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Augustin George
e Pierre Grelot
introduzione
al nuovo testamento
volume nono
Pierre Grelot
con la collaborazione di
M. Carrez - E. Cothenet - G. Rochais
la liturgia
nel Nuovo Testamento
boria
Titolo originale
L'introduction à la Bible
Le Nouveau Testament
Volume 9: La liturgie dans le Nouveau Testament
© 1991, Editions Desclée, Paris
© 1992, Edizioni Boria s.r.l.
via delle Fornaci 50-00165 Roma
Traduzione italiana e indici di Carlo Valentino
Collaborazione redazionale di Lorenzo De Lorenzi
ISBN 88-263-0863-2
al lettore
5
di studiare qui la tradizione ecclesiastica antica, ma di
esplorare il contenuto della tradizione fondatrice dovuta
agli apostoli, che resta una «regola ultima» per tutti i tem-
pi. È, questa, un'operazione essenziale per ritrovare l'uni-
tà della Chiesa a partire dalla sue stesse radici, colte nel
Nuovo Testamento tenendo conto del suo sviluppo inter-
no. Si spera di dare così un contributo efficace alla restau-
razione dell'unità della Chiesa, non certo fornendo delle
soluzioni bell'e pronte ai problemi che vengono sollevati
oggi da più parti, ma ritrovando i principi guida che li illu-
minano in seno alla stessa Scrittura.
6
Lista delle abbreviazioni
7
al NT si ha: Did=Didachè; lClem=prima lettera di san Clemente ai
Corinti. Per i testi di Qumran: lQS=Regola della comunità;
lQH=Rotolo degli inni; CD=Documento di Damasco. Gli altri titoli
figurano per esteso, almeno nella loro prima citazione. Nelle raccolte
degli articoli: FS= Festschrift
8
Premessa
9
rebbero far camminare a ritroso lo studio scientifico e
pastorale dei testi 2 - • • • • • • • •
L'annuncio del Vangelo, dappnma m ambienti gmdmci di
lingua aramaica (o ebraica) e greca, poi tra le popolazioni
non giudaiche disseminate intorno al bacino del Mediter-
raneo, suscitò la comparsa della prima riflessione teologi-
ca, in un contesto essenzialmente pastorale e per i bisogni
dell'attività pastorale. La lettura delle Scritture, reinter-
pretate in funzione dell'evento di Gesù Cristo, ne fornì la
base, lo strumento e la fonte essenziale.
Da qui l'importanza della letteratura omiletica: dapprima
in un contesto sinagogale per annunciare il Vangelo ai giu-
dei spiegando il significato delle azioni e delle parole di
Gesù, chiarendo l'enigma della sua morte e annunciando
la sua risurrezione dai morti; poi nel contesto delle assem-
blee cristiane <<come Chiesa>>, dove venne ripresa l'abitudi-
ne della lettura delle Scritture, mediante un'interpretazio-
ne nuova che permetteva di nutrire la fede in Gesù Cristo.
Questo genere di predicazione iniziò molto presto, conti-
nuò durante tutto il tempo degli apostoli e dei loro disce-
poli, prima di essere trasmesso come un'usanza costante
alla tradizione ecclesiastica successiva. Per tale ragione il
volume VIII della nostra «Introduzione al NT>> è stato de-
dicato allo studio delle omelie sulla Scrittura, così come
se ne può percepire un eco più o meno diretto nei diversi
libri del Nuovo Testamento: vangeli, Atti degli apostoli e
lettere. In tutti questi casi, la predicazione ha preceduto
gli scritti dovuti agli autori della Chiesa primitiva, apostoli
e altri. Si è visto, in questo volume VIII, che la traccia del-
le omelie è ancora percepibile, grazie al confronto di alcu-
ni passi particolari con gli schemi in uso nel giudaismo
del tempo (o dell'epoca seguente, che ne avrebbe conserva-
to l'uso).
Da questa prospettiva si penetrava già nel contesto delle
assemblee cristiane. È necessario esaminare ora in modo
sistematico proprio queste assemblee per vedere per
quanto possibile come si svolgevano le «riunioni di Chie-
sa>> (lCor 11,18), ciò che vi si faceva, come vi si pregava,
10
quale luce la conoscenza di tutto ciò può gettare sugli
scritti <<apostolici» (nel senso generale del termine, che in-
globa tutto il Nuovo Testamento). Bisognerà inoltre sce-
gliere dei testi indicatori per analizzarne il contenuto e le
<<forme», e per situarli nel <<contesto vitale» al quale cia-
scuno di essi era adattato perché vi adempisse la sua fun-
zione di «letteratura di Chiesa». Abbiamo qui di mira un
«contesto vitale» del tutto specifico come oggetto primario
della ricerca intrapresa: la «liturgia» della Chiesa, nata al-
l'epoca degli apostoli, continuata e sviluppata al tempo dei
loro discepoli, trasmessa nei secoli seguenti come un de-
posito tradizionale che poteva svilupparsi solo restando
fondamentalmente fedele alle sue origini. L'impresa è ab-
bastanza ardua perché i testi da consultare e da far valere
sono dispersi in tutto il Nuovo Testamento. Possiamo tut-
tavia porre come principio che nessuno dei libri contenuti
in esso fu composto astrattamente come una specie di
«teologia da scrivania>>, senza una diretta relazione con
l'attività pastorale dell'autore al quale lo si deve. Ora, con
l'annuncio del Vangelo che poteva essere fatto individual-
mente o in pubblico in ogni sorta di circostanza, le <<as-
semblee di Chiesa>> erano al centro di questa attività pa-
storale: non solo per la predicazione, come abbiamo visto
a proposito delle omelie nel volume VIII, ma per tutti gli
elementi costitutivi della nascente liturgia cristiana.
L'importanza dell'attuale ricerca è immediatamente perce-
pibile non appena si comincia a studiare le origini della
tradizione cristiana, non dal punto di vista dei rapporti tra
la Chiesa e le società civili che la circondano, ma sotto i
suoi aspetti interni più originali. Non c'è religione senza
culto: quali sono stati allora, fin dalle origini, i tratti speci-
fici del culto cristiano? All'inizio di questo secolo, quando
gli studi delle religioni comparate era giunti al culmine, L.
Duchesne studiava già Le origini del culto cristiano. Ma
egli si limitava a una ricerca su <<le principali cerimonie
del culto cattolico, dal quarto al nono secolo, nelle chiese
dell'occidente latino>> 3 • C'era allora ancora molta esitazio-
ne a spingere gli studi critici fino all'interno del Nuovo Te-
stamento; o piuttosto si era tentati di ammettere più o me-
11
no che tutto quanto era apparso nei primi quattro secoli
esisteva già tale e quale al tempo degli apostoli. Da allora
la storia della liturgia ha fatto enormi progressi, così co-
me lo studio critico del Nuovo Testamento. Le due corren-
ti avevano avuto inizio dopo la prima guerra mondiale e
conobbero un grande sviluppo dopo la seconda. Le encicli-
che di Pio XII, Divino afflante Spiritu (1943) e Mediator
Dei (1947), diedero loro un nuovo impulso. Si moltiplicaro-
no allora i libri, gli articoli, gli studi particolari, le sessio-
ni di lavoro. Il Concilio Vaticano II ha beneficiato di tutto
ciò per esporre serenamente la dottrina della Chiesa nelle
sue due «Costituzioni» sulla liturgia (Sacrosanctum Conci-
lium, 1963) e sulla divina rivelazione (Dei verbum, 1965).
Poi, così come il Concilio di Trento aveva incaricato il pa-
pa Pio V di promulgare una riforma liturgica per porre fi-
ne a un certo disordine e modernizzare i testi in uso, spes-
so mal concepiti 4 , l'ultimo concilio incaricò il papa Paolo
VI, aiutato da un «Consilium» costituito specialmente per
questo scopo, di operare una nuova riforma della liturgia
di rito latino, tanto per il Messale che per il Rituale e l'Uf-
ficio divino. Questa riforma fu operata sulla base di studi
seri e con una sicura preoccupazione pastorale, senza
preoccuparsi troppo di alcuni circoli impazienti che avreb-
bero inventato qualsiasi cosa pur di apparire «aggiornati>>.
Essa fu contestata solo da alcuni ambienti legati a un ottu-
so «tradizionalismO>>, che non aveva niente a che vedere
con l'autentica tradizione della Chiesa; tradizione che del
resto i suoi adepti non conoscevano molto. Bisogna costa-
tare, ahimè!, che il gruppo legato a Mons. Marcel Lefebvre
ha abbandonato da allora il cattolicesimo per organizzare
una conventicola dissidente. Ma lì non è chiamata il causa
solo la liturgia.
L'oggetto della presente ricerca è quello di «risalire alla
12
fonte», circoscrivendo i tratti della prima liturgia cristia-
na nello stesso Nuovo Testamento. Dato che questo non
contiene alcun trattato di liturgia, non rimane che ricorre-
re all'aiuto di un metodo analitico che applica a libri inte-
ri o a parti di essi le regole di ciò che viene impropriamen-
te chiamata la <<critica delle forme»: ci proponiamo piutto-
sto di studiare il rapporto tra la forma e la funzione dei te-
sti, nell'ambiente ecclesiale per il quale furono composti.
La determinazione di questo rapporto richiede più di un
tentativo per giungere a un esatto aggiustamento, ma essa
illumina al tempo stesso i testi da cui si era partiti e la vi-
ta di un ambiente che si può percepire dietro di essi. Colo-
ro che, ancora oggi, si presentano come degli avversari ri·
soluti della Formgeschichte dimostrano semplicemente di
non averne compreso né l'obiettivo né le procedure: essi
hanno creduto, dopo una lettura superficiale dell'opera di
Rudolf Bultmann o dei suoi seguaci, che questo metodo
aveva il solo scopo (o il solo effetto) di minare la storicità
dei vangeli, o anche l'antichità e l'autenticità letteraria de-
gli scritti apostolici. Possiamo lasciare da parte questi
pregiudizi di cui alcuni restano ancora imbevuti 5 . La mi-
gliore confutazione di un tale errore consisterà nel dimo-
strare, con la pratica, la fecondità dei metodi in questione,
per una migliore conoscenza dell'ambiente vivo nel quale
furono composti i libri del Nuovo Testamento. Questo am-
biente vivo era un ambiente di preghiera: la liturgia, sotto
diverse forme, era la sua preghiera comunitaria. Là dove
se ne possono riafferrare degli echi più o meno chiari, si
intravede la vita stessa della Chiesa primitiva, che conti-
nua ad alimentare la preghiera ecclesiale di oggi. La ricer-
ca si situa quindi al confine tra l'esegesi biblica e la rifles-
sione pastorale. In questa prospettiva, le discussioni criti-
che circa i problemi degli autori e delle date perdono mol-
to dell'importanza che possono eventualmente avere nel-
l'esegesi propriamente detta. L'essenziale è che ci si veda
immersi nella vita delle comunità cristiane al tempo degli
apostoli, dei loro discepoli, o addirittura dei discepoli dei
loro discepoli: è sempre la tradizione apostolica che si toc-
13
ca così il più da vicino possibile. Siamo alle fonti della
fede.
Lo studio intrapreso per guidare i lettori del Nuovo Testa-
mento <<operando dei tagli» di libro in libro, comporterà
tre tappe di lunghezza diversa.
14
ogni creazione autentica, sotto la guida della Chiesa come
corpo costituito.
EXCURSUS
15
pare . qui subito ai nostri occhi un modo di vedere che è già
pienamente sufficiente per allontanare la sorpresa che al-
trimenti proveremmo davanti alla molteplicità dei riti allo-
ra in uso nella Chiesa primitiva, ma sui quali il Nuovo Te-
stamento conserva il silenzio; ed è sufficiente anche a for-
zare la nostra sottomissione a quei riti che sono stati con-
servati dai tempi antichi fino ai nostri giorni e che sono
conformi alla Scrittura.
<<Questa conclusione si accorda con il comandamento chia-
ro e forte dato dall'apostolo (2Ts 2,15): "Fratelli, state saldi
e mantenete le tradizioni che avete appreso così dalla no-
stra parola come dalla nostra lettera". [... ] Si ha l'impres-
sione in questo caso che la molteplicità dei dettagli che
componevano il rituale della Chiesa rendeva impossibile
per Paolo notarli tutti per iscritto e che egli non poteva fa-
re altro che ricordare ai Corinzi il modo in cui egli stesso
osservava le regole religiose durante il suo soggiorno in
mezzo a loro (cfr. 1Cor 11,1s). Va da sé che, nel funziona-
mento di ogni grande organizzazione, ci sono moltissimi
dettagli che un solo capo non può fissare da solo. [... ] Cosi
faceva San Paolo per quanto concerneva l'organizzazione
della condotta e del culto cristiani; se non poteva recarvisi
di persona, mandava al suo posto Timoteo (cfr. 1Cor
4,16s)».
16
parte prima
Il contesto
della
liturgia cristiana
capitolo primo
Le riunioni
come 'cChiesa»
19
(la ll a l oro s t a t u a , era una piccola. stanza
. che non poteva in
l servire da sala di numone; ma essa poteva es-
a cun caso . . . d" . I . l .
ircondata da sale, corti11 e g1ar m1. n part1co are, 1
~~~~i ~isterici comportavano dei riti di iniziazione che esi-
gevano delle sale abbastanza ampie da poter accogliere
un'assemblea più o meno numerosa e, eventualmente, la
celebrazione di un dramma rituale 1 . È possibile che le as-
semblee cristiane, viste dall'esterno dai pagani che non ne
conoscevano la ragione vera, siano state da essi assimilate
a dei <<misteri» orientali. Ma, viste dall'interno, non vi so-
migliavano affatto: è dal giudaismo che bisogna partire
per comprenderne l'organizzazione e il funzionamento, a
patto di notare ciò che esse hanno di specifico.
20
l, 14-17). Questa predicazione fondamentale è una procla-
mazione (keryss6 l kérygma) di cui gli apostoli e gli altri
missionari sono gli araldi (kéryx: l Tm 2,7; 2Ts l, 11) 2 .
21
sem bl ea fornisca un modello che potràh essere
. trasferito
..
nelle assemblee cristiane: è un punto c e ntroveremo pm
avanti.
b) In ambiente non giudaico, bisogna stabilire una distin-
zione tra due categorie: da una parte dei pagani attratti
dal monoteismo e dalla rigida morale dei giudei che, senza
arrivare, per gli uomini, fino alla circoncisione che avreb-
be fatto cambiare loro la «nazionalità» incorporandoli in
Israele (per esempio il centurione Cornelio: At 10,1-2, o la
commerciante di porpora Lidia: At 16, 14); dall'altra coloro
che ancora non hanno ricevuto questo primo contatto con
la tradizione rivelata. Nel primo caso il kerygma può con-
servare la stessa forma generale di quando ci si rivolge a
dei giudei (così At 10,34-43, il cui schema è lo stesso di
quello di At 2,14-36; 3,12-26; 13,16-39). Nel secondo caso,
che si presenta ad Atene (At 17,19-21), com'era già stato il
caso di Derbe (At 14,14-17) e più tardi di Efeso (cfr. At
19,9-1 0), il kerygma propriamente cristiano dev'essere pre-
ceduto da un annuncio più generale della fede nel Dio
creatore (At 17,22-29; cfr. 14,15-17): questo schema si ritro-
va esattamente nell'allusione alla predicazione ricevuta
dagli antichi pagani di Tessalonica (l Ts 1,9-10). Ma lì si
tratta sempre - ricordiamolo - solo della predicazione
iniziale che conduce alla fede e prelude al battesimo. In
seguito iniziano le ruinioni propriamente cristiane.
Le lettere possono evidentemente racchiudere solo degli
echi attutiti di questa predicazione preliminare. Esse con-
tengono soltanto delle allusioni alla professione di fede
che ne era il punto culminante e che era legato al ricevi-
mento del battesimo. Ma si entra allora nel contesto dei ri-
ti propriamente cristiani, di cui si parlerà più avanti.
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semblea religiosa che sostituisce l' ekklèsia di Israele, cioè
il qahal l qehala riunito per la preghiera e il servizio di Dio
a partire dal Sinai (cfr. At 7,38): questo si è in qualche mo-
do dilatato aprendosi a tutti coloro che hanno riconosciu-
to Gesù come il Cristo-Signore (At 2,36), così che non è più
limitato al solo popolo d'Israele ma aperto ai credenti ve-
nuti da tutte le nazioni. La «riunione» cultuale dei cristia-
ni non è un' ekklèsia come le altre: è, in ogni luogo, la ma-
nifestazione dell'unica Ekklèsia di Dio in Gesù Cristo 4 .
4 Su questo uso del termine ekklesia, che deriva direttamente dal suo
uso nella Bibbia greca, si veda l'articolo: «Sur cette pierre je batirai
mon Église (Mt 16,18b}», NRT 109 (1987), pp. 641-646; Les ministères
dans le peuple de Dieu, Cerf, Paris 1988, pp. 38-41, contro la tesi di E.
Schillebeeckx, Plaidoyer pour le peuple de Dieu, Cerf, Paris 1987, pp.
51s, secondo cui <<il gergo» proprio dei cristiani è «in dipendenza dei
campi semantici comuni>>. Si minimizza così al massimo l'influenza
della Settanta nella creazione di questo termine tecnico.
23
mente dei propri formulari di preghiera: Giovanni Battista
ne aveva insegnati ai suoi discepoli, secondo la tradizione
riportata da Le 11,1. Il formulario primitivo del Qaddish,
in aramaico, era stato una preghiera privata prima di es-
sere incorporato in un formulario sinagogale. Il Pater, in-
segnato da Gesù al suo gruppo di discepoli nella lingua di
tutti i giorni - cioè molto verosimilmente in aramaico 5 -
era ugualmente una preghiera privata (Le 11,1-4, trasfor-
mato in preghiera ufficiale dalle assemblee di Chiesa nella
recensione di Matteo, Mt 5,9-13). I «gruppi di purità» della
corrente farisaica tenevano certamente le loro riunioni,
scrupolosamente fedeli alle regole proprie che si erano fis-
sati (cfr. le aspre critiche di Gesù in Mt 23,16-18.23.25); si
limitavano forse alla recita di preghiere abituali? 6 Non
parliamo poi del grupo molto chiuso di Qumran, che aveva
la propria liturgia; ma che cosa si faceva nei gruppi di es-
seni <<laici» sparsi in tutto il paese secondo la testimonian-
za di Giuseppe? I giudei di lingua greca che vivevano in
Giudea avevano le proprie sinagoghe (cfr. At 6,9). Ma i giu-
dei convertiti al Vangelo avevano preso coscienza della lo-
ro singolarità in rapporto agli altri, come discepoli di Ge-
sù morto in croce e risuscitato per la potenza di Dio: non
era più la sinagoga il posto dove essi potevano mettere in
comune questa nuova forma di fede giudaica e la preghie-
ra comunitaria che essa ispirava
Potevano quindi farlo solo in case particolari (cfr. At
2,46b). Lo si costata esplicitamente a Gerusalemme in At
12,12 dove si parla della casa di Maria, madre di Giovanni
soprannominato Marco, dove è riunita un'assemblea abba-
stanza numerosa. Da questo momento, e fin dalle origini,
le chiese locali non hanno altri luoghi di riunione che quel-
li che vengono offerti dalla generosa ospitalità dei fedeli
un po' più ricchi degli altri 7 . In ambiente giudaico questo
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è ancora più comprensibile per il fatto che l'ospitalità è
una tradizione ancestrale. Quando dei fedeli di origine pa-
gana entrano nelle chiese, a partire dal loro insediamento
ad Antiochia verso il 44/45 (At 11,20-26), questa tradizione
continua. Essa è del resto una necessità poiché i <<cristia-
ni» (11,26b) non hanno uno statuto definito nella società
civile: come tali, non sono più giudei, ma nemmeno appar-
tengono a un'altra <<religione autorizzata». L'autorizzazio-
ne ufficiale dell'amministrazione imperiale non viene del
resto concessa facilmente. A rigore potevano essere presi
per una setta filosofica: a Efeso, Paolo discute con i suoi
ascoltatori nella scuola di Tiranno (At 19,9) e la recensione
occidentale precisa anche che egli vi insegnava dalla quin-
ta alla decima ora (codice D). Ma come mai questi adepti
di una <<nuova filosofia» hanno anche un modo di vita par-
ticolare e delle riunioni in giorni fissi, dopo la giornata di
lavoro? Sono decisamente inclassificabili.
25
20,5) sono qui molto preziosi per situare il fatto nell'anno
liturgico, il cui modello resta ebraico: un viaggio di cinque
giorni dopo la settimana degli azzimi, poi un'attesa di set-
te giorni a Troade (20,5). Paolo deve partire l'indomani
mattina a piedi alla volta di Asso (20,13). Ma la riunione
notturna ha lo scopo di celebrare la «frazione del pane»
(20,7a e lla). Si vede così che la celebrazione eucaristica,
nel giorno che ricorda la risurrezione del Signore, è al
centro dell'assemblea cristiana. Presidente dell'assemblea
è naturalmente Paolo. Per preparare questa celebrazi()ne,
Paolo conversa a lungo con i fedeli, ma non c'è alcuna in-
dicazione circa i temi del suo discorso: lettura di testi del-
la Scrittura seguita da un'omelia? spiegazione di un episo-
dio evangelico o di alcune parole del Signore? Siamo co-
stretti alle ipotesi. La riunione ha luogo in una casa priva-
ta, situata al terzo piano di un immobile (20,9b); c'è una
stanza illuminata da numerose lampade e arieggiata da
una finestra aperta. A questo punto gli Atti riferiscono il
<<fatto diverso» dell'adolescente che cade dalla finestra ed
è creduto morto e che Paolo prende e riporta vivo. Questo
aspetto aneddotico della scena occupa più spazio dei tratti
essenziali che ci interesserebbero: la predicazione e la ce-
lebrazione liturgica. Si sa soltanto che Paolo continuò a
parlare fino all'alba (20,11). Paolo parte.allora dopo una
notte insonne, mentre coloro che erano venuti in nave
(20,5) riprendono il mare per aspettarlo ad Asso (20,13).
2) Maggiori dettagli sulla riunione di Chiesa ci vengono
forniti nel lungo passo di 1Cor 11,2-12,31 + 14,1-40. Paolo,
informato da alcuni responsabili della chiesa locale che
sono venuti ad Efeso per fargli un rapporto (l Cor 16, 17-
18), dà delle istruzioni su alcuni punti che fanno difficoltà.
È qui sufficiente enumerarle per vedere emergere delle at-
tività caratteristiche di ogni riunione. La questione del
contegno delle donne e degli uomini (11,2-16) racchiude
un'importante allusione a ciò che i fedeli fanno - o posso-
no fare: la preghiera e la profezia (11,4-5) sono delle escla-
mazioni o dei discorsi a voce alta che mostrano un'assem-
blea attiva o perfino un po' tumultuosa, in cui è un fatto
comune prendere la parola per l'edificazione di tutti. Que-
di Luca nella seconda parte degli Atti parlerebbe in suo favore. È for-
se questa la ragione per cui il suo nome non appare in nessuna parte
degli Atti?
26
sto può causare delle difficoltà a colui che presiede e che è
responsabile dell'ordine. Il passo dedicato alla <<cena del
Signore» (11,17-34) ha solo uno scopo pratico: quello di
prevenire i disordini ai quali può dar luogo. Essendo di se-
ra, dopo una giornata di lavoro, è normale che ogni fami-
glia porti da mangiare per rifocillarsi. Ma allora la diffe-
renza delle condizioni sociali e la tendenza a pensare
ognuno a se stesso ha un risultato fatale: <<Uno ha fame,
l'altro è ubriaco» (11,21). Se uno ha fame, dice Paolo, man-
gi a casa sua e ci sia aiuto vicendevole, non dimenticando
mai il principio della condivisione! L'essenziale non è di
trasformare la riunione in pic-nic, ma di fare la <<cena
(deipnon: pasto della sera) del Signore>>, il che implica che
non ci siano divisioni né gruppi a parte (11,18-19). Siamo
fortunati che Paolo abbia dovuto prendere posizione con-
tro questo tipo di disordine, altrimenti non avremmo sa-
puto niente delle celebrazioni eucaristiche nelle chiese
fondate da lui
La riunione, che si prolunga certamente nella notte, è an-
che il momento in cui si manifestano nell'assemblea i doni
gratuiti (charismata) dello Spirito di Dio (pneumatika).
Non si tratta della semplice grazia (charis) di Dio, ma dei
doni particolari che possono essere accordati ai membri
della Chiesa 9 • Il cap. 12 ne espone, in certo modo, la teoria
senza pretesa di essere esaustivo. Non c'è funzione che
non sia carismatica: apostoli, profeti, dottori ...
(12,28a.29a). Ma ci sono dei doni particolari che non sono
funzionali; essi possono essere accordati, in modo gratuito
e imprevedibile, a tutti i membri della Chiesa, corpo di
Cristo: discorsi di sapienza e di scienza, fede da trasporta-
re le montagne e poteri miracolosi, profezia e facoltà di di-
scernimento, discorsi in <dingue>> e dono di interpretazio-
ne ... Tutto questo suppone un certo clima di esaltazione
che può non essere privo di ambiguità. Si può comprende-
re che i responsabili della comunità se ne siano preoccu-
pati e abbiano chiesto istruzioni all'apostolo. Questi inizia
col ricordare il primato assoluto della carità (agape), di-
27
stinto dall'amicizia (philia) e dall'amore che brama (eros,
termine sconosciuto nel Nuovo Testamento ed eccezionale
nella versione dei Settanta: una o due volte)
L'apostolo dà poi delle regole pratiche. Queste, curiosa-
mente, omettono ogni allusione alla lettura delle Scritture
e alla predicazione regolare che si baserebbe su di essa.
Tutto ruota intorno a due carismi di cui viene esaminata
la rispettiva utilità: la profezia e il «parlare in lingue» che
esprime un'emozione e una preghiera personale. La profe-
zia non è la predizione del futuro, ma il prendere la parola
che, sotto l'impulso dello Spirito di Dio, <<edifica, esorta,
conforta» (14,3); l'essenziale è l'edificazione della Chiesa
(14,5b). Paolo si mostra quindi estremamente riservato sul
«parlare in lingue», che corrisponde troppo a un tratto
culturale di certi ambienti religiosi dell'antichità orientale
e greca. A che serve enunciare così una preghiera, un inno,
una benedizione, un ringraziamento, se nessuno può com-
prenderlo per rispondervi «Arut::n!» (14,16-17)? L'interroga-
tivo non esclude che possano esserci, nel corso dell'assem-
blea di Chiesa, delle preghiere, dei canti, dei discorsi uffi-
ciali che sono di regola. Due allusioni ad Apollo (cfr. 3,4-22
e 16,12) mostrano d'altra parte che alcuni predicatori fa-
mosi potevano andare di comunità in comunità, senza
escludere l'intervento di predicatori locali. Paolo si preoc-
cupa però esclusivamente dei problemi posti dalla manife-
stazione abbastanza anarchica dei «carismi» individuali: è
su questo punto che egli vuole mettere ordine. Infatti «se
tutti parlassero con il dono delle lingue e sopraggiungesse-
ro dei non iniziati o non credenti, non direbbero forse che
siete pazzi?» (14,23). È necessario quindi un po' di control-
lo! Un punto rimane da sottolineare: le riunioni non hanno
niente di segreto, infatti delle persone «di fuori» possono
venire a vedere quello che vi si compie; il reclutamento da
parte dei vicini e l'amicizia spingevano alla curiosità. Con-
clusione pratica: se si tratta di parlare in lingue, due o al
massimo tre, e mai senza un inte!:prete che ne dia il signi-
ficato per istruire l'assemblea; se si tratta della profezia,
cioè proclamazione della Parola di Dio sotto l'azione dello
Spirito Santo, due o tre soltanto, ma a turno e sotto un
controllo mutuo (14,27-32).È chiaro che si tratta lì di ini-
ziative private e non dell'esercizio di «Servizi di Chiesa>> o
ministeri.
Queste istruzioni, rese necessarie dalla circostanze, com-
28
pletano i rapidi consigli che concludevano la prima lettera
ai Tessalonicesi circa i doni di profezia (lTs 5, 19-22). Ma
sono da completare anche con la chiara allusione ai mini-
steri di <<presidenza, che precedevano questo passo (l Ts
5,12-13). Quale ruolo giocavano i presidenti (proi"stamenoi)
nello svolgimento delle assemblee? Nessun dettaglio viene
fornito al riguardo perché, se ci si dilunga sulle difficoltà
da superare, non si parla di ciò che non fa problema. Se
<<Dio non è un Dio di disordine, ma di pace» (lCor 14,33a),
bisogna che, per servirlo, qualcuno vegli sul buon ordine.
Non è sufficiente che <de ispirazioni dei profeti siano sot-
tomesse ai profeti» (14,32): un <<presidente» responsabile
deve vegliare sull'ordine e la pace. Quelli di Corinto si so-
no recati a Efeso per avere dall'apostolo le sue istruzioni
scritte perchè sono stati sopraffatti dagli eventi. Sono ri-
tornati con una lettera, che è stata letta pubblicamente in
assemblea. Non si può dire di più a partire da questo solo
testo, ma, mettendo insieme tutti i dati del Nuovo Testa-
mento, si può cercare di riunire gli elementi costituitivi
delle assemblee cristiane.
29
12, ha precisato l'ora della riunione di Chiesa: è il sabato
sera dopo il tramonto del sole. Di conseguenza il pasto se-
rale preso in comune è praticamente legato alla <<cena del
Signore». Ma abbiamo visto, in 1Cor 11,17-34, che poteva-
no facilmente verificarsi degli abusi. Paolo aveva già rac-
comandato di mangiare a casa propria se dopo il lavoro si
aveva fame. Non si può dire quando si sia verificata esat-
tamente la completa dissociazione dei due pasti. Ma si
constata che al tempo della lettera di Giuda è già cosa fat-
ta. Certo, ci si è sforzati di trasformare il pasto comune
dandogli un'impronta fraterna: ha preso il nome di <<aga-
pe» (agapai: Gd 12). Ancora in questo contesto, i falsi dot-
tori possono mettere in pericolo lo spirito cristiano: la let-
tera di Giuda invita a stare in guardia (Gd 12b), seguita
dalla seconda lettera di Pietro che può essere riferita a
un'epoca più tardiva (2Pt 2,13). C'è quindi un'evoluzione
nelle pratiche, soprattutto se si confronta la situazione fi-
nale con quella che fa intravedere la breve notizia degli At-
ti degli apostoli, ancora piena dell'entusiasmo originario
(At 2,42.43). Ma è necessario andare più avanti nell'analisi
delle riunioni.
30
nelle case private erano iniziate fin dalla pentecoste. Le
abitudini acquisite nel corso delle riunioni nelle sinagoghe
non ebbero forse la loro influenza su questo nuovo tipo di
assemblea di preghiera, per suggerire delle pratiche che
avrebbero preso, con l'uso, un carattere specificamente
cristiano? È quanto cercheremo di vedere ora.
a) La <<liturgia della Parola»
In che modo possiamo precisare i rapporti tra la liturgia
sinagogale e questa parte dell'assemblea cristiana in cui
venivano lette e commentate le Scritture e in cui l'istruzio-
ne (didachè) dei fedeli era assicurata da una predicazione?
È necessario speculare, se non su due <<incognite», almeno
sulle usanze di due gruppi paralleli le cui regole antiche
non sono evidenti l'una più dell'altra sulla base di dirette
testimonianze
Da parte del giudaismo, le regole delle assemblee sinago-
gali ci sono note solo da testi relativamente tardivi e a
condizione di mettere insieme delle allusioni che non dan-
no delle prescrizioni complete. Il trattato Berakòth («Bene-
dizioni») della Mishnah e della Tosefta parla solo rapida-
mente delle preghiere del sabato. Il trattato Shabbat, sen-
za omettere le allusioni alle preghiere abituali (Shema' e
Tefillah), si occupa soprattutto della casistica relativa alle
attività consentite e al riposo. L'assemblea sabbatica non
31
viene descritta. Le letture bibliche che vi venivano fatte,
organizzate in cicli distinti nell~ .co~unità pa~estin~si ~ in
quelle babilonesi, saranno stab1hte m mo~o fisso (m Ciel?
di tre anni o ciclo annuale) solo dopo la chmsura della MI-
shnah 12. Ma possiamo contare qui sul carattere conserva-
tore di ogni tradizione liturgica per presumere che gli ele-
menti essenziali della liturgia sinagogale esistevano già,
con delle varianti locali impossibili da precisare, fin dal
tempo di Gesù e degli apostoli
Da parte della liturgia cristiana, la documentazione esatta
non è più antica. Bisogna attendere la prima Apologia di
Giustino per vedere menzionare la lettura dei Profeti e
delle «Memorie degli apostoli», che indicano evidentemen-
te i testi evangelici (I,lxvii,3). Ma anche in questo caso si
può contare sulla forza della tradizione per proiettare in-
dietro, fino al tempo degli apostoli e dei loro immediati di-
scepoli, le usanze che si ritroveranno nei Padri della
Chiesa
In base a ciò, la lettura dei testi biblici che poteva nutrire
la fede cristiana può essere considerata come certa. Ma è
chiaro che le riunioni di Chiesa non erano tenute, su que-
sto punto, a seguire le usanze (o le regole, se queste erano
già fissate) delle riunioni sinagogali. Se non fosse stato co-
sì, tutte le allusioni alle Scritture che si incontrano nei li-
bri del Nuovo Testamento sarebbero state incomprese.
Tuttavia, il loro esame fa pensare che venivano fatte allora
delle selezioni utili per l'annuncio del Vangelo di Gesù Cri-
sto. Questo è almeno quanto emerge dalle ricerche fatte
nel volume VIII su alcune «omelie sulla Scrittura>> 13 • For-
se c'erano già delle raccolte di Testimonia. C.H. Dodd ha
studiato questo punto in modo giudizioso nel suo libro
«Secondo le Scritture» 14 • Queste raccolte non avevano sol-
tanto lo scopo di alimentare l'apologetica rivolta contro i
32
giudei: fornivano gli elementi fondamentali della prima
teologia cristiana, attraverso l'accostamento tra i testi e le
parole e azioni di Gesù.
Questa osservazione fa capire come la raccolta accurata di
queste parole e il racconto di queste azioni, fondata in de-
finitiva sulla diretta testimonianza dell'ambiente apostoli-
co costituiva ugualmente una necessità, senza la quale non
ci sarebbe stato Vangelo. Quando Giustino menziona l'uno
accanto all'altro i Profeti e le <<Memorie degli apostoli» fa
evidentemente allusione a quest'altro aspetto delle letture
incorporate nella liturgia. Ma quando le tradizioni evange-
liche furono fissate per iscritto per essere «lette» nelle as-
semblee comunitarie? Su questo punto non è possibile fis-
sare alcuna regola che avrebbe avuto un'applicazione uni-
versale. Due punti soltanto sono certi.
l) Originariamente lo scritto era solo un aiuto per la me-
moria viva. Quando poi i predicatori del Vangelo non era-
no più i testimoni diretti delle parole riferite e degli eventi
accaduti, divenne loro necessario avere a disposizione dei
«pro-memoria» per assicurare la fedeltà globale della loro
predicazione. Essi non erano i creatori della tradizione
trasmessa; ne erano solo i relatori, con tutta la flessibilità
richiesta dall'adattamento del loro insegnamento alle co-
munità locali. Si noterà inoltre che il ricorso alla tradizio-
ne orale si conservò accanto alla lettura delle raccolte
scritte fin nel corso del II secolo.
2) Il luogo essenziale nel quale - e per il quale - fu fatta
questa trasmissione della tradizione venuta dai testimoni
diretti fu l'assemblea di Chiesa, che va perciò considerata
come il Sitz im Leben in cui si operò la «formazione» delle
tradizioni evangeliche 15 .
Di conseguenza, le interferenze tra l'interpretazione delle
Scritture lette nelle assemblee e la formazione delle tradi-
zioni evangeliche stesse devono essere considerate come
un fenomeno normale e costante, sia al momento della pri-
ma «formazione>> di ogni frammento di tradizione- paro-
la di Gesù o racconto relativo a lui - sia nel corso della
trasmissione con tutti i ritocchi letterari che la storia re-
dazionale dei testi può far emergere. Ciò vale tanto per le
tradizioni raccolte nei sinottici che per quelle del IV van-
33
gelo, che furono predicate prima di essere fissate nella lo-
ro forma definitiva. Questa osservazione riguarda tutto lo
studio dei vangeli, indipendentemente dalle ipotesi che si
adottano circa le loro mutue relazioni, le loro eventuali
fonti scritte, il loro materiale primitivo, le date in cui quv
sto materiale fu fissato e in cui le redazioni finali furono
costituite 16 • Sarebbe assurdo attribuire questo complesso
lavoro a delle comunità anonime che avrebbero inventato
le tradizioni evangeliche per tradurre la loro fede, cioè i
loro sentimenti religiosi. Ciò che è vero è che i missionari
del Vangelo, fermamente legati a una tradizione prove-
niente dai testimoni di Gesù, fissarono lo schema origina-
rio dei testi, e poi gli stessi testi attuali, per sostenere, nu-
trire e istruire la fede delle comunità nel contesto delle lo-
ro assemblee di Chiesa. Infine gli scritti evangelici furono
comunicati da una comunità all'altra per adempiere que-
sto ruolo essenziale, in simbiosi con i libri dei profeti. È
sotto questa forma che Giustino li conosce e vi fa allusio-
ne in quanto «Memorie degli apostoli», accanto ai «Profe-
ti», con cui bisogna intendere tutti i libri che, in anticipo,
avevano annunciato Gesù Cristo. Su quest'ultimo punto, le
citazioni accumulate dallo stesso Giustino nel suo Dialogo
con Trifone 17 danno un'idea dei libri sacri ai quali faceva-
no riferimento i cristiani. Ma Giustino non era l'inventore
di una tale collezione: egli l'aveva ricevuta da una tradizio-
ne di Chiesa che risaliva, in ultima analisi, allo stesso am~
biente apostolico.
Si può intravedere quindi in che cosa consisteva, fin dalle
origini, quella parte dell'assemblea che possiamo chiama-
re la «liturgia della Parola»: letture scelte dei libri sacri,
tradizioni evangeliche, predicazione in forma di omelia
sulla Scrittura o spiegazione del Vangelo, con interferenza
34
tra i due. Lasciamo da parte per il momento le preghiere e
i canti. Si suppone un parallelismo con le assemblee sina-
gogali; ma è un dato ovvio, in un ambiente nato in conte-
sto giudeo-cristiano.
35
Cesarea, piuttosto che durante la sua prigionia a Roma 19 •
In ogni caso, è Tichico, un asiatico compagno di Paolo (cfr.
At 20,4; cfr. Ef 6,21), a portare le due lettere, accompagna-
to dallo schiavo fuggitivo di Filemone, Onesimo, che Paolo
ha battezzato (Col 4,7-9) e che costituisce esplicitamente
l'oggetto della lettera a Filemone (Fm 8-21). Non è il caso
di credere che questo biglietto sarà letto in assemblea, ma
sarà conservato negli archivi della chiesa locale con la let-
tera ufficiale, una copia della quale sarà comunicata ai cri-
stiani di Laodicea.
36
rattere ufficiale che le farà conservare negli archivi delle
chiese perché precisano la loro organizzazione interna a
Efeso e a Creta 21 : sotto questo aspetto, sono dei documen-
ti giuridici importanti.
Anche se l'autore e i destinatari della <<lettera agli Ebrei»
sono di difficile identificazione, è nondimeno certo che
questo documento è un discorso destinato alla lettura
pubblica 22 • La lettera di Giacomo e la prima lettera di Pie-
tro sono chiaramente delle circolari (cfr. Gc 1,1 e 1Pt 1,1).
La lettera di Giuda non indica alcun destinatario preciso.
Riprendendo i suoi temi (e talvolta il suo stesso testo) per
svilupparli, la seconda lettera di Pietro ha un carattere
molto generale. Ma vi si rileva un punto importante: la
raccolta delle lettere di Paolo è già costituita (2Pt 3,15-16)
ed esse sono assimilate alle «altre Scritture» (3,16b): ciò
prova l'esistenza di una collezione ufficiale di Scritti rite-
nuti ispirati (1,20-21), tra i quali sono ormai collocate le
lettere apostoliche 23 . I critici concordano generalmente
nel situare la composizione di questa lettera, attribuita a
Pietro in virtù di una convenzione letteraria allora corren-
te, verso la fine del primo secolo o all'inizio del secondo.
Quanto alle lettere di Giovanni, esse costituiscono un pic-
colo insieme strettamente legato all'edizione finale del
37
quarto vangelo. Se questo piccolo dossier fu alla fine con-
servato a Efeso (cfr. Ireneo, Adversus haereses, III, iii, 4),
sorprende che ci sia stata così poca comunicazione tra le
tradizioni di Paolo e quelle di Giovanni. Comunque sia,
tutte queste lettere erano degli atti pubblici rivolti a delle
intere comunità. Le chiese se le scambiavano; similmente,
gli scritti evangelici, fissati dapprima per l'uso pastorale
di determinate chiese particolari, acquistarono un'impor-
tanza tanto più grande perché gli apostoli erano morti. Ma
la trasmissione viva delle tradizioni evangeliche sotto for-
ma orale continuò accanto alla copia dei testi scritti, letti
nelle assemblee. Attraverso questa prima letteratura cri-
stiana, la conservazione scritta della loro tradizione, unita
alla conservazione pratica delle istituzioni create sotto la
loro autorità e progressivamente adattate alle nuove situa-
zioni, la Chiesa restava, dappertutto, «apostolica».
38
cui la comunità si è presa cura. Non si tratta dei mendi-
canti, ma degli indigenti senza risorse, tra i quali bisogna
evidentemente annoverare le vedove e gli orfani. I consigli
dei saggi sulla carità e le elemosine (Tb 12,8-9; Sir 3,30-
4,10; 28,8-13) sono stati così istituzionalizzati per diventa-
re una pratica obbligatoria in ogni comunità locale. Ciò
suppone una colletta regolare, sia in natura, sia in denaro,
dalla quale si preleva ogni sera il necessario per una gior-
nata per la gente di passaggio, e ogni venerdì sera, prima
dell'inizio del sabato quando sarebbero vietati la circola-
zione del denaro e il trasporto degli oggetti, il necessario
di una settimana per i poveri locali di cui la comunità si è
presa cura. Si tratta di una notevole istituzione, basata
sulla generosità dei donatori, ma che testimonia un senso
molto vivo della solidarietà comunitaria. La casa di pre-
ghiera (proseuché, poi sinagoga) è naturalmente il luogo in
cui avvengono le distribuzioni. La stessa regola di Peah
VIII,7 precisa che la quppti.h viene «riscossa>> (nigbét) da
due membri della comunità e dispensata (mithalleqet) da
tre membri. Si prendono quindi tutte le precauzioni per-
ché i doni raccolti e distribuiti siano controllati.
Le comunità cristiane riprendono molto presto questa
usanza a vantaggio di quei membri che erano in stato di
indigenza. Non si comprenderebbe il testo degli Atti (6, l)
se non si avesse in mente il tamhuy quotidiano delle comu-
nità ebraiche, che non esclude evidentemente la quppti.h
settimanale, distribuita ora il primo giorno della settima-
na. In At 6,1-6 si costata che le lamentele degli ellenisti so-
no causate dal fatto che i membri incaricati della distribu-
zione sono ancora degli Ebrei: essi sono sospettati (e accu-
sati) di manifestare delle preferenze verso le vedove del
proprio gruppo. Si tratta certamente della <<distribuzione
quotidiana» (en téi diakoniai kathémerinéi. 6, 1), quindi in
analogia con il tamhuy. Ma ci si può domandare se questo
servizio quotidiano comportava la necessità di «servire a
mensa>> (diakonein trapezais, 6,2), allusione a un pasto co-
mune di cui i Dodici non possono incaricarsi di persona.
Dato che i termini tecnici che designano la duplice distri-
buzione agli indigenti, quotidiana e settimanale, non ven-
gono usati, è più probabile che i due esistessero: «Ogni
giorno [i fedeli] spezzavano il pane nelle loro case>> (At
2,46); ma la comunione di mensa avveniva con la riunione
che aveva luogo il primo giorno della settimana, dopo il
39
sabato, poiché si era ancora in ambiente ebraico e le rego-
le del sabato non erano abolite. In questo giorno le vedove
ricevevano, per la settimana, la loro parte della quppah
raccolta tra i cristiani. Ciò suppone che le comunità riuni-
te come Chiesa abbiano già una chiara coscienza della loro
specifica identità, poiché i loro poveri non hanno bisogno
di far ricorso al taml;Cty e alla quppah delle comunità giu-
daiche da cui i loro membri provengono.
Non ci dilunghiamo qui sulla messa in comune dei beni
praticata a Gerusalemme 25 sotto la spinta dell'entusiasmo
iniziale (At 4,34-37), per un'iniziativa di cui si sottolinea la
libertà (At 5,3-4). Bisogna solo costatare che la comunità-
madre finì per trovarsi in stato di bisogno, particolarmen-
te al tempo della carestia che imperversò sotto Claudio
(probabilmente nel 46-48, secondo Giuseppe Flavio). Fu
quella l'occasione di un aiuto reciproco tra comunità:
quella di Antiochia inviò degli aiuti a quella di Gerusalem-
me (At 11,27-30). Più tardi, in occasione dell'assemblea di
Gerusalemme (nel 49, probabilmente), Giacomo raccoman-
dò a Barnaba e Paolo di «preoccuparsi dei poveri» (Gal
2,10), il che diede luogo all'organizzazione di una colletta
in tutte le chiese fondate da Paolo 26 (lCor 16,1-4; 2Cor 8-9;
Rm 15,26-28; 16,1-2); per portare il frutto di questa colletta
Paolo ritornò personalmente a Gerusalemme (Rm 15,26;
2Cor 8, 19-22), ma gli Atti non lo precisano. Si può presu-
mere senza timore di sbagliare che l'usanza di sostenere i
poveri di ogni comunità era istituita in tutte le chiese, ve-
rosimilmente allo stesso modo. Se si osserva che <<Ì santi>>
designa abitualmente i fedeli, l'istruzione data in Rm
12,13 diventa chiara: ciascuno deve avere a cuore <de ne-
cessità dei fratelli>> (tais chreiais koinonountes). Paolo sa
quindi che in questa chiesa che egli non ha fondato ha luo-
go la colletta fatta per venire incontro ai bisogni dei pove-
ri, unitamente alla pratica dell'ospitalità (tèn philoxenian
diokontes; cfr. similmente Eb 13,2). Tutto ciò dev'essere
praticato per amore di carità (cfr. 1Cor 13,3). Ma tutto
40
questo suppone la creazione di un minimo di organizzazio-
ne: c'è forse un'allusione a questa pratica nell'enumerazio-
ne dei charismata di Rm 12,6-8: accanto a «colui che inse-
gna», «colui che esorta» e «colui che presiede», viene no-
minato «colui che dona una parte di beni» (ho metadidous)
e «colui che fa opere di misericordia>> (ho eleon) (12,8).
La lettera ai Galati precisa che colui che viene catechizza-
to (ho katechoumenos ton logon) «faccia parte di quanto
possiede a chi lo istruisce» (Gal 6,6). Questo ricorda che,
nel giudaismo del tempo, l'insegnamento degli scribi veni-
va dato gratuitamente 27 : facendo parte della classe pove-
ra, gli scribi vivevano solo dei doni ricevuti. Coloro che,
nelle comunità cristiane, trascorrevano una prte del loro
tempo a «comunicare la parola» si mettevano in una situa-
zione simile, benché avessero un mestiere. Ma le collette
di denaro fatte tra i fedeli e raccolte <<il primo giorno della
settimana» (1Cor 16,2) esigevano una gestione affidata a
un uomo di fiducia. L'organizzazione degli aiuti si svilup-
pò del resto col tempo. All'epoca delle lettere pastorali esi-
ste un gruppo di vedove di cui la comunità locale si è as-
sunta la responsabilità, se esse non hanno una famiglia
che le sostenga: in compenso ci si aspetta da esse che dedi-
chino il loro tempo alla preghiera (lTm 5,3.5-7.9-10). Que-
sta è l'organizzazione della carità che l'epoca degli aposto-
li e dei loro immediati successori trasmetterà alla Chiesa
del II secolo. Un'allusione della lettera di Clemente rimane
ancora molto generica 28 : «<l ricco soccorra (epichoregeito)
il povero, e il povero ringrazi Iddio di avergli fatto trovare
un ricco che supplisce alla sua indigenza» (1Clem 38,2).
Ma ci sono poco noti i meccanismi che funzionano a que-
sto scopo a Roma o a Corinto.
La Prima Apologia di Giustino è molto più precisa, proprio
nel passo in cui viene descritta l'assemblea cristiana, «nel
giorno chiamato del Sole» (I Apol., LXV-LXVII). Questo
giorno viene scelto perché è quello in cui si manifestò il
Cristo risorto. Possiamo qui lasciare da parte ciò che ri-
guarda la liturgia delle letture e la celebrazione eucaristi-
41
ca, come pure i rispettivi ruoli del presidente (proest6s) e
dei diaconi. Ma non viene dimenticato l'aiuto ai poveri 29 :
42
eventualmente dalla liturgia sinagogale. Esamineremo ora
in dettaglio questi due punti 30 .
43
parte seconda
La liturgia
vista
attraverso i testi
capitolo secondo
L'iniziazione cristiana
e il battesimo
47
parati nella comunità israelitica, al tempo stesso religiosa
e politica, a patto che i maschi, piccoli o adulti, fossero
sottomessi allo stesso rito: questo, vincolandoli all'osser-
vanza della Legge, acquistava così un vero e proprio valo-
re di rito di iniziazione.
Si noterà tuttavia che, negli imperi in cui la «nazione
israelitica» era riconosciuta con la sua autonomia cultura-
le e giuridica al tempo del Nuovo Testamento 2 (impero ro-
mano e impero dei parti), questi uomini cambiavano nazio-
nalità, il che comportava al tempo stesso degli obblighi e
dei vantaggi. I culti orientali godevano di una situazione
diversa nell'impero romano quando venivano riconosciuti
come «religioni lecite>>: non comportavano alcun cambio
di nazionalità per i loro adepti; ma si entrava a far parte
di essi attraverso dei riti di iniziazione, eventualmente in
più tappe.
Da questo punto di vista, il battesimo cristiano preceduto
da una preparazione catechistica, poteva sembrare, agli
occhi dei pagani che vedevano le cose dall'esterno, una ce-
rimonia iniziatica analoga a quella dei culti misterici 3 • Ma
è chiaro che, per dei giudei, né l'istruzione catechistica né
lo stesso rito del battesimo potevano essere interpretati in
questo modo poiché entrambi erano solidamente radicati
nel loro paese d'origine. Non bisogna stare a cercare nel
Nuovo Testamento un'esposizione sistematica sul rituale
legato all'iniziazione cristiana tipo quella che si avrà più
tardi negli scritti patristici. I testi che vi si riferiscono so-
48
no più numerosi di quanto possa sembrare a prima vista.
Esamineremo quindi tre punti: il rito e ciò che lo concerne
direttamente; i suoi echi nella predicazione che ne spiega
e ne commenta il significato; il rapporto del rito ecclesiale
con il racconto evangelico del battesimo di Gesù. Ma sarà
necessario tener conto dei diversi scritti in cui questi pun-
ti sono trattati. La prima lettera di Pietro richiederà un'e-
sposizione separata (cfr. capitolo 6).
49
ferta dei sacrifici in cui Levi appare come il prototipo del
sommo sacerdote, è previsto quanto segue: <<Quando sarai
sul punto di entrare nella casa di Dio, bagnati (hawe sal;.e;
gr. louo) e indossa poi le vesti del sacerdozio>> 6 (frammento
della Bodleian Library, col. c, 1-2, confermato da un'ag-
giunta greca del ms. Koutloumos). Questa halakah molto
antica corrisponde probabilmente alle usanze del Tempio
di Gerusalemme, di cui essa precisa alcune regole non
scritte nel Pentateuco. Si sa che la tradizione di questo
pietismo sacerdotale, con le sue regole di purità molto ri-
gide, fu accolta nel gruppo esseno di Qumran 7 . Non sor-
prende quindi che i bagni di purificazione fossero lì molto
frequenti. La purificazione nelle acque lustrali è prevista
nella Regola della Comunità (cfr. 1QS III,4-9; VI,16; ecc.). Il
Documento di Damasco precisa ugualmente: <<Nessuno si
lavi (yrl;.~) in acque impure o insufficienti a coprire intera-
mente un uomo>> (CD X,10-11) 8 . A tale proposito si può os-
servare che, nella Settanta, il verbo rti.l;.a~ viene tradotto
abitualmente in greco con louein (33 volte) e un po' meno
spesso con niptein, una sola volta con baptizein (per Naa-
man, 4Re 5,14, accanto a louein in 5,10 e 12). Ci sono quin-
di pochi antecedenti per la parola battesimo nella Bibbia
greca.
b) Il movimento battista in Palestina
Prima delle scoperte di Qumran, J. Thomas aveva dedica-
to, nel 1935, un eccellente studio d'insieme a questo movi-
50
mento 9 . Egli ne rilevava tutte le forme, senza dimenticare
del resto gli esseni. Possiamo lasciare qui da parte le sette
più tardive e perfino l'eremita Bannous che Giuseppe Fla-
vio aveva seguito per qualche tempo 10 . Possiamo invece
menzionare due sette di cui Egesippo ha conservato il no-
me: gli emerobattisti e i masbotei Il. Il nome di questi ulti-
mi trascrive chiaramente una parola derivata dalla radice
aramaica ~eba: «battezzare», per derivazione dal significa-
to fondamentale <<bagnare» (cfr. Dan 4,12.20.22.30; 5,21),
da cui il derivato cristo-palestinese ma~bu 'ita, «battesi-
mo» 12 • Ma non si sa niente di più di essi. Gli emerobattisti
sono meglio conosciuti grazie a un'informazione di sant'E-
pifania (Panarion XVII): questi praticavano un battesimo
quotidiano per purificarsi da ogni peccato. Dobbiamo tut-
tavia notare due caratteristiche di questi battesimi: l) so-
no ripetuti costantemente, con uno scopo di purificazione
al tempo stesso rituale e morale, sia presso gli esseni che
presso gli emerobattisti e i masbotei; 2) ciascuno se lo am-
ministra da solo, non essendoci un« battezzatore».
51
fatto suo l'appello di Is 40,3 14 (Gv 1,23, applicato al Batti-
sta da Mc 1,3 et par.)? È impossibile prendere una posizio-
ne sicura. Comunque sia, Giovanni manifesta una vocazio-
ne profetica originale, legata all'annuncio della prossima
venuta di «Colui che battezzerà in Spirito Santo e fuoco»
(Mt 3,11b e Le 3,16b): si tratta chiaramente dell'annuncio
di un giudizio divino in cui Dio discernerà la pula dal gra-
no (Mt 3,12; Le 3,17). Di conseguenza bisogna prepararsi al
grande giorno con la penitenza e il segno di questo peni-
tenza è «il battesimo di conversione per il perdono dei pec-
cati>> (Mc 1,4). Giovanni l'amministra una sola volta a colo-
ro che vengono da lui manifestando la loro volontà di cam-
biare vita.
Questo battesimo non è più perciò un segno rituale di pu-
rificazione ripetuto indefinitivamente e che uno compie su
di sé personalmente, ma un gesto di cui il profeta Giovan-
ni è il ministro: il suo rapporto con la venuta del <<grande
Giorno>> lo distingue formalmente da tutti gli altri battesi-
mi praticati in diverse sette giudaiche. Secondo Gv
3,22.26, Gesù, battezzato da Giovanni, partecipò per qual-
che tempo al movimento battista prima che Giovanni fosse
imprigionato da Erode Antipa (Gv 3,24; Mc 1,14). Soltanto
in seguito egli intraprese la propria missione, in uno stile
e uno scopo del tutto diversi. L'invito alla penitenza non
era assente; ma il «grande Giorno>> non era più una realtà
futura. Il suo Vangelo si racchiudeva in una frase: «<l tem-
po è compiuto e il regno di Dio è vicinO>> (Mc 1,15). In esso
si entra accogliendolo con fede. Soltanto dopo la morte e
la risurrezione di Gesù il rito del battesimo, amministrato
una sola volta a coloro che avranno creduto, sarà ripreso
con un significato nuovo.
52
d) Il battesimo dei proseliti
A partire da un certo tempo, il giudaismo rabbinico c~nob
be ugualmente il rito di un battesimo imposto ai pagani
che si convertivano al giudaismo. Si noterà che per le don-
ne questo era il solo rito possibile. Degli uomini che sim-
patizzavano con la dottrina giudaica, molti si limitavano a
essere «proseliti della Porta», per il fatto che la circonci-
sione era oggetto di derisione nel mondo pagano. In ogni
caso, il battesimo era solo una cerimonia di purificazione
rituale: il bagno nell'acqua aveva allora lo stesso significa-
to di un gran numero di abluzioni praticate nella tradizio-
ne farisaica. Gli studiosi discutono circa il tempo in cui
questa usanza venne introdotta nel giudaismo. Bisognerà
attendere l'epoca rabbinica per conoscerne il rituale (bT
Jebamoth 47a, ripreso nel trattato extracanonico Gèrim).
Un barai"ta riporta una discussione tra due dottori della fi-
ne del I secolo sulla necessità di questo bagno di purifica-
zione (bT Jeb. 46a). Un testo di Epitteto 15 , che viene citato
nello stesso senso e che paragona i giudei agli stoici per
sapere a quale condizione ci si possa dire giudeo (Conver-
sazioni II,ix,20-21), parla effettivamente del battesimo. Si
avanza un argomento secondo il quale i giudei non avreb-
bero potuto imitare con questo bagno dei proseliti un'u-
sanza cristiana 16 • Ma questo motivo non è ammesso uni-
versalmente. L'antichità di questa usanza giudaica rimane
pertanto discussa; in ogni caso il battesimo cristiano non
potrebbe essere accostato ad essa, così come non può esse-
re accostato ai riti iniziatici dei misteri pagani 17 •
e) Dal battesimo di Giovanni al battesimo cristiano
Storicamente non c'è dubbio che è il rito inaugurato da
Giovanni Battista quello che viene ripreso alle origini cri-
stiane con un significato nuovo. I testi del Nuovo Testa-
mento sottolineano del resto questo fatto notando al tem-
po stesso la continuità e la discontinuità tra i due. Anche
se non abbiamo le parole di Giovanni alla lettera (in Mc
53
1,7-8; Mt 3,11-12; Le 3,16-17 e Gv 1,26-27.30-31), esse sotto-
lieano questa differenza essenziale: da una parte, un batte-
simo di acqua in segno di penitenza; dall'altra il battesimo
in Spirito Santo e fuoco (del giudizio). Lo stesso tema vie-
ne chiaramente ripreso negli Atti degli Apostoli (At 18,25;
19,1b-4). È il caso di ricordare che i primi discepoli di Ge-
sù, secondo il IV vangelo, avevano preso contatto con lui
nella cerchia del Battista (Gv l ,35-51 ); essi avevano poi
partecipato alla sua attività di battista (Gv 3,22) 18 • Questa
terminò durante la sua missione evangelica. Ma si com-
prende ancora di più la ripresa del rito dopo la risurrezio-
ne di Gesù per il fatto che, secondo At 1,5, la promessa
dello Spirito Santo viene fatta ai discepoli con l'aiuto di
una simbologia battesimale: «Giovanni ha battezzato con
acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non
molti giorni».
L'esperienza apostolica della pentecoste, fatta in un conte-
sto liturgico giudaico dove il dono dello Spirito era sosti-
tuito dal dono della Legge, caratteristico della prima Al-
leanza (At 2,1-4), fu quindi compresa subito come il «batte-
simo dello Spirito». Di conseguenza il rito battesimale ac-
quistava un significato nuovo, correlativo all'Alleanza nuo-
va sigillata nel sangue della Croce e reso effettivo dalla ri-
surrezione del crocifisso. Per tale ragione il racconto tra-
dizionale raccolto da Luca mette sulla bocca di Pietro que-
sto insegnamento ai primi convertiti: «Pentitevi e ciascuno
di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo 19 , per la
remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello
Spirito Santo» (At 2,38). Il battesimo, in quanto gesto di
purificazione inaugurato da Giovanni per la remissione
dei peccati, non perde perciò il suo significato originario;
ad esso però si aggiunge ora un significato nuovo che co-
stituisce l'aspetto positivo del dono di Dio legato alla peni-
tenza umana: il ricevimento dello Spirito Santo, caratteri-
54
stica essenziale della nuova Alleanza. A partire da ciò, ne-
gli Atti tutte le menzioni del battesimo cristiano (16 volte
con il verbo baptizo; mentre il termine baptisma rinvia
sempre al battesimo di Giovanni, 5 volte) implicano questo
dono dello Spirito ai credenti.
55
formulario (per esempio, nel finale del vangelo di Marco:
16,16). Una sola menzione è molto esplicita, nella relazione
della missione degli apostoli che conclude il vangelo di
Matteo: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni,
battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spiri-
to Santo>> (M t 28, 19). Ma per questa espressione si pone lo
stesso problema di tutte le espressioni del Cristo risorto
riportate nei vangeli. Se non c'è dubbio che gli apostoli ab-
biano ricevuto da lui una missione di evangelizzazione che
ha determinato la loro azione ulteriore, le circostanze e le
parole pronunciate si presentano sotto quattro o cinque
forme diverse: in Mt 28,16-20, su una collina della Galilea;
1n Le 24,45-51 e At 1,4-8, a Gerusalemme nel giorno della
prima apparizione o quaranta giorni dopo in un luogo non
precisato; in Gv 20,21-23, a Gerusalemme, con un comple-
mento in Galilea in Gv 21,15-17; in Mc 16,14-18, nel corso
di un pasto. Da una parte l'evento è globalmente certo,
dall'altra i suoi dettagli sfuggono a ogni precisione.
