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TEOLOGIA
DELL'ANTICO
TESTAMENTO
VOLUME II Teologia delle
tradizioni profetiche d'Israele
Edizione italiana a cura di FRANCO RONCHI
1fS«»
PAIDEIA EDITRICE BRESCIA
Titolo originale dell'opera:
Gerhard von Rad
Theologie des Alteri Testamenti
Band II : Die Theologie der prophetischen Oberlieferungen Israels
Traduzione italiana di Bruno Liverani, Giovanni Torti e Franco Ronchi
Revisione di Franco Ronchi
© Chr. Kaiser Verlag, Munchen 41965
© Paideia Editrice, Brescia 1974
Non state a ricordare le cose antiche
e non pensate più al passato:
ecco, io faccio qualcosa di nuovo
Is. 43,18 s.
DALLA PREFAZIONE ALLE PRIME TRE EDIZIONI
2. Ed. italiana: Grande Lessico del Nuovo Testamento, Paideia (Brescia 1965 ss.).
12 Dalla prefazione alle prime tre edizioni
3. Nella presente traduzione i rinvìi sono intesi all'edizione italiana, condotta sulla
quarta edizione tedesca: Teologia dell'Antico Testamento I: Teologìa delle tradi-
zioni storiche d'Israele, a cura di M. Bellincioni, Paideia (Brescia 1972) [NdC].
ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI
Theologische Literaturzeitung
Theologische Rundschau
Theologisches "Worterbuch zum Neuen Testamenl, a cuta
di G. Kittel e G. Friedrich (vedi GLNT)
Theologische Zeitschrift
Th.CViiezen,Tbeologie des Alien Testaments in Grund-
zùgen{\^d)
Vetus Testamentum
Supplements to VT
Zeitschrift fiir die alttestamentliche Wissenschaft
Zeitschrift des Deutschen Palastina-Vereins
Zeitschrift fiir Theologie und Kirche
fi
PARTE PRIMA
ìk
CAPITOLO PRIMO
INTRODUZIONE
protestantesimo da Lutero sino a mezzo il secolo xix: prophetia enim nibil diud
quam expositio et (ut sic dixerim) praxis et applicano legis fuit (WA vili, 105,6
ss.). La profezia «è profondamente radicata nella legge, è generata dalla legge, e
non è altro che l'ulteriore sviluppo della legge nella sua applicazione al presente e
al futuro del popolo»: H.A.C. Havernick, Vorlesungen tiber die Theologie des
Alten Testamentes (1848) 16. Si può confrontare quanto il Wellhausen dice del
proprio sforzo di intendere i profeti in conformità alla legge: egli studiò a fondo il
Pentateuco, ma attese invano la luce che esso doveva gettare sui libri profetici:
«Al contrario la legge mi guastava il godimento di quegli scritti; non mi avvici-
nava ad essi, ma si intrometteva con effetto perturbatore come un fantasma che
rumoreggia, ma non diventa visibile ed efficace»: Prole gomena zur Gescbichte
Israels ('1899) 3.
3. V. più avanti pp. 477 ss.
Introduzione 21
LA PROFEZIA PRECLASSICA
i. Le orìgini
3. G. Holscher, op. cit-, 132 ss. Cfr. la descrizione classica dei fenomeni estatici che
caratterizzavano i veggenti invasati della Tracia e dell'Asia Minore in E. Rohde,
Psyche C1907) 11, 8-22. T.H. Robinson, op. cit., 33 ss. Per la più antica storia della
profezia, cfr. ora J. Lindblom, Zur Frage des Kanaanàischen Ursprungs des alt-
israelitischen Prophetismus in: Festschrift fùr Eissfeldt, Voti Ugarit nach Qumran
(1958) 89 ss.
Le origini
25
che si fossero semplicemente accostati alla cerchia di quegli inva-
sati (z Sam. 19,18 ss.). Lo stesso uso linguistico per cui il termi-
ne 'sbavare' viene usato anche nel significato di 'predire' {hittif:
Am.j,x6; Mich. 2,6.11) oppure un profeta può essere definito
anche m'sugga', 'folle' è abbastanza eloquente (2 Reg. 9,11). Non
sappiamo se nell'età più antica queste forme di agitazione estati-
ca si esprimessero nella parola articolata oppure fossero fine a se
stesse come testimonianze di una 'possessione' divina. Nella de-
scrizione vivacissima del crescente invasamento dei sacerdoti di
Baal, durato per ore e ore, si parla di invocazioni che essi, resi
insensibili dalla loro stessa agitazione, avrebbero elevate al loro
dio mentre si procuravano ferite ( 1 Reg. 18,26 ss.).
6. 2 Sam. 7,1 ss.; 12,25; 1 Reg. 1,8.23. Olue a Natan anche Gad ebbe una parte
come profeta di corte: 1 Sam. 22,5; 2 Sam. 24,11-13.
7. G. Holscher, op. cit., 124.
8. Cfr. per questo W. von Soden, Die Verkiindigung des Gotteswillens durch pro-
phetisches Wort in den altbabylonischen Briefen aus Mari: Welt des Orients
(1950) 397 ss.; M. Noth, Geschichte und Gotteswort im Alteri Testament = Ges.
Studien (1957) 230 ss.; C. Westermann, Grundformen prophetischer Rede (i960)
82 ss.
9. A. Lods, Une tablette inèdite de Mari, intéressante pour l'histoire ancienne du •
prophétisme sémitique: Studies in Old Testament Prophecy (1950) 103 ss.
28 La profezia preclassica
11. Per la discussione su 1 Sam. 9,9 s. cfr. H.H. Rowley, The Servant of the Lord
(1952) 99 ss.
12. R. Bach, Die Aufforderungen zur Flucht und zum Kampf im alttestamentìichen
Propbetenspruch (1962) 92 ss.; R. Rendtorff, Erwagungen zur Frùbgeschicbte des
Prophetentums in Israel: ZThK 59 (1962) 145 ss.
13. J. Lindblom: VTS 1 (1953) 78. L'argomentazione è però viziata dal fatto che
il Lindblom, per fissare la data del testo concernente Giuda, adduce anche altri
enunciati che riguardano le varie tribù. Ma per ragioni tanto formali quanto di
contenuto, Gè». 49 non garantisce affatto che i vari detti riguardanti le singole
tribù si debbano attribuire alla medesima epoca storica.
La profezia preclassica
3°
so vuol dire che lo scettro e il bastone di comando di Giuda «non
verranno meno», è giocoforza chiedersi come si debba intendere il
«finché». È forse un rimando a qualcuno che «sorge» dopo, ossia a
qualcuno che «viene» soltanto dopo il regno dello scettro di Giuda?
In tal caso saremmo di fronte a un'autentica profezia dell'avvento di
un sovrano distinto dai precedenti. È però anche possibile intendere
il «finché» in senso non esclusivo, ma inclusivo e allora il versetto ver-
rebbe a dire che tutto quanto è stato predetto trova col «finché» il
suo vertice e il suo compimento. Una risposta al quesito può venire
soltanto dall'interpretazione che si dà del vocabolo silòb (v. io). Quan-
do si accetti l'emendamento, largamente diffuso, ma alquanto scialbo
mòseló, il senso risulta essere «finché viene il suo sovrano e a lui va
l'obbedienza dei popoli»; allora (intendendo «finché» nel secondo mo-
do) potrebbe trattarsi di un vaticinium ex eventu riferito a Davide e
all'attuazione del suo grande regno. Anche le allusioni a una fecondità
addirittura paradisiaca (legare tranquillamente la propria cavalcatura
a un tralcio di vite e lavare la propria veste nel vino significa vivere
in paradiso) potrebbero appartenere alla topica dello 'stile di corte' M.
Di recente però, accogliendo le indicazioni del Lindblom, si è tornati a
lasciare il testo nella sua forma originaria. Si dovrebbe allora cogliere
in esso l'attesa che Davide venga a Silo, il centro anfizionico. Come
si sa ciò non è accaduto: Davide ha stabilito il centro del suo stato a
Gerusalemme dove ha fatto trasportare l'arca da Silo (cfr O. Eiss-
feldt, Silo unti Jerusalem: VTS iv [1957] 138 ss.). Se poi, una volta
ammessa questa interpretazione, il testo si debba considerare, come
vuole l'Eissfeldt, anteriore alla distruzione di Silo (1050 a.C), non
può dirsi con sicurezza. Si potrebbe anche leggere nel testo l'augurio
che a Silo venga restituita la sua antica condizione di privilegio.
Se per il testo concernente Giuda in Gen. 49 ci si può chiedere se es-
so debba considerarsi profetico in senso stretto e non soltanto una ce-
lebrazione poetica dell'avvento di Davide al trono, le parole di Bileam
in Num. 24,15-19 si presentano in una forma che può essere soltanto
quella di un oracolo profetico. Anche l'enunciato di Bileam ha di mi-
ra (come oggi generalmente si ammette) Davide15 e, se pure alla lon-
tana, può darci un'idea dello stile di quegli oracoli rivolti al sovrano
che celebravano il giovane regno. Anche qui molti particolari sono
oscuri. La definizione del re quale stella, quale cometa, si trova nel-
2. Elia
Chi si affida alla successione storica degli eventi quale risulta
dai libri della Bibbia e nota lo scarso rilievo plastico col quale
sono disegnate le figure di Natan e di Ahia di Silo, quando passa
ai racconti delle vicende di Elia si imbatte di colpo in un feno-
meno profetico che ha uno straordinario potere di illuminazione
storica 17 . Non che la tradizione di Elia nel suo complesso sia uni-
taria, tutt'altro. Già il nucleo maggiore e più compatto (iReg.
17,1-19,18) risulta di sei racconti particolari accordati nella loro
tematica da un compilatore, com'è facile vedere. Stanno a sé in
certo modo gli episodi della vigna di Nabot ( 1 Reg. 21 ) e della
malattia di Ocozia ( 2 Reg. 1 ) i quali mantengono ancora un che
di tipizzato e di schematico nel modo della narrazione, specie
laddove si tratta di elaborare contrasti netti e rigorosi. Eppure in
essi tutto respira la gravitas di ciò che è storicamente unico e ir-
repetibile. Ciò vale anzitutto per la persona stessa di Elia, l'inav-
vicinabile, l'imprevedibile, l'uomo odiato eppure indispensabile.
Codesta impronta di grandezza inesauribile che si avverte in gui-
sa sempre nuova in ciascuno dei racconti di Elia, si spiega solo
ammettendo che quelle narrazioni rispecchino una figura storica
di grandezza quasi sovrumana. È ben vero che da esse non ap-
prendiamo nulla che riguardi direttamente e da vicino Elia, il suo
ambiente sociale e religioso e la sua origine. I testi ci parlano di
lui come di un individuo noto a tutti, ma senza presupporre nei
loro lettori o ascoltatori un interesse analogo a quello moderno
19. A. Alt, Der Stadtstaat Samaria (1954) = Kl. Schriften in, 270 ss.
20. Per il racconto del giucfcio di Dio sul Carmelo, cfr. A. Alt 11, 135 ss.: Dos
Gottesurteil auf dem Karmel (cfr. anche in, 276 s.); O. Eissfeldt, Der Gott Kar-
mel, Sitzungsberichte der Deutschen Akademie der Wissenschaften zu Berlin, Kl.
f. Sprachen, Literatur und Kunst (1953) nr. 1, 31 ss.; K. Galling, Der Gott Kar-
mel und die Àchtung der fremden Gòtter in: Geschichte des Alten Testamenti
(1953) 105 ss.
La profezia preclassica
34
antiche tradizioni israelitiche di Jahvé. Nulla quindi ci consente
di pensare che il dilemma Baal o Jahvé fosse già familiare agli
ascoltatori21. Il narratore riferisce che il popolo di fronte a que-
sta domanda radicale di Elia avrebbe taciuto manifestando così
più un'incomprensione del problema che un senso di colpa (v.
21). Ad Elia occorreva un'energia immensa per costringere il po-
polo a una decisione della quale nessuno avvertiva la necessità.
Per intendere più esattamente quel che avvenne sul Carmelo
dobbiamo prendere le mosse, come ci ha insegnato A. Alt, dal-
l'accenno, che può di prim'acchito parere secondario, alla distru-
zione di un altare di Jahvé (v. 30). Poiché il Carmelo era situato
fuori dell'area dell'antica anfìzionia, poteva trattarsi soltanto di
un altare eretto nell'età posteriore a Davide. Questo culto di
Jahvé doveva quindi essere in certo modo una postazione avan-
zata in territorio cananeo giacché il Carmelo sin dai tempi più
antichi era l'area cultuale del Baal appunto del Carmelo. Quando
e come il culto di Jahvé sia penetrato in questa regione non sap-
piamo. È probabile che dapprima lo jahvismo abbia semplicemen-
te scacciato il culto di Baal e che più tardi l'antica religione indi-
gena abbia avuto una ripresa. Ad ogni modo questa era un'espe-
rienza che Israele aveva dovuto fare spesso: quando si instaurava
una coesistenza cosi pacifica dei due altari, era giocoforza che
quello di Jahvé cadesse in rovina. E tale appunto era la situazio-
ne che Elia trovò sul posto. Se, come abbiam detto sopra, asso-
luta novità fu che Elia giudicasse intollerabile la coesistenza, anzi
la confusione dei due culti, si comprende come il racconto si con-
centri sulla risposta alla domanda del profeta. Chi diede quella
risposta? Non certo il popolo (la narrazione a questo proposito
si distacca da quella di Ios. 24,14 ss.), e neppure Elia, ma lo stes-
so Jahvé. E certo per il narratore ha grande importanza mostrare
che Israele potè essere salvato solo, in questo modo, e che da sé
non avrebbe mai potuto trarsi dallo stato di abbandono della pro-
pria fede e del proprio culto se Jahvé stesso non si fosse manife-
stato ancora una volta in tutta la sua gloria. Così il grande que-
21. L'accenno, non del tutto chiaro, allo zoppicare da entrambe le parti potrebbe
riferirsi a una danza cultuale, al piegamento dei ginocchi (così ultimamente inten-
de Galling, op. cit., 107).
Elia
35
sito chi fosse il Dio di Israele ebbe una risposta prodigiosa e me-
ravigliosa quale non sarebbe potuta essere una professione di fe-
de, sia pur solenne, fatta dagli uomini. L'autore del racconto ha
cercato in ogni modo di attribuire valore generale e di principio
a un fatto squisitamente locale.
Potrebbe quasi sembrare un errore che sin dall'inizio il racconto im-
posti lo svolgimento dei fatti sul contrasto insanabile fra le due pra-
tiche cultuali, prenda cioè le mosse da quella che sarebbe dovuta es-
sere la sua conclusione. Gli è che l'autore vede le cose proprio con gli
occhi di Elia ed è proprio ciò che gli ha dato la possibilità di contrap-
porre, ricorrendo certo a una spiccata tipizzazione, i due culti inconci-
liabili. Il culto di Baal conduce i suoi adepti prima a un'eccitazione
parossistica, poi al dissolvimento di se stessi. Al tentativo disperato
di attirare su di sé, con prestazioni varie, l'attenzione della divinità, si
contrappone la tranquilla compostezza di Elia, un comportamento che
di fronte agli sforzi frenetici dei sacerdoti di Baal può sembrare ad-
dirittura passivo. Gli è che Israele ben sapeva come il suo Dio fosse
pronto a manifestarsi; sapeva di non doverlo ricercare o attrarre a sé,
ma di essere cercato da lui. Se quindi per un verso il racconto traboc-
ca di 'dottrina', per un altro esso si svolge in un'atmosfera quanto mai
arcana e satura di fede nel prodigio, soprattutto in quanto riallaccia
tutto l'avvenimento ad Elia, questo personaggio dal vigore quasi pri-
mordiale e dalla coscienza profetica vertiginosa («Com'è vero che vive
Jahvé, Dio d'Israele, al cui servizio io sto, in quest'anno non cadrà né
rugiada né pioggia se non quando l'ordinerò io»: r Reg. 17,1).
L'uccisione dei sacerdoti di Baal non fu in alcun modo un ge-
sto di vendetta o di fanatismo al quale Elia si sarebbe lasciato
trascinare dalla passione. Giustamente si è fatto notare che Elia,
così facendo, ha soltanto esercitato un antichissimo diritto anfi-
zionico, sia pur caduto ormai in oblio, in forza del quale ogni
apostasia da Jahvé era punita con la morte: «Chi sacrifica ad al-
tri dèi dev'essere condotto a morte» (Ex. 22,19) n - Ancora il
Deuteronomio, duecento anni dopo Elia mantiene questa norma
giuridica (Deut. 13,7-12), anzi addirittura prevede il caso che
città intere rifiutino compatte il culto di Jahvé e stabilisce per
queste circostanze la pena estrema, ossia il 'bando', lo sterminio
totale di ogni essere vivente {Deut. 13,13 ss.) 23 .
22. Cfr. voi. i, p. 237, n. 29. 23. K. Galling, op. cit., 122 ss.
,g La profezia preclassica
34.1 documenti ritrovati negli archivi reali di Ugarit e Alalak, città della Siria set-
tentrionale, hanno gettato nuova luce siri rapporti economici e giuridici (relativi
alla proprietà del suolo) che in quegli stati vigevano evidentemente da gran tem-
po: cfr. I. Nougayrol, Le palais royal d'Ugarit ni (1955) 31.283 ss.; J. Wiseman,
The Alalacb Tablets (1953). Tutta la vita economica era praticamente sottoposta
al re e questi dal canto suo cercava costantemente di ampliare i propri possedi-
menti fondiari. Dai testi di Alalak risulta fra l'altro quale importanza avesse lo
scambio di appezzamenti di terreno il che fa apparire in nuova luce il racconto di
1 Reg. 21. Per contro i profeti sostenevano l'ordinamento economico dell'antico
Israele, inconciliabile con la concezione cananea del diritto quale anche i re di
Israele e Giuda hanno cercato vieppiù di far propria. A. Alt, Der Anteil des Kó-
nìgtums art der sozialen Entwicklung in de» Reichen Israel und ludo = ni, 348 ss.
Elia 4i
35. Cfr. voi. 1, p. 314 s.; di recente J. Hempel, Ich bin der Herr, dein Arzt: ThLZ
(1957) 809 ss.
La profezia preclassica
42
36. Per quanto concerne il problema sempre risorgente del monoteismo dei pro-
feti, cfr. M. Buber: «La questione se il profeta abbia raggiunto questo o quel-
l'ismo può esser lasciata da parte; la pretesa di siffatte distinzioni perde ogni si-
gnificato quando vuole arrogarsi un valore qualsiasi di fronte alla realtà del pro-
feta, la realtà di un uomo pienamente dedito all'unicità del suo Dio», Der
Glaube der Propheten (1950) 158. Per la questione del monoteismo cfr. voi. 1, p.
244 ss.
Eliseo
43
lità di Israele si tratta di una minoranza in via di estinzione. Che
Jahvé in determinate circostanze potesse anche punire il suo po-
polo, Israele lo sapeva anche prima di Elia; ma che potesse di-
struggerlo e lasciarne sussistere soltanto un 'residuo' questo era,
come abbiam detto, un annuncio assolutamente nuovo per Israe-
le. Eppure si trattava soltanto del principio di quel che i profeti
seguenti avrebbero dovuto proclamare!37
3. Eliseo
Il ciclo narrativo di Eliseo formava in origine un blocco ben
compatto e concluso, che poi nel corso della redazione dell'opera
storica deuteronomistica ha subito lacerazioni ancor più profon-
de di quelle avvenute per i racconti di Elia38. Esso comincia col
rapimento di Elia in cielo e il trapasso del suo carisma ad Eliseo
(e per questo in 2 Reg. 2 il protagonista non è Elia, ma Eliseo)"
e termina col miracolo che avvenne toccando il cadavere già se-
polto del profeta. La maggior parte di questi racconti ci presenta
Eliseo in rapporto con persone che vengon chiamate «discepoli
dei profeti» (benè hann'bì'im), e che nell'ambito dell'ordinamen-
to sociale di Israele formano una categoria particolare molto in-
teressante. Troviamo costoro in alcune località meridionali del
regno di Israele e possiamo ben supporre che questi loro insedia-
menti fossero in stretto rapporto coi santuari locali*'. Pare che
questi 'discepoli dei profeti' si fossero addirittura associati in
gruppi governati da speciali regole di vita. Di certo qua e là si
trovano riferimenti incidentali alla loro usanza di radunarsi per
37. Un contemporaneo di Elia fu Michea ben Imla del quale in i Reg. 22,9 ss.
vengono diffusamente riferite le profezie di sventura e i conflitti che ne derivarono.
38.1 racconti di Eliseo sono compresi tra 2 Reg. 2,1 e 13,21.
39. Il senso della richiesta di Eliseo in 2 Reg. 2,9 non è del tutto chiaro. Probabil-
mente Eliseo desidera per sé la parte del carisma che spetta al primogenito e quin-
di, secondo Deut. 21,17, una doppia partecipazione all'eredità. Intendere che Eli-
seo chieda per sé il doppio del carisma posseduto da Elia è certamente errato. Sul
problema della successione profetica, cfr. H.-J. Kraus, Vie prophetische Verkiindi-
gung des Rechts in Israel (1957) 25.
40. Il racconto di 1 Sam. 19,8 ss. presuppone l'esistenza di una siffatta associazione
di profeti in Rama. Da 1 Reg. 20,38.41 parrebbe che i membri di siffatte corpora-
zioni usassero il tatuaggio come segno di riconoscimento (cfr. Zach. 13,6).
La profezia preclassica
44
ascoltare un maestro (2 Reg. 4,38; 6,1). Eliseo è evidentemente
il capo di tutti loro e porta il titolo onorifico di 'padre' (2 Reg. 6,
2.12.21; cfr. 2,12) Poiché tali racconti ci ragguagliano nitida-
mente su tutto il contorno di queste singolari congreghe si può af-
fermare con sicurezza che si trattava di gente socialmente ed eco-
nomicamente assai umile, anzi addirittura quasi dei paria. Il loro
tenore di vita per quanto concerne il nutrimento e l'abitazione è
quanto mai povero; in un caso si parla di indebitamento (2 Reg.
4,1-7). Chissà se per questi gruppi il santuario non aveva impor-
tanza anche come luogo di asilo? Non è davvero ozioso chiedersi
se tutti coloro che si aggregavano a questa cerchia lo facessero
volontariamente. Forse la causa del loro segregarsi dalla vita bor-
ghese e contadina era il fallimento economico, ma può anche dar-
si che l'indigenza avesse ragioni religiose più che economiche in
quanto si trattava di persone che, ligie ancora alle norme patriar-
cali di vita proprie dello jahvismo (si pensi al diritto fondiario)
non sapevano adattarsi al carattere più feudale dell'ordinamento
economico .cananeo. Forse è giusto considerare questi 'discepoli
dei profeti' in certo qual modo come gli ultimi rappresentanti
del più puro e incontaminato jahvismo e tenere quindi in gran
conto il loro significato per la sopravvivenza della religione di
Jahvé e specialmente per l'impronta particolare che tale religio-
ne avrebbe assunto in appresso. Proprio queste cerchie profeti-
che furono in definitiva l'humus dal quale germogliò quella pro-
fonda radicalizzazione dello jahvismo e del suo diritto divino che
incontriamo nel profetismo posteriore. Sempre in quelle cerchie
furono poste le fondamenta di quell'enigmatica indipendenza
sociale ed economica, di quella libertà da qualsiasi considera-
zione di casta o classe, che costituì il presupposto indiscusso per
il sorgere dei profeti seguenti e della quale costoro si servirono
come di un immenso capitale che quegli antichi reietti avevano
preparato per loro; in effetti proprio quei 'discepoli dei profeti'
avevano dato al termine nàbY il suo carattere specifico e chiarito
che cosa significasse parlare in nome di Jahvé. Amos e Isaia non
avevano che da adeguarsi a loro 4I .
41.1 sorprendenti reperti di Qumran nella regione nordoccidentale del Mar Mor-
Eliseo 45
Quale fu l'ufficio proprio del profeta Eliseo? Gli autori dei
testi ci danno una risposta molto chiara: egli ha compiuto pro-
digi. Ha fatto galleggiare il ferro, ha risanato l'acqua di una
fonte, ha accecato un esercito nemico, ha guarito un lebbro-
so, ha persino richiamato in vita un morto, per tacere d'altro42.
In nessun altro luogo dell'Antico Testamento abbiamo una ta-
le concentrazione di miracoli, in nessun altro punto si nota una
così schietta gioia del prodigio, una cosi limpida felicità per la
manifestazione sempre nuova e stupefacente del carisma pro-
fetico. Per questo la figura di Eliseo balza in primo piano as-
sai più di quanto avvenga con Elia. Proprio Eliseo (non cer-
tamente come 'personalità' in senso moderno, ma come ope-
ratore di prodigi e individuo dotato di un carisma taumatur-
gico) è addirittura l'oggetto della narrazione43. Ma sebbene que-
sti racconti dei prodigi abbiano gran parte nel complesso dei
testi concernenti Eliseo, essi ci danno però solo un quadro assai
unilaterale dell'azione di lui; anzi è probabile che non ne lascino
nemmeno scorgere l'essenziale, ma riproducano soltanto quel
che di essa era conservato nella tradizione popolare. Da uno dei
racconti si può forse inferire che nei giorni di sabato e di luna
to non solo ci hanno fatto conoscere una comunità monastica essena della più
stretta osservanza risalente all'età di Cristo, ma con la cosiddetta Regola della
setta ci hanno dato un'idea precisa dei rigorosi ordinamenti della loro vita comu-
nitaria guidata da princìpi autoritari. Ciò fa apparire in una nuova luce le notizie
che abbiamo circa i raggruppamenti di profeti al tempo di Eliseo; ora infatti il fe-
nomeno si colloca sociologicamente in un ambito assai più vasto. Ciò non vuol di-
re che le confraternite profetiche siano sic et simpliciter le precorritrici di quella
essena, ma soltanto che ora sappiamo che spesso vi furono in Israele simili nuclei
di estremisti religiosi e che per una comunità di scismatici - tali erano gli esseni
di Qumran - era naturale appartarsi e vivere una vita comunitaria (secondo mo-
duli, come abbiam visto, già noti nel passato) per tutelare cosi le proprie convin-
zioni e tradizioni religiose. Cfr. L. Rost, Gruppenbildungen im Alteri Testamenti
ThLZ 80 (1955) 1 ss.
42. Il lettore è pregato di confrontare i due racconti di 1 Reg. 17,17-23 e 2 Reg. 4,
29-37 e di notare come la versione che attribuisce il prodigio ad Eliseo dia un
risalto assai più forte all'elemento meraviglioso e come 'in essa sia più approfon-
dita la descrizione dei particolari tecnici di tutto il procedimento.
43. Oltre ai veri e propri miracoli il narratore ha attribuito a questo profeta anche
molteplici capacità parapsichiche: chiaroveggenza, audizioni a distanza (2 Reg. 5,
26; 6,12.32 s.; 8,10 ss.). G. WIDENGREN, Literary and Psychological Aspects of the
Hebrew Prophets (1948) 97.
La profezia preclassica
46
nuova una gran folla si recava a visitare l'uomo di Dio per inter-
rogarlo (2 Reg. 4,23). Ma su un aspetto dell'azione di Eliseo ta-
luni dei racconti ci ragguagliano generosamente ed è l'aspetto po-
litico: con ogni probabilità proprio nell'ambito politico gravitò
tutta l'esistenza di Eliseo. La circostanza che questi gruppi di
'profeti' si fossero staccati dall'ordinamento della società non si-
gnifica certamente che essi non s'interessassero affatto agli affari
politici di Israele e si fossero dati alla contemplazione privata,
ma è vero piuttosto il contrario. Tali gruppi in Oriente si sono
varie volte accollati con particolare zelo e passione il peso dei
gravi problemi generali e da essi in qualche caso sono partiti im-
pulsi di vasta portata. Il narratore attribuisce ad Eliseo un ascen-
dente che si sarebbe esercitato persino a Damasco, quando l'usur-
patore Azaele prese il trono (2 Reg. 8,7-15). La storicità di que-
sta notizia, ben si capisce, non può essere dimostrata; ma anche
se la tradizione è leggendaria essa adombra però l'attitudine di
questi profeti a immischiarsi in vaste e rischiose cospirazioni. Di
qual genere fossero le fila politiche che Eliseo teneva nelle mani
risulta ancor più chiaramente dal racconto dell'unzione di Jehu e
dell'abbattimento della dinastia dominante; questo sinistro av-
venimento infatti si colloca nella piena luce della storia ed esso
ricevette impulso direttamente da Eliseo. Egli ha designato re
questo zelatore della pura fede jahvista ed è difficile pensare che
non abbia previsto quanto sangue avrebbe versato questo Jehu
nella sua lotta contro Baal e i suoi adoratori (2 Reg. 9-10). La
monarchia del regno settentrionale era, per la sua struttura fon-
damentale, carismatica e i profeti come Eliseo quando designa-
vano qualcuno al trono o tramavano rivoluzioni, avevano co-
scienza di essere gli strumenti diretti del loro Dio che guidava la
storia44. Eliseo, come pure Elia e tanti altri campioni veterote-
stamentari dello jahvismo, non erano uomini che vivevano sol-
tanto per la spiritualità religiosa come noi la intendiamo, ossia
per la fede, per la dottrina, per il culto, non erano riformatori
'religiosi', bensì servitori di Israele e Israele era un'entità stori-
ca che non viveva soltanto nella regione dello spirito, ma anche
45. Per la comprensione di 2 Reg. 13,14; 2,12 cfr. von Rad, Der heilige Krieg im
alteri Israel P1958) 55 s.; K. Galling, Der Ehrenname Elisa una die Entruckung
Elias: ZThK 53 (1956) 129 ss. Come il Galling ha dimostrato, in quest'epoca non
si può parlare di 'cavalieri', perciò la frase, tradotta esattamente, suona: «carro da
battaglia di Israele e sua muta».
46. Cfr. G. von Rad, Der Heilige Krieg im alten Israel, 14 ss. 33 ss.
47. W. Reiser ha esaminato i logia, ossia i veri e propri elementi kerygmatici pre-
senti nei testi narrativi concernenti i profeti; egli considera le parole dei profeti
48
La profezia preclassica
che sempre accompagnano i prodigi (com'è il caso, p. es., della predizione della fa-
rina che non verrà meno nell'anfora [1 Reg. 17,14] o dell'avviso della vendita a
buon mercato [2 Reg. 7,1]) già enunciazioni escatologiche di Dio e antecedenti di
predizioni come Atti. 9,13: W. Reiser, Escbatologische Gottessprùche in den Eli-
salegenden: ThZ 9 (1953) 321 ss. Se si possa o no in questi casi parlare già di
escatologia, dipende naturalmente dal modo in cui si intende questo concetto. Ve-
di più avanti pp. 141 ss.
Eliseo
49
riservata da Eliseo a Naaman e poi alla fine il suo colloquio amichevo-
le col profeta. Il prodigio in quanto tale si colloca come un momento
di tensione fra i due poli del racconto.
Naaman guarito ritorna da Eliseo, e, poiché questi non vuole accetta-
re i suoi doni, pone ancora due richieste al profeta in apparenza così
inesorabile. Anzitutto Naaman vorrebbe far trasportare con bestie da
soma un carico di terra a Damasco per potere colà adorare debitamen-
te Jahvé. Proprio il tenore della richiesta ha indotto molti esegeti mo-
derni a deprezzare la fede di Naaman; ma l'errore che essi commetto-
no procede dalla tacita premessa filosofica che anche Israele avesse fa-
miliare la distinzione della realtà in materia e spirito. Si può ammet-
tere che il lettore veterotestamentario avvertisse alcunché di singolare
nella richiesta di un carico di terra; ma è certo che non poteva mera-
vigliarsi dell'incapacità di Naaman di levarsi in una sfera spirituale.
Ciò che l'avrà meravigliato sarà stato il vedere come un uomo il quale
aveva incontrato il Dio di Israele esprimesse la sua preoccupazione
per il modo onde in un paese pagano avrebbe potuto mantener fede a
questo culto; anzi il lettore avrà considerato del tutto normale (giac-
ché anche per lui la terra concessa da Jahvé era il dono salutare per
eccellenza) che Naaman, nella sua difficile situazione, tentasse di dare
alla propria fede, sebbene in guisa insolita, qualcosa come un sostegno
sacramentale (nel dialogo teologico tra la fede biblica e l'intelletto
greco che in Occidente dev'essere continuamente svolto, proprio quel
carico di terra per due muli dovrà pur avere una sua parte).
Anche l'altra richiesta di Naaman ad Elia di potere cioè anche in ap-
presso, quando la sua carica lo richieda, entrare a fianco del suo re nel
tempio del dio Rimmon è abbastanza serafica se si tiene presente il
primo comandamento. Naaman si rende conto fin d'ora che nel suo
paese non gli sarà possibile rompere in tutto con le pratiche pagane.
E per questo la legge di Jahvé dovrà condannarlo a morte? Per com-
prendere la durezza del suo conflitto interiore occorre tener conto che
nella richiesta di Naaman si esprime ancora un'umanità cui è ignota
una religione intesa modernamente, ossia come una disposizione inti-
ma del cuore, per la quale sono irrilevanti i modi esterni dell'ado-
razione.
La risposta di Eliseo attesa con ansia è quanto mai breve e contenuta,
ma dettata da una grande saggezza pastorale: «Va in pace». Frainten-
deremmo il senso di queste parole se pensassimo che Eliseo abbia elu-
so la domanda oppure abbia sostenuto una prassi lassista. Il tratto
specifico della sua risposta è che, essa non impone alcuna legge a
Naaman. Sarebbe parso naturale premunire l'arameo con una serie di
comandamenti. Eliseo invece congeda lo straniero che torna nel suo
mondo pagano affidando lui e la sua fede alla guida di Jahvé al servi-
La profezia preclassica
5°
zio del quale egli ha promesso di rimanere. Con quanto rigore Eliseo
ha accolto quell'uomo all'inizio e con quanta generosità se ne distac-
ca! L'episodio è notevole proprio perché accenna a problemi che van-
no ben oltre il risanamento prodigioso di Naaman, anzi propriamente
di là di tutto ciò che è oggetto del racconto. Se col pagano tutto era
andato per il meglio, subito dopo viene un episodio poco onorevole
per uno degli intimi- di Eliseo ( w . 20-27). Ma di fronte a Giezi, bu-
giardo e avido, la figura di Naaman che parte ci appare ancora una
volta nella luce migliore.
CAPITOLO TERZO
LO STADIO PRELETTERARIO
DELLE TRADIZIONI PROFETICHE
2. Ma anche i testi narrativi sui profeti si possono dividere per il loro contenuto
in racconti dei fatti (p. es. 1 Reg. 17,1-7.8-16.17-24) e racconti in cui campeggiano
le parole (p. es. 1 Reg. zi, 17-20; 2 Reg. 1,3 s.). O. Ploger, Die Prophetett-
geschichten der Samuel- und Kònigsbùcher• diss. Greifswald (1937) 38 ss.
Lo stadio preletterario delle tradizioni profetiche
53
tarci semplicisticamente il vero Eliseo secondo questi racconti
popolari dei suoi miracoli. Sappiamo che Eliseo teneva lezioni
vere e proprie davanti a cerchie di discepoli (2 Reg. 4,38; 6,1) e
se noi possedessimo una raccolta dei suoi detti e delle sue espo-
sizioni dottrinali avremmo probabilmente di lui un'immagine del
tutto diversa. Lo stesso può dirsi di Elia. Soltanto con Amos si è
però cominciato a considerare separatamente i detti dei profeti e
a metterli per iscritto. In tal modo il baricentro della tradizione
si dislocò nella raccolta e nella conservazione delle parole dei pro-
feti. Con tutto ciò l'ulteriore svolgimento della tradizione non
portò affatto a un'atrofia o a una definitiva scomparsa delle parti
narrative. Anzi questo genere mantenne l'importanza sua giac-
ché Israele, pur giungendo a intendere il profetismo in maniera
più spirituale, non ha mai scisso la profezia dagli avvenimenti
storici sino a ridurre il messaggio profetico al suo contenuto di
verità ideale come sembrano presupporre parecchie teologie del-
l'Antico Testamento. In verità Israele non ha mai cessato di ve-
dere i profeti nel loro preciso contesto storico sia come iniziatori
di movimenti storici sia come vittime in conflitti pure storici. Le
narrazioni più diffuse che abbiamo sul conto di un profeta si tro-
vano nel libro di Geremia e riguardano quindi un profeta relati-
vamente tardivo3. Vedremo ancora in seguito come queste diffuse
parti narrative integrino preziosamente la raccolta dei detti di
Geremia. Il lettore moderno deve però sapere che l'interesse so-
prattutto biografico, <col quale egli si accosta a questi testi, è loro
affatto estraneo. Già il concetto stesso di 'figure profetiche', che
così volentieri fa capolino nei nostri studi, è assai remoto dal
quadro che ci porgono le fonti. È molto probabile che i narrato-
ri veterotestamentari fossero molto più lontani di quanto noi
pensiamo dal fare del profeta una 'figura', ossia un personaggio
umano irrepetibile dai contorni spirituali nettamente definiti.
Considerazioni analoghe si posson fare per quanto concerne l'in-
teresse biografico. Chi volesse tracciare la 'vita' dei profeti trove-
rebbe forti ostacoli nelle fonti. Se l'autore di Am. 7,10 ss. aves-
3. Del cosiddetto 'discorso del tempio' tenuto nell'anno 609 la tradizione riporta
le parole del profeta (ìer. 7,1-15) e indipendentemente da esse la narrazione de-
scrittiva (Ter. 26).
Lo stadio preletlerxric delle tradizioni prò, etiche
54
se inteso dare qualche cenno biografico su Amos come avrebbe
potuto concludere il suo racconto come l'ha concluso, ossia sen-
za informare il lettore se il profeta aveva obbedito o no all'in-
giunzione di sfratto? Se leggessimo questa parte narrativa come
un frammento biografico dovremmo giudicare insoddisfacente la
conclusione. In realtà l'autore vede in Amos soltanto il profeta,
ossia un uomo che esercita un particolare ufficio e perciò il suo
interesse si restringe alla rappresentazione dello scontro fra l'uo-
mo carismatico e il sommo sacerdote e le parole di minaccia che
Amos pronuncia in questa occasione. Dai testi narrativi concer-
nenti Elia, Eliseo o Isaia si potrebbero trarre molti esempi ana-
loghi di siffatto disinteresse per la biografia e di una tale concen-
trazione sull'azione, diciamo così, professionale dei profeti. Sol-
tanto con Geremia interviene un mutamento, in quanto ora ef-
fettivamente il profeta come uomo, con il suo itinerario di tribo-
lazioni, diventa oggetto autonomo della narrazione. Ma ciò non
si può disgiungere dalla circostanza che con Geremia entra in
crisi la profezia in quanto tale e si annuncia un modo nuovo di
concepire il profeta. Baruc forse fu il primo a intendere chiara-
mente che la sofferenza doveva essere considerata come una parte
integrante del ministero profetico al quale essa inerisce essenzial-
mente ancor più del messaggio verbale. Il ministero del profeta
impegna e, per dir così, requisisce anche la vita di lui e questa,
precipitando nel dolore e nell'abbandono da parte di Dio, diven-
ta una testimonianza di natura tutta speciale. Così anche nei rac-
conti di Geremia la vita del profeta non è riferita per interesse
biografico, bensì in quanto essa, in questo caso, era compresa nel
ministero profetico e ne era divenuta parte. Ma queste, come
abbiamo detto, sono cognizioni sorte soltanto in un'epoca relativa-
mente più tarda e sulle quali torneremo in seguito4.
«Vieni ora, incidi questo su una tavoletta per loro e scrivilo in un li-
bro che serva per un giorno avvenire come testimonianza perpetua:
perché sono un popolo ribelle e figli infedeli, figli che non amano se-
guire la legge di Jahvé... Per questo così parla il Santo di Israele:
Poiché voi rigettate le mie parole, fiduciosi in vie false e perverse e vi
aggrappate ad esse, ecco questo peccato sarà per voi come un tratto di
25. Seguiamo in ciò l'analisi di L. Rost, Die Vberlieferung von der Thronnachfolge
Davids (1926) 47 ss. Opinione diversa ha espresso di recente M. Nodi, David und
Israel in 2 Sam. 7: Mélanges bibliques rédigés en l'honneur de André Robert
( 1957) 122 ss. (= Gesammelte Studien P1960] 334 ss.)
Lo stadio preletterario delle tradizioni profetiche
66
Questo fecondo processo della tradizione si può osservare a
ogni pie sospinto nei libri profetici. La nostra esegesi è però an-
cora troppo incline a considerare questo lento arricchimento del-
la tradizione come un fenomeno di 'inautenticità' e di infelice
travisamento del dato originario. In realtà questo processo è
piuttosto un segno della vitalità per cui il vecchio messaggio ve-
niva tramandato e adattato a situazioni nuove. Tale adattamen-
to poteva avvenire mediante l'aggiunta di espressioni minaccio-
se contro i popoli che nel frattempo erano entrati nell'orizzonte
di Israele. Così, per esempio, la predizione antichissima di Bi-
leam finì con l'essere applicata persino ai Greci (Num. 24,24)26.
In Is. 23 un antico oracolo rivolto contro Sidone con alcune ag-
giunte potè essere applicato a Tiro; il vaticinio messianico di fa.
11,1 ss. fu poi riferito, mediante l'inserimento del v. io, al mon-
do pagano e in questa versione è stato pòi ripreso da Paolo (Rom.
15,12). Analogamente il vaticinio messianico del libro di Amos è
passato nel Nuovo Testamento attraverso la interpretazione uni-
versalistica dei LXX (Act. 15,16 s.: 'àdàm in luogo di 'edàm).
Mentre Isaia (.fa. 9,11) aveva parlato di Aram e dei Filistei, Ì
LXX riferiscono le sue parole alla Siria e agli Elleni. Questo pro-
cesso di adattamento sembra a noi meno giustificabile nei casi in
cui un antico enunciato profetico viene mutato nel suo contrario,
per esempio un annuncio di condanna in una promessa di salvez-
za. Se Isaia aveva gridato il suo 'guai' agli Egiziani, al «popolo
di uomini dall'alta statura, dal colorito lucido, temuti in gran
parte del mondo» e aveva loro minacciato l'annientamento (fa.
18,1-6), ora questo enunciato si trasforma nella predizione che
«quel giorno» a Jahvé saranno offerti i doni dalla «nazione di
uomini dall'alta statura, dal colorito lucente, temuti in tutto il
mondo» (v. 7). Ma anche questa trasformazione di un antico mes-
saggio di condanna in un annuncio di salvezza non si può consi-
derare in linea di principio come il plagio illecito compiuto da
un epigono a corto di idee. Anche in questo caso sussiste una ge-
nuina continuità con l'originario enunciato profetico, non solo,
27. Sulle tradizioni interpretative del testo di Is. 53 cfr. H. Hegermann, Jesaia 53
in Hexapla, Targum und Peschitta (1954).
28. «Con le categorie dell'autenticità e dell'inautenticità non si può comprendere
questa tradizione secondaria. Essa attesta invece la diretta vitalità delle parole del
profeta nella cerchia dei discepoli. Questi, in un'epoca più tarda, cercano di in-
tendere quelle parole in guisa nuova, conforme a tutto il messaggio divino cui ha
dato voce Ezechiele»: W. Zimmerli, Ezechiel (BK) n i . Su queste vicende postu-
me dei testi profetici cfr. H.W. Hertzberg, Die Nachgeschichte dttestamentlicher
Texte innerhalb des Alien Testaments = BZAW 66 (1936) no ss.; J. Hempel,
Die Mehrdeutigkeit der Geschichte als'Problem der propbetischen Theologie,
Nachrichten der Akad. der Wiss. in Gottingen, Phil. hist. Klasse (1936) 24 ss.;
Douglas Jones, The Traditio of the Oracles of Isaiah of Jerusalem: ZAW 77
(1955) 226 ss.; S. Mowinckel, Prophecy and Tradition (1946); H. Birkeland, Zum
hebràischen Traditionswesen (1938).
