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Sant’Apollinare in Classe (Ravenna): oltre la Trasfigurazione

A Sant’Apollinare in Classe è bello arrivarci a piedi. La basilica si scorge da lontano, lungo la via Romea che
dall’Europa centrale portava i pellegrini a Roma. Il suo campanile si erge sulla pianura verdeggiante che
contrasta con il colore rosso dei mattoni.

La città di Classe nasce a circa sei chilometri a sud di Ravenna. Cesare Augusto ne aveva fatto il principale
porto militare dell’Adriatico. All’inizio del II sec. vi era arrivato Apollinare, proveniente da Antiochia. Egli
fonda la prima comunità cristiana di Classe e ne diventa il primo vescovo. Alla sua morte è sepolto nel
cimitero sopra il quale si costruirà la basilica attuale. Nelle iscrizioni antiche Apollinare è ricordato come
“sacerdote e confessore”. Da Giovanni Crisologo viene chiamato anche “martire”1.

Nel 402 Ravenna diventa sede imperiale. Alla fine del V sec. gli Eruli e poi i Goti di Teodorico occupano la
città. Prima del 540 l’intera regione diventa parte dell’Impero d’Oriente sotto l’esercito di Giustiniano
diretto dal suo generale Belisario. Proprio in quegli anni, il vescovo Ursicino intraprende la costruzione della
basilica di Classe con l’aiuto economico di Giuliano Argentario. La chiesa è consacrata dal vescovo
Massimiano il 9 maggio 549. I resti di Sant’Apollinare sono traslati nell’abside della basilica, che diventa così
un enorme “reliquiario” per la venerazione del fondatore della Chiesa di Classe e Ravenna. Come ricorda

1
Così anche altre evidenze epigrafiche e liturgiche raccolte in G. MONTANARI, Ravenna: l’iconologia. Saggi di
interpretazione culturale e religiosa dei cicli musivi, Ravenna 2002,159s.
1
Deichmann, per diversi secoli l’insediamento dei vescovi di Ravenna avveniva tramite un giuramento
davanti alla tomba di Sant’Apollinare2.

L’architettura

Si entra nella basilica attraverso un endonartece, in gran parte ricostruito nel medioevo e nell’età moderna.
L’interno della chiesa sorprende subito per la sua luminosità e la sua spazialità. Due serie di dodici colonne
scandiscono armoniosamente le tre navate. L’elegante marmo proconnesio usato per le colonne conferisce
all’edificio un ulteriore tocco di solennità.

La pianta della chiesa è tipicamente basilicale. Come spiega già Leon Battista Alberti, il cristianesimo aveva
scelto per i propri edifici sacri un modello che distinguesse radicalmente questi dai santuari pagani: la
basilica3. Da Costantino in poi la pianta che diventa subito comune a tutte le chiese è quella di queste
grandi sale che fiancheggiano il forum delle città romane. La loro struttura è estremamente semplice,
capiente e funzionale. Si tratta di un rettangolo suddiviso da diverse file di colonne e aperto da un’abside
sul lato corto opposto all’ingresso. Fra ingresso e abside sussiste una tensione spaziale istintiva. E’ come se
il lato corto opposto all’ingresso si tirasse indietro formando un’area concava che da lontano “aspira”,
attrae colui che entra. Questo orientamento longitudinale è ulteriormente ricalcato dalle serie di colonne.
L’architettura cristiana sfrutterà presto questo movimento come simbolo di un “itinerarium ad Deum”4.

2
F. W. DEICHMANN, Ravenna. Geschichte und Monumente, Wiesbaden 1969, 258.
3
Cf. L. B. ALBERTI, De re Ædificatoria [1485], Libro I, Milano 1966.
4
Cf. G. LICCARDO, Architettura e liturgia nella Chiesa antica, Milano 2005, 57.
2
Nella basilica di Classe questa dinamica longitudinale è potenziata dalla superficie musiva che ricopre sia
l’abside che l’arco trionfale che lo circonda. Chi entra a Sant’Apollinare in Classe, già sulla soglia d’ingresso è
come “chiamato” dai mosaici absidali e anticipa con lo sguardo l’itinerario che lo guiderà all’altare in una
sorta di processione solenne ritmata dalle colonne. Questo è lo spazio liturgico. Uno spazio il cui senso è già
subito riconoscibile. E in cui il movimento dei corpi diventa preghiera.

