I. IL TRAGICO
Il concetto di genealogia
Nel suo significato più ampio, il progetto di Nietzsche consiste nell’introduzione dei concetti di
senso e di valore in filosofia. Nella filosofia contemporanea, la teoria dei valori ha dato vita a un
nuovo conformismo e a nuove forme di sottomissione. Nel caso di Nietzsche dobbiamo prendere le
mosse dal fatto che la filosofia dei valori, com’è da lui istituita e intesa, è la vera realizzazione della
critica, il solo modo di realizzare la critica totale, ossia di fare filosofia a “colpi di martello”. La
valutazione si profila quale elemento differenziale dei valori ad essa corrispondenti: elemento
critico e creativo al tempo stesso. La filosofia critica presenta due movimenti inseparabili:
ricondurre ogni cosa e l’origine di qualunque valore a dei valori; ma anche ricondurre questi valori
a qualche cosa che ne sia l’origine, che decida il loro valore. E’ la duplice lotta di Nietzsche: sia
contro coloro i quali sottraggono i valori alla critica, limitandosi a far l’inventario dei valori
esistenti o a criticare le cose in nome di valori già consolidati: gli “operai della filosofia”, Kant,
Schopenhauer; sia contro chi critica o rispetta i valori sostenendo che essi derivino da semplici fatti,
da presunti fatti oggettivi: gli utilitaristi, i “dotti”. Nietzsche formula il concetto nuovo di
genealogia. Genealogia:
vuol dire valore dell’origine e, al tempo stesso, origine dei valori;
si contrappone tanto al carattere assoluto dei valori quanto al loro carattere relativo o pratico;
significa elemento differenziale dei valori da cui deriva il loro stesso valore;
vuol dire origine e nascita, ma anche differenza o distanza dall’origine;
vuol dire nobiltà e bassezza, nobiltà e viltà, nobiltà e decadenza nell’origine. Il nobile e il vile,
l’alto e il basso: questo è l’elemento propriamente genealogico o critico.
L’elemento differenziale non è mai critica del valore dei valori senza essere anche elemento
positivo di una creazione. Perciò Nietzsche non considera mai la critica come reazione, ma come
azione. Nietzsche contrappone l’attività della critica alla vendetta, al rancore o al risentimento. La
critica non è una re-azione del ri-sentimento, ma l’espressione attiva di un modo attivo di esistere.
Il senso
Non troveremo mai il senso di una cosa se non sappiamo quale sia la forza che se ne appropria, che
la governa, che se ne impadronisce o che in essa di esprime. Nietzsche sostituisce la correlazione tra
fenomeno e senso. Ogni forza è appropriazione, dominio, governo di una quantità di realtà. Anche
la percezione, nei suoi vari aspetti, è espressione d forze che si appropriano della natura. Il che
equivale a dire che la natura stessa ha una storia. In generale, la storia di una cosa è la successione
delle forze che lottano per impadronirsene. La storia è la variazione dei sensi. Non si può capire la
filosofia di Nietzsche se non si tiene conto del suo essenziale pluralismo non è altro che la filosofia
stessa. Il pluralismo è il modo di pensare propriamente filosofico. Ed è pluralistica la stessa morte di
quel dio che si dichiarava unico: la morte di dio è un evento il cui senso è molteplice. Nietzsche non
crede nei “grandi eventi” clamorosi, ma nella silenziosa pluralità dei sensi di ciascun evento.
Nell’idea pluralistica di una cosa a più sensi, nell’idea di più cose, di un “questo e poi quello” per la
medesima cosa, possiamo scorgere la più grande conquista per la filosofia: la conquista del vero
concetto, la sua maturità, piuttosto che la sua rinuncia o la sua infanzia. Una cosa ha tanti sensi,
quante sono le forze in grado di impadronirsene. Così, per fare un esempio caro a Nietzsche, la
religione non ha un senso unico perché di volta in volta è al servizio di forze molteplici. Ma qual è
la forza più affine alla religione? Qual è la forza che non si sa bene se sia essa a dominare la
religione o viceversa? “Cercate H.”. Questo per dire che ogni cosa presenta sempre il problema di
un soppesare: arte delicata ma rigorosa della filosofia, interpretazione pluralistica. Una forza non
sopravvivrebbe se prima non prendesse a prestito il volto delle forze che la precedono e contro cui
si trova a lottare. Ciò implica che la genealogia non compaia all’inizio: si incorrerebbe facilmente in
un controsenso se si cercasse il padre del bambino al momento della nascita. La differenza
nell’origine non si manifesta all’origine, salvo forse a un occhio particolarmente esercitato, che
vede da lontano, l’occhio del presbite, del genealogista. Solo quando la filosofia si fa adulta se ne
può cogliere l’essenza o la genealogia. Non perché l’origine non faccia problema, perché l’origine
intesa come genealogista può essere determinata solo in rapporto agli stadi superiori.
Contro la dialettica
Nietzsche è “dialettico”? Una relazione, per quanto essenziale, tra due termini non basta a dar vita a
una dialettica: tutto dipende dal ruolo che il negativo viene ad assumere. Il pluralismo assume talora
un aspetto dialettico, ma resta tuttavia il nemico più accanito, l’unico nemico irriducibile della
dialettica; per questo motivo dobbiamo prendere sul serio il carattere decisamente anti-dialettico
della filosofia di Nietzsche. E’ stato detto che Nietzsche non conoscesse bene Hegel, nel senso in
cui non si conosce bene il proprio avversario. La filosofia di Nietzsche nel suo insieme rimane un
qualcosa di astratto e incomprensibile se non si scopre contro chi è diretta. Il rapporto essenziale tra
due diverse forze non è mai concepito da Nietzsche come elemento essenzialmente negativo. Una
forza, entrando in rapporto con un’altra forza che le obbedisce, non nega quest’ultima o ciò che essa
non è, ma afferma la propria differenza e ne gode. Il negativo, come un qualcosa di essenziale da
cui la forza trarrebbe la propria attività, non compare: al contrario, esso è il risultato di questa
attività, dell’esistenza di una forza attiva e dell’affermazione della sua differenza. Il negativo è il
prodotto dell’esistenza stessa è l’aggressività che si collega necessariamente a un’esistenza attiva,
l’aggressività di una affermazione. Nietzsche sostituisce l’elemento pratico della differenza, oggetto
di affermazione e di godimento, tanto che si può parlare in tal senso di empirismo. Cosa vuole una
volontà? Non si deve però intendere questa domanda come ricerca di un fine. Questa vuole
affermare la propria differenza e, nel suo rapporto essenziale con un’altra volontà. La differenza è
l’oggetto di una affermazione pratica inseparabile dall’essenza e costitutiva dell’esistenza. Il “si” di
Nietzsche si contrappone al “no” dialettico, l’affermazione si contrappone alla negazione dialettica,
la differenza alla contraddizione dialettica, la gioia e il godimento al lavoro dialettico, la leggerezza
e alla danza alla pesantezza dialettica, la bella irresponsabilità alle responsabilità dialettiche.
Nietzsche, per contro, mostra che il negativo nel padrone è sempre un prodotto secondario e
derivato dalla sua esistenza. Del resto, di per se stessa la relazione tra padrone e servo non è
dialettica; qual è allora l’elemento dialettico, chi rende dialettica la relazione? E il servo, è il suo
punto di vista, il pensiero dal punto di vista del servo. La relazione padrone-servo assume infatti il
noto aspetto dialettico in quanto la potenza non vi compare come volontà di potenza ma come
rappresentazione della potenza, come rappresentazione della superiorità, come riconoscimento da
parte dell’ “uno” della superiorità dell’ “altro”. In Hegel, le volontà vogliono che la loro potenza
venga riconosciuta. Ma secondo Nietzsche questa è una concezione totalmente errata della volontà
di potenza e della sua natura, è la concezione del servo, è l’immagine che della potenza si fa l’uomo
del risentimento. Il ritratto del padrone propostoci da Hegel è, sin dall’inizio, il ritratto tracciato dal
servo.
La dialettica propone una certa concezione del tragico, che viene così rappresentato come
contraddizione tra sofferenza e vita, tra finito e infinito nella vita stessa, tra destino individuale e
spirito universale nell’idea: movimento, ma anche soluzione della contraddizione. Per quanto
riguarda l’opera principale che tratta questo è argomento è “Nascita della tragedia”?
1) Nella Nascita della tragedia la contraddizione si situa tra l’unità primitiva e l’individuazione, tra
il volere e l’apparire, tra la vita e la sofferenza. La Nascita della tragedia si sviluppa all’ombra delle
categorie dialettico-cristiane di giustificazione.
3) La tragedia è conciliazione, mirabile e precaria alleanza dominata da Dioniso che, nella tragedia,
esprime la profondità del tragico. Le sue sofferenze sono l’unico soggetto tragico: sofferenze
dell’individuazione che vengono riassorbite nel piacere dell’essere originario.
L’evoluzione di Nietzsche
La contraddizione originaria, la sua soluzione dionisiaca e l’espressione drammatica di questa
soluzione delineano il tragico all’interno della Nascita della tragedia. Nella stessa opera spuntano
un’infinità di elementi che fanno presagire da questo schema. Anzitutto, Dioniso è insistentemente
presentato come il dio affermativo e affermatore, che non si limita a “risolvere” la sofferenza in un
piacere superiore e sovrapersonale ma che affermala sofferenza e la trasforma nel piacere di
qualcuno. Più che riprodurre le sofferenze dell’individuazione, egli afferma i dolori della crescita; è
il dio che afferma la vita, il dio in nome del quale la vita deve essere affermata, e non giustificata o
riscattata. Sotto l’influenza di Schopenhauer e di Wagner l’affermazione della vita è ancora
concepita soltanto come risoluzione della sofferenza dell’universale e in un piacere che supera
l’individuo: “il singolo dev’essere consacrato a qualcosa di sovrapersonale – ciò che vuole la
tragedia…”. Nietzsche si compiace di aver scoperto una opposizione che solo in seguito si sarebbe
pienamente sviluppata: sin dalla Nascita della tragedia, infatti, la vera contrapposizione non è
quella, totalmente dialettica, tra Dioniso e Apollo, ma la contrapposizione, più profonda tra Dioniso
e Socrate. Non è Apollo, ma Socrate a contrapporsi al tragico, a farlo morire; ed egli non è più
apollineo di quanto non sia dionisiaco. Socrate viene definito attraverso un curioso rovesciamento:
“mentre in tutti gli uomini produttivi l’istinto è proprio la forza creativa e affermativa, e la
coscienza si comporta in maniera critica e dissuadente, in Socrate l’istinto si trasforma in un critico,
la coscienza in una creatrice”. Socrate è il primo genio della decadenza. Socrate è “l’uomo
teoretico”, l’unico vero avversario dell’uomo tragico.
Dioniso e Cristo
Sia Dioniso che Cristo affrontano martirio e passione; benché identico, il fenomeno esprime però
due sensi contrapposti. In un caso la vita giustifica e afferma la sofferenza: nell’altro, la sofferenza
mette la vita sotto accusa, testimonia contro di essa, ne fa un qualcosa che deve essere giustificato.
Per il cristianesimo, il fatto che vi sia sofferenza significa anzitutto che la vita non è giusta; essa è
essenzialmente ingiusta ed espia con la sofferenza una ingiustizia essenziale: se soffre, vuol dire che
è colpevole. La vita deve soffrire perché è colpevole. Questi due aspetti del cristianesimo
costituiscono per Nietzsche la “cattiva coscienza” o interiorizzazione del dolore. Essi delineano il
nichilismo cristiano, il modo in cui cioè il cristianesimo nega la vita. La gioia cristiana consiste nel
“risolvere” il dolore che viene così interiorizzato, offerto a Dio e in lui trasposto: “quello
spaventoso paradosso in un “Dio in croce”, quel mistero di un’inconcepibile ultima, estrema,
crudeltà”, ecco la vera follia cristiana, una follia già interamente dialettica. Il Dioniso che
“risolveva” il dolore, che provava gioia nel risolvere, nel ripotare all’unità originaria, ora invece
può cogliere esattamente il senso e il valore delle proprie metamorfosi: è il dio della vita che non
deve essere giustificata, della vita che è giusta in modo essenziale. E’ la vita ora che si fa carico di
giustificare, che “afferma anche il dolore più aspro”; ma attenzione: essa non risolve il dolore
interiorizzandolo, ma affermandolo nell’elemento della sua esteriorità. L’opposizione fra Dioniso e
Cristo si sviluppa in tutte le sue tappe come affermazione contro negazione. Non c’è salvezza più
bella di quella che c’è data da chi è a un tempo carnefice, vittima e consolatore, santa Trinità, sogno
prodigioso della cattiva coscienza. Dal punto di vista del redentore, la vita “sarebbe la via che porta
a un essere beato”; dal punto di vista di Dioniso, l’ “essere, è considerato abbastanza beato da
giustificare anche un’immensità di dolore”. La lacerazione dionisiaca è il simbolo diretto
dell’affermazione molteplice; la croce del Cristo, il segno della croce sono l’immagine della
contraddizione e della sua soluzione, della vita sottomessa al lavoro del negativo. L’opposizione di
Dioniso o di Zarathustra a Cristo non è dialettica ma è opposizione alla dialettica, è l’affermazione
differenziale contro la negazione dialettica, contro ogni nichilismo e contro questa sua forma
particolare.