Lo stadio preletterario delle tradizioni profetiche
68
Io lo pianterò come un piolo
su un luogo saldo;
egli sarà un trono di gloria
per la casa di suo padre (h. 22,19-23).
Già il mutamento stilistico (brusco trapasso dalla terza alla
prima persona) denota il nuovo inizio; inoltre il v. 19" è un pas-
saggio maldestro in quanto Sobna è già stato respinto; l'annun-
cio della sua destituzione viene troppo tardi. L'interesse conver-
ge ora sul successore di Sobna Eliachim e sulla sua entrata in ca-
rica (la breve pericope è un'autentica miniera di formule del ce-
rimoniale di corte). Ma di questo Eliachim vi è qualcos'altro da
dire, qualcosa che il giorno in cui entrò in carica non si sapeva
ancora: entriamo così nel terzo stadio del testo:
Legherò a lui
tutta la gloria della casa di suo padre,
i figli e i nipoti,
tutto il vasellame minuto
dalle coppe fino ai boccali.
«In quel giorno, oracolo di Jahvé Sabaot, il piolo fissato in luogo sal-
do sarà tolto, sarà strappato e cadrà e sarà distrutto tutto il peso che
era legato a lui, perché Jahvé ha parlato» (Is. 22,24-25).
Questo ampliamento si allaccia all'immagine del «piolo» (v.
23) intendendola però in guisa affatto diversa. Eliachim sarà un
piolo perché tutta la sua stirpe sarà come appesa a lui; e per ciò
a lui toccherà la sorte del piolo al quale sono appesi troppi vasi
e arnesi di cucina: cederà e tutto il ciarpame si frantumerà al
suolo. È una satira gustosa del nepotismo degli alti dignitari 25 .
Questo processo formativo della tradizione ci mette di fronte
a un problema ermeneutico che qui può essere solo brevemente
accennato. Se le parole dei profeti hanno accompagnato in tal
guisa Israele nel corso della sua storia, e hanno mantenuto il lo-
ro carattere di annuncio anche di là della prima circostanza in
cui furono enunciate, è evidente che i posteri devono averle in-
terpretate in maniera piuttosto elastica; quelle parole infatti rag-
29. Per l'interessante modifica che il profeta stesso (Ezech. 29,17 ss.) ha apportato
a un più antico oracolo concernente Tiro {Ezech. z6,y ss.) cfr. W. Zimmerli, op.
cit., 720.
Lo stadio preletterario delle tradizioni profetiche 69
giungono i tardi lettori o uditori solo attraverso un adattamento
del loro contenuto30. Ora la nostra esegesi scientifica dei testi
profetici mira unicamente a enucleare il loro contenuto in base
all'autocomprensione del profeta. Senza deflettere da questa li-
nea, si dovrebbe forse tenere in maggior conto che questa auto-
comprensione del profeta rappresenta soltanto uno dei possibili
modi di comprenderlo. Mediante la sua applicazione alle genera-
zioni seguenti e alle loro situazioni il messaggio pronunciato una
volta dal profeta potè essere compreso in modo sempre nuovo
sino ad essere attualizzato per l'ultima volta nel Nuovo Testa-
mento. E non si deve forse ricordare che nel momento stesso
in cui un detto profetico giungeva nelle mani di coloro che lo
tramandavano esso ormai non poteva essere più recepito nel suo
significato originario in senso stretto? 31 .
30. Su questo processo di 'adattamento' cfr. J.L. Seeligmann, Voraussetzungen der '
Midraschexegese: VTS 1 (1953) 150 ss., spec. 167 s.
31. Cfr. più avanti pp. 351 ss. e 430 ss.
CAPITOLO QUARTO
VOCAZIONE PROFETICA
E RIVELAZIONE DIVINA
e dei leviti non faccia parola di quelle dei profeti4. Un altro ele-
mento contrario è che si parlasse tranquillamente di profetesse
{Ex. 15,20; 2 Reg. 22,14; Neh. 6,14) mentre l'idea di un sacer-
dozio femminile era inattuabile. Ad ogni modo questi n'bVim
aggregati ai luoghi di culto erano ancora molto numerosi all'epo-
ca di Geremia e si può anche ammettere che appunto nei santua-
ri essi siano sorti come predicatori o banditori in nome di Jahvé
o del popolo. È certo comunque che i profeti ai quali si è dato il
nome di 'profeti letterari' (Amos, Isaia, Michea, Geremia e gli al-
tri) non appartenevano ai n'bVtm; ne sono una prova sufficiente le
accuse roventi da essi lanciate appunto contro i n'bi'ìm; i profeti
letterari appartengono a un'ala radicale che sempre più si rese au-
tonoma rispetto al culto ufficiale5. Per dimostrare ciò si deve so-
prattutto ricorrere al contenuto del loro messaggio e a un'interpre-
tazione complessiva di esso. Ma già gli elementi formali sono una
prova in tal senso: quelle audacissime espressioni o similitudini re-
toriche dei profeti, escogitate col solo scopo di colpire e scuotere,
quell'attitudine a calare il messaggio in generi letterari affatto
profani, scelti soltanto ad hoc e poi lasciati cadere, e poi tutta
quell'incredibile varietà formale del loro annuncio, quella loro,
per così dire, caccia di frodo nei vasti campi dei modi espressivi
allora disponibili - tutto ciò reca i segni di una improvvisazione
che mal si adatta alla sfera del culto la quale sottopone qualsiasi
discorso divino o umano alle norme di una convenzionalità tipiz-
zante, senza dire poi che al culto non era punto familiare l'idea
di un giudizio che Jahvé avrebbe pronunciato contro il suo po-
polo 6 . Ma tale varietà e labilità formale nei grandi profeti era
schen Kult?; ZAW 65 (1953) 45 ss. Anche nei casi in cui i profeti vengono con-
sultati da una delegazione ufficiale o vengono avvicinati per una richiesta di inter-
cessione (2 Reg. 19,1 ss.; Ier. 37,3) non sembra che i loro responsi fossero pronun-
ciati nella sfera del eulto. Geremia una volta dovette aspettare dieci giorni la ri-
sposta di Dio e soltanto allora potè chiamare a sé la delegazione (Ier. 42,1 ss.)
7. Vedi più avanti pp. 139 ss. e 348 ss.
8. F. Giesebrecht, Die Berufsbegabung der alttestamentlichen Propheten (1897);
H. Gunkel, Die geheimen Erfahrungen der Propheten in: Die Schriften des Alten
Testaments 11, 2 (2i923> xvn ss.; J. Hanel, Das Erkemen Gottes bei den Schrift-
propheten (1923); F. Haussermann, Wortempfang und Symbol in der alttesta-
mentlichen Prophetie (1932); A. Heschel, Die Prophetie (1936); S. Mowinckel,
Die Erkenntnis Gottes bei den alttestamentlichen Propheten (1941); J.P. Seier-
stad, Die Offenbarungserlebnisse der Propheten Amos, Jesaia und Jeremia (1946);
G. Widengren, Literary and Psychological Aspects of the Hebrew Prophets (1948).
Vocazione profetica e rivelazione divina
75
Intendiamo con ciò riferirci all'uso della prima persona che con-
trassegna i 'racconti della chiamata'. Certamente anche prima della
comparsa dei profeti l'uomo ebraico aveva detto 'io' davanti a
Dio, per esempio nei canti di lamento o di ringraziamento, ma si
trattava pur sempre di un 'io' ben diverso da quello che si espri-
me in questi racconti. Quel che nelle antiche forme cultuali si
diceva in prima persona, ognuno in misura maggiore o minore
poteva e doveva dirlo di se stesso. Era un 'io' collettivo e inclusi-
vo, mentre quello delle scritture profetiche era un 'io' dichiara-
tamente esclusivo. Nei racconti delle chiamate ci parlano uomini
che un avvenimento decisivo aveva tratto fuori dalle norme e
dalle consuetudini religiose ritenute ancor valide dai più (e sap-
piamo quel che ciò significasse per un uomo dell'Antico Oriente)
e che perciò si trovavano nella necessità di giustificare di fronte
a se stessi e di fronte agli altri la loro condizione senza prece-
denti e senza analogie. Quell'avvenimento aveva conferito al pro-
feta una missione, un sapere e una responsabilità, lo aveva posto
da solo di fronte a Dio. Di qui per il profeta la necessità imperio-
sa di legittimare agli occhi della moltitudine il suo rapporto tut-
to speciale con Dio. Dopo l'avvenimento decisivo della chiamata
la stesura scritta era un altro avvenimento che aveva una finalità
diversa dal primo. Nella chiamata vera e propria veniva affidata
al profeta la sua missione; la stesura scritta invece avveniva in
vista di un certo pubblico di fronte al quale il profeta doveva in
qualche modo giustificare se stesso. Senza dubbio da questi rac-
conti l'esperienza originaria del profeta risulta in maniera incom-
parabilmente più diretta che da qualsiasi lirica cultuale; tuttavia
l'esegeta non deve dimenticare che tali racconti con ogni proba-
bilità non sono la rappresentazione immediata dell'avvenimento
come l'aveva vissuto il profeta, ma sono appunto una redazione
scritta che serviva a uno scopo determinato e nella quale la
realtà era già in qualche modo stilizzata. Si può benissimo pen-
sare che la chiamata si verificasse nelle circostanze più svariate e
che sarebbe di sommo interesse per noi conoscere, ma che non
era negl'intenti del profeta esporre compiutamente'. Per quanto
9. Lo stesso può dirsi per altri problemi, come quello se il profeta si preparasse
Vocazione profetica e rivelazione divina
76
concerne la tesi esposta e discussa sopra, che cioè questi profeti
avessero un incarico regolare nel culto, i racconti della chiamata
a nostro avviso la contraddicono nettamente. In effetti chi si po-
trebbe attendere che un profeta ufficiale del culto desse tanto ri-
salto alla sua chiamata? In realtà l'importanza che i profeti an-
nettono alla loro chiamata fa intendere chiaramente quanto essi
si sentissero staccati dal patrimonio religioso della massa e fos-
sero consapevoli di essere in tutto e per tutto abbandonati alle
proprie forze.
Le fonti di cui disponiamo per il problema della chiamata sono
abbastanza note; si tratta anzitutto dei racconti in prima persona
di Am. 7-9, Is. 6, ler. 1, Ezech. 1-3, Is. 40,3-8, Zach. 1,7-6,8. Ma
non si possono neppure trascurare altri racconti come le chiama-
te di Eliseo (iReg. 19,19 ss.) o del giovane Samuele, avvenuta
quest'ultima in un periodo in cui la parola di Dio si era fatta ra-
ra nel paese ( 1 Sam. 3,1 ss.). Invero qualunque fosse la carica te-
nuta dal Samuele storico, l'intento del narratore è evidentemen-
te di riferire come un giovane fosse costituito profeta (v. 20). Lo
stesso può dirsi per il racconto della chiamata di Mosè in Ex. 3-4,
specialmente nella versione eloistica dove il conferimento dell'in-
carico, l'assicurazione divina «io sarò con la tua bocca» {Ex. 4,
12), la riluttanza di Mosè sono visibilmente narrati sulla fal-
sariga della chiamata alla profezia, come allora veniva immagi-
nata. Fa meraviglia come già allora (forse nel ix secolo) le con-
cezioni fossero sfumate tanto nel rispetto psicologico quanto nel
teologico e come già allora fosse balzato in primo piano quel pro-
blema della legittimazione («e se non mi credono?» Ex. 4,1) che
nei profeti non si porrà in tutta la sua acutezza prima di Isaia.
Così pure fa meraviglia il vedere come già allora si mettesse aper-
tamente in conto la possibilità che il chiamato non si mostrasse
disponibile (Ex. 4,10 ss.). Infine, sempre a questo riguardo, si
potrà tener conto anche di 1 Reg. 22,19-22. Il modo in cui Mi-
chea figlio di limla si immaginava venisse conferito il ministero
così ben definita dello spirito di Jahvé sia scomparsa quasi im-
provvisamente, non soltanto fa meraviglia, ma è anche un feno-
meno teologicamente importante giacché il venir meno della real-
tà oggettiva dello spirito, la cui presenza poteva essere percepita
anche dai circostanti, ha fatto sì che i profeti della parola fosse-
ro ancor di più abbandonati a se stessi e al mistero della loro
chiamata10.
La chiamata dei profeti nelPvin e VII secolo avveniva, per
quanto ci'è dato sapere, in un appello diretto e personale di Dio.
Tale appello determinava per l'uomo cui era rivolto una condi-
zione esistenziale affatto nuova: egli veniva chiamato a una mis-
sione che forse non sempre era considerata a vita, ma che ad ogni
modo per un lungo periodo di tempo lo distaccava da quella che
in precedenza era stata la sua vita. Lo stato di profeta agiva pro-
fondamente anche sulle condizioni esteriori del vivere; in ap-
presso dovremo ancora ricordare quali furono, sin dall'inizio, le
conseguenze dell'essere non solo la bocca, ma tutta la vita di que-
gli uomini impegnata in un servizio specialissimo. Particolarmen-
te indicativo è che dallo stato ante vocationem a quello post vo-
cationem non vi sia in alcun modo un trapasso graduale. Lo sta-
to di profeta non si presenta mai come un poderoso avanzamento
o come una sublimazione di una precedente esperienza religiosa.
La generosità e l'intensità della fede, come ogni altra qualità o
inclinazione personale non predispone in alcun modo l'individuo
ad essere chiamato da Jahvé al ministero profetico. Il profeta po-
teva essere un temperamento irenico eppure doveva rampognare
e minacciare anche se nel far ciò gli si spezzava il cuore, com'è
il caso di Geremia; ed anche se per natura inclinava alla durez-
za doveva pure, come Ezechiele, salvare e consolare. La frattura
io. Sull'assenza di questa idea dello spirito nella profezia classica ha richiamato
l'attenzione soprattutto S. Mowinckel, Die Erkenntnis Gottes bei den alttesta-
mentlicken Propheten (1941) 16 s. Vedi anche dello stesso autore The Spirit and
the Word in the Preexilic Reforming Prophets: JBL 54 (1934) 199 ss. Il Mow-
inckel spiega questa differenza con l'avversione che i 'profeti riformatori' avreb-
bero nutrito verso i n'bVìm volgari che si richiamavano allo spirito. È una spiega-
zione certamente possibile, ma una polemica siffatta non risulta con soddisfacente
chiarezza dalle parole dei profeti. Forse questa nozione dello spirito era caratteri-
stica della profezia nordisraelitica (cfr. Os. 9,7).
Vocazione profetica e rivelazione divina
79
tra la condizione del profeta e la sua vita anteriore era così net-
ta che nessuno dei vincoli sociali precedenti si continuava nel
nuovo stato: «Io ero un pastore e coltivavo i sicomori; ma Jahvé
mi ha tratto mentre seguivo il gregge e mi ha detto: Va e pro-
fetizza al mio popolo Israele» {Ani. 7,145.). Non si trattava sol-
tanto di una nuova professione; era un modo tutto nuovo di vi-
ta, anche sotto l'aspetto sociale, in quanto il chiamato si stacca-
va dalla società e da tutte le tutele che essa gli offriva ed entrava
in una condizione di indipendenza o per meglio dire di dipenden-
za da Jahvé di fuori e di là di ogni sicurezza o garanzia umana-
mente intesa: «Io non seggo sereno nella cerchia dei lieti. Sotto
il peso della tua mano io seggo solitario perché tu mi hai riem-
pito di stizza» (ler. 15,17).
A un ministero di tal genere un uomo in carne e ossa può es-
sere soltanto costretto; ed è un fatto che i profeti si considera-
vano dei violentati. Peraltro i più antichi profeti solo raramente
parlano delle reazioni che essi ebbero alla chiamata. Geremia è
il primo a sciogliere la lingua:
Tu mi hai adescato e io sono rimasto adescato,
Tu sei divenuto troppo forte per me e mi hai sopraffatto (Ter.20,7).
La stessa ammissione (fatta qui in un moto di aperta protesta)
di essere stato forzato senza possibilità di rifiuto, si trova anche
in Amos.
Il leone ha ruggito - e chi non ha paura?
Il Signore Jahvé ha parlato - e chi non profetizza? {Am. 3,8).
Con buone ragioni si è ravvisato in questo detto una 'parola
di disputa' (Diskussionswort), ossia una risposta alla domanda
se Amos potesse anche dimostrare di parlare legittimamente in
nome di Jahvé. Amos respinge questi dubbi sul valore della sua
profezia; i suoi vaticini non provengono da una meditazione o
da una riflessione, ma sono piuttosto un dato ovvio e naturale,
non dissimile da un'azione inconsapevole di riflesso che non si
sta lì a spiegare.
15. W. Zimmerli, Ezechiel (BK) 18 ss. La connessione tra Is.6 e 1 Reg, 22,19 ss- è
stata già notata da M. Kaplan: JBL 46 (1926) 251 ss. Cfr. anche I. Engnell, The
Cali of Isaiah (1949) 28 ss.; E. Jenni, Jesaias Berufung in àer neueren Forschung:
ThZ 15 (1959) 321 ss.
Vocazione profetica e rivelazione divina o
17. Se, come abbiam detto, nelle rivelazioni di Geremia sempre più si riduce
Yeventum, emerge invece la riflessione teologica. Già la prima visione del 'ramo
vegliarne' col suo richiamo assai generico alla parola divina (quale?) su cui veglia
Jahvé è assai vaga rispetto a ciò che la visione annuncia nella sua fattualità con-
creta. Essa induce il veggente ad occuparsi di qualcosa che si potrebbe piuttosto
definire una verità teologica. Considerazioni analoghe si posson fare per la peri-
cope dei vasai in Ier. 18. Anche questo testo è caratteristico dello svolgimento del-
la rivelazione in senso teologico-concettuale giacché quel che Geremia osserva nel
vasaio non diventa per lui l'immagine di un determinato avvenimento bensì di
qualcosa che è semplicemente possibile. L'istruzione che Geremia riceve, rimane
nell'ambito teoretico.
18. Sulle visioni notturne di Zaccaria vedi più avanti pp. 335 ss.
Vocazione profetica e rivelazione divina
9°
di visione o di audizione. Tali sono pure la descrizione dei popoli
che attaccano Sion e vengono prodigiosamente respinti (Is.zy,
12 ss.) e la teofania di Is. 30,27 s. oppure di Is. 63,1 ss., ma an-
che i quadri d'angoscia come Nah. 2,2 ss. dove l'elemento visivo
ha una parte di primo piano. Alla stessa stregua si dovranno con-
siderare anche le descrizioni di guerra in Geremia {ler. 4-6) che
precorrono tutti gli eventi; esse sono talmente intrise di richiami
alle percezioni sensibili del profeta che non può esservi dubbio
sul loro carattere di visioni o audizioni19.
Distinguere in maniera più precisa le esperienze veramente esta-
tiche e visionarie dagli altri modi in cui viene ricevuta la rivela-
zione non è possibile. Certamente Jahvé si è rivelato in varie gui-
se ai profeti, ma non ci riesce di cogliere in maniera chiara e di-
stinta l'aspetto psicologico di queste rivelazioni. Isaia afferma
che Jahvé si è rivelato «nelle sue orecchie» (Is. 5,9; 22,14); u*1
concetto analogo si trova in Ezechiele (Ezech. 9,1.5) e altrove20.
Vi era quindi anche una rivelazione di Jahvé in forma di espe-
rienza meramente uditiva. Geremia distingue nettamente tra la
rivelazione verbale e la rivelazione onirica; a quest'ultima egli
attribuisce assai poco valore (ler. 23,28). Ma anche l'esperienza
della rivelazione verbale ha talvolta raggiunto un alto grado di
vis tremenda, altrimenti come potrebbe Ezechiele paragonare il
rumore prodotto dalle ali dei cherubini che si sentiva da lontano,
al suono della voce di Jahvé «quando parla» (Ezech. 10,5)? D'al-
tro canto abbiamo ragione di pensare che i profeti avessero anche
rivelazioni e ispirazioni le quali non producevano alcuna altera-
zione dello stato di coscienza ossia si mantenevano in tutto e per
tutto nella sfera intellettiva. A tale stregua si dovranno probabil-
mente giudicare quasi tutti i casi nei quali il profeta parla soltan-
to della parola di Jahvé che è giunta a lui. Eppure anche in que-
sti casi non si può trascurare il carattere di eventum che il fatto
della rivelazione assume per il profeta. Non si tratta semplice-
mente di una cognizione intellettiva che il profeta acquisisce,
per effetto della sua cacciata, tornò nella sua terra e da allora il
suo carisma si spense per sempre. Il caso di Isaia è già diverso in
quanto la sua profezia si estrinseca in vari filoni che di volta in
volta risentono di particolari implicazioni politiche. D'altro can-
to la tradizione di Isaia fa chiaramente capire che anche questo
profeta considerò sempre limitato nel tempo il suo ministero e a
un certo momento potè ritenere di averlo esaurito21. In Geremia
invece la chiamata implica il conferimento di un incarico a vita.
Dovremo in appresso vedere ancor meglio come la coscienza del
ministero profetico abbia subito proprio in Geremia una trasfor-
mazione profonda, come egli con tutto il suo modo di vita fu
coinvolto insieme con il popolo nella causa di Jahvé e per essa si
logorò. Per Geremia, almeno in linea di principio, non ci sono
varie fasi del ministero, nessun traguardo relativo dopo che un
messaggio è stato annunziato. Geremia era un profeta perché
Jahvé aveva, per dir così, requisito la sua vita n. Circa il modo in
cui ebbe le rivelazioni sappiamo che anch'egli talvolta dovette
aspettare a lungo che Dio gli parlasse (Ier. 28,12; 42,7). Quando
invece nel Deuteroisaia il 'servo di Dio', che ha in grado eminen-
te il munus propheticum, afferma che a lui Jahvé apre l'orecchio
«mattino per mattino» (h. 50,4), ciò segna certamente un avan-
zamento decisivo anche rispetto a quel che persino Geremia po-
teva dire di sé. La profezia veterotestamentaria tocca qui il suo
vertice massimo; il 'servo'; infatti viene a dire che Jahvé si ri-
vela a lui abitualmente, in una conversazione ininterrotta.
1. Ricordiamo ancora una volta (cfr. sopra p. j6} il racconto della vocazione di
Mosè (Ex. 4). Esso è palesemente costruito sul modello delle vocazioni dèi profeti
come allora (al tempo dello jahvista e dell'eloista) venivano concepite e colpisce
per lo spazio che dà alla replica, anzi alla discussione. Eliseo è stato chiamato alla
successione da Elia, cioè da un uomo (1 Reg. 19,19 ss.); questo fatto sembra pre-
supporre un ordinamento preciso seguito nelle corporazioni profetiche e merita
quindi una considerazione particolare: cfr. E. Wurthwein: ZAW 62 (1950) 25.
La libertà del profeta
2. Cfr. J. Hanel, Das Erkennen Gottes bei den Schriftprophetett (1923) 28.
La libertà del profeta Q_
5. H.W. Wolff, Das Zitat im Prophetenspruch (1937) = Ges. Stud. z.A.T. (1964)
36 ss.
6. Esempi di questo modo di rappresentare le parole e le azioni degli avversari:
Is. 5,20; 28,15; ter- 2,20.25.27; Am. 2,12; Soph. 1,12; cfr. H.W. Wolff, op. cit.,
60 ss.
IOO La libertà del profeta
LA PAROLA DI D I O
3. Analogamente O. Procksch: ThWb iv, 90 ( = GLNT vi, col. 261). Egli distin-
gue nella parola un momento dianoetico che contiene un voO? e un elemento di-
namico: il dàbàr ha carattere dinamico. «Si dovrà sempre tener presente che il vo-
cabolo dàbàr in ebraico ha un senso molto più. dinamico e concreto del suo equi-
valente occidentale 'parola'; dàbàr è un'entità concreta, attuale e attiva», Th. C.
Vriezen 90.
La parola di Dio
107
del tutto; nelle culture dell'Antico Oriente la parola dinamica
agisce in vari campi della vita: anzitutto, naturalmente, nell'am-
bito ristretto del culto, poi negli scongiuri, nelle benedizioni e
maledizioni e così pure nelle tradizioni specificatamente teologi-
che. Tanto nell'antico Egitto quanto nell'antica Babilonia la con-
cezione della parola possente di una divinità e, al limite, la con-
cezione di quella parola stessa come una potenza fisica e cosmica
aveva non piccola parte 4 . Ma anche nella vita quotidiana era vi-
va la consapevolezza che a certe parole poteva inerire una Sùvcc-
p.14, per esempio ai nomi propri degli individui. Il nome non era
un accessorio scambiabile a volontà, esso racchiudeva in certa
maniera l'essenza stessa di chi lo portava ond'è che sovente nel
nome si ravvisava addirittura un sosia della persona che poi, dal
canto suo, era particolarmente esposta a tutti gli influssi magici
dannosi. Un nome infausto poteva minacciare la vita di chi lo
portava: Giacobbe ha abilmente sottratto uno dei suoi figli alla
sventura che già incombeva su di lui cambiandogli il nome infau-
sto di Benoni («figlio della mia pena»), scelto dalla moribonda
Rachele, con il nome felice di Beniamino (Gett. 35,18). Ma in
questo caso — e si tratta solo di esempi - si potrebbe anche pen-
sare a un fenomeno linguistico di cui sovente viene misconosciu-
to lo sfondo, al fenomeno cioè della etimologia e dei giochi eti-
mologici di parole. Anche in Israele l'eziologia etimologica non
era un semplice gioco letterario e retorico; era un mezzo molto
serio per acquisire conoscenze importanti5. Il lettore moderno
4. Una vasta documentazione comparativa tratta dalla storia delle religioni si tro-
va in J. Hempel, Die israelitischen Anschauungen voti Segen und Fluch im Licbte
altorientalischer Parallele»: Zeitschr. der deutschen morgenl. Gesellschaft 79
(1925) 20 ss.; S. Mowinckel, Segen und Fluch in Israeli Kult una Psalmdichtung:
Psalmenstudien v (1924). Per le concezioni della potenza inerente alla parola di
Dio si veda L. Diirr, Die Wertung des góttlichen Worles im Alten Testament und
im antiken Orienl (1938). O. Grether, Trarne und Wort Gottes im A.T. (1934)
59 s. Sul significato associativo e sul doppio senso delle parole ebraiche cfr. J.L.
Seeligmann: VTS 1 (1953) 157 ss.
s.M. Warburg, Zwei Fragen zum Kratylos (2. Voraussetzungen zum Verstàndnis
der griechischen Etymologie): Neue philol. Untersuchungen v (1929) 65 ss. Il nu-
mero di queste 'etimologie' è relativamente elevato nell'A.T. J. Fichtner soltanto
nei libri storici ne enumera circa sessanta: Die elymólogische Àtiologie in den
Namengebungen der geschicbtlicben Biicher des A.T.: VT 6 (1956) 272 ss. Non
JRW?-\
noetica di solito bada assai meno di noi alla chiarezza e alla pre-
cisione del suo dire. Quando una frase o una parola dei profeti
si possono intendere in vari modi si può dire che il parlante rag-
giunga il suo scopo, giacché in tal caso l'espressione acquista in
pienezza e in ricchezza 7 .
Ciò che abbiamo detto della lingua come fenomeno fonetico dotato di
un potere quasi evocatorio vale in altra guisa anche per il greco. In
questo caso sono la musicalità e il ritmo che, indipendentemente dalla
trasmissione semantica, afferrano l'uomo persino nel fisico (Th. Geor-
giades, Musik una Rhythmus bei den Griechen [ 1958] 32 ss.). Anche
nella lingua greca lo stacco tra la parola e il singolo oggetto può venir
meno sino a dare anche al lettore moderno l'impressione che gli og>
getti stessi con tutta la loro consistenza concreta siano passati nella
parola.
«La peculiarità del greco antico risiede nel fatto che la parola si attua
contemporaneamente come potenza ritmico-musicale autonoma e co-
me 'lingua' ossia come immagine sonora, come contenuto noetico e
affettivo. La parola non ha soltanto un valore fonetico, ma è anche
qualcos'altro; è una razionale materia d'arte fine in certo senso a se
stessa. La parola greca è certo 'lingua' come la nostra nella misura in
cui serve a fissare determinati rapporti semantici; ma per effetto di
una qualità che a noi non è più dato afferrare, essa, come la musica,
può accedere direttamente ai sensi. È il ritmo che, anche indipenden-
temente dalla qualità fonetica, condizionata dalla struttura linguistica,
dà alla parola una stabilità e una consistenza che hanno il loro fonda-
mento anche in un'altra sfera». «Ora in che modo avrà sentito il Gre-
co la sua lingua? Egli deve avere avuto l'impressione che essa fosse
più potente di lui» (op. cit,, 43). La parola greca «si presenta come un
corpo solido afferrabile con le mani. Dalle parole di un verso greco si
resta, per dir così, quasi lapidati» {op. cit.,^). Quest'ultima conside-
razione si potrebbe fare a buon diritto anche per molti testi dei pro-
feti veterotestamentari.
8. G. Gerlemann, Wort und Realitàt in: Donum natalicum U.S. Nyberg oblatum
(1954) x55 ss- «Le parole non mirano soltanto alla notizia e al contenuto; da un
lato esse sono spirito; ma d'altro lato posseggono l'essenzialità e l'ambiguità delle
cose naturali», G. Benn, Probleme der Lyrik (1951) 24. Per la parte che segue si
veda anche O. Grether, Name und Wort Gottes (1934) 103 ss. 126 ss. 135 ss.
9. Cfr. voi. 1, pp. 172 ss.
La parola di Dio i n
io. In questo passo il poeta risente evidentemente degli onomastici scientifici (cfr.
voi. 1, 478). L'inserimento della 'imri che Dio manda sulla terra in questa serie
di fenomeni naturali corrisponde naturalmente a un intendimento particolare che
doveva esser fatto valere proprio in questo caso; in mezzo a questo elenco la men-
zione della parola divina suona quasi come una interpolazione.
11. Cfr. L. Durr, op. cit., 2 ss.
112
La parola dì Dio
12. S. Mowinckel parafrasa così la locuzione biblica: «La parola di Jahvé divenne
realtà attiva presso N.N.»: Die Erkenntnis Gottes bei d. ad. Propbeten (1941),
19; W. Zimmerli parla delT'evento verbale': Ezechiel (BK) 89 e passim. O. Gre-
ther, op. cit., j6; Th. C. Vriezen 91. Come al sacerdote compete la Torà, al saggio
il consiglio, così al profeta compete 'la parola' (ler. 18,18).
13. Il primo a richiamare l'attenzione su questo fatto singolare è stato L. Kòhler
90.
La parola di Dio
r
113
ve. In ciò è la radice della grave difficoltà che si incontra quan-
do si prende a svolgere il messaggio di un profeta. Si tratta inve-
ro di un compito al quale non possiamo sottrarci e che d'altra
parte non possiamo assolvere illudendoci, diciamo così, di som-
mare tra loro i vari enunciati profetici 14 .
Per altro chi pensasse, considerando l'effettiva molteplicità e
varietà dei testi e delle fonti, di trovare nei profeti un'informa-
zione completa sulla fenomenologia della parola di Jahvé, si tro-
verebbe deluso; anzi egli potrebbe concludere di essersi rivolto
alla persona meno adatta per una istruzione del genere, giacché
meno di chiunque altro il profeta può considerare in maniera
neutrale la parola che lo raggiunge; la parola irrompe in lui ed
egli se ne appropria e riempie di essa tutti i suoi affetti. La pa-
rola segna l'incontro personalissimo di Jahvé col profeta: come
potrebbe allora il profeta parlarne in guisa neutrale? Meglio sa-
rebbe quindi rivolgersi non ai profeti, bensì ai loro uditori i quali
certo erano spettatori più distaccati del fenomeno in questione -
se solo ci fosse possibile conoscere l'impressione che la parola
produceva su di loro.
re attento che aveva ben capito la potenza delle parole di Amos. Pa-
radossalmente dovremo quindi riconoscere ad Amasia una sostanziale
prossimità al messaggio del profeta in quanto egli ravvisa in esso un
pericolo reale per Israele e per la sua attuale vita religiosa ed econo-
mica.
15. Il logion di Am. 1,2 dev'essere preso a sé; esso non ha alcun aggancio, né pre-
cedente né seguente, col contesto. Anche le parole di minaccia che Seraia doveva
leggere a Babilonia, non richiedevano alcun ascoltatore: dovevano soltanto essere
pronunciate ad alta voce, poi il libro doveva essere gettato nell'Eufrate (Ier. 51,
59 ss.).
16. Is. 9,11.16.20; 10,4.
17. Anche la distribuzione della frase cosi caratteristica «e avvenne la parola di
La parola di Dio
n6
nella chiamata con la quale Geremia viene inviato «contro popo-
li e regni» tutto converge sulla potenza della parola profetica:
come può infatti un singolo individuo come Geremia «sradicare
e demolire, edificare e piantare» interi popoli {Ier. 1,9 s.)? Evi-
dentemente solo in virtù della parola di Jahvé che egli getta nel-
la storia, una parola che è ben diversa da quella dei suoi colleghi
degeneri: è come il fuoco, come un martello che spezza le rocce
(Ier. 5,14; 23,29). Mentre Ezechiele sta ancora rivolgendo il suo
discorso ispirato contro Pelatia, questi cade a terra morto (Ezech.
11,13). Proprio per questa potenza della parola i profeti erano
odiati e temuti; nessuno ha mai contestato loro il potere di su-
scitare sventure. Se l'ira di Jahvé di cui Geremia era ripieno si
riversava allora era morte e catastrofe (Ier. 6,11 s.). Per i pro-
feti questa parola non era soltanto spaventosa, come sappiamo
da vari accenni che si trovano qua e là in Geremia. Egli dice una
volta che la parola è divenuta per lui una gioia e che egli l'ha
divorata come un affamato (Ier. 15,16) né è da pensare che da
questa affermazione egli abbia escluso per principio gli annunzi
di sventura. Sarebbe un errore intendere il «divorare» in maniera
troppo spiritualizzata come una sorta di paragone iperbolico; oc-
corre tener presente che un profeta sapeva di essere proteso alla
ricezione della parola anche col corpo e sapeva altresì che essa lo
manteneva in vita. In Ezechiele l'idea di divorare la parola di
Jahvé si ripropone in guisa radicale al momento della chiamata,
quando viene invitato a mangiare il rotolo che gli viene porto
(Ezech. 2,8-3,3). Vedremo meglio appresso come questo inne-
starsi del messaggio nel corpo e nella vita segni un mutamento
decisivo nelPautocomprensione dei profeti seriori (ci si potrebbe
addirittura chiedere se l'ingresso della parola nell'esistenza fisica
del profeta non si avvicini a quel che l'evangelista Giovanni dice
dell'incarnazione del Logos). Già Amos aveva preannunciato la
fame della parola di Dio che avrebbe spinto gli uomini ad aggi-
Jahvé per...» dà a pensare. Essa si trova riferita a quasi tutti i profeti più antichi,
peraltro solo poche volte. Invece si ha un repentino infittirsi degli esempi in Ge-
remia (30 casi) e in Ezechiele (50 volte): cfr. O. Grether, op. cit., 76 s. Ciò è da
riconnettere col nuovo risalto dato al carattere di evento che la parola di Jahvé
ha, anzi addirittura con la 'teologia della parola' che notiamo in questi profeti.
La parola di Dìo
rarsi esausti in cerca appunto della parola sino a venir meno {Am.
8 , n ss.). Tutto ciò fa intendere che i profeti erano consapevoli
che Israele dipendeva in tutto e per tutto dalla parola di Dio.
Certamente si tratta di concezioni profetiche largamente diffuse
che il Deuteroisaia riprende quando fa dire a Jahvé: «Questa
parola è la vostra vita» (Deut. 32,47) e quando trae dal miracolo
della manna l'insegnamento che l'uomo non vive soltanto di ci-
bo materiale, ma di tutto ciò che procede dalla bocca di Jahvé
{Deut. 8,3). Questa concezione dell'uomo e della sua totale di-
pendenza dalla parola divina è, nella sua origine, profetica; sem-
bra però che essa - almeno con questa radicalità - sia sorta sol-
tanto nel VII secolo e certo furono gli stessi profeti i primi che
ebbero coscienza di dipendere dalla parola di Jahvé per tutta la
loro esistenza. Dalla tradizione del Deuteroisaia non si può ri-
cavare nulla circa il rapporto personale tra il profeta e la parola.
In compenso tanto più numerosi sono gli elementi che da lui si
possono trarre per quanto concerne l'efficacia della parola nella,
storia. Al momento della sua chiamata una voce dal cielo pone
in netto contrasto tutto l'essere dell'uomo («ogni carne») con la
parola di Jahvé. Quello - il profeta pensa di certo anzitutto alla
proiezione storica dell'uomo nei regni del mondo - è del tutto
caduco; il soffio dell'ira di Dio lo annienterà. Invece «la parola
del nostro Dio resiste per l'eternità» (Ir. 40,8). L'enunciato è
quanto mai sobrio, ma è abbastanza chiaro che pel profeta «la
parola del nostro Dio» indica l'altra potenza che si contrappone
alla prima, ossia al potere storico dell'uomo. Non si tratta quindi
della parola che sussiste in quanto risuona nell'intimo dei cuori,
bensì della parola che Jahvé pronuncia nella storia e che su que-
sto piano ha un'efficacia creatrice: essa «si alza» {)àqùm). E sol-
tanto ciò che è effetto di questa parola ha consistenza: per i di-
sperati esuli di Babilonia non c'è altro rifugio. Con questo mes-
saggio termina anche il libro del profeta.
Poiché so che tu sei ostinato, che il tuo collo è una sbarra di ferro,
e la tua fronte è di bronzo;
te l'ho predetto da tempo,
prima che accadesse te lo feci udire (Is. 48,4 s.).
Quando poi ci si chieda quali siano propriamente gli effetti
di questa parola nella storia ci si dovrà rivolgere al contenuto
del messaggio di questo profeta. Il Deuteroisaia pensa anzitutto
al riscatto della comunità dall'esilio, al secondo esodo con tutti
i suoi prodigi. Ha certo grande importanza programmatica che
tanto il prologo quanto l'epilogo di questo libro, i limiti entro
18. L'idea che alla fine la parola ritorni a Jahvé quasi compiendo un ciclo è rara
e non attestata altrove. Dobbiamo forse pensare che essa sia soltanto formulata
ad hoc per rendere completo il paragone? Che l'immagine della pioggia feconda-
trice della terra (cfr. lo hòlid al v. io) risenta di un'antica concezione mitologica
si può ammettere; è però assai dubbio che il profeta ne fosse ancora consapevole.
La parola di Dio
19. Per la 'teologia della parola' del profeta Ezechiele, cfr. W. Zimmerli, Ezechiel
(BK) 89.
20. Cfr. voi. 1, pp. 388 ss. Per dimostrare l'efficacia di questa parola nella storia il
Deuteronomista ha a disposizione una, terminologia teologica ben definita: la pa-
rola profetica «non va a vuoto»: los. 2145; 23,14; 1 Reg. 8,56; 2 Reg. 10,10;
essa «viene diretta» {hèqim): 1 Sam. 1,23; 15,11.13; 2 Sam. 7,25; 1 Reg. 2,4;
6,12; «arriva» (bà'): los. 23,15; «si compie» (mille'): 1 Reg. 2,27; 8,15.24; cfr.
anche Ezech. 12,25.28: «Così ha parlato il Signore Jahvé: Tutte le mie parole non
indugiano più; la parola che io pronuncio avviene, dice il Signore, Jahvé».
La parola di Dio
120
saper aspettare (Abac. 2,3 ) 21 perché nel momento stesso in cui i
pensieri e i disegni di Dio si immettono nella parola del profeta
comincia già la loro attuazione storica.
21. Non è comunque certo che si possa tradurre jafèah 'ansare', 'affrettarsi'.
La parola di Dio 121
che nel caso del segno il problema della comprensione piena del
segno stesso da parte dei presenti passa in secondo piano. Effet-
tivamente le azioni simboliche sembrano talvolta nascondere più
che rivelare. Nel caso delle due azioni simboliche di Isaia l'inca-
rico di eseguirle precede addirittura di anni la loro spiegazione
(Is. 8,1 ss.; 20,i ss.). Anche se non si vuol sostenere la tesi estre-
ma che il significato dell'azione simbolica comandatagli rimanes-
se a tutta prima oscuro anche per lo stesso profeta (il testo sem-
bra però suggerire questa interpretazione per i due primi casi
menzionati), è certo che il gesto del profeta rimase a lungo in-
comprensibile al popolo. Con ciò la concezione del segno, quale
mezzo didattico illustrativo viene definitivamente scartata perché
essa presupporrebbe che il profeta avesse un'idea ben precisa da
illustrare mediante il segno prescelto.
Da questa interpretazione degli atti simbolici che soltanto la
scienza della religione ha saputo darci deve necessariamente pren-
dere le mosse qualsiasi esegesi. Ora la difficoltà dell'esegeta è do-
vuta al fatto che una concezione siffatta del segno quale potenza
creatrice di storia non si trova sempre allo stato puro. Se si pren-
de a esaminare il rapporto tra la parola pronunciata e l'atto sim-
bolico si riscontra che la funzione di quest'ultimo è concepita in
guise assai varie onde l'esegeta deve riproporsi in maniera sem-
pre nuova il problema del significato dell'azione simbolica. Se
in origine l'atto simbolico del profeta si collocava nella prospet-
tiva di un evento futuro (2Reg. 13,14 ss.) nei profeti classici il
segno si rivolge anche ai contemporanei e risulta così in certo
modo ambivalente. Si continua evidentemente a riconoscere che
il segno ha il potere di creare la storia, ma contemporaneamente
si affida ad esso un messaggio. In virtù del suo contenuto intel-
ligibile al quale vien dato ora un maggior risalto il segno si ri-
volge ai presenti per prepararli alla realtà avvenire. Così il com-
portamento di Isaia che gira nudo, una volta spiegato da Jahvé
diventa per il popolo un segno e viene inteso come l'adombra-
mento di una deportazione imminente (Is. 20,3). Allo stesso mo-
do anche il mancato lutto di Ezechiele per sua moglie diventa
per il popolo un segno, l'adombramento di una catastrofe nella
quale nessuno potrà piangere secondo il rito i propri defunti
La parola di Dio 123
LA CONCEZIONE EBRAICA
DEL TEMPO E DELLA STORIA
E L'ESCATOLOGIA PROFETICA
2. E.F. Weidner, Die Kónige voti Assyrien {Neue chronologische Dokumente aus
Assur): MVÀG (1921) 2 ss.
126 La concezione ebraica del tempo e della storia
3.J. Marsh, op.cit., 27; W. Eichrodt, op.ck., 107. Cfr. anche W. Robinson,
Inspiration and Revelation in the Old Testament (1950) 109 ss. Per l'Egitto cfr.
S. Morenz, Àgyptiscbe Religion (i960) 79 ss.'
4. Altri esempi di quest'uso al plurale: Ezech. 12,27; lob 24,1.
La genesi del concetto ebraico di storia
127
vita dell'uomo secolarizzato. Da una siffatta concezione del tem-
po l'esegeta moderno deve prescindere del tutto; essa d'altronde
non è neppure greca; anzi in questa forma generalizzata non è
neppure antica 5 .
