
che ha salvato Bartimeo non stava nelle sue idee chiare su Dio, ma nel
cercarlo, nel volerlo incontrare. La fede è questione di incontro, non di
teoria. Nell’incontro Gesù passa, nell’incontro palpita il cuore della Chiesa.
Allora non le nostre prediche, ma la testimonianza della nostra vita sarà
efficace.
MARCO POZZA
Ora nona
L’esperienza del male

L’ultima immagine di sé che ricorda è con una pietra in mano. Davanti c’è
una pattuglia della Polizia di Stato, dietro ci sono i vetri appena frantumati
delle finestre di una casa, delle portiere di un’automobile. Guarda il male, il
male ti si appiccica, si sente cantilenare in quelle colline di bollicine dorate:
è pur sempre terra del Prosecco DOC . Quella casa è casa sua, l’auto è il
mezzo di locomozione dei suoi genitori. Tutto ridotto in frantumi: «Ero a
piedi, scalzo, sfinito dal vivere. Cercavo di scappare da una comunità, ero
in stato confusionale. Mi hanno ammanettato, sbattuto in galera.
Condannato». A farlo arrestare sono gli stessi che l’hanno fatto venire al
mondo: «A denunciarmi sono stati mio padre e mia madre: minacce e
aggressione verso di loro, ecco l’accusa». Nell’altra cella, quella di fronte,
un napoletano ha fatto scrivere, sopra la finestra, ciò che diceva sua
mamma, donna meridionale e spiccia: ch’è meglio il rumore delle sbarre di
quello delle campane. «Avevo cercato di scegliere il male minore» si
confessa senza voler confessarsi. «Non mi accorgevo che era pur sempre un
male.» È lui: il male mangia seduto vicino a noi, dorme nel nostro stesso
letto, ci tira su le coperte e ci chiede come stiamo, se può esserci utile in
qualcosa.
Peccato sia come i pipistrelli: rifugge la luce del giorno.

Irradia di luce la sera,


fa’ sorgere oltre la morte,
nello splendore dei cieli,
il giorno senza tramonto. (Inno dell’Ora nona)

Il bilancino di precisione, la marijuana, l’eroina, le pastiglie, la cocaina,


tutti gli attrezzi necessari per la lavorazione, l’assunzione: «Il mio
appartamento era diventato un laboratorio artigianale di crack. Era il ritrovo
di gente malfamata, un viavai continuo a tutte le ore, giorno e notte. I vicini
sono andati fuori di testa». Nessuno può farti più male di quello che tu ti
metti in testa di fare a te stesso: la persona diventa cosa, la vita diventa un
oggetto, la casa che somiglia alla cella ancor prima d’entrare in galera.
Questa sì che (non) è vita: guarda il male e ti si appiccica. «E tutto sai
com’è iniziato?» si fa le domande e si risponde. «Tenendo nascosta la mia
omosessualità. La vergogna mi ha ficcato all’inferno, dentro questo inferno
di non-vita.» A turbare non è il tradimento o l’infedeltà, ma il non riuscire
più a fidarsi di qualcuno. Di te stesso: «Sprofondavo sempre di più, il crack
è stato il colpo finale». Pinocchio è finito dentro il ventre del pescecane.
La sua cella è spartana: pochi oggetti, per di più scalzi, rudimentali,
scarni. Sono l’avamposto ultimo dell’infedeltà: «Più che tradire i miei
genitori ho tradito me stesso» la sincerità con cui ne parla aumenta la mia
stima verso di lui. «La cosa più amara non è tradire qualcuno ma sé stessi.»
Maltrattarsi senza farsi alcun riguardo, guardarsi allo specchio e scoprire
d’essere diventato invisibile, il marchio della non-vita. L’agguato del male:
«Il male mi è entrato dentro quando mi sono sentito incompreso, perduto,
senza più una ragione in tasca per vivere; senza poter essere qualcuno,
anche minimo, per qualche altro. Mi sentivo come in una bolla: il mondo
non mi vedeva più, ero diventato invisibile». Non del tutto, però: «Io
sentivo d’esserci ancora un po’, però». Tradirsi con sé stessi, accade.
Mentre parla, qualche tic disturba la narrazione. Si stacca un po’ da me,
lo lascio staccarsi da ciò che l’opprime. Beve un caffè, poi accende la
sigaretta, gli altri tre giocano a carte mentre guardano, in contemporanea, i
programmi in tv e ascoltano le ultime canzoni che RTL manda in sottofondo:
è l’arte di esserci sempre e comunque, sempre sul pezzo. Eccetto quella
volta, quando era la vita a chiedere d’esserci. Lei che, sola, ha il potere di
dirti: «Stai qui, è il tuo posto».
Nascere è giorno di buon-compleanno, scoprire il perché si è nati è
giorno di buona-vita: un giorno, poi, si morirà come si è vissuti. Anche il
morire dipende dal vivere, non viceversa: «Nessuno poteva immaginare la
mia sofferenza. Io mi son nascosto, ho approfittato della situazione tenendo
tutti all’oscuro di tutto e ritrovandomi sprofondato nel male, nelle sabbie
mobili, incapace di reagire». Il come si possa vivere così è logica
conseguenza: «Preferivo che chi mi vedeva dicesse che ero solamente un
tossico piuttosto che venissero a conoscenza della mia omosessualità». Lo
lascio parlare, è un fiume che ha rotto gli argini, o un salmone che sta
risalendo a nuoto la corrente. Su, su, fino alla sorgente: «Da bambino era un
tipo vivace, casinista, mi piaceva scherzare, i miei compagni mi cercavano
perché stavano bene in mia compagnia». Si ferma, risale ancora un po’ la
corrente della memoria, si ferma a bordo fiume: «I miei genitori ce l’hanno
messa tutta per crescere me e mia sorella nel mondo giusto». Poi,
prestissimo, l’annuncio dell’uomo a sé stesso: «A dodici anni ho messo il
piede nell’inferno: tutto il resto è stato passeggiare tra quelle strade
lastricate di buoni propositi».
Li guardo mentre giocano a carte: è la nostra gente, in gergo gli «avanzi
di galera». Più che avanzi sono tutto ciò che resta quando tutti hanno
mangiato, le cose più piccole. Questa galera è l’avamposto ultimo dei
caduti-ignoti, l’estremo distributore di senso (quando si riesce a trovarlo) di
una società crocifissa: la prossima fermata è quella che porta dritta al
camposanto, non ci saranno soste intermedie. Da queste parti scoprire un
senso è ritrovare un briciolo di fede, pre-gustare qualcosa che ancora non
c’è. È professare fede certa nell’ultima chiave del mazzo: è sempre lei ad
aprire la porta. A far accadere il miracolo: fermarsi anche solo un’ora prima
è perdersi l’appuntamento con la bellezza.
Qui dentro, quando cala il sole dietro queste sbarre arrugginite, i matti
sono già sulla branda, mentre i poeti maledetti iniziano a vivere. La sera è la
loro ora, l’ora delle occasioni, del coraggio, del possibile che si apre una
strada dentro la terra dell’impossibile. Dove non c’è più niente si potrà
ancora fare tutto, tanto: «I problemi sono solo delle opportunità con delle
spine sopra» (H. Miller).
Nel paese delle spine, le rose avranno modo di sentirsi protette dai
bruchi.
Ritorna a sedere, il volto leggermente più rilassato. Qui fede è un termine
che la religione spartisce con l’umanesimo. «Credere» è verbo di
appartenenza più che di formule, sapersi di qualcuno è questione d’affetto
non di dogma, credere-a è sapersi non più soli in questo deserto ferroso.
«La notte, quando ero fuori, non dormivo più, piangevo dannatamente in
silenzio senza farmi sentire. Anche questa non era vita.» Le lacrime, invece,
da qualche parte sono litanie laiche, le ultime orazioni quando l’uomo ha
perso la voce, i ritornelli responsoriali di una messa senza più misteri da
scandagliare. «Sai, è brutto da dirsi, ma è giusto da ammettere: qui dentro
l’incontro più bello che ho fatto sinora è stato incontrare me stesso. Non
pensavo di valere così tanto, d’essere un uomo così» la voce è bambina da
quant’è pulita. «Sento di valere, ho fame di vita: basta galleggiare.»