Il problema dell’esistenza
Il senso dell’esistenza ha origini greche e precristiane. La sofferenza è stata usata come mezzo per
dimostrare l’ingiustizia dell’esistenza e nel contempo per trovare una giustificazione superiore e
divina. L’immagine titanica è storicamente il primo senso che viene attribuito all’esistenza. Questa
interpretazione è così seducente che Nietzsche non riesce a resistervi e, nella Nascita della tragedia,
la applica a Dioniso. Per Nietzsche il filosofo che diede perfettamente espressione a questa
concezione dell’esistenza è Anassimandro: “le cose che sono, difatti, subiscono l’una dall’altra
punizione e vendetta per la loro ingiustizia, secondo il decreto del Tempo”. Questo vuol dire:
1) il divenire è un’ingiustizia e la pluralità delle cose che pervengono all’esistenza una sommatoria
di ingiustizie;
2) che esse si combattono tra loro espiando reciprocamente la loro ingiustizia con la phtora;
3) che derivano tutte da un essere originario (“Apeiron”) che degenera in un divenire, in una
pluralità, in una generazione colpevole che viene eternamente riscattata con la distruzione
(“Teodicea”);
Ma che cosa piace così tanto a Nietzsche? Senz’altro la distanza che li separa dal cristianesimo. Pur
riducendo infatti l’esistenza a un qualcosa di delittuoso e perciò riprovevole, essi non la rendono
colpevole e responsabile. Nietzsche scrive: “Nel peccato originale la curiosità, il raggiro
menzognero, la seducibilità, la lascivia, insomma una serie di affetti eminentemente femminili fu
considerata come origine del male […]. Così dagli ariani [Greci] il delitto viene considerato
maschio, dai semiti il peccato viene considerato femmina.” Non si tratta di misoginia. Le madri: e
poi le sorelle, seconda potenza femminile la cui funzione è di accusarci, di attribuirci responsabilità.
E’ colpa tua, dice la madre, è colpa tua se io non ho un figlio migliore. L’attribuzione di torti e
responsabilità, l’acida recriminazione, l’accusa perpetua, il risentimento fanno parte di una
interpretazione religione dell’esistenza. Nel risentimento (è colpa tua), nella cattiva coscienza (è
colpa mia) e nel loro frutto comune (la responsabilità), Nietzsche individua non soltanto dei
semplici eventi psicologici, ma le categorie fondamentali del pensiero semitico e cristiano, il nostro
modo di pensare e di interpretare l’esistenza in generale. Paragonati al cristianesimo, i Greci
sembrano dei bambini. Il modo in cui svalutiamo l’esistenza, il loro “nichilismo” non raggiunge la
perfezione cristiana. Per i Greci l’esistenza è riprovevole, ma la responsabilità della colpa ricade
sulle spalle degli dei. Le due soluzioni:
- un dio che assume su di sé la responsabilità della follia che infonde agli uomini;
- l’uomo che si rende responsabile della follia di un Dio che si mette in croce.
Esse non sono ancora sufficientemente differenti, benché la pima sia incomparabilmente più bella
della seconda.
Esistenza e innocenza
Che cosa significa “innocenza”? Nel denunciare la nostra deplorevole mania di accusare e di
cercare delle responsabilità sia fuori sia dentro di noi, Nietzsche fonda la sua critica su cinque
ragioni, la prima delle quali è data dal fatto che “non esiste niente fuori del tutto”. L’innocenza è a
verità del molteplice e deriva direttamente dai principi della filosofia della forza e della volontà.
Ogni cosa è in rapporto con una forza in grado di interpretarla; ogni forza è in rapporto con ciò che
è in suo potere, e da cui è inseparabile. La forza la riteniamo “colpevole” se esprime la propria forza
nella cosa in cui si manifesta. Sdoppiamo quindi la volontà inventandoci un soggetto neutro, dotato
di libero arbitrio, cui attribuiamo il potere sia di agire che di trattenersi dal farlo; il che determina il
nostro atteggiamento nei confronti dell’esistenza. Eraclito è il pensatore tragico la cui opera è
attraversata dal problema della giustizia. Per lui la vitaè radicalmente innocente e giusta. Egli
concepisce l’esistenza in base a un istinto di gioco e la fa diventare un fenomeno estetico, e non un
fenomeno morale o religioso. Nietzsche contrappone punto per punto Eraclito ad Anassimandro,
così come contrappone se stesso a Schopenhauer. L’essere è l’affermazione del divenire, l’uno è
l’affermazione del molteplice, l’affermazione molteplice è il modo in cui si afferma l’uno. “L’unità
è la pluralità”; come potrebbe infatti il molteplice scaturire dall’uno e continuare a scaturirne in
eterno se l’uno non si affermasse proprio nel molteplice? “Se Eraclito non ammette che un unico
elemento, è dunque in senso diametralmente opposto a quello di Parmenide…l’unico deve
affermarsi nella generazione e nella distruzione”. Ritornare è l’essere di ciò che diviene. Ritornare è
l’essere del divenire stesso, l’essere che si afferma nel divenire. L’eterno ritorno come legge del
divenire, come giustizia e come essere. La contesa della pluralità costituisce essa stessa la giustizia
unica. E in generale, l’unità è la pluralità.
Il colpo di dadi
Nel gioco, come nel tiro di dadi, ci sono due momenti: il lancio e la ricaduta. Nietzsche giunge a
rappresentare il tiro di dadi come se il gioco si svolgesse su due tavoli diversi, la terra e il cielo. I
due tavoli non sono però due mondi; sono invece due ore diverse di uno stesso mondo, i suoi due
momenti, mezzanotte e mezzodì, l’ora in cui i dadi vengono lanciati, l’ora in cui i dadi ricadono. Il
colpo di dadi afferma il divenire e afferma l’essere del divenire. Non si tratta di lanciare i dadi per
un certo numero di volte, tanto da riuscire a riprodurre la medesima combinazione; si tratta, al
contrario, di un solo lancio che, in ragione del numero della combinazione prodotta, viene a
riprodursi come tale. Questa è l’affermazione della necessità. La necessità è affermata dal caso,
nello stesso identico senso in cui l’essere è affermato dal divenire e l’uno dal molteplice. Quel che
Nietzsche chiama necessità (destino) non è mai dunque l’abolizione del caso, ma la sua
combinazione. La necessità si afferma a partire dal caso, nonostante il fatto che sia il caso stesso ad
essere affermato; c’è infatti una sola combinazione del caso, un’unica maniera di combinare tutte le
sue membra, analogamente all’uno del molteplice: numero o necessità. Il cattivo giocatore si affida
a più colpi di dadi, a un gran numero di colpi: può disporre così della causalità e della probabilità
per far riuscire la combinazione dichiarata, da lui posta come un fine da raggiungere nascosto dietro
la causalità. E’ ciò cui Nietzsche fa riferimento quando parla dell’eterno ragno, della ragnatela della
ragione: “una specie di ragno etico-finalistico celato sotto il grande tessuto e reticolo della
causalità”. Tutte le mosse del cattivo giocatore consistono nell’abolire il caso affermandolo con la
tenaglia della causalità e della finalità, nel contare sulla ripetizione dei colpi invece di affermarlo,
nel prefigurare uno scopo invece di affermare la necessità; esse hanno la loro radice nella ragione;
ma qual è la radice della ragione? Lo spirito di vendetta. Per giocare bene è necessaria la certezza
che l’universo non ha scopo, che non ci sono fini in cui sperare né cause da conoscere. Si sbaglia il
lancio dei dadi perché non si è affermato a sufficienza il caso in una sola volta, perché non lo si è
affermato sino al punto da riprodurre il numero fatale che ne riunisce necessariamente tutti i
frammenti e che necessariamente fa ritornare il colpo di dadi.
Simbolismo di Nietzsche
Quando i dadi vengono lanciati, il tavolo della terra “trema e si spezza” perché il colpo di dadi è
affermazione molteplice, affermazione del molteplice in cui tutte le membra, tutti i frammenti sono
lanciati in un colpo solo. La terra che si spezza sotto i dadi sprigiona dunque “fiumi di fuoco”.
Come dice Zarathustra, il molteplice, la causalità, son buoni solo se cotti e bolliti. Far bollire,
mettere sul fuori il caso non significa abolirlo, né significa trovare l’uno dietro al molteplice; al
contrario, l’ebollizione della pentola richiama l’urto dei dadi nella mano del giocatore: il solo modo
per far del molteplice o della causalità un’affermazione. Quando Nietzsche si chiederà quali sono le
ragioni che l’hanno condotto a scegliere il personaggio di Zarathustra, ne troverà tre:
- Zarathustra profeta dell’eterno ritorno, anche se non è l’unico profeta, né colui che meglio ha
presagito la vera natura di ciò che annunciava;
- ragione polemica: Zarathustra è il primo ad aver introdotto la morale all’interno della metafisica,
facendola diventare una forza;
- retrospettiva: è la bella ragione del caso: “oggi ho saputo per caso cosa significa Zarathustra: stella
d’oro. Questo caso mi affascina.
Nietzsche e Mallarmé
La somiglianza di fondo tra Nietzsche e Mallarmé, difficilmente si presta a esagerazioni. Essa ruota
intorno a quattro punti principali e si estende all’intera compagine delle immagini:
1) pensare significa lanciare i dadi. Solo un colpo di dadi scaturito dal caso potrebbe affermare la
necessità e produrre “l’unico Numero che non può essere altro”; un solo colpo, non l’esito di più
colpi: soltanto la combinazione che vince in una volta sola è in grado di garantire il ritorno del
lancio;
2) l’uomo non sa giocare. Nemmeno l’uomo superiore è capace di lanciare i dadi. Il maestro è
vecchio, non sa lanciare i dadi sul mare e in cielo. Il vecchio maestro è “un ponte”, un qualcosa che
deve essere superato;
3) lanciare i dadi non è soltanto un atto irragionevole e irrazionale, assurdo e sovrumano, ma
costituisce addirittura il tentativo e il pensiero tragico per eccellenza. L’idea mallarmeana del teatro,
le famose corrispondenze ed equazioni tra “dramma”, “mistero”, “inno”, “eroe”;
4) il numero-costellazione è o potrebbe comunque essere il libro, l’opera d’arte in quanto risultato e
giustificazione del mondo.
Il numero fatale e siderale fa ritornare il colpo di dadi, di modo che il libro è insieme unico e
mobile. Mallarmé afferma esplicitamente la molteplicità dei sensi e delle interpretazioni; questa
affermazione e però correlata a un’altra, all’affermazione dell’unità del libro o del testo,
“incorruttibile come la legge”. Mallarmé intende il colpo di dadi come contrapposizione di due
termini, caso e necessità, dove la seconda nega il primo da cui a sua volta è tenuta in scacco. Per
Mallarmé l’opera d’arte è “giusta”; non però nel senso dell’esistenza ma nel senso di quella
giustizia accusatrice che nega la vita dando per scontati il suo fallimento e la sua impotenza.