La formula di Mt 28,19 fissa il testo liturgico che era in
uso nella chiesa per la quale questo scritto fu fissato 20 • La
ritroviamo esattamente nella Didachè, 7,1-4, che precisa
alcuni dettagli del rito 21 : battesimo nell'acqua corrente o,
in mancanza di essa, con un'altra acqua; nell'acqua fredda
o, in mancanza di essa, in acqua calda; immergendo il bat-
tezzato nell'acqua o, se non è possibile, versando l'acqua
tre volte sulla fronte. Siamo qui alla fine del I secolo o al-
l'inizio del II. L'evangelista era consapevole di indicare
una formula perfettamente fedele all'ordine dato dal Cri-
56
sto risorto. Ma questa fedeltà non era necessariamente la
ripetizione materiale delle parole ricevute da lui. A preci-
sare il significato dell'ordine di Gesù è intervenuto nel
frattempo la riflessione cristiana sul significato del rito,
nel suo rapporto differenziato con il Padre che dà la filia-
zione, con il Figlio per la cui mediazione essa viene data,
con lo Spirito che viene conferito per attuarla. La formula
trinitaria è il punto di arrivo di questo sviluppo le cui tap-
pe ci sfuggono.
c) Lo svolgimento di un battesimo
Luca ha conservato negli Atti, con alcuni dettagli, il rac-
conto di un battesimo (At 8,26-39). Può essere utile esami-
narlo qui minuziosamente 22 .
l) L'eroe della storia. Si tratta di un alto funzionario del
regno di Kush all'epoca meroitica. La Nubia è sotto il go-
verno di una regina che porta il nome generico di «Canda-
ce» (Kandake, in greco). L'uomo, un eunuco 23, è «sovrin-
tendente dei tesori» (8,27). È venuto «per il culto a Gerusa-
lemme>>. Non sappiamo se si tratta di un giudeo della dia-
22 Rinviamo una volta per tutte ai commentari del libro degli Atti per
i dettagli del testo che qui analizziamo solo da un punto di vista par-
ticolare, per esempio E. Haenchen, trad. ingl. The Acts of the Apo-
stles, Oxford 1971, pp. 309-317 (con bibliografia); F.F. Bruce, The Acts
of the Apostles, Leicester 19903 (bibl. pp. 81-92).
2 3 Ci si può interrogare sulla situazione di eunuco di quest'uomo che
viene in pellegrinaggio a Gerusalemme per partecipare al culto. Se-
condo Dt 23,2, gli eunuchi erano «esclusi dalla comunità (qehal) di
YHWH». Lv 21,20 li esclude dal sacerdozio. Perché la regola di esclu-
sione non viene applicata a quest'uomo? Non ci si può basare su Mt
l9,12, dove la parola eunouchos passa dal significato proprio a quello
figurato. Ma Dt 23,2 precisa due casi distinti: quello dei testicoli
schiacciati e quello della verga tagliata. In questo secondo caso ogni
relazione sessuale è impossibile, ma l'uomo conserva il suo vigore vi-
rile e non ha una voce da castrato. Ci si spiega allora come, nelle cor-
ti orientali del tempo, molti eunuchi abbiamo potuto ricoprire delle
importanti funzioni che non ne facevano solo dei «custodi di harem».
Un testo di Is 56,3b-5 aveva ampliato questa condizione di partecipa-
zione al culto. Le regole rabbiniche erano fluttuanti al riguardo (cfr.
J. Jeremias, Jérusalem au temps de Jésus, p. 450: la Mishnah, Yeba-
m6th, VIJI,4, cita il caso di un eunuco sposato la cui moglie contrae
un matrimonio leviratico dopo la sua morte). In base a ciò si com-
prende che l'eunuco battezzato da Filippo abbia potuto avere delle
importanti funzioni in un regno greco dell'alto Egitto. Ma non ci sono
problemi per la sua accoglienza nella Chiesa.
57
spora risalito in Nubia dall'Egitto, o di un abitante della
Nubia passato al giudaismo. In ogni caso, si tratta di un
uomo colto che, seduto sul suo carro, legge la Bibbia gre-
ca; esattamente: il libro di Isaia. La scena si svolge sulla
strada che, passando per Gaza, da Gerusalemme porta in
Egitto. Filippo, uno dei sette <<ellenisti» (At 6,5), lo ferma e
intavola una conversazione sul significato del libro di
Isaia. È chiaro che il carro è condotto da un servo, proba-
bilmente armato per vigilare sulla sicureza del suo pa-
drone.
2) Kerygma e catachesi. La lettura di Isaia pone una do-
manda cruciale: in Is 53,7-8 LXX, il profeta parla di se
stesso o di un altro? Questo è infatti il passo che l'uomo
legge, naturalmente ad alta voce, quando Filippo lo sente e
gli domanda se comprende ciò che legge. Salito accanto a
lui sul carro, Filippo parte da questo testo per annunciar-
gli il Vangelo di Gesù (euangelisato auto; ton /ésoun:
8,35b). Non vengono forniti dettagli su questo viaggio sul
carro, la sua durata, ecc.: sono senza interesse teologico.
Quello che è certo è che il passo della Scrittura è propizio
all'annuncio della passione di Gesù, ed evidentemente del-
la sua risurrezione. Luca non colloca qui alcun riassunto
del «kerygma» completo: ce ne sono diversi altri negli Atti
prima di quelli di At 10,36-43 (rivolto a un «timorato di
Dio>>) e di At 13,16b-39 (rivolto a dei Giudei). Ma questa
istruzione elementare, rivolta a un uomo che legge corren-
temente il greco, è sufficiente per dargli lo strumento per
fare d'ora in poi un'altra lettura della sua Bibbia, grazie
alla chiave d'interpretazione fornita dall'annuncio della
passione e della risurrezione di Gesù. L'uomo, già aperto
alla grazia e impaziente di sapere di chi i profeti parlino, è
ora istruito dell'essenziale: la rilettura delle Scritture gli
fornirà il resto, anche se la sua conoscenza di «ciò che Ge-
sù ha detto e fatto» sembra ancora sommaria. Nulla impe-
disce di pensare che Filippo avesse sotto gli occhi qualche
pro-memoria evangelico su papiro e che glielo lascia; ma
si tratta di una pura congettura.
3) Il battesimo. Strada facendo, arrivano in un luogo dove
c'è acqua. Comincia allora un dialogo tra l'eunuco e Filip-
po. Su questo punto il testo alessandrino e quello occiden-
tale divergono. Nella domanda dell'eunuco la differenza è
poco importante: «Ecco dell'acqua: che cosa impedisce (ti
k6lyei) che io sia battezzato?» (testo aless.); «Qual è l'impe-
58
dimento (ti to kolyon) perché io sia battezzato?» (testo
occ.). La sola osservazione da fare riguarda l'uso probabile
di una formula consacrata dall'uso per domandare ai pre-
senti se ci sia qualche ostacolo per il battesimo di qualcu-
no. Troviamo in effetti lo stesso verbo kolyein a proposito
del battesimo del centurione Cornelio. Dopo la manifesta-
zione dello Spirito sul gruppo dei pagani che hanno accol-
to il Vangelo dalla bocca di Pietro, questi domanda: <<For-
se che si può proibire (kolysai) che siano battezzati con
l'acqua questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari
di noi?>> (10,47). Si può presumere che una formula simile
facesse parte del rituale della celebrazione 24 , prima che il
battezzatore procedesse al rito: potevano in effetti esserci
delle obiezioni sollevate da alcuni presenti. Comunque sia,
il testo occidentale introduce in questo punto, nello sche-
ma più semplice del testo alessandrino, un'aggiunta che è
propriamente rituale. I suoi testimoni non sono più forniti
dal Codex D, lacunoso in questo punto, ma da una serie di
manoscritti (tra cui E, VI secolo) e dalle versioni la cui li-
sta viene data dall'edizione critica di M.-E. Boismard e A.
Lamouille 25 . Vi si legge: <<Allora Filippo disse: "Se tu credi
con tutto (il tuo) cuore, [è permesso (agg.)]". Rispondendo
egli disse: "Credo che Gesù [Cristo (agg.)] è il Figlio di
Dio">>. Si arriva così all'epilogo: <<Fece fermare il carro e
discesero tutti e due nell'acqua [Filippo e l'eunuco (assen-
te nel testo occ.)] e Filippo (testo occ.) lo battezzÒ>> (8,37-
38). Il finale del testo occidentale completa il racconto in-
sistendo sull'effetto del battesimo: <<Lo Spirito Santo scese
59
sull'eunuco, ma (de) un angelo del Signore rapì Filippo e
l'eunuco non lo vide più» (8,39). Il testo alessandrino si li-
mita a dire: <<Lo Spirito Santo rapì Filippo e l'eunuco non
lo vide più>>.
Cosa pensare dei due testi di questo capitolo? La loro data
potrebbe eventualmente fornire una base per conoscere lo
sviluppo del rituale del battesimo nel I secolo. Recente-
mente sono state avanzate due proposte, nelle due edizioni
comparate dei testi paralleli. E. Delebecque 26 , che vuole
restare sul piano filologico e si guarda bene dal fare l'ese-
gesi, considera nondimeno l'edizione breve degli Atti (testo
alessandrino) come composto da Luca a Roma prima della
fine dei «due anni» che Paolo vi trascorse prigioniero (cfr.
At 28,30-31). L'edizione lunga, con le sue aggiunte e i suoi
ritocchi, risalirebbe al 67 circa, immediatamente dopo il
martirio di Paolo a Roma. Al contrario, M.-E. Boismard e
A. Lamouille ritengono che il testo occidentale, che ha tut-
te le caratteristiche lucane ed ha quindi Luca stesso come
autore, sarebbe stato redatto per primo 27 • Luca avrebbe ri-
maneggiato il testo qualche anno dopo e il testo «alessan-
drino» sarebbe il risultato della fusione di queste due re-
dazioni. Questo testo avrebbe quindi una storia complica-
ta, che spiegherebbe la complessità della critica testuale
relativa allibro. In ogni ipotesi, la sua fissazione finale sa-
rebbe da collocare dopo 1'80. Quanto all'aggiunta del v. 37,
la sua intenzione battesimale è evidente 28 , ma il testo at-
tuale sarebbe quello del T0 2 (testo occidentale ritoccato
secondariamente). Stando così le cose, conviene piuttosto
vedervi l'eco della liturgia del battesimo negli ultimi venti
anni del I secolo.
Bisogna costatare che la fissazione di questa liturgia corri-
sponde molto bene ai dati più tradizionali. Paolo, facendo
eco alla sua stessa professione di fede battesimale, scrive-
va già: «<o vivo nella fede del Figlio di Dio (en pistei tei tou
hyiou tou theou)» (Gal 2,20), e la prima lettera di Gio-
vanni parla del fedele che «confessa che Gesù è il Figlio
60
di Dio» (lGv 4,15). Negli stessi Atti, dopo il racconto
della sua conversione, si vede Paolo percorrere le sina-
goghe di Damasco per proclamare che «Gesù è il Figlio
di Dio>> (9,20; variante del testo occidentale: «il Cristo, il
Figlio di Dio»).
61
del verbo rhantiz6 (cfr. Eh 9,13.19.21) e di lou6 30 ; questo
conferisce una portata simbolica al gesto di Gesù prima
dell'ultima cena: la lavanda dei piedi degli apostoli. Ma lì,
«chi ha fatto il bagno (leloumenos) non ha più bisogno di
lavarsi (nipsasthai) se non i piedi» (13, lOa) 31 •
Un'altra allusione all'illuminazione battesimale precisa i
suoi effetti (Eh 6,4-5): coloro che sono stati illuminati «gu-
starono il dono celeste, diventarono partecipi dello Spirito
Santo e gustarono la buona parola di Dio e le meraviglie
del mondo futuro>>. Sono dei doni positivi che invitano a
una riflessione teologica sui frutti del battesimo. Sulla ba-
se di ciò sono possibili due ricerche nei testi del Nuovo Te-
stamento.
Innanzitutto, il tema dell'illuminazione, che ritorna due
volte nella lettera (verbo ph6tiz6 al passivo), fa riflettere
sui testi in cui si ritrova il simbolismo della luce. Si pensi
in particolare a Gv 9 dove il Cristo, «luce del mondo» (cfr.
8,12), restituisce la vista al cieco nato ordinandogli di da-
varsi (nipsathai) nella piscina di Siloe (che significa invia-
to)». È molto chiaro che il racconto ruota attorno all'ac-
cesso congiunto di quest'uomo alla vista e alla fede (cfr.
9,38). Ma il gesto compiuto con l'aiuto dell'acqua che apre
gli occhi del cieco suggerisce immediatamente un rappor-
to tra la fede e il rito in cui l'acqua, purificatrice dei pec-
cati, fa accedere anche all'illuminazione del cuore. In se-
condo luogo bisogna fare attenzione ai testi in cui il verbo
62
geuomai 32 potrebbe essere usato in un senso simbolico,
come due volte nel testo sopra citato di Eh 6,4-5, per desi-
gnare il <<gusto» spirituale delle cose di Dio: è il caso di
lPt 2,3, citazione del Salmo 34[33],9 LXX.
Infine, la lettera agli Ebrei contiene un'ultima allusione al-
l'esperienza iniziale dei fedeli. A differenza degli ebrei che
si erano accostati con tremore alla montagna del Sinai per
ricevere la prima alleanza, <<essi si sono accostati (proser-
chesthai) alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme cele-
ste [... ], a Gesù come mediatore di un'alleanza nuova il cui
sangue purificatore è più eloquente dei quello di Abele»
(Eh 12,22-24). La purificazione dei peccati per il sacrificio
della nuova alleanza apre così la strada all'ingresso nella
Chiesa, simbolicamente rappresentata come città di Dio e
Gerusalemme nuova. Naturalmente questo linguaggio sup-
pone un'intepretazione figurata di molteplici testi biblici
che fondano la riflessione teologica sul battesimo, senza
del resto nominarli esplicitamente. Se ne può dedurre che
i testi del Nuovo Testamento che farebbero ricorso agli
stessi simboli tratti dalla Scrittura contengono forse una
certa risonanza battesimale. Si può costatare come questo
genere di ricerca prometta di essere proficuo per un'espo-
sizione dottrinale sul battesimo, come elemento essenziale
dell'iniziazione cristiana.
63
zione molto ben costruita, sono stati selezionati nel prece-
dente volume dedicato alle Omelie sulla Scrittura (pp. 148-
152), perché la loro struttura interna permetteva di rico-
noscervi degli schemi di omelie, pronunciate a Corinto o
altrove. È possibile ugualmente separare l'esposizione sul
battesimo che figura in Rm 6,1-23, osservando che i vv. 1-2
servono da sutura tra questo passo e il lungo sviluppo che
lo precede. È il riassunto di una predicazione strettamente
legata alla celebrazione del rito battesimale che è stata
fatta: viene ricordato il significato del rito e se ne traggo-
no le conseguenze che devono orientare la vita dei nuovi
battezzati. La divisione logica del testo è molto chiara: c'è
innanzitutto una riflessione sul rito, articolata sui due te-
mi della morte e della vita (6,1-13), poi, come conseguenza
pratica, un'esortazione alla libertà cristiana sotto li regi-
me della grazia (6, 12-19); la conclusione (6,20-23), ritorna
sul passaggio dalla vita alla morte, legato al passaggio dal
peccato al dono di Dio. L'analisi dettagliata potrebbe esse-
re oggetto di un lavoro pratico, particolarmente attento al
vocabolario del testo nella sua struttura letteraria di su-
perficie.
a) Significato del rito del battesimo
È necessario tener presente il rito del battesimo per im-
mersione perché esso fornisce il punto di partenza della
presente riflessione. Questo rito resta materialmente lo
stesso di quello del battesimo di Giovanni; soltanto che
ora il battesimo viene amministrato <<nel nome del Signore
Gesù», quindi sotto l'influenza della sua potenza. Questo
suppone la fede nel Cristo sia da parte del battezzatore
che del battezzato. Ma sono i due gesti successivi del rito
che ne manifestano simbolicamente il significato: c'è pri-
ma di tutto il «Seppellimento» nell'acqua, e poi un «sorge-
re» dall'acqua. Da qui una riflessione in tre tempi: l'espo-
sizione del significato dei due gesti (6,3-4), poi l'applicazio-
ne al problema posto dall'esperienza del peccato (6,5-7), in-
fine la conseguenza che ne deriva come passaggio dalla
morte alla vita (6,8-11).
l) L'esposizione inizia con una formula retorica, frequente
in Paolo ma assente nel resto del Nuovo Testamento 34 , che
64
presenta due varianti senza grande cambiamento di signi-
ficato: <<Non voglio (o: non vogliamo) che voi ignoriate, fra-
telli ... » (lTs 4,13; 1Cor 10,1 e 12,1; 2Cor 1,8; Rm 1,13), o co-
me qui: <<Non sapete forse, fratelli...» (Rm 6,3; 7,1). Dopo
l'entrata in argomento, la menzione del battesimo ritorne-
rà a tre riprese (due volte in 6,3, con il verbo, e una volta
in 6,4 con il sostantivo). Il termine non apparirà più sino
alla fine del testo analizzato: è sufficiente aver così fissato
il contesto pratico del discorso.
Per comprendere l'assimilazione simbolica del battesimo
al mistero del Cristo morto e risorto bisogna richiamare la
confessione di fede tradizionale che Paolo aveva <<ricevu-
to» e <<trasmesso» ai Corinti (1Cor 15,3-5): «Cristo morì...,
fu sepolto ... , è risuscitato ... >> (egégertai, <<risveglio>> o <<rial-
zamento>> dalla morte, con un verbo al perfetto che indica
la permanenza nel presente dell'evento accaduto nel pas-
sato). Sono questi tre effetti che il battesimo opera in noi,
mediante una stretta unione al Cristo Gesù. Questa stretta
unione è espressa dalla parla symphytoi al v. 5: non è ne-
cessario comprendere che <<Siamo diventati una sola pian-
ta>> con lui, significato letterale del verbo phyein; il signifi-
cato letterale è sufficientemente forte per dire che noi di-
ventiamo una stessa cosa con lui 35 (cfr. la radice latina di
fui). Siamo stati quindi battezzati (cioè immersi) nella sua
morte (v. 4a) ... Ma nel terzo momento il parallelismo viene
rotto, perché ancora non siamo stati <<risollevati dai mor-
ti>> come lui: solo nell'ora stabilita noi saremo uniti alla
somiglianza (tòi homoiòmati) della sua risurrezione (v. 5:
anastaseòs, <<risorgimentO>>). Per il momento l'effetto pro-
dotto dal battesimo è che <<noi possiamo camminare in
una vita nuova>> (v. 4b, con il verbo peripatein, lett. <<cam-
minare>>, «comportarsi>>, come l'ebraico halak). I verbi ani-
stémilexanistémi e i loro derivati non compariranno più in
questo capitolo, infatti si tratta di dare delle regole di
comportamento per l'esistenza presente. Ma il tema della
vita ritornerà tre volte con il verbo e due volte con il so-
stantivo, costituendo un binomio fondamentale con il te-
ma della morte (thanatos, sei volte, più una volta l'aggetti-
65
vo thnetos). Si può vedere che questi giochi di vocabolario
non sono aleatori per fissare il pensiero sull'essenziale.
2) Nel secondo momento della riflessione l'applicazione
del simbolismo del rito viene fatta al problema del pecca-
to, le cui implicazioni morali saranno importanti per il se-
guito. Questo sviluppo era abozzato nel v. 5, che sfociava
sulla speranza della risurrezione futura. Per il momento è
necessario vedere che cosa è diventato in noi l' <<Uomo vec-
chio>>, cioè la condizione che abbiamo dalla nascita in una
razza sulla quale pesa il giogo del peccato personificato,
potenza infernale. E questo, attraverso la fede, lo cono-
sciamo (touto gin6skontes hoti): il nostro uomo vecchio <<è
stato crocifisso con>> (sottinteso, il Cristo: synestaur6the).
Questo precisa l'idea del nostro «battesimo nella sua mor-
te>>, grazie a un'immagine audace che mostra tutta la <<vec-
chia umanità>> assunta dal Cristo per essere inchiodata
con lui sulla croce. Di conseguenza, il «corpo del peccato>>
è stato ridotto a nulla (hina katargethe;: v. 6b), cioè il cor-
po in quanto è lo strumento del peccato, dove la parte è
presa per il tutto al fine di designare la natura cattiva ri-
cevuta dall'uomo alla sua nascita. Lo scopo perseguito era
che <<noi non fossimo più schiavi del Peccato», personifica-
to qui come la potenza che teneva la <<vecchia umanità>>
sotto il suo giogo. Si stabilisce così un legame tra l'effetto
del battesimo e la concezione paolina della redenzione co-
me liberazione 36 • La teologia parlerà più tardi di pecca-
tum originale originatum per designare questo stato di
schiavitù interiore nel quale ci troviamo per nascita. Ma
Paolo omette questo termine tecnico che, presso i moder-
ni, ha causato più di un controsenso introducendo fin nei
bambini l'idea di una «colpevolezza>> ereditata in seguito
alla colpa di un lontano antenato 37 . Paolo si attiene alla si-
66
tuazione concreta del presente: ogni membro della razza
umana è <<asservito al Peccato» (personificato). L'essenzia-
le è che egli sia liberato da questa schiavitù: è ciò che ope-
ra il battesimo in quanto costituisce, simbolicamente, una
morte. Si legge quindi qui un principio paradossale: <<chi è
morto è giustificato dal peccato» (v. 7).
Questa espressione concisa richiama tre cose: a) la morte
simbolica del battesimo, in quanto unione alla morte del
Cristo, è sperimentata dal battezzato come una morte in
rapporto al Peccato che, fino allora, lo dominava e di cui
egli, adulto, aveva ratificato la schiavitù con le sue colpe.
b) Di conseguenza egli è liberato dal giogo del Peccato per-
sonificato (apo tes hamartias, con insistenza su apo). c) Il
risultato si manifesta in termini positivi con una giustifi-
cazione, maggiormente sentita per il fatto che l'adulto ave-
va coscienza della propria colpevolezza (dedikaiotai, <<è
stato giustificato», al perfetto per denotare un evento pas-
sato i cui effetti continuano nel presente). Per comprende-
re pienamente questa semplice frase bisognerebbe richia-
mare tutto il pensiero di Paolo sulla giustificazione, senza
dimenticare la rapida annotazione di l Cor 6,11 b, che con-
tiene un'allusione al battesimo: <<Voi che un tempo eravate
ingiusti (adikoi: 6,9) ... , siete stati lavati (apelousasthe, con
il prefisso apo- che fa allusione a ciò da cui si è stati lava-
ti), siete stati santificati (hegiasthete, per notare la parteci-
pazione alla <<santità» del Cristo), siete stati giustificati nel
67
nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro
Dio>>.
3) La conseguenza che deriva da questa situazione è, per
noi battezzati, un passaggio dalla morte alla vita (vv. 8-11).
Al v. 8 la morte è considerata come un evento passato (ape-
thanomen, all'aoristo), mentre la vita è compresa in una
prospettiva futura che noi conosciamo solo per la fede:
<<Crediamo che anche vivremo con lui (syzesomen auto;)>>.
Questo futuro non è ancora la risurrezione, notata al v. Sb
come l'unione finale di tutti i battezzati con il Cristo risor-
to. Si tratta per il momento della partecipazione alla sua
vita per tutta la durata del nostro soggiorno quaggiù: è la
«vita nuova>> del v. 4b. L'insistenza viene qui posta sulla
permanenza di questa vita nuova che ci rende partecipi
della vita del Cristo, infatti il verbo al futuro è legato a un
participio (eidotes, «sapendo>>) che mostra l'ingresso defi-
nitivo del Cristo nella sua vita gloriosa: «Sapendo che Cri-
sto risuscitato (egertheis) dai morti, non muore più; la
Morte (personificata, come sopra il Peccato) non ha più po-
tere su di lui>> (v. 9).
Ora, il binomio «morte/vita>> è spontanemente associato a
un altro binomio che designa due potenze avversarie die-
tro queste due esperienze umane. Utilizzando le rappre-
sentazioni «mitiche>> del mondo, l'una è infernale e l'altra
celeste: il Peccato (personificato) e Dio (realtà «sopraper-
sonale>>)38. Il loro intervento si ritrova nel mistero del Cri-
sto: «Per quanto riguarda la sua morte (ho gar apethanen),
egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il
fatto che egli vive, vive per Dio>> (v. 10). La traduzione di
queste due espressioni parallele non è facile perché il rap-
porto del Cristo con il Peccato e con Dio, nella sua morte e
nella sua vita, non è evidentemente lo stesso, benché in en-
trambi i casi si usi il dativo. Ritroviamo lo stesso paralleli-
68
smo nell'applicazione delle due espressioni che riguarda-
no noi: <<Così anche voi consideratevi morti al peccato
(nekrous me tei hamartiai), ma viventi per Dio, in Cristo
Gesù» (v. 11).
È chiaro che la relazione al Peccato, segnata da un com-
plemento al dativo, non sarebbe la stessa se si intendesse
hamartia come una colpa morale. Ma se si tiene presente
che Paolo lo personifica come una potenza malvagia che
ha esteso il suo dominio su tutta l'umanità, si comprende
come il Cristo, facendosi solidale con l'umanità peccatri-
ce, si sia addossato la morte, non come pena del peccato
che segnerebbe una sorta di vendetta di Dio, ma come il
segno concreto del dominio di questa potenza su un'uma-
nità a lei sottomessa dai propri peccati. Morendo egli stes-
so, egli è arrivato al massimo delle sua solidarietà con i
peccatori, per riscattarli dalla duplice schiavitù del Pecca-
to e della Morte. Sottomettendosi alla potenza della morte,
ha perciò vinto il Peccato sul suo stesso campo; poi la sua
risurrezione dai morti ha manifestato la sua vittoria sulla
Morte. Sarebbe quindi improprio dire che egli è «morto al
peccato»: la sua relazione col Peccato (personificato) non
fu soltanto quella di un rifiuto, legato alla sua propria giu-
stizia; la sua morte fu una morte <<in rapporto al Peccato»,
<<in relazione col Peccato», per vincerlo. Al contrario, la
sua vita è una vita <<per Dio», in intima unione con Dio.
Nelle due espressioni parallele che riguardano il Cristo e
noi a proposito della morte, i complementi al dativo (tei
hamartiai) non hanno quindi esattamente lo stesso signifi-
cato, o almeno la stessa sfumatura di significato. Ma per-
mettono di trarre la conclusione che concerne la situazio-
ne dei battezzati, liberati dal Peccato e dalla Morte per la
grazia del Cristo: <<Così anche voi consideratevi morti al
peccato, ma viventi per Dio, in Cristo GesÙ>> (v. 11). Questo
è l'effetto reale, manifestato dal simbolismo del rito batte-
simale e prodotto dalla grazia nell'esistenza del battezza-
to. Si costata allora che l'azione liberatrice del Cristo, che
costituisce la nostra redenzione, non si riduce alla sua
morte in croce: comporta una duplice faccia che compren-
de la croce e la risurrezione 39 . Si noterà che qui non appa-
69
re mai il vocabolario simbolico del sacrificio. È vero che
l'omelia ha il solo scopo di esporre a dei nuovi battezzati il
significato del rito che li introduce nella Chiesa, ma è
ugualmente essenziale non ridurre l'azione redentrice alla
croce: è con la sua risurrezione che il Cristo, <<vivente>> per
Dio, fa anche di noi dei <<viventi per Dio>>, e <<da Dio>> (o: <<a
DiO>>).
del suo contenuto positivo al quale bisogna rendere giustizia per ri-
spettare il «kerygma>> del vangelo di Paolo.
70
me il padrone che comanda e che giudica in funzione del-
l'obbedienza ai suoi ordini, sia come il Padre che vuole
salvare e che accorda la sua grazia per rendere possibile
la fedeltà al suo amore.
Questo non vuol dire che la Legge, in se stessa, sarebbe
cattiva; ma, fecendo soltanto conoscere il peccato (cfr. Rm
3,20), essa non fornisce gli strumenti per vincerlo, di modo
che il Peccato ha regnato sui «corpi mortali» delle sue vit-
time per farli <<obbedire ai suoi desideri» (v. 12). Se i desi-
deri (epithymiai) sono messi in relazione con il corpo non è
perché questo sia condiserato come cattivo (cfr. il duali-
smo greco); ma è lì che si manifestano i desideri sregolati
della persona vivente. Il seguito parla quindi delle <<mem-
bra» (ta melé, due volte nel v. 13) che designano l'aspetto
esterno, visibile, sensibile, della persona. Prima del batte-
simo, le membra erano degli <<strumenti (hopla) di ingiusti-
zia per il PeccatO>>; nella vita dei battezzati esse saranno
d'ora in poi <<strumenti di giustizia per Dio>> (v. 13).
Queste antitesi sono chiare. Mostrano la vita sotto i tratti
di un combattimento e definiscono i <<padroni>> al cui ser-
vizio gli uomini combattono: Dio o il Peccato personificato
(come potenza avversaria di Dio). C'è tuttavia una differen-
za tra le due situazioni. Nella prima gli uomini nati dalla
razza peccatrice <<presentavanO>> le loro membra come ar-
mi di ingiustizia; nella seconda essi <<presentano se stessi a
Dio come vivi [tornati] dai morti>>. Essi non saranno perciò
sottomessi ai desideri delle loro membra, in altre parole,
di ciò che c'è di più esteriore alloro vero Io nel suo essere
corporale. La loro personalità si afferma ora <<presentan-
dosi» a Dio. Si intuisce che essa era sottomessa ai mecca-
nismi delle membra, era solo una «libertà prigioniera» 40 .
Ma il battesimo, per la grazia che conferisce, la libera per-
ché possa rivolgersi verso Dio e offrirsi a lui nel più inti-
mo di sé 41 . Non si è molto lontani dalla riflessione dei mo-
derni sulle condizioni dell'esercizio della libertà umana:
questo nuovo elemento della psicologia si inserirebbe mol-
to bene nel contesto della riflessione paolina alla quale da-
rebbe un contenuto tratto dall'esperienza.
2) La menzione del passaggio dal regime della Legge al re-
71
gime della grazia dà all'esortazione un nuovo sviluppo con
l'aiuto di una costruzione retorica: la liberazione in rap-
porto alla Legge significa forse che ora si può peccare?
Non sia mai! (me genoito). Il pensiero oscilla dunque or.a
tra due coppie di termini contrari: schiavitù e libertà, pec-
cato e giustizia (l'uno e l'altro virtualmente personificati,
stando allo stile usato). Curiosamente Paolo arriva a tra-
sferire il vocabolario della schiavitù (doulos l douleuein)
fin nel campo della giustizia, seguendo questo principio: ci
si comporta come lo schiavo di colui al quale si obbedisce
(v. 16a). Ma è la logica del parallelismo letterario. Paolo si
scusa per questo modo tutto umano di parlare (v. 19a). Va
da sé che per lui questa seconda forma di schiavitù è pura
apparenza in quanto è in realtà liberatrice. Ma, dopo esse-
re stati schiavi del peccato prima del loro battesimo, i fe-
deli <<hanno obbedito di cuore a quell'insegnamento che è
stato loro trasmesso» (v. 17).
L'obbedienza che conduce alla giustizia verte quindi su un
oggetto preciso che non si presenta più sotto i tratti della
Legge, nel senso peggiorativo che si poteva dare al termine
per designare un'obbligazione puramente esterna, come
nel regime mosaico di cui Paolo presenta implicitamente
le insufficienze. Si tratta ora di una «regola di insegna-
mento» (typos didaches) che corrisponde, in realtà, all'inse-
gnamento evangelico 42 : la morale è lì integrata con la pro-
clamazione della grazia liberatrice. È in modo analogo che
Paolo parla altrove dell'«obbedienza della fede» (hypakoe
pisteos: Rm 1,5). Una tale obbedienza è l'onore e la salvez-
za dei battezzati. Per essa- si scusi quest'espressione tut-
ta umana (anthropinon: v. 19)! - il battezzato «è diventato
servo della giustizia>>, grazie alla sua liberazione in rap-
porto al Peccato (v. 18).
L'ultima espressione di questo sviluppo resta nella logica
della metafora usata, per trarne una regola di comporta-
mento. Prima del battesimo i fedeli «avevano messo le lo-
ro membra a servizio dell'impurità e dell'iniquità (lett.: il-
legalità, anomia), a pro dell'iniquità>>; d'ora in poi devono
«metterle a servizio della giustizia per la santificazione>>
(v. 19). Il ticchettio di parole continua: all'esistenza senza
72
Legge (anomia, negazione di nomos) si oppone la giustizia
(dikaiosyne); all'impurità (akatharsia), estesa con tutte le
risonanze del termine al punto di vista morale che ingloba
il campo sessuale, si oppone la santificazione. Questa non
è uno stato definitivamente acquisito, ma uno scopo verso
il quale conduce l'obbedienza alla giustizia (eis hagiasmon,
accusativo di scopo). L'esortazione collegata all'esperienza
battesimale sfocia così in una nota dinamica che costitui-
sce un programma di vita. È la definizione stessa della
morale cristiana: la morale non è più semplicemente l'e-
nunciato di una «legge», ma, grazie alla <<regola di inse-
gnamento» (typos didaches, v. 17), è la scelta di un orienta-
mento dato a tutta la vita sotto l'impulso della grazia.
3) La conclusione di questo punto serve nello stesso tempo
da conclusione per tutta l'omelia battesimale. Paolo pre-
senta il frutto (karpos: vv. 21-22) prodotto dai due modi di
esistenza che ha appena messo in parallelismo antitetico:
la schiavitù del Peccato produce un frutto vergognoso il
cui fine è la morte (vv. 20-21). Ma, dopo la liberazione da
questa «schiavitù>>, lo stato di <<servizio>> verso Dio (dou-
leuthentes t6; the6;) produce un frutto che conduce alla
santificazione (eis hagiasmon) con, al termine, la vita eter-
na. Gli antonimi «morte/vita» dominano qui il pensiero e
introducono l'ultima espressione della conclusione: <<Per-
ché il salario (ops6nia) del peccato è la morte; ma il dono
(charisma) di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Si-
gnore>> (v. 23). Non c'è più stretto parallelismo tra i due: la
morte, vista in una prospettiva di eternità che l'Apocalisse
chiamerà «la morte seconda>> (Ap 2,11; 20,14; 21,8), è un
<<salario>>, così come meritato dalle azioni compiute; men-
tre la vita eterna è un <<dono gratuitO>> (charisma), per nul-
la meritato ma accordato per grazia ai peccatori giustifi-
cati. L'introduzione del Signore Gesù Cristo nella frase
terminale ricorda al momento giusto che, per giustificare i
peccatori, il rito battesimale li aveva immersi nel mistero
della sua morte e della sua risurrezione per unirli stretta-
mente a lui. Il finale si ricollega quindi con l'inizio del di-
scorso.
Non bisogna cercare in questo discorso la dottrina com-
pleta di Paolo sul battesimo. L'essenziale è costatare il ca-
rattere liturgico del brano. Incorporato in un'esposizione
molto più ampia che tocca quasi tutti gli aspetti della fede
cristiana, è possibile separarlo chiaramente come un pie-
73
colo insieme elaborato precedentemente in un contesto
che si può individuare. Questa è la ragione per cui ci sia-
mo soffermati abbastanza a lungo su di esso.
74
grati in insiemi in cui essi giocano un ruolo essenziale. Ma
le allusioni all'esperienza battesimale sono importanti per-
ché sottolineano due aspetti che non erano messi in evi-
denza in Rm 6.
l) Gal 3,26-28 e 4,4-7. Il tema che attraversa tutta la lettera
ai Galati è quello della giustificazione per mezzo della fede
in Cristo Gesù e non per le opere della Legge. Ne derivano
delle conseguenze per la libertà cristiana e per le regole
della vita pratica. Ma l'esperienza battesimale si inserisce
come una cerniera insostituibile tra l'atto di fede nel Van-
gelo e ciò che sarà descritto come la <<vita secondo lo Spi-
rito». È necessario esaminare quindi con attenzione i due
passi che ne trattano.
Il primo (Gal 3,26-28) spiega come la «pedagogia» legata
alla Legge mosaica e alla prima alleanza sia ora superata,
perché, una volta venuto il Cristo, la fede in lui apre una
prospettiva nuova nella storia del «popolo di Dio»:
Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù,
poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rive-
stiti di Cristo. Non c'è più né giudeo né greco; non c'è più
schiavo né libero; non c'è più uomo né donna (lett.: né ma-
schio né femmina, per allusione a Gen 1,27) poiché tutti
siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,26-28).
Il «battesimo in Cristo>>, la cui natura viene spiegata nel-
l'omelia di Rm 6 come unione alla sua morte e alla sua ri-
surrezione, suppone la fede in lui. Esso comporta tre con-
seguenze: fa dei battezzati dei figli di Dio perché li assimi-
la al Cristo, Figlio di Dio; li «riveste» del Cristo, il che sup-
pone una partecipazione alla sua santità e alla sua stessa
natura; li mette su un piede di perfetta unità proprio sotto
questo rapporto, il che sconvolge le differenziazioni uma-
ne dovute alla sessualità, alle condizioni sociali, alle diver-
sità nazionali. L'unità di tutti <<Ìn Cristo Gesù» può essere
intesa nel senso della loro uguale dignità, ma può anche
riguardare il fatto che il battesimo li unisce nella Chiesa.
Il problema delle funzioni affidate a ciascuno nella Chiesa
non è oggetto di alcuna allusione in questo testo 45 . L'an-
75
nullamento della differenza tra le condizioni sociali (schia-
vi e uomini liberi) non si situa nell'ordine delle riforme
immediate all'interno dell'organizzazione della società, ma
lo implica come un obiettivo di ordine etico che dev'essere
perseguito a più o meno breve scadenza 46 . Quanto all'op-
posizione tra giudei e gentili, essa ha tre diverse risonan-
ze: l'una concerne la diversità dei popoli riuniti nella Chie-
sa; un'altra contiene un'allusione alla diversità culturale;
la terza riguarda lo statuto religioso che, fino allora, sepa-
rava i giudei dalle altre nazioni, perché questa conseguen-
za della prima alleanza è ora superata. Questi effetti del
battesimo <<in Cristo Gesù» si prolungano in tutte le dire-
zioni e comportano delle conseguenze senza limiti di
tempo.
Il secondo passo (Gal 4,4-7) unisce strettamente gli effetti
del battesimo alla redenzione effettuata dal Cristo, Figlio
di Dio:
nel testo citato non si parla dei ministeri (cfr. Les ministères dans le
peuple de Dieu, Cerf 1988, pp. 29-31). Del resto il termine charisma
non vi figura.
46 Paolo non ha alcun potere per riformare le leggi e le usanze della
società e non si atteggia a rivoluzionario (cfr. Spartacus e la guerra
degli schiavi). Sarà con la testimonianza di nuovi costumi, che modi-
ficano le relazioni tra padroni e schiavi cristiani, che la Chiesa creerà
un possibile movimento di riforma, che procurerà il bene comune te-
nendo conto di tutti i fattori coinvolti nell'esperienza. In occasione
dei tumulti che sconvolgeranno il Ponto e la Bitinia, quando Plinio il
Giovane vi sarà inviato come governatore, gli schiavi avranno di che
mangiare grazie alle ricchezze dei loro padroni: saranno i liberi lavo-
ratori del porto a rivoltarsi reclamando del grano. Non bisogna di-
menticare questo aspetto sociale ed economico dei rapporti sociali.
76
gia» legata al dono della Legge (3,24): tempo assimilabile a
quello della minore età dei fanciulli (cfr. 4,2-3). È con l'in-
vio del Figlio di Dio nel mondo che inizia un'epoca nuova
in cui i fanciulli passano dalla tutela della Legge alla liber-
tà dell'età adulta. Per effettuare questo passagio a benefi-
cio di tutta la razza umana, il Figlio si assimila in tutto ai
membri della sua razza: nato da una donna, egli partecipa
pienamente alla condizione umana, il che comporterà per
lui la possibilità di morire; nato sotto la Legge, assume l'u-
manità sotto la forma di giudeo, di cui accetta i condizio-
namenti sempre conservando i privilegi della libertà che si
addicono al Figlio di Dio. Ma proprio a partire da questa
assimilazione piena alla razza umana egli può comunicare
i suoi privilegi di Figlio conferendo ai suoi fratelli di razza
la <<filiazione adottiva>> (hyiothesia) 47 • Senza che il battesi-
mo sia menzionato nuovamente in modo esplicito, è chiaro
che vengono descritti i suoi effetti. Al centro figura il dono
dello Spirito inviato nei cuori. Senza questo Spirito, i bat-
tezzati, uomini e donne, non prenderebbero coscienza del-
la loro filiazione adottiva: è solo sotto il suo impulso che
possono gridare verso Dio chiamandolo Abba!, cioè ripren-
dendo l'espressione che fu quella di Gesù stesso in quanto
Figlio di Dio nel senso più forte del termine (cfr. Mc
14,36). Questo grido del cuore implica una condizione nuo-
va: da schiavi quali erano al tempo in cui Dio appariva lo-
ro solo sotto l'aspetto di padrone che dà degli ordini attra-
verso la sua Legge (legge mosaica legata alla prima allean-
za, ma anche ogni legge morale ridotta a questo unico
aspetto di ordini dati da Dio), i battezzati sono diventati fi-
gli adottivi, senza differenza, sotto questo aspetto, tra uo-
77
mini e donne (cfr. 3,28). A questa filiazione è legata l'eredi-
tà delle promesse: era la conclusione del primo testo cita-
to sopra: <<Se appartenete a Cristo, allora siete discenden-
za (sperma) di Abramo, eredi secondo la promessa» (3,29).
Benché l'oggetto dell'eredità non venga qui precisato, è
chiaro che si tratta del destino finale del Figlio stesso, del
Cristo in quanto sperma di Abramo (3,16): si tratta quindi
della risurrezione e della vita eterna con Dio.
2) Rm 8,14-17. Questo testo riprende il tema battesimale
della lettera ai Galati, nel contesto di uno sviluppo più ge-
nerale sul dono dello Spirito, che permette di uscire dal vi-
colo cieco della <<vita secondo la carne>> 48 (cfr. già Gal 5,16-
25). Non si deve dimenticare che, nell'espitola, questa lun-
ga esposizione dei capp. 7 e 8 segue logicamente l'esposi-
zione sul significato del battesimo di cui si è riconosciuto
sopra il carattere omiletico.
78
gliato delle richieste in una preghiera primitiva trasmessa
sia in greco che in aramaico; mentre si comprende molto
bene che un adattamento liturgico di questa preghiera per
la recita ufficiale in ambiente giudeo-cristiano abbia por-
tato a inserire dei complementi che non sono estranei alle
parole di Gesù (<<Sia fatta la tua volontà» ripete esattamen-
te la preghiera di Gesù in Mt 26,42b). In base a ciò, non è
sorprendente che la formula abituale della preghiera sina-
gogale (<<Padre nostro che sei nei cieli») abbia rimpiazzato
l'invocazione più breve che caratterizzava la preghiera di
Gesù: <<Abba!», cioè <<Padre» 49 • Di conseguenza, sorge una
domanda che interessa direttamente la liturgia del battesi-
mo: non è forse in questo contesto che si <<consegnava» ai
nuovi fedeli la formula che doveva costituire d'ora in poi
la loro preghiera personale di cristiani e che essi recitava-
no per la prima volta con la comunità riunita: il <<Pater>>?
Diventati <<figli di Dio>> per filiazione adottiva, essi hanno
ora il diritto di lanciare verso Dio questo <<grido>> che lo
Spirito Santo ispira alloro cuore e alla loro voce. Si tratta
naturalmente solo di un'ipotesi, ma con essa si spieghe-
rebbe molto bene l'allusione a un punto della liturgia bat-
tesimale che si ritrova parallelamente in Gal 4,6 e Rm
8,15 50 . In ogni caso, l'insistenza sul dono dello Spirito in-
troduce un elemento importante nella teologia del batte-
simo.
Quanto all'allusione finale alla necessità di soffrire con il
Cristo per essere glorificati con lui, essa rinvia chiaramen-
79
te a un elemento capitale che era stato rilevato nel com-
mento del rito: partecipare simbolicamente alla sua morte
e alla sua risurrezione, per trovare lì le regole della <<vita
nuova».
b) Il battesimo di Gesù, prototipo del battesimo cristiano
<<Prototipo» non s'intende qui nel senso di ripresa del rito
stesso: l'immersione nell'acqua, effettuata una sola volta
come nella tradizione battista di Giovanni. Bisogna far ri-
ferimento al racconto del battesimo di Gesù per compren-
dere il modo in cui sono associati qui la filiazione divina,
il ricevimento dello Spirito e il grido lanciato verso Dio:
Abba!, Padre. Questo racconto è stato presentato con un
rapido commento nel vol. VI: Vangeli e storia 51 • È inutile
ritornarci. Ma se ci si riferisce alla recensione di Marco
(1,10-11) si osserva che essa contiene esattamente quanto è
necessario per suggerire l'esperienza che fa il fedele quan-
do viene <<battezzato nel Cristo Gesù»: entra in comunica-
zione con il campo invisibile di Dio, lo Spirito scende su di
lui, e il Padre gli dice: <<Tu sei mio figlio» - qui attraverso
la filiazione adottiva. Per tale ragione il battezzato riceve
dalla comunità e recita per la prima volta la <<preghiera
del Signore>>, che inizia con la parola Abba!: egli proclama
così la sua supplica al Padre. Il racconto di Luca precisa
giustamente che la teofania ebbe luogo nel momento in cui
Gesù risaliva dall'acqua e pregava (Le 3,21). Non vengono
precisate le parole della sua preghiera, ma iniziavano qua-
si certamente con l'invocazione costante che viene ripresa
nella preghiera cristiana: Abba/ 52 • In questo senso il rac-
conto del battesimo di Gesù è costruito, nei vangeli, per ri-
chiamare l'essenziale del battesimo cristiano.
2. Dall'esperienza battesimale
alle regole della vita cristiana
Senza uscire dal corpus paolino affronteremo ora due tipi
di testi stettamente vicini che contengono delle allusioni
80
molto chiare all'esperienza battesimale senza descriverla
direttamente, e che sviluppano poi delle istruzioni prati-
che relative alla vita dei battezzati: quelli della lettera ai
Colossesi e della lettera agli Efesini. Non tratteremo qui
della questione critica delle <<lettere dalla prigionia». An-
che se la lettera ai Colossesi introduce dei temi nuovi nel
pensiero di Paolo, o delle sfumature nuove in temi antichi,
la consideriamo autentica. Informato sulle particolari dif-
ficoltà di una comunità locale fondata da Epafra, suo com-
pagno, Paolo scrive ai Colossesi per farvi fronte. La lettera
sarà portata da Tichico e Onesimo (Col 4,7-9). La difficoltà
delle comunicazioni per mare tra Roma e la provincia d'A-
sia (Efeso) fanno pensare piuttosto alla prigionia di Paolo
a Cesarea 53 . Al contrario, il lungo testo conservato sotto il
nome di lettera agli Efesini ha un carattere più generale e
uno stile molto diverso di quello delle lettere di Paolo, pur
seguendo da vicino la lettera ai Colossesi e riprendendo
dei temi tratti da tutte le grandi lettere. In entrambi i casi
le allusioni sono numerose e sono seguite da una serie di
esortazioni che forma un'istruzione pratica rivolta ai nuo-
vi battezzati, parallelamente a quelle della prima lettera di
Pietro. Quando tratteremo di quest'ultima l'istruzione in
questione sarà studiata con più precisione. Qui ci limitia-
mo soltanto a un abbozzo.
a) La lettera ai Colossesi
l) Le allusioni battesimali. Anche se la lettera non può es-
sere considerata come un'omelia battesimale, contiene
molteplici allusioni all'esperienza battesimale dei corri-
spondenti, fornendo parecchi elementi importanti per la
riflessione sul significato del battesimo.
Col l, 12-14: l'esperienza battesimale di cui bisogna rende-
re grazie al Padre ci ha apportato due cose: l) ci 54 ha mes-
81
so in grado (hikan6santi) di condividere la «sorte» dei san-
ti nella luce (v. 12); 2) perché Dio <<ci ha riscattati dal pote-
re delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio
diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la re-
missione dei peccati» (vv. 13-14). La dottrina della reden-
zione liberatrice (apolytr6sis) viene evocata qui solo per i
suoi effetti presenti, debitamente sperimentati: il passag-
gio dalle tenebre alla luce simbolizza il nostro trasferi-
mento dal campo del peccato al regno del Figlio, identifi-
cato con la comunione con Dio di cui i <<santi» sono benefi-
ciari. Ma si tratta degli esseri celesti (cfr. Zc 14,5; Sal 89,6;
Dn 4,10 e 8,13) o dei fedeli (cfr. 1Cor 1,2; 14,33; ecc.)? Si
tratta in ogni caso della sorte (kleros) toccata ai battezzati.
Col 1,21-23: la <<riconciliazione» (verbo apokatallass6) otte-
nuta dalla morte di Cristo 55 viene accordata a delle perso-
ne che un tempo erano <<stranieri e nemici», perché diven-
tino <<santi, immacolati e irreprensibili»; i battezzati ai
quali ci si riferisce qui non appartengono quindi al popolo
d'Israele, ma al mondo pagano. Essi sono invitati a perse-
verare nella fede e nella speranza.
Col 2,11-13: dopo un'insistenza sulla rivelazione del <<mi-
stero del CristO>> che è stata loro accordata, troviamo ora
un'assimilazione del battesimo alla vera <<circoncisione>>
non fatta da mano d'uomo 56 , quella del Cristo, che spoglia
del «corpo di carne>>, inteso qui in senso negativo (a diffe-
renza di 1,22) per il fatto che è asservito alla carne (cfr. il
significato di <<carne>> in Gal 5,16-21) e quindi incline al
peccato. Una duplice allusione al rito battesimale (v. 12) ri-
prende il simbolismo del seppellimento con il Cristo e del-
la risurrezione con lui; ma a differenza di Rm 6,4-5, l'im-
magine della risurrezione è applicata qui alla vita nuova
che viene ora concessa ai battezzati 57 •
82
2) Le istruzioni ai battezzati. Col 3,1-4: si apre qui la secon-
da parte di un'omelia rivolta ai dei battezzati per dare lo-
ro una regola di vita. Essi sono morti con il Cristo, la loro
vita è nascosta con lui in Dio (cfr. la «Vita nuova>> di Rm 6),
e l'orizzonte della loro speranza è la partecipazione alla
sua manifestazione gloriosa (hymeis syn auto; phaner6thè-
sesthe en doxèi).
Partendo da ciò, la predicazione espone 58 dapprima dei
precetti generali che riguardano tutti i vizi da evitare (3,5-
9a), poiché i battezzati si sono spogliati dell'«uomo vec-
chio>> e si sono rivestiti dell'«uomo nuovo>> (5,9b-10); essi
formano così una nuova umanità dove sono abolite tutte le
antiche barriere: non ci sono Greci e Giudei, circoncisi e
incirconcisi (situazione religiosa diversa davanti alla Leg-
ge dell'antica alleanza), barbari, sciti (grado di cultura in-
feriore rispetto ai greci e ai giudei), schiavi e liberi (disu-
guaglianza di situazioni sociali), perché il Cristo è tutto e
in tutti (cfr. Gal 3,27-28). È la nuova situazione degli uomi-
ni nella Chiesa (nominata in Col 1,18-24). Il seguito oppone
ai vizi antichi le virtù cristiane (3,12-17); si nota in questo
contesto un'allusione alle riunioni liturgiche dove i fedeli
si edificano a vicenda con <<salmi, inni e cantici spirituali>>
(3,16) 59 .
Col 3,18-4,1: viene ora l'istruzione pratica sulla morale do-
mestica, per mogli e mariti, genitori e figli, schiavi e pa-
droni: tutti i tipi di relazione sono trasformati dalla pre-
senza del Signore Gesù. Anche allo sguardo di <<quelli di
fuori>> (4,5-6) è necessario trovare l'atteggiamento giusto
che assicura la buona fama della comunità.
Alcuni parallelismi di questa istruzione battesimale si ri-
trovano nella lettera agli Efesini e nella prima lettera di
Pietro. Inserita qui in una lettera, essa conserva il suo ca-
rattere di predicazione generale, senza alcuna allusione ai
problemi particolari della Chiesa di Colossi, contraria-
mente al passo di 2,16-17 che supponeva delle informazio-
ni su alcune difficoltà locali. Gli arricchimenti apportati
del Cristo, oggetto della speranza cristiana, è espressa qui con l'aiuto
di un'altra terminologia (Col 3,4).
58 Queste regole di vita date ai battezzati saranno studiate con più
dettagli a proposito della prima lettera di Pietro (infra, p. 214).
59 Ritorneremo su questo punto analizzando gli esempi di preghiere
raccolte nel Nuovo Testamento (infra, pp. 224-273).
83
dalla lettera alla teologia del battesimo sono intimamente
legati ad alcune allusioni all'esperienza battesimale dei
fedeli ai quali essa è indirizzata. I consigli che vengono
loro dati in vista della vita cristiana riprendono espressa-
mente, nelle loro grandi linee, le istruzioni che venivano
date ai nuovi battezzati. È una cosa che non sorprende,
dato che Paolo aveva solo delle informazioni frammenta-
rie sui problemi che si ponevano in una comunità che
non aveva fondato personalmente. Più avanti prenderemo
in considerazione, dei suoi sviluppi cristologici, un inno
al Cristo che troverà posto nei testi liturgici del Nuovo
Testamento (Col 1,15-20).
b) La lettera agli Efesini
l) Le allusioni battesimali. Il testo della lettera è molto
meno vicino a un discorso diretto a dei battezzati di
quello della lettera ai Colossesi, al quale si ispira 60 . Co-
me la lettera ai Romani, si tratta di un'esposizione siste-
matica di teologia. Vi si distingue molto chiaramente
un'esposizione dottrinale che inizia con una << benedizio-
ne» di stile liturgico (1,3-14) e termina con una preghiera
e una dossologia (3, 14-21). In questo contesto le allusioni
battesimali sono molto più disseminate. Temi presi dalla
teologia della redenzione, che vengono dalla lettera ai
Romani, si intrecciano con passi paralleli alle riflessioni
sul battesimo che vengono dalla lettera ai Colossesi. Tut-
to ciò fa corpo per costituire un'esposizione molto accu-
rata, in uno stile nobile le cui lunghe frasi si distinguono
abbastanza nettamente dallo stile di san Paolo. Ci sono
incontestabilmente dei temi nuovi che appaiono ancora
più sviluppati che nella lettera ai Colossesi (mystèrion,
plèroma). Ma la teologia delle grandi lettere è stata così
ben assimilata dal redattore che non ci si discosta mini-
mamente dalla linea di pensiero dell'apostolo, qualunque
sia la data esatta della sua composizione 61 • Ci si allonta-
84
na, tuttavia, dalla predicazione specificamente battesi-
male.
2) Le esortazioni. Nella seconda parte del testo (4,1-5,20) si
è più vicini alle esortazioni rivolte a dei nuovi battezzati,
sono infatti più numerosi i parallelismi con la parte corri-
spondente della lettera ai Colossesi. Si nota in particolare
l'esortazione morale a spogliarsi dell'uomo vecchio per ri-
vestire l'uomo nuovo, fuggendo i vizi e praticando le virtù
(4, 17 -5,20): è lì che viene citato un frammento di cantico in-
contestabilmente battesimale (5,14b). L'allusione liturgica
ai salmi, agli inni e ai cantici spirituali è identica a quella
di Col 3,16 (cfr. Ef 5,19a). I precetti di morale domestica
sono molto più sviluppati che nel testo parallelo che li ab-
bozzava (5,21-6,9); l'esortazione all'amore coniugale (5,25-
33) acquista un po' l'andatura di un canovaccio di omelia
su Gen 2,24. Infine, la conclusione sul combattimento spi-
rituale (6,10-17) non sorprenderebbe in una predicazione
rivolta a dei battezzati; ma il suo tema proviene da l Ts
5,8. In .breve, l'ispirazione battesimale dell'insieme è fuori
dubbio, ma non si è più nel contesto di una predicazione
diretta: si tratta di un'esposizione teologica ragionata, una
sintesi rivolta probabilmente a un gruppo di Chiese intor-
no a Efeso. Bisogna almeno dedurne che il riferimento im-
plicito all'esperienza battesimale gioca un ruolo molto im-
portante per determinare il quadro concreto della spiri-
tualità cristiana.
tutte le parti del suo Corpus (eccetto le lettere pastorali), forse per
concludere la prima raccolta delle sue lettere che sarebbe stata fatta
a Efeso negli anni 70. La composizione avrebbe così il carattere gene-
rale di una circolare indirizzata a tutte le chiese paoline. Si spieghe-
rebbero nello stesso tempo le esitazioni dei manoscritti sulle parole
en Ephesòi nel verso 1: si tratta veramente della dottrina di Paolo, co-
sì come fu ricevuta allora a Efeso sulla base di tutte le sue lettere co-
nosciute.
85
saggio che svela un significato racchiuso nel loro contenu-
to primitivo. È come se, in Paolo, la riflessione dottrinale
fosse stata integrata con una presentazione diretta dei fat-
ti e dei gesti di Gesù, tenendo sempre conto della sua ri-
surrezione dai morti e della vita pratica della Chiesa 62 •
Due tipi di testi possono essere così analizzati: il discorso
di Gv 3,1-10 e i racconti di miracoli di Gv 9,1-40 e 11,1-44.
a) Il battesimo, nuova nascita (Gv 3,1-10)
Non ci sono motivi per mettere in discussione la realtà di
un dialogo tra Gesù e Nicodemo, dottore della Legge (cfr.
Gv 3,10), fariseo (Gv 7,50), discepolo segreto nonostante la
sua probabile appartenenza al gran consiglio (19,39). L'e-
vangelista, che non assisteva al dialogo, ne può conservare
solo una trama molto generale; ma egli proietta sul suo te-
ma una riflessione sulla <<nuova nascita» che contiene un'i-
struzione sul <<battesimo nello Spirito». Questa riflessione
contiene un gioco di parole che si può comprendere sol-
tanto in greco: <<nascere di nuovo>> e <<nascere dall'alto>>
(an6then). Ma, come osserva giustamente J.A.T. Robinson:
<<Nessuno pretenderà oggi che abbiamo in Giovanni le pa-
role di Gesù alla lettera>> 63 . Questo ricorso al duplice si-
gnificato della parola greca non indica che il dialogo tra
Gesù e Nicodemo si sia svolto in questa lingua: può benis-
simo <<indicare l'ambiente della missione giovannea>> 64 •
L'incomprensione dell'ascoltatore è un artificio letterario
usato costantemente nel vangelo di Giovanni per far pro-
gredire il pensiero. Qui Nicodemo non comprende la di-
chiarazione di Gesù (3,3-4), il che permette di precisare ciò
che egli vuol dire: <<nascere di nuovO>> o <<nascere dall'alto>>
(traduzione in modo sintetico: <<rinascere dall'alto>>). È
<<nascere da acqua e da spiritO>>: duplice allusione all'ac-
qua del battesimo e al dono dello Spirito Santo che l'ac-
compagna, realtà misteriosa, così impercettibile per i sen-
si come i movimenti del vento per gli occhi (3,8, con un
86
nuovo gioco di parole sul duplice significato di pneu-
ma = rual:z delle lingue semitiche). La menzione dell'entrata
nel regno di Dio (3,5) o della sua veduta (3,3), eccezionale
in Giovanni ma frequente nei Sinottici, depone a favore di
un'espressione originale di Gesù, simile a Le 18,16-17; essa
è però ripresa in un contesto cristiano per designare colo-
ro che sono <<nati da Dio>> (gegenèmenon: 1Gv 5,1). Nicode-
mo non è il solo «maestro in Israele» a non comprendere
queste cose (3,9). È anche il caso di tutti i dottori giudei
contemporanei dell'evangelista: il battesimo cristiano è
estraneo alle loro categorie mentali. L'espressione primiti-
va di Gesù viene così prolungata da una riflessione teolo-
gica sul battesimo, che traspariva attraverso la filigrana
del testo.
b) Il battesimo, illuminazione e risurrezione
Per comprendere ciò che segue bisogna innanzitutto far ri-
ferimento a un canto proveniente dalla liturgia battesimale,
di cui la lettera agli Efesini ha raccolto un framento: «Sve-
gliati, o tu che dormi, Il destati dai morti Il e Cristo t'illumi-
nerà>> (Ef 5,14). Citando questo testo, Clemente Alessandri-
no ne ha forse conservato il seguito originale: « ... egli, il So-
le della risurrezione Il generato con l'astro del mattino 65
(Sal 109,3 LXX) 66 Il che concede generosamente la vita con i
suoi raggi>> 67 . L'importante è di riconoscere qui un'interpel-
lanza rivolta al battezzato che assimila il battesimo a una
risurrezione dai morti (cfr. Ef 2,6) e a un'illuminazione (ver-
bo epiphausk6, affine nel significato a photiz6 passivo in
Eb 6,4 e 10,32) 68 •
Ora, nel vangelo di Giovanni, due racconti di miracoli, che
la loro accurata composizione permette di accostare, mo-
strano come il Cristo, essendo «la luce del mondo>> (Gv
9,5), restituisce la vista a un cieco che perviene nello stes-
87
so tempo alla fede (Gv 9,35-39), e come, essendo la risurre-
zione [e la vita] (Gv 11,25-26), egli risuscita un morto (Gv
11,39-44). L'arte del sottile simbolismo, così come la prati-
ca l'evangelista, lascia pochi dubbi sulla duplice allusione
battesimale suggerita da questa coppia di racconti 69 • È
quindi molto appropriato introdurli anche nella riflessio-
ne teologica sul battesimo contenuta nel vangelo di Gio-
vanni. Si comprende allora come i due racconti mettano in
evidenza la fede nel Cristo, legata al duplice segno che lo
manifesta come «luce del mondo» e come <<risurrezione e
vita» (9,35-38 e 11,26-27): questo tratto ha la funzione di
mostrare il legame necessario tra il battesimo, sia come il-
luminazione che come risurrezione, e la fede nel Cristo
stesso.
