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Prof.

Valli don Norberto

94015

INTRODUZIONE ALLE LITURGIE OCCIDENTALI

Pontificio Ateneo S. Anselmo

Pontificio Istituto Liturgico

Anno Accademico 2020-2021

1
Il contenuto di queste dispense riprende in parte, rivede e amplia notevolmente gli appunti delle lezioni
del prof. G. Ramis, titolare del corso fino all’anno accademico 2006-2007.

INTRODUZIONE

Bibliografia generale

A. BAUMSTARK, Liturgie comparée. Principes et méthodes pour l'étude historique des liturgies chrétiennes,
Paris-Chevetogne 1953 3.

B. BOTTE, Liturgie dell'Occidente, in A. G. MARTIMORT, La Chiesa in preghiera, Roma 1963, 28-36.

E. CATTANEO, Introduzione alla storia della liturgia occidentale (Liturgica 2), Roma 1969.

A. A. KING, Liturgies of the Primatial Sees, London-New York-Toronto 1957.

IDEM, Liturgies of the past, London 1959 [versione francese: Liturgies anciennes, Paris 1961].

R. LEIKAM, “La liturgia delle Ore nell'Occidente non romano”, in Scientia liturgica 5, ed. A. Chupungco, Casale
Monferrato 1998, 131-147.

J. PINELL, De liturgiis occidentalibus cum speciali tractatione de liturgia hispanica 1-2 (pro manuscripto), PIL,
Roma 1967.

IDEM, “Liturgie locali antiche (origine e sviluppo)”, in Nuovo dizionario di Liturgia, edd. D. Sartore – A. M.
Triacca, Roma 1984, 776-783.

J. PINELL – G. RAMIS, “Liturgie locali antiche”, in Liturgia, edd. D. Sartore – A. M. Triacca – C. Cibien, Cinisello
Balsamo 2001, 1098-1109.

G. RAMIS, “Le famiglie liturgiche in Occidente”, in Scientia liturgica 1, ed. A. Chupungco, Casale Monferrato
1998, 40-46.

G. RAMIS, “Libri liturgici occidentali non romani”, in Scientia liturgica 1, ed. A. Chupungco, Casale Monferrato
1998, 331-342.

G. RAMIS, “Celebrazione eucaristica nell'Occidente non romano”, in Scientia liturgica 1, ed. A. Chupungco,
Casale Monferrato 1998, 261-276.

G. RAMIS, “L'anno liturgico nell'Occidente non romano”, in Scientia liturgica 1, ed. A. Chupungco, Casale
Monferrato 1998, 246-254.

G. RAMIS, “Liturgical Families in the West”, in Handbook for Liturgical Studies 1, ed. A. Chupungco,
Collegeville - Minnesota 1997, 25-32.

G. RAMIS, “Liturgical Books of the Non-Roman West”, Handbook for Liturgical Studies 1, ed. A. Chupungco,
Collegeville -Minnesota 1997, 315-327.

M. RIGHETTI, Manuale di storia liturgica 1, Milano 1964 (ediz. anastatica 1998), 101-185.

2
M. SMITH, «Ante altaria». Le rites antiques de la messe dominicale en Gaule, en Espagne et en Italie du Nord,
Cerf, Paris 2007.

M. SMITH, La liturgie oubliée: la prière eucharistique en Gaule antique et dans l'Occident non romain, Cerf,
Paris 2003.

A. M. TRIACCA, Le liturgie occidentali, in Dizionario Patristico di Antichità Cristiane 2, 1985-1990.

IDEM, “Teologia dell'anno liturgico nelle liturgie occidentali antiche non romane”, in Anamnesi 6. L'anno
liturgico, Marietti, Genova 1988, 309-366.

C. VOGEL, Introduction aux sources de l'histoire du culte chrétien au Moyen Age (Biblioteca degli Studi
Medievali 1), Spoleto 1966.

1. Un primo sguardo sintetico

Molti sanno che l’Oriente cristiano è caratterizzato da una varietà di riti, i quali
costituiscono un patrimonio di straordinario valore e una ricchezza per l’intera Chiesa.
Appare, invece, meno diffusa la consapevolezza che anche in Occidente, accanto al rito
romano, si sono sviluppate diverse liturgie, sopravvissute in minima parte, benché con
espressioni ancora oggi assai rilevanti. Sia in Oriente che in Occidente, infatti, le Chiese
crebbero radicate nella loro storia particolare, servendosi dei mezzi culturali a loro
disposizione. È utile precisare quale accezione ha il termine “rito”. Seguendo J. Pinell, si
può definire così il complesso di testi e disposizioni che una determinata chiesa ha
prodotto allo scopo di interpretare e attuare nel migliore dei modi le norme di tradizione
apostolica che riguardano la vita sacramentale. Ogni rito, in genere, attraversa nella sua
storia una fase di gestazione, una di grande creatività e, da ultimo, una di vera e propria
codificazione. Laddove si è prodotto, questo processo denota una peculiare assimilazione
del deposito della fede, trasmesso dagli apostoli, da parte di una comunità cristiana, la
quale, celebrando in un modo a lei proprio la liturgia, mostra di comprende se stessa come
chiesa di Cristo fedele al mandato del suo Signore e in grado di accrescere il patrimonio
liturgico dell’intera cristianità1.
Nell’area del Mediterraneo occidentale la fase della creatività si può collocare a metà
del V secolo. I testi che allora venivano composti corrispondono concretamente al tempo e
alle esigenze delle comunità per le quali erano pensati. Furono, in seguito, i compilatori dei
libri liturgici a rivederli e, talvolta, a ritoccarli e a completarli, perché aderissero alle
esigenze di una pianificazione complessiva delle celebrazioni annuali e acquistassero
validità al di là del contesto in cui erano nati.
Non tutti i riti dell’Occidente hanno attraversato pienamente le tre fasi necessarie per
una compiuta evoluzione e solo alcuni hanno mantenuto vitalità. Nulla è sopravvissuto
delle forme rituali dell’Africa latina, se non qualche residuo rintracciabile altrove. La
liturgia celebrata in quelle terre interruppe il proprio sviluppo in concomitanza con lo
sradicamento del cristianesimo. Pochissimo si è salvato di ciò che fu prodotto a Benevento
e nel territorio dell’attuale Campania. Dai documenti rimasti è facile intuire l’avvenuta
assimilazione al rito romano. Così è accaduto per il rito gallicano, anch’esso recessivo
rispetto al prevalere della liturgia della chiesa di Roma: benché non manchino

