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I SAGGI DI Lexia / 19

LEXS
19
| I SAGGI DI Lexia
Il sistema del velo / Système du voile 19

Il sistema del velo / Système du voile a cura di M. Leone, H. de Riedmatten, V. I. Stoichita


C iò che viene nascosto affascina. Il velo è, per tradizione, manifestazione
di meccanismi di ostensione e occultamento presenti in seno all’ope-
IL SISTEMA DEL VELO
ra. Esso prende parte, inoltre, alla dinamica paradossale secondo la quale
necessariamente si produce un’insistenza dell’attenzione visiva proprio su
ciò che si vorrebbe coprire. Il volume si propone dunque di esplorare le stra-
SYSTÈME DU VOILE
tegie di velamento/svelamento dell’identità nella pittura, nella fotografia, TRASPARENZE E OPACITÀ NELL'ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA
nel cinema, nella letteratura, attraverso dispositivi, artifici, maschere, tes- TRANSPARENCE ET OPACITÉ DANS L’ART MODERNE ET CONTEMPORAIN
suti e altri ornamenti, specie in relazione al viso.

L e caché fascine. Le voile est par tradition la manifestation de mécanismes a cura di


de monstration et d’occultation présents au sein de l’œuvre. Il participe sous la direction de
également de ce jeu paradoxal qui veut que l’on marque nécessairement une Massimo Leone
insistance focale sur la partie que l’on prétend couvrir. Ce recueil se propo- Henri de Riedmatten
se d’explorer les stratégies de voilement/dévoilement de l’identité dans la pein- Victor I. Stoichita
ture, la photographie, le cinéma, la littérature, par le biais d’accessoires, ar-
tifices, masques, tissus et autres ornements, au visage notamment.

M assimo Leone è professore di Semiotica dell’Immagine presso l’Università di Torino, dove


presiede il Corso di Laurea Magistrale in Comunicazione e Culture dei Media. Ha pubbli-
cato diverse monografie e numerosi saggi sulla semiotica della religione, della cultura, e della
comunicazione visiva.

H enri de Riedmatten è professore assistente post-dottorale presso l’Istituto di Storia dell’Ar-


te dell’Università di Zurigo. È stato responsabile del programma accademico dell’Istituto Sviz-
zero di Roma.

V ictor I. Stoichita è professore di Storia dell’Arte Moderna presso l’Università di Friburgo (Sviz-
zera). Ha pubblicato vari libri riguardanti la storia delle idee artistiche, tradotti in una de-
cina di lingue, e un racconto di formazione (Oublier Bucarest), laureato dall'Académie Françai-
se. È socio straniero dei Lincei.

In copertina
Una Venetiana da Duolo, Beinecke MS 457, Mores Italiae, f. 76 [5?], c. 1575, ISBN 978-88-548-8838-8
acquerello e gouache, New Haven, Yale University, Beinecke Rare Book and
ARACNE

Manuscript Library.

euro 26,00
I SAGGI DI LEXIA


Direttori
Ugo V
Università degli Studi di Torino
Guido F
Università degli Studi di Torino
Massimo L
Università degli Studi di Torino
I SAGGI DI LEXIA

Aprire una collana di libri specializzata in una disciplina che si vuole scien-
tifica, soprattutto se essa appartiene a quella zona intermedia della nostra
enciclopedia dei saperi — non radicata in teoremi o esperimenti, ma nep-
pure costruita per opinioni soggettive — che sono le scienze umane, è un
gesto ambizioso. Vi potrebbe corrispondere il debito di una definizione del-
la disciplina, del suo oggetto, dei suoi metodi. Ciò in particolar modo per
una disciplina come la nostra: essa infatti, fin dal suo nome (semiotica o
semiologia) è stata intesa in modi assai diversi se non contrapposti nel se-
colo della sua esistenza moderna: più vicina alla linguistica o alla filosofia,
alla critica culturale o alle diverse scienze sociali (sociologia, antropologia,
psicologia). C’è chi, come Greimas sulla traccia di Hjelmslev, ha preteso
di definirne in maniera rigorosa e perfino assiomatica (interdefinita) princi-
pi e concetti, seguendo requisiti riservati normalmente solo alle discipline
logico–matematiche; chi, come in fondo lo stesso Saussure, ne ha intuito
la vocazione alla ricerca empirica sulle leggi di funzionamento dei diversi
fenomeni di comunicazione e significazione nella vita sociale; chi, come
l’ultimo Eco sulla traccia di Peirce, l’ha pensata piuttosto come una ricer-
ca filosofica sul senso e le sue condizioni di possibilità; altri, da Barthes
in poi, ne hanno valutato la possibilità di smascheramento dell’ideologia
e delle strutture di potere. . . Noi rifiutiamo un passo così ambizioso. Ci
riferiremo piuttosto a un concetto espresso da Umberto Eco all’inizio del
suo lavoro di ricerca: il “campo semiotico”, cioè quel vastissimo ambito
culturale, insieme di testi e discorsi, di attività interpretative e di pratiche
codificate, di linguaggi e di generi, di fenomeni comunicativi e di effetti di
senso, di tecniche espressive e inventari di contenuti, di messaggi, riscrittu-
re e deformazioni che insieme costituiscono il mondo sensato (e dunque
sempre sociale anche quando è naturale) in cui viviamo, o per dirla nei ter-
mini di Lotman, la nostra semiosfera. La semiotica costituisce il tentativo
paradossale (perché autoriferito) e sempre parziale, di ritrovare l’ordine (o
gli ordini) che rendono leggibile, sensato, facile, quasi “naturale” per chi
ci vive dentro, questo coacervo di azioni e oggetti. Di fatto, quando con-
versiamo, leggiamo un libro, agiamo politicamente, ci divertiamo a uno
spettacolo, noi siamo perfettamente in grado non solo di decodificare quel
che accade, ma anche di connetterlo a valori, significati, gusti, altre forme
espressive. Insomma siamo competenti e siamo anche capaci di confronta-
re la nostra competenza con quella altrui, interagendo in modo opportuno.
È questa competenza condivisa o confrontabile l’oggetto della semiotica.
I suoi metodi sono di fatto diversi, certamente non riducibili oggi a una
sterile assiomatica, ma in parte anche sviluppati grazie ai tentativi di for-
malizzazione dell’École de Paris. Essi funzionano un po’ secondo la meta-
fora wittgensteiniana della cassetta degli attrezzi: è bene che ci siano cac-
ciavite, martello, forbici ecc.: sta alla competenza pragmatica del ricercato-
re selezionare caso per caso lo strumento opportuno per l’operazione da
compiere.
Questa collana presenterà soprattutto ricerche empiriche, analisi di casi,
lascerà volentieri spazio al nuovo, sia nelle persone degli autori che degli
argomenti di studio. Questo è sempre una condizione dello sviluppo scien-
tifico, che ha come prerequisito il cambiamento e il rinnovamento. Lo è
a maggior ragione per una collana legata al mondo universitario, irrigidi-
to da troppo tempo nel nostro Paese da un blocco sostanziale che non dà
luogo ai giovani di emergere e di prendere il posto che meritano.

Ugo Volli

Questo volume riprende in forma rivista e accresciuta le relazioni presentate in


occasione del convegno internazionale Il sistema del velo: trasparenza e opacità
nell’arte moderna e contemporanea / Système du voile : transparence et opacité dans
l’art moderne et contemporain, tenutosi il  e  ottobre  presso l’Università
di Torino (CIRCE, Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Comunicazione),
in collaborazione con l’Istituto Svizzero di Roma e l’Università di Friburgo. Gli
atti del convegno vengono pubblicati con il contributo economico dell’Istituto
Svizzero di Roma, che i curatori ringraziano sentitamente.

Le présent ouvrage reprend dans une forme revue et augmentée des contributions
présentées lors du colloque international: Il sistema del velo: trasparenza e opacità
nell’arte moderna e contemporanea / Système du voile : transparence et opacité dans l’art
moderne et contemporain, qui s’est tenu les  et  octobre  à l’Université de
Turin (CIRCE, Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Comunicazione), en
collaboration avec l’Istituto Svizzero di Roma et l’Université de Fribourg. Les actes
de ce congrès sont publiés avec le soutien financier de l’Istituto Svizzero di Roma.
Qu’il en soit ici chaleureusement remercié.
Il sistema del velo
Système du voile
Trasparenze e opacità nell’arte moderna e contemporanea
Transparence et opacité dans l’art moderne et contemporain

a cura di
sous la direction de

Massimo Leone
Henri de Riedmatten
Victor I. Stoichita

Contributi di
Martina Corgnati
Lucia Corrain
Gianluca Cuozzo
Ruggero Eugeni
Nicolas Galley
Massimo Leone
Atsushi Okada
Peppino Ortoleva
Herman Parret
Henri de Riedmatten
Victor I. Stoichita
Ugo Volli
Copyright © MMXVI
Aracne editrice int.le S.r.l.

www.aracneeditrice.it
info@aracneeditrice.it

via Quarto Negroni, 


 Ariccia (RM)
() 

 ----

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,


di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopie


senza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: gennaio 


Indice

 Introduzione / Introduction
Massimo Leone, Henri de Riedmatten, Victor I. Stoichita

 Ringraziamenti / Remerciements
Massimo Leone, Henri de Riedmatten, Victor I. Stoichita

Parte I
Rivelazioni: il velo tra occultamento e rappresentazione
Révélations : le voile entre occultation et représentation

 Voile de mort. Un spectre médial chez Claude Monet


Nicolas Galley

 Il velo della pittura. Tra opacità e trasparenza, tra presenta-


zione e rappresentazione
Lucia Corrain

Parte II
Velamenti di luce: il velo tra dissimulazione e spettacolo
Voilements de lumière : le voile entre dissimulation et spectacle

 Veli, nebbie, travestimenti. Il caso di Meret Oppenheim


Martina Corgnati

 Il velo immaginario. Rappresentazione dell’ipnosi e fantasmi


dello schermo nel cinema dei primi tempi
Ruggero Eugeni

 Microanalisi del velo. Verso una semiotica del drappeggio


Massimo Leone


 Indice

Parte III
Velamenti dello sguardo: il velo tra sparizione ed esibizione
Voilements du regard : le voile entre disparition et exhibition

 Le lever du voile. Voir, être vue, se montrer : le costume


féminin à Venise et Padoue (-)
Henri de Riedmatten

 Du visage
Victor I. Stoichita

 Il velo di Mosè e altri filtri ottici nella Bibbia ebraica


Ugo Volli

Parte IV
Velare il senso: il velo tra testo e tessuto
Voiler le sens : le voile entre texte et tissu

 L’immagine come diafano


Atsushi Okada

 Il velo: una metafora dell’apparire


Gianluca Cuozzo

 Un sottile strato di plastica trasparente. La velatura sintetica


degli oggetti
Peppino Ortoleva

 Histoires et images du voile de Maya


Herman Parret

 Note bio–bibliografiche degli autori / Notices bio–bibliogra-


phiques des auteurs
Il sistema del velo / Système du voile
ISBN 978-88-548-8838-8
DOI 10.4399/97888548883881
pag. 9–14 (gennaio 2016)

Introduzione / Introduction
M L, H  R, V I. S

Questo volume intende esplorare, da un punto di vista interdiscipli-


nare (storia dell’arte, semiotica, letteratura comparata, filosofia), la
figura del velo come sintomo ed espressione delle modalità più ri-
levanti nella percezione e nella rappresentazione visiva moderne e
contemporanee.
Ciò che viene nascosto affascina. Il velo è, per tradizione, manife-
stazione di meccanismi di ostensione e occultamento presenti in seno
all’opera. Esso prende parte, inoltre, alla dinamica paradossale secon-
do la quale necessariamente si produce un’insistenza dell’attenzione
visiva proprio su ciò che si vorrebbe coprire. Il volume si propone
dunque di esplorare le strategie di velamento/svelamento dell’identità
nella pittura, nella fotografia, nel cinema, nella letteratura, attraver-
so dispositivi, artifici, maschere, tessuti e altri ornamenti, specie in
relazione al viso.
Frutto di una collaborazione internazionale e interdisciplinare, le
pagine che seguono vertono su un elemento–chiave dei regimi moder-
ni e contemporanei della visione: il velo come dispositivo che modula
la percettibilità dell’oggetto osservato, come pure la sua relazione
narrativa (mancanza, nostalgia, desiderio, etc.) con il soggetto osser-
vante. Se la modernità si annuncia anche in quanto cambiamento
nella maniera di vedere, osservare e rappresentare la realtà (soprattut-
to nel discorso visivo delle nuove scienze), il velo allo stesso tempo
incarna e rende visibile il paradosso di questo passaggio. Di fronte a
una pulsione sempre più anatomica nella rappresentazione visiva dei
corpi, le arti scoprono o riscoprono il fascino per ciò che nasconde
e viene nascosto, tra questo occultamento e il desiderio di visione e
conoscenza, o persino di ostensione, che ne deriva.
Da un lato, le arti della modernità si rifanno ai tropi classici del
velamento e alle loro incarnazioni visive (dal mito di Timante fino al-


 Massimo Leone, Henri de Riedmatten, Victor I. Stoichita

l’iconologia dell’anima in Cesare Ripa); dall’altro lato, gli esperimenti


accumulati dalla prima modernità a proposito delle ambiguità della
visione — il velo essendone l’incarnazione più compiuta — costitui-
scono la base sia storica che estetica di tutta una serie di filiazioni
successive, le quali introducono l’epistemologia del velo. Un tale vi-
luppo inestricabile di trasparenza e opacità, conoscenza e ignoranza,
desiderio e frustrazione strutturano i regimi scopici del ventesimo e
anche del ventunesimo secolo, specie nei velamenti della fotografia,
del cinema e delle arti digitali.
Il volume si prefigge di render conto delle ricerche già condotte
sulla storia e l’estetica del velo, di agevolare una riflessione trasver-
sale su questa modalità della visione e di incoraggiare l’apertura di
nuove prospettive sui paradossi e le ambiguità che segnano il passag-
gio dall’epistemologia visiva medievale a quella di epoca moderna e
contemporanea.
Pur privilegiando gli sguardi incrociati e gli approcci interdisciplina-
ri, il volume si articola in quattro sezioni, le quali intendono afferrare
le dinamiche culturali alla base del funzionamento del velo in quanto
dispositivo di visione e rappresentazione.
La prima sezione, intitolata Rivelazioni: Il velo tra occultamento e rap-
presentazione, si accosta all’utilizzo del velo come figura centrale della
pittura moderna e contemporanea. Oggetto–simbolo dell’ambivalen-
za della visione alle soglie della modernità, il velo assume lo status di
strumento sperimentale, attraverso il quale il pittore mette alla prova
la sua epistemologia della rappresentazione e gioca al contempo con
le abitudini scopiche del proprio tempo. I saggi di Nicolas Galley e
Lucia Corrain vertono su un corpus pittorico vasto e articolato, che
essi esplorano obliquamente, in modo da scovarvi l’emergere del velo
quale nuova sfida della creazione pittorica.
La seconda sezione, intitolata Velamenti di luce: Il velo tra dissimu-
lazione e spettacolo, propone una riflessione sul modo in cui i nuovi
media della fotografia e del cinema raccolgono la sfida della pittura,
proseguendone gli esperimenti attraverso i giochi della luce in movi-
mento. Da sempre sensibile alla dialettica fra campo e fuori–campo,
la fotografia prima, e in seguito il cinema, stimolano una rinnovata
considerazione sulla capacità del velo di negare la visione pur creando-
vi — attraverso tale sottrazione scopica — il desiderio dello spettacolo.
Gli articoli di Martina Corgnati, Ruggero Eugeni e Massimo Leone si
Introduzione / Introduction 

concentrano su svariate istanze del trattamento fotografico e cinema-


tografico del velo, al fine di cogliervi lo specifico dell’opacità e della
trasparenza nel confronto con i velamenti di altri mezzi espressivi.
La seconda parte del volume, anch’essa suddivisa in due sezioni,
è consacrata agli equivoci del desiderio che certi dispositivi visivi,
adottando il velo, sono in grado di far sorgere presso lo spettatore.
La terza sezione, intitolata Velamenti dello sguardo: Il velo tra sparizio-
ne ed esibizione, si concentra dunque sul ritmo passionale che le dia-
lettiche velamento–svelamento, opacità–trasparenza, occultamento–
esibizione suscitano in seno al rapporto tra immagine (pittorica, foto-
grafica, cinematografica) e sguardo. Concepita attorno a un corpus sia
diacronico che intermediale, la sezione cerca di individuare i mecca-
nismi antropologici che sottendono la fortuna del velo nelle culture
visive della modernità. I saggi di Henri de Riedmatten, Victor I. Stoi-
chita e Ugo Volli offrono punti di vista incrociati e complementari
sulla lunga durata antropologica del velo, sulla sua capacità di attra-
versare le epoche storiche costituendovi l’espressione di una modalità
centrale del rapporto fra sguardo e oggetto.
La quarta e ultima sezione, intitolata Velare il senso: Il velo tra testo e
tessuto, permette simultaneamente di chiudere e rilanciare la riflessio-
ne sul velo, mettendo in evidenza le due polarità fondamentali della
sua significazione: legato alla materialità della propria tessitura, il velo
si trasforma da tessuto in testo, giacché i due artefatti condividono
non soltanto la stessa etimologia ma anche lo stesso principio produt-
tivo. Designando ciò che si nasconde, e dunque ciò che si mostra, si
produce senso; il velo diventa allora metafora centrale di ogni punto
di vista strutturale sulla significazione. I testi di Atsushi Okada, Gian-
luca Cuozzo, Peppino Ortoleva, e Herman Parret sviluppano questa
prospettiva, sbrogliando i fili intrecciati che legano i veli intessuti dalla
letteratura, dalla filosofia, e dalle arti.

***

Le présent ouvrage entend explorer, selon une perspective interdis-


ciplinaire (histoire de l’art, sémiotique, littérature comparée, philoso-
phie), la figure du voile comme symptôme et expression des modalités
majeures de la perception et de la représentation visuelle moderne et
contemporaine.
 Massimo Leone, Henri de Riedmatten, Victor I. Stoichita

Le caché fascine. Le voile est par tradition la manifestation de mé-


canismes de monstration et d’occultation présents au sein de l’œuvre.
Il participe également de ce jeu paradoxal qui veut que l’on marque
nécessairement une insistance focale sur la partie que l’on prétend
couvrir. Ce recueil se propose d’explorer les stratégies de voilement/-
dévoilement de l’identité dans la peinture, la photographie, le cinéma,
la littérature, par le biais d’accessoires, artifices, masques, tissus et
autres ornements, au visage notamment.
Fruit d’une collaboration internationale et interdisciplinaire, les
pages qui suivent portent sur un élément–clef des régimes de la vi-
sion modernes et contemporains : le voile comme dispositif qui mo-
dule la perceptibilité de l’objet regardé, ainsi que sa relation narrative
(manque, nostalgie, désir, etc.) avec le sujet regardant. Si la modernité
s’annonce aussi en tant que changement dans la façon de voir, obser-
ver et représenter la réalité (notamment dans le discours visuel des
nouvelles sciences), le voile incarne et visualise, en même temps, le
paradoxe de cette transition. Face à une pulsion de plus en plus anato-
mique dans la représentation visuelle des corps, les arts découvrent
ou redécouvrent la fascination pour ce qui cache et est caché, et simul-
tanément explorent la dialectique ambiguë, parfois perverse, entre
cette occultation et le désir de vision et de connaissance, voire de
monstration, qui en découle.
D’une part, les arts de la modernité se réclament des tropes clas-
siques du voilement et de leurs incarnations visuelles (du mythe de
Timanthe jusqu’à l’iconologie de l’âme chez Cesare Ripa) ; d’autre
part, les expériences que la première modernité accumule autour des
ambiguïtés de la vision — le voile en étant leur incarnation la plus
accomplie — constituent la base à la fois historique et esthétique de
toute une série de filiations successives qui introduisent l’épistémolo-
gie du voile. Un tel enchevêtrement inextricable de transparence et
opacité, connaissance et ignorance, désir et frustration structurent les
régimes scopiques du vingtième et même du vingt–et–unième siècle,
notamment dans les voilements de la photographie, du cinéma et des
arts numériques.
Le recueil veut rendre compte des recherches déjà menées sur
l’histoire et l’esthétique du voile, faciliter une réflexion transversale
sur cette modalité de la vision et encourager de nouvelles perspec-
tives sur les paradoxes et les ambiguïtés qui marquent le passage de
Introduzione / Introduction 

l’épistémologie visuelle médiévale à celle de l’époque moderne et


contemporaine.
Tout en privilégiant les regards croisés et les approches interdis-
ciplinaires, l’ouvrage s’articule en quatre sections, censées saisir les
dynamiques culturelles qui sont au cœur du fonctionnement du voile
en tant que dispositif de la représentation et de la vision.
La première section, intitulée Révélations : le voile entre occultation et
représentation, aborde l’utilisation du voile comme figure centrale de
la peinture moderne et contemporaine. Objet–symbole de l’ambiva-
lence de la vision au seuil de la modernité, le voile acquiert le statut
d’outil expérimental, par lequel le peintre teste son épistémologie de
la représentation et joue en même temps avec les habitudes scopiques
de son époque. Les contributions de Nicolas Galley et Lucia Cor-
rain portent sur un corpus pictural vaste et articulé, qu’ils explorent
de façon transversale, songeant à y débusquer l’émergence du voile
comme nouveau défi de la création picturale.
La deuxième section, intitulée Voilements de lumière : le voile entre
dissimulation et spectacle, propose une réflexion sur la façon dont les
nouveaux médiums photographique et cinématographique prennent
la relève du défi pictural, en en poursuivant les expériences par les jeux
de la lumière en mouvement. Depuis toujours sensible à la dialectique
entre cadrage et hors–cadre, la photographie puis le cinéma stimulent
une nouvelle considération sur la capacité du voile à nier la vision tout
en y créant — par cette soustraction scopique — le désir du spectacle.
Les articles de Martina Corgnati, Ruggero Eugeni et Massimo Leone
se concentrent sur plusieurs instances du traitement photographique
et cinématographique du voile, dans le but d’y saisir la spécificité de
l’opacité et de la transparence, confrontées aux voilements d’autres
médiums.
La seconde partie de ce recueil est dédiée aux équivoques du désir
que certains dispositifs visuels usant du voile sont susceptibles de
déclencher chez le spectateur.
La troisième section, intitulée Voilements du regard : le voile entre
disparition et exhibition, se concentre sur le rythme passionnel que
les dialectiques voilement — dévoilement, opacité — transparence,
occultation — exhibition suscitent au sein du rapport entre image
(picturale, photographique, cinématographique) et regard. Conçue
autour d’un corpus à la fois diachronique et intermédial, la section
 Massimo Leone, Henri de Riedmatten, Victor I. Stoichita

tente de cerner les mécanismes anthropologiques qui sous–tendent


la fortune du voile dans les cultures visuelles de la modernité. Les
contributions d’Henri de Riedmatten, Victor I. Stoichita et Ugo Volli
offrent des perspectives croisées et complémentaires sur la longue
durée anthropologique du voile, sur sa capacité à traverser les époques
historiques en constituant l’expression d’une modalité centrale du
rapport entre regard et objet.
La quatrième et dernière section, intitulée Voiler le sens : le voile entre
texte et tissu, permet à la fois de conclure et relancer la réflexion sur le
voile en soulignant les deux pôles fondamentaux de sa signification :
lié à sa matérialité texturale, le voile se transforme de tissu en texte,
les deux artefacts partageant non seulement la même étymologie mais
aussi le même principe producteur. En désignant ce que l’on cache, et
donc ce que l’on montre, on produit du sens ; le voile devient méta-
phore centrale de tout point de vue structural sur la signification et sur
le sens. Les textes d’Okada Atsushi, Gianluca Cuozzo, Peppino Orto-
leva et Herman Parret développent cette perspective, démêlant les fils
enchevêtrés qui lient les voiles tissés par la littérature, la philosophie
et les arts.
Il sistema del velo / Système du voile
ISBN 978-88-548-8838-8
DOI 10.4399/97888548883882
pag. 15–15 (gennaio 2016)

Ringraziamenti / Remerciements
M L, H  R, V I. S

Ringraziamo l’Università di Torino, CIRCE – Centro Interdipartimen-


tale di Ricerca sulla Comunicazione, l’Istituto Svizzero di Roma e il
suo direttore, Prof. Michele Luminati, nonché l’Università di Fribur-
go (CH) per il prezioso appoggio all’organizzazione del convegno
internazionale Il sistema del velo: trasparenza e opacità nell’arte moderna
e contemporanea / Système du voile : transparence et opacité dans l’art mo-
derne et contemporain, tenutosi il  e  ottobre  presso l’Università
di Torino.
Esprimiamo la nostra gratitudine altresì verso Felix Thürlemann e
Tristan Weddigen per la loro partecipazione al convegno.
Infine, porgiamo i nostri ringraziamenti a tutti coloro i quali hanno
contribuito all’organizzazione dell’evento: Eleonora Chiais, Alessan-
dra Chiàppori, Gabriele Marino, Simona Stano e Mattia Thibault a
Torino; Tiziana Dionisio a Roma.

***

Nous remercions ici l’Université de Turin, CIRCE – Centro Interdi-


partimentale di Ricerca sulla Comunicazione, l’Istituto Svizzero di
Roma et son directeur Michele Luminati et l’Université de Fribourg
pour leur précieux soutien au colloque international : Il sistema del
velo: trasparenze e opacità nell’arte moderna e contemporanea / Système
du voile : transparence et opacité dans l’art moderne et contemporain qui
s’est tenu les  et  octobre  à l’Université de Turin.
Notre gratitude va aussi à Felix Thürlemann et Tristan Weddigen
pour leur participation à ce colloque.
Enfin, nos remerciements vont à toutes les personnes qui ont con-
tribué à l’organisation de cette manifestation : Eleonora Chiais, Ales-
sandra Chiàppori, Gabriele Marino, Simona Stano, Mattia Thibault à
Turin et Tiziana Dionisio à Rome.


P 

RIVELAZIONI: IL VELO TRA OCCULTAMENTO E


RAPPRESENTAZIONE

RÉVÉLATIONS : LE VOILE ENTRE OCCULTATION ET


REPRÉSENTATION
Il sistema del velo / Système du voile
ISBN 978-88-548-8838-8
DOI 10.4399/97888548883883
pag. 19–?? (gennaio 2016)

Voile de mort
Un spectre médial chez Claude Monet

N G

English Title: Veil of Death. Overlaying and Distancing Patterns in Monet’s Camille on her Death
Bed.

A: Camille Monet on her Death Bed painted by Claude Monet in  is a post mortem
portrait of the impressionist’s first wife and longtime model, Camille Doncieux. This pic-
ture raises many questions concerning its function as a funeral portrait and as an artistic
experimentation on the medium of painting. One of the very few documents mentioning
this work is a quote by Georges Clemenceau reporting that Monet told him many years
after its execution, that when realizing this “last portrait” he could not avoid being mesme-
rized by colors and painterly surfaces that his painter’s gaze was generating even when
confronted to the body of a beloved one. This citation evokes several topoï related to the
modern artist used by Honoré de Balzac in his Unknown Masterpiece, by Emile Zola’s Work
or transcribed in statements attributed to Paul Cézanne. The numerous veil and surface
effects question the status of this image and highlight Monet’s explorations of the pictorial
surface during this period. The veiling, distancing and deindividualizing strategies used
in Camille Monet on her Death Bed are closely analyzed and compared with similar patterns
appearing in Georges Seurat’s Anaïs Faivre Haumonté on her Death Bed or Andy Warhol’s
screenprints.

Keywords: Monet; Camille; Death; Painting; Medium.

L’œuvre de Claude Monet aujourd’hui intituléeCamille Monet sur son


lit de mort fait partie de ces peintures puissantes et troublantes, souvent
complexes à circonscrire et soulevant de nombreuses ambiguïtés. (Fig.
) À la fois dernier portrait et expérimentation artistique, ce tableau
se fraye un passage dans l’entre–deux, dans une zone où les surfaces
sont translucides et paraissent perméables, un monde où le voile et le
voilement thématisent aussi bien la douleur face au décès d’un être
cher que la mise en scène du médium pictural . Cette représentation
. Sur la question du voile comme métaphore du médium, voir :E, W
et W (), pp. VIII–XI.


 Nicolas Galley

exécutée par Monet du corps de sa première épouse, engendre un pro-


cessus schizophrénique oscillant entre le dernier hommage d’un mari
à son épouse initiant une phase de deuil et le lieu d’une réflexion sur
la peinture en terme de pellicules légèrement opaques et de couches
picturales troublées. Ces transgressions décloisonnent les espaces et
les couches de l’image, accentuant à la fois leurs frontières tout en
révélant leurs contiguïtés.

Figure . Claude Monet, Camille Monet sur son lit de mort, , huile sur toile,  ×
 cm, Paris, Musée d’Orsay
Voile de mort 

Avant d’en pénétrer les membranes pigmentées, essayons d’en com-


prendre le contexte. Claude Monet rencontra Camille Doncieux lors-
qu’elle était encore modèle. Elle devint rapidement son sujet féminin
favori et il commença à la fréquenter plus assidûment. De cette relation
naquit en  un premier fils, Jean, puis un second, Michel, en . Le
mariage de Camille et de Claude n’eut lieu que trois ans après la nais-
sance de leur aîné. La famille du peintre s’opposait fermement à cette
union et la situation financière du couple était très précaire. La relation
qui unissait Claude à Camille fut d’une grande intensité et nombreux
sont les documents émanant de la main du maître, qui témoignent
de ses sentiments envers son modèle, qui devint sa muse, la mère de
ses deux enfants, son épouse et dont il fut finalement veuf (Mathews
Gedo ). Le décès prématuré de Camille qui survint le  septembre
 à l’âge de  ans ne peut être directement lié à la naissance de son
deuxième fils, Michel, puisqu’elle souffrait depuis quelques temps déjà
d’un mal qualifié par les médecins de “cancer de l’utérus”. Il serait
vain de procéder aujourd’hui en positiviste et de déterminer la véritable
cause de sa mort. Néanmoins, les privations dues à la pauvreté de son
ménage auxquelles fut confrontée cette jeune mère, filtrent des archives
qui nous sont parvenues. Malgré le soutien de plusieurs mécènes et
marchands, Monet se trouvait dans une situation délicate. Son statut de
peintre d’avant–garde ne lui donnait que rarement accès à une clien-
tèle française encore très attachée à la peinture académique régnant au
Salon.
Si les difficultés qui caractérisaient cette relation peuvent paraître
quelque peu anecdotiques, elles prennent tout leur sens face à cette
image de la défunte Camille. Nous essayons ici de nous immiscer mal-
adroitement dans la peau de Monet face à la dépouille de sa femme, de
comprendre son chagrin et ses remords. Il faut ici cerner l’homme en-
deuillé fixant sur la toile des traits voués à disparaître, celui que les lettres
du médecin semblaient accabler de n’avoir pu offrir des soins adéquats à
son épouse (Wildenstein , I, p. ). À la fois acteur et observateur
de cette triste scène, il se retrouvait dans un rôle schizophrénique et

. Sur la vie de Claude Monet, voir : Wildenstein () ; sur les relations entre Monet et
Camille Doncieux, voir : H et H (), M G ().
. W (), I, pp. – ; T (), p. .
. Sur la situation financière difficile de Monet et de sa famille dans les années , voir :
M G ().
 Nicolas Galley

dichotomique, une sorte d’état second chancelant entre le veuf éploré et


le peintre palette à la main, face au corps de son épouse et celui de son
modèle maintes fois dépeint, réalisant un dernier portrait, une image
souvenir, et un morceau de peinture, ayant le regard voilé de larmes et
observant les surfaces picturales.
Ce sentiment double est évoqué par Georges Clemenceau dans
l’ouvrage publié en  qu’il consacra à son ami (Clemenceau  ;
Mathews Gedo , p. ). Clemenceau qui imposa l’Olympia d’E-
douard Manet au Louvre fut l’un des proches de Monet à la fin de sa
vie. La riche correspondance qu’ils échangèrent atteste leur intimité
(Clemenceau ) :
Un jour, je disais à Monet : C’est humiliant pour moi. Nous ne voyons pas
du tout les choses de la même façon. J’ouvre les yeux et je vois des formes,
des nuances de colorations, que je tiens, jusqu’à preuve du contraire, pour
l’aspect passager des choses comme elles sont. Mon œil s’arrête à la sur-
face réfléchissante et ne va pas plus loin. Avec vous, c’est une autre affaire.
L’acier de votre rayon visuel brise l’écorce des apparences, et vous pénétrez
la substance profonde pour la décomposer en des véhicules de lumières
que vous recomposez du pinceau, afin de rétablir subtilement, au plus près
de sa vigueur, sur nos surfaces rétiniennes l’effet des sensations. Et qu’en
regardant un arbre, je ne vois rien qu’un arbre, vous, les yeux mi–clos,
vous pensez : « Combien de tons de combien de couleurs aux transitions
lumineuses de cette simple tige ? » Sur quoi, vous voilà désagrégeant toutes
valeurs pour reconstituer et développer, à notre intention, l’harmonie finale
de l’ensemble. Et vous vous tourmentez, à la recherche de la pénétrante
analyse qui vous donnera la meilleure approximation de la synthèse inter-
prétative. Et vous doutez de vous–même, sans vouloir comprendre que
vous êtes lancé en projectile dans la direction de l’infini, et qu’il doit vous
suffire d’approcher du but que vous n’atteindrez jamais complètement.

Vous ne pouvez pas savoir, me répondit Monet, combien tout ce que vous
venez de dire est véritable. C’est la hantise, la joie, le tourment de mes
journées. À ce point qu’un jour, me trouvant au chevet d’une morte qui
m’avait été et m’était toujours très chère, je me surpris, les yeux fixés sur
la tempe tragique, dans l’acte de chercher machinalement la succession,
l’appropriation des dégradations de coloris que la mort venait d’imposer à
l’immobile visage. Des tons de bleu, de jaune, de gris, que sais–je ? Voilà où
j’en étais venu. Bien naturel le désir de reproduire la dernière image de celle
qui allait nous quitter pour toujours. Mais avant même que s’offrit l’idée de
fixer des traits auxquels j’étais si profondément attaché, voilà que l’automa-
tisme organique frémit d’abord aux chocs de la couleur, et que les réflexes
m’engagent, en dépit de moi–même, dans une opération d’inconscience
Voile de mort 

où se reprend le cours quotidien de ma vie. Ainsi de la bête qui tourne sa


meule. Plaignez–moi, mon ami.

L’œil de Monet, il n’était rien de moins que l’homme tout entier. Une
heureuse table des plus délicates sensibilités rétiniennes ordonnait toutes
réactions sensorielles pour des jeux de suprême harmonie où nous trouvons
une interprétation des correspondances universelles. Ce phénomènes est
apparemment la qualité première chez tous les Maîtres de la peinture. Ce
qui nous frappe en Monet, c’est que tous les mouvements de la vie viennent
s’y subordonner.

Ce passage est empreint de plusieurs topoï propre à la mythologie


artistique. Néanmoins, il est vraisemblablement l’un des très rares
documents référant à l’œuvre qui nous intéresse et il serait injuste
de réduire ce texte à la simple expression de lieux communs. Cle-
menceau offre de stimulantes clés de lecture. Il décrit avec clarté
l’état schizophrénique du maître et finalement l’ascendant de “l’au-
tomatisme organique” et des “réflexes” du peintre sur les affects du
veuf. La scène funéraire est ainsi perçue à travers un filtre artistique,
un voile pictural qui vient recouvrir l’image funèbre. Le tableau ne
raconte plus l’histoire d’un deuil, il devient la surface neutralisée et
dédramatisée d’un événement tragique. L’inhibition visuelle agit et le
plaisir rétinien nous rapproche de la matérialité de la peinture et de la
touche. C’est le voir de près qui s’impose, un regard qui se perd dans
les pigments et délaisse l’événement tragique qui se raconte sous les
yeux de Monet. Le voile pictural est à l’œuvre et la vision imaginaire
du peintre produit ses endorphines. La douleur disparaît au profit des
zones de couleur. Ce phénomène apparaît aussi dans L’oeuvre d’Emile
Zola qui met en scène un artiste d’avant–garde absorbé par sa pein-
ture qui le conduira au suicide. Ce personnage prénommé Claude,
comme Monet, évoque aussi Cézanne dont Zola fut très proche. Le
pauvre Lantier prend pour morceau de peinture non seulement son
épouse, mais aussi son fils, ce petit “diable” qui “égayé, chatouillé par
le soleil” rigolait, gigotait et ne tenait pas la pose . « Le père, après

. C (), pp. –.


. Z (), p.  ; sur L’œuvre de Zola et la dialectique entre la création “viscérale”
considérée comme moderne et la création “intellectuelle” présentée comme traditionnelle,
voir : S () ; le rapprochement entre Monet peignant Camille Monet sur son lit de
mort et Claude Lantier, voir : H (), pp. –.
 Nicolas Galley

avoir ri, se fâchait, jurait contre ce sacré mioche qui ne pouvait pas
être sérieux une minute. Est–ce qu’on plaisantait avec la peinture ? »
(Zola , p. ).
Chez Lantier tout comme chez Monet l’argent ne coulait pas à flot
et les odeurs rances de la pauvreté transparaissaient chez son petit
Jacques, malade et “débilité de mauvaise nourriture” (Zola , p.
). Son état s’empira jusqu’à ce que finalement le petit modèle, qui
avait pour habitude de trop gesticuler, “venait de trop obéir” et « qu’à
la fin il était sage, pour longtemps », pour l’éternité (Zola , p. ).
Et ensuite. . .

Claude s’était mis à marcher, dans un besoin nerveux de changer de place.


La face convulsée, il ne pleurait que de grosses larmes rares, qu’il essuyait
régulièrement, d’un revers de main. Et, quand il passait devant le petit
cadavre, il ne pouvait s’empêcher de lui jeter un regard. Les yeux fixes,
grands ouverts, semblaient exercer sur lui une puissance. D’abord, il résista,
l’idée confuse se précisait, finissait par être une obsession. Il céda enfin, alla
prendre une petite toile, commença une étude de l’enfant mort. Pendant
les premières minutes, ses larmes l’empêchèrent de voir, noyant tout d’un
brouillard : il continuait de les essuyer, s’entêtait d’un pinceau tremblant.
Puis, le travail sécha ses paupières, assura sa main ; et, bientôt, il n’y eut plus
là son fils glacé, il n’y eut qu’un modèle, un sujet dont l’étrange intérêt le
passionna. Ce dessin exagéré de la tête, ce ton de cire des chairs, ces yeux
pareils à des trous sur le vide, tout l’excitait, le chauffait d’une flamme. Il se
reculait, se complaisait, souriait vaguement à son œuvre.

Son œuvre, sa création de chair, en se pétrifiant de mort allait


s’aplatir sur la surface picturale. Lantier n’hésita pas à proposer son
morceau de peinture au Salon et il fut accepté. On le plaça tout en haut
et si mal que « des reflets dansaient dans la toile, de partout » (Zola
, p. ). La toile avait été embaumée de vernis pour être accrochée
aux cimaises du Louvre. Cet épiderme blafard se manifestait à travers
ses réfractions lumineuses, écrin funéraire pour ce garçon devenu
tableau et rebaptisé L’enfant mort dans le livret d’exposition .
Le voir de près, son envoûtement rétinien et son aveuglement émo-
tionnel appellent aussi l’idée fixe de la peinture. Cette fascination envoû-
tante pour le médium est personnalisée par le personnage de Frenhofer

. Z (), p. .


. Sur le vernis, voir : C (), S ().
Voile de mort 

dans le fameux Chef d’œuvre inconnu d’Honoré de Balzac. Mais le Lan-


tier de Zola ainsi que « La bête qui tourne sa meule » et “l’automatisme
organique” de Monet évoquent expressément l’une des répliques de
Paul Cézanne face à son interlocuteur Joachim Gasquet, critique d’art
fasciné par le maître d’Aix–en–Provence. Parlant de ses célèbres Bai-
gneuses, série ou plutôt corpus obsessionnel sur lequel il travailla durant
plus de quatre décennies, Cézanne ne faisait pas secret de ses déviances.

Je [Joachim Gasquet] l’ai remarqué, vous restez  minutes parfois entre


deux coups de pinceau.

Cézanne [répond] — Et les yeux, n’est–ce pas ? ma femme me le dit, me


sortent de la tête, sont injectés de sang. . . Je ne puis les arracher . . . Ils sont
tellement collés au point que je regarde qu’il me semble qu’ils vont saigner.
Une espèce d’ivresse, d’extase me fait chanceler comme dans le brouillard,
lorsque je me lève de ma toile . . . Dites, est–ce que je ne suis pas un peu
fou ? [. . . ] L’idée fixe de la peinture. . . Frenhofer.

Ses yeux injectés de sang, embrumés et voilés par l’idée fixe de la


peinture se collent à la toile. Cézanne parle ici de son chef–d’œuvre
absolu, ses Baigneuses en perpétuel devenir . Si la série des Nymphéas
représentait pour Monet ce que les Baigneuses symbolisaient pour
Cézanne, les propos rapportés par Clemenceau au sujet de saCamille
sur son lit de mort font néanmoins écho à cette citation. Le basculement
entre le voir de près et le voir de loin, entre l’expérimentation artistique
proche de l’idée fixe de la peinture et l’image–souvenir, souligne la
double portée et fonction de cette image.
Claude Monet conserva ce dernier portrait de Camille dans sa col-
lection personnelle aux côtés d’autres tableaux la représentant. Suite à
son décès, il ne vendit plus aucune de ces œuvres. Il en exposa une
partie dans son atelier de Giverny qu’il n’utilisait plus, mais conserva
Camille sur son lit de mort au sein de sa chambre dans sa plus tendre
intimité. Certains proches eurent l’opportunité de la voir et Georges
Clemenceau fit vraisemblablement partie des privilégiés à être invités

. Pour le commentaire du Chef d’œuvre inconnu par Geoges D–H suivi du


texte original d’Honoré  B publié pour la première fois en , voir : D–H
() ; voir aussi : M ().
. D P.M. et alii (), p.  ; D–H (), p. .
. Sur la question de la quête éperdue de l’œuvre absolue, voir : B ().
 Nicolas Galley

à la contempler . Au décès du maître, elle fut transmise à son fils


Michel, dont la naissance avait affecté un peu plus la santé fébrile
de sa mère. Elle fut ensuite confiée au début des années  à une
marchande d’art, Katia Granoff, chargée de vendre le fonds d’atelier
de Claude Monet. Elle décida d’en faire don à l’état français, vrai-
semblablement consciente de la difficulté de l’écouler sur le marché.
Le caractère quelque peu morbide et hautement privé de cette toile
aurait sûrement effrayé de nombreux collectionneurs. Cette peinture
ne sortit véritablement de la sphère familiale qu’en  .
Il paraît dès lors intriguant que ce portrait intime soit signé et sur-
tout signé de l’identité artistique Claude Monet. Celui qui racontait avec
honte à son ami Clemenceau n’avoir pu se soustraire à ses “réflexes”
de peintre aurait–il paraphé son forfait ? Cette signature dissone et
ceci d’autant plus qu’elle jaillit du reste de la composition de par son
noir profond. Monet avait pour habitude de marquer ses œuvres de
son nom et parfois de l’année de leur exécution, mais d’une couleur
s’accordant aux autres tons et se fondant dans la composition. Malgré
les apparences, cette marque d’artiste n’est que le simulacre d’une
signature, un vulgaire cachet apposé après le décès de Monet, proba-
blement lorsqu’elle fut destinée à être publiquement exposée, à sortir
de la sphère familiale pour devenir un véritable morceau de peinture,
vidée de sa fonction commémorative et cathartique. Cette apposition
post mortem d’un cachet révélant l’identité auctoriale, ou plutôt le
fait que Monet n’ait pas signé cette toile de son vivant corrobore la
fonction de dernier portrait de cet objet à caractère privé.
La fascinante exposition intitulée “Le dernier portrait” et organisée
en  au Musée d’Orsay par Emmanuelle Héran, intégrait Camille
Monet sur son lit de mort au sein d’un corpus d’images mortuaires,
images–souvenir saisissant le défunt dans son dernier sommeil (Héran
). Cette compilation présentait cette tradition qui prit toute son
ampleur au cours du e siècle . L’exposition et la contemplation des
cadavres étaient courantes durant cette période. Le dernier portrait
figeait pour la postérité une belle mort. Le lit funéraire était arrangé

. Le peintre américain Theodore Robinson, avec lequel il était devenu proche, a vu
cette œuvre dans sa chambre, M G (), p. .
. W (), II, p.  ; H (), p. .
. Sur le portrait mortuaire, voir aussi : P () et Le N–R ().
Voile de mort 

pour assurer une digne exposition et effacer les traces de l’agonie


(Héran , p. ). Il s’agissait de présenter le défunt de manière
idéalisée. L’objectivité photographique se soumettait aussi à cette règle
et tendait à produire un cliché où le visage inanimé se réveillait à
nouveau le temps d’une pose, les yeux s’entrouvrant, le sourire aux
lèvres, afin de créer cette impression de corps encore en vie (Fig.). Il
fallait à la fois exposer la mort et effacer ses affres.
À la différence de ce portrait photographique post mortem réalisé
vers  (Fig. ), le visage de Camille (Fig. ) est aminci, les yeux
fermés. La bouche entrouverte ne rappelle pas un sourire qui s’est
éteint, mais résulte des muscles immobiles qui ne pouvaient plus
retenir cette mâchoire. Le redressement de sa tête sur un coussin et

Figure . Anonyme, Portrait post mortem, vers , daguerréotype, . ×  cm,
Paris, Musée d’Orsay
 Nicolas Galley

son ficelage dans un bonnet communément utilisé à cette époque,


non seulement pour couvrir la chevelure d’une femme décédée mais
aussi pour lui soutenir le menton, ne suffisent pas à cacher cette
dentition qui s’offre au spectateur. La sublimation de cette vision
macabre n’émane pas de l’idéalisation de ces traits inexpressifs, mais
de cette pellicule translucide, de ce voile venant recouvrir son faciès.
Un lavis transgresse les pourtours du visage et vient apaiser la scène.
Cette fine couche de peinture aqueuse, très diluée, fonctionne comme
un linceul diaphane. C’est un voile pictural, une sur–couche, épiderme
imaginaire émanant du regard du peintre. Sa fluidité évoque le regard
de Claude Monet, un voile de larmes troublant sa vision de sa défunte
Camille. Cette thématisation du regard endeuillé se retrouve dans un
autre détail .
À l’arrière–plan, en haut à droite, derrière les empâtements et les ef-
fets de voile, un enfant nous regarde. Si la réduction des reproductions
rend le contour des yeux parfois difficile à discerner, ce regard fixe et
direct, prend toute sa présence lorsque le spectateur est confronté à
l’original. Ce garçonnet qui nous scrute n’est autre que le fils aîné de
Monet, Jean alors âgé de  ans (Héran , p. ). Ce dernier portrait
de Camille devient ainsi un dernier portrait de famille. Cependant,
Jean n’observe pas sa mère, mais nous dévisage ou plutôt son père
en train de peindre cette toile. La visualité embrumée du peintre est
mise en exergue par cet enfant dont la physionomie est floue et dont
la persistance du regard semble jaillir de la toile. Cet œil dialogue
avec celui de son père dont la surface rétinienne est embuée de fluide
lacrymal. L’œil de Jean figure la vision affective. Il contraste avec celui
du peintre, celui de la “bête qui tourne sa meule”, affichant un regard
hypnotisé par les ondes colorées, une perception quasi mécanique
échappant à la charge émotionnelle de la situation .

. Sur le thème des yeux voilés de larmes, voir : D (), pp. –.
. La figure de Jean évoque le Livre de Tobit (ou Tobie) racontant comment Tobie
inhumait les corps des enfants d’Israël assassinés et finalement rendit la vue à son père
grâce aux conseils promulgués par Raphaël dans une vision, voir : livre de Tobit, II et XI.
L’interprétation de ce texte par Jacques Derrida pourrait rappeler le dialogue visuel de
Monet et de son fils Jean : « On peut trouver cela obscur ou trop évident. Mais ce devoir
d’ensevelissement se lie à la dette et au don du “rendre la vue”. Le linceul de la mort se tisse
comme un voile de la vision. On peut trouver cela insignifiant ou surchargé de sens, mais
l’ange Raphaël, l’invisible qui rend la vue et n’apparaît lui–même que dans une “vision”,
c’est aussi celui qui, sans être vu, accompagne Tobit lors des ensevelissements » ( D
Voile de mort 

La réunion de Jean et de sa mère sous le pinceau du maître évoque


une toile exécutée quatre ans auparavant La promenade ou la femme
à l’ombrelle. (Fig. ) Les identités de Camille et de son fils aîné sont
difficilement perceptibles, effacées. Ils figurent ici comme modèles,
personnages structurant cette composition estivale. Si Jean apparaît
à nouveau à l’arrière–plan et dont les traits se résument à quelques
rapides touches et à des pommettes rosâtres, le visage de Camille est
partiellement dissimulé sous une voilette . Il ne s’agit bien évidem-
ment pas d’un portrait. Le visage de Camille se fond dans la surface
picturale et se dissipe dans les nuages. La touche taillade le faciès de
son modèle. La désindividualisation de Camille est manifeste. Les
échanges visuels entre le peintre et sa femme sont obstrués par ce
voile, pour mieux nous contraindre à dévisager la toile . Ces straté-
gies de voilement et d’obstruction révèlent le médium de la peinture
et rappellent que Camille fut le modèle et la muse de Monet avant
d’être sa femme. Son enveloppe charnelle était ainsi intimement liée
à ses pérégrinations et recherches artistiques. Les similarités entre
La promenade (Fig. ) et Camille sur son lit de mort (Fig. ) émanent de
ces mécanismes d’oblitération et d’aplatissement. Il devient dès lors
légitime de penser le portrait–souvenir de sa femme au sein d’un
processus créatif. L’hommage de l’artiste ainsi que celui du veuf ne
sont pas inconciliables.
Le format de  par  centimètres choisit par Monet pour peindre
sa défunte femme, peut être qualifié de grand format pour un su-
jet de ce type et correspond au format utilisé dans les mois suivants
pour une série de nature morte . Ni une “grande machine” telle
que certains peintres académiques concevaient pour le Salon, ni une
étude intimiste, nous sommes face à un objet aisément qualifiable de
tableau, tableau certes à caractère privé, mais tableau tout de même.
Le dispositif du peintre a été mis en place devant le lit funéraire, un
, p. ).
. Sur la question du voile, de la voilette et de la visualité à la fin du e siècle, voir :
K ().
. Cette désindividualisation et ce voilement rappellent Berthe Morisot à l’éventail
(, Musée d’Orsay) réalisé par Edouard Manet. Les sentiments complexes d’Edouard
Manet envers Berthe Morisot, à la fois muse, modèle et collègue transparaissent dans sa
neutralisation du regard de Berthe Morisot par un éventail, sorte d’écran fantasmagorique
et barrière visuelle. Voir : K (), pp. – et pp. –.
. W (), pp.  ss. ; M G, p. .
 Nicolas Galley

Figure . Claude Monet, La promenade. La femme à l’ombrelle, , huile sur toile,
 ×  cm, Washington, National Gallery of Art

cadre entoilé a été placé et vissé sur le chevalet, et cette machine à


peindre a métamorphosé la chambre funéraire en atelier improvisé .

. Sur la question du voile, de la distance et de l’espace de représentation, voir : Pardo


M. (), pp.– et H (), pp. – ; sur les dispositifs visuels au e siècle,
voir : C () ; sur la distance et l’acte créatif chez Warburg, voir son introduction
à l’Atlas Mnémosyne : « La création consciente d’une distance entre soi et le monde
extérieur, tel est sans doute ce qui constitue l’acte fondamental de la civilisation humaine.
Si l’intervalle ainsi créé forme le substrat de la création artistique, alors les conditions sont
réunies pour que la conscience de cette distance revête une fonction sociale durable, dont
l’oscillation rythmique entre immersion dans la matière et retour à la sophrosyne donne à
voir le mouvement cyclique entre une cosmologie de l’image et une cosmologie du signe.
[. . . ] Parce qu’elles attestent la tension polaire inhérente à l’acte de création artistique
— entre imagination identificatrice et raison distanciatrice — les images fournissent une
Voile de mort 

Le cadrage est rapproché et nous sommes proches de Camille. Une


focalisation s’opère sur son visage et suggère le voir de près à la fois du
peintre, mais aussi témoin d’un dernier contact sensuel et tactile. Une
iconisation de cette dépouille est à l’œuvre et l’image est frontale .
Elle n’est plus une scène de théâtre ou une fenêtre propice à la narra-
tivité, impliquant un avant et un après. L’espace pictural s’est relevé
dans toute son immédiateté et le mur de peinture structuré en zones
de couleur, officie.
La nature morte de fleurs déposées sur la poitrine de Camille s’ins-
crit dans ce processus. Ce bouquet constitué de touches rouges et
sanguines contraste avec les tons bleus et blancs. Un dernier geste
d’amour semble redonner une carnation à cette scène de deuil . Cet
arrangement floral, voué à disparaître tout comme l’enveloppe cor-
porelle de la défunte, fonctionne comme une vanité suggérée plutôt
que représentée, où la touche est d’une rare fugacité. Ce morceau de
peinture s’inscrit dans la série des natures mortes qu’il réalisa juste
après. Le dernier portrait est par essence une nature morte. De ma-
nière métonymique, c’est toute la toile qui se présente comme la
figuration d’un arrangement de fleurs arrachées du sol leur ayant
donné vie. Camille devient une femme–fleur dont la beauté est en
voie de putréfaction. Ces effets de nature morte et de peinture en-
deuillée se retrouvent dans une autre série sur laquelle travailla Monet
durant le rude hiver qui suivit la mort de Camille. Il entreprit alors
de nombreuses toiles figurant des étendues givrées et d’eau glacée.
(Fig.) Une nature figée par le froid et prête à se briser. Cette série

ressource immense, et pourtant trop peu exploitée à ce jour, à qui veut comprendre les
phases critiques d’un tel processus. Entre l’imagination qui s’empare de l’objet et la pensée
conceptuelle qui le contemple à distance, se situe ce qu’on appelle l’acte artistique, qui n’est
autre qu’une manipulation tactile de l’objet aboutissant à son reflet plastique ou pictural.
Cette duplicité de l’art, entre une fonction que l’on pourrait dire anti–chaotique — dans
la mesure où la forme artistique implique un choix et une clarification des contours d’un
objet singulier — et le culte que voue à l’idole créée celui qui la contemple, procède de ces
embarras de l’esprit humain qui devraient constituer le véritable objet d’une science de la
culture dévolue à l’histoire psychologique illustrée de l’intervalle séparant l’impulsion et
l’action » (W , p. ).
. Sur les stratégies de focalisation et d’iconisation, voir : R ().
. Ce bouquet rappelle à nouveau la relation Manet–Morisot. Le maître offrit en effet
à sa muse une peinture représentant un Bouquet de Violettes (, collection privée) en
guise de remerciement pour avoir posé pour sa Berthe Morisot au Bouquet de Violettes (,
Musée d’Orsay), voir : K, pp. –.
 Nicolas Galley

représente aussi plusieurs “débâcles”, moments où les glaces hiver-


nales se rompent sur un cours d’eau et sont emportées par le courant.
Si les motifs de la fugacité et de la fragilité résonnent à la fois dans
son dernier portrait de Camille et dans ses paysages gelés, la ques-
tion de la peau de la peinture est thématisée à travers les cassures et
craquellements des manteaux de givre, de glace et de neige s’étant
momentanément formés à la surface d’un étang ou d’une rivière .

Figure . Claude Monet, Le Givre, , huile sur toile, . × . cm, Paris, Musée
d’Orsay

Les concepts de voile pictural et de surface s’expriment pleine-


ment dans un autre dernier portrait réalisé quelques années plus tard
par Georges Seurat, néo–impressionniste profondément fasciné et
influencé par le travail de Claude Monet. (Fig. ) L’image funéraire de
sa tante Anaïs Faivre Haumonté datant de  accentue les stratégies
de dissimulation et de neutralisation présentes au sein de l’œuvre de
Monet. Ce dessin de petit format,  par  centimètres, laisse trans-
paraître le support sur lequel les strates de graphite et de gouache
viennent se superposer. La couche picturale est extrêmement fine et
devient translucide. La surface artistique effleure le tissage et le laisse
. Sur l’importance de la surface aqueuse et les débâcles chez Monet, voir : L
(), p.  et .
Voile de mort 

transparaître. Cette image fantomatique, ce spectre médial, rappelle


un linceul légèrement opaque et attire notre regard. Nous sommes
face au moment de passage ou plutôt de disparition de la pellicule
picturale, dont l’effacement devient la métaphore du corps mort en
dégénérescence. Il faut non seulement figer à jamais ce reliquat de der-
nier souvenir, mais surtout le faire maintenant et rapidement, avant
qu’il ne disparaisse. Le support de papier devient suaire, empreignant
et piégeant dans ses veines la perception d’une scène évanescente.
La toile nue et crue, hypoderme du tableau, est aussi très présente
dans la Camille sur son lit de mort. (Fig. ) Le bas de la composition
n’a pas été peint et offre toute sa rugosité. Le faire artistique et le
peindre se présentent ainsi comme un recouvrement par couches de
cet hypoderme dévoilé. Monet était d’autant plus attentif à ce pro-
cessus qu’il expérimenta différents types de tissages et qu’il utilisa, à
l’instar de nombreux impressionnistes, l’usage de la toile nue dans ses
compositions .

Figure . Georges Seurat, Anaïs Faivre Haumonté sur son lit de mort, , crayon et
gouache sur papier,  ×  cm, Paris, Louvre

. Sur l’utilisation de la toile nue chez les peintres impressionnistes et Monet, voir :
C (), pp. –.
 Nicolas Galley

Si l’aspect translucide du dessin de Seurat conduit au support textile


de Monet, l’utilisation du crayon et ses effets de grisaille évoquent clai-
rement le médium photographique. Il en a l’instantanéité et l’aspect
monochromatique. Ce médium, qui fascinait de nombreux peintres à
la fin du e siècle, nous dirige vers l’apogée de l’image neutralisée,
de l’image plate, d’une image voile par excellence. Malgré la distance
historique, la démarche de Seurat s’inscrit dans un processus de voi-
lement qui fut poussé dans ses retranchements par Andy Warhol.
(Fig. ) L’intimité de Camille sur son lit de mort ou du dessin de Seurat
disparaît chez Warhol et la peinture n’est plus que couches sérigra-
phiques (Inboden ). Les tons blanchâtres semblent vider l’image
de toute substance et la déposition de l’encre sur la toile après son
passage à travers le film sérigraphique, refoule toute trace auctoriale.
La répétition ne fait qu’accentuer ce phénomène et le tableau devient
un écran réfléchissant. Le corps mort est celui d’un inconnu et est
encore écrasé par la voiture. Une surface monochromatique jouxte
l’image de la mort. Nous sommes bien loin de la représentation de la
belle mort idéalisée. L’idée fixe de la peinture s’est transformée en
véritable cauchemar voilé et « la bête qui tourne sa meule » de Monet
s’est muée en artiste mécanisé.

Figure . Andy Warhol, Black and White Disaster IV, , acrylique, sérigraphie et
crayon sur toile, . ×  cm, Bâle, Kunstmuseum
Voile de mort 

Cet excursus historique visant à démontrer l’aboutissement de cet


aplatissement de l’image, explicite de manière évidente ce voile pictu-
ral devenu simple pellicule pigmentaire. Il nous éloigne cependant de
l’autre idée émanant de Camille sur son lit de mort, une peinture de deuil
où un linceul esthétique ne figure pas uniquement sur la toile, mais
répond au linceul de larmes du jeune veuf. La représentation de la
douleur en femme se cachant le visage et totalement recouverte d’un
habit, s’apparentant à la stola et à la palla romaines, est omniprésente
dans la seconde moitié du e siècle (Le Normand–Romain (). Si
les plis fluides et déliquescents symbolisent la détresse affective de
l’allégorie de la douleur, ils permettent aussi de dissimuler des visages
défigurés par le chagrin. (Fig. ) Ce motif de la douleur cachant sa
tristesse prenait parfois des formes que nous pourrions qualifier de
caricaturales comme pour cette sculpture figurant Mme Raspail disant
adieu à son mari. La veuve éplorée devient un véritable spectre, un fan-
tôme hantant le cimetière du Père–Lachaise et tentant une dernière
fois de caresser du bout des doigts son défunt mari emprisonné dans
son tombeau éternel. Le regard est aveuglé par l’étoffe la recouvrant
de la tête aux pieds . La femme endeuillée est privée du sens de la
vue et c’est par le toucher qu’elle cherche un dernier contact .
Cette mise en scène du toucher se retrouve dans la démarche de
Monet dépeignant Camille sur son lit mortuaire. (Fig. ) Exécuter une
dernière peinture revenait aussi à façonner les derniers traits, la dernière
physionomie d’un être cher. La re–créer en huile et en pigments, et
la toucher une dernière fois du bout de ses brosses et de ses pinceaux.
Peindre ou plutôt dé–peindre imposait de la regarder une dernière
fois, de la contempler et de figer son effigie sur la toile et dans sa
mémoire. Cet acte créatif permettait aussi d’initier le processus de deuil
menant à la guérison. Après avoir observé et reconstitué en peinture la
défunte, venait le moment de la recouvrir. Ce moment du voilement
est mis en scène dans la gravure de Henri van der Haert d’après un
tableau de Petrus Kremer intitulé Le comte de la Marck jurant de venger
Egmont. (Fig. ) Alors que le comte Egmont vient d’être décapité sur

. Jusqu’à la fin e siècle, les dépouilles étaient recouvertes d’un drap ou d’un linceul
jusqu’au cou. Au cours du e siècle, les femmes sont souvent vêtues de leur robe de
mariée, voir : H (), p. .
. Sur la question de l’aveuglement et du toucher pour se souvenir, voir : D
(), pp.  ss.
 Nicolas Galley

Figure . Antoine Etex, Mme Raspail disant adieu à son mari, , marbre, Paris,
Cimetière du Père–Lachaise

la place publique, le comte de la Marck, représenté au centre de la


composition, jure de venger cette exécution. Ce n’est pas l’histoire ni
le destin du Comte Egmont qui nous intéresse ici, mais la scène qui

. Sur ce récit et l’exposition du tableau original de Petrus Kremer lors du Salon de
Bruxelles en , voir : A (), pp. –.
Voile de mort 

se déroule en arrière–fond et qui illustre ce moment du voilement. Il


était en effet usuel de déposer un drap sur les bustes d’hommes illustres
lorsqu’ils passaient de vie à trépas. Il ne s’agissait pas de recouvrir le
corps du défunt, mais bien son effigie. Recouvrir la représentation
afin d’entamer un long processus de cicatrisation. Si dans le tableau de
Petrus Kremer reproduit par Henri van der Haert, le buste d’Egmont
est masqué d’un drap, dans la peinture de Monet, la dernière image de
Camille est couverte d’un lavis blanchâtre. Ce geste de recouvrement,
de dissimulation, visant à sur–peindre l’image, opère comme un filtre
artistique permettant d’atténuer la tension dramatique de cette scène
mortuaire. Il peut aussi être perçu comme une dernière caresse, le
linceul funèbre ne se jetant pas mais se déposant et se tirant le long
du corps. Recouvrir devenait ainsi toucher, sentir pour la dernière
fois les creux et les renflements d’un corps voué à disparaître. Les
proéminences ralentissaient ce mouvement alors que les creux et les
plats laissaient glisser le voile funéraire. C’est dans ces moments de
glissement et de résistance que cette dernière caresse picturale frôlant
la peau de l’image, prenait corps.

Figure . Henri van der Haert d’après Petrus Kremer, Le comte de la Marck jurant
de venger Egmont, , gravure, . × . cm, Londres, British Museum
 Nicolas Galley

Ce lavis symbolique voilant la représentation d’une défunte et lui


offrant un linceul translucide est à opposer au véritable embaume-
ment des peintures tel que pratiqué avant le Salon lors du vernissage.
Le vernis de finition qui venait se superposer à l’espace pictural per-
mettait de donner une unité et une lisibilité aux tapissages de peinture
des expositions académiques . Si le linceul pictural restait poreux et
perméable, le vernis de par ses brillances et réfractions éloignait de
la toile, marquant une frontière réfléchissante et impénétrable. Le
drame de l’effet–vernis est thématisé dans la scène déjà mentionnée,
racontant l’accablement de Claude Lantier découvrant son Enfant mort
si mal placé que « des reflets dansaient dans la toile, de partout » (Zola
, p. ). Le rite du vernissage fut obligatoire pour entrer au Salon
jusque dans les années  et de nombreux marchands n’hésitèrent
pas à vernir la majorité des toiles qu’ils exposaient sans tenir compte
de l’avis des artistes à l’instar de Durand–Ruel, qui fut très proche des
impressionnistes et l’un de leurs plus fidèles soutiens (Callen , p.
). Le vernissage préparait l’œuvre à sortir du huis clos de l’atelier
pour entrer dans la sphère publique. À la place de protéger et révéler
les couleurs des peintures, cette couche protectrice ne faisait que les
altérer pour rendre la toile présentable. L’immédiateté, l’intimité et
la crudité d’un tableau nu ne pouvaient se donner à voir à n’importe
qui. L’on comprend dès lors mieux pourquoi de nombreux maîtres
s’érigeaient contre le recouvrement de leur toile. La question du ver-
nis fit débat chez les impressionnistes et la grande majorité s’y opposa.
Monet le rejeta sans dogmatisme, mais précisa dans son contrat avec
l’Orangerie que son chef–d’œuvre, ses Nymphéas, ne devrait jamais
être recouverte d’une telle membrane (Swicklik , p. ).
La pellicule réfléchissante et aveuglante du vernis renvoie à l’œil
endeuillé et blessé de Monet. (Fig. ) Loin de nous l’intention de
procéder en ophtalmologue positiviste, mais la cataracte dont souffrait
Monet constitue un magnifique pendant à la pellicule de vernis. Si le
voile artistique se rapprochait du linceul de larmes du peintre face
à sa défunte épouse, la membrane réfléchissante et perturbante du
vernis répondait à l’opacification de la vision liée à la cataracte . La

. Sur les thèmes du vernis et du vernissage, voir : S () et C (),
pp. –.
. Sur la poétique de la cataracte et de son voile, voir : C et D ().
Voile de mort 

Figure . Œil atteint de cataracte nucléaire & Section transversale d’une peinture avec
vernis sous microscope, photographie

cataracte de Monet occupa une place importante dans ses échanges


épistolaires avec son ami Clemenceau (Clemenceau ). « L’œil de
Monet, il n’était rien de moins que l’homme tout entier » et ainsi l’œil
endolori affectait tout son être (Clemenceau , p. ).
Si le maître eut de nombreuses difficultés à soigner sa maladie
rétinienne, il ne lui fallut que finalement peu de temps pour essuyer
son voile de larmes. Le spectre de Camille, sa véritable muse, ne tarda
pas à reprendre forme dans ses visions d’artiste. Suzanne Hoschedé,
belle–fille de Claude Monet après son mariage avec Alice Hoschedé,
allait faire ressurgir le fantôme de Camille, le visage à nouveau voilé,
tailladé comme pour mieux en faire disparaître l’identité. (Fig. ) Les
similarités entre cet Essai de figure en plein air de  et la Promenade de
 (Fig. ) sont à la fois évidentes et troublantes. Camille Doncieux,
Alice Hoschedé, ou une autre, peu importait. C’était le voile et la
surface picturale qui opéraient sous le pinceau de la « bête qui tournait
sa meule » avec son “idée” et son regard fixe.
 Nicolas Galley

Figure . Claude Monet, Essai de figure en plein air : femme à l’ombrelle tournée vers
la gauche, , huile sur toile,  × . cm, Paris, Musée d’Orsay
Voile de mort 

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ISBN 978-88-548-8838-8
DOI 10.4399/97888548883884
pag. 43–90 (gennaio 2016)

Il velo della pittura


Tra opacità e trasparenza, tra presentazione e rappresentazione

L C

E T: The Veil of Painting: between Opacity and Transparency, between Presentation
and Representation.

A: This essay explores the veil codified by Alberti in De Pictura (), to reco-
ver its role and function in relation to the perspectival construction, in the attempt to
make emerge a use that was particularly well established among the artists, albeit care-
fully concealed between the folds of painting and documentable at least up to Van Gogh.
The use of the veil inexorably affects the gaze upon the world to be reproduced, to the
point of being elevated to being a full–fledged protagonist in Peter Greenaway’s film The
Draughtsman’s Contract, where the veil is not only a part of the narrative, but also entertains
a special relationship with the cinematographic medium. Other devices as well — the
camera oscura and Claude Glass (black mirror) — which apparently seem to be detached
from the Albertian veil, actually reassert analogous functions in terms of representability
of the real, even if declined differently. Lastly, this kind of scrutiny will necessarily lead to
analyzing works that, in more recent times — e.g. Rahmenbau by Haus–Rucker–Co ()
and The Veiling by Bill Viola () —, retain the memory of the ancient veil instrument,
making it autonomous and releasing it from its purely representative dimension.

Keywords: Veil; Cinema; Video–Installations; Darkroom; Claude’s Mirror.

. Considerazioni preliminari

La rappresentazione del velo — spesso e compatto o sottile e rado


—, insieme alla sua ricezione sono presenti già in Plinio, il quale rac-
conta che Parrasio — di fronte all’uva dipinta da Zeusi, oltremodo
così ben realizzata che gli uccelli andavano a beccarla — riprodusse
un velo/tenda « con tanto verismo che Zeusi, [. . . ] chiese di togliere
la tenda, per finalmente mostrare il quadro »; solo dopo essersi ac-


 Lucia Corrain

corto dell’inganno concesse, seppur di misura, la vittoria a Parrasio .


Un aneddoto aurorale della pittura, che iscrive al suo interno le due
principali — e per certi versi contrapposte — proprietà del velo: da
un lato la trasparenza, che implica un “vedere attraverso” una tenda
che celerebbe solo parzialmente l’uva di Zeusi, dall’altro l’opacità che,
occultando, ne disturba e ostacola la visione. In breve, nel primo caso,
lo sguardo va oltre la matericità del velo, nel secondo, al contrario,
ne viene assorbito. Del resto, anche una fugace scorsa alla pittura
italiana del Quattrocento, fiorentina in particolare, attesta che gli artisti
quando si cimentano con la raffigurazione del velo (soprattutto per la
Madonna), danno prova di straordinaria abilità e di eccelsa perizia, so-
prattutto nella resa della sua perfetta trasparenza , tanto da eguagliare,
se non addirittura superare, il mitico Parrasio.
Già da queste poche considerazioni, il velo, nel gioco continuo tra
opacità e trasparenza , si configura come un oggetto teorico denso di
implicazioni, in grado di convocare i virtuosismi messi in atto nella
produzione stessa della pittura. Difatti, il velo è anche e soprattutto
il medium che presiede al fare pittorico e ne permette l’effettiva con-
cretizzazione; di tessuto meno sottile, ma ugualmente trasparente,
è lo strumento utilizzato dagli artisti per riprodurre il mondo: quel
dispositivo che Leon Battista Alberti ha portato a dignità teorica nel
suo De Pictura.
In questo contributo, si prenderà in esame il velo inteso proprio
nell’accezione albertiana, innanzitutto, recuperandone ruolo e fun-
zione in rapporto alla costruzione prospettica, nel tentativo di far
affiorare un uso particolarmente invalso tra gli artisti, per quanto
accuratamente celato tra le maglie della pittura. Un impiego del velo

. Plinio il Vecchio, xxxv, –, pp. –. Si veda anche il catalogo dell’esposizione
fiorentina dedicata al trompe–l’œil, Giusti .
. Per fare un esempio fra i molti, nel piccolo dipinto attribuito a Sandro Botticelli,
la Madonna del mare ( ×  cm), conservato alla Galleria dell’Accademia di Firenze e
realizzato nel  circa, non può sfuggire la trasparenza con cui è reso il velo che copre il
capo e scende sulle spalle della Vergine, la cui luminosa trasparenza gareggia con la lucente
stella maris su di esso posata e con l’aureola della Madre di Cristo. Per il velo in pittura si
veda il contributo di Calabrese ; si veda anche Lancioni . Per il ruolo del velo nella
contemporaneità si vedano, tra altri, Pozzato  e su una problematica affine a quella del
velo Magli . Si veda ancora sul rapporto fra velo e finestra Ebert–Schifferer .
. La coppia polare opacità e trasparenza è meditata da Marin, in particolare , ma
si ritrova anche in molti altri suoi scritti.
Il velo della pittura 

che arriva a condizionare, immancabilmente, lo sguardo sul mondo


da riprodurre, tanto da elevarsi a vero e proprio protagonista in I mi-
steri del giardino di Compton House di Peter Greenaway, in cui viene
a intrattenere, addirittura, un rapporto privilegiato con lo stesso me-
dium cinematografico. In quest’ottica, saranno indagati anche altri
dispositivi — dalla camera ottica allo specchio di Claude — che, no-
nostante in apparenza, si distacchino dal velo albertiano, di fatto, ne
ripropongono funzioni analoghe, in termini di rappresentabilità del
reale, seppur diversamente declinate. Infine, questo tipo di disamina
porterà necessariamente a soffermarsi su opere che, in tempi relativa-
mente più recenti — Rahmenbau di Haus–Rucker–Co e The Veiling di
Bill Viola —, pur serbando la memoria dell’antico velo, riescono pro-
gressivamente ad autonomizzarsi, affrancandosi da una dimensione
puramente rappresentativa.

. Velo e pittura

Leon Battista Alberti definisce con il termine “velo” il primo dispositi-


vo prospettografico di cui ci sia pervenuta testimonianza. La descri-
zione — inserita nelle pagine del De Pictura, pubblicato in volgare nel
 — è conosciutissima:

è un velo sottilissimo, tessuto rado, tinto di quale a te piace colore, distinto


con fili più grossi in quanti a te piace paralelli, qual velo pongo tra l’occhio e la
cosa veduta: tale che la piramide visiva penetra per la rarità del velo.

