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21/4/2020 30Giorni | Don Antonio e i primi indizi della resurrezione (di Gianni Valente)

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Don Antonio e i primi indizi della resurrezione


di Gianni Valente

Ognuno ha la sua postazione da cui sbirciare il mondo. A lui, don Antonio Persili da Tivoli, è toccata la
parrocchietta di San Giorgio, incastonata nella parte vecchia della sua cittadina. Piazzette, vicoli e archetti
abbarbicati sui precipizi che si affacciano sull’Aniene. E laggiù, spalmata di foschia, c’è Roma, che la notte
diventa un mare di luci.
A settantasette anni, arriva su una vecchia Ritmo scarburata color carta da zucchero, come la giacca a vento
che porta stiracchiata sulla tonaca a proteggere da un improvviso contropiede dell’inverno. Si carica le due
buste della spesa (pane, latte, uova, qualche yogurt), apre il portoncino verde e sale col solito passo le scale
della canonica. Fa così da tanto tempo. Da quando è arrivato qui nel ’55 come parroco, e, cosa rara in questa
Chiesa di preti e vescovi volanti, non l’hanno più spostato.
Ora, in quest’angolo di mondo a cui si è avvicinata troppo la città dove risiede il successore di Pietro, don
Antonio non aveva il problema di sentirsi investito di chissà quale missione. La vita andava da sé, senza
neanche troppo trasporto per la propria condizione. "Figurarsi… sono diventato prete perché mio padre mi
aveva spedito al seminario quasi per punizione, per farmi studiare, un giorno che avevo marinato la scuola
insieme a un compagno. Allora, si usava così…". E infatti, non è che all’inizio (e anche dopo l’inizio) fosse
molto contento. "Quello che m’insegnavano, lo accoglievo senza obiezioni, ma non mi toccava il cuore.
C’era un modo di esporre le verità della fede cristiana che dava tutto per scontato. Sentivo che mancava
qualcosa. Comunque, si tirava avanti…".
Ma poi successe qualcosa. Dal suo appartato punto d’avvistamento il prete di provincia si accorse anche lui
di quella che oggi descrive come una silenziosa ma radicale metamorfosi nella Chiesa. Un particolare, in
questo epocale smottamento, fissò la sua attenzione: il modo nuovo in cui si cominciò a parlare della
resurrezione di Nostro Signore. "Al seminario di Tivoli mi avevano insegnato che la resurrezione di Gesù
Cristo nella carne era la prova della sua divinità, e per questo era il fondamento della nostra fede. Poi,
qualcuno cominciò a dire che bisognava considerarla innanzitutto come un "mistero di salvezza". Altri
aggiunsero che non era tanto importante riconoscere la resurrezione come un fatto accaduto, ma credere
nella sua forza salvifica per noi. Infine, qualcun altro ci fece sapere che per accogliere questo mistero di
salvezza apportato dalla resurrezione non bisognava inseguire indizi concreti, storici, ma occorreva avere la
fede". Insomma, un rovesciamento totale. "Se prima la resurrezione era il fondamento della fede, adesso
serviva la fede per cogliere il mistero di salvezza della resurrezione…". Don Antonio snocciola a casaccio
mille esempi di questa deriva idealistica, partita dai teologi e dai maestri e poi a poco a poco penetrata fin nei
capillari della predicazione ordinaria della Chiesa. Da Karl Rahner – per il quale anche i dettagli storici dei
racconti evangelici sulla resurrezione di Gesù "vanno interpretati come rivestimenti plastici e drammatizzanti
(di tipo secondario) dell’esperienza originaria "Cristo vive" e non come descrizione di questa stessa nella sua
autentica essenza originaria", né, tantomeno, "come esperienza quasi grossolanamente sensibile" – giù giù
fino al Dizionario Biblico di J.-L. McKenzie, pubblicato in italiano da Cittadella nell’81, dove si legge che
"Gesù risorto (come le apparizioni di Gesù) è una realtà sovrannaturale che non appartiene a questo mondo e
non può essere oggetto di ricerca storica in quanto tale: essa è soltanto oggetto di fede. […] Riconoscere
l’avvenimento come un fatto, non è nulla: accettarlo come un fatto salvifico è credere in esso ed ottenere la
salvezza che in esso si compie. Nel Vangelo di Giovanni (20, 29) Gesù elogia la fede nella resurrezione, non
l’osservazione del fatto. L’importanza della resurrezione nella predicazione e nella catechesi del Nuovo
Testamento si fonda sul suo significato teologico".