Molto curiosamente, nella prima lettera di Giovanni, che è
piuttosto una collezione di esortazioni omiletiche, le allu-
sioni battesimali non sono molto percettibili, a parte 3,1-2
che ricorda che noi siamo «figli di Dio», e 5,1-4 che unisce
a questa qualità di figlio di Dio «nato da Dio» (gegenneme-
non ek tou theou), l'amore, la pratica dei comandamenti e
la vittoria della fede sul mondo. Si tratta di un richiamo
delle istruzioni date ai battezzati, ma non è in rapporto
immediato con la liturgia battesimale 70 •
88
capitolo terzo
La cena del Signore
89
sioni per designare il gesto che sostituisce radicalmente
tutti i riti sacrificali del giudaismo: la <<cena del Signore»
(Paolo) e la <<frazione del pane» (Luca-Atti). Ad esse si può
aggiungere il verbo che ricorda il <<pasto della sera (cena:
deipnon)» che Gesù prese per l'ultima volta con i suoi di-
scepoli (deipne6: Le 22,20; lCor 11,25; Ap 3,20). Questo uso
sarà conservato parzialmente nell'epoca patristica, presso
i latini e i greci, in riferimento a l Cor 11 (per esempio:
<<cena dominica» in Sant'Agostino, Lettera 118,5). Ma dob-
biamo attenerci qui ai dati del Nuovo Testamento.
Tre sono i punti che dovranno essere esaminati: l) i pasti
condivisi dai discepoli con il Cristo risorto, prototipi della
<<cena del Signore»; 2) i racconti dell'ultima cena, che oc-
cupa un posto essenziale nella liturgia eucaristica della
Chiesa; 3) la riflessione teologica sulla prassi eucaristica
in Paolo, in Giovanni e perfino in alcuni testi dei vangeli
sinottici.
90
meno esplicita: << ••• non berrò più del frutto della vite fino
al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio». Ma il fi-
nale secondario di Marco menzionerà esplicitamente il fat-
to che i discepoli stavano a mensa, quando il Cristo risorto
si manifestò ad essi per affidare loro la missione universa-
le (Mc 16,14).
In Luca tutto diventa più preciso 3 . Viene ripreso lo stesso
voto di astinenza di Gesù, «finché non venga il regno di
Dio>> (Le 22,18), e la coppa legata alla preghiera di ringra-
ziamento è distinta da quella che Gesù distribuisce dopo
la cena (22,20). Ma l'apparizione di Gesù agli undici ha evi-
dentemente luogo nel corso di un pasto dato che egli do-
manda ai suoi qualcosa da mangiare per dimostrare di
non essere «Un fantasma>> (Le 24,39-43), e soprattutto i due
discepoli di Emmaus lo riconoscono «nella frazione del
pane>> (24,30.35). Questo è il motivo per cui, negli Atti, il di-
scorso di Pietro nella casa di Cornelio insisterà sul fatto
che i testimoni scelti ai quali il Cristo risorto si è manife-
stato «hanno mangiato e bevuto con lui dopo la sua risur-
rezione dai morti>> (At 10,41). Non si dice né dove, né quan-
do, né quante volte questa esperienza abbia avuto luogo;
ma è chiaro che essa è di capitale importanza, non per
«provare>> materialmente il fatto della risurrezione corpo-
rale, ma per dimostrare nella comune partecipazione alla
mensa il segno della comunione ritrovata con il Signore,
quale essa continuerà ad esistere nella Chiesa.
In Giovanni non si precisa che gli undici sono a tavola, il
primo giorno della settimana, quando Gesù appare loro
(Gv 20,19) e di nuovo otto giorni dopo (20,26). Ma sembra
che il finale di Marco faccia allusione a questa apparizio-
ne, quando si dice che gli undici «stavano a mensa>> (Mc
16,14, con una probabile menzione dell'incredulità di Tom-
maso: ouk episteusan sembra fare allusione a ou mé pi-
steus6 di Gv 20,25). In ogni caso, nel racconto del cap. 21,
dopo l'episodio della pesca miracolosa, Gesù invita i disce-
91
poli a venire a mangiare (aristesate), ed è lui che presiede
il pasto prendendo il pane che dà loro (Gv 21,12-13): la di-
stribuzione del pane ricorda esattamente il modo in cui
Giovanni ha raccontato l'episodio della moltiplicazione dei
pani (Gv 6,11: in entrambi i casi insieme al pane ci sono
dei pesci). In breve, bisogna tener presente questa menzio-
ne dei pasti con il Cristo risorto per comprendere che cosa
significherà la «cena del Signore», perché «il Signore>> è il
titolo del Cristo risorto (At 2,36).
2. La cena di Emmaus
Luca è quello che meglio di tutti chiarisce questa impor-
tante annotazione quando sviluppa il racconto dedicato ai
due discepoli di Emmaus 4 . Riteniamo utile al nostro sco-
po una sua analisi dettagliata. È possibile, per gioco, ana-
lizzare il testo applicando ad esso lo schema delle tre pro-
ve (qualificante, principale, glorificante); ma si tratta solo
di un'analogia ispirata dal fatto che gli eroi della storia si
trovano successivamente in tre luoghi: Gerusalemme, la
strada, Emmaus 5 . Però la prima prova degli «attanti» -
dei due discepoli- è solo oggetto di un'allusione all'inizio
(Le 24,13-14), prima di essere ripresa nel corso della con-
versazione sotto forma di un <<racconto nel racconto>>
(24, 19-24).
a) Questa prova riguarda evidentemente gli avvenimenti
92
della Passione di Gesù, ma questa è vista con gli occhi di
due uomini che avevano posto tutte le loro attese in Gesù
e che hanno perso la loro speranza di giudei. È di questo
che i due viaggiatori conversano e discutono (24,14-15a).
Ciò che essi spiegano al compagno sconosciuto che si uni-
sce a loro per la strada fa eco direttamente all'oggetto del-
le loro preoccupazioni. Essi non sono tra quelli che hanno
partecipato all'ultima cena di Gesù. La loro fede in lui re-
sta limitata: ai loro occhi egli era «Un profeta potente in
opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo» (v. 19);
speravano che <<fosse lui a liberare Israele>> (v. 21a). Non si
va quindi oltre i confini dell'immaginazione giudaica dove
la liberazione comporta evidentemente una dimensione
nazionale e politica. Ma questa speranza si collega al mes-
sianismo di Simeone (Le 2,26b), che attendeva <da consola-
zione di Israele>> (2,25b), e la speranza di Anna che aspetta-
va «la redenzione di Gerusalemme (2,38b). Le opere e le
parole di Gesù sembravano confermarne il contenuto, ma
è sopraggiunto il processo, la condanna a morte e la croci-
fissione (24,20: si fa solo allusione alle autorità giudaiche,
senza menzionare Pilato). La speranza è quindi morta poi-
ché Gesù non è stato riconosciuto dalle legittime autorità.
Sono tre giorni che tutto ciò è successo. L'eco di alcune di-
cerie di donne non intacca questo senso di disperazione
(24,22-23). È vero che <<alcuni dei nostri>> hanno costatato
che la tomba era vuota: non si sa perché, infatti <dui non
l'hanno visto>> (24,24). La prova della fede ha perciò rag-
giunto il suo punto più alto. Ecco di che cosa parlavano
mentre erano in cammino.
b) L'entrata in scena del viaggiatore dà ora il via a una se-
conda prova per la fede: arriveranno essi a credere nella
risurrezione di Gesù senza vederlo personalmente? È que-
sto l'oggetto di tutto il dialogo che seguirà sulla strada tra
Gerusalemme ed Emmaus. È innanzitutto necessario che
la loro fede di giudei sia messa in questione nella forma
che essa aveva avuto fino allora: devono prendere coscien-
za dei limiti e dell'insufficienza di questa fede. I loro <<cuo-
ri senza intelligenza>> si sono mostrati <denti a credere ciò
che avevano annunciato i profeti» (24,25). Il compagno sco-
nosciuto fa quindi rileggere loro a grandi tratti le Scrittu-
re per mostrare come l'insuccesso di Gesù, la sua condan-
na, la sua morte, erano lì scritti in filigrana. Lo fa «comin-
ciando da Mosè e percorrendo tutti i profeti>>- il che sup-
93
pone una selezione di testi cristologici alla quale difficil-
mente portava l'esegesi giudaica del tempo 6 . Ma l'essen-
ziale è di vedere nei testi l'eco anticipato della Passione,
necessaria perché il Messia <<entrasse nella sua gloria»
(24,26). Dove sta la prova per i due viaggiatori? Nel fatto
che egli fa abbandonare loro la forma giudaica della spe-
ranza; e non è una cosa che va da sé perché è necessario
staccarsi dalle attese temporali legate al successo naziona-
le: questo interlocutore insegna loro a vedere in colui nel
quale essi avevano riconosciuto <<Un profeta potente in
opere e in parole» il Messia d'Israele. Ma quale Messia?
Un Messia che non è per niente conforme al modello clas-
sico. Potranno essi accedere alla comprensione di questo
modello? È un interrogativo essenziale che viene posto al-
la loro fede. Non è una domanda di ordine intellettuale: si
tratta di un'esperienza di fede a una profondità fino allora
insospetta t a.
Non manca naturalmente un ostacolo - un <<avversario>>,
in gergo <<Strutturale»- che si situa nel loro stesso cuore:
<<noi speravamo che fosse lui a liberare Israele» (v. 21b).
<<Speravamo», ma abbiamo fatto l'esperienza della delusio-
ne. C'è al contrario anche un fattore di stimolo - un <<al-
leato» - che li spinge a entrare in una nuova forma di
speranza: è la presenza di questo interlocutore sconosciu-
to che svela la possibilità di un'altra forma di speranza, di
un'altra comprensione delle promesse contenute nelle
Scritture, di un altro significato del messianismo in cui le
sofferenze del Messia sono il necessario preludio del suo
ingresso nella gloria: edei, <<bisognava», era inscritto nel
disegno di Dio. Come reagisce il loro cuore a questa rivela-
zione? Potrebbe restare chiuso ad essa, c'è infatti un ap-
pello alla loro libertà. Ora, essi riconosceranno più tardi
che il loro cuore ardeva quando il viaggiatore conversava
con loro lungo il cammino e spiegava loro le Scritture (v.
32). C'è stato quindi un <<alleato» essenziale per il loro ac-
cesso a una nuova forma di speranza, senza che essi possa-
no ancora definirne il motivo e la forma: la presenza di
6 È chiaro che qui la scelta dei testi - che non viene precisata - è
vista a partire dal tempo dell'evangelista. Ma questi insiste sul fatto
che il metodo usato risale alle apparizioni postpasquali, che hanno
dato agli apostoli lo strumento per interpretare le Scritture in funzio-
ne della morte e della risurrezione di Gesù.
94
quest'uomo la cui parola toccava loro il cuore senza che
ne comprendano ancora il motivo; essi avevano l'intuizio-
ne misteriosa di qualcosa di nuovo nella loro speranza di
giudei, aperta a una dimensione sconosciuta. Bisogna par-
lare qui di una grazia indefinibile di cui non hanno potuto
ancora analizzare i motivi e la natura.
c) La terza prova dei due uomini viene notata da una sola
espressione che può passare inosservata: quando arrivaro-
no al villaggio, il viaggiatore sconosciuto <<fece come se do-
vesse andare più lontano» (prosepoièsato porroteron po-
reuesthai). Due cose sono messe contemporaneamente in
discussione: il loro attaccamento al compagno di strada
che li ha resi partecipi della sua comprensione spirituale
delle Scritture e degli eventi drammatici da cui erano ri-
masti scioccati e, in secondo luogo, il loro senso dell'ospi-
talità. L'atteggiamento che adottano mette avanti il motivo
apparente dell'ospitalità: «Resta con noi perché si fa sera
e il giorno volge al declino» (v. 20b). Essi non avrebbero
questa pronta reazione se l'attaccamento al loro compa-
gno di strada non ne costituisse il movente segreto, proba-
bilmente inconscio, ma legato all'emozione intensa che
hanno provato durante il cammino e di cui si renderanno
conto in un secondo momento. («Non ci ardeva forse il
cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammi-
no?>>, v. 32b). L'ospite li segue nella casa. Il racconto non
dice niente della casa (è quella di uno di loro o un alber-
go?), né della preparazione della cena, né di ciò che accade
tra il momento dell'arrivo e la cena: il pasto è la sola cosa
che interessa. Ma allora la situazione si capovolge. Da invi-
tato, l'ospite diventa invitante. È lui che, a tavola con loro,
«prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede lo-
ro>> (v. 30). Le stesse parole sono usate in tutti i racconti di
pasti in cui presiede Gesù (Le 9,16, per la moltiplicazione
dei pani; 22,19, per l'ultima cena). «Ed ecco si aprirono lo-
ro gli occhi e lo riconobbero>> (v. 31a).
Tutto ciò che precedeva era quindi solo la preparazione
psicologica a questo momento. È inutile porre al riguardo
delle domande assurde: Com'è possibile che non lo avesse-
ro fino allora conosciuto? Quale apparenza diversa egli
aveva assunto? (Come dirà il finale di Marco: «Apparve a
due di loro sotto un altro aspetto, mentre erano in cammi-
no verso la campagna>>, Mc 16,12). Il problema non è lì: ri-
guarda le disposizioni soggettive che rendono capaci di
95
«riconoscere>> Gesù per accedere così alla fede nella sua
risurrezione. La lunga spiegazione delle Scritture data
lungo il cammino dal viaggiatore sconosciuto ha progres-
sivamente disposto il loro cuore a credere, mentre prima
erano <<stolti>> (24,25). La simpatia per il viaggiatore li ha
spinti a offrirgli ospitalità, allacciando così una relazione
personale con lui: mancava solo di sapere chi fosse. Alla fi-
ne egli si rivela. Nello stesso momento viene meno in mo-
do brusco e imprevedibile l'ultimo ostacolo che si oppone-
va alla fede: essi credono che il Cristo doveva soffrire per
entrare nella sua gloria. Costatano con i loro occhi che vi è
entrato, che è vivo. Il segno determinante è stato dato loro
dalla comunione di mensa con lui: ha spezzato il pane e lo
ha dato loro. Perciò non hanno più bisogno della sua pre-
senza visibile: una volta che lo hanno conosciuto, <<egli
sparì dalla loro vista>> (v. 31b).
La presenza del Cristo risorto, fino allora impossibile da
riconoscere, ha preso per essi la forma che assumerà d'o-
ra in poi nella Chiesa: quella della partecipazione alla sua
mensa. Il pasto di Emmaus è così il prototipo dei pasti eu-
caristici 7 • Questi ultimi presuppongono il cammino inte-
riore della fede che permette di riconoscere questa pre-
senza misteriosa: essa viene riconosciuta <<nella frazione
del pane>>, come spiegheranno poi i due discepoli agli un-
dici (24,35). Anche qui bisogna allontanare alcune false do-
mande che denotano una comprensione del tutto impro-
pria del mistero eucaristico: Come potevano essi ricono-
scere Gesù nel gesto propriamente eucaristico non essen-
do stati presenti all'ultima cena? O ancora: in che modo
questo pasto molto semplice poteva essere <<eucaristicO>>
dato che Gesù non aveva pronunciato le parole della con-
sacrazione che assicura la sua <<presenza reale>> nel pane? 8
E, d'altra parte, non si parla di una coppa di vino ... È cu-
rioso che si ponga così il problema della <<presenza reale>>
96
del Cristo risorto mentre Egli è proprio l'ospite che riceve
i due discepoli alla sua mensa: si dimentica questa presen-
za della persona che si rende visibile per un momento per-
ché la si materializza in qualche modo nel pane consacra-
to. Tutto questo è privo di significato. Il lungo racconto
costruito da Luca e articolato su tre prove, ha una duplice
portata: mostra il cammino della fede nei due discepoli, e
fa culminare il progresso di questa fede nella partecipa-
zione alla <<cena del Signore>>. L'epilogo del racconto
(24,33-35) mostra del resto che, parallelamente ai due di-
scepoli, gli undici sono giunti ugualmente alla fede nel
Cristo risorto, perché è apparso a Simone (24,34), e tutto
termina con la menzione della <<frazione del pane>> (24,35).
9 Oltre alle opere citate nella nota l, si potranno leggere con profitto
gli articoli di P. Benoit, <<Le récit de la Cène dans Luc 22,15-20>>, ri-
prodotto in Exégèse et théologie, t. l, Cerf 1964, pp. 163-203, e <<Les
récits de l'institution de l'eucharistie et leur portée», Ibid., pp. 210-
239. Questa sezione contiene anche le note dell'autore sui lihri di H.
Schiirmann, J. Jeremias e F.-J. Leenhardt.
97
quale esso è stato - con delle varianti significative -
composto letterariamente.
IO Sono note le posizioni adottate dai critici. Coloro che negano ogni
valore storico al racconto di Giovanni ammettono che, conformemen-
te a quello dei Sinottici, Gesù mangiò la pasqua con i suoi discepli.
L'omissione dell'agnello pasquale nei racconti si spiega naturalmente
in funzione della liturgia cristiana, dove esso non aveva più posto. Co-
loro che, al contrario, si fidano della cronologia di Giovanni pensano
che <<la sola distorsione della tradizione sinottica sarebbe stata di da-
re un carattere pienamente pasquale a ciò che non poteva essere in
realtà che un'evocazione anticipata della pasqua dell'indomani, con
istituzione di un rito nuovo destinato a sostituirlo>> (P. Benoit, <<La da-
te de la Cène», in Exégèse et théologie, t. l, pp. 260s; testo del 1958).
Coloro che ammettono, per motivi diversi, la storicità integrale dei
due adottano ora l'ipotesi di A. Jaubert, La date de la Cène: Calen-
drier biblique et liturgie chrétienne, Gabalda 1957: Gesù avrebbe se-
guito il calendario antico conservato a Qumran, mentre il racconto di
Giovanni parla della celebrazione ufficiale secondo l'uso delle autori-
tà del Tempio. Più anticamente si supponeva l'esistenza di una di-
scussione tra i sacerdoti sul sorgere della luna del l 0 nisan (così La-
grange). Qui la sola cosa da considerare è il rito nuovo.
98
presenta alcun interesse perché la tradizione evangelica
adempisse la sua funzione nella Chiesa. Quanto alla coppa
di vino, il binomio Luca-Paolo la colloca <<dopo la cena»
(Le 22,20 = 1Cor 11,25). Sarebbe quindi la coppa di ringra-
ziamento, se la cena è quella della pasqua. I due gesti se-
gnerebbero quindi l'inizio e la fine della cena che ha se-
gnato la comunione di mensa di Gesù con i suoi, <<nella
notte in cui veniva tradito» (1Cor 11,23a).
Era classico che colui che presiedeva a tavola <<pronun-
ciasse la benedizione» (eulogesas, Mc-Mt) o <<rendesse gra-
zie>> (eucharistesas, Lc-1Cor). Ma qui le parole pronunciate
da Gesù sul pane e sul vino sconvolgono totalmente l'ordi-
ne normale delle cose. Questo sconvolgimento può essere
paragonato a quello che si nota nelle parabole di Gesù,
quando egli costruisce un racconto dove tutto sembra
svolgersi conformemente alle abitudini della vita ordina-
ria fino a che un elemento del tutto inverosimile viene a
sconvolgere l'ordine e attira evidentemente l'attenzione 11 .
Così, in quella del <<buon samaritano>> la condotta del sa-
cerdote e dellevita contraddice completamente la compas-
sione che ci si attenderebbe dalla loro funzione, mentre
quella del samaritano in viaggio oltrepassa ampiamente i
limiti della semplice benevolenza verso una vittima incon-
trata lungo la propria strada. In quella del padre miseri-
cordioso e dei due figli non sorprende molto vedere il pa-
dre che perdona il figlio sciagurato; ma che egli lo abbia
aspettato a braccia aperte e organizzi una festa per il suo
ritorno va oltre i limiti della verosimiglianza. Nella logica
della <<metafora viva>> 12 , questo elemento di turbamento è
proprio quello che attira l'attenzione su ciò che determine-
rà il significato del racconto. Similmente, qui, ci troviamo
qavanti a una completa verosimiglianza quando Gesù
99
spezza il pane e lo dà dicendo: «Questo - che è chiara-
mente del pane - è il mio corpo», poi quando porge la
coppa dicendo: «Questo- che è chiaramente del vino- è
il mio sangue>> (Mc-Mt, la formula di Le-Paolo è un po' più
complessa). Sul piano delle realtà della vita ordinaria l'il-
logicità è totale.
Accade quindi, nella mente di Gesù e in ciò che egli vuole
comunicare ai partecipanti alla cena, qualcosa che esce
dalla normalità. Ma che cosa? E i partecipanti sono in gra-
do di comprenderlo subito? Bisogna senza dubbio rispon-
dere di no. Questo non sorprende, infatti essi erano simil-
mente sconcertati ascoltando le parabole. <<Gesù disse lo-
ro: Se non comprendete questa parabola, come potrete
comprendere tutte le altre parabole?» (Mc 4,13). E dopo la
messa in guardia metaforica contro «il lievito dei Farisei e
di Erode»: <<Perché discutete che non avete pane?Non in-
tendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito?» (Mc
8,17). Come avrebbero potuto comprendere subito un'e-
spressione che li trasportava in un mondo diverso da quel-
lo della vita quotidiana? Come questo pane poteva diventa-
re il corpo di Gesù e questo vino il suo sangue? Inversa-
mente, come il corpo di Gesù poteva diventare un pane e il
suo sangue una bevanda da festa? La cosa diventerà chia-
ra solo quando il suo corpo sarà stato consegnato alla
morte e il suo sangue versato. Più ancora, bisognerà so-
prattutto che la sua risurrezione dai morti trasformi lo
stato del suo corpo e del suo sangue trasferendolo nel
<<mondo futuro», nel regno di Dio.
b) L 'arricchimento letterario delle parole primitive
Questa prospettiva è legata proprio all'espressione molto
misteriosa della speranza che Gesù enuncia in stretta cor-
relazione con le sue parole sul vino: «<o non berrò più del
frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel re-
gno di Dio» (Mc 14,25 = Mt 26,29 dove Gesù aggiunge: <do
berrò con voi»). In Luca la stessa espressione è unita a
quella che annuncia il compimento della pasqua nel regno
di Dio (Le 22,15-16). Senza che la risurrezione sia esplicita-
mente menzionata, è chiaro che la rilettura di queste paro-
le nel tempo della Chiesa conferisce loro un'attualità che
mette in evidenza il significato, originariamente enigmati-
co, delle parole pronunciate sul pane e sul vino.
È certamente per questa ragione che queste due espressio-
100
ni misteriose hanno ricevuto, nei testi attuali, dei comple-
menti che illuminano ciò che Gesù dice del suo corpo e del
suo sangue. Per il corpo, in l Cor 11,24: << .. .il mio corpo,
che è per voi»; e in Le 22, << .. .il mio corpo che è dato per
voi>>. Per il sangue, in Marco e Matteo: << .. .il mio sangue, il
sangue dell'alleanza, versato per molti>>; Matteo aggiunge:
<< .. .in remissione dei peccati>> (Mc 14,24; Mt 26,28). Non c'è
dubbio che, al momento dell'ultima cena, Gesù pensi luci-
damente alla sua morte: le parole relative al tradimento di
Giuda e al rinnegamento di Pietro lo mostrano con suffi-
ciente chiarezza. Il suo dono di sé <<Ìn riscatto per molti>>
era già stato notato da Marco e Matteo (Mc 10,45b e Mt
20,28b), con una possibile allusione a Is 53,11s. Ma ci si
può domandare se la menzione del sangue versato in sacri-
ficio di alleanza, con allusione a Es 24,8, non supponga la
morte in croce realizzata e interpretata alla luce della ri-
surrezione. La recensione dell'espressione di Gesù, così
come la tradizione apostolica l'ha conservata e fissata let-
terariamente, avrebbe quindi come cornice il <<memoriale>>
della croce e della risurrezione, costituito, fin dalle origini
della Chiesa, da questo racconto dell'ultima cena. È anco-
ra più probabile per la recensione di lCor 11,25 e Le
22,17, dove si legge: <<Questo calice è la nuova alleanza nel
mio sangue>>, con allusione a Ger 31,31 13 .
Gesù poteva, certo, fare allusione alle Scritture per spiega-
re il significato della sua morte 14 . Ma aveva forse qualche
101
possibilità di essere comp~e.so sul :r:nomento. stesso, e non è
piuttosto dai fatti accaduti m segmto che bisog~a att~nde
re il chiarimento definitivo delle sue parole emgmatiche,
alla luce delle Scritture che si trovano diet~o i testi evan-
gelici: Is 53,11-12; Es 2~,8 e Ger _31,31-~4? E per lo men?
plausibile. Non si vede m questa Ipotesi alcuna contraddi-
zione, né critica, né letteraria, né teologica, a partire dal
momento in cui si osserva che lo scopo delle tradizioni
evangeliche non fu semplicemente quello di conservare
materialmente i ricordi e le parole venute da Gesù, ma di
fornirne nello stesso tempo la comprensione quale essa ri-
sultava dalla totalità del suo mistero, fino a quel compi-
mento pieno delle Scritture realizzato dalla sua morte e
dalla sua risurrezione dai morti.
Questa osservazione solleva una nuova questione d'impor-
tanza capitale: Quale funzione aveva, nella Chiesa, il ricor-
do del duplice gesto e della duplice espressione relativa al
pane e alla coppa di vino durante l'ultima cena di Gesù?
Tocchiamo qui un aspetto essenziale dell'indagine condot-
ta dall'analisi formale dei testi (Formgeschichte): la forma
di ogni testo è in rapporto con la funzione che deve assol-
vere e questi due elementi determinano il suo contenuto 15 •
che gli vengono attribuite nei racconti della Cena, con delle varianti
significative, provengono da questa spiegazione che suppone realizza-
te - e comprese - la sua morte e la sua risurrezione dai morti. Il
racconto non è mai una sequenza filmata che farebbe assistere diret-
tamente alla <<Storia vissuta»; non può essere che una ricostruzione,
fatta dopo gli avvenimenti alla luce di quanto è accaduto al termine
delle sequenze raccontate. Le parole inserite lì al posto appropriato
non sono senza rapporto con quelle che furono effettivamente pro-
nunciate, ma non ne sono la pura e semplice registrazione. Su questo
punto l'influenza del positivismo storico che pesò sul XIX secolo con-
tinua a ingannare molti lettori dei testi evangelici, mentre i Padri,
che pure erano influenzati dalla concezione greca della storia, ne fa-
cevano istintivamente una lettura <<post-pasquale». Su questa questio-
ne fondamentale di metodo si possono leggere le riflessioni di P. Ri-
coeur su <da storia e il racconto>>, in Temps et récit, t. l, pp. 133-320
[tr. i t.: Tempo e racconto, J aca Book, Milano 1986].
15 Bisogna notare che, se la Formgeschichte è nata nel contesto della
critica biblica, il rapporto di queste tre cose (forma, funzione e conte-
nuto) è applicabile a tutti i testi di ogni specie, religiosi o non. Sareb-
be utile elaborare in questa prospettiva una teoria generale della let-
teratura. È necessario lasciare alla loro triste sorte le menti ottuse
per le quali Formgeschichte=esegesi di Bultmann=negazione della
storicità dei vangeli. L'ondata di «fondamentalismo>> che rifluisce at-
102
È chiaro che ci si stacca qui dal carattere limitato delle
semplici ricerche «storiche» destinate a soddisfare la cu-
riosità: si tocca immediatamente la vita concreta dell'am-
biente sociale nel quale il testo ha preso corpo - nel no-
stro caso la riunione di Chiesa dove si aveva bisogno di
questo riferimento all'ultima cena di Gesù.
103
precedentemente il prototipo nell'episodio dei discepoli di
Emmaus.
Per tale ragione le aggiunte complementari introdotte nel-
la duplice espressione di Gesù, sulla base di allusioni
scritturistiche molto importanti, non sono fuori luogo in
un testo che non è un semplice <<richiamo» del passato, ma
che mostra ciò che Gesù fa ora per i suoi rendendoli parte-
cipi del mistero della sua morte e della sua risurrezione
col mangiare il suo corpo e bere il suo sangue: corpo e
sangue rappresentano la totalità dell'essere, come il man-
giare il pane e bere il vino rappresentano la totalità del pa-
sto. Sappiamo che, secondo le Scritture, la rappresentazio-
ne della felicità eterna nel regrio di Dio sotto la forma di
un banchetto cultuale è uno dei simbolismi più classici
(cfr. Is 25,5; Sal 22,27 e 23,5, trasferibili in una prospettiva
escatologica; senza dimenticare Le 22,30a). È proprio que-
sta realtà ultraterrena che il Cristo stesso rende presente
tra i suoi, per farli partecipi di essa nel cuore stesso della
riunione di Chiesa.
Si comprende così perché la partecipazione dei fedeli al
<<banchetto>> pasquale aperto da Gesù stesso sia espresso
solo da un racconto, accompagnato dai gesti corrisponden-
ti. Accadrà, nel corso dei secoli, che la riflessione teologi-
ca inciampi sulla questione della «consacrazione» del pane
e del vino, interrogandosi sull'efficacia e sugli effetti delle
«parole consacratorie» pronunciate dal celebrante. Ma
questo modo di porre il problema sarà completamente ina-
deguato. Infatti, il presidente dell'assemblea di Chiesa non
pronuncia a nome suo queste <<parole consacratorie», alle
quali si rischierebbe di attribuire un'efficacia magica.
Non solo egli consacrerà il pane e il vino <<in persona Chri-
sti», ma si limiterà a rifare il racconto di ciò che Gesù fece
lui stesso alla vigilia della sua Passione. Così egli scompa-
rirà completamente dietro il Cristo in gloria, il Cristo at-
tualmente presente nella sua Chiesa, per !asciarlo agire e
parlare. È perciò il Cristo che, con le stesse parole che si
leggono nel <<memoriale», spiega il significato di ciò che fa
nella celebrazione stessa e lo realizza spiegandolo. Questa
è la ragione per cui, fin dalla primissima comunità aposto-
lica, fu conservato con cura il ricordo preciso di ciò che
Gesù aveva detto e fatto per fondare il duplice gesto che
costituisce «la cena del Signore».
104
b) Significato delle varianti letterarie
La fedeltà di questa conservazione non ha però impedito
che vi fossero introdotte delle varianti letterarie, come era
possibile farlo per tutte le altre parole di Gesù 17 . Tanto
più che nel frattempo il significato delle parole si era illu-
minato, man mano che il mistero del sacrificio di Gesù si
compiva con la sua morte in croce e con la sua risurrezio-
ne. La cena della nuova pasqua, ora «compiuta nel regno
di Dio» (Le 22,16), aveva avuto luogo <<la notte in cui egli
veniva tradito>> (lCor 11,23b). In seguito a ciò il suo corpo
fu <<dato per>> i suoi (Le 22,19b), e il suo sangue, <<versato
per molti>> (Mc-Mt-Lc) <<Ìn remissione dei peccati>> (Mt), fu
<<quello dell'alleanza» (Mc-Mt). A questa <<nuova alleanza
nel [suo] sangue>>, quelli che partecipano alla sua cena si
uniscono mangiando il pane che è il suo corpo e bevendo il
vino che è il suo sangue - corpo e sangue offerti in sacri-
ficio nella sua morte, ma appartenenti ora a colui che, so-
lo, è <<risuscitato dai morti>>. Si possono fare tutte le osser-
vazione che si vogliono circa le parole esatte pronunciate
da Gesù al momento della Cena. Ciò che conta sono le pa-
role del racconto che ne è stato conservato a titolo di <<me-
moriale>>, perché sono quelle che il Cristo in gloria pronun-
cia oggi nella sua Chiesa 18 , <<ogni volta>> che si mangia que-
sto pane e si beve questo vino (hosakis: lCor 11,25b). Si
può costatare come la ricerca sulla funzione del racconto,
nella sua conservazione tradizionale con tutte le varianti
che ne spiegano il significato, sia molto importante per la
comprensione della celebrazione eucaristica: c'è una sola
17 I principi posti dalla lettura delle parole di Gesù sono spiegati al-
l'inizio del libro: Le parole di Gesù Cristo (Introduzione NT, 7), pp. 15-
41. In questo libro vengono presentati esempi diversi. Ritroviamo qui
esattamente lo stesso problema. L'ipotesi dell'annotazione meccanica
delle parole originali, che sarebbero state notate subito e riprodotte
materialmente sulla base di diverse annotazione parallele, ma senza
ritocchi - per paura di non conservare alla lettera ciò che era stato
detto - è il tipo stesso dell'ipotesi antievangelica. La tentazione «fon-
damentalista>> conduce qui alla più erronea delle letture della Sacra
Scrittura.
18 Per tale ragione, nel volume citato alla nota 17, il metodo proposto
per la lettura delle parole di Gesù Cristo distingue sempre la loro di-
mensione «istoriale>> (nella pienezza del mistero compiuto in seno al-
la <<storia vissuta>>) e la loro dimensione <<Storica>>, che si discerne con
minore o maggiore precisione a partire dalla prima.
105
«cena del Signore>>, che il Signore stesso perpetua nella
sua Chiesa per mezzo di questa celebrazione. Questo è il
motivo per cui non è pensabile una celebrazione eucaristi-
ca senza l'enunciazione di questo racconto, suscettibile di
varianti diverse nei dettagli delle sue parole. A questo pro-
posito sono stati sollevati talvolta molti falsi problemi che
è impossibile esaminare qui in dettaglio 19 •
È chiaro che la celebrazione dell'eucarestia al tempo del-
l'apologista Giustino, verso le metà del II secolo, compor-
tava la lettura di questo racconto tratto dalle «Memorie
(apomnemoneumata) degli apostoli, dette Evangeli>> (I Apo-
logia 66,3): l'apologia ne cita il riassunto in modo breve 20 •
Un riassunto simile si può trovare, a proposito del <<Sacri-
ficio della nuova alleanza>>, nel libro di Ireneo, Contro le
eresie 21 (IV, 17 ,5). Poi la riflessione sul <<sacrificio puro>>
precisa che <<il pane eucaristico è il corpo del loro Signore,
e il calice il suo sangue>> (IV,18,4), il che permette loro di
credere alla risurrezione della carne, essendo essa «nutri-
ta del corpo del Signore e del suo sangue>> (IV,17,5; i testi
precedenti esistono solo in traduzione latina, ma l'ultimo
è citato in greco da san Giovanni Damasceno). Questa è la
liturgia del II secolo che verrà raccolta nell'opera molto
conservatrice di Ippolito, La tradizione apostolica 22 (n. 4:
la citazione del racconto è preceduta da una duplice allu-
sione alla «sofferenza volontaria>> del Cristo e alla «mani-
festazione della sua risurrezione>>). Le difficoltà che sono
state sollevate provengono da due fonti. Una è relativa-
106
mente tardiva: si tratta dell'anafora siriaca di Addai e Ma-
ri (III secolo circa), perché i suoi manoscritti - tutti più
tardivi - non contengono il racconto della Cena 23 . Biso-
gna dedurne che era esistita in Oriente una forma della li-
turgia eucaristica che non conteneva questo racconto?
Dom Botte, competente editore della Tradizione apostolica
di Ippolito, ha fatto giustizia di questa obiezione 24 : il rac-
conto, dipendente nelle sue grandi linee da quelli dei van-
geli, era conosciuto a memoria e non era necessario regi-
strarlo per iscritto nella fissazione del rito. L'anafora pa-
rallela dei maroniti, detta Sharar, contiene il racconto nel
posto appropriato prima dell'epiclesi e delle preghiere che
si intrecciano con essa.
L'altra obiezione è stata sollevata da H. Lietzmann nel suo
volume Messe und Herrenmahl (1926), sulla base delle pre-
ghiere <<eucaristiche» della Didachè (Did 9-10 e 14) 25 . Ci sa-
rebbero state, in origine, due forme di celebrazione: una in
cui sarebbe stato predominante l'aspetto commemorativo
della morte del Cristo (cfr. Ippolito), e l'altro che sarebbe
stato centrato sulla tradizione dei pasti comunitari consu-
mati nella gioia, senza che il memoriale della morte del
Cristo vi occupasse lo stesso posto. Questa seconda forma
sarebbe la continuazione, nella Chiesa, della tradizione dei
pasti religiosi in uso nel giudaismo aggiungendo ad essi
un orientamento escatologico più accentuato. Le preghiere
eucaristiche della Didachè (cfr. la parola eucharistia in
9,1.5) non contengono, è vero, il racconto della Cena. La
traduzione inglese del libro di Lietzmann, completata da
un'indagine personale di R.D. Richardson, è molto più ri-
servata su queste conclusioni. Anche se gli storici attuali
della liturgia concordano nel riconoscere una continuità
tra la <<benedizione» giudaica e }'<<azione di grazie» (o euca-
107
ristia) cristiana, non sono molto favorevoli alla duplicità
delle forme che Lietzmann aveva creduto di riconoscere.
I commentatori della Didachè, da J.P. Audet a W. Ror-
dorf26, continuano a interrogarsi sulla funzione e il posto
liturgico dei due «ringraziamenti» raccolti nei capitoli 9 e
10: erano, in origine, legati alla <<cena del Signore o al pa-
sto fraterno che è potuto diventare l'agape (Audet)? Se si
ammette che la Didachè attesta un uso molto antico, anco-
ra molto vicino al giudeo-cristianesimo, è possibile che la-
sci intravedere un tempo in cui la celebrazione eucaristica
era ancora legata a un pasto, forse il pasto familiare 27 • Ma
il capitolo 14 del libro evoca una celebrazione che ha luo-
go il <<giorno del Signore» e che riunisce tutti i cristiani: è
in questa direzione che è avvenuto lo sviluppo, come si ve-
de dalle allusioni delle lettere di Ignazio d'Antiochia alla
celebrazione eucaristica sotto la presidenza del vescovo lo-
cale 28 . Si ammetterà almeno che il racconto della Cena è il
centro della celebrazione: tocchiamo qui la liturgia più an-
tica, che fu il «contesto vitale» dove i testi presero forma
per adempiere la loro funzione esatta di <<memoriale>>. Il
gesto della <<frazione del pane>>, che ha dato il suo nome al-
la celebrazione negli Atti degli apostoli, ne traeva diretta-
mente la sua designazione.
Va da sé che questo <<memoriale>> originario fu molto pre-
sto integrato in una narrazione d'insieme: l'ultima cena di
Gesù apriva la sequenza più lunga che racconta la Passio-
ne 29 . La tradiziòne conservata da Paolo ne fa intravedere,
108
pur nella sua brevità, la forma fondamentale, anche se
contiene alcune aggiunte post-pasquali che hanno esplici-
tato il senso delle parole pronunciate da Gesù («il mio cor-
po che è per voi, con delle aggiunte come kl6menon, thryp-
t6menon ... ; <<la nuova alleanza nel mio sangue»). Le ag-
giunte liturgiche rappresentate da Paolo e dai tre sinottici
sono sufficientemente concordi perché si conosca con cer-
tezza la celebrazione del memoriale dell'azione di Gesù,
morto e risorto: esso fu compreso fin da questo momento
come «sacrificio di alleanza» reso presente nella Chiesa
per motivare la sua «azione di grazie» (eucharistia). È pos-
sibile spingere oltre la ricerca per conoscere la riflessione
teologica che, fin da quest'epoca, accompagnava la cele-
brazione?
109
turgico: la cena di Gesù con i suoi è una ~ena di addio, do-
ve il discorso pronunciat.o ha un v~lore, di testament~.
In realtà un discorso di questo tipo e abbozzato fm dal
vangelo di Luca. Ma l'accostamento delle parole di Gesù,
che hanno talvolta dei paralleli in Marco e Matteo in altri
contesti, è molto diverso da quello che si legge in Giovan-
ni. A ogni modo, è tutto il racconto della <<cena del Signo-
re»- dell'ultima cena- che sembra essere stato pensato
per dare alle comunità la comprensione di ciò che era di-
ventato per i fedeli un rito, quando, «spezzando il pane a
casa essi prendevano i pasti in letizia e semplcità di cuo-
re» (At 2,46). La gioia legata a questa «frazione del pane»
(agalliasis, termine raro nel Nuovo Testamento) deriva dal
fatto che, per essi, il Cristo risorto presiede questo pasto
preso in comune, così che esso diventa la cena pasquale
della Chiesa. Ci si allaccia qui all'espressione che apre il
racconto dell'ultima cena nel vangelo di Luca, notata in
uno stile semitizzante 30 : essa evoca l'ultima cena pasquale
di Gesù solo per passare subito alla pasqua che mangerà
con i suoi nel regno di Dio (22,15-16), il che corrisponde
esattamente alla «frazione del pane>> come pasqua della
Chiesa alla mensa del Cristo risorto. Ritroviamo un eco
dello stesso ordine nell'espressione rivolta agli apostoli:
«<o preparo per voi un regno, come il Padre l'ha preparato
per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa
nel mio regno ... >> (22,29-30a). Il finale che segue ha un pa-
rallelo in Mt 19,28; ma l'essenziale qui è il pasto preso alla
mensa del Cristo nel suo regno. È chiaro che questo non
appartiene più a questo mondo ma al «mondo futuro», co-
me la pasqua mangiata nel regno di Dio. Letta dopo la ri-
surrezione di Gesù, quest'espressione mostra il significato
del rito eucaristico, il cui gesto istituzionale l'ha prece-
duto.
Il racconto dell'ultima cena ha perciò, in Luca, un duplice
riferimento: alla Passione che Gesù sta per affrontare, e
alla gloria ultraterrena che la seguirà, anche se la parola
110
risurrezione non è pronunciata. Quanto al significato della
passione vicina, è ancora in Luca che viene meglio marca-
to grazie a una citazione esplicita di Is 53,12 (Le 22,37):
quest'allusione mostra che l'insieme dello stesso capitolo
è letto nella Chiesa come una Scrittura <<portata a compi-
mento» dalla Passione. Sotto quest'aspetto, l'espressione
che conclude le parole sul calice in Mt 26,28, probabile
ampliamento di quelle di Mc 14,24 che riprendevano già
un'espressione di Is 53,12 (<<per molti»), mostra come l'in-
terpretazione della croce sia stata fatta sulla base delle
Scritture. Fu la rilettura congiunta delle Scritture e dell'e-
vento a permettere l'elaborazione della dottrina della re-
denzione, intrinsecamente legata alla celebrazione della
cena del Signore. Non è necessario immaginare un lungo
lasso di tempo per l'elaborazione di questa riflessione teo-
logica: essa proviene dall'ambiente giudeo-cristiano più
primitivo 31 , anche se la redazione dei racconti della cena
fu fatta probabilmente in un secondo tempo con, da una
parte, il prototipo raccolto nella tradizione arcaica di 1Cor
11,23-25, e dall'altro, quello di Mc 14,22-24. Ma in ogni ca-
so, i racconti dei sinottici non sono <<Storici» nel senso
piatto del termine, come l'immaginerebbero i ricercatori
moderni che non vanno oltre le prospettive giornalistiche:
essi mettono in evidenza la dimensione <<istoriale» dell'e-
vento 32 , includendo la sua interpretazione nella fede della
Chiesa e nella celebrazione della cena del Signore.
111
-per caso- conservato lo schema in lCor 5,7-8: il Cristo
è <da nostra pasqua», immolato sulla croce 33 . Ma questa
vittima pasquale è <<risuscitata il terzo giorno» (lCor 15,4),
dopo aver sofferto la morte <<per i nostri peccati» (15,3). La
<<cena del Signore» (11,20) trae quindi il suo nome dal fatto
che il Cristo in gloria la presiede 34 • È necessario esamina-
re due testi per conoscere la riflessione teologica di Paolo
su questo punto: l Cor 10,16-21 e 11,26-32. Entrambi sono
presi da sviluppi con finalità pastorale differente: dappri-
ma la questione delle carni immolate agli idoli, a proposi-
to delle quali ci si domanda se sia possibile o meno man-
giarne (8,1-11,1), poi i disordini avvenuti in occasione di un
pasto comune (11,17-34). I passi menzionati sono i soli che
trattano dell'eucaristia.
a) 1Cor 10,16-21
Le allusioni alla celebrazione eucaristica vengono qui solo
incidentalmente per confrontare, da una parte, l'esperien-
za cristiana della <<cena del Signore>>, e, dall'altra, i pasti
sacrificali d'Israele secondo la carne (10,18) e quelli dei
pagani che immolano vittime agli idoli (10,19-21). Nel pri-
mo caso, le vittime sono offerte al vero Dio: non c'è perciò
idolatria. Ma parlando di <<Israele secondo la carne», Paolo
distingue chiaramente il culto del Tempio di Gerusalemme
da questo <<Israele di Dio» al quale egli augura, come a tut-
ti i membri della Chiesa, <<pace e misericordia» (Gal 6,16).
Paolo costata che, nell'ordine delle cose che ebbe il suo
pieno valore fino alla pasqua del Cristo, <<quelli che man-
giano le vittime sacrificali sono in comunione (koinonoi)
con l'altare», il che definisce bene lo scopo del sacrificio
di comunione nell'antica alleanza: la comunione con Dio
stesso è in essi desiderata e significata; essa viene lì anche
realizzata in una misura imperfetta e provvisoria, per
quanto sia possibile in quelli che la teologia cristiana chia-
merà <<Ì sacramenti dell'antica alleanza, 35 •
112
L'uso del termine koinonoslkoinonia è importante 36 per-
ché lo si ritrova qui a proposito dell'altare giudaico (thy-
siasterion), a proposito degli dèi pagani che sono identifi-
cati con i demoni (10,20) e a proposito dell'eucaristia: <<il
calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse
comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spez-
ziamo (klomen) non è forse comunione con il corpo di Cri-
sto?» (10,16). La terminologia usata qui richiama la desi-
gnazione della <<frazione del pane» (klaolklasis). La menzio-
ne del calice e del pane, del sangue e del corpo, rinvia evi-
dentemente al racconto della cena. Ma l'effetto prodotto si
esprime in termini di «comunione», dove il corpo e il san-
gue del Cristo risorto rappresentano la totalità della sua
persona, come la coppia <<carne e sangue» nel semitismo
ben conosciuto (cfr. Mt 16,17; Gal 1,16). C'è una totale in-
compatibilità tra questa comunione con il Cristo e la <<CO-
munione con i demoni>>, rappresentata dalla partecipazio-
ne ai pasti sacri dei culti idolatrici (cfr. 10,21a: koinonous
ton daimonion). Questi fanno <<partecipare alla mensa dei
demoni>>, mentre la celebrazione eucaristica fa <<partecipa-
re alla mensa del Signore>> (10,21 b). Ma non viene dimenti-
cata la dimensione sacrificale del pasto: nel caso dell'ido-
latria, la carne è quella delle vittime immolate agli idoli
(10, 19) e, nel giudaismo, si tratta delle vittime sacrificali
offerte sull'altare del Tempio (10,18). Questo accostamento
suppone che il corpo e il sangue del Cristo, che passò per
la morte per entrare nella sua gloria di risorto, siano assi-
milati a una vera e propria offerta sacrificale, il che sup-
pone l'interpretazione sacrificale della morte e della risur-
rezione di Gesù 37 •
Paolo non precisa qui a quale categoria di sacrifici siano
assimilati in un modo simbolico la croce e la glorificazio-
ne che fa seguito ad essa. Egli conserva solo la breve anno-
113
tazione di un effetto molto importante di cui si ritroveran-
no in seguito le conseguenze nella stessa lettera: <<Poiché
c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corp?
solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane» (10,17). E
chiaro che si è qui molto vicini alle parole di Gesù sul pa-
ne che è il suo corpo. Ma la formula usata prepara lo svi-
luppo sul corpo del Cristo di cui i fedeli sono membra, cia-
scuno per la sua parte (1Cor 12,27, che riprende 12,13:
«tutti noi siamo stati battezzati in un solo Spirito per for-
mare un solo corpo»). C'è così un legame intrinseco tra la
comunione col corpo del Cristo e la realizzazione di questo
corpo del Cristo che è la Chiesa 38 : è la celebrazione eucari-
stica della comunità che realizza efficacemente l'unità del-
la Chiesa, perché mette in comunione con il sacrificio del
Cristo morto e risorto. La «cena del Signore» ci fa mangia-
re e bere alla sua mensa (10,21), perché siamo trasformati
in membra del suo corpo.
b) 1Cor 11,23-32
La riflessione di Paolo prolunga qui il riferimento alla tra-
dizione che fonda la «cena del Signore>>. La rapida annota-
zione del suo carattere sacrificale è inclusa in questa tra-
dizione. L'espressione sul pane non precisa la categoria
del sacrificio: «<l mio corpo che è per voi ... >> (11,24, con le
aggiunte secondarie: «spezzato>>, «donato>>, «consegnatO>>).
Vengono indicati soltanto i beneficiari (significato di hy-
per39) del sacrificio offerto, della morte accettata. Ma le
parole sul vino precisano che si tratta di un sacrificio di
alleanza 40 : quello della «Nuova Alleanza>> (cfr. Ger
31[38],31). La prospettiva aperta dal testo di Geremia
(31[38],31-34) ha quindi trovato il suo compimento nella
croce e nella risurrezione del Cristo, ed è a questa realtà
che fa partecipare intimamente la «cena del Signore>>. La
114
duplice menzione della formula ,,fate questo in memoria
di me» (11,24-25) porta quindi Paolo a mostrare, in una
breve frase, che tutti gli atti essenziali che hanno portato
a compimento il mistero del Cristo sono proclamati (katag-
gellein) ogni volta (hosakis) che la comunità riunita «man-
gia questo pane e beve questo calice» (11,26a): «la morte ...
(allusione alla croce) ... del Signore ... (titolo del Cristo ri-
sorto) ... finché egli venga» (11,26b). La morte è l'evento del
passato; la presenza del Signore è l'attualità coestensiva al
tempo della Chiesa; la sua venuta (achri hou elthe;) è l'og-
getto della speranza espressa dalla preghiera aramaica le-
gata alla liturgia eucaristica e ricordata da Paolo alla fine
della sua lettera: MARANATHA (1Cor 16,22; citato in modo
identico nella Didachè 10,27; tradotto m greco in Ap
22,20) 41 .
Non sorprende perciò che Paolo innesti su questa rifles-
sione teologica dei consigli di ordine pastorale (11,27-32).
Coloro che partecipano alla «cena del Signore», al livello
delle cose visibili, mangiano il suo pane e bevono il suo ca-
lice: è il gesto significante, di cui bisogna valutare l'impor-
tanza e comprendere il senso. Infatti, chi lo fa «indegna-
mente>> (anaxios), si rende colpevole verso il corpo e il san-
gue del Signore (11,27). È importante quindi riflettere sul-
le condizioni della «dignità>> in materia di partecipazione
eucaristica: Paolo vi insiste in modo pressante «perché chi
mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore,
mangia e beve la propria condanna>> (11,28-29). La parola
usata (krima) designa in modo generico il verdetto giudi-
ziario, ma viene molto spesso usata in senso negativo, per
esprimere la sentenza di condanna. Ci si può premunire
contro di essa esaminando se stessi (diakrinein), per non
essere condannati (katakrinein) con il mondo (kosmos, pre-
so qui in senso peggiorativo). Paolo ne approfitta per sug-
gerire che alcune esperienze negative cui è andata incon-
115
tro la comunità locale - malattie, infermità, morti - so-
no altrettanti inviti a riflettere sul giudizio di Dio (11,30-
32). In effetti, le fede nel Cristo ci lascia sotto questo giu-
dizio, di cui Dio si serve in maniera pedagogica talvolta
correggendoci (11,32a). Ma l'orizzonte resta, per i credenti,
la speranza della <<venuta» del Cristo in gloria; la comunio-
ne al suo corpo e al suo sangue ne anticipa in un certo mo-
do la realizzazione finale 42 •
116
segnava il primo giorno di nisan: Gesù avrebbe seguito il
calendario di una scuola e l'evangelista, che insiste sull'at-
teggiamento del sommo sacerdozio, sarebbe per questo in-
dotto a seguirne l'altro. La scoperta del calendario partico-
lare di Qumran ha rinnovato i dati del problema.Secondo
l'ipotesi di A. Jaubert 44 , Gesù avrebbe seguito il calendario
arcaico e mangiato la pasqua nella notte tra il martedì e il
mercoledì, mentre il sommo sacerdozio, con il suo calenda-
rio luni-solare, l'avrebbe mangiata nella notte tra il vener-
dì e il sabato. Il racconto della Passione condenserebbe
quindi in una notte degli eventi che sarebbero durati tre
giorni. Ma come mai i discepoli, inviati a preparare la pa-
squa <<il primo giorno degli azzimi» secondo l'antico calen-
dario, avrebbero ottenuto l'immolazione delle loro vittima
in quel giorno da parte dei sacerdoti del Tempio che segui-
vano l'altro calendario (cfr. Mc 14,12-16 e par.)? La difficol-
tà è reale. Così molti critici, per seguire l'ordine cronologi-
co indicato da Giovanni, ammettono che la celebrazione
della pasqua cristiana abbia influito sul racconto dell'ulti-
ma cena di Gesù, al punto da trasformarla in cena pasqua-
le45. A dire il vero, nei racconti, e precisamente durante la
cena, non si fa mai menzione dell'agnello pasquale. Biso-
gna aggiungere a ciò che la menzione del primo giorno de-
gli azzimi, quando si immolava la pasqua (Mc 14,12; Mt
26,17; Le 22,7) è inesatta, perché gli azzimi cominciavano
solo il 15 di nisan (cioè dopo il tramonto del sole del 14 se-
ra) e l'immolazione doveva essere fatta nel pomeriggio del
14, quindi prima della settimana degli Azzimi. C'è almeno
un aggiustamento di orario nella fissazione dei racconti.
Se si segue Giovanni, e se si rifiuta di allungare la passio-
ne su un lasso di tempo di tre giorni, ritroviamo la situa-
zione dell'ultima cena di Gesù il giovedì sera. Ammettiamo
che questa difficoltà non sia ancora risolta.
Rimane una questione più importante: perché Giovanni
non ha raccontato ciò che riferiscono i sinottici circa il du-
plice gesto e la duplice espressione di Gesù sul pane e sul-
la coppa di vino? 46
117
a) La catechesi eucaristica di Giovanni 47
Dobbiamo costatare che il vangelo di Giovanni, nella sua
forma definitiva e probabilmente anche prima, non igno-
rava la celebrazione eucaristica, ma ne ha riportato l'eco
diretto nel «discorso sul pane di vita» che segue il miraco-
lo della moltiplicazione dei pani. Il finale di questo discor-
so, che ha la forma di un'omelia sulla pericope della man-
na, è chiaramente eucaristico (Gv 6,51 b-58). Il racconto
dell'istituzione era quindi conosciuto dal redattore del te-
sto e la pratica della «cena del Signore» è supposta nella
(o nelle) comunità per la quale (o le quali) il testo fu com-
posto. Secondo la convenzione letteraria costante del IV
vangelo nei suoi diversi strati redazionali, è Gesù stesso
che parla e si spiega sul tema del <<pane di vita>>. Ma come
sempre, dietro la figura concreta di Gesù, che insegna qui
nella sinagoga di Cafarnao, bisogna vedere in trasparenza
il Cristo in gloria. I due orizzonti - quello di Gesù e quel-
lo della Chiesa - vengono fusi insieme per attualizzare
delle parole pronunciate un tempo da Gesù e far apparire
la loro risonanza nella vita della comunità credente.
Gesù pronuncia quindi una catechesi eucaristica che enun-
cia il significato della prassi liturgica che, secondo i Sinot-
tici, aveva avuto origine dalla sua ultima cena. Non è del
tutto arbitrario dal momento che si sa che le parole di Ge-
sù, presentate in un contesto originario che appartiene al
suo radicamento storico, contenevano il senso misterioso
che la totalità del suo mistero aveva loro dato: lo «storicO>>
si può percepire solo attraverso questo «istoriale>>, che è
in diretto rapporto con la vita comunitaria dei cristiani. È
lo stesso evangelista che si nasconde dietro il Cristo in glo-
ria per enunciare la sua catechesi eucaristica, perché egli
non fa altro che far emergere la portata reale dei gesti e
delle parole venute da Gesù: le rilegge a un secondo livello
di profondità. In fondo i Sinottici hanno avviato un pro-
cesso dello stesso genere inserendo, nelle parole fondatrici
dell'ultima cena, dei riferimenti impliciti alle Scritture
118
che ne illuminano il significato nella prospettiva aperta dal-
la risurrezione di Gesù. Sacrificio della Nuova Alleanza, re-
missione dei peccati, salvezza degli uomini ottenuta dal li-
bero dono del corpo che sarà messo a morte sulla croce: tut-
ti questi elementi esplicativi hanno precisato in che modo
Gesù può dare ai suoi il pane che è il suo corpo e il calice di
vino che è il suo sangue.
Il vocabolario usato da Giovanni è un po' diverso; al posto
della coppia di parole <<corpo/sangue>>, si ha la coppia, me-
glio inserita nelle terminologia semitica, <<carne/sangue>>. Il
semitismo è qui un aramaismo perché non c'è alcuna proba-
bilità che Gesù o l'evangelista abbiano fatto ricorso all'e-
braico: sia l'uno che l'altro usavano la lingua di tutti i gior-
ni. Ma si comprende abbastanza facilmente che, fin dalle
origini della Chiesa, al tempo del bilinguismo giudeo-cri-
stiano, la trasformazione greca dell'espressione aramaica
abbia esitato a tradurre l'aramaic bisrf {lett. <<mia carne>>)
con il greco sarx, che poteva evocare in modo improprio la
carne da mangiare. Nella traduzione greca del Levitico e dei
Numeri, soma viene usato 17 volte per tradurre l'ebraico
basar, e si osserva la stessa cosa per l'aramaico besar in Dn
3,27 [94] LXX 48 • In Gv 6,51b-58la coppia di parole sane/hai-
ma è sufficientemente staccata dal suo contesto originale
(<<questa è ... la mia carne/il mio sangue>>) perché vi si senta
la totalità dell'essere umano, come in Mt 16,17 e Gal 1,16.
Inoltre essa è abbinata ad altre coppie di parole phagein (o
pineinYpinein, brosislposis, che evocano ugualmente la tota-
lità della cena: è il Cristo risorto, ricevuto dal «comunican-
do>> con la totalità del suo essere, che diventa per lui vero
(alètès) cibo e vera bevanda, indispensabili se si vuole avere
«la vita>>, non più nel senso puramente materiale del termi-
ne, ma come anticipazione della <<vita eterna>> e della risur-
rezione nell'ultimo giorno (Gv 6,54). Così come Gesù è vissu-
to quaggiù <<per il Padre» e vive ora per lui eternamente, co-
sì colui che lo consuma (trogon) 49 <<vivrà per lui>> (6,57).
119
Bisogna infine tener presente anche un'indiretta polemica
contro le false interpretazioni che potevano essere ricor-
renti al tempo dell'evangelista a proposito della cena euca-
ristica, sia in ambiente giudaico dove la «cena del Signo-
re» era completamente incomprensibile (Gv 6 è un discor-
so di Gesù rivolto ai giudei), sia in ambiente pagano dove
si arriverà a parlare di antropofagia ... 50 • L'insistenza del
discorso elaborato letterariamente in Gv 6,51 b-58 si può
spiegare in parte come una reazione contro queste incom-
prensioni e questi controsensi, senza accordare nulla alle
obiezioni formulate. C'è quindi lì una dottrina eucaristica
molto salda che si ricollega a suo modo con quella dei Si-
nottici e quella di Paolo. Vi si trova anche un'espressione
implicitamente sacrificale e relativa alla redenzione: «<l
pane che io darò (si noti il verbo al futuro, nel contesto
della vita terrena di Gesù!) è la mia carne [data] per la vita
del mondo» (6,5lb). In quest'ultimo caso la parola <<carne»
non è opposta a sangue: designa la totalità dell'essere
umano nella sua fragilità mortale. Il verbo <<dare» riguar-
da al tempo stesso questo dono di sé che Gesù farà conse-
gnando alla morte il suo essere corporale, e questo dono
che fa ai suoi nella cena eucaristica. Sul primo punto la
terminologia di Giovanni si riallaccia a quella di Luca nel-
le parole di Gesù sul pane: <<Questo è il mio corpo che è
dato per voi» (Le 22, 19b). Ma il fine della pericope riguar-
da solo il dono del pasto eucaristico accordato ai credenti
dal Cristo risorto.
b) Altre risonanze eucaristiche in Giovanni
Si parla dell'eucaristia in altri passi di Giovanni, almeno a
titolo di allusioni o di risonanze individuabili? È necessa-
rio lasciare qui da parte le semplici allusioni alla morte in
croce, interpretate come sacrificio redentore. Così la me-
120
tafora multipla che ruota attorto al tema del pastore (Gv
10,1-18) termina con una chiara allusione alla morte volon-
taria del pastore per le sue pecore: «<o offro la vita per le
pecore» (10,15b). Il semitismo è percepibile dietro l'espres-
sione greca, infatti accanto al verbo tithémi (maggioranza
dei manoscritti), si ha una lezione didomi in P 45 , P 46 , il Si-
naiticus corretto, D, W, e alcuni testimoni secondari. Ora,
l'ebraico natan (yehab aramaico) è suscettibile delle due
tradizioni greche 51 , sicché dietro il testo finale si può per-
cepire la predicazione in lingua semitica. Questa afferma-
zione è seguita da una duplice allusione alla deposizione (o
al dono) della vita e alla sua ripresa (tithenai-didonai l lam-
banein), grazie al potere (exousia) che il Cristo possiede in
ragione del comandamento che ha ricevuto dal Padre
(10,17-18): in questa frase si ha di mira certamente la mor-
te e la risurrezione, e il dono della vita viene fatto dal Pa-
store «per» (hyper) le sue pecore. Ma non c'è alcuna allu-
sione al modo in cui i beneficiari saranno messi in diretta
comunicazione con questo sacrificio del Cristo.