Di seguito, il teorico enumera anche i vantaggi che questo stru-


mento offre al fare pratico del pittore:

Porgerti questo velo certo non piccola commodità: primo, che sempre ti
presenta medesima non mossa superficie, dove tu, posti certi termini, subito
ritruovi la vera cuspide della pirramide. [. . . ] L’altra sarà utilità, che tu porrai
facile constituire i termini delli orli e della superficie, ove in questo paralelo

. Alberti nel De Pictura, descrive il velo nella parte in cui tratta della “circonscrizione”
(ii, ), ossia del disegno, quale parte fondamentale della pittura: « Sarà circoscrizione quella
che descriva l’attorniare dell’orlo nella pittura. [. . . ] Qui adunque si dia principale opera, a
quale, se bene vorremo tenerla, nulla si può trovare, quanto io estimo, più acommodata
cosa altra che quel velo, quale io tra i miei amici soglio appellare intersecazione ».
 Lucia Corrain

vedrai il fronte, in quello è il naso, in un altro le guance, in quel di sotto il


mento, e così ogni cosa distinto ne’ suoi luoghi; così tu, nella tavola o in
parete divisa in simili paralleli, ogni cosa a punto porrai (Alberti , II, p.
).

Le parole dell’Alberti, di indubbia portata teorica, mettono in stret-


to rapporto, fin da subito, la prospettiva con il velo, in quanto interseca
la piramide visiva che ha l’apice nell’occhio dell’osservatore e la base
negli oggetti del mondo ; tuttavia il suo uso ha ben altre conseguenze,
capaci di condizionare i regimi di visione a venire, soprattutto in fatto
di delimitazione e segmentazione della realtà, ma non solo.
Un rapido sguardo circa l’origine etimologica di “prospettiva” —
sia da perspicere, “vedere attraverso”, “vedere dinnanzi” (Panofsky
, p. ), sia da perspectiva, che ha la sua radice nel verbo prospicere,
“vedere avanti” — rimanda alle condizioni stesse di rappresentabilità
del mondo; ciò significa che per riprodurlo occorre guardare attraver-
so un “filtro”, interposto tra l’occhio del pittore e il reale; un filtro
che delimita il continuum del mondo, ne individua una porzione, la
seleziona e, al contempo, focalizza su di esso l’attenzione. Questo
filtro è indubbiamente il velo dell’Alberti che, proiettato sul mondo, lo
inquadra e lo segmenta, articolandolo attraverso il reticolo stesso della
propria tessitura in un passaggio graduale dal continuo al discreto. Un
velo che teso dinanzi alla realtà da riprodurre, la copre, ma per il fatto
stesso di essere “rado”, e dunque trasparente, ne rende possibile la
sua rappresentazione.
È esattamente ciò cui Albrecht Dürer dà la forma concreta di “mac-
china”. Infatti, nella seconda edizione del suo trattato di prospettiva —
Underweisung der Messung, stampato a Norimberga nel  —, l’artista
tedesco illustra visivamente il funzionamento di questo strumento,
dando un “corpo” al velo della pittura: un telaio marcato solo da fili
più grossi in quanti a te piace paralelli (Fig. ), che qui vanno a formare
maglie quadrate . Un telaio che con il passare del tempo, si spoglia
. Per quanto riguarda la prospettiva legittima quattrocentesca i riferimenti bibliografi-
ci sono moltissimi, a titolo esemplificativo, cfr. D ; K ; C ,
con bibliografia precedente e in un confronto con la cultura orientale B .
. D , p. . Queste le parole usate dall’artista tedesco per descrivere la
macchina–velo: « Ecco un altro metodo usato per i ritratti. Permette di rappresentare ogni
corpo qualunque sia la grandezza desiderata, più grande o più piccola di quella reale. È
più utile del vetro, perché consente maggior libertà. Occorre un quadro con un reticolo di
Il velo della pittura 

dei suoi connotati tessili per serbare solo la struttura reticolare interna.
È quanto si può notare nelle incisioni di Hieronymus Rodler (),
Robert Fludd (–), Jean Dubreuil (–, Figg. –) — per
citarne solo alcune fuori dall’ambito italiano — a conferma del fatto
che il processo di astrazione che dal velo conduce alla griglia assicura
la rappresentabilità stessa del mondo (Fig. ). Il telaio, inoltre, specie
quando a essere riprodotto è il paesaggio, si sovrappone e, in alcuni
casi, arriva addirittura a fondersi con la finestra . L’incisione di Rodler
(Fig. ) offre un esempio concreto di questa simbiosi: il disegnatore,
seduto dinanzi al proprio tavolo da lavoro, nel chiuso di un ambiente,
guarda fuori dalla finestra il paesaggio “quadrettato” che man mano ri-
produce sul foglio “grigliato”. Alleblue macchine prospettografiche di
Dürer — oltre al velo, anche il vetro e il vetro con visore, lo sportello
con liuto (Figg. –) — si riferiranno costantemente i trattati italiani

fili, neri e solidi: ogni maglia o quadrato avrà una larghezza di circa due cm. Poi, occorre
un oculare a obelisco, regolabile in altezza. Rappresenterà l’occhio (O). Disponi il corpo
che vuoi ritrarre abbastanza lontano: fagli assumere la posizione che desideri. Retrocedi e
metti l’occhio nell’oculare (O), per verificare se la posa è quella che ti piace. Dopodiché,
colloca la griglia o il quadro tra il corpo e l’oculare nel modo seguente. Se vuoi utilizzare
poche maglie del reticolo, avvicina il quadro al corpo quanto più possibile. Disegna in
seguito un’altra griglia, grande o piccola, sulla superficie (foglio di carta o tavola) destinata
a ricevere l’immagine. Guarda il corpo ponendo il tuo occhio al di sopra dell’oculare
e riporta nella griglia disegnata sulla carta ciò che vedi in ciascuna maglia della griglia
verticale. Questa è la procedura corretta. Se vuoi sostituire l’oculare a obelisco con uno
dotato di un piccolo foro attraverso il quale guardare, sarà la stessa cosa ». La riproduzione di
disegni tramite quadrettatura proporzionale è un modo già in uso nella pratica cartografica,
che vari studiosi indicano tra le fonti di Leon Battista Alberti. A questo proposito, Camerota
(, p. ) scrive: « per i cartografi la “rete” coincideva con la griglia dei meridiani e dei
paralleli e Alberti se ne servì per costruire le forme [. . . ], non diversamente dal modo che
adotterà per disegnare la pianta di Roma su una rete radiocentrica. Si può credere che
proprio questo aspetto di misurabilità del piano pittorico stia dietro la preferenza del velo
come espressione materiale del concetto di intersezione ».
. Sul rapporto tra paesaggio e finestra, si veda tra gli altri S ; C
; G .
. Nel trattato sulla prospettiva Dürer, dopo la lunga parte dedicata alla costruzione
legittima, dispone nell’ordine: il vetro a pagina , lo sportello a pagina , e insieme, il
vetro con visore e il velo–donna sdraiata a pagina . Per quanto riguarda il vetro, il suo
inventore sembra essere stato Leonardo da Vinci, che così nel Codice Atlantico (r–a ora r–a,
Milano, Biblioteca Ambrosiana) lo descrive: « Abbi uno vetro grande come uno mezzo
foglio regale e quello ferma bene dinanzi ali occhi tua, cioè tra l’ochio e la cosa che tu
vuoi ritrare, e di poi ti poni lontano col ochio al detto vetro / di braccio e ferma la testa
con uno strumento in modo non possi muovere punto la testa; di poi serra o ti copri un
ochio, e col penello o con lapis a matita macinata segnia in sul vetro ciò che di là appare,
 Lucia Corrain

ed europei del XVI e XVII secolo, ma non solo; con buona probabilità,
questi strumenti si pongono anche in linea di continuità con origini
addirittura antecedenti l’invenzione stessa della prospettiva, poiché
« la griglia permetteva di “misurare” la profondità dello spazio e la bi-
dimensionalità del piano pittorico trasferendo ‘nella tavola o in parete’
ogni sorta di apparenza visiva » (Camerota , p. ).

Figura . Albrecht Durer, Disegnatore della donna sdraiata, , xilografia, . × .
cm, Berlino, in Underweysung der messung mit dem zirckel vnd richtscheyt in Linien
ebnen vnnd gantzen corporen durch Albrecht Duerer zusamen getzogen vnd zu nutz aller
kunstlieb habenden mit zu gehoerigen figuren in truck gebracht im jar. , Gedruckt zu
Nueremberg, Hieronymus Andreae

A questo riguardo, l’analisi critica che un addetto ai lavori come


Ludovico Cigoli — nel suo trattato sulla Prospettiva pratica, del 
— rivolge alla costruzione prospettica, assume un particolare valore.
Il pittore–teorico, infatti, sostiene che gli artisti, a causa dei troppi
vincoli e della lunga esecuzione che richiede la realizzazione di un
quadro con la prospettiva legittima, sono costretti ad abbandonarla e
a integrare la visione a occhio nudo con gli “strumenti” che « Alberto
Durero nel fine della sua geometria, [. . . ] descrisse [. . . ], quasi dir
volesse quelli esser mezzi più proporzionati, et atti all’operazione et
alla consecuzione del nostro bisogno » (Cigoli , p. ). Un’afferma-
zione sostanziale che non va presa alla leggera, specie se messa in eco
con la puntuale ricognizione effettuata su un grande numero di dipinti

e poi lucida con la carta dal vetro e spolverizzala sopra bona carta e dipingila, se ti piace,
usando bene poi la prospettiva aerea ». Per un’articolata trattazione di queste macchine
prospettografiche, con la presentazione puntuale dei molti testi che ne descrivono repliche
o varianti, si veda K , pp. –; C , pp. –.
Il velo della pittura 

Figura . Hieronymus Rodler, Eyn schön nützlich büchlin und underweisung der kunst
des Messens mit dem Zirckel Richtscheidt oder Linial, Simmern, , p. 

“prospettici” dallo studioso James Elkins (), il quale constata l’im-


possibilità di rintracciare, all’interno del pur variegato panorama delle
rappresentazioni spaziali, anche un solo esempio pittorico eseguito
nel diligente e rigoroso rispetto della costruzione legittima, nemmeno
a opera dei grandi teorici del Quattrocento.
Pur a distanza di secoli, sia Cigoli che Elkins conferiscono più o
meno indirettamente alla “terza via” (Camerota , p. ) — quella
che si basa appunto sull’impiego dei dispositivi prospettografici — un
ruolo significativo: gli artisti ne hanno fatto un uso superiore a quello
che si potrebbe immaginare; un uso che, oltretutto si è protratto lungo
il filo dei secoli . Interessante, a questo proposito e con un evidente
salto cronologico, quanto scrive Vincent Van Gogh sul velo, celebran-

. Quella che viene chiamata la “terza regola” contempla l’impiego sistematico degli
strumenti prospettici, che diverranno una costante nella trattatistica del xvi e xvii secolo;
cfr. a questo riguardo, C , pp. –, con bibliografia precedente. Il sito
http://www.macchinematematiche.org/ propone il rifacimento concreto di gran parte
delle macchine prospettografiche utilizzate nel tempo, a partire da Dürer.
 Lucia Corrain

Figura . Robert Fludd, Utriusque cosmi maioris scilicet et minoris metaphysica,


Oppenhemii, Ære Johan–Theodori de Bry, typis Hieronymi Galleri, –
Il velo della pittura 

Figura . Jean Dubreuil, Strumento utilizzato dal pittore per disegnare in prospettiva,
in La perspective pratique nécessaire à tous peintres, graveurs, sculpteurs, architects. . . ,
Melchior Tavernier et François L’Anglois, Paris –, p. 

done le proprietà, in una lettera al fratello Theo (– agosto del ).
Dapprima, il pittore ricorre alla mera descrizione, accompagnata da
uno schizzo (Fig. ):
 Lucia Corrain

Figura . Hieronymus Rodler, Eyn schön nützlich büchlin und underweisung der kunst
des Messens mit dem Zirckel Richtscheidt oder Linial, Simmern, , p. 

Caro Theo, nella mia lettera precedente avrai trovato un piccolo disegno di
quella cornice prospettica di cui ti ho parlato. Torno proprio ora dal fabbro che
ha messo punte di ferro sulle aste e angoli in ferro alla cornice. Ha due lunghi
pali. Con forti pioli di legno si fissa la cornice in senso orizzontale o verticale.

Per proseguire poi con una spiegazione sull’utilità che questa “cor-
nice prospettica” assume nella riproduzione del reale:

il risultato è che sulla spiaggia, in un prato o in un campo è come guardare


dalla finestra, le linee orizzontali e verticali della cornice, e poi le diagonali
e il punto di intersezione, oppure la divisione dei quadrati, forniscono dei
punti di riferimento che aiutano a realizzare con sicurezza un disegno a
grandi linee rispettandone le proporzioni.

È, dunque, la struttura reticolare a rivestire il ruolo più significativo


nella macchina prospettografica che, sulla scorta di quelle antiche, Van
Gogh progetta, affidandone la realizzazione a un artigiano:
Il velo della pittura 

Figura . Albrecht Durer, Il vetro, , xilografia, . × . cm, Berlino, in ib.,
Underweysung der messung mit dem zirckel vnd richtscheyt in Linien ebnen vnnd gantzen
corporen durch Albrecht Duerer zusamen getzogen vnd zu nutz aller kunstlieb habenden
mit zu gehoerigen figuren in truck gebracht im jar. , Gedruckt zu Nueremberg,
Hieronymus Andreae

Senza questi fili lo strumento è di scarsa o nessuna utilità e fa girare la testa


se ci guardi dentro. Penso che si possa immaginare quanto sia delizioso
focalizzare lo spettatore sul mare, sui prati verdi o, in inverno, sul campo
innevato, o in autunno sulla rete fantastica di rami sottili e spessi dei tronchi
o su un cielo tempestoso.

La “cornice prospettica” di Van Gogh, dunque, è capace di ben


direzionare l’occhio, ma anche di tenere sotto controllo la testa. A
conferma di quanto detto, in alcuni suoi lavori realizzati in Francia
negli ultimi anni della sua vita, sono tuttora rintracciabili le linee guida

. La lettera si conclude con queste considerazioni: « Il telaio prospettico è davvero un


bel pezzo d’artigianato, mi dispiace che tu non lo abbia visto prima di partire. Mi è costato
un bel po’, ma ho dovuto farlo solido così durerà a lungo. Il prossimo lunedì lo userò per
fare gli studi a carboncino di grandi dimensioni e iniziare a dipingere piccoli studi ». Gli
stralci della lettera di Van Gogh a Theo sono tratti dall’edizione italiana pubblicata nel ,
pp. –.
 Lucia Corrain

Figura . Albrecht Durer, Il liuto–sportello, , xilografia, . × . cm, Berlino, in
Underweysung der messung mit dem zirckel vnd richtscheyt in Linien ebnen vnnd gantzen
corporen durch Albrecht Duerer zusamen getzogen vnd zu nutz aller kunstlieb habenden
mit zu gehoerigen figuren in truck gebracht im jar. , Gedruckt zu Nueremberg,
Hieronymus Andreae

corrispondenti alle segmentazioni del telaio–griglia, usate per marcare


l’articolazione prospettica. Tali linee, inoltre, attestano l’uso di questo
strumento anche per la resa di arditi scorci, specie in alcune opere,
come ad esempio The Harvest — del , conservato al Van Gogh
Museum di Amsterdam —, dipinto nei pressi di Arles .
Quest’ultima considerazione, potrebbe aprire verso un recupero
del velo quadrettato all’interno della pittura italiana ed anche europea.
Un percorso lungo e articolato che necessariamente dovrebbe partire
dalle bianche tovaglie delle Ultime cene: immacolate, perfettamente
inamidate, le cui pieghe, esageratamente “quadrettate” sono un pale-
se richiamo alla griglia–velo. In particolare, per evocare la possibile
ricchezza di questo percorso, è qui sufficiente una tavola di Rogier
van der Weyden, Crocefissione (Fig. ), in cui i segni della quadrettatura
rivestono un ruolo di primaria importanza. Le tre figure a grandezza

. Si veda il catalogo dell’esposizione dedicata a Van Gogh, tenutasi a Philadelphia,


Museum of Art: Homburg, Kienle, Rishel, Thompson .
Il velo della pittura 

Figura . Disegno del telaio prospettico fatto realizzare da Vincent van Gogh
intorno al , da Lettere a Theo

naturale — Cristo crocefisso, la Madonna a sinistra e Giovanni a destra


— sono disposte davanti a un drappo rosso intenso da poco dispiegato,
appena lasciato cadere dall’alto. Le sue pieghe ne mutano la natura: da
puro sfondo a griglia; una sorta, cioè, di grande pannello a riquadri,
artificialmente perfetto, che articola dimensioni e proporzioni delle
figure che vi si sovrappongono. Se le linee orizzontali marcano la
scritta inri, le spalle e il perizoma di Cristo, la testa e le ginocchia
della Vergine; le verticali, invece, oltre a stabilire gli assi posturali di
Maria e di Giovanni e a contenere il corpo di Cristo, funzionano da
moduli per determinarne l’altezza: cinque per la figura femminile e
cinque e mezzo per quella maschile . Il velo albertiano funzionale

. Si veda per un’analisi più dettagliata, il catalogo della mistral dedicate a Rogier 
 W, Bruxelles, Musées Royaux des Beaux–Arts de Belgique, curato da Bücken,
Campbell, Dubois et al. .
 Lucia Corrain

alla predisposizione della composizione pittorica entra di diritto al


suo interno, non più celato, ma pienamente manifestato.

Figura . Rogier van der Weyden, Crocefissione,  circa, olio su tavola, cm
x, Monastero di San Lorenzo, El Escorial (Spagna)
Il velo della pittura 

. Velo e cinema

Seppur su un piano decisamente anacronistico, il film di Peter Gree-


naway, I misteri del giardino di Compton House, del , costituisce un
buon viatico per comprendere meglio gli aspetti legati alla rappre-
sentazione e alla rappresentabilità del mondo in termini di velo e di
griglia. Tutto il film, infatti, ruota intorno a un pittore, alla sua attività
e alla strumentazione che utilizza per riprodurre determinati spaccati
del reale (Fig.).

Figura . Fotogramma da Peter Greenaway, I misteri del giardino di Compton House,
il disegnatore in azione

Il film racconta che sul finire del Seicento, precisamente nel mese
di agosto del , la signora Herbert, un’aristocratica della provincia
inglese, proprietaria di una tenuta nella campagna anglosassone, com-
missiona a Neville — pittore e paesaggista itinerante — l’esecuzione
di dodici inquadrature della sua villa di famiglia. Il contratto stipulato
dalla signora con l’artista prevede che i disegni debbano essere portati
a termine in dodici giorni: un arco temporale esattamente corrispon-
dente alla durata del soggiorno del marito, il signor Herbert, lontano
dalla proprietà; i disegni, infatti, sono a lui destinati come ultimo tenta-
tivo da parte della moglie, di “riconquistarlo”; nel medesimo contratto
si sottoscrive un’ulteriore condizione, questa volta imposta dall’artista,
il quale pretende di possedere la signora Herbert al termine del lavoro
giornaliero.
In maniera cadenzata e ritmata, il film ripropone sia l’allestimento
necessario all’attività del disegnatore in luoghi ben definiti e appo-
 Lucia Corrain

sitamente predisposti, sia l’attività di rappresentazione stessa. Posto


su un treppiedi, il telaio–griglia a maglie rettangolari, con relativo
mirino, è lo strumento attraverso il quale l’artista guarda la villa e il
paesaggio circostante (Fig.); più precisamente, è la macchina che
permette al pittore di trasporre le diverse inquadrature della tenuta di
Compton House su fogli bianchi impostati con la medesima quadret-
tatura (Fig.) . Proponendo una perfetta omologazione tra la griglia
del telaio e quella riprodotta sulla carta, Neville è convinto di crea-
re all’interno di ciascun disegno un’immagine quanto più possibile
oggettivata e “controllata” della tenuta, priva di qualunque apertura
creativa. Durante le ore di lavoro esige che tutto ciò che si muove
— uomini e animali in terra e persino gli uccelli in aria — sia tenuto
lontano dal luogo che si accinge a riprodurre, in modo che il paesaggio
inquadrato dal telaio appaia del tutto statico. Infatti, il disegnatore è
totalmente incapace di accettare la fluidità di quanto vede attraverso
la cornice–griglia, perché il movimento sfugge a qualsiasi forma di
commensurabilità e, dunque, di razionale e controllata riproducibilità.
Tale fare appare estremamente singolare, nonché ridicolo a quanti
nel film si atteggiano a puri spettatori: mister Talman, ad esempio,
paragona Neville a un dio che, con la sua potenza, pretende di svuotare
il paesaggio. Per compiere il suo lavoro, il pittore deve osservare a
distanza la villa immersa nella natura; deve creare cioè una rottura
fra sé e il mondo da rappresentare . La comunicazione tra le due
entità (soggetto e mondo) è comunque garantita da quella sottilissima
membrana rappresentata dalla griglia–velo, che assume così il ruolo
di vera e propria protagonista della scena, ricorrendo con puntuale
regolarità durante l’intera durata del film.
Questo apparato rappresentativo non presiede solo alla mise en
scène del reale, ma interviene anche nel meccanismo di velamen-
to/svelamento insito nella stessa trama del film. Tanto è vero che,
nonostante i ripetuti sforzi del pittore tesi a guardare attraverso il velo

. In tutto il film, Neville disegna con una matita: evidente anacronismo — come si
legge in M  — perché il legno che avvolge la graffite entra in uso solo nel
xviii secolo; cfr. per maggiori dettagli P , pp. –.
. “Il retro della casa”, “Il giardino”, “La lavanderia”, “La facciata occidentale”, “La
vista dalla collina”, “La facciata della casa”, ecc. sono le inquadrature fissate dal disegnatore,
più volte riprese perché l’artista divide il suo lavoro in precise fasce orarie e, dunque, ritorna
più volte su un dato punto di vista, si veda D G , p. .
Il velo della pittura 

Figura . Fotogramma da Peter Greenaway, I misteri del giardino di Compton House,
il disegnatore sta predisponendo la strumentazione per disegnare

Figura . Fotogramma da Peter Greenaway, I misteri del giardino di Compton House,
il disegno della tenuta su carta quadrettata

un mondo costantemente monitorato, intervengono, nel corso dei


dodici giorni, delle trasformazioni che alterano l’immagine congelata
del paesaggio e che Neville, dopo un primo e inevitabile sconcerto,
è obbligato in qualche modo a registrare nei suoi disegni. Deve ag-
giungere così (Fig. ), in ogni sua rappresentazione, un elemento
imprevisto: una scala appoggiata al muro, una camicia strappata, un
farsetto con una lacerazione all’altezza del cuore, un paio di stivali
abbandonati e, alla fine, anche un cavallo senza cavaliere; tutti elemen-
ti estranei alle vedute che sta realizzando. Intrusioni che, osservate
singolarmente all’interno di ciascun foglio, mancano di significato,
mentre, considerate coralmente, riconducono al complotto ordito
per mano della stessa committente; un oscuro intrigo che porterà al
 Lucia Corrain

tragico epilogo: in primis, all’assassinio di mister Herbert, il marito, e,


successivamente, alla stessa uccisione di Neville. Si può dunque dire
che tutto il film ruoti attorno ai suoi disegni. Essi, infatti, veicolano
valenze diverse: per loro intima vocazione rappresentano la tenuta,
ma a causa dell’“orditura” di un complotto diventano inequivocabili
spie indiziarie di un assassinio (De Gaetano , p. ). Il loro pro-
duttore — Neville — non riesce però a vedere/capire nulla; sa solo
“tradurre” la varietà della gamma cromatica del mondo in disegno, in
bianco e nero .

Figura . Fotogramma da Peter Greenaway, I misteri del giardino di Compton House,
uno dei disegni realizzati per la committente, mentre l’artista sta inserendo un
elemento di disturbo: la scala

. Questo contrasto tra la visione a colori e la rappresentazione in bianco e nero si


evidenzia in modo particolare nel ricorso al montaggio alternato: una modalità cinemato-
grafica che sottolinea il contrasto tra la realtà (colorata) e la sua mise en scène (bianca e nera)
da parte del disegnatore, cfr. anche D, V, G  e P .
Il velo della pittura 

Insomma, proprio il pittore che ha velato il mondo per meglio


osservarlo e rappresentarlo, non è in grado di comprendere la verità
che pure, un poco alla volta, si andava svelando sotto il suo stesso
sguardo e, appunto, attraverso i suoi stessi disegni; verità che invece
gli autori del complotto colgono perfettamente, tanto da bruciare, in
chiusura del film, tutte le tavole realizzate dal disegnatore.
Nel continuo gioco di velamenti/svelamenti, il fare “visivo” del
pittore appare, quindi, contraddittorio ed è lo stesso Peter Greenaway
a darne conto:

Il disegnatore ha bisogno degli occhi più di qualunque altra cosa, ma quando


finalmente i suoi occhi fissi si aprono, quando cade finalmente il velo, è
“troppo tardi”. Arrivare alla piena consapevolezza significa morire.

In queste parole, si coglie chiaramente una critica alla stessa rap-


presentazione del mondo con l’ausilio del “velo”, considerata anche la
perfetta sinergia che si instaura, in tutto l’arco del film, tra il medium
velo e il medium cinema: il telaio–velo è rettangolare, come rettango-
lare è lo schermo cinematografico ; le sue inquadrature in perfetta
rima con l’inquadratura cinematografica ne reiterano la medesima
fissità. D’altra parte, come ancora Greenaway sostiene: (Figg. –)

quando un cameraman guarda attraverso un mirino, è una griglia simile [al


telaio di Neville] quella che vede. Così in un certo senso, il film è su quello
che il cameraman vede, su ciò che il pittore vede e su ciò che vediamo
noi spettatori; e sulla differenza fra le tre rappresentazioni (Bogani , pp.
–) .

Un sistema, dunque, che riflette pienamente la cifra stilistica del


regista, laddove la scelta del telaio–velo di matrice albertiana diventa
il mezzo capace di veicolare il proprio stile: contraddistinto da inqua-
drature fisse e dalla quasi totale assenza di movimenti di macchina, da
. Da un’intervista del , di Alessandra Curti a Greenaway, ora in C , p.
.
. A questo proposito, il regista del film, dichiara di aver “inventato una propria griglia”
(C , p. ), sebbene sia evidente l’utilizzo di un dispositivo che, con le dovute
varianti, è stato elaborato a partire da quello di Dürer.
. Non è un caso che Greenaway si definisca “un pittore su celluloide”, e affermi che
« molti dei problemi affrontati oggi da un regista sono già stati dibattuti e risolti dai pittori
[del passato] » (B , p. ).
 Lucia Corrain

campi medi e lunghi; il tutto in nome di una staticità che condivide


molto con la pittura .

Figura . Fotogramma da Peter Greenaway, I misteri del giardino di Compton House,
la veduta del disegnatore da dietro il telaio

Figura . Fotogramma da Peter Greenaway, I misteri del giardino di Compton House,
il disegnatore concentrato dietro il telaio nell’osservazione del paesaggio che ha
davanti a sé

È quanto emerge pienamente in I misteri del giardino di Compton


House, in particolare nelle due distinte e opposte inquadrature del
telaio–griglia: nella prima — Neville è intento a osservare attraverso

. Afferma inoltre che « siamo abituati a concepire le immagini secondo la tradizione
della pittura occidentale, che racchiude tutto in una cornice » (B , pp. , , ).
Il velo della pittura 

Figura . Fotogramma da Peter Greenaway, I misteri del giardino di Compton House,
un’inquadratura del giardino attraverso il telaio–griglia

Figura . Fotogramma da Peter Greenaway, I misteri del giardino di Compton


House, il pittore che guarda attraverso il mirino con entrambe gli occhi

il telaio — la telecamera si colloca dal lato del paesaggio; nella secon-


da — il paesaggio osservato da Neville, viene mostrato attraverso il
telaio — la telecamera viene a coincidere con l’occhio del pittore. Nel
primo caso, se per un verso si è di fronte a una soggettiva, lo sguardo
dell’artista tuttavia sfiora solo marginalmente quello dell’osservato-
re, negando qualsiasi forma di immedesimazione e di adesione alla
drammaturgia filmica . Si manifesta così pienamente l’ambizione del

. Ma non solo, Greenaway ha « un’avversione per la cinepresa che si fa sentire »,


 Lucia Corrain

film di adeguarsi alla “staticità della pittura figurativa” (Curti , p.


). Più precisamente, in « I misteri del giardino Compton House, Greena-
way teorizza l’ascendenza pittorica dell’immobilità cinematografica,
dove la natura è filtrata dagli occhi del disegnatore e dai retaggi della
tradizione paesaggistica » (De Gaetano , p. ); e dove, per buona
parte del film, si vede « il viso dell’architetto attraverso la griglia, che
diventa una raffigurazione della prigione. È come se il soggetto che
tenta di catturare il mondo, immobilizzandolo e fissandolo attraverso
l’apparato rappresentativo, venisse intrappolato dall’apparato stesso »
(Manovich , p. ). Una critica che ben si coglie nel discorso della
signora Talmann, la snob culturale del film:
Un uomo davvero intelligente può essere soltanto un mediocre pittore. . .
perché dipingere richiede una certa cecità. . . , un parziale rifiuto di accettare
tutte le possibilità. Se è intelligente, l’uomo ne sa di più su quello che
disegna di quello che vede e, nello spazio fra il conoscere e il vedere, costui
diventa condizionato, incapace di seguire un’idea con forza, temendo che
chi capisce, coloro ai quali egli vuole piacere, lo troveranno in difetto se non
ci mette non solo quello che lui sa, ma quello che sanno anche loro.

In altre parole, rendendo completamente trasparente il velo, il pitto-


re compie un’operazione stereometrica e algida, dove l’intuizione, la
fantasia e la sua stessa corporeità vengono congelate. E ciò è attestato
dalla ricorrenza di un altro dettaglio significativo (Fig. ): pur usando
un mirino per traguardare la realtà, il pittore ne distorce l’uso e si
avvale di entrambi gli occhi per guardarvi attraverso, negando qual-
siasi forma di visione monofocale; quella di cui si serve, all’opposto,
il giovane nipote del signor Talman che, approfittando dell’assenza
del disegnatore, ne prende il posto. Se Neville, pur osservando con en-
trambi gli occhi, riporta sui fogli bianchi solo ciò che vede, il giovane
che nel pieno rispetto delle regole usa un solo occhio disegna, invece,
sulla superficie nera di una probabile lavagna, segni di pura fantasia,
espressione di libertà.
In definitiva, il velo segue “la logica dello sguardo fisso” portando
alla produzione di « un’immagine che viene ridotta [. . . ], privata del
proprio corpo » (Bryson , p. ). Ne consegue « un ritaglio puro, dai
dal momento che per lui « è molto importante che la cinepresa sia un occhio inorganico,
non–soggettivo per quanto possibile, così non si mette in mezzo fra quanto sta avvenendo
sullo schermo e lo spettatore » (B , p. ).
Il velo della pittura 

Figura . Fotogramma da Peter Greenaway, I misteri del giardino di Compton House,
il giovane ragazzo che usa correttamente il mirino

contorni netti, irreversibile, incorruttibile, che respinge nel nulla tutto


ciò che gli sta attorno, innominato, e promuove all’essenza, alla luce,
alla vista tutto ciò che fa entrare nel suo campo » (Barthes , p. ).
Analogamente Neville cerca di pervenire a questo tipo di immagine,
statica e asettica, ma invano, in quanto il paesaggio della tenuta che
lentamente riproduce contiene più di quanto la sua mira sia in grado
di cogliere; il “fuori inquadratura” gli sfugge totalmente e si manifesta
solo con segni enigmatici e sporadici.

. Vedere senza veli

Ancora su un piano anacronistico, l’installazione Rahmenbau (Fig. )


offre un’ulteriore occasione di dialogo con il velo albertiano. Realizza-
ta per Documenta , nel , dal gruppo austriaco Haus–Rucker–Co., e
allestita in prossimità del Staatheater di Kassel, la site–specific, innanzi-
tutto, instaura con l’antico dispositivo un rapporto di ordine formale:
magnificandone le dimensioni, si compone di due telai d’acciaio: il
primo è largo . e alto  metri, con al suo interno una rete metalli-
ca, tagliata, anch’essa in acciaio; mentre il secondo più piccolo, è di
. metri per lato, distante  metri dal primo, non perfettamente in
asse e a esso ancorato tramite un sistema di tiranti e tubi (Fig. ).
 Lucia Corrain

Figura . Veduta frontale di Haus–Rucker–Co., Rahmenbau, , Schöne Aussicht,


Gustav–Mahler–Treppe, Kassel

Figura . Veduta dei due telai della Rahmenbau a Kassel

Il luogo in cui oggi si innalza la Rahmenbau è precisamente quello


in cui, fino al , si ergeva un arco di trionfo che inquadrava il
sottostante parco barocco Karlsaue, tanto che la toponomastica —
Schöne Aussicht–Bellavista — evoca ancor oggi quell’effetto visivo.
Tuttavia, se per alcuni aspetti l’installazione attuale entra in risonanza
con l’arco preesistente, essa non ne ripropone un’analoga struttura
architettonica. A differenza di quanto accadeva con il precedente arco,
la visione di Rahmenbau si articola in due stadi successivi di visione:
Il velo della pittura 

nel primo, il grande telaio–cornice è inserito in un percorso in piano


al quale lo spettatore si avvicina passo a passo; mentre per raggiungere
il secondo, circa sei volte più piccolo del primo, il visitatore deve
obbligatoriamente percorrere una passerella (posta sul lato destro del
grande telaio), in salita e in parte sospesa, che lo guida verso una
diversa veduta; deve cioè gradualmente disgiungersi dal piano terreno
responsabile del primo atto percettivo.
In sintesi, dunque, questa installazione, portando lo sguardo a diret-
to contatto con il paesaggio, funziona alla stregua di un “integratore”
ambientale, una struttura spaziale che opera nello spettatore una tra-
sformazione in termini cognitivi: lo rende consapevole della vista che
gli si offre dinanzi. E la consapevolezza scaturisce attraverso ciò che il
dispositivo fa fare. L’intenzione degli ideatori della Rahmenbau, infatti,
è quella di « rendere lo spettatore che non reagisce o che non prende
coscienza del quotidiano » , responsabile di una nuova esperienza
cognitiva, operata solo tramite l’ausilio del telaio–griglia–cornice;
grazie, dunque, a uno strumento ad hoc che trova nelle macchine
prospettografiche le più celebri antenate.
La promessa che la “macchina” dispensa è assicurata: soprattutto
nella seconda inquadratura il visitatore, con tutto il suo corpo — ad-
dirittura sospeso e isolato dal mondo circostante — può facilmente
passare dal semplice guardare al vedere il paesaggio che si estende sotto
i suoi occhi. Tale cambiamento percettivo non è privo di conseguenze,
dal momento che fa scoprire allo spettatore uno scenario di cui prima
non era pienamente consapevole. La veduta ha perso il fascino della
natura incontaminata: alle spalle del parco verdeggiante, lo spettatore
scopre quanto negli anni si è aggiunto in termini di contempora-
neità. Infatti, nella transizione dal grande al piccolo telaio–cornice,
il paesaggio si trasforma in una veduta sull’espansione urbana, con-
trassegnata da nuove costruzioni e punteggiata dalle ciminiere delle
fabbriche. Una visione che si offre in presa diretta, senza alcun filtro,
senza l’interposizione di alcun velo, di cui peraltro rimangono solo

. Laurids Ortner, uno dei progettisti, dice: « The Rahmenbau frames a random stretch
of landscape. Our concern is first, to make the viewer aware that he does not react to
or become aware of daily objects that surround him constantly; unless they are specially
framed. Secondly, we wanted to turn his attention especially toward the urban landscape
and show the obsever that here a landscape has developed of which he has not yet become
fully conscious »; citazione ripresa da A , p. .
 Lucia Corrain

Figura . Telaio grande della Rahmenbau a Kassel con il reticolo interno squarciato

delle impercettibili tracce.


In buona sostanza, i telai della Rahmenbau, analogamente al velo
albertiano, segmentano il continuum del mondo e, alla stregua di
deittici, additano la porzione di paesaggio da osservare, ma in scala
molto più grande, considerate le ragguardevoli misure. Diversamente
dal velo, però, ciò che qui l’osservatore “vede attraverso” non deve
essere trasposto su un supporto planare: i due telai non sono finalizzati
alla rappresentazione del mondo, bensì alla sua presentazione, tanto
che tutta la struttura è stata definita “un’architettura della percezione”.
La visione che si offre dev’essere solo osservata nella situazione
contestuale, nella postazione dell’ego, hic et nunc del visitatore. A con-
ferma di quanto detto, c’è ancora una diversità che si pone come una
radicale rottura con lo storico dispositivo del velo. In entrambi i telai
(Fig. ) la rete di acciaio a piccole maglie quadrate — evidente eco
della trama interna dell’antenato dispositivo prospettico — è taglia-
ta in modo sbiecato rispetto alle ortogonali della struttura portante,
operando una vera e propria “lacerazione” del velo.
Quale significato può rivestire questa inquadratura nell’inquadratu-
ra che — in relazione alle misure dell’installazione — è all’origine di
una visione senza alcun filtro, senza alcun velo? Potrebbe trattarsi di
una critica al rigore geometrico che da sempre ha caratterizzato il pia-
Il velo della pittura 

Figura . Telaio piccolo della Rahmenbau a Kassel con il reticolo interno squarciato
con vista sulla città

no di osservazione della costruzione prospettica? Oppure di un gesto


iconoclasta di “taglio” del velo? Nessuna di queste due ipotesi sembra
andare nella corretta direzione. Sebbene siano sovradimensionati, i
telai continuano a delimitare e, per certi versi, a conservare ancora
la “quadrettatura” interna; di conseguenza, la spaccatura della maglia
metallica va piuttosto ricondotta alla necessità di un’esperienza di vi-
sione/osservazione del paesaggio fine a se stessa; alla quale, appunto,
non deve far seguito alcuna sua traduzione in rappresentazione. Il
reticolo metallico interno (Fig. ), opportunamente tagliato perché
non funzionale alla riproduzione “oggettivata” del reale su un piano
bidimensionale, è finalizzato a far vivere al visitatore un’esperienza
percettiva con tutto il suo corpo e, principalmente, senza velo. Senza,
cioè, stendere alcun “velo pietoso” sulla realtà, prendendo altresì co-
scienza delle sgradevoli trasformazioni subite dal paesaggio nel corso
del tempo.
Un’ultima considerazione, questa volta di tipo linguistico. In tede-
sco, l’espressione italiana “stendere un velo pietoso” si traduce con
nicht mehr sprechen, che letteralmente significa « non parlarne più, non
aggiungere altro », senza alcun ricorso alla parola “velo”. Nella lingua
tedesca, il verbo verschleiern (velare), da cui il sostantivo velo (Schleier),
 Lucia Corrain

traduce anche offuscare; di conseguenza, sembra che rispetto al velare


prevalga il senso dell’occultare, cioè di uno “strato” posato su qualcosa
che ne altera la percezione compromettendo ogni tentativo di indagi-
ne. Una riflessione che può portare a un ulteriore approfondimento
sul velo tagliato della Rahmenbau.
Un lavoro di recente realizzazione () eseguito da Ana Márcia
Varela y Leonardo Villela, Vejo Homens Como Arvores que Sonham (Fig
), può dialogare con l’installazione di Kassel sia in fatto di griglia che
di paesaggio. Realizzata con materiale di riciclo, l’opera propone una
metallica rete da letto sovrapposta alla fotografia di un frammento di
paesaggio: ancora un modo, dunque, per guardare la realtà attraver-
so un medium. Se Rahmenbau non abbisogna di alcuna mediazione,
perché a entrare in gioco è la pura esperienza estetica della natura
contaminata da parte dello spettatore, in questo caso il ricorso alla
griglia–rete si declina in una nuova occorrenza, finalizzata alla ricezio-
ne della natura apparentemente incorrotta, mediata dalla riproduzione
fotografica, ma percepita solo attraverso una griglia culturalizzata. In
breve, una natura ingabbiata dagli stessi scarti prodotti dall’uomo .

. “Velo” di luce

La pellicola di Greenaway, precedentemente presa in considerazione,


offre un ulteriore e tutt’altro che trascurabile spunto di riflessione,
attingendo dalle numerose citazioni pittoriche cui il regista fa ricorso
lungo l’intero arco del film. Uno dei dipinti della collezione privata
di Mister Herbert, infatti, permette di volgere lo sguardo verso altri
sistemi di duplicazione della realtà: si tratta del dipinto di Januarius

. I lavori di arte contemporanea che chiamano in causa la griglia sono numerosi, in
questa sede basti ricordare che alla fine degli anni ottanta del Novecento, un gruppo di
artisti francesi fonda il gruppo Supports/Surfaces, la cui poetica si fonda sulla materialità
del quadro: la tela, il telaio, la cornice e la griglia. Il lavoro di uno dei fondatori del gruppo,
Claude Viallat, dal titolo Filet, consiste in una rete appesa al soffitto che ricade liberamente
nel vuoto, cfr. B, C . La griglia nel contemporaneo è oggetto di
attenzione anche da parte di Rosalind K (, p. ), la quale sostiene: « spazialmente
la griglia afferma l’autonomia del campo dell’arte: bidimensionale, geometrica, ordinata, è
antinaturalistica e si oppone al reale [. . . ]. Tutta la regolarità della sua organizzazione è il
risultato non dell’imitazione ma di una decisione estetica ».
Il velo della pittura 

Figura . Ana Márcia Varela y Leonardo Villela, Vejo Homens Como Arvores que
Sonham, collezione privata

Zick, Allegory of Newton’s Theory of Optics, del  circa (Fig. ) , a
detta di Greenaway un’opera con un

contenuto allegorico [che] lascia perplessi, come tante allegorie del XVIII
secolo, ma che pone delle possibili soluzioni al dramma. [. . . ] Offre delle
piste per comprendere il film.

Insomma, la scelta di questo quadro incentrato sulla scienza della


visione nella narrazione filmica assolve, ancora una volta, alla fun-
zione di rimarcare, per contrapposizione, l’accecamento proprio del
disegnatore . Durante la descrizione del quadro in cui maldestramen-
te Neville si cimenta, la telecamera mostra in primo piano dettagli
del dipinto che il pittore in forma interrogativa, tenta di interpretare

. Gli studi sulla produzione cinematografica di Greenaway e la pittura sono moltis-
simi; il lavoro di Mirandette , con ampia bibliografia precedente è molto articolato e
offre un approccio interessante: la mémoire discussa dalla studiosa all’università di Montrèal,
indaga il ruolo dell’interartialité, cioè le relazioni tra le arti nel cinema di Peter Gree-
naway e le funzioni che esse rivestono nell’economia della sua produzione. Cfr. anche
W–M  e W–M, A–G .
. Nella pellicola di Greenaway « la peinture est–elle montrée non seulement comme
source d’inspiration du cinéaste (art antérieur, ancêstre), mais comme médiation révé-
latrice, par sa portée allégorique, de la vérité contenue (cachée) dans l’image filmique »,
M , p. .
 Lucia Corrain

Figura . Januarius Zick, Allegory of Newton’s Service to Optics, , Hannover,
Niedersächsische Landesgalerie

come indizi di un dramma: « Un dramma si gioca in questo super


popolato giardino? Quale intrigo si annoda? Credete che queste crea-
ture vogliano parlare di qualcosa? [. . . ] Credete che una morte si stia
preparando? ».
Cosa mostra davvero questo quadro? Al centro, un giovane indica
un antico tempio circolare, e tiene il piede sinistro appoggiato su
una figura maschile riversa a terra; all’estrema sinistra, si scorge una
coppia abbracciata, mentre a destra, due vecchi barbuti si allontanano
nelle tenebre; il tutto è immerso in un chiaro–scuro inquietante, dove
un’insolita luce squarcia le nubi per illuminare principalmente la figura
centrale. Se lo stesso Greenway ha sostenuto che per la sua comples-
sità questa allegoria non è facilmente interpretabile, ciò nonostante
qualcuno ne ha proposto una lettura riconoscendo nei due personaggi
di destra gli antichi filosofi, Euclide e Diogene, che lasciano il posto
al nuovo genio della scienza, Newton, rappresentato dal giovane al
centro del quadro che “schiaccia” l’ignoranza e la menzogna . Una
lettura che appare convincente specie se rapportata alla singolare il-
luminazione del quadro non riconducibile a una situazione naturale,
né tantomeno a un intervento divino. Il fascio luminoso che squar-
ciando le nubi va a illuminare la figura di Newton, altro non è che un

. La lettura è stata messa a punto da P , pp. –. Per altre e diverse
interpretazioni cfr. M , pp. –.
Il velo della pittura 

richiamo al raggio di luce che entra nella camera ottica, teorizzata


dallo stesso scienziato. Non a caso Jonathan Crary (, pp. –), nel
suo studio sulle tecniche dell’osservatore, afferma che « fra i testi più
celebri nei quali troviamo l’immagine della camera oscura e del suo
soggetto segregato e incorporeo, figura l’Ottica di Newton () », il
quale così descrive il fenomeno:
In una camera molto buia, contro un foro rotondo, largo circa la terza parte
di un pollice, praticato nello sportello di una finestra, collocai un prisma di
vetro, per mezzo del quale i raggi della luce del sole, che entrano attraverso
quel foro, potevano essere rifratti verso l’alto e verso la parete opposta della
camera, e in quel luogo formare un’immagine colorata del sole (Newton
, p. ).

L’atto rappresentativo, nell’operazione descritta da Newton, non


compete dunque a un soggetto produttore, differenziandosi in ciò sia
dalla costruzione prospettica sia dal dispositivo velo; la concretizza-
zione dell’immagine spetta piuttosto al fascio di luce che transitando
per un foro si proietta su una parete di un ambiente interno oscurato.
L’osservatore è incapace di rinvenire nell’immagine la sua posizione
corporea, tanto che il modo in cui « abita l’oscurità è piuttosto mobile:
egli diventa una presenza marginale e supplementare, indipendente
dagli ingranaggi della rappresentazione » (Crary , p. ); in breve,
è separato dal mondo e la realtà non viene esperita in modo diretto,
bensì mediata da un mezzo “trasparente e rifrangente” (ivi, p. ). Ciò
che questo dispositivo di rappresentazione restituisce è una vera e
propria “pittura”, di cui gli artisti nel corso dei secoli si sono serviti
intuendone la portata. L’“immagine colorata del sole”, proiettata all’in-
terno di un ambiente oscuro, come si è visto, non richiede l’intervento
del pittore: essa ha già operato una segmentazione del continuum del
mondo, trasponibile sul supporto pittorico.
È ancora una volta una pellicola cinematografica a esplicitare in
modo efficace il funzionamento della camera oscura. In Prima della
rivoluzione, del , il regista Bernardo Bertolucci gira una sequenza
nella Rocca Sanvitale di Fontanellato (Fig. ) — l’unica a colori
di tutto il film: all’interno della torre, una piccola stanza buia ospita
. Costruita nel XIX secolo, è una stanza buia, priva di finestre. Chi vi entra si dispone
lungo le pareti nel buio più completo, e non appena la porta di accesso viene chiusa,
appare piano piano una “visione” su due schermi concavi posti in piano, che mostrano
 Lucia Corrain

uno schermo sul quale, attraverso un gioco di rifrazione della luce


esterna, la protagonista Gina può vedere quanto avviene nella piazza
antistante. Qui, infatti, Fabrizio — un giovane studente marxista,
irrequieto e insofferente alle regole della borghesia — si esibisce in
un’improvvisata danza per la zia Gina, verso la quale nutre un amore
impossibile, sebbene ricambiato. La donna, al buio, nel chiuso della
camera oscura — dopo aver dichiarato, in absentia dell’interessato, il
suo amore per il ragazzo — riferendosi all’immagine riflessa sullo
schermo esclama: « Che bello questo trucco che mi fa parlare con te
anche quando non ci sei, lo ruberei ». E, al ricongiungimento con
Fabrizio, quando tutti e due sono avvolti dal buio, aggiunge: « Vorrei
che niente si muovesse più, tutto fisso come in quadro, e noi. . . e noi
dentro, fissi anche noi ».
La scena girata in questo luogo mostra come la luce–pennello
dipinga sì un “quadro”, ma diversamente da ciò che vorrebbe Gina,
questo quadro è in movimento. E in quanto tale, non è in grado di
“immortalare” il segmento passionale, vissuto dai due protagonisti.
Ancora una volta, siamo dinanzi a un dispositivo ottico che agisce
in sinergia con la trama del film, ponendosi addirittura come una
metafora: l’impossibilità di immobilizzare quanto la camera ottica
mostra equivale all’impossibilità di “fisssare” nel tempo l’amore di
Gina e Fabrizio.
La camera ottica, dunque, al pari del velo albertiano inquadra una
porzione di mondo, ma con intenti diversi: se il velo con il suo reticolo
segmenta, in termini di commensurabilità, la realtà, eliminando ogni
forma di movimento — Neville docet! —, la camera ottica, al contra-
rio, recupera proprio il movimento della scena proiettata; e ancora,
l’immagine rovesciata della piazza antistante con tanto di gente che passa in tempo reale.
Anche Luigi Ghirri (, p. ), uno dei più grandi fotografi italiani, rimase profondamente
impressionato dalla camera oscura della rocca Sanvitale e così ne descrive la sensazione:
« Come se, miniaturizzati, potessimo per incanto entrare in una macchina fotografica. Da
[. . . ] anni, questa foto–telecamera primordiale ripete al sorgere del sole questo miracolo:
osservare nell’immagine come la luce che gradualmente si stende sul piazzale disegna i
contorni, accende i colori, le cose, le persone fino alle nuvole in cielo appena dietro alle
case di Fontanellato ».
. Fabrizio, un giovane irrequieto e insofferente alle regole della buona borghesia di
provincia, resta traumatizzato per la perdita di un amico. Solo la giovane zia Gina, sorella
della madre, che soggiorna temporaneamente presso la sua famiglia, riesce a comprendere
lo stato d’animo del ragazzo: ne scaturisce un amore impossibile, di cui soprattutto la
donna è pienamente consapevole.
Il velo della pittura 

Figura . Fotogramma da Bernardo Bertolucci, Prima della Rivoluzione. La scena


girata nella Camera ottica della Rocca Sanvitale di Fontanellato

se il velo presuppone un soggetto osservatore, viceversa, la camera


ottica lo esclude. Infatti, nella sequenza di Bertolucci, la riflessione
avrebbe avuto luogo comunque, anche in assenza di Gina, avrebbe in
ogni caso mostrato « lo spettacolo della rappresentazione nel suo farsi,
con una completa trasparenza [e] il piacere dell’illusione » (Crary ,
p. ).
Diversamente dalla costruzione prospettica e dal velo albertiano,

sebbene allo stesso modo presupponga di mostrare una rappresentazione


oggettivamente ordinata, la camera oscura non prescrive un luogo delimita-
to o un’area ristretta a partire dalla quale l’immagine appare in tutta la sua
coerenza e la sua logica. Da una parte, l’osservatore è disgiunto dal puro fun-
zionamento dello strumento e si comporta come un testimone incorporeo
davanti una ri–presentazione meccanica e trascendentale dell’oggettività del
mondo. Dall’altra, la sua presenza all’interno della camera oscura implica
una simultaneità spaziale e temporale fra la soggettività umana e l’oggettività
del dispositivo (Crary , p. ).

Più in generale, la camera ottica dà vita a una nuova organizzazione


della visione che comporta un diverso rapporto fra l’osservatore e la
realtà; ha dato origine a un nuovo regime scopico rispetto a quello in
vigore, almeno a partire dall’invenzione della costruzione prospettica
rinascimentale.
 Lucia Corrain

Se il velo albertiano è funzionale alla rappresentazione pittorica, a


partire dal punto di vista di un soggetto produttore, la camera ottica
in Bertolucci, non è finalizzata ad alcuna rappresentazione o registra-
zione della realtà in movimento. Essa piuttosto, funziona alla stregua
di un dispositivo metacinematografico, messo oltretutto in evidenza
dall’uso del colore: così come il cinema rappresenta una realtà in movi-
mento, la camera ottica restituisce, pur senza registrarlo, il dinamismo
della piazza.
Tuttavia, laddove la camera ottica registra in termini di mera de-
scrizione, una scena principalmente “statica”, si riavvicina al velo al-
bertiano e ritorna a essere un dispositivo atto alla rappresentazione
pittorica. Infatti, pur senza griglia, la riflessione offerta dalla camera
oscura corrisponde a quanto gli artisti, con tanta perizia, hanno prova-
to a trasporre direttamente in pittura . Un esempio valga per tutti,
Vermeer. Diversi studi hanno comprovato l’uso della camera oscura
da parte del pittore olandese. Di recente, l’artista britannico David
Hockney, ha perfino ipotizzato l’uso integrato della macchina ottica e
di uno specchio supplementare .

. Velo di specchio

Un altro dispositivo di duplicazione del mondo funziona alla stregua


del velo e possiede analoghe funzioni di découpage, pur configuran-
do in un modo ancora diverso l’osservatore: è lo specchio nero di
Claude, così chiamato probabilmente dal nome del pittore francese

. Gli studi contemporanei pongono la camera ottica al centro di molte riflessioni
sull’osservatore e lo sguardo, il corposo preprint numero , edito nel  dal Max–
Planck–Institut für Wissenschaftsgeschichte, a cura di Wolfang Lefèvre, ne è una conferma.
Non è questa la sede per ripercorrere l’uso della camera oscura da parte dei pittori, anche
per tutte le implicazioni che ciò comporterebbe. Qui è sufficiente ricordare che Svetlana
A () ha portato avanti l’idea che la camera ottica sia stata utilizzata soprattutto dagli
artisti dei paesi nordici; C (, p. ), invece, è dell’avviso che « la camera oscura
si impose in tutta Europa come metafora della visione umana » e assunse « un carattere
transazionale della vita intellettuale e scientifica in Europa » nel xviii. Per un articolato
discorso sui regimi scopici prefotografici della visione, cfr. anche C ; C
.
. A H , si aggiunga fra molti altri, S , per molta parte incentrato
su Veermer e la camera ottica.
Il velo della pittura 

Lorrain . Piccolo specchio leggermente convesso, di colore scuro,


racchiuso in una sottile “cornice”, talvolta di forma simile a quella
dell’album da disegno, questo strumento vede la sua massima dif-
fusione nell’Inghilterra del XVIII secolo, non solo tra gli artisti, ma
anche tra i viaggiatori e gli amanti del paesaggio. In pittura, la sua
funzione è quella di riflettere il soggetto da rappresentare, isolandolo
dall’ambiente circostante, e di stemperarne le tonalità cromatiche;
in questo modo, i pittori sono in grado di determinare celermente
l’inquadratura ottimale e la tavolozza da impiegare. Le sue contenute
dimensioni lo rendono facilmente trasportabile e dunque « on le porte
facilment avec soi: on peut le placer sans difficulté, en l’attachant à
un arbre ou à un bâton, que l’on assujettit dans la terre »; a questo
punto, « on peut alors copier la Nature dans ce miroir comme on
copieroit un tableau » (Valencienne , p. ). Occorre però che
l’artista volga le spalle proprio alla realtà da riprodurre; che sospenda
lo specchio, rivolgendolo leggermente verso destra, in modo da non
essere abbacinato e, soprattutto, per non essere incluso nella rifles-
sione dello specchio–velo. Così come lo specchietto retrovisore, pur
ampliando il campo visivo del guidatore, permettendogli di vedere
cosa accade dietro, non lo riflette al suo interno, per non distogliere la
sua attenzione .
Voltandogli le spalle, per osservarlo esclusivamente nello specchio,
il paesaggio riflesso è assai simile a quello riprodotto nei quadri e, a
detta di molti, ancor più bello del reale. La forma convessa, infatti, da
una parte raccoglie sulla sua superficie un’ampia veduta del paesaggio,
dall’altra il colore scuro del vetro ne muta i valori tonali, rendendoli,
per gli standard del XVIII e XIX secolo, ancor più incantevoli. In

. « L’opinion commune laisse entendre que le miroir de Claude a été appelé ainsi
parce qu’il donnait aux paysages reflétés cette lumière sombre et cette teinte dorée propres
justement aux tableaux du Lorrain. [. . . ] Plus généralement, [. . . ] des œuvres picturales
comme celles du Lorrain constituèrent souvent à cette époque une sorte de filtre à travers
lequel on regardait la nature, comme Goethe lors de son voyage en Italie: ‘Au–dessus de la
terre flotte pendant le jour une brume légère qu’on ne connaît que par les tableaux et les
dessins de Claude » (M , p. ).
. Come dice C (, pp. –) lo specchietto retrovisore permettendo « al
guidatore di vedere dietro di sé pur continuando a guardare in avanti è molto di più di
un accessorio » capace di informare sul traffico che lo segue o insegue: « Esso significa
qualcosa che mai né l’uomo né alcun altro animale avevano mai sperimentato prima, cioè il
superamento della divisione dello spazio in un campo anteriore e in un campo posteriore ».
 Lucia Corrain

definitiva, anche in questo caso la realtà–paesaggio è riprodotta dal


pittore attraverso un dispositivo che funziona effettivamente da velo,
cui lo accomuna la scelta del punto di vista fisso .
Ma perché mai voltare le spalle al mondo per vederlo e rappre-
sentarlo soltanto attraverso la sua riflessione? La risposta risiede nelle
leggi dell’ottica: uno specchio convesso, infatti, rispetto a quello piano,
convoglia forzatamente sulla sua superficie una scena decisamente
più ampia, “riproducendo” cioè un campo visivo più esteso di quello
percepito a occhio nudo. In breve, lo specchio di Claude “riflette”
non la realtà tout court, bensì una sua immagine virtuale che non
richiede alcun completamento nel fuori quadro, ma, all’opposto, si
autonomizza, ripiegandosi all’interno della cornice–specchio .
In tempi recenti, lo specchio di Claude è ripreso, congiuntamente
alle più recenti strumentazioni tecnologiche, da Alex Mckay  , in un
progetto realizzato tra il  e il : una variante dello specchio di
Claude ( pollici), collocato nel giardino dell’Abbey Hotel, riflette le
rovine della facciata sud–ovest dell’abbazia di Tintern nel Monmou-
thshire, in Galles — punto di vista adottato lungo i decenni da molti
pittori; a loro volta, le immagini riflesse sono costantemente riprese
da una webcam ad alta risoluzione e trasmesse in streaming dal canale

. In un contesto paesaggistico, l’occhio dell’osservatore deve praticare continue


messe a punto, proprio perché si trova di fronte a un’estensione percepibile con l’occhio in
movimento; al contrario, « dans un miroir, nous contemplons l’ensemble sous une seule
mise au point » (G , II, p. ). Cfr. riguardo alla “cornice genitrice” del paesaggio
G .
. Lo specchio in pittura ha origini antiche, addirittura mitologiche, nello stesso
mito di fondazione della pittura, così come racconta il mito di Narciso nelle Metamorfosi
di Ovidio. Ma lo specchio veniva usato anche come forma di “controllo” della qualità
realizzativa di un dipinto; a questo proposito eloquente è Leonardo da Vinci che nel
suo Trattato consiglia il pittore di mettere alla prova il valore esecutivo della sua opera
riflettendola in uno specchio piano.
. Come chiaramente si vede nell’Autoritratto di Parmigianino ( circa, olio su
tavola, Kunsthistorisches Museum, Vienna), lo specchio convesso da grande rilievo al
primo piano, producendo aberrazioni, che, nel caso delle riproduzioni che si avvalgono
dello specchio di Claude, i pittori possono facilmente rettificare.
. In realtà, Alex McKay, inserisce lo specchio di Claude in un progetto ben più vasto
dal titolo The Transient Glance, portato avanti con la collaborazione di Suzanne Matheson, in
un arco di tempo compreso tra il  e il  e che consiste nella disposizione di specchi
convessi lungo tutto il cosiddetto Way Tour: si veda il sito http://alexmckay.ca/alexmckay.
ca/Home.html, per ripercorrere i numerosi progetti, in cui l’artista canadese fa uso dello
specchio di Claude.
Il velo della pittura 

Figura . Alex Mckay, Tintern Abbey Claude mirror webcam installation, ,
Tintern Parva, Wales

Figura . Alex Mckay, Tintern Abbey Claude mirror webcam installation, ,
Tintern Parva, Wales

web della BBC (Figg. –) .


Per comprendere appieno il significato dell’operazione compiuta
Alex Mckay, occorre partire innanzitutto dalla scelta dello storico edifi-
cio, per nulla dettata dal caso. Oltre a essere la prima abbazia cistercense
del Galles (fondata il  maggio ), la Tintern Abbey, è tuttora parte
integrante di un percorso che si dispiega lungo la Wye Valley, una vallata
che vede il suo comune denominatore nel cosiddetto paesaggio pitto-
resco, attorno al quale si sviluppa il turismo inglese del XVIII secolo.
Lungo la Way Valley, infatti, in luoghi deputati, erano allestite stazioni
di visualizzazione — mappe e specchi disposti in appositi chioschi —
per gli spettatori, da cui ammirare il paesaggio, incorniciato, similmente
a un quadro, nel riflesso di uno specchio di Claude.

. L’emittente televisiva sospende la messa in onda di queste riprese nel , dalla fase
iniziale erano trasmesse lungo tutti i giorni dell’anno, con la sola esclusione del periodo
invernale (in quella zona, caratterizzato da forte nebbia e ridotta visibilità).
. Al riguardo si vedano M  e G .
 Lucia Corrain

Occorre, però, una precisazione. Sebbene lo specchio di Claude sia


utilizzato da entrambi, il turista a differenza del pittore, non osserva
il riflesso del mondo in modo puntuale per poi trasporlo in rappre-
sentazione, piuttosto lo guarda e lo percepisce nella sua dimensione
“dinamica”. Se è vero, infatti, che lo specchio convesso, per le caratte-
ristiche precedentemente evidenziate, richiama il velo albertiano, è
ancor più vero che, per questa percezione protratta nel tempo della
realtà riflessa richiama il funzionamento proprio della camera ottica.
In effetti, lo sguardo presupposto dallo specchio di Claude, non è af-
fatto puntuale, ma durativo, così come lo sguardo della webcam, che
ne potenzia esponenzialmente le capacità. L’occhio della telecamera
registra l’immagine in “movimento”: il susseguirsi del giorno e della
notte, del ciclo delle stagioni, delle variazioni luminose e climatiche
durante le ore del giorno, addirittura il volo di un uccello che transita
di lì. . . , in definitiva, l’incessante trascorrere del tempo sulle rovine
della Tintern Abbey.
L’occhio tecnologico della webcam in questo osservare e rappre-
sentare senza sosta quel che vede, si configura alla stregua di una vera
e propria protesi dell’occhio umano, dotato oltretutto di un fare inter-
pretativo: il trascorrere del tempo registrato in presa continua dalla
telecamera rimanda a un’altra dimensione temporale, ben più ampia,
quella che ha agito progressivamente e ineluttabilmente sull’abbazia
fino a ridurla alla condizione di rovina. Ma il passare del tempo, a sua
volta, lavora ininterrottamente sulle pittoresche rovine: diventa un
memento mori.

. Vedere sul velo

Su un versante decisamente differente si colloca, un lavoro di Bill Viola.


Tra le sue numerose videoinstallazioni, una in particolare ricorre
all’uso concreto del velo: si tratta di The Veiling (Fig. ), del ,
presentata nel padiglione americano della ª Biennale di Venezia .

. Il complessivo lavoro, dal titolo Buried Secret, era composto da cinque opere, tra
cui The Greeting, e nel quale la videoinstallazione centrale era proprio The veiling. Cfr.
sull’installazione B, , pp. –.
Il velo della pittura 

Figura . Bill Viola, The Veiling, , videoinstallazione, a Biennale di Venezia,
Padiglione americano

Al centro di un ambiente buio, disposti in diagonale, sono sospesi


nove veli paralleli l’uno all’altro che cadono a piombo. Due proiettori,
posizionati alle estremità opposte della sala, “imprimono” sulla leggera
stoffa le immagini, rispettivamente di un uomo e di una donna che si
avvicinano e allontanano, in un paesaggio via via più o meno luminoso,
per una durata complessiva di trenta minuti. Queste immagini che la
luce dei due proiettori materializza sugli strati–velo, gradualmente si
trasfigurano; diventano cioè indefinite per densità figurativa e messa
a fuoco, man mano che si procede dai veli più esterni a quelli più
interni; cosicché l’incontro tra l’uomo e la donna che si concretizza
sul quinto velo — quello più interno — assume una “consistenza
evanescente”.
I nove strati di tessuto articolano nello spazio i coni di luce emanati
da ciascun proiettore e ne rivelano la presenza in forma tridimensio-
nale: la luce con la sua massa trasparente attraversa l’ambiente buio
della sala e al contempo la riempie.
Questi veli, diversamente da quelli albertiani, non presuppongono
un “vedere attraverso”: all’opposto, diventano così opachi da coinci-
dere con la stessa rappresentazione, e non necessitano né di telaio né
di griglia. La “realtà” proiettata — l’uomo e la donna che avanzano
confondendosi e fondendosi — non scaturisce da un filtro interpo-
sto tra il soggetto produttore e la realtà stessa, che ne garantirebbe
la rappresentabilità. Qui, all’opposto, i nove veli perdono qualsiasi
funzione di filtro, e si fanno essi stessi supporto opaco della rappresen-
 Lucia Corrain

tazione, proiettata dall’occhio incarnato dei due proiettori. A rigore,


occorre parlare di due differenti immagini — emanate dai due opposti
occhi produttori — che entrano in relazione attraverso la scansione
spaziale e, conseguentemente temporale, dei veli, dando luogo a una
percezione “dinamica” dell’intera installazione.
Il visitatore di questa opera, libero di muoversi nella stanza buia e
tra un velo e l’altro, compie un’esperienza analoga a quella di Newton
o, in precedenza di Cartesio, perché: « Ora le immagini hanno una
quarta dimensione. Alle immagini è stata data la vita. Hanno un com-
portamento. Hanno un’esistenza al passo con i nostri stessi pensieri e
fantasie » — afferma lo stesso Bill Viola. Il rapporto contrastivo di buio
e luce, nel chiuso di un ambiente, i tempi rallentati e la ripetizione per
mezz’ora del movimento dei due personaggi proiettati, sono aspetti
responsabili dell’impressione di un altro “luogo”:

Ho imparato che il vero materiale bruto non è la videocamera e il monitor,


ma il tempo e l’esperienza in sé, e che il luogo autentico dove l’opera esiste
non è sullo schermo o dentro le pareti della stanza, ma nella mente e nel
cuore della persona che lo ha visto. È lì che le immagini vivono.

Le immagini passano attraverso il velo degli occhi e si imprimono


“nella mente e nel cuore”. Insomma, un velo di diversa natura, si
potrebbe dire un velo della “conoscenza”.
Perché tutto ciò si determini lo spettatore per avere accesso alle
opere di Bill Viola, deve necessariamente seguire pratiche dettate dal
setting percettivo: deve immergersi in un “bagno” di buio, all’interno
del quale il suo sguardo si purifica. Solo dopo essere entrato nello
spazio buio della proiezione, avvolto dalle tenebre, la luce del video,
con le sue immagini in movimento, catturerà la sua attenzione e gli
permetterà di fare un’esperienza di rivelazione.

. Si veda anche S, , pp. –. In un’intervista — realizzata in occasione
della mostra Bill Viola. Visioni interiori, tenutasi al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel
, ora in B, , pp. – — Bill Viola afferma: « La cosa fondamentale è
l’immagine. E l’immagine è eterna. L’umanità ha sempre creato immagini di se stessa,
ma l’importante è l’essenza di quanto viene detto e fatto. Perciò sì, questa [che utilizzo] è
tecnologia avanzata, nuova, ma io sento veramente di essere un pittore ». Su Bill Viola, cfr.
anche  R ().
Il velo della pittura 

. Conclusioni

Il percorso finora tracciato registra la persistenza del velo nelle arti


visive, all’interno di un corpus che, seppur numericamente contenuto,
è articolato in più medium espressivi. Variamente presente in molti
testi pittorici, spesso ad attestare l’abilità tecnica dei propri autori, il
velo, qui preso in considerazione, fuoriesce dallo spazio rappresentato
— velo dipinto — per diventare, esso stesso, strumento di rappresenta-
zione dello spazio — velo albertiano. Se in questa accezione di medium,
il velo si interpone tra l’occhio produttore e il mondo da riprodurre, in
realtà, il velo si declina anche secondo modalità differenti, rispondenti
a due fondamentali nuclei teorici: il velo come rappresentazione e il
velo come presentazione.
Se è vero, infatti, che la visione centrica — ottenuta mediante
l’applicazione delle regole della prospettiva legittima — è la forma
simbolica che, per secoli, ha prevalso nella cultura visiva occidentale,
tanto che ancor oggi se ne portano le conseguenze, è altrettanto vero
che essa ha convissuto e continua a convivere — e le opere prese
qui in esame sembrano attestarlo — con altre modalità, anch’esse
rappresentative del reale e il velo si colloca tra queste.
Difatti, il velo come dispositivo di rappresentazione, procede lungo
il filo del tempo come una sorta di fiume carsico: fin dalle sue origini
il ricorso a questo mezzo e alle varianti messe a punto da Albrecht
Dürer, racchiude il desiderio di raffigurare il mondo “uscendo dalla
camicia di forza”, data dalle impositive regole prospettiche in quanto
« mezzi più proporzionati, et atti all’operazione et alla consecuzione
del nostro bisogno » (Cigoli , p. ).
Condizione stessa di rappresentabilità del mondo, il velo, pertan-
to, ne permette, “digitalizzandolo”, il trasferimento su un supporto
bidimensionale. Se ricorrere a un’espressione di stringente contem-
poraneità come quella di “digitalizzazione”, per parlare dell’antico
sistema–velo, può sembrare un’anacronistica forzatura, in verità, co-
me è stato detto da molti, il dispositivo albertiano — non implicando
un campione preimpostato per le sue maglie — può potenzialmente
restringersi, raggiungendo progressivamente l’infinitesimale dimen-
sione dei “pixel” . In effetti, l’operazione condotta dall’Alberti altro

. A () non suggerisce frequenze specifiche per le linee orizzontali o verticali
 Lucia Corrain

non è che un vero e proprio campionamento, a intervalli regolari,


della superficie planare, evolutosi nel tempo; tant’è vero che le macchi-
ne fotografiche analogiche così come le attuali tecnologie digitali di
ripresa del mondo hanno incorporato all’interno della propria inter-
faccia la quadrettatura albertiana, e al campionamento ha fatto seguito
la quantificazione: il continuum del mondo viene convertito in pura
rappresentazione numerica.
Se la nuova strumentazione digitale ha tuttora bisogno di sovrap-
porre al continuum del mondo una griglia che ne assicuri la corretta
riproducibilità, tuttavia, laddove ci si affranchi dal fine meramente
rappresentativo, il velo perde il proprio reticolo, mantenendo la sola
cornice/telaio. L’installazione Rahmenbau, magnifica questa nuova
condizione del velo: ad essere presupposto qui è un osservatore che,
diversamente dall’antico disegnatore di Rodler, non guarda il paesag-
gio attraverso la finestra “quadrettata”. La sua esperienza percettiva è
diretta, non mediata da alcun reticolo che addirittura è stato tagliato;
e ancora, non convoca solo lo sguardo, ma coinvolge il corpo stesso.
Indotto a seguire un percorso suggerito, l’osservatore si muove verso
il paesaggio e al contempo è imbrigliato dalla “finestra” squarciata,
attraverso cui si affaccia sul paesaggio che gli si presenta dinanzi: dalla
rappresentazione alla presentazione del mondo.
Situazione ben diversa è quella proposta dalla camera ottica, che se
dell’antico velo conserva, pur senza alcuna griglia la capacità di delimita-
re parte del mondo, ne rimuove però la soggettività del produttore e del
fruitore. Infatti, « la camera oscura impedisce a priori all’osservatore di
concepire la sua posizione come parte della rappresentazione » (Crary
, p. ); marginalizzato, l’osservatore è ridotto a puro fantasma che si
limita a osservare una realtà che pur inquadrata, si dispiega in un tempo,
circoscritto dall’unico soggetto possibile, un “occhio di luce” disincarnato
che presiede alla produzione visiva. Infatti, il mondo si iscrive autono-
mamente sullo schermo/superficie della camera ottica: produce da sé
la propria immagine. Si presenta con assoluta immediatezza, tanto che
Huygens scriverà che « ogni pittura è morta in confronto, perché qui è
la vita stessa [. . . ]. La figura, il contorno e i movimenti vi si fondono con
della griglia, quindi la risoluzione grafica del suo schermo non ha un campione pre–
impostato. Se le dimensioni dei singoli quadrati della griglia possano diminuire, come
K (, p. ) ha suggerito, il loro progressivo rimpicciolimento può condurre fino
al pixel.
Il velo della pittura 

naturalezza, in un modo assolutamente piacevole » (Alpers , p. ).


Un’immagine in movimento, dunque, al pari di quella riproposta dallo
specchio di Claude, sebbene in quest’ultimo caso, l’osservatore debba
mettersi a lato, per non venir riflesso sulla sua superficie.
In entrambi i media, il dinamismo dell’immagine si oppone alla
staticità, cui tende invece il velo albertiano « che sempre ti presenta
medesima non mossa superficie »; in breve, la duratività della visione
si oppone alla mise en scène di un’immagine puntuale, la narrazione
alla descrizione .
La tensione narrativa viene enfatizzata in The Veiling di Bill Viola,
in cui le due immagini proiettate — quella dell’uomo e della donna —
attraversano i veli e in un gioco di progressiva dissolvenza si incontra-
no al centro dell’installazione. Difatti, ciò è reso possibile dal recupero
della natura tessile del velo: il “sottilissimo, tessuto rado” dell’Alberti
ritrova qui il suo corpo, la sua fisicità unitamente alla sua trasparen-
za; perde però la cornice/telaio. Non è più una finestra attraverso
cui guardare, non è più un medium finalizzato alla riproduzione del
mondo, ma uno “strato” su cui visualizzare un’immagine proiettata.
Si è dinanzi alla presentazione di una rappresentazione, scandita nel
tempo e nello spazio — articolato dai nove veli — e garantita solo
dall’oscurità consustanziale alla sua manifestazione.
In breve, il velo presiede a tutti gli aspetti legati alla rappresenta-
zione e alla rappresentabilità del mondo, nonché alla sua presenta-
zione. In questa ricognizione, però, vi è un grande assente: il velo
cinematografico sotteso dall’intero corpus preso in esame. Il velo della
cinepresa dialoga con e si modella al velo albertiano, come Greenaway
ha saputo magistralmente “rivelare”. Anzi, è proprio nell’esibire il
dispositivo albertiano, per di più in azione, che il velo cinematografico
acquista visibilità, passando dalla totale trasparenza all’opacità, dalla
rappresentazione alla presentazione.
Insomma, il velo è un vero e proprio oggetto teorico: dimostra
come le diversi arti, come i diversi media siano caratterizzati da molte
affinità che, pur declinate in modalità diverse, si prendono per mano
in un ideale girotondo delle muse.