A quel punto, don Antonio non ci capiva più niente. "Da tutte le parti sentivo discorsi che mettevano in
opposizione la grazia della fede alla storia. Dietro tanti paroloni, alla fine la fede cristiana diventava una
specie di partito preso. Una autoconvinzione che poggia su se stessa". Un dogmatismo idealista che, a suo
vedere, poco c’entrava con quanto era successo tra i primi testimoni: "A sentire i Vangeli, le donne, i
discepoli e gli apostoli non avevano alcuna fede "preventiva" nella resurrezione. Per raggiungere questa fede,
non sarebbe bastato loro nessuno sforzo di immaginazione mistica, magari tirando in ballo a sproposito la
grazia. Tutti, invece, per diventare testimoni della resurrezione, avevano avuto le prove storiche del suo reale
accadimento. Tommaso, in particolare, aveva voluto personalmente sincerarsi che il Gesù risorto fosse lo
stesso Gesù che era morto in croce".
Il povero prete tiburtino, per non rimanere confuso, scese a Roma. Andò a chiedere lumi agli illustri
professori del Pontificio Istituto Biblico. Fece anche un salto dagli scrittori della Civiltà Cattolica. "Ci fu chi
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mi disse che ogni tentativo di cercare riscontri storici ai racconti della resurrezione non apparteneva alla
teologia cristiana, ma alla "scienza del demonio", perché che Cristo sia risorto non è un problema storico, ma
è solo oggetto di fede". Finì che don Antonio si scrollò i calzari, provò ad andare avanti senza l’aiuto degli
"esperti". E senza chiedere permesso.
Ripartì dall’inizio, dalla prima volta che, a quanto scrivono i Vangeli, un uomo aveva iniziato a credere nella
resurrezione di Gesù. Ossia da quella scena davanti al sepolcro in cui era stato sepolto il corpo di Gesù, dove
erano arrivati trafelati Giovanni e Pietro, quella domenica mattina. "È lì che, come racconta nel suo Vangelo,
davanti a ciò che era rimasto nel sepolcro spalancato, ormai senza il corpo di Gesù, Giovanni "vide e
credette". A differenza di Pietro, che era rimasto solo confuso e quasi turbato dalla mancanza del corpo di
Gesù". Come prima cosa, don Antonio registrò con stupore che la gran parte degli esperti neanche si
soffermavano su questo episodio che aveva causato la prima, embrionale presa d’atto della resurrezione di
Gesù da parte del discepolo prediletto. "Ad esempio, il teologo Bruno Forte, in un libro del 1982, sosteneva
l’ipotesi che si trattasse solo di una leggenda eziologica "tendente a motivare il culto che a Gerusalemme si
teneva presso il luogo della sepoltura di Gesù". E il catechismo per i giovani della Cei, nella sua versione del
1976, liquidava la faccenda annotando che Pietro e Giovanni si erano soltanto "stupiti di trovare il sepolcro
aperto e vuoto"".
Poi, leggendo e rileggendo la pericope evangelica dei due apostoli davanti al sepolcro, concordò che in
effetti le versioni di uso corrente non facevano capire perché Giovanni aveva iniziato a credere nella
resurrezione di Gesù proprio da quel momento. "Ad esempio, nel Nuovo Testamento pubblicato dalla Cei è
scritto che i due discepoli, scrutando all’interno del sepolcro, videro "i teli ancora là, e il sudario, che era
stato posto sul suo capo, non là con i teli, ma in disparte, ripiegato in un luogo". Ora, non si capisce proprio
per quale motivo Giovanni, per aver visto una simile scena, ossia delle bende funerarie e un sudario
ripiegato, avrebbe dovuto intuire che Nostro Signore era risorto. Anzi, un simile salto logico a me farebbe
sorgere dubbi sulla sanità mentale di Giovanni…".