In compenso bisogna notare l'espressione molto forte che
traduce l'effetto della comunione eucaristica in Gv 6,56:
«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in
me e io in lui». L'immanenza mutua viene notata senza
verbo, come una caratteristica dei rapporti del Figlio e del
Padre, in Gv 10,38; 14,10s; 17,21. Essa viene ora trasferita
qui a colui che si comunica del corpo del Cristo. La stessa
espressione riappare, senza verbo, in Gv 14,20 per mostra-
re che dopo la partenza di Gesù la sua intimità con il Pa-
dre (ego en to; patri mou) si comunica ai suoi: << ••• e voi in
me e io in voi». La si ritrova più fortemente con il verbo
menein nella paroimia della vite, dove Gesù si descrive co-
me la vera vite: «Rimanete in me e io in voi» (Gv 15,4).
«Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto» (15,5). Non
bisogna forse dedurre da questo accostamento con Gv 6,56
che l'allegoria della vite ha una risonanza eucaristica?
Non sarebbe molto sorprendente considerando che c'è una
certa affinità tra la moltiplicazione dei pani, che offre
51 Questo non vuoi dire che il libretto evangelico sia stato scritto dap-
prima in aramaico (e ancor meno in ebraico). Ma l'autore, pur scri-
vendo in greco, pensa nella sua lingua materna e usa correntemente
dei semitismi che renderebbero facile la ritraduzione del suo testo. È
chiaro che la possibilità di una ritraduzione da sola non prova nulla.
121
un'occasione al discorso sul pane di vita, e la «metafora vi-
va» della vite, i cui frutti forniscono il vino: pane e vino so-
no i due elementi della <<cena del Signore».
Non bisogna insistere eccessivamente su questi accosta-
menti; ma si può notare almeno che la Didachè, nella sua
prima preghiera eucaristica di ringraziamento, rende glo-
ria a Dio <<per la santa vite di Davide>> (9,2), e poi <<per il
pane spezzatO>> (9,2), e entrambe le cose sono rivelate da
<<Gesù tuo servo>>. Il seguito precisa che solo i <<battezzati
nel nome del Signore>> possono <<mangiare e bere>> di que-
sta eucaristia (9,5). C'è lì un certo parallelismo da cui la
Sinossi giovannea di M.-E. Boismard e A. Lamouille trae
argomento per riconoscere <<una colorazione liturgica ed
eucaristica>> nell'allegoria della vite 52 . Ad ogni modo non
c'era interruzione tra le <<assemblee di Chiesa>>, dove la
tradizione giovannea fu certamente predicata oralmente
prima di essere raccolta per iscritto, e la celebrazione del-
la <<cena del Signore>> che ne costituiva il centro. Il pane
eucaristico proviene dal <<chicco di grano che cade in terra
e muore per portare molto frutto>>, secondo la piccola pa-
rabola di Gv 12,24, così come il vino eucaristico proviene
dalla vite di cui i credenti sono i tralci. La coerenza di que-
sti simboli invita a riconoscere loro uno stesso «contesto
vitale>>, dove essi hanno acquisito la loro forma letteraria
nella tradizione giovannea. Non è possibile dire di più.
122
duta da una lunga conversazione di Paolo con i fedeli della
comunità locale (20,7b). Dopo l'interruzione causata dal-
l'incidente, <<Paolo spezzò il pane e ne mangiò e dopo aver
parlato ancora molto fino all'alba, partÌ» (20,11). Ci si ri-
corderà che il primo giorno della settimana inizia il saba-
to al tramonto del sole.
La sola informazione che si può raccogliere qui è lo stret-
to legame tra la celebrazione eucaristica e la predicazione,
che prende del resto qui una forma di conversazione in cui
i partecipanti non rimangono passivi. Si può presumere
che ci fossero lì delle letture tratte dalla Scrittura accom-
pagnate da spiegazioni omiletiche, un richiamo della tradi-
zione evangelica, dei «salmi, canti e inni» (cfr. Col 3,16 ed
Ef 5,19-20), senza dimenticare l'intervento di stile «profeti-
co» (1Cor 11,3-4; 14,3). Tutto ciò rimane ipotetico, ma vero-
simile. Il riferimento che si intuisce dietro 1Cor 11-14 può
essere ammesso tanto più che è Paolo stesso che è in sce-
na. Luca non dice di più negli Atti, perché non si sente il
bisogno di parlare in dettaglio di ciò che tutti conoscono
in modo pratico.
123
31[38],31b. Ora, la lunga omelia della lettera agli Ebrei è
delimitata da due citazioni di Ger 31[38],31-34 (Eb 8,8-12 e
10,16-17), testo sul quale è basata la presentazione di Gesù
come «mediatore della nuova alleanza» (9,15; cfr. 8,6). È
difficile pensare che queste tre corrispondenze siano il ri-
sultato di un puro caso. Da se stesse non provano niente,
mentre si spiegano molto bene se l'autore della lettera co-
nosce una celebrazione eucaristica dove tutti questi testi,
origine delle aggiunte che spiegano l'espressione origina-
ria di Gesù sul calice di vino, avevano già il loro posto. È
inutile parlare del racconto della Passione, al quale la let-
tera fa molte significative allusioni, per esempio: Eb 5,7
per l'agonia del Getsemani; 6,5b per la crocifissione; 13,12
per la morte di Gesù «fuori della porta della città», come
in Mt 27,32 e par.
È in funzione di tutto questo che bisogna esaminare il te-
sto di Eb 13,10: <<Noi abbiamo un altare (thysiastèrion) del
quale non hanno alcun diritto di mangiare quelli che sono
al servizio del Tabernacolo>>. Quelli che sono al servizio
del Tabernacolo sono evidentemente i sacerdoti ebrei che
restano legati alla liturgia del Tempio, dal momento che la
lettera non descrive mai il santuario secondo la sua realtà
storica anteriore al 70, ma secondo il modello (typos: Eb
8,5) descritto in Esodo e in Levitico. Qui, l'altare sacrifica-
le al quale si fa allusione è quello sul quale il Cristo si è
offerto in sacrificio per «l'offerta del suo corpo>> (Eb
10,10b), ablazione unica con la quale egli <<ha reso perfetti
per sempre quelli che vengono santificati>> (10,14) e che si
è compiuta con la sua glorificazione <<alla destra di Dio>>
(10,12). C'è una sostituzione degli antichi sacrifici con que-
sto sacrificio unico, e una sostituzione del sacerdozio anti-
co con il sommo sacerdozio del Cristo. Ma come spiegare
che si possa <<mangiare>> a questo altare che è quello dei
cristiani? 54 È necessario pensare a un rito dove non ci si
limita a offrire a Dio un sacrificio di lode, «il frutto di lab-
124
bra che confessano il suo nome» (Eh 13,15, con delle remi-
niscenze bibliche). Il solo rito in cui si <<mangia» nell'as-
semblea cristiana è quello della «cena del Signore». Ma
qui il carattere «Sacrificale>> di questo pasto viene notato
incidentalmente, con allusione al sacrificio della croce che
vi è reso presente. Non è quindi arbitrario pensare che la
lettera agli Ebrei faccia qui una breve allusione alla cele-
brazione eucaristica, che esisteva sia nella comunità d'Ita-
lia, da dove l'autore invia il suo testo, che nella comunità
giudeo-cristiana alla quale è indirizzato.
Oltre a ciò, rimane un ultimo passo che necessiterebbe
un'analisi: l'allusione di Ap 3,20. Ma è preferibile raggrup·
parla con l'insieme dello stesso libro che sarà oggetto di
un esame più avanti 55 .
Conclusione
125
sta 56 , della sua celebrazione su una tavola o su un altare,
della lingua in cui il rito dev'essere celebrato, ecc. - tutte
queste controversie appaiono irrisorie. La tradizione apo-
stolica, ricevuta fin dal II secolo (Ignazio, Giustino, Ireneo,
Ippolito, liturgie siriache antiche) e trasmessa nei secoli
seguenti, rimane la regola immutabile che i necessari
adattamenti ai tempi e alle culture potranno arricchire
con infinite variazioni, per celebrare questa <<nuova allean-
za, di cui il Cristo in gloria è il mediatore 57 .
126
capitolo quarto
Altri riti liturgici
127
per benedire (M t 19, 13-15). Non sorprende quindi che sia
stato ripreso alle origini cristiane, ma esso riveste dei si-
gnificati diversi in funzione dei contesti in cui viene usato.
128
bia ricalcato il racconto degli Atti. Ma questo, nella sua
materialità, rimane abbastanza enigmatico. Sembra che
sia l'estensione della missione evangelizzatrice ai membri
del gruppo dei sette ellenisti che esige l'intervento degli
apostoli (At 6,6), per mostrare la presenza che i dodici con-
servano ancora nella direzione di tutta la Chiesa. Solo in
Occidente, e in un'epoca più tardiva, l'imposizione delle
mani sarà separata dal battesimo per costituire la «confer-
mazione» del dono dello Spirito Santo conferito da esso.
In At 19,5-6 il caso è diverso. I «seguaci di Giovanni» di
Efeso hanno ricevuto solo il battesimo del loro maestro;
anche se credono già in Gesù non conoscono il battesimo
dello Spirito. Essi vengono quindi battezzati «nel nome del
Signore Gesù», poi Paolo impone loro le mani e lo Spirito
Santo scende su di essi. Ma il fatto che si mettano a parla-
re in lingue e a profetizzare mostra probabilmente che lo
stesso effetto si era prodotto nel caso dei samaritani. For-
se questo indizio mostra che il dono dello Spirito, legato
all'imposizione delle mani, ha come effetto quello di ren-
dere idonei alle manifestazioni pubbliche della fede, anche
se esse non comportano dei carismi eccezionali.
129
3. Collazione di una missione particolare
Il gesto proveniente dal giudaismo appare ancora in una
circostanza in cui non si potrebbe certamente parlare di
un' «ordinazione» in vista di un «ministero>> 4 • In At 13, l si
trova solo una lista di profeti e di dottori che fanno già
parte della chiesa d'Antiochia: ne sono menzionati cinque,
tra i quali si nota Barnaba e Saulo di Tarso. Ora, in un
contesto liturgico in cui essi celebrano il culto del Signore
(leitourgounton auton: 13,2), una parola profetica ordina
di mettere da parte Barnaba e Saulo in vista di una mis-
sione particolare alla quale Dio li chiama. È così che, dopo
un'imposizione delle mani praticata da tutto il gruppo, es-
si partono per una missione di evangelizzazione in Cipro e
in Asia Minore. Non si tratta esattamente di una benedi-
zione; nemmeno della collazione di una funzione o di un
potere nella Chiesa: Paolo e Barnaba già li hanno 5. Si trat-
ta invece di manifestare con un gesto di Chiesa la missio-
ne alla quale i due uomini sono inviati dallo Spirito Santo
perché si estenda oltre l'attività che essi avevano ad Antio-
chia.
4 Cfr. la nota di C. Spicq (n. 2), pp. 724s. Cfr. anche K. Hruby, «La no·
tion d'ordination dans la tradition juive>>, La Maison-Dieu, n. 102
(1970), pp. 30-56, a proposito della semfkah praticata per la funzione
dei dottori (attestata soltanto a partire dalla fine del I secolo). Ritro-
viamo qui la ricerca di E. Lohse, citata nella nota l.
5 Paolo è <<apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo,
ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre» (Gal 1,1). Barnaba è sta-
to inviato dai dodici per ispezionare a nome loro la comunità di An-
tiochia (At 11,22). Chi ha immaginato che a queste funzioni si aggiun-
gerebbe qui una «ordinazione sacerdotale», c:li cui essi non sarebbero
stati ancora dotati? Preferiamo non dare riferimenti.
6 R. de Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, Marietti, Torino
1972, p. 344. L'espressione usata per l'ordinazione dei figli di Aronne,
e poi dei sacerdoti, è «riempire le mani». Una precisazione su questo
rituale viene data nel Testamento di Levi VIII,lO, che si basa qui sulla
tradizione del Testamento aramaico e conserva una halakah sacerdo-
130
rituale descritto dal Levitico (Lv 8). La semikah fu usata,
dopo l'epoca biblica, solo per l'insediamento dei dottori
della Legge. Per i sacerdoti abbiamo un'attestazione indi-
retta che rimane importante. Nei Testamenti dei XII Pa-
triarchi, quello di Levi si basa certamente su un documen-
to antico che esso abbrevia e adatta - alla fine cristianiz-
zandolo. Ora, Levi ha un secondo sogno che gli annuncia la
sua designazione per il sacerdozio e descrive una cerimo-
nia di ordinazione fatta dagli angeli. La vestizione ripren-
de i dati di Es 29 e Lv 8; ma non c'è imposizione delle ma-
ni (Test.Levi 8). Il rito di consacrazione sacerdotale è l'un-
zione 7 , che trasferisce al sommo sacerdote e infine a tutti
i sacerdoti quello che prima dell'esilio era il privilegio del
re. Non è quindi da questa parte che bisogna cercare l'ori-
gine del rito cristiano. Ma la semikah usata per i dottori -
a partire da un'epoca che è difficile precisare con esattez-
za 8 - mostrava l'investitura in una funzione: è possibile
che sia servita allo stesso titolo per dei ministeri di
Chiesa.
Questo è il caso in At 6,6 per i sette, che sono stati scelti
dall'assemblea dei fedeli ellenisti e ai quali i dodici impon-
gono le mani 9 . Non si dice niente esplicitamente per l'en-
trata in funzione dei diversi missionari del Vangelo, dei
profeti e dei dottori che <<portano la Parola» nelle comuni-
tà, né di coloro che ne ricevono la responsabilità locale du-
131
rante i primi decenni. Ma non c'è motivo di immaginare
che le lettere pastorali presentino un'innovazione quando
menzionano l'imposizione delle mani. È lì che il rito di or-
dinazione al ministero pastorale viene meglio attestato 10 •
Esso ha luogo certamente nel corso di un'assemblea di
Chiesa e conferisce un carisma ministeriale che viene no-
minato esplicitamente nel caso di Timoteo (l Tm 4, 14):
<<Non trascurare il dono spirituale che è in te e che ti è sta-
to conferito, per indicazione (dia) d'una profezia, con l'im-
posizione delle mani da parte del collegio dei presbiteri
(presbyteriou)». Questo testo suppone una cerimonia com-
plessa in cui tutto un presbyterion circonda colui che pre-
siede l'assemblea. Ora, 2Tm 1,6 mostra che il carisma è
stato conferito, scrive Paolo, <<per l'imposizione delle mie
mani>>. Dato che Timoteo accompagnava Paolo nelle sue
missioni fin dalla prima lettera ai Tessalonicesi (lTs 1,1) e
perfino, secondo gli Atti, fin dal suo discorso di Atene (At
17, 14-15), bisogna supporre che le lettere pastorali conser-
vino il prestito di questo rito proveniente dal giudaismo
come molto antico nelle missioni di Paolo.
Secondo At 16, l, Paolo avrebbe scelto Timoteo come com-
pagno di missione ripassando per Listra. Ora, secondo At
14,23, Paolo e Barnaba avrebbero designato dei <<presbite-
ri,, nelle chiese fondate da loro, tra cui quella di Li stra.
Questo insieme di testi è perciò molto coerente, anche se
nessuna lettera del grande periodo missionario di Paolo
menzioni i <<presbiteri>> alla testa delle comunità di nuova
fondazione. Si può ritenere che il gesto dell'imposizione
delle mani, proveniente dal giudaismo, fosse effettivamen-
te usato da Paolo come segno concreto del conferimento di
un servizio comunitario (o ministero). Viene generalizzato,
al tempo delle lettere pastorali, per l'entrata in funzione
di tutti i presbiteri (l Tm 5,22). Il gesto è semplice e signifi-
cativo, ma la cornice in cui esso si inserisce ne precisa il
significato. Ne ritroveremo l'eco nel vol. X di quest'Intro-
duzione al NT, esaminando le strutture interne della Chie-
sa nell'età apostolica. È chiaro, in ogni caso, che l'istitu-
zione ministeriale è legata, secondo questi testi, al conferi-
132
mento di un carisma proporzionato alle responsabilità ri-
cevute.
133
so peccati, gli saranno perdonati>>. L'alleviamento della
sofferenza non viene scartato, ma la «salvezza>> dovuta alla
preghiera - quella del malato che crede e quella dei pre-
sbiteri - va al di là di questa guarigione fisica. Essa inclu-
de la remissione dei peccati, legata evidentemente alla
<<preghiera fatta con fede>>. Si vedono cosi abbozzati i trat-
ti di quello che diventerà il «Sacramento degli infermi>>.
1. Parole di Gesù
A dire il vero bisognerebbe parlare soprattutto di azioni di
Gesù. Infatti, quando i vangeli mostrano Gesù che perdona
134
i peccati e riconcilia i peccatori con Dio, non dimenticano
mai che il Cristo in gloria compie adesso nella sua Chiesa
quello che aveva fatto un tempo quaggiù quando viveva
tra gli uomini 13 . Se i suoi miracoli ne furono gli annunci
simbolici, i suoi comportamenti di fronte ai peccatori mo-
stra il modo in cui egli continua ad accoglierli per riconci-
liarli con il Padre. Da questo punto di vista, tutte le sue
parole devono essere raccolte 14 ; ma dobbiamo notare so-
prattutto quelle che conferiscono ai suoi apostoli il compi-
to di continuare la sua missione.
a) Legare e sciogliere
Quest'espressione pregnante riappare due volte nel vange-
lo secondo Matteo: la prima, in un'espressione rivolta a
Pietro, alla quale molti critici riconoscono come contesto
un'apparizione del Cristo risorto (Mt 16,17-19); la seconda,
in una raccolta di detti che costituisce un'istruzione com-
posita destinata all'insieme degli apostoli e, dietro di essi,
ai responsabili delle chiese (Mt 18,15-18). L'espressione
<<legare e sciogliere» (deein e lyein = aram. 'afar e sheriì.), co-
nosciuta in greco ma entrata nella terminologia rabbini-
ca 15 , è teoricamente suscettibile di tre applicazioni. Una è
in relazione con le operazioni magiche 16 : qui è da scartare.
Un'altra, corrente nella letteratura rabbinica, indica ciò
che è <<permesso>> o <<vietato>> da coloro che hanno autorità
per farlo in nome della Legge di Mosè: non è da scartare
del tutto in questo caso, se si intende con ciò l'esercizio di
un'autorità che applica nella Chiesa le indicazioni prove-
nienti dal Vangelo. La terza prolunga la seconda avendo di
mira i casi di peccato di cui si parla esattamente nel testo
di Mt 18,15-17. Ma si tratta evidentemente di peccati pub-
blici per i quali si considera una procedura, in questi ver-
135
setti in cui la Chiesa è espressamente menzionata in quan-
to comunità riunita.
Che si tratti di Pietro o degli apostoli (e dei capi di chiese),
il potere di legare e di sciogliere sulla terra porta a delle
decisioni che sono ratificate nei cieli (16,19) o <dn cielo,
(18, 18, testo corrente, fatta eccezione di parecchi impor-
tanti manoscritti). Il contesto del cap. 18 invita a vedere lì
un potere di giudizio affidato alla Chiesa per il perdono
dei peccati - o il contrario. Ma non può trattarsi che della
manifestazione visibile di una decisione che ha delle inci-
denze sulla situazione dei fedeli in rapporto alla Chiesa e
alla loro partecipazione alla sua vita, sebbene il perdono
accordato supponga che Dio stesso perdoni ugualmente.
Bisognerà cercare se si hanno degli esempi nella vita della
Chiesa dei tempi apostolici.
b) Rimettere e ritenere i peccati
Nel vangelo di Giovanni, quando il Cristo risorto appare
agli apostoli e affida loro la missione, dopo il dono dello
Spirito Santo egli aggiunge: <<A chi rimetterete (aphète) i
peccati 17 saranno rimessi e a chi non li rimetterete (lett.
<<riterrete»: kratète) resteranno non rimessi» (Gv 20,23).
L'uso di questi due verbi al passivo fa evidentemente allu-
sione a un atteggiamento divino, come la menzione dei
Cieli in Mt 16 e 18. È chiaro che c'è qui un'allusione all'e-
sercizio di un giudizio sulla condotta dei fedeli e di un'au-
torità che manifesta il giudizio di Dio stesso. Ci si ricolle-
ga così, per un'altra via e con un altro linguaggio, con le
parole raccolte nel vangelo di Matteo. Ma ci sono, alle ori-
gini cristiane, dei casi di giudizio e d'autorità che possano
essere accostati alla coscienza di una missione e di un po-
tere ricevuti?
136
rimproverare loro, non di aver trattenuto il loro denaro di
cui potevano disporre liberamente, ma di aver <<mentito al-
lo Spirito Santo» fingendo di donarlo. Si potrebbe discutere
a lungo sulle condizioni della morte che sopravviene in se-
guito, vedendo in essa un fatto naturale, ma è una questione
qui priva d'interesse. L'unica cosa che importa è che Pietro
esercita il potere di <<legare>> in un caso d'imbroglio in rap-
porto alla Chiesa, il potere di <<ritenere>> un peccato; e l'e-
vento (la morte) dimostra che Dio ratifica il giudizio espres-
so: questo è il motivo per cui Luca lo racconta sottolineando
il grande <<timore>> che si impadronisce della Chiesa 18 • Un
analogo atteggiamento di Pietro si nota davanti alla richie-
sta di Simon Mago (At 8,18-24). La sua proposta di comprare
il potere di donare lo Spirito Santo per operare miracoli fa
sì che, come dice la sentenza di Pietro, non ci sia per lui <<né
parte né sorte alcuna>> (8,21): solo il pentimento gli potrà ot-
tenere il perdono di Dio (8,22); ma la risposta di Simone è
troppo ambigua perché il suo peccato sia rimesso ed egli sia
«ScioltO>> da questa pena (8,23). Durante la prima missione
di Paolo, Elimas, il mago, fa opposizione alle parole di Pao-
lo e Barnaba (13,8). Paolo pronuncia un giudizio contro que-
sto <<figlio del diavolo>> che <<cerca di sconvolgere le vie drit-
te del Signore>> (13,10-11), e l'accecamento momentaneo del
colpevole dimostra che Dio ha ratificato questo giudizio
(13,11b).
Dobbiamo classificare nella stessa categoria le due decisio-
ni prese da Paolo contro alcune comunità giudaiche ad An-
tiochia di Pisidia (At 13,46-47) e a Roma (28,25-28), per san-
zionare le loro bestemmie nel primo caso (13,45) e la loro in-
credulità nel secondo (28,24-25)? Il passaggio ai gentili per
annunciare loro il Vangelo è forse una sanzione contro i
giudei? Si potrebbe obiettare che essi non sono ancora en-
trati nella Chiesa e che perciò non sta all'apostolo rimettere
o ritenere il loro peccato. Ma inversamente, se <<era necessa-
rio che fosse annunziata a essi per primi la Parola di Dio>>
(13,46a), ciò era dovuto al fatto che essi erano già membri
del <<popolo di Dio>> a titolo dell'ekklesia del deserto (At
7,18): erano quindi i primi chiamati a entrare nell'ekklesia
nella sua forma definitiva. L'apostolo si rivolge ai pagani,
137
per apportare loro la salvezza di Dio, perché i giudei <<hanno
respinto la Parola di Dio e non si sono giudicati degni della
vita eterna>> (13,46b). Si tratta quindi di una sanzione presa
dall'apostolo contro coloro che si comportano nel modo che
era già stato denunciato da Isaia (28,25-27, che cita Is 6,9-
10). Questo peccato è «ritenuto>> e la decisione è manifestata
con l'abbandono dei giudei infedeli che non obbediscono al-
la Parola di Dio.
b) Nelle lettere di Paolo
Non si tratta di cercare qui dei punti di vista generali sul
perdono dei peccati per la mediazione del Cristo redentore.
Su questo punto la dottrina di san Paolo è molto coerente.
Essa viene riassunta in una frase delle lettere pastorali,
presentata come una formula tradizionale: «Cristo Gesù è
venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo
sono io>> (l Tm l, 15). La seconda parte della frase fa appello
all'esperienza di Paolo stesso; ma in nessun posto si trova
un'allusione alle eventuali procedure che avevano come
scopo la remissione dei peccati nascosti, segreti, individua-
li. I soli fatti menzionati concernono dei peccati gravi e pub-
blici. L'enumerazione delle categorie di peccati che esclu-
dono dal regno di Dio (Gal 5,19-21; 1Cor 6,9-10; Ef 5,5) ri-
guarda il comportamento individuale e implica la necessità
del cambiamento di condotta per ottenere il perdono di Dio.
Ma nulla viene detto circa l'aspetto ecclesiale della riconci-
liazione necessaria con Dio: si tratta essenzialmente di un
affare di coscienza.
Tutto cambia quando questi peccati diventano pubblici. In
questi casi deve intervenire una sanzione comunitaria. Pao-
lo, informato di un caso di questo genere (1Cor 5,1), redar-
guisce la comunità per non aver escluso il peccatore, e im-
pone una decisione che lo scomunica, non certo in modo ir-
remissibile, ma in vista della sua conversione perché «egli
sia salvato nel giorno del Signore>> (5,2-5). Egli «lega>> il col-
pevole e «ritiene>> il peccato, per riprendere la terminologia
evangelica. Similmente, egli redarguisce i fedeli che sono in
causa davanti a tribunali civili, presieduti da pagani (lCor
6,1-8), ma non emette alcuna sanzione.
Al contrario, un po' più tardi, l'apostolo invia Tito a Corinto
per finire di regolare una questione relativa a una grave of-
fesa che egli ha ricevuto (lui o un suo rappresentante): la
chiesa locale ha reagito infliggendo una pena grave al colpe-
138
vole, con una decisione a maggioranza (2Cor 2,4-6), dopo
una severa lettera che Paolo aveva inviato loro (cfr. 2,3-4.9;
7,8.12). Ma una volta che la sanzione è stata decisa (cfr.
7,11), egli invita a perdonare il colpevole (2,7-8). Questa pe-
na escludeva certamente l'uomo dalla vita della Chiesa.
Ora, lo scopo delle sanzioni che <<legano» non è mai l'esclu-
sione definitiva se il pentimento si è manifestato pubblica-
mente. Vediamo quindi qui in funzione un sistema che ha
come scopo il buon andamento, la sana moralità e la carità
effettiva di ogni comunità locale, a dispetto della pressione
di un ambiente pagano che pesava fortemente sui nuovi
convertiti. La riconciliazione con Dio così come la riconci-
liazione tra gli uomini sono rese possibili grazie al <<ministe-
ro della riconciliazione» (2Cor 5,18); ma esigono degli sforzi
costanti per rispondere alla grazia proposta, e Paolo ci for-
nisce pochi dettagli sulle procedure usate nei casi indivi-
duali 19 .
139
Non si tratta di un qualsiasi peccato di ordine morale, ma
dei fedeli che «sono caduti» parapesontas): <<Essi crocifig-
gono di nuovo il Figlio di Dio e lo espongono all'infamia»
(6,6). Costoro, <<è impossibile (adynaton) [... ] rinnovarli una
seconda volta portandoli alla conversione». Non si riceve
due volte il battesimo. Non si dice nulla del caso in cui es-
si facessero penitenza: questo problema si porrà più tardi
al momento delle persecuzioni per i <dapsi» che hanno rin-
negato la loro fede, e gli atteggiamenti presi dalle diverse
chiese saranno allora vari ed esitanti 20 . L'aspetto ecclesia-
le della riconciliazione dei peccatori incontrerà lì la sua
difficoltà più grande: se non c'è un secondo battesimo, co-
me è possibile riconciliare i pubblici peccatori che hanno
commesso la più grave delle colpe?
La stessa tradizione evangelica ha conservato un detto di
Gesù relativo al «peccato contro lo Spirito Santo»: <<Qua-
lunque peccato e bestemmia saranno perdonati agli uomi-
ni, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata.
A chiunque parlerà male del Figlio dell'uomo sarà perdo-
nato; ma la bestemmia contro lo Spirito non gli sarà per-
donata né in questo secolo, né in quello futuro» (Mt 12,31-
32; cfr. Le 12,10). Che cos'è dunque questo peccato <<Ìrre-
missibile»? Si tratta certamente dell'atteggiamento di ri-
fiuto opposto all'impulso dello Spirito Santo che porta a
credere nel Cristo salvatore 21 • Infatti la libertà umana è
costretta a fare una scelta di fronte al Cristo, inviato nel
mondo <<perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv
3,17). Ora, «gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce,
perché le loro opere erano malvagie» (3,19). Questo è il
<<giudizio>, che opera una separazione tra di essi (9,39).
Tutto questo avviene nel segreto dei cuori, ma nella misu-
ra in cui si manifesta visibilmente al di fuori, la Chiesa de-
140
ve prendere posizione. C'è una coerenza tra ciò che dicono
i vangeli e il testo della lettera agli Ebrei.
b) Il peccato che conduce alla morte
Lo stesso problema viene sollevato alla fine della prima
lettera di Giovanni. Si tratta dell'atteggiamento da prende-
re nella Chiesa nei riguardi dei peccatori (lGv 5,16-17).
L'autore (Giovanni il Presbitero, secondo 2Gv e 3Gv) di-
stingue due casi: <<Ogni iniquità è peccato, ma c'è un pec-
cato che non conduce alla morte» (5, 17). Se si vede perciò
un fratello commettere un peccato che non conduce alla
morte, si preghi per lui, e Dio gli dona la vita. Ma <<c'è un
peccato che conduce alla morte; per questo dico di non
pregare» (5,16). Qual è la base di questa distinzione? Essa
è in rapporto con il fatto che, «se qualcuno ha peccato, ab-
biamo un avvocato (paraklétos) presso il Padre: Gesù Cri-
sto giusto>> (2, l). Quindi, facendo una preghiera di doman-
da per il peccatore, si otterrà che Dio lo perdoni e gli doni
la vita.
L'altro caso è più grave: è quello degli anticristi che <<sono
usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri>> (2, 19a). Co-
storo si sono installati nella menzogna: <<Chi è il menzo-
gnero se non colui che nega che Gesù è il Cristo? L'anticri-
sto è colui che nega il Padre e il Figlio» (2,22). Si ritrova
sotto un'altra forma la situazione stigmatizzata dal vange-
lo di Giovanni. Questo peccato «conduce alla morte» per-
ché si tratta di un'opzione di libertà per la morte. Non si è
più in presenza della debolezza umana, ma dell'incallimen-
to nel male. È l'equivalente del «peccato contro lo Spirito
Santo» menzionato dal detto di Gesù in Matteo. La lettera
di Giovanni raccomanda un comportamento dei fedeli nel
caso del <<peccato che non conduce alla morte»: la preghie-
ra di intercessione per il peccatore, fatta nella Chiesa 22 •
Non viene segnalato alcun rituale di <<riconciliazione>> o di
<<assoluzione». Ma viene sottolineata l'efficacia della pre-
ghiera per il peccatore, in un contesto ecclesiale. È noto
141
che le lettere di Giovanni sono estremamente discrete cir-
ca i ministeri nella Chiesa, ad eccezione della terza che
parla espressamente delle difficoltà incontrate a questo ri-
guardo. Non bisogna perciò aspettarsi di veder menziona-
te qui delle procedure di <<riconciliazione». Ma l'interces-
sione dei frate Il i per i peccatori è considerata come effica-
ce: questo punto è da tener presente.
c) La lettera di Giacomo 23
Per il nostro argomento è di poca importanza la data di
questo documento. Esso contiene due preziose indicazioni.
La prima ha un'andatura liturgica. Oltre alla remissione
dei peccati ottenuta per i malati mediante l'unzione (Gc
5,15), si dice: <<Confessate i vostri peccati gli uni agli altri e
pregate gli uni per gli altri per essere guariti» (5,16). Non
si tratta più, sembra, della guarigione fisica, che veniva
designata da un altro vocabolario (sèiz6, egeir6, 5, 15). Il
verbo iaomai sembra adoperato qui nel senso figurato. La
preghiera per i peccatori e la confessione reciproca dei
peccati sono i mezzi per ottenere la remissione. Dato che i
<<presbiteri della Chiesa>> sono menzionati immediatamen-
te prima di questa istruzione a proposito dell'unzione dei
malati (5,14), ci si può domandare se questa confessione
reciproca fatta <<Ìn Chiesa>> non supponga ancora la loro
presenza e il loro intervento. Ma non c'è <<giudizio di asso-
luzione>>: si prega gli uni per gli altri perché Dio perdoni i
peccati. In ogni caso, si tratta proprio della riconciliazione
dei peccatori, fatta in un contesto di Chiesa. L'imprecisio-
ne di tutti questi dati lascia aperte molte questioni prati-
che: la loro soluzione conoscerà degli sviluppi diversificati
nella tradizione ecclesiastica.
142
IV. Il MATRIMONIO DEl BATTEZZATI
143
b) In ambiente greco-romano
Anche nell'ambiente greco-romano non si esce dal conte-
sto familiare. Il matrimonio greco si conclude in due tem-
pi: innanzitutto un contratto stipulato con il kyrios della
giovane donna, normalmente il padre: si tratta dell' egyesis;
poi viene l'introduzione solenne della sposa nella casa del
suo sposo 26 •
L'amore e la tenerezza avevano poco spazio in quest'unio-
ne giuridica destinata a procurare dei figli <<legittimi»: lo
sposo si rifaceva diversamente. Nella Roma primitiva, il
matrimonio creava tra gli sposi una societas più intima,
sebbene la donna fosse una minore <<nella mano» del mari-
to. La celebrazione di un sacrificio gli conferiva d'altra
parte una consacrazione religiosa orientata verso la fecon-
dità del focolare. L'età minima fissata era di quattordici
anni per il ragazzo e di dodici per la ragazza. Ma l'evolu-
zione dei costumi sconvolgerà progressivamente queste
tradizioni: essa introduceva più libertà per le donne, che
potevano possedere, ma anche il divorzio e una licenza
sessuale più frequente per gli uomini; tale era la situazio-
ne al tempo del Nuovo Testamento 27 • È dubbio che si pos-
sa allora parlare di una concezione <<patriarcale» della fa-
miglia. Ad ogni modo, il matrimonio restava essenzialmen-
te una cerimonia familiare. Ma vediamo Plutarco elogiare
l'amicizia e la fedeltà coniugale 28 , e una coppia come quel-
la di Seneca e di Paolina è esemplare 29 .
c) Il matrimonio alle origini cristiane
L'annuncio del Vangelo, passando dall'ambiente giudaico
a quello greco-romano, non modifica il carattere essenzial-
mente familiare del matrimonio, che dipende dalla società
civile solo da questo lato, legato esso stesso a dei costumi
giuridici per tutto ciò che concerne la proprietà, l'eventua-
144
le dissoluzione, la legittimità dei figli, la coabitazione dei
fidanzati che diventano così sposi, ecc. Per l'ideale morale
della famiglia, il meglio della tradizione giudaica - atte-
stato dal libro di Tobia - si ricollega con quello della tra-
dizione stoica attestata parallelamente da Plutarco e da
Seneca. Certo, i costumi potevano comportare al di fuori
di ciò degli aspetti molto dissoluti, e il predominio maschi-
le abbastanza tradizionale nel giudaismo può anche fare
della procreazione uno scopo che lascia nell'ombra l'amo-
re degli sposi: si è eventualmente molto lontani dal dialo-
go affettivo attestato nel Cantico dei Cantici 30 .
Ciò che bisogna innanzitutto costatare è che la fede e il
battesimo non apportano nessun cambiamento all'aspetto
familiare della fondazione della coppia. Bisognerà attende-
re Ignazio d'Antiochia per vedere fissare una regola: <<Gli
sposi e le spose devono stringere la loro unione con l'ap-
provazione del vescovo, e così il matrimonio non avverrà
per concupiscenza, ma sarà conforme al volere del Signo-
re» (A Policarpo 5,2) 31 •
2. l problemi pratici
Bisogna allora dire che all'inizio non c'era un matrimonio
cristiano? Dato che la fondazione del focolare e la vita ses-
suale che ne deriva rientrano nell'ordine della creazione,
esistente universalmente anche se regolato dall'intenzione
del Creatore, il matrimonio esiste evidentemente prima
dell'annuncio del Vangelo e al di fuori di esso. Ma esso vi
introduce degli elementi nuovi.
a) Le regole di fondazione
Essendo la Chiesa nata in ambiente giudaico, il matrimo-
nio dei cristiani è normalmente regolato innanzitutto dalle
usanze giudaiche, per mezzo di precise esigenze. La pre-
senza di Gesù alle nozze di Cana (Gv 2,1-11) dimostra che
145
egli ne approva pienamente il cerimoniale tradizionale: il
significato simbolico del miracolo compiuto - la sostitu-
zione dell'acqua per la purificazione dei giudei con il vino
delle nozze escatologiche 32 - non cambia niente a questo
aspetto delle cose. Ma le parole di Gesù contro il divorzio,
soprattutto nella recensione di Matteo (Mt 19,1-9; cfr. Mc
10,1-12), sono una forte reazione contro una casistica in
uso che trova un punto di partenza nella legge civile del
Deuteronomio (Dt 24,1). Gesù rinvia alle intenzioni del
Creatore stesso citando i due racconti della Genesi: Gen
1,27 e 2,24 33 . L'orientamento giuridico così dato all'istitu-
zione ha del resto il suo parallelo in ambiente essenico
(Rotolo del Tempio LVII, 15-19, per il re, con la regola del-
l'endogamia e della monogamia; cfr. Scritto di Damasco
IV, 20-21, con citazione di Gen 1,27).
Bisogna notare che, secondo gli Atti e le lettere paoline, il
passaggio alla fede e il ricevimento del battesimo sono
spesso effettuati da intere famiglie: marito, moglie, figli e
servi (così At 16,15; 16,32; 1Cor 16,15; Fm 1-2). È la coesio-
ne interna del nucleo familiare a comportare un'entrata
collettiva nella Chiesa. Ma ci sono anche casi che possono
causare problemi pratici. Paolo considera esplicitamente
il caso delle scelte diverse fatte dai coniugi: non è il caso
di separarsi dal non credente o dalla non credente, se essi
accettano di coabitare pacificamente; ma si può lasciar
partire colui o colei che non vuol farlo (1Cor 7,12-16). Ci si
è domandato se Paolo stesso non si sia trovato in una si-
tuazione del genere, dato che si può presumere che questo
giovane e zelante dottore fosse sposato al momento della
sua imprevista conversione 34 • Altri problemi si pongono
per le vergini, per coloro che non sono sposati. Paolo dà
dei consigli, ma non impone nulla. I fidanzati pieni di ar-
146
do re giovanile 35 hanno il diritto di maritarsi se non posso-
no controllarsi (7,35-38). Anche per loro «è meglio sposarsi
che ardere,, (7, 9).
Quanto alla donna il cui marito muore, bisogna tener pre-
sente un dettaglio: <<Essa è libera di sposare chi vuole,
purché ciò avvenga nel Signore» (7,39). Essa deve quindi
cercare un marito cristiano: questa restrizione mostra la
preoccupazione di fare dei focolari familiari altrettante
cellule di Chiesa. In un certo modo si tratta dell'adatta-
mento, a una situazione nuova, delle regole in uso nel giu-
daismo, con maggiore flessibilità per i casi particolari. An-
cora non si parla di divieti, di impedimenti giuridici, di di-
spense, ecc. Ma il dinamismo delle comunità cristiane non
dev'essere contrastato da un'assenza di regole che lo met-
terebbe in pericolo.
b) La santificazione del matrimonio
Contrariamente alle moderne famiglie occidentali, o agli
ambienti con una natalità galoppante, sia le famiglie cri-
stiane che quelle ebraiche imperniano le loro preoccupa-
zioni sulle nascite, senza sollevare problemi circa la loro
«regolazione». È vero che la sterilità era allora vista come
una disgrazia e la mortalità infantile costituiva un temibi-
le flagello. Contrariamente agli ambienti pagani dove si
praticava senza scrupolo l'infanticidio, l'aborto, il concu-
binato con le schiave, l'adulterio, la frequenza delle prosti-
tute, l'omosessualità, i fedeli cristiani ereditano su tutti
questi punti delle regole severe che si imponevano già nel
giudaismo. Ma qui siamo ancora sul piano della sana mo-
rale umana, quella della «natura» nel senso stoico del ter-
mine, dove lo stoicismo del tempo troverebbe volentieri
un punto di collegamento con essi: in questa stessa misura
è possibile che esso abbia preparato la via alle conversioni
cristiane.
È possibile andare oltre e dare una colorazione cristiana
147
alle istruzioni trasmesse al momento del battesimo. Questi
testi sono esaminati altrove 36 • Quello che bisogna sottoli-
neare qui è il riferimento al Signore, cioè a Gesù Cristo,
come fondamento dei precetti morali. La sottomissione
delle donne ai mariti (hypotassesthe: lPt 3,1; Col 3,18; Ef
5,22) non fa che riprendere un'obbligazione giuridica cor-
rente, utile da ricordare in un tempo in cui esiste un movi-
mento di emancipazione femminile che rischia di dissolve-
re la famiglia 37 . Ma l'essenziale è farlo <<nel Signore» (Col
3,18): anche se questi mariti non sono ancora credenti, es-
se possono in questo modo condurli alla fede (1Pt 3,1). Da
parte loro, i mariti devono amare (agapan) le mogli, il che
non rientra in nessuna delle obbligazioni legali, sebbene
l'amore di amicizia (philia) rientri nell'ideale stoico 38 . La
stessa regola di comportamento <<nel Signore>> s'impone
per l'atteggiamento dei genitori verso i figli e per l'obbe-
dienza dei figli ai loro genitori (Col 3,20; Ef 6,1.4). È l'oriz-
zonte della vita coniugale e familiare che è cambiato. Per-
ché?
148
Ef 5,21-33 39 . L'istruzione data alle mogli e ai mariti rien-
tra forse in un contesto battesimale, come il testo paralle-
lo della lettera ai Colossesi e la prima lettera di Pietro che
riprendono qui delle formulazioni correnti. Questa istru-
zione contiene un confronto sorprendente tra, da una par-
te, la relazione del marito con la propria moglie e, dall'al-
tra, quella del Cristo con la Chiesa. La metafora coniugale
non è una novità in ambiente biblico: a partire da Osea (Os
1-3), essa serve a evocare l'alleanza tra Dio e il suo popolo,
che Egli fa sua sposa. Essendo l'alleanza ora realizzata nel
Cristo, è Lui che diventa lo Sposo divino di cui la Chiesa è
la Sposa, «santificata per mezzo del lavacro dell'acqua»
(Ef 5,26: allusione battesimale), <<senza macchia né ruga o
alcunché di simile, ma santa e immacolata» (5,27). L'amo-
re del Cristo, che ha amato la sua Chiesa fino «dare se
stesso per lei» (5,25), diventa così il modello dell'amore de-
gli sposi che devono amare le loro mogli allo stesso modo.
Solo allora si realizza l'ideale iscritto nel testo della Gene-
si (Gen 2,24).
Ma se ·è così, bisogna concludere che il matrimonio cele-
brato tra un uomo e una donna «fedeli» non appartiene
più soltanto all'ordine della creazione, che già gli conferi-
va la sua dignità e la sua regola propria. Appartiene all'or-
dine delle cose santificate dalla grazia redentrice del Cri-
sto: «Questo mysterion è grande, lo dico in riferimento a
Cristo e alla Chiesa!» (5,32). È sulla base di questo testo
che la riflessione teologica ha tratto l'idea della sacramen-
talità del matrimonio tra i battezzati: esso è santo in se
stesso e fonte di santificazione per i suoi partecipanti, sen-
za perdere il suo valore «naturale» che rientra nell'ordine
della creazione e che fissa le norme morali della sua rea-
lizzazione pienamente umana 40 • Non si comprendono pie-
149
namente queste norme finché non vengono riferite all'or-
dine della santità alla quale l'istituzione stessa è chiamata,
così come le persone che contraggono il matrimonio e la
discendenza che chiameranno alla vita in quanto procrea-
tori.
150
capitolo quinto
Riflessione teologica sulla liturgia
di P. Grelot e E. Cothenet
l Cfr. Le parole di Gesù Cristo (Introduzione NT, 7), pp. 29 e 76; Ome-
lie sulla Scrittura (Introd. NT, 8), pp. 250 e 252.
2 Cfr. supra, pp. 22s.
151
quale era necessario che essi riflettessero a partire dall'e-
sperienza del culto antico al quale avevano fino allora par-
tecipato. Gli elementi necessari a questa riflessione si pos-
sono trovare in due libri: la lettera agli Ebrei e l'Apocalis-
se di Giovanni. Esaminiamo ora i loro rispettivi contri-
buti.
152
1 . Le prefigurazioni liturgiche del Cristo
153
corso a degli antropomorfismi di questo genere 7 • È possi-
bile che l'esemplarismo in uso nella cultura alessandrina
abbia facilitato su questo punto il ricorso dell'autore a
una tale procedura. Ma la sua citazione di Es 25,40 mostra
da se stessa che, per l'autore sacerdotale del Pentateuco,
l'esemplarismo in uso in tutte le religioni dell'antico
Oriente aveva già giocato un ruolo determinante per la co-
struzione dell'edificio e del materiale cultuale d'Israele.
Certo, non bisogna portare questo principio fino all'estre-
me conseguenze, arrivando ad attribuire un preciso sim-
bolismo e un modello celeste a tutti gli strumenti richiesti
dalle necessità pratiche: l'urna d'oro, i catini, la lana scar-
latta, il ramoscello d'issopo, ecc. Tenendo presente questa
riserva, è però possibile fare delle indagini sul valore sim-
bolico delle azioni cultuali più rilevanti e, senza dimenti-
care i prototipi celesti che essi potevano avere come origi-
ne, esaminare il modo in cui la lettera ne enuncia il valore
figurativo.
b) Gli atti cultuali prefigurativi
La lettera riporta, come prefigurazioni del futuro ruolo sa-
cerdotale del Cristo, tre atti cultuali. Il primo è in rappor-
to diretto con la futura liturgia eucaristica: è l'offerta del
pane e del vino fatta da Melchisedek, secondo Gen 14,17-
20 8 . Non si tratta di un sacrificio cruento, è una semplice
ablazione offerta dal <<Sacerdote del Dio altissimo». Questa
prefigurazione dell'atto del Cristo, che prese del pane e
del vino al momento dell'ultima cena e che prescrisse a
degli apostoli di rifare lo stesso gesto <<Ìn memoria di lui>>,
154
non si basa sulla dimensione <<verticale» dei rapporti tra
la terra e il cielo, ma sulla dimensione <<orizzontale» dei
rapporti tra l'esperienza passata di un evento (considerato
come <<storico») e l'avvento finale del termine del disegno
di Dio, realizzato nel Cristo. Il gesto di Melchisedek non
appartiene del resto alla liturgia propria d'Israele: esso al-
larga così l'ordine delle prefigurazioni a una campo reli-
gioso extra-biblico, il che costituisce una prima tappa in
direzione dell'universalità del culto autentico reso al <<Dio
altissimo».
Le altre prefigurazioni alle quali fa allusione la lettera agli
Ebrei, nel suo grande sviluppo dei capp. 8-11, appartengo-
no al culto proprio d'Israele. Dato che questi capitoli si
presentano sotto la forma di un'omelia basata su Ger
31,31-34 (citato in Eb 8,8-12 e 10,16-17) 9 , è normale che vi
si rilevi innanzitutto un'allusione al rito dell'alleanza si-
naitica (Eb 9,19-21). Il solo dettaglio che venga riportato è
l'allusione al <<sangue dell'alleanza» con il quale Mosè
asperge il libro, il popolo e tutti gli oggetti cultuali. Il pa-
rallelismo ricercato consiste qui nel sangue del Cristo ver-
sato sulla croce, come segno sacrificale di una morte che
ottiene per tutti gli uomini la purificazione dei peccati. Ma
si tocca allora molto da vicino il rito della <<cena del Signo-
re», poiché Gesù farà allusione allo stesso testo dell'Esodo
nelle sue parole sul calice di vino 10 . Si noterà che, anche
su questo punto, entra in gioco la dimensione <<orizzonta-
le» delle prefigurazioni, cioè il rapporto tra un evento sto-
rico avvenuto un tempo e l'azione del Cristo <<al termine
del tempo preparatorio». Vedremo più avanti come entri
in gioco anche la loro dimensione <<verticale».
Infine, l'autore della lettera si sofferma con un'attenzione
particolare sul rito essenziale del <<giorno del perdono» (o
dell'espiazione): la sua descrizione della <<Tenda» (cioè, in
realtà, del Tempio ebraico) ha solo lo scopo di mostrare il
rito essenziale durante il quale il sommo sacerdote entra
una volta all'anno nel santo dei santi, con il sangue delle
vittime che egli offre per le sue colpe e per quelle del po-
polo (9,7). A partire da ciò la lettera presenterà il sacrificio
155
del Cristo, facendo entrare in gioco la dimensione vertica-
le delle prefigurazioni, cioè la relazione tra la terra e il
cielo 11 . Il legame tra le due prefigurazioni cultuali, quella
dell'alleanza e quella dell'espiazione, è la presenza del san-
gue purificatore che si ritrova in un altro modo nella real-
tà prefigurata.
2. La realtà prefigurata
Questa non dipende direttamente da un atto cultuale di or-
dine terreno: è il sacrificio del Cristo stesso. Ma è necessa-
rio considerare tale sacrificio in tutta la sua ampiezza. In-
fatti la teologia cristiana corre qui un rischio: più di una
presentazione del sacrificio del Cristo lo limita alla morte
di Gesù in croce. Inoltre a questa concezione si unisce
spesso una falsa idea dell'espiazione, considerata come il
castigo dei peccati umani subito da Gesù il giusto al posto
dei peccatori, trasferendo all'occorrenza su di lui l'imma-
gine del capro espiatorio - che non ha nulla a che vedere
con la teologia del sacrificio dato che questo capro non ve-
niva sacrificato! Si arriva così a una concezione totalmen-
te falsa del sacrificio redentore offerto dal Cristo Gesù per
ottenere la nostra salvezza.
È proprio contro una tale concezione che l'epistola agli
Ebrei ci premunisce offrendo, grazie a una trasposizione
figurativa degli antichi riti, una giusta nozione del sacrifi-
cio del Cristo. In che senso è un sacrificio espiatorio che
ha <<purificato la nostra coscienza dalle opere morte per-
ché rendessimo un culto al Dio vivente» (9,14b)? In che
modo il Cristo, <<venuto come sommo sacerdote dei beni
futuri>> - cioè di quelli che erano stati promessi ma non
realizzati sotto il regime della prima alleanza - ci ha <<ot-
tenuto una redenzione eterna>> (9,11ac)? L'autore risponde
confrontando simbolicamente la sua morte e la sua glorifi-
cazione con l'atto essenziale del sommo sacerdote nel gior-
no dell'espiazione: <<Attraverso una tenda più grande e più
perfetta, non costruita da mano d'uomo, cioè non apparte-
nente a questa creazione, entrò una volta per sempre nel
156
santuario[ ... ] con il proprio sangue>> (9,11-12). È chiaro che
si tratta qui del cielo, dimora di Dio, che diventa il luogo
di una liturgia trascendente, sovranamente efficace 12 • La
morte di Gesù, in quanto atto realizzato volontariamente
quaggiù, ne è un elemento essenziale: l'effusione del san-
gue di Gesù sulla croce ne è il segno. Ma il sacrificio non
si ferma su un tale elemento materiale, storicamente veri-
ficabile: raggiunge la sua efficacia redentrice solo con l'in-
gresso del Cristo nel cielo, «santo dei santi>>, dove si con-
suma questa liturgia. Così, per la teologia del sacrificio re-
dentore, la morte di Gesù è inseparabile dalla sua glorifi-
cazione finale al di là della morte. Questa non fu un sem-
plice incidente storico dovuto alla malvagità degli uomini:
il Cristo, «con uno Spirito eterno offrì se stesso senza
macchia al Dio vivente>> (9,14). Grazie a ciò egli è diventato
<<il mediatore di una nuova alleanza>> (9,15a); egli è infatti
entrato <<nel cielo stesso, allo scopo di presentarsi ora al
cospetto di Dio in nostro favore>> (9,24). Egli ha così <<an-
nullato il peccato mediante il sacrificio di se stessO>>
(9,26b).
Questo evento, accaduto alla fine dei tempi <<Una volta per
tutte>>, costituisce l'atto essenziale della liturgia celeste che
è il prototipo (typos) di tutti gli atti liturgici che lo annun-
ciavano in modo velato, come una <<parabola>> in azione
(9,9), nella prima alleanza. Si ha perciò in esso il modello
eterno di ogni liturgia celeste. Tuttavia, il regime della
Legge aveva solo <d'ombra dei beni futuri, non l'immagine
concreta (eik6n) delle realtà promesse>> (10,1) 13 . Quest'im-
magine stessa- quest'icone dell'atto salvifico - ha preso
forma grazie all'unione della croce e della glorificazione
del Cristo, attraverso la trasfigurazione gloriosa della cro-
ce stessa. Ora, nella Chiesa, essa è resa presente ogni volta
che il corpo e il sangue del Cristo offerti a Dio sono resi
<<attuali>> nel suo memoriale eucaristico. È per questo che
l'atto sacrificale del Cristo compiuto nel santuario celeste
diventa oggetto di una celebrazione particolare nella
Chiesa.
157
Ma non bisogna mai dimenticare che l 'essenziale di que-
st'atto sacrificale non fu la materialità della morte di Ge-
sù, per quanto importante sia stata come riferimento sto-
rico del culto cristiano. Fu l'offerta di se stesso, che Gesù
inaugurò fin dalla sua venuta nel mondo: conformemente
al testo del Salmo 40[39],7-9 LXX, egli venne nel mondo
<<per fare la volontà» di Dio (10,5-9a). Questo lo portò fino
all'«offerta dal suo corpo» (10,10). Ma <<con quest'unica
ablazione egli ha reso perfetti per sempre quelli che ven-
gono santificati» (10,14). Tale è la natura dell'unico sacrifi-
cio che ha <<abolito il primo ordine di cose per stabilire il
secondo» (10,9b). L'evento che dà un significato a tutte le
figure annunciatrici è quindi al tempo stesso l'atto escato-
logico di Dio avvenuto alla fine dei tempi preparatori, e
l'atto essenziale della liturgia celeste. Per questo duplice
riferimento esso era alla base delle prefigurazioni bibli-
che. Nella Chiesa i diversi atti liturgici traggono profitto
dal frutto che esso ha ottenuto rendendone partecipi i fe-
deli. Ma la lettera agli Ebrei non si ferma a sviluppare
quest'altro aspetto delle realtà cristiane, che noi chiame-
remmo ora <<sacramentali». Essa offre dei punti di parten-
za sufficienti perché la riflessione teologica ne tragga ulte-
riori sviluppi.
Il. L'APOCALISSE
(di E. Cothenet)
158
quale le inserisce. In breve, Giovanni non ha cercato di de-
scrivere i prodromi della fine, ma ha voluto trasmettere
alle comunità dell'Asia Minore un messaggio di perseve-
ranza (13,10; 14,12) 15 e di speranza.
L'Apocalisse è senza dubbio il libro del Nuovo Testamento
che contiene il maggior numero di indizi sulla liturgia cri-
stiana della fine del I secolo: la grandiosa liturgia che si
sviluppa nel tempio celeste appare come l'archetipo degli
inni e degli atti cultuali che la comunità compie sulla ter-
ra 16 . Naturalmente è necessario essere prudenti nell'appli-
cazione: sempre restando dipendente dai dati biblici (per
esempio la visione di Isaia, o quella di Ezechiele), il veg-
gente di Patmos resta molto libero nella sua presentazione
e la sua intenzione non è quella di fornirci un documento
sulla liturgia del tempo. Meglio però dell'autore della let-
tera agli Ebrei, che tratta teologicamente del sacrificio ce-
leste del Cristo, Giovanni si fa eco dei canti in risposta al-
ternata che si levavano nelle comunità dell'Asia Minore in
onore del Cristo, secondo la testimonianza stessa di Plinio
il Giovane nella sua celebre lettera a Traiano 17 .
159
Gesù Cristo, trasmessa a Giovanni durante il suo esilio a
Patmos, si rivolge quindi alla chiesa riunita, senza dubbio
nel giorno del Signore (1,10) 19 •
a) Un dialogo liturgico
I vv. 4-8 del capitolo l contengono un dialogo liturgico:
- i l lettore pronuncia innanzitutto il saluto rituale:
«Grazia e voi e pace ... ». Ben attestato nelle lettere del Nuo-
vo Testamento, questo saluto augurale contiene qui un'in-
sistenza speciale sull'origine della grazia: << ... da Colui che
è, che era e che viene, dai sette spiriti che stanno davanti
al suo trono, e da parte di Gesù Cristo, il testimone fedele,
il primogenito dei morti e il principe dei re della terra».
-l'assemblea risponde con un'acclamazione:
<<A colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il
suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il
suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei
secoli. Amen»
- lettore: <<Ecco, viene sulle nubi e ognuno lo vedrà; anche
quelli che lo trafissero e tutte le tribù della terra si batte-
ranno per lui il petto».
-assemblea: <<Sì, Amen!>>
- lettore: <<lo sono l'Alfa e l'Omega, dice il Signore Dio,
Colui che è che era e che viene, l'Onnipotente>> 20 .
160
b) Le citazioni dell'Antico Testamento
Ciò che colpisce in primo luogo è l'abbondanza delle allu-
sioni all'Antico Testamento. È il Dio dell'Esodo (3,14) che
invia la sua pace, una pace che può essere ottenuta solo
per la liberazione che il Cristo ci ha ottenuto con il suo
sangue. Il modo di definire il Cristo (l ,5) si riferisce al
kerygma pasquale: «<l primogenito dei morti», ma l'escla-
mazione: <<A colui che ci ama» (agapanti, participio presen-
te che si oppone all'aoristo: «ci ha liberati>>) mette un ac-
cento specifico sull'amore duraturo del Cristo per la co-
munità che egli ha riscattato dalla schiavitù del peccato.
La comunità stessa riceve i titoli onorifici che Israele ave-
va ottenuto in occasione dell'alleanza del Sinai (Es 19,6).
Con l'uso dell'espressione «Un regno, sacerdoti>> (1,6; cfr.
5,10; 20,6), l'Apocalisse valorizza meglio dell'Esodo o di
lPt 2,4-10 la partecipazione di ogni fedele al culto 22 : biso-
gnerà ritornare su questo punto.
La citazione di D n 7, 13 e di Zc 12, l O da parte del lettore
(1,7) indica che il culto cristiano comporta la lettura di un
testo profetico, seguito da un'interpretazione cristologica
che può essere attribuita all'intervento dei profeti cri-
stiani.
Quanto all'Apocalisse nel suo insieme, essa ci appare co-
me una rilettura cristiana dell'Antico Testamento 23 •
c) L 'attesa della venuta del Cristo
La proclamazione più forte riguarda l'imminenza della ve-
nuta del Cristo: «Ecco, viene!>> (1,7; cfr. v. 3). In opposizio-
ne a un'interpretazione letterale che riconduce tutte que-
ste proclamazioni alla parusia finale, conviene distinguere
diverse forme della venuta del Cristo. La comunità è attra-
versata chiaramente da sentimenti di impazienza e di dub-
bi, come si vede dal lamento doloroso dei martiri: «Fino a
quando, sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giu-
stizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti
della terra?>> (6,10) 24 • L'espressione heos pote è ripresa dai
161
salmi di lamentazione collettiva (Sal 6,4; 13,2; 74,10; ... ) e ci
mostra come, nell'angoscia della persecuzione che incom-
be, molti fedeli si domandavano se le promesse di salvezza
si sarebbero realizzate. Di fronte a questi dubbi, di cui ii
fa eco anche la seconda lettera di Pietro (2Pt 3,4), Giovanni
ravviva la speranza della parusia finale e proclama che il
Signore non tarda. La sua venuta assume però forme di-
verse: prima della cavalcata del giudice, che porta il nome
di Verbo di Dio (ho logos tou theou, 19, 13), Giovanni ci in-
segna a leggere gli eventi non come una serie di catastrofi,
ma come il compimento degli oracoli divini. Questo è il si-
gnificato più probabile della visione del cavallo bianco, in
occasione dell'apertura del primo sigillo (6,2) 25 • Il cavalie-
re che parte da vincitore e per vincere non può rappresen-
tare un flagello, infatti il bianco è il colore celeste. Per an-
ticipazione, questa visione annuncia così quella del Cristo,
Parola di Dio (19,11ss). Anche in seno alle tragedie della
storia, il veggente ci invita quindi a riconoscere l'azione
nascosta ma molto reale del Cristo, l'agnello immolato di
cui il cap. 5 ha celebrato l'investitura. Quale situazione,
meglio dell'azione liturgica, potrebbe aiutare il credente
ad afferrare l'attualità di questa presenza benevola del
Cristo?
d) La visione inaugurale del Figlio dell'uomo
(1,9-20)
Essa ha, in effetti, lo scopo di rinsaldare la fede nella pre-
senza del Cristo: in mezzo ai sette candelabri che rappre-
sentano le sette chiese, il Cristo dona la chiave della sto-
ria: «<o ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere so-
pra la morte e sopra gli inferi» (1,17s) 26 • Gli eventi vanno
quindi giudicati alla luce della pasqua. Ciò che deve acca-
dere presto non è altro che il dispiegamento del mistero di
cui Giovanni cerca di manifestare le dimensioni univer-
sali.
La comunità riunita per ascoltare il messaggio è invitata a
uno sforzo di riflessione: «Chi ha orecchi ascolti ciò che lo
Spirito dice alle chiese»; questa è la conclusione delle set-
te lettere alle chiese. Altrove ricorre l'invito alla perspica-
162
eia per la decifrazione delle visioni (13,9.18) 27 • Ma la cosa
più importante per gli ascoltatori è di collocarsi in un at-
teggiamento di conversione. Il verbo metanoein ricorre
con insistenza nelle lettere (2,5.16.21.22; 3,3.19), il che ac-
quista ancora più rilevanza per il fatto che, in seguito, ci
sarà solo il costante rifiuto di conversione da parte di co-
loro che sono colpiti dai castighi di Dio (9,20.21; 16,9.11).
Nella Chiesa i fedeli devono accettare di ascoltare i rim-
proveri del Cristo, frutto del suo amore: «<o tutti quelli
che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelan-
te e ravvediti» (3,19).