«La legge del tempo cui, secondo Erodoto, obbediscono gli eventi,
non è chiliastica, non 'è protesa verso il futuro, non è paragonabile a
una corrente, non è neppure in qualche modo escatologica, bensì è
ciclica, periodica, ritorna di volta in volta dalla fine all'inizio. La sua
[di Erodoto] sapienza sta nel riconoscere... che vi è un ciclo delle co-
se umane... L'osservazione degli eventi temporali attesta che dentro al
rapporto causale visibile comprensibile dagli uomini oppure accanto
ad esso o al di sotto di esso ve n'è un altro invisibile che fa capolino
in maniera occulta ed enigmatica dai gesti, dalle parole, dai segni e
dalle profezie, sicché di volta in volta la fine del ciclo porta alla luce
tutta la trama col rispettivo inizio... Nel ciclo si attua la coinciden-
za del visibile con l'invisibile... Non vi è storico greco che concluda la
sua opera nel modo che a noi parrebbe ovvio, ossia con uno sguardo
al futuro... Il mondo storico e il tempo nel senso nostro sono scono-
sciuti all'antichità», K. Reinhardt, Herodots Persergeschichten in:
Geistige Ùberliefertmg, ed. da E. Grassi (Berlin 1940) 141 s. s
5. «L'idea che la storia del mondo possa condurre a qualche traguardo o termine
pare fosse estranea in origine all'Egiziano», E. Otto, Altàgyptische Zeilvorstellung
und Zeitbegriffe: Die Welt als Geschicbte (1954) 142.
6. Si vedano a questo proposito le importanti considerazioni sulla differenza tra la
concezione greca del tempo e quella biblico-cristiana in K. Lowith, Weltgeschicbte
und Heilsgeschehen (1953) 11 ss.
128 La concezione ebraica del tempo e della storia
8. Cfr. a questo proposito anche R. Rendtorff, Kult, Mythus und Geschichte itti al-
La concezione ebraica del tempo e della storia
130
ancorato più a determinati fatti storici che non ai cicli periodici
della natura, ciò procedeva da una fede che allora non era anco-
ra pienamente conscia della sua totale originalità e della sua for-
za. Abbiamo quindi ogni buona ragione per parlare di un fonda-
mento storico dello jahvismo, ma nel valutare tale fondamento
dobbiamo prescindere in tutto dalla concezione moderna della
storia nella quale, come è noto, hanno grande spicco le idee del-
la relatività e della transitorietà di ogni evento. I fatti storici coi
quali Jahvé aveva fondato la sua comunità non erano contingen-
ti, ma assoluti; non soggiacevano al destino degli altri accadi-
menti, quello cioè di scivolare inesorabilmente nel passato; essi
erano contemporanei di tutte le generazioni, ma non solo in
quanto divenivano spiritualmente e vividamente presenti a chi li
rievocava; bensì in quanto nelle ricorrenze festive la comunità
solo attraverso il mimo e il rito attualizzava Israele nel pieno
senso della parola e si collocava essa stessa, in modo realissimo,
nella situazione storica quale era determinata di volta in volta
dalla rispettiva festa9. È chiaro che quando Israele mangiava la
pasqua con l'abito da viaggio, il bastone nelle mani, le scarpe ai
piedi e nella fretta della partenza {Ex. 12,11) non solo comme-
morava l'uscita dall'Egitto ma si inseriva realmente nell'evento
salvifico dell'esodo e lo viveva come pienamente attuale. Lo
stesso può dirsi per la dimora nei tabernacoli o per la festa del-
l'alleanza che a Sichem celebrava solennemente la rivelazione dei
comandamenti e la stipulazione del patto 10 . Che poi questa espe-
ten Israel in: Sammlung und Sendung, Festschr. fiir H. Rendtorfl (1958) 121 ss.
Per il fenomeno della storicizzazione delle concezioni mitiche cfr. A. Weiser, Glau-
be und Geschicbte im A.T. (1931) 22 ss. E. Kutsch: RGG311, 911 ss.
9. Sul culto come mimo sacrale cfr. S. Mowinckel, Psalmenstudien 11 (1922) 19 ss.
io. Sulla festa del rinnovamento dell'alleanza celebrata a Sichem, cfr. voi. 1, p. 38.
Questa esperienza cultuale per noi cosi difficile da capire, diventa più comprensi-
bile se si pensa che l'antico celebratore del culto più che considerarsi 'individuo'
si sentiva membro del corpo sociale e nei contenuti religiosi poteva scuoterlo e
saturarlo solo ciò che era sperimentato dalla comunità cultuale nel suo complesso
(cfr. voi. 1, pp. 54.59). Ps. 114 può ben darci un'idea del modo in cui i fatti salvi-
fici venivano attualizzati nel culto: l'avvenimento dell'esodo e la scelta di Sion
vengono quasi a coincidere cronologicamente (w. 1 ss.). Il passaggio del Mare
delle Canne {Ex. 14 s.) e del Giordano {Ios. 3 s.) - separati, secondo il calcolo del
Pentateuco, da 40 anni - sono menzionati insieme come se si trattasse di un solo
La genesi del concetto ebraico di storia
131
rienza così diretta e vigorosa degli eventi salvifici compiuti da
Dio abbia cominciato ad affievolirsi in uno stadio più avanzato
della storia religiosa di Israele è cosa che dovremo vedere subito
appresso.
Questa trasformazione, dovuta all'indole essenzialmente stori-
ca dello jahvismo, di talune feste in origine agresti era soltanto
una fase, per così dire il primo passo di Israele verso la compren-
sione della propria esistenza storica. Israele non continuò a ri-
chiamarsi a un solo fatto storico, bensì cominciò a delineare tut-
ta una serie di eventi che soltanto nel loro complesso avevano
dato origine al popolo di Jahvé. All'esodo dall'Egitto si fece pre-
cedere il tempo dei patriarchi e alla fine si collocarono gli eventi
connessi con l'immigrazione nella terra di Canaan. Sorse così da
questa aggregazione di eventi salvifici una storia continua. In-
somma, a un certo momento la fede di Israele non si richiama
più a un singolo fatto - nemmeno a un fatto così centrale come
l'esodo che celebrava nella festa di pasqua - ma nemmeno a una
molteplicità di eventi senza alcuna connessione fra loro; comin-
cia invece a prender coscienza di una pluralità di fatti successivi.
In altri termini, Israele divenne consapevole che il suo presente
era il risultato di un divenire, di uno svolgimento storico assai,
complesso. E come giunse Israele a formarsi questa concezione
della storia? Possiamo soltanto dire che in un'epoca primitiva i
singoli fatti dovettero essere celebrati nel culto indipendente-
mente l'uno dall'altro e in parte anche in luoghi affatto diversi.
A Betel era viva una tradizione di Giacobbe, a Sichem si celebrava
la festa dell'alleanza sul Sinai, a Gilgal probabilmente una festa
della conquista del paese che per molti rispetti coincideva con
la festa della pasqua e dell'esodo, ecc. " Più tardi Israele ha coor-
avvenimento e non di due. E tutto ciò per il salmo posteriore di alcuni secoli, è
contemporaneo al punto che esso può inserirsi, commentando e domandando, nel-
lo sviluppo drammatico di questi eventi salvifici (v. 5). Ma questa contempora-
neità non è poi così esclusiva che l'autore, nel medesimo contesto, non possa ri-
cordare anche un evento della migrazione nel deserto, ossia il miracolo delle acque
(Num. 20,11) che cronologicamente si situa dopo il passaggio del Mar delle Canne
e prima di quello del Giordano. Questo procedimento non si spiega con la 'libertà
poetica', ma solo con il tipo di pensiero proprio del culto.
11. H.-J. Kraus, Gilgal: VT 1 (1951) 181 ss. Di recente è stato affermato da molti
La concezione ebraica del tempo e della storia
I32
dinato queste tradizioni (che, come abbiam detto, erano dappri-
ma cultualmente isolate tra di loro), in una successione di even-
ti in cui da un lato nessun momento poteva mancare e per con-
verso ogni momento si doveva intendere soltanto come una par-
te del tutto; giacché questo tutto in quanto tale era qualcosa di
più della somma delle sue parti. L'idea fondamentale che presie-
dette al concatenamento dei singoli fatti così diversi per tradi-
zione in una linea storica di tale portata fu che Dio aveva per-
seguito e attuato un suo disegno, quello cioè di condurre Israele
nella terra promessa (Deut.6,23; Lev.25,38)". I più antichi pro-
dotti a noi giunti di questo concatenamento storico (che si può
ben dire un fatto rivoluzionario) sono quei brevi sommari di
storia della salvezza dei quali abbiamo già parlato13. Israele era
così pervenuto all'idea di uno sviluppo storico lineare, ma non
per via di una deduzione filosofica o mitologica, bensì lentamente
concatenando i vari fatti salvifici dei quali si conservava il ricor-
do in diversi luoghi. O, per esprimerci in termini più adeguati,
Israele era giunto a comprendere che Jahvé aveva perseguito un
disegno e percorso coi patriarchi una lunga via sino a dar
vita a Israele. L'aver riconosciuto che l'esistenza di Israele non
si fondava su un unico fatto, ma era stata preceduta da un lungo
cammino, ossia da una storia, segna una conquista memorabile.
Non che, beninteso, si debba pensare a una storia quale noi la
intendiamo: in realtà la storia che Israele era pervenuto a con-
cepire era soltanto la successione dei fatti che Dio aveva stabi-
lito per la salvezza del suo popolo. Per Israele, quindi, la storia
consisteva soltanto nello svolgimento dei suoi rapporti con Dio.
Era Dio che nella successione cronologica degli eventi molteplici
aveva stabilito una continuità e una meta.
che Israele nel ciclo annuale celebrava anche una festa della creazione del mondo,
che la celebrazione cultuale della festa dei Tabernacoli si riferiva non solo ad even-
ti salvifici ma anche alla creazione e che periodicamente nel culto si 'riproduceva-
no' la vittoria sul caos e la cosmogonia. Ma tutto ciò risulta poco probabile dai
testi e non è certo convalidato da Gen. 1 che segna l'inizio di una successione tem-
porale irreversibile.
12.H.W. Wolfi: EvTh 20 (i960) 229 n. 17 = Ges. Slud. (1964) 301 n. 17.
13. Per i sommari storici di Deut. 26,5 ss.; los. 24,2 ss. cfr. voi. 1, pp. 149 ss.
La genesi del concetto ebraico di storia
14. Su ciò si veda quel che scrive M. Noth, Pentateuco 46 s. sull'inizio e sulla fine
dello «stadio produttivo della storia del Pentateuco».
15. La questione del punto d'avvio della narrazione storica deuteronomistica è no-
toriamente controversa. M. Noth ha proposto di vedere l'inizio del racconto in
Deut. 1,3 (Oberi. Studien 12 ss.).
16. Ma anche l'apocalittica si è raffigurata il nuovo eone come un'estensione tem-
porale di «innumerevoli settimane per l'eternità» (Hen. 91,17). Ad ogni modo ci
La concezione ebraica del tempo e della storia
134
l'inizio della storia: abbiamo dimostrato infatti che il racconto
della creazione, con la sua sottile articolazione cronologica, vede
nella creazione stessa l'avvio della storia sacra mossa da Dio.
Questa concezione della storia che Israele ha elaborata teologi-
camente nel corso dei secoli in direzioni affatto diverse è una del-
le conquiste maggiori di quel popolo (fra i popoli antichi soltan-
to i Greci, com'è noto, hanno prodotto una storiografia, ma con
tutt'altri criteri e procedimenti). Ad ogni modo per noi resta
tuttora aperta la questione del rapporto fra questa concezione li-
neare della storia prodotta da Israele e le grandi feste nelle qua-
li, come abbiam detto, si attualizzava la storia della salvezza.
La concezione cronologica della storia elaborata da Israele non
escludeva forse in linea di principio un'attualizzazione dell'even-
to salvifico quale si verificava nell'ambito del culto? Senz'altro
essa incrinava la contemporaneità intesa nel senso più rigoroso
per cui il partecipante alla festa poteva inserirsi realmente nel-
l'evento salvifico (nell'evento, si badi, e non in una lunga succes-
sione cronologica); il culto arcaico è infatti, per natura, 'antisto-
rico' 17. Dovremo dunque dire che Israele conosceva due maniere
di attualizzare la storia, una cultuale e una cronologica? In effet-
ti non si potrà fare a meno di pensare che entrambi i modi, al-
meno per un certo periodo di tempo, abbiano mantenuto una
loro validitàI8. Abbiamo buone ragioni per dubitare che coloro i
quali si recavano in pellegrinaggio a Betel o a Beersceba per le
grandi festività sapessero che a Gerusalemme le cerchie colte
allargavano sempre più le loro prospettive storiche; ma anche
a Gerusalemme con ogni probabilità la festa della pasqua si con-
tinuava a celebrare alla maniera tradizionale anche quando si era
ormai imparato da gran tempo a considerare cronologicamente la
bistorta salutis. Sarebbe tuttavia difficile pensare che le due con-
cezioni qui soltanto sommariamente accennate potessero coesiste-
si può chiedere se i profeti in certi enunciati come Am. 9,13; Is. 60,19 s.; Zach.
14,7 non volessero effettivamente accennare a un di là del tempo o per lo meno a
una cessazione del ritmo attuale del tempo.
17. Del carattere antistorico del culto arcaico parla M. Eliade, Der Mytbos der
ewigen Wiederkebr (1953) 125.
18. Così G. Pidoux, op. cit., 121 s.
La genesi del concetto ebraico di storia
135
re pacificamente. È vero che anche quando i fatti salvifici furono
svincolati dal culto e assursero a momenti di uno sviluppo sto-
rico lineare, l'antica attualizzazione cultuale potè continuare an-
cora per molto tempo. La nuova concezione dell'evento salvifi-
co" come momento storico continuo, come successione di inter-
venti divini nella storia, si accompagnava a un processo spiritua-
le troppo cospicuo perché alla lunga non ne risentisse l'antica
maniera di attualizzare i fatti nel culto. Ormai la storia era. di-
venuta veramente irreversibile e d'altronde anche questo modo
nuovo di intendere i fatti storici doveva necessariamente svolger-
si e progredire. Il distacco dalla sfera del sacro fece sì che nel
tracciare il quadro della storia si impiegassero le facoltà razionali
della conoscenza. Sorse allora il pensiero critico, si imparò a va-
gliare la massa della tradizione, a concatenare i vari dati o anche
a rigettare notizie e tradizioni, si giunse a fissare, secondo il pro-
prio discernimento, nella lunga serie degli eventi taluni momen-
ti culminanti (si pensi, ad es., al corso della storia ritmato da
stipulazioni particolari dell'alleanza " ) . È peraltro difficile stabi-
lire se questo avanzamento nella direzione della storia già a
priori fosse determinato da un certo esaurimento delle attualiz-
zazioni cultuali ossia da una perdita della loro spontanea inge-
nuità o se invece sia stato esso stesso la causa di questo inaridi-
mento dell'esperienza cultuale. È fuor di dubbio che talune testi-
monianze accennano a una crisi del culto inteso come attualizza-
zione degli eventi salvifici compiuti da Jahvé. Nel Deuteronomio
l'autore lascia intendere che la generazione cui egli si rivolge è
ben consapevole di essere assai lontana da quella con la quale
Jahvé un tempo aveva stipulato l'alleanza del Sinai. Perciò la
validità della stipulazione del patto, che era per le generazioni
precedenti un evento contemporaneo, deve ora essere motivata
in guisa nuova:
«Jahvé nostro Dio ha stipulato con noi un'alleanza sullo Horeb; non
coi nostri padri Jahvé ha stipulato questa alleanza, ma con noi che
siamo qui oggi ancora tutti in vita» (Deut. 5.2-3).
20. Sul concetto di 'tempo preistorico' che tanta importanza ha nella storia delle
religioni cfr. G.v. d. Leeuw, Die Bedeutung der Mythen in: Festschtift fur Ber-
thold (1950) 287 ss. Alla stessa nozione si riferisce M. Eliade col mitico 'archeti-
po' che viene ripetuto e imitato nel culto (op. cit-, 11 ss. e passim).
21. Sui miti intesi come esperienze della potenza cfr. G.v. d. Leeuw, Phanomeno-
logie der Religion (1933) 517.
i. 3 8 La concezione ebraica del tempo e della storia
Jahvé sta preparando un'ora affatto nuova per il suo popolo. Nul-
la sarebbe però più errato che scambiare questo sguardo aperto
sul futuro con una sorta di prognosi storica fondata su una va-
lutazione profana di qualche congiuntura politica. Quel che di-
stingue la visione profetica dell'avvenire da qualsiasi calcolo po-
litico è la certezza incrollabile che negli eventi futuri Dio sarà
il diretto interlocutore di Israele, ossia il fatto che l'avvenire si
colloca teologicamente nella luce più limpida. Il calcolo politico
procede per analogie partendo dall'esperienza storica; i profeti, in-
vece, si collocano di fronte a eventi storici che obbediscono a un
libero disegno di Jahvé. Che poi anch'essi nel concepire e rappre-
sentare questo nuovo intervento storico di Jahvé abbiano seguito
un procedimento analogico è cosa che mostreremo subito appresso.
È notevole quanto tempo sia occorso perché la teologia arri-
vasse a cogliere nella varietà e vastità del messaggio profetico
l'elemento caratterizzante e abbandonasse come insoddisfacente
la tesi che i profeti fossero la coscienza incarnata del loro popolo.
Ma se i profeti non furono soltanto esponenti particolarmente
autorevoli dello jahvismo, la ragione sta nella loro apertura al fu-
turo. L'elemento nuovo che per certi rispetti separa i profeti da
tutti i precedenti banditori della religione di Jahvé può essere
definito soltanto con un termine assai controverso: è Vescatolo-
gia11. Sul che oggi tutti sono d'accordo, anche se poi divergono
nel definire più precisamente il senso della parola. Il gran me-
rito di aver colto appieno e in guisa nuova l'elemento escatolo-
gico nei profeti e di averne fatto l'oggetto di una esplorazione
scientifica va a H. Gressmann. Ma fu lo stesso Gressfnann a por-
re la ricerca su una strada sbagliata quando ritenne di dover con-
cepire l'escatologia come un sistema coerente di rappresenta-
zioni, come una miniera delle più svariate attese a sfondo cosmi-
co-mitologico alle quali avrebbero attinto i profeti. Per lungo
tempo gli studiosi non si sono svincolati da questa falsa opinione
e quindi hanno cercato anzitutto di scoprire l'origine di quel 'si-
stema'. Era sorto dalla penetrazione in Israele di taluni miti stra-
23. Ci riferiamo qui al movimento profetico che comincia con Amos e Osea. È
dubbio se !a profezia di Elia o di Eliseo si possa qualificare escatologica. Quella
di Natan (2 Sam. 7) o di Gad (2 Sam. 24,11 ss.) certamente non lo era.
Dalla storia all'escatologìa 141
possono più essere vissute con piena autenticità; va considerata come una fuga dal
peso opprimente nella direzione della minor resistenza», Psalmenstudien n, 324.
Anche M. Buber parla di una speranza legata alla storia che soltanto per una cre-
scente «delusione della storia» si escatologizza: Kónigtum Gottes ('1936) x, cita-
to da S. Mowinckel, He That Cometh 152. Sempre il Mowinckel nella sua secon-
da opera ha dato un maggior risalto alla specifica concezione veterotestamentaria
della storia: «We are justified in saying that Israels unique conception of God as
the God of history is the root of eschatology» [«abbiamo ogni ragione di affer-
mare che la tipica concezione ebraica di Dio come Dio della storia costituisce la
radice dell'escatologia»] (op. cit., 153). Non che in questa ricerca non si debba
tener conto per principio dell'esperienza deludente. Al sorgere dell'escatologia
avrà contribuito anche la delusione; si deve però determinare in guisa teologica-
mente più precisa l'oggetto che ha provocato la delusione e all'esperienza delu-
dente va assegnato il posto che le compete nell'ambito complessivo del fenomeno.
Se ci atteniamo agli enunciati dei profeti non possiamo considerare quell'espe-
rienza come il fattore primario e determinante.
Dalla storia all'escatologia
*45
operazioni salvifiche già compiute da Jahvé. Così Osea preannun-
zia una nuova conquista della terra promessa, Isaia parla di un
nuovo Davide di una nuova Sion, Geremia profetizza una nuova
alleanza e il Deuteroisaia un nuovo esodo. Vero è che la frattura
fra il nuovo e il vecchio non appare ugualmente profonda in tut-
ti i profeti. Al riguardo vi sono considerevoli differenze teologi-
che. Per Isaia le antiche istituzioni di salvezza conservano tutto
il loro valore cosicché Jahvé nelle sue operazioni future dovrà
riallacciarsi ad esse: questo vale tanto per la nuova Sion (Is. i,
26) quanto per il nuovo Davide (Is. 11,1). Invece per Geremia
e per il Deuteroisaia la frattura è così profonda che Jahvé deve
ripetere i fatti antichi: viene stipulata di nuovo l'alleanza (Ier,
31,31 ss.) e si compie un nuovo esodo. Così non si è certamente
espresso Isaia; egli non dice che Jahvé eleggerà ancora una volta
Sion o stipulerà nuovamente l'alleanza con Davide. Da una pro-
spettiva ben diversa parte invece l'invito del Deuteroisaia a di-
menticare addirittura la storia della salvezza ormai trascorsa (Is.
43,16 ss.). E anche questo Isaia non l'avrebbe potuto dire. Ma
si tratta pur sempre di differenze relative giacché anche per Isaia
non v'è dubbio che la salvezza di Israele può venire soltanto da
un nuovo intervento storico di Jahvé32.
Secondo questa interpretazione che andiamo svolgendo si de-
ve parlare di un messaggio escatologico sempre quando i profeti
negano ciò che sino allora costituiva il fondamento storico della
salvezza. Ma questo comporta anche una precisa delimitazione
del concetto. Esso non dovrebbe in alcun modo applicarsi a
tutti quei testi nei quali Israele parla con sensi di pietà religiosa
del suo futuro e del futuro delle sue istituzioni sacrali. Quando
invece i profeti dislocano di colpo il fondamento della salvezza
di Israele dalla tradizione passata a un intervento futuro di Jah-
vé, soltanto allora l'annuncio profetico diventa escatologico.
3. Il giorno di Jahvé
Richiede ancora un discorso a parte l'attesa del giorno di Jah-
vé nella quale spesso si è voluto ravvisare addirittura il nucleo
Il giorno di Jahvé _A _
x
47
dell'escatologia profetica u . Non vi è forse tutto un complesso in
certo modo stabile di attese e rappresentazioni escatologiche che
si riallacciano a questo giorno? In effetti l'attesa del 'giorno di
Jahvé' si presenta in guisa tutta speciale giacché è sempre incen-
trata in un intervento affatto personale di Jahvé. Il problema
dell'origine di questa concezione è stato posto sovente e con
buone ragioni; infatti, una volta compresa l'origine dell'idea, do-
vrebbe essere più facile comprendere l'idea stessa.
33. H. Gresstnann è stato il primo a ravvisare nella tematica del giorno di Jahvé
un problema tutto particolare: Urspriinge der israelitiscb- jùdischen Escbatologie
(1905) 141 ss. Molto seguito ebbe l'identificazione, proposta dal Mowinckel in
Psalmenstudien 11 (1922), del giorno di Jahvé con la festa dell'intronizzazione di
Jahvé; cfr. sullo stesso tema gli scritti più recenti di S. Mowinckel, Jabves dag:
Norsk Teologisk Tidsskrift (Ì958) 1-56 e L. Cerny, The Day of Yahweh and some
Relevant Problems (1948).
34. Is. 2,12; 13,6.9; 22,5; 34,8; Ier. 46,10; Ezecb. 7,19; 13,5; 30,3; Ioel 1,15; 2,
1.11; 3,4; 4,14; Am. 5,18-20; Abd. 15; Soph. 1,7.8.14-18; Zacb. 14,1.
148 La concezione ebraica del tempo e della storia
36. Se la parola zebah in Soph. 1,7; Is. 34,6; ler. 46,10; Ezech. 39,17 non è usata
in senso proprio, bensì figurato, non si possono naturalmente prendere questi pas-
si come prova del carattere cultuale del giorno di Jahvé.
37. La derivazione, proposta da S. Mowinckel, del concetto di giorno di Jahvé
Il giorno di Jahvé
151
sitiva. Già l'associazione quasi stereotipa del giorno di Jahvé con
un'impresa di guerra induce a pensare alle guerre sante e ai fenomeni
che le accompagnavano. Troviamo qui la concezione tradizionale di
una teofania guerresca di Jahvé e prima di tentare altre spiegazioni ci
si dovrebbe chiedere se essa non sia in qualche modo connessa con gli
elementi profetici relativi al giorno di Jahvé. Il che è tanto più proba-
bile in quanto l'evento guerresco-escatologico per ben due volte è
messo dallo stesso profeta in rapporto diretto con una delle guerre
sante del passato {Is. 9,4 = lui. 7; Is. 28,21 = 2 Sam. 5,20.25). Di
queste guerre condotte un tempo da Jahvé si raccontava che erano
state accompagnate da fenomeni prodigiosi di ogni genere (il tuono:
1 Sam. 7,10; la caduta di pietre: Ios. 10,11; la tenebra: Ex. 14,20;
Ios. 24,7; la nube che si scioglie in acqua: Iud. 5,4s.). Una funzione
tutta particolare aveva in quelle guerre il terrore di Dio, una sorta di
panico che confondeva e disanimava i nemici togliendo loro ogni au-
dacia bellica e inducendoli ad uccidersi con le proprie mani38.
39. J.A. Soggin, Der prophetische Gedanke ùber den Heiligen Krieg ah Gericht
gegen Israel: VT io (i960) 79 ss.
PARTE SECONDA
Hi»..
CAPITOLO PRIMO
AMOS E OSEA
x
i . Premessa \
Dopo le considerazioni teologiche di ordine generale sul feno-
meno della profezia e sulla predicazione profetica tenteremo ora
di esporre il messaggio dei singoli profeti. Dovremo soprattutto
badare a leggere questo messaggio non per individuarne il con-
tenuto ideale sovrastorico, bensì come una parola precisa pro-
nunciata per un preciso momento storico e che, in quanto tale,
è unica e insosti tubile. Molto più di qualsiasi altra testimonian-
za verbale dello jahvismo la parola profetica muove da una si-
tuazione di colloquio appassionato; ma di un colloquio appunto
che non si cura di pervenire a un dato di fede comune e genera-
le, bensì mira con tutti i mezzi, anche i più discutibili, a richia-
mare l'interlocutore al suo hic et nunc per fargli comprendere la
sua situazione specifica davanti a Dio. Appunto per l'interlocu-
tore in quella situazione che egli non può cambiare e nella quale
è chiamato a una decisione inderogabile, i profeti impiegano tut-
ti i mezzi retorici possibili senza rifuggire dai toni più radicali
e dalle più stupefacenti caricature. Se si prescinde da talune ec-
cezioni ben definite, ai profeti non interessa enucleare oggettiva-
mente i dati della fede comune; si potrebbe anzi dire che essi
considerino loro compito il fare un discorso critico, molto cri-
tico, riguardo alle tradizioni religiose di Israele. Ma anche que-
sta affermazione potrebbe indurre in errore giacché nulla era più
lontano dalla mentalità dei profeti che occuparsi della dottrina
per la dottrina. Per essi non si trattava della fede e nemmeno
del kerygma, bensì di comunicare un messaggio di Jahvé a de-
terminati uomini che, senza esserne consapevoli, si trovavano in
una condizione particolare davanti a Dio. Ora, poiché questo
interlocutore dei profeti (che non è sic et simpliciter 'il popolo')
Amos e Osea
x56
cambia continuamente possiamo bene ammirare la straordinaria
mobilità e la capacità di adattamento del discorso profetico che
sa attingere ad un minimo di 'principi' fondamentali come ad
una miniera inesauribile; ma nello stesso tempo perdiamo an-
che la speranza di poter cogliere il messaggio profetico come un
tutto coerente. Sarebbe però errato assumere in proposito un
atteggiamento di rassegnazione; occorre invece che sia ben chia-
ro sin dal principio che ciò che siamo soliti chiamare il kerygma
di un profeta è un'entità quanto mai problematica. In realtà né
riducendo la molteplicità degli enunciati profetici a talune con-
cezioni religiose fondamentali né raccogliendo i singoli enunciati
in una sintesi complessiva riusciamo veramente a cogliere quel
che si potrebbe chiamare il 'messaggio'. Come abbiamo dianzi
accertato, ogni enunciato profetico rappresenta per gli uomini
cui si rivolge la (e non una) parola di Jahvé. Non vi è quindi a
rigore un 'messaggio' complessivo dal quale procedano di volta
in volta i singoli oracoli e annunci; noi abbiamo soltanto la plu-
ralità dei singoli oracoli che costituiscono di volta in volta, in
guisa sempre diversa, la parola di Jahvé 1 . Ma pur nell'aggrovi-
gliata e imbarazzante mobilità del discorso e dell'argomentazio-
ne dei profeti, si possono cogliere due costanti che valgono per
ogni profeta: la prima è il nuovo messaggio per Israele che Jah-
vé fa leggere al profeta sull'orizzonte della storia del mondo;
l'altra è la tradizione del 'popolo eletto' nella quale erano radi-
cati tanto il profeta quanto i suoi uditori. Quest'ultima se da
un lato, in quanto motivo di consolazione, viene criticamente
impugnata dall'annunzio profetico del giudizio, dall'altro nella
parola del profeta torna ad essere una praedictio futuri assu-
mendo un aspetto nuovo, antitipico rispetto a quel che aveva
dianzi. Il kerygma del profeta si svolge quindi nella tensione
dialettica di tre elementi: il nuovo messaggio escatologico di
Jahvé a Israele, la tradizione canonica dell'elezione, la condizio-
ne personale (gravata dal peccato o bisognosa di consolazione)
dell'uomo cui si rivolge il profeta. È chiaro che questi elementi
2. Amos2
Non dobbiamo immaginare che Tecoa, patria di Amos, posta
a mezzogiorno di Betlemme e distante da questa due giorni di
cammino, fosse un luogo fuori mano e sperduto giacché sin dal
tempo di Roboamo era fortificata e aveva una guarnigione3. Si
può presumere che lo stesso Amos svolgesse una professione
non umile e possedesse un buon reddito. Ora che un uomo ap-
partenente alla salda compagine della popolazione rurale fosse
divenuto profeta si poteva spiegare solo eoa una chiamata prodi-
giosa di Jahvé. Quando Amos in un detto molto discusso affer-
ma di non essere (o di non essere stato) un profeta e di non ap-
partenere ad alcuna corporazione profetica {Am. 7,14), egli non
intende svalutare la categoria dei nebi'im, ma vuol soltanto chia-
rire il fatto singolare che egli, un agricoltore, improvvisamente
si sia messo a parlare da ispirato {hinnàbè': Am.y,i^) senza ave-
re alcun titolo per far ciò4. Fu quindi per così dire uno stato di
necessità che indusse Jahvé a scegliere un uomo del ceto conta-
dino. La chiamata è un fatto che rende vana ogni ulteriore di-
scussione. Non si andrà errati ricollegando la chiamata dell'agri-
coltore Amos al ministero profetico con le cinque visioni da lui
2.V. Maag, Text, Wortschatz, und Begriffswelt des Bucbes Amos (1951); E.
Wurthwein, Amosstudien: ZAW 62 (1950) io ss.; A.S. Kapelrud, Central Ideas
in Amos (1956); H.W. Wolff, Amos' geistige Heimat (1964) (qui non abbiamo
potuto servirci di quest'opera). Per la bibliografia precedente cfr. L. Kòhler:
ThR 4 (1932) 195 ss.
3. 2 Par. 11,6; cfr. Beyer: ZDPV 54 (1931) 113 ss.
4. È controverso se Amos volesse dire: io non ero profeta, ma ora lo sono (così
intende H.H. Rowley, Was Amos a Nabi? in: Eissfeldtfestschrift [1947] 191 ss-)
oppure intendesse negare di avere qualsiasi rapporto con la> categoria dei profeti
(così E. Baumann: ZAW 64 [1952] 62). Si veda per l'interpretazione di Am. 7,
14 l'accurato studio di H. Stoebe, Der Prophet Amos und sein bùrgerlicher Be-
rti): Wort und Dienst, Jahrbuch der theol. Schule Bethel (1957) 160 ss. Lo Stoe-
be sostiene che la risposta di Amos si riferisca al presente. In guisa analoga in-
terpreta R. Smend, Das Nein des Amos: EvTh 23 (1963) 416 ss.
IJ8
Amos e Osea
avute (Am. 7,1-9; 8,1-3; 9>J-4)- I*1 queste visioni è notevole co-
me il profeta non venga mai esplicitamente incaricato di annun-
ciare quel che ha appreso; esse riferiscono invece talune comu-
nicazioni fatte ex abrupto da Jahvé ad Amos e a lui solo e nella
loro successione ci fanno intravedere la via interiore che Amos
dovette percorrere per giungere alla conoscenza stabile e defini-
tiva di una realtà ineluttabile. Queste visioni contengono un'a-
zione drammatica che si svolge nella più profonda solitudine fra
Jahvé e Amos. Questi a tutta prima, non riuscendo a compren-
dere quel dramma, si è gettato in braccio a Jahvé e per ben due
volte (nella visione delle cavallette e in quella del fuoco) gli è
anche riuscito di stornare la sventura. Ma di fronte al cumulo
delle colpe di Israele ben poco ormai poteva valere la sua inter-
cessione. Nella terza visione, quella del filo a piombo, Jahvé
con le sue parole esplicative precede il profeta e da allora Amos
comincia ad arrendersi. La visione del cesto di frutta è commen-
tata da Jahvé con queste parole che Amos ascolta in silenzio:
«È giunta la fine per il mio popolo» e l'ultima visione, la più
ampia, fa intendere che Jahvé non lascerà scampare nessuno dal-
la futura catastrofe (fosse un terremoto).
Questo seguito di visioni è molto singolare nella letteratura
profetica. A differenza di quanto accade per le visioni di Isaia o
Ezechiele in questo caso non possiamo riconoscere alcuna tradi-
zione più antica alla quale Amos avrebbe attinto. Singolare è
poi che anche il messaggio vero e proprio di Amos non si pre-
senti mai strettamente collegato al contenuto delle visioni; in
nessuna di queste, infatti, compare la catastrofe finale dell'esi-
lio di Israele che Amos invece profetizza in maniera univoca e
quasi monotona. Evidentemente al profeta dapprima fu rivelato
solo il fatto del giudizio e della catastrofe, mentre sul modo ha
acquisito certezza ' solo col concorso di particolari circostanze e
non senza un'autonoma riflessione e osservazione. L'annuncio
che Jahvé ruggirà e la sua voce diffondendosi nel paese sconvol-
gerà la natura {Am. 1,2) dice ancora meno a un orecchio umano
che debba ricevere una particolare rivelazione per poi trasmet-
terla ad altri: tutto ciò che apprendiamo è che una voce, in cer-
to modo ancora inarticolata, rimbomba esprimendo l'ira di Jah-
ve. È giustificato quindi attribuire una parte considerevole del
messaggio di Amos alla sua considerazione e valutazione dei fat-
ti. Tutto ciò che il profeta aveva in qualche modo appreso da
Jahvé doveva essere da lui elaborato e interpretato ad hominem
in guisa sempre nuova. Come abbiamo già detto una conoscen-
za di tal fatta doveva necessariamente conferire all'uomo che
solo la possedeva una dignità unica e incomparabile di là di tutta
la scala degli onori umani, di tutte le distinzioni gerarchiche di
ordine sociale o sacrale. Ma ancora più importante è il lavorìo
intensissimo di elaborazione che doveva cominciare subito dopo
che il profeta aveva ricevuto una rivelazione siffatta. Amos agi-
va in mezzo a un popolo sul quale era già stata pronunziata la
condanna a morte. In tale prospettiva era inevitabile che il con-
torno sociale e umano del profeta pigliasse di colpo tutt'altro
aspetto e talune storture apparissero intollerabili. E così vedia-
mo Amos alle prese soprattutto col compito di dare una moti-
vazione radicale alla sventura incombente e in questo compito
vediamo esplicarsi brillantemente la sua vivacità e acutezza in-
tellettuali. Di certo egli ha ricevuto mediante l'ispirazione sem-
pre nuove conoscenze da Dio, ma non bisogna nemmeno sotto-
valutare il contributo del suo vigile pensiero.
Poiché Amos era giudeo, è giocoforza ammettere che fosse ra-
dicato nelle tradizioni meridionali dell'elezione divina, nelle tra-
dizioni cioè di Davide e di Sion. Purtroppo non abbiamo ele-
menti sicuri per stabilire come egli considerasse la tradizione
dell'esodo che era viva soprattutto nel regno di Israele. Dovre-
mo forse pensare che egli la ritenesse così estranea da doverla
giudicare eretica ed illegittima? 5 Dovremo forse dire che egli ha
richiamato gli Israeliti del settentrione alle loro tradizioni man-
tenendo un atteggiamento di distacco da esse? È difficile soste-
nere ciò quando si ponga mente all'urgenza appassionata che ani-
ma la retrospettiva storica di Am. 2,9-11. Soprattutto il rigore
col quale il profeta inchioda i suoi uditori a queste tradizioni e
le conseguenze che trae dall'inosservanza di esse fanno però pen-
sare che anch'egli prendesse molto sul serio questa versione 'set-
tentrionale' della bistorta salutis. Il fatto storico dell'elezione di
Israele reca in sé addirittura la motivazione dell'imminente giu-
dizio che Jahvé eseguirà contro il suo popolo (Am. 3,2). In real-
tà non si comprende il messaggio di Amos se non si riesce a ve-
dere come esso sia continuamente alle prese con l'idea di elezio-
ne e da quella tragga sempre nuovi spunti e sollecitazioni.
Anche i mutamenti e le tensioni dell'area politica in cui vive-
va Israele hanno però tenuto assiduamente desta l'attenzione di
Amos. Il grande regno creato da Davide non aveva resistito: i
Filistei avevano riacquistato la loro indipendenza e così pure gli
Edomiti e i Moabiti; un successo tutto particolare ebbe la de-
fezione di Aram- Damasco. È vero che sotto Geroboamo 11 (786-
46) il regno di Israele godette ancora un periodo di pace, anzi in
certa guisa si rafforzò; ma l'Assiria era ormai comparsa da gran
tempo sull'orizzonte della Palestina e un anno dopo la morte
di Geroboamo sali sul trono il grande Tiglat-Pileser le cui cam-
pagne militari segnarono per Israele l'inizio della fine. Anche i
pochi riferimenti alle vicende politiche bastano a lasciarci atto-
niti per l'acuta e vigile osservazione con la quale Amos seguiva
i fatti storici. Con quanta precisione egli ha saputo coordinare
la cosiddetta 'migrazione aramaica' con l'altra, affatto diversa
dei 'popoli del mare' (Am. 9,7)! In effetti entrambe le migrazio-
ni quasi contemporaneamente, ossia verso il 1200 a.C, diedero
un'impronta stabile e duratura alle condizioni politiche della Pa-
lestina. Il grande componimento strofico di Am. 1,3 ss. è una mi-
niera di acute osservazioni sui fatti che si svolgevano nella fa-
miglia dei popoli palestinesi. Sulla portata di taluni piccoli suc-
cessi conseguiti contro Damasco, ad esempio sulla presa di Lo-
debar e Carnaim, il profeta ha un'opinione ben precisa {Am. 6,
13); ma il suo sguardo spaziava ben oltre; egli parla di ciò che
avviene alle città della Siria settentrionale Calne e Amat e quan-
do enigmaticamente annuncia una deportazione «oltre Damasco»
si riferisce naturalmente all'Assiria {Am. 6,2; 5,27). Tutto ciò
non si può spiegare se non ammettendo che Amos, proprio per
il suo vigile interesse politico, si sia levato molto al di sopra dei
suoi contemporanei. Eppure il lettore moderno fraintenderebbe
Amos 161
del tutto il profeta se lo considerasse un pacato osservatore ca-
pace di prevedere quel che nell'ambito politico doveva inevita-
bilmente accadere. È un fatto che le predizioni vere e proprie di
Amos si possono ridurre a questi semplici termini: Israele soc-
comberà in una catastrofe militare e sarà condotto in esilio6. Pa-
rimenti è certo che questa anticipazione del futuro procede an-
che dalla concreta esperienza del modo in cui Assur usava trat-
tare i suoi soggetti. Ma che cosa significa mai Assur per Amos!
Che questo nome non si trovi nel testo che noi leggiamo non è
certo un caso7. Gli è che tutta la predicazione di Amos culmina
nell'annuncio che Israele ora si trova di fronte a Jahvé, ma non
allo Jahvé dei pellegrinaggi e dei santuari, bensì allo Jahvé che
nessuno sino allora conosceva e che si accinge ora a compiere
nuove opere in Israele e per Israele. Appunto questo immedia-
to rapporto con Jahvé, questo «io» di Jahvé che campeggia con-
nesso con gli eventi futuri era quel che più doveva sorprendere
e sconvolgere i contemporanei di Amos: «io abbatterò la casa d'in-
verno» (Am.3,15»), «io vi deporterò» {Am.5,27), «io passo deva-
stando in mezzo a te» {Am. 5,17), «io mi levo con la spada contro
la casa di Geroboamo» {Am. 7,9), «io lo cancello dalla faccia della
terra» {Am. 9,8). Quanto alla speranza che Jahvé avrebbe rispar-
miato un 'residuo', Amos, nel moto della polemica ha saputo,
~on piglio sovrano, volgerla in ridicolo {Am. 3,12: la presenza
dei 'resti' attesta pur sempre la morte dell'animale dilaniato;
cfr. Ex. 22,12). Solo ben poche volte Amos ha parlato come se
Jahvé non avesse pronunciato la sentenza definitiva contro Israe-
le. È pur vero che in taluni momenti e per talune cerchie di
uditori lo stesso Amos non ha escluso che Dio potesse ancora
aver pietà del suo popolo {Am. 5,15.6).
Nelle visioni Jahvé ha rivelato ad Amos soltanto la volontà
di non più perdonare, ma ha lasciato al profeta il compito di
scoprire e di definire ciò che non può essere più perdonato, ciò
che costituisce la colpa di Israele. Le motivazioni del giudizio
avvenire si trovano quasi esclusivamente nei 'rimproveri' {Schel-
6. Catastrofi militari: Am. 2,13 ss.; 3,11; 5,3; 6,93.14; 7,9; 8,3; 9,10.
7. In Am. 3,9 'Asdod' viene letto per lo più 'Assur'.
IÓ2 Amos e Osea
treden) ossia, per rifarci alla storia delle forme, in quella parte
che il profeta premette alla 'minaccia' {Drohwort) e nella quale
egli applica la parola di Dio a coloro che sono intesi come i suoi
destinatari particolari8. Ond'è che nel messaggio di Amos non
può sfuggire al lettore una certa disuguaglianza di tono: mentre
le 'minacce', come abbiam detto, pel contenuto sono quasi mo-
notone, nei 'rimproveri' si dispiega tutta una ricchissima gam-
ma di aspetti, di avvincenti rapide 'istantanee' degli atteggiamen-
ti umani soliti o insoliti. Questi elementi così direttamente uma-
ni sono di una esuberante vivacità e insieme di una sinistra e
inquietante rigidità. Il tentativo di ordinare e raccogliere in uni-
tà questa materia non può avere molta riuscita in quanto ogni
enunciato costituisce propriamente un tutto a sé. D'altro canto
non è una semplificazione arbitraria affermare che le accuse del
profeta si muovono in due direzioni: ossia contro la inosservan-
za del diritto di Dio e contro la sicurezza dell'homo religiosus.
