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Il matrimonio ebraico di Gesù

L’opera di Cristo ha dei bellissimi paralleli con il matrimonio ebraico.


Il matrimonio ebraico al tempo di Gesù era composto da tre fasi: dall’accordo


detto “shiddukhin”, dal fidanzamento detto “erusin” (attesa) o “kiddushin”
(santificazione) e infine dopo circa un anno o due la cerimonia, chiamata “nissu in”
o “chuppah”.

Shiddukhin, l’accordo

L’accordo che doveva essere fatto tra le due famiglie poteva avvenire in modi
diversi: il padre faceva l’accordo per suo figlio (Giu 14:1-10, vedi il padre di
Sansone), un intermediario, detto “shadkhan” lavorava per conto del padre (Gen
24 vedi Abraamo con Eliezer) o talvolta era lo sposo che si impegnava
personalmente a cercare moglie (Gen 29:15-30, vedi Giacobbe) e accordarsi.

In Gesù c’è una somma di questi modalità, il Padre stabilisce la propria volontà per
il Figlio, poiché è allo stesso tempo padre della sposa. L’intermediario che
nell’episodio di Isacco e Rebecca è Eliezer, nome che significa “consolatore o
aiutante” per noi è lo Spirito Santo. Eliezer protegge la sposa e la guida a
incontrare Isacco e lo Spirito Santo protegge e guida i credenti verso le nozze
dell’Agnello. Nel ruolo dell’intermediario possiamo leggervi anche i servi di Dio,
che guidati dallo Spirito Santo, avvicinano al patto con Dio le anime: “Infatti sono
geloso di voi della gelosia di Dio, perché vi ho fidanzati a un unico sposo, per
presentarvi come una casta vergine a Cristo” 2Cor 11:2. In questo senso un
credente può vivere l’emozione di essere la sposa o di un amico e quindi invitato
alle nozze. Infine la sposa è stata eletta da Gesù fin dalla fondazione del mondo:
“Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi” Gio 15:16.

Nella fase dell’accordo era previsto che lo sposo lasciasse casa e portasse alla
famiglia della futura sposa il prezzo della sposa detto “mohar”, un patto scritto
chiamato “ketubah” (scritto) o “shitre erusin” (accordo di fidanzamento), un otre di
vino e dei doni per la sposa. Nella ketubah si dichiaravano le intenzioni dello
sposo verso la sposa e le promesse verso il padre di lei. Nelle quali solitamente si
indicava la propria capacità di potersi prendere cura della figlia e il prezzo che era
disposto a pagare per la sua mano. Prezzo che era volutamente alto, perché
richiedesse lavoro da parte dello sposo per dimostrare la sua volontà si sacrificio
per l’amata, e per prevenire nozze affrettate. L’usanza ebraica era che lo sposo
potesse garantire uno status di benessere almeno pari a quello che aveva nella
casa del proprio padre. Una volta negoziato il prezzo all’uomo era permesso di
presentarsi alla sposa, e alla sposa era offerta la possibilità di accettare l’offerta.

In Gesù notiamo che egli lasciò la propria dimora celeste per venire in quella
terrena della sposa. La sua ketubah è il vangelo che contiene le sue promesse e il
suo mohar è la propria vita, prezzo che stabilì il Padre per acquistarci.
La presentazione simbolica dello sposo davanti alla sposa era data da un calice di
vino sul quale era fatta una benedizione e dopo aver bevuto un sorso veniva
posato a terra. Se lei accettava doveva raccogliere il calice e finire di berlo, sia la
parte amare che quella dolce, infatti il vino di allora era diverso da quello odierno.
A questo punto c’era la firma della Ketubah, la sposa non apparteneva più a se
stessa, era comprata a prezzo.

In Gesù è facile intuire che il calice sia quello del patto che avvenne durante
l’ultima cena e che il dolce e l’amaro simboleggino le benedizioni di Dio
accompagnate dal portare ogni la nostra croce, questo significa bere allo stesso
calice di Cristo.

Kiddushim e Eryusin, il fidanzamento


Dopo il calice, l’uomo e la donna entravano nel tempo del fidanzamento detto
kiddushim o santificazione (da kadosh ossia “messo da parte, santo”), lo sposo
quindi annunciava che sarebbe tornato dal padre e che avrebbe preparato un
posto per la sposa, prima di tornare a prenderla. L’equivalente di una casa o di
una camera nuziale tra le proprietà del padre.

Il parallelo è con Giovanni 14:1-3 “Quando sarò andato e vi avrò preparato un


luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche
voi”.