. In merito all’opposizione descrizione vs narrazione, se Neville persegue un fine


puramente descrittivo, “immobilizzando” in modo fotografico la tenuta inglese, i disegni
“ripresi” nella loro coralità restituiscono la macabra narrazione.
 Lucia Corrain

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VOILEMENTS DE LUMIÈRE : LE VOILE ENTRE


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Il sistema del velo / Système du voile
ISBN 978-88-548-8838-8
DOI 10.4399/97888548883885
pag. 93–107 (gennaio 2016)

Veli, nebbie, travestimenti


Il caso di Meret Oppenheim

M C

English Title: Veils, mists, masks. Meret Oppenheim’s case.

A: It can probably be traced back to William Turner a pictorial conception and a
stylistic choice that results in a progressive haze of the traditional “subject” of a painting,
so much that it ends up coinciding no longer with the “thing” itself (landscape, still life,
figure or whatever else) but with the air that comes in between; between the “subject” and
the eye of the painter who watches it.
Few decades later, the same pictorial ideal feeds the researches of Claude Monet, who
identifies the “subject” of painting with the changing, unstable and infinitely varying
impressions caught by an eye immersed in space and real, phenomenal light and, in so
doing, minimizes the subject’s centrality.
But nature, the actual variety and consistence of vision and experience lose importance at
the beginning of the th century. For avant–garde’s artists veils and pictorial overglazing
become unusual and, in any case, conceptual strategies of expression. Among all, only
the Surrealist, sustained by an aesthetic theory that furthers and promotes the unknown
and the unconscious, use quite widely and extensively some possible variants of “veil” in
painting and photography, and sometimes they represent it directly and quite clearly. But,
among all the surrealists, it is Meret Oppenheim the artist who makes a more extensive
use of veils, masks, camouflages, concealments in a visual sense as well as a linguistic. Her
works on the “veil” is examined here in details and chronological order.

Keywords: Meret Oppenheim; Surrealism; Impressionism; Veil; Mask.

. Un’importante premessa. I veli di nebbia nella pittura roman-


tica e impressionista

Si può forse far risalire a William Turner quella scelta pittorica e


iconografica che dà luogo a una progressiva velatura del soggetto
autentico di un quadro, sia esso paese, luogo o un oggetto qualsiasi, al
punto tale da farlo coincidere non con la cosa in sé ma con l’aria che si
interpone fra essa e l’occhio del pittore che lo osserva. Insistendo su


 Martina Corgnati

nuvole, nebbie, turbolenze meteorologiche intese naturalisticamente


o simbolicamente, il grande pittore romantico finisce, infatti, per
esaltare al massimo grado i turbamenti dell’atmosfera, che occupano
tutto lo spazio e l’intero senso della composizione.
Una lezione ripresa con entusiasmo e convinzione da Claude Mo-
net, che aveva scoperto l’opera di Turner a Londra nel , quando
aveva soggiornato per alcuni mesi nella capitale inglese per sfuggi-
re alle violenze distruttive della guerra e della Comune di Parigi. E
l’importanza che quest’incontro aveva avuto per lui è riflessa non solo
dallo stile dei suoi paesaggi londinesi, assai più nebbiosi e opachi di
quanto non avesse dipinto fino a quel momento ma, un elemento
interessante, proprio nelle critiche che, da quel momento in avanti,
vengono rivolte al pittore e che esprimono lo sconcerto di un pubblico
imbarazzato di fronte alla difficoltà di identificare alla prima occhiata
il soggetto di un quadro.
Già in occasione della prima mostra impressionista del  Mo-
net, infatti, viene accusato di nascondere o addirittura far sparire il
contenuto: soprattutto nella celebre Impression. Soleil levant critici e
amatori ritengono che non ci sia soggetto perché “non si vede nulla”.
Il fatto che il cuore, l’elemento saliente del quadro sia costituito pro-
prio da quell’aria opaca e umida, tradotta in pittura in veli colorati,
semitrasparenti stratificati uno sull’altro, sfugge all’intellighenzia del
tempo.
Ma questa mancanza di sensibilità e di intraprendenza visiva, o
meglio interpretativa, ha il potere di irritare l’artista al punto tale
da convincerlo ad assumere posizioni ancora più dure ed esplicite
contro quei « poveri ciechi che vogliono precisare tutto attraverso
la nebbia! ». Nebbia che, secondo i critici come Luis Leroy o i suoi
colleghi dell’epoca, non era e non poteva essere un soggetto pittorico
(Restellini , p. ).
Ed è questo, secondo Restellini, lo stimolo giusto che costringe
l’artista a chiarire innanzitutto a se stesso il suo pensiero estetico e a
compiere un salto concettuale importantissimo, che lo allontana rapi-
damente dai generi pittorici riconosciuti e codificati e lo accompagna
invece in un ambito più tardi identificato con la pittura pura, la pittura
in quanto tale. Per dipingere “la pittura”, riconosciuta non un’ideale
visione dettagliata e perfetta, “alla fiamminga”, ma nelle mutevoli, pre-
carie e infinitamente variabili impressioni dell’occhio immerso nello
Veli, nebbie, travestimenti 

spazio e nella luce reale, luce fenomenica e non razionale, Claude Mo-
net, in quell’epoca, di fronte a sé non ha che una strada: minimizzare
il soggetto, allontanare la nozione di paesaggio o qualsivoglia altro
contenuto pittorico e addensare progressivamente quel medium (l’aria)
che costituisce l’ambiente della visione, la realtà empirica dello spazio
e quindi anche di una pittura che di quello spazio è una rappresenta-
zione ancora più fedele e, al tempo stesso, più autonoma. E per farlo
Monet si mette alla ricerca di qualcosa di ancora più fumoso, ancora
più denso della semplice nebbia atmosferica: la sua posta in gioco, che
nel tempo si sarebbe rivelata altissima e straordinariamente ambiziosa,
è il valore di un linguaggio pittorico fatto di valori cromatici, tonali, di
passaggi e di armonie e di atmosfere che, sottilmente, interpretano
e restituiscono le impressioni visive dell’occhio e, così facendo, non
senza paradosso, annunciano l’autonomia di quel linguaggio della
tradizione e, successivamente, dalla stessa nozione di referente.
Quest’ambiente “spesso” e denso Monet l’avrebbe individuato nella
stazione di Saint Lazare: « Al momento delle partenze », annunciava
trionfalmente l’artista all’amico Pierre Auguste Renoir « il fumo delle
locomotive è tanto spesso che non vi si distingue praticamente niente.
È un incantesimo, una vera fantasmagoria » . Il denso vapore emesso
copiosamente dalle vecchie locomotive, colpito dai raggi del sole, si
trasformava in una cortina quasi impenetrabile, piena di carattere.
Per conciliare in maniera ottimale effetto luminoso e consistenza
atmosferica sembra che Monet fosse riuscito a convincere il direttore
della stazione a ritardare la partenza di un treno per giorni interi: im-
pensabile, infatti, che l’artista andasse a memoria o “fingesse” i colori
e i toni che cercava nella tranquillità del suo studio, perché la sua inten-
zione era guidata sempre da un’incrollabile ricerca della verità priva
di compromessi. E la nebbia, la foschia, l’aria torbida, umida, questa
velatura densa che si interpone fra l’occhio e le cose filtrando la luce
in modo sempre differente, irripetibile, fa parte della natura delle cose
anzi costituisce la condizione stessa della visione umana e, per que-
sto, nel tempo, tende a diventare soggetto privilegiato dell’attenzione
dell’artista fino alla sua scomparsa, nel .

. M C. cit. in R , p. .


 Martina Corgnati

. Le Avanguardie

Intanto però, mentre il vecchio Monet proseguiva le sue ricerche nel


giardino di Giverny sempre più isolato e sempre più indifferente a
quel che gli accadeva intorno, i protagonisti delle avanguardie, si può
dire indipendentemente dalle loro tendenze e convinzioni individuali,
si mostravano tutti piuttosto indifferenti a problemi e argomenti
come questi che avevano appassionato alcuni fra i migliori artisti delle
generazioni precedenti e offerto loro un importante punto di partenza
per il rinnovamento linguistico e poetico della pittura.
Il nuovo secolo anzi, almeno nei primi anni, si mostra ben più
sensibile a dimensioni ideologiche e programmatiche che “fenome-
niche”, contro le quali molti addirittura insorgono sostenuti da una
violenta insofferenza che, da una parte, porta alla pittura astratta a
partire da basi simboliste oppure, talvolta, misticheggianti e, dall’altra,
rinuncia alla rappresentazione a favore della presentificazione della
cosa in sé, proposta tautologicamente e alla lettera, come enunciato
nudo. Una scelta che, nel tempo, avrebbe fatto la fortuna di Marcel
Duchamp.
Non c’è dubbio che in condizioni così radicalmente cambiate, l’in-
teresse per veli e velature si trasformi quando non minacci di diventare
obsoleto. Non si tratta più di fenomeno, infatti, di aria, o di medium.
Non si tratta più di rappresentazione naturalistica, intesa secondo qual-
sivoglia accezione. Il pensiero artistico e l’eventuale, non frequente,
utilizzo di veli e velature tende ad acquistare una valenza differente
e a distinguersi addirittura per eccentricità nella prevalenza di una
figurazione caratterizzata da un’estrema, smaltata levigatezza, pre–
condizione perché l’immagine sia conoscenza, straniamento, finanche
irrisione o polemica, comunque sintesi e apertura meta–fisica sulla
natura delle cose, da cui la condizione necessariamente frammentaria
dell’esperienza soggettiva del visibile e del percepibile, la sua con-
sistenza provvisoria e parziale, il suo hic et nunc è deliberatamente,
programmaticamente escluso. Come accade, infatti, nel caso del Rea-
lismo Magico o della Neue Sachlichkeit, come anche della Metafisica
italiana.
Veli, nebbie, travestimenti 

. Lasciare la preda per l’ombra. Il velo, una strategia surrealista?

In questa sequenza di esperienze e di scelte estetiche, il surrealismo


merita una considerazione a parte. Vero è che il movimento di Breton,
animato sin dal primo giorno da personalità caratterialmente ed artisti-
camente assai differenti tra di loro, non ha mai puntato alla coerenza
stilistica né ha preteso di assegnare ai propri adepti delle linee–guida
da seguire e da rispettare fatto salvo il disprezzo dichiarato per la mime-
sis e la ri–produzione della realtà che sembrava contraddire il nome
e l’impostazione stessa del gruppo. Resta tuttavia il fatto che tanto
nella estrema lucidità di Magritte quanto nell’impalpabile leggerezza
di Mirò, nelle sofferte e minacciose superfici di Max Ernst come, so-
prattutto, nella sperimentazione fotografica di Man Ray, veli e velature
compaiono abbondanti e nel tempo acquistano, quasi segretamente,
un proprio spazio e una propria praticabilità “di fatto”.
La cosa, peraltro, non sorprende, considerata la vera e propria
passione nutrita da Breton e compagni nei confronti dell’inconscio, di
quella verità che emerge solo nella relativa oscurità del testo, nella sua
frammentazione e incompletezza, nell’aforisma, nell’illuminazione
sgrammaticata sì, ma potente. Il surrealismo non ama la superficie se
non come mezzo per suggerire un’interiorità; e non ama l’evidenza
se non quando produce straniamento, parola con cui cerco di tradurre
la potente nozione freudiana di Unheimlichkeit.
Ecco dunque che veli e velature, sipari e interferenze visive, masche-
re e nascondimenti compaiono nelle varie declinazioni del linguaggio
pittorico surrealista: caso clamoroso è, fra i primi, il dipinto Les Amants
di René Magritte (), dove è proprio il velo che avvolge la testa
delle due figure e rende impossibile il contatto fra loro a costituire il
vero “soggetto” del dipinto. Ragione di questa inquietante situazione
potrebbe essere, come molti hanno sottolineato, il ricordo traumatico
del suicidio della madre, morta annegata e il cui cadavere era stato
ripescato avvolto nella camicia da notte che il flusso dell’acqua aveva
sollevato tanto da coprire del tutto la testa (Everaert–Desmedt, Nico-
le ). Il velo dunque ben potrebbe essere in questa circostanza il
“resto” di un’esperienza vissuta, ma rappresenta anche la condizione
stessa del mistero, dell’altrove di fronte a cui la nozione individuale
dell’esperienza e del significato delle cose non resiste, resta disarmata.
La stessa funzione è assolta anche, in altri dipinti, dalla tela pittorica
 Martina Corgnati

intesa come velo sul reale: La condition humaine per esempio (due
versioni,  e ) mostra un quadro che riproduce precisamente il
paesaggio visibile oltre alla finestra proprio davanti alla quale il quadro
stesso è collocato.
La realtà sembra, dunque, inaccessibile e irrecuperabile oltre alla
finzione della pittura, così come la pipa non è il quadro, non è nel
quadro o sul quadro (Ceci n’est pas une pipe) e non è raggiungibile
attraverso il quadro. Contrariamente a Breton, che anela all’affondo
verso la profondità oscura nascosta dall’apparenza delle cose, Magritte,
con la sua pittura all’insegna della visibilità totale, impietosa, assoluta,
sembra suggerire che tanto la realtà nascosta dell’inconscio quanto
quella fenomenica della natura restano in realtà del tutto estranee e
irraggiungibili per l’individuo prigioniero del suo idioletto, della sua
incessante pratica di significazione e di auto–rappresentazione delle
cose, oltre alla quale, evidentemente, non c’è che il nulla.
Per altri surrealisti, invece, il velo si risolve piuttosto in strategia
espressiva che segnala una latenza, un’incompletezza, rivelatrici tutta-
via di una dimensione ulteriore che può essere raggiunta. In partico-
lare nella pratica fotografica, che Man Ray, insieme e probabilmente
grazie a Lee Miller (Haworth–Booth, ), alla fine degli anni Venti
forza al di là della sua paradigmatica letteralità in direzione di ter-
re incognite evocate appunto dalla solarizzazione e dal rayogramme.
Entrambe, infatti, possono essere intese come tecniche perfette per
“velare” l’immagine, oscurandone almeno in parte il significato. La
solarizzazione consente di annebbiare le linee nitide dei contorni delle
cose, stemperandole in un alone luminoso, che rende le forme mi-
steriose e immateriali. La luce assume quindi l’aspetto di un liquido
vischioso e denso, che si deposita come una patina d’informe sulla
nitidezza del soggetto fotografico alterando le abitudini percettive or-
dinarie. Mentre il rayogramme, eliminando il filtro più consueto che la
fotografia interpone fra l’immagine e la realtà, quello della macchina
fotografica e delle relativa pellicola, instaura, com’è noto, un contatto
diretto fra l’oggetto e la superficie che ne trattiene l’impronta in un
insieme molto netto di aree bianche e di aree nere, un codice binario
di luce–ombra.
In altre parole, si potrebbe dire che il rayogramme sostituisca l’in-
dice all’icona e tuttavia, anzi proprio nel recupero di questa estrema
letteralità, ottenga di velare l’aspetto delle cose ordinarie, conferendo
Veli, nebbie, travestimenti 

loro un aspetto misterioso e del tutto nuovo e originale. Unheimlich.


Appunto.

. Velo come linguaggio: il caso di Meret Oppenheim

Nel gruppo dei surrealisti e dei simpatizzanti del movimento si distin-


gue per la frequenza, la varietà e la creatività nell’uso di veli, maschere,
occultamenti e persino, di nuovo, velature pittoriche Meret Oppe-
nheim (–), fra i più importanti artisti svizzero–tedeschi del
Novecento. Nella sua opera questi elementi, fenomenici, tecnici o
metaforici, costituiscono una nitida ricorrenza, anzi quasi una carat-
teristica distintiva: un fatto in se stesso notevole, tanto che anzi, vi si
può addirittura intravedere una chiave per cogliere aspetti essenziali
dell’atteggiamento profondo, degli interessi e dell’estetica di questa
artista apparentemente molto eclettica e nota certo più per i suoi
ready–mades che per il consapevole e reiterato uso di questi schermi
della visione e della comprensione delle cose.
Nel caso della Oppenheim non è fuori luogo, invece, parlare di una
vera e propria strategia del velo, articolata attraverso vari ed imprevisti
ricoprimenti di oggetti, immagini o del suo stesso corpo, in modo da
dar luogo a una produzione ermetica e polimorfa, esigente e sensibile,
che contribuisce in misura significativa a conferire originalità al suo
lavoro e, di conseguenza, offrono un apporto personale alla cultura
artistica del secolo XX.
Prima di presentare almeno i principali lavori e interventi di Me-
ret Oppenheim relativi, o collegati, a veli e velature, può non essere
inutile sottolineare come l’artista fosse pienamente consapevole del
potere seduttivo, “carismatico” dell’occultamento e del suo contra-
rio, il disvelamento: non soltanto in termini erotici ma, si potrebbe
dire, conoscitivi e percettivi. Nascondere ciò che ci si aspetta venga
esibito, mostrare quello che dovrebbe essere nascosto produce, in
se stesso, una specie di shock ed esercita una funzione perturbante
nella tranquilla, ordinata sequenza delle abitudini e della conoscenza.
Lo stesso gesto compiuto dalla giovanissima artista nel , quello
cioè di rivestire una banale tazza da the di pelliccia di gazzella cinese,
realizzando così uno degli oggetti più famosi e celebrati dell’esteti-
ca surrealista, Frühstück im Pelz, può essere inteso come un atto di
 Martina Corgnati

“velatura”: una velatura inappropriata e sconveniente laddove ci si


aspetterebbe la nudità intonsa ed asettica della porcellana. Ed è quella
“velatura” così clamorosa ed appariscente ad attivare un corto circuito
fra sensi, associazioni, implicazioni e riferimenti: cortocircuito che il
surrealismo definisce come « un turbamento fisico caratterizzato dalla
sensazione di un alito di vento alle tempie, capace di procurare un
vero brivido » .
Il ricoprimento è fra i meno prevedibili in assoluto e in qualche
modo paragonabile al mitico « incontro casuale di un ombrello e una
macchina da cucire su un tavolo di dissezione » di Lautréamont. Quello
fra pelliccia e porcellana è un incontro amoroso.
Una realtà compiuta di cui l’ingenua destinazione ha l’aria di essere stata
fissata per sempre (l’ombrello), trovandosi di colpo in presenza di un’altra
realtà assai diversa e non meno assurda (la macchina da cucire) in un luogo
dove tutt’e due devono sentirsi estranee (il tavolo operatorio), sfuggirà per
questo stesso fatto alla sua ingenua destinazione e alla sua identità; essa
passerà dal suo falso assoluto, per il giro d’un relativo, a un assoluto nuovo,
vero e poetico: l’ombrello e la macchina da cucire faranno l’amore. [. . . ] La
trasmutazione completa, seguita da un atto puro come quello dell’amore, si
produrrà forzatamente tutte le volte che le condizioni saranno rese favore-
voli dai fatti dati: accoppiamento di due realtà in apparenza inconciliabili su un
piano che in apparenza non è conveniente per esse (Ernst , p. ).

Di mezzo c’è quindi senz’altro dell’amore, come assicura Max Ern-


st, autore di questo testo; ed è in quei paraggi che riportano anche
le ricchissime associazioni possibili dischiuse dall’oggetto di Oppen-
heim che, « dando la caccia alla folle bestia dell’utilizzo » , si propone
all’attenzione dello spettatore in termini sovversivi, poetici, simbolici
e fortemente sensuali.
L’unico paragone possibile, forse, per questo oggetto straordinario
è quello con The Fountain di Marcel Duchamp: al di là dell’affinità
formale, evidente, entrambi pongono interrogativi precisi in merito
alla dimensione destabilizzante dell’arte e alle sue modalità di rice-
zione e di apprezzamento da parte del pubblico . Sono due oggetti
. B A. La beauté sera convulsive, “Minotaure” : –, cit. in D L
, p. , n. .
. « Traquer la bête folle de l’usage » è l’espressione proposta da B in Cahiers
d’Art, – (), p. , cit. in H , p., n. .
. Come osserva gran parte dei critici e in particolare C , p..
Veli, nebbie, travestimenti 

banali, che entrano nel museo una capovolta e l’altra impellicciata,


che continuano a essere se stesse ma contemporaneamente diventano
altro e si imprimono così profondamente nella coscienza collettiva da
assicurarsi una posizione emblematica, fra le più autorevoli e rappre-
sentative dell’arte del Novecento. The Fountain però, l’orinatoio, non è
ricoperto da nulla; la tazza sì.
Fra le opere, o gli interventi, di quello stesso periodo, va citato
anche il celeberrimo ritratto–icona realizzato da Man Ray nel 
che ritrae la giovane e bellissima artista nuda ma parzialmente nasco-
sta dietro alla ruota di un torchio da stampa. L’immagine si intitola
Erotique voilée e la inquadra appunto “velata” dalla ruota, che “comple-
tando” artificialmente il suo corpo agile e vagamente androgino, gli
conferisce un effetto in qualche misura meccanico, da macchina celibe
e appunto androgina, dato che la manopola che cade proprio di fronte
al pube è stata interpretata da molti come una specie di fallo artificiale.
Difficile immaginare un piatto più gustoso per uno sguardo armato
di un corredo interpretativo anche superficialmente psicanalitico: il
fallo come velo, come apposizione all’assenza dello stesso. In altre
parole, questa fotografia mette in scena in termini finanche troppo
perfetti la rappresentazione del fallo lacaniano, cioè il suo costituirsi
non come dato anatomico ma come significante, come segno. Il velo
qui, dunque, è la nozione stessa della rappresentazione sovrapposta
alla mimesis della nudità; è una nozione, si potrebbe dire, linguistica
che sostituisce un semplice dato figurativo e che, prontamente, Breton
riconosce come l’alba di una nuova nozione della bellezza: “la bel-
lezza convulsiva”, egli scrive infatti, a commento di quell’immagine
folgorante “sarà erotico–velata. . . ” (Breton , p. ).
Questa fotografia però, è vero, non è opera di Meret Oppenheim;
tuttavia, la giovane artista assume proprio in quel momento la prati-
ca di sostituire una rappresentazione, un’immagine figurativa dotata
di un referente in qualche modo certo, con una nozione linguistica,
un segno che, senza essere astratto e/o autoreferenziale, porta verso
qualcosa d’altro, un’ulteriorità di senso e di implicazioni che resta,
almeno in parte, oscura forse persino a lei. Volendo continuare con il
parallelismo fra la pratica di significazione linguistica e l’operazione
condotta da questo momento in poi da Meret Oppenheim con stru-
menti pittorici e plastici, si potrebbe dire che il suo è un “parlare” non
diretto e limpido ma piuttosto difficile ed ermetico, ricco di aforismi,
 Martina Corgnati

metafore e frasi spezzate, come il parlare, oscuro per antonomasia,


della Sibilla. Testimonianza esemplare in tal senso è un quadro del
, Husch–Husch, der schönste Vokal entleert sich. Si tratta di una specie
di ritratto di Max Ernst, con cui all’epoca Meret aveva un’intensa rela-
zione sentimentale, completato da una poesia: « Di bacche ci si nutre;
con le scarpe ci si adora; su, su, la più bella vocale si svuota. »
L’elemento saliente sono sei forme astratte vagamente organiche
e variopinte, interpretabili forse come “lettere” in bilico su una linea
obliqua, agganciata ad una catenella metallica che fuoriesce da una
macchia rotondeggiante di pennellate grigie; un cerchio di nebbia o,
se si preferisce, una forma velata. Il loro equilibrio è precario e gioco-
so; da lontano, ricordano lettere dell’alfabeto semplificate e illeggibili,
quasi bolle di smalto soffiate nel vuoto da un bambino spensierato.
Sono queste le vocali “svuotate”, che hanno perduto la propria ca-
pacità di “dire”; fra esse c’è anche la più bella, cioè quella, per dirla
con Barthes, del “discorso amoroso”. Se la vocale irresistibilmente si
svuota, la parola resta lì come semantema privato del suo potere, è
un simulacro di se stessa, precaria, inascoltabile. Uno svuotamento
che ben corrisponde al mascheramento, cioè alla cancellazione del-
l’identità, della testa annebbiata. Nessuno, o tutti, si trastullano con
vocali svuotate, con discorsi insignificanti. Meret sfida il linguaggio,
mettendo in scena l’ambiguità delle relazioni fra lettera e parola, fra
parola e significato e fra significato e referente.
Il problema del linguaggio e delle sue possibilità di velare il senso
dell’immagine e la strada che potrebbe condurre ad esso, ritorna an-
che in un’opera molto importante di molti anni dopo, Wort, in giftige
Buchstaben eingepackt (wird durchsichtig). Anche qui, come negli anni
Trenta, il tema latente è il vuoto in cui il linguaggio si risolve; ma,
mentre la strategia adottata nella fase surrealista era stata quella di
velare i contorni di una possibile “figura” rendendola indecifrabile,
adesso la “trasparenza” è talmente assoluta e profonda che non è rima-
sto niente da vedere, la “parola” non c’è più. L’opera, infatti, consiste
in una cordicella irrigidita dal poliestere e annodata intorno al vuoto,
come un nastro intorno a un pacchetto. Una targhetta di ottone fissata
alla base di legno completa il tutto. Un elemento emozionale, o se
si preferisce “chimico” (il veleno delle lettere) neutralizza il poten-
ziale di significazione della parola, che dunque si vanifica, sparisce; il
significato non c’è più quando il significante è “velenoso”, incapace
Veli, nebbie, travestimenti 

di discendere all’essenza della comunicazione, cioè alla sua “verità”.


Il linguaggio non garantisce, quindi, proprio nessuna verità, nessuna
significazione, se le lettere sono “velenose”, in qualche misura viziate,
false. Resta la “trasparenza” del messaggio che ciascuno “riempie”,
interpreta, come vuole e comunque sempre in maniera arbitraria. Fra
i molti critici colpiti da questo lavoro, Elisabeth Bronfen (, p.) ne
ha specialmente sottolineato “l’incompletezza” paradigmatica:
La parola è congrua all’ignoto, alla cosa invisibile; come quest’ultima, è
incomprensibile. La progressione dalla parola, in quanto concetto, alle lette-
re che specificano questo oggetto immaginato è messa in scena non come
sviluppo sistematico ma come contraddizione. Di conseguenza il regno invi-
sibile che costituisce ogni lavoro artistico diventa visibile come un pacchetto
immaginario. L’interno vuoto dell’oggetto rivela la forma, la espone a guisa
di un’arbitraria cornice. La parola che è venuta in mente si presenta come
un vuoto tattile, e quindi una pura possibilità. Non vediamo una cosa ma
ciò che tiene a posto la sua forma. Al materiale del pacchetto [. . . ] viene
meramente alluso come a un contorno. Ciò che non vediamo lo dobbiamo
mentalmente aggiungere.

Qui, inoltre, la presenza di un “contenitore” senza “contenuto”


richiama alla mente uno dei capolavori di Alberto Giacometti, con cui
Meret era senz’altro venuta in contatto negli anni della loro amicizia
a Parigi (): Mains tenant la vide, la figura antropomorfa che fra le
mani tiene delicatamente il vuoto. È possibile che Meret se ne fosse
ricordata quasi all’improvviso, lavorando, come Giacometti, sulla non–
coincidenza di apparenza e realtà, di forma e sostanza, sullo spazio e
sul suo significato.
Intanto, gli anni interposti fra queste due tappe fondamentali della
ricerca di Oppenheim, sono scanditi da un’intera serie di lavori sul-
la velatura, divenuta ormai quella vera e propria strategia operativa
di cui si parlava all’inizio. Dagli anni Cinquanta in poi, non a caso,
vengono prodotti diversi quadri “di nebbia” caratterizzati cioè dalla
presenza di un soggetto nascosto, parziale, difficile da vedere. Il primo
di essi in ordine di tempo, e diverso da tutti gli altri perché ancora
compreso nella serie di opere che potremmo definire romantiche
o magico–realistiche, è Einige der ungezählten Gesichter der Schönheit
(). La bellezza, per lo più rappresentata come una figura femmi-
nile nuda, qui è “velata” da “volti” polimorfi e molto imprevisti. In
un prato oscuro popolato da erbe e steli isolati, essa siede, o meglio
 Martina Corgnati

sembra crescere su un ceppo. In grembo tiene un coniglio bianco,


che accarezza teneramente, ma la sua testa è coperta da nuvole, lette-
ralmente cancellata, scomparsa in una strana efflorescenza di vapori
ed oggetti che sembrano fiorire dal suo collo. Fra essi, una specie di
strano manichino acefalo, un uccello dal becco allungato che infilza
un amorino, un caduceo, una casetta fiabesca ed infantile da cui si
affaccia una testa enorme, fuori scala, ed un tubo metallico da cui fuo-
riescono gocce che cadono sul prato circostante; così come le gocce
emesse dal vestito della “sposa” di Duchamp nel Grand Verre precipi-
tano nella regione della cascata e attivano “l’apparecchio scapolo”, la
parte inferiore dell’opera dedicata all’universo maschile. La bellezza,
nell’interpretazione di Meret Oppenheim, sfugge indubbiamente a
qualsiasi definizione irrigidita e stereotipata, comprese quelle classiche.
Per essere tale, deve essere “velata”.
Seguono, dopo la guerra, i quadri di “nebbia” veri e propri, che
punteggiano tutta l’opera dell’artista dagli anni Cinquanta agli anni
Settanta: fra questi, per esempio, Burrasque de neige (), Sonne hinter
Wolken (), Zwei Gestirne ziehen hinter Wolken (), Verborgenes im
Nebel (), Nebelkopf (), Nebelblume (), Mann im Nebel () e
Meerlilie ().
Ingrid Brugger (, p. ) si è recentemente chiesta quale sia stata
la ragione e il senso di questi lavori, dove fitte trame di pennellate
monocrome o quasi monocrome nascondono allo sguardo i dettagli
e a volte la stessa apparenza di quello che, in base al titolo, dovrebbe
essere il soggetto principale. Cosa intende fare l’artista? Il suo scopo
fondamentale sembra infatti essere quello di dipingere non un oggetto
ma l’impossibilità di vederlo, quindi precisamente il filtro interposto
fra lo sguardo e la cosa, proprio come, un secolo prima voleva fare
Claude Monet.
Visualizzare l’invisibile comporta naturalmente di rinunziare alla
figurazione, alla precisazione ottica in favore di tecniche e modalità
espressive legate piuttosto all’informale e all’espressionismo astratto;
ma le opere della Oppenheim astratte non lo sono affatto. Al contrario,
esse velano per attivare l’intuizione, l’immaginazione e la fantasia
invece che la percezione e la comprensione diretta dell’immagine.
Sono opere “aperte” in senso specificamente surrealista, come ritiene
Brugger, perché evocano invece di rappresentare, suggeriscono invece
di dichiarare e chiamano in causa categorie care al movimento di
Veli, nebbie, travestimenti 

Breton come il mistero, la sorpresa, la visualizzazione dell’inconscio e


dei suoi contenuti latenti. E lo fanno in termini originali, diversi da
quelli adottati dagli altri surrealisti come Magritte oppure Max Ernst.
L’interesse per il velo da parte di Oppenheim, peraltro, non si limita
alle pratiche artistiche ma si estende al comportamento, al piacere,
al modo di presentarsi. Per esempio non appare certo casuale il forte
interesse per le maschere che Meret Oppenheim ha prodotto in gran-
de quantità, indossandole lei stessa spesso e volentieri in occasioni
diverse, in momenti e attività anche semplicemente ludiche che però
possono essere intese come vere e proprie “performances” ante litte-
ram. Restano piuttosto celebri, infatti, i suoi elaborati travestimenti
confezionati per lo storico carnevale di Basilea — l’artista vinse anche
un premio negli anni cinquanta truccandosi e abbigliandosi da “mucca
non pastorizzata”, una forma di protesta contro le mediocri condizioni
igieniche in cui versavano ancora molte stalle delle valli svizzere, dove
prosperavano facilmente batteri ed infezioni, nonostante l’importanza
che latte e derivati rivestivano per l’economia della Confederazione.
Un’altra delle sue maschere, ancora più complessa e decisamente
più conturbante, è quella della Scorticata, un personaggio dal volto
rivestito da bistecchine di manzo crude cucite su garza, lasciando
scoperti solo occhi e naso. L’intero viso così rivestito era poi coperto
una seconda volta da una allegra mascherina tenuta in mano che, al
momento opportuno, l’artista abbassava, lasciando libera alla vista tut-
ta quella carne fresca. L’effetto era sconcertante, se non ripugnante ed
anticipava in termini quasi letterali la Vanitas: Flesh Dress for Albino Ano-
rectic dell’artista canadese Jana Sterbak (), un abito confezionato
interamente da fettine di carne fresca indossato da una modella.
La Sterbak, seguendo forse l’esempio di Oppenheim, inverte il rap-
porto fra pelle e carne, ponendo quest’ultima all’esterno della prima
e/o rivestendo letteralmente di cibo il corpo che dovrebbe invece
incorporarlo in se ma che invece, essendo anoressico come il titolo
rivela, lo lascia fuori, all’esterno, come mera copertura o decorazio-
ne. Oppenheim invece, articola una dialettica più complessa benché
meno spettacolare di quella cercata dalla Sterbak, esercitata attraverso
un doppio travestimento: fingendosi scorticata, quindi privata di pelle,
l’artista ricopre la propria pelle di carne che poi, a sua volta, viene
provvisoriamente nascosta da una mascherina di carnevale, vale a dire
un’espressione stereotipata. Al di sotto di essa sta della carne, vera ma
 Martina Corgnati

che è ancora una maschera, sotto alla quale si trova, infine, la pelle; ma
dove comincia il corpo, la verità e dove finisce la finzione, il travesti-
mento? in altre parole, come si articola il rapporto fra persona e velo?
Oppenheim non lo esplicita, né in quell’occasione né mai.
In conclusione del percorso di Meret Oppenheim, si ritiene signifi-
cativo che l’artista abbia voluto caratterizzare proprio con le “velature”
anche i suoi ultimi dipinti importanti: è una conferma della centra-
lità attribuita a questa risorsa pittorica, figurativa ed espressiva. La
poetessa romantica Bettina Brentano, al cui carteggio con Karoline
von Günderode l’artista aveva dedicato dal  moltissime riflessioni
ed opere, diventa per lei l’emblema del forzoso silenzio cui le donne
erano state costrette per secoli, fino a tempi molto recenti. E il suo
modo di restituirlo in immagine è un quadro “di nebbia”, lirico e
trasparente, fatto di veli azzurrati, grigi e argento trascoloranti nel
bianco puro, in cui affondano forme geometriche leggere e libere,
eppur precise, come le prime impressioni dell’alba nordica.
E questo si può dire sia l’ultimo lavoro, eseguito meno di un mese
prima della morte improvvisa ma da lei prevista. L’incertezza spaziale,
il senso di infinito, l’imprecisione e l’atmosfera vaga, profondamente
romantica, dominano questa estrema “impressione di natura” che
avvolge un “io” già instabile, sul punto di dissolversi nell’universo.
È ancora una volta l’osmosi di “dentro” e “fuori”, l’assoluta fluidità
di contenuto e di sentimento, in cui il visibile definisce semplice-
mente i margini dell’infinito invisibile su cui il quadro si schiude,
mantenendosi poi aperto, “sospeso”.
Veli, nebbie, travestimenti 

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ISBN 978-88-548-8838-8
DOI 10.4399/97888548883886
pag. 109–129 (gennaio 2016)

Il velo immaginario
Rappresentazione dell’ipnosi e fantasmi
dello schermo nel cinema dei primi tempi

R E

L’“afferrato” (Ergriffene) è preso da una gigantesca mano che


lo racchiude, e non può far nulla per difendersi da essa, di cui
ignora le intenzioni.
C , p. 

La mano: il proprio dell’uomo in quanto mostro (Zeichen).


D , p. 

English Title: The imaginary veil. Representations of hypnosis and spectres of the screen in the
cinema of the early times (–).

A: Between the s and s, the filmic iconography of the hypnotical induction
is changing. The hypnotist is no longer represented as pointing his fingers to the subject in
order to hit him with magnetic fluid; rather, subjects fall into hypnosis as a consequence of
the gesture of the hypnotist’s hand slowly passing in front of their eyes.
In this article, I argue that such a transformation is related to a broader phenomenon: the
effort to think and represent the cinematic situation through the dispositive of “modern”
hypnosis (i.e. collective or mass hypnosis) — an effort taking place in those years, and
involving both film theories and cinematic representations. In this context, the meaning
of the hand passing in front of the subject’s eyes is twofold: while drawing an imaginary
screen that collects the subject’s hallucinations, it manifests the process of “handling”
exerted by that screen and those images over the subject’s body.

Keywords: Screen; Hypnosis; Film Apparatus; Film Dispositif.

. Cinema, ipnosi, modernità

Dentro, in fondo ad una stanza scura come la pece, dal soffitto basso, il qua-
drato dello schermo, alto sei piedi, non più grande di un uomo, risplende
attraverso il pubblico mostruoso, una massa mesmerizzata e incollata alle


 Ruggero Eugeni

sedie da questo occhio bianco col suo sguardo fisso. Coppie di innamorati
stanno abbracciati, stretti in un angolo, ma quel che vedono li trasporta
lontano [. . . ] Gli uomini [. . . ] guardano fisso fino a che gli occhi quasi non
gli escono dalle orbite [. . . ]

Non saprei dire quanto mi piacciono i primi piani americani. Netti. Im-
provvisamente lo schermo mostra un volto e il dramma, in un faccia a
faccia, mi dà del tu e cresce con un’intensità inaspettata. Ipnosi. Adesso la
Tragedia è anatomica. [. . . ]
Il primo piano limita e dirige l’attenzione. Mi costringe, indicatore di emo-
zione. Non ho né il diritto né il modo di essere distratto. Imperativo presente
del verbo comprendere. [. . . ] Non si evade dall’iride. Intorno, il buio; niente
a cui rivolgere l’attenzione.
Arte ciclopica. Arte monosenso. Retina iconottica. Tutta la vita e tutta l’at-
tenzione sono nell’occhio. L’occhio vede solo lo schermo. E sullo schermo
c’è solo un volto grande come un sole [. . . ] Il cinema crea davvero uno
stato di coscienza particolare, a senso unico. E una volta che ci si è abituati a
utilizzare questo stato intellettuale estremamente nuovo e piacevole, diventa
una specie di bisogno, come il tabacco o il caffè. Ho la mia dose o non ce
l’ho. Fame di ipnosi molto più violenta dell’abitudine alla lettura, perché
quest’ultima modifica molto meno il funzionamento del sistema nervoso.

Le due citazioni sono comprese tra il  (Döblin) e il  (Ep-


stein): l’intervallo di tempo non è casuale . Nel corso degli anni dieci
si completa infatti la costituzione del cinema in quanto dispositivo
riconoscibile, capace di inglobare macchine e istituzioni spettacolari
precedenti (il circo, il vaudeville, il peep show, etc.), e di riconfigurarli
all’interno di una cornice unitaria e individuabile. Nello stesso giro
di anni, d’altra parte, anche un altro dispositivo si sta trasformando
profondamente: tra la fine degli anni settanta dell’Ottocento e l’inizio
degli anni venti del Novecento , il procedimento ipnotico passa da
una relazione “magnetica” tra ipnotizzatore e ipnotizzato, a una rela-
zione “suggestiva” tra un ipnotizzatore (che può essere anche poeta,
oratore, attore, direttore di orchestra, ecc.) e un gruppo sociale (un
. D , p.  della trad. it.
. E , pp.  e – della trad. it.
. Il quadro dei riferimenti teorici (in senso ampio) alla relazione tra cinema e ipnosi
o suggestione in questo arco di anni è molto ampio. Mi limito a citare M (),
e i vari interventi della pubblicistica e della critica riportati nei volume di Beth Gordon e
Andriopoulos citati nella nota , nonché in H () e in M ().
. Potremmo dire, dall’avvio delle ricerche di Charcot su isteria e ipnosi nel  alla
pubblicazione di Massenpsychologie und Ich–Analyse di F nel .
Il velo immaginario 

pubblico, una folla, una massa, che trova le ragioni del proprio legame
nella comune sottomissione dei suoi membri a un unico leader) . Una
prima ipotesi da cui muove il presente intervento è che le due serie di
trasformazioni siano profondamente collegate:

Nel corso dei primi due decenni del Novecento si assiste a un incontro
progressivo tra dispositivo cinematografico e dispositivo ipnotico; tale in-
contro implica una doppia e reciproca definizione dei due dispositivi: da un
lato il dispositivo del cinema incoraggia una ricomposizione del dispositivo
ipnotico nella sua forma moderna; dall’altro lato il dispositivo dell’ipnosi
contribuisce a rendere comprensibile e individuabile quello del cinema.

Di qui i numerosi e differenti interventi teorici del periodo che vedono


nell’esperienza filmica una forma di ipnosi o di suggestione di massa
— quali quelli citati in apertura.
Una seconda ipotesi di partenza è che i discorsi pre–teorici, micro–

. La scena magnetico–ipnotica “classica” nasce a fine Settecento con il passaggio di


mano da Mesmer al marchese di Puysegur e con la nascita del “sonnambulismo magnetico”;
essa si regge sulla relazione al cospetto di un pubblico tra soggetto ipnotizzato e ipnotiz-
zatore, e si articola in quattro programmi narrativi: il rapporto, la lucidità, lo spettacolo e
l’oracolo. Tale scena attraversa stabilmente tutto l’Ottocento per essere progressivamente
decostruita negli anni ottanta a partire dalle due grandi operazioni di medicalizzazione
dell’ipnosi: quella di Charcot a Parigi e quella di Bernheim a Nancy; l’ipnosi perde un
setting e un frame specifico e (soprattutto nella forma della suggestione) penetra innu-
merevoli spazi del sociale, intesa quale forma di influenza reciproca e inavvertita tra i
membri della folla o esercizio di influenza da parte di un leader sulla folla. Un quadro
organico e delimitato della scena ipnotica viene ricomposto solamente negli anni Venti,
con particolare chiarezza in Freud, con caratteri differenti rispetto alla scena classica: è
a questo proposito che parlo di una scena “moderna”. Essa si regge sulla relazione tra
il soggetto ipnotizzatore e un gruppo di soggetti contemporaneamente ipnotizzati e si
articola in quattro nuovi programmi narrativi risultati dalla trasformazione di quelli della
scena classica: la concentrazione, l’automatismo, l’influenza reciproca e l’allucinazione. Si
vedano E () e ().
. La relazione tra cinema e ipnosi, soprattutto in riferimento al cinema dei primi
tempi, è stata oggetto di una ondata di ricerche di grande interesse negli ultimi anni. Beth
Gordon (), pp. – ha lavorato sulla diffusione culturale di un corpo isterico o
isterizzabile in Francia tra medicina, cabaret e cinema, che trova nelle pratiche e nelle
rappresentazioni dell’ipnosi uno snodo essenziale. A () ha approfondito
il nesso tra ipnosi e crimine nel collegamento reciproco tra teoria, letteratura e cinema.
B () ha portato a compimento una trentennale linea di ricerca sulla relazione
tra dispositivo ipnotico e dispositivo cinematografico, a ffermando un passaggio di mano
tra forme spettcolari dell’ipnosi e cinema, parallela a quella tra forme medicali dell’ipnosi
e psicanalisi. Sulle relazioni tra cinema delle origini e ipnosi cfr. anche B (, ,
), S (), V ().
 Ruggero Eugeni

teorici o teorici tout court non esauriscono l’ambito di osservazione


di tale fenomeno: ugualmente (e forse più) importanti sono le messe
in scena dell’ipnosi nel cinema, da leggersi quali “riflessioni” (nel
duplice senso di autorappresentazioni e di teorizzazioni) sul e del
dispositivo cinematografico da parte dei film e dei loro autori. In altri
termini molti film, attraverso la rappresentazione di scene di ipnosi,
cercano di pensare in termini visuali e narrativi lo stesso dispositivo
cinematografico cui devono la loro esistenza; e lo fanno attraverso
una serie di ipotesi, tentativi, soluzioni parziali e loro revisioni.
Sulla base di queste due ipotesi generali, ne introduco infine una
più specifica, alla cui verifica dedicherò il mio intervento. A partire
dalla metà degli anni dieci l’iconografia cinematografica dell’ipnosi
si trasforma: se in precedenza l’induzione dello stato catalettico veni-
va raffigurata come il passaggio di una corrente magnetica orientata
dall’ipnotista verso il suo paziente per il tramite delle mani puntate
verso di lui, ora l’ipnosi viene indotta con una gamma di mezzi variata
(sguardo fisso, oggetti luccicanti, ecc.) tra cui spicca il gesto della mano
dell’ipnotista passata lentamente e ripetutamente davanti agli occhi del-
l’ipnotizzato. Alla luce delle due ipotesi precedenti, intendo sostenere
che tale gesto è collegato a una riflessione in termini cinematografici
sul problema dello schermo: della sua consistenza, delle sue funzioni,
dei suoi poteri. Più esattamente, la mano dell’ipnotista renderebbe
presente davanti agli occhi del soggetto nell’atto di entrare in trance
una superficie virtuale che consenta al tempo stesso il suo isolamen-
to dal contesto (e quindi la concentrazione della sua attenzione), un
luogo di deposito e di esteriorizzazione delle immagini allucinatorie
soggettive, e uno strumento tecnico di controllo dei comportamenti
e delle reazioni del suo corpo. Questo schermo fantasmatico, o velo
invisibile, viene poi dissolto alla fine della procedura ipnotica, con un
gesto di sottrazione e annullamento che la mano dell’ipnotista attua
in forma speculare rispetto al gesto iniziale di costituzione.
Articolo il mio intervento in due parti. In un primo momento
(par. ) ripercorro rapidamente la storia dei processi di induzione
dello stato magnetico e dell’ipnosi, prestando particolare attenzione
al gesto della mano passata davanti agli occhi. Nella seconda parte
analizzo alcune rappresentazioni cinematografiche dell’ipnosi degli
anni dieci e dei primi anni venti, sia in assenza di una esplicita messa
in scena “in abisso” del dispositivo cinematografico (par. ), sia nel
Il velo immaginario 

caso di raffigurazioni più evidenti di cinema nel cinema (par. ). Nelle
conclusioni (par. ) mostrerò come il plesso di riferimenti implicati
dal gesto della mano–schermo dell’ipnotizzatore cinematografico sia
ancora ben presente alla fine degli anni cinquanta, a testimonianza
una segreta ma tenace persistenza delle modalità mediante le quali
il cinema pensa e produce se stesso, il proprio dispositivo, la propria
esperienza di visione.

. La mano dell’ipnotista

Il passaggio delle mani su varie parti del corpo quale procedura di


induzione dello stato magnetico fa parte dei “passes” già praticati e
insegnati da Mesmer; manca tuttavia nella prima stagione del ma-
gnetismo ortodosso una specifica insistenza sul passaggio delle mani
davanti al volto. Per esempio Joseph Philippe François Deleuze, nella
sua opera di sintesi del  (Deleuze , pp.  et seq.), propone
un metodo che consiste nel toccare o sfiorare il soggetto dalle spalle
in giù; ciò che conta, specifica Deleuze tornando sulla questione nel
suo manuale pratico (Deleuze , pp.  e seq.), non è la mano
in sé quanto le sue estremità che conservano ed emettono il fluido
magnetico: l’iconografia più frequente da questo punto in poi vede
un uso della mano in quanto “puntata” contro il volto del soggetto per
emettere fluido nei suoi confronti .
L’uso della mano passata o posta davanti agli occhi è invece ben
attestata tra i metodi di un magnetista considerato eretico dagli allievi
di Mesmer: l’Abbé de Faria. L’Abate, giunto a Parigi da Goa a inizio
Ottocento, precorre nelle sue teorie l’idea di un legame tra sonnam-
bulismo artificiale e suggestione : lo stato di trance non è dovuto a un

. L’uso della mano davanti agli occhi viene citata a proposito dei mezzi usati dal Mar-
chese di Puysegur, ma al pari di altri mezzi di concentrazione e trasmissione dell’energia
magnetica: « M. de Puységur ne paraît mettre aucune importance au choix des procédés; il
pense qu’il suffit de toucher un malade ou de présenter sa main devant lui pour produire
les effets les plus salutaires, et qu’on porte naturellement la main sur la partie qui souffre »
(D , p. ).
. R e La T (, p. ) fanno osservare la vicinanza tra il metodo di
Braid dell’oggetto brillante e quello di Faria della mano, in quanto entrambi tendono a
concentrare l’attenzione, punto chiave dell’induzione ipnotica « En résumé, la fixation du
regard et de l’attention du sujet, jointe à l’idée qu’on lui suggère qu’il peut et va dormir,
 Ruggero Eugeni

passaggio di fluido magnetico, quanto piuttosto a un’autosuggestione


che crea uno stato di estrema concentrazione del sonnambulo (che
egli chiama épopte o veggente). Anche i procedimenti di induzione
dello stato magnetico sono diversi:

Je m’assure d’avance, d’après les signes externes qui seront indiqués en


temps et lieu, de ceux qui ont des dispositions requises à la concentration
occasionnelle, et en les plaçant commodément sur un siège, [. . . ] je leur
montre à quelque distance ma main ouverte, en leur recommandant de la regarder
fixement, sans en détourner les yeux et sans entraver la liberté de leur clignotement.
[. . . ] Si je m’aperçois qu’ils ne clignotent pas des yeux, je rapproche graduel-
lement ma main ouverte, à quelques doigts de distance [. . . ] (Faria , p.
).

Con la progressiva appropriazione dell’ipnosi da parte delle istituzioni


scientifiche e medicali che ha luogo a partire dalla metà del secolo,
è soprattutto un altro metodo a trovare spazio: la fissazione di un
oggetto brillante (o in alternativa gli occhi del medico); esso viene
introdotto da Braid, nel volume che dona all’ipnosi tale nome e ne
rilancia le sorti scientifiche (Braid ). La scuola di Parigi, con Jean–
Martin Charcot e i suoi allievi, assume tale metodo introducendo al
contempo quello degli shock improvvisi (Bourneville e Regnard –
, pp.  et seq.); in particolare lo shock o la fissazione degli occhi
produrrebbe uno stato catalettico (potenzialmente sia passivo che atti-
vo), dal quale si passerebbe mediante la chiusura delle palpebre a uno
stato letargico (tendenzialmente passivo) e quindi mediante una pres-
sione della mano su alcune parti del corpo a uno stato sonnambulico
(tendenzialmente attivo).
Il metodo delle mani passate davanti al volto del paziente ritorna
invece (per quanto in forma non esclusiva) nella scuola di Nancy
raccolta intorno a Hyppolite Bernheim: come già avveniva con l’Abate
Faria, si tratta nuovamente di un espediente volto a ottenere uno stato
di concentrazione estrema ed esclusiva che immerga il paziente in
uno stato di “suggestione” (Fig. ):

Voici comment je procède pour obtenir l’hypnotisme. [. . . ] Je dis [au sujet]


« Regardez–moi bien et ne songez qu’à dormir » [. . . ]. Quelques sujets

forme la base de toutes les méthodes de l’hypnotisation que nous appellerons volontaires ».
. Sottolineatura mia.
Il velo immaginario 

ferment les yeux et dorment immédiatement. Chez d’autres, [. . . ] j’ajoute


le geste; peu importe la nature du geste. Je place deux doigts de la main droite
devant les yeux de la personne et je l’invite à les fixer, ou avec les deux mains je
passe plusieurs fois de haut en bas devant ses yeux; ou bien encore je l’engage à
fixer mes yeux et je tâche en même temps de concentrer toute son attention
sur l’idée du sommeil (Bernheim , p. ).

Figura . Da Jean Filiatre, L’enseignement facile et rapide de l’hypnotisme par l’image


(Cent vingt–huit gravures hors texte). Tous les procédés pratiques des Magnétiseurs et
Hypnotiseurs anciens et modernes du monde entier mis immédiatement à la portée de tous,
Librairie Fischbacher, Paris 

Minor fortuna avrà il gesto delle mani passate davanti agli occhi
tra gli ipnotizzatori da palcoscenico nella grande stagione che li vede
protagonisti nella seconda metà dell’Ottocento: in questi casi prevale
infatti l’uso dello sguardo (un testimone dell’epoca parla di un “régard

. Sottolineatura mia.


 Ruggero Eugeni

fascinateur, presque phosphorescent” di Donato ) oppure il ritorno dei


più tradizionali passes e toccamenti, anche per la decisa sopravvivenza
in questo settore delle antiche teorie fluidiche .
In sintesi, il gesto delle mani poste o passate davanti agli occhi
viene praticato relativamente poco nei procedimenti di induzione
dello stato ipnotico, e si trova costantemente in concorrenza con altri
metodi (mani passate o puntate lungo tutto il corpo, fissazione dello
sguardo o di un oggetto brillante, ecc.). In ogni caso, l’uso della mano
aperta di fronte agli occhi del paziente è funzionale alla costruzione
di un suo stato di estrema concentrazione, e si collega a concezioni
che vedono nella condizione ipnotica uno stato di “suggestione” —
piuttosto che di investimento di fluidi magnetici o elettrici da un lato,
o di riattivazione di predisposizione para–isteriche dall’altro.

. Pitture e ombre

Il cinema dei primissimi tempi presenta varie rappresentazioni dell’ip-


nosi . Allorché viene messo in scena il procedimento di induzione
dello stato ipnotico, lo schema iconografico prevalente è quello delle
mani puntate verso il soggetto, a trasmettere un fluido magnetico.
Si può prendere come esempio Chez le magnetiste (Alice Guy Blaché,
Fr., ), un breve burlesque in cui l’induzione dello stato ipnotico
. M. S, in Val–de–Ruz,  octobre  cit. in D , p. .
. Per esempio un popolare ipnotista da palcoscenico e da salotto della metà dell’ot-
tocento, descrive così il proprio metodo: « Je commence par faire asseoir mon sujet sur
une chaise ou fauteuil [. . . ] J’aurai placé ce siège, au préalable dans le milieu du salon,
m’arrangeant de façon à ce que cette personne ait le dos tourné à la lumière et que mon
visage soit, au contraire, bien éclairé. La lumière ne doit pas être très vive dans le salon,
malgré cela; les fenêtres ou portes doivent être fermées, aucun bruit ne doit venir du
dehors. Je me place devant la personne à endormir, la fixant, à un mètre environ de distance,
en plein dans les yeux ; ma main gauche étendue en avant, le dessus de ma main face à
la terre ; la paume de ma main un peu au–dessous de la ligne du visage et à distance, bien
entendu [. . . ] Vous ne devez jamais perdre de vue que le dedans des mains endort, ef le
dessus éveille ». All’interno di questo dispositivo para–cinematografico, le mosse successive
consistono in un complesso gioco di massaggiamenti delle tempie e del cranio del paziente
per infondere progressivamente in esso il fluido magnetico (L   C
(), pp.  et seq.)
. Oltre ai film che citeremo, cfr. per esempio Une scène d’hypnotisme I e II (Cat. L,
Fr., ), Mesmerist and Country Couple (T. A. Edison, Usa, ), L’antre des esprits (George
Méliès, Fr., ), ; Le Baquet de Mesmer (George M, ).
Il velo immaginario 

è l’occasione per spogliamenti e scambi di abito tra una donna ip-


notizzata e un gendarme accorso a difenderne la moralità. In questo
caso l’ipnotista, dopo aver fatto sedere la cliente, rivolge contro di lei
per tre volte le braccia tese, provocando ogni volta un sussulto del
corpo della donna. Verso la metà del decennio tale iconografia inizia
ad ampliarsi e complicarsi. Un esempio interessante è Trilby (Maurice
Tourneur, Usa, ), una delle prime traduzioni cinematografiche
di un omonimo romanzo di enorme successo pubblicato da George
du Maurier nel . La storia è incentrata su una cantante lirica la
cui sovrumana capacità vocale è dovuta allo stato di ipnosi in cui la
immerge il suo mentore, l’ambiguo musicista Svengali. Le numerose
situazioni di relazione ipnotica tra la ragazza e il musicista presenti
nel film appaiono come riattivazioni di una induzione originale, agi-
ta da Svengali su Trilby in occasione di una violenta emicrania (più
simile per la verità a una crisi isterica) che coglie la ragazza mentre
il suo fidanzato Little Billee le sta facendo un ritratto. In questo caso
Svengali, dopo aver fatto sedere Trilby davanti a sé, dirige la mano dai
propri occhi a quelli della ragazza, con una o due dita puntate, per poi
passare più volte e alternativamente le due mani con le palme aperte
davanti al suo volto (Fig. ) , provocando dapprima il comporsi del
suo corpo in uno stato catalettico e di chiusura (a braccia conserte),
poi di improvvisa animazione e di apertura delle braccia, lo sguardo
fisso nel vuoto. Specularmente, dopo la violenta reazione negativa
di Little Billee e del gruppo di pittori suoi amici, Svengali riporta la
giovane alla realtà passando due volte le mani davanti al suo volto
come a dissolvere un invisibile velario.
Osserviamo che l’idea di una sorta di superficie invisibile, capace
tanto di isolare il soggetto in ipnosi quanto di ospitare visioni inesprimi-
bili, e che viene dapprima tessuta e poi cancellata da Svengali davanti
al volto di Trilby, è accentuata dalla presenza e dalla esibizione nella
sequenza di due superfici capaci di raccogliere e rilanciare immagini:
il quadro che il giovane pittore innamorato sta componendo in primo
piano all’inizio, e la tenda dietro la quale appare in ombra la silhouette
di Svengali quando questi viene chiamato ad aiutare Trilby .
. Si tratta della gestualità descritta sopra da Bernheim, qui piuttosto al servizio di un
passaggio da uno stato catatonico e uno stato sonnambulico secondo la descrizione e la
tipologia della Scuola di Parigi: si veda supra.
. Non a caso, forse, il gesto di Svengali ricorda anche il meccanismo dell’otturatore
 Ruggero Eugeni

Figura . Maurice Tourneur, Usa, 

Un esempio meno evidente ma non meno interessante si ritrova in


Les Vampires, Episode  Les yeux qui fascinent (Louis Feuillade, Fr., ).
Nell’episodio del popolare serial il criminale Moreno sfodera la sua
abilità di ipnotista contro la banda concorrente dei Vampiri. Dopo aver
mesmerizzato la propria cameriera, la sostituisce a Irma Vep (femme
fatale al servizio del Gran Vampiro), rapisce quest’ultima e le sottrae
una mappa che permette di impossessarsi di un bottino nascosto.
Nella sequenza del rapimento Moreno, dopo aver addormentato Irma
Vep con del cloroformio, estrae da un baule la propria cameriera
immersa nella letargia ipnotica, già vestita con l’aderente tuta nera
che caratterizza l’abbigliamento della Vampira in azione, e in tutto e
per tutto a lei somigliante. Dopo averla disposta in piedi, Moreno passa
per due volte la mano aperta davanti al suo volto, procurando una
sorta di risveglio in stato catatonico (Fig. ): la donna è un manichino
o una bambola che risponde al comando dei suoi gesti e può quindi
ingannare il Gran Vampiro che non si accorge della scomparsa di
Irma avvenuta nel frattempo. In questo caso il gesto della mano di
Moreno non induce direttamente l’ipnosi (che era stata procurata
all’inizio dell’episodio mediante lo sguardo dell’uomo fissato negli

della macchina di proiezione cinematografica, alternando luce e ombra sul volto della
donna. Per l’importanza degli aspetti visuali e pittorici nel film di Tourneur si veda A
(); per una disamina più generale dei riferimenti del romanzo e del film all’immaginario
sui media visivi e sonori dell’epoca si veda E ().
Il velo immaginario 

Figura . Fotogramma da Les Vampires, Episode  Les yeux qui fascinent (Louis
Feuillade, Fr., )

occhi donna), ma la riattiva, e in particolare attiva il passaggio da uno


stato letargico a uno catatonico attivo.
L’elemento dominante appare in questo caso il controllo esercitato
da Moreno sulla cameriera–automa ; il gesto della mano di Moreno
possiede dunque il carattere di una rapace sottrazione e appropriazio-
ne dei sensi e della volontà della donna. D’altra parte non deve sfuggire
una rete di riferimenti metacinematografici che sottende l’intera se-
quenza: il gioco di ombre del cinema è richiamato dalla silhouette
di Irma Vep; il tema del raddoppiamento e della moltiplicazione del-
l’immagine dei soggetti è presente negli specchi che riflettono Irma
e soprattutto nel raddoppiamento della sua immagine in quella della
cameriera; infine l’alternanza di immobilità e attivazione del movi-
mento del corpo delle due donne richiama l’origine fotografica del
dispositivo e la sua natura di fotografia animata . In questo contesto il

. Come scrivono Richer e Tourette (, p. ) del soggetto ipnotizzato nello stato
di catalessi: « le mouvement chez un sujet hypnotisé peut être provoqué directement, par
le simple commandement, sans perdre son caractère réflexe et automatique. L’hypnotisé
devient alors véritablement la chose de l’expérimentateur. Un mot suffit, et il s’assied, se lève,
marche, écrit, etc. Il peut accomplir des actes beaucoup plus compliqués, dont l’un de nous
a fait récemment ressortir toute l’importance au point de vue médico–légal »
. Altri riferimenti sono reperibili nell’insieme dell’episodio. Nella prima parte del
film la scena dell’induzione ipnotica da parte di Moreno nei confronti della cameriera (per
mezzo dello sguardo) viene da un lato replicata da un indirizzo dello stesso sguardo verso
il pubblico, e per altro verso accostata immediatamente a una messa in scena esplicita del
 Ruggero Eugeni

personaggio di Moreno appare come un grand imagier impegnato ad


attivare, disattivare e riattivare immagini e corpi in movimento.

. Pubblici e visioni

Al di là degli esempi appena esaminati, « c’est avec le double Mabuse


de Fritz Lang [Dr. Mabuse, der Spieler, Ger., ] que l’évaluation cou-
plée des deux dispositifs du cinéma et de l’hypnose semble couvrir
pour la première fois l’éventail des ses possibles » . Il dottor Mabu-
se, criminale e ipnotista, è un uomo dai mille volti: di volta in volta
psicanalista di fama, giocatore di borsa, tenutario di bisca, ecc. Se
già lungo tutto il corso del film egli appare come il segreto artefice
degli sviluppi del racconto, è soprattutto in una nota sequenza della
seconda parte che Lang lo mostra nelle vesti di “grande enunciatore”
visuale e narrativo . In questo caso Mabuse si presenta al pubblico
nelle vesti di Sandor Weltmann, una sorta di ciarlatano impegnato a
effettuare pubblicamente un “Experimente über Massensuggestion,
Wachhypnose, Trance, natürlichen Magnetismus, Geheimnisse der
indischen Fakire”. Dopo aver pronunciato un discorso introduttivo,
Mabuse–Weltmann si sposta verso il margine destro del palcosceni-
co e porta alla fronte la propria mano sinistra con il palmo rivolto
verso il pubblico; la portata del movimento viene esaltata dal fatto
che tale mano è l’unica disponibile perché nel travestimento Mabuse
si finge privo della destra. Con un gesto plateale, l’ipnotista abbassa
lentamente la mano aperta verso il pubblico (Fig. ); la mimica viene
amplificata da una “imperfezione” del montaggio nel passaggio dal

dispositivo cinematografico (Guerande e Mazamette, i due investigatori dilettanti sulle


tracce dei Vampiri, riconoscono in un cinegiornale Irma Vep a Fontainbleau e decidono di
recarsi sul posto). Più tardi nell’albergo di Fontainebleau, si assiste al montaggio alternato
di un dispositivo paracinematografico (il falso conte Kerlor, in realtà il Gran Vampiro,
distrae il pubblico dell’albergo leggendo loro le avventure di un suo avo: queste vengono
visualizzate sullo schermo esternalizzando le immagini suscitate nel pubblico di ascoltatori
dalla lettura del Gran Vampiro), e della contemporanea azione in cui Irma Vep viene
stordita da Moreno e sostituita dalla cameriera in stato di ipnosi.
. R. B, Le corps di cinéma, cit., p. .
. G (), pp. –. Rispetto alla descrizione di Gunning, che privilegia
lo sguardo di Mabuse, la mia analisi sottolineerà piuttosto il ruolo della sua mano e in
generale della sua mimica.
Il velo immaginario 

Figura . Fotogramma da Dr. Mabuse, der Spieler. Zweiter Teil: INFERNO. Ein Spiel
von Menschen unserer Zeit (Fritz Lang, Ger., )

piano medio di Mabuse–Weltmann a un totale frontale, espediente


che permette di duplicare il gesto della mano aperta che si abbassa.
A questo punto un’iride concentra l’attenzione dello spettatore sulla
parte centrale del palcoscenico, una dissolvenza incrociata dissolve
il sipario e fa affiorare la scenografia di un palmeto nel deserto: dal
fondo emerge una carovana di beduini che avanzando scende nella
sala, sotto gli sguardi sbalorditi del pubblico. Nel frattempo l’iride
è scomparsa facendo riaffiorare sulla destra l’immagine di Mabuse–
Weltmann sempre con la mano aperta, tesa dapprima verso il pubblico
poi verso le immagini della carovana in movimento (Fig. ). A questo
punto Mabuse, nuovamente inquadrato in campo medio, risolleva
lentamente la mano, per poi chiuderla e piegare improvvisamente
il braccio come a strappare un velario invisibile: in sala le immagini
scompaiono all’improvviso.
Come emerge chiaramente dalla descrizione, Lang non si limita
ad alludere al dispositivo del cinema mediante indizi ed elementi spar-
si, come avveniva nei film precedentemente analizzati, ma ne mette
esplicitamente in scena la disposizione spaziale e il meccanismo visio-
nario. Il dispositivo ipnotico (a dispetto di quanto potrebbe apparire a
prima vista, a partire dalla posizione defilata di Mabuse rispetto al pal-
coscenico) non si accosta semplicemente a quello cinematografico ma
 Ruggero Eugeni

Figura . Fotogramma da Dr. Mabuse, der Spieler. Zweiter Teil: INFERNO. Ein Spiel
von Menschen unserer Zeit (Fritz Lang, Ger., )

ne costituisce al contrario la componente decisiva, in quanto centro


generatore delle immagini allucinatorie in movimento. Sotto questo
aspetto la mano aperta di Mabuse rivolta verso il pubblico e verso le
immagini della carovana in movimento sostituisce i due elementi del
dispositivo che non sono presenti nella sala della Filarmonica ma che
pure sono indispensabili per far funzionare la macchina del cinema:
da un lato lo schermo cinematografico (mano rivolta verso il pubblico),
dall’altro il proiettore (mano rivolta verso le immagini della carovana
in movimento).
Il Mabuse di Lang non è l’unico film del periodo a mettere in scena
variamente travestito il dispositivo cinematografico, né a legarvi le
dinamiche dell’ipnosi. In Schatten. Eine nächtliche Halluzination (Ombre
ammonitrici, Arthur Robinson, Ger. ) una sontuosa festa rischia
di trasformarsi in un dramma barocco per la gelosia del padrone
di casa nei confronti della moglie, non insensibile al fascino di uno
degli ospiti. Un misterioso personaggio, a metà tra il saltimbanco e
il proiezionista di ombre cinesi, irrompe senza invito nel palazzo e,
una volta trasformato il salotto in una rudimentale sala di proiezione,
racconta con il suo teatro di ombre una storia simile a quella che gli
ospiti stanno vivendo, sviluppandola fino al suo tragico finale di morte.
Non solo: egli immerge gli ospiti in una allucinazione collettiva in cui
essi vivono direttamente i tragici eventi del racconto; il risveglio dal
trance li ritroverà convertiti a condotte più prudenti.
Il velo immaginario 

Figura . Fotogramma da Schatten. Eine nächtliche Halluzination (Arthur Robinson,


Ger. )

L’induzione dello stato di trance ricorda la vecchia mimica del fluido


magnetico indirizzato verso i pazienti, che qui si contamina con il gesto
di der Sandmann — l’Uomo della sabbia del patrimonio folklorico
già ripreso da Hoffmann: lo strano proiezionista “lancia” e “soffia”
un fluido o una polvere invisibile verso la piccola folla di spettatori
procurandone un magico addormentamento. Una gestualità vicina
a quella ipnotica “moderna” ritorna più chiaramente al momento
del risveglio degli ospiti dalla allucinazione notturna. Mentre sullo
schermo del salotto si spengono le ultime immagini del film nel film
allucinatorio e la figura del saltimbanco–proiezionista si materializza
a fianco degli spettatori shockati, la contessa si alza e porta la mano
alla fronte, la palma rivolta verso l’esterno, in un gesto identico a
quello che abbiamo visto in Mabuse; il proiezionista a questo punto
in primo piano guarda in macchina e porta la propria mano davanti
agli occhi, passandola come per ripulire il campo visivo di immagini
(Fig. ), gesto che trova una eco nella mimica della contessa che
nel successivo stacco di montaggio passa la mano aperta sulla fronte
facendola ridiscendere verso il corpo.
 Ruggero Eugeni

. Conclusioni. Trentacinque anni dopo

Le rappresentazioni cinematografiche dell’ipnosi tra il  e il 


riprendono dunque il gesto della mano dell’ipnotista passata davanti
agli occhi del paziente nel corso della induzione o della riattivazione
dello stato ipnotico, usato in alcuni ambiti medici e scientifici. Que-
sta ripresa d’altra parte amplifica la rilevanza di tale gesto rispetto
agli usi extracinematografici; e tale amplificazione appare a sua volta
funzionale a una sua risemantizzazione: sullo sfondo di una attiva
ricerca di analogie tra il dispositivo del cinema e quello dell’ipnosi, la
mano passata davanti al volto del paziente allude in modo particolare
alla costituzione (o, specularmente, alla dissoluzione) di uno schermo
davanti agli occhi del o degli spettatori.
Gli esempi analizzati hanno mostrato come la ricerca di un’assi-
milazione di cinema e ipnosi attraverso le rappresentazioni filmiche
dei procedimenti ipnotici procedesse per tentativi, prove, esperimenti
e proposte; derivano di qui tanto differenze quanto analogie tra gli
esempi considerati.
Per un verso differisce al loro interno il grado di esplicitazione
del dispositivo cinematografico, e dunque il tipo di connessione tra
elementi ipnotici ed elementi propri del cinema: il riferimento è più
velato e allusivo nei primi due esempi, al cui interno l’elemento della
mano–schermo si connette a una rete di riferimenti più dispersi; men-
tre si fa più esplicito negli ultimi due esempi, che devono giustificare
la presenza e l’azione di un ipnotista all’interno di una messa in scena
in abisso del dispositivo che dà vita al film stesso.
Per altro verso si ritrova all’interno degli esempi considerati una
relativa stabilità circa il significato e la funzione del gesto della mano–
schermo e più ampiamente dell’azione ipnotica rispetto a una rifles-
sione in atto sul dispositivo del cinema. In particolare tre elementi
sono ricorrenti — per quanto con differenti accentuazioni — negli
esempi analizzati. In primo luogo (e in coerenza con gli usi extra-
cinematografici) il gesto della mano passata o tenuta ferma davanti
agli occhi del paziente o della folla di pazienti intende costruire un
suo isolamento rispetto al contesto e quindi una assoluta ed esclusiva
concentrazione della sua attenzione . Lo schermo è in questo caso

. Sull’ipnosi in quanto “tecnologia dell’attenzione” tra fine Ottocento e inizio


Il velo immaginario 

una superficie di protezione e di isolamento, un bozzolo che restrin-


ge radicalmente il contesto in cui il soggetto si trova e lo protegge
dagli eccessi percettivi circostanti (Trilby); ma è anche un dispositi-
vo di rapace sottrazione del soggetto dall’esperienza ordinaria (Les
Vampires). In secondo luogo lo schermo immaginario tracciato dalla
mano è una superficie che genera immagini allucinatorie al tempo
stesso pubbliche e private, ma comunque dotate della stessa evidenza
delle immagini reali. In quanto tale lo schermo è anche un dispositivo
capace di creare continuità e indistinzione tra immagini del cinema e
immagini del mondo, personaggi e spettatori (Les Vampires, Mabuse,
Schatten). In terzo luogo la mano che traccia lo schermo immaginario
resta una mano che “maneggia” tanto le immagini quanto i soggetti
immersi nella allucinazione: in tal modo, il gesto della mano–schermo
afferma una idea di potere profondamente nuova e radicalmente legata
al dispositivo cinematografico (Les Vampires, Mabuse).
Si potrebbe pensare che la riflessione sul dispositivo cinematogra-
fico attivata in alcuni film attraverso la rappresentazione dell’ipnosi
scompaia una volta concluso il processo di formazione di tale disposi-
tivo quale forma culturale definita; ma non è così. Almeno fino agli
anni Ottanta del Novecento, vari film continuano a ripensare valenze
e poteri del cinema attraverso il tema dell’ipnosi; e lo fanno rilavoran-
do, scomponendo e ricomponendo i motivi figurativi introdotti nei
primi anni di sviluppo, quale appunto il gesto della mano dell’ipnotista
passata davanti al volto del soggetto da ipnotizzare. Per dimostrare
questo assunto farò un ultimo esempio, che dista ben trentaquattro
anni da Schatten.
Nel , l’interesse per soggetti che recuperano identità nascoste
o legate a incarnazioni precedenti è molto vivo nel cinema america-
no, dopo il successo di film quali The Search for Bridey Murphy (Noel
Langley, Usa, ), I’ve Lived Before (Richard Bartlett, Usa, ), e
The Three Faces of Eve (Nunnally Johnson, USA, ). Roger Corman
sfrutta con il consueto fiuto tale interesse con il film The Undead (La
sopravvissuta). Nonostante si tratti senza alcun dubbio di un B movie
cormaniano (girato in  giorni all’interno di un ex supermarket, rici-
clando materiali di scena del precedente filmIt Conquered the World, e
proiettato in double feature con il film Voodoo Woman), il film possiede

Novecento si veda C (), in particolare pp. – e –.