1
Per queste e le seguenti osservazioni cf. J. PINELL, “Liturgie locali antiche (origine e sviluppo)”, in
Nuovo dizionario di Liturgia, edd. D. Sartore – A. M. Triacca, Roma 1984, 776-783.
3
testimonianze di una codificazione della liturgia sorta nelle Gallie, il loro carattere
disparato testimonia l’assenza di un centro unificante e l’impossibilità di resistere
all’imposizione degli usi romani. Si deve, infatti, considerare la decadenza della stessa
Lione in età precarolingia.
Diversa, invece, è stata la sorte del rito ambrosiano che, pur condizionato lungo i secoli
dalla vicinanza di Roma, riuscì a mantenersi vivo, grazie all’autorità dei vescovi di Milano
ed è ancora presente in quasi tutta l’archidiocesi (a cui appartengono anche parrocchie, per
ragioni storiche, divenute di rito romano dopo essere state “patriarchine”) e in una parte
delle diocesi di Lugano, Bergamo, Novara e Lodi. Si presenta, quindi, come la liturgia
occidentale non romana praticata dal maggior numero di fedeli. Il suo rinnovamento,
ispirato alle direttive conciliari, è tuttora in corso e, dopo la pubblicazione del messale, del
lezionario, di alcuni rituali e dei diversi volumi della Liturgia delle ore, mira a completare
la revisione dei restanti libri liturgici. Del rito ambrosiano si evidenzieranno durante il
corso gli aspetti più significativi per quanto riguarda l’anno liturgico, il lezionario,
l’eucologia e la sua comprensione teologica.
Un’altra sede di grande importanza nel Nord-Italia fu per secoli Aquileia, anch’essa
contraddistinta da proprie consuetudini, che davano forma al rito detto “patriarchino”,
abolito nel 1596 a favore del rito romano. Se nella fase più antica, attestata dagli scritti del
vescovo Cromazio, la liturgia aquileiese appare affine a quella di Milano, già dal secolo
VIII, per influsso dell’ambiente carolingio, risulta sotto l’influsso di Roma.
Passando all’Europa del Nord, sono state tramandate testimonianze manoscritte di un “rito
celtico”, proprio dell’Irlanda, che non riuscì mai a raggiungere una completa e originale
elaborazione e si estinse molto precocemente.
Da ultimo, la penisola iberica ha visto la formazione e lo sviluppo del rito ispanico (o
mozarabico, dal nome dei cristiani rimasti fedeli sotto l’occupazione araba) che, soppresso
nel 1080 da papa Gregorio VII, si conservò, grazie a re Alfonso VI, in alcune parrocchie di
Toledo. Attualmente la sua custodia e la sua promozione sono affidate al Capitolo
canonicale della Cappella del Corpus Christi nella cattedrale di Toledo, che celebra
quotidianamente in questo rito, rinnovato anch’esso a partire dal 1982, secondo lo spirito
della riforma conciliare. Circa il rito ispanico si deve ammettere la difficoltà a sintetizzarne
in poche righe l’articolazione, dal calendario all’ordinamento della messa e della liturgia
delle ore. Rimandando a un successivo approfondimento, si segnala qui soltanto la spiccata
accentuazione cristologica dei formulari, la ricchezza delle orazioni, dallo stile ampio,
solenne e intessuto di parallelismi, e la singolare modalità di composizione della Preghiera
eucaristica, nella quale, come già accadeva nel rito gallicano, è mantenuto fisso solo il
racconto dell’istituzione.
La sede metropolitana di Braga, nell’attuale Portogallo, ebbe anticamente una liturgia
dotata di proprie specificità, delle quali l’unificazione politica della penisola iberica, con la
conversione dei Visigoti nel 589, determinò la scomparsa a vantaggio del rito ispanico.
Oggi dunque, in Occidente, oltre al rito romano, con una loro autonomia ed evidenti tratti
distintivi sussistono solo il rito ambrosiano e il rito ispanico. Le particolari forme rituali
mantenute da alcuni ordini religiosi si possono ritenere semplici varianti della liturgia
romana.
Se in una visione d’insieme, i vari riti appaiono liberi e indipendenti nella strutturazione
dell’ufficio divino, quanto alla celebrazione eucaristica tendono ad avvicinarsi, pur nelle
diversità che distinguono l’uno dall’altro.

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Nella prima parte del nostro corso affrontiamo questioni di carattere generale che
intendono favorire lo studio specifico delle liturgie occidentali. Costruendo una sorta di
cornice che ci aiuti a inquadrare l’argomento, ci collochiamo al momento sorgivo, ossia nei
primi tre secoli dell’era cristiana, in un arco di tempo nel quale la documentazione liturgica
non è né abbondante, né esplicita.
Sia consentito premettere una constatazione: nel NT non compare mai il termine “liturgia”
per designare un’azione cultuale (se si fa eccezione di At 13,2 dove ricorre il verbo
corrispondente associato a quello che indica il digiuno). Ciò non significa però che la
primitiva comunità di Gerusalemme e quelle che da essa sarebbero presto derivate non
conoscessero forme di culto liturgico. Se mai ciò indica la “novità” del culto cristiano, rispetto
al culto giudaico. Nella traduzione greca dell’AT, infatti, il termine “liturgia” aveva assunto
una connotazione sacrificale, levitico-templare. Gli autori del NT per non incorrere in
indebite sovrapposizioni di significati preferiscono allora non usare la parola “liturgia” per
indicare le diverse forme celebrative che pure sono documentate.
La Chiesa apostolica infatti conosce la Cena del Signore. Lo testimonia anzitutto Paolo che
ne parla in 1 Cor 11 come di un dato “tradizionale” nel senso etimologico del termine. Gli
esegeti riconoscono che l’apostolo riferisce quanto Gesù ha compiuto, secondo una
formulazione stilistica chiaramente liturgica. Lo stesso si dica delle narrazioni dei Sinottici.
Altro rito che esiste fin da principio nella chiesa apostolica è il battesimo “nel nome di Gesù”
o battesimo “nello Spirito santo”, distinto dal lavacro di purificazione praticato anche da
Giovanni. Il fatto che Mt 28,19-20 riferisca il comando di Cristo di battezzare nel nome del
Padre e del figlio e dello Spirito santo, cioè secondo una forma ben definita, ci testimonia
come verso il 70 d.C., epoca a cui risale il vangelo di Matteo, il mandato di Gesù fosse
vissuto in modo rituale.
La Chiesa apostolica possiede dunque già una sua liturgia, le cui manifestazioni principali
sono il battesimo e l’eucarestia. Questi riti affondano le loro radici in prassi tipiche del mondo
ebraico, ma si presentano in un’altra dimensione, del tutto nuova, rispetto ad esse. Potremmo
dire che la presenza della celebrazione eucaristica e battesimale è principio teologico-liturgico
dal quale non si può prescindere per dire l’esistenza della Chiesa di Gesù. In fedeltà al suo
comando, le prime comunità strutturano una propria liturgia, seguendo il solco della
tradizione ebraica, nel preciso intento di perpetuare in segni memoriali-rituali l’avvenimento
della salvezza operatasi in Cristo.
Il Nuovo Testamento attesta che da Gerusalemme e da Antiochia il cristianesimo arriva
a Roma. Accanto a uno sviluppo orientale del cristianesimo si dà allora anche uno sviluppo
occidentale; Roma, in particolare, custodendo la memoria del martirio degli Apostoli
Pietro e Paolo, assumerà via via un ruolo primaziale per tutte le Chiese.

