Sei sulla pagina 1di 429

Lexia 9-10 LEX

9-10 | Lexia
Rivista di semiotica
Journal of semiotics 9-10

Ambiente, ambientamento, ambientazione / Environment, Habitat, Setting


Ambiente, ambientamento, ambientazione
Environment, Habitat, Setting

Che cosa succede allo spazio quando viene solcato dall’incrocio di a-


gentività individuali e collettive? Quali tracce depositano tali pas-
AMBIENTE
saggi e come costituiscono, a loro volta, la memoria implicita del
contatto fra lo spazio e le soggettività? In che modo, poi, questo in- AMBIENTAMENTO
treccio di segni e azioni si orienta verso uno scopo, piegando sia gli
uni che le altre alla persistenza di un essere, ai dettami della sua tra- AMBIENTAZIONE
iettoria? Infine, in che modo gli uomini manipolano i segni per co-
struire il simulacro di uno spazio vissuto, di uno spazio attraversato, ENVIRONMENT
di uno spazio ricordato? Gli articoli raccolti in questo numero mo- HABITAT
nografico di «Lexia» cercano di rispondere a queste domande attra- SETTING
verso una riflessione che costantemente rimbalza fra tre concetti:
quello di ambiente in quanto spazio d’esperienza carico di vestigia
semiotiche; quello di ambientamento come dinamica dell’accordo
fra soggettività e ambiente; e quello di ambientazione come artifi- a cura di
cio che costruisce la parvenza di uno spazio d’esperienza e della sua Massimo Leone
dialettica con le agentività. Vi si espongono le più recenti teorie
dello spazio esperienziale, vi si sottopongono a critica i progetti spa-
ziali che, nelle società contemporanee, cercano di predeterminare il
senso dell’ambiente, vi si investigano gli scenari costruiti nelle città,
nelle rappresentazioni artistiche, in quelle religiose.

In copertina
Una foto del lago Mungo, in Australia, uno dei primi luoghi del pianeta abitati dall'Homo sapiens, ora
deserto.

ISSN 1720-5298
ARACNE

09
ISBN 978-88-548-4516-9

euro 35,00
LEXIA. RIVISTA DI SEMIOTICA

LEXIA. JOURNAL OF SEMIOTICS

–
Lexia
Rivista di semiotica

Direzione / Direction Sede legale / Registered Office


Ugo VOLLI CIRCE “Centro Interdipartimentale
di Ricerche sulla Comunicazione”
Comitato di consulenza scientifica / con sede amministrativa presso
Scientific committee l’Università di Torino
Fernando ANDACHT Dipartimento di Filosofia
Kristian BANKOV via Sant’Ottavio, 20
Pierre–Marie BEAUDE 10124 Torino
Denis BERTRAND Info: massimo.leone@unito.it
Omar CALABRESE
Raúl DORRA Registrazione presso il Tribunale di
Ruggero EUGENI Torino n. 4 del 26 febbraio 2009
Guido FERRARO
José Enrique FINOL Amministrazione e abbonamenti /
Bernard JACKSON Administration and subscriptions
Eric LANDOWSKI
Giovanni MANETTI Aracne editrice S.r.l.
Diego MARCONI via Raffaele Garofalo, 133/A–B
Gianfranco MARRONE 00173 Roma
José Maria PAZ GAGO info@aracneeditrice.it
Isabella PEZZINI Skype Name: aracneeditrice
Marina SBISÀ www.aracneeditrice.it
Frederik STJERNFELT
Peeter TOROP La rivista può essere acquistata nella sezio-
Eero TARASTI ne acquisti del sito www.aracneeditrice.it
Patrizia VIOLI È vietata la riproduzione, anche parziale,
con qualsiasi mezzo effettuata compresa
Redazione / Editor la fotocopia, anche a uso interno o didatti-
co, non autorizzata
Massimo Leone
I edizione: dicembre 2011
Editori associati di questo numero / ISBN 978-88-548-4516-9
Associated editors of this issue ISSN 1720-5298
Pierluigi Cervelli, Alfredo Cid Jurado,
Marco De Marinis, Nicola Dusi, Éder Stampato per conto della Aracne edi-
García Dussán, Armando Fumagalli, trice nel mese di dicembre 2011 presso
Imbert Gerard, Claudio Guerri, Stefa- la tipografia « Ermes. Servizi Editoriali
no Jacoviello, Federico Montanari, Integrati S.r.l. » di Ariccia (RM).
Francesco Mazzucchelli, Fabián Ga-
briel Mossello, Maria Pia Pozzato, Ma- « Lexia » adotta un sistema di doppio
ría Luisa Solís Zepeda, Simona Stano, referaggio anonimo
María Juliana Vélez « Lexia » is a double-blind peer–reviewed
journal
Lexia. Rivista di semiotica, –
Ambiente, ambientamento, ambientazione
Lexia. Journal of Semiotics, –
Environment, Habitat, Setting

a cura di
edited by
Massimo Leone
Indice

 Prefazione / Preface
Massimo Leone

Parte I
Teorie dello spazio esperienziale
Part I
Theories of experiential space

 Spatial Turn: On the Concept of Space in Cultural Geography


and Literary Theory
Ernest W.B. Hess–Lüttich

 Sulla “geologistica” contemporanea


Michel Lussault

 Sentimenti nello spazio predimensionale. Riflessioni atmosfe-


rologiche
Tonino Griffero

 Orientarsi e agire nel mondo. Il senso come grandezza vetto-


riale
Gaetano Chiurazzi

Parte II
Critiche di spazi esperienziali
Part II
Criticisms of experiential spaces

 “È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni. Ana-


lisi del caso cileno
Patrizia Violi


 Indice

 Retoriche spaziali e retoriche organizzative. L’organizzazione


come teatro biopolitico
Giovanni Leghissa

 Wall–E, il Robinson Crusoe del futuro di Ballard e il jogger


suicida di Baudrillard. Tre possibili abitanti dell’odierno mon-
do–spazzatura
Gianluca Cuozzo

Parte III
Spazi esperienziali urbani

Part III
Urban experiential spaces

 L’ambientazione come pratica di lettura dell’ambiente. Il caso


di Porta Palazzo a Torino
Simona Stano

 Il cerchio nello spazio. Ipotesi e strumenti per un’analisi della


ri–significazione dei luoghi
Carlo Genova

 Préstamos territoriales en el hábitat del transeúnte


Éder García–Dussán

 Ciudades del cine


Mabel Tassara

 La ciudad de los espacios invisibles. Una reflexión sobre esce-


narios alternativos en la metrópolis de Buenos Aires a través
del un discurso de no–ficción
Fabián Gabriel Mossello
Indice 

Parte IV
Gli spazi esperienziali della performance

Part IV
Performance experiential spaces

 A Proposal for a Semiotic Theory of Performing Arts


Eero Tarasti

 Immagini e voci a teatro. Percorsi diversi e obiettivi comuni


Stefano Carlucci

Parte V
Spazi esperienziali religiosi

Part V
Religious experiential spaces

 Lo spazio sacro della Torah ovvero il topismo ebraico


Ugo Volli

 Des Hommes et des Dieux. Di un film e della sua preghiera


Alessandra Luciano

 Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose


Massimo Leone

Parte VI
Recensioni

Part VI
Reviews

 Márta Grabócz, Musique, narrativité, signification. L’Harmat-


tan, Parigi, ,  pp.
Andrea Valle

 Lorenzo Bianciardi, Il sapore di un film. Protagon Editori, Siena


,  pp.
Simona Stano
 Indice

 Note biografiche degli autori / Authors’ Bionotes

 Call for papers. Semiotica della protesta

 Call for papers. The Semiotics of Protest


Lexia. Rivista di semiotica, 9–10
Ambiente, ambientamento, ambientazione
ISBN 978-88-548-4516-9
DOI 10.4399/97888548451691
pag. 9–20 (dicembre 2011)

Prefazione / Preface
M L

Questo numero di Lexia, che in parte raccoglie, rielaborati, i materiali


del seminario dottorale in semiotica dell’Università di Torino (“Incon-
tri sul Senso” –), propone una riflessione in tre movimenti sul
connubio fra spazio ed esperienza.
Il primo movimento (“Ambiente”) s’interroga sulla presenza di tale
concetto nelle lingue naturali; sulle strutture fenomenologiche che
gli corrispondono; sulla possibilità di analizzarle in termini semiotici;
sulle dinamiche semiotiche attraverso cui costruiamo un ambiente, lo
identifichiamo, lo trasformiamo; sul modo in cui le diverse culture
e società elaborano il concetto di “ambiente naturale”, effettuando
differenti operazioni semantiche; sulle narrazioni “dell’ambiente na-
turale” che prevalgono nella nostra epoca, e in altre epoche storiche;
sul rapporto che corre fra i concetti di ambiente, spazio, luogo, posto,
situazione, etc.
Il secondo movimento (“Ambientamento”) esplora i processi semio-
tici attraverso cui un ambiente ci diviene familiare, ovvero ci risulta
sconosciuto o persino ostile; le pratiche d’ambientamento degli esseri
umani; differenze e similarità tra ambientamento individuale e collet-
tivo; le dinamiche sensorie, percettive, fenomenologiche, narrative,
semantiche attraverso cui si procede all’ambientamento.
Infine, il terzo movimento (“Ambientazione”) parte dalla conce-
zione che, dal punto di vista della semiotica, non esistono ambienti
“naturali”. I diversi ambienti possono essere collocati lungo un conti-
nuum, a seconda della misura in cui processi semiosici di vario tipo
intervengono nell’individuazione e nella delineazione di un ambiente.
Questo terzo movimento investiga le creazioni di ambienti in cui tale
misura sia particolarmente notevole, come ad esempio nei cosiddetti
“ambienti di finzione”: le strategie narrative, enunciazionali, figura-
tive, iconiche, etc. attraverso cui si costruisce l’ambientazione di un


 Massimo Leone

romanzo, di un film, di un dipinto, di una fiction televisiva, di un


videogioco, etc.; ma anche l’impatto delle nuove tecnologie digitali
nella costruzione di ambientazioni; il modo in cui le ambientazioni
“finzionali” utilizzano gli ambienti “naturali”, e quello in cui invece li
trasformano; la differenza fra l’ambientarsi negli ambienti “naturali” e
in quelli di finzione, con la prospettiva di sviluppare un’“etologia della
narrazione”.
Come era prevedibile, questi tre movimenti non possono essere
isolati se non nella teoresi astratta, e difatti gli articoli della raccolta, sia
quelli di impianto più concettuale, sia quelli di ambizione più analitica,
continuamente intrecciano le tre dimensioni della presenza dello spa-
zio esperienziale (l’ambiente), della sua esplorazione (l’ambientamen-
to) e della sua costituzione attraverso il linguaggio (l’ambientazione).
Gli articoli sono dunque divisi in cinque sezioni tematiche.
Nella prima (“Teorie dello spazio d’esperienza”), di taglio fortemen-
te interdisciplinare, si espongono ed esaminano alcune fra le teorie
più recenti dello spazio “sensato” o spazio d’esperienza.
In particolare, l’articolo di Ernest W.B. Hess–Lüttich genera e
mette a frutto una tensione tra il concetto di spazio come ambiente
geografico e quello di testo come ambiente letterario. Nella fattispecie,
l’articolo si concentra sul modo in cui la metafora del “testo come
spazio” conduce a considerazioni narratologiche, che hanno influen-
zato in anni recenti le teorie del testo (estetico). Ad esempio, le svolte
linguistica, iconica, culturale, fino a quella spaziale hanno portato
a concetti quali la cartografia letteraria, la mappatura, la topografia
letteraria, etc. Sebbene questi termini tecnici siano adottati da altre
discipline, nelle quali operano in reti terminologiche alquanto diffe-
renti, essi cominciano a essere differenziati in vari modi, per esempio
con riferimento alle rappresentazioni tecniche e culturali dello spazio
(la svolta topografica) o alla descrizione dello spazio letterario o delle
strutture spaziali negli oggetti estetici (svolta topologica). L’artico-
lo traccia lo sviluppo di questa serie di approcci sullo sfondo delle
scienze della terra (specialmente quella delle geo–sfere) e riassume i
cambiamenti della nozione di spazio dalla geografia tradizionale all’at-
tuale antropologia socio–culturale. Lo spazio come concetto letterario
viene confrontato con l’uso del termine nel suo contesto originale e
con le conseguenze della “svolta spaziale” nell’attuale dibattito nella
teoria della letteratura. Il tentativo è quello di abbozzare una nuova
Prefazione / Preface 

comprensione del testo come codice spaziale culturalmente specifico.


La comparazione fra le nozioni di spazio nella geografia culturale e
quelle della teoria letteraria consentono anche un commento critico
a certi approcci utili per fare del “letteraturismo” ma non sufficienti
per l’integrazione semiotica delle relazioni topologiche nel concetto
lotmaniano di testo, che consente ai testi letterari di essere letti co-
me media di auto–interpretazione e modelli simbolici di percezione
spaziale.
L’articolo di Michel Lussault delinea i principi fondamentali di
una geografia culturale degli spazi d’esperienza, che si traduce nella
disciplina che l’autore, con un neologismo, denomina “geologistica”.
Punto di partenza dell’articolo è l’impossibilità, per due corpi fisici, di
occupare lo stesso punto dello spazio nello stesso istante temporale.
Da tale impossibilità scaturisce l’insieme delle operazioni attraverso
cui gli individui e i gruppi cercano di attribuire una forma sociale alla
separazione fra enti, e dunque alla gestione della spazialità. L’articolo
individua e definisce cinque competenze elementari della spazialità: il
controllo metrico, che consiste nel gestire la distanza fra gli individui,
così come quella fra gli individui e gli oggetti (una competenza a sua
volta articolabile in topografica e topologica, a seconda che essa regoli
le relazioni di contiguità fisica ovvero quelle di accesso mediato, come
nelle reti di telecomunicazioni); la competenza di posizionamento
e di aggiustamento, che si realizza nel determinare di volta in vol-
ta il posizionamento ideale degli individui e degli oggetti, con una
serie continua di operazioni su diversa scala che impiegano quoti-
dianamente gran parte delle energie degli operatori; la competenza
scalare, che consiste nella capacità di cogliere il rapporto fra diverse
dimensioni della spazialità, così come degli individui, degli oggetti,
e dei fenomeni che vi si situano; la competenza di articolazione e di
delimitazione, che dà luogo alla capacità di determinare diversi tipi
di confini spaziali, obbedendo a un principio il cui sviluppo l’autore
delinea anche con una digressione storica, dalla lottizzazione fondiaria
alla digitalizzazione di Google Earth, passando per le tecniche urba-
nistiche di zoning; infine, la competenza di attraversamento, la quale
risulta dagli effetti di quella di delimitazione, e consiste nel possedere
le capacità necessarie per varcare le soglie, i filtri, i limiti, e le frontiere
che continuamente parcellizzano la spazialità. Il continuo esercizio
di queste cinque competenze elementari configura la geologistica, la
 Massimo Leone

quale non interessa solo la logistica tradizionalmente intesa, che non


ne è che una manifestazione, bensì ogni attività di gestione dell’am-
biente spaziale, a inclusione di quello sforzo geologistico individuale
che le società contemporanee demandano sempre più ai singoli. Il
punto di vista della geologistica consente altresì di formulare alcune
ipotesi sull’evoluzione delle culture contemporanee degli spazi d’espe-
rienza, attualmente dominate da quei principi che l’autore denomina
mobilità, co–spazialità, conflitto spaziale, separazione e limitazione,
filtraggio e tracciabilità. L’articolo si chiude con un accorato invito
a sostituire un’esperienza geologistica dello spazio, tutta votata allo
sviluppo della massima efficienza spaziale, con quella di una spazialità
vissuta invece sotto il segno della philia, o dell’agapè, dell’accoglienza
e della conciliazione.
L’articolo di Tonino Griffero risponde alla questione dell’ambien-
tamento, dell’esplorazione esperienziale dello spazio, attraverso la
delineazione di una teoria estetica e ontologica delle atmosfere co-
me semi–entità (quasi–cose), soprattutto con riferimento alla New
Phenomenology di Hermann Schmitz e all’Aistethik di Gernot Böhme.
Secondo questa prospettiva, il mondo si mostra non come neutro rea-
me di entità ma in prima istanza come campo atmosferico percepito
da un corpo senziente o sentito. In questo senso, le atmosfere diven-
gono manifeste alla persona come forze quasi–corporee nello spazio
pre–dimensionale della vita quotidiana. Non sono qualità soggettive
che si proiettano nell’ambiente ma qualia emozionali comparativi e
indipendenti dalla mente, che ci mettono a confronto con “affordance”
sinestesiche (la loro radianza negli intorni) ed esistono nello spazio
pubblico, non nella mente di un individuo. Questa quasi–oggettività
delle atmosfere prova la nostra passività esistenziale ed ecologica, ov-
verosia il fatto che noi non siamo (anche dal punto di vista emozionale)
“padroni in casa nostra”.
Diversa, ma comparabile, è invece la risposta suggerita da Gaetano
Chiurazzi, il quale configura l’ambientamento come rapporto con
un senso inteso come forza dinamica, come grandezza vettoriale. La
concezione esposta nell’articolo è dunque alternativa sia al paradigma
oggettuale del senso (Platone, Frege), sia a quello strutturale (strut-
turalismo). Il senso produce un’orientazione nel nostro campo di
esistenza, volgendo l’ambiente in cui viviamo in un mondo. Esso può
dunque essere concepito come un “vettore”, una magnitudine definita
Prefazione / Preface 

da un’intensione (ciò che è compreso), un’orientazione (una particola-


re disposizione), una direzione, e un elemento applicativo (un oggetto
e/o un effetto pratico). Da un punto di vista storiografico, si possono
trovare alcuni elementi di tale concezione del senso nell’ermeneutica
filosofica, che produce una ridefinizione del concetto husserliano d’in-
tenzionalità in termini più chiaramente energetici e pragmatici. Essa
presuppone, da un lato, la critica al concetto cartesiano del mondo co-
me mera estensione (come magnitudine geometrica) e, dall’altro lato,
il rinnovo della concezione leibniziana delle forme o forze sostanziali,
le quali introducono una dimensione dinamica nel mondo. È poi un’in-
novazione teoretica di Heidegger quella di introdurre queste “forme”
nella concezione del mondo, che così diventa uno spazio semantico e
non uno matematico. Il mondo è l’habitat del Dasein: il verbo habitare
è scelto da Heidegger per indicare l’esistenza, l’essere–nel–mondo
fattualmente, ma si riferisce anche ad aspetti pratici (attraverso altri
derivati di habeo, come habitus, che significa una modalità di compor-
tamento indotta da una disposizione, una certa orientazione rispetto al
mondo). In tal modo, il senso apre la spazialità geometrica del mondo
al tempo, perché solo gli esseri, i quali comprendono l’antecedente e
il conseguente, il segno e il significato, o che, generalmente parlando,
hanno segni, hanno anche una comprensione del tempo, e solo così
possono fare progetti e anticipare il futuro, ovvero orientare la loro
vita.
La seconda sezione tematica (“Critiche di spazi esperienziali”) adot-
ta invece gli strumenti dell’analisi semiotica e di altre discipline del
senso al fine di sottoporre a vaglio e critica determinati spazi esperien-
ziali ove si riflettono, in diversi modi, le tensioni socio–politiche delle
culture contemporanee.
In particolare, l’articolo di Patrizia Violi si concentra sul modo in
cui gli ambienti si caricano di tracce di esperienze passate, e dunque
su quello in cui il discorso memoriale possa far rivivere tali tracce,
attraverso opportuni procedimenti semiotici, allo scopo di trasforma-
re gli ambienti in “macchine della memoria”. L’articolo si prefigge
dunque di analizzare la relazione fra memoria e ambiente; nello speci-
fico, di osservare come, in circostanze determinate, i luoghi possano
funzionare in quanto “dispositivi mnemonici” per evocare certi eventi
che vi sono accaduti. Affinché ciò avvenga, è necessario che le tracce
degli eventi passati siano interpretate e “semiotizzate” attraverso una
 Massimo Leone

pratica enunciativa che traduce tali tracce latenti in segni attivi. In


questo modo, i luoghi possono rendere esplicita la natura indessicale
e causale del legame fra il luogo in questione e gli eventi passati. È
giustappunto questo il dispositivo mnemonico che caratterizza i si-
ti di memoria che sono stati recuperati a partire da luoghi storici di
imprigionamento, tortura, e morte, cui si è dunque conferito uno
specifico senso e valore testimoniale. L’articolo adotta quale caso di
studio la trasformazione di alcuni luoghi di memoria di questo genere
nel Cile, istituiti dopo la fine della dittatura di Pinochet, e analizza la
relazione tra i luoghi stessi e la più vasta questione delle politiche della
memoria nelle società post–conflittuali, con l’obbiettivo di suggerire
un uso di questi luoghi che vada al di là della mera funzione memoria-
le, aprendo così la possibilità di un utilizzo più dinamico, teso verso
un futuro di rielaborazione piuttosto che ancorato unicamente a un
passato traumatico.
L’articolo di Giovanni Leghissa punta invece a una declinazione
della filosofia degli spazi d’esperienza portando uno sguardo critico
sulle griglie di ambientamento imposte dalla concezione dello spazio
dell’ideologia organizzativa neo–liberista. Lo spazio dell’organizzazio-
ne è definito in quanto scenario, vale a dire in quanto complesso di
spazi costruiti la cui funzione è di sollecitare una serie specifica di pat-
tern comportamentali all’interno dell’organizzazione stessa. Questa
definizione si prefigge di dar conto di come la cultura organizzativa
sia incastonata non solo all’interno delle interazioni sociali che hanno
luogo nell’organizzazione, ma anche all’interno degli spazi organiz-
zativi condivisi che forniscono il quadro per tali interazioni. Inoltre,
tale impostazione consente una migliore comprensione del modo in
cui strutture di controllo specifiche operano all’interno dell’organiz-
zazione. Una breve rassegna degli obbiettivi perseguiti dal Büro für
die Schönheit der Arbeit durante la Germania nazista fornisce numero-
se prove storiche di come l’intreccio fra pattern simbolici e culturali
condivisi da un’organizzazione e dalla sede fisica dell’organizzazione
stessa non sia un fenomeno recente. Ma la parte principale dell’ar-
ticolo si concentra sul presente, principalmente sull’espansione di
modalità neoliberali di gestione dei processi lavorativi. Parallelamente
all’organizzazione contemporanea, flessibile e orientata al progetto, lo
spazio delle organizzazioni va incontro a profondi cambiamenti. Da
un lato, il confine tra posto di lavoro e ciò che, fino a tempi recenti, è
Prefazione / Preface 

stato considerato esterno ad esso è sul punto di svanire; dall’altro, l’in-


vestimento simbolico dello spazio organizzativo si accresce a tal punto
che diviene sempre più difficile dissociare il suo dislocamento dalle
strategie biopolitiche che caratterizzano ogni formazione sociale.
Una critica della concezione contemporanea dell’ambiente, inteso
come spazio vitale ove l’energia delle attività umane inesorabilmente
si volge in deposito di rifiuti, si coglie anche nell’articolo di Gianlu-
ca Cuozzo. In particolare, l’articolo enfatizza la responsabilità della
filosofia di immergersi in un mondo come quello attuale, sempre più
pervaso da scorie e rifiuti, e denuncia, in chiave filosofica, il patto scel-
lerato siglato fra la produzione di beni usa e getta, la manipolazione
tecnica sempre più potente della realtà, e il paesaggio infernale delle
discariche urbane nelle società dei consumi; un patto che, in una visio-
ne apocalittica sempre più suffragata da dati, rischia di trasformare il
pianeta in una Gomorra invasa da asfalto, rovine, e rifiuti. Il lavoro del
filosofo, un po’ come quello del detective, si applica dunque a trac-
ciare le peculiarità del nesso fra beni di consumo e rifiuti, attraverso
diversi campi del sapere: la letteratura e il linguaggio della pubblicità,
la filosofia e i serial TV, la poesia e la moda. Quale “Sherlock Hol-
mes” dell’obsolescenza, il filosofo deve perseguire le poche strategie
di sopravvivenza rimaste in un universo sopraffatto dai suoi stessi
rifiuti. L’articolo si conclude con l’analisi di alcune profezie degli spazi
d’esperienza futuri, attingendo all’immaginazione distopica di Ballard,
alla speculazione apocalittica di Baudrillard, e alla favola malinconica
di Wall–E.
La terza sezione (“Spazi esperienziali urbani”) contiene artico-
li che, da prospettive differenti, si occupano dell’intreccio di am-
bienti, ambientamenti, e ambientazioni negli spazi per antonomasia
dell’esperienza contemporanea, vale a dire quelli urbani.
In particolare, l’articolo di Simona Stano si concentra su Porta
Palazzo, un’area di Torino che, sia pure non rappresentando un quar-
tiere o un distretto in termini amministrativi, e sebbene caratterizzata
da un tessuto urbano profondamente eterogeneo, così come da una
popolazione molto diversificata, viene percepita dalla maggior parte
degli abitanti della città come un’area unitaria. L’articolo s’interroga
a proposito degli elementi che rendono possibile l’assorbimento di
tale diversità e frammentazione in un’immagine uniforme; ovvero,
in termini semiotici, sulle isotopie che consentono di percepire il te-
 Massimo Leone

sto urbano di Porta Palazzo come omogeneo e distinto dal proprio


contesto. L’articolo risponde a tale interrogativo attraverso l’analisi
di alcune delle rappresentazioni finzionali più note (ambientazione)
di Porta Palazzo (ambiente) e delle pratiche adattive di individui e co-
munità che vi si sono insediati nel corso del tempo (ambientamento).
Infine, l’articolo propone alcune considerazioni sulla discrepanza tra il
livello urbano e amministrativo, da un lato, e quello dell’immaginario
e della significazione, dall’altro.
L’articolo di Carlo Genova espone una teoria dell’ambientamento
sotto forma di ipotesi sulle modalità di risignificazione degli spazi,
con particolare attenzione a quelli urbani. Molta parte dello spazio
della vita quotidiana è organizzata, nella rappresentazione che se ne
danno gli individui, in “luoghi”. L’articolo definisce i luoghi come una
parte dello spazio cui sia stato assegnato un significato. Tuttavia, la
connessione fra un luogo e un significato (così come avviene per ogni
oggetto e il suo significato) dipende dall’atto di attribuzione, che non
è peculiare del luogo in questione. Di conseguenza, da una parte per-
sone differenti possono assegnare significati distinti allo stesso luogo,
mentre dall’altro lo stesso individuo può assegnare significati differenti
allo stesso luogo in momenti diversi. In entrambi i casi, avviene un
processo di ri–significazione. L’articolo analizza processi e dialetti-
che di ri–significazione con riferimento a quattro concetti centrali:
situation definition (Thomas), typification (Schutz), frame (Goffman), e
marker (MacCannell). L’ipotesi è che ogni processo di ri–significazione
di un luogo possa essere inteso come una nuova definizione di situa-
zione, basata sull’identificazione del luogo come esemplare di un tipo,
muovendo dall’identificazione dei markers che indicano il quadro di
riferimento, con un consequente re–inquadramento di azioni e regole
connesse con quel luogo. Conflitti e incomprensioni tra persone diffe-
renti a proposito delle regole sociali da adottare in un luogo possono
essere conseguentemente interpretate come strategie per identificare
o definire un quadro specifico per il luogo.
Concentrandosi sull’esperienza del viaggio attraverso lo spazio
urbano e sui significati che tale viaggio genera, l’articolo di Éder Gar-
cía–Dussán propone un’analisi di alcuni elementi simbolici chiave del
dialetto urbano attraverso cui gli abitanti di Bogotà concepiscono e
comunicano le loro esperienze con la dimensione fisica della metropo-
li. L’analisi consente di comprendere come Bogotá, sin dal suo inizio
Prefazione / Preface 

storico, sia stata immaginata e simboleggiata da una complessa miscel-


lanea di città famose del mondo occidentale, riflessa nella molteplicità
delle sue architetture come nella denominazione dei quartieri. L’arti-
colo formula l’ipotesi che questa dinamica sia sostenuta dal desiderio
imperioso di costituire un ambiente di coesistenza più universale e
distributivo, in una città ancora dominata dalle caste e dall’esclusione
dei diversi.
L’articolo di Mabel Tassara parte dal presupposto che l’ambiente,
in quanto effetto diegetico, sia una costruzione discorsiva che, come
tutti gli altri significati veicolati dai film, riflette una focalizzazione
stilistica, nella quale si inscrive la costruzione globale del testo filmi-
co, e alla quale questa si connette attraverso operazioni semiotiche
specifiche. Lo stile così come è implementato nel cosiddetto “film
classico” tende a nascondere i processi attraverso cui tale spazio è
costruito, allestendo il riferimento attraverso risorse filmiche che sono
storicamente connesse con il realismo (per esempio, l’uso della catali-
si che si concentra prevalentemente nel rafforzare l’effetto di realtà
della scenografia). Il “cinema classico” dispiega dunque la tensione
tra il referenziale e il poetico con equilibrio senza pari; fa credere agli
spettatori di enfatizzare il riferimento mentre, con discreta eleganza,
trasmette il suo contenuto poetico. Così, nella finzione, cerca di con-
vincere che l’habitat è solo il supporto in cui le storie e i personaggi
sono situati. Altri stili, tuttavia, come quello precipuamente analizzato
dall’articolo, mostrano più apertamente i forti legami che connetto-
no i personaggi e gli spazi, spazi che non sono più intesi solo come
fisici, ma che espongono anche pienamente la propria ambiguità e le
proprie connessioni con gli spazi mentali, quelli della memoria, del
sogno, e della fantasia.
L’articolo di Fabián Gabriel Mossello si concentra sulla dialettica
semiotica che s’instaura tra l’ambiente cittadino, in particolare quello
della metropoli di Buenos Aires, e l’immagine di questo ambiente che
una serie di programmi televisivi restituisce in quanto ambientazio-
ne delle storie narrate. Nello specifico, l’articolo analizza la serie di
documentari “unitari” (ovverosia narrativamente conclusi nell’arco
di una puntata) intitolata Ser Urbano, il cui effetto di senso sarebbe
proprio quello di svelare, nell’ambientazione urbana della narrazione
televisiva, una delle contraddizioni fondamentali della globalizzazione
metropolitana, vale a dire lo scivolare verso lo statuto di “non luogo”
 Massimo Leone

di tutta una serie di marginalità, i cui abitanti non solo occupano spazi
urbani invisibili, ma diventano essi stessi invisibili occupandoli. Lo
sguardo della narrazione televisiva s’insinua dunque in tali ambienti
trasformandoli in ambientazioni, ma anche permettendo una nuova
prospettiva sui non luoghi invisibili della marginalità urbana.
La quarta sezione (“Gli spazi esperienziali della performance”) si
concentra soprattutto sulla costruzione di spazi d’esperienza nel caso
delle ambientazioni teatrali e musicali.
In particolare, nel proporre una teoria semiotica generale della
performance sulla base della semiotica esistenziale, l’articolo di Eero
Tarasti si sofferma soprattutto sulla performance che accompagna
l’esecuzione musicale; con dovizia di esempi, riferimenti teorici, e
aneddoti personali l’articolo esplora il modo in cui i gesti del per-
former, così come gli altri elementi semiotici che ne compongono
l’azione, congiuntamente con quelli che sostanziano invece la ricezio-
ne della performance stessa, costituiscono un’ambientazione per la
produzione e la ricezione di senso, così come un ambiente in cui la
circolazione di senso musicale e più in generale di senso spettacolare
acquisiscono il valore di dialogo fra diverse istanze esistenziali.
L’articolo di Stefano Carlucci muove dalla definizione del teatro
come coesistenza temporanea di uno spazio reale/oggettivo e di uno
soggettivo/realistico. In linea con questa definizione, l’evento teatrale
viene a essere ipoteticamente descritto come campo di battaglia nel
quale si scontrano due opposte fazioni. In questa battaglia, la linea
del fuoco è rappresentata dal sipario, una membrana drammatica per-
meabile attraverso cui le due fazioni/i due universi comunicano. Di
conseguenza, è vantaggioso che gli spettatori attivino un processo di
“comprensione rispondente” al fine di facilitare il composito scambio
linguistico che ci si aspetta vada al di là della mera comunicazione
e generi un dialogo in cooperazione con l’altro lato del sipario. L’ar-
ticolo esamina dunque due differenti tentativi congegnati al fine di
implementare questo processo di collaborazione; due tradizioni tea-
trali differenti ma contemporanee che si sono sviluppate in Europa
nella seconda metà del sedicesimo secolo: da un lato, la pratica teatrale
diffusa quasi dappertutto nel Regno Unito sotto Elisabetta I; dall’altro
lato, il variegato insieme di teatri e rappresentazioni accademicamente
e classicamente orientati che affollavano la penisola italiana, divisa,
nello stesso periodo, in numerose realtà politiche.
Prefazione / Preface 

Infine, la quinta sezione (“Spazi esperienziali religiosi”) ruota in-


torno al modo in cui diverse culture religiose allestiscono i propri
ambienti.
In particolare, l’articolo di Ugo Volli contiene una parte generale e
una specifica, fra esse in dialogo. Nella prima si argomenta come la se-
miotica possa interessarsi dello spazio non in quanto pura estensione
ma in quanto forma di relazioni, ovverosia come ambiente già perva-
so da determinazioni biologiche e condizionamenti culturali. Nella
seconda si esplora sia il senso della spazialità nella fenomenologia del
religioso, e in particolare del sacro, sia l’articolazione di tale spazialità
nella cultura ebraica. Con movimento dall’astratto al concreto si de-
signano i tratti salienti con cui tale cultura configura la spazialità del
divino (un ambiente in cui si conferisce ordine non solo allo spazio
fisico ma anche a quello concettuale, a inclusione del tempo), dap-
prima attraverso una schematica della creazione (con riferimento al
discorso spaziale della kabbalah e dei suoi esegeti), poi attraverso una
topologia della dialettica fra potere del centro e necessità dell’erran-
za (con riferimento da un lato alla morfologia del tempio, dall’altro
alla morfodinamica dell’esodo), infine con una conclusione genera-
lizzante, che individua nel topismo, più che nell’utopia, il carattere
precipuo della fenomenologia spaziale ebraica, le cui regolarità sono
poi mirabilmente riassunte per punti alla fine del contributo.
L’articolo di Alessandra Luciano analizza l’ambientazione del film
Des hommes et des dieux, diretto da Xavier Beauvois nel , al fine di
cogliere, attraverso un’analisi semiotica d’ispirazione greimasiana, il
modo in cui i molteplici elementi che intessono la superficie significan-
te del film contribuiscono a figurarne le isotopie profonde, delineando
e rivelando al tempo stesso il messaggio ultimo del testo. In partico-
lare, l’articolo si sofferma sul gioco di rimandi metaforici che i canti
di preghiera dei monaci protagonisti del film intessono tutt’intorno
alla loro vicenda, offrendone in filigrana una chiave interpretativa; al
tempo stesso, l’articolo decifra sottilmente le gradazioni di luce e le
sfumature di colore nel loro dipingere il passaggio e il contrasto fra
l’ambiente interno della preghiera e quello esterno del mondo; infine,
l’articolo non trascura un ulteriore contrasto semi–simbolico, quello
che oppone il delicato universo acustico del monastero alla rumorosa
ferocia armata tanto del fondamentalismo islamico quanto del potere
militare. Ne emerge con forza la capacità del testo filmico di volgersi
 Massimo Leone

esso stesso in preghiera, in accorato appello a non abbandonare la


sfida del dialogo religioso sia pure di fronte all’evidenza del male.
Infine, l’articolo di Massimo Leone analizza la fenomenologia e la
semiotica dell’ambientazione caratteristica delle processioni religiose.
Da un lato, questi rituali riescono a congregare diverse agentività indi-
viduali, aiutandole così a obliare la frontiera tra l’ambiente sacro del
luogo di culto e l’ambiente profano che lo circonda. Di conseguen-
za, nelle processioni religiose i soggetti esperiscono un allargamento
dell’ambiente del sacro che li incoraggia a credere nella sua onnipre-
senza, nella credenza rassicurante che la loro intera esistenza abbia
luogo (letteralmente e metaforicamente) sotto la protezione della
trascendenza. Dall’altro lato, “incidenti” causati dalla persistenza del-
le agentività individuali all’interno di quella collettiva “minacciano”
costantemente l’efficacia simbolica delle processioni religiose: il ten-
tativo di espansione dell’ambiente sacro in quello profano dà come
risultato un’espansione simmetrica dell’ultimo nel primo. L’agentivi-
tà collettiva dei rituali si disintegra nelle agentività individuali delle
routine fino al punto che i soggetti non soltanto non credono più
che la trascendenza estenda la sua protezione anche sopra l’ambiente
profano ma, al contrario, temono che tale protezione sia fragile al-
tresì nell’ambiente sacro. I rituali non solo si volgono in routine ma
collassano nel ri–emergere dell’insicurezza di una transizione. L’ac-
climatazione e la tolleranza divengono invasione ed esilio. Il profano
invade il sacro, lo contamina, e il credente si sente esiliato persino
nell’ambiente protetto del luogo di culto.

Massimo Leone
Università di Torino
P I

TEORIE DELLO SPAZIO ESPERIENZIALE


PART I
THEORIES OF EXPERIENTIAL SPACE
Lexia. Rivista di semiotica, 9–10
Ambiente, ambientamento, ambientazione
ISBN 978-88-548-4516-9
DOI 10.4399/97888548451691
pag. 23–42 (dicembre 2011)

Spatial Turn: On the Concept of Space


in Cultural Geography and Literary Theory
E W.B. H–L

 : La svolta spaziale: sul concetto di spazio nella geografia culturale e
nella teoria letteraria

: The metaphor of “text as space” leads to narratological considera-


tions, which have influenced theories of (aesthetic) text in recent years.
So was the linguistic turn, iconic turn, cultural turn followed by the spa-
tial turn, which led to concepts such as literary cartography, mapping,
literary topography, etc. While these technical terms are adopted from
other disciplines in which they operate in quite different terminological
networks, they begin to be differentiated in various ways, e.g., by referring
to technical and cultural representations of space (topographical turn) or
to the description of literary space or spatial structures in aesthetic objects
(topological turn). There has been a tradition of such approaches since
the th century (from Lessing to Cassirer and Dürckheim to Bollnow and
Bronfen), most of which are of a subject–oriented or phenomenological
nature. Jurij M. Lotman, however, understands symbolic space in literature
as a result of culturally specific uses of signs. He sees an analogous relation-
ship between texts (as abstract models of reality) and the “world view”
(Wilhelm v. Humboldts “Weltbild”) within a given culture. Thereby he ap-
plies his semantic model of space to a pragmatic context of cultural history
(Alfred Schütz). The paper follows the development of this approach back
to its roots in earth sciences (especially geo–spheres) and summarizes
the changes of the notion of space from traditional geography to current
socio–cultural anthropology. This includes looking at its metaphorical
application to other spheres of knowledge (Pierre Bourdieu). Space as
a literary concept is confronted with the use of the term in its original
context and the consequences of the “spatial turn” in the current debate
in literary theory. It is attempted to sketch a new understanding of text as
a culture–specific code for space. The comparison between the notions
of space in cultural geography and literary theory allows also a critical
comment on some approaches that may be useful for “literatourism” but
do not suffice for the semiotic integration of topological relations into
Lotman’s concept of text, which allows literary texts to be read as media


 Ernest W.B. Hess–Lüttich

of cultural self–interpretation and symbolic models of spatial perception.


This becomes relevant e.g. in intercultural studies.

: Text space; spacial turn; literary theory; cultural geography;


topographical turn; topological turn; literary geography.

. Introduction and overview

The popularly used metaphor of “text as space” raises questions in


relation to narratology and scientific approaches to textual analysis.
So it was that after numerous linguistic turns, iconic turns, cultural
turns, etc., the consistent spatial turn followed — a term the impact
of which can also be seen in the field of literature based on the in-
creasing popularity of such vogue terms as “literary cartography”,
“mapping”, “literary topography”, “heterotopes of literature”, etc. In
literary theory the discussion about terminology so far appears still
more attractive than the actual application of textual analysis of given
literary texts. While representative concepts from other disciplines,
which occur in completely different terminological frameworks, are
being heedlessly adopted into literary theory, all kinds of eddies and
undercurrents are already emerging. For instance, those terms that
especially address the technical and cultural representation schemes
of spatiality (e.g., topographical turn), and that are not to be confused
with efforts that concentrate on describing literary spaces and spatial
structures in aesthetic products (e.g., topological turn).
As is not surprising for our profession, such attempts naturally
make for many forerunners in the field (running from Lessing th-
rough Karlfried v. Dürckheim and Ernst Cassirer to Otto F. Bollnow
and Elisabeth Bronfen, to name an exemplary few). Contrary to such
subject–centred, primarily phenomenological approaches, Jurij M.
Lotman already regards the symbolic space of literature as a result of
a culturally specific usage of signs. Lotman perceives this by seeing an
analogous relationship between the narrative text as an abstract model
of reality and the respective “world view” of a given culture. He then
carries over his semantic model of space into a pragmatic, i.e., into a
cultural and historical context.
My contribution follows this discussion, however pursuing it beyond
the disciplinary borders as far as its origins within the space–oriented
Spatial Turn: On the Concept of Space 

earth sciences and summarily recaps the changes of the notion of


space from traditional geography up to the contemporary cultural
geography. Spatialisation of social circumstances (and their visuali-
sation) and the (often metaphorical) transmission of this approach
to other areas of knowledge (as in Bourdieu’s “effets de lieu” as an
example for a “space trap”) also appertain. The occupation of literary
sciences with space is then confronted with space concepts from earth
sciences and the roots of this interest in the th century as well as its
later continuance in the phenomenologically and then semiotically
shaped approaches up to the consequences of the so–called spatial
turn in the contemporary debate of literary theory are carved out.
In the attempt of a synthesis possible points of contact between
literary (respectively literary and textual theoretical) and culture geo-
graphical space concepts shall be probed and (in recourse to Foucault’s
“histoire d’espace”) the premises for a contemporary understanding
of “space” under the sign of the balance of tension of globalisation and
regionalisation, of non–located medial networks and local assertion
of identity profiled in order to finally expose literary texts as media of
cultural specific codes and symbolisations of “space”.
The resumptive comparison of culture geographical and literary
theoretical conceptualisations of spatial relations also ensures the base
for a critical reflection of numerous contemporary efforts, which
occasionally may be suitable for “literatouristical illustration”, but
are far from always sufficing the theoretical demands, which they
formulate themselves. In contrast, the recognitional potential of a
cooperation between culture geographical and literary topographies
seems hitherto to have been exhausted just as little as that of a se-
miotic integration of topological relations in (literary) texts as model
shaping systems (in the sense of Jurij Lotman), which reference the
world view of a respective culture as abstract (aesthetic) models of
reality. Insofar as literary texts can be read as media of culture–specific
self–interpretation and as testimonies of altered (and changeable) per-
ceptions of space, the interest in literary spaces also gains in relevance
for a topical conceptualisation, for instance, of intercultural German
studies .

. For her help in acquiring materials in the framework of her project I would like to
thank lic. phil. Anna Germann (University of Bern); for his critical reading from a natural
 Ernest W.B. Hess–Lüttich

. Origins of the spatial turn

While on the hunt for the origins of the term spatial turn, I came
across a book by Edward W. Soja with the title Postmodern Geographies
that appeared in , published by Verso, in which the American
geographer and social critic attempts to replace the paradigm of time
with one of space. He argues that our current environment is not just a
product of history, but rather — before all else — also a construction of
human geography; a social construction of space and the continuous
reshaping of geographic landscapes (cfr Assmann , p. ). Shortly
thereafter, literary critic Fredric Jameson picks up the thread of these
thoughts in a book called Postmodernism ( Jameson ) — also from
Verso. In this book, Jameson defines the “spatialization of the temporal”
outright as a hallmark of the new paradigm: “A certain spatial turn has
often seemed to offer one or more productive ways of distinguishing
postmodernism from modernism proper” ( Jameson , p. ).
However, other scholars suspect that the actual origin of the con-
cept lies further back in a  lecture held by Michel Foucault about
“Des espaces autres”. The German translation of this text was pu-
blished in the fourth volume of the Suhrkamp edition of Foucault’s
writings in  (Dits et écrits). Describing paradigm shift, Foucault
takes as his example the Copernican Revolution — from geocentric
to heliocentric worldview — and Galilei’s discovery of the infinity
of the Universe; he traces the history of the relationship between
conceptions of space and the history of science. Even when today’s
accompanying changes in perceptions of space — for instance with
catchwords like hyperspace ( Jameson , p. ) — are somewhat
scientific point of view I would like to thank the earth scientist Prof. Dr.–Ing. Dieter D.
Genske (University of Liechtenstein and Nordhausen University of Applied Sciences).
This contribution results from a lecture which I held on the rd October  in Tallin
(Estonia) in the frame of a conference facilitated by the European Union on “Spatiality
and Visualisation of Culture–/Nature–Relationships: Theoretical Aspects (Ruum ja ilme
looduskultuuris: teooriast)”, a German version of which has been published in  in
the Yearbook of intercultural German Studies (Jahrbuch Deutsch als Fremdsprache /:
–). The interest in the subject was first stimulated by the cooperation between the
sections on Media Studies and Environmental Studies of the German Association of Semiotic
Studies, the results of which were published in a special issue of Kodikas/Code on Die
Kartographie des Verhüllten. Brückenschläge zwischen Natur– und Kulturwissenschaften / The
Cartography of the Disguised. Bridging Science and Humanities (Genske, Hess–Lüttich & Huch
eds. ).
Spatial Turn: On the Concept of Space 

carelessly linked to the technologically networked world (cfr Döring


and Thielmann , p. ) — the emergence of transnational com-
munities through new communication technologies and the meaning
of the ubiquitous internet for the internet user’s awareness of space
can barely be ignored (cfr Böhme , p. ).
With that, obviously some traditional questions of the aesthetic and
fictional constructions of space are again brought to the attention of
literary theory, though the focus has shifted (cfr Döring , p. ).
The interest is now directed towards space as a “cultural construct”
and “social product”, which bridge this approach to a new perspec-
tive and purpose of cultural geography. Though the “ausdrücklich
disziplinübergreifende Verwendung der Raumperspektive” [expressive,
area–specific, and comprehensive application of spatial perspective] is
gladly emphasised (Bachmann–Medick  , p. ), the common
theoretical background for a system of space–related terminology (in
disciplines that only refer to each other ostensibly) has so far failed to
materialize. That is why these cross–references often remain just as
metaphors, misunderstandings, and unrecognized claims. This will
continue to be the case as long as the development of single–minded,
scientific concepts of space is not seriously affiliated and the long tradi-
tion of the spatial concept within the earth sciences is plainly ignored
by literary theory (cfr Hess–Lüttich, Müller and v. Zoest ; Genske,
Hess–Lüttich and Huch ).
Congruently ambiguous is the talk of “space”: a concept that has
been defined through mathematics, geometry, phenomenology, so-
ciology, cognitive science, psychology, perception theory, and cultural,
literary, and communication studies but nevertheless presents the spa-
tial turn as a justification for the continued loose reference between
these discourses: “Space” is one of the most obvious of things which
is mobilised as a term in a thousand different contexts, but whose
potential meanings are all too rarely explicated or addressed” (Massey
, p.. ).

. The spatial turn in (Cultural) Geography

With the scope of physical geography broadened to include new ta-


sks within social, cultural, and anthropological geography since the
 Ernest W.B. Hess–Lüttich

middle of the twentieth century, the willingness to complement scien-


tific questions, i.e., “scientific” according to measurable factors of
the geo–sphere, with the interpretation of such factors, i.e., according
to social groups and their valuations, has been gradually growing —
along with the added readiness to locate the subject itself in both
realms of academic endeavour: namely, the natural sciences and the
humanities (cfr Bobek and Schmithüsen , p. ) . With this step,
human action springs into view: “Subjektive und sozial–kulturelle
Bedeutungen werden materiellen Dingen auferlegt, ohne dass sie zu
Bestandteilen der Materie werden. Räumliche Gegebenheiten können
folglich lediglich als Medien der Orientierung alltäglichen Handelns
verstanden werden” [subjective and socio–cultural meanings impose
upon material things, without becoming part of the material’s content.
Spatial conditions can thus be simply understood as media for naviga-
ting quotidian action] (Werlen  , p. ). Against the background
of such an approach of social geography, based on a theory of action,
as it is being presented here, problems of space appear as problems
of actions of social subjects. These actions — according to Anthony
Gidden’s book The Constitution of Society — can be analytically disman-
tled into categories of rationale, motive, and intention, without the
subjects necessarily constituting these actions themselves. According
to the meaning of physical and material constraints, the meaning of
space is implied as a medium of social orientation and differentiation.
In conjunction with the technological and economical globalisa-
tion on one side and with the culturalisation of the social on the
other, “space” for the observation and description of social practice
becomes equally relevant (spatial turn) to its inverse in “significati-
ve” practice in the production of signs for the understanding of the
meaning of space (cfr Lippuner , p. ). The problem with that
is just how social, cultural or mental — in other words, immaterial
or intangible — circumstances can be spatialised: especially when the
meaning of the material conditions is not inherent but “imposed”.
In the physical object, materialized chains of action can symbolically

. “Belebte und unbelebte Natur und Geist sind also in der geographischen Substanz
verschmolzen. Darin liegt die innere Einheit der Geographie begründet und die Tatsache,
daß diese weder Natur–noch Geisteswissenschaft allein sein kann” (Bobek & Schmithüsen
: ). A reconstruction of the transition of geographical spatial concepts since the
’s here remains undone — cf. for this purpose e.g. Lippuner .
Spatial Turn: On the Concept of Space 

“indicate” social meaning, but not “have” that meaning — they are not
the social meaning itself. This dilemma has also been characterised as
the “space trap”: the conclusive reductionism expresses itself in the
necessary conclusion of locatable material conditions superimposed
on the non–locatable subjective or rather socio–cultural components
of actions.
Pierre Bourdieu feasibly suggested a possible way out of this dilem-
ma with his differentiation between physical, social, and “acquired”
space:
In a hierarchical society there is no space that does not become hierarchi-
sed and also no space that does not embody hierarchies and social inter-
vals/distances. Admittedly, this is masked in more or less deformed ways
and through naturalizing effects that come along with perpetual enrolment
of social realities in the natural world.
(Bourdieu  [], p. )

The projection of the social on the physical (the so–called “acqui-


red” space) leads to the objectivation of the social: in the end, the
physical objectivated social space congeals into cognitive structure.
If Bourdieu assigns (albeit metaphorically) the structures of “acqui-
red” space the role of a mediator, who successively turns the social
structures into thought patterns and predispositions, he himself falls
into the trap of space as he abstracts them (i.e., the “naturalised” social
structures) from the subjects acting within those structures and there-
by runs the risk of concluding from the localization of social agents in
the physical space to their positions within social space. This could,
however, lead directly to a decoupling of social differences from social
practices (for a critical review crf. Lippuner and Lossau , pp. 
et seq.; Lippuner , p. ).
This is only to be avoided by systematic reflection on the sign sy-
stem in which the social practice manifests itself: of texts and textures
that inherit symbolic functions in social systems. The matter of the
analysis would thus be the spaces, which are lingualized in the broa-
dest sense, i.e., which are available as “texts” (cfr Hard ; Garz and
Kraimer ; Hess–Lüttich ). In place of the vague term “acqui-
red physical space”, an exact differentiation of the semantic facets of
the polysemous concept “space” must come into being: something
reminiscent of an Anglo–Saxon inspired cultural and anthropological
 Ernest W.B. Hess–Lüttich

geography, that distinguishes between space and place (as physically


and socially construed or semiotically manifested space; cfr Knox and
Marston ) or in the sense of a space–structure research, which
understands “space” as a “container”, a system of site–relations of
material objects; a category of perception, an element of action or
as an artefact of societal construction processes (cfr Wardenga and
Hönsch , p. ).
In my opinion, it is only then that an understanding between the
representatives of the scientific and the humanistic approach can be
reached — with regard to their common purpose in the modernized
cultural geography: seeing space as a material object with all its at-
tendant physical and ecological constraints and as text, or, as the case
may be, discourse, and finally, as a sign system.

. The spatial turn in Literary Theory and Textual Analysis

Around the same time — after the Second World War — as reflections
on “landscape and space” are introduced in geography, they are also
introduced in literary theory . However, a comprehensive analyzing
arsenal in narratology or on a structural basis is as of yet to be esta-
blished (cfr Fisher ). At best, a figurative modelling of literary
notions of space, in which a “Semantisierung sämtlicher deskriptiven
Merkmale und Strukturen” [semantification of all descriptive tokens
and structures] is assumed (Berghahn , p. ), is suggested in a
phenomenological tradition. According to it, space is rendered the
result of an accomplishment of construction, which combines the
spatial experience of the reader with the semantic space in the text:
“In Texten bilden Räume als konkrete Erscheinungsformen den not-
wendigen Hintergrund, vor dem Figuren agieren, gleichsam bilden
sie als abstrakte Beschreibungskategorien den Träger, der eine Anla-
gerung semantischer Mehrwerte erlaubt” [in texts spaces as concrete
manifestations form the necessary background, in front of which cha-
racters act, at the same time constituting — as abstract categories of

. The tradition of aesthetic reflection on space is naturally longer and can not be re-
processed here. For Lessing’s early sign–theoretically motivated differentiations in Laokoon
cfr exemplarily Hess–Lüttich .
Spatial Turn: On the Concept of Space 

description — the carrier that permits the accumulation of surplus


value]” (Krah , p. ).
Instead of continuing to pursue the phenomenological tradition
from Lessing’s Laokoon via Karlfried von Dürckheim’s first compre-
hensive study on “lived space” (), Ernst Cassirer’s differentiation
of mythical, aesthetic, and theoretical space (), Otto Friedrich
Bollnow’s confrontation of mathematical and experienced space in his
classic Mensch und Raum (/), Robert Petsch’s segmentation
of space in its “defined”, “fulfilled/enlivened”, and “absolute” dimen-
sions in Alexander Ritter’s momentous collected edition on landscape
and space in storytelling (Landschaft und Raum in der Erzählkunst [])
through to Gerhard Hoffmann’s first attempt at a typology of literary
space in Space, Epic Situation, Narrated Reality (), which according
to Natascha Würzbach (, p. ), is a “heute noch relevante[s] Stan-
dardwerk zur narrativen Raumdarstellung [. . . ] mit einer dominant
phänomenologischen Ausrichtung” [a standard reference on narrative
space description even today [. . . ] with a dominant phenomenological
orientation], I shall rather mention a — in the Western World for
a long time ignored — semiotic conceptualization of literary space,
which proves by far more open to interdisciplinary connectors than
the aforementioned approaches: by means of Jurij M. Lotman’s study
of the symbolic space in literature as a result of culturally determined
sign utilizations.
Lotman’s model of space is primary language based (and has hence
been marginally noticed by literary studies at best). However, it inte-
grates semantic, pragmatic, Lebenswelt, and historico–cultural dimen-
sions. Literary texts as secondary model building systems (Lotman
, p. ) generate spatiality (in contrast to Lessing) as a media and
genre encroaching form (Gestalt). With that he surpasses the horizon
of literary studies: for him aesthetic objects — regardless if it involves
texts (in a proper sense), pictures, printings, or buildings — as parts of
a semiotic system design models of possible worlds. Therein, space
works as a sign system through which social reality can be construc-
ted. For the relation of literary and physical space this implies that the
structures of the space of a text become the structure model of world
space (Lotman , p. ).
With that the prospect of new approaches arises, for instance, on
geography of literature that strives to link literature and cartography
 Ernest W.B. Hess–Lüttich

(cfr Genske, Hess–Lüttich, and Huch ), the initial question being:
where does literature take place and why there? (cfr Piatti , p. 
and its premise reading according to Piatti : “Es gibt Berührung-
spunkte zwischen fiktionaler und realer Geographie. Literaturgeogra-
phie geht davon aus, [. . . ] daß eine referentielle Beziehung zwischen
der inner– und außerliterarischen Wirklichkeit besteht” [their are
meeting points between fictional and real geography. Literary geogra-
phy assumes [. . . ] that a referential relation between the inner– and
extraliteral reality exists] (ibid., p. ).
This may well be seminal for some literary venues, as they are pre-
sently being proceeded with at the Swiss Federal Institute of Techno-
logy (or as in Franco Moretti’s Atlante del Romanzo Europeo –),
that is for certain texts, not remotely for all, however. One may think,
for instance, of Kafka’s novel The Castle, which, at best, allows for a pla-
cing ex negativo (Stockhammer , p. ). The irony here resides in
the fact that a surveyor of all people attempts to extrapolate a working
location, which deprives all topographic mapping and only emerges
in the medium of language. Therefore, the (Zurich based) approach is
hardly to be subsumed strictu sensu under the so–called topographical
turn as it does not reflect the emblematic constitution of reality, which
accompanies mapping. Thus, the critical question is not completely
unjustified, as to which literary topography can be traced in texts —
as far as they exhibit actual topographically locatable toponyms at all
— if one is to sketch in the relevant place names (Döring , p. ).
When Sigrid Weigel misinterprets the topographical turn as an
impulse to focus on places not as narrative topoi but as concrete, geo-
graphically identifiable places, she downright misses its essence that
involves the cultural representation of spatiality, be it in maps (Stoc-
khammer ) or in literary texts (Böhme ). Now, if cartography
and literature are involved in a connection to each other it becomes
apparent “daß die Karte zur beglaubigten Imaginationsmatrix für Räu-
me in Text– und Bildmedien wird, auf die sie sich beziehen und sich
so eine Dynamik der Konstitution von Räumen entwickelt” [that the
map becomes the certified imaginational matrix for spaces in text
and picture media which they refer to and that a dynamic of spatial
constitution is developed] (Dünne , p. ).
Therefore, the term topography is to be conceived, respectively diffe-
rentiated more precisely. It no longer merely involves place descriptions
Spatial Turn: On the Concept of Space 

(for which there was an own terminological inventory as early as in


ancient rhetoric) but also the art of “mapping”, i.e., the process of
map manufacturing by means of graphic signs, on the one hand and
the (metonymical) description of the product without reference to
its representative, constructed character on the other hand (cfr Mil-
ler , p. ). As a consequence, according to the American literary
critic Hillis Miller, the question emerges as to how topographical de-
scriptions work in poems, novels or philosophical texts. He detects a
relation between the execution of performative acts — e.g., by naming
places, landscapes, rivers, lakes — and the demarcation of territories
and thereby boundaries. It is language that creates the facts here: “The
topography of a place is not something there already, waiting to be
described, constatively. It is made, performatively, by word or other
signs, for example, by a song or a poem” (ibidem, p. ).
While only the topographical turn focuses on the representation
forms of space, the topological turn moves the description of spatial
structures, relations, and positional concerns to the fore. Road maps,
for instance, are no representation of a transport network in the to-
pographical sense, but provide information on topological positional
respects (cfr Günzel , p. ). The algebraification of geometry
now allows for an abstraction of the graphic representation for the
calculation of spatial relations. Ernst Cassirer already detected this
process in the case of Leibniz (Cassirer , p. ):
Die Widersprüche, die sich aus Newtons Begriff des absoluten Raumes und
der absoluten Zeit ergeben hatten, werden von Leibniz dadurch beseitigt,
daß er beide statt zu Dingen, vielmehr zu Ordnungen macht. Raum und
Zeit sind keine Substanzen, sondern vielmehr “reale Relationen”; sie haben
ihre wahrhafte Objektivität in der “Wahrheit von Beziehungen”, nicht
in irgendeiner absoluten Wirklichkeit [the contradictions that emerged
from Newton’s notion of the absolute space and the absolute time are
eradicated by Leibniz in that he constitutes the two rather as systems
than as things. Time and space are not merely substances but rather “real
relations”. They have their veracious objectivity in the “truth of relations”,
not in any absolute truth].

Here, the circle to Lotman is closed, who au fond designed the


first literary topology. He was interested in how literary (cultural)
applications of spatial models were implemented for non–spatial con-
tents: “The language of spatial relations is one of the fundamental
 Ernest W.B. Hess–Lüttich

means for interpreting reality” (Lotman , p. ; trans. mine). It


contains the expressions for which “räumlich konkrete Sachverhalte
über semiotische Operationen als Träger für nicht–räumliche Sach-
verhalte fungieren” [spatial concrete circumstances act as carriers for
non–spatial circumstances via semiotic operations] (Krah , p. ).
It is from Lotman’s literary topology that the Passau based literary
scholar Hans Krah derives his classification scheme of a semiotics
of space and differentiates the geographical, topological, perceptive,
narrative, and conceptional aspect in respect of its semantification
and functionalisation. The metaphorical implementation of signs for
spaces thereby serves to depict non–spatial circumstances by means of
rhetorical strategies (cfr ibidem, p. ).
The different characteristics of the spatial turn or its consequences
in literary theory have therefore led to entirely different perspectives:
(i) the phenomenological perspective traces the modalities of spatial
relation, which are manifested in subjective attitudes of narrator and
characters, and deduces space as product of human perception, which
allows for conclusions concerning respective effective social standards
and cultural values; (ii) the cartographical perspective proceeds from
nameable relations of reference between inner– and outer–literary
reality and in that misjudges the constructional character of space in
literature; (iii) the topographical perspective perceives literary space
as imaginary geography, which — similar to cultural geography —
refers to the constitutive character of social practice and therefore
detects the meaning of spatial relations for the distribution of know-
ledge, power, prejudices, etc.; (iv) the topological perspective on the
other hand bridges to the semiotic (and even rhetoric) tradition by
exposing the structure of “quasi–spatial relations” and their meaning
for literature and culture. In other words, by exposing space as a sign
system filled with meaning upon which social reality is constituted.
In light of a globalised world, in which cultures are merged, bor-
ders changed or abolished, communication paths interlinked, traffic
routes condensed, literary theory faces the challenge of having to deal
with concepts of space, which have been developed outside its own
tradition, if it strives to interpret spatial aspects of its subject matter ap-
propriately. Current cultural geographical concepts of space, for one,
invite to redefine, for instance, the relationships of power, identity,
and territoriality in the analysis of colonial and postcolonial literature.
Spatial Turn: On the Concept of Space 

However, one must be acquainted with the relevant conceptions in


order to evade interdisciplinary misunderstandings.

. Intersections between concepts of space: Cultural Geography


vs. Textual Analysis as loci of enunciation

In the balance of tension between globalisation and regionalisation,


virtual dissolution of boundaries and sub–cultural distinction and
exclusion, homogenisation of lifestyles and individualisation of so-
cial practices, new scopes arise for literature as “Medium kultureller
Selbstauslegung” [medium of cultural self–interpretation]: “Die Über-
tragung sozialwissenschaftlicher und soziokultureller Modelle auf
den Raum in der Literatur heißt davon auszugehen, daß der Raum in
Romanen ebenso mit seinen sozialen Codierungen funktioniert wie
der physische Raum der Realität” [the transference of socio–cultural
models on space in literature implies that space in novels with its social
codifications functions in the same way as physical space does in reali-
ty] (Krug , p. ). Even if the transdisciplinary notion of “culture
as text”, which is strongly based on Clifford Geertz, seems somewhat
stressed by now, it still inspires interdisciplinary cooperation as in the
construction of notions of space in geography and in the “imaginative
geography” of literary fiction or in the mediation of cultural world
views by “secondary model shaping systems” of aesthetic sign com-
plexes in the sense of Lotman, whose notion of the literary text as
a form of cultural self–perception and self–thematisation (Nünning
and Sommer , p. ) proves to still be relevant today (cfr Bach-
mann–Medick , p. ). So, the spatial turn in social geography
allows to conceptualise questions of social coding, of position and
identity, of territorialisation and border crossing, in the medium of
literature and to render them fertile for textual analysis (cfr Würzbach
, p.  et seq.).
While literary theory was able to tie on established philosophical,
symbol–theoretical respectively semiotic traditions (as for instance
established by Ernst Cassirer), the extension of physical geography by
the field of cultural geography required a radical “new thinking” and
the sign–theoretically critical reflection of cartographic practise. On-
ly by the “culturalization of spaces” the symbolic meaning and the
 Ernest W.B. Hess–Lüttich

linguistic–communicative production of spaces are moved into focus.


Conversely, however, there is a warning against a “spacification of
culture”, when it risks changing “Produkte sozialer und kultureller
Gegebenheiten in scheinbar natürliche “geographische Gegebenhei-
ten” [. . . ]: sie also zu verdinglichen und letztlich zu naturalisieren”
[products of social and cultural realities into seemingly natural “geo-
graphic realities”, id est objectifying and, in effect, naturalising them]
(Lossau , p. ).
The projection of fictionalized spaces on geographically real spaces
(à la Piatti ) may be suitable for a “literatouristical illustration”
(and have a practical value for hikes “on the tracks” of literary au-
thors and/or their oeuvre). However, it confirms the declaimed con-
cern on parts of the culture geographical side that a thus understood
spatial turn could well lead back to a long since bettered notion of
“geo–space”.
The critical reflection of a seemingly “objective” depiction of the
“geo–space” in mapping practice corresponds in contrast to a literary
topography, which similar to cultural geography systematically accom-
modates the social and cultural implications, which have entered into
the cartographic modelling, i.e., conceives of literature “als mediale
Praxis, [die] in bestimmter Weise an der Konstitution kultureller Räu-
me überhaupt [mitwirkt]” [as a medial practise which contributes to
the constitution of cultural spaces in a specific way] (cfr Dünne ,
p. ).
With even more consistency, the topological approach in the tra-
dition of the Tartu school follows the programme of interpreting,
“above” traditional borders of disciplines, as it were, geo–scientific
mapping and literary fiction as models of reality of the respective
cultures with their inherent significative relations. In the light of the
ever increasing complexity of a multidimensionally linked–up world,
the Lotman impulses gain an unexpected renewed topicality for the
dialogue between natural and cultural sciences, as, in all respect to
the obvious structural, modal, functional difference qualities between
(here) geo–scientific and literary perception of the “real world”, it
remains equally undisputed that “everything not explicitly mentioned
or described as different from the real world, must be understood as
concordant with the laws and conditions of the real world” (Eco :
; trans. mine).
Spatial Turn: On the Concept of Space 

Bibliographic references

A A. () “Geschichte findet Stadt”, in M. Csáky and C. Leitgeb


(eds), Kommunikation, Gedächtnis, Raum. Kulturwissenschaften nach dem
“Spatial Turn”, Transcript, Bielefeld, –.
B–M D. () Texte zwischen den Kulturen: ein Ausflug
in “postkoloniale Landkarten”, in H. Böhme and R. Klaus (eds), Li-
teratur und Kulturwissenschaften: Positionen, Theorien, Modelle, Rowohlt,
Reinbek, –.
———. () “Kultur als Text? Literatur– und Kulturwissenschaften jen-
seits des Textmodells”, in A. Nünning and R. Sommer (eds), Kulturwis-
senschaftliche Literaturwissenschaft, Gunter Narr, Tübingen, –.
———. ( ) Cultural Turns. Neuorientierungen in den Kulturwissenschaften
(), Rowohlt, Reinbek.
B D. () Raumdarstellung im englischen Roman der Moderne, Frank-
furt/Main etc., Peter Lang.
B H. () Stellung und Bedeutung der Sozialgeographie, “Erdkunde”,
.: –.
B, H. and J. S () Die Landschaft im logischen System der
Geographie, “Erkunde”, .–: –.
B H. and K.R. S (eds) () Literatur und Kulturwissenschaften:
Positionen, Theorien, Modelle, Rowohlt, Reinbek.
———. (ed.) () Topographien der Literatur. DFG–Symposion : Deu-
tsche Literatur im transnationalen Kontext, Metzler, Stuttgart / Weimar.
———. () “Kulturwissenschaft”, in S. Günzel (ed.), Raumwissenschaf-
ten, Suhrkamp, Frankfurt/Main: –.
B O.F. ( ) Mensch und Raum (), Kohlhammer, Stuttgart.
B P. ( ) “Ortseffekte”, in Id., Das Elend der Welt. Zeugnisse und
Diagnosen alltäglichen Leidens an der Gesellschaft (), UVK [Universitä-
tsverlag Konstanz], Konstanz, –.
B E. () Der literarische Raum. Eine Untersuchung am Beispiel von
Dorothy M. Richardsons Romanzyklus “Pilgrimage”, Max Niemeyer, Tü-
bingen.
B K. () Der literarische Raum. Konzeptionen und Entwürfe,
Peter Lang, Frankfurt/Main etc.
 Ernest W.B. Hess–Lüttich

C E. () “Mythischer, ästhetischer und theoretischer Raum” (),


in J. Dünne and Stephan Günzel (eds.), Raumtheorie. Grundlagentexte aus
Philosophie und Kulturwissenschaften, Suhrkamp, Frankfurt/Main, –.
C M. and C. L (eds.) () Kommunikation, Gedächtnis, Raum.
Kulturwissenschaften nach dem “Spatial Turn”, Transcript, Bielefeld.
D K.G. von () Untersuchungen zum gelebten Raum (= Natur
– Raum – Gesellschaft ) (), ed. J. Hasse, Institut für Didaktik der
Geographie, Frankfurt/Main.
D J. and T. T (eds.) () Spatial Turn. Das Raumparadigma
in den Kultur–und Sozialwissenschaften, transcript, Bielefeld.
———. () Distant Reading. Zur Geographie der Toponyme in Berlin–Prosa
seit , “Zeitschrift für Germanistik”, .: –.
D J. () “Die Karte als imaginierter Ursprung. Zur frühneuzeitli-
chen Konkurrenz von textueller und kartographischer Raumkonstitu-
tion in den America–Reisen Theodor de Brys”, in Böhme (ed.), Topogra-
phien der Literatur. DFG–Symposion : Deutsche Literatur im transnatio-
nalen Kontext, Metzler, Stuttgart/Weimar, –.
———. and S. Günzel (eds.) () Raumtheorie. Grundlagentexte aus Philo-
sophie und Kulturwissenschaften, Suhrkamp, Frankfurt/Main.
E U. () Im Wald der Fiktionen. Sechs Streifzüge durch die Literatur, Carl
Hanser, Munich.
F K. () “Wege zu einer Narratologie des Raumes”, in D. Lam-
bauer, M.I. Schlinzig, and A. Dunn (eds.), From Magie Columns to Cy-
berspace. Time and Space in German Literature, Art, and Theory, Martin
Meidenbauer, Munich, –.
F M. () “Von anderen Räumen” (), in Id., Dits et Écrits, vol.
., Suhrkamp, Frankfurt/Main:, –.
G D. and K. K (eds.) () Die Welt als Text. Theorie, Kritik und
Praxis der objektiven Hermeneutik, Suhrkamp, Frankfurt/Main.
G D., E.W.B. H–L, and M. H (eds.) () Kartographie
des Verhüllten. Brückenschläge zwischen Natur– und Kulturwissenschaften /
Cartography of the Disguised. Bridging Science and Humanities (= Special Is-
sue of Kodikas/Code. An International Journal of Semiotics .–), Gunter
Narr, Tübingen.
G A. () The Constitution of Society. Outline of the Theory of Struc-
turation, Univ. of California Press, Berkeley.
Spatial Turn: On the Concept of Space 

———. () Konstitution der Gesellschaft. Grundzüge einer Theorie der Struk-
turierung, Campus, Frankfurt/Main.
———. () The Consequenccs of Modernity, Stanford University Press, Stan-
ford.
G S. (ed.) () Topologie. Zur Raumbeschreibung in den Kultur– und
Medienwissenschaften, transcript, Bielefeld.
———. () “Spatial Turn – Topographical Turn – Topological Turn.
Über die Unterschiede zwischen Raumparadigmen”, in J. Döring and
T. Thielmann (eds.), Spatial Turn. Das Raumparadigma in den Kultur–und
Sozialwissenschaften, transcript, Bielefeld, –.
———. (ed.) () Raumwissenschaften, Suhrkamp, Frankfurt/Main.
H G. () “Raumfragen”, in P. Meusburger (ed.), Handlungszentrier-
te Sozialgeographie. Benno Werlens Entwurf in kritischer Diskussion, Franz
Steiner, Stuttgart, –.
———. (ed.) () Landschaft und Raum. Aufsätze zur Theorie der Geogra-
phie, vol. , Rasch, Osnabrück.
H–L E.W.B. () “Medium – Prozeß – Illusion. Zur rationa-
len Rekonstruktion der Zeichenlehre Lessings im Laokoon”, in G. Ge-
bauer (ed.), Das Laokoon–Projekt. Pläne einer semiotischen Ästhetik, Metz-
ler, Stuttgart, –.
———., J.E. Müller, and A. van Zoest (eds.) () Signs & Space Raum &
Zeichen (= Kodikas/Code Supplement Series ), Gunter Narr, Tübin-
gen.
———. () “Text Space: Holistic Texts?”, in Id., J.E. Müller, and A. van
Zoest (eds.), Signs & Space Raum & Zeichen (= Kodikas/Code Supple-
ment Series ), Tübingen, Gunter Narr, –.
H S. () Franz Kafka: Raum und Geschlecht, Königshausen &
Neumann, Würzburg.
H G. () Raum, Situation, erzählte Wirklichkeit: Poetologische und
historische Studien zum englischen und amerikanischen Roman, Metzler, Stutt-
gart.
J F. () “Postmoderne — zur Logik der Kultur im Spätkapitali-
smus”, in A. Huyssen and K.R. Scherpe (eds.), Postmoderne. Zeichen eines
kulturellen Wandels, Rowohlt, Reinbek, –.
———. () Postmodernism, or: The Cultural Logic of Late Capitalism, Verso,
London.
 Ernest W.B. Hess–Lüttich

K P.L. and S.A. M () Humangeographie, Spektrum, Heidel-


berg / Berlin.
K H. () Räume, Grenzen, Grenzüberschreitung, “Kodikas/Code. An
international Journal of Semiotics”, .–: –.
K M. () Auf der Suche nach dem eigenen Raum. Topographien des Wei-
blichen im Roman von Autorinnen um , Königshausen & Neumann,
Würzburg.
L D., M.I. S, and A. D (eds.) () From Magie Co-
lumns to Cyberspace. Time and Space in German Literature, Art, and Theory,
Martin Meidenbauer, Munich.
L R. () Raum – Systeme – Praktiken. Zum Verhältnis von Alltag,
Wissenschaft und Geographie, Franz Steiner, Stuttgart.
L J. and R. L () Geographie und spatial turn, “Erdkunde”,
.: –.
———. () “Räume von Bedeutung. Spatial turn, cultural turn und Kul-
turgeographie”, in Csáky M. and C. Leitgeb (eds.) () Kommunika-
tion, Gedächtnis, Raum. Kulturwissenschaften nach dem “Spatial Turn”, Trans-
cript, Bielefeld, –.
L, J M. () Die Struktur literarischer Texte (), Fink, Munich.
———. () Die Struktur des künstlerischen Textes (), Suhrkamp, Frank-
furt/Main.
———. () Aufsätze zur Theorie und Methodologie der Literatur und Kultur,
ed. Karl Eimermacher, Scriptor, Kronberg.
———. (a) “Das Problem des künstlerischen Raumes in Gogols Pro-
sa” (), in Id., Aufsätze zur Theorie und Methodologie der Literatur und
Kultur, ed. Karl Eimermacher, Scriptor, Kronberg, –.
———. ( b) “Zur Metasprache typologischer Kultur–Beschreibungen”
(), in Id., Aufsätze zur Theorie und Methodologie der Literatur und Kul-
tur, ed. Karl Eimermacher, Scriptor, Kronberg, –.
M D. () “Philosophy and politics of spatiality: some considera-
tions”, in Id., Power–geometries and the politics of space–time (= Hettner–
Lectures ), Department of Geography, University of Heidelberg, Hei-
delberg, –.
M A. () Die Blindheit der Texte. Studien zur literarischen Raumer-
fahrung, C. Winter, Heidelberg.
M H. () Topographies, Stanford University Press, Stanford.
Spatial Turn: On the Concept of Space 

M F. () Atlante del Romanzo Europeo –, Einaudi, Torino.