Curioso ateismo, quello di Mallarmé, che va a cercare nella messa un modello di teatro ideale: nella
messa, non nel mistero di Dioniso…Raramente in realtà l’eterno tentativo di svalutare la vita si
spinse così a fondo e in tutte le direzioni. Mallarmé è il colpo di dadi rielaborato dal nichilismo,
interpretato secondo le prospettive della cattiva coscienza o del risentimento; tolto dal contesto
dell’affermazione e dell’apprezzamento, separato dall’innocenza e dall’affermatività del caso, il
colpo di dadi non è più nulla.
Il pensiero tragico
Nietzsche definisce col termine nichilismo quel tentativo volto a negare la vita, a svalutare
l’esistenza, e ne analizza i principali aspetti: risentimento, cattiva coscienza, ideale ascetico; con
l’espressione “spirito di vendetta” definisce la compagine del nichilismo nelle sue varie forme. Lo
spirito di vendetta è il principio da cui dipende la nostra psicologia. Il risentimento non è un affetto
della psicologia; è piuttosto la nostra psicologia che deriva per intero, e senza saperlo, dal
risentimento. Quando Nietzsche dimostra che il cristianesimo è intriso di risentimento e di cattiva
coscienza, non intende ridurre il nichilismo a evento storico, ma vuol farne l’elemento della storia
come tale, il motore della storia universale, il famoso “senso storico” o “senso della storia” che, a
un certo momento, troverà nel cristianesimo la sua più adeguata manifestazione. Tutte queste
ragioni portano Nietzsche ad affermare che l’ “istinto della vendetta ha dominato per millenni
l’umanità a tal punto, che tutta la metafisica, la psicologia e la rappresentazione della storia, ma
soprattutto la morale ne sono contrassegnate.” La lotta di Nietzsche contro il nichilismo e lo spirito
di vendetta dovrà dunque passare attraverso il rovesciamento della metafisica, la fine della storia in
quanto storia dell’uomo e la trasformazione della storia in quanto storia dell’uomo e la
trasformazione delle scienze. Scopo dichiarato della filosofia di Nietzsche è liberare il pensiero del
nichilismo nelle sue varie forme; questo implica un nuovo modo di pensare, un ribaltamento del
principio da cui deriva il pensiero, una correzione dello stesso principio genealogica, una
“trasmutazione”. Il “nuovo modo di pensare” è pensiero affermativo, pensiero che afferma la vita e,
in questa, la volontà e che, alla fine, ne espelle totalmente il negativo. Il gioioso messaggio di
Nietzsche vuole indurre a credere nell’innocenza del futuro e del passato, nell’eterno ritorno, a
postulare l’innocenza dell’esistenza e una volontà non più colpevole per il solo fatto di esistere:
“Volontà – è il nome di ciò che libera e procura la gioia”. Nietzsche sostiene che il tragico non è
mai stato compreso nel suo significato, attraverso la grande equazione tragico = gioioso, che in altri
termini suona: volere = creare. Non è mai stato capito che il tragico era positività pura e molteplice.
La pietra di paragone
Se vogliamo paragonare Nietzsche ad altri autori che si definirono o furono definiti “filosofi tragici”
(Pascal, Kierkegaard, Sestov), non dobbiamo limitarci alla parola tragedia ma dobbiamo invece
tenere in considerazione l’intento ultimo di Nietzsche. La parte di risentimento e cattiva coscienza
che continua a sussistere, se il suo modo di comprendere il tragico è affetto dal permanere dell’idea
ascetico, dello spirito di vendetta. Essi hanno bisogno di seguire il filo dell’interiorità servendosi di
tutte le sue risorse: angoscia, gemito, colpevolezza e altre forme di malcontento. Essi stessi del resto
si collocano sotto il segno del risentimento: Abramo e Giobbe. Manca loro il senso
dell’affermazione, il senso dell’esteriorità, l’innocenza, il gioco.
Se prendiamo in esame la scommessa di Pascal è possibile veder come essa in fondo non abbia
niente a che fare con il colpo di dadi; essa non afferma il caso, tutto il caso, ma al contrario, lo
frantuma in molteplici possibilità, lo trasforma in danaro, in “casi di guadagno o perdita”. La
scommessa di Pascal non riguarda in alcun modo l’esistenza o la non-esistenza di Dio. Essa è
invece antropologica, ossia si basa soltanto su due diversi modi di esistere nell’uomo: l’uomo che
dice che Dio esiste e l’uomo che dice che Dio non esiste. Ma pur non essendo messa in gioco dalla
scommessa, l’esistenza di Dio costituisce ugualmente la prospettiva che la scommessa presuppone,
il punto di vista in base a cui il caso si frantuma in opportunità di guadagno o perdita. Nietzsche ha
ragione di contrapporre il suo gioco alla scommessa di Pascal: “senza la fede cristiana, intendeva
Pascal di fronte a voi la natura, la storia e voi stessi diventeranno un monstre et un chaos. Questa
profezia è stata da noi adempiuta”. Il che, per Nietzsche, significa che abbiamo saputo scoprire un
altro gioco, un’altra maniera di giocare; abbiamo scoperto il sovrumano al di là dei due modi umani,
troppo umani, di esistere; abbiamo saputo affermare tutto il caso, evitando di frammentarlo e di
consentire che un frammento prendesse il sopravvento; abbiamo saputo trasformare il caos in
oggetto di affermazione, invece di porlo come un qualche cosa da negare. Il risentimento, la cattiva
coscienza, l’ideale ascetico, il nichilismo sono la pietra di paragone per ogni seguace di Nietzsche;
qui deve dimostrare se ha compreso o travisato il vero senso del tragico.
Quantità e qualità
Le forze hanno una quantità; hanno anche però la qualità corrispondente alla loro differenza di
quantità: attivo e reattivo sono le qualità delle forze. Possiamo intuire che misurare una forza
comporta un delicato problema perché mette in gioco l’arte delle interpretazioni qualitative.
La differenza di quantità costituisce l’essenza della forza, il rapporto tra una forza e l’altra. La
qualità non è altro che la differenza di quantità cui essa corrisponde in ogni forza che sia in rapporto
con un’altra. Ogni forza riceve la qualità che corrisponde alla sua quantità, ossia l’affezione che dà
effettiva compiutezza alla sua potenza. Nietzsche, in un testo alquanto oscuro, può così affermare
che l’universo presuppone una “nascita assoluta di qualità arbitrarie”; ma la nascita delle qualità
presuppone di per sé una nascita (relativa) delle quantità. Le due nascite sono dunque inseparabili.
Nietzsche e la scienza
Il problema riguardante i rapporti di Nietzsche con la scienza è stato mal posto. La posizione critica
di Nietzsche nei confronti della scienza ha un’origine che deve essere cercata in tutt’altra direzione,
quantunque anch’essa ci apra una prospettiva sull’eterno ritorno. E’ vero che Nietzsche non ha
molta competenza e simpatia per la scienza. Quando critica la scienza, Nietzsche non si appella mai
ai diritti della qualità contro la quantità, ma semmai ai diritti della differenza di quantità contro
l’uguaglianza, ai diritti dell’ineguaglianza contro la perequazione delle quantità e concepisce una
“scala numerica e quantitativa”, le cui suddivisione sono però multipli o frazioni le une delle altre.
La scienza, per vocazione, comprende i fenomeni in base alle forze reattive e li interpreta secondo
questa prospettiva. La fisica è reattiva tanto quanto lo è la biologia poiché le cose vengono
osservate dal versante secondario, dal versante delle reazioni. Il trionfo delle forze reattive serve da
strumento al pensiero nichilistico e funge da principio alle manifestazioni del nichilismo. L’idea
meccanicistica afferma l’eterno ritorno presupponendo che le differenze di quantità si compensino o
si annullino tra lo stato iniziale e quello finale di un sistema reversibile. Lo stato finale è identico
allo stato inziale, il quale è posto come indifferenziato in rapporto agli stati intermedi. L’idea
termodinamica nega l’eterno ritorno in quanto scopre che le differenze di quantità si annullano, in
funzione delle proprietà del calore, soltanto allo stato finale del sistema, di modo che l’identità,
posta allo stato finale indifferenziato, si contrappone alla differenziazione dello stato inziale. Le due
concezioni sono accomunate da una medesima ipotesi, secondo la quale vi sarebbe uno stato finale
o terminale del divenire e si ricongiungono nell’idea di un divenire che presenta uno stato finale, un
essere o un nulla, un essere o un non-essere egualmente indifferenziati. Secondo Nietzsche l’eterno
ritorno non è affatto un pensiero dell’identico ma, al contrario, un pensiero sintetico, un pensiero
dell’assolutamente differente che rivendica, al di fuori della scienza, un nuovo principio: il principio
della riproduzione del diverso come tale, il principio della ripetizione della differenza, l’esatto
opposto dell’ “adiaforia”.
La terminologia di Nietzsche
Nietzsche utilizza termini nuovi e molto precisi per concetti altrettanto nuovi e precisi:
1) Nietzsche chiama volontà di potenza l’elemento genealogico della forza. Genealogico significa
differenziale e genetico. La volontà di potenza è l’elemento differenziale delle forze, ossia
l’elemento che produce la differenza di quantità tra due o più forze in rapporto tra loro. La volontà
di potenza è l’elemento genetico della forza. La volontà di potenza in quanto principio non
sopprime il caso, ma al contrario lo implica.
2) Dalla volontà di potenza come elemento genealogico derivano nel contempo la differenza di
quantità delle forze in rapporto e la loro rispettiva qualità. In base alla loro differenza di quantità, le
forze vengono chiamate dominanti o dominate; in base alla loro qualità, attive o reattive. C’è
volontà di potenza sia nella forza reattiva o dominata, che nella forza attiva o dominante.
3) Le qualità delle forze derivano in linea di principio dalla volontà di potenza, la quale costituisce
anche la risposta alla domanda “chi interpreta?”; la volontà di potenza interpreta. Ma per essere la
fonte delle qualità delle forze, anch’essa deve avere delle qualità, particolarmente fluide e ancora
più sottili rispetto a quelle della forza: “regna la qualità assolutamente istantanea della volontà di
potenza”. A livello più profondo, l’affermazione e la negazione risultano essere superiori all’azione
e alla reazione in quanto sono qualità immediate del divenire stesso: l’affermazione non è l’azione
ma la potenza di divenire attivo, il divenire attivo nella sua concretezza, mentre la negazione non è
la semplice reazione, ma un divenire attivo.
4) Per tutte queste ragioni Nietzsche può affermare che la volontà di potenza non solo è ciò che
interpreta ma è anche ciò che valuta. Interpretare significa determinare la forza che dà un senso alla
cosa, valutare significa determinare la volontà di potenza che le dà un valore.
La volontà di potenza è l’elemento genealogico da cui derivano il significato del senso e il valore
dei valori. Nietzsche usa i termini nobile, alto, padrone tanto per la forza attiva quanto per la
volontà affermativa; basso, vile, servo indicano invece la forza reattiva e la volontà negativa. Solo il
genealogista è in grado di scoprire che tipo di bassezza trova espressione in un tal valore o che tipo
di nobiltà si esprime in un tal altro, in quanto è l’unico in grado di usare l’elemento differenziale:
egli è il maestro della critica dei valori. Nel parlare di nobiltà dei valori in generale si rivela un
pensiero che ha troppo interesse a nascondere la propria bassezza, come se il senso e, appunto, il
valore di alcuni valori non consistesse interamente nel fungere da ricettacolo e manifestazione di
tutto ciò che è basso.
La gerarchia
Il Socrate di Nietzsche è rappresentato dai liberi pensatori: “Che cosa c’è da recriminare”, dicono
questi, “come avrebbero fatto i deboli a trionfare senza formare una forza superiore?” E’ il
positivismo moderno, che pretende di condurre la critica dei valori e di rifiutare qualsiasi appello a
valori trascendenti dopo averli dichiarati decaduti solo per ritrovarli sotto forma di forze che
governano il mondo attuale. Al libero pensatore Nietzsche contrappone lo spirito libero, lo spirito
che interpreta, che giudica le forze dal punto di vista della loro origine e qualità: “i fatti non ci sono,
bensì solo le interpretazioni”. In Nietzsche il termine gerarchia assume due sensi:
1) differenza tra forze attive e reattive e superiorità delle prime sulle seconde; Nietzsche può così
parlare di una “gerarchia innata e inamovibile”, il cui problema coincide col problema degli spiriti
liberi;
2) il trionfo e il propagarsi delle forze reattive e la complessa situazione che ne deriva in cui i deboli
risultano vincitori mentre i forti rimangono contaminati, in cui lo schiavo, che non ha necessità di
essere tale, prevale su un signore che non è più signore: è il regno della legge e della virtù.