 Ruggero Eugeni

una potente messa in scena dell’ipnosi. Il ricercatore Richard Garland


ipnotizza la prostituta Pamela Duncan e la riporta alla sua precedente
esistenza di donna condannata per stregoneria nel Medioevo (Fig. ).
« Do you see my hand? There’s no end to my hand » dice Garland
sollevando la mano sinistra verso il volto della donna ed esponendola
davanti ai suoi occhi. Nel discorso ipnotizzante che l’uomo fa, le mani
diventano una sorta di montagne russe su cui viaggiare all’infinito, poi
un pozzo in cui lasciarsi cadere: « Yes, you’re riding, first slowly, the
faster, around, and around, and around. [. . . ] We are in a dark silence,
and we breathe as one, we are one. When I touch you, we will be one;
when I touch you, you will sleep ».
La distanza temporale non ha indebolito, ma semmai arricchito la
gamma di richiami e suggestioni legati al gesto della mano ipnotiz-
zante: isolamento e intimità, visionarietà, controllo; sprofondamento
verso l’interno, fuoriuscita verso l’esterno: in ogni caso il gesto della
mano è legato alla costruzione consapevole di uneccesso, mediante la
costituzione di una superficie che esiste solo per mettere in relazione
mondi “eterotopici”, e dunque è tanto più efficace quanto meno è
visibile.

Figura . Fotogramma da The Undead (Roger Corman, Usa )


Il velo immaginario 

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pag. 131–151 (gennaio 2016)

Microanalisi del velo


Verso una semiotica del drappeggio

M L

English Title: Microanalysis of the Veil: Towards a Semiotics of Drapery.

A: The article starts from the analysis of an image in contemporary mass
visual culture — advertising a famous coffee brand — so as to suggest that the
semiotics of the veil must develop as the semiotics of a veil. Understanding the
meaning of this multifaceted cultural element requires grasping it not only as
general device, but also as singular object. Semiotics, which is a science of systems
and generalizations, must therefore empower its microanalysis with reference to
other toolboxes. The article claims that Gaëtan Gatian de Clérambault’s semiology
of the veil offers a wealth of insights about the micro–significations of the veil. Such
claim is applied to a case study: the micro–analysis, à la manière de Clérambault, of
the “system of the veil” in Ettore Scola’s movie Una giornata particolare [A Special
Day] ().

Keywords: Veil; Semiotics; Micro–Analsyis; Gatian de Clérambault; Ettore Scola.

. Panni stesi al sole

Come altre marche di respiro internazionale, anche Lavazza affida


da tempo a fotografi di prestigio, affiancati da agenzie pubblicitarie
altrettanto rinomate, il compito di comporre il calendario fotografico
dell’anno. Nel , il fotografo statunitense Mark Seliger crea, da un
progetto del pubblicitario italiano Armando Testa, il calendario Falling
in Love, una serie di sei fotografie che pubblicizzano il brand Lavazza
attraverso elaborate scene d’innamoramento, ognuna ambientata in
un diverso paesaggio, sia storico–geografico che mitico, dell’immagi-
nario italiano. La seconda fotografia della serie, intitolata “Washing
Line”, poi riprodotta in gigantografie diffuse internazionalmente, rap-
presenta una coppia di amanti sullo sfondo di un cielo azzurro intenso


 Massimo Leone

Figura . Mark Seliger, , Washing Line, fotografia a colori per il calendario
Falling in Love, Lavazza

(Fig. ). I modelli, i venezuelani Monica Castillo ed Enrique Palacios,


offrono alla scena corpi che da un lato rimandano alla fisionomia del-
l’Italia mediterranea, dall’altro ne coniugano i tratti con una classicità
brunita ma statuaria. Incarna questo incontro fra sensualità popolare e
idealizzazione classica anche il connubio fra la canottiera dell’uomo e
il peplo della donna, accomunati dallo stesso candore. Candido è pure
il sugello dell’abbraccio fra i due, l’immancabile tazzina marchiata
Lavazza, le cui rotondità sono idealizzate in un altro rimando classico,
lo strano capitello che ne riprende la forma nell’angolo in alto a destra
della fotografia.
Dal ricco immaginario che circonda l’italianità, soprattutto nella
sua ricezione americana, la fotografia pesca una figura stereotipica,
ennesimo riferimento a una solarità popolare: i panni stesi sul terraz-
zo, lungo candidi fili che corrono attraverso tutta l’immagine. A ben
guardare, anche qui si ritrova il motivo di una popolarità sensuale ma
idealizzata: le semplici mollette di legno infatti non assicurano ai fili
indumenti o tantomeno biancheria, bensì panni nel senso figurale
del termine, candidi quadrangoli di cotone che un vento capriccio-
so distorce in una Gestalt composita e variegata di pieghe, ombre e
Microanalisi del velo. Verso una semiotica del drappeggio 

luci, in una configurazione la cui spontaneità pare quasi assumere la


naturalezza delle nuvole. Questi panni rimano per consistenza mate-
riale e luminosità con la canottiera dell’uomo: entrambi di cotone, ed
entrambi opachi, compongono un chiasmo visivo con un’altra rima
plastica, quella che si delinea, trasversalmente, fra il peplo della donna
e uno scampolo di tessuto che, steso al sole come i panni, se ne disco-
sta per più tratti: etereo e trasparente come il peplo, esso non pende da
una molletta agganciata a un filo, bensì dall’elemento architettonico
che riprende e idealizza la tazzina, ovvero il capitello sulla cornice.
Mosso dal vento nella stessa direzione dei panni, questo scampolo si
avvita sinuoso attorno alla testa dell’uomo, velandogliela, e demarcan-
do un’ulteriore opposizione fra il capo della donna, visibile nella sua
acconciatura anni Sessanta, e quello dell’uomo, di cui si intravede il
regolare profilo romano.
L’intento sinestetico della fotografia è evidente, quasi banale, sugge-
rito dall’implicita eco visiva fra velo e vapore: il gusto del caffè Lavazza
è destinato ad avvolgere chi lo beve in un vortice quasi ipnotico, cui
accenna del resto anche la rappresentazione ortogonale di una tazzi-
na al bordo dell’immagine. Meno scontata è invece la qualificazione
estetica di questo avvolgimento: qual è la nota semantica del chiasmo
delineato dai tessuti della messa in scena, in cui al biancore opaco del
cotone, quello della canottiera maschile e dei panni stesi ad asciugare,
fa da contraltare il lucore diafano della seta, quella del peplo femminile
e del drappo/vapore che avvolge il capo dell’uomo? Se si volesse
riassumere in una sola frase il suggerimento di questo chiasmo, di
per sé stesso figura retorica dell’abbraccio tra diversi, si potrebbe dire
che, nell’esperienza estetica propiziata dal caffè Lavazza, il gusto e
l’aroma della bevanda avvolgono il consumatore in un immaginario
complesso, quasi ossimorico, in cui l’italianità si esprime nel contrasto
e nel connubio fra una sensualità solatia e popolare e un’eleganza
classica e raffinata, un abbraccio fra opposti che la fotografia sembra
ambientare nella storicità dell’Italia degli anni ’–’, ma anche nella
stereotipica suddivisione di genere fra l’eleganza femminile e la forza
maschile, l’una destinata ad avvolgere la seconda come Venere con
Marte al primo sorso di caffè.
Questa strategia di presentazione valoriale ed estetica della mar-
ca ha di certo più senso nel contesto internazionale, ove Lavazza si
propone come emblema di savoir vivre all’italiana, che in quello na-
 Massimo Leone

zionale. Qui però interessa non la strategia commerciale ma quella


semiotica. Questa foto, tratta dalla cultura visiva popolare dell’Italia
contemporanea, è esempio evidente di come il velo non sia semplice-
mente un indumento, bensì un dispositivo visivo il cui funzionamento
retorico sarebbe troppo riduttivo confinare alla dicotomia scopica visi-
bilità/invisibilità, a quella pragmatica ostentazione/occultamento, o
persino a quella figurale velamento/disvelamento. Il senso del velo
in quanto particolare Gestalt visiva nasce invece da una complessa
co–occorrenza di elementi in cui non importano solo l’oggetto velato
o disvelato e il soggetto velante o disvelante, bensì la materialità e
la plasticità del dispositivo, caratteristiche spesso trascurate da chi lo
reifica in semplice indumento. Il velo è infatti innanzitutto una mate-
rialità tessile che induce, prima ancora di solidificarsi in regimi scopici
o pragmatiche ottiche, una particolare matrice di movimento e una
complementare potenzialità di luce. Comprendere il velo significa
dunque analizzare come la sua materialità tessile divenga discorso
di movimento e di luce in un contesto visivo, e in particolar modo
nella dialettica fra una soggettività e un’oggettività, ove un’agentività
usa questa materialità, questa luce, e questo movimento per disegnare
attorno a un oggetto un’orografia elaboratissima di inviti e proibizioni,
legittimità e interdizioni dello sguardo.

. Per una semiotica del velo

Elaborare una semiotica del velo richiede allora innanzitutto lo svilup-


po della semiotica di un velo, in cui si prendano in considerazione i
tratti più idiosincratici della sua disposizione visiva. Da questo punto
di vista, il velo è allora forse solo l’esempio più lampante di come la se-
miotica debba svilupparsi e arricchirsi, senza abbandonare un’euristica
per strutture ma senza neppure banalizzarla in schematismi, bensì pre-
stando un’attenzione quasi maniacale ai dettagli, alle peculiarità con
cui il senso si manifesta. Alla frase “che significa il velo?” bisognerebbe
dunque rispondere con la stessa strategia di chi sa fare acquisti per
negozi d’abbigliamento; guardare l’etichetta, per così dire, capire di
che velo si tratta, di quale tessuto, di quale particolare configurazione
di materia, tessitura, e dunque movimento e luce.
Microanalisi del velo. Verso una semiotica del drappeggio 

Prediligere una semiotica non superficiale ma della superficie, at-


tenta al senso del dettaglio, e al dettaglio del senso, è divenuto in una
certa misura, nel corso degli anni, il marchio di fabbrica della scuola
torinese, eppure bisogna ammettere che la semiotica non è molto
equipaggiata per assumere questo genere di sguardo. Mentre la storia
dell’arte ha da tempo sdoganato e incamerato le meticolosità visive
della connoisseurship, trasformandole in strumento di osservazione e
studio, la semiotica deve ancora costruirsi la sua gamma di ceselli mo-
relliani. A questo proposito, le opere di Gaëtan Gatian de Clérambault
(di qui in poi, Clérambault), sono estremamente rilevanti. Negli scatti
fotografici e negli scritti dello psichiatra francese si intuisce infatti la
possibilità di sviluppare una semiologia delle singolarità, o perlomeno
una semiologia dalla grana fine, un ritorno a una certa sensibilità
barthesiana se si vuole, ma pur sempre arricchita dal portato della
semiotica generativa.

. Il metodo Clérambault

Il corpus fondamentale per lo sviluppo di questa minuziosa semiotica


dei veli è costituito, in particolare, dalle centinaia di fotografie che Clé-
rambault scattò in Marocco durante due soggiorni di convalescenza,
il primo nel , a séguito di una prima ferita di guerra, il secondo
tra il  e il , per i postumi di una seconda ferita (Gatian de
Clérambault ) (Figg. –). Realizzate con la tecnica della piastra di
vetro e stampate su fogli cartonati, le fotografie sono state conservate
in una scatola anonima negli archivi del Musée de l’homme fino al
, quando furono “scoperte” e attribuite al grande psichiatra. Dopo
un’urgente operazione di restauro, una sessantina di queste fotografie
sono state poi esibite nell’ambito di un’apposita mostra al Beaubourg
durante la primavera del , col titolo Gaëtan Gatian de Clérambault,
psychiatre et photographe (ibidem).
Si tratta fondamentalmente di fotografie di veli. E tuttavia, come
si cercherà di dimostrare, l’intento di Clérambault è di decostruire
lo stereotipo del velo per restituirne invece le singolarità, elaborare
per mezzo della fotografia una semiologia del velo che renda giusti-

. Bourges,  luglio  – Malakoff,  novembre .


 Massimo Leone

Figura . Gaëtan Gatian de Clérambault, foto di veli marocchini,  e 

Figura . Gaëtan Gatian de Clérambault, foto di veli marocchini,  e 


Microanalisi del velo. Verso una semiotica del drappeggio 

Figura . Gaëtan Gatian de Clérambault, foto di veli marocchini,  e 

Figura . Gaëtan Gatian de Clérambault, foto di veli marocchini,  e 

Figura . Gaëtan Gatian de Clérambault, foto di veli marocchini,  e 


 Massimo Leone

Figura . Gaëtan Gatian de Clérambault, foto di veli marocchini,  e 

Figura . Gaëtan Gatian de Clérambault, foto di veli marocchini,  e 

zia dell’enorme varietà e complessità di rappresentazioni visive del


velamento, del drappo, della piega. Clérambault infatti intuisce, e
suggerisce al semiologo contemporaneo, che una piega non è mai
un concetto, alla Deleuze, ma una singolarità, e che di conseguenza
ogni velamento deve essere compreso nell’individualità della sua con-
formazione. La semiologia del velo in Clérambault diviene dunque
esempio di un’attitudine antropologica più generale, quella che cerca
Microanalisi del velo. Verso una semiotica del drappeggio 

di decifrare l’uomo, e il suo senso, non nella generalizzazione ma


nell’attenzione al dettaglio.
Per comprendere appieno la rilevanza di queste fotografie ai fini di
una semiotica del velo è opportuno collocarle in una complessa serie
testuale che ruota intorno alla figura di Clérambault. Uno dei massimi
esponenti della psichiatria clinica francese (Gatian de Clérambault
; Renard ; Moron et al. ), dal  al  Clérambault fu a
capo della cosiddetta “Infermeria Speciale degli Alienati” [“Infirmerie
Spéciale des Aliénés”], sita nel sottosuolo del Palazzo di Giustizia a
Parigi. Per quasi trent’anni, il suo compito fu quello d’incontrare le
centinaia di “sospettati d’alienazione” che la polizia parigina conduceva
ogni notte nel suo ambulatorio, e di stilare rapidamente una diagnosi.
Ecco il primo elemento della serie testuale: le migliaia di schede
diagnostiche che Clérambault redasse durante quasi tre decenni di
attività (Gatian de Clérambault ). Egli vi dispiega ciò che all’epoca
si definiva “il metodo semiologico in psichiatria”, di cui Clérambault
è considerato uno dei massimi esponenti . Un po’ alla maniera di
Sherlock Holmes, si trattava di osservare attentamente il paziente
soprattutto nei dettagli più minuti e apparentemente insignificanti al
fine di ricavarne (o di abdurne, come direbbe Peirce) una “cattura
diagnostica”, un’istantanea psichiatrica. Non è la validità clinica di que-
sto metodo che interessa qui, ma il suo stretto legame con la nascita
e lo sviluppo della fotografia. Le cartelle cliniche che Clérambault
produceva con questo metodo sono spesso definite “fotografismi”
(Edel a, p.). Eccone un esempio:
Del resto, la negligenza eccessiva della loro tenuta metteva in allerta la
diffidenza. Esse erano vestite di abiti sordidi, un tempo neri, ma dove le
zone pulite facevano da macchia, le cuciture erano aperte, a tratti strappate,
rammendate con delle spille, e si chiudevano con spilloni da balia che
prendevano il posto dei bottoni. L’una portava un cappello di feltro grigio, di
forma ultra–semplice, ma di diametro eccessivo; le altre due piccoli cappelli

. « [. . . ] Il apparaît à un premier niveau de sa pratique clinique et de ses écrits comme


l’un des derniers fleurons de cette psychiatrie classique, le représentant du “dernier âge d’or
de la sémiologie” » « [Egli appare a un primo livello della sua pratica clinica e dei suoi scritti
come l’una delle ultime gemme di questa psichiatria classica, il rappresentante “dell’ultima
età dell’oro della semiologia”] » (G , p. ) « Ainsi pour découvrir les phénomènes
initiaux psychiques et abstraits de l’automatisme mental il applique au discours des patients
une démarche sémiologique dans laquelle il excelle et qu’il a expérimentée dans le champs
de la sensorialité des délires toxiques où elle est restée inégalée à ce jour » (ibidem, p. ).
 Massimo Leone

di crespo, deformati, appiattiti, intrisi di polvere e mal posti su capelli in


disordine. Le loro figure avevano un’espressione spossata e inquieta come
se avessero fatto chilometri per sfuggire a un grave pericolo. Messe le une
accanto alle altre, esse formavano uno strano trio.

Il valore letterario delle ekfrasis di Clérambault è stato già messo


in evidenza. Ciò che occorre sottolineare ulteriormente è che la sua
semiotica psichiatrica si fonda su una nuova disciplina dello sguardo,
la quale è strettamente legata alla diffusione della tecnica fotografica e
delle sue rivelazioni sul senso: lo psichiatra fissa nella memoria visiva
un istante della complessa Gestalt di segni con cui il paziente gli appare,
e da questa ricava una serie d’indizi per la diagnosi. Con una metafora,
si potrebbe dire che il disegno sta alla fisiognomica di Lombroso
come la fotografia sta a alla clinica semiologica di Clérambault. Allo
psichiatra francese infatti non interessa l’antropometria perenne del
paziente ma la configurazione plastica complessiva del suo aspetto
contingente, la quale gli si rivela proprio attraverso il congelamento
del corpo in movimento prodotto dallo sguardo fotografico.
Il fotografismo diagnostico non si applica solo alla tenuta vesti-
mentaria del paziente ma anche alle sue sensazioni, che Clérambault
cattura con un’attenzione maniacale per il dettaglio plastico. Ecco per
esempio un suo cavallo di battaglia, la descrizione dei sintomi dei
cosiddetti “deliri tossici”:
Si sono segnalati, come colori predominanti del cocainismo, il verde e il
rosso, oltre che il nero brillante (soprattutto puntinato, o in cristalli neri). Nel
nostro paziente ritroviamo il nero brillante ma soprattutto il nero opaco; il
colore oro s’incontra abbondantemente (griglie dorate, ricami dorati, vulve
d’oro, etc.) Nonostante l’oro, le immagini sono spesso, nel loro insieme,
piuttosto pallide (la cocaina sembra produrre colorazioni più vive, più spi-
ghe, forse anche più rilievo). Spesso le immagini cocainiche forano i muri o
li sopprimono, come le immagini alcoliche. Al contrario, le allucinazioni

. « D’ailleurs, la négligence excessive de leur mise mettait la méfiance en éveil. Elles


étaient vêtues de robes sordides, jadis noires, mais où les places propres faisaient taches,
baillant aux coutures, déchirées par places, rajustées avec des épingles, et fermant au moyen
d’épingles anglaises qui occupaient la place des boutons. L’une portait un chapeau de feutre
gris, d’une forme ultra–simple, mais d’un diamètre excessif; les deux autres de petits
chapeaux de crêpe, déformés, aplatis, pénétrés de poussière et tenant mal sur des cheveux
en désordre. Leurs figures avaient une expression harassée et inquiète comme si elles
venaient de faire des lieues pour échapper à un grand danger. Rangées côte à côte, elles
formaient un trio étrange. » (G  C  p. ).
Microanalisi del velo. Verso una semiotica del drappeggio 

da cloro (almeno le più numerose e le più notevoli fra di esse) sono piatte;
aderiscono così precisamente alla parete, che uno dei nostri pazienti clora-
lomani le ha definite « fatte da pittori decoratori che spariscono sempre »,
e si potrebbe designarle col nome d’immagini decorative. La loro forma è
oggetto di trovate continue; esse non si succedono mai per serie omogenee;
non hanno né l’esuberanza, né i sussulti, né il brulichio infinitesimo delle
allucinazioni cocainiche: i loro movimenti intrinseci sono lenti; il formicolio
e la vibrazione sono assenti, la loro sparizione è repentina.

Di nuovo, ciò che importa non è il valore euristico di queste osser-


vazioni, ma quello che esse testimoniano a proposito della storia del
rapporto fra esseri umani e senso. Clérambault quasi si disinteressa
del contenuto figurativo delle immagini tossiche. Ciò che suscita la sua
attenzione sono i colori, le forme, le tessiture, la topologia di queste
immagini, come se i dettagli plastici fossero in grado di rivelare verità
più profonde sul paziente e sul suo malessere.
Qui è necessario introdurre il secondo elemento della serie testuale
che ricompone la semiologia del velo di Clérambault. Non vi è ambito
nel quale lo psichiatra francese abbia esercitato il suo sguardo foto-
grafico sul livello plastico della psiche in modo più incisivo che nei
suoi studi sui tessuti. Nel  e nel  Clérambault scrisse due saggi
sulla “Passione erotica delle stoffe nella donna”, dedicati ai casi di
alcune donne arrestate per furto di stoffe e sospettate di cleptomania
(Papetti ; Castoldi ; Reudenbach ; Gatian de Clérambault
). Invece di bollarli come casi di feticismo, termine allora già in
voga e già abusato, egli intuisce, proprio attraverso l’analisi plastica

. « On a signalé, comme couleurs prédominantes dans le cocaïnisme, le vert et le


rouge, en outre le noir brillant (surtout en pointillé, cristaux noirs). Chez notre malade,
nous retrouvons le noir brillant, mais surtout le noir mat, l’or se rencontre abondamment
(grilles dorées, broderies dorées, vulves en or, etc.) Malgré l’or, les images sont souvent,
dans leur ensemble, assez pâles, la cocaïne semble produire plus de colorations vives, plus
d’arêtes, peut–être plus de relief aussi. Souvent les images cocaïniques trouent les murs ou
les suppriment, telles les images alcooliques. Au contraire, les hallucinations chloraliques
(du moins les plus nombreuses et les plus remarquables d’entre elles) sont plates ; elles
adhèrent si exactement au mur, qu’un de nos malade chloralomanes a pu les dire ‘faites
par des peintres décorateurs qui se sauvent toujours’, et l’on pourrait les désigner sous
le nom d’images décoratives. Leur forme est l’objet d’incessantes trouvailles ; elles ne se
succèdent jamais par séries homogènes ; elles n’ont ni la flamboyance, ni les sursauts, ni le
grouillement infinitésimal des hallucinations cocaïniques : leurs mouvements intrinsèques
sont lents ; le fourmillement et la vibration sont absents, leur disparition est subite »
(G  C , p. ).
 Massimo Leone

delle stoffe e soprattutto della loro “polisensorialità” — come la defi-


nirebbero i semiotici odierni — che i tessuti non sono soltanto oggetti
ma anche soggetti (Schmidt–Linsenhoff ). Anticipando, come è
stato sostenuto, certe riflessioni di Didier Anzieu (), Clérambault
sostiene che la stoffa non è un partner passivo ma carezza a sua volta la
pelle che vi si strofina; la stoffa fruscia, la stoffa stride; la stoffa riceve
e rende la carezza, oppone alle manipolazioni che le sono imposte le
resistenze del proprio carattere, la sua natura setosa o la sua rigidezza.
Ciò che Clérambault ricerca nella descrizione minuziosa del carattere
plastico e sensoriale delle stoffe si intuisce nel terzo elemento della
serie testuale, gli appunti del corso di “Estetica e drappeggio” che egli
impartì alla Scuola delle Belle Arti di Parigi dal  al . In essi si
legge: « Ho condotto il mio sforzo non soltanto alla comprensione del
drappeggio, ma alla resa esatta della piega » .
Ebbene, l’elemento centrale della serie, le centinaia di fotografie
che Clérambault scattò a due riprese in Marocco, devono essere in-
terpretate alla luce di questa dichiarazione d’intenti. Evocare, come
a volte si è fatto, il concetto di Orientalismo per spiegare l’origine
e il senso di queste fotografie sarebbe riduttivo sino alla banalità. In
realtà, collocate nella serie testuale appena costruita, queste fotografie
si rivelano come portato di un progetto intellettuale raffinato: costrui-
re un’antropologia visiva del rapporto fra gli esseri umani e ciò che
Clérambault definiva il loro “involucro vestimentario” (Girard ,
p. ). La fotografia è insieme fonte e strumento di questo progetto.
Ne è fonte perché è attraverso la dialettica fra lo sguardo umano e le
nuove possibilità semiotiche di questa tecnica espressiva che Cléram-
bault coglie, proprio come nei suoi fotografismi psichiatrici, il valore
euristico dell’istantanea, la sua capacità di cristallizzare il corpo in mo-
vimento, di congelare il fluire apparentemente caotico del drappeggio,
e dunque di concedere all’osservazione l’agio di interpretare non solo
il livello figurativo degli enti, ma anche il loro livello plastico, la trama
segreta della loro natura più intima.
D’altra parte, la fotografia è anche strumento di questo progetto
perché, a differenza del disegno, non restituisce una versione idea-
lizzata delle pieghe dell’essere ma le sorprende nel loro dispiegarsi.

. « J’ai fait porter mon effort non seulement à la compréhension du Drapé, mais au
rendu exact du pli »; citato in T  p. .
Microanalisi del velo. Verso una semiotica del drappeggio 

Figura . Gaëtan Gatian de Clérambault, foto di veli marocchini,  e 

Significative a questo proposito sono soprattutto quelle fotografie


marocchine di Clérambault ove, eliminata ogni influenza della posa, i
veli divengono soggetti quasi autonomi della scena fotografica, quasi
pazienti dell’analisi foto–psichiatrica (Fig. ).
Molti altri aspetti della vita e dell’opera di Clérambault andrebbero
approfonditi, soprattutto in relazione alla fortuna del suo progetto se-
miologico. Jacques Lacan definiva Clérambault, di cui seguì i seminari
clinici, “il mio unico maestro”; l’analisi lacaniana del drappeggio nella
Teresa in estasi del Bernini è debitrice delle fotografie marocchine
del suo predecessore ; la stessa idea lacaniana di struttura, inoltre, è
un portato della nuova attenzione che, attraverso la fotografia, Clé-
rambault prestò al livello plastico dell’esistenza . Bisognerebbe inoltre

. « Une jouissance qui ne doit rien au génital, et dont les drapés de marbre turgescents
soutenant le corps chaviré de la Sainte Thérèse du Bernin tentent de nous donner une
idée »; « Un godimento che non deve nulla al genitale, e di cui i drappi di marmo turgescenti
che sostengono il corpo capovolto della Santa Teresa del Bernini tentano di darci un’idea »]
(T  p. ).
. « Son automatisme mental avec son idéologie mécanistique de métaphore, bien
critiquable assurément, nous paraît, dans ses prises du texte subjectif, plus proche de ce qui
peut se construire d’une analyse structurale, qu’aucun effort clinique dans la psychiatrie
française » ; [« Il suo automatismo mentale con la sua ideologia meccanicista della metafora,
certamente criticabile, ci sembra, nelle sue istantanee del testo soggettivo, più vicino a
ciò che si può costruire da un’analisi strutturale, di qualsiasi sforzo clinico nella psichiatria
francese » (L  p. ).
 Massimo Leone

interpretare nello stesso contesto il metodo terapeutico di Cléram-


bault, il quale suggeriva di curare i suoi pazienti attraverso la tessitura
di stoffe, forse avendo intuito, in migliaia di istantanee diagnostiche,
che tutta l’esistenza è in fondo tessuto, e che l’alienazione non è altro
che fibra ribelle . Lo stesso Clérambault poi, affetto da cataratta, de-
scrisse la plasticità della sua visione annebbiata in un testo bellissimo,
Souvenirs d’un médecin opéré de la cataracte () e, quasi cieco, si sui-
cidò di fronte a uno specchio, circondato da manichini velati (Castoldi
).
Questo saggio però si concluderà non con un’analisi delle fotografie
di veli di Clérambault, bensì con un esempio di analisi di veli condotta
alla Clérambault. Ciò che della sua opera interessa al semiologo non è
infatti tanto l’oggetto in sé, quanto la proposta di metodo, o piuttosto
di stile.

. Un velo particolare

La fotografia Lavazza non potrebbe innescare il suo riferimento all’im-


maginario dell’italianità se non avesse sullo sfondo tutta una congerie
di immagini e discorsi accumulati, in cui i panni stesi al sole si stagliano
quale elemento centrale. Forse non esplicitamente, ma certamente
a livello di rimando implicito, la fotografia evoca una delle sequenze
più celebri del cinema italiano, quella dei “panni stesi al sole” in Una
giornata particolare di Ettore Scola () (Fig. ).
A conferma di quanto detto sinora, si applicherà adesso a questa
sequenza una sorta di “metodo Clérambault”, per dimostrare che
. Si veda Du tissage comme mode de travail pour les malades, in G  C
, p. .
. « Dans une atmosphère uniforme comme de l’eau et totalement dépourvue d’om-
bre, des personnages fantomatiques ballonnés dans des enveloppes blanches, et la face en
partie cachée, se meuvent en silence et lentement, comme dans un fluide alourdi, des
sortes de scaphandriers derrière une vitre d’aquarium ; [. . . ] les lampes et la rampe versent
sur moi une lumière fondue mais intense ; dans aucune position du regard, je ne puis les
fuir ; et je pense aux temps assyriens où l’on coupait à un prisonnier les paupières avant
de l’attacher face au soleil ; [. . . ] J’aperçois au–dessus de mon œil une ouverture circulaire
libre, toute lumineuse, comme si j’étais au fond d’un puits dont on viendrait d’enlever le
couvercle ; [. . . ] complètement dans l’obscurité, je sens mes mains saisies par des mains
délicates, celles d’une bonne sœur, qui, marchant à reculons — m’entraîne, un peu comme
pour m’apprendre une danse » (G  C , passim).
Microanalisi del velo. Verso una semiotica del drappeggio 

Figura . Fotogramma da Una giornata particolare, di Ettore Scola ()

il velo vi gioca un ruolo semantico e narrativo molto complesso,


afferrabile solo se lo si analizza nelle sue singolarità materiali. Risulterà
ancora più evidente come, sebbene la fotografia Lavazza peschi per
così dire nello stesso immaginario cui attinge la sequenza, la seconda si
distacchi dalla prima per un discorso del velo che, molto più articolato,
non si limita a riproporre un chiasmo stereotipato fra vigorosi panni
maschili e sinuosi drappi femminili, ma decostruisce lo stereotipo per
proporre una propria retorica del velo.
Il film da cui è tratta la sequenza è notissimo. Non occorre dunque
riassumerne la trama se non in poche battute. Gabriele, colto annun-
ciatore espulso dalla radio fascista per le sue tendenze omosessuali, e
Antonietta, popolana moglie di un capetto fascista e madre di sei figli,
si ritrovano da soli in un caseggiato svuotato dalla partecipazione di
massa all’adunata per la visita di Adolf Hitler a Roma, il maggio del
. L’uno cerca la compagnia dell’altra per motivi diversi: Gabriele
per sfuggire almeno per qualche istante all’isolamento che lo sta spin-
gendo al suicidio; Antonietta, per sottrarsi all’opprimente ménage in
una diversione sognata coi tratti del romanzetto rosa. Nella costruzio-
ne narrativa, la sequenza dei panni stesi corrisponde a un’agnizione
brusca: Antonietta capisce, o forse piuttosto accetta, che il suo sogno
romantico non può compiersi con Gabriele, il quale le rivela prima
teneramente, poi con rabbia di fronte alla reazione della donna, la
propria omosessualità.
Tuttavia, a questo racconto di parole, fisionomie, e gesti, il film
ne intreccia un altro che si compone, invece, di veli, e che connota
 Massimo Leone

il primo qualificandone il senso. La sequenza è caratterizzata da un


movimento dall’interno verso l’esterno: è l’unica in cui i due prota-
gonisti interagiscono all’aria aperta, sebbene su un tetto che li pone
topologicamente al di sopra delle meschinità del condominio sotto-
stante, ben rappresentate dall’occhiuta portiera. Questo movimento
di estroversione si incarna inoltre nell’attività stessa di stendere i panni
al sole, fuori dalle mura domestiche. Ciò che è privato diventa, quan-
tunque nelle particolari condizioni appena descritte, pubblico; ciò
che è intimo, espresso. Ciò che è nascosto, rivelato. A ben osservare,
poi, Gabriele e Antonietta non salgono sul tetto per stendere i panni,
bensì per rimuovere dai fili quelli asciutti. È un’ulteriore figura della
rivelazione: man mano che i due protagonisti si muovono lungo i
fili, accompagnati dall’occhio della macchina da presa, e man mano
che Antonietta raccoglie i panni asciutti, i due si scoprono nel segno
della diversità, l’uomo ironico nei confronti delle virtù del fascismo,
la donna ammaliata dalla mitologia del duce.
A questo dialogo verbale di contrasto ideologico, tuttavia, fa da con-
traltare un discorso diverso, implicito, che si manifesta non a parole
ma in una sorta di enunciazione tessile. Per coglierlo bisogna soffer-
marsi, alla Clérambault, sulle qualità specifiche di questi veli. All’inizio
della carrellata Antonietta raccoglie tre lenzuola, le cui forme astratte
ricordano quelle dei panni simbolici della fotografia Lavazza; poi però,
con impeccabile sincronia con il dialogo verbale tra i due, il discorso
del velo vira dall’astratto al concreto: nello stesso istante in cui rimpro-
vera a Gabriele di aver ironizzato sul suo album di fotografie fasciste,
Antonietta raccoglie un paio di mutandoni del marito. Quando poi
Gabriele distacca per lei meccanicamente, lungo lo stesso filo, una
canotta da donna con un vistoso buco, Antonietta altrettanto meccani-
camente nega che l’indumento le appartenga, salvo poi raccoglierlo
lei stessa quando Gabriele si sposta oltre.
La ricchezza di questa sequenza consiste proprio nel fatto che, men-
tre nel contesto narrativo della storia i due protagonisti compiono
gesti e si dicono parole che ne costruiscono la relazione fedelmente
allo stereotipo sociale che essi indossano, contemporaneamente un
discorso fatto di tessuti si avvita attorno al primo, svestendoli di questi
indumenti imposti dalla società man mano che i panni vengono rac-
colti sul terrazzo. Sono proprio quei mutandoni, in effetti, a rivelare
che l’innamoramento di Antonietta per il duce le è stato inculcato
Microanalisi del velo. Verso una semiotica del drappeggio 

Figura . Fotogramma da Una giornata particolare, di Ettore Scola ()

dal marito, ed è proprio quella canottiera bucata a narrare, a dispetto


del diniego automatico della donna, il racconto di una femminilità
abusata, misera, occultata nella vergogna. I corpi dei protagonisti si
muovono lungo i fili, e i panni stesi al sole non solo qualificano di volta
in volta l’identità intima dei personaggi, ma obbligano lo sguardo della
cinepresa a una cadenza di velamenti e rivelazioni, in un ritmo tessile
che, costruito sapientemente, culminerà poi nell’inquadratura finale
della sequenza, quando i due si ritrovano abbracciati in un tunnel
ottico composto di veli (Fig. ).
A complicare ulteriormente questo discorso del velo, si ha però
l’impressione che esso tocchi il suo apice non nel disvelamento, che
nel racconto corrisponde a un travisamento, bensì nella ri–velazione.
In un passaggio fra i più celebri della storia del cinema, Gabriele si lan-
cia su Antonietta da dietro un lenzuolo, avvolgendola, e impegnandola
in un balletto allegro, i cui passi si muovono al ritmo di una canzon-
cina cantata dallo stesso Gabriele (Fig. ). Ancora una volta, la forza
semantica della scena deriva dal sovrapporsi perfetto del discorso della
recitazione con quello tessile dei veli, il tutto armoniosamente orche-
strato dalla regia cinematografica. Antonietta stava rimproverando a
Gabriele di darle del lei, forma verbale proibita dal regime. E invece
quando il balletto velato ha inizio l’uomo le grida scherzosamente che
le darà del tu, proprio perché è in questo momento di occultamento
che i due possono incontrarsi e ballare insieme. Il lenzuolo–velo in
questo balletto non è dunque un dispositivo che nasconde, bensì uno
che rivela, o meglio che consente ai protagonisti, un po’ come nel
 Massimo Leone

Figura . Fotogramma da Una giornata particolare, di Ettore Scola ()

carnevale, di occultare le proprie maschere sociali per ritrovarsi in un


dialogo diretto, scherzoso, in cui un omosessuale e una casalinga si
ritrovano a ballare insieme via dall’oppressione fascista.
Il senso dei veli così variegati di questa scena si delinea infatti non
solo internamente alla sequenza, ma anche nel quadro del più ampio
discorso tessile orchestrato dall’intero film. Un’isotopia del velo si
dipana attraverso tutto il racconto, in un’articolazione minuziosa che
non si può descrivere esaurientemente nell’arco di un breve saggio.
Uno degli elementi che la compongono è però fondamentale per capi-
re il senso della sequenza appena analizzata. Una giornata particolare
si apre con un lungo frammento di cinegiornale che descrive l’arrivo
di Adolf Hitler a Roma, cui segue però il racconto filmico, in uno dei
piani–sequenza più complessi della storia del cinema italiano, di come
i cosiddetti Palazzi Federici si preparano ai festeggiamenti.
Ebbene, uno dei gesti essenziali di questa preparazione è quello
che consiste in un velamento simbolico del caseggiato, parte di un
più ampio e sistematico velamento della città intera, a mezzo di due
drappi molto particolari: la bandiera della Germania nazista e quella
dell’Italia fascista. La macchina da presa si sofferma con troppa me-
ticolosità sui gesti della portiera che appende e dispiega con cura i
due drappi (Fig. ), perché questo non sia un invito per lo spettatore
a cogliere la rima cinetica con un gesto simmetrico e opposto, quello
di Antonietta che rimuoverà i panni dal tetto del caseggiato (ove del
resto compare, quasi fugace rimando visivo alla sequenza iniziale, uno
scampolo di bandiera nazista) (Fig. ). Il sistema semi–simbolico che
Microanalisi del velo. Verso una semiotica del drappeggio 

Figura . Fotogramma da Una giornata particolare, di Ettore Scola ()

Figura . Fotogramma da Una giornata particolare, di Ettore Scola ()

si indovina in questa opposizione è cristallino: mentre la portiera vela


la facciata pubblica del condominio ammantandola con i simboli del
fascismo e del nazismo, nella facciata privata dello stabile, quella dove
i protagonisti si ritrovano da soli sotto il cielo di Roma, al velamento
pubblico corrisponde un velamento privato, in cui i ruoli imposti
dalla dittatura sono occultati per rivelare, invece, l’umanità sottostante,
quella repressa dai fascismi.
Uno sguardo alla Clérambault su Una giornata particolare e sul suo
straordinario racconto tessile conferma dunque che una semiologia
delle singolarità, attenta alle pieghe minute della stoffa significante,
può cogliervi non solo le patologie della psiche individuale, ma anche
quelle della psiche culturale, i sintomi di una società che si veste di
indumenti violenti e reprime l’umanità in una mascherata grottesca.
 Massimo Leone

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VELAMENTI DELLO SGUARDO: IL VELO TRA


SPARIZIONE ED ESIBIZIONE

VOILEMENTS DU REGARD : LE VOILE ENTRE


DISPARITION ET EXHIBITION
Il sistema del velo / Système du voile
ISBN 978-88-548-8838-8
DOI 10.4399/97888548883888
pag. 155–194 (gennaio 2016)

Le lever du voile
Voir, être vue, se montrer : le costume féminin
à Venise et Padoue (–)∗

H  R

English Title: Lifting the Veil. To See, to Be Seen, to Show Oneself: Women’s Costume in Venice
and Padua (–).

A: This essay explores the cultural role played by women’s costume in Venice
and Padua in the late s, as portrayed in two alba amicorum — the Mores Italiae MS
 and the Egerton MS  — as well as in Cesare Vecellio’s costume book Degli habiti
antichi, et moderni di diverse parti del mondo. The study of the illustrations in these works
emphasizes the gaze dynamics likely to emerge between a male observer and a female
figure veiling and unveiling herself.
Both the veils themselves and the interplay they evoke compose various levels of opacity
and transparency. This variation helps define feminine identity by fixing women’s social
class and, above all, their civil status: maiden, lady, widow, and courtesan. Yet, among
them, the courtesan, queen of disguise, constitutes a subversive figure, an element of
transgression who takes advantage of this visual play without breaking away from it.

Keywords: Lifting the Veil; To See and to Be Seen; Transparence and Opacity; Women’s
Costume; Feminine Identity.

Le Mores Italiae (MS ) est un album amicorum français, propriété


d’un étudiant plausiblement breton, à l’Université de Padoue vers ,
aujourd’hui conservé à la Beinecke Library de la Yale University, et
contenant  images représentant des costumes italiens, principale-
ment de Venise et Padoue, des scènes de la vie quotidienne ainsi que
deux cartes de Venise . Les alba amicorum sont devenus populaires

Je tiens à remercier ici Zeuler R. de Lima et Marie–Judith de Riedmatten pour leur
relecture du texte et leurs précieux conseils.
. L’origine de l’attribution du titre Mores Italiae — “Mœurs Italiennes” — à cet album
amicorum demeure un mystère. Il est probable qu’elle soit plus tardive. Pour de plus
amples informations sur la fortune de cet album à travers les siècles ; sa réorganisation
interne ; sa reliure, sans doute sur la base de feuillets volants, qui résulta probablement en


 Henri de Riedmatten

dès la seconde moitié du Cinquecento, du fait de l’accumulation d’étu-


diants dans les grandes universités italiennes — l’université de Padoue
accueillait dans les années  du XVIe siècle des étudiants de toute
provenance et connut un pic d’environ  étudiants à cette même pé-
riode (Grendler , Finucci , p.  ; Rosenthal , pp. –) —
ainsi que des premiers voyageurs européens que l’on pourrait décrire
comme touristes. Les alba étaient fréquemment offerts à l’étudiant, au
touriste intellectuel, au pèlerin, au marchand, à l’homme d’armes qui
s’apprêtaient à voyager à l’étranger pour se confronter à de nouvelles
expériences d’ordre financier, politique ou éducatif. Durant le temps
passé à l’étranger, ces cahiers se rempliraient progressivement d’une
grande variété de documents et de curiosités : copies de blasons, au-
tographes rédigés par des amis, professeurs ou personnages célèbres,
devises, dessins et aquarelles que l’on pouvait se procurer dans les mar-
chés locaux ou commander à quelque miniaturiste renommé. Parfois
ces images étaient reproduites par le propriétaire même de l’album,
suivant un prototype en vente auprès de marchands d’estampes, de
papeteries (cartoleria) ou même dans la rue. Une fois de retour dans
son pays, le voyageur était ainsi en mesure de montrer à ses amis
et ses proches les illustrations collectées par lui, ou offertes, lors de
son séjour . En effet, Venise est à cette époque la destination la plus
prisée et à la mode pour les étrangers, le lieu à voir et où être vu. Le
voyageur écossais William Lithgow qui séjourne à Venise en 
rappelle, tout en acquiesçant, que les Italiens ont coutume de dire que
l’Europe est la tête du monde, L’Italie la face de l’Europe et Venise
l’œil de l’Italie (Lithgow , f.  ; Finucci , p. ).
Le Mores Italiae nous révèle une société urbaine hétérogène où co-
habitent les êtres les plus divers, de la Dogaressa aux riches marchands
orientaux en passant par les courtisanes. Or, en explicitant visuelle-
ment leur costume, geste, origine et mouvement dans la sphère privée

l’élimination de citations, emblèmes et pages vierges qui sont autant de caractéristiques


des alba amicorum ; sa nouvelle pagination — les folios sont numérotés jusqu’à , bien
au–delà des  images qu’il contient aujourd’hui — de même que sa composition actuelle,
voir M () ; S (), pp. – ; F (), pp. –et p.  note  ;
B (), pp. –.
. Cf. R () ; N () ; R () ; W (), pp.
– ; R () p.  ; F, (), pp. –; F et R B (),
pp. – ; Rippa B (), pp. –; R ().
Le lever du voile 

comme publique, il inscrit chacun de ces individus au sein d’une no-


menclature précise et hiérarchisée, visant à faciliter à son détenteur
étranger l’accès à leur identité respective, leur appartenance sociale et
leur rôle au sein de la communauté. Une telle entreprise classificatrice,
forme d’enquête proto–sociologique reposant sur l’apparence, peut
en outre faire office de manuel d’instruction, de guide à l’usage du
voyageur ou étudiant étranger en vue de lui éviter peut–être toute
forme d’inganno et de confondre un professeur avec un marchand ou,
pire encore, une noble vénitienne avec une courtisane (Rippa Bonati
, p. ; Finucci , p.  et pp. –).
Il convient cependant d’observer que les images du Mores s’avèrent
très similaires à celles d’un autre album qui lui est contemporain et
participe du même contexte social, culturel et intellectuel : l’Egerton
MS , aujourd’hui à la British Library. Les illustrations de ce dernier
furent rassemblées entre  et  par son propriétaire Sigismund
Ortel de Nuremberg alors étudiant en droit à l’Université de Padoue .
Par exemple le Forastiere (Fig. –), illustration qui semble évoquer
la figure de l’étranger idéal : un jeune non vénitien coiffé d’un cha-
peau à plume, d’un pourpoint garni d’un panseron — sorte de panse
proéminente factice — à la française, de culottes à la Sévillane et de
chaussures de cuir “balafré” d’inspiration germanique. Il a une épée
sur le côté, en écho à la mode estudiantine de porter des armes, et se
promène en compagnie d’une charmante jeune femme vêtue de rose
s’appuyant sur lui . L’on remarquera que les illustrations de l’Egerton
affichent fréquemment un blason sur leur bord supérieur droit ainsi
que des textes et signatures autographes. Ceux–ci sont de la main
d’amis étudiants eux aussi en provenance de pays germaniques, ac-
compagnés de leurs armoiries familiales dont la réalisation se faisait
peut–être à leurs propres frais .

. R () ; F (), p.  ; R () ; R ().


. F (), pp. – ; M (), f.  ; R B (), p. ; R-
 (), pp. – et f.  p. . Rosenthal précise que la figure du Forastiere n’apparaît
dans aucun livre de costumes imprimé de l’époque.
. Cf. R (), pp. – ; W (), p. ; R (), pp.
–. Le modèle initial de telles compilations semble avoir été l’extrêmement populaire
Emblemata d’André Alciat, initialement paru en latin à Augsbourg en puis riche d’envi-
ron  rééditions, dont de nombreuses traductions en langue vulgaire parallèlement aux
édition latines, jusqu’à la fin du e siècle : A (). Voir aussi à ce sujet A (),
pp. – [Préface], F, (), p.  et p.  note  ; R (), p. .
 Henri de Riedmatten

Figure . Un Forastiere, Beinecke MS , Mores Italiae, f.  [ changé en ],


c., aquarelle et gouache, New Haven, Yale University, Beinecke Rare Book and
Manuscript Library
Le lever du voile 

Figure . Forestiere, MS Egerton , f. , –, aquarelle et gouache, Londres,


British Library. © The British Library Board, MS Egerton 

Ainsi, l’on assiste à une sorte d’uniformisation visuelle qui s’opère


au sein de l’image, d’une esthétique propre aux alba, porteuse de re-
présentations stéréotypées de la société vénitienne de l’époque. Cette
standardisation d’ordre iconique semble par ailleurs rendre compte
d’une volonté de la part des ses concepteurs — parmi eux dessina-
teurs, graveurs, miniaturistes — de fixer le mode de perception que
 Henri de Riedmatten

les voyageurs étrangers avaient des autochtones italiens tout en leur


concédant les représentations croustillantes qu’ils souhaitaient y voir
présentées, répondant ainsi au mieux à leurs fortes attentes et à leurs
projections fantasmées de la figure de l’autre. Ces images–types sont
donc susceptibles d’embrasser la façon dont l’Italie et surtout les Véni-
tiens désirent être perçus — riches, à la dernière mode, dévots mais
pas trop, attentifs aux distinctions de classe, parfaitement introduits
dans leurs carrières, à l’aise dans leur rôle social et sexuel — et celle
dont les voyageurs, de sexe masculin, souhaitent la percevoir : le faste
des villes, le luxe de l’habillement, la beauté des femmes, les nom-
breuses courtisanes, entremetteuses et autres situations licencieuses
(Finucci et Rippa Bonati , pp. –; Finucci , p.  et pp. –).
De même en feuilletant le Mores Italiae et en épousant le regard
du jeune intellectuel venu à Padoue pour y entreprendre aussi, pa-
rallèlement à ses études, les expériences propres à la vie d’un jeune
homme de l’époque, l’on conçoit qu’il s’agit ici surtout de femmes,
qui se voilent et se dévoilent (Fig. ).
Le Mores Italiae fait preuve d’une curiosité certaine pour les Don-
zelle, les jeunes filles de bonnes familles à marier, objets de convoitise
des plus précieux, alliant beauté et jeunesse, d’autant plus qu’elles
ne sortaient qu’en de rares occasions dans la rue ou autres espaces
publics — jalousement gardées et surveillées de près par leurs parents
ou leur suite en vue de préserver leur virginité. De telles illustrations
démontrent toutefois l’intérêt qu’elles pouvaient susciter auprès de
jeunes étudiants, prêts à braver les plus grands interdits. La Donzella
Venetiana a le visage, les cheveux et les épaules complètement recou-
verts d’un long et épais voile de soie noire, la cappa venetiana — le
noir évoquant le statut d’autochtone plus que de deuil à Venise, Rome,
Bologne et Florence à cette période. De même sa robe de couleur
noire recouvre la partie inférieure de son corps (Finucci , p.  ;
Masiero , f.  ; Rosenthal , pp. –; Rosenthal et Jones
, p. ).
Un élément saute immédiatement et littéralement aux yeux : sa
poitrine généreuse et remontée est offerte à la vue de tous. En effet le

. Par exemple à l’occasion des services religieux ou encore lors de festivités publiques.
Cf. V (), f.  p.  ; R et J , pp. – [Introduction] ; F
(), p. .
Le lever du voile 

Figure . Una Donzella Venetiana, Beinecke MS , Mores Italiae, f.  [ changé
en ?], c. , aquarelle et gouache, New Haven, Yale University, Beinecke Rare
Book and Manuscript Library

décolleté de son corsage, orné d’un lacet de fil d’or en forme de fente


et finissant en volant de dentelle noire et blanche, nous dévoile ses
seins nus. Une fois passé le premier moment de stupéfaction, si l’on
s’empresse de feuilleter l’album à la recherche d’une confirmation ou
infirmation visuelle, l’on s’aperçoit rapidement que toutes les Donzelle
de Venise et Padoue (Fig. ) qui ornent le Mores Italiae, comme par
 Henri de Riedmatten

Figure . Una Donzella Padovana, Beinecke MS , Mores Italiae, f.  [], ,
aquarelle et gouache, New Haven, Yale University, Beinecke Rare Book and
Manuscript Library

ailleurs l’Egerton (Fig. ), répondent d’une façon ou d’une autre à cette
représentation improbable et paradoxale, voilant la face et révélant le
buste.
Au vu des illustrations qui composent ces deux alba amicorum, une
telle mode ne semble pas être uniquement le propre des Donzelle . De
nombreux témoignages écrits attestent aussi de la réalité urbaine de
cette vision. A titre d’exemple, Jacques de Villamont, gentilhomme
. Cf. F (), pp. – ; M () ; R (), pp. – ;
R (), pp. –.
Le lever du voile 

Figure . Donzella Padoana, MS Egerton , f. , –, aquarelle et gouache,


Londres, British Library. © The British Library Board, MS Egerton 

du pays de Bretagne et chevalier de l’ordre de Jérusalem, nous relate


en effet dans ses récits de voyage publiés en  que les Vénitiennes
exposent clairement leurs seins, et ce presque jusqu’à l’estomac! De
même dans le récit des pérégrinations qu’il entreprit en Italie en ,
et publié en , l’excentrique voyageur anglais Thomas Coryate
détaille plus encore, non sans s’avouer quelque peu indisposé, cette
étonnante coutume vénitienne qui semble toucher presque toutes
les femmes, qu’elles soit mariées, veuves ou encore sous la tutelle de
 Henri de Riedmatten

leurs géniteurs :
Almost all the wives, widowes and mayds do walke abroad with their
breastes all naked, and many of them have their backes also naked even
almost to the middle, which some do cover with a slight linnen, as cobwebbe
lawne, or such other thinne stuffe: a fashion me thinkes very uncivil and
unseemly, especially if the beholder might plainly see them. For I believe
unto many that have prurientem libidinem, they would minister a great
incentive & fomentation of luxurious desires. Howbeit it is much used both
in Venice and Padua.

D’autres signes résiduels de nudité parviennent à s’extraire de


cette chape noire et à se montrer au spectateur (Fig. ) : les mains
sont dénudées et tiennent avec élégance une paire de gants de cuir
rouge, en les serrant de leurs doigts. Une telle exhibition n’est en rien
anodine en ce que la main est la première, et peut–être l’unique, partie
du corps que le spectateur masculin — étudiant ou voyageur — peut
espérer atteindre dans la quête de ce qu’il convoite. Au bas de sa robe,
l’on voit apparaître ce qui nous semble la pointe d’une chaussure,
mais pourrait aussi éventuellement s’avérer une simple ondulation
du vêtement non peinte par l’illustrateur. Enfin, la posture de trois
quarts de la jeune fille, selon la ligne des épaules et des bras, et l’arc
convexe qui se forme sur sa hanche droite, nous laissent subodorer,
malgré l’ampleur du tissu, le déhanchement d’un corps qui, de ce fait,
se met délibérément en spectacle, d’un corps qui, bien que fortement
occulté, entend se faire voir. La Donzella Padovana au sein du Mores
Italiae (Fig. ) répond en de nombreux points à cette mise en scène,
si ce n’est une pointe de couleur rouille au niveau du corsage et des
manches ainsi qu’un voile de soie légèrement moins opaque qui laisse
transparaître les contours de son visage, le blond vénitien — blond
mélangé d’une teinte de roux — de ses cheveux et le rouge de ses
lèvres, autant d’atours qui ne pouvaient laisser insensibles nos jeunes
étudiants étrangers. Ici le bas de la robe semble non fini et il n’est
point de chaussures apparentes.
Ces deux figures engagent en définitive un dispositif pour le moins
étrange d’exhibitionnisme et de voyeurisme : elles se montrent — et
. C (), p. . Cf. aussi S (), p. . Voir V (), livre
, pp. –. Le passage est cité dans : R (), pp. –. Sur ce sujet, voir
aussi R  pp. – ; R B (), pp. – ; F (), pp. –.
Le lever du voile 

montrent plus précisément deux zones d’attraction forte que sont la


poitrine et les mains — au spectateur masculin afin d’être regardées
par lui. Elles sont de même en mesure, à travers leur voile, de voir ce
dernier en train de les regarder. Le spectateur en revanche, attisé par
la vision des parties qui lui sont dévoilées, ne peut cependant voir leur
visage et ainsi établir de véritable contact visuel. LesDonzelle peuvent
donc voir et se montrer, sans être à proprement parler vues . Or, si
l’œil du spectateur est en premier lieu stimulé par ce qui lui est donné
à voir, et en tire un plaisir certain, il se peut éventuellement en un
second moment que l’interdit d’accès au visage, ici promulgué, résulte
en une accentuation de son état d’excitation, qui le fera convoiter d’au-
tant plus l’objet de son désir . Cependant, il faut bien avouer que le
schéma contemporain de société européenne nous a plutôt habitués
à un processus d’ordre inverse : un visage qui s’offre publiquement
et d’autres attraits connotés sexuellement — représentés ici par la
poitrine — qui se recouvrent, et non le contraire. Mais si le voile a ce
don de marquer une insistance focale sur la partie que l’on prétend
couvrir, une telle situation qui voile le visage et dévoile la poitrine
aurait donc pour effet de se focaliser sur le regard, de montrer le regard,
de souligner son action en quelque sorte . Le spectateur–sujet serait
ici encombré par ce regard qui le met à nu et auquel il ne peut ré-
pondre. Il se sait vu alors qu’il contemple cette poitrine mais ne peut
rencontrer ce regard qui scrute le sien.
Il faut cependant rappeler ici que les alba amicorum étaient assem-
blés à cette époque par des hommes pour des hommes exclusive-
ment . La dynamique des regards qui s’instaure entre le spectateur

. Cf. V (), f.  p.  ; R et J (), pp. – [Introduction].
Cf. aussi infra note . Coryate souligne de même que l’on peut au mieux espérer entrevoir
leur visage : « [. . . ] you can very seldome see her face at full when she walketh abroad,
though perhaps you earnestly desire it, but only a little glimpse thereof. » (C , p.
).
. Concernant les trois voies ici décrites — voir, être vu, se montrer — notre interpré-
tation repose sur les écrits de Freud sur la pulsion scopique. Voir à ce sujet F (),
pp. –, pp. – et pp. – ; F (), ici pp. –. Cf. aussi dans ce contexte
le texte du séminaire XI de Lacan sur « la pulsion partielle et son circuit », in : L (),
pp. –.
. Pour un approfondissement de la question de la fonction du regard, notamment
dans le contexte du regard comme objet de la pulsion scopique, l’on peut se référer au texte
du séminaire XI de Lacan sur « la schize de l’oeil et du regard », in : L (), pp. –.
. Ce n’est que vers , lorsque les illustrations de blasons et de figures tendent
 Henri de Riedmatten

masculin et la figure féminine représentée témoigne d’une interaction


qui demeure naturellement conditionnée par le cadre établi d’une
structure sociale patriarcale. L’on serait cependant en droit de se
demander si au sein de ce dispositif visuel intrigant, qui refuse la
réciprocité des regards au spectateur — comme dans d’autres effets
que les alba exposent et que nous aurons le loisir d’observer par après
— ne s’inscrit pas aussi la représentation de l’exercice d’un pouvoir
féminin à même de déjouer parfois les règles propres à un univers
patriarcal.
Mais peut–être comprend–on mieux l’enjeu de telles représenta-
tions si nous les abordons non pas seulement dans les termes d’une
économie érotique, mais encore dans le cadre d’une problématique
plus vaste de l’identité publique. Or, c’est bel et bien le visage qui
en premier lieu confère à l’individu son identité. Et si le visage se
présente le plus souvent comme la seule partie dénudée du corps c’est
précisément parce qu’il est à même de dévoiler le moi de l’individu et
d’assurer pratiquement à lui seul l’identité de la personne. Il nous faut
donc en déduire que si les jeunes Donzelle au sein de l’espace public
ont un visage voilé, c’est parce qu’elles n’ont pas encore d’identité
individuelle clairement attribuée. Si, dans la sphère privée qui parti-
cipe de l’autorité parentale dans un système patriarcal, elles peuvent
aller à visage découvert, ce n’est qu’une fois mariée qu’elle pourront
accéder au privilège de l’identité publique déterminée, identité par
ailleurs participative plus qu’individuelle, en ce qu’elle est totalement
tributaire de celle de leur époux.
Cependant les alba amicorum ne sont en aucun cas le lieu de l’iden-
tité individuelle ou de la singularité des visages. Les faciès qui par-
sèment les autres illustrations répondent en effet à des profils–type.
L’identité présente au sein des alba est avant tout une identité de
costumes et d’attitudes, témoins de l’appartenance à différents statuts
et classes constitutifs d’une société strictement hiérarchisée et patriar-
cale. Ainsi le voile opaque qui recouvre les visages des Donzelle définit
ces dernières comme n’ayant pas encore rempli le rite de passage
requis en vue d’accéder à un statut ultérieur, sujet à d’autres règles

à disparaître au profit de citations poétiques, que l’on voit apparaître des alba amicorum
compilés par des femmes. Cf. F (), p. .
Le lever du voile 

vestimentaires .
Dans le contexte d’une anthropologie du voile, il faut mentionner
qu’à la même époque se répand dans toute l’Europe la mode des
livres de costumes imprimés — les premiers voyant le jour à Venise.
Ils sont une source visuelle majeure du vêtement dans le quotidien
de la Renaissance, et se voient diffusés dans un contexte bien plus
ample que le milieu intellectuel et académique d’où émergent les alba
amicorum. Ils répondent en effet à un véritable mouvement de ferveur,
désireux de collecter des informations sur les cultures et régions du
monde à travers leurs us et coutumes vestimentaires. Ces différents
livres de costumes proposent nombre d’illustrations, présentant habi-
tuellement la mode contemporaine des nations de l’Europe et d’autres
populations, par exemple d’Asie, d’Afrique et d’Amérique. L’Italie et
les femmes qui peuplent ses différentes régions s’y trouvent générale-
ment largement représentées. Entre  et , pas moins de douze
livres de costumes paraissent en Europe, et six d’entre eux connaissent
rapidement de multiples rééditions, dont le précieux Degli habiti anti-
chi, et moderni di diverse parti del mondo, de Cesare Vecellio — cousin
de Tiziano Vecellio et collaborateur de son atelier — paru à Venise
en , qui consacre un volume entier aux différentes cités d’Italie.
Vecellio se penche non seulement sur la mode contemporaine mais
aussi sur celle des siècles précédents et propose ainsi une histoire du
costume. L’originalité de sa démarche consiste notamment en ce qu’il
accompagne systématiquement ses gravures sur bois représentant les
costumes de commentaires précis, d’une richesse sans égale, sur la
signification du vêtement, le textile et sa coupe, en quelle occasion
il est porté ou à quelle classe sociale il renvoie. Il se penche de plus
sur les anecdotes, accessoires et soins de beauté que les femmes, en
particulier les Vénitiennes, prennent plaisir à se prodiguer. De ce fait
Vecellio instaure un véritable vocabulaire de la mode qui influencera

. Cf. V (), f.  p.  ; R et J (), p.  et pp. –.
[Introduction]; F (), pp. –; F et R B (), p.  ; R
(), pp. –. La vertu de la Donzella se voit ainsi soulignée par l’invisibilité publique
— du visage notamment — que lui assure son vêtement. Cette dernière peut en revanche
voir à défaut d’être vue. Pour la question du vêtement à la Renaissance comme support
matériel de mémoire, producteur d’identité et indice de relation sociale porté à même le
corps, en dépit des changements rapides de la mode, voir J et S (), ici
pp. –.
 Henri de Riedmatten

durablement tous les livres de costumes qui lui feront suite .


La Donzella Venetiana de Vecellio porte aussi la cappa qui lui couvre
le visage et — comme il le relève — lui permet de voir sans être vue
(Fig. ). En revanche, ses mains sont gantées et son décolleté est bien
plus réservé :

[Donzelle, et Fanciulle di Venetia]

E di somma & notabile honestà l’uso, & l’instituto d’allevar le donzelle


Nobili in Venetia; perche sono cosi ben guardate & custodite nelle case
paterne, che bene spesso nè anche i più stretti parenti le veggono, se non
quando elle si maritano. Et non è da tacere, che molte di loro fino à quel
tempo del maritarsi, confermandosi con riverente ubidienza alla volontà
de’ genitori, se ne stanno senza ornamento veruno. Queste, quando già
cominciano ad esser grandicelle, vanno rarissime volte fuor di casa, & quasi
non mai, se non per andare alla Messa, & ad altri Ufficii divini in Chiesa. Et
allhora portano in testa un velo di seta bianca, ch’esse chiamano fazzuolo,
d’assai ampia l’arghezza, & con esso si coprono il viso, e’l petto. Portano in
questo tempo pochi ornamenti di perle, & qualche picciola collana d’oro di
poca valuta. Le sopraveste di queste sono la maggior parte di color rovano
ò nere, di lana leggiera, overo ciambellotto, ò altra materia di poca valuta,
benche sotto vadano vestite di colore: & vanno cinte d’uno di quei retini di
seta, ch’esse chiamano poste. Ma quando poi sono venute alla perfettione
di grandezza vanno vestite tutte di nero con un fazzuolo chiamato cappa,
di seta finissima, molto amplo e grande, fisso & stoccato, che è di molta
valuta, cosi si coprono il viso, che non sono vedute, & veggono gli altri;
ma le Nobili, e grandi rare volte vanno fuori di casa, salvo che le principali
Feste, & giorni santi.

L’auteur nous relate que les jeunes filles vénitiennes dans leur prime
jeunesse, les très rares fois où elles sortent, portent un ample voile de
soie blanche qui couvre leur visage et poitrine. Ce n’est qu’une fois
adulte que la Donzella porte à l’extérieur la cappa, long voile de soie

. Cf. F (), p.  et p.  note ; R (), pp. –; R et
J (), pp. – [Introduction]. La première édition du livre de V (c. –
c. ), parue en  (Degli habiti antichi, et moderni di diverse parti del mondo, Venetia,
Damian Zenaro) comprend une anthologie de costumes, riche de  gravures sur bois,
couvrant l’Europe, l’Asie et l’Afrique. La seconde, de  (Habiti antichi e moderni di tutto il
mondo, Venetia, Sessa), inclut une nouvelle section sur les Amériques et propose désormais
 gravures sur bois. Peintre lui–même, Cesare Vecellio est en outre un proche parent du
peintre le plus célèbre du clan Vecellio, le Titien, avec lequel il travailla.
. V (), ff. – pp. –. Voir aussi C (), p. .
Le lever du voile 

Figure . Donzelle gravure sur bois, in : Cesare Vecellio, Degli habiti antichi, et
moderni di diverse parte del mondo, f. , , édité par Jones et Rosenthal (), p.


noire. La gravure que Vecellio lui consacre la représente ainsi.


Il propose en outre une figure intermédiaire, entre la Donzella et
la Sposa, figure absente du Mores Italiae et de l’Egerton : la Sposa non
sposata (Fig. ). Cette dernière, plus enveloppée encore, est accompa-
gnée d’une suivante qui observe le lecteur avec vigilance. Le dispositif
scopique précédent, engageant voyeurisme et exhibitionnisme, se voit
donc reformulé, par la présence d’un tiers parmi ce faisceau de regard
(Vecellio , f.  p. ).
En revanche le dessin s’est assagi au sein des livres de costumes, et
les poitrines plus suggérées que révélées restent en place dans leur cor-
sage, selon toute convenance et loin de toute exubérance. Le contraste
est plus explicite encore au vu des représentations de Gentildonne,
 Henri de Riedmatten

Figure . Spose non sposate, gravure sur bois, in : Cesare Vecellio, Degli habiti antichi,
et moderni di diverse parte del mondo, f. v, , édité par Jones et Rosenthal (),
p. 

femmes mariées de classes sociales élevées. En effet la Gentildonna


Venetiana du Mores Italiae (Fig. ) porte tous les accessoires de la garde–
robe d’une figure de ce rang : une robe de velours bleu au décolleté
profond partiellement couvert d’un collet brodé et relevé ; le corsage
épousant la taille, souligné d’une colana in sbara, ceinture annelée ici à
double pendant ; un voile d’un tissu rayé transparent tombant dans le
dos, délicatement fixé sur la chevelure toute en bouclettes qui encadre
le front. Son cou est orné d’un collier de perles et d’une chaîne d’or
terminée par un médaillon serti de pierres précieuses : rubis, saphir,
diamant. Sa main tient un éventail de plume qui lui aussi est suscep-
tible de participer à ce jeu constant de monstration et d’occultation
Le lever du voile 

Figure . Una Gentildona Venetiana, Beinecke MS , Mores Italiae, f.  [ changé
en ], c. , aquarelle et gouache, New Haven, Yale University, Beinecke Rare
Book and Manuscript Library

(Masiero , f.  ; Rosenthal , pp. –). La Gentildonna mo-


derna de Vecellio participe du même style vestimentaire, exception
faite de l’échancrure et de l’exhibition de la poitrine (Fig. ). Pourtant
l’auteur concède lui–même plus d’une fois par écrit l’existence d’une
mode particulièrement suivie à Venise de l’“espoitrinement” (Cam-
pana , pp. –). Mais jamais ses figures féminines ne rendent
compte de ce fait avéré ; tout au plus le trait se hasarde–t–il parfois à
suggérer le décolleté, à signaler l’entre–deux–sein .
Cette réserve, du reste aussi perceptible dans les autres livres de
costumes de l’époque, est donc une affaire plus picturale que tex-

. Voir à titre d’exemple, parmi les images des courtisanes, V (), f.  p. 
et f.  p. .
 Henri de Riedmatten

Figure . Gentildonna Moderna, gravure sur bois, in : Cesare Vecellio, Degli habiti
antichi, et moderni di diverse parte del mondo, f. , , édité par Jones et Rosenthal
(), p. 

tuelle. Ceci peut s’expliquer en ce que le livre de costumes se veut


une entreprise de codification visuelle du système comportemental et
vestimentaire d’une société entière, couvrant les différentes régions
d’Europe et du monde. Sa portée et diffusion sont par ailleurs extrê-
mement vastes et l’on peut aisément imaginer que de tels ouvrages se
voyaient dès les premiers instants politisés dans le choix des vêtements
à exposer, dans le respect des lois somptuaires décrétées par les auto-
rités pour rendre visible l’ordre social et réfréner toute surenchère
ostentatoire, et enfin dans leurs velléités encyclopédiques. Ainsi, le
Mores Italiae et les autres alba de l’époque sont un exemple visuel plus
Le lever du voile 

ancien — le boom des livres de costumes prend place dans les années
 du Cinquecento — et surtout plus immédiat de la culture de rue à la
Renaissance : réalisés en couleur, aquarelle et gouache , ils sont aussi
susceptibles d’enregistrer plus facilement les changements fréquents
de la mode, dénués de la touche moraliste dont s’imprègnent parfois
les commentaires et illustrations des plus officiels livres de costumes .
Vecellio fait par ailleurs état de sa confusion et de sa difficulté à suivre
les changements fréquents de la mode féminine. Le goût féminin
varie selon lui plus sûrement et fréquemment que les phases lunaires
et à peine décrit–il un style vestimentaire que celui–ci risque de se voir
déjà dépassé. Ainsi il lui est impossible de rejoindre une description
qui puisse tout englober :

[Gentildonna Venetiana Moderna]

Perche gli Habiti donneschi sono molto soggetti alla mutatione, & variabili
più che le forme della Luna: non è possibile in una sola descrittione metter
tutto quello che se ne può dire. Anzi più tosto si deve temere, che mentre
io sto scrivendo un foggia, esse non dieno di mano à un’altra, onde mi sia
impossibile abbracciare il tutto.

Revenons à la représentation du voile au visage. Il est manifeste


que la Donzella et la Gentildonna en signalent les deux pôles (Fig.  ; ) :
un voile opaque qui obstrue toute forme d’accès au visage et un voile
retiré, tombant sur l’arrière, absent de la relation optique qui s’institue
entre le spectateur et le visage féminin. Il existe cependant di fférents
degrés intermédiaires de la représentation en voile, curieusement
rassemblés sous une même espèce, de laquelle on serait en droit
d’attendre une certaine austérité : celle de la veuve .
La Venetiana da Duolo, la Vénitienne en deuil du Mores (Fig. )
est pourvue d’un voile diaphane traversé de rayures plus foncées et
. Voir entre autres R (), p.  ; F (), pp. –; R  et
F  p.  ; R et J (), p.  [Introduction].
. Cf. R (), p.  ; W (), p.  et  ; F et R B
(), p.  ; F (), pp. – ; R (), pp. –; R (), pp.
–.
. V (), f.  p. . L’on dénote entre les lignes une certaine anxiété de la
part de l’auteur au sujet du caractère nécessairement éphémère et rapidement obsolète de
ses descriptions. Voir à ce sujet R (), p. .
. Voir aussi M (), f. .
 Henri de Riedmatten

probablement confectionné en Buratto, un mélange de soie et de laine


— ces deux facteurs venant atténuer quelque peu la transparence du
vêtement (Masiero , f. ). Ainsi se manifeste l’expression lascive
du regard qu’elle jette au lecteur, renforcée par le geste éloquent de
sa main gauche et le bord inférieur du voile qui épouse le contour
de sa poitrine. Le voile — une cappa de soie — de la Vénitienne en
deuil de l’Egerton a par contre déjà libéré le visage de sa présence et
se contente d’en recouvrir les cheveux (Fig. ). Le regard se fait tout
aussi accueillant alors que de ses mains elle tient d’une part ses gants
et d’autre part un fazzoletto de soie blanche, synonyme de raffinement
et de distinction.
La Padouane en deuil du Mores (Fig. ) a, elle, un léger voile
rabattu et fixé sur ses cheveux eux–mêmes rassemblés en un chignon
maintenu par une résille ; son cou est orné d’un collier de perles. Mais
il est tout de même quelques exemples de pratique vestimentaire plus
stricte regardant la période du deuil, au sein du même album, dont
par exemple celui d’une veuve de Padoue (Fig. ), d’un âge semble–
t–il plus canonique, dont le voile couvre coiffe et épaules et laisse le
visage libre. (Finucci , p.  ; Masiero , f.  et f.  ; Rosenthal
, pp. –). Il ne faut d’ailleurs pas s’étonner de la fréquence
d’images de veuves ou relatives à la mort dans le Mores Italiae, témoin
d’une période au taux de mortalité élevé, surtout si l’on considère
l’épidémie de peste frappant Venise puis Padoue dès l’été. (Preto
 ; Grendler , p.  ; Rippa Bonati , p.  ; Finucci , p.
 et p. ).
Or, la veuve de Vecellio se montre bien plus austère (Fig. ).
Fuyante, elle nous tourne le dos et ne risque qu’un furtif coup d’œil,
alors que ses cheveux sont entièrement recouverts d’un voile sombre.
Elle tient un livre de prières dans ses mains gantées. Vecellio insiste
dans son commentaire sur la sobriété et le sérieux des veuves de Ve-
nise qui, à la mort de leur mari, abandonnent toute vanité et parure
du corps. Elles parcourent les rues tristement, têtes baissées et sont
toutes vêtues de noir, à la maison comme en extérieur. Uniquement
en fin de deuil, lorsqu’elles décident de se remarier, se risquent–elles
alors à porter quelques bijoux en toute modestie et laissent–elles ap-
paraître à nouveau leur chevelure, en vue de clarifier leurs intentions
(Vecellio , f.  pp. – ; Rosenthal , pp. –).
Nous pouvons donc constater que les voiles de ces veuves scandent
Le lever du voile 

Figure . Una Venetiana da Duolo, Beinecke MS , Mores Italiae, f.  [?], c.
, aquarelle et gouache, New Haven, Yale University, Beinecke Rare Book and
Manuscript Library

divers niveaux d’opacité et de transparence entre les deux pôles de


présence et d’absence radicales du voile que constituent la Donzella et
la Gentildonna au sein d’une telle gamme visuelle. Dans ce contexte,
l’on peut tenter ici une analogie avec le système de signification de la
mode qu’établit Roland Barthes en  et qu’il soumet à une analyse
sémantique — comment les hommes font–ils du sens avec leur vêtement
? — dans son ouvrage intitulé Système de la mode. Or, il ne s’agit pas

. Cf. B (). Finucci, lorsqu’elle soulève la question du vêtement comme sys-
 Henri de Riedmatten

Figure . Vedova Venetiana, MS Egerton , f. , –, aquarelle et gouache,
Londres, British Library. © The British Library Board, MS Egerton 

ici d’adopter directement la méthode développée par Barthes dans son


ouvrage et de proposer à sa suite un travail d’application sémiologique
à un phénomène culturel, mais de présenter surtout la notion de variant
de transparence qu’il instaure dans le contexte de l’analyse structurale
du vêtement féminin, tel qu’il est décrit dans les journaux de mode des
années  et  du e siècle. Le variant de transparence doit rendre
compte en principe du degré de visibilité du vêtement et comporte donc
deux pôles, un degré plein — l’opaque — et un degré nul, irréel, qui

tème de signes, relève brièvement que cette notion fut développée par Roland Barthes, suivant
la sémiologie de Ferdinand de Saussure, et ne manque pas de citer l’ouvrage en note. Elle
ajoute qu’une telle notion trouve par ailleurs une large exemplification tout au long du e
siècle, in : F (), p. .
Le lever du voile 

Figure . Una Padovana da Duolo, Beinecke MS , Mores Italiae, f.  [], c.
, aquarelle et gouache, New Haven, Yale University, Beinecke Rare Book and
Manuscript Library

correspondrait à l’invisibilité totale du vêtement. Barthes propose ensuite


une notation portant sur des degrés intermédiaires d’opacité : l’ajouré et
le transparent (Fig. ). Il ne voit d’ailleurs pas de différence d’intensité
entre ces deux termes mais bien plutôt une différence d’aspect : l’ ajour
serait une visibilité discontinue — par exemple à travers un tissu ou
un crochet alors que la transparence correspondrait à une invisibilité
atténuée, tel que rendue par les gazes ou mousselines. En résumé, tout
ce qui rompt l’opacité du vêtement, soit dans son étendue, soit dans son
épaisseur, relève du variant de transparence (Barthes , p.  et p.
).
 Henri de Riedmatten

Figure . Una Vedova Padovana, Beinecke MS , Mores Italiae, f.  [], c.
, aquarelle et gouache, New Haven, Yale University, Beinecke Rare Book and
Manuscript Library

Les différentes instanciations du voile au visage des femmes de


ces deux alba amicorum, et dans une plus large mesure du livre de
costumes de Vecellio, sont susceptibles d’être éclairées par cette no-
menclature déclinant différents niveaux d’opacité. De même l’oppo-
sition signifiante des différents termes du variant de transparence,
entre opaque et invisible  , peut se faire ici le support d’un autre fais-
ceau d’opposition — celui des statuts de la femme au sein de cette
société, qui ne peuvent co–exister chez une même personne : jeune
fille (Donzella), femme mariée (Gentildonna) et veuve (Vedova). Dans

. Voir à ce sujet B (), pp. –.