N A. and R. Sommer (eds.) () Kulturwissenschaftliche Literatur-
wissenschaft, Gunter Narr, Tübingen.
———. () “Kulturwissenschaftliche Literaturwissenschaft. Disziplinä-
re Ansätze – Theoretische Positionen – Transdisziplinäre Perspektiven”,
in Id. (eds.), Kulturwissenschaftliche Literaturwissenschaft, Gunter Narr,
Tübingen, –.
O M. () “Raum”, in K. Barck et al. (eds.) (–) Ästhetische
Grundbegriffe. Historisches Wörterbuch in sieben Bänden, vol.  (), Me-
tzler, Stuttgart / Weimar, –.
P R. () “Raum in der Erzählung”, in A. Ritter (ed.), Landschaft
und Raum in der Erzählkunst, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darm-
stadt, –.
P B. () Die Geographie der Literatur. Schauplätze, Handlungsräume,
Raumphantasien, Wallstein, Göttingen.
R A. (ed.) () Landschaft und Raum in der Erzählkunst, Wissenschaf-
tliche Buchgesellschaft, Darmstadt.
S, E.W. () Postmodern Geographies. The Reassertion of Space in Critical
Social Theory, Verso, London etc.
———. () “Die Trialektik der Räumlichkeit”, in R. Stockhammer (ed.),
TopoGraphien der Moderne. Medien zur Repräsentation und Konstruktion
von Räumen, Wilhelm Fink, Munich, –.
———. () Vom “Zeitgeist” zum “Raumgeist”. New Twists on the Spa-
tial Turn, in J. Döring and T. Thielmann (eds.), Spatial Turn. Das Raum-
paradigma in den Kultur– und Sozialwissenschaften, transcript, Bielefeld,
–.
S R. (ed.) () TopoGraphien der Moderne. Medien zur Reprä-
sentation und Konstruktion von Räumen, Wilhelm Fink, Munich.
———. () “Verortung. Die Macht der Kartographie und die Literatur”,
in R. Stockhammer (ed.), TopoGraphien der Moderne. Medien zur Reprä-
sentation und Konstruktion von Räumen, Wilhelm Fink, Munich: –.
W U. and I. H (eds.) () Kontinuität und Diskontinuität der
deutschen Geographie in Umbruchphasen: Studien zur Geschichte der Geogra-
phie (= Münstersche Geographische Arbeiten ), Institut für Geogra-
phie, Münster.
 Ernest W.B. Hess–Lüttich

W S. () Zum “topographical turn”. Kartographie, Topographie und


Raumkonzepte in den Kulturwissenschaften, in KulturPoetik, .: –.
W K. () Raum, Raumsprache und Sprachräume. Zur Textsemiotik der
Raumbeschreibung (= Kodikas/Code Supplement Series ), Gunter Narr,
Tübingen.
W B. ( ) Sozialgeographie: eine Einführung, Haupt, Bern.
W N. () “Erzählter Raum: Fiktionaler Baustein, kultureller Sinn-
träger, Ausdruck der Geschlechterordnung”, in J. Helbig (ed.), Erzählen
und Erzähltheorie im . Jahrhundert (= Fs. Wilhelm Füger), C. Winter,
Heidelberg, –.

Ernest W.B. Hess–Lüttich


University of Bern
Lexia. Rivista di semiotica, 9–10
Ambiente, ambientamento, ambientazione
ISBN 978-88-548-4516-9
DOI 10.4399/97888548451692
pag. 43–54 (dicembre 2011)

Sulla “geologistica” contemporanea ∗


M L

 : On Contemporary “Geologistics”

: The point of departure of the article is the impossibility, for two
physical entities, to occupy the same point of space in the same instant.
The whole of operations through which individuals and groups seek to
attribute a social form to the separation among entities, and therefore
to the handling of spatiality, stems from such impossibility. The article
singles out and defines five elementary competences of spatiality: metric
control, which consists in managing distance among individuals, as well
as that among individuals and objects (a competence that can be articu-
lated, in turn, into topographic and topologic, depending on whether
it regulates relations of physical contiguity or mediated access, like in
telecommunication networks); the competence of positioning and adju-
sting, which is exerted in determining each time the ideal positioning
of individuals and objects, through a continuous series of operations on
different scales that daily consume most energies of operators; the scalar
competence, which consists in the capacity of seizing the relation among
different dimensions of spatiality; the competence of articulation and de-
limitation, which gives rise to the capacity of determining different types
of spatial boundaries, according to a principle whose genesis the article
outlines also through a historical digression, from land apportionment
to Google Earth’s pixelation, passing through urban planning techniques
of zoning; finally, the competence of crossing, which results from the
effects of delimitation, and consists in being capable of going through
the thresholds, filters, limits, and boundaries that continuously parcel
spatiality. The quotidian exercise of these five competences configures
the geo–logistics, which does not include only logistics traditionally
construed, but every activity meant to handle the spatial environment,
including the individual geo–logistic effort that present–day societies
increasingly require from their members.

: Spatiality; elementary competences; geo–logistics; cultural geo-


graphy; semiotic geography.

Testo tradotto dal francese all’italiano da Eleonora Chiais, rivisto da Massimo Leone.


 Michel Lussault

Il contributo maggiore della geografia sociale è senza dubbio quello


di mostrare che lo spazio umano e la spazialità nascono da un lavoro
delle società su sé stesse. Questo lavoro, che mobilita tutti gli opera-
tori sociali, si spiega con l’esistenza, per le società, di un problema
primordiale — che ciascuna di esse tende a regolare attraverso i mezzi
che le sono propri e che variano a seconda dell’epoca considerata: la
separazione.
In effetti, da qualsiasi parte si approcci la questione, due realtà ma-
teriali distinte non possono occupare contemporaneamente, senza
artifici né stratagemmi, un medesimo punto dello spazio: esse sono
separate e dunque distanti. Il principio separativo, centrale nell’espe-
rienza individuale e sociale, possiede un carattere radicale. Questa
constatazione elementare, e il bisogno di adattarvisi, è alla base del-
l’instancabile attività umana di organizzazione dello spazio e della
spazialità. Tocca allora al geografo studiare la totalità dei mezzi in-
ventati e utilizzati per scongiurare la distanza, vale a dire la quantità
di spazio che, attraverso la rielaborazione umana, diventa una quantità
spaziale che insieme separa le realtà e permette, se la si controlla, di
congiungere le suddette realtà e di metterle in contatto (Lussault ).
I fatti di distanza impongono agli attori sociali strategie specifiche.
Queste non sono riconducibili esclusivamente a distanziamenti mate-
riali. Le analisi del distanziamento vertono sempre, più o meno, su un
approccio di misurazione delle posizioni, su una topografia cartesiana
degli oggetti delle società, mentre bisogna privilegiare l’analisi delle
relazioni stabilite dagli operatori di una società, in un certo tempo, tra
tutte le realtà distinte. Gli attori, insomma, non fanno che posizionare
oggetti in alcuni punti dello spazio: costruiscono contestualmente ar-
rangiamenti spaziali di realtà (destinati a evolversi col tempo poiché lo
spazio è caratterizzato dalla sua storicità e, dunque, non è una sostanza
immutabile) che esprimono le loro “arti e tecniche” spaziali. Poiché la
distanza esiste e il principio di separazione è alla base dell’esperienza
umana, gli operatori sociali hanno sempre dovuto comprendere e
utilizzare entrambi per riuscire a (soprav)vivere e a evolversi metten-
dosi in contatto con le differenti realtà sociali necessarie per i loro
progetti e per le loro attività. Lo spazio diviene allora per un certo
gruppo l’insieme delle relazioni degli individui e delle collettività ai
fatti della distanza e a quelli connessi all’esistenza della separazione.
Esso si manifesta attraverso configurazioni di materie, ma anche at-
Sulla “geologistica” contemporanea 

traverso configurazioni di idee che esprimono la messa in tensione del


gruppo con lo spazio che esso organizza, al fine di trovare i mezzi per
accedere a ed essere in contatto con. Dunque lo spazio non costituisce
un’esteriorità per la società, ma insieme una traccia delle attività che
preesistono ogni nuovo accadimento, e una sua “materia prima” —
dotata di un notevole potenziale di plasticità. Lo spazio umano non
ha nulla del dato: non è geometrico né biofisico bensì sociale — an-
che se, evidentemente, incorpora una geometria e delle componenti
biofisiche.
Gli operatori umani ricercano così, costantemente, il controllo spa-
ziale, vale a dire di garantire la propria capacità di situarsi in modo tale
che i propri atti siano seguiti dagli effetti desiderati e che sia sempre
possibile il controllo della propria azione e del suo contesto. Va da
sé che si tratta di un ideale che non cessa di essere contraddetto dal
desiderio equivalente degli altri attori — e il ricorso ai sistemi norma-
tivi nelle situazioni d’interazione si spiega con la necessità per ciascun
individuo di assicurare il suo controllo riferendosi a una regola “ogget-
tiva” che si suppone lo protegga dalle pretese altrui. Questo controllo
è basato su strumenti cognitivi e pratici (che dunque permettono di
percepire una realtà e di agirvi): cioè quelle che io definisco le cinque
competenze elementari della spazialità, tutte complementari e tra loro
abbinate. Qui di seguito verranno presentate molto sinteticamente.
Il controllo dello spazio presuppone:
i. Un controllo metrico, i modi per misurare la distanza. Questa
competenza permette a ogni attore di distinguere il vicino dal lontano
e di valutare la distanza migliore da mantenere tra sé e le altre realtà
sociali — visto che la spazialità degli esseri umani si dispiega sempre
a partire dalla persona (e dal suo corpo, che costituisce il referente
spaziale primario, matriciale) e dalla sua concezione della propria
posizione rispetto a ciò che lo circonda. Non saper trovare la buona
distanza è un handicap sociale grave e le dispute spaziali comportano
sempre dibattiti sulla buona distanza. Una gran parte dell’energia
impiegata degli individui in società è consumata nella regolazione
della distanza e in particolare nel gioco che ogni attore instaura tra
avvicinamento e allontanamento e nella gestione del regime accettabile
delle prossimità.
La questione della prossimità si rivela tra le più influenti nell’orga-
nizzazione delle società. In effetti, non ho mai incontrato un operatore
 Michel Lussault

sociale che non si preoccupi fortemente di questo regime accettabile


delle prossimità, vale a dire della definizione dei buoni rapporti di
distanza tra tutte le realtà percepite da un attore nell’arrangiamento
del suo spazio di vita. Interviene sempre, al momento delle scelte,
l’attività di distinzione tra il vicino e il lontano e, soprattutto, la defi-
nizione di ciò che è accettabile in materia. Di chi, di che cosa accetto
o addirittura ricerco la vicinanza? E da chi e da che cosa devo invece
allontanarmi, distanziarmi, o addirittura proteggermi?
In materia di prossimità, gli sviluppi continui della mobilità, che
si tratti di quelle consentite dai trasporti o dalle telemobilità info–co-
municative, hanno seriamente complicato le cose. Bisogna infatti
distinguere due registri, da un lato la compresenza di contatto fisico
(due realtà si toccano fisicamente senza mediazione) e dall’altro la
compresenza mediata, che io denomino co–spazialità. Si trarra della
possibilità di inserire un’azione (foss’anche un semplice atto linguisti-
co) in uno spazio a partire da un altro, attraverso le reti di mobilità e
quelle di telecomunicazione che garantiscono la mediazione tra punti
distanti. Un buon esempio ci è fornito dalle conversazioni tra locutori
collegati per mezzo di un telefono portatile. Si assiste all’irruzione at-
tiva (e abbastanza spesso persino intempestiva!) di un altro all’interno
di uno spazio dal quale questi è fisicamente assente.
La logica della prima forma di compresenza promuove la conti-
guità fisica tra le realtà congiunte e sviluppa piuttosto le interfacce e
le sovrapposizioni, mentre la logica della co–spazialità instaura una
connessione che conserva la separazione materiale tra i due oggetti
congiunti. Sarà allora utile distinguere tra due prossimità: quella topo-
grafica (che corrisponde alla compresenza nel senso ) e la topologica
(che rinvia alla co–spazialità). La prima caratterizza gli spazi contrasse-
gnati dalla contiguità. La seconda è quella resa possibile dalle reti, di
trasporti, di comunicazione, che si può chiamare connettività: qui ciò
che è prossimo non è necessariamente contiguo bensì connesso, nel
senso della teoria dei grafici, vale a dire situato in un nodo della rete
accessibile grazie all’utilizzo di una linea, di una “linea” del grafico.
Ciò che importa è l’accesso a un altro nodo, minimizzando il nume-
ro di linee del grafico da percorrere, e non l’ingresso nell’ambiente
topografico. Questa prossimità è dunque mediata.
La prossimità topografica valorizza l’affiancamento, mentre con la
connettività l’essenziale è di essere rapidamente collegato a (un nume-
Sulla “geologistica” contemporanea 

ro massimo di altri punti della rete attraverso un numero minimo di


linee) e non “affianco a”. Con la telecomunicazione, ci si emancipa
persino, almeno apparentemente, dalle linee della rete fisica. Si accede
direttamente a ciò che è prossimo dal punto di vista della comunicazio-
ne o, più precisamente, il medium che permette l’accesso è trasparente.
Ci è imposto solo l’operatore commerciale e gestionale della rete
tecnica, quasi naturalizzato, incorporato nelle nostre abitudini, come
una protesi della quale dimentichiamo il carattere di artefatto, men-
tre la rete dei trasporti resta sempre percepibile. Donde lo sconforto
che ci coglie di fronte a un defezione, un guasto dell’oggetto tecnico
comunicazionale: è quasi una parte di noi che funziona male.
I trasporti e la comunicazione creano in ogni caso prossimità, atte-
nuando (senza sopprimerla, cosa che gli individui colgono appieno)
la separazione, ovvero la manifestazione fisica della distanza, attra-
verso l’efficacia dell’«accesso a», di cui si ricerca incessantemente
l’accrescimento.
Una parte non trascurabile dell’energia e del tempo di un operatore
sociale è dunque utilizzata per definire e organizzare la sua geografia
della vicinanza e dei vicini. Che cos’è ciò che è vicino a me? Chi è?
Queste due domande sono sempre valide e attualizzate nella pratica
e attraverso il linguaggio. Passiamo addirittura il nostro tempo a
discuterne, a dibatterne, producendo una geografia sociale come altri
producono della prosa: ininterrottamente, ma senza saperlo (o senza
volerlo sapere, perché alle volte è difficile affrontare la risposta alla
domanda: chi mi è vicino?). Non evoco qui una geografia metaforica.
L’aggiustamento delle prossimità che evoco congiunge l’operatore, le
idee, le materie e si manifesta quindi attraverso un’organizzazione di
cui una parte è materiale e si esprime attraverso scarti tra realtà.
ii. La competenza metrica permette, nella pratica e per la pratica
stessa, di poter e saper disporre convenientemente le realtà sociali in
una configurazione ove queste siano a una distanza relativa adeguata
le une dalle altre — ciò che definisco la competenza di posizionamento e
di aggiustamento. Questa importante capacità consiste nel saper trovare
per sé stessi, per gli altri, e per gli oggetti la buona posizione (Lussault
a). Ciò costituisce un’attività sociale essenziale. Essa non cessa
mai, dagli intorni immediati del corpo fino al mondo. Essa è attiva in
ogni situazione: anche all’interno della propria automobile, per esem-
pio, il conducente e i suoi passeggeri devono consacrare a tale attività
 Michel Lussault

una gran parte della loro attenzione, proprio come un imprenditore


che s’impegni in un ridispiegamento del suo apparato produttivo o
un amministratore che prepari una politica territoriale, o ancora un
individuo che immagini uno spostamento turistico. Questa capacità
è al cuore della minima offesa spaziale — vale a dire del sentimento
che un operatore possiede di non controllare più le distanze e in parti-
colare di essere vittima di un’intrusione che necessita una riparazione.
L’intrusione si manifesta per un individuo nel momento in cui un
operatore o un fenomeno non rispettano la posizione che l’individuo
occupa. L’intrusione va di pari passo con l’offesa di esclusione, che
consiste nel pensare di essere esclusi da uno spazio ove si ritiene di
avere qualche diritto. In breve, la competenza di posizionamento è al
cuore della spazialità umana.
iii. Padroneggiare lo spazio significa anche essere capaci di distin-
guere il piccolo dal grande, e dunque di percepire la misura assoluta
e relativa degli oggetti spaziali. Viene a definirsi così quella che desi-
gno una competenza scalare, un’attitudine che completa le precedenti.
Si tratta, in questo caso, di non dimenticare che lo spazio è sempre
esperito da un attore in ragione delle dimensioni delle realtà vissute.
I paesaggi dell’Ovest americano devono gran parte della loro carica
seduttiva alla loro immensità, che risalta persino allo schermo nei film
che mettono in scena tali paesaggi. Al contrario, gli spazi delle alco-
ve, dei salottini, dei giardinetti defilati e delle stradine di un vecchio
villaggio attirano proprio a causa della loro rassicurante piccolezza.
iv. La padronanza spaziale consiste anche nel godere di una doppia
capacità: quella di articolare lo spazio in unità elementari pertinenti e
quella, complementare, di delimitare, di porre dei limiti spaziali tra
le differenti entità segmentate (competenza di articolazione e di delimi-
tazione). Lo spazio delle società contemporanee diventa sempre più
caratterizzato dalla moltiplicazione di articolazioni e delimitazioni. La
razionalità strumentale delle politiche pubbliche, così come quella
delle operazioni economiche, si fonda infatti sulla prosecuzione di
un movimento iniziato fin dalla prima modernità: la quadrettatura
sistematica dello spazio materiale. Questa quadrettatura è stata resa
possibile, poco a poco, dalla messa in coordinate dello spazio e dallo
sviluppo di tutti gli appositi strumenti — quelli del geometra come
quelli del geografo e del geomatico: ad oggi, le mappe costituisco-
no per eccellenza uno di questi strumenti, al servizio della volon-
Sulla “geologistica” contemporanea 

tà di razionalizzazione dello spazio terrestre da parte del pensiero


geometrico.
Non vi è frazione spaziale che non sia articolata, spesso anche in
modo molteplice, da un numero crescente di operatori che fondano
una parte delle loro azioni su questa articolazione. Ancora una volta, il
fatto è impressionante quale che sia la scala considerata. La funzionaliz-
zazione dello spazio prende origine dalla sua articolazione in elementi
semplici che permette la moltiplicazione di unità spaziali collegabili
ad almeno una funzione nonché consumabili, interscambiabili. Qui
si pensa evidentemente in primo luogo alla suddivisione fondiaria, la
cui importanza è decisiva. In effetti l’organizzazione materiale dello
spazio sociale possiede sempre una base fondiaria, che presuppone
un’articolazione, una definizione di confini, dunque una delimita-
zione, una lottizzazione (una creazione di lotti), un’allocazione (un
regime normato, il che non vuol dire necessariamente ufficiale, di
distribuzione dei lotti).
La suddivisione fondiaria non è che un esempio fra tanti. Anche
all’interno delle abitazioni, l’articolazione e la delimitazione si im-
pongono. La funzionalizzazione domestica tende ad attribuire un uso
preciso a ogni spazio, fino a consacrare il luogo in questione attraverso
un limite chiaro e/o occupandone la posizione con uno strumento,
un mobile. La macchina abitativa degli adepti del movimento dell’ar-
chitettura moderna, e in particolare di Le Corbusier, ha rappresentato
una chiara espressione di questa volontà di articolare e definire, in
questo caso quasi compulsiva. Una tale volontà riguardava anche l’in-
sieme dello spazio urbano, che si vedeva organizzato in grandi settori,
ciascuno dei quali corrisponde, idealmente, a una delle quattro grandi
funzioni umane (abitare, lavorare, divertirsi, spostarsi). La macchina
abitativa concepiva dunque le abitazioni come una cellula composta da
sottounità funzionali, ciascuna dotata di una finalità e, alle volte, prov-
vista della sua mobilia fissata al pavimento. Naturalmente, la pratica
umana ci ha messo poco a sovvertire questo ordine rigido, attraverso
la definizione di articolazioni e limiti differenti.
L’articolazione territoriale e la delimitazione sono state e rimango-
no fonte di numerosi conflitti. Su un registro più pacifico, ma ove la
polemica non è rara, la pianificazione utilizza la coppia articolazio-
ne/delimitazione per definire le aree d’intervento: le zone, termine
che prende origine dall’inglese “zoning” e designa una pratica funzio-
 Michel Lussault

nale inventata in Germania nel XIX secolo prima di svilupparsi piena-


mente negli Stati Uniti e di essere esportata nel mondo intero. Una
zona può di volta in volta tramutarsi in territorio quando le questione
della delimitazione, dei valori e dell’identità sono particolarmente
importanti, cosa che capita di frequente.
Tornando alle mappe, è istruttiva la generalizzazione dei sistemi
di informazione geografica (SIG), che si sono imposti ovunque, nelle
imprese come nelle collettività. Questi sistemi associano dati e geori-
ferimenti, assegnando dati quantitativi a griglie spaziali e punti dello
spazio. In questo modo permettono di produrre tutte le mappe nu-
meriche che si desiderano, e “in tempo reale” nel momento in cui
tali sistemi sono organizzati convenientemente. Essi costituiscono
il risultato finale di un processo multisecolare di controllo dello spa-
zio materiale attraverso l’accoppiamento della visualizzazione e della
statistica. La potenza degli strumenti informatici (e i progressi del
georiferimento) permettono di costruire sistemi d’informazione geo-
grafica dalle capacità vertiginose, ove si può variare quasi all’infinito il
gioco dell’assegnazione di dati allo spazio. I sistemi d’informazione
geografica si fondano sull’articolazione di unità elementari pertinenti.
Ebbene, questa questione dell’articolazione, seppur essenziale poi-
ché condiziona la raccolta e la rappresentazione delle informazioni
da parte dei SIG, non è affatto trattata da coloro che prendono delle
decisioni, i quali si affidano agli “specialisti”, ai “tecnici” allorché si
servono dello strumento per compiere delle scelte. Ci si sottrae a un
dibattito che pure sarebbe importante, fatto che mi pare preoccupante.
Se si considerano adesso tutti i software che offrono e utilizzano
immagini satellitari, il cui modello è Google Earth, si potrebbe crede-
re che la pulsione all’articolazione in questo caso non abbia presa,
poiché si accede a una visione allargata. In effetti, questi programmi
propongono sempre più di sovrimporre alle immagini le articolazioni
e i limiti istituzionali, e di crearne di propri. Soprattutto, il funzio-
namento stesso di tali programmi si basa sulla suddivisione in pixel,
donde l’articolazione della superficie terrestre e dello schermo in
unità elementari di numerizzazione. L’articolazione è ormai parte in-
tegrante di ogni immagine numerica, costitutiva della nostra capacità
di osservare la terra.
La moltiplicazione dei limiti si constata senz’altro più facilmente
analizzando l’evoluzione urbana. Ovunque si sviluppano entità chiuse,
Sulla “geologistica” contemporanea 

nettamente delimitate, omogenee. Gated communities in senso stret-


to, altri spazi residenziali sottoposti a controllo di sicurezza, zone
industriali protette, parchi di divertimenti, centri commerciali, grandi
installazioni culturali o dedicati al relax, centri di detenzione, prigioni,
campi profughi o di transito: gli spazi delimitati pullulano.
v. L’inflazione dei limiti spaziali, e il carattere sempre più impe-
rativo del rispettarli, mi spinge a considerare come la competenza di
attraversamento acquisti un’importanza decisiva. Si tratta dell’insieme
di tecniche e di abitudini che abbiamo acquisito e che permettono a
ciascuno di attraversare (o di tentare di attraversare) i filtri, le soglie,
le frontiere, gli sbarramenti di sicurezza e i limiti di ogni genere che
ormai scandiscono le nostre vite quotidiane.
L’atto spaziale conosce delle condizioni di possibilità: fra queste
figurano ciò che l’operatore conosce dello spazio e della spazialità in
generale e dello spazio specifico della situazione d’esperienza che l’o-
peratore vive, nonché dei registri di spazialità che l’esperienza impone
o suggerisce. Questo sapere, più o meno oggettivabile, questa compe-
tenza a pensare, sentire e agire nella configurazione dinamica della
situazione deriva da una capitalizzazione, da un’integrazione mentale
di schemi di percezione e di repertori di azioni, frutto di esperienze
sociali. Ne fanno parte una buona parte di norme e di valori collet-
tivi, incorporati e tradotti nel linguaggio proprio dell’attore, e una
buona parte di singolarità. Non si deve, però, vedere in questo capitale
spaziale un giogo, un determinante di pratiche univoche, piuttosto
una risorsa potenzialmente attualizzabile. La spazialità, come tutto
l’agire sociale, è caratterizzato da tensioni dinamiche tra l’abitudine,
la routine, la riproduzione e la creatività, l’innovazione, il cambia-
mento, la spontaneità nell’adattarsi. Né immutabile né esclusivamente
mutevole, la spazialità unisce l’invarianza e la variazione, e spinge
ad apprezzare tutto e il contrario di tutto e a giustificarlo attraverso
giochi di linguaggio.
Questa teorizzazione dello spazio sociale e delle spazialità permet-
te di pensare l’evoluzione delle società contemporanee. Mi sembra
che queste siano caratterizzate da tensioni tra grandi principi spaziali,
apparentemente contradditori, portatori di ideologie, norme, regola-
menti, tecnologie, e pratiche. Questi principi sono in realtà articolati

. Che analizzo più dettagliatamente in Lussault b.


 Michel Lussault

e si alimentano vicendevolmente molto più di quanto non si oppon-


gano. Si tratta: . della mobilità; . della co–spazialità; . del conflitto
spaziale; . della separazione e della limitazione; . del filtraggio; .
della tracciabilità. Il primo principio promuove il movimento e il de-
raggruppamento generalizzato di tutte le cose e di tutti gli individui
in quanto potenziale supremo: è necessario che ci sia movimento,
spostamento. Il secondo permette di poter sempre connettere uno
spazio con un altro e caratterizza il primato topologico e telecomu-
nicativo. Il terzo esprime il desiderio degli individui di voler prendere
posto, un desiderio sempre più pressante nella misura in cui senza
una posizione da conquistare o proteggere, l’attore è nudo. Il quarto
manifesta il desiderio, alle volte compulsivo, di creare ovunque recinti,
bolle e sfere, il più omogenee possibile, senza le quali si pensa che
nulla possa funzionare. Il quinto impone come standard una regola
di accesso specifica che impone ormai il suo sigillo su un buon nu-
mero delle nostre attività quotidiane. Il sesto manifesta la volontà di
sapere chi (che cosa) si trova dove e perché, e traduce l’ossessione alla
geolocalizzazione di ogni realtà.
La combinatoria di questi principi che si esercitano sulle pratiche di
tutti gli operatori e contribuiscono potentemente all’organizzazione
delle società a tutti i livelli, compone ciò che propongo di chiamare
una geologistica. Conio questo neologismo per non confondere la
nozione che voglio presentare con il senso stretto della logistica intesa
come global chain supply. Nel mio pensiero, questa logistica non è che
una delle forme dalla geologistica, che io considero come l’insieme
dei modi di organizzazione necessari a un operatore per realizzare una
qualsiasi operazione spaziale, dalla più elementare alla più complessa.
Dal corpo al mondo, la geologistica afferma ormai il suo impero. Per
ogni operatore è fondamentale affermare la propria padronanza della
risorsa che costituisce l’organizzazione spaziale — organizzazione che
manifesta il gioco combinato dei sei grandi principi — con l’ausilio
delle cinque competenze che sono state presentate precedentemente
(metrica, scalare, di posizionamento, di delimitazione, di accesso).
In verità sono colpito da un’evoluzione che tento di esprimere attra-
verso questa nozione di geologistica: vale a dire, “l’equipaggiamento,
la strumentazione sempre più ricca dei nostri rapporti spaziali, tutti
più o meno indicizzati in un repertorio di funzioni e piegati dal peso
delle procedure normative. Oggi, ad esempio, dire “buongiorno” è
Sulla “geologistica” contemporanea 

diventato più un’azione strumentale che una forma di civiltà. L’in-


flessione del legame di attenzione sociale gratuita — che è una delle
condizioni di possibilità dell’esistenza di una società politica che si basi
sulla fiducia, la conciliazione — verso lo strumentalismo è illustrata
dalle pratiche di management commerciale dove esiste una norma
che viene insegnata ai venditori e agli “operatori di cassa”: sorridere,
buongiorno, arrivederci, grazie (SBAG). È così che si deve trattare
ogni cliente inscritto nella catena spaziale della vendita. Questo esem-
pio non è così insignificante come potrebbe sembrare, nella misura in
cui gli spazi commerciali sono luoghi di vita di massa e che le norme
di regolazione dello spazio sociale che vi sono applicate divengono
per molti un riferimento in materia. Più globalmente, ogni pratica,
anche la più intima, anche la più personale, è ormai inscritta in un
apparato di consigli tecnici, un catalogo di capacità necessarie, un
arsenale di raccomandazioni di ogni sorta, per garantire la sua effica-
cia, la sua sicurezza, la sua qualità, la sua tranquillità, in modo che i
praticanti siano il più efficaci possibile. È questo l’equipaggiamento dei
rapporti spaziali, la loro tecnologizzazione in vista della prestazione,
che trasforma ogni individuo in uno stratega geologistico. Questi
deve, peraltro, occuparsi da solo di funzioni sempre più oberanti nella
misura in cui le società di servizi esternalizzano verso i loro clienti
una gran parte dei compiti, cosa che obbliga questi ad acquisire nuove
competenze. Diventare il geologistico della propria esistenza consuma
una buona parte del proprio tempo; allo stesso modo, assicurarsi del
corretto svolgimento delle proprie operazioni spaziali, sempre più
numerose, condotte su scale sempre più varie, consuma una buona
parte della propria energia.
A mio parere, la spazialità si situa ormai più dal versante della techné,
dell’azione efficiente, dell’utilitarismo, mentre si potrebbe volerla
situare su quello della philia, questo sentimento disinteressato che
rende possibile conciliare — come lo sottolineava Aristotele — la
proprietà privata dei beni e l’uso collettivo dei suoi frutti. Ovvero
sul terreno dell’agapè, di questa affezione, di questa “accoglienza”
che consiste nel trattare l’altro in amicizia e non in inimicizia, da
amico e non da nemico. Chi potrebbe non vedere le conseguenze di
una concezione dello spazio dell’accoglienza, dell’attenzione all’altro,
dell’altruismo, del disinteresse, piuttosto che il persistere nella via della
geologistica, della ricerca permanente dell’efficacia e della potenza?
 Michel Lussault

La definizione del primato della geologistica restituisce al verbo


“esistere” il suo significato primario, se si ritorna all’etimologia di
ex–sistere. Sistere, che deriva dalla radice indeuropea sta, la quale si-
gnifica rimanere in piedi, immobile (donde il latino stare), significa
posizionare e/o posizionarsi. Esistere è dunque posizionare o posi-
zionarsi, “ex” — fuori da: contemporaneamente situarsi e spostarsi,
in breve agire per trovare la propria (buona) posizione. L’esistenza
sarebbe così un’azione spaziale permanente e una simile affermazione
mi pare passibile di dare una nuova profondità di senso cognitivo e
politico a molte delle situazioni osservabili. Questo mi sembra an-
che un mezzo per dare nuova freschezza alla questione essenziale, e
al contempo elementare: che cos’è il nostro mondo comune? Sono
tentato di rispondere: ciò che abbiamo in comune, più di ogni altra
cosa, è — visto che vi è della distanza — la spazialità stessa, la necessità
inarrestabile di dispiegare, interagendo con le altre realtà sociali, le
nostre spazialità e di accomodare così i nostri spazi di vita, in misura
dei valori che attribuiamo loro.

Riferimenti bibliografici

L M. () L’Homme spatial. La construction sociale de l’espace hu-


main, Le Seuil, Paris.
———. (a) De la lutte des classes à la lutte des places, Grasset, Paris.
———. (b) “L’urbain mondialisé”, in O. Marchal et J.–M. Stébé (éd.),
Traité sur la ville, PUF, Paris, –.

Michel Lussault
École Normale Supérieure de Lyon
Lexia. Rivista di semiotica, 9–10
Ambiente, ambientamento, ambientazione
ISBN 978-88-548-4516-9
DOI 10.4399/97888548451693
pag. 55–71 (dicembre 2011)

Sentimenti nello spazio predimensionale


Riflessioni atmosferologiche

T G

 : Feelings in Predimensional Space: Atmospherological Reflections

: The text outlines, first of all with reference to New Phenomeno-
logy by Hermann Schmitz and Aisthetik by Gernot Böhme, a sketch
of an aesthetic and ontological theory of atmospheres as half–entities
(quasi–things). According to this view, the world shows up not as a
neutral realm of entities but in the first instance as an atmosferic field
perceived by a felt or feeling body. In this sense feelings are holistic
significant situations and corporeally moving atmospheres poured out
spatially: they become manifest to the person as quasi–corporeal forces
in the predimensional space of everyday’s life. They are not projective su-
bjective qualities, but comparative mind–independent emotional qualia
that confront us with a synaesthetical “affordance” (their radiance into
the surroundings) and exist in public space, not in an individual’s mind.
Just this quasi–objectivity of atmosphere gives proof of our existential
and “ecological” passivity, of the fact that we are not (emotionally too)
“master in our own house”.

: Atmospheres; aesthetics; phenomenology; feelings; body.

. Atmosferologia

Una volta che, kantianamente, il mondo sia declassato a “oggetto


di possibile esperienza, esso cessa ipso facto di essere il contenuto di
un’esperienza propria e diretta, consegnando così l’uomo al nume-
rus clausus di un’esperienza intesa, riduttivamente, come prodotto
artificiale da laboratorio o come sbiadito luogo comune rispetto al-
l’attesa (più o meno escatologica). A questa riduzione “moderna”
dell’esperienza al sentito dire o allo statisticamente dimostrato con-
verrà, invece, opporre una valorizzazione della “prima impressione”


 Tonino Griffero

(Griffero a) e in genere della repentinità estesiologica, cioè di una


categoria che, debitamente ricondotta la percezione dalla dimensione
asfitticamente oculare a quella variopinta del vissuto del corpo proprio
(e non fisico–anatomico), sia all’altezza delle normalmente trascurate
esperienze vitali involontarie. Ossia di esperienze per le quali la for-
ma mentis dominante non ha (più) gli strumenti esplicativi, una volta
screditata (con Bacone) la cosiddetta experientia vaga ed esiliata razio-
nalisticamente nella sfera dell’ineffabilità quasi–mistica la “passione”
come Ergriffenheit (afferramento) e, appunto, come coinvolgimento
affettivo–corporeo.
L’ipotesi entro cui intendiamo collocare questa fenomenologia
della prima impressione allora è quella di una vera e propria atmosfe-
rologia (Griffero  e soprattutto b), vale a dire di un’estetica
(“dal basso”, s’intende) degli spazi emozionali, guidata da paradigmi
ontologici più “inflazionistici” di quelli tradizionali e fondata, anziché
sull’arte (Griffero e), su una percettologia “ingenua” di cose ed
eventi della vita quotidiana. Un approccio, questo, che vuole essere
varie cose. a) In primis un sapere estetico, in quanto valorizza l’idea
baumgarteniana di una conoscenza sensibile e del suo possibile per-
fezionamento (non necessariamente identificabile con la bellezza)
anziché del suo eventuale inveramento sul piano logico. Ma anche b)
un sapere fenomenologico, nella misura in cui riflette sulla centralità o
indeducibilità della presenza corporea e assume seriamente il compito
di legittimare e comprendere la realtà di ciò che si mostra, prendendo
a parametro il sentire nel corpo proprio (Leib) anziché la riflessione e il
dato sensibile, magari atomisticamente concepito o come pallido resi-
duo di un’epoché comunque orientata a un’egologia in parte idealistica.
Vorrebbe inoltre essere c) un sapere percettologico, intendendo però
qui con “percezione” non tanto la semplice raccolta di dati artificiosa-
mente “preparati” per il giudizio quanto un’integrale partecipazione
corporeo–affettiva al mondo, un sentire atmosferico (appunto) che,
afinalistico e persino nomadico nel contare su vissuti momentanei ed
eventi perfino effimeri, sia reso relativamente da un linguaggio più
“annotativo” (Hasse , p. ) che non descrittivo o, peggio ancora,
concettuale. d) Un sapere ontologico, visto che mira comunque a cor-
reggere il catalogo ontologico ordinario, integrandovi realtà e caratteri
irriducibili sia al prevalente dualismo psicosomatico occidentale sia
— per la loro singolarità performativa, automanifestativa e materica
Sentimenti nello spazio predimensionale 

— al piano apofantico con le sue urgenze identificativo–significanti:


realtà e caratteri, detto altrimenti, la cui presenza effettiva è tanto in-
traducibile–insostituibile che “nulla supplisce l’esperienza vissuta che
se ne fa” (Mersch , p. ). Infine, e) un sapere che, adeguato alla
sfera precognitiva del senso comune, valorizzi, tematizzando appunto
le atmosfere come tipi emozionali estratti alla stregua di invarianti
dal flusso dei vissuti, una forma di segmentazione della realtà non
meno primaria di quella pragmatica, forse persino più originaria nel
“toccarci” con la sua salienza e comunque altrettanto funzionale sul
piano delle eventuali induzioni pratiche (Griffero c).
L’atmosferologia si presenta dunque, valorizzando e rielaboran-
do qui una certa tradizione in lingua tedesca (nell’ordine Tellenbach
, Schmitz  e sgg., Hauskeller , Böhme , , ,
), come un’estetica fenomenologica rigorosamente circoscritta
all’apparire e fondata sulla percezione intesa non come una prassi
rappresentativo–oculare (semmai deambulatoria e sinestesica), ma
come un essere–nel–mondo (Heidegger) (cfr Griffero ) o esse-
re–al–mondo (Merleau–Ponty) anteriore alla distinzione di soggetto
e oggetto, come un sentire olisticamente “impressioni” o tonalità
emotive intermodali e quasi–oggettive (quanto meno entro culture re-
lativamente omogenee) ben prima che se ne possa fare una disamina
analitico–riflessiva (Griffero ).
In questo senso le atmosfere sono a) il prius del senso comune, uno
sfondo tanto connaturato da non essere facilmente tematizzabile e da
dar vita solo in seguito a distinte prestazioni sensoriali e cognitive; ma
anche b) entità costituzionalmente vaghe rispetto ai criteri quantitativi
predisposti per gli oggetti, considerando tale vaghezza niente affatto
una lacuna epistemicamente emendabile (l’atmosfera leggera di un
edificio, insomma, non ha nulla a che fare col suo peso effettivo). Esse
sono poi c) entità “vere” (posto ovviamente che non si dia l’esclusiva
della verità all’epistemologia) e quasi–oggettive nel loro valere come
qualia situati nello spazio esterno e connessi a una modificazione dello
spazio corporeo, nel loro essere, in breve, emozioni spazializzate; ma
anche d) affordances (Gibson ), ossia “informazioni” emozionali
largamente condivise e non frutto di vibrazioni soggettive occasio-
nali, in altri termini completamenti amodali comunque irriducibili,
nel loro promuovere eventualmente anche una stasi contemplativa, a
valenze esclusivamente pragmatiche. Infine, sono entità talvolta anche
 Tonino Griffero

e) convenzionali — si pensi allo scenografo che con pochi tratti comu-


nica entro quale nuova atmosfera storico–culturale–psicologica vada
compresa la nuova scena teatrale — nella misura in cui suggeriscono
l’origine in parte indubbiamente anche sociale di una certa qualità
percettiva e il conseguente valore simbolico differenziale delle forme
e dei materiali utilizzati.

. L’atmosfera è un vincolo situazionale

L’atmosferologia da noi sviluppata, presupponendo un’idea di filosofia


come “riflessione dell’uomo sul proprio orientarsi nel proprio am-
biente” (Schmitz , p. ), presuppone ipso facto la centralità dei
vincoli situazionali (Griffero b), intendendo qui con “situazione”
non certo la versione addomesticata che se ne ricava attraverso la
superficiale triade ontologica di sostanza–accidente–relazione, bensì
un’articolazione originaria della materia–mondo e irriducibile alla
sue componenti numeriche (come tali un prodotto tardivo e precario),
una significatività immediata e internamente diffusa che, spezzando
l’unifome neutralità del continuum, tramuta il piano fino a quel punto
prepersonale e preindividuale in qualcosa di identitario. Tramutando il
preindividuale in individuale, l’atmosfera modifica, o comunque mo-
dula in maniera specifica, il medium circostante proprio in virtù della
propria semi–cosalità: infrange l’omogeneità dello spazio (ci tornere-
mo), riorientandolo e colmandolo di tensioni e suggestioni motorie
capaci di indurre nell’osservatore una sorta d’incontrollabile mimesi
cinetico–corporea. Potremmo dire che avvia una vera e propria “sce-
neggiatura” pluriarticolata (Schmitz parlerebbe di fatti, programmi e
problemi), dotata di un valore vincolante più (fenomenologicamente)
oggettivo che soggettivo e caratterizzata da un’impressività ora tacita
ora eloquente. In quanto pervasive quality (Dewey) l’atmosfera è, in
breve, la qualità specifica (terziaria, emozionale) della situazione “in
cui” ci imbattiamo e “da cui”, specialmente in ciò favoriti da una certa

. “Sono le dimore, le scaturigini e i partner primari di tutto il comportamento umano


e animale; tutto il pensare e il sentire, il volere, il rappresentare e il fare attinge dalle
situazioni, vi ricade e si sofferma in modo analitico e combinatorio solo con passi provvisori
sui singoli temi ricavati dalle situazioni e sulle loro costellazioni” (Schmitz , p. ).
Sentimenti nello spazio predimensionale 

stanchezza (proprio–corporea), siamo pervasi ben prima che essa,


teleologicamente, assuma una più precisa organicità.
Opponendo, nella situazione prototipica, una resistenza (affettiva)
alle nostre inclinazioni proiettive, l’atmosfera funge a tutti gli effetti da
vincolo semi–cosale. Un’atmosfera d’intensa eccitazione, ad esempio,
essendo uno spazio — come vedremo, indivisibile e privo di confini in
senso stretto (tanto più se fiat, ossia confini posti in modo relativamen-
te arbitrario) — pervaso da una tensione che non “vuole” scaricarsi
(“c’è qualcosa nell’aria!”) e di cui constatiamo agevolmente l’effetto
sul nostro stesso corpo, è appunto un vincolo proprio–corporeo e
affettivo (preriflessivo) a noi “esterno”. In fondo, non esistono situa-
zioni prive di una carica atmosferica, certo diversa per intensità e
probabilmente tanto più potente quanto meno “analizzata” ed espli-
citata. Non è quindi esagerato affermare che l’atmosfericità equivale
alla nostra inaggirabile e caotica situazionalità: quasi fossero “nicchie”
sopravvenienti espressivo–qualitative in prima istanza niente affatto
sollecitate dal soggetto percipiente (“paesaggi” in un senso partico-
lare) (Griffero b), le atmosfere ci “prescrivono” questo o quel
contegno (emozionale, motorio e finanche cognitivo), integrando
così, alla stregua di vincoli patici e sintesi passive, i più tradizionali vin-
coli biologici, esistenziali, culturali, e rendendo possibile, ben “prima”
dell’intervento dell’area corticale (elaborazione cognitiva strictu sen-
su), un esonero (proprio à la Gehlen) rispetto alla condizione astratta,
altrimenti paralizzante, dell’onnipossibilità.

. L’atmosfera è una semi–cosa

Anziché analizzare in dettaglio la tipologia delle esperienze atmosfe-


riche e i loro eventuali generatori (Böhme ), tematizziamo ora
l’eterodossa natura ontologica e semi–cosale delle atmosfere. Le “sen-
tiamo”, ne parliamo, le descriviamo, le collochiamo nello spazio: sono,
dunque, quanto meno delle semi–cose, il cui ruolo nella vita percettiva
è stato fatalmente sottovalutato dall’ontologia cosale tradizionale, cieca
per tutto ciò che non sia una cosa, una proprietà (linguisticamente: un
soggetto o un predicato) o quanto meno una costellazione di entità
discrete.
 Tonino Griffero

Un’estetica delle atmosfere dovrebbe, al contrario, prestare atten-


zione non più e non tanto a enti conchiusi e discreti, bensì a entità
effimere e spesso intermittenti, che, a differenza appunto delle cose in
senso proprio, compaiono e spariscono, senza che ci si possa sensatamente
domandare dove e in che modo siano esistite nel frattempo. A semi–cose,
inoltre, che non sono le cause dell’influsso, piuttosto l’influsso stesso, sono
cioè, in quanto coincidenza di causa e azione stessa, “estasi” delle
cose stesse (Böhme ), potremmo forse anche dire i loro “pun-
ti di vista” (Griffero a), irriducibili a espressione di un interno
(che qui non esiste affatto) e in ciò analoghi semmai a potenze de-
moniche indipendenti dalla nostra volontà, che sia il “numinoso”
(Otto ) che aleggia intorno a templi e monumenti, contagian-
do proprio–corporalmente gli astanti, o il colore non superficiale e
pellicolare ma atmosferico, appunto, perché diffuso intorno ai suoi
portatori (Merleau–Ponty , pp. , ). Le atmosfere — per prose-
guire — non sono affatto delle proprietà dell’oggetto (di quale poi?), bensì
qualità che le cose o gli eventi non “hanno”, ma nella cui manifesta-
zione in certo qual modo si esauriscono (come il vento s’esaurisce
nel soffiare), modi–di–essere pervasivi (Metzger , pp. –) che
generano lo spazio affettivo in cui (letteralmente) ci imbattiamo. Pur
quasi–oggettive, esse sono un “tra”, reso possibile dalla co–presenza (cor-
porea ma anche sociale e simbolica) di soggetto e oggetto, la quale però,
a rigore, è anteriore alla distinzione stessa tra soggetto e oggetto (pena
una ricaduta nel dualismo aborrito); sono cioè un “frammezzo” inte-
so, un po’ come quell’intervallo’ (ma) che la forma mentis giapponese
sovraordina alle cose che esso separa e considera la condizione di
possibilità di qualsiasi rapporto io/mondo (Hauskeller , p. ),
trattandosi di una relazione autonoma dai suoi relati e in certo qual
senso più originaria. Emendabili solo entro il senso comune per la loro
costituzionale vaghezza (de re oltre che de dicto, quindi), per una va-
ghezza che non ne è un deficit ma una ricchezza, e la cui petulante
pretesa di messa a fuoco, anzi, suonerebbe probabilmente patologica,
le atmosfere sono solo relativamente penetrabili sotto il profilo epi-
stemico, né surrogabili, senza diminutio, da una precisazione del polo
oggettuale di grana più fine, situandosi, a ben vedere, ogni loro possi-
bile revisione sul medesimo piano percettivo (che sia per l’alterazione
della condizione ottimale, per la fine dell’occlusione che, soltanto, ren-
deva possibile quella percezione atmosferica, ecc.) (Griffero b, pp.
Sentimenti nello spazio predimensionale 

–). E tuttavia devono pur avere una qualche identità (evidente anche
come traccia mnestica), visto che, mentre è inverosimile sbagliarsi nel
percepirle — rispetto a quale “realtà”? si darà forse un dover–essere
della percezione atmosferica? magari un’atmosfera idealtipica? —, ci
si può certamente sbagliare nel generarle: l’umbratilità autunnale di
un bosco, ad esempio, non può assolutamente esprimere un’atmo-
sfera euforica, così come l’ufficio open space, nato forse per favorire
la socializzazione e l’eguaglianza, suscita al contrario un plumbeo
clima di eterocontrollo e di assenza della privacy. Proprio la loro pos-
sibile produzione intenzionale dimostra, infine, che, pur esistendo in
senso proprio solo in atto, come fenomeni (o atti) puri, dati dalla perfetta
coincidenza di esistenza e apparizione (ritenzione e protenzione incluse,
ovviamente), sul piano del discorso esistono però anche sicuramente come
stati potenziali. Un po’ come l’arcobaleno, fenomenicamente esistente
senza essere un oggetto materiale né occupare una posizione spaziale
quantificabile, un’atmosfera esiste solo nel suo apparire, a differenza
degli oggetti propriamente detti, le cui qualità sono pensabili anche in
assenza di percezione.
Ora, se per un verso non ha quindi senso parlare di un’atmosfera op-
primente che non opprimesse nessuno (Hauskeller , p. ; Böhme
), per l’altro è senz’altro possibile progettare l’effetto atmosferico,
e quindi pensarlo, con relativa certezza statistica, sul piano della pia-
nificazione controfattuale. La progettabilità di atmosfere, quello che
Böhme chiama a giusto titolo “lavoro estetico”, conta infatti proprio
sulla relativa intersoggettività intermodale dell’atmosferico. Sul fatto cioè
che, pur tra molteplici sfumature e risposte idiosincratiche, l’atmo-
sfera di un funerale, ad esempio, è per tutti anzitutto di cordoglio e
di malinconia, ed è producibile tramite sinestesie — la cui regolarità
e originarietà sono misconosciute a causa della riduzione scientisti-
ca dell’esperienza quotidiana (Merleau–Ponty , p. ) — oltre
che con modalità diverse ma equiespressive. L’analogia, ad esempio,
tra freddezza cromatica e freddezza sonora, luminosa, d’arredamen-
to, ecc., deriva infatti non tanto da una banale lessicalizzazione della
metafora (“freddezza”), quanto dalla condivisione di qualità sensibili
non organicamente mediate (Griffero a). Che siano perduranti
o transienti, più determinate di quanto si creda da confini (bona fide
o fiat) o strettamente occasionali (l’atmosfera suscitata da un passo
felpato, ad esempio, è inquietante solo in un thriller), ciò che ci preme
 Tonino Griffero

qui sottolineare è che, se la forma in cui si percepiscono le atmosfere


è almeno in parte soggetto–dipendente, il loro assetto oggettuale è
invece quasi del tutto indifferente a ciò che ne pensiamo. Lo dimostra
il fatto, banalissimo ma non per questo sottovalutabile, che con la
sparizione e perfino solo con l’occlusione di alcuni degli enti percepiti
l’atmosfera cessa del tutto di esistere.

. Le atmosfere ci riportano al V secolo a.C.?

Non so se tutto cominci davvero in Grecia nella seconda metà del V


secolo a.C. Ma è senza dubbio suggestivo collocarvi l’avvento della
“carriera” delll’astrazione, intesa come riduzionismo e introiezione
(dei sentimenti), nella fattispecie — e per quello che ci riguarda —
come il duplice processo per cui il soggetto s’illude di controllare sia il
mondo esterno, debitamente ridotto a classificazione quantitativa, sia
il mondo interno, a sua volta preventivamente ridotto a sentimenti
soggettivi in larga parte manipolabili. Questa, notoriamente, la po-
sizione di Hermann Schmitz (–), impegnato a descrivere (e a
stigmatizzare) come la civiltà occidentale abbia ridotto (oltre tutto,
illusoriamente) i sentimenti, sentiti in precedenza come delle potenze
spaziali esterne, che divampano in modo abissale e in–fondato, a delle
pure e semplici forze psicologiche interne, per definizione almeno
relativamente governabili (Griffero d). Postulando l’esistenza di
sentimenti spazializzati, voluminosi ma predimensionali, influenti sul
soggetto ma sovrapersonali, si promuove allora, se non il rovescia-
mento, quanto meno la problematizzazione del paradigma astrattivo
e anti–patico egemonico in Occidente (a partire dall’Odissea), da cui
discendono l’errore proiettivistico (il mondo avrebbe sentimenti solo
perché noi glieli conferiamo!), quello introiezionistico (l’internalizza-
zione e segregazione dell’intera sfera sentimentale in una sfera interna
finzionale come la psiche) e, fatalmente, l’impossibilità di spiegare co-
me dall’interno si possa poi uscire e accedere al mondo (è, in fondo, la
storia epica del dualismo postcartesiano e delle sue sue insoddisfacenti
soluzioni).
Non poi molto diversi da “case e alberi”, cioè “non più soggettivi
di quanto lo siano le strade maestre, solo meno facili da fissare” (Sch-
mitz , p. ), i sentimenti come atmosfere si manifesterebbero
Sentimenti nello spazio predimensionale 

nello spazio (la “quiete prima della tempesta”, la “febbre della ribalta”,
le atmosfere religiose, il fascino erotico irradiato da una persona, il
carattere friendly di una certa grafica informatica, il rustico “calore”
di un manufatto di legno anziché d’acciaio, ecc.) indipendentemen-
te da qualsiasi struttura intenzionale, erroneamente universalizzata
dall’ortodossia fenomenologica, dando questa o quella tonalità af-
fettiva al nostro rapporto col mondo, detto altrimenti alla nostra
comunicazione proprio–corporea con enti ed eventi esterni.

. L’atmosfera è un sentimento effuso nello spazio (vissuto)

In quanto, come si è detto, sentimenti effusi nello spazio, le atmosfere


chiamano in causa ovviamente uno spazio non fisico–geometrico ma
vissuto, e cioè un concetto che, dopo una promettente carriera filoso-
fica nella prima metà del Novecento, è oggi nuovamente in auge nelle
scienze sociali (spatial turn), interessate al tipo di esperienza dello spa-
zio che facciamo nel “mondo della vita”. Un’esperienza, cioè, a cui la
geometria piana si rivela del tutto inadeguata, incapace di giustificare,
ad esempio, l’ampiezza non solo metaforica del silenzio domenicale
o l’angustia di una camera (magari metricamente identica a un’altra,
sentita però come più ariosa), l’ingente differenza tra lo spazio denso
di salienze direzionali in cui si muove il danzatore e quello anòdino di
chi attraversa senza motivo la medesima pista da ballo, la diversa esten-
sione di un tragitto per chi passeggia annoiato o per chi ha fretta di
arrivare in un luogo ben preciso, ma anche, banalmente, per chi va e
chi torna. Proprio questo “senso” extradimensionale e non epistemico
dello spazio, contrapposto allo spazio “fisico” fatto di luoghi e distanze
misurabili e di un’astratta uniformità (isotropia e tridimensionalità
euclidea) nel suo rivendicare un’“assolutezza” e “irreversibilità” legate
al corpo vivo (sopra/sotto, destra/sinistra, alto/basso) e/o al nostro
agire, come rilevato, seppure con tutte le differenze del caso, in ambito
fenomenologico–psicopatologico (Heidegger, Binswanger, Minkow-
ski, Straus, Dürckheim) e poi in quello antropologico–esistenzialistico
(Merleau–Ponty, Bachelard, Bollnow). Insomma, è solo perché l’uomo
ha uno spazio vissuto che ha senso dire che lo spazio manca, che lo si
pretende, che se ne ha bisogno, che se ne lamenta perfino l’eccesso,
cercando sicurezza nell’angustia, che lo si può avere o non avere, che
 Tonino Griffero

lo si può “fare” (creando dunque un vuoto prima assente), essendone


psicosociali e relativamente indipendenti dall’ontologia fisica sia la
genesi sia gli effetti. In breve, l’uomo non si trova “nello” spazio come
in un grande contenitore, ossia in un sistema invariabile di riferimento
di cose e luoghi reciprocamente definiti da posizione e distanza —
la cui utilità pragmatica, ovviamente, nessuno qui disconosce — ma
genera “spazi” sempre emozionalmente qualificati, ossia atmosferici.
È in nome di questi spazi vissuti predimensionali (Schmitz ) che si
può affermare che, “oltre alla distanza fisica o geometrica che esiste
tra me e tutte le cose, una distanza vissuta mi collega alle cose che
contano ed esistono per me e le collega tra di esse. Questa distanza
misura in ogni momento l’“ampiezza” della mia vita” (Merleau–Ponty
, p. ). Di qui una diversa “percezione” dello spazio da parte
di generazioni, etnie, sessi, culture, diversi, ma anche una sorta di
polidemonismo degli spazi, basato cioè, secondo Klages, sulle molte-
plici possibili “immagini” o anime elementari” (anche prebiotiche)
dei luoghi.

Per lo spirito ancorato alla vita si danno innanzitutto tanti spazi e tanti tempi
quante sono le immagini di cui è possibile fare un’esperienza vissuta in
senso spazio–temporale: dunque non soltanto uno spazio notturno accanto
a uno diurno, uno spazio domestico accanto a uno celeste, lo spazio di
un bosco accanto a quello di un tempio, un est, un sud, un ovest, un nord,
bensì, eventualmente, tanti spazi della casa quante sono le case, e infine
ancora tanti spazi della casa quanto sono gli attimi dell’interiorizzazione
della manifestazione spaziale attraverso cui la casa assume forma.
(Klages , p. )

Ora, è qui naturalmente impossibile anche solo abbozzare la storia


(filosofica) dello spazio vissuto (per un primo approccio cfr Griffero
c). Ci basterà mutuare la suggestiva (salutarmente controintuiti-
va!) rettifica neofenomenologica della concezione spaziale dominante
nella cultura occidentale (il topos o luogo come ambito circoscritto da
corpi in Aristotele e lo spatium metrico in Cartesio) per avere gli ele-
menti necessari per comprendere quale spazialità spetti all’atmosfera.
Tre sono, verosimilmente, i livelli, normalmente integrati nella vita
adulta, dell’esperienza dello spazio (per una sintesi Schmitz , pp.
–), e cioè a) lo spazio locale (Ortsraum), fondato su dimensioni
geometriche relative (superfici, punti, distanze reversibili) e prive di un
Sentimenti nello spazio predimensionale 

loro “carattere”, b) lo spazio direzionale (Richtungsraum), pregeometri-


co e dominato da una motricità fondata non sulla traslazione locale ma
sulla dinamica irreversibile di angustia e vastità e sulla comunicazione
proprio–corporea con l’ambiente circostante (donde le suggestioni
cinetiche e le impressioni sinestesiche), infine, più originariamente, c)
lo spazio privo di superfici e predimensionale della vastità (Weiteraum) in
quanto luogo “della presenza primitiva” (Schmitz , p. ) e aprio-
ri extradimensionale dell’intero sentire proprio–corporeo. Rientrano
in questo spazio della vastità, del quale lo spazio locale e direzionale
non sono in definitiva che variazioni successive, lo spazio “climatico”
e quello sonoro, lo spazio olfattivo e quello del silenzio, quello dell’ac-
qua per chi nuota e quello “assoluto” delle “isole” del corpo–proprio,
quello del vuoto e quello dell’estasi, ma soprattutto lo spazio del
sentimento con le sue del tutto peculiari voluminosità. Prestando
ora attenzione a questi spazi solo dal punto di vista atmosferologi-
co, potremmo dire che, se allo spazio della vastità corrispondono a)
atmosfere prive di confini come gli stati d’animo puri, da cui deriva-
no estensioni piene (soddisfazione) o vuote (disperazione) del corpo
proprio, allo spazio direzionale corrispondono, invece, b) atmosfere
vettoriali come le emozioni (unilaterali o onnilaterali, centrifughe o
centripete, ecc.), alle cui terminazioni “centrate” in un oggetto, tra
l’altro, si deve l’apparente intenzionalità, e allo spazio locale, infine,
corrispondono c) le atmosfere che, in questo o quell’oggetto, trovano
il loro punto di condensazione o di ancoraggio (per usare la termino-
logia di Metzger). Se ne può dunque concludere che vi sono tanti tipi
di atmosfere quanti sono i generi di spazialità.

. Problematizzando (fenomenologicamente)

Proviamo, infine, a esemplificare e insieme a complicare la casistica


atmosferica (cfr Hauskeller  e Griffero b).
a) È possibile, infatti, anzitutto che l’atmosfera di un certo ambien-
te ri–orienti completamente la situazione emotiva in cui mi trovo
quando vi faccio il mio ingresso, risultando, pertanto, del tutto refrat-
taria a qualsiasi (più o meno consapevole) tentativo di adattamento
proiettivo compiuto dal soggetto. Può accadere, cioè, che io percepi-
 Tonino Griffero

sca proprio quell’atmosfera come oggettivamente data e non possa


non condividerla.
b) Ma può accadere anche che io percepisca e comprenda l’atmosfe-
ra effusa in un certo spazio, che anzi la possa definire, e forse perfino
descrivere ad altri, indipendentemente da concetti stabili, senza peral-
tro sentirmene davvero toccato: è come se, per così dire, la “leggessi”
nell’aspetto fenomenico–fisiognomico degli altri e/o delle cose, ne
riconoscessi la radice “oggettiva” e le condizioni di possibilità, senza
però condividerla (né esservi costretto), nel senso che un paesaggio
autunnale avvolto nella nebbia dovrebbe incutere malinconia, anche se,
per ragioni che non è qui il caso di precisare, ciò potrebbe non valere
hic et nunc per me.
c) È poi possibile, naturalmente, anche che il mio stato emotivo sia
talmente prorompente da impedirmi finanche la rilevazione sensoria-
le–affettiva dell’atmosfera distonica ivi presente: di qui l’eventualità
che ci si possa trovare in una situazione di inadeguatezza “emozio-
nale”, fonte per se stessi e per gli altri di grande imbarazzo (come
quando si arriva euforici in un gruppo che sta invece vivendo un
dramma), che ci si senta e si venga sentiti come “fuori posto”, magari
anche solo perché si è culturalmente estranei al modo in cui un certo
gruppo sociale esprime e irradia intorno a sé certi sentimenti.
d) Ma non è neppure escluso che, viceversa, io possa anche trasfor-
mare l’atmosfera presente, modificando via via, ad esempio, l’umore
degli astanti in forza dell’atmosfera che mi circonda e che (involonta-
riamente) irradio nello spazio emozionale cui accedo: un’atmosfera
— perché no — suggeritami, eventualmente, da quello stesso spazio
emozionale che esercita sugli altri un effetto atmosferico diverso se
non addirittura opposto.
e) È poi possibile “sentire” una certa atmosfera in modo del tutto
idiosincratico: posso ben percepire un’aria di tristezza, per ragioni
tutte mie, anche in un cielo limpido e sereno, ricavare un’atmosfera
tesa se non opprimente dal riso dei bambini, ecc.
f ) Posso poi percepire una certa atmosfera irradiata da una persona,
anche quando non la provi in alcun modo la persona che appunto la
irradia (è quello che, prototipicamente, si esprime dicendo che “ci si
vergogna di e/o per un altro”). Il che implica, ancora una volta, che il
percipiente non è necessariamente colpito da un sentimento (il quale,
piuttosto, coincide con questo suo essere–colpito), oppure che si può
Sentimenti nello spazio predimensionale 

provare un’atmosfera per interposta persona, sentendo in certo qual


modo ciò che “dovrebbe” normalmente sentire lui.
g) Un ulteriore problema, non necessariamente indulgente nei
confronti del proiettivismo, riguarda la possibilità di distinguere tra
cose e situazioni alle quali inerisce in modo relativamente costante la
capacità di suscitare certe atmosfere, e cose e situazioni che, invece, se
ne fanno carico occasionalmente, a seconda cioè sia della costellazione
di cui entrano a far parte, sia dello stato d’animo di chi le considera:
anche una situazione festosa può irradiare un’atmosfera sinistra, ad
esempio se risulta in contrasto con lo stato d’animo che, per questa o
quella ragione, la compagnia dovrebbe avere; un paesaggio circonfuso
da un’atmosfera idilliaca cessa di essere tale (le atmosfere sono dunque,
almeno in parte, cognitivamente penetrabili!) quando, ad esempio,
pur senza che ne mutino le componenti percepite, vi vediamo l’esito
di operazioni artificiali e magari eticamente riprovevoli.
La casistica — non è difficile immaginarlo — potrebbe risultare
anche più complicata. Ma quel che ci interessa mostrare, pur sfug-
gendo alla tentazione di una totale reificazione delle atmosfere, è che
esse non sono totalmente riconducibili alla proiezione del soggetto,
che, anzi, sono tanto resistenti alle nostre interpretazioni da avere
la meglio sul nostro stato d’animo. Questa loro semi–oggettività è
ulteriormente e definitivamente provata dall’esistenza di professioni
impegnate appunto nella creazione di atmosfere (scenografia, proget-
tazione d’eventi, allestimento museale, arredamento d’interni, archi-
tettura, urbanistica, luminotecnica, ecc.) attraverso la manipolazione
di stimoli fisici e psicologici e la valutazione statistico–ipotetica dei
loro effetti, dall’esistenza, cioè, di una vera e propria “competenza”
atmosferica.

. Inflazionismo ontologico

“Ecologicamente” oggettive, ossia sopravvenienti rispetto a certe pro-


prietà fisiche — che devono pure avere qualcosa che favorisce, pro-
muove e suggerisce proprio quella (e non un’altra) tonalità emotiva —,
ma vincolate nel loro passare all’“atto” alla presenza di un percipiente,
le atmosfere determinano a tergo tutta la nostra vita, influenzando
più di quanto non si voglia ammettere anche gli strati più coscienti e
 Tonino Griffero

intenzionali. Si tratterà dunque, nel promuovere un’atmosferologia,


di reagire inflazionisticamente a ogni parsimonia ontologica con la
valorizzazione del qualitativo e del fluido, dell’indeterminato e dell’effi-
mero, ossia di tutto ciò che, appunto perché ritenuto tradizionalmente
elusivo (buchi, ombre, nuvole, vuoto, onde, fantasmi percettivi estesi
ancorché immateriali, fumi, atmosfere appunto, ecc.), ci pare merite-
vole del massimo interesse estetico–fenomenologico. Scontato ci pare
qui l’insuccesso di ogni strategia riduzionista: che sia radicalmente
eliminativista, volta cioè a escludere il prius atmosferico dal catalogo
ontologico fondamentale attraverso riformulazioni strettamente fisi-
caliste e pertanto costretta a considerare i precisissimi meccanismi
che presiedono alle nostre esperienze vitali involontarie un millena-
rio inganno collettivo, oppure disposizionalista (eccezion fatta per
le professioni atmosferiche, infatti, noi percepiamo propriamente le
atmosfere solo in atto), o anche solo linguistica, se non altro perché il
linguaggio, proprio come qualità semicosale del mondo–ambiente, è
a sua volta appunto uno straordinario generatore di atmosfere.
L’esclusione delle atmosfere da un catalogo ontologico ragionevole
sarebbe, in ultima analisi, un “lusso” che l’essere umano non può
permettersi, non potendo quasi mai la vita attendere la traduzione del-
l’intuitività affettiva sul piano più neutrale della cognitività apofantica
e dell’ordinamento reista. E tanto più se fosse vero che è all’atmosfera
che lo avvolge che ogni pensiero (perfino un sillogismo) deve in ulti-
ma analisi la sua forza persuasiva (su chi lo pensa e sugli altri). Come
altre entità ontologicamente “eretiche”, anche le atmosfere possono,
quindi, dirsi degli individui (semi–cose, se si vuole) particolari, delle
entità superficiali, certamente parassitarie rispetto agli oggetti e alle
loro costellazioni ambientali, ma non per questo meno influenti sulla
nostra vita nel loro indispensabile segnalare non tanto dove o che cosa
ma come l’uomo vive. E “competenza” atmosferica — sarà il caso
di segnalarlo in conclusione — non significa certo solo abilità nella
produzione di situazioni esteticamente valide, bensì anche sempre
educazione alla comprensione consapevole delle più svariate mani-
polazioni emozionali cui si è sottoposti, a maggior ragione in una
società orientata non più al valore d’uso o di scambio ma al valore di
messa–in–scena (Böhme ; ). Da una matura atmosferologia
viene cioè anche la capacità di prendere le distanze dalle atmosfere (ad
esempio stigmatizzando l’estetizzazione della politica’) e di fornire
Sentimenti nello spazio predimensionale 

una valutazione critica dei meccanismi di suggestione su cui conta


tutto quello che ci viene “venduto (merci o programmi politici, non
fa differenza): lungi dal risolversi in un’acritica e un po’ masochista
apologia dell’esistente, complice della massiccia odierna colonizzazio-
ne dei sentimenti, l’atmosferologia insegna piuttosto i rudimenti di
una più matura forma di immunizzazione.

Riferimenti bibliografici

B G. () Atmosphäre. Essays zur neuen Ästhetik, Suhrkamp, Franco-


forte sul Meno.
———. () Anmutungen. Über das Atmosphärische, Tertium, Ostfildern
vor Stuttgart.
———. () Atmosfere, estasi, messe in scena. L’estetica come teoria generale
della percezione (), a cura di T. Griffero, Marinoti, Milano.
———. () Architektur und Atmosphäre, Fink, Monaco di Baviera.
G J. () Un approccio ecologico alla percezione visiva (), trad. it. R.
Luccio, introd. P. Bozzi e R. Luccio, Il Mulino, Bologna.
G T. (a) “Corpi e atmosfere: il “punto di vista” delle cose”, in
A. Somaini (a cura di), Il luogo dello spettatore. Forme dello sguardo nella
cultura delle immagini, Vita & Pensiero, Milano, –.
———. (b) Paesaggi e atmosfere. Ontologia ed esperienza estetica della na-
tura, “Rivista di estetica”, Paesaggio (a cura di M. Di Monte), n.s. XLV, :
–.
———. (c) Apologia del “terziario”: estetica e ontologia delle atmosfere,
“Nuova civiltà delle macchine”, XXIII,  (fasc. monografico, Gramma-
tiche del senso comune): –.
———. () Quasi–cose che spariscono e ritornano, senza che però si possa
domandare dove siano state nel frattempo. Appunti per un’estetica–ontologia
delle atmosfere, “Rivista di estetica”, n.s., , XLVI: –.
———. () “Nessuno la può giudicare. Riflessioni sull’esperienza del-
l’atmosferico”, in S. Chiodo e P. Valore (a cura di), Questioni di metafisica
contemporanea, Il Castoro, Milano, –.
———. () Quasi–cose. Dalla situazione affettiva alle atmosfere, “Tropos”,
I: –.
 Tonino Griffero

———. (a) Atmosfericità. “Prima impressione” e spazi emozionali, “Aisthe-


sis”,  (): –.
———. (b) Vincoli situazionali, in M. Di Monte e M. Rotili (a cura di),
Vincoli/Constraints (Sensibilia –), Mimesis, Milano, –.
———. (a) “Atmosfere: non metafore ma quasi–cose”, in E. Gaglias-
so–G. Frezza (a cura di), Metafore del vivente. Linguaggi e ricerca scientifica
tra filosofia, bios e psiche, Franco Angeli, Milano.
———. (b) Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali, Laterza, Ro-
ma–Bari.
———. (c) “Il ritorno dello spazio (vissuto)”, in M. Di Monte e M. Ro-
tili (a cura di), Spazio fisico/Spazio vissuto (Sensibilia –), Mimesis,
Milano, –.
———. (d) Fuori tutto! Le emozioni come atmosfere, “Fata Morgana. Qua-
drimestrale di cinema e visioni”, IV, : –.
———. (e) Dal bello all’atmosferico. Tra estetica e atmosferologia, in L. Rus-
so (a cura di), Dopo l’estetica, Aesthetica preprint (Supplementa n. ),
Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo, –.
H J. () Fundsachen der Sinne. Eine phänomenologische Revision alltägli-
chen Erlebens, Alber, Friburgo/Monaco di Baviera.
H M. () Atmosphären erleben. Philosophische Untersuchungen
zur Sinneswahrnehmung, Akademie Verlag, Berlino.
K L. (–) Der Geist als Widersacher der Seele,  voll., Barth, Lipsia.
M–P M. () Fenomenologia della percezione (), tr. it. A.
Bonomi, Bompiani, Milano.
M D. () “Zur Struktur des ästhetischen Ereignisses”, in A. Blume
(a cura di), Zur Phänomenologie der ästhetischen Erfahrung, Alber, Fribur-
go/Monaco di Baviera, –.
M W. () I fondamenti della psicologia della Gestalt (), tr. it. di L.
Lumbelli, Giunti–Barbera, Firenze.
O R. ( ) Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al
razionale (), ed. e trad. it. E. Buonaiuti, Feltrinelli, Milano.
S H. (–) System der Philosophie,  voll., Bouvier Bonn.
———. () System der Philosophie, vol. II., “Der Leib”, Bouvier, Bonn.
———. () System der Philosophie, vol. III., “Der Gefühlsraum”, Bou-
vier, Bonn.
Sentimenti nello spazio predimensionale 

———. () Der unerschöpfliche Gegenstand. Grundzüge der Philosophie, Bou-


vier, Bonn.
———. () Situationen und Atmosphären. Zur Ästhetik und Ontologie bei
Gernot Böhme, in M. Hauskeller, C. Rehmann–Sutter e G. Schiemann
(a cura di), Naturkenntnis und Natursein. Für Gernot Böhme, Suhrkamp,
Francoforte sul Meno, –.
———. () Situationen und Konstellationen. Wider die Ideologie totaler Ver-
netzung, Alber, Friburgo/Monaco di Baviera.
———. () Nuova Fenomenologia. Una introduzione, a cura di T. Griffero,
Marinotti, Milano.
T H. () Geschmack und Atmosphäre, Müller, Salisburgo.

Tonino Griffero
Università di Roma Tor Vergata
Lexia. Rivista di semiotica, 9–10
Ambiente, ambientamento, ambientazione
ISBN 978-88-548-4516-9
DOI 10.4399/97888548451694
pag. 73–92 (dicembre 2011)

Orientarsi e agire nel mondo


Il senso come grandezza vettoriale

G C

 : Orienting Oneself and Acting in the World: Sense as Vector

: This paper aims at drafting a conception of sense in dynamic,


and not content related or formal, terms: it is therefore alternative to
both the objectual paradigm (Plato, Frege) and the structural paradigm
(structuralism). Sense produces an orientation in our field of existence,
turning the environment, which we live in, into a world. It can therefore
be conceived as a “vector”, a magnitude defined by an intension (what
is understood), an orientation (a particular disposition), a direction, and
an applicative element (an object and/or a practical effect). From a
historiographical point of view, we can find some elements for such a
conception of sense in philosophical hermeneutics, which produces a
re–definition of the Husserlian concept of intentionality in more clearly
energetic and pragmatic (i.e., in dynamic and temporal, and not only
static or spatial) terms. It presupposes, on the one hand, the criticism of
the Cartesian concept of the world as mere extension (as a geometric
magnitude), and, on the other hand, the renewal of the Leibnizian con-
ception of the substantial forms or forces, which introduce a dynamic
dimension into the world. It is Heidegger’s theoretical innovation to
introduce these “forms” into the conception of sense and consequently
into the conception of the world, the world thus becoming a semantic
and not a mathematical space. The world is the habitat of Dasein: the
verb habitare is chosen by Heidegger to indicate existence, the factually
being–in–the–world, but it also refers (through other derivatives of habeo,
as habitus, which means a modality of behaviour induced by a disposi-
tion, a certain orientation in respect to the world) to practical aspects.
Dasein draws its world through signs, which are means to orientate
oneself, to indicate a direction. Through the sign dynamis enters into
reality, since the orientative indication of the sign involves an anticipation
of something, which is not yet and therefore is still only a possibility:
thus meaning is the consequent, of which the sign is the antecedent.
This structure of the semantic relation can be expressed in inferential


 Gaetano Chiurazzi

terms and is iconically symbolized by the arrow: “A → B” (“if A, then


B”, or, as in the Stoic logic, “A means B”). In this way, sense opens the
geometric spatiality of the world to time, because only the beings, which
understand the antecedent and the consequent, the sign and its meaning,
or which, generally speaking, have signs, have also an understanding of
time, and only so, can they make projects and anticipate the future, i.e.
orientate their life.

: Sense; direction; semantic space; world; force; hermeneutics;


Heidegger.