Nietzsche chiama debole o schiavo non chi è meno forte, ma chi, qualunque sia la sua forza, è
separato da ciò che è in suo potere. La misura e la qualificazione delle forze non dipendono allora
da una quantità assoluta ma dalla loro relativa realizzazione: chi riesca infatti, seppur dotato di forza
inferiore, a portare quest’ultima al suo limite estremo, risulterà forte alla pari di chi lo è già, poiché
la sua minor forza verrà compensata dall’astuzia, dall’accortezza, dalla spiritualità che essa contiene
e che le consente di sollevarsi dalla sua inferiorità.
La forza attiva:
Dunque la volontà di potenza, in primo luogo, si manifesta come il determinato poter essere affetto
della forza. Difficilmente si potrebbe disconoscere in tutto ciò una ispirazione spinoziana: sulla
base di una teoria estremamente profonda, Spinoza sosteneva che a ogni quantità di forza
corrisponde un potere di essere affetto; così un corpo ha tanta forza quanto più può essere affetto e
proprio questo potere darebbe la misura della forza o esprimerebbe la potenza di un corpo. Anche in
Nietzsche il potere di essere affetto non significa passività, ma affettività, sensibilità, sensazione.
Egli parlava già di un sentimento di potenza, prendendo in considerazione la potenza come
problema di sentimento e di sensibilità prima di esaminarla alla luce della volontà. E anche dopo
aver elaborato il concetto completo di volontà di potenza questa prima caratteristica non scomparve
affatto ma venne a indicare il manifestarsi della volontà di potenza. Ecco perché Nietzsche non si
stanza di affermare che la volontà di potenza è “la forma affettiva primitiva” da cui derivano tutti
gli altri sentimenti, o meglio ancora che “la volontà di potenza non è un essere, non un divenire, ma
un pathos”. Le affezioni di una forza sono attive nella misura in cui questa si appropria di ciò che le
resiste, nella misura in cui si fa obbedire da forze inferiori. Nietzsche fa riferimento ai fenomeni di
disgregazione dell’atomo, di scissione del protoplasma e di riproduzione del vivente, dove la
volontà di potenza non si esprime solo come disaggregazione, scissione o separazione, ma anche
come l’essere disaggregato, scisso, separato: “la dualità appare come conseguenza della volontà di
potenza”.
III. LA CRITICA
Trasformazione delle scienze dell’uomo
L’ignoranza dell’azione e di tutto ciò che è attivo raggiunge livelli altissimi nelle scienze dell’uomo
dove, ad esempio, l’azione viene giudicata in basa alla sua utilità; ma sarebbe troppo sbrigativo
sostenere che l’utilitarismo è oggi una dottrina superata. Nietzsche si chiede a che cosa rimandi il
concetto di utilità: a chi è utile o nociva un’azione? Chi considera l’azione dal punto di vista della
sua utilità o dannosità, dal punto di vista dei suoi motivi e delle sue conseguenze? Non certo colui
che agisce, il quale non “considera” l’azione, ma il terzo, che subisce e osserva. Questi, proprio
perché non la compie, considera l’azione di altri come qualcosa da valutare dal punto di vista del
vantaggio che se ne ricava o che se ne può ricavare.
Un altro esempio è rappresentato dalla linguistica. La linguistica attiva cerca di scoprire chi parla,
chi nomina, chi si serve di quella determinata parola e soprattutto se la riferisce a se stesso o a un
altro, a un’altra cosa, con quale intenzione e che cosa vuole pronunciandola. Nietzsche ne offrirà
una brillante applicazione nella “Genealogia della morale”, ricercando l’etimologia della parola
“buono” nel suo senso e nelle sue trasformazioni e dimostrando che la parola “buono” fosse
dapprima creata dai signori, che la riferivano a se stessi, e come poi se ne impadronissero gli schiavi
che, dopo averla tolta dalla bocca dei signori, la usarono per definirli “malvagi”. Solo una scienza
attiva è in grado di individuare le forze attive e di riconoscere le forze reattive per quel che sono e di
interpretare le reali attività e i reali rapporti tra le forze. Essa si presenta pertanto sotto tre forme:
Il filosofo, come tale, è sintomatologo, tipologista, genealogista; si può qui riconoscere la trinità
nietzscheana del “filosofo dell’avvenire”.
Il metodo di Nietzsche
Il volere non è un atto come gli altri, ma la dimensione, genetica e critica al tempo stesso, di ogni
nostra azione, sentimento e pensiero. Il metodo consiste nel riferire un concetto alla volontà di
potenza per ridurlo a sintomo di una volontà, senza la quale non si potrebbe nemmeno pensarlo e
poiché tale metodo corrisponde alla domanda tragica, è metodo tragico o, più esattamente è metodo
di drammatizzazione: “che vuoi?” chiede Arianna a Dioniso. Il contenuto latente di una cosa
corrisponde a ciò che una volontà vuole. La volontà non vuole un oggetto, un obiettivo, un fine. I
fini, gli oggetti, come anche i motivi, sono sempre sintomi. Una volontà segue la propria qualità, ne
afferma la differenza o nega ciò che ne differisce. Una volontà vuole sempre la propria qualità e la
qualità delle forze corrispondenti, come afferma Nietzsche a riguardo dell’anima nobile,
affermatrice, leggera: “una certa sicurezza di base che un’anima nobile a riguardo a se stessa,
qualcosa che non si può cercare né trovare e forze neppure perdere”. Una volontà non vuole un
oggetto ma un tipo, il tipo di colui che parla, di colui ce pensa, che agisce o che non agisce, che
reagisce, ecc. L’unico modo per definire un tipo consiste nel determinare che cosa vuole la volontà
che si esprime in un esemplare appartenente a questo tipo: che cosa vuole chi cerca la verità? Solo
così potremo sapere chi cerca la verità. La drammatizzazione si rivela allora l’unico metodo
adeguato al progetto di Nietzsche e alla forma delle domande che egli pone: metodo differenziale,
tipologico e genealogico. Ci basta però considerare quale sia il tipo dell’uomo stesso: se è vero che
il trionfo delle forze reattive è costitutivo dell’uomo, il metodo di drammatizzazione si protende
completamente verso la scoperta di tipi diversi che esprimono altri rapporti di forze, verso la
scoperta di un’altra qualità della volontà di potenza in grado di trasformare le sfumature troppo
umane. Nietzsche parla di umano e sovraumano. Anch’essi sono metamorfosi di Dioniso, sintomi di
una volontà che vuole qualcosa; esprimono un tipo, un tipo di forze sconosciuto all’uomo. Il
metodo di drammatizzazione si spinge sempre al di là dell’uomo.
1) La potenza viene interpretata come oggetto di una rappresentazione. Nell’espressione “la volontà
vuole la potenza o desidera il dominio”, il rapporto tra rappresentazione e potenza è così stretto che
ogni potenza è rappresentazione e ogni rappresentazione è rappresentazione della potenza. Lo scopo
della volontà è insieme oggetto della rappresentazione e viceversa:
- in Hobbes l’uomo allo stato di natura vuole che la propria superiorità venga rappresentata e
riconosciuta da un altri;
- in Hegel la coscienza vuole essere riconosciuta da un altro e rappresentata come coscienza di sé;
- in Adler la rappresentazione di una superiorità compensa all’occorrenza un’inferiorità organica.
In tutti questi casi la potenza è sempre oggetto di una rappresentazione, di un riconoscimento.
Quel che a noi si presenta come potenza è soltanto la rappresentazione della potenza a opera dello
schiavo, quel che a noi si presenta come signore è l’idea che se ne è fatto lo schiavo, l’idea che lo
sciavo si è fatto di sé immaginandosi al posto del signore, è lo schiavo nel momento del suo
effettivo trionfo: “questo bisogno verso la nobiltà è radicalmente diverso dai bisogni della stessa
anima nobile, ed è addirittura l’eloquente e pericoloso segno distintivo della sua mancanza”.
2) In cosa consiste questo primo errore della filosofia della volontà? Se si considera la potenza
come oggetto di rappresentazione, essa dovrà necessariamente dipendere dal fattore secondo cui
una cosa iene rappresentata, riconosciuta, o meno. Ora, solo i valori comuni e condivisi offrono
criteri per questo riconoscimento. Intesa come volontà di farsi attribuire i valori comuni di una
determinata società. Ma anche qui, chi concepisce la potenza come acquisizione di valori
attribuibili? “L’uomo comune era soltanto quel che era considerato”. Rousseau rimproverava a
Hobbes di aver delineato un ritratto dell’uomo allo stato di natura che presupponeva già la società.
In uno spirito assai diverso ritroviamo in Nietzsche un analogo rimprovero: l’intera concezione
della volontà di potenza, da Hobbes a Hegel, presuppone l’esistenza di valori consolidati che le
volontà cercano soltanto di farsi attribuire.
3) Dobbiamo ancora chiederci come vengono attribuiti i valori. Ciò avviene attraverso l’esito di uno
scontro, di una lotta, qualunque sia la sua forma, segreta o esplicita, leale o subdola. Da Hobbes a
Hegel la volontà di potenza è impegnata in uno scontro proprio perché quest’ultimo determina chi
trarrà vantaggio dai valori comuni. La lotta non è mai espressione attiva delle forze o
manifestazione di una volontà di potenza che afferma, e il suo risultato non esprime affatto il trionfo
del signore o del forte. Al contrario, la lotta è il mezzo con cui i deboli, in quanto più numerosi,
riescono a prevalere sui forti. E’ il motivo per cui Nietzsche si oppone a Darwin, il quale ha confuso
lotta e selezione e non ha visto che la lotta dava un risultato contrario a quello che lui credeva, cioè
una selezione dei soli deboli, cui assicurava il trionfo.
1) Già dalla prima dissertazione Nietzsche presenta il risentimento come una “vendetta
immaginaria”, “un atto improntato alla più spirituale vendetta”.
2) La seconda dissertazione sottolinea come la cattiva coscienza non possa a sua volta essere
distinta da “ideali e fantastici eventi”. La cattiva coscienza è per natura antinomica ed esprime una
forza che si rivolta contro se stessa; in tal senso sta all’origine di ciò che Nietzsche chiamerà
“mondo alla rovescia”.
3) L’ideale ascetico rinvia infine alla mistificazione più profonda, quella dell’Ideale che comprende
tutti gli altri ideali, tutte le finzioni della morale e della conoscenza. Elegantia syllogismi, dice
Nietzsche. Si tratta, stavolta, di una volontà che vuole il nulla, “e tuttavia è e resta una volontà”. Per
concepire e realizzare la vera critica, Nietzsche fa affidamento esclusivamente sulle proprie forze: è
un progetto di grande importanza per la storia della filosofia, in quanto non solo si scontra con il
kantismo, suo diretto antagonista, ma anche con gli epigoni kantiani, cui si oppone con violenza.
Nessuno dice chi è l’uomo o cos’è lo spirito, in cui sembrano celarsi delle forze pronte a
riconciliarsi con qualsiasi potenza, Chiesa o Stato. Quando il piccolo uomo si riappropria delle
piccole cose, quando l’uomo reattivo si riappropria delle determinazioni reattive, è forse possibile
credere che la critica abbia fatto dei grandi progressi e che abbia per ciò stesso messo alla prova la
sua attività? Trasformando queste forze in un qualcosa che “ci appartiene” ancora di più, essa
ottiene il risultato opposto. Alla fin fine Nietzsche sta a Kant come Marx sta a Hegel: egli vuole
rimettere la critica sui suoi piedi, come Marx nei confronti della dialettica.
1) Non principi trascendentali, che sono semplici condizioni di ipotetici fatti, ma principi genetici e
plastici che rendano contro del senso e del valore delle fedi, delle interpretazioni e delle valutazioni;
2) Non un pensiero che si reputi legislatore per il fatto di obbedire soltanto alla ragione, ma un
pensiero che pensi contro la ragione: “in ogni cosa soltanto questo è possibile: razionalità!”