2. Considerazioni sull’origine delle “famiglie liturgiche”

Il secolo III vede fiorire attorno alle primitive sedi episcopali nuove comunità cristiane
che, crescendo in importanza, esigono di avere anch’esse a capo un proprio vescovo. Sono
comunità minori che vengono a costituirsi nei villaggi e nelle campagne, i cui vescovi
(detti chorepiscopi) rivestono una posizione subalterna, rispetto a quello della città da cui
era partita l’evangelizzazione. Il concilio di Ancira del 314 vieta loro di ordinare diaconi e
presbiteri. Il concilio di Antiochia del 341 specifica che il corepiscopo può istituire lettori,
suddiaconi ed esorcisti, ma non può ordinare diaconi e presbiteri senza il previo consenso
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del vescovo della città da cui dipende. Il concilio di Sardica del 345 arriva a vietare che si
consacrino vescovi nei villaggi o nelle piccole città per non avvilire il titolo e l’autorità
episcopale, bastando allo scopo un presbitero. Il concilio di Laodicea, di poco posteriore,
ritiene che per le campagne e i villaggi siano sufficienti presbiteri itineranti, sempre
dipendenti dal vescovo della città.
Questi dati ci fanno comprendere che le chiese locali, pur avendo a capo un vescovo,
divennero ben presto irradiazioni della Chiesa madre, alla quale facevano riferimento in
particolare quanto alla materia liturgica.
Il sorgere e l’affermarsi delle cosiddette “famiglie liturgiche” coincide con il tempo in cui
sono all’opera forze centrifughe nella compagine dell’Impero romano, ormai entrato nella
fase del declino che non sarà arrestata né dalla suddivisione amministrativa di Diocleziano,
né tanto meno dal trasferimento della sede dell’Impero a Bisanzio, da parte di Costantino.
Sbaglierebbe tuttavia chi facesse della situazione politica la causa delle differenziazioni
liturgiche. È, al contrario, una pura coincidenza o per lo meno un effetto del tutto
secondario di ciò che stava accadendo in quel momento storico. Vediamo meglio la
questione.
Il declino della centralizzazione fino ad allora propria dell’Impero romano contribuisce a
far passare la “chiesa-madre” a “chiesa della città-madre”, ossia a “chiesa della metropoli”
politica che diventa così metropoli ecclesiastica. Già la primitiva organizzazione ecclesiale
di epoca apostolica aveva rimarcato il ruolo di alcune “Chiese apostoliche” a cui tutti
potevano guardare per avere riferimenti dottrinali chiari. Del resto l’evangelizzazione si
estendeva nelle province dell’Impero a partire normalmente dal capoluogo o comunque da
un centro particolarmente importante. In tal modo si verifica una sorta di inquadramento
delle Chiese nell’organizzazione giuridica vigente. E così Roma, Alessandria, Antiochia si
trovano a capo di un gruppo di province ecclesiastiche che corrispondono a un analogo
gruppo di province civili e i loro metropoliti assurgono a un ruolo patriarcale ante litteram
Si può comprendere come la liturgia dovesse risentire di tutto questo movimento per il
quale le diverse chiese tendevano a riconoscersi in una propria Chiesa-madre di origine
apostolica.
Le famiglie liturgiche hanno dunque all’origine un fenomeno di polarizzazione verso un
centro.
Questo vuol dire che le grandi metropoli, esercitando il loro influsso nella propria zona a tutti
i livelli, diventano determinanti in ambito liturgico. La liturgia celebrata nella metropoli
veniva presa come modello. Quando parliamo di liturgia ci riferiamo soprattutto ai testi, in
un’epoca ancora segnata dall’improvvisazione. I testi adoperati dal Vescovo metropolitano
cominciavano a essere usati da altri, a essere conservati per successive celebrazioni della
medesima festa. Così nascono i libelli che pian piano diventeranno i libri liturgici.
Le due grandi metropoli che hanno generato le famiglie liturgiche orientali sono state
Antiochia ed Alessandria. A queste si deve aggiungere posteriormente Bisanzio. La loro
liturgia si conservò a lungo in greco, la lingua nella quale era giunto a loro l’annuncio del
Vangelo, come dimostrano le testimonianze più antiche che in ambito alessandrino sono
l’Eucologio di Serapione e il cosiddetto papiro di Strasburgo, mentre in ambito antiocheno le
Costituzioni apostoliche che mostrano un legame strettissimo con la stessa Didaché.
Il corso di Introduzione alle Liturgie orientali vi darà tutte le informazioni necessarie per
conoscere lo sviluppo e le fonti dei diversi riti. Qui basti dire che il ceppo antiocheno, avendo
anche un nucleo giudeo-cristiano di lingua aramaica, ha dato vita alle liturgie siro-orientali,
accanto a quelle siro-occidentali che si manterranno in lingua greca, anche quando, come a

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Gerusalemme nel sec. IV, la lingua corrente era il siriaco2. Il greco, del resto, divenne ben
presto la lingua dell’ortodossia in opposizioni al siriaco adottato dai monofisiti e dai
nestoriani.
Anche le liturgie che fanno capo ad Alessandria, sotto la pressione dei movimenti che
spingevano a sottrarsi sempre più dall’egemonia di Costantinopoli, sia sul piano politico che
su quello religioso, trovarono nell’elemento linguistico un fattore importantissimo: dopo
Calcedonia tradussero la loro liturgia in copto-sahidico (Alto Egitto) e in copto-bohairico
(Basso Egitto).
Noi ci occupiamo qui specificamente dell’Occidente, in cui nel IV-V sec. sorge la grande
famiglia liturgica occidentale, che si caratterizza per le diverse forme assunte: romana,
ambrosiana, ispanica, gallicana, celtica. Senza alterare in alcun modo la forte base
scritturistica, la liturgia latina è immagine di un cristianesimo fortemente ripensato nei gesti e
nelle parole, grazie al contatto con una cultura dinamica. Da ciò la creatività e la ricerca di
formule confacenti al contesto.
Accanto a Roma e Milano, altri centri propulsori nell’Occidente cristiano sono Cartagine
per quanto riguarda l’Africa, Lione per la Gallia, in cui non si ha traccia dell’esistenza di
altre metropoli. In Spagna, in una prima fase, emerge solo Tarragona, la Tarraco
imperiale, poi, Siviglia (Italica) e anche Merida (Emerita Augusta); finalmente, Toledo.

