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NIETZSCHE E LA FILOSOFIA (Deleuze)

I. IL TRAGICO
Il concetto di genealogia
Nel suo significato più ampio, il progetto di Nietzsche consiste nell’introduzione dei concetti di
senso e di valore in filosofia. Nella filosofia contemporanea, la teoria dei valori ha dato vita a un
nuovo conformismo e a nuove forme di sottomissione. Nel caso di Nietzsche dobbiamo prendere le
mosse dal fatto che la filosofia dei valori, com’è da lui istituita e intesa, è la vera realizzazione della
critica, il solo modo di realizzare la critica totale, ossia di fare filosofia a “colpi di martello”. La
valutazione si profila quale elemento differenziale dei valori ad essa corrispondenti: elemento
critico e creativo al tempo stesso. La filosofia critica presenta due movimenti inseparabili:
ricondurre ogni cosa e l’origine di qualunque valore a dei valori; ma anche ricondurre questi valori
a qualche cosa che ne sia l’origine, che decida il loro valore. E’ la duplice lotta di Nietzsche: sia
contro coloro i quali sottraggono i valori alla critica, limitandosi a far l’inventario dei valori
esistenti o a criticare le cose in nome di valori già consolidati: gli “operai della filosofia”, Kant,
Schopenhauer; sia contro chi critica o rispetta i valori sostenendo che essi derivino da semplici fatti,
da presunti fatti oggettivi: gli utilitaristi, i “dotti”. Nietzsche formula il concetto nuovo di
genealogia. Genealogia:
 vuol dire valore dell’origine e, al tempo stesso, origine dei valori;
 si contrappone tanto al carattere assoluto dei valori quanto al loro carattere relativo o pratico;
 significa elemento differenziale dei valori da cui deriva il loro stesso valore;
 vuol dire origine e nascita, ma anche differenza o distanza dall’origine;
 vuol dire nobiltà e bassezza, nobiltà e viltà, nobiltà e decadenza nell’origine. Il nobile e il vile,
l’alto e il basso: questo è l’elemento propriamente genealogico o critico.

L’elemento differenziale non è mai critica del valore dei valori senza essere anche elemento
positivo di una creazione. Perciò Nietzsche non considera mai la critica come reazione, ma come
azione. Nietzsche contrappone l’attività della critica alla vendetta, al rancore o al risentimento. La
critica non è una re-azione del ri-sentimento, ma l’espressione attiva di un modo attivo di esistere.

Il senso
Non troveremo mai il senso di una cosa se non sappiamo quale sia la forza che se ne appropria, che
la governa, che se ne impadronisce o che in essa di esprime. Nietzsche sostituisce la correlazione tra
fenomeno e senso. Ogni forza è appropriazione, dominio, governo di una quantità di realtà. Anche
la percezione, nei suoi vari aspetti, è espressione d forze che si appropriano della natura. Il che
equivale a dire che la natura stessa ha una storia. In generale, la storia di una cosa è la successione
delle forze che lottano per impadronirsene. La storia è la variazione dei sensi. Non si può capire la
filosofia di Nietzsche se non si tiene conto del suo essenziale pluralismo non è altro che la filosofia
stessa. Il pluralismo è il modo di pensare propriamente filosofico. Ed è pluralistica la stessa morte di
quel dio che si dichiarava unico: la morte di dio è un evento il cui senso è molteplice. Nietzsche non
crede nei “grandi eventi” clamorosi, ma nella silenziosa pluralità dei sensi di ciascun evento.
Nell’idea pluralistica di una cosa a più sensi, nell’idea di più cose, di un “questo e poi quello” per la
medesima cosa, possiamo scorgere la più grande conquista per la filosofia: la conquista del vero
concetto, la sua maturità, piuttosto che la sua rinuncia o la sua infanzia. Una cosa ha tanti sensi,
quante sono le forze in grado di impadronirsene. Così, per fare un esempio caro a Nietzsche, la
religione non ha un senso unico perché di volta in volta è al servizio di forze molteplici. Ma qual è
la forza più affine alla religione? Qual è la forza che non si sa bene se sia essa a dominare la
religione o viceversa? “Cercate H.”. Questo per dire che ogni cosa presenta sempre il problema di
un soppesare: arte delicata ma rigorosa della filosofia, interpretazione pluralistica. Una forza non
sopravvivrebbe se prima non prendesse a prestito il volto delle forze che la precedono e contro cui
si trova a lottare. Ciò implica che la genealogia non compaia all’inizio: si incorrerebbe facilmente in
un controsenso se si cercasse il padre del bambino al momento della nascita. La differenza
nell’origine non si manifesta all’origine, salvo forse a un occhio particolarmente esercitato, che
vede da lontano, l’occhio del presbite, del genealogista. Solo quando la filosofia si fa adulta se ne
può cogliere l’essenza o la genealogia. Non perché l’origine non faccia problema, perché l’origine
intesa come genealogista può essere determinata solo in rapporto agli stadi superiori.

Filosofia della volontà


La genealogia non si limita a interpretare, ma valuta. L’oggetto stesso però è forza, è espressione di
una forza, motivo per cui tra l’oggetto e la forza che se ne impadronisce vi è maggiore o minore
affinità. Non c’è oggetto (fenomeno) che non sia già posseduto da una forza; esso infatti non è
apparenza, ma manifestazione di una forza e quindi ogni forza è in rapporto essenziale con un’altra
forza. In una pluralità di forze, queste sono reciprocamente attive e passive a distanza, in quanto la
distanza è l’elemento differenziale di ogni forza, in virtù del quale essa entra in rapporto con le
altre. Per Nietzsche il concetto di forza implica che una forza entri in rapporto con un’altra. Sotto
questo aspetto, la forza si chiama volontà. La volontà è l’elemento differenziale della forza. Ne
risulta una nuova concezione della filosofia della volontà, dove quest’ultima non agisce
misteriosamente su muscoli o nervi, e ancor meno su una materia in generale, ma, necessariamente,
su un’altra volontà. Il vero problema non sta nel rapporto tra il volere e l’involontario, ma nel
rapporto tra una volontà che comanda e una volontà che obbedisce. Il pluralismo trova così nella
filosofia della volontà la sua conferma più immediata e il proprio terreno elettivo. Quando
Nietzsche esalta l’egoismo, lo fa sempre in modo aggressivo o polemico: contro le virtù, contro la
virtù del disinteresse. In realtà però l’egoismo è una cattiva interpretazione della forza. La gerarchia
è il solo fatto originario, l’identità di differenza e origine. Solo più avanti potremo comprendere
perché il problema della gerarchia sia precisamente il problema degli “spiriti liberi”.

Contro la dialettica
Nietzsche è “dialettico”? Una relazione, per quanto essenziale, tra due termini non basta a dar vita a
una dialettica: tutto dipende dal ruolo che il negativo viene ad assumere. Il pluralismo assume talora
un aspetto dialettico, ma resta tuttavia il nemico più accanito, l’unico nemico irriducibile della
dialettica; per questo motivo dobbiamo prendere sul serio il carattere decisamente anti-dialettico
della filosofia di Nietzsche. E’ stato detto che Nietzsche non conoscesse bene Hegel, nel senso in
cui non si conosce bene il proprio avversario. La filosofia di Nietzsche nel suo insieme rimane un
qualcosa di astratto e incomprensibile se non si scopre contro chi è diretta. Il rapporto essenziale tra
due diverse forze non è mai concepito da Nietzsche come elemento essenzialmente negativo. Una
forza, entrando in rapporto con un’altra forza che le obbedisce, non nega quest’ultima o ciò che essa
non è, ma afferma la propria differenza e ne gode. Il negativo, come un qualcosa di essenziale da
cui la forza trarrebbe la propria attività, non compare: al contrario, esso è il risultato di questa
attività, dell’esistenza di una forza attiva e dell’affermazione della sua differenza. Il negativo è il
prodotto dell’esistenza stessa è l’aggressività che si collega necessariamente a un’esistenza attiva,
l’aggressività di una affermazione. Nietzsche sostituisce l’elemento pratico della differenza, oggetto
di affermazione e di godimento, tanto che si può parlare in tal senso di empirismo. Cosa vuole una
volontà? Non si deve però intendere questa domanda come ricerca di un fine. Questa vuole
affermare la propria differenza e, nel suo rapporto essenziale con un’altra volontà. La differenza è
l’oggetto di una affermazione pratica inseparabile dall’essenza e costitutiva dell’esistenza. Il “si” di
Nietzsche si contrappone al “no” dialettico, l’affermazione si contrappone alla negazione dialettica,
la differenza alla contraddizione dialettica, la gioia e il godimento al lavoro dialettico, la leggerezza
e alla danza alla pesantezza dialettica, la bella irresponsabilità alle responsabilità dialettiche.
Nietzsche, per contro, mostra che il negativo nel padrone è sempre un prodotto secondario e
derivato dalla sua esistenza. Del resto, di per se stessa la relazione tra padrone e servo non è
dialettica; qual è allora l’elemento dialettico, chi rende dialettica la relazione? E il servo, è il suo
punto di vista, il pensiero dal punto di vista del servo. La relazione padrone-servo assume infatti il
noto aspetto dialettico in quanto la potenza non vi compare come volontà di potenza ma come
rappresentazione della potenza, come rappresentazione della superiorità, come riconoscimento da
parte dell’ “uno” della superiorità dell’ “altro”. In Hegel, le volontà vogliono che la loro potenza
venga riconosciuta. Ma secondo Nietzsche questa è una concezione totalmente errata della volontà
di potenza e della sua natura, è la concezione del servo, è l’immagine che della potenza si fa l’uomo
del risentimento. Il ritratto del padrone propostoci da Hegel è, sin dall’inizio, il ritratto tracciato dal
servo.

Il problema della tragedia


Chi vuole commentare Nietzsche deve anzitutto badare a non “dialettizzarne” il pensiero. Cos’è
esattamente per Nietzsche il “tragico”? Egli contrappone la visione tragica del mondo a due altre
visioni: quella dialettica e quella cristiana. Sono tre le maniera in cui la tragedia muore:

1) la prima volta con la dialettica di Socrate, ed è la sua morte “euripidea”;


2) la seconda a causa del cristianesimo;
3) la terza, sotto i colpi che le vengono inferti congiuntamente dalla dialettica moderna e da
Wagner.

La dialettica propone una certa concezione del tragico, che viene così rappresentato come
contraddizione tra sofferenza e vita, tra finito e infinito nella vita stessa, tra destino individuale e
spirito universale nell’idea: movimento, ma anche soluzione della contraddizione. Per quanto
riguarda l’opera principale che tratta questo è argomento è “Nascita della tragedia”?

1) Nella Nascita della tragedia la contraddizione si situa tra l’unità primitiva e l’individuazione, tra
il volere e l’apparire, tra la vita e la sofferenza. La Nascita della tragedia si sviluppa all’ombra delle
categorie dialettico-cristiane di giustificazione.

2) La contrapposizione si riflette nella opposizione tra Dioniso e Apollo; quest’ultimo è il principio


di individuazione in forma divina, crea l’apparenza dell’apparenza, la bella apparenza, il sogno o
l’immagine plastica, liberandosi così della sofferenza: “Apollo supera la sofferenza dell’individuo
con la luminosa glorificazione dell’eternità dell’apparenza, fa scomparire il dolore. Dioniso, per
contro, fa ritorno all’unità primitiva, distrugge l’individuo trascinandolo nel grande naufragio
dell’essere originario da cui viene assorbito. Dioniso e Apollo non sono allora in opposizione come
termini interni a una contraddizione, ma semmai come due modi antitetici di risolverla: Apollo,
attraverso la mediazione, nella contemplazione dell’immagine plastica; Dioniso, senza mediazioni,
nella riproduzione, nel simbolo musicale della volontà.

3) La tragedia è conciliazione, mirabile e precaria alleanza dominata da Dioniso che, nella tragedia,
esprime la profondità del tragico. Le sue sofferenze sono l’unico soggetto tragico: sofferenze
dell’individuazione che vengono riassorbite nel piacere dell’essere originario.

L’evoluzione di Nietzsche
La contraddizione originaria, la sua soluzione dionisiaca e l’espressione drammatica di questa
soluzione delineano il tragico all’interno della Nascita della tragedia. Nella stessa opera spuntano
un’infinità di elementi che fanno presagire da questo schema. Anzitutto, Dioniso è insistentemente
presentato come il dio affermativo e affermatore, che non si limita a “risolvere” la sofferenza in un
piacere superiore e sovrapersonale ma che affermala sofferenza e la trasforma nel piacere di
qualcuno. Più che riprodurre le sofferenze dell’individuazione, egli afferma i dolori della crescita; è
il dio che afferma la vita, il dio in nome del quale la vita deve essere affermata, e non giustificata o
riscattata. Sotto l’influenza di Schopenhauer e di Wagner l’affermazione della vita è ancora
concepita soltanto come risoluzione della sofferenza dell’universale e in un piacere che supera
l’individuo: “il singolo dev’essere consacrato a qualcosa di sovrapersonale – ciò che vuole la
tragedia…”. Nietzsche si compiace di aver scoperto una opposizione che solo in seguito si sarebbe
pienamente sviluppata: sin dalla Nascita della tragedia, infatti, la vera contrapposizione non è
quella, totalmente dialettica, tra Dioniso e Apollo, ma la contrapposizione, più profonda tra Dioniso
e Socrate. Non è Apollo, ma Socrate a contrapporsi al tragico, a farlo morire; ed egli non è più
apollineo di quanto non sia dionisiaco. Socrate viene definito attraverso un curioso rovesciamento:
“mentre in tutti gli uomini produttivi l’istinto è proprio la forza creativa e affermativa, e la
coscienza si comporta in maniera critica e dissuadente, in Socrate l’istinto si trasforma in un critico,
la coscienza in una creatrice”. Socrate è il primo genio della decadenza. Socrate è “l’uomo
teoretico”, l’unico vero avversario dell’uomo tragico.

Dioniso e Cristo
Sia Dioniso che Cristo affrontano martirio e passione; benché identico, il fenomeno esprime però
due sensi contrapposti. In un caso la vita giustifica e afferma la sofferenza: nell’altro, la sofferenza
mette la vita sotto accusa, testimonia contro di essa, ne fa un qualcosa che deve essere giustificato.
Per il cristianesimo, il fatto che vi sia sofferenza significa anzitutto che la vita non è giusta; essa è
essenzialmente ingiusta ed espia con la sofferenza una ingiustizia essenziale: se soffre, vuol dire che
è colpevole. La vita deve soffrire perché è colpevole. Questi due aspetti del cristianesimo
costituiscono per Nietzsche la “cattiva coscienza” o interiorizzazione del dolore. Essi delineano il
nichilismo cristiano, il modo in cui cioè il cristianesimo nega la vita. La gioia cristiana consiste nel
“risolvere” il dolore che viene così interiorizzato, offerto a Dio e in lui trasposto: “quello
spaventoso paradosso in un “Dio in croce”, quel mistero di un’inconcepibile ultima, estrema,
crudeltà”, ecco la vera follia cristiana, una follia già interamente dialettica. Il Dioniso che
“risolveva” il dolore, che provava gioia nel risolvere, nel ripotare all’unità originaria, ora invece
può cogliere esattamente il senso e il valore delle proprie metamorfosi: è il dio della vita che non
deve essere giustificata, della vita che è giusta in modo essenziale. E’ la vita ora che si fa carico di
giustificare, che “afferma anche il dolore più aspro”; ma attenzione: essa non risolve il dolore
interiorizzandolo, ma affermandolo nell’elemento della sua esteriorità. L’opposizione fra Dioniso e
Cristo si sviluppa in tutte le sue tappe come affermazione contro negazione. Non c’è salvezza più
bella di quella che c’è data da chi è a un tempo carnefice, vittima e consolatore, santa Trinità, sogno
prodigioso della cattiva coscienza. Dal punto di vista del redentore, la vita “sarebbe la via che porta
a un essere beato”; dal punto di vista di Dioniso, l’ “essere, è considerato abbastanza beato da
giustificare anche un’immensità di dolore”. La lacerazione dionisiaca è il simbolo diretto
dell’affermazione molteplice; la croce del Cristo, il segno della croce sono l’immagine della
contraddizione e della sua soluzione, della vita sottomessa al lavoro del negativo. L’opposizione di
Dioniso o di Zarathustra a Cristo non è dialettica ma è opposizione alla dialettica, è l’affermazione
differenziale contro la negazione dialettica, contro ogni nichilismo e contro questa sua forma
particolare.

L’essenza del tragico


Dioniso afferma tutto ciò che si manifesta, “anche il dolore più aspro”, e si manifesta in tutto ciò
che è affermato. L’affermazione molteplice e pluralistica costituisce l’essenza del tragico. Lo si
comprende ancor meglio pensando alle difficoltà che il rendere tutto oggetto di affermazione
comporta e che richiese lo sforzo e il genio del pluralismo, la potenza della metamorfosi, la
lacerazione dionisiaca. Tragico designa la forma estetica della gioia e non è una formula medica o
una soluzione morale che guarisca dal dolore, dalla paura o dalla compassione. Il tragico è gioia; il
che significa che la tragedia è immediatamente gioiosa e suscita paura e compassione solo nello
spettatore ottuso, nell’ascoltatore malato e moralista che si affida ad essa per verificare il buon
funzionamento delle sublimazioni morali o delle pratiche mediche di purificazione: “con la rinascita
della tragedia è anche rinato l’ascoltatore estetico, in luogo del quale di solito si è presentato sinora
nei teatri uno strano quidproquo, con pretese a metà normali e a metà erudite, il “critico”. Il tragico
non si fonda su un rapporto tra il negativo e la vita, ma sul rapporto essenziale tra il molteplice e la
gioia, il positivo, l’affermazione. La dialettica in generale non è una visione tragica del mondo; al
contrario, è la morte della tragedia, la sostituzione della visione tragica con una concezione teoretica
(Socrate) o, meglio, con una concezione cristiana (Hegel). “Ha un senso l’esistenza?” Per
Nietzsche, questa è la domanda più grande della filosofia. Per interpretare l’esistenza c’era bisogno
di un dio: c’era bisogno di accusare la vita per poterla poi riscattare, di riscattarla per poterla
giustificare. L’esistenza veniva valutata sempre dal punto di vista della cattiva coscienza, secondo
quell’ispirazione cristiana che compromette completamente la filosofia. Hegel interpreta l’esistenza
dal punto di vista della coscienza infelice. Anche Schopenhauer trovò nella sofferenza un pretesto
per negare la vita e in questa negazione il solo modo di giustificarla.

Il problema dell’esistenza
Il senso dell’esistenza ha origini greche e precristiane. La sofferenza è stata usata come mezzo per
dimostrare l’ingiustizia dell’esistenza e nel contempo per trovare una giustificazione superiore e
divina. L’immagine titanica è storicamente il primo senso che viene attribuito all’esistenza. Questa
interpretazione è così seducente che Nietzsche non riesce a resistervi e, nella Nascita della tragedia,
la applica a Dioniso. Per Nietzsche il filosofo che diede perfettamente espressione a questa
concezione dell’esistenza è Anassimandro: “le cose che sono, difatti, subiscono l’una dall’altra
punizione e vendetta per la loro ingiustizia, secondo il decreto del Tempo”. Questo vuol dire:

1) il divenire è un’ingiustizia e la pluralità delle cose che pervengono all’esistenza una sommatoria
di ingiustizie;
2) che esse si combattono tra loro espiando reciprocamente la loro ingiustizia con la phtora;
3) che derivano tutte da un essere originario (“Apeiron”) che degenera in un divenire, in una
pluralità, in una generazione colpevole che viene eternamente riscattata con la distruzione
(“Teodicea”);

Ma che cosa piace così tanto a Nietzsche? Senz’altro la distanza che li separa dal cristianesimo. Pur
riducendo infatti l’esistenza a un qualcosa di delittuoso e perciò riprovevole, essi non la rendono
colpevole e responsabile. Nietzsche scrive: “Nel peccato originale la curiosità, il raggiro
menzognero, la seducibilità, la lascivia, insomma una serie di affetti eminentemente femminili fu
considerata come origine del male […]. Così dagli ariani [Greci] il delitto viene considerato
maschio, dai semiti il peccato viene considerato femmina.” Non si tratta di misoginia. Le madri: e
poi le sorelle, seconda potenza femminile la cui funzione è di accusarci, di attribuirci responsabilità.
E’ colpa tua, dice la madre, è colpa tua se io non ho un figlio migliore. L’attribuzione di torti e
responsabilità, l’acida recriminazione, l’accusa perpetua, il risentimento fanno parte di una
interpretazione religione dell’esistenza. Nel risentimento (è colpa tua), nella cattiva coscienza (è
colpa mia) e nel loro frutto comune (la responsabilità), Nietzsche individua non soltanto dei
semplici eventi psicologici, ma le categorie fondamentali del pensiero semitico e cristiano, il nostro
modo di pensare e di interpretare l’esistenza in generale. Paragonati al cristianesimo, i Greci
sembrano dei bambini. Il modo in cui svalutiamo l’esistenza, il loro “nichilismo” non raggiunge la
perfezione cristiana. Per i Greci l’esistenza è riprovevole, ma la responsabilità della colpa ricade
sulle spalle degli dei. Le due soluzioni:
- un dio che assume su di sé la responsabilità della follia che infonde agli uomini;
- l’uomo che si rende responsabile della follia di un Dio che si mette in croce.
Esse non sono ancora sufficientemente differenti, benché la pima sia incomparabilmente più bella
della seconda.

Esistenza e innocenza
Che cosa significa “innocenza”? Nel denunciare la nostra deplorevole mania di accusare e di
cercare delle responsabilità sia fuori sia dentro di noi, Nietzsche fonda la sua critica su cinque
ragioni, la prima delle quali è data dal fatto che “non esiste niente fuori del tutto”. L’innocenza è a
verità del molteplice e deriva direttamente dai principi della filosofia della forza e della volontà.
Ogni cosa è in rapporto con una forza in grado di interpretarla; ogni forza è in rapporto con ciò che
è in suo potere, e da cui è inseparabile. La forza la riteniamo “colpevole” se esprime la propria forza
nella cosa in cui si manifesta. Sdoppiamo quindi la volontà inventandoci un soggetto neutro, dotato
di libero arbitrio, cui attribuiamo il potere sia di agire che di trattenersi dal farlo; il che determina il
nostro atteggiamento nei confronti dell’esistenza. Eraclito è il pensatore tragico la cui opera è
attraversata dal problema della giustizia. Per lui la vitaè radicalmente innocente e giusta. Egli
concepisce l’esistenza in base a un istinto di gioco e la fa diventare un fenomeno estetico, e non un
fenomeno morale o religioso. Nietzsche contrappone punto per punto Eraclito ad Anassimandro,
così come contrappone se stesso a Schopenhauer. L’essere è l’affermazione del divenire, l’uno è
l’affermazione del molteplice, l’affermazione molteplice è il modo in cui si afferma l’uno. “L’unità
è la pluralità”; come potrebbe infatti il molteplice scaturire dall’uno e continuare a scaturirne in
eterno se l’uno non si affermasse proprio nel molteplice? “Se Eraclito non ammette che un unico
elemento, è dunque in senso diametralmente opposto a quello di Parmenide…l’unico deve
affermarsi nella generazione e nella distruzione”. Ritornare è l’essere di ciò che diviene. Ritornare è
l’essere del divenire stesso, l’essere che si afferma nel divenire. L’eterno ritorno come legge del
divenire, come giustizia e come essere. La contesa della pluralità costituisce essa stessa la giustizia
unica. E in generale, l’unità è la pluralità.