Sottomettetevi dunque a Dio;


resistete al diavolo, ed egli fuggirà lontano da voi.
Avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a voi. […]
Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà.
(Gc 4,7-10)

La trasgressione è l’altro nome dell’infedeltà: il viziaccio nato apposta


per mandare in malora la virtù piccolina della fede, ch’è sempre sul punto
di crollare e di rimettersi in sesto. Entrati in galera – qui il passaporto è di
ferro e cemento – la vera trasgressione sarà quella di mostrarsi davvero per
come si è, senza far uso dei filtri per ritoccare le istantanee dell’esistenza:
«Quando oggi ci penso,» – non avrebbe mai giurato d’arrivare così in cima
nel risalire la corrente – «la vera trasgressione è stata quella dei miei. Per
una madre e un padre andare a chiedere d’arrestare il proprio figlio temo sia
la professione di fede più bella in ciò che, comunque, potrà ricominciare».
Piange, ha gli occhi lucidi, ci sta tutto.
Una trasgressione non si annuncia, tutti dicono d’essere trasgressivi:
«Nel momento in cui ho spinto contro il muro mia madre, le ho lasciato un
ematoma attorno al collo. Non posso dimenticare quel volto che mi
guardava». La memoria lo crocifigge di rimorsi. «Era l’annuncio di una
privazione, omicidio premeditato dell’amore nostro: “Ho perduto mio
figlio, oggi!” giurò con lo sguardo.» Dire ch’è tutto finito al novantesimo è
una regola degli uomini: a seguirla, però, si rischia di perdere tutto il
divertimento degli ultimi attimi, dei supplementari. Quando basterà un
contropiede per ribaltare una partita che sembrava perduta: «Mi han
sbattuto qui in carcere: li ho stra-maledetti, giurai che sarebbe finita per
sempre tra me e loro. Pensavo fossero degli infami per avermi fatto
questo». Il male ha le sue ore: tira giù le corde, suona le campane, sveglia la
vallata. Anche il bene ribatte le sue ore: bussa alla porta, tocca una spalla, ti
prende per mano. È l’ora esatta: «Invece oggi, se sono vivo, è grazie a loro:
a tradire sono stato io. Il loro, che pensavo essere un tradimento, è stata
l’unica risposta possibile al mio, di tradimento. Rischiare il tutto per tutto,
pur di non rinnegare la fede nel figlio».
Risultare vincitori è vivere la tentazione di farsi persecutori: i traditori,
però, vanno combattuti non traditi. L’uomo è una città eternamente in stato
d’assedio: «Qui dentro mi sono ritrovato a vivere con bestie libere da ogni
riguardo, anche con angeli liberi da ogni pensiero. Per tanto tempo sono
stato come un sacco di immondizie, un materasso di gomma piuma sempre
pronto a traslocare. Foto, impronte digitali, perquisizioni. Inviti ad
allontanarmi perché omosessuale, uno sempre con l’incolumità a rischio».
Sempre sull’attenti: «È vero: il posto è orribile. Ce n’è uno ancor più
orribile, però: abitare sotto due metri di terra. Ci sono andato vicinissimo:
chi pensavo mi avesse tradito invece mi ha salvato».
Tra il vizio e la virtù, ci sono operai in corso d’opera.

Al male ci si crede immediatamente.


Al bene si fa sempre fatica a credere, anche quand’è evidente.
È un viziaccio capitale giurare di amare Dio così.
La gelosia e la carità
È difficile immaginare l’invidia più brutta di come l’ha disegnata Giotto: ai
piedi ha un fuoco che la sta bruciando, in una mano tiene un sacchetto con
i propri averi, con l’altra si protende in modo bramoso. Ha una serpe che le
scodinzola sulla nuca, spunta da dietro il turbante, le esce dalla bocca e le
si infila nell’occhio, avvelenandola. Una visione diabolica, schifosa e
aberrante. L’invidia, la gelosia non è tanto desiderare di possedere
qualcosa, ma desiderare che gli altri non la posseggano. È forse l’unico
vizio che non procura nessuna gioia, se non quella di sapere che neanche
l’altro è felice.

Per me la gelosia, l’invidia sono il vizio giallo, giallo come l’itterizia, il mal
di fegato che ti fa diventare giallo. Il giallo è un po’ il colore della morte. I
cadaveri tendono a essere gialli, no? Per me l’invidia è un vizio del fegato,
perché quando è ammalato il fegato, diventa gialla tutta la vita. È brutto
desiderare che l’altro non vada avanti… Ho visto casi brutti di invidia, il
desiderio di non lasciare che le altre persone fossero felici, in una famiglia
che ho dovuto aiutare come prete. Cose da non credere: distruggere la
felicità altrui, ma non perché io voglio avere, per pura rabbia. È una
malattia essenzialmente distruttiva.

Mi colpisce che nel Vangelo Dio parli di sé come di un Padre che mette al
mondo sempre almeno due figli. Ognuno di essi, poi, è amato in base
all’amore di cui ha bisogno. Come risposta, però, si imbatte nella sindrome
del figlio unico: la tentazione di esistere solo noi ci spinge a dire: «L’altro
non può essere ciò che io non sono». Il massimo che guadagna l’invidioso è
ridurre un po’ l’insoddisfazione che prova. La gelosia fa come la ruggine
con il ferro: lentamente consuma.
Pensiamo a tante lotte nate dalla gelosia, a tante calunnie fabbricate dalla
gelosia, perché la gelosia non ha scrupoli. Va avanti con sé stessa e se deve
uccidere, uccide con la lingua. Se deve sporcare, sporca sempre gli altri
perché non abbiano quello che io ho, perché non crescano. C’è una musica
dell’invidia. L’invidia, la gelosia hanno un tono, un modo di esprimersi con
una specie di vibrato, che è «nostalgioso» e noioso. Quando io sento parlare
una persona che mi parla della situazione con questo tono, mi metto sempre
sulla difensiva perché temo che stia per distruggere qualche persona. È un
vizio che ha la propria musica: dobbiamo capirla per riconoscerla.

Riflettendo anche sulla storia della Chiesa, viene da pensare che anche se
non erano fratelli, Pietro e Paolo a un certo punto sono riusciti a dire: «Sì,
siamo diversi però c’è un Padre che è unico». Dispiace dirlo, ma la gelosia
rode anche la vita della Chiesa.

In alcune icone, gli apostoli Pietro e Paolo sorreggono insieme la Chiesa o


si stringono in un abbraccio. Tra loro erano ben diversi: uno era un
pescatore, l’altro un fariseo, con esperienze, caratteri, sensibilità differenti.
Hanno avuto anche contrasti: nella lettera ai Galati, Paolo dice di essersi
opposto a Pietro «a viso aperto perché aveva torto». Ma li univa qualcosa di
ben più grande: erano fratelli nella fede, e con il loro esempio invitano tutti
noi, fratelli e sorelle nella Chiesa, ad apprezzare e riconoscere i doni e le
qualità altrui senza invidia e senza gelosia.

Però nella Bibbia una delle espressioni che più mi fanno battere il cuore è
una frase pronunciata da Dio, che ci raccomanda: «Fate attenzione, perché
io sono un Dio geloso». Quella gelosia è tutt’altra cosa…

Tutt’altra cosa. È, diciamo così, la gelosia della mamma, del papà che
difendono i figli: «State attenti, non toccate i miei figli, eh!». È un modo di
dire, ma non è la gelosia gialla del fegato, è un’altra cosa.

La risposta alla gelosia è il grande miracolo della carità. Giotto la


raffigura come una donna con il capo coronato di fiori, lo sguardo verso
Gesù: con una mano offre il cuore a Gesù (vedendoselo restituire), con
l’altra porge un canestro pieno di fiori, frutti e spighe. È una delle figure
più belle della serie, perché è la virtù più bella.

La carità è una virtù meravigliosa, ma non è una prestazione o un obolo da


concedere per zittire la coscienza. La carità è l’amore e ha la sua origine e
la sua essenza in Dio stesso; la carità è l’abbraccio di Dio nostro Padre a
ogni uomo, in particolare a coloro che occupano un posto speciale nel suo
cuore, gli ultimi, i sofferenti. Se guardassimo alla carità come a una
prestazione, la Chiesa diventerebbe un’agenzia umanitaria. Ma la Chiesa
non è nulla di tutto questo, è qualcosa di diverso e di molto più grande: è, in
Cristo, il segno e lo strumento dell’amore di Dio per l’umanità e per tutto il
creato. La solidarietà e l’altruismo sono splendide virtù «umane»; ma la
carità è una virtù «soprannaturale».

Benedetto XVI intitolò Deus caritas est l’enciclica sulla carità-amore. È


l’incontro con un evento il cui nome è Gesù e che fa rinascere la storia
umana. Il nostro amore, dunque, sarà sempre un amore-di-risposta a un
amore primigenio. Inaspettato, salvifico.

