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incontro di oratorio in musica

Sant’Ignazio di Antiochia
domenica 23 ottobre 2022 ore 19:00
Oratorio di San Filippo Neri in piazza Olivella
I – chiesa dell’Olivella
La prima chiesa edificata dagli oratoriani a Roma è dedicata a Santa Maria della Vallicella, la
seconda a Napoli è pure dedicata a Maria SS. e tutti i santi, la terza a Palermo a chi è stata
dedicata? Sappiamo che i padri vollero aspettare l’anno 1711 per il rito pontificale di dedicazione
della chiesa, per cui c’è la questione che fino ad allora in alcune fonti storiche non si sa come si
chiami la chiesa dell’Olivella…
La nostra fonte storica per eccellenza (Giovanni Marciano) ci racconta come cadde da principio
la scelta su Sant’Ignazio di Antiochia.
havendo posto in una bussola i nomi di più Santi, a’quali pensavano di dedicare il
nuovo Tempio per ben tre volte cavandosi dall’urna a forte i loro nomi sempre uscì
quello del Santo Martire Ignatio: onde e per l’una ragione, e per l’altra restò
fermamente stabilito, che a lui si dovesse l’honore della padronanza. (GIOVANNI
MARCIANO, “Cronache historiche della Congregazione dell’Oratorio”, libro V, capo
XXIII)
In questo passo delle sue massicce memorie storiche, il padre dell’Oratorio di Napoli Giovanni
Marciano racconta come avvenne l’elezione di Sant’Ignazio di Antiochia a titolare dell’erigenda
chiesa di nostra Congregazione. Il racconto di Marciano vuole ricordare le avversità che si
incontrarono da principio, da lui a chiare lettere imputate all’opera del Maligno. La nascente
Congregazione era tanto promettente per il bene delle anime, quanto più invisa al demonio che le
voleva strappare al regno di Dio per condurle a perdizione.
Per una scelta così difficile era impossibile riuscire a mettere d’accordo tutti i padri, ciascuno
aveva le sue preferenze e adeguate ragioni per ogni proposta. Si esperì allora l’estrazione a
sorte del nome del santo cui
dedicare la chiesa. Fu estratto da
subito un nome davvero poco
noto: un padre della Chiesa,
appartenente al gruppo dei padri
apostolici del I secolo; quelli che
conobbero personalmente gli
Apostoli ricevendo di prima mano
il loro insegnamento. Il nome di
questo santo però non convinse i
padri filippini, poiché una figura
non popolare e comunemente
sconosciuta. Tentarono una
seconda estrazione e la sorte
cadde nuovamente su
Sant’Ignazio vescovo di
Antiochia. Ancora restii ad
accettare tale figura, fecero una
terza estrazione, dovendosi
persuadere che tale fosse la
volontà di Dio per la chiesa
dell’Olivella.
Un santo non popolare tra la gente, senza nessun culto, al quale non si correva in massa per
chiedere grazie e miracoli. E quindi una persona che non ha niente da dirci? Vale la pena
ricordarla? Quando parliamo dei santi non parliamo di figure mitologiche che si perdono nella
notte dei tempi, bensì parliamo di cristiani che ci hanno preceduto nel segno della fede e dormono
il sonno della pace; persone che stanno oggi alla presenza del Signore nella Terra dei viventi e
che prima hanno vissuto la loro esistenza in questo pellegrinaggio terreno, raggiungendo la
perfezione nella vita cristiana.
Dalla data del 1° febbraio, il nuovo calendario liturgico ha riportato ad oggi - data tradizionale del
suo martirio - la memoria di Sant'Ignazio Martire, prescrivendola come obbligatoria per tutta la
Chiesa universale.
Nella costruzione della chiesa vennero inseriti diversi simboli rappresentativi del suo titolare: sul
portale d’ingresso spiccano le figure dei leoni in alto e bassorilievo, la maestosa tela di Filippo
Paladini (1613) nel transetto sinistro che rappresenta il suo martirio a Roma nel 107 d.C., dipinta
con tinte fortemente scure alla maniera del Caravaggio. Inoltre sant’Ignazio in gloria fu pure
affrescato da Guglielmo Borremans sulla volta della sacrestia. Edificando la cupola della chiesa
nel 1732 vollero incidere nel tamburo le sue ultime famose parole della lettera ai romani:
«Lasciatemi essere il nutrimento delle belve, dalle quali mi sarà dato di godere Dio. Io sono
frumento di Dio. Bisogna che sia macinato dai denti delle fiere, affinché sia trovato puro pane di
Cristo».