. Oggetto, forma, vettore

L’idea che vorrei sostenere in questo testo è che il senso è definibile


come una “grandezza vettoriale”, più specificamente come una gran-
dezza vettoriale fisica. Una grandezza di questo tipo è ad esempio
la forza: la forza è un vettore definito da un modulo (una grandezza
scalare che ne indica l’intensità), un orientamento, un verso, e un
punto di applicazione. Concepire il senso in questi termini significa
pensarlo come una grandezza cui è associata una intensione (quel che
si comprende), un orientamento (una particolare disposizione), un
verso (una direzione) e un momento applicativo (un oggetto e/o un
effetto pratico). Con ciò vorrei pervenire a un concetto di senso che
sfugga a due paradigmi entro i quali è stato tradizionalmente pensato:
il paradigma oggettuale, che ne fa una qualche entità o un contenuto, e
il paradigma strutturale, che pur intendendolo, a mio avviso corretta-
mente, come una forma o una relazione, lo concepisce però ancora in
termini esclusivamente matematico–geometrici. Al primo paradigma
è riconducibile una vasta tradizione che più o meno fondatamente si ri-
chiama a Platone, ma in particolare Frege, la cui concezione oggettuale
del senso costituisce in realtà una vera innovazione . Anche Husserl,
per certi aspetti, può essere fatto rientrare in questo paradigma, se non
altro per la sua costante riconduzione del problema del senso a un pro-
blema di “contenuto”, e cioè di “riempimento” delle strutture formali
della logica, il cui svuotamento è dovuto alla scomparsa dei termini
. Una ricostruzione delle concezioni del senso, e soprattutto dei problemi termi-
nologici (e di traduzione) che tale concetto ha comportato nella storia della filosofia, è
rinvenibile in Cassin , pp. –.
Orientarsi e agire nel mondo 

oggettuali, che vengono sostituiti da variabili nominali o predicative


(Husserl ). Al secondo paradigma appartiene una tradizione che
ha ovviamente nello strutturalismo il suo rappresentante prototipico:
per essa, il senso è una forma, un nesso, o un collegamento, privi
però di direzionalità e di dinamicità, e ancor più di quell’elemento
“dionisiaco” che lo radica nell’effettualità, nella vitalità e nel divenire.
Un aspetto che, come osserva Jacques Derrida, lo strutturalismo ha in
comune ancora con la fenomenologia (nonché, ovviamente, con la
tradizione filosofica nata da Frege, la filosofia analitica):

Il fatto che lo strutturalismo moderno si sia formato e sviluppato nella


dipendenza più o meno diretta e dichiarata dalla fenomenologia sarebbe suf-
ficiente a renderlo tributario della più pura linea tradizionale della filosofia
occidentale, quella che, al di là del suo antiplatonismo, riconduce Husserl
a Platone. Ora, si cercherebbe invano nella fenomenologia un concetto
che permetta di pensare l’intensità o la forza. Di pensare la potenza e non
soltanto la direzione, la tensione e non soltanto l’in dell’intenzionalità.
(Derrida , p. )

La fenomenologia costituisce quindi il punto di intersezione tra


filosofia analitica e strutturalismo, ma anche di inserzione di una
diversa concezione del senso, quella ermeneutica. L’idea del senso
come “vettore” può essere infatti intesa come conseguenza di una
elaborazione in termini energetici e pragmatici, come accade appunto
nell’ermeneutica filosofica, del concetto husserliano di intenzionalità:
il che significa in termini non più statici ma dinamici, non solo spaziali,
ma anche temporali.
Alla teoria degli atti linguistici di Austin e Searle si deve il merito di
aver cercato di rivalutare l’aspetto energetico del linguaggio, conside-
rando come le espressioni linguistiche non abbiano primariamente la
funzione di descrivere la realtà ma di agire su di essa, di produrre degli
effetti, cioè di “fare cose con le parole”. Austin e Searle, riprendendo le
critiche già avanzate da Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche, e operan-
do una estensione dello schema fregeano che contemplava una “forza
assertiva” per i soli enunciati dotati di valore epistemico (per Frege
il senso, in quanto “portatore di verità”, è del resto confinato all’am-
bito epistemico, cioè agli enunciati suscettibili di essere veri o falsi),
affermano che nessun “contenuto di pensiero” può essere considerato
indipendente dagli atteggiamenti proposizionali corrispondenti: essi
 Gaetano Chiurazzi

sono la forza necessariamente associata a un contenuto proposizionale,


tramite la quale noi operiamo sul e nel mondo. E tuttavia, questa forza
resta esterna alla proposizione, che è dotata di un valore referenziale
indipendente: in tal modo, come nota Jocelyn Benoist,

la diversità dei diversi atteggiamenti linguistici è stata interpretata come


diversità di forze corrispondenti, applicate dall’esterno a un contenuto
proposizionale supposto portare, lui solo, e indipendentemente da ogni
impegno, la determinazione dell’obiettivo proprio di quel discorso. Così
tutti gli atti di discorso si sono visti rappresentare sulla base dello schema
F(p) (forza applicata al contenuto proposizionale).
(Benoist , p. )

Concepire il senso come un vettore significa sbarazzarsi di questo


schema che confina il senso al contenuto proposizionale e concepisce
la forza come un elemento ad esso esterno: il senso è la forza, e questa
è la totalità del contenuto proposizionale più l’atteggiamento ad esso
collegato e l’effetto pragmatico che ne risulta, cosicché esso non può
essere separato da un contesto energetico, ma è sempre inserito in
un “campo” in cui definisce linee e orientamenti dotati di una loro
effettualità. Possiamo chiamare questo “campo” con un termine più
abituale, la cui definizione però deve essere ulteriormente chiarita, e
cioè “mondo”.
A mio parere, una concezione del senso che va in questa direzione
si può trovare nell’analisi che Heidegger fa del concetto di mondo in
Essere e tempo. Per Heidegger, comprensione, senso e mondo sono
strettamente interrelati e si richiamano vicendevolmente: non c’è
comprensione se non di un senso, e il senso è essenzialmente riferito,
non a uno “stato di cose”, ma a un mondo, e cioè a una rete di rimandi
e di vissuti effettivi. L’elemento “soggettivo” (la comprensione) è
così altrettanto essenziale dell’elemento “oggettivo” (il mondo) nella
costituzione del senso, il quale non è altro se non il “legame” che
connette l’uno all’altro, la loro forma comune.

. Quel che si comprende: la forma

L’elaborazione del concetto di senso in Essere e tempo è non a caso


preceduta dall’elaborazione del concetto di mondo. Nel § Heideg-
Orientarsi e agire nel mondo 

ger distingue varie accezioni di questo termine, escludendo innanzi


tutto la sua caratterizzazione estensionale (il mondo come insieme
di oggetti), e intendendolo piuttosto come l’habitat in cui l’Esserci
vive: mondo è “ciò “in cui” un Esserci effettivo “vive” come tale”
(Heidegger , p. ). In questa definizione entrano in gioco gli
elementi fondamentali della concezione heideggeriana del senso: una
certa spazialità e una certa modalità di essere in essa, alternative e prio-
ritarie, nell’intento di Heidegger, alla maniera in cui le penserebbe
la geometria. Una spazialità in cui propriamente “non si è”, ma in
cui “si vive effettivamente”, che somiglia quindi più a un campo di
forze che a uno spazio matematico. Un tale spazio è quel che Heideg-
ger chiama “mondo–ambiente”, e che potremmo anche chiamare
l’habitat dell’Esserci. Questo termine ha il pregio di contenere un
riferimento esplicito al modo in cui Heidegger definisce l’“in” del-
l’essere–nel–mondo: habitat deriva infatti dal verbo habitare e, come
scrive Heidegger, l’in–essere

non può essere pensato come l’essere semplicemente presente di una cosa
corporea (il corpo dell’uomo) “dentro” un altro ente semplicemente pre-
sente. L’in–essere non significa [. . . ] la presenza spaziale di una cosa dentro
l’altra, poiché l’“in”, originariamente, non significa affatto un riferimento
spaziale del genere suddetto. “In” deriva da innan–abitare, habitare, soggior-
nare; an significa: sono abituato, sono familiare con, sono sòlito. . . : esso ha
il significato di colo, nel senso di habito e diligo.
(Ibidem, p. )

Il mondo è lo spazio in cui l’Esserci vive, cioè esiste effettivamente


(esistere è abitare): il suo modo effettivo di esistere è la vita, caratteriz-
zata da quel che, sin dai suoi scritti degli anni venti, Heidegger chiama-
va “motilità” (Bewegtheit), e che rende insufficiente una considerazione
del mondo, e quindi del senso, in termini puramente oggettuali o
matematico–geometrici. Il che si coglie soprattutto dal confronto di
Heidegger con quella che considera una “dottrina diametralmente
opposta” alla sua, quella di Cartesio.
Per Cartesio, la determinazione ontologica fondamentale del mon-
do è l’extensio, i cui modi fondamentali sono la divisibilità, la figura
e il movimento. Ma il movimento è per Cartesio un semplice “mu-
tamento di luogo”, che può essere descritto in termini geometrici e
meccanici. Lo spostamento di luogo è un fenomeno esclusivamente
 Gaetano Chiurazzi

spaziale: “qualcosa come la “forza”, osserva allora Heidegger, “non


conta niente nella determinazione dell’essere di questo ente”.
Il problema riguarda quindi l’alternativa tra una rappresentazio-
ne spaziale (matematica) e una dinamica (fisica) del movimento. La
concezione cartesiana del mondo era stata già oggetto della critica
di Leibniz, la cui metafisica agisce sullo sfondo in maniera più o me-
no esplicita in molti aspetti della concezione heideggeriana : Leibniz
giunse alla conclusione che una descrizione del mondo in termini geo-
metrico–meccanici fosse del tutto insufficiente, e ciò perché infondata
era la “regola famosa” di cui si servono “i nuovi filosofi”, vale a dire
il principio cartesiano di conservazione della quantità di moto. Esso
deve essere corretto in principio di conservazione della forza: ciò che
si conserva in un sistema chiuso non è infatti la quantità di moto ma
la forza complessiva, il che significa che questa grandezza deve essere
introdotta nella descrizione fisica del mondo:

[Q]uesta forza è qualcosa di differente dalla grandezza, dalla figura e dal


movimento; e da ciò si può giudicare che tutto ciò che si conosce dei corpi
non consiste solamente nella estensione e nelle sue modificazioni, come
sostengono i moderni. Così siamo obbligati a ristabilire quegli esseri o
forme, che essi hanno bandite.
(Leibniz , p. )

Il movimento non può perciò essere compreso come semplice


traslazione, non può essere descritto in termini esclusivamente geo-
metrici, ma richiede l’introduzione di un principio ulteriore, quel che
Leibniz chiama “forma sostanziale” o forza. La “forma” indica un che
di ulteriore rispetto al mondo materiale, un qualcosa di irriducibile
all’estensione. La figura di cui parlavano i cartesiani era una determi-
nazione geometrica dell’estensione; la “forma” degli aristotelici, a cui
Leibniz si richiama contro i “filosofi moderni”, rappresenta invece un
principio attivo che dinamicizza la sostanza. L’innovazione teorica di
Heidegger è a mio avviso quella di reintrodurre queste “forme” nella
concezione del senso, il che si riflette nella sua concezione del mondo,
opposta alla dottrina cartesiana.

. Ibidem, p. .
. Sul rapporto tra Heidegger e Leibniz cfr Cristin .
Orientarsi e agire nel mondo 

La forma così intesa è la determinazione fondamentale del mondo,


il quale è strutturato ab origine come un sistema di relazioni, come
una rete di rapporti e di nessi dinamici. Costitutivo di questa rete è il
rimando, ovvero il “per” (um–zu), ciò per cui gli enti intramondani
ci si presentano innanzi tutto e per lo più non come mere cose (res)
ma come mezzi, come utilizzabili in vista di uno scopo. L’utilizzabile
è infatti il punto archimedeo in base al quale Heidegger scardina la
“metafisica della presenza”, ovvero il privilegio della sostanzialità, della
permanenza, da cui è dominata la metafisica: il mezzo, e specialmente
quel mezzo particolare che è il segno, è anzi “il filo conduttore onto-
logico per una caratteristica dell’ente in generale” (Heidegger ,
p. ), ciò che consente di delineare una nuova ontologia, alternativa
a quella cartesiana, al suo atomismo e al suo sostanzialismo. Ma il
fatto che l’essere dell’utilizzabile e l’essenza stessa del mondo siano
definiti come un complesso di rimandi non significa una dissoluzione
dell’essere sostanziale nel pensiero (ibidem, p. ): l’ambito cui tutto
questo rimanda non è il pensiero, ma la prassi.

. La grammatica del mondo

La centralità del mezzo nella concezione heideggeriana del mondo


è correlativa al primato della prassi quale modalità fondamentale di
“accesso” a tale mondo, il quale appare così come una rete di relazioni
semantiche che rendono impossibile la loro riducibilità a relazioni
matematico–funzionali, cioè a figure geometriche. Perché

tali formalizzazioni livellano a tal punto i fenomeni da svuotarli del loro


contenuto fenomenico, particolarmente quando si tratta di rapporti così
“semplici” come quelli che la significatività porta con sé. “Relazioni” e “relati”
come il “per” (Um–zu), l’“in–vista–di–cui” (Um–willen), il “con” (Womit) di
un’appagatività, contraddicono, nel loro stesso contenuto fenomenico, ad
ogni funzionalizzazione matematica.
(Ibid., p. )

Gli esempi che fa Heidegger — il “per”, l’“in–vista–di–cui”, il “con”


— mostrano che qui sono in gioco piuttosto relazioni “grammaticali”,
in particolare dei nessi prepositivi, i quali sono particolarmente irridu-
cibili a relazioni logiche o matematiche. Sono questi nessi prepositivi
 Gaetano Chiurazzi

a farsi carico della “esistenzialità” della concezione heideggeriana del


mondo, cioè del suo essere radicata in una dimensione di effettività:
essi infatti non “significano” dei rapporti logici, non sono relazione
denotative, o qualcosa che sia posto in primo luogo dal pensiero, ma
“rapporti in cui si mantiene già da sempre il commercio prendente
cura” (ibid.). Tutto questo suppone una riconsiderazione del rapporto
tra logica e grammatica, che Heidegger, a differenza di Husserl, sbi-
lancia molto più chiaramente a favore della seconda, proprio perché
la grammatica presenta un grado minore di astrazione formale e so-
prattutto, come direbbe Wittgenstein, un maggiore coinvolgimento
nelle “forme di vita”, al punto che è la grammatica, e non la logica, ad
esprimere la “forma” di un certo mondo vitale. Si tratta di un interesse
— quello del rapporto tra grammatica e vita — che Heidegger aveva
coltivato sin dalla sua prima dissertazione del  sulla Dottrina del
significato e delle categorie in Duns Scoto, basata su una di quelle gram-
matiche speculative sorte nella scuola modista tra il XII e il XIII secolo
in seguito attribuita a Tommaso di Erfurt, un interesse che lo spinge
anzi ad affermare, in Essere e tempo, la necessità di una “liberazione
della grammatica dalla logica” (ibid., p. ) . La conseguenza più
importante ed evidente, a mio parere, di questo primato della gram-
matica è l’inversione della gerarchia, logica e ontologica, fondata nella
metafisica classica, che spingeva ancora Husserl, nella Terza e Quarta
Ricerca logica, a ritenere “secondari” gli elementi sincategorematici
— tipicamente grammaticali — del linguaggio rispetto agli elementi
categorematici, e cioè nominali, i quali esprimono una significazione
autonoma perché riferiti a entità sostanziali: il primato della sostanza
è correlativo al primato logico del nome. La difficoltà oggettiva del
linguaggio di Essere e tempo, che spesso assume in posizione di sog-
getto elementi non nominali del linguaggio, va intesa sullo sfondo
di questa inversione del primato logico e ontologico della sostanza:
tutte le strutture principali dell’analitica esistenziale non sono espresse
tramite nomi, ma tramite preposizioni; la loro struttura complessiva,
la Cura, è pura articolazione, essendo definita come l’“esser–avanti a
sé (Sich–vorweg–sein) — essendo già in (im–schon–sein–in) — e come

. Questo progetto heideggeriano ha vaste implicazioni, sia sul piano ontologico sia
sul piano linguistico, come ho cercato di mostrare in Chiurazzi .
Orientarsi e agire nel mondo 

esser–presso (Sein–bei)” (ibid., p. ) . Come si vede, si tratta di una


“denominazione” davvero sconcertante, ma proprio perché con essa
si vuole sottolineare lo statuto ontologico della Cura, che non è né
può essere quello corrispondente al nome, ovvero l’essere sostanziale:
gli elementi pre–positivi che vi intervengono — da intendere anche
come elementi che precedono ciò che è positivo, ovvero ancora la so-
stanza —, come osservarono i logici medioevali, sono piuttosto degli
operatori (dei “termini officiabili”) , che esprimono una modalizza-
zione, e quindi una dimensione dinamica. Si tratta di un’idea che a
tutta prima può non apparire così immediata, ma che può essere resa
perspicua osservando ad esempio che il termine “sincategoremati-
co” — le preposizioni sono sincategoremi — è legato a ciò che non
è attuale ma solo potenziale (ad esempio nella definizione dell’infi-
nito sincategorematico o, appunto, potenziale), che non è positivo
ma pre–positivo, e questo nesso è dovuto al fatto che la definizione
stessa del sincategorema, come qualcosa di “mancante”, bisognoso di
un completamento , richiama la condizione ontologica di ciò che è
segnato dalla dynamis, e perciò esposto al divenire.
Torneremo più avanti su questo punto; qui occorre precisare
come la condizione di “mancanza” del sincategorema non deve
essere intesa come qualcosa di negativo: non si tratta di una parzialità
soggettiva, come quando non vediamo una parte della luna perché ci
è nascosta, o di un’incompletezza, come quando un oggetto è privo
di una parte, ed è perciò frammentario . La mancanza assume qui un
significato positivo, poiché, come la stéresis aristotelica, dinamicizza
la sostanza (di per sé atemporale e immobile) anticipando qualcosa
di assente, che ad essa manca . Questa funzione di “anticipazione”,

. A questo si potrebbe aggiungere il modo in cui Heidegger definisce il tempo


nel corso della sua discussione della prima Critica kantiana in Kant e il problema della
metafisica: il tempo è il Von–sich–aus–hin–zu–auf, un’espressione decisamente intraducibile
fatta essenzialmente di preposizioni; cfr Heidegger , p. .
. Cfr G. di Sherwood , pp. –.
. Cfr Husserl , II, Quarta ricerca, §  et seq..
. Cfr Heidegger , § .
. Aristotele, Met. IX, a –. Sulla mancanza cfr Heidegger , pp. –,
dove la stéresis aristotelica è pensata non come mera “mancanza” o “assenza” (privatio o
negatio), ma come un modo costitutivo di esser presente (“da”) dell’assentarsi, un eîdos
pos, “una certa qual specie di aspetto e di presenza”, e dunque forma (cfr Aristotele, Phys.
 b –).
 Gaetano Chiurazzi

di proiezione verso il futuro, può perciò, per quanto questo possa


sembrare paradossale, essere intesa piuttosto come un’“eccedenza”,
perché, proprio come la possibilità o il nisus leibniziano, va al di
là del reale . La sostanza — la res che configura un certo modo
di concepire il reale — è al contrario definita da Cartesio come
ciò cui non manca nulla, che non ha bisogno di altro ed è perciò
autosufficiente.
Alla caratterizzazione del mondo in termini sostanziali corrisponde
sul piano soggettivo il privilegio che Cartesio attribuisce alla conoscen-
za quale modalità di accesso primaria ad esso: essa coglie gli aspetti
ideali della realtà, poiché ha per oggetto ciò che permane, e che quindi
può essere colto nelle sue determinazioni atemporali. La matematica
è la scienza che in massimo grado soddisfa questa esigenza. Vicever-
sa, per Heidegger la caratterizzazione della spazialità dell’Esserci in
termini principalmente dinamici, come una rete di utilizzabili, mezzi,
oggetti d’uso, è correlativa all’assunzione dell’azione, della prassi, qua-
le forma più immediata di accesso al mondo: le cose che si incontrano
“innanzitutto e per lo più” sono non res, ma pragmata (Heidegger ,
p. ).
La relazione dinamica è quindi la vera relazione originaria, costi-
tutiva, dell’essere–nel–mondo, è per così dire l’“essenza” stessa di
quell’elemento prepositivo che è l’“in” dell’“in–essere”. Così Heideg-
ger riformula quella relazione teoretica fondamentale che per Husserl
è l’intenzionalità: ed è qui che, come richiedeva Derrida, l’in dell’in-
tenzionalità assume una connotazione tensiva, definita dalle estasi
temporali della Cura. La cura riassume dunque questa struttura re-
lazionale, pratica e temporale che è l’in–essere e che è alla base della
definizione, in termini non più solo estensionali e geometrici, ma
semantici e dinamici, del mondo.

. L’ambiguità del concetto di dynamis, che indica qualcosa di non ancora attuale, e
perciò manchevole, ma anche qualcosa che, in quanto possibile, eccede il reale, segna
la sua storia a partire da Aristotele fino almeno a Plotino: è infatti Plotino a invertire
l’assioma aristotelico secondo cui l’atto viene prima della potenza, concependo la potenza
come in se stessa attiva e al di là dell’enérgeia (cfr su ciò Aubry ). Quest’idea ha poi
improntato tutta la tradizione neoplatonica, giungendo poi, attraverso Leibniz, fino a
Heidegger, che afferma esplicitamente la superiorità e priorità della possibilità sulla realtà
(cfr Heidegger , p. ).
Orientarsi e agire nel mondo 

. Diatesi e tropismo

Per quanto radicale, la critica alla concezione cartesiana del mondo


non esclude un suo recupero, una volta ricompresa all’interno della
nuova concezione dinamica che Heidegger (insieme a Leibniz) per-
segue. Ciò vuol dire che la determinazione della extensio non è del
tutto sbagliata: richiede piuttosto una integrazione, nei termini posti
dall’analitica esistenziale:
L’assunzione della extensio come determinazione fondamentale del “mon-
do” ha un suo diritto fenomenico, anche se il ricorso ad essa non rende
possibile la comprensione ontologica della spazialità del mondo e della
spazialità, scoperta per prima, dell’ente che si incontra innanzitutto nel
mondo–ambiente, e tanto meno la spazialità dell’Esserci stesso.
(Ibidem, p. )

Il limite della geometrizzazione cartesiana del mondo è dovuto


all’esclusione della relazione pragmatico–esistenziale che costituisce la
spazialità dell’Esserci. Una volta assunta questa prospettiva, la concezio-
ne cartesiana può non essere totalmente abbandonata riconducendola
a un principio più radicale, corrispondentemente alla radicalizzazione
che Heidegger fa del Cogito sum. Alla base della spazialità dell’Esserci
c’è infatti un principio analogo, ma più radicale, di quello che c’è
alla base della spazialità geometrica del mondo fisico: l’esigenza di
definire un “punto origine” a partire dal quale la sua descrizione risulta
possibile. Tanto la geometria analitica, insomma, la cui fondazione
risale alla Geometria di Cartesio, una delle tre appendici al suo Discorso
sul metodo, quanto l’analitica esistenziale, si fondano su questo prin-
cipio metodico: la definizione di un “punto zero” a partire dal quale
diventano possibili una coordinazione e un orientamento delle relazioni
spaziali.
È dunque a mio parere del tutto lecito parlare di un “cartesiane-
simo” di Heidegger, per quanto ciò possa sembrare paradossale: un
cartesianesimo che non consiste nella ripresa della metafisica del Cogi-
to, così come aveva fatto Husserl, né nella concezione matematizzante
dello spazio, ma nella ripresa dell’impostazione metodologica della
geometria analitica che dalla pura extensio viene trasposta al livello
semantico. Per Heidegger, il punto origine della spazialità del mondo,
il punto zero della sua configurazione semantica, è il Sum, l’Esserci:
 Gaetano Chiurazzi

una “forma sostanziale” nel senso di Leibniz, un centro di vita e di


espressione. Ma, a differenza di Leibniz, Heidegger evita una tale
espressione per indicare l’Esserci: come nel caso di altre strutture
esistenziali, quali la Cura o il tempo, anche qui non abbiamo alcun
termine nominale, ma una semplice deissi: “esserci” esprime la cen-
tralità, la fondamentalità e l’imprescindibilità dell’esperienza concreta
del mondo, della vita fattiva, il fatto puro e semplice di esser qui adesso.
La deissi è un dispositivo linguistico con cui si grammaticalizza la rela-
zione al contesto, che esprime cioè l’ancoraggio dell’enunciato a una
situazione concreta, spazio–temporale. Potremmo dire che essa porta
in primo piano l’habitat dell’Esserci, ovvero la relazione pragmatica
che lo radica in un mondo. Senza questa deissi nessuna coordinazione
e nessun orientamento, né temporale né spaziale — e quindi nessun
senso — sarebbero possibili.
Le cose hanno infatti, per Heidegger, un loro posto nello spazio
in base alla loro prossimità all’Esserci: una prossimità non quantita-
tiva, che non è la “distanza della misurazione”, ma semantica. È la
prossimità di ciò con cui entriamo in relazione perché parte di un no-
stro particolare progetto, di una nostra prassi, di un nostro interesse.
In tal modo le cose vengono “ordinate nello spazio”, vengono cioè
disposte in un certo modo trovando una loro collocazione in base ai
comportamenti (Verhältnisse, i modi di rapportarsi) ambientalmente
preveggenti dell’Esserci. Ma questo ordinamento non è una mera
sistemazione formale: è qualcosa che è allo stesso tempo espressione
di– e funzionale a– una prassi, e cioè a delle “disposizioni soggetti-
ve”. Persino le relazioni spaziali — il sopra, il sotto, il davanti, ecc. —
sono primariamente funzionali a delle esigenze di tipo pragmatico:
“Tutti i “dove” sono scoperti in base alle direzioni e ai percorsi del
commercio quotidiano e sono interpretati ad opera della visione am-
bientale preveggente; non sono quindi stabiliti e catalogati da parte di
una considerazione misurante dello spazio” (ibid., p. ) .
La rete di rimandi in cui si collocano gli utilizzabili del “mon-
do ambiente” (Umwelt) è perciò una rete di orientamenti possibili,
determinati dal loro uso: una rete quindi di sensi, poiché il senso è prin-
cipalmente direzione. Né oggetto, né contenuto, né semplice forma,
ma relazione orientata, che implica una direzione e un movimento.

. Sul ruolo dei deittici nell’orientamento spaziale dell’uomo cfr Cardona .
Orientarsi e agire nel mondo 

Che qui si tratti proprio della definizione del senso — di cui Heidegger
rivaluta principalmente il significato direzionale, facendone il fonda-
mento anche degli altri suoi significati, ovvero il contenuto di pensiero
e la capacità di sentire, legata agli organi percettivi, come dimostra la
discussione dell’esempio kantiano della mano destra e della mano si-
nistra — è chiaro dal fatto che egli affida questa funzione orientativa
principalmente al segno:

Il prendersi cura ambientalmente preveggente è un dis–allontanamento per


orientamenti–direttivi. In questo prendersi cura, cioè nell’essere–nel–mondo
proprio dell’Esserci, è già implicito il bisogno di “segni”. Questo mezzo
assolve il compito di un’indicazione espressa e comoda delle direzioni.
(Ibid., p. )

L’esempio della freccia delle automobili, in uso all’epoca di Hei-


degger sulle vetture al posto dei moderni lampeggianti, riassume
in maniera persino iconica questa connotazione direzionale del sen-
so: la freccia è un segno che indica una direzione di svolta, e la sua
comprensione — la comprensione del suo senso — è tutt’uno con la
comprensione di una certa intenzionalità e con la conseguente regola-
zione dei comportamenti delle altre autovetture, che in base ad essa
orientano quindi il loro movimento. Per di più, tale icona del segno è
anche l’icona del rapporto inferenziale (→), a cui gli stoici riconduce-
vano la relazione semantica: dire che qualcosa è segno di qualcos’altro
è come dire che lo significa, e ciò è espresso dalla formula “A → B”,
ovvero “se A, allora B”. Questa struttura inferenziale è la struttura
della comprensione, nonché della copula, della “è”, che Leibniz ha
inteso come un rapporto implicativo, da antecedente (il soggetto) a
conseguente (il predicato) .
Questa struttura del segno e della comprensione aggiunge un
elemento di non poco conto a quanto sin qui detto: mostra cioè
che le relazioni semantiche non sono meramente spaziali ma anche
temporali. Nel rapporto inferenziale, infatti, come hanno osservato
gli stoici, è implicita una comprensione temporale: cosicché solo gli
esseri che comprendono l’antecedente e il conseguente, che quindi

. Heidegger , §.


. Su questi aspetti della comprensione, sul suo carattere inferenziale e sul suo
rapporto con la dottrina stoica del segno, mi permetto di rinviare a Chiurazzi .
 Gaetano Chiurazzi

hanno segni, hanno anche una comprensione del tempo, potendo


così, in base a questa comprensione, progettare la loro vita e anticipare
il futuro. L’uomo, scrive Cicerone commentando la dottrina stoica del
segno

in quanto partecipe della ragione, onde scorge le connessioni, vede le cause


immediate e, per così dire, gli antecedenti, pone delle analogie, collega e
stringe al presente il futuro, agevolmente coglie tutto il corso della vita ed
appresta quanto necessario a trascorrerla .
(Cicerone, De officiis, I, IV, )

Grazie alla comprensione del nesso implicativo, e cioè del segno,


che dà una direzione e un orientamento all’agire umano, l’uomo dà
senso al suo agire, e anticipa ciò che ancora non è. Questa funzione
anticipativa è identica a quella che prima abbiamo visto esser propria
dell’ente in potenza, della dynamis in quanto funzione della stéresis.
Spazio e tempo sono quindi radicati nella comprensione della copula,
sono anzi gli elementi costitutivi di questa comprensione, e di ogni
comprensione in generale: perciò, come ha visto Kant, sono sensi essi
stessi.
Nel mondo “plasmato” dalla prassi dell’Esserci il movimento non
è quindi una semplice traslazione, un mero cambiamento di luogo,
ma è un tropismo, un movimento orientato, tipico in particolare del
vivente, che scaturisce da una certa “forza”, da una intenzionalità o da
un progetto. In greco, “volgere, rivolgere, dirigere” si dice trépein; nella
sua forma media e passiva questo verbo significa “rivolgersi, dirigersi”,
e quindi “mutare, cambiare”, anche in senso soggettivo, nel senso
di “mutare avviso”. Il corrispondente sostantivo, trópos, assomma
tutti questi significati aprendo un campo di considerazioni di grande
interesse, sia sul piano ontologico sia sul piano pratico: trópos è la
direzione, il verso, ma indica spesso anche “il modo, la maniera, il
costume”, e quindi “la disposizione morale, il carattere”.
La possibilità del tropismo implica tutte queste capacità: si com-
prende così quella classificazione che Heidegger propone nel suo
corso del – su I concetti fondamentali della metafisica, secondo
cui la pietra non ha mondo, l’animale è povero di mondo e l’uomo è
formatore di mondo. La pietra non ha mondo perché non si muove,
. Tr. it. a cura di L. Ferrero e N. Zorzetti, Torino, Utet, .
Orientarsi e agire nel mondo 

non va da nessuna parte; i vegetali (tipico il caso dei girasoli) e gli ani-
mali sono invece poveri di mondo perché si muovono e si orientano
secondo certe direzioni, ma solo in maniera “istintiva” o “automatica”;
solo l’uomo fa tutto questo in maniera intensa e consapevole, ser-
vendosi non di semplici riferimenti naturali ma costruendo egli stesso
degli elementi orientativi, e cioè dei segni: egli è perciò “formatore di
mondo” (weltbildend). Il che non è una professione di idealismo, come
se l’uomo costruisse il mondo, lo creasse dal nulla; né di un pregiudi-
zio metafisico, “di un ordinamento gerarchico di carattere valutativo”
(Heidegger , p. ), che discriminerebbe in particolare gli animali
rispetto all’uomo, attribuendo a quest’ultimo una dignità metafisica
a questi sconosciuta : “mondo”, come si è detto, è in Heidegger un
concetto semantico e la sua costruzione è un atto pragmatico, il risul-
tato dell’agire dell’Esserci, coessenziale e costitutivo del suo essere
nel mondo. Tale affermazione coglie semmai una peculiarità fisica, la
cui negazione — come avviene nella mera considerazione oggettuale
o geometrico–meccanica del mondo — appare anzi come la vera
astrazione idealistica o metafisica.
In I concetti fondamentali della metafisica Heidegger definisce l’“as-
senza di mondo” della pietra come una mancanza di accesso all’ente in
quanto tale: la pietra non “incontra” l’ente, ma perché non ha nessun
tipo di relazione con esso che non sia il mero sussistere “accanto”
ad esso: il rapporto della pietra con il mondo circostante è l’unico
che possa essere espresso fondatamente in termini solo geometrici.
L’accessibilità è strettamente connessa alla motilità, propria del vivente.
Infatti, scrive Heidegger, la pietra che gettiamo sul prato vi rimane
ferma, quella che gettiamo in una fossa piena d’acqua va giù e resta
al fondo; al contrario, la lucertola “non è semplicemente presente al
sole sulla pietra riscaldata. Ha cercato quella pietra, è solita cercarla.
Spostata via da lì, non rimane ferma da nessuna parte, la cerca di
nuovo” (Heidegger , p. ) .
La lucertola ha accesso al mondo, un accesso che alla pietra è del
tutto precluso. È qui che comincia il senso, nella sua accezione più

. È questa in particolare la critica di J. Derrida in L’animale che dunque sono ().
. In queste pagine Heidegger si riferisce ad alcune ricerche del suo tempo, co-
me gli esperimenti sulle api discussi da Emanuel Radl nel suo Untersuchungen über den
Phototropismus der Tiere ().
 Gaetano Chiurazzi

primordiale, come sensibilità: l’animale è, a differenza della pietra,


un essere senziente, che grazie ai suoi sensi è capace di un primo
orientamento nel mondo. I sensi (il tatto, la vista, l’udito ecc.) sono
diatesi, allo stesso tempo passivi, e cioè recettivi, e attivi, in quanto
consentono di andare verso l’ente, di “aprirsi” ad esso. La lucertola ha
cercato la pietra, ma la pietra non cerca il suolo su cui giace. L’animale
è però povero di mondo perché non ha abbastanza mondo, non è cioè
in grado di relazionarsi ad esso secondo modalità e comportamenti
diversi, secondo diversi habitus intenzionali , e quindi abitarlo. È l’in-
tensificarsi o l’incremento di questa capacità del vivente di dirigersi
verso l’ente in base a un interesse, a un desiderio, a un nisus, che
traccia la differenza tra la pietra, l’animale e l’uomo. La “ricchezza”
di mondo dell’uomo rispetto all’animale è dovuta alla sua maggiore
capacità di muoversi nel mondo guidato dai suoi sensi, orientandovisi
e ordinandolo, cioè formandolo.

. L’incidenza della dynamis: dalla fisica alla filosofia pratica

La questione della spazialità del mondo, che non è mera estensione,


riceve quindi una diversa considerazione dall’inserzione in essa di
una “forza”, un elemento dinamico: l’interesse o l’andare–verso. Il
termine “forza” è qui assunto come termine generale a indicare un
insieme di elementi dinamici come il conatus di Spinoza, il nisus di
Leibniz, un bisogno o un desiderio. Proprio questo concetto di desi-
derio costituisce un ulteriore elemento che collega il problema del
senso con la temporalità dell’esistenza (la Cura) e con la dimensione
pragmatica che è alla base della concezione heideggeriana del mondo.
Si tratta infatti di un concetto ereditato dalla filosofia pratica aristoteli-
ca, che, come ha mostrato in maniera convincente Franco Volpi, fa da
sfondo all’ontologia fondamentale che Heidegger elabora in Essere e
tempo. Tutti i concetti principali dell’analitica esistenziale sono secon-
do Volpi la trascrizione in chiave ontologica di concetti chiave della
filosofia pratica aristotelica: le nozioni di “utilizzabilità” (Zuhandenheit)

. La diáthesis è secondo Aristotele la disposizione — il modo in cui qualcosa è orientato


nello spazio — da cui scaturisce una determinata éxis, un habitus (Met. V,  b –).
La differenza tra esse è nel fatto che la éxis è più “stabile” della diáthesis (Cat. , b –).
Orientarsi e agire nel mondo 

e “semplice–presenza” (Vorhandenheit), correlative a due atteggiamen-


ti fondamentali nei confronti dell’ente, quello manipolante e usante e
quello contemplativo–conoscitivo, richiamano la distinzione tra poiesis
e theoria; l’esistenza sarebbe la trascrizione del concetto di praxis e la
Cura, la struttura tensiva fondamentale dell’esistenza, corrisponde-
rebbe al concetto di orexis (desiderio). Prova ne sia, secondo Volpi, il
fatto che, nelle sue traduzioni di Aristotele, Heidegger rende il ter-
mine greco órexis, e il corrispondente verbo orégomai (che ricorre
ad esempio nell’incipit della Metafisica), con Sorge (cura). La cura, in
quanto fondamento unitario della struttura autoreferenziale pratica
dell’Esserci, veicola l’idea che

l’esserci non si compie nell’attualità puntiforme di un’attività pura, ma è


strutturalmente un poter–essere (Seinkönnen) che tracima oltre i confini
della presenza, esponendosi alle estasi temporali del futuro, nel quale esso
dispiega la progettazione delle sue possibilità concrete, e del passato, che è
orizzonte e contesto imprescindibile del suo progettare.
(Volpi , p. )

La cura designa in generale un orizzonte di possibilità aperte dal


desiderio, cioè dalla mancanza o piuttosto, come qui ben precisa Volpi,
da una sorta di “eccedenza” ontologica che “tracima” oltre l’esistente:
è quel che nell’ontologia greca si intende con il termine dynamis. Nelle
pagine precedenti ho collegato il problema ontologico della dynamis al
problema grammaticale della funzione dei termini sincategorematici.
Questo nesso, che trova a mio avviso ampia giustificazione, appare an-
cora più pertinente se si considera che il sincategorema per eccellenza,
ovvero la copula, la parolina “è”, il cui senso è al centro dell’indagine di
Heidegger in Essere e tempo, è da Platone definito nel Sofista (il dialogo
che segna una svolta radicale nella sua ontologia e che è richiamato in
apertura di Essere e tempo), alla fine di una serrata problematizzazione
dell’ontologia parmenidea, esattamente come dynamis, ovvero come
la “capacità di patire o di agire” : la stessa capacità che caratterizza
il concetto leibniziano di forza, distinta in forza passiva (la massa di
un corpo che resiste all’azione) e forza attiva o conatus (la capacità di
produrre degli effetti). Quel che Heidegger fa è sostituire il termine

. Platone, Soph. e.


 Gaetano Chiurazzi

“forza” con “possibilità”: il senso dell’essere in generale, ovvero più


semplicemente il senso, è possibilità, progetto, dynamis.
Senza la dynamis, la spazialità del mondo — e quindi il senso
— resterebbe un fenomeno esclusivamente geometrico. Quel che
ne fa una grandezza fisica è il momento applicativo, che traduce
il senso nella prassi concreta, rendendo a questo punto perspicua
la definizione del mondo richiamata all’inizio, come “ciò in cui un
Esserci effettivo vive”. L’“in cui” di cui si tratta non è, come si è detto,
una relazione spaziale, ma un punto di inserzione, di “effettività”:
potremmo dire, nel linguaggio della moderna scienza cognitiva, che
è il “luogo” dell’embodiment, dell’incarnazione del senso . La deissi
assoluta dell’Esserci è questo punto di inserzione: esso è nel mondo
in quanto generatore di sensi, di forze, di possibilità, tramite le quali
dà ad esso forma. Che l’interpretazione, in quanto momento espli-
cativo della comprensione, sia sempre anche applicazione, come
Gadamer ha ampiamente sostenuto e mostrato, non è che un altro
modo di teorizzare la necessaria inserzione del senso in un mondo,
diremmo a questo punto in un campo di forze e di possibilità agenti.
Non c’è comprensione senza prassi, il che significa che ogni com-
prensione determina un senso che orienta concretamente il nostro
essere e il nostro agire. Il mondo si configura così come un campo
vettoriale di sensi possibili, ovvero di forze che ne determinano la
configurazione, e non come un ente statico, matematico, quale lo
spazio cartesiano.
Intendere il senso come un vettore e lo spazio semantico come
un campo vettoriale costituisce perciò in conclusione un modo per
ribadire la dimensione fisica e non metafisica del senso. Un’ipotesi che
è avvalorata dal fatto che lo sfondo su cui si definisce la concezione
heideggeriana del mondo sia quello della filosofia pratica, e se c’è qual-
cosa che accomuna la filosofia pratica alla fisica è proprio il fatto che
entrambe si occupano dell’ente in movimento: la praxis, scrive esplici-
tamente Aristotele, è movimento . È a questa dimensione dinamica
che il senso, attraverso l’analisi che qui si è tentata della concezione di

. Era questa in sostanza la critica di Dilthey a Kant e alla tradizione gnoseologica
inglese, quando affermava che “nelle vene del soggetto conoscente costruito da Locke,
Hume e Kant non scorre sangue vero”; cfr Dilthey , p. .
. Aristotele, Eth. Eud. II , b .
Orientarsi e agire nel mondo 

mondo in Heidegger e delle implicazioni anche linguistiche che essa


comporta, deve essere restituito.

Riferimenti bibliografici

A G. () Dieu sans la puissance. Dunamis et energeia chez Aristote et


Plotin, Vrin, Parigi.
B J. () “Senso e performance”, in J. Benoist e G. Chiurazzi (a
cura di) () Le ragioni del senso, Mimesis, Milano, –.
C G.R. () I sei lati del mondo. Linguaggio ed esperienza, Laterza,
Roma–Bari.
C B. (a cura di) () Vocabulaire européen des philosophies. Dictionnaire
des intraduisibles, Seuil, Parigi.
C G. ( ) Modalità ed esistenza, Aracne, Roma.
———. () “L’ipotesi del senso”, in J. Benoist e G. Chiurazzi (a cura di),
Le ragioni del senso, Mimesis, Milano, –.
C R. () Heidegger e Leibniz. Il sentiero e la ragione, Bompiani, Mila-
no.
D J. () “Forza e significazione”, in Id. () La scrittura e la diffe-
renza, tr. it. G. Pozzi, Einaudi, Torino.
———. () L’animale che dunque sono, tr. it. M. Zannini, Jaca Book, Mila-
no.
D W. () Introduzione alle scienze dello spirito, tr. it. G.A. De Toni,
La Nuova Italia, Firenze.
Guglielmo di Sherwood () Syncategoremata, a cura di J.R. O’Donnell,
“Medieval Studies”, : –.
H M. () Essere e tempo, tr. it. P. Chiodi, Utet, Torino.
———. () “Sull’essenza e il concetto di physis. Aristotele, Fisica B ”, in
Id. () Segnavia, tr. it. F. Volpi, Adelphi, Milano.
———. () Kant e il problema della metafisica, tr. it. M.E. Reina, riv. da V.
Verra, Laterza, Roma–Bari.
———. () I concetti fondamentali della metafisica, tr. it. P. Coriando, il
Melangolo, Genova.
 Gaetano Chiurazzi

H E. () Logica formale e trascendentale, tr. it. G. De Neri, Laterza,


Bari.
———. () Ricerche logiche, tr. it. G. Piana, il Saggiatore, Milano.
L G.W. () Discorso di metafisica, in Id., Scritti filosofici, a cura di
D.O. Bianca, UTET, Torino.
V F. () L’esistenza come “praxis”. Le radici aristoteliche della termi-
nologia di Essere e tempo, in G. Vattimo (a cura di) () Filosofia ’,
Laterza, Roma, –.

Gaetano Chiurazzi
Università di Torino
P II

CRITICHE DI SPAZI ESPERIENZIALI


PART II
CRITICISMS OF EXPERIENTIAL SPACES
Lexia. Rivista di semiotica, 9–10
Ambiente, ambientamento, ambientazione
ISBN 978-88-548-4516-9
DOI 10.4399/97888548451691
pag. 95–132 (dicembre 2011)

“È successo proprio qui”


Gli ambienti come testimoni
Analisi del caso cileno

P V

 : “It Happened Just Here”. The Environment as Witness. The Case
of Chile

: The aim of this paper is to analyse the relationship between


memory and environment; more particularly, to see how, under specific
circumstances, places can act as testimonial devices for evoking the
events that happened there. In order for this to be the case, traces
of the past events need to be interpreted and semiotized through an
enunciative practice that translates latent traces into active signs. In
this way, places can make explicit the indexical, causal nature of the
link between the space in question and past events. It is a semiotic
mechanism of this kind that best characterizes sites of memory that
have been recuperated from historical sites of imprisonment, torture
and death, giving them their specific meaning and testimonial value.
This paper examines as a case study the transformation of some places
of memory of this kind in Chile, established after the end of Pinochet’s
dictatorship, and discusses the relationship between the sites themselves
and the larger issue of the politics of memory in post–conflict societies.
This indexical trait typically characterizing such sites of memory can
either be concealed and downplayed, as is the case at Villa Grimaldi,
probably the most important site of this kind in Santiago, or accentuated,
as in the case of some more recently opened Chilean memory sites. The
analysis of these different places will open up for some more general
considerations regarding the possibility of using such spaces beyond a
purely memorial function, in more dynamic ways, opening up toward
the future and not only referring back to a traumatic past.

: Memory; memorials; memory sites; Chile; post conflict.


 Patrizia Violi

. I luoghi del trauma e il potere dell’indessicalità

Mi ha spesso colpito l’usanza, diffusa soprattutto nelle strade provin-


ciali o statali meno trafficate, di segnalare con foto, biglietti e fiori — di
solito di plastica per poter durare a lungo — i luoghi dove si è verificato
un incidente mortale. Più ancora dei cimiteri, è il luogo dell’incidente,
là dove è avvenuto l’evento, a significare la morte, quella specifica mor-
te, a tramandarne il ricordo, a iscrivere nella fisicità stessa dello spazio
reale il suo orrore. Alla duratività atemporale del cimitero si oppone
la puntualità di un evento ancorato e fissato per sempre al luogo del
suo accadere. Una curva, un albero, un frammento di guard rail, una
volta segnati, sono investiti di una unicità sacrale e acquisiscono una
risonanza e un senso del tutto particolare.
È importante sottolineare subito che è solo l’operazione che li
segna a semiotizzare questi luoghi e a dotarli della loro particolare
significatività. Mai come in questo caso il senso non è una proprietà
intrinseca al luogo, ma il risultato di un preciso atto di enunciazione,
un atto che marca il luogo e ne costruisce il nesso indessicale con
l’evento che vi è accaduto. In altri termini, l’atto enunciazionale, più
che riconoscere un legame causale già dato fra evento e luogo, produce
un effetto di senso indicale che da quel momento in poi acquisisce
una sua autonomia rispetto alla verità dell’evento, ponendosi ogni
pur legittima verifica fattuale al di fuori dell’orizzonte semiotico della
significazione.
A riprova, pare che in alcuni casi siano stati collocati apposta que-
sti piccoli altarini votivi anche là dove nessun incidente mortale si
era verificato, per indurre gli automobilisti a rallentare; avremmo in
questo caso la simulazione di una finta memoria per realizzare una
funzione segnaletica stradale più efficace per il suo impatto patemico,
pur se di dubbio gusto. Non so se questa storia sia vera, in ogni caso
dimostra ancora una volta come sia l’atto enunciazionale a istituire
un nesso causale fra luogo e accadimento, vero o falso che sia. Senza
enunciazione, dell’evento si perderebbe senso e memoria.
A partire da qui, da questa indessicalità “assoluta” del luogo della
morte, e del gesto enunciazionale che lo indica e lo fonda, proverò a
riflettere sul modo in cui gli ambienti possono svolgere una funzione
testimoniale nei confronti degli eventi che vi hanno avuto luogo.
Analizzare in dettaglio le forme in cui tale funzione può essere espressa
“È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni 

significherà interrogarsi sul ruolo che l’ambiente può rivestire in una


più generale politica della memoria.
Il senso di un luogo, il senso di ogni luogo, è una configurazio-
ne complessa di elementi, un palinsesto stratificato, vera e propria
memoria storica che si è fatta spazio. Al rapporto fra luoghi e memo-
ria oggi viene dedicata un’attenzione sempre più crescente, in linea
con la diffusa ipertrofia memoriale e commemorativa che sembra
contrassegnare la nostra contemporaneità.
Ma proviamo a chiarire i termini, a partire dalla formulazione lin-
guistica: luoghi della memoria o memoria dei luoghi? Le due espres-
sioni non sono equivalenti e rimandano a prospettive diverse, modi
differenti di guardare al complesso rapporto che lega ogni ambiente
alla propria storia. I luoghi della memoria, a partire dal celebre lavoro
di Nora (), si fanno sempre più luoghi metaforici, vere e proprie
forme simboliche che caratterizzano un’intera cultura, ben al di là
di ogni restrittiva definizione di spazio geografico. La “memoria dei
luoghi” è anch’essa espressione indeterminata e in parte ambigua, che
si presta a una doppia lettura, a seconda che si legga il genitivo come
oggettivo o soggettivo. La memoria dei luoghi può così essere sia
la memoria che i luoghi portano in sé, iscrivendola come parte del
proprio piano dell’espressione, sia la memoria che noi portiamo dei
luoghi, in forma individuale o collettiva.
Vi sono casi in cui però le due letture tendono a sovrapporsi ed è la
comunità a decidere che un certo luogo divenga, in virtù della traccia
che esso reca del passato, un luogo destinato a perpetuare nel tempo
quella data memoria. Monumenti, memoriali, siti della memoria e
simili sono tutti luoghi di questo genere, luoghi cioè specificamente
dedicati alla propria stessa memoria.
La categoria di “memoriale” è tuttavia una categoria ancora molto
generica e ampia, che include al suo interno luoghi molto diversi, dai
campi di concentramento trasformati in museo, come Auschwitz, a
musei veri e propri, come il Museo Libeskind a Berlino, a monumenti
di vario genere. Una simile classificazione appare insoddisfacente in
quanto basata unicamente su una approssimativa tematizzazione sul
piano del contenuto (“luoghi dedicati a una memoria traumatica”) e
non su più specifiche caratteristiche formali.
In prima approssimazione propongo di distinguere almeno fra due
macro tipologie:
 Patrizia Violi

a) memoriali e musei creati ex novo, come il già citato museo


Libeskind a Berlino o Yad Vashem a Gerusalemme, per restare
nell’ambito di luoghi della memoria dedicati alla Shoa;
b) memoriali che conservano, ripristinano o trasformano luoghi
originariamente destinati alla prigionia o allo sterminio, come i
campi nazisti o il museo Tuol Sleng a Phnom Peenh, in Cam-
bogia (Violi ), o comunque luoghi dove si sono perpetrati
eccidi e crimini, come il Memorial Hall a Nanjing (Violi ).

Questi ultimi, che chiamerò siti del trauma, esistono in quanto


testimonianze materiali delle violenze e degli orrori che ivi sono sta-
ti perpetrati, e implicano sempre una precisa scelta da parte delle
società del post conflitto relativamente a quali tracce del passato si
vogliano conservare e come. In altri termini, in che modo si vuole
che l’ambiente mantenga e trasmetta le tracce del proprio passato
traumatico.
La caratteristica più rilevante dei siti del trauma è la loro natura
indessicale: essi sono i luoghi dove il trauma è avvenuto e la continuità
spaziale è parte essenziale del loro senso nonché la loro stessa ragione
di esistenza. Il luogo e gli oggetti in esso presenti sono tracce del
passato, impronte di ciò che vi è accaduto dotate di una connessione
diretta e causale con la particolare istanza che, in un dato momento nel
tempo, le ha prodotte (Eco ). Dato che le impronte mantengono
una memoria incarnata dell’agente che le ha prodotte, il passato ci si
rivela qui non come ricostruzione o rievocazione di ciò che non è più,
ma come qualcosa di ben più cogente, qualcosa di cui il luogo stesso è
stato testimone.
Sarebbe però un errore credere che questa capacità di testimonian-
za dello spazio sia una proprietà già data e “naturalmente” iscritta
nell’ambiente fisico; al contrario, per poter acquisire una simile natura
testimoniale questi luoghi devono essere sottoposti a un processo di
semiotizzazione che trasformi le impronte in tracce, cioè segni rico-
nosciuti e interpretati come tali (Eco ). È qui all’opera un doppio
processo semiotico: da un lato di interpretazione (riconoscimento
di tracce) e dall’altro di enunciazione (memorializzazione delle trac-
ce, cioè loro trasformazione in memoriale o museo). Attraverso il
processo interpretativo il visitatore diviene consapevole della natura
indessicale del luogo e tale consapevolezza diviene a sua volta parte
“È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni 

della sua competenza di visitatore. Attraverso l’enunciazione lo spa-


zio fisico si sviluppa in una narrazione, e la sua natura indessicale è
trasformata da pura continuità causale in elemento significante.
In tal modo l’indessicalità si fa componente fondamentale del senso
del luogo, con importanti conseguenze per il posizionamento dei
visitatori. Indipendentemente da quanto effettivamente rimanga, e da
quanto attentamente sia conservato, il visitatore sa di trovarsi in un
luogo dove sono avvenuti eventi terribili e questo sapere contribuisce
alla percezione dell’ambiente.
L’indessicalità che caratterizza la natura semiotica dei siti del trau-
ma può essere sfruttata ed esibita in forme molto diverse, come vedre-
mo nell’analisi del nostro case study. Il legame con i resti del passato e
il grado di “fedeltà” nella conservazione delle sue forme può variare
grandemente, secondo quella che chiamerò una scala di indessicalità
che va da un massimo di conservazione realistica a un massimo di
neutralizzazione delle tracce. I due estremi della scala costituiscono
due casi molto diversi di retorica della memoria e di strategie del
ricordo, oltre che modi differenziati di testimoniare il passato nell’am-
biente. Da un lato si trovano siti che conservano quasi ossessivamente
ogni elemento del luogo originale, attraverso una rappresentazione
realistica e adesiva del passato. All’altro opposto siti che smorzano la
retorica dell’autenticità originale, operando attraverso sottrazione e al-
lusione, come vedremo nel caso del Parco della Pace di Villa Grimaldi
a Santiago.
Un chiarimento è però necessario. Il realismo rappresentazionale
che oggi sempre più spesso caratterizza i vari musei della memo-
ria non va confuso con il carattere indicale dell’ambiente stesso. Si
possono infatti avere musei caratterizzati da una fortissima estetica
realistica, come l’Holocaust Memorial Museum a Washington D.C. e
almeno in parte lo Yad Vashem di Gerusalemme, che non hanno però
alcun carattere indessicale, essendo ricostruzioni fittizie ambientate in
luoghi completamente lontani e estranei al luogo dove sono accaduti
gli eventi traumatici. Realismo e autenticità non sono la stessa cosa.
Un equivoco sembra qui essere in gioco relativamente al significato
di “reale” e “realistico”: un luogo ricostruito può essere fortemen-
te realistico anche se non è autentico, simulando ambienti, oggetti,
vestiti, arredi e altri elementi materiali così come effettivamente era-
no, riproducendoli fino al minimo dettaglio, come avviene in molti
 Patrizia Violi

musei della memoria contemporanei. L’efficacia esperienziale dei


siti del trauma non risiede necessariamente in questa forma a volte
compulsiva di realismo rappresentazionale, ma sta altrove, e precisa-
mente nel loro essere una traccia che collega presente e passato in
virtù della persistenza nel tempo di elementi materiali, e innanzitutto
della fisicità stessa del luogo. In altri termini l’efficacia è funzione
della supposta autenticità delle tracce, e non della verosimiglianza della
rappresentazione.
In ciò che segue prenderò in esame il caso del Cile attraverso l’a-
nalisi di diversi siti del trauma, che non solo ci permetteranno di
approfondire le diverse politiche della memoria che ogni scelta con-
servativa implica, ma anche di leggere le trasformazioni diacroniche
che la memoria comporta, soprattutto nel delicato passaggio dalla me-
moria diretta del trauma alla post memoria delle generazioni seguenti
(Hirsch ).

. Una difficile transizione democratica. Villa Grimaldi e il Parco


per la Pace

L’ settembre  il governo di Salvator Allende, regolarmente eletto


nelle elezioni democratiche del , venne rovesciato da un colpo
di stato capeggiato dal generale Pinochet. Iniziò così una sanguinosa
dittatura che durò fino al , nel corso della quale si calcola che siano
state uccise o fatte scomparire almeno . persone, e più di .
imprigionate e torturate. Gran parte di questi assassinii venivano
perpetrati in luoghi di detenzione e tortura segreti, disseminati in
tutto il territorio ma soprattutto nella capitale Santiago e situati in
anonimi appartamenti e villette, acquisiti dai militari per questi scopi.
I prigionieri vi venivano portati segretamente e bendati, dopo esser
stati sequestrati, e in molti casi scomparivano gettati vivi nell’oceano
senza lasciare alcuna traccia.
Uno fra i più tristemente famosi di questi luoghi di detenzione e
morte era Villa Grimaldi. La Villa, un ampio edificio in stile italiano
con un bel giardino pieno di alberi e fiori situata nella periferia di
Santiago, era stata costruita nel diciannovesimo secolo da José Arrieta,
e negli anni ’ del secolo corso veniva usata come casa di campagna
da Emilio Vassallo. Durante gli anni della presidenza Allende la villa fu
“È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni 

trasformata in un ristorante e luogo di ritrovo frequentato soprattutto


da intellettuali e artisti di sinistra. Un anno dopo il colpo di stato di
Pinochet, la villa venne acquisita dalla DINA (Dirección Nacional de
Intelligencia) la polizia segreta cilena, e usata come centro di interro-
gatori e tortura fino al febbraio del ; poi nel  venne ceduta al
CNI (Consiglio Nazionale di Intelligenza), il successore della DINA.
Forse non fu casuale la scelta di un luogo che era stato un noto ritrovo
per quella stessa intellighenzia di sinistra che ora vi veniva portata
bendata e legata per esservi torturata. Nel , con l’approssimarsi
della fine della dittatura, l’ultimo capo del CNI, il Generale Hugo Sa-
las Wenzel, vendette la Villa a suoi parenti, proprietari di un’impresa
immobiliare, che nel  la rasero al suolo completamente, con il du-
plice intento di costruirvi un costoso condominio e di cancellare tutte
le tracce dei crimini ivi commessi. La stima delle persone imprigionate
a Villa Grimaldi si aggira sulle . unità, di cui  scomparvero per
sempre, o uccisi durante le torture, o gettati vivi nell’Oceano Pacifico
da aerei militari. Tuttavia il progetto di speculazione edilizia venne
bloccato e dopo la transizione democratica del  Villa Grimaldi
fu restituita al governo cileno. Solo sette anni più tardi, nel , il
sito venne trasformato nella sua forma presente e aperto al pubblico
con il nome di Parque por la Paz Villa Grimaldi [Parco per la Pace Villa
Grimaldi].
La storia della trasformazione di questo spazio vuoto nell’odierno
parco memoriale merita un’attenta lettura perché può aiutarci a me-
glio comprendere il ruolo che la società civile è in grado di giocare
nel preservare e tramandare la memoria delle vittime nelle situa-
zioni di post–conflitto, nonché il difficile e non lineare passaggio alla
democrazia della società Cilena dopo la fine della dittatura di Pinochet.
Nel  in Cile iniziò una fase di transizione negoziata alla de-
mocrazia, che si concluse nel  con il primo governo civile di
Patricio Aylwin, che istituì nello stesso anno la Commissione Verità e
Riconciliazione (Comisión Nacional de la Verdad y la Reconciliatión,
o CNVR) per indagare sui diritti umani violati durante il regime di
Pinochet (Demaria ). Per quanto la CVR abbia rappresentato un
primo passo importante nel riconoscimento di tali violazioni, la sua
portata fu limitata e comunque non portò a nessun processo formale
dei responsabili. Questi limiti vanno inquadrati nel contesto generale
di una difficile transizione e di una ancor fragile democrazia.
 Patrizia Violi

La società cilena a quel tempo non credeva che fosse possibile com-
binare una politica di pace e giustizia congiunte; sentimento diffuso
era la paura che “fare i conti con il passato potesse destabilizzare una
fragile transizione alla democrazia, facendo precipitare nuovamente
il paese nel terrore” (Baxter , p. ; tr. mia). Non era certo una
paura ingiustificata, dal momento che Pinochet continuava a essere
sostenuto da una larga parte della società e dei militari. Molti studiosi
hanno sottolineato la fragilità della democrazia cilena negli anni ’
(Drake and Jaksic ; Winn ; Portales ; Paley ), un
periodo in cui la pressione a ristabilire giustizia e verità si accompagna-
va strettamente con una pulsione all’oblio e alla dimenticanza delle
memorie della passata dittatura. Il discorso del presidente Aylwin in
occasione della presentazione della relazione della CNVR riflette assai
bene questa ambiguità e la scelta politica del governo di seppellire il
passato con le sue memorie e “guardare avanti”. Cosi si esprime Ayl-
win: “per il bene del Cile, dobbiamo guardare al futuro che ci unisce
più che al passato che ci divide. [. . . ] I cileni non devono sprecare le
loro energie a esaminare ferite che sono incurabili” .
Indubbiamente un simile approccio lascia poco spazio a qualunque
tentativo di preservare e trasmettere le memorie degli abusi e delle
violazioni dei diritti compiute durante la dittatura. La democrazia
cilena al suo apparire pare così caratterizzata da una forma generaliz-
zata di amnesia riguardo al proprio passato, come sostenuto da molti
studiosi .
La forma contraddittoria che la memoria del passato ha assunto nel
Cile del post–conflitto si riflette anche nei musei e memoriali relativi
al periodo della dittatura. Secondo Meade ad esempio in Cile

i luoghi della memoria esistono all’interno di una società che non ha rag-
giunto nessuna forma di riconciliazione con la dittatura, né è riuscita a
stabilire le responsabilità di coloro che hanno compiuto i crimini più violen-
ti. I memoriali quindi sono piuttosto monumenti alle contraddizioni della
società cilena e alla fragilità della sua democrazia.
(Meade , p. ; tr. mia)

. Citato da Paley (, p. ); trad. mia.


. Si vedano su questo, fra gli altri, Richard , , e ; Lira ; Meade ;
Paley ; Illanes ; Gómez–Barris .
“È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni 

La costruzione del Parco per la Pace di Villa Grimaldi va conte-


stualizzata e compresa all’interno di questo più ampio sfondo politico
e sociale, in cui il dibattito sulla memoria comune e le modalità del
ricordo delle vittime non sembra essere sfociato in nessuna forma
di coscienza nazionale unitaria. Anche se la CNRV conteneva espli-
cite raccomandazioni per un coinvolgimento ufficiale del governo
in azioni simboliche volte alla creazione di monumenti e memoriali
pubblici per le vittime, la realizzazione del Parco di Villa Grimaldi
fu esclusivamente il risultato del coinvolgimento della società civile
e delle associazioni dei parenti delle vittime e dei sopravvissuti. Le
associazioni hanno in effetti giocato un ruolo centrale nel complesso
processo decisionale che ha portato alla costruzione del parco, un
dibattito che ha visto contrapporsi posizioni divergenti e che è di par-
ticolare interesse per confrontare differenti politiche della memoria
del post–conflitto.
In particolare tre differenti alternative vennero prese in conside-
razione all’epoca: la ricostruzione completa della Villa esattamente
come era prima della sua distruzione, la costruzione di una scultura
come monumento in ricordo delle vittime, e la risemantizzazione
della Villa in un parco, mantenendo le poche tracce lasciate dopo il
suo smantellamento. Dopo anni di discussione venne infine adottata
la terza opzione.
A differenza di quanto avvenuto in molti altri luoghi della memoria
nel mondo, dove i governi si sono fatti direttamente carico della gestio-
ne dei luoghi della memoria, nel caso cileno l’iniziativa era promossa
da figure di attori sociali come le associazioni dei parenti, le ONG, e
la società civile.
La stessa scelta del nome segna una distanza da altri luoghi analoghi,
spesso definiti come “Musei del genocidio” o dello sterminio. Villa
Grimaldi viene ribattezzata “Parco per la Pace”, operando così un
doppio spostamento semantico: non museo ma parco, non genocidio
ma pace. A partire dal nome stesso, Villa Grimaldi sembra rifiutare
ogni forma di esternalizzazione ed esibizione del trauma, ridisegnando
lo spazio urbano e riaffermando la supremazia della piacevolezza di
un parco sull’orrore della morte.
Spazialmente, Villa Grimaldi è un luogo decentrato, lontano dai
percorsi turistici e quasi nascosto. Naturalmente questa localizzazione
era stata già decisa nel momento in cui la villa era stata scelta per
 Patrizia Violi

essere usata come prigione, tuttavia la sua marginalità può essere


oggi interrogata anche in altra prospettiva. Nel panorama urbano
complessivo della Santiago di oggi, la marginalità di Villa Grimaldi
non è solo la sua localizzazione materiale, ma anche la poca notorietà,
da cui consegue un’oggettività difficoltà a raggiungerla. I taxisti non
la conoscono, e anche gli abitanti della zona paiono saperne poco.
Le tre volte che ho visitato Villa Grimaldi nell’arco di tre anni non
vi era praticamente nessun visitatore, solo poche coppiette e alcuni
ragazzini. Significativa è anche la marginalizzazione del luogo nelle
guide turistiche, che o non lo menzionano affatto o ne fanno solo
un rapido accenno. In questo caso il discorso turistico è una spia di
una più generalizzata marginalità nell’auto–rappresentazione culturale
complessiva che la società cilena fa del proprio passato.
La scelta di aprire un parco invece di un museo dei crimini produce
uno spostamento nel rapporto fra l’atto attuale del ricordo e le atrocità
passate, che a sua volta implica una precisa scelta relativamente alle
politiche della memoria e della rappresentazione del trauma. Mentre
in altri luoghi simili il passato è continuamente ri–presentato in una
conservazione spesso ossessiva di luoghi e oggetti, nel Parco di Villa
Grimaldi siamo in presenza di una strategia che si colloca all’estremo
opposto della già menzionata scala di indessicalità: il visitatore si trova
in un piacevole e tranquillo parco che non reca praticamente segni delle
atrocità di un tempo, definitivamente allontanate nel passato. Il presente
non ha elementi di contiguità con ciò che è stato, una distanza incolma-
bile è istituita fra le due temporalità. Ogni forma di ri–presentazione
del trauma così come è stato vissuto è preclusa da questa scelta insieme
estetica e politica. L’aspettualità del luogo è di tipo terminativo: il visita-
tore guarda a un passato che è dato come ormai concluso da tempo e
che non presenta alcuna continuità con il presente.
Prima di discutere gli effetti di senso complessivi di un luogo come
Villa Grimaldi, è necessario analizzarne in dettaglio la struttura. La
prima cosa che si può osservare del parco è la sua apertura, il senso di
spaziosità che ne promana, sconfinando in lontananza con l’orizzonte
delle Ande, in un contrasto immaginario con la chiusura caratteriz-
zante il precedente uso della Villa come luogo di imprigionamento.
Il parco si presenta come un luogo verde e piacevole, pieno di fiori
e mosaici, che non trasmette alcun senso di un traumatico passato
(figure –).
“È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni 

Figura . Veduta del Parco per la Pace.

Figura . Veduta del Parco per la Pace.

Proprio riferendosi a questa particolare forma di spazializzazione,


Nelly Richard (, p. ) si interroga sulla relazione fra l’apertura
 Patrizia Violi

Figura . I mosaici del Parco.

attuale del parco e la claustrofobica esperienza dei prigionieri che,


legati e bendati, erano imprigionati in minuscole celle. Secondo Ri-
chard, l’apertura costituisce un dispositivo distanziante che produce
un effetto di lontananza dalla traumatica esperienza del passato: “la
geometrica e omogenea spazialità di Villa Grimaldi converte in un
ordinato campo di visione quello che una volta fu una tormentata tes-
situra di esperienza, disincarnando la materia vivente della memoria”
(Richard , p. ; tr. mia). Fra i pochi segni ancora visibili del pas-
sato, una piscina vuota che durante la dittatura veniva usata anche per
torturare i prigionieri (ma durante i fine settimana le guardie e le loro
famiglie vi facevano il bagno) e una piccola torre di legno ricostruita
che riproduce il vecchio serbatoio per l’acqua usato come prigione. In
ognuno di questi luoghi delle placche a mosaico sul terreno illustrano
la funzione dei luoghi stessi. I mosaici sono composti con pezzetti
delle piastrelle dei bagni della vecchia villa, dove i prigionieri veniva-
no torturati (figura ). Altri segni del passato sono rintracciabili nel
giardino delle rose (Jardin de las rosas) dove ogni rosa porta, dipinto su
una piccola targa di terracotta, il nome di una delle donne prigioniere
uccise o scomparse a Villa Grimaldi (figura ).
“È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni 

Figura . Le iscrizioni a mosaico.

Figura . Il giardino delle rose.

Ritorneremo fra poco sulla particolare retorica che caratterizza


il giardino delle rose, duramente criticata da molti studiosi. Per il
 Patrizia Violi

momento vorrei osservare come il giardino sia indicativo di una parti-


colare modalità nel ricordo delle vittime, che sembra procedere per
frammentazione di categorie di vittime diverse: le donne, nel giardino
delle rose, altrove i militanti dei diversi gruppi politici. È come se nel
parco convivessero due modalità diverse della memoria, in tensione
fra loro. Da un lato vi è lo sforzo di costruire una memoria comune
che valga per tutte le vittime indistintamente e indipendentemen-
te dalla loro specifica militanza politica o dal loro essere uomini o
donne, come rappresentato dal muro dove sono incisi i nomi delle
 vittime, che chiude uno dei lati del parco (figura ). Dall’altro
permane la volontà di mantenere separata la memoria dei “differenti”
morti distinguendo le loro diverse appartenenze politiche. In un altro
angolo del parco, vicino alla piscina e al punto dove si trovava il corpo
centrale della villa, sono stati innalzati tre monumenti distinti, ognuno
dedicato a uno dei tre principali gruppi politici a cui appartenevano le
vittime: il partito comunista Cileno, il MIR e il MAPU (Figure –).

Figura . Il muro con i nomi delle vittime.

I tre monumenti separati sono indicativi di una tendenza alla par-


cellizzazione della memoria che non arriva a farsi memoria comune
e condivisa di una intera collettività, ma permane come memoria di
“È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni 

Figura . Il monumento alle vittime del Partito Comunista Cileno.

Figura . Il monumento alle vittime del MIR.

sotto–comunità differenti, che sottolineano e rivendicano simbolica-


mente la loro diversa appartenenza identitaria.
 Patrizia Violi

Figura . Il monumento alle vittime del MAPU.

Non è facile ricavare una conclusione unitaria dall’analisi del Parco


per la Pace di Villa Grimaldi. Due sembrano gli aspetti più discutibili, e
da molti criticati: l’estetica complessiva del sito e una generale difficoltà
nella sua “lettura” e interpretazione.
Nelly Richard () è fra le voci più critiche per quanto riguarda
l’arrangiamento del parco, in particolare l’uso “estetico” delle pia-
strelle della villa per comporre mosaici decorativi con quegli stessi
materiali che facevano parte delle stanze dove i prigionieri venivano
torturati e uccisi. Secondo Richard siamo qui in presenza di un con-
trasto e di una discrepanza disturbante fra ciò che, semioticamente,
potremmo definire il piano dell’espressione e quello del contenuto. Le
categorie del primo appaiono fortemente contrastanti con quelle del
secondo, quasi in un paradossale semisimbolismo di segno invertito. Il
risultato non riesce a catturare “la dissoluzione del mondo semantico
e referenziale delle vittime, ridotte al silenzio, balbettanti e tremanti a
causa di metodiche procedure per lo sradicamento della coscienza”
(Richard , p. ; tr. mia). Lo stesso accade, secondo Richard, nel
giardino delle rose, dove il convenzionale effetto poetico delle rose
ha come risultato una retorica della femminilità acutamente in con-
“È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni 

trasto con la memoria degli abominevoli abusi sessuali sofferti dalle


donne prigioniere nella villa. Considerazioni analoghe sono avanzate
anche da Lazzara (, p. ), che avanza obiezioni alla “estetica di
imbellimento e ammorbidimento” perseguita nel parco, sostenendo
l’impossibilità di iscrivere l’orrore nella categoria della “bellezza”.
La seconda critica si collega a quello che si può considerare come
una generale “mancanza di senso” o forse, più correttamente, “senso
della mancanza” che sembra pervadere tutto il sito. Il visitatore si
trova di fronte a un giardino piacevole ma non caratterizzato, senza un
percorso interno o direzioni che aiutino a “leggere” lo spazio. Poche
informazioni specifiche sono fornite per aiutare a contestualizzare la
storia e la narrativa del luogo.
È significativo che l’unica guida disponibile del Parco, nelle tre
occasioni in cui l’ho visitato, sia in inglese, scritta da Pedro Alejandro
Matta (), un ex detenuto di Villa Grimaldi, divenuto poi uno dei
più attivi promotori del Parco. Forse la logica sottostante a questa
scelta risiede nella convinzione che la comunità locale sia già intima-
mente familiare con questo luogo e non abbia bisogno del tipo di
documentazione invece necessaria per un meno informato pubblico
internazionale. Può anche essere così, ma certo la “memoria vivente”
incarnata in questo e simili luoghi è destinata a dissolversi lentamente
con la progressiva scomparsa dei testimoni e il sopravvenire dell’era
della post–memoria (Hirsch ). Vedremo fra poco come in tem-
pi più recenti siano state elaborate altre risposte a questo cruciale
problema.
Di fronte a queste e simili critiche, bisogna però osservare che
altre letture, più “benevole”, sono possibili. Per esempio, secondo
Gómez–Barris il Parco della Pace

mette fra parentesi l’esperienza di Villa Grimaldi come totalmente segnata


dal trauma, dalla perdita dalla vittimizzazione. Gli elementi architettonici
del Parco, invece di enfatizzare la questione nazionale della dominazione,
resistenza, rivoluzione e controrivoluzione al centro di Villa Grimaldi, sono
inquadrati in una più limitata comprensione della sfaccettata storia che il luogo
rappresenta, fornendo una importante, anche se limitata, visione del passato.
(Gómez–Barris , p. ; tr. mia)

In questa prospettiva si potrebbe sostenere che la decisione di allon-


tanarsi da ogni forma di realistica rappresentazione, o ri–presentazione,
 Patrizia Violi

dell’orrore e delle atrocità è una decisione politica contro la rappresen-


tazione e la sua retorica, una consapevole presa di distanza dall’estetica
dei musei della memoria.
A seconda di quale fra queste due linee di interpretazione si adotti,
si trarranno conclusioni diverse, anzi quasi opposte, leggendo il parco
rispettivamente come un riuscito tentativo di ridisegnare il paesaggio
della memoria traumatica o invece come un monumento simbolico
delle contraddizioni della società cilena. Per Gómez–Barris “nonostan-
te le complessità della rappresentazione della memoria, il parco per
la Pace costruisce una sfera pubblica alternativa che è evidenziata e
resa saliente attraverso spazi di riflessione e di disegno architetturale”
(Gómez–Barris , p. ; tr. mia). Per Meade, al contrario, “consi-
derando il suo passato di orrore oggi il parco ben tenuto è in sé una
contraddizione” (Meade , p. ).
Una simile diversità di interpretazioni apre una serie di questioni
per cui non vi è una risposta semplice o univoca: è possibile mante-
nere e trasmettere la memoria delle atrocità passate allontanandosi e
prendendo le distanze da ogni diretta forma di rappresentazione di
quelle stesse atrocità e da ogni esplicita estetica di “realismo dell’orro-
re”? Può il Parco per la Pace essere visto come un luogo di memorie
“riconciliate” o è destinato a divenire fatalmente un luogo dell’oblio?
Una possibile risposta a questi interrogativi potrebbe risiedere forse
nelle multiple letture, usi e pratiche che il parco sembra rendere
possibili. I sopravvissuti e i parenti delle vittime possono venire qui a
commemorare e ricordare, così come i ragazzini possono utilizzare il
parco per giocare a pallone. Da questo punto di vista l’apertura che
caratterizza gli spazi del parco potrebbe divenire metafora per una
lettura aperta e non univoca del “senso del luogo”.
Il Parco per la Pace non si prefigge di suscitare nel visitatore l’e-
mozione quasi insopportabile che altri memoriali di questo tipo pro-
ducono, al contrario costruisce uno spazio di distanza dal passato e
dai suoi orrori, e in questo può correre il rischio di essere percepito
come uno spazio di indeterminatezza e contraddizione. Questo non
è un caso. Il parco riflette, in questo specifico aspetto, la complessità
della transizione cilena alla democrazia: nei primi anni dopo la fine
della dittatura era diffusa la paura che una rappresentazione troppo
diretta dei crimini di Pinochet potesse destabilizzare una democrazia
ancora molto fragile, come molti studiosi hanno messo in evidenza.
“È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni 

Simili preoccupazioni non sono certamente estranee alle scelte che


hanno portato alla trasformazione di Villa Grimaldi in Parco della
Pace. Le difficoltà e ambiguità di questo processo sono chiaramen-
te visibili nello stesso paesaggio urbano della capitale cilena: basti
pensare che una delle più importanti strade del centro di Santiago si
chiama ancora Avenida  Septiembre in memoria del golpe di Pinochet
dell’ settembre . I vari tentativi che si sono succeduti a partire
dal  da parte dei partiti democratici per cambiare il nome della
strada hanno fallito per l’opposizione dell’amministrazione di destra
dei quartieri centrali di Santiago, che hanno il sostegno di un numero
consistente di cittadini.