E in effetti, in tanti hanno sparlato di Giovanni come del primo idealista visionario, l’anti-Tommaso, il
modello del cristiano che per credere non-ha-bisogno- di-vedere. Ma tutto questo a don Antonio non
quadrava. Decise di andare più a fondo. Riprese in mano l’originale greco dei Vangeli e i manuali di greco
biblico. Raccolse gli studi e gli articoli più aggiornati sugli usi funerari dell’antico mondo ebraico. Tra un
battesimo, un’estrema unzione e una benedizione delle case, si avventurò in una vera e propria indagine
storico-linguistica. Alla fine scoprì la magagna, che poi era un po’ un uovo di Colombo.
Scoprì che le traduzioni ufficiali del brano evangelico in questione erano infelici. Finivano per occultare dei
particolari che invece erano indispensabili per cogliere cosa era accaduto quel giorno a Giovanni. E qui, la
conversazione col parroco tiburtino prende la piega di una lezione di esegesi e di tradizioni funebri ebraiche.
Bisogna seguire bene tutti i passaggi. "Secondo l’uso del tempo, i morti con effusione di sangue venivano
sepolti senza essere lavati né unti. Il sangue era considerato la sede del principio vitale, e quindi andava
sepolto insieme al cadavere. I Vangeli ci avvertono che Giuseppe d’Arimatea, il ricco sinedrita padrone del
sepolcro in cui fu posto Gesù, aveva portato per l’inumazione un rotolo di tela, mentre Nicodemo aveva
portato una "mistura di mirra ed aloe di circa cento libbre", più o meno trentacinque chili. Dal rotolo di tela
erano stati tagliati tutti i pezzi necessari a ricoprire e fasciare il corpo di Gesù: il telo più grande, con cui fu
avvolto tutto il corpo insanguinato, anche per evitare che chi si occupava dell’inumazione lo toccasse con le
mani nude; le fasce, abbastanza larghe (nell’originale greco: tà ¶yónia, tà othónia), che vennero fatte girare
intorno al lenzuolo, per tenerlo stretto intorno al corpo; e il sudario, un fazzoletto quadrato che fu posto sul
capo di Gesù, come testimonia lo stesso Giovanni. I profumi, a cui si ricorreva per coprire il cattivo odore,
erano stati versati all’interno delle fasciature e anche sulla superficie in cui era stato posto il corpo di Gesù".
Ora, proprio nella pericope che descrive la scena dei due apostoli davanti al sepolcro, errori grammaticali e
di traduzione creano malintesi sulla posizione in cui Giovanni e Pietro trovarono tutti questi panni. Spiega
Persili: "Nell’originale greco è scritto che Pietro, entrando nel sepolcro, vide tà ¶yónia keímena (tà othónia
keímena). Ho già detto che la versione della Cei traduce questa espressione con "i teli ancora là". Altre
versioni la traducono con "i teli per terra". In realtà il verbo keîmai (keîmai), da cui viene il participio
keímena (keímena), non significa genericamente "essere lì" né tantomeno "stare per terra". Esso indica una
posizione precisa, significa giacere, essere disteso, in una posizione orizzontale. Ciò vuol dire che i due
videro non le fasce a terra, ma le fasce distese, afflosciate, senza essere state sciolte o manomesse. Erano
rimaste immobili al loro posto. Probabilmente in una nicchia scavata nella parete, tipica dell’architettura
funeraria di tipo signorile, in cui era stato posto il corpo di Gesù. Semplicemente, ora quel corpo non c’era
più, e le tele si erano afflosciate su se stesse". Gli errori di interpretazione si ripetono, secondo Persili, anche
riguardo alla posizione del sudario. L’originale greco usa ben venti parole per descriverla. Le versioni
correnti introducono tutte l’idea che il sudario si trovi spostato rispetto al punto in cui si trovava quando il
corpo di Gesù era stato sepolto. La versione Cei, ad esempio, traduce: "e [videro] il sudario, non là con i teli,
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ma in disparte, piegato in un luogo". Don Antonio, davanti a tali traduzioni, freme. E dice la sua: "keímenon
(keímenon), come già keímena (keímena), è participio di keîmai (keîmai), giacere. O° metà tÓn ¶yonívn
keímenon (Ou metà tôn othoníon keímenon) significa che il sudario non era disteso come le altre bende. Ma,
al contrario (così va tradotto l’avverbio xvrì§ – khorìs –, in senso modale), appariva arrotolato
(•ntetuligménon – entetyligménon –, dal verbo •ntulíssv – entylísso –, che significa avvolgere, arrotolare) in
una posizione unica, singolare. Così si può tradurre eɧ ²na tópon (eis héna tópon), che le versioni correnti
traducono banalmente come "in un luogo". Significa che il sudario, a differenza delle fasce distese, appariva
sollevato, in maniera quasi innaturale, forse perché su di esso i profumi avevano avuto un effetto
inamidante".