Giovanni evangelista, nella sua prima lettera, lo dice chiaramente: «Noi


amiamo perché egli ci ha amati per primo». Intende dire che riusciremo a
capire e a incontrare Dio solo sulla strada dell’amore aperta da Lui, perché
Lui è amore (in latino, appunto, Deus caritas est). Non c’è un’altra strada
per andare incontro a Dio. Amare e lasciarsi amare: amare sul serio –
pensiamo ai genitori con i figli, alle famiglie, a tanta gente che porta avanti
l’amore – comporta tanti sacrifici. Paolo quando vuol descrivere l’amore lo
fa mostrando che tutto ciò che non è amore non conta nulla. Nella prima
lettera ai Corinzi c’è quell’inno straordinario alla carità-amore: «Se parlassi
tutte le lingue e avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e
avessi una fede che sposta le montagne e donassi tutti i miei averi ma non
avessi l’amore, non sarei nulla…». Niente vale se non c’è l’amore. Però ci
sono due confusioni sull’amore nella storia della Chiesa, dal tempo di
Giovanni. Ci sono gli gnostici, cioè quelli che credono che l’amore sia
staccarsi dalla terra e dagli uomini e andare a cercare altro. L’amore a Dio
passa per il prossimo, gli gnostici si sono allontanati dall’amore, perché
cercano in verticale Dio; ma Dio va cercato nell’umanità di Cristo,
nell’umanità dei poveri, nella gente che ha bisogno, in quelli che Gesù
descrive nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo: chi ha fame, chi ha sete, chi
è nudo. Gli altri che fraintendono l’amore sono i pelagiani. Sì, sanno che
Dio è amore, ma pensano che siano solo le loro azioni a fargli trovare Dio,
come se tutto dipendesse da loro. Per questo sia lo gnosticismo sia il
pelagianismo sono strade sbagliate per andare all’amore. L’amore io lo
trovo solo per la strada indicata nel capitolo 25 di Matteo. È quella la vera
strada per incontrare l’amore di Dio. Se dici di amare Dio e non ami il
prossimo, non è vero. Sei un bugiardo.
PAPA FRANCESCO
Il valore unico dell’amore

Le persone possono sviluppare alcuni atteggiamenti che presentano come


valori morali: fortezza, sobrietà, laboriosità e altre virtù. Ma per orientare
adeguatamente gli atti delle varie virtù morali, bisogna considerare anche in
quale misura essi realizzino un dinamismo di apertura e di unione verso
altre persone. Tale dinamismo è la carità che Dio infonde. Altrimenti,
avremo forse solo un’apparenza di virtù, e queste saranno incapaci di
costruire la vita in comune. Perciò san Tommaso d’Aquino – citando
sant’Agostino – diceva che la temperanza di una persona avara non è
neppure virtuosa (cfr. Summa theologiae, II-II, q. 23, a. 7). San
Bonaventura, con altre parole, spiegava che le altre virtù, senza la carità, a
rigore non adempiono i comandamenti «come Dio li intende»
(Commentaria in III librum Sententiarum Petri Lombardi, dist. 27, a. 1, q.
1, concl. 4).
La statura spirituale di un’esistenza umana è definita dall’amore, che in
ultima analisi è «il criterio per la decisione definitiva sul valore o il
disvalore di una vita umana» (Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est,
2005). Tuttavia, ci sono credenti che pensano che la loro grandezza consista
nell’imporre le proprie ideologie agli altri, o nella difesa violenta della
verità, o in grandi dimostrazioni di forza. Tutti noi credenti dobbiamo
riconoscere questo: al primo posto c’è l’amore, ciò che mai dev’essere
messo a rischio è l’amore, il pericolo più grande è non amare (cfr. 1Cor
13,1-13).
Cercando di precisare in che cosa consista l’esperienza di amare, che Dio
rende possibile con la sua grazia, San Tommaso d’Aquino la spiegava come
un movimento che pone l’attenzione sull’altro, considerandolo «come
un’unica cosa con sé stesso» (Summa theologiae, II-II, q. 27, a. 2, resp.).
L’attenzione affettiva che si presta all’altro provoca un orientamento a
ricercare gratuitamente il suo bene. Tutto ciò parte da una stima, da un
apprezzamento, che in definitiva è quello che sta dietro la parola «carità»:
l’essere amato è per me «caro», vale a dire che lo considero di grande
valore (cfr. ibid., I-II, q. 26, a. 3, resp.). E «dall’amore per cui a uno è
gradita una data persona derivano le gratificazioni verso di essa» (ibid., q.
110, a. 1, resp.).
L’amore implica dunque qualcosa di più che una serie di azioni
benefiche. Le azioni derivano da un’unione che inclina sempre più verso
l’altro considerandolo prezioso, degno, gradito e bello, al di là delle
apparenze fisiche o morali. L’amore all’altro per quello che è ci spinge a
cercare il meglio per la sua vita. Solo coltivando questo modo di
relazionarci renderemo possibile l’amicizia sociale che non esclude nessuno
e la fraternità aperta a tutti.

La progressiva apertura dell’amore


L’amore, infine, ci fa tendere verso la comunione universale. Nessuno
matura né raggiunge la propria pienezza isolandosi. Per sua stessa
dinamica, l’amore esige una progressiva apertura, maggiore capacità di
accogliere gli altri, in un’avventura mai finita che fa convergere tutte le
periferie verso un pieno senso di reciproca appartenenza. Gesù ci ha detto:
«Voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8).
Questo bisogno di andare oltre i propri limiti vale anche per le varie
regioni e i vari Paesi. Di fatto, «il numero sempre crescente di
interconnessioni e di comunicazioni che avviluppano il nostro pianeta rende
più palpabile la consapevolezza dell’unità e della condivisione di un
comune destino tra le nazioni della terra. Nei dinamismi della storia, pur
nella diversità delle etnie, delle società e delle culture, vediamo seminata
così la vocazione a formare una comunità composta da fratelli che si
accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri» (Messaggio
per la XLVII Giornata mondiale della pace 1° gennaio 2014, 8 dicembre
2013).

Società aperte che integrano tutti


Ci sono periferie che si trovano vicino a noi, nel centro di una città, o nella
propria famiglia. C’è anche un aspetto dell’apertura universale dell’amore
che non è geografico ma esistenziale. È la capacità quotidiana di allargare la
mia cerchia, di arrivare a quelli che spontaneamente non sento parte del mio
mondo di interessi, benché siano vicino a me. D’altra parte, ogni fratello o
sorella sofferente, abbandonato o ignorato dalla mia società, è un forestiero
esistenziale, anche se è nato nello stesso Paese. Può essere un cittadino con
tutte le carte in regola, però lo fanno sentire come uno straniero nella
propria terra. Il razzismo è un virus che muta facilmente e invece di sparire
si nasconde, ma è sempre in agguato.
Voglio ricordare quegli «esiliati occulti» che vengono trattati come corpi
estranei della società (cfr. Angelus, 29 dicembre 2013; Discorso al Corpo
diplomatico, 12 gennaio 2015). Tante persone con disabilità «sentono di
esistere senza appartenere e senza partecipare». Ci sono ancora molte cose
«che [impediscono] loro una cittadinanza piena». L’obiettivo è non solo
assisterli, ma la loro «partecipazione attiva alla comunità civile ed
ecclesiale. È un cammino esigente e anche faticoso, che contribuirà sempre
più a formare coscienze capaci di riconoscere ognuno come persona unica e
irripetibile». Ugualmente penso alle persone anziane «che, anche a motivo
della disabilità, sono sentite a volte come un peso». Tuttavia, tutti possono
dare «un singolare apporto al bene comune attraverso la propria originale
biografia». Mi permetto di insistere: bisogna «avere il coraggio di dare voce
a quanti sono discriminati per la condizione di disabilità, perché purtroppo
in alcune nazioni, ancora oggi, si stenta a riconoscerli come persone di pari
dignità» (Messaggio per la Giornata mondiale delle persone con disabilità,
3 dicembre 2019).

Comprensioni inadeguate di un amore universale


L’amore che si estende al di là delle frontiere ha come base ciò che
chiamiamo «amicizia sociale» in ogni città e in ogni Paese. Quando è
genuina, questa amicizia sociale all’interno di una società è condizione di
possibilità di una vera apertura universale. Non si tratta del falso
universalismo di chi ha bisogno di viaggiare continuamente perché non
sopporta e non ama il proprio popolo. Chi guarda il suo popolo con
disprezzo stabilisce nella propria società categorie di prima e di seconda
classe, di persone con più o meno dignità e diritti. In tal modo nega che ci
sia spazio per tutti.
Neppure sto proponendo un universalismo autoritario e astratto, dettato o
pianificato da alcuni e presentato come un presunto ideale allo scopo di
omogeneizzare, dominare e depredare. C’è un modello di globalizzazione
che «mira consapevolmente a un’uniformità unidimensionale e cerca di
eliminare tutte le differenze e le tradizioni in una superficiale ricerca di
unità. […] Se una globalizzazione pretende di rendere tutti uguali, come se
fosse una sfera, questa globalizzazione distrugge la peculiarità di ciascuna
persona e di ciascun popolo» (Discorso nell’incontro con la comunità
ispanica, Filadelfia, 26 settembre 2015). Questo falso sogno universalistico
finisce per privare il mondo della varietà dei suoi colori, della sua bellezza e
in definitiva della sua umanità. Perché «il futuro non è “monocromatico”,
ma, se ne abbiamo il coraggio, è possibile guardarlo nella varietà e nella
diversità degli apporti che ciascuno può dare. Quanto ha bisogno la nostra
famiglia umana di imparare a vivere insieme in armonia e pace senza che
dobbiamo essere tutti uguali!» (Discorso ai giovani, Tokyo, 25 novembre
2019).
MARCO POZZA
Vespri
La cena-senza-famiglia