La scelta della basilica permette al cristianesimo antico di descrivere la fede come un “cammino”. Un
cammino che va dalla chiamata al compimento. La basilica è una rielaborazione tridimensionale della
metafora biblica fondamentale che da Abramo a Gesù vede la fede come un pellegrinaggio. Il Nuovo
Testamento ci ricorda che prima di chiamarsi “cristiani”, la prima generazione dei discepoli di Gesù erano
chiamati “quelli della via” (At 9,2). Allora la basilica è il luogo per ricordare che il credere è un cambiare
luogo, un lasciare e uno scoprire, uno sbilanciarsi e un fidarsi. Una ricerca continuamente riaperta dallo
squilibrio di ogni passo.

Ma prima di tutto nel mondo pagano la funzione della “basilica” era di permettere in caso di pioggia lo
svolgimento delle attività del foro in un luogo coperto. Il foro romano è il cuore pulsante della città antica:
luogo del commercio e della politica. Per il cristianesimo del IV sec., scegliere la basilica come luogo di culto
significa imporsi di adorare Dio in un luogo che richiama costantemente il commercio e la politica, cioè la
gestione dei beni e delle relazioni. Si tratta del luogo “laico” per eccellenza.

E’ interessante ricordare che per quasi tre secoli il cristianesimo non ha avuto luoghi propri di culto. La
preghiera veniva fatta in case private che molto lentamente vengono caratterizzate come “domus
ecclesiae”. La prima letteratura cristiana arriva a teorizzare questa assenza di luoghi di culto come
espressione dello specifico cristiano che consiste nel considerare come tempio la comunità stessa.

Il Nuovo Testamento aveva descritto il corpo di Cristo come vero “tempio” (Gv 2,21) prima di descrivere i
suoi discepoli come le vere “pietre vive” del “tempio spirituale” (1Pt 3), perché membra di quel Corpo che è
il Tempio. I primi secoli cristiani sembrano così operare il superamento definitivo della separazione tra
sacro e profano. Così viene annunciato negli ultimi capitoli dell’Apocalisse, dove non esiste più il tempio
perché nella Nuova Gerusalemme tempio e città fanno tutt’uno. In Cristo il profano è diventato sacro.

Perciò nel momento di dover costruire degli edifici sacri, il cristianesimo ha adottato una forma profana.
L’architettura stessa della basilica è un invito a incontrare Dio nel profano. Anzi, nel cuore stesso del
profano, nel cuore pulsante della città degli uomini. Il messaggio che ci arriva dagli architetti paleocristiani è
che per incontrare il Dio di Gesù Cristo bisogna saperlo cercare nel “foro”, cioè nel concreto della gestione
dei beni e delle relazioni, nei “nodi” principali della vita umana. Il Dio della Bibbia si incontra nel profano o
non si incontra. Un Dio che non diventa decisione, che non trasforma le relazioni, che non libera dalla
possessività, che non fa scoprire i beni come luoghi di comunione, non è un Dio incarnato. Entrare in una
basilica è entrare nel cuore della città e nel cuore dell’umano, cioè nel cuore di Dio.

La parola stessa “basilica” richiama un’ulteriore significato di questa scelta architettonica. In greco il
“basileus” è il re-giudice. “Basilica” significa allora “sala regia”, ma nel mondo antico richiama soprattutto
l’aula del processo. Se i cristiani del IV sec. hanno potuto rappresentare lo spazio dell’incontro con Dio
come lo spazio di un processo è perché prima di loro i Vangeli hanno architettato la loro narrazione come
un processo fatto a Gesù di Nazareth. Dall’inizio alla fine i personaggi del Vangelo cercano di districarsi con
la domanda “chi è Gesù?”. Vero o falso profeta? Dio o bestemmia?