2. Lo sfondo liturgico
Il dramma dell'Apocalisse si sviluppa, come i misteri del
medioevo, su una scena a tre piani: il cielo, la terra, l'abis-
so. Il fatto stesso che il cielo sia nominato 52 volte dimo-
stra l'interesse che il veggente gli accorda. Gli eventi che
accadono in cielo offrono la chiave di ciò che accade sulla
terra.
La descrizione del cielo è tradizionale, con la moltitudine
di angeli che lo popolano, ma senza le complicazioni alle
quali si abbandonano gli autori apocalittici del tempo (per
es. 1Hen 14,8-23). Giovanni parla semplicemente del cielo,
senza distinzione tra tre (2Cor 12,2) o sette cieli (1Hen). Il
cielo è separato dal resto dell'universo da un mare di cri-
stallo (Ap 15,2), il firmamento; ha come centro il monte
Sion dove siede l'Agnello divino (14,1).
Molte scene si svolgono nel tempio celeste, descritto so-
briamente nel cap. 4. L'attenzione si concentra sul trono
divino, segno del potere (4,2). Infatti il grande interrogati-
vo nell'Apocalisse concerne il detentore reale dell'autorità:
il potere imperiale che esige di essere adorato (13) o il Dio
invisibile 28 . È qui che bisogna riconoscere l'importanza
delle immagini per la vita di fede: le grandiosi visioni del-
l'Apocalisse aiutano il credente, meglio di un insegnamen-
to astratto, a impregnarsi della presenza di Dio che agisce
nel mondo.
163
Il tempio è chiamato pure «Tenda della Testimonianza»
(15,5) e accoglie l'arca dell'alleanza (11,19), il che dimostra
chiaramente che l'autore, come quello della lettera agli
Ebrei, non ha di mira il secondo Tempio, ma quello che è
descritto idealmente nel libro dell'Esodo 29 . Non ci sono al-
lusioni alla separazione tra il Santo dei Santi e il Santo:
tutto avviene alla luce del sole, se così si può dire, il che
denota una percezione del sacro diverso che nell'apocalit-
tica giudaica, così preoccupata di manifestare la distanza
tra il Dio sovrano e le creature 30 . Il Tempio contiene un al-
tare degli olocausti, sotto il quale sono al riparo «le anime
di coloro che furono immolati» (6,9). Sull'altare d'oro alcu-
ni angeli compiono il sacrificio d'incenso (8,3s), che consi-
ste nella presentazione della preghiera dei santi (cfr. 5,8). I
sette candelabri della visione inaugurale evocano la men6-
rah (1,12 e 20), segno della presenza di Dio al suo popolo.
Il cielo risuona di perenni canti di festa. Alla liturgia del-
l'intronizzazione del Cristo (cap. 5) fa da corrispondenza la
celebrazione delle nozze dell'Agnello, con il canto alterna-
to dell'alleluia (19,1-9). La festa dei tabernacoli trova il suo
compimento nel cielo: provenienti dalle dodici tribù d'I-
sraele e da tutte le nazioni, gli eletti, con palme nelle mani
(7,9), acclamano l'agnello che ha permesso loro di attraver-
sare la grande prova per compiere il culto di azione di gra-
zie 31 . Come nella liturgia ebraica di rosh ha-shanah, le
trombe (sh6far) proclamano la signoria di Dio e annuncia-
no il giudizio: <<Nei giorni in cui il settimo angelo farà udi-
re la sua voce e suonerà la tromba, allora si compirà il mi-
stero di Dio come egli ha annunciato ai suoi servi, i profe-
ti» (10,7). Alla celebrazione della pasqua ebraica corrispon-
de, nel cap. 15, il canto dei vincitori della bestia che into-
nano <<il cantico di Mosè, servo di Dio, e il cantico dell'a-
gnello>> (15,3).
Questa è la cornice in cui si svolge la liturgia celeste. L'a-
nalisi dei dettagli ci permetterà di scoprire delle corri-
spondenze con le preghiere delle chiese del!' Asia Minore,
senza che si possa però ricostruire lo sviluppo concreto
164
della liturgia cristiana di questo tempo quando i fedeli si
riunivano in case private. Al contrario, a partire dal IV se-
colo, le visioni dell'Apocalisse eserciteranno una grande
influenza sullo stile delle celebrazioni liturgiche e sull'ico-
nografia cristiana, sia in Oriente che in Occidente.
L'Apocalisse non fornisce una diretta riflessione sulla re-
lazione tra liturgia celeste e liturgia terrestre. Come nel
giudaismo del tempo, e in modo particolare a Qumran,
viene ammesso il principio della corrispondenza: ciò che
dà valore al culto sulla terra è il fatto che esso partecipa al
culto celeste, e quindi alla sua santità. Il cielo riecheggia
di lodi che sono riprese sulla terra; a Qumran il significa-
to della comunicazione tra liturgia terrestre e liturgia ce-
leste era così vivo che era considerato sacrilegio il culto
che non fosse sincronizzato con quello del cielo 32 • Il pro-
blema del calendario per Giovanni non si pone più: il gior-
no del Signore è quello della sua risurrezione, così che il
culto cristiano è prima di tutto la celebrazione della vitto-
ria dell'agnello, alla quale partecipano tanto gli angeli che
gli uomini riscattati per formare, come sacerdoti, il regno
di Dio.
a) La liturgia celeste
Nel cap. 4 questa liturgia viene evocata sulla base di pa-
recchi testi dell'Antico Testamento: come spesso nell' Apo-
165
calisse, le visioni di Ezechiele servono da sfondo. Ad esse
si aggiunge un prestito dal canto dei serafini secondo Is 6.
La descrizione del carro divino (merkabah), già così com-
plicata in Ezechiele, ha provocato tutta una serie di specu-
lazioni nella mistica ebraica 33 • Al contrario, Giovanni sem-
plifica i dati visionari per concentrare l'attenzione sul
messaggio. I quattro esseri viventi che reggono il trono di-
vino rappresentano le forze cosmiche, mentre le sette lam-
pade che ardono davanti al trono divino simboleggiano
senza subbio i sette arcangeli, ammessi alla presenza di
Dio (gli angeli della Faccia 34 ).
I quattro esseri viventi hanno il ruolo dei serafini di Isaia
nel cantare il trishagion. Novità in rapporto ai modelli: l'A-
pocalisse attribuisce grande importanza ai ventiquattro
anziani che siedono, vestiti di bianco, intorno al trono divi-
no. Si potrebbe pensare a degli angeli; ma più avanti essi
intervengono per presentare il Cristo alla corte celeste
(5,5) e cantano il cantico nuovo dei riscattati (5,9). La solu-
zione più verosimile è quindi quella di vedere in essi i pa-
triarchi e i profeti dell'Antico Testamento (12+ 12=24).
Al seguito di P. Prigent 35 , si rileverà il carattere giudaico
della liturgia del cap. 4. Quando, nella lettera a Laodicea,
il Cristo viene presentato come <<principio della creazione
di Dio» (3,14), niente lascia supporre qui che egli interven-
ga nella creazione. Le lodi sono rivolte al Dio pantokrat6r
dell'Antico Testamento. Inoltre la recita del «tre volte san-
to» è attestata in un'antica preghiera sinagogale, recitata
prima dello Shema' lsrael. Si tratta della benedizione det-
ta della creazione (Y6,?er '6r):
«Benedetto sei tu, Signore, nostro Dio, re del mondo, che
formi la luce e crei le tenebre, che fai la pace e crei ogni
cosa ...
Sii benedetto, nostra roccia, nostro re e nostro redentore,
creatore di santi. Il tuo nome sia glorificato per sempre, o
nostro re, che formi degli angeli di servizio e i cui servi so-
no nelle altezze del mondo dove fanno sentire con timore,
166
in una sola voce, le parole del Dio vivente e del re del
mondo ...
E tutti ricevono su di essi l'uno dall'altro, il giogo del re-
gno dei cieli, e si autorizzano a vicenda a cantare la santità
del loro creatore, in serenità, in una lode pura e melodio-
sa; tutti, all'unisono, intonano delle lodi dicendo con timo-
re: «santo! santo! santo! il Signore degli eserciti. Della sua
gloria è piena tutta la terra!, 36 .
36 Cfr. Suppl. Cahier <<Évangile» 68: Prières juives, pp. 22s [trad. no-
stra].
167
to. Vi si trova una certa analogia nelle Parabole di Enoch,
la cui origine rimane molto controversa. Infatti l'introniz-
zazione dell'Eletto sul trono del Signore degli Spiriti pro-
voca la lode di tutti gli angeli nel cielo (1Hen 61,8-13), ma
la scena non è costruita come un dramma, a differenza
dell'Apocalisse. Al contrario, si trova uno schema analogo
nell'inno al Cristo servo di Fil 2,6-11 37 . Certo l'abbassa-
mento del Cristo è espresso su registri diversi: incarnazio-
ne e obbedienza fino all'umiliazione della croce in un caso,
messa a morte nell'altra, senza connotazione sacrificale
specifica 38 . È la seconda parte, caratterizzata dall'univer-
salismo dell'omaggio, quella che offre delle analogie sor-
prendenti: in un caso, tutte le creature che sono nei cieli,
sulla terra e negli inferi sono invitate a proclamare che
<<Gesù è Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2,10); nell'al-
tro, gli esseri viventi, i ventiquattro anziani, a nome dei
santi e delle miriadi di angeli, associano l'agnello alla glo-
ria dovuta al Dio dell'universo (5,13s).
L'erede delle promesse davidiche (v.5) non ha ottenuto la
vittoria spargendo il sangue dei nemici, ma versando il
proprio (5,6; cfr. 1,5; 7,14). È così che egli ottiene di aprire
il libro in cui sono registrati i segreti di Dio sulla storia:
non è forse il rotolo delle Scritture? Anche se il cap. 5 non
ci permette di ricostruire una vera celebrazione liturgica,
ci offre nondimeno in forma condensata i temi principali
delle celebrazioni pasquali 39 .
c) Sacerdozio e sacrificio
A differenza della lettera agli Ebrei che disserta a lungo
sul sacerdozio del Cristo, l'Apocalisse non gli conferisce
mai il titolo di sacerdote né lo presenta nell'atteggiamento
di intercessione (come in Rm 8,34). Ciò che celebra l'Apo-
calisse è il modo in cui il Cristo associa i suoi alla sua vit-
168
toria pasquale, come dimostra la ripresa del salmo mes-
sianico 110 in una delle sentenze al vincitore: «Il vincitore
lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vin-
to e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono»
(3 ,21 ).
Lo scopo del saluto accordato dal Cristo è di fare dei fede-
li <<un regno e dei sacerdoti» (1,6; 5,10; 20,6) 40 • L'utilizza-
zione di Es 19,6 avvicina l'Apocalisse a 1Pt 2,4-10 (cfr. in-
fra, p. 212); ma c'è una differenza nell'utilizzazione dello
stesso testo-fonte. Conformemente alla traduzione dei Set-
tanta, Pietro presenta la comunità intera come sacerdotale
(hierateuma), mentre l'Apocalisse dà il titolo di sacerdoti
(hiereis) a tutti i battezzati. Essi lo sono perché partecipa-
no, in unione con gli eletti del cielo, alla celebrazione della
vittoria pasquale del Cristo. Questo è il sacrificio di lode
che evocano per noi diverse visioni. Così l'azione di grazie
(eucharistia) risuona nella liturgia celeste dei tabernacoli
(7, 12). In cielo i ventiquattro anziani cantano in anticipo
l'instaurazione definitiva del regno di Dio:
«Noi ti rendiamo grazie (eucharistoumen sai), Signore Dio
onnipotente, che sei e che eri, perché hai messo mano alla
tua grande potenza e ha instaurato il tuo regno>> (11,17).
169
ci apostoli dell'agnello>> appartengono al passato poiché
sono considerati come i basamenti delle mura della nuova
Gerusalemme (21,14; cfr. Ef 2,20). Gli angeli delle chiese
sarebbero dei doppioni celesti del responsabile terrestre,
l'episkopos, di cui ci parla a lungo Ignazio di Antiochia? E
bisogna forse vedere nei ventiquattro anziani il prototipo
del presbyterium, associato al vescovo? In questo campo si
possono solo avanzare delle ipotesi 42 • Giovanni stesso si
presenta come profeta, associato a dei fratelli profeti
(22,6). Il suo ministero è soprattutto un ministero di testi-
monianza. Di fronte agli insegnamenti di dottori (i nicolai-
ti: 2,6.14s), denunciati come falsi profeti (2,20: Iezabele),
Giovanni presenta il suo messaggio come l'unico avente la
garanzia dell'ispirazione divina. Con le sue molteplici allu-
sioni all'Antico Testamento, letto nella sua relazione con
Cristo, egli ci apre una delle fonti essenziali della liturgia.
È quanto mostra lo studio più approfondito delle formule
di preghiera, così numerose nel libro di Patmos.
4. Gli inni
Le apocalissi giudaiche contemporanee di quella di Gio-
vanni contengono un importante numero di dialoghi tra il
veggente e Dio o l'angelo interprete e delle lunghe preghie-
re di supplica. La distruzione recente di Gerusalemme
spiega molto bene l'angoscia di questi passi (per esempio:
2Bar 3; 10,5-12,1; 21,4-25; 48,2-24; 4Esd 8,20-36; 10,21-24).
Del tutto diversa è la tonalità globale dei canti dell'Apoca-
lisse. Nonostante le gravi minacce che Roma fa pesare sul-
le comunità dell'Asia Minore, un soffio di gioia e di vitto-
ria anima la liturgia.
È facile individuare numerosi passi tratti dai formulari
giudaici tradizionali. Alcuni termini ebraici sono passati
nella lingua cristiana. Così l'amen, come risposta liturgica
della comunità all'officiante (1,6.7; 5,14; 7,12 ... ); l'alleluia,
tratto dai salmi, ma non attestato altrove nel Nuovo Testa-
mento (19,1.3.4.6 ... ), che Giovanni si preoccupa di tradurre:
«Lodate il nostro Dio>> (19,5).
Se il libro di Ezechiele costituisce spesso lo sfondo delle
170
visioni dell'Apocalisse, <d'influenza dei salmi è particolar-
mente sensibile nei canti del libro>> 43 . Non si può parlare
di citazioni esplicite, ma della ripresa spontanea di temi e
di espressioni ben attestate nel salterio. Rileviamo alcuni
esempi più significativi: Ap 6,10 e Sal 79,5; Ap 11,15 e Sal
2,2; 22,29; Ap 11,18 e Sal 2,1.5; 99,1; Ap 15,3 e Sal 111,2-4;
145,17; Ap 16,6 e Sal 79,3; Ap 16,7 e Sal19,10; Ap 19,2 e Sal
119,137.
a) Le forme letterarie
Inni e preghiere nell'Apocalisse presentano delle forme
letterarie diverse. Come nel giudaismo e nelle lettere di
Paolo, le dossologie sono rivolte a Dio creatore che si è ri-
velato nell'Antico Testamento. L'Apocalisse ama le forme
amplificate in cui i termini che esprimono l'onore dovuto
a Dio sono raggruppati per 4 (5, 13) o anche per 7: lode, glo-
ria, sapienza, eucharistia, onore, potenza e forza (7,12).
Le forme più tipiche della lode nell'Apocalisse sono le ac-
clamazioni del tipo: <<Tu sei degno (axios) ... !>> (4,11; 5,9.12),
di cui non si trova equivalente nel resto della Bibbia. E.
Peterson 44 sostiene che le forme derivino dalle acclama-
zioni in onore dell'imperatore. Benché le attestazioni sia-
no più tardive, l'ipotesi rimane verosimile se si pensa alla
polemica molto viva dell'Apocalisse contro il culto impe-
riale. In Asia Minore esistevano delle confraternite incari-
cate di eseguire i canti in onore dell'imperatore durante le
cerimonie ufficiali. Il problema del detentore reale del po-
tere si incontra costantemente nelle visioni dell'Apocalisse
giovannea. Alle acclamazioni in favore della bestia che ha
trionfato su un pericolo mortale: <<Chi è simile (homoios)
alla bestia e chi può combattere con essa?>> (13,4), fanno
da corrispondenza le acclamazioni della comunità cristia-
na in onore dell'agnello: <<Egli (l'agnello) è degno di riceve-
re potenza e ricchezza, sapienza e forza ... >> (5,12). A questo
titolo la liturgia dell'Apocalisse ci appare come una litur-
gia impegnata nella lotta contro l'idolatria del potere.
I cantici di lode dell'Apocalisse si presentano come <<canto
nuovO>> (6idé kainé, in 5,9; 14,3). L'espressione caratterizza-
va già i salmi del regno che celebravano la signoria univer-
171
sale di Yahweh e il suo intervento escatologico in favore
d'Israele (così Sal96,1; 98,1; 144,9; 149,1; cfr. Is 42,10 ... ). In
questo stesso contesto troviamo il termine s6teria (7, 10;
12,10; 19,1), che è carico di risonanze politiche nella lingua
imperiale. Uno dei cantici più significativi è quello che as-
socia in una stessa azione di grazie la pasqua ebraica e la
pasqua cristiana: «<l vincitore della bestia [... ] cantava il
cantico (6ide) di Mosè, il servo di Dio, e il cantico dell'a-
gnello: "Grandi e ammirabili sono le tue opere, Signore
Dio onnipotente" ... ». L'inizio esprime molto bene que-
st'ammirazione, questa emozione davanti alle vie misterio-
se della Provvidenza che motiva la liturgia.
172
Non troviamo, nell'Apocalisse, una domanda particolare
rivolta al Cristo, all'infuori dell'implorazione della sua ve-
nuta (22,20), di cui riparleremo a proposito delle allusioni
eucaristiche. Associato alla gloria di Dio, il Cristo è l'og-
getto di dossologie e di acclamazioni. La più significativa
si trova nel dialogo liturgico iniziale con la messa in evi-
denza del suo amore per i riscattati: «A colui che ci ama
(agapanti; verbo ripreso in 3,9) e ci ha liberati dai nostri
peccati con il suo sangue, [... ] a lui la gloria e la potenza
nei secoli dei secoli» (1,5s). Abbiamo già studiato le accla-
mazioni che scandiscono il cerimoniale di intronizzazione
messianica (5, 9-1 0). L' hosanna, caratteristico della festa
dei tabernacoli, prende una forma sviluppata: <<La salvezza
appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all'agnello»
(7, 10).
46 Per una giustificazione dei nostri punti di vista, cfr. Exégèse et Li-
turgie, pp. 305-323.
173
fare per la sequenza dei capp. 18 e 19: alla descrizione
drammatica della caduta di Babilonia, la grande cortigia-
na, si oppone la celebrazione delle nozze dell'agnello con
la Chiesa (19,1-9). Anche se in questi passi si riconoscono
delle espressioni prese in prestito dalla liturgia reale (per
es. halleluia), l'insieme è una creazione letteraria di Gio-
vanni, che non è possibile utilizzare per ricostruire le cele-
brazioni di allora.
5. Allusioni sacramentali
Abbiamo già indicato l'importanza data al <<giorno del Si-
gnore>> (1,10). Conviene ora rilevare le allusioni alle prati-
che sacramentali che è possibile discernere nell' Apocalis-
se. Né il battesimo, né l'eucaristia 47 vengono menzionate
direttamente, ma è possibile raccogliere un certo numero
di allusioni ai riti sacramentali.
a) Battesimo
Secondo P. Prigent 48 , che nella sua dimostrazione si basa
su testi antichi (come le Odi di Salomone o la parte cristia-
na dell'Ascensione di Isaia), gli elementi più abbondanti si
possono individuare nelle lettere alle sette chiese: le pro-
messe al vincitore che concludono ogni lettera non si rife-
riscono soltanto ai beni escatologici, ma indirettamente ai
sacramenti che ne sono il pegno. Viene così promesso al
vincitore di ricevere un nome nuovo (2,17). Il nome conser-
va un posto importante nell'Apocalisse: i seguaci della be-
stia sono marcati con il suo nome (14, 11) o con il numero
del suo nome (13, 17); da parte loro, i cristiani non ricevono
forse nel battesimo, con la confessione della loro fede,
l'impronta del nome divino? La corona è l'attributo degli
eletti nell'Ascensione di Isaia (9, 17); qui viene promesso al
vincitore di ricevere la corona di vita (2,10), cioè una par-
tecipazione alla regalità del Cristo. Non si può con questo
concludere che al momento del battesimo, come nella li-
turgia siriaca, il neofita ricevesse una corona (2,10), segno
dell'albero del paradiso (Ode 20,7-8); ma l'immagine pote-
va già essere percepita come battesimale.
174
Il caso è più netto per le vesti bianche (3,5). Già la metafora
<<rivestire il Cristo» è ben attestata nelle lettere di Paolo; le
vesti bianche sono un attributo tradizionale dei beati 49. I
martiri la ricevono come prima ricompensa (6,11). Non c'è
dubbio che all'uscita dalla vasca i neofiti dovevano rivestir-
si: molto presto si arrivò ad attribuire al loro gesto un si-
gnificato spirituale. L'immagine del sigillo (sphragis) nel
cap. 7 è tratta direttamente da una visione di Ezechiele
(9,44ss); è un segno di protezione per gli eletti. L'utilizzazio-
ne battesimale dell'immagine con il verbo segnare con un
sigillo (sphragizein) è già attestata in Paolo (2Cor 1,22; Ef
1,13; 4,30) e si ritrova nel Pastore di Errna 50 • L'allusione al
battesimo è ancora più probabile, in Ap 7, per il fatto che il
sigillo cristiano si oppone al marchio della bestia (13,17).
Nonostante la presenza di tanti immagini battesimali, non
troviamo indicazioni dirette sul rito come «immersione nel-
la morte di Cristo», né sulla confessione di fede. L'efficacia
del battesimo è attribuita al sangue del Cristo (7,14). È pos-
sibile individuare una tipologia battesimale nel «cantico di
Mosè e dell'agnello», intonato in occasione della traversata
del mare di cristallo da parte dei vincitori della bestia
(15,1-4). Infine, il tema del paradiso (2,7; 22,1-5) è da acco-
stare al battesimo in quanto questo apre l'accesso al para-
diso perduto: «Beati coloro che lavano le loro vesti: avran-
no parte all'albero della vita» (22,14).
b) Eucaristia
Ugualmente in modo allusivo è possibile raccogliere un
certo numero di indicazioni sull'eucaristia. L'attesa della
manna nascosta (2, 17) appartiene alle rappresentazioni
giudaiche tradizionali (2Ba 29,8). Nell'Apocalisse essa rin-
via probabilmente al cibo eucaristico (cfr. Gv 6,31ss). Al
vincitore viene promesso di «mangiare dell'albero della vi-
ta che sta nel paradiso di Dio>> (2,7). Il finale della lettera a
Laodicea è a questo proposito particolarmente significati-
vo; dopo alcune severe rimostranze, il Cristo dichiara:
«Ecco, sto alla porta e busso 51 • Se qualcuno ascolta la mia
175
voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò (deipnes6 52 )
con lui ed egli con me» (3,20). Degna di note è la formula
di reciprocità; essa caratterizza infatti il finale eucaristico
del discorso sul pane di vita (Gv 6,55s) e l'allegoria della
vite, dalle chiare allusioni aucaristiche (Gv 15,4.5.7 ... ). La
«cena del Signore» (1Cor 11,20) è concepita come un'anti-
cipazione del banchetto escatologico: «Beati gli invitati al
banchetto delle nozze dell'agnello!, (19, 9).
Il finale dell'Apocalisse contiene una serie di dialoghi
(22,6-21) che evocano per noi lo stile responsoriale già in
uso. Promesse e avvertimenti si succedono. L'elemento
nuovo, in rapporto a quanto precedeva, è la menzione del-
lo Spirito Santo (22, 17) che viene a stimolare la preghiera
della Chiesa-Sposa:
<<Lo Spirito e la Sposa dicono: Vieni!
Chi ascolta ripeta: Vieni!
Chi ha sete venga,
Chi vuole attinga gratuitamente l'acqua della vita!, (22, 17).
Conclusione
176
l'impero, i fedeli non si sentono soli; beneficiano dell'aiuto
degli angeli e ricevono già il pegno dei beni futuri. Essi
vengono così invitati a opporre un <<no!>> categorico alle
pretese blasfeme dell'impero. La resistenza, la perseveran-
za (hypomone): questo è il messaggio che la liturgia ripren-
de sotto forme diverse, specialmente con le minacce di
esclusione contro i pusillanimi (per es. 22, 15) e gli inviti ad
accostarsi alle sorgenti d'acqua viva che il Cristo ha aper-
to per la sua Chiesa, la Città santa.
177
parte terza
Raccolta di
testi liturgici
capitolo sesto
Contributi liturgici
delle lettere
l. LE LETTERE DI PAOLO
(di M. Carrez)
181
.della cena del Signore e al fatto che non hanno saputo, at-
traverso la spontaneità delle esperienze d'ispirazione, con-
servare una certa disciplina nel culto.
Recentemente, in un articolo intitolato <<Patterns of Wor-
ship in New Testament Churches» 1, R.P. Martin ha messo
in evidenza diversi tipi di culto. Il primo tipo è quello del-
l'assemblea di Corinto che egli intitola: Culto in una comu-
nità carismatica. Il secondo tipo è quello che egli deduce
dall'opera di Luca: Comunità della risurrezione e del rac-
coglimento. Il terzo tipo, nelle Pastorali, è quello della Co-
munità in corso di consolidamento e di istituzionalizzazio-
ne. Il quarto tipo, riflesso negli scritti giovannei, nella Di-
dachè e nella prima lettera di Clemente, è il culto della
Chiesa come associazione spirituale. Solo il primo e il ter-
zo tipo offrono un interesse per lo studio dei dati paolini.
Edouard Cothenet 2 suggerisce giustamente di fare uno
studio di l T m 2 e 3 dove si scoprono in germe le prime co-
stituzioni apostoliche. È quanto faremo.
a) Generalità
I capp. 11 e 14 della prima lettera ai Corinzi costituiscono
un'istruzione apostolica. Fornendoci un buon numero di
elementi liturgici e ponendoli nel loro contesto essa ci per-
mette di precisare lo sviluppo del culto.
In rapporto agli altri tipi di culto, quello di Corinto è ca-
ratterizzato dalla sua andatura tumultuosa dovuta all'im-
portanza accordata alle esperienze d'ispirazione: glossola-
lia (con il suo corollario del dono dell'interpretazione),
preghiera in lingue estatiche, rivelazione. Avidi di queste
esperienze, i Corinzi tenevano particolarmente alle loro
forme più visibili.
Lo spirito della divinità investiva progressivamente lo spi-
rito dell'ispirato. Allora per una sorte di divinazione (rive-
lazione?) era possibile interpretare gli oracoli incompren-
182
sibili per farne comprendere il significato (per esempio, la
pizia). Queste esperienze d'ispirazione (è così che bisogna
tradurre pneumatik6n in lCor 12,1 e non con <<doni spiri-
tuali»), spesso provocate, diventano un'eccitazione colletti-
va; il legame tra lo Spirito (santo) e il Signore Gesù rischia
allora di scomparire. Così si spiega l'energico richiamo di
Paolo prima di affrontare tutto ciò che riguarda il culto:
solo lo Spirito di Dio ispira la confessione: «Signore Ge-
SÙ», unendo inseparabilmente lo Spirito, Dio e Cristo. Non
bisogna confondere entusiasmo e azione dello Spirito di
Dio.
Paolo apostolo dice loro: «lo parlo con il dono delle lingue
molto più di tutti voi>>; ma aggiunge subito: «in un'assem-
blea», in altre parole durante la celebrazione cultuale,
«preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per
istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole con
il dono delle lingue» (lCor 14,18-19). Al parlare in lingue
Paolo preferisce nettamente la profezia, poiché questa edi-
fica: «Chi profetizza parla agli uomini per loro edificazio-
ne, esortazione e conforto» (lCor 14,3). Paolo insiste: «An-
che voi cercate di essere ispirati (letteralmente «zeloti»
delle ispirazioni), dato che questo vi attira, ma sia per l'e-
dificazione dell'assemblea» (lCor 14,12).
183
· usavano di più il flauto, in particolare per le cerimo-
~~=c~ultuali. Le cetre e le trombe dell'Apocalisse sono ben
note.
2) La didachè o insegnamento sembra avere un carattere
sistematico di istruzione che può riguardare, secondo i ca-
si, sia l'insieme della dottrina cristiana che un punto parti-
colare. È possibile che si trattasse anche di lettura liturgi-
ca di scritti apostolici (cfr. Col 4,16; Ap 1,3; Mc 13,14; Mt
24,15) 3 .
3) La rivelazione illumina qualche punto oscuro o presenta
un modo di risolvere una difficoltà di pensiero o di vita.
Paolo, in 2Cor 12, l, parla delle rivelazioni e delle visioni
del Signore (senza articolo come nella LXX per nominare
Adonai al posto di Yahweh) in un significato diverso. I co-
rinzi si servono dei fenomeni di ispirazione per autentica-
re il vero messaggio. Per Paolo ciò che conta non è la for-
ma ma il contenuto.
4) Glossolalia o parlare con il dono delle lingue, con tutti i
problemi connessi: quale forma aveva? Dato che c'erano
delle preghiere in lingue, tutti gli elementi ordinari della
liturgia potevano essere appannaggio della glossolalia? Le
donne potevano parlare in lingue? Ma in questo caso, se
esse non erano interprete di se stesse, poteva esserlo un
altro diverso dal loro marito? I problemi di lCor 14,34-35
si rivolgono verosimilmente ai casi di impossibilità di par-
lare in lingue per le donne 4 • Paolo sembra voler dare non
soltanto delle condizioni di esercizio alla glossolalia tanto
maschile quanto femminile, ma anche delle precise finali-
tà quanto al contenuto. Quel poco che ne sappiamo non
permette di precisare i diversi usi liturgici che essa poteva
ricoprire: ammonimento, breve omelia, rivelazione, bene-
dizione, preghiere diverse, salmo ispirato al lirismo spon-
taneo più o meno determinato quanto al genere, ma non
fissato in formule.
5) L'interpretazione non è altro che la traduzione in lin-
guaggio chiaro di ciò che la glossolalia ha espresso in ter-
3 Cfr. P. Grelot, Omelie sulla Scrittura (Introduzione NT, 8), pp. 252-
255, e C. Perrot, «La lecture de la Bible dans la Diaspora hellénisti-
que», in Études sur le Judaisme hellénistique, Cerf 1984, pp. 109-132.
4 Cfr. M. Carrez, <<Le silence des femmes dans l'Église (1Co
14,33b-35)>>, in In necessariis unitas (Mélanges J.-L. Leuba), Cerf 1984,
pp. 55-67.
184
mini incomprensibili. La relazione glossolalia-interprete
pone i suoi problemi. Si tratta di una traduzione, un'inter-
pretazione, una specie di targum più o meno commentato?
Altri elementi si aggiungono ai precedenti:
6) A cosa si riferisce la scienza di lCor 14,6? la preghiera in
lingue? la preghiera in spirito, che sembra avere un carattere
spontaneo e non utilizzare delle formule più o meno fisse
già in uso (lCor 14,14-16)? la profezia (profezia, profetizzare,
profeta: l Cor 14, 1.3.4.5.6.22.24.29.31.32.37 .39).
7) Preghiera o profezia fatta da una donna (11,2-16). La
donna nell'assemblea può pregare ad alta voce o profetiz-
zare. Essa ha, proprio come l'uomo, un'autorità in Cristo e
partecipa pienamente alla celebrazione. Può quindi pren-
dere la parola. Non sembra che il significato del termine
donna vada ristretto alle vergini e alle vedove 5.
8) La cena del Signore (cfr. II parte, cap. III). Questi dodici
elementi non costituiscono una lista esauriente. Ma appar-
tengono essi allo stesso tipo di celebrazione? In effetti la
tumultuosa assemblea descritta in lCor 14,23-25 è aperta
a chiunque voglia venire e assistere al culto ispirato. Al
contrario, in lCor 11 la celebrazione della cena del Signo-
re è una vera e propria cena dove gli elementi sono portati
da coloro che vengono a prendervi parte, quindi in princi-
pio riservata ai battezzati (lCor 11,21).
c) Interrogativo sollevato
A questi problemi bisognerebbe aggiungere quello della
pluralità della celebrazione del culto. La ripartizione della
Chiesa nelle case in gruppi distinti proviene dal fatto che
le riunioni tenute nelle case non potevano superare il nu-
mero di 9 persone nella sala da pranzo (triclinium) e 30-40
nell' atrium, ossia un totale di 50 persone 6 • Così la casa di
Gaio (Rm 16,13), ricco membro della comunità cristiana di
Corinto, poteva accogliere un numero simile. Theissen se-
gnala 14 membri maschi tra i corinzi; aggiungendo ad essi
donne e bambini, la casa era piena. I gruppi segnalati in
1,12: Paolo, Apollo, Cefa, Cristo, si riunivano abitualmente
in case diverse. Ogni gruppo, mantenendo un'atmosfera di
185
tipo familiare, vivendo in un rel~tivo is<;>lamento, avev~
una propria evoluzione; celebrava Il propno culto e ~on SI
accorgeva necessariamente delle differenze che c erano
tra le diverse· case. Solo l'apostolo, che andava di casa in
casa con i suoi collaboratori, poteva rendersi conto dei
germi di divisione della Chiesa (l, 13).
Ma la ripartizione che esisteva tra i diversi gruppi riuniti
nel nome di Paolo, Cefa, Apollo, in case diverse si compli-
ca all'interno di una stessa casa, con la divisione tra uomi-
ni liberi, che mangiavano nel triclinium, e gli altri parteci-
panti raggruppati meno confortevolmente nell'atrium, il
che faceva venir meno anche la messa in comune dei pasti.
Che dire se alcuni erano di origine ebraica e si conforma-
vano sempre alle prescrizioni alimentari levitiche, mentre
altri potevano mangiare di tutto? Peggio ancora, colui che
era ubriaco e aveva bevuto troppo vino greco era incapace
di discernere il corpo del Signore, senza dubbio in due
sensi: da una parte nelle specie, il pane e il vino, e dall'al-
tra nei fratelli e nelle sorelle della stessa assemblea.
Dobbiamo tuttavia notare che, in mancanza di queste diffi-
coltà, non avremmo avuto il testo sulla celebrazione euca-
ristica di l Cor 11,23-26.
186
14,25, la preghiera viene fatta, prostrati, con la faccia a
terra.
- 2,9-15: questa prescrizione destinata alle donne dimo-
stra che esse partecipano, come gli uomini, al servizio di-
vino della preghiera. Sembra che i precetti che raccoman-
dano un abbigliamento decente, anche se hanno una porta-
ta più ampia, si rivolgano in primo luogo all'abbigliamen-
to cultuale (l Tm 2,9-10). La seconda parte della prescrizio-
ne, ampiamente condizionata dal contesto sociale dell'epo-
ca, si spiega per l'influenza rabbinica e anche per la rea-
zione contro coloro che proibivano il matrimonio. In l Tm
5,3-16, sul trattamento riservato alle vedove, l'autore si op-
pone a quelle che sono sfaccendate, pettegole e curiose.
- 3,1-7: condizioni per il reclutamento dei vescovi, la cui
condotta e la cui famiglia devono essere esemplari. Biso-
gna che essi abbiano dato prova di sé nella Chiesa e goda-
no di buona reputazione.
- 3,8-13: stesse condizioni per i diaconi. 3,11 si rivolge al-
le donne e si inserisce nelle raccomandazioni fatte ai dia-
coni. Si tratta delle spose, e in questo caso sia di quelle dei
vescovi che di quelle dei diaconi? o di diaconesse, come
Febe, «diaconessa» della Chiesa di Cenere (Rm 16,1)? In un
insieme di regole per la scelta di coloro che devono essere
impiegati al servizio della Chiesa, quest'ultimo significato
e più probabile.
- 3,14-16: alcune riflessioni sulla Chiesa del Dio vivente e
il mistero della pietà servono da conclusione a tutto que-
sto sviluppo e terminano con un inno in due strofe che ce-
lebra l'apparizione del Cristo nella carne e la sua esalta-
zione nello Spirito. Lo studieremo insieme agli altri inni.
Ciò che emerge da questi due insiemi (lCor e lTm) è lo
stretto legame tra il culto di Dio e quello di Cristo. Questa
associazione ha permesso al culto cristiano l'adozione di
alcuni elementi del culto giudaico, in particolare degli inni
e dei salmi che hanno ricevuto allora un carattere cristolo-
gico o che sono stati composti per analogia con la liturgia
sinagogale (cfr. infra, cap. VIII).
187
to risalgono al periodo tra gli anni 50 e la fine del I secolo.
Sono in relazione con comunità diverse dove le pratiche li-
turgiche potevano avere un carattere particolare. Questo
porterà a tener conto dell'ordine probabile delle lettere e
del luogo in cui ciascuna di esse fu scritta: l Ts, (2Ts),
l Cor, 2Cor, Fil, Gal, Fm, Rm, Col, Ef, l e 2 T m, Tt.
1. Formulari semplici
Dobbiamo cominciare col fare l'inventario delle formule li-
turgiche andando dagli elementi più semplici a quelli più
complessi:
188
designare <da preghiera» 10 , ma piuttosto un insieme di
espressioni. Le più caratteristiche saranno oggetto della
presentazione che segue. In primo luogo, le benedizioni
che sono al tempo stesso riconoscimento e confessione
pubblica dei benefici di Dio, del Cristo e della salvezza che
egli accorda, e dello Spirito.
b) Benedizioni o eulogie
Si presentano sotto forme diverse:
l) Talvolta sono introdotte dall'aggettivo verbale << benedet-
to>> (eulogetos: nella LXX viene impiegato 70 volte): si tro-
vano allora all'inizio della lettera e introducono una pre-
ghiera abbastanza sviluppata, rivolta a Dio (2Cor 1,3-7; Ef
1,3-14). Più brevi, si incontrano anche nel corso del testo e
si applicano al Dio creatore, in Rm 1,25; al Dio Padre del
Signore Gesù, in 2Cor 11,31; o forse al Cristo, in Rm 9,5.
2) Talvolta le benedizioni sono espresse dal verbo «benedi-
re» (eulogein) e in questo caso si rivolgono piuttosto agli
uomini: «benedite coloro che vi perseguitano, benedite e
non maledite>> (Rm 12,14). In 1Cor 4,12 il credente è invita-
to a benedire in risposta alle ingiurie; in 1Cor 10,16, il cali-
ce è chiamato «calice di benedizione>>. In 1Cor 14,16 si par-
la di benedire con lo spirito. Questo secondo tipo di bene-
dizione ha un accento diverso: invece di rivolgersi a Dio
come oggetto della benedizione, in linea con l'Antico Te-
stamento, è l'espressione di un atteggiamento cristiano.
I documenti di Qumran forniscono molti esempi di benedi-
zioni brevi; esse fanno emergere, per contrasto, l'originali-
tà delle formule paoline comunitarie e non in «iO>>: 1QS
9,26; 1QS 10,6: «con l'offerta delle labbra Lo benedirÒ>>, o
1QH 2,30: «fuori della loro assemblea benedirò il tuo No-
me>>; 1QH 11,6: «Costantemente benedirò il tuo Nome>>; o
ancora lQH 11,25: «Per bocca di tutte le tue creature sia
lodato il tuo Nome per i secoli dei secoli>>. L'inno di lQS
10,13-17 indica come benedire Dio in ogni tempo e in ogni
circostanza (mattino, sera, prima dei pasti, nel dolore e nel
tormento) 11 .
189
3) Negli scritti paolini la formul~ più sem~lice è. una ~o~
sologia (centrata sulla doxa, glona), fatt~ di brevi ~rasi n-
volte a Dio sia per lodarlo che per benedirlo: «A lm la glo-
ria per i secoli dei secoli, amen>>, Gal 1,5 (=Fil 4,20); Rm
11,36 e 16,27 con solo «per i secoli». La formula è già più
complessa in Ef 3,20-21: «A colui che in tutto ha potere di
fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare,
secondo la potenza che già opera in noi, a lui la gloria nel-
la Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni, nei se-
coli dei secoli! Amen». In lTm 1,17 ha una formulazione
originale: «Al re dei secoli incorruttibile, invisibile e unico
Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen»; 2Tm 4,18 è
simile a Gal 1,5. Come nota E. Cothenet 12 , lTm 6,15-16 svi-
luppa ancora di più gli attributi di Dio:
«<l beato e unico sovrano,
il re dei regnanti e signore dei signori,
il solo che possiede l'immortalità,
che abita una luce inaccessibile,
che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere,
a lui gloria e potenza eterna! Amen».
Si può tuttavia notare Rm 16,25-27 che è nel suo insieme
una dossologia innica. Ne riparleremo a proposito degli
inni.
c) Ringraziamento
Si è sostituito progressivamente alla benedizione e le lette-
re paoline ci mostrano un processo che è già molto avan-
zato: la benedizione, che aveva un carattere più semitico,
lascia il posto al dispiegamento della grazia nella vita del
credente per la salvezza realizzata in Gesù Cristo.
l) Il ringraziamento si esprime con l'aiuto del verbo eu-
chariste6, <<rendere grazie», e dà luogo a delle formule più
o meno sviluppate, il più delle volte rivolte a Dio e situate
190
in testa alle lettere: l Ts l ,2-10; 2Ts l ,3-12; l Cor l ,4-9; 2Cor
1,3-7; Fil 1,3-11; Fm 4-7; Rm 1,8; Coll,3-8; talvolta all'inter-
no della lettera per concludere uno sviluppo: Rm 7,25. Ser-
ve anche da preghiera per la mensa (Rm 14,6) o da ringra-
ziamento, rivolto a Dio per un'occasione particolare (l Ts
2,13; lCor 1,14; 14,17.18; Ef 1,16). Esprime anche una di-
sposizione fondamentale dei credenti, che devono «rende-
re continuamente grazie a Dio Padre per ogni cosa nel no-
me del Signore Gesù Cristo» (Ef 5,20; Col 3,17; cfr. anche
lTs 5,18; 2Ts 2,13; Col 1,12). Durante la celebrazione euca-
ristica, il calice viene benedetto in lCor 10,16; ma si rende
grazie per il pane in lCor 11,24.
2) Può essere menzionato anche dal termine eucharistia,
«azione di grazie», e designare un atteggiamento di fede
(lTs 3,9; 2Cor 4,15; 9,11.12; Fil4,6; Col2,7; 4,2; Ef 5,4); una
preghiera per la mensa (l Tm 4,3.4) o un elemento del culto
comunitario (lCor 14,16). In lTm 2,1, l'azione di grazie è
menzionata accanto a «domande, preghiere, suppliche».
3) lTm 1,12 e 2Tm 1,3 hanno una formula particolare:
echo charin: <<sono pieno di riconoscenza» o «ringrazio»,
rara nel Nuovo Testamento (Le 17,9 ed Eb 12,28) e nei
LXX (2Mac 3,33), ma classica in greco e abbastanza fre-
quente nei papiri.
Gal e Tt non contengono ringraziamenti e non usano nes-
suno dei termini rilevati sopra (nn. 1,2,3).
191
Il sostantivo deésis esprime lo stesso atteggiamento di pre-
ghiera (2Cor 1,11; 9,14; Fil 1,4.19; 4,6; Rm 10,1; Ef 6,18;
lTm 2,1; 5,5; 2Tm 1,3).
3) L'intercessione (entynchanein=intercedere) si dice dello
Spirito di Dio che prega secondo Dio per i santi (Rm 8,27);
del Cristo morto e risorto che, alla destra di Dio, intercede
per noi (Rm 8,34); essa esprime la potenza della preghiera
del profeta Elia (Rm 11,2). Il sostantivo enteuxis, <<interces-
sione», «supplica», si trova soltanto in l Tm 2, l; 4,5.
4) Preghiera (proseuchomai) figura soprattutto in lCor 11-
14 dove l'apostolo affronta i problemi relativi al culto:
1Cor 11,4.5.13; 14,13.14.15; ma anche in 1Ts 5,17.25; 2Ts
1,11; 3,1; Fill,9; Rm 8,26; Col1,3.9; 4,3; Ef 6,18; lTm 2,8. Il
sostantivo proseuché, preghiera, è usato soltanto per la
preghiera umana rivolta a Dio o al Cristo (l Ts l ,2); l Cor
7,5 (non astenersi dai rapporti coniugali, se non di comune
accordo e temporaneamente, al fine di dedicarsi alla pre-
ghiera); Fil 4,6; Fm 4 e 22; Rm 1,10 (sempre); Rm 12,12
(perseveranti nella preghiera); Rm 15,30 (lottare con me
nelle preghiere che rivolgete per me a Dio); Col 4,12 (Epa-
fra che non cessa di lottare per voi nelle sue preghiere); Ef
l, 16; 6,18 (preghiera nello spirito); Col 4,2 (perseverate nel-
la preghiera); lTm 2,1; 5,5.
5) Potrebbero essere presi in considerazione anche alcuni
usi di parakaleo nel senso di supplicare: 2Cor 12,8 (tre vol-
te ho supplicato il Signore); forse l Ts 4, l (supplichiamo
nel Signore che ... )?
6) Tre testi presentano, ciascuno con la sua specificità, la
preghiera nello Spirito: lCor 14,13-17; Rm 8,26-27; Ef 6,18.
Nei tre casi lo Spirito è l'agente della preghiera. Ma in
l Cor 14 ci si può domandare se si tratti di una preghiera
che accompagna la glossolalia: «Perciò chi parla con il do-
no delle lingue, preghi di poterle interpretare. Quando in-
fatti prego (proseuchomai) con il dono delle lingue, il mio
spirito prega, ma la mia intelligenza rimane senza frutto.
Che fare dunque? Pregherò con lo spirito, ma pregherò an-
che con l'intelligenza; canterò con lo spirito, ma canterò
anche con l'intelligenza. Altrimenti se tu benedici soltanto
con lo spirito, colui che assiste come non iniziato come po-
trebbe dire l'amen al tuo ringraziamento, dal momento
che non capisce quello che dici? Tu puoi fare un bel rin-
graziamento, ma l'altro non viene edificato>> (lCor 14,13-
17).
192
«Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla no-
stra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia
conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con
insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che
scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché
egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Rm
8,26-27).
«Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di pre-
ghiera e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo sco-
po con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi» (Ef
6,18).
3. Le confessioni di fede
193
dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Ge-
sù, che ci libera dall'ira ventura» (l Ts 1,10) 14
2) Anche i saluti iniziali delle lettere contengono delle for-
mule più o meno lunghe di confessione di fede. «Signore
Gesù Cristo, che ha dato se stesso per i nostri peccati, per
strapparci da questo mondo perverso, secondo la volontà
di Dio e Padre nostro» (Gal 1,4). Rm 1,3-4 enuncia in uno
stretto parallelismo una formula in cui si ritrovano dei da-
ti più antichi: « ... Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide se-
condo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secon-
do lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai
morti, Gesù Cristo nostro Signore».
3) Due formule sviluppate di confessione di fede si trovano
nella prima lettera ai Corinzi. Innanzitutto, lCor 8,4-6, ca-
ratterizzato in greco dall'assenza di verbi, presenta uno
stile molto poetis::o:
(8,4) «Sappiamo
che non esiste alcun idolo al mondo
e che non c'è che un Dio solo.
(8,5) In realtà, anche se vi sono cosiddetti dei
sia in cielo sia sulla terra
- e difatti ci sono molti dei e molti signori -
(8,6) per noi c'è un solo Dio, il Padre,
da quale tutto (proviene)
e noi siamo per Lui;
e un solo Signore Cristo
per il quale (esistono) tutte le cose
e noi (esistiamo) per Lui.
194
I quattro «che» (hoti) ne fanno una formula a quattro ele-
menti che unisce i tre dati fondamentali della realizzazio-
ne della salvezza a quella della trasmissione apostolica,
che sarà completata da un'altra sequenza di quattro serie
introdotte in chiasmo da eita - epeita - epeita - eita (poi -
in seguito - in seguito - poi) che termina con la menzio-
ne di Paolo in quinta posizione (ultimo di tutti).
l Tm nella sua difesa della verità introduce così una for-
mula di confessione di fede:
<<Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, no-
stro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano sal-
vati e arrivino alla conoscenza della verità:
Uno solo infatti è Dio
e uno solo il mediatore
fra Dio e gli uomini,
l'uomo Gesù Cristo» (l Tm 2,3-5).
4. l titoli di Gesù
195
plici, ciascuna presa indipendentemente dalle altre. La
presenza o meno dell'articolo modifica il loro significato.
2) Così la LXX usava senza articolo Kyrios per evocare in
greco il tetragramma sacro impronunziabile, già sostituito
nella lettura sinagogale in ebraico da Adonai. Questi usi
assoluti si trovano anche a Qumran e anche talvolta in
Giuseppe Flavio. Allo steso modo, Paolo adopera il termi-
ne Kyrios, <<SIGNORE» senza articolo, per conferire ad es-
so una forza tutta particolare, con questa particolarità di
essere applicato al Cristo e non più soltanto a Dio. Prende-
remo il solo esempio di 2Cor (esaminare tutte le lettere ol-
trepasserebbe i confini di questo studio), perché esso è ri-
velatore del ruolo giocato dal titolo Gesù.
3) SIGNORE (senza articolo; lo scriviamo in maiuscolo per
sottolineare il suo ruolo particolare): 2Cor 3,16.17.18 (2
volte); 6,17.18; 8,21; 12,1. Nelle citazioni greche (cfr. Bar-
thélémy, Le devanciers d'Aquila), kyrios senza articolo è un
termine specifico e sostituisce Yahweh. Ma nel testo paoli-
no, l'applicazione senza articolo di Kyrios a Gesù trasferi-
sce a lui una parte del ruolo attribuito fino allora a Dio.
L'espressione en kyrio;, <<nel Signore», esprime l'azione vi-
va del Cristo.
4) Il Signore (con articolo) figura in 2Cor 3,17; 5,6.8.11;
8,5.19; 10,8.18; 12,8; 13,10. In questo caso quando si dice
Signore non si pensa più a Yahweh, ma al Cristo. Analogi-
camente questa distinzione è passata anche nell'uso di Cri-
sto.
5) Il Cristo (con articolo): 2Cor 1,5 (le sofferenze del) (dal
Cristo); 2,12 (il vangelo del); 2,14 (nel Cristo), 3,4 (dal Cri-
sto); 4,4 (il vangelo della gloria del Cristo); 5,10 (il tribuna-
le del Cristo); 5,14 (l'amore del Cristo); 9,13 (Vangelo del
Cristo); 10,1 (dolcezza del); 10,5 (obbedienza di=a); 10,14
(vangelo del); 11,2 (presentare al); 11,3 (semplicità dovuta
al Cristo); 12,9 (la potenza del Cristo).
6) Cristo (senza articolo) 1,21 (in Cristo: eis Christon); 2,10
(sulla faccia o nella persona di Cristo); 2,15 (profumo di
Cristo); 3,3 (lettera di Cristo); 4,6 (cfr. 2,10); 5,16 (conoscere
Cristo secondo la carne); 5,18 (da Cristo); 5,20 (ambasciato-
ri per Cristo); 5,20 (hyper, per Cristo, supplicare); l'uso di
Cristo sottolinea nella sua persona tutto il bagaglio della
storia della salvezza. La formula <<in Cristo» è sempre po-
sitiva. Cristo è colui la cui missione si è pienamente realiz-
zata e che è Messia per sempre.
196
7) L'uso di Gesù come titolo semplice è raro: g1a m l Ts
1,10 Gesù è qualificato in modo non abituale: <<egli ci libe-
ra dall'ira ventura>> (cfr. inno) e in l Ts 4,14: <<Noi crediamo
infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli
che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme
con lui». Ritroviamo solo una volta Gesù in lCor 12,3 a
proposito del discernimento dello spirito, ma otto volte in
2Cor (frequenza del tutto eccezionale in Paolo): in 2Cor
4,5-14: 4,5; 4,6* (volto o persona di); 4,10 (2 volte: morte,
nekr6sis, di Gesù e vita di Gesù); 4,11 (2 volte: esposti alla
morte a causa di Gesù; vita di Gesù); 4,14 (risuscitare con
Gesù) e 2Cor 11,4 (se il primo venuto vi predica un Gesù
diverso). Perché Gesù e non Cristo? Certamente perché
Paolo vuole insistere sulla realizzazione della salvezza nel
corso della storia umana tra i corinzi che si credono già
nel regno.
197
Corinto: <<Quando vi radunate, ognuno può avere un sal-
mo» (lCor 14,26). Questo salmo potrebbe anche essere una
preghiera composta a casa dal credente, o l'imitazione cri-
stiana di una preghiera biblica. Nella comunità si usavano
diversi tipi di canti: <<Cantate a Dio, nei vostri cuori, sotto
l'effetto della grazia, salmi, inni e cantici ispirati dallo Spi-
rito» (Col 3,16). Ma non possediamo nessun testo che co-
minci con un salmo, un inno o un cantico e che sarebbe
definito come tale. Al contrario, troviamo dei passi che
hanno uno stile innico, ritmato.
Costituiscono essi per questo un inno propriamente detto?
È una domanda che dipende in parte da ciò che si intende
per inno. Componimento indipendente? ritmato? poetico?
con una divisione in strofe ben marcata? Di uso anteriore
alla sua citazione da parte dell'autore della lettera che
può o citarlo o averlo composto?
Abbiamo già affrontato brevemente il problema dell'ac-
compagnamento musicale (flauto o cetra o tromba, a pro-
posito di lCor 14). Il testo di lCor 13 permette di aggiun-
gervi il cembalo. Ma non abbiamo alcuna indicazione ante-
riore al III secolo. A Ossirinco, in Egitto, è stato conserva-
to su un papiro il più antico inno cristiano con la sua me-
lodia autentica. Il lettore potrà riferirsi al n. 37 di Le mon-
de de la Bible (pp. 38-39), dove Yves Chartier ne dà la tra-
duzione francese e la notazione melodica. Il problema più
delicato rimane quello del ritmo.
198
morti», fa parte del kerygma primitivo (cfr. Rm 10,9; 4,24;
1Cor 15,15) dove essa viene messa in rapporto con la con-
fessione salutare della fede. Gesù ci <<Strappa>>, nel senso
di salvare e riscattare, «all'ira futura>> (cfr. Rm 1,18-4,25).
Questa concezione è vicina alla concezione ebraica del
giorno del Signore che è un giorno di ira (Is 2, 10-22; Sof
1,15). Per Paolo, l'ira di Dio è al tempo stesso presente e
futura, evocata qui da un presente apocalittico.
b) La dossologia di Rm 16,25-27
È una dossologia innica più che un inno dossologico, ma
molto vicino all'inno costituito.
199
«opera elaborata ... che è poco probabile che sia stata com-
posta di getto». Erasmo aveva già detto di questo passo
che non si può immaginare niente di più elegante e al tem-
po stesso di più ardente:
a. Nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce,
nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti,
nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni,
b. con purezza, sapienza,
pazienza, benevolenza,
spirito di santità, amore sincero,
con parole di verità, con la potenza di Dio,
b'. con le armi della giustizia
offensive e difensive;
nella gloria e nel disonore,
nella cattiva e nella buona fama;
c'. ritenuti impostori, eppure veritieri,
sconosciuti, eppure notissimi,
moribondi, eppure ben vivi,
oggetti di castigo, ma senza essere messi a morte;
afflitti, ma sempre lieti,
poveri, ma facenti ricchi molti,
gente che non ha nulla, e invece possediamo tutto.
200
17 e 18-20; questa unità è sottolineata dalla strutturazione
semantica. Nel1979, Edouard Cothenet ha presentato il te-
sto di lTm 3,16 in due strofe di tre stichi, dove gli stichi 3
e 6 costituiscono delle conclusioni parallele alle due cop-
pie. Ma poi, giustamente, molti altri testi sono stati ogget-
to di studi. Così P. Grelot, nel 1989, ha rifatto completa-
mente lo studio della struttura di Ef 1,3-14 mostrando la
sua composizione come una canto liturgico di sei strofe
con ritornello. Possiamo aggiungere anche, con E. Cothe-
net, come inno di tonalità paolina: 2Tm 2,11-13.
Per qualificare un testo come inno bisogna innanzitutto di-
scernere la sua forma letteraria più o meno fissata e quin-
di più o meno variabile, componimento di una certa am-
piezza, e poi esaminare il suo uso come benedizione, rin-
graziamento, dossologia, confessione di fede, preghiera,
ecc., e tentare cosl di precisare la sua importanza litur-
gica.
a) Filippesi 2,5-11
L'inno più studiato è certamente Fil 2,5-11. Un'abbondante
bibliografia (aggiornata al 1977) si può trovare nel vol. 3 di
questa Introduzione al NT (Le lettere apostoliche, pp.
292s). Possiamo aggiungere L. Ligier, «L'hymne christolo-
gique, liturgie eucharistique>>, Studiorum Paulinorum
Congressus (Roma 1951), pp. 65-74.
Il punto di partenza si situa nel 1928, quando E. Lohmeyer
pubblica: Kyrios Jesus. Eine Untersuchung zu Phil. 2,5-11.
Egli valorizza il carattere ritmato e strutturato del passo,
che potrebbe essere un inno cristologico preesistente, ve-
rosimilmente in aramaico, proveniente forse dalla Chiesa
di Gerusalemme. Da allora numerosissimi studi hanno ri-
preso, confermato, modificato, criticato queste ipotesi.
Nel 1973, J.F. Collange 17 ne ha fatto, in 24 pagine, una ma-
gistrale presentazione seguendo tre piste: l) l'inno forma
un tutt'uno; 2) l'inno è un inno cristiano; 3) l'inno è stato
17 J.-F. Collange, L'épitre de St. Paul aux Philippiens (CNT lOa), pp.
74-97 (con bibliografia). Per una bibliografia di questo testo, cfr. M.
Carrez, Le lettere apostoliche (Introduzione NT, 3), pp. 92-95 e 292s.
Ultimo studio sul possibile sfondo aramaico del'inno: J.A. Fitzmyer,
<<The Aramaic Background of Philippians 2,6-11», CBQ 50 (1988), pp.
470-483.
201
collocato da Paolo in questo punto preciso della sua lette-
ra ai Filippesi.
l) Il testo è sicuro; la sua struttura un po' meno. C'è tutta-
via un accordo generale sulla struttura d'insieme: abbas-
samento (vv. 6-8), elevazione (vv. 9-11). Sulla scia di L. Cer-
faux e J. Jeremias, R.P. Martin individua per ogni parte
una struttura interna di due strofe. A queste si aggiungo-
no i ritornelli (vv. Se e llc), che sottolineano i momenti
forti e sono recitati da tutta l'assemblea, dimostrando così
un uso liturgico dialogato:
6Pur essendo di natura divina (lett.: in forma di Dio)
non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio;
7ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo (lett.: forma di schiavo).
Divenuto simile agli uomini,
apparso in forma umana,
sumiliò se stesso,
facendosi obbediente fino alla morte:
e alla morte di croce.
9Per questo Dio l'ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome,
tOperché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
t te ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore:
a gloria di Dio Padre.
202
sa. La maggior parte pensa a un'origine non paolina peral-
tro molto diversa 18 • Ma è possibile che Paolo abbia utiliz-
zato un pezzo di sua composizione 19 • Ad ogni modo, che
Paolo abbia creato egli stesso l'inno o l'abbia solo utilizza-
to, non cambia il suo uso liturgico: questa confessione-pro-
clamazione si basa su una serie di atti storici: abbassa-
mento, dono di sé fino alla morte, che ricordano che il so-
lo cammino verso la gloria passa attraverso la debolezza,
la miseria e la rinuncia. L'introduzione dell'inno (<<com-
portatevi nel modo in cui si comportano quelli che sono in
Cristo>>) rinvia subito all'esperienza comunitaria, senza
escludere tuttavia il corrispondente comportamento per-
sonale e che l'altra traduzione («comportatevi nella manie-
ra in cui si comportava il Cristo GesÙ>>) cercava di ren-
dere.
Il parallelismo tra «natura (morphè) divina>> e «condizione
(morphè) di servo>>, col significato che prende morphè,
«forma», in rapporto a eikon, «immagine>>, schèma, «atteg-
giamento>>, doxa, «gloria>>, è destinato a indicare una pie-
nezza interiore, profonda. In questo caso morphè può esse-
re tradotto con «pienamente>>: «essendo pienamente Dio»
ed «essendo pienamente serVO>>. La comunità, con il Cri-
sto, scopre chi è Dio e qual è il suo servizio. Prima di sco-
prirlo come Signore, essa lo considera come Servo. R.W.
Hoover traducendo: «egli non ha considerato il fatto di es-
sere uguale a Dio come qualcosa di cui potesse servirsi
per proprio vantaggio», metteva in evidenza ciò che la co-
munione della comunità con Cristo Gesù deve ugualmente
comportare per essa. Servo, al tempo stesso schiavo nel
senso greco e servo nel senso dell'Antico Testamento, sot-
tolinea il duplice aspetto di abbassamento e di missione
(dove il servo rappresenta il suo padrone) dell'incarnazio-
ne. La conseguenza estrema della kenosi, dell'umiltà e del-
l'obbedienza è la morte (Collange, p. 94).
Con la seconda parte dell'inno, «alla notte della croce suc-
cede quindi il mattino di pasqua; alla signoria solitaria di
Dio si aggiunge ora quella di Gesù CristO>>: è l'atto gratuito
203
di Dio che gli ha dato il nome, mostrando la sua vera pa-
ternità. Conseguenza e scopo: sottomissione e confessione
della Chiesa e dell'intera creazione. I vv. 10b e 11a sono
una citazione d'Is 45,23 LXX: «per me piegherà ogni ginoc-
chio e confesserà ogni lingua a Dio ... >>. Viene allora la con-
fessione di fede cristiana centrale e primaria: <<Signore è
Gesù Cristo>>.
Nello sviluppo della lettura della lettera ai Filippesi, così
come essa si presenta, è interessante notare il posto litur-
gico dell'inno di Fil 2,6-11. Esso è preceduto dal saluto co-
munitario iniziale: «la grazia e la pace ... >>, seguito da un
ringraziamento (Fil 1,3-11) che associa i cristiani al Vange-
lo. Il cristiano deve infatti condurre, in modo visibile co-
me cittadino, una vita che rifletta il Vangelo (Fil 1,27-30).