3) Non il legislatore kantiano ma il genealogista. Il legislatore di Kant è un giudice di tribunale, un
giudice di pace che controlla nel contempo la distribuzione dei vari ambiti controllo nel contempo
la distribuzione dei vari ambiti e la spartizione dei valori stabiliti. All’ispirazione giudiziaria si
contrappone quella genealogica: vero legislatore è il genealogista, filosofo dell’avvenire e un po'
indovino, che ci promette non una pace critica a guerre come non ne abbiamo mai conosciute;
4) Non l’essere razionale, funzionario dei valori comuni, al tempo stesso prete e fedele, legislatore e
suddito, schiavo vincitore e schiavo vinto, uomo reattivo al servizio di se stesso; ma chi allora
esercita la critica e da quale punto di vista? L’istanza critica non coincide con l’uomo reale, né con
alcuna sua forma sublimata, come lo spirito, la ragion o la coscienza di sé; e se non coincide con
l’uomo non coincide nemmeno con Dio perché tra l’uomo e Dio non c’è ancora abbastanza
differenza e possono troppo facilmente prendere il posto l’uomo dell’altro;
5) Il fine della critica: non i fini dell’uomo o della ragione, ma il superuomo, l’uomo superato,
oltrepassato. La critica non consiste nel giustificare ma nel sentire altrimenti, in un’altra sensibilità.
Il concetto di verità
Kant è l’ultimo dei filosofi classici perché non pone mai in questione il valore della verità, né le
ragioni della nostra sottomissione al vero. L’uomo, in realtà, cerca di rado la verità: i nostri
interessi, ma anche la nostra stupidità, ci separano dal vero più ancora di quanto ce ne separino i
nostri errori. Nietzsche affronta questo problema sul suo stesso terreno, senza perciò mettere in
dubbio la volontà di verità o ribadire una volta di più che, di fatto, gli uomini non amano la verità,
ma chiedendosi che cosa significhi la verità come concetto, ossia quali forze e volontà qualificate
questo concetto presupponga di diritto. Il concetto di verità determina la veridicità di un mondo,
come, ad esempio, nella scienza la verità dei fenomeni costituisce un “mondo” distinto da quello dei
fenomeni stessi. Io voglio la verità significa che io non voglio ingannare, e che nell’ “io non voglio
ingannare”, si ricomprenda anche il caso singolo “io non voglio ingannare me”. Se qualcuno vuole
la verità ciò dipende non da quello che il mondo è ma da quello che il mondo non è. La
contrapposizione di conoscenza e vita e la distinzione dei mondi rivelano così il loro vero carattere
e la loro origine morale. L’uomo che non vuole ingannare vuole un mondo e una vita migliori e ciò
per ragioni di ordine morale. Ancora una volta ci imbattiamo nel virtuoismo di colui che vuole il
vero, una della cui occupazioni predilette consiste nel distribuire i torti, nell’attribuire
responsabilità, nel negare l’innocenza, nell’accusare e giudicare la vita, nel denunciare l’apparenza.
Egli vuole che la vita diventi virtuosa, che si corregga e corregga l’apparenza, che serva da tramite
per l’altro mondo e che rinneghi se stessa volgendosi contro di sé. Il più grande errore di
Schopenhauer sta nell’aver creduto che, nei valori superiori alla vita, la volontà si negasse. In realtà,
la volontà non si nega affatto nei valori superiori; sono piuttosto i valori superiori che dipendono da
una volontà di negare e di annientare la vita. La volontà del nulla e le forze reattive sono i due
elementi costituitivi dell’ideale ascetico. Così l’interpretazione, scendendo in profondità, scopre tre
diversi livelli:
- conoscenza (il vero)
- morale (il bene)
- religione (il divino)
Il pensiero e la vita
Nietzsche rimprovera spesso alla conoscenza la presunzione di opporsi alla vita, di misurarla, di
giudicarla e di ritenere se stessa un fine. Già nella “Nascita della tragedia” l’inversione socratica
compare in questa forma e anche in seguito Nietzsche non si stancherà di dire che la conoscenza,
semplice mezzo al servizio della vita, si è eretta a suo fine, a giudice, a istanza suprema. La
conoscenza si oppone alla vita, ma in quanto esprime una vita che contraddice la vita, una vita
reattiva che trova nella conoscenza un mezzo per conservare e far trionfare il proprio tipo.
Nietzsche non tanto rimprovera alla conoscenza di porre se stessa come fine, quanto di fare del
pensiero un semplice mezzo al servizio della vita, così come talvolta rimprovera Socrate non per
aver posto la vita al servizio della conoscenza ma, al contrario, per aver posto il pensiero al servizio
della vita: “in Socrate, il pensiero è al servizio della vita, mentre in tutti i filosofi anteriori al vita era
al servizio del pensiero”. Quando la conoscenza si fa legislatrice il pensiero si ritrova nel ruolo di
grande subalterno. La conoscenza è pensiero soggiogato alla ragione e a tutto ciò che in essa si
esprime. L’istinto di conoscenza pertiene al pensiero che, entrato in contatto con le forze reattive, ne
è stato catturato e soggiogato. Gli stessi limiti che la conoscenza razionale impone alla vita sono
imposti dalla vita razionale al pensiero; allo stesso tempo, dunque, la vita è sottomessa alla
conoscenza e il pensiero alla vita. Un pensiero che afferma la vita invece di una conoscenza che le
si oppone. In tal caso la vita sarebbe la forza attiva del pensiero e il pensiero la potenza affermativa
della vita; entrambi procederebbero nella medesima direzione, sospingendosi a vicenda e
superando, ora l’uno ora l’altra, tutti i limiti, nello sforzo di una creazione straordinaria. Il pensiero
cessa di essere una ratio, la vita cessa di essere una reazione. Il pensatore esprime così la bella
affinità tra pensiero e vita, tra la vita che rende attivo il pensiero e il pensiero che rende affermativa
la vita. Per Nietzsche, questa generale affinità non è custodita soltanto dal segreto presocratico per
eccellenza, ma anche dall’essenza dell’arte.
L’arte
Nietzsche ha una concezione tragica dell’arte che poggia su due principi, da intendersi come
principi molto antichi ma anche come principi dell’avvenire.
1) L’arte è il contrario di una operazione “disinteressata”: essa non guarisce, non calma, non
sublima, non toglie interesse, non “sospende” il desiderio, l’istinto o la volontà; è invece uno
“stimolante della volontà di potenza”, “eccita il volere”. Il senso critico di questo principio è
facilmente comprensibile: esso combatte ogni concezione reattiva dell’arte:
SCHOPENHAUER elabora la sua teoria del disinteresse, non fa che generalizzare, com’egli
stesso ammette, una esperienza personale, l’esperienza del giovane sul quale l’arte ha effetto di
calmante sessuale;
NIETZSCHE Chi guarda il bello in maniera disinteressata? Mentre l’arte è sempre stata
giudicata dal punto di vista dello spettatore, uno spettatore sempre meno artista, Nietzsche rivendica
un’estetica della creazione, l’estetica di Pigmalione.
2) Il senso principio dell’arte consiste nel considerare quest’ultima come la più alta potenza del
falso che esalta “il mondo come errore”, santifica la menzogna, trasforma la volontà di ingannare in
un ideale superiore.
L’attività della vita è simile alla potenza del falso: inganna, dissimula, affascina, seduce. Ma, per
realizzarsi, la potenza del falso deve subire una selezione, deve raddoppiarsi o ripetersi, elevarsi a
una potenza più alta, alla potenza di una volontà di ingannare, di una volontà artistica in grado, essa
sola, di competere e opporsi con successo all’ideale ascetico. Per l’artista, apparenza non significa
più negazione del reale, ma significa selezione, correzione, raddoppiamento, affermazione.
La verità come concetto è affatto indeterminata e tutto dipende dal valore e dal senso di ciò che
pensiamo: abbiamo sempre la verità che ci meritiamo in funzione del senso che concepiamo o del
valore di ciò in cui crediamo. Quando si parla del vero in sé, per sé o per noi, dobbiamo chiedere
quali forze si nascondano nel pensare questa verità e quale sia dunque il suo senso e il suo valore.
La verità sembra “una creatura comoda e piacevole, che non si stanca di rassicurare tutti i poteri
esistenti che nessuno per sua causa avrà un qualunque fastidio; non per niente si tratta di “scienza
pura”. Le categorie del pensiero non sono il vero e il falso, ma il nobile e il vile, l’alto e il basso,
secondo la natura delle forze che se ne impadroniscono. Vi sono verità della bassezza, la verità
dello schiavo, mentre i nostri pensieri più alti stanno dalla parte del falso; anzi, non rinunciano mai
a fare dal falso una potenza alta, affermativa e artistica, che trova nell’opera d’arte la propria
realizzazione, la propria verifica, il proprio divenire-vera. Da ciò una seconda conseguenza: la
condizione negativa del pensiero non è l’errore. L’inflazione del concetto di errore in filosofia sta a
testimoniare della persistenza dell’immagine dogmatica, in base alla quale tutto ciò che di fatto si
oppone al pensiero sortisce su di esso l’unico effetto di indurlo in errore. Nietzsche affronta il
problema così come esso si pone su un piano di diritto; ma invero il carattere poco serio degli
esempi solitamente addotti dai filosofi per illustrare l’errore basta dimostrare che un simile concetto
di errore è soltanto una estrapolazione di situazioni in realtà puerili, artificiose o grottesche. Chi, se
non il bambino a scuola, dice che 3 + 2 = 6? Chi, se non il miope o il distratto, dice “buon giorno
Teeteto”? Il pensiero adulto e scrupoloso ha ben altri nemici e condizioni negative di ben altra
profondità: la stupidità, che è una struttura del pensiero come tale e non un modo di ingannarsi,
esprime in linea di principio il non-senso nel pensiero; essa quindi non è né un errore né un ordito di
errori. Nella verità, come nell’errore, il pensiero stupido rivela soltanto la più grande bassezza, le
basse verità e i bassi errori quali effetti dal trionfo dello schiavo, del regno dei valori meschini o
della potenza di un ordine consolidato. Il concetto di verità si determina solo in funzione di una
tipologia pluralistica, la quale a sua volta deriva da una topologia. Si tratta di vedere a quale ragione
appartengono determinati errori e verità, qual è il loro tipo e chi li formula e li concepisce. L’unico
compito davvero critico e l’unico mezzo per riconoscerci nella “verità” consiste nel sottoporre il
vero alla prova del basso e il falso alla prova dell’alto. La filosofia serve a rattristare: una filosofia
che non rattristi, che non riesca a contrariare nessuno, che non sia in grado di arrecare alcun danno
alla stupidità e di smascherare lo scandalo, non è filosofia. Essa dovrà inoltre trasformare il pensiero
in un qualcosa di aggressivo, attivo e affermativo, formare uomini liberi, che non confondano cioè i
fini della cultura con gli interessi dello Stato, della morale o della religione, combatere il
risentimento e la cattiva coscienza che hanno usurpato in noi il pensiero, sconfiggere infine il
negativo e il suo falso prestigio. E’ vero che stupidità e bassezza continuano a esistere; ma non è un
buon pretesto per affrettarsi a decretare lo scacco della filosofia, giacché, se non fosse per quel po'
di filosofia che in ogni epoca ha impedito loro di spingersi sin dove volevano e di diventare stupide
e basse al massimo grado, esse avrebbero oggi proporzioni ancora maggiori. L’immagine del
filosofo è offuscata da tutti i travestimenti di cui ha bisogno, ma anche da tutti i tradimenti che lo
portano ad essere filosofo della religione o dello Stato, collezionista di valori comuni o funzionario
della storia. L’immagine autentica del filosofo non è sopravvissuta a chi, in una data epoca e per un
certo periodo, aveva saputo incarnarla e deve quindi essere ripresa, rianimata, deve trovare un
nuovo ambito di attività nell’epoca successiva. La stupidità e la bassezza non cessano di dar vita a
nuove alleanza, si adeguano sempre al nostro tempo, sono sempre parte di noi e dei nostri
contemporanei. La filosofia si realizza nella opposizione tra inattuale e attuale, tra il nostro tempo e
ciò che è intempestivo. Nell’intempestivo vi sono verità più durature di quanto lo siano le verità
storiche ed eterne messe insieme: sono le verità dell’avvenire. Pensare attivamente significa “agire
in modo inattuale”. La catena dei filosofi non è l’eterna catena dei saggi e meno ancora la
concatenazione della storia: è una catena spezzata, il susseguirsi delle comete, la loro discontinuità e
la loro ripetizione, irriducibili all’eternità del cielo che attraversano e alla storicità della terra che
sorvolano. Nietzsche propone una nuova immagine del pensiero che si muove ora nell’elemento del
senso e del valore e la cui attività è la critica della stupidità e della bassezza. Il pensare non è mai
l’esercizio naturale di una facoltà e mai il pensiero pensa da solo e di per se stesso, così come mai
viene semplicemente disturbato da forze che ne rimangono all’esterno. Il pensare deriva dalle forze
che si impadroniscono del pensiero. Heidegger può sostenere che non pensiamo ancora anche
perché questo tema è presente in Nietzsche: dobbiamo attendere le forze in grado di rendere il
pensiero attivo, assolutamente attivo, una potenza in grado di trasformarlo in affermazione. Il
pensare, in quanto attività, è sempre una seconda potenza del pensiero; non l’esercizio naturale di
una facoltà, ma un evento straordinario del e per il pensiero stesso. Questo addestramento viene da
Nietzsche chiamato “Cultura”: per lui, cultura è essenzialmente addestramento e selezione,
espressione della violenza delle forze che si impadroniscono del pensiero per farne un qualcosa di
attivo, di affermativo. La cultura è una violenza subita dal pensiero che gli dà forma attraverso
l’azione di forze selettive. I Greci non parlavano di metodo, ma di paideia; essi sapevano che il
pensiero non pensa a partire da una buona volontà, ma in virtù di forze che agiscono su di esso per
costringerlo a pensare. Ancora Platone distingueva ciò che costringe a pensare da ciò che lascia
inattivo il pensiero e, nel mito della caverna, faceva derivare la paideia dalla violenza che il
prigioniero subisce sia per uscire dalla caverna che per ritornarvi. In numerosi passi alquanto
singolari Nietzsche mette in risalto la delusione di Dioniso e di Arianna nel ritrovarsi di fronte a un
tedesco mentre si cercava un greco. La cultura come attività generica a quale scopo ultimo di
foggiare l’artista, il filosofo. Tutta la sua violenza selettiva serve a tal fine: “io mi occupo qui di una
specie di uomini la cui teleologia è rivolta un po' oltre il bene di uno Stato”, poiché le principali
attività culturali di Chiese e Stati costituiscono piuttosto il lungo martiriologo della cultura: quando
uno Stato favorisce la cultura “la favorisce solo per favorire se stesso e mai concepisce che vi sia un
fine superiore al proprio bene e alla propria esistenza”. La teoria del pensiero dipende da una
tipologia di forze, la quale origine, lo ripetiamo, da una topologia. Pensare dipende da certe
coordinate: abbiamo le verità che ci meritiamo in base al luogo in cui situiamo la nostra esistenza,
all’ora in cui vegliamo, all’elemento in cui ci troviamo. Ogni verità è verità di un elemento, di un
momento e di un luogo: il minotauro non esce dal labirinto. Non penseremo fin tanto che non
saremo costretti ad andare là dove ci son verità che fanno pensare, là dove agiscono le forze che
fanno del pensiero un qualcosa di attivo e affermativo. Il metodo in generale è un mezzo per evitare
di andare nel tale luogo o per garantirci la possibilità di uscirne: “noi, noi vi pregiamo caldamente:
usatela per impiccarvi!” Nietzsche sostiene che siano sufficienti tre aneddoti per illustrare la vita di
un pensatore:
- uno per il luogo
- uno per il momento
- uno per l’elemento.