3
Gesù è la storia di quel Dio accusato e condannato. Per liberarci dalla paura di essere giudicati da Lui, Egli
diventa l’imputato, il “Dio dannato”. E in questo, proprio in questo è “giudice”. Ma in un senso molto
diverso da quello che l’uomo temeva. Cristo è giudice dell’uomo nel senso che lo “giu-dica”, cioè lo “dice
giusto”. E così lo “rende giusto”. Gesù “dicendo”, cioè con la sua Parola, “fa” l’uomo giusto. “Voi siete già
puri a causa della parola che vi ho annunciato” –dice ai suoi discepoli (Gv 15,3). La Parola, che è Parola della
croce, Parola del condannato, giu-dica l’uomo, lo rende giusto, lo pone nella giusta relazione con Dio. La
basilica è così come un “Vangelo tridimensionale” dove il credente scopre che Dio si lascia condannare pur
di rendere l’uomo giusto.

In particolare il Vangelo di Giovanni tende a “introdurre” il lettore nel processo storico di Gesù. All’interno
della dinamica processuale il lettore è chiamato a essere quel “secondo testimone” necessario alla difesa
nel diritto ebraico. Il Vangelo di Giovanni permette al lettore di capire che il processo storico di Gesù
continua nel cuore di ciascuno di noi. Come in ogni processo, l’imputato Gesù si trova fra l’accusa e la
difesa. Così nel cuore di ogni credente continua a risuonare la voce dell’accusatore e la voce dell’avvocato
difensore.

In ebraico “accusatore” si dice “satan”. E in greco viene usato il verbo “diaballo” (da cui “diavolo”) che
significa sia accusare che dividere. Nella tradizione spirituale, il “diavolo” o il “satan” è quella voce che
accusa Gesù dentro il cuore di ogni uomo. E lo accusa di non essere il Cristo. Lo accusa di non essere il
Salvatore. Il nome “Gesù” (Jeshua) significa in ebraico “Dio salva”. Allora l’accusatore accusa Gesù di non
essere Gesù. Di non essere la salvezza di Dio per noi.

“Avvocato difensore” invece si dice in greco “Paraclito”. Il che significa anche “Consolatore”. Nel Nuovo
Testamento il “Paraclito” è uno degli appellativi dello Spirito Santo. E’ l’altra voce nel processo della vita
spirituale: la voce che difende, che consola, che rivela la vera identità di Cristo. Come dice San Paolo, solo
sotto l’azione dello Spirito santo possiamo riconoscere Gesù come “Signore” (1Cor 12,3). E in definitiva,
solo nell’ascolto del Paraclito riconosciamo Gesù come Gesù, Dio che salva.

Il “procedere” lungo la navata di una basilica coincide così con la consapevolezza del “processo” in corso nel
cammino spirituale del credente. Perciò deve essere un procedere orante. Un procedere solenne. Liturgico.
La liturgia si rivela l’unica chiave di lettura appropriata per una basilica paleocristiana e per i suoi mosaici.
Essi tentano di svelare il mistero di ciò che avviene nel cuore di chi prega.

Il mosaico del catino absidale

Il programma musivo di Sant’Apollinare in Classe è un’esplicitazione teologica della liturgia eucaristica per
la quale fu costruita la basilica: la liturgia celebrata sopra le reliquie del martire Apollinare. Secondo i critici
più autorevoli i mosaici del catino absidale risalgono al tempo della costruzione della basilica5.

5
Cf. F. W. DEICHMANN, Ravenna. Geschichte und Monumente, Wiesbaden 1969, 259.
4
Chi procede lungo la navata e fissa il mosaico absidale si scopre “in coda” dietro alle due serie di agnelli che
convergono verso Apollinare. Una antica antifona liturgica ravennate invoca S. Apollinare nel seguente
modo: “Sacerdos et Martyr Christi, deprecare pro plebe tua quam ex genti bus acquisisti. Nos autem
populus tuus et oves gregis tui: intercede pro nobis ad Filium Dei”6.