. Memorie e post–memorie. I due tempi della memoria cilena

Per molti anni il Parco di Villa Grimaldi è stato uno dei pochissimi
memoriali cileni in senso proprio, inteso come spazio pubblico ricava-
to dalla trasformazione di un luogo precedentemente utilizzato dalla
giunta come luogo di tortura e imprigionamento, quasi l’unico luogo
deputato alla conservazione e alla memoria dei crimini della dittatura
di Pinochet, oltre al monumento alle vittime nel cimitero generale di
Santiago.
Negli ultimissimi anni però la situazione è molto cambiata, anche a
partire dallo sforzo e dall’attenzione politica che il governo di Michelle
Bachelet ha dedicato alla memoria del passato. È stato il suo governo
a volere l’edificazione del grande Museo della Memoria e dei Diritti
Umani di Santiago, inaugurato l’ gennaio  dalla stessa Bachelet.
Tuttavia l’attenzione di un governo di sinistra — la cui leader era
stata detenuta e torturata a Villa Grimaldi ed era la figlia di uno dei
pochissimi generali rimasti fedeli al legittimo governo di Allende —
non è la sola ragione di questo cambiamento. In realtà è in corso in
Cile, ma in parte il fenomeno vale anche per l’Argentina, un rinno-
vato interesse per gli anni della dittatura che ha portato a una vera
e propria rivisitazione in profondità del passato. I principali attori di
questo movimento sono la generazione dei figli dei perseguitati (e dei
persecutori) di allora, la generazione dei –enni di oggi.
Nell’ambito dei Memory Studies si parla di post–memoria per indi-
care la memoria della generazione successiva a quella direttamente
 Patrizia Violi

coinvolta nell’esperienza di un trauma collettivo, riferendosi soprat-


tutto al trauma della Shoa (Hirsch ; ). Il passaggio generazio-
nale della memoria traumatica si ricollega alla ben nota problematica
della scomparsa dell’ultimo testimone e alla trasformazione di una
conoscenza diretta in storia o, talvolta, in mito. Da un punto di vista
semiotico, la nozione di post–memoria non è certo esente da molte
ambiguità. La post–memoria si caratterizza come la memoria della
“generazione successiva” al trauma, ma molti e vari possono essere i
posizionamenti che caratterizzano i soggetti all’interno di entrambe
le generazioni in questione e le modalità di significare tali posiziona-
menti. Anche l’idea di un’esperienza “diretta” degli eventi traumatici
può presentare qualche problema, qualora la si estenda oltre l’ambito
circoscritto e tragico dell’universo concentrazionario. Chi ha avuto
“esperienza diretta” dell’ settembre? Solo i newyorkesi che hanno
assistito e visto “in prima persona” l’attacco, o tutti quelli che vi sono
stati esposti attraverso la ri–mediazione televisiva e mediatica? E se
è così, in cosa la post–memoria di una generazione successiva, che
vedrà le stesse immagini e gli stessi filmati, sarà diversa? Il concetto
andrebbe forse ulteriormente affinato in prospettiva semiotica , ma
resta comunque utile, perché la trasmissione delle memorie richie-
de ovviamente forme specifiche di mediazione semiotica tutte da
interrogare.
Per ritornare al caso cileno, il nuovo interesse che oggi pare attra-
versare almeno una parte significativa della società nei confronti del
proprio passato traumatico ha portato, a partire dal , alla apertura
di numerosissimi nuovi siti e piccoli musei, in origine tutti luoghi
di tortura e detenzione della giunta. Varie, come accennavo, posso-
no essere le ragioni di questa rinnovata attenzione, dal mutato clima
politico all’interesse delle nuove generazioni, dalle complesse dinami-
che della post–memoria nelle nuove generazioni, al riemergere di un
passato rimosso anche in chi ne era stato direttamente coinvolto. Ma
non è solo in gioco la riscoperta e la rilettura del passato in questi siti.
Per quanto riguarda il recupero e la conservazione dei luoghi della
memoria, in Cile la post–memoria della generazione successiva alla
. In prospettiva semiotica ciò che fa problema è proprio l’idea di una possibile
conoscenza diretta basata su una presunta esperienza senza mediazioni. Poiché l’esperienza
ci si dà sempre attraverso forme di mediazione semiotica la questione dell’esperienza
appare più complessa.
“È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni 

dittatura si è venuta a incontrare in modi interessanti e inediti con la


generazione dei padri, oggi sessantenni o più.
Analizzerò brevemente tre di questi nuovi siti, significativi non
tanto e non solo in se stessi, ma per l’inedito intreccio con nuove
pratiche collettive della memorialità, nella direzione di un uso sociale
degli spazi pubblici che, a partire dalla memoria del passato, si rivolge
anche a nuovi attori sociali. L’aspetto forse più interessante di questi
luoghi è infatti il sovrapporsi del recupero della memoria passata e la
presenza attiva in un contesto presente modificato. In questo modo le
dimensioni temporali del passato, del presente e del futuro vengono
rigiocate secondo una logica almeno in parte innovativa rispetto alla
stretta conservazione museale che spesso caratterizza i siti del trauma.

.. Londres 

La giunta militare, durante la sua dittatura, utilizzò per lo più come


centri di tortura luoghi anonimi e “non marcati” come spazi milita-
ri: abitazioni civili, appartamenti e villette dislocate nelle zone più
diverse di Santiago, dal centro storico alla più estrema periferia, in
quartieri residenziali eleganti come in zone prevalentemente prole-
tarie. Una simile delocalizzazione aveva certo un’utilità funzionale
per i militari: nessuno sospettava dell’esistenza di questi centri che
passavano inosservati e ignorati. Mascherati all’interno di normali
quartieri di abitazione non erano riconoscibili come tali e rendevano
molto più difficile a parenti e amici delle vittime rintracciare il luogo
di detenzione dei propri cari. Anche dopo la fine della dittatura, la
loro cancellazione come centri di tortura fu molto facilitata dalla loro
natura anonima, e di conseguenza non sempre è stato né facile né
rapido il loro recupero come luoghi della memoria. Ma anche una
valenza di ordine semiotico mi pare rintracciabile in questa operazio-
ne: disseminando tutto il tessuto urbano di micro–centri del terrore,
scompare ogni netta e chiara separazione fra spazi marcati come mili-
tari e polizieschi e spazi non marcati della vita civile. Tutto il paesaggio
urbano diventa potenzialmente “paesaggio del terrore”, ogni casa
può nascondere l’orrore della tortura e della morte, non esiste più
una distinzione chiaramente leggibile tra sfere diverse di azioni. La
delocalizzazione diffusa dei centri di detenzione e tortura, talvolta
piccolissimi appartamenti o villette, implica una gestione del terrore
 Patrizia Violi

basata su una diffusione territoriale della logica poliziesca e militare: i


cittadini sono modalizzati secondo un non poter sapere che accresce la
possibilità di controllo per i persecutori e la paura e l’impotenza per le
vittime.
Esemplare in questo senso la storia di Londres , un appartamento
signorile nel centro di Santiago, in una zona molto elegante, che
prende il nome dalla strada e dal numero civico della sua collocazione.
Fino al  l’appartamento rimase in mano ai militari, che ebbero
tutto il modo di cancellare le tracce delle atrocità che vi avevano
compiuto all’interno. Qui le vittime venivano condotte bendate e
nascoste in macchine civili, in modo che eventuali testimoni non
potessero notare nulla di insolito. In questo luogo furono soprattutto
torturati e uccisi ragazzi giovanissimi, per lo più studenti della vicina
università.
Nel  Londres  viene dichiarato monumento nazionale, ma
soltanto nel  viene acquisito dallo Stato cileno. Aperto al pubblico
a partire dalla fine del  con orari limitati, il sito è ora gestito
in forma privata, da un’associazione di sopravvissuti e parenti delle
vittime, con qualche piccolo contributo pubblico. Tornerò sul ruolo
che le associazioni private hanno nel mantenimento e trasmissione
della memoria traumatica in Cile; abbiamo già visto nel caso di Villa
Grimaldi come l’iniziativa per la trasformazione e apertura al pubblico
del sito sia stata interamente nelle loro mani. Nel caso di Londres ,
come degli altri piccoli siti che si vanno man mano aprendo nel Cile
di questi ultimi anni, sono proprio le associazioni dei sopravvissuti
o dei parenti delle vittime a ricoprire un ruolo di Destinante ideale
che si preoccupa di preservare e tramandare la memoria, oggetto di
valore particolarmente fragile e facilmente cancellabile.
All’esterno del sito, l’unico segno visibile del passato sono alcune
piccole lastre inserite nel selciato davanti alla casa che recano inciso il
nome e l’età di ognuna delle vittime che hanno trovato la morte in
Londres  (figure  e ).
L’interno è un anonimo appartamento, praticamente vuoto salvo
gli uffici dell’associazione, i cui spazi sono stati lasciati come erano,
cercando di evidenziare le pochissime tracce lasciate dai militari (figure
–).
Pochi elementi materiali possono operare qui come attivatori di
memoria; per risemantizzare questo anonimo appartamento come
“È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni 

Figura . Il lastricato davanti a Londres .

sito sono stati infatti necessari interventi di riscrittura, come quello di


inserire le piccole lastre–lapidi all’esterno dell’ingresso.
La necessità di riscrivere elementi significanti che funzionino come
attivatori di isotopie della memoria è elemento ricorrente anche in
altri siti analoghi a Londres, in particolare nella Casa della Memoria
José Domingo Cañas.
 Patrizia Violi

Figura . Il lastricato, particolare.

.. Casa della Memoria José Domingo Cañas

Anche in questo caso siamo di fronte a un luogo, una piccola villetta


popolare situata nella prima periferia di Santiago, che, dopo essere stata
utilizzata come centro di detenzione e tortura, è stata completamene
abbattuta dai militari. In figura  si può vedere come appariva la casa
una volta.
“È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni 

Figura . Londres ; ingresso.

Figura . Londres ; gli uffici.

In questo caso, per evidenziare e sottolineare le poche tracce rima-


ste, si sono ricostruiti la pianta stessa della casa, i muri perimetrali
 Patrizia Violi

Figura . Londres ; dettaglio di colpi di arma da fuoco.

e le divisioni in stanze, marcandone i punti significativi con scritte


illustrative, in una sorta di vero e proprio scavo archeologico memo-
riale (figure  e ). Tutta l’area di questa ricostruzione è delimitata e
marcata da una sorta di monumento composto da alti pali di metallo
(figura ).
Lo scavo è impronta del luogo passato, risignificato dalla denomina-
zione che vi è stata apposta mediante le scritte; queste risemantizzano
la traccia in funzione di una lettura “archeologica” del sito. L’esplicita
“È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni 

Figura . La casa prima del suo abbattimento.

analogia con una riproposizione di tipo archeologico degli elemen-


ti–traccia funziona come marca di una temporalità volutamente lon-
tana e conclusa. Dal punto di vista aspettuale, il sito si presenta sotto
un aspetto terminativo e conchiuso, rimandando a una temporalità
bloccata nel suo passato. Per quanto riguarda le modalità di significa-
zione, a differenza di quanto avveniva nel Parco della Pace di Villa
Grimaldi, vi è qui una forte insistenza sulla componente indessicale,
sul recupero e la messa in evidenza degli elementi del passato, anche
se in parte ricostruiti, quindi sulla traccia in quanto garanzia di una
continuità nel tempo. Molti aspetti differenziano un luogo come Casa
Cañas da Villa Grimaldi, articolando una opposizione fra estetiche, e
politiche della memoria, assai lontane tra loro. Laddove Villa Grimal-
di distanziava e attenuava il nesso deittico con il passato traumatico
neutralizzandone le tracce, Casa Cañas lo enfatizza attraverso quella
che definirei una vera e propria “retorica della traccia”. A tale retorica
si accompagna la scelta di una figuratività fortemente realista, basata su
rappresentazioni vagamente naif, come nei murales dipinti sui muri
interni del sito (figura ), ben diversa dall’astrazione decorativa dei
mosaici del Parco della Pace.
 Patrizia Violi

Figura . Particolare dei resti di Casa Cañase.

Ma Casa Cañas presenta anche un altro aspetto, per molti versi sor-
prendentemente diverso e quasi opposto. Il sito infatti si compone in
realtà di due parti connesse ma indipendenti, che si sviluppano secon-
do un orientamento topologico di anteriorità (esterno) vs posteriorità
(interno).
Nella parte posteriore di Casa Cañas è stato costruito un piccolo
edificio che funziona come centro sociale e culturale per promuovere
dibattiti, spettacoli e iniziative di vario genere. Diversi gli stili e diverse
“È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni 

Figura . Particolare dei resti di Casa Cañas.

Figura . Il monumento all’ingresso di Casa Cañas.

le funzioni delle due “anime” del sito: la parte anteriore pare costituire
un monumento al passato, secondo canoni estetici improntati a un for-
 Patrizia Violi

Figura . Murale di Casa Cañas.

te realismo e a un recupero dell’indessicalità spaziale, mentre la parte


posteriore è tutta rivolta al presente, a un lavoro di connessione e rete
sociale aperta alla comunità, e presenta un’organizzazione spaziale e
stilistica del tutto diversa.
In questa seconda sezione, specialmente nello spazio pubblico dedica-
to agli eventi sociali, agli spettacoli, ai dibattiti, si ritrova un’organizzazio-
ne degli spazi elegante e molto astratta, che evoca uno stile minimalista
vagamente giapponese. Il contrasto stilistico fra le due parti della Casa
della Memoria sembra indurre una lettura di ordine semisimbolico, in
cui il passato è fortemente ancorato a un’espressività indicale e un po’
grossolanamente realista, mentre lo spazio dedicato al presente e alle
attività in corso è affidato a forme più sofisticate e astratte.

.. Nido 

Infine un breve cenno a un terzo nuovo sito, piccolo e più marginale


degli altri, ma che conferma le tendenze già riscontrate in Londres e
Casa Cañas, a riprova di come sia trasversale l’operazione di recupero
di questi luoghi e il senso complessivo che li attraversa.
“È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni 

Figura . Lo spazio retrostante di Casa Cañas.

Nido  è una piccola villetta di dimensioni e aspetto modesto,


situata nell’estrema periferia di Santiago in zona La Cisterna, un’area
povera, cresciuta intorno a grandi strade di transito dove depositi
commerciali, capannoni e aree industriali si alternano a zone abitative
composte da piccole casette unifamiliari (figura ).
Anche questo sito è di recentissima apertura: venne recuperato
dall’Associazione di familiari delle vittime e superstiti del Nido 
solo nel , dopo essere stato per molti anni sede di un’associazione
 Patrizia Violi

Figura . Lo spazio retrostante di Casa Cañas.

Figura . Nido , esterno.

di laringotomizzati, del tutto estranea quindi a ogni nesso con la


passata dittatura. Il luogo venne recuperato grazie a una lunga battaglia
“È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni 

del comitato dei sopravvissuti che voleva entrarne in possesso per


preservarlo come luogo di memoria storica ma anche come centro
sociale.
Nido  ha pochissime delle caratteristiche del sito vero e proprio:
lontanissimo dal centro città, non segnalato in nessuna guida, prati-
camente introvabile, spesso chiuso e senza alcuna indicazione degli
orari di apertura, la sua visita richiede non poca determinazione. For-
se nemmeno molto giustificata peraltro, dato che nell’appartamento
non vi è praticamente nulla da vedere.
La stanza principale è un piccolo salotto anonimo, con un grande
ritratto del generale Bachelet, che qui venne detenuto per un breve
periodo. Quando mi ci sono recata, sono stata accolta con grande
entusiasmo dai due simpatici, e anziani, responsabili, membri dell’as-
sociazione dei sopravvissuti ed ex detenuti proprio in quelle stesse
stanze. Ero, non sorprendentemente, la prima straniera che avesse
mai messo piede in quel luogo.
È interessante però osservare come anche in questo luogo, sebbe-
ne su scala più povera e limitata, ritroviamo la stessa focalizzazione
indessicale di Casa Cañas. Si sono ossessivamente conservate le poche
tracce che rinviano al tragico passato: una trave di legno a cui veni-
vano legati i prigionieri, un armadio in cui venivano rinchiusi, e al
cui interno è stata messa una sagoma di cartone per illustrarne l’uso
(figura ).
I pochi reperti rimasti dagli anni bui della dittatura sono inseriti
in stanze che hanno oggi un utilizzo da ufficio, dato che Nido 
è soprattutto un centro sociale localmente attivo sia come centro
culturale della comunità mapuche sia come luogo di attività varie
destinate a trasmettere la memoria della passata dittatura specie con i
ragazzi delle scuole medie.
Può essere interessante segnalare che anche in Nido , come
avevamo già visto in Casa Cañas, la parte di attività di centro socia-
le, rivolte alla comunità locale, si sviluppano in una sezione del sito
collocata dietro la villetta, secondo una organizzazione topologica di
anteriorità e posteriorità analoga a Casa Cañas. Anche qui la facciata
della villa, e la parte del sito rivolta verso l’esterno, è delegata alla
memoria e alla conservazione del passato, mentre è il retro e l’interno
del sito a svolgere le funzioni di centro sociale e di attività rivolte alla
comunità esterna, in una sorta di chiasmo spazio–temporale.
 Patrizia Violi

Figura . Interno di un armadio a Nido .

. Oltre l’indessicalità

Quali conclusioni generali possiamo trarre da queste analisi specifiche?


Innanzitutto vale la pena di sottolineare la differenza che intercorre
fra questi siti del trauma e i musei veri e propri, anche quelli della me-
moria. Da questo punto di vista sarebbe molto significativa un’analisi
contrastiva fra i siti esaminati e il grande Museo della Memoria e dei
Diritti Umani di Santiago, che non ho qui il modo di approfondire. I
“È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni 

musei tradizionalmente intesi sono caratterizzati da una dinamica con-


tenitore/contenuto, che può assumere valenze diverse, ma permane
sempre come tensione significativa. Anche nei nuovi musei (Pezzini
), dove è spesso il contenitore a prevalere sul contenuto, vi è pur
sempre un contenuto specifico che costituisce in ultima istanza la
ragion d’essere del museo.
Nei siti cileni che abbiamo esaminato non vi è più nessun conte-
nuto: nulla è rimasto da conservare, mostrare e tramandare, nessun
oggetto e nessuna traccia di passate esistenze. I luoghi sono stati svuo-
tati, spesso utilizzati per anni da altre associazioni e gruppi con finalità
diverse. Non solo. Almeno in alcuni di questi luoghi (Villa Grimaldi e
Casa Cañas) non esiste più nemmeno il contenitore, in quanto l’intero
luogo è stato distrutto e al massimo ne possiamo vedere le archeologi-
che tracce perimetrali, come in Casa Cañas, dove l’ambiente è segno
di se stesso. L’unica cosa che resta è dunque l’indessicalità del luogo,
non molto diversamente da quanto accade sulle nostre strade con i
fiori posti a indicare e commemorare il luogo di un incidente.
L’assoluta assenza di altri elementi che possano farsi portatori di
memoria enfatizza la natura di pura deissi spaziale del luogo, unico
“semioforo” (Pomian ) in grado di connettere passato e presente.
Naturalmente il luogo acquisisce questo valore solo nel momento in
cui è riconosciuto e semiotizzato come tale: in altri termini, la capacità
commemorativa del luogo non riposa su alcuna naturalità fattuale,
ma deve farsi sapere condiviso e diffuso. È solo il sapere che “quello
era il vero luogo”, e la conseguente trasformazione dell’impronta in
segno, a produrre significazione, È infatti solo sulla base di questo
sapere che la visita a questi siti acquista senso. Poiché non c’è nulla
ormai da vedere, non ci si reca in quei luoghi per vedere, ma per essere
lì, per fare un’esperienza del luogo in sé, qualcosa di molto simile a
una forma di pellegrinaggio rituale e testimoniale allo stesso tempo.
Pellegrinaggio che spesso acquista i caratteri di una vera e propria
prova, data la difficoltà di raggiungere questi siti. Visitarli non è tanto
un atto di conoscenza ma un atto di testimonianza.
In questa prospettiva acquistano una particolare rilevanza le asso-
ciazioni private che gestiscono questi luoghi, e in particolare le figure
dei “custodi” responsabili che gestiscono e tengono aperti i siti stessi.
Membri delle associazioni, appartengono quasi sempre alla generazio-
ne che è stata vittima della dittatura e ad essa è sopravvissuta e in molti
 Patrizia Violi

casi sono stati anche detenuti e torturati in quegli stessi luoghi che ora
custodiscono. Fortemente motivati a mantenere in vita la memoria
di un passato di cui sono stati direttamente partecipi, sempre pronti
a raccontare la loro esperienza di vita e la storia di un’intera genera-
zione, si presentano come veri e propri Destinanti che mantengono e
tramandano i valori di fondo della memoria storica e ne custodiscono
i luoghi “sacri”. L’isotopia del pellegrinaggio che suggerivo pocanzi
trova in queste figure di destinazione una sorta di officiante laico di
un rito che si perpetua nel tempo.
In queste figure viene a saldarsi la dimensione della memoria in-
dividuale con quella della memoria collettiva: i testimoni superstiti
si fanno interpreti di un passato che è al tempo stesso singolare e
comune, e ne garantiscono la trasmissione alle generazioni future.
Non è un caso che la principale attività di questi centri sociali sia con
le scuole e i ragazzi.
In conclusione, possiamo dire che la memoria cilena sembra muo-
versi su un doppio binario, almeno per quanto riguarda quello che
definirei “il secondo tempo” della memoria cilena, a partire dalla metà
del primo decennio del nuovo secolo.
Da un lato è rintracciabile una forte spinta al recupero, alla con-
servazione e alla commemorazione del passato. Si tratta di un vero e
proprio sistema della memoria, da intendersi come un tutto integrato e
connesso. Accanto all’apertura di tutta una serie di siti minori, come
quelli qui descritti, è infatti da considerare anche l’operazione, iniziata
anche’essa pochi anni fa, di riapertura delle fossi comuni con conse-
guente riattribuzione dei nomi alle vittime anonime lì seppellite. Ciò
è avvenuto in moltissime località sparse in tutto il territorio cileno, e
anche all’interno del grande Cementerio General di Santiago, con
la trasformazione in monumento del patio , un’area del cimitero
dove erano state seppellite molte vittime, trucidate per lo più durante
l’attacco a La Moneda l’ settembre  e nei primissimi giorni della
dittatura. Naturalmente centrale in questo sistema memoriale è poi il
Museo della Memoria e dei Diritti Umani di Santiago cui ho già fatto
riferimento, inaugurato l’ gennaio  dal primo ministro Bachelet.
D’altro lato, come ho indicato, i nuovi siti che si vanno aprendo
in questi ultimi anni paiono tutti caratterizzati da una forte tensione
all’intervento sulla realtà sociale dell’oggi, solo in parte in funzione
memoriale. Il Nido  è un centro di aggregazione locale e al tem-
“È successo proprio qui”. Gli ambienti come testimoni 

po stesso di diffusione della cultura Mapuche; Londres , quando


l’ho visitato nel gennaio , ospitava una mostra temporanea sui
transessuali, organizzata insieme a una loro associazione. Non solo il
passato quindi, e non solo gli attori che in quel passato hanno avuto un
ruolo centrale, ma anche figure sociali diverse, marginali per cultura
o posizionamento di genere.
Mi pare questo l’aspetto più interessante del sistema memoriale
cileno, che tende a rivitalizzare i luoghi del trauma legandoli a pratiche
e usi ancorati al presente. Un esempio che mi è parso di straordinario
interesse è stato l’utilizzo di alcuni di questi siti come teatri nel corso
del Festival del Teatro Internazionale tenutosi a Santiago nel gennaio
. Lo spettacolo rappresentato era un testo molto particolare: si
trattava della pièce teatrale Villa di Guillermo Calderón, un giovane
drammaturgo e regista teatrale della nuova generazione cilena. La
Villa cui il titolo fa riferimento è proprio Villa Grimaldi, e le tre prota-
goniste della commedia sono figlie di tre donne che a Villa Grimaldi
sono state torturate e violentate. Lo spettacolo è stato rappresentato
sia nel Parco per la Pace, che a Londres  che a Casa Cañas, sempre
negli stessi spazi che erano stati i luoghi di detenzione e tortura, e per
un numero assai ristretto di spettatori.
L’interesse di questo e simili esprimenti consiste principalmente nel
mettere in discussione la funzione semiotica stessa dei siti del trauma,
immaginando un loro possibile riuso dinamico e legato al presente
che consenta di andare oltre il puro rinvio memoriale al passato.

Riferimenti bibliografici

B V. () Civil Society Promotion of Truth, Justice, and Reconciliation in


Chile: Villa Grimaldi, “PEACE & CHANGE”, , : –.
D P.W. e I. J () The Struggle for Democracy in Chile, University
of Nebraska Press, Lincoln.
E U. () Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano.
G–B M. () Where Memory Dwells. Culture and State Violence in
Chile, University of California Press, Berkeley.
H M. () Family Frames: Photography, Narrative and Postmemory, Har-
vard University Press, Cambridge, MA.
 Patrizia Violi

I M.A. () La ballata de la memoria, Grupo Editorial Planeta, San-


tiago.
L M.J. () “Tres recorridos de Villa Grimaldi”, in E. Jelin e V.
Langland (a cura di), Monumentos, memorials y marcas territoriales, Siglo
XXI, Madrid e Buenos Aires, –.
M P.A. () Villa Grimaldi, Santiago de Chile: A Visitor’s Guide, private-
ly printed, Santiago.
M T.A. () Holding the Junta Accountable: Chile’s “Sitios de Memoria”
and the History of Torture, Disappearance, and Death, “Radical History
Review”, : –.
N P. () Les Lieux de la mémoire, Seuil, Parigi.
P J. () Marketing Democracy: Power and Social Movements in Post–Di-
ctatorship Chile, University of California Press, Berkeley.
P I. () Semiotica dei nuovi musei, Laterza, Roma.
P K. () Sur l’histoire, Gallimard, Parigi (tr. it. Che cos’è la storia,
Milano, Bruno Mondadori, ).
P F. () Chile: Una democracia tutelada, Editorial Sudamericana,
Santiago.
R N. () Residuos y metáforas: Ensayos de critica cultural sobre el
Chile de la transición, Editorial Cuarto Proprio, Santiago.
———. () Sitios de la memoria: Vaciamiento del recuerdo, “Revista de
critica cultural”, : –.
———. (a cura di) () Políticas y estéticas de la memoria, Editorial Cuarto
Propio, Santiago.
V P. () Architetture della memoria. Il Memorial Hall di Nanjing, “Ver-
sus”, –: –.
———. (), “Il visitatore come testimone. Il Tuol Sleng Museum of
Genocide crimes a Phnom Penh”, in M.P. Pozzato (a cura di), Testi e
memorie. Semiotica e costruzione politica dei fatti, Il Mulino, Bologna.
W P. (a cura di) () Victims of the Chilean Miracle: Workers and Neoli-
beralism in the Pinochet Era, –, Duke University Press, Durham,
NC.

Patrizia Violi
Università di Bologna
Lexia. Rivista di semiotica, 9–10
Ambiente, ambientamento, ambientazione
ISBN 978-88-548-4516-9
DOI 10.4399/97888548451692
pag. 133–151 (dicembre 2011)

Retoriche spaziali e retoriche organizzative


L’organizzazione come teatro biopolitico

G L

 : The Spatial Rhetorics of Organization, or the Organization as a


Biopolitical Theatre

: In the present essay, the space of the organization is defined


as a script, that is, as a complex of designed spaces whose function is
to elicit a specific set of behavioural patterns within the organization
itself. This definition aims to account for the fact that the organizational
culture is embedded not only within the social interactions that take
place within the organization, but also within the shared organizational
spaces that provide the frame for those interactions. Further, it allows for
a better understanding of the way in which specific control structures
work within the organization. A short survey of the aims pursued by
the “Büro für die Schönheit der Arbeit” during Nazi Germany gives
evidence of the fact that the interlacement between the symbolic and
cultural patterns shared by an organization and the physical setting
of the organization itself is not a phenomenon of recent times. But
the main part of the essay focuses upon the present, namely upon the
growing expansion of neoliberal modalities of managing the labour
processes. Parallel to the contemporary flexible and project–oriented
organization of labour, the organizational space undergoes a deep change.
On the one hand, the boundary between work place and what has been
considered as external to it since recent times is going to fade, or even
disappear; on the other, the symbolic investment on the organizational
space increases to such a point that it becomes more and more difficult to
detach its displacement from the biopolitical strategies that characterize
any contemporary social formation.

: Architecture; labour; organization theory; management studies;


biopolitics; neoliberalism.


 Giovanni Leghissa

Solo di recente si è prestata sufficiente attenzione allo spazio organizza-


tivo in quanto spazio socialmente rilevante, sia ai fini di una migliore
comprensione della vita organizzativa, sia in vista della possibilità di
interpretare gli spazi organizzativi quali spazi che, in virtù della logica
che li governa, esibiscono una interazione peculiare tra ambiente e
azione sociale. Se interpretiamo lo spazio sociale contemporaneo
come dispiegamento di logiche governamentali di tipo biopolitico,
proprio lo spazio organizzativo acquista subito, però, un peso non
irrilevante. Attraverso la nozione di biopolitica Foucault intende de-
scrivere il fatto che la vita degli individui, intesa come complesso di
conoscenze, competenze, modi del sentire, attitudini e aspirazioni,
diviene l’obiettivo di interventi governamentali tesi a predeterminare
lo spazio di manovra di cui ciascun individuo dispone sia in quanto
cittadino, sia in quanto produttore di beni e servizi . Finché opera, in
seno a una formazione sociale data, una qualche forma di distinzione
tra sfera politica e sfera economica, tale da rendere possibili progetti
di vita sorretti da strutture di senso diverse, ciascuna delle quali si legit-
tima all’interno di ambiti autonomi e per principio separabili tra loro,
le forme di governo delle vite possono essere sottoposte a limitazioni
e controlli reciproci; in tal caso, la legittimazione di ciascun intervento
governamentale — e le procedure messe in atto per sostenerla — sarà
sempre passibile di revisioni e negoziazioni. In un contesto segnato
dalla prevalenza di logiche che Foucault definisce neoliberali sembra
restringersi proprio tale complesso di reciproche compenetrazioni tra
le sfere dell’agire e le logiche che ne guidano la gestione discorsiva. La
caratteristica principale di una formazione sociale definibile come neo-
liberale, più precisamente, consiste nel fatto che una specifica forma
di razionalità, tesa in primis a comprendere l’agire economico, viene
elevata a struttura di senso prevalente — se non unica e dominante.
I processi di soggettivazione, di conseguenza, si dipanano lungo una
linea di narrazioni possibili assai più ristretta e limitata di quanto non
sarebbe stato possibile in un contesto che ammetta, per principio, la
coesistenza di più modelli di razionalità, anche in conflitto tra loro.
Ora, poiché la conseguenza più immediata del prevalere di una logica
neoliberale consiste nell’offrire il modello dell’azione organizzativa

. Sulle nozioni di biopolitica, governamentalità e neoliberalismo qui utilizzate, cfr


Foucault .
Retoriche spaziali e retoriche organizzative 

come unica risorsa di senso al fine di incorniciare narrativamente i


processi di soggettivazione , non appare marginale interrogare co-
me le forme spaziali dell’organizzazione contribuiscano a orientare
l’azione e a legittimare forme di potere specifiche.
Per rendere perspicuo quanto detto sopra, risulta opportuno partire
dall’ipotesi secondo cui lo spazio organizzativo — sia quello di un’im-
presa che persegua come obiettivo primario la creazione di profitti,
sia quello in cui opera un’istituzione pubblica o un’organizzazione
dedita alla gestione di attività rilevanti sul piano sociale (un monastero,
la sede di un partito politico, un campo per rifugiati) — agisca come
uno script nei confronti degli individui che lo attraversano e se ne
appropriano . Una simile definizione risulta plausibile se si pensa al
fatto che gli spazi organizzativi sono stati progettati da qualcuno che,
relazionandosi in modo più o meno creativo alle specifiche finalità
perseguite dall’organizzazione, è stato chiamato a definire la percor-
ribilità dello spazio organizzativo in termini abitativi, funzionali ed
estetici. Inoltre, essa permette di cogliere in che senso tale spazio offra
agli attori sociali un set predefinito di possibilità di movimento e di
espressione corporea — fatto, questo, non irrilevante ai fini di una de-
scrizione dello spazio organizzativo che ne voglia cogliere la rilevanza
anche in vista di una critica della biopolitica neoliberale.
Sarebbe riduttivo però affermare che progettare uno spazio organiz-
zativo significhi solamente tener conto della fisicità degli spazi percorri-
bili. Alla dimensione progettuale non appartiene solo la configurazione
dell’insieme composto da elementi estetici (espressi dal design degli
oggetti che si trovano dentro gli edifici) ed elementi architettonici
(per esempio l’aspetto dell’edificio e il modo in cui esso si inserisce
nello spazio urbano circostante) — insieme, questo, che rende possibili
specifiche forme di interazione e di comunicazione faccia a faccia. Al
progetto spetta anche il compito di definire ruolo e utilizzabilità specifi-
che delle tecnologie informatiche. Si abita un’organizzazione, infatti,
non solo percorrendone gli spazi fisici, ma anche percorrendone gli
spazi virtuali, i quali rivestono un’importanza essenziale in relazione al
flusso di informazioni che l’organizzazione deve gestire in vista della
realizzazione degli scopi perseguiti. Non solo: la visibilità della cultura

. Su questo punto mi ero soffermato in Leghissa .


. Sulla nozione di script, cfr Akrich .
 Giovanni Leghissa

organizzativa, intesa come parte integrante delle procedure finalizzate


a costruire il brand, emerge tanto dal sito di un’organizzazione inserito
nel world wide web quanto dalla forma dell’edificio in cui l’organizza-
zione ha sede — senza contare, ovviamente, i casi di organizzazioni
“fisicamente” presenti solo nella rete.
Definire lo spazio organizzativo come script ci offre dunque un
indubbio vantaggio, che consiste nel rendere visibile l’organizzazione
sia come insieme di attori che interagiscono tra loro e con le norme,
scritte e non scritte, che delineano scopi e finalità dell’organizzazione,
sia come insieme composto da attori, codici e oggetti tecnici. È bene
tenere sempre presente che i due aspetti non sono mai separabili. Non
si dà organizzazione, infatti, senza codificazione dei campi semantici
che ospitano la comunicazione sia dentro l’organizzazione, sia con gli
attori esterni ad essa; né si dà organizzazione senza gestione sia degli
spazi, fisici o virtuali, che ospitano le interazioni comunicative intra ed
infra organizzative, sia dei dispositivi tecnici di cui si servono gli attori.
Ma per cogliere la coalescenza dei due aspetti ora menzionati, è impor-
tante vedere tanto negli oggetti tecnici quanto negli spazi organizzativi
qualcosa che non è riducibile al mero supporto materiale atto a favo-
rire — o impedire — la circolazione di codici e informazioni entro
quello spazio sociale chiamato organizzazione — come se quest’ulti-
mo fosse comprensibile al di fuori della materialità che lo compone.
Si tratta insomma di giungere a un livello di analisi che permetta di co-
gliere con un colpo d’occhio l’interconnessione tra: a) configurazione
fisica dei luoghi e degli ambienti, sia esterni che esterni; b) necessità
pratiche, legate all’ergonomia, al conforto, al tipo di produzione che
ha luogo nell’impresa (l’espressione task instrumentality definisce bene
tutto ciò); c) relazioni sociali, condensate sia nelle esigenze di control-
lo da parte del management, sia nel bisogno espresso dai collaboratori
di sottrarsi a tale controllo; d) identificazione simbolica con l’impresa
da parte di chi vi lavora e bisogno che il management ha di esprimere,
attraverso un investimento simbolico specifico, il proprio potere, la
storia pregressa e la cultura attuale dell’impresa. Solo un’impostazione
di questo genere può infatti tener conto di quella logica sociale dello
spazio che, del resto, caratterizza ogni ambiente abitato dagli umani
(Hillier e Hanson ). Essa, infine, ha pure il merito di accordarsi con
una lettura semiotica del discorso architettonico, volta a evidenziare
come ogni artefatto architettonico connoti “un’ideologia dell’abitare”
Retoriche spaziali e retoriche organizzative 

e sia veicolo di codici culturali che stanno al di fuori del linguaggio


architettonico e che possiamo definire in senso lato antropologici .
È vero che gran parte della teoria delle organizzazioni si è per lo
più concentrata sull’analisi delle forme di comunicazione discorsi-
ve, dando vita a una retorica dell’organizzazione come narrazione
(Czarniawska ) che non sempre ha permesso di cogliere gli aspet-
ti problematici della peculiare performatività che caratterizza ogni
atto comunicativo nei contesti organizzativi. Tuttavia, in fondo fu
proprio lo sviluppo di tale programma di ricerca ciò che permise di
afferrare come ogni azione comunicativa avente il management come
sorgente fosse interpretabile quale azione simbolica e rituale, ovvero
quale veicolo che supporta decisioni finalizzate a gestire il controllo
(Pfeffer ). Va precisato che il controllo viene qui inteso sia come
sorveglianza sui comportamenti e limitazione degli spazi di azione
e di comunicazione, sia come codifica di norme, autorizzazione e/o
censura di credenze e valori, messa in circolazione di enunciati rile-
vanti al fine di stabilire confini, ovvero procedure di entrata nello —
e di uscita dallo — spazio comunicativo. A partire da tale prospetti-
va, acquista ancora maggiore persuasività la definizione dello spazio
organizzativo come script: spetta all’azione manageriale, infatti, sia
decidere il contenuto di ciò che verrà comunicato attraverso la forma
e il design degli spazi organizzativi, sia stabilire entro quali margini tale
contenuto potrà venir manipolato e interpretato — vuoi dal designer
incaricato di progettare lo spazio organizzativo, vuoi dagli attori che
lo abiteranno e attraverseranno. In altre parole, è anche attraverso la
progettazione dello spazio organizzativo che il management articola
una specifica modalità di gestire la legittimità della propria azione di
governo (Preoffitt Jr. e Zahn ).
Seguendo il filo del presente ragionamento, avrebbe poco senso
chiedersi in che modo la progettazione del design e degli spazi orga-
nizzativi sia chiamata a “esprimere” una cultura organizzativa data.

. Eco , p.  e pp. –. In realtà, mi pare si possa ancora considerare come un
buon punto di partenza l’intera trattazione del linguaggio architettonico che si trova in Eco
, pp. –; qui, infatti, si chiarisce bene in che senso il linguaggio architettonico non
abbia referenza, dal momento che il segno architettonico riposa su significanti, descrivibili
e catalogabili all’interno di una semiotica, i quali comunicano la loro funzione possibile
purché si disponga di quell’insieme di significati codificati che un dato contesto culturale
attribuisce a quei significanti.
 Giovanni Leghissa

Più sensato appare formulare il rapporto tra spazi e comunicazione in


termini di una embricazione tra funzione pratica e funzione simbolica.
Parlare di embricazione serve a rendere esplicito il fatto che la stessa
strumentalità degli oggetti e degli ambienti, che sono stati concepiti
per essere fruiti in contesti comunicazionali specifici, secondo modali-
tà predefinite dagli scopi organizzativi, incorpora distinzioni sociali e
di ruolo, gerarchie, possibilità di identificazione; la distribuzione degli
spazi, cioè, rende l’organizzazione riconoscibile come luogo, la cui
significatività viene immediatamente percepita in base a un sistema
composto da convenzioni culturalmente pervasive e valori resi manife-
sti per via analogica, spesso in modo implicito, al di là della coscienza
individuale (Doxtater ). Nella struttura dell’edificio, per esempio,
sono presenti indizi che elicitano per associazione determinati com-
portamenti o modi d’essere, oppure evocano memorie emozionali
che veicolano comportamenti appresi altrove in situazioni simili. In
assenza di ciò, sarebbe per esempio difficile reprimere l’impressione
che andare sul posto di lavoro coincida con una sorta di maledizione.
Tuttavia, molto spesso accade che la funzione pratica degli spa-
zi organizzativi risulti la più evidente, e rimanga invece nascosta la
funzione simbolica — o almeno quella componente della funzione
simbolica che rende lo spazio organizzativo dispositivo di controllo.
Si potrà infatti ben notare la volontà espressa dal management di con-
ferire prestigio all’organizzazione se l’edificio che la ospita porta la
firma di un grande architetto, oppure semplicemente si staglia alto e
svettante nello skyline di una delle città globali che costellano l’ecu-
mene. Tale prestigio, probabilmente, viene percepito con più o meno
soddisfazione anche dagli attori che partecipano alla vita organizzativa.
Ciò che a questi ultimi forse non risulta del tutto evidente è il fatto
che lo spazio organizzativo in quanto tale agisce sui corpi, al fine di
indirizzare modalità comportamentali e comunicative consone ai biso-
gni e alle aspettative del management . Che ogni organizzazione sia
anche una coalizione politica, è un fatto che viene occultato sia dalle
retoriche manageriali in uso, sia dalla letteratura sulle organizzazioni,
atta a implementare quella stessa retorica.
. Cfr Markus ; Dale e Burrell  (in part. pp. –, –, –). Sull’occul-
tamento della funzione simbolica degli spazi in generale, si veda Barthes , pp. –.
Ma già Eco osservava che “il discorso architettonico viene fruito nella disattenzione” (Eco
, p. ).
Retoriche spaziali e retoriche organizzative 

Vale ora la pena intraprendere un breve excursus di carattere stori-


co, che si rivelerà utile innanzi tutto per comprendere come la que-
stione della spazialità organizzativa costituisca una nota dominante
nell’ambito della storia delle organizzazioni. Tornando poi a conside-
rare la realtà contemporanea, si potrà meglio afferrare la novità costi-
tuita dagli spazi organizzativi progettati nel contesto sociale e cultura-
le contemporaneo, profondamente segnato dal progetto biopolitico
neoliberale.
Nel novembre del  venne istituito, nella Germania ormai do-
minata dal nazionalsocialismo, il Büro für die Schönheit der Arbeit, che
avrebbe giocato un ruolo importante nel forgiare la mentalità della
nazione guidata dal Führer. Operando direttamente sulle condizioni
materiali della vita operaia, in modo da favorirne un miglioramento
sia in termini di igiene e sicurezza, sia in relazione alla soddisfazione
connessa all’attività lavorativa, il Büro contribuì in modo non irri-
levante a forgiare il consenso della classe operaia tedesca verso la
dittatura .
Attraverso il regime discorsivo costruito dal Büro, e attraverso le
pratiche da quello indotte, il taylorismo che in quell’epoca costituiva
la modalità dominante di gestione delle tecniche produttive venne
trasformato in base alle esigenze del regime hitleriano, giungendo
a un rafforzamento della propria valenza quale progetto di controllo
delle vite messe al lavoro. Dovendo conquistare le masse operaie e
mostrarsi in grado di rendere del tutto inefficace il richiamo esercitato
dalle concezioni politiche socialiste o comuniste, il regime hitleria-
no utilizzò infatti le risorse del management scientifico non solo per
migliorare la produttività dell’industria tedesca, ma anche per guada-
gnare i cuori e le menti di una classe operaia a cui andavano conferite
dignità e orgoglio, interpellandola quale fulcro dell’intera Gemein-
schaft nazionale riunita attorno al Führer. Spogliato di ogni diritto,
alla mercé di una classe imprenditrice ormai libera tanto dall’incubo
della democrazia dei consigli, quanto dall’ingombrante presenza di
rivendicazioni sindacali, all’operaio tedesco veniva insomma offerta la
bellezza al posto del riscatto politico; in tal modo, alle masse lavoratrici
fu possibile incorporare un habitus che permettesse di vivere come

. Per un’analisi delle attività svolte dal Büro für die Schönheit der Arbeit, cfr Rabinbach
.
 Giovanni Leghissa

normale, nelle pieghe di una quotidianità teatralmente predisposta


ad accoglierlo, il dispiegarsi di quel colossale esperimento biopolitico
che fu l’antropotecnica nazionalsocialista.
Padroni assoluti delle proprie imprese e manifatture, i proprietari e
i dirigenti delle aziende del Terzo Reich potevano, in teoria, rifiutarsi
di investire in bellezza. Ma, forti ormai di un sapere scientifico che
anche in Germania aveva messo radici , gli uomini del Büro riusci-
rono a convincere l’imprenditoria del fatto che si sarebbe trattato di
un investimento destinato a dare buoni frutti. Furono almeno ottan-
tamila le aziende che aderirono, in forma più o meno completa, ai
programmi del Büro. Dal  al  il paesaggio produttivo tedesco
subì una profonda trasformazione. Si modificarono gli impianti di
illuminazione, non senza sottolineare il significato simbolico di questa
operazione, che metaforizzava la nuova luce irradiata dal Führer e de-
stinata a indicare la via maestra al popolo tedesco. Si migliorò l’igiene
sul posto di lavoro, la ventilazione degli ambienti, preoccupandosi di
evitare il contatto con sostanze o fumi velenosi, si enfatizzò la necessità
di installare ovunque docce e servizi igienici puliti e funzionanti, si
obbligò a un’accurata pulizia del proprio corpo l’intera classe operaia,
anche qui cogliendo l’occasione per offrire ulteriore spazio a una delle
più potenti retoriche messe in cantiere dal regime nazionalsocialista,
quella della pulizia — pulizia intesa nel senso più ampio possibile,
ovvero come purificazione da tutto ciò che, nel corpo e nella mente,
infetta, corrompe, ammorba e imputridisce, in vista di una totale im-
munizzazione della Volksgemeinschaft da ogni elemento non ariano. In
correlazione a ciò, si introdussero migliorie nelle mense, nella qualità
del cibo ivi servito e consumato, si favorì l’introduzione di attività ri-
creative sul posto di lavoro, là dove possibile si crearono campi sportivi
e piscine. Ma soprattutto ci si preoccupò di abbellire i posti di lavoro,
con fiori, giardini e viali all’esterno, radicalizzando quella tradizione
della città–giardino già ben attecchita nella prassi urbanistica tedesca
(si pensi solo a Tessenow), mentre l’esterno e l’interno degli edifici

. Va qui menzionato il pionieristico lavoro di Hugo Münsterberg, che fu tra i primi a


misurare i tempi di lavoro al fine di migliorare le prestazioni dei lavoratori (cfr Münsterberg
). Ma il Büro für die Schönheit der Arbeit ricevette un impulso decisivo sotto la guida
di Ludwig Adolf Geck, che contribuì a diffondere l’idea secondo cui esisteva uno stretto
rapporto tra ambiente di lavoro e qualità delle relazioni umane all’interno dei luoghi di
produzione (cfr Geck  e Geck ).
Retoriche spaziali e retoriche organizzative 

doveva venir progettato in base ai canoni dell’estetica funzionalista e


modernista che, negli anni di Weimar, fu propria del Bauhaus . Inve-
stita di nuovi significati, tale estetica doveva allontanare dalle masse
quella nostalgia per l’idillio romantico e antimodernista, nemico della
tecnica, che tanta parte ebbe nella via tedesca alla modernità e che
caratterizzò pure una parte cospicua della stessa retorica nazionalso-
cialista, almeno nelle fasi iniziali del movimento. Mentre gli edifici
destinati al partito o alle istituzioni pubbliche dovevano esibire la mo-
numentalità di ciò che è destinato a durare nei secoli, l’architettura dei
luoghi di produzione doveva saper coniugare bellezza e funzionalità,
secondo i canoni del più avanzato modernismo. In tal modo, l’operaio
tedesco veniva reso produttore e fruitore di una nuova estetica, capace
di recuperare i significati più innovativi della nuova oggettività e di
fonderli con le esigenze di un progetto antropologico che mirava a
elevare il progresso tecnico a cifra essenziale del presunto primato
razziale germanico.
Non va qui dimenticata la rilevanza che la dimensione estetica ha
sempre avuto per il movimento nazionalsocialista. Introdurre bellez-
za nelle fabbriche significava mettere in opera fin dentro l’apparato
produttivo quel programma di politicizzazione delle masse attraverso
l’estetica che costituiva una delle componenti essenziali dell’antro-
potecnica nazionalsocialista (Reichel ). Motivata da una nuova
mitologia , l’estetizzazione del politico si configurava come un pro-
getto totalizzante, che non poteva lasciar fuori di sé nessun aspetto
della vita quotidiana.
Ma l’esempio offerto dal Büro für die Schönheit der Arbeit è rilevante
per ragioni che inducono a cogliervi una dimensione di senso che
travalica il contesto storico particolare in cui esso sorse. Al centro delle
preoccupazioni di un autore come Geck — che qui ricordiamo anche
per l’influsso che la sua opera di studioso ebbe ben dopo il  — vi
era la consapevolezza che non vi è soluzione di continuità tra relazioni
umane all’interno dell’impresa, estetica dei luoghi di lavoro e contesto

. Per Gropius la realizzazione di edifici industriali e, più in generale, la pianificazione


degli spazi in cui si svolgono le attività legate all’industria e al commercio, costituiva la
sfida più importante dell’architettura: era in tale contesto che poteva infatti prender corpo
quella fusione tra forma tecnica e forma artistica — tra anima ed esattezza, potremmo
anche dire — che stava alla base dell’estetica propugnata poi dal Bauhaus (cfr Gropius ).
. Su ciò, mi limito a rimandare a Strohm ; Ley e Schöps ; Bärsch  .
 Giovanni Leghissa

sociale in cui le imprese operano. Per usare le parole di Geck, esiste


un insieme di “fatti rilevanti dal punto di vista della sociologia delle
organizzazioni” (betriebssoziologisch bedeutsame Tatsachen) che toccano
sia la vita entro le imprese, sia il più ampio contesto in cui queste ulti-
me operano. In altre parole, la disciplina interna e i rapporti gerarchici,
che regolano la vita delle imprese dall’interno, non possono essere
considerati fattori privi di relazione con la cultura e i processi sociali
più ampi osservabili al loro esterno. Precisamente tale relazione va
tenuta presente non solo se si vogliono comprendere le dinamiche
organizzative da un punto di vista scientifico, ma anche se si intende
incidere in modo efficace sui rapporti sociali dentro le stesse imprese.
La conseguenza più innovativa che da tutto ciò seppero trarre i fun-
zionari attivi nel Büro für die Schönheit der Arbeit era che per intervenire
in modo efficace sulle dinamiche sociali nel loro complesso poteva
essere sufficiente operare in modo opportuno sulle dinamiche della
vita organizzativa — e precisamente qui si collocava il grande servigio
che il Büro poteva fornire al regime nazionalsocialista. L’impresa può
essere così trasformata in scuola, in centro di formazione permanente,
in luogo capace di generare una Bildung i cui contenuti non devono
adattarsi solamente ai bisogni dell’individuo in quanto produttore di
beni e servizi, in quanto prestatore d’opera, ma devono poter forgiare
il carattere e le attitudini più profonde della personalità.
Nel contesto delle democrazie occidentali postbelliche cambiano
profondamente le modalità di gestione delle imprese e i riferimenti
culturali che ne incorniciano il senso, ma l’esigenza di conferire valen-
ze simboliche allo spazio organizzativo resta intatta. La modificazione
più importante, rispetto al passato, potrebbe venir così sintetizzata: lo
spazio organizzativo si configura sempre più non tanto come spazio
fisico, quanto come spazio culturalmente rilevante al di là dei confini
che delimitano l’organizzazione in quanto luogo della produzione di
beni e servizi. L’impresa sembra non poter più contrapporsi a uno
spazio esterno, dal momento che la retorica dominante in seno alle
organizzazioni concepisce la spazialità organizzativa come qualcosa
che virtualmente coincide con lo spazio sociale nel suo complesso.
Per comprendere ciò, rivolgiamo la nostra attenzione innanzi tutto al
modo in cui si articola attualmente il discorso organizzativo. In un la-
voro ormai classico, Luc Boltanski ed Ève Chiapello hanno analizzato
il passaggio da una fase (quella della produzione fordista e taylorista)
Retoriche spaziali e retoriche organizzative 

in cui l’azione manageriale aveva come scopo il controllo diretto delle


dinamiche produttive a una fase (che dura tutt’ora) in cui diviene
invece centrale l’intervento sulle motivazioni e le aspirazioni di colo-
ro che fanno parte dell’organizzazione (Boltanski e Chiapello ).
Riprendendo le analisi svolte dai due autori, possiamo individuare
due operatori semantici che innervano discorsivamente gli spazi vitali
dell’organizzazione: la “rete” e il “progetto”. Sarà questa metaforica,
come vedremo, a rendere sempre più vago e indefinito il confine
che separa lo spazio dell’organizzazione dallo spazio sociale esterno
all’organizzazione stessa.
La rete non va intesa soltanto come rete di conoscenze e relazio-
ni interpersonali, ma soprattutto come l’insieme delle relazioni che
lega individui, luoghi e informazioni. Non esiste ormai manuale di
management o corso di formazione in cui non vengano tessute le lodi
della capacità, potenzialmente insita in ogni individuo, di lavorare in
squadra, di interagire con colleghi e colleghe, di mettere in comune
le proprie risorse cognitive con altri membri del gruppo di lavoro e di
approfittare delle competenze altrui per arricchire le proprie. Al punto
che l’eventuale “genialità” di un collaboratore, o la sua capacità di
“lavorare sodo”, di “produrre” tanto in poco tempo, rischia di venire
oscurata — se non bollata come potenzialmente “pericolosa” — se
l’individuo in questione dimostra nel contempo scarsa socievolezza,
scarsa capacità, cioè, di inserirsi in gruppi di lavoro. La condivisione
delle competenze e delle conoscenze, dunque, viene posta al centro
di tutte le retoriche della formazione e della consulenza d’impresa.
In anni più recenti, le retoriche della rete si sono arricchite grazie
all’utilizzo massiccio di saperi provenienti dall’area delle neuroscienze.
La metafora della rete neurale — che ormai è diventata una catacresi
— non indica solo le connessioni sinaptiche che formano il sistema
neurale individuale, essa inaugura un campo semantico in cui diviene
possibile concepire i legami intersoggettivi come un immenso ecosi-
stema in cui gli umani operano e si riproducono qua sistemi viventi
complessi, i quali devono la propria capacità di adattamento alla pla-
sticità del proprio cervello . Ormai divenuto autonomo, tale campo

. Esemplare, in tal senso, mi pare il modo in cui argomenta Minsky : in quest’o-
pera davvero sembra non esserci differenza tra il comportamento delle reti sociali e quello
delle reti neurali.
 Giovanni Leghissa

semantico traduce i dati della ricerca neurologica e li adatta al linguag-


gio delle scienze sociali. L’effetto di tale traduzione mette capo a una
peculiare naturalizzazione dei fenomeni sociali. Da un lato, abbiamo
i risultati raggiunti dalla recente biologia evolutiva, che sottolineano
quanto sia dinamico il rapporto tra evoluzione biologica ed evoluzio-
ne culturale (Cavalli Sforza ). Dall’altro, abbiamo l’utilizzo del
dato biologico–evolutivo da parte della teoria delle organizzazioni
al fine di modulare risorse semantiche incentrate sulla mobilità, la
duttilità, la plasticità, la flessibilità, la creatività. Insistendo sull’ormai
attestata plasticità del sistema neurale, si crea una piattaforma narra-
tiva che permette di enfatizzare come le organizzazioni siano capaci
di apprendere e di evolversi, mettendo opportunamente a frutto la
creatività dei singoli individui che compongono l’organizzazione.
Se la metaforica della rete descrive dunque non solo lo spazio or-
ganizzativo, ma lo spazio sociale tout court, stante la possibilità di
descrivere ogni componente della società a partire dalle risorse offerte
dal pensiero organizzativo, nella nozione di progetto, d’altra parte, si
condensa il significato che assume, per ciascun individuo, il passag-
gio continuo e ininterrotto da una rete all’altra. Se lo spazio sociale
è concepibile solo più come insieme di reti, è come insieme di pro-
getti che può essere concepita la vita dei singoli chiamati a sfruttare
le risorse offerte dallo spazio reticolare. Ciò ha delle conseguenze
notevoli rispetto al modo in cui si configura il rapporto tra spazialità
e organizzazione. Innanzi tutto si tratta di considerare come la forza
performativa della nozione di progetto corra parallela a una profonda
trasformazione del modo in cui il lavoro viene vissuto e narrato dagli
individui. Per lungo tempo la semantica del lavoro si era basata su una
opposizione molto netta, che permetteva di collocare da una parte il
tempo del lavoro e dall’altra il tempo del non lavoro. Dalla recipro-
ca contrapposizione ciascuna delle due sfere acquistava autonomia e
significatività — una significatività sorretta da un insieme di narrazio-
ni, condivise nell’ambito della cultura euroamericana, in virtù delle
quali era possibile costruire formazioni identitarie multiple, ciascuna
riferibile a una sfera specifica dell’agire. Lavorare per progetti, invece,
comporta la fine di una netta distinzione tra tempo del lavoro e tempo
da dedicare alla costruzione del sé. Non c’è più il “lavoro”, bensì un
vasto portafoglio di attività che ciascuno gestisce per conto proprio,
stante l’ingiunzione non tanto a divenire gli imprenditori di se stessi,
Retoriche spaziali e retoriche organizzative 

quanto a trasformare se stessi in un’impresa. Siccome gestire uno


o più progetti serve a connettere spazi diversi all’interno non solo
di quella rete che è la singola organizzazione con la quale si ha un
rapporto di lavoro, ma anche all’interno di quel più vasto complesso
di reti che è la formazione sociale in cui si opera, ciascun attore risulta
impegnato a tempo pieno, ben al di fuori del cosiddetto “orario di
lavoro”, in un complesso intrico di negoziazioni e contrattazioni che
servono a rinsaldare legami, a difendere le posizioni acquisite all’inter-
no di un complesso di relazioni, a spianare la strada a nuovi progetti.
A tutta questa mobilità infrareticolare — è opportuno sottolinearlo —
non corrisponde un aumento della virtualità dei legami. Per quanto
alto possa essere il numero di ore spese a chattare o, semplicemente,
a navigare nel world wide web, resta decisiva l’importanza dei contatti
faccia a faccia, i soli che possano rinsaldare quei “legami deboli” senza
i quali non sarebbe possibile nessun passaggio da una rete all’altra
(Granovetter ). Si noti, infine, che tale trasformazione è lungi dal-
l’aver toccato solo coloro che gestiscono una mini–impresa, composta
da loro stessi e da uno o due soci. Anche il lavoratore dipendente —
sia nel caso di un impiego a tempo indeterminato, sia nel caso di un
impiego a tempo determinato — ormai deve apprendere a “lavorare
per progetti”, ovvero a interagire con uno o più gruppi di lavoro che,
all’interno dell’organizzazione, perseguono obiettivi ben delimitati
in termini di durata. Ora, è proprio l’organizzazione delle vite in-
dividuali secondo logiche progettuali a permettere l’inglobamento
dello spazio della vita entro lo spazio occupato dall’organizzazione:
all’impossibilità di distinguere tempo di lavoro e tempo di non lavoro
corrisponde l’impossibilità di distinguere tra spazio organizzativo e
spazio vitale, entrambe reticolari, entrambe attraversabili solo grazie
a “salti” continui da un progetto all’altro.
La retorica del “lavoro in rete”, della condivisione delle compe-
tenze, fino a includere l’ingiunzione a superare le gerarchie verticali,
trova dunque nella gestione dei progetti il proprio ovvio completa-
mento: interagendo l’una con l’altra, la retorica della rete e quella del
progetto plasmano processi di soggettivazione che dovrebbero porsi
docilmente in accordo con forme di controllo della produzione non
più dirette e burocratiche, ma indirette e informali (Bazzicalupo ).
L’organizzazione gestita secondo i canoni weberiani della burocrazia,
infatti, permette di seguire e pianificare lo sviluppo di meccanismi
 Giovanni Leghissa

produttivi parcellizzati e segmentati, riconoscibili nella loro sequen-


zialità seriale. Il meccanismo burocratico trae la propria efficacia dal
fatto di rendere visibile la distinzione tra gli “oggetti” che si tratta
di produrre e immettere sul mercato (quand’anche tali “oggetti” ab-
biano la forma “immateriale” di servizi o prestazioni intellettuali) e
il “lavoro” che è stato necessario per la loro produzione. A ciò sono
connesse sia la possibilità di narrare il lavoro come “produzione di
oggetti, beni e servizi”, sia la possibilità di misurare le prestazioni
che quella produzione hanno reso possibile. Ora, il punto per noi
interessante è che, essendo relativamente facile giungere a tale misu-
razione, l’organizzazione burocratica è, paradossalmente, assai meno
burocratica di quella che viene posta in essere dalla retorica della rete
e del progetto. Quest’ultima, infatti, deve costantemente misurare
ambiti rilevabili qualitativamente e non quantitativamente come le
competenze, le capacità, gli stati emotivi, insomma tutte quelle atti-
tudini che i soggetti affinano e mettono a punto lavorando in rete e
per progetti. L’efficacia del prodotto, della produzione, delle presta-
zioni, che era direttamente verificabile e controllabile, lascia il posto
alla proliferazione di competenze, sia individuali che di gruppo, che
hanno bisogno di un monitoraggio costante e di una verifica continua.
L’organizzazione reticolare sottopone così ciascun progetto a revisioni
e controlli, moltiplicando il peso e l’influsso delle pratiche di auditing
(Power ). Parimenti, al suo interno si assiste alla produzione di
un numero enorme di relazioni e rapporti scritti — che, come è noto
da tempo, non verranno quasi mai letti, o perlomeno non da coloro
che sono supposti leggerli al fine di poter motivare le decisioni prese
(Feldman e March ).
Si può dunque affermare che i meccanismi di controllo nell’orga-
nizzazione in rete, in cui si lavora per progetti, subiscono un aumento
e non una riduzione. Tuttavia, il modello a cui fare riferimento per
comprendere tale aumento non è dato dal panopticon, bensì dall’actio
per distans (Dean ). Il controllo qui in questione non deriva in-
fatti dalla presenza asfissiante di controllori esterni al soggetto, ma
dall’efficace modulazione ed embricazione di linguaggi codificati e
condivisi, spazialità (anche architettoniche), presenza di norme spesso
non scritte, insomma da ciò che da tempo si è soliti chiamare “cultura
d’impresa”, al fine di predeterminare e prestabilire il movimento e
l’espressione di chi lavora nell’organizzazione (Kunda ).
Retoriche spaziali e retoriche organizzative 

In un contesto in cui le biopolitiche neoliberali sono dominanti, le


organizzazioni dunque investono di senso comportamenti, aspettative
e bisogni dei propri membri, dal momento che esse mirano non
solo e non tanto a “far lavorare di più le persone”, con lo scopo di
aumentare i profitti, ma aspirano a mettere al lavoro le vite, a farsi
carico dei meccanismi psicologici che permettono alla ricerca di senso
individuale di trovare uno sbocco che possa valere anche al di fuori
del tempo di lavoro. E l’estensione dello spazio organizzativo al di
fuori dei confini dell’impresa risulta essere forse il principale sintomo
di tale trasformazione che tocca, a livello ormai globale, il modo in cui
le rappresentazioni collettive ospitano il senso dell’agire economico
(Thrift ).
La distribuzione e la gerarchizzazione dei luoghi percorsi e abitati
entro gli spazi organizzativi riflette in modo esplicito il tentativo di
utilizzare in modo proficuo le risorse offerte da soggetti che l’orga-
nizzazione convoca e interpella in quanto individualità autonome,
creative e flessibili, capaci di gestire con leggerezza e spirito imprendi-
toriale lo spazio reticolare in cui operano (Crang ). L’esaltazione
di valori quali l’autonomia e la creatività degli attori induce una sem-
pre maggiore enfatizzazione del valore emozionale degli ambienti di
lavoro. Questi devono essere “vissuti”, in modo da farsi segno di una
partecipazione al gioco organizzativo dettata da un senso di apparte-
nenza liberamente scelto. Concretamente, ciò rende lo spazio di lavoro
contemporaneo disomogeneo e complesso. Questi due fattori, la di-
somogeneità e la complessità, sono strettamente correlati al bisogno
di rendere non visibili le gerarchie che governano l’organizzazione.
In modo più preciso, nelle strutture spaziali dell’organizzazione può
essere osservata una sorta di oscillazione e reciproca compenetrazione
tra due modelli di organizzazione spaziale che in passato venivano
concepiti invece in modo antitetico: da un lato il modello dello spa-
zio aperto e indifferenziato, dall’altro il modello degli spazi chiusi e
segmentati. Quel che ne risulta, è il sorgere di un nuovo paesaggio
organizzativo, modulare, perennemente riprogettabile, sia in relazione
alla sua percorribilità, sia in relazione alla sua permeabilità (Hofbauer
). Negli uffici senza pareti tutti controllano tutti, e sono al tempo
stesso controllati dallo sguardo di un management chiamato a dirigere
dall’esterno la compagnie organizzativa. Si tratta di un campo visivo
omogeneo che vuole essere al tempo stesso omogeneizzante, ovvero
 Giovanni Leghissa

tale da rendere visibile l’orizzontalità dei rapporti tra collaboratori


come ciò che si contrappone alla posizione verticale occupata dal
management. Per contro, nello spazio organizzativo in cui ogni attore
occupa uno spazio preciso, delimitato, personale — a room for one’s own
— viene garantita non solo la privacy, intesa in primis come possibilità
di sottrarsi allo sguardo diretto altrui, ma anche l’immediata ricono-
scibilità delle posizioni gerarchiche all’interno dell’organizzazione.
Va notato che tale modalità di organizzazione dello spazio implica un
costante dispendio di risorse per il monitoraggio delle attività che i
singoli svolgono all’interno dei propri spazi. È dalla commistione di
questi due modelli, variamente modulata a seconda delle esigenze,
che emerge un paesaggio organizzativo che permette di risolvere in
modo assai efficiente la questione del controllo: non controllo da fuori,
non monitoraggio delle attività svolte, bensì elicitazione di comporta-
menti collettivi che permettono il controllo reciproco, il peer review.
In un’organizzazione che incita gli attori a negoziare continuamente
i propri ruoli e la propria appartenenza, che di conseguenza invita
ciascun attore a considerare se stesso partner e non dipendente, si
instaura una complessa dinamica conflittuale e competitiva, gestibile
solo attraverso un continuo riposizionamento dei soggetti. In un si-
mile contesto, conquistarsi lo spazio che si occuperà di volta in volta
diviene una preoccupazione costante — fonte di ansia per alcuni, fonte
di potere per altri, per tutti inserimento nel flusso comunicativo di
un’organizzazione che si vuole flessibile e snella.
Divenuta temenos che racchiude la divina onnipotenza dell’econo-
mico, tempio in cui si produce e riproduce, con forme simili a quelle
della discorso religioso, un sapere sull’umano totalizzante nella pro-
pria aspirazione all’universalità, l’organizzazione contemporanea pare
dunque prestarsi assai bene a essere studiata quale centro di speri-
mentazione di nuove forme di governamentalità biopolitiche. Queste
ultime sono da sempre connesse alla necessità di gestire gli spazi in
modo da garantire alle istanze chiamate a governare le vite la possibili-
tà di una presa diretta sulla mobilità individuale, intesa non solo e non
tanto quale facoltà di muoversi da un luogo all’altro, quanto soprattutto
quale facoltà di accesso a spazi di enunciazione e di interazione comu-
nicativa (Markus ). Se e come sia possibile l’articolazione di nuove
forme di resistenza per facilitare accessi allo spazio organizzativo — o
uscite da esso — che rispondano all’esigenza individuale di forgiare la
Retoriche spaziali e retoriche organizzative 

propria esistenza al di fuori della logica neoliberale, non è questione


sulla quale possiamo soffermarci in questa sede . Vale comunque la
pena insistere sul fatto che qualsiasi variazione dei rapporti di forza in
seno alla compagine organizzativa non potrà che avvenire sia tenendo
conto dei limiti imposti dalla spazialità organizzativa, sia ponendosi
come obiettivo primario — pena il venir meno della propria efficacia
— la modificazione, almeno parziale, di quegli stessi limiti.

Riferimenti bibliografici

A M. () “The De–Scription of Technical Objects”, in W.E. Bijker


e J. Law (a cura di), Shaping Technology / Building Society, MIT Press,
Cambridge (Mass.), –.
B C.E. ( ) Die politische Religion des Nationalsozialismus, Fink, Mo-
naco di Baviera.
B R. () L’avventura semiologica (), Einaudi, Torino.
B L. () Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza,
Roma–Bari.
B L. e E. C () Le Nouvel esprit du capitalisme, Galli-
mard, Parigi.
C S L.L. () L’evoluzione della cultura, Codice, Torino.
C P. () “Organisational Geographies. Surveillance, Display and
the Spaces of Power in Business Organisation”, in J. Sharp, P. Routledge,
C. Philo e R. Paddison (a cura di), Entanglements of Power: Geographies of
Domination/Resistance, Routledge, London, –.
C B. () Writing Management: Organization Theory as a Lite-
rary Genre, Oxford University Press, Oxford.
D K. e G. B () Spaces of Organization and the Organization of
Space. Power, Identity and Materiality at Work, Palgrave Macmillan, Hound-
mills.
D M. () Governmentality. Power and Rule in Modern Society, Sage,
Londra.
. Su ciò, cfr i saggi raccolti in Jermier, Knights e Nord . Sul fatto che ogni forma
di resistenza intraorganizzativa possa fungere anche come rafforzamento delle pratiche
manageriali, cfr Nord e Jermier .
 Giovanni Leghissa

D D. () “Meaning of the Workplace: Using Ideas of Ritual Spa-


ce in Design”, in P. Gagliardi (a cura di), Symbols and Artifacts. Views of
the Corporate Landscape, Aldine de Gruyter, New York, –.
E, U. () La struttura assente (), Bompiani, Milano.
F M.S. e J.G. M () Information in Organizations as Signal
and Symbol, “Administrative Science Quarterly”, : – (trad. it. J.G.
March, Decisioni e organizzazioni, Il Mulino, Bologna , –).
F M. () Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France
–, éd. par M. Senellart, Seuil/Gallimard, Parigi (trad. it. Nascita
della biopolitica. Corso al Collège de France (–), Feltrinelli, Milano
).
G L.H.A. () Die sozialen Arbeitsverhältnisse im Wandel der Zeit: eine
geschichtliche Einführung in die Betriebssoziologie, Springer, Berlino.
———. () Soziale Betriebsführung, zugleich Einführung in die betriebliche
Sozialpolitik, Beck, Monaco di Baviera.
G M. () La forza dei legami deboli e altri saggi, introduzione
e cura di M. Follis, Liguori, Napoli.
G W. () Der stilbildende Wert industrieller Bauformen, “Jahrbuch
der deutschen Werkhauses”, : –.
H B. e J. H () The Social Logic of Space, Cambridge Univer-
sity Press, Cambridge, UK.
H J. () “Bodies in a Landscape: On Office Design and Organi-
sation”, in J. Hassard, R. Holliday e H. Willmott (a cura di), Body and
Organization, Sage, Londra, –.
J, J.M., D. K e W. N (a cura di) () Resistance and Power
in Organisations, Routledge, Londra e New York.
K G. () Engineering Culture. Control and Commitment in a High–Tech
Corporation, Temple University Press, Philadelphia (trad. it. L’ingegne-
ria della cultura. Controllo, appartenenza e impegno in un’impresa ad alta
tecnologia, Comunità, Torino, ).
L G. () “La struttura organizzativa come messa in opera della
governamentalità neoliberale”, in B. Bonato (a cura di), Come la vita si
mette al lavoro. Forme di dominio nella società neoliberale, Mimesis, Milano,
–.
L M. e J.H. S, a cura di () Der Nationalsozialismus als politische
Religion, Philo, Bodenheim b. Mainz.
Retoriche spaziali e retoriche organizzative 

M T.A. () Buildings and Power: Freedom and Control in the Origin of
Modern Building Types, Routledge, Londra.
M T.A. () “Built Space and Power”, in S.R. Clegg e M. Kronber-
ger (a cura di), Space, Organizations and Management Theory, Libris &
Copenhagen Business School Press, Malmo e Copenaghen, –.
M M. () The Society of Mind, Simon&Schuster, New York (trad. it.
La società della mente, Adelphi, Milano, ).
M H. () Grundzüge der Psychotecnik, Barth, Lipzia.
N, W.R. e J.M. J () “Critical Social Science for Managers. Pro-
mising and Perverse Possibilities”, in M. Alvesson e H. Willmott, Critical
Management Studies, Sage, Londra, –.
P J. () Management as Symbolic Action: The Creation and Maintenan-
ce of Organizational Paradigms, “Research in Organizational Behavior”, :
– (trad. it. “Il management come azione simbolica: la creazione e la
conservazione dei paradigmi organizzativi”, in P. Gagliardi (a cura di),
Le imprese come culture, ISEDI–UTET Libreria, Torino, –).
P M. () The Audit Society: Rituals of Verifications, Oxford University
Press, Oxford.
P J. W.T. e G.L. Z () “Design but Align: the Role of
Organisational Pysical Space, Architecture and Design in Communica-
ting Organisational Legitimacy”, in S.R. Clegg e M. Kronberger (a cura
di), Space, Organizations and Management Theory, Libris&Copenhagen
Business School Press, Malmo e Copenhagen, –.
R A. () The Aesthetics of Production in the Third Reich, “Journal
of Contemporary History”, : –.
R P. () Der schöne Schein des Dritten Reiches: Faszination und Gewalt
des Faschismus, Hanser, Vienna e Monaco di Baviera.
S H. () Die Gnosis und der Nationalsozialismus, Suhrkamp, Fran-
coforte sul Meno.
T N. () Knowing Capitalism, Sage, Londra – Thousand Oaks –
New Delhi – Singapore.

Giovanni Leghissa
Università di Torino
Lexia. Rivista di semiotica, 9–10
Ambiente, ambientamento, ambientazione
ISBN 978-88-548-4516-9
DOI 10.4399/97888548451693
pag. 153–172 (dicembre 2011)

Wall–E
il Robinson Crusoe del futuro di Ballard
e il jogger suicida di Baudrillard
Tre possibili abitanti dell’odierno mondo–spazzatura

G C

 : Wall–E, Ballard’s Robinson Crusoe of the Future and Baudrillard’s
Suicidal Jogger: Three Possible Inhabitants of the Present–Day Waste World

: The present essay stresses philosophy’s responsibility to delve into


the embarrassing reality of a world such as ours, overcome by waste and
garbage. A reckless deal was sealed between disposable goods, the im-
mense opportunities for technical manipulation of reality, and the hellish
landscape of urban dumps in the consumer society, which might tran-
sform the Earth into an endless Gomorrah filled with concrete, ruins,
and waste. Following the peculiarities of the nexus between goods and
waste is a detective’s job, which cuts across many fields of knowledge:
literature and the language of advertising, philosophy and TV serials,
poetry and fashion. Like a Sherlock Holmes of obsolescence, the philoso-
pher has to pursue the few survival strategies left in a universe overcome
by its own waste. This essay concludes with some examples of future
ways of inhabiting tomorrow’s world, i.e. the garbage world: Maitland,
the protagonist of Ballard’s novel Concrete Island, a survivor on a garbage
dump island hermetically surrounded by London’s main arterial roads;
Baudrillard’s apocalyptic American jogger, who runs among the debris
of our civilization, impervious to any occurence till the end of the world
comes about; Wall–E, Pixar’s small robot, who dwells in a desolate world
and collects waste into its melancholy hangar (a postmodern cabinet de
curiosité of a waning historical consciousness).