Le lever du voile 

Figure . Vedove, gravure sur bois, in : Cesare Vecellio, Degli habiti antichi, et
moderni di diverse parte del mondo, f. , , édité par Jones et Rosenthal (), p.


Figure . Tableau du variant de transparence, in : Barthes (), p. 


 Henri de Riedmatten

ce contexte, nous pouvons avancer l’hypothèse d’un système du voile —


agençant l’identification féminine en référence à sa classe sociale, et
surtout à son statut civil — au sein de ces ouvrages.
Mais une fois établi, il faut avouer que ce système comporte un
élément subversif, une figure de transgression qui vient se servir de
cette scansion visuelle sans la rompre pour autant : la Cortigiana —
la courtisane (Fig. ). Elle porte ici, dans la rue, la cappa noire à la
manière des Donzelle de Venise mais il lui faut bien procéder parfois
au lever du voile, exposant quelques instants son visage et risquant
un œil par le dessous pour ferrer l’aventurier imprudent dans un
échange suggestif de regard. D’un geste ample de sa main gauche,
elle soulève le voile, le rabat sur l’arrière de sa tête de façon à créer
cette béance qui fait apparaître le visage et le buste, coincés entre deux
pans noirs retombant en vagues obliques sur la robe. Jouant des doigts
de sa main gauche, elle fronce le voile et le maintient plaqué sur sa
chevelure, alors que les doigts de la main droite le rattrapent à la taille
et le fixent en plis et contre–plis. Ainsi les deux mains, formant deux
lignes horizontales, « tirent en quelque sorte le rideau » et assurent
l’encadrement inférieur et supérieur de ce tableau désormais exposé.
Et dans cet entrebâillement nous pouvons admirer les atours d’une
véritable Gentildonna Veneziana : le fameux décolleté partiellement
couvert d’un collet brodé de fleurs et relevé ; le cou orné d’un collier
de perles et d’une chaîne d’or terminée par un médaillon serti de
pierres précieuses. Entre les seins un pendentif. Le voile que lève la
Cortigiana du Mores Italiae — voile que porte traditionnellement la
Donzella — révèle certes une nouvelle identité, mais elle aussi est
usurpée ! Nous sommes en quelque sorte en présence ici d’un double
inganno, d’un dispositif de ruse vestimentaire dont le dépouillement
successif des couches n’a pour effet que de substituer un déguisement
à un autre.
Le déguisement est un élément foncier de résistance dans un sys-
tème au sein duquel l’habit manifeste les différences de classes so-
ciales, introduit diverses périodes historiques et illustre des lieux géo-
graphiques distincts. L’existence d’un marché de seconde main ou
encore l’usage de payer en objets, aussi vestimentaires, permettent
à chaque individu d’apparaître comme un autre : par exemple pour
voyager incognito, pour le serviteur de se vêtir en quelque occasion
comme son maître et naturellement pour attirer des clients ( Jones et
Le lever du voile 

Figure . Una Cor.[Cortigiana] Venetiana in Strada, Beinecke MS , Mores Italiae,
f.  [ changé en ?], c. , aquarelle et gouache, New Haven, Yale University,
Beinecke Rare Book and Manuscript Library

Stallybrass  ; Finucci , pp. – et p. ).


Or, il apparaît que les courtisanes et prostituées — majoritaire-
ment les prostituées dans les lieux publics selon Vecellio — avaient
une prédilection pour le port de vêtements masculins notamment
 Henri de Riedmatten

les braghesse, sorte de pantalon . Les femmes “honnêtes” suivaient


parfois l’exemple et de tels atours pouvaient aussi servir aux aventures
amoureuses qui devaient par définition faire œuvre de discrétion et
dissimulation ; telle celle que nous relate une chronique de la cité
de Padoue en , à l’issue tragique : une jeune femme travestie en
homme est retrouvé morte à l’extrémité d’un pont. Il s’avéra que le
méfait fut ordonné par une gente dame pour mettre fin à la relation
que la défunte entretenait avec son mari. Il en résulta l’arrestation de
ladite dame et de ses complices :

Fu trovata una giovane vestita da huomo alla bocca del ponte Piocchioso,
ragionandosi che questo misfatto fusse stato fatto ad istanza di una gentil-
donna di casa Borromera per levar il commercio che costei teneva con il
suo marito, per il che la gentildonna fu retenta con altri.

Les fameuses chaussures à semelles compensées, parfois déme-


surément élevées — les chopines ou pianelle — rendues célèbres
par les courtisanes mais portées par toutes les vénitiennes, méritent
aussi d’être brièvement mentionnées. La figure de la prostituée dans
les lieux publics dans l’ouvrage de Vecellio porte à titre d’exemple
une paire de pianelle (Vecellio , f.  p. ). Celles–ci pouvaient
atteindre une hauteur telle que les femmes les portant devaient gé-
néralement s’appuyer sur quelqu’un pour garder l’équilibre . Elles
furent vraisemblablement utilisées à l’origine en vue d’éviter de se
salir au contact de la boue des rues mais devinrent bientôt l’objet
d’une mode extravagante, possible symbole d’appartenance sociale, et
portées à l’intérieur comme à l’extérieur . Coryate dit en effet avoir

. Cf. V (), f. , p.  ; R () pp. – ; R
(), p.  et p.  ; D P (), p. . Une telle dynamique de travestissement
et de croisement des rôles et des genres est de même particulièrement claire dans le théâtre
de l’époque. Qu’il s’agisse ici du théâtre de cour qui recourait à des acteurs masculins pour
jouer les rôles féminins ou de la plus populaire Commedia dell’arte qui mettait en scène
masques et personnages reposant sur la dissimulation. Sans oublier bien sûr le carnaval.
Voir entre autres G () ; F (), pp. –.
. Niccolò  R, L’Istoria di Padova di me Niccolò de Rossi [. . . ], Padova, Museo
Civico, Biblioteca, ms. B.P. , , p. . La chronique couvre la période allant de  à
. Elle est inédite mais le passage est cité dans: R B (), p. .
. Une paire de chopines exposée au Musée Correr de Venise avoisine les 
centimètres.
. Cf. V (), ff. – pp. – et f.  p.  ; L (), p.  ;
Le lever du voile 

entendu que la taille de la chopine est à la mesure de la noblesse de sa


propriétaire, manifestant ainsi littéralement la hauteur de son statut
(C , p.  ; S , p. ).
Les Cortigiane sont les reines du travestissement et Vecellio dans son
commentaire nous met en garde. Il insiste sur la difficulté qu’il peut y
avoir à les distinguer en ce qu’elles maîtrisent à la perfection l’art de
l’inganno, de l’astuce. Feignant parfois la modestie, elles se font passer
pour des Donzelle derrière leur cappa, ou se camouflent volontiers
en veuves éplorées. Elles se dissimulent aussi fréquemment derrière les
atours de la Gentildonna — portant comme elles des anneaux aux doigts
— et lorsqu’il leur arrive d’être entretenues par un ou plusieurs amants
de bonne famille vénitienne, elles se permettent même de s’approprier
en toute impudence leur nom de famille. Elles sont ainsi en mesure
de tromper nombre d’étrangers qui croient trouver en elle la crème
des Gentildonne Venetiane — quelque entremetteuse (ruffiana) aidant
parfois à la mise en place de tels artifices. De ce fait les étrangers pris
dans leurs rets ne manquent pas de se vanter niaisement par la suite
de leurs conquêtes de nobles Vénitiennes, provoquant l’amusement
des autochtones. Vecellio ajoute notamment qu’ils se trouvent en effet
bien loin de la réalité, les véritables Gentildonne de Venise étant réputées
jalouses de leur honneur ainsi que modèles de chasteté !
Vecellio insiste alors sur le fait que les courtisanes qui portent la
cappa, ou quelque autre fazzuolo, doivent d’une manière ou d’une
autre se découvrir afin d’être vues : le lever de ce voile les fait imman-
quablement reconnaître:

[Cortigiane fuor di casa].

R (), p. – ; R () pp.– ; R (), p.  et


.
. L’on se souvient que Vecellio mentionne aussi — en sus des Donzelle adultes dont le
visage se dérobe derrière la cappa, illustrées dans son ouvrage — que les Donzelle de prime
jeunesse, portent un voile de soie blanche (cf. supra note ). Or les courtisanes adoptèrent
un temps ce même voile blanc, au grand scandale des autorités (R (), p.  ;
D P (), p. ). Mais il semble qu’aucune illustration de Donzelle sous cet aspect
ni de courtisanes les imitant ne se trouve au sein duMores Italiae, de l’Egerton ou encore dans
le Degli habiti antichi, et moderni de Vecellio.
. Cf. V (), f.  p. . Voir aussi D P , p. .
. Cf. V (), f.  p. –. Voir aussi L (), pp. – ; R
(), pp. –; R (), pp. –.
 Henri de Riedmatten

S’è detto fin quì, che quelle meretrici , che vogliono acquistar credito
col mezo della finta honestà, si servono dell’Habito vedovile, & di quello
anchora delle maritate: & quelle specialmente, che hanno qualche colore
di matrimonio. Già solevano la maggior parte d’esse andar in Habito di
donzelle; usanza non ancora dismessa affatto, benche usata con modestia
maggiore. Di maniera che non potendo star sempre serrate, & coperte
con la cappa, che portano, & non potendo d’altra parte esser vedute; sono
finalmente sforzate scoprirsi alquanto, & è perciò impossibile, ch’elle non
sieno conosciute a qualche gesto. Et perche sono loro prohibite le perle,
sono in particolare conosciute tali, quando mostrano scoperto il collo. Et
perciò l’infelici, per riparare à questo, si tengono (come suol dirsi) un
bertone, che servendo loro del nome di marito, l’assicuri dell’uso delle
pompe, & sotto questo pretesto sia loro permesso il poter usare tutto
quello, che dalle leggi è loro comunemente vietato. Le loro sottane sono di
broccatelli di diversi colori, & riccamate con quella maggiore spesa che esse
possono. Portano scarpe alla Romana dentro alle pianelle; & queste sono
le Cortigiane di più riguardo. Ma quelle, che alla scoperta, & ne’ luoghi
publici essercitano questa infame professione, portano giubboni di seta con
cordelle d’oro, ò ricamati in qualche modo: & cosi fanno delle carpette,
ch’elle poi coprono con traverse, ò grembiali di seta. Portano in capo un
fazzuolo di sessa, & vanno à questa foggia civettando per tuta la Città, &
essendo facilmente conosciute da tutti, sono anche facilmente molestate da
tutti con cenni, & con parole .

C’est donc un geste — et non le vêtement — qui confond ces usur-


patrices protéiformes. Ce premier effeuillage qui inaugure le jeu de
séduction visuelle peut simultanément trahir l’identité de son auteur.
Néanmoins, afin de déceler le sens d’une telle gestuelle, le spectateur
étranger doit être en mesure d’appréhender les règles de la grammaire
visuelle vénitienne en cette fin de Cinquecento. Or, l’album amicorum
— outre sa fonction de mémoire — joue précisément ce rôle de
grammaire pour déchiffrer les codes non seulement vestimentaires
mais aussi gestuels de l’espace social au sein duquel le voyageur sera
amené à évoluer (Rippa Bonati , p. ). En effet, dans la typologie
picturale des alba et des livres de costumes de ce temps, l’on retrouve
. Rosenthal fait remarquer que Vecellio utilise ici le terme générique, et plus déni-
grant, de prostituées [meretrici] pour dénommer les courtisanes, contrairement au titre de
son commentaire. Voir R (), p. . Cf. aussi infra note .
. V (), f.  pp. –. Voir aussi R (), pp. – ;
R (), pp. –.
. Pour un approfondissement de la question, voir F (), p.  ; R
(), pp. – et p. .
Le lever du voile 

systématiquement le lever du voile comme signe visuel distinctif, ca-


ractérisant la figure de la courtisane. A titre d’exemple, nous pouvons
l’admirer aussi bien dans l’Egerton que dans le Degli habiti antichi, et
moderni (Fig. –).

Figure . Cortegiana Venetiana, MS Egerton , f. , –, aquarelle et


gouache, Londres, British Library. © The British Library Board, MS Egerton 
 Henri de Riedmatten

Figure . Cortigiana, gravure sur bois, in : Cesare Vecellio, Degli habiti antichi, et
moderni di diverse parte del mondo, f. , , édité par Jones et Rosenthal (), p.

Le lever du voile 

Cesare Vecellio souligne aussi dans ce dernier passage un ornement


qui, précisément par son absence, devrait permettre à son tour d’ex-
poser ici la courtisane : le collier de perles. L’auteur réfère plusieurs
fois aux ordonnances et arrêts promulgués par les autorités — connus
sous le nom de lois somptuaires — prononçant l’interdiction du port de
perles parmi toutes les prostituées de Venise. Ainsi, une fois le voile levé,
l’exhibition d’un cou nu de toutes perles devrait suffire à démasquer la
femme de mauvaise vie. Vecellio se voit cependant contraint d’atténuer
l’efficace de l’absence de perles en vue de distinguer les courtisanes des
nobles femmes à Venise. Il admet que bien que cela leur soit interdit,
elles se parent toutefois de perles et autres bijoux ostentatoires, usant
des méthodes les plus variées pour parvenir à leurs fins:

[Delle Gentildonne Venetiane, & altre, per casa & fuori di casa la vernata].

Le donne di qualche conditione, mentre stanno in casa, usano vestire di


colori diversi di seta, & di broccati fatti à varie fogge. Usano anchora ornarsi
di perle, di manili, d’anelli, & d’altro. Mà assai più dell’altre compariscono
per casa polite, & ben addobbate le Cortigiane. Le quali per accrescer
vaghezza al viso, l’aiutano con l’artificio de’ belletti, & delle diverse acque,
& delle bionde. Conosconsi facilmente al proceder loro, perche in casa &
fuori si mostrano assai baldanzose, col far mostra non solo del volto, ma di
gran parte del petto imbiaccato & dipinto: & anche in qualche parte delle
calze riccamate, che cuoprono loro le gambe. Ma fra queste & le donne
d’honore, si vede come di costume, cosi anche diversità d’ornamenti: non
potendo esse in vigor delle bene ordinate leggi della Città di Venezia portar
ornamenti di perle, come le donne honeste; se bene alcune di loro sotto
qualche pretesto di sopra accennato, le portano, & usano di più l’Habito
presente, & se ne servono come le donne da bene, & di buona fama .

Différentes lois somptuaires déterminaient entre autres le vêtement


féminin afin qu’il reflète clairement les distinctions de classe sociale
et de noblesse ; dans le but d’enrayer tant bien que mal les dépenses
extravagantes et démesurées susceptibles de menacer l’entière com-
munauté, elles ne s’adressaient pas uniquement aux courtisanes mais
pouvaient aussi bien concerner les femmes de toutes conditions. Dès
, le Sénat vénitien créa tout exprès une nouvelle magistrature —
le Magistrato alle Pompe, composés de trois provveditori — en charge

. V (), f.  p. . Voir aussi V (), f.  pp. –.
 Henri de Riedmatten

de faire respecter l’application des lois somptuaires et de surveiller les


courtisanes .
De telles lois étaient levées par les autorités elles–mêmes en de
grandes occasions. Vecellio énonce banquets, spectacles officiels en
présence d’invités de renom, ce qui n’était pas peu fréquent dans la
Sérénissime. Lors de ces manifestations étatiques le port de vêtements
et ornements somptueux et extravagants, témoignant de la dernière
mode, était non seulement autorisé mais proprement encouragé, en
vue d’impressionner les invités de marque étrangers. Vecellio rend
compte d’un exemple notable à cette époque, la visite d’Henri III de
Valois à Venise — puis Padoue parmi d’autres cités du nord de l’Italie
— en été , lors de son transfert triomphal du trône de Pologne à
celui de France. Il y fut reçu avec magnificence,  des plus belles et
importantes Gentildonne de la Sérénissime vêtues de façon somptueuse
et recouvertes de perles, or et bijoux, paradant en son honneur dans
la salle du Grand Conseil . Lors de son séjour il rendit aussi visite à la
très célèbre cortigiana onesta et poétesse Veronica Franco. Un portrait
la représente à mi–buste, nue, en début du Mores, les cheveux blond
vénitien tressés dont les boucles encadrent le visage, selon l’un des types
décrits par Vecellio (R , pp. –; R , p.
; M , f. ). Parmi d’autres événements peut–être moins ex-
traordinaires mais de grande envergure et récurrents, attirant beaucoup
de monde de différentes nations dans la cité, l’on peut mentionner la
Festa de la Sensa [Ascension]. Vecellio suggère en effet que lors de ce
festival d’une durée de quinze jours, il était autorisé, voire attendu des
femmes qu’elles se parent de leurs plus beaux atours mettant ainsi en
scène le faste de la République. Il décrit dans ce contexte les épouses de
Venise dans toute leur splendeur et richesse.
En vérité les arrêts ne cessent de se renouveler tout au long du
siècle — preuve indéniable de leur piètre efficacité et de leurs vains
efforts pour combler les lacunes des précédents — les courtisanes

. Cf. R (), pp. – ; P (), pp.  et  ; L
(), pp. –; D P (), pp. – ; F (), p.  et pp. – ;
R  J (), p.  et p.  note  [Introduction].
. Voir V (), f.  pp. – ; R et J (), p.  [Introduction] ;
R (), p.  ; R B (), pp. –.
. Cf. V (), ff. – pp. – ; R  J (), p. 
[Introduction]; R (), pp. – ; R (), p.  et p.  note .
Le lever du voile 

ne se privant pas d’interpréter les textes à leur avantage. Ces lois


constituent pour le moins une mine de renseignement sur les modes
du temps, notamment sur les modes vestimentaires qu’ils essaient
tant bien que mal de réguler. A titre d’exemple, l’ordonnance prise
dans le très illustre Consiglio dei Pregadi, plus communément appelé
le Sénat, le  février  [more veneto, donc  selon le calendrier
grégorien] , concernant les vêtements et ornements des prostituées ,
stipule « qu’aucune prostituée habitant dans ce pays ne puisse ni revêtir
ni porter sur quelque partie que ce soit de sa personne or, argent ni
soie, à l’exception des coiffes qui doivent être de soie pure ; qu’elles
ne puissent porter chaînettes, perles, ni anneaux, sertis ou non de
gemmes, tant aux oreilles qu’en quelque autre endroit que l’on puisse
imaginer ; de sorte que leur soient en tout et partout interdits l’or,
l’argent et la soie, de même que le port de bijoux de toute nature aussi
bien chez elles que hors de leur demeure et hors de cette ville » . Il
s’agit surtout ici de tenter de punir une fois encore les abus répétés
des courtisanes ; mais la reprise à peu près mot pour mot, vingt ans
plus tard, de ce texte de , atteste bien qu’il est resté lettre morte
(Larivaille , pp. – ; Davanzo Poli , p. ).
Le cas échéant, les courtisanes préféreront éventuellement payer
une amende voire se laisser infliger un châtiment et subir une confis-
cation plutôt que de se plier à de tels décrets et, concernant l’usage
de perles, l’on pouvait toujours contourner l’interdit au moyen d’imi-
tations réalisées en argent ou en nacre . S’il n’est pas étonnant de

. L’année vénitienne ne commençant qu’au  mars, la date du  février  more
veneto correspond au  février  du calendrier grégorien. Voir aussi L (), p.
 note .
. Le terme de prostituée [meretrice] est ici générique et inclut naturellement les
courtisanes. Sont considérées comme prostituées toutes celles qui avaient commerce ou
pratique avec un ou plusieurs hommes. Voir à ce sujet D P (), p.  qui cite
ici G. T, Cenni storici e leggi circa il libertinaggio in Venezia dal secolo decimoquarto alla
caduta della Repubblica, Venezia, , p. .
. Parte presa nell’eccellentissimo Conseglio di Pregadi, Adì  febraro , sopra il vestire et
ornamenti di casa delle meretrici che habitano in questa città, Venise, S. d. Cité et traduit dans
Larivaille (), p. . Un exemplaire du texte original se trouve à Venise à la Biblioteca d’arte e
storia veneziana del civico Museo Correr et un autre à Forlì, à la Biblioteca comunale Aurelio Saffi.
. Cf. R (), pp. –. Cf. M , f. . A titre d’exemple,
Vecellio mentionne le fait que les courtisanes et prostituées ont parfois recours à des
tondini [objets ronds] d’or et d’argent, ou d’autres bijoux imitant les perles, vu que ces
dernières leur sont interdites, in : V (), f.  p. .
 Henri de Riedmatten

voir au cou des Cortigiane du Mores et de l’Egerton un collier vrai-


semblablement orné de perles (Figg. –) — ou du moins en tout
point similaire à celui des Gentildonne (Fig. ) — il est plus curieux en
revanche de constater que Vecellio semble lui aussi parer sa Cortigiana
d’un tel collier (Fig. ) ; ce qui contreviendrait ici à la réserve visuelle
que l’on observe habituellement au sein de son livre de costumes,
dans le respect des lois somptuaires établies.
Or la métis des courtisanes, leur capacité à mélanger les genres
vestimentaires et à les réinterpréter, est précisément l’origine des der-
nières tendances et de leur renouvellement incessant. Plus que de
simplement transgresser les codes vestimentaires, les courtisanes —
spécialement celle de haut rang au mode de vie élégant et luxueux
(Cortigiane oneste) — s’établissent en véritables lanceuses de modes,
en trendsetters. Les Cortigiane sélectionnent les habits de différents
groupes féminins, certes pour s’insinuer indûment au sein de carcans
d’identité collective — mais simultanément elles créent des styles
hautement individualisés, en reformulant de façon insolite et libérale
ces différents types (Rosenthal  ; Rosenthal , p. ). Dans ce
sens l’existence d’un marché de seconde main ou encore de locations
ou d’enchères publiques rendait de même possible l’acquisition, ne
serait–ce que temporaire, de vêtements chers et précieux et favo-
risait grandement de tels croisements . Parmi d’autres effets, une
possible contagion mimétique de ces modes sur les femmes “hon-
nêtes” de rang et statut distincts, permet aussi d’attribuer un rôle non
négligeable aux courtisanes dans le phénomène, à peine esquissé, du
développement pour la femme d’une identité sociale propre, en cette
fin de Cinquecento vénitien . Leur fécondité créatrice ne se limite
cependant pas au vêtement et inclut, comme on l’a vu, l’art du geste.
Ainsi l’on peut avancer à titre de considération finale que la nouvelle
mode se dévoile là où se lève le voile.

. Voir à ce sujet A () ; R (), pp. –; F (), p. .
. Voir parmi d’autres L , pp. – ; R (), notamment pp.
– ; S (), ici pp. – ; C (); R (), pp. –.
Le lever du voile 

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pag. 195–228 (gennaio 2016)

Du visage
V I. S

English Title: About Face.

A: The article offers an insight into the representation of face in Early Modern,
Modern and Post–modern art. The relationship between face and person is considered as a
highly significant challenge in the Western art. From the Byzantine and Post–Byzantine
icon to the Russian avant–garde and from Leonardo da Vinci to the most recent experien-
ces of the video–art, the representation of the human face is the result of the dialogue
between person and medium and subjected to a constant tension.

Keywords: Face, Icon, Veil, Surface, Mirror, Window, Screen, Tension, Transgression.

Le rapport entre visage et personne est l’un des plus fascinants dé-
fis auxquels doit répondre toute réflexion concernant l’être humain.
Nous avons tous un visage et ce visage se place en dialogue permanent
avec notre nom, voire avec notre personne, voire avec notre individua-
lité. À tous ces défis, l’art occidental a répondu par l’élaboration du
genre artistique du “portrait”. Mais, en toute évidence, le “portrait”
n’est pas le “visage”. Ou bien, pour être plus clair, le portrait n’est
pas seulement “visage”. Ainsi, dans le célèbre tableau de Léonard de
Vinci, Mona Lisa del Giocondo (Fig. ), se présente à mi–corps, le buste
en vue, sur le fond d’un paysage se perdant dans un horizon lointain
et exposant au premier plan ses mains. Le visage, lui, se dévoile. Le
voile de Mona Lisa est un détail sur lequel les multiples commentaires
engendrés par cette œuvre mythique sont passés parfois trop vite. Il
contribue néanmoins de façon essentielle à l’instauration du visage
en tant que centre de la représentation. Le portrait, ce portrait, se
construit autour d’un visage et Giorgio Vasari, premier responsable
de la création d’une légende qui traversera l’histoire de l’art occidental,
l’avait sans doute bien vu :

Devant ce visage, celui qui voulait savoir ce que peut l’imitation de la


 Victor I. Stoichita

nature par l’art, le saisissait sans peine ; les moindres détails que permet la
subtilité de la peinture y étaient figurés. Ses yeux limpides avaient l’éclat
de la vie ; cernés de nuances rougeâtres et plombées, ils étaient bordés de
cils dont le rendu suppose la plus grande délicatesse. Les sourcils, avec leur
implantation par endroits plus épaisse ou plus rare, suivant la disposition des
pores, ne pouvaient pas être plus vrais. Le nez, aux ravissantes narines roses
et délicates, était la vie même. Le modelé de la bouche avec le passage fondu
du rouge des lèvres à l’incarnat du visage n’était pas fait de couleur, mais de
chair. Au creux de la gorge, le spectateur attentif saisissait le battement des
veines. Il faut reconnaître que l’exécution de ce tableau est à faire trembler
de crainte le plus vigoureux des artistes, quel qu’il soit. (Vasari , V, p.
–)

La façon dont la description réalisée par « le père de l’histoire de


l’art » redouble la construction de l’image n’aura certes échappé à per-
sonne. “Les yeux limpides”, les cils, les sourcils, le nez, les “ravissantes
narines roses et délicates”, la bouche avec ses lèvres rouges, l’incarnat
du visage (l’incarnazione del viso), même les pores, — tout est nommé.
Mona Lisa, nous dira un peu plus loin Vasari, était très belle (bellis-
sima), mais ce n’était pas cette grande beauté qui provoquait l’effroi.
Si l’œuvre fait “trembler de crainte” les artistes, c’est en raison d’une
réalisation picturale qui dépasse la norme. D’une façon paradoxale, la
Mona Lisa marque le triomphe du canon du portrait occidental et en
même temps son dépassement. Une fois instauré/dépassé, le canon fa
tremare e temere.
Afin de bien comprendre les enjeux du mythe forgé par Vasari, il
faut le mettre en parallèle avec une autre œuvre légendaire, due au
même peintre, en l’occurrence avec la Dernière Cène, et plus précisé-
ment avec son personnage central, le Christ (Fig. ) :

Léonard peignit à Milan, pour les Dominicains de Sainte–Marie–des–Grâces,


une Cène d’une merveilleuse beauté (cosa bellissima e maravigliosa). Il donna
aux visages des Apôtres tant de majesté et de beauté (tanta maestà e bellezza)
qu’il dut laisser inachevé celui du Christ, car il ne pensait pas pouvoir lui
conférer l’aspect divin, céleste qui lui convenait. (Ibidem, p. )

L’œuvre est belle, les visages des apôtres sont beaux, (la répéti-
tion de Vasari est sans doute délibérée), tandis que celui du Christ
transgressant, lui, tout critère esthétique, classe (ou mieux encore
“surclasse”) la manifestation de la divinité dans l’ordre de l’irreprésen-
Du visage 

table. Seul le non–fini peut correspondre à la sacralité du visage. Il


s’agit, on l’aura sans doute remarqué, d’un problème central de la
théologie de l’image, voire de l’icône, dont les origines sont lointaines.
À l’époque de Léonard de Vinci, le problème était toujours actuel
et des théologiens, tel Nicolas de Cues, y réfléchissaient encore :
[. . . ] ton visage, Seigneur, est antérieur à toute face susceptible d’être formée
[. . . ]. Toutes les faces ont la beauté, mais elles ne sont pas la beauté elle–
même, or, ta face, Seigneur, a la beauté et cet avoir est un être. [. . . ] O
face trop belle ! Pour qu’on admire sa beauté, tout ce qu’elle donne à voir
d’elle–même ne suffit pas. [. . . ] On ne peut la voir sans voile. (Nicolas de
Cues , p. –)

À l’époque de la Renaissance, l’ancienne question concernant la


représentabilité ou non du sacré est reformulée. “La crainte et le
tremblement” devant le visage divin est supplantée par la crainte
devant l’œuvre divine.
Incarnation du visage d’un côté (Mona Lisa), éclipse du visage
de l’autre (le Christ non–fini / “in–fini” de la Cène), voilà les deux
modalités thématisant la montée et la chute, la gloire et la misère, du
canon occidental. Ce ne sera pas le fruit d’un hasard si, des siècles
plus tard, cette dialectique émergera à nouveau, avec force, dans le
contexte de multiples stratégies de déconstruction, mises en branle
par l’art moderne.
Un traitement complet du thème dépasserait de beaucoup les
limites imposées à cet article. Il me semble néanmoins possible de
sonder la façon dont la dyade “incarnation” / destruction, présente à
l’âge classique, fut abordée au temps de doute qui est le nôtre. Je le
ferai à l’aide de deux incursions, séparées mais complémentaires.
La première incursion concerne le questionnement du “principe
icône”, présent encore dans les légendes vasariennes, mais qui sera
soumis à une vraie surenchère par les avant–gardes historiques.
En voici un exemple révélateur :
L’artiste russe Alexej von Jawlensky né à Torshock dans la province
de Tver en , laissa à sa mort en  à Wiesbaden en Allemagne
plus de  toiles, dont plus de  abordent le thème du visage ( Jaw-
lensky M., Pieroni–Jawlensky et Jawlensky A. ). Les interprètes,
dont récemment Itzhak Goldberg (), ont insisté à juste titre sur
la persistance des structures iconiques fondant cette œuvre, mais la
 Victor I. Stoichita

considération parallèle de deux de ses toiles, l’une de la maturité (Fig.


), l’autre de la vieillesse (Fig. ), laisse à peine entrevoir le rapport qui
les relie, ainsi que les fluctuations du principe iconique qui y sont à
l’œuvre. Ces questions commencent à s’éclaircir seulement dans une
“mise en série”, opération sans doute déjà interprétative, ou dans une
démarche herméneutique profonde, apte à projeter l’enchevêtrement
entre répétition et différence dans l’histoire des grandes formes.
Dans ses Mémoires, l’artiste lui–même nous ouvre la voie :

Pendant plusieurs années [on est en –] je peignis ces “Variations”


[sur le thème des visages saints]. J’éprouvais le besoin de trouver une forme
pour le visage, car j’avais compris que la grande peinture n’était possible
qu’en ayant un sentiment religieux.

“La forme du visage”, reliant “grande peinture” et “sentiment


religieux” est offerte, on l’aura compris, d’emblée par l’icône. On
aura raison de s’interroger sur l’équilibre de ces termes obtenu par
Jawlensky, mais la présence, parfois celée, de ses sources d’inspiration
sera permanente. L’extraction opérée par l’artiste n’en est pas pour
cette raison moins pertinente, car, en fin de compte, dans l’enchaîne-
ment de ses expériences, tout bascule : entre  et , on assiste
à une disparition, celle du “visage”, doublé par une apothéose, celle
de sa “forme”. En filigrane se trouve sans doute “le principe icône”,
mais soumis à un travail complexe, qui demande à être déchiffré. La
vue rapprochée, la frontalité, l’axialité et l’abstraction iconique (Fig.
) subissent une surenchère qui mène à des formules finales, où la
réduction met en avant, à l’aide d’un unique treillis, deux éléments
d’ordre différent : la structure cruciforme de la représentation et les
traces des pinceaux qui l’ont engendrée (Fig. ).
Je me propose d’approfondir ces deux aspects.
A partir de , dans les tableaux de Jawlensky, visage et surface
de représentation se confondent. Les détails physiognomoniques (les
yeux, le nez, la bouche) ne sont plus que des traits de pinceaux qui
se rejoignent en croix, sur une trame constituée par des touches

. « Einige Jahre [–] malte ich diese Variationen [auf das Thema “Heiligen-
gesichte”], und dann war mir notwendig, eine Form für das Gesicht zu finden, da ich
verstanden hatte, dass die grosse Kunst nur mit religiösem Gefühl gemalt werden soll. Und
das konnte ich nur in das menschliche Antlitz bringen. » (W et C , p. –)
Du visage 

parallèles allongées. Dans ce travail mariant défaillance du visage et


émergence de la croix, Jawlensky interroge les profondeurs mêmes
de la forme et du médium de l’icône traditionnelle russe. En donnant
à notre tour au Mandylion de Novgorod (Fig. ), cité souvent dans
les études sur l’avant–garde russe, une valeur d’œuvre–fétiche, nous
pouvons considérer les formules finales des visages jawlenskyens
comme étant le résultat d’un renversement du rapport figure/fond. En
clair : si dans l’icône, le visage du Christ se projette sur les croisillons,
dans les dernières œuvres de Jawlensky, les croisillons submergent
le visage. Mais il n’y en a plus. Le Mandylion de Novgorod est une
œuvre complexe, se manifestant d’entrée comme une image double,
construite selon le système recto/verso .
Le revers de l’icône (Fig. ) propose un ensemble de signes et
figures s’organisant autour de la croix. Le Christ y est présent seule-
ment indirectement, à travers les insignes de sa Passion, auxquels les
anges rendent hommage. Le revers renvoie par là, symboliquement,
au récit de la Passion, tandis que l’endroit (Fig. ), lui, fait émerger
de l’histoire le visage du Christ. Le fait le plus marquant du possible
dialogue entamé par Jawlensky avec la tradition est celui relevant de
la complexité de son travail, dépassant le simple processus d’abstrac-
tion, pour plonger dans une opération de condensation, apte à faire
dialoguer “visage” et “histoire”. Les dernières œuvres de Jawlensky
résument en une seule et unique représentation (Fig. ), envers et
endroit, icône et passion, visage et histoire.
Cette opération de condensation fait écho à un dialogue qui n’est
pas du tout inconnu dans l’histoire de l’art occidental, même si la
solution jawlenskyienne est inédite. A partir du XVe siècle, la va-
riante occidentale du Mandylion, “le Voile de Véronique”, fut le sujet
d’innombrables représentations narratives, du fait que l’empreinte
miraculeuse advint (selon la légende) comme un sous–épisode de la
passion. C’est la raison pour laquelle “la Véronique” se propose très
souvent comme une “image–icône” mise en scène dans une “image–
histoire”. Les façons d’aborder ce rapport sont bien sûr multiples et
demandent souvent au spectateur un travail de perception actif et per-
sonnel (Stoichita , p. –). Ainsi, Juan de Flandes représente la

. Pour tous les problèmes soulevés par les mandylia, voir récemment Wolf, D
B, et C M .
 Victor I. Stoichita

sainte femme Véronique à l’extrême droite de son Portement de Croix,


en attente, le voile encore vierge, bien que déjà muni d’une bordure
interne. C’est le spectateur qui devra y encadrer par prolepse, le visage
du Christ portant sa croix.
Le Maître westphalien de Cologne, quant à lui, préfère une autre
solution. Il détache la silhouette de Véronique de la foule assistant à la
crucifixion en offrant par là au spectateur la possibilité de comparer le
voile, porteur d’empreinte et déployé au premier plan du tableau, au
Christ sur la croix, véritable axe autour duquel s’organise le Calvaire.
De cette façon, l’effigie et l’histoire s’exaltent réciproquement.
Au bout de ce chemin et d’une façon tout à fait personnelle, Jaw-
lensky réalise ses dernières œuvres comme des grands arpèges. Dans
chacun de ses tableaux, à travers la mise à nu des traces de pinceaux,
l’icône filtre à travers l’histoire et l’histoire à travers l’icône. Dans
sa lettre–testament de  à Willibord Verkade, le peintre dévoile
quelque chose du scénario de production extrême ayant conduit à ces
œuvres :

J’ai peint des visages pendant de nombreuses années. J’étais assis dans mon
atelier et je peignais ; je n’avais plus besoin que la nature me serve de
souffleur. Il me suffisait d’aller au plus profond de moi–même, de prier et
de préparer mon âme à un état de conscience religieux (betete und meine
Seele vorbereitete in einem religiösen Zustand). J’ai peint beaucoup de “Visages”.
Ils sont aussi de dimension réduites :  ×  cm. Ils sont presque parfaits du
point de vue technique et une grande spiritualité s’en dégage (Sie sind sehr
vollkommen in der Technik und strahlen grosse Geistigkeit aus). C’est ainsi que
les années s’écoulaient, en travaillant beaucoup. Et je devins malade, mais
pouvais quand même continuer de peindre, bien que mes mains devinssent
de plus en plus ankylosées. Je ne pouvais plus tenir le pinceau dans une
seule main, et les deux m’étaient nécessaires ; je souffrais énormément. Les
dimensions devinrent toutes petites et je fus obligé d’adopter une technique
nouvelle. Durant trois ans j’ai peint ces petites têtes abstraites (diesen kleinen
abstrakten Köpfe) comme un possédé. Je sentis alors qu’il fallait bientôt que
j’arrête complétement de travailler. C’est ce qui se produisit.

Il s’agit, on le voit bien, d’un scénario de production fortement


personnalisé et hautement mythifié. L’acte de création tel qu’il se

. Lettre à Willibrord Verkade () reproduite dans le catalogue de l’exposition, Alexej


Jawlensky, Vom Abbild zum Urbild, Galerie im Ganserhaus, . September bis . Oktober,
Wasserburg am Inn, Arbeitskreis , , p. –; –.
Du visage 

dégage de cette lettre, marie quête, souffrance et prière. À son hori-


zon, — comme dans un exercice de mystique apophatique — le rien .
Le clivage à l’œuvre ne pourrait être plus grand. D’un côté, on a le
témoignage d’un acte pictural douloureux, réalisé pour ainsi dire à
mains jointes, fusionnant avec la prière, tandis que le résultat, c’est à
dire les visages–croix réitérés sans cesse, se révèlent dans les traces
même de cette manualité exacerbée, à titre d’immense et répétitive
signature. Le paradoxe est évident et perturbe une fois de plus la
tradition de l’image « non faite de main d’homme ». L’ébranlement
inscrit un point final à une longue histoire, dans laquelle s’inscrivent
d’autres expériences d’assimilation auctoriale, reléguées pour la plu-
part au niveau du paratexte. Si dans l’art ancien, la signature troublait
parfois d’une façon démonstrative l’anonymat de l’acheiropoïète, elle
se retirait néanmoins dans des lieux séparés, sur le cadre par exemple,
ou bien sur un cartellino en trompe–l’œil.
Chez Jawlensky en revanche, la vraie et propre signature manque,
tandis que la trace auctoriale s’amplifie au maximum. Elle fait un avec
l’image. La réflexion et la pratique iconique jawlenskienne n’est pas,
on le sait, unique. Dans le contexte des avant–gardes du XXe siècle,
son chemin double celui d’autres artistes, dont le plus significatif est
sans doute Kasimir Malevitch.
Le nombre d’études consacrées au revival de l’icône dans l’art
moderne russe et chez Malevitch en particulier est si important ,
que toute insistance frôle l’abus. Nous ne nous attarderons donc pas
sur l’ensemble de la dette de Malevitch envers la tradition, mais in-
terrogerons un point réclamant quelques approfondissements, en
l’occurrence le rapport de l’artiste “suprématiste” au problème du
visage.
Il s’agit d’un aspect de l’art de Malevitch dont l’éclosion se place
vers la fin de sa vie, en l’occurrence à la fin des années vingt et au
début des années trente du XXe siècle. Le lien avec la tradition y est
présent et opère une subversion par rapport aux principes imposés par
le Proletkult. En contribuant à l’exaltation de la figure du travailleur, les
paysans et paysannes peints par Malevitch cèlent une valeur d’icône,

. Sur la portée de problème dans le contexte de l’art moderne, voir V .
. Voir spécialement : L  ; C, P et K  ; G
et G .
 Victor I. Stoichita

magnifiant d’une façon tragique un héroïsme anonyme, suprême,


voir “suprématiste”, dans le rapport paradoxal entre présence et ab-
sence instauré par ces têtes sans traits. Les racines de cette démarche
plongent loin dans les années antérieures à la Grande Guerre et à la Ré-
volution russe, les mêmes années qui avaient assisté à la cristallisation
constructiviste, voire suprématiste de la vision de Malevitch.
Le Portrait perfectionné d’Ivan Vasilevitchi Kliounkov (Fig. ), œuvre
sans doute inaugurale, est contemporain des expériences menant
bientôt au Carré noir, tout en établissant un dialogue avec les nouveau-
tés d’importation, tel les “Picassos” de la Collection Morozov dont
l’impact sur le public et sur les artistes russes fut considérable. Trois
lustres plus tard, Malevitch s’en rappellera mais en refoulant pour ainsi
dire “l’effet Picasso” au nom de “l’effet icône” (Fig. ). Force est de
réaliser la complexité de ce revirement et l’émergence d’une nouvelle
approche propre à Malevitch en rapport avec l’ancienne image de
culte.
Il s’agit de constructions réalisées à l’aide de grandes étendues
chromatiques faisant émerger l’axialité, la frontalité et le caractère
impersonnel, voire trans–personnel, des visages–icône. Un motif cru-
ciforme, fait lui aussi de grands pans de couleur, amarre ces têtes sur
le fond d’un paysage rural, en les projetant plus loin encore, sur un ciel
abstrait. Par rapport aux anciens dispositifs iconiques, on se trouve
encore une fois devant une opération de condensation. Simplifiés au
maximum, le visage et la croix font système.
Le corpus des dernières œuvres de Malevitch est rythmé par des
solutions complémentaires apportées au problème du visage. Deux
me semblent significatives. La première concerne l’absence de tout
trait physiognomonique et le triomphe du blanc (Fig. ). La seconde
est documentée surtout par des dessins, ce qui ne la rend pas moins
pertinente. Il s’agit d’une solution étroitement agencée comme celle
de la défaillance physiognomonique, à l’unique différence près que
cette fois–ci, on se confronte à une véritable éclipse se manifestant
d’une façon presque brutale, comme conséquence d’une opération
d’effacement dont la dynamique est encore sensible dans de violents
traits de crayon. À la violence de ce déferlement graphique fait écho,
dans certains dessins de l’époque tardive, la montée des signes ré-
dempteurs. Dans ces exemples, tous restés à l’état d’ébauche, la croix
envahit le visage et le remplace.
Du visage 

Je résume : l’incidence du “principe icône” sur l’art moderne met


en question la sacralité du visage . Celle–ci est soumise à des tensions
extrêmes, mariant défaillance et glorification. La passion et le sacre de
l’artiste, tel que Jawlensky les conçoit, ou bien la passion et le sacre
du travailleur de la terre, tel que Malevitch le propose, ne sont que
deux gloses autour d’un thème d’une portée bien supérieure. Il s’agit
du rapport du visage à l’histoire. Il s’agit du rapport de l’histoire au
visage.
J’en viens maintenant à ma seconde incursion dans l’histoire du
rapport entre forme et anti–forme dans la représentation du visage.
Encore une fois, les avant–gardes du XXe siècle nous offrent le point
de départ le plus significatif. Les moustaches que Marcel Duchamp
inscrivit en  sur une reproduction de Mona Lisa ont une valeur
d’emblème et les commentaires (figuratifs ou textuels) qu’elles engen-
drèrent sont presque infinis. Il s’agit sans doute d’un geste iconoclaste
voué à mettre en question l’une des œuvres fétiches du canon occiden-
tal. Il s’agit en même temps de la désacralisation d’un visage auquel,
au temps des origines, le premier historien de l’art Giorgio Vasari
composait, on l’a vu, un véritable hymne. Le contexte et la fortune
de cette opération sont immenses et concernent une très complexe
offensive de déconstruction, dont on aura de la peine à offrir ici la
synthèse ultime. C’est la raison pour laquelle je préfère centrer mon
attention sur un aspect précis de l’expression post–moderne, ayant le
mérite de réunir et d’exhiber tout un éventail de significations à l’aide
d’un medium artistique encore “jeune”, mais redevable à la même dé-
marche iconoclaste. Il s’agit de l’installation vidéo réalisée par Pipilotti
Rist (Figg.  et ).
Cette installation fut présentée pour la première fois dans le Times
Square de New York, au printemps  sur un écran géant. Le type
d’écran, de grande taille et de haute définition, mis à la disposition par
la firme japonaise Panasonic Corporation, offrait l’avantage d’un très
fort contraste et d’une grande luminosité permettant une perception
à distance, de jour comme de nuit.
Des séquences vidéo d’une minute furent diffusées, chaque heure,
pendant plus d’un mois. Pendant plus d’un mois donc, les habitants
pressés de New York, étaient intimés à ralentir le pas pour s’interroger

. Textes phares : L  et D et G .


 Victor I. Stoichita

sur ce qui arrivait à cette femme, prisonnière d’une cage vitrée, qu’elle
voulait, de toute évidence, déserter.
La dramaturgie de l’installation est simple en apparence, complexe
en essence. Une femme frotte son visage contre une vitre. Ainsi, elle
dépose des fines pellicules de maquillage, de rouge à lèvres, de salive
et peut–être de larmes sur une surface qu’on aura de la peine à définir
concrètement. Fenêtre ? Écran ? Objectif de la caméra ? Ou peut–être
tous ensemble ? La question est plutôt rhétorique car cette surface
contre laquelle la femme s’acharne, cette surface que la femme presse,
pousse et repousse est en effet l’interface de la représentation. De cette
représentation, la femme veut s’évader, mais, vraisemblablement, elle
ne le peut pas. En forçant ses limites, elle cherche à s’en extraire,
mais sans succès. En forçant ses confins, elle tâche de “s’exprimer”,
mais en vain. Tous ces efforts aplatissent ses traits, engendrant un
visage déformé et grotesque . Quelques marques de fard, de rouge,
de salive et de larmes laissent entendre que la véritable ex–pression est
impossible et que la surface de la représentation, bien que transparente,
est inébranlable, résistante, invincible, infranchissable. En affûtant
notre regard, l’on réalise pourtant jusqu’à quel point ce heurt est la
suite d’une mise en question de toute une tradition.
Il y a tout d’abord le dialogue métaphorique avec l’ancienne théorie
de l’expression des passions. Cette dernière reposait sur un rapport,
devenu vite topique, entre l’intérieur (l’âme) et son l’extérieur (le
visage). Ainsi, chez Charles Le Brun, pour donner un exemple célèbre,
La Frayeur, (« passion de l’âme et, donc, mouvement intérieur »), se
traduisait, “s’extériorisait”, comme suit :

[. . . ] le sourcil fort élevé par le milieu, et les muscles qui servent au mou-
vement de ces parties fort marqués et enflés, et pressés l’un contre l’autre,
s’abaissant sur le nez qui doit paraître retiré en haut et les narines de même ;
les yeux doivent paraître entièrement ouverts, la paupière de dessus cachée
sous le sourcil, le blanc de l’œil doit être environné de rouge, la prunelle
doit paraître comme égarée, située plus au bas de l’œil que du côté d’en
haut, le dessous de la paupière doit paraître enflé et livide, les muscles du nez
et les mains ainsi enflés, les muscles des joues extrêmement marquées et
formés en pointe de chaque côté des narines, la bouche sera forte ouverte,

. C’est probablement la raison pour laquelle l’un des titres sous lequel cette vidéo
sera diffusée plus tard est Flatten, c’est–à–dire Aplatir.
Du visage 

et les coins seront fort apparents [. . . ] les cheveux hérissés, la couleur du


visage pâle et livide (Le Brun , p. –).

Ce rapprochement fait ressortir avec force concordances et déca-


lages. La description littéraire et la gravure l’accompagnant illustraient
un code d’expression. L’installation vidéo, elle, figure sa mécanique.
Ce qui “effraye” la vidéaste, en lui déformant les traits, c’est la violente
mise en avant de la rencontre de deux surfaces de projection. L’une est
“le visage”, étendue sensible révélant selon la tradition psychologique
l’intimité des mouvement internes, l’autre l’écran–vitrec’est–à–dire le
médium même de la représentation. Dans ce heurt, le visage s’apla-
tit, dépouillé de sa propre force d’expression, tandis que le medium
proclame sa présence forte et inébranlable.
L’art classique a été tenté par ce genre d’expériences sans aboutir
pourtant jamais à des résultats équivalents. Ainsi, dans le célèbre
autoportrait de Parmigianino, le miroir convexe se confondant avec
le tableau lui–même (« une demi–sphère de la même taille que le
miroir », décrivait Vasari — una palla di legno al tornio e di grandezza
simila allo specchio (, VI, p. ) qui tord l’espace, tout en accordant
à la main démesurée du premier plan la valeur de véritable emblème
de ce faire ingénieux. Cette main déformée (la mano che designava),
dans laquelle Vasari avait l’impression de discerner, à peine visible, un
mouvement formatif auto–générateur, serait ainsi marque de l’auto–
poïésis et signal d’un contact entre la virtualité de la représentation et
sa réalisation concrète (Stoichita , p. –).
Dans toute cette dramaturgie, le visage, lui, en sort presque in-
demne, d’où la possibilité du biographe d’ajouter à la fin de sa cé-
lébration l’observation selon laquelle « Francesco était très beau et
avait un aspect si gracieux qu’il ressemblait plus à un ange qu’à un
homme. Son portrait sur cette demi–sphère avait une allure divine »
(« Francesco era di bellissima aria e aveva il volto e l’aspetto grazioso molto
e piuttosto angelo che uomo, pareva la sua effigie in quella palla una cosa
divina ») (Vasari , VI, p. –).
La Méduse de Caravaggio défie à son tour le rapport de la repré-
sentation à son propre support, non pas par rapprochement extrême,
mais par distanciation et dépassement. On a ici affaire à la surenchère
du processus d’ex–pression : la bouche béante émet, comme dans un
cauchemar, un cri sourd. Les yeux écarquillés fulminent, le sang gicle.
 Victor I. Stoichita

Plus encore, cette tête coupée, mais encore vivante, se détache du


support pour flotter dans un espace émergeant mais incertain .
“L’Effet Méduse” a une longue histoire et la représentation post–
moderne en garde les traces. L’effet oscille en fonction du support de
la représentation, qu’il met toujours à rude épreuve. Chez Rist il se tra-
duit dans une véritable agression contre la surface–écran, mais d’autres
artistes, travaillant encore avec les anciens supports, tel celui du ta-
bleau et ses variantes, s’y affrontent en soumettant la représentation à
une torsion interne.
Francis Bacon (Fig. ) est probablement le peintre ayant porté le
processus à son plus haut degré. Ses expériences sont significatives
dans la mesure où ses figurations sont pour la plupart le fruit d’un
renversement programmatique entre intérieur et extérieur. Comme
si ses figures se retournaient en elles–mêmes à l’instar d’un gant ou
comme si l’humanité entière se tordait et se vomissait elle–même
dans l’espace ambigu de ses toiles .
Chez Rist, la mise en question du rapport dedans/dehors est
constante, mais ses enjeux varient selon la confrontation avec le sup-
port de la représentation. Je discerne trois manifestations importantes.

. Premier enjeu : la fenêtre/écran

Open my Glade aborde un des plus anciens thèmes de la représentation


picturale, en l’occurrence celui de la “femme à la fenêtre” . Beau-
coup d’artistes avaient glosé sur ce thème, en raison des ses enjeux
“illusionnistes”. Ainsi, Rembrandt, dit l’un de ses biographes :

se divertit un jour à faire le portrait de sa servante pour l’exposer à une


fenêtre et tromper les yeux des passants (Fig. ). Cela lui réussit, car on ne
s’aperçut que quelques jours après de la tromperie (Roger de Piles , p.
).

. C’est dans ce sens, il me semble, qu’il faut lire la brève description du biographe:
« una testa di Medusa con capelli di vipere, assai spaventose sopra una rotella. » (B
, I, p. ).
. Voir à ce propos les considérations de Gilles Deleuze dans G. D, Francis
Bacon, Logique de la sensation, Paris, Seuil, , pp. –
. Détails dans S , p. –.
Du visage 

Dans la vidéo–installation du Times Square, la tromperie fonc-


tionne encore, magnifiée, tout en déplaçant son accent sur la trans-
parence et la résistance du médium (Figg.  et ). Une démarcation
entre la vitre et l’écran est parfois suggérée. Elle engendre le

. Second enjeu : la traversée du miroir

On pourrait désigner ce mouvement sous le nom “d’Effet Alice”,


en hommage à l’héroïne du célèbre récit de Lewis Carroll (Fig. ),
tout en se demandant si le fourmillement quotidien du Times Square,
que Pipilotti/Alice semble convoiter, était véritablement le “Pays des
merveilles” ou bien seulement son double factice. Une fois la traversée
révélée comme impossible, un autre mouvement surgit. C’est le

. Troisième enjeu : la confrontation spéculaire

Le Portrait de Madame de Pompadour par François Boucher et une gra-


vure bien connue de Goya (le Caprice ), illustrent ses extrêmes. Le
portrait de Boucher (Fig. ) se fonde sur une adroite manipulation du
spectateur. Il laisse croire que la (encore) belle maîtresse de Louis XV
est représentée en train d’effectuer sa toilette. Fausse impression sans
doute, car de toute évidence la marquise, âgée alors de  ans, ne se se-
rait jamais laissé portraiturer sans que son visage ne soit parfaitement
fardé et son teint de rose parfaitement reconstruit. La houppette en
suspension est d’ailleurs, plus que le signe d’une opération en cours,
l’emblème du travail achevé. Le dernier coup a été donné , le visage
a reçu sa forme parfaite, l’exhibition publique peut commencer. Le
miroir, outil essentiel de cette opération de reconstruction est devenu,
même s’il est encore présent sur la table de toilette, mais en marge,
car un autre objet de reflet, plus important et plus redoutable a pris sa
place : c’est le regard du roi, ou pour être plus précis le regard de la
cour toute entière, dont le roi (présent en abyme sur le bracelet de sa
maîtresse) est le centre. Ce jeu de reflets fait de l’œil du spectateur un
réflecteur et du tableau ovale un miroir.
. Voir à ce propos B , p. –.
 Victor I. Stoichita

Goya, lui, est plus cruel (Fig. ). Le face à face fait spectacle, le
visage de la vieille coquette et son reflet sont réversibles, le regard
public, impitoyable. La construction d’apparences tourne en dérision.
L’art “post–moderne” interroge le visage dans le cadre d’un récit
mariant défit et échec. L’installation de Pipilotti Rist en est l’une des
manifestations les plus éclatantes, par la double prise de conscience,
celle du visage et celle de sa représentation. Parti pris féministe ?
Peut–être ! Mais ce visage contorsionné, aplati et barbouillé, clame —
c’est indubitable — sa libération. La confrontation avec la limite de la
représentation est un signe d’alarme.
Ne fermons pas nos yeux et ne nous bouchons pas les oreilles !

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dylion. Intorno al Sacro Volto, da Bisanzio a Genova, Marsilio, Milan
 Victor I. Stoichita

Liste des illustrations

Figure . Léonard de Vinci, La Joconde (Mona Lisa del Giocondo), –, huile
sur bois,  ×  cm, Paris, Musée du Louvre
Du visage 

Figure . Léonard de Vinci, La Dernière Cène, –, détail, Milan, Santa Maria
delle Grazie
 Victor I. Stoichita

Figure . Alexej von Jawlensky, Forme primordiale (Urform), , huile sur carton,
,  × ,  cm, Suisse, Collection privée, en dépôt auprès du Musée Cantonal
d’Art de Lugano
Du visage 

Figure . Alexej von Jawlensky, Grande Méditation, , huile sur carton,  ×  ×
,  cm, collection particulière
 Victor I. Stoichita

Figure . Mandylion de Novgorod (recto), Moscou, Galeries Tretiakov


Du visage 

Figure . Mandylion de Novgorod (verso), Moscou, Galeries Tretiakov


 Victor I. Stoichita

Figure . Kasimir Malevitch, Portrait perfectionné d’Ivan Vassilliévitch Kliounkov, ,


huile sur toile,  ×  cm, Saint–Pétersbourg, Musée de l’Etat Russe
Du visage 

Figure . Kasimir Malevitch, Tête de paysan, –, huile sur bois,  ×  cm,
Saint–Pétersbourg, Musée de l’Etat Russe
 Victor I. Stoichita

Figure . Kasimir Malevitch, Tête de paysan cm, début des années , St
Pétersbourg, Musée de l’État Russe
Du visage 

Figure . « Mystique » et « Mouvement tournant mystique religieux de la tête », dessins


au crayon, , ancienne collection Léporskaïa (d’après Jean–Claude Marcadé,
Malévitch, Nouvelles Editions Françaises, , p. , Fig.  et 

Figure . Pipilotti Rist, Open my Glade (Falten), vidéo–installation, 


 Victor I. Stoichita

Figure . Parmigianino, Autoportrait au miroir, huile sur bois, diamètre ,  cm,
, Vienne, Kunsthistorisches Museum
Du visage 

Figure . Caravaggio, Méduse, –, huile sur bois, diamètre  cm., Florence,
Les Offices
 Victor I. Stoichita

Figure . Francis Bacon, Autoportrait, , huile sur toile, , × ,  cm,
collection privée
Du visage 

Figure . Rembrandt, Jeune fille à la fenêtre, , huile sur toile,  ×  cm,
Stockholm, Nationalmuseet
 Victor I. Stoichita

Figure . Lewis Carroll, Illustration pour Through the Looking–Glass, Londres,

Du visage 

Figure . Pipilotti Rist, Open my Glade (Falten), 


 Victor I. Stoichita

Figure . François Boucher, Portrait de Madame de Pompadour, , huile sur toile,
Cambridge (Mass.), Fogg Art Museum
Du visage 

Figure . Goya, Caprice  (Hasta la muerte), eau–forte, 


Il sistema del velo / Système du voile
ISBN 978-88-548-8838-8
DOI 10.4399/978885488838810
pag. 229–261 (gennaio 2016)

Il velo di Mosè e altri filtri ottici


nella Bibbia ebraica
U V

English Title: Moses’ Veils and Other Optical Filters in the Hebrew Bible.

A: The condition of the sacred is often characterized by significant changes in the
general system of visibility: there are things that can not or should not be seen, people who
want or don’t want, can or cannot see. This paper examines some of these alterations in
the biblical narrative: the veil that Moses wears coming down from Mount Sinai, because
his face is too bright, the burning bush of Moses from which Moses must leave for seeing
it, his request for the glory of God and the response he receives, the voices seen by the
people at Sinai, the interdiction of access to the Holy of Holies and their consequences in
the modern Jewish liturgy (the eyes covered in certain phases of the prayer, the separation
barrier between the genders in the synagogue, the interdiction of watching the priestly
prayer). All these examples, along with other changes to the regime of visibility in other
religious traditions (for example, the uncanny ability to see and not be seen of the Greek
gods) provides a veiled definition of the sacred, which probably shapes the way to conceive
the visibility of what is politically or religiously high in the Western tradition.

Keywords: Veil; Optical Filters; Visibility; Modesty; Hebrew Bible.

. Un dispositivo semiotico

Il velo è un dispositivo tessile elementare ma peculiare perché, a


differenza della grande maggioranza dei manufatti che gli sono tec-
nicamente analoghi, come gli abiti (salvo, in molte culture fra cui la
nostra, lo strato più interno), le tende (escluse le “tendine” domestiche
e i dispositivi analoghi che difendono le finestre), le coperte, i tappeti,
gli arazzi ecc., non serve a difendere il corpo umano e gli oggetti che
gli appartengono dalle intemperie e da intrusioni e pericoli ambientali,
ma viene usato invece per confondere o impedire del tutto la vista di
ciò che avvolge. Esso è insomma un interruttore ottico, che agisce sulla
comunicazione visiva, sia attiva (l’atto di vedere) che su quella passiva
(il fatto di essere visto), secondo modalità regole e fini determinati


 Ugo Volli

socialmente ed è dunque uno strumento tipicamente semiotico. Il velo


viene considerato qui insomma come dispositivo di regolazione della
visibilità, che lavora cioè sui classici quadrati semiotici modali della
visibilità :
Voler vedere Voler essere visto Poter vedere Poter essere visto

Non voler essere visto Non voler vedere Non poter essere visto Non poter vedere

Come vedremo nel seguito di questo articolo, i diversi veli di-


scriminano fra questi diversi atteggiamenti modali, li organizzano, li
attualizzano. La loro funzione non è affatto univoca, essi intervengono
diversamente nella varie situazioni e mediano spesso fra un’intenzione
modale e la sua attuazione o il suo fallimento. Il velo insomma è una
funzione sintattica prima che un oggetto concreto.
Nelle narrazioni di cui mi occuperò, essenzialmente tratte dalla
Bibbia ebraica (in particolare il Pentateuco, la Torah) e i suoi com-
mentari, si riscontrano infatti numerose varianti nella costituzione
materiale della funzione del velamento, esiste cioè un vero e proprio
asse paradigmatico dei veli che raccoglie i diversi materiali di cui il
velo può essere fatto (tessuti più o meno fitti, diversamente colorati,
di diversi materiali, ma anche sostanze diverse dal tessuto che hanno
la stessa funzione, per esempio il fumo, una mano, la nebbia ecc.). E
vi è una sintagmatica di gesti che lo organizzano (l’atto di velarsi e di
togliersi il velo ecc.). Non considererò nel seguito in maniera analitica
questi aspetti, perché la pertinenza del velo che mi interessa è la sua
funzione di disgiunzione ottica in generale.
Esso si oppone alla trasparenza — per esempio del vetro — e ancor di
più all’immediatezza — la situazione di essere scoperto e spesso per ciò
marcato, che si riscontra per esempio nelle scollature: ciò che è velato non
è e non deve essere completamente visibile. Si oppone anche alla semplice
visibilità di ciò che non è marcato, una mano, un paesaggio, un mobile.
Ma il velo si oppone in maggiore o minor misura anche all’opacità di un

. Strutture semantiche analoghe si possono naturalmente fare anche per stati modali
più complessi (voler non vedere, poter non vedere. Quest’ultimo quadrato, come è noto, si
converte con la negazione nella modalità molto importante del dover vedere/dover essere
visto.
Il velo di Mosè e altri filtri ottici nella Bibbia ebraica 

muro o di una maschera o di un’armatura: non è nella maggior parte


dei casi un dispositivo di accecamento o di invisibilità totale. Ha qualcosa
della litote: una negazione che conserva in parte ciò che è negato. La sua
funzione è di non lasciar vedere pienamente ma anche di accennare a ciò
che gli sta dietro, delineandone la forma generale, rendendolo riconoscibile
almeno tipologicamente se non conoscibile individualmente. Una donna
velata o un cadavere nel sudario o uno spazio separato da una barriera
parziale (“velatino” teatrale, iconostasi, pizzo degli abiti, sipario) possono
non essere identificabili nel dettaglio o perfino nell’identità personale,
ma nella loro cultura vengono riconosciuti per ciò che sono e spesso
anzi il velo diventa luogo di iscrizione di marche conoscitive (di genere, di
potere, di sacralità ecc.).
Per le ragioni appena dette mi permetterò nel seguito di questo
articolo di equiparare al velo vero e proprio quei dispositivi (di solito
altrettanto semplici) che consentono una regolazione della vista con lo
scopo di impedire in parte o gradualmente la vista: il fumo, le nuvole,
perfino, come vedremo, una mano.
Dunque il velo non acceca il suo soggetto o annulla il suo oggetto. Limita
la vista, non la interdice. È un dispositivo che ha una sintassi tipica-
mente tensiva. La sua capacità di ostacolare lo sguardo funziona per
gradi regolati dalla cultura. Quel che viene regolato dal velo è il livello
di invisibilità, in un certo senso di assenza dell’oggetto velato. Questo
grado è variabile dalla pura e semplice percezione dell’esistenza di
qualcosa di invisibile, che possiamo solo conoscere per via di descrizio-
ne ma è comunque presupposto necessariamente dalla velatura, alla sua
visione quasi perfetta, resa solo più vaga dall’interferenza del velo. Ma
“vago”, oltre che “incerto”, significa anche “piacevole, desiderabile”
con uno slittamento semantico molto significativo: la “vaghezza”, cioè
l’erranza, l’imprecisione, l’impossibile da afferrare, l’assenza anche
solo relativa di ciò che essendo nascosto non è interamente qui, gode
in conseguenza di questa condizione di una peculiare attrattiva.
Il velo quindi, in conseguenza al suo funzionamento come filtro
alla vista è un potente focalizzatore del desiderio. Ha perciò un ovvio

. Così il Gabrielli (edizione online http://www.grandidizionari.it/Dizionario_


Italiano/parola/V/vago_.aspx?query=vago+()) :  Che non è certo, sicuro, chiaro,
determinato[. . . ]  lett. Che vaga, mobile, instabile [. . . ]  lett. Desideroso, voglioso ||
Appassionato, amante [. . . ]  lett. Leggiadro, grazioso, soave, ameno[. . . ] || Piacevole,
amabile da ricordare; degno di rimpianto.
 Ugo Volli

senso erotico. Il punto da non dimenticare mai è che esso amministra


e determina una mancanza relativa del suo oggetto, una qualche sua
inafferrabilità, l’indisponibilità, la lontananza percettiva di ciò che pure
è vicino — una condizione che si traduce in una sorta di presenza
dell’assenza, che è la condizione fondamentale del desiderio, ma anche
del segno. Su questo tema che attraversa secondo una sorta di per-
corso carsico la cultura contemporanea, non posso che rimandare
al mio (Volli ). Può sembrare strano che un dispositivo, usato
massicciamente per controllare e asservire il corpo femminile dalle
culture antiche sviluppatesi intorno al Mediterraneo e in modo parti-
colarmente insistito ancora nell’Islam contemporaneo, possa avere
un effetto opposto, cioè produrre desiderio. Ma si tratta di un esempio
tipico di una dinamica molto nota per cui fra copertura, l’interdizione
alla vista e al tatto di zone del corpo e loro attrattività vi è una forte
determinazione reciproca (Morris ). Si pensi all’accentuata erotiz-
zazione dei capelli nella cultura islamica che è causa ma anche frutto
dell’obbligo a velarli.
Per capire meglio questo punto è bene ricorrere a un celebre brano
della Genesi. La velatura del corpo è nella narrazione biblica il primo
gesto autonomo degli umani, quello che fonda la cultura e che è la
premessa perché Adamo ed Eva si “conoscano”: Gen : “Allora si apri-
rono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono
foglie di fico e se ne fecero cinture”: In ebraico questi primi manufatti
sono definiti chagorot — parola non chiara il cui primo significato è
“cinture”. Ma in questo passo la traduzione letterale certamente risulta
impropria o parziale: che i due, accorgendosi di essere nudi si coprano
con “cinture” per lo più fatte “di foglie di fico” qui non ha molto
senso. Né è possibile che si siano fabbricati lì per lì degli abiti, secondo
il senso generale della radice CH–G–R. Bisogna dunque pensare a
coperture più o meno incerte, coperture a perizoma sospese, come
in certi quadri rinascimentali censurati o auto–censurati. Dal punto di
vista funzionale queste chagorot equivalgono a veli, a un modo incerto
e parziale di sottrarre alla vista ciò che non si deve vedere. Senza entra-
re in una discussione antropologica o filologica su questo primo gesto
vestimentario, possiamo coglierne il senso come il rapporto, descritto
da uno dei documenti di base della nostra cultura come originario, fra
abbigliamento, velatura e pudore. Nella narrazione biblica l’abito (o
“cintura) è istituito prima di ogni altro oggetto fabbricato, e lo è non
Il velo di Mosè e altri filtri ottici nella Bibbia ebraica 

per protezione fisica del corpo ma a causa di un vedere, specificamen-


te del vedersi nudi e del conseguente non–dover vedere. Così inteso,
il velo serve a realizzare il pudore, inteso come sforzo « di nascondere
quelle parti del corpo che servono solo a funzioni animali e non ha
alcuna determinazione spirituale né un’espressione spirituale » (Hegel
–: ). In termini più generali, il pudore

non è il sentimento di essere questo o quell’oggetto criticabile, ma in


generale di essere un oggetto, cioè di riconoscermi in quell’essere degradato
dipendente e cristallizzato che io sono per altri [. . . ] Vestire è reclamare il
diritto di vedere senza essere visti, cioè di essere puro soggetto (Sartre ).

Questa intuizione di Sartre è particolarmente importante. Vedere


è una forma di soggettività, essere visti è invece riduzione a oggetto. Di
più: chi vede si appropria in qualche modo di ciò che è visto da lui e se
questo “ciò” non è una cosa ma una persona, lo sguardo produce una
sua riduzione ad oggetto, dunque un’“ingiustizia”. Per questa ragione
Hegel, nel luogo citato, parla del pudore come dell’“inizio dell’ira
contro qualcosa che non deve essere”, cioè contro l’oggettivazione,
la riduzione ad animale, di cui il possesso sessuale, lo stupro, è una
conseguenza negativa possibile e non la sola. Probabilmente sulla base
di tale intuizione i divieti sessuali biblici, per esempio nel capitolo 
del libro del Levitico, sono formulati per lo più nei termini di “non
scoprire la nudità di”. (!‫עֶר§ו®ה‬. . . !ֹ‫)תְג®ּלֵה לא‬: quella tuo padre, tua madre,
tua sorella ecc. È una formula incidentalmente molto simile a quella
impiegata Gn :  a proposito dell’ebbrezza di Noè, quando Cam
“vide la nudità di suo padre” (!‫ו®יּ®רŸא‬, !Mָ‫ אֲבִי ת‬Nַ‫נ®ע‬Ç ‫ )אַבִיו לעֶרŸו®ה אֵת‬e
venne perciò maledetto. Lo scoprire cui consegue il vedere è inteso
come una forma di violenza.
Va notato che questo imperativo della non oggettivazione non ri-
guarda solo il senso della vista ed eventualmente le immagini che ne
conseguono (Volli ), ma anche i nomi propri: chiamare qualcuno
col suo nome significa in un certo senso svelarne l’essenza e prendere
potere su di lui. Per questa ragione il nome proprio di Dio non dev’es-
sere pronunciato, se non in occasioni molto particolari e con cautele
speciali (Volli , cap. II). Guardare vedendo e chiamare nominando
sono, nel pensiero biblico, operazioni in un certo simili: esercitano un
potere sull’altro e rischiano di degradarlo.
 Ugo Volli

. Regolatore di relazioni

Ma, al di là della sfera sessuale, il velo è anche un ovvio regolatore


della distanza e del potere. Uno degli aspetti del potere politico tradi-
zionale sta nella regolazione molto stretta delle apparizioni del sovrano,
il quale si presenta in genere in tutte le culture protetto da un apparato
che regola la prossemica e dunque la visibilità. Un esempio tipico di
questa regolazione è la sala del trono, dove il sovrano appare lontano
e in alto, abbigliato dei simboli del suo rango e muovendosi secondo
una coreografia precisa; lo stesso vale per tutte le occasioni cerimo-
niali (cortei, incoronazioni ecc.), mentre la visione delle sue azioni
quotidiane (spesso regolate anch’esse dall’etichetta) è strettamente
limitata a pochi privilegiati, perché il suo corpo è sede della regalità
(per un’analisi del caso dei re di Francia cfr. Kantorowicz ; per le
conseguenze della sparizione di questa distanza nella contemporaneità
Meyrowicz ).
In particolare questa regolazione della visibilità vale per il potere e
la distanza suprema, la Trascendenza divina. L’incontro con il divino è
descritto in tutte le religioni come un evento raro e passato. Perfino
in una religione politeista come quella della Grecia classica il mito
parte dal dato della fine dell’età eroica e dell’abbandono da parte
degli dei della scena umana (Calasso ). Il rito greco è spesso
mistero, si svolge nell’ombra e non deve essere svelato. Nella tradizione
cristiana le apparizioni divine sono un’eccezione connessa alla santità;
nell’Islam e nell’ebraismo questa visione è ancora più limitata nel
passato e indiretta.
Dio dunque, essendo trascendente, “ganz andere” (Otto ) è
velato, “absconditus” o piuttosto ama nascondersi (κρύπτεσθαι φιλει
DK fr. ) come la “natura” (φύσις [non discuto qui la traduzione,
evidentemente inadeguata]) di Eraclito e quindi si cela, sfugge attiva-
mente allo sguardo umano (el mestater !‫“ מִסְּתַּתַר אֵל‬invero tu sei un dio
che si nasconde, Dio di Israele, salvatore” Isaia, :). Il frammento di
Eraclito è stato messo in relazione esplicita al velo da Heidegger (:
–):

I Greci intendevano ciò che noi chiamiamo “il vero” come il dis–velato, il
non più velato; ciò che è senza velatezza e dunque ciò che è stato strappato
alla velatezza, ciò che le è stato, per così dire, rapito. Il vero è quindi per il
Il velo di Mosè e altri filtri ottici nella Bibbia ebraica 

Greco qualcosa che non ha più in sé qualcos’altro, cioè la velatezza da cui si


è liberato. [. . . ] Che cosa è che i Greci chiamano alethès (svelato, vero)? Non
l’asserzione, né la proposizione e nemmeno la conoscenza, ma l’ente stesso,
l’intero costituito dalla natura, dall’opera dell’uomo e dall’agire di Dio.