Il martire, in abiti e gestualità liturgici, presiede la celebrazione. Egli è


vivo, proprio al di sopra del suo sepolcro reale. Il pellegrino che entra
a venerare la sua tomba lo incontra vivo se partecipa a questa
liturgia. Questa comunione con il martire lo fa entrare nel suo
“martirio”, cioè gli fa capire che cos’è il “martirio”. In greco
“martyria” significa semplicemente “testimonianza”. “Martire” è un
termine giuridico che designa il “testimone oculare”. Il “martire” non
è in prima battuta colui che muore di morte violenta, ma “colui che
ha visto”. E nella Bibbia il martire è colui che vede Dio, la sua vittoria,
la sua venuta. Negli Atti degli Apostoli, Stefano, il primo martire
cristiano, è prima di tutto colui che vede il cielo aperto e la “gloria di
Dio” (At 7,55s.). E allora può dare la vita. Perciò sopra la figura di
Apollinare i mosaicisti di Classe hanno rappresentato un cielo aperto,
e nel cielo la “gloria di Dio”, cioè una croce gemmata che rappresenta
la croce come vittoria, come gloria. La croce del Risorto. Chi partecipa

6
Cit. in G. MONTANARI, Ravenna: l’iconologia. Saggi di interpretazione culturale e religiosa dei cicli musivi, Ravenna
2002, 159.
5
alla liturgia si trova così, in comunione con Apollinare, a “vedere il cielo aperto e la gloria di Dio”, cioè a
diventare anche lui “martire”. La liturgia eucaristica è un invio a testimoniare, una “missa”.

Le mani alzate del martire ravennate riecheggiano e al tempo stesso indicano le braccia della croce che
appare sopra di lui. Per i Padri, l’orante è la presenza stessa della Pasqua di Cristo. Tertulliano descrive le
mani tese dell’orante come un’esplicita imitatio crucis7. Anche per Ambrogio, egli deve “crucem Domini
monstrare”8. Il pellegrino era venuto per Apollinare, ma si trova di fronte a Cristo morto e risorto. Il
movimento del suo sguardo era passato dalle pecore al martire; dal martire adesso sale e si fissa sul cielo
aperto. Liturgia è “martyria”.

Il tema del cielo aperto è già ben presente in molte tradizioni religiose pre-cristiane. La grotta iniziatica
delle culture antiche è il luogo di una rinascita perché riproduce lo schema simbolico dell’utero materno: un
ambiente oscuro e avvolgente con una apertura nella parte superiore da cui bisogna passare per “nascere
dall’alto”. Tutti noi siamo “venuti alla luce” attraverso un passaggio stretto che si apriva “in alto”, sopra la
nostra testa.

Strutture centrali come le tombe a “tholos” dell’età micenea o i mausolei romani sono delle riproposizioni
dell’archetipo del “ventre della terra”. L’”oculus” del Pantheon a Roma è uno degli esempi più celebri di
“cielo aperto” in una struttura che ripropone la grotta iniziatica. Anche nell’Antico Testamento si parla di
“cielo aperto”. P. es. all’interno del Tempio durante le teofanie di cui sono testimoni i profeti Isaia ed
Ezechiele (cf. Is 6). Un altro esempio è Giacobbe che chiama “porta del cielo” il luogo dove poggiava la scala
che univa cielo e terra (Gn 28,17). Ma anche Daniele vede arrivare dal cielo aperto “uno simile a un figlio

7
TERTULLIANO, De oratione 14,17.
8
AMBROGIO DI MILANO, De Sacramentis, PL 16,458.
6
d’uomo” (Dn 7,13). Nei Vangeli si parla di “cielo aperto” nell’episodio del battesimo di Gesù. E Nicodemo
viene invitato a “nascere dall’alto” (Gv 3,3).