3. Il cristianesimo in occidente dalla seconda metà del secondo secolo alla fine del
terzo secolo

Sapendo di poter contare sulla complementarietà del corso di Lettura liturgica dei Padri
e di Eucarestia nella storia, prima di mettere a tema le differenziazioni che si sono operate
nel corso dei secoli sul piano della celebrazione liturgica dei misteri della nostra salvezza,
ci limitiamo a dare uno sguardo alle testimonianze occidentali più antiche che attestano la
presenza di comunità ecclesiali in occidente, tralasciando documenti preziosissimi di area
orientale come Didaché, Didascalia e Costituzioni degli Apostoli, Testamentum Domini,
che avrete modo di studiare in altri corsi.
In questo primo approccio alle fonti non entriamo direttamente in questioni di carattere
liturgico. Ci basta evidenziare la diffusione del cristianesimo nell’Occidente non romano,
sulla base dei dati che alcune testimonianze ci offrono.

3.1. Ireneo

Il primo testimone che abbiamo dell'espansione della Chiesa in Occidente al di fuori Roma
è Ireneo, un orientale, originario dell’Asia minore, di cui parla Eusebio di Cesarea nella
Storia ecclesiastica (V,3-8). Da fanciullo, a Smirne, verso il 145-150 Ireneo ascoltò san
Policarpo, discepolo dell’evangelista san Giovanni (era nato dunque verso il 135-140). Di

2
Cf Peregrinatio Etheriae, 46: Il vescovo benché conosca il siriaco parla tuttavia sempre in greco
e mai in siriaco; per questo egli è sempre assistito da un presbitero il quale traduce in siriaco ciò
che il vescovo dice in greco, affinché tutti lo possano comprendere. Lo stesso avviene per ogni tipo
di letture: poiché è obbligatorio leggerle in greco, è sempre presente qualcuno che le traduce in
siriaco per il popolo. E se vi sono dei latini, che non comprendono né il siriaco, né il greco non
devono turbarsi perché vi sono sempre dei fratelli e delle sorelle di lingua greco-latina che possono
loro esporre le letture in latino (cf ÉGERIE, Journal de voyage, ed. P. Maraval [SCh 296], Cerf, Paris
1982).

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Policarpo parla infatti ben 15 volte nelle sue opere, unendolo ogni volta al nome di
Giovanni. Le prime notizie di Ireneo nella Gallia ci riportano al 177. È normale supporre
che egli per andare da Smirne a Lione sia passato da Roma. Molte osservazioni nelle sue
opere confermano questa ipotesi. Del resto nello stesso anno è a Roma per incontrare papa
Eleuterio e consegnarli la Lettera dei Martiri di Lione e succede a Potino, morto anch’egli
martire in prigione, come vescovo della città. La data della sua morte si situa nel 202-203,
probabilmente durante un massacro generale dei cristiani lionesi ordinato da Settimio
Severo.
Ricordiamo di Ireneo l’intervento presso papa Vittore contro la scomunica degli Asiatici
che celebravano la pasqua il 14 di Nisan, a sostegno dell’apostolicità di entrambi gli usi,
quello che privilegiava la domenica e quello quartodecimano in senso stretto.
La prima constatazione da fare è che nella Gallia, concretamente a Lione, ai tempi di
Ireneo, c’è una Chiesa pienamente consolidata con la propria gerarchia ed anche con i suoi
martiri, preziosi frutti di una fede matura. Grazie a Ireneo sappiamo che una fede così
solidamente stabilita non è solo in Gallia; nel suo Adversus haereses egli parla delle
Chiese di Germania e di Iberia, presso i Celti, in Egitto e in Libia:

«Hanc praedicationem cum acceperit, et hanc fidem, quemadmodum prediximus, Ecclesia, et


quidem in universum mundum disseminata, diligenter custodit, quasi unam domum inhabitans et
similiter credit his, videlicet quasi unam animam habens et unum cor, et consonanter haec
praedicat et docet et tradit quasi unum possidens os. Nam etsi in mundo loquelae dissimiles sunt,
sed tamen virtus traditionis una et eadem est. Et neque hae quae in GERMANIA sunt fundatae
ecclesiae aliter credunt aut aliter tradunt, neque hae quae in HIBERIS sunt, neque hae quae in
CELTIS, neque hae quae in Oriente, neque hae quae in AEGYPTO, neque hae quae in LIBYA,
neque hae quae in medio mundi sunt constitutae; sed sicut sol, creatura Dei, in universo mundo
unus et idem est, sic et lumen, praedicatio veritatis, ubique lucet et illuminat omnes homines qui
volunt ad cognitionem veritatis venire»3.

I Celti a cui Ireneo si riferisce, sono gli abitanti della parte nord-occidentale della Gallia, a
partire dal secolo IV a.C., un popolo distinto dai Germani, che vengono citati per primi.
Secondo Ireneo, dunque, nell’“Europa” Occidentale ed Orientale e nella Penisola Iberica ci
sono Chiese. Se ne trovano pure in Egitto e in Libia. Queste Chiese sono già ben
organizzate: credono e consegnano la dottrina ricevuta dagli Apostoli.

3.2. Tertulliano

La testimonianza di Tertulliano ci fa conoscere una Chiesa africana molto sviluppata,


come vedremo più in dettaglio. Siamo ormai negli ultimi anni del secondo secolo e agli
inizi del terzo. Dopo il 222 non si sa più nulla di Tertulliano. Secondo Girolamo, morì
intorno al 240-250. Nel suo Adversus Iudaeos (200-206), offre l’elenco delle Chiese
d’Occidente, allungando rispetto a Ireneo la lista dei popoli credenti in Cristo. Dopo aver
riferito i nomi di quelli citati da Luca in At 2 aggiunge:

«et caeterae gentes; ut iam GETULORUM varietates, et MAURORUM multi fines,


HISPANIARUM omnes termini et GALLIARUM diversae nationes, et BRITANNORUM inaccessa
Romanis loca, Christo vero subdita, et SARMATARUM et DACORUM et GERMANORUM, et
3
IRÉNÉE DE LYON, Contre les hérésies 1,10,2, ed. A.Rousseau – L. Doutreleau (SCh 264), Cerf,
Paris 1979,158-160.
8
SCYTARUM, et abditarum multarum gentium et provinciarum et insularum multarum nobis
ignotarum et quae enumerare minus possumus? In quibus omnibus locis Christi nomen, qui iam
venit, et regnat, utpote ante quem omnium civitatium (scil. civitatum) portae sunt apertae et cui
nullae sunt clausae, abante quem serae ferreae sunt comminutae et valvae aereae sunt apertae»4.