: Waste; consumer society; P.K. Dick; ecology; Wall–E; redention;


bulimia; anorexia.

. È uscito il nuovo modello. . . mentre il mondo va in frantumi.


 Gianluca Cuozzo

René Girard, intervistato nel  da Robert Doran, sostiene come


il mondo odierno, di fronte a sé, veda delinearsi tre forme distinte di
apocalisse, tutte dovute alle nuove e infinite possibilità concesse alla
libertà umana. Queste varianti dell’apocalisse, che nel loro insieme
costituiscono lo “spettacolo tragico” dei nostri giorni, consistono
nella distruzione atomica, nella catastrofe ecologica e nelle enormi
e imprevedibili potenze scatenate dalla manipolazione genetica della
nostra specie. La probabile fine del mondo, a suo modo di vedere, non
si deve dunque tanto all’ira e alla violenza divina, bensì a quel principio
anarchico che si fonda sulla sola libertà dell’uomo, emancipazione resa
possibile dal cristianesimo grazie alla “distruzione dei poteri secolari”
(Girard , p. ).
L’uomo, per mettere in scena la propria scomparsa, può dunque
far a meno del grande effetto teatrale del Deus ex machina: un Dio
che giunge platealmente sulla scena all’ultimo minuto, tra fuochi,
fiamme e stridori di tromba, per spargere sul genere umano colpe,
castighi e permessi di soggiorno per l’aldilà. L’uomo, che quando
si mette d’impegno fa davvero le cose in grande — Fukushima do-
cet —, ha lavorato alacremente per allestire il gran finale: ora non
ha più bisogno né di aiuti né di controfigure, sa sostenere il proprio
ruolo anarchico e distruttivo sino in fondo, ponendosi al contempo
quale regista, protagonista e spettatore — almeno per qualche istante
di vita residua — di questo grandioso allestimento cinematografico
dell’ultimo minuto di esistenza dell’umanità: “Continuiamo ad ingoz-
zarci nella grande abbuffata del consumismo fino a crepare e andiamo
a raggiungere quelli che già crepano di inedia, vittime della nostra
dismisura” (Latouche , p. ).
Il risultato di questo pervertimento delle leggi che regolano tut-
ta quanta la natura, come già sosteneva Rozanov, è l’immagine tra-
gicomica di un uomo che ha in pugno le sorti del creato: l’essere
umano

ha sconvolto i climi, ha cambiato tutte le condizioni di vita, unito ciò che


non era unibile e diviso l’indivisibile, cancellando dalla natura il sembiante
di Dio e sostituendolo con il proprio sembiante alterato. E siede al centro di
tutta questa rovina, suo sovrano e tiranno, martoriandola e, al tempo stesso,
poetizzando il lavoro delle proprie mani.
(Rozanov , p. )
Wall–E, il Robinson Crusoe del futuro di Ballard e il jogger suicida di Baudrillard 

Oggi, a causa di un potere tecnico cresciuto a dismisura e fine a


se stesso, ci si potrebbe trovare da un momento all’altro a vivere nel
mondo — in quel che resta del mondo dopo la catastrofe ecologica
— immaginato da Cormac McCarthy nel romanzo agghiacciante The
Road: freddo e silenzio, con “le ceneri del mondo defunto trasportate
qua e là nel nulla da lugubri venti terreni”; “buio e freddo autistico”,
che fanno sembrare il paesaggio “una tomba spalancata nel giorno
del giudizio in qualche dipinto apocalittico” (McCarthy , p. );
uomini derelitti che paiono usciti da un campo di concentramento,
ma non così diversi da “frati mendicanti mandati a cercare elemosine”
tra le ombre evanescenti di altri esseri umani, pronti ad uccidere per
un tozzo di pane. E ancora: “montagne di rifiuti ovunque”; terra
livida e fanghiglia grigiastra posate su ogni cosa; cumuli di cenere
fradicia, detriti e spazzatura quale ultimo segno dell’umano in un
mondo morente, abitato solo dai nuovi ciechi, “dove tutto era morto
fino alle radici” (ibidem, p. ), resto di realtà in cui l’ultimo esemplare
di una cosa data, sparendo nel nulla, “si porta con sé la categoria” intera
(ibid., p. ) — il ricordo e persino la parola con cui un determinato
oggetto poteva essere nominato ed evocato.
Tornando alle nefaste previsioni di Girard, qui, per il momento, mi
voglio concentrare solo sull’emergenza ambientale quale contraltare
strutturale del mondo dei consumi — anche perché il tema del nu-
cleare, oggi tornato di grande attualità dopo i recenti incidenti alle
centrali atomiche in Giappone, sembra potersi ricondurre in gran
parte a quella chance apocalittica: un’apocalisse meno plateale, co-
me si è detto, ma di certo non meno drammatica. Essa, nella sua
variante inquinamento/produzione scellerata di montagne di rifiuti
che si gettano in cielo come in terra, è il contrappeso negativo di una
società che “si commercializza come un menu del programma del
computer” (Illich , p. ): realtà senza peso e accattivante che
si offre in una vetrina di immagini virtuali sempre disponibili — la
società dell’acquisto con un click.
L’alterazione oscena dell’ambiente, d’altra parte, non ha bisogno di
scomodare scenari così impressionanti: essa è visibile a tutti, in ogni
istante della nostra esistenza. Tutti noi contribuiamo, giorno dopo
giorno e con estrema nonchalance, all’impoverimento delle risorse
naturali, a una dissennata deforestazione e alla rapida estinzione di
specie animali e vegetali (articoli di giornali come “Abbattuto l’ultimo
 Gianluca Cuozzo

rinoceronte do Giava”, “Tra quindici anni tigri e leoni saranno estin-


ti”, ecc., sono oramai all’ordine del giorno); nessuno può sottrarsi alla
responsabilità — quale incallito consumatore e dilapidatore di beni
che “contrae un pesante debito ecologico” (Latouche , p. ) —
di produrre quotidianamente una mole irragionevole di rifiuti che
sono solo il segno maldestro della nostra insensata opulenza: vera e
propria economia dello spreco. Più CO la nostra auto emette dal suo
scarico puzzolente, più essa è potente e prestigiosa; maggiori sono gli
imballaggi di frutta e verdura che portiamo a casa dalle nostre perlu-
strazioni quotidiane nella giungla al neon dei supermarket (al ritmo
tribale dettato da Avril Lavigne, Robbie Williams o Amy Winehouse),
più il nostro bottino incanta noi e i nostri commensali irradiandoci del
fascino dell’esotico e dell’ignoto, provenendo da luoghi remoti e ricchi
di suggestioni paradisiache che siamo disposti davvero a pagare a caro
prezzo; più in fretta ci liberiamo dalla tecnologia obsolescente per in-
seguire l’ultima novità informatica sfruttata dai comuni mortali a non
più del –%, più il nostro high–tech appeal su amici e conoscenti
si fa dilagante; più liberiamo nell’aria cherosene combusto in scie
d’alta quota che simulano arcobaleni risplendenti nella loro sublime
tossicità, più possiamo dire di aver viaggiato, aver visto e vissuto in
posti esclusivi e alla moda. E per chi si fosse perso qualcosa dei nostri
recenti spostamenti, siamo in grado in ogni momento di recare testi-
monianza delle nostre incredibili vacanze nel paese di Bengodi con il
personale diario dello spreco: il programma certificato MilleMiglia da
cui si possono facilmente ricavare gli ettolitri di idrocarburi dissipati
nell’atmosfera per il meritato svago in capo al mondo.
Grandiosità dello spreco e simboli del benessere si saldano inequi-
vocabilmente nelle aspirazioni del desiderio: più il bisogno è effimero
e aleatorio, più esso imprime tracce persistenti e non smaltibili quale
segno della propria puntuale e fuggevole realizzazione — come una
scia pestifera da lasciare alle generazioni future in ricordo della nostra
volontà di benessere a ogni costo. E quanto più il desiderio perdura nei
segni osceni del dispendio irragionevole di risorse — inquinamento
atmosferico, scorie e resti di ogni tipo rilasciati nelle acque di mari,
laghi, fiumi e persino nello spazio —, tanto più esso risulta allettante
e convincente, nel relativo sottogruppo sociale di riferimento, a quel
livello simbolico in cui ne va dell’autopromozione personale e del
riconoscimento di sé. Oggi, d’altronde, come aveva intuito Baudril-
Wall–E, il Robinson Crusoe del futuro di Ballard e il jogger suicida di Baudrillard 

lard più di quarant’anni fa, i veri eroi del consumismo sono le star di
Hollywood, “i grandi protagonisti dello spreco” (Baudrillard , p.
): essi fanno parlare di sé grazie allo loro dilapidazione spettacolare
di denaro e risorse, gesti plateali capaci di trovare in ogni luogo del pia-
neta soggetti pronti a emularli nel loro comportamento irresponsabile
— ammesso non si ecceda troppo in stravaganza e irragionevolezza.
Non è poi così raro leggere di una celebre rockstar che pretende, nella
lussuosissima suite d’albergo in cui soggiorna per non più di due o tre
notti a . dollari al giorno, che le venga quotidianamente sostituito
il WC: i sanitari, nell’ottica del lusso e dello spreco simbolico, sono
articoli usa e getta, come i piatti di plastica da picnic e i fazzoletti
di carta. Ma, forse, chi ha scelto un nome d’arte altisonante come
Madonna, di colei che è stata concepita al di fuori del peccato che
grava sull’umanità, sa di non poter vivere che in ambienti perfetta-
mente asettici e puri — speculum sine macula, per riprendere un noto
teologumeno riferito alla verginità di Maria.
La filastrocca dell’“è uscito il nuovo modello. . . ” si può dire sia il
tormentone degli ultimi decenni della nostra vita di consumatori che
corrono in gran fretta verso la finis mundi: le sigle , ,  ecc., le nuove
desinenze del linguaggio ipnotico dei gadget tecnologici trendy e al-
l’ultimo grido (il termine “cool” è assai indicativo), sono l’indice della
nostra arretratezza o del nostro stare a passo coi tempi — cifre magi-
che con cui misurare le chance effettive di realizzazione personale in
quanto “consumatori di potenza”: il nostro fascino e prestigio sociale,
il nostro saper stare al mondo, la nostra capacità di ottenere conquiste
adottando uno stile e un habitus dettato dai media. Ma per chi non si
accontenti di una graduale progressione verso il paradiso artificiale
fatto di microchip, fibre ottiche, schermi D, tastiere virtuali e capienti
memorie allo stato solido, il tutto rivestito alternativamente da forme
sinuose o spigolose (ça dépend dalla moda del momento), è sempre
pronto il nuovo miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci con
cui possiamo saltare, a piè pari, intere generazioni di trogloditi tecno-
logici: basta comprare un apparecchio messianico X, X, X, ecc. per
sentirci davvero sulla soglia mirabolante dell’infinita abbondanza evan-
gelica: là dove è dispensata a piene mani la gioia eterna promessaci dai
nostri apparecchi ipertecnologici, capaci di moltiplicare i loro effetti
taumaturgici sulle nostre possibilità di realizzazione e riconoscimento
sociale — basta solo aver fede nel loro portentoso moltiplicatore di
 Gianluca Cuozzo

benessere: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi


sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi
bussa sarà aperto” (Lc , –).
“Cambia telefonino, computer, automobile, televisore, stereo, let-
tore multimediale! È uscito il nuovo modello. . . ”. Mutatis mutandis:
getta via ciò che possiedi, liberati dal fardello dell’obsolescenza. Se
trattieni presso di te il modello , che ha già quasi un anno di vita,
sarai condizionato, nei tuoi movimenti e nelle tue possibilità di cre-
scita, da una zavorra antidiluviana! D’altronde “quello nuovo” pesa
ben  grammi in meno! E poi è dotato di un processore che ti con-
sente di fare ciò che non ti serve in qualcosa come ben  secondi
di meno. . . “Però, sei costretto a dire, come ho fatto finora a starne
senza?”
“E non fare dell’ironia! Non vedi che è tutto d’alluminio? Mettilo a
confronto con quello dell’anno scorso. Guarda, era di plastica, viscida
e disgustosa. Che orrore! Senti che effetto fa al tatto. . . Pensa che
non è nemmeno eco–compatibile”; — Non è smaltibile? Appunto, lo
terrò il più possibile! E poi a me piace davvero di più quello “vecchio”!
Perché dovrei aver paura a confessarlo? È così imbarazzante? Sono
forse malato?”
“Sei fuori dal mondo, credimi! E poi, se tutti facessero come te,
l’intera economia andrebbe a farsi fottere!”.
In un mondo dove tutto muta incessantemente, trattenersi nel
mondo delle obsolescenze produce effetti devastanti: i mostri e i
mutanti di Kafka, esseri dalle forme ambigue e dalla dubbia utilità —
a stento riconducibili al mondo delle cose inanimate o a esseri viventi
deformi, veri e propri aborti che sopravvivo a se stessi — possono
essere ricondotti agli incubi diurni che tormentano l’uomo affetto
da questa sindrome antiquariale, capaci d’ingenerare senso di colpa
e d’inadeguatezza, una sorta di “effetto stigma di cui vergognarsi”.
(Bauman , p. ). Sono bizzarrie, mostri, ibridi che ci parlano di
difetti strutturali del nostro universo sociale in continua evoluzione,
“dalla cui assenza o cancellazione la forma progettata avrebbe soltanto
da guadagnare, diventando più uniforme, più armoniosa, più sicura e,
nel complesso, più in pace con se stessa” (ibidem, p. ). Tutto ciò pone
in discussione la nostra idea del regolare, governare e gestire, della
cui parzialità (ingiustizia!) si trova conferma nell’effetto di ritorno
deformante di ciò che non è al posto che gli spetta e non svolge la
Wall–E, il Robinson Crusoe del futuro di Ballard e il jogger suicida di Baudrillard 

funzione che gli è assegnata: di stare nascosto, inoperante e sottratto


alla vista fuori dall’orizzonte del senso come l’escluso dalla legge.
Uno di questi esseri bizzarri e mostruosi è Odradeck, “il più strano
bastardo che la prestoria abbia generato con la colpa in Kafka”, ricor-
dava Benjamin agli albori della società dei consumi (Benjamin , p.
) essere misterioso a forma di rocchetto a stella, che vive chiuso
nei bauli e nei solai, per comparire di tanto in tanto come “figura
enigmatica del rimosso”. Il cruccio angoscioso del padre di famiglia è
che, sebbene esso non paia far male a nessuno, possa sopravvivergli,
ruzzolando giù per le scale davanti ai piedi dei suoi figli, e dei figli dei
suoi figli, “trascinandosi appresso tutto quel filo” variegato per forme
e colori in cui è facile inciampare (Kafka , p. –).
Già, il mondo delle cose vecchie perturba chi non è disposto a
progredire abbracciando con entusiasmo la promessa di felicità di
cui è portatrice, di volta in volta, l’ultima novità. L’oggetto desueto,
ciò che non si è stati disposti ad abbandonare, si trasforma in un
fardello che paralizza il nostro esistere, bloccandolo in una regione
infera in cui tutto risulta deformato: trattenere presso di sé ciò che
è superato, non volere sbarazzarsi di ciò che è desueto, trasforma la
nostra vita démodé in una triste esistenza da robivecchi, che accetta
di vivere nella malinconica discarica di ciò che è oramai senza appeal
alcuno, incapace di produrre euforia consumistica e di essere utile a
qualcosa — soprattutto a quel livello di mediazione simbolica in cui
prendono vita i processi d’interazione sociale. Questi processi, inutile
dirlo, trovano la più concreta mediazione negli scaffali del supermar-
ket, psichedelica “foresta di simboli” di cui si nutre il sedimentato
sociale del nostro ego. Quest’ultimo, anziché svilupparsi nel senso
dell’intersoggettività, nella società dei consumi è ridotto allo stato di
passività di mero specchio di beni materiali, capace di desiderare soltan-
to ciò che può assimilare e riflettere sulla sua piatta e vuota superficie.
L’anima–specchio dell’homo consumens, in fin dei conti, non è che il
contraltare della vetrina commerciale, da cui le merci, inscenando la
loro seducente fantasmagoria, ammiccano assurgendo a simboli del
nostro benessere e della nostra felicità tutta terrena: esse si riflettono
l’una nell’altra in un gioco allucinatorio in cui l’anima, catturata dalle
infinite suggestioni dei prodotti commerciali, viene reificata alla stre-
gua di ricettacolo amorfo del baluginare di beni di consumo di volta in
volta diversi. Mentre il gadget scintillante di turno, catalizzando ogni
 Gianluca Cuozzo

nostro desiderio, risulta come potenziato, avendo il dono perverso di


riattivare il potenziale umano di jouissance nella forma di mera libido
consumistica: l’oggetto assomiglia sempre di più a cosa viva, avendo
accolto in sé la cifra segreta delle nostra ansia escatologica e brama
segreta di salvezza. La riduzione dell’anima allo “stato inorganico”
porta con sé inevitabilmente l’elevazione dell’oggetto–merce a un
livello mistico, in cui esso fa le veci delle più segrete aspirazioni dello
spirito, decidendo infine del nostro stile di vita e delle nostre scelte
ultime.

. Un mondo sospeso tra Mcdonald’s e Avatar

L’individualità dell’uomo dei consumi può essere esemplificata dalla


vita schizoide dell’agente della sezione narcotici Bob Arctor, protago-
nista del romanzo psichedelico di Philip Dick A Scanner Darkly. Costui,
per incastrare alcuni spacciatori, indaga celato da una mirabolante
“tuta disindividuante”: essa non fa trapelare nulla del sé interiore, ma
— come una superficie speculare — riflette i tratti somatici (volti di
uomini, donne e bambini) immagazzinati in un computer miniaturiz-
zato. Con quello strumento d’indagine — una membrana sottilissima
come un velo, su cui potevano essere proiettate “fino a un milione
e mezzo di minuziose raffigurazioni fisionomiche di varie persone”,
ogni volta combinate in modi diversi — lo schizofrenico Bob, alias il
“Signor Ciascuno”, diviene un individuo prismatico, “una macchina di
soli riflessi”; egli, nelle sue indagini, assomiglia allo “sfondo neutro e
neutrale” (Dick , p. ), pseudo–individualità che per dissimulare
il proprio io parla in modo neutro, assume un atteggiamento neutro,
mostra un aspetto neutro — fino a smarrire se stesso nei riflessi del
proprio abbigliamento camaleontico. Il nome Arctor, in effetti, è pros-
simo ad actor, il soggetto di una sceneggiatura in cui la sua persona,
già affetta da disfunzione bilaterale, assume svariate identità, perden-
do ogni principium individuationis. Spesso Bob si comporta “come
un attore davanti ad una camera da presa”, a cui però spetta anche
l’ingrato compito di far da regista: Bob, in effetti, riprende di nascosto
e osserva se stesso sotto le spoglie dello spacciatore Fred — che è
lui stesso in quanto sdoppiato, un agente sotto copertura che si fa di
eroina quasi fino a rimanerci secco: “Uomo all’interno di un uomo.
Wall–E, il Robinson Crusoe del futuro di Ballard e il jogger suicida di Baudrillard 

Il che vuol dire nessun uomo del tutto” (ibidem, p. ). Spacciare se
stesso, agente della narcotici, per un venditore di droga, la “Sostanza
Morte”; spacciarsi per uno che spaccia, e poi osservare se stesso —
per meglio dire, il proprio doppio alienato — e non riconoscersi più.
Come in una visione oscura e di riverbero, in cui la propria identità
affiora ottenebrata. D’altronde San Paolo, parlando di una visione in
speculo et in aenigmate, “intendeva con specchio non uno specchio di
vetro. . . non ne avevano allora. . . ma quel riflesso di se stesso quando
ci si specchia sul fondo lucidato di una scodella di metallo [. . . ]. E quel
riflesso che torna verso di te, quel riflesso [opaco e distorto] sei tu, è la
tua faccia, e nello stesso tempo non lo è” (ibid., p. ).
Un tal uomo, senza baricentro e disperso nei riflessi d’innume-
revoli identità, è il vero abitante di una “città di plastica” come San
Francisco. La vita in California, scrive Dick, “è in se stessa uno spot
pubblicitario, ripetuto infinite volte”: su tutto imperano McDonald’s e
la Coca–Cola, i massimi monopoli capitalistici che si contendono la
vita dell’uomo. “Nel sud della California non fa alcuna differenza dove
si vada. C’è sempre lo stesso McDonald’s, sempre e dappertutto, come
se un pannello girevole si mettesse a girare intorno nel momento in
cui ci si illude di andare da qualche parte. E quando finalmente viene
fame e si entra in un McDonald’s e si ordina un hamburger McDo-
nald’s, è lo stesso che ti avevano servito la volta prima, e quella ancora
precedente, e così via, fino a prima ancora che tu nascessi” (ibid., p.
–). In fondo, in una città che assomiglia a una oscena Disneyland di
personalità schizoidi — vita ridotta a trailer cinematografici, i cui veri
protagonisti sono i beni di consumo: dal flacone di WC–Net alla nuova
Ford superaccessoriata — l’uomo è il mero riflesso della merce: “Uno
di questi giorni, pensò Bob, diventerà imperativo per tutti noi vendere
gli hamburger McDonald’s, tanto quanto comprarli; ce li venderemo
l’un l’altro, avanti e indietro, per sempre, nel soggiorno. In questo
modo non dovremo neppure uscire di casa” (ibid.). In un tal mondo
mercificato, dove l’unica possibilità di fuga è l’eroina, non vi saranno
mai più idee, ma solo riflessi di spot televisivi e di pubblicità.
Oggi, si potrebbe dire, con l’ausilio di determinate merci (mediante
quella che definirei la loro “aurea mediatica”), il mercato cerca di ven-
dere la nostalgia per uno stato edenico perduto al prezzo paradossale
della distruzione dell’ambiente: un paradiso “recuperato per tutti dalla
società dei consumi e messo al servizio del turismo di massa” (Duque
 Gianluca Cuozzo

, p. ), con tutto il suo strascico di devastazione spensierata e di


resti/rifiuti degli imprescindibili gadget “di marca”. La ricostruzione
nostalgica di un passato edenico della natura, turistica e digitale, va
di pari passo con la trasformazione completa del paesaggio, sfruttato
oscenamente sino allo sfinimento e travolto dalle scorie del processo
produttivo.
E se, da un lato, quasi nessuno si occupa di questa progressiva
erosione del dato naturale (nemmeno quando ciò mette a rischio la
sopravvivenza delle ultime tribù superstiti nelle foreste pluviali), dal-
l’altro è assai significativo che un film come Avatar (), di James
Cameron, abbia appassionato le platee delle sale cinematografiche di
tutto il mondo: la difesa dell’immagine spettacolare dell’ambiente e
degli “aborigeni” extraterrestri — riedizione alquanto semplificata dei
Bleekman creati da Philip K. Dick — che vivono in simbiosi con una
natura incontaminata, sembra poter surrogare ogni azione e impegno
concreto in tal senso. Così come la nostalgia universalmente introiet-
tata, attraverso l’industria dell’entertaiment, di una natura vergine e
incontaminata, sembra qualcosa di più concreto del dato inoppugnabi-
le di un ambiente violentato mortalmente dalla tecnica e dall’industria.
Non vi è nulla di cui preoccuparci, ripetiamo assiduamente a noi stessi
— almeno finché l’immagine digitale del mio desktop ammicca, quale
sfondo rassicurante, sotto le icone familiari del computer: l’aria fresca
di montagna, il cielo azzurro e l’acqua limpida di una cascata che cade
come una finissima pioggia nebulizzata tra rocce e muschi verdissimi
compensano e ristorano — appena lì, sotto il mio naso — la mia fame
consumistica di un mondo completamente artificializzato e costretto a
sottostare alla dura legge del packaging. Facendomi dimenticare delle
“quantità crescenti di rifiuti sempre più variegati che non trovano
collocazione e che minacciano gli equilibri ambientali di atmosfera,
acqua e suolo” (Pinna , p. ). E mentre il mondo naturale è
trasformato, ad un tempo, in merce (villaggi turistici, parchi dei diver-
timenti e residence esotici, con il corteo delle immagini paradisiache
che immancabilmente si accompagnano a questo recupero interessa-
tissimo della natura) e spazzatura (controcanto consumistico di cui,
come intima il Dio–Mercato, non ci si deve fare alcuna immagine),
la tecnica appare sempre più prossima alla propria trionfalistica natu-
ralizzazione: natura e tecnica, oggi, si fondono in “una tecno–natura
prodotta per il new market comunicazionale” (ibidem, p. ).
Wall–E, il Robinson Crusoe del futuro di Ballard e il jogger suicida di Baudrillard 

Nonostante l’odierna devastazione dell’ambiente, dunque, il mon-


do dei consumi non si dà per vinto; esso è pronto a trarre profitto
anche da questa situazione disperata, sfruttando a proprio vantaggio
rovine e spazzatura. In un panorama urbano che rasenta sempre più
uno scenario di guerra — al posto delle barricate cumuli di rifiuti
semicombusti; l’oscena e continua metamorfosi dello spazio urbano
per le nuove esigenze della viabilità, che “trasforma il territorio in una
piramide di circuiti reciprocamente inaccessibili” (Illich , p. )
(costringendo i pedoni a isole protette dal traffico che sono le nuove
patetiche riserve per gli ultimi uomini senza protesi a motore); gas
tossici e polvere sottili che si estendono come una coltre plumbea
su ogni cosa in una rivisitazione addomesticata dell’apocalittico Day
After; traffico inferocito che assomiglia sempre più a una lotta di tutti
contro tutti, scorrendo a una velocità così irrilevante da permettere la
riattivazione mitica di antichi riti tribali (le tipiche sfide e minacce co-
dificate tra gli automobilisti, che spesso ricorrono a gesti e a modalità
espressive decisamente prelinguistiche); e, ancora, orrendi “capanno-
ni, depositi, luoghi dove raccogliere detriti, e roba sparsa, arrugginita,
gettata ovunque”, a testimonianza della nostra ansia di novità (Saviano
, p. ); in questo folle scenario, dunque, l’uomo pare voler affer-
mare il proprio delirio consumistico anche al centro della distruzione
e della rovina. Le auto più ambite, non a caso, sono i cosiddetti SUV,
giganteschi fuoristrada sempre più simili a veicoli di guerra, gli unici
a potersi arrampicare sui cumuli di detriti e spazzatura. Questi veicoli
“presuppongono un paesaggio di paesi bombardati da attraversare con
vetri fumé. L’auto è oggi il disprezzo del mondo là fuori, il poterne
chiaramente fare a meno. È la fruizione distratta dei pedoni, leoni da
safari, puttane da marciapiede notturno e blockbusters di periferia”
(La Cecla , p. ).

. Wall–E, l’ultimo angelo della storia

Al cospetto di questo scenario di guerra, il pedone vive assediato nella


sua riserva di relitti, in zone residuali ricavate a stento tra le grandi
vie del trasporto motorizzato, che hanno sfigurato in modo osceno
l’odierna topografia cittadina. La mente, a tal proposito, non può
non andare a un impressionante racconto di Ballard, L’isola di cemento:
 Gianluca Cuozzo

Maitland, il protagonista della vicenda, è forse l’ultimo uomo a poter-


si adattare a questa nuova realtà — un tela di ragno dall’odore acre
d’asfalto che frammenta lo spazio in spicchi di cemento assolutamen-
te impermeabili l’un l’altro. Costui, sopravvissuto a stento al delirio
tecnologico che si manifesta nella velocità dei mezzi di trasporto e
negli osceni cumuli di rifiuti che costellano le autostrade, è il nuovo
Robinson Crusoe della periferia delle metropoli–spazzatura. Rima-
nendo con la propria auto bloccato su un raccordo di una una grande
arteria che immette verso la città di Londra, si scopre prigioniero —
potendo far assegnamento solo sulle proprie gambe — in una “zona di
terreno incolto racchiusa nell’intersezione fra tre autostrade” (Ballard
, p. ): un’isola deserta cosparsa di rifiuti, recisa dal mondo dalla
pressione e dalla velocità del traffico, sferzata dalla brezza pregna dei
gas di scarico della auto.
Nel giro di qualche ora una gelida euforia si impadronisce di Mai-
tland, forse dovuta alla nuova droga disponibile in gran quantità nelle
odierne periferie urbane: il monossido di carbonio. In preda a questa
sensazione e alla disperazione, “fece segnali alle auto che gli guizza-
vano davanti nelle tenebre, trotterellando su e giù come un ubriaco”
(ibidem, p. ) — ma non c’era modo di comunicare con il mondo
là fuori protetto dai clacson che strepitano, dal ruggito gutturale dei
diesel e dal boato ininterrotto delle migliaia di auto che superavano il
cavalcavia procedendo a velocità sostenuta verso il centro cittadino:
Era prigioniero di un labirinto di cemento, praticamente inabile e senza
risorse [. . . ]. Erano tempi in cui bisognava possedere nel cervello un kit di
salvataggio multiaccessoriato, oltre a un corso accelerato di sopravvivenza
alle catastrofi, reali o immaginarie.
(Ibid., p. )

Questo surreale triangolo di cemento, da cui si deve ricominciare


per vivere (come Robinson sulla sua isola incontaminata), è quella
“giungla di rifiuti” che prefigura il destino della civiltà: cumuli di
pneumatici, latte vuote, mobili da ufficio sfondati, sacchi di cemento
indurito, impalcature edili cadute dai camion, balle di filo metallico
arrugginito, pezzi di motore e di carrozzeria, macerie di una casa
vittoriana tutta stucchi demolita qualche anno prima per le esigenze
onnivore della viabilità, il piano terra di un cinema del dopoguerra
ricoperto dagli arbusti — tutto ciò forma delle cataste simili a colline
Wall–E, il Robinson Crusoe del futuro di Ballard e il jogger suicida di Baudrillard 

gigantesche in cui Maitland, immerso nelle erbacce lussureggianti


e nei rifiuti, può avventurarsi come un esploratore postmoderno
della periferia dei grandi centri urbani. Forse, scrive Ballard, si tratta
addirittura di un “viaggio nel passato” (ibid., p. ); Maitland, a ben
vedere, rappresenta il postumano, l’uomo del futuro, e la sua posizione
di sopravvissuto nel mondo che sarà gli permette di sentirsi un archeologo
del presente: egli impiega il suo tempo in una mesta flânerie tra le rovine
del passato, macerie di un “mondo dimenticato” che allo stesso tempo
prefigurano l’imminente collasso di una civiltà che corre a rotta di
collo verso la propria distruzione. Lo stesso Maitland, in quanto futuro
abitatore delle rovine della città, è un “relitto umano” venuto dal
futuro — la vittima di quella “congiura del grottesco” con cui l’uomo
non fa che punire se stesso condannandosi alla rovina: “Maitland si
sentì solo su un pianeta alieno abbandonato dai suoi abitanti, una
progenie di costruttori d’autostrade scomparsi molto tempo fa, che
gli avevano lasciato in eredità quel deserto di cemento” (ibid., p. )
— uno Zahi Hawass alla ricerca di patetici resti di civiltà nel deserto
della creazione saturo di rifiuti, paesaggio che è allo stesso tempo
un’istantanea del presente e una prefigurazione del prossimo scenario
apocalittico. A meno che non intervenga un angelo a salvarci. . .
Ma il mondo di Ballard, inutile illudersi, è privo di presenze salvi-
fiche. Solo Walter Benjamin, credo, ha tentato di conciliare entropia
storica e possibile salvazione: nelle Tesi sul concetto di storia si narra
di un angelo della storia, il cui sguardo triste e melancolico, colmo
di piètas per le umane sorti, si posa su quei frammenti amorfi che
scivolano rapidamente verso l’oblio. Ma un forte vento, come una
bufera che spira dal paradiso, soffia impetuoso nelle sue ali, sospin-
gendolo via a ritroso verso un futuro che non conosce, che non può
guardare facies ad faciem. Questo turbinio nega all’angelo la possibilità
di intrattenersi presso quei frammenti smozzicati, per dare una forma
salvifica alle rovine strazianti dell’accadere storico, ruderi che stanno
di fronte a lui come un mosaico franto e lacunoso. Si tratta dei miseri
resti degli ideali, delle speranze e delle aspettative in cui l’uomo ha
creduto, immancabilmente traditi dagli eventi luttuosi di cui la storia
è costellata e abbandonati nell’enorme discarica del dimenticato —
l’immondezzaio, si potrebbe dire, in cui si raccoglie ciò che non è
mai stato, tutto quello che è stato promesso e desiderato ma che non
ha mai avuto luogo sulla terra. Ciò che noi volgarmente chiamiamo
 Gianluca Cuozzo

progresso, scrive Benjamin, è il realtà questa bufera, la quale — anzi-


ché condurre l’umanità ad un autentico futuro di salvezza — produce
un ammasso caotico di rovine che sale in un’immensa spirale sino al
cielo (Benjamin , p. ).
La nostra “società della pattumiera”, erede di tutte le sconfitte
storiche, è l’anticamera di quello di Wall–E, il robottino della Pixar
Animation Studios che accumula l’immondizia in grattaceli vertigino-
si di pattume, più alti di ogni edificio, in un mondo disabitato. Wall–E,
terminato il suo lavoro di rimozione/compattazione verticale dei ri-
fiuti, raccoglie oggetti curiosi nel proprio Hangar, una collezione di
obsolescenze tra cui un astuccio per occhiali da vista, una palla di
gomma, bombolette spray inservibili, un salvadanaio a forma di ma-
ialino (ovvero il personaggio Hamm del film Toy Story), e via dicendo.
Sono tutte testimonianze apparentemente insignificanti dell’antica
civiltà dell’uomo, uomo che ha abbandonato una terra oramai ino-
spitale per l’aria irrimediabilmente compromessa dall’inquinamento
atmosferico.
Questi, a loro modo, sono oggetti che parlano ancora delle spe-
ranze risposte nel progresso e nella tecnica, speranze ora svanite
da un mondo in rovina e sommerso dai rifiuti. Non è un caso che
Wall–E guardi ad essi con aria melancolica, con gli occhi colmi di
rimpianto per ciò che è stato (o, per meglio dire, per ciò che non è
mai stato: la felicità tanto attesa). In quegli oggetti residuali, infatti, si è
sedimentato il fallimento delle nostre speranze. Lo sguardo metallico
del robottino, al cospetto di queste allegorie smozzicate delle umane
aspirazioni, si fa improvvisamente umano e compassionevole, quasi
volesse redimere, ricomporre quei frantumi e relitti storici che sono
l’ultima testimonianza di una civiltà che fu — Wall–E, una versione
postmoderna e tecnologica dell’angelo della storia benjaminiano.
Una più concreta variante figurale dell’angelo benjaminiano della
storia, oggi, la si dovrebbe facilmente ambientare nella periferia di
Napoli — mondo a noi ben più familiare di quello allucinato e iper-
tecnologico descritto da Ballard: una Gomorra di cemento e rifiuti,
tra container della spazzatura rovesciati, sacchetti maleodoranti, tos-
sine di ogni tipo nascoste illegalmente nelle profondità della madre
terra — il suolo stuprato e profanato dalle nostre pestifere deiezioni. . .
Intorno alle discariche, non a caso, si raccolgono quelli che Benja-
min chiamava gli sconfitti della storia, le generazioni dei perdenti,
Wall–E, il Robinson Crusoe del futuro di Ballard e il jogger suicida di Baudrillard 

coloro che aspettano un angelo dallo sguardo colmo di piètas che li


possa redimere: “Tra i cumuli di rifiuti e detriti sul ciglio della strada
emerge una prostituta nera quasi bambina” — avatar postmoderno
della passeggiatrice descritta da Baudelaire; “cosa fra le cose, vita di-
smessa, come i gruppi di africani che stagnano in attesa di un lavoro
(magari nei campi inquinati di pomodori), immagine di una diversa
prostituzione” (Sebaste ).
Sintomatica di questa verità apocalittica che si affaccia nel pano-
rama osceno dell’odierna civiltà–spazzatura, come ha evidenziato
Löwith, è l’accusa di assoluta mancanza di fini che già Tolstoy, nel
lontano , un anno prima della sua morte, scagliò contro il dilagare
del modello occidentale di sviluppo — un progresso tecnologico, a
suo parere, intriso di nichilismo: “Macchine: ma per produrre che co-
sa? Telegrafi: per comunicare che cosa? Scuole, università, accademie:
per insegnare che cosa? Libri, giornali: per diffondere quali notizie?
Ferrovie: per andare da chi, e dove?” (Löwith , p. ) — profezia
che sembra ancora echeggiare, amplificata a dismisura, nella odierna
società tecnocratica e mercificata (per intenderci, quella descritta a
tinte fosche da Ballard).
Una considerazione analoga circa la mancanza di senso e finalità
del nostro odierno stile di vita è stata svolta da Simmel nella sua
analisi della vita metropolitana, il cui tratto distintivo è il proliferare
incontrollato dei mezzi a discapito dei fini e dei valori ultimi. E quando
ciò avviene, ne consegue una perdita di “coloritura psicologica” della
realtà, che va di pari passo con la nascita di un atteggiamento blasé
da parte dei ceti benestanti: una ostentata indifferenza spirituale nei
confronti di una realtà che ha perso la ricchezza qualitativa di fini e
interessi predominanti. L’esempio di questa riduzione del reale al
grado zero di ogni interesse e differenza qualitativa, non a caso, sono i
magasins des nouveautés: essi sono caratterizzati dal fatto

che tutte le merci hanno lo stesso prezzo. In tal caso, il fattore decisivo che
immediatamente condiziona l’acquirente e dà senso all’acquisto, non è la
merce nella sua peculiarità, ma la definizione del suo prezzo: lo specifico
“quale” arretra sempre più a favore del “quantum”, che è la sola cosa che
interessa. La comprensibile conseguenza di tutto ciò è che si comprano
sempre più cose solo perché costano poco, senza curarsi della loro qualità.
(Simmel , pp. –)
 Gianluca Cuozzo

Eppure, data la costante indifferenza a cose e valori, si può dire


anche il contrario: “Molte cose vengono stimate e ricercate proprio
perché sono molto costose” (ibidem).
Più di recente, un’analisi affine è stata proposta da Jean Baudrillard,
che associa mancanza di fini della odierna società occidentale alla
sua alquanto probabile chance apocalittica. Nel suo caso si tratta
di descrivere la società americana dei consumi, l’“utopia realizzata”,
capace di rendere superflua ogni altra rappresentazione di un futuro
radioso dell’umanità: non è allora un caso che questa società, nel
proprio accomplissement messianico sul piano di una crassa opulenza
di beni materiali, porti con sé l’idea della mancanza di resurrezione e
di vita ultramondana. L’esempio del jogger che, reso impermeabile
al mondo dai tappi/cuffie del suo lettore multimediale, pare correre
in perfetta solitudine verso la fine del mondo, è il modello di questa
mentalità che si approssima, attraverso una “apocalisse morbida”,
alla dissoluzione ultima dell’umano. Si tratta di un “inferno molle
e climatizzato”, una catastrofe dal volto amico e mitigata da tutti i
comfort odierni, che ammicca al nostro desiderio sotto le mentite
spoglie di una “Disneyland spettacolare” (Baudrillard , p. ). Il
jogger, in effetti, rapito dall’estasi della fatica, vomita se stesso, “vomita
la sua stessa fatica più che spenderla”, per giungere ad una sorta di
annientamento organico del proprio fisico (ibid., p. ). I joggers,
reincarnazione degli stiliti del III secolo, sono gli autentici santi degli
ultimi giorni, capaci di rinunciare al mondo proprio per un eccesso di
realtà a loro disposizione; a causa di quella saturazione mediatica in cui
il mondo stesso — fattosi iperreale — si è magicamente trasfigurato
in Paese di Cuccagna, in cui il male e la carenza di beni non esistono
affatto. Si tratta di quell’inganno allucinatorio da “estasi da polaroid”
che ci illude circa l’identità tra economia capitalistica e mondo fiabesco
dell’assoluta disponibilità di ogni bene.

Niente evoca maggiormente la fine del mondo di un uomo che corre solo
su una spiaggia, avviluppato nelle armonie che ha in cuffia, murato nel
sacrificio solitario della sua energia, indifferente perfino a un’eventuale
catastrofe poiché oramai non attende più la propria distruzione se non da se
stesso, non attende che di esaurire l’energia di un corpo inutile ai suoi stessi
occhi [. . . ]. Ha lo sguardo stralunato, la bava alla bocca; ma non fermatelo,
vi picchierebbe o continuerebbe a saltellarvi davanti come un indemoniato.
(Ibid., p. )
Wall–E, il Robinson Crusoe del futuro di Ballard e il jogger suicida di Baudrillard 

Paul Auster sembra aver ripreso quasi alla lettera questa immagine
in un romanzo eminentemente distopico, che ha per oggetto i margini
indicibili del mondo saturo di merci scintillanti — vera e propria
discarica dei reietti. Nel Paese delle ultime cose la corsa dei Maratoneti
ha a che vedere con la libera scelta della morte, con un esercizio
consapevole di anticipazione della propria fine. In modo del tutto
paradossale, questi nuovi martiri cristiani senza Dio — essi corrono
per le strade il più velocemente possibile “flagellandosi le braccia
come forsennati, lanciando pugni in aria, urlando fino a non aver più
aria nei polmoni” — devono avere una preparazione atletica enorme
per potersi spingere al limite. Si muore correndo soltanto quando si è
quasi in grado di correre indefinitamente; si muore, cioè, quando “hai
raggiunto allo stesso tempo la massima forza e la massima debolezza”,
fino quasi a evadere — galoppando a rotta di collo, come nel racconto
di Kafka Voglia di diventare un pellerossa —, a uscire dal tuo stesso
corpo: “Finché si gettan via gli speroni, poiché non esistono speroni,
e si buttan via le redini, perché non esistono redini [. . . ], senza più il
collo né la testa del cavallo”, lasciando il proprio corpo alle spalle di se
stessi (Kafka , p. –).
Anche il televisore acceso nella stanza vuota di un motel, che conti-
nua a trasmettere in assenza di ogni traccia dell’umano, diviene per
Baudrillard il simbolo più angosciante di questa possibilità apocalittica,
non così tanto remota, in cui il non senso aleggia sulla scena delle
nostre smisurate possibilità tecnologiche:
Sembra che un altro pianeta vi stia parlando, improvvisamente la televisione
si rivela per quello che è: video di un altro mondo, che in fondo non si rivolge
a nessuno, che impassibilmente diffonde le sue immagini, indifferente
ai suoi stessi messaggi (la si può agevolmente immaginare regolarmente
funzionante anche dopo la scomparsa dell’uomo).
(Baudrillard , p. )

A questo fenomeno straniante se ne accompagnano altri, ancor più


inquietanti, come l’anoressia e la bulimia, anch’esse incarnazioni di
tale insensibile processo nichilistico che si nasconde nella continua
oscillazione — tipica dell’atteggiamento consumistico — tra la grande
abbuffata dell’abbondanza programmatica di merci al consumo e la
loro continua sostituzione–rigetto con altre. Non a caso, simbolo di
questo altalenarsi schizofrenico tra scorpacciata della ridondanza e
 Gianluca Cuozzo

espulsione nevrotica del prodotto oramai superato è la giovane ra-


gazza occidentale alla moda, la prima vittima della mercificazione
delle funzioni fisiologiche più ovvie (in questo caso, l’introiezione di
alimenti e l’espulsione delle scorie): bulimia e anoressia, in definitiva,
divengono i segni tangibili di un approccio condizionato dalla moda
del momento (e non c’è moda che non sia habitus del momento)
a una realtà usa e getta. Bulimia e anoressia sono la riproposizione,
a livello dell’organismo individuale, dell’infernale binomio fondato-
re dell’immaginario economico scarsità/abbondanza. Mentre infatti
l’una rifiuta la mancanza (dice: non manco di niente, dunque non man-
gio niente), l’altra rifiuta la replezione (dice: manco di tutto, dunque
mangio di tutto): “L’anoressico scongiura la mancanza con il vuoto,
l’obeso scongiura l’abbondanza con la saturazione. Sono ambedue
soluzioni finali omeopatiche, soluzioni di sterminio” (ibid., p. ); esse
traggono origine dal nesso fatale, imperante nel mercato dei consumi,
mondo saturo–strategia della penuria, il cui esito è la produzione
incontrollata di scarti: rifiuti di merci e alimenti consumati, i grassi da
eliminare con la liposuzione, le scorie che si accumulano nel colon
dopo grandi abbuffate eliminate con lavaggi appropriati nelle cliniche
del benessere, persino il cadavere dell’anoressica, la cui immagine alla
moda “si consuma” — godendo del suo esile aspetto sino alla morte
— sulle passerelle delle sfilate di moda (cadaveri ambulanti che com-
pensano l’ingordigia dell’obeso che non può abbandonare, nemmeno
per mangiare e vedere un film, il suo salotto a quattro ruote motrici).
Oscillazione senza tregua, dunque, tra incremento continuo di no-
vità e rottamazione/espulsione liberatoria di ciò che, di volta in volta, è
reputato superfluo e fonte di imbarazzo: tecnologia obsolescente (ciò
che abbiamo comprato giusto qualche settimana prima), politici âgés
(fosse mai vero!), soubrettes poco più che ventenni ma oramai troppo
vecchie per lo sguardo spettroscopico dei riflettori (che mette in risalto
ogni minimo difetto), operai e insegnanti in sovrannumero, scuole e
università non ritenute al passo coi tempi, la saggezza maturata nel
corso di una vita, i pachidermi nelle riserve africane (sterminati perché
contendono i pascoli agli allevamenti di bovini della savana), tradizioni
sopravvissute millenni, pensionati giudicati oramai improduttivi —
tutto, senza alcuna eccezione, da un momento all’altro può fungere
da scarto inutilizzabile/sacrificabile nella società dei consumi. Ciò
che conta non è ciò che si getta via — cosa che, secondo la mentalità
Wall–E, il Robinson Crusoe del futuro di Ballard e il jogger suicida di Baudrillard 

consumistica, non può mai avvenire a malincuore —, ma la grandio-


sità dell’annuncio che introduce nelle nostre vite l’ultima novità alla
moda. D’altronde, come ben aveva inteso Benjamin, “ogni corrente
della moda o della visione del mondo riceve la sua spinta da ciò che è
caduto nell’oblio” (Benjamin , p. ): da ciò che è stato respinto,
rifiutato, confinato e sepolto ignominiosamente nella grande discarica
dell’esistente — la faccia perennemente in ombra e scabrosa del mer-
cato dei consumi. E come risultato di questo andirivieni tra tutto (che
non satura mai la mancanza) e nulla (di ciò che è già sempre vecchio,
datato e inutilizzabile), il mondo dei rifiuti si innalza, in un’enorme
spirale, fino al cielo. Dove l’unico fine da perseguire sembrerebbe
proprio il folle accumulo delle inutilità programmate in un’economia
dello spreco.

Riferimenti bibliografici

B J.G. () L’isola di cemento, trad. it. M. Bocchiola, Feltrinelli, Mi-
lano.
B J. () America, trad. it. L. Guarino, SE, Milano.
———. () La società dei consumi, trad. it. G. Gozzi e P. Stefani, Il Mulino,
Bologna.
B Z. () Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, trad.
it. D. Francesconi, Il Mulino, Bologna.
B W. () “Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua mor-
te”, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura e trad. it. R. Solmi, Einau-
di, Torino.
B W. () Parigi capitale del XIX secolo, a cura di R. Tiedemann e
G. Agamben, trad. it. M. De Carolis, Einaudi, Torino.
———. () Sul concetto della storia, ed. e trad. it. G. Bonola e M. Ranchetti,
Einaudi, Torino.
D P.K. () Un oscuro scrutare, trad. it. G. Frasca, TIF Extra, Roma.
D F. () Abitare la terra. Ambiente, Umanesimo, Città, trad. it. L. Sessa,
Moretti & Vitali, Bergamo.
G R. () Prima dell’apocalisse, trad. it. B. Amali, Transeuropea Edi-
zioni, Massa.
 Gianluca Cuozzo

I I. () Elogio della bicicletta, trad. it. E. Capriolo, Bollati Boringhieri,
Torino.
———. () La perdita dei sensi, trad. it. G. Pucci, Libreria Editrice Fio-
rentina, Firenze.
K F. ()Gli affanni del padre di famiglia, in I racconti, ed. e trad. it. G.
Schiavoni, BUR, Milano.
L C F. () “Per una critica delle automobili”, postfazione a Illich
(), pp. –.
L S. () Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della
crescita, trad. it. F. Grillenzoni, Bollati Boringhieri, Torino.
MC C. () La strada, trad. it. M. Testa, Einaudi, Torino.
P S. () Autoritratto dell’immondizia. Come la civiltà è stata condiziona-
ta dai rifiuti, Bollati Boringhieri, Torino.
R V. () La leggenda del Grande Inquisitore, trad. it. N. Caprioglio,
Marietti, Genova–Milano.
S R. () Gomorra, Mondadori, Milano.
S B. () “Spazzatour”: reportage dall’olocausto bianco dei rifiuti”, in
Archivio blog,  luglio; accessibile on–line all’indirizzo beppesebaste.blog-
spot.com; ultimo accesso il  dicembre .

Gianluca Cuozzo
Università di Torino
P III
SPAZI ESPERIENZIALI URBANI
PART III
URBAN EXPERIENTIAL SPACES
Lexia. Rivista di semiotica, 9–10
Ambiente, ambientamento, ambientazione
ISBN 978-88-548-4516-9
DOI 10.4399/97888548451691
pag. 175–192 (dicembre 2011)

L’ambientazione come pratica


di lettura dell’ambiente
Il caso di Porta Palazzo a Torino

S S

 : Reading Environment through Setting: the Case of Porta Palazzo
in Turin

: Porta Palazzo, an area within the city of Turin, spans part of the
districts Circoscrizione  (“Centro–Crocetta”) and Circoscrizione  (“Auro-
ra–Madonna del Pilone–Vanchiglia”), including the archaeological zone,
part of the old town (up to Corso Regina Margherita), the remains of
the old village outside the city walls, the Arsenal, the Cottolengo area,
the former railway station Cirié–Lanzo, and the large complex of Balôn.
Although not representing a “neighbourhood” or a “district” in admi-
nistrative terms and being characterized by a deeply heterogeneous
urban fabric, as well as by a very diversified population, most Turin
inhabitants, as well as many national and international touristy and com-
mercial actors perceive this area as unified. Why? What are the elements
that make it possible to absorbe such diversity and fragmentation into
a uniform image? Or, in semiotic terms, what are the isotopies that al-
low one to perceive the urban text “Porta Palazzo” as homogeneous
and distinguished from its context? The present paper tries to answer
these questions through analyzing some of the most relevant fictional
representations (setting) referring to Porta Palazzo (environment) and the
adaptive practices of individuals and communities that have settled the-
re over time (habitat). Finally, the paper proposes some considerations
about the discrepancy between the urban and the administrative levels,
on the one hand, and those of the imaginary and signification, on the
other.

: Porta Palazzo; semiotics; heterogeneity; food; market.

Porta Palazzo (in torinese Porta Pila) è una zona di Torino che si esten-
de tra la Circoscrizione  (“Centro–Crocetta”) e la Circoscrizione 


 Simona Stano

(“Aurora–Madonna del Pilone–Vanchiglia”), comprendendo parte del-


l’antico centro storico della città (fino a corso Regina Margherita),
l’area archeologica, le tracce del vecchio borgo fuori le mura, la zona
dell’Arsenale, il Cottolengo, l’ex–stazione ferroviaria Cirié–Lanzo e
l’ampio complesso del Balôn (Semi , pp. , ).
Pur non costituendo un “quartiere” dal punto di vista amministra-
tivo ed essendo caratterizzata da un tessuto urbanistico profondamen-
te eterogeneo, nonché da una popolazione estremamente variega-
ta, si tratta di “un’area percepita in modo unitario” (Città di Torino
) e concepita come autonoma rispetto al contesto delle circo-
scrizioni entro cui si estende tanto dagli abitanti della città quanto
dagli enti turistici e commerciali operanti nel contesto nazionale e
internazionale.
Perché? Quali sono gli elementi che permettono di ricondurre una
simile eterogeneità e frammentarietà a un’immagine unitaria univer-
salmente condivisa? O, in termini semiotici, quali sono le isotopie che
permettono di percepire il “testo–Porta Palazzo” come omogeneo?
Cercheremo di rispondere a queste domande analizzando alcune
tra le più significative rappresentazioni “finzionali” (ambientazioni) che
riguardano l’area (ambiente) e i processi di ambientamento degli indivi-
dui e delle comunità che vi si sono stabiliti nel tempo, per riflettere
infine sulla discrepanza esistente tra il livello urbanistico e istituzionale,
da un lato, e il piano dell’immaginario e della significazione, dall’altro.

. Dalle porte dell’antica urbe al moderno assetto torinese: una


breve storia di Porta Palazzo

Porta Palazzo deve il proprio nome a una delle porte dell’antica Au-
gusta Taurinorum, la Postierla San Michele, che permetteva l’accesso
dai borghi suburbani al mercato di Piazza delle Erbe (ora Piazza Pa-
lazzo di Città), l’allora mercato principale della città. In seguito agli
interventi promossi nel  da Re Vittorio Emanuele Amedeo II per
conferire a Torino l’immagine di moderna capitale settecentesca, le
porte della città (tra cui la Porta Palazzo, inaugurata nel ) persero
il loro antico valore difensivo, assumendo una funzione prettamente
rappresentativa.
L’ambientazione come pratica di lettura dell’ambiente 

Per quanto riguarda l’evoluzione urbanistica dell’area, è possibile


identificare diverse tendenze che, intrecciandosi e sovrapponendosi
nel tempo, hanno portato all’odierna conformazione della zona, unica
rispetto al resto della città (CICSENE , pp. – e Città di Torino
):

— l’area a sud di corso Regina appartiene alla “città quadrata”, la par-


te più antica di Torino edificata sulle tracce della città romana.
A seguito dei progetti di diversi architetti (tra cui Juvarra e Ga-
rove) questa zona si è progressivamente ampliata, mantenendo
il medesimo tessuto urbano reticolare ma subendo numerosi
interventi di sopraelevazione o rinnovamento edilizio che gli
hanno conferito l’aspetto odierno;
— sebbene se ne abbiano notizie certe solo a partire dal Medioevo,
il Borgo Dora risale probabilmente all’epoca romana. Più volte
demolita e ricostruita a causa degli assedi, l’area subì notevoli
mutamenti a partire dal XV secolo, quando la costruzione di
una serie di canali lungo la Dora diede vita al primo nucleo
proto–industriale di Torino, poi sviluppatosi nei secoli seguenti.
Attualmente questa zona ospita il Balôn, il “mercato delle pulci”
del sabato, ed è sede del SerMiG (Servizio Missionario Giovani,
attivo dal ), situato nella zona dell’Arsenale, che durante la
Seconda Guerra Mondiale attirò numerose incursioni aeree;
— tra gli aspetti più importanti della riforma urbanistica proget-
tata nel Settecento da Filippo Juvarra vi è la nascita del primo
impianto dell’attuale piazza della Repubblica in corrisponden-
za dell’antica porta, in parte ridisegnata nel  in seguito al
progetto di Lombardi di creare una grande piazza ottagonale
a coronamento dell’esedra juvarriana. Già a metà Settecento,
parte della piazza fu adibita al mercato: “la contiguità con la
principale porta d’ingresso alla città favoriva infatti la localizza-
zione di attività legate alla circolazione delle merci” (CICSENE
, p. ). Dal  agosto , inoltre, qui risiede il principa-
le mercato di Torino (prima collocato in piazza delle Erbe),
ospitato all’interno di alcuni edifici situati nei quattro quadranti
della piazza: “i due settori a sud, del , ricostruiti negli anni
Trenta e restaurati negli anni Cinquanta (sud–est) e nel 
(sud–ovest); la grande tettoia in ghisa (nord–est), del ; la
 Simona Stano

struttura prefabbricata [. . . ] a nord–ovest, del ” (ibidem);


— nell’Ottocento, durante la dominazione napoleonica, la Por-
ta Palazzo venne abbattuta, rompendo definitivamente l’isola-
mento della città dai sobborghi circostanti e permettendone in
questo modo la futura espansione;
— a partire dal , l’intera area di Porta Palazzo è poi stata coin-
volta in un processo di riqualificazione e rinnovamento urbano
promosso dalla Città di Torino e da alcuni enti pubblici e privati.
Si tratta del progetto The Gate, tra i cui interventi ricordiamo
la nuova pavimentazione in pietra di Luserna, il sottopassaggio
di corso Regina Margherita (volto a ridurre il traffico veicolare
nella zona), diverse opere di restauro degli antichi padiglioni
e tettoie adibiti al mercato, la creazione di un Parco Archeolo-
gico in corrispondenza delle rovine dell’antica urbe romana e
la costruzione del PalaFuksas, una struttura in vetro traslucido,
mattoni pieni e ottone bronzato che, sorto nel luogo dove in
precedenza si trovava il Mercato dell’Abbigliamento, segna una
forte discontinuità rispetto al paesaggio urbano circostante.

In sintesi, l’area di Porta Palazzo sembra essere caratterizzata da


una forte “anomalia del disegno urbano rispetto al resto della città
di Torino” e da una profonda “eterogeneità delle situazioni costruttive
e tipologiche: è forse proprio l’impossibilità di individuare un’unica
regola morfologica nella formazione dello spazio urbano”, quindi, “a
costituire una caratteristica fondamentale di questa parte della città”
(CICSENE , p. ).

. Il mercato all’aperto più grande d’Europa: tracce di ambien-


tamento tra banchi di frutta, accessori di moda e commercio
etnico

Come accennato nel paragrafo precedente, in seguito al Manifesto


Vicariale del  agosto  — che proibiva, a causa del dilagare del
colera, la vendita di prodotti alimentari nelle altre piazze cittadine
—  , i maggiori mercati torinesi confluirono nell’area di Porta Palaz-

. Per maggiori informazioni a riguardo, cfr Bianchi , pp. –.


L’ambientazione come pratica di lettura dell’ambiente 

Figura . Mappa di Porta Palazzo; progetto The Gate —


http://www.comune.torino.it/portapalazzo/

zo e, in particolare, in piazza della Repubblica, completata nel .


Oltre al Balôn (il “mercatino delle pulci” di Torino, spostato nella
zona adiacente alla Dora il  luglio  dietro delibera del Consiglio
comunale) e ai numerosi punti di commercio informale dissemi-
nati lungo corso Regina, corso Giulio Cesare e vie afferenti, infatti,
il “mercato all’aria aperta più grande d’Europa” vede concentrarsi
nella piazza ottagonale gran parte delle attività commerciali che lo
contraddistinguono.

. Ibidem, pp. –.


 Simona Stano

Piazza della Repubblica risulta suddivisa in quattro quadranti, adibi-


ti a diverse attività commerciali: nel primo quadrante, il mercato dei
prodotti per la casa circonda la Tettoia dell’Orologio, sede del famoso
“mercato dei contadini” (dove ogni mattina arrivano quintali di frutta
e verdura direttamente dalla campagna piemontese) e di diversi stand
occupati da macellai, salumieri, panettieri e formaggiai. Nel secondo
quadrante, a sud–est della piazza, si trova il mercato della frutta e della
verdura, dove alle arance siciliane e ai limoni campani si affiancano
sempre più sovente frutti esotici e ortaggi importati dall’Europa, dal
Nord Africa e dall’Asia. Nell’area del terzo quadrante, un padiglione
del , recentemente ristrutturato, ospita il mercato ittico. Proprio
davanti al mercato del pesce, infine, vi sono alcune bancarelle adibite
alla vendita di abiti e accessori, merci un tempo reperibili nell’ultimo
quadrante, all’interno del Mercato dell’Abbigliamento, che è stato sosti-
tuito dal nuovo edificio progettato dall’architetto Massimiliano Fuksas
() .
Accanto al mercato dei contadini, poi, inizia quella che può essere
definita la kasbah torinese, il “settore maghrebino” di Porta Palazzo:
nel primo tratto di corso Giulio Cesare e nelle vie adiacenti, così come
nelle strade che si diramano a partire dalla piazza ottagonale, sono
numerosi i negozi, le gastronomie e i ristoranti che offrono un’ampia
gamma di prodotti d’origine nordafricana.
Non meno forte è la presenza di commercianti cinesi, la cui im-
prenditorialità ha portato alla nascita e allo sviluppo, soprattutto lungo
corso Regina ma anche nella zona circostante, di numerosi centri di
vendita all’ingrosso e al dettaglio di alimentari e merci di ogni genere,
dall’abbigliamento agli accessori di moda, dai cosmetici agli utensili
domestici. Anche all’interno del mercato di piazza Repubblica, inoltre,
la componente cinese è sempre più visibile, in particolare nel settore
dell’abbigliamento.
Un fitto intreccio di prodotti e culture che arriva ad abbracciare
anche altri gruppi provenienti dall’Asia e dall’Africa, così come ha
riguardato e continua a interessare (seppur in misura minore rispetto al
passato) i migranti provenienti dall’Italia orientale e meridionale. E che
rappresenta uno degli aspetti più caratterizzanti di Porta Palazzo, tanto

. In quanto poco idoneo ad ospitare il mercato dell’abbigliamento, il PalaFuksas viene


in genere utilizzato per accogliere manifestazioni culturali.
L’ambientazione come pratica di lettura dell’ambiente 

da divenire uno dei cardini di molti servizi turistici operanti nell’area ,


nonché uno dei valori di base di EMPORION, l’Associazione Europea
dei Mercati istituita nel  a Barcellona che, insieme a Porta Palazzo,
raggruppa altri mercati quali il Kozponti Vásárcsarnok di Budapest, il
Borough Market di Londra e La Boqueria di Barcellona, promuovendo
concetti quali l’aggregazione sociale, il confronto interculturale e la
salvaguardia della sicurezza alimentare.

. Porta Palazzo “tra le righe”

Proprio per la varietà e la poliedricità che la caratterizzano, Porta Pa-


lazzo è stata più volte oggetto delle descrizioni di letterati e giornalisti
italiani.
Ne Le tre capitali, Edmondo de Amicis dipinge quel che definisce il
“ventre di Torino” come segue:

Proseguendo [. . . ] s’arriva alla grande piazza ottagonale [. . . ]. Ma per veder-


la in tutta la sua bellezza bisogna capitarvi una mattina di sabato, d’inverno,
in pieno mercato. Uno Zola torinese potrebbe mettere lì la scena di un
romanzo intitolato “Il ventre di Torino”. Sotto le vaste tettoie, fra lunghe
file di baracche di mercanti di stoffe, di botteghini di chincaglierie e d’espo-
sizioni di terraglia all’aria aperta, in mezzo a monti di frutta, di legumi e
di pollame, a mucchi di ceste e di sacchi, tra il va e vieni delle carrette che
portan via la neve, tra il fumo delle castagne arrosto e delle pere cotte, gira e
s’agita confusamente una folla fitta di contadini, di servitori, di sguatteri, di
serve imbacuccate negli scialli, di signore massaie, di ordinanze colla cesta al
braccio, di facchini carichi, di donne del popolo e di monelli intirizziti, che
fanno nera la piazza. Intorno ai banchi innumerevoli è un alternarsi affollato
e continuo di offerte e di rifiuti, di discussioni a frasi secche e tronche, di
voci di maraviglia e di sdegno, d‘apostrofi e di sacrati, che si confondono
tutti insieme in un mormorìo sordo e diffuso, come d‘una moltitudine mal-
contenta. [. . . ] Da una parte c‘è il mercato delle contadine, venute da tutte
le parti del circondario, partite a mezzanotte dai loro villaggi per arrivare in
tempo a pigliare un buon posto a destra e a sinistra d‘un viale fiancheggiato
di platani; [. . . ] da ogni parte si tasta, si palpa, si soppesa, si fiuta, si disputa, in
un tuono di lamento stizzoso, gesticolando coi cavoli in mano, brandendo i
cardi, scotendo le galline, gettando nelle orecchie di chi passa frammenti di
dialoghi monosillabici, che fanno indovinare dei tira tira d‘un‘ora per un

. Si pensi ai tour proposti da Turisti per Casa, dalla regione e da diversi enti locali, tra
cui l’agenzia Viaggi Solidali.
 Simona Stano

centesimo, delle economie disperate, delle avarizie rabbiose, delle pazienze


da santi, delle miserie segrete di famiglie decorose, tutte le durezze e le
angosce della gran lotta per la vita. [. . . ] Per tutta la piazza è un affaccenda-
mento e un rimescolìo rumoroso, un farsi e un disfarsi continuo di crocchi
intorno a carrozze di cavadenti, a venditori di specifici, a strimpellatori di
violini, a banditori d‘incanti, a ciarlatani cappelluti che raccontano storie di
delitti davanti a grandi quadri rosseggianti di sangue, a teatrini da burattini,
rizzati in mezzo alla neve, a grandi fiammate di paglia, accese dai fruttaiuoli
infreddoliti per sgranchirsi le membra. E non si può dire quant‘è pittoresca
e bizzarra quella confusione di gente e di cose, di lavoro e di festa, di città e
di campagna, vista a traverso la nebbia della mattina, che lotta ancora col
sole, in mezzo a quei grandi alberi sfrondati, imperlati di brina.
(, pp. –)

Una descrizione che presenta diverse analogie con quella di un altro


famoso letterato, Guido Gozzano:

Parlerò della Gran Cuoca di Torino: Porta Palazzo. Il forestiero non ha


bisogni di ragguagli per giungervi: dove termina via Milano e i tramvia e le
carrozze s’arrestano tra una folla densa, varia, turbinosa dove il vociferare
copre le parole con un fragorio continuo e assordante di selvaggio tam–tam,
là è Porta Palazzo.
La piazza immensa accoglie un villaggio intero dagli edifizi di tela, di
legno, di cemento, con le sue vie regolari tra banco e banco, diviso e suddi-
viso in quartieri secondo la varietà della merce. E la merce è infinita, tale
da soddisfare i desideri più strani ed opposti: dal buongustaio che cerca tra
i pesci la varietà prelibata, dalla sartina che vuole un serto di rose finte pel
cappello che ha foggiato con le sue dita, all’antiquario che desidera una
cornicetta del Rinascimento, una miniatura settecentesca.
Passiamo tra banco e banco, tra le cataste di stoffa, tra il gaio sventolare
dei nastri e dei pizzi sospesi alle travi, ecco l’odore acre delle stoffe, miti-
gato, sostituito dall’aroma dei fiori; passiamo oltre, tra le chincaglierie, le
terraglie, i vetri; veniamo alla nota vera, predominante di Porta Palazzo:
quella gastronomica.
Il quadro è veramente grandioso: tale è l’abbondanza, la varietà delle
forme, delle tinte, degli odori, che la materia bruta destinata al bruto bisogno
quotidiano, diventa quasi poetica, tale da far delirare lo scrittore stanco di
snobismi intellettuali, il pittore desideroso di gamme nuove. I banchi delle
verdure si succedono all’infinito, unendosi allo sguardo in un solo mare dalle
tinte delicate e perlacee di certi acquerelli moderni. Le insalate, le lattughe,
le cicorie dal cuore appena schiuso, ancora grasse di terriccio, i cumuli di
spinaci, di carciofi, di piselli, tutta la gamma del verde chiazzata qua e là dalla
nota acuta delle carote fulve, delle rape violacee, dei pomidoro sanguigni; la
merce è infinita: piramidi di peperoni enormi, verdi, ranciati, rossi, barricate
L’ambientazione come pratica di lettura dell’ambiente 

di cavoli duri e compatti come sfere di metallo verde, altri aperti dalle foglie
larghe, ricciute come immense corolle. Ed ecco la frutta: le belle ceste
ricolme di fragole dall’aroma delizioso, cataste di aranci d’oro, d’albicocchi,
di ciliegie lucenti come lacca vermiglia, caschi di banane tigrate, evocanti le
selve d’oltremare. La fragranza dei frutti muore nel fetore acre della carne
macellata. Passiamo in fretta tra l’ecatombe di vittime: agnelli, maiali, vitelli
scuoiati, aperti, penduli dagli uncini robusti. [. . . ] Ma ecco altre vittime:
eserciti di polli schierati all’infinito, con le tre sole penne superstiti della
coda eretta, con i colli penduli pietosamente, fagiani, tacchini, faraone; ed
ecco i pesci annunziati da un fresco odore salso e amaro, l’odore delle rocce
quando la marea si ritira e l’alghe si prosciugano al sole.
Sui banchi di marmo candido, tra blocchi di ghiaccio e rigagnoli d’acqua
sono rovesciati a migliaia i pesci che le reti hanno tratto ieri sera dal Tirreno
e dall’Adriatico. Una impresa vastissima dalla burocrazia pronta e vigilante,
sparsa su tutto il litorale, spedisce le vittime in casse enormi, piene d’alga
imbevuta d’acqua marina, e gran parte dei pesci giunge al mercato anco-
ra boccheggiante. Ecco le aragoste, gli omari dalle zampe spettrali, dalle
pinze diaboliche agitate in una lenta agonia; le torpedini enormi, piatte,
romboidali, stranamente chiazzate, i salmoni dalle scaglie d’argento lavo-
rato al bulino, i tonni di cuoio nero e lucentissimo, i merlani dal riflesso
d’opale, le triglie rosee; i pesci spaventosi, evocanti l’orrore dei naufragi e
gli antri sottomarini: i polipi tentacolari, gli scorfani orribili, scolpiti nella
pietra livida, le murene tigrate come leopardi, dalle bocche armate di denti
formidabili, memori forse di carne umana. . . Poi la falange dei pesci d’acqua
dolce: anguille, le tinche di bronzo verde, le trote d’argento. Fra l’alghe ed il
ghiacciaio una carpa enorme non vuol morire; chiude i fianchi, agita la coda,
apre ad intervalli la bocca dai mustacchi ricurvi. L’occhio sazia lo stomaco.
Passando fra tanta merce non si pensa quasi che tutto ciò è destinato alla
triste legge della fame. Il fragore di tam–tam assordante è così continuo che
l’orecchio non l’ode più e si prosegue trasognati da banco a banco, sordi ai
richiami delle belle figlie di madama Angot. Si protendono verso il passante,
supplici ed imperiose; vantando i prezzi modesti e la qualità della merce.
Signore, che cosa desidera? Dica, dica!
Una sogliola? una trota? un’aragosta? Non vada via! Ascolti! La servirò
da principe! Com’è cattivo!
Ed è quasi doloroso dover respingere tante profferte, dover proseguire,
sordi a quella effusione cordiale.
(, pp. –)

Molto interessante è anche la descrizione di Porta Palazzo offerta da


Giuseppe Culicchia in Torino è casa mia, opera in cui l’autore propone
una divertente analogia fra alcune zone del capoluogo piemontese e
le stanze di un’ipotetica abitazione.
 Simona Stano

La mia cucina è Porta Palazzo. Ossia, come amano sottolineare i torinesi


amanti dei primati, il più grande mercato all’aperto d’Europa. Porta Palazzo
in realtà si chiama Piazza della Repubblica. [. . . ] Qui, negli anni intorno
al , si cominciarono a tenere i mercati delle erbe e delle carni. Poco
dopo vennero costruiti i bassi fabbricati destinati a ospitare il mercato del
pesce e quello alimentare. Poi, nel , venne edificato il padiglione delle
Officine Savigliano, che col suo vetro e col suo ferro a me fa sempre venire
in mente le vecchie foto scattate da Eugène Atget alle Halles di Parigi, un
po’ prima del film di Marco Ferreri con il Generale Custer e i suoi caval-
leggeri circondati dagli Apache sulla spianata del futuro Centre Pompidou.
Se pensate che con le sue vie diritte e i suoi colori delicati Torino sia una
città troppo nordica, e poco italiana nel senso di poco caotica e solare, Porta
Palazzo — Porta Pila per il torinese da generazioni — sembra fatta apposta
per farvi ricredere. Almeno nei giorni feriali. A Porta Palazzo, nei giorni
feriali, ci si può mescolare alla folla che intasa i banchi del mercato e sentirsi
un po’ a Palermo, malgrado l’assenza del mare e delle palme. Perché per
il resto c’è tutto. Il rosso dei pomodori e dei peperoni. Il giallo dei limoni
e delle banane. Il verde del basilico e della menta. Storditi dalle urla dei
fruttivendoli calabresi e siciliani coadiuvati da una manovalanza ormai pres-
soché interamente nordafricana, si viene risucchiati dal fragrante, caotico,
smisurato labirinto a poche centinaia di metri dal Municipio cittadino. E, a
seconda dei casi, ci si ritrova a vagare in grandi pescherie, o in minuscole
macellerie islamiche. [. . . ] A Porta Palazzo, negli anni Cinquanta e seguenti,
la domenica mattina si davano appuntamento gli immigrati del Sud, proprio
come nelle piazze dei paesi d’origine. A Porta Palazzo, oggi, la domenica
mattina si ritrovano i nuovi immigrati. Così ora a Torino una Casbah c’è,
ed è lì: inebrianti profumi e inquietanti vicoli compresi. A Porta Palazzo da
qualche anno c’è un imam che ogni tanto finisce sulle pagine dei giornali
o in televisione, e c’è anche un hammam. [. . . ] Il mercato dei contadini, a
porta Palazzo, è composto da quattro file di banchi di frutta e [. . . .] si chiama
così perché contiene alcuni autentici contadini, provvisti di mani e facce da
contadini, segnati dal lavoro e dal sole. [. . . ] E i tram che sferragliano e i
clacson che strombazzano e le gomme che stridono e FORZA MASSAIE
POMIDORI E MELENZANE UN EURO AL CHILO FORZA MASSAIE
e le scavatrici che scavano e i martelli pneumatici che pneumomartellano
e i portoni che cigolano e le porte che sbattono e i tacchi che ticchettano
e i camion che rombano e CHI PISCI CHI PISCI MA QUANT’E’ FRI-
SCU ’STU PISCI UN BRANZINO SEI EURO FORZA e i televisori che
rimbombano e gli autobus che frenano e le radio che strepitano e i vigili
che fischiano e le moto che sgommano e le bici che filano i campanelli
che squillano e MOZZARELLE DI BUFALA FRESCHE DALLA PUGLIA
PREGO SIGNORA ASSAGGI QUESTO GRANA e gli operai che vociano e
le gru che gruano e gli scalpelli che scalpellano e le cazzuole che cazzuolano
e i vetri che tremano e le sirene che suonano e i cani che abbaiano e le
L’ambientazione come pratica di lettura dell’ambiente 

obliteratrici che obliterano e le saracinesche che calano e i bambini che


inghiottono e i cellulari che trillano e FORZA MADAMINE ARANCE DI
SICILIA APPENA ARRIVATE ESPRESSE DA BAGHERIA FORZA. Ecco
com’è, Porta Palazzo (, pp. –).