Vi è qui però una dialettica importante e complessa. Secondo la


lettura heideggeriana, la physis — il modo di essere fondamentale
dell’ente, la sua connessione generale, la sua genesi, ciò che noi oggi
saremmo facilmente portati a chiamare la sua verità, o se vogliamo il
trascendente che la sostiene — è velato, non percepibile; ma la nostra
possibilità di coglierlo e dunque quel tanto di verità che possiamo
afferrare è uno svelamento che le fa violenza e le sottrae la sua stessa
identità, rispetto a noi ha la caratteristica di essere necessario. Non
solo non potremmo conoscere, ma nemmeno vivere, essere, in una
condizione velata. La nostra azione e la nostra stessa umanità sarebbe-
ro impossibili. Qualcosa del genere avviene col sacro nel linguaggio
religioso. La trascendenza, che di sua natura non può che essere velata,
per dar luogo alla religione — più in generale per permettere agli esse-
ri umani di porsi in rapporto con essa — deve rivelarsi, abbandonare in
qualche misura l’oscurità (il “mistero”) che la circonda, senza per que-
sto divenire immanente, cioè semplicemente visibile. La sua presenza
è sempre velata — quantomeno nella forma dell’abbagliamento che si
accompagna a ogni teofania. Questa dialettica è interpretata in modo
del tutto peculiare dalle religioni in cui vi è una qualche incarnazione
del divino, come accade eminentemente ma non singolarmente nel
cristianesimo, e costituisce sempre un punto di difficoltà, di scandalo,
di dibattito, di possibile “eresia” (si pensi alla discussione sulle nature
umana e divina attribuite a Gesù e sui loro rapporti).
Ma il problema della rivelazione riguarda anche tradizioni di pen-
siero in cui l’idea di una trascendenza che si fa immanente appare
insensata e obbrobriosa, come l’ebraismo; si tratta in questi casi di
pensare dei mezzi che consentano all’uomo un contatto col divino
senza che Egli sia compreso (cioè capito, ma anche rinchiuso, catturato,
oggettivato) in questo contatto. I dispositivi fondamentali sono due: il
primo è quello della limitazione qualitativa della teofania, che avvie-
ne sempre in maniera parziale, per figure, angeli, apparizioni, sogni,
metafore, tracce che vengono lette dopo che si sono manifestate (« Dio
era qui ma io non lo sapevo », dice Giacobbe dopo la notte a Bet–El in
 Ugo Volli

cui ha il sogno della scala degli angeli: Gen: ): tutti modi in cui il
divino si vela nell’atto stesso del suo svelarsi, come vedremo nel seguito
analizzando qualche esempio.
Ma essa avviene soprattutto attraverso discorsi. La Rivelazione,
secondo il pensiero costante della tradizione ebraica, non consiste
nel mostrarsi del divino in persona (il che non accade mai) e neppure
essenzialmente per il tramite di una qualche apparizione, di una teofa-
nia, ma è soprattutto insegnamento deontico, trasmissione delle norme
di una buona vita – che richiede però una previa inclinazione, un mo-
vimento in direzione dell’etica, dunque un grado spirituale specifico;
e inoltre domanda, per compiersi, rispetto e perseveranza. Non c’è
forse immagine più poetica di questa relazione della grande metafora
del fidanzamento esposta (a proposito dell’insegnamento, cioè della
Torah, e non direttamente di Dio nello Zohar (II b–b):

Disse Rabbi Yose: chi è la bella vergine che non ha occhi, il cui corpo è
segreto eppure svelato, svelato al mattino e segreto durante il giorno, e
che s’adorna di monili che non esistono? (la Torah) è per così dire, come
una bella e nobile fanciulla che si nasconde nelle segrete del suo Palazzo,
e ha un amante, che nessuno conosce all’infuori di lei. Per via dell’amore
che le porta, quest’ultimo passa in continuazione davanti alla porta della
fanciulla e vaga inquieto con lo sguardo. Lei sa che egli è sempre lì nei
pressi della sua dimora, e allora cosa fa? Apre di appena uno spiraglio la
sua segreta nel palazzo, mostra il viso all’amato, consapevole che è per suo
amore che la fanciulla gli si svela, anche solo per un istante. Così è per la
Torah, che dischiude i suoi segreti più riposti solo a colui che l’ama [. . . ]
si rivela fuggevolmente e così facendo attizza l’amore che il suo amante le
porta [. . . ] all’inizio, quando comincia a rivelarsi a qualcuno, essa gli porge
delle allusioni. Se l’uomo capisce e riconosce, bene. Altrimenti lo manda a
chiamare, lo apostrofa come “novizio” [. . . ] Quando questi si presenta, la
Torah prende a parlargli, dapprima da dietro il paramento ch’essa dispiega
per lui intorno alle proprie parole, di modo che esse siano a sua misura.
Piano piano egli vede sempre di più [. . . ] Dopo di che la Torah comincia
a parlargli dietro un telo di fine tessuto, usando enigmi e parabole [. . . ]
Quando finalmente l’uomo può dirsi in confidenza con la Torah, allora e
solo allora questa si espone con lui a tu per tu, e conversa con lui dei segreti
più inaccessibili.

Vi è qui implicata una teoria dei gradi di senso, che è diffusa nel
pensiero e nella mistica ebraica spesso nella versione dei gradi erme-
neutici espressi dalla sigla PaRDeS (Peshat, interpretazione letterale;
Il velo di Mosè e altri filtri ottici nella Bibbia ebraica 

Remez, lettura allegorica; Derash, “sollecitazione” del senso oltre la let-


tera; Sod, “segreto”, cioè lettura mistica). Ma Pardes è anche un nome
(probabilmente di origine iranica) che significa “giardino”, “paradiso”,
e viene usato per descrivere la beatitudine mistica, la quale è però assai
pericolosa, come testimonia la celebre narrazione talmudica (Talmud
Hagigah b):

I nostri maestri hanno insegnato: quattro entrarono nel Pardés [giardino].


Erano Ben Azài, Ben Zomà, Achèr e Rabbi Akivà. Rabbi Akivà disse loro:
« Quando arriverete la pietra di marmo puro, non dite, ‘Acqua! Acqua!’
perché è detto: ‘Chi parla menzogne non starà davanti ai miei occhi’ (Salmi
:) » Ben Azài guardò e morì. Di lui è scritto, « preziosa agli occhi di
HaShèm è la morte dei suoi pii » (Salmi : ). Ben Zomà guardò e ne
fu leso [impazzì]. Di lui, è scritto: « Hai trovato del miele? mangiane con
discrezione perché non ti riempia, e tu ti trovi a vomitarlo ». (Proverbi :
). Achèr tagliò i germogli [divenne apostata]. Rabbi Akivà entrò, e uscì in
pace.

Senza entrare minimamente nel merito di questo testo assai com-


plesso ed enigmatico, è evidente la morale per cui la “nuda verità”
mistica, la visione non velata del vero, non può essere affrontata diret-
tamente, ed è necessaria una gradualità e una protezione, un accesso
cioè solo parziale e solo guidato (potremmo dire in definitiva velato),
che protegga tanto la sacralità di ciò che è conosciuto quanto la vita di
chi conosce.

. Veli

La figura in cui questa dialettica si mette in atto narrativamente è quel-


la della Rivelazione: mi occuperò in questo saggio di quella ebraica, 

. Trad. it. tratta da B e L , pp. –, con lievi modifiche.
. È interessante notare qui che nella tradizione ebraica vi sono due modi principali
di riferirsi a quel che in italiano si chiama Rivelazione. Uno è natàn Torah, il “dono della
Torah”, interessante perché concentrato sul contenuto della Rivelazione, un ente terzo che
media fra l’uomo e a Dio. L’altro, meno diffuso ma più significativo in questo consenso,
è gilui o gilùi shachinàh, vale a dire “Rivelazione” o “Rivelazione della Shechinah” che
è la presenza divina, ipostatizzata nell’ebraismo kabbalistico come l’interfaccia divina o
addirittura la parte femminile della divinità, rispetto a cui, come ha mostrato Moshé
Idel () vi sono mistici che hanno pensato anche a una dimensione ierogamica come
 Ugo Volli

come è descritta nella Torah e compresa nella tradizione ebraica e in


particolare il modo in cui vi compare la figura del velo.
Nelle storie sacre vi è assai frequentemente un momento fondativo
in cui, più o meno direttamente Dio si dice e naturalmente lo fa in
maniera tale da comunicare a chi vi assiste un messaggio rilevante
per l’umanità (Pace ). Al di là dell’etimologia, anche sul piano
narrativo, come vedremo in seguito nel caso della narrazione della
Torah di Israele, questa rivelazione è dialettica di velamento e svelamento.
Dio parla comunque attraverso un velo, un modo di essere presente
conservando la trascendenza, si tratti di “segni”, di “sola voce”, di
un “arcangelo”, di un essere umano che si qualifica poi come parte
o partecipe della divinità. Il velamento garantisce la trascendenza,
l’esteriorità, dunque la soggettività, in primo luogo di Dio stesso,
ma anche delle persone che ricevono la Rivelazione e potrebbero

condizione della restaurazione del mondo (tikkùn olàm). Il punto importante per noi qui
è che la parola gilui è legato al verbo galàh (spogliare) come la parola galùt e golà che
significano “esilio”. È una radice largamente usata in questo senso. In Gen :, dove
si descrive il sogno della scala fatto da Giacobbe, la teofania è descritta dalla voce niglù
(“apparve”), mentre in Es., quando si prescrive che l’altare divino debba essere senza
gradini per non “scoprire le nudità” dei sacerdoti, si usa lo stesso verbo (lo–tigalè). In
altre forma il verbo si riferisce al togliere, all’andare in esilio, allo scoprire, allo scoprirsi,
all’essere nudi, all’essere portati in esilio, allo spogliare una terra dai suoi abitanti e anche a
togliere il velo a una donna; si tratta del resto dello stesso verbo usato a proposito dello
“scoprire la nudità” discusso sopra (per la concordanza di questo verbo: http://biblehub.
com/hebrew/.htm). Il nesso fra rivelazione ed esilio è estremamente significativo
ed esplicitamente rivendicato dal maestro chassidico Yehuda Leib Alter detto “Sfat Emet”
(–) che insegnava, con un tipico gioco di parole in ebraico a leggere galut “esilio”,
che deriva dalla forma attiva del verbo, come itgalut, che viene dalla forma riflessiva e
può significare esposizione e rivelazione. Lo ricorda David Patterson () nel contesto
significativo di una teologia della Rivelazione ebraica dopo Auschwitz.
. In questo saggio analizzerò il testo biblico come ci è pervenuto, utilizzando la meto-
dologia sincronica che è fondamento per la semiotica, ignorando quindi le dibattutissime
e certamente non assestate questioni della stratificazione del testo e della sua datazione,
origine ed eventuale motivazione contingente in quanto non pertinenti. Studierò inoltre
alcuni dettagli linguistici della superficie del testo, in particolare del testo originale, non
accontentandomi delle traduzioni, perché a questi dettagli bada moltissimo la millenaria
autocomprensione ebraica del testo, che mi interessa descrivere, e anche perché se si vuole
capire una cultura certamente assai diversa da quella contemporanea com’è la visione
biblica del sacro, bisogna evitare di fermarsi a ciò che a noi oggi sembra di buon senso,
ed è soprattutto espressione della nostra Enciclopedia e cercare il più possibile di rendere
ragione del funzionamento testuale nella sua dinamica particolare, il che significa innanzi-
tutto fare i conti con la sue lingua e il suo sistema di significazione. Per motivazioni più
dettagliate, cfr. V  e V .
Il velo di Mosè e altri filtri ottici nella Bibbia ebraica 

esserne schiacciate. Insomma, il velo è condizione del riconoscimento


di un’alterità (o nei termini di Levinas (,) di un’”esteriorità”)
che è sempre per principio reciproca, anche quando è imposta da una
parte all’altra.

Il primo velo di Mosè

È quel che emerge molto chiaramente dalla più famosa teofania della
Torah, quella che coinvolge Mosè con la visione del “roveto ardente” .

E  Ora Mosè stava pascolando il gregge [. . . ]  L’angelo del Signo-


re gli apparve (vayerah) in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto.
Egli guardò (vayareh) ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma [...]  Mosè
pensò: « Mi sposterò (assurah [ma spesso troviamo la correzione ad sensum
della traduzione letterale nel suo opposto: “mi avvicinerò” UV]) per vedere
(veereh) questo grande spettacolo (mareh): perché il roveto non brucia? ». 
Il Signore vide (vayareh) che si era spostato (sar lett. [alcuni correggono:
“avvicinato” UV]) per vedere (lirot) e Dio lo chiamò dal roveto e disse[. . . ]
 Riprese: « Non avvicinarti (al tiqrav [si noti che non vi è nessun legame
col verbo lissor usato prima])! Togliti i sandali dai piedi [. . . ] ».  E disse: « Io
sono il Dio di tuo padre, [. . . ] ». Mosè allora si velò il viso (iaster panav lett.
nascose il volto), perché aveva timore di guardare (iari mehebit) verso Dio.

Alla teofania, che per ora non è ancora rivelazione, Mosè reagi-
sce dunque con un movimento, che di solito nelle edizioni bibliche
dipendenti dalla Settanta e dunque in molte di quelle cristiane viene
tradotto a buon senso come avvicinamento , ma in realtà significa spo-
. Vale la pena di ribadire qui una distinzione terminologica comune che è piuttosto
rilavante in questo articolo: quella fra teofania, intesa come ogni episodio in cui è narrato
un contatto o un’interazione diretta fra esseri umani e divinità, che in Genesi è percepita in
maniera non problematica, e rivelazione, in cui l’oggetto del contatto è la trasmissione di una
conoscenza sull’identità divina o la sua legge. È per esempio certamente teofania (ma non
rivelazione, in assenza di un velamento previo) l’incontro che Adamo ed Eva hanno con
Dio dopo l’episodio dell’albero (Gen ) o quello di Caino in Gen .
. Nel seguito di questo saggio, per mettere in rilievo le isotopie relative a velamento e
svelamento, seguirò questa convenzione nei testi citati: sottolineerò le parole nel testo che
significano o implicano visione (normalmente dalla radice ebraica del verbo lirot, vedere)
e metterò in grassetto quelle che implicano spostamento e in corsivo sottolineato quelle
che riguardano direttamente il velo. Di queste espressioni darò anche una trascrizione in
corsivo (semplificata come in tutto questo lavoro, per facilitare la lettura).
. La fonte è naturalmente la CXX: “Es : ε᾿ ιπε δὲ Μωυς ης· παρελθὼν ὄψομαι τὸ
ὅραμα τὸ μέγα το υτο, [. . . ] ὡς δὲ ε᾿ ιδε Κύριος ὅτι προσάγει ἰδε ιν”. E la Vulgata
 Ugo Volli

starsi, distogliere (lo sguardo?), perfino allontanarsi: un gesto che è già,


da un certo punto di vista, un velamento, un effetto di discrezione. Il
grande “spettacolo” o “visione” (mareh, parola che in ebraico come
in italiano deriva etimologicamente dal verbo “vedere”), Mosè non
agisce per scorgerlo meglio, per indagare la sua natura, non si dirige
verso di esso, ma al contrario se ne distoglie. Un comportamento sin-
golare, che equivale a una forma di autovelamento e che testimonia
di un doppio riconoscimento: da un lato il carattere “sacro”, kadosh,
cioè essenzialmente “separato” di ciò che gli si presenta, e dall’al-
tro del “giusto” comportamento da assumere di fronte al sacro, cioè
non fronteggiarlo, osservarlo, oggettivarlo ma distogliersene, senza
però fuggirne. Dobbiamo dedurre dal testo che per poterlo “vedere”
davvero, Mosè non guardi direttamente lo “spettacolo”, ma attenda
istruzioni.
A questo punto infatti gli si chiede di non avvicinarsi e di scalzarsi,
in segno di rispetto. Egli obbedisce e in più spontaneamente si vela il
volto (evidentemente non per non essere visto, che non avrebbe senso
“ Dixit ergo Moyses: “ Vadam et videbo [. . . ] Cernens autem Dominus quod pergeret
ad videndum [. . . ]  At ille: “Ne appropies, inquit, huc” Ma per esempio nella vecchia
traduzione ufficiale della Confrenza Episcopale italiana, pubblicata dall’Unione degli Editori
Cattolici Italiani ancora nel  si legge Es.: : “Voglio avvicinarmi per vedere questo
meraviglioso spettacolo [. . . ] . Il Signore vide che si era avvicinato [. . . ] e . disse ‘non
avvicinarti’.”, mentre nell’edizione San Paolo del , si legge: Es.: . Ora mi sposto per
osservare questo spettacolo grandioso [. . . ] . Il Signore vide che si era spostato [. . . ] e .
disse: ‘non avvicinarti’.”Qualche esempio di altre traduzioni per assurah. New International
Version: “go over”; King James: “turn aside” Cemmon English Bible: “come to look”
International Standard Version : “go over”; Lutero “Ich will dahin (gehen)”; Schlachter
“hintreten”. Per un’analisi più completa, cfr. https://www.biblegateway.com/. È degno di
nota che anche la traduzione più diffusa nell’ebraismo italiano, quella a cura di rav Dario
Di Segni e pubblicata da Giuntina, traduce “voglio avvicinarmi”, mantenendo lo stesso
verbo nei due versetti successivi.
. Che kadosh voglia dire, prima e oltre che sacro o santo (in ebraico non esi-
ste la distinzione, nonostante che Levinas a contrapponga i due termini) è un
dato linguistico inequivocabile. Nell’ermeneutica ebraica la sostitutuibilità fra i due
significati deriva dall’antica interpretazione rabbinica (Sifrà) di Lev. :  (“Siate san-
ti, perché io, JHVH vostro Dio sono santo”), che vi viene parafrasato con “Siate se-
parati”, fra l’altro usando il vocabolo ebraico perushim che è una delle possibili eti-
mologie della parola “fariseo”. Per un’analisi di questo punto un buon riferimento è
http://www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/judaica/ejud_ ___.html. Si
noti che lo stesso tipo di significazione è molto diffuso nelle lingue classiche: sacer (da una
radice indoeuropea SAK); sanctus (participio passato del verbo sancire, derivante dalla stessa
radice; significa “sancito”, “stabilito”, “deciso”, “tagliato”), da cui probabilmente viene
anche il greco ἅγιος (ηαγηιος, σαντο).
Il velo di Mosè e altri filtri ottici nella Bibbia ebraica 

di fronte alla Divinità, ma all’inverso per non guardare). Con queste


premesse è possibile la teofania, che è molto libera e importante (è
qui che avviene la rivelazione del nome proprio divino, in seguito a
una affascinante dialettica onomasiologica che ho cercato di spiegare
in Volli , cap. II). Essa è puramente verbale, non implica alcun
attributo di visibilità , anche se è certamente molto stretta e vivace,
con una vera e propria discussione. Se ne può trarre un’interessante
catena modale:

MODALITÀ: Avere Voler vedere Non doversi Non voler Poter


un’apparizione avvicinare guardare incontrare
→ → → →
AZIONI: vedere nessuna distogliersi velarsi discutere
azione

L’apparizione è per Mosè inizialmente solo subita: un angelo, che


nella Torah non ha di solito individualità ma è la figura visibile della
divinità, gli si fa vedere (il verbo impiegato è una forma dello stesso
lirot che è usato poi insistentemente per indicare tutti gli effetti di vista
del brano ) nel roveto (o come roveto); si fa vedere però “in una fiam-
ma in mezzo al roveto”, cioè in qualche modo velata anch’essa, anzi
doppiamente velata dall’abbagliamento della fiamma e dallo schermo
che non si consuma del roveto. Poi Mosè sente un obbligo (prima in-
teriore e poi esplicitamente comandato) a non avvicinarsi alla teofania,
a non oltrepassarne la soglia, che viene da lui esteso anche sul piano
visivo col velo. Mosé capisce spontaneamente che le regole di questo
incontro implicano una limitazione dello sguardo e per due volte, col
distogliersi e col velarsi, se le autoimpone. E questa, a seguire la logica
implicita ma chiarissima del brano, è una premessa indispensabile del
dialogo con la divinità: non bisogna mai pretendere di trattarla come
un oggetto, di afferrarla anche solo con lo sguardo.

. Si potrebbe certamente mostrare che questa è una caratteristica generale delle
teofanie della Torah, in particolare di quelle non rare della Genesi (per esempio nei capitoli
, , ,  riguardanti Abramo), anche se in qualche caso (in particolare nell’episodio
delle Querce di Mamre (Gn. ) il dialogo si intreccia a una visione di “tre uomini” che in
un senso non chiarissimo fungono da rappresentanti della Divinità.
. Per un’analisi degli effetti di vista di questo brano, paragonati a quelli del primo
capitolo di Ezechiele, su cui si è sviluppato il fondamentale filone della mistica ebraica
denominato maasé merkavà, “fatti del carro”, vedi Volli a.
 Ugo Volli

. Veli di Nube

Dopo l’uscita dall’Egitto vi è la Rivelazione del Sinai, che a sua volta


ha degli effetti di limitazione visiva. Quando la annuncia a Mosé, Dio
dice (Es : ) « io ti apparirò [bo, lett. “vengo” a te] entro una densa
nube perché il popolo oda », nube che è evocata poi più volte nella
narrazione:
Es. : . Mosè salì dunque sul monte e la nube (heanan) coprì (kaseu) il
monte.  La Gloria (kevod) del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e
la nube (heanan) lo coprì (vaicas) per sei giorni. Al settimo giorno il Signore
chiamò Mosè dalla nube (heanan).  La Gloria (kevod) del Signore appariva
(umareu) agli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. 
Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte.

Se, come vedremo meglio in seguito, la parola ebraica kavod , tra-


dotta costantemente come “Gloria”, indica una sorta di focalizzazione
spaziale della presenza divina, essa è percepita solamente in maniera
indistinta, mobile e non realmente oggettivabile come qualche cosa, in
una sorta di fiamma (il che dà un senso ulteriore fra l’altro al bruciare
del roveto ardente). Ma la fiamma è in realtà per lo più a sua volta
coperta da una nube, che ne impedisce in parte o del tutto la visione in
qualche modo proteggendola, ma insieme l’accompagna e la segna-
la fin quasi a sostituirla per una sorta di sineddoche. La nube è un
segno della presenza divina, ma non nel senso di sostituirla, bensì di
costituirne il rivestimento e l’espressione. Per questi caratteri possiamo
considerarla una sorta di velo. Il popolo non vede Dio, che è invisibile
e neanche la sua “Gloria” o il suo “volto”, che come vedremo subito
non si possono scorgere senza morire. Neppure vede la fiamma in cui
essa si manifesta e si cela allo stesso tempo, ma solo la nube che è il
velo di questo velo.
Così accade per esempio in Es. :  « Quando Mosè entrava nella
tenda [del convegno, ohel], la colonna di nube [amud heanan] scendeva
e restava all’ingresso della tenda. Allora il Signore parlava con Mosè.
. La nube, elemento dall’opacità variabile, si accompagna poi regolarmente alla pre-
senza divina, che si tratti della vetta del monte Sinai (Es. : –) o della tenda dell’incontro
o del viaggio del popolo ebraico nel deserto.
. Di cui l’espressione kevod che si trova nel testo è lo “stato costutto”, cioè la forma
che regge un complemento di determinazione.
Il velo di Mosè e altri filtri ottici nella Bibbia ebraica 

Tutto il popolo vedeva (rahà) la colonna di nube ». La stessa nube che


cala sulla tenda quando Dio è a colloquio con Mosè, guida il cammino
del popolo nel deserto (per esempio in Es :  « L’angelo di Dio, che
precedeva l’accampamento d’Israele, cambiò posto e passò indietro.
Anche la colonna di nube si mosse e dal davanti passò indietro ».

Zaffiro

La dialettica fra visibilità e invisibilità del divino assume un carattere


completamente diverso in un episodio immediatamente successivo:
Esodo : : « Poi Mosè salì con Aronne, Nadab, Abiu e i settanta
anziani di Israele.  Essi videro (verehu) il Dio d’Israele: sotto i suoi
piedi vi era come un pavimento [lett.: lavoro di pietra] di zaffiro, simile
in purezza al cielo ». Qui di nuovo, attraverso una strana metafora
inversa (si dice che il pavimento di zaffiro è puro come il cielo per dire
in sostanza che il cielo attraverso cui si intravvede qualcosa di divino
era come zaffiro). Allo stesso tempo si accenna a una semitrasparenza,
quella del cielo/pavimento che lascia vedere con uno scorcio auda-
cissimo (potremmo dire noi oggi: alla maniera della “Camera degli
sposi” di Mantegna), una vista dei piedi di un Dio inteso in maniera
molto antropomorfa. Lo zaffiro (o il cielo) funziona come una specie
di velo sottile, che lascia intravvedere “i piedi” (possiamo dire, se
vogliamo uscire dall’antropomorfismo o dalla metafora corporea: la
parte inferiore, l’interfaccia con il mondo degli uomini) della divinità.
Ma vedere Dio non è permesso anche quando le circostanze lo rendo-
no possibile, come vedremo subito nell’episodio successivo, e infatti
Rashi (Rabbi Shlomo Yitzhaqi ben Eliezer, Troyes,  — ), il più
autorevole commentatore della Torah nella tradizione ebraica, precisa
che vi fu una punizione posteriore (commento ad loc.):
Essi guardarono e contemplarono, e per questo furono giudicati degni di
morire; ma poiché Dio non volle turbare la gioia della promulgazione della
Torah, non li punì subito ma rinviò la punizione di Nadav e Avihu fino al
giorno dell’inaugurazione del Tabernacolo del deserto; gli anziani invece li
punì quando il popolo si lagnò nei confronti del Signore.

Avrebbero insomma anch’essi dovuto distogliere lo sguardo dalla


teofania, rispettare l’invito implicito del velo celeste, come aveva fatto
Mosè al roveto, non avrebbero dovuto approfittare della possibilità
 Ugo Volli

fornita dalla trasparenza del cielo di cogliere un’apparizione, ma al con-


trario mostrare discrezione, rispettare la semi–opacità del velamento.
Ma la tentazione di vedere, il voyeurismo teologico è evidentemente
molto forte. Tant’è vero che, con le dovute maniere, vi si mostra
senisbile anche il discretissimo Mosè.

Un altro quasi–velo imposto a Mosè: la mano divina

Accade dopo l’episodio del vitello d’oro e dopo che Mosè ha ottenuto
il perdono per il popolo ebraico, ed è riconosciuto da Dio come un
interlocutore privilegiato (Es :: « Hai avuto grazia ai miei occhi
e ti conosco per nome »). Mosè allora chiede a Dio (ES : ): « Gli
disse: “Mostrami (hareeni) la tua Gloria (kevodecha)!” ». Quel che vuol
vedere Mosè normalmente viene tradotto come “la tua gloria”. Anche
se questa traduzione è larghissimamente diffusa, è difficile non con-
siderarla problematica: che cosa vuol dire “mostrare la gloria”, dato
che il significato fondamentale di questa parola è “a) fama grandissi-
ma, onore universale che si acquista per altezza di virtù, per meriti
eccezionali, per atti di valore, per opere insigni; b) lode, esaltazione,
glorificazione” e la sua etimologia, dalla radice indoeuropea KLU si
riferisce alla sfera sensoriale dell’ascolto e non della vista ? e che cos’è
specificamente la “gloria” di Dio?
In realtà queste considerazioni si riferiscono a una traduzione che
non soddisfa perché evidentemente inventiva ed eufemistica, ma è
problematico anche l’originale kavod, da una radice KVD che significa
in prima istanza “peso, pesantezza”, in senso letterale o metaforico. Si

. La traduzione è straordinariamente diffusa, anche se chiaramente metaforica. Pra-


ticamente in tutte le edizioni inglesi, a partire da quella di King James, si usa “glory”; in
spagnolo e in italiano “gloria”; in tedesco a partire da Lutero “Herrlichkeit” (signoria); in
francese “gloire”. L’origine più vicina è la traduzione “gloria” della Vulgata, che a sua volta
deve qualcosa alla doxa dei Settanta, anche se la modifica parecchio (dato che l’equivalente
greco più classico per “gloria” sarebbe kleos mentre doxa è piuttosto la fama, ma anche
l’apparizione, da dokein che può significare anche “credere” “sembrare”, apparire. È proba-
bilmente nella ricezione della LXX da parte di Gerolamo che si è avutao lo slittamento dal
significato di doxa come apparenza a quello di una fama che nel caso divino non poteva
che essere gloriosa).
. http://www.treccani.it/vocabolario/gloria/; risultati analoghi si ritrovano in tutti
i dizionari.
. « Il cui significato originario è udire, farsi udire », http://www.etimo.it/?term=
gloria, da cui viene anche il greco kleos.
Il velo di Mosè e altri filtri ottici nella Bibbia ebraica 

usa questa radice per esempio per le ruote impantanate dell’esercito


del Faraone (Es, : ) per una persona “vecchia e pesante” che cade
e muore, (Sa: ); per il fegato (kaved). Ma è usata anche per quel
che viene tradotto come l’“indurirsi del cuore del Faraone” operato
dalla divinità [ma letteralmente è “appesantire”], espressione teologi-
camente assai enigmatica (Es. :, : ecc., in significativa alternanza
col verbo hazak, “rafforzare”). Essa compare perfino nella quinta “pa-
rola” del Decalogo: “Onora” [kabed, letteralmente “dai peso a”] tuo
padre e tua madre” .
Tornando alla richiesta di Mosè, è chiaro che egli intende una sorta
di “presenza fisica” della divinità, che è certamente problematica dal
punto di vista più generale e per così dire filosofico di una tradizione
che ribadisce continuamente la trascendenza divina. Ma questa tra-
dizione nella Torah si esprime sempre in una lingua molto densa di
metafore corporee (Lakoff e Johnson ). Dunque è ragionevole
pensarla in un senso metaforico: come potrebbe la fragilità degli esseri
umani pesi la straordinaria pesantezza della presenza divina (qualunque
cosa significhi poi una presenza, un essere qui di Colui che “è il luogo
del mondo e non il mondo il Suo luogo” ).
La risposta che Mosè riceve è estremamente significativa

Es :  Rispose: « Farò passare davanti a te (al panecha, letteralmente


sulla tua faccia) la mia bontà [kol hatovì, letteralmente “tutto il mio bene”] e
proclamerò il mio nome [. . . ]  Soggiunse: « Ma tu non potrai vedere (lirot)
il mio volto (panai), perché nessun uomo può vedermi (irani) e restare vivo ».
 Aggiunse il Signore: « Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe:
 quando passerà la mia Gloria (kevodì), io ti porrò nella cavità della rupe e
ti coprirò con la mano finché sarò passato.  Poi toglierò (hasiroti) la mano
e vedrai (veraita) le mie spalle (ahorai), ma il mio volto (panai) non lo puoi
vedere (lo irau) »

A parte gli antropomorfismi (o piuttosto qual che Lakoff e Johnson

. La numerazione è quella della tradizione ebraica, da cui si è distaccata quella


cristiana; e anche l’espressione “parola” e non “comandamento” corrisponde al modo in
cui la tradizione ebraica considera il Decalogo, in maniera significativamente diversa dal
Cristianesimo. Non è possibile discutere qui queste differenze.
. Anche in questo peso che diventa (non solo qui) “onore” c’è naturalmente una
possibile origine per il senso di “gloria che stiamo discutendo.
. Come dice Rashi commentando il brano che sto introducendo, sulla base di un
midrash in Bereshit Rabbah LXVIII, .
 Ugo Volli

chiamerebbero metafore corporee), questo testo è estremamente


problematico. Qualcosa del divino (la “faccia”, che sembra qui più o
meno equivalere alla “pesantezza” e dunque forse alla “presenza”)
non si può vedere, qualcos’altro (la schiena, o ciò che vien dopo, le
tracce secondo Levinas, oppure secondo Rashi “i nodi che assicurano
dietro la testa i tefillin”, ovvero la scatolina contenente testi della Torah
che si pone anche sul capo per la preghiera) invece sì. Vi è una
“bontà” che sfila davanti al profeta (e Rashi la interpreta come gli
attributi di amore e carità che saranno enunciati in Es: :–). Non
ci interessa qui tentare un’interpretazione complessiva del brano,
ma solo rimarcare la funzione della “roccia”, “luogo a me vicino” ,
insieme alla “mano”, nel costituire un dispositivo di velamento. La
mano (letteralmente il mio palmo, capì), chiudendo la cavità della
roccia come un otturatore fotografico fa con l’obiettivo, disgiunge
spazialmente e temporalmente le due situazioni di visibilità: non
lascia vedere quel che non deve essere visto e permette di vedere ciò che
si può. Di nuovo interpretando il testo in maniera non antropomorfa,
com’è uso nell’insegnamento tradizionale ebraico almeno dal tempo
di Maimomide (XII secolo), possiamo pensare che la mano è ciò che
opera, che costruisce, che plasma, dunque l’attività divina, l’intervento
di Dio nel mondo. Ed essa qui è richiamata come dispositivo che
chiude gli occhi del profeta sul Suo “volto”: diciamo l’identità. La
mano rinchiude Mosé in una sorta di oscurità solo per un attimo,
mentre “passa” la “gloria”: il fare divino rende impenetrabile la sua
intimità quando si potrebbe intravederla.
Anche questo è un modo di filtrare la percezione. Una sorta di velo
è dunque qui imposto e non indossato volontariamente; esso inoltre
impedisce lo sguardo solo per un certo intervallo, quello necessario al
passaggio del volto, e poi la consente di nuovo.
Se applichiamo per un momento a queste episodio il commento
che Rashi premette alla sua lettura di un altro luogo capitale del-

. Commento ad loc. L’ingenuità è troppo evidente per non essere a sua volta metafori-
ca. Mosè vedrebbe cioè un Dio che rispetta i dettagli rituali della preghiera e in particolare
si fa sul capo quei nodi che servono a riprodurre l’iniziale di un Suo stesso nome. Senza
dubbio si vuol dire che il Divino si vede nell’osservanza e nei simboli che la intessono.
. È interessante considerare qui che nella tradizione ebraica sia “roccia” (zur) sia
“luogo” (makom) sono riconosciuti come nomi divini, soggetti quindi a un trattamento
semiotico e rituale particolare.
Il velo di Mosè e altri filtri ottici nella Bibbia ebraica 

LUOGO MODALITÀ AZIONI

Davanti Non poter vedere la faccia → Non vederla Autorizzazione allo sguardo retrospettivo
Dietro Poter vedere la schiena → Vederla Chiusura/cecità prospettiva nel palmo/velo

la Torah, l’inizio del racconto della creazione , e intendiamo che


“Questo testo non dice altro che: Interpretami!”, è facile notare che
l’opposizione fra visibile e invisibile si può intendere applicata a una
contrapposizione spaziale (davanti/dietro), oltre che fisica. Che la
faccia (panim) stia per la presenza è comunissimo nella Torah ed è rile-
vabile anche in questo stesso brano, al verso : “Farò passare davanti
a te (al panecha, letteralmente sulla tua faccia)”. E che la contrappo-
sizione spaziale ne possa indicare anche una temporale, è altrettanto
comune. Dunque il velo è sul futuro, e lo sguardo sul passato, come
per il celebre angelo della IX tesi di Filosofia della storia di Walter
Benjamin:

L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato.
Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che
accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli
vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una
tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte
che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente
nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti
a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.

Naturalmente questa non è l’unica lettura possibile ed è facile


definirla tendenziosa. Il dietro o il “dopo” divino per Rashi è la pratica
quotidiana della preghiera, il nodo dei tefillin; per Lévinas sono le
tracce del divino nella storia, quale che si usa definire la sua provvidenza.
Comunque anche qui vi è una questione di volti: quello coperto di
Mosé e quello invisibile di Dio, che devono stare in una posizione
non oggettivante proprio per trovare un rapporto autentico. Per questa
ragione non appare illogico o contraddittorio che la scena della roccia
e della mano sia preceduto di poche righe da un versetto dove si
dice (Es. : ) « Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia (panim el
panim) come un uomo parla al suo prossimo ». Il “faccia a faccia”, cioè

. Rashi, commento a Bereshit : .


 Ugo Volli

l’essere uno di fronte all’altro, incontrarsi, sembra possibile solo alla


condizione che il volto non sia guardato.
Ma non è questo che ci interessa qui. Il nostro tema è l’interruzione
dello sguardo, la velatura come condizione del contatto col divino,
come metafora nella sfera del visibile della sua trascendenza nella
tradizione ebraica. Nella scena del “passaggio del kavod”, come nella
rivelazione del Decalogo, la vista è impedita, ma sono prodotte delle
parole. È l’uso dello sguardo ad apparire pericoloso in relaazione
almeno alla presenza divina.  Ciò viene ribadito in un celebre passo
del Deuteronomio:

Deut :  Il Signore vi parlò (iedaber) dal fuoco; voi udivate (shomyim) il suo-
no delle parole (kol devarim) ma non vedevate (roim) alcuna figura (temunah);
vi era soltanto una voce (kol). [. . . ]  Poiché dunque non vedeste (roitem)
alcuna figura (temunah), quando il Signore vi parlò sull’Oreb dal fuoco, state
bene in guardia per la vostra vita,  perché non vi corrompiate e non vi
facciate un’immagine scolpita (pesel) a figura di qualche forma (temunah kol
samel), l’imitazione (tavnit) di maschio o femmina,  l’imitazione (tavnit) di
qualunque animale, l’imitazione (tavnit) di un uccello che vola nei cieli, 
l’imitazione (tavnit) di una bestia che striscia sul suolo, l’imitazione (tavnit)
di un pesce che vive nelle acque sotto la terra;  perché, alzando gli occhi
al cielo e vedendo (veraita) il sole, la luna, le stelle, tutto l’esercito del cielo,
tu non sia trascinato a prostrarti davanti a quelle cose e a servirle [. . . ].

Il brano è certamente problematico anche perché non è facile in-


terpretare i quattro quasi sinonimi usati (temunah, tavnit, pesel, samel),
che per una comprensione adeguata devono confrontati con altre ri-

. Vi è un dettaglio significativo della liturgia ebraica, che forse risale fino al tempo
del Tempio e sembra derivare da questa diffidenza per lo sguardo sulla teofania. In certe
circostanze, variabili a seconda dei vari costumi rituali locali, i sacerdoti, o coloro che
sono ritenuti discendenti legittimi degli antichi sacerdoti (per solo legame ereditario, senza
alcuna dipendenza dalla loro condizione economica o di studio, dall’essere o meno rabbini,
cioè maestri), sono invitati a richiedere per il popolo (concretamente per il gruppo dei fedeli
presenti) la sola benedizione divina che sia esplicitamente citata nella Torah. Non sono
essi a benedire, ma invocano la benedizione, con una cantillazione e una gestualità molto
particolare. Uno degli aspetti di questo rito che è forse il più solenne di tutta la liturgia,
perché in un certo senso invoca direttamente l’azione e quindi anche la presenza del divino,
è che i fedeli non devono guardare i sacerdoti mentre lo compiono e si velano con il tallit, lo
scialle di preghiera frangiato, che normalmente ha tutt’altra funzione. Qualcosa di analogo
accade in molte comunità nelle occasioni rituali in cui è suonato lo shofar, lo strumento fatto
di corno di montone che è usato in alcune della maggiori occasioni liturgiche, innanzitutto
nelle funzioni del capodanno ebraico.
Il velo di Mosè e altri filtri ottici nella Bibbia ebraica 

correnze e altri termini, innanzitutto quelli della creazione dell’uomo


“a immagine e somiglianza” (zelem e demut Gen :), come in parte
ho fatto in Volli . Quel che ci interessa qui è sottolineare che
nella Torah c’è una diffidenza per la vista in generale, non solo per
la mimesi. Vedere può significare ammirare, subire il fascino di qual-
cosa; dunque anche la contemplazione dei cieli è pericolosa, perché
potrebbe portare all’idolatria. La meraviglia, quel thaumazein che ri-
manda allo spettacolo (theatron) ed è per i Greci l’origine della filosofia,
appare qui invece come una possibile spinta al panteismo, al perico-
losissimo riconoscimento che non “i cieli narrano la gloria di Dio”
(Salmo :), ma, che al contrario essi (come tutto) “sono pieni di
dei” (panta plere theon ), come diceva Talete, proverbiale contempla-
tore di stelle. Questa stessa diffidenza che si trova ribadita nel testo
fondativo dell’ebraismo, ritorna spesso anche nell’altro estremo delle
fonti dell’ebraismo, come diffidenza per la visione mistica (su cui vedi
Volli a). Per esempio: « Colui che contempla queste quattro cose
sarebbe stato meglio se non fosse venuto al mondo: quel che sta sopra
[evidentemente al mondo comune], quel che sta sotto, quel che sta
davanti [cioè dopo], quel che sta dietro [prima] » (Talmud Hagigah
b).

Il terzo velo di Mosè

Ritroviamo questa concezione problematica dello sguardo in un’altra


declinazione ancora in una terza occasione, molto vicina nel testo a
quella che ho appena descritto. Si tratta questa volta non dei rapporti
fra Mosè e la divinità, ma del Mosè reduce dall’incontro col divino e
per così dire contagiato da esso, col popolo. La relazione è certamente
assai più semplice sul piano metafisico, anche se essa implica un
complesso gioco di consapevolezze reciproche e ha dato luogo ad un
famoso fraintendimento, quello espresso nella statua di Michelangelo
dove si vede un Mosè cornuto .
. A, De An., A,  A .
. L’equivoco è puramente linguistico, e dovuto alla mancata vocalizzazione della
scrittura ebraica – quella della Bibbia liturgica e del Talmud come quella della scrittura
comune ancora oggi. Raggiante si dice karan, corna keren, entrambe le parole condividono
le stesse lettere KRN. È interessante notare che l’errore è presente nella versione “vulgata”
 Ugo Volli

Esodo : Quando Mosè scese dal monte Sinai [. . . ] non sapeva che la
pelle del suo viso (panaiv) era diventata raggiante (karan or), [. . . ] Ma
Aronne e tutti gli Israeliti, vedendo (vayareh) che la pelle del suo viso (panaiv)
era raggiante (karan ‘or), ebbero timore (vayireu) di avvicinarsi (migheshet)
a lui.  Mosè allora li chiamò e Aronne, con tutti i capi della comunità,
andò da lui. [. . . ] Si avvicinarono (nigashu) dopo di loro tutti gli Israeliti
[. . . ]  Quando Mosè ebbe finito di parlare loro, si pose un velo (masve) sul
viso (al panav).  Quando entrava davanti al Signore per parlare con lui,
Mosè si toglieva il velo (masve) [. . . ]. Una volta uscito, riferiva agli Israeliti
ciò che gli era stato ordinato.  Gli Israeliti, guardando (verau) in faccia
(et–penei) Mosè, vedevano che la pelle del suo viso (penei) era raggiante
(karan ‘or). Poi egli si rimetteva il velo (masve) sul viso (al panav).

Anche qui abbiamo un velo vero e proprio, auto–imposto sponta-


neamente come quello del roveto ardente. Ma esso non serve a non
vedere, bensì a non essere visto. La discrezione di Mosè si esercita nella
direzione inversa:

Non voler far paura → non voler essere visto → non essere visto

Per non terrorizzare il suo popolo, Mosè decide di non essere visto
nella condizione di splendore (in sostanza una visibilità aumentata)
che gli deriva dal contatto col divino:

visibilità accentuata dalla luce vs visibilità diminuita col velo

Di conseguenza egli si vela nei contatti col popolo ma si toglie il velo


nei contatti col divino, che, come sappiamo dall’episodio della mano
e della Gloria, immediatamente precedente a questo, non gli si lascia
comunque vedere in faccia. E del resto Mosè sa dal tempo del roveto
di non dover guardare. Bisogna notare qui una qualche simmetria fra
i due protagonisti separati dal velo, basata soprattutto su quello stato
mentale che nelle traduzioni è descritta come “paura” (qui) o “timore”
(nell’episodio del roveto) e che nel testo originale è espresso dallo
stesso verbo jarè — non tanto l’emozione negativa di una previsione
di pericolo quanto piuttosto un rispetto profondo, il senso di una
separazione dovuta, che spesso nella tradizione è accostato senza
problemi all’amore. Ecco lo schema:
di Gerolamo (ignorabat quod cornuta esset facies sua), ma non nella LXX (Μωυς ης οὐκ
Il velo di Mosè e altri filtri ottici nella Bibbia ebraica 

PASSIONI Il popolo ha timore di Mosè ↔ Mosè ha timore di Dio


AZIONI quando lo guarda → Mosè si vela e non guarda → si toglie il velo

Si potrebbe essere tentati di semplificare questa relazione in una


sorta di proporzione visiva:

Dio : Mosè = Mosè : popolo


In effetti una certa simmetria fra la posizione divina e quella di Mosè
si ritrova spesso nella Torah, a partire da quel “faccia a faccia” che
ho commentato sopra, fino al versetto :  dell’Esodo in cui si dice
che “il popolo temette [è la stessa voce verbale impiegata qui sopra:
vayireu] il Signore e credette [o “ebbe fiducia” o addirittura “fede”: 
vayeaminu] nel Signore e nel suo servo Mosè]; e altrove (Es : ) il testo
lascia chiaramente intendere che è Mosè, non Dio, che il vitello d’oro
deve sostituire. Ma naturalmente un parallelismo completo è incompa-
tibile con il monoteismo della Torah e il testo pone una cura evidente
a rendere impossibile un’idolatria del profeta, fino a dichiarare (Deut
: ) sconosciuta (dunque invisibile e non suscettibile di culto) la sua
tomba. Dal nostro punto di vista, la di fficoltà di accesso anche visivo
del volto di Mosè è solo un riflesso della trascendenza divina. Ma que-
sta velatura ci mostra che nel pensiero espresso dalla Torah l’ambito
di ciò che non deve essere visto si estende al di là della sfera divina
vera e propria, verso tutto ciò che in qualche modo la rappresenta
ed è detto kodesh, il “sacro” o “santo” che vale in primo luogo come
“distinto”, “separato” (cfr. Volli ). Il velo è un dispositivo che attua,
per così dire, una sineddoche di questa separazione, la rende materiale
ed effettiva.

Un velo oggettivo e permanente: Parokhet/Mashal

Questo rapporto fra velo e separazione rituale (cioè, nei termini del
pensiero biblico, kedushah, santità) si vede in maniera chiarissima nelle

ᾔδει ὅτι δεδόξασται ἡ ὄψις το υ χρώματος το υ προσώπου αὐτο υ)


. Il termine è reso molto problematico dall’equiparazione cristiana di fede e religione.
La parola ebraica emunà che oggi si traduce con fede, nella Bibbia un implica il credere
in cose non note, ma significa fiducia, nel senso di credere a qualcuno, e fedeltà, per cui a
Dio stesso si attribuisce l’attributo neemàn.. In generale la parola è connessa con l’idea di
saldezza, presenza asseriva, da cui anche l’affermazione amen.
 Ugo Volli

prescrizioni della Torah riguardanti l’ultimo velo (o meglio complesso


di veli) di cui mi occuperò in questo saggio, quelli che sono prescritti
per il Tabernacolo

Es. :  Farai il velo [paroket, letteralmente “divisione”] di porpora viola e


rossa, di scarlatto e di bisso ritorto. Lo si farà con figure di cherubini, lavoro
di disegnatore.  [. . . ] là, nell’interno oltre il velo, introdurrai l’arca della
Testimonianza. Il velo (paroket) separerà (ividila) per voi il Santo (qodesh)
dal il Santo dei Santi (qodesh ha qodashim). . Porrai il coperchio (kapporet)
sull’arca (aron) della testimonianza nel Santo dei Santi [. . . ] Poi farai una
cortina (masach) all’ingresso della tenda [il Tabernacolo: ohel], di porpora
viola e rossa, di scarlatto e di bisso ritorto, lavoro di ricamatore.

Dunque vi sono due veli e un’arca (cioè un armadio o piuttosto


una cassapanca con coperchio) a celare alla vista il contenuto sacro
(cioè le seconde tavole della Legge intere, i frammenti delle prime
e altri oggetti che testimoniano momenti centrali della rivelazione,
come un frammento di manna e il bastone di Mosè. Fra i cherubini
scolpiti sul coperchio dell’arca la presenza divina si manifesta e parla.
Ma questi oggetti non sono l’essenziale, tanto è vero che il Tempio,
realizzazione fissa e dunque in parte diversa ma eminente del Taber-
nacolo, sussisterà anche dopo la sparizione dell’arca e di quel che vi
era contenuto. Quel che conta, paradossalmente, è proprio il confine,
la velatura. I due veli (Paroket interno e Masach esterno) sono uguali
per apparenza (porpora ecc.) e funzione: dispositivi concentrici per
non poter vedere quel che non si deve vedere. Il secondo, quello più ester-
no, può però essere attraversato dai sacerdoti, perché porta non alla
presenza del divino ma alla sua anticamera. Il primo invece è superato

. Spesso chiamato nella traduzioni “Propiziatorio”, ma il nome kapporet linguistica-


mente non connota sentimenti propizi ma dice solo di una “copertura”, con una chiarissima
parentela linguistica con lo Yom hakippurim, il giorno dell’espiazione della religione ebraica,
la cui ritualità sfioreremo in seguito e che serve a coprire, diciamo a eliminare o seppellire i
peccati.
. Nella liturgia contemporanea, che risale però probabilmente fino a tempi talmudici,
le cortine del Tabernacolo e poi del tempio sono trasformate in una tripla chiusura che
protegge i rotoli della Torah (che a loro volta non devono essere toccati direttamente): una
cortina, chiamata ancora paroket, poi una porta, poi delle coperture dei rotoli che possono
essere di tessuto (nella tradizione askenazita) o di legno argentato (in quella sefardita). Vi è
un’evidente continuità in questo modo di proteggere dalla vista ciò che è più importante
nell’arredo sinagogale, per esporlo invece in certi momenti durante la liturgia, secondo
modalità ben codificate.
Il velo di Mosè e altri filtri ottici nella Bibbia ebraica 

solo una volta l’anno, per il Giorno dell’Espiazione (Iom Kippur) e solo
dal Grande sacerdote, ma a condizione di creare un altro velo di fumo,
come nella salita di Mosè sul monte Sinai, e poi sulla sua tenda, che
abbiamo visto sopra:

Lev. :  Il Signore disse a Mosè: « Parla ad Aronne, [. . . ] e digli di non


entrare in qualunque tempo nel santuario, oltre il velo (paroket), [. . . ] al-
trimenti potrebbe morire, quando io apparirò (erahè) nella nuvola (anan)
sul coperchio [kapporet cioè copertura]. Aronne entrerà nel santuario così
[. . . ]  prenderà l’incensiere pieno di brace [. . . ] e due manciate di incenso
odoroso polverizzato; porterà ogni cosa oltre il velo.  Metterà l’incenso sul
fuoco davanti al Signore, perché la nube (anan) dell’incenso copra (kissà) il
coperchio che è sull’arca e così non muoia.

È interessante notare che le due “nubi” assai diverse citate qui (quel-
la della presenza divina e quella di incenso che la deve coprire) sono
chiamate con lo stesso termine (heanan), uguale anche alla nuvola
sulla tenda di Mosè e a quello della salita sul Sinai che abbiamo già
discusso. Così com’è uguale il verbo impiegato per la velatura che la
nube fa del “coperchio” con quello per la copertura del monte Sinai
(Es. :). Abbiamo qui ancora un ordine di non vedere, perché la
vista mette a rischio la vita, come in Esodo : :
Non dover vedere → Non poter vedere
rischio della vita salvezza

Che l’attività rituale del grande sacerdote (considerato come succes-


sore di Aronne e dunque depositario degli obblighi e delle proibizioni
appena citate) fosse difficile e perfino rischiosa in caso di errori è
un fatto ribadito con forza nella tradizione ebraica, per esempio nel
trattato talmudico Yoma che discute le regole del “Giorno dell’Espia-
zione”. Del resto la Torah racconta con rilievo che lo stesso giorno
della consacrazione di Aronne i suoi figli, Nadav e Avihu, vennero
annichiliti dal fuoco per aver fatto un’offerta rituale nel Santo dei
Santi in un modo non previsto dalla legge (Levitico ). Dunque il
velo, in questo caso il molteplice velo che custodisce il Santo dei Santi
anche quando esso rimase vuoto , costituiscono insieme barriere alla
. Tacito, Hist., V, : Quando Pompeo prese il potere su Gerusalemme e decise di
entrare nel Santo dei Santi, si trovò di fronte il vuoto: « Nulla intus deum effigie, vacuam
 Ugo Volli

visibilità e gradi di separazione, cioè, nei termini del pensiero biblico


che ho già ricordato, di “santità” (Kedushah). La teofania è ovviamente
apparizione e dunque sempre almeno in parte rivelazione divina; ma
in armonia col senso etimologico della parola “ri–velazione” è anche
sempre velamento.

. Struttura della velatura biblica

Ripensando agli esempi analizzati, siamo ora in grado di vedere una


struttura di questa rivelazione/velatura. In primo luogo essa è legata a
un luogo (il roveto, il monte Sinai, la “roccia”, la tenda, il Santo dei
Santi. In questo luogo si manifesta il divino in una forma specialmente
marcata (kavod) e personale (volto), che spesso è connessa col simboli-
smo della fiamma, ma anche con la parola. L’apparizione, in generale,
è finalizzata al dialogo. Caratteristica è la compresenza di una con-
giunzione e di una soglia, che dovrebbe indurre a un comportamento
regolato di avvicinamento. Nei vari brani che ho discusso non man-
cano mai espressioni che descrivono le attività di avvicinamento alla
soglia, rese complesse dal fatto che vi devono essere anche delle pause,
dei distoglimenti, delle fermate il rispetto. Non mi sono soffermato a
commentarle, perché esse fanno parte della sfera dello spostamento
fisico e non dei giochi di sguardo che sono l’oggetto di questo studio;
ma è chiaro che vi è una notevole simmetria fra azioni e visioni.
Le soglie sono infatti segni di separazione e allo stesso tempo di
non visibilità (veli): la nube, il fuoco stesso, il pavimento, l’ingresso,
il monte, la tenda, il velo, il roveto. Essi indicano la tensione di una
trascendenza che in qualche modo per un attimo si fa presente: un
ossimoro che nella Torah è spesso espresso dalla parola malakh, mes-
saggero, che si usa tradurre “angelo”; ma anche l’άγγελος greco non è
altro che un messo. Le tracce del politeismo presenti nella tradizione
occidentale hanno molto sostanzializzato gli angeli, ma nella Torah
è perfettamente chiaro che gli essi non sono entità autonome bensì
espressioni momentanee della presenza divina, in un certo senso ma-
nifestazione di atti di volontà. La trascendenza entra nel mondo in
questa maniera, estraniandosi dalla trascendenza per un tempo. Quan-

sedem et inania arcana ».


Il velo di Mosè e altri filtri ottici nella Bibbia ebraica 

do invece la presenza del divino è di intensità tale tale da impegnare


in maniera marcata l’identità divina vi sono due espressioni che la
descrivono, la Shekinah Essa non deve però assimilarsi al mondo per
non esservi ricompresa come un ente fra gli enti, non può essere cioè
oggettivata e deve essere difesa da soglie anche rispetto alla visibilità,
che è il primo modo (per importanza, ma anche cronologicamente,
in qualunque incontro normale) di inserire una presenza fra le cose
del mondo.
Ma la teofania è apparizione e quindi vi devono essere modi di
congiunzioni, interfacce, interpellazioni: la faccia, il fuoco che arde,
le chiamate, i discorsi, gli spettacoli, i suoni, Ma soprattutto il fuoco, il
fumo, le cortine, la “mano” stessa di Dio. In generale è vero che quan-
do vi è un velo, esso al tempo stesso impedisce la visione e testimonia
della presenza: la dialettica fra proibizione e quindi impossibilità di
guardare e testimonianza di ciò che si potrebbe teoricamente vedere
e implicita nella funzione stessa del velo, che non è un ostacolo impe-
netrabile, un muro, un’oscurità totale, ma oppone una resistenza allo
sguardo di natura graduale e tensiva.
Questa velatura ammette, anzi spesso richiede, degli spostamen-
ti, permessi o interdetti o semplicemente presupposti. Per arrivare
al roveto, bisogna arrivare “oltre il deserto” (Es : ; questa è la tra-
duzione letterale di ahar hamidbdar [!‫ ]הַּמִדŸּבָר אַתַר‬ma i termini in
ebraico si prestano a una lettura ben più intrigante, che è stata sfruttata
dai commentari:che si potrebbe rendere con “al di là” del senso [mi,
complemento d’origine, “da”, che può essere inteso sostantivamente
come “ciò che proviene dalla”] parola [davar]”), dunque il senso. E
poi, come abbiamo visto, bisogna distogliersene. Per vedere il pavi-
mento di zaffiro e la nube che circonda il kevod, probabilmente anche
per essere chiusi nella fenditura della roccia roccia al passaggio della
presenza divina, è necessario salire sul monte; e poi avvicinarsi alla
. Si veda per esempio la ripetuta affermazione contenuta nella Haggadah di Pesach
(il libro rituale del pasto pasquale), in cui Dio prende la responsabilità diretta delle piaghe
d’Egitto: Anì ve lo Malakh: “io e non un angelo”.
. Il tema della Shekinah è troppo complesso per parlarne qui L’ etimologia della parola
la lega al verbo [!Nֹ‫( ]לִשׁכה‬lishkhon; radice !N‫שׁהכ‬, ShKN), “abitare”, da cui anche “dimora”,
“abitazione”: Mishkan, !Nַ‫מִשׁכה‬, cioè il nome del Sancta Sanctorum di cui si è discusso e
per estensione del Tabernacolo. Cfr. Es. :  Ve’asu li miqdash veshakhanti (ebr. !Mַ‫)בֵתוֹק‬
betokham, « Mi faranno un santuario e io risiederò fra loro ». In tempi più tardi Shekinah è
diventata in ambienti mistici una sorta di ipostasi femminile della divinità: si veda I .
 Ugo Volli

tenda di Mosè, entrare nel Tabernacolo o nel Tempio e così via. In tutti
questi casi è questione di modi, di cautele, di direzioni, soprattutto di
distanze: c’è una prossemica del santo da rispettare secondo quel princi-
pio di discrezione che ho già attribuito a Mosè e che in termini biblici
si esprime con la qualità, a lui spesso attribuita della modestia , cioè
del non uscire dal proprio posto, del non attribuirsi una dimensione,
o un’estensione, anche solo visiva, al di là della propria condizione e
dei suoi limiti. Si tratta di accettare questi limiti e di applicarli, di far
seguire subito all’interdetto l’autolimitazione, o anche di precederlo:

Non dover vedere → Non vedere

In questa accettazione vi è ovviamente un’asimmetria gerarchica. I


ruoli di chi è visto e di chi non è visibile sono complementari e non
intercambiabili:

MODALITÀ A non vuole essere visto → B non deve/non vuole vedere A


AZIONI velo: B non può vedere A

L’asimmetria visiva che si mostra qui è parte di un’asimmetria


cognitiva che è connessa alla percezione della divinità nelle più diverse
culture. Anche gli dei greci, per esempio vedono senza essere visti .
Nella Torah accade spesso che Dio veda e mai che sia visto direttamen-
te (con le parziali eccezioni che ho discusso). Non bisogna confondere
questa asimmetria di visione e di conoscenza con l’onniscienza divina,
che intesa come l’avere tutta la realtà sempre trasparente e completa
davanti alla mente è un attributo piuttosto platonico della divinità,

. Così per esempio dichiarato esplicitamente in Num : : « Mosè era un uomo
molto umile [anav meod], più di ogni altro uomo sulla faccia della terra ».
. Il che non è affatto ovvio. Normalmente chi vede può essere anche visto e chi è visto
può anche vedere, salvo che in certe condizioni di spettacolo (Volli ). La controprova è
la pietosa abitudine, diffusa nel mondo ebraico ma anche in genere nelle culture europee,
di velare, dunque di rendere invisibile il volto dei defunti quando essi non sono più vivi
e non possono vedere, per evitare di poterli guardare come oggetti. Beninteso vi sono
delle eccezioni che non possono essere discusse qui, in particolare l’esposizione di grandi
personaggi che vengono imbalsamati a questo fine, come accadde a Lenin.
. Così per fare solo un esempio Atena con Odisseo nel XIII libro dell’Odissea.
Il velo di Mosè e altri filtri ottici nella Bibbia ebraica 

raccolto poi nella dogmatica teologica cristiana, che non è coerente


con la descrizione del comportamento divino nella Torah .
Ma spesso, riguardo al velo e alla visibilità, i giochi di sguardo sono
più complessi e consensuali. Nell’ultimo Velo di Mosè, quando egli è
tornato dal Sinai, vi è una relazione a tre, un rapporto di reciproca, an-
corché parziale testimonianza, reso possibile proprio dall’impossibilità
di vedere tutto
Il popolo vede (che non vede): Mosè parlare con Dio
Disgiunzione parziale → velo congiunzione parziale → non velo ma discrezione

. Conclusioni

Siamo ora in grado di trarre qualche conclusione dal lavoro svolto. Il


velo nella tradizione ebraica non protegge un segreto, maun’identità,
che garantisce rispetto al rischio di essere posseduta, oggettivata, ma
anche idolatrata. Chiede all’uomo di rinunciare alla pulsione al possesso,
sia pure quella che consiste nel “mangiare con gli occhi”, nell’ap-
propriarsi della (bella) apparenza. Filtrando l’apparenza che spesso è
abbagliante, come nel caso di Mosè ritornato dal Sinai, o addirittura
bruciante, come il fuoco in cui si manifesta la divinità, permette una
relazione di senso, cioè, nella concezione ebraica, di parola. Impone
rispetto, certamente, produce una sorta di pudore rispetto che protegge
il rito , e tutela la separatezza (Kedushah) della sfera religiosa; ma
prima di tutto impone il passaggio dal concreto di ciò che si vede
all’astratto di ciò che si pensa, impone cioè una razionalità nella vita
religiosa, combatte l’abbagliamento che è sempre possibile nel registro
visivo e in generale in quello sensibile.
. Si pensi solo alle domande poste ad Adamo (Gn :  “Dove sei?”), a Caino (Gn :
 “Che cosa hai fatto”); alle “discese” divine per vedere come quella a Babele (Gn :) ;
al “ricordo” divino, che presuppone un oblio: di Noè: (Gn :), del popolo ebraico (Es :
–). Anche se si interpretano alcune di queste espressioni metaforicamente, come è stato
proposto, l’onnipotenza è qui potenziale, non attuale e dipende dalla scelta di occuparsi
di certe cose, concentrando su di esse una certa presenza o intensità, il che fa parte della
concezione che la Torah ha di Dio, come si è visto parlando di kavod e shekinah.
. Così nella discussione del trattato Meghillà  a si spiega il fatto che nella ricostru-
zione del Tempio di Gerusalemme nel tempo di Ezra e Nehemia, prima che fosse stato
possibile ricostruire le mura del Santo dei Santi, esso era stato delimitato con tende.
 Ugo Volli

Che il velo (o comunque un dispositivo che limita la visione) serva


nella tradizione alla concentrazione sul senso, si vede anche dall’abitu-
dine diffusissima a coprirsi gli occhi recitando il brano liturgico (che in
realtà è la giustapposizione di tre passi della Torah) detto Shemah Israel
(ascolta Israele), che è la cosa più simile nella liturgia ebraica a una con-
fessione di fede, perché contiene la proclamazione del monoteismo
divino e l’impegno a conservarne la consapevolezza. Il primo versetto
(Deuteronomio ,), in cui è espressa la proclamazione monoteistica
in molte comunità è recitato con gli occhi coperti non per rispetto o
per evitare una vista particolare, ma per favorire la concentrazione.
Come ho sottolineato sopra, nell’uso del velo rispetto al sacro si
esprime anche un’etica della separazione una necessità di distinguere
accuratamente il sacro dal profano; il che non è solo il riconoscimento
ma in qualche modo la costituzione della sacralità e va prodotta in
maniera concreta, nel comportamento e fra l’altro nello sguardo. Un
esempio che, non avendo a che fare col visivo, testimonia della lati-
tudine di questo atteggiamento, è la copertura del capo, che è intesa
come segno della distinzione fra la vita degli uomini e la sfera celeste.
Insomma il velo è un dispositivo sintattico e metapragmatico; è
parte centrale di un sistema di dispositivi dello sguardo, che assume
forme diverse in differenti culture. In generale, esso vela e svela. Per-
mette di vedere e di far vedere, di non vedere e di non essere visto.
Amministra l’apparire: il segreto, la menzogna, la verità, la falsità, le
cui relazioni sono esplicitate nel quadrato semiotico della veridizione
di A.J. Greimas.
Nel contesto culturale della Torah, il velo è valorizzato essenzial-
mente nel rapporto fra le categorie della verità e del segreto, fra l’appa-
rire e il non apparire di ciò che veramente è: l’essere dev’essere scher-
mato almeno parzialmente, la sua apparizione dev’essere controllata,
perché la sfera dell’apparire rischia di portare alla menzogna.
In altri contesti culturali il filtro alla visibilità può fondare il pudore
e dunque l’esigenza di una soggettività mai interamente manifestabile
agli altri, il carattere noumenico della coscienza; ma anche al contrario
la possibilità, così tipica della nostra cultura, di progettare l’apparenza,
distaccando il sembrare dall’essere. È la tematica della finzione e della
seduzione, intesi come strategia dell’apparenza, come dialettica del
desiderio eccitato dall’ostacolo: nel mondo classico il suo paradigma
è la “cintura di Venere”, il keston imanta poikilon (Il. XIV, –) che
Il velo di Mosè e altri filtri ottici nella Bibbia ebraica 

in realtà un velo istoriato di temi seduttivi , che dunque mostrava


ciò che nascondeva e viceversa. Qualcosa di analogo, in un campo
del tutto diverso, avviene con il celebre brano di Plinio il vecchio
che narra della gara di pittura Fra Zeusi e Parrasio, in cui il grande
pittore chiede con impazienza che dalla tela del suo avversario sia
tolto il velo che sembrava ricoprirla e che invece era solo dipinta :
celebre e straordinario intreccio dei temi dell’inganno consenziente
(“sospensione dell’incredulità”) e della mimesi come basi dell’arte, e
del gioco competitivo che sono fra i fondamenti del.la cultura greca
ancora attivi nella visione del mondo occidentale.
Nella cintura di Afrodite, come nella tela di Parrasio, il gioco si
svolge fra le categorie della verità e della menzogna, fra il sembrare
ciò che si è e il sembrare altro per dare piacere. Anche qui però al
centro si trova quel dispositivo ottico di interposizione, di filtraggio,
di controllo della visibilità che è il velo. Dimostrazione eminente, se
ce ne fosse bisogno, che il medium non è il messaggio, ma che il suo
senso e il suo valore sono determinati dalle culture, cioè dai sistemi di
valori e di significati che vi si proiettano.

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. È interessante che si parli di “cintura” qui come per Adamo ed Eva. Si tratta di una
evidente metonimia La dea indossa il kolpos ovvero quella parte del chitone ionico che
fascia morbidamente il seno (il chitone ionico è infatti stretto sotto il petto da una cintura
che lascia ripiegare a sbuffo la veste) Nel poema omerico, Era chiede ad Afrodite il prestito
di questo indumento irresistibile per sedurre Zeus, inducendolo a cambiare atteggiamento
sulla guerra di Troia: « Disse e sciolse dal petto la fascia ricamata / a vivi colori, dove stan
tutti gli incanti: / lì v’è l’amore e il desiderio e l’incontro, / la seduzione, che ruba il senno
anche ai saggi » (trad. Rosa Colzecchi Onesti).
. « Si racconta che Parrasio venne a gara con Zeusi; mentre questi presentò dell’uva
dipinta così bene che gli uccelli si misero a svolazzare sul quadro, quello espose una tenda
dipinta con tanto verismo che Zeusi, pieno di orgoglio per il giudizio degli uccelli, chiese
che, tolta la tenda, finalmente fosse mostrato il quadro; dopo essersi accorto dell’errore,
gli concesse la vittoria con nobile modestia: se egli aveva ingannato gli uccelli, Parrasio
aveva ingannato lui stesso, un pittore ». Plinio il Vecchio, Naturalis historia, XXXV, –, tr.
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P 

VELARE IL SENSO: IL VELO TRA TESTO E TESSUTO

VOILER LE SENS : LE VOILE ENTRE TEXTE ET TISSU


Il sistema del velo / Système du voile
ISBN 978-88-548-8838-8
DOI 10.4399/978885488838811
pag. 265–277 (gennaio 2016)

L’immagine come diafano


A O

English Title: The Image as Diaphanous.

A: In my intervention, contrary to our usual way of thinking by the drastic oppo-
sition between transparency and opacity, I want to propose a different model which can
neither be reduced to the one nor the other; the concept of “diafanes”, neologism invented
by Aristotle in De Anima. The “diafanes”, Aristotle says, is something which being “in
between” such as “air, water, and many solid materials”, makes possible our sense of sight.
This Aristotelian concept, therefore, could not be associated with the directness or identity
of our perception, but with the semi–transparency or various grades of transparency, and
is able to assume the delicate signs of our visions. Based on this concept, I want to make
some references not only to the commentary of Averroes and to the interpretation of
Dante, but also to some artistic–philosophical concepts of the th century; “la chaired”
of Merleau–Ponty, “l’image–cristal” of Deleuze, “le–je–ne–sais–quoi” of Jankelevitch, and
“l’inframince” of Duchamp.

Keywords: Diafanes; Aristotle; Semi–Transparancy, In–Between, Vision.

Per quanto ne so il primo che ha enunciato chiaramente il principio


della trasparenza della rappresentazione in Occidente è stato Leon
Battista Alberti, nel De pictura (ver. lat. ; ver. it. ). Qui la pittura
viene paragonata a un’“aperta finestra” descritta come: “admodum
vitrea et perlucida”. Una “finestra” da cui si vede il mondo, simbolo
della trasparenza, che indica anche il compito della pittura, da cui
Leonardo da Vinci avrebbe poi tratto la definizione del quadro come
“parete di vetro”. Quindi la “finestra” ha un significato, di metafora
privilegiata del quadro, destinata ad avere lunga vita, perché determina
non solo l’esperienza spaziale dell’osservatore, ma è anche il dispositi-
vo che rende possibile il realismo della rappresentazione, tanto che
viene richiamata ancora oggi dal windows del computer.
Inoltre è curioso che il Leon “Battista” Alberti, da “battista”, abbia
tenuto a battesimo, teorizzandoli, il quadro e la prospettiva centrale.
. Vorrei ringraziare i miei amici Robero Terrosi e Federico Luisetti per l’aiuto nella
traduzione giapponese–italiana.


 Atsushi Okada

Infatti, il disegno prospettico è anche un modello cognitivo in cui il


soggetto sta davanti al mondo reale visto dalla “finestra”, che non è
solo un’“organizzazione della visione”, ma anche un sistema di rappre-
sentazione che si sostituisce al piano bidimensionale. Perciò, l’estetica
del Rinascimento è quella della trasparenza della rappresentazione
basata sulla metafora della “finestra”.
Guarda caso l’estetica del modernismo, che ha completamente
ribaltato la questione, trova il suo punto di forza invece nell’opacità
della rappresentazione. Si può dire in fatti che tanto Kandinskij quanto
Malevich, padri della pittura astratta, si siano addirittura opposti alla
“finestra” di Alberti.
Dopo di loro, Clement Greenberg, benché fosse un modernista pu-
ro, nella sua difesa dell’autonomia di ogni medium artistico, ha esaltato
la materialità come piattezza del supporto fisico. Insomma, lo specifico
della pittura che non può essere che l’opacità della rappresentazio-
ne in se stessa. Infatti per il principio della “ medium specificity”, ogni
medium, tra cui la pittura, ha un fine proprio ed è con l’unione comple-
mentare di mezzo e fine che l’essenza della pittura si rende autonoma.
Secondo Greenberg le immagini composte da colori astratti, sono la
riaffermazione del “limite dello stesso spazio rappresentazionale, la
rettangolarità, la piattezza, l’opacità tutti insieme”.
Se l’estetica del modernismo è rappresentata da Greenberg allora
questa si opporrebbe all’estetica rinascimentale albertiana. Quindi da
una parte si esalterebbe la metafora della superficie trasparente della
rappresentazione, mentre dall’altra si enfatizzerebbe la realtà della
superficie opaca e materica della rappresentazione. Ma se così fosse
non ci sarebbe nessun punto di mediazione tra queste due polarità.
Inoltre Alberti paragonava l’immagine anche al “velo”, che può
essere immaginato anche come il reticolo (grid) che si vede in una
stampa ben nota di Dürer, dove è usato come strumento per la resa
della realtà tridimensione sul piano bidimensionale. D’altronde, “il
reticolo” (grid) ha assunto una grande importanza anche nell’arte mo-
derna. Secondo Rosalind Kraus, in Mondrian, Klee, Albers, Reinhardt
e Warhol si trova una “griglia” appiattita, geometrizzata, regolarizzata,
che ha una funzione anti–naturalista, anti–imitazionista e anti–realista
e che per questo si oppone alla griglia albertiana. La “griglia” nella
modernità, è completamente separata dal mondo della percezione.
Quindi se la griglia rinascimentale si riferisce alla trasparenza, al con-
L’immagine come diafano 

trario quella del modernismo manifesta il significato dell’esistenza


con l’opacità.
Così, l’estetica rinascimentale e quella modernista, a prima vista,
sembrano inesorabilmente contrapposte. Ma è proprio così? Forse c’è
un margine per una considerazione.
Il mondo rappresentato secondo la “finestra” di Alberti, è composto
al suo interno da significanti trasparenti e significati densi. Perciò, non
è un caso che l’arte del rinascimento avesse spesso soggetti religiosi o
mitologici, e che la metodologia che decifra il significato “profondo”
dell’opera sia l’iconologia.
Nella pittura modernista, invece della “finestra”, troviamo signifi-
canti opachi che però trasmettono significati trasparenti. Infatti pro-
prio nella pittura astratta si sono diffusi i concetti di “spirituale” (ad
esempio Kandinsky), di “trascendentale” (ad esempio Mark Rothko)
e di “soggettivo” (ad esempio Jackson Pollock). La ragione è che in
questi casi è stato creato un significato più profondo della realtà, non
in quanto riflesso di una realtà già esistente, ma in conformità con la
legge interna alla pittura. Così, la pittura astratta diventa l’obiettivo
privilegiato del soggetto trascendentale, tanto che può essere pensata
come una forma del compimento della metafisica occidentale.
In conclusione, a prima vista sembra che l’estetica rinascimentale
e quella modernista si oppongano e si respingano reciprocamente;
tuttavia, si può pensare che sia l’una sia l’altra siano basate su un
presupposto comune, che è la perfetta combinazione di significante e
di significato, che funziona anche da supporto all’ideologia del nesso
rappresentazione–riproduzione. Da una parte la “finestra” trasparente
di Alberti, porta oltre la superficie verso un significato più profondo
filosofico, religioso o mitologico. Dall’altra parte, la superficie opaca
dell’espressionismo astratto, che si dice esserne l’inverso, deve tuttavia
penetrare trasparentemente nel soggetto creativo–trascendentale.
In anni recenri, Rosalind Kraus e Yve–Alain Bois hanno proposto il
concetto di “informe” (formless) in contrasto con quello di “forma”,
articolandolo su quattro principi: ) l’orizzontalità contro verticalità; )
il basso materialismo, nel senso inteso da George Bataille; ) la pulsa-
zione (pulse); ) l’entropia. Con ciò hanno tentato di creare un modello
esplicativo dell’arte alternativo a quello dominante nel rinascimento e
 Atsushi Okada

nel modernismo della “forma”, intesa come schema, stile e figura .