Nell’Apocalisse la grande visione del trono inizia con l’esclamazione: “e vidi in cielo una porta aperta” (Ap
4,1). Nel nostro mosaico, Apollinare e noi con lui vediamo questa “porta aperta”. Secondo il testo
dell’Apocalisse, è la porta dietro alla quale il Messia stava in piedi e bussava (cf. Ap 3,23). Se qualcuno
ascoltava la sua voce e apriva, Egli entrava e cenava con lui. Adesso questa porta è aperta e il Messia entra
a cenare con noi: è la santa cena, l’eucaristia che si celebra nella basilica. Questa “porta del cielo” è anche
la “porta orientale” attraverso la quale entra il Messia. Perciò nel centro del cielo aperto è raffigurata la
croce gemmata. E’ la “croce gloriosa”, simbolo del Cristo morto e risorto. L’eucaristia è il suo ingresso nella
città. Perciò è interessante notare che l’intero mosaico del catino absidale è diviso in due registri. Quello
superiore è a sfondo dorato. Esso è il cielo. Dove l’oro rappresenta la luce e la fedeltà dello sguardo di Dio.
Il registro inferiore è invece la terra. Dove la topografia richiama il deserto ma il colore verde intenso e la
profusione di vegetazione fanno pensare a un giardino. La terra è allora questo deserto che fiorisce quando
il cielo si apre. Perché il disco del cielo aperto tocca la terra essa diventa il giardino delle origini. Giardino in
greco si dice “paradeisos”. La liturgia come “porta del cielo” è la trasformazione della terra in paradiso.

Per i Padri, porta e croce si identificano. Non solo perché Gesù nel cap. 10 di Giovanni si presenta come “la
porta delle pecore”, ma perché nell’Esodo, la porta delle case degli ebrei in Egitto, impregnate dal sangue
dell’agnello, erano diventate prefigurazione di quel legno impregnato del sangue del vero Agnello immolato
che è il crocifisso. La “porta in cielo” di San’Apollinare parla dunque dell’eucaristia come di un esodo e di
un’immolazione. Non è un caso allora se i mosaicisti del VI sec. hanno scelto di organizzare il loro materiale
intorno all’episodio evangelico che racconta l’immolazione di Cristo alla luce dell’esodo e della
Risurrezione. Si tratta della Trasfigurazione, chiave di lettura complessiva del mosaico di Classe.

Questo episodio è presente nei tre Vangeli sinottici. Ma a parlare esplicitamente di “esodo” nella
Trasfigurazione è la versione di Luca (Lc 9,31). Giovanni Crisostomo sottolinea questo legame con l’”esodo

7
di Cristo” in una interpretazione molto vicina alla teologia del nostro mosaico: “Il Signore voleva mostrare la
gloria della croce, affinché Pietro e gli altri che si addormenteranno durante l’agonia al Getsemani,
ricevessero consolazione e coraggio”9. In effetti il nostro mosaico, al posto di mostrare Gesù “in candide
vesti” come lo vorrebbe il testo evangelico, mostra “la gloria della croce” (la croce gloriosa) come ci dice il
Crisostomo. Già Ambrogio commentando lo stesso episodio aveva interpretato il colore delle vesti come
segno di Risurrezione10. A contemplare la Risurrezione sono gli stessi apostoli che non reggeranno il peso
della Passione e al Getsemani non veglieranno “neanche un’ora”. Non a caso Luca ricorda che anche alla
Trasfigurazione essi sono “oppressi dal sonno” (Lc 9,32).

Nel nostro mosaico, Pietro, Giacomo e Giovanni sono rappresentati come tre agnelli di dimensioni maggiori
rispetto alle pecore del “gregge di Apollinare”. Essi sono situati sul livello dove il disco del “cielo aperto”
tocca la terra e la trasforma in giardino. Essi sono in infatti testimoni diretti del Dio incarnato. Sulla parte
destra le due pecore rappresentano Giacomo e Giovanni, mentre sulla sinistra Pietro è solo perché è l’unico
che prende la parola nell’episodio evangelico.

Al di sopra di queste tre pecore, sullo sfondo dorato del cielo, riconosciamo i due altri protagonisti della
Trasfigurazione: Mosè ed Elia. Dire “Mosè e i profeti” era in Israele come dire “tutta la Scrittura”. L’episodio
evangelico suggerisce così un “dialogo” fra Gesù e la Scrittura di cui Egli è compimento. Ma Mosè ed Elia
sono anche le uniche figure dell’Antico Testamento di cui non si conserva il cadavere. Esse fungono dunque
da “prefigurazione” della risurrezione fisica di Cristo. Nel suo Discorso sulla Trasfigurazione, Efrem il Siro
spiega come Mosè ed Elia parlano col Cristo “perché Egli è il compimento delle promesse di cui loro sono
prefigurazione”11.