Il colpo di dadi
Nel gioco, come nel tiro di dadi, ci sono due momenti: il lancio e la ricaduta. Nietzsche giunge a
rappresentare il tiro di dadi come se il gioco si svolgesse su due tavoli diversi, la terra e il cielo. I
due tavoli non sono però due mondi; sono invece due ore diverse di uno stesso mondo, i suoi due
momenti, mezzanotte e mezzodì, l’ora in cui i dadi vengono lanciati, l’ora in cui i dadi ricadono. Il
colpo di dadi afferma il divenire e afferma l’essere del divenire. Non si tratta di lanciare i dadi per
un certo numero di volte, tanto da riuscire a riprodurre la medesima combinazione; si tratta, al
contrario, di un solo lancio che, in ragione del numero della combinazione prodotta, viene a
riprodursi come tale. Questa è l’affermazione della necessità. La necessità è affermata dal caso,
nello stesso identico senso in cui l’essere è affermato dal divenire e l’uno dal molteplice. Quel che
Nietzsche chiama necessità (destino) non è mai dunque l’abolizione del caso, ma la sua
combinazione. La necessità si afferma a partire dal caso, nonostante il fatto che sia il caso stesso ad
essere affermato; c’è infatti una sola combinazione del caso, un’unica maniera di combinare tutte le
sue membra, analogamente all’uno del molteplice: numero o necessità. Il cattivo giocatore si affida
a più colpi di dadi, a un gran numero di colpi: può disporre così della causalità e della probabilità
per far riuscire la combinazione dichiarata, da lui posta come un fine da raggiungere nascosto dietro
la causalità. E’ ciò cui Nietzsche fa riferimento quando parla dell’eterno ragno, della ragnatela della
ragione: “una specie di ragno etico-finalistico celato sotto il grande tessuto e reticolo della
causalità”. Tutte le mosse del cattivo giocatore consistono nell’abolire il caso affermandolo con la
tenaglia della causalità e della finalità, nel contare sulla ripetizione dei colpi invece di affermarlo,
nel prefigurare uno scopo invece di affermare la necessità; esse hanno la loro radice nella ragione;
ma qual è la radice della ragione? Lo spirito di vendetta. Per giocare bene è necessaria la certezza
che l’universo non ha scopo, che non ci sono fini in cui sperare né cause da conoscere. Si sbaglia il
lancio dei dadi perché non si è affermato a sufficienza il caso in una sola volta, perché non lo si è
affermato sino al punto da riprodurre il numero fatale che ne riunisce necessariamente tutti i
frammenti e che necessariamente fa ritornare il colpo di dadi.

Conseguenze dell’eterno ritorno


I dadi lanciati affermano il caso una volta, nel ricadere, essi affermano necessariamente il numero o
il destino che fa ritornare il colpo. In questo senso il secondo tempo del gioco coincide con
l’insieme dei due tempi, rappresentato anche dal giocatore. Nell’eterno ritorno il destino è saluto di
“benvenuto” al caso. Ciò significa che vi sono frammenti del caso che pretendono di valere di per se
stessi, che, appellandosi alla loro probabilità, sollecitano il giocatore a tirare più volte i dadi. Ciò
nonostante però Zarathustra sa bene che non è questo il modo di giocare, o di farsi giocare. Si deve
invece affermare tutto il caso in una volta sola. Per riunire tutti i frammenti e per affermare non il
numero probabile, ma il numero fatale e necessario; solo allora il caso diventa un amico che va a
trovare il suo amico che lo farà ritornare; un amico del destino stesso assicura l’eterno ritorno.

Simbolismo di Nietzsche
Quando i dadi vengono lanciati, il tavolo della terra “trema e si spezza” perché il colpo di dadi è
affermazione molteplice, affermazione del molteplice in cui tutte le membra, tutti i frammenti sono
lanciati in un colpo solo. La terra che si spezza sotto i dadi sprigiona dunque “fiumi di fuoco”.
Come dice Zarathustra, il molteplice, la causalità, son buoni solo se cotti e bolliti. Far bollire,
mettere sul fuori il caso non significa abolirlo, né significa trovare l’uno dietro al molteplice; al
contrario, l’ebollizione della pentola richiama l’urto dei dadi nella mano del giocatore: il solo modo
per far del molteplice o della causalità un’affermazione. Quando Nietzsche si chiederà quali sono le
ragioni che l’hanno condotto a scegliere il personaggio di Zarathustra, ne troverà tre:
- Zarathustra profeta dell’eterno ritorno, anche se non è l’unico profeta, né colui che meglio ha
presagito la vera natura di ciò che annunciava;
- ragione polemica: Zarathustra è il primo ad aver introdotto la morale all’interno della metafisica,
facendola diventare una forza;
- retrospettiva: è la bella ragione del caso: “oggi ho saputo per caso cosa significa Zarathustra: stella
d’oro. Questo caso mi affascina.

Nietzsche e Mallarmé
La somiglianza di fondo tra Nietzsche e Mallarmé, difficilmente si presta a esagerazioni. Essa ruota
intorno a quattro punti principali e si estende all’intera compagine delle immagini:

1) pensare significa lanciare i dadi. Solo un colpo di dadi scaturito dal caso potrebbe affermare la
necessità e produrre “l’unico Numero che non può essere altro”; un solo colpo, non l’esito di più
colpi: soltanto la combinazione che vince in una volta sola è in grado di garantire il ritorno del
lancio;
2) l’uomo non sa giocare. Nemmeno l’uomo superiore è capace di lanciare i dadi. Il maestro è
vecchio, non sa lanciare i dadi sul mare e in cielo. Il vecchio maestro è “un ponte”, un qualcosa che
deve essere superato;
3) lanciare i dadi non è soltanto un atto irragionevole e irrazionale, assurdo e sovrumano, ma
costituisce addirittura il tentativo e il pensiero tragico per eccellenza. L’idea mallarmeana del teatro,
le famose corrispondenze ed equazioni tra “dramma”, “mistero”, “inno”, “eroe”;
4) il numero-costellazione è o potrebbe comunque essere il libro, l’opera d’arte in quanto risultato e
giustificazione del mondo.

Il numero fatale e siderale fa ritornare il colpo di dadi, di modo che il libro è insieme unico e
mobile. Mallarmé afferma esplicitamente la molteplicità dei sensi e delle interpretazioni; questa
affermazione e però correlata a un’altra, all’affermazione dell’unità del libro o del testo,
“incorruttibile come la legge”. Mallarmé intende il colpo di dadi come contrapposizione di due
termini, caso e necessità, dove la seconda nega il primo da cui a sua volta è tenuta in scacco. Per
Mallarmé l’opera d’arte è “giusta”; non però nel senso dell’esistenza ma nel senso di quella
giustizia accusatrice che nega la vita dando per scontati il suo fallimento e la sua impotenza.
Curioso ateismo, quello di Mallarmé, che va a cercare nella messa un modello di teatro ideale: nella
messa, non nel mistero di Dioniso…Raramente in realtà l’eterno tentativo di svalutare la vita si
spinse così a fondo e in tutte le direzioni. Mallarmé è il colpo di dadi rielaborato dal nichilismo,
interpretato secondo le prospettive della cattiva coscienza o del risentimento; tolto dal contesto
dell’affermazione e dell’apprezzamento, separato dall’innocenza e dall’affermatività del caso, il
colpo di dadi non è più nulla.

Il pensiero tragico
Nietzsche definisce col termine nichilismo quel tentativo volto a negare la vita, a svalutare
l’esistenza, e ne analizza i principali aspetti: risentimento, cattiva coscienza, ideale ascetico; con
l’espressione “spirito di vendetta” definisce la compagine del nichilismo nelle sue varie forme. Lo
spirito di vendetta è il principio da cui dipende la nostra psicologia. Il risentimento non è un affetto
della psicologia; è piuttosto la nostra psicologia che deriva per intero, e senza saperlo, dal
risentimento. Quando Nietzsche dimostra che il cristianesimo è intriso di risentimento e di cattiva
coscienza, non intende ridurre il nichilismo a evento storico, ma vuol farne l’elemento della storia
come tale, il motore della storia universale, il famoso “senso storico” o “senso della storia” che, a
un certo momento, troverà nel cristianesimo la sua più adeguata manifestazione. Tutte queste
ragioni portano Nietzsche ad affermare che l’ “istinto della vendetta ha dominato per millenni
l’umanità a tal punto, che tutta la metafisica, la psicologia e la rappresentazione della storia, ma
soprattutto la morale ne sono contrassegnate.” La lotta di Nietzsche contro il nichilismo e lo spirito
di vendetta dovrà dunque passare attraverso il rovesciamento della metafisica, la fine della storia in
quanto storia dell’uomo e la trasformazione della storia in quanto storia dell’uomo e la
trasformazione delle scienze. Scopo dichiarato della filosofia di Nietzsche è liberare il pensiero del
nichilismo nelle sue varie forme; questo implica un nuovo modo di pensare, un ribaltamento del
principio da cui deriva il pensiero, una correzione dello stesso principio genealogica, una
“trasmutazione”. Il “nuovo modo di pensare” è pensiero affermativo, pensiero che afferma la vita e,
in questa, la volontà e che, alla fine, ne espelle totalmente il negativo. Il gioioso messaggio di
Nietzsche vuole indurre a credere nell’innocenza del futuro e del passato, nell’eterno ritorno, a
postulare l’innocenza dell’esistenza e una volontà non più colpevole per il solo fatto di esistere:
“Volontà – è il nome di ciò che libera e procura la gioia”. Nietzsche sostiene che il tragico non è
mai stato compreso nel suo significato, attraverso la grande equazione tragico = gioioso, che in altri
termini suona: volere = creare. Non è mai stato capito che il tragico era positività pura e molteplice.

La pietra di paragone
Se vogliamo paragonare Nietzsche ad altri autori che si definirono o furono definiti “filosofi tragici”
(Pascal, Kierkegaard, Sestov), non dobbiamo limitarci alla parola tragedia ma dobbiamo invece
tenere in considerazione l’intento ultimo di Nietzsche. La parte di risentimento e cattiva coscienza
che continua a sussistere, se il suo modo di comprendere il tragico è affetto dal permanere dell’idea
ascetico, dello spirito di vendetta. Essi hanno bisogno di seguire il filo dell’interiorità servendosi di
tutte le sue risorse: angoscia, gemito, colpevolezza e altre forme di malcontento. Essi stessi del resto
si collocano sotto il segno del risentimento: Abramo e Giobbe. Manca loro il senso
dell’affermazione, il senso dell’esteriorità, l’innocenza, il gioco.

Se prendiamo in esame la scommessa di Pascal è possibile veder come essa in fondo non abbia
niente a che fare con il colpo di dadi; essa non afferma il caso, tutto il caso, ma al contrario, lo
frantuma in molteplici possibilità, lo trasforma in danaro, in “casi di guadagno o perdita”. La
scommessa di Pascal non riguarda in alcun modo l’esistenza o la non-esistenza di Dio. Essa è
invece antropologica, ossia si basa soltanto su due diversi modi di esistere nell’uomo: l’uomo che
dice che Dio esiste e l’uomo che dice che Dio non esiste. Ma pur non essendo messa in gioco dalla
scommessa, l’esistenza di Dio costituisce ugualmente la prospettiva che la scommessa presuppone,
il punto di vista in base a cui il caso si frantuma in opportunità di guadagno o perdita. Nietzsche ha
ragione di contrapporre il suo gioco alla scommessa di Pascal: “senza la fede cristiana, intendeva
Pascal di fronte a voi la natura, la storia e voi stessi diventeranno un monstre et un chaos. Questa
profezia è stata da noi adempiuta”. Il che, per Nietzsche, significa che abbiamo saputo scoprire un
altro gioco, un’altra maniera di giocare; abbiamo scoperto il sovrumano al di là dei due modi umani,
troppo umani, di esistere; abbiamo saputo affermare tutto il caso, evitando di frammentarlo e di
consentire che un frammento prendesse il sopravvento; abbiamo saputo trasformare il caos in
oggetto di affermazione, invece di porlo come un qualche cosa da negare. Il risentimento, la cattiva
coscienza, l’ideale ascetico, il nichilismo sono la pietra di paragone per ogni seguace di Nietzsche;
qui deve dimostrare se ha compreso o travisato il vero senso del tragico.

II. ATTIVO E REATTIVO


Il corpo
Nietzsche sente che è giunta l’ora di richiamare la coscienza alla necessaria modestia: “è la fase
della modestia della coscienza”. Il che significa prenderla per quello che è: un sintomo, nient’altro
che il sintomo di una trasformazione più profonda, dell’attività di forze che appartengono a un
ordine del tutto diverso da quello spirituale: “in tutta l’evoluzione dello spirito si tratta forse del
corpo”. Come Freud, Nietzsche pensa che la coscienza sia quella regione dell’io sulla quale si
esercita l’azione del mondo esterno. Un corpo è perciò sempre frutto del caso, nel senso
nietzscheano del termine; è la cosa più “meravigliosa”, molte più della coscienza e dello spirito. Ma
se il caso, in quanto rapporto tra forza e forza, è anche essenza della forza, non ha senso chiedersi
come nasca un corpo vivente. Essendo composto da un pluralità di forze irriducibili il corpo è un
fenomeno molteplice la cui unità si determina in base a un “dominio”; in esso, le forze superiori o
dominanti si definiscono come attive, mentre quelle inferiori o dominate come reattive.

La distinzione delle forze


Le forze inferiori obbediscono; ma non per questo cessano di essere forze e di distinguersi dalle
forze che comandano. L’obbedire è una qualità della forza in quanto tale ed è in rapporto con la
potenza tanto quanto il comandare: “la forza propria non va affatto perduta. “Comandare” e
“obbedire” sono forme complementari della lotta”. Le forze inferiori vengono definite reattive; esse
non perdono affatto la loro forza, la loro qualità di forza, anzi, la esercitano e ne garantiscono i
meccanismi e le finalità, le condizioni di vita e le funzioni, i fini di conservazione, di adattamento e
di utilità. E’ senz’altro più difficile caratterizzare le forze attive in quanto, per natura, esse sfuggono
alla coscienza: “la grande attività fondamentale è inconscia”. La coscienza esprime soltanto il
rapporto tra alcune forze reattive e le forze attive da cui sono dominate. La coscienza è
essenzialmente reattiva, di modo che non sappiamo che cosa può un corpo, di quale attività sia
capace. Quel che rende il corpo un qualche cosa di superiore, è l’attività necessariamente inconscia
delle forze: “tutto questo fenomeno “corpo” è, misurato dal punto di vista intellettuale, tanto
superiore alla nostra coscienza, al nostro “spirito”, al nostro consapevole pensare, sentire e volere,
quanto l’algebra alla tavola pitagorica”.

Quantità e qualità
Le forze hanno una quantità; hanno anche però la qualità corrispondente alla loro differenza di
quantità: attivo e reattivo sono le qualità delle forze. Possiamo intuire che misurare una forza
comporta un delicato problema perché mette in gioco l’arte delle interpretazioni qualitative.

1) Nietzsche ha sempre pensato le forze in termini di quantità e quindi definibili quantitativamente;


2) Nietzsche tuttavia riteneva anche che una determinazione puramente quantitativa delle forze
risultasse nel contempo astratta, incompleta e ambigua. L’arte di misurare le forze richiede una
interpretazione e una valutazione delle qualità.

La differenza di quantità costituisce l’essenza della forza, il rapporto tra una forza e l’altra. La
qualità non è altro che la differenza di quantità cui essa corrisponde in ogni forza che sia in rapporto
con un’altra. Ogni forza riceve la qualità che corrisponde alla sua quantità, ossia l’affezione che dà
effettiva compiutezza alla sua potenza. Nietzsche, in un testo alquanto oscuro, può così affermare
che l’universo presuppone una “nascita assoluta di qualità arbitrarie”; ma la nascita delle qualità
presuppone di per sé una nascita (relativa) delle quantità. Le due nascite sono dunque inseparabili.

Nietzsche e la scienza
Il problema riguardante i rapporti di Nietzsche con la scienza è stato mal posto. La posizione critica
di Nietzsche nei confronti della scienza ha un’origine che deve essere cercata in tutt’altra direzione,
quantunque anch’essa ci apra una prospettiva sull’eterno ritorno. E’ vero che Nietzsche non ha
molta competenza e simpatia per la scienza. Quando critica la scienza, Nietzsche non si appella mai
ai diritti della qualità contro la quantità, ma semmai ai diritti della differenza di quantità contro
l’uguaglianza, ai diritti dell’ineguaglianza contro la perequazione delle quantità e concepisce una
“scala numerica e quantitativa”, le cui suddivisione sono però multipli o frazioni le une delle altre.
La scienza, per vocazione, comprende i fenomeni in base alle forze reattive e li interpreta secondo
questa prospettiva. La fisica è reattiva tanto quanto lo è la biologia poiché le cose vengono
osservate dal versante secondario, dal versante delle reazioni. Il trionfo delle forze reattive serve da
strumento al pensiero nichilistico e funge da principio alle manifestazioni del nichilismo. L’idea
meccanicistica afferma l’eterno ritorno presupponendo che le differenze di quantità si compensino o
si annullino tra lo stato iniziale e quello finale di un sistema reversibile. Lo stato finale è identico
allo stato inziale, il quale è posto come indifferenziato in rapporto agli stati intermedi. L’idea
termodinamica nega l’eterno ritorno in quanto scopre che le differenze di quantità si annullano, in
funzione delle proprietà del calore, soltanto allo stato finale del sistema, di modo che l’identità,
posta allo stato finale indifferenziato, si contrappone alla differenziazione dello stato inziale. Le due
concezioni sono accomunate da una medesima ipotesi, secondo la quale vi sarebbe uno stato finale
o terminale del divenire e si ricongiungono nell’idea di un divenire che presenta uno stato finale, un
essere o un nulla, un essere o un non-essere egualmente indifferenziati. Secondo Nietzsche l’eterno
ritorno non è affatto un pensiero dell’identico ma, al contrario, un pensiero sintetico, un pensiero
dell’assolutamente differente che rivendica, al di fuori della scienza, un nuovo principio: il principio
della riproduzione del diverso come tale, il principio della ripetizione della differenza, l’esatto
opposto dell’ “adiaforia”.

Primo aspetto dell’eterno ritorno: come dottrina cosmologica e fisica


L’esposizione dell’eterno ritorno data da Nietzsche presuppone la critica dello stato terminale o di
equilibrio. Egli ritiene che se l’universo potesse avere una posizione di equilibrio, se il divenire
avesse uno scopo, o uno stato finale, questi sarebbero già stati raggiunti. L’infinità del tempo
passato, la quale significa semplicemente che il divenire non ha potuto incominciare a divenire, che
non è un qualche cosa di divenuto. Se il tempo passato è infinito, il divenire, qualora comportasse
uno stato finale, lo avrebbe già raggiunto. E in realtà non c’è nessuna differenza tra il sostenere che
il divenire, se avesse uno stato finale, lo avrebbe già raggiunto o che, se comportasse uno stato
iniziale, non ne sarebbe mai scaturito. Se tutto ciò che diviene, diceva Platone, non può mai evitare
il presente, nel momento in cui vi si ritrova cessa di divenire, ritrovandosi così ad essere ciò che
stava per divenire. Nietzsche sostiene che tale idea “era determinata da altri secondi fini, per lo più
teologi”, poiché, ostinandosi a chiedere in che modo il divenire abbia potuto incominciare e perché
non sia ancora finito, i filosofi antichi agivano come falsi tragici che si appellano alla hybris, al
delitto, al castigo. L’eterno ritorno è così la risposta al problema del passare; esso perciò non va
interpretato come ritorno di un qualcosa, di un uno o di un medesimo. Intendere l’espressione
“eterno ritorno” come ritorno del medesimo è un errore, perché il ritorno non appartiene all’essere
ma, al contrario, lo costituisce in quanto affermazione del divenire e di ciò che passa, così come non
appartiene all’uno ma lo costituisce in quanto affermazione del diverso o del molteplice. L’eterno
ritorno non dipende da un principio di identità ma da un principio che, per tutti questi aspetti, deve
soddisfare le esigenze di una vera ragione sufficiente. Se il meccanismo è una cattiva
interpretazione dell’eterno ritorno, ciò è dovuto al fatto che esso non implica necessariamente né
direttamente l’eterno ritorno, ma perviene soltanto alla falsa conseguenza di uno stato finale assunto
come identico allo stato iniziale; in definitiva, il processo meccanico ripercorre le medesime
differenze. Nasce così l’ipotesi ciclica, da Nietzsche tanto criticata, perché non spiega in che modo
questo processo abbia la possibilità di uscire dallo stato iniziale, di uscire di nuovo dallo stato finale
e di ripercorrere le medesime differenze, quando non può attraversare nemmeno una volta una
qualsiasi differenza. Di due cose l’ipotesi ciclica non riesce a dar conto:
- della diversità dei cicli coesistente;
- dell’esistenza del differente all’interno dello stesso ciclo.

Che cos’è la volontà di potenza?


“Il vittorioso concetto di “forza”, con cui i nostri fisici hanno creato Dio e il mondo, abbisogna
ancora di un completamento: gli si deve assegnare un mondo interno, che io chiamo volontà di
potenza”. La volontà di potenza è l’elemento genealogico della forza, differenziale e genetico al
tempo stesso. La volontà di potenza è l’elemento dal quale derivano sia la differenza di quantità di
forze che siano tra in rapporto, sia la qualità che, in questo rapporto, è propria di ciascuna forza. La
sintesi delle forze, della loro differenza e del loro riprodursi è l’eterno ritorno, di cui la volontà di
potenza costituisce il principio. Il termine “volontà” non dev’essere qui motivo di sorpresa: chi
infatti, se non la volontà, è in grado di fungere da principio a una sintesi di forze determinando il
rapporto tra forza e forza? Il problema semmai concerne il significato da attribuire al termine
“principio”, di cui Nietzsche disapprova l’eccessiva genericità e si compiace di contrapporre la
volontà di potenza al voler vivere schopenhaueriano se non altro per l’estrema genericità di
quest’ultimo. La forza può, mentre la volontà di potenza vuole. Il concetto di forza è per natura
vincente perché il rapporto tra forza e forza, implicito nel concetto, è un rapporto di dominio:
quando due forze sono in relazione, l’una domina e l’altra è dominata. Il concetto vincente di forza,
per esser tale, ha tuttavia bisogno di un complemento, un complemento a livello interno, un interno
volere; i rapporti rimangono infatti indeterminati fino a tanto che non si aggiungerà alla forza stessa
un elemento in grado di determinarli sotto un duplice aspetto. Le forze di un rapporto rinviano a una
genesi duplice e simultanea, alla genesi reciproca della differenza di quantità e alla genesi assoluta
della loro rispettiva qualità. La volontà di potenza, la cui natura è priva di caratteri antropomorfici,
viene così ad aggiungersi alla forza come elemento differenziale e genetico, come elemento interno
della sua produzione. Egli interpretò la sintesi delle forze come eterno riorno, ritrovò nel cuore di
essa la riproduzione del diverso e ne individuò il principio nella volontà di potenza quale elemento
differenziale e genetico delle forze presenti. Riservandoci di verificare meglio questa ipotesi più
avanti, crediamo che vi sia in Nietzsche non solo una componente di derivazione kantiana, ma
anche una rivalità per metà dichiarata e per metà latente, nei confronti di Kant. Sembra che
Nietzsche abbia tentato di trasformare radicalmente il kantismo, di reinventare la critica che Kant
aveva tradito nel momento stesso in cui veniva formulandola, di riprendere il progetto critico su
basi nuove e con nuovi concetti. E con l’ “eterno ritorno” e la “volontà di potenza” questa impresa
sembra essergli riuscita.

La terminologia di Nietzsche
Nietzsche utilizza termini nuovi e molto precisi per concetti altrettanto nuovi e precisi:

1) Nietzsche chiama volontà di potenza l’elemento genealogico della forza. Genealogico significa
differenziale e genetico. La volontà di potenza è l’elemento differenziale delle forze, ossia
l’elemento che produce la differenza di quantità tra due o più forze in rapporto tra loro. La volontà
di potenza è l’elemento genetico della forza. La volontà di potenza in quanto principio non
sopprime il caso, ma al contrario lo implica.

2) Dalla volontà di potenza come elemento genealogico derivano nel contempo la differenza di
quantità delle forze in rapporto e la loro rispettiva qualità. In base alla loro differenza di quantità, le
forze vengono chiamate dominanti o dominate; in base alla loro qualità, attive o reattive. C’è
volontà di potenza sia nella forza reattiva o dominata, che nella forza attiva o dominante.

3) Le qualità delle forze derivano in linea di principio dalla volontà di potenza, la quale costituisce
anche la risposta alla domanda “chi interpreta?”; la volontà di potenza interpreta. Ma per essere la
fonte delle qualità delle forze, anch’essa deve avere delle qualità, particolarmente fluide e ancora
più sottili rispetto a quelle della forza: “regna la qualità assolutamente istantanea della volontà di
potenza”. A livello più profondo, l’affermazione e la negazione risultano essere superiori all’azione
e alla reazione in quanto sono qualità immediate del divenire stesso: l’affermazione non è l’azione
ma la potenza di divenire attivo, il divenire attivo nella sua concretezza, mentre la negazione non è
la semplice reazione, ma un divenire attivo.

4) Per tutte queste ragioni Nietzsche può affermare che la volontà di potenza non solo è ciò che
interpreta ma è anche ciò che valuta. Interpretare significa determinare la forza che dà un senso alla
cosa, valutare significa determinare la volontà di potenza che le dà un valore.