9. Cfr. voi. 1, p. 87 s.
io. Per la polemica dei profeti contro il culto v. più avanti, pp. 483 s.
11. J. Wellhausen, Vrolegomena ('1899 ) 406.
12. E. Wiirthwein, op. cit., 47; R. Bach, Gottesrecht und weltliches Recht in der
Verkiindigung des Vropheten Amos in: Festschrift fur G. Dehn (1957) 23 ss -
164 Amos e Osea
13. Elia con ogni probabilità si è scagliato solo contro la casa reale e contro i mi-
nistri di culto che vi trovavano protezione.
Amos i65
3. Osea16
19.Il triplice lakén nel grande contesto di Os. 2,4 ss. (vv. 8.11.16) porta a con-
cludere che in questo caso unità testuali originariamente minori sono state riela-
borate in una composizione più vasta secondo un piano prestabilito. Pertanto le
unità che dobbiamo presupporre anche per la redazione originaria di Osea si pos-
sono ora delimitare con molta minor chiarezza.
20. O.T. 1,4; 2,10; 6,7; 9,9.10; 10,1.9.11 ss.; 11,1-4; 12,4 s. 10.13 s.; I3>4"6-
questa unione fa scaturire l'annuncio che Jahvé è incollerito col
suo popolo e si ritrae da esso.
21. Cosi H.W. Wolff (BK xiv) ad l. Cfr. ibidem 6 la vasta bibliografia su Os. 1-3.
22. Cfr. voi. 1, pp. 42 s.
170
Amos e Osea
D'altro canto proprio per essere riferita al rapporto fra Dio e una
realtà eminentemente storica, quella concezione veniva a perdere il
suo colorito mitologico. Non è poi senza interesse vedere come in
questo rapporto d'amore la parte umana non appaia sempre chiara-
mente definita; Osea infatti parla ora del «paese» (Os. 1,2; 2,5) ora
di Israele (Os. 2,16; 3,1.4). Per questo è evidente che il profeta non
ha saputo del tutto padroneggiare la materia ricevuta dalla tradizione.
Ad ogni modo per Osea il dato principale è naturalmente il 'popolo'.
L'azione simbolica del matrimonio è soltanto una parte del
messaggio di Osea; eppure, soprattutto se si considera anche la
pericope che si ricollega strettamente ad essa (Os. 2,4-25), con-
tiene tutti i temi caratteristici di questo profeta: l'accesa indi-
gnazione per l'infedeltà di Israele al patto; il castigo incomben-
te e, di là di questo, in una prospettiva difficilmente precisabile,
l'accenno a un nuovo intervento salvifico anzi all'impostazione
di un rapporto affatto nuovo con Israele del quale l'amore di
Dio non può fare a meno.
Per indicare la caduta di Israele nella religione naturalistica
dei Cananei Osea è ricorso alla metafora del «prostituirsi» o
«prostituirsi tradendo Jahvé» nella quale si esprime tanto l'idea
dell'indissolubilità dell'alleanza con Jahvé quanto la ripugnanza
pei riti della fecondità e per la prostituzione sacra praticata nel
culto di Baal23. Può darsi che questo aspetto sessuale del culto
naturalistico dovesse suscitare una reazione particolarmente for-
te nello jahvismo; ma certo non fu soltanto esso, bensì tutta
l'infedeltà al patto, l'infrazione del primo e del secondo coman-
damento che mosse il profeta a parlare (0^.4,12.17; 8,4-6; 13,
2). Gli è che Israele attendeva felicemente alla coltivazione del
suolo, ma credeva di doverne i benefici e le prosperità ai vari
Baal: Israele «non sa che io (gli) ho procurato il frumento, il
mosto e l'olio, che l'ho ricolmato d'argento e d'oro» (Os. 2,10).
In questa dichiarazione stupefacente Jahvé appare come il di-
spensatore di tutti i beni che provengono dalla coltivazione del-
la terra. Israele ha però misconosciuto tanto il donatore quanto
i doni, non ha compreso che questi doni lo ponevano, di fronte
a Jahvé, in uno status confessionis; anzi è caduto nell'idoleggia-
28. Per questo ordine di idee cfr. voi. I, pp. 303 ss.
Amos e Osea
174
Come potrei abbandonarti, Efraim, come lasciarti Israele?
Il mio cuore si impietosisce dentro di me e s'è risvegliata tutta la
[ mia compassione ;
non voglio agire secondo il furore della mia collera, non distrugge-
[rò più Efraim:
perché io sono Dio, non un uomo, il Santo in mezzo a te...»
(Os. u , 8 s.)
ISAIA E MICHEA
2. L'anno di morte del re Ozia non si può determinare con precisione; forse è il
735 a.C. come sostiene lo Jepsen.
i78 Isaia e Michea
3. 2 Reg. 18,13-16. Per le divisioni territoriali che seguirono, cfr. A. Alt, 11, 242.
4. Ciò risulta già dall'uso dei termini «giustizia» e «diritto» che hanno una fun-
Isaia e Michea
179
è a posto di fronte a Dio dal modo in cui essa tratta il diritto di-
vino. Il modo in cui si pratica il diritto è la prova eminente del-
la considerazione in cui si tiene Dio. Ond'è che la rappresenta-
zione di una Gerusalemme dai giudici irreprensibili e quella di
un Unto garante del diritto appartengono al nucleo principale
della predicazione d'Isaia (Is. 1,26; 11,3 ss.). Il diritto di Dio si
configura in Isaia come il bene supremo della salvezza. Il lettore
moderno deve tener presente che a quel tempo l'amministrazio-
ne della giustizia non competeva a magistrati di professione, ma
era affidata alla responsabilità del vasto pubblico dei cittadini.
Tutto questo - si pensi anche al grido 'obbedienza, non sacrifi-
cio' (Is. 1,10-17) - ricorda molto da vicino, come abbiam detto,
i temi di Amos e anche di Michea5. Eppure tale zelo di Isaia per
il diritto divino mostra anche alcuni aspetti che non si ritrovano
in Amos. Già le immagini dianzi ricordate della rinnovellata cit-
tà di Dio e del regno dell'Unto fanno intendere che per Isaia
il diritto di Dio ha un valore specifico non in sé, bensì in con-
testi più ampi di natura politica. In molti enunciati di Isaia si
esprime un pensiero politico singolarmente vigoroso, vale a dire
un interesse per le forme politiche adeguate alla comunità fon-
data da Jahvé e per le cariche necessarie al loro funzionamento6.
Il profeta non pensa affatto in termini di anfizionia; per lui il popo-
lo di Dio è anzitutto una polis: il rinnovamento escatologico di Ge-
rusalemme è appunto il rinnovamento di una polis con tutte le
zione centrale nel messaggio di Isaia: fdàqà (sedeq): Is. 1,21.26.27; 5,7.16.23;
9,6; 10,22; 28,17; fitiìpàt: Is. 1,17.21.27; 4,4; 5,7.16; 9,6; 10,2; 16,5; 28,6.17.
5. Isaia e Michea sono particolarmente vicini nella polemica contro l'economia
latifondiaria del ceto superiore di Gerusalemme che spogliava i contadini delle
loro proprietà ereditarie concentrandoli nelle sue mani {Is. 5,8; Mi. 2,1-5). Mi-
chea però si distingue da Isaia in quanto prevede la cancellazione totale di Geru-
salemme dalla storia {Mich, 1,5; 3,12) e da buon giudeo di campagna attende
dalla comunità di Jahvé la restaurazione degli ordinamenti patriarcali giuridica-
mente legati al possesso della terra. Per Mich. 2,1-5 v - A. Alt, i n , 373 ss. Per la
storia delle tradizioni in cui sono radicati questi motivi, cfr. W. Beyerlin, Die
Kulttraditionen Israels in der Verkundigung des Propheten Micha (1959).
6. Chi volesse studiare ramministrazione e le cariche pubbliche della Gerusalem-
me di allora troverebbe in Isaia materiale importante: giudici: Is. 1,26; 3,2; capi
(qasin): Is. r , i o ; 3,6 s.; 22,3; governatori (ndgéi): Is. 3,12; prefetto del palazzo
('al habbajit): Is. 22,15; intendente (sdkén): Is. 22,15; principe {iar): Is. 1,23;
3,3.14; patrono ('ab): I J . 9,5; 22,21.
i8o Isaia e Michea
Isaia e Michea 0
lol
della sua chiamata il profeta ha appreso da Dio che il suo com-
pito sarà di «render fiacco» il cuore di questo popolo, di indu-
rire le sue orecchie, di «incollare» i suoi occhi per modo che es-
si «sentano con le loro orecchie e non comprendano nulla, ve-
dano coi loro occhi e non capiscano nulla» (Is. 6,9 s.). È però
giustificato chiedersi se questo oracolo nella forma in cui lo leg-
giamo non provenga già in qualche modo da un'esperienza, se
cioè non abbia assunto questa formulazione radicale già a una
certa distanza dalla chiamata, quando Isaia poteva ormai valuta-
re in certa misura il risultato della propria azione. D'altro canto
si sono fatte giustamente notare le singolari rispondenze fra Is.
6 e 1 Reg. 22,21 e si è parlato addirittura di un racconto tipico
dell'invio7. In tal caso si dovrebbe ammettere che proprio il mo-
tivo dell'induramento sia pervenuto a Isaia dalla tradizione pro-
fetica. In ogni caso il motivo dell'induramento in Isaia ha un ri-
lievo così spiccato che dobbiamo pur cercare di definire la sua
giusta collocazione nel più vasto ambito dello jahvismo. La que-
stione si presentava relativamente semplice per taluni esegeti i
quali si richiamavano al fatto (di per sé incontestabile) che
quanto più si rigetta la parola di Dio tanto più si riduce la fa-
coltà di ascoltarla e di intenderla: «La consapevole trascurànza
della verità divina, l'abitudine di non ascoltare gli ammonimen-
ti di Dio rende necessariamente insensibili all'agire di lui» 8 . In-
somma il non potere rappresenterebbe la punizione del non vo-
lere. Ora tale interpretazione dell'idea di induramento deve es-
sere contestata: la sua validità dipende da quella della sua pro-
tasi e diventa poi una verità religiosa di ordine generale che
trova sempre nuova conferma nell'ampia sfera della religiosità.
Si tratterebbe, in altre parole, non più di un evento, ma di un
processo razionale perfettamente spiegabile come fenomeno psi-
cologico. Si potrebbe allora dire che il profeta col suo annuncio
«esegue un rigido principio morale»9. In realtà l'interpretazione
7. W. Zimmerli, Ezechiel (BK) 19; J. Engnell, The Cali of Isaiah (1949) 26.
8.Eichrodt, i n , 112; analogamente O. Procksch, Theologie des Alten Testaments
(1950) 616; H. Schultz, Alttestamentliche Theologie P1896) 465; J. Seierstad,
Die Offenbarungserlebnisse des Propheten Amos, Jesaia und geremia (1946) 126.
9. H. Schultz, op. cit., 465. F. Hesse intende la concezione dell'induramento co-
j g 2 Isaia e Michea
io. Ex. 4,21 (J); 9 , " (P); 10,1 (J).20 (E).2 7 (E).
u . C f r . anche Ex. 7,5 (P); 11,9 (P); i 4 , 4 ( J ) - i 7 ( P ) '
Isaia e Michea
184
Stupite e meravigliatevi,
chiudete gli occhi e accecatevi,
siate ubriachi, ma non di vino;
barcollate, ma non per l'alcool:
poiché Jahvé ha diffuso sopra voi
uno spirito di torpore.
12. Cfr. sopra pp. 114 ss. 13. Così F. Hesse, op. cit., 72.
Isaia e Michea 185
I.vostri occhi, egli li chiuse,
sulle vostre teste egli ha posto un velo...
...per questo io continuerò a operare per questo popolo
in modo cosi meraviglioso, con tali prodigi,
che la saviezza dei savi perirà,
e l'intelligenza dei suoi intelligenti scomparirà» (Is. 29,9-14).
«Per questo io continuerò a operare per questo popolo» dice
Jahvé. L'induramento è quindi per Isaia un particolare momen-
to del rapporto storico fra Jahvé e Israele. In realtà Isaia (sarà
uno dei nostri compiti principali dimostrarlo nella parte che se-
gue) parla sempre dell'azione, di un'opera del suo Dio: e se a
questo proposito la prima cosa che egli ha da dire è l'annuncio
dell'accecamento di Israele, essa non è però l'ultima.
Questo significa che dobbiamo abituarci o riabituarci a consi-
derare la profezia dell'induramento nella prospettiva della bisto-
rta salutis. Chi invece pretende di spiegarla in termini di psico-
logia o di storia della pietà religiosa o chi vede in essa soltanto
una punizione, deve per forza giudicarla come il momento con-
clusivo di un processo che si svolge secondo una sua legge im-
manente. Ciò contrasta già coi semplici dati testuali di Isaia do-
ve l'induramento di Israele appare sempre paradossalmente, ma
distintamente, all'inizio di un ciclo di storia della salvezza. Al
principio, al momento della sua chiamata, Isaia ha ricevuto que-
sto annuncio e in Is. 8,17 egli afferma, con un paradosso totale,
di sperare proprio in questo Dio che acceca; ancora una volta
quindi l'induramento di Israele è un evento dal quale il profeta
può spingere il suo sguardo verso il futuro. Le cose non stanno
diversamente in Is. 30,8 ss.: il fatto che nessuno vi porga ascol-
to (di questo abbiamo già parlato) non significa affatto che il
messaggio profetico sia fallito. L'annuncio, di fronte al quale si
è indurita Gerusalemme, dev'essere scritto «per un giorno fu-
turo». In quel giorno, pensa il profeta, si avvererà tutto quel
che è passato per le orecchie dei suoi contemporanei senza la-
sciare traccia. Gli è che in Isaia tutto è proteso verso il futuro,
anche l'annuncio dell'induramento di Israele prodotto dal pro-
feta stesso14.
i. Sion
Poco fa abbiamo accennato di passaggio all'invito di Dio; ve-
diamo ora di specificare brevemente che cosa tale invito signifi-
casse per Isaia. Chi svolge il messaggio di Isaia già a priori de-
ve chiedersi quale tradizione il profeta, cittadino di Gerusalem-
me, possa aver seguito e ricordarsi del particolare stato di quel-
la città che, per essere entrata relativamente tardi nell'orbita
cultuale dello jahvismo, era storicamente radicata in una tradi-
zione autonoma15. In effetti il messaggio del profeta dà una ri-
sposta ben precisa a questo problema. Nei lunghi anni del suo
ministero Isaia ha variamente atteggiato il suo annuncio a se-
conda delle circostanze e della cerchia di persone alle quali do-
veva rivolgersi, ma ha costantemente preferito una forma parti-
colare, potremmo dire uno schema, al punto che se si vuol com-
prendere questo profeta giova prendere le mosse appunto da
quella forma. Se nella struttura delle varie unità compositive il
lettore moderno avverte poco lo schematismo è perché Isaia sa
variare con stupefacente abilità i singoli elementi. L'andamento
di queste unità compositive segue una linea che si può cogliere
nettamente, come in un modello, in Is. 17,12-14: una marea ru-
moreggiante di popoli si agita contro Sion, ma Jahvé interviene
minacciandoli e allora essi fuggono lontano: «Sul far della sera
ecco l'orrore e prima del mattino non ci sono più». È notevole
come i popoli cui si accenna qui non siano storicamente precisa-
bili; essi appaiono piuttosto come una massa informe e ondeg-
giante senza alcun profilo politico (tale rappresentazione si av-
vale anche di motivi tratti dal mito della lotta contro il dragone
del caos). Anche la difesa non appare però in alcun modo come
un'azione militare: essa si compie in maniera affatto prodigiosa,
senza spettatori, fra la sera e il mattino; soltanto dopo ci si ac-
corge con stupore della salvezza intervenuta. Questa pericope è
stite da esso finché «il nemico alza la sua mano sul monte della
figlia di Sion». A questo punto Jahvé entra però in scena con
terrificante potenza»; i nemici «sono annientati da un intervento
affatto personale di Dio e non, come ci si aspetterebbe, in una
battaglia. Ma anche in questo caso la salvezza giunge all'ora e-
strema: il territorio giudaico è già stato invaso e solo davanti a
Sion la potenza nemica viene infranta. Questa certezza dell'in-
tervento salvatore di Jahvé sorregge Isaia anche nell'insurrezio-
ne del 720 quando egli sbriga gli ambasciatori inviati di certo
a perorare la partecipazione alla rivolta con la tranquilla rispo-
sta: «Jahvé ha fondato Sion; in essa trovano rifugio i miseri del
suo popolo» (Is. 14,28-32). Vicina nel contenuto e nel tempo a
questa pericope è la predizione che l'Assiria sarà piegata nella
sua stessa terra (Is. 14,24-27). Dell'epoca più tarda, quando il
profeta attendeva l'attacco di Sennacherib, abbiamo soltanto tre
variazioni più o meno compiute dello schema prestabilito con
tutte le sue varie parti. La grande invettiva contro Ariel (Is. 29,
1-8) già all'inizio esprime una visione quanto mai paradossale:
Jahvé stesso si leverà contro Sion («circonderò Ariel d'assedio...
e farò delle trincee tutto intorno»). Qui naturalmente il centro
dell'attenzione risulta spostato, giacché a questo punto l'avveni-
mento comporta un'estrema umiliazione di Sion (v. 4); ma subi-
to dopo ecco la svolta misericordiosa: Jahvé interverrà con la
tempesta e la bufera e gli assalitori saranno come pula che il ven-
to trasporta e come sabbia. In questo caso dunque Jahvé è per-
sonalmente presente nell'attacco che i nemici sferrano contro
Sion ma in un secondo tempo si rivolge contro questi stessi ne-
mici:
In Isaia il motivo della fede può parere singolare, ossia non inserito
in una tradizione. La realtà è invece opposta giacché proprio in que-
sto caso è particolarmente evidente che Isaia rinnova un'antica tradi-
zione. Occorre solo tener presente come Isaia risenta in larga misura
di motivi connessi con le antiche tradizioni delle guerre sante di Tah-
ve. Così, come un tempo Jahvé era intervenuto a queste guerre ve-
nendo da lontano (Iud. 5,4 s.) così egli «scenderà in combattimento
sulla montagna di Sion»; e come egli un tempo tutto solo e senza la
cooperazione umana aveva alienato i nemici, così «Assur cadrà di spa-
da che non è di uomo, colpito da una spada che non è di un morta-
le» (Is. 3i,4 b .8). Jahvé interverrà, farà risonare la sua voce e condur-
rà la battaglia «con la tempesta, l'acquazzone e la grandine» (Is. 30,
30); egli visiterà Sion «con tuono, terremoto e grande fragore, con
turbine e tempesta» (Is. 29,5). Proprio come una volta nella *otta
Isaia e Michea
190
contro i Cananei aveva fatto cadere le pietre dal cielo (Ios. 10,1 r) e
come nella battaglia coi Filistei aveva tonato con possente fragore (1
Sam. 7,10) e fatto tremare la terra (1 Sam. 14,15) così avverrà, secon-
do il vaticinio di Isaia, anche alla sua manifestazione escatologica. A
queste antichissime tradizioni dell'intervento salvifico di Jahvé si rial-
laccia anche il motivo della fede. Abbiamo già detto come esso abbia
parte nel racconto della lotta di Gedeone contro i Medianiti senza
però che venga usato il vocabolo 'fede' (lud. 7). Nel racconto del
prodigioso passaggio del Mar delle Canne si trova (e pare quasi una
prefigurazione. di Is. 7,1 ss.) non solo l'invito a «non temere» e a
«mantenersi calmi» nell'attesa dell'aiuto imminente, bensì anche,
quasi a sottolineare l'esito di quell'esortazione, l'affermazione che
Israele allora aveva «creduto» a Jahvé (Ex. 14,31). Non vi può quin-
di essere dubbio che Isaia al tempo suo abbia rinnovato con gran
vigore la concezione di Jahvé guerriero che salva, ma richiede la fe-
de. Soltanto non si può pensare che nel far ciò Isaia si sia ricollega-
to direttamente a concezioni dell'età dei giudici. In realtà egli si è ri-
fatto a idee e rappresentazioni che si erano fissate all'inizio dell'età
monarchica. Di ciò è caratteristico il modo di intendere la guerra san-
ta quale puro miracolo: l'intervento liberatore di Jahvé è pienamen-
te autonomo e non ammette alcuna cooperazione umana17.
17. Cfr. per questo von Rad, Der Heilige Krieg im alien Israel (1952) 42 ss. 56 ss.
Sion 191
18. Quando si pone il problema se questo richiamo profetico alla «calma» si deb-
ba considerare utopico giudicando col metro del realismo politico (così già E.
Troltsch, Das Ethos der hebràischen Propheten = Ges. Schriften iv [1924] 36 e
soprattutto F. Weinrich, Der religios-utopische Charakter der 'prophetischen Po-
litik' [1932] 15.118 e passim) o se invece, come sostiene O. Procksch nel suo
commento esso avesse una giustificazione anche nella concreta realtà politica, ci
si avvale di criteri affatto estranei al profeta. Si vuole infatti stabilire secondo un
modo di vedere affatto neutrale se il suo richiamo fosse praticamente attuabile.
Posta in questi termini la questione è insolubile per noi che non possiamo più
abbracciare nel suo complesso il gioco delle forze politiche e militari di quel
tempo. Naturalmente per Isaia «mantenersi calmi» era anche politicamente l'at-
teggiamento più avveduto, ma solo perché l'aveva ordinato Jahvé. Anche se aves-
se ragione E. Wiirthwein quando sostiene che Isaia considerava un'infedeltà ver-
so Jahvé soltanto la richiesta di aiuto all'Assiria, ma non per questo escludeva
ogni azione militare, anzi esortava a intraprendere la lotta con intrepida serenità
- anche se avesse ragione, dico, non cambierebbe nulla di essenziale giacché, co-
munque sia, secondo tutti i testi relativi di Isaia, Jahvé aveva promesso di as-
sumersi l'onere della difesa di Sion. Ma poiché già la tradizione anteriore a Isaia
tendeva a estromettere sempre più ogni lotta umana e poiché Isaia non parla
mai di un tale cimento, ma anzi in talune affermazioni estreme ha rimesso ogni
cosa all'intervento di Jahvé, la tesi del Wiirthwein mi sembra assai poco proba-
bile (E. Wiirthwein in: Theologie als Glaubenswagnis, Festschrift fùr Karl
Heim, 47 ss.). Cfr. a questo proposito anche H.-J. Kraus, Prophetie und Polttik
(1952); K. Elliger, Propbet und Politik: ZAW 53 (1935) 3 ss.
Isaia e Michea
192
19. Solo una volta, a .quanto pare, Isaia ha trattato in maniera teoretica e didat-
tica, del governo storico di Dio svolgendo un discorso piuttosto di principio, os-
sia in Is. 28,23-29. Sempreché si possa interpretare questo testo come una sorta
di parabola che si riferisce a un ordine sovrasensibile ossia appunta a Jahvé e al
modo suo di governare la storia. Ma forse non bisogna sorvolare sul fatto che il
testo non suggerisce in alcun modo un'interpretazione non letterale. Nelle Geor-
giche di Virgilio vi è una parte (5,35 ss.) che descrive i lavori dell'agricoltore nel-
le varie stagioni senza trascurare un richiamo alla divinità che ha insegnato agli
uomini la coltivazione. Il testo virgiliano si distingue da Is. 28,23 ss- soltanto per
le sue dimensioni esteriori eppure nessuno l'ha mai inteso in senso figurato.
Sion
195
Isaia lo ha detto chiaramente e non una sola volta; tuttavia egli
non ha mai considerato questo fatto in maniera del tutto univo-
ca, e meno che mai quando, forse nella sua giovinezza, dalla ve-
nuta degli Assiri egli attendeva quasi soltanto una condanna de-
vastatrice e una salutare correzione per Giuda (Ir.7,18.20). D'al-
tronde questo cupo rovescio dell'opera salvifica di Jahvé non è
mai scomparso del tutto dalla mente del profeta. Più tardi esso
ritorna in primo piano; così ad esempio nell'invettiva contro
Ariel dove, come già abbiamo veduto, Jahvé stesso appare come
colui che assale e minaccia Sion. Vi saranno allora «dolore e la-
mento» e Gerusalemme diverrà simile a uno «spettro» la cui
voce fioca «risonerà soffocata dalla polvere». Tanto dura sarà
l'umiliazione che precede la salvezza (Is. 29,2.4). In questo caso
l'opera di Jahvé assume una singolare ambivalenza teologica; es-
sa condanna Gerusalemme e insieme la salva. In maniera ancor
più risoluta Isaia esprime questo concetto rivolgendosi ai mag-
giorenti di Gerusalemme i quali hanno creduto di poter fare del-
la «menzogna il loro rifugio» per «trincerarsi nella frode»:
22. Per il messaggio dei profeti come tradizione vivente cfr. sopra pp. 65 ss.
Isaia e Michea
200
2. L'Unto di Jahvé
Se il messaggio di Isaia avesse come unico tema la minaccia
incombente su Sion e la difesa della città da parte di Jahvé esso,
pur variando con stupefacente abilità ed elasticità la concezione
di fondo, apparirebbe esemplarmente coerente e unitario. In
realtà accanto al tema di Sion vi è nel messaggio di Isaia un al-
tro motivo che materialmente ha certo un risalto molto minore,
ma si esprime tuttavia in testi importanti e di ampio respiro: vo-
gliamo dire il motivo messianico-davidico. Già al tempo di Da-
vide si era formata la convinzione che Jahvé avesse confermato
il trono del re e avesse fatto a lui promesse grandiose23. Ci si po-
trebbe però chiedere sino a che punto queste idee fossero acqui-
site dalla fede comune del popolo. Nel Deuteronomio, ch'è cer-
tamente posteriore a Isaia, troviamo ancora una teologia che è
impostata in senso anfizionico, ossia nettamente non monarchico
e non messianico. Quale fosse a questo proposito il pensiero dei
contadini e dei pastori che abitavano il mezzogiorno del paese
non sappiamo, ma nella città del re e dei funzionari, Gerusalem-
me, vigeva di certo quella teologia improntata alla sacralità del-
la monarchia ed è in questo ambiente che, con ogni probabilità,
è vissuto Isaia. Noi conosciamo questa teologia soprattutto dai
cosiddetti salmi regali, non però in maniera così precisa che da
un confronto fra questi ultimi e i testi di Isaia, per quanto con-
cerne, poniamo, la particolare accentuazione dei singoli motivi,
si possano trarre conclusioni di vasta portata.
In Is. 11,1-8 il tema messianico si articola in tre parti. Nella pri-
ma si descrive l'investitura dell'Unto (vv. 2-3*). Non un carisma
(come era avvenuto sino allora in Israele), bensì una pluralità di ca-
rismi conferiscono all'Unto la pienezza dei poteri. Quando Isaia di-
ce che lo spirito «poserà» sull'Unto probabilmente vuole escludere
la possibilità di un possesso soltanto temporaneo dello spirito, co-
24. Soltanto così si comprende perché Isaia parli della radice di lesse. Diversa-
mente sarebbe stato ben più naturale parlare della stirpe di Davide. Che Isaia
attendesse un nuovo Davide, non si può ricavare con sicurezza da Is. n , i ; ma
poiché tale attesa è esplicitamente attestata in Geremia (30,9) e in Ezechiele (34,
23) e poiché anche il contemporaneo di Isaia, Michea, rivolge la sua attenzione
a Betlemme e non a Gerusalemme, è giustificato supporre che anche Isaia pen-
sasse a un ritorno di Davide.
Isaia e Michea
202
tano persone3. Essi potevano dire 'io' in una guisa che sino allo-
ra era inaudita in Israele. Ma è altresì chiaro che l"io' di cui
questi profeti prendono coscenza è ben diverso dal concetto no-
stro di personalità. Si pensi che questo 'farsi io' si accompagna
anzitutto alla varia e singolare esperienza di una coercizione e
che una almeno delle sue caratteristiche - basti pensare allo «sta-
re tranquilli» richiesto perentoriamente da Isaia come esigenza
della fede r- è addirittura una sorta di passività, un limitarsi a
guardare Dio agire lasciandogli ogni iniziativa4. Eppure proprio
questa esperienza e questa disposizione ha aperto al profeta uno
spazio sempre maggiore di libertà. Ond'è che il profeta poteva
anche prorompere in un «moto di esultanza nello spirito», co-
m'è il caso di Michea quando, in un meraviglioso trabocco del
suo carisma, divenne consapevole del suo 'essere altro':
Io invece sono ripieno di forza, dello spirito di Jahvé,
di giustizia e di forza
per annunciare a Giacobbe il suo delitto
a Israele il suo peccato (Mich. 3,8).
La consapevolezza del proprio io acquisita dal profeta, il suo
farsi individuo - solitario individuo - religioso si esprime anzi-
tutto nel suo stile, nel modo in cui egli discorre di Dio e delle
cose divine. Parlando di Dio per secoli e secoli con accenti di
somma riverenza Israele aveva creato una lingua del culto, ave-
va coniato e reso convenzionali certe espressioni; pur tuttavia
qualche volta in Israele si potè parlare di Jahvé anche al modo
che questi profeti prediligevano, ossia con paragoni che fanno
rizzare i capelli e, in apparenza, senza alcun senso di dignità e
di decoro5. Si tratta di ispirazioni ad hoc, di formulazioni indi-
viduali con intento provocatorio il cui radicalismo e la cui estre-
ma audacia si spiegano soltanto con una situazione unica e irri-
petibile e con la particolare disposizione degli ascoltatori.
12. Fra i due logia vi è però una piccola differenza: nel primo Jahvé chiama e lo
sciame di mosche arriva e si diffonde. Nel secondo Jahvé si fa prestare il rasoio
e agisce da solo. Qui scompare dunque anche l'ultima traccia di 'sinergismo'.
Nell'invettiva contro Ariel (Is. 29) Jahvé è contemporaneamente colui che attac-
Gli elementi nuovi nella profezia deWVIll secolo 21",
ti distintivi del profeta si possono cogliere solo se si pon mente alla sua dispo-
sizione verso la tradizione (v. più avanti pp. 351 ss.).
Gli elementi nuovi nella profezia dell'VHI secolo 221
17. Il significato di hasnèa' non si può stabilire con sicurezza. Pare che il voca-
bolo appartenga al linguaggio sapienziale (Ecclus 16,25; 35,3) e si avvicini al
concetto di 'moderato', 'misurato'. Anche J.H. Stoebe nel suo studio 'Una de-
mùtig sein vor deinem Gott': Wort und Dienst, Jahrbuch der theol. Schule Be-
thel (1959) 180 ss. colloca il termine soprattutto nel linguaggio sapienziale e lo
traduce «essere giudizioso, prudente».
18. La formulazione negativa è conforme allo stile da 'specchio della penitenza':
cfr. v. Rad, Ges. Stud. (1958) 292.
222
Gli elementi nuovi nella profezia dell'VIII secolo
Jahvé non ha nascosto il suo volto (Is. 8,17), da coloro che han-
no creduto. Una volta Isaia chiama coloro che trovano rifugio in
Sion «i poveri del suo popolo» (Is. 14,32).
Ma i profeti delFvin secolo mossero soltanto i primi passi in
questa direzione teologica. Quelli che verranno dopo procede-
ranno oltre su questa via e in particolare tratteranno più diffusa-
mente il problema della nuova obbedienza di Israele. Essi ripren-
deranno i motivi ormai tradizionali e li amplieranno a modo lo-
ro; ma oltre a ciò arricchiranno il messaggio profetico di nuovi
temi che non entravano ancora nell'orizzonte ideale della profe-
zia dell'vili secolo.
CAPITOLO QUARTO
L'ETÀ DI GEREMIA
5. V. più avanti pp. 310 ss. 316 ss. Cfr. anche voi. 1, pp. 441 s.
Geremia 227
2. Geremia
La vocazione profetica di Geremia risale all'anno 627/26 e si
trova, sintomaticamente, ancora una volta in stretta connessione
con eventi della politica mondiale, con un disastro che minaccia la
Palestina dal nord (Ier. 1,13 ss.). Non è certo che si tratti già dei
Neobabilonesi che con Nabopolassar si erano resi indipendenti
dall'Assiria nel 625 a.C. Effettivamente l'area mesopotamica era
in pieno fermento per la sconfitta degli Assiri e la comparsa sulla
scena degli Sciti e dei Medi. Fin dal primo istante della sua esi-
stenza profetica questo nemico dal nord è stato determinante per
la profezia di Geremia e tale restò fino alla fine, con tutte le an-
gustie politiche causate dai Babilonesi negli anni seguenti. Que-
sto è uno dei fattori da cui dipende la profezia di Geremia. L'al-
tro non è di natura politica, ma storico-tradizionale. Geremia
nacqucda una famiglia sacerdotale di Anatot. Era qui che la sua
gente si era stabilita (Ier. 32,6 ss.). Benché il villaggio si trovasse
solo pochi chilometri a nord-est di Gerusalemme, pure esso ap-
parteneva già alla tribù di Beniamino. Ora Beniamino era figlio
di Giacobbe e Rachele, ma se questa e non Lea era l'antenata di
Geremia (Ier. 31,15), possiamo allora senz'altro presumere che
tanto in Beniamino come in Efraim si tramandassero quelle tra-
dizioni dell'esodo e del patto sinaitico che dobbiamo distinguere,
in quanto specificamente israelite, dalle tradizioni giudaiche. Una
volta che si sia imparato ad osservare tali distinzioni storico-tra-
dizionali, allora s'incontra in Geremia un mondo teologico diver-
so, ad es., da quello d'Isaia. In Geremia manca del tutto quella
9. Talora anche oggi queste composizioni poetiche sono chiamate 'canti degli Sci-
ti' benché sia sempre andato crescendo il dubbio che esse possano in qualche
modo collegarsi al racconto semileggendario di un'incursione degli Sciti in Pale-
stina (tra il 630 ed il 625 a.C.) di cui abbiamo notizia soltanto in Erodoto I.IOJ.
Per la questione cfr. O. Eissfeldt, 'Das Skythenproblem' in: Die zwolf kleinen
Propheten (HAT 1 14 [19542] 188 s. e W. Rudolph, Jeremia (HAT [19582] 44 s.
Pertanto non è più certo a quali nemici pensi Geremia: forse egli si è atteso un
imorovviso attacco neobabilonese in Palestina.
Geremia
231
10. Ben diversamente stanno le cose per il discusso rapporto di Geremia con il
Deuteronomio. È improbabile che Geremia possa aver preso nettamente posizio-
ne contro la raccolta e la 'codificazione' dell'antica tradizione della volontà di
Jahvé verificatesi nel Deuteronomio. Secondo H.H. Rowley, Studies in O.T. Pro-
phecy (1950) 157 ss. al consenso iniziale di Geremia si sostituì in seguito un cer-
to atteggiamento critico.
234 L'età di Geremia
tico ci è riportato tanto dalla fonte dei detti che dalla fonte nar-
rativa. Non si tratta però di una coincidenza casuale perché tutta
la tradizione di Geremia è caratterizzata appunto da questo sci-
volamento d'interesse dal messaggio al messaggero. Anche i pro-
feti seriori saranno stati certamente oggetto di ostilità e non una
sola volta. Forse nel caso di Geremia il pericolo era più grave,
ma non è solo questo l'elemento decisivo; decisivo era piuttosto
il mutamento verificatosi nella concezione della natura del profe-
tismo e con questa diversa concezione cominciò a crescere sem-
pre più l'interesse per la persona del profeta, per la sua vita oltre
che per il suo messaggio, per le vicende in cui questo lo condu-
ceva. Ci si cominciò ad accorgere che i due aspetti, la vita e la
predicazione, erano strettamente, organicamente connessi. Abbia-
mo un ottimo esempio di questa nuova situazione in ler. 19,1-
20,6 ". Geremia aveva rotto davanti ad alcuni uomini un otre
di terra dicendo che proprio così Jahvé avrebbe infranto la città
e il popolo. Il racconto però continua e c'informa - non certo
per mano di un redattore, con un intervento letterario, ma nel
contesto del racconto originale - come Geremia sia stato picchia-
to da Pasur, capo delle guardie, per le cose dette ed abbia poi
passato la notte in catene.
Se, dal punto di vista della forma, il discorso del tempio era
un'esortazione diretta ad un popolo che voleva cullarsi in una
sicurezza illusoria, pure nella sua conclusione lascia aperta una
sola prospettiva, quella del rifiuto. I versetti immediatamente
seguenti negano infatti al profeta persino l'intercessione perché
Jahvé respingerà via da sé «la generazione oggetto del suo furo-
re» {ler. 7,29) e chi sarà scampato alla catastrofe desidererà la
morte {ler. 8,3). Geremia ha così fatto risuonare una nota con
una violenza assolutamente sconosciuta alla sua prima predicazio-
ne. Similmente anche la preghiera liturgica in occasione della gran-
de siccità termina, nonostante tutte le implorazioni e gli appelli alla
misericordia, con una tremenda parola di giudizio {ler. 15,1 ss.).
L'oracolo dei boccali dice che sarà Jahvé stesso a riempire di
ubriachezza tutto il popolo, sacerdoti profeti e re, così che fini-
12. Ier. 25,15-38; 46-51. Invece gli oracoli contro Babilonia {Ier. 50 s.) sono cer-
tamente posteriori al profeta.
236 L'età di Geremia
13. Secondo Ier. 47,2 il nemico viene dal nord; Nebucadnetsar è nominato solo
in 49,30.
14. Per le esortazioni alla lotta od alla fuga v. sopra p. 55 n. 6.
Geremia 237
20. P. es., JET. 7,25; 26,5; 28,8. Per H.J. Stoebe, op.cit., 122 s. la frase «mi si
presentarono le tue parole ed io le divorai» (Ier. 15,16) non riguarda la diretta
ricezione della parola di Dio da parte del profeta stesso, ma la familiarità di
Geremia con la parola di Dio contenuta nel messaggio dei profeti precedenti.
L'età dì Geremia
244
21. H. Kremers, Leidensgemeinschaft mit Goti im A.T.: EvTh 13 (1953) 122 ss.;
L. Rost, Zur Problematik der Baruchbiograpbie in: Meiserfestschrift (1951) 241 ss.
22. «Così Geremia entrò nella cisterna fatta a volte e vi rimase molti giorni»
agli eventi concreti che si succedono nel tempo e nello spazio. È
probabile che chi narra con tanta precisione le stazioni della via
crucis di Geremia abbia seguito molto da vicino quegli eventi e
non si può quindi dubitare dell'accuratezza del suo racconto. Che
possiamo però dire circa le idee del narratore? Per quale scopo
ha raccontato per iscritto questa storia? Che cosa voleva provare
fornendo un documento così preciso, esauriente ed ampio? Ef-
fettivamente non si può certo dire che l'autore non abbia cerca-
to d'informare il lettore sulla causa specifica di tutte le sofferenze
di Geremia. Geremia era notoriamente convinto che in quel tem-
po Dio volesse apportare, mediante Nebucadnetsar, cambiamen-
ti decisivi alla situazione politica mondiale e che quindi anche
Giuda sarebbe stato sottoposto all'autorità del gran re babilone-
se {eh. ler. 2j,5 s.). Di conseguenza in quei mesi in cui la mi-
naccia babilonese era più che mai incombente Geremia non po-
teva vaticinare altro che la sicura caduta di Gerusalemme (lerj
37,8.17; 38,3; cfr. 34,2) e consigliava di capitolare senza indu-
gi (ler. 38,17). Questa convinzione, che Geremia "tìon si peritò
di esporre pubblicamente, fu dunque la causa dellìs sofferenze
del profeta perché i nazionalisti gerosolimitani non \ pensarono
di poter sopportare un uomo con tali convinzioni. La descrizione
delle varie sofferenze incontrate da Geremia è talora di un rea-
lismo raccapricciante e non è mai illuminata, non diciamo da un
miracolo, ma nemmeno da una parola divina di conforto. Il nar-
ratore non può parlare d'una mano divina che guida gli eventi:
nessun corvo nutre il profeta affamato, nessun angelo chiude le
fauci ai leoni. Il profeta è abbandonato assolutamente inerme ai
suoi nemici: egli non riesce a muoverli né con le parole né con
le sofferenze. Particolarmente opprimente è l'assenza assoluta di
una qualche conclusione felice o almeno promettente. È questo
un conseguimento veramente eccezionale per uno scrittore an-
tico che nell'antichità si sentiva profondamente l'esigenza del lie-
to fine, dell'ordine cui alla fine le cose dovevano tornare. Il cam-
mino di Geremia si perde nell'afflizione senza che il racconto
(ler. 37,16); «così Geremia restò nella corte di guardia» (37,21; 38,13.28); «e
Geremia si recò a Mispa da Godolia e restò presso di lui» (40,6). Cfr. Kremers,
op. cit., 131.
246 L'età di Geremia
23. Come esempio di una concezione antitetica cfr. ^esaltazione a eroi dei martiri
in 2 Mach. 7. 1
24. H. Kremers, op.cit., 132 ss.; A. Weiser, Das Gotteswort fiir Baruch, Ier. 45
und die sog. Baruchbiographie in: Festschrift fiir K. Heim (1954) 35 ss.
ria la sua propria opera, l'uomo non può certo attendersi giorni
sereni; non fa meraviglia se il profeta e coloro che gli stanno in-
torno vengono implicati in questa irruzione devastatrice divina
in modo affatto particolare. Baruc segue dunque scrupolosamen-
te tutti i particolari di questa via dolorosa proprio perché la ca-
tastrofe in cui è coinvolto Geremia non è casuale, ma rappre-
senta la manifestazione del giudizio divino e perché qui un uomo
partecipa in maniera unica alla sofferenza divina25.
25. Perfino se l'inserimento del cap. 45 non dovesse rispondere ad un preciso in-
tento programmatico di Baruc (lo si potrebbe, infatti, considerare benissimo
un'aggiunta più casuale poiché l'evento narrato in ler. 45 accadde comunque ven-
ti anni prima degli avvenimenti raccontati nei capitoli precedenti) pure l'oracolo
divino conserverebbe intatto il suo significato per la narrazione di Baruc perché
esso determina con assoluta chiarezza la collocazione dell'uomo dentro la distru-
zione divina dell'opera storica: egli non può esserne fuori.
2 .g L'età di Geremia
2) deve aver provocato una grande confusione particolarmente nel tardo periodo
monarchico. A giudicare dai testi in questione era soprattutto il messaggio della
salvezza proclamato dai loro colleghi che appariva sospetto ai 'veri' profeti (r
Reg. 22,11 ss.; Mich. 3,5 ss.; Ier.6,14; 14,13; 23,9 ss.; 28,5-9; Ezech. 13,16). È
probabile che i falsi profeti profetizzassero cosi nell'interesse della religione di
stato (cfr. H.-J. Kraus, Prophetie uni Politik [1952] 41 ss. 53 ss.), ma neanche
questo è un criterio sicuro per distinguere gli uni dagli altri: la prechzione dei
'falsi' non era forse conforme alla fede d'Isaia? La 'falsità' del profeta non può
essere riconosciuta né dall'ufficio profetico in sé né dalle affermazioni in sé né
dalla discutibilità dell'uomo che le faceva; essa poteva esser vista allora soltanto
da chi aveva la vera e giusta visione dei piani di Jahvé per quel momento e che
pertanto in base a tale conoscenza negava l'illuminazione dell'altro. G. Quell,
op. cit.,66: «Chi cerca di screditare questi (Anania, l'avversario di Geremia) per
amore di Geremia ha perso il senso del vero e si muove in teoremi schematici».
250 L'età di Geremia
polo di Dio e perciò bisogna intercedere per lei presso Dio. L'ora
è cambiata: la preghiera per Babilonia è ora una preghiera per il
popolo di Dio giacché questo ha ancora un futuro nei piani di
Dio:
«Io so bene quali piani ho per voi, dice Jahvé: pensieri di salvezza e
non di sventura, per darvi futuro e speranza» (ler. 29,11).
«Così ha detto Jahvé, Dio d'Israele: Come questi fichi buoni, così
guardo io con occhio favorevole per il loro bene i deportati di Giuda
che ho fatti andare da questo luogo nel paese dei Caldei. Li riporte-
rò in questo paese, li stabilirò fermamente e non li demolirò, li pian-
terò e non li sradicherò più. Darò loro un cuore capace di riconoscere
che sono Jahvé: essi saranno mio popolo ed io sarò loro Dio perché
ritorneranno a me con tutto il cuore» {ler. 24,5-7).
28. La datazione del 'libriccino consolatorio per Efraim' (ler. 30 s.) è piuttosto
discussa. Il fatto che ler. 31,31 ss. risuoni immediatamente tanto in ler. 24,7 che
in ler. 32,37 ss. fa apparire verosimile che questa predizione appartenga all'ulti-
mo periodo di attività del profeta.
252 L'età di Geremia
Queste due pericopi sembrano quasi due Targum di uno stesso testo.
In .verità sono così vicini per il contenuto che non si può evitare la
tentazione di arricchire mediante il loro confronto l'interpretazione
di ler. 31,31 ss. I due brani mirano allo stesso risultato, ma differi-
scono non insensibilmente nella presentazione. Possiamo dire ben po-
co per quanto riguarda il loro rapporto letterario, ma è lecito affer-
mare che ler. 32,37 ss. non rappresenta semplicemente una copia o
un doppione di ler. 31,31 ss. perché il secondo testo (32,3755.) è
troppo indipendente nell'espressione e proprio nei punti centrali ha
una terminologia propria. Chi sostiene che ler. 32,3733. non sia au-
tentico di Geremia, potrebbe considerare il testo una specie di para-
frasi interpretativa, ma ugualmente i due testi non sono abbastanza
vicini per giustificare tale ipotesi. Bisogna inoltre tener presente che
neanche ler. 31,31 ss. contiene la redazione originaria di Geremia
perché gli oracoli divini sono di regola in poesia, mentre ler. 31,31
ss. è in prosa benché in alcuni punti traspaia ancora l'antico paralle-
lismo poetico. La soluzione più naturale del problema è quindi che
Geremia abbia parlato due volte, e in modi diversi, del nuovo patto,
ma che i due testi ci siano pervenuti soltanto in una rielaborazione
secondaria M.
31. Per quanto segue cfr. lo studio di H.W. Wolfì, Dos Thema Vmkebr' in der
dttestamentlichen Prophetie: ZThK 48 (1951) 129 ss.
32. Am. 4,6.8.9.10.11; Is. 9,12; 30,15.
33. Ier. 3,12.14.22; 18,11; 35,15.
256 L'età di Geremia
6. Nella misura in cui fin qui ci siamo imbattuti nelle radici sto-
rico-tradizionali della profezia geremiaca abbiamo constatato che
chiaramente il profeta è solidamente piantato e vive nella tradi-
zione dell'esodo e del Sinai e che questa base della sua predica-
zione è molto ampia. Tanto nella sua retrospettiva {ler. 2) che
nella visione profetica del futuro {ler. 31,31 ss.) Geremia mostra
di attenersi a quella tradizione, ma è ugualmente fuor di dubbio
che egli si sia rifatto anche alla tradizione messianica davidica.
In un contesto non del tutto chiaro dal punto di vista storico-
morfologico troviamo associata ad un rimprovero contro gl'inetti
pastori del popolo la seguente profezia:
Ecco, i giorni verranno, dice Jahvé,
quando susciterò per Davide un giusto germoglio
che regnerà da re e si comporterà da saggio
e praticherà nel paese il diritto e la giustizia.
Ai suoi giorni Giuda sarà salvato
e Israele abiterà in sicurezza
35. V. più avanti, pp. 314 ss. Questo caratteristico interesse profetico per, po-
tremmo dire, l'uomo escatologico che è giusto nel cospetto di Dio costituisce
anche lo sfondo di Soph. 3,11-13: Dio stesso allontanerà i superbi millantatori
«e tu non continuerai più a insuperbire sul monte della mia santità perché la-
scerò in mezzo a te un popolo umile e povero che cerca rifugio presso il nome
di Jahvé, il residuo d'Israele».
258 L'età di Geremia
37. qàrab è usato in 2 Sam. 15,5 in questa specifica accezione di cotte. È sinto-
matico che il verbo sia usato anche per indicare l'ingresso del 'figlio dell'uomo'
nel consiglio della corona del re del cielo (Dan. 7,13b). In questo contesto è as-
solutamente corretto che la predizione non parli del re, ma del 'dominatore'
(mòsél) perché il re è Jahvé. Cfr. anche Zach. 3,7b.
38. Iud. 6,23 s.; 13,22; h. 6,5. La profezia termina al v. 22 con l'antica formula
dell'alleanza, un segno di come tradizioni di provenienza completamente diversa
comincino ora a confluire insieme ed a confondersi.
CAPITOLO QUINTO
EZECHIELE 1
i.G. Fohrer, Die Hauptprobleme des Buches Ezechìel (1952); Id., Das Sympto-
matische der Ezechielforschung: ThLZ 83 (1958) 241 ss.; C. Kuhl, Neuere He-
sekielliteratur: ThR 18 (1952) 1 ss.; Id., Zum Stand der Hesekielforschung: ThR
22 (1956/57) 1 ss.; H.H. Rowley, The Book of Ezechìel in Modem Study:
Bulletin of the John Ryland's Library (1953/54) 146 ss.; W. Zimmerli, Das Got-
teswort des Ezechìel: ZThK 48 (1951) 249 ss.; Id., Ezechìel ein Zeuge der Ge-
rechtigkeit Gottes, Das A.T. als Anrede (1956) 37 ss.).
2.J.W. Miller, Das Verhàltnis Jeremias' und Hesekiels sprachlich und theolo-
gisch untersucht (1955).
3. Così V. Herntrich, Ezechielprobleme (1932).
Ezechiele 261
6. K. von Rabenau, Die Form des Ratsels im Buche Hesekiel: Wiss. Zeitschr. d.M. -
Luther-Universitat, Halle-Wittenberg (1958) 1055 ss.
264 Ezechiele
9. tm': Ezech. 20,30 s. 43; 23,7.13.30; hll: Ezech. 22,26; 23,39; 36,223.; ctr. an-
che voi. 1, 312 ss.
io. Ezech. 7,2; 21,7 s.; 36,6; 6,2 s.; 35,12; 36,1.4.8.
11. Testi come Ezech. 18,5 ss. o 33,25 fan capite a quali 'ordinamenti' pensi il
profeta.
266 Ezechiele
12. W. Zimmerli, Die Eigenart der prophetischen Rede des Ezecbiel: ZAW 66
(1954) 1 ss.
Ezechiele ,
16. Qui e nel cap. 16 Ezechiele usa l'espressione 'prostituirsi' in un duplice sen-
so. Con questo termine si riferisce all'apostasia commessa col culto delle divinità
della natura e in qualche caso anche alla ricerca di protezione politica presso le
grandi potenze.
Ezechiele
17. Il brano sull'ufficio di sentinella del profeta (Ezecb. 33,1-9) è stato aggiunto
a quello della vocazione soltanto nel corso della redazione del materiale (3,16-21).
L'affidamento dell'incarico di sentinella veniva così presentato come parte della
vocazione.
Ezechiele 2
73
sopportano il carattere impersonale delle disposizioni divine e si
oppongono all'antica concezione collettivistica secondo la quale
le generazioni rappresentano una sorta di grande organismo vi-
vente da Dio stesso riconosciuto come un tutto unico. Costoro
contestano a Dio il diritto di punirli per i peccati dei loro padri.
Il profeta medita con costoro i loro problemi e viene incontro
al loro dissidio affermando che ogni vita è singolarmente a con-
tatto immediato con Dio: né l'empietà del padre può impedire
al figlio l'accesso a Dio né il figlio può farsi forte della giustizia
del padre. Nella vita stessa del singolo è esclusa qualsiasi pos-
sibilità di calcolo; Dio non trae un saldo conclusivo dalla vita
dell'uomo. L'empio ha sempre aperta la via per convertirsi a Jah-
vé; se si converte, non gli sarà più fatto carico della precedente
empietà18. Anche l'altro testo (Ezech. 14,12 ss.) prende le mosse
dai problemi di fede che l'inevitabile catastrofe di Gerusalemme
sollevava nelle coscienze (anche degli esuli?), ma stavolta la pro-
blematica sembra muoversi in direzione opposta: sarà possibile
a colui che Jahvé ha risparmiato salvare dalla catastrofe anche i
propri figli? Ezechiele risponde dicendo che anche figure para-
digmatiche di giusti come Noè, Daniele e Giobbe, in una città
minacciata dai medesimi pericoli, non poterono salvare che la
propria vita. In ambedue i casi Ezechiele assolve il proprio com-
pito astraendo il problema da ogni elemento personale, portan-
dolo su di un piano puramente teorico-dottrinale ed esemplifi-
cando mediante modelli estremi. Senz'altro ciò corrisponde, di
per sé, ad una mentalità sacerdotale, ma a nessuno può sfuggire
che queste spiegazioni presuppongono una maniera quanto mai
autonoma di trattare i problemi posti e che Ezechiele ne ricerca
la soluzione nella prospettiva di un imminente intervento di Dio
come soltanto un profeta avrebbe potuto fare. Ma così facendo
Ezechiele si è spinto in un terreno completamente inesplorato
dell'attività profetica. I profeti dell'epoca classica avevano indi-
rizzato il loro messaggio per Israele in ogni caso a determinati
gruppi nel popolo e comunque sempre ad un vasto pubblico, la-
sciando al singolo di trarre da quanto ascoltava quel che lo con-
24. Non teniamo conto per ora del 'progetto di costituzione' di Ezech. 40-48. V.
più avanti pp. 347 s. n. 32.
278 Ezechiele
26. Sul significato teologico di questa formula, che in Ezechiele ricorre 86 volte,
si veda W. Zimmerli, Erkenntnis Gottes nach dem Buch Ezechiel (1954) in part.
65 ss.
CAPITOLO S E S T O
IL DEUTEROISAIA
titrjento del regno di Lidia (Creso) nel 547/46; la comparsa del Deuteroisaia
vien collocata di solito attorno a questa data. Si dovrebbe dare per sicura l'asse-
gnazione della predicazione del Deuteroisaia ad un'epoca anteriore al 538, che
segna il crollo dell'impero neobabilonico. W.B. Stevenson ha però interpretato
alcuni oracoli come eco alla caduta di Babilonia. Cfr. Successive Phases in the
Career of the Babylonian Isaiah = BZÀW 66 (1936) 89 ss. Tuttavia tutte le da-
tazioni più precise rimangono allo stato di ipotesi.
3. Ir. 43,16 s. 18-21; 48,20 s.; 51,10; 52,12. Di Abramo si parla in J.J.41,8; 51,2;
di Giacobbe in Is. 43,28.
Il Deuteroisaia _c „
283
Jahvé si è riservata, una città che dovrà essere ricostruita {ls.
44,26; 45,13; 49,i4ss.; 54,1 ss.11 ss. e passim) e nella quale
dovranno affluire i membri dispersi del popolo di Dio, anzi, le
offerte stesse delle nazioni (ls. 49,22 ss.; 45,14). Sion è come il
perno attorno cui ruotano le idee di questo profeta. Questo no-
me di città è sovente l'appellativo con cui si rivolge al popolo
tutt'intero 4 . Nelle sue profezie di un pellegrinaggio delle nazioni
alla città santa il Deuteroisaia ha ripreso dalla tradizione, com'è
facile dimostrare, un materiale di tipo particolare (Ir. 45,145.;
49,14-21.22-23; 52,1-2). Queste profezie fan parte di un conte-
sto tradizionale ricco di ramificazioni, tanto che lo troviamo in
diversi punti del profetismo recente. L'elemento caratterizzante
è dato dalla rappresentazione della venuta escatologica delle na-
zioni che si andava trasmettendo nel profetismo con sorpren-
dente unità tematica. Perciò ne tratteremo in seguito in un con-
testo particolare5. Piuttosto singolare, invece, appare l'attitudine
del Deuteroisaia nei confronti della tradizione davidica. La men-
ziona una volta con tono solenne facendo uso di una formula
tradizionale, parlando cioè di hasdè dàwid, dei «favori assicurati
a Davide» {ls. 55,3; 2 Par. 6,42). Egli però non intende riferirsi
alle promesse che Jahvé realizzerà per il trono di Davide e per
l'Unto d'Israele, ma ha reinterpretato il significato dell'antica
promessa fatta a Davide intendendola come riferita al popolo. È
per questi, cioè per tutto Israele, che saranno mantenuti gli im-
pegni assunti con la promessa fatta a Davide: Israele diverrà
principe {nàgid) dei popoli {ls. 55,4). Operando questa 'demo-
cratizzazione' il Deuteroisaia ha in realtà sottratto alla tradizione
il suo contenuto specifico. La speranza messianica, in effetti, non
ha trovato spazio nell'universo concettuale di questo profeta.
Certamente l'audace reinterpretazione è un esempio estremo del-
le libertà che i profeti potevano permettersi nell'interpretazione
di antiche tradizioni6.
A questo punto ci imbattiamo nel Deuteroisaia in un'altra tra-
7. V. voi. 1,166 s.
8. Is. 43,1.7.15; 44,2.21.
9. In Is. 44,1 s. la creazione d'Israele è coordinata con l'elezione.
10.R. Rendtorff: ZThK 51 (1954) 11.
Il Deuteroisaia 285
Jahvé doveva rifarsi a molto più lontano di quanto non fosse ne-
cessario al tempo in cui Israele era relativamente autonomo. Se
questa spiegazione è giusta, si deve anche presupporre nel profe-
ta un grado sufficiente di libertà nei confronti delle tradizioni. In
lui l'attitudine verso le antiche tradizioni salvifiche pare fosse
improntata a maggior libertà. Il Deuteroisaia poteva operare una
selezione, stabilire nuovi nessi e in qualche caso anche modificare
il significato. Quest'attitudine, che potremmo definire eclettica,
verso le antiche tradizioni salvifiche rappresenta indubbiamente
anche un fatto nuovo, come conferma del resto la storia delle
forme. Come è noto ormai da tempo, il Deuteroisaia ha espres-
so il suo annuncio salvifico di preferenza col genere letterario
dell'oracolo sacerdotale di esaudimento, cioè di quella forma di
discorso cultuale mediante la quale si assicurava al singolo che
l'invocava il soccorso divino. Vi rientrano quelle espressioni così
tipiche del Deuteroisaia come «non temere», «io ti redimo, ti for-
tifico, ti soccorro, sono con te» oppure «tu sei mio» (Is. 41,10.13
s.; 43,1.5; 44,2 ecc.)11, non però i predicati di Jahvé creatore del
mondo e di Israele con cui ora sono connesse. Il Deuteroisaia,
dunque, ha travasato i contenuti delle antiche tradizioni in una
forma, scelta con criteri propri, che in origine era loro estranea.
Anche in questo caso è interessante il confronto retrospettivo con
Isaia, che pure aveva espresso il suo annuncio salvifico per Sion
nella forma dell'antica tradizione di Sion.
Ma il Deuteroisaia era proprio un profeta nel vero senso della
parola? Questo anonimo, che ci sarebbe difficile immaginare nel-
l'atto di parlare in pubblico, non era forse un eminente scrittore
religioso piuttosto che un profeta'2? L'interrogativo è subito ri-
solto se pensiamo che il perno attorno cui ruota l'intera sua pre-
dicazione è la conoscenza della realtà della parola creatrice di Dio.
Nell'ora della sua chiamata gli fu ordinato dal cielo di rimettersi
alla parola di Jahvé che «rimane» in eterno. È importante per lui
sapersi inserito nella serie dei profeti più antichi (Is. 44,26; 4 5 ,
19). Ciò che essi da tempo immemorabile hanno predetto comin-
cia ora ad adempiersi (75. 43,9 ss.; 44,7; 45,21) e le parole che
vengon poste in bocca sua troveranno immediato compimento (Is.
55,10 ss.). In questo richiama assai da vicino la teologia dello sto-
rico deuteronomista, a lui in certo senso contemporaneo 13 , con la
differenza che in lui la teologia della storia è più che altro orien-
tata a bisogni pratici. Egli l'applica apologeticamente contro il ti-
more che gli dei babilonici si siano potuti dimostrare in definitiva
più potenti di Jahvé. Perciò il Deuteroisaia pone senza mezzi ter-
mini il problema di chi effettivamente determini il corso della sto-
ria. La risposta è per certi versi sorprendente: signore della storia
è colui che può far predire il futuro 14 . Le divinità dei pagani non
lo possono e perciò sono «nullità». La prova profetica è la diffe-
renza specifica che decide il conflitto di Jahvé con gli idoli. Co-
munque, sul piano della storia, dove si tirano le somme di questo
immane conflitto, Jahvé non ha altro banco di prova che il suo
popolo, se è vero che Israele è il suo testimone. Per quanto infimo
possa essere (Is. 42,19), questo testimone è tuttavia in grado di
adempiere il proprio compito:
tutto nella costruzione del futuro per il popolo di Dio (Is. 55,10
ss.). No, uno che scorge nella parola di Dio — quasi gnosticamen-
te - l'unica forza creatrice e, nello stesso tempo, vede nella storia
delle nazioni la sfera della caducità (75.40,6-8); uno che considera
la storia come il campo di un'autentica profezia in via di realizza-
zione, come il campo di battaglia in cui la testimonianza resa dai
servitori del vero Dio si schiera contro quella di presunte forze
divine e delle loro presunte profezie (Iy.44,25); uno che vede tut-
to in funzione della parola di Dio, ebbene, lo possiamo definire
con tutta tranquillità un profeta. È vero, anche il Deuteroisaia
concede ampio spazio alla riflessione teologica e ad argomentazio-
ni di carattere razionale, talvolta quasi occasionali; ma questo è
un portato della situazione spirituale del suo tempo e lo apparen-
ta a Geremia ed Ezechiele.
15. Cfr. su ciò J. Lindblom, op. cit., 52 ss.; J. Begrich, op. cit., 92 ss. 112 ss.
16. È certo evidente che Jahvé chiama Ciro «suo unto» (Is. 45,1), ma si tratta di
un'esagerazione retorica, nulla più d'un espediente per richiamare l'attenzione.
Né il Deuteroisaia poteva vederci qualcosa di più, poiché Ciro non era discen-
dente di Davide e il profeta aveva già attribuito al popolo la promessa davidica
288 II Deuteroisaia
(Is. 55,1 ss.). Ciro era strumento di Jahvé, fondamentalmente come lo erano gli
Assiri per Isaia. È cosi che il Deuteroisaia, preso dal pathos del suo discorso, gli
ha attribuito una volta quel titolo che era rimasto privo del suo detentore ad
opera della sua predicazione. Se vogliamo parlare di un carisma di Ciro, la sua
attività resta limitata all'ambito politico.
17.1.5.45,1-3; 48,14. È stato sempre osservato lo straordinario parallelismo con
le affermazioni, scritte secondo lo stile di corte, che troviamo sul cosiddetto 'ci-
lindro di Ciro': AOT 368 ss.; ANET 315 s.
18. Is. 45,4; J. Begrich, op. cit.-, 69.
Il nuovo evento salvìfico 289
Così dice Jahvé che offrì una strada nel mare e un sentiero in mez-
[zo ad acque possenti
che fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi insieme;
essi giacciono morti: mai più si rialzeranno; si spensero come un
[lucignolo, sono estinti.
Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose an-
[tiche!
Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne ac-
[corgete?
Aprirò anche nel deserto una strada... (Is. 43,i6-i9 a ).
22. Ir. 44,7; 45,21. Non è facile dire a cosa pensi il Deuteroisaia quando parla di
una profezia precedente. Pensa forse a più antichi oracoli su Babilonia come
quelli di Is. 13 e 14? O pensa, come forse fece Osea prima di lui, all'antica sto-
ria salvifica intesa come profezia? Chiaramente ritiene di trovarsi egli stesso al-
l'interno di una tradizione oracolare.
Il nuovo evento salvifico
293
vranno vergogna di sé (Is. 4 1 , 1 1 ; 42,17; 45,24), verranno a Jah-
vé, saranno essi anzi a ricondurre dalla dispersione i membri del
popolo di Dio, convinti della grandezza e della gloria del Dio d'I-
sraele {Is. 45,24; 49,22 s.): «I re lo vedranno e si leveranno in
piedi, i principi, e si prostreranno» {Is. 49,7). Allora Jahvé, per
bocca del Deuteroisaia, può anche invitare direttamente le nazioni
a riconoscere l'ora che sta per scoccare: «Volgetevi a me e sarete
salvi, tutti i confini della terra» (IV. 45,22); «in Jahvé spereran-
no le isole e nel suo braccio riporranno fiducia» {Is. 51,5). Non si
dovrebbe, comunque, parlare di 'idea missionaria', perché quando
il Deuteroisaia definisce Israele 'testimone' per le nazioni {Is. 4 3 ,
i o ; 44,8; 55,4) non vuol dire che esso debba inviare dei messag-
geri. Il profeta considera Israele piuttosto come un segno che si
impone all'attenzione delle nazioni e al quale esse si avvicineran-
no in forza degli eventi escatologici stessi. Esse verranno a Israe-
le confessando: «Solo presso di te è Dio, non ce n'è altri»; «solo
in Jahvé sono salvezza e forza»; «davvero tu sei un Dio nascosto,
o Dio d'Israele» {Is. 45,14 s.24).
Si è prestata fede a questo messaggio del profeta? Quest'in-
terrogativo ci porta a considerare un altro aspetto peculiare della
sua attività, al suo dialogo con gl'increduli e gli sfiduciati, cui la
realtà si presentava con ben altre tinte perché si sentivano abban-
donati da Dio e non potevano credere che Jahvé si preoccupasse
della loro 'via'.
Perché dici, Giacobbe, e tu ripeti, Israele:
La mia sorte è nascosta a Jahvé e il mio diritto è trascurato dal
[mio Dio? (^.40,27).
Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono
[il tuo Dio {Is. 41,10).
Sion ha detto: Jahvé mi ha abbandonata, il Signore mi ha dimen-
ticata.
Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non com-
[muoversi per il figlio delle sue viscere?
Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimen-
[ticherò mai;
ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani... (Is. 49,14-16a).
Per un breve istante ti ho abbandonata,
ma ti riprenderò con immenso amore.
Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero,
II Deuteroisaia
294
non si allontanerebbe da te il mio favore
né vacillerebbe l'alleanza della mia salvezza (Is. 54,7.10).
Jahvé non aveva mai parlato così per bocca di un profeta. Mai
nelle sue parole si era chinato tanto profondamente sul suo popo-
lo, mai si era talmente spogliato del suo aspetto terribile per non
intimidire nessuno di questi scoraggiati. In questo dialogo il pro-
feta lascia libero gioco a tutti i mezzi persuasivi: fa appello ora al
buon senso, ora al sentimento, ragiona, porta prove. Nell'intento
di accattivarsi e guadagnarsi il cuore di Israele ormai indurito sot-
to i colpi di un'immane sofferenza il Deuteroisaia escogita formule
che arrivano fino a compromettere tremendamente il cuore del suo
Dio. Sembra quasi banalizzare la gravità dell'ira di Dio contro I-
sraele e il giudizio che è stato eseguito. Israele ha già pagato trop-
po (Is. 40,2); oppure: è stato solo un attimo, ora tutto è passato
(Is. 54,7). È vero, Jahvé ha taciuto quando i nemici trionfavano
sul suo popolo. Ma come doveva trattenersi e nascondere il pro-
prio dolore (Is. 42,14)! Nessuno pensi che Jahvé in preda all'ira
abbia definitivamente respinto il suo popolo: «Dov'è il libello di
ripudio?». Non c'è [Is. 50,1)! E se qualcuno si chiede perché mai
Jahvé si ostini a rimanere attaccato a questo popolo, ecco la ri-
sposta: «Perché sei prezioso ai miei occhi, degno di stima, e io ti
amo» (Is. 43,4). E se ancora qualcuno chiede per qual ragione nel
Deuteroisaia finiscano in secondo piano tutte le accuse così accen-
tuate presso i profeti preesilici, e perché mai proprio in questo
profeta emerga prepotentemente l'amore indomabile di Dio, ecco
la risposta: Jahvé ha perdonato al suo popolo. Il profeta concepi-
sce questo perdono come un evento, un evento del tutto inaspet-
tato, che gli era stato imposto di annunciare in quest'ora partico-
lare della storia.
di grazia che il servo deve portare alle nazioni 25 . Più vicina a verità
ci sembra, però, l'interpretazione che vede in mispat l'ordinamento
della vita e del culto disposto da Dio in generale, si potrebbe dire 'la
vera religione' 2 é .
Ascoltatemi, o isole, udite attentamente, nazioni lontane;
Jahvé dal seno materno mi ha chiamato, fin dalle viscere di mia
[madre ha pronunciato il mio nome.
Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all'ombra
[della sua mano,
mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra.
Mi ha detto: mio servo tu sei, ' ', sul quale manifesterò
[la mia gloria.
Io ho risposto: Invano ho faticato, per nulla e invano ho consu-
[mato le mie forze.
Ma, certo, il mio diritto è presso Jahvé, la mia ricompensa presso
[Dio.
Ora parla Jahvé che mi ha plasmato suo servo dal seno materno
per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele,
- poiché sono stato stimato degno da Jahvé e Dio è la mia forza -
mi dice: È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tri-
e ricondurre i superstiti d'Israele. [bù di Giacobbe
Io ti rendo luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino al-
[l'estremità della terra» (Ir. 49,1-6).
25. Così J. Begrich, op. cit., 161 ss.; W. Zimmerli, op. cit., 667 s.
26. Così si parla, p. es., del mispat di Dio in 2 Reg. 17,27; Is. 58,2; cfr. Ier. 5,4;
8,7. La nostra parola 'verità' sarebbe più vicina a questo concetto che non 'di-
ritto'.
27. Con la maggioranza degli esegeti anche noi siamo del parere che 'Israele' al
v. 3 sia un'interpolazione. Cfr. l'excursus in S. Mowinckel, He Tbat Cometh
•'1956) 462 s.
Il nuovo servo di Dio
297
assolta, se ne annuncia una seconda: essere una luce per 1 pagani e
comunicare la salvezza di Jahvé fino agli estremi confini della terra.
Queste due missioni non rivelano alcun nesso causale interno, appa-
iono se mai piuttosto distanti. Le parole sulla ricostituzione delle
tribù sembra riferirsi ad una restaurazione dell'antica alleanza tribale
e non ad una forma statuale del nuovo Israele.
Il Signore Jahvé mi ha dato la lingua di un discepolo
affinché io sappia 'pascere' gli sfiduciati;
il Signore mi ha aperto l'orecchio perché 'conosca' la parola.
Ogni mattina risvegliava il mio orecchio, perché ascoltassi come
[un discepolo;
io non ho opposto resistenza né mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che
[mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia agli insulti ed agli sputi.
Ma il Signore Jahvé mi assiste, per questo non resto confuso,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non
[restare deluso.
È vicino chi mi rende giustizia; chi oserà venire a contesa con me?
Chi mi accusa? Si presenti a me! [Si avvicini!
Ecco, il Signore Jahvé mi assiste: chi mi condannerà?
Ecco, come una veste si logorano tutti, la tignola li divora.
(Chi tra di voi teme Jahvé ascolti la voce del suo servo!
Colui che cammina nelle tenebre senza avere luce speri nel nome
[di Jahvé e si appoggi al suo Dio.
Ecco, voi tutti che accendete il fuoco e tenete tizzoni accesi
andate alle fiamme del vostro fuoco, tra i tizzoni che avete acceso)
(Ir. 50,4-1 i a )
Anche questo canto richiama per forma e contenuto le confessioni di
Geremia; la definizione formale che meglio si attaglia ci sembra quel-
la di 'salmo profetico di fiducia'28. Il rapporto del servo di Dio con
Jahvé è in tutto quello tipico di un profeta: la sua è una lingua ob-
bediente, specializzata nella consolazione degli affranti; il suo orec-
chio è costantemente all'erta per intendere la rivelazione. Questa per-
cezione della rivelazione si distingue per la sua ininterrotta continui-
tà da quella vissuta da altri destinatari di rivelazioni: il servo di Dio
è in continuo colloquio con Jahvé. Certo, il suo ministero l'ha con-
dotto ad affrontare dure sofferenze, ma non gli è mai venuta meno la
certezza di stare sotto la protezione di Jahvé. Questa certezza gli ha
infuso la forza di resistere e di attendere il momento in cui gli sarà
resa giustizia. Questo linguaggio forense non deve far pensare che il
33.Il canto parla quattro volte dei «molti» (Js. 52,15; 53,n.i2\i2 b ) contrappo-
sti al servo e per i quali egli ha patito. L'espressione è da intendere in senso in-
clusivo (= tutti) e non esclusivo (molti, ma non tutti): cfr. J. Jeremias: ThWb
vi, 536 ss.
34. Sul linguaggio metaforico del Deuteroisaia abbiamo l'ampia trattazione di J.
Lindblom, op. cit., 75 ss.
77 Deuteroisaia
302
riesce a intravvedere alcun personaggio che appartenga alla chiara
luce del presente o almeno al passato prossimo. Se il servo fosse
stato un profeta contemporaneo, come ad es. lo stesso Deutero-
isaia, non ci sarebbe stato bisogno di riesumare forme tradizionali
dello stile di corte; se fosse stato un re del passato, lo stesso di-
scorso vale per l'abbondante impiego di forme profetiche. Questo
trascendimento di tutto ciò che è umanamente dato e conosciuto
è tipico della predizione.
Essendo il predicato 'servo di Jahvé' suscettibile di più signifi-
cati, non c'è altra via per giungere ad un'intelligenza complessiva
dei canti se non quella di spostare l'indagine sul tipo di ufficio
che viene qui attribuito al servo35. È lecito supporre fin da princi-
pio che egli sia depositario di un ufficio ben preciso, anche se con-
cepito in maniera non del tutto nuova, e non invece una creazione
fantastica di là di tutto ciò che è noto e tradizionale. A questo
punto, però, non ci restano che due possibilità: la funzione del ser-
vo è o regale o profetica. A nostro avviso, non si può decidere che
per la seconda36. Troviamo certamente delle affermazioni che po-
tremmo benissimo considerare come predicati regali (non tante
però come alcuni vorrebbero far credere); ma queste risultano
sufficientemente spiegate se le assumiamo come ampliamenti del-
l'immagine tradizionale del profeta37. Del re manca la funzione
35. L'A.T. chiama 'servi di Dio' i patriarchi, Mosè, Davide, i profeti, Giobbe. Il
carattere comune di questo titolo contraddice la concezione secondo cui il Deu-
teroisaia sarebbe rimasto deluso da Ciro e avrebbe quindi attribuito tale epiteto
ad un'altra persona, appunto al servo di Dio. Jahvé non ha forse più servitori?
Comunque, quest'interpretazione va innanzitutto di là delle nostre competenze
di esegeti: non siamo in grado di rilevare delle sfumature psicologiche così deli-
cate in un profeta della cui personalità non sappiamo assolutamente nulla. L'in-
terpretazione potrebbe avere anche qualcosa di vero; ma le cose potrebbero es-
sere andate anche in maniera assai diversa: cfr. J. Hempel, Vom irrenàen Glau-
ben: ZsystTh (1929/30). Anche J. Begrich, op. cit., 112 ss., presuppone che il
Deuteroisaia abbia sperimentato una delusione, anche per altri motivi.
36. Quest'interpretazione è sostenuta energicamente da S. Mowinckel, He That
Cometh (1956) 187 ss. 213 ss. 218 s. Così pure W. Zimmerli, op. cit., 666; diver-
samente O. Kaiser, Der kònigliche Knecht (1959).
37. Vi rientrano innanzitutto la presentazione da parte di Jahvé (Ir. 42,1 ss.), la
liberazione dei prigionieri (Is. 42,7) e l'esaltazione del servo davanti ai re che
ammutoliscono (Is. 52,13 s.). Per una rappresentazione visiva di questo particola-
re cerimoniale di corte v.: Archiv fùr Orientforschung (1937/39) 21, figg. 23 e 24.
Il nuovo servo di Dio ._,
42. Mosè è chiamato servo di Dio quaranta volte nell'A.T. Di questi passi n so-
no di epoca post-deuteronomica (si trovano quasi tutti nell'opera storica del
Cronista e dipendono dalla fraseologia deuteronomica) e soltanto 5 sono più
antichi (Ex. 4,10; 14,31; Num. 12,7.8; 11,11). Perciò la maggioranza dei casi la
troviamo nel Deuteronomio e nell'opera storica deuteronomistica. Questo fatto
dovrebbe avere un significato non indifferente per i testi deuteroisaiani sul servo
di Dio che sono quasi contemporanei.
43. Dea;. 3,23 ss.; 4,21; 9,9.18 ss. 25 ss. V. voi. 1, 335 ss. Già da tempo è stata
osservata questa corrispondenza tra l'immagine di Mosè e i canti del servo di
Dio; è sottolineata particolarmente in J. Fischer, haias 40-50 und die Perikopen
vom Gottesknecht (1916) 191,193; più recentemente in particolare in A. Bent-
zen, Messias, Moses redivivus, Menschensohn (1948) 49.64; cfr. anche H.-J.
Kraus, Gottesdienst in Israel (1954) 116.
44. Trovo sempre più discutibile che il celebre passo di Deut. 18,18 sia da inten-
dere in senso distributivo («susciterò loro un profeta in ogni tempo»). Forse con-
tiene invece la promessa di un nuovo Mosè; ma anche ammesso che l'interpreta-
zione tradizionale renda il senso esatto del testo, resta sempre verosimile che i
canti del servo di Dio debbano essere messi in rapporto con questa attesa. Si
può osservare in Ier. 33,17 come appare la promessa della durata di un'istitu-
306 Il Deuieroisaia
zione.
45. Per alcune osservazioni conclusive sulla profezia del servo di Dio v. più
avanti pp. 320 ss.
CAPITOLO SETTIMO
i.V. voi. i, 440 ss. Accanto al detto scettico degli abitanti di Gerusalemme:
«Non è retto il modo d'agire del Signore» (Ezech. 18,25.29; cfr. voi. 1, 442) ne
abbiamo un altro citato in Ezech. 12,22: «Le visioni (dei profeti) non approdano
a nulla».
Aspetti nuovi del profetismo ,
momenti più alti di questi sforzi può essere ravvisato nelle discus-
sioni o nelle prove profetiche del Deuteroisaia, con la loro ampia
base teologica (Ir. 41,26 ss.; 43,93.; 48,14). Ciò significa che la
predicazione di questi profeti porta fortemente l'impronta della
riflessione teologica. Non è certo un caso che solo nei profeti di
quest'epoca sia dato" di riscontrare un tentativo di precisare e chia-
rire in linea di principio il fenomeno della parola di Dio. Notiamo
come essi non si occupino soltanto delle singole parole che devono
trasmettere volta per volta, ma anche del fenomeno della rivela-
zione divina in generale. Geremia, nel contesto di una valutazione
squisitamente teoretica delle forme di rivelazione, definisce la pa-
rola di Dio come un martello che infrange la roccia e l'oppone al-
la meno importante rivelazione onirica (Ier. 23,285.). Anche le
affermazioni del Deuteroisaia sulla parola di Jahvé rivelano senza
possibilità d'equivoci una intonazione teologica. Precedendo con
un certo schematismo egli scinde il mondo dell'esperienza in due
campi: da un lato sta il mondo della 'carne' con tutta la caducità
dei suoi sviluppi; dall'altro sta la parola di Jahvé, la sola potenza
creatrice e salvifica (Is. 40,6-8; 55,10 s.). Sotto l'impulso di que-
st'estrema valorizzazione della parola di Jahvé crebbe natural-
mente anche la consapevolezza di sé di questi profeti: depositari
e portavoce di questa parola, giungono ad occupare una posizione
chiave tra Jahvé e il suo governo del mondo.
4. V. voi. 1, 425 s.
5. W. Zimmerli: ZAW 66 (1954) 24 s., ha indicato un altro esempio di questa
radicalizzazione profetica.
6. V. voi. 1,267.
Aspetti nuovi del profetismo
315
organizzare pellegrinaggi, si udrà ancora nelle contrade del paese
il riso di gente felice {ler. 24,5 ss.; 33,4 ss.; 30,18 s.); ciò corri-
sponde fin nei singoli tratti all'immagine offerta dal Deuterono-
mio, e in particolare all'invito ad essere felici (Deut. 12,7.12.18;
14,26; 16,11 ecc.). Soltanto su di un punto c'è differenza: Gere-
mia parla di una nuova alleanza, mentre il Deuteronomio si at-
tiene all'antica e ne estende la validità fino all'epoca sua, cioè del-
la tarda monarchia, nei limiti in cui ciò gli è teologicamente con-
sentito. Questa differenza, però, tocca l'aspetto decisivo del mes-
saggio profetico: in Geremia, infatti, tutta la fiducia è riposta nel-
l'attesa di un atto salvifico nuovo con cui Jahvé supererà l'allean-
za sinaitica; il Deuteronomio invece resta fermo alla speranza
che Jahvé realizzerà le promesse dell'antica alleanza. È una diffe-
renza notevole, che tocca motivi profondi. Essa dipende indub-
biamente dal fatto che l'obbedienza d'Israele non era ancora di-
venuta un problema per il Deuteronomio, come si è visto 7 , men-
tre le predizioni di Geremia ed Ezechiele muovevano dalla cono-
scenza della più completa incapacità di Israele di obbedire.
Abbiamo anche visto, però, che questa realtà nuova attesa da
Geremia non rendeva del tutto obsoleta l'alleanza sinaitica con
tutti i suoi contenuti. Geremia non si aspettava che Jahvé stabi-
lisse il proprio rapporto con Israele su basi assolutamente nuove.
La novità è soltanto parziale : anche per Geremia l'offerta del part-
ner divino rimane la stessa, essere suo popolo e obbedire ai co-
mandamenti. Si può dire perciò che sotto questo rispetto egli non
attende né più né meno di quello che si aspettava il Deuterono-
mio dall'attualizzazione dell'alleanza sinaitica. La novità autentica
deve prodursi a livello antropologico con la trasformazione del
cuore umano. Ci sembra improbabile che la pericope di Ezechiele
sul rinnovamento interiore d'Israele dipenda immediatamente da
ler. 31,31 ss.; se questo fosse vero, non si spiegherebbe l'ampia
autonomia concettuale di Ezechiele. È quindi tanto più significa-
tivo che le affermazioni di Ezech. 36,25 ss. abbiano grosso modo
lo stesso obbiettivo di ler. 31,31 ss.; l'unica differenza sta nel fat-
to che Ezechiele si dimostra più preciso e ricco di particolari nel
7. V. voi. 1,266.
316 Aspetti nuovi del profetismo
13. Sull'interpretazione dei canti del servo di Dio v. sopr.a pp. 294 ss.
14. Potremmo citare Ier. 23,5 s. come esempio del caso opposto, in cui cioè un
profeta non sia riuscito ad una trasformazione del materiale tradizionale per
mancanza di presupposti determinati. Geremia non è riuscito a vivificare la tradi-
zione messianica in una maniera consona al suo modo di profetare. V. sopra pp.
227 s. 258 s.
15. Per Am. 3,7 s. vedi sopra p. 79. 16. V. sopra pp. 209 ss.
Aspetti nuovi del profetismo
321
bero, diversi quindi da individui formalmente investiti di un uf-
ficio. Alla fine dell'epoca monarchica, dunque, esiste una tradi-
zione relativa all'ufficio profetico, che dal canto suo deve aver
fornito il terreno di formazione dei profeti di quest'epoca; or-
bene, questo fatto costituisce la miglior prova che era già data
un'immagine in certo senso completa - per non dire tipicizzata -
del profeta, immagine che possiamo trovare nell'epoca sotto di-
verse versioni.
Uno dei fatti più importanti verificatosi nei profeti di que-
st'epoca fu che l'ufficio profetico fece irruzione entro la sfera
personale - intima del profeta. Anche qui si dovrà far attenzione
a non esagerare le differenze rispetto al profetismo antico fino a
farne delle differenze di principio. Anche -Elia e Amos devono
aver sofferto fin nelle fibre più intime della loro persona le op-
posizioni e le umiliazioni cui andavano incontro. Eppure chiun-
que legga la Bibbia non può evitare l'impressione che al soprag-
giungere di Geremia è come se una diga avesse ceduto in un
punto decisivo. Già gli aspetti formali denunciano questo fatto,
p. es. l'abbandonarsi del suo messaggio a diffuse composizioni
liriche. Vi si avverte qualcosa di nuovo, una dimensione di do-
lore finora sconosciuta che rivela due facce: da un lato il dolore
di chi è colpito dal giudizio, dall'altro il dolore di Dio per il suo
popolo. A questo punto - ed è l'aspetto essenziale - ecco che
Geremia si cala in questa duplice sofferenza, ne è investito com-
pletamente e la esprime come tormento suo personale. Sta qui la
differenza nei confronti, poniamo, di un Amos il quale, pur con
tutte le riserve possibili, sembra aver mantenuta intatta la so-
stanza del suo essere spirituale e personale. Geremia invece è
passato dall'altra parte, a condividere la sofferenza dei condan-
nati mettendosi dalla loro parte. Ora, le confessioni di Geremia
in particolare ci hanno mostrato come, compiendo questo passo,
l'ufficio profetico si frantumasse e i suoi frammenti finissero con
lo sfuggirgli di mano sicché il profeta, coperto di ferite da ogni
lato, veniva a trovarsi sull'orlo dell'orribile notte dell'abbandono
di Dio ". Baruc ci ha dato la versione oggettiva di queste soffe-
18. «La sopportazione del profeta contiene anche una partecipazione alla soppor-
tazione dei suoi simili. La sua propria vita è coinvolta nel 'awòn (colpa-punizio-
ne) del popolo. Nell'azione simbolica in cui appare legato egli accumula sulla
propria vita il peso della colpa d'Israele. È inequivocabile la presenza qui, alme-
no incoativa, di idee che soltanto con Is. 53, e sempre in riferimento ad una fi-
gura profetica... troveranno pieno sviluppo... Anche la tradizione di Ezechiele, a
quanto sembra, deve aver dato il suo contributo al formarsi dell'immagine del
servo di Jahvé che porta la colpa dei molti», W. Zimmerli Ezecbiel (BK) 117.
Aspetti nuovi del profetismo
323
104 ss.). Ora è il profeta stesso a divenire un segno personificato
{Ezech. 12,6), e precisamente nel fatto di essere sottoposto da
Dio al giudizio prima d'ogni altro e a mo' d'esempio (cfr. anche
Ezech. 21,11 e sopra pp. 275 s.). Lo stesso mutamento nel modo
di concepire quel che compete al profeta lo riscontriamo nel giu-
dizio pronunciato da Ezechiele sui falsi profeti. A questi rim-
provera di non aver costruito mura di difesa attorno a Israele,
di non esser saliti sulla breccia al momento della minaccia di Jah-
vé (Ezech. 13,5), e cioè di non essersi frapposti tra Jahvé e I-
sraele per difenderlo. Indubbiamente Ezechiele intende qui l'ab-
bandono dell'intercessione, ma forse anche qualche altra forma
di azione intercessoria19. Un passo avanti ci è consentito da Ps.
106,23, dove Mosè è lodato per essere salito sulla breccia('àmad
bapperes) allorché Jahvé intendeva annientare il popolo per es-
sersi macchiato di idolatria e ne fu trattenuto soltanto dall'in-
tercessione di Mosè [Ex. 32,9 ss.). L'intercessione rientrava cer-
tamente fin dall'antichità tra le funzioni peculiari dei profeti20.
Ma quale cambiamento dovè subire questo ministero se un pro-
feta fu condotto nell'esercitarlo a esporre sulla breccia la propria
vita come scudo tra Jahvé e Israele! Ed è appunto questa la ma-
niera di intendere il proprio ufficio nel tardo profetismo di cui
ci occupiamo. Le sofferenze di Geremia non presentano ancora
un legame particolare col suo ufficio di intercessore. Anzi, egli
non riesce a darsene una spiegazione né evidentemente gli vie-
ne l'idea che possano avere un qualche valore vicario o che gli
siano state imposte per la salvezza d'Israele. Abbiamo però l'im-
magine, pressapoco contemporanea di Geremia, di un interces-
sore sofferente, un'immagine che ha del sovrumano: è quella di
Mosè nel Deuteronomio. Mosè si pone davanti a Israele come
intercessore; egli parla del terrore (jàgdrti: Deut.<^,x^) che gli
incute l'ira di Jahvé e che l'ha spinto a intercedere per il popolo
e per Aronne; vien riportata qui testualmente la preghiera che
egli avrebbe pronunciata in quell'occasione. Ma egli ha pianto
anche per se stesso, perché Jahvé ha riversato su di lui l'ira per
i. Nessuno può dimostrare «che, p. es., Malachia fosse profeta inferiore agli al-
tri, per quanto in confronto a loro possa apparire uno spirito meno profondo e
le sue tematiche impallidiscano se poste accanto a quelle dei grandi. Questi chia-
mati, fossero piccoli o grandi poco importa, erano ciascuno l'uomo adatto per il
proprio ambiente e la propria ora storica e hanno dato tutto se stessi per questo
loro ministero», G. Quell, Wahre una falsche Propheten (1952) 12.
2. Al problema dell'origine degli undici ultimi capitoli del libro d'Isaia sono sta-
te date risposte divergenti. La tesi di Elliger, che li fa risalire ad una personalità
profetica della fine del vi secolo, attribuendo così loro un'origine unitaria, è
stata contestata da più d'uno studioso: K. Élliger, Die Einbeit des Tritojesaja
(1928); Der Propbet Tritojesaja: ZAW 49 (1931) 112 ss. In realtà l'influsso in-
negabile del Deuteroisaia si limita ad alcune singole parti (Is. 60; 61; 62), men-
tre non si riscontra affatto in altre. Si deve perciò ammettere la possibilità che
vi sia confluito un patrimonio di tradizione del tutto unitario (forse quello di
una scuola?). L'ipotesi più probabile, comunque, resta sempre quella che pone
questi testi nell'epoca precedente o successiva ad Aggeo e Zaccaria. Soltanto per
Is. 57,7-13 si può prendere in considerazione un'origine sostanzialmente più an-
tica, forse addirittura prima del 587: cfr. O. Eissfeldt, Einl. in das Alte Testa-
ment C1956) 417; similmente A. Bentzen, Introduction n ^949) 109 s. Il nome
di 'Tritoisaia' che abbiamo mantenuto per semplicità lascia aperta quindi la
questione dell'autore.
328
I profeti della tarda epoca persiana
4. Per una classificazione del materiale della tradizione profetica assunto e attua-
lizzato dal Tritoisaia e per una discussione degli spostamenti di contenuto inter-
venuti v. W. Zimmerli, Zur Sprache Tritojesajas: Schweizer theol. Umschau
(1950) no ss.
j. Ir. 56,1; 58,8.10 s.; 62,1-3.11 e passim.
I profeti della tarda epoca persiana
14. G. von Rad, Der Heilige Krieg im alten Israel (1951) 66.
Il Tritoisaia, Aggeo, Zaccaria, Malachia, Giona
335
di sventura che, col tempio completamente distrutto, veniva os-
servato cultualmente quasi come un tempo di digiuno. La bene-
dizione di Jahvé era lontana e il lavoro restava improduttivo
(Ag. 1,5 s.). Ma ecco, da questo momento in poi è tempo di sal-
vezza: la netta precisazione delP'adesso' è tipica del realismo
con cui questi profeti concepiscono la storia salvifica (Ag. 2,15.
18; Zach. 8,11). Ambedue i profeti, dunque, si considerano col-
locati giusto nel punto d'inversione della grande svolta. Il Tri-
toisaia rimane ancora quasi completamente nell'oscurità: basti
pensare alla toccante supplica di Is. 63,7-64,11 e anche a Is. 59,
9-15. L'ora storico-salvifica da cui Aggeo e Zaccaria levano la
voce sta sotto altri segni: la notte volge al termine, il giorno si
avvicina. La costruzione del tempio scandisce l'inizio del tempo
della salvezza; il tempo della sventura è alla fine, la benedizio-
ne - intesa del tutto materialmente come prosperità della vita
agricola - subentrerà immediatamente (Ag. 2,15-19), anzi è già
subentrata (Zach. 8,10-12). Una cosa è importante per questi
profeti: la grande svolta che mena alla salvezza escatologica
prende avvio storico da un evento di carattere eminentemente
sacrale. Né l'editto di Ciro né il rimpatrio degli esuli rappre-
sentavano avvenimenti cui si potesse attribuire una particolare
dignità storico-salvifica.
Ora che abbiamo visto come Zaccaria prospetti un'imminente
venuta di Jahvé 'alla sua città disonorata, siamo anche in grado
di riconoscere nel ciclo delle sue visioni notturne molti partico-
lari del nuovo ordinamento escatologico precedente questa venuta.
16. Il testo appare corrotto piuttosto seriamente in un solo passo: il v. 5 del cap.
4 è fuori posto; lo si dovrebbe porre dopo 3,4. Il canto di ringraziamento di 2,3-
10 è stato aggiunto al testo successivamente. Per l'interpretazione di questa sto-
ria profetica v. E. Haller, Die Erzàhlung voti dem Propheten Jona, Theol. Exi-
stenz heute nr. 65 (1958).
Il Tritoisaia, Aggeo, Zaccaria, Malachia, Giona
339
tici P 'eroe' non era il profeta, ma Jahvé che nel profeta celebra-
va la propria gloria. Sotto quest'aspetto non è cambiato molto.
C'è però una differenza: questa volta Jahvé è glorificato non
per mezzo del suo messaggero, ma dal completo fallimento di
questi. Il ridicolo, caparbio Giona, che vede di traverso la mise-
ricordia accordata- da Dio ai pagani e invece si crogiola dal pia-
cere all'ombra dell'arbusto di ricino, per poi augurarsi la morte
quando lo vede disseccarsi, questo Giona non è in grado di osta-
colare le intenzioni salvifiche di Dio; esse raggiungono lo scopo
in qualsiasi circostanza. Anzi, qui sta l'enigma peculiare del li-
bro: con tutta la sua disobbedienza Giona resta una figura di
cui Dio si è sovranamente servito. È l'occasione per cui i mari-
nai si accorgono di Jahvé e i Nini vi ti si risolvono a penitenza.
Perciò nel testo non troviamo né sdegno né deplorazione per il
cedimento dell'uomo di Dio. Di fronte alla vittoriosa opera di
Dio si poteva anche raccontare serenamente e senza drammi il
fallimento di un profeta.
L'interpretazione del testo deve evitare il più possibile di fare
congetture sulle circostanze storiche. Nulla sappiamo di un'even-
tuale opposizione 'universalistica' alle misure 'particolaristiche'
di Esdra e Neemia né il libro offre appigli di sorta in questo sen-
so, senza dire poi che uno scritto polemico o tendenzioso si pre-
senta di solito con caratteristiche diverse. Del resto, sotto l'uni-
versalismo del libro non c'è motivo di vedere una tendenza ad
eliminare definitivamente qualsiasi limitazione dell'alleanza e
dell'elezione. Lo scritto si rivolge proprio a persone che ben co-
noscono e patto e comunità eletta: è giusto a questa gente che esso
ricorda la grande tentazione di dedurre dalla propria peculiare si-
tuazione di fronte a Dio delle rivendicazioni che intaccherebbero la
libertà di Jahvé nel disporre i propri piani riguardo alle altre nazio-
ni. Non è subito chiaro il motivo per cui il racconto scelga pro-
prio la persona di un profeta come paradigma di quest'atteggia-
mento di invidia, tanto più che i grandi profeti si preoccupavano
di far capire ai loro contemporanei che i piani di Jahvé abbrac-
ciavano il mondo delle nazioni tutt'intero. Ma la vera colpa di
Giona - con tutta la sua ortodossia - fu quella di starsene in
disparte. Fece così sulla nave e si ripete a Ninive: là dov'erano
/ profeti della tarda epoca persiana
342
19. V. voi. 1, 68 ss. e sopra pp. 186 ss. Ex.. 15,17 s. (inno del mare) combina le
due tradizioni dell'esodo e di Sion.
20. P. es. Mkb.4,j; Soph. 3,15; Abd. 21; Zach. 14,9.
21. Ps. 48,3; Ir. 2,2; Ezech. 17,22; 40,2; Zach. 14,10.
22. Ps. 46,5 s.; 76,3; Ioel 4,21; Is. 8,18 e passim.
23. Pj. 46,5; Ezech. 47,1 ss.; Is. 33,21; Ioel 4,18; Zach. 14,8.
24. Bar. syr. 4,2-6; v. più avanti p. 439.
25. Per Ps. 46; 48; 76 e la tradizione di Sion v. voi. 1,68 ss.
26. V. sopra pp. 186 ss.
/ profeti della tarda epoca persiana
344
insieme di idee. Al suo confronto, quel che è riportato da
Michea (4,11-13) rivela nella sua concisione un alcunché di
arcaico, soprattutto nell'esortazione rivolta a Sion di scendere in
battaglia contro i nemici; elemento, questo, che manca nelle va-
riazioni posteriori del tema. L'esposizione più notevole per am-
piezza e quasi bizzarra dell'assalto escatologico delle nazioni è la
predizione di Gog e Magog e del loro annientamento «sui mon-
ti di Sion» (Ezech.^8s.). La composizione, che pure si diffonde
in tanti altri particolari (come fa anche Isaia), non è in grado di
dirci nulla sulla battaglia vera e propria, mentre si dilunga nel
descrivere la rimozione dei cadaveri e la raccolta dell'armamen-
tario bellico, un'operazione che terrà occupato Israele per ben
sette anni. È interessante che questa profezia si richiami ad an-
tiche tradizioni ( £ 2 ^ . 3 8 , 1 7 ) ; come dire che si considera inse-
rita in una tradizione profetica più antica. Anche nel testo di
Ioel4,9-17 (cfr. Ezech.3%,4; 39,2) troviamo l'idea già espressa
da Isaia che i popoli insorgono contro Israele non di propria ini-
ziativa ma perché convocati da Jahvé. Anche qui si tratta di un
giorno di Jahvé con terremoti e tenebre (v. 14) v . Jahvé giudi-
cherà le nazioni nella valle di Giosafat e Sion sarà preservata. Le
ultime variazioni della battaglia delle nazioni sotto le mura di
Sion ci sono offerte da Zach. 12 e 14. Qui confluiscono tutti gli
elementi di questo complesso d'immagini e d'idee: adunata delle
nazioni per convocazione di Jahvé, battaglia e preservazione di
Sion. In questa profezia compare un'idea singolare: il nemico
riesce a penetrare nella città santa e vi semina selvaggiamente il
terrore; il testo si lascia andare a particolari raccapriccianti anche
nella descrizione della punizione dei nemici {Zach. 14,12). Un'al-
tra singolarità di questo testo è l'intreccio di motivi che proven-
gono dalle più disparate rappresentazioni escatologiche: i super-
stiti tra le nazioni verranno in futuro a Gerusalemme in pelle-
grinaggio e vi adoreranno Jahvé. La situazione esteriore subirà
un mutamento prodigioso: tutto il paese diverrà una pianura,
27. Dal punto di vista della storia della tradizione osserviamo qui il fondersi di
due complessi tradizionali originariamente estranei l'uno all'altro, quello dell'as-
salto delle nazioni contro la città di Dio e quello del giorno di Jahvé. Questa fu-
sione è anche alla base di Abd. 15 ss.
Le profezie della nuova Gerusalemme
345
solo Gerusalemme si ergerà sul monte e da essa sgorgherà una
sorgente vivificatrice; nella città non si avrà più l'avvicendarsi
di luce e tenebre perché sarà giorno eterno. Vediamo così inca-
stonati nel complesso delle concezioni tradizionali i più svariati
motivi che hanno a tema la speranza, un indizio questo della reda-
zione tardiva del nostro testo. L'esposizione mostra però certe
incrinature che fan supporre anche la presenza di interpolazioni
successive.
Conclusione
Con Malachia e la profezia del Tritoisaia - per non soffermar-
ci su unità minori - il profetismo in Israele tace. Specialmente
con Malachia è difficile evitare l'impressione di un certo affievo-
limento; nondimeno questo silenzio nasconde più d'un proble-
ma. Era forse segno che le attese escatologiche si erano effettiva-
mente spente e che si era giunti all'estremità nella catena dei de-
positari della tradizione profetica? Il concetto di esaurimento,
che ci è suggerito da un'analogia fisiologica, non ci sembra ade-
guatamente comprensivo dell'intero fenomeno. Si potrebbe in-
vece osservare che nell'epoca successiva ad Alessandro il Grande
la Palestina non fu più investita da avvenimenti di portata stori-
ca universale, sotto la cui ombra eran soliti sorgere i profeti. Oc-
corre tuttavia concentrare l'attenzione soprattutto sulla struttu-
ra della comunità postesilica33. Aggeo e Zaccaria vedevano la ri-
costruzione del tempio ancora nell'orizzonte di un grande evento
escatologico. Questa prospettiva era destinata a perdersi per la
influenza del codice sacerdotale (portato a Gerusalemme dagli
esuli?) con la sua teologia cultuale priva di orizzonte escatologi-
co. Il consolidamento della comunità postesilica attorno al culto
con cui sembravano esaudite le speranze di restaurazione di mol-
ti rimpatriati andava di pari passo con una progressiva rimozio-
ne delle concezioni escatologiche. Non vogliamo dire con que-
sto che non ci fosse più nessuno a sostenerle; semplicemente
39. Su ciò cfr. E. Jenni, Die politischen Voraussagen der Propheten (1956).
40. Jenni (op. cit., 112) nomina Is.yj; Ier. 22,10-12.24-30; 28,15-17; 25,11-12;
le profezie non adempiute sarebbero: Is. 20,1-6; Ier. 22,18 s.; 36,29-31; 44,29-
30; 43,8-13; Ezech. 29,17-20.
41. La descrizione incredibilmente minuziosa dell'avanzata degli Assiri in Is. i o ,
27-32 intendeva proprio esser presa alla lettera? Oppure il messaggio fu inteso
dagli uditori di allora, fin da principio, come una forma di poesia profetica?
Conclusione
353
costanti» (Ier. 15,18). Non solo l'ascoltatore, ma lo stesso pro-
feta veniva a scontrarsi col problema del mancato adempimento.
Da quel momento in poi il problema sembra essersi fissato nella
coscienza, sì che vediamo i profeti successivi sempre alle prese
con maggiore o minor successo con rassegnazione e scetticismo.
Il grande esodo, profetizzato con tanta enfasi dal Deuteroisaia,
non è affatto avvenuto sotto la guida personale di Jahvé né si è
accompagnato ai fenomeni straordinari previsti. Lo stesso dicasi
del grande pellegrinaggio delle nazioni a Sion, di cui forse già
Isaia aveva parlato. Anche se, com'è stato sostenuto42, predi-
zioni indovinate e predizioni mancate pressapoco si equilibrano,
rimane comunque aperto un problema grave che proprio la se-
rietà delle predizioni profetiche non permette di banalizzare.
Possiamo aggiungere soltanto alcune rapide considerazioni su
come Israele se l'è cavata col problema del ritardo.
Il nostro modo di porre il problema 'adempimento-non adem-
pimento' è piuttosto fragile, come si è detto, perché l'affrontia-
mo senza poterci spogliare della nostra ottica quale ci è fornita
dalla scienza storica. Siamo portati inevitabilmente a vedere il
fatto storico, che potremmo in ogni caso designare come adem-
pimento di una profezia, come un dato isolato, strappato ai nessi
che popolavano l'orizzonte dell'intelligenza religiosa dei contem-
poranei. In questa maniera il problema dell'adempimento rischie-
rebbe di banalizzarsi in una questione di calcolo che potrebbe
tornare come non tornare. È chiaro che facendo così passerem-
mo sopra sia allo spirito della parola profetica sia alla capacità
d'intelligenza dei suoi uditori. Un fatto storico, che si presuma
di poter conoscere isolatamente e astrattamente soltanto nella
sua qualità di predizione avverata, un simile fatto meriterebbe
ancora la dignità di un adempimento operato da Jahvé? Le pre-
dizioni profetiche non erano che una parte di quello che veniva
quotidianamente a Israele da parte di Jahvé. Né esse né gli
adempimenti, in ogni caso da accertare, costituivano fatti auto-
nomi; per poter essere quello che pretendevano abbisognavano
di un quadro più ampio che solo poteva renderli intelligibili.
43. W. Zimmerli, Erkenntnis Gottes nacb dem Buche Ezechiel (1954) 9 ss.
Conclusione
355
feta era dimostrarsi incapace di far spazio a improvvisi cambia-
menti nelle intenzioni di Jahvé (Ion. 4).
Non si dovrebbe comunque restringere una problematica as-
sai più ampia al caso delle predizioni mancate. Anche le predi-
zioni avveratesi, infatti, furono trasmesse alle generazioni suc-
cessive come parola profetica. Anch'esse continuarono a indicare
l'avvenire. È forse meno straordinario il fatto che un messaggio
profetico - a suo tempo diretto ad una ben determinata situa-
zione - fosse d'un colpo reciso da questo stretto riferimento e,
senza bisogno di spiegazioni particolari e senza neppur pensare
alla situazione precedente, cominciasse a dire qualcosa ad una
situazione del tutto diversa? Tocchiamo qui, in fondo, l'enigma
della via che Jahvé ha percorsa nella storia col suo popolo; lo
tocchiamo da un lato nell'estrema serietà con cui Jahvé si vinco-
lava alla storia e ad ogni singolo momento di essa e, dall'altro,
in quella sconcertante facilità con cui se ne ritraeva per chiamare
in causa, in un modo nuovo, un altro momento storico. Spesso nel-
l'Antico Testamento si può osservare la trasformazione di una pre-
dizione profetica commisurata prima ad un determinato momento
storico e poi d'improvviso adattata in funzione di un'epoca diver-
sa. Mai però la metamorfosi imposta ai testi è stata così sconcer-
tante come nell'orizzonte concettuale dell'evento salvifico neote-
stamentario, cui gli antichi testi avrebbero dovuto ancora una vol-
ta, e definitivamente, adattarsi. Di ciò sarà detto più ampiamente
nella terza parte di questo libro.
CAPITOLO NONO
DANIELE E L'APOCALITTICA
i. Apocalittica e sapienza
Neanche quando la voce dei profeti si fu spenta, Israele desistet-
te dal guardare col cuore colmo di speranza verso il futuro e dal
parlare dei compimenti escatologici non ancora realizzati. Alcuni
temi della predicazione profetica sono divenuti elementi per-
manenti della speranza religiosa delle epoche successive, come
p. es. la speranza in una nuova Gerusalemme (Tob. 13 s.) o nel-
la venuta di un Unto (Ps. Sai. 17). Tuttavia l'escatologia si pre-
senta ora in forma diversa rispetto ai profeti, anche a prescin-
dere da una certa standardizzazione e da un certo appiattimento
del motivo della speranza, ormai ben lontano da quella pienezza
e vitalità che animavano la visione profetica del futuro. L'oriz-
zonte su cui si annuncia un intervento salvifico di Dio radical-
mente nuovo non è più quello di una estrema crisi tra Jahvé e
Israele (vedi sopra pp. 349 ss.); no, è una speranza che apre le sue
porte accoglienti su di un tempo in cui Israele ha ricondotto la
propria vita nell'alveo dell'obbedienza ai comandamenti. Gli og-
getti della speranza escatologica ereditati dalla predicazione pro-
fetica sono stati inseriti nel sistema concettuale di una pietà le-
galista e conservatrice. Potremmo parlare, a questo proposito, di
una 'attesa remota', un fenomeno per il resto estraneo all'Anti-
co Testamento. Malgrado ciò, è sorprendente come la speranza
religiosa d'Israele sia riuscita a trovare una nuova forma d'e-
spressione, pur muovendo da altri presupposti e con una conce-
zione di un respiro universalistico finora mai raggiunto, voglia-
mo dire con l'apocalittica '.
Ròssler, Gesetz uni Geschichte. Etne Untersuchung zur Theologie der judischen
Apokalyptik und der pharisàischen Orthodoxie (i960); Ph. Vielhauer in: Hen-
necke-Schneemelcher, Neutestamentlicbe Apokrypben 11 (1964) 408 ss.
2.W. Baumgartner: ThR 11 (1939) 136 ha determinato i tratti distintivi del-
l'apocalittica come segue: «Pseudonimato, impazienza escatologica e computo
esatto della fine, ampiezza e fantasia narrative, orizzonte storico universale e co-
smico, simbolismo dei numeri e linguaggio esoterico, dottrina degli angeli e spe-
ranza nel dilà». Analogamente P. Volz, Die Eschatologie der judischen Gemeinde
(1934) 6 ss.
Daniele e l'apocalittica
35»
di tutti gli uomini (Hen. aeth. 37,4). Esdra, infine, è chiamato
«scriba della conoscenza dell'Altissimo» (4~Esdr. 14,50). Non
erano forse scienziati nel senso stretto del termine, occupati con
problemi cosmologici e con questioni concernenti l'ordine della
storia? Il loro, quindi, doveva essere un sapere esclusivamente
libresco. Ad ogni passo il lettore viene rimandato ai libri in cui
è fissato questo multiforme sapere 3 . Di più: insistendo nelPaf-
fermare che questo sapere risale a libri antichi si vuol fornire
una base di legittimazione. Uno dei più importanti di questi li-
bri (Hen. 37-71) si considera una raccolta di «discorsi sapienzia-
li» (37,2) suddivisi a loro volta in due parti che nel testo origi-
nario ebraico o aramaico dovevano sicuramente portare il titolo
di màsàl. Si è soliti chiamare quest'opera 'similitudini' (Bildre-
den), ma questa denominazione non è la più felice, màsàl, ap-
punto, è un antico terminus technicus in uso nell'istruzione sa-
pienziale. Sarebbe più esatto dire 'insegnamento' o 'discorsi di-
dattici' (Lehrreden). Questo primo esame ci offre già un quadro
sufficientemente chiaro: l'apocalittica sembra affondare le sue ra-
dici prevalentemente nella tradizione sapienziale. Se l'apocalitti-
ca — come sovente si è sostenuto — fosse la prosecuzione del pro-
fetismo (è stato detto perfino che è figlia del profetismo), come
spiegare allora - se prescindiamo da tutto il resto - il fatto che
essa si ricolleghi non già alle più illustri figure profetiche, bensì
agli antenati della sapienza Daniele, Enoc, Esdra e altri? Alla
fine del libro di Daniele si trova una specie di apoteosi del mae-
stro di sapienza (Dan. 12,3). Ma ci sono altre e più gravi ra-
gioni che ci impediscono di ricercare le radici dell'apocalittica nei
profeti.
Il pathos che pervade i libri apocalittici in tutte le loro rami-
ficazioni è il pathos della conoscenza. Quest'impulso a conosce-
re, com'è noto, ha come teatro l'ampia scena della storia uni-
versale:
«Dio creò i popoli nel mondo e noi; li vide, e vide anche noi, da
principio fino alla fine del mondo; nulla, nemmeno il più piccolo par-
3. Cosi p. es. Hen. aeth. 14,1; 33,4; 72,1; 81,r; 82,1; 93,1; 108,1; 4Esdr. 14.24.
44; ass. Mos. 1,16 s. e altrove.
Apocalittica e sapienza
359
ticolare, fu da lui trascurato; tutto egli aveva previsto, tutto prede-
terminato... Il Signore ha previsto tutto quello che avviene in questo
mondo e tutto si verifica di conseguenza» (ass. Mos. 12,4 s.).
Abbiamo qui il presupposto basilare di questo settore degli
studi biblici: Dio fin da principio ha predeterminato per tutti gli
uomini e per tutte le nazioni i loro tempi e le loro vicende; que-
sta predeterminazione è concepita come indefettibile. Quest'im-
pulso conoscitivo si estende anche a quell'ambito che noi chia-
miamo natura, ed è strano che gli studiosi non vi facciano gran-
ché caso. Anche qui si può toccare con mano il legame di paren-
tela dell'apocalittica con la tradizione sapienziale. In Israele e
nell'Oriente Antico si intendeva per sapienza il sapere dell'uo-
mo sul mondo circostante, sulla struttura e gli ordinamenti che
regolavano il suo spazio vitale e cioè
«il principio, la fine e il punto medio dei tempi, l'avvicendarsi dei
solstizi e delle stagioni, il ciclo dell'anno e la posizione degli astri, la
natura degli esseri viventi e il modo d'essere delle fiere selvagge, la
potenza degli spiriti e i pensieri degli uomini, le differenze delle pian-
te e le virtù delle radici» (Sap. 7,18-20).
In questo passo è circoscritto con sufficiente completezza l'am-
bito della scienza orientale antica. Esso abbraccia le discipline
dell'astronomia, della zoologia, della demonologia, della psicolo-
gia, della botanica e della farmacia4. Ciò che vien detto a questo
riguardo della sapienza com'era intesa nell'ellenistica Alessan-
dria si può applicare anche all'impulso conoscitivo della sapienza
dell'apocalittica palestinese e, in fondo, anche alla sapienza del-
l'Israele antico, la sapienza salomonica5. Anche Enoc esorta allo
studio degli astri o delle piante (Hen. aeth. 2-5), dei venti, della
topografia del cielo e degli inferi (Hen. aeth. 17-36) e soprattutto
degli ordinamenti astronomici (Hen. aeth. 72-82).
In tal modo, con l'introduzione della storia universale e del-
l'aspetto escatologico, si completa il disegno di un sapere enci-
clopedico al quale la sapienza aspirava approdando ad una gnosi
universale piuttosto ibrida. Vi viene realmente offerta «una dot-
trina completa della saggezza» (Hen. aeth. 92,1) che nel suo im-
pulso al conoscere si spinge fino ai gradini del trono di Dio 6 .
Apocalittica, infatti, è disvelamento dei misteri ultimi del mon-
do e peser, cioè 'interpretazione'; il significato del termine in
Ecclus 38,14 si ispira alla medicina e indica una diagnosi del
mondo intero prima della sua fine.
Ora, per decifrare in questo modo il segreto del mondo, non
si richiede una qualche autorizzazione? La gravità di simili di-
scorsi impone da sola il problema della legittimazione di chi li
formula. Va detto, però, che gli scrittori apocalittici, al loro mo-
do, si sono coperti da tutti i lati. Essi condividono la convin-
zione dell'antica sapienza secondo cui l'ordine del mondo rima-
ne inaccessibile all'indagine razionale e si sottrae, anzi, alla sua
logica7. Ma Dio può in determinate circostanze iniziare un uomo
mediante speciali illuminazioni ai misteri del suo reggimento
del mondo. Fin dalla più remota antichità si riteneva che una
sapienza fuori dell'ordinario dovesse risalire ad un carisma di-
vino 8 . Così ragiona anche l'apocalittica quando insegna a consi-
derare i suoi esponenti come dei carismatici o, altrimenti, come
persone toccate dallo spirito di Dio 9 . Soprattutto essa sa che Dio
può iniziare singoli uomini ai misteri del mondo e della storia
mediante sogni e visioni, soprattutto con prodigiosi rapimenti
che li trasportavano nei più remoti spazi del cosmo. La distribu-
zione di un materiale conoscitivo così stratificato e particolareg-
giato nel quadro di visioni oniriche risente indubbiamente di un
certo schematismo letterario. Tra l'altro, la rappresentazione di
un viaggio dello scrittore apocalittico nel cielo o agli inferi è uno
schema tradizionale che si prestava magnificamente a convoglia-
re tutto il materiale di questo sapereI0. Comunque, se è vero
che la mentalità dello scrittore apocalittico, vista nella prospetti-
va di una storia generale dello spirito umano, presentava una
11. Così O. Procksch, Theologie des A.T. (1950) 404; H.H. Rowley, The Rele-
vance of the Apocalyptic (2i947) 13; H. Ringgren: RGG 3 1, 464. Anche le pru-
denti osservazioni di Plòger sul sorgere dell'apocalittica finiscono con l'andare
oltre il punto di vista di una separazione tra apocalittica e profetismo (op. cit.,
37 ss.).
362 Daniele e l'apocalittica
no alla storia d'Israele nelle parti storiche delle due grandi visio-
ni oniriche di Daniele, quella della statua delle monarchie e
quella delle fiere. Qui Dio è solo con gli imperi del mondo; né
il figlio dell'uomo viene da Israele, bensì «con le nuvole del cie-
lo». L'evento salvifico, quindi, si trova interamente proiettato
nel futuro escatologico. A dire il vero, la storia d'Israele viene
esposta per intero in altre visioni12. Ma chiediamoci: è forse ri-
masto lo stesso tipo d'interesse con cui l'antico Israele e in par-
ticolare i suoi profeti solevano rievocare tale storia? La storia
era per Israele il campo in cui aveva esperienza di Jahvé, l'unica
base per identificare se stesso come Israele. A ogni generazione
era lasciato l'impegno di rinnovare nella fede questa compren-
sione di sé. Il Cronista è ancora fedele a questo significato quan-
do traccia le linee del suo lavoro prendendo le mosse dalle isti-
tuzioni salvifiche dell'epoca di Davide. Si provi, ora, a confron-
tare con quest'opera le sintesi della storia d'Israele, singolar-
mente prive di significato teologico, che ci sono offerte qua e là
nella letteratura apocalittica. La loro è un'immagine della storia
che sembra aver perduto il carattere di una professione di fede.
Essa ignora ormai quelle imprese salvifiche di Dio da cui aveva
mosso l'antica immagine della storia. Nelle loro predizioni i pro-
feti facevano apertamente leva ciascuno sul proprio presente sto-
rico; di qui le loro prospettive si aprivano sia verso il passato
che verso il futuro. Lo scrittore apocalittico, invece, dissimula
il proprio luogo storico13. Questo si può individuare nel più dei
casi con sufficiente approssimazione utilizzando svariati indizi;
ma la sua intenzione originaria è di offrire un quadro della storia
in cui la preoccupazione dominante è di presentare gli svolgi-
menti come predeterminati fin da principio. È inevitabile do-
mandarsi, perciò, se una concezione del genere non sia indice di
un grave smarrimento del senso storico, se questa visione gno-
sticizzante di uno svolgimento predeterminato non nasconda un
pensiero fondamentalmente astorico, venendo completamente
12. Così p. es. nella visione del toro di Hen. aeth. 85-90, nell'apocalisse delle
dieci settimane di Hen. aeth. 93; 91,12-17, in ass. Mos. 2-10 o nella visione delle
nuvole di Bar. syr. 53-71.
13. H.H. Rowley, op. cit., 36.
Apocalittica e sapienza 363
nelle mie mani» (Ier. 18,5 ss.). Vediamo ora cosa ne pensa lo
scrittore apocalittico:
«(Dio) ha misurato con misura le ore e calcolato con numero i tempi.
Non li turba né li risveglia finché non sia colma la misura preannun-
ciata» (4 Esdr. 4,37).
Va detto, quindi, che nell'apocalittica emerge sotto presuppo-
sti teologici completamente diversi una concezione dell'opera sto-
rica di Dio che si differenzia radicalmente da quella dei profeti.
Se questa concezione della storia debba essere intesa come un ne-
cessario contrappeso a quella profetica e come apertura verso nuo-
vi orizzonti teologici oppure come eccessiva penetrazione di idee
straniere nello jahvismo è un problema destinato a restare ancora
a lungo insoluto H.
Con tutto questo, non si può ovviamente negare qualsiasi relazione
dell'apocalittica con l'eredità dei profeti. Tale relazione è già data
col fatto che gli autori apocalittici, tra i tanti settori del sapere, si so-
no occupati anche degli scritti dei profeti e in alcuni casi hanno pure
azzardato a modo loro soluzioni di determinati problemi esegetici. Un
interesse così intenso non poteva restare senz'effetto. Osserviamo,
così, che l'apocalittica si impadronisce sempre più di forme stilistiche
profetiche (racconto di visione, discorso divino ecc.). In ogni caso la
predizione del futuro non era monopolio esclusivo dei profeti i qua-
li, tra l'altro, non si occupavano granché dell'arte di interpretare i
sogni, in Oriente privilegio antichissimo dei sapienti e praticata poi
in grande stile nell'apocalittica. Resta comunque assodato che gli
autori apocalittici nei loro racconti di visioni si sono ispirati a forme
profetiche. L'assunzione di queste forme appare in maniera partico-
larmente evidente nell'Apocalisse siriaca di Baruc.
2. Apocalittica e tradizione
14. Tra le voci critiche sono da segnalare quelle di M. Buber, Kampf um Israel
(*933) 59 ss.; R. Bultmann, Geschichte und Eschatologie (1958) 55 ss. Diversa-
mente D. Ròssler, op. cit., 55 ss.
L'apocalittica nella storia della tradizione
365
dell'apocalittica e di fissarne la cronologia. È l'epoca che va dal
200 à.C. fino al 100 d.C. Su tutta questa letteratura, tuttavia,
non possediamo ancora un'indagine condotta secondo quel me-
todo della storia delle tradizioni che ci ha consentito parecchie
nuove acquisizioni nello studio di molti libri dell'Antico Testa-
mento. Una volta assuefatti all'idea di tradizioni storicamente
determinate, come quella di cui ci siamo occupati finora in que-
sto lavoro, diventa ora piuttosto enigmatico trattare una lettera-
tura teologica in cui non individuiamo pressoché alcuna traccia
di tale tradizione, in cui cioè si arriva a molteplici e varie affer-
mazioni su Dio, sul mondo e sull'uomo senza questa base. Si sa-
rebbe quasi tentati di parlare di una frattura. Si può fare però
un'altra ipotesi: nell'apocalittica potrebbe esser confluita una
quantità di materiali didattici da lungo tempo coltivati anche in
Israele e tramandati in un processo parallelo a quello del lavoro
teologico in senso stretto.
Il libro etiopico di Enoc costituisce da solo un'intera biblio-
teca di trattatelli scientifici. A tutt'ora il libro viene datato attor-
no al 150 a.C. Ma che incidenza può mai avere un secolo in più
o in meno per un materiale scientifico del genere? Questa data-
zione può valere unicamente per l'ultimo aggiornamento degli
schemi storici (apocalisse delle dieci settimane: 93; 91,12-17;
visiori"t dei li animali: 85-90) poiché, p. es., la parte cosmologica,
astronomica sfugge completamente ad una datazione precisa. Sa-
rebbe assurdo sostenere che tanto rigoglio di erudizione sia sboc-
ciato d'un tratto nel 11 sec. a.C. Si ha l'impressione che di questa
letteratura si sia fatta una lettura troppo unilaterale, suggestio-
nata dall'accentuazione escatologica intervenuta nella redazione
ultima dell'opera, senza la dovuta attenzione quindi alla storia
della tradizione. Dove trovare, infatti, nelle ampie parti ad argo-
mento cosmologico dei cenni a un'attesa imminente o ad un uffi-
cio consolatore caratteristici dell'apocalittica? La ricerca condot-
ta sul libro di Daniele ci ha insegnato quanto lungo e complicato
sia lo sviluppo che sta dietro il materiale apocalittico, i cui ele-
menti risalgono molto indietro nel tempo, prima dell'avvento
dell'apocalittica. Le leggende di Dan. 1; 3-6 non contengono al-
cun elemento che le possa far rientrare nell'orizzonte apocalittico
ss Daniele e l'apocalittica
15. L'interpretazione dei sogni era già stata considerata dagli antichi Egizi come
una «scienza empirica»: A. Volten, Demotische Traumdeutung (1942) 51. Un'al-
tra forma di antica scienza si può osservare nei frammenti di antichi onomastica.
Per Hen. aetb. 6,7 («angelo del tuono», «angelo del fumo», «angelo delle nubi»,
«angelo della pioggia») v. G. Kuhn: ZAW 45 (1921) 241 ss.; cfr. Hen. aetb. 60,
17 ss. Sugli onomastica v. voi. 1, 478.
16. S. Morenz, Àgyptische Religion (i960) 69 ss.
L'apocalittica nella storia della tradizione
367
magini oniriche che non si lasciano spiegare da sole e che tutt'al
più offrono qualche allusione. In entrambi i casi l'interpretazio-
ne avviene mediante un procedimento razionale di sostituzione
(le vacche e le spighe significano gli anni, le parti della statua gli
imperi del mondo). Questo metodo d'interpretazione si ritrova
un po' dovunque nella letteratura apocalittica. L'interprete ri-
percorre la visione ripetendo la formula stereotipa «il fatto
d'aver visto... significa...» sostituendo di volta in volta ai sim-
boli-cifre (nuvole, aquila, acqua) i valori reali che essi rappre-
sentano". Vi sono casi in cui manca l'interpretazione: ma di
questo pure abbiamo un esempio nella storia di Giuseppe (Gen.
37,6 ss.). Per quanto riguarda il contenuto dell'interpretazione
va osservato che anche nella storia di Giuseppe l'interprete di-
pende da una periodizzazione schematica della storia che distin-
gue un tempo di salvezza e uno di sventura. È vero che in questo
caso l'interpretazione abbraccia un tratto di storia di dimensioni
alquanto modeste; non mancano tuttavia, sempre fuori dell'am-
bito specifico dell'apocalittica, periodizzaziory su scala universa-
le18. Questo vale certamente per l'idea che prima di un tempo
di benedizione debba scadere un tempo di maledizione, idea che
ritroviamo in diverse versioni fuori d'Israele e che deve aver co-
stituito un elemento importante della visione sapienziale dell'av-
venire. È fuor di dubbio che questa periodizzazione della storia
ha conosciuto nell'apocalittica un'estensione e una raffinatezza
senza precedenti. Però il fatto in sé non è esclusivo dell'apoca-
littica.
Quanto al ricco patrimonio di conoscenze cosmologiche, è evi-
dente che si tratta di materia senza una precisa connessione col
complesso di idee specificamente apocalittico. Ci rimane invece
da parlare di una componente essenziale degli scritti apocalittici,
e cioè della loro vena parenetica. Non v'è dubbio che questi
scritti, in definitiva, si rivolgono ai loro lettori con intendimenti
squisitamente pratici: consolare ed esortare alla perseveranza col
17. Dan. 2,42 s. 45; 7,17 ss.; 4 Esdr. 10,40 ss.; 12,10 ss.; 13,25 ss.; Bar. syr. 39,1;
56,3 ss.
18. Lo schema della successione dei grandi imperi mondiali che soggiace a Dan. 2
deve essere stato ben noto già nel vi secolo. M. Noth., Ges. Stud. (2i9<>o) 257 ss.
368 Daniele e l'apocalìttica
19. Troviamo sezioni parenetiche in Hen. aetb. 91,1-11; 94-104; 4 Esdr. 14,135.;
Bar. syr. yy ss.
L'apocalittica nella storia della tradizione 369
forma immutata (Bar. ^ . 4 9 5 . ; cfr. però iCor. 15,35 ss.). Sot-
to l'aspetto formale si può riconoscere qui senz'altro una forma
stilistica della didattica sapienziale. Sembra che quest'impiego
della botta-risposta tra alunni e maestro abbia costituito il me-
todo di apprendimento della sapienza in uso nelle scuole. Quan-
to al tipo di argomentazione adottato si noterà la naturalezza
con cui a una domanda teologica si risponde col richiamo a fatti
o avvenimenti di ordine naturale20. Il maestro muove quindi dal
presupposto di una generale analogia tra l'operare salvifico di
Dio e gli ordinamenti della natura. Ma abbiamo già osservato
che questo riferimento teologico agli ordinamenti della creazione
è, a sua volta, una peculiarità della teologia sapienziale21.
Sarebbe tuttavia un errore dedurre da tutto ciò che questo
complesso di conoscenze fosse a portata di mano di ciascun veg-
gente. Al contrario, si ritiene necessario l'intervento di angeli in
funzione di mediatori e di guide onde aprire questi orizzonti al-
l'uomo che pone domande. Anzi all'uomo, una volta separatosi
da Dio, è preclusa la conoscenza del vero ordine del mondo e
tende a fare di questo un idolo (Hen. aeth. 80,7). Esistono inol-
tre rivelazioni illegittime, come quelle che vengono dagli angeli
caduti, cui gli uomini sono esposti: sono fonti inquinate del sa-
pere, che rendono possibile un uso degenerato di esso per la ma-
gia, gli scongiuri e ogni sorta di pratiche occulte (Hen. aeth. 8,
1-4)n. Tenendo conto dei gravi pericoli cui l'uomo è esposto
proprio sul piano del sapere, questa sapienza è profondamente
preoccupata di far apprendere attraverso un retto sapere il retto
atteggiamento da assumere nei confronti del mondo. Essa perciò,
anche negli sviluppi più tardi, si mantiene fedele all'antico prin-
cipio secondo cui una sapienza degna di questo nome si costrui-
sce sul fondamento del timore di Dio (Prov. 1,7). Soltanto di
qui può trovare legittimazione teologica questa brama di sapere
incredibilmente versatile.
3. Daniele29
Dopo tutto questo, passando a trattare Daniele più da vicino,
ss. 125 ss. 201 ss.; Id., Zu.den vier Reichen von Dan. 2: ThZ 1 (1945) 17ss.; K.
Koch, Spàtisraelitisches Geschichtsdenken am Beispiel des Buches Daniel: Histo-
rische Zeitschrift (agosto 1961) 1 ss.
30. Alla Torà di Mosè ed all'esodo si allude soltanto nella preghiera di Dan. 9,4
ss., ma il testo va considerato un'interpolazione secondaria e non è una predi-
zione.
31. V. voi. 1, 403.406 s.
32. Su questo v. già voi. I, 232 ss.
Daniele _
35. Come i torrenti del paradiso in Gen. 2,10 ss. ó i quattro corni in Zach. 2,1 i
quattro animali rappresentano il mondo nella sua totalità. In Dan. 7,3 traspare
anche l'idea che i quattro animali siano venuti fuori dal mare. Il che sarebbe del
tutto corrispondente all'immagine dei quattro corni in Zaccaria.
36. Su questi passivi caratteristici v. M. Noth: ThStKr (1926) 144 ss.
Daniele e l'apocalittica
37»
mente davidico-messianica - in cui l'Unto profetico è discenden-
te della stirpe di Davide e viene da Betlemme (Micb. 5,1), non
dal cielo -, è indubbio tuttavia che il figlio dell'uomo di Dan. 7,
13 è inteso innanzitutto come una figura messianica in senso
lato. Il problema dell'origine di questa immagine non è stato
ancora chiarito. Di sicuro, comunque, possiamo dire che la visio-
ne parla di un essere individuale che proviene dal mondo celeste
e che Dio autorizza ad assumere «potere, onore e regno» su tutti
i popoli della terra37 Nella sezione interpretativa (Dan. 7,17-27)
la figura dell' 'uomo' che prima, come si è detto, rappresentava
un individuo, viene sorprendentemente interpretata in senso col-
lettivo, come incorporante «i santi dell'Altissimo». Fino ad oggi
si era dato per pacifico che i «santi dell'Altissimo» rappresentas-
sero il popolo d'Israele; ma quest'interpretazione è stata di re-
cente contestata. Sia la terminologia abituale dell'Antico Testa-
mento che le testimonianze provenienti da testi estracanonici in-
ducono a pensare che si tratti di esseri celesti; avremmo, cioè,
la concezione secondo cui alla fine dei tempi il dominio sul mon-
do sarebbe stato consegnato in mano agli angeli38. Comunque
stiano le cose, questa visione onirica presenta un contenuto mol-
to più ampio di qualunque altra visione profetica giacché essa
abbraccia il lungo arco degli eventi che vanno dalla creazione del
mondo fino alla venuta del regno di Dio. Gli imperi mondiali ven-
gon fuori dalla dimensione del caos, la loro natura e le loro azioni
appaiono sotto contorni bizzarri. Prescindendo dall'escrescenza
della quarta bestia, essi appaiono più passivi che attivi; su tutti,
anche sulla furia del 'corno', domina Jahvé con infinita sovranità.
37. Tra gl'innumerevoli tentativi di determinare l'origine dell'idea del figlio del-
l'uomo mi sembra meriti particolare attenzione quello di O. Procksch, che fa di-
pendere la rappresentazione dell'uomo che viene con le nuvole del cielo con
quella della venuta della 'gloria di Jahvé', soprattutto come ci appare in Ezecb.
1,26. Anche Ezechiele vede «qualcosa come una sembianza umana» discendere
dal cielo. Del resto la venuta del kàbód divino con le nuvole del cielo è già tipi-
ca dello scritto sacerdotale. Cfr. O. Procksch, Christentum uni Wissenscbaft
(1927) 427 ss.; Id., Theologie des A.T. 416 s.
38. M. Noth, Die Heiligen des Hóchsten = Ges. St. 274 ss. Solo un testo (Dan.
7,21) non quadra con quest'interpretazione, come del'resto lo stesso Noth am-
mette.
Daniele
379
Basta una sua decisione per spodestarlo e annientarlo. L"uomo',
invece, non vien fuori dalle regioni del caos informe, ma discen-
de dal mondo superno di Dio. La descrizione è quasi quella di
uno spettatore: la visione non ha la pretesa di muovere dalla si-
tuazione storica del veggente; questi non è coinvolto nell'avveni-
mento cui assiste dal di fuori e davanti al proprio spirito attento
fa scorrere l'intera vicenda del mondo come in un film.
Nella sua ultima versione, quella riferita ad Antioco Epifane,
la visione delle quattro fiere indicava già nel v. 25**, seppure in
termini oscuri, una scadenza entro la quale si sarebbe risolta la
crisi. Tuttavia, questa preoccupazione di fissare cronologicamen-
te la durata della crisi e l'inizio della svolta verso la salvezza bal-
za in primo piano soltanto in quella parte del libro di Daniele
in cui si raccoglie il materiale più recente, e cioè in Dan. 8-12.
Non deve meravigliare che ci sia disaccordo tra i calcoli offerti in
questi capitoli, data la varietà dei sistemi che i maestri di sapien-
za del tempo applicavano alla soluzione dei loro complicati com-
puti. Ci si preoccupava in particolare di determinare il tempo
della fine facendo leva sull'interpretazione di testi profetici più
antichi; l'esegesi dei 70 anni predetti da Geremia (Ter. 25,12;
29,10) non è che un esèmpio tra i tanti, indicativo di come allo-
ra si leggessero i libri profetici. Nel corso dell'interpretazione de-
gli antichi testi venerandi a questi scrittori apocalittici si era di-
schiusa, sotto il rispetto ermeneutico, la possibilità di un'intelli-
genza completamente nuova, e cioè quella di un senso riposto
della Scrittura o, in ogni caso, di una reinterpretazione del si-
gnificato originario di un asserto di per sé chiaro. I 70 anni ven-
gono interpretati come 70 anni sabbatici, che assommano ad un
periodo di 490 anni. È questa senza dubbio la prima testimo-
nianza di quell'esegesi della Scrittura che doveva assumere tan-
ta importanza per il giudaismo e anche per il cristianesimo pri-
mitivo. Si deve senz'altro supporre che i tre tempi e mezzo, che
ebbero un ruolo così notevole per il computo della fine {Dan.
7,25; 12,7), siano stati desunti da un'antica tradizione; comun-
que, non è stata ancora identificata la fonte utilizzata da Danie-
le in questo caso. Abbiamo altri passi in cui le asserzioni rela-
tive al futuro non sono che esegesi di antichi detti della Scrittu
380 Daniele e l'apocalìttica
39. Vien da chiedersi se il testo di Dan. ri non sia addirittura da definire come
un peser di Isaia. Così anche J.L. Seeligmann: VTS l, 171.
40. K. Elliger, Studien zum Abakuk-Kommentar vom Toten Meer (1953) 156 s.
Daniele 381
la loro morte ha un effetto benefico e purificatore che richiama la
funzione espiatrice del servo di Dio (Is. 53,11). Non v'è dubbio,
l'autore apocalittico è dalla parte di coloro che superano la crisi
più sopportandola che combattendola, e in questo si dimostra
fedele alla propria convinzione: avviene quel che è necessario che
avvenga. Egli è lontano dall'attivismo dei Maccabei, ha pure in
sospetto il grande seguito che hanno avuto. C'è qualcosa di gran-
de in questo inserimento nell'esposizione storica delle stupefa-
centi vittorie dei Maccabei trattandole come qualcosa di relativa-
mente insignificante, come soltanto un «piccolo aiuto» a benefi-
cio degli oppressi in quell'epoca (Dan. 11,34). H s u o sguardo,
fisso com'è sul fine divino della storia, non vede altro, e ciò gli im-
pedisce di tributare onore a quest'esplosione di umano coraggio.
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CAPITOLO PRIMO
L'ATTUALIZZAZIONE
DELL'ANTICO TESTAMENTO NEL NUOVO
i. Gli scritti dell'antico Israele, trattino della storia con Dio tra-
scorsa o futura, sono stati letti da Gesù Cristo e, in ogni caso, dai
suoi apostoli e dalla sua giovane comunità come libro profetico
che si riferiva a lui, il salvatore d'Israele e del mondo. Com'era
possibile questo dal momento che l'Antico Testamento non no-
mina in alcun passo questo Gesù Cristo né mostra di conoscerlo
così come ci appare dai vangeli e dalle lettere apostoliche? Cer-
to, non si può leggere l'Antico Testamento se non come il libro
animato da un'attesa sempre più intensa. Il più antico sostrato
di quest'immane accumularsi di attese era dato dalla promessa
della terra fatta ai patriarchi precedenti a Mosè. Ma stranamente
non c'era adempimento storico che fosse capace di colmare e
soddisfare quest'attesa. L'adempimento storico della promessa -
la conquista sotto la guida di Giosuè — è stato raccontato e an-
che documentato in tutti i particolari, ma a nessuno è venuto in
mente di considerarlo una realizzazione definitiva della promes-
sa divina. Nel Deuteronomio, in epoca più recente (circa 600
anni dopo Giosuè), Israele sembra ancora vivere nell'attesa del-
l'adempimento di questa promessa della terra, aspettandosi uni-
camente dal futuro una realizzazione veramente adeguata della
parola di Dio. Nel frattempo si erano succedute le une alle altre
nuove disposizioni salvifiche di Jahvé: Sion era 'fondata', Davi-
de 'eletto'. Dapprima furono celebrate in inni che si esprimeva-
no al passato; ma, come ad un tratto, si sprigionano da esse pre-
dizioni di un nuovo intervento salvifico di Dio in Israele. Lo
abbiamo già visto a proposito delle predizioni profetiche del
messia e della nuova città di Dio. La storia della fede jahvistica,
perciò, è solcata da ripetute cesure, interrotta da ripetute irru-
zioni di disposizioni divine, frammentata da nuovi inizi che in-
troducono nuovi periodi nella storia della tradizione. Israele non
386 L'attualizzazione dell'Antico Testamento nel Nuovo
i. Dietro testi come Ex. 12 (istituzione del passa), 2 Sam. 6, Ps. 24,7-10 oppure
Ps. 132 (introduzione dell'arca nel tempio) stanno usanze cultuali che venivano
ripetute nel ciclo delle feste.
L'attualizzazione dell'Antico Testamento nel Nuovo 387
3. V. voi. 1,27 s.
4. V. voi. 1,199 s.
L'attualizzazione dell'Antico Testamento nel Nuovo
particolari. Non c'è bisogno di ripetere qui quel che si è già det-
to sulla profonda frattura prodottasi nell'attitudine dei profeti
verso le tradizioni salvifiche d'elezione, e cioè le tradizioni rela-
tive ai patriarchi, al Sinai, all'esodo, a Sion e a Davide. Quel-
l'Israele che si credeva ancora protetto e benedetto da Jahvé essi
lo vedevano sottoposto al giudizio divino. Essi però non inten-
devano porsi come riformatori quando facevano appello ad una
maggiore ubbidienza al volere salvifico di Jahvé quale si .era ma-
nifestato in queste tradizioni. Per loro è un altro l'aspetto decisi-
vo: essi consideravano ormai preclusa ai loro contemporanei la
chiamata alla salvezza racchiusa in quelle tradizioni e non intrav-
vedevano ormai se non un'angusta via verso la salvezza che Jah-
vé avrebbe operato soltanto in futuro. D'altro canto, erano ben
lungi dall"abrogare' le antiche rivelazioni di Jahvé; abbiamo
avuto sufficienti occasioni per costatare che essi le prendevano
molto più sul serio che non i loro contemporanei. Tuttavia - ed
è quello che qui ci interessa - essi ne parlano come di un luogo
teologico ormai lontano, pieni come sono dell'evento divino che
già scorgono spuntare all'orizzonte. Il fatto che essi abbiano in-
serito queste antiche tradizioni nella loro predicazione ha una
sua precisa ragione, ed è che vi hanno riconosciuto una sorta di
carattere profetico. Essi hanno atteso un nuovo Davide, un nuo-
vo esodo, una nuova alleanza, una nuova città di Dio; l'antico,
insomma, rivestiva ai loro occhi un significato profetico tipolo-
gico. I profeti, però, hanno proceduto con estrema libertà in
questa utilizzazione profetica degli elementi offerti dalle antiche
tradizioni. Anche qui alcune cose le hanno adottate, altre le han-
no ignorate. Dal momento che i profeti predicano le 'cose nuove'
con affermazioni prevalentemente positive, è inevitabile che ri-
manga in ómbra quello che essi trascurano perché lo ritengono
superato dal nuovo evento salvifico. Evidentemente c'era meno
motivo di parlare di quello che sarebbe stato 'abolito' che del-
l'adempimento esemplare di ciò che era stato rappresentato, ap-
punto, come tipo. Tuttavia i profeti si sono talvolta abbandona-
ti a confronti tra nuovo e antico in funzione illustrativa, in cui il
'non più' assumeva un tono chiaramente polemico. Il caso più
chiaro l'abbiamo nella pericope di Ter. 31,31 ss. che per noi as-
L'attualizzazione dell'Antico Testamento nel Nuovo
391
sume un valore paradigmatico per le predizioni profetiche in ge-
nerale: si fa qui particolarmente evidente quell'intreccio enig-
matico tra la dipendenza dall'antica tradizione salvifica e il supe-
ramento di essa. Dalle parole di Geremia si può senz'altro de-
durre che la nuova alleanza non apporterà nulla di nuovo rispet-
to alla volontà che Jahvé già aveva rivelato ad Israele. A prima
vista potrebbe quasi sembrare che il nuovo si riduca ad un aspet-
to parziale, cioè ad una semplice modificazione nel processo di
trasmissione del volere divino ad Israele: Dio non si limiterà a
notificarlo, ma lo innesterà anche nel cuore del suo popolo. Ma
questo aspetto, in apparenza parziale, pone tutto su nuove basi.
Se è vero che ler. 31,31 ss., anche per la chiarezza con cui separa
il nuovo dall'antico, si spinge molto più in là di parecchie altre
profezie che pure implicitamente dicono le stesse cose, tuttavia
non arriva ad un confronto realmente esauriente tra antico e
nuovo. Ciò che preme a Geremia non è di definire con maggiore
o minore completezza quel che andrà abolito e quel che rimarrà
in vigore, ma di far sapere ai suoi contemporanei quel che egli
riteneva urgente in relazione ai loro problemi5. Questo ci porta
ad un'osservazione molto importante nel nostro contesto: tutto
lo sforzo fatto dai profeti per attualizzare antiche tradizioni, di
ricollegarsi all'antico, di farlo rientrare in qualche modo nel nuo-
vo ignorando tacitamente gli aspetti effettivamente antiquati e a
loro avviso non più validi, non può essere inteso se non come
un fatto fondamentalmente carismatico, e più precisamente ca-
rismatico-eclettico. Se è evidente che i profeti nelle loro predi-
zioni si lasciavano influenzare dalle vecchie tradizioni, non si può
però affermare che abbiano proceduto con un metodo consape-
vole in questo lavoro di attualizzazione dell'antico. La misura
5. V. sopra pp. 250 ss. e pp. 315 ss. Il testo di ler. 31,31 ss. viene spesso inter-
pretato dagli esegeti in maniera troppo 'dogmatica', come si trattasse dello svi-
luppo di un grande contesto teologico di grande ampiezza, per così dire. Può
essere che questo avvenga per suggestione dello stile dottrinale deuteronomistico,
ma quel che preme in questa contrapposizione delle alleanze è una cosa sola, e
cioè l'appropriazione della volontà divina. Anche ler. 31,31 ss. rientra perfetta-
mente nel tipo di attualizzazione ad hoc caratteristico dei profeti. Probabilmente
sarebbe stato ugualmente possibile illustrare la diversità delle alleanze partendo
da un altro punto caratteristico del nuovo che si instaurava.
L'attualizzazione dell'Antico Testamento nel Nuovo
392
della loro dipendenza come della loro libertà è stabilita unica-
mente dall'ispirazione del momento ed è quindi diversa caso per
caso. Ora è la dipendenza, ora la libertà della reinterpretazione
a balzare in primo piano nella loro profezia. Se volessimo pro-
vare di estrarre da una singola predizione una formula precisa
per definire il loro rapporto con l'antico, provare cioè a discer-
nere con operazione ermeneuticamente limpida la dipendenza
dall'antico e il superamento di esso, finiremmo col trovarci di
fronte una struttura di un'estrema complicazione. Verrebbe anzi
spontaneo domandarci se l'esegeta non facesse meglio a lasciar
perdere quest'imbroglio ermeneutico, tanto insolubile appare l'in-
treccio di antico e nuovo. In ogni caso, per quel che è dato ve-
dere, il profeta non si rende conto di questo, che antico e nuovo
si son fusi nella sua bocca in una unica realtà presente e in sé
completa. Facciamo un esempio: quando il Deuteroisaia prende
determinati predicati dall'ambito delle promesse davidiche e li
applica a Israele, l'esegeta individuerà in tutta una serie di par-
ticolari - p. es., nel fatto che Jahvé vuol rendere Israele nàgìd -
il permanere di elementi antichi di cui il profeta si è servito
per attualizzate la promessa salvifica di Dio; nel contempo, tut-
tavia, dovrà ammettere che questi elementi si sono completa-
mente risolti nel nuovo e fusi con esso*. Un altro esempio di
quest'estrema libertà nell'attualizzare l'antico l'avevamo riscon-
trata nella ricapitolazione della storia salvifica di Ezech. 20 7 .
Tanto ampia era nel vi secolo la facoltà di reinterpretare le ve-
nerande tradizioni dell'esodo e degli eventi del deserto!
8. V. sopra p. 282.
L'attualizzazione dell'Antico Testamento nel Nuovo
395
tichi testi col fare di chi entra in possesso di un'antica eredità.
Segno tipico di quest'appropriazione, le affermazioni su Jahvé
xùpioc, della traduzione greca passano al nuovo xupioi;, sì da tro-
varsi d'un colpo inserite in nuovi nessi teologici9. Ma quali so-
no i criteri ermeneutici da applicare a questi testi al fine di sta-
bilire le parti di antico conservate e le parti di nuovo soprag-
giunte? Si tratta di quel processo di 'adattamento' di cui abbia-
mo già parlato e che richiederebbe dall'esegeta un'attitudine ben
più elastica10. Dal momento che l'Antico Testamento non è do-
minato da un'idea di Dio unitaria, ma rispecchia, come abbiamo
tentato di dimostrare, un succedersi di rivelazioni e disposizioni
divine sempre nuove nonché una continua riattualizzazione di
queste, ne deriva che questo processo di adattamento al nuovo
delle antiche tradizioni era per Israele la via più legittima per
conservare la continuità della propria storia con Dio e per im-
pedire che essa si frantumasse in una serie di atti privi d'un
nesso.
Si potrà obbiettare a tutto questo che l'assunzione dell'Anti-
co Testamento nel Nuovo è un processo senza precedenti in
quanto l'Antico si presenta già come una tradizione fissata per
iscritto, anzi, come una 'sacra scrittura', mentre prima si trattava
di una tradizione orale di per sé molto più fluttuante e quindi
meno in grado di opporre resistenza ad un intervento modifica-
tere. E questo è vero. In tal senso la tradizione veterotestamen-
taria non era più per gli apostoli una realtà in movimento; era
divenuta scrittura sacra, ciò che richiedeva per più versi un nuo-
vo e diverso rapporto con essa, dovendo ora l'interpretazione
fare i conti con dei 'testi'. Tuttavia la differenza non è di prin-
cipio, concerne più che altro l'aspetto formale in quanto il pro-
cesso ermeneutico-interpretativo viene a dipendere da vincoli
ben precisi ('prova scritturistica' ecc.) trattandosi di un testo
scritto. Anzi, a tenere esplicitamente conto di questa differenza,
la straordinaria libertà di trattare l'antico risulta ancor più evi-
dente, se è vero che tale libertà era resa ora più difficile dal fatto
9. Afe. 1,3; Act. 2,21; Rom. 10,13; Hebr. I,IO; iVetr. 2,3; 3,15 e altrove,
io. V. sopra p. 69.
/• L'attualizzazione dell'Antico Testamento nel Nuovo
11. W.G. Kummel, Verheissung und Erfiillung (1953) 102 ss. 104.14^ s.
12. Non è che la riflessione sulla legge fosse venuta meno; era invece che il nuo-
vo aspetto storico-salvifico era divenuto il criterio per intendere la legge.
13. M. Wittenberg, Heilige Uberlieferung (1958) 5 ss., ha fatto notare questa dif-
ferenza nel modo d'intendere Mosè.
L'attualizzazione dell'Antico. Testamento nel Nuovo ,Q
colo nel regno di Dio è maggiore del più grande tra coloro che
hanno atteso questo regno (Mt. 11,11). I profeti desiderarono
vedere quel che ora è divenuto realtà e non l'hanno veduto (Mt.
13,17). Da quest'antitesi tra l'assolutamente nuovo e il cumulo
delle esperienze religiose passate d'Israele muoveva il Nuovo
Testamento e dovrà ugualmente muovere un'interpretazione cri-
stiana dell'Antico. Ma, come ogni lettore ben saprà, il rapporto
tra nuovo e antico non si esaurisce nel momento negativo del-
l'antitesi, nel sottolineare cioè la distanza. Il cammino terreno
di Gesù Cristo, la sua predicazione, la sua passione, morte e re-
surrezione, tutto ciò appare nei vangeli come un adempimento
che scende fin nei minimi particolari di profezie veterotestamen-
tarie. Una forma peculiare di questo modo d'intendere l'Antico
Testamento come una profezia di Cristo è il procedimento del-
l'interpretazione tipologica che il Nuovo Testamento applica con
grande varietà di modi. Tale interpretazione mira a stabilire
ogni volta una relazione di corrispondenza tra un evento del-
l'Antico e uno del Nuovo Testamento in cui decisivo si rivela il
momento della 'superiorità': «Ma c'è uno che è più di Salomo-
ne» (Mt. 12,42). Anche qui perciò è implicita una certa presa di
distanza rispetto all'Antico Testamento nel senso che la predi-
zione è qualcosa di diverso dall'adempimento, il tipo è inferiore
all'antitipo di cui è in funzione. Cionondimeno sia la prova scrit-
turistica che l'interpretazione tipologica mirano a porre in evi-
denza una continuità tra quello che Israele aveva sperimentato
in passato da parte di Jahvé e quello che si era prodotto «alla
fine, in questi giorni» con l'apparizione di Cristo. Esse muovono,
anzi, dal presupposto che tutte le esperienze religiose d'Israele
erano in funzione di Gesù Cristo e che gli antichi testi della tra-
dizione divenivano attuali in maniera definitiva e suprema sol-
tanto per i credenti in Cristo: «È stato scritto per noi» (iCor.
10,11); i profeti «per voi erano ministri di quelle cose che sono
state ora annunziate» (1 Petr. 1,12); tutto è stato scritto per nostro
ammaestramento (Rom. 15,4; 1 Cor. 9,10).
Rifacendosi all'Antico i testimoni del Nuovo Testamento pra-
ticano un'estrema libertà. Nel loro lavoro di attualizzazione di-
spongono di parecchie possibilità che vanno dalla sottolineatura
L'attualizzazione dell'Antico Testamento nel Nuovo
398
15. «La prova scritturistica neotestamentaria si basa sul seguente postulato: l'esi-
stenza di Gesù era 'informata' nel suo complesso come nei particolari a ciò che
Dio intendeva operare per Israele e che ora realizzava... Perciò si potrà 'com-
prendere' l'opera di Dio in e per Gesù soltanto se lo si interpreta muovendo
dalla parola dell'Antico Testamento. Questo postulato della prova scritturistica
non ha per l'Israelita di quell'epoca il carattere di un dato esistenziale; la prova
scritturistica rivendica il diritto di affermare una 'oggettività categoriale' a ri-
guardo di Gesù. L'azione svolta da Dio nell'Antico Testamento non si presenta
soltanto in funzione di conferma, come argomento certo a favore dell'evento di
Gesù, cioè con una rilevanza di ordine cognitivo, ma possiede per Gesù un si-
gnificato causativo, assiomatico e perciò è parte costitutiva di questo evento stes-
so», C.H. Ratschow, Der angefochtene Glaube (1957) 70.
16. «A meglio considerare come (la comunità neotestamentaria ha ripreso l'A.T.
come scrittura sacra), si vedrà come essa ha evitato ambedue gli estremi, la ma-
terializzazione palestinese della sacra lettera come la spiritualizzazione alessandri-
na di essa e come invece dalla continuità storico-salvifica dell'adempimento pre-
sente con la promessa delle affermazioni della Scrittura abbia dedotto caso per
caso, a seconda delle necessità del momento, le logiche conseguenze con pneu-
matico realismo e sovrana libertà», O. Schmitz, Das Alte Testament im Neuen
Testament in: Wort uni Geist, Festgabe fur Karl Heim (1934) 67.
17. G. Ebeling, Evangelische Evangelienauslegung (1942) 102 ss.
. 0Q L'dtiualizzazione dell'Antico Testamento nel Nuovo
esortati a caricarsi del suo giogo ed ha loro promesso la pace (Ecclus 51,
23-27; 6,24-30). Come interpretare questo dato? Senza dubbio questo
stile inconsueto rivela che c'è ben più di un prestito retorico occasiona-
le e non impegnativo. Il rivestimento veterotestamentario di questo ap-
pello è di un'importanza teologica non trascurabile. Gesù fa ingresso
con tutto il peso del suo potere nell'ambito di quest'affermazione ve-
terotestamentaria e rivendica a sé forma e contenuto della proposta
salvifica in essa contenuta (sull'annuncio salvifico della sapienza vete-
rotestamentaria si veda voi. 1, pp. 497 ss.). Ci si presenta così, sotto
il profilo ermeneutico, un dato tutt'altro che semplice. Sarebbe trop-
po facile cavarsela dicendo che la forma è veterotestamentaria, il con-
tenuto invece neotestamentario. Una parte notevole di queste parole di
Gesù (una parte che va ben oltre il mero aspetto formale) era già data:
così, p. es., l'invito, l'immagine del giogo e l'idea della pace che può es-
sere trovata. Ma tutto questo, per il solo fatto di essere pronunciato da
Gesù e a lui riferito, viene portato oltre i propri limiti. Gesù, chia-
mando il suo giogo 'soave', soprattutto attirando l'attenzione sul suo
rapporto col Padre e parlando col torio di chi è misericordioso, apre a
quest'invito antico prospettive affatto nuove. Gesù parla come colui
che 'compie' l'Antico Testamento.
19. Giustamente è stato auspicato che una teologia delFA.T. non si limiti ad una
fenomenologia della fede dell'Antico Israele. Cfr. N.W. Porteous: Scottish Jour-
nal of Theology (1954) 159. Tra gli autori attuali è da segnalare F. Baumgartel
per l'insistenza con cui ha sottolineato la necessità di una presa di posizione teo-
logica di principio.
CAPITOLO SECONDO
LA CONCEZIONE VETEROTESTAMENTARIA
DEL MONDO E DELL'UOMO
E LA FEDE CRISTIANA
5. «Mondo (xócp.o<;) qui (nel N.T.), a differenza del concetto greco di cosmo, è
un concetto storico, in funzione cioè della vita storica dell'uomo. Mondo signi-
fica innanzitutto il complesso delle condizioni e possibilità date all'uomo; in
questo senso il mondo significa creazione di Dio», R. Bultmann: ZThK 55 (1958)
197 s.; v. anche più avanti, p. 423.
6. V. voi. 1,181.479 s-
7. Da quest'idea va distinta nettamente quella specificamente israelitica per cui
dal mondo inteso come creazione scaturisce una testimonianza per Dio suo crea-
tore (Ps. 19,2; 145,10). 8. V. voi. i, 251 s.
e la fede cristiana
409
10. «L'idea di una natura infinita esistente in sé... è il mito della scienza moder-
na. La scienza cominciò col distruggere il mito del medioevo; ora la sua stessa
logica spinge a riconoscere che vi ha sostituito un altro mito», C.F. v. Weiz-
sàcker, Geschichte der Natur (1948) 53. Questo concetto moderno di natura rap-
presenta quasi l'antipodo di quello che intendeva Israele quando parlava del
mondo come di una creazione dominata da Dio. Lo stesso si applica al concetto
moderno di 'storia',
n. E. Grassi, Kunst und Mytbus (1957) 39 ss.
La concezione veterotestamentaria del mondo e dell'uomo
412
Israele incontra quel che l'A.T. chiama «gelosia di Jahvé» esclusivamente nel-
l'ambito del culto e precisamente come orrore di Jahvé per l'adorazione di divi-
nità straniere (v. voi. I, 237 ss.). Tenendo conto di questo, dovette apparire rivo-
luzionario il fatto che Isaia vedesse all'opera la 'gelosia' di Jahvé dietro la rea-
lizzazione dei suoi piani storici (Is. <?,6b), oppure che Sofonia da questa gelosia
attendesse la punizione del popolo disubbidiente e anche delle nazioni (Sopb. 1,
18; 3,8). Secondo la predizione di Ezechiele Jahvé si «santificherà» nella vittoria
su Gog e si dimostrerà geloso del suo nome di fronte alle nazioni (Ezech. 39,16.
23.25). Anche il libriccino del profeta Aggeo mostra un simile processo, tipico
del pensiero profetico: dalla posizione cultuale assunta dai sacerdoti e dalla va-
lorizzazione rituale di un fatto cultuale il profeta trae le norme per risolvere un
problema politico attuale (Ag. 2,12 ss.). Lo stesso vale per Ier. 3,1, dove la strana
parabola dell'apostasia d'Israele risulta per Geremia da un ordinamento dell'antico
diritto matrimoniale sacrale. Soprattutto quando si proiettavano spiritualmente
nell'universalità della storia i profeti facevano uso di idee e criteri che avevano
la loro origine nell'ambito del culto. Dando loro un'ampiezza che eccedeva il
loro antico contenuto essi potevano servirsene - in certo senso come di un pri-
mo strumento concettuale - per esprimere il nuovo intervento di Jahvé nella
storia che si prospettava.
18. Sul piano di una storia dello spirito umano questa visione doveva avere con-
seguenze incalcolabili, se pensiamo al suo influsso su tutto il pensiero storico
occidentale. Sarebbe tuttavia errato supporre che essa fosse in Israele frutto
esclusivo di una costante polemica contro la rappresentazione mitica. È vero che
Israele è stato irretito volta a volta in gravi conflitti di questo genere; tuttavia
in settori tutt'altro che trascurabili della sua eredità letteraria non v'è traccia di
tendenze polemiche. Questi testi, perciò, sono una testimonianza tanto più con-
vincente di quella singolare incapacità di Israele di produrre un pensiero mitico.
e la fede cristiana
22. Su ciò si veda l'opera, per certi versi superata, di G. Westphal, Jabwes Wobn-
slàtten nach den Anscbauungen der alteri Hebràer (1908).
418 La concezione veterotestamentaria del mondo e dell'uomo
23. Ier. 25,15 ss.; 46-51; Ioel 4,1 ss.; Ag. 2,21 s.; Zach. 2,1-4.
24. V. voi. 1,187.
25. Una volta distrutta l'idea che la sfera dell'azione è attiva nel determinare il
destino, la concezione del mondo d'Israele precipitò in una grave crisi (v. per
tale questione voi. 1,304 ss. 433 ss.). La crisi appare in maniera paradigmatica nei
monologhi di Giobbe.
26. Oltre ai capitoli dedicati all'argomento nelle varie teologie dell'A.T. v. W.
e la fede cristiana
Eichrodt, Das Menscbenverstàndnis des A.T. (1944); K. Galling, Das Bild vom
Menschen in biblischer Sicht, Mainzer Universitàts-Reden, Heft 3 (1947); W.
Zimmerli, Das Menschenbild des Alten Testaments, Theol. existenz heute N.F.
14(1949).
27. Ecclus 24 sviluppa una concezione del peccato originale dell'uomo del tutto
diversa da Gen. 3: l'umanità non ha accordato un'abitazione alla Sapienza che
discendeva dal cielo.
28. V. voi. 1,184 ss.
420 La concezione veterotestamentaria del mondo e dell'uomo
29. V. voi. 1, 76 s.
30. P. es. E. Meyer, Gescbichte des Alteriums li, 2 (1931) 286 ha definito com-
pletamente profana la storia della successione di Davide.
e la fede cristiana
421
sraele un dato primordiale di ordine mitico-cosmico come lo era
presso i popoli che lo attorniavano. I re d'Israele erano uomini
in balìa delle potenze profane della storia in misura maggiore dei
comuni mortali; erano persone fallibili e sottoposte a critiche
particolarmente severe.
31. «Dal punto di vista della fede non ha alcuna rilevanza per l'A.T. il comples-
so di rappresentazioni relative al mondo delle ombre», W. Zimmerli, op. cit., 17.
La concezione veterotestamentaria del mondo e dell'uomo
422.
zione con rappresentazioni sacrali (cfr. voi. i pp. 317 s.), non ab-
biamo forse uno degli enigmi più oscuri dell'Antico Testamen-
to? Le predizioni relative ad una resurrezione da morte che Jah-
vé avrebbe riservato ai suoi emergono solo molto tardi e come
fatto estremamente marginale (J.r. 26,19; Dan. 12,2).
33. Erodoto aveva chiesto ai sacerdoti egiziani notizie sulla storia del loro paese
ed essi risposero dicendo che era durata più di 11.090 anni: «In questo tempo,
dicevano, il sole si era spostato quattro volte dal suo sito abituale: due volte era
sorto dove ora tramonta e due volte era tramontato dove ora sorge. E questo
fatto non aveva prodotto in Egitto alcun cambiamento né nei frutti della terra
né nelle inondazioni del fiume né nelle malattie né nei decessi», Herod. 2,142 (la
traduzione segue quella di O. Giithling [Reclam]).
La concezione veterotestamentaria del mondo e dell'uomo
426
34. Cfr. p. es. concetti come xóffu-oi;, cr-iroixeìa, àcpftapcrta, EÌXOJV, *\/\JXWÒ<I, itvEU-
p.aTUCÓ^. Da parte sua anche Israele, nel corso della sua lunga storia, aveva da
lungo tempo incorporato nella sua fede, arricchendola così, un patrimonio lin-
guistico e concettuale di provenienza straniera. Su questo problema cfr. C. Rat-
schow, Der angefochtene Glaube (1957) 71.
428 La concezione veterotestamentaria del mondo e dell'uomo
6.L. Goppelt, Typos, Die typologische Deutung des A.T. im Neuen (1939); R-
Bultmann, Ursprung und Sinn der Typologie ah bermeneutischer Metbode:
ThLZ 75 (1950) 205 ss.; Id., Das Problem der Hermeneutik: ZThK 47 (1950) 47
ss.; E. Fuchs, Hermeneutik (1954) 192 ss.
7. B. Meissner, Babylonien und Assyrien I (1920) n o ; v. inoltre in M. Eliade,
Der Mythus der ewigen Wiederkehr (1953): la sezione 'Himmlische Archetypen
von Laridern, Tempeln und Stadten' (16 ss.).
440 La salvezza nell'Antico Testamento
8. V. sopra pp. 143 ss. e 318. L'ipotesi che questo modo tipologico di pensare sia
da riconnettere alla dottrina dei periodi propria dell'Antico Oriente (cosi R.
Bultmann, op. cit., 205) è improbabile. Lo sviluppo lineare dal tipo all'antitipo
in sé non ha nulla di ciclico tanto più che l'antitipo sopravanza il tipo e in certo
senso lo annulla; non è una ripetizione, ma si trova in un rapporto di corri-
spondenza con il prototipo. Questa concezione tipologica è diametralmente op-
posta alla ciclica. Nei profeti l'accento cade chiaramente sull'ultimo e definitivo
intervento di Dio.
9. Me. 1,12 s. {Gen. 2 s.; Ex. 34,28); Me. 15,16-20 (Is. 50,6); Mt. 27,34 ss. {Ps.
22); Io. 1,51 (Gen. 28,12); Io. 6,9 ss (2 Keg. 4,42) ecc.
io. Secondo L. Goppelt (RGG 3 s.v. 'Allegorie') l'allegoria si troverebbe nella
ed il suo compimento nel Nuovo
441
L'esegesi allegorica sorta nella prima età subapostolica e divenuta
predominante nel mondo occidentale grazie ad Agostino ebbe termi-
ne con la Riforma la quale ritornò all'interpretazione storica delle
Scritture u. Si cominciò allora a distinguere l'interpretazione allego-
rica dalla tipologia e quest'ultima nel xvn secolo - più tra i riformati
che tra i luterani — ebbe una nuova fioritura (Cocceius). La sua scom-
parsa è un fenomeno interessante per la storia della cultura. Il gua-
sto dell'esegesi tipologica non stava nel suo imbarbarimento, ossia
nella ricerca poco seria di 'tipi' quanto mai artificiosi; simili aberra-
zioni si sarebbero potute correggere se i fondamenti teologici fossero
rimasti ben saldi. Ma la scienza profana dell'antichità e della storia
aveva ormai cominciato a scalzare l'antica concezione della historia
salutis e la tipologia cominciò allora inaspettatamente a subire un
mutamento radicale. Essa perdette sempre più il suo antico rapporto
coi fatti storici e si rivolse — per esempio col Michaelis - alle 'verità
della religione' che nell'Antico Testamento (così si pensava) «erano
immortalate in simboli» n. La tipologia divenne così una scienza ge-
nerale dei simboli e delle immagini e ben si comprende come Herder
potesse esortare con toni entusiastici «al più raffinato studio della
Bibbia», ossia allo studio dei simboli13. Non più i fenomeni partico-
lari della historia salutis erano ormai al centro dell'attenzione, bensì
il linguaggio simbolico della Bibbia con la sua chiarezza accessibile
a tutti gli uomini. Ma anche coloro che tenevano ferma la concezione
tradizionale di, una storia della salvezza annettevano gran valore al
fatto che in qualsiasi processo di crescita l'organica successione gra-
duale è regolata dalla legge dei 'tipi' o della prefigurazione14. Questa
sua forma schietta soltanto in 1 Cor. 9,9. Gal, 3,16 e 1 Cor. 5,6-8; 10,4 sono in-
terpretazioni allegoriche nel quadro di spiegazioni tipologiche.
11. H. Bornkamm, Luther una das Alte Testament (1948) 74 ss.; H J . Sick, Me-
lanchthon ah Ausleger des Alten Testaments (1959) 19 ss. [Gli studiosi nomi-
nati in questa sezione sono ben noti alla storia dell'esegesi protestante; a puro
titolo di orientamento ricordiamo le loro date: I. Cocceius (1603-1669), J.D. Mi-
chaelis (1717-1791), J.G. Herder (1744-1803), J.S. Semler (1725-1791), F. De-
litzsch (1813-1890). NdC]
12. J.D. Michaelis, Entwurf der typischen Gottesgelahrtheit (1763).
13. J.G. Herder, Briefe das Studium der Theologie betreffend (lettera 39): «Un
uso giusto, saggio, bello riporterà (tutta la simbologia della Scrittura) in onore e
la metterà in luce nel suo linguaggio naturale, permanente, gradevole e che par-
la al cuore».
14. Così ancora F. Delitzsch poteva dire: «Come la vita della natura rappresenta
una successione graduale in cui lo stadio inferiore di esistenza rimanda in guisa
preformativa allo stadio immediatamente superiore e indirettamente allo stadio
supremo sicché, per esempio, nella forma sferica della goccia si annuncia come
nell'abbozzo più semplice e labile la tendenza all'organismo, così anche il prò-
442 La salvezza nell'Antico Testamento
cesso della storia, e segnatamente della bistoria salutis, ha un valore 'tipico': non
soltanto nel complesso, ma anche - ed è la cosa più sorprendente - nei singoli
particolari la vita di David è un vaticinium reale della vita di Colui che la pro-
fezia... chiama il... Davide risorto», Die Psalmen (1883) 57.
ed il suo compimento nel Nuovo
443
a talune poche disposizioni salvifiche di Dio e che quindi Israele
ha incessantemente atteso a render presenti le opere e le dispo-
sizioni salutari del suo Dio. Una 'religione del popolo di Israele'
ossia un sistema coerente di tutte le concezioni riguardanti il
rapporto fra l'uomo e Dio dalla creazione al peccato alla reden-
zione sino all'escatologia, non è mai esistita. È stato quindi lo
stesso Antico Testamento a togliere vieppiù fondamento a quel
tipo di ricerca che mirava soprattutto a cogliervi un complesso
di idee religiose e a individuare i modelli di pietà o le verità so-
vrattemporali che formerebbero il contenuto di questa 'religio-
ne'. Se veramente si lascia parlare l'Antico Testamento bisogna
dire che in definitiva esso ci pone sempre di fronte a un avve-
nimento che Dio ha prodotto o produrrà. Certo anche la pietà
e l'empietà, il peccato e il perdono hanno risalto, ma si tratta
pur sempre di una pietà o di un'empietà che si manifestano solo
all'ombra di particolari avvenimenti, comandi o disposizioni di
Dio. Tutto ciò che provano gli uomini di cui parla l'Antico Te-
stamento, quel che essi esprimono, le esperienze religiose che
fanno, non si spiega con una generica 'religione' della quale quei
personaggi sarebbero stati i rappresentanti, bensì con il loro tro-
varsi nell'orbita di una specifica parola di Dio che promette o
minaccia. La vicenda di quegli uomini è insomma intimamente
connessa con la particolare ora della storia in cui Dio li ha colti
o li ha investiti di un incarico.
Questa mutata comprensione dell'Antico Testamento compor-
ta naturalmente una revisione del modo in cui dianzi veniva fis-
sato il rapporto fra l'Antico e il Nuovo Testamento. Oggi infat-
ti il problema che dobbiamo porci è se questo Antico Testamen-
to che ben più che svolgere un sistema di idee religiose parla di
interventi divini nella storia e di uomini i quali, spesso investi-
ti di gravosi incarichi, vengono trascinati in una immane storia
di Dio - ciascuno in una storia diversa - il problema, dico, è se
l'Antico Testamento così concepito abbia qualcosa a vedere con
la manifestazione di Gesù Cristo e come si possa determinare
teologicamente questo rapporto15. Su quale piano, in che senso
15. Per la parte che segue cfr. W. Zimmetli, Verheissung una Erfiillung: EvTh
444 La salvezza nell'Antico Testamento
12 (1952) 34 ss.; H.W. Wolff, Zur Hermeneutik des Alten Testaments: EvTh 16
(1956) 337 s. ora in Gesammelte Studien zum A.T. (1964) 251 ss.; W. Eichrodt,
Ist die typologische Exegese sachgemàsse Exegese?: ThLZ 81 (1956) 641 ss.; W.
Pannenberg, Heilsgeschehen und Geschichte: Kerygma und Dogma 5 (1959)
218 ss.
16. Uno sguardo a ricerche analoghe svolte nell'ambito della scienza storica ge-
nerale potrebbe tornare utile anche alla scienza biblica e forse smuovere certe
posizioni prese troppo dogmaticamente. Nella storiografia comune (soprattutto
per evitare una criptotipologia) viene riconosciuta una nuova importanza al con-
cetto del 'tipico'; giacché in maniera solo apparentemente paradossale una com-
prensione il più esatta possibile degli elementi 'tipici' serve a far comprender me-
glio ciò che è individuale. Cfr. per questo argomento Th. Schieder, Der Typus in
der Geschichtswissenschaft: Studium Generale (1952) 228.
ed il suo compimento nel Nuovo
445
nostro caso però non si tratterebbe di investigare la corrispon-
denza dei processi esteriori bensì l'analogia delle cose da creder-
si la quale può darsi anche quando gli avvenimenti esteriori so-
no affatto imparagonabili.
Se si considera con questo criterio, p. es., la storia di Giu-
seppe, si può riconoscere nella sollevazione dei fratelli contro
colui che Dio ha scelto come particolare strumento del suo di-
segno salvifico un significato tipico non soltanto per la bistorta
salutis dell'Antico Testamento. Le parole che concludono la sto-
ria di Giuseppe («Voi avete pensato a far male, ma Dio ha pen-
sato a convertirlo in bene»: Gen. 50,20) non vogliono esprime-
re una verità religiosa di ordine generale come se vi fosse la nor-
ma per cui Dio tramuta in bene il male dell'uomo. Certamente
questa frase vuol soltanto spiegare a parte Dei un complesso ben
determinato di fatti, ma ciò avviene in una forma così elevata
che vien fatto di chiedersi se non venga qui definito un aspetto
tipico dell'agire divino. In effetti queste parole che concludono
l'antica narrazione con il loro intendimento esplicativo possono
bene applicarsi anche all'evento neotestamentario della salvezza.