Tertulliano cita i Getuli, gli abitanti delle province romane d’Africa, ossia le terre
sahariane oggi occupate da tribù berbere. Dall’Africa sembra salire poi verso la Spagna e
la Gallia per raggiungere, infine, la Bretagna. Fa riferimento alla regione dei Sarmati,
intendendo molto probabilmente il territorio che si estende dalla Vistola al mar Baltico,
includendo la Polonia ed altre regioni dell’Europa orientale. Cita la regione dei Daci, terra
vastissima dell’Europa Orientale, dal Danubio ai monti Carpazi, che corrisponde alle
attuali Transilvania, Ungheria e Moldavia. Finalmente, Tertulliano parla della regione dei
Germani e degli Sciti, presentandoci dunque una cornice geografica molto ampia che si
estende per tutta l’Europa fino ai confini del continente asiatico. Lui stesso fa notare che
queste regioni, non ancora soggette ai Romani, lo sono già a Cristo. Può darsi che
Tertulliano esageri. Tuttavia è credibile che l’azione missionaria della Chiesa si sia diffusa
per tutto l’Occidente. Sulla documentazione più specificamente liturgica ricavabile dalle
opere di Tertulliano, ritorneremo più avanti.

3. 3. Cipriano

Non possiamo in questa sede presentare Cipriano con dovizia di dati. Nacque in Africa,
quasi certamente a Cartagine verso il 200/210 e nel 248/249 fu eletto vescovo della città.
Le sue Lettere sono documenti storici di inestimabile valore. Morì martire nel 258.
Interessante, per il nostro studio, è la lettera 67, indirizzata al presbitero Felice, ai fedeli di
Astorga e di Merida, in riferimento ai vescovi “libellatici” Basilide e Marziale.

CYPRIANUS… FELICI PRESBYTERO ET PLEBIBUS CONSISTENTIBUS AD LEGIONEM ET ASTURICAE ITEM


AELIO DIACONO ET PLEBI EMERITAE CONSISTENTIBUS FRATRIBUS IN DOMINO S.
«Cum in unum convenissemus, legimus litteras vestras, fratres carissimi,, quas ad nos per Felicem
et Sabinum coepiscopos nostros pro fidei vestrae integritate et pro Dei timore fecistis, significantes
Basilidem et Martialem libellis idolatriae conmaculatos et nefandorum facinorum conscientia
vinctos episcopatum gerere et sacerdotium Dei administrare non oportere [...] Quapropter cum,
sicut scripsistis, fratres dilectissimi, et ut Felix et Sabinus collegae nostri adseverant utque alius
Felix de Cesaraugusta fidei cultor ac defensor veritatis litteris suis significat, Basilides et
Martialis nefando idololatriae libello contaminati sint»5.

Di questa lettera ci interessano le indicazioni sulle Chiese alle quali è indirizzata. Sono
chiese già consolidate quelle di León, Astorga, Mérida e Saragozza, tanto che si trovano ad
avere problemi e motivi di confronto.
Nell'epistola 68, indirizzata a Stefano, vescovo di Lione, Cipriano dà inoltre notizie in
merito alle Chiese della Gallia.

«Faustinus collega noster Lugduno consistens, frater carissime, semel atque iterum mihi scripsit
significans ea quae etiam vobis scio utique nuntiata tam ab eo quam a caeteris coepiscopis nostris

4
TERTULLIANUS, Adversus Iudaeos VII,4-5 (cf Q.S.F. Tertulliani Adversus Iudaeos, ed. E.
Kroymann (CCSL I/2), Brepols, Turnhout 1954, 1354-1355).
5
CYPRIANUS, Epistula 67, 1.6 (Sancti Cypriani episcopi Epistolarium, ed. G.F. Diercks [CCSL
3/C], 447; 456).
9
in eadem provincia constitutis, quod Marcianus Arelate consistens Novatiano se coniunxerit et a
catholicae ecclesiae unitate atque a corporis nostri et sacerdotii consensione discesserit…»6.

Da questa lettera sappiamo che c’è un vescovo a Lione, che ci sono altri vescovi nella
Gallia e che il vescovo di Arles era caduto nell’eresia di Novaziano.
La stessa riflessione che abbiamo fatto per le Chiese della Penisola Iberica, dobbiamo farla
per le Chiese della Gallia.
Oltre alle notizie sulle Chiese, queste lettere di Cipriano ci indicano anche l'influsso della
Chiesa di Africa su tutta l'area mediterranea7.

3.4. Origene: un testimone orientale

Per completare il quadro delle testimonianze inerenti all’Occidente, si deve citare anche
Origene (185c. - 253-255) che nella sua omelia su Ezechiele parla della Chiesa diffusa su
tutta la terra, con un riferimento specifico alla Bretagna e alla terra dei Mauri. Riportiamo
il passo nella traduzione latina fatta da Gerolamo intorno al 379-381:

«Confitentur et miserabiles Iudaei haec de Christi praesentia praedicari, sed stulte ignorant
personam, cum videant impleta quae dicta sunt. Quando enim terra BRITANNIAE ante adventum
Christi in unius Dei consensit religionem? Quando terra MAURORUM? quando totus semel
orbis? Nunc vero propter Ecclesias, quae mundi limites tenent, universa terra cum laetitia clamat
ad Deum Istrahel (sic), et capax est bonorum secundum fines suos»8.

4. Testimonianze propriamente liturgiche

Partendo dai dati in nostro possesso sulle Chiese occidentali dal secondo secolo fino alla
fine del terzo secolo possiamo dedurre che all’inizio del secolo secondo, forse anche alla
fine del primo secolo, è iniziata l'evangelizzazione dell'Occidente, la fondazione di Chiese,
l’organizzazione della vita ecclesiale. Nel terzo secolo la Chiesa è già ben sviluppata e
organizzata in Occidente.
Le celebrazioni, forse, non sono ancora pienamente strutturate, ma secondo i dati che
possediamo, le formule liturgiche con le quali si celebrano i sacramenti e una cornice
rituale non sono certo assenti9.

6
CYPRIANUS, Epistula 68,1 (ibidem, 463).
7
Sono da tener presenti questi rapporti della Gallia e della Spagna con Cipriano, cioè, con l'Africa,
in vista del discorso sulle origini della liturgia gallicana ed ispanica.
8
ORIGÈNE, Homélies sur Ézéchiel 4,1, ed. M. Borret (SCh 352), Cerf, Paris 1989, 162-164.
9
Già l’esistenza di formule liturgiche è testimoniata dal Nuovo testamento: il battesimo nel nome
di Gesù in At 2,38; 8,16; 10,48; 19,5; 22,16, il battesimo nel nome della Trinità in Mt 28,19. Gli
inni inseriti nel testo biblico neotestamentario (si pensi a Fil 2) sono poi tracce indiscutibili di una
prassi liturgica della chiesa delle origini. Per il battesimo possiamo inoltre risalire fino alla Didaché
(a. 70-90), che attesta una istruzione catecumenale, un digiuno preparatorio, e poi il battesimo nei
fiumi e nelle fonti.
10
4.1. Giustino