Tralasciando le provocazioni degli autori, sembra che “forma” e
“informe” siano stati ridotti a uno schema di opposizione dualistico
troppo rigido in cui viene rifiutata ogni mediazione. Mi pare che Kraus
e Bois abbiano ignorato gli elementi intermedi e i vari gradi di tran-
sizione che esistono tra i due estremi. Riguardo a Lacan, ignorano
il “velo” — la funzione di “sublimazione” — e si precipitano subito
verso la “Cosa” come sinonimo di carenza e di eccedenza, ma a quale
fine? In conclusione i due autori, in fondo non desiderano proprio pre-
sentare intenzionalmente la trasparenza di ciò che è opaco o l’opacità
della trasparenza?
Allora, ciò che vorrei mostrare in questo intervento è che occorre
risalire alla nozione aristotelica di “diafano”, sia in arte che in filosofia,
per vedere se sia possibile trarre un nuovo paradigma da un concetto
che è stato quasi completamente trascurato fino ad ora tranne che in
poche eccezioni. Infatti, è esistito fin dall’antichità un modello molto
diverso di percezione e rappresentazione, ma non è mai diventato
egemonico, piuttosto è rimasto sommerso e continua anche oggi ad
essere trascurato. Non vorrei fare nient’altro che pensare quest’altro
modello sotto una nuova luce.
Aristotele, nella parte del De Anima dedicata alla visione, introduce
una nuova nozione, quella di “diafano” [διαφανής]. Questa parola
è tradotta come “cosa trasparente”, sebbene a nostro avviso possa
essere letta anche come “cosa semitrasparente” oppure forzando un
po’ possiamo dire che ci possono essere vari gradi di trasparenza.
Questa parola greca è composta da dia [δια] ςηε σιγνιφιςα “αττρα-
vερσο” ε δα phainō [φαίνω] ςηε σιγνιφιςα “αππαριρε” εδ ὲ ποι διvενυτα
λ’οριγινε δελ τερμινε φρανςεσε diaphane e dell’italiano “diafano”. Que-
ste parole significano “trasparente” ma confrontando “diafano” con
il francese transparent e l’italiano “trasparente” si nota che il grado
di trasparenza si abbassa, cioè esso assume una sfumatura di semi-
trasparenza. Tale differenza di sfumature si può applicare anche alla
differenza nell’inglese tra translucent e transparent e nel tedesco tra
durchscheinend e durchsichtig.
Quindi è necessario esaminare il senso dell’uso originario fatto da
Aristotele di questo neologismo. Per Aristotele il diafano è “ciò che

. B Y.A. et K R.E. () Formless. A User’s Guide, Zone Books, New York.
L’immagine come diafano 

è visibile”, però “non è visibile di per sé” (De Anima, B, b ) ed
è ad esempio distinto dal colore. Il diafano non è un qualcosa che
può essere visto di per se stesso, perché sta tra la luce e ciò che può
essere visto, e rende possibile la visione. Noi non possiamo vedere le
cose se non nei limiti della mediazione del diafano. Concretamente,
“l’aria, l’acqua, e molti corpi solidi” (De Anima, B, b ) sono diafani,
inoltre, si tratta di qualcosa che sta “nel mezzo” (De Anima, B, a
). In altre parole è un medium. Normalmente tendiamo ad associare
la “trasparenza” con l’immediatezza e l’identità, mentre così non è per
il diafano che non è altro che mediatezza. Altrimenti vi si potrebbe
leggere il paradosso della mediatezza dell’immediatezza. Questo è un
punto che dobbiamo esaminare.
Secondo Aristotele il “corpo eterno che si trova in alto” (De Anima,
B, b ) ovvero “l’etere, il quinto elemento” è perfettamente tra-
sparente. Perciò se il diafano è ciò che sta “nel mezzo” ovvero “l’aria,
l’acqua, e molti corpi solidi”, esso sembra avere una trasparenza mi-
nore del “quinto elemento”. Nell’aria c’è nebbia e foschia, nuvole e
polvere. Poi ci sono l’acqua di mare e l’acqua dolce, che naturalmente
hanno un gradi di trasparenza diverso. E infine Aristotele spiega che
è ricorso a questo neologismo perché questo qualcosa che sta “nel
mezzo” ancora “si trova a non avere un nome” (De Anima, B, a
).
Ma c’è di più. Con il diafano diventa possibile vedere, cioè si realizza
la visione, ma cosa si intende esattamente con ciò? Noi ora, con
il modello ottico della camera obscura che si basa sulla geometria
euclidea, o con il modello psicologico che si basa sulla fisiologia della
visione, o ancora col cognitivismo che si basa sulla tecnologia, ci
troviamo a un punto fondamentalmente diverso. Fino ad oggi siamo
stati abituati a tale modello di visione. Per prima cosa allora, bisognerà
esaminare attentamente la questione senza pregiudizi.
Il diafano sta nel mezzo, tra la luce purissima (di per sé invisibile) e
i colori dei corpi opachi. In altre parole, stando tra la luce e il colore,
riceve il colore e lo trasmette. “Il colore, muove il diafano, ad esempio
l’aria, e da quest’ultima, che ha un’estensione continua, è mosso il
sensorio” (De Anima, B, a –). La realtà in atto (energheia) del
diafano in presenza di luce, è il colore in potenza ( dynamis). Quando
il diafano non è in atto, il colore rimane in potenza. Il diafano, collo-
candosi tra la pura trasparenza e l’opacità, si pone come terzo fattore,
 Atsushi Okada

anche se c’è la pura e semplice potenza. Aristotele afferma che anche


il buio sta nel diafano, come tramite (methexis), e potenza (dynamis).
Tuttavia tutto ciò forse è ancora un po’ astruso. In breve secon-
do Aristotele, l’atto del vedere, non si ha tanto con l’atto volontario
della visione (come pensiamo normalmente), né al contrario, (come
creduto nell’ottica medioevale) con la ricezione passiva del visibile
nell’occhio, piuttosto si ha perché c’è un medium “nel mezzo” che
media me con le cose, e in conclusione possiamo dire che ciò accade
proprio per mezzo dell’azione passiva del diafano. Non è che gli og-
getti “qualora siano in contatto diretto con l’organo sensorio, vengono
percepiti, ma [è che da essi] [. . . ] viene mosso il mezzo e da questo
[. . . ] i sensori” (De Anima, B, a –). Parimenti per Aristotele,
la visione nella sua completezza “ha luogo quando la facoltà sensitiva
subisce una modificazione [πάσχειν]” (De Anima, B, a –), cioè
riceve come una sorta di pathos e che lo rende possibile è il diafano.
Cioè, in un certo senso, si tratta di una pura passività, ricettività, o
detto altrimenti di una sensibilità.
Da una parte se non esistesse tale oggetto intermedio, da questo
oggetto si vedrebbe più precisamente che Aristotele si porta dietro la
teoria di Democrito, anche se questa è stata da lui fortemente critica-
ta, e questo è molto significativo. In altri termini, poiché non si può
avere direttamente un grado di visione perfetta, si può distinguere il
grado di trasparenza secondo l’azione di diversi diafani, cosicché gli
oggetti variano in maggiore o minor misura ovvero le cose appaiono
deformate. In ogni caso, la vista non garantisce mai un’identificazione
perfetta, senza indulgere per questo in cliché di tipo scettico. Di conse-
guenza si può anche dire che nel caso del diafano, che evidentemente
è un mezzo di somiglianza e non di identità, la differenza entra di sop-
piatto. Il diafano, pur avendo fratture al suo interno, è anche come un
velo sottile che avvolge le cose. Il diafano non per questo appanna la
chiarezza della visione, ma al contrario esso rende possibile la visione
stessa.
Nel De Sensu et sensibili, oltre al diafano, anche la metessi (méthexis,
μέθεξις), gioca un ruolo importante, e a causa di questa metessi, il
diafano si espande nel senso del colore e della luce. Il diafano permea
l’oggetto, lo attraversa e viene eccitato dal colore dell’oggetto stesso
nella misura in cui l’oggetto ne è attraversato (Del Senso, a –).
Cioè non è lo spazio ma ciò che sta intorno alle cose a determinare la
L’immagine come diafano 

loro posizione e loro il confine, che è anche il loro ambiente. In breve,


il diafano svolge questi tre ruoli: agisce da recettore, da trasmettitore e
da limite. Quindi il colore più che attaccato alla superficie dell’oggetto
si deve dire sta un po’ davanti all’oggetto e un po’ dietro all’oggetto.
Il colore è nella superficie al limite del corpo ma non è il limite del
corpo (De sensu a –). Il colore esiste anche all’interno del corpo
ed è determinato dal limite ma, tale limite, non è il limite del corpo,
bensì il limite del diafano all’interno del corpo e quindi il colore viene
trasmesso attraverso di esso oppure al suo interno (De Sensu, b
–). In questo caso naturalmente noi non dobbiamo pensare alla
teoria dei colori di Newton, né alla teoria psicologica dei colori di
Goethe, ma dobbiamo considerare attentamente le affermazioni del
filosofo greco con una certa apertura mentale.
Riassumendo, innanzitutto, ciò che Aristotele chiama diafano,
esprime, più che una “cosa trasparente”, una varietà di gradi di tra-
sparenza e proprio per questo, può essere predicato di tutte le cose.
Poi, l’azione del diafano può essere rintracciata nell’intermediazione,
nel pathos (passività, stato di recezione) e nella metessi. Infine esso è
paradossalmente qualcosa che non rende possibile una visione diretta
e totale.
Se così è, si può un altro passo avanti (mi aspetto di essere accusato
di sovra–interpretazione) Io la penso così. Il diafano non è nient’altro
che un “mezzo” che connette me con il mondo e me con l’altro. Il
mondo delle cose che stanno davanti a me appare proprio su di esso
e tramite esso. Quindi nel diafano come relazionalità, l’opposizione
platonica tra l’immagine copia e archetipo, tra l’eidos e l’eidolon, divie-
ne irrilevante. Platone, ha separato l’eidolon (l’immagine) dalla realtà
e dall’intelletto, ma Aristotele al contrario, ponendo il diafano come
ontologia del mezzo, ha dato un luogo preciso all’immagine. In tal
caso, la somiglianza con la dissomiglianza, l’identità con la differenza,
ciascuna intreccia con l’altra rapporti di di fficile distinzione. Ciò che
infonde una ventata di aria nuova nel circuito chiuso dell’identità e
della somiglianza, della riproduzione e dell’imitazione, veramente
non è nient’altro che il diafano. Quindi, forse mi ripeto ma, tradurre
diafano con “cosa trasparente”, associandolo direttamente alla non–
intermedietà e all’identità non potrebbe essere addirittura fuorviante?
(e su questo mi piacerebbe avere il parere degli esperti).
Pur non potendo in questa sede seguire dettagliatamente il destino
 Atsushi Okada

del diafano di Aristotele, vorrei fare un breve accenno ad Averroè e a


Dante. Averroè, come ben si sa, ci ha lasciato tre commentari sul De
Anima — il Grande commento, il Commento medio e il Piccolo commento
—, e soprattutto nel Grande commento c’è una sezione che riguarda il
diafano.
. . . diafano è ciò che non è visibile di per sé cioè per un colore naturale
esistente in esso, ma che è visibile per accidenti, cioè per un colore estraneo
(F.S. Crawford, Averrois Cordubensis Commentarium Magnum in Aristotelis “De
Anima” libros, The Medieval Academy of America, Cambridge Mass. ,
II, c. , p. ).

. . . la luce non è un corpo ma è una disposizione e una modalità in un corpo


diafano (Ibid., II, c. , p. ).

. . . il colore è ciò che muove il diafano, il quale recependo il colore deve


essere privo di colore. E ciò che è privo di colore è diafano non visibile di
per sé, ma se è detto visibile sarà perché viene detto che ciò che è oscuro è
visibile, cioè è innato che sembri che il diafano sia scuro quando la luce non
è presente (Ibid., II, c. , p. ).

La luce è soltanto un atto del diafano. E la prova che la luce non ha esistenza
fuorché nel diafano è che se fosse posto qualcosa di colorato sopra di esso
la cosa veduta non sarebbe compresa, allora infatti non ci sarà luce tra il
colore e la cosa vista qualora non ci sia tale diafano (Ibid., II, c. , p. ).

La luce entra nella visione secondo quanto più ampia è nel diafano la
predisposizione ad essere mosso dai colori non più ampiamente del modo
di agire dei colori (Ibid., II, c. , p.).

Innanzitutto Averroè chiarisce bene il carattere intermediario del


diafano. Gli organi di senso, la luce e l’oggetto, sono tre elementi
che stabiliscono da soli una relazione insufficiente. Insomma la luce
non agisce direttamente sul corpo e sull’opacità del colore del corpo,
ma agisce sul diafano che è (semi) trasparente e che è presente tra
i corpi. Tale diafano, che di per se stesso non è visibile all’occhio,
rende visibili i corpi, veicola i colori dei corpi e così rende possibile il
senso della vista. Allo stesso modo Averroè, non nega apertamente il
meccanismo geometrico, divenuto ormai un presupposto dell’ottica
medioevale, cioè non nega la piramide della visione con l’occhio al
vertice e l’oggetto in fondo e, ma pensa che ciò sia insufficiente senza
il diafano.
L’immagine come diafano 

Dante, invece, nel Convivio, pur basandosi sul diafano di Aristotele,


tenta un progetto grandioso, in cui questo concetto viene collegato
al problema del linguaggio e dell’immagine, e in cui inoltre, la fisica,
la teologia e l’astronomia vengono unificati in base ad esso. Così
in Dante, il diafano diventa un concetto–chiave che ha implicazioni
metafisiche e teologiche, estetiche e cosmologiche, che ho trattato in
dettaglio nel mio libro.

Queste cose visibili, sì le proprie come le comuni in quanto sono visibili,


vengono dentro all’occhio — non dico le cose, ma le forme loro — per
lo mezzo diafano, non realmente ma intenzionalmente, sì quasi come in
vetro trasparente. E ne l’acqua ch’è ne la pupilla de l’occhio, questo discorso,
che fa la forma visibile per lo mezzo, sì si compie, perché quell’acqua è
terminata — quasi come specchio, che è vetro terminato con piombo —, sì
che passar più non può, ma quivi, a modo d’una palla, percossa si ferma; sì
che la forma, che nel mezzo trasparente non pare, [ne l’acqua pare] lucida e
terminata. E questo è quello per che nel vetro piombato la immagine appare,
e non in altro (Dante, Convivio, prefazione, note e commenti di P. Cudini,
Milano, Garzanti, , III, IX, –, p. ).

Qui Dante, impiega due termini, quello di “diafano” e quello di


“trasparente”; fino a che punto li usi appropriatamente e consapevol-
mente, purtroppo non è possibile dirlo chiaramente. Comunque, da
ciò che Aristotele dice, nel caso in cui l’intermediario tra vedente e
visto corrisponda al diafano, avrebbe adottato certamente la parola
“diafano” intenzionalmente. Dante afferma che la vista, non ha luogo
in un mezzo puramente trasparente come il vetro ma, come il vetro
ricoperto di piombo sul retro, cioè essa ha luogo in un mezzo diafano
come lo specchio o l’acqua. Certo, a chiunque potrebbe capitare l’e-
sperienza di incappare senza volerlo nella presenza inaspettata di un
vetro trasparente.
Inoltre questo medium, sia che cambi, sia che se ne distingua il
grado di trasparenza e di purezza, e ancora di più, esso stesso, anche
se rimanesse uguale, non richiederebbe sempre lo stesso modo di
vedere. Le cose appaiono più o meno distorte, a seconda del supporto
o medium (semi) trasparente, “per lo mezzo diafano”. E dunque, se le
parole si trascinano dietro fino in fondo proprietà come il suono e la
voce, allora non possono trasmettere le cose trasparentemente. Ecco
alcuni passi in proposito:
 Atsushi Okada

Per che, acciò che la visione sia verace, cioè tale qual è la cosa visibile in
sé, conviene che lo mezzo per lo quale a l’occhio viene la forma sia sanza
ogni colore, e l’acqua de la pupilla similmente: altrimenti si macolerebbe la
forma visibile del color del mezzo e di quello della pupilla (Convivio III, IX,
, p. ).

Transmutasi anche questo mezzo di molta luce in poca luce, sì come a la


presenza del sole e la sua assenza (Convivio III, IX, , p. ).

Transmutasi anche questo mezzo di sottile in grosso, di secco in umido,


per li vapori de la terra che continuamente salgono: lo quale mezzo, così
transmutato, transmuta la magine de la stella che viene per esso, per la
grossezza in oscuritade, e per l’umido e per lo secco in colore (Convivio III,
IX, , pp. –).

Quindi Dante non tarda a concludere alla fine nel modo seguente:

E così appaiono molte cagioni, per le ragioni notate, per che la stella puote
parere non com’ella è (Convivio III, IX, , p. ).

Oppure, infine così:

. . . sì che le cose non paiono unite ma disgregate, quasi a guisa che fa la


nostra lettera in su la carta umida (Convivio III, IX, , p. ).

Ormai, sembra che l’uniformità, l’identità ecc. dell’immagine vi-


siva, fin dall’inizio non dovrebbe essere possibile, e dovrebbe essere
impossibile desiderarle. Nella visione in cui vengono recepiti certa-
mente la “disgregazione” e il “mutamento”, si ha la positiva funzione
del diafano.
Nel Rinascimento, con l’affermazione della camera obscura come
modello di spiegazione e rappresentazione della percezione visiva, il
diafano di Aristotele è stato accantonato per lungo tempo. Soltanto
nel XX secolo, a mio parere, si potrà trovare un concetto prossimo
al diafano come mediatore, come ontologia della relazionalità, come
potenza, come luogo dell’immaginazione e della memoria. Qui tro-
viamo delle concezioni irriducibili al modello della camera obscura,
o alla teoria albertiano–cartesiana, o a dualismi tradizionali come
“originale/riproduzione”, e che sono paragonabili alle stelle di una
costellazione che ho chiamato “costellazione del diafano”.
L’immagine come diafano 

Li elenchiamo brevemente. Essi sono: la “carne” (chair) in Merleau–


Ponty; l’“immagine–cristallo” (image–cristal) in Deleuze; il “non–so–
che” (je–ne–sais–quoi) in Jankélévitch, e infine l’“infrasottile” (inframin-
ce) in Duchamp. A prima vista può sembrare che non ci sia alcuna
correlazione tra loro, ma se si segue il filo del “diafano”, mi pare che
sia possibile assegnare a loro una lucentezza comune come appunto
in un’unica costellazione. Ma non posso parlarne qui in dettaglio.
Per concludere, vorrei fare un accenno ai tre miti di origine della
pittura: quello dell’ombra, quello della traccia e quello del riflesso
(nell’acqua). Secondo quanto racconta Plinio il Vecchio, la pittura
sarebbe cominciata col tracciamento dell’ombra di un ragazzo che
doveva partire per la guerra fatto dalla sua fidanzata. A questo mito il
prof. Stoichita ha dedicato un famoso e bellissimo libro. Diversamente
nel cristianesimo, si narra dell’origine dell’icona dal volto impresso da
Gesù quando era ancora vivo su un fazzoletto, chiamato dai bizantini
veniva mandylion, e dai cattolici veronica. Concretamente parlando, il
primo è un caso di traccia di luce ed ombra — le lontane origini della
fotografia–calotipia —, il secondo è un caso di traccia di sangue e
umori — le lontane origini del dripping. Infine c’è il mito di Narciso
che si innamora della sua figura riflessa nell’acqua, che è posto da
Alberti all’origine della pittura.
Se assumiamo in altre parole che ciascun termine indica una par-
ticolare funzione fisico–psicologico, le parole: ombra, traccia e im-
magine riflessa, dovrebbero diventare: proiezione (pojection), contatto
(touch), e riflesso–riverbero (reflection). Ora, l’aspetto interessante di
tutti questi miti, è che l’immagine pittorica, non è nata copiando o
imitando direttamente il soggetto secondo il risultato, ma per inserire
un elemento intermedio. Vorrei avanzare l’ipotesi che, sia la proiezio-
ne, sia il contatto, sia il riflesso–riverbero, stando alla loro funzione di
duplicazione, siano innanzitutto dei termini intermedi tra il soggetto
e l’immagine. Forse, richiamandoci a Peirce, il dipinto è nato come
segno indicale basato sul rapporto di causa ed effetto, e non come se-
gno iconico basato sulla somiglianza né come segno simbolico basato
sulla convenzione.
Questi fatti che hanno in comune i tre miti a me sembrano estre-
mamente significativi, poiché, i media dell’ombra, della traccia e del
riflesso, mediano ognuno due mondi. Infatti, l’ombra, sta tra questo
mondo e l’altro mondo; la traccia, tra le cose sacre e profane o tra
 Atsushi Okada

presenza e assenza; e il riflesso, tra realtà e finzione. Dunque anche la


pittura, che nasce da essi, dovrebbe mediare tra i rispettivi mondi.
Inoltre, sia nell’ombra, sia nella traccia, sia nell’immagine riflessa
sull’acqua, secondo noi, non c’è trasparenza, ma neppure opacità, e
allora sarà giocoforza un’immagine prossima al semitrasparente. Non
sarà allora che queste immagini, distaccate dall’opacità del materia, e
ormai ridotte a una sottile membrana semitrasparente, fluttuino non
si sa dove?
Analogamente, richiamandoci al mito delle origini della pittura,
diventa possibile pensare il semitrasparente come termine intermedio.
Si può cioè cogliere ciò che media ontologicamente ed epistemolo-
gicamente materia e spirito, visibile e invisibile, al–di–qua e al–di–là,
celeste e terrestre, immanenza e trascendenza, forma e informe, reale
e virtuale, rivelazione e nascondimento, fascinazione e orrore, deside-
rio e divieto. Così facendo può essere dimostrato quanto sia effettivo
e funzionale tale punto intermedio, il che è essenziale.
Il sistema del velo / Système du voile
ISBN 978-88-548-8838-8
DOI 10.4399/978885488838812
pag. 277–299 (gennaio 2016)

Il velo: una metafora dell’apparire


G C

Gewichtiger mein Sohn als du es meynst


Ist dieser d unne Flor — F ur dein Hand
Zwar leicht, doch Zentner schwer f ur dein Gewissen.
S F., Das Verschleierte Bild zu Sais, .

English Title: The Veil as a Metaphor for Appearance

A: In the wake of Walter Benjamin, the veil can be defined as that impalpable
thickness in which appears — though always concealed — the truth. In this skin–like space
coincide the visible and the invisible, the sacred and the profane. Thanks to some artistic
pictures, above all those of the Deposition from the Cross, it is possible to emphasize the
dialectics of meaning between mortal corporeality and aesthetic transfiguration of matter,
between the nonsense of organic putrefaction and the bright power of truth, which turns
death into a nice appearance. On closer inspection, aesthetic perception is precisely this
ability to sublimate the intrinsic entropy of the matter into the instantaneous enchantment
of a new shape. This process takes place above all in the impalpable thickness of the veil,
threshold of the imaginal apparition where the opposites turn into one another. Blasphe-
mous truth, after all, is typical of our time: a veilless time, void of interiority, where the
transfiguring light of the veil has left the stage to the morbid and voyeuristic — unveiled —
look of advertisement. Hopper is the master of this profane disclosure, “sans théologie et
sans promise”, the creator of an empty, dispossessed soul.

Keywords: Sammartino; Holbein; Grünewald; Hopper; secularization; consumer world;


artistic perception; voyeurism

. Cenni preliminari: del conoscere per velamentum

Inizio analizzando un’espressione idiomatica: “stendere un velo pieto-


so”, cercando poi di vagliarne alcune sfaccettature artistiche e filosofi-
che.
Nella maggioranza dei dizionari della lingua italiana, l’espressione
è riportata nell’ampia casistica di significati che si dispiega a partire
dall’aggettivo “pietoso”, che muove a pietà.


 Gianluca Cuozzo

Leggo da uno dei più noti dizionari della lingua italiana, il Treccani:

pietoso /pje’toso/ agg. [der. di pietà]. – . [che sente e dimostra sentimenti


di pietà, carità, amore: non c’era un’anima p. che l’aiutasse; mostrarsi p. verso
qualcuno] ≈ caritatevole, compassionevole, misericordioso, pio. ↔ crudele,
empio, impietoso, spietato. ↓ cinico, insensibile. Espressioni: Fig., stendere
un velo pietoso (su qualcosa)→ . . [che esprime pietà, che è mosso da
pietà: sguardo p.; parole, lacrime p.] ≈ addolorato, dolente, doloroso, soffe-
rente. ↔ allegro, felice, gioioso, lieto. . (estens.) a. [che muove a pietà, che
è capace di suscitare pietà] ≈ commovente, patetico, toccante. ↔ allegro,
gaio, lieto. b. (fam.) [di cosa mal fatta o mal riuscita: un articolo p.] ≈ brutto,
penoso, scadente. ↔ eccellente, magnifico, ottimo. c. [di comportamento o
modo di figurare: fare una figura p.] ≈ (fam.) barbino, brutto, infelice, penoso.
↔ bello, magnifico, ottimo. . (lett.) [che nutre sentimenti di devozione
affettuosa verso i genitori, la patria, Dio: Virgilio, d’Enea parlando, in sua
maggiore loda p. lo chiama (Dante)] ≈ devoto, (lett.) pio, rispettoso. ↔ empio.
 stendere un velo pietoso (su qualcosa)[dimenticare un fatto spiacevole
e non parlarne più] ≈ glissare, sorvolare, tralasciare (ø), [con uso assol.]
lasciare correre.

Quando si sente un italiano profferire una tale espressione, imme-


diatamente si avverte echeggiare un forte richiamo alla rimozione,
come un invito al nascondere qualcosa sotto un drappo occultante che
riporti un evento dato nella dimensione dell’invisibilità — cosa, questa,
in cui noi italiani siamo particolarmente abili. Dimenticarci di Pom-
pei, le cui bellezze archeologiche rischiano di essere sopraffatte dalle
proprie macerie, di fatto è l’unico modo per poter costruire, con leg-
gerezza e piglio politico da perfetto decisionista déraciné dans l’histoire
et dans les arts, “L’Aquila ” — abominio architettonico che sembra
uscito dalle visioni distopiche di Philip K. Dick (immaginandolo auto-
re di un romanzo che potrebbe intitolarsi Cronache del dopoterremoto) .
L’acronimo C.A.S.E., con cui si designano con un malcelato senso
dell’ironia le diciannove new towns costituite da Complessi Antisismi-
ci Ecocompatibili e Sostenibili voluti dal governo dopo la catastrofe
del , assurge a simbolo di uno degli oggetti esemplari di questa
sindrome dello struzzo: un richiamo alla rimozione colpevole, al nascon-
dimento accompagna i nostri progetti (in questo caso di ricostruzione),
garantendone l’oscena realizzabilità — appena velata dall’ipocrisia del-

. Il romanzo di Dick s’intitola, almeno nella traduzione italiana, Cronache del


dopobomba, mentre in inglese Dr. Bloodmoney, or How We Got Along After the Bomb ().
Il velo: una metafora dell’apparire 

l’urgenza del provvedimento — sul piano del visibile. Anche perché,


per condensare in una formula quanto è accaduto, ciò che è lucroso cova
solo nella visibilità oscurante, coprente della disinformazione.
In realtà, come riscontrato dando una rapida scorsa ai dizionari,
vi è una qualche ambiguità in questo modo di dire, una sorta di dia-
lettica interna al significato. Se da un lato si esprime il bisogno di
cancellazione (come dire, post factum) di qualcosa che comunque è
già avvenuto; dall’altro, evidentemente, si fa riferimento ad un even-
to doloroso che muove l’animo a pietà, e che, in fin dei conti, non
può essere semplicemente negato e rimosso: ciò che commuove, per
così dire, ci interpella con riserbo, ci attira con discrezione — sospin-
gendoci in una dimensione “chiaroscurale” in cui sembra perdere
di validità la drastica alternativa luce–tenebre, visibilità–invisibilità,
conoscenza–ignoranza.
Questo stato intermedio dell’apparire — che Novalis, facendo rife-
rimento alla dea egizia Iside, avrebbe definito “il fondamento divino
della bellezza” —, notava Walter Benjamin ne Il concetto di critica nel
Romanticismo tedesco (), è costitutivo nientemeno che della verità,
che non ha nulla a che vedere con l’oscenità di una visione senza veli
(Benjamin , p. ). Ancora Walter Benjamin, nel Passagen–Werk,
proprio facendo riferimento a I discepoli di Sais (–), dice che il
nesso vero/mistero « fu espresso da sempre nell’immagine del velo,
che è un vecchio complice della lontananza » (Benjamin , p. ) —
e, in questa splendida definizione, riemerge tutta la tematica benjami-
niana dell’aura artistica, definita non a caso come “l’apparire unico di
una lontananza” (Benjamin , p. ), distanza capace di preservare
in velamine l’unicità di ciò che si fa visibile. Stando così le cose, scrive
ancora Benjamin nel saggio su Le affinità elettive di Goethe (), la
contemplazione artistica « non è un disvelamento (Enthüllung) che
distrugga il mistero, bensì una rivelazione (Offenbarung) che gli rende
giustizia » (Benjamin , p. ).
Ora, rendere giustizia al carattere misterioso della verità significa
collocarsi nel processo di semantizzazione garantito dal velo, abita-
re nel suo impalpabile spessore; anche perché noi mortali, volendo
riprendere I Cor ,, in questa vita vediamo sempre per speculum et
in aenigmate — in fondo conosciamo sempre per velum et in velamine,
persino dovessimo abbandonare i limiti del corpo mediante un innal-
zamento mistico all’assoluto. Sicché, osservava Nicola Cusano nel De
 Gianluca Cuozzo

possest (), attento nella sua ricerca dell’assoluto a non varcare i


limiti del modus intelligendi mentis, la cui apprensione è sempre una
aenigmatica visio (una visione “per enigmi”),

quando il ricercatore della verità, abbandonando tutto, sarà asceso al di


sopra di se stesso (supra se ipsum ascenderit), trovando così di non poter
più accedere oltre verso il Dio invisibile, invisibile perché con nessuna
luce di ragione può vederlo, allora attende con ansia devotissima quel sole
onnipotente che, sorgendo, caccia le tenebre e lo illumina affinché egli
possa vedere l’invisibile, per quel tanto che l’invisibile stesso si manifesterà
(Cusano , p. ).

Come recita un celebre verso del componimento L’immagine velata


di Sais di Friedrich Schiller (), colui che nella ricerca filosofica
prescinda dal velo geht zur Wahrheit durch Schuld, letteralmente: « Va
verso la verità attraverso la colpa » (Schiller , p. ) — ma il
precedente di questa lirica è da vedersi nel De Iside et Osiride di Plutarco
(– d.C.), precisamente nel Libro IX, in cui si racconta che ai piedi
della statua della dea Iside era posta l’iscrizione: « Io sono tutto ciò che
è stato, ciò che è e ciò che sarà; e nessun mortale scoperse mai il mio
peplo »; altrimenti, detto ancora con Benjamin, il contenuto segreto
di verità “si volatilizza in nulla” (Benjamin , p. ), lasciando il
ricercatore faccia a faccia con sé. In effetti, in appendice al racconto di
Novalis, vi è un distico del maggio  in cui si legge: « A uno riuscì
— egli sollevò il velo della dea Saïs — Ma cosa vide? Vide — miracolo
dei miracoli — Se stesso » (Novalis , p. ).
Ora, la parola greca πέπλος indica in Omero un pezzo di stoffa
rettangolare usato per ricoprire urne cinerarie, troni e carri da combat-
timento. Tuttavia, così recita l’Enciclopedia Treccani, il peplo denotava
anche un abito femminile di semplice fattura, costituito

da un pezzo rettangolare di stoffa [. . . ] che veniva dapprima ripiegato per cir-


ca un terzo della lunghezza nel lato superiore, quindi nuovamente ripiegato
in due parti uguali in senso verticale. Negli orli superiori così combacianti,
in due punti, a distanze uguali dalle estremità, due fibule tenevano fermo
sopra le spalle l’abito, che restava aperto lungo il fianco destro. Il peplo, che
era indossato immediatamente sopra il corpo a contatto con la pelle, era
lungo fino alla caviglia o si trascinava a terra.

Si potrebbe dire, dunque, che qui il concetto di velo nasconda un’al-


Il velo: una metafora dell’apparire 

tra dialettica del significato, ancora più insidiosa di quella precedente


(quella visibile/invisibile): in essa, questa volta, s’incontrano un ele-
mento sacro (che fa riferimento alle esequie e alla regalità) e uno
tendenzialmente profano (che addita alla nudità femminile) — e que-
sti sono due elementi che cercherò di recuperare, nella loro tensione
irriducibile, attraverso alcune immagini artistiche, nelle quali, proprio
attraverso la metafora del velo, sembrano fondersi trascendenza e
carnalità, pudore e oscenità della visione. Del resto vi è una stretta
parentela tra i termini velum (velo, tenda, tessuto, vela), velamen (veste,
copertura, schermo, ma persino spoglia o pelle animale) e velamentum
(copertura e velo sacro): ciò che deve coprire, per senso di pudicizia,
la pelle, in alcuni casi è esso stesso derma manifesto — la superfi-
cie visibile di un corpo, la quale, per così dire, “dimora nell’aperto”,
garantendo la perfetta osmosi tra interno ed esterno, anima e corpo.
Vorrei allora analizzare le due antinomie attinenti al velo appe-
na segnalate (lo ripeto, la prima che fa riferimento al nesso visibili-
tà/invisibilità, e l’altra che vive dell’ambiguità trascendenza/carnalità)
facendo ricorso ad alcune immagini artistiche: esse, almeno sulle
prime, corrispondono rispettivamente al nesso occultamento pieto-
so/trascendenza, in un caso, e a quello visibilità/oscenità/carnalità,
nell’altro. Ma le cose, nel corso dell’indagine, si riveleranno ancora più
complicate, aprendosi ad altre dimensioni del senso dischiuse dal tema
della visione per velamentum — per citare Clemente Alessandrino (III
sec.): « Omnia quae ostenduntur per aliquod velamentum, majorem
et augustiorem exhibent veritatem, sicut fructus qui in aqua pollucent,
et formae quae per tegumenta concedunt aliquam sui evidentiam »
(Stromata, Liber V, ).

. Il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino

La prima opera cui voglio riferirmi è quella del Cristo velato della
Cappella di San Severo in Napoli (Fig. ). L’autore di quest’opera,
splendida ed enigmatica, è Giuseppe Sanmartino, che la realizzò nel
 su commissione del Principe Raimondo di Sangro di San Seve-
ro. In questa immagine — su cui molto si è discusso sul piano dei
riferimenti alchemici, esoterici e delle “leggende diaboliche” che cir-
colavano intorno alla figura del principe: personaggio « enciclopedico,
 Gianluca Cuozzo

Figura . Giuseppe Sammartino, , Cristo velato, Cappella di San Severo, Napoli

misterioso, sempre intento ad esperimenti di chimica », una sorta di


“incarnazione napoletana del dottor Faust” (Croce , p. ) — si co-
niugano due estremi concettuali per me fondamentali, che riguardano
la stessa consistenza ontologica del velo: il carattere della trasparenza
(disvelante) e quello della materialità (occultante). Il velo che ricopre
la statua di marmo del Cristo deposto è esso stesso nient’altro che
marmo (come a dire, marmo sul marmo della statua del Crocifisso);
ossia un « sudario trasparente realizzato dallo stesso blocco della sta-
tua » — come recita un documento di pugno dello stesso committente
(Piedimonte , p. ). Ma il velo marmoreo, finemente lavorato
dallo scultore, qui sembra liberarsi dalla sua pesantezza marmorea,
dematerializzarsi e assurgere al piano della trasparenza disvelante, libe-
rando infine il corpo del defunto dalla sua stessa consistenza lapidaria:
« Fatto con tanta arte da lasciare stupiti i più abili osservatori », il velo è
stato scolpito in modo da disvelare ogni dettaglio anatomico del corpo
martoriato.

Su quel corpo bello ma straziato, una religiosa e delicata pietà ha gettato un


lenzuolo dalle pieghe morbide e trasparenti, che vela senza nascondere, che
Il velo: una metafora dell’apparire 

non cela la piaga ma la molce, che non copre lo spasimo ma lo addolcisce.


Sopra un copro di marmo, che sembra di carne, un lenzuolo di marmo che
la mano quasi vorrebbe togliere (Serao , p. ).

Il velo “ancor di marmo” è dunque ciò che lascia trasparire il cor-


po straziato di Cristo in un luogo in cui materialità (del marmo) e
immaterialità (dell’apparire della trascendenza) si neutralizzano vicen-
devolmente: il velo, allora, è qui il luogo dell’apparizione immaginale,
la soglia immateriale della parvenza in cui nudità (o penetrazione del-
lo sguardo) e pietà (o riserbo religioso per le sofferenze del Cristo)
convergono, esaltandosi vicendevolmente in un gioco di avvicenda-
menti che non può essere eluso con il richiamo estemporaneo a un
principio di non–contraddizione. Paradossalmente, contro ogni lo-
gica binaria del senso (fondata sul rigido e tranquillizzante aut–aut
visibilità/invisibilità), qui pare che la pietosa velatura renda ancor più
accessibili — denudate — le membra del cadavere martoriato, trasfigu-
randole però con tutta la dolcezza del messaggio salvifico cristiano:
« Le precise linee della cassa toracica, delle gambe, i dettagli delle brac-
cia, la vena ancora gonfia sulla fronte, il naso dritto e forte, gli occhi
chiusi » sono mitigati da un manto avvolgente che rivela/protegge
il Cristo in un perfetto equilibrio plastico, presso cui è possibile sog-
giornare nella contemplazione raccolta e nella preghiera speranzosa
(Piedimonte , p. ).
Il velo scolpito da Sanmartino, per così dire, è il “derma iconico”, il
luogo impalpabile in cui si consuma il dramma umano della visione,
fatta sempre di rivelazione e occultamento, percezione del mistero e
riserbo rispetto al suo completo apparire: la penetrazione dell’ogget-
to raffigurato (la passione e la deposizione del cadavere esangue del
Figlio di Dio su un freddo materasso di pietra) è allo stesso tempo
garantita e protetta dalla funzione osmotica e ammantante del velo,
che è una sola cosa con la pelle del Cristo morto — « trasparente sotto
un velo di marmo » (Croce , p. ). E questo, paradossalmente, av-
viene in un’opera scultorea in cui il velo è più legato agli impedimenti
materici del marmo, che di per sé tenderebbe a negare ogni effetto di
trasparenza. Ri–velare, rendere accessibile allo sguardo, non significa
forse sottoporre il visibile ad una ulteriore operazione di occultamen-
to? D’altronde, è scritto nello Zohar (II sec. d.C.), il Dio nascosto sive
revelatus — l’En Soph della Cabbalah —, rivelandosi attraverso i dieci
 Gianluca Cuozzo

ordini delle sephiroth, “pose l’oscurità come suo nascondiglio” (Il libro
dello splendore , p. ).
Nemmeno la rivelazione, in senso teologico e sovrannaturale, può
quindi garantire all’uomo il pieno possesso della verità: rivelare, scrive
Vincenzo Gioberti nell’opera postuma Filosofia della rivelazione (),
non significa l’estirpazione radicale di quel manto che s’interpone tra
la mente creata e il proprio principio trascendente; non è dunque sino-
nimo del profanare, tramite cui si cerca di eludere « l’impenetrabilità
oscura, inaccessibile del Santo de’ Santi, del Seco, della Cella del tem-
pio ». La rivelazione, « la manifestazione del lato oscuro dell’idea », è
piuttosto ad un tempo ostensione e occultamento, apertura e chiusura
del vero alla nostra mente, vale a dire una rivelazione essenzialmente
analogica e approssimativa dell’infinito, che non potrà mai essere col-
to facies ad faciem: « Brevemente, l’evidenza e il mistero, la rivelazione
e l’occultazione si mescono insieme e si presuppongono a vicenda in
tutte le nostre cognizioni » (Gioberti , p. ).

Rivelazione e mistero sono due voci correlative. La rivelazione è la scoperta


del sovrintelligibile, il mistero è il sovrintelligibile svelato. Ma come svelato?
per mezzo di un velo simbolico tolto dall’intelligibile. La rivelazione e il
mistero sono nello stesso tempo un occultamento, e una scoperta, una
metafora e una equazione (Gioberti , p. ).

Gioberti esprime magistralmente questa dialettica di visibilità ed


invisibilità, apertura e chiusura, donazione e sottrazione della verità
rivelata, attraverso la correlazione di alcuni immagini bibliche:

Daniele rappresenta il Figlio dell’uomo venturo sulle nubi del cielo (VII.
). Così pure nell’Evangelio. Cristo nel salire al cielo fu coperto dalle nubi.
Nota qui due imagini conformi, l’una delle quali è il rovescio dell’altra;
l’uscita dalle nubi (essere portato, seder sulle nubi è apparir fuori di esse) e
l’entrata nelle nubi (esserne coperto, involto, occultato). Queste due imma-
gini esprimono i due stati e atti opposti della rivelazione e dell’occultazione,
della visibilità e dell’invisibilità, dell’apparizione e della disparizione [. . . ],
dell’intelligibile e del sovrintelligibile, dell’evidenza e del mistero, della me-
tessi e della mimesi [A margine: Nube, nembo, caligine, nebbia significano
anco il sovrintelligibile, come fenomeni difettivi di luce che è il simbolo
dell’intelligibile. Onde religione nella Bibbia è spesso sinonimo di oscurità
e di tenebre] (Gioberti , p. ).
Il velo: una metafora dell’apparire 

Il Cristo velato di Sanmartino, in definitiva, può essere inteso come


un complesso Andachtsbild (letteralmente, un’immagine che suscita
devozione e preghiera), imago sacra capace di produrre uno straordi-
nario effetto performativo sull’osservatore/credente: l’immagine scol-
pita, suggerendo una contemplazione pietosa che dispone all’imitatio,
è come invitasse a penetrare nelle trame del velo, quasi a sfiorare
la pelle dell’uomo–dio — soggiornando in quel luogo, estremamen-
te rarefatto, in cui il velo, perdendo consistenza materica, si anima
facendo affiorare le fattezze ancora palpitanti del cadavere di colui
che presto si libererà dal proprio sudario, incontrando trasfigurato i
suoi discepoli presso Emmaus — trionfo dell’immaterialità folgorante
del corpo del risorto, che una volta riconosciuto quale figlio di Dio
“sparisce dalla vista” dei discepoli come per un miracoloso processo
di rarefazione della sostanza (Lc ,). Detto con il Benjamin del
Frammento teologico–politico ( ca), « messianica è la natura per la
sua eterna e totale caducità (Vergängnis) » (Benjamin , p. ).
Tuttavia, ci si potrebbe chiedere, la percezione artistica non è, sem-
pre e comunque, un’esperienza che si dischiude là dove materialità
(dell’opera) e immaterialità (dell’immagine) divengono una sola e
identica esperienza? E non è in tal senso l’arte, in ogni caso, un’espe-
rienza del velo — vale a dire un’esperienza della soglia, della transizione
impalpabile tra ombra occultante e rilucere dell’idea in figura? Il velo,
per così dire, è la seconda pelle del contenuto di verità rappresentato,
ciò che lascia trasparire l’immagine evocandola dalla materia — libe-
rando, per così dire, “la disiata forma vera” (come recita il sonetto XVI
di Petrarca) dalla prigione opaca della pietra. Il velo del Cristo scolpito
da Sanmartino, allora, anziché impedire l’apparizione della forma,
è come se strappasse l’immagine dell’Uomo–Dio dalla grevità del
marmo: questo drappo, quasi ricamato sul corpo disteso, prolunga la
pelle del defunto nello spazio intermedio dell’apparizione della forma,
dove il corpo si fa infine luce e medium dell’apparizione immaginale.
Spazio assoluto, garante della visibilità piena della materia, materialità
che è divenuta però pura trasparenza — come a dire, visibile oltre la
fissità cadaverica del corpo dell’uomo–dio, là dove lo sguardo, facendo
breccia nella caverna caliginosa delle ombre, incontra infine il regno
della pura forma.
E tuttavia il velo è ancora materia, per quanto sublimata e impalpa-
bile: esso incanta la forma, come una rete fine e delicata la trattiene dal
 Gianluca Cuozzo

suo rarefarsi senza corpo, facendola permanere nella regione — allo


stesso tempo materiale e immateriale — della visibilità. Il velo, per
così dire, rappresenta un’obiezione decisa, ontologica, alla dottrina he-
geliana della fine dell’arte, vale a dire della sua completa soggettivazione
(secondo cui l’innere Subjektivität è « l’interno per sé essente ritornato
dalla sua esistenza reale nell’ideale, nel sentimento, nel cuore, nell’a-
nima e nella meditazione ») (Hegel , vol. II, p. ); esso, cioè, è
l’impedimento al consumarsi della forma che vorrebbe divampare —
scevra di ogni legame corporeo — nella pura fiamma dello spirito:
in questa pira, come nel “calderone di una strega”, si risolve tutto ciò
che era impuro, naturale e torbido (Hegel , vol. I, p. ). Almeno
nell’arte romantica, secondo Hegel, « lo spirito sa che la sua verità
non consiste nell’“effondersi nel corporeo”; al contrario egli diviene
certo della sua verità solo per il fatto che dall’esterno si riporta nella
sua intimità con sé e pone la realtà esterna come esistenza a lui non
adeguata » (Hegel , vol. I, p. ).

Per quanto riguarda il contenuto, quindi, da un lato abbiamo la sostanzialità


dello spirituale, il mondo della verità e dell’eternità, il divino che però è qui
colto e realizzato dall’arte, in conformità al principio stesso della soggettività,
come soggetto, come personalità, come assoluto che sa se stesso nella sua
infinità spirituale, come Dio in spirito e verità. Di contro a lui compare la
soggettività mondana ed umana che, non essendo più in immediata unità
con il sostanziale dello spirito, si può svolgere ora in tutta la sua particolarità
umana, rendendo accessibile all’arte tutto il cuore umano e l’intera pienezza
dell’apparenza umana (Hegel , vol. II, p. ).

Il velo, in tal senso, è ciò che distingue l’elemento logico proprio


del pensiero puro, che ha se stesso come proprio contenuto (il Sapere
assoluto, il cui concetto nella sua sublime autotrasparenza può far a
meno di ogni rappresentazione e forma estrinseca), dalla percezione
estetica, in cui deve permanere un elemento di esteriorità materiale, in
grado di incorporare e manifestare lo spirito. Pure Benjamin, ancora
nel saggio su Goethe, quasi in senso hegeliano, scrive come il rapporto
tra verità e bellezza sia del tutto simile all’« infiammarsi dell’involucro
che penetra il regno delle idee »: in questo rogo della parvenza, la
forma artistica — proprio nel momento in cui essa, con un ultimo e
istantaneo fremito, si dissolve per far trapelare la sua intima essenza: il
vero stesso — « raggiunge il suo massimo di luminosità » (Benjamin
Il velo: una metafora dell’apparire 

Figura . Hans Holbein, , Cristo nel sepolcro, particolare, Öffentliche


Kunstsammlung, Basilea

, p. ). Eppure, in questa autocombustione dell’opera, la bellezza


è ancora qualcosa di materiale, alla stregua di “cenere del vissuto”,
lieve eppure indistruttibile, favorendo così — proprio nel suo evane-
scente supporto di materialità trasfigurata — l’impalpabile visione di ciò
che appare.

. Il Cristo morto di Hans Holbein

La seconda opera in esame è la deposizione di Hans Holbein il Giova-


ne, anch’essa ispirata ai motivi della pietà cristiana. Il titolo tramandato
della tavola è Cristo nel sepolcro (Öffentliche Kunstsammlung, Basilea),
recante la data . Si tratta, come recita l’inventario Amerbach (del
), di “un dipinto di morto di Holbein su legno con colori a olio”
(Grohn , p. ). Che si tratti di una predella di un altare smembrato
o di un’opera a sé stante, la figura ritratta s’impone per la sua cras-
sa materialità — quasi lo stato di tumefazione che traspare da mani
e piedi fosse la più evidente smentita della fede nella resurrezione
di Cristo. L’immagine divina è qui come denudata, tradita nel suo
messaggio soteriologico; essa, livida e senza alito di vita, poggia sul
sudario immersa in una luce fredda e impietosa che illumina dall’inter-
no lo spazio esiguo, spettrale della rappresentazione: quello angusto
di un sepolcro di pietra da cui emerge, al culmine della negazione
della forza espressiva del volto umano, il viso tumefatto di un mero
cadavere — uomo defunto tra gli uomini mortali, succube dell’eterno
ciclo di generazione e corruzione della materia.
Dostoevskij, che aveva visto l’immagine nel  esposta al Basel
 Gianluca Cuozzo

Kunstmuseum durante un soggiorno a Ginevra, visse un’esperienza


terrificante, ricordata nei dettagli dalla testimonianza della moglie
Anna Grigor’evna ( agosto ):

Durante il viaggio verso Ginevra ci fermammo a Basilea per visitare il


museo, dove si trovava un quadro di cui mio marito aveva sentito parlare.
Si trattava di una tela di Hans Holbein, raffigurante Cristo dopo il martirio
inumano, già staccato dalla croce e in via di decomposizione. La visita
di quel viso tumefatto, pieno di ferite sanguinanti era terribile. Il quadro
fece grande impressione su Fëdor Michajlovič e lo lasciò molto abbattuto,
mentre io, non potendo resistere a lungo, perché debole, passai in un’altra
sala. Quando tornai, dopo circa venti minuti, trovai ancora mio marito
davanti al quadro, come se fosse incatenato. Nel suo viso pieno di spavento
lessi la stessa espressione che avevo già notato più d’una volta all’avvicinarsi
delle crisi d’epilessia. Allora lo presi delicatamente per il braccio, lo allontanai
dalla sala e lo feci sedere su di una panca, aspettando da un momento all’altro
la crisi che per fortuna non venne. Fëdor Michajlovič si calmò un poco;
ma, uscendo dal museo, insistette per tornare a rivedere ancora una volta il
quadro (Dostoevskaja , p. ).

L’episodio è coevo alla stesura de L’idiota, opera nella quale que-


st’esperienza lasciò una traccia tangibile. In effetti, nel romanzo, una
copia della deposizione di Holbein fa la sua apparizione a casa di Ro-
gozin, uno dei personaggi di questo racconto, fino a diventare « the
symbolic heart of the work » (Meyers , p. ); e Dostoevskij, certo
ricordandosi dell’impressione di terrore suscitata in lui da quel volto
agonizzante, fa dire al principe Myskin, in preda a una “strana inquie-
tudine” dopo la visione della tavola, che « quel quadro potrebbe anche
far perdere la fede a qualcuno! ». Ippolìt, poco più avanti, a proposito
di quella raffigurazione di Cristo “appena deposto dalla croce”, escla-
ma: ma gli apostoli « come potevano credere, guardando un cadavere
ridotto così, che quel martire sarebbe risorto? [. . . ] Il quadro sembra
dare l’impressione di quella forza, oscura, potente, assurda ed eterna,
cui tutto è sottomesso ».

Guardando quel quadro, la natura ci si presenta sotto l’aspetto di una belva


implacabile e muta [. . . ]. Ma, cosa strana: mentre guardi quel corpo di un
uomo martoriato, sorge in te un singolare e curioso problema: se tutti i suoi
discepoli, i più importanti tra i suoi futuri apostoli, le donne che lo avevano
seguito e stavano presso la croce, e tutti quelli che lo avevano seguito e lo
adoravano, videro realmente un cadavere in quello stato (e doveva essere
Il velo: una metafora dell’apparire 

immancabilmente così), in qual modo poterono credere, contemplando


un tal cadavere, che quel martire sarebbe risorto? Senza volerlo, ci viene
il pensiero che, se la morte è così spaventosa, e così forti sono le leggi di
natura, come si fa allora a superarle? Come superarle, se non era riuscito
a vincerle nemmeno colui che in vita sua aveva vinto anche la natura e al
quale essa soggiaceva, colui che aveva esclamato: Talitha cumi! (Dostoevskij
, p. ).

Una tale « forza oscura, insolente e stupidamente eterna », supe-


riore alla stessa divinità (quella di un destino cieco e necessitante), è
l’oggetto di un “naturalismo mistico” che sopravvive alla stessa morte
di Cristo — così si esprime Joris–Karl Huysmans in un confronto ser-
rato tra il Cristo morto di Holbein e il polittico di Isenheim di Matthias
Grünewald (Musée d’Unterdenlinden, Colmar), la cui predella reca
ancora l’immagine di una deposizione, ma dove il “carnaio divino”
è mitigato (direi pietosamente velato) dalla presenza di una Vergine
velata sino agli occhi, una Maddalena sfigurata dalle lacrime e da san
Giovanni che avvolge per pudore il corpo di Cristo in un candido
sudario (Huysmans , p. ).
Il Cristo di Holbein, ben diversamente, solo nella sua gelida morte,
è chiuso in una dimensione di carnalità asfittica che non lascia sperare:
pelle rappresa in marmo, che trattiene la forma del Signore al di qua
del regno delle apparizioni (salvifiche), fissandolo in modo raggelan-
te della conclusività in cui — si potrebbe dire con Horkheimer —
« l’ingiustizia passata è avvenuta e definitivamente conclusa », “gli ucci-
si sono veramente uccisi”, e non vi è alcuna possibilità di trasformare
il concluso (la vita negata di coloro che sono dipartiti) in “qualcosa
d’imperfetto e d’inconcluso” (Horkheimer , p. ).
Nella tavola di Holbein la vita postuma della forma abdica com-
pletamente alla conclusività, statica e senza futuro, di una materia
denudata e priva di vita, pietra che pesa come un macigno su ogni
fede e credenza nell’aldilà: essa, nelle vesti di un Gesù impotente, si
offre allo sguardo per trattenerci nel regno delle ombre, spazio chiuso
che coincide con la carne triste e raggelante del cadavere divino —
esso stesso tomba e cubicolo sbarrato di ogni nostro spasmo alla sal-
vezza. Potrà mai aprirsi un tal sepolcro sigillato, in cui lo stesso corpo
di Cristo assume le fattezze — pallido ed esangue — della nuda pietra?
La sola parola resurrezione, di fronte alla nudità di un simile corpo
imprigionato nella pietra — il capo riverso, la mano orribilmente con-
 Gianluca Cuozzo

Figura . Hans Holbein, Isenheimer Altar, Predella della Deposizione, Museo di


Unterdenlinden, Colmar

tratta in un gesto bloccato e i piedi che sembrano misurare lo spazio


esiguo di una rappresentazione che implode su di sé — sembra uscire
dalle labbra di chi lo contempla in uno sbuffo di vapore raffreddato,
cristallizzandosi e cadendo al suolo come richiamata all’ordine dall’u-
nica legge vigente al mondo: il principio di gravità della materia, che
— potente come il destino mitico — regna sovrano tanto sulla materia
quanto su ciò che è spirituale e divino.
La salvezza, per chi ha contemplato una tal opera, richiede un
cambiamento di registro artistico. Ancora Grünewald può essere qui
di conforto, nella sua magistrale contrapposizione di un Cristo radioso
alla “fisica gravezza e alla dolorante umanità del Cristo in croce”
(Bianconi , p. ). Nella Resurrezione del polittico di Isenheim, in
effetti, mentre Cristo s’innalza sul sepolcro dischiuso spalancando le
braccia e mostrando le mani insanguinate,

si assiste alla riassunzione della divinità che a contatto con la vita divampa,
alla formazione del corpo di gloria che a poco a poco si libera dal guscio
carnale che si dissolve, in quest’apoteosi di fiamme che essa spira, e di cui
Il velo: una metafora dell’apparire 

Figura . Hans Holbein, Isenheimer Altar, Predella della Resurrezione, Museo di


Unterdenlinden, Colmar

essa stessa è il braciere. Il Cristo, trasfigurato, s’innalza maestoso e sorri-


dente, e, questa aureola smisurata che lo circonda e sfolgora, abbagliante,
in una notte piena di stelle, la si direbbe l’astro dei Magi [. . . ]; l’astro del
principio che ritorna, come il Precursore sul Golgota; e, infine, l’astro di
Natale accresciuto dopo la nascita nel firmamento, come il corpo del Messia,
sulla terra, dopo la natività (Huysmans , p. ).
 Gianluca Cuozzo

Figura . Edward Hopper, Morning in a City, , Williams College Museum of


Art, Williamstown

. Lo sguardo indiscreto della merce: il caso Edward Hopper

Il terzo esempio, in questa transizione dal velo pietoso alla nudità


blasfema di una visione senza veli, è offerta dallo sguardo del voyeur. Si
tratta di quello sguardo cosale e reificato descritto magistralmente da
Edward Hopper, “maestro del silenzio e dello spazio vuoto” (O’Do-
herty , p. ), che si è soffermato con maestria sulle anomalie e
sul disagio contemporaneo du regard — sguardo perso in una realtà
sociale in cui l’anima (o quel che resta di essa) è costantemente aper-
ta/estroflessa sul mondo. La finestra spalancata sulle vie di una città
americana, in Hopper, è la cifra dell’oscenità dello spirito perso nelle
trame dei consumi; interiorità mercificata, esibita come una merce
fra le altre in una casa–vetrina (house–window) che non preserva in sé
alcun meandro al riparo dal neutro e tirannico Man (per dirlo con lo
Heidegger di Sein und Zeit): così si fa, così si spende, così si vive, così
si gode, così si consuma; di fatto, in questa medietà intransigente, « la
Il velo: una metafora dell’apparire 

pubblicità oscura tutto e presenta ciò che risulta così dissimulato come
notorio e accessibile a tutti » (Heidegger , p. ).
Tutto è trasparente, assolutamente visibile nello “spazio aperto del
mondo” ritratto da Hopper (Bonnefoy , p. ). Questo spazio,
che è tale da favorire il dialogo omologante « fra l’io e il grande Al-
tro terrestre » (Bonnefoy , p. ), in cui nulla risulta esteriore al
soggetto, in pittura è reso nella forma di una « Annunciazione senza
teologia e senza promessa » (Bonnefoy , p. ), ove al posto di
Dio è il mercato a rivendicare i suoi diritti sull’anima. Nella tela di
Hopper, quasi “quadro nel quadro”, si potrebbe dire, si dischiude il
luogo della perfetta osmosi tra interno ed esterno, tra realtà soggettiva
e realtà oggettiva (la merce), mondi attraversati da un’unica luce abba-
cinante che denuda il reale semplificandolo all’estremo, rendendolo
quasi unidimensionale, identico a sé — senza increspature e scevro di
spessore o stratificazioni ontologiche. In questa risoluzione appianan-
te, senza veli, conformemente ad uno “stoico realismo” che elimina
con intransigenza ogni dettaglio superfluo (Burrey , p. ), ne
va della nostra presenza spettrale in un mondo che ci invade e ci
lascia — perfettamente denudati — « come nella cella di una suora
o di un monaco »: come si potrebbe dire con Richard Sennett, nello
stato di « perfetto isolamento in mezzo alla visibilità » (Sennett , p.
). Ma si tratta di una cella sfondata verso una dimensione esteriore
che si annuncia immancabilmente accompagnata dall’inno blasfemo
delle merci al consumo, litania ossessiva che ci incita alla completa
“identificazione con il mondo delle apparenze” (Kranzfelder , p.
).
Chi incarna un’anima espoliata di tal fatta, non a caso, è la prostituta,
raffigurata nella sua laconica nudità — colei ha colto il segreto della
svendita di ogni interiorità, riducendosi infine al puro stato inorganico:
merce tra le merci, merce all’ennesima potenza. Pensare, provare
un’emozione qualsiasi, gioire di qualcosa, significa accogliere in sé le
suggestioni mediatiche instillate dagli oggetti–merce, parlare il linguag-
gio delle cose, introiettare i simboli del loro linguaggio promozionale
— come capita ai pupazzi che vivono nella lussuosa casa delle bambole
del suggestivo racconto di Hoban, Il topo e suo figlio: questi pupazzi,
fabbricati con la carta inumidita e pressata dei giornali e dei volantini
pubblicitari, sono talmente pervasi da notizie, réclames e annunci pub-
blicitari che il loro linguaggio — manifestazione più immediata della
 Gianluca Cuozzo

loro pseudo–interiorità — non può che restituire, in un riflesso psichi-


co sincopato e “alla rinfusa”, quella pluralità variegata di messaggi che
hanno assimilato nel loro stesso essere di cartapesta:

SCANDALO NELL’ALTA SOCIETÀ, variabile, poco nuvoloso, con possibi-


lità di. . . GRANDI OCCASIONI!. . . Sedili anatomici. Servosterzo a richie-
sta. IL GOVERNO CADE. . . PREZZI DA REALIZZO. . . LA GRANDE
SVENDITA CONTINUA (Hoban , p. ).

Ma, in conseguenza di ciò, l’interiorità finisce per diventare anch’es-


sa derma mediatico, la pelle splendente, senza risvolti o pieghe, su cui
si riflette la superficie ipnotica degli oggetti esibiti nelle vetrine degli
store di tutto il mondo. E questo, in definitiva, significa farsi catturare
dallo sguardo muto delle cose, cose che riempiono il vuoto della no-
stra anima per una manciata di spiccioli — o, ancor meglio, mediante
il rito cabalistico della digitazione di una cifra segreta: il PIN magico
del Bancomat, reinvenzione della bacchetta magica che esaudisce ogni
desiderio, del gesto rituale che spalanca le porte di un Eden piuttosto
terreno.
Il luogo di questa osmosi tra interno ed esterno, nelle opere di
Hopper, è la vetrina–finestra al centro dei suoi dipinti: quasi « apertura
di una camera oscura grande quanto come la stanza » (O’Doherty
, p. ), ad un tempo estroflessa sul mondo e sullo spirito, dove il
nostro guardare è già da sempre un esser–visti, un essere catturati dallo
sguardo della merce e del compratore. Finestra senza tende, dove il
guardare non è protetto dall’occhio indiscreto dell’altro, cornice senza
diaframma che non può preservare l’intimità della vita domestica e
dell’anima, ma dove tutto è oscenamente messo a disposizione del
potenziale riguardante–acquirente. E noi stessi, colti su questa soglia
da uno sguardo raggelante che ci svuota di ogni vissuto, diveniamo
merci a disposizione dello sguardo altrui. [. . . ] Cose perennemente
esposte, immolate all’occhio perverso e denudante che abolisce la
linea di confine tra interiorità ed esteriorità, tra io e non–io, tra spirito
e natura. E chi sta dentro la stanza–vetrina — tutta porte e finestre
— è un uomo perennemente post coitum: insoddisfatto e inappagato
dal consumo superficiale dell’ennesima icona vuota e a pagamento
(l’oggetto–merce del momento), si sente denudato ed esibito allo
sguardo indiscreto di quel neutro Man che sta appena oltre la finestra:
Il velo: una metafora dell’apparire 

Figura . Shampoo Lazzaro (www.lush.it)

la pura esteriorità omogenea e vuota del mondo. Come un uomo,


cioè, dato oscenamente in pasto a uno sguardo morboso che non
risparmia nemmeno la sua tristezza inconsolabile.

. Nuove immagini miracolose: uno shampoo effetto resurrezio-


ne

L’ultima immagine che propongo è decisamente senza veli, il cui


carattere di nudità va a tutto discapito della trascendenza e della
pietà cristiana — portando ben oltre l’anima “vetrinizzata” descritta
da Hopper: qui l’oscenità dello sguardo elide la pelle dell’immagine,
conservando del suo elemento sacro solo un tratto mimetico che
tende al Kitsch e alla parodia blasfema.
Si tratta della didascalia di uno shampoo, il cui nome altisonante è
 Gianluca Cuozzo

Lazzaro. La sua confezione minimalista è ciò che resta del rapporto ve-
lato che l’esperienza umana intrattiene con la morte, avendo obliterato
ogni manto e pelle protettiva. Prima di “stendere un velo pietoso” su
questa icona dei tempi odierni (nel senso della cancellazione e della ri-
mozione), voglio descriverla trattandola come un’allegoria mercificata
dell’umano bisogno di salvezza: « Lazzaro, shampoo effetto resurre-
zione! I tuoi capelli rivedranno la luce. Secchi, tristi o maltrattati: li
rimette a nuovo con oli emollienti di jojoba, oliva e mandorla, frutta
tropicale ed erbe per riequilibrare la cute [. . . ] È la morte sua! Agita la
bottiglia, applica sui capelli e risciacqua » .
Lazzaro il redivivo, colui che si alza e cammina superando la mor-
te, è qui in vendita — in una confezione minimalista che non fa che
promuovere se stessa — come un prodotto tra gli altri, la cui pub-
blicizzazione è affidata alle stesse istruzioni d’uso che compaiono
sull’etichetta: realtà e finzione mediatica (secondo cui, come si ripete
abitualmente, “illustration for presentation purposes only”) qui vanno a
braccetto. La promessa di benessere a ffidata al prodotto, in tal senso,
si autoadempie nel carattere performativo della leg(g)enda, che è a un
tempo presentazione di una merce e predizione di uno stato di appaga-
mento futuro (il riveder la luce da parte dei nostri capelli); desideratum,
questo, che è al confine tra l’esperienza ordinaria (estetica in senso
pieno) e l’ottenimento (inverificabile con i sensi) di una grazia.
Certo, l’analogia biblica sembra eccessiva. Ma ecco cosa recita il
sito WEB dedicato al prodotto:

La metafora biblica è un po’ forte, ma questo shampoo ha davvero poteri


sovrannaturali sui capelli secchi, sfibrati o trattati. Li farà letteralmente risorgere
con gli enzimi detergenti della frutta, con il gel di alghe e con gli emollienti
oli di mandorle e di oliva, che danno struttura e aumentano la flessibilità.
Ginepro e lavanda si occupano invece di ristabilire una corretto equilibrio
per andar avanti. Ricordatevi di agitare bene prima dell’uso.

Come aveva ben compreso Philip K. Dick nel romanzo Ubik (),
ovunque, nel mondo dei consumi, può darsi un surrogato di reden-
. La metafora biblica vale solo per la versione italiana del prodotto; la casa madre
pubblicizza in Inghilterra lo shampoo con il nome Rehab, attingendo a un patrimonio
metaforico del tutto diverso (https://www.lush.co.uk/product//Rehab–Shampoo–
g/http).
. http://www.lush.it/html/lazzaro--.asp.
Il velo: una metafora dell’apparire 

zione; in un mondo senza veli, dove vige la tirannia dell’apparenza


morbosa, basta solo credere nel verbo dell’imbonitore di turno, che
non fa che amplificare la lingua fantasmagorica della merce. Ubik,
nel romanzo, è l’essenza della merce capace di reincarnarsi in una
congerie di prodotti. Nato come “elisir di ubique” (intruglio capace di
restituire la virilità perduta), nel corso della narrazione assume signifi-
cati e aspetti diversi: di volta in volta è il marchio di un aspirapolvere, di
una birra, una marca di caffè, un potente grastroprotettore, una cassa
depositi e prestiti in grado di far sparire l’ansia provocata dai debiti,
una pellicola extralucida spray protettiva, una schiuma rinfrescante
che funge da collutorio, un reggiseno anatomico, un cremoso balsamo
per capelli, un deodorante che pone chi lo adopera al centro degli
avvenimenti, un potente sonnifero, una marca di dolcetti per la prima
colazione, e via dicendo.
Alla fine del romanzo prende addirittura la parola, disvelandosi
come l’essenza stessa del mondo:

Io sono Ubik. Prima che l’universo fosse, io ero. Ho creato i soli. Ho creato
i mondi. Ho creato le forme di vita e i luoghi che esse abitano; io le muovo
nel luogo che più mi aggrada. Vanno dove dico io, fanno ciò che comando.
Io sono il verbo e il mio nome non è mai pronunciato, il nome che nessuno
conosce. Mi chiamo Ubik, ma non è il mio nome. Io — l’essenza di ogni
merce — sono e sarò in eterno (Dick , p. ).