È l’ora del poeta, quella «che volge il disio / ai navicanti e ’ntenerisce il


core / lo dì c’han detto ai dolci amici addio» (Purgatorio, VIII, 1-3). L’ora
nella quale non si dovrebbe restare mai da soli a fissare un tramonto. Qui, ai
bordi dell’autostrada, l’Adriatico non lascia trasparire nulla di sé: senza il
mare, è un tramonto a metà.
Il gabbiano è appollaiato sulla grata corrosa dalla ruggine. È invadente,
mette il becco sin dentro lo spazio angusto della cella: ha fame. Di più: si è
affezionato a quest’uomo, lo viene a cercare mattina e sera, gli è rimasto
compagno in tutto il tempo di questi mesi. Quest’uomo, vestito di tutto
punto, è appena tornato dal colloquio con la famiglia. Con ciò che resta
della sua famiglia: «Avevo detto alla bambina che ero bloccato a casa della
nonna in Toscana,» quant’è amaro il suo fissarmi «ma le bugie hanno le
gambe corte. Ha capito tutto. Oggi mi ha detto: “Ma cos’hai fatto per finire
in carcere, papà?”. Mi sono sentito strappare il cuore. Ho ripensato alla
prima volta che mia madre è venuta a trovarmi dentro un carcere: è tutto un
trauma». Dagli effetti si riconoscono gli affetti, sogliono dire le vecchiette
quando disquisiscono dell’amore nella piazzetta del paese.
È ancora vestito di tutto punto, sembra tornato da un giorno di festa
tant’è fascinoso il suo portamento. Invece è appena rientrato dalla sala
nuda, spenta, di una gattabuia. Però, nel vestire, è signorile: «Ci metto tre
giorni a prepararmi per un colloquio di un’ora,» è la moviola del suo
racconto «tre giorni di ansia, di preparativi, di disperazione». Di domande,
contro-domande, mezze risposte. Un po’ meno di mezze: «Poi il giorno
prima inizio a sistemarmi i capelli, a farmi la barba, a mettermi a silenziare
il negativo dentro di me. Scelgo il vestito che poi indosserò. Mi ricordo che
una volta mia moglie disse: “Con quello addosso sei bellissimo!”. Allora
decido che indosserò proprio quello. L’altra volta indossavo la maglietta
che mi ha spedito per posta: era un modo per dirle quanto l’ho gradita
quando mi è arrivata». I gabbiani, quando sentono arrivare la fine, vanno
verso una spiaggia deserta, vogliono morire l’uno vicino all’altro: «Quando
il giorno del colloquio gli agenti pronunciano il mio cognome, è da
batticuore: sento che sta per arrivare il nostro momento». In galera scrivere
mi manchi è ammettere che, quando manca l’amore, è come se ci fossi un
po’ di meno anche tu: manchi tu e manco io. Tramontato il sole, rimangono
solo le cose elementari.
Rimane solo chi deve rimanere.

Ecco il sole scompare


all’estremo orizzonte;
scende l’ombra e il silenzio
sulle fatiche umane. (Inno dei Vespri)

Delle fatiche umane, in galera l’amore è la forma di manovalanza che


più ti snerva. L’amore al tramonto, esattamente nell’attimo in cui al giorno
vien spenta la luce, per accenderla alla notte. Anche qui dentro l’amore è
sempre un amore-di-risposta: si ama perché qualcuno ci ama. O, magari, ci
si è amati ancor prima che ce ne accorgessimo. Quest’ora, nelle gattabuie
delle galere, è il tramonto di coscienza, la versione galeotta dell’esame di
coscienza: «Quando ritorni in cella dopo il colloquio, ti ritrovi con i tuoi
pensieri, terribilmente solo, ripensi di continuo a quello che stai perdendo».
Come l’amore, anche il dolore è di-ritorno: «Penso alla sofferenza che sto
causando a mia moglie: per vedermi la perquisiscono, a casa è divorata
dalla mancanza, nel lavoro dev’essere doppiamente forte. Tutto questo a
causa mia». Non ci s’innamora con il telecomando: innamorarsi è correre il
rischio di essere traditi. Non innamorarsi è avere già tradito il cuore. Farlo è
da temerari, comunque: «“Io ti amo” mi disse mia moglie mentre mi
consegnavano il mandato di cattura» non è orgoglioso nel raccontarlo. «“Ti
perdono anche se mi hai mentito facendomi credere che avevi smesso con
questa storia.”» Però, in tutte le storie è nascosto un però: «“Scegli: lei o
me. Noi.” In quel giorno, con le manette ai polsi, scoprii d’essere sul punto
di perdere tutto». Di perdersi.
Esser gelosi è uccidere l’amore giustificandosi che lo si voleva tenere
vivo: «La droga è una gran mignotta». Ancora lei, quasi sempre lei, eppure
non è lei: lei è solo la risposta a un vuoto, è un buco nero, una pastiglia per
dimenticare. Lei arriva sempre puntuale: «Tutto è iniziato con la
separazione dalla mia prima moglie: ero insoddisfatto di me, un lato oscuro
ha iniziato ad accendersi dentro me. Per il gatto e la volpe è stato un gioco
da bambini condurmi nel paese dei balocchi». Ci sono sere nelle quali
verrebbe voglia di denunciare per truffa chi ti aveva augurato buona
giornata: «Sono entrato in carcere come uno spacciatore comune, ne sono
uscito con un dottorato a pieni voti in traffico di cocaina. È iniziato così un
vero e proprio commercio all’ingrosso. Mi allargavo sempre più: la cocaina,
i clienti, la pistola Beretta automatica. Soldi a palate, macchine full-
optional. Perdizione assoluta». Fai del male e ricorda, fai del bene e
dimentica: in galera, quando tramonta il sole, le solite parole delle mamme
assomigliano a degli estratti conto di patrimoni dilapidati. Sai che il conto è
vuoto, ma fissarne il vuoto rende ancor più amaro quello sperpero di
occasioni avute. E sprecate.

Non si offuschi la mente


nella notte del male,
ma rispecchi serena
la luce del tuo volto. (Inno dei Vespri)

Le cose belle possono anche non durare per sempre: per il tramonto non
è un motivo valido per apparire stasera uguale a com’era un’altra sera.
Gelosia, invece, è intestardirsi a ritornare sempre nel medesimo posto dove
hai perduto la felicità la prima volta: «Quando sono entrato in carcere, per
la seconda volta, ho sentito il rumore dei cancelli che si chiudevano dietro
di me: mi sono sentito morire, avevo una paura assassina di rivivere quello
che avevo già vissuto. Era come ricominciare daccapo una storia che
pensavo fosse finita per sempre. Sono tornato con il pensiero a mia
moglie». Certi volti riappaiono più nitidi all’ora in cui il sole tramonta: e
tutto si riduce a quella persona che ti appare in quell’ora.
È quella la vera anagrafica del cuore.
Fuori dalla cella, nella torre di Babele delle altre celle, si spande
ovunque l’appetito della cena. Odore di fritto, profumo di basilico: penne
all’arrabbiata, al pesto o in bianco. Filetto di merluzzo, scatolame, aragosta
o tonno di fortuna. Il cibo, qui dentro, fa da spartiacque: c’è chi cucina e chi
prepara da mangiare. Si cucina quando si è soli, si prepara da mangiare
quando si è in compagnia. Lui, l’uomo del colloquio, si sta preparando la
pizza: lo strazio è alle stelle. Gli piace la pizza. Di più: gli piace far piacere
la pizza, fare il pizzaiolo è il suo mestiere. Mi spiega la pizza: «Deve avere
il bordo alto, impasto morbido, se la pieghi non deve spezzarsi. Mi piace
guardarla mentre sta cuocendo, la accompagno, me la guardo crescere»
finalmente ritrova il sorriso. «Sono un uomo del Sud, per me la pizza è la
felicità: non è un primo, un secondo, un dessert.» Ci credo, tanto quanto
credo alla sua bontà. Assomiglia davvero a una pizza anche lui: qui in
galera si fa sempre in quattro per render felici gli altri. Quattro spizzichi di
pizza.
È quando si è tristi che si amano maggiormente i tramonti: sorridere loro
in quelle sere è cercare una boccata di speranza. È accompagnare a casa
l’amore: «Finito il colloquio, quando ritorno in cella, con la mente seguo
mia moglie nella strada verso casa: “Adesso è arrivata a quello stop, fra
poco girerà a destra. Poi dritti fino alla rotatoria”. Non vedo l’ora di
telefonarle per sapere se è arrivata, se è andato tutto bene. Quando ho finito,
inizio a ricalcolare il percorso e il tempo per il prossimo colloquio». Il
cuore è una giostra impazzita: cercare di silenziarlo è come firmarsi una
condanna a morte immediata. «Vedo immagini di famiglie alla tv e sento
mancarmi i bambini. Vedo immagini di pizzerie e penso a quanto stia
sudando mia moglie per portare avanti la nostra catena di pizzerie. Sento le
storie di droga che racconta la tv e rivedo me stesso: “Quanto cretino son
stato a firmarmi questa condanna?” mi dico spesso.» È tardi, forse no.
L’ora esatta?