Se questo fu lo spettacolo che si presentò ai due apostoli, si può comprendere perché a quella vista il
discepolo che Gesù amava poté intuire ciò che era accaduto. Non lo avevano portato via. Era risorto nel suo
vero corpo, come aveva promesso, con parole che nemmeno i suoi avevano capito. Spiega don Antonio: "Era
impossibile che il corpo di Gesù fosse uscito dalle fasce per una improvvisa rianimazione, o che fosse stato
portato via, da amici o da nemici, senza slegare le fasce o manometterle in qualche maniera. Se le fasce
erano rimaste al loro posto, afflosciate su se stesse ma ancora avvolte, era il segno che Gesù era uscito vivo
dal sepolcro sottraendosi in maniera misteriosa ai panni che lo avvolgevano, fuori dalle leggi dello
spostamento dei corpi. Un intervento sovrannaturale aveva sottratto quel corpo dalla nicchia nel sepolcro,
lasciando tutte le cose intatte, senza manomettere i teli funerari. Giovanni, davanti al sepolcro, non fece
nessun salto mistico. Nel suo Vangelo, soffermandosi così minuziosamente sulla posizione delle fasce,
voleva solo descrivere la prima traccia storica della resurrezione".
Se ripensa ai tanti esperti che hanno passato la vita su queste cose, senza riuscire a tradurre degnamente
quattro versetti dal greco, gli viene quasi da ridere. Intanto, gli spunti delle sue ricerche non autorizzate li ha
raccolti in un libro. Ne aveva proposto la pubblicazione ad alcune case editrici cattoliche. Respinsero al
mittente il manoscritto, bocciandolo per il tono "eccessivamente apologetico". Alla fine se lo pubblicò da
solo, nel 1988 (Sulle tracce del Cristo Risorto. Con Pietro e Giovanni testimoni oculari, Edizioni C. P. R.). A
distanza di una dozzina d’anni, il volumetto sta uscendo dalla clandestinità. Lo si trova perfino in qualche
libreria cattolica. E anche padre Jean Galot, illustre professore della Gregoriana, in un recente saggio su La
Civiltà Cattolica ha citato ricerche aggiornate che confermano le "scoperte" di don Persili (cfr. 30Giorni,
n.7/8, 2000). Lo hanno anche chiamato in televisione. Dice don Persili: "Adesso, mi hanno invitato a parlare,
su a Pordenone. Mi hanno anche chiesto il mio curriculum. Gli ho scritto un foglietto con la data di nascita,
quella di battesimo, e quella di quando sono diventato prete. Non è che avessi altro, da raccontare…". Poi
questo don Nessuno si alza dalla sedia. Sono quasi le quattro. Deve andare a suonare la campana: "La suono
tutti i giorni, a quest’ora. Sa, è per ricordare il momento in cui i primi due, Giovanni e Andrea, hanno
incontrato Gesù: "Erano le quattro del pomeriggio", dice il Vangelo…".
Sulla via del ritorno, attraverso i vicoli di Tivoli, tornano in mente le parole di Péguy, quando avvertiva che il
nostro è un tempo in cui la realtà viene difesa solo da gente così, "individualità senza mandato".
Don, din don, din don, din don….

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