Sta a noi spingerci verso i luoghi e i momenti estremi, in cui nascono e vivono le verità più alte, più
profonde. I luoghi del pensiero sono zone tropicali abitate dall’uomo tropicale, e non zone
temperate abitate dall’uomo morale, metodico e moderato.
L’impotenza di ammirare, di rispettare, d’amare. La memoria delle tracce è di per se stessa incline
all’odio. L’odio o la vendetta si annidano anche nei ricordi più teneri e affettuosi. Si può osservare
come i ruminanti della memoria dissimulino quest’odio attraverso una sottile operazione che
consiste nel rimproverare a se stessi tutto ciò che, in realtà, rimproverano all’essere di cui fingono di
venerare il ricordo. Ciò che più colpisce nell’uomo del risentimento non è tanto la sua malvagità,
quanto la sua disgustosa animosità, la sua capacità di sminuire. Nulla vi resiste: non rispetta i propri
amici né i propri nemici, né la sventura o la sua causa; basti pensare ai Troiani, i quali ammiravano
e contemplavano in Elena la causa delle proprie disgrazie. Ma l’uomo del risentimento deve ridurre
la sventura a cosa mediocre, deve recriminare e distribuire i torti, assecondare la sua tendenza a
sminuire le cause e a considerare la sventura “colpa di qualcuno”, al contrario del rispetto
aristocratico per le cause della sventura, che impedisce di prendere sul serio le proprie disgrazie.
La passività. Nel risentimento, la felicità “appare essenzialmente come narcosi, stordimento, quiete,
pace, “sabbath”, distensione dell’animo e rilassamento del corpo, insomma in forma passiva”.
L’uomo del risentimento non sa e non vuole amare, ma vuole essere amato, nutrito, dissetato,
accarezzato, addormentato: è impotente, dispeptico, frigido, insonne, schiavo. Egli mostra una
grande suscettibilità: e, riguardo a tutti i compiti che è incapace di intraprendere, ritiene che la
compensazione minima dovutagli consista nel trarne un qualche beneficio. L’uomo del risentimento
è colui che vuol trarre un vantaggio, un profitto; anzi, il risentimento è riuscito a imporsi nel mondo
solo facendo trionfare l’ottica del beneficio, considerando il profitto non soltanto un desiderio e un
pensiero, ma un sistema economico, sociale, teologico.
L’imputazione dei torti, la distribuzione delle responsabilità, l’accusa perpetua. Tutto ciò si
sostituisce all’aggressività: “il pathos aggressivo fa parte necessariamente della forza, così come il
sentimento di vendetta e rancore fa parte della debolezza”. Poiché considera il beneficio come un
diritto e ritiene un suo diritto il trar profitto da azioni non da lui compiute, l’uomo del risentimento
sbotta in aspri rimbotti se le sue aspettative vengono deluse; il che non può non accadere, dato che
frustrazione e vendetta sono quasi un a priori del risentimento: è colpa tua se nessuno mi ama, è
colpa tua se la mia vita è un fallimento e sei responsabile anche del fallimento della tua. Ritroviamo
qui la terribile potenza femminile del risentimento che, non contenta di denunciare crimini e
criminali, esige colpevoli e responsabili. Lo schiavo ha prima di tutto bisogno di porre l’altro come
cattivo.
E’ buono? E’ cattivo?
Io sono buono dunque tu sei cattivo; tu se cattivo dunque io sono buono. Poiché disponiamo del
metodo della drammatizzazione, dobbiamo chiederci chi pronuncia l’una e chi l’altra delle due
formule e che cosa vuole ciascuno dei due, giacché non possono venir pronunciate del medesimo, in
quanto il buono dell’una è il cattivo dell’altro. Vogliamo dunque sapere chi è colui che incomincia
col dire “io sono buono”; certo non chi si paragona agli altri, né chi confronta le sue azioni od opere
a valori superiori o trascendenti: costui non potrebbe nemmeno incominciare…Chi dice “io sono
buono” non si aspetta che gli si dica buono, ma si definisce, si chiama e si considera tale nella
misura stessa in cui agisce, afferma e gioisce. Buono qualifica l’attività e l’affermazione e il piacere
che si prova nel praticarle: una certa qualità d’animo, “una certa sicurezza di base che un’anima
nobile ha riguardo a se stessa, qualcosa che non si può cercare né trovare e forse neppure perdere”.
Nietzsche usa spesso il termine distinzione per indicare il carattere interno di ciò che si afferma.
Buono indica anzitutto il signore, mentre cattivo è conseguenza e indica lo schiavo, il negativo, il
passivo, il malvagio, il miserabile. Nietzsche abbozza il commento del mirabile poema di Teognide,
interamente costruito sulla affermazione lirica fondamentale: noi siamo buoni, loro sono cattivi e
malvagi. Sarebbe vano cercare la benché minima sfumatura morale in questo giudizio aristocratico
che si basa invece su un’etica e una tipologia, su una tipologia delle forze e su un’etica dei
corrispondenti modi di essere. “Io sono buono, dunque tu sei cattivo”: in bocca ai signori, la parola
dunque introduce soltanto una conclusione negativa; il negativo è conclusione posta solo come
conseguenza di una piena affermazione: “noi nobili, noi buoni, noi belli, noi felici”. Il buono “cerca
il suo opposto soltanto per dire sì a se stesso con ancor maggiore gratitudine e gioia”, legge
fondamentale dell’aggressività: per cui il negativo è conclusione di premesse positive, è prodotto
dell’attività, è conseguenza di una potenza di affermare. “Tu sei cattivo, dunque io sono buono”. E’
cambiato tutto: il negativo è passato nelle premesse, il positivo è concepito come conclusione di
premesse negative. Ora è il negativo a contenere l’essenziale, mente il positivo esiste solo in virtù di
una negazione. Il negativo è diventato “l’originale, il principio, l’atto vero e proprio”. Lo schiavo ha
bisogno delle premesse della reazione e della negazione, del risentimento e del nichilismo per
ottenere una conclusione apparentemente positiva, che per l’appunto della positività ha soltanto
l’apparenza. L’uomo del risentimento deve concepire un non-io, poi contrapporvisi al fine di porre,
da ultimo, se stesso. Strano sillogismo dello schiavo: ci vogliono due negazioni per ottenere
un’apparenza di affermazione; e già possiamo intuire sotto quale forma questo sillogismo ha avuto
tanto successo in filosofia: la dialettica. La dialettica è ideologia del risentimento. Ecco il bene e il
male, ecco la determinazione etica del buono e del cattivo lasciare il posto al giudizio morale. Il
buono dell’etica è diventato il cattivo della morale, il malvagio dell’etica è diventato il buono della
morale. Bene e male non coincidono con buono e cattivo ma, al contrario, sono lo scambio,
l’inversione, il rovesciamento della loro determinazione. Nietzsche insisterà nel sostenere che “al di
là del bene e del male” non significa “al di là del buono e del cattivo”; al contrario bene e male sono
valori nuovi. Basta riflettere su ciò che questi valori nascondono e sul modo in cui sono stati creati
per scorgervi un odio straordinario contro la vita, contro tutto ciò che nella vita è attivo e
affermativo. La positività della religione è apparente perché si stabilisce che i miserabili, i poveri, i
deboli, gli schiavi sono i buoni in quanto i forti sono “cattivi” e “dannati”; è stato inventato il buono
infelice, debole: non c’è miglior vendetta contro i forti e i felici. Che cosa sarebbe l’amore cristiano
senza la potenza del risentimento ebraico da cui è animato e diretto? L’amore cristiano non è il
contrario del risentimento ebraico, bensì né è la conseguenza, l’esito. Ma la religione riesce a
nascondere, in maniera più o meno efficace i principi dai quali è direttamente derivata: il peso delle
premesse negative, lo spirito di vendetta, la potenza del risentimento.