La volontà di potenza è l’elemento genealogico da cui derivano il significato del senso e il valore
dei valori. Nietzsche usa i termini nobile, alto, padrone tanto per la forza attiva quanto per la
volontà affermativa; basso, vile, servo indicano invece la forza reattiva e la volontà negativa. Solo il
genealogista è in grado di scoprire che tipo di bassezza trova espressione in un tal valore o che tipo
di nobiltà si esprime in un tal altro, in quanto è l’unico in grado di usare l’elemento differenziale:
egli è il maestro della critica dei valori. Nel parlare di nobiltà dei valori in generale si rivela un
pensiero che ha troppo interesse a nascondere la propria bassezza, come se il senso e, appunto, il
valore di alcuni valori non consistesse interamente nel fungere da ricettacolo e manifestazione di
tutto ciò che è basso.

Origine e immagine rovesciata


All’origine troviamo la differenza tra forze attive e reattive. Azione e reazione non stanno in un
rapporto di successione, ma di coesistenza nell’origine medesima. Solo la forza attiva afferma se
stessa, afferma la propria differenza, ne fa oggetto di godimento e di affermazione, mentre la forza
reattiva, anche quando obbedisce, è già posseduta dallo spirito del negativo e limita la forza attiva
ponendole dei vincoli e delle restituzioni parziali. L’origine è accompagnata dalla propria immagine
a rovescio: quel che è “si” dal punto di vista delle forze attive diventa “no” dal punto di vista delle
forze reattive. La genealogica è un’arte nobile, un’arte della differenza o della distinzione che,
rispecchiandosi nelle forze reattive, si ritrova rovesciata nell’immagine di una “evoluzione”. Le
forze reattive hanno dunque la proprietà di negare sin dall’origine la differenza originale dal quale
derivano offrendone un’immagine deformata. Il basso si è sostituito all’alto, e forze reattive hanno
trionfato, e ciò in virtù della volontà negativa, della volontà del nulla che sviluppa l’immagine; il
loro trionfo però non è affatto immaginario. Il problema consiste nel sapere in che modo le forze
reattive trionfino, se cioè per avere la meglio sulle forze reattive esse debbano a loro volta diventare
dominanti, aggressive, egemoniche, se riescano a dar luogo, tutte insieme, a una forza più grande, a
una forza attiva. La risposta di Nietzsche è che le forze reattive, anche se si uniscono tra loro, non
sono in grado di formare una forza più grande, una forza attiva. Esse procedono in maniera del tutto
diversa, per scomposizione: separano la forza attiva da ciò che è in suo potere, le sottraggono, in
parte o in tutto, il potere; non diventano attive ma, per contro, fanno sì che la forza attiva si unisca a
esse e diventi reattiva modificando il proprio senso.

Problema della misura delle forze


L’interpretazione è un’arte tanto difficile soprattutto perché dobbiamo giudicare se le forze che
hanno il sopravvento sono inferiori o superiori, reattive o attive, se prevalgono come dominate o
come dominanti. Qui non ci sono fatti, bensì solo interpretazioni. La misurazione delle forze non va
affrontata alla stessa stregua di un procedimento di fisica astratta ma come l’atto fondamentale di
una fisica concreta; né come una tecnica indifferente, ma come l’arte di interpretare la differenza e
la qualità indipendente dallo stato di fatto. Il problema risolleva l’antica polemica di una celebre
discussione tra Callicle e Socrate. In questo caso, Nietzsche ci appare estremamente vicino alle
posizioni di Callicle che, a loro volta e proprio con Nietzsche, sembrano improvvisamente
raggiungere una maggior compiutezza. Callicle si sforza di distinguere la natura dalla legge; egli
definisce legge tutto quanto separa una sforza da ciò che è in suo potere; in questo senso, la legge
esprime il trionfo dei deboli sui forti e, per Nietzsche, della reazione sull’azione. E’ reattivo infatti
tutto quanto separa una forza, come anche lo stato di una forza che si trovi separata da ciò che è in
suo potere. Attiva, al contrario, è ogni forza che esplichi il proprio potere sino in fondo; e questo
non è certo il caso della legge, ma piuttosto del suo contrario. Socrate replica a Callicle osservando
che non c’è motivo di distinguere la natura dalla legge: se infatti prevalgono i deboli, ciò significa
che insieme essi costituiscono una forza più forte di quella del forte; quindi la legge trionfa anche
dal punto di vista della natura stessa. Callicle non si rammarica di non essere stato compreso e
ricomincia: lo schiavo, pur trionfando, non cessa di essere schiavo; i deboli trionfano non perché
formino una forza più grande ma perché separano la forza da ciò che è in suo potere. Socrate obietta
per una seconda volta: quello che per te conta, Callicle, è il piacere…Tu definisci tutto attraverso il
piacere… Si osservi quello che accade tra il sofista e il dialettico, da che parte sta la buona fede e il
rigore del ragionamento: Callicle è aggressivo ma privo di risentimento; preferisce rinunciare a
parlare, mentre è chiaro che Socrate la prima volta non comprende e la seconda parla d’altro. In che
modo spiegare a Socrate che il “desiderio” non è l’associazione di un piacere e di un dolore, dolore
quando losi prova e piacere quando lo si soddisfa? Come spiegarli che il piacere e il dolore sono
soltanto reazioni, proprietà delle forze reattive, conseguenze di un adattamento riuscito o mancato?
Socrate, troppo preso dal risentimento dialettico dello spirito di vendetta, in parte non ha capito, in
parte non è stato a sentire; proprio lui, così esigente nei confronti degli altri, così pignolo quando gli
si risponde.

La gerarchia
Il Socrate di Nietzsche è rappresentato dai liberi pensatori: “Che cosa c’è da recriminare”, dicono
questi, “come avrebbero fatto i deboli a trionfare senza formare una forza superiore?” E’ il
positivismo moderno, che pretende di condurre la critica dei valori e di rifiutare qualsiasi appello a
valori trascendenti dopo averli dichiarati decaduti solo per ritrovarli sotto forma di forze che
governano il mondo attuale. Al libero pensatore Nietzsche contrappone lo spirito libero, lo spirito
che interpreta, che giudica le forze dal punto di vista della loro origine e qualità: “i fatti non ci sono,
bensì solo le interpretazioni”. In Nietzsche il termine gerarchia assume due sensi:

1) differenza tra forze attive e reattive e superiorità delle prime sulle seconde; Nietzsche può così
parlare di una “gerarchia innata e inamovibile”, il cui problema coincide col problema degli spiriti
liberi;
2) il trionfo e il propagarsi delle forze reattive e la complessa situazione che ne deriva in cui i deboli
risultano vincitori mentre i forti rimangono contaminati, in cui lo schiavo, che non ha necessità di
essere tale, prevale su un signore che non è più signore: è il regno della legge e della virtù.

Nietzsche chiama debole o schiavo non chi è meno forte, ma chi, qualunque sia la sua forza, è
separato da ciò che è in suo potere. La misura e la qualificazione delle forze non dipendono allora
da una quantità assoluta ma dalla loro relativa realizzazione: chi riesca infatti, seppur dotato di forza
inferiore, a portare quest’ultima al suo limite estremo, risulterà forte alla pari di chi lo è già, poiché
la sua minor forza verrà compensata dall’astuzia, dall’accortezza, dalla spiritualità che essa contiene
e che le consente di sollevarsi dalla sua inferiorità.

Di conseguenza la forza reattiva è:


1) forza utilitaria di adattamento e parziale limitazione;
2) forza che nega, che separa la forza attiva da ciò che è in suo potere;
3) forza separata da ciò che è in suo potere, forza che si nega o che si volge contro se stessa.

La forza attiva:

1) forza plastica, dominante e soggiogatrice;


2) forza che si spinge all’estremo delle sue possibilità;
3) forza che afferma la propria differenza facendone oggetto di godimento e di affermazione.
Volontà di potenza e sentimento di potenza
La volontà di potenza si presenta sotto un duplice aspetto, il che, peraltro, non deve sorprendere:
- per quanto riguarda la genesi e la produzione delle forze essa ne determina il rapporto;
- ne è invece determinata per quanto riguarda il proprio manifestarsi.

Dunque la volontà di potenza, in primo luogo, si manifesta come il determinato poter essere affetto
della forza. Difficilmente si potrebbe disconoscere in tutto ciò una ispirazione spinoziana: sulla
base di una teoria estremamente profonda, Spinoza sosteneva che a ogni quantità di forza
corrisponde un potere di essere affetto; così un corpo ha tanta forza quanto più può essere affetto e
proprio questo potere darebbe la misura della forza o esprimerebbe la potenza di un corpo. Anche in
Nietzsche il potere di essere affetto non significa passività, ma affettività, sensibilità, sensazione.
Egli parlava già di un sentimento di potenza, prendendo in considerazione la potenza come
problema di sentimento e di sensibilità prima di esaminarla alla luce della volontà. E anche dopo
aver elaborato il concetto completo di volontà di potenza questa prima caratteristica non scomparve
affatto ma venne a indicare il manifestarsi della volontà di potenza. Ecco perché Nietzsche non si
stanza di affermare che la volontà di potenza è “la forma affettiva primitiva” da cui derivano tutti
gli altri sentimenti, o meglio ancora che “la volontà di potenza non è un essere, non un divenire, ma
un pathos”. Le affezioni di una forza sono attive nella misura in cui questa si appropria di ciò che le
resiste, nella misura in cui si fa obbedire da forze inferiori. Nietzsche fa riferimento ai fenomeni di
disgregazione dell’atomo, di scissione del protoplasma e di riproduzione del vivente, dove la
volontà di potenza non si esprime solo come disaggregazione, scissione o separazione, ma anche
come l’essere disaggregato, scisso, separato: “la dualità appare come conseguenza della volontà di
potenza”.

Il divenire-reattivo delle forze


In verità la dinamica delle forze ci conduce a una conclusione desolante: quando la forza reattiva
separa la forza attiva da ciò che è in suo potere quest’ultima diventa a sua volta reattiva. Le forze
attive divengono reattive. Il termine divenire deve essere inteso nel suo senso più forte: il divenire
delle forze si rivela divenire reattivo. Il divenire-reattivo della forza, il divenire nichilistico, sembra
così essere l’implicazione essenziale del rapporto tra forza e forza. Ma non c’è un altro divenire?
Forse tutto ci spinge a “pensarlo”. Ci vorrebbe però un’altra sensibilità, un altro modo di sentire
come di frequente afferma Nietzsche. Non possiamo ancora rispondere a questa domanda, che a
mala pena siamo in grado di formulare; possiamo però chiederci perché sentiamo e conosciamo
soltanto un divenire-reattivo: forse perché l’uomo è essenzialmente reattivo? Il risentimento, la
cattiva coscienza, il nichilismo non sono tratti psicologici ma costituiscono piuttosto il fondamento
dell’umanità nell’uomo, il principio dell’essere umano in quanto tale; l’uomo, è una “malattia della
pelle” una reazione della terra. La condizione dell’uomo riveste importanza capitale per l’eterno
ritorno in quanto sembra comprometterlo o contaminarlo in maniera così grave da renderlo motivo
di angoscia, di repulsione e di disgusto. Eterno ritorno delle forze reattive. L’eterno ritorno
dell’uomo piccolo, meschino, reattivo, non solo rende il pensiero dell’eterno ritorno insopportabile,
ma ne fa un qualche cosa di impossibile, introducendovi la contraddizione. Il serpente è un animale
dell’eterno ritorno; ma quando l’eterno ritorno riguarda le forze reattive, allora il serpente si srotola,
diventa un “greve serpente nero” che penzola dalla bocca che si preparava a parlare. In che altro
modo del resto l’eterno ritorno, essere del divenire, potrebbe manifestare un divenire nichilistico?
Per affermare l’eterno ritorno bisogna mozzare e schiacciare la testa del serpente.

Ambivalenza del senso e dei valori


Un divenire diverso da quello che conosciamo, un divenire-attivo delle forze, un divenire-reattivo
delle forze reattive. La bassezza, l’infamia, la stoltezza, ecc. non diventano forze attive nel
momento in cui giungono al limite estremo della loro possibilità? “Severa e grandiosa stoltezza…”
scriverà Nietzsche. Questa ipotesi richiama l’obiezione socratica; di fatto, però, se ne distingue, in
quanto, mentre le forze inferiori trionfavano, secondo Socrate, componendosi in una forza più
grossa, ora le forze reattive trionferebbero per il fatto di portare all’estremo i propri effetti
trasformandosi così in forza attiva. E’ possibile qui riconoscere un’ambivalenza molto cara a
Nietzsche il quale ammette il fascino delle forze reattive, definendole sublimi per la prospettiva che
ci aprono e per l’inquietante volontà di potenza di cui sono testimonianza. Il divenire-reattivo delle
forze ha un che di prodigioso e pericoloso. Questo duplice aspetto è presente non solo nell’uomo
malato, ma anche nell’uomo religioso, per un verso reattivo, per altro verso dotato di una potenza
nuova. “La storia umana sarebbe una cosa veramente troppo stupida senza lo spirito che da parte
degli impotenti è venuto in essa”. In realtà le forze reattive non sono identiche e presentano
sfumature diverse a seconda del grado di affinità che sviluppavano in rapporto alla volontà del
nulla. Vi sono forze reattive che, guidate dalla volontà del nulla, diventano grandioso e affascinanti;
vi sono per contro forze attive che non approdano a niente perché non riescono a tener dietro alle
potenze di affermazione. La valutazione infine presenta delle ambivalenze ancor più profonde
rispetto all’interpretazione.

Secondo aspetto dell’eterno ritorno: come pensiero etico e selettivo


Dato che non abbiamo mai provato né conosciuto un divenire-attivo, possiamo concepirlo soltanto
come prodotto di una selezione, duplice e simultanea, dell’attività nella forza e dell’affermazione
nella volontà. Dobbiamo limitarci a elencare una serie di temi nietscheani:
1) perché l’eterno ritorno è definito “forma estrema del nichilismo?”
Inoltre, per quanto diffuso e potente possa essere, il nichilismo separato o astratto dall’eterno ritorno
resta sempre di per sé un “nichilismo incompleto”; solo l’eterno ritorno dà compiutezza e integrità
ala volontà nichilistica.
2) abbiamo sinora preso in considerazione la volontà del nulla alla luce della sua alleanza con le
forze reattive, nella quale avevano individuato come l’essenza di tale volontà consistesse nel negare
la forza attiva conducendola a sua volta a negarsi e a volgersi contro di sé. Al tempo stesso la
volontà del nulla costituiva però il presupposto per la conservazione, il trionfo e il propagarsi delle
forze reattive, ossia il divenire-reattivo universale, il divenire reattivo delle forze. Svalutazione e
negazione della vita costituiscono così il principio che garantisce la conversazione, la
sopravvivenza, il trionfo e il propagarsi della vita reattiva.
3) soltanto nel momento in cui la volontà del nulla viene messa in rapporto con l’eterno ritorno essa
rompe l’alleanza con le forze reattive. Solo l’eterno ritorno dà completezza al nichilismo applicando
la negazione delle stesse forze reattive.
4) la distruzione di sé, l’autodistruzione, non va confusa con il volgersi contro di sé, che è quel
processo di reazione per cui la forza attiva diventa reattiva. L’autodistruzione è invece considerata
un’operazione attiva, una “distruzione attiva” perché con essa le forze reattive sono negate e
condotte al nulla.
5) la seconda selezione consiste dunque nel fatto che l’eterno ritorno produce il divenire-attivo.
Basta mettere la volontà di potenza in rapporto con l’eterno ritorno per accorgersi che le forze
reattive non ritorneranno, come non ritornerà l’uomo piccolo, meschino, reattivo. Con e attraverso
l’eterno ritorno la negazione, in quanto qualità della volontà di potenza, si trasmuta in affermazione,
diventa affermazione della negazione stessa, diventa potenza di affermare, potenza affermativa.
“L’autosuperamento del nichilismo”.

Il problema dell’eterno ritorno


Nella terminologia di Nietzsche rovesciamento dei valori significa attivo al posto di reattivo, mentre
trasmutazione dei valori o trasvalutazione significa affermazione in luogo di negazione, anzi,
negazione trasformata in potenza di affermazione, suprema metamorfosi dionisiaca. Tutti questi
elementi costituiscono il punto più alto della dottrina dell’eterno ritorno. L’eterno ritorno è l’essere
del divenire, ma il divenire è duplice: divenire-attivo e divenire-reattivo, divenire-attivo delle forze
reattive e divenire-reattivo delle forze attive. Solo il divenire-attivo ha però un essere; sarebbe un
controsenso che l’essere del divenire scaturisca da un divenire-reattivo, ossia da un divenire di per
sé nichilistico. L’eterno ritorno sarebbe una contraddizione. L’eterno ritorno ha quindi un duplice
aspetto: essere universale del divenire che però può esprimere un solo divenire, quello attivo, il cui
essere è essere del divenire nella sua totalità. L’eterno ritorno è l’essere universale del divenire; il
divenire-attivo è sintomo e prodotto dell’eterno ritorno universale: queste due affermazioni hanno
sfumature e profondità diverse.

III. LA CRITICA
Trasformazione delle scienze dell’uomo
L’ignoranza dell’azione e di tutto ciò che è attivo raggiunge livelli altissimi nelle scienze dell’uomo
dove, ad esempio, l’azione viene giudicata in basa alla sua utilità; ma sarebbe troppo sbrigativo
sostenere che l’utilitarismo è oggi una dottrina superata. Nietzsche si chiede a che cosa rimandi il
concetto di utilità: a chi è utile o nociva un’azione? Chi considera l’azione dal punto di vista della
sua utilità o dannosità, dal punto di vista dei suoi motivi e delle sue conseguenze? Non certo colui
che agisce, il quale non “considera” l’azione, ma il terzo, che subisce e osserva. Questi, proprio
perché non la compie, considera l’azione di altri come qualcosa da valutare dal punto di vista del
vantaggio che se ne ricava o che se ne può ricavare.

Un altro esempio è rappresentato dalla linguistica. La linguistica attiva cerca di scoprire chi parla,
chi nomina, chi si serve di quella determinata parola e soprattutto se la riferisce a se stesso o a un
altro, a un’altra cosa, con quale intenzione e che cosa vuole pronunciandola. Nietzsche ne offrirà
una brillante applicazione nella “Genealogia della morale”, ricercando l’etimologia della parola
“buono” nel suo senso e nelle sue trasformazioni e dimostrando che la parola “buono” fosse
dapprima creata dai signori, che la riferivano a se stessi, e come poi se ne impadronissero gli schiavi
che, dopo averla tolta dalla bocca dei signori, la usarono per definirli “malvagi”. Solo una scienza
attiva è in grado di individuare le forze attive e di riconoscere le forze reattive per quel che sono e di
interpretare le reali attività e i reali rapporti tra le forze. Essa si presenta pertanto sotto tre forme:

- SINTOMATOLOGIA: in quanto interpreta i fenomeni considerandoli sintomi il cui senso va


rintracciato nelle forze che li producono;
- TIPOLOGIA: in quanto interpreta le forze dal punto di vista della loro qualità, attiva o reattiva;
- GENEALOGIA: in quanto valuta l’origine delle forze dal punto di vista della loro nobiltà o
bassezza, individuandone l’ascendenza nella volontà di potenza e nella sua qualità.

Il filosofo, come tale, è sintomatologo, tipologista, genealogista; si può qui riconoscere la trinità
nietzscheana del “filosofo dell’avvenire”.

La formazione della domanda di Nietzsche


Egli mette Socrate a confronto con vari interlocutori i quali sembrano tutti accomunati dal fatto che
rispondere alla domanda facendo riferimento a ciò che è giusto, a ciò che è bello: una fanciulla, una
cavalla, una pentola…E’ il trionfo di Socrate: non si risponde alla domanda “che cos’è il bello?”
indicando ciò che è bello. Da qui la distinzione, cara a Platone, tra cose che sono belle
accidentalmente e secondo il divenire e che possono servire solo da esempio, e il Bello che è tale
per necessità, il bello secondo l’essere e per essenza. L’opposizione platonica di essenza e
apparenza, deriva quindi anzitutto da un modo di domandare, dalla formulazione della domanda.
Talvolta nei dialoghi sbuca un raggio di luce, peraltro ben presto smorzato, che ci rivela per un
attimo quale fosse l’idea dei sofisti. Il sofista Ippia non era un fanciullo che si limitava a rispondere
“chi” quando gli veniva chiesto “che cosa”; semplicemente egli pensava che la domanda chi? Fosse
la migliore, la più adatta a determinare l’essenza, in quanto non faceva riferimento, come invece
credeva Socrate, a degli esempi frammentari, bensì alla continuità degli oggetti concreti considerati
nel loro divenire, al divenire-bello di tutti gli oggetti menzionabili o di cui si poteva dare esempio.
Chiedere che cos’è il bello non è altro in realtà che cercare il punto di vista per cui le cose appaiono
in quanto belle, oppure quel punto di vista per cui ciò non è bello potrebbe diventarlo; e ancora, data
una cosa, quali sono le forze che, appropriandosene, la rendono o le renderebbero bella e quali altre
vi si sottomettono o, al contrario, vi resistono. Dioniso è il dio delle metamorfosi, l’uno del
molteplice si afferma. “Chi dunque?” Sempre lui: il tempo di nascondersi, di assumere un’altra
forma e di cambiare forza, silenzioso come il seduttore. Nell’opera di Nietzsche, la bellissima
poesia “Lamento di Arianna” esprime il rapporto fondamentale tra un modo di interrogare e il
personaggio divino presente in tutte le domande, il rapporto tra la domanda pluralistica e
l’affermazione dionisiaca o tragica.

Il metodo di Nietzsche
Il volere non è un atto come gli altri, ma la dimensione, genetica e critica al tempo stesso, di ogni
nostra azione, sentimento e pensiero. Il metodo consiste nel riferire un concetto alla volontà di
potenza per ridurlo a sintomo di una volontà, senza la quale non si potrebbe nemmeno pensarlo e
poiché tale metodo corrisponde alla domanda tragica, è metodo tragico o, più esattamente è metodo
di drammatizzazione: “che vuoi?” chiede Arianna a Dioniso. Il contenuto latente di una cosa
corrisponde a ciò che una volontà vuole. La volontà non vuole un oggetto, un obiettivo, un fine. I
fini, gli oggetti, come anche i motivi, sono sempre sintomi. Una volontà segue la propria qualità, ne
afferma la differenza o nega ciò che ne differisce. Una volontà vuole sempre la propria qualità e la
qualità delle forze corrispondenti, come afferma Nietzsche a riguardo dell’anima nobile,
affermatrice, leggera: “una certa sicurezza di base che un’anima nobile a riguardo a se stessa,
qualcosa che non si può cercare né trovare e forze neppure perdere”. Una volontà non vuole un
oggetto ma un tipo, il tipo di colui che parla, di colui ce pensa, che agisce o che non agisce, che
reagisce, ecc. L’unico modo per definire un tipo consiste nel determinare che cosa vuole la volontà
che si esprime in un esemplare appartenente a questo tipo: che cosa vuole chi cerca la verità? Solo
così potremo sapere chi cerca la verità. La drammatizzazione si rivela allora l’unico metodo
adeguato al progetto di Nietzsche e alla forma delle domande che egli pone: metodo differenziale,
tipologico e genealogico. Ci basta però considerare quale sia il tipo dell’uomo stesso: se è vero che
il trionfo delle forze reattive è costitutivo dell’uomo, il metodo di drammatizzazione si protende
completamente verso la scoperta di tipi diversi che esprimono altri rapporti di forze, verso la
scoperta di un’altra qualità della volontà di potenza in grado di trasformare le sfumature troppo
umane. Nietzsche parla di umano e sovraumano. Anch’essi sono metamorfosi di Dioniso, sintomi di
una volontà che vuole qualcosa; esprimono un tipo, un tipo di forze sconosciuto all’uomo. Il
metodo di drammatizzazione si spinge sempre al di là dell’uomo.