Di fatto la merce, come scrive Zola nel romanzo Nanà, è senza veli:
“pelle e denaro” sono gli idoli indiscussi del presente. E Aragon, ne Il
paesano di Parigi, scrive che la merce, identica al personaggio di Nanà,
è pura pelle che splende alla luce del sole: « Pur nell’immortalità, ho l’aria
di un pranzo di sole. Un fuoco di paglia che si vuole toccare. Ma, su
questa pira perenne, è l’incendiario che brucia » ogni velo (Aragon
, p. ).
 Gianluca Cuozzo

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pag. 301–307 (gennaio 2016)

Un sottile strato di plastica trasparente


La velatura sintetica degli oggetti

P O

Il mio intervento è dedicato a un aspetto apparentemente marginale


rispetto al tema di questo incontro. Mi occuperò in particolare di quei
“veli” di produzione industriale che proteggono, coprono e insieme
presentano alimenti e altri prodotti di largo consumo, dalla più mo-
desta “incellofanatura” di tanti beni in vendita nei supermercati, alle
scatole trasparenti di molti prodotti di abbigliamento e di piccoli og-
getti dall’utensileria minuta alla cartoleria: veli che in genere e non
casualmente finiamo con il considerare parte integrante delle cose
da loro racchiuse, ma che hanno un proprio valore distinto, pratico
e simbolico insieme. Insomma, parlerò della velatura degli oggetti,
a cominciare dalla sua materialità fisica, senza trascurare i processi
industriali e di mercato a cui è legata, ma parlerò anche di una varietà
di connessioni culturali e sociali che porta con sé.
Coprire/mostrare, racchiudere/porgere: troviamo anche qui la
doppia e ambivalente funzione di ciò che vela. La velatura si presenta
più specificamente come un medium, nel senso letterale del termine,
in quanto sta tra l’oggetto e il potenziale compratore, e permane
anche dopo l’acquisto tra la cosa e l’utente fino al momento in cui
viene levato. In molti casi è proprio questo atto del levare, per strappo
o per più delicato sollevamento, che segnala con la violazione che
comporta la definitiva presa di possesso. È un medium anche nel senso
mcluhaniano: porta con é un proprio messaggio aggiuntivo rispetto
all’oggetto in quanto tale un messaggio visivo e tattile, nel quale la
cosa è incorniciata ma da una cornice destinata a essere tolta, nel quale
la cosa viene dotata di una superficie liscia e scorrevole al tatto, viene
caricata di una luce riflessa, quando non indirettamente colorata (in
quanto il velo colora la cosa senza che la tintura la tocchi); può essere


 Peppino Ortoleva

indirettamente “scritta”, quando ad esempio il contenitore si carica


di un’etichetta ed eventualmente di un codice a barre. Il messaggio
che la velatura porta con sé può apparire neutro e privo di contenuto
proprio: non solo per la sua trasparenza ma anche perché si tratta di
un fenomeno così onnipresente da diventare parte dello sfondo del
vivere, da passare generalmente inosservato, e da rischiare di essere
banalizzato e di sembrare indistinguibile dall’oggetto stesso che viene
velato. Ma proprio nella trasparenza e nell’essere dato per scontato sta
la forza di questo messaggio: è fatto di lucentezza da un lato, dall’altro
della sua qualità racchiudente e potenzialmente isolante; si schiaccia
sull’oggetto finché sembra perdere ogni specificità, ma gli aggiunge
oltre che uno strato di materia delle qualità che l’oggetto in sé non ha.
Non parliamo però di un “meta–messaggio”, perché il messaggio
aggiuntivo su cui stiamo ragionando non si pone su un livello altro
rispetto all’oggetto incorniciato e racchiuso: parliamo piuttosto di
materia che si aggiunge a materia, e l’operazione intellettuale che
dobbiamo fare non ci richiede di fare un salto di piano, ma (cosa ap-
parentemente molto più modesta) di “sfogliare” uno strato fisico del
quale ci dimenticheremo appena lo avremo levato. Gregory Bateson
a metà degli anni Cinquanta proponeva per comprendere concetti
complessi, come il gioco, di ragionare in modo stratificato: metafori-
camente, “a buccia di cipolla”. Nel nostro caso dobbiamo procedere
in modo per così dire simmetrico al suo: sbucciare fisicamente gli
oggetti per afferrare i concetti che stanno sotto quest’attività.
La storia di cui parliamo è prima di tutto, infatti, una storia materica,
fatta di sostanze. Quando pensiamo alla presenza della chimica nel No-
vecento (e ci pensiamo sempre a mio vedere troppo poco rispetto al
peso che questa scienza e questo settore industriale realmente hanno
avuto, alla loro capacità di agire non solo sulla materia ma per così dire
dal suo interno) generalmente la associamo ai farmaci e agli esplosivi:
due estremi di uno spettro che va dalla difesa dei corpi oltre il loro
“naturale” percorso di vita alla loro innaturale distruzione. I materiali
di cui parliamo sono in un’area mediana e apparentemente più umile
dello spettro, altrettanto se non più decisiva però per la nostra quoti-
dianità e per il nostro ambiente: quella che include i colori, le sostanze
idrorepellenti, e l’immenso universo delle plastiche. Mi riferisco in
particolare alla pellicola di cellophane che stringe e racchiude le carni
e le verdure dei supermercati, alle scatole in policarbonato, o a tante
Un sottile strato di plastica trasparente. La velatura sintetica degli oggetti 

forme di packaging più o meno colorato ma volutamente modesto,


che contengono i più vari prodotti e insieme ne esaltano le forme.
Primo in ordine di apparizione è il cellophane, o “cellofan” secon-
do alcuni dizionari italiani. Il centenario di questo materiale è stato
celebrato nel , perché il  è l’anno del brevetto, da parte dello
svizzero Jacques Brandenburger (che ne aveva avviato la sperimenta-
zione già nel ) e dell’avvio della produzione in massa. Cosa dal
nostro punto di vista altrettanto significativa, il  è l’anno in cui
una grande fabbrica di dolciumi, l’americana Whitman’s, decise di
usare la nuova sostanza per avvolgere i suoi cioccolatini Sampler e
altri prodotti: il debutto industriale del cellophane coincide insomma
con la sua adozione nel settore alimentare. Ed è eloquente il nome del
materiale, cell–o–phane, dove cell sta per cellulosa, la materia prima; e
phane è una troncatura di “diafano”. Il legame alla cellulosa è doppia-
mente significativo: perché ci ricorda che si tratta di una sostanza di
di origine totalmente naturale a differenza di altre plastiche (e questo
avrà il suo peso nel destino successivo di questo prodotto, considerato
dapprima “superato” da altri materiali negli anni a metà secolo fase
di moltiplicazione delle invenzioni chimiche, poi rivalutato per la sua
biodegradabilità); ma anche perché il cellophane è strettamente appa-
rentato all’altro grande derivato della cellulosa, la carta, e insieme ne è
per alcuni aspetti l’opposto. Quella è opaca e se incarta un oggetto lo
nasconde, questo è “diafano” e lo mostra; quella ha come contenuto
primario una serie di segni, questo ha un oggetto che porta per così di-
re in primo piano. Cell–o–(dia)phane, è un materiale che fin dal nome
sottolinea tra le caratteristiche che lo definiscono la trasparenza.
Il pregio tecnico, immarcescibile del cellophane, oltre al bassissi-
mo costo sta nell’impermeabilità, all’acqua prima di tutto e poi con
i perfezionamenti successivi anche ai vapori e all’umidità. Il suo va-
lore possiamo ben dire comunicativo sta nel mostrare le cose “come
veramente sono” ma introducendo una dimensione ulteriore: tattile,
dicevamo, e visiva. Che il primo prodotto “incellofanato”, per usare
un’espressione indigesta a molti linguisti ma nota a tutti, sia stato un
cioccolatino, un bene da regalo e un alimento piacevole quanto su-
perfluo, ci dice pure qualcosa: si tratta di un contenitore chiuso che
non va solo “scartato” ma strappato; e che mostra il suo contenuto,
e vi aggiunge una carica di luce riflessa. Non è solo trasparente, ma
translucido: il fatto che la superficie sia riflettente è un valore in più
 Peppino Ortoleva

che forse Brandenburger non considerava strategico ma che nella


storia di questo materiale lo è stato.
Primo: strappare. Non sempre il cellophane sigilla, ma è quando lo
fa che esercita fino in fondo le sue qualità, anche per rendere piena-
mente impermeabile il suo contenuto; e quando è così, per aprire è
necessario strappare. Questo è l’aspetto tattile di quella che chiamo
la velatura delle cose. Il rompere un contenitore può contenere una
componente di piacere in sé, profondamente radicata fin dall’infanzia
(ed è a un gusto infantile che fa appello il marketing di molti prodotti
alimentari a cominciare da caramelle e cioccolatini): un piacere con-
nesso da un lato al l’eccitazione dell’estrarre, per di più con un atto
di rottura, “che cosa c’è dentro” che è uno dei modelli ludici primari,
dall’altro più specificamente alla garanzia di novità che il sigillo porta
con sé. La novità ha un valore commerciale, ma ne ha anche uno,
spesso sottovalutato, a carattere ludico–estetico: come scriveva Isaak
Babel, « I bambini rabbrividiscono al profumo del nuovo come fa un
cane quando annusa una lepre, esprimendo così una follia che più
tardi, quando siamo cresciuti, viene chiamata ispirazione ». Nuovo in
quanto in–tatto, non toccato in precedenza o almeno non prima di
quella sigillatura che precede l’immissione sul mercato.
Secondo: mostrare, e far brillare. Il carattere traslucido del cellopha-
ne fa sì che gli oggetti avvolti appaiano perfettamente riconoscibili, ma
leggermente diversi rispetto alla loro apparenza “nuda”, risultano più
risplendenti, o per dirla in inglese, glossy. L’effetto di luce lievemente
riflessa conferisce alle cose un brillìo che non solo aggiunge luminosi-
tà ma fa anche qualcosa di più, impreziosisce: il brillio dopo tutto è
la caratteristica più immediatamente riconoscibile di molti materiali
che storicamente sono stati carichi di valore, dalla seta ai gioielli. La
lucentezza è un effetto simile a quello che la carta patinata lucida delle
riviste illustrate conferisce alle immagini: meno leggibili nella scrittura
sono più attraenti nelle immagini, e non casualmente si sono imposte
con lo sviluppo del ruolo della pubblicità. C’è in effetti, tra le due cose,
una relazione non banale. Quel più di lucentezza e implicitamente
di preziosità che la carta patinata conferisce agli oggetti arricchisce
l’immagine promozionale, e contribuisce a fare delle riviste illustrate,
prima della televisione e poi accanto ad essa, il veicolo pubblicitario
più efficace. La lucentezza della pagina è parte di quell’insieme di
azioni retoriche che mirano a rendere seducente il prodotto, dandogli
Un sottile strato di plastica trasparente. La velatura sintetica degli oggetti 

proprio una patina che lo rende sottilmente ma inequivocabilmente


diverso dal gioco ordinario delle luci e delle ombre.
La forza della pubblicità, però, rischia anche in questo di essere
la sua debolezza. La famosa storiella riportata da Daniel Boorstin e
ripresa da Susan Sontag, in cui si narra di una madre che dice all’altra
« che bello che è tuo figlio » per sentirsi rispondere « questo è niente,
dovresti vederlo in fotografia », nell’immagine pubblicitaria rischia di
rovesciarsi sistematicamente; chi pensa “che bello quest’oggetto” al
vederlo su una pagina patinata potrà chiedersi se fuori da una rappre-
sentazione fatta di luci e lucentezze oltre che di tecniche di ripresa sarà
altrettanto bello. Il packaging nelle sue varie forme, a cominciare da
quella solo apparentemente modesta dell’avvolgimento nella pellicola
trasparente ma insieme carica di brillio del cellophane, può essere
definito una tecnica per fare corrispondere la presenza fisica degli
oggetti alla loro rappresentazione retorica; per prolungare il tempo
della lucentezza (in particolare fino all’uscita dal punto–vendita) e
ritardare quello comunque inevitabile della delusione. Se la vetrina*,
che è di origine ben più antica delle velature chimiche di cui parliamo,
espone la merce in favore di luce naturale o artificiale per attirare il
possibile compratore nel punto vendita, la plastica la avvolge anche
successivamente; d’altra parte la rottura della vetrina è tipicamente
un gesto criminale, quella dell’involucro è invece un atto quotidiano a
cui tutti siamo invitati.
Se il cellophane risale agli anni precedenti alla grande guerra, con
la grande stagione delle plastiche subito dopo la seconda guerra mon-
diale compaiono altri materiali, che assumono valori (e veicolano
messaggi aggiuntivi) in parte nuovi. Il primo naturalmente è il ny-
lon, o meglio la famiglia di poliammidi noti con questo nome, che
si imposero in pochi anni dopo la loro prima introduzione (agli inizi
della seconda guerra mondiale) come velatura prediletta, in questo
caso primariamente di un oggetto del desiderio corporeo, le gambe
femminili. Ma venendo al nostro tema, alla velatura degli oggetti,
possiamo citare tre esempi: il PVC, cloruro di polivinile, che è stato
sviluppato negli anni tra le due guerre e progressivamente reso flessi-
bile fino a dar luogo a pellicole trasparenti o colorate per il packaging;
il policarbonato, introdotto negli anni Sessanta, usato per contenitori
trasparenti di diversa durezza e diverso spessore; e successivamente il
PET, polietilene tereftalato, che ha in parte preso il posto del policar-
 Peppino Ortoleva

bonato nel campo dei contenitori. La moltiplicazione delle materie


plastiche è una delle maggiori innovazioni della seconda metà del
Novecento, ma è difficile per così dire da mettere a fuoco nelle sue
implicazioni, anche perché i discorsi che le riguardano (di carattere
tecnologico o economico o, successivamente, ecologico) hanno in
genere riguardato più le quantità che le qualità. In realtà, diverse delle
applicazioni di questi materiali hanno a che fare con i temi di cui
ci stiamo occupando: le pellicole avvolgenti in particolare di PVC
presentano alcune caratteristiche del cellophane ma sono differenti
per consistenza e qualità visiva, si presentano come una velatura più
solida e dotata di valori cromatici propri; il poliuretano e il PET danno
luogo a contenitori che possono avere le caratteristiche della bottiglia
o della scatola dura, ma il primo dà luogo anche a involucri trasparenti,
flessibili e sottili, per molti aspetti non lontani da quei veli sintetici di
cui abbiamo parlato sopra.
L’età d’oro del PVC nelle sue applicazioni di velatura–involucro
ha forse anch’essa a che fare con una trasformazione, che è tecnica e
culturale insieme, nella comunicazione in generale e nella pubblicità
in particolare. Se il cellophane rende gli oggetti glossy come le pagine
patinate delle riviste, il PVC può renderli simili per luminiscenza e
cromatismo alle immagini televisive. L’avvento della televisione ha
portato infatti con sé una luminosità differente da quella propria delle
precedenti forme di comunicazione, in quanto la rappresentazione è
prodotta non dalla luce proiettata su una cosa o su una pagina o su uno
schermo ma proiettata direttamente nel nostro occhio. E ha introdotto
cromatismi anch’essi differenti e nuovi, in quanto la somma dei colori
primari non dà il nero ma la luce bianca. Gli oggetti che la televisione
esibisce (e ricordiamoci fin dal suo avvento si tratta del medium princi-
pe della pubblicità) sono pertanto profondamente diversi da quelli che
normalmente vediamo nel mondo reale. Fin dall’avvento della TV a
colori, quindi, si è posto il problema di colorare gli oggetti con una
particolare luminescenza proprio per farli corrispondere all’immagine
elettronica cui è affidata una funzione strategica di rappresentazione e
di promozione: lo si vede nell’evoluzione dei colori delle automobili
e anche di molti elettrodomestici; ma lo si vede anche nella grande
crescita a partire dagli anni Cinquanta del packaging in plastica e delle
velature in materiali capaci di “illuminare” gli oggetti e di simulare cro-
matismi simili a quelli elettronici. Le pellicole trasparenti e colorate in
Un sottile strato di plastica trasparente. La velatura sintetica degli oggetti 

PVC, come le scatole che simulano la luminosità dei monitor, hanno


accompagnato l’affermarsi dell’universo visivo elettronico televisivo,
ma circolano anche, in forme solo in parte diverse, nell’epoca del
computer.
Possiamo così tornare per finire al tema, cui già si accennava pri-
ma, della delusione. Secondo Georg Simmel, il solo bene che non
delude mai è il denaro, in quanto non si esaurisce mai in se stesso, è
sempre potenzialmente altro da sé. Tutti gli altri beni, ci dice Albert O.
Hirschmann, sono evidentemente generatori di delusione possibile,
legata al loro destino di deperibilità se sono oggetti che dovrebbero
essere “durevoli”, ma anche possiamo aggiungere alla breve durata
dell’atto di consumo se durevoli non sono. Plaisir d’amour ne dure
qu’un moment dice la celebre romanza francese di fine Settecento, ma
anche molti dei piaceri alimentari, o altri gesti abituali, si esauriscono
in tempi brevissimi, ricordandoci l’aspetto distruttivo implicito nel
consumare. Questo processo da un lato certo ci rende disponibili a un
ulteriore atto di acquisto e di ulteriore consumo, ma ci lascia dall’altro
una potenziale e alla lunga sgradevole impressione di vuoto.
La velatura, oltre a proporci un messaggio aggiuntivo, e seduttivo in
fondo in modo analogo a quello che il nylon fa per la gamba femminile,
si frappone tra l’oggetto e noi, non solo in termini spaziali ma anche
temporali: dà alla nuda cosa un abito sia pure temporaneo, che la
veste, un po’ la traveste, la mette in scena nell’ambiente della vendita
e poi anche in quello domestico; dilaziona i tempi del consumare;
aggiunge attività e magari piaceri ulteriori come l’atto dello strappare,
magari senza neppure rendersene conto.
Mai come in questo caso la velatura può avere la forza dell’invisibile.
Il sistema del velo / Système du voile
ISBN 978-88-548-8838-8
DOI 10.4399/978885488838814
pag. 309–334 (gennaio 2016)

Histoires et images du voile de Maya


H P

English Title: Histories and Images of the Veil of Maya.

A: There is no iconography of the veil of Maya because Maya is not a figure
wearing a veil but a concept, a feeling which is powerfully present in Indian culture and
philosophy. The German philosophers of the th century, such as Schopenhauer and
Nietzsche, introduced the idea of the veil of Maya into their metaphysical discussions,
mainly within the antagonism between being and appearing. Schopenhauer had a rather
negative view of the veil of Maya which stands for illusion, deceit and manipulation, whereas
Nietzsche considered the veiling act of Maya of the right way towards knowledge and
moral life. Therefore Schopenhauer and Nietzsche represent two attitudes, one the one
hand the necessity of transcending the world of appearances in Schopenhauer, and on the
other hand the acceptance of the wisdom and the beauty of the appearances in Nietzsche.
Indeed, in Nietzsche the artistic impulse is an enthusiastic aspiration of appearances. It
seems to us that this antagonism can be used in order to characterise two “ideological”
positions in contemporary photography. The analyzed corpus concerns the work of Dirk
Braeckman, a famous Belgian artist, who can be seen as the defender of the Schopen-
hauerian position, and Bart Dorsa, a Russian artist living in California, representing rather
the Nietzschean idea of the veil of Maya. The comparison of both collections of photogra-
phs reveals the relevance of the conceptual antagonism within the notion of the veil of Maya.

Keywords: Being and Appearance; Illusion and Wisdom; Transparency; the Veil and the
Obscure; Contemporary Photography.

“Histoires du voile de Maya”, il y en a beaucoup, mythologiques,


philosophiques, poétiques, “Images du voile de Maya”, il n’y en a
pas. Il n’y a pas d’iconographie du voile de Maya, comme il y en a
pour le voile d’Isis, puisque Maya n’est pas une figure, une déesse,
une statue cultuelle portant un voile. Maya est un philosophème, un
concept, un sentiment, et le voile n’est pas un attribut de Maya, mais
Maya est voile, c’est Maya qui voile et dévoile. Maya est un concept
de l’Inde fondamentale, et la fascination pour l’Inde parmi les philo-
sophes, surtout allemands, du e siècle introduit Maya dans le débat
métaphysique par excellence, celui de l’être et de l’apparence, Sein und
Schein/Erscheinung, où le “voile de Maya” joue un rôle heuristique


 Herman Parret

de premier ordre. C’est Schopenhauer et Nietzsche qui, dans leur


solidarité mais surtout dans leur antagonisme, exploitent à fond le phi-
losophème du “voile de Maya”. La mise en scène du “voile de Maya”
chez ces deux protagonistes est subtile et compliquée, et leurs interpré-
tations contradictoires nous permettent de formuler deux stratégies
paradigmatiques qui peuvent être appliquées à certaines pratiques de
l’art contemporain, surtout à la photographie d’art. Notre application
se restreindra à deux artistes, Dirk Braeckman, photographe belge
parmi les plus renommés, et à Bart Dorsa, Américain qui vit à Moscou
et qui a été une véritable révélation de la Biennale de Venise de .

.

Quelques indications notionnelles seulement que nous empruntons


à la phraséologie indologiste, surtout aux études de la tradition vé-
dique, en guise d’introduction . Maya, dont la racine signifie éty-
mologiquement “changer de forme”, a un emploi essentiellement
négatif dans cette tradition, et se situe ainsi dans la zone “mauvaise”
du lexique : « changer de forme pour faire disparaître ». Les textes
védiques, deuxième millénaire avant J.–C., présentent maya comme
un “pouvoir magique d’illusion”. Détenu d’abord par les démons,
ensuite par les dieux eux–mêmes, maya permet aux dieux de se jouer
de leurs ennemis en se dérobant à leur vue sous l’une ou l’autre
forme trompeuse. Maya est alors compris comme le pouvoir d’illu-
sion par lequel les dieux maintiennent les mortels captifs des liens du
désir et de la crainte. C’est dire que les dieux suscitent l’“ignorance
métaphysique”, ce qui veut dire qu’ils créent en l’homme une cer-
taine méconnaissance de sa nature profonde. L’être humain oublie
par maya sa propre essence intérieure, il oublie en fait le fondement
ultime de l’univers, c’est–à–dire brahman. Maya provoque ainsi une
puissance de sommeil et d’aveuglement qui, d’ailleurs, pèse sur la
condition humaine en général. L’ordre du monde serait agencé de
manière à tromper l’humanité et à l’égarer sur des voies sans issue.
Dans l’hindouisme classique maya devient alors l’“illusion cosmique”

. Voir R (), pp. –. L’œuvre de référence concernant la mythologie


hindoue, spécialement le mythe de Maya, est Zimmer ().
Histoires et images du voile de Maya 

ou le pouvoir absolu du brahman par lequel il se cache derrière les


apparences de l’univers sensible et se disperse faussement à travers la
multiplicité indéfinie des consciences individuelles (Hulin , p. ).
En fait, maya est une illusion cosmique, elle est la puissance qui crée
ce monde illusoire.
Mais ceci n’est qu’une face de maya. L’autre face est plus posi-
tive bien qu’elle reste toujours ambivalente. La tromperie cosmique
exercée sur l’homme ne peut être vue comme une manipulation
extérieure. Elle opère avec la participation active de l’homme en se
conformant à la logique immanente des structures fondamentales
de son être. Même si elle est fantomatique, elle est en même temps
efficiente. Ainsi maya combine paradoxalement le savoir absolu et
l’erreur radicale. Il y a dans maya toujours une obscure réminiscence
à l’absolu, au brahman, mais cette réminiscence est délimitée par les
paramètres du corps physique et, à travers le corps, par les fonctions et
positions sociales. Toutefois, l’accent se trouve toujours sur la “mise–
en–forme” du travail cosmique. C’est par maya que le soleil fait le
jour. Ensuite maya est la force des artisans mythiques producteurs
de forme, et également l’inspiration du poète. Donc d’une part, maya
la négative est un instrument de maléfice, faiseuse d’illusions, désor-
ganisante, anarchisante tandis que maya la positive est constructive,
mesurante, créatrice, Dionysos et Apollon avant la lettre, comme
Nietzsche l’a bien vu. Cet équilibre du pôle positif et du pôle négatif
se déclare au cours de l’histoire, d’abord du brahmanisme et ensuite
du bouddhisme : le Vedanta combine les deux emplois tandis que le
Rigveda fait prévaloir la tendance “magie, illusion, artifice”. Mais, dans
la structure générale de maya, il y aura toujours les deux évidences
incompatibles qui font son essence conflictuelle.
Cette ambivalence fondamentale est reprise par une large part de la
philosophie allemande intégrant maya dans leur métaphysique. La fas-
cination de l’Allemagne pour l’Inde s’était déjà manifestée à l’époque
des Lumières et des préromantiques mais elle s’est amplifiée considé-
rablement autour de , entre autres par l’observation linguistique
d’une affinité entre l’allemand et le sanscrit. L’“indomanie” de Scho-
penhauer et de Nietzsche, comme d’ailleurs de Herder, leur prédéces-
seur, est évidente. D’ailleurs, ils jugent l’hindouisme spirituellement
plus riche que le judaïsme et le christianisme. Et l’éthique schopen-
hauerienne exige que le sujet moral “déchire le voile de Maya”, ce qui
 Herman Parret

revient finalement à sa conversion. La dissipation du voile d’illusion


de Maya mène à une morale pure de tout égoïsme, et pour justifier
cette éthique Schopenhauer fait appel aux Védas. Nietzsche lui aussi
juge, dans Aurore () par exemple, que l’enseignement moral de
l’hindouisme et du bouddhisme est supérieur à celui du christianisme,
imprégné d’une hypocrisie foncière . La fascination pour l’Inde chez
Nietzsche est sincère, et il montre par l’enseignement de Zarathoustra,
d’origine indo–iranienne d’ailleurs, que la généalogie de la morale
devrait être enracinée dans la pensée hindoue.

.

De par son pessimisme radical, Schopenhauer, dans d’innombrables


occurrences, met systématiquement en œuvre l’emploi négatif du
“voile de Maya” : l’“œuvre” ou le “tissu” de Maya est illusion, pure
fantasmagorie, apparence, songe et rêve, erreur même. Et Schopen-
hauer explique le fonds métaphysique de ce positionnement négatif
en invoquant le philosophème bien connu de Kant, notamment la
polarisation épistémologique radicale entre le phénomène etred la chose
en soi. L’“œuvre de Maya” est présentée comme « le symbole de ce
monde sensible qui nous entoure, véritable évocation magique, appa-
rence fugitive, n’existant pas en soi, semblable à une illusion optique
et à un songe, voile qui enveloppe la conscience humaine, chose mys-
térieuse, dont il est également faux, également vrai de dire qu’elle
existe ou qu’elle n’existe pas » (Schopenhauer , pp. –) . Et

. Pour une analyse approfondie de cette hiérarchisation, voir P (), pp. –.
Voir aussi les contributions des autres indologistes mentionnés dans la bibliographie.
. La pagination renvoie à la traduction française canonique d’A. Burdeau : S-
 A., Le monde comme volonté et comme représentation (), Paris, P.U.F., . Sans trop
approfondir le débat philosophique, il faut quand même tout de suite noter que l’épisté-
mologie kantienne ne concerne pas la perception du phénomène et la non–perception de la
chose en soi, mais la possibilité d’un jugement, point de vue qui est totalement absent chez
Schopenhauer. Je cite un passage de Kant parmi les plus évidents : « Encore plus faut–il se
garder de tenir pour identiques le phénomène (Erscheinung) et l’apparence (Schein). En effet,
la vérité ou l’apparence ne sont pas dans l’objet, en tant qu’il est pensé. Si donc on peut
dire justement que les sens ne se trompent pas, ce n’est point parce qu’ils jugent toujours
juste, mais parce qu’ils ne jugent pas du tout. Conséquemment la vérité aussi bien que
l’erreur, et par la suite aussi l’apparence, en tant qu’il induit en erreur, ne se trouvent que
dans le jugement, c’est–à–dire que dans le rapport de l’objet à notre entendement. Dans une
Histoires et images du voile de Maya 

Schopenhauer observe que cette évaluation négative s’est répétée dans


l’histoire de la pensée tout entière : « Héraclite constate avec mélancolie
le flux éternel des choses; Platon rabaisse la réalité au simple devenir qui
n’arrive jamais jusqu’à l’être; Spinoza voit le monde sensible comme
un ensemble d’accidents de la substance unique existant seule éternel-
lement » (Schopenhauer , pp. –). Le flux éternel des choses,
le devenir, les sensibilia accidentels, sont tous l’“œuvre de Maya”, des
effets du voile de l’illusion qui couvre les yeux des mortels, qui fait voir
un monde dont on ne saura jamais s’il existe ou s’il n’existe pas, ou
comme l’énoncent figurativement les Védas, un monde où le voyageur
croit voir au loin le rayonnement du soleil sur le sable comme une
nappe d’eau, ou prend une corde jetée par terre pour un serpent. Pure
fantasmagorie, ce “voile de Maya”, constate Schopenhauer (Schopen-
hauer , p. ). Vivre au diapason de “l’œuvre de Maya” nous met
devant l’esprit le néant et l’amertume de la vie (Schopenhauer, p.
), et ravive le sentiment violent de nos souffrances. Au contraire,
transgresser la Maya, c’est supprimer le désir, c’est le salut par la vraie
liberté, c’est le triomphe sur le monde des apparences, et la mise en
question radicale de l’illusion de la pluralité (Schopenhauer , p.
). Schopenhauer va même jusqu’à dire que le suicide est le chef–
d’œuvre de Maya qui exprime ainsi la contradiction d’un vouloir–vivre
qui a perdu tout contact avec son essence (Schopenhauer , pp.
–). Les Védas ne cessent de constater l’intime parenté qui existe
entre la vie et le rêve. Le “tissu de Maya” est un songe (Schopenhauer
, p. ) — le sage hindou cherche à se tenir éveillé puisque l’essence
est en deçà ou au–delà du rêve.
Schopenhauer, dans Le monde comme volonté et comme représenta-
tion, emploie toute une machinerie conceptuelle contre l’“œuvre de
Maya” qu’il présente invariablement dans ses connotations négatives.
En premier lieu, le “tissu de Maya” est le mode de connaître soumis
au principe de raison suffisante, syntagme schopenhauerien pour mar-
quer ce mode de connaissance « qui ne peut que poursuivre à l’infini
les phénomènes » (Schopenhauer , pp. –) et n’atteint ainsi

connaissance qui s’accorde totalement avec les lois de l’entendement, il n’y a pas d’erreur.
Dans une représentation des sens (puisqu’il ne renferme pas de jugement), il n’y a pas
non plus d’erreur » (Critique de la raison pure, A  [Ak IV, ], trad. : K , p. ).
Que Schopenhauer prenne Kant comme le “patron” de son épistémologie, est gravement
trompeur.
 Herman Parret

jamais l’être des choses. C’est ainsi que le “voile de Maya” nous fait
vivre dans l’histoire, dans le devenir, dans le non–être. En second lieu,
la victime du “voile de Maya” est prisonnière du principe d’individua-
tion (Schopenhauer , p. ). Schopenhauer revient souvent sur
ce principe responsable du fait que, dupé par Maya, une personne
commence à se considérer comme un individu absolument différent
de tous les autres et séparé d’eux par un abîme (Schopenhauer ,
pp. –) . Ce qui mène à la méchanceté, à la perversion, aux jouis-
sances passagères et trompeuses. Le plaisir du méchant est d’ailleurs
une illusion créée par Maya au moyen du principe d’individuation
(Schopenhauer , p. ). Le “juste” par contre transperce le prin-
cipe d’individuation, rend transparent le voile de Maya, et reconnaît
ainsi son moi et sa volonté dans chaque être (Schopenhauer ,
p. ). Les deux principes sont d’ailleurs liés : les choses, dans les
yeux de l’individu, prennent l’aspect de phénomènes, accouplement de
l’individuation et de la raison suffisante . Schopenhauer ne cesse de
répéter que c’est la Maya du brahmanisme qui maintient le vouloir–
vivre dans l’erreur au sujet de son essence propre. Heureusement
que la mort réfute cette erreur — au moment de mourir nous nous
apercevons qu’une pure illusion avait borné notre existence à notre
propre personne, dans la multiplicité de ses formes apparentes, tandis
que l’essentiel consiste dans l’acceptation de l’identité métaphysique
de la Volonté (Schopenhauer , pp. –).

. Schopenhauer revient constamment sur cette même idée. « Dans les êtres excep-
tionnels, la connaissance purifiée et élevée par la souffrance même, arrive à un degré où
le monde extérieur, le voile de Maya, on ne peut plus abuser, où elle voit clair à travers
la forme phénoménale ou principe d’individuation » (Schopenhauer , p. ) ; « Le
monde étend devant le regard de l’individu brut le voile de Maya, dont parlent les Hindous ;
ce qui se montre à lui, à la place de la chose en soi, c’est le phénomène seul, sous les
conditions du temps et de l’espace, du principe d’individuation, et sous celles des autres
formes du principe de la raison suffisante. Et avec cette intelligence ainsi bornée, il ne voit
pas l’essence des choses ; qui est une ; il en voit les apparences, il les voit distinctes, divisées,
innombrables, prodigieusement variées, opposées même. Il prend la joie pour une réalité »
(Schopenhauer , p. ).
. Voir la phrase que Nietzsche aussi citera plus tard: « Prisonnier qu’il est du principe
d’individuation ! Dupe du voile de Maya ! Ainsi sur la mer courroucée, infinie de toutes
parts, lorsque, écumeuse et hurlante, elle élève et engloutit des montagnes d’eau, le marin,
sur son banc, se fie à son faible canot ; de même, au milieu d’un océan de douleurs,
s’assied paisible l’homme encore à l’état d’individu ; il s’abandonne et se fie au principe
d’individuation, c’est–à–dire à l’aspect que les choses prennent pour les yeux de l’individu,
l’aspect du phénomène » (Schopenhauer , p. ).
Histoires et images du voile de Maya 

La nature et la fonction du voile de Maya, dans la pensée schopen-


hauerienne, est univoque et monolithique. Schopenhauer croit et
affirme que maya est la façon dont le monde nous apparaît comme
quelque chose qui n’est pas. Épistémologiquement, maya provoque
la perception erronée des choses, et incite à une soi–disant “con-
naissance”, globalement trompeuse. Métaphysiquement, maya est
l’apparence phénoménale d’une réalité essentielle cachée et invisible
pour l’individu; et éthiquement, maya mène à l’aliénation injustifiable
de soi–même et du rapport à l’autre . On l’a dit : maya est voile, et
la doctrine brahmanique du voile de Maya a essentiellement des
connotations négatives où voiler signifie sans ambages dissimuler, ca-
cher, enrober, avec en plus le sens de déformation, d’obscurcissement,
de faussement même. On verra dans ce qui suit comment ce type
de “voile de Maya” se traduit dans la pratique artistique d’un artiste
comme Dirk Braeckman et dans ses stratégies figurales.
La position de Nietzsche à propos du voile de Maya est plus subtile,
plus complexe, plus dense. Les occurrences de “voile de Maya” se
concentrent essentiellement dans les premiers paragraphes de La
naissance de la tragédie  où Nietzsche compare “notre Schopenhauer”
au Chevalier escorté de la Mort et du Diable de Dürer, « chevalier cuirassé
au dur regard d’airain, qui suit son chemin de terreur. . . Tout espoir
lui fait défaut » (N a, , p. ). Voici un Schopenhauer,
platonicien pessimiste imbu de brahmanisme, qui ne procure aucune
consolation pour l’avenir, rien que du dépérissement, de la torpeur,
de la poussière, dans sa condamnation des apparences, lui qui ne
veut que percer à travers le “voile de Maya”. En un sens détourné,
avance Nietzsche, on peut appliquer l’idée de l’homme prisonnier du
voile de Maya à Apollon puisque la grâce de la belle apparence ne le
quitte jamais (Nietzsche a, , pp. –). Le calme et inébranlable
Apollon est la superbe image divine du principium individuationis et son
expression la plus sublime. Ses gestes et son regard montrent le plaisir
et toute la beauté de l’apparence. Mais du côté du pôle dionysiaque,

. La présentation la plus complète et la plus adéquate de cette matière est Berger


().
.  Friedrich Nietzsche. Œuvres (édition dirigée par Jean Lacoste et Jacques Le Rider),
Paris, Robert Laffont, a et b. Je cite la traduction de M J. et M J.,
pour La Naissance de la tragédie (N a) et d’Henri Albert pour Le gai savoir
(N b).
 Herman Parret

là où le voile de Maya s’est déchiré en lambeaux devant le mystère


de l’Un originaire, c’est l’extrême volupté et le désir destructeur qui
règne (Nietzsche a, § , pp. –). Dans le dithyrambe des arts,
de la tragédie et de la musique où l’homme est porté au plus haut
degré de ses forces dionysiaques, on assiste à l’abolition du voile de
Maya. Entre Apollon et Dionysos, il y a le voile de Maya qui balance
éternellement entre son imposition et sa disparition. C’est là que se
joue l’acte créateur. Voilement et dévoilement, apparence et essence,
sont dialectiquement inséparables, pour qu’il y ait art.
Même si Nietzsche connaît le “voile de Maya” schopenhauerien à
partir de sa lecture de Le monde comme volonté et comme représentation,
il formule, déjà dans les quatre occurrences des premiers paragraphes
de La naissance de la tragédie, une tout autre notion du voile de Maya, un
sens d’ailleurs assez énigmatique et difficile à expliquer. Nietzsche s’in-
téresse à la métaphysique sous–jacente du “voile de Maya”  qui, pour
lui, devrait être avant tout une stratégie des pratiques artistiques. L’art,
pense Nietzsche, est un remède contre la mythification de la connais-
sance. En plus, une vie valable ne peut être seulement vécue par les
mirages artistiques — la vie qui naît dans l’art, qui fait naître l’art, est
le plaisir du phénomène, la douleur du phénomène. Ainsi le “voile de
Maya” phénoménal couvre tous les arts, n’importe quelle pratique
artistique. L’expérience esthétique prend naissance dans la nécessité du
rêve, exprimée dans la belle apparence (Schein), dans la brillance d’Apol-
lon (der Scheinende), le dieu artiste, générateur des apparences qui ne
sont pas seulement oniriques, construites comme dans un rêve, mais
qui sont également sculptées, délimitées, mesurées, formellement
présentable (Nietzsche a, § , p. ). Il est vrai que le “phénomène”

. Il y a dans les tout premiers écrits de Nietzsche un emploi de voile et voilé moins
spécifique que celui qui nous intéresse dans le contexte de notre présentation : « Toute
forme de civilisation commence par le fait qu’une quantité de choses sont voilées. Le progrès
de l’homme dépend de ce voile » (Nietzsche , p.  commentaire  : « Le voile est
l’illusion dont Nietzsche conçoit trois degrés :
. celle de la connaissance ‘socratique’ ;
. Celle de l’art apollinien (‘voile de beauté’) ;
. Celle de la tragédie ; ces trois degrés sont représentés par trois cultures :
. la culture ‘alexandrine’ dont l’idéal est l’homme théorique,
. la culture hellénique,
. la culture ‘bouddhique’ »).
Histoires et images du voile de Maya 

artistique n’est pas une représentation, mais une apparence. Rêve et


apparence, c’est bien ce qui fait la beauté, ce sourire de la nature, cette
surabondance des forces, et le sentiment de plaisir de l’existence. Le
but du beau est de séduire en faveur de la vie et de l’existence. La “belle
apparence” est le désir avide de l’existence, écrit Nietzsche. Certes,
cette “belle” et “délectable apparence” est un mirage interposé. Par
conséquent, l’art nous manifeste que le phénomène est apparence, que
l’apparence est la vie en flux et reflux, et qu’il n’y a rien, absolument
rien, derrière, à travers ce mirage, une “essence” quelconque. Cette
généralisation métaphysique du “voile de Maya” chez Nietzsche n’a
certainement plus aucun lien avec le sens original hindou , ni même
avec la réflexion schopenhauerienne, puisque le “voile de Maya” chez
Nietzsche est devenu le pivot d’une métaphysique de l’apparence. La
pulsion artistique y est considérée comme une aspiration ardente à
l’apparence, un désir originaire de l’apparence, non par une apparence
naïve mais une apparence réflexive, que Le gai savoir n’hésite pas de
circonscrire comme la “conscience de l’apparence” (Nietzsche b,
§ , pp. –). Nous sommes contraints d’éprouver l’apparence
comme le véritable non–être, comme un incessant devenir dans le
temps, l’espace et la causalité, dit le Paragraphe  de La naissance de
la tragédie. Nietzsche écrit dans Le gai savoir : « L’apparence pour moi
n’est certes pas l’opposé d’un ‘être quelconque’. Que puis–je énoncer
de cet être si ce n’est que les attributs de son apparence. Ce n’est certes
pas un masque inanimé que l’on pourrait mettre, et peut–être même
enlever, à un X inconnu ! L’apparence est pour moi la vie et l’action
elle–même qui, dans son ironie de soi–même, va jusqu’à me faire sen-
tir qu’il y a là apparence et feu–follet et danse des elfes et rien de plus »
(Nietzsche b, § , pp. –). Apparence, par conséquent, sans
vérité sous–jacente, sentie comme un rêve, comme non–être, comme
la vie elle–même dans le flux de ses plaisirs et de ses souffrances.
Il ne nous importe pas d’évaluer la façon dont Nietzsche reprend
l’idée du “voile de Maya” de la tradition brahmanique et bouddhique ,
ni de commenter son infidélité à l’égard de son “éducateur” Scho-

. Voir à ce propos V (), chapitre II, « Le voile de Maya dans La


naissance de la tragédie », pp. –.
. Voir le magnifique essai de C M.(), esquisse extrêmement subtile et
sensible de la lecture nietzschéenne du brahmanisme et du bouddhisme.
 Herman Parret

penhauer, mais de comprendre l’étonnante extension conceptuelle


qu’il propose du “voile de Maya” . Das Leben im Schein als Ziel, « la vie
dans l’apparence comme but ». Ce thème est parmi les plus persistants,
les plus têtus du vocabulaire nietzschéen. Nietzsche recommande
un platonisme “évacué” (umgedrehter Platonismus), et cette logique
du renversement implique l’hypostase de l’apparence. Ce célèbre syn-
tagme, « la vie dans l’apparence comme but », divinise l’apparence,
c’est–à–dire le sensible de la beauté, le corps, le rêve, l’illusion, rem-
plaçant l’essence conçue comme vérité, comme identité à soi. Ainsi
fonctionnent l’art et la vie, contre le danger spéculatif, contre les pro-
fondeurs idéalistes. L’apparence n’est évidemment pas conçue comme
une chute, une perte de l’absolu, mais bien plutôt comme un processus
de transfiguration. C’est dire que le terme d’apparence est dépourvu de
contraire. « Désapprendre nos antinomies, voilà notre tâche », écrit
Nietzsche encore. Être, c’est être apparent. « Vivre dans l’apparence,
c’est affirmer que la vie est un papillonnement de surfaces, un jeu de
masques et de fantasmes à l’infini » (Haar , p. ). “La vie dans
l’apparence”, c’est pour Nietzsche la vie totale, l’être plein, absolu. Sein
als Schein, où Schein n’est pas du tout le faux–semblant mais bien plutôt
le rayonnement, la brillance : l’apparaissant, c’est ce qui paraît dans
son éclat, ce qui brille et luit, Erscheinung, manifestation lumineuse,
transparence de ce qui se montre. C’est pourquoi Nietzsche préfère le
mot “apparence” (Schein) au terme “phénomène” (Erscheinung) qu’on
est tenté de comprendre comme l’apparition de quelque chose qui
pour une part encore reste en retrait. L’apparence se donne comme
“réalité” pleine et exhaustive. Il n’y a d’apparence que parce que la Vie,
c’est dire la Volonté de Puissance, “apparaît”, s’automanifeste comme
pluralité de perspectives sans cesse en mouvement. Ce n’est pas tant
que Nietzsche aime et cultive le mot “apparence”. Au contraire, le
mot ne cesse de l’irriter sans qu’il ne parvienne à s’en défaire. C’est
que Schein restaure irrésistiblement la césure entre le manifeste et le
retiré, et Deleuze, tout comme Heidegger, n’ont cessé pour cette rai-
son d’accuser l’hypostase nietzschéenne de l’apparence et son apologie

. K () est une excellente présentation, mais surtout H () nous
introduit de la meilleure façon à la problématique qui nous occupe en ce lieu, celle du
statut esthético–métaphysique de l’apparence, surtout le chapitre « Le renversement du
platonisme et la nouvelle signification de l’apparence », pp. –. C’est de ce chapitre que
nous le plus profité lors de la rédaction de cette section.
Histoires et images du voile de Maya 

du “voile de Maya”. C’est sans doute raisonnable — Deleuze nous y


incite — d’enraciner le culte de l’apparence seulement dans la sphère
artistique, et pas nécessairement dans les domaines de la vie quoti-
dienne ni dans le projet scientifique. On trouve dans La naissance de
la tragédie un passage bien sage où le voile de Maya est apprécié d’une
autre façon selon que l’on séjourne en art ou en science : « Encore
faut–il préciser [. . . ] que si l’artiste, chaque fois que se dévoile la vérité,
ne peut jamais que rester suspendu, le regard extasié, à ce qui demeure
encore de voile après le dévoilement, l’homme théorique, lui, est ce-
lui qui trouve apaisement et satisfaction à voir arraché le voile et ne
connaît pas de plaisir plus grand que de réussir par ses propres forces,
à faire tomber de nouveaux voiles » (Nietzsche a, § , pp. –).
Il semble que ce serait mal comprendre la portée du voile de Maya
selon Nietzsche si l’on généralise la présence de Maya dans tous les
domaines des pratiques humaines. En tout cas, c’est ainsi que Deleuze
réinterprète Nietzsche (Deleuze ). Le dévoilement total, c’est ce
que veut l’homme théorique, tandis que le felix aestheticus au regard
extasié, ménage un fond secret — la “métaphysique d’artiste” prescrit
avant tout la conscience, l’amour des apparences, le dévouement, la
soumission même au “voile de Maya”.

.

Il convient dès à présent de voir comment les concepts schopenhaue-


rien et nietzschéen du “voile de Maya” peuvent être convertis en
instruments d’analyse d’œuvres d’art contemporains, notamment
la photographie de Braeckman et de Dorsa. Avant de résumer les
attitudes ou “méthodes” de nos deux philosophes, voici comment le
dictionnairered Littré reconstruit la sémantique de voile (lat. velum) :
« Pièce d’étoffe destinée à cacher quelque chose, morceau d’étoffe
dont les femmes se couvrent le visage, plus particulièrement, mor-
ceau carré [. . . ] de dentelle, de tulle, ou même de gaze ou de crêpe,
que les femmes attachent à leurs chapeaux pour se garantir la figure
du vent, du froid et du soleil, ou bien pour être moins vues. // Fig.
Avoir un voile devant les yeux, être aveuglé par les préjugés et les
passions. // Fig. Un voile jeté sur une personne. ‘Un voile sombre
de tristesse et de consternation a couvert son visage’ [Rousseau] //
 Herman Parret

Poét. Les voiles de la nuit, les ténèbres de la nuit. // Fig. Apparence,


prétexte, dont on se sert pour tenir une chose cachée. // Fig. Ce qui
nous dérobe la connaissance de quelque chose. ‘Je meurs, le voile
tombe, un nouveau jour m’éclaire’ [Voltaire] // Jeter un voile sur, tirer
un voile sur, cacher, condamner à l’oubli ». Par conséquent, on lit
dans le Littré que la fonction première du voile est certainement :
l’absentification d’une présence, un visage, un corps, absentification
de sorte que la présence soit cachée, radicalement ou relativement.
Les extensions poétiques et figuratives sont multiples : le voile des
préjugés et des passions devant les yeux, le voile de tristesse, les voiles
de la nuit, jeter le voile sur les souvenirs (oublier), le voile qui dérobe
la connaissance, et aussi, toujours dans Littré : « apparence, prétexte,
dont on se sert pour tenir une chose cachéered ». Il est certain que le
voile de Maya récupère toutes ces extensions poétiques et figuratives,
mais, de toute évidence, ne porte pas le sens littéral et objectifiant,
mentionné en premier lieu par Littré.
Schopenhauer et Nietzsche incarnent deux attitudes ou “méthodes”
contradictoires à l’égard du voile de Maya, élevé au niveau d’un concept
métaphysique de prime importance qui fait en plus de ces attitudes
d’authentiques positions éthiques. Pour Schopenhauer, il faut trans-
gresser la Maya et triompher sur le monde des apparences, il faut
transcender le voilement qui dissimule, enrobe, cache. C’est égale-
ment percer à travers l’individuation et échapper au prestige de la
connaissance des phénomènes. Pour Nietzsche, par contre, il faut se
livrer à la sagesse et à la beauté des apparences, incorporer la Maya
pour qu’il y ait art. On l’a dit : la pulsion artistique est une aspiration
ardente à l’apparence. Attitude positive, par conséquent, abolissant les
antinomies classiques du phénomène et de la chose–en–soi, d’absen-
tification et de présence, d’apparence et d’essence. C’est également
abolir le sens “littéral” de voile que l’on a vu formuler dans le Littré :
masque, déguisement, dissimulation, dérobement, pour retrouver les
extensions poétiques et figuratives qui marquent justement la créati-
vité artistique, règle des apparences. Par conséquent, pour analyser
une œuvre d’art du point de vue du voilement/dévoilement, on
dispose dès à présent de deux méthodes/attitudes, la schopenhaue-
rienne et la nietzschéenne. La première, schopenhauerienne, existen-
tiellement mal à l’aise, inquiète, pessimiste, est antinomique (appa-
rence versus essence), directionnelle et verticale (à travers la surface
Histoires et images du voile de Maya 

vers la profondeur essentielle), incitation au dévoilement. La seconde,


nietzschéenne, existentiellement euphorisante, est holistique (univers
des apparences sans aucune hiérarchie), horizontale (exploitation des
surfaces), acceptation du voilement comme constitutif des apparences.

.

Cette typologie rudimentaire des attitudes à l’égard du voile de Maya


nous permet, à nos risques et périls, de commenter, en photographie
contemporaine, deux œuvres de très haute qualité et peu connues,
Dirk Braeckman, photographe belge, et Bart Dorsa, photographe
américano–russe, incarnant les pôles schopenhauerien et nietzschéen
du voile de Maya. Pour commencer par Dirk Braeckman, le “schopen-
hauerien”, nous montrons deux séries, (Fig. ) en commençant par
le Watteau, réalisé pour la grande exposition Watteau au Palais des
Beaux–Arts à Bruxelles, en . Il s’agit d’une immense photographie
(Fig. ) de Les plaisirs du bal de Watteau, de , montrant le contraste
démythifiant entre la représentation de la frivolité charmante et élé-
gante au coloris dix–huitièmiste et une imposante apologie de l’obscur
et du noir.

Figure . Dirk Braeckman, Watteau, , photographie,  ×  cm, propriété
de l’artiste
 Herman Parret

La mise–en–noir de ses objets, personnes, paysages, caractérise


toutes les photos de Braeckman (Fig. ). Il s’agit de quel noir ? Grain
de noir — pour paraphraser Roland Barthes — puisque la matière
s’impose ici comme du charbon, comme du brûlé, comme du jais.
“Noir” n’y est pas un prédicat mais une substance, pas une significa-
tion mais de la sans–forme, du non–structuré qui échappe à toute
traduction dans n’importe quel discours, pas un noir décoratif, pas
une figure de la noirceur mais l’odeur d’une cave de charbons. Ce
noir est lourd, de plomb, intense comme si l’objet est consommé par
le feu du soleil. Ces photographies se présentent comme des paysages
après l’éclipse du soleil. Et pourtant, on perçoit que ce noir n’est
pas immobile mais coule comme de la lave, il se déplace, bouge, un
noir doucement et lentement dynamique, qui installe des gradations
subtiles dans la pénombre. Il est vrai que le noir de Braeckman n’est
pas une nourriture pour l’œil, mais, bien au contraire, de la cendre
dans la gorge. Et pourtant, ce noir n’est pas stérile, et surtout il n’est
pas affirmatif, menaçant et impératif. Il suffit de changer le contraste
de la lumière (Fig. ) pour voir comment l’image continue à vivre
dans le rococo de ses courbes. C’est dire que le noir de Braeckman

Figure . Jean–Antoine Watteau, Les plaisirs du bal, c. , huile sur toile, . ×
. cm, Londres, Dulwich Picture Gallery
Histoires et images du voile de Maya 

ne mène pas jusqu’aux ténèbres de la mort. Bien sûr, la noirceur im-


plique l’absentification de la représentation, mais pas totalement. Le
noir n’est pas négatif, provoquant, destructeur. La présentation noire
reste riche en ardeurs. Le noir fait voir un monde. Il s’agit bien d’une
épiphanie noire. Les détails (Fig. ) montrent que les figures continuent
à vivre et à socialiser, même si l’insouciance originale est quelque
peu éteinte puisque sans couleurs et sans brillance — il est vrai, la
danse est triste et la musique muette. Reste que le noir de Braeckman
n’est pas le noir du Carré noir de Malevitch, totalement opaque pour
des raisons de doctrine picturale, comme il est bien connu . Il est
intéressant de noter que Braeckman préfère incorporer explicitement
la source lumineuse de l’éclairage dans l’image, ce qui implique un
certain équilibre et une certaine prudence dans le traitement du voile
de Maya, pas l’obscurité menaçante ou l’opacité dysphorique, mais
une certaine transparence quand même. Il y a l’absentification d’une
présence, il est vrai, mais sans doute en fonction d’une présentation
plus riche en densité signifiante.

Figure . Dirk Braeckman, Watteau, détail (contraste très élevé), ,


photographie, propriété de l’artiste

Les noirs de Braeckman sont–ils des ombres ? Pas du tout dans la


définition canonique d’ombre qui présuppose « une obscurité créée
par des corps opaques sur le côté opposé à la partie éclairée » . Il
est vrai que notre photographe s’est explicitement intéressé à la va-

. Voir S () pp. –.


. Définition bien connue de Filippo Baldinucci, , citée et utilisée par E.H. Gom-
brich dans G (), p. . On trouve dans l’iconographie de Gombrich un spécimen
qui fait penser directement au noir de B, notamment l’Homme à sa table de lecture
dans une pièce haute de l’École de R (Londres, National Gallery), commenté ici
par Gombrich, pp. –.
 Herman Parret

riété figurale de soi–disant “ombres”, dans la série Sisyphus de 


où il inventorie au moins une cinquantaine de formes noires dont
voici quelques exemples (Figg.  et ). Il est évident que ces taches
rectangulaires ne sont pas vraiment des ombres. On perçoit au fond

Figure . Dirk Braeckman, Watteau, détail, , photographie, propriété de


l’artiste
Histoires et images du voile de Maya 

des fragments de corps, des cheveux féminins, des mains et des bras,
des seins et des visages, expressifs même, des lambeaux de tissu, le
tout étant couvert par des rectangles d’ombres, bien artificiellement
aménagées. Quelle est la fonction de ces marques de couleur noire ?
Non pas de cacher ou de masquer du réel puisqu’elles sont partielle-
ment transparentes et n’introduisent pas vraiment de rupture ou de
discontinuité dans la saisie du sujet photographié. Elles fonctionnent
bien plutôt comme l’actualisation d’un principe structural démontrant
que toute “objectité” est soumise à une dialectique du lumineux et de
l’obscur, les deux faces d’une même réalité.
On n’en doute pas, cette réalité est soumise aux artifices du photo-
graphe et de sa technique qui de toute évidence rehaussent artistique-
ment les qualités intrinsèques du lumineux et de l’obscur. Impossible
d’interpréter le noir de Braeckman à partir de la notion picturale
classique d’ombre. (Fig. ) De retour au Watteau, on peut noter l’intro-
duction de la source de la lumière à gauche, la distribution irrégulière
et non pas symétrique de la lumière et de l’obscurité sur toute la pré-
sentation. Le noir semble avoir comme fonction de créer des zones de
contraste dans l’ambiance euphorique du Watteau. L’artiste veut mon-
trer que même la fête des couleurs est soumise au jeu de la lumière et
de l’obscurité en faisant abstraction de la couleur.
Le noir de Braeckman est un voile de Maya dans son heuristique
schopenhauerienne. On se rappelle les trois propriétés de la concep-
tion schopenhauerienne de la Maya : le voile est antinomique et génère
la dialectique entre l’apparence et l’essence; ensuite, la Maya requiert
la directionalité plutôt “verticale” du regard vers la profondeur, et la
présentation ne s’exhibe qu’en perçant les surfaces; enfin, le sujet perce-
vant est incité au dévoilement, “arracher le voile”, comme Schopenhauer
l’exigeait, exigence aussi bien métaphysique qu’axiologique et morale.
Étant conscient de la fragilité de toute homologation, nous proposons
quand même la transposition de la “méthode” ou “attitude” schopen-
hauerienne sur la photographie de Braeckman où le noir est comme
un rideau couvrant une scène, rideau qui dans la perception s’ouvre
lentement et graduellement sur le spectacle essentiel. Même chose pour
les plaques artificielles des rectangles noirs qui ne servent qu’à mettre
mieux en scène la figuration sous–jacente. C’est bien ce dont il s’agit
chez Braeckman : dévoiler pour que l’essentiel se montre, procès qui ne
s’accomplit que dans l’incertitude et l’inquiétude.
 Herman Parret

Figure . Dirk Braeckman, Sisyphus , , photographie, . × . cm, propriété
de l’artiste
Histoires et images du voile de Maya 

Figure . Dirk Braeckman, Sisyphus , , photographie, . × . cm,
propriété de l’artiste
 Herman Parret

.

La série des Katya de Bart Dorsa, que l’on a pu admirer dans un


lieu caverneux et sépulcral au Zattere à la Biennale de Venise en
, témoigne d’une conception diamétralement opposée du voile
de Maya, la nietzschéenne (Figs  et ). “Katya” est un ensemble de
plaques photographiques en verre noir couvertes de collodion humide.
Le projet présente l’histoire de Katya, une jeune femme qui vit dans
l’underground moscovite. Dorsa l’a photographiée avec une répétitivité
obsessionnelle pour en faire un portrait psychologique pénétrant.
Cette technique est radicalement indexicale puisque la photo est une
empreinte directe, la lentille fonctionnant dans une camera obscura
et sans aucune mécanique intermédiaire. Dorsa prétend de capter
ainsi le subliminal, l’identité même de la psychologie de misère et de
malheur de Katya. Pourtant, l’âme de Katya est terriblement sensuelle,
corporelle, et Dorsa développe toute sa philosophie esthétique à ce
propos. L’âme, dans sa fragilité et sa fluidité, dans sa “matérialité
immatérielle”, pour parler comme Jean–François Lyotard , est un
invisible incorporé, un voile de Maya incarné, non pas surajouté comme
les noirs de Braeckman, mais assimilé, intégré.
Voilement qui procède de l’intérieur (Fig. ). L’épiderme de Katya
n’est qu’une surface sans support subjectif, surface que l’on ne saisit
que par l’empreinte que le photographe réalise optimalement par sa
technique indexicale. Chaque minuscule nuance de la chair de Katya
“présente” le subliminal, et on ne peut douter que la projection de
cette psychologie dans le personnage de Katya réfléchit en fait l’état
d’âme de l’artiste lui–même, dans sa tristesse et son malheur.
Le voile de Maya, déjà depuis les temps de la sagesse védique, thé-
matise le fait que nous vivons dans un monde d’apparences (Figs –).
Nietzsche ne se tourne jamais vers les essences soutenant les surfaces
de l’existence, et sa critique de la métaphysique platonicienne et post–
platonicienne, hégélienne par exemple, est basée sur sa défense des
apparences. Mais l’“apparence” n’est pas du tout une “représentation”
achevée et objectivement identifiable, mais une “présentation”, une
mise–en–présence, le dynamisme d’un faire–apparaître, et c’est ainsi
que le voile de Maya exhibe comment les existences sont éternellement

. Voir C (), pp. –.


Histoires et images du voile de Maya 

en mouvement, dans leur sensualité et corporéité. En d’autres termes,


le voilement est constitutif des apparences, mais le voile n’est pas ex-
térieur, autonome, objectif comme un obstacle qui cache. La Maya
est générée par des surfaces, par le sensible et le corporel, comme
nous montre le corps de Katya où le voile est comme une peau dé-
tachée, une enveloppe intégrée, présent et sensible comme le corps
lui–même. Il n’y a rien à dévoiler, la Maya est là, elle se “présente”
d’emblée, assimilée, incorporée.

Figure . Bart Dorsa, Katya , , photographie,  ×  cm, propriété de l’artiste


 Herman Parret

Figure . Bart Dorsa, Katya , , photographie,  ×  cm, propriété de l’artiste


Histoires et images du voile de Maya 

Figure . Bart Dorsa, Katya , , photographie,  ×  cm, propriété de


l’artiste

Figure . Bart Dorsa, Katya , , photographie,  ×  cm, propriété de
l’artiste
 Herman Parret

Figure . Bart Dorsa, Katya , , photographie,  ×  cm, propriété de
l’artiste
Histoires et images du voile de Maya 

.

Nous concluons en quelques phrases. Le “système” du voile, thème


de notre colloque, se conjugue selon plusieurs diapasons et isotopies.
Nous n’avons pas tant choisi le diapason “transparence et opacité”
mais plutôt “surface de présentation” versus “profondeur de l’essence”.
C’est le débat que Schopenhauer et Nietzsche ont introduit à la fin
du e siècle concernant le voile de Maya, et ce débat a produit deux
paradigmes explicatifs alternatifs. La Maya ou le voile crée une appa-
rence, et le débat sur la nature de cette apparence acquiert d’emblée un
accent axiologique. Déchirer le voile de Maya ou l’accepter et le cultiver,
tel est le choix axiologique, progresser avec inquiétude et malaise
vers la profondeur des essences, ou accepter que l’existence se réalise
dans l’univers des apparences, voici les alternatives métaphysiques
fondamentales. Ce choix se traduit également, et inconsciemment il
va de soi, au niveau artistique, comme nous avons voulu le démontrer
en opposant la photographie de Dirk Braeckman et celle de Bart
Dorsa. Maya n’a rien perdu de son impact énigmatique, de sa beauté,
dirions–nous, de sa force de bouleverser et de fasciner l’âme du felix
aestheticus.

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Il sistema del velo / Système du voile
ISBN 978-88-548-8838-8
DOI 10.4399/978885488838815
pag. 335–340 (gennaio 2016)

Note bio–bibliografiche degli autori / Notices


bio–bibliographiques des auteurs

Nicolas Galley est directeur des études de l’Executive Master in Art


Market Studies (Université de Zurich). Il est titulaire d un doctorat
en histoire de l’art dirigé par le Prof. Victor Stoichita. Il a obtenu
différents prix et bourses qui lui ont permis de poursuivre ses recher-
ches au Getty Research Institute (Los Angeles) ainsi qu’à la Columbia
University (New York). Ses travaux actuels portent principalement
sur le marché de l’art et sur la question du vernis comme matériau
artistique.
Lucia Corrain insegna Semiotica delle arti nel corso di laurea trienna-
le DAMS e Semiotica del visibile nel corso di laurea magistrale in Arti
Visive (di cui è anche coordinatore) presso l’Università di Bologna. È
referente scientifico del Museo di Palazzo Poggi dell’Alma Mater. Ha
pubblicato numerosi articoli su problematiche riguardanti la teoria del-
le arti. Ha scritto, fra gli altri, Semiotica dell’invisibile (Esculapio );
ha curato, inoltre, i volumi Leggere l’opera d’arte II (Esculapio );
Victor Stoichita, Cieli in cornice (Meltemi ); Semiotica della pittura
(Meltemi ); Louis Marin, Della rappresentazione (Mimesis ). È
in uscita un volume dal titolo Il velo dell’arte. Una rete di immagini tra
passato e contemporaneità per i tipi di La casa Usher.
Ruggero Eugeni è professore di Semiotica dei media presso l’Univer-
sità Cattolica di Milano e dirige presso la stessa Università l’Alta Scuola
in Media, Comunicazione e Spettacolo.
Il suo approccio ai media è attento da un lato agli aspetti esperienziali,
corporei e affettivi dell’esperienza mediale, dall’altro lato ai suoi ra-
dicamenti culturali e linguistici. Da questo punto di vista studia tra
l’altro le forme della rappresentazione filmica dell’ipnosi quali messe
in scena del dispositivo cinematografico e della sua esperienza.
Il suo ultimo lavoro è Semiotica dei media. Le forme dell’esperienza (Ro-


 Note bio–bibliografiche degli autori / Notices bio–bibliographiques des auteurs

ma, ). Tra gli altri suoi lavori: Il testo visibile. teoria, storia e modelli
di analisi (in collaborazione con Fausto Colombo: Roma, ), Invito
al cinema di Stanley Kubrick (Milano, nuova ed. ), Analisi semiotica
dell’immagine. Pittura, illustrazione, fotografia, (Milano, nuova ed. ),
Film, sapere, società. Per un’analisi sociosemiotica del testo cinematografico,
(Milano, ), La relazione d’incanto. Studi su cinema e ipnosi (Milano,
). Ha curato con Fausto Colombo il volume Il prodotto culturale.
Teorie, tecniche di analisi, case histories (Roma, ) e con Dario Vi-
ganò Attraverso lo schermo. Cinema e cultura cattolica in Italia,  voll.,
(Roma, ).
Vari papers e preprint sono disponibili per la lettura e la discussione al
sito media / experience / semiotics (http://ruggeroeugeni.com)

Martina Corgnati, curatrice e storica dell’arte, è docente di Storia


dell’Arte all’Accademia di Brera di Milano. Ha scritto fra l’altro per
“Arte”, “Flash Art”, « Panorama », “Anna”, « The Journal of Art », “L’In-
dice”, « La Repubblica », “Carnet Arte”, “Chi”, “Style”, di cui è stata
consulente di direzione.
Fra le sue pubblicazioni: Dizionario d’arte contemporanea (Feltrinel-
li, , insieme a Francesco Poli), Dizionario dell’arte del Novecento
(Bruno Mondadori, ), Artiste (Bruno Mondadori, ), L’opera
replicante: la strategia dei simulacri nell’arte contemporanea (Compositori,
), I quadri che (ci) guardano. Opere in dialogo (Compositori, )
e la prima biografia di Meret Oppenheim, Afferrare la vita per la coda
( Johan & Levi, ).
Ha curato decine di mostre retrospettive dedicate a maestri delle avan-
guardie e neoavanguardie, come Pinot Gallizio nell’Europa dei Dissim-
metrici (Torino, Promotrice delle Belle Arti, –), Meret Oppenheim
(Milano, Refettorio delle Stelline, Galleria del Credito Valtellinese,
/) e Gillo Dorfles il pittore clandestino (Milano, PAC, ) oltre a
rassegne storiche come Arte a Milano – (Milano Refettorio delle
Stelline, Galleria del Credito Valtellinese, ), oppure tematiche
quali Le immagini affamate. Donne e cibo nell’arte. Dalla natura morta ai
disordini alimentari (Aosta, Museo Archeologico –). Ha curato il
secondo volume del catalogo generale di Enrico Baj (Marconi–Menhir,
). Nel  ha curato l’evento collaterale alla Biennale di Mosca,
Venti per una, e nel  l’evento collaterale alla Biennale di Venezia In
the Eye of the Thunderstorm.
Note bio–bibliografiche degli autori / Notices bio–bibliographiques des auteurs 

Gianluca Cuozzo è docente di Filosofia teoretica presso l’Universi-


tà di Torino. Ha dedicato i propri studi a Löwith, Cusano, Bruno,
Leonardo da Vinci e Benjamin. Negli ultimi anni ha rivolto i propri in-
teressi da un lato al nesso tra dottrine artistiche e riflessione filosofica,
dall’altro ad alcuni narratori statunitensi (Don DeLillo, Paul Auster,
Philip K. Dick) e al tema delle utopie classiche e postmoderne. Tra
le sue più recenti monografie si ricordano: Filosofia delle cose ultime,
Bergamo ; Dentro l’immagine, Bologna ; A spasso tra i rifiuti,
Milano–Udine ; Utopie e realtà, Bergamo .

Massimo Leone è professore di semiotica, semiotica della cultura e


semiotica dell’immagine presso il Dipartimento di Filosofia dell’U-
niversità di Torino e Presidente del Corso di Laurea Magistrale in
Comunicazione e Culture dei Media presso lo stesso Ateneo. È stato
ricercatore invitato presso il CNRS di Paris e il CSIC di Madrid, pro-
fessore “Fulbright” presso il Graduate Theological Union di Berkeley,
professore “Endeavour Research Award” nella Monash University di
Melbourne, professore “Faculty Research Grant” presso l’Università
di Toronto, professore invitato “Mairie de Paris” presso la Sorbona
e professore invitato presso l’École Normale Supérieure di Lione
(Collegium de Lyon), il Center for Advanced Studies dell’Università
“Ludwig Maximilian” di Monaco di Baviera, presso l’Università di Kyo-
to e presso l’Institute of Advanced Study dell’Università di Durham,
UK. Le sue ricerche si concentrano sulla semiotica della religione e
sulla semiotica della cultura. È autore di sette monografie: Religious
Conversion and Identity: The Semiotic Analysis of Texts, Routledge, Lon-
dra e New York ; Saints and Signs: A Semiotic Reading of Conversion
in Early Modern Catholicism, Walter de Gruyter, Berlino e New York
; l’opera in tre volumi Sémiotique de l’âme, Presses Académiques
Francophones, Berlino et al. ; l’opera in due volumi Annunciazio-
ni: Percorsi di semiotica della religione, Aracne, Roma ; Spiritualità
digitale: Il senso religioso nell’era della smaterializzazione, Mimesis, Udi-
ne ; Sémiotique du fondamentalisme religieux : Messages, rhétorique,
force persuasive, l’Harmattan, Parigi  (trad. in arabo ); Signatim:
Profili di semiotica della culture, Aracne, Roma, . È stato curatore
di una ventina di volumi collettivi e autore di oltre trecento articoli
su riviste specializzate. È Editor–in–chief della rivista internazionale
di semiotica Lexia (SCOPUS) e co–dirige le collane “I saggi di Lexia”
 Note bio–bibliografiche degli autori / Notices bio–bibliographiques des auteurs

(Aracne, Roma) e “Semiotics of Religion” (Walter de Gruyter, Boston


e Berlino).
Henri de Riedmatten () est assistant post–doc à l’institut d’hi-
stoire de l’art de l’Université de Zurich, où il travaille à une thèse
d’habilitation sur les représentations visuelles de Lucrèce à l’époque
moderne. Il a obtenu son MA en philosophie et son doctorat en hi-
stoire de l’art à l’Université de Fribourg, puis a été, de  à ,
responsable du programme académique de l’Institut suisse de Rome.
Il a obtenu plusieurs bourses et été chercheur invité à l’Université de
Harvard et dans le cadre du programme NCCR eikones à Bâle. Sa
thèse de doctorat a paru sous le titre Narcisse en eaux troubles. Francis
Bacon, Bill Viola, Jeff Wall (Rome , trad. angl. ). Il a codiri-
gé plusieurs ouvrages collectifs dont L’Immagine che siamo. Ritratto e
soggettività nell’estetica contemporanea (Rome, ). Il est également
l’auteur de plusieurs articles parmi lesquels « Le voile au corps. Autour
de Lucrèces nordiques » (in V. I. Stoichita, dir., Le corps transparent,
Rome, ).
Victor I. Stoichita a fait ses études à Bucarest, Rome, Munich et
Paris (Doctorat d’Etat ès Lettres en ). Il a déroulé une activité
d’enseignant ou de chercheur invité auprès de différentes universités
et institutions de recherche européennes et américaines. Depuis ,
il est professeur ordinaire d’histoire de l’art moderne et contemporain
à l’Université de Fribourg (Suisse). Il est auteur de plusieurs ouvrages
traduits en une douzaine de langues, dont L’Instauration du tableau
(), Brève histoire de l’ombre (), L’Effet Pygmalion (), L’œil
mystique. Peindre l’extase dans l’Espagne du Siècle d’Or (), Figures
de la transgression (), L’image de l’Autre. Noirs, Juifs, Musulmans et
Gitans dans l’art occidental des Temps modernes (), Oublier Bucarest.
Un récit (, Médaille de vermeil de l’Académie Française), L’Effet
Sherlock Holmes. Variations du regard de Manet à Hitchcock (). Il
est docteur honoris causa de l’Université Catholique de Louvain et
membre étranger de l’Académie dei Lincei (Rome).
Ugo Volli, nato a Trieste nel , laureato in Filosofia a Milano nel
, è professore ordinario di Semiotica del testo presso la Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università di Torino, dove insegna pure Socio-
semiotica. Fino all’anno accademico – ha insegnato Filosofia
del linguaggio all’Università di Bologna. È presidente del Corso di
Note bio–bibliografiche degli autori / Notices bio–bibliographiques des auteurs 

laurea specialistico in Comunicazione multimediale e di massa dell’U-


niversità di Torino, dove dirige anche il Centro Interdipartimentale
di studi sulla comunicazione e partecipa al collegio dei docenti del
Dottorato in Comunicazione. Fa parte anche del collegio dei docenti
del dottorato ISU di semiotica presso l’Università di Bologna. È mem-
bro della commissione comunicazione dell’Università di Bologna e di
quella della CRUI. Ha tenuto corsi e conferenze in numerose istituzio-
ni e università italiane e straniere fra cui l’ISTA (International School
of Theatre Anthropology), di cui è membro del comitato scientifico, la
New York University e la Brown University di Providence, R.I. (USA),
in ciascuna delle quali stato visiting professor per un semestre. Inoltre
ha svolto varia attività didattica alla Columbia University, Haute Ecole
en Sciences Sociales (Paris), Brooklyn College, Universidad Nacio-
nal di Lima, Universidad Nacional di Bogotà, Università di Genéve,
Bonn, Madrid, Montpellier, Augsburg, Vienna, Zagabria, Helsinki,
Sofia, Kassel oltre a numerosi atenei italiani. È professore a contratto
di Semiotica, presso il Corso di laurea in Scienze della Comunicazione
dell’Università Vita Salute di Milano.
Atsushi Okada è professore ordinario di Storia dell’Arte presso la
Graduate School of Human and Environmental Studies dell’Università
di Kyoto. Tra le sue più recenti pubblicazioni possiamo ricordare
Morandi e la sua epoca (Morandi to sono jidai, Kyoto, Jinbun Shoin,
), L’Italia di Freud (Furoito no Itaria, Tokyo, Heibonsha, ),
Estetica del diafano (Hantōmei no bigaku, Tokyo, Iwanami Shoten, ),
Ut pictura kinesis (Eiga wa kaiga no yōni, Tokyo, Iwanami Shoten, ).
Peppino Ortoleva è professore ordinario di Storia e Teoria dei Media
presso l’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni più recenti, Il
secolo dei media, Milano, , e Dal sesso al gioco, Torino, .
Herman Parret est professeur émérite de philosophie du langage et
d’esthétique à l’Université de Leuven (Louvain, Belgique). Il a en-
seigné dans plusieurs universités étrangères, en France et en Italie,
dans les pays latino–américains et aux États–Unis. Ses publications con-
cernent la pragmatique linguistique et philosophique, la sémiotique
textuelle et visuelle, l’épistémologie de la linguistique et de la sémioti-
que, l’esthétique philosophique et la théorie de l’art. Son intérêt vise
le dialogue entre les disciplines, toujours en quête d’une réflexion
englobante et fondatrice. Herman Parret a publié plus de deux cents
 Note bio–bibliografiche degli autori / Notices bio–bibliographiques des auteurs

articles en français, en anglais et en néerlandais. Traductions en italien,


espagnol, portugais, roumain, russe, coréen, turc et japonais. Parmi
les volumes parus: Language and Discourse (), Discussing Langua-
ge (), History of Linguistic Thought and Contemporary Linguistics
(), Le langage en contexte. Etudes philosophiques et linguistiques de
pragmatique (), Contexts of Understanding (), Meaning and Un-
derstanding (), Possibilities and Limitations of Pragmatics (), On
Believing. Epistemological and Semiotic Approaches (), Semiotics and
Pragmatics. An Evaluative Comparison of Conceptual Frameworks (),
Exigences et perspectives de la sémiotique/Aims and Prospects of Semiotics
(), Les passions. Essai sur la mise en discours de la subjectivité (),
Prolégomènes à la théorie de l’énonciation. De Husserl à la pragmatique
(), L’interaction communicative (), La communauté en paroles.
Communication, consensus, ruptures (), Le sens et ses hétérogénéités
(), Temps et discours (), Pretending to Communicate (), Peirce
and Value Theory. On Peircean Ethics and Aesthetics (), L’esthétique
de la communication (), La voix et son temps (), Epiphanies de
la présence (), Sutures sémiotiques (), Les Sébastiens de Venise
(), Le son et l’oreille (). www.hermanparret.be.
I SAGGI DI LEXIA

. Gian Marco D M (a cura di)


Ieri, oggi, domani. Studi sulla previsione nelle scienze umane
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

. Alessandra L
Anime allo specchio. Le mirouer des simples ames di Marguerite Porete
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

. Leonardo C
Soltanto per loro. Un manifesto per l’animalità attraverso la politica e la
filosofia
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

. Jenny P
Lingue angeliche e discorsi fondamentalisti. Alla ricerca di uno stile inter-
pretativo
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

. Gian Marco D M, Antonio S (a cura di)


La TV o l’uomo immaginario
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

. Guido F
Fondamenti di teoria sociosemiotica. La visione “neoclassica”
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

. Piero P
Umberto Eco e il dibattito sull’iconismo
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

. Antonio S
Le radici della televisione intermediale. Comprendere le trasformazioni del
linguaggio della TV
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

. Gianluca C
Resti del senso. Ripensare il mondo a partire dai rifiuti
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro
. Guido F, Antonio S (a cura di)
Uno sguardo più attento. I dispositivi di senso dei testi cinematografici
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

. Massimo L, Isabella P (a cura di)


Semiotica delle soggettività
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

. Roberto M (a cura di)


Writing the city. Scrivere la città Graffitismo, immaginario urbano e Street
Art
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

. Massimo L


Annunciazioni. Percorsi di semiotica della religione
 ----, formato  ×  cm,  tomi,  pagine,  euro

. Antonio S


Sociosemiotica dell’audiovisivo
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

. Mario D P, Alessandro P


La signora del piano di sopra. Struttura semantica di un percorso narrativo
onirico
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

. Jenny P


La narrativa di argomento risorgimentale (–). Tomo . Sistemi di
valori e ruoli tematici. Tomo . Analisi semiotica dei personaggi
 ----, formato  ×  cm,  tomi,  pagine,  euro

. Guido F, Alice G, Gianfranco M, Stefa-


no T (a cura di)
Dire la Natura. Ambiente e significazione
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro

. Massimo L


Signatim. Profili di semiotica della cultura
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro
. Massimo L, Henri  R, Victor I. S
Il sistema del velo / Système du voile.
Trasparenze e opacità nell’arte moderna e contemporanea / Transparence
et opacité dans l’art moderne et contemporain
 ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro
Compilato il  gennaio , ore :
con il sistema tipografico LATEX 2ε

Finito di stampare nel mese di gennaio del 


dalla tipografia «System Graphic S.r.l.»
 Roma – via di Torre Sant’Anastasia, 
per conto della «Aracne editrice int.le S.r.l.» di Ariccia (RM)

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