Questo sviluppo viene dopo l'affermazione di Paolo: «per
me il vivere è CristO>>. Ciò implica una vita in comunione
dove regni la concordia e l'umiltà (Fil 2,1-5), ed è lì che si
colloca l'inno di Fil 2,6-11. I credenti devono mettere in
pratica la salvezza che hanno ricevuto e accogliere coloro
che li aiutano in questo: Timoteo ed Epafrodito. Paolo dà
una specie di regola d'oro: «Conoscere Cristo, lui e la po-
tenza della sua risurrezione e la comunione alle sue soffe-
renze, per diventare simile a lui nella morte>> (Fil 3,10).
Perciò imitare il modo in cui Paolo vive per Cristo e lotta
per lui: «Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità
esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche
e ringraziamenti>> (4,6). Dopo una serie di indicazioni litur-
giche personali e collettive, la lettera termina con una dos-
sologia e un triplice saluto. L'inno si situa quindi al centro
dell'insieme della lettera così come era letta (anche se è
composta di diversi pezzi), allorché la posta in gioco è l'a-
more e la comunione in vista di un pieno accordo (Fil 2,1-
3).
L'inno può essere quindi utilizzato in maniera generale co-
me una confessione comunitaria della fede; ma questa ac-
quista ancora più significato se avviene nel corso della ce-
lebrazione eucaristica. Essa non esclude per questo la pos-
sibilità di essere utilizzata in occasione di un battesimo. Al
contrario, essendo la catechesi primitiva fatta in primo
luogo di decisione, essa si situerebbe molto bene nel cam-
mino dal battesimo all'eucaristia.
L'inno è di un tenore tale che può essere oggetto di più
possibilità d'uso. Esso conferisce alla celebrazione cultua-
204
le il suo centramento cristologico. Il ritornello ne indica i
due poli: la morte in croce e la gloria di Dio Padre. La
menzione dei diversi tipi di preghiera in 4,4-7 è accompa-
gnata dall'affermazione che il Signore è vicino. Bisogna in-
tenderla in due sensi: egli si è già avvicinato e fa parte in-
tegrante degli uomini (Fil 2,6), e si avvicinerà, verrà. Si ri-
trova così la stessa dualità della preghiera Maranatha: «il
Signore viene>> e «Signore, vieni!>> (1Cor 16,22).
b) Colossesi 1,15-20
Seguiremo qui J.-N. Aletti, Colossiens 1,15-20 (Analecta Bi-
blica 91, Roma 1981); <<Le Christ et la Sagesse dans les tex-
tes du Nouveau Testament>>, Cahier <<Évangile» n. 32
(1980), pp. 44-73. Questo testo è composto di due insiemi:
15-18a e 18b-20, che J.-N. Aletti esita a chiamare strofe:
lSEgli è l'immagine del Dio invisibile,
generato prima di ogni creatura;
16poiché per mezzo di lui
sono state create tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra,
quelle visibile e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni, Principati, Potestà.
Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di
lui.
17 Egli è prima di tutte le cose
e tutte sussistono in lui.
!BEgli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa.
Egli è il principio,
primogenito di coloro che risuscitano dai morti,
per ottenere il primato su tutte le cose.
19Perché piacque a Dio
di far abitare in lui ogni pienezza
zoe per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose,
rappacificando con il sangue della sua croce,
le cose che stanno sulla tetra e quelle nei cieli.
205
cristiane; P. Benoit, un inno poetico inserito dopo la reda-
zione della lettera, con una prima strofa proveniente da
una fonte e una seconda strofa redatta dall'autore 20 •
Jean-Noel Aletti dimostra l'unità dell'inno. Tutto il passo è
centrato sul primato del Cristo, considerato sotto diversi
aspetti complementari. Per fare ciò, J.-N. Aletti ne affron-
ta sei: l) l'eccellenza; 2) l'universalità (che include tutti gli
esseri); 3) l'unicità (insistenza sul <dui solo»); 4) totalità a
tutti i livelli; 5) l'anteriorità (con insistenza sull'origine); 6)
il compimento (carattere definitivo). Questi sei punti sono
ogni volta analizzati nelle due parti dell'inno, in particola-
re in 15-17 e in 18b-20. Il versetto 18a appartiene alla pri-
ma strofa, ma serve anche da transizione al centro del-
l'inno.
Per J.-N. Aletti non ci sono due teologie, quella dell'inno e
quella del redattore. Tutto, in Col l, 15-20, tende a mettere
in evidenza il Cristo: i passivi teologici, la designazione
(<dui solo»), il genere innico, la duplice mediazione creatri-
ce e redentrice, i titoli. Il punto centrale del testo non è
sull'agire, ma sull'essere del Cristo. I titoli di Col 1,15ab
rinviano alla totalità del mistero del Cristo. Il motivo inni-
co è la grandezza e il primato universale e totale del Cri-
sto. Questa situazione unica non è giustificata da ciò che
egli ha fatto durante il suo ministero pubblico, ma dalla
sua mediazione creatrice e dalla sua signoria sulla Chiesa.
Utilizzando la tradizione sapienziale in Col 1,15-20, J.-N.
Aletti costata che non c'è opposizione tra la cristologia
dell'inno e quella del resto della lettera. Delle espressioni
prima riservate al Padre sono ora attribuite al Figlio: il re-
gno (1,13; la divinità abita in lui); egli è tutto in tutti (3,11).
L'inno sembra essere la testimonianza delle prime discus-
sioni o polemiche concernenti la dignità e il rango divino
del Cristo. In breve, lo stile, la sintassi e il genere innico
mettono in evidenza la profonda unità cristologica dell'in-
no e ne armonizzano i diversi aspetti.
c) La benedizione di Efesini 1,3-14
Il lettore troverà (pp. 151-159 del vol. 3) una presentazione
generale sull'origine del testo, il suo ambiente, il suo auto-
206
re e sulla molteplicità delle ipotesi avanzate in proposito
così come il problema della struttura. Lo studio di P. Gre-
lot, <<La structure d'Ephesiens 1,3-14», RB 96 (1989), pp.
193-209, apre delle prospettive nuove. Per comprenderle è
necessario prima di tutto leggere il testo secondo la pre-
sentazione che ne fa P. Grelot, con la ripetizione del ritor-
nello:
207
in vista del riscatto del suo bene proprio,
a lode della sua gloria.
(Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo!)
208
domandarsi se l'inno fosse cantabile: la risposta è affer-
mativa, ma ne ignoriamo le modalità musicali.
d) Frammenti nelle lettere pastorali
l) l Timoteo 3,16
Seguiamo qui E. Cothenet, <<La liturgie comme anticJpa-
tion de la parousie dans les épitres pastorales (lTm 3,16 et
2,Tm 2,11-13)», Rome 1979, pp. 97-113, ripreso in Exégèse
et Liturgie, LD 133, Cerf 1988. Per E. Cothenet l'anticipa-
zione della manifestazione del Cristo è espressa sotto for-
ma liturgica nel frammento d'inno giudeo-cristiano, citato
in lTm 3,16. Composto di sei stichi, sembra certo che il
terzo e il sesto siano paralleli: la manifestazione agli ange-
li non è altro che l'elevazione in gloria. Invece di una strut-
tura in tre strofe (1.2+3.4+5.6), E. Cothenet presenta il te-
sto in due strofe: 1.2.3 +4.5.6. Ecco il testo:
Egli si manifestò nella carne,
fu giustificato nello Spirito,
apparve agli angeli.
Fu annunziato ai pagani,
fu creduto nel mondo,
fu esaltato nella gloria.
209
Se lo rinneghiamo, anch'egli ci rinnegherà.
Se noi manchiamo di fede, egli rimane fedele.
210
sue esortazioni, che ha così ben caratterizzato L. Gop-
pelt 23 , essa ci offre numerose indicazioni di ordine liturgi-
co che meritano la nostra attenzione 24 • È una ragione sup-
plementare per interrogarla sullo spirito della liturgia che
deve stimolare il coraggio dei fedeli, alimentare la speran-
za della conversione del mondo (per es. 2,12) e insegnare a
opporre la benedizione (3,9) agli insulti, per ottenere il fa-
vore di Dio.
Nonostante la sua brevità, questa lettera offre un grande
ventaglio di temi che si illuminano attraverso il confronto
con i testi paralleli. Non si cercheranno in essa delle idee
originali, ma piuttosto un «compendium>> della tradizione
apostolica comune. Da questo punto di vista, si tratta di
un documento importante per chi vuole comprendere la
vita delle comunità cristiane della fine del I secolo, al di là
delle prese di posizione specifiche di un Paolo o di un Gio-
vanni. La moltiplicazione delle allusioni alle formule di
confessione di fede permette già di verificare l'assioma:
Lex orandi, lex credendi.
1 . Formule di fede
I termini tecnici «confessare la fede>> (homologein) o <<con-
fessione di fede,, (homologia), frequenti in l T m e in l Gv 25 ,
non sono presenti in l Pt. È facile tuttavia rilevare delle
brevi affermazioni che troveranno il loro sbocco nel Sim-
bolo degli Apostoli. Si assiste quindi a una cristallizzazio-
ne della fede in formule di riferimento:
a) Dio viene designato come il Padre di nostro Signore Ge-
sù Cristo (1,3); è il Creatore (4, 19), il giusto Giudice (2,23)
che <<giudicherà i vivi (cioè coloro che saranno sulla terra
al momento della parusia) e i morti>> (4,5).
b) Gesù è il Cristo, Messia d'Israele (1,2; cfr. 1,11); ma cu-
riosamente egli non riceve mai il titolo di Figlio. L'atten-
zione si concentra sulla sua passione, conformemente alle
Scritture (2,22, con allusione a Is 53,4-9.12); la sua passio-
ne è interpretata come il sacrificio definitivo per i peccati
(3,18). La la Petri è il solo documento del Nuovo Testamen-
211
to a estendersi fino alla discesa del Cristo agli inferi, inter-
pretata come un segno dell'universalità della proposta del-
la salvezza (3,19; 4,6) 26 • Per il fatto della sua risurrezione
(l ,3) egli siede alla destra di Dio (3,22): è il pegno della no-
stra speranza, che si realizzerà al momento della «rivela-
zione» (apokalypsis) di Gesù Cristo (1,7.13; 4,13).
c) L'azione dello Spirito Santo viene messa ben in rilievo.
Spirito di Dio, egli condivide la gloria divina (4,14): il suo
rapporto con il Cristo è così stretto che viene designato co-
me «lo Spirito del Cristo» (1,11). In quanto forza di Dio,
egli appare come l'artefice della risurrezione (3, 18). Egli
dirigeva già lo sguardo dei profeti verso le sofferenze del
Cristo e la gloria che sarebbero seguite (1,11). Egli agisce
ora sui predicatori del Vangelo (1,12) e assicura la santifi-
cazione dei credenti (l ,2).
d) Attraverso l'applicazione di Es 19,6, la Chiesa viene pre-
sentata come il popolo di Dio, la stirpe eletta, la comunità
sacerdotale del re (lPt 2,4.9), il Tempio spirituale abitato
dallo Spirito Santo (2,5). Possiamo confrontare questa for-
mula con Ap 1,6; 5,10; 20,6 27 •
Anche se il tema figura solo una volta (3,21, è possibile ri-
levare numerose allusioni al battesimo, specialmente il te-
ma della nuova nascita (1,3; 2,2). Ci ritorneremo sopra. Al
contrario, l'eucaristia non viene nominata direttamente.
2. Le assemblee di preghiera
a) Nessun passo descrive formalmente l'assemblea liturgi-
ca 28 ; tuttavia è in questo contesto che bisogna situare la
lettura del documento e il suo commento. Essendo esso ri-
volto alle numerose comunità delle provincie dell'Asia Mi-
nore (1,1), bisogna riconoscere l'esistenza di relazioni con-
212
tinue tra loro. Inoltre l'evocazione dei «fratelli sparsi per
il mondo>> (5,9) dimostra che, nonostante le distanze, que-
ste comunità erano animate da un forte sentimento di co-
munione. Indizio prezioso da tener presente, in opposizio-
ne a ogni spirito settario.
Uno studio attento della sequenza 4,8-11, che si conclude
con una dossologia, permette di ricostruire il contesto di
un'assemblea di preghiera 29 • L'amore fraterno, aperto al
perdono, ne costituisce la condizione preliminare (4,8). È
utile illuminare il testo con i dati della Didachè (15,3) sulla
necessità della riconciliazione preliminare 30 • Le riunioni
hanno luogo evidentemente in case particolari, non senza
oneri gravosi per chi accoglie, da qui l'invito all'ospitalità
(4,9). Come nella comunità di Corinto (lCor 12 e 14), vi si
nota una partecipazione attiva dei vari membri, ciascuno
secondo il suo carisma specifico (4,10s). Predicazione e
servizio caritativo (dialwnia) sono i due aspetti messi in ri-
lievo in questo breve passo.
b) I presbiteri sono oggetto di uno specifico direttorio (5,1-
4) 31 . Ciò che viene messo in rilievo non è tanto la funzione
cultuale quanto il compito di dirigere la comunità, di man-
tenerne l'unità. Ai presbiteri Pietro domanda prima di tut-
to un grande spirito di generosità e di disinteresse, sull'e-
sempio di Cristo, il pastore supremo (5,1-4). Questo diret-
torio non contiene alcuna indicazione di tipo sacramen-
tale.
c) Leggendo la 1Pt si resta colpiti non solo dal numero di
citazioni dell'Antico Testamento, ma ancora di più da
quello delle allusioni, incomprensibili senza una conoscen-
za approfondita della Scrittura. L'osservazione è ancora
più degna di nota per il fatto che la maggior parte dei fe-
deli ai quali Pietro si rivolge proviene da un ambiente pa-
gano (così 1,18; 4,3). Di tutte le lettere del Nuovo Testa-
213
mento, 1Pt è anche quella che contiene più allusioni alle
<<parole del Cristo>> 32 • Da queste costatazioni si dedurrà
che esistevano nelle chiese dell'Asia Minore di questo tem-
po, come già ad Antiochia (At 13,1) e in Galazia (Gal 6,6),
dei responsabili dell'insegnamento.
d) la predicazione di tipo esortativo (5,12) seguiva la lettura
di testi dell'Antico Testamento e, oltre alle esortazioni alla
vita morale, essa si sforzava di mostrare come le parole
dei profeti trovavano il loro significato nel mistero del Cri-
sto (1,10-12). Se ne troverà un buon esempio in 1Pt 2,4-10:
di un'estrema densità, il testo si basa sulla lettura di un
certo numero di passi (Es 19,6; Is 28,16; 43,21s; Sal
118,22 ... ) che servono a valorizzare il ruolo salvifico della
risurrezione del Cristo, e contiene nello stesso tempo una
serie di esortazioni sulle quali ritorneremo 33 •
e) La lettura dei salmi doveva ugualmente nutrire la pre-
ghiera comunitaria. Rileviamo così la lunga citazione di
Sal 33,13-17 LXX, per giustificare l'invito alla benedizione
come caratteristica della vocazione cristiana (3,9-12). La
cristianizzazione dei salmi è patente nel caso del versetto
9 di questo stesso Sal 33: <<Bramate il latte spirituale, per
crescere con esso verso la salvezza: se davvero avete già
gustato come buono (chrestos, pronunciato allora christos)
è il Signore>>.
f) È opportuno interrogarsi pure sul posto occupato dalla
proclamazione delle parole del Cristo. Le allusioni non
mancano: così l'eredità celeste che non si corrompe (1Pt
1,4) evoca uno sviluppo del discorso sulla montagna (Mt
6, 19s), e l'invito a provocare la glorificazione di Dio da
parte dei pagani con la buona condotta (2,12) corrisponde
a un altro detto di Gesù (M t 5, 16). In modo analogo, si in-
contra un triplice sviluppo sulla beatitudine dei persegui-
tati (2,20; 3,14; 4,14). Nella sua I Apologia (cap. 67) Giusti-
no menzionerà la lettura delle <<memorie degli apostoli>>
dopo quella dei profeti. L'utilizzazione delle parole del Si-
gnore in 1Pt non ha nulla di libresco: ciò che conta è il
contenuto non la ripetizione letterale di un vangelo come
214
quello di Matteo o di Luca; da essa appare tuttavia come
la predicazione si basasse sul confronto tra la Scrittura e
la parola viva del Signore.
215
vero Dio e seguivano le loro passioni; ora, purificati dal
sangue dell'Agnello senza macchia, devono desiderare il
latte puro della parola come dei neonati (2,3). Formando il
vero popolo di Dio, essi sono chiamati a offrire dei sacrifi-
ci spirituali (2,5). La cerimonia d'inizio, segnata dalla depo-
sizione delle vesti (apothemenoi in 2, 1), segno dell'uomo
vecchio, interverrebbe prima del battesimo e sarebbe se-
guita dalla celebrazione eucaristica (2,2-5). Il canto liturgi-
co: «Vedete come buono è il Signore» (2,3 che cita Sal34,9)
è attestato in seguito come canto eucaristico 37 •
- Con 2,11 inizia una serie di esortazioni morali, destinate
a far prendere coscienza ai neofiti della gravità del loro
impegno. Un termine specifico di 1Pt 3,11 (eperotema, im-
pegno verso Dio di una buona coscienza) va proprio in que-
sto senso 38 .
216
cose, bisogna rinunciare a un'interpretazione liturgica
d'insieme. Al contrario, la lPt ci offre un nutrito campio-
nario di inni che venivano cantati nelle comunità della fi-
ne del I secolo.
217
alleanza: <<Voi siete la stirpe eletta, la comunità sacerdota-
le del re (basileion hierateuma), la nazione santa ... ».
Duplice è la missione del popolo: offrire dei sacrifici spiri-
tuali e proclamare i prodigi di colui che ci ha chiamati
dalle tenebre alla sua meravigliosa luce (cfr. Is 43,20s). Te-
sto di una mirabile densità che dimostra come la liturgia
non può essere separata né da una condotta retta né dalla
testimonianza, anche se solo quella dell'esempio: <<La vo-
stra condotta tra i pagani sia irreprensibile, perché men-
tre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buo-
ne opere giungano a glorificare Dio nel giorno della sua
venuta>> (2,12; cfr. 3,1).
218
espiatorio. Come precisa il seguito del cantico: «Egli portò
i nostri peccati nel suo corpo sul legno ... ». La scelta del
termine <<legno» (xylon) non è indifferente; è carico di uno
sfondo molto ricco, richiamando l'albero della maledizio-
ne (cfr. Gal3,13 che cita Dt 21,23; At 5,30; 10,39; 13,29), che
diventa fonte di benedizione. In questo gioco contrastato
delle figure osserviamo come un primo abbozzo degli am-
pi sviluppi di Melitone di Sardi sulla corrispondenza tra il
rituale della pasqua ebraica (cfr. 1Pt 1,19) e il sacrificio
pasquale del Cristo 43 .
1Pt 2,25 non appartiene più all'inno primitivo, ma ne trae
le conclusioni: <<Eravate erranti come pecore, ma ora siete
tornati al pastore e guardiano delle vostre anime» (v. 25).
219
po del diluvio. Le liturgie orientali, da cui dipende una ric-
chissima iconografia, evocheranno il superamento vitto-
rioso da parte di Cristo delle porte dell'ade e la liberazio-
ne di Adamo ed Eva, con i giusti della prima alleanza; ma
questi sviluppi vanno al di là del testo stesso di Pietro le
cui oscure allusioni vogliono esortare i fedeli a essere per-
severanti nei loro impegni del battesimo.
La tipologia del diluvio in relazione con il battesimo è ba-
sata sul duplice valore simbolico dell'acqua: acque dell'a-
bisso, segno di distruzione, ed acque, fonte di vita. L'arca
è così l'immagine della Chiesa in cui sono salvati coloro
che ebbero fede alle predicazioni di Noè, presentato nella
haggadah giudaica come «il predicatore della giustizia>>
(cfr. 2Pt 2,5). Simili compendi di esposizione suppongono
evidentemente una catechesi preliminare che abbia svilup-
pato i temi del giudizio imminente e quello della salvezza
attraverso l'acqua 46 • Una salvezza che non ha nulla di au-
tomatico: è necessario l'impegno (eper6tema) d'una buona
coscienza. Nonostante le discussioni intorno a questo ter-
mine, che non ricorre altrove nel Nuovo Testamento, il
senso è chiaro. Eper6tema corrisponde alla stipulatio dei
latini: è la formula d'impegno preso sotto forma di una ri-
sposta alla domanda posta dall'altra parte. Questo signifi-
cato di impegno corrisponde bene a quanto sappiamo cir-
ca la prassi battesimale all'inizio del II secolo. Nella sua
inchiesta sui cristiani di Bitinia, menzionati in 1Pt 1,1, Pli-
nio il Giovane rileva che questi <<si sono impegnati con giu-
ramento, non a perpetrare qualche crimine, ma a non
commettere né furto, né atto di brigantaggio, né adulterio,
a non venir meno alla parola data, a non negare un deposi-
to reclamato giustamente>> (Epist. X,96,7). Verso la metà
del II secolo, Giustino fa allusione in questi termini all'im-
pegno dei neofiti: «Quelli che credono alla verità dei nostri
insegnamenti e alla nostra dottrina promettono prima di
tutto di vivere secondo questa legge>> (la Apol. 61).
220
sione è ancora più degna di nota per il fatto che il termine
sconosciuto alla grecità classica, era stato coniato dai Set~
tanta per tradurre l'espressione enigmatica mamleket ha-
kòhanfm, un regno retto da sacerdoti, secondo l'interpre-
tazione di H. Cazelles 47 • Indipendentemente dal testo
ebraico, l'interpretazione dei LXX è chiara: i sostantivi
terminanti in -euma designano una collettività (così stra-
teuma, «esercito», politeuma, «cittadinanza», techniteuma,
«corporazione» ... ). È Israele nel suo insieme che esercita
la funzione sacerdotale, come commentava molto bene Fi-
lone: «La nazione giudaica è, per il mondo abitato, ciò che
il sacerdote è per la città. [... ] Egli offre preghiere, feste,
primizie, per tutta la razza umana e rende un culto a colui
che è il solo vero Dio. Egli lo offre a nome proprio e anche
al posto degli altri che hanno abbandonato l'adorazione
che dovevano a Dio» (Spec. Leg. 11,166s) 48 •
Applicato alla comunità cristiana, il testo di Es 19,6 espri-
me efficacemente l'elezione della Chiesa, costituita non da
un popolo particolare ma da tutti coloro che riconoscono
in Gesù Cristo la pietra angolare del Tempio di Dio (2,4ss).
La responsabilità missionaria della comunità è indicata da
un'allusione a Is 43,20s: «Popolo che Dio si è acquistato
perché proclamiate i prodigi di colui che vi ha chiamati
dalle tenebre alla sua meravigliosa luce».
Al popolo dei riscattati viene assegnato un compito speci-
ficamente liturgico: <<offrire dei sacrifiCi spirituali (ane-
negkai pneumatikas thysias), graditi a Dio, per mezzo di
Gesù Cristo» (2,5). M.-E. Boismard vi vede una diretta allu-
sione all'eucaristia: <<Nell'antichità cristiana il termine
"sacrificio" (thysia) era correntemente applicato all'euca-
ristia, sia in riferimento al sacrificio del Cristo che essa
rappresentava (cfr. lCor 10,18), sia come compimento di
quel "sacrificio di lode" di cui parla il Sal 50 (vv. 14 e 23) e
che, secondo Ml 1,11, doveva essere offerto in tutte le na-
zioni (Didachè 14,3; Giustino, Dial. 117,1). Per di più, il ver-
bo "offrire" (anapherein) di 1Pt 2,5 è un termine tecnico per
221
designare l'azione di "far salire" verso Dio il sacrificio che
gli viene offerto>> 49 .
Questa interpretazione non si armonizza molto con lo stile
generale di lPt, che procede più per allusioni che per de-
scrizioni precise di riti liturgici. Il migliore parallelismo
di lPt 2,5 si trova in Rm 12,1: «Vi esorto, fratelli, per la
misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrifi-
cio vivente (thysia z6san), santo e gradito a Dio; è questo il
vostro culto spirituale ... >>. Le offerte spirituali devono de-
signare in primo luogo la vita stessa dei cristiani, docili al-
l'azione dello Spirito Santo che abita nel Tempio della
Chiesa (oikos pneumatikos, al v. 5). Aggiungiamo che que-
sta è l'interpretazione generale dei Padri della Chiesa so.
Beninteso, non è escluso si possa fare un'applicazione al-
l'eucaristia, ma non bisognerebbe invertire i fattori. La li-
turgia alla quale Pietro ci invita è innanzitutto quella del-
l'esistenza quotidiana, segnata dall'imitazione del Cristo
servo (2,21) e vivificata dall'interno dallo Spirito di Dio
che permette di vivere la beatitudine della persecuzione
(4,14).
Conclusione
In conclusione, non dobbiamo cercare in lPt uno schema
di celebrazione liturgica, come hanno cercato di fare nu-
merosi autori; ma la testimonianza d.i questa lettera è non-
dimeno preziosa. Posta sotto l'autorità di Pietro per delle
comunità evangelizzate da Paolo, essa è innanzitutto una
bella testimonianza della fraternità che univa reciproca-
mente le comunità (cfr. 5,9.13). Essa attesta che, anche in
chiese formate principalmente da antichi pagani, le forme
di preghiera restano vicine alla matrice originaria. La fede
nel Cristo rinnova però la vita liturgica: la sua Parola illu-
mina gli oracoli oscuri (l, 10-12) e il suo esempio, celebrato
con dei canti come quello del Servo sofferente (2,22-24),
stimola la vita concreta di quelli che sono chiamati, spe-
cialmente con la testimonianza della loro vita, a «rendere
conto della speranza che è in essi>> (3, 15).
L'ultima strofa della solenne benedizione di l ,3-9 fa perce-
222
pire in modo ammirabile la tonalità d'insieme di lPt e del-
la liturgia eristica che essa suppone:
«Voi lo amate pur senza averlo visto;
e ora senza vederlo Gedete in lui.
Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa,
mentre conseguite la meta della vostra fede: la salvezza
delle anime» (1,8-9).
223
capitolo settimo
Salmi, inni
e cantici cristiani
a cura di P. Grelot e G. Rochais
224
L'Apocalisse, introducendo dei canti di questo tipo nel
prototipo celeste della liturgia ecclesiale, e la prima lette-
ra di Pietro, inserendo dei frammenti d'inni nel quadro dei
suoi sviluppi, hanno aperto un campo di ricerca in cui ri-
mangono da esaminare due libri: il vangelo secondo Luca
e quello secondo Giovanni. Precedentemente abbiamo de-
dicato un capitolo particolare agli apporti liturgici delle
lettere paoline e della lPt. Senza avere un'abbondanza ec-
cessiva e dare una raccolta d'inni primitivi che risalgono
all'epoca apostolica, questa ricerca generale può costitui-
re un'eccellente introduziòne alla storia della liturgia cri-
stiana, da un punto di vista che si avrebbe torto a trascu-
rare.
225
rentin come un'autorità di rilievo 1, continua a ritenere il
«Magnificat» come una composizione autentica di Maria,
improvvisato nel preciso contesto in cui Luca lo colloca.
Questa opinione è oggi ampiamente minoritaria in quanto
supporrebbe che la preoccupazione essenziale di Luca fos-
se quella di tramandare ai posteri il filmato degli eventi e
l'esatta registrazione delle parole che sarebbero state tra-
smesse da Maria stessa ai posteri, senza che l'arte di Luca
ne fosse responsabile per una parte importante 2 . All'oppo-
sto, l'idea d'una composizione puramente lucana, inserita
artificialmente per dare vivacità al racconto della visita
fatta da Maria a Elisabetta, ha perso progressivamente
terreno dai giorni in cui era in auge l'esegesi liberale 3 .
L'opinione ampiamente maggioritaria vede in questo testo
una composizione cristiana molto arcaica, basata su un
226
originale semitico ma adattata da Luca al contesto nel
quale egli l'ha collocata per esprimere la lode di Maria.
Bibliografia
227
Il verbo «magnificare» (greco megalynò in Sal 33,4
LXX=giddel di Sal 34,4) è un'esaltazione della grandezza
di Dio. Il soggetto al singolare («la mia anima»=hè psychè
mou di Sal 33,3 LXX=nafshi dell'ebraico Sal 34,4) non im-
plica una lode individuale: può rapportarsi a una comunità
personificata come spesso nei salmi. Ma questa fraseologia
lo adatta facilmente a una lode individuale. Il seguito del
testo è intessuto di reminiscenze scritturistiche che mo-
strano una memoria sorprendente delle Scritture cono-
sciute a memoria. Il parallelismo tra «l'anima» e «lo spiri-
to» (vv. 46 e 47) è un'espressione classica per designare la
persona (cfr. Sal 143[142],3-4, dove si ha successivamente
l'anima, la vita, lo spirito e il cuore): altrettante perifrasi
per «IO>> 4 • Con l'uso del verbo «esultare>> (agallùin) seguito
dal complemento «in Dio mio salvatore», si vede riprende-
re un'espressione del cantico di Ab 3,18: <<Esulterò in Dio
mio salvatore» (en toi kyrioi agalliasomai, charèsomai epi
lÒi theoi tòi sòtèri mou). Questi parallelismi con la versione
greca non implicano però che il testo primitivo del cantico
sia stato composto in greco in quanto in questi passi la
versione dei LXX segue rigorosamente il testo ebraico.
Il v. 48 inaugura la serie dei parallelismi con il cantico di
Anna in 1Sam 2 (= 1Re 2 LXX), ma trasforma in fatto com-
piuto quanto era ancora soltanto una supplica di Anna pri-
ma della nascita di Samuele: epiblepòn epiblepsèis epi tèn
tapeinòsin tès doulès sou). Qui, Dio «ha posato il suo sguar-
do verso l'umiltà della sua serva»: la preghiera è diventata
molto personale e non si adatta più a un'interpretazione
comunitaria. La tapeinòsis non riveste una sfumatura di
«afflizione», come in Gen 16,11 e 29,32 LXX; ma è sulla ba-
se dei parallelismi con 1Sam e Gen che alcuni manoscritti
sono stati indotti ad attribuire il «Magnificai» a Elisabet-
ta, la sterile 5. La prospettiva della benedizione proclamata
da tutte le generazioni (v. 48b) non ha un esatto paralleli-
smo nella Bibbia sia ebraica che greca. E. Delebecque, ra-
228
gionando in funzione della grammatica greca, ritiene che il
v. 47 contenga una prolessi del soggetto di epeblepsen, e
traduce: «Il mio spirito è ricolmo di gioia [per il fatto che]
Dio ha posato lo sguardo sull'umiltà della sua serva>> 6 • Per
quanto riguarda il significato, non è sbagliato. Ma la co-
struzione normale delle frasi semitiche negli inni di lode
indica molto generalmente il motivo della lode in un nuovo
distico che inizia con kf (=gr. ho ti). Ciò che sorprende qui
è piuttosto il fatto che seguono due distici aperti da hoti;
in altre parole, due motivi di gioia e di lode, di cui il primo
è molto personale e il secondo molto generale (v. 49); si po-
trebbe unire direttamente il v. 49 al v. 47 senza che il mo-
vimento interno dell'inno ne risenta.
Nel v. 47, il motivo generale della lode riprende una fra-
seologia presa dal Deuteronomio: epoiesen en soi ta mega-
la kai ta endoxa tauta (Dt 10,21 LXX, traduzione molto let-
terale dell'ebraico). Il titolo dato a Dio («il Potente», ho dy-
natos) non sorprende: in Sof 3,17 esso traduce l'ebraico
gibb6r (cfr. Sal 88,9 LXX, senza controparte nell'ebraico).
L'appellativo permette di non nominare Dio direttamente,
il che corrisponde alle convenzioni del linguaggio nel giu-
daismo del I secolo. L'espressione del v. 49b, «Santo (è) il
suo nome», senza verbo, è una reminiscenza del Sal
111[110],9: hagion [kai phoberon} to onoma autou, traduzio-
ne molto letterale dell'ebraico. Non credo che si possa tra-
durre secondo il greco, con E. Delebecque: <<Benedetto il
suo nome e la sua misericordia, per generazioni e genera-
zioni ... » 7 : la reminiscenza del salmo, con la sua sintassi
ebraizzante è troppo chiara. L'imitazione dei salmi prose-
gue del resto nel v. 50. In Sal 103[102],17 si legge: to eleos
tou kyriou apo tou aionos kai eos tou aionos epi tous pho-
boumenous autou. Qui viene omesso il nome divino e l'e-
spressione «dall'eternità all'eternità» 8 è sostituita da quel-
la equivalente molto corrente «di generazione in generazio-
ne» (ebr.: [edar wedar). Il resto però è identico alla formula
salmica, con una sostituzione del dativo al complemento
229
introdotto da epi (ebr. 'al, che indica il beneficiario della
misericordia).
D'ora in poi l'espressione della lode diventa molto genera-
le. Al v. 51 l'espressione epoisen kratos pone, senza averne
l'aria, una questione spinosa, poiche, con la sua unione del
termine kratos («potenza») con il verbo «fare», è senza pa-
rallelismo. Non può trattarsi che di un <<atto di potenza»
che Dio ha compiuto «col suo braccio» (vedendo in en un
semitismo equivalente alla preposizione b- dell'ebraico). Il
testo più vicino è quello di Sa p 11,21, difficile da tradurre
letteralmente. Possiamo tentare una parafrasi: «La tua
grande forza (to megalos ischuein) è sempre a tua disposi-
zione, e chi resisterà alla potenza del tuo braccio?». Ma
questa «potenza» dispiegata dal «braccio» di Dio non è un
«atto di potenza>> (compreso astrattamente) che egli ha
«compiutO>>. È difficile spiegare l'espressione senza ricor-
rere a un sostrato semitico: ebr. 'asah l:zayil (o aramaico
'abad teqof, che è la potenza in azione, non il suo risultato).
Questa espressione figura in ebraico nell'ultimo oracolo di
Balaam (Nm 24,18): weyisra'el 'oseh l:zayil, un po' modifica-
to in greco : kai Israel epoiesen en ischui, parafrasato nei
Targum: weisra'el yi~lal:z beniksfn (Onkelos; Neofiti aggiun-
ge saggfn). Niente di tutto questo dà l'equivalente esatto
del testo del «Magnificai», ma ci si avvicina abbastanza
per poter supporre un originale semitico il cui significato
sarebbe: «Ha compiuto una prodezza con il suo bracciO>>.
In compenso, lo stico seguente si ispira chiaramente al Sal
89[88], 11, a patto di considerare la versione greca dove il
mostro Rahab è scomparso: «Hai umiliato (etapeinosas) co-
me un ferito l'orgoglioso (hyperephanon) e con (en) il tuo
braccio di forza hai disperso (dieskorpisas) i tuoi nemici».
Ritroviamo qui, dopo la menzione del «braccio>>, l'espres-
sione: «Ha disperso gli orgogliosi nei pensieri del loro cuo-
re>>. L'ispirazione al salmo sembra evidente.
Il finale del cantico è quasi interamente intessuto di allu-
sioni o di riprese di testi provenienti dal salterio o dai can-
tici biblici. Non si può parlare di «copia>>: sono remini-
scenze tratte dalla memoria dell'autore secondo la sua
ispirazione. I vv. 52-53 sono costruiti in funzione di contra-
sti: «potenti» e «umili>>; «affamati>> e «ricchi>>, secondo le
due categorie del potere e dell'avere. Il capovolgimento di
queste situazioni grazie all'intervento del Dio di giustizia è
un luogo comune. Nel cantico di Anna, Dio «rende povero
e arricchisce, abbassa ed esalta. Solleva dalla polvere il
misero, innalza il povero dalle immondizie, per farli sede-
230
re con i capi (LXX: del popolo), e assegnar loro un seggio
di gloria» (1Sam 2,7-8= 1Re 2,7-8 LXX). Un po' prima lo
stesso cantico menziona <d sazi>> e «gli affamati» (v. 5). Il
Sal 147,6 nota un contrasto dello stesso genere: «Yahweh
sostiene gli indigenti (gr.: praeis), ma umilia (tapeinòn) i
peccatori fino a terra>>. Delle indicazioni simili si hanno
nel libro di Giobbe: Dio «esalta gli umili>> (Gb 5,11), ma
«rovescia i potenti>> (12,19), e ritroviamo qui nel greco i ta-
peinous e i dynastas. Il Salmo sapienziale 34[33], 11 mostra
i ricchi diventati poveri e umiliati (eptòcheusan kai epei-
nasan), mentre Sal 107,9 mostra Dio che sazia quelli che
hanno fame e sete. Il «Magnificat>> introduce solo un'ulte-
riore variante in questo schema classico. Ma si compren-
de come un politico che tiene al mantenimento delle auto-
rità in carica abbia potuto vedere in questo testo un «can-
to rivoluzionario ebraico>> rimesso molto felicemente al
suo posto dalla Chiesa romana, erede dell'«Ordine>> tra-
smesso dalla Roma antica 9 . In realtà, si tratta di ben altra
cosa!
I vv. 54-55 chiudono il cantico parlando solo della miseri-
cordia di Dio verso Israele, suo servo (cfr. Is 41,8 e Sal
98[97],3: emnesthe tou eleous autou), secondo le promesse
fatte «ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza
(cfr. Gen 17,7; 18,18; 22,17), per sempre>>. È chiaro che
questo finale si addice a un soggetto collettivo, il che giu-
stifica l'interpretazione collettiva dell'inizio per «la mia
anima>> e «il mio spirito>> (v. 46b-47a), «in me>> (v. 49): qui
si è passati decisamente al <<noi>>.
231
volte il participiO passato di euloge6) e l'ultima parola
della sua esclamazione (1,45a: makaria hè pisteusasa
k.t.l.). Si tratta chiaramente lì di un'aggiunta che adatta il
cantico al suo contesto letterario. Ma a parte ciò, la lettu-
ra del racconto di Luca può passare dal v. 45 al v. 56 sen-
za che il testo appaia mutilo. Il cantico, preesistente al
racconto, è stato inserito al posto giusto da Luca per dare
una forma innica al ringraziamento di Maria. L'aggiunta
del v. 48 enuncia il motivo della gioia che la spinge a ma-
gnificare il Signore. Esso offre nello stesso tempo un si-
gnificato nuovo al v. 49, precisando la natura delle <<gran-
di cose» che Dio ha fatto per la sua serva. È necessario
però conoscere tutto il seguito della storia per compren-
dere completamente la grandezza di queste cose: il «Ma-
gnificat» fa da preludio ad esse nell'opera di Luca, nel
momento in cui il concepimento di Gesù è avvenuto e in
cui lo sviluppo degli eventi porterà fino alla risurrezione
del Cristo.
Da dove viene allora il testo ricevuto da Luca e in quale
lingua era stato originariamente composto? Possiamo
scartare subito la tesi di P. Winter che suggeriva un'origi-
ne maccabaica 10 • Benché le formulazioni del testo siano
molto generiche, nessuna allusione concreta evoca, nem-
meno da lontano, le vittorie maccabaiche. Ma bisogna an-
che costatare che, al di fuori del v. 48 che lo inserisce sal-
damente nella narrazione lucana, nessuna espressione fa
allusione agli eventi fondatori dell'esistenza cristiana. Le
reminiscenze bibliche in esso contenute si spiegano molto
bene in un ambiente giudeo-cristiano primitivo, dove «Si
pregava con la Bibbia». L'elaborazione dei motivi della
preghiera, che si orienta spontaneamente verso la lode e
il ringraziamento, non è ancora spinta molto lontano. Bi-
sogna quindi pensare a un'epoca arcaica dove si pregava
con i salmi e i cantici della Scrittura, prima di ogni elabo-
razione teologica che avrebbe precisato i tratti specifici
della salvezza avvenuta in Gesù Cristo, «messo a morte
per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustifica-
zione>> (cfr. Rm 4,25). La comunità non si sente ancora se-
parata da Israele (cfr. v. 54): essa inaugura il ringrazia-
232
mento gioioso di tutto il popolo al quale Dio, suo <<salva-
tore» (v. 47), è <<venuto in aiuto» (anelabeto: v. 54). Ma il
riferimento alla promessa (elaléses: v.48) di Dio fatta ai
padri, cioè ad Abramo e alla sua discendenza, abbozza un
tema di riflessione che conoscerà un grande sviluppo nel-
la riflessione teologica dei cristiani (Gal 3,6-18; Rm 4; Eb
6,13; At 3,13.25-26).
Tutti questi indizi fanno pensare a una composizione cri-
stiana molto antica in un ambiente giudeo-cristiano, fin
dai primi tempi immediatamente seguenti alla risurrezio-
ne di Cristo, prima ancora dei conflitti che obbligarono la
Chiesa a un confronto con le autorità del Tempio e i dot-
tori farisaici. In effetti, la ripresa dei testi biblici è inte-
grata nella preghiera cristiana senza alcuna traccia di
apologetica. È vero che il testo era per <<USo interno» nel-
le riunioni di Chiesa, ma la sua serenità e la sua espres-
sione della speranza, conforme alle <<promesse fatte ai no-
stri padri», mostra l'emergenza di una fede ancora giudai-
ca che si sente semplicemente giunta al compimento delle
promesse di Dio.
233
poli in questa lingua popolare usata quotidianamente 11 . Il
Qaddish, nella sua base primitiva aramaica, era nella
stessa situazione, fino a quando fu incorporato alla pre-
ghiera sinagogale con dei complementi in ebraico.
La composizione di un salmo ebraico, articolato su molte
formule già fatte che l'ascolto, la lettura o il canto delle
Scritture avevano impresso nella memoria, non presenta-
va quindi alcuna difficoltà. Per pensare a una composizio-
ne aramaica bisognerebbe avere degli indizi linguistici
sufficienti. Ora lo stile del «Magnificat», con i suoi paral-
lelismi e la sua sintassi semplice, ne fornisce solo rara-
mente. Si può certamente pensare anche a una composi-
zione del testo in aramaico: M. Black l'ha fatto nel suo li-
bro An Aramaic Approach of the Gospels and Acts 12 , con
dei suggerimenti' pratici per alcune parole: il merabbeya
( = megalynei) del v. 46 fa un'assonanza con il sostantivo
rabrbata (=megala) del v. 49a 13 , soprattutto se il v. 48 è
un'aggiunta lucana; l'aoristo egalliasen corrisponderebbe
a un perfetto stativo aramaico (hadeyat rCtl;f), il che evita
il suggerimento di P. Joiion che vede in esso il calco trop-
po formale di una forma conversiva ebraica in way-
yiqtol14. Altri dettagli appoggiano la tesi. La maggior par-
te dei commentatori preferisce attenersi all'ipotesi di una
composizione ebraica. Ma è vero che le riprese di espres-
sioni tratte dalla Scrittura sono spesso molto libere, come
si è visto nell'analisi. Non mettiamo fine a questa discus-
sione, dove ogni semitista difende la propria ipotesi. Ciò
che in ogni caso sembra chiaro è che la composizione pri-
mitiva fu fatta in una lingua semitica.
Ma non è in questa lingua che essa è pervenuta a Luca.
Non dobbiamo dimenticare che, nella stessa Gerusalem-
me, la Chiesa primitiva fu rapidamente bilingue, quando
degli ellenofoni si convertirono al V angelo e fu necessario
234
dare loro dei propri responsabili (Stefano e gli altri: At
6,1-7). Non c'era alcuna difficoltà perché le prime compo-
sizioni di preghiere da cantare, come il «Magnificat», fos-
sero tradotte rapidamente dato che i Giudei bilingui era-
no numerosi. Si conservò perciò nelle comunità di lingua
greca quest'inno cristiano arcaico. Così Luca lo ricevette,
ma lo collocò in un posto strategico nel suo racconto del-
l'infanzia 15 • Lo adattò aggiungendovi il v. 48, che ne face-
va una preghiera di lode rivolta a Dio da Maria. Questa
operazione non era affatto sconveniente al suo movimento
interno: infatti il carattere molto generale del testo corri-
spondeva molto bene al tempo in cui il compimento delle
promesse divine cominciava a spuntare nella storia, con il
concepimento di Gesù e la gravidanza di Maria; Dio ha
quindi <<posato lo sguardo sull'umiltà della sua serva». È
tutto dire. E la Chiesa di ogni secolo potrà fare propria la
stessa preghiera dopo Maria. Essa la riporterà così alla
sua destinazione originaria, anteriore al suo adattamento
lucano. Il gran numero delle allusioni bibliche che vi si
trovano non pone più problemi di quanti ne pongano la
recita cristiana dei salmi.
EXCURSUS
235
del v. 48, dove è molto evidente l'imitazione del linguaggio dei
Settanta), - se questo cantico, dunque, fosse stato composto in
ebraico, lingua della liturgia giudaica, o in aramaico, lingua cor-
rente dell'ambiente popolare, che non era necessariamente lega-
ta all'uso della «lingua sacra>> della sinagoga e che poteva ricor-
rere alla lingua di tutti i giorni per la preghiera privata. Le due
versioni sono da collocare parallelamente, senza imporre una
scelta tra le due, se esse ben si adattano ai dati del problema. M.
Black ha fatto dei suggerimenti interessanti per una ritraduzio-
ne in aramaico, ma conviene consultare anche le opere di C.C.
Torrey e di F. Zimmerman 16 . Per una ritraduzione in ebraico, si
possono consultare i diversi testi pubblicati da J. Carmignac, il
cui ultimo volume fu consacrato a un'edizione critica della ver-
sione del Delitzsch, fatta a partire dal testo greco 17 . Ma la lin-
gua scelta da Delitzsch si accostava al dialetto rabbinico della
Mishna, mentre qui la quantità considerevole delle allusioni alla
Bibbia ebraica indicherebbe piuttosto un tipo di ebraico classi-
co, vicino alla Bibbia e all'ebraico di Qumran (che potrebbe esse-
re qualificato come «pseudo-classico»). È vero che, per l'aramai-
co, la scelta di un tipo di lingua non sarebbe facile in quanto Da-
niele e Qumran aramaici non fornirebbero tutto il vocabolario
necessario e bisognerebbe riferirsi lateralmente ai Targum, il
cui dialetto (o dialetti) è (sono) piuttosto tardivo(i). Si può costata-
re come queste operazioni siano piuttosto azzardate; è in questi
limiti che bisogna tentarle, a titolo di «divertimento di studio-
si» 18_
a) Ritraduzione ebraica
Il v. 48 del testo greco è facilmente traducibile in ebraico, ma è
necessario tener conto in questo dell'osservazione critica che in-
vita a vedervi un inserimento di Luca, fatto con l'intento di adat-
tare l'antico cantico al suo contesto narrativo. Inoltre, la versio-
ne del Delitzsch rende in modo infelice un hoti greco con 'asher
invece di ki; ma un kì è introdotto senza motivo davanti al se-
condo stico del versetto. Bisogna rispettare più strettamente
l'ordine delle parole, che il greco non ha modificato per diletto.
È necessario anche seguirlo nella sua differenziazione dei singo-
236
lari e dei plurali. Bisogna infine che le stesse parole ebraiche
corrispondano alle stesse parole greche perché si può supporre
una letteralità assoluta. Per esempio al v. 53, mille' fob traduce
male eneplesen agathon, e non c'è motivo di tradurre eleos con
l;esed al v. 50 e con rahamfm al v. 54. Tenendo conto di tutto,
possiamo proporre una ritraduzione di questo tipo:
237
wehisdeh ledor wedor lewat daVlohi
'ab~d teqof bidera'eh Z:raq gewetiinin betar'e
libbehOn
,ah h et sallitin min kursiiwiin werabbi 'inwetiinin
kafnin maili' betiibin we'attirin §alla~ reyqiinin
se'ad leyisrii' el 'abdeh lemidkar yiit-~isdeh
kedi mal/el 'im 'abahatana le'abriihiim iWzar'eh
'ad'alam
2. Cantico di Zaccaria
238
adattava il cantico alla situazione propria di Maria, madre
di Gesù (Le 1,48), il «Benedictus>> diventa la preghiera per-
sonale di Zaccaria grazie a un'aggiunta che annuncia in
anticipo la missione futura del piccolo Giovanni (1,76-77).
C'è uno stretto rapporto tra questi versetti e il racconto
della visione di Zaccaria, il cui scopo era quello di precisa-
re il ruolo del <<bambino della vecchiaia>> nel disegno di
Dio (l, 16-17).
239
Si ha quindi qui un buon greco lucano, dietro il quale non
bisogna cercare un testo ebraico. Tutto ciò dimostra che i
vv. 76-77 sono un raccordo introdotto da Luca in un testo
di cantico che si concatenava bene formando una sola fra-
se: i vv. 78-79 seguono immediatamente i vv. 68-75 senza
interruzione di significato. Questo cantico deve essere esa-
minato ora per se stesso.
b) Il cantico primitivo
Le allusioni bibliche formicolano in questo inno di <<bene-
dizione» il cui sviluppo sale tutto verso l'evocazione della
venuta del Cristo, «sole di giustizia» che deve levarsi (ana-
telei) su coloro che temono il nome di Dio (Ml 3,20). Qui il
nome proprio del salvatore atteso è anatole ex hypsous. È
vero che nella LXX questo termine designa in primo luogo
]'<<oriente>> o il <<levarsi>> del sole o di un astro; ma è anche
usato per tradurre il <<germoglio>> di Davide (Ger 23,5,
mentre il parallelo di 33,15 è assente nella LXX; Zc 3,9 e
6,12). Se il cantico designasse Gesù come il «germoglio>> di
Davide (cfr. la citazione di Davide nel v. 69) si inserirebbe
nella linea della Settanta. Ma l'uso del verbo <<illuminare>>
che lo segue fa evidentemente pensare al levarsi di un
astro, che può essere il «sole di giustizia>> di Ml 3,20. Detto
ciò, bisogna convenire che la traduzione di questa frase
(vv. 68-73 + 78-79) si presenta piuttosto difficile. Tutti i
traduttori la dividono in parti; l'inserimento dei vv. 76-77
rende loro un servizio per fare dei vv. 76-79 una seconda
strofa.
In quale lingua fu composto il cantico primitivo? Il carat-
tere ebraico della sua teologia, più esplicito di quella del
<<Magnificat>>, può far pensare a una composizione primiti-
va in lingua semitica, rapidamente tradotta in greco. Lo
studio critico di questo testo è stato fatto molte volte. Fin
dal 1956 P. Benoit rilevava un'abbondante bibliografia 22 •
Ritenendo a buon diritto la composizione del racconto di
Le 1-2 opera di Luca stesso, in greco, in uno stile voluta-
mente imitatore della Settanta che forniva dei modelli
narrativi individuabili, egli ammetteva che il cantico di
Zaccaria è tradotto da un originale semitico <<trasposto ab-
240
bastanza liberamente in greco» 23 . Quanto alla lingua di
questo originale, composto molto presto per la preghiera
nella comunità primitiva, egli optava per l'ebraico, pur
ammettendo che certe espressioni non sono ben riducibili
a questa lingua. Ma se, come abbiamo detto, il cantico pri-
mitivo passò molto presto in greco per l'uso delle comuni-
tà ellenistiche, è in questo contesto che bisogna considera-
re l'adattamento del testo in un greco molto vicino alla
Settanta, che costituiva la loro Bibbia.
23 Jbid., p. 183.
241
scola delle formule profetiche e salmiche, costata il compi-
mento dell promesse di Dio. Ma il verbo egeiren può rac-
chiudere una duplice allusione al Cristo: Dio ha <<suscita-
to>> o <<risuscitato>> per noi questo <<corno>> (=potenza) di
salvezza. Un tale entusiasmo trova un buon «contesto vita-
le>> nelle riunioni liturgiche delle prime comunità cristia-
ne, come fanno intravedere i discorsi più antichi degli Atti.
Del resto è lì che Davide, come Gesù stesso, è qualificato
com pais in rapporto da Dio (At 4,25). Il riferimento a ciò
che Dio ha detto (lalein =generalmente dibber nella LXX) è
un tema fondamentale per la cristologia e la soteriologia
del Nuovo Testamento. Il suo uso con il termine <<profeta>>
al plurale è particolarmente rilevante per l'evocazione del-
la più antica cristologia negli Atti degli apostoli (At
3,18.21.24; 7,42.52; 10,43; 13,15.27; 15,15). Ciò che sorpren-
de è piuttosto l'ordine delle parole che, separando ton ha-
gian e propheton con il complemento di tempo ap'aionos,
non corrisponde evidentemente a una sintassi semitica 24 .
Ogni ritraduzione si scontrerebbe qui con una difficoltà.
Nella sua traduzione e annotazione di un Vangelo di Luca
che sarebbe stato scritto in ebraico, forse dallo Iairos di
Le 8,41 il cui nome tradotto in latino darebbe un Loukas
(=Lucanus o Lucianus!), C. Tresmontant ha accuratamen-
te saltato questo ostacolo senza prestarvi alcuna attenzio-
ne 25 : la negligenza è divertente.
242
Nel suo eccellente studio su <<L'infanzia di Giovanni Batti-
sta secondo Luca l», il P. Benoit suggerisce una struttura
interessante per spiegare la lunga frase dei vv. 68-75 + 76-
79. Ci sarebbero state lì, in ebraico, tre strofe ripartite in
distici, con inclusione di parole e di idee 26 : I strofa nei vv.
69-71; II strofa nei vv. 72-75; III strofa nei vv. 78-79. I lega-
mi grammaticali tra le tre strofe sarebbero deboli, ma i lo-
ro temi abbastanza netti: l) liberazione dai nemici appor-
tata alla stirpe di Davide; 2) vita al servizio di Dio nella
terra promessa ai patriarchi; 3) luce e conoscenza promes-
sa ai profeti. Si tratta, sembra, di una divisione abbastan-
za benvista; ma lo stile dell'insieme è al tempo stesso so-
lenne, ridondante e un po' convulso. Si pensa alle lunghe
frasi ingarbugliate che caratterizzano certi inni di Qum-
ran. Sotto questo aspetto siamo all'opposto del «Magnifi-
cat». Sulla base di questa struttura si comprende che il v.
71 sia legato alla prima strofa: il suo sviluppo sulla «sal-
vezza>> esplicita il significato di keras sotèrias, il «corno di
salvezza», menzionata nel v. 69a a imitazione del Sal
l 06[1 05], l O, di cui svela nello stesso tempo una rilettura
cristiana: «Li salvò dalla mano di chi li odiava (LXX=plu-
rale) e li riscattò dalla mano del nemico>>; qui, «salvezza
dai nostri nemici e dalle mani di quanti ci odiano>>. Dal-
l'antica liberazione dell'esodo si passa alla redenzione nel
Cristo che opera il nuovo esodo. Si è evidentemente in una
prospettiva postpasquale, ma la ripresa del salmo è netta.
La strofa seguente, composta anch'essa di tre stichi (vv.
72-74), è legata alla precedente solo per significato; infatti
è costruita intorno a due infiniti di scopo (poièsai e la-
treuein) che mostrano la ragion d'essere e lo scopo della
salvezza accordata: «per concedere misericordia ai padri
nostri e ricordarsi della sua santa alleanza>> (v. 72).
L'espressione poiein eleos, nella LXX, è seguita come qui dal-
la preposizione meta in Gdc 1,24, dove traduce l'ebraico 'asah
l;.esed 'im. Si ha quindi un buon ebraismo, ripetuto in Gdc
8,35. In questo caso il targum dei due testi non orienta affatto
verso uno sfondo aramaico; infatti esso traspone la parola
]J.esed traducendo •abad tèybu 'i m, e _téybu non darebbe eleos i 11
una traduzione greca. Bisogna quindi presumere un originale
243
ebraico. La corrispondenza ebraico-greco è del resto abba-
stanza frequente nella Settanta per questa espressione. Ma il
distico presenta una frase complessa che mescola diverse al-
lusioni scritturistiche; per spiegarla non bisogna dividere il v.
72 dal v. 73, perché il contenuto dell'<<alleanza santa» è identi-
co al <<giuramento fatto ad Abramo». C'è lì prima di tutto una
reminiscenza di Dt 6,23, ma con una trasposizione della pro-
messa dalla terra santa fatta per giuramento: dounai hèmin
tèn gèn tautèn, hèn 6mosen dounai tois patrasin hèm6n; si ri-
conosce la menzione di <<nostri padri», molto vicina al <<giura-
mento» fatto da Dio. Naturalmente, questo giuramento fatto
ai padri fa parte del linguaggio costante del Deuteronomio,
generalmente con il verbo omnynail/omnyein da cui deriva il
termine 6mosen (=e br. shaba '); ma il termine horkos traduce
il sostantivo della stessa radice. Si ha quindi un accusativo in-
terno in ebraico, che si ritrova nel testo parallelo di Dt 7,8
LXX: diatèr6n ton horkon, hon 6mosen tois patrasin hym6n
(e br. 'et-hashebu 'ah •asher nishba' la 'abotèykem).
Tra i <<padri», il cantico precisa che il giuramento fu fatto <<ad
Abramo nostro padre»: nuova allusione al Deuteronomio (cfr.
D t l ,8; 6, 10; 29, 13; 30,20, dove però i tre patriarchi sono men-
zionati di seguito). Che Dio <<Si ricordi della sua santa allean-
za» è una formula presa dal Sal 106[105],45, a proposito della
liberazione dell'esodo (LXX: kai emnèsthè tès diathèkès au-
tou); qui, l'interpretazione simbolica dell'esodo trasferisce il
risultato dell'azione divina alla redenzione compiuta dal Cri-
sto. Di conseguenza il <<dono>> di Dio non è piil quello della
terra promessa, ma la situazione descritta nei vv. 74-75: << ... di
concederci che, senza timore (aphob6s), liberati dalla mano
dei nostri nemici, noi lo serviamo (infinito di scopo: latreuein)
in santità e giustizia>>. Non si è più sul piano del semplice ser-
vizio cultuale, ma su quello della vita intera che è caratteriz-
zata dalla pratica della santità 27 (hosiotès) e della giustizia
(nel senso pregnante del termine). Il collegamento dell'ultimo
complemento (<<al suo cospetto, per tutti i nostri giorni>>) con
il verbo <<servire>> (latreuein auto;) è abbastanza debole perché
il verbo ha già un complemento di attribuzione; potrebbe rife-
rirsi, per il significato, alla pratica della santità e della giusti-
zia <<davanti a Dio>> (en6pion =ebr. lifnèy o aram. q 0 dilm). Ma
è tutta la costruzione àel testo che unisce così delle annota-
zioni complementari dietro le quali si percepisce uno sfondo
semitico. Tuttavia, P. Joiion ha fatto notare molto giustamen-
27 Questo uso di hosios è un'eredità della Bibbia greca (cfr. art. «Sa-
cré/Saintité», DBS, t. 10, col. 1435.
244
te che, nel v. 74, la costruzione di tutto un membro di frase
intorno al participio rhysthentas, collocato in subordinazione
logica, è «pienamente greca>> e «contraria al semitico>> 28 •
245
be meglio la concatenaz~one. del_ testo; ci sarebb~ ~tato,
prima del v. 78, un distico Il cm tema sarebbe vicmo a
quello del v. 77: il dono della salvezza per la remissione
dei peccati proverrebbe dalle «Viscere di misericordia del
nostro Dio». Non è possibile dire di più senza lanciarsi in
ipotesi azzardate.
Comunque sia, l'associazione delle due parole non si trova
in nessun altro testo della Scrittura (ma si trova nei Testa-
menti dei XII Patriarchi: Test. di Zabulon 7,3 e 8,4). La m'e-
tafora delle viscere come designazione figurata della pietà
non viene del resto mai applicata a Dio. Si tratta certamen-
te di un ebraismo che corrisponde a una costruzione al ge-
nitivo; ma non c'è corrispondente né nella Bibbia ebraica,
né nella Bibbia greca. Bisogna andare a Qumran per trova-
re l'associazione delle due parole: nella Regola della comu-
nità 31 si legge che i sacerdoti «proclamano tutte le grazie
della misericordia» di Dio (k6l hasdey rah amfm: l QS 1,22),
e, più avanti, che Dio <<ci ha prodigato le grazie della sua
misericordia» (rah amey hasd6 gamal 'alenCt: lQS 11,1). La
seconda espressione è esattamente quella del <<Benedic-
tus>>; essa unisce degli elementi presi da Is 63,7c (gemalam
kerah amayw Ctkerob h: asadayw). Si resta quindi in uno stile
ebraico molto caratterizzato. Il Targum di questo ultimo
passo sostituisce le <<misericordie>> con la <<SUa bontà>>
(tebCtteh), il che farebbe scartare, come in precedenza, l'i-
potesi di un originale aramaico per il cantico di Zacca-
ria 32 .
Abbiamo segnalato sopra il probabile riferimento biblico
della designazione del Messia con la metafora dell'astro
che sorge (anatolé). Quanto al primo stico del v. 79, esso si
ispira a Is 9,1 restando più vicino all'ebraico che alla Set-
tanta (che omette la menzione delle tenebre), ma ancora
più probabilmente a Sal107[106],10: <<Gli abitanti delle te-
nebre e dell'ombra di morte>> (cfr. LXX). Infine, il <<cammi-
no della pace>> figura in Is 59,8. Ma il cantico non copia
mai tale e quale le espressioni prese dalla Scrittura: le imi-
ta in una creazione originale. Questo si spiega ancora di
più tenendo presente che le sue riprese implicite dei testi
246
ne traspongono il significato per trasferirlo al Cristo Gesù,
lodando Dio per aver portato a compimento le sue promes-
se con il suo invio quaggiù.