Anche se l’ambito di cui qui ci occupiamo è altro, rimane indispensabile partire da Roma
per uno sguardo ai documenti liturgici occidentali più antichi.
Se già Didaché, documento di ambito siriano, ci offre tracce chiarissime, attorno alla fine
del I sec. del rendimento di grazie cristiano sul pane e sul vino, pur in un contesto
fortemente giudaizzante, la Prima apologia di Giustino, filosofo e martire romano, che
scrive all'imperatore Antonino Pio (138-161), con tutta probabilità intorno al 150, ci
permette di conoscere in maniera sufficientemente dettagliata, lo svolgimento della
celebrazione eucaristica nella chiesa di Roma; nella stessa opera abbiamo inoltre una
descrizione del battesimo e un riferimento alla domenica10. Dopo aver descritto l’ingresso
del neobattezzato nell’assemblea dei fratelli, che elevano le koinàs euchás (communes
preces), Giustino descrive la celebrazione (per maggiore comodità leggiamo il testo in
traduzione latina):

65. Invicem osculum salutamus, ubi desiimus precari. Deinde ei qui fratribus praeest, panis
affertur et poculum aquae et vini quibus ille acceptis laudem et gloriam universorum Parenti per
nomen Filii et Spiritus sancti emittit et eucharistiam sive gratiarum actionem pro his ab illo
acceptis donis prolixe exsequitur. Postquam preces et eucharistiam absolvit populus omnis
acclamat: Amen. Amen autem Hebraea lingua idem valet ac Fiat. Postquam vero is, qui praeest
preces absolvit et populus omnis acclamavit, qui apud nos dicuntur diaconi panem et vinum et
aquam, in quibus gratiae actae sunt, unicuique praesentium participanda distribuunt et ad
absentes proferunt […]

67. Ac solis, ut dicitur, die omnium sive urbes sive agros incolentium in eundem locum fit
conventus, et COMMENTARIA APOSTOLORUM, aut SCRIPTA PROPHETARUM leguntur,
quoad licet per tempus. Deinde, ubi lector desiit, is qui praeest admonitionem verbis et
adhortationem ad res tam praeclaras imitandas suscipit. Postea omnes simul consurgimus et
preces emittimus; atque, ut iam diximus, ubi desiimus praecari, panis affertur et vinum et aquam et
qui praeest, preces et gratiarum actiones totis viribus emittit, et populus acclamat. Amen»11.

Stando a questa testimonianza la struttura base della celebrazione eucaristica, come è


giunta fino a noi in tutti i riti occidentali, è già fissata nella prima metà del II sec. Essa
consiste in una riunione assembleare (da notare l’insistenza sul convenire di tutti nel
medesimo luogo), in cui avviene una liturgia della Parola con letture dall’Antico e Nuovo
Testamento, un’omelia, delle preci, il bacio di pace e poi una liturgia propriamente
eucaristica (offerta del pane e di vino e acqua, suppliche e azioni di grazia [usteron
proteron?] = anafora, comunione dei presenti e degli assenti, raccolta di denaro per i
poveri, orfani e vedove (di origine apostolica!).
Si distinguono il ministero del lettore da quello del presidente. Colui che presiede, secondo
le sue forze, la capacità e le sue possibilità, fa la preghiera: siamo evidentemente ancora al
livello dell’improvvisazione eucologica. Il diacono, coadiuva il presidente, e porta la
comunione agli assenti. L’assemblea conferma a più riprese la preghiera presidenziale con
il suo “Amen”.

10
Cf. JUSTIN, Apologie pour les Chrétiens 1, 61-67, ed. Ch. Munier (SCh 507), Cerf, Paris 2006,
288-310.
11
PG 6, 427-430.
11
L’insistenza di san Giustino sulla comunione al pane e al vino “eucaristizzati” come
ordinario punto di arrivo per tutti rivela la grande consapevolezza dell’unità di tutta la
celebrazione, comunione compresa.
Veniamo ora alla descrizione del battesimo (Apologia 1, 61), che si presenta collegata alla
celebrazione eucaristica:

Quomodo autem nos Deo consecraverimus per Christum renovati, id quoque exponemus, ne quid
improbe, si hoc praetermittamus, in enarrandis rebus agere videamur. Quicumque persuasum
habuerint et crediderint vera esse, quae a nobis docentur et dicuntur, seque ita vivere posse
promiserit, ii precari et ieiunantes priorum peccatorum veniam a Deo petere docentur, nobis una
precantibus et ieiunantibus. Deinde eo ducuntur a nobis ubi aqua est, et eodem regenerationis
modo regenerantur, quo et ipsi sumus regenerati».

Il battesimo va preceduto da una preparazione, cioè da un’istruzione, dalle orazioni e dal


digiuno. Anche la comunità partecipa a questa preparazione. Segue il bagno rituale e,
finalmente, la partecipazione all'eucaristia.
In Apologia I, 67 si offre, infine, una teologia della celebrazione domenicale:

«Die autem solis omnes simul convenimus, tum quia prima haec dies est, qua Deus, cum tenebras
et materiam vertisset, mundum creavit, tum quia Iesus Christus Salvator noster eadem die ex
mortuis resurrexit».

Tutti questi dati attestano che anche nell'Occidente, nella metà del secolo secondo, c’è già
una liturgia abbastanza consolidata. Anzi, l'ordinario della messa di Giustino è il nucleo a
partire dal quale si sviluppano tutti gli altri ordinari della messa sia in Oriente che in
Occidente.

4.2. La Traditio Apostolica

Altro documento che non può non essere ricordato è la Traditio Apostolica databile intorno
al 21512. In essa ci è presentata una Chiesa molto ben strutturata gerarchicamente, nella
quale vi sono già le figure del Vescovo, del Presbitero, del Diacono, del Lettore, ecc., così
come si distinguono le figure delle Vedove e delle Vergini. L’istituto del catecumenato è
pure ben consolidato.
Del testo redatto probabilmente in greco esistono solo traduzioni, incorporate in altri
documenti in cui non è facile distinguere citazioni precise ed adattamenti. Non a caso Dom
Botte, prudentemente, intitola la sua opera “saggio di ricostruzione”13. Lo stesso titolo
attualmente usato è dunque ipotetico.