[Il Signore] ha rovesciato i potenti dai troni,


ha innalzato gli umili. (Magnificat)

Paragonarsi all’altro, non amando sé stesso per quello che si è: è così che
nasce l’invidia. Un gradino sopra tutti, tossicomani del male: «Senti il
bisogno di essere qualcuno, ti convinci d’essere invincibile. Sei così
sfacciato da dire la più oca delle frasi: “Tu non sai con chi hai a che fare,
bello!”». Lo dici, ma non credi a quello che stai dicendo. Dunque sei un
bugiardo che si sbugiarda davanti al mondo: «Ero solo un cretino che stava
passando un periodo d’insoddisfazione personale». Tutto qui il vizio: era
convinto anche Napoleone che fosse più facile governare gli uomini
facendo leva sui vizi piuttosto che sulle virtù. Certi vizi, poi, smettono di
piacere: è allora che diventano virtù. Amarsi quando meno si sente di
meritarlo è spostare la gelosia per far in modo che passi l’amore.
In carcere i portafogli, ufficialmente, non hanno diritto di cittadinanza:
sono vietate tutte le forme di commercio. Qui, spesse volte, la moneta non è
di ferro, di bronzo, di carta: è l’allegria di un sorriso, la quiete di una
carezza, la maestà di un gesto d’amore puro. Fare economia, in galera, è
investire sulla virtù: tentar la fortuna è giocare con il vizio: «Siamo tutti
impastati di vizi e di virtù,» e così mi saluta l’uomo della pizza «ci sono
giorni in cui vinci per aver sposato la virtù e giorni in cui perdi per aver
giocato con il vizio. È dal loro impasto,» per lui è un termine tecnico «che
nasce la vita». La libertà, anche quella d’andare contro sé stessi, per poi
perdersi e rischiare di ritrovarsi. Una volta per sempre: «Sono dentro per un
errore di calcolo, stavolta: non mi hanno tolto dei giorni che mi spettavano,
così non posso stare a casa a finire di scontare la pena». Amen. Anzi no:
rabbia.
Anche la rabbia è vizio. «Allora è tutto un vizio questa vita!» dirà
qualcuno. «Fai del male e ricorda, fai del bene e dimentica, diceva sempre
mia mamma.» Così mi saluta.

Esco dalla cella. Fingo d’andarmene, poi ritorno. Lo spio dietro il marasma
dei galeotti che stanno facendo su e giù nel corridoio: c’è chi ha deciso di
vivere così tutto il giorno. Tutto l’ergastolo. Lui, invece, fissa l’orologio. Il
gabbiano.
Questa è l’ora nella quale, al pizzaiolo, s’intenerisce il cuore.
L’ora in cui riapre la pizzeria. Stasera l’aprirà sua moglie, a nome suo.
Amore, gelosia.
La disperazione e la speranza
Arriviamo all’ultima coppia, che fa divampare tutta la bellezza di questo
ciclo pittorico: il viaggio di Giotto dalla disperazione alla speranza. Giotto
coglie la disperazione nell’attimo di impiccarsi. Ha il volto devastato, i
pugni contratti: il suicidio è la tragica conseguenza del male scelto. Questo
forse è il peccato capitale, quello contro lo Spirito: non credere più in
nulla, non curarsi più di nulla, non interessarsi di nulla, non godere di
nulla, non odiare nulla, certe volte non trovare neanche un motivo per
morire. Verrebbe da dire che la disperazione è una rabbia che non riesce a
trovare una valvola di sfogo. Come è possibile arrivare a questo punto?

Il suicidio per disperazione, in una vita senza orizzonti. Tu che lavori in


carcere, puoi ben immaginare un carcere senza finestre, senza possibilità di
uscita. Ma come posso uscire se io sono all’ergastolo? Bisogna avere la
capacità di mostrare che la disperazione non è l’unica possibilità, che esiste
un’uscita esistenziale. Noi, per essere umani, dobbiamo sempre aiutare le
persone a non accovacciarsi su sé stesse, ad avere orizzonti. Dobbiamo
accettare la sfida e caricare sulle nostre spalle le sofferenze altrui. La
disperazione è brutta, è brutta, è brutta…

È impossibile non ritornare alla disperazione e al suicidio di Giuda nel


Vangelo. Giuda non era cattivo, Giuda aveva perduto la speranza.

Perde la speranza, un poveraccio. Si suicida perché si vergogna di sé, si


suicida perché sente la colpa e va a restituire i soldi del tradimento… «Non
li voglio più, ho tradito.» Sente la colpa e non trova la strada della speranza.
Dio, però, anche alle persone più disperate fa sempre intravedere una via
d’uscita, sempre. Ho citato tante volte quel capitello nella basilica di Santa
Maria Maddalena a Vézelay, in Borgogna. Da una parte c’è Giuda
impiccato e il diavolo che lo prende dalle gambe e lo tira giù, morto, con la
lingua fuori; dall’altra il Buon Pastore che se lo prende sulle spalle come un
agnello, e ha un sorriso ironico. E mi torna sempre in mente quella donna
che va a confessarsi dal Curato d’Ars, disperata perché il marito si era
suicidato buttandosi da un ponte. «È andato all’inferno, vero?» E il Curato
d’Ars le risponde: «Fra il ponte e il fiume c’è la misericordia di Dio».
Giuda è l’emblema della disperazione: vede che la sua vita è un cumulo di
sporcizia e non vede una via d’uscita, non trova speranza. A me piace
pensare al capitello di Vézelay che pare dirci: «Dopo la disperazione
sempre c’è la mano di Gesù».

La disperazione ha una sua genesi, ed è importante capirla e raccontarla


senza giudicare. Penso a persone, anche a me molto care, che arrivano a
dire: «Non ce la faccio più». È un campanello d’allarme. E uno dei motivi
per cui tante persone pronunciano quella frase è che una delle logiche
dominanti della nostra società è mettere prima le cose delle persone.
Trasformare una persona in un oggetto è come dirle: «Prendi la tua
disperazione e mangiala».

La disperazione uccide tutto, tutto… È in sé un suicidio. Il disperato chiama


in causa anche Dio: «Nemmeno tu mi dai speranza».

La nostra è una società disperata?

Credo di sì. Una società disperata che proprio per questo ripone tutte le sue
speranze in piccole cose senza importanza. Poi si accorge che lì non troverà
mai la felicità e ne cerca un’altra, un’altra, un’altra… E poi contano anche
le necessità materiali: il bisogno genera disperazione. E la disperazione è
anche di chi deve prendere decisioni, magari impopolari, davanti alla
complessità dei problemi. E poi c’è la disperazione figlia della
rassegnazione, che è un veleno: siamo rassegnati alle guerre, al traffico
d’armi, a tanta gente che non ha da mangiare, ai bambini senza istruzione,
che sono la maggioranza nel mondo… C’è una via d’uscita, c’è un rimedio.
E io penso a questa crisi della pandemia. Da una crisi non si esce uguali. O
usciamo migliori o peggiori: dobbiamo cogliere questa possibilità per
diventare migliori.
Mi emoziona sempre rileggere un verso di Charles Péguy: «Quel che è
facile e istintivo è disperare: è la grande tentazione». La salvezza è la
speranza, e Giotto la dipinge come è una donna con le mani protese verso il
Paradiso: la postura del suo corpo, la posizione del suo capo, le braccia,
tutto, in lei, richiama l’Ascensione di Cristo. È il mondo stesso a
protendersi verso il futuro, a nutrire fiducia nella sua realizzazione,
attendendone la venuta.