247
quello di Qumran, o era già orientato verso il carattere
dialettale dell'ebraico mishnaico? Il gran numero delle re-
miniscenze bibliche fa pensare piuttosto alla prima possi-
bilità, ma si tratta di pura ipotesi. Ci si guarderà quindi
dallo spingere oltre la ricerca su questo punto. È suffi-
ciente aver studiato il cantico per se stesso: esso mette il
lettore di fronte alla più antica liturgia cristiana. Luca ne
utilizza un testo nel suo racconto solo perché esso vi si in-
tegra in un certo modo collocando «il Vangelo di Gesù Cri-
sto>> al centro delle celebrazioni fatte nelle assemblee di
Chiesa. Se si trascura questo obiettivo riducendo la sua
opera a un'evocazione <<storica>> del passato, si snatura la
portata profonda del suo progetto. Il condizionamento di
un'apologetica mal compresa ha pesato fortemente e a
lungo sull'interpretazione esegetica e teologica dei vange-
li. Ci si domanda come mai essa continui a pesare su teo-
logi intelligenti ...
248
linguaggio pienamente cristiano cosa sia questo bambino:
nato nella <<città di Davide>>, il che fa di lui il Messia rega-
le, egli è il <<Salvatore>>, il <<Cristo Signore>>, la cui nascita
sarà <<Una grande gioia per tutto il popolo>> (2,10-11). All'e-
spressione curiosa <<il Cristo Signore>>, il codice Freer e
due versioni siriache sostituiscono: <<il Cristo (=Messia)
del Signore>> 35 . Comunque sia, in Luca l'annuncio della na-
scita di Gesù, come precedentemente i messaggi portati a
Zaccaria e a Maria, sono portati sulla terra da angeli che
appaiono: si è subito in un'atmosfera biblica che traduce
in un modo tradizionale le relazioni tra Dio e gli uomini.
Del resto nulla impedisce che, in un mondo biblico forma-
to alla scuola delle Scritture e abituato al linguaggio degli
scritti apocalittici, le comunicazioni divine prendano effet-
tivamente questa forma. Ad ogni modo, il messaggio ange-
lico terminato al v. 12 sarà seguito dal cammino dei pasto-
ri al v. 15b. Tra i due, Luca ha inserito una scena apocalit-
tica (vv. 13-14).
In questa scena, <<una moltitudine dell'esercito celeste>> 36
irrompe sulla terra (v. 13: plethos stratias ouraniou). Ma
trattandosi di una <dode a Dio>>, la scena è identica a quel-
la delle liturgie celesti presentate nell'Apocalisse di Gio-
vanni. In altre parole, Luca ci mostra il rovescio della sce-
na storica da lui evocato nei vv. 6-7: la nascita del bambi-
no che riceverà il nome di Gesù. Questo rovescio si svolge
nel mondo invisibile, la cui gioia e il cui entusiasmo sono
comunicati sulla terra.
b) Il ritornello del cantico celeste
I cantici dell'Apocalisse giovannea sono relativamente lun-
ghi in confronto a quello di Luca. Ma esso vuole mostrare
249
il duplice effetto prodotto dalla nascita di Gesù: da una
parte riguarda Dio e dall'altra gli uomini. Per ciò che ri-
guarda Dio, l'espressione del ritornello è chiara: <<Gloria a
Dio nel più alto [dei cieli]>>. Nell'espressione greca i cieli
non sono nominati direttamente: en hypsistois. L'espres-
sione non è però sconosciuta nella versione dei Settanta
(Gb 16,19; 25,2; 31,2; Sal 71[70],19), dove essa figura in pa-
rallelismo con i cieli stessi (Sal 148,1). L'ebraico meromim
non specula sul numero dei cieli sovrapposti per dire che
Dio risiede al di sopra del più alto di essi. La parola, che si
ritrova nei canti di lode di Mc 11,10=Mt 21,9 (cfr. Le 19,38
con una variante), orienta il pensiero verso il «luogo di
Dio>> -che è evidentemente convenzionale come <<Ì cieli>>.
Bisognerebbe tradurre letteralmente <<Gloria a Dio nelle
altezze più alte>>. Nonostante lo studio molto serio di E.
Delebecque 37 , non ci sembra che si debba dividere la frase
nominale di questo ritornello, probabilmente tradotto da
un originale semitico, vedendo in essa la semplice procla-
mazione di un fatto: <da gloria di Dio nelle sommità è an-
che sulla terra; la salvezza, negli uomini ch'egli ama>> 38 •
Bisognerebbe, in questo caso, collegare kai epi gés al pri-
mo stico e supporre un parallelismo tra en hypsistois e en
anthr6pois. Ma l'opposizione del cielo come <<luogo>> di Dio
e della terra come <<luogo>> degli uomini è molto ben atte-
stata nella letteratura biblica perché non la si possa rico-
noscere qui (cfr. in particolare Sal 115[113b],16). Non è af-
fatto sorprendente che delle costruzioni a contrasto siano
usate per attribuire la gloria a Dio <<nelle altezze>> e mette-
re la pace <<sulla terra>>, <<presso gli uomini>>. Quanto alla
formula generale, si può essere effettivamente esitanti tra
quella di una proclamazione e quella di un augurio. Ma
basta non mettere il verbo in italiano che la duplice possi-
bilità viene rispettata. La stessa situazione si ha in alcuni
canti dell'Apocalisse (cfr. per esempio: Ap 5,13b; 7,12). Bi-
sogna perciò tradurre: <<Gloria nell'alto [dei cieli] a Dio, e
sulla terra pace agli uomini amati [da Dio]>>.
L'espressione finale è stata illuminata da un testo di Qum-
ran che invita a mettere eudokias in relazione con Dio, in
una costruzione al genitivo dell'ebraico o dell'aramaico; in
250
relazione con Dio e non con gli uomini, come ha giusta-
mente notato E. Delebecque 39 • Ma è forse esagerato parla-
re della <<Scelta» divina per lo sfondo semitico del termine
eudokia (e br. ra~òn; aram. ra •awah). Gli uomini sono ogget-
to della <<benevolenza» o del <<favore>> di Dio. Ma non c'è
ragione di considerare beneficiario di questo atteggiamen-
to divino una sola cotegoria di <<scelti>> o di <<privilegiati».
La benevolenza di Dio è universale; è quanto viene detto al
momento della nascita di Gesù. E non è per caso che Luca
lo fa proclamare da tutta una schiera dell'esercito celeste:
si è davanti all'intenzione fondamentale di Dio, manifesta-
ta dalla venuta al mondo del <<Messia-Signore» che è il
<<Salvatore» degli uomini. Il canto non viene sviluppato ul-
teriormente. Ma la Chiesa greca lo riprenderà molto pre-
sto nella preghiera del mattino, in attesa che i latini lo in-
serissero nella liturgia della Parola prima della celebrazio-
ne eucaristica, con le aggiunte che tutti conosciamo. Que-
sta liturgia angelica è diventata la liturgia della Chiesa.
Si può discutere a lungo per sapere se questo ritornello in-
trodotto nel racconto della natività fu tradotto in greco a
partire da un originale ebraico o aramaico. La due ipotesi
sono ugualmente plausibili poichè nessuna differenza di
vocabolario o di sintassi permette di scegliere tra le due.
Si può tentare una ritraduzione rispettando le assenze di
articoli nel testo greco - ciò che, per esempio, non aveva
fatto F. Delitzsch nel suo Nuovo Testamento ebraico. Si
avrebbe così in ebraico:
kabòd bi-m•ròmfm le'•lòhfrn/1
ub•'erq shalòm b•'anshèy ra~òn
E in aramaico 40 :
251
yeqar be 'illayìn le'elahd/1
ube'ara' shelam be'enashey ra'awah
I due testi si ricalcano a vicenda: rimangono solo alcune
differenze di vocabolario. Ma si tratta solo di un gioco di
eruditi per gli appassionati di lingue semitiche.
252
dettagli di questo racconto. È chiaramente costruito per
consentire di mettere in scena una duplice profezia pro-
nunciata da due vegliardi: Simeone, che «aspettava la con-
solazione di Israele» e che la riconosce nel bambino Gesù,
e Anna, qualificata come profetessa, che ringrazia Dio do-
po averlo visto. La dichiarazione di Simeone a Maria apre
una prospettiva futura sulla vita e il ruolo di Gesù nei ri-
guardi del suo popolo, in vista della realizzazione del dise-
gno di Dio. Nell'opera di Luca si tratta quindi di un'aper-
tura sul futuro che viene inserita qui con cura. Ma questo
riguarda la composizione d'insieme dello scritto evangeli-
co. In questo contesto, quale ruolo gioca il cantico stesso?
Esaminando da vicino il racconto, ci si rende conto che il
cantico, con qualche parola d'introduzione e un versetto di
conclusione, potrebbe essere omesso senza che il racconto
perda la sua logica interna. Si avrebbe allora la sequenza
seguente: «e mentre i genitori portavano il bambino (pai-
dion) Gesù per adempiere la Legge [... vv. 28-33 ... ] Simeone
li benedisse e disse a Maria sua madre ... » [vv. 27 ... 34]. Un
collegamento molto abile introdotto da un kai d'apodosi
- nel quale è inutile vedere un waw ebraico come ha ri-
cordato E. Delebecque citando degli esempi classici tratti
da Omero, Erodoto e Tucidide 42 - introduce l'azione di
Simeone che è accompagnata dal suo cantico: <<E (kai) lo
prese tra le braccia, e benedisse Dio dicendo ... >>. È degno
di nota il fatto che il verbo <<benedire>> (eulogein) è preso
successivamente in due significati diversi: benedire Dio (v.
28b) e benedire i genitori (v. 34a). Non sarebbe impossibile
in una frase ben costruita, ma la differenza è tuttavia da
notare. Similmente, dopo la preghiera di <<benedizione>> ri-
volta a Dio da Simeone, interviene una frase di collega-
mento per unire il cantico al seguito del racconto: <<E suo
padre e sua madre erano stupiti (thaumazontes) delle cose
che si dicevano di lui>>. La sutura è molto abile, ma la men-
zione dei <<genitori>> (goneis: v. 27 43 ) viene sostituita qui da
<<il padre e la madre>> (con omissione di autou in una parte
considerevle dei mss.). Non è illogico. Ciò dimostra che
253
Luca padroneggia perfettamente i~ s~gu~t~· d~l suo -~acco~
to. La probabilità dei colle?ame~ti ~ e e Imi~an? I /anti-
co pone il problem~ ,di un'.mt_ro uE,zwne sehcon1 ana I que-
t in un insieme g1a costitUito. vero c e a stessa que-
~tfone si pone per tutti i passi lirici che sono intercalati
nella narrazione; ma qui il contenuto della benedizione di
Dio pone un problema abbastanza differente.
b) Il contenuto del cantico
Per i primi tre passi lirici è probabile che Luca abbia inse-
rito nel suo testo dei pezzi preesistenti, probabilmente tra-
dotti o adattati da un originale semitico, operando dei ri-
tocchi letterari nel <<Magnificat» e nel <<Benedictus» 44 . I ri-
tocchi collegavano al racconto queste preghiere il cui con-
tenuto aveva una portata più generale, in rapporto con
una soteriologia e una cristologia più arcaica di quella del-
l'evangelista stesso. Qui, al contrario, è tutta la <<benedi-
zione» di Dio che è in stretta relazione con il personaggio
che la pronuncia. Essa sviluppa quanto vien detto di lui
nei vv. 25-26: <<Uomo giusto e timorato di Dio, che aspetta-
va il conforto d'Israele; lo Spirito Santo, che era su di lui,
gli aveva preannunziato che non avrebbe visto la morte
senza prima aver veduto il Messia (Christon) del Signore».
Proprio perché questa promessa si realizza quando Simeo-
ne prende il bambino tra le braccia, egli può rendere gra-
zie con parole che non hanno nulla di convenzionale. Un
gran numero di commentatori, per non dire tutti, conside-
ra il cantico come preesistente al racconto e tradotto su
un originale semitico. Ma è un punto di vista che può esse-
re a buon diritto contestato. L'ultimo studio dedicato all'e-
same del problema, quello di S. Farris (The Hymns of Lu-
ke's Infancy Narratives) 45 , sorvola molto velocemente le
difficoltà sollevate dall'ipotesi. <<Sembra più verosimile,
egli dice, che il Nunc Dimittis, come il Magnificate il Bene-
dictus, facesse parte dell'innodia della Chiesa primitiva»
(p. 146). Ma quando solleva la quèstione del suo Sitz im Le-
ben (p. 145), egli sembra scartare successivamente le tre
proposte fatte al riguardo da D.R. Jones 46 : risposta liturgi-
254
ca alla conclusione di un'adorazione, partenza dopo una
battaglia coronata da successo (scartata dallo stesso Jo-
nes), componimento letterario che accompagnerebbe la
morte di un credente. Effettivamente nessuna di esse è
soddisfacente. Un «contesto vitale» veramente adatto al-
l'argomento trattato e al contenuto del testo si può trova-
re solo nella situazione di Simeone stesso, nel momento
preciso in cui egli tiene tra le braccia Gesù riconoscendo
in lui il <<Messia del Signore», che lo Spirito Santo gli ave-
va promesso di vedere prima di morire.
Questo contesto spiega magnificamente le parole che apro-
no il testo, specialmente il nyn, <<ora>>, che non è un'inizio
normale di cantico. Questo termine, frequente nell'opera
di Luca (14 volte nel vangelo e 25 volte negli Atti), non fa
pensare tanto a un greco di traduzione come inizio di fra-
se. Il verbo che lo segue (apolyeis) è un eufemismo usato
per designare la morte. Raro nella Settanta, fatta eccezio-
ne dei libri tardivi, è ben conosciuto negli ambienti elleni-
stici 47 • Per tale ragione, la bilancia potrebbe propendere
in direzione di una composizione lucana, piuttosto che del-
la traduzione di un testo semitico.
Nel testo che segue, nessuna parola né gruppo di parole è
senza corrispondente nella Bibbia ebraica o greca. C'è per-
fino un'accumulazione di espressioni che derivano da essa,
mediante adattamenti e varianti percepibili a partire dalla
Settanta. Non si può dire niente per kata to rhema sou né
per en eirenh Quanto a <d miei occhi hanno visto la tua
salvezza» (v. 30), la relazione con Is 40,5 LXX è assicurata
dal verbo <<vedere» (passaggio dal futuro opsetai all'aoristo
eidon) e per la designazione della «salvezza» da to s6terion
(accompagnato da sou in una preghiera alla seconda perso-
na); il soggetto però non è più <<ogni carne», ma «i miei oc-
chi». La citazione di Is 40,5 in Le 3,6 per definire la missio-
ne di Giovanni Battista assicura il riferimento alla Settan-
ta, infatti to s6terion (letteralmente «strumento di salvez-
za») è usato molto poco nel Nuovo Testamento: in Ef 6,17 e
tre volte nell'opera di Luca (Le 3,6 che cita Is 40,5 LXX; Le
2,30 e At 28,28, dove l'allusione allo stesso testo di Isaia è
sottile). Nella versione greca dell'Antico Testamento, la
maggior parte degli usi, che rinviano alla radice ebraica
255
yasha' e ai suoi derivati, si trova nel libro di Isaia (11 volte)
e nei salmi (32 volte). Sarebbe quindi sufficiente che Luca
facesse qui parlare Simeone nel linguaggio dei salmi per
enunciare la sua preghiera, e il v. 30 del suo testo si spie-
gherebbe magnificamente, mediante una sottile allusione a
Is 40,5 LXX.
Per Le 2,31, non si puo speculare sulla <<preparazione» del-
la salvezza, con il verbo etoimasas: è molto usato sia nella
Settanta che nel greco classico. Nel Nuovo Testamento Lu-
ca è quello che lo usa di più (14 volte). Ma in At 23,23, sem-
bra proprio che Luca, senza alcun parallelo biblico, ricor-
ra alla bella lingua ellenistica. Ciò che colpisce in Le 2,31 è
l'unione inedita di questo verbo con la parola to s6tèrion: è
unica nel SUO genere. Questo <<Strumento di salvezza>> che è
Gesù che nasce, Dio l'ha preparato <<davanti a tutti i popo-
li». I commentatori che si lasciano trasportare sullo sfon-
do ebraico del Vangelo vedono generalmente qui un chiaro
indizio della loro tesi; ma senza ragione. Infatti, se è vero
che l'espressione corrisponde bene all'ebraico lifnèy in
una costruzione al genitivo, questa è resa piuttosto da pro
pros6pon (Mc 1,2; Mt 11,10; Le 7,27, che cita Ml 3,1) o da
en6pion (Is 52,10 LXX, che è più o meno oggetto di un'allu-
sione non letterale nel caso presente). Ma kata pros6pon si
ritrova altrove nell'opera di Luca (At 3,13, che utilizza for-
se una documentazione più antica, e 25,16, che non ne uti-
lizza certamente nessuna). Ma kata pros6pon figura anche
in molti testi greci del Nuovo Testamento come 2Cor
10,1.7 e Gal 2,11. Non si può quindi speculare su questo
passo della preghiera di Simeone per attribuire ad essa un
originale semitico.
Il riferimento implicito di Le 2,31 a Is 52,10 comporta più
differenze che somiglianze verbali: <<Il Signore rivelerà il
suo braccio santo davanti a tutte le nazioni (en6pion pan-
ton ton ethn6n: ebr. [e'èynèy kal ha-goyfm) e tutti i confini
della terra vedranno la salvezza (sotèrian) del nostro Dio>>.
È vero che si ha nei due casi lo stesso universalismo della
salvezza; ma il termine che designa la salvezza non è lo
stesso, e qui <<nazioni>>, straniere per Israele, è sostituito
da <<popoli>> (ton la6n). È verosimile che l'insieme di <<tutti i
popoli>> preluda a quanto verrà detto nel v. 32 definendo la
funzione di Gesù nel disegno di Dio: una funzione destina-
ta alle nazioni, che consiste nell'essere per esse <<una luce
in vista della rivelazione>> (ph6s eis apokalypsin), e una fun-
zione relativa a Israele, popolo di Dio, che è quella di esse-
re la sua gloria (doxan laou sou Israèl). La traduzione del
256
primo membro di frase presenta una difficoltà se si fa di
ethnon il complemento (al genitivo) di apokalypsin: si trat-
terebbe della rivelazione ricevuta dalle nazioni; ma allora
si spiegherebe male il ricorso al genitivo. La soluzione sta
nel non dissociare l'espressione composita: ph6s eis apo-
kalypsin, e nel considerare il genitivo come il complemen-
to di questo insieme. Si ritrova allora direttamente l'allu-
sione ai due testi di Is 42,6 e 49,6, che definiscono la fun-
zione del Servo di Yahweh nei riguardi delle nazioni: ed6-
ka se ... eis ph6s ethn6n (42,6); tethèka se ... eis ph6s ethn6n;
«ti ho stabilito» corrisponde allo stesso verbo ebraico nei
due testi (we 'ettenka, unetattìka). Simone saluta così colui
che è stato preparato, davanti a tutti i popoli, come <duce
delle nazioni» e come «gloria di Israele».
257
Vangelo riguarda essenzialmente Israele, anche se già al-
cuni membri delle nazioni sono aggregati all'ekklesia sen-
za essere obbligati a entrare nel giudaismo; nella seconda,
Paolo è il personaggio essenziale che, senza omettere di
cominciare sempre con l'annunciare il Vangelo ai giudei,
lo porta alle nazioni come <<una luce in vista della rivela-
zione». Il dramma finale, che conclude il libro, è il rifiuto
opposto al Vangelo dalla massa dei giudei ad eccezione di
un piccolo resto di credenti. È così che si realizza nei fatti
ciò che la preghiera di Simeone faceva intravedere fin dal
punto di partenza della vita di Gesù: egli è lo «Strumento
di salveza (to s6terion)» che Dio ha preparato «davanti a
tutti i popoli» (cioè davanti a Israele e alle nazioni), come
<duce in vista della rivelazione per le nazioni» (ethn6n al
genitivo dipendente da ph6s) e «gloria di Israele», popolo
di Dio - ma non nel senso razziale del termine perché d'o-
ra in poi i «credenti>> delle nazioni sono inseriti per la fede
nel popolo (laas) di Dio.
La coincidenza tra la preghiera di Simeone e il finale degli
Atti obbliga a porre una domanda di fondo: non è forse in-
tenzionalmente che Luca ha disposto nella sua opera que-
sta specie di inclusione tra l'infanzia di Gesù, salutata in
modo originale dalle parole di congedo del vegliardo che
«aspettava il conforto di Israele>>, e l'orientamento del li-
bro degli Atti verso un futuro in cui le «nazioni>> accoglie-
ranno la «rivelazione>>, di cui avevano bisogno per trovare
colui che resta «la gloria di Israele>> in quanto «popolo di
Dio>>? Sembra proprio che tale fosse, in effetti, l'intenzio-
ne di Luca nella costruzione della sua duplice opera. Di
conseguenza ci si può - o meglio: ci si deve - domandare
se Luca non abbia aggiunto in un secondo momento il can-
tico di Simeone nel racconto della presentazione di Gesù
al Tempio, già interamente composto, per annunciare in
qualche modo il programma dei suoi due libri. Non dob-
biamo quindi cercare un originale semitico - ebraico o
aramaico- dietro questo cantico: si tratta di una compo-
sizione di Luca che annuncia il tema generale dei suoi due
libri. La posizione adottata qui (e già sostenuta in un arti-
colo della Revue Biblique del 1986) 48 differisce considere-
volmente dalla opinioni generalmente sostenute dai com-
258
mentatori. Ma non sembra che ci si possa sottrarre ad
essa.
Conclusione
259
Il. IL VANGELO SECONDO GIOVANNI
(di G. Rochais, Montréal)
260
pografici diversi, ha solo lo scopo di mostrare graficamen-
te i lavori e i ritocchi che hanno portato al testo attuale.
Ad ogni modo, esso fu in un primo tempo il canto di pro-
clamazione e di lode di una comunità cristiana, che con-
fessava la sua fede e ringraziava per il disegno salvifico di
Dio rivelato, realizzato e sempre presente nel suo Figlio
unico, Gesù Cristo, Parola di Dio fatta carne. Ecco il testo
così come si presenta attualmente:
IJn principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio,
e il Verbo era Dio.
2Egli era in principio presso Dio.
3 Tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui niente è stato fatto.
4Ciò che è in lui è diventato manifesto: era la Vita,
e la Vita era la luce degli uomini.
SE la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l'hanno accolta.
6Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Gio-
vanm.
7 Egli venne come testimone, per rendere testimonianza alla
luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.
8 Egli non era la luce, ma [doveva] rendere testimonianza al-
la luce.
9Veniva nel mondo la luce vera che illumina ogni uomo.
IOEgli era nel mondo,
e il mondo fu fatto per mezzo di lui,
e il mondo non lo riconobbe.
llVenne fra la sua gente,
ma i suoi non l'hanno accolto.
I2A quanti però l'hanno accolto,
ha dato potere di diventare figli di Dio,
a quelli che credono nel suo nome:
I3i quali non da sangue, né da volere di carne,
né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
14E IL VERBO SI FECE CARNE
E VENE AD ABITARE IN MEZZO A NOI,
E NOI VEDEMMO LA SUA GLORIA,
GLORIA COME DI UNIGENITO DEL PADRE,
PIENO DI GRAZIA E DI VERITÀ.
ISGiovanni gli rende testimonianza e grida: «Ecco l'uomo di
cui io dissi: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti,
perché era prima di me».
16DELLA SUA PIENEZZA
261
NOI TUTTI ABBIAMO RICEVUTO
GRAZIA SU GRAZIA.
17Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la
verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. lBDio nessuno
l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno
del Padre, lui lo ha rivelato.
19E questa è la testimonianza di Giovanni. .. ecc.
262
1. L'inno nella sua forma primitiva: generalità
263
2. La prima strofa primitiva
a) Un testo giudeo-ellenistico
La prima strofa primitiva, notevole per la regolarità delhr
sua costruzione, l'unità del pensiero e - nonostante un
passo difficile nel v. 4a (cfr. la critica testuale) - la chia-
rezza dell'espressione, non è nata nell'ambiente giovanneo.
Il titolo di Logos viene usato altrove, negli scritti giovan-
nei, solo in lGv 1,1 e Ap 19,13. Il tema della creazione vi
viene menzionato solo di passaggio nella preghiera di ad-
dio del capitolo diciassettesimo (17 ,5.24). Anche se il Cri-
sto viene detto nel vangelo <duce del mondo e vita», non si
può dire che l'espressione <da vita era la luce degli uomi-
ni>> sia giovannea; l'evangelista avrebbe scritto «la luce del
mondo», il che sarebbe stato molto più adatto al contesto.
Nemmeno è giovannea l'espressione: <d suoi non l'hanno
accolta». Infatti le pecore del Cristo ascoltano la sua voce
(Gv 10,27); il vero pastore le chiama per nome, le fa uscire,
cammina davanti a loro ed esse lo seguono (Gv 10,3-4); è
infine per esse, per i suoi, che egli dà la sua vita (Gv
10,11.15.17; 13,1).
Il versetto 12ab contiene delle particolarità che indiche-
rebbero un'origine giovannea: l'autore di questo versetto
intende correggere o rimaneggiare ciò che precede (v. 11) e
lo fa in modo conciso ed essenziale come Gv 3,33 dopo
3,32; 8,16 dopo 8,15; 12,42-43 dopo 12,37-41. Questa corre-
zione, di marca giovannea, potrebbe anche provenire dalla
fonte pregiovannea: è soprendente, per esempio, che nella
meditazione sulla Sapienza in Bar 3,9-4,4, l'autore, dopo
aver sostenuto che nessuno conosce il cammino della Sa-
pienza e nessuno pensa al suo sentiero, aggiunge: «Ma co-
lui che sa tutto, la conosce ... Egli ha scrutato tutta la via
della Sapienza e ne ha fatto dono a Giacobbe suo servo ...
La Sapienza ... è la Legge che sussiste nei secoli: quanti si
attengono ad essa avranno la vita» (Bar 3,32.37; 4,1). L'e-
spressione «figli di Dio» è giovannea (Gv 11 ,52; l Gv
3,1.2.10; 5,2). Ma essa potrebbe ugualmente provenire dal-
la fonte: in Sap 2,12 il giusto riceve il titolo di «figlio di
Dio»; in Sap 7,14 si dice che quelli che hanno sfruttato il
tesoro della Sapienza si sono attirati l'amicizia di Dio e, in
Sap 7,27, che la Sapienza «entra nelle anime sante per for-
mare amici di Dio e profeti». Negli scritti rabbinici i fi-
264
gli d'Israele sono spesso chiamati <<figli di Dio» (Pirqe Aboth
3, 19).
L'espressione <<ricevere qualcuno» nel senso di <<credere in
lui>> è giovannea (Gv 5,43ab; 13,20 [4 volte]; 19,27); ma biso-
gna notare anche il gioco di parole tra il v. 5 <de tenebre non
l'hanno accolta (katelaben)>>, il v. 11, <<Ì suoi non l'hanno ac-
colto (parelabon)>>, e il v. 12: <<a quanti però l'hanno accolto
(elabon)>>; ora, questi versetti, nella fonte, si susseguono. In-
fine, l'espressione aramaizzante <<dare potere», nel senso di
<<permettere>> o semplicemente <<dare>>, non è giovannea. Se
si può avere qualche esitazione sull'origine giovannea o me-
no del versetto 12ab, si può affermare senza timore di sba-
gliare, che i versetti 1.3-5.11, nonostante alcuni termini che
possono trarre in inganno, non provengono dall'ambiente
giovanneo.
Da dove provengono? Qual è la loro origine? Provengono
dal mondo giudaico o cristiano? Si ammette qui, in modo
abbastanza schematico, che l'inno è di origine giudeo-ales-
sandrina e che era utilizzato per descrivere il destino della
Parola di Dio nell'Antico Testamento. Solo quando fu rice-
vuto nella comunità cristiana esso divenne un inno cristia-
no, utilizzato per parlare del mistero del Cristo.
l) La Sapienza personificata- La concezione giudaica della
Sapienza serviva a spiegare il triste destino degli uomini
che, avendo rifiutato la Sapienza, furono abbandonati alla
follia e alla violenza. Se ne può trovare un eco in un breve
poema della prima parabola di Enoc (lHen 42,1-3): la Sa-
pienza, la cui dimora era nei cieli, volle stabilirsi sulla ter-
ra; ma, non avendo trovato una dimora, se ne tornò in cielo
e <<SÌ stabilì in mezzo agli angeli>>, mentre la sua antitesi, la
violenza, fu accolta con entusiasmo dagli uomini, «come la
pioggia nel deserto, come la rugiada sulla terra assetata».
Il giudaismo non poteva accontentarsi di questa rappresen-
tazione molto generica della Sapienza. Secondo Sir 24,2-4,
la Sapienza, <<uscita dalla bocca dell'Altissimo>>, errò invano
tra i popoli per cercare un luogo dove stabilirsi. Il Creatore
infine fissò per lei una dimora permanente in Israele. Il giu-
daismo fece così proprio il lamento melanconico della Sa-
pienza sul suo errare infruttuoso e trasformò il lamento in
motivo di vanto. Infatti la Sapienza che fissò la sua dimora
permanente in Israele altro non era se non la Torah, !'«i-
struzione>> o la <<Legge>> che Israele aveva ricevuto da Dio
265
«per essere eredità delle assemblee di Giacobbe» (Sir 24,22;
Bar4,1).
Questa rappresentazione della Sapienza come presenza at-
tiva di Dio ricevette ulteriori sviluppi in Israele. Secondo Pr
8,22-26, la Sapienza fu generata e partorita prima della
creazione. Essa è «un'emanazione della potenza di Dio, un
effluvio genuino della gloria dell'Onnipotente e riflesso del-
la luce eterna» (Sap 7,25). Fu l'assistente attiva di Dio nella
creazione (Pr 8,30; Sap 9,9). Dio ha creato tutto con la sua
Parola e, con la sua Sapienza, ha formato l'uomo (Sap 9,1s).
La Sapienza si è stabilita in Sion e ha esercitato il suo domi-
nio su Gerusalemme; ha messo le sue radici in un popolo il-
lustre (Sir 24, 10-12). Eppure Israele ha abbandonato la fon-
te della Sapienza (Bar 3, 12) e la sua voce non sempre fu
ascoltata (Pr 1,20-30). Contro di essa però il male non ha
prevalso (Sap 7,30) e quelli che l'hanno acquisita si sono at-
tirati l'amicizia di Dio (Sap 7,14.27).
2) La Parola di Dio - Ciò che viene detto della Sapienza e
del suo destino vale anche per la Parola di Dio nell'Antico
Testamento, e ugualmente per la Legge 51 . Tuttavia, a diffe-
renza della Sapienza, il termine <<Parola» non viene mai usa-
to in modo assoluto nell'Antico Testamento 52 : si parla sem-
pre della Parola di Dio. In Filone d'Alessandria, la Sapienza
divina, così come descritta nella letteratura veterotesta-
mentaria, è identificata col Logos dei greci (Leg. all. 1,65;
11,86; Heres 127 e 234). Filone utilizza il termine Logos in
modo assoluto e non esita, all'occasione, a chiamare il Lo-
gas «dio» (De Somniis I,228-230). Veniva così gettato un pon-
te tra le concezioni giudaiche della Sapienza e della Parola
di Dio e la concezione greca del Logos.
3) Un inno giudaico proveniente da Alessandria- Si può al-
lora supporre che la prima strofa dell'inno abbia visto la lu-
ce in ambiente giudeo-alessandrino. Ispirandosi in parte al
racconto genesiaco della creazione, questa strofa descrive
il destino della Parola che era, come la Sapienza, presso
266
Dio, che è mediatrice della creazione, che viene a portare la
vita agli uomini, ma che, rigettata dagli uomini, se ne torna
presso Dio, non senza aver favorito quelli che l'hanno ac-
colta.
La prima parte dell'inno, che a priori non possiede alcun ca-
rattere cristiano, fu verosimilmente utlizzata prima di tutto
nelle comunità giudeo-ellenistiche per proclamare il desti-
no della Parola di Dio manifestata nell'Antico Testamento. I
cristiani ripresero quest'inno tale e quale per cantare il mi-
stero del Cristo, in particolare il suo ruolo di creatore, di ri-
velatore e di salvatore. Fu il ricevimento dell'inno nella co-
munità cristiana a cambiare la sua destinazione e il suo sta-
tuto, facendo di un inno giudeo-ellenistico un inno cristiano
che serviva a spiegare il mistero del Cristo. Se quest'ipotesi
è esatta, si avrebbe allora un esempio sorprendente che mo-
strerebbe come, per i primi cristiani, il Cristo abbia real-
mente assunto tutto l'Antico Testamento.
b) La cristianizzazione dell'inno
La cristianizzazione di quest'inno giudeo-ellenistico, che eb-
be luogo soltanto dopo che esso fu ricevuto in ambiente cri-
stiano, non avvenne però senza pericolo. Questa prima par-
te dell'inno non parla del Cristo come uomo storico, concre-
to. C'era perciò il pericolo, sotto l'influenza della gnosi na-
scente, che si considerasse il Cristo soltanto come un'entità
celeste venuto a portare agli uomini rivelazione e salvezza.
Questo pericolo si manifestò realmente nel docetismo, con-
tro il quale lottano già il vangelo di Giovanni 53 e soprattutto
le lettere. Fu senza dubbio per fronteggiare questo pericolo
nascente che fu aggiunta la seconda strofa (vv. 14.16): la Pa-
rola di Dio si era in effetti incarnata e realizzata pienamen-
te in un uomo preciso: Gesù di Nazaret.
Utilizzando del materiale veterotestamentario (Sir 24,8; Bar
3,38) e forse anche delle confessioni di fede cristiane già esi-
stenti (Rm 1,3s; lTm 3,16), la comunità cristiana, per evita-
re ogni equivoco, compose una seconda strofa. Si compren-
de allora perché la menzione dell'incarnazione, latente nel-
la prima parte dell'inno, ma non chiaramente espressa se
267
non per il fatto che quest'inno era utilizzato in ambiente cri-
stiano, venga così tardi. Questa seconda strofa conferma
che tutto ciò che si diceva della Parola creatrice, rivelatrice
e salvifica di Dio, si è di fatto realizzato in un uomo, che era
Figlio unico del Padre.
3. La seconda strofa
268
e rendiamo testimonianza
e vi annunziamo la vita eterna
che era presso il Padre e si è resa visibile a noi.
Cv 1,14e.16 Col2,9-10
Infatti in lui ( = il Cristo ri-
sorto)
... pieno di grazia e di verità abita tutta la pienezza della
divinità corporalmente,
Dalla sua pienezza noi e voi avete in lui parte alla
tutti abbiamo ricevuto sua pienezza
grazia su grazia
Cv 1,14.16 A t 2,32-33
proclamazione E il Verbo si è fatto carne Questo Gesù Cristo
e ha abitato tra noi Dio l'ha risuscitato,
attestazione e noi abbiamo visto la noi ne siamo testi-
sua gloria moni
fondata sul- gloria [che egli manifesta]
l 'esperienza come Figlio unico del Pa-
dre,
proclamazione pieno di grazia e di ve- Esaltato alla destra di
rità, Dio, e avendo ricevuto
dal Padre lo Spirito
269
Santo promesso, lo ha
effuso,
attestazione Della sua pienezza come voi stessi potete
basata sul- tutti noi abbiamo vedere.
ricevuto
l'esperienza grazia su grazia.
b) L 'ambiente di composizione
In quale ambiente fu composta questa seconda strofa? Ab-
biamo visto che la prima parte dell'inno probabilmente non
era stata composta in ambiente giovanneo; che cosa si può
dire di questa seconda parte? È lecito esitare. Da una parte,
del tema dell'incarnazione non se ne parla più in modo di-
retto nel vangelo, dove il tema dell' <<inviatO>> sostituisce
quello dell'incarnazione. È però latente nelle confessioni e
nelle negazioni della fede, dove il termine <<uomo>> o <<GesÙ>>
è messo in correlazione con un titolo del Cristo (confessioni
di fede: Gv 1,30; 4,29-30; 6,69; 11,27; 20,31; negazioni della
fede: 5,18; 8,40; 10,32-33 e 19,5.7 dove la dichiarazione di Pi-
270
lato, <<Ecco l'uomo», è da mettere in correlazione con lari-
sposta dei Giudei: << ... egli deve morire perché si è fatto Fi-
glio di Dio»). Ditltra parte, il genere letterario ma anche il
tema del v. 14a-d è vicino a 1Gv 1,2, come si è visto. Se si
considera il vocabolario, ci si accorge che alcune espressio-
ni sono giovannee: Figlio unico (Gv 3,16.18; 1Gv 4,9); riceve-
re da (Gv 16,14.15), vedere la gloria (Gv 11,40; 12,41; 17,24,
anche se il verbo <<vedere» varia secondo le espressioni); al-
tri termini, invece, non sono giovannei: abitare, pieno, pie-
nezza, grazia, anti nell'espressione <<grazia su grazia, o gra-
zia al posto della grazia». È preferibile, stando così le cose,
confessare la nostra ignoranza: l'autore di questa confessio-
ne di fede e di ringraziamento resta sconosciuto; non è tut-
tavia impossibile che provenga dall'ambiente giovanneo.
Riassumendo, quindi, si può presentare come plausibile, se
non verosimile, l'ipotesi seguente: l) la prima strofa dell'in-
no nacque verosimilmente in ambiente giudeo-alessandrino
dove veniva utilizzata per descrivere il destino della Parola
di Dio nell'Antico Testamento 54 ; 2) quest'inno fu ricevuto in
una comunità cristiana (giovannea?) per esprimere il miste-
ro del Cristo, rivelatore, creatore e salvatore; fu per il solo
fatto d'essere ricevuto in questa comunità, che ne cambiò la
destinazione, che quest'inno divenne cristiano; 3) si aggiun-
se poi in questa comunità cristiana (giovannea?) una secon-
da strofa al fine di porre rimedio all'eresia di coloro che ve-
devano nel Cristo solo un'entità celeste venuta a portare
agli uomini rivelazione e salvezza: si confessa chiaramente
che è nell'uomo Gesù che la Parola di Dio si è realmente in-
carnata; 4) infine quest'inno, già ricevuto o meno nell'am-
biente giovanneo, fu ripreso da un redattore giovanneo co-
me preludio al vangelo: questo redattore inserì allora nel-
l'inno varie glosse in prosa che intercalò tra le strofe dell'in-
no, turbando la sua armonia, senza nondimeno distruggere
il suo ordinamento primitivo.
271
4. Dall'inno al prologo di Giovanni
L'autore che volle utilizzare l'inno come preludio al vangelo
di Giovanni aggiunse, sembra, i versetti 2.6-10.12c-13.15.17-
18. Le ragioni di queste aggiunte sono di natura diversa, ma
il motivo essenziale che spiega l'aggiunta di tutti questi ver-
setti, eccetto i vv. 10.12c-13, è il cambiamento di destinazio-
ne dell'inno, la sua trasformazione da canto cultuale a in-
troduzione al vangelo.
a) La «cristologizzazione»
Questa trasformazione portò l'autore a cristologizzare l'in-
no in due direzioni opposte, sebbene complementari.
l) Riferire a Gesl) di Nazaret ciò che veniva detto, nell'inno,
del Verbo prima e dopo la sua incarnazione. È la ragione
per la quale l'autore aggiunse i vv. 6-9 che permettevano di
riferire al Gesù della storia ciò che veniva detto del Verbo
prima della sua incarnazione, ai vv. 4-5 dell'inno, e che in-
troducono al racconto evangelico che segue. I vv. 6-9 segna-
no l'inizio di una <<storia sacra» che sarà proclamata dal
racconto evangelico.
2) Questa cristologizzazione dell'inno portò, viceversa, l'au-
tore delle aggiunte a collegare ciò che veniva detto di Gesù
nel vangelo a ciò che veniva detto del Verbo nell'inno. Lari-
velazione di Dio, che Gesù fu e manifestò nella sua vita e col
suo insegnamento, è basata, secondo il Vangelo, nell'unità
del Padre e del Figlio, e nella missione del Figlio. Per sottoli-
neare l'origine divina della rivelazione avvenuta nell'uomo
Gesù, questo galileo di Nazaret, l'autore aggiunse i vv.
2.17.18, che sottolineano il miracolo e il mistero confessati
nel v. 14: Gesù di Nazaret, che dichiara attraverso tutto il
vangelo di essere l'inviato di Dio, è il Verbo incarnato, che
da tutta l'eternità era presso Dio, il Figlio unico che è nel se-
no del Padre. È per lui che <<sono venute grazia e verità» (v.
17), lui che ha manifestato ai discepoli l'amore con cui il Pa-
dre l'ha amato da prima della creazione del mondo (Gv 1,18;
17,24), affinché questo amore di cui il Padre l'ha amato sia
in essi ed egli sia in loro (17,26).
b) Altre aggiunte
Altri motivi, meno importanti, sembrano aver ugualmente
guidato l'autore di queste aggiunte:
l) Per garantire la testimonianza data nel vangelo, l'autore
272
delle aggiunte fa appello a diversi testimoni che formano
una catena ininterrotta della tradizione. Gesù, che è nel se-
no del Padre (v. 18), è il rivelatore del Padre e ci conduce al
Padre. Giovanni Battista, che fu il primo testimone e il pri-
mo credente, sostiene con la sua testimonianza la preesi-
stenza del Verbo incarnato (v. 15) e diventa anche testimone
per tutti i credenti (vv. 7-8.15). Il discepolo prediletto, infi-
ne, che aveva poggiato il capo sul petto di Gesù, conferma
l'autenticità della testimonianza riportata del vangelo (Gv
21,24).
2) Queste aggiunte nascondono forse anche certe intenzioni
polemiche contro i discepoli del Battista che avrebbero con-
siderato Giovanni come superiore al Cristo (vv. 8.15); contro
i Giudei che pretendevano di avere nella Legge tutta la veri-
tà, la vera conoscenza di Dio (v. 17); forse contro certi cri-
stiani, di tendenza gnostica, che pretendevano di aver rice-
vuto con la fede un «potere» divino rifiutato agli altri (vv.
12c-13), oppure di incontrare Dio nell'estasi (v. 18).
3) Può anche darsi che l'intenzione di lottare contro l'eresia
nascente abbia spinto l'autore ad aggiungere certe spiega-
zioni destinate a dare una giusta comprensione dei passi
difficili (vv. l2c-13) e a prevenire così le eresie.
4) Infine sembra che l'autore che utilizzò l'inno come prefa-
zione al vangelo abbia aggiunto il v. 10 per precisare il si-
gnificato dell'espressione «i suoi» del v. 11: non sono, come
nel resto del vangelo, i discepoli che credono in Gesù, ma gli
uomini in generale, che sono diventati proprietà del Verbo
con la creazione e hanno rifiutato di credere in lui.
L'autore ha composto queste aggiunte riprendendo diverse
espressioni dell'inno primitivo e prendendo in prestito certi
dati del vangelo. Egli si mostra così l'utilizzatore e l'adatta-
tore intelligente di un magnifico inno che, senza di lui, sa-
rebbe forse andato perduto. L'inno che questo autore ci ha
preservato utilizzandolo con aggiunte come prefazione al
vangelo di Giovanni, è uno dei passi più belli del Nuovo Te-
stamento. In esso viene confessato il nocciolo della fede cri-
stiana. La Parola di Dio con la quale Dio ha creato il mondo
e l'ha salvato, si è manifestata in Gesù di Nazaret, Figlio
unico di Dio, che ci ha dato la luce e la vita divina, e ha
mostrato l'amore benevolo e la fedeltà indefettibile di Dio.
273
capitolo ottavo
l salmi, preghiera cristiana
274
cuzione avveniva evidentemente in lingua ebraica, là dove
l'aramaico (e forse l'ebraico) era la lingua parlata; ma ve-
niva utilizzata la traduzione greca nelle sinagoghe fre-
quentate dagli ellenisti. Sappiamo che anche a Gerusalem-
me ce n'era una (At 6,9). La ripetizione continua dei salmi,
in ebraico presso gli ebrei (di lingua ebraica e aramaica) e
in greco presso quelli di lingua greca, fissava il loro testo
nella memoria, senza che fosse necessario averli per iscrit-
to sotto gli occhi.
Questo fatto non valeva forse indistintamente per i cento-
cinquanta salmi, ma almeno per quelli che erano di uso
corrente, sia nelle preghiere del sabato, sia soprattutto
per la scelta delle grandi feste di pellegrinaggio. Un'allu-
sione di Mt 26,30 e di Mc 14,26 indica che alla fine della
cena pasquale veniva cantato un insieme di salmi che fu
forse conservato nell'epoca rabbinica, essendo il Seder
una liturgia tradizionale: erano i Salmi 113-118 (in greco
112-117). È da escludere che ogni famiglia ne avesse il te-
sto scritto 2 • Ma la memoria viva giocava dappertutto un
ruolo normale. C'erano molti altri salmi conosciuti a me-
moria. Gli apostoli, i discepoli di Gesù, i primi predicatori
del Vangelo, i primi convertiti di origine ebraica, avevano
quindi un repertorio di preghiere cantate che potevano
utilizzare immediatamente per esprimere a Dio le loro lo-
di e le loro richieste, mediante un'interpretazione dettata
dalla loro fede. Ciò valeva per i testi in ebraico e i testi in
greco. Non è quindi abusivo presumere che la liturgia cri-
stiana più antica abbia trovato lì una prima espressione
della sua preghiera. Né è sorprendente che i cantici cri-
risce in ebraico un salmo di lode analogo al Sal 136 (135). Altri salmi
frammentari figurano nei manoscritti di Qumran senza presentare
un carattere specificamente essenico. È possibile che la raccolta dei
18 Salmi di Salomone, composti tra il 75 e il 50 in un ambiente fari-
saico sia stata usata nella preghiera sinagogale (ipotesi plausibile di
S. Holm-Nielsen, Die Psalmen Salomos, JSHRZ IV/2, Giitersloh 1977,
p. 58). Infine il rotolo degli Inni di Qumran (1QH) è una raccolta litur-
gica che mostra la spiritualità particolare della setta essenica. Si ve-
de con ciò che l'espressione pubblica della. preghiera ha conosciuto
nel giudaismo una traduzione più ampia di quella del salterio uffi·
ci al e.
2 Bisogna forse eccettuare l'ambiente ellenistico, dove si utilizzavano
per la Bibbia delle copie su papiro, invece di costosi rotoli di cuoio
che esistevano verosimilmente in tutte le sinagoghe.
275
stiani più antichi, il «Magnificat» e il «BenedictUS>>, sia-
no pieni di reminiscenze letterarie e verbali provenienti
dai salmi e dai cantici biblici 3 : essi riflettono i canti abi-
tuali della prima comunità dando loro una tonalità e
una portata nuove.
Tutto questo giustifica una ricerca, il più approfondita
possibile, sulla preghiera e il canto dei salmi nelle chie-
se dei tempi apostolici, fino alla chiusura del Nuovo Te·
stamento. Non si tratta di una ricerca facile perché ci
sono pochi esempi diretti. È necessario esaminare una
per una le citazioni dei salmi, esplicite e implicite, che
si trovano nel Nuovo Testamento domandandosi ogni
volta se gli autori dei libri le riprendano semplicemente
perché vogliono citare le Scritture, come facevano per
esempio gli ebrei nell'<<apertura>> di certe omelie rabbini-
che4, o perché i salmi citati facessero già parte di una
preghiera cristiana che i fedeli ripetevano e sapevano or-
mai a memoria. Non è sempre facile rispondere a questa
domanda. Si può almeno presumere che i salmi non
avrebbero conosciuto una tale fortuna nella letteratura
del Nuovo Testamento se non fossero stati ben conosciu-
ti dai fedeli ai quali i testi erano destinati. Ora, la loro
conoscenza non era legata a un modo di lettura analoga
a quella che si può fare attualmente, nelle bibbie di lar-
ga diffusione. Era legata alla preghiera e al canto.
Il primo esempio che sarà esaminato è il solo in cui ap-
pare chiaramente il contesto di una preghiera cristianiz-
zata. Poi cercheremo di vedere se alcune citazioni o re-
miniscenze suggeriscono l'esistenza di una certa preghie-
ra cristologica basata su dei salmi. Si farà lo stesso per
ritrovare la traccia di preghiere dei salmi legati a diver-
se circostanze o aspetti particolari della preghiera cri-
stiana. Resterà un gran numero di reminiscenze lettera-
rie la cui portata non sarebbe stata sentita se i salmi in
questione non fossero stati conosciuti a memoria, alme-
no dagli autori dei libri e senza dubbio anche dai loro
destinatari.
276
l. UNA PREGHIERA COSTRUITA SUL SALMO 2
277
mula classica di stile ebraico (kai ta nyn, equivalente gre-
co dell'ebraico we'attah e dell'aramaico ùke'an). Certo, in
questo testo greco abbiamo solo lo schema generale della
preghiera. La sua forma suppone una composizione meti-
colosa che le può essere stata data solo successivamente, e
infine da Luca stesso. Ma sappiamo che Luca, nei primi
capitoli degli Atti, si basa su una documentazione che per-
mette di riconoscere ai testi una storicità generale. Del re-
sto non è affatto sorprendente costatare che la prima co-
munità cristiana preghi con i salmi. Ma l'essenziale è di
vedere il modo in cui il loro contenuto sia stato trasforma-
to dalla morte e dalla risurrezione di Gesù. Per compren-
dere l'applicazione che ne viene fatta qui - e infine da Lu-
ca - sarà utile esaminare gli altri testi del Nuovo Testa-
mento dove si trova una simile lettura cristologica del Sal-
mo 2, prima di ritornare sull'applicazione dei primi due
suoi versetti al caso presente.
278
risurrezione di Gesù, manifestazione eclatante di questa
filiazione divina intesa nel senso più forte del termine.
È necessario tener conto di questa citazione per compren-
dere la variante che comporta, in Luca, il racconto del bat-
tesimo di Gesù in rapporto ai racconti di Marco e di Mat-
teo. La voce venuta dal cielo non dichiara più: «Tu sei il
Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto»
(Marco) o: <<Questo è il Figlio mio prediletto nel quale mi
sono compiaciuto>> (Matteo), ma, nel testo «occidentale>>:
«Tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato>> 8 (le altre recensio-
ni seguono Marco). La citazione di questo testo in due po-
sti strategici dell'opera di Luca - il battesimo e la risur-
rezione di Gesù - è ancora più sorprendente per il fatto
che in Luca il racconto dell'annunciazione sottolinea chia-
ramente la filiazione divina di Gesù fin dal suo concepi-
mento (Le l ,32 e 35). Ma nei due casi si tratta di mostrare
la continuità tra la promessa, enunciata nel Salmo 2, e il
suo compimento che va al di là del suo significato imme-
diatamente percepibile nell'istituzione monarchica di
Israele o nel messianismo giudaico: essendo «il Figlio>> fin
dal suo concepimento, Gesù resta «il Figlio>> durante la
sua missione terrena che si concluderà con la sua morte in
croce, e lo resta per eccellenza nella sua gloria di risorto.
La ripresa del Salmo 2 come preghiera della Chiesa per-
mette di enunciare sotto forma di lode questo elemento es-
senziale della fede. Esso di ritrova del resto con lo stesso
significato in un gruppo di Testimonia cristologici citati a
due riprese nella lettera agli Ebrei, per attestare la filia-
zione divina del Cristo (Eb 1,5) e spiegare l'orgine del suo
sommo sacerdozio (5,5). Tutto questo suppone che la lettu-
ra cristologica del salmo fosse corrente nella Chiesa apo-
stolica.
b) Il riferimento al v. 9
In un'altra direzione si orientano invece due riprese espli-
cite del v. 9 nell'Apocalisse. Questo versetto insisteva ab-
279
bastanza pesantemente sul potere universale del re ideale,
il re d'Israele innanzitutto, al momento della sua consa-
crazione, e poi il futuro re-messia, oggetto della speranza
ebraica. Dio ha promesso al re di dargli «in eredità le na-
zioni>> e, come dominio, <<i confini della terra>>. Il seguito
non è particolarmente tenero per le nazioni così dominate:
«Tu le spezzerai con scettro di ferro, come vasi di argilla
le frantumerai>> (Sal 2,9). Ora, nel quadro del combatti-
mento finale condotto dal Cristo glorioso contro le nazioni
ribelli ritroviamo questo tratto: «Dalla sua bocca gli esce
una spada affilata (cfr. Is 11,4b; 49,2) per colpire le nazio-
ni: le governerà con scettro 9 di ferro>> (Ap 19, 15). L'imma-
gine regale del Cristo glorioso entra qui in scena sotto una
forma epica, per evocare la conclusione del conflitto tra il
Cristo e tutte le forze del male coalizzate contro la sua
Chiesa, riprendendo il simbolismo fornito dal Salmo 2. Fin
dall'apertura del libro, nelle lettere alle sette chiese, l'au-
tore introduce lo stesso simbolo proveniente dal Salmo 2
in una promessa rivolta al «Vincitore>> che avrà combattu-
to con il Cristo quaggiù. Il Cristo gli comunicherà una par-
tecipazione alla sua stessa regalità: «Il vincitore. [... ]gli da-
rò autorità sopra le nazioni; le pascolerà con bastone di
ferro e le frantumerà come vasi di terracotta>> (Ap 2,26). È
la partecipazione degli eletti alla regalità eterna del Cri-
sto.
280
chiaro che siamo qui in presenza di una costruzione lette-
raria dovuta a Luca: il Salmo 2,1-2 viene citato secondo la
sua versione greca. Le minacce delle genti e i vani progetti
della nazioni (v. l) del resto si comprendono solo per il
commento del v. 2, che ne traspone le parole per trovare
loro un'applicazione imprevista: «Si sono radunati in que-
sta città contro il tuo santo servo (paida) Gesù, che tu hai
unto (echrisas, che designa Gesù come christos), Erode e
Ponzio Pilato, con le genti e i popoli d'Israele 10 , per com-
piere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano preordi-
nato che avvenisse>> (At 4,27-28).
È chiaro che l'identificazione globale delle nazioni e dei
popoli, dei re della terra e dei capi, con tutti gli attori del-
la passione: romani e giudei, il governatore Pilato ed Ero-
de il tetrarca della Galilea (cfr. Le 23,6-12, senza paralleli),
è un artificio esegetico che si avvicina di più ai metodi
rabbinici che all'allegoria greca. In questo modo, l'inizio
del salmo è applicabile alla passione di Gesù. Ma c'è lì un
principio soggiacente che permetterà di vedere in ogni
persecuzione contro la Chiesa di Gesù Cristo un prolunga-
mento dell'impresa malvagia delle nazioni e dei popoli
«contro il Signore e contro il suo Messia>>. Il salmo, che
glorifica la regalità del Cristo Gesù, potrà essere riletto da
questa angolazione in tutte le circostanze in cui si manife-
sterà la stessa ostilità delle potenze umane contro la Chie-
sa. L'arresto dei due apostoli e il tentativo fatto per impe-
dire la predicazione del Vangelo sono interpretati in que-
sto senso dalla preghiera della comunità riunita.
Ne consegue una domanda pressante (vv. 29-30) che non
chiede soltanto a Dio di «essere attento alle loro minacce>>
(v. 29a), ma soprattutto di dare ai suoi servi (doulois, che
qui non può essere chiaramente tradotto con «schiavi>>) di
annunciare la sua parola con tutta franchezza, stendendo
la sua mano perché si compiano guarigioni, miracoli e
prodigi nel nome del suo santo servo Gesù (vv. 29b-30). Bi-
sogna notare di passaggio che la personalità e le funzioni
degli oppositori non vengono menzionate, come lo erano
sopra con i nomi di Pilato e di Erode. Si costata, invece, la
281
continuità tra la passione di Gesù e l'opposizione all'an-
nuncio del Vangelo. Agli occhi di Dio tale annuncio conti-
nua l'azione del suo «santo servo Gesù»: è nel suo nome
che viene annunciata la Parola e vengono operati i segni
che l'accompagnano. Il titolo di <<servo>>, che viene da Is
42; 49 e 52-53, non è molto frequente nel Nuovo Testamen-
to 11 . Ma la citazione di Is 42,1-4 in Mt 12,18-21 mostra la
ragione per la quale Luca gli attribuisce un posto impor-
tante in At 3,26 e 4,27.30. Si tratta di un altro aspetto del
compimento delle Scritture. È chiaro che i segni che ac-
compagneranno la Parola nella Chiesa saranno il seguito
di quelli che accompagnarono la predicazione di Gesù. Co-
munque sia, abbiamo qui un chiaro esempio del modo in
cui i salmi sono diventati la preghiera della Chiesa aposto-
lica.
282
esperienze esistenziali o delle discussioni con i suoi avver-
sari giudei, sia nel corso della sua storia terrena e nella
sua condizione ultraterrena.
283
egli stesso con questo salmo: l~ tradiz,ione gi.ovannea n.e ha
conservato il ricordo, per espnmere l atteggiamento di Ge-
sù davanti alla prova della passione imminente: <<Ora l'ani-
ma mia è turbata; e che devo dire? Salvami da que-
st'ora? ... »
- Sal 42[41],6.12 e 43[42],5. Si osserva lo stesso fenomeno
letterario nell'espressione che traduce l'angoscia di Gesù
al Getsemani, quando egli l'annuncia ai suoi discepoli: «La
mia anima è triste fino alla morte» (Mc 14,34 e Mt 26,38). È
l'eco d'una formula che appare tre volte in un salmo ora
diviso in due: 42[41],6.12 e 43[42],5. Il contesto non è evi-
dentemente lo stesso perché l'originale era il lamento di
un levita esiliato lontano dal Tempio di Gerusalemme. È
sufficiente che Gesù, conoscendo il salmo a memoria, ab-
bia a lungo rimuginato la formula che traduceva al meglio
le sue disposizioni interiori nel momento in cui stava per
iniziare la sua grande prova. Vi aggiunge soltanto una no-
ta che la radicalizza: «triste da morire ... ».
- Sal 22 in Mc 15,34. Dato che i due testi precedenti apro-
no il racconto della passione, possiamo passare alle parole
di Gesù in croce. L'espressione più degna di nota è quella
che citano Matteo e Marco per esprimere il sentimento
dell'abbandono di Dio: Eloi eloi lama sabachtani (Mc
15,34), o in Matteo (27,46), con una ebraizzazione del nome
divino: Eli eli ... Non si può mettere in dubbio la realtà di
questo grido desolato. Esso non esprime la disperazione,
ma l'impressione provata da Gesù quando sperimenta ciò
che più si avvicina alla «notte della fede» presso i misti-
ci 15 . Il Padre resta nondimeno <<Ìl mio Dio», nel più pro-
fondo della relazione intima. Ma il fatto più notevole è che
Gesù riprende la preghiera più desolata di un salmista as-
sumendo in pienezza il sentimento più terribile che possa
subire l'animo religioso. Egli fa talmente suo il testo del
salmo che non lo recita più nell'ebraico sinagogale, ma
nella sua lingua materna, l'aramaico.
- Sal 31,6 in Le 23,46. In compenso, Luca della preghiera
di Gesù morente conserva solo un'abbandono fiducioso di
sé nelle mani di Dio, preso da Sal 31,6 (Le 23,46). Ma sosti-
284
tuisce al nome divino, che figurava nel salmo, l'appellativo
familiare di «Padre» 16 • La preghiera di Stefano morente
(At 7,59) si ispirerà a questa formula, che è diventata or-
mai la preghiera del cristiano alla soglia della morte; ma
Stefano si rivolgerà al Cristo Gesù: <<Signore Gesù, accogli
il mio spirito».
- È più difficile situare esattamente l'allusione contenuta
nell'espressione di Gesù in croce: <<Ho sete» (Gv 19,28).
Fermo restando l'espressione della sensazione fisica del
condannato che muore, è possibile che essa riprenda
un'allusione a Sal 22,16 o a Sal 69,22. Quest'allusione si
trova nei racconti di Matteo, di Marco e di Giovanni quan-
do mostrano i soldati che fanno bere dell'aceto a Gesù. Ma
questo dettaglio dei racconti ha lo scopo di mostrare che
la morte di Gesù <<porta a compimento le Scritture>>, come
si vedrà più avanti.
-Altre espressioni mostrano che questo «compimentO>> è
continuamente sullo sfondo della passione. La disposizio-
ne interiore che spiega l'atteggiamento dei nemici di Gesù
viene collegata da lui stesso col testo del salmo: <<Mi hanno
odiato senza ragione>> (Gv 15,25; cfr. Sal 35,19 o 69,5b). La
mano dell'evangelista nella formulazione di questa espres-
sione risulta evidente dal fatto che la citazione non è attri-
buita alle Scritture in generale o a un salmo, ma alla <doro
Legge>> 17 • Questo non impedisce che la coscienza di Gesù
sia correttamente tradotta dall'annotazione sul carattere
non meritato di questo odio.
- Nelle controversie con i suoi avversari, Gesù si rivela
del resto capace di elaborare dei ragionamenti di tipo rab-
binico, facendo riferimento ai testi dei salmi così come li
intendevano i dottori del suo tempo: se ne hanno degli
esempi in Gv 10,34, che si basa su Sal 82[81],6, e nella do-
285
manda insidiosa posta da Gesù stesso circa Sal 110, l, con-
siderato dai suoi interlocutori come davidico e messianico
(cfr. Mc 12,35-37; Mt 22,41-46 e Le 20,41-44). Ma queste non
sono, propriamente parlando, delle appropriazioni perso-
nali di testi al modo di preghiera. C'è soltanto, nel secondo
caso, un'apertura in direzione della lettura cristologica
che sarà fatta nella Chiesa 18 .
Bisogna citare infine la menzione della recita dei salmi al-
la fine della cena pasquale, così come viene riferita in
Marco e Matteo (Mc 14,26 e Mt 26,30). L'usanza ebraica ha
conservato questa recita per i Salmi 113-118. Si può de-
durne che l'utilizzazione di Sal 118,22 come finale enigma-
tico della parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,10s, Mt
21,42 e Le 20,17) non è necessariamente una pura aggiunta
esplicativa della catechesi apostolica, che avrebbe così
precisato il significato della parabola: Gesù e i suoi aveva-
no, come gli interlocutori, recitato questa preghiera in un
contesto pasquale. Bisogna soltanto notare che, in Giovan-
ni, l'ultima cena di Gesù non è la celebrazione della pa-
squa: fin qui questa contraddizione tra due tradizioni di-
verse non ha trovato una soluzione pienamente soddisfa-
cente 19 .