12
Cf La Tradition Apostolique de Saint Hippolyte. Essai de recostitution, ed. B. BOTTE (LQF 39 ),
Münster 1963, XI-XVII; J. QUASTEN, Patrologia 1 (BAC 206), Madrid 1968, 486-489;
13
La Traditio compare per la prima volta nel 1848 nell’edizione londinese di una raccolta di opere
del patriarcato di Alessandria, chiamata Sinodos, in copto boairico (ed. H. Tattam). Il testo siriaco
del Testamentum Domini, pubblicato da I. Rahmani nel 1899 riproduce letteralmente frammenti
della Traditio, tra cui la preghiera eucaristica. Nel 1900 E. Hauler pubblica un palinsesto latino di
Verona, decifrato sotto un manoscritto delle Sentenze di Isidoro, che contiene la versione latina
della Traditio, risalente al v sec., mutila del titolo. Ora il codice è quasi illeggibile a causa di un
prodotto chimico utilizzato da Hauler per evidenziare meglio il testo.
12
Esso figura in una lista di opere riprodotta sul piedestallo di una statua anonima rinvenuta a Roma nel 1551
e che si trova oggi presso la Biblioteca vaticana. Nella lista si susseguono un Perì charísmaton e una
Apostolikè Parádosis. Ebbene nel prologo della Traditio l’autore annuncia che dopo aver parlato dei carismi
esporrà ora la tradizione. La coincidenza è parsa interessante, ma presuppone che il personaggio
rappresentato sia appunto Ippolito, a cui la versione araba della Sinodos alessandrina attribuisce il nostro
testo. L’identificazione è però discussa. Le conclusioni a cui giunge Botte, ritenute da Bouyer probabili o
semplicemente possibili14, sono le seguenti:
- l’autore della Traditio apostolica è veramente il titolare della statua romana.
- questo autore viveva a Roma e godeva di una certa considerazione, poiché gli avevano eretto una statua.
- si chiamava Ippolito: gli indizi della tradizione letteraria sono concordi con i dati archeologici concernenti
la statua.
- la posizione ambigua di questo Ippolito, capo di una comunità dissidente, spiega le fluttuazioni della
tradizione su di lui: si può ritenere che sia proprio il martire romano (prete e per qualche tempo antipapa)
celebrato il 13 agosto insieme a papa Ponziano.
Detto questo ci domandiamo quale tradizione riflette la Traditio? È il riflesso della liturgia romana
dell’epoca o rappresenta concezioni del suo autore? In questo secondo caso da dove proverrebbero?
Dom Botte nell’edizione del 1946 giudicava il documento tipicamente romano per contenuto e stile, come
romana pura l’origine dell’autore.
In seguito avrebbe moderato la sua idea, dicendo che bisogna guardarsi dalle posizioni troppo rigide e dal
commettere un anacronismo. Non si può fare della Traditio l’equivalente di ciò che sarà il sacramentario
Gregoriano alla fine del sec. VI, quando la liturgia romana raggiunge ormai la sua forma quasi definitiva. Nel
III sec. non si è ancora superato lo stadio dell’improvvisazione. La Traditio offre dunque le sue preghiere
come modelli, non come formule fisse. D’altra parte, scrivendo a Roma, secondo Botte non è possibile che
presenti come vera tradizione elementi che non avrebbero nulla a che vedere con gli usi romani.
Non è d’accordo Bouyer che, sulla base di altri scritti attribuiti ad Ippolito, ritiene che egli fosse assai
intollerante verso la disciplina romana e che dunque abbia potuto produrre anche dal punto di vista liturgico
qualcosa di alternativo. Scartata l’ipotesi di J. M. Hanssens secondo cui Ippolito era alessandrino di origine 15,
divenuto sacerdote romano, Bouyer propende per una sua provenienza siriaca. La liturgia che descrive
dimostrebbe l’attaccamento ad un suo passato, pur nell’incapacità di conservarlo intatto. Conclude allora
Bouyer dicendo che “è probabile che questa liturgia ci insegni poco su ciò che era divenuta la liturgia, a
Roma e in molte altre parti, verso la metà del secolo III. Ci fa comunque vedere come questa liturgia poteva
ancora rimanere in certe regioni remote, che cosa era ancora possibile restaurare altrove di forme che stavano
scomparendo”16.
Tutto questo per dire che, a fronte di un testo che, forse a causa dell’arcaicità dei suoi contenuti, ha goduto di
molta fortuna, si è ben lontani dall’averne chiarito le origini, che rimangono sul piano della verosimiglianza.
In tale documento si trovano le prime formule liturgiche degli esorcismi per il catecumenato, quelle per il
battesimo e la crismazione; si trovano le preghiere di ordinazione, un modello di anafora per la celebrazione
dell'Eucaristia divenuto molto celebre, la preghiera del lucernario, le formule di benedizioni per alcuni
alimenti.

Al di là dei contenuti e della provenienza la Traditio è per noi rilevante per un motivo ben
preciso. L’autore afferma in modo chiaro ed esplicito di voler confermare nella fedeltà alla
“tradizione” coloro che stanno a capo della Chiesa, premunendoli contro errori che
nascono dal fatto di ignorare che esista una tradizione. Tutto questo prova che le differenze
liturgiche erano ormai chiare, fino a creare vere e proprie linee di demarcazione tra le
diverse chiese. Si sente dunque la necessità di un richiamo a quella che si ritiene essere la
“tradizione apostolica”. L’autore dell’opera vuole evitare che essa sia considerata solo su

14
L. BOUYER, Eucaristia. Teologia e spiritualità della Preghiera eucaristica, Elle Di Ci, Leumann
(Torino) 1992, 166-190.
15
L’ipotesi dell’origine alessandrina torna però in J. F. BALDOVIN, “Hippolytus and the Apostolic
Tradition: recent research and commentary”, Theological Studies 64 (2003/3) 520-542: 542.
16
L. BOUYER, Eucaristia, 177.
13
un piano esteriore. Afferma quindi che quanti “ascoltano, seguono e osservano la
tradizione apostolica non saranno mai indotti in errore da alcun eretico”17.
La ragione di questa accentuazione dell’apostolicità (cf. anche la Didascalia, le
Costituzioni apostoliche) dei riti liturgici è certamente da ricercarsi nel fatto che la liturgia
era sentita come espressione dalla comune verità di fede professata.
Nella Traditio il richiamo all’ortodossia appare in modo esplicito a proposito della “prece
eucaristica”. Mentre riconosce al vescovo celebrante la facoltà di crearne una “solenne e
lunga” oppure “semplice e breve”, precisa che in ogni caso sia in linea con l’ortodossia.
L’avvertenza induce a pensare che per l’autore non incorrerebbe in pericolo di errore chi si
attenesse alla formula che lui stesso ha messo per iscritto, per far conoscere la sicura e
ortodossa tradizione apostolica e impedire che si sbagli anche solo per ignoranza.
Un secondo motivo sta alla base dell’affermazione di apostolicità di una determinata
tradizione liturgica, ossia il desiderio e, in certi casi, l’avvertita necessità di creare un’unità
liturgica all’interno della propria chiesa, in un momento in cui evidenti erano le
differenziazioni.
I dati raccolti invitano a chiedersi quando è cominciata la produzione eucologica.
Evidentemente non si può stabilire una data precisa. Le formule liturgiche improvvisate,
usate nelle Chiese occidentali nel secolo secondo e terzo, e le strutture rituali delle
celebrazioni, sono veramente l’embrione di quelle che abbiamo nei manoscritti ispanici,
gallicani, ambrosiani, etc., posteriori e che sono arrivati fino a noi? Oppure c’è una cesura,
cioè una discontinuità tra questi ipotetici testi primitivi e quelli tramandati dalle epoche
successive? La questione non è facilmente risolvibile, benché vi siano indizi che
depongano a favore dell’esistenza di legami.