Contro i suoi predecessori


Cosa vuol dire “volontà di potenza”? Soprattutto non vuol dire che la volontà voglia, desideri o
cerchi la potenza come fine, né che la potenza sia l’elemento da cui la volontà muove. Nietzsche
ritiene che, malgrado le apparenze, la volontà di potenza sia un concetto del tutto nuovo, creato e
introdotto nella filosofia da lui stesso. Non mancano tuttavia autori che, prima di Nietzsche, abbiano
parlato di una volontà o di un qualche cosa di analogo; e c’è pure chi, dopo Nietzsche, ne riparlerà.
Questi ultimi però non sono discepoli di Nietzsche più di quanto quelli fossero suoi maestri. Si
riparlerà di volontà di potenza sempre nel senso che Nietzsche formalmente critica e rifiuta, ossia
come se la potenza fosse il fine ultimo della volontà e il suo motivo essenziale, come se la potenza
fosse ciò che la volontà vuole.

1) La potenza viene interpretata come oggetto di una rappresentazione. Nell’espressione “la volontà
vuole la potenza o desidera il dominio”, il rapporto tra rappresentazione e potenza è così stretto che
ogni potenza è rappresentazione e ogni rappresentazione è rappresentazione della potenza. Lo scopo
della volontà è insieme oggetto della rappresentazione e viceversa:
- in Hobbes l’uomo allo stato di natura vuole che la propria superiorità venga rappresentata e
riconosciuta da un altri;
- in Hegel la coscienza vuole essere riconosciuta da un altro e rappresentata come coscienza di sé;
- in Adler la rappresentazione di una superiorità compensa all’occorrenza un’inferiorità organica.
In tutti questi casi la potenza è sempre oggetto di una rappresentazione, di un riconoscimento.

Quel che a noi si presenta come potenza è soltanto la rappresentazione della potenza a opera dello
schiavo, quel che a noi si presenta come signore è l’idea che se ne è fatto lo schiavo, l’idea che lo
sciavo si è fatto di sé immaginandosi al posto del signore, è lo schiavo nel momento del suo
effettivo trionfo: “questo bisogno verso la nobiltà è radicalmente diverso dai bisogni della stessa
anima nobile, ed è addirittura l’eloquente e pericoloso segno distintivo della sua mancanza”.
2) In cosa consiste questo primo errore della filosofia della volontà? Se si considera la potenza
come oggetto di rappresentazione, essa dovrà necessariamente dipendere dal fattore secondo cui
una cosa iene rappresentata, riconosciuta, o meno. Ora, solo i valori comuni e condivisi offrono
criteri per questo riconoscimento. Intesa come volontà di farsi attribuire i valori comuni di una
determinata società. Ma anche qui, chi concepisce la potenza come acquisizione di valori
attribuibili? “L’uomo comune era soltanto quel che era considerato”. Rousseau rimproverava a
Hobbes di aver delineato un ritratto dell’uomo allo stato di natura che presupponeva già la società.
In uno spirito assai diverso ritroviamo in Nietzsche un analogo rimprovero: l’intera concezione
della volontà di potenza, da Hobbes a Hegel, presuppone l’esistenza di valori consolidati che le
volontà cercano soltanto di farsi attribuire.

3) Dobbiamo ancora chiederci come vengono attribuiti i valori. Ciò avviene attraverso l’esito di uno
scontro, di una lotta, qualunque sia la sua forma, segreta o esplicita, leale o subdola. Da Hobbes a
Hegel la volontà di potenza è impegnata in uno scontro proprio perché quest’ultimo determina chi
trarrà vantaggio dai valori comuni. La lotta non è mai espressione attiva delle forze o
manifestazione di una volontà di potenza che afferma, e il suo risultato non esprime affatto il trionfo
del signore o del forte. Al contrario, la lotta è il mezzo con cui i deboli, in quanto più numerosi,
riescono a prevalere sui forti. E’ il motivo per cui Nietzsche si oppone a Darwin, il quale ha confuso
lotta e selezione e non ha visto che la lotta dava un risultato contrario a quello che lui credeva, cioè
una selezione dei soli deboli, cui assicurava il trionfo.

Contro il pessimismo e contro Schopenhauer


La scoperta dell’essenza della volontà provoca sempre tristezza e sconforto. Tutti coloro che
scoprono l’essenza della volontà in una volontà di potenza o in un qualcosa di analogo non la
finiscono mai di rammaricarsi delle loro scoperta, quasi dovessero risolversi a sfuggirla o a
scongiurarne gli effetti, come se l’essenza della volontà ci mettesse in una situazione invivibile,
insostenibile e ingannevole. Tutti introducono la contraddizione nella volontà mettendo così in
contraddizione la volontà. La potenza, quando viene rappresentata, non è che apparenza, mentre
l’essenza della volontà non può porsi in ciò che essa vuole senza perdersi nell’apparenza. I filosofi
impongono alla volontà una limitazione, razione o contrattuale, in virtù della quale soltanto la
contraddizione potrà essere risolta e resa tollerabile. La volontà diventa l’essenza in generale e in
sé, di modo che ciò che essa vuole si trasforma in rappresentazione, in generica apparenza e la sua
contraddizione diventa contraddizione originaria: in quanto essenza, la volontà vuole un’apparenza
in cui riflettersi. Interpretando la volontà come essenza del mondo Schopenhauer continua a
concepire quest’ultimo come illusione, apparenza, rappresentazione. Schopenhauer è stato recepito,
ad esempio da Wagner.

Principi per la filosofia della volontà


Secondo Nietzsche, la filosofia della volontà deve sostituire la vecchia metafisica dopo averla
distrutta e oltrepassata. Egli ritiene di aver creato la prima filosofia della volontà, mentre tutte le
altre non erano che le ultime trasformazioni della metafisica. La filosofia della volontà, così come
viene concepita da Nietzsche, si basa su due principi che ne costituiscono il lieto annuncio: volere =
creare, volontà = gioia. Questi principi, che possono sembrare vaghi e indeterminati, assumono un
significato estremamente preciso solo se si comprende il loro aspetto critico, ossia il loro
contrapporsi alle precedenti concezioni della volontà. La volontà di potenza è stata concepita come
se la potenza fosse ciò che la volontà vuole. Contro il dolore della volontà Nietzsche annuncia che
la volontà è gioiosa; contro l’immagine di una volontà che sogna di farsi attribuire valori comuni
Nietzsche annuncia che volere è creare nuovi valori. Volontà di potenza non significa che la volontà
voglia di potenza e non implica alcun antropomorfismo per quanto riguarda la sua origine, il suo
significato e la sua assenza. La potenza è ciò che nella volontà vuole, è l’elemento genetico e
differenziale all’interno della volontà. La volontà di potenza vuole quel determinato rapporto o
quella determinata qualità di forze, nonché la qualità di potenza che può consistere nell’affermare o
nel sapere. Ogni fenomeno esprime rapporti di forze. La volontà di potenza non aspira, non cerca,
non desidera, e soprattutto non desidera la potenza; in tal modo essa è essenzialmente creatrice e
donatrice. Essa dà: nella volontà la potenza p qualcosa di inesprimibile è “la virtù che dona”; la
volontà stessa è, grazie alla potenza, donatrice di senso e di valore. La volontà di potenza è plastica
e non estrapolabile da ogni singolo caso in cui si determina; come l’eterno ritorno è l’essere, ma
l’essere che si afferma dal divenire, così la volontà di potenza è l’uno, ma l’uno che si afferma dal
molteplice. Il monismo della volontà di potenza è inseparabile da una tipologia pluralistica. Il tipo
attivo non designa soltanto forze attive, ma designa un insieme gerarchicamente strutturato nel
quale le forze attive prevalgono sulle forze reattive a loro volta agite. Il tipo, in tal senso, implica la
qualità di potenza in virtù della quale alcune forze prevalgono su altre. Alto e nobile denotano in
Nietzsche la superiorità delle forze attive, la loro affinità con l’affermazione, il loro tendere in alto,
la loro leggerezza. Basso e vile denotano il trionfo delle forze reattive, la loro affinità col negativo,
la loro pesantezza e grevità. Vi sono cose che non possono esistere che in virtù delle forze reattive e
della loro vittoria. Tutto questo allora impedisce di separare la tipologia delle forze e la dottrina
della volontà di potenza da una critica in grado di determinare la genealogia dei valori, la loro
nobiltà o la loro bassezza. La critica è distruzione divenuta gioia, è aggressività di chi crea. Il
creatore di valori non si distingue dal distruttore, dal criminale e dal critico: critico dei valori
stabiliti, critico dei valori reattivi, critico della bassezza.

Piano della “Genealogia della morale”


La Genealogia della morale è il libro più sistematico di Nietzsche. Duplice interesse: per un verso
non si presenta né come un insieme di aforismi né come un poema, bensì come una chiave per
interpretare gli aforismi e per valutare il poema. Per altro verso, analizza dettagliatamente il tipo
reattivo, il modo e il principio in virtù dei quali le forze reattive trionfano.

I dissertazione  tratta del risentimento


II dissertazione  tratta della cattiva coscienza
III dissertazione  tratta dell’ideale ascetico, che sono le figure del trionfo delle forze reattive e
anche le forme del nichilismo.
I due aspetti della Genealogia della morale costituiscono pertanto la critica. Resta però da analizzare
che cosa sia la critica e in che senso la filosofia sia una critica. Sappiamo che le forze reattive
trionfano con l’aiuto di una finzione. La loro vittoria si fonda sempre sul negativo come qualcosa di
immaginario: separano la forza attiva da ciò che è in suo potere; questa allora diventa realmente
reattiva, ma per effetto di una mistificazione.

1) Già dalla prima dissertazione Nietzsche presenta il risentimento come una “vendetta
immaginaria”, “un atto improntato alla più spirituale vendetta”.

2) La seconda dissertazione sottolinea come la cattiva coscienza non possa a sua volta essere
distinta da “ideali e fantastici eventi”. La cattiva coscienza è per natura antinomica ed esprime una
forza che si rivolta contro se stessa; in tal senso sta all’origine di ciò che Nietzsche chiamerà
“mondo alla rovescia”.

3) L’ideale ascetico rinvia infine alla mistificazione più profonda, quella dell’Ideale che comprende
tutti gli altri ideali, tutte le finzioni della morale e della conoscenza. Elegantia syllogismi, dice
Nietzsche. Si tratta, stavolta, di una volontà che vuole il nulla, “e tuttavia è e resta una volontà”. Per
concepire e realizzare la vera critica, Nietzsche fa affidamento esclusivamente sulle proprie forze: è
un progetto di grande importanza per la storia della filosofia, in quanto non solo si scontra con il
kantismo, suo diretto antagonista, ma anche con gli epigoni kantiani, cui si oppone con violenza.
Nessuno dice chi è l’uomo o cos’è lo spirito, in cui sembrano celarsi delle forze pronte a
riconciliarsi con qualsiasi potenza, Chiesa o Stato. Quando il piccolo uomo si riappropria delle
piccole cose, quando l’uomo reattivo si riappropria delle determinazioni reattive, è forse possibile
credere che la critica abbia fatto dei grandi progressi e che abbia per ciò stesso messo alla prova la
sua attività? Trasformando queste forze in un qualcosa che “ci appartiene” ancora di più, essa
ottiene il risultato opposto. Alla fin fine Nietzsche sta a Kant come Marx sta a Hegel: egli vuole
rimettere la critica sui suoi piedi, come Marx nei confronti della dialettica.

Nietzsche e Kant dal punto di vista dei principi


Kant è stato il primo filosofo a capire che la critica, per essere tale, deve essere totale e positiva:
totale perché “nulla deve sfuggirle”; positiva, affermativa perché, limitando la potenzialità del
conoscere, libera altre potenzialità sino a ora trascurate. Kant non dichiara forse, e sin dalle prime
pagine, che la Critica della ragion pratica non è una vera e propria critica? L’impressione è che egli
abbia confuso la positività della critica con un umile riconoscimento dei diritti di ciò che viene
criticato; mai si è vista una critica totale più conciliante e rispettosa. Kant non ha fatto altro che
portare fino in fondo una concezione della critica molto vecchia. Egli ha inteso la critica come una
forza che doveva prendere di mira tutte le pretese di conoscenza e verità, una forza che doveva
prender di mira le pretese della moralità. La critica di Kant ha come suo unico obiettivo quello di
giustificare, incominciando proprio col credere in ciò che critica. E’ l’annuncio della grande
politica? Nietzsche constata che non si è ancora avuta una “grande politica”. La critica non è e non
dice niente fin tanto che si limita a dire che la vera morale non si cura della morale e non realizza
niente fino a che non prende di mira la verità stessa, la vera conoscenza, la vera morale, la vera
religione. Ogni qual volta Nietzsche mette sotto accusa la virtù non si riferisce alle false virtù, né a
coloro i quali se ne servono per mascherarsi, ma si rivolge alla virtù in stessa, ossia alla meschinità
della vera virtù, all’incredibile mediocrità della vera morale, alla bassezza dei suoi valori autentici.
Finché ci limiteremo a criticare la falsa morale o la falsa religione non saremo altro che critici
mediocri, l’opposizione di sua maestà, tristi apologisti, dei giudici di pace che criticano le ingiuste
pretese e gli sconfinamenti del territorio, senza mettere in discussione la sacra legittimità dei
territori stessi. Per questo Nietzsche ritiene di aver trovato nel suo “prospettivismo” l’unico
principio possibile di una critica totale che non si limiti soltanto all’ambito della conoscenza. Non ci
sono fenomeni morali, ma c’è solo un’interpretazione morale di questi fenomeni; non ci sono
conoscenza illusorie, ma la conoscenza stessa è illusione, errore e, peggio ancora, falsificazione.
Nietzsche è debitore di quest’ultima proposizione a Schopenhauer, il quale interpretava il kantismo
trasformandolo radicalmente e in senso opposto a quello dei dialettici.

Realizzazione della critica


Il colpo di genio di Kant fu di aver concepito, nella “Critica della ragion pura”, una critica
immanente della ragione che non si basasse né sul sentimento, né sull’esperienza o su qualsivoglia
istanza esterna; una critica delle illusioni provenienti dalla ragione stessa e non gli errori derivati
dall’esterno, dal corpo, dai sensi o dalle passioni. Kant non possedeva un metodo che consentisse di
giudicare la ragione dall’interno senza affidarle il compito di essere giudice di se stessa; di fatto
quindi Kant non realizza il progetto della critica immanente, in quanto la filosofia trascendentale
scopre condizioni che restano ancora esterne al condizionato, mentre i principi trascendentali
riguardano il condizionamento e non la genesi interna; noi invece ricerchiamo una genesi della
ragione, una genesi dell’intelletto e delle sue categorie: quali sono le forze della ragione e
dell’intelletto? Con la volontà di potenza e il metodo che ne deriva Nietzsche dispone del principio
di una genesi interna. I principi non sono mai principi trascendentali, i quali vengono appunto
sostituiti dalla genealogia. Soltanto la volontà di potenza, in quanto principio genetico, genealogico
e legislatore, è in grado di realizzare la critica dall’interno e di rendere possibile una trasmutazione.
Il filosofo-legislatore di Nietzsche si presenta come filosofo dell’avvenire; e legislazione significa
creazione di valori: “i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano”. Filosofo-legislatore
non significa che il filosofo debba aggiungere alle proprie attività quella di legislatore per il fatto
che sarebbe il più idoneo a farlo, come se il suo rispetto per la saggezza lo abilitasse a scoprire le
migliori leggi possibili con gli uomini, a loro volta, dovrebbero sottomettersi; significa piuttosto il
contrario, e cioè che il filosofo in quanto filosofo non è un saggio, si rifiuta di rispettare la vecchia
saggezza e la sostituisce con il comando, infrange i vecchi valori e ne crea di nuovi. L’idea di una
filosofia legislatrice in quanto filosofia è quanto dà compiutezza all’idea di una critica interna in
quanto critica: due idee che costituiscono il principale contributo del kantismo, il suo contributo
liberatorio. Per Kant il legiferare è sempre ricondotto a una delle nostre facoltà: l’intelletto, la
ragione. Noi stessi siamo legislatori nella misura in cui facciamo attenzione all’uso corretto di una
facoltà e affidiamo alle altre un compito anch’esso conforme a questo buon uso. Siamo legislatori
nella misura in cui obbediamo a una delle nostre facoltà come si trattasse di noi stessi. Il sogno di
Kant non è sopprimere la distinzione tra mondo sensibile e sovrasensibile, ma assicurare, all’interno
dei due mondi, l’unità del personale, di modo che la stessa persona sia tanto legislatore quanto
suddito, soggetto e oggetto, noumeno e fenomeno, prete e fedele. Questa economia è un successo
teologico, “il successo di Kant non è altro che un successo teologico”.

Nietzsche e Kant dal punto di vista delle conseguenze


La contrapposizione tra la concezione nietzscheana e la concezione kantiana dalla critica si articola
intorno a cinque punti:

1) Non principi trascendentali, che sono semplici condizioni di ipotetici fatti, ma principi genetici e
plastici che rendano contro del senso e del valore delle fedi, delle interpretazioni e delle valutazioni;
2) Non un pensiero che si reputi legislatore per il fatto di obbedire soltanto alla ragione, ma un
pensiero che pensi contro la ragione: “in ogni cosa soltanto questo è possibile: razionalità!”
3) Non il legislatore kantiano ma il genealogista. Il legislatore di Kant è un giudice di tribunale, un
giudice di pace che controlla nel contempo la distribuzione dei vari ambiti controllo nel contempo
la distribuzione dei vari ambiti e la spartizione dei valori stabiliti. All’ispirazione giudiziaria si
contrappone quella genealogica: vero legislatore è il genealogista, filosofo dell’avvenire e un po'
indovino, che ci promette non una pace critica a guerre come non ne abbiamo mai conosciute;
4) Non l’essere razionale, funzionario dei valori comuni, al tempo stesso prete e fedele, legislatore e
suddito, schiavo vincitore e schiavo vinto, uomo reattivo al servizio di se stesso; ma chi allora
esercita la critica e da quale punto di vista? L’istanza critica non coincide con l’uomo reale, né con
alcuna sua forma sublimata, come lo spirito, la ragion o la coscienza di sé; e se non coincide con
l’uomo non coincide nemmeno con Dio perché tra l’uomo e Dio non c’è ancora abbastanza
differenza e possono troppo facilmente prendere il posto l’uomo dell’altro;
5) Il fine della critica: non i fini dell’uomo o della ragione, ma il superuomo, l’uomo superato,
oltrepassato. La critica non consiste nel giustificare ma nel sentire altrimenti, in un’altra sensibilità.
Il concetto di verità
Kant è l’ultimo dei filosofi classici perché non pone mai in questione il valore della verità, né le
ragioni della nostra sottomissione al vero. L’uomo, in realtà, cerca di rado la verità: i nostri
interessi, ma anche la nostra stupidità, ci separano dal vero più ancora di quanto ce ne separino i
nostri errori. Nietzsche affronta questo problema sul suo stesso terreno, senza perciò mettere in
dubbio la volontà di verità o ribadire una volta di più che, di fatto, gli uomini non amano la verità,
ma chiedendosi che cosa significhi la verità come concetto, ossia quali forze e volontà qualificate
questo concetto presupponga di diritto. Il concetto di verità determina la veridicità di un mondo,
come, ad esempio, nella scienza la verità dei fenomeni costituisce un “mondo” distinto da quello dei
fenomeni stessi. Io voglio la verità significa che io non voglio ingannare, e che nell’ “io non voglio
ingannare”, si ricomprenda anche il caso singolo “io non voglio ingannare me”. Se qualcuno vuole
la verità ciò dipende non da quello che il mondo è ma da quello che il mondo non è. La
contrapposizione di conoscenza e vita e la distinzione dei mondi rivelano così il loro vero carattere
e la loro origine morale. L’uomo che non vuole ingannare vuole un mondo e una vita migliori e ciò
per ragioni di ordine morale. Ancora una volta ci imbattiamo nel virtuoismo di colui che vuole il
vero, una della cui occupazioni predilette consiste nel distribuire i torti, nell’attribuire
responsabilità, nel negare l’innocenza, nell’accusare e giudicare la vita, nel denunciare l’apparenza.
Egli vuole che la vita diventi virtuosa, che si corregga e corregga l’apparenza, che serva da tramite
per l’altro mondo e che rinneghi se stessa volgendosi contro di sé. Il più grande errore di
Schopenhauer sta nell’aver creduto che, nei valori superiori alla vita, la volontà si negasse. In realtà,
la volontà non si nega affatto nei valori superiori; sono piuttosto i valori superiori che dipendono da
una volontà di negare e di annientare la vita. La volontà del nulla e le forze reattive sono i due
elementi costituitivi dell’ideale ascetico. Così l’interpretazione, scendendo in profondità, scopre tre
diversi livelli:
- conoscenza (il vero)
- morale (il bene)
- religione (il divino)

Conoscenza, morale e religione


Dopo essere risaliti dalla verità all’ideale ascetico per scoprire l’origine del concetto di verità,
tentiamo per un momento di abbandonare la genealogia per osservare con più attenzione
l’evoluzione che, dall’ideale ascetico o religioso, ridiscende fino alla volontà di verità. Si vede che
cosa fu propriamente a vincere sul Dio cristiano: la stessa moralità cristiana, o meglio, la costrizione
educativa alla verità, che finisce per proibirsi la menzogna della fede in Dio. La religione ha spesso
bisogno di liberi pensatori per sopravvivere e per ricevere una forma adeguata. La morale è la
prosecuzione della religione con altri mezzi, come la conoscenza lo è per la morale e per la
religione. L’ideale ascetico è diffuso ovunque ma i mezzi cambiano, le forze reattive non sono le
stesse, e questo spiega perché la critica venga così facilmente confusa con un regolamento di conti
tra forze reattive differenti. “Il cristianesimo come dogma è crollato per la sua stessa morale…”; ma
“anche il cristianesimo come morale deve ancora crollare” soggiungere Nietzsche. Nietzsche esige
ben altro: un cambiamento di ideale, un altro ideale, un “sentire diversamente”. Finché tenteremo di
sapere cos’è l’ideale ascetico e religioso rivolgendoci direttamente ad esso, la morale o la virtù si
faranno avanti per rispondere in sua vece: state attaccando me, dice la virtù, perché sono io
responsabile dell’ideale ascetico; e se nella religione c’è del male, c’è però anche dl bene, scaturito
e voluto da me. E’ la virtù a rispondere per la religione, mentre la verità risponde per la virtù.
Basterà allora prolungare questo movimento, scendere grado per grado, per reimbatterci nel punto
da cui eravamo partiti: la critica deve diventare critica della verità stessa, cui quest’ultima non può
sottrarsi nemmeno per sanzione divina: “avendo la veracità cristiana tratto una conclusione dopo
l’altra, trae infine la sua più drastica conclusione, la sua conclusione contro se stessa; ma questo
avviene, quand’essa pone la questione “che cosa significa ogni volontà di verità?” La sua più
drastica conclusione, significa che, al di là della volontà di verità, l’ideale ascetico non ha più luogo
dove nascondersi, non c’è più nessuno che risponde al suo posto. Nietzsche dunque non sostiene
che l’ideale di verità debba sostituire l’ideale ascetico o morale ma, al contrario, che il fatto di porre
in questione la volontà di verità deve impedire all’ideale ascetico di farsi sostituire e di perdurare
attraverso altri ideali e sotto forme differenti. Nel momento in cui scopriamo che nella volontà di
verità continua a nascondersi l’ideale ascetico questo si trova privato della condizione necessaria
alla sua permanenza e del suo ultimo travestimento.

Il pensiero e la vita
Nietzsche rimprovera spesso alla conoscenza la presunzione di opporsi alla vita, di misurarla, di
giudicarla e di ritenere se stessa un fine. Già nella “Nascita della tragedia” l’inversione socratica
compare in questa forma e anche in seguito Nietzsche non si stancherà di dire che la conoscenza,
semplice mezzo al servizio della vita, si è eretta a suo fine, a giudice, a istanza suprema. La
conoscenza si oppone alla vita, ma in quanto esprime una vita che contraddice la vita, una vita
reattiva che trova nella conoscenza un mezzo per conservare e far trionfare il proprio tipo.
Nietzsche non tanto rimprovera alla conoscenza di porre se stessa come fine, quanto di fare del
pensiero un semplice mezzo al servizio della vita, così come talvolta rimprovera Socrate non per
aver posto la vita al servizio della conoscenza ma, al contrario, per aver posto il pensiero al servizio
della vita: “in Socrate, il pensiero è al servizio della vita, mentre in tutti i filosofi anteriori al vita era
al servizio del pensiero”. Quando la conoscenza si fa legislatrice il pensiero si ritrova nel ruolo di
grande subalterno. La conoscenza è pensiero soggiogato alla ragione e a tutto ciò che in essa si
esprime. L’istinto di conoscenza pertiene al pensiero che, entrato in contatto con le forze reattive, ne
è stato catturato e soggiogato. Gli stessi limiti che la conoscenza razionale impone alla vita sono
imposti dalla vita razionale al pensiero; allo stesso tempo, dunque, la vita è sottomessa alla
conoscenza e il pensiero alla vita. Un pensiero che afferma la vita invece di una conoscenza che le
si oppone. In tal caso la vita sarebbe la forza attiva del pensiero e il pensiero la potenza affermativa
della vita; entrambi procederebbero nella medesima direzione, sospingendosi a vicenda e
superando, ora l’uno ora l’altra, tutti i limiti, nello sforzo di una creazione straordinaria. Il pensiero
cessa di essere una ratio, la vita cessa di essere una reazione. Il pensatore esprime così la bella
affinità tra pensiero e vita, tra la vita che rende attivo il pensiero e il pensiero che rende affermativa
la vita. Per Nietzsche, questa generale affinità non è custodita soltanto dal segreto presocratico per
eccellenza, ma anche dall’essenza dell’arte.