Sopra di loro, sulla cima del catino absidale, i


nostri mosaicisti hanno rappresentato delle
nuvole blu e rosse. Questa alternanza di colori
richiama la dualità di toni della “nube” che
nell’esodo conduceva Israele attraverso il mar
rosso. Essa era fuoco (rosso) di notte e ombra
(blu) di giorno. Ed essa copriva la presenza di Dio.
E’ il velo della trascendenza che vela e al tempo
stesso ri-vela la presenza. Nell’episodio della
Trasfigurazione questa nube adesso “avvolge tutti
con la sua ombra” (Lc 9,34), come una sorta di
abbraccio dove l’uomo si ritrova dentro l’intimità
di Dio. Nel nostro mosaico proprio da queste nubi
spunta la mano del Padre benedicente. Essa sta per la voce di Dio, secondo il testo di Luca: “E dalla nube
uscì una voce, che diceva: questi è il mio figlio, l’eletto. Ascoltatelo” (Lc 9,35).

Da lì lo sguardo di chi “legge” quest’immagine ritorna ancora a quella geniale interpretazione del Cristo
trasfigurato che è la croce gloriosa e il cielo aperto. Se Gesù Cristo è il Figlio eletto, il Figlio della promessa,
allora il cielo stellato di Classe richiama anche il cielo stellato che Abramo ha contemplato quando ha
ricevuto la promessa (Gn 15,5).

9
GIOVANNI CRISOSTOMO, Hom. in Matth. 56 = PG 58,551.
10
AMBROGIO DI MILANO, De mysteriis, PL 16,399.
11
EFREM IL SIRO, Discorso sulla Risurrezione BKV, 37,186
8
Abramo è invitato a contare le stelle cioè a entrare in una dinamica infinita, immagine dell’infinita fedeltà di
Dio. Ma il lettore di Sant’Apollinare in Classe può contare le stelle e arriva alla sorprendente cifra di 99. Si
tratta del numero di anni che Abramo aveva quando ricevette la promessa. La croce gemmata è la
centesima stella perché Isacco arriva nel centesimo anno della vita di Abramo. Per i Padri Cristo sarà il
nuovo Isacco, nato come figlio tanto atteso e poi sacrificato sul monte e rimasto vivo (cf. Gn 22). Per i
mosaicisti di Classe l’attesa di Abramo diventa un’attesa cosmica. Tutta le stelle del cielo, tutta la creazione,
aspettava da sempre Cristo.

Ma nel contesto iconografico dove si è parlato di gregge e di pastore, il numero 99 richiama


spontaneamente le 99 pecorelle che il buon pastore lascia nel deserto per andare in cerca di quella perduta
(cf. Lc 15,4s.). La centesima pecorella, quella perduta, non è altro che lo spettatore del mosaico, colui che
sta partecipando alla liturgia. La croce è allora quella corsa del buon pastore che dal cielo arriva alla terra
per raggiungere la pecorella smarrita. La croce è la Passione stessa di Cristo che copre una distanza così
infinita come la distanza fra le stelle e la terra.

Infine la simbologia dei numeri prosegue nell’anello a sfondo rosso che circonda il cielo aperto. In esso sono
rappresentate 42 coppie di gemme. La pietra preziosa è nella tradizione biblica un simbolo dell’uomo
stesso come “generato”. In ebraico infatti esiste un’assonanza tra “figlio” (b’n) e “pietra” (avn). Queste 42
coppie di pietre preziose simboleggiano le 42 generazioni della genealogia di Gesù che troviamo nella prima
9
pagina del Nuovo Testamento (Mt 1). Il significato è molto preciso. Per i nostri mosaicisti-teologi, ad aprire
il cielo è una lunga storia di 42 generazioni. E’ tipico della rivelazione biblica descrivere la rivelazione di Dio
non in un luogo o in una formula magica ma nella storia degli uomini. Dall’inizio della Bibbia la rivelazione di
Dio è già una storia di Incarnazione. E’ interessante notare che i 42 antenati di Gesù Cristo ricordati da
Matteo non sono affatto dei “santi”. Possiamo elencare molti omicidi, diverse prostitute, dei re ricordati
solo dall’espressione “e fece ancora peggio dei suoi padri”,… Per il Nuovo Testamento, la storia di salvezza
non lascia da parte questi episodi, anzi passa attraverso questi episodi. Per i nostri mosaicisti è questa
storia di peccato e grazia che apre il cielo, perché rivela la fedeltà di Dio fino alla croce.