4.3. Le Passiones dei martiri: l’esempio della Passio S. Fructuosi

La passio del vescovo di Tarragona, Fruttuoso, e dei suoi due diaconi Augurio ed Eulogio,
che subirono il martirio il 16 gennaio dell'anno 259, oltre a fornirci indicazioni su una
Chiesa ben strutturata, ci offre preziose notizie di carattere liturgico.

«Et fuerunt in carcere dies sex, et producti sunt die XII kalendas februarias, sexta feria, et auditi
sunt [...] Cumque multi ex fraternitate ei offerent ut conditi permixti poculum sumeret, respondit:
“non est, inquit, hora solvendae stationis”, agebatur enim hora diei quarta, siquidem et in
carcerem quarta feria stationem sollemniter celebraverat [...] statim ad eum accessit Augustalis
nomine, lector eiusdem, cum fletibus deprecans ut eum excalciaret [...] ingressi sunt ad salutem
digni et in ipso martyrio felices, qui sanctarum scripturarum fructum ex repromissione sentirent,
similes Ananiae, Azariae et Misaheli extiterunt, ut etiam et in illos divina Trinitas compleretur»18.

Dalla passio si deduce che nella Chiesa di Tarragona oltre a una gerarchia ecclesiastica già
costituita dal vescovo e dai diaconi, esiste la figura del lettore. C’è un anno liturgico
sviluppato, con giorni stazionali, in cui è previsto il digiuno, che si scioglie con la
celebrazione dell’Eucaristia.
La domanda che si pone concerne la relazione tra questa Chiesa, presieduta da Fruttuoso, e
un’ipotetica chiesa di origine apostolica fondata addirittura dallo stesso Paolo.

17
La Tradition apostolique, 102.
18
Passio SS. Fructuosi, Augurii et Eulogii, in Gli atti di S. Fruttuoso di Tarragona, ed. P. FRANCHI
DE’ CAVALLIERI (Studi e Testi 65), Città del Vaticano 1935, 183-194.
14
Non tutti gli autori condividono la tesi di un viaggio effettivo di Paolo nella provincia romana
Tarraconense, ossia nei territori corrispondenti all’attuale Spagna. Molti affermano senza
esitazione che è avvenuto, altri lo negano1920. Il testo su cui si fonderebbe l'affermazione di
un viaggio di Paolo, è Rm 15,24.28, dove lo stesso Paolo parla del suo progetto di arrivare
fino alla Spagna, esprimendo il desiderio che i Romani gli preparino il viaggio.

«Cum in Hispaniam proficisci coepero, spero quod praeteriens videam vos et a vobis deducar illuc
si vobis primum ex parte fruitus fuero… hoc igitur cum consummavero et adsignavero eis fructum
hunc proficiscar per vos in Hispaniam»

La disputa suscitata da questo testo nasce dal fatto che Paolo parla della sua intenzione di
arrivare fino alla Spagna, ma non di un viaggio realmente compiuto. Resta dunque il
dubbio se l’Apostolo, a tutti gli effetti, abbia realizzato il suo desiderio di andare fino ai
confini occidentali dell’Impero, nonostante le numerose testimonianze in tal senso che qui
elenchiamo:

A) La primitiva tradizione romana:


Clemente Romano (96c.)

«Paulus propter aemulationem patientiae certamen sustinuit, in vincula septies coniectus,


fugatus, lapidatus, et praeco factus in Oriente ac Occidente, eximium fidei suae decus
accepit. Cum totum mundum docuisset, et AD OCCIDENTIS TERMINOS VENISSET, ac
sub principibus martyrium passus esset...»21.

Il frammento di Muratori (prima del 200).

«Acta autem omnium apostolorum sub uno libro scripta sunt. Lucas “optimo Theophilo”
comprendit, quae sub praesentia eius singula gerebantur, sicuti et semota passione Petri
evidenter declarat, sed et profectione Pauli ab urbe AD SPANIAM PROFICISCENTIS»22.

B) La tradizione siro-palestinese:

a) Atti degli Apostoli apocrifi: Asia Minore; Roma (?);


Actus Petri cum Simone (180-190c.);
Passio sanctorum Petri et Pauli (sec. VI-VIII).
b) Gli autori dei secoli IV-V:
19
Su questo soggetto, cfr. M. SOTOMAYOR, in R. GARCIA VILLOSLADA, Historia de la Iglesia en
España 1 (BAC Maior 16), Madrid 1979, 156-159; P. DE PALOL, Tarragonese, in DPAC 2, 3349-
3351; A. MUÑOZ, Estat de la qüestió de l’estudi dels primers segles de cristianisme a Tarragona,
in AST 67/2, 413 - 432.
21
Cf. CLÉMENT DE ROME, Épître aux Corinthiens 5,5, ed. A. Jaubert (SCh 167), Cerf, Paris 1971,
109. Il testo latino da noi riportato è in PG 1, 219-220. L'antica versione latina della medesima
epistola recita così: Propter zelum et contentionem Paulus bravium ostendit, septies vincula
passus, fugatus lapidatus, preco factus in oriente et in occidente, fortem fidei suae gloriam accepit,
qui docuit iustitiam omnem orbem terrarum, qui ab oriente usque ad fines occidentis venit, et dato
testimonio martyrii, sic a potentibus liberavit se ab hoc saeculo, et in sanctum locum receptus est,
patientiae factus magnum exemplum (G. MORIN, Sancti Clementis romani ad Corinthios Epistulae.
Versio latina antiquissima [= Anecdota Maredsolana 2], Maredsous 1984, 6-7).
22
Ed. H. LIETZMANN, Kleine Texte 1: Das Muratorische Fragment und die monarchianischen
Prologe zu den Evangelien, Bonn 1908/2, 6.
15
Atanasio di Alessandria (295-373);
Cirillo di Gerusalemme (313-387c);
Epifanio di Salamina (315-403c.);
Giovanni Crisostomo (344/354-407);
Girolamo (347-420);
Teodoreto di Ciro (347-420).

Autori che escludono il viaggio sono invece Origene (185-254), Innocenzo I (401-417),
Gelasio I (492-496).
Alla fine dell'antichità altri testimoni non fanno altro che ripetere in un tono apologetico
quello che già hanno detto gli autori più antichi: Actus Xantippar et Polyxenae (sec. VI),
Gregorio Magno (540-604c.), Isidoro di Siviglia (560-536). Rimanendo indimostrabile il
viaggio di Paolo23, gli sviluppi del cristianesimo ai confini occidentali dell’Impero romano
nel primo secolo sono avvolti ancora nel mistero.

23
Su questo argomento, cfr. J. AMENGUAL BATLE, Els origens del cristianisme a les Balears 1,
Mallorca 1991, 37-55. È l'ultimo autore, per quanto ci risulta, ad aver trattato questo argomento.
16

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