L’arte
Nietzsche ha una concezione tragica dell’arte che poggia su due principi, da intendersi come
principi molto antichi ma anche come principi dell’avvenire.

1) L’arte è il contrario di una operazione “disinteressata”: essa non guarisce, non calma, non
sublima, non toglie interesse, non “sospende” il desiderio, l’istinto o la volontà; è invece uno
“stimolante della volontà di potenza”, “eccita il volere”. Il senso critico di questo principio è
facilmente comprensibile: esso combatte ogni concezione reattiva dell’arte:

ARISTOTELE  nel concepire la tragedia come purificazione medicamentosa o sublimazione


morale, le attribuiva un interesse che veniva però a coincidere con l’interesse delle forze reattive;
KANT  distingue il bello da ogni interesse, anche morale, si situa ancora dal punto di vista delle
reazioni di uno spettatore;

SCHOPENHAUER  elabora la sua teoria del disinteresse, non fa che generalizzare, com’egli
stesso ammette, una esperienza personale, l’esperienza del giovane sul quale l’arte ha effetto di
calmante sessuale;

NIETZSCHE  Chi guarda il bello in maniera disinteressata? Mentre l’arte è sempre stata
giudicata dal punto di vista dello spettatore, uno spettatore sempre meno artista, Nietzsche rivendica
un’estetica della creazione, l’estetica di Pigmalione.

2) Il senso principio dell’arte consiste nel considerare quest’ultima come la più alta potenza del
falso che esalta “il mondo come errore”, santifica la menzogna, trasforma la volontà di ingannare in
un ideale superiore.

L’attività della vita è simile alla potenza del falso: inganna, dissimula, affascina, seduce. Ma, per
realizzarsi, la potenza del falso deve subire una selezione, deve raddoppiarsi o ripetersi, elevarsi a
una potenza più alta, alla potenza di una volontà di ingannare, di una volontà artistica in grado, essa
sola, di competere e opporsi con successo all’ideale ascetico. Per l’artista, apparenza non significa
più negazione del reale, ma significa selezione, correzione, raddoppiamento, affermazione.

Nuova immagine del pensiero


L’immagine dogmatica del pensiero si manifesta in tre tesi fondamentali:

1) si sostiene che il pensatore in quanto pensatore voglia e ami il vero;


2) si dice che siamo distolti dal vero da forze estranee al pensiero: non essendo soltanto esseri
pensanti cadiamo in errore, prendiamo per vero il falso;
3) si dice infine che per pensare bene, per pensare veramente, è sufficiente un metodo; il metodo è
un artificio che tuttavia ci consente di raggiungere la natura del pensiero e di adeguarci ad essa,
scongiurando l’effetto delle forze estranee che lo alterano e ce ne distolgono.

La verità come concetto è affatto indeterminata e tutto dipende dal valore e dal senso di ciò che
pensiamo: abbiamo sempre la verità che ci meritiamo in funzione del senso che concepiamo o del
valore di ciò in cui crediamo. Quando si parla del vero in sé, per sé o per noi, dobbiamo chiedere
quali forze si nascondano nel pensare questa verità e quale sia dunque il suo senso e il suo valore.
La verità sembra “una creatura comoda e piacevole, che non si stanca di rassicurare tutti i poteri
esistenti che nessuno per sua causa avrà un qualunque fastidio; non per niente si tratta di “scienza
pura”. Le categorie del pensiero non sono il vero e il falso, ma il nobile e il vile, l’alto e il basso,
secondo la natura delle forze che se ne impadroniscono. Vi sono verità della bassezza, la verità
dello schiavo, mentre i nostri pensieri più alti stanno dalla parte del falso; anzi, non rinunciano mai
a fare dal falso una potenza alta, affermativa e artistica, che trova nell’opera d’arte la propria
realizzazione, la propria verifica, il proprio divenire-vera. Da ciò una seconda conseguenza: la
condizione negativa del pensiero non è l’errore. L’inflazione del concetto di errore in filosofia sta a
testimoniare della persistenza dell’immagine dogmatica, in base alla quale tutto ciò che di fatto si
oppone al pensiero sortisce su di esso l’unico effetto di indurlo in errore. Nietzsche affronta il
problema così come esso si pone su un piano di diritto; ma invero il carattere poco serio degli
esempi solitamente addotti dai filosofi per illustrare l’errore basta dimostrare che un simile concetto
di errore è soltanto una estrapolazione di situazioni in realtà puerili, artificiose o grottesche. Chi, se
non il bambino a scuola, dice che 3 + 2 = 6? Chi, se non il miope o il distratto, dice “buon giorno
Teeteto”? Il pensiero adulto e scrupoloso ha ben altri nemici e condizioni negative di ben altra
profondità: la stupidità, che è una struttura del pensiero come tale e non un modo di ingannarsi,
esprime in linea di principio il non-senso nel pensiero; essa quindi non è né un errore né un ordito di
errori. Nella verità, come nell’errore, il pensiero stupido rivela soltanto la più grande bassezza, le
basse verità e i bassi errori quali effetti dal trionfo dello schiavo, del regno dei valori meschini o
della potenza di un ordine consolidato. Il concetto di verità si determina solo in funzione di una
tipologia pluralistica, la quale a sua volta deriva da una topologia. Si tratta di vedere a quale ragione
appartengono determinati errori e verità, qual è il loro tipo e chi li formula e li concepisce. L’unico
compito davvero critico e l’unico mezzo per riconoscerci nella “verità” consiste nel sottoporre il
vero alla prova del basso e il falso alla prova dell’alto. La filosofia serve a rattristare: una filosofia
che non rattristi, che non riesca a contrariare nessuno, che non sia in grado di arrecare alcun danno
alla stupidità e di smascherare lo scandalo, non è filosofia. Essa dovrà inoltre trasformare il pensiero
in un qualcosa di aggressivo, attivo e affermativo, formare uomini liberi, che non confondano cioè i
fini della cultura con gli interessi dello Stato, della morale o della religione, combatere il
risentimento e la cattiva coscienza che hanno usurpato in noi il pensiero, sconfiggere infine il
negativo e il suo falso prestigio. E’ vero che stupidità e bassezza continuano a esistere; ma non è un
buon pretesto per affrettarsi a decretare lo scacco della filosofia, giacché, se non fosse per quel po'
di filosofia che in ogni epoca ha impedito loro di spingersi sin dove volevano e di diventare stupide
e basse al massimo grado, esse avrebbero oggi proporzioni ancora maggiori. L’immagine del
filosofo è offuscata da tutti i travestimenti di cui ha bisogno, ma anche da tutti i tradimenti che lo
portano ad essere filosofo della religione o dello Stato, collezionista di valori comuni o funzionario
della storia. L’immagine autentica del filosofo non è sopravvissuta a chi, in una data epoca e per un
certo periodo, aveva saputo incarnarla e deve quindi essere ripresa, rianimata, deve trovare un
nuovo ambito di attività nell’epoca successiva. La stupidità e la bassezza non cessano di dar vita a
nuove alleanza, si adeguano sempre al nostro tempo, sono sempre parte di noi e dei nostri
contemporanei. La filosofia si realizza nella opposizione tra inattuale e attuale, tra il nostro tempo e
ciò che è intempestivo. Nell’intempestivo vi sono verità più durature di quanto lo siano le verità
storiche ed eterne messe insieme: sono le verità dell’avvenire. Pensare attivamente significa “agire
in modo inattuale”. La catena dei filosofi non è l’eterna catena dei saggi e meno ancora la
concatenazione della storia: è una catena spezzata, il susseguirsi delle comete, la loro discontinuità e
la loro ripetizione, irriducibili all’eternità del cielo che attraversano e alla storicità della terra che
sorvolano. Nietzsche propone una nuova immagine del pensiero che si muove ora nell’elemento del
senso e del valore e la cui attività è la critica della stupidità e della bassezza. Il pensare non è mai
l’esercizio naturale di una facoltà e mai il pensiero pensa da solo e di per se stesso, così come mai
viene semplicemente disturbato da forze che ne rimangono all’esterno. Il pensare deriva dalle forze
che si impadroniscono del pensiero. Heidegger può sostenere che non pensiamo ancora anche
perché questo tema è presente in Nietzsche: dobbiamo attendere le forze in grado di rendere il
pensiero attivo, assolutamente attivo, una potenza in grado di trasformarlo in affermazione. Il
pensare, in quanto attività, è sempre una seconda potenza del pensiero; non l’esercizio naturale di
una facoltà, ma un evento straordinario del e per il pensiero stesso. Questo addestramento viene da
Nietzsche chiamato “Cultura”: per lui, cultura è essenzialmente addestramento e selezione,
espressione della violenza delle forze che si impadroniscono del pensiero per farne un qualcosa di
attivo, di affermativo. La cultura è una violenza subita dal pensiero che gli dà forma attraverso
l’azione di forze selettive. I Greci non parlavano di metodo, ma di paideia; essi sapevano che il
pensiero non pensa a partire da una buona volontà, ma in virtù di forze che agiscono su di esso per
costringerlo a pensare. Ancora Platone distingueva ciò che costringe a pensare da ciò che lascia
inattivo il pensiero e, nel mito della caverna, faceva derivare la paideia dalla violenza che il
prigioniero subisce sia per uscire dalla caverna che per ritornarvi. In numerosi passi alquanto
singolari Nietzsche mette in risalto la delusione di Dioniso e di Arianna nel ritrovarsi di fronte a un
tedesco mentre si cercava un greco. La cultura come attività generica a quale scopo ultimo di
foggiare l’artista, il filosofo. Tutta la sua violenza selettiva serve a tal fine: “io mi occupo qui di una
specie di uomini la cui teleologia è rivolta un po' oltre il bene di uno Stato”, poiché le principali
attività culturali di Chiese e Stati costituiscono piuttosto il lungo martiriologo della cultura: quando
uno Stato favorisce la cultura “la favorisce solo per favorire se stesso e mai concepisce che vi sia un
fine superiore al proprio bene e alla propria esistenza”. La teoria del pensiero dipende da una
tipologia di forze, la quale origine, lo ripetiamo, da una topologia. Pensare dipende da certe
coordinate: abbiamo le verità che ci meritiamo in base al luogo in cui situiamo la nostra esistenza,
all’ora in cui vegliamo, all’elemento in cui ci troviamo. Ogni verità è verità di un elemento, di un
momento e di un luogo: il minotauro non esce dal labirinto. Non penseremo fin tanto che non
saremo costretti ad andare là dove ci son verità che fanno pensare, là dove agiscono le forze che
fanno del pensiero un qualcosa di attivo e affermativo. Il metodo in generale è un mezzo per evitare
di andare nel tale luogo o per garantirci la possibilità di uscirne: “noi, noi vi pregiamo caldamente:
usatela per impiccarvi!” Nietzsche sostiene che siano sufficienti tre aneddoti per illustrare la vita di
un pensatore:
- uno per il luogo
- uno per il momento
- uno per l’elemento.

Sta a noi spingerci verso i luoghi e i momenti estremi, in cui nascono e vivono le verità più alte, più
profonde. I luoghi del pensiero sono zone tropicali abitate dall’uomo tropicale, e non zone
temperate abitate dall’uomo morale, metodico e moderato.

IV. DAL RISENTIMENTO ALLA CATTIVA COSCIENZA


Reazione e risentimento
Il compito delle forze reattive consiste sempre nel limitare l’azione – scomponendola, ritardandola
od ostacolandola – in funzione di un’altra azione che agisce su di noi; inversamente, le forze attive
fanno esplodere la creazione in un dato istante, in un momento favorevole, in una direzione
determinata e al fine di un adattamento rapido e preciso, dando così origine a una immediata
risposta; Nietzsche può perciò dire che “la vera reazione è quella dell’azione”. Il signore reagisce
proprio perché agisce le sue reazioni. Il tipo attivo ingloba dunque le forze reattive, in modo tale
però che queste vengono a definirsi in base alla potenza di obbedire o di essere agite; il tipo attivo
esprime un rapporto tra le forze attive e le forze reattive tale per cui queste ultime si trovano a
essere agite. Il risentimento denota un tipo le cui forze reattive prevalgono su quelle attive
nell’unico modo che è loro possibile, cessando cioè di essere agite. Il termine risentimento contiene
un’indicazione rigorosa: la reazione cessa di essere agita per diventare qualcosa di sentito, le forze
reattive prevalgono su quelle attive sottraendosi alla loro azione. A questo punto sorgono però due
problemi:
1) si tratta di vedere in che modo le forze reattive riescano a sottrarsi e ad avere il sopravvento,
quale sia cioè il meccanismo di questa “malattia”;
2) per contro, si tratta di vedere in che modo le forze reattive vengano di norma agite.

Principio del risentimento


Freud ricorre di frequente a uno schema della vita, da lui chiamato “ipotesi topica”, per spiegare che
la ricezione di uno stimolo e la conservazione di una traccia duratura non dipendono dal medesimo
sistema; un solo sistema infatti non potrebbe custodire fedelmente le trasformazioni che subisce e,
nel contempo, offrire una ricettività sempre fresca. Bisogna concepire dunque la formazione del
sistema conscio come risultato di una evoluzione: al limite di esterno e interno, del mondo interiore
e del mondo esteriore, “si sarebbe così formata una corteccia che la continua stimolazione ha
talmente temprato che alla fine essa presenta le migliori condizioni possibili per la ricezione degli
stimoli”. Freud è ben lungi dall’assumere e accettare senza riserve questa ipotesi topica. Resta il
fatto che ne ritroviamo tutti gli elementi in Nietzsche, il quale distingue l’apparato reattivo in due
sistemi, la coscienza e l’inconscio. L’inconscio reattivo è costituito dalle tracce mnestiche, dalle
impronte durature. Non v’è dubbio che persino in questa digestione senza fine le forze reattive
eseguono il compito loro attribuito: si fissano sull’impronta indelebile, investono la traccia. Ma
questa prima specie di forze reattive è palesemente insufficiente. Un altro sistema di forze, un
sistema in cui la reazione si sposta dalle tracce allo stimolo presente o all’immagine diretta
dell’oggetto. Questa seconda specie di forze reattive fa tutt’uno con la coscienza, corteccia
costantemente rinnovantesi di una recettività sempre fresca, ambito per “un mondo di nuove cosa
sconosciute”. La seconda specie di forze reattive ci rivela in che forma e in quali condizioni la
reazione può essere agita: allorché le forze reattive prendono a proprio oggetto lo stimolo che
investe la coscienza, la reazione corrispondente si presta ad essere agita. E’ necessario che i due
sistemi o le due specie di forze reattive continuino a rimanere separati, che le tracce non invadano la
coscienza e che una specifica forza attiva si faccia carico di sostenere la coscienza e di ricostituirne
in ogni istante la freschezza. Questa facoltà attiva e sovra-cosciente è l’oblio. Il torto della
psicologia è stato di considerare l’oblio come una determinazione negativa, ignorandone il carattere
attivo e positivo. Possiamo immagine una disfunzione della facoltà, dell’oblio come solidificarsi
della cera della coscienza, per cui lo stimolo tenderò a confondersi con la sua traccia nell’inconscio
mentre, per contro, la reazione alle tracce affluirà alla coscienza invadendola. Nel medesimo istante
dunque la reazione alle tracce diventa sensibile e la reazione allo stimolo cessa di essere agita. Le
conseguenze sono enormi: non potendo più agire una reazione, le forze attive si ritrovano private
delle condizioni materiali in cui potersi esercitare, non hanno più occasione di esplicare la loro
attività, sono separate da ciò che è in loro potere. Siamo perciò finalmente in grado di vedere in che
modo le forze reattive riescono a prevalere sulle forze attive: quando nell’apparato reattivo la
traccia si sostituisce allo stimolo, la reazione si sostituisce all’azione prendendone il sopravvento.
Tutto ciò si svolge tra forze reattive. E’ una strana lotta sotterranea, tutta interna all’apparato
reattivo, ma che non per questo è priva di conseguenze per l’intero versante dell’attività.

Tipologia del risentimento


Il primo aspetto del risentimento è dunque topologico: c’è una topologia delle forze reattive, le
quali, attraverso un cambiamento di luogo o uno spostamento, danno origine al risentimento.
L’uomo del risentimento è caratterizzato dall’invasione della coscienza da parte delle tracce
mnestiche, dall’affluire della memoria alla coscienza. In Nietzsche, così come in Freud, la teoria
della memoria distinguerà due memorie e sino a che ci fermeremo alla prima memoria resteremo
entro i limiti del principio puro del risentimento: l’uomo del risentimento è un cane, una specie di
cane che reagisce soltanto alle tracce (segugio), per cui lo stimolo si confonde localmente con la
traccia ed egli non può più agire la propria reazione. Nietzsche ritorna più volte sull’incapacità di
dimenticare qualcosa, sulla facoltà di non dimenticare nulla e sulla natura profondamente reattiva di
questa facoltà, che deve essere presa in esame sotto tutti i punti di vista; un tipo è infatti una realtà
sia biologica che psichica, sia storica che sociale e politica. Perché il risentimento è spirito di
vendetta? Si potrebbe credere che l’uomo del risentimento abbia origine casualmente: avendo
provato uno stimolo troppo forte, questi si sarebbe ritrovato a dover rinunciare alla reazione, non
essendo forte a sufficienza per organizzare una risposta; da ciò un desiderio di vendetta che,
generalizzato, verrebbe a estendersi al mondo intero. Per Nietzsche ciò che conta non è la quantità
di forza considerata in astratto, ma un determinato rapporto, interno al soggetto, tra le forze di
diversa natura che lo costituiscono: ossia un tipo. Se la prende col suo oggetto, qualunque esso sia,
vuole vendicarsene e fargli pagare questo infinito ritardo. L’uomo del risentimento vive ogni essere
e ogni oggetto come offesa in misura esattamente proporzionale all’effetto che ne subisce. La
bellezza, la bontà sono da lui inevitabilmente vissute come oltraggi, alla stessa stregua di un dolore
o di una sventura: “non ci si sa liberare da niente, non si sa rispondere ai colpi – tutto ferisce.”
L’uomo del risentimento è di per sé causa del proprio dolore: la sclerosi, l’indurimento della sua
coscienza, la rapidità con la quale ogni stimolo si fissa e si cristallizza, il peso delle tracce che lo
invadono costituiscono altrettante crudeli sofferenze. Perciò la vendetta de risentimento, per quanto
concretamente possa realizzarsi, scaturisce da un principio “spirituale”, immaginario e simbolico. Il
legame essenziale tra la vendetta e la memoria delle tracce non è privo di somiglianze con il
complesso sadico-anale di Freud; Nietzsche stesso si rappresenta la memoria come una digestione
senza fine e parla del tipo del risentimento come di un tipo anale; per indicare questa memoria
intestinale e velenosa egli usa i termini ragno, tarantola, spirito di vendetta…E’ chiaro ciò che
Nietzsche vuole ottenere: una psicologia che sia una vera tipologia, fondata “sul piano del
soggetto”, dove anche la possibilità di una guarigione dipenderanno dalla trasformazione dei tipi
(rovesciamento e trasmutazione).

Caratteri del risentimento


Non bisogna lasciarsi ingannare dall’espressione “spirito di vendetta”. Non possiamo comprendere
il risentimento fin tanto che ci limitiamo a scorgervi solo un desiderio di vendetta, un desiderio di
rivolta e di trionfo, poiché il risentimento, in base al suo principio topologico, comporta uno stato di
forze reali, lo stato delle forze reattive che si sottraggono all’azione delle forze attive, offrendo così
alla vendetta il mezzo con cui rovesciare il normale rapporto tra forze attive e reattive. Il
risentimento è già di per sé una rivolta portata a buon fine, è il trionfo del debole in quanto debole,
la rivolta degli schiavi e la loro vittoria in quanto schiavi, da cui si configura un tipo.

L’impotenza di ammirare, di rispettare, d’amare. La memoria delle tracce è di per se stessa incline
all’odio. L’odio o la vendetta si annidano anche nei ricordi più teneri e affettuosi. Si può osservare
come i ruminanti della memoria dissimulino quest’odio attraverso una sottile operazione che
consiste nel rimproverare a se stessi tutto ciò che, in realtà, rimproverano all’essere di cui fingono di
venerare il ricordo. Ciò che più colpisce nell’uomo del risentimento non è tanto la sua malvagità,
quanto la sua disgustosa animosità, la sua capacità di sminuire. Nulla vi resiste: non rispetta i propri
amici né i propri nemici, né la sventura o la sua causa; basti pensare ai Troiani, i quali ammiravano
e contemplavano in Elena la causa delle proprie disgrazie. Ma l’uomo del risentimento deve ridurre
la sventura a cosa mediocre, deve recriminare e distribuire i torti, assecondare la sua tendenza a
sminuire le cause e a considerare la sventura “colpa di qualcuno”, al contrario del rispetto
aristocratico per le cause della sventura, che impedisce di prendere sul serio le proprie disgrazie.

La passività. Nel risentimento, la felicità “appare essenzialmente come narcosi, stordimento, quiete,
pace, “sabbath”, distensione dell’animo e rilassamento del corpo, insomma in forma passiva”.
L’uomo del risentimento non sa e non vuole amare, ma vuole essere amato, nutrito, dissetato,
accarezzato, addormentato: è impotente, dispeptico, frigido, insonne, schiavo. Egli mostra una
grande suscettibilità: e, riguardo a tutti i compiti che è incapace di intraprendere, ritiene che la
compensazione minima dovutagli consista nel trarne un qualche beneficio. L’uomo del risentimento
è colui che vuol trarre un vantaggio, un profitto; anzi, il risentimento è riuscito a imporsi nel mondo
solo facendo trionfare l’ottica del beneficio, considerando il profitto non soltanto un desiderio e un
pensiero, ma un sistema economico, sociale, teologico.

L’imputazione dei torti, la distribuzione delle responsabilità, l’accusa perpetua. Tutto ciò si
sostituisce all’aggressività: “il pathos aggressivo fa parte necessariamente della forza, così come il
sentimento di vendetta e rancore fa parte della debolezza”. Poiché considera il beneficio come un
diritto e ritiene un suo diritto il trar profitto da azioni non da lui compiute, l’uomo del risentimento
sbotta in aspri rimbotti se le sue aspettative vengono deluse; il che non può non accadere, dato che
frustrazione e vendetta sono quasi un a priori del risentimento: è colpa tua se nessuno mi ama, è
colpa tua se la mia vita è un fallimento e sei responsabile anche del fallimento della tua. Ritroviamo
qui la terribile potenza femminile del risentimento che, non contenta di denunciare crimini e
criminali, esige colpevoli e responsabili. Lo schiavo ha prima di tutto bisogno di porre l’altro come
cattivo.