A destra e sinistra della croce gemmata, le lettera apocalittiche Alfa e Omega stanno a significare che Cristo
e il suo “esodo” sono la chiave di lettura di tutta la storia, dall’inizio alla fine. Il Risorto è modello e
compimento della creazione intera. Alfa sta a dire che “tutto è stato creato per mezzo di Lui”, cioè che tutta
la creazione è il frutto dello stesso amore che ha portato Dio alla croce. Omega sta a dire che “in Lui sono
ricapitolate tutte le cose”, cioè che il compimento di ogni cosa è diventare presenza reale di Dio.

Al di sopra della croce leggiamo il famoso acrostico greco IXθUS che significa “pesce” ma le cui lettere sono
le iniziali dell’acclamazione “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”. Sotto la croce troviamo un equivalente
latino con le parole “Salus Mundi”.

I mosaici absidali del registro delle finestre

Dello stesso periodo del catino absidale sono i


quattro mosaici situati fra le cinque finestre
dell’abside. Essi rappresentano quattro vescovi
ravennati. I loro nomi sono scritti all’altezza della
loro testa: Ecclesio, Severo, Ursus e Ursicinus.
Idealmente essi collegano in una “successione
apostolica” il fondatore della Chiesa ravennate al
vescovo Massimiano del 549, e a tutti i suoi
successori. Questa “compresenza sincronica” è
possibile grazie alla teologia dei Padri che vedono
la liturgia eucaristica come luogo per eccellenza
della “comunione dei santi”. Le figure di santi o
predecessori rappresentati nelle chiese
paleocristiane non sono tanto da considerare
come modelli da imitare quanto come
l’acclamazione di una compresenza attraverso i
tempi al momento della celebrazione. Chi celebra
la messa diventa così “contemporaneo” dei
vescovi della storia di Ravenna. Ma anche
contemporaneo di Apollinare, del Cristo
trasfigurato, di Elia, di Mosè. Una comunione in
un solo corpo che attraverso il tempo e lo spazio.

In continuità con i quattro vescovi, ma nella parte


più esterna dell’abside troviamo due mosaici
10
datati del sec. VII. Quello di sinistra
rappresenta la consegna dell’“autocefalia”
a Ravenna rispetto al patriarca di
occidente, cioè rispetto al vescovo di
Roma. Questo privilegio fu accordato
dall’imperatore Constanzo II alle autorità
della città il primo marzo 666. La presenza
di questo quadro all’interno dell’abside sta
a rappresentare l’intera città di Ravenna
all’interno dell’evento di salvezza
rappresentato nell’intero mosaico.

Dirimpetto, sulla destra troviamo unite in


una stessa scena tre figure dell’Antico Testamento utilizzate dai Padri come prefigurazioni dell’eucaristia:
Abramo col suo figlio Isacco, Melchisedek che sacrifica pane e vino, e Abele che sacrifica l’agnello. La scelta
di rappresentare queste tre figure intorno allo stesso
altare corrisponde alle parole del “canone romano”:
"Volgi sulla nostra offerta il tuo sguardo sereno e
benigno, come hai voluto accettare i doni di Abele, il
giusto, il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede, e
l'oblazione pura e santa di Melchisedech, tuo sommo
sacerdote." Questo quadro è dunque una chiara
rappresentazione catechetica che vuole aggiungere alla
scena centrale dell’abside altre sfaccettature teologiche
alla liturgia che si svolge da lì a pochi metri.