II – cenni biografici
Le informazioni sulla vita di
Sant’Ignazio le apprendiamo da
un capitolo della Storia
ecclesiastica di Eusebio di
Cesarea, altro Padre della
Chiesa. Non disponiamo di
informazioni precise dall’infanzia,
sappiamo non fosse cittadino
romano, e pare che non fosse
nato cristiano, convertendosi in
età non più giovanissima.
Convertitosi al cattolicesimo
grazie alla predicazione di San
Giovanni evangelista, venne poi
eletto vescovo nell’antichissima
sede di Antiochia.
Ad Antiochia fu il secondo successore di San Pietro apostolo, il quale visse a Roma solo gli
ultimi 25 anni della sua vita. La città di Antiochia all’epoca era la terza metropoli del mondo
antico, dopo Roma e Alessandria d’Egitto. Ignazio fu degno successore di San Pietro, un pilastro
della Chiesa primitiva, così come Antiochia era uno dei pilastri del mondo antico. Uomo d'ingegno
acutissimo e pastore ardente di zelo, i suoi discepoli dicevano di lui che era "di fuoco", come dice
il nome stesso, dato che ignis in latino vuol dire fuoco. Lo stesso Ignazio di Loyola – battezzato
Iňigo pare aspirasse a morire martire come sant’ignazio di Antiochia.
Mentre Ignazio era vescovo ad Antiochia, l'Imperatore Traiano dette inizio alla sua
persecuzione, che privò la Chiesa degli uomini più in alto nella scala gerarchica e più chiari per
fama e santità. Arrestato e condannato ad bestias, Ignazio fu condotto, in catene, con un
lunghissimo e penoso viaggio da Antiochia a Roma, dove si allestivano feste in onore
dell'Imperatore vittorioso nella Dacia; i martiri cristiani dovevano servire da spettacolo, nel circo,
sbranati e divorati dalle belve.
Durante il viaggio che lo condusse a Roma scrisse le sue sette lettere: quattro nella prima tappa
di Smirne e tre a Troade. La lettera è un tipo di scrittura che si rivolge a un certo destinatario e,
nello specifico, a comunità che vivono particolari situazioni ed esigenze. In quanto vescovo
Ignazio fu pastore del gregge di Cristo, lo testimonia la sua letteratura. In questi testi si riscontra
un contenuto teologico non indifferente in argomenti che, i lettori più specializzati, studiano con
interesse patristico (la disciplina teologica che studia i padri della Chiesa). Ma se il destinatario
delle lettere scritte dal vescovo Ignazio era piuttosto il popolo di Dio, il suo intento era
raggiungerli in modo credibile quanto comprensibile. In tal senso è bello leggere tra le righe e
nelle formule di saluto, le parole personali e dirette, espressione di paternità spirituale, rivolte a
specifiche persone da lui conosciute ed amate.
Prestando attenzione ai destinatari delle lettere si nota come la dottrina formulata dal vescovo
Ignazio non sia altro che concreta indicazione di come attuare le sue esortazioni. Le lettere
nominano alcuni cristiani che il mittente loda e sprona, incoraggia ad affrontare le avversità e
perseverare nella fede, non con parole vaghe o illusorie, bensì illustrando precisamente il
contenuto della fede rivelata e come praticarlo nella vita. Si mostra allora che la teologia
sviluppata da Ignazio è per rispondere alla domanda “cosa fare?”, al fine di pacificare diatribe,
stabilire un ordine sociale nella comunità cristiana, salvare dal peccato in cui restavano romani,
giudei, greci.
Chi vive la vita seguendo ideali diversi da quelli che Ignazio propagandava, può comunque
apprezzare la coerenza con cui il suo insegnamento fu confermato dalla testimonianza della sua
stessa vita. La fede vissuta lo portò ad essere “frumento di Cristo macinato dai denti delle fiere”,
secondo la parola di Gesù quando diceva che il chicco per portare frutto deve morire. Quando i
romani cercarono di salvarlo da quella cruenta morte, Ignazio gli scrisse per impedirglielo e
dicendosi felice di poter rendere la suprema testimonianza del martirio, a conferma della fede
tanto predicata. Parole che esprimono insegnamenti sapienziali, oggi classificati come
saggistica, oltre a contenuti che in certe attuali situazioni della Chiesa fanno scoprire ancora
sorprendentemente significativo meditarne l’insegnamento e contemplarne la figura.