Pur essendo promessi, lo sposo e la sposa non convivono assieme, vivono un


tempo di preparazione. Una volta entrati nel periodo del fidanzamento ero usanza
che il Padre del fidanzato facesse dei doni alla futura sposa per prepararsi al
ritorno dello sposo. In questo dono possiamo leggervi la promessa dello Spirito
Santo. I doni servivano alla sposa per prepararsi per il ritorno dello sposo e per la
futura nuova vita matrimoniale.

Allo sposo spettava preparare la camera/casa nuziale dove gli sposi avrebbero
vissuto sette giorni, ma spettava al padre dello sposo stabilire quando essa era
pronta e adatta ad accogliere la futura moglie, questo per prevenire la frettolosità
dello sposo, la preparazione poteva richiedere anche più di un anno.

Proprio come uno sposo non sa quando deve prendere la sposa, così Gesù non
sapeva quando sarebbe tornato a rapire la chiesa: “Ma quanto a quel giorno e
quell’ora, nessuno li sa, neppure gli angeli nel cielo, ne il Figlio, ma solo il Padre”
Mar 13:32-33.

Nel tempo di attesa la sposa doveva imparare come piacere a suo marito, una
delle prime cose che la futura sposa faceva era un immersione rituale per
simboleggiare che le cose precedenti erano passate e si avviava verso una nuova
vita, questo rituale era conosciuto come “tevillà” e si svolgeva nella “mikveh”(una
raccolta d’acqua), che ricorda il battesimo in acqua. La sposa raccoglieva la sua
dote “shiluhim”, la maggior parte della quale le era dato da suo padre che
avrebbe consegnato allo sposo una volta che si sarebbero rivisti. L’usanza
prevedeva che tenesse vicino una lampada ad olio nel caso lo sposo venisse di
notte a prenderla, e con lei le sue damigelle. Talvolta per non essere impreparata
le spose dormivano vestendo l’abito nuziale. Durante l’attesa la sposa era
chiamata ad indossare quando usciva un velo sul capo fino al matrimonio per
manifestare che era stata promessa. Mentre aspettavano lo sposo, se venivano
pensieri di scoraggiamento leggevano le ketubah, le promesse dell’impegno del
proprio futuro marito.

Nissu in, il ritorno dello sposo


Quando il padre decideva che tutto era pronto, lo sposo chiamava i suoi testimoni
per farsi accompagnare a prendere la fidanzata, la scelta di venire di notte era
spesso associata all’idea di fare una sorpresa alla fidanzata. La sposa era usanza
venisse “portata via di soppiatto”. Di regola però i testimoni dovevano dare un
avvertimento che annunciasse l’imminente arrivo dello sposo, seguito dal suo di
uno shofar (corno di montone). In modo tale che la sposa avesse modo di
mettersi velocemente in ordine insieme alle damigelle.

Il parallelo è chiaramente la parabola delle vergini di Matteo 25 e altri versi:


“Il Signore stesso, con potente grido, con voce d’arcangelo e con la tromba di Dio,
scenderà dal cielo […] noi viventi che saremo rimasti, verremo rapiti […] sulle
nuvole, a incontrare il Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore” 1
Tessalonicesi 4:16-18

“Vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nuvole del cielo con gran potenza e
gloria. E manderà i suoi angeli con gran suono di tromba a riunire i suoi eletti dai
quattro venti, da un capo all’altro dei cieli” Matteo 24:30-31

I testimoni dello sposo sono gli angeli (Luca 12:8), che rapiranno la sposa di Cristo,
la sorpresa ricorda l’espressione di Gesù che verrà come “un ladro nella notte”. È
interessante che la parola Nissu in che descrive l’ultima parte del matrimonio
derivi da nasa che significa “rapiti”.

Gli sposi quindi venivano a trovarsi raccolti sotto un baldacchino chiamato


“chuppah” che era simbolo della loro nuova dimora. Lo sposo e gli invitati
vestivano il “kittel”, una tunica bianca (Isaia 1:18) che veniva indossato dai
sacerdoti anche in alcune festività come lo Yom Kippur, Pesach e Rosh haShana (il
Giorno dell’espiazione, la Pasqua e la Festa delle trombe), talvolta quest’abito era
provveduto agli invitati dal padre dello sposo.

Gli sposi consumavano il matrimonio il primo giorno (Genesi 24:64-67) e


festeggiavano con gli invitati nella casa del Padre per sette giorni, simbolo
dell’eternità. (Giudici 14:10-12, Genesi 29:21-30).

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