L’arco trionfale

Perfettamente frontale rispetto a chi entra, l’arco trionfale che circoscrive l’abside contiene dei mosaici
risalenti ad epoche diverse. Quelli alla base dei due lati potrebbero risalire al sec. XII12. Essi rappresentano
gli evangelisti Luca e Matteo. Sopra di essi due arcangeli, Michele e Gabriele reggono il “labarum”, insegna
militare romana utilizzata per segnalare che l’imperatore si trovava con l’esercito. In questo contesto
liturgico, il labarum degli arcangeli segnala la presenza reale del Kyrios, del Signore, all’interno della sua
Chiesa raccolta in preghiera. Sull’insegna possiamo leggere il “Trisaghion”. E’ la preghiera con cui gli angeli
ripetono “sanctus sanctus sanctus” sia nella teofania di Isaia 6 che nel capitolo 4 dell’Apocalisse. In
ambedue i testi siamo davanti al cielo aperto e alla rivelazione del trono di Dio. Esattamente quello che il
nostro mosaico cerca di comunicare.

Nella parte dell’arco che si allarga lentamente seguendo la curva dell’abside i mosaicisti del sec. VII hanno
rappresentato due palme. Questo albero sempre verde è simbolo di immortalità in molte culture. In greco
palma è “phoinix”, stessa parola della fenice, il leggendario uccello che rinasce dalle proprie ceneri. Per i
Padri la palma diventa così un simbolo di risurrezione. E ciò è dovuto anche alla sua stessa configurazione in
cui rimane traccia di come proprio la morte dei rami inferiori fa crescere l’albero. Il giardino raffigurato

12
Cf. DEICHMANN, op. cit…., 259.
11
nell’abside, fiancheggiato così da due palme, viene ulteriormente qualificato come giardino
dell’immortalità.

Il registro immediatamente superiore, dove il lato sinistro si unisce con il lato destro contiene un mosaico
dove si ripete la doppia processione delle pecore, sei per ogni lato. Ma questa volta escono dalle porte di
due città rappresentate con mura di pietre preziose come la Gerusalemme celeste descritta nel cap. 21
dell’Apocalisse. In realtà, tenuto conto dei paralleli di molti altri mosaici paleocristiani, si tratta di Betlemme
e di Gerusalemme. Esse simboleggiano l’inizio e la fine della vita terrena di Gesù. Sono la sua “porta
d’ingresso” e la sua “porta d’uscita”. I Padri amano commentare la vicinanza teologica fra questi due
“passaggi”. Nascita e Morte sono in realtà le due “passioni” del Dio incarnato. Non a caso i Vangeli
dell’infanzia sono ricchi di rimandi alla passione. L’Incarnazione è già quel dono di sé senza precedenti che
porterà Dio alla morte in croce.

Ma l’uscita dalle due città richiama anche l’uscita delle pecore dal recinto quando sono chiamate per nome
dal “pastore bello”, come lo chiama Giovanni al cap. 10. Essi sono condotte e salgono sul monte che
sintetizza tutti i monti della Bibbia: il Sinai, il Calvario, ecc… ma anche il “monte degli aromi” che il Cantico
dei cantici descrive come l’apice dell’amore. Questo registro commenta dunque la liturgia eucaristica come
la processione di chi ascolta il proprio nome pronunciato dal pastore e passa attraverso la stessa passione
del suo Signore per salire verso il compimento dell’amore.

Infine il registro più in alto rappresenta in centro un’immagine


clipeata del Cristo maestro. Essa è circondata dai “quattro esseri
viventi” che da Ireneo in poi vengono usati come simboli dei
quattro evangelisti. Infatti le quattro figure portano ciascuna un
libro che simboleggia il rispettivo Vangelo. Lo sfondo di questi
due ultimi registri è una superficie di nubi con la solita alternanza
rosso/blu. E’ la ripresa del tema della nube della Trasfigurazione
e dell’esodo rappresentata sul catino absidale. Siamo dunque di
fronte a un’esplicitazione di ciò che i discepoli possono ascoltare dentro alla nube: essi si sentono chiamati
per nome e in definitiva ascoltano l’annuncio dell’Evangelo. Dalle palme ai quattro evangelisti, questi
mosaici aggiunti nel sec. VII annunciano subito a chi entra a Sant’Apollinare in Classe che entra in una
processione dove la voce del pastore lo guiderà ai pascoli eterni.

Jean-Paul Hernández SJ

Bologna, gennaio 2012

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