E’ buono? E’ cattivo?
Io sono buono dunque tu sei cattivo; tu se cattivo dunque io sono buono. Poiché disponiamo del
metodo della drammatizzazione, dobbiamo chiederci chi pronuncia l’una e chi l’altra delle due
formule e che cosa vuole ciascuno dei due, giacché non possono venir pronunciate del medesimo, in
quanto il buono dell’una è il cattivo dell’altro. Vogliamo dunque sapere chi è colui che incomincia
col dire “io sono buono”; certo non chi si paragona agli altri, né chi confronta le sue azioni od opere
a valori superiori o trascendenti: costui non potrebbe nemmeno incominciare…Chi dice “io sono
buono” non si aspetta che gli si dica buono, ma si definisce, si chiama e si considera tale nella
misura stessa in cui agisce, afferma e gioisce. Buono qualifica l’attività e l’affermazione e il piacere
che si prova nel praticarle: una certa qualità d’animo, “una certa sicurezza di base che un’anima
nobile ha riguardo a se stessa, qualcosa che non si può cercare né trovare e forse neppure perdere”.
Nietzsche usa spesso il termine distinzione per indicare il carattere interno di ciò che si afferma.
Buono indica anzitutto il signore, mentre cattivo è conseguenza e indica lo schiavo, il negativo, il
passivo, il malvagio, il miserabile. Nietzsche abbozza il commento del mirabile poema di Teognide,
interamente costruito sulla affermazione lirica fondamentale: noi siamo buoni, loro sono cattivi e
malvagi. Sarebbe vano cercare la benché minima sfumatura morale in questo giudizio aristocratico
che si basa invece su un’etica e una tipologia, su una tipologia delle forze e su un’etica dei
corrispondenti modi di essere. “Io sono buono, dunque tu sei cattivo”: in bocca ai signori, la parola
dunque introduce soltanto una conclusione negativa; il negativo è conclusione posta solo come
conseguenza di una piena affermazione: “noi nobili, noi buoni, noi belli, noi felici”. Il buono “cerca
il suo opposto soltanto per dire sì a se stesso con ancor maggiore gratitudine e gioia”, legge
fondamentale dell’aggressività: per cui il negativo è conclusione di premesse positive, è prodotto
dell’attività, è conseguenza di una potenza di affermare. “Tu sei cattivo, dunque io sono buono”. E’
cambiato tutto: il negativo è passato nelle premesse, il positivo è concepito come conclusione di
premesse negative. Ora è il negativo a contenere l’essenziale, mente il positivo esiste solo in virtù di
una negazione. Il negativo è diventato “l’originale, il principio, l’atto vero e proprio”. Lo schiavo ha
bisogno delle premesse della reazione e della negazione, del risentimento e del nichilismo per
ottenere una conclusione apparentemente positiva, che per l’appunto della positività ha soltanto
l’apparenza. L’uomo del risentimento deve concepire un non-io, poi contrapporvisi al fine di porre,
da ultimo, se stesso. Strano sillogismo dello schiavo: ci vogliono due negazioni per ottenere
un’apparenza di affermazione; e già possiamo intuire sotto quale forma questo sillogismo ha avuto
tanto successo in filosofia: la dialettica. La dialettica è ideologia del risentimento. Ecco il bene e il
male, ecco la determinazione etica del buono e del cattivo lasciare il posto al giudizio morale. Il
buono dell’etica è diventato il cattivo della morale, il malvagio dell’etica è diventato il buono della
morale. Bene e male non coincidono con buono e cattivo ma, al contrario, sono lo scambio,
l’inversione, il rovesciamento della loro determinazione. Nietzsche insisterà nel sostenere che “al di
là del bene e del male” non significa “al di là del buono e del cattivo”; al contrario bene e male sono
valori nuovi. Basta riflettere su ciò che questi valori nascondono e sul modo in cui sono stati creati
per scorgervi un odio straordinario contro la vita, contro tutto ciò che nella vita è attivo e
affermativo. La positività della religione è apparente perché si stabilisce che i miserabili, i poveri, i
deboli, gli schiavi sono i buoni in quanto i forti sono “cattivi” e “dannati”; è stato inventato il buono
infelice, debole: non c’è miglior vendetta contro i forti e i felici. Che cosa sarebbe l’amore cristiano
senza la potenza del risentimento ebraico da cui è animato e diretto? L’amore cristiano non è il
contrario del risentimento ebraico, bensì né è la conseguenza, l’esito. Ma la religione riesce a
nascondere, in maniera più o meno efficace i principi dai quali è direttamente derivata: il peso delle
premesse negative, lo spirito di vendetta, la potenza del risentimento.
Il paralogismo
Tu sei cattivo; io sono il contrario di quello che sei tu; dunque io sono buono. Il sillogismo
dell’agnello belante si formula nel modo seguente: gli uccelli rapaci sono cattivi, ora, io sono il
contrario di un uccello rapace; dunque, io sono buono. E’ chiaro che, nella minore, l’uccello rapace
è preso per quello che è: una forza che non si separa dai suoi effetti o dalle sue manifestazioni. Ma
nella maggiore si suppone che l’uccello rapace potrebbe anche non manifestare la propria forza, che
potrebbe contenere i propri effetti e separarsi da ciò che è in suo potere: esso è cattivo perché non si
reprime. Il paralogismo del risentimento si fonda sulla finzione di una forza separata da ciò che è in
suo potere. Le forze reattive trionfano proprio grazie a questa finzione; infatti non basta loro
sottrarsi all’attività, ma è necessario che rovescino il rapporto delle forze, che si oppongano alle
forze attive e si rappresentino come superiori. Il processo di accusa del risentimento fa sì che le
forze reattive “proiettino” un’immagine astratta e neutralizzata della forza: tale forza, una volta
separata dai propri effetti, sarà colpevole se agisce, mentre sarà meritevole se non agisce; si può
anzi immaginare che occorra più forza (astratta) per trattenersi che per agire. Le forze reattive
acquistano un potere contagioso mentre le forze attive diventano realmente reattive:
1) Momento della causalità: la forza si sdoppia. Allorché la forza non si separa dalla propria
manifestazione, quest’ultima diventa un effetto riconducibile alla forza come causa distinta e
separata: si “pone lo stesso evento prima come causa, e poi ancora una volta come effetto di essa”;
2) Momento della sostanza: si proietta la forza sdoppiata in un sostrato, in soggetto libero di
manifestarla o di non manifestarla; la forza viene così neutralizzata e trasformata in atto di un
soggetto che potrebbe anche non agire;
3) Momento della determinazione reciproca: la forza, ormai neutralizzata, viene moralizzata: se si
suppone che una forza possa benissimo fare a meno di manifestare la forza che “ha”, non è più
assurdo supporre al contrario che una forza potrebbe manifestare la forza che “non ha”.

Sviluppo del risentimento: il prete ebraico


L’analisi ci ha condotti da un primo a un secondo aspetto del risentimento. Nietzsche parlerà della
cattiva coscienza distinguendone esplicitamente due aspetti:
- nel primo la cattiva coscienza si presenta “nel suo stato grezzo” pura materia o “frammento della
psicologia animale e nulla più”;
- nel secondo, senza il quale la cattiva coscienza non sarebbe ciò che è, essa sfrutta tale materia di
base e le conferisce una forma.

Senza questo secondo spetto del risentimento, la rivolta delle forze reattive non potrebbe tradursi in
un trionfo; o meglio rimarrebbe un trionfo locale, non ancora completo. In nessuno dei due casi,
inoltre, le forze reattive trionfano perché formano una forza più grande rispetto a quella delle forze
attive:
- nel primo caso tutto avviene all’interno delle forze reattive;
- nel secondo, le forze reattive separano le forze attive da ciò che è in loro potere attraverso però
una finzione, una mistificazione.
Benché inseparabile dall’elemento differenziale da cui deriva la loro qualità, le forze reattive
offrono di questo elemento un’immagine rovesciata: dal punto di vista della reazione, la differenza
delle forze diventa opposizione tra forze reattive e forze attive. Basterebbe quindi che le forze
reattive avessero modo di sviluppare o proiettare questa immagine e il rapporto tra forze verrebbe a
sua volta rovesciato. Questa occasione si offre alle forze reattive nel momento stesso in cui riescono
a sottrarsi all’attività: cessando di essere agite, possono proiettare l’immagine rovesciata, proiezione
reattiva che Nietzsche chiama finzione: è la finzione di un mondo sovrasensibile che si contrappone
al mondo sensibile, di un Dio che contraddice la vita. Nietzsche distingue la finzione dalla potenza
attiva. Nietzsche distingue la finzione dalla potenza attiva del sogno, nonché dall’immagine positiva
del dèi che affermano e glorificano la vita: “questo mondo di pure finzioni di differenzia […] dal
mondo del sogno per il fatto che quest’ultimo rispecchia la realtà, mentre esso falsifica, svaluta,
nega la realtà”. La finzione governa l’intera evoluzione del risentimento, ossia dirige le operazioni
attraverso le quali la forza attiva viene contemporaneamente separata da ciò che è in suo potere. In e
attraverso questa finzione le forze reattive sono in grado di attestare la propria superiorità. Il libro
“Genealogia della morale” contiene la prima psicologia del sacerdote. E’ il sacerdote colui che
conferisce una forma al risentimento, che conduce l’accusa e porta sempre più a fondo la vendetta, e
che osa addirittura rovesciare i valori; in particolare, costui è il prete ebraico, il prete nella forma
ebraica. Egli, maestro di dialettica, fornisce allo schiavo l’idea del sillogismo reattivo, di cui forgia
le premesse negative; concepisce l’amore, quel nuovo amore che i cristiani faranno proprio, come la
conclusione, il coronamento, il fiore velenoso di un odio fuori del comune; egli per primo afferma
che senza di lui lo schiavo non sarebbe mai riuscito a innalzarsi al di sopra del risentimento allo
stato bruto. La sua volontà è volontà di potenza, la sua volontà di potenza è nichilismo.

L’ammirazione di Nietzsche per i re di Israele e per l’Antico Testamento è profonda; tuttavia la


questione ebraica coincide esattamente col problema della costituzione del sacerdote nel mondo di
Israele, vero problema di natura tipologica. Da qui l’insistenza di Nietzsche nel rivendicare
l’invenzione della psicologia del prete. E’ vero che in Nietzsche non mancano considerazioni a
sfondo razziale; ma la razza vi compare sempre come elemento di un intreccio come fattore di un
complesso fisiologico, oltre che psicologico, politico, storico e sociale, un complesso la cui
definizione è resa da Nietzsche con il termine “tipo”. Per lui non c’è altro problema che il tipo del
sacerdote; e proprio il popolo ebraico, che a un certo punto della propria storia ha trovato nel
sacerdote le condizioni per poter continuare ad esistere, è oggi il più adatto a inventare nuove
condizioni per salvare l’Europa e per proteggerla da se stessa.

Cattiva coscienza e interiorità


Il risentimento si prefigge un duplice scopo: privare la forza attiva delle condizioni materiali in cui
essa può esercitarsi; separarla formalmente da ciò che è in suo potere. Da questo punto di vista la
nostra domanda continua a riproporsi: che cosa diventa realmente la forza attiva? La risposta di
Nietzsche è estremamente precisa: qualsiasi sia la ragione per la quale una forza attiva si ritrova
falsata, privata delle condizioni in cui può esercitarsi e separata da ciò che è in suo potere, essa si
volge al proprio interno e contro se stessa; diventa realmente reattiva attraverso un interiorizzarsi e
una volgersi contro di sé: “tutti gli istinti che non si scaricano all’esterno, si rivolgono all’interno”.
L’introiezione della forza attiva non è il contrario della proiezione, ma la conseguenza e l’esito della
proiezione reattiva. Con la cattiva coscienza non ci imbatteremo in un nuovo tipo; tutt’al più
potremo individuare nel tipo reattivo, nel tipo dello schiavo, delle varietà concrete in cui il
risentimento si presenta quasi allo stato puro; oppure delle varietà in cui la cattiva coscienza,
raggiungendo il pieno sviluppo, si sovrappone al risentimento- Le forze reattive non si stancano di
percorrere le tappe del loro trionfo: la cattiva coscienza, prolungamento del risentimento, ci porta
ancora più avanti, in una dimensione in cui il contagio riesce a spuntarla, dove la forza attiva
diventa reattiva e il signore diventa schiavo. Il dolore è prodotto dalla vecchia forza attiva; ne deriva
un fenomeno curioso, insondabile: una moltiplicazione, un’autofecondazione, un’iper-produzione di
dolore. La cattiva coscienza è la coscienza che moltiplica il proprio dolore, che ha trovato il modo
di fabbricare l’immonda officina che volge la forza attiva contro di sé; ed ecco la sua prima
definizione: moltiplicazione del dolore attraverso l’interiorizzazione e l’introiezione della forza.

Il problema del dolore


Questa definizione coglie quantomeno il primo aspetto della cattiva coscienza: l’aspetto topologico
allo stato grezzo o materiale. L’interiorità è una nozione complessa: all’inizio la forza attiva si
interiorizza; ma una volta interiorizzata incomincia a produrre dolore in quantità sempre maggiore,
di modo che l’interiorità cresce “in profondità, in larghezza, in altezza”, come un baratro sempre più
vorace; il che vuol dire, in secondo luogo, che il dolore è stato a sua volta interiorizzato,
sensualizzato, spiritualizzato, espressioni che indicano l’invenzione di un nuovo senso per il dolore,
un senso interno, intimo. Il dolore concepito come conseguenza di una colpa intima e meccanismo
interiore di salvezza, il dolore interiorizzato via via che viene fabbricato, il dolore divenuto
“sentimento di colpa, timore e castigo” costituisce il secondo aspetto della cattiva coscienza, il
momento tipologico in cui essa si manifesta come senso di colpa. Veder soffrire o anche infliggere
sofferenza è una struttura della vita come vita attiva, una sua manifestazione attiva. Il dolore ha un
senso immediato in favore della vita: il senso esterno. Il contributo di Nietzsche al problema
tipicamente spiritualistico consiste nel domandarsi qual è il senso del dolore e della sofferenza.

Sviluppo della cattiva coscienza: il prete cristiano


Interiorizzazione della forza; poi interiorizzazione del dolore. Ma il passaggio dal primo al secondo
momento della cattiva coscienza non è autentico, così come non lo era il concatenamento dei due
aspetti del risentimento: anche qui è necessario l’intervento del sacerdote, una sua seconda
incarnazione, questa volta cristiana: “solo sotto le mani del prete, vero e proprio artista in sentimenti
di colpa, esso ha preso figura”. E’ il prete-cristiano a far uscire la cattiva coscienza dal suo stato
grezzo o animale, a presiedere all’interiorizzazione del dolore; è lui, prete-medico, a guarire il
dolore infettando la piaga; è lui, prete-artista, a condurre la cattiva coscienza alla sua forma
superiore, al dolore come conseguenza di un peccato. L’uomo del risentimento, esistenzialmente
sofferente, cerca una causa alla propria sofferenza e accusa tutto ciò che è attivo nella vita; da qui
deriva un primo aspetto del prete come colui che presiede e organizza l’accusa. La potenza del
risentimento è dunque interamente diretta sull’altro e contro gli altri. Ma il risentimento è una
sostanza esplosiva che fa diventare reattive le forze attive; è allora necessario che esso si adegui a
queste nuove condizioni, che cambi direzione; è necessario che l’uomo reattivo trovi in se stesso la
caasa della propria sofferenza, ed è la cattiva coscienza a suggerirgli di cercare questa causa “in se
stesso, in una colpa, nel passato”. La parola colpa rinvia ora alla colpa che io ho commesso, alla mia
colpa, alla mia consapevolezza. Così il dolore diventa conseguenza di un peccato. Il rapporto tra
cristianesimo ed ebraismo deve venir valutato da due punti di vista:
1) da una parte il cristianesimo è il risultato dell’ebraismo, ne prosegue e ne realizza l’opera: tutta la
potenza del risentimento conduce. La stessa morte di Cristo è una svolta che riconduce ai valori
ebraici e che instaura una pseudo-opposizione tra l’amore e l’odio che rende l’amore più seducente,
come se fosse indipendente dall’odio e ad esso contrapposto, e ne fosse quindi la vittima. Si
nasconde la verità che Ponzio Pilato era riuscito a scoprire: il cristianesimo è la conseguenza
dell’ebraismo, in esso ritrova tutte le proprie premesse e di queste è soltanto la conclusione;
2) da un altro punto di vista, il cristianesimo apporta un contributo nuovo: non si limita a dar
compiutezza al risentimento, ma ne cambia la direzione attraverso l’invenzione della cattiva
coscienza.
Il risentimento diceva “è colpa tua”, la cattiva coscienza dice “è colpa mia”; ma si sa che il
risentimento non si appaga finché il suo contagio non si sia diffuso; il suo scopo è di far diventare
reattiva la vita intera, di far diventare malati i sani; non gli basta accusare: è necessario che
l’accusato si senta colpevole. La cattiva coscienza ne è la prova.
- La definizione del primo aspetto della cattiva coscienza era: moltiplicazione del dolore attraverso
l’interiorizzazione della forza.
- La definizione del secondo aspetto è: interiorizzazione del dolore attraverso il cambiamento di
direzione del risentimento.

La cultura considerata dal punto di vista preistorico


Cultura significa addestramento e selezione; nella sua dinamica Nietzsche definisce la cultura con
l’espressione “eticità dei costumi”, cui si accompagna sempre la vergogna, la tortura, gli atroci
mezzi atti ad addestrare l’uomo. In questo addestramento violento l’occhio del genealogista
distingue però due elementi:
1) ciò a cui un popolo, una razza o una classe obbedisce è sempre storico, arbitrario, grottesco,
stupido e limitato ed è per lo più espressione delle peggiori forze reattive;
2) ma nel fatto che si obbedisca a qualcosa si manifesta un principio che va oltre i popoli, le razze e
le classi: si obbedisce alla legge perché è legge, per cui l’aspetto formale della legge indica una
certa attività, una certa forza attiva che viene esercitata sull’uomo con il compito di addestrarlo.
L’attività della cultura si esercita da principio sulle forze reattive, attraverso l’imposizione di
abitudini e modelli al fine di renderle atte ad essere agite. In tal senso la cultura si esercita in più
direzioni, investendo anche le forze reattive dell’inconscio, le forze digestive e intestinali più
profonde; ma il suo obiettivo principale è il rafforzamento della coscienza a quale, per il carattere
fugace degli stimoli e per la facoltà dell’oblio che la contraddistinguono, ha bisogno di una
consistenza e una fermezza che di per se stessa non possiede. L’obiettivo della cultura in quanto
selezione consiste allora nel formare un uomo capace di promettere, di disporre dell’avvenire;
quindi un uomo libero e potente. Soltanto un uomo siffatto è attivo, agisce le proprie reazioni; tutto
in lui o è attivo o è agito. La facoltà di promettere è l’effetto della cultura come attività dell’uomo
sull’uomo, ovvero l’uomo che può promettere è il prodotto della cultura come attività generica.
Quando l’uomo ritenne necessario formarsi una memoria, ciò non avvenne mai senza sangue,
martiri, sacrifici. Lo strumento di cui la cultura si è sempre servita è il dolore, il dolore come mezzo
di scambio, come moneta, come corrispettivo di un oblio, di un danno provocato, di una promessa
non mantenuta. In riferimento a questo strumento la cultura viene chiamata giustizia e lo strumento
stesso castigo. Danno provato = dolore subito, equazione del castigo che determina un rapporto tra
uomo e uomo in quanto rapporto tra creditore e debitore. Nel rapporto tra creditore-debitore si
manifesta l’attività preistorica della cultura nel suo processo di addestramento o di formazione; in
relazione a tale attività esso si presenta come “più antico e originario rapporto tra persone”,
anteriore anche agli “stessi cominciamenti di qualsiasi forma d’organizzazione sociale” e costituisce
addirittura il modello dei “più grezzi e più primitivi complessi comunitari”. Ecco dunque la
discendenza generica prospettata da Nietzsche:
1) la cultura: attività preistorica o generica di addestramento e selezione;
2) lo strumento: l’equazione del castigo, il debito, l’uomo responsabile;
3) il prodotto: l’uomo attivo, libero e potente.

La cultura considerata dal punto di vista post-istorico


La “cattiva coscienza” pianta estremamente inquietante e interessante della nostra vegetazione
terrestre, non è allignata su codesto terreno. Da una parte la giustizia non trae affatto origine dalla
vendetta, dal risentimento; i moralisti, e anche i socialisti, sostengono che la giustizia derivi da un
sentimento reattivo, dall’offesa risentita, dallo spirito di vendetta, dalla reazione che chiede
giustizia. La crudele equazione danno provocato = dolore subito è destinata a restare
incomprensibile se non si introduce un terzo termine: il piacere che deriva dall’infliggere o dal
contemplare il dolore. La giustizia è l’attività generica che addestra le forze reattive dell’uomo
rendendole idonee ed essere agite, per cui l’uomo ne diventa responsabile. La giustizia dev’essere
dunque contrapposta al risentimento e alla cattiva coscienza, che derivano dal trionfo delle forze
reattive, dalla loro incapacità di essere agite, dall’odio che nutrono per tutto ciò che è attivo, dalla
loro resistenza e dalla loro intrinseca ingiustizia. Il risentimento, lungi dall’essere origine della
giustizia, è anzi “l’ultimo terreno a essere conquistato dallo spirito della giustizia”. Se il
risentimento non è l’origine della giustizia, la cattiva coscienza non sarò il prodotto del castigo
giacché, per ampia che sia la molteplicità dei suoi sensi, esso non ha mai la proprietà di suscitare nel
colpevole il senso di colpa. Da qualsiasi punto di vista vengano considerate, la cultura e la giustizia
rivelano sempre l’esercizio di un’attività formatrice, al contrario del risentimento e della cattiva
coscienza. Nietzsche avverte che non dobbiamo confondere il prodotto della cultura con il suo
mezzo; l’attività generica fa dell’uomo il responsabile delle proprie forze reattive: responsabilità-
debito. Ma questa responsabilità non è altro che un mezzo di addestramento e di selezione: essa
misura progressivamente l’attitudine ad essere agite delle forze reattive. Il prodotto della cultura
non è l’uomo che obbedisce alla legge, ma l’individuo sovrano e legislatore che si qualifica
attraverso la potenza su se stesso, sul destino e sulla legge: il libero, il leggero, l’irresponsabile. In
Nietzsche la nozione di responsabilità, anche nella sua forma superiore, ha un valore limitato e
indica semplicemente un mezzo: l’individuo autonomo non è più responsabile delle proprie forze
reattive di fronte alla giustizia, ma ne è il padrone, il sovrano, il legislatore, l’autore e l’attore. Il
senso attivo della responsabilità-debito consiste unicamente nel venire assorbita dal processo
attraverso il quale l’uomo si libera: come creditore già gode del diritto signorile; come debitore si
libera anche a prezzo della sua carne e del suo dolore; in entrambi i casi l’uomo si libera
svincolandosi dal processo che lo ha addestrato. Il movimento generale della cultura implica che il
mezzo scompaia nel prodotto: la responsabilità – responsabilità di fronte alla legge – la legge –
legge della giustizia – la giustizia – mezzo della cultura – scompaiono nel prodotto della cultura
stessa; l’eticità di costumi produce un uomo affrancato dall’eticità dei costumi, lo spirito delle leggi
un uomo affrancato dalla legge. Tutto ciò porta Nietzsche a parlare di autodistruzione della
giustizia. La cultura è l’attività generica dell’uomo; ma è un’attività selettiva il cui scopo finale,
l’individuo, implica la soppressione della genericità stessa. Nella storia, l’essenza della cultura,
catturata da forze estranee di tutt’altra natura, assume un senso assai diverso e l’attività generica si
confonde con un movimento che la snatura, snaturandone anche il prodotto. La storia ci presente
razze, popoli, classi, Chiese, Stati; sull’attività generica si innestano organizzazioni sociali,
associazioni, comunità di carattere reattivo, parassiti che le si sovrappongono per poi assorbirla. Al
posto della giustizia e del suo processo di autodistruzione la storia ci presenta società che non
vogliono soccombere e che non concepiscono nulla che possa essere superiore alle loro leggi; quale
Stato sarebbe infatti disposto a seguire il consiglio di Zarathustra: “lasciatevi rovesciare!”. La storia
ci presenta tutta la violenza della cultura come legittima proprietà dei popoli, degli Stati e delle
Chiese, come manifestazione della loro forza; tutti i procedimenti dell’addestramento vi sono in
realtà impiegati, ma alla rovescia, come distorti o capovolti. Una morale, una Chiesa, uno Stato
sono comunque apparati di selezione, dispositivi gerarchici e anche le leggi più stupide e le
comunità più limitate devono addestrare l’uomo e costringere le sue forze reattive a servire; ma a
servire che cosa? Quale addestramento, quale selezione vengono messi in opera? La selezione e la
gerarchia vengono rovesciate: la selezione diventa il contrario di ciò che era dal punto di vista
dell’attività e si riduce a semplice mezzo per conservare, organizzare e propagare la vita reattiva. La
storia è la riprova del fatto che le forze reattive si sono impadronite della cultura volgendola a
proprio vantaggio; ma il trionfo delle forze reattive non è un incidente storico, bensì il principio e il
senso della “storia universale”. Zarathustra si spingerà più a fondo, elaborando l’oscuro simbolo del
cane di fuoco. Il cane di fuoco è l‘immagine dell’attività generica in cui si esprime il rapporto
dell’uomo con la terra. Ma la terra ha due malattie:
- l’uomo in quanto essere addomesticato;
- lo stesso cane di fuoco, ossia l’attività generica che ne deriva: distorta, snaturata, soggiogata dalle
forze reattive e asservita alla Chiesa e allo Stato.
Ma Zarathustra chiama in causa un altro cane di fuoco: “questo parla davvero dal cuore della terra”.
Si tratta ancora dell’attività generica, colta, questa volta, nell’elemento della preistoria, cui
corrisponderebbe l’uomo come prodotto dell’elemento post-istorico? Per quanto insufficiente,
questa interpretazione deve essere presa in esame se non altro perché già nelle “Considerazioni
inattuali” Nietzsche sperava in quell’elemento “antistorico e sovrastorico” della cultura. Se lo
schema delle Considerazioni inattuali risulta insufficiente, l’opera di Nietzsche presenta tuttavia
altre prospettive che potrebbero portare a una soluzione. L’attività della cultura si prefigge di
addestrare l’uomo, di suscitare cioè nelle forze reattive l’attitudine a servire e a essere agite. Ma nel
corso dell’addestramento tale attitudine rimane a un livello di profonda ambiguità in quanto
consente alle forze reattive di mettersi al servizio di altre forze reattive e di conferire ad esse una
parvenza di attività e di giustizia; questa unione dà luogo a una finzione in grado di prevalere sulle
forze attive. Si ricorderà che nel risentimento alcune forze reattive impedivano ad altre forze
reattive di essere agite; al medesimo scopo la cattiva coscienza impiega dei mezzi quasi opposti.