Quando si parla della speranza mi vengono sempre in mente due frasi


opposte. Una è quella della Turandot di Puccini, nella scena degli enigmi:
«La speranza che delude sempre». L’altra è quella di Paolo nella lettera ai
Romani: «La speranza non delude». La fede ci garantisce che la
convinzione dell’apostolo Paolo è vera, perché, continua il versetto,
«l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito
Santo». Con criteri mondani andiamo sulla strada della Turandot: la
speranza delude. È un atto di fede scegliere la speranza, la più piccina delle
virtù, dice sempre Péguy, la più umile, la più quotidiana, ma anche quella
che trascina con sé le altre. Perché la speranza è come l’ossigeno per
respirare la vita, la speranza dà un senso alla vita. È un dono per andare
avanti, per guardare, per rendere feconde le cose, per agire, per tollerare,
per saper soffrire. Siamo salvati nella speranza e la speranza non delude.
Ma è anche un dono di Dio, dobbiamo chiederla. Da soli non ce la
facciamo. Chiederla e una volta ricevuto il dono, custodirlo. Questo mondo
è pieno di delusioni. Pensiamo a un Paese dove i giovani devono superare
una selezione molto severa per poter accedere agli studi superiori, e ci sono
molti suicidi tra coloro che non ce la fanno. Non hanno avuto il dono della
speranza. Il punto culminante della speranza è toccato da coloro che vanno
al martirio. I martiri dei primi secoli e quelli di oggi sapevano e sanno che
c’è un’altra vita, quindi sono disposti a donare questa vita e il Signore li
aspetta. Ecco l’eroicità della speranza. E poi c’è la speranza di tutti i giorni,
la piccola speranza, nascosta negli angoli della nostra vita, che ci fa andare
avanti. Ma vivere nella disperazione è un inferno. La non speranza è
l’inferno. «Lasciate ogni speranza voi ch’entrate», sta scritto sulla porta
dell’inferno di Dante.
Papa Francesco, lei in questo momento è il condottiero del popolo
cristiano, in un momento in cui è così facile disperare. Qual è la speranza
che tiene nel cuore, in questo momento, non solo per la Chiesa ma per tutta
l’umanità?

Gesù. Gesù è la mia speranza, il Dio fatto carne, Dio fatto per noi, uno di
noi che ci accompagna. Dio che si è fatto vicino come aveva detto Mosè nel
Deuteronomio: «quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il
Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?». Si è
fatto vicino a noi per camminare con noi, e questo è Gesù Cristo. Il Dio
della synkatábasis, della condiscendenza. È questa la mia speranza.

Rileggo spesso una pagina della mistica Simone Weil, è una di quelle che
più m’incuriosiscono di quest’anima inquieta: «In modo generale» scrive
nella sua opera L’ombra e la grazia. Investigazioni spirituali «non
desiderare la sparizione di nessuna delle proprie miserie, bensì la grazia
che le trasfiguri». È anche una sorta di avviso per i naviganti: il vizio e la
virtù non esistono in purezza: tutto è innestato nella vita, dove nulla è del
tutto perfetto e nulla è del tutto imperfetto. In questo intreccio esistenziale,
discernere è confidare nel Signore e fare il bene; abitare la terra e vivere
con fede, come suggerisce il Salmo 37. Abitare il tempo con pazienza,
dunque, senza nutrire il desiderio sciocco di possederlo. Attraversare la
vita tutta, lasciarci attraversare dalla vita tutta. E io concludo, Papa
Francesco, con la serenità nel cuore, perché ancora una volta mi ha
confermato che non esiste un uomo tutto virtuoso e non esiste un uomo tutto
vizioso. Vediamo il bene che vorremmo fare, facciamo il male che non
vorremmo fare. Siamo un miscuglio di vizi e virtù. Però a immagine di Dio.

È così e dobbiamo tollerarci come siamo fatti, ma sempre guardando il Dio


che ci chiama, il Dio che ci ama, il Dio che ci ha dato la vita, sempre
guardando il prossimo per fare del bene. Sempre pregando di non scivolare
nell’egoismo, nella disperazione, nell’invidia, nella gelosia, in tutti questi
vizi che ci mangiano da dentro. I vizi sono dei parassiti, è proprio così.

Perdoni l’irriverenza. Se dovesse chiedere a Dio il dono di una virtù tra


queste sette, quale chiederebbe?
Ah, la speranza! Certamente.

E se potesse chiedere a Dio il dono di rifuggire da uno di questi setti vizi?


Quale sceglierebbe?

Ah, da tutti, da tutti! (ridendo)


PAPA FRANCESCO
La speranza non delude

La speranza ha i suoi nemici: come ogni bene in questo mondo, ha i suoi


nemici. E mi è venuto in mente l’antico mito del vaso di Pandora: l’apertura
del vaso scatena tante sciagure per la storia del mondo. Pochi, però,
ricordano l’ultima parte della storia, che apre uno spiraglio di luce: dopo
che tutti i mali sono usciti dalla bocca del vaso, un minuscolo dono sembra
prendersi la rivincita davanti a tutto quel male che dilaga. Pandora, la donna
che aveva in custodia il vaso, lo scorge per ultimo: i greci la chiamano elpís,
che vuol dire «speranza».
Questo mito ci racconta perché sia così importante per l’umanità la
speranza. Non è vero che «finché c’è vita c’è speranza», come si usa dire.
Semmai è il contrario: è la speranza che tiene in piedi la vita, che la
protegge, la custodisce e la fa crescere. Se gli uomini non avessero coltivato
la speranza, se non si fossero sorretti a questa virtù, non sarebbero mai
usciti dalle caverne, e non avrebbero lasciato traccia nella storia del mondo.
È quanto di più divino possa esistere nel cuore dell’uomo.
Un poeta francese – Charles Péguy – ci ha lasciato pagine stupende sulla
speranza (cfr. Il portico del mistero della seconda virtù). Egli dice
poeticamente che Dio non si stupisce tanto per la fede degli esseri umani, e
nemmeno per la loro carità; ma ciò che veramente lo riempie di meraviglia
e commozione è la speranza della gente: «Che quei poveri figli» scrive
«vedano come vanno le cose e che credano che andrà meglio domattina».
L’immagine del poeta richiama i volti di tanta gente che è transitata per
questo mondo – contadini, poveri operai, migranti in cerca di un futuro
migliore – che ha lottato tenacemente nonostante l’amarezza di un oggi
difficile, colmo di tante prove, animata però dalla fiducia che i figli
avrebbero avuto una vita più giusta e più serena. Lottavano per i figli,
lottavano nella speranza.
La speranza è la spinta nel cuore di chi parte lasciando la casa, la terra,
a volte familiari e parenti – penso ai migranti – per cercare una vita
migliore, più degna per sé e per i propri cari. Ed è anche la spinta nel cuore
di chi accoglie: il desiderio di incontrarsi, di conoscersi, di dialogare… La
speranza è la spinta a «condividere il viaggio», perché il viaggio si fa in
due: quelli che vengono nella nostra terra, e noi che andiamo verso il loro
cuore, per capirli, per capire la loro cultura, la loro lingua. È un viaggio a
due, ma senza speranza quel viaggio non si può fare. Non abbiamo paura di
condividere il viaggio! Non abbiamo paura! Non abbiamo paura di
condividere la speranza!
La speranza non è virtù per gente con lo stomaco pieno. Ecco perché, da
sempre, i poveri sono i primi portatori della speranza. E in questo senso
possiamo dire che i poveri, anche i mendicanti, sono i protagonisti della
storia. Per entrare nel mondo, Dio ha avuto bisogno di loro: di Giuseppe e
di Maria, dei pastori di Betlemme. Nella notte del primo Natale c’era un
mondo che dormiva, adagiato in tante certezze acquisite. Ma gli umili
preparavano nel nascondimento la rivoluzione della bontà. Erano poveri di
tutto, qualcuno galleggiava poco sopra la soglia della sopravvivenza, ma
erano ricchi del bene più prezioso che esiste al mondo, cioè la voglia di
cambiamento.
A volte, aver avuto tutto dalla vita è una sfortuna. Pensate a un giovane a
cui non è stata insegnata la virtù dell’attesa e della pazienza, che non ha
dovuto sudare per nulla, che ha bruciato le tappe e a vent’anni «sa già come
va il mondo»; è stato destinato alla peggior condanna: quella di non
desiderare più nulla. È questa, la peggiore condanna. Chiudere la porta ai
desideri, ai sogni. Sembra un giovane, invece è già calato l’autunno sul suo
cuore. Sono i giovani d’autunno.
Avere un’anima vuota è il peggior ostacolo alla speranza. È un rischio da
cui nessuno può dirsi escluso; perché di essere tentati contro la speranza
può capitare anche quando si percorre il cammino della vita cristiana. I
monaci dell’antichità avevano denunciato uno dei peggiori nemici del
fervore. Dicevano così: quel «demone del mezzogiorno» che va a sfiancare
una vita di impegno, proprio mentre arde in alto il sole. Questa tentazione ci
sorprende quando meno ce lo aspettiamo: le giornate diventano monotone e
noiose, più nessun valore sembra meritevole di fatica. Questo atteggiamento
si chiama accidia che erode la vita dall’interno fino a lasciarla come un
involucro vuoto.
Quando questo capita, il cristiano sa che quella condizione deve essere
combattuta, mai accettata supinamente. Dio ci ha creati per la gioia e per la
felicità, e non per crogiolarci in pensieri malinconici. Ecco perché è
importante custodire il proprio cuore, opponendoci alle tentazioni di
infelicità, che sicuramente non provengono da Dio. E laddove le nostre
forze apparissero fiacche e la battaglia contro l’angoscia particolarmente
dura, possiamo sempre ricorrere al nome di Gesù. Possiamo ripetere quella
preghiera semplice, di cui troviamo traccia anche nei Vangeli e che è
diventata il cardine di tante tradizioni spirituali cristiane: «Signore Gesù
Cristo, Figlio di Dio vivo, abbi pietà di me peccatore!». Bella preghiera.
«Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio vivo, abbi pietà di me peccatore!»
Questa è una preghiera di speranza, perché mi rivolgo a Colui che può
spalancare le porte e risolvere il problema e farmi guardare l’orizzonte,
l’orizzonte della speranza.
In una storia come quella che stiamo vivendo, caratterizzata da violenza
e avversità, l’atteggiamento del cristiano deve essere quello della speranza
in Dio, che consente di non lasciarsi abbattere dai tragici eventi. Anzi, essi
sono «occasione di dare testimonianza» (Lc 21,13). I discepoli di Cristo non
possono restare schiavi di paure e angosce; sono chiamati invece ad abitare
la storia, ad arginare la forza distruttrice del male, con la certezza che ad
accompagnare la sua azione di bene c’è sempre la provvida e rassicurante
tenerezza del Signore. Questo è il segno eloquente che il Regno di Dio
viene a noi, cioè che si sta avvicinando la realizzazione del mondo come
Dio lo vuole. È Lui, il Signore, che conduce la nostra esistenza e conosce il
fine ultimo delle cose e degli eventi.
Il Signore ci chiama a collaborare alla costruzione della storia,
diventando, insieme a Lui, operatori di pace e testimoni della speranza in un
futuro di salvezza e di risurrezione. La fede ci fa camminare con Gesù sulle
strade tante volte tortuose di questo mondo, nella certezza che la forza del
suo Spirito piegherà le forze del male, sottoponendole al potere dell’amore
di Dio. L’amore è superiore, l’amore è più potente, perché è Dio: Dio è
amore. Ci sono di esempio i martiri cristiani – i nostri martiri, anche dei
nostri tempi, che sono di più di quelli degli inizi – i quali, nonostante le
persecuzioni, sono uomini e donne di pace. Essi ci consegnano una eredità
da custodire e imitare: il Vangelo dell’amore e della misericordia. Questo è
il tesoro più prezioso che ci è stato donato e la testimonianza più efficace
che possiamo dare ai nostri contemporanei, rispondendo all’odio con
l’amore, all’offesa con il perdono. Anche nella vita quotidiana: quando noi
riceviamo un’offesa, sentiamo dolore; ma bisogna perdonare di cuore.
Quando noi ci sentiamo odiati, pregare con amore per la persona che ci
odia. La Vergine Maria sostenga, con la sua materna intercessione, il nostro
cammino di fede quotidiano, alla sequela del Signore che guida la storia.
Non siamo soli a combattere contro la disperazione. Se Gesù ha vinto il
mondo, è capace di vincere in noi tutto ciò che si oppone al bene. Se Dio è
con noi, nessuno ci ruberà quella virtù di cui abbiamo assolutamente
bisogno per vivere. Nessuno ci ruberà la speranza. Andiamo avanti!
MARCO POZZA
Compieta
La nostalgia del bene