Infine, è con queste parole che Farinetti descrive, in un articolo


comparso sul quotidiano La Stampa del  febbraio , “il posto più
torinese che ci sia”:
è Porta Palazzo, il posto più torinese che ci sia; il luogo più antico e in
qualche modo avventuristico di Torino. Di Porta Palazzo mi piace tutto, il
disordine, la quinta dei palazzi juvarriani insidiata da costruzioni anni ’
(quell’insensato “grattacielo” giallo e marrone che chiude a nord la piazza),
le tettoie di ferro del mercato alimentare con una predilezione per la zona
detta “dei contadini” dove si possono ascoltare autentici dialetti monferrini
mescolati agli slang del Magreb, dell’Asia, dell’Africa centrale. E natural-
mente qualche sopravvissuta cadenza napoletana di terza generazione. [. . . ]
Certe mattine di autunno si riesce persino a sentire un odore di mosto
sbucare dai cortili bui, un umidore di cantina di paese.
Poi mi piacciono anche i banchetti dei merciai. Ci sono certe madamine
svelte e scherzose avvolte in strani scialli e con mezzi guanti che armeggiano
fra centenarie scatole di chiusure–lampo, bottoni “fantasia”, matasse di
vetuste passamanerie.
Un mondo immutato, ottocentesco, a tratti conventuale (a ridosso com’è
del Cottolengo, la Consolata, l’Ausiliatrice), a tratti invece enigmatico come
un Sud sconosciuto. È un ”altrove” esotico e stupefacente.
Mi piace anche di notte, deserta e fresca, con gruppi di persone ferme
davanti ai caffè, l’odore pungente del cumino che esce dalle case, le sue
trattorie con i tavoli fuori d’estate. Magari allarmante, ma se la bellezza
è negli occhi di chi ti guarda, anche la sicurezza ha i suoi codici, perciò,
facendo un po’ di attenzione. . .
Raramente si portano qui gli ospiti (li s’invita in salotto, gli ospiti, mica
in cucina) ma, invece, Porta Palazzo è una delle chiavi del mistero di Torino,
irriducibile, arcaica, porto di mare. . . ci fosse il mare a Torino, ah! E, come
il mare, è odorosa, remota, romantica e beffarda. Insondabile e talvolta nera,
come questa città.
(, p. )

. In cerca di isotopie: dai testi letterari al testo urbano

Si è cercato di dar conto nei paragrafi introduttivi della profonda


eterogeneità caratterizzante Porta Palazzo, tanto in relazione al tessuto
 Simona Stano

urbano che contraddistingue l’area all’interno del contesto torinese


e delle circoscrizioni entro cui si sviluppa, quanto in riferimento alla
popolazione che la abita e alle attività commerciali che vi hanno luogo.
Ispirate da tale varietà, le descrizioni di Porta Palazzo sopra ripor-
tate rappresentano d’altra parte una fonte di notevole interesse per
l’individuazione della ricorrenza dei semi o categorie semiche che,
all’interno di una simile eterogeneità, permettono di percepire la realtà
in analisi come un testo omogeneo. Quali sono, dunque, tali isotopie?

.. Prima isotopia: il commercio

Una delle prime isotopie che emergono dai testi presentati è quella
del commercio, e più precisamente del mercato: De Amicis scrive di
“vaste tettoie” e “lunghe file di baracche di mercanti”, ricordando
che “da ogni parte si tasta, si palpa, si soppesa, si fiuta, si disputa”;
Gozzano descrive “un villaggio intero dagli edifizi di tela, di legno, di
cemento, [. . . ] suddiviso in quartieri secondo la varietà della merce”,
una merce “infinita, tale da soddisfare i desideri più strani e opposti”.
Culicchia offre poi qualche cenno alla storia del mercato, mettendone
in evidenza l’anima multietnica, tratteggiata anche dalle parole di
Farinetti.
Non si tratta di un rimando casuale: l’area di Porta Palazzo è infatti
fortemente associata, nell’immaginario collettivo, a quella del mercato
di Piazza della Repubblica (Ravarino e Verderone , pp. –).
Una “vocazione commerciale” (ibidem, p. ) che, come descritto in
precedenza, Porta Pila sembra aver sviluppato già dal primo Settecento
e che si è istituzionalizzata con il decreto del , trasformando col
tempo la piazza ottagonale e l’intera zona in uno dei maggiori “punti
di riferimento commerciali” (ibid., p. ) per tutta la città.
Essendo il mercato “prodotto e costruito socialmente”, inoltre,
“la sua esistenza produce degli effetti nello spazio, nel tempo e nelle
relazioni circostanti” (Semi , p. ): ben al di là della dimensione
economica, ciò che domina è quindi “la reciprocità del comporta-
mento sociale” (ibid., p. ), l’instaurazione di rapporti sociali e reti di
fiducia .
. Cfr Greimas e Courtés , pp. –.
. “Ogni bene immobile intorno al quale si svolgono trattative e transazioni econo-
L’ambientazione come pratica di lettura dell’ambiente 

È in questo senso, dunque, che Porta Palazzo si configura “co-


me luogo di incontro e di scambio di informazioni, dubbi, speranze”
(CICSENE , p. ), caratterizzandosi come spazio e metafora della
multiculturalità (Semi , p. ) e come sorta di “villaggio globa-
le” la cui eterogeneità costituisce — come vedremo — un motivo
ricorrente nelle rappresentazioni che lo riguardano.

.. Seconda isotopia: la cucina

All’isotopia del commercio, se ne collega strettamente un’altra, quella


del cibo e della cucina. Vera anima del mercato di Porta Palazzo è,
infatti, il commercio alimentare, declinato secondo le forme più sva-
riate: frutta, legumi, pollami e verdure, come ricorda De Amicis; fino
ad arrivare alle più articolate enumerazioni di Farinetti, Gozzano e
Culicchia, in un climax che sancisce, in Torino è casa mia, l’elimina-
zione di ogni tentativo di punteggiatura e di separazione tra discorso
diretto e indiretto, con un effetto di embrayage che rievoca il simulacro
dell’esperienza descritta, chiamando direttamente in causa il lettore e
invitandolo a prendervi parte.
Anche al di là dell’aspetto stilistico, poi, Porta Palazzo assume le
vesti della “Gran Cuoca di Torino”, nelle parole di Gozzano, o della
“cucina” della città, riprendendo Culicchia e Farinetti: questo è infatti il
luogo dove diversi universi gastronomici si incontrano, riportando pla-
tani d’oltremare, arance siciliane, nocciole piemontesi e altri prodotti
naturali nostrani o importati alle sfere culturali cui fanno riferimento
e riproducendo così quel mormorio di “dialetti monferrini mescolati
agli slang del Magreb, dell’Asia, dell’Africa centrale e [. . . ] a qualche
sopravvissuta cadenza napoletana di terza generazione” (Gozzano
, p. ). Un mormorio che dal campo dell’udito sconfina in quel-
lo della vista, del tatto, dell’olfatto e del gusto, creando un effetto di
sinestesia che trova espressione nella densità retorica delle descrizio-

miche di qualsiasi genere costituisce un siffatto centro di rotazione stabile di rapporti”


(Simmel , p. ). Cfr anche Clifford , De La Pradelle , Peraldi, Foughali e
Spinousa  e Sciardet .
. L’espressione, ripresa da Marshall McLuhan, esula qui dal contesto mediatico, ri-
proponendo però il medesimo concetto di una dimensione ristretta caratterizzata dalla
compresenza e coesistenza di diversi stili di vita, tradizioni, lingue ed etnie.
 Simona Stano

ni letterarie sopra presentate, nonché nell’ampio spazio che queste


riservano alla dimensione sensoriale e percettiva.
Se, quindi, la cucina “è una attività tecnica che fa da ponte fra la
natura e la cultura” (Lévi–Strauss , trad. it., p. ), la “Gran Cuoca
di Torino” sembra spingersi più in là, arrivando ad abbracciare una
vasta gamma di culture gastronomiche e “aprendo i sistemi di cucina
a ogni sorta di invenzioni, incroci e contaminazioni” (Montanari ,
p. VII).

.. Terza isotopia: il melting pot.

Entrambi gli elementi appena descritti preannunciano in qualche mo-


do la terza isotopia che vorremmo qui mettere in evidenza: la varietà
e la pluralità che emergono come intrinseche al testo–Porta Palazzo, il
suo essere inscindibilmente legato a una dimensione polifonica, varie-
gata, multiforme e multiculturale. De Amicis parla, infatti, di una “folla
fitta” che “s’aggira e s’agita confusamente”, dell’“alternarsi affollato e
continuo di offerte e rifiuti, [. . . ] di voci di maraviglia e di sdegno [. . . ]
che si confondono tutti insieme in un mormorio sordo e diffuso”, di
un “rimescolio rumoroso”, il cui risultato è una “pittoresca e bizzarra
confusione”. Allo stesso modo, Gozzano descrive come “grandioso”
il quadro di Porta Palazzo: “tale è l’abbondanza, la varietà delle for-
me, delle tinte, degli odori, che la materia bruta destinata al bruto
bisogno quotidiano, diventa quasi poetica”. Anche in Culicchia torna
l’idea di un “labirinto fragrante, caotico, smisurato”, così come nelle
righe di Farinetti il contrasto tra le due anime di Porta Pila, “il posto
più torinese che ci sia” e insieme “un altrove esotico e stupefacente”,
crea l’effetto di un disordine piacevole, romantico e beffardo. Un di-
sordine che, sul piano dell’architettura testuale, si traduce nel forte
ricorso all’enumerazione (caratteristica di tutti i brani riportati), in una
sensibile riduzione — quando non nella totale eliminazione — della
punteggiatura, in un particolare uso delle maiuscole, nell’inclusione
di forme dialettali e neologismi accanto a un più consueto registro
letterario o, ancora, nel frequente ricorso a metafore e accostamenti
tra gli elementi più disparati.
Da sempre luogo di incontro di diverse culture, Porta Palazzo
sembra quindi trovare nella propria natura variegata e labirintica un
elemento di coesione interna: “il fragore di tam–tam assordante è
L’ambientazione come pratica di lettura dell’ambiente 

così continuo che l’orecchio non l’ode più e si prosegue trasognati da


banco a banco” (Gozzano , p. ), in un “qui” e insieme “altrove”
in cui la discontinuità coesiste e in qualche modo permette un certo
senso di continuità e la polifonia si riduce irrimediabilmente a una
piacevole, “cordiale”, monodia, pur non perdendo alcuna delle voci
che la compongono.

. Testi viventi, stratificazioni e “omogeneità eterogenee”

“Qui” e insieme “altrove”, torinese e allo stesso tempo esotico, di-


scontinuo come presupposto del continuo. . . Porta Palazzo emerge
come testo caratterizzato dalla compresenza di diverse opposizioni
che, nondimeno, gli assicurano una certa omogeneità e permettono
di percepirlo come testo unitario e autonomo nell’ambito del contesto
urbano che lo circonda.
Paradossale? Niente affatto, dal momento che i testi

sono strutture complesse che riescono a detenere un eccesso di senso


rispetto alla loro condizione “naturale” e dunque a produrre memoria (o
dif/ferenza, per usare una celebre espressione di Derrida (), cioè in
fondo a permanere, a testimoniare) grazie alla loro capacità di combinare
(di intessere) sistemi di opposizioni espressive per produrre contenuti. [. . . ]
In sostanza un testo è capace di significare (meglio: un qualche fenomeno
sensibile assume natura testuale e dunque significa) in quanto alcune delle
sue caratteristiche sono prese dalla società come differenziali.
(Volli , p. )

“Soggetto vivo e pulsante” (Bonora in Marrone e Pezzini , p.


), il testo urbano non fa eccezione. La sua natura discorsiva lo confi-
gura come “testo vivente, in continua trasformazione, mai identico
a se stesso, che conserva eminenti tracce del passato, ma si riscrive
instancabilmente in ogni sua parte, benché a ritmo diverso” (Volli, p.
). Un testo conflittuale, in cui si incontrano e scontrano identità e
ideologie e “ogni presenza, ogni manufatto, ogni colore, odore, scrit-
tura, ogni edificio dice la propria appartenenza, in concorrenza con
altre presenze, altre iscrizioni” (ibidem, pp. –).
Come mettono in evidenza i casi di ambientazione qui analizzati,
Porta Palazzo, micro–testo inserito nell’ambito del macro–testo urbano
 Simona Stano

“Torino”, è fortemente pervaso da questa conflittualità. L’eterogenei-


tà che lo contraddistingue non dovrebbe quindi stupire. Come ogni
spazio semiotico, “non può essere omogeneo: l’eterogeneità struttu-
ral–funzionale è l’essenza della sua natura” (Lotman , trad. it. ,
p. ). Ed è proprio per questo che emerge come testo autonomo e in
qualche modo omogeneo all’interno del contesto urbano entro cui
è iscritto: solo rompendo la regolarità e l’equilibrio di tale contesto,
tornando “verso l’entropia naturale”, esso arriva ad assumere una
“dimensione umana” (Volli , p. ), ad avere un senso.
Non vi è dunque alcuna contraddizione se, pur non essendo rico-
nosciuto come testo autonomo e omogeneo a livello istituzionale e
architettonico, questo ambiente è percepito come tale da coloro che
lo abitano e dalle varie ambientazioni che lo riguardano. Al contrario,
il senso di queste ultime, come abbiamo visto, sembra scaturire in
primis dall’eterogeneità e dalle irregolarità che lo attraversano.
Una considerazione che, lungi dal rimanere circoscritta a una ri-
cerca di questo tipo, appare di fondamentale importanza in relazione
ai criteri di pianificazione urbana e di gestione amministrativa del
territorio, rispetto ai quali proprio la valorizzazione (antientropica)
dell’eterogeneità e della varietà delle forme di segmentazione del testo
urbano gioca un ruolo sempre più centrale.

Riferimenti bibliografici

A A. (a cura di) () Una Mole di parole. Passeggiate nella Torino
degli scrittori, Celid, Torino.
B C. () Porta Palazzo e il Balôn: storia e mito, Piemonte in Banca-
rella, Torino.
B P. () “Città collage: conflitti di senso nei territori metropolita-
ni, tra risemantizzazioni e travestimenti”, in G. Marrone e I. Pezzini (a
cura di), Senso e metropoli. Per una semiotica posturbana, Meltemi, Roma:
–.
B K. () Turisti per Casa, “Volontari per lo sviluppo”, n. ; disponi-
bile al sito http://www.arpnet.it/volosvi/_/__.htm; ultimo
accesso il  dicembre .
L’ambientazione come pratica di lettura dell’ambiente 

C K. () Turisti per Casa, www.ilGastronomade.com, consultato il 


aprile .
C C. () Vivere a porta Palazzo: la passione di essere cittadini, Centro
Stampa Cavallermaggiore, Cavallermaggiore.
C (a cura di) () Un mercato e i suoi rioni: studio sull’area di Porta
Palazzo, Agami, Cuneo.
Città di Torino () Progetto The Gate – Porta Palazzo, http://www.comu-
ne.torino.it/portapalazzo/, consultato il  marzo .
C J. () The Predicament of Culture: Twentieth Century Ethnography,
Literature and Art (trad. it. I frutti puri impazziscono: etnografia, letteratura
e arte nel secolo , Bollati Boringhieri, Torino, ).
C G. () Torino è casa mia, Laterza, Roma–Bari.
D L. e A. M () Aspetti spaziali nei nuovi fenomeni migratori in
Piemonte, “Sociologia Urbana e Rurale”, n. : –.
D A E. () Le tre capitali: Torino, Firenze, Roma, Giannotta, Catania.
D L P M. (), “Société du spectacle, approvisionnement, mar-
chés et échanges”, Les Annales de la Recherche Urbaine, : –.
F G. () “La chiave del mistero”, La Stampa,  febbraio: .
G F. () “Forme urbane e pianificazione: un rapporto conflittuale: il
caso di Porta Palazzo” [tesi di laurea], Facoltà di Architettura, Politecni-
co di Torino, Torino.
G, G. (), “Torino suburbana – La gran cuoca”, in La Lettura, ora
in Cara Torino, Viglongo, Torino , –.
G A.J. e J. C () Sémiotique raisonné de la théorie du langage,
Hachette, Parigi (trad. it. Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del
linguaggio, Mondadori, Milano, ).
L–S C. () Mythologiques II. Du miel aux cendres, Plon, Parigi
(trad. it. Mitologica II. Dal miele alle ceneri, Il Saggiatore, Milano, ).
L, J. M. () Architektura v kontekste kult’tury/Architecture in the Con-
text of Culture, “Architecture and Society/Architektura i obshchestvo”,
Sofia: – (trad. it. “L’architettura nel contesto della cultura”, in Id., Il
girotondo delle muse. Saggi sulla semiotica delle arti e della rappresen-
tazione, Moretti e Vitali, Bergamo, , –).
L K. () Immagine della città, Marsilio, Venezia.
 Simona Stano

———. () Progettare la città. La qualità delle forme urbane, Etas Libri,
Milano.
M G. e I. P (a cura di) () Senso e metropoli. Per una semioti-
ca posturbana, Meltemi, Roma.
M M. () Il cibo come cultura, Laterza, Roma–Bari.
P M., N. F e N. S () Le marché des pauvres, espace
commercial et espace public, “Revue Européenne des Migrations Interna-
tionales”, , : –.
P A. () La città multietnica: cultura della socializzazione, Marsilio, Ve-
nezia.
R E. e E. V () “Gli spazi pubblici della multiculturali-
tà: il caso di San Salvario e Porta Palazzo” [tesi di laurea in Architettura],
Facoltà di Architettura, Politecnico di Torino, Torino.
S H. () Les marchands de l’aube. Ethnographie et théorie du com-
merce aux Puces de Saint–Ouen, Economica, Parigi.
S G. () “Il multiculturalismo quotidiano: Porta Palazzo tra com-
mercio e conflitto” [tesi di dottorato in Ricerca sociale e comparata],
Università degli Studi di Torino, Torino.
S A. () Antropologia della città, La Nuova Italia Scientifica, Roma.
V U. () “Per una semiotica della città”, in Id., Laboratorio di semiotica,
Laterza, Bari–Roma, –.

Simona Stano
Università di Torino
Lexia. Rivista di semiotica, 9–10
Ambiente, ambientamento, ambientazione
ISBN 978-88-548-4516-9
DOI 10.4399/97888548451692
pag. 193–209 (dicembre 2011)

Il cerchio nello spazio


Ipotesi e strumenti per un’analisi
della ri–significazione dei luoghi

C G

 : The Circle in the Space. Hypotheses and Instruments for the
Analysis of the Re–Signification of Places.

: Most of the space of people’s everyday life is, in their representa-
tion, organized in “places”. A place is defined here as a part of space to
which a meaning is assigned. However, the connection between a place
and a meaning (as it happens between any meaning and object) depends
on the act of attribution, it is not peculiar of the place. Consequently, on
the one side different people can assign different meanings to the same
place, whereas on the other side the same individual can assign diffe-
rent meanings to the same place in different moments. In both cases,
a process of re–signification occurs. The paper analyses processes and
dialectics of re–signification referring to four main concepts: situation
definition (Thomas), typification (Schutz), frame (Goffman), and marker
(MacCannell). The hypothesis is that any process of re–signification of a
place can be intended as a new situation definition, based on the identifi-
cation of the place as exemplar of a type, moving from the identification
of the markers that indicate the frame of reference, with a consequent
framing of actions and rules connected with that place. Conflicts and mi-
sunderstandings among different people about social rules to adopt in a
place can be consequently interpreted as conflicts or misunderstandings
about any of these levels, and part of their actions can be interpreted as
strategies to identify or define a specific frame for the place.

: Place; re–signification; situation definition; frame; marker.


 Carlo Genova

Il concetto di “ri–significazione” riferito a un luogo indica quel pro-


cesso attraverso il quale gli si assegna un significato differente rispetto
ad uno pre–esistente. Tale assegnazione (che può avvenire anche da
parte di un solo individuo ma che qui verrà considerata soprattutto
come fenomeno sociale, e quindi nel momento in cui viene svilup-
pata da una collettività) non implica ovviamente che tale significato
venga riconosciuto e condiviso da tutti gli individui che entrano in
relazione, anche solo cognitiva, con tale luogo. Interesse di questo
contributo è quindi proporre alcuni spunti per l’analisi dei processi
sociali e culturali attraverso i quali si sviluppa questa ri–significazione
e delle dialettiche cognitive e pragmatiche che ne derivano .

. La riflessione sul concetto di “luogo”, e su quello di “spazio”, cui molto spesso viene
collegato, ha una lunga tradizione e si è sviluppata in molteplici campi disciplinari. Una
ricognizione critica sulle diverse proposte orientata a individuare l’approccio più efficace in
riferimento ai processi qui considerati oltrepasserebbe i confini di questo contributo (anche
solo rispetto al campo sociologico cui si farà perlopiù riferimento). Con il solo obbiettivo
di tracciare i confini empirici dell’oggetto verrà quindi adottata una “definizione operativa”
(Bridgman ) di “luogo”, inteso come porzione di spazio a cui viene assegnato un
significato. Tale prospettiva si muove nella direzione proposta da Gieryn, l’autore che per
primo ha sviluppato un esplicito tentativo di sistematizzazione di un’analisi sociologica
dello spazio, per il quale il concetto di “luogo” è definito da tre elementi fondamentali:
collocazione spaziale, forma materiale, dotazione di significato, essendo ogni luogo un
“punto unico nell’universo”, caratterizzato da una dimensione fisica, da confini (per quanto
elastici) e da un nome che ne descrive l’identificazione o la rappresentazione da parte degli
individui (Gieryn , pp. –; per una rapida introduzione storica all’analisi sociologica
dello spazio si veda Urry ). Alcune prime riflessioni sui processi di ri–significazione dei
luoghi a partire da questa prospettiva sono state presentate in Becchis e Genova . In
tale contributo è stata però adottata una definizione operativa più ristretta, che intendeva
il “luogo” come “una porzione di spazio sociale dotata di funzioni (e norme) che orga-
nizzano l’interazione al suo interno e di elementi simbolici che forniscono agli individui
la chiave interpretativa per sintonizzarsi reciprocamente su tali norme” (ibidem, p. ).
All’assegnazione delle funzioni corrispondeva quella di una identità e di un nome per il
luogo. L’adozione qui di una definizione più inclusiva è orientata a proporre l’applicabilità
del modello analitico ad un quadro più esteso di situazioni empiriche. Desidero ringraziare
Andrea Semprini per i preziosi suggerimenti di letture su questi temi.
. All’interno di questo articolo si userà il concetto di “significazione” per indicare
l’attribuzione di un significato a un referente da parte di un attore, laddove altri autori
utilizzano la formula “attribuzione di senso”, mentre utilizzano il concetto di “significa-
zione” per fare riferimento alla relazione tra elementi di tipo sensoriale (espressioni) ed
elementi di ordine intellettuale (contenuti). In questa specifica accezione si parlerà quindi
di “ri–significazione dei luoghi”, anziché, come fanno altri autori, di “ri–semantizzazione”
(Marrone , pp. XI–XV e –). Il concetto di “semantizzazione” richiamerebbe
peraltro più in particolare il processo semiotico attraverso il quale una determinata porzio-
ne del reale viene articolata internamente e correlata con un’altra articolazione, e quindi
Il cerchio nello spazio 

Punto di partenza potrebbe essere l’osservare come attualmente


la maggior parte dello spazio in cui un individuo nasce e agisce sia
di fatto già socialmente organizzato (Agustoni , cap. ; La Cecla
, p. ). Più in particolare, nel proprio agire quotidiano questo in-
dividuo si muove all’interno di uno spazio perlopiù pensato e vissuto
come composto da una molteplicità di luoghi discreti, seppure dotati
di margini fluidi e permeabili, e seppur immersi in uno “sfondo” di
spazio meno definito. Casa, scuola, centro commerciale, ma anche
cucina, salotto, cortile, aula, campo da tennis, così come strada, piazza,
giardino, stazione sono tutte entità di natura e dimensioni spaziali
differenti e che tuttavia rientrano in ciò che qui identifichiamo come
“luoghi”. In alcuni casi sono entità separate da confini netti, o addi-
rittura da barriere, fisiche o sociali (come nel caso di un edificio con
la porta chiusa, o di un cortile privato senza cancello). In altri casi i
confini sono invece meno definiti, quasi assenti (un prato in campagna,
un tratto di mare, un quartiere cittadino). Ma al di là di tali differenze,
nel complesso lo spazio in cui l’individuo svolge la propria esistenza
è ai suoi occhi perlopiù costituito da un insieme di porzioni distinte
dotate di significato (spesso identificabile nel nome che egli assegna a
ciascuna di esse).
La connessione tra una specifica porzione di spazio e un particolare
significato non è ovviamente un’operazione dipendente da qualche
elemento intrinseco al luogo stesso, bensì (come avviene per ogni
altro oggetto culturale, cioè oggetto dotato di significato) dipende da
un atto di attribuzione operato da un individuo (Griswold , pp.
–). Una volta che tale significato è stato assegnato, e soprattutto nel
momento in cui esso viene riconosciuto e condiviso da una collettività,
ecco che l’esistenza di quel significato influenzerà però l’agire degli
individui, in particolare attraverso le norme che verranno fatte discen-
dere da tale attribuzione: “in nessuna società [infatti] l’uso dello spazio
è lasciato alla immediatezza e alla spontaneità istintuale; al contrario,
esso è sempre socialmente regolamentato e culturalmente definito”
(Signorelli , p. ). Di conseguenza, nel riconoscimento del signifi-
cato collettivamente assegnato a un luogo vi è da parte dell’individuo

non sarebbe forse pienamente adatto per i processi qui considerati. Colgo l’occasione per
ringraziare Massimo Leone per avermi segnalato la complessità della questione proprio su
questo piano terminologico.
 Carlo Genova

anche un’identificazione delle conseguenti norme di comportamento,


relative a “che cosa” in quel luogo si può/deve fare/non fare.
La stessa possibilità per un individuo di interagire con altri dipende
anzi proprio dalla sua capacità di riconoscere i significati che questi
assegnano alle singole porzioni di spazio, perché proprio da tale rico-
noscimento deriverà l’adozione di norme condivise, o comunque la
capacità di interpretare le azioni altrui alla luce di tali norme. L’assunto
è che “il rapporto uomo–spazio coincida [non solo] con il rapporto fra
gli uomini nello spazio”, o degli uomini con gli oggetti fisici presenti in
questo spazio, ma anche “con la coscienza culturale di questo rappor-
to” (Signorelli , p. ). E questo perché l’uso umano dello spazio
è sempre al tempo stesso “strumentale ed espressivo, funzionale e
simbolico, cognitivo ed emotivo” (Signorelli , pp. ).
Ma se il nesso tra luogo e significato dipende da un atto di at-
tribuzione, ecco che a una medesima porzione di spazio potranno
essere assegnati significati diversi in momenti diversi e da attori diversi,
ed è proprio in questa situazione che si svilupperà un processo di
ri–significazione del luogo. Una ri–significazione che, riguardando
anche le norme che regolano il comportamento all’interno di quel
luogo, andrà a incidere su quello che Gans definisce “l’uso” del luogo,
l’aspetto fondamentale per ogni analisi sociale dello spazio, che iden-
tifica il modo in cui gli individui organizzano il proprio vivere nello
spazio, cosa “fanno allo” spazio e “con” lo spazio (Gans , p. ).
Ma come si sviluppa questa ri–significazione? Le pagine che se-
guono saranno dedicate all’analisi di questo processo, con esplicito
riferimento a specifici casi empirici . Osserviamo un gruppo di ado-
lescenti con skateboard e pattini in linea che si esercitano nelle loro
evoluzioni sulle scalinate e le strutture architettoniche di un ampio
monumento in centro città. Già da questa descrizione emergono con
evidenza i due versanti: una porzione di spazio definita dall’osservato-
re “monumento” viene utilizzata da altri individui come terreno per
un’attività sportiva. Il significato di quel luogo (“cos’è”?) e le regole
conseguenti (“cosa si può/deve fare/non fare”?) sono diversi nei due
punti di vista. In gioco è quello che Thomas ha definito la “definizione

. Gli esempi utilizzati nelle pagine che seguono provengono tutti da risultati di ricerca,
presentati in modo più esteso in: Berzano, Gallini, e Genova ; Cepernich, Genova, e
Massaro ; Becchis e Genova ; Genova .
Il cerchio nello spazio 

della situazione”. Nella sua prospettiva “preliminare a qualsiasi atto di


comportamento auto–determinato vi è sempre una fase di esame e
decisione che possiamo chiamare la definizione della situazione” (Tho-
mas , p. ; si veda anche Thomas, Swaine, e Thomas , cap.
XIII). Sulla base di tale definizione l’attore elaborerà la propria inter-
pretazione del contesto e dell’agire altrui, e quindi da essa saranno
fortemente influenzate le sue reazioni agli eventi.
Definire la situazione significa dunque avanzare un quadro di aspet-
tative nei confronti del comportamento altrui, e parallelamente ri-
spetto alle altrui reazioni nei confronti del proprio comportamento.
In riferimento all’analisi dello spazio questo significa che, una vol-
ta che l’attore abbia individuato il significato da attribuire a una sua
particolare porzione, questi adatterà il proprio comportamento alle
norme che considera caratterizzanti tale contesto . Ecco che allora
una volta “definito” un certo luogo come “monumento” ci si aspetterà
che questo venga tenuto pulito dall’amministrazione pubblica, che
non venga calpestato o comunque esposto ad azioni considerate non
rispettose, e che la sua funzione si risolva in qualche modo nell’esse-
re testimonianza. Ma se lo si definisce invece “parco da skateboard”
ecco che lo si utilizzerà per allenarsi, si riterrà legittimo percorrerlo
con pattini e tavola, e ci si aspetterà magari che chi vuole sedersi o
camminare lo faccia altrove.
Se si ipotizzasse però che l’individuo debba in ogni momento defi-
nire ex novo ogni luogo e ogni situazione che attraversa, questo signifi-
cherebbe adottare il modello di un attore costantemente immerso in
un processo riflessivo analitico privo di qualsiasi forma di cumulazione
cognitiva, il che sarebbe contraddittorio con l’agire fluente che carat-
terizza comunemente il vivere quotidiano. Secondo quanto propone
Schutz, invece, gli strumenti per la “definizione della situazione” e per
agire all’interno di tale situazione sono perlopiù forniti all’individuo
da un quadro di “conoscenze socialmente derivate” e “socialmente
approvate”, che si manifestano sotto forma di “tipificazioni” (Schutz

. Il processo di adattamento non si riferisce soltanto all’adozione di comportamenti


che seguono tali norme, ma anche ad azioni che le violano, purché tale violazione tenga
conto della loro presenza. Ciò non significa ovviamente che all’interno di questo stesso
contesto non possano svilupparsi azioni indipendenti da tale presenza, ma in questo caso
non si potrà parlare di una definizione della situazione da parte dell’attore, se non in senso
lato in quanto situazione in cui viene supposta una sostanziale assenza di norme.
 Carlo Genova

, pp. –) , ovvero di modelli generali progressivamente elabo-


rati ai quali ricondurre i nuovi elementi incontrati. L’esperienza fatta
dall’individuo di uno specifico luogo, di una specifica situazione, si
configura così come riconduzione di tale luogo/situazione all’interno
di categorie più ampie sviluppate precedentemente, attraverso la pro-
pria esperienza diretta oppure attraverso l’assunzione delle esperienze
altrui nei processi di socializzazione. In ogni processo di riconduzio-
ne naturalmente ciascun elemento può confermare l’anticipazione,
ampliando il contenuto del tipo, oppure negarla, dando origine a un
nuovo processo di tipificazione .
Torniamo allora all’esempio del gruppo di giovani skaters di cui
abbiamo parlato precedentemente. Un passante che vive altrove vede
per la prima volta questo gruppo di giovani volteggiare tra scalinate
e piedistalli di marmo, provando un misto di stupore e riprovazione.
Perché? Perché evidentemente ai suoi occhi quel luogo rientra nel ti-
po “monumento”, ovvero costituisce un esemplare di quella categoria
di oggetti in cui egli colloca fontane, statue equestri e altri prodotti ar-
chitettonico–scultorei che esprimono la testimonianza fisica di eventi
e figure del passato e che ci si aspetta siano celebrate, osservate, con
riguardo o con distrazione, ma non utilizzate come terreno di gioco.
D’altra parte anche agli occhi di quei giovani il luogo può apparire
come elemento tipico, nel loro caso però riferito alla categoria “spot”,
ovvero terreno di allenamento. Entrambi gli attori sviluppano la pro-
pria valutazione a partire dall’abitudine ad interpretare e utilizzare
un particolare “tipo” di luogo secondo specifiche modalità e dall’aver
ricondotto quel luogo specifico in cui si trovano a quel particolare
tipo.
Riprendendo il concetto di tipificazione, Berger e Luckmann (,
cap. ) sottolineano così come attraverso tali processi la “realtà della
vita quotidiana” venga normalmente “data per scontata”: gli schemi di
tipificazione indicano dei modelli di interpretazione e di azione che
permettono l’agire reciproco e che si concretizzano in routines. Ma
anche questa realtà del vivere quotidiano, spesso data per scontata, è
definita solo fino all’emergere di un’interruzione della routine che la

. Sul tema si veda anche Schutz , pp. –; Id. , pp. –, –, –; Id.
, pp. –, –, –, –.
. Schutz , pp. –, .
Il cerchio nello spazio 

renda problematica. Per meglio affrontare tale questione può essere


allora utile fare riferimento al concetto di frame, elaborato da Goff-
man . Riprendendo proprio Thomas e Schutz, Goffman sottolinea
come in ogni momento della propria vita ciascun individuo proietti
una propria definizione della situazione sugli eventi nei quali si trova
immerso. Generalmente le definizioni proiettate sono abbastanza in
armonia con quelle altrui e non mostrano un’aperta contraddizione.
Tale armonia non si sviluppa però autonomamente, bensì dal fatto
che ciascun individuo tende ad offrire una definizione che egli con-
sidera “almeno momentaneamente accettabile dagli altri” (Goffman
, p. ). Di conseguenza essa non è neppure destinata a rimanere
costantemente presente.
Se si presume che quando gli individui si trovano in qualsiasi si-
tuazione affrontano la domanda “Che cosa sta succedendo qui”?, la
risposta a tale domanda è quindi anzitutto rilevabile proprio nelle azio-
ni degli individui. Diversi individui forniranno però risposte diverse,
sulla base dei propri interessi, dei propri centri di attenzione, delle
proprie motivazioni (Goffman , p. ). Se le diverse definizioni di
una situazione sono costruite in accordo con i principi di organizza-
zione che governano gli eventi sociali e il coinvolgimento soggettivo
al loro interno, il concetto di frame richiama l’insieme di tali elementi
(Goffman , p. ).
Ecco che allora, rispetto ai processi di ri–significazione dei luoghi,

. In questa elaborazione Goffman si rifà a Cone e a Bateson. Cone, musicologo,


aveva introdotto il concetto di frame sottolineando come se per un verso il bordo del
quadro demarca la porzione di un soggetto scelta per la rappresentazione, per altro verso la
“cornice” (frame) del quadro è l’intensificazione proprio di tale bordo. In questo senso il
frame opera in due direzioni, segnando i limiti non solo del quadro ma anche del mondo
reale attorno al quadro. Lo stesso si verifica con il sipario del teatro. In entrambi i casi da
un lato si separa il soggetto dal suo “contesto circostante immaginato” (ambiente interno),
dall’altro si protegge il lavoro dall’intromissione del suo ambiente esterno, ovvero dello
spazio e del tempo reali in cui vivono gli spettatori. La cornice “annuncia” il passaggio da un
contesto all’altro (Cone , pp. –). Bateson da parte sua aveva utilizzato il concetto di
“incorniciamento” (framing) per indicare quei processi psicologici che da un lato orientano
l’attenzione su alcuni elementi mentre al tempo stesso la distolgono da altri (definendo
quindi una differenza di significatività, di rilevanza) e che dall’altro lato definiscono la
prospettiva interpretativa da adottare nei confronti degli elementi significativi, indicandoli
al tempo stesso come reciprocamente simili. L’incorniciamento in questa prospettiva è
quindi un messaggio meta–comunicativo, che fornisce istruzioni per la comprensione dei
messaggi contenuti, e parallelamente definisce l’insieme dei messaggi su cui comunica
(Bateson , pp. –).
 Carlo Genova

quando si osservano in un centro commerciale gruppi di adolescenti


(ma anche adulti e anziani) che utilizzano gallerie, panchine e dehors
come punti di incontro e di aggregazione, o come contesti per passare
un pomeriggio estivo al fresco, mentre un’altra parte di individui li
vive come spazi di attraversamento verso i punti vendita, siamo evi-
dentemente di fronte all’adozione di frames interpretativi differenti
rispetto a quel luogo e quindi alle relative norme, sebbene in questo
caso i diversi frames siano tra loro in larga parte compatibili. L’aspetto
più rilevante da questo punto di vista è che quando l’individuo ricono-
sce un particolare frame adottato da altri spesso organizza le proprie
azioni in modo conseguente (sebbene ciò non implichi sempre un
conseguente allineamento).
La situazione appena descritta non è peraltro così eccezionale. “Nel-
la maggior parte delle situazioni”, sottolinea Goffman “succedono
simultaneamente molte cose diverse” (Goffman , p. ). Di fronte
a una sequenza di attività incorniciata in un frame e che fornisce un
centro di attenzione principale, nello stesso luogo si svilupperanno
infatti contemporaneamente anche altre linee di azione, che fanno
riferimento magari ad altri frames, e che verranno trattate “come qual-
cosa a parte”. Ciascun individuo coinvolto in una attività è in grado
di ignorare altri eventi identificati come esterni alla propria linea di
azione, ma ciò non toglie la sua capacità di cogliere comunque simul-
taneamente anche tali eventi. L’adozione di una linea di azione, di
un frame principale, non impedisce quindi che nel tempo tale linea
venga abbandonata per un’altra, con una conseguente adozione di un
diverso frame (Goffman , pp. –). E se cambiano le cornici,
cambiano anche il senso, le valutazioni e quindi le reazioni (Perrotta
, pp. –).
Nel caso delle ri–significazioni dei luoghi si può così osservare
come in molti casi gli individui siano consapevoli delle diverse linee
di azione che si stanno sviluppando entro la medesima porzione di
spazio, e spesso agiscano di conseguenza. Il senza fissa dimora che
“incornicia” una porzione di stazione ferroviaria come “luogo in cui
poter dormire” è consapevole che per altri quello è il corridoio della
biglietteria, tanto che porrà attenzione a scegliere una posizione in
cui i due flussi di azioni (il proprio e quello altrui) non si ostacolino
reciprocamente. Il gruppo di giovani nel centro commerciale sa bene
che molte altre persone sono lì per fare acquisti, e che quindi il proprio
Il cerchio nello spazio 

e l’altrui agire in quel medesimo luogo risponderanno a norme e


principi almeno in parte divergenti.
Ma come è possibile allora distinguere i “confini” della situazione,
sia nel suo essere spazialmente collocata, sia nel suo inserirsi all’inter-
no di una sequenza temporale di eventi? Come è possibile identificare
lo specifico quadro normativo in azione in un particolare luogo? L’atti-
vità incorniciata secondo Goffman è spesso distinta, temporalmente e
spazialmente, dagli eventi circostanti da un “insieme speciale di mar-
catori di confine o parentesi” (Goffman , p. ). Come sottolinea
Perrotta, se il concetto di definizione implica l’idea di porre confini,
alla base dei processi di definizione della situazione o del frame vi
sono operazioni di raggruppamento e distinzione, ovvero di catego-
rizzazione. Le linee di divisione, così come i tratti sulla base dei quali
si definiscono le aggregazioni, sono però sempre arbitrari, e quindi
possono essere messi in discussione. Quando si vuole richiamare il le-
game tra un elemento e una particolare isola di significato si può allora
ricorrere a quelli che MacCannell (, pp. –) chiama “markers”,
evidenziatori capaci di orientare l’attenzione su elementi specifici ai
quali verrà riconosciuta maggiore rilevanza. Nell’interpretare ciò che
è così individuato vi è poi appunto una operazione di “framing”, attra-
verso la quale si delimitano e si enfatizzano i confini dell’oggetto e al
tempo stesso lo si interpreta in una particolare prospettiva.
Nel caso qui in esame, quando l’attore entra in un luogo non arriva
a una definizione del frame sulla base di un’analisi organica di ogni
elemento (umano e materiale) presente al suo interno. Va invece
alla ricerca di “indicatori” che gli suggeriscano sinteticamente quale
frame adottare . Ma allora ecco che nel momento in cui si sviluppa
una ri–significazione di un luogo vi saranno markers che rimandano a
diverse definizioni di tale luogo. In alcuni casi definizioni compresenti,
in altri casi definizioni che si collocano in momenti temporali distinti.
L’ex–asilo trasformato in centro sociale occupato o l’ex–fabbrica tra-
sformata in locale per il rave portano su di sé le tracce dei differenti
usi conosciuti nel tempo, e a seconda di quanta rilevanza verrà data
dall’osservatore alle singole tracce questi sarà portato a cogliere e

. Lo stesso Goffman, diversi anni prima dell’elaborazione dei teoria dei frames, aveva
peraltro proposto espliciti spunti di analisi dello spazio sociale proprio facendo riferimento
a questo utilizzo degli elementi indicatori (Goffman , pp. –).
 Carlo Genova

adottare l’uno o l’altro frame. E il processo sarà ancora più accentuato


nel momento in cui diverse linee di azione sono compresenti, come
nel caso dell’utilizzo del centro commerciale quale contesto di ag-
gregazione, o del monumento come architettura di pratica sportiva.
In un processo all’interno del quale tanto le architetture, quanto gli
oggetti, quanto gli stessi individui “in azione” possono costituire dei
markers:
Per comprendere e definire ciò che ci circonda selezioniamo e organizzia-
mo gli stimoli da cui siamo colpiti. Attribuiamo alle situazioni etichette
che conferiscono significato a quanto accade. [. . . ] [E] definite le diverse
situazioni in cui ci si trova, si progettano poi linee d’azione che sembrino
adatte alle circostanze.
(Perrotta , p. )

Come sottolinea Blumer “variazioni d’interpretazione possono


[quindi] facilmente manifestarsi quando, in una data situazione, unità
agenti diverse individuano oggetti diversi, o danno un peso differente
agli oggetti che notano, o raggruppano tali oggetti secondo schemi di-
versi” (Blumer , p. ). Naturalmente tale processo di definizione
non è puramente individuale, poiché (come già sottolineava Schutz)
se il rapporto dell’individuo con gli oggetti, i luoghi, le situazioni
di cui ha esperienza è guidato dai significati che egli vi ricollega, tali
significati sono appresi sempre nell’interazione con altri (Blumer ,
p. ). E tuttavia è poi il singolo individuo che, sulla base del frame
individuato/adottato, svilupperà una concreta linea di azione.
Ma se gli individui elaborano immagini diverse degli stessi elemen-
ti valorizzandone aspetti differenti, associandoli a referenti differenti o
guardandoli da prospettive differenti, cosa succede quando emergono
definizioni contrastanti? In alcuni casi sarà possibile una situazione
pluralistica di compresenza tra definizioni differenti (Berger e Luck-
mann , pp. –). E così ad esempio il centro commerciale potrà
in molti casi ospitare congiuntamente chi lo vive come luogo per gli
acquisiti e chi invece lo vive come luogo di aggregazione. Ma nella
maggior parte dei casi, come tutti gli altri esempi proposti mostrano,
la convivenza tra i portatori dei diversi frames è più difficile o addirittu-
ra impossibile. Con il conseguente emergere di quelle che lo stesso
Goffman definisce come “dispute”, in cui ipotesi divergenti cercano
di ottenere riconoscimento. Di fronte al presentarsi di definizioni con-
Il cerchio nello spazio 

trastanti, inizialmente tende quindi a svilupparsi una contrattazione


attraverso la quale arrivare a significati condivisi, una “negoziazione”
(Strauss et al. , pp. –). Ma se la negoziazione non ha successo
possono svilupparsi vere e proprie forme di conflitto, all’interno delle
quali avranno maggiori possibilità di affermarsi le definizioni dotate
di maggiore potere.
Ecco che allora, nei diversi casi considerati, tra “occupanti” del-
l’ex–asilo e amministrazione pubblica, tra skaters e turisti, tra viaggia-
tori in stazione e clochard, l’adozione di differenti frames interpretativi
dei luoghi condivisi potrà dare origine a un confronto, più o meno
esplicito, più o meno “acceso”, più o meno risolutivo, in merito a
quali siano l’utilizzo legittimo e le regole di comportamento inerenti
al particolare luogo in cui ci si trova.
Le diverse istanze in molti casi non avranno però appunto le mede-
sime possibilità di successo. Come sottolineano Berger e Luckmann,
infatti, siccome tutta l’attività umana è soggetta alla consuetudinarie-
tà, ogni azione ripetuta frequentemente si cristallizza in uno schema
fisso attraverso un processo di “abitualizzazione” e di “istituziona-
lizzazione”. L’abitualizzazione permette di ricondurre una varietà di
situazioni simili all’interno di un quadro di definizioni precedente-
mente già sviluppate. L’istituzionalizzazione si sviluppa come “una
tipificazione reciproca di azioni consuetudinarie da parte di gruppi
di esecutori” (Berger e Luckmann , p. ) che assume validità
normativa. Inoltre ci sarà sempre una base socio–strutturale per la
competizione tra definizioni rivali delle realtà, e l’esito di tale compe-
tizione sarà influenzato non solo dai contenuti teorici ma anche dai
concreti rapporti di forza.
Nelle diverse situazioni considerate, skaters, “occupanti” e clochard
avranno quindi più difficoltà a sostenere la propria definizione, perché
i processi di abitualizzazione e istituzionalizzazione sociale (oltre che
quelli legislativi) forniscono maggiore potere a definizioni diverse
dalle loro, rispetto alle quali tendono appunto a emergere condizioni
di mutua esclusività.
Allo stesso modo “è perfettamente possibile per gli individui [. . . ]
essere in dubbio su che cos’è che [in una data situazione] sta succeden-
do”. E l’ambiguità sulla definizione della situazione ha come propria
controparte l’errore nell’identificazione del frame, con la conseguente
“generazione di un comportamento erroneamente orientato” (Goff-
 Carlo Genova

man , pp. –) . Ecco che allora rispetto alla definizione di un
luogo, e in particolare proprio nelle situazioni di ri–significazione,
si può parlare di “allineamento del frame” di fronte all’emergere di
uno “schema interpretativo” condiviso, di dis–allineamento dei fra-
mes quando si confrontano definizioni divergenti, ma anche di vere
e proprie situazioni di conflitto tra i frames, come nelle situazioni
appena considerate (Snow, Rochford, Worden, e Benford , p. ;
Snow e Benford ). E come sottolineava già Thomas, “molto spes-
so è [proprio] l’ampia discrepanza tra come la situazione appare agli
altri e come la situazione appare all’individuo a sviluppare esplicite
difficoltà di comportamento” (Thomas, Swaine e Thomas , è.
) . Proprio nel caso della ri–significazione dei luoghi la distanza
tra le diverse rappresentazioni della situazione individuali può così
comportare importanti difficoltà di interpretazione: il viaggiatore può
non identificare il cartone a terra come letto del senza fissa dimora, e
quindi calpestarlo; il passante può non accettare la definizione della
panchina come trick dello skaters, e quindi sedervisi proprio mentre
quello sta per saltarla.
Posto di fronte alla ri–significazione di un luogo, espressa anche
dall’affermazione di un nuovo frame interpretativo, ecco che allora
ciascun attore, individuale o collettivo, in primo luogo può essere più
o meno in grado di identificare correttamente tale frame , a parti-
re dai markers presenti, e in secondo luogo può essere più o meno

. Le attività che sono basate su una piccola quantità di informazione sono in tal senso
particolarmente vulnerabili al framing sviato (Goffman , p. ).
. Secondo questo approccio si può parlare di “definizione della situazione” sia in
senso individuale che in senso collettivo, quale elemento culturale condiviso (Thomas ,
pp.  e ). Il riferimento a una definizione individuale della situazione non deve tuttavia
far pensare a un attore sul quale il contesto non esercita influenza: Thomas stesso sottolinea
anzi come sia sempre necessario tenere conto del “punto di vita situazionale”, definito dal
quadro di relazioni sociali in cui l’individuo è coinvolto e più in generale dall’insieme dei
fattori che ne “condizionano” il comportamento (Thomas , P. ).
. Da questo punto di vista il concetto di “non–luogo” proposto da Augè () se
presenta importanti limiti laddove utilizzato per riferirsi a caratteristiche strutturali di una
porzione di spazio, può essere invece utilmente adottato per indicare una situazione in
cui l’attore non riesce a identificare il frame interpretativo all’interno del quale inserire
una specifica porzione di spazio, per la quale quindi non trova quel significato che gli
permetterebbe di identificarla come “luogo”. Una proposta presentata in modo più esteso
in Genova ().
Il cerchio nello spazio 

disponibile ad accettare tale frame, e quindi a fornirgli legittimità .


Nei casi maggiormente dialettici da parte dei diversi attori potrà al-
lora esserci il tentativo di rafforzare i markers che esprimono il frame
che essi vogliono affermare e indebolire gli altri. Ma proprio in un
luogo ri–significato sono sempre presenti markers di frames differenti,
poiché ogni uso del luogo lascia le proprie tracce, e quindi proprio
qui saranno maggiormente visibili tali processi di rafforzamento. Gli
occupanti del centro sociale appenderanno così bandiere e striscioni
fuori dall’edificio, e organizzeranno frequentemente eventi pubblici
al suo interno; gli skaters tenderanno a utilizzare sempre lo stesso
luogo per le proprie evoluzioni, e delimiteranno ogni volta il terreno
creando una sorta di perimetro esterno con zaini e vestiti; i clochard
lasceranno le proprie suppellettili nel punto in cui sono abituati a dor-
mire anche quando sono altrove. Parallelamente potrà succedere che
si cerchi di eliminare le tracce degli altri frames: l’ex–chiesa diventata
centro sociale occupato verrà così non solo parzialmente ricostruita
ma anche ridipinta, “mimetizzata” nei colori e nelle forme. Le stesse
trasformazioni architettoniche, laddove presenti, non risponderanno
quindi soltanto a esigenze funzionali ma anche a espliciti obbiettivi
espressivi.
Solo quando l’affermazione del nuovo frame non è esposta alla
sfida i markers del passato rimangono visibili, almeno parzialmente, o
addirittura in alcuni casi vengono valorizzati, proprio a sottolineare al
tempo stesso la continuità ma anche la trasformazione del luogo . In
ogni caso anche su tali trasformazioni, indipendentemente dalla loro
natura e dalle prospettive che vi sono poste alla base, non incidono
soltanto le sensibilità degli attori, ma anche le caratteristiche materiali
e espressive di ciascun luogo. Sebbene la ri–significazione di un luogo

. In una vera e propria dialettica tra identificazione, riconoscimento e


disconoscimento.
. Un interessante esempio di tale dinamica si può osservare nella creazione in anni
recenti di parchi su ex–aree industriali in numerose metropoli europee e statunitensi. In
molti casi parte delle ex–strutture industriali vengono mantenute come elementi architetto-
nici, non solo o non tanto per esigenze funzionali quanto per “marcare” la trasformazione
avvenuta, il passaggio da passato a presente. Il processo dovrebbe essere però approfondito
inserendo nel discorso il versante della progettazione, il che però andrebbe oltre i confini
di questo contributo. Un fondamentale punto di partenza in tal senso, per la prospettiva
qui adottata, restano comunque le riflessioni di De Certeau () su il “camminare per la
città”, “lo spazio come racconto” e i “luoghi stratificati”.
 Carlo Genova

possa essere temporanea (come nel caso del monumento per gli
skaters) o stabile (come nel caso del centro sociale occupato), esclusiva
(come nel caso della fabbrica nei rave) o non esclusiva (come nel
caso della stazione per i clochard), in ogni situazione gli oggetti, le
decorazioni, la presenza fisica “segnano” il territorio, e “affermano”
un frame . Un frame tuttavia sempre esposto alla sfida e alla messa in
discussione, mai definitivo, a partire dal quale potrà dunque sempre
svilupparsi un nuovo processo di ri–significazione, in una continua
intersezione di circolarità.
Definizioni della situazione, tipificazioni, routines, frames, markers,
variazioni, dispute: questi dunque i principali elementi all’opera nei
quotidiani processi di ri–significazione dei luoghi che qui si è cercato di
mettere a fuoco. Lo spazio socialmente organizzato in cui operano gli
individui è infatti, come si è visto, perlopiù costituito ai loro occhi da una
molteplicità di porzioni discrete, con confini più o meno netti, dotate di
significato. E quel significato, una volta riconosciuto, che contrasti o me-
no con quello assegnato da altri, influenzerà l’agire dell’individuo perché
su di esso egli si baserà per ipotizzare le norme sociali vigenti nel luogo.
Ma ogni luogo può essere in tal senso portatore, simultaneamente o in
diversi momenti, di significati differenti, e quindi potranno svilupparsi
al suo interno forme differenti di azione, ciascuna delle quali sarà al
tempo stesso effetto e fattore d’influenza sull’organizzazione sociale di
quel luogo; in un circolo senza soluzione di azioni che definiscono le
norme (struttura) e di norme (struttura) che influenzano le azioni in
cui non sembra possibile individuare un elemento di priorità assoluta:
esempio efficace di un vero e proprio costruttivismo strutturalista o
strutturalismo costruttivista dal sapore bourdieusiano.
Definire la situazione, da un punto di vista ecologico, significa per
l’attore anzitutto riconoscere le norme sociali in essa vigenti, e quindi
adattarsi a esse o contrastarle, a partire da un processo che tende in pri-
ma istanza a ricondurre la situazione attuale ad altre già attraversate. E
in questo senso i processi di tipificazione, le routines, i meccanismi d’i-
stituzionalizzazione assolvono in parte l’individuo dal dover ogni volta
compiere scelte esplicite e complesse rispetto a tale riconoscimento.
Ma quell’assolvimento non deve cancellare nell’osservatore la consa-

. Sulle quattro diverse modalità di ri–significazione cfr Becchis e Genova , pp.
–.
Il cerchio nello spazio 

pevolezza di tali processi, e proprio nelle situazioni di ri–significazione


essa viene richiamata con forza, anche per lo stesso attore. Perché dove
definizioni, usi e regole di un medesimo luogo mutano nel tempo, o
a seconda dei suoi diversi “ospiti”, ecco che la percezione della loro
non–ovvietà diventa più intensa, e con essa quella delle dinamiche
di potere sottostanti a tali dimensioni. Dinamiche di potere rispetto
alle quali la definizione del significato di in luogo può rappresentare a
seconda dei casi l’effettiva posta in gioco o essere invece soprattutto
traccia di processi più ampi. Ed è anche per questo motivo che l’asse
dialettico che mette in relazione i diversi significati si rivela essere
sempre intersecato con l’asse dialettico che mette in relazione invece i
diversi attori coinvolti, sia che le dialettiche semantiche si configurino
in senso sincronico, sia che abbiano invece natura diacronica .
La proposta interpretativa che qui si avanza fa dunque riferimento
a un modello in cui per l’analisi di ogni luogo ri–significato si richie-
de di prendere in considerazione congiuntamente cinque differenti
dimensioni: conformazione materiale–architettonica; tratti estetici;
contesto spaziale circostante; processi di significazione; modalità di
utilizzo. E si richiede di considerare ciascuna di esse sia nel presen-
te che nel passato, ed in riferimento ai diversi attori coinvolti. Solo
l’insieme di questi dati di osservazione si ritiene infatti possa forni-
re gli elementi necessari per sviluppare una ricostruzione efficace
del processo di ri–significazione sviluppatosi in quel luogo e una sua
consapevole interpretazione, a partire appunto congiuntamente dagli
elementi strutturali (fisici e sociali) che descrivono il contesto e dagli
elementi interpretativi caratterizzanti invece l’agire degli individui al
suo interno.

Riferimenti bibliografici

A S. () Sociologia dei luoghi ed esperienza urbana, Franco Angeli,


Milano.
A M. () Nonluoghi, Eleuthera, Milano.

. Su questo secondo versante si apre evidentemente tutta la complessa questione


della memoria, fondamentale per un’analisi socio–culturale della dimensione spaziale che
tenga conto al tempo stesso anche della dimensione temporale.
 Carlo Genova

B G. () “Una teoria del gioco e della fantasia”, in Verso un’ecologia
della mente, Adelphi, Milano, –.
B G. e C. G () “Cornici come lenti. Lo spazio cittadino
tra processi e dialettiche di ri–significazione dei luoghi”, in Proglio G.
(a cura di) () Le città (in)visibili, Antares, Castagnito (Cuneo), pp.
–.
B P.L. e T. L () La realtà come costruzione sociale, Il
Mulino, Bologna.
B L., R. G e C. G () Liberi Tutti. Centri sociali e case
occupate a Torino, Ananke, Torino.
B H. () Symbolic Interactionism. Perspective and Method, University
of California Press, Berkeley.
B P.W. () La logica della fisica moderna, Bollati Boringhieri, To-
rino.
C C., C. G e A. M () L’ultimo rave. Le feste del
nuovo millennio tra analisi di costume e leggenda metropolitana, Ananke,
Torino.
C E.T. () Musical Form and Musical Performance, Norton & C., New
York.
D C M. () L’invenzione del quotidiano, Edizioni del Lavoro, Ro-
ma.
G H.J. () The Sociology of Space. A Use–Centered View, in “City &
Community”, vol. , n. : –.
G C. () “La fruizione giovanile dei centri commerciali. Speri-
mentazione e immaginari di lifestyles”, in C. Loschi (a cura di) () Le
città (in)visibili. Nuove mete e percorsi, Antares, Castagnito (Cuneo), –.
G T.F. () A Space for Place in Sociology, in “Annual Review of Socio-
logy”, n. : –.
G E. () Frame Analysis. L’organizzazione dell’esperienza, Arman-
do, Roma.
———. () La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna.
G W. () Sociologia della cultura, Il Mulino, Bologna.
L C F. () Mente locale. Per un’antropologia dell’abitare, Eleuthera,
Milano.
Il cerchio nello spazio 

MC D. () The Tourist. A New Theory of the Leisure Class, Schoc-
ken Books, New York.
M G. () Corpi sociali. Processi comunicativi e semiotica del testo,
Einaudi, Torino.
P R. () Cornici, specchi, maschere. Interazionismo simbolico e co-
municazione, Clueb, Bologna.
S A. () Saggi sociologici, Utet, Torino.
———. () Collected Papers I. The Problem of Social Reality, Martinus Nij-
hoff, L’Aia.
———. () Collected papers II. Studies in Social Theory, Martinus Nijhoff,
L’Aia.
———. () Collected papers III. Studies in Phenomenological Philosophy, Mar-
tinus Nijhoff, L’Aia.
S A. () Antropologia urbana. Introduzione alla ricerca in Italia,
Guerini, Milano.
S D.A., E.B. R ., S.K. W e R.D. B () Fra-
me Alignment Processes, Micromobilization, and Movement Participation, in
“American Sociological Review”, vol. , n. : –.
S D.A. e R.D. B () Ideology, Frame Resonance and Partici-
pant Mobilization, in “International Social Movements Research”, vol.
: –.
S A., L. S, D. E, R. B e M. S ()
“The Hospital and its Negotiated Order”, in E. Freidson E. (a cura di)
() The Hospital in Modern Society, Free Press, New York, –.
T W.I. () The Unadjusted Girl. With Cases and Standpoint for Beha-
vior Analysis, Little, Brown & Co., Boston.
T W.I. e T.D. S () The Child in America. Behavior Problems
and Programs, Knopf, New York.
U J. () “The Sociology of Space and Place”, in J.R. Blau (a cura di)
() The Blackwell Companion to Sociology, Blackwell, Oxford, –.

Carlo Genova
Università di Torino
Lexia. Rivista di semiotica, 9–10
Ambiente, ambientamento, ambientazione
ISBN 978-88-548-4516-9
DOI 10.4399/97888548451693
pag. 211–232 (dicembre 2011)

Préstamos territoriales
en el hábitat del transeúnte ∗
É G–D

 : Territorial Loans in the Passerby’s Habitat

: Focusing on the experience of traveling through an urban space


and the meanings it generates, the article proposes an analysis of some
key symbolic elements of the urban dialect through which the inhabi-
tants of Bogotá conceive and communicate their urban experiences with
the physical dimension of the metropolis. The analysis allows one to
see how Bogotá, from its historical beginnings, has been imagined and
symbolized as a complex miscellany of famous cities of the Western
world, reflected in the multiplicity of its architectures as well as in the
naming of its neighborhoods. The article formulates the hypothesis that
this dynamic is sustained by the imperious desire of a more universal
and distributive habitat of coexistence, in a city still dominated by casts
and exclusion of the different ones.

: Map; tourism landscape; eutopia–metatopia–utopia; topophilia;


urban; imaginary.

. Apertura: del mapa a la experiencia de una ciudad excluyente

Si la experiencia de conocer un nuevo lugar implica activar estrategias


de significación como fundamento para la determinación del carácter
del espacio recorrido, entonces las preguntas de cómo el viajero co-
mienza a familiarizarse con los lugares urbanos que transita y a través
de qué mecanismos lingüísticos inmediatos usa para aportar sentido

Esta reflexión es parte del resultado de la investigación “Folclore contemporáneo y
miedos de comunicación: estudio sobre el disciplinamiento del terror urbano”, inscrito en
el Centro de Investigación en Hábitat, Desarrollo y Paz (CIHDEP) del Grupo Cultura y So-
ciedad, Universidad de la Salle, –, y auspiciado por la Viverrectoría de Investigación
y Transferencia (VRIT).


 Éder García–Dussán

y comunicar su paso por una ciudad, se convierten en una guía para


comprender cómo la extrañeza de lo nuevo termina siendo una práctica
apropiada. Pues bien, una forma general y frecuente para comenzar a
habituarse con una ciudad es acudir a su mapa. Sin embargo, la idea
de mapa como representación de un área geográfica, como registro
de lo permanente, contradice la fluidez de la vida urbana. Aún más,
muchos de los mapas reales que se usan para actuar en aquella realidad
sociocultural ya no coinciden y muchos signos ya carecen de referentes.
Esto desorienta al sujeto urbano hasta el punto de convertir, inclu-
so, al nativo en extranjero de su propia ciudad. Y es que, más allá de
los bordes de ese mapa con sus simbologías y leyendas, más allá de
ese estatismo euclidiano y geométricamente configurable, están las
etnicidades, los territorios, las pertenencias, los centros y las periferias
en desplazamiento que recorren ese cuerpo urbano. Esto es, la ciudad
como objeto concreto, reconocible y experimental, la cual se muestra
al usuario de forma plástica: un lugar de acontecimientos, movimien-
tos y remembranzas (Signorelli ). Así las cosas, con el mapa en
la mano, el viajero queda frente al paisaje percibido. Es posible que
mucho tiempo después regrese para descubrir que ya puede avanzar
una lectura diferente, subjetiva, experiencial. Así, por caso, se repre-
senta con frecuencia que quien habita o visita la ciudad de Bogotá, ve
en el croquis del mapa un perro cuyo tronco es la Avenida Caracas
que atraviesa la urbe de norte a sur. Pero hay más coincidencias: tiene
su cabeza al norte y la cola al sur (García–Dussán ).
Tal determinación obedece a cierto isomorfismo socio–cultural
que las estrategias discursivas o formas de enunciación usadas para
referirse a la ciudad bogotana señalan como una ciudad doble cuyas
áreas con–figurativas se sintetizan en la imagen de un solitario perro.
En efecto, adelante–cabeza y atrás–cola armoniza, ante todo, con la
realidad que clasifica, respectivamente, adinerados y desfavorecidos;
ciudad–pensante y ciudad–desecho, de manera similar a cómo se
representaban las ciudades medievales, sólo que bajo las coordenadas
arriba–abajo (Le Goff ), dando origen a una topo–lógica social
excluyente que termina tributando grados de civilización a los urbanitas
y a los colectivos, tal como lo hizo notar otrora .

. Esto opera de forma similar a como lo describe Taussig (). Así, por caso, los
conquistadores españoles calificaron los indios a partir de su similitud con ellos mismos. A
Préstamos territoriales en el hábitat del transeúnte 

Figura . Mapa de la ciudad de Bogotá.

Figura . Mapa de la ciudad de Bogotá.

partir de ese criterio, verbigracia, los grupos andinos con organización estatal, fueron defi-
nidos como bárbaros, pero parecidos a ellos gracias a sus formas de organización cultural
y económica; los grupos andinos que no tenían sociedades Estado fueron calificados de
bárbaros, desgraciados y pobres por no poseer oro. Asimismo, la selva amazónica (con sus
animales, y hostilidades medio–ambientales) era el averno, con lo cual sus moradores no
pasaron de ser unos caníbales salvajes. De allí surge ese imaginario de indio caníbal, cruel
y amoral, por estar desnudo y hacer el amor en la selva; contrapuesto al misionero español
que lo imaginaba como un cristiano primitivo.
 Éder García–Dussán

Esto es evidente en los recorridos actuales por Bogotá. La estruc-


tura física de la ciudad capital a comienzos del siglo XX se estableció
gracias a la polarización física y social, que significó la redistribución de
los espacios de trabajo y de domicilio e hizo posible la materialización
del modelo cultural reinante de la época, diferenciada en norteños y
sureños, cada uno con una “cultura” propia y antitética en relación con
el diferente. Efectivamente, desde la década de , la polarización
de la Bogotá física hacía notar las discrepancias entre el norte y el sur.
Según el profesor Zambrano Pantoja, ésta se origina en la construcción
social del espacio en la que actúan tanto la acción estatal como “la je-
rarquización que impulsa la sociedad mayor que domina en la ciudad”
(, p. ). Pero esto no es asunto reciente, pues tal jerarquización
comienza en el siglo XVIII cuando, tras el remate de los resguardos y
la eliminación de los campos comunes de los pueblos indígenas (co-
nocidos como los ejidos), las poblaciones cercanas de Bosa y Soacha
comenzaron a poblar el sur para el trabajo agrícola, mientras que el
norte, ávido de humedales, se fue usando a la cría de ganado y caballos.
Así, la espacialización periférica se fue caracterizando por juntar indios
al sur y vacas al norte. Esta construcción social de la fisicidad bogotana
fue incrementándose en el siglo XIX con la ayuda de la “ciudad letrada”
que, con sus afinadas plumas de estilo costumbrista, idealizaron las
haciendas norteñas, excluyendo de ellas a los indios, pues impurifica-
ban el panorama. A esto se suma el hecho de que el sur presentaba
muchos sitios de donde extraían arcillas para la fabricación de tejas y
ladrillos, lo que dio origen a la aparición de arrabales habitados por
trabajadores de la tierra, en contraste con el norte que ya dejaba ver
sus primeros parques y las primeras vías de comunicación modernas
hacia la localidad adinerada de Chapinero. Es por esto que Zambrano
escribe que unos de los factores que contribuyeron a la diferenciación
sur–norte fue, justamente, la aparición de Chapinero:

[. . . ] Este hecho es visto como una reacción al liberalismo radical gober-


nante, así como un abandono a la ciudad que estaba siendo invadida por
los indios que, por esos mismo años, migraban a la ciudad como resulta-
do de la disolución de los resguardos y la supresión de los ejidos. Se fue
consolidando, entonces, una especie de refugio de algunos miembros de
la élite bogotana que consideraban que Santafé, la Bogotá colonial, estaba
desapareciendo.
(Ibidem, p. )
Préstamos territoriales en el hábitat del transeúnte 

De esta manera, si bien es cierto que la ciudad se puede saber a


través de su mapa, sólo se conoce cuando se vive en ella. Es evidente
que los límites objetivos que demarca el croquis es aquella configura-
ción humana de un territorio cuyo conjunto está ligado por relaciones
de interdependencia, sino a la información que el ciudadano recibe
de su entorno, a aquella vivencia de sus escenarios, al entendimiento
experiencial de su panorama turístico, pues toda ciudad añade de forma
explícita la idea de desplazamiento, independientemente de si se es
nativo o foráneo.

. La visión del panorama turístico en Bogotá

El panorama urbano refiere a la no–sucesión y, al ser estable, sólo se


manifiesta en la movilidad viajera, lo cual exige la libertad turística, es
decir, ese acto del ir y venir ad–mirando; es así como lo–otro–natural
se visibiliza como objeto escópico que aparece gracias a la percep-
ción pluri–sensorial de un sistema de relaciones sociales y personales.
Un verdadero escándalo al pensamiento objetivo ya que la alteridad
(lo natural) atrae la atención del sujeto viajero, pero ella misma es
re–significada y sumergida gracias al trabajo de una conciencia indivi-
dual que teje apuestas de comprensión gracias a las intenciones de los
desplazamientos ejecutados por el observador. Esto está consignado
en muchos de los registros de los visitantes extranjeros a la ciudad
de Bogotá. Por ejemplo, el historiador y escritor colombiano Alfre-
do Iriarte evoca los apuntes del viajero escocés John Stewart quien,
partiendo de Nueva York, llegó a Bogotá en  para comerciar con
sombreros en la zona céntrica de la ciudad. Algunos apartados de esas
reflexiones, en su rol de peregrino, afirman:

¿Qué pudo haber inducido al gobierno español a seleccionar un sitio tan


singular y desfavorable para la capital de una gran provincia, cuando el
entendimiento más nebuloso habría escogido a Honda, cabeza de la nave-
gación? Se evitarían, así veinticuatro leguas ( km) del peor viaje en el
universo: ¿por qué, entonces?
(Iriarte , p. )

Indudablemente, se trata de la cristalización de una mirada reflexiva


hacia una ciudad cuya historia fundacional es bastante particular y que
 Éder García–Dussán

marca, desde ese entonces, su destino. En efecto, basta recordar los


momentos genéticos de la ciudad de Bogotá para encontrar que su
conquistador español, Don Gonzalo Jiménez, con su tropa diezmada
en un  % tras cruzar las selvas del Opón, al ver que en lugar de
oro sólo se encontraba sal y una numerosa y dócil mano de obra
asustada, se apresuró a fundar el núcleo urbano en torno al cual
girarían sus proyectos, no sin antes pasar por una sublevación indígena,
efecto del incendio al templo de Sugamuxi. Es así como la historia
de Bogotá se convierte en un buen ejemplo de cómo el pensamiento
del viajero no se enfrenta a los hechos reales sino que, embelesado
por sus creaciones doxásticas, por sus fantasmas, proyecta sus ideas
y recuerdos de los espacios reales al compararlos implícitamente con
experiencias previas:
Quesada imaginó otra ciudad. Algunos cronistas dicen que cuando vio por
primera vez la altiplanicie vino a su memoria el recuerdo de la hermosa
Vega de Granada, en donde había pasado sus primeros años. Veía al noroeste
de Suba, que le hacía pensar en la Sierra de Elvira; las colinas de Soacha le
recordaban las del Suspiro del Moro, y los cerros de Monserrate y Guadalupe
se le asemejaban a los collados que a Granada circundan. Poseído de tan
gratas emociones, exageradas por su imaginación andaluza, no vaciló en
elegir aquel sitio para el establecimiento de una ciudad que hiciese estable su
conquista y, al efecto, ordenó que se fabricasen, en conmemoración de los
doce apóstoles,  casas cubiertas de paja y se diese principio a una capilla.
(Chillán , p. )

Es posible afirmar que el viajero, arrastrando nostalgias (al verse


ausente de sus propios paisajes) y defiendo lo propio en otros espa-
cios (tal como el mismo Quesada tuvo que hacerlo al salvaguardar
su jurisdicción sobre la ciudad de las pretensiones de Nicolás de Fe-
dermán, Sebastián de Belalcázar y Jerónimo Lebrón), no produce
signos de las cosas vistas, sino que ellos caen lejos de su acción óntica
al satisfacerse con una reminiscencia influida por los signos de otro
paisaje. No gratuitamente, el conquistador Jiménez bautizó la planicie
de Cundinamarca, el Departamento donde está Bogotá, como Nuevo
Reino de Granada. Así las cosas, es más claro cuando se recuerda que
el conquistador vivió en Granada (España), y fue a morir en Nueva
Granada.
Si no hay error en esta apuesta interpretativa debería hablarse,
entonces, con mayor precisión de ensanchamiento en lugar de desplaza-
Préstamos territoriales en el hábitat del transeúnte 

miento, pues se trataría de una ampliación de las fronteras vernáculas


y, por tanto, una anulación de los límites y las limitaciones de los ima-
ginarios cuando se aferran a lo real. Fronteras borrosas, en suma, que
el viajero genera para dar sentido a su estadía y permitir que, aunque
esté presente en una calle o un punto nodal de la ciudad extraña, la
viva como algo de su propiedad experiencial. Y, como transeúnte, tras
el acto extraordinario de encarnar sus imaginarios en otro lado pero
en su misma cabeza, transcurre, pasa, se mueve en el tránsito extasia-
do. Es por eso que el antropólogo Manuel Delgado () recuerda
que en catalán la palabra tránsit significa al tiempo trance y tránsito.
Bastará, así, saldar esta tesis recordando que, según una añeja retahí-
la, en esto consiste la esencia existencial misma: la vida es como un viaje,
como un desplazamiento, y como en todo viaje en la vida también se
suele perder el mapa y confundir la intención del tránsito. Aparecen
así, de manera incisiva, las historicidades construidas y disputadas,
los lugares de desplazamiento, las interferencias desorientadoras, la
interacción urbana fugaz y las paradojas de no saber a dónde se quiere
llegar exactamente o dónde estamos mientras buscamos un derrotero,
tal como lo describe el cuento “El guardagujas”, de Juan José Arreola
(), donde un viajero, ubicado en una estación transitoria de tren,
sólo desea llegar a un incógnito lugar: T. Por cierto, recorrer la trama
del relato permite, de paso, evidenciar cómo la confluencia de lo de-
sconocido cruza toda la historia del viajero sin identidad: se inician las
acciones en un lugar cualquiera, un lugar de paso (la estación), y se
termina avanzando hacia un lugar cualquiera. Desconcertante tran-
sitar, pero exacto en la biografía de muchos viajeros: de lo ominoso,
esto es, lo extrañamente familiar, a lo anónimo.