III – lettere
Le lettere di sant’Ignazio testimoniano la tradizione dei primi tempi del cristianesimo. Nella
prima tappa di Smirne scrisse alle comunità dell'Asia Minore, Efeso, Magnesia e Tralli; scrisse
poi ai Romani, per supplicarli di non fare alcun passo in suo favore presso l'imperatore. Da
Troade invece scrisse alle comunità di Filadelfia e di Smirne, e a San Policarpo, vescovo di
quest'ultima città, avendo saputo che era cessata la persecuzione contro la sua comunità di
Antiochia.
Il pensiero cristiano espresso da Sant’Ignazio
nelle sue lettere risponde sicuramente a una sua
certa prospettiva ecclesiologica. Nell’età
paleocristiana, quando era ancora di là da
venire lo scisma d’Oriente che per primo ruppe
l’unità della Chiesa, Sant’Ignazio formula i
fondamenti del nostro sensum ecclesiae.
Descrive una Chiesa universale che comprende
realmente tutti i credenti in Cristo, i quali “ad
Antiochia per la prima volta furono chiamati
Cristiani” (At 11,26). La primitiva comunità
ecclesiale era strutturata a livello locale attorno
al proprio vescovo, con la pienezza dell’ordine
d’istituzione divina; ad esso Sant’Ignazio
attribuiva entro la Chiesa particolare l’autorità
che caratterizza il monarca (“episcopato
monarchico”), esattamente come si ritrova nei
sacri canoni secoli più tardi.
Il tema forte dell’unità nella Chiesa locale
attorno al vescovo che le è gerarchicamente a
capo. Allo stesso tempo si trova pure espresso
un riconoscimento chiaro del primato petrino,
cioè la superiorità del vescovo di Roma sugli altri. Sant’Ignazio è il primo ad usare l’espressione
“Chiesa Cattolica” che riuniva assieme tutto il mondo orientale e occidentale. Da questa unica e
medesima Chiesa per lui discende anche la validità dei sacramenti.
Nelle sue lettere, contro le correnti ereticali che turbavano le comunità cristiane, sant’Ignazio
ribadisce con chiarezza i principali dogmi: unità e trinità di Dio, divinità di Gesù Cristo, realtà
dell’incarnazione, passione e morte di Gesù Cristo, sua risurrezione, concezione verginale di
Maria SS., effetti della redenzione, il battesimo, l’eucarestia, il matrimonio, la Chiesa mistica e le
chiese locali, la gerarchia ecclesiastica a tre gradi (Vescovo, presbiteri e diaconi), parlando di
episcopato monarchico.
La santità personale tuttavia non si provò con le parole ma nei fatti. Avviandosi ormai verso
Roma raccomanda ai romani di non intervenire in suo favore e non tentare neppure di salvarlo
dal martirio.
«lo guadagnerei un tanto - scriveva - se fossi in faccia alle belve, che mi
aspettano. Spero di trovarle ben disposte. Accarezzatele affinché siano la
mia tomba e non faccian restare nulla del mio corpo, e i miei funerali non
siano a carico di nessuno».
E a chi pensava di poterlo liberare, implorava:
«Voi non perdete nulla, ed io perdo Iddio, se riesco a salvarmi. Mai più mi
capiterà una simile ventura per riunirmi a Lui. Lasciatemi dunque
immolare, ora che l'altare è pronto! Uniti tutti nel coro della carità, cantate:
Dio s'è degnato di mandare dall'Oriente in Occidente il Vescovo di Siria!».
Sant’Ignazio coronò coi fatti il suo insegnamento, ovvero dandone la suprema testimonianza del
martirio. Chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna (Mt 12,25), è
un detto di Gesù attestato da tutti gli evangelisti: Chi vuole salvare la propria vita la perderà, chi
invece la perde la salverà (Lc 17,33). Parafrasando il Vangelo, Sant’Ignazio disse di sé: «Io
perdo Iddio, se riesco a salvarmi. Mai più mi capiterà una simile ventura per riunirmi a Lui»
(lettera ai romani). Infatti Gesù dice ancora che il chicco di grano per portare frutto debba morire
(Gv 12,24): Sant’Ignazio volle essere quel chicco di grano, «frumento di Cristo macinato dai denti
delle fiere per divenire pane puro per Cristo», come si legge in latino nella cupola della nostra
chiesa. Il frutto che dal regno dei cieli ha portato alla nostra Congregazione, si è inverato nelle
grazie commemorate da Giovanni Marciano e ancor oggi celebrate dalla liturgia in rendimento di
grazie.
Di sant’Ignazio vescovo e martire apprezziamo l’insegnamento che ci richiama alla retta dottrina
del nostro credo, la quale non rimane solo un contenuto intellettualistico, poiché se viviamo –
come lui – ciò in cui crediamo, la fede prende forma nella nostra vita.

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