Anime oranti che vagano nella notte della città. Qui dentro è tutto di ferro,
anche i dispiaceri gli assomigliano molto: hanno la memoria di ferro. La
ruggine consuma il ferro delle grate di questa cella, come l’invidia dilapida
gli animi invidiosi, resi ciechi dal male. Quand’è tutto buio, buio pesto e
assassino, riparte il solito infinito processo, pieno di commi, cavilli e
interpretazioni: la sera mette sotto processo l’intera giornata. Che ripete: «Io
sono innocente, però. Lo so che lo dicono tutti qui dentro, ma con me è
proprio così». A scavalcare la grata con lo sguardo, ci si accorge che fuori è
tutta oscurità. È l’ora di compieta in questo mare di cemento: sarà mai
possibile, stanotte, immaginare il mare al posto del cemento? «Il sonno per
me è un surrogato della morte,» mi confida quest’uomo dall’aspetto così
gioviale da apparirmi stonato in questa boscaglia di matti «un modo per non
essere presente a me stesso. Peccato che, quando mi risveglio, mi ritrovi
nella medesima situazione della sera prima.» La qual cosa è di una evidenza
stupefacente: «Il mio sonno è senza più sogni da tantissimi anni: avrò
sognato due-tre volte in questa carcerazione. Oppure sogno e la mia mente
poi dimentica». Certi fiori, comunque, per tutta risposta fioriranno sul
cemento.

Nel sonno delle membra


resti fedele il cuore,
e al ritorno dell’alba
intoni la tua lode. (Inno di Compieta)

La disperazione esiste perché esiste il cuore: senza il cuore da


martoriare, la disperazione sarebbe perennemente disoccupata. Lei è un
contabile, invece: ragiona, soppesa, calcola. Un contabile della peggior
specie. Viviseziona la speranza perché, ridotta a pezzettini, sarà più facile
cercare di sgretolarla: «Negli istanti prima di cader nel sonno, ritrovo una
delle pochissime sensazioni piacevoli della giornata,» è la sua compieta del
pensiero «la consapevolezza che, finalmente, è arrivato il momento in cui
tutto finirà e niente ci darà più fastidio. Non dovremo più faticare per le
cose banali». La vita, nel tempo della galera, è tutto un impasto di
incredulità e di disperazione: non credere più a nulla, non curarsi di nulla,
non provare più interesse per nulla, non trovare più alcun motivo per vivere.
Nemmeno motivi per morire, neanche più per odiare: «Si ha soltanto una
voglia matta di perdersi nel sonno per “evadere” da tutto quel malessere e
non soffrire fino al risveglio». Soccombere sarà la soluzione.
La più alla portata: come con gli incubi notturni, basterà abituare gli
occhi alle tenebre. Tutto apparirà più chiaro nella sua tenebrosità: «La
disperazione è quello stato d’animo che ti nasce dentro quando ti trovi in
una situazione che è diventata insostenibile, dalla quale senti che non hai
più modo di uscire». Disperazioni doppie per chi guarda la luna a quadretti
dalla cella: «Aggiungi la consapevolezza di avere tolto la vita a una
persona, di non poter più rimediare in alcun modo». La bestialità della vita,
quando appare che non è più vita: «Non poter uscire da una situazione,»
capisco che parla avendo davanti il suo gesto compiuto anni fa «non poter
cambiare qualcosa non perché non si voglia farlo ma perché non c’è proprio
nessuna possibilità di farlo e l’unica cosa che rimane è stare fermi a
sopportare il dolore».
È la fine del mondo, personalizzata.

Se i nostri occhi si chiudono,


veglia in te il nostro cuore;
la tua mano protegga
coloro che in te sperano. (Inno di Compieta)

Come un giocatore disperato che tenta il tutto per tutto pur di ribaltare
una partita: eccola la speranza, la cosa più difficile. «È sperare la cosa più
difficile, la cosa più facile è disperare, ed è la grande tentazione» (Ch.
Péguy). È l’ultimo rischio da correre: «Quando tutto ciò che riuscivo a fare
era guardare il lastrone della branda a pochi centimetri dai miei occhi, la
disperazione mi ha fatto fare la cosa più piccola che ricordassi: recitare
un’Ave Maria. È difficile descrivere con parole ciò che ha iniziato ad
accadere dentro me». Non ne posso più, ne ho fin sopra i capelli, non ci
capisco più niente, madonnina mia. Un po’ come dire: «Se t’importo ancora
un pochino, è ora che te la vedi tu». È l’audacia al tempo della disperazione,
parole sull’orlo di labbra senza più parole. Gli ultimi battiti prima di un
elettrocardiogramma piatto: «A distanza di anni,» finalmente un accenno,
pur prostrato, di sorriso «non ho ancora capito come abbia potuto una
semplice orazione sostenermi così tanto. È come se mi fosse stato fatto un
dono che non riesco ancora a comprendere».
È che certi vuoti si riempiono soltanto della parte nata apposta per venire
in loro soccorso: «Come se il vuoto atroce degli istanti prima del mio
prendere sonno fosse stato riempito da una presenza che mi consola». Da
parole nate apposta per imbastire guerra alla disperazione, con l’armatura
della speranza: «Prega per noi peccatori, [Maria,] adesso e nell’ora della
nostra morte». Adesso, soprattutto: perché la morte non avanzi e ci strappi
la carne ancora prima che le sia stato fissato un appuntamento dall’Alto.
L’appuntamento con la speranza – è cosa accertata – è vestito in borghese:
«Un frate passato per caso davanti alla mia cella, incontri “casuali”, il mio
compagno di cella che le peripezie passate in compagnia hanno trasformato
in un fratello». Piccole rivelazioni, rivoluzioni.
La rivoluzione della speranza, in borghese.