. Algunas topofilias calcadas en la ciudad de Bogotá

Ahora bien, según lo anterior, el tránsito puede ser la metáfora reduci-


da de la vida. Como acción concreta de viaje, éste puede convertirse
en un intento de redención, es decir, puede llegar a ser la supresión de
una angustia producida por el caminante en su tendencia a la u–topía,
ya que la mayor virtud de la actividad turística es la de prometer la
idea de algún lugar, de un cierto asentamiento. Trasegar se convierte,
entonces, en una actividad que revela, a priori, una carencia de lugar.
 Éder García–Dussán

La acción del caminante transforma el no–lugar en un lugar, coinci-


diendo con el deseo de un buen lugar: eu–topía. Sin embargo, este
tipo de conductas no coincide con la pérdida de tiempo del otrora
flâneur, esto es, de aquel paseante que recorría los espacios urbanos
sin programa, de aquel transeúnte desocupado que pensaba mientras
vagaba, con el ánimo de encontrarse algo o alguien. Ahora, el “Yo he
pasado por aquí” debe ir refrendado por un “Y sé muy bien de lo que
hablo, con o sin un mapa”. Se trata de un conocimiento cuya brevedad
en la adquisición no representa quebranto alguno en su pertinencia.
Actualmente hay que ser un flâneur programado frente al apresu-
ramiento que exige una sociedad excedida y voraz y, de esta forma,
observar cuanto más se pueda; en suma, “ver mucho y bien en poco
tiempo”. Esto exige del viajero tomar notas y fotografías, intentar fijar
lo visto, captar, ajustar lo semejante a patrones comunes y luego in-
tentar narrar el viaje, porque el tiempo se convierte en temporalidad
humana al articularse narrativamente; pero tal narración sólo llega
a tener algún sentido al convertirse en una condición de la existen-
cia temporal que se especifica en un nombre, que termina siendo la
prueba de aquel ajuste entre lo conocido y lo aparentemente nuevo.
Pero también parece cierto que el sujeto–caminante “viaja” y en
esa acción compromete su goce; por eso la vida se relaciona con los
viajes como búsqueda de eutopías variadas o repetidas, pero también de
meta–topías, esto es, de otros lugares más allá de los recorridos, donde
la vida/viaje pueda re–generarse. Es decir, vivir la vida en un ámbito
en el que puede atesorar otras vidas, anecdóticas y diversas, pero
siempre relacionadas con la propia esencia de su humanidad como
afincada en un espacio primigenio, de un paraíso terrenal acuñado.
Tratado así el asunto de viajar dentro de la ciudad o de una a otra,
se trata de una triple intencionalidad (utopía–eutopía–metatopía) que
tiene su correlato en la ucronía (en otro tiempo), la eucronía (en los
buenos instantes) y la metacronía (un más allá del tiempo). Es decir,
hacer con la vida un tiempo narrativo con referencia a muchas nar-
raciones imbricadas, pues todo lugar es, en últimas, un imán que
atrae ese factor temporal que lo disuelve y lo perturba. El tiempo
aparece, entonces, como un gusano que hace del espacio una entidad
incontrolable. Díada fundamental, como Kant lo vio desde su König-
sberg, movimiento que ya no es de vida, sino de paseo gozoso por
ella: topofilia. No hay goce de lo otro y del otro sin cuerpo, pues es
Préstamos territoriales en el hábitat del transeúnte 

lo que se liga a las sensaciones de las sustancias. Y el cuerpo de ese


“alguien” deja a cada momento sus pasos como memoria de su propia
búsqueda y su propia identidad. Sin embargo, existen procesos de
identidad que se centran en el recurso de asimilar gramáticas urbanas
ajenas e integrarlas de forma asistemática. En esa medida, parece que
se cumpliría el precepto que afirma que hay tipos de identidad que
recurren a la asimilación de síntomas histéricos que se hacen propios;
para este caso, unas topofilias calcadas.
A partir de lo anterior, se puede pensar que el acto de recorrer
la ciudad consiste en buscar un espacio en el cual sentirse a gusto y
reconocido en ella, espacio para pasar y pensar buenos momentos.
Aún más, lugar que, al ser otro tiempo imaginado, atrae la atención
y guarda su parte de rareza en una especie de nuevo nomadismo
(incluso dentro de la ciudad misma); es por esto que cada ciudad — o
la misma ciudad, a destiempos — promete su porcentaje respetable
de acontecimientos calcados de fuera y puestos a funcionar como
imaginarios sociales de base. Esto tiene su asiento en ciudades como
Bogotá que encasillan a sus habitantes en estratos socioeconómicos
siguiendo ciertos patrones estéticos y empíricos diferenciales: los po-
bres mexicanizados, los menos pobres imitando el mundo anglosajón,
los más favorecidos, a Europa y, todos, a España cuando hay toros
los domingos. Es aquí donde el ensamble real–simbólico se nutre del
componente imaginario. Esta reflexión, tiene su correlato urbanístico
en las aseveraciones del investigador Ricardo Montezuma, cuando
afirma:

[. . . ] El imaginario extranjero ha estado presente en los bogotanos durante


este siglo. Primero fue la influencia europea, hasta la primera guerra mun-
dial, y luego la norteamericana, que se ha ido consolidando en la mayoría
de la población como el mayor referente extranjero, lo cual se puede apre-
ciar en el nombre de muchos barrios. En efecto, en Bogotá los recorridos
urbanos por los nombres de los barrios pueden ser bastante internacionales,
ya que sin salir de la capital es posible visitar imaginariamente muchas
ciudades, regiones y países de los cinco continentes; por ejemplo se podría
ir de Alaska a la Argentina, pasando por Canadá, México, Costa Rica, Puerto
Rico, Colombia, Venezuela y Bolivia, con un alto en Notario, San Francisco,
Los Ángeles, Pasadera, Malibú, La Florida, Nueva York, Pensilvania, Ma-
nagua, Jalisco, Veracruz, Caracas, Montevideo, La Paz, Ayacucho, Potosí,
Valparaíso, Viña del Mar y Buenos Aires.
(Montezuma , p. )
 Éder García–Dussán

Así, cuando se echa un vistazo a la Bogotá del siglo XIX, se descubre


que la ciudad se regía absolutamente por el modelo europeo, en su
esfuerzo por hacer de sus habitantes ilustres parisinos, como efecto
simbólico de un imaginario prestado sobre lo real. Esto justifica que
barrios como Palermo aún conserven casas con techos muy angulados
como en Londres, a pesar que aquí no cae nieve; o la propagación de
los centros comerciales, de los conjuntos cerrados de viviendas y las
áreas industriales, como imaginarios anglosajones cristalizados en la
ciudad física que, en el siglo XIX, en un penoso infantilismo mimético,
le mereció al país el nombre de Estados Unidos de Colombia. Y lo
peor,

[. . . ] Esta imitación abstracta e ingenua del modelo anglosajón norteame-


ricano, que desconocía las premisas reales de nuestros procesos histórico
e idiosincrático, va a caracterizar el comportamiento y la ideología de los
radicales colombianos: en síntesis, el llamado progreso se reduce a sustituir
el análisis objetivo de los fenómenos americanos, que guió al Consejo de
Indias en la expedición del Derecho indiano, por la aplicación discriminada
de principios abstractos, propios del concepto individualista de la civilización
inglesa.
( Jaramillo , p. )

Imaginario manifestado, también en el desvelo, a principios del


siglo XX, por la construcción de un nuevo paisaje que implicó la re-
forestación de los Cerros Orientales que circundan buena parte del
paisaje bogotano con pinos en detrimento de frutos silvestres como
las uchuvas, para que la ciudad simulara un paisaje europeo, pero con
una cultura y unas formas urbanas locales deficientes. Baste comparar,
por ejemplo, Buenos Aires a finales del siglo XVIII, que ya contaba con
cuatrocientos mil habitantes producto de sus inmigraciones, mientras
Bogotá apenas llegaba a los cien mil. Años más tarde se aprecian sus
diferencias físicas, pues mientras en la década de  Bogotá suplan-
taba el tranvía de mulas por el eléctrico, Buenos Aires inauguraba la
primera línea del metro ( Jaramillo ). Pero, también diferencias
simbólicas y, lo más importante, contrastes en el registro de los imagi-
narios a propósito de los rasgos de carácter de unos y otros. Es por
eso, sin ningún empacho se afirma que la Bogotá de comienzos de
siglo XX,
Préstamos territoriales en el hábitat del transeúnte 

[. . . ] era una gran aldea señorial en cuyo seno, como en el resto del país,
comenzaban a gestarse las tensiones sociales propias del siglo, que la élite
bogotana sin embargo apenas percibía y en la cual en lugar de filosofía se
produjo una bohemia de cachacos, como dice irónicamente el mismo Gutiér-
rez Girardot a propósito de la Gruta Simbólica, el grupo de señoritos que
quisieron jugar al enfant terrible en una villa cuyas clases más bajas todavía
llevaban alpargatas y se embrutecían con la misma chicha que seguramente
también contribuyó a amenizar las tertulias de nuestros “malditos”.
(Ibidem, p. )

Los ejemplos no se agotan. Por caso, es significativo el hecho que a


principios del siglo XXI, Bogotá cuente con un Festival de Verano como
espejismo fundador de un área geográfica con estaciones climáticas
(como en Europa o Norteamérica), aunque generalmente es celebrado
en plena época de lluvias y granizadas espontáneas, como lo sucedido
en noviembre de . Es un olvido permanente el hecho de que
Colombia reposa en el área tropical, muy cerca al paralelo del Ecuador
y, más exactamente, en una ciudad donde llueve el % del año. A
pesar de esto, los ciudadanos de las nuevas generaciones perciben
una ciudad “templadita”, que hace que la mayoría de las personas
se engalanen con ligeros trajes, mientras las calles de la ciudad se
abigarran de vendedores ambulantes que ofrecen gafas para el sol al
lado de sombrillas para chubascos y aguaceros torrenciales (Silva ).
Incluso, muchos de los símbolos representativos de nación no son
tan colombianos como se cree ciegamente, y más bien refleja esa
transculturación que tanto caracteriza a ciudades como Bogotá. Por
ejemplo, la bandera, el tricolor nacional, fue creado por el venezolano
Francisco de Miranda, quien a su vez fue el primero en izarla el 
de agosto de  en La Vela de Coro (Venezuela); el colombiano
más famoso, Juan Valdez (porque es el campesino que muestra el
café colombiano de exportación) nació en la agencia publicitaria Doyle
Dane Bernbach de New York y el primer hombre en encarnarlo fue un
actor cubano, quien trabajó para la Federación hasta . Asimismo,
la ruana (de la ciudad francesa Ruán) que tanto identifica al aldeano
colombiano llegó de Chile con un puñado de indios yanaconas, que

. Con “Malditos”, Jaramillo Vélez se refiere al puñado de poetas franceses del siglo
XIX que, como Charles Baudelaire, tienen una poesía de carácter subversivo, lo que le
mereció que, tras la publicación de su obra “Las flores del mal” (), el gobierno francés
lo acusara y multara por atentar contra la moral pública.
 Éder García–Dussán

acompañaban al conquistador español Sebastián de Belalcázar, funda-


dor de Quito, Popayán y Cali. La lista no se agota allí. El bolso llamado
carriel (del inglés Carry all) fue aclimatado en el Departamento de
Antioquia en la segunda mitad del siglo XIX, pero fue traído por los
mineros que llegaron de Europa por esa época, especialmente andalu-
ces y extremeños. De igual manera, el acordeón de botones, tan usado
en la música costera, llegó de Alemania, el ajiaco de Cuba, la arepa de
Venezuela, el Sagrado Corazón de Jesús de Francia y el Divino Niño
del  de Julio de Praga. Mientras que la religión nos vino de Asia
Menor, el café de Arabia, el mango de Asia, el banano de África y la
naranja de España (Bejarano ).
Finalmente, aparece el suceso de los imaginarios locales en las
ciudades dentro de la ciudad, esto es la idea alucinante de una cierta
autonomía urbana dentro de la ciudad. Por ejemplo, en Bogotá hay
barrios con nombres como Ciudad Salitre, Ciudad Tunal, Ciudadela
Colsubsidio, etc., cada uno, dotado con su centro comercial como
símbolo vivido de la Plaza Central (Pérgolis ; ).
Con estrategias similares, muchos barrios son nombrados y per-
cibidos con nombres identificatorios que presentan, por un lado, el
sentido inmediato que identifica una realidad determinada, y por otro,
el colateral que sugiere unos rasgos descriptivos, creando una catego-
rización de los objetos urbanos en términos de una nostalgia por lo
foráneo. Así, por ejemplo, nombres de barrios con alusiones comunes
a lugares europeos que tienen estructuras medievales —españoles,
italianos y franceses —, como es el caso de Alcalá Real, Toscana, Los
Cárpatos, Versalles Real, o lugares exóticos como Nepal, Tikal o Borneo.
Pero también hay otra preferencia frecuente, que recurre a nom-
bres de ciudades de los cinco continentes, con una cierta recurrencia
a aquellas que hacen parte del complejo nacional español. Así, por
caso, barrios bautizados con nombres como Andalucía, Castilla, Ma-
drid, Córdoba, Coruña, Barcelona, Galicia, Sevilla, Tenerife, Plaza Cibeles,
Zarzamora, Villas de Andalucía, Lagos de Córdoba, Villas de Aranjuez,
Alcalá, etc. Quizá, por esto mismo el periodista Antonio Caballero,
refiriéndose a Bogotá, no tuvo más remedio que afirmar:

Es una ciudad hecha de mil barrios que han ido edificándose a ciegas, y
de oídas, al capricho de los aluviones de inmigración, de las influencias
contradictorias del azar y el recuerdo. Barrios de casas sólidas de la Nueva
Préstamos territoriales en el hábitat del transeúnte 

Inglaterra, de altas casas rojas de inspiración vagamente holandesa, de ca-


sas blancas y bajas de estilo colonial californiano. Casas de muchos patios
abiertos al ventisquero del páramo, de la teja de barro y balcones corridos
de madera torneada y pequeños castillos del Loira con cucuruchos grises
de teja de pizarra, y terrazas romanas con palmera, y empinados tejados
finlandeses para las grandes nevadas de la noche polar, y fachadas antillanas
de filigrana de hierro pintadas de colores, y columnatas de columnas dóricas,
jónicas y corintias, con volutas laurel y de acanto, labradas en la piedra.
Palacetes franceses del siglo XVII. Ranchos tejanos. Cortijos andaluces. Ca-
serones republicanos. Refugios alpinos. Jardines japoneses con puentecillo
de bambú en cemento armado y enanos de Walt Disney a la sombra de
grandes hombros de metal colorado. Áticos de ladrillo, torreones de piedra,
tugurios de cartón y lata corrugada. Patios de Córdoba con fuente y azule-
jos, búnkeres de Berlín, mezquitas de Bagdad, sinagogas de Miami, casas de
campo inglesas traídas desde Surrey con zorros y caballos y encajadas en un
coliseo cubierto y un multicentro comercial con parqueadero subterráneo
y galería de cristales para el café vienés [. . . ].
(Caballero , p. )

De esta suerte, la cultura bogotana se marca en el lenguaje y refleja


una sutil melancolía por la ciudad cosmopolita que, desde otrora,
se ha imaginado como centro de cultura mundial. Hecho notable,
significativo y curioso, pues ello permite, desde lo simbólico, una
mezcolanza de modernización frente a un discurso de nostalgia por la
elegancia provincial de la Bogotá excluyente, que ayudaba a las élites
a hacer frente al presente amenazador de las masas, y que integra lo
universal a través del complejo arquitectónico urbano, empezando
aquella zona urbana y financiera, en pleno centro de la ciudad, llamada
“Centro Internacional de Bogotá” (CIP), antiguo Distrito de Negocios
que en el año de  permitió imaginar de nuevo un centro de
civilización y cultura, fascinado por el desarrollo citadino, pero situado
dentro de barrios piratas, congestión, polución y crimen.
Lo que sí es cierto es que, se vive y siente una Bogotá encarrilada
cada vez más hacia una privatización del espacio público, que ha cre-
cido unas cincuenta veces su tamaño en los últimos años, fenómeno
sociopolítico y urbano llamado por algunos investigadores “cuadrice-
falia urbana” (Gouëset ), y que se refleja en la proliferación de los
conjuntos cerrados, habitados por estratos sociales homogeneizados y
separados del resto de la ciudad por una fuerza de seguridad privada o
por propios medios de seguridad, que, no obstante, no evitan espacios
 Éder García–Dussán

inseguros y temerosos, además de espacios paradójicos e incompren-


sibles. Esto es lo que la reciente literatura colombiana describe, como
la novela de Chaparro Madiedo, Opio en las nubes () que narra una
Bogotá marginal y cosmopolita que reúne y aísla sujetos de todos los
territorios bogotanos en el ámbito de la “rumba fuerte”. Las descrip-
ciones de esa Bogotá son desgarradoras pero, al tiempo, preñadas de
matices veraces; así por ejemplo cuando se lee:

[. . . ] La calle. La noche. Unas babas. Dos babitas. Tres babitas. La suciedad.


Las luces de neón. Un disparo en la oscuridad. Un cuerpo. Dos cuerpos. Un
cigarrillo. La ropa. Los autos. Los perros. Las putas y los bares. Los árboles
y las canecas trip trip trip. Las ventanas. Los rostros que se asoman por la
ventana. Las puertas. Los perros, guau guau. Otro disparo. Pum. Mierda.
Ugh. Zas. Un vidrio roto. Una sirena. Una puta que corre. La ropa. Un árbol.
El aire. La calle. Qué cosa tan jodida. Ese olor. Diez de la noche. Un poco
de lluvia trip trip trip [. . . ].
(Chaparro , p. )

Pero no sólo las ciudades colombianas se reflejan desde el movi-


miento lúdico y chocarrero, sino también desde denuncias sobre la
contradicción de los espacios urbanos. Así, por ejemplo, con Su casa
es mi casa, de Antonio García Ángel, un joven comunicador social de
una Universidad prestigiosa de la ciudad, del cual se puede leer esa
mirada de la Bogotá extravagante en su morfología y incongruente
en su simbología:

[. . . ] A la iglesia de Las Nieves se puede entrar a comprar salchichones


porque su nave izquierda está ocupada por una pollería. Justo enfrente,
en el parque de Las Nieves, hay una estatua de un prócer de la patria que
no tiene nombre y que nadie sabe de quién es porque todos los próceres
colombianos son igualitos: se parecen a Supermán. La iglesia de Usaquén
casi fue demolida porque los vecinos del lugar buscaban un tesoro indígena
que dizque estaba enterrado frente a la puerta. El Museo Nacional era
una cárcel y la avenida Jiménez era un río. En el Parque de los Periodistas
no hay un sólo periodista y en el Chorro de Quevedo no hay chorros,
sólo marihuaneros. La carrera Séptima, que atraviesa la ciudad, cambia de
sentido dos veces al día; cuando hicieron la avenida caracas se supuso que
iba a llegar hasta esa ciudad y les falló el cálculo por más de mil kilómetros.
Cuando Jiménez de Quesada plantó la bandera española en este lugar y
mandó levantar doce chozas, no estaba fundando una ciudad, estaba creando
la contradicción urbana más grande que la humanidad haya conocido [. . . ].
(García , p. )
Préstamos territoriales en el hábitat del transeúnte 

Si se piensa por un momento en este contexto urbano, lejos de


extinguirse esta tendencia de circunscribir lo ajeno y de cultivar las
paradojas en lo real de las ciudades, es un fenómeno que se convierte
en un reiterativo síndrome cultural. Se trata ahora de un esfuerzo
constante por igualar las fantasías en todo escenario urbano, en el cual
todo sujeto imagine un sólo mundo. La globalización es una enorme
máquina que funciona para ampliar los horizontes, aportando espacios
y tiempos para que los ciudadanos se conecten con otras sociedades
y sus culturas, pero que igualmente revela un amagamiento de lo
local y una marcada ausencia de experiencias dialógicas que hacen
de la globalización un proceso que se abstrae en imaginarios que, en
lugar de ampliar las expectativas y aspiraciones urbanas locales, las
ensimisma alimentando esa pulsión con producciones idiosincráticas
que sólo se comparan con imágenes similares, domadas por la astucia
del foco de las cámaras fotográficas que encuentran en la ciudad
imágenes de paisajes urbanos globales, como las que aparecen en
algunos correos electrónicos de desecho, y que identifican Louvre
con la arquitectura bogotana de Maloka, la Plaza de Londres con el
Palacio de Liévano donde opera la Alcaldía de Bogotá o el Metro de
Tokio con algún portal de TransMilenio, el sistema de transporte
masivo que se afincó como reemplazo perverso del deseado metro
bogotano.
Quizá sea esa la razón por la que García–Canclini afirme que la
globalización sea tanto un conjunto de estrategias para realizar la
hegemonía de microempresas industriales, como
[. . . ] también el horizonte imaginado por sujetos colectivos e individuales,
o sea por gobiernos y empresas de los países dependientes, por realizadores
de cine y televisión, artistas e intelectuales, a fin de reinsertar sus productos
en mercados más amplios.
(, p. )

Una globalización igualmente imaginada porque no cumple con su


objetivo, dado que la integración sólo abarca a unos países, benefician-
do algunos de sus sectores, mientras que la mayoría quedan como
fantasmagoría o promesa deslucida.
Tal cualidad urbana como la que se vive en Bogotá, lejos de extin-
guirse, se ha multiplicado en sus nodos, pues es sabido que la capital
colombiana es la ciudad que concentra híbrida e irregularmente ter-
 Éder García–Dussán

Figura . A la izquierda, de arriba abajo: Louvre, la Plaza de Londres y el Metro


de Tokio. A la derecha sus correspondencias con Maloka, el Palacio de Liévano y
el portal de TransMilenio.

ruños multiétnicos donde se amacizan culturas regionales de la zonas


andinas y costeras del país, en relativa armonía dialectal y gastronó-
mica. Todo este mosaico complejo se escenifica dañinamente en una
ciudad que aglomera la gente en espacios liliputienses, con mengua-
dos espacios de comunicación y aparentes centros de fusión solidaria
social e intercultural que permiten sentirse en la misma ciudad como
visitando muchas otras, en un acto que simula el estar–de–paso por
muchas comarcas, pueblos y megalópolis. Ese incauto estar–de–paso
que se presenta como forma de producción y acopio de experiencias
propias del recorrido urbano, hace de sus espacios territoriales unos
sitios de aglomeración simbólica; es decir, depositarios de valores, re-
cuerdos y deseos de otredad y mismidad, al tiempo. En esa medida, las
contradicciones son asimiladas como recursos normales y normativos
en la ciudadanía.
Préstamos territoriales en el hábitat del transeúnte 

Esto último se refleja, a su vez, a nivel nacional en eventos de alta


cobertura e impacto, como la eclosión anual de Reinados de Belleza
en nuestro país. Al respecto, Armando Silva escribía en :
[. . . ] En estadísticas que hice sobre los reinados de belleza en Colombia, en-
contré que cada  días se elige una soberana nacional, y que si agregásemos
reinados de bazares, barrios, pueblos, se puede decir que en los  días del
año se producen tantas reinas como lo hacen otras industrias exitosas, sea
el café o la música tropical, y que entonces nacer mujer en Colombia trae
el riesgo muy probable de un día convertirse en reina de belleza. Así que
Colombia ha de ser el país en el planeta donde se toman más en serio los
reinados pues en otras partes no pasa de ser una broma barrial o un sencillo
desfile de jovencitas que aspiran a modelos
(Silva , p. )

Efectivamente, si se analiza el esquema local del Reinado Nacional


de la Belleza cada noviembre en la ciudad costera de Cartagena, se evi-
dencia que es un evento que marca la diferenciación regional; es decir,
que da pie para la construcción de un orden socio–geográfico multipli-
cado y belicoso. En ese sentido, los reinados revelan la imagen de una
nación fragmentada, puesto que los Departamentos representados,
que no son siempre todos y los mismos, se simbolizan con la belleza
de un cuerpo femenino donde se escenifican tanto lugares turísticos
(con sus comidas, imágenes, representaciones turísticas, etc.), como
las características/valores propios de lo que define exclusivamente
la gente de ese Departamento frente a otros grupos y geografías
humanas de Colombia. De suerte que el Reinado otorga un orden
multicultural sin unidad–nacional; un híbrido sin coincidencias claras.
Esto también se refleja en los rasgos “bellos” de cada candidata. Por
ejemplo, la Señorita Chocó no podría ser sino de cutis negro, mientras
que la Señorita Bogotá tiende a ser de piel blanca, con un habla suave
y pausada y asociada con lo gris, lo frío, además con su infaltable cerro
. Los Reinados de Belleza son certámenes que se celebran con la intención de elegir y
coronar, de entre un colectivo de hermosas mujeres participantes, una reina que representa
un departamento, un producto agrícola (café, panela, flores, etc.) o simplemente un evento
turístico (ferias, carnavales, etc.) Generalmente, las funciones de las candidatas a la corona
en los festivos encuentros son las de desfilar en ropas de baño y trajes típicos de su región.
El evento más trascendente en Colombia es el Concurso Nacional de Belleza, que se
aclama cada noviembre en la ciudad de Cartagena de Indias y que cuenta con una tradición
superior a setenta años y su producción apunta, sin duda, a la construcción ambigua de lo
nacional como unidad.
 Éder García–Dussán

de Monserrate que, por cierto, no es más que el calco fantasioso de


Monserrat, en Cataluña, pero sin virgen negra .
Esta ensoñación presente en los reinados, que se convierten en
noticias trascendentales para los colombianos, sólo apunta a significar,
entre otras cosas, que nuestra nación, y su capital Bogotá, sigue siendo
amparada por ideales señoriales representados en la dama cándida,
pulcra y exclusiva, y que ya García Márquez reconocía al analogar
brillantemente a Bogotá con una dama limpia y excepcional, Fernanda
del Carpio, en Cien Años de Soledad:

[. . . ] una mujer perdida para el mundo, que [. . . ] desde que tuvo uso de
razón, recordaba haber hecho sus necesidades en una bacinilla de oro con el
escudo de armas de la familia. Salió de la casa por primera vez a los  años,
en un coche de caballos que sólo tuvo que recorrer dos cuadras para llevarla
al convento. Sus compañeras de clase se sorprendieron de que la tuvieran
apartada en una silla de espaldar muy alto y que ni siquiera se mezclara con
ellas durante el recreo. “Ella es distinta”, — explicaban las monjas — “Va a
ser reina”. Sus compañeras lo creyeron, porque ya entonces era la doncella
más hermosa, distinguida y discreta que habían visto jamás [. . . ] Su padre,
don Fernando, [. . . ] pasaba la mayor parte del día encerrado en el despacho,
y en las pocas ocasiones en que salía a la calle regresaba antes de las seis,
para acompañarla a rezar el rosario. Nunca llevó amistad íntima con nadie.
Nunca oyó hablar de las guerras que desangraban el país. Nunca dejó de
oír los ejercicios de piano a las tres de la tarde.
(García–Márquez , p. )

Claramente, Fernanda es un actante simbólico de esa Bogotá pro-


vinciana, pacata y ensimismada; ciudad que no solía ser visitada por
gentes de la zona costera, pues era más fácil, cómodo y rápido llegar
a New York o Marsella que a Bogotá, a la cual se accedía por el río
Magdalena y luego por los cerros de los Andes en travesías pavorosas.
Justo aquella ruta seguida por los españoles en  desde la costa norte
y que les produjo tantos muertos vencidos por plagas, fiebres o por

. Esto se refleja también en los productos mass mediáticos actuales. En , RCN
novelaba las hostilidades culturales entre costeños y cachacos con sus amplias gamas di-
ferenciales; mientras Caracol lo mostraba con sus Reality de combates y bravatas (entre
generaciones, entre etnias, entre regiones) Así, por ejemplo, Los Desafíos, desde , se
han encargado de mostrar una imagen fragmentada del país, y esas fracciones opuestas
se ganan un lugar cuando se materializa en una disputa: clases favorecidas vs desfavoreci-
das, departamentos costeros vs departamentos andinos, jóvenes vs expertos, maduros vs
fogosos, estrellas de TV vs gente común, etc.
Préstamos territoriales en el hábitat del transeúnte 

las saetas indígenas. La ciudad capital es así transliterada con aquella


dama que fantasea con ser “la reina”, mientras era educada con lujos
y con delirios de grandeza en un ambiente encerrado, chabacano y
presumido lo que, a la postre, le permitiría a la ciudad–letrada aluci-
nar por mucho tiempo con una “Atenas Suramericana” con delirante
fantasía localista y fervor cívico, en una villa provinciana que apenas
sobrevivía creyendo ser una réplica europea entre colinas colmadas
de maleza tropical.

. Cadarzo: a manera de conclusión

Pues bien, el esfuerzo por comprender cómo los transeúntes se habi-


túan a los lugares urbanos que transitan y a través de qué mecanismos
lingüísticos le dan sentido a su ciudad ha llevado a explicitar, por un
lado, la forma como los paisajes de la ciudad son significados, como
cualquier turista lo hace, sin duda, gracias a eventos cognoscitivos de
re–conocimiento por medio de comparaciones implícitas de imagine-
rías propias que se despliegan en la experiencia frente a los panoramas
urbanos del mundo (Francia, España, Norteamérica, Tokio, etc.). Pe-
ro, también, por otro lado, en ese proceso de aportar significación a
sus espacios vividos, la experiencia urbana avanza un ejercicio de calco
o imitación lerda de los panoramas, arquitecturas y modos culturales
foráneos.
El resultado, para el caso de la ciudad de Bogotá, es una amalgama
de construcciones y diseños que se pueden encontrar en gran par-
te de las ciudades del mundo, que contiene en su interior una serie
de paradojas locales, maquinal acción de la sociedad misma que se
soporta gracias a ese acto de multiplicar su esencia en las cualidades
variadas con la alucinación colectiva de ser parte del mundo. En pocas
palabras, una identidad híbrida, compleja y aparentemente integral
que se pierde en las múltiples piezas de un enorme rompecabezas con
una imagen que revela un espacio cultural fantasmal y periférico, do-
minado aún por la exclusión y la falta de una determinación simbólica
unificadora.
Pues tal como afirma Martín–Barbero, lo que necesita Colombia,
es un relato anudador, una memoria común, que “movilice todas
las energías de construcción de este país”, que “ayude a la gente a
 Éder García–Dussán

ubicar su cotidiana experiencia del dolor” (, p. ), algo que se


ha dado como una imposibilidad, permitiendo que haya una cierta
historia ávida de “espacios en blanco” que se llenan con mitos y que,
así, aseguran un carácter de repetición, de falta de inclusión e identidad
auténtica.
En esa medida, esa hipertopía glocal bogotana no es más que una
eutopía en una eucronía que ya lleva más de dos siglos. Quizá por eso,
recorrer Bogotá se subyugue muchas veces a (re)conocer un sitio
universal para pasar buenos momentos, pero el buen–lugar dura lo
que tarda el sujeto en levantar el palimpsesto de sus imaginarios y
vivirlos a su merced. A presar de todo, esto no supone una anomalía,
pues ese estar–de–paso por la mundialización imaginada, finalmente es
la estrategia para otorgar un sentido universal a la vivencia de transitar
de un lugar–a–otro–lugar desde un familiar lugar de partida a los
resquicios de una memoria in/significante, como lo evidencian los
nombres de sus barrios, verbigracia.
A partir de esto, es posible asegurar que el hábitat bogotano es
definido por su particular desplazamiento–ensanchamiento encontrado
como clave del panorama turístico que allí se puede agenciar, y el
estar–de–paso suaviza, en el mismo acto, tanto la trashumancia como
su opuesto, la inmovilidad y la propia fatalidad de lo exclusivo, de su
propia huella. Nuevamente, la realidad nominal de Bogotá frente a sus
espacios colectivos lleva irremediablemente a pensar que un espacio
que puede ser, por definición, cualquier otro (por caso, del México a
Niza, hay tan sólo una hora en coche, y de Egipto a Cataluña un poco
más de hora y media).
Así las cosas, el turista bogotano se parece al enamorado desen-
cantado, pues uno y otro siempre acaban por contaminar los paisajes
que frecuentan en una permanente añoranza de mantener el idilio de
la unidad total. La relevancia de ese conjunto de huellas mnémicas
depende no sólo del conocimiento del transeúnte, sino también de
las simpatías y los desplazamientos biográficos, destino irreducible de
lo encontrado en el camino del sujeto–turista y de todo aquel que se
convence de actualizar las tramas amatorias con la espacialidad; pues,
tal como asevera Augé (), esas representaciones formadas por el
sujeto frente a sus espacios de convivencia son el efecto de la construc-
ción social inmediata, en la medida en que toda representación lo es
necesariamente del vínculo social que le es circunstancial.
Préstamos territoriales en el hábitat del transeúnte 

Lo cierto es que, después de todo, sólo queda la nostalgia por no


ser lo que desea, o por desear ser lo que se es o no se tiene. Nueva-
mente, esto se manifiesta en dos tendencias al nominar los barrios
bogotanos, cuando evocan una melancolía por la vida y ambiente
rurales o la vida de las fincas agrícolas (por ejemplo, El Bosque, Los
Abedules, Pradera de Fontibón, Bosque de la Colina, El Cortijo, el
Pendón del Cortijo, Oasis de la Sabana, Primavera. . . ), o cuando esos
nombres revelan y proyectan deseos de lugares gloriosos y armónicos
(por ejemplo, El Ensueño, Isla del Sol, Paraíso, Bella Vista, Nueva
Esperanza, Compartir, Libertador, Patio Bonito, etc.). En suma, son
éstas fórmulas donde lo simbólico hace presa de los imaginarios y, se
manifiestan en rótulos lingüísticos que dejan comprender, a posteriori,
la colcha de retazos identitaria que es la cultura y los sueños de un
colectivo.

Referencias bibliográficas

A J.J. () Obras Completas, F.C.E., México.


A M. () Los no–lugares, Espacios del anonimato. Una antropología de la
sobremodernidad, Gedisa, Barcelona.
B G B. () ¿Made in Colombia?, “El Tiempo”, Bogotá, 
de agosto: .
C A. () “Bogotá para principiantes”, en R. Rubiano, Radio-
grafía del divino niño y otras crónicas sobre Bogotá, Instituto Distrital de
Cultura y Turismo, Bogotá, –.
C M R. () Opio en las nubes, Colcultura, Bogotá.
C R Y. () Quesada el desventurado, “El Espectador”, Bogotá,
 de agosto, .
D R M. () El animal público, Anagrama, Madrid.
G Á A. () Su casa es mi casa, Planeta, Bogotá.
G C N. () La globalización imaginada, Paidós, Buenos Ai-
res.
G D É. () Territorializaciones urbanas juveniles, “Revista de
Investigación”, Departamento de Investigaciones de la Universidad de
la Salle, , , julio–diciembre, –.
 Éder García–Dussán

G M, G. () Cien años de soledad, Oveja Negra, Bogotá.


L G J. () “¿La cabeza o el corazón? El uso político de las metáforas
corporales en la Edad Media”, en M. Feher, R. Naddaff y N. Tazi (eds)
Fragmentos para una historia del cuerpo humano, Taurus, Madrid, –.
G V. () Bogotá: Nacimiento de una metrópoli. La originalidad del
proceso de concentración urbana en Colombia en el siglo XX: Tercer Mun-
do, Observatorio de Cultura Urbana, CENAC, IFEA, FEDEVIVIEND,
Bogotá.
I A. () Ojos sobre Bogotá, Universidad Jorge Tadeo Lozano, Bogo-
tá.
J V R. () Colombia: la modernidad postergada, Argumentos,
Bogotá.
M–B J. () Colombia: entre la retórica política y el silencio de los
guerreros. Políticas culturales de nación en tiempos de globalización, “Revista
Número”, : –.
M R. () La influencia extranjera en la construcción de Bogotá
durante el siglo XX, “Revista Síntesis”, : –.
P J.C. () Bogotá Fragmentada. Cultura y espacio urbano a fines del
siglo XX, Tercer Mundo, Bogotá.
———. () “Significación de las plazas urbanas”, Revista Gaceta, : –.
S A. () Antropología urbana, Antropos, Barcelona.
S A. () Carne de reinas, “El Tiempo”, Bogotá,  de noviembre: .
T M. () Shamanism, Colonialism and the Wild Man. A Study in
Terror and Healing, The University of Chicago Press, Chicago.
Z F. () Historia de Bogotá, siglo XX, Villegas editores, Bogotá.

Éder García–Dussán
Universidad de La Salle, Bogotá
Lexia. Rivista di semiotica, 9–10
Ambiente, ambientamento, ambientazione
ISBN 978-88-548-4516-9
DOI 10.4399/97888548451694
pag. 233–246 (dicembre 2011)

Ciudades del cine


M T

 : Film Cities

: Habitat, as diegetic effect, is a discursive construction that, like


all other meanings conveyed by films, reflects a stylistic focalization,
one in which the global construction of the filmic text is inscribed,
and to which is connected through specific semiotic operations. Style
as it is implemented by the so-called “classic film” tends to hide the
processes through which this space is constructed, propping up the
reference by means of film resources historically connected with realism
(for instance, the use of catalysis predominantly focused in strengthening
the reality effect of staging). “Classic cinema” unfolds the tension between
the referential and the poetic with unparalleled balance; as viewers, it
makes us believe it highlights the reference as it passes its poetry to us
with understated elegance. Thus, by lying, it seeks to convince us that
habitat is only the support in which stories and characters are settled.
Other styles, however, like the one the present paper deals with, more
openly show the strong ties that bind characters and spaces, spaces that
are no longer intended as only physical, but also expose more fully their
ambiguity and their connections with mental spaces, those of memory,
dream, and fantasy.

: Filmic Space; “Modern” Film; Wong Kar–wei.

. Los ámbitos de la ficción

Es probable que no pocos turistas, en Londres, hayan incluido en sus


recorridos la casa de Sherlock Holmes, y otros tantos habrán visitado
el balcón de Julieta en Verona. También es posible que algunos se
hayan acercado al Castel Sant’Angelo, en Roma, sólo para subir a
la terraza y conocer el lugar desde el cual Tosca se arroja. Es que
como asevera Umberto Eco, la verosimilitud de la ficción es cosa seria,
porque “los textos ficcionales acuden en ayuda de nuestra poquedad


 Mabel Tassara

metafísica”, y para Eco, a diferencia del mundo en el que vivimos,


laberinto “del cual no sólo no hemos localizado aún todas las sen-
das sino que ni siquiera conseguimos expresar el dibujo total”, cierta
narrativa nos tranquiliza sobre la realidad, porque le suponemos una
estructura que posee claves que de un modo más o menos empeñoso
podemos llegar a develar. Así, Eco puede dedicar un par de páginas a
discurrir sobre la Rue Servandoni, calle que existe en Los tres mosque-
teros pero no existía en París cuando Dumas escribió, porque, aduce,
con un texto narrativo se puede hacer lo que se quiera, hasta jugar al
lector paranoico y controlar si el París del siglo diecisiete corresponde
o no al descrito por Dumas (Eco , p. –). O puede dar ex-
plicaciones a un lector de El péndulo de Foucault que le cuestiona la
no mención de un incendio de grandes proporciones acaecido en la
noche en que su personaje Causabon camina por el lugar, y que no
podría, evidentemente, dejar de ver (ibidem, p. –).

. El cine y la ciudad

Muchas de las ciudades míticas de la narración fantástica pasaron al


cine: la Atlántida, Sangri–La; tal vez, Camelot, porque la definición
de ciudad en la ficción no puede ser, indudablemente, burocrática; la
ciudad es un habitat, un entorno, y nadie negará que Arturo, Lancelot
y Ginebra viven, aman y sufren en Camelot. Otras ciudades integraron
otro tipo de mitología, pretendidamente más cercana a la vida que a la
literatura, como París, y después New York; quizá también la Chicago
del gansterismo.
La ciudad como tema es la condición o el sustrato de la historia y
no es de orden específicamente cinematográfico. Pero después está la
construcción fílmica de la ciudad.
A pesar de las expectativas del espectador, cuya apetencia de ilusión
es aún mayor que en la literatura, en el cine la construcción de la ciu-
dad es inevitablemente elíptica, forzosamente incompleta; deberíamos
en verdad decir sinecdóquica. En el cine accedemos a la ciudad como
totalidad a partir de la mostración de algunas de sus partes. Aunque
sabemos que el todo es una ilusión, la construida por la sinécdoque:
sólo existen las partes y la ciudad es una identidad y una completud
que los fragmentos hacen inferir. Esas partes son, muchas veces, los
Ciudades del cine 

motivos temáticos del género. El bar, las calles neblinosas, la seccional


de policia, la gasolinería, el casino de juego, el inquilinato articulan
las ciudades hostiles del negro. La mansión elegante, el restaurant de
moda, la gran tienda, la ciudad amable de la comedia brillante.
Algunos de los grandes géneros clásicos se instalan en la ciudad,
como el negro o el melodrama pasional. El melodrama pasional no puede
ser rural porque el pecado para el cine ha sido preferentemente urba-
no. El policial es también urbano, porque la corrupción anida en la
ciudad. El western es rural, y aunque también tiene que ver con el mal,
es un mal todavía ligado a lo primitivo, a una violencia aún cercana a
la naturaleza, que proviene de la apropiación de territorios. La tierra
y el ganado son los principales objetos por los que se lucha. En la
ciudad el poder está mediatizado por la posesión del dinero y surge
de negocios diversos. Aunque la corrupción gana a las autoridades
públicas en ambos ámbitos, en el western esa autoridad no va más allá
del sheriff o el juez, mientras que en la ciudad alcanza, además de
policías, a políticos y gobernantes de alto rango.
El western construye, sin embargo, un notable habitat, también a
partir de fuertes motivos: el rancho, el saloon, la calle principal del
pueblo y, como principales espacios abiertos, las llanuras rodeadas de
montañas y el desierto.
La comedia brillante es, asimismo, urbana, porque pone en ejercicio
la mayor sofisticación propia de las grandes urbes, aunque tiene más
que ver con sus interiores que con sus calles; la ciudad en la comedia
se construye habitualmente como espacio off. Aunque su rol será
más destacado en la comedia musical, al menos en algunos de sus
desarrollos, sobre todo en las películas que responden a la autoría de
Gene Kelly , Stanley Donen o Vincent Minnelli .
La ciudad ha establecido relaciones diferentes con los estilos del
cine. En las primeras décadas tiene escasa importancia en la escuela
rusa, en el cine sueco, en la vanguardia francesa, o en los primitivos
italianos; en cambio, sí se hace notar tempranamente en el expresio-
nismo alemán. No es casual, hay toda una historia de la ciudad en la
literatura y las artes visuales de este origen que también se presenta
en el cine (valga como ejemplo, la notable imaginería urbana de Otto

. Son ejemplos: Sinfonía de París (), Cantando en la lluvia (), Invitación al baile
().
 Mabel Tassara

Dix o Georg Grosz), tanto en el expresionismo temprano como en el


kammerspielfilm que le sigue.
Después, la ciudad se impondrá, como veíamos, en algunos gé-
neros del Hollywood clásico. Y será fuerte en el nerorrealismo y en
algunos autores italianos de los años sesenta, como Antonioni o Fellini.
No será dominante en la nouvelle vague francesa, porque ésta lleva a
cabo privilegiadamente un cine de puertas adentro, aunque ha dado
otra ciudad mítica: Alphaville.
En tanto en el cine han predominado los realismos, en la mayor
parte de las películas la ciudad se construye como un ícono que busca
confundirse con la ciudad misma. La ciudad debe parecerse a una
ciudad real, y si ésta existe debe parecerse a ella.
Monstruo edificado en una multiplicidad de instancias: la del guión,
la de los bocetos, la del cineasta, la del camarógrafo, la de la cámara, la
del montaje, la ciudad cinematográfica nos hace creer en su existencia,
y, aun a sabiendas de su artificio, no deja de ser, de vez en cuando,
responsable de nuestra desilusión de turistas.
Pero algunas ciudades del cine son otra cosa: ciudades metafóricas
que avanzan desde el ícono hacia el símbolo, como las de Caligari (Ro-
bert Wiene, ), Metrópolis (Fritz Lang, ), Blade Runner (Ridley
Scott, ), o Alphaville( Jean– Luc Godard, ). Tal vez el paradigma
de esta modalidad sea Metrópolis, la ciudad protagonista que carga
con la responsabilidad mayor en la transmisión de la alegoría maqui-
nista de von Harbour . En Caligari la irrealidad espacial de la ciudad
introduce desde el inicio la ambigüedad esencial de la propuesta enun-
ciativa. En la película de Scott, antes de acceder al conflicto dramático,
la ciudad planta la concepción decadente de futuro que sintetiza el
enfoque ideológico de la vertiente de la ciencia ficción en que el film
se inscribe.
Otras ciudades, en cambio, son indiciales, se construyen al paso
de los recorridos de sus protagonistas. En Antonioni, la ciudad se
crea a partir de los personajes que la habitan, y actúa frecuentemente
como espacio de refracción de su interioridad. En El eclipse ()
los paisajes vacíos visitados por los amantes en el pasado connotan
. Thea von Harbour, guionista del film, así como de casi todas las películas de Lang en
el período alemán. Sus posteriores conexiones con el nazismo han contribuido, en algunas
lecturas, a destacar su rol por sobre el de Lang en lo que hace a aspectos ideológicos de la
obra.
Ciudades del cine 

en su desolación final la fragilidad del amor. En El grito () es la


aridez del entorno la que da cuenta de un dolor que se expresa mal en
palabras. También el encono y la amenaza que una y otra vez enfrenta
el protagonista de Ladrones de bicicletas (Vittorio de Sica, ) en su
recorrido crean una urbe incontinente y distante, poco sensible a las
penurias de sus habitantes menos afortunados. En Mamma Roma, de
Pasolini (), la ciudad guarda la promesa del deseo de los personajes,
pero también es su impedimento y su clausura, y, además, como en la
tragedia antigua, es coreuta de sus avatares y desdichas. En Los inútiles,
deFellini (), se arrastra con los protagonistas en su deambular
cotidiano y sólo es posible pensar el cambio si se la abandona.
Es de estas últimas ciudades de las que quiero ocuparme aquí, de las
ciudades que desbaratan esa apetencia de afirmación que Eco atribuye
al receptor.

. Ciudades metonímicas

Nuevos sitios no has de encontrar, ni


[encontrarás nuevos mares
La ciudad siempre te acompañará. Por
[las mismas calles
errarás, en los mismos barrios
[envejecerás
y en las mismas casas habrás de
[encanecer.
Siempre llegarás a la misma ciudad.
En otro lugar no pongas tus [esperanzas
no hay barco para ti, no hay camino.
Al perder tu vida aquí,
en este rinconcito, en toda la tierra la
[has destruido.

C.P. Cavafy, La ciudad ()

La llamada “narrativa clásica”, forma paradigmática del realismo


en el cine, lleva a cabo una organización espacio–temporal que se
propone como principal objetivo borrar las huellas del discurso que
la articula. Como bien señala David Bordwell: “convierte el mundo
de la historia en una construcción internamente coherente en la que
 Mabel Tassara

la narración parece avanzar desde el exterior” (, p. ). Este ex-


trañamiento de la narración se afirma en la manipulación de la puesta
en escena (en la que se incluye, para el tema que ahora nos ocupa, la
construcción del ámbito en que se desarrolla la historia), ella crea la
ilusión de “un acontecimiento profílmico aparentemente independien-
te que se convierte en el mundo tangible de la historia encuadrado y
registrado desde afuera” (ibidem), un recuadre y un registro, añade
Bordwell, que suelen tomarse como la propia narración.
Una de los parámetros principales de esta narrativa es la orientación
clara del receptor, por eso las marcas de ambientación son fuertes en el
“cine clásico”. Se ha dicho que este cine solía comenzar con un plano
general de ubicación. Cuando la ciudad ocupaba un lugar significativo
en la historia, esta ubicación solía resaltarse. Películas como Casablanca
(Michel Curtiz, ) o Tener o no tener (Howard Hawks, ) ofrecen
como primera imagen un mapa en el que se sitúa la ciudad, se pasa
después a planos generales de sus calles para, recién en tercer término,
aproximarse a los interiores en que se desarrollará la historia.
Otros elementos apuntalan también el efecto de realidad, como
las catálisis, dirigidas a acumular información sobre los ambientes, a
enriquecerlos con detalles aparentemente nimios, supérfluos, pero
que en verdad muestran no ser tales, en la medida que están dirigidos
a fortalecer su verosimilitud. Cumplen un rol similar al que Roland
Barthes les adjudica en la literatura. Incluso, Barthes llega a pensar
en elementos que van más allá del concepto de catálisis (), que
él mismo propusiera como función narrativa de relleno (). Habla
de “notaciones que ninguna función (aun la más indirecta de que se
trate) permite justificar” (, p. ) , y termina conectándolas con el
espacio de la descripción, que presenta siempre un carácter transversal
con respecto al espacio estructural del relato. Barthes se muestra aquí
todavía bastante apegado a la noción de estructura, y parece ser desde
este lugar que pone en cuestionamiento el carácter funcional de esas
notaciones. Sin embargo en la medida en que ellas no soninsignificantes,
cree que no queda sino discutir su estatuto. La cuestión que hace
reflexionar a Barthes es que estos elementos son significantes sin
. Los ejemplos son: un bárometro sin ninguna conexión con la trama y con la descri-
pción de personajes o estilos de vida en Un corazón simple de Flaubert y una puertita a la
que el verdugo golpea con suavidad en la celda de Carlota Corday, en La historia de Francia
de Michelet.
Ciudades del cine 

significado (de denotación, porque Barthes sigue aquíapegado a las


nociones de denotación, connotación, siendo la literatura un sistema
segundo o complejo), que remiten directamente a la referencia, por lo
que decide, finalmente, que son significantes de connotación, cuyos
significados son el mismo real, y es esta total ajenidad con la diégesis lo
que produce el efecto de lo real.
A mi entender, el concepto de catálisis basta para considerar este
tipo de inclusiones, si todo el relato se piensa como un todo, en el
que según el mismo Barthes había planteado, no hay nada que no
contribuya al sentido. No me parece que el hecho de no actuar estric-
tamente como indicios que crean ambiente (para aislar del potencial de
esta categoría funcional sólo lo que ahora nosinteresa)las deje fuera
de la función indicial, en tanto el efecto de realidad se genera en el nivel
de la narración, lo que las convierte en indicios de algún tipo.
De todos modos, esta diferencia, en el punto, entre el significa-
do y la referencia, en términos de los significados de denotación, es
algo que puede hacer cavilar en la literatura; en el cine, la imagen
cinematográfica, al replicar los objetos del mundo, los convierte in-
mediatamente en significantes de denotación, cuyos significados de
denotación son, sin duda, de modo directo y brutal, lo real. Claro que
esto no es el hábitat que un determinado texto fílmico crea, que en
el cine como en la literatura se logra por significados de connota-
ción (si seguimos considerando estos niveles). Pero ese espacio de
intersección que preocupa a Barthes, no se da en el cine, donde una
cierta referencia siempre se crea. El desafío del texto cinematográfico
es orientarla en la línea de la diégesis y de la mirada estilística. Y lo
más difícil para cualquier trabajo textual es, justamente, lo contrario,
borronear la referencia para imponer el significado.
Ahora, lo que me interesa aquí del texto de Barthes es que él re-
flexiona sobre este problema a partir de la construcción de un cierto
realismo, el del s. XIX, que busca un efecto de realidad diferente de la
verosimilitud clásica, más cercana a las pautas del género, novedad
que, como planteará líneas más adelante, dará paso, finalmente. a una
nueva verosimilitud. Como los lenguajes no se desenvuelven de ma-
nera paralela en el tiempo, pero algunos desarrollos comunes pueden
encontrarse en unos y otros (aunque en épocas dispares), esa presen-
cia del puro real que se busca construir en ciertos estilos literarios del s.
XIX podría encontrarse en algunos de los estilos que se desarrollan de-
 Mabel Tassara

spués del clasicismo cinematográfico, como el neorrealismo italiano,


o ciertas narrativas de los años sesenta.
Si seguimos considerando el concepto de catálisis como una parte
del relato que no es función nuclear, en cuanto no está conectada
con el desenvolvimiento de la trama, en el neorrealismo asistimos a
su notable crecimiento, a una expansión que es cuantitativa, pero
también cualitativa, porque lo hace en sustitución de los núcleos, que
se debilitan cada vez más.
En el cine de Rosellini, por ejemplo, esas notaciones que refieren
al puro real son dominantes: un paisaje, un ritual, un rostro, imágenes
que no pueden considerarse estrictamente en relación con la historia
que más o menos pretende contarse pero que parecen remitir a ese
espesor de lo real que Barthes encuentra en cierta literatura realista.
Son muchos los autores que han hablado de ese cine desde este lugar:
Bazin (), Rivette,(), Deleuze ().
Con su habitual precisión, André Bazin dice, a propósito de Hum-
berto D. de De Sica ():
La elipsis es un proceso lógico de narración y, por tanto, abstracto; supone
análisis y elección, y organiza los hechos de acuerdo con el sentido dramáti-
co al que deben someterse. De Sica y Zavatttini quieren, por el contrario,
dividir cada suceso en sucesos más pequeños y éstos a su vez en otros aún
más pequeños, hasta el límite de nuestra sensibilidad temporal.
(Bazin , p. )

Bazin culmina la descripción de la escena que analiza diciendo que


la cámara “termina por convertir en objeto de la imagen el tantear de
los dedos del pie sobre la madera” (ibidem).
Esa atención a lo minúsculo, a lo periférico, a lo que habitualmente
hubiera sido hojarasca es lo que genera los efectos de dilación, de
estiramiento de los hechos, a partir de los que el devenir parece hacerse
presente en su pura materialidad.
Este cine resalta el lugar del significante cinematográfico por sobre
cualquier significado (sea de denotación o de connotación). Finalmen-
te, hay aquí un avance de lo poético por sobre la referencia, que
quiebra el sutil equilibrio que el “cine clásico” había establecido sobre
ambos espacios. Por eso Deleuze puede decir que en él cobran relieve
los op–signos y los son–signos (, p. –); pero, ¿acaso no son los
op–signos y los son–signos los componentes del significante fílmico,
Ciudades del cine 

cuando el cine se hace sonoro? El crecimiento y avance del plano


significante, el borroneo de la referencia, el debilitamiento de los lazos
causales, y el incremento de la ambigüedad del significado son los
rasgos que Roman Jakobson atribuyó al discurso poético (). No
estamos aquí en presencia de textos que asuman plenamente esta
configuración (como podrían ser, por ejemplo, algunos de la vanguar-
dia francesa de los años veinte) pero sí de obras que avanzan desde
una configuración narrativa hacia formas conectadas con el discurso
poético. Ese crecimiento del espesor de lo real que tanto atrae parece ser,
en definitiva, y como paradoja, consecuencia del avance del discurso
sobre la referencia.
Paso a ocuparme de un film que se instala, creo, en el espacio híbrido
de esas narrativas, pero que por otra parte pertenece por entero a este
s. XXI, que ya ha visto transcurrir varios años del momento posmoderno,
y en el que los procedimientos, a mi entender, originales, utilizados
para la puesta en escena se observan de manera privilegiada en el
modo singular en que construye un hábitat.

. Con ánimo de amar ∗

En oposición con los ejemplos antes mencionados del “cine clásico”, el


film de WongKar–wei() se inicia con una leyenda que dice:“Hong
Kong ”, pero este informante aparentemente muy preciso, que
indica una ciudad y un año, será desmentido a partir de la primera
imagen; y a medida que el film transcurre esa ubicación resulta ser
cada vez más inoperante; en verdad, esta historia casi podría haberse
desarrollado en cualquier lugar. En la primera imagen, que sigue a la
información, ya se insinúa el ámbito clausurante, claustrofóbico, que
dominará a lo largo del film. Un travelling sobre una pared repleta
de objetos es el primer plano, al que le siguen una serie de planos
cerrados que poco dejan ver sobre el espacio en el que se mueven los
personajes. No será fácil a lo largo de toda la película reconstruir la

Se sigue aquí, como en todos los filmes citados, el criterio de utilizar el título con el
que la película se estrenó en Argentina. Éste es, también, el título utilizado en otros países
de América Latina, mientras que en España se estrenó como Deseando amar. En ingles, el
film se llamó In the Mood for Love.
 Mabel Tassara

diagramación de los departamentos en que ocurren las situaciones ni


la disposición de las habitaciones en ellas.
A pocos planos de empezar el film los protagonistas se cruzan en un
estrecho pasillo, los cuerpos están cerca pero ellos apenas se prestan
atención. Este cruce en los pasillos se repetirá muchas veces, y aunque
los personajes ya no son desconocidos uno para el otro como en ese
primer encuentro se mantendrá la cercanía de los cuerpos sin que
lleguen nunca a tocarse.De hecho, en la estrechez del espacio que se
muestra, es difícil que los cuerpos no entren en contacto al cruzarse,
evitarlo es un esfuerzo, que se marca visualmente; pero esa cercanía
que no llega a ser ni siquiera tangencial parece hablar del único tipo
de relación que los protagonistas pueden sostener.
Hay algo de orgánico en ese espacio que parece pegarse a ellos, que
los envuelve, que actúa a la manera de un ropaje de cuya tela cuesta
desprenderse.
Pero este es sólo uno de los aspectos de una puesta que evidencia a
cada paso su gusto por el artificio. Podríamos decir, parafraseando a
Godard: esto no es una habitación, no es un pasillo, etc., es un plano .
Cada plano parece estar organizado, antes que en función de la con-
strucción verosímil de un ámbito, en celebración de su composición
plástica. Allí los personajes no son más importantes que cualquier otro
elemento que aparezca en el encuadre, y parecen insertarse en él más
por el rol que juegan en la composición y en la articulación cromática
que por su incidencia dramática en la escena que se juega .
Están muy lejos de recibir la importancia que les confería el en-
cuadre en el “cine clásico”, donde éste se construía alrededor del
personaje y la acción que en esa situación jugaba; aquí los personajes
son habitualmente empujados hacia el fondo del campo. Se eviden-
cia unaquiebra de la concepción moderna del sujeto omnipotente
enfrentado a un objeto mundo al que supone dominar a la luz de la
inteligencia y la tecnología; emerge un universo más antiguo, más
pagano tal vez, en donde hombres y objetos están al mismo nivel, y
si hay un espacio dominante, éste parece ser, por el contrario, el de

. “No es sangre, es rojo”. La frase se atribuye a Godard y ha sido citada en diversos


textos sobre cine.
. Esta modalidad de construcción del encuadre es utilizada por Wong Kar–wei
también en otras películas; por ejemplo, en  (Tassara ).
Ciudades del cine 

los objetos. Ese extrañamiento de los personajes, en relación con el


concepto tradicional de drama, su deshumanización, desde el criterio
de esos verosímiles, hace que se muestren aquí altamente vulnerables
(vulnerabilidad que no proviene de acontecimientos particulares que
los afectan sino de su misma condición humana). Son, por otra parte,
objeto de una desmaterizalización como psicologías, ni siquiera co-
nocemos sus nombres: la mujer será llamada siempre Sra. Chan y el
hombre Sr. Chow.
Otros recursos apuntan el carácter fantasmático del hábitat. Uno
de ellos es la reiteración de secuencias; por ejemplo, es significativa
la de la mujer que sale del departamento a comprar sopa: el uso de
un particular ralentí y el obsesivo y repetitivo leiv motiv musical la
acercan a una imagen del sueño, o del recuerdo, o del ensueño. Se
articula aquí, también, un nuevo espacio en que los personajes se
cruzan pero nunca se tocan.
También está la veladura constante de la visión: obstáculos diversos
(cortinas, lluvia) esfuman, desdibujan lo que está en el objetivo de la
cámara. En muchas ocasiones no se puede hacer otra cosa que atisbar,
entrever. El carácter asertivo propio de la imagen entra en una casi
permanente desestabilización.
La ciudad sólo se visualiza como entorno de los apretados trayectos
que realizan los protagonistas; no obstante, se cierne opresiva. “No
tengo hambre, sólo quiero tomar el aire”, dice la protagonista en cierto
momento, antes de emprender uno de sus tantos viajes a comprar
sopa. Pero el encierro espiritual que encarna en los apretados espacios
de los departamentos parece acechar también en la ciudad que los
rodea.
A medida que el film transcurre, y sobre todo en su segunda parte,
resulta ya imposible decir si lo que se ve sucede, ha sucedido — y
es entonces una imagen de la memoria — o se trata de una fanta-
sía apoyada en una expectativa. Tampoco queda claro si la visión es
objetiva o subjetiva, y si es subjetiva de quién es esa visión.
“Quiero un cambio de aires”, dice el protagonista masculino cuan-
do decide irse a otra ciudad. Pero el juego será el mismo: otro infor-
mante: “Singapur ” y la misma indeterminación sobre lo subjetivo
y lo objetivo, el presente, el recuerdo, la expectativa; lo que sucedió,
lo que pudo ser y no fue.
Deleuze dice sobre el cine de Antonioni:
 Mabel Tassara

En cuanto a la distinción entre subjetivo y objetivo, también va perdiendo


importancia a medida que la situación óptica o la descripción visual reem-
plazan a la acción motriz. Se cae en un principio de indeterminabilidad, de
indiscernibilidad: ya no se sabe qué es lo imaginario o lo real, lo físico o lo
mental en la situación, no porque se los confunda sino porque ese saber falta
y ni siquiera cabe demandarlo. Es como si lo real y lo imaginario corrieran
el uno tras el otro, reflejándose el uno en el otro en torno a un punto de
indescirnibilidad.
(, p. )

Hay en este párrafo de Deleuze una referencia al debilitamiento


de la distancia entre percepción objetiva y subjetiva en el llamado
“cine moderno”, en el que se rompen los lazos sensorios–motores,
y asistimos a la emergencia de una “imagen tiempo”. En este punto
en particular, esa apreciación de Deleuze se toca con posturas de
Pasolini, quien ha planteado la subjetiva indirecta libre, para referir
a una mirada del personaje mediada por la mirada del autor ().
También Pasolini encuentra esta modalidad en el “cine moderno”,
que da lugar a lo que el denomina “cine de poesía (ibidem).
Algo parecido a lo que describen Deleuze y Pasolini sucede aquí,
algo que yo consideraría desde la perspectiva de un discurso errante,
un discurso que ha soltado las amarras de la narración para encami-
narse a su asunción como discurso poético, categoría (para llamarlo
de algún modo) que ya no está obligada, por su modalidad de inserción
cultural a dar cuenta de la referencia, y que puede aceptar, entonces,
también un avance de la enunciación sobre el enunciado.
Sólo que Wong Kar–wei aplica una nueva vuelta de tuerca. Lo
que constituye a mi entender su profunda originalidad es que pue-
de abrevar simultáneamente en dos estilísticas muy fuertes: la que
proviene de la narrativa de los años sesenta, particularmente en la
vertiente Antonioni, y el pastiche posmoderno, sorteando ambos y
construyendo un estilo muy propio (Tassara ).
Lo que incorpora esa segunda fuente — a ese modo de narrar de-
splazado,tangencial, oblicuo, en que los conflictos de los personajes se
eliden, tanto como los mismos personajes, mientras crece la importan-
cia del espacio y los objetos circundantes— es el constituirse, además,
en lo que Genette llamaría una “escritura en segundo grado” ().
Ella asoma en las desembozadas huellas de los estilos y los géne-
ros convocados (los gestos congelados del melodrama pasional), en
Ciudades del cine 

las imágenes que son imágenes de imágenes de cine, en un uso de


la cámara que declara puerilmente su intención (pudorosa, enfática,
enigmática). Todo en este film se dirige a la configuración del discurso
que se vuelve sobre sí mismo. Es un film que sólo pretende ser un
film. El habitat que construye es un habitat de cine, pero esto no quiere
decir que tenga algo que ver con los viejos ámbitos construidos en
estudio. Aquellos también buscaban generar (como podían) la ilusión
de una realidad profílmica. Con ánimo de amar afirma, por el contrario,
la virtualidad del escenario.
Es un film melancólico, y triste, y muy bello. Tal vez nos falte la
perspectiva suficiente para discernir el aporte, que por mi parte creo
notable, que Wong Kar–wei ha hecho a un cine que por ahora no
sabría como llamar (el problema histórico de las denominaciones con
pre, pos, etc.) pero que seguramente se ubica después del momento
posmoderno; desde mi punto de vista representa un salto cualitativo
desde esa estilística.
Curiosamente, el último ámbito que aparece en la película, Cam-
boya, está filmado de manera muy diferente, con cánones mucho más
realistas, pero a diferencia de los espacios anteriores, extremadamente
pequeños, angostos; aquí aparecen grandes espacios abiertos, y las
ruinas de construcciones monumentales muy antiguas, que hablan de
una larga historia de la humanidad, en la que se hace patéticamente
evidente el paso efímero del hombre. Así, el protagonista aparece
en este paisaje notoriamente, pequeño, el efecto de aplastamiento se
sostiene, tanto como el de vulnerabilidad.
Me recordaba este contraste algo que decía Orson Welles cuando
tomó la decisión de ambientarEl proceso en espacios absolutamente
opuestos a los descritos por Kafka, había pensado que daba igual
trasladar la acción de espacios reducidos, de techos bajos, abarrotados
de objetos, a grandes espacios vacíos de altos techos, el efecto de
sentido de opresión era similar, se podía construir de los dos modos.

Referencias bibliográficas

B R. () “Introducción al análisis estructural de los relatos”, en


Id., La aventurasemiológica, Paidós, Barcelona, p. –.
 Mabel Tassara

———. () Realismo. ¿Mito, doctrina o tendencia histórica?, Lunaria, Bue-


nos Aires.
B A. ()“Una estética de la realidad: el neorrealismo”, en Id., ¿Qué
es el cine?, Ediciones Rialp S.A., Madrid, –.
B D. () “La narración clásica: el ejemplo de Hollywood”, en
Id., La narración en el cine de ficción, Paidós, Barcelona, – .
D G. () “Más allá de la imagen movimiento”, en Id., La imagen
tiempo, Paidós, Buenos Aires, –.
E U. () Seis paseos por los bosques narrativos, Lumen, Barcelona.
G G. () Palimpsestos, Taurus, Madrid.
J R. ()Lingüística y poética, Cátedra, Madrid.
P P.P. () “El cine de poesía”, en Id., Empirismo herético, Brujas,
Córdoba, –.
R J. () “Carta sobre Rosellini”, en A. de Baecque (ed.), La políti-
ca de los autores,Pequeña Antología de Cahiers du Cinéma, Paidós, Buenos
Aires.
T M. () “Figuras del desplazamiento en el cine”, en L. Zava-
la, Reflexiones teóricas sobre cine contemporáneo, Asociación Mexicana de
Teoría y Análisis Cinematográfico, México.
———. () Formas de la tercera centuria, “Figuraciones”, .

Mabel Tassara
Universidad de Buenos Aires
Lexia. Rivista di semiotica, 9–10
Ambiente, ambientamento, ambientazione
ISBN 978-88-548-4516-9
DOI 10.4399/97888548451695
pag. 247–262 (dicembre 2011)

La ciudad de los espacios invisibles


Una reflexión sobre escenarios alternativos
en la metrópolis de Buenos Aires
a través del un discurso de no–ficción

F G M

 : The City of Invisible Spaces: a reflection about alternative scenarios
in the metrópolis of Buenos Aires through a non–fiction discourse

: The metropolis is a place of diversity. Squares, business, and


traditional neighbourhoods make up a plot of different scenarios. In
all of them, social actors build their identities at the same time they
develop their vital run. In the intersection of these visible spaces there
exist others that operate as bridges between the known surroundings
and the ones that I call alternative spaces in the big city. In the last ones,
the marginal social actors fight to build their habitat with the resources
that the big city discard. This article tries to show how to build these
alternative scenarios in the city of Buenos Aires, Argentina, through the
non–fiction discourse of a public television program. This analysis uses
theoretical tools from semiotics, communication, and cultural studies to
understand the complex processes of inclusion and exclusion that take
place in the space of the metropolis.

: Cities; scenarios; actors; identities; invisibility.


Los lenguajes que reflejan las superficies cam-
biantes del contexto urbano se enriquecen
con la multiplicidad de sonidos, imágenes, ge-
stos, palabras, y números que entremezcla-
dos dan vida a léxicos en mutación continua.
Lugar de la memoria personal y la colecti-
va, la metrópoli moderna es, en consecuen-
cia, un sistema de objetos y de sujetos que
se mantienen unidos por códigos individua-
les y sociales de no siempre fácil e inmediata
interpretación y significación.

(Gennari , p. )


 Fabián Gabriel Mossello

El artículo que presento intenta dar cuenta de las posibilidades


que tienen ciertas prácticas de medios para construir imágenes de la
ciudad contemporánea en tanto lugar, no sólo físico, sino también
simbólico donde se articulan identidades. Me centraré en un caso
particular de producto de no–ficción televisiva, por su capacidad para
redefinir espacios y darle visibilidad a un conjunto de “historias míni-
mas” a través de mecanismos discursivos para la construcción de lo
que llamaremos los espacios de la ciudad invisible .
Hablar de identidades supone retomar una de las problemáticas
clave de las ciencias humanas y sociales contemporáneas reflejada en
la oposición esencialismo / antiesencialismo. Pensar desde la esencia
es sostener, que aquello que los hombres definen como su identidad,
es decir, el conjunto de representaciones que los identifica como in-
dividuos pertenecientes a un grupo, clan, sociedad, región o estado,
entre otras posibilidades, se mantiene incólume en el tiempo. La idea
clásica de tradición está ligada a este tipo de identidades y supone que
los hombres deben conservar o rescatar “algo” que es exterior a los
sujetos y que los identifica. De allí derivan, por ejemplo, ciertas bú-
squedas de identidad nacional en tanto invariante histórica y cultural,
esto es, objetos de valor definido y que sólo se debe descubrir.
Por el contrario, nosotros decimos que la identidad no es una
esencia sino un concepto estratégico y posicional, que no señala un
núcleo estable en el tiempo de un yo que no cambia. Tampoco la
identidad es un yo colectivo o verdadero que debamos descubrir.
Como afirma Ricardo Kaliman:
La identidad no es una esencia metafísica que define a los individuos más
allá de cualquier conciencia que puedan tener de ella [. . . ] sino una auto-
descripción en el seno de una comunidad que los agentes hacen propia a
través de la socialización y que puede visualizarse empíricamente en las
expectativas y códigos que ponen en funcionamiento cuando se embarcan
en acciones comunitarias.
(Kaliman , p. )

Estas autodescripciones son haceres y decires históricos, cultural-


mente modulados por todos los factores que hacen de las sociedades
. Las categorías analíticas utilizadas y las conclusiones a las que arribamos pueden
extrapolarse, sin dificultades, a productos similares de recientes aparición como La Liga
(Canal ), Historias prestadas (Canal ), Humanos en el camino (TELEFE).
La ciudad de los espacios invisibles 

espacios dinámicos y cambiantes. Zygmunt Bauman () comenta


que si

el problema moderno de la identidad es cómo construirla y mantenerla


sólida y estable, el problema posmoderno de la identidad es en lo funda-
mental cómo evitar su fijación y mantener vigente las opciones [. . . ]; la
palabra comodín de la modernidad fue creación, la palabra comodín de la
posmodernidad es reciclaje.
(Bauman , p. )

Las particularidades enunciadas por Barman () se visualizan


con mayor énfasis en épocas de modernidad tardía, de momento que
las prácticas identitarias se presentan fragmentadas y construidas de
múltiples maneras, muchas veces por posiciones antagónicas y en
pugna por imponerse una sobre la otra. En palabras de Homi Bhabha
(), el efecto de fragmentación produce las condiciones de una red
de intersubjetividades sustentadas y soportadas por el lenguaje. En este
sentido, el caso que analizaremos, denominado Ser Urbano , aparece
como práctica cultural apropiada para indagar este tipo de identidades.

. El unitario y su proyecto de habla

Ser Urbano es un unitario y esto nos remite a un tipo de práctica


televisiva que supone la unidad de cada presentación, a partir de la
recursividad de formato que cambia todos o casi todos los actores,
escenarios, historia, dentro de un marco común. Cada semana, Ser
Urbano proponía una historia que se iniciaba y terminaba en un solo
episodio, lo que permitía concretar el cierre semántico y la autonomía
de cada emisión, dentro de un formato compartido que conservaba,

. Ser Urbano es un programa documental periodístico producido por el canal argentino


T.E.L.E.F.E durante las temporadas  y . Emitido en prime time, y conducido por el
actor argentino Gastón Paul, Ser Urbano buscaba historias de vida emotivas, tiernas, doloro-
sas, sorprendentes, de superación personal y, también, injustas, para atrapar al televidente;
historias que en su mayoría están fuera de la agenda de los grandes medios de comunicación
social. A través del formato del unitario de no–ficción, el conductor recorre distintos espacios
de la ciudad de Buenos Aires desde una mirada cuasi–etnográfica, rescatando esas microhi-
storias de vidas, hablando en primera persona con los sujetos involucrando y sintiendose
parte de sus dramas y alegrías.
 Fabián Gabriel Mossello

mayoritariamente, el mismo espacio ciudadano — Buenos Aires — y


la intervención de un único narrador.
Indagando en la historia del género, los ciclos unitarios nacieron
en Argentina junto a la propia producción ficcional. Por las décadas
de  y , la mayoría de los programas llamados unitarios eran
adaptaciones para la TV de clásicos del teatro.
Recién a mediados de los años ’, se comenzó a identificar el gé-
nero unitario como práctica con especificidades propias. En concreto,
por aquellos años se designaba así a aquellas ficciones que, a partir de
un título común, planteaban en cada programa semanal una historia
como episodio único. Títulos como Vidas en crisis, Cosa Juzgada, Alta
Comedia, son ejemplos de unitarios de los años ’ que supieron con-
jugar los mejores recursos del teatro con las nuevas condiciones de
producción que exigía la TV.
En los ’, el unitario se desarrolla en otro sentido, retomando de
la literatura narrativa sus mejores fuentes. Es el caso del ciclo dirigido
por Sergio Renán, Las grandes novelas, y adaptado para Canal . Ya en
los ’, unitarios como El viejo Hucha, Mateo, Jettatore, He visto a Dios,
integran otras líneas del drama televisivo y la recién inaugurada TV
de color. Para mediados de los ’, impulsados por el nuevo contexto
democrático, surgen unitarios narrativos testimoniales como Nosotros
y los miedos, Canal , al que siguió Compromisos en Canal . En la
década de los ’, un nuevo tipo de unitario hace su aparición, bajo
la modalidad de la docu–ficción. Sobresale El otro lado, dirigido por
Fabián Poloseki en ATC, y sus incisivos relatos y entrevistas a persona-
jes de la vida cotidiana. En la tensión que muestra esta breve historia
entre unitarios ficcionales (hoy retomados por los ciclos policiales de
Mujeres Asesinas y Botines, entre otros) y realismo de productos más
testimoniales como Compromisos, ubicamos a Ser Urbano (TELEFE),
en tanto punto de confluencia de las mejores técnicas del relato li-
terario, con su capacidad para contar una historia, y del periodismo
informativo, con la incisión de su crítica social.

. Historias vividas

El corpus que analizamos está constituido por programas del ciclo,


conducidos por el actor argentino Gastón Paúl que relata un conjunto
La ciudad de los espacios invisibles 

de hechos llamados “historias vividas”. Desde el título del programa


se construyen los primeros sentidos, ya que la proximidad de “vividas”
junto a “historias” implica una mirada desde adentro del aconteci-
miento. Esta observación se ve convalidada por las mismas referencias
extradiegéticas:
La ciudad está llena de personajes, historias de vida, de lugares que pasan al
lado nuestro y que en el apuro de todos los días no nos detenemos a mirar.
(Ser Urbano , on line)

Así, el narrador indica que lo que se dirá no es una historia escrita,


documentada e impresa, es decir, una versión de biblioteca, sino el
mismo hecho intranscendente u olvidado por el ciudadano común y
visible por medio del relato:
Ser Urbano [cuenta el narrador] [. . . ] se detiene en cada una de esas historias
para descubrir sus realidades, no como un observador externo, sino como
testigo, compartiendo las experiencias de cada una de las personas que las
vivencian y compartiendo el mundo que las rodea.
(Ibidem)

En este sentido, la distancia entre narrador y los sujetos protagoni-


stas de cada historia — los personajes de la metadiégesis — va a ser
mediada por el discurso, por la narración de lo invisible que se erige
en puente entre dos espacios: el cotidiano, cohabitado por los actores
de la enunciación y
Mundos lejanos [que] no los conocemos en profundidad, no tenemos
contactos. Pero, a la vez, cercanos porque pasan a metros nuestros.
(Ibidem)

El unitario que analizamos se posiciona re–escribiendo el mapa


urbano de esos escenarios, “nuevos universos [. . . ] [que] están ahí, [y]
Ser Urbano se detiene para vivirlos y acercarlos al espectador” (ibidem).
La realidad de las historias vividas es en parte resultado de la uti-
lización de un conjunto de estrategias de verosimilización (Hamon
): nombrar lugares geográficos, sujetos y acciones reconocibles en
el contexto, jugando con la ilusión de estar ahí, en un contacto activo
indicial y factual con las cosas y los actores de las historias mínimas.
Es decir, desde un principio el narrador invita al periplo cognitivo
 Fabián Gabriel Mossello

del reconocimiento del otro “ser” de lo “urbano” desde una mirada


hiperrealista por el espacio metropolitano.
Lejos de la unidad y la homogeneidad, Ser Urbano describe un mun-
do fragmentado en una multiplicidad de “regiones” societarias. Tal vez
el aspecto más destacado del unitario es el espacio. Desde el título, la
práctica de no–ficción nos re–envía a la ciudad en tanto lugar germinal
de nuevos sentidos que co–habitan con viejos y esclerotizados siste-
mas de referencias cultural. Sobre la ciudad como lugar antropológico
haremos algunas observaciones.