Il paralogismo
Tu sei cattivo; io sono il contrario di quello che sei tu; dunque io sono buono. Il sillogismo
dell’agnello belante si formula nel modo seguente: gli uccelli rapaci sono cattivi, ora, io sono il
contrario di un uccello rapace; dunque, io sono buono. E’ chiaro che, nella minore, l’uccello rapace
è preso per quello che è: una forza che non si separa dai suoi effetti o dalle sue manifestazioni. Ma
nella maggiore si suppone che l’uccello rapace potrebbe anche non manifestare la propria forza, che
potrebbe contenere i propri effetti e separarsi da ciò che è in suo potere: esso è cattivo perché non si
reprime. Il paralogismo del risentimento si fonda sulla finzione di una forza separata da ciò che è in
suo potere. Le forze reattive trionfano proprio grazie a questa finzione; infatti non basta loro
sottrarsi all’attività, ma è necessario che rovescino il rapporto delle forze, che si oppongano alle
forze attive e si rappresentino come superiori. Il processo di accusa del risentimento fa sì che le
forze reattive “proiettino” un’immagine astratta e neutralizzata della forza: tale forza, una volta
separata dai propri effetti, sarà colpevole se agisce, mentre sarà meritevole se non agisce; si può
anzi immaginare che occorra più forza (astratta) per trattenersi che per agire. Le forze reattive
acquistano un potere contagioso mentre le forze attive diventano realmente reattive:
1) Momento della causalità: la forza si sdoppia. Allorché la forza non si separa dalla propria
manifestazione, quest’ultima diventa un effetto riconducibile alla forza come causa distinta e
separata: si “pone lo stesso evento prima come causa, e poi ancora una volta come effetto di essa”;
2) Momento della sostanza: si proietta la forza sdoppiata in un sostrato, in soggetto libero di
manifestarla o di non manifestarla; la forza viene così neutralizzata e trasformata in atto di un
soggetto che potrebbe anche non agire;
3) Momento della determinazione reciproca: la forza, ormai neutralizzata, viene moralizzata: se si
suppone che una forza possa benissimo fare a meno di manifestare la forza che “ha”, non è più
assurdo supporre al contrario che una forza potrebbe manifestare la forza che “non ha”.
Senza questo secondo spetto del risentimento, la rivolta delle forze reattive non potrebbe tradursi in
un trionfo; o meglio rimarrebbe un trionfo locale, non ancora completo. In nessuno dei due casi,
inoltre, le forze reattive trionfano perché formano una forza più grande rispetto a quella delle forze
attive:
- nel primo caso tutto avviene all’interno delle forze reattive;
- nel secondo, le forze reattive separano le forze attive da ciò che è in loro potere attraverso però
una finzione, una mistificazione.
Benché inseparabile dall’elemento differenziale da cui deriva la loro qualità, le forze reattive
offrono di questo elemento un’immagine rovesciata: dal punto di vista della reazione, la differenza
delle forze diventa opposizione tra forze reattive e forze attive. Basterebbe quindi che le forze
reattive avessero modo di sviluppare o proiettare questa immagine e il rapporto tra forze verrebbe a
sua volta rovesciato. Questa occasione si offre alle forze reattive nel momento stesso in cui riescono
a sottrarsi all’attività: cessando di essere agite, possono proiettare l’immagine rovesciata, proiezione
reattiva che Nietzsche chiama finzione: è la finzione di un mondo sovrasensibile che si contrappone
al mondo sensibile, di un Dio che contraddice la vita. Nietzsche distingue la finzione dalla potenza
attiva. Nietzsche distingue la finzione dalla potenza attiva del sogno, nonché dall’immagine positiva
del dèi che affermano e glorificano la vita: “questo mondo di pure finzioni di differenzia […] dal
mondo del sogno per il fatto che quest’ultimo rispecchia la realtà, mentre esso falsifica, svaluta,
nega la realtà”. La finzione governa l’intera evoluzione del risentimento, ossia dirige le operazioni
attraverso le quali la forza attiva viene contemporaneamente separata da ciò che è in suo potere. In e
attraverso questa finzione le forze reattive sono in grado di attestare la propria superiorità. Il libro
“Genealogia della morale” contiene la prima psicologia del sacerdote. E’ il sacerdote colui che
conferisce una forma al risentimento, che conduce l’accusa e porta sempre più a fondo la vendetta, e
che osa addirittura rovesciare i valori; in particolare, costui è il prete ebraico, il prete nella forma
ebraica. Egli, maestro di dialettica, fornisce allo schiavo l’idea del sillogismo reattivo, di cui forgia
le premesse negative; concepisce l’amore, quel nuovo amore che i cristiani faranno proprio, come la
conclusione, il coronamento, il fiore velenoso di un odio fuori del comune; egli per primo afferma
che senza di lui lo schiavo non sarebbe mai riuscito a innalzarsi al di sopra del risentimento allo
stato bruto. La sua volontà è volontà di potenza, la sua volontà di potenza è nichilismo.
Dio è morto
Dio non esiste, oppure esiste, nella misura in cui la sua idea implichi o meno contraddizione. Ma la
formula “Dio è morto” è di natura completamente diversa, in quanto pone l’esistenza di Dio in
relazione a una sintesi, opera la sintesi tra l’idea di Dio e il tempo, il divenire, la storia, l’uomo. Dio
è esistito ed è morto.
Dio si è fatto uomo e l’uomo si farà Dio. Dio è morto.
1) Punto di vista del nichilismo negativo, coscienza ebraica e cristiana:
DIO EBRAICO il Dio ebraico uccide il proprio figlio per renderlo indipendente da sé e dal
popolo ebraico: primo senso della morte di Dio. La coscienza ebraica uccide Dio nella persona del
Figlio.
DIO CRISTIANO il Dio cristiano è il Dio ebraico diventato cosmopolita, è la conclusione
separata dalle premesse. Sulla croce Dio cessa di essere ebraico; anzi, è proprio il vecchio Dio a
morire sulla croce, mentre nasce il Dio nuovo. Nasce orfano e si reinventa un padre a propria
immagine, un Dio d’amore: ma sempre amore della vita reattiva. Ecco il secondo senso della morte
di Dio: il Padre muore e il Figlio ci dà nuovamente un Dio, ci chiede soltanto di credere in lui, di
amarlo come lui ci ama, di diventare reattivi per sfuggire all’odio.
DA SAN PAOLO san Paolo prende questa morte e ne dà una interpretazione che porterà alla
costituzione del cristianesimo, perfezionando la grandiosa falsificazione incominciata con i Vangeli.
Anzitutto Cristo sarebbe morto per i nostri peccati; il debito era così grande da indurre il creditore a
offrire il proprio figlio, a pagarsi con il proprio figlio; il padre uccide suo figlio non più per renderlo
indipendente, ma lo fa per noi, a causa nostra. Dio fa morire suo figlio sulla croce per amore; questo
amore sarà corrisposto nella misura in cui ci sentiremo colpevoli di questa morte.
La vita muore per rinascere reattiva. La vita reattiva è il contenuto della vita eterna in quanto tale, il
contenuto della resurrezione; essa soltanto è prediletta da Dio e trova grazia presso di lui, presso la
volontà del nulla.
Contro lo hegelismo
Sarebbe sbagliato considerare questa filosofia della storia e della religione come una ripresa o
addirittura una caricatura delle concezioni di Hegel: Dio è morto, Dio è diventato Uomo, l’Uomo è
diventato Dio. Siamo in presenza di un rapporto e di una differenza più profondi, perché
diversamente dai suoi predecessori, Nietzsche non crede in questa morte, non scommette su questa
croce, non vede cioè in questa morte un evento che avrebbe in sé il proprio senso. Contro ogni
romanticismo, contro ogni dialettica, Nietzsche diffida della morte di Dio, con lui finisce l’epoca
della fiducia ingenua che acclamava sia la riconciliazione dell’uomo con Dio sia la sostituzione di
Dio con l’uomo. Nietzsche non crede nei grandi e clamorosi venti: un evento ha bisogno di molto
silenzio e di molto tempo per trovare infine le forze in grado di dargli una essenza. Secondo
l’interpretazione di Hegel il significato della morte di Cristo sta nel superamento dell’opposizione,
nella riconciliazione tra finito e infinito, nell’unità di Dio e dell’individuo, dell’immutabile e del
particolare; sarà necessario che la coscienza cristiana percorra altre figure dell’opposizione affinché
questa unità diventi per sé ciò che essa è già in sé. Al contrario il tempo di cui parla Nietzsche è
necessario per la formazione delle forze che diano alla morte di Dio un senso che essa non ha in sé,
che le conferiscano una essenza determinata, lo splendido dono dell’esteriorità. La dialettica non
sfiora nemmeno l’interpretazione, non si spinge mai oltre l’ambito dei sintomi; essa confonde
l’interpretazione con lo sviluppo del sintomo non interpretato. Per questo motivo essa non riesce a
vedere nello sviluppo e nel cambiamento niente di più profondo che una astratta permutazione con
cui il soggetto diventa predicato e il predicato soggetto. La dialettica vive di opposizioni perché
ignora i ben più sottili e sotterranei meccanismi differenziali: gli spostamenti topologici e le
variazioni tipologiche. Lo si può constatare in un esempio caro a Nietzsche: la sua teoria della
cattiva coscienza deve essere interamente compresa come reinterpretazione della coscienza infelice
hegeliana; questa coscienza, apparentemente scissa, trova il proprio senso nei rapporti differenziali
tra forze che si nascondono dietro finte opposizioni. Analogamente, il rapporto tra cristianesimo ed
ebraismo lascia sussistere l’opposizione solo come copertura e come pretesto: privata di tutti i suoi
diritti, l’opposizione cessa di essere principio di formazione, di movimento e coordinamento, e si
riduce a sintomo. L’opera di Nietzsche muove alla dialettica tre diverse obiezioni: di fraintendere il
senso in quanto ignora la natura delle forze che concretamente si impossessano dei fenomeni; di
fraintendere l’essenza in quanto ignora l’elemento reale del quale le forze, con le loro qualità e
secondo i loro rapporti, provengono; di fraintendere il cambiamento e le trasformazioni, in quanto si
accontenta di operare permutazioni all’interno di termini astratti e irreali. Con stile hegeliano ci
viene annunciato che l’uomo e Dio, che la religione e la filosofia, si riconciliano; con stile
feuerbachiano ci viene annunciato che l’uomo, riappropriandosi dell’essenza del divino, prende il
posto di Dio, mentre la teologia diventa antropologica. Dio diventa Uomo, l’Uomo diventa Dio; ma
chi è l’Uomo? Sempre l’essere reattivo, il rappresentante e il soggetto di una vita debole e svalutata.
Che cos’è Dio? Sempre l’Essere supremo per il cui tramite la vita viene svalutata, l’ “oggetto” della
volontà del nulla, il “predicato” del nichilismo. Prima e dopo la morte di Dio, l’uomo resta “quel
che è” come Dio resta “ciò che è”: forze reattive e volontà del nulla. La dialettica è la natura
ideologia del risentimento e della cattiva coscienza, è il pensiero nella prospettiva del nichilismo e
dal punto di vista delle forze reattive. La morte di Dio è il grande e clamoroso evento dialettico;
esso è però circondato dal baccano delle forse reattive e dai fumi del nichilismo.
Nietzsche e la dialettica
Le conoscenze filosofiche di un autore non vanno valutate né in base alle sue citazioni né in base a
fantasiosi e congetturali inventare di biblioteche, ma piuttosto sulla scorta delle mire, apologetiche e
polemiche, della sua opera; e questo vale anche nel caso di Nietzsche, di cui si avrebbe una
comprensione errata se non si riuscisse a scorgere “contro chi” sono rivolti i principali concetti della
sua intera opera, dove proprio le tematiche hegeliane rappresentano il nemico da combattere. Il
ruolo di Stirner consiste nel far emergere queste implicazioni della dialettica, che, portata alle sue
conseguenze estreme, rivela fino a che punto possa spingersi e quale ne sia l’impulso. L’uomo della
dialettica, non essendo più altro che uomo ed avendo nientificato del tutto ciò che esso non è, è
l’uomo più miserabile; ma è anche il migliore, perché ha soppresso l’alienazione, sostituito Dio,
recuperato le sue proprietà. Il superuomo si qualifica per un nuovo modo di sentire che lo rende un
soggetto diverso dall’uomo, un tipo diverso dal tipo umano; un nuovo modo di pensare, per
predicati diversi da quelle divini, che restano una delle maniera di conservare l’uomo e di
conservare l’essenziale di Dio, Dio come attributo; per un nuovo modo di valutare che implica non
un cambiamento di valori, una permutazione astratta o un capovolgimento dialettico, ma un
cambiamento e un rovesciamento dell’elemento da cui proviene il valore dei valori, una
“trasvalutazione”.
L’affermazione e la negazione
I significati della trasmutazione, della valutazione sono:
1) Cambiamento di qualità nella volontà di potenza. I valori, e il loro valore, non derivano più dal
negativo ma dall’affermazione come tale. La vita, in logo di una svalutazione, è oggetto di una
affermazione; ma anche l’espressione “in luogo di” è inadeguata, in quanto ciò implica che il luogo
stesso venga cambiato, che non ci sia più posto di natura, il valore dei valori trova un altro
principio.