Nella veglia salvaci, Signore,


nel sonno non ci abbandonare:
il cuore vegli con Cristo
e il corpo riposi nella pace. (Cantico di Simeone)

Il tutto che diventa nulla, per poi metterti di fronte al nulla: benvenuto
nella disperazione. È il sentimento maiuscolo di chi non riesce ad attendersi
più nulla dalla vita: «Quando mi sdraio sul letto, la mia faccia è a venti
centimetri dal letto a castello sopra il mio: mi sembra di essere dentro una
bara. Non so nemmeno come abbia fatto a resistere». Resistere, quando il
presente è una sofferenza, il futuro si prospetta di sofferenza, la vita
t’appare una sofferenza un po’ troppo lunga: «Quando si fa fatica a
sopportare di raggiungere la fine di una giornata, pensare di doverlo fare per
anni ti confina in uno stato di prostrazione profonda, di abbattimento».
Nessun significato, non è più vita: «Non vedevo più nessun motivo per il
quale valesse la pena continuare a vivere». A sperare.
Quand’è disperato, poi, l’uomo è una casa scoperta: «Togliermi di
mezzo, questo è stato il pensiero» fa retromarcia con la memoria tra gli anni
passati. «Forse, però, avrei solo dato un ulteriore dispiacere ai miei genitori,
già provati.» La disperazione, certi giorni, è un essere onnivoro e geloso che
non accetta che tu ti ammazzi: vuole vedere che soffri fino all’ultimo, in
silenzio, muto. Come un barbaro che passeggia tra sbadigli, pianti, noia e
angoscia. In mezzo, se ci sta, ficcaci pure la tua vita: «L’accidia è come la
muffa, rovina le cose» mi confida. L’uomo, a questo punto, sarà un albero
con le radici secche. Tutto chiaro, quasi ovvietà.
Il pasto preferito per un demonio sempre in agguato.

Siate temperanti, vigilate.


Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente
va in giro, cercando chi divorare.
Resistetegli saldi nella fede. (Lettura breve di Compieta)

Fatto sta che, certe volte, il senso di una vita è nascosto nell’ultima
pagina di un libro monotono. Arrivare a leggerla è scoprire ch’era stata
scritta apposta per te. È farsi leggere da quella frase: «Ripensando a quello
che mi ha portato in carcere,» sta combattendo la sua personale battaglia tra
vizi e virtù mentre parla «non posso negare che sia stata proprio la voglia di
fare agli altri più male di quanto ne avessi ricevuto, sebbene a quel tempo
non ne fossi pienamente consapevole». È una legge dell’anima, è difficile
dimostrarla: guardar fuori è un po’ come sognare, guardarsi dentro è
svegliarsi. Andare a mettersi in ginocchio di fronte alla speranza, quella
rinnegata con l’inganno della non-speranza: «Mi aveva catturato, del male,
l’idea di poter non rispettare più nessuna regola, non essere più legato a
niente, paradossalmente di essere “libero” di provare a ottenere tutto ciò che
volevo con l’uso della forza». L’illusione, l’ambasciatrice della
disperazione: è lì, sempre, che cerca di buttare giù la porta. L’accusa è di
scasso: «Ho firmato la mia rovina, sono entrato in carcere». Il non-detto ad
arte è l’arte di mascherarsi della disperazione: «Guardandomi dentro, mi
sono reso conto che sono caduto in questa trappola perché, in fondo, ero
molto solo».
Accorgersi è aver imboccato la strada che riporta a casa: «In carcere mi
sono bastati pochi incontri, fatti con le persone giuste, per farmi afferrare da
ciò che è bene, stavolta. È come se i sentimenti più bui, che in passato mi
hanno portato a fare del male fino a uccidere, si stessero sfuocando. E
riappare sulla penombra ciò ch’è bene». Ch’era sempre stato bene, anche al
tempo del male: la sera, quando cala, nasconde le città ma, sovente, svela
l’uomo a sé stesso.

Illumina questa notte, o Signore,


perché dopo un sonno tranquillo
ci risvegliamo alla luce del nuovo giorno,
per camminare lieti nel tuo nome.
Per Cristo nostro Signore. (Orazione di Compieta)

Qualche cella più in là un uomo sta parlando da solo: ripete le stesse


frasi sconclusionate per tutto il giorno. Nella cella davanti mi accorgo che
mancano i vetri: l’ultimo affittuario ha avuto la brillante idea di frantumarli
per festeggiare il suo fine pena raggiunto. Nell’ultima cella in fondo, un
tossico dell’ultima ora sta gridando «Infermiera!». Andrà avanti per ore,
finché gli stramazzerà la voce.
Qui dentro tutti i santi giorni va così: «Forse perché della fatal quiete / tu
sei l’immago a me sì cara vieni / o Sera!» (U. Foscolo).
Sperare è resistere. Resistere è partecipare, alzare la tua mano quando il
mondo intero ti chiede quanto sei ancora in grado di resistere.

Darsi la buonanotte dicendo «A domani!» è già una speranza in atto.


Fonti

L’intervista di don Marco Pozza a Papa Francesco è stata realizzata il 31


ottobre 2020 presso la Casina Pio IV, nella Città del Vaticano, da Officina
della Comunicazione.

Queste sono le fonti dei testi di Papa Francesco che approfondiscono alcuni
temi toccati nella conversazione:

Il senso della giustizia


Discorso alla delegazione dell’Associazione internazionale di diritto
penale, Sala dei Papi, 23 ottobre 2014; Discorso ai partecipanti al XX
congresso mondiale dell’Associazione internazionale di diritto penale, Sala
Regia, 15 novembre 2019 (paragrafo finale, Appello alla responsabilità).

Il coraggio e la profezia
Omelia durante la Santa Messa nella solennità dei santi apostoli Pietro e
Paolo, Basilica di San Pietro, 29 giugno 2020

Conflitto e perdono
Fratelli tutti. Lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale, 237-
245, Assisi, 3 ottobre 2020

«Non uno spirito di timidezza ma di prudenza»


Omelia durante la Santa Messa per l’apertura del Sinodo dei vescovi per
l’Amazzonia, Basilica di San Pietro, 6 ottobre 2019

«La tua fede ti ha salvato»


Omelia durante la Santa Messa per la conclusione della XV Assemblea
generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, Basilica di San Pietro, 28 ottobre
2018

Il valore unico dell’amore


Fratelli tutti. Lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale, 91-
100, Assisi, 3 ottobre 2020

La speranza non delude


La Speranza cristiana [11], Udienza generale, Aula Paolo VI, 15
febbraio 2017; Angelus, Piazza San Pietro, 17 novembre 2019
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Dei vizi e delle virtù


di Papa Francesco, Marco Pozza
Proprietà letteraria riservata
© 2021 Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano
© 2021 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Realizzazione editoriale: Netphilo Publishing, Milano
Pubblicato per Rizzoli da Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788831803403

COPERTINA || PER LA FOTOGRAFIA, © DANIELE GAROFANI | ART DIRECTOR: FRANCESCA LEONESCHI | GRAPHIC
DESIGNER: MAURO DE TOFFOL / THEWORLDOFDOT
Indice

Copertina
L’immagine
Il libro
Gli autori
Frontespizio
Dei vizi e delle virtù
Introduzione
Nota dell’Editore
L’ingiustizia e la giustizia
PAPA FRANCESCO. Il senso della giustizia
MARCO POZZA. Mattutino – La notte in carcere
L’incostanza e la fortezza
PAPA FRANCESCO. Il coraggio e la profezia
MARCO POZZA. Lodi – Il risveglio
L’ira e la temperanza
PAPA FRANCESCO. Conflitto e perdono
MARCO POZZA. Ora terza – La scuola
La stoltezza e la prudenza
PAPA FRANCESCO. «Non uno spirito di timidezza ma di prudenza»
MARCO POZZA. Ora sesta – Il lavoro
L’infedeltà e la fede
PAPA FRANCESCO. «La tua fede ti ha salvato»
MARCO POZZA. Ora nona – L’esperienza del male
La gelosia e la carità
PAPA FRANCESCO. Il valore unico dell’amore
MARCO POZZA. Vespri – La cena-senza-famiglia
La disperazione e la speranza
PAPA FRANCESCO. La speranza non delude
MARCO POZZA. Compieta – La nostalgia del bene
Fonti
Copyright

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