Cattiva coscienza, responsabilità, colpa


Una volta innestatesi sull’attività generica, le forze reattive ne interrompono la “discendenza”.
Avviene una ulteriore proiezione: il debito, la relazione creditore-debitore viene proiettata, di modo
che la sua natura si ritrova modificata. Dal punto di vista dell’attività generica, l’uomo era ritenuto
responsabile delle proprie forze reattive, le quali erano perciò chiamate a rispondere di fronte a un
tribunale attivo. L’associazione di forze reattive è in tal modo accompagnata da una trasformazione
del debito, il quale diventa debito nei confronti della “divinità”, della “società”, dello “Stato”, delle
formazioni reattive. L’idea cristiana di “remissione” non implica una liberazione dal debito bensì
una sua radicalizzazione; il dolore non paga altro che gli interessi del debito, incatenandoci ad esso
e facendosi sentire debitori in eterno: il dolore è interiorizzato, la responsabilità-debito è diventata
responsabilità-colpa, tanto che sarà necessario che lo stesso creditor si faccia carico del debito, che
se ne assuma l’onere. Si noterà una differenza di natura tra le due forme di responsabilità, la
responsabilità-debito e la responsabilità-colpa: l’una trae origine dall’attività della cultura, ne è solo
il mezzo atto a sviluppare il senso esterno del dolore e deve scomparire nel prodotto per lasciare il
posto alla bella irresponsabilità; nell’altra tutto è reattivo, trae origine dall’accusa del risentimento,
si innesta sulla cultura e la devia dal suo senso, induce il risentimento a un cambiamento di
direzione che lo porta a cercare il colpevole non più all’esterno e a eternizzarsi interiorizzando il
dolore. La lunga analisi precedente ci fornisce gli elementi per una risposta:
1) Le forze reattive, dopo aver usurpato l’attività generica, si servono della complicità di
quest’ultima per formare delle associazioni. Alcune forze reattive simulano un agire mentre altre
vengono utilizzate come materia: “dove esistono armenti, è l’istinto della debolezza ad aver voluto
l’armento e l’accortezza del prete ad averlo organizzato”.
2) In questo ambito prende forma la cattiva coscienza: il debito, una volta sottratto all’attività
generica, viene proiettato nell’associazione reattiva e si trasforma così in rapporto tra un debitore
che non finirà di pagare e un creditore che non finirà di consumare gli interessi del debito.
3) Ma il prete non si limita ad avvelenare il gregge; egli lo organizza e lo difende, inventa i mezzi
per farci sopportare il dolore moltiplicato e interiorizzato, rende sopportabile la colpa che egli stesso
inietta, ci fa partecipi di una apparente attività e di una apparente giustizia al servizio di Dio, ci
coinvolge nell’aggregazione e risveglia in noi “il desiderio di veder prosperare la comunità”.

L’ideale ascetico e l’essenza della religione


Sembra che talvolta Nietzsche distingua due o più tipi di religione. In tal senso la religione non
sarebbe essenzialmente legata al risentimento o alla cattiva coscienza. Esistono divinità e religioni
attive e affermative e che ogni selezione implica una religione e seguendo il metodo a lui caro
riconosce alla religione una pluralità di sensi a seconda delle diverse forze che possono
impadronirsene. Se si considera il Cristo come tipo personale, distinguendolo dal cristianesimo
come tipo collettivo, si deve addirittura riconoscere quanto egli fosse privo di risentimento e di
cattiva coscienza nell’annunciare un messaggio di gioia e una vita ben diversa da quella del
cristianesimo, il che ci dà modo di vedere come quest’ultimo sia una religione ben diversa da quella
professata da Cristo. Se il senso della religione dipende dalle forze che sono in grado di
impadronirsene, la stessa religione è a sua volta una forza che può presentare un’affinità più o meno
accentuata con le forze che ne impadroniscono o di cui essa si impadronisce. Fin tanto che la
religione è governata da forze di altra natura essa non può raggiungere il suo grado superiore,
l’unico che abbia importanza e che le consentirebbe di non essere più solo un mezzo. Quando
invece viene dominata da forze della stessa natura oppure, accrescendosi, se ne impossessa
scrollandosi di dosso il giogo di quelle forze da cui era inizialmente dominata, la religione rivela il
proprio grado superiore e, con esso, la propria essenza. Nel caso di Cristo l’aspetto religione della
credenza o della fede rimane interamente soggiogato dalle forze di una pratica, in virtù della quale
soltanto “ci si può sentire divini”. Quando per contro la religione diventa libera di “agire
sovranamente”, e sono le altre forze a doversi provvedere di una maschera per sopravvivere, ciò
significa che essa ha raggiunto la propria essenza; allora il prezzo da pagare diventa “pesante e
terribile”. Secondo Nietzsche c’è un legame essenziale tra la religione da una parte e la cattiva
coscienza e il risentimento dall’altra. La religione non è solo una forza: mai le forze reattive
potrebbero trionfare, portano la religione sino al suo grado superiore, se la religione non fosse di per
sé animata da una volontà, la volontà di condurre al trionfo le forze reattive.
1) In un primo senso, l’ideale ascetico denota l’unione in cui vengono a intrecciarsi e a rafforzarsi
reciprocamente il risentimento e la cattiva coscienza;
2) in secondo luogo esso denota l’insieme dei mezzi di cui la malattia del risentimento e il dolore
della cattiva coscienza si servono per diventare sopportabili, per organizzarsi e propagarsi: il prete
asceta è insieme giardiniere, allevatore, pastore e medico;
3) infine, nel suo senso più profondo, l’ideale ascetico esprime la volontà che fa trionfare le forze
reattive: “l’ideale ascetico esprime una volontà”.
Ritroviamo qui l’idea di una complicità di fondo tra le forze reattive e una forma della volontà di
potenza, giacché le forze reattive non riuscirebbero mai a prelevare senza una volontà che sviluppi
le proiezioni e che organizzi le necessarie finzioni. Anche la volontà del nulla ha bisogno delle
forze reattive, non solo perché può sopportare la vita solo nella sua forma reattiva, ma anche perché
la vita reattiva le serve come mezzo che costringa la vita a contraddirsi, a negarsi e a nientificarsi.

Trionfo delle forze reattive


La tipologia nietzscheana chiama in causa un’intera psicologia del profondo; i processi che
corrispondono ai momenti del trionfo delle forze reattive costituiscono in Inparticolare una teoria
dell’inconscio che dovrebbe venir confrontata con il freudismo. Nietzsche elabora una filosofia che
sostituisca la vecchia metafisica e la critica trascendentale e che fornisca alle scienze dell’uomo un
nuovo fondamento.

V. IL SUPERUOMO: CONTRO LA DIALETTICA


Il nichilismo
Nel termine nichilismo, nihil non sta a significare il non-essere, ma esprime anzitutto un certo
valore del nulla, quel valore che la vita assume dopo esser stata negata e svalutata. La svalutazione
presuppone sempre una finzione, attraverso la quale soltanto è possibile falsificare e svalutare la
vita, contrapporvi qualcosa di modo che essa diventi irreale, si configuri come un’apparenza e
assuma globalmente il valore di nulla. I valori superiori alla vita portano sempre a una svalutazione
della vita e a una negazione del mondo terreno, effetto da cui non possono esser disgiunti in quanto
proprio la volontà di negare e di svalutare costituisce il loro principio. Il nichilismo ha anche però
un secondo e più comune significato, che consiste nell’indicare non una volontà ma una reazione,
una reazione contro il mondo sovrasensibile e contro i valori superiori, di cui si negano l’esistenza e
la validità: non più svalorizzazione degli stessi valori superiori, dove svalorizzazione non è più il
valore di nulla che la vita assume, ma il nulla di valori, dei valori superiori. Il nichilista nega Dio, il
bene, nega anche il vero e ogni forma del sovrasensibile: niente è vero, niente è bene, Dio è morto.
Due sensi del nichilismo:
1) il primo senso del nichilismo derivava dal principio della volontà di negare come volontà di
potenza  nichilismo negativo;
2) il secondo senso, “pessimismo della debolezza”, deriva dal principio della vita reattiva, nuda e
sola, dalle forze reattive ridotte a se stesse  nichilismo reattivo.

Analisi della compassione


La fondamentale complicità tra la volontà del nulla e le forze reattive consiste nel fatto che la prima
fa trionfare le seconde. La volontà del nulla, il cui fine è di negare la vita, se per un verso tollera la
vita reattiva come stato in cui la vita è prossima allo zero, ne ha per altro verso bisogno come mezzo
per spingere la vita a negarsi, a contraddirsi. C’è dunque chi può testimoniare della vittoria delle
forze reattive o, peggio ancora, può collaborarvi; esse però, nel loro trionfo, ne sopportano sempre
meno la presenza: vogliono trionfare da sole e non dover niente a nessuno, forse perché temono che
la volontà di potenza possa approfittare della loro vittoria e raggiungere il suo oscuro scopo, o forse
perché temono che la volontà di potenza si volga contro di esse distruggendole. Dio è morto; ma di
che cosa? E’ morto di compassione, afferma Nietzsche. Questa morte viene presentata ora come
accidentale, ora invece è l’effetto di un atto criminoso: “la sua compassione non conosceva il
pudore”. Che cos’è la compassione? E’ la tolleranza degli stati della vita prossimi allo zero, è
l’amore per la vita, ma per la vita debole, malata, reattiva; è l’annuncio della vittoria finale dei
poveri, dei sofferenti, degli impotenti, degli umili cui, nel suo farsi divina, concede questa vittoria.
La compassione per la vita reattiva in nome di valori superiori e la compassione di Dio per l’uomo
reattivo ci fanno intuire quale volontà si nasconda in questo modo di amare la vita, in questo Dio di
misericordia, in questi valori superiori. Dio è strangolato dalla compassione, come se la vita reattiva
gli venisse ricacciata in gola. L’uomo reattivo condanna a morte Dio perché non ne sopporta più la
compassione; non, tollera più testimoni, vuole essere solo nel suo trionfo, solo, con le sue proprie
forze. L’uomo reattivo prende il posto di Dio: non riconosce più valori superiori alla vita, ma solo
una vita reattiva paga di sé che pretende di distillare autonomamente i propri valori. Per
contrapporti a Dio, l’uomo reattivo gli rivolge contro tutte le armi che Dio gli aveva fornito: il
risentimento e la cattiva coscienza in tutte le figure del suo trionfo; il risentimento, pur diventando
ateo, rimane risentimento e lo stesso vale per la cattiva coscienza. L’ultimo uomo, il discendente
dell’assassino di Dio: meglio nessuna volontà, meglio un solo gregge. Anche se raccontata in un
altro modo, la storia ci porta dunque alla medesima conclusione: il nichilismo negativo viene
sostituito dal nichilismo reattivo, che a sua volta sfocia nel nichilismo passivo; da Dio all’assassino
di Dio, dall’assassino di Dio all’ultimo uomo. L’uomo-Dio, l’uomo morale, l’uomo sociale sono i
nuovi valori che ci vengono proposti in sostituzione die valori superiori, i nuovi personaggi che
sostituiscono Dio; e gli ultimi uomini soggiungono: “noi abbiamo inventato la felicità”. I valori
possono cambiare, rinnovarsi o addirittura scomparire; ma ciò che non cambia e non scompare è la
prospettiva nichilistica che governa questa storia dall’inizio alla fine e dalla quale derivano sia i
valori sia la successiva scomparsa.

Dio è morto
Dio non esiste, oppure esiste, nella misura in cui la sua idea implichi o meno contraddizione. Ma la
formula “Dio è morto” è di natura completamente diversa, in quanto pone l’esistenza di Dio in
relazione a una sintesi, opera la sintesi tra l’idea di Dio e il tempo, il divenire, la storia, l’uomo. Dio
è esistito ed è morto.
Dio si è fatto uomo e l’uomo si farà Dio. Dio è morto.
1) Punto di vista del nichilismo negativo, coscienza ebraica e cristiana:

DIO EBRAICO  il Dio ebraico uccide il proprio figlio per renderlo indipendente da sé e dal
popolo ebraico: primo senso della morte di Dio. La coscienza ebraica uccide Dio nella persona del
Figlio.
DIO CRISTIANO  il Dio cristiano è il Dio ebraico diventato cosmopolita, è la conclusione
separata dalle premesse. Sulla croce Dio cessa di essere ebraico; anzi, è proprio il vecchio Dio a
morire sulla croce, mentre nasce il Dio nuovo. Nasce orfano e si reinventa un padre a propria
immagine, un Dio d’amore: ma sempre amore della vita reattiva. Ecco il secondo senso della morte
di Dio: il Padre muore e il Figlio ci dà nuovamente un Dio, ci chiede soltanto di credere in lui, di
amarlo come lui ci ama, di diventare reattivi per sfuggire all’odio.
DA SAN PAOLO  san Paolo prende questa morte e ne dà una interpretazione che porterà alla
costituzione del cristianesimo, perfezionando la grandiosa falsificazione incominciata con i Vangeli.
Anzitutto Cristo sarebbe morto per i nostri peccati; il debito era così grande da indurre il creditore a
offrire il proprio figlio, a pagarsi con il proprio figlio; il padre uccide suo figlio non più per renderlo
indipendente, ma lo fa per noi, a causa nostra. Dio fa morire suo figlio sulla croce per amore; questo
amore sarà corrisposto nella misura in cui ci sentiremo colpevoli di questa morte.
La vita muore per rinascere reattiva. La vita reattiva è il contenuto della vita eterna in quanto tale, il
contenuto della resurrezione; essa soltanto è prediletta da Dio e trova grazia presso di lui, presso la
volontà del nulla.

2) Punto di vista del nichilismo reattivo, coscienza europea:


Il quarto senso della morte di Dio vede quest’ultimo soffocare per amore della vita reattiva,
strangolato da quell’ingrato che egli ama troppo.

3) Punto di vista del nichilismo passivo, coscienza buddhista:


Se teniamo conto delle falsificazioni che incominciano con i Vangeli per concludersi in forma
definitiva con san Paolo, che cosa rimane di Cristo, qual è il suo tipo personale, qual è il senso della
sua morte? Per rispondere, dobbiamo farci guidare da quella che Nietzsche chiama l’ “aperta
contraddizione” del Vangelo, cioè da quegli aspetti del vero Cristo che i testi lasciano trapelare: la
lieta novella che egli annunciava, la soppressione dell’idea di peccato, l’assenza di qualsiasi
risentimento e di ogni spirito di vendetta, il rifiuto di qualsiasi guerra, anche di difesa, la rivelazione
di un regno di Dio sulla terra come condizione del cuore, e, soprattutto, l’aver accettato la morte
come prova della sua dottrina. E’ chiaro che Nietzsche vuole arrivare a una figura di Cristo da
contrapporre a quella di san Paolo: il vero Cristo era una specie di Buddha, “un Buddha, su un
terreno molto poco indiano”, troppo in anticipo rispetto all’epoca e al mondo in cui visse. Al di là
della cattiva coscienza e del risentimento Gesù impartiva una lezione all’uomo reattivo: gli
insegnava a morire; egli era il più dolce, il più interessante dei decadents. Cristo non era né ebreo né
cristiano: era buddhista, più vicino al Dalai-Lama che al papa; ma era tanto in anticipo per la sua
gente e per il mondo di allora, che la sua morte non poteva non essere distorta; tutta la sua storia
non poteva non essere falsificata, degradata, messa al servizio degli stati precedenti, volta a
vantaggio del nichilismo negativo o reattivo, “rovesciata da Paolo in una dottrina misterica pagana,
che apprende infine a riconciliarsi con tutta l’organizzazione statale”. Il cristianesimo vive come
impulso ciò che il buddhismo era riuscito a vivere come fine realizzata, come perfezione raggiunta.
Non è escluso che il cristianesimo possa raggiungere questa fine, che sfoci in una “pratica”
completamente affrancata dalla mitologia paolina, che ritrovi la vera pratica del Cristo.

Contro lo hegelismo
Sarebbe sbagliato considerare questa filosofia della storia e della religione come una ripresa o
addirittura una caricatura delle concezioni di Hegel: Dio è morto, Dio è diventato Uomo, l’Uomo è
diventato Dio. Siamo in presenza di un rapporto e di una differenza più profondi, perché
diversamente dai suoi predecessori, Nietzsche non crede in questa morte, non scommette su questa
croce, non vede cioè in questa morte un evento che avrebbe in sé il proprio senso. Contro ogni
romanticismo, contro ogni dialettica, Nietzsche diffida della morte di Dio, con lui finisce l’epoca
della fiducia ingenua che acclamava sia la riconciliazione dell’uomo con Dio sia la sostituzione di
Dio con l’uomo. Nietzsche non crede nei grandi e clamorosi venti: un evento ha bisogno di molto
silenzio e di molto tempo per trovare infine le forze in grado di dargli una essenza. Secondo
l’interpretazione di Hegel il significato della morte di Cristo sta nel superamento dell’opposizione,
nella riconciliazione tra finito e infinito, nell’unità di Dio e dell’individuo, dell’immutabile e del
particolare; sarà necessario che la coscienza cristiana percorra altre figure dell’opposizione affinché
questa unità diventi per sé ciò che essa è già in sé. Al contrario il tempo di cui parla Nietzsche è
necessario per la formazione delle forze che diano alla morte di Dio un senso che essa non ha in sé,
che le conferiscano una essenza determinata, lo splendido dono dell’esteriorità. La dialettica non
sfiora nemmeno l’interpretazione, non si spinge mai oltre l’ambito dei sintomi; essa confonde
l’interpretazione con lo sviluppo del sintomo non interpretato. Per questo motivo essa non riesce a
vedere nello sviluppo e nel cambiamento niente di più profondo che una astratta permutazione con
cui il soggetto diventa predicato e il predicato soggetto. La dialettica vive di opposizioni perché
ignora i ben più sottili e sotterranei meccanismi differenziali: gli spostamenti topologici e le
variazioni tipologiche. Lo si può constatare in un esempio caro a Nietzsche: la sua teoria della
cattiva coscienza deve essere interamente compresa come reinterpretazione della coscienza infelice
hegeliana; questa coscienza, apparentemente scissa, trova il proprio senso nei rapporti differenziali
tra forze che si nascondono dietro finte opposizioni. Analogamente, il rapporto tra cristianesimo ed
ebraismo lascia sussistere l’opposizione solo come copertura e come pretesto: privata di tutti i suoi
diritti, l’opposizione cessa di essere principio di formazione, di movimento e coordinamento, e si
riduce a sintomo. L’opera di Nietzsche muove alla dialettica tre diverse obiezioni: di fraintendere il
senso in quanto ignora la natura delle forze che concretamente si impossessano dei fenomeni; di
fraintendere l’essenza in quanto ignora l’elemento reale del quale le forze, con le loro qualità e
secondo i loro rapporti, provengono; di fraintendere il cambiamento e le trasformazioni, in quanto si
accontenta di operare permutazioni all’interno di termini astratti e irreali. Con stile hegeliano ci
viene annunciato che l’uomo e Dio, che la religione e la filosofia, si riconciliano; con stile
feuerbachiano ci viene annunciato che l’uomo, riappropriandosi dell’essenza del divino, prende il
posto di Dio, mentre la teologia diventa antropologica. Dio diventa Uomo, l’Uomo diventa Dio; ma
chi è l’Uomo? Sempre l’essere reattivo, il rappresentante e il soggetto di una vita debole e svalutata.
Che cos’è Dio? Sempre l’Essere supremo per il cui tramite la vita viene svalutata, l’ “oggetto” della
volontà del nulla, il “predicato” del nichilismo. Prima e dopo la morte di Dio, l’uomo resta “quel
che è” come Dio resta “ciò che è”: forze reattive e volontà del nulla. La dialettica è la natura
ideologia del risentimento e della cattiva coscienza, è il pensiero nella prospettiva del nichilismo e
dal punto di vista delle forze reattive. La morte di Dio è il grande e clamoroso evento dialettico;
esso è però circondato dal baccano delle forse reattive e dai fumi del nichilismo.

Le trasformazioni della dialettica


Stirner rappresenta l’ultima fase, il punto estremo della storia della dialettica e occupa quindi un
posto particolare. Egli tentò di conciliare la dialettica con l’arte dei sofisti. Nietzsche dirà che
l’uomo più brutto, pur avendo ucciso Dio perché non ne sopportava la compassione, è ancora
esposto alla compassione degli Uomini. “Dovresti essere non solo un uomo libero, ma anche un
individuo proprietario”. Per Hegel si trattava di conciliare la dialettica con la religione, con la
Chiesa, con lo Stato, con tutte le forze da cui era alimentata; ed è noto che le famose trasformazioni
hegeliane comportano sempre una pietosa conservazione di ciò che è superato: la trascendenza resta
trascendente in seno all’immanente. Con Feuerbach il senso della “riappropriazione” è mutato in
direzione di una minor conciliazione e di un maggior recupero di proprietà trascendenti da parte
dell’umano: niente viene conservato, tranne l’umano in quanto “essere assoluto e divino”. Ma
questa conservazione, quest’ultima alienazione scompare con Stirner: lo Stato, la religione, ed
anche l’essenza umana sono negate dall’io che non si riconcilia con niente perché annienta tutto in
nome della propria “potenza”. Il libro di Stirner muoveva da tre distinte esigenze:
- una approfondita analisi dell’insufficienza del concetto di riappropriazione nei suoi predecessori;
- la scoperta del rapporto essenziale tra la dialettica e una teoria dell’io, essendo l’io l’unica istanza
di riappropriazione;
- una visione profonda dell’esito cui giunge la dialettica con e nell’io.
La storia in generale e lo hegelismo in particolare trovavano così un esito definitivo, ma anche una
completa dissoluzione, nel trionfo del nichilismo.

Nietzsche e la dialettica
Le conoscenze filosofiche di un autore non vanno valutate né in base alle sue citazioni né in base a
fantasiosi e congetturali inventare di biblioteche, ma piuttosto sulla scorta delle mire, apologetiche e
polemiche, della sua opera; e questo vale anche nel caso di Nietzsche, di cui si avrebbe una
comprensione errata se non si riuscisse a scorgere “contro chi” sono rivolti i principali concetti della
sua intera opera, dove proprio le tematiche hegeliane rappresentano il nemico da combattere. Il
ruolo di Stirner consiste nel far emergere queste implicazioni della dialettica, che, portata alle sue
conseguenze estreme, rivela fino a che punto possa spingersi e quale ne sia l’impulso. L’uomo della
dialettica, non essendo più altro che uomo ed avendo nientificato del tutto ciò che esso non è, è
l’uomo più miserabile; ma è anche il migliore, perché ha soppresso l’alienazione, sostituito Dio,
recuperato le sue proprietà. Il superuomo si qualifica per un nuovo modo di sentire che lo rende un
soggetto diverso dall’uomo, un tipo diverso dal tipo umano; un nuovo modo di pensare, per
predicati diversi da quelle divini, che restano una delle maniera di conservare l’uomo e di
conservare l’essenziale di Dio, Dio come attributo; per un nuovo modo di valutare che implica non
un cambiamento di valori, una permutazione astratta o un capovolgimento dialettico, ma un
cambiamento e un rovesciamento dell’elemento da cui proviene il valore dei valori, una
“trasvalutazione”.