2) Passaggio dalla ratio cognoscendi alla ratio essendi nella volontà di potenza. La ragione in virtà
della quale la volontà di potenza è conosciuta non è la ragione in virtù della quale essa è. Potremmo
pensare la volontà di potenza nella sua vera natura, potremo pensarla come essere, solo a
condizione di servirci della ratio cognoscendi come di una qualità che trapassa nel proprio
contrario, nel quale ritroveremo la sconosciuta ratio essendi.
3) Conversione dell’elemento nella volontà di potenza. Il negativo diventa potenza di affermare: si
sottomette all’affermazione, passa al servizio di un eccedente della vita. La negazione non è più la
forma sotto la quale la vita conserva tutto ciò che in essa vi è di reattivo ma, al contrario, è l’atto
con cui la vita sacrifica tutte le sue forme reattive.
4) Regno dell’affermazione nella volontà di potenza. Ormai l’affermazione sussiste come potenza
indipendente, da cui il negativo si sprigiona come un lampo, destinato però a venir riassorbito, a
dileguarsi come un fuoco che si scioglie.
5) Critica dei valori conosciuti. I valori fino ad oggi conosciuti perdono interamente il loro valore.
6) Rovesciamento del rapporto tra forze. L’affermazione è un divenire-attivo universale delle forze,
dove tutte le forze reattive sono negate e diventano attive. Il rovesciamento dei valori, la
svalorizzazione dei valori reattivi e l’instaurazione di valori attivi sono altrettante operazioni che
presuppongono la trasmutazione dei valori e la conversione del negativo in affermazione.
Affermazione e negazione sono qualità e ragioni della volontà di potenza tra loro contrapposte:
entrambe sono un contrario, ma ance il tutto che esclude ogni contrario. Non basta dire che la
negazione ha fino a oggi dominato il nostro pensiero e i nostri modi di sentire e di valutare, perché
in realtà essa è costitutiva dell’uomo; e con l’uomo il mondo interno si inabissa e diviene malato, la
vita intera viene svalutata e tutto ciò che è conosciuto scivola verso il nulla. Non c’è contraddizione
nel pensiero di Nietzsche: è vero che da una parte egli annuncia l’affermazione dionisiaca
incontaminata da negazioni mentre dall’altra denuncia l’affermazione dell’asio che non sa dire di no
e che non contempla alcuna negazione; ma in un caso l’affermazione esclude totalmente la
negazione come potenza autonoma o come qualità primaria, espellendo totalmente il negativo dalla
costellazione dell’essere; nell’altro invece egli fa notare come l’affermazione non potrebbe mai
essere reale e completa se non si facesse precedere e seguire dal negativo: le negazioni diventano
allora potenze di affermare. Mai l’affermazione potrebbe affermarsi sena che prima la negazione
abbia spezzato l’alleanza con le forze reattive e sia diventata potenza affermativa nell’uomo che
vuole perire e senza che, successivamente, la negazione riunisca e raccolga in una totalità tutti i
valori reattivi per distruggerli da un punto di vista che afferma.
Il senso dell’affermazione
Secondo Nietzsche l’affermazione implica due negazioni, due negazioni che sono però l’esatto
opposto delle negazioni dialettiche:
- da una parte l’affermazione è ciò che manca agli uomini superiori;
- dall’latra, la natura dell’affermazione negli uomini superiori è contraddittoria: “egli porta il nostro
fardello, egli prese forma di servo, egli è paziente nel suo cuore e mai dice di no”.
All’inizio l’asino è Cristo che si sobbarca i fardelli più pesante, che porta i frutti del negativo come
se in essi fosse racchiuso il mistero positivo per eccellenza. Poi, quando l’uomo prende il posto di
Dio, l’asino diventa libero pensatore e si appropria di tutto ciò che gli vien messo sulla groppa; non
c’è più bisogno di caricarlo perché lo fa già da sé; recupera lo Stato, la religione, ecc. come potenze
sue proprie; diventato Dio, tutti i vecchi valori dell’al di là appaiono ora come forze che guidano il
mondo terreno, come forze sue proprie. Gli uomini del presene vivono ancora con la vecchia idea
per cui è reale e positivo tutto ciò che pesa, è reale e affermativo tutto ciò che ha un peso; ma questa
realtà, in cui il cammello e il suo fardello sono uniti al punto da confondersi in un medesimo
miraggio, è soltanto deserto, è la realtà del deserto, il nichilismo. Dopo Hegel la filosofia si presenta
come un bizzarro miscuglio di ontologia e antropologia, di metafisica e umanismo, di teologia;
finché infatti l’affermazione si presenterà come finzione dell’essere l’uomo stesso non sarà che un
funzionario dell’affermazione e si ritroverà affermato in un essere che egli stesso afferma; finché
l’affermazione verrà a definirsi come una assunzione e un farsi carico, tra l’uomo e l’essere si
stabilirà un rapporto di fondo in termini atletici e dialettici. Per Nietzsche, negli “uomini del
presente”, negli “uomini della realtà!” la dialettica e il dialettizzare sono l’affresco di tutto quanto fu
creduto in passato. Nietzsche vuol dire tre cose:
1) l’essere, il vero, il reale sono altrettante sembianze del nichilismo, altrettanti modi;
2) l’affermazione intesa come assunzione, come affermazione di ciò che è, come veridicità del vero
o positività del reale è una falsa affermazione, è il sì dell’asino. L’asino non sa dire di no perché
dice di sì a tutto quanto è no;
3) questa falsa concezione dell’affermazione è ancora un modo per conservare l’uomo: finché
l’essere è pesante c’è sempre l’uomo reattivo pronto a sostenerlo.
Affermare non è farsi carico, assumere ciò che è, ma liberare, togliere peso a ciò che vive.
Affermare è alleggerire: non far carico alla vita del peso dei valori superiori, ma creare nuovi valori
di vita che la trasformino in leggerezza e attività. Ciò che avete chiamato mondo, deve ancora
essere da voi creato: esso deve diventare la vostra ragione, la vostra immagine, la vostra volontà, il
vostro amore. Ma questo è un compito che non può essere portato a termine dall’uomo poiché, per
quanto avanti riesca spingersi, l’uomo potrà tutt’al più elevare la negazione sino a farne una potenza
di affermare; ma l’affermazione in tutta la sua potenza, afferma l’affermazione, è qualcosa che va
oltre le forze dell’uomo. Il senso dell’affermazione può esplicitarsi soltanto se si tengono presenti i
tre punti fondamentali della filosofia di Nietzsche: non il vero o il reale, ma la valutazione;
l’affermazione non come assunzione ma come creazione; non l’uomo mai il superuomo come
nuova forma di vita.
1) AQUILA E SERPENTE: l’aquila è il grande anno, il periodo cosmico all’interno del quale si
colloca il destino individuale rappresentato dal serpente. L’aquila volteggia in larghi circoli con un
serpente attorcigliato intorno al collo, “non come una preda, ma come un amico”: l’affermazione
più fiera ha bisogno di essere accompagnata da una seconda affermazione, di duplicarsi
diventandone oggetto;
2) DIONISO E ARIANNA: il mistero di Arianna ha indubitabilmente una pluralità di sensi:
Arianna ama Teseo, rappresentazione dell’uomo superiore, sublime eroe che sì addossa fardelli e
sconfigge mostri; gli manca però la virtù del toro, il senso della terra che si prova sotto il giogo, e
quindi la possibilità di liberarsi e di rifiutare i fardelli. La femminilità delle terribili madri, sorelle e
spose rappresenta lo spirito di vendetta e il risentimento da cui l’uomo stesso è animato. Ma
Arianna, dopo essere stata abbandonata da Teseo, sente sopraggiungere una trasmutazione: la sua
potenza femminile si libera, diventa benefica e affermativa, si fa Anima: “il raggio di una stella
splenda nel vostro amore!”.
3) IL LABIRINTO O LE ORECCHIE: il labirinto è un’immagine frequente in Nietzsche e indica in
primo luogo l’inconscio, il sé; soltanto l’Anima è in grado di riconciliarci con l’inconscio, di
fornirci di un filo conduttore per esplorarlo. In secondo luogo il labirinto sta a indicare l’eterno
ritorno che, nella sua circolarità, non è il cammino perduto bensì il cammino che riporta allo stesso
punto.
Se consideriamo affermazione e negazione come qualità della volontà di potenza, possiamo vedere
che tra loro non c’è rapporto univoco. La negazione si oppone all’affermazione mentre quest’ultima
differisce dalla negazione. L’affermazione del divenire è l’affermazione dell’essere, ma solo in
quanto oggetto della seconda affermazione e qualora venga da questa portata a una nuova potenza.
La prima affermazione è Dioniso, il divenire, mentre la seconda è Arianna, lo specchio, la sposa, la
riflessione.
Dioniso e Zarathustra
L’eterno ritorno insegna che non c’è ritorno del negativo: l’essere è selezione e ritorna solo ciò che
afferma o che è affermato. L’eterno ritorno è la riproduzione del divenire che a sua volta è
produzione di un divenire attivo: il superuomo, figlio di Dioniso e Arianna. Nietzsche insegna che
la differenza è felice, che il molteplice, il divenire, il caso sono costitutivamente e autonomamente
oggetto di gioia, che solo la gioia ritorna. La trasmutazione istituisce un rapporto tra il negativo e
l’affermazione all’interno della volontà di potenza, tale che il negativo si trasforma in un semplice
modo di essere delle potenze di affermare. Questa trasmutazione di valori è l’essenza di
Zarathustra; egli attraversa il negativo ma non per trarne impulso o per assumerne il peso o il
prodotto, bensì per raggiungere il punto in cui l’impulso si modifica, il prodotto viene superato e il
negativo viene sconfitto o trasmutato. Con la trasmutazione la volontà di potenza si libera dai
vincoli del negativo e della sua ratio cognoscendi per mostrare la sua faccia sconosciuta, la
sconosciuta ragion d’essere che trasforma il negativo in semplice modo di essere. La trasmutazione
è principio e condizione dell’eterno ritorno, ma più in profondità essa dipende dall’terno ritorno che
ne è il principio incondizionato. E’ causa dell’eterno ritorno, ma una causa che tarda a produrre il
suo effetto. Zarathustra riconduce il negativo all’affermazione all’interno della volontà di potenza;
ma è anche necessario che la volontà di potenza sia ricondotta alla propria ragion d’essere e che
l’affermazione sia ricondotta all’elemento che ne produce, ne riflette e ne sviluppa la ragione: e
questo è il compito di Dioniso. Zarathustra è condizione di tutto ciò che è affermazione ma Dioniso
ne è il principio incondizionato. Zarathustra determina l’eterno ritorno, anzi, fa sì che l’eterno
ritorno produca il proprio effetto, il superuomo.
Conclusione
La filosofia di Nietzsche ha una grande portata polemica, è un’anti-dialettica assoluta che si
propone di denunciare tutte le mistificazioni che appunto nella dialettica trovano l’ultimo rifugio.
Schopenhauer sognava, una nuova immagine del pensiero, un pensiero libero dai fardelli da cui era
sovrastato. La dialettica hegeliana è una riflessione sulla differenza, ma una riflessione che ne
capovolge l’immagine. L’opposizione al posto della differenza rappresenta il trionfo delle forze
reattive che nella volontà del nulla hanno trovato un principio adeguato. Il risentimento ha bisogno
di premesse negative, di due negazioni, per produrre un fantasma di affermazione; l’ideale ascetico
ha bisogno del risentimento e della cattiva coscienza come il prestigiatore delle carte truccate. La
grandezza di Nietzsche sta nell’aver individuato il risentimento e la cattiva coscienza. Ma sua
polemica non è che l’aggressività derivante da un’istanza più profonda, attiva e affermativa. La
dialettica si generò della Critica kantiana, ovvero da una falsa critica, ma la vera critica implica una
filosofia che si sviluppi da sé e che conservi il negativo soltanto come modo di essere. Nietzsche
rimproverava ai dialettici di arrestarsi a una concezione astratta dell’universale e del particolare, di
restare intrappolati nei sintomi senza riuscire a spingersi sino alle forze e alla volontà che ad essi
danno senso e valore. Il senso della filosofia di Nietzsche è l’affermazione pura che ha come
oggetto il molteplice è la proposta speculativa mentre la gioia del diverso è la proposta pratica.