. La ciudad contemporánea: lugar antropológico de la diversidad


cultural

La ciudad existe de múltiples maneras. Por un lado constituye una


realidad concreta, material, regida por normas sociales que ordenan
nuestra relación con ella. Por otro, la ciudad es también una “ciudad
imaginaria”, una construcción simbólica originada en la imaginación
y los lenguajes. Así, estamos en la ciudad

en la intersección de nuestra experiencia sensual [. . . ] y nuestra ubicación


en un mar de “representaciones” [. . . ] que circulan — y que en cierto
sentido, nos preceden —, las cuales conforman un “anillo” que media
nuestra vivencia de la ciudad. De este modo, la experiencia cotidiana está
mediada por tales narraciones — las cuales se refuerzan o alteran como
resultado de la vida cotidiana.
(Remedi , p. )

Estar en la ciudad supone, de este modo, ligar el dato sensorial e


individual con todas las representaciones colectivas cercanas o lejanas
que se hacen presentes por medio de distintos procesos semióticos.
De ahí la importancia de las representaciones espaciales, en tanto
“estrategias y metáforas mediante las que buscamos captar y com-
prender fenómenos sociales, económicos y políticos más complejos”
(ibidem, p. ).
Concomitantemente, la ciudad moderna está asociada a los medios
de producción y comunicación masivos. El espacio ciudadano es prota-
gonista de la cultura de masas, por lo tanto, es punto de reunión entre
saberes populares y cultos, entre “baja” y “alta” cultura; relaciones
La ciudad de los espacios invisibles 

culturales construidas muchas veces desde la conflictividad a través de


procesos de exclusión / inclusión del otro cultural.
En este sentido, hay ciudades presentes y ausentes; visibles y ocul-
tas, pero siempre son espacios contenedores de un caleidoscopio de
historias posibles. Porque la ciudad es portadora de registros materia-
les y simbólicos. Estas dos dimensiones atraviesan distintas orografías
ciudadanas, tanto en los lugares centrales y representativos de la cul-
tura dominante, como en aquellos sectores excluidos, articulándose
distintas representaciones urbanas.
De este modo, la cultura dominante impone su lógica al resto a
partir de conjuntos de prescripciones y prohibiciones. De ahí que la
ciudad es espacio de luchas por la apropiación de los distintos aspectos
constituyentes de su estructura; conflictos que quedan registrados en
los distintos lenguajes ciudadanos. Estos “bables societarios” (Rosa
, p. ) muestran las luchas por el territorio que se refleja entre
relatos abiertos y ampliamente institucionalizados bajo el control de
la cultura dominante (la escuela, las grandes religiones, el estado) y
aquellos crípticos que circulan en sectores y grupos minoritarios, en
muchos casos de naturaleza oral.
Bajo esta lógica se abre un conjunto de posibilidades que organi-
zan la relación entre la ciudad, en tanto espacio visible y dominante y
variantes como la paraciudad reflejada en country y barrios cerrados,
la contraciudad de los espacios que rompen el cerco urbanístico e in-
vierten las lógicas de la primera — villas de emergencia por ejemplo
— y la no–ciudad, espacio negado, oculto y evitado. En particular, la
oposición ciudad / no ciudad reenvía nuestras reflexiones a grupos de
imágenes y representaciones de mundo bajo el eje de la habitabilidad /
no habitabilidad. Así, desde la perspectiva cultural dominante, la oposi-
ción ciudad / no ciudad es sinónimo de cultura / no cultura, en tanto
oposición que alberga procesos de homogenización y aplastamiento
de la diversidad significativa que encierran las voces populares.
Por lo dicho, la ciudad es espacio de producción de modelos de
mundo (Lotman ) en el que conviven los lugares que ostentan las
representaciones del poder, por lo general en torno a la plaza céntrica
y en continuidad con la idea colonial de la cuadrícula fundacional en
la que se distribuyen los poderes terrenales — cabildo — y de Dios
—las iglesias—, y los desplazados hacia los bordes o márgenes de las
orografías urbanas. Así, el centro de la urbe se opone a los barrios y
 Fabián Gabriel Mossello

a los nuevos emplazamientos sin todavía los recursos para el mejor


vivir. De este modo, la relación entre lo oculto y lo manifiesto; entre lo
visible y lo invisible de la gran ciudad es punto de partida para rescribir
las historias urbanas, ya bajo la lupa de la razón que homogeniza y
construye una identidad urbana esencializada, por lo general bajo la
lógica de la tradición; ya a partir de una mirada que contemple la
diversidad y multiplicidad de un espacio cultural que se está haciendo
en cada momento. En este último sentido, la ciudad es articuladora
de múltiples textos urbanos que coadyuvan a la conformación de una
identidad multifocalizada y divergente de difícil aprehensión.
Estas reflexiones sobre la ciudad nos remiten al concepto de no–lugar
definido por Marc Augé (). El concepto de no–lugar, espacio del
anonimato, como lo designa su autor, supone
tanto las instalaciones necesarias para la circulación acelerada de personas y
bienes (vías rápidas, empalmes de ruta, aeropuertos) como los medios de
transporte mismos de grandes centros comerciales o también los campos
de tránsito prolongado donde se estacionan los refugiados del planeta.
(Augé , p. )

Lugar y no–lugares se entrecruzan e interpelan en la ciudad. El


lugar está asociado con los centros estables de las convivencias sociales.
La casa–hogar física y simbólica es lugar por antonomasia. Por otro,
el no–lugar es tránsito y desplazamiento entre lugares. Una autopista
como no–lugar es paso entre lugares de la existencia permanente o
lugares antropológicos. En el exceso mismo de la posmodernidad
o la sobremodernidad, como afirma Augé, el espacio de los gran-
des conglomerados urbanos se ha cargado de sentidos múltiples y
divergentes.
Estas breves observaciones sobre lugar y no–lugar invitan a refle-
xionar sobre su aplicabilidad al análisis del unitario de no–ficción y
plantear un interrogante: ¿no observamos en Ser Urbano la conversión
del no–lugar en lugar antropológico fuerte, rescribiendo, desde otra
angularidad, las orografías de la ciudad contemporánea?
Las conversiones del lugar en no–lugar que observamos en Ser
Urbano implican un corrimiento hacia los bordes de espacios que
han quedado como restos de los grandes procesos emprendidos por
la globalización. Así, lo que el unitario describe son las “heridas” y
“cicatrices” de una sociedad fragmentada, que muestra su dinámica
La ciudad de los espacios invisibles 

a partir del juego entre aceptación/rechazo de lo distinto. La ciudad,


como un enorme palimpsesto,
expresa los interrogantes, los conflictos, las estrategias y las acciones que
constituyen la base del actuar humano y en las que se transparenta co-
mo la fantasmalidad del futuro, el proyecto social y sus modalidades de
construcción.
(Guzmán , p. )

Lo que continua desarrolla el análisis de la ciudad oculta y los


procesos de construcción de identidades que el unitario coadyuva a
desarrollar.

. El narrador paraetnográfico: la voz que hilvana el recorrido

Es interesante observar que uno de los ejes que aglutina a todos los
grupos de programas descriptos es la presencia de sujetos sociales
en torno a “historias vividas” que se mantienen, mayoritariamente,
invisibles a los ojos del transeúnte cotidiano y ausentes (con raras
excepciones) de la agenda de lo noticiable.
Es sabido que historias sobre la marginalidad aparecen en los
medios, aunque, en la mayor parte de los casos, asocian el delito, la
droga, la muerte a un conjunto de valores negativos. En términos
generales, quienes se prostituyen o drogan son casi delincuentes.
El enunciador en Ser Urbano, en cambio, hace emerger la historia
de borde en tanto relato de hechos que se están construyendo en
pos de un re–descubrimiento de los sujetos marginales desde su
positividad.
Dentro de un verdadero rompecabezas social, cultural e histórico,
el unitario presenta una unidad (valga la cacofonía), pero, como di-
ría Bauman (), una unidad no monolítica ni estática, sino hecha
de fragmentos. Esos retazos de historias en apariencia particulares
están coordinados por búsquedas y objetivos comunes presentes en
el proyecto de habla del sujeto de la voz. Lejos del paseante, el vaga-
bundo y el turista, la construcción del mapa societario se realiza desde
el punto de vista de un sujeto testigo privilegiado con competencia
para caminar el territorio de borde y sumergirse en la cotidianeidad
invisible. Según Zygmunt Bauman () sería un “peregrino urba-
 Fabián Gabriel Mossello

no” quien cuenta, en tanto sujeto del compromiso y de la solidaridad


humanitaria con el otro.
La voz narrativa, que figurativiza el proyecto de habla, organiza lo
múltiple, lo disperso, igualándose a aquellos viejos narradores, prime-
ros cronistas de otros tiempos, juglares y trovadores, y su actividad
de hilvanar, encordelar — remitiendo a la literatura de cordel y las
llamadas coplas de ciego (Barbero ) — esos fragmentos, muchas
veces orales, para construir un único proyecto discursivo. A esto llama-
mos posición etnográfica o, recuperando la denominación propuesta
por Aníbal Ford (), el narrador en Ser Urbano es una voz para-
etnográfica que rastrea el espacio de los índices urbanos a partir de
un contacto factual con las cosas. Este sujeto recupera las historias
mínimas individuales o grupales, coadyuvando a la construcción de
memoria e identidad de esos sujetos societarios.
En este sentido, el narrador busca hacer saber y creer al narra-
tario que el mundo referido se está viviendo, se está dentro de él.
Así, el enunciado muestra haciéndose, muestra su génesis a partir
de la elección de técnicas de cámara móvil, escenarios, posturas y
gestos verosímiles, invitando a realizar un contrato hiperrrealista con
el lector.
Estas estrategias discursivas, propias de la no–ficción, permiten al
narrador posicionarse como redescubridor de un mundo invisible.
Así, en la ciudad–texto, el narrador invita a un pacto de encuentro
con lo nuevo. Dice y se dice esto que no conocemos o sabemos a media, lo
iremos descubriendo juntos. A través de este pacto implícito se juega lo
cognitivo — el saber sobre — y lo pasional — el creer y el querer —
planteados como desafíos al lector.
En este corrimiento fuerte de la agenda de lo noticiable, el narra-
dor apela al interés del lector para hacer una nueva mirada sobre la
cotidianeidad, tensando la actualidad hacia el borde de lo previsible.
Aquí juega no solo la voz del narrador y de los actores del relato, sino
el punto de vista de la cámara — otro de los narradores del texto.
Móvil, desenfocada en parte, apelando a los primerísimo planos, al
fragmento, el relato de la imagen acompaña al recorrido urbano, in-
stalando la ilusión del estar ahí sin una planificación o control de la
enunciación. Así, la escena como espectáculo cinematográfico, con
poco montaje, ayuda al doble efecto de hiperrealidad y desciframiento
de lo oculto que esconden las calles.
La ciudad de los espacios invisibles 

Esta retórica mayéutica, de alumbramiento de un real invisible, que


Ser Urbano pone de manifiesto, se sustenta en un doble mecanismo.
Por un lado, en un pacto ambiguo con el lector, a partir de la tensión
entre ficción y realismo, para instalar la no–ficción que exige un lector
competente para llenar las casillas vacías del relato. Por otro, en la bú-
squeda de una hermenéusis holística por medio de la cual unos niños
de la calle son todos los niños o esos sujetos solidarios representan a
los que no vemos. En esta operación lógico–inductiva, la trama del
caso particular, la trama de vida seleccionada por el narrador, opera
como metonimia de lo real.
En este sentido, lo informativo, el dato referencial del discurso
periodístico tradicional, ha dejado su lugar al hecho en su ilusión de
ocurriendo. El énfasis en la secuenciación de un recorrido, vivido
como trayectoria de desciframiento pasional, permite el acercamiento
humanitario al otro cultural a través de un dialogismo inclusivo de
distintas cosmovisiones que se encuentran y luchan en el territorio de
los enunciados. En este sentido, la televisión se ha convertido en la
mediatización de un contacto con el urbano invisible.
Para mostrar como operan estas categorías en el unitario escogido,
nos centraremos en uno de los programas correspondiente al primer
grupo descrito con anterioridad, dentro de las “Historias asociadas a
la marginalidad, el delito, la droga y la pobreza”. El programa es Retiro
y plantea la redefinición del espacio urbano a partir de la emergencia
de historias ocultas o crípticas en torno a niños y jóvenes de la calle.
Estas historias involucran asuntos asociados con la marginalidad, en el
lábil borde entre el delito y las pequeñas gestas urbanas.

. La ciudad de los rostros invisibles: Retiro, un lugar de tránsito

Retiro es un lugar de trenes, andenes, viajeros del mundo y grandes


hoteles en torno a la estación. En contraste con esto, el unitario que
analizamos está dedicado al mundo marginal y oculto que esconde
este espacio de tránsito, recorriendo la realidad de jóvenes de la calle
y su adicción a las drogas baratas.

. Estación principal de trenes y autobuses de la Ciudad Autónoma de Buenos Aires.


 Fabián Gabriel Mossello

El narrador paraetnográfico, que mira y escucha, más que evalúa y


sanciona, introduce al receptor modélico en el mundo invisible, en el
borde mismo de uno de los espacios más transitados del país. Allí se
cruza la ciudad que todos vemos con la oculta, en la bisagra de una
marginalidad que alberga dos escenarios posibles: el sórdido, con los
niños adictos al pegamento y gente joven sin trabajo; el humanitario,
figurativizado en Mariana y su comedor para el indigente de Retiro.
Retiro es un lugar de tránsito, lo que invita a la primera cualificación
del narrador: “a Retiro nadie llega”, para continuar:

Retiro es un lugar de paso, o un no–lugar. Un mundo de viajeros que están


permanente tránsito. Llegan y parten a distintos puntos del país. Pero en
medio de ese movimiento constante, están los que han quedado varados
en este lugar. [Y)][. . . ] depende de que vereda se mire es lujo y esplendor, o
soledad, pobreza o abandono.
(Ser Urbano , on line)

El unitario, de este modo, invita a un pacto de inmersión en el


otro rostro del andén, la otra cara de la metrópolis. Allí emergen los
sujetos de la noche, en la periferia de lo visible. En la dicotomía misma
del espacio retratado y sus experiencias, aparecen los viajeros; sujetos
móviles asociados al lujo, los hoteles caros, junto a la imagen de los
que se han quedado en el margen: un niño en brazos de un joven sin
techo, un carro de cartoneros tirado por adolescentes. Imágenes del
abandono del otro cultural.
Así, dos escenarios parecen configurarse desde un principio: uno,
el del andén superpoblado con calles, subtes y trenes asociados al
dinamismo del mundo postindustrial; mundo del consumo de bienes
materiales y, de algún modo, del derroche. Otro, preindustrial, el de
las calles, marginado, lugar de tránsito atravesado por carros y gente
que camina o está quieta en una perspectiva estática del espacio. De
este modo se ponen en relación dos proyectos de vida y de país: el
visible, formado por ciudadanos que producen y consumen a gran
escala; el invisible y oculto, constituido por los que están quietos y
soportan su existencia en la solidaridad, el trueque y el reciclaje de los
restos de la sociedad del consumo .
. De algún modo, estos sujetos sociales se comportan isomórficamente a los cazado-
res recolectores de las culturas arcaicas. Sólo se ha trocado el espacio existencial. Podemos
La ciudad de los espacios invisibles 

Una de las primeras historias de Retiro es la de Josué, habitante


puntual de la plaza San Martín:

En la plaza San Martín conocí a Josué. Está en un banco junto a su hijo.


– Estoy con mi criatura. El otro lo tiene mi señora. Hace más o menos
dos semanas nació mi segundo varón. Y estoy aquí en la calle. Es difícil estar
en esta situación, así, con frío, hambre y es jodido, me entedés. Yo me crié
en la calle. Lejos de mis padres separados. Me dedique al robo, a la droga.
Yo no quisiera que a mis dos hijos les toque algo así. ¿Te parece que los
pibitos acá con las bolsas de poxirán? Puede ser mi hijo, hermano. Yo esto
ya lo hice, digamos, cuando era pibe. [. . . ] Con éso no pasás frío ni tenés
hambre.
(Ser Urbano, on line)

Este doble proceso de destrucción familiar y laboral es referido


desde las experiencias del mismo actor, legitimando el dato y reacti-
vando la lectura paraetnográfica que coadyuva a la constitución de la
identidad de este sujeto de borde que ha quedado solo y espera.
Esta narración es pie para introducir la segunda historia vivida: la de
un grupo de niños que viven solos en esa plaza. Están en la plaza desde
hace años. La plaza–hogar, espacio abierto de experiencias alternada-
mente disfóricas/eufóricas, es de ellos y de todos, es el último destino
después de la diáspora familiar. Ahí el tiempo se vuelve instantes para
estos sujetos que han roto sus relaciones con todo lo que significa
adultos — padres, profesores, religiosos, tutores, entre otros. Son así,
el punto más tenso del espacio del abandono, del Retiro invisible en el
discurso de uno de esos niños:

– No tenemos otra porque estamos en la calle. Nosotros si no estamos en la


calle no sabemos donde estar. ¿Dónde estamos si no estamos en la calle? [. . . ]
Yo vivo en la calle desde los ocho años. Esto lo jalamos (pegamento) porque
otra cosa no podemos hacer. En cambio los ricos que andan jugando a los
videitos, haciendo un montón de cosas [. . . ] los ricos están en los hoteles
[. . . ]. Pero los pobres no somos nada ante los ricos, somos una pobre basura.
(Ibidem)

Es interesante observar como ciertos objetos de valor aparecen


asociados a esta tribu de la calle. El pegamento y los cigarrillos, nega-
tivos desde la perspectiva de la salud en el espacio dominante, aquí
llamarlos cazadores–recolectores urbanos.
 Fabián Gabriel Mossello

aparecen descriptos por el narrador como objetos de la alienación


para la subsistencia en el espacio alternativo de la plaza.
Un dato clave a analizar es cómo esta tribu configura su propia
representación a partir de la negación de los otros, es decir, los niños
ricos de los espacios construidos (hoteles caros, salas de videojuegos
o la confortable casa–hogar) opuestos a la desprotección de la plaza.
Así dicen, “los pobres no tenemos nada [. . . ] los pobres somos una
pobre basura”. El plural inclusivo del pronombre personal indica la
asunción, aunque tímida, de una identidad de grupo que rebasa los
límites impuestos por la plaza. Son todos los pobres, los presentes y
ausentes que esperan. Los niños no roban, no molestan, esperan —
dice y enfatiza el enunciador.
El cuadro del Retiro invisible se completa con la historia de Cristina,
una mujer que abre puertas de taxi. Es importante ver como a la
sintaxis de la marginalidad, común a las otras historias, se le suma
la del trabajo y el esfuerzo. Hacer algo digno, no robar, resistiendo
desde el lugar de las experiencias límites, desde la fisura que les ha
quedado para sobrevivir con dignidad.
Ese otro Retiro contiene un gesto personal de alguien que necesita
ser útil, aunque el mundo de los viajeros en tránsito no lo vea así:

– Yo me dedico a abrir puertas de taxis. Esa es una manera de honrada


de manejarme yo, de venir y abrir puertas y ganarme honradamente la
moneda. No andar haciendo otras cosas que no es convenible.
– Alguna vez tuviste tentada de ganarte la vida de otro forma.
– Con la mano en el corazón, te lo digo robar no. Uno cuando abre una
puerta lo discriminan mucho.
(Ibidem)

Por último, en el mapa de la ciudad oculta, el relato de no–ficción


pone de relieve otra cara de esa realidad, no ya desde la perspectiva
del sujeto marginado, sino construyendo al solidario, a partir de un
desplazamiento significativo desde el espacio abierto — plaza, calle,
andén y subte — a otro que remeda el hogar perdido de los indigentes.
Es el albergue de pernocte que coordina Mariana, un actor solidario
que aparece donando su esfuerzo. Mariana es un actor que ejecuta
pequeñas gestas humanitarias en pos de restituir, en parte, el orden, el
equilibrio de las vidas de los que están en la calle:
La ciudad de los espacios invisibles 

– Este es el parador de Retiro. [. . . ] Un lugar de pernocte para la gente que


está en la calle.
(Ibidem)

Es interesante reafirmar como el narrador paraetnográfico con-


struye, tanto al comienzo como al final del programa, el espacio invisible
del andén desde una perspectiva distinta a la del paseante o transeúnte
cotidiano. Por un lado, sanciona positivamente a los héroes de la super-
vivencia y la solidaridad, en un intento de rescatarlos de su anonimato
y darles voz; por otro, articula la denuncia a los responsables del aban-
dono, esos que paradójicamente “no llegan” a Retiro, y miran sin ver
— crítica en especial a los escenarios vividos por sujetos sociales que
arman la agenda de prioridades políticas, económicas y culturales.
Al final, a partir de un cuadro descriptivo crítico–poético, el enun-
ciador sintetiza los ejes de sentido del programa:

Las calles han perdido el trajín del día, los trenes que llegan ya no vuelven a
partir [y] los micros apagan los motores y se quedan en Retiro, igual que sus
habitantes. Mientras me alejo recuerdo una frase que escuché esta noche:
“a Retiro nadie llega” y no puedo dejar de lamentarme. Porque de este
abandono se escapa el futuro de muchos.
(Ibidem)

Como afirma Stuard Hall (), nuestras representaciones con-


temporáneas están sentadas en las diferencias, no con un origen, sino
entre las distintas representaciones que pugnan por imponerse en
un contexto de oposiciones inestables que articulan mecanismos de
exclusión y de inclusión de diferentes sujetos sociales.
Asi pretendimos mostrar cómo la no ficción en Ser urbano y, en
particular en su emisión Retiro, construye, a través de operaciones di-
scursivas complejas, el mapa de una ciudad fragmentada: en escenarios
visibles y dominados por las experiencias del consumo; y escenarios de
borde, provisorios y no incluidos en las agendas de medios, habitados
por las experiencias de la subsistencia. Entre esos escenarios, una voz,
la del enunciador articula “historias mínimas”; único recurso, al me-
nos para él, para mostrar que Buenos Aires es una ciudad también de
los rostros invisibles.
 Fabián Gabriel Mossello

Referencias bibliográficas

A M. () Los “no lugares”. Espacios del anonimato, Gedisa, Barcelona.
B J.M. () De los medios a las mediaciones, A. Bello Santiago, Chile.
B Z. () De peregrino a turista, o una breve historia de la identidad,
en S. Hall y P. du Gay () Cuestiones de identidad cultura, Amorrortu,
Madrid.
F A. () Navegaciones. Comunicación, cultura y crisis, Amorrortu, Bue-
nos Aires.
G M. () Semántica de la ciudad y educación, Herder, Barcelona.
G A. () Comunicación, cultura. En la crisis de la modernidad, Aná-
basis, Córdoba (Arg.).
H S. y P.  G () Cuestiones de identidad cultura, Amorrortu, Ma-
drid.
H, P. () Un discours constraint, “Poetique”, : –.
K R. () “ Ser indio donde no hay indios”, en M. Maraña (ed.) Indi-
genismo hacia fin del milenio, homenaje a Cornejo Polar, Pittsburg, Instituto
Internacional de Lit. Iberoamericana Estados Unidos.
R, N. () Manual de estilo (manuscrito no publicado).
R, G. () “Ciudad letrada: Ángel Rama y la espacialización del aná-
lisis cultural”, en M. Moraña (ed.) Angel Rama. Estudios críticos, Pittsbur-
gh: Univ. of Pittsburgh–Instituto Internacional de Literatura Iberoame-
ricana (IILI), Serie “Biblioteca de América”, –.

Fabián Gabriel Mossello


Universidad Nacional de Villa María, Córdoba
P IV
GLI SPAZI ESPERIENZIALI
DELLA PERFORMANCE
PART IV
PERFORMANCE EXPERIENTIAL SPACES
Lexia. Rivista di semiotica, 9–10
Ambiente, ambientamento, ambientazione
ISBN 978-88-548-4516-9
DOI 10.4399/97888548451691
pag. 265–290 (dicembre 2011)

A Proposal for a Semiotic Theory


of Performing Arts
E T

 : Una proposta per una teoria semiotica delle arti sceniche

: In proposing a general semiotic theory of performance based


on existential semiotics, the article dwells especially on performances
that accompany the musical execution; through plentiful examples,
theoretical references, and personal anecdotes, the article explores the
way in which the gestures of the performer, as well as the other semiotic
elements that compose her action, together with those that substantiate
its reception, constitute a setting for the production and the reception
of meaning, as well as an environment where the circulation of musical
meaning and, more generally, spectacular sense, acquire the value of
dialogue among different existential instances.

: Performance; music; semiotics of spectacles; existential semio-


tics.

Performance, in French exécution, Aufführung in German or perhaps


even better Darstellen, means that something immanent is made ma-
nifest. Insofar what is performed is a text, i.e. the performance has
a certain preestablished model or starting point, what is involved is
how this entity changes into some other mode of existence, a kind of
transformation. Those meanings which dwelled as implicit in a text
can now burst into life and assume quite new properties. Some art
forms are based upon this, i.e., they are not yet what they should be,
before this process. That is also called interpretation, if one wants to
underline the fact that the performing subject adds something there.
In the theory of semiotics this could be called “modalisation” of a
message or text (cfr A.J. Greimas).
Altogether the definition by Etienne Souriau remains valid: “per-
formance is the material realization of an artwork, and the performer


 Eero Tarasti

is the one who enacts it” (Souriau , p. ). Performing is hen-
ce something physic. It is not without reason a musician or actor is
compared some times to a sportsman. It is also typical that when one
discusses with performing artists they do not speak about spiritual
aspects or interpretations but rather about their physical bodies, in-
struments, etc.: “when I this morning woke up my back had some
pain”; “althought yesterday I changed a new string to my violin, it is
making some strange noise”, etc.
Moreover, Souriau emphasizes that in the so–called temporal arts
— theater, music, danse, cinema — one postulates their previous crea-
tion and that the performer is a different person than the author of a
work. His/her task is to actualize what the author proposes, although
the “sketch” of the creator were complex, demanding and rigorous.
Works can get many interpretations; in spite of a text as preexisting
entity it has to be rendered in blood ad flesh. Often one needs improvi-
sation, when the view about one definite interpretation remains in the
background, especially in our time. Far from the idea that one would
aim at one precise and faithful performance, the artist can always add
there something new and thus foreground his/her own creativity. Yet
here one might like to remark in the manner of Marcel Proust, who
in his speeches about theater art and performances by Berma (Sarah
Bernard of course as her model), said that an artist should be satisfied
to serve as a window to the artwork.
In the next paragraphs, I would like to explore one new aspect
and present a model for analysis, which I suppose to be applicable
to all performing arts. However, before that, I would like to make a
panorama of the central principles of performance philosophy, and
of the categories which were already prepared by the reflections of
Souriau.

. Skill

Performing can be interpreted in the light of concepts like compe-


tence and performance, in the linguistic sense. Without a certain
previously acquired skill or technics there cannot be a decent perfor-
mance. An actor, musician, or circus artist is presupposed to possess
professional skill. One feels sympathy for an amateur performer but
A Proposal for a Semiotic Theory of Performing Arts 

in his/her performance normally the fun is at the performer not so


much at the listener. In turn, for professionals the divertissement is at
the public, not at the performer, who contrarily can suffer from stage
fright, the imperfection of his execution, or then fulfils his task with a
souverain indifference as to his/her emotions. The more skill, the less
tension. On the other hand, the positive side of the tension is that one
is excited only about what one considers important and significant. In
general, being tensed or nervous stops when one realizes that the ten-
sion does not bring any joy to himself nor to anyone else. Sometimes
in the case of avant–garde art the professionalism is almost forbidden,
because it leads into routine, mannerisms and clichés, wherefrom one
just tries to get rid. But there are many theories about what is the role
of technical exercise in a performance, and training of a performer.
Jacques Février, the French pianist advised the student to repeat same
figure hundred times and reading newspaper at the same time. Some
artists exercise continuously, although they would have reached the
top already. Some think that an actor must train his/her body by hard
physical stress. In theater and cinema the technics of a performer is
completely subordinated to the will of the director.
There is the illusion that one would at once miraculously become
a great artist, one only needs someone to discover the hidden talent.
Indiana Alumni Magazine in its recent issue (summer ) tells a
story of a bankrupt businessman whose voice was discovered and is
now studying opera at the Jacobs School of Music in Bloomington.
Mr Lunsdorf had lost his job and property but one day found the
music for Nessun dorma by Puccini at a music store and bought it.
By listening in Youtube to Pavarotti performing it he sang along. He
said: I could not read music and I did not speak a lick of Italian (in
this case I would have recommended him to study Italian by Opera
written by Marcel Danesi, where you learn Italian by remembering
and humming famous arias). Then Mr Lunsdorf sang for an audience
and took singing lessons. He joined the Denver musical theater and
started voice lessons. Then he got a scholarship for Indiana University
as an undergraduate in . The former dean Charles Webb said
about him after several recitals with him: “He has a distinctive tenor
voice that is Italianate in character and has the characteristics of re-
sonance, brilliance, projection, and power of the great th century
Italian opera singers” (p. ). It would be interesting to study also the
 Eero Tarasti

ideological content of the article on this miracle, à la Roland Barthes.


It clearly displays the myth of the American dream that anything is
possible any time if you try hard. In singing where the instrument is
the body itself and its basic qualities, this can happen indeed since life
stories of many great singers are similar. But without professionalism
the voice miracle can also be ruined.

. Theory

Is there some method or theory so that by studying it one becomes a


great artist? There are, that is true, schools of performance, particu-
larly in music for all instruments and in singing but also in theater,
beginning from bel canto to Wagnerian speech song, from national
violin, cello and piano schools to methods of dance at Isadora Duncan
and Laban and modern dance, not to mention Stanislawski, Meye-
rhold or Artaud. There are also available various schools of relaxation,
although what a tensed person is most frightened about is just to get
relaxed.
There are also art theories which guide performance from the back-
ground, but what is their relationship to the practice of performance?
In Finland the semiotic theory of actor’s work by Kari Salosaari is such
one; by applying it a whole amount of classical dramas were realized
at the drama studio of Tampere University. There are structuralist
schools of theater, psychoanalytic methods, psychodramas etc. To
some minds too much theorizing makes the exercise of art practically
impossible. One professor of literature was asked why he does not
write novels, albeit he had studied a lot of theory of narratives, whe-
reupon he said: if the trapeze artist starts to think where he steps next,
he will fall down.
Also André Helbo has pondered a semiotic theory of performing
arts in his work (Helbo ). To his mind, in theater the concept of
“text” signifies many aspects. For the first, the text itself, like drama,
libretto, score, can carry indications and references as to the staging.
Either these “didascalies” have been addressed to an actor concerning
details of acting or staging, lights, clothes, sound effects etc. or to the
reader, when they are not intended to be visible, or they have been
directed to the “implied spectator”.
A Proposal for a Semiotic Theory of Performing Arts 

The performance has to be defined according to Helbo as an enun-


ciation which takes place under the presence of the observer, in the
context of theatrical conventions. These conventions or codes deter-
mine, among others, the transition from everyday life to scenes on
stage or spectacle. Spectacles have their own theoreticians from Yuri
Loman to Tadeusz Kowzan. Lotman says that spectacularisation is the
same as narrativisation. It was common to provide life with a plot, for
instance like war as spectacle in th –century Russia. When normal
life was monotonously cyclic, then war, parades, etc. brought some
alternation and excitement.
A theatrical situation is defined by Helbo as follows (ibidem, p. ):

— body: the gestures of everyday life are detached from their


“real” context and transformed into signs. Every performance
contains such a process of semiotisation;
— such a semiotisation is due to the fact that a “drunk man” is
shown distinctly: ostension determines the acting (one might
add here: what is involved is the category of marqué, marked);
— this foregrounding is not based upon any intention but is
conventional;
— the meanings thus created are manifold

According to Salosaari, the basis of the semiotics of theater is the


living man (Salosaari , p. ) — and to this I shall refer myself when
I later launch my theory of performance based upon the modes of
being. Salosaari quotes the speech act theory of Searle about locution,
illocution, and perlocution — what fits well to all rhetorics (see Tarasti
, p. –). When an orator speaks he pursues a speech act that has
two dimensions: locution — the fact that one says something — and
what is said, which again contains two aspects: the act of proposition
and the act of expression; illocution in turn means what is done when
one says, and perlocution refers to what is achieved by saying. For
instance, a teacher of solfeggio says: Let us sing! This message includes
all three aspects.
Correspondingly, in theater when an actor makes an act of acting
what is involved is at the same time the fact that he/she is acting and
what he/she is acting, and the end result is the “text” of the actor, for
instance he/she acts Hamlet. It manifests what he does when he acts
 Eero Tarasti

and finally what he causes as a perlocution of his act, i.e., spectators


are moved.
Yet when Salosaari goes to examine closer what a text of an actor
implies, he resorts to the semiotics of the Paris school of semiotics or
Greimas’s theory, and extremely systematically. His illustration stems
from Carlo Goldoni’s play Le Baruffe ciozzotte (), its twelfth scene
from its second act as acted and videofilmed in the drama studio of
Tampere university in .
He launches the whole generative path of Greimas in order to cla-
rify what happens at the level of signification in a dialogue between
two actors, Isidoro and Checca. The result is concretized by the follo-
wing diagram (Fig. ), where the boxes in the middle represent acts
of signification, such as to affirm, deny, doubt, persuade, deceit, blind,
reveal a fraud, interpret, confirm etc. Behind them looms a complex
modal process concerning both actors and their dialogical interaction.

Figura . The dialogue by Isidoro and Checca interpreted by the method of


Salosaari.

Methodically speaking, the crucial observation here is — what has


a heuristic value for the whole theory of performing arts — that the
linear course of theatrical text is transformed into pluridimensional,
polyphonic — what as early as Roland Barthes said to be characteri-
stic of theater. In this respect it is interesting that when Isidoro keeps
silent, he does not disappear at all but is present on stage continou-
sly, and interprets what Checca tells or the process of signification
continues. I have brought this remark to the semiotics of music, in
A Proposal for a Semiotic Theory of Performing Arts 

which there always happens the hierarchisation of a linear chain of


signs, for instance at the beginning of the Waldstein sonata by Bee-
thoven two musical “actors” alternate or stay in a dialogue. What is
an actor in such an abstract discourse as music is a problem of its
own, comparable to the poetic discourse; one may state that it is a
unit carrying meanings and thematic figures (in music most often
the same as the so–called “theme”). In Beethoven, when a theme or
motif A has been heard in the bas, it receives an answer from motif B
in discant and then the actor A again “says” something in a text and
B answers. Thus the syntagmatic chain becomes an inner dialogue.
Motif A does not disappear anywhere when B occurs, it remains as a
memory in the consciousness of the listener or destinator. So motifs
even in music modalize one another and actors have their inherent
modal contents; moreover, the interpreter (the pianist) can modalize
them in numerous different manners (Fig. ):

Figura . This may be the core of performance following the Greimassian theory.

. Time

As Souriau underlined, performing arts constitute the temporalisation


of a static text. When it is gradually rendered observable by senses,
subtle temporal strategies are at the same time applied there. Of many
 Eero Tarasti

elements of actor’s gesture language, most are dependent just on right


timing. On the basis of Birdwhistle’s gestural theories, Salosaari has
developed a list of various temporal gestures of an actor: to elevate, to
sink, to make denser, to retardate, to accelerate, to expand, to diminish,
to increase, to resolve, to sustain, to soften, etc. (Salosaari , p. ).
The American Alexandra Pierce has developed a theory of “expressive”
or “generous movement”, which develops the same idea. The perfor-
mer has to create the correct temporal dramaturgy for the performed
work. What is involved is also to find the above mentioned narrative
level. Salosaari states rightly: “Narrative activity is a kind of syntag-
matic intelligence” (ibidem, p. ). An artist can, of course, anticipate
it in his work itself like Serge Rachmaninov who carefully counted
at which point in his work one should situate the dramatic climax.
The correct timing appears as certainty, not as hesitation. However,
sometimes just uncertainty can be an aspect of interpretation, as it
has been told about conductor Serge Koussevitsky and his manner to
start working: he only allowed his arms to sink slowly. The musicians
had to guess at which point they should start, and this made them
particularly vigilant. Sometimes it is advised that the performer has
to rehearse in a remarkably slower tempo than in performance, this
strategy being particularly used in music. Sometimes the composer
gives the permission for a “tempo rubato”; what does it mean to “steal
time”? In the age of romanticism is was said that if time was stolen one
did not need to give it back. In general, musicians know that before
the beat one in a bar, one can slow down as much as one wishes, but
at beat one one has to catch the basic pulse again.
Even if performing means to linearize an acronic text or, to put it in
semiotic terms, to syntagmatize it, the problem of each performance
is — when we put consecutively tones, words, and gestures — how
one also creates hierarchies there. Performance that is only a series of
signs is without depth, expressivity, and levels of meaning, i.e. isoto-
pies — which in a witty speech are always complex. This aspect has
been investigated by behaviorist methods by measuring and analyzing
already realized performance using tapes and recordings. A classical
example of this approach for a long time has been La mesure des gestes
by Paul Bouissac.
The British musicologist John Rink believes that a secret lies in how
a musician shapes his/her performance: do musicians “shape” their
A Proposal for a Semiotic Theory of Performing Arts 

performances consciously or unconsciously? At least every one with


a musician’s education knows that form analysis is one of the most
hated disciplines in all conservatories. The form or shape revealed by
a theoretician is not necessarily cognitively the same as the form or
shape that the performer realizes and the listener experiences. Mark
Reybrouk has studied cognitively the rhythmic of Mahler’s sympho-
nies and obtained interesting results (). John Rink again supposes
that the logics of shaping is essentially similar in all performers and
creators, both in Beethoven as well in Woody Allen . Rink distingui-
shes the notion of “performance motif ”, which is a different thing
from a thematic motif in form analysis. He has analyzed the interpre-
tation by Arthur Rubinstein of a mazurka by Chopin, and remarked
that on the performance level it manifests the form ABA, in which
sections A are rhythmically irregular and B regular. Yet, why the midd-
le section is regular? Not necessarily in order to provide a criterion or
standard of how a listener observes and conceives the irregularity of
sections A, but what is involved can also be the negation of the basic
irregularity of the whole work. In mazurka, accents can vary on three
different beats of a bar already following the genre tradition, and the
performer can vary more. Therefore: where is the basic isotopy of
that mazurka by Chopin, in relation to which we can either engage or
disengage, to do embrayage/débrayage?
In fact, this reflection leads us to ponder the dimension of depth
of a linear performance “text” and what is pertinent therein. In other
words, which elements one has to foreground and mark, which ones
are pushed in the background as unessential. Every performer knows
this rule and particularly for works with difficult, complex, and rich
textures. Rubinstein admitted that he never played all the notes in
Iberia by Albeniz, but picked up the essential ones. Only structural
notes are played. Heinrich Schenker was a music theoretician, who
created his system of analysis after all to help performers to distin-
guish structural notes from secondary ones. I would add here that
existential semiotics in turn enables us to recognize the existential
notes from the non–existential ones and build the inner world of
signification of the work. The problem with spectrographic analysis
and other measurements is that one does not always realize that the

. Lecture on performing arts, Hungarian Cultural Centre, Paris, November .


 Eero Tarasti

criteria of pertinence can change along the performance. In fact, the


creativity of the performance is based upon the idea that these crite-
ria are not fixed. A good example is Richard Wagner as director of
his own works. According to the eye–witnesses from Bayreuth such
as Porges and Fricke he never conducted his operas twice similarly
[quotation]. He was changing all the time — and that is why Cosima’s
efforts to maintain what was the “authentic” manner in Richard’s time
were comical and stagnated the interpretation of the whole drama into
awkward stereotypies. Heinrich Porges wrote: “Though everything
Wagner did at the rehearsals — every movement, every expression,
every intonation — bore out this principle of fidelity to nature, one
must not forget that he was simultaneously handling the whole vast
musico–dramatic apparatus and endeavouring to convert it into a
living breathing organism (Porges –/: p. ). Yet, all the ex-
traordinary things Wagner did at the rehearsals created the impression
of having been improvised. It was as though everything he demanded
and himself so eloquently demonstrated occurred to him in a flash
with complete lucidity just at that very moment (ibidem, p. ).
On the other hand, Richard Fricke testifies:

Working with Wagner is extremely difficult, as he does not stick to one


thing for long. He jumps from one subject to another, and you cannot pin
him down for one subject, which could immediately find a solution. He
wants to be his own stage director, but for this detailed work. I may say
he lacks all it takes, for his mind is focused on the entirety, losing sight of
details and forgetting how he had wanted things done the day before [. . . ]
Wagner regularly speaks in an undertone, indistinctly, gesturing with hand
and arms, only the last few words of a sentence giving you any idea of what
he means [. . . ].
(Richard Fricke /, p. –)

. Emotions

Compositions, plays, poems, theater pieces are not yet anything before
they are interpreted. Although in th –century art a special aesthetic
category of espressivo inexpressive was elaborated, which meant the
emotionless performance of a work as it stood in the text, score,
etc. (in Stravinsky and Prokofiev, see Jankélévitch , p. –), this
A Proposal for a Semiotic Theory of Performing Arts 

has to be taken as the minus side of the interpretation of all arts. In


semiotics it is said that the text has to be modalized in a performance,
i.e., furnished with modalities of will, know, can, must and believe,
in order to make any impact. The interpretation by a performer is
an important source of semantics particularly in abstract arts. Jean
Renoir required from his actors that they had to read their roles
totally expressionless, so that he could then as a director add there the
nuances he desired.
It was said above how the Greimassian semiotics became via mo-
dalities a semiotics of passions. Yet, what emotions appear in a perfor-
mance and to what extent is problematic. Do they directly appear as
gestures? Horowitz said that when it comes out of the face, it does
not come out of the music. In the theory of tragedy by Aristotle two
emotions prevailed: horror and compassion . So on stage, but what
about performers? Especially in the education of performers there is
a lot of old fashioned systems based upon the dictatorship of a teacher
or director, in which the performer is subordinated to a discipline
mixed with fear. Famous are Russian ballet masters with their cruel
criticisms or conductor divas. Koussevitsky could shut to a cellist:
“you played wrong”. But the musician said: “I played exactly g and a
as in the notes”. “No, the mistake was between the notes!”, was the
answer [source]. The idea of an authoritarian teacher is that the pupil
is made to scare the teacher and lesson so much that going on stage
feels nothing in its side. So one wins the stage fright. Some are milder
like Jorma Panula, whose principle in his conductor class is: help, but
do not disturb!

. Intentional body

Performing is of course corporeal activity, but this has been misunder-


stood in many theories and studies. What is involved is an intentional
“soma”, not the immediate physical body, although also this exists, of
course. Etienne Souriau spoke about corporeal arts, whose material is
human body: danse, theater, and song. In this sense, playing is not only
purely corporeal because a musician hides behind his instrument, but

. Finnish trans. by Pentti Saarikoski (Helsinki: Otava, ): .


 Eero Tarasti

on the other hand what he/she produces in his/her utterance is totally


depending also on corporeality. But it is intentional corporeality. How
else could one explain, for instance, the functioning of a symphony
orchestra? One hundred musicians can be for hours packed in the
same space side by side under extreme control — that is surely worse
than working at a landscape office. This is possible only because they
partly forget about their physical bodies when they shift into another
body. Although Proust would portray how a harpist picks up tones
from strings as if they were stars in the sky, or the cellist handles his in-
strument between his legs as if he were pealing cabbage, this occurs in
the intentionality of the primary body. Of course the musician never
forgets his physical body. A wind instrumentalist can have only some
entrances in a symphony of one hour, but he has to concentrate in his
body on them so that his blood pressure heightens before them and
finding the right timing and tone is extremely stressfull and physically
demanding.
Souriau speaks about corporeal expression but how erroneously
goes research which detaches the physical corporeality from the in-
tentional one and measures only physical aspects and makes a science
and system of it! Te basic unit of corporeal expression is gesture, that
notion is naturally central in all stage artists. Also in abstract arts
without immediate corporeality, like in music, the notion of body
has become fashionable in recent efforts to find the behaviorist basis
for music. According to Souriau, the gesture or gestus means bodily
movement, especially that by arms and hands. Gesture is in the focus
at actor, danser, and speaker or orator. Gestures have both expressive
and indicative functions. They provide information, show, imitate, let
them be spontaneous or codified. Arts utilize gestures for the aesthetic
expressivity by emphasizing their form, arabesque like line, rhythm
etc. Gesticulation again is based upon exaggerated gestures — in se-
miotics one would say on marked or foregrounded gestures. Yet, it
is peculiar that the Dictionnary of the Body by the CNRS () does
not mention the notion of gesture at all. It only speaks, like Marcel
Mauss, about technics of the body. Yet to find out the correct gesture
in music or its signifier and combine it to physical corporeal gesture
is quite essential. Jules Gentil at the Ecole Normale de Musique said that
piano playing is science des gestes and had in principle two movements:
pousser/tirer (to push and draw). They formed, as he said, the “brea-
A Proposal for a Semiotic Theory of Performing Arts 

thing of the hand”. Very often one uses in performing arts metaphors
referring to body — thus confirming the theory by Lakoff on the
origin of all metaphors in our bodies (Lakoff and Johnson ).

. Unpredictability

Insofar as performance is dialogue in the sense of Mikhail Bakhtin,


one of its most important characters is that its end result can never
be anticipated. Souriau remarks (Souriau, p. ) that the “work looks
less and less determined in the sense that performance would realize
it definitely”. Hence, performance is never the mechanic “translation”
of a text into other languages, for instance from a text into tones,
gestures, etc. but it is always typical that performance permits di-
sturbances, “noise” in the sense of information theory. It is expressly
presumed that the performer adds something new to a text in his/her
interpretation in order to make it living. Therefore tunes realized
by computers perplex us by their machine–like quality. In any case
disturbances are possible and even desirable and that is why people
still want to go to concerts, theaters, and opera to follow live per-
formance. I once asked a composer to come with me to a concert,
Beethoven’s Eroica featuring in the program but he answered: I have
already heard it. Performance always affords some new aspect which
could not be expected before. Yet, how a performer obtains a contact
with the audience is a problem of its own, as well as contact in general
in human communication. Gino Stefani and Stefania Guerra Lisi have
arranged symposia on it and published works about contact. On the
other hand, the origin of Bakhtin’s notion of dialogue was in a kind of
dispute. He stayed after the Revolution in Nävel, where public disputs
on common topics, such as the existence of God, etc. were organized;
there Bakhtin realized that no idea or concepts existed anywhere else
than first in a dialogue, as an ideologeme or as a belief in the world of
the speaker.
Nevertheless the unpredictability and unforeseeability of perfor-
mance is also connected with it physicality. Performer can never be
one hundred percent sure that the physical aspect of performance
succeeds; it is like one young student returned home from entrance
examination of a conservatory crying and telling: “otherwise it went
 Eero Tarasti

fine but the fugue was cut!” The first imperative of a performer is
naturally that the show must go on. The chain of communication
must not break.

. Schein

At the end, the dialetics of Schein and Sein, appearance and being
constitutes the basis for the evaluation of the reality of a performance.
Performance is always juxtaposed with a text as its starting point; to
some mind, performance has to be always a faithful interpretation
of the departure text. Being in the ground of performance is so to
say the authentic form of an artwork, which a performer either rea-
ches or not. In order to attain it, he/she has to study abundantly its
structure, meanings, isotopies, and background, history, aesthetics,
the artist’s biography, etc. Yet, then one easily forgets then that per-
formance is not reconstruction So–called authenticity does not mean
that performance is an obedient copy of some original. This has been
tried but ignoring then everthing that happens in time between the
creation of the work and its new emanation, something that cannot
be deleted. Between the original and a copy, i.e., performance intru-
des our image on authenticity whereby at the end the performance
is evaluated. We do not go to theater, opera, or concert to listen to
historical documents of ideas and emotions by people existed long
time ago but we go there because the work to be performed has, as it
is said, “ästhetische Gegenwärtigkeit”, it is talking to us here and now.
By this we do not deny that there were not an aspiration towards
authenticity as an obligation, but as early as Francois Couperin said
in the seventeenth century: “Nous écrivons différemment de ce que nous
exécutons” (we write differently from what we play) . The notation is
only the starting point.
However, in opera performances nowadays the idea is prevailing
that the director builds his/her own work upon the original text,
which disappears as mere title and pretext to render the ideas of the
stage director. This is true particularly in recent Mozart, Verdi, and
Wagner interpretations. Harry Kupfer changes the end of Parsifal

. François Couperin , quoted in Veilhan .


A Proposal for a Semiotic Theory of Performing Arts 

so that Amfortas dies and Kundry is married with Parsifal. Roman


Hovenbitzer lets Elsa survive with Gottfried etc. Recently, in the
Flying Dutchman the main protagonist is not saved but remains in
his damned boat after Senta’s suicide. The stage director assumes
too much the average viewpoint of the contemporary spectator and
transforms the plot of the opera, so that it becomes compatible with
values and ideas of our time. Then one forgets that in opera also
music has been written to express a certain semiotic universe of
meanings; if narration is changed, ne should change even the music. It
may occur that something happens inside and music is contemplative
and internal. However, the director puts the scene outside although
the music remains the same. Like in Doktor Faust by Busoni, in
its Teatro Comunale version in Bologna in , where Faust was
made an alpinist instead of a scholar amidst his books. Music and text
constitute a close dialogue, and the director changes it proxemically
so that singers shout to each other from the extreme ends of the stage.
Performance is always representation. Behind it looms le monde
naturel, the reality, but it is positioned at the distance of one step from
it. It is like what German philosophers called Schein, appearance, ma-
nifestation. Performance is always a second degree reality. Therefore
the expression “Movie Greater Than Life” may sound tempting. Per-
formance is communication of communication, as Ivo Osolsobe said.
How should we interpret a situation in which an actor acts sleeping on
stage. . . and falls asleep? Spectacles are also representations although
they set on stage values and ideologies of spectators. Once I brought
an Iranian student to an opera performance; he had never seen opera
before. It was Boris Godunov by Mussorgski, and in its second act,
in a monastery, a character called Grigori dresses up as a monk. The
student at my side could not exclaim aloud: “But that is Grigori!” At
the time of Mozart, in German opera houses, signs instructed the
audience with the following recommendation: “Mitsingen verboten”
(“forbidden to sing together”). But it is just in the ideological aspect
of performance where it blends together with reality, it becomes a
theater ruling over one’s life, whose models are brought to real life
like Verdi operas during Risorgimento, or spectacles of Soviet Union,
Third Reich, and the China of Mao.
Yet in a certain sense one can say that the semiotic theory of trans-
lation concerns closely performing, since one really translates there
 Eero Tarasti

one reality into another, for instance visual notation or text into ge-
stures, sounds, tones — or a transformation takes place into quite a
particular world of Schein. On the other hand, the realization of the
Schein character of the performance leads into recognition of its play
function, what influences its quality. The life work of anthropologist
Anthony Seeger has been the filming and recording of rituals of Suya
Indians of Xingu river at Mato Grosso. However, ultimately he was
brought himself into the ritual with his cameras. Indians were allowed
to look at their own performance of thousands years old ritual. This
amused them a lot and they started to joke in front of the camera
and improve their performance, and filmed at the end themselves.
Accordingly, they did not subordinate into any anthropological object
as an example of stone age man’s rites, but they moved at once from
archaic to the ethnosemiotic age.
In any case, the desire for Schein, to see performance or the in-
tention can be on the spectator’s side so strong that the following
holds true: the most important dramas, cinemas, music works, etc.
are those which one has never experienced, seen, heard, followed. We have
only wanted to receive them, but for some reason it was not possible,
we were forced to imagine them. When I was a small boy the Finnish
National Theater had Julius Caesar by Shakespeare in their repertoire.
At that time there was a vitrine on the front wall of the theater with
photographs from the performance. I was too young to go to see
the performance, and so I made my image of it only with the help
of those black and white photos. The rest I had to imagine on the
basis of what I heard from my elder brother about the performance. I
heard that particularly impressive had been the scene in which, amidst
Caesar’s triumph, an oracle appears on stage and says: “Beware of
Ides of Mars!” This scene was on a photo in the wall of the theater
and it seemed to be even more impressive than the moment when
Brutus slays Caesar with his stagger — namely in the phantasy of a
boy. In the same way, I became a Wagnerian after one performance of
Parsifal when I saw it as a twelve year–old and after having received
three records (which one German Wagnerian had sent to me after
having heard of the distant young admirer of Wagner) and after one
arrangement for piano, namely the choir of Pilgrims from Tannhäu-
ser. All the rest I could only read from books and hear occasionally
and seldom from the radio. So, Wagner was for me more or less a
A Proposal for a Semiotic Theory of Performing Arts 

fictive entity. The music imagined in this way was probably much
more impressive that the one really heard. Music is not in the sounds
and tones but behind them.
The reality of performance is always vanishing and susceptible to
oblivion. From all the quantity of performances we have seen, what
has remained in our minds? Probably only a few star moments.The
reason wherefor we recall them can be in the situation itself. Like Boris
Asafiev, composer and music scholar, contemporary to M. Bakhtin,
said, we remember from performances memoranda or moments or
gestures, figures, attraction points (this notion is by Altti Kuusamo, a
Finnish visual semiotician (Kuusamo )), or other; from them a
proper living artistic culture is built. Culture has always a memory and
always decides which texts are remembered and which are not. Yet,
performers greatly influence by their modalisations, what particular
points in a work we do remember. For instance, I remember how at
school age I saw in TV the tragedy Daniel Hjort by Julius Wecksell,
a Finnish–Swedish poet, and particularly one line from it, the phrase
by a lady with a black scarf: “Och detta hat är jag” (“and this hatred
is me”). Hologrammically, one element may stand to represent the
whole artwork. I also remember Zarah Leander from Cirkus Peacock
at Linnanmäki, Helsinki. She sang “Vill du se en stjärna, se på mig”
(“Do you want to see a star, look at me”). She appeared on stage
on a raising platform as a great diva, yet having already seen her
best days; only now I realize how humiliating it may have been for
a big star to perform in such a vulgar environment after all previous
performances. From the staging of Oncle Vania by the legendary
Finnish stage director only one memorandum remained sounding
from the end of the play: “. . . and then we shall rest. . . ”.
Neverthelesss, there are avant–garde performances that force spec-
tators to the spectacle and consciously break the limit of representation
formed by the ramp. Some years ago an experimental drama was
realized at the Theater School in Helsinki. I went to see it because
the young actors told that they had applied my existential semiotic
theories. However, one of the young dramaturgists warned me: re-
member to ask a ticket for the audience which stays passive. So I did
and with full reason since the active part of the audience had to go
on stage and dress in plastic coats while others threw upon them juice
and cream cake.
 Eero Tarasti

. An existential semiotic theory of performance

After these preliminary reflections I want to launch one new theo-


retical model, which I try to apply to the performing arts. What is
involved is the newest elaboration of my existential semiotic theory
or model with four moments, a “semiotic square”, which articulates
our subject and his/her being by two aspects, which may be called
“Me” and “Society”, or “Moi” and “Soi”, and four interpretations of
the philosophical aspects of being. I shall not start here to report the
philosophical background of this theory (there is a large article forth-
coming in the Oxford Dictionnary of Psychology (Valsiner )), I am
only satisfied to argue that in that four–part model, whose origin lies
in the Greimassian semiotic square but which deviates also essentially
from it since it is transformed into a dynamic movement symbolized
by the letter “Z”, those four aspects are body, person (identity), social
practice, and values and norms (Fig. ):

Figura .

For simplicity I have numbered these four cases as M, M, M,
and M, and S, S, S and S according to which direction one is
going in the model: from a concrete, sensual body towards abstract
A Proposal for a Semiotic Theory of Performing Arts 

norms and values, or ìfrom these intelligible categories towards their


gradual exemplification and ìcorporealisation. I consider these two
movements the essential tensions of ontological semiotics. Here signs
are seen insofar as they express in performance these four instances
so to say from the inside or emicly. One of my students found that
these signs could be called “zemic” signs, where “z” stems from this
course of tension, and “emic” refers to the theory by Pike meaning
the internal aspect of ethnological observation (Fig. ):

Figura .

The hypothesis behind this model is the following: there is no


performing utterance which, to some extent, would not be based on–,
would not refer to–, mark or foreground some of these four cases.
One can always analyze and make them explicit in whatsoever genre
of performing. How do these modes of being, and categories of Moi
and Soi, manifest via various degrees of affirmation and negation?
Even in the model by Salosaari the central point were the “boxes”
that portrayed these modal operations: denial, affirmation, doubt,
persuasion, etc. (Saalosari ).
Yet, in the existential semiotic model what is affirmed, denied, per-
suaded, etc. are just these four superimposed instances. Note that the
first letter indicates the dominant modes and the one in parentheses
the mode less apparent. Upon this basic “ontology” other modalities
 Eero Tarasti

are built, and the new existential sign categories pre–, act– and post,
endo–, exo–, pheno–, geno– and qualisigns.
I do not discuss right here the essential notion of transcendence,
which still radically enriches this semiosis.
In any case, if one thinks of the performer him/herself and his/her
career and development, it can be articulated through this model in
two directions. For the first, there is the body with its innate inclina-
tions that by education, learning, and dialogicity, etc. develops into
the permanent identity of a person. This person with his/her physical
and corporeal properties starts to search for a proper profession, or if
he/she has a body good at motion, perhaps for dance, if it is verbal,
then perhaps actor, if he/she has a good voice, then singer; if he/she
has good tongue, teeth, and musicality, he/she may become a blow
instrumentalist; if he/she has good motility in hands then pianist,
if good sense of rhythm then percussionist, etc. Altogether one is
shifted here from M to M. Furthermore, when he/she develops in
this vocation further he/she is finally able to express on the level of
S, i.e., in a role, institute, or practice, the deepest values of S, his
community.
Correspondingly to the value of Soi is the beauty in gestures; this
principle may concretize in society, for instance as a ballet school and
institution. It recruites to itself proper “bodies” and people, i.e., those
who have the required motility, sense of gestural language, aestheticity,
outlook and person, for instance perseverance, goal– directedness,
etc. So, certain people are selected to realize the values of the Soi;
moreover, this is preceded by corporeality such as flesh, sensuality, etc.,
or M. To which extent this process takes place to either direction by
itself, automatically, or “organically”, and to which extent it has to be
helped all the time and supported in a dialogue with teachers, masters,
maestros, etc. is a problem in itself. Or as one experienced art teacher
once crystallized his life experience: “some realize, some don’t”.
However, from this model new methodical challenges follow. For
the first, obviously signs that appear in each mode or M, M, S, and
S are perhaps partly “the same”, partly different. Most often one may
think that they get transformed in some way, for instance a gesture of
M, done by some body spontaneously, becomes via gradual habit a
part of the person M, from that one it develops perhaps into a genre
sign in some social practice, for instance in the speech of a rhetor, in
A Proposal for a Semiotic Theory of Performing Arts 

ballet, playing, etc. Ultimately, the sign gets sublimated into certain
aesthetic, ideological, or other value. For instance, also silence is a
gesture, a pause. It can be a sign of M, taciturnity, speechlessness
like among autists, it grows into character in M, and furthermore
into a trait of certain role. In the opera Peter Grimes by Benjamin
Britten the hero is unable to defend himself verbally with fateful
consequences. Speechlessness can appear as a dramatic pause done by
an actor or musician, and finally silence can be a cultural feature and
represent as value the tacit knowledge in a culture in which speech is
not appreciated. If each mode of M–S has its own signs, then how do
pre–, act–, post–, quasi–, endo–, exo–, pheno–, and genosigns manifest
in them? Are then they a kind of supersigns that overcode those
lower level signs and above all put them into the state of continuous
becoming? Some gesture can be still a presign in M, whereas in M
it has become already an act sign, and respectively on the Soi level
when it is imitated, it has become a post–sign. The aforementioned
question of signs proper to each mode can be also put as follows: are
there purely corporeal, personal, institutional and normative signs? Let us
think of g–signs (Sebeok , pp. –; Tarasti , p. ) or gestures:
we are in a ballet following the Swan Lake, the movement of the wings
of the swan imitated by arms and hands is a sign of M. But it can
be done differently when it is pursued by Margot Fontey or Ulanova
or Plisetskaya or in the case of the Black Swan by Muhamedov or
Baryshnikov, when it becomes a sign of M, i.e., the whole personality
of a dancer is included. Ballet has its particular codes, how it should
be effectuated following its rules, and then the gesture is ballet: S,
and at the end it has its aesthetic message together with music and
plot; it is tempting, soft, sensual, fateful:
Altogether in the problem of how one species of signs becomes
another, we distinguish three cases: ) there are signs which pass
through all the modes; ) there are signs whose Z–movement stops
in one phase or mode, and ) there are signs which are valid in only
one mode.
In any case, the situation is such that signs belong to three worlds:
the natural world or “reality” (which is always already semiotized, i.e.,
le monde naturel as Greimas said), narration or the world of the text,
and its representations in time and place via actors, i.e., performance
(Fig. ):
 Eero Tarasti

Figura .

Figura .

Moreover, a crucial methodical point here is that we have to be


able to read these “worlds” so to say transparently through each
other, because they exist simultaneously. This interpretation may be
helped by an analogy from Lévi–Strauss’s mythical model or different
readings of the myth of Oedipus via its various versions (Fig. ):
Furthermore, inside each world it holds true that M, M, S and
S appear always at the same time side by side or superimposed. By
which method are we then able to read such polyvalent texts with
A Proposal for a Semiotic Theory of Performing Arts 

Figura .

complex isotopies? Such a methodology is needed as a kind of X–ray


of signs. One major criticism against semiotics has been in general
that it has been satisfied to first classify signs into certain types and
then search and name for each its proper token or exemplification.
For instance, “icon” is such a label; such and such sign: well here we
have an icon! One states when one encounters such a phenomenon.
Yet this means most often enormous truncation, simplification of the
reality, and schematization, since no sign is only an icon or an index or
a pre–sign or quasi–sign or endo–sign etc. but represents many sign
categories at the same time.
When one chooses only one sign species to portray the act of
signification, one pushes aside a whole quantity of other sign species;
it is often also an ideological choice, the richness of signs is reduced
into one dominant idea, ears and eyes are closed to other meanings.
Hence, the new method must be based upon a new reading manner
in which the levels of reality, modes of being, worlds from M to S
are present. On which basis shall we make a selection in favour of one
sign?
Accordingly, I propose four readings: M, M, S, and S and mo-
reover, inside each mode there can be particular signs in the vertical
dimensions as relations of type signifier/signified, sa/sé — and in the
linear, consecutive dimension of signs unfolding from each other, si-
gns becoming signs, signs which are noch nicht, not yet signs, or in
 Eero Tarasti

the ultimate case utopian signs in the sense of Ernst Bloch. Which
method then would be able to take into account this transparency of
sign, the superpositions, and its multileveled nature, representing the
state in which they appear really in our lives, in the Dasein? When I
next scrutinize the “third world” of signs, or performance, on aims
there for inferring from the face of an actor, intonation of the voice,
gesture, etc. those many levels and for interpreting the meaning as a
consequence from their joint impact upon us; only then a sign appears
us as fait total social (Marcel Mauss). . . and at the same time as fait total
individual or fait total subjectif (which for us is body+person).
Yet, if we organize the aforementioned levels into a generative path,
we notice that often in practice, i.e., in performing texts — dramas,
compositions, ballets, and cinemas — the aesthetic idea consists in
these levels falling into conflict among each others. For instance,
corporeality meets resistance from the norms of society or a value
of society cannot be realized since a person or a protagonist deceives
it, i.e., it is not worth of some idea or some person never obtains
the profession which he/she should get, i.e., the shift from M to
S, etc. So it is on the level of narration but the same concerns also
performance, representation in time. Film director puts by purpose
to a role a person who is not apt regarding the levels M and M.
Greta Garbo, the Swedish beauty is put to play in Ninotchka a KGB
agent. Monsieur Hulot with his clumsy properties of M and M
is situated into a markedly conventional and limited spheres of Soi
amidst protagonists representing it, just in order to create contrast
and comics. In the Journal d’un curé de campagne, Bresson puts at the
side of a spiritual young priest a prosaic substantial older priest, or
two different Ms. In La règle du jeu by Renoir the tragedy occurs
finally at an innocent, and comical side person, who falls victim of
an accident, shot by mistake by a jealous servant. Marilyn Monroe’s
M (sensual blond) combined with a naïve character as M is put
amidst the hard American gangster world and its Soi. In Rossellini’s
neorealist film Germany, year zero, the distanciation is done by music:
an atonal avant–garde sonority, which assumes a psychodiegetic role
portraying the chaotic mind of a young boy or childish M, is joined
with musical signs of S and S in their “negative” form (music serves
here as a transcending device like the journal intime of the priest in
Bresson).
A Proposal for a Semiotic Theory of Performing Arts 

On the other hand, our model does not need to be applied with
school–like systematicity as Greimas’s generative path.

Bibliographic references

B A. e G. B (eds) () Dictionnaire du corps, CNRS Editions,


Paris.
B H. () “Ein auβergewöhnliche und vielseitiges Darstellungsta-
lent – Romy Schneider in Visconti’s Boccaccio ’ und Ludwig”, in
K. Moser (ed.) Romy Schneider – Film. Rolle. Leben, Verlag Filmarchiv
Austria, Wien.
B R. () Mythologies (), illustrated edition by J. Guittard, Edi-
tions du Seuil, Paris.
F R. () Wagner in Rehearsal –. The Diaries of Richard Fricke
(), Engl. Trans. G.R. Fricke, ed. J. Deaville with E. Baker, Pendragon
Press, New York.
F J. “Comprovisation – Notes to Discussion on Validity of Notion”,
lecture at the Slovakian Radio, Nitra August , .
G R.I. and M. L (eds) () Musical Gestures. Sound, Movement,
and Meaning, Routledge, New York and London.
H A. () Theory of Performing Arts, John Benjamins, Amsterdam and
Philadelphia.
H–A J. () Jumalasta juopuneet. Islamin mystiikan käsikirja,
Basam Books, Helsinki.
J V. () La musique et l’ineffable, Librairie Armand Colin,
Paris.
K T. () Littérature et spectacle dans leurs rapports esthétiques, théma-
tiques et sémiologiques, Editions de Pologne, Warsaw.
———. () Spectacle et signification, Les Éditions Balzac, Québec.
K A. () Tyylistä tapaan. Semiotiikka, tyyli, ikonografia. [From
Style to Manner. Semiotics, Style, Iconography], Gaudeamus, Helsinki.
L G. and M. J () Metaphors We Live by, University of Chi-
cago Press Chicago.
L K., M. L and J. S (eds) ( ) Valentin Vaala, Suo-
malaisen Kirjallisuuden Seura, Helsinki.
 Eero Tarasti

P B. () Garbo, Suuri yksinäinen, Otava, Suomentanut Jaana Kapari–


Helsinki.
P H. () Wagner Rehearsing the ’Ring’. An Eye–Witness Account of
the Stage Rehearsals of the First Bayreuth Festival (–) Cambridge
University Press, Cambridge.
R J. () Musical Performance. A Guide to Understanding, Cambridge
University Press, Cambridge.
R M. () “Music and the art of listening: from virtual reality
to sounding actuality”, in D. Martinelli (ed.) Music, Senses, Body, Pro-
ceedings from the th International Congress on Musical Signification,
Rome , “Acta semiotica fennica” : –.
S K. () Perusteita näyttelijäntyön semiotiikkaan. I osa: Tewatterin
kieli ja näyttelijä merkityksen tuottajana, acta Universitatis Tamperensis,
ser A, vol. , Tampereen yliopisto, Tampere.
———. () Eleellisyyden tutkimuksesta näyttelijäntyössä, “Synteesi”, : –.
S T.A. () Contributions to the Doctrine of Signs, Indiana University
Press, Bloomington, Indianapolis.
S E. () Vocabulaire d’esthétique, Quadrige/Presses Universitaires
de France, Paris.
T E. () A Theory of Musical Semiotics, Indiana University Press,
Bloomington.
———. () Existential semiotics, Indiana University Press, Bloomington,
Indianapolis.
———. () Fondamenti di semiotica esistenziale, Edizioni Giuseppe Later-
za, Bari.
V J. (ed.) () Oxford Handbook of Culture and Psychology, Oxford:
Oxford University Press.
V J.–C. () Les règles de l’interpretation musicale à l’Époque Baroque,
générales à tous les instruments, Alphones Leduc, Paris.

Eero Tarasti
University of Helsinki
Lexia. Rivista di semiotica, 9–10
Ambiente, ambientamento, ambientazione
ISBN 978-88-548-4516-9
DOI 10.4399/97888548451692
pag. 291–310 (dicembre 2011)

Immagini e voci a teatro


Percorsi diversi e obiettivi comuni

S C

 : Theatre: Images and Voices; Different Paths but Similar Objectives

: Theatre: the temporary co–existence of an objective/real space and


a subjective/realistic space. In line with this definition, the theatrical event
can be hypothetically described as a battlefield in which two opposite
armies fight. In this battle the line of fire is represented by the curtain, a
permeable dramatic membrane through which the two armies/universes
communicate. Therefore, it could be worthwhile for spectators to activate
a process of “answering comprehension” in order to facilitate the composi-
te linguistic exchange that is expected to go beyond mere communication
and generate a dialogue in collaboration with actors on the other side of
the curtain. This work will examine two different attempts specifically
devised to implement this process of collaboration; two different but
contemporary theatrical traditions that have been developing in the se-
cond half of th –century Europe: on the one hand, the theatrical practice
(public) widespread almost all over the United Kingdom during the reign
of Elizabeth I; on the other hand, the variegated ensemble of academic and
classically oriented theatres and plays (private) that crowded the Italian
peninsula, divided into numerous political realities, in the same period.
The comparison/fight should necessarily have two deserving champions,
but according to its “ethereal nature”, Elizabethan theatre will not have
any material representative, whereas the “still living” Olympic Theatre of
Vicenza will argue in favour of the Italian Academic theatres.

: Perception; imagination; perspective scene; natural; artificial.

Theatre occurs in a mystic place created by


the confrontation of two worlds.

(Cole , p. )


 Stefano Carlucci

. Premessa

Le parole citate nell’epigrafe riassumono il carattere strutturalmente


bi–polare (folle?) del teatro, creazione specificatamente umana che
per esistere necessita della temporanea stabilizzazione di un equilibrio
precario, un arte–ficio che renda possibile la provvisoria coesistenza
di spazio naturale e spazio evocato .
La situazione di convivenza transitoria così instaurata è paragonabi-
le a ciò che accade all’interno di un campo di battaglia/gioco in cui due
schieramenti/universi si confrontano; la linea del fuoco in questo caso
è però rappresentata dal sipario, membrana drammatica permeabile
attraverso la quale le due parti si relazionano e comunicano.
Nell’analisi delle funzioni e opportunità comunicative dell’esse-
re umano Mounin sostiene che la comunicazione sia possibile solo
quando il destinatario è abbastanza competente da trasformarsi velo-
cemente in emissario e poter utilizzare attivamente il codice ricevuto,
ma: “les specteurs ne peuvent jamais répondre aux acteurs par du
théâtre” (Mounin , p. ).
Dunque, per favorire un rapporto dialogico che trascenda la mera
comunicazione , la possibilità cioè che lo spettatore attivi un processo
di comprensione rispondente (Ponzio , p. ) verso gli eventi rap-
presentati sul palco, è auspicabile che si instauri una collaborazione
partecipata fra i due schieramenti.
Questa condizione collaborativa può essere ritrovata nelle parole
che Samuel Taylor Coleridge usava per descrivere quello che a suo
giudizio era un requisito fondamentale per poter apprezzare a pieno
un’opera letteraria:

[. . . ] in which it was agreed, that my endeavours should be directed to


persons and characters supernatural, or at least romantic, yet so as to
transfer from our inward nature a human interest and a semblance of

. “Lo spazio scenico risulta quindi condizionato da due istanze divergenti. Da una
parte deve porsi come tridimensionale: è il momento reale [. . . ] Dall’altra deve, per mante-
nere rapporti dimensionali accettabili, simulare un volume maggiorato” (Marotti , p.
).
. Secondo lo stesso Mounin la produzione di senso a teatro coinvolge dei mezzi che:
“sont tous tendus pas pour “dire” quelque chose aux spectateurs [. . . ] mais pour agir sur les
specteurs” (ibidem, p. ).
Immagini e voci a teatro. Percorsi diversi e obiettivi comuni 

truth sufficient to procure for these shadows of imagination that willing


suspension of disbelief for the moment, which constitutes poetic faith.
(Coleridge, p. )

Attraverso l’ideale stipula di questo accordo, utile a esplicitare la


natura “fittizia” degli eventi rappresentati al di là del diaframma comu-
nicativo che funge da filtro tra i due mondi, i due contraenti dovrebbero
quindi poter ratificare la condivisione di un codice utile a stabilire la
potenziale sospensione dei canoni che regolano tutto ciò che succede al
di fuori del luogo e del tempo in cui si svolge la battaglia (attendibilità,
verisimiglianza, fedeltà, etc.).

. L’illusione che riproduce (onestamente) la realtà

Ciò non di meno non esiste opera d’arte in


cui la prospettiva non sia in una qualche mi-
sura coinvolta in un sistema “convenzionale”
(e cioè storicamente determinato) di segni.

(Gioseffi , p. )

Nel complesso rapporto tra realtà e finzione scenica, la teoria


prospettica applicata alla scenografia teatrale irrompe con un impatto
notevole nei teatri italiani ed europei del quindicesimo secolo, finendo
gradualmente per imporsi e divenire poi, nel teatro Barocco, il tratto
distintivo di un nuovo modo di rendere i luoghi dell’ambientazione
drammatica.
. “Si intende per codice una convenzione che stabilisce le modalità di correlazione
tra gli elementi presenti di un sistema o più sistemi assunti come piano dell’espressio-
ne e gli elementi assenti di un altro sistema (o di più sistemi ulteriormente correlati al
primo) assunti come piano del contenuto, stabilendo anche le regole di combinazione
tra gli elementi del sistema espressivo in modo che siano in grado di corrispondere alle
combinazioni che si vogliono esprimere sul piano del contenuto” (Eco , p. –).
. Con Jacquot si ricorda il concetto di luogo teatrale, un luogo cioè non nato appo-
sitamente per ospitare rappresentazioni teatrali, a cui invece si è dovuto nel corso del
tempo adattare (cfr Jacquot ). Nella realizzazione di quel lungo procedimento evolutivo
che permetterà il passaggio dal luogo all’edificio teatrale, il Teatro Olimpico di Vicenza
costituisce senza dubbio uno dei momenti più significativi, anche perché, in senso stretto,
non può essere ricondotto a nessuna delle due categorie.
 Stefano Carlucci

Prima che questo processo evolutivo/invasivo si realizzi comple-


tamente, diverse tradizioni teatrali convivono in giro per l’Europa
influenzandosi vicendevolmente.
Accade così che per buona parte del Cinquecento i complessi e
sfarzosi allestimenti delle corti italiane, impreziositi dall’utilizzo del-
la nuova disciplina che modella lo spazio riscrivendolo su due o tre
dimensioni, convivano con altre forme di teatro, a esse preesistenti,
scenograficamente “meno evolute” e spesso completamente estranee
a qualsiasi pretesa di resa mimetico–illusionistica dei luoghi evocati
nella finzione drammatica .
Nel presente articolo verranno prese in esame due tradizioni tea-
trali sviluppatisi in maniera quasi sincronica nell’Europa della seconda
metà del Sedicesimo secolo: da una parte quella che nasce e si diffonde
nell’Inghilterra unita sotto la corona di Elisabetta I, con i suoi numero-
si teatri pubblici; dall’altra quel variegato insieme di sperimentazioni
teatrali di tipo accademico (privato), che nello stesso periodo han-
no interessato la penisola italiana, divisa in numerose realtà politiche
indipendenti.
L’indagine si focalizzerà sulle modalità adottate dalle due pras-
si teatrali, testimonianze di situazioni storico–sociali lontane ma
tutt’altro che incomunicabili , per relazionarsi sia con la realtà
a esse esterna (impatto e rilevanza socio–urbanistica, accesso e
fruibilità del pubblico) che con quella interna (suddivisione de-
gli spazi e dei ruoli all’interno del suddetto “mystic place”, prassi
scenico–performative).
Il primo termine di paragone analizzato sarà quello che può essere
tranquillamente definito un teatro delle masse; si calcola infatti che
. “Il teatro inglese dell’età di Shakespeare era tipicamente metaforico: nella maggior
parte dei casi lo spettatore non vedeva realmente sulla scena gli oggetti che gli attori
descrivevano accuratamente con parole. Nei primi decenni del secolo XVII si opera una vera
e propria rivoluzione in questo campo, trasformando la scena teatrale in un contenitore
metonimico ricco di oggetti di per sé chiari ed espressivi agli occhi del pubblico, senza
necessità di descrizioni verbali. I due tipi di teatro, tuttavia, convivono fino a Settecento
inoltrato. È difficile trovare a fine secolo XVII un tipo di spettacolo soltanto metaforico o
soltanto metonimico” (Garofalo , p. ).
. “Yet these theatres were not unrelated. A casual comparison indicates that they
have much in common. Even the two opposite extremes — the perspective and the
Elizabethan — are similar in many ways. In spite of its avowed principle of illusion,
the perspective stage could open up its back wall