Teoria dell’uomo superiore


La teoria dell’uomo superiore si colloca nel IV e fondamentale libro del “Così parlo Zarathustra”. I
personaggi che compongono la figura dell’uomo superiore sono l’indovino, i due re, l’uomo delle
sanguisughe, il mago, l’ultimo papa, l’uomo più brutto, il mendicante volontario e l’ombra. L’uomo
superiore è l’immagine in cui l’uomo reattivo rappresenta se stesso come “superiore” e si deifica,
ma nel contempo è l’immagine in cui si manifesta il prodotto della cultura o dell’attività generica.
L’indovino della grande stanchezza rappresenta il nichilismo passivo ed è il profeta dell’ultimo
uomo. Egli vuole la morte, ma come estinzione passiva.

IL MAGO: è la “cattiva coscienza”, il “falsario”, il “penitente dello spirito”, il “demone della


malinconia” che fabbrica la propria sofferenza per sollecitare la compassione, per diffondere il
contagio.
L’UOMO PIU’ BRUTTO: rappresenta il nichilismo reattivo. L’uomo reattivo ha rivolto il suo
risentimento contro Dio, dopo averlo ucciso ne ha preso il posto, ma non per questo cessa di essere
reattivo, pieno di cattiva coscienza e di risentimento.
I DUE RE: sono i costumi, l’eticità dei costumi e i due scopi di questa eticità, le due estremità della
cultura. Essi si rappresentano l’attività generica colta nel principio preistorico della determinazione
dei costumi, ma anche nel prodotto post-istorico dove i costumi sono soppressi.
L’UOMO DELLE SANGUISUGHE: rappresenta la scienza come prodotto della cultura; egli è “il
coscienzioso dello spirito” che ha voluto la certezza, che ha voluto appropriarsi della scienza, della
cultura.
L’ULTIMO PAPA: ha consacrato la propria esistenza a un lungo servizio e rappresenta la religione
come prodotto della cultura. Servì Dio sino alla fine, rimettendoci un occhio.
IL MENDICANTE VOLONTARIO: ha percorso tutta la specie umana, dai ricchi ai poveri, alla
ricerca del “regno dei cieli”, della “felicità sulla terra” come ricompensa, ma anche come prodotto
dell’attività umana generica e culturale. Il mendicante volontario ha trovato il regno dei cieli, unica
ricompensa e vero prodotto di una attività generica: ma l’ha trovato presso le mucche e solo nella
loro attività generica, nel ruminare.
L’OMBRA: è il viandante, l’attività generica stessa, la cultura nel suo movimento. Il significato del
viandante e la sua ombra sta nel fatto che solo l’ombra viaggia, l’ombra è l’attività generica che,
perduti il proprio prodotto e il proprio principio, ne va follemente alla ricerca.

I DUE RE SONO CUSTODI DELL’ATTIVITA’ GENERICA, L’UOMO DELLE


SANGUISUGHE E’ IL PRODOTTO DI QUESTA ATTIVITA’ COME SCIENZA, L’ULTIMO
PAPA E’ IL PRODOTTO DI QUESTA ATTIVITA’ COME RELIGIONE; IL MENDICANTE
VOLONTARIO VUOLE SAPERE, AL DI LA’ DELLA SCIENZA E DELLA RELIGIONE,
QUALE SIA IL PRODOTTO ADEGUATO A QUESTA ATTIVITA’; L’OMBRA E’ QUESTA
ATTIVITA’ MEDESIMA CHE PERDE IL PROPRIO SCOPO ED E’ ALLA RICERCA DEL
PROPRIO PRINCIPIO.

L’uomo è essenzialmente reattivo?


La critica di Nietzsche prende di mira l’essenza stessa dell’uomo e non un suo semplice accidente: è
nella sua essenza che l’uomo viene definito una malattia della pelle della terra. D’altra parte però
Nietzsche parla dei signori come di un tipo umano che gli schiavi avrebbero soltanto sconfitto, parla
della cultura come di un’attività generica umana che le forze reattive avrebbero semplicemente
deviato dal suo senso e parla dell’individuo libero e sovrano come del prodotto umano di
quell’attività che l’uomo reattivo avrebbe soltanto deformato, cosicché la storia dell’uomo
sembrerebbe scandita anche da periodi attivi. L’uomo attivo è un uomo bello, giovane e forte, sul
volto del quale tuttavia si possono decifrare i segni discreti di una malattia che esso ancora non ha,
di un contagio di cui verrà colpito. Occorre difendere i forti dai deboli, ma questo compito è
disperato, perché se il forte può opporsi ai deboli, non può invece opporsi al più sottile divenire-
debole insito in lui. In Nietzsche sono due gli aspetti dell’uomo superiore:
- il suo carattere reattivo
- il suo carattere attivo
Essi vengono a conciliarsi: se a un primo sguardo l’attività dell’uomo si presenta come attività
generica sulla quale si innestano forze reattive che la snaturano e la deviano dal suo senso, più in
profondità però è il divenire reattivo di tutte le forse a costituire la vera genericità dell’uomo, in
quanto l’attività non è altro che il termine particolare di tale divenire. Nietzsche vuole dire che
l’attività generica dell’uomo o della cultura esiste solo come punto di partenza di un divenire-
reattivo che trasforma il principio e il prodotto di questa attività in un fallimento. La dialettica, il
movimento dell’attività come tale, è anch’essa essenzialmente fallita; fallisce essenzialmente in
quanto il movimento di riappropriazione dell’attività dialettica coincide con il divenire-reattivo del
e nell’uomo. L’essenza dell’uomo è il divenire-reattivo delle forze che egli estende addirittura al
mondo: il divenire-reattivo diventa universale; l’essenza dell’uomo e del mondo che abita è il
divenire reattivo di tutte le forze: il nichilismo, nient’altro che il nichilismo. L’uomo e la sua attività
generica sono le due malattie della pelle della terra. Resta ancora da chiedersi perché lo scopo e il
prodotto dell’attività generica siano essenzialmente mancati ed esistano solo in quando fallimento.
La risposta è semplice: basti ricordare che l’attività generica vuole addestrare le forze reattive per
renderle atte ad essere agite, per renderle a loro volta attive; ma questo progetto non può realizzarsi
senza la potenza di affermare costitutiva del divenire attivo. Ora, le forze reattive sono riuscite a
trovare – nel nichilismo – l’alleato che la conduce alla vittoria. L’uomo superiore si ferma
all’elemento astratto dell’attività, senza mai innalzarsi, nemmeno col pensiero, sino all’elemento
dell’affermazione; egli pretende di rovesciare i valori, di trasformare la reazione in azione.
L’impresa dell’uomo superiore fallisce, e non accidentalmente, ma fondamentalmente ed
essenzialmente, perché invece di formare un divenire-attivo alimenta il divenire contrario; invece di
rovesciare i valori si limita a scambiarli tra loro mantenendo il punto di vista nichilistico da cui
derivano; invece di addestrare le forze per renderle attive, le forze reattive trovano la possibilità di
organizzarsi. Le condizioni che consentirebbero il realizzarsi dell’impresa dell’uomo superiore sono
tali che ne cambierebbero la natura: l’affermazione dionisiaca si sostituirebbe all’attività generica
dell’uomo; ma l’elemento dell’affermazione appartiene al superumano, ed è proprio l’elemento che
manca all’uomo, e in particolare all’uomo superiore. Nietzsche esprime simbolicamente questa
mancanza, questa lacuna nel cuore dell’uomo, in quattro modi:
1) ci sono cose che l’uomo superiore non sa fare: ridere, giocare, danzare;
2) gli stessi uomini superiori riconoscono la “superiorità” dell’asino e lo adorano come un dio;
attraverso il loro vecchio modo teologico di pensare intuiscono il mistero dell’asino, ciò che il suo
raglio e le sue lunghe orecchie nascondono: l’asino è l’anima dionisiaco;
3) il simbolismo dell’ombra presenta un senso analogo: l’ombra è l’attività dell’uomo, ma essa ha
bisogno della luce, senza luce l’ombra svanisce;
4) i due cani di fuoco sono l’uno la caricatura dell’altro: uno agisce in superficie, nel fragore e nel
fumo, e alla superficie si nutre facendo bollire la mela; cioè significa che la sua attività serve
soltanto a nutrire, a riscaldare, a trattenere nell’universo un divenire-reattivo.
Nichilismo e trasmutazione: il punto focale
Il potere del nichilismo è vasto e si manifesta tanto nei valori superiori alla vita quanto nei valori
reattivi che ne prendono il posto fino al mondo senza valori dell’ultimo uomo, esercitandosi
attraverso l’elemento della svalutazione, del negativo come volontà di potenza, della volontà come
volontà del nulla. Il dominio del negativo si traduce sempre nella svalutazione della vita. Finché si
rimane nel negativo, si avrà dunque un bel dire di aver cambiato o soppresso i valori, di aver ucciso
Dio: se ne conserverà invece il posto e l’attributo, si conserverà il sacro e il divino, anche se il posto
viene lasciato vuoto e il predicato non viene attribuito; solo quando si cambierà l’elemento del
valore si potrà dire di aver rovesciato tutti i valori finora conosciuti o conoscibili. La critica dei
valori fino a oggi conosciuti non può essere radicale, assoluto e immune da compromessi, se non
viene condotta in nome di e a partire da una trasmutazione; la quale porterebbe a compimento il
nichilismo conferendo alla critica dei valori una forma “totalizzante e compiuta”. La volontà di
potenza è spirito; ma cosa poteremmo saperne se non ci fosse lo spirito di vendetta a svelarci i suoi
strani poteri? La volontà di potenza è corpo; ma cosa potremmo sapere del corpo se non ci fosse la
malattia a farcelo conoscere? Analogamente il nichilismo non è soltanto una volontà di potenza o
una sua qualità, ma è la ratio cognoscendi della volontà di potenza in generale e tutti i valori
conosciuti e conoscibili ne derivano per natura. Se il nichilismo ci fa conoscere la volontà di
potenza, questa per contro ci rivela che conosciamo solo una forma del nichilismo, la forma del
negativo, che ne costituisce peraltro un solo aspetto, una qualità: no “pensiamo” la volontà di
potenza in una forma distinta da quella in cui la conosciamo. Se le forze reattive rompo l’alleanza
con la volontà del nulla, a sua volta la volontà del nulla rompe l’alleanza con le forze reattive. E’
importante non confondere ciò che Nietzsche chiama auto-distruzione o distruzione attiva, con
l’estinzione passiva dell’ultimo uomo, né bisogna confondere, a livello terminologico, “l’ultimo
uomo” con “l’uomo che vuole perire”: il primo è il prodotto ultimo del divenire reattivo, l’ultima
specie in cui l’uomo reattivo, stanco di volere, si conserva; mentre il secondo è il prodotto di una
selezione che, pur passando attraverso l’ultimo uomo, non si arresta a quel punto. Distruzione attiva
indica il punto, il momento della trasmutazione della volontà del nulla. La distruzione diventa attiva
nel momento in cui la volontà del nulla, rotta l’alleanza con le forze reattive, inverte il suo corso e
passa sul versante dell’affermazione, legandosi a una potenza di affermare che distrugge le forze
reattive. La distruzione diventa attiva nella misura in cui il negativo si trasmuta, si converte in
potenza affermativa.

L’affermazione e la negazione
I significati della trasmutazione, della valutazione sono:
1) Cambiamento di qualità nella volontà di potenza. I valori, e il loro valore, non derivano più dal
negativo ma dall’affermazione come tale. La vita, in logo di una svalutazione, è oggetto di una
affermazione; ma anche l’espressione “in luogo di” è inadeguata, in quanto ciò implica che il luogo
stesso venga cambiato, che non ci sia più posto di natura, il valore dei valori trova un altro
principio.
2) Passaggio dalla ratio cognoscendi alla ratio essendi nella volontà di potenza. La ragione in virtà
della quale la volontà di potenza è conosciuta non è la ragione in virtù della quale essa è. Potremmo
pensare la volontà di potenza nella sua vera natura, potremo pensarla come essere, solo a
condizione di servirci della ratio cognoscendi come di una qualità che trapassa nel proprio
contrario, nel quale ritroveremo la sconosciuta ratio essendi.
3) Conversione dell’elemento nella volontà di potenza. Il negativo diventa potenza di affermare: si
sottomette all’affermazione, passa al servizio di un eccedente della vita. La negazione non è più la
forma sotto la quale la vita conserva tutto ciò che in essa vi è di reattivo ma, al contrario, è l’atto
con cui la vita sacrifica tutte le sue forme reattive.
4) Regno dell’affermazione nella volontà di potenza. Ormai l’affermazione sussiste come potenza
indipendente, da cui il negativo si sprigiona come un lampo, destinato però a venir riassorbito, a
dileguarsi come un fuoco che si scioglie.
5) Critica dei valori conosciuti. I valori fino ad oggi conosciuti perdono interamente il loro valore.
6) Rovesciamento del rapporto tra forze. L’affermazione è un divenire-attivo universale delle forze,
dove tutte le forze reattive sono negate e diventano attive. Il rovesciamento dei valori, la
svalorizzazione dei valori reattivi e l’instaurazione di valori attivi sono altrettante operazioni che
presuppongono la trasmutazione dei valori e la conversione del negativo in affermazione.
Affermazione e negazione sono qualità e ragioni della volontà di potenza tra loro contrapposte:
entrambe sono un contrario, ma ance il tutto che esclude ogni contrario. Non basta dire che la
negazione ha fino a oggi dominato il nostro pensiero e i nostri modi di sentire e di valutare, perché
in realtà essa è costitutiva dell’uomo; e con l’uomo il mondo interno si inabissa e diviene malato, la
vita intera viene svalutata e tutto ciò che è conosciuto scivola verso il nulla. Non c’è contraddizione
nel pensiero di Nietzsche: è vero che da una parte egli annuncia l’affermazione dionisiaca
incontaminata da negazioni mentre dall’altra denuncia l’affermazione dell’asio che non sa dire di no
e che non contempla alcuna negazione; ma in un caso l’affermazione esclude totalmente la
negazione come potenza autonoma o come qualità primaria, espellendo totalmente il negativo dalla
costellazione dell’essere; nell’altro invece egli fa notare come l’affermazione non potrebbe mai
essere reale e completa se non si facesse precedere e seguire dal negativo: le negazioni diventano
allora potenze di affermare. Mai l’affermazione potrebbe affermarsi sena che prima la negazione
abbia spezzato l’alleanza con le forze reattive e sia diventata potenza affermativa nell’uomo che
vuole perire e senza che, successivamente, la negazione riunisca e raccolga in una totalità tutti i
valori reattivi per distruggerli da un punto di vista che afferma.

Il senso dell’affermazione
Secondo Nietzsche l’affermazione implica due negazioni, due negazioni che sono però l’esatto
opposto delle negazioni dialettiche:
- da una parte l’affermazione è ciò che manca agli uomini superiori;
- dall’latra, la natura dell’affermazione negli uomini superiori è contraddittoria: “egli porta il nostro
fardello, egli prese forma di servo, egli è paziente nel suo cuore e mai dice di no”.

All’inizio l’asino è Cristo che si sobbarca i fardelli più pesante, che porta i frutti del negativo come
se in essi fosse racchiuso il mistero positivo per eccellenza. Poi, quando l’uomo prende il posto di
Dio, l’asino diventa libero pensatore e si appropria di tutto ciò che gli vien messo sulla groppa; non
c’è più bisogno di caricarlo perché lo fa già da sé; recupera lo Stato, la religione, ecc. come potenze
sue proprie; diventato Dio, tutti i vecchi valori dell’al di là appaiono ora come forze che guidano il
mondo terreno, come forze sue proprie. Gli uomini del presene vivono ancora con la vecchia idea
per cui è reale e positivo tutto ciò che pesa, è reale e affermativo tutto ciò che ha un peso; ma questa
realtà, in cui il cammello e il suo fardello sono uniti al punto da confondersi in un medesimo
miraggio, è soltanto deserto, è la realtà del deserto, il nichilismo. Dopo Hegel la filosofia si presenta
come un bizzarro miscuglio di ontologia e antropologia, di metafisica e umanismo, di teologia;
finché infatti l’affermazione si presenterà come finzione dell’essere l’uomo stesso non sarà che un
funzionario dell’affermazione e si ritroverà affermato in un essere che egli stesso afferma; finché
l’affermazione verrà a definirsi come una assunzione e un farsi carico, tra l’uomo e l’essere si
stabilirà un rapporto di fondo in termini atletici e dialettici. Per Nietzsche, negli “uomini del
presente”, negli “uomini della realtà!” la dialettica e il dialettizzare sono l’affresco di tutto quanto fu
creduto in passato. Nietzsche vuol dire tre cose:
1) l’essere, il vero, il reale sono altrettante sembianze del nichilismo, altrettanti modi;
2) l’affermazione intesa come assunzione, come affermazione di ciò che è, come veridicità del vero
o positività del reale è una falsa affermazione, è il sì dell’asino. L’asino non sa dire di no perché
dice di sì a tutto quanto è no;
3) questa falsa concezione dell’affermazione è ancora un modo per conservare l’uomo: finché
l’essere è pesante c’è sempre l’uomo reattivo pronto a sostenerlo.
Affermare non è farsi carico, assumere ciò che è, ma liberare, togliere peso a ciò che vive.
Affermare è alleggerire: non far carico alla vita del peso dei valori superiori, ma creare nuovi valori
di vita che la trasformino in leggerezza e attività. Ciò che avete chiamato mondo, deve ancora
essere da voi creato: esso deve diventare la vostra ragione, la vostra immagine, la vostra volontà, il
vostro amore. Ma questo è un compito che non può essere portato a termine dall’uomo poiché, per
quanto avanti riesca spingersi, l’uomo potrà tutt’al più elevare la negazione sino a farne una potenza
di affermare; ma l’affermazione in tutta la sua potenza, afferma l’affermazione, è qualcosa che va
oltre le forze dell’uomo. Il senso dell’affermazione può esplicitarsi soltanto se si tengono presenti i
tre punti fondamentali della filosofia di Nietzsche: non il vero o il reale, ma la valutazione;
l’affermazione non come assunzione ma come creazione; non l’uomo mai il superuomo come
nuova forma di vita.

La doppia affermazione: Arianna


L’affermazione è essere perché non ha altro oggetto che se stessa; l’essere è affermazione in quanto
oggetto di affermazione; di per sé e originariamente l’affermazione è divenire, ma in quanto oggetto
di un’altra affermazione che eleva il divenire a essere o che produce l’essere dal divenire
l’affermazione è essere. La prima affermazione è essere solo come oggetto della seconda
affermazione. Le due affermazioni costituiscono la potenza di affermare nel suo insieme.

1) AQUILA E SERPENTE: l’aquila è il grande anno, il periodo cosmico all’interno del quale si
colloca il destino individuale rappresentato dal serpente. L’aquila volteggia in larghi circoli con un
serpente attorcigliato intorno al collo, “non come una preda, ma come un amico”: l’affermazione
più fiera ha bisogno di essere accompagnata da una seconda affermazione, di duplicarsi
diventandone oggetto;
2) DIONISO E ARIANNA: il mistero di Arianna ha indubitabilmente una pluralità di sensi:
Arianna ama Teseo, rappresentazione dell’uomo superiore, sublime eroe che sì addossa fardelli e
sconfigge mostri; gli manca però la virtù del toro, il senso della terra che si prova sotto il giogo, e
quindi la possibilità di liberarsi e di rifiutare i fardelli. La femminilità delle terribili madri, sorelle e
spose rappresenta lo spirito di vendetta e il risentimento da cui l’uomo stesso è animato. Ma
Arianna, dopo essere stata abbandonata da Teseo, sente sopraggiungere una trasmutazione: la sua
potenza femminile si libera, diventa benefica e affermativa, si fa Anima: “il raggio di una stella
splenda nel vostro amore!”.
3) IL LABIRINTO O LE ORECCHIE: il labirinto è un’immagine frequente in Nietzsche e indica in
primo luogo l’inconscio, il sé; soltanto l’Anima è in grado di riconciliarci con l’inconscio, di
fornirci di un filo conduttore per esplorarlo. In secondo luogo il labirinto sta a indicare l’eterno
ritorno che, nella sua circolarità, non è il cammino perduto bensì il cammino che riporta allo stesso
punto.

Se consideriamo affermazione e negazione come qualità della volontà di potenza, possiamo vedere
che tra loro non c’è rapporto univoco. La negazione si oppone all’affermazione mentre quest’ultima
differisce dalla negazione. L’affermazione del divenire è l’affermazione dell’essere, ma solo in
quanto oggetto della seconda affermazione e qualora venga da questa portata a una nuova potenza.
La prima affermazione è Dioniso, il divenire, mentre la seconda è Arianna, lo specchio, la sposa, la
riflessione.

Dioniso e Zarathustra
L’eterno ritorno insegna che non c’è ritorno del negativo: l’essere è selezione e ritorna solo ciò che
afferma o che è affermato. L’eterno ritorno è la riproduzione del divenire che a sua volta è
produzione di un divenire attivo: il superuomo, figlio di Dioniso e Arianna. Nietzsche insegna che
la differenza è felice, che il molteplice, il divenire, il caso sono costitutivamente e autonomamente
oggetto di gioia, che solo la gioia ritorna. La trasmutazione istituisce un rapporto tra il negativo e
l’affermazione all’interno della volontà di potenza, tale che il negativo si trasforma in un semplice
modo di essere delle potenze di affermare. Questa trasmutazione di valori è l’essenza di
Zarathustra; egli attraversa il negativo ma non per trarne impulso o per assumerne il peso o il
prodotto, bensì per raggiungere il punto in cui l’impulso si modifica, il prodotto viene superato e il
negativo viene sconfitto o trasmutato. Con la trasmutazione la volontà di potenza si libera dai
vincoli del negativo e della sua ratio cognoscendi per mostrare la sua faccia sconosciuta, la
sconosciuta ragion d’essere che trasforma il negativo in semplice modo di essere. La trasmutazione
è principio e condizione dell’eterno ritorno, ma più in profondità essa dipende dall’terno ritorno che
ne è il principio incondizionato. E’ causa dell’eterno ritorno, ma una causa che tarda a produrre il
suo effetto. Zarathustra riconduce il negativo all’affermazione all’interno della volontà di potenza;
ma è anche necessario che la volontà di potenza sia ricondotta alla propria ragion d’essere e che
l’affermazione sia ricondotta all’elemento che ne produce, ne riflette e ne sviluppa la ragione: e
questo è il compito di Dioniso. Zarathustra è condizione di tutto ciò che è affermazione ma Dioniso
ne è il principio incondizionato. Zarathustra determina l’eterno ritorno, anzi, fa sì che l’eterno
ritorno produca il proprio effetto, il superuomo.

Conclusione
La filosofia di Nietzsche ha una grande portata polemica, è un’anti-dialettica assoluta che si
propone di denunciare tutte le mistificazioni che appunto nella dialettica trovano l’ultimo rifugio.
Schopenhauer sognava, una nuova immagine del pensiero, un pensiero libero dai fardelli da cui era
sovrastato. La dialettica hegeliana è una riflessione sulla differenza, ma una riflessione che ne
capovolge l’immagine. L’opposizione al posto della differenza rappresenta il trionfo delle forze
reattive che nella volontà del nulla hanno trovato un principio adeguato. Il risentimento ha bisogno
di premesse negative, di due negazioni, per produrre un fantasma di affermazione; l’ideale ascetico
ha bisogno del risentimento e della cattiva coscienza come il prestigiatore delle carte truccate. La
grandezza di Nietzsche sta nell’aver individuato il risentimento e la cattiva coscienza. Ma sua
polemica non è che l’aggressività derivante da un’istanza più profonda, attiva e affermativa. La
dialettica si generò della Critica kantiana, ovvero da una falsa critica, ma la vera critica implica una
filosofia che si sviluppi da sé e che conservi il negativo soltanto come modo di essere. Nietzsche
rimproverava ai dialettici di arrestarsi a una concezione astratta dell’universale e del particolare, di
restare intrappolati nei sintomi senza riuscire a spingersi sino alle forze e alla volontà che ad essi
danno senso e valore. Il senso della filosofia di Nietzsche è l’affermazione pura che ha come
oggetto il molteplice è la proposta speculativa mentre la gioia del diverso è la proposta pratica.

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