Se poi si considera, per esempio, una pericope come Is. 8,16-
18, così importante per la profezia isaiana, non sarà il caso di at-
tribuire la massima importanza alla disposizione d'animo del pro-
feta né alla sua delusione né al coraggio della sua speranza. Il
fatto però che un uomo nel momento stesso in cui registra un
fallimento quasi totale come esecutore di un messaggio fra il suo
popolo chiami se stesso coi suoi discepoli uomini del 'presagio'
(mófèt) e che anche dopo eseguita la sua missione continui ad
essere con la propria esistenza un 'segno' in mezzo a una massa
perditionis, non costituisce forse un vero e proprio richiamo
a colui che è in un senso ancor più valido il segno del Dio
che si nasconde profondamente? E anche il logion degli 'uo-
mini del presagio' potrà essere applicato ai discepoli di lui che
sperano in Dio in mezzo a un mondo che precipita verso il giu-
dizio.
Se si pon mente infine ai vari modi, teologicamente ben de-
finiti, in cui nel Pentateuco vien rappresentato l'ufficio di Mosè
(ora come quello dell'unico uomo in Israele eletto esclusivamen-
446 La salvezza nell'Antico Testamento
te per il colloquio con Dio ora come quello del grande interces-
sore che nella sua sofferenza vicaria è l'unico a morire fuori della
terra promessa) si vedrà anche in questo una certa quale prepa-
razione dell'evento di Cristo e si comprenderà, come gli antichi
per via di queste prefigurazioni abbiano potuto considerare l'An-
tico Testamento un libro gravido di vaticini1?.
17. Per il complesso quadro della tradizione di Mosè, cfr. voi. I, 331 ss.
ed il suo compimento nel Nuovo
447
18
euristico a questa considerazione degli elementi 'tipici' . Molti
errori di interpretazione, che ebbero gravi conseguenze, si sa-
rebbero potuti evitare se si fosse posto mente a quanto di ana-
logo è riferito nell'altro Testamento. E sarebbe un lavoro sensa-
to anche quello di esaminare comparativamente nelle loro pecu-
liarità teologiche certi generi letterari che si trovano in entrambi
i Testamenti come quello della parenesi o della sentenza sapien-
ziale. Una ricerca svolta in una prospettiva biblica così allargata
potrebbe anche trattenerci dal ricorrere precipitosamente a pro-
posizioni teologiche generali i cui fondamenti esegetici sovente
sono così mal posti. Più che mai si impone ora al teologo di ac-
quisire una precisa conoscenza delle singole testimonianze. Su
questo piano infatti, e non su un altro più elevato, deve infatti
risultare sino a che punto sussista l'affermata connessione dei due
Testamenti. E dove potrebbe essa manifestarsi più chiaramente
che in un'analogia fra gli avvenimenti attestati?
Una volta iniziato un lavoro siffatto, ben difficilmente ci tro-
veremmo abbandonati o respinti dalla res de qua agitur. Al con-
trario essa ci condurrebbe da sé a formulare distinzioni più pre-
cise e ci aiuterebbe ad acquisire una terminologia più differen-
ziata sicché il concetto antico e certamente ipotecato di 'tipolo-
gia' potrebbe di nuovo scomparire. Ma soltanto dopo questo la-
voro, non prima.
Se a un'interpretazione di tal genere svolta in una prospetti-
va biblica così ampliata si dà il nome di 'tipologica', questo ter-
mine risulta pur sempre adeguato in quanto si riallaccia a un'e-
segesi più antica la quale, pur con tutti i suoi limiti, era però
ben consapevole che l'Antico e il Nuovo Testamento sono tra
loro collegati secondo una determinata operazione storica di Dio
e non soltanto per il loro sistema comune o affine di idee reli-
giose. E tuttavia quel che noi riteniamo importante si distin-
gue essenzialmente dalla più antica tipologia quale veniva intesa
p. es., nel secolo xvn. Quella infatti si richiamava ai dati di fat-
to di una storia della salvezza considerata in guisa ingenuamente
oggettiva mentre noi oggi non possiamo più affermare che il
20. V. a questo proposito come certi passi dei salmi messianici vengano riportati
al presente in 2 Par. 6,42.
21. V. voi. i, 372.
22. V. sopra pp. 67 s.
ed il suo compimento nel Nuovo
451
In tal modo anche questa promessa rimase ancora aperta e la
lettera agli Ebrei potè riprenderla per spiegarla ai suoi lettori in
maniera affatto nuova (Hebr. 3,7 ss.)23. Alla luce dell'evento di
Cristo l'antica promessa svela certi aspetti che dianzi non si po-
tevano conoscere. Cosi proprio la Lettera agli Ebrei potè dire
che coloro i quali nell'A.T. hanno ricevuto la rivelazione sono
morti nella fede senza aver ottenuto le cose che formano in
definitiva l'oggetto di tutte le promesse veterotestamentarie, ma
dopo averle «viste e salutate soltanto da lontano» [Hebr. 11,13).
26. Per questo Sei cfr. W. Grundmann: ThWb li, 21 ss. (= GLNT il, coli. 793
ss.); L. Goppelt, op. cit., 90 s. 126. Anche Paolo sembra però riallacciarsi a una
concezione analoga quando afferma che Gesù è morto «secondo le Scritture» (1
Cor. 15,3 s.).
27. Cfr. voi. 1, 449.
456 La salvezza nell'Antico Testamento
32. Ancora più spiccata è l'inclusione di Mosè fra i credenda in Ex. 19,9: «...per-
ché prestino fede anche a te per sempre».
3}.Deut. 20,2 s.; 9,1-6; 31,3-6.7-8; Ios. 1,1-9; cfr- voi. I, 36 s.
ed il suo compimento nel Nuovo
459
tempo presente. Al di fuori di Israele le potenze politiche della
storia sono prive di salvezza e anzi peggiorano sempre («giac-
ché dalla razza del serpente uscirà un basilisco e suo frutto sarà
un dragone volante»: Is. 14,29). Su queste potenze non ci si può
«appoggiare»34 Vi è salvezza soltanto per colui che, mirando di
là del presente, sa trovare un rifugio nell'opera salvifica avvenire
che Jahvé «manderà a compimento sul monte di Sion» (Is. io,
12). In Geremia non si parla ormai più di questa salvezza offerta
da Jahvé a Sion; siamo nel tempo in cui a Nebucadnetsar è stato
affidato il dominio del mondo [lev. 27,6). La prospettiva escato-
logica è mutata completamente; la richiesta della fede - almeno
nella forma dell'appello — nell'annunzio di Geremia perde d'im-
portanza; il problema della fede si è fatto interiore e nelle con-
fessioni è divenuto il problema esistenziale del profeta stesso.
Sorge di qui una difficile questione: la fede non riesce più a tene-
re il passo col Dio che si nasconde sempre più. Un risultato ne-
gativo si delinea in tutt'altra guisa anche nella storiografìa deu-
teronomica: i re di Giuda non erano stati 'del tutto' con Jahvé,
il loro cuore non era 'indiviso', soltanto uno, il re Davide, ha
camminato di fronte a Jahvé con «purezza di cuore e rettitudi-
ne» (iReg. 9,4).
Si è giustamente affermato che la fede così intesa è sempre ri-
volta a una persona. Si ha fede in Jahvé e non in circostanze di
fatto35. Questa fede inoltre presuppone in ogni caso un interven-
to, una mossa di Dio, e ha sempre un carattere totale; investe
cioè l'esistenza dell'uomo; per natura sua essa consiste sempre
in un 'fare assegnamento'36. Non diversamente stanno le cose nel
Nuovo Testamento. Anche qui la fede è rivolta a Dio e agli atti
di lui; è preceduta infatti da un'opera di Dio - la manifestazio-
38. Act. 7; Hebr. 11. Cfr. però anche Le. 11,49 e inoltre E. Staufler, Die Theo-
logie des Neuen Testaments (1941) 216 ss. 331 ss.
39. Per la parte che segue cfr. l'utile studio di O. Schmitz, Das Alte Testament
im Neuen Testament in: Wort und Geist, Festgabe fur K. Heim (1934) 49 ss.;
ma anche W. Zimmerli, Verbeissung und Erfiillung: EvTh 12 (1952) 34 ss. 54;
C.H. Ratschow, Der angefochtene Glaube 78.
ed il suo compimento nel Nuovo
463
l'Antico Testamento. Cristo è colui che adempie le promesse e
nello stesso tempo diventa una promessa per i suoi. Il Nuovo
Testamento vede compiersi le promesse dell'Antico in Gesù Cri-
sto; ma questo 'oggi' del compimento (Le. 4,21) apre immedia-
tamente alla fede la prospettiva di un nuovo adempimento sal-
vifico, di una nuova «meta della fede» (iPetr. 1,9). Si potrebbe
perciò dire che la vicenda di Israele si ripete nella comunità cri-
stiana in quanto anch'essa è spinta da una promessa verso un
compimento avvenire; anch'essa è una comunità peregrinante ver-
so la pace (Hebr.4,1 ss.)"0. Che l'itinerario percorso da Israele
fosse punteggiato di fatti 'tipici', che la storia veterotestamenta-
ria della salvezza ridondasse di allusioni al Nuovo Testamento,
tutto ciò si è palesato solo con la comparsa del Cristo. Non è for-
se vero, per esempio, che i racconti della peregrinazione di I-
sraele nel deserto, dei pericoli incontrati e dell'aiuto goduto du-
rante l'esodo hanno pur sempre aiutato anche la Chiesa a com-
prendere sé stessa? D'altro canto si è anche appalesato che tutto
ciò che il Nuovo Testamento definisce compimento non si può
intendere in senso strettamente lineare e puntuale bensì come
un adempimento che già nella sua impostazione supera di gran
lunga la promessa. Invero anche quando la vicenda veterotesta-
mentaria si allarga in possenti prefigurazioni dell'evento di Cri-
sto (si pensi a Geremia) possiamo parlare soltanto di 'ombre'
della realtà41 I beni salutari della nuova alleanza sono in larga
misura diversi.da quelli verso i quali Israele era stato avviato da
Jahvé. Perciò lo stesso vaticinio specificamente profetico non si
può considerare tale in senso diretto, ma solo come l'anticipa-
zione di una realtà 'tipica' giacché anche il discorso dei profeti
sul futuro del popolo di Dio sostanzialmente rimane entro l'oriz-
zonte ideale dei beni salutari che sono caratteristici dell'Antico
Testamento.
La nuova interpretazione attualizzante dell'Antico Testamen-
to seguita dalla' chiesa delle origini appare quindi pienamente le-
40. Su questa 'teologia del cammino', sulla sua possibilità ed i suoi limiti, cfr.
F. Nòtscher, Gotteswege una Menschenwege in der Bibel und in Qutnran (1958).
41. Ciò è posto in forte risalto da K. Barth, Kirchlicbe Dogmatik 1/2, 97; I V / I ,
187 s. e passim.
464 La salvezza nell'Antico Testamento
42. «Non è l'esegesi cristiana che chiede troppo all'Antico Patto; è Dio stesso
che gli chiede oltre misura in quanto applica già all'età precristiana la misura
' del Cristo e di ciò l'Antica Alleanza rende testimonianza davanti a Dio e davanti
alla storia», Hans Urs v. Balthasar, Herrlichkeit 1,(1961) 630. Significativi richia-
mi alle molteplici possibilità della predicazione sui testi delPA.T. si leggono in
C. Westermann, Verkilndigung des Kommenden (1958).
43. O. Schmitz, op. cit., 67.
466 La salvezza nell'Antico Testamento
LA LEGGE
2. G.F. Oehler è uno degli ultimi nella sua Theologie des A.T. (2i882) a parlare
ancora talvolta di una «pedagogia della legge» (28.37). Ma è significativo che
egli non sviluppi ulteriormente questa idea quando espone i temi teologici del-
l'A.T.
La legge
471
7. Per il «fuori» cfr. Apoc. 22,15 («Fuori i cani, gli stregoni, i dissoluti, gli omi-
cidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la falsità»). Cfr. soprattutto E. Kase-
mann, S'dtze heiligen Rechtes im Neuen Testamenl: New Testament Studies
(i955) 248 ss.
8.G. Bomkamm, Das Anatbema in der urchristlichen Abendmahlstheologie =
Das Ende des Cesetzes (1952) 123 ss.
La legge
474
con un cerimoniale solenne si separa da coloro coi quali essa, se-
condo la volontà del suo Signore, non può avere alcuna comu-
nione.
Ma per restare nell'ambito dell'Antico Testamento si potrebbe
fare un'altra considerazione. Anche tutto il complesso della 'leg-
ge cerimoniale', ossia l'ordinamento delle feste, della circonci-
sione, dei sacrifici e le prescrizioni riguardanti il puro e l'impuro
si possono definire teologicamente 'legge', ma appunto nel senso
di norme che seguono una generale disposizione salvifica di Dio,
ossia di ordinamenti che danno a una comunità già fondata non
solo la sua forma, ma altresì la sua stabilità sacramentale. Ora è
vero che l'Antico Testamento contiene solo scarsi accenni al va-
lore teologico delle cerimonie e dei sacrifici almeno per quanto
riguarda l'epoca antica di Israele, ma questa reticenza è, ci pa-
re, runa spia chiarissima che tutte le cerimonie e i sacrifici non
erano intesi alla stregua di prestazioni che fondassero in qualche
modo un diritto alla grazia divina. Nessuna delle preghiere che
accompagnavano i sacrifici contiene riflessioni sull'azione esegui-
ta e sul suo significato, Gli argomenti più cospicui contro la tesi
che il più antico Israele abbia inteso in maniera 'legalistica' il
suo rapporto con Dio ci vengono però forniti dal Deuterono-
mio il quale, nella sua essenza più profonda, è una speciale ed
energica rinnovazione dell'antica offerta di salvezza fatta a I-
sraele. Anche nel Deuteronomio viene annunciata la legge, ma
non si può dire che Israele dovesse rimanere atterrito dalla mi-
naccia di questa legge e avesse motivo di recare in dubbio la sta-
bile permanenza di quella promessa di salvezza che aveva ricevu-
ta prima che fossero annunciati i comandamenti. D'altronde col
Deuteronomio è la prima volta che nell'Antico Testamento assu-
me un ampio svolgimento teologico una nuova forma di annun-
cio, la paraclesi la cui particolare collocazione teologica a mezzo
fra T'evangelo' indicativo e la 'legge' imperativa solo di recente
è stata oggetto di attente ricerche9. La paraclesi non può essere
scambiata con la legge giacché essa non mette in questione il
9. E. Schlink, Gesetz und Paraklese in: Antwort, Karl Barth zum 70. Geburt-
stag (1956) 326 ss. W. Joest, Gesetz und Freiheit (1951) 137 ss.
475
messaggio della salvezza; è piuttosto una forma speciale di allo-
cuzione consolatoria o ammonitrice rivolta a coloro che hanno
già ricevuto il verbum salutis:
«Io te l'ho comandato (siwwâ); coraggio, sii forte e non temere; e
non scoraggiarti perché Jahvé, il tuo Dio, è con te dovunque tu vada»
(Ios. 1,9).
La paraclesi deuteronomica (chiamata più spesso parenesi) pos-
siede certo una grande vivacità teologica giacché al suo sguardo
vigile non sfugge alcuna minaccia che Israele stesso potrebbe re-
care al suo stato di grazia. Eppure invano cercheremmo in que-
sti testi così diffusi una considerazione che a noi parrebbe ovvia,
ossia se Israele potesse effettivamente osservare la legge. Al pre-
dicatore deuteronomico i comandamenti appaiono senz'altro pra-
ticabili, anzi facilmente praticabili. La legge non minaccia in al-
cun modo lo stato di salvezza in cui si trova Israele. La preoccu-
pazione di questa parenesi non è che la legge chieda troppo a I-
sraele, ossia che Israele non possa osservarla, bensì che questo
non voglia farlo.
Se dal Deuteronomio preso come termine di confronto rivol-
giamo ancora una volta lo sguardo indietro, possiamo comunque
accertare un fatto di non poca importanza: prima del Deutero-
nomio non è mai esistita nell'ambito della rivelazione jahvista
un'entità nettamente definita che Israele potesse aver conosciuta
e chiamata legge. Con ciò non si vuol dire che Israele non si sia
sempre trovato di fronte (soprattutto nel culto, ma anche di fuo-
ri di esso) a rigorose richieste di Jahvé, ma il contenuto di que-
sta volontà divina non gli si presentava nella forma di una legge
esattamente fissata e facilmente riconoscibile. Al contrario ab-
biam visto come Israele nella storia del suo culto sempre minac-
ciato da nuovi pericoli si sia trovato costantemente nella neces-
sità di interpretare il primo o il secondo comandamento10. Que-
sta interpretazione della volontà di Jahvé ora tollerava certe pra-
tiche ora invece le respingeva duramente, ma in ogni caso era in
definitiva un fatto carismatico. Per le molteplici decisioni che si
dovevano prendere caso per caso nell'intrico delle pratiche di
singoli individui o gruppi del popolo. E anche quando veniva minacciata la di-
struzione di un'intera generazione, come per esempio nei racconti della peregri-
nazione nel deserto, non si trattava del ripudio definitivo di tutto Israele. Invece
è proprio questo che i profeti attendevano. Essi consideravano ormai interrotta
la salutare relazione di Jahvé con Israele. Con tali presupposti il discorso su
Jahvé che si rivolge a Israele poteva farsi soltanto in relazione ad una nuova
economia di salvezza. Per rendere credibile questo messaggio incredibile i profe-
ti nelle loro argomentazioni si richiamano spesso alla trasgressione dei comanda-
menti di Jahvé. Ma proprio questpjnodo di argomentare mostra chiaramente
una novità giacché in effetti i profeti si avvalgono di una concezione affatto nuo-
va della legge. Forse che in epoca anteriore ai profeti certe trasgressioni di una
norma del diritto fondiario (Is. 5,8) o una vita asociale di piaceri smodati (Am.
4,1; Is. 5,11-22) o l'oppressione dei poveri (Am. 2,6; 84) hanno attirato una
condanna a morte su tutto Israele.
13. Is. 5,24; 30,9.
14. Sulla scorta di Am. 2,6 ss.; 3,9 s.; 4,1; 84.6; 5,7.11; 6,12 R. Bach (v. sopra
La legge
479
nota più importante delle accuse la quale non concerne singole
trasgressioni di questa o quella norma dell'antico diritto divino,
bensì il totale mancamento ài Israele nei confronti di Jahvé. In-
dicative di questa tendenza a considerare nel suo complesso il
rapporto fra Israele e Jahvé sono le rievocazioni storiche più o
meno ampie alle quali i profeti ricorrono così spesso15. Essi do-
vevano richiamare tutta la storia della salvezza per coglierne l'e-
lemento decisivo. E questo era, come abbiam detto, il pieno falli-
mento di Israele. A questo punto diventa più importante chie-
derci in che cosa abbia mancato Israele. Forse nei confronti della
legge di Jahvé? Se consideriamo il lamento di Jahvé per i suoi
figli dissennati che egli ha allevati (Is. 1,2 s.) o dell'innamorato
per la 'vigna' nella quale ha profuso tante cure (Is. 5,1 ss.) o del
padre che una volta ha insegnato a camminare a Israele fan-
ciullo (Os. 11,1 ss.) la risposta è sempre la stessa: Israele ha man-
cato di fronte all'opera salvifica di Jahvé; il suo peccato consiste
nell'aver negletto la guida e i doni del suo Dio. Anche i richiami
al dispregio per la volontà normativa e giuridica di Jahvé non
hanno altro significato. In ogni caso non si può dire che i profeti
di quest'epoca mettano il loro popolo di fronte alla legge di Jah-
vé (ammesso che una 'legge' come l'intendiamo noi esistesse al
tempo loro); non sulla legge, ripetiamolo, è naufragato Israele,
ma sulla volontà salvifica di Dio. Quando si tenga ben fermo ciò
non v'è alcuna difficoltà a riconoscere anche le differenze che pu-
re esistono tra i vari profeti. Così la nostra affermazione che il
peccato di Israele si è manifestato di fronte all'opera salvifica del
suo Dio si può documentare nel modo più chiaro con Osea, men-
tre Amos e Isaia nelle loro accuse tengono conto anche delle tra-
sgressioni di singoli comandamenti. Ma Amos stesso compara si-
gnificativamente queste colpe particolari (Affi. 2,6 ss.) coi benefi-
ci elargiti da Jahvé nella storia della salvezza (Am. 2,9-12), men-
p. 163 n. 12) ha cercato di provare che Amos si rifa soltanto a norme dell'an-
tico diritto sacrale, ossia apodittico. A proposito di Michea v. W. Beyerlin, Die
Kulttraditionen Israels in der Verkiindigung des Propheten Micha (1959) 42 ss.
Per Ezechiele v. W. Zimmerli, Die Eigenart der prophetischen Rede des Eze-
chiel: ZAW 66 (1954) 1 ss.
15. Am. 2,9-12; 4,6 ss.; Is. 1,2 s.; 5,1 ss.; Mich. 6,1 ss.; Os. 11,1 ss.; Ier. 2,1 ss.
480 La legge
18. Abbiamo visto sopra in Is. 33,145. (v. sopra p. 314) un esempio del modo
in cui un profeta può radicalizzare le norme relative a una 'liturgia della porta'.
19. Per Ezech. 14,7 s. cfr. W. Zimmerli: ZAW 66 (1954) 24 s.
me dell'antico diritto sacrale era quindi un rischio ermeneutico;
quel che importava ai profeti non era infatti che le singole colpe
verso Jahvé fossero di nuovo debitamente punite ciascuna nel
suo ambito. Eppure proprio questa era la conseguenza semplice
e piana dell'attualizzazione delle antiche norme giuridiche. Si
potrebbe quindi obiettare che il richiamo a questo o a quel co-
mandamento trasgredito non bastasse a dimostrare giuridicamen-
te la perdizione di tutto il popolo perché il comandamento ri-
chiedeva solo di volta in volta la punizione del trasgressore o tut-
t'al più della sua schiatta e quindi non proprio e non tutto quello
che il profeta sosteneva. Eppure la perdizione di Israele è 'dimo-
strata' in quanto i profeti vedono il loro popolo sulla soglia di
un intervento affatto nuovo di Dio nella storia. I profeti colloca-
no in questa nuova prospettiva gli antichi comandamenti che ap-
paiono quindi in una luce diversa. Un esempio estremo di siffatto
modo di intendere un'antica norma ci viene fornito da Ezechiele
in Ezech. 20,25: l'idea che Jahvé ordinando l'offerta dei primo-
geniti abbia dato una 'disposizione nociva' che non poteva con-
durre alla vita è in contrasto assoluto con tutto il modo tradi-
zionale di intendere i comandamenti divini e non può trovare
giustificazione o sostegno se non nella visione tutta nuova delle
cose con la quale il profeta si è presentato al pubblico M. La pie-
na autorità con la quale i profeti fanno una cernita delle antiche
tradizioni, le applicano e le interpretano è sempre e soltanto ca-
rismatica.
zione, nel suo fallimento» (Weissagung una Erfùllung: ZThK 47 [1950] 360 ss.).
Ciò che il Bultmann dice delle «contraddizioni» in riferimento alla possibilità di
attuarsi delle idee veterotestamentarie dell'alleanza, del regno di Dio e del po-
polo di Dio è esatto: le parole divine che tracciano il programma di tutte le
istituzioni quando vengon fondate e di tutti gli uomini quando vengono chiama-
ti, si possono sempre riconoscere solo parzialmente negli adempimenti e nelle
esecuzioni corrispondenti a esse; quelle parole sembrano accennare sin dal prin-
cipio a un compimento escatologico. Ma con tutto ciò Jahvé non ha pur sempre
accompagnato la storia dell'A.T. e non si trovava egli già prima di Israele là do-
ve il suo popolo doveva giungere (dopo molti travagli e molte cadute) per parla-
re nuovamente con lui e continuare a sorreggerlo e a guidarlo? Parlare del 'fal-
limento' di Israele significa quindi, nella migliore delle ipotesi, cogliere soltanto
un aspetto della realtà.
27. K: Barth, Kirchliche Dogmatik 1/2, 100
La legge
491
Israele come sigillo della fedeltà di Dio nei confronti del suo po-
polo. In Cristo Dio ha disteso le sue braccia anzitutto verso I-
sraele {Rom. 10,21), ma Israele non ha riconosciuto quel che ser-
viva alla sua pace. Questo ripudio di Gesù Cristo segna nella sto-
ria di Israele il più profondo distacco dal centro stesso dell'even-
to salvifico. Non per questo viene però meno la fedeltà di Dio
verso il suo popolo; tuttavia hanno raggiunto la giustizia della
fede soltanto coloro che non aspiravano ad essa {Rom. 9,30) e
sono eredi delle promesse dell'antica alleanza.
30. Questo vale anzitutto per Paolo. Sulla sua dottrina della Legge vedi special-
mente R. Buitmann, Theologie des Neuen Testamenti 255 ss. L'interpretazione
Paolina che va ben oltre l'A.T. tocca la sua punta estrema in Gal. 3,17 dove si
afferma che la legge non doveva procurare la salvezza (vedi per questo Buitmann,
op.cit.,259). Ma anche la netta separazione della legge e della promessa conce-
pite come due rivelazioni compiutesi nella storia della salvezza non può essere
documentata con l'A.T. (Rom. 3,21; 7,1 ss.; Phil. 3,9).
La legge 493
31
fino alla morte . Egli ha sperimentato la desolazione di sentirsi
abbandonato da Dio che avevano già sperimentato Giobbe e gli
'ànàtvtm; in lui è divenuto realtà il sacrificio spirituale del pro-
prio io del quale avevano già parlato le pie cerchie levitiche; non
solo, ma egli si è accollato il compito nel quale i carismatici dell'an-
tica alleanza erano falliti, estendendolo però ben oltre i suoi limiti
veterotestamentari. Dio dunque aveva ragione: vi era Uno nel
quale l'occhio dell'accusatore non avrebbe trovato nulla {Iob 1,8;
2,3) e anche i profeti avevano ragione; non solo ma tutta la sto-
ria di Jahvé con Israele non era stata vana e non era terminata
con una domanda assolutamente intollerabile posta a Dio. Infine
con Gesù Cristo ha fatto il suo ingresso nella storia del popolo
di Dio colui che è 'interamente con Dio' e soltanto con lui Dio
si è avvicinato al proprio popolo in guisa personalissima, certo
molto più personale di quanto potesse avvenire con qualsiasi isti-
tuzione o ufficio dell'antico Israele. Ma Gesù Cristo era anche
colui nel quale, sempre secondo antiche predizioni, l'alleanza di
Jahvé con Israele si sarebbe allargata a tutte le genti e per opera
del quale i beni salvifici avrebbero perso il loro carattere 'mon-
dano'.
È giocoforza che qualsiasi interpretazione cristiana dell'Anti-
co Testamento si rifaccia in maniera particolare a Paolo. In defi-
nitiva è stato Paolo a dimostrare nel modo in certo senso più
coerente la continuità fra l'Antico Testamento e l'evento neote-
stamentàrio della salvezza. Ed è stato sempre Paolo che, eserci-
tando il «ministero dello spirito» (2 Cor. 3,8) ha tracciato nel
modo più audace le linee della tradizione dell'Antico Testamen-
to e le ha interpretate in maniera affatto nuova alla luce del Cri-
sto. Ma Paolo è pur sempre un interprete carismatico fra gli
altri; anch'egli non può e non vuole fissare una regola assoluta
per l'interpretazione cristiana dell'Antico Testamento e del re-
sto come potrebbe una comprensione così ardita qual è la sua
trasformarsi in una regola? Accanto a Paolo stanno Matteo e Lu-
ca e la lettera agli Ebrei e anche la loro interpretazione dell'An-
tico Testamento reca il sigillo .dello spirito. Non vi è quindi al-
5. «Quel che noi cerchiamo in essa (nell'esegesi) non dovrebbe essere propria-
mente... il libro in quanto tale, bensì l'uomo che sta dietro ad esso e che da esso
ci saluta e ci guarda negli occhi, ossia la personalità vivente e lo spirito e la vita
di tutta un'epoca che solo in apparenza è remota da noi», R. Kittel, Die Zukunft
der atl. Wissenschaft: ZAW 39 (1921) 94.
6. «Le deficienze di questo lavoro esegetico... sono evidenti: questioni principali
e secondarie non risultano chiaramente... Inoltre (ed è questo il peggio) di là di
tutte le molteplici informazioni che apprendiamo dall'esegeta vi è una cosa che
rischia di rimanere in ombra: il testo», H. Gunkel, Ziele und Methoden zur
Erklàrung des A.T., citato da H.-J. Kraus, Geschichte der historisch-kritischen
Erforschung des Alten Testaments (1956) 330.
Sguardo retrospettivo e prospettive
499
do storico-morfologico il quale insegnò appunto a rilevare nel te-
sto gli elementi specifici della sua forma e del suo significato. An-
che questo metodo non rifuggiva dallo spingere la ricerca di là
del testo quando si trattava di determinare una 'forma' di natura
cultuale o giuridica o aulica; ma di regola questo avveniva sol-
tanto per estrarre dal singolo testo tutto ciò che esso aveva di pe-
culiare. L'impostazione dei problemi e della ricerca secondo il
metodo di storia delle forme condusse a un incontro affatto nuo-
vo fra l'esegeta e la verità rivendicata dal testo giacché ora si
pose come finalità autonoma dell'esegesi quella di cogliere nel
modo più esatto possibile il significato del testo, ossia la res de
qua agitur. Era quindi pienamente logico che sul terreno della
storia delle forme germinasse la teologia kerygmatica giacché il
testo, considerato nel suo intendimento, era per solito riferito a
Dio come può esserlo una professione di fede in quanto vedeva
l'uomo nell'ambito di una determinata parola o azione di Dio.
In tal modo però il processo di comprensione storica dell'Anti-
co Testamento e la conoscenza del condizionamento storico dei
suoi contenuti si sono vieppiù radicalizzati. La strada verso l"u-
niversale' sembrava ormai del tutto sbarrata.
L'importanza teologica del metodo storico-morfologico non
si restringe però a questo. Se nel caso delle piccole unità narra-
tive la ricerca della loro forma e del loro significato omologico
si era dimostrato così fecondo, il problema si poteva allargare
anche alle grandi opere narrative. Le fonti del Pentateuco o l'o-
pera storica deuteronomica non si contentano di riferire taluni
incontri storici con Jahvé dei quali ciascuno poteva avere di per
sé la sua importanza. Sono testi che espongono invece periodi
storici di considerevole lunghezza che per l'autore avevano im-
portanza soltanto in quanto nel loro complesso apparivano voluti
e regolati da Dio tanto che ne era possibile ricavare una logica
delle operazioni divine. Israele ha quindi affrontato l'audace e
rischiosa impresa di delineare il governo storico di Dio non solo
nei particolari aneddotici, ma anche in più lunghe estensioni di
tempo (opera storica Jahvista, storia dell'ascesa di Davide, sto-
ria della successione al trono, ecc.).
Da allora si cominciò a parlare di 'storia della salvezza' e di
-QQ Sguardo retrospettivo e prospettive
7. Com'è diverso il procedimento di Erodoto! «Se sia vero che Serse abbia effet-
tivamente inviato quel messaggero ad Argo... non posso dire con sicurezza... Mio
dovere è riferire tutto ciò che viene tramandato, non di prestarvi fede. Questo
vale per tutta la mia opera storica», Herod. 7,152.
506 Sguardo retrospettivo e prospettive
Genesi 4: 9411.1
i - n : 419 4,1: 76
1: 13211.11,133 4,10 ss: 76
i,i-2^a: 409 4,10: 305 n. 42
2 s: 44011. 9 4,12: 76
2,10 ss: 377 n. 35 4,16: 70
2,19 s: 105 4,21: 183 n. io
3: 212,419 n. 27 6,3: 388
5,24: 372 7,1: 28,70
8,22: 127 7,5: 183 n. 11
9,8-17: 418 9,12: 183 n. i o
i o : 412 9,16: 183
10,10: 137 10,1: 183 n. i o
12,1-3: 432 10,20: 183 n. io
12,3: 452,494 n. 32 10,27: 183 n. io
15,6: 458 11,9: 183 n. 11
16,12: 456 n. 29 12: 386 ti. i
20,7: 28 12,11: 130,290
28,12: 440 n. 9 13,2: 476n. 11
29,7: 125 13,11-15: 47611. n
32: 392,464 14 s: 130 n. i o
32,4 ss: 55 n. 8 1 4 4 : 183 n. 11
3*,9'- 40 14,13: 192
32,23 ss: 393 14,17: 183 n. 11
32,30: 456 n. 29 14,20: 151
35,18: 107 14,31: 190,192,30511.42,458
37,6 ss: 367 15,14 s: 151 n. 38
41,25 ss: 366 15.17 s: 343 n - 1 9
41,33 s: 368 15,20: 28,73
45,7'- 40 19 s: 37
45,9: ^5 n. 8 19,9: 45811. 32
49: 2911.13,30 20,2 ss: 472
49,8-12: 29 s 20.18 ss: 252
50,20: 445,448,449 21,12: 472
50,24= 335 21,15-17: 4 7 2
22,12: 161
Esodo 22,19: 35
3-4: 76 23,15: 129
3,1 ss: 388 23,27 s: 151 n. 38
520 Indice dei passi biblici
11,32: 343 2 Re
12,15: 183 1: 31,40
13: 23 1,3 s: 52 n. 2
13,18: 23 2: 43
13,20: 81 2,1-13,21: 43 n. 38
14,1 ss: 28 2,3: 23
14,7 ss: 29 2,5: 23
16,29: 33 2,7: 23
16,32: 33 2,9: 4311.39,77
17,1-19,18: 31 2,12: 44,47
17,1-7: 5211.2 2.15: 23,77
17,1: 35.41.114 2,16: 77
17,8-16: 52 n. 2 3.15: 81
17,14: 48 n. 47 3,16 s: 72
17,17-23: 4511.42 3.27: 413
17.17-24: 52 «• 2 4.1-7: 44
17,23: 44° 4,1: 23
18,r ss: 28 n. i o 4,7: 23 11.1
18,12: 77 4,9: 23 n. 1
18,15: 41 4,16: 23 n. 1
18,17-40: 33 s 4,21 s: 23 n. 1
18,19: 33 4,23: 46
18,26 ss: 25 4,25: 2311.1
18,30 ss: 72 4,27: 23 n. 1
1 8 4 6 : 81 4,29-37: 4 5 0 . 4 2
19: 36 s 4.38: 23,44,53
I9.9-I4-- 36 n- 25,37 4 4 0 : 23 n. 1
19,10: 36,41 4,42: 23 n. 1,44011. 9
19,18: 38 5: 48
19,19 ss: 76,77,9411.1 5,8: 23 n. 1
20,3: 5511.8 5,14 s: 2311.1
20,13 s : 55 "• 6,72 5,20: 23 n. 1
20,22: 72 5,26: 4 5 ^ . 4 3
20,28: 72 6,1: 44,53
20,38: 43 n. 40 6,2: 44
20,41: 43 n. 40 6,8-23: 47
21: 31,40 6,9: 72
21,17-20: 52 n. 2 . 6,12: 44,4511.43
21,19: 98 6,21: 44
22: 88 6,32 s: 45 n. 43
22,6: 72 7,1: 48 n. 47
22,9 ss: 43 n. 37 8,7-15: 38 n. 29, 39 n. 30, 46,48
2 2 , n ss: 24911.27 8,10 ss: 45 n. 43
22,12: 72 9-10: 46
22,15: 72 9,1 ss: 38 n. 29, 3911. 30
22,19-22: 76, 85, 86 e n. 15 9 , n : 25
22,20: 86, 94 10,10: 119 n. 20
22,21: 181 10,18 ss: 33
22,21 ss: 77, 248 13,14 ss: 4711. 45,122
22,24: 77 14,25: 339
Ìndice dei passi biblici 523
2 Maccabei 37.4:358
7: 246 n. 23 46 s: 360 n. 6
60,17 s s : 366 n. 15
Tobia 70 s: 360 n. io
13, s: 356 71: 36011. 6
13,9 ss: 348 72-82: 359
14.5 ss: 348 72,1: 35811.3
80,7: 369
Baruc greco 81,1:35811.3
2-16: 360 n. i o 82,1: 358 n. 3
83.7: 363
Ecclesiastico 85-90: 363 n. 12,365
4,20: 366 90,28-33: 348
6,24-30: 403 90,29: 348
10,8: 371 91,1-11: 368 n. 19
16,2^: 221 91,12-17: 362 n. 12,365
20.6 s: 366 91,16: 373
24:41911.27 9 T ,i7: 133 n. 16
27,12: 366 92,1: 357,360
35,3: 221 92,2: 363
38,14: 360 93: 362 n. 12,365
39,1: 371 93,1: 35811.3
39,25: 366 94-104: 368 n. 19
44 ss: 371 103: 368
51,23-27:403 108,1:3580.3
Antico Testamento
Nuovo Testamento
Altre abbreviazioni
ass. Mos. assumptio Mosis Iub. Libro dei Giubilei
Bar. syr. apocalisse siriaca di Baruc Ps. Sai. Salmi di Salomone
4Esdr. 4 Esdrae iQpAb Commento ad Abacuc
Hen. aeth Henoch aethiopicus Sib. Sibyllini libri
Hen. slav. Henoch slavus test. L. testamentum Levi
PARTE PRIMA
x
Cap. I. - Introduzione 9
22
Cap. II. — La profezia preclassica
i. Le origini 22
2. Elia 31
3. Eliseo - 43
Cap. III. - Lo stadio preletterario delle tradizioni profe-
tiche 51
Cap. IV. - Vocazione profetica e rivelazione divina 7°
Cap. V. - La libertà del profeta 93
Cap. VI. - La parola di Dio 104
Cap. VII. - La concezione ebraica del tempo e della storia
e l'escatologia biblica 124
1. La genesi del concetto ebraico di storia 124
2. Dalla storia all'escatologia . . 139
3. Il giorno di Jahvé 146
PARTE SECONDA
Cap. I. -Amos e Osea 155
1. Premessa 155
544 Indice generale
2. Amos 157
3. Osea 166
PARTE TERZA
Cap. I. - L'attualizzazione dell'Antico Testamento nel
Nuovo 385
Cap. IL - La concezione veterotestamentaria del mondo
e dell'uomo e la fede cristiana 405
Cap. I I I . — La salvezza nell'Antico Testamento ed il suo
compimento nel Nuovo 430
Indice generale 545
La lettera di Giacomo
Testo greco e traduzione
Commento di FRANZ MUSSNER
pp. 376, L. 5.000
i. Karl Prìimm
Il messaggio della lettera ai Romani
pp. 214, L. 1.500'
2. Joachim Jeremias
Gli agrapha di Gesù
Esaurito
3. Joachim Jeremias
Le parabole di Gesù
seconda edizione italiana riveduta
PP- 304, L- 3-500
4. J. Schildenberger
Realtà storica e generi letterari nell'A.T.
pp. 220, L. 2.000
y. Pietro Dacquino
Bibbia e tradizione
pp. 80, L. 500
6. Josef Blinzler
II processo di Gesù
pp. 480, L. 5.000
7. Luis Alonso Schokel
La parola ispirata
Esaurito
8. José S. Lasso De La Vega
Eroe greco e santo cristiano
pp. 104, L. 1.200
9. Hugo Rahner
L'homo ludens
pp. 96, L. 1.000
io. W. Knevels
Dio è realtà
pp. 308, L. 3.000
11. Hans von Campenhausen
I padri greci
pp. 224, L. 2.000
12. Josef Rupert Geiselmann
Gesù il Cristo
I. Il Gesù storico
pp. 224, L. 2.000
13. James M. Robinson-Ernst Fuchs
La nuova ermeneutica
pp. 144, L. 1.500
14. J. Alberto Soggin
Introduzione all'Antico Testamento, voi. I
Esaurito (in prep. la seconda ed.)
15. R. J.Ehrlich
Teologia protestante e teologia cattolica
pp. 302, L. 3.000
16. J. Alberto Soggin
Introduzione all' Antico Testamento, voi. II
Esaurito (in prep. la seconda ed.)
17. Heinrich Schlier
Riflessioni sul Nuovo Testamento
pp. 496, L. 5.000
18.O. Cullmann e altri
II dialogo è aperto
pp. 368, L. 3.000
19. Luis Alonso Schokel
Il dinamismo della tradizione
pp. 285, L. 2.500
20. Valdo Vinay
La riforma protestante
pp.'488, L. 4.000
21. C. HaroldDodd
L'Autorità della Bibbia
pp. 304, L. 2.500
2 2. Autori vari
Rivelazione e morale
pp. 176, L. 2.000
23. Joachim Jeremias
Le parole dell'ultima cena
pp. 368, L. 5.000
28. Valdo Vinay
Ecclesiologia ed etica politica in Giovanni Calvino
pp. 208, L. 2.000
STUDI BIBLICI
i . L i n o Randellini, La Chiesa 14.0.Semmelroth e M.Zerwick,
dei Giudeo-cristiani, pp. 80, 1/ Vaticano II e la parola di
L . 700 Dio, pp. 80, L. 800
2. Norbert Lohfink, Ascolta, I- 15. Charles Fr. D. Moule, Le o-
sraele. Esegesi di testi del rigini del Nuovo Testamen-
Deuteronomio, pp. 144, L. to, pp. 336, L. 3.000
r.300 16. Charles Harold Dodd, Secon-
3. Pierre Grelot, Riflessioni sul do le Scritture. Struttura fon-
problema del peccato origina- damentale della teologia del
N.T., pp. 160, L. 1.700
le, pp. 144, esaurito
17. Siegfried H e r m a n n , Il sog-
4. Gerhard Lohfink, La conver- giorno d'Israele in Egitto,
sione di San Paolo, pp. 120, pp. 144, L. 1.300
L . 1.000 18. Ernst Kasemann, Prospetti-
5. Josef Blinzler, Giovanni e i ve paoline, pp. 240, L. 2.500
Sinottici, pp. 128, L. 1.200 19. Giuseppe Ghiberti, I raccon-
6. Franz Mussner, Morte e re- ti pasquali del cap. 20 di Gio-
surrezione, pp. 72, L. 800 vanni, pp. 176, L. 1.800
20. Ferdinand Hahn, Il servizio
7. Philipp Seidensticker, Paolo
liturgico nel cristianesimo pri-
l'apostolo perseguitato di Ge-
mitivo, pp. 130, L. 1.500
sù Cristo, pp. 144, L. 1.200
21. Charles Harold Dodd, La
8. Rudolf Pesch, La visione di predicazione apostolica e il
Stefano, pp. 88, L. 800 suo sviluppo, pp. 120, L.
9. Charles Harold Dodd, Attua- 1.300
lità di San Paolo, pp. 176, L. 22. R. M. Grant, La formazione
1.700 del Nuovo Testamento, pp.
io. Charles Harold Dodd, Le pa- 2 0 8 , L. 2.200
rabole del regno, pp. 208, L. 23. Giovanni Rinaldi, I canti di
2.000 Adonaj. Introduzione storico-
religiosa ai Salmi, pp. 160,
r i . Jacques Dupont, Le tentazio-
L. 2.000
ni di Gesù nel deserto, pp.
24. Wolfhart Pannenberg, Cri-
160, L. 1.700
stianesimo e mito. Nuove
12. Alkuin Heising, La moltipli- prospettive del mito nella
cazione dei pani, pp. n o , L tradizione biblica e cristiana,
1.000 pp. 120, L. 1.500
13. Marco Adinolfi, La Turchia 25.Sigrid Loersch, Il Deutero-
greco-islamica di Paolo e Gio- nomio e le sue interpretazio-
vanni, pp. 168, L. 1.500 ni, pp. 160, L. 2.000