286
Rimane in ogni caso certo che Gesù stesso ha aperto la
strada alla lettura cristologica dei salmi appropriandose-
ne e pregando con essi. Questo tipo di lettura diventerà co-
stante nella Chiesa apostolica, quando essa pregherà con i
salmi.
287
sù. È questo il caso per la scena della divisione delle vesti
del condannato, usanza così abituale che non se ne può so-
spettare l'autenticità storica (Mc 15,24; Mt 27,35; Le 23,34),
ma menzionata esplicitamente perché essa portava a com-
pimento la Scrittura di Salmo 22[21],19, come rileva Gv
19 ,24. Abbiamo visto 20 che i particolari della sete di Gesù
sulla croce e della bevanda d'aceto che gli viene data sono
stati conservati perché sono in relazione con il Salmo
69[68],22: è ancora Giovanni a notare su questo punto il
compimento di una Scrittura (Gv 19,28). Su questa base è
normale supporre che la recita cristiana del salmo fosse
applicata da un capo all'altro alla persona del Cristo, sia
per il suo zelo per la casa di Dio (Gv 2,17 e Sal69[68],10a),
sia per le conseguenze che ne sono risultate per lui (Rm
15,3 e Sal 68,10 LXX), sia per il tradimento di Giuda e la
sua sostituzione nella sua funzione di apostolo (At 1,20 e
Sal 69,28, unita a una citazione di Sal 109[108],8 presa qui
fuori del suo contesto). Queste citazioni sono altrettanti
echi della preghiera della Chiesa.
b) La regalità del Cristo in gloria
È soprattutto per evocare la regalità del Cristo glorificato
dalla sua risurrezione che alcuni salmi sono stati selezio-
nati, certamente nella preghiera prima di esserlo nei Testi-
monia citati dai testi del Nuovo Testamento. Ne abbiamo
visto un esempio preciso in At 4,24-30 a proposito di un
versetto del Salmo 2 21 • A partire da esso si può presumere
che tutti i rimandi allo stesso salmo suppongano che esso
fosse recitato, e anche cantato per celebrare il Cristo, non
soltanto nella sua passione (At 4 che cita Sal 2,1s LXX),
ma nella sua filiazione divina rapportata alla sua gloria di
risorto (At 13,33, cfr. Sal 2,7; citato anche in Eb 1,5 e 5,5,
senza contare Le 3,12 nel testo occidentale) e nella sua vit-
toria al momento della parusia (Ap 19,15, cfr. 2,26s, con ri-
ferimento al Sal 2,9).
- Lo stesso dicasi per il Salmo 110 (LXX 109). La discus-
sione ricordata da Mc 12,35-37 e par. era solo una doman-
da posta per mettere in imbarazzo i dottori giudei. La ri-
sposta di Gesù a Caifa in Mc 14,62 (=Mt 26,64 e Le 22,69)
288
supponeva una trasposizwne dal significato originale del
testo poiché presentava il Figlio dell'uomo venuto con le
nubi (Mc) seduto in gloria alla destra di Dio 22 . Si è qui al
punto di partenza di un tema della predicazione apostolica
(At 2,34; finale di Mc 16,19; lCor 15,25; Eb 1,13, più molte-
plici allusioni). Se ne può dedurre che questo salmo godes-
se un grande favore nella preghiera e nel canto liturgici
più antichi. La lettera agli Ebrei poteva perciò riferirsi a
un testo ben conosciuto quando il suo autore traeva dal v.
4 la presentazione del Cristo nel suo sommo sacerdozio
(Eb 5,6, ecc.). Ma questo gli permetteva di collegare piena-
mente l'esistenza terrena di Gesù alla sua glorificazione
eterna, per introdurla in un salmo dove l'interpretazione
spirituale del v. l non la faceva intuire. Non abbiamo alcu-
na indicazione diretta sull'interpretazione cristologica de-
gli altri versetti nel Nuovo Testamento, soprattutto i più
bellicosi. Ma non si dimenticherà che il v. 3, così difficile,
era letto nella versione greca (<<dal seno, prima dell'auro-
ra, io ti ho generato»).
- Lo stesso ragionamento si può fare per il Salmo
118[117]. Entrato nella preghiera pasquale dei giudei 23 , es-
so fornisce a Gesù, nel suo v. 22, il tema di una conclusio-
ne di parabola, enigmatico ma minaccioso. Ripreso nella
predicazione apostolica, viene applicato direttamente al
Cristo risorto; in altre parole, alla pasqua di Gesù. A parti-
re da lì esso diventa il centro di una riflessione teologica
289
entrata sull'immagine della pietra (lPt 2,6-8). I fedeli vi
~ono sommamente interessati poiché sono le «pietre vive»
dell'edificio spirituale dove si compie il culto nuovo (2,4-5).
Questo testo sarebbe poco comprensibile se le comunità
non avessero l'abitudine di trasferire il salmo nel contesto
della loro pasqua. Diventato così un cantico cristiano, non
sorprende ritrovarne degli echi a questo titolo in Eb 13,6
(v. 6), in Mt 23,39=Lc 13,35 (un logion di Gesù, interpreta-
to in un senso pienamente cristiano: si tratta del v. 26), in
Mc 11,9 (=Mt 21,9; Le 19,38; Gv 12,13, acclamazioni della
folla il giorno della «palme», citati in un senso esplicita-
mente cristiano 24).
-Il Salmo 16(15),8-11, quando viene ripreso nella predica-
zione primitiva (At 2,25-28; 2,31; 13,35), diventa una pre-
ghiera di Gesù stesso, che esprime così la sua totale spe-
ranza della risurrezione. Va da sé che la comunità lo rileg-
ge ormai solo con questa pienezza di significato.
- La citazione del Salmo 8,3 LXX potrebbe essere solo
un'argomentazione ad hominem, come ripresa puramente
letteraria, se il Sal 8 non fosse applicato al Cristo in gloria
nelle lettere apostoliche (1Cor 15,27; Ef 1,22; Eb 2,6s). Que-
sto suppone che la preghiera cristiana abbia trasferito su
di lui ciò che riguardava originariamente la grandezza del-
l'uomo nella creazione: è nel Cristo che questa grandezza
si compie pienamente.
- Il Salmo 72 era ripreso nella preghiera cristiana per ce-
lebrare il Cristo re, dopo aver cantato il Messia regale nel
giudaismo? Lo si può dedurre solo a partire da deboli allu-
sioni: il v. 2 in Ap 19,11; i vv. lOs in Ap 21,26 (con un'altra
290
allusione a Is 60,3); i vv. 17-18 nei cantici primitivi di Le
1,48 e 1,68; l'enumerazione dei doni dei magi in Mt 2,11.
Ma diventerà classico nella celebrazione del Cristo re.
- Si può presumere similmente la lettura cristologica del
Salmo 45[44], per celebrare la divinità eterna del Cristo re
secondo Eb 1,8-9; quella di Sal 102[101],26-28 e di Sal
104[103],4, per associarla all'attività creatrice di Dio se-
condo Eb 1,7.10-12; quella del Sal 91[90], applicata alla vit-
toria del Cristo tentato: paradossalmente in Mt 4,6 e Le
4,10-11, dove il tentatore ragiona speculando sulla qualità
di Gesù <<Figlio di Dio>>, positivamente in Mc 1,13, dove Ge-
sù tentato è nel deserto <<con le bestie selvagge» del salmo
in posizione di vincitore 25 •
- È soprattutto l'interpretazione di Salmo 40[39], 7-9 in Eb
10,5-9 che mostra una lettura cristiana inglobante: l'evoca-
zione della disposizione interiore di sacrificio soggiacente
alla totalità del suo mistero, da questa <<entrata nel mon-
do» fino alla sua glorificazione ultraterrena, passando at-
traverso la morte come <<offerta del suo corpo» (Eb 10,5-
14).
Tutte queste citazioni di salmi sarebbero impossibili e in-
comprensibili per i destinatari dei testi, se i salmi in que-
stione non fossero oggetto di una preghiera, probabilmen-
te cantata, il cui significato è fornito proprio dai testi che
li riprendono e ne danno la chiave. Si entra così nel cuore
della liturgia cristiana primitiva.
291
nella totalità del suo mistero. Infatti non servirebbe a nul-
la pensare alla sua gloria attuale se non si ricordasse il
suo ingresso nell'esperienza storica degli uomini e la sua
morte in croce, dove culminò la sua offerta di sé per rea-
lizzare la redenzione del genere umano. Lo si assimilereb-
be in tal caso a un eroe mitologico, il che rappresenta esat-
tamente il contrario della fede cristiana. (Lasciamo da par-
te le speculazioni della storia delle religioni guidate da
uno spirito razionalista: essa è completamente fuori stra-
da misconoscendo l'essenza stessa della fede cristiana, na-
ta nel contesto della fede giudaica che trovava il suo asse
centrale nella realizzazione storica del disegno di Dio 26).
Questa prima categoria di salmi fornisce uno sfondo per
la comprensione cristiana di tutti gli altri. Ma questi han-
no delle risonanze molto diverse perché il loro testo si
adatti alle diverse circostanze della vita dei fedeli. In che
modo è potuto avvenire questo adattamento? Ci sono in ef-
fetti delle differenze considerevoli tra la vita religiosa dei
giudei e quella della Chiesa. La prima è fortemente marca-
ta dal ricordo dell'esperienza storica e delle istituzioni d'I-
sraele, sicché il testo dei salmi ne porta spesso una traccia
profonda. Ora, la Chiesa di Gesù Cristo, rapidamente aper-
ta a dei non ebrei, fondata sulla morte e sulla risurrezione
di Gesù, prende una forma diversa dal popolo della prima
alleanza data da Dio al solo Israele. Di conseguenza, né la
sua Legge né il suo culto conservano un vero valore di giu-
stificazione e di santificazione per i fedeli di Gesù Cristo.
Questi hanno tuttavia coscienza di restare gli eredi auten-
tici della tradizione del <<popolo di Dio» e delle sue Scrittu-
re. La morte e la risurrezione di Gesù hanno fatto saltare
t_utte le barriere nazionali dell'ekklèsia fondata al Sinai (il
qahal dei testi ebraici); ma è questa ekklèsia che continua
la sua strada nella storia sotto una forma rinnovata 27 • Di
292
conseguenza i suoi membri sono gli eredi legittimi della
fede di Abramo, delle promesse ricevute da lui, delle espe-
rienze religiose che furono accordate al popolo della pri-
ma alleanza.
La loro evocazione nei salmi tocca così le radici della loro
fede, anche se essi non si basano più sulle pratiche della
Legge- eccetto che per l'aspetto morale- e del culto da
essa regolato per un autentico rapporto con Dio: Gesù,
Messia d'Israele in quanto Figlio di Dio morto e risorto, è
diventato l'unico mediatore della salvezza. Ne consegue
che l'adattamento dei Salmi all'esistenza cristiana esige
delle trasposizioni figurative 28 , là dove il loro testo non
esprime semplicemente un liguaggio diretto di fede, di
speranza e di amore verso Dio, o delle regole di saggezza
pratica che toccano il cuore della Legge ma la cui espres-
sione ha di primo acchito un carattere che può essere uni-
versalizzato. È un'operazione, questa, che nessun giudeo
rimasto legato alle istituzioni delle prima alleanza, così
come l'ha conservata la tradizione rabbinica non senza
adattarla alle circostanze 29 , può accettare come lettura
autentica. Non si deve nascondere il divorzio che esiste su
questo punto tra la lettura giudaica dei salmi nella litur-
gia sinagogale e la loro lettura cristiana nella liturgia del-
la Chiesa.
293
il cantico di Mosè e il cantico dell'agnello. L'allusione a Es
15,2-18 è evidente, anche se il testo in questione non viene
citato. Ciò suppone che questo cantico era ripreso nella
preghiera delle assemblee di Chiesa, con una reinterpreta-
zione simbolica i cui dettagli non vengono precisati. Que-
sti <<eletti» sono <<Ì centoquarantaquattromila compagni
dell'agnello» che portano sulla loro fronte il suo nome e il
nome del Padre suo (Ap 14,1-2; cfr. 7,1-8). Riscattati fra gli
uomini (14,4b) con il sangue dell'agnello immolato (4,9-10),
essi hanno sulla fronte un segno che ricorda chiaramente
l'unzione battesimale, grazie alla quale sono diventati <<un
regno e sacerdoti>> (5,10). Il <<cantico nuovo» che essi canta-
no (14,3) è quindi un canto pasquale: ciò suppone che il
cantico di Es 15 era cantato nella Chiesa nel corso della li-
turgia pasquale, così come veniva ripresa la lettura di Es
12 (rituale della pasqua ebraica e degli azzimi), con quella
trasposizione che viene evocata chiaramente da lCor 5,7-
8 30 . La liberazione spirituale dei fedeli sostituisce la libe-
razione temporale di Israele, grazie al principio figurativo,
e non si è lontani dalla liturgia del battesimo.
Ora, lo stesso testo di Ap 15,3b-4 mette insieme delle allu-
sioni di salmi per comporre il <<cantico dell'agnello». Su
questa base si può presumere che i testi utilizzati siano
tratti da salmi usati nella liturgia cristiana, anche se si
tratta solo di reminiscenze provenienti da cantici che sono
ben noti altrove. Se li esaminiamo uno ad uno, si costata
infatti che essi si prestavano mirabilmente alla lode di Dio
nella liturgia delle assemblee di Chiesa: Sal 92 (citazione
implicita del v. 6a), Sal 98 (debole riferimento al v. l), Sal
145 (espressione presa dal v. 17), Sal 86 (citazione equiva-
lente del v. 9), senza contare dei prestiti impliciti dal canti-
co del Deuteronomio (Dt 32,4) e da Geremia (Ger 10,7). Cer-
to, è l'autore dell'Apocalisse che conosce tutti questi testi
a memoria; ma è probabile che, per la maggior parte di es-
si, egli risvegli immediatamente la memoria dei suoi letto-
ri e ascoltatori.
b) Le fonti di Romani 3,10b-18
Non si tratta più, qui, di un cantico cristiano, ma di una
serie di citazioni che attestano il peccato universale degli
294
uomini. Non sarebbe molto difficile trovare i Testimonia
necessari presso i profeti. Del resto Paolo cita incidental-
mente Is 59,7-8 combinato con Pr 1,16 LXX. Ma perché
egli raggruppa tante citazioni dei salmi, generalmente pre-
se dalla LXX? Troviamo così Sal 14,1-3 (=53,2-4): Sal 5,10;
Sal 139,4; Sal 10,7; Sal 35,2. Sembra proprio che questa
scelta sia dettata dal fatto che i salmi in questione appar-
tengono al repertorio delle comunità, almeno di quella di
Corinto dove Paolo compone la lettera ai Romani. Se si ve-
rifica la pertinenza delle citazioni, si costata che i salmi in
questione contengono pochi passi che farebbero esplicito
riferimento all'esperienza di Israele (eccetto Sal 14,7). Il
fatto di citare la versione greca, la sola accessibile per le
chiese di lingua greca, fa pensare che una raccolta di sal-
mi scritti in questa lingua (e conservata su dei quaderni di
papiro, non su un costoso rotolo di cuoio) esisteva allora
in tutte le comunità cristiane e forniva un repertorio di
canti per le assemblee di Chiesa.
295
In 1Cor 10,26 il Sal 24[23], l fornisce un principio generale
che può essere ripreso nel senso proprio, e i vv. 1-6 sono
nella stessa situazione (eccetto la menzione finale di Gia-
cobbe). Il finale (vv. 7-10) non è citato nel Nuovo Testamen-
to; ma si applicherebbe a meraviglia, mediante una traspo-
sizione simbolica, all'ingresso in cielo del Cristo glorifica-
to. In 2Cor 9,9 il Sal 112[111],9 figura senza difficoltà per
appoggiare un sermone sulla carità, infatti tutto questo
salmo è un elogio del giusto, in stile sapienziale, che non
contiene alcuna allusione alle strutture dell'antica al-
leanza.
Si può quindi presumere per tutti questi salmi una ripresa
cristiana molto antica. Diverse allusioni possibili al Sal 78
nel Nuovo Testamento, specialmente la citazione di Sal
78[77],24 in Gv 6;31 (cfr. anche Ap 2, 17), suppongono al
contrario delle trasposizioni figurative, come quella di cui
l'omelia di Gv 6 dà la chiave per l'episodio della manna.
296
fettivamente tutto l'inizio di questo salmo, alfabetico in
ebraico nella sua tonalità sapienziale, si adatterebbe mol-
to bene al contesto della cerimonia battesimale.
La seconda parte (vv. 12-23), che perde evidentemente il
suo carattere alfabetico in greco, è un'esortazione che non
andrebbe contro lo stesso contesto. Ora, si ritrova un eco
diretto, quasi una citazione testuale dei vv. 13-17, nell'e-
sortazione di 1Pt 3,10-12. Si è tentati di supporre ancora
che prima dell'insieme delle esortazioni che iniziano in
1Pt 2,11 («Carissimi, vi esorto ... ») il coro della comunità
cantasse questa seconda parte del salmo. Se ciò è vero, la
sua prima parte (vv. 2-11) sarebbe stata cantata prima che
i catechumeni fossero «rigenerati non da un seme corrutti-
bile, ma immortale, cioè dalla Parola di Dio viva ed eter-
na>> (1,23) per diventare «dei bambini appena nati>> (2,2). Si
comprende come, in base a ciò, alcuni esegeti siano tentati
di scaglionare i pezzi che costituiscono la prima parte del-
la lettera (1,3- 4,11) lungo tutta una cerimonia battesima-
le. Questo punto di vista rimane congetturale; ma in ogni
caso la ripresa del Salmo 34[33] in un tale contesto si adat-
terebbe a meraviglia: non ci sarebbe da cambiare in esso
nessuna parola per intenderlo in un senso cristiano.
La nostra ricerca si può fermare qui. Non è un'ipotesi
campata in aria quella d'immaginare le comunità cristiane
che pregavano con i salmi e li cantavano (in greco, per
quelle che parlavano questa lingua) nel corso delle loro
riunioni di Chiesa. La lode rivolta al Cristo nella sua rega-
lità eterna o in occasione della sua pasqua, o nelle diverse
circostanze della vita cristiana, specialmente il battesimo,
poteva trovare lì delle espressioni già pronte, nella misura
in cui la Chiesa di Gesù Cristo prolungava in una forma
nuova il qahal del popolo di Dio fondato al Sinai. È un in-
dizio che va tenuto presente perché spiega nel modo mi-
gliore l'interpretazione cristiana delle Scritture. Questa
non proviene da una speculazione astratta, ma si basa sul
principio ben noto: lex orandi, lex credendi, «la regola del-
la preghiera è la regola della fede>>.
297
Conclusione generale
298
volta che questa «tradizione apostolica» è la regola ultima
alla quale la Chiesa ha fatto riferimento in tutti i secoli
per trovarvi la sua norma suprema, sia nell'ordine della
fede che in quello della vita pratica 1• Il resto è una que-
stione di adattamento ai bisogni dei tempi, dei luoghi, de-
gli ambienti culturali. Sotto questo aspetto, la conoscenza
della storia della tradizione della Chiesa è ugualmente in-
dispensabile perché mostra i movimenti di flusso e di ri-
flusso in seno a progressi e crisi. Ma il ricorso alla norma
apostolica, presa globalmente, ha sempre permesso di as-
sicurare la continuità di una Chiesa fedele agli apostoli
che hanno fondato la sua fede e le sue istituzioni. Ripor-
tando l'attenzione sulla diversità del Nuovo Testamento e
sul suo sviluppo interno, tanto dal punto di vista del suo
contenuto che da quello della sua formazione letteraria, si
vede all'opera il dinamismo della fede e della prassi nella
fedeltà integrale al messaggio di salvezza e alle istruzioni
ricevute dagli apostoli, da essi trasmessi ai responsabili
che essi stabilirono nelle chiese, raccolti infine dagli auto-
ri e redattori dei libri che le chiese del II secolo hanno ac-
curatamente riunito come testimoni autentici della tradi-
zione apostolica.
Questo aspetto delle cose non dev'essere dimenticato. Es-
so non toglie assolutamente nulla alla persona del Cristo:
nel suo ministero, nei suoi insegnamenti, nella sua morte.
Ma ricorda con forza il principio enunciato in Gv 15,13-14:
«Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla veri-
tà tutt'intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò
299
che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glo-
rificherà, perché prenderà del mio e ve l'annunzierà>>. «La
verità tutt'intera» non sarebbe forse stata portata per ri-
velazione nella persona di Gesù, nelle sue azioni e nelle
sue parole? Sì, certo. Ma era ancora necessario che dopo
la risurrezione del Cristo e il suo ingresso nella gloria, il
contenuto di questa rivelazione fosse messo in piena luce
nella coscienza di coloro che dovevano annunziare il Van-
gelo. Gli apostoli e i predicatori del Vangelo furono così
introdotti nella <<verità tutt'intera» per un approfondimen-
to nella comprensione del mistero del Cristo e nell'esplici-
tazione delle sue virtualità. Lo sviluppo storico della Chie-
sa primitiva, con le sue esperienze nuove e le sue crisi, e lo
sviluppo letterario del Nuovo Testamento, entrano quindi
necessariamente nella messa in luce del Vangelo. Il lega-
me intrinseco di questo duplice processo con l'esperienza
liturgica fa di questa un elemento essenziale della sua co-
stituzione.
Tutto questo non ha niente a che vedere, evidentemente,
con la concezione evoluzionistica di cui parlavano lo stori-
cismo liberale e la religionsgeschichtliche Schule dell'ini-
zio del XX secolo, fornendo al modernismo una rappre-
sentazione arbitraria delle origini cristiane dove le idee e
il sentimento religoso prevalevano sulla persona e le paro-
le del Cristo stesso. Ma questo non ha niente a che vedere
nemmeno con una rappresentazione fissistica che vorreb-
be ignorare il principio dello sviluppo all'interno del Nuo-
vo Testamento, o piuttosto avrebbe timore che ci si riferi-
sca ad essa per considerare una composizione degli scritti
<<apostolici» estesa su tutto il periodo che va dalla morte
di Gesù fino alla fine del I secolo, come se un tale modo di
vedere le cose avesse l'effetto- cito in sostanza un artico-
lo senza valore apparso nel 1989 2 - di sostituire alla co-
2 «< nostri amici sanno con quale attenzione seguiamo i problemi po·
sti dall'esegesi alla moda (sic.0. Certo, è vero che la tradizione aposto-
lica, concretizzata in parte dai servitori della parola di cui parla Lu-
ca, ha avuto un'influenza non trascurabile per il riconoscimento dei
testi del Nuovo Testamento e in particolare per i quattro vangeli. Ma
sono nel vero quelli che aumentano la tradizione apostolica? Così i
vangeli sarebbero testimoni prima di tutto di una fede nascente, quel-
la delle prime comunità cristiane, e potrebbero essere tardivi. Una
mente lucida può valutare il pericolo di questa tesi, perché i nostri
vangeli perderebbero il loro valore storico e non farebbero che tra-
300
noscenza <<storica>> di Gesù delle speculazioni sull'evolu-
zione della <<fede>> cristiana!
Ci si può meravigliare che l'uno o l'altro sedicente campio-
ne dell'ortodossia abbia così fatto proprio il protestantesi-
mo liberale, per opporre la fede cristiana alla conoscenza
storica di Gesù, o per ridurre la verità del Vangelo all'esat-
tezza storica dei racconti che evocano la sua vita. Questo
significa ignorare un principio fondamentale dello studio
critico dei testi evangelici: la stessa fede esige una cono-
scenza vera di ciò che Gesù ha detto e fatto 3, perché fin
dalle origini essa non assomiglia per niente al sentimento
religioso dei culti pagani e alle speculazioni mitologiche
che potevano soddisfarlo: essa nasce sullo slancio e nel
contesto della fede giudaica, che aveva come oggetto es-
senziale la realizzazione del disegno di Dio nella storia
umana. Gesù si è inserito in questo disegno per realizzarne
il «compimentO>>. Questa è la <<Verità>> che costituisce l'o-
biettivo globale del Nuovo Testamento. La realtà storica di
Gesù vi è inclusa, qualunque sia la data in cui sia stata fis-
sata ciascuna delle testimonianze relative a lui per dare
301
una forma letteraria alla tradizione apostolica. Questa de-
ve quindi essere accolta globalmente per sapere che cosa
la fede cristiana ci fa conoscere di Gesù, riconosciuto co-
me Cristo e Signore nella sua Chiesa.
4 Cfr. Vangeli e storia (vol. VI) e Le parole di Gesù Cristo (vol. VII).
5 Cfr. Omelie sulla Scrittura nell'età apostolica (vol. VIII).
302
era allora dominata dal potere imperiale. (N.B.: La Chiesa
si sviluppò anche nell'impero parto con le sue comunità di
lingua aramaica fondate nel nord della Siria e in Mesopo-
tamia, ma manchiamo di informazioni precise su questo
aspetto della sua storia, al quale il Nuovo Testamento non
fa alcuna allusione). Questo sarà l'argomento del volume
X, che coronerà in questo modo tutti gli altri 6 •
303
INDICE DELLE CITAZIONI BIBLICHE
Abacuc 5 175
3 51xx 266 9 173
18 228 10 159
14 166
Apocalisse 158-177 19 163
l 3 159, 184 20 90, 125, 176
4-8 160 21 169
4 172 4 163, 165ss
5s 173 2 163
5 16, 168 8 163, 172
6-7 170 9-10 294
6 161, 169, 212 9 174
7 161 11 165, 171
8 172 5 162, 164, 165ss, 173
9-20 162s l 167
9 150 5-6 167
10 160, 174 5 166
11 29 8 164
12 164 9-10 173
20 164 9 166, 167, 171
2 2-3 159 10 161, 169, 212, 294
5 163 12 171
6 170 13s 168
7 175 13 171, 250
10 174 14 170
11 73 6 2 162
14s 170 9 164
16 163 10 161, 171
17 174, 175, 2% 11 175
19 159 17 172
20 170 7 175
21-22 163 1-8 294
26s 288 9 164
26 280 10 172, 173
3 3 163 12 170, 171, 174,250
304
7 14 168, 175 13 162,264
8 3s 164 15 280,288
9 20-21 163 20 6 161, 169, 212
10 7 164 14 73
11 15 171, 173 21 160
17 169, 172 8 73
18 174, 172 14 170
19 164 26 290
12 1-13 173 22 1-5 275
lO 172 6-21 176
13 163 6 170
4 171 7 159
9 163 9 29
10 159 14-21 160
17 174, 175 14 175
18 163 20 115, 173, 188
14 1-2 294
l 163 Atti degli Apostoli
3 171, 294 l 3b 56
4b 294 4-8 56
11 174 5 54
12 159 6 282
15 1-4 175 20 288
2b-4 293-294 2 1-4 54
2 163 14-36 22
3 164, 171, 172 25-28 290
5 164 31 290
16 5-7 172 32-33 269
6 171 32 268
7 171 34 289
9 163 36 23,92
11 163 38 54, 55
18-19 174 41 128
18 172 42 23, 30
19 1-9 164, 174 46 23, 24, 39, 110
l 171, 172 3 11 21
2 172 12-4,1 233
3-6 170 12-26 22
5 170 13 233, 256
9 176 14 209
llss 162 18 242
11 290 21 242
305
3 24 242 10 1-2 22
25-26 233 34-43 22
26 282 36-43 58
4 . 5-12 21 39 219
12b 233 41 ~l
19-21 233 43 242
19-20 277 44-46 128
23-31 280-281 48 55
24-30 277-282 11 20-26 25
25 242 20ss 23
27 282 22 130
30 282 27-30 40
34-37 40 12 12 24
37 28 131 29, 130, 214
5 1-11 136 2 23, 130
2 38 8 137
3-4 40 10-11 137
27-33 21 15 242
30 219 16-39 22, 58
3ls 238 27 242
42 233 29 219
6 1-7 235 33 278, 288
1-6 38, 38 35 290
6 129, 131 46-47 137
9 24, 275 14 14-17 22
15 21 23 132
7 18 137 15 15 242
38 23 16 l 132
42 242, 249 13 21
52 209, 242 14 22
59 285 15 146
8 11-12 128 32 146
12 23 17 2-4 21
15-17 12 14-15 132
16 55 19-21 22
18-24 137 22-29 22
26-39 57-61 18 7 21
36-39 128 25 54
9 12 129 19 Jb-4 54
17 129 5-6 129
20-22 21 9-10 22
20 61 9 25
306
19 15 55 16-17 83
32 22 3 1-4 83
39 22 5-10 83
41 22 11 206
20 5 26 12-17 83
7-12 25s, 29, 122s 16 83, 85, 123, 193, 198,
13 26 224
21 23-26 30 17 191
23 23 256 18-4,1 83s, 218
25 16 256 18 148
288 129 20 148
23-28 257 4 2 191, 192
24-28 137 3 192
28 255 5-6 83
7-9 36, 81
Baruc 12 35, 192
3 12 266 17 35
3 264 16 184
9-4,4 264 18 188
32.37 264
38 267 l Corinzi
4 l 264, 266 l 2 82
3 197
Cantico 4-9 191
5 2 175 12 185
13-15 55
Colossesi 81 13 186
l 2 197 14-17 63
3-8 191 14 191
3 192, 197 2 1-5 20
9 171, 192 3 4-22 28
12-20 205 4 12 189
12-14 81s 16s 16
12 191 5 1-5 138
14 191, 239 7-8 112, 294
15-23 263 6 1-10 138
15-20 84, 200s, 205-206 11b 67
18-24 83 7 5 192
21-23 82 9 147
2 7 191 12-16 146
9-10 269 35-39 147
11-13 81 8,1-11,1 112
307
8 4-6 193, 194 20 183
101 65 23-25 185
16-21 112-114 23 28,48
16 89, 189, 191 25 187
18 221 26-40 183
26 296 26 29, 183, 193, 198, 224,
11-14 29, 123, 182-186, 192 274
11 42, 90, 181, 185 27-32 28
ls 16 32 29
2-12,31 26ss 33 29,82
2-16 26, 185 34-35 184
3-4 123 15 82
17-34 27, 30, 112 3-5 65, 194
18 10, 22 3-4 112, 193
20 22, 103, 112, 176 15 199
21 27, 185 25 289
23-32 114-116 27 290
23-26 186 32 199
23-25 97-l(Y), 111 16 1-4 40
24-25 115, 152 2 29, 41, 111
24 114, 191 12 28
25 90, 99, 101, 123, 155 15 146
26-32 112 17-18 26
12 213 22 115, 176, 188, 205
l 65, 183 24 188
3 193, 1%
9 129 2Corinzi
13 114 l l 35
27 114 2 1%
28-29 29 3-7 189, 191
30 129 5 1%
13 198, 200 8-11 199
3 40 8 65
14 181, 192, 213 11 192
1-39 26ss, 185 20 188
3 28, 123, 183 21 1%
6 185 22 175
12 183 2 3-9 139
13-17 192 lO 196
16 188, 189, 191 12 1%
17-18 191 14-17 199
18-19 183 14 196
308
2 15 196 12 l 184, 196
3 3 196 2 163
4 196, 199 8 192, 196
12 199 9 196
16-18 196 13 IO 196
4 l 199 13 188, 197
4 196
5-14 197 l Cronache
7-10 199s 25 183
15 191
5 6 196 Daniele
8 1% 3 27[94] lxx 119
IO 196 4 IO 82
11 196 12 51
14 196 20-22 51
16 196 30 51
18-20 134 7 8 244
18 139, 196 13 161
20 191, 1% 14 289
6 3-10 199 8 13 82
17-18 1%
7 8 139 Deuteronomio
11-12 139 l 8 244
8-9 40 30 239
8 4 19 6 IO 244
5 196 23 244
19-22 40 7 81xx 244
19 1% 9 246
21 196 12 246
9 9 2% 10 21 lxx 229
11-12 191 21 23 219
13 196 232 57
14 192 24 l 146
10 l 1%,256 29 13 244
5 196 30 20 244
7 256 32 4 294
8 196 42 295
14 196
18 1% Ebrei 152-158
11 2-3 196 l 3 263
4 197 5 278, 288
31 189 7-12 291
309
l 13 289 Efesini 84
2 6s 290 l 2 197
5 5 279, 288 3-14 84, 189, 201, 206-209,
6 289 217
7 124 7 239
6 4-8 139-141 13 175
4-5 62, 63 16 191, 192
4 61, 87 22 290
5b 124 2 4-16 200
13 233 6 87
7 l 239 20 29, 170, 91
8-11 155-157 3 14-21 84
8,3-10,18 123 20-21 190
8 5 124 20 191
6 124 21 188
8-12 124, 155 4,1-5,20 85
13 151 4 5 29
9 1-21 153 lO 202
13 62 11 29
15 124 30 175
19 62 5 4 191
20 123 5 138
21 62 14 87
24-25 153 18-20 224
28a 123 18 193
101 157 19-20 123
5-14 158, 291 19 85,193,274
JOa 62 20 191
lOb 124 5,21--6,9 85
12 124 5 21-33 85,149
14 124 22 148
16-17 124, 155 6 l 148
22 61, 62 4 148
32 61, 87 10-17 85
12 22-24 63 17 255
28 191 18 192s
132 40 21 36
6 290 24 188
9-15 124
lO 124, 152 Esodo
12 124 3 14 161, 172
15 125 9 29 186
310
12 111, 294 l l 130
46 116 3 197
15 2-18 294 4 193, 194
19 6 161, 169, 212, 214,221 5 188, 190
24 8 101, 102,123 16 113, 119
25 24 153 2 10 40
40 lxx 153,154 11 246
29 131 20 60
32 34 234 3 frl8 233
13 219
Ezechiele 16 78
9 4ss 175 24 77
2fr28 7ss
Filemone 35 27-28 83
1-2 35, 146 28-29 78
3 197 4 2-3 77
4-7 191 4-7 75ss, 78
4 192 6 79, 188
8-21 36 5 lfr21 82
22 192 19-21 138
25 188, 197 6 6 214
16 112, 197
Fili p pesi 18 188
l 2 197
3-11 191, 204 Genesi
4 192 l 27 146
9 192 2 22-25 145
14-17 21 24 85, 146, 149
19 192 14 17-20 154
27-30 204 18 126
2 1-3 204 16 11 lxx 228
5-11 301-205 17 47
fr11 168 7 231
6 205 9-14 47
10 168 18 18 231
3 10 204 22 17 231
4 4-7 205 29 32 lxx 228
6 191, 192, 204
20 188, 190 Geremia
23 197 7 18 lxx 249
8 2 249
Galati 107 294
311
19 13 249 18 270
23 5 240 43 265
31[38] 31-34 102, 114, 124 6 97, 296
155 11 92
33 15 240 3lss 175
31 175, 296
Giacomo 5lb-58 118, 119, 120
l l 37 55s 176
18 216 56 121
5 13-16 142 69 270
15-16 142 7 14 21
14-15 133 50 86
15 141 8 12 62
15-16 264
Giobbe 40 270
l 9-15 173 9 62
5 11 231 1-40 86-88, 92
12 19 231 35-39 88
16 19 250 38 62
25 2 250 39 140
31 2 250 10 1-18 121
3-4 264
Giovanni 11-17 264
l 1-19 260-273 27 264
23 52 32-33 270
26-31 54 34 285
30 270 38 121
35-51 54 11 1-14 86-88
2 1-11 145 25 88
17 288 25-26 88
3 1-10 86s 27 270
16 271 39-44 88
17 140 40 271
18 271 52 264
19 140 12 13 290
22-30 54 24 122
22 52, 54 27 283
24 52 31 173
26 52 37-43 264
32-33 264 41 271
4 29-30 270 13 1-20 62
5 2 264 l 264
312
13 10 50 3 1-2 88, 264
18 120 lO 264
20 265 4 2-3 211
14 lOs 121 9 271
20 121 15 61, 211
15 4-5 121, 176 5 1-4 88
7 176 2 264
13-14 299 l 87
25 285 16-17 141
16 14-15 271
17 5 264 2 Giovanni
21 121 7 211
24 264, 271, 272
26 272 Giuda 12 30
19 5 270
7 270 Giudici
14 116 l 24 243
24 288 8 35 243
27 265
28 275, 288 Isaia
31 116 2 10-22 199
39 86 6 166
42 116 2-3 153
20 l 25 9-10 138, 257
19 91 8 14 217
21-23 56 9 l 246
23 136 11 4b 280
25-26 91 14 12 lxx 87
31 270 256 126
21 12-13 92 28 16 214, 217
15-17 56 40 3-5 lxx 239
24 273 3 52
4 239
1-2-3 Giovanni 141 51xx 255s
41 8 231
l Giovanni 42 282
l l 264 6 257
2 268, 271 lO 172
2 l 141 43 20s 218, 221
19a 141 2ls 216
22 141 45 23 lxx 204
23 211 49 282
313
49 2 280 51 225
6 257 3 4-6 52
52-53 282 6 255
52 10 lxx 256 12 288
53 218 16-17 54
4-9 211 16b 52
7-8 lxx 58 17 52
11-12 101, 102 21 80
12 111, 123, 211 22 279
56 3b-5 57 4 4-5 239
59 7-8 295 10-11 291
8 246 7 27 256
603 291 8 28 239
61 1-10 131 38 133
63 7c 246 41 242
9 2 133
Levitico 16 95
8 131 10 1-12 133
21 20 57 34 . 133
11 1-4 24
Luca 225,259 2-4 78
l 16-17 239 4 136
3235 279 12 10 140
38 231 13 35 290, 291
42 231 15 11-32 92,135
45a 232 17 9 191
46b-55 225-235 18 16-17 87
48 239, 291 19 38 250, 290
56 232 20 17 286
67-79 225 41-44 286
68-79 238-248 22 7 117
68 291 14-20 97-109
80 51, 52 15-16 100, 110
2 1-7 248 15 110
8-16 248 18 91, 126
11 248 19 95, 120
14 225, 249-252 20 90, 91, 99, 123, 155
19 225 29-30a 110
22-38 252 30a 104
25-26 93 69 288
28-32 225, 252-258 23 6-12 281
38b 93 9 218
314
23 34 288 10 1-12 146
46 284 16 127
54 116 45b 101
24 42 11 9 290
l 25 10 250
13-35 92-97 27 21
30 23, 91 12 lOs 286
35 23, 91 19-23 143
39-43 91 35-37 286-288
45-51 56 1314 184
14 3-4 133
2 Maccabei 12-16 117
l 5 134 22-25 97-109
3 33 191 22-24 111
5 20 134 24 101, 111, 123, 155
7 33 134 25 90, 100
8 29 134 26 275,286
34 284
Malachia 36 77
l 11 221 61 218
3 l 231, 256 62 288
20 240 15 5 218
24 288
Marco 34 284
l 2 256 42 116
3 52 16 2 25
4 52, 239 12 95
6 51 14-18 56
7-8 54 14 91
10-11 80 16 56
13 291 18 129, 133, 289
14 52 19 289
15 52, 133
4 l 21 Matteo
13 100 2 11 291
5 7 239 21-23 248
23 127 3 3 52
6 5 127 4 51
13 133 11-12 54
7 32 127 llb 52
8 17 100 12 52
23-25 127 4 6 291
315
5 l 21 16-20 56
9-13 24 17-20 90
16 214 19 56
32 146
6 9-13 78 Numeri
12 136 24 18 230
19s 214
11 10 256 Osea
12 18-21 282 1-3 149
31-32 140 1341xx 249
16 136
17-19 135 l Pietro 210-223, 224
17 113, 119 l l 37,210
18 136 2 211, 212
2-4 21 1,3-4,11 215, 297
15-18 135 l 3-9 217s, 222s
19 1-9 146 3 212
9 146 4 214
12 57 7 212
13-15 128 10-12 214, 217, 222
28 110 11 211, 212
20 28b 101 12 212
21 9 250, 290 1,13-2,10 215
42 217, 286 l 13 212
22 41-46 284 18 213
23 39 290, 291 19 219
24 15 184 23 216, 297
39 119 2 1-3 296
2617 117 2 212, 216, 297
26-29 90, 97-110 3 63, 216
28 101, 111, 123, 129 4-10 161, 169, 212, 214, 217
29 100 220-222
30 275, 286 4 212
38 155, 284 5 212, 216, 221s
42b 79 6-8 290
64 288 9 212, 216
27 32 124 2,11-3,7 218
35 288 2 11ss 216
46 284 11 216, 297
62 116 12 211, 214, 218
281 25 20 214
lO 90 21 218, 222
316
2 22-24 211, 218s, 222, 263 8 22-26 266
22-23 211 30 266
25 219
3 l 148, 218 l Re
9-12 214 8 22 186
9 212 22 19 249
10-12 214, 297
11 216 2 Re
14 214 5 10.12.14 50
15s 219
15 222 Romani
18-22 219-220 1 2-5 193
18-19 211s 3-4 194, 195, 202
21 212 3 209, 267
22 212 5 72
4 3s 219 7 197
3 213 8 191
5 211 10 191, 192
6 212, 219 13 65
8-11 214 1)8-4,25 199
11 215 l 25 188, 189
12ss 215 2 5 295
13 212 14-15 70
14 212, 214, 222 3 4 295
19 211 JOb-18 294s
5 1-4 213 20 71
9 213, 222 4 233
12-14 215 7-8 295
12 210, 214 24 199
13 222 25 232
6 67-74, 75, 82
2 Pietro 4-5 82
l 16-18 37 7 l 65
l 20-21 37 25 191
2 5 220 8 14-17 78-80
13 30 15 188
3 4 162 26-27 192s
15-16 37 27 192
34 168, 192, 202
Proverbi 36 295
l 161xx 295 9 5 189
20-30 266 32s 219
317
10 l 192 16 285
9ss 193 19 288
9 199 27 104
11 2 192 29 171
36 190 23 5 104
12 l 222 24[23] 2%
fr8 41 31 6 284s
12 192 32[31] 1-2 295
13 40 33 9 214
14 189 34[33] 297
14 6 191 4 228
15 3 288 9 63, 216, 2%
9-11 295 11 231
2fr28 40 12-23 297
30 192 13-17lxx 214, 297
33 188 21 116
16 1-2 40 35 2 295
l 187 19 285
13 185 40[39] 7-9 158, 291
25-27 190, 199 41[40] lO 120
27 190 42[41] 6.12 284
43[42] 5 284
Salmi 44[43] 23 295
2 277-282, 288 45[44] 291
1-2 111, 277, 281 50 14.23 221
ls lxx 288 52[50] 6 295
5 111 20-21 295
7 288 53 2-4 295
9 288 62[61] 13 295
5 10 295 68[67] 10 288
6 4 162, 283s 69[68] 5b 285
8 3lxx 290 10a 288
10 7 295 22 285, 288
13 2 162 28 288
14 1-3 295 11[70] 19 250
7 290 12 290s
16[15] 8-11 290 74 10 162
18[17] 3 241 78[77] 296
30 295 19 3.5 111
19 lO 171 82[81] 6 285
21[22] 284 86 9 294
2 287 89[88] 6 82
318
89[88] 9 229 l Samuele
11 230 2 7-8 231
91[90] 291 2 228
11-13 291
92 6a 294 2 Samuele
96 l 172 22 3 241
98[97] l 172, 294
3 231 Sapienza
99 l 171 2 12 264
102[101] 26-28 291 7 14 264, 266
103[102] 17 229 25 266
104[103] 4 291 27 264, 266
106[105] 10 243 30 266
45 244 9 ls 266
107[106] 9 231 9 266
lO 246 11 21 230
109[108] 3 87
8 288 Siracide
110[109] 269, 288s 3,30-4,10 39
l 286,289 24 2-4 265
4 239 8 264
9 241 10-12 266
111[110] 9 229 22 266
111 2-4 171 28 8-13 39
112[111] 9 296 51 12 274
113-118 [112-117] 575, 286, 289
115[113b], 16 250 Sofonia
118[117] 289 l 15 199
l 295 3 17 229
22 214, 217, 286, 289
119 137 171 l Tessalonicesi
132[131] 17 241 l l 132, 197
136[135] 275 2-10 191
139 4 295 2 192
143[142] 3-4 228 9-10 20, 22, 198
144 9 172 lO 193, 194
145 17 171 2 13 191
147 6 231 3 9 191
148 l 250 lO 191
149 l 172 13 188
151 lxx 274 4 l 192
13 65
319
4 14 197 5 192
5 8 85 12-13 195
12-13 29 22 132
17 192 6 12s 193
18 191, 197 15-16 190
19-22 29 16 188
25 192 21 188, 197
27 35
28 188 2 Timoteo
l 2 197
2 Tessalonicesi 3 191, 192
l 2 197 6 132
3-12 191 2 8 193, 195
11 21, 192 11-13 201, 2(1)s
2 13 191 4 18 188, 190
15 16 22 188, 197
3 l 192
17 197 Tito
18 188 3 15 188, 197
l Timoteo Tobia
l 2 197 7,9b-l0,13 143
12 191 12 8-9 39
15 138
17 188, 190 Zaccaria
2-3 186-187 l 5 249
2 1-7 186 3 9 240
l 186, 191, 192 6 12 240
3-5 186, 195 12 10 161
5 193 14 5 82
7 21
8 186, 192
9-15 187
3 1-7 187
8-13 187
14-16 187
16 200s, 2(1), 263, 267
4 3-4 191
5 192
14 132
5 3-16 187
3-10 41
320
INDICE DEl TESTI E DEGLI AUTORI ANTICHI
321
De Viris Ili. 3: 31 1,22: 246
Epist 38: 216 11,1: 246
Giuseppe Flavio: 40, 51, 89 11,10; 11,8: 188
Vita iii,ll: 51 III,4-9; Vl,16; ecc.: 50
Giubilei: 50, 126 VIII,14: 52
21,16: 60 IX,19: 52
32,3: 131 IX,26: 189
Giustino: 33s, 80, 126 X,6: 189
I Apo/13: 89 X,l3-17: 189
61: 79, 220 Doc.Dam.
65-67: 41, 79 IV,20-21: 146
66: 86, 106 X,l0-11: 50
67: 32, 42, 89, 214 Rotolo del Tempio LVII,15-
Dia/: 33, 221 19: 146
Melitone di Sardi: 215, 219 Seneca: 144
Metodio: 279 Simbolo degli Apostoli: 211
Af~hna: 32, 38, 108 Talmud di Babilonia
Barakoth: 31 Yebamoth: 53
Pealz viii,?: 38, 39 Targum
Slzabbat: 31 TO e N: 203
Yebamotlz: 57 TO e TJ Neofiti di Dt 7,9.12:
Misteri del medioevo: 163 246
Niceta di Remesiana: 228 Tg d'Isaia: 246
Odi di Salomone: 174174 Tg di Giobbe: 252
Origene Tertulliano: 159
Omelie sui S. Luca: 228 De bapt. 8,1-3: 128
Papiro di Ossirinco: 198, 208 Testamenti dei XII patriarchi
.Filone Alessandrino: 89 Levi viii, lO: 49, 130, 131
De Somni~ 1,228-230: 266 IX,ll: 50
Haeres 127, 234: 266 Zabulon vii,3; viii,4: 246
LegAI/. 1,65; 11,86: 266 Testamento aram. di Levi: 49
Spec.Leg. 11,166s: 221 Bodleian col. a: 131
Plinio il Giovane: 36, 76 col. c,1-2: 50
Ep~t. X,96,7: 159, 220 Ghenizah del Cairo: 49
Plutarco Testimonia: 32, 279, 282, 295
Sull'amore: 144, 148 Tommaso d'Aquino
Salmi di Salomone: 249, 275 Swn.T11eol. Ia-llae, q.102, art.
Qumran: 287 5: 112
JQH: 208, 275 Tucidide: 252
4,29: 199 Tosefta. Berakoth: 31
11,6; 11,25: 189
JQS 1,20: 188
322
INDICE DEGLI AUTORI RECENTI
323
Erasmo: 200 242, 244
Farris, S.: 252, 254 Jiilicher, A: 210
Fau, G.: 148 Karrer, M.: 101
Feuillet, A: 158, 162 Kt!semann, E.: 74, 203, 205
Fitzmyer, J.A: 91, 92, 188, 201, Kastler, A: 66
227, 234, 251, 252 Kieffer, R.: 200
F1acellière, R.: 144 Krgmer, H.: 20
Follet, R.: 20 Kuhli, H.: 157
Friedrich, G.: 203 Kuhn, K.G.: 188
Furness, J.M.: 203 Lagrange, M.-J.: 31, 226, 244
Galot, J .: 262 l.amau, M.-L.: 185, 218
Georgi, D.: 203 Lamouille, A: 59, 60, 88, 122,
Giordani, L: 43 262
Gnilka, J.: 203 Laurentin, R.: 226, 227, 252
Goppelt, L.: 211 Leenhardt, F.-J.: 97
Gourgues, M.: 282 Léon-Dufour, X.: 89, 139, 146
Greenfield, J.C.: 49 Lietzmann, H.: 107
Grelot, P.: 184, 201, 207s, 218, Ligier, L.: 201
234, 252, 260 Lohmeyer, E.: 201, 203, 205
Grimal, P.: 144 Lohse, E.: 127, 130
Guignebert, Ch.: 20 Loisy, A: 208
Gy, P.-M.: 139 Malatesta, E.: 260
Haenchen, E.: 57 Marche!, W.: 188
Hainz, J.: 113 Marshall, LH.: 252
Hamman, A: 79, 159, 171 Martin, R.P.: 43, 182, 201, 203
Harnack, A von.: 215, 226 Masson, Ch.: 205
Hartman, L.: 54 Maurras, C.: 231
Haulotte, E.: 175 McHugh, J.: 227, 252
Henry, P.: 203 Merk, 0.: 21
Hollander, H.W.: 49 Merkel, H.: 82, 134
Holm-Nielsen, S.: 272 Messadié, G.: 120
Hoover, R.W.: 203 Michaéli, F.: 154
Hruby, K.: 130 Michaelis, W.: 203
Hunziger, C.-H.: 251 Miche!, 0.: 61
Hurtado, L.W.: 166 Milik, J.T.: 49
Jaubert, A: 98, 117, 165, 221, Miller, Ed.L.: 260
287 Monloubou, L.: 189, 191
Jean-Nemsy, Cl.: 301 Moore, G.F.: 38
Jeremias, J.: 38, 41, 57, 89, 97, Moraldi, L.: 50
111, 119, 126, 188, 201, 203 Morin, G.: 228
Jones, D.R.: 254 Murphy-O'Connor, J.: 185
Joiion, P.: 227, 234, 335, 239, Newmann, J.I-:1.: 15s
324
Oepke, A: 53 Schunack, G.: 72
O'Rourke, J.-J.: 159 Schiirmann, H.: 91, 97, 227, 252
Paolo VI: 113 Schweizer, E.: 203, 205
Patsch, H: 89, 103, 114 Scott, E.F.: 203
Perrot, C.: 32, 137, 146, 184, Seccombe, D.: 38
485, 219, 242 Selwyn, E.G.: 296
Pesch, R.: 108 Spicq, C.: 61, 124, 128, 130, 131,
Peterson, E.: 171 132, 152, 157
Pio XII: 12 Stone, M.E.: 49
Prigent, P.: 159, 160, 166, 168, Strecker, G.: 203
174, 176 Thomas, J .: 50
Propp, V.: 92 Thyen, H.: 260
Priimm, K: 20 Tobin, T.H.: 271
Radermakers, J.: 51 Torrey, C.C.: 236, 237
Richardson, R.: 107, 108 Tournay, R.-J.: 277
Richter, G.: 267 Tresmontant, C.: 242, 299
Ricoeur, P.: 99, 102 Tuilier, A: 56, 79, 108
Riesenfeld, H.: 114 Van Belle, G.: 260
Rigaux, B.: 194, 198 Vanhoye,A: 161,168,169
Ritt, H.: 266 Vanni, U.: 158, 160, 163
Robinson, J.AT.: 86 Vaux, R. de: 130, 131, 143
Robinson, J.M.: 190 Vogels, H.-J.: 212
Rordof, W.: 56, 79, 107, 108, Vogt, E.: 251
213 VOikel, M.: 62
Sanders, J.T.: 200 Wartelle, A: 79, 106
Sandevoir, P.: 214 Werner, E.: 189
Saulnier, C.: 163 Westermann, C.: 190
Schenk, W.: 190 White, J.L.: 190
Schillebeeckx, E.: 23, 75, 299 Windisch: 215
Schlier, H.: 65, 132, 133 Winter, P.: 232
Schlosser, J .: 217 Wright, N.T.: 206
Schmithals, W.: 64 Ziegler, J.: 239
Schnackenburg, R.: 54, 62, 141, Zimmermann, F.: 236, 237
208, 262 Zumstein, J.: 99
Schultess, F.: 51
325
INDICE ANALITICO
326
titolo secondo Paolo: 195, Lode: 171
197 Luoghi di riunione cristiana: 23-
secondo 1Pt: 211s 25
predicazione secondo 1Pt: Luogo santo: 153-154
214 Magnificat: 225-238, 276
Giorno (grande): 52 Mandei: 55
Giovanni (Aposolo, profeta o Maranatha: 115, 176, 188
presbitero): 29 Masbotei: 51
Giovanni Battista: 51-52 Matrimonio: 143-150
Giovanni (seguaci di): 129 Melchisedek: 154-155
Glossolalia: 184 Memoriale: 103-104
Grazia (e battesimo): 72 Messia trionfante: 167
Guarigione: 129, 133-134 Metafora viva: 99
Illuminazione (e battesimo): 61s, Minfm: 30-31
87-88 Missione, per imposizione delle
Imposizione delle mani: 127-133 mani: 130
Iniziazione cristiana (cfr. Misterici (culti): 48
Battesimo) Monogamia: 143
Inni Morale cristiana, e battesimo:
nel NT: 224-273 83-85
in Paolo: 198-210 Morte di Gesù
in 1Pt: 217-219 sacrificio: 152
in Ap: 170-174 e battesimo: 65s
Pap. di Ossir.: 198 Musica a Corinto: 183s
Intercessione: 192 Nascita nuova: 86s
Interpretazione (carisma a Natale, cantico celeste: 248-252
Corinto): 184s Nazareni: 31
Intronizzazione del Messia: 167- Nazioni e Israele: 257-258
168 Nome nuovo: 174
Israele e le nazioni: 257-258 Nunc Dimittis: 252-258
Kerygma: 20-22, 58 Ordinazione: 131
Kyrios: 196 Paolo
Legare e sciogliere: 135-136 sposato?: 146
Legge e grazia: 71-73 apostolo: 130
Lettere (saluti): 197 Parabola: 49-100
Letture bibliche: 31-35 Parola di Dio: 266
delle lettere apostoliche: 35- Pasqua
38 ed eucaristia: 116-117
Lingue (cfr. Glossolalia) e Apocalisse: 169
Liturgia Passione di Gesù e Salmi: 287s
teologia: 151-177 Pasto con il Cristo risorto: 90-97
celeste secondo Ap: 165-167 Peccato
327
e battesimo: 66-70 Rivelazione (a Corinto): 184
contro lo Spirito: 139-142 Sabato: 31-32
Peccatori (riconciliazione): 134- Sacerdozio (e sacrificio): 168-170
142 Sacramento: 149, 174-176
Penitenza: 139 Sacrificio
Pentecoste: 54 del Cristo: 156-158
Pienezza dei tempi: 76 e sacerdozio: 168-170
Poligamia: 143 spirituale: 220-222
Poveri: 38-42 Salmi: 224-297
Predicazione del Vangelo: 20-22 Saluti nelle lettere: 194-195, 197
Prefigurazioni liturgiche del Samaritani: 128-129
Cristo: 153-158 Santuario pagano: 19s
Preghiera Sapienza personificata: 265-266
i verbi: 191-193 Semikah: 131
e Salmi: 274-297 Servo sofferente: 218s
in spirito: 192-193 Sigillo: 175
Preghiere, in Ap: 172-173 Signore (titolo): 196
Presbiteri: 132, 213 Sinagoga: 21, 30-42
Presenza del Cristo risorto: 103- Spirito: 74-80, 128-129, 192-193,
104 212
Presidenza delle assemblee: 29 Storia (e racconto): 102-103
Profezia (a Corinto): 185 Tempio celeste: 163-164
Prologo di Giovanni: 260-273 Tempio di Gerusalemme: 19
Proseliti (e battesimo): 53 Tenda del deserto: 153, 155
Purificazione e battesimo: 62-63 Titoli di Gesù: 195-197
Qaddfsh: 24 Trishagion: 166s
Raccomandazione: 186 Unzione
Racconto, analisi strutturale: 92 dei malati: 133s
Racconto e cena: 97-109 sacerdotale: 131
Redenzione: 82, 165-170 Vescovi: 187
Regalità del Cristo: 288-291 Vesti bianche: 175
Regno di Dio: 100 Vigna ed eucaristia: 121s
Riconciliazione: 82, 134-142 Vino (assenza nell'eucaristia):
Risurrezione del Cristo (e 126
battesimo): 65-66, 87-88 Vita nuova: 70
328
Indice
Premessa Pa g. 9
parte prima
IL CONTESTO DELLA LITURGIA CRISTIANA
capitolo primo
Le riunioni come ccChiesan 19
I. La specificità delle assemblee cristiane 20
l. La predicazione pubblica del Vangelo 20
2. Le «riunioni come Chiesa» 22
II. Gli elementi costitutivi delle assemblee di Chiesa » 29
l. Elementi presi dalla liturgia sinagoga/e 30
2. Gli elementi specificamente cristiani 42
parte seconda
LA LITURGIA VISTA ATTRAVERSO l TESTI
capitolo secondo
L'iniziazione cristiana e il battesimo 47
I. Il rito del battesimo 49
l. Alle origini del rito 49
2. I formulari del rito 55
329
II. I commenti al rito Pag. 61
l. Le allusioni della lettera agli Ebrei 61
2. Un 'omelia battesimale: Romani 6 63
III. Liturgia e teologia del battesimo 74
l. Il ricevimento dello Spirito e della filiazione divina 74
2. Dall'esperienza battesimale alle regole della vita cristiana 80
3. Il battesimo nella teologia di Giovanni 85
capitolo terzo
La cena del Signore 90
l. I pasti con il Cristo risorto 90
l. Importanza di questa annotazione 92
2. La cena di Emmaus 93
II. I racconti della Cena 97
l. Contenuto del racconto 98
2. Funzione del racconto 103
III. Riflessioni sulla prassi eucaristica 109
l. I racconti della Cena 109
2. La teologia eucaristica di Paolo 111
3. La teologia eucaristica di Giovanni 116
4. Altre allusioni eucaristiche 122
Conclusione )) 125
capitolo quarto
Altri riti liturgici 127
l. L'imposizione delle mani 127
l. Imposizione delle mani e ricevimento dello Spirito 128
2. Imposizione delle mani e guarigione dei malati 129
3. Collazione di una missione particolare 130
4. Collazione delle funzioni nella Chiesa 130
Il. L'unzione dei malati 133
III. La riconciliazione dei peccatori 134
l. Parole di Gesù 134
2. Alcuni casi di peccati pubblici )) 136
3. I casi di riconciliazione impossibile 139
IV. Il matrimonio dei battezzati 143
l. Il matrimonio: cerimonia familiare 143
2. I problemi pratici 145
3. Il significato cristiano del matrimonio 148
330
capitolo quinto
Riflessione teologica sulla liturgia Pag. 151
I. La lettera agli Ebrei (di P. Grelot) 152
l. Le prefigurazioni liturgiche del Cristo 153
2. La realtà prefigurata 156
II. L'Apocalisse (di E. Cothenet) 158
l. Contesto globale del libro 159
2. Lo sfondo liturgico 163
3. Celebrazione della creazione e della redenzione 165
4. Gli inni 170
5. Allusioni sacramentali 174
Conclusione 176
parte terza
RACCOLTA DI TESTI LITURGICI
capitolo sesto
Contributi liturgici delle Lettere 181
I. Le lettere di Paolo (di M. Carrez) 181
A. DUE TIPI DJ CULTO NEL CORPUS PAOLINO 181
l. Nella comunità di Corinto 182
2. Nelle lettere pastorali 186
B. l FORMULARI LITURGICI NELLE LETTERE 187
l. Formulari semplici 188
2. I verbi della preghiera 191
3. Le confessioni di fede » 193
4. I titoli di Gesù 197
5. I saluti iniziali e finali 197
C. INNI DELLE PRIME GENERAZIONI CRISTIANE 197
l. Passi poetici in Paolo 198
2. Inni propriamente detti 200
La prima lettera di Pietro (di E. Cothenet) 210
l. Formule di fede 211
2. Le assemblee di preghiera 212
3. 1Pt come uno scritto liturgico? 215
4. La benedizione d'apertura (1,3-9) 217
5. Inno a Cristo, Servo sofferente (2,22-24) 218
6. Tipologia del battesimo (3,18-22) 219
7. L'offerta di sacrifici spirituali (2,4-10) 220
Conclusione 222
331
capitolo settimo
Salmi, inni e cantici cristiani Pag. 224
I. Vangelo secondo Luca (di P. Grelot) 225
l. Il cantico di Maria (Le 1,46b-55) 225
Excursus: Nota su una ritraduzione semitica 235
2. Cantico di Zaccaria >) 238
3. Il cantico della notte di Natale 248
4. Il cantico di Simeone (Le 2,29-31) >) 252
Conclusione 259
II. Il Vangelo secondo Giovanni (di G. Rochais) 260
Note di critica testuale 262
l. L 'inno nella sua forma primitiva: generalità 263
2. La prima strofa primitiva 264
3. La seconda strofa 268
4. Dall'inno al prologo di Giovanni 272
capitolo ottavo
l salmi, preghiera cristiana 274
I. Una preghiera costruita sul Salmo 2 277
l. Analisi di A t 4,24-30, basato sul Salmo 2 277
2. Le altre letture cristologiche del Salmo 2 278
3. L 'adattamento della citazione al suo contesto in Atti 4 280
II. La ripresa dei salmi cristologici 282
l. Citazioni nelle parole di Gesù 283
2. Citazioni nell'annuncio del Vangelo 287
III. I salmi e la vita cristiana 291
Conclusione generale 298
Indice delle citazioni bibliche 304
Indice dei testi e degli autori antichi 321
Indice degli autori recenti 323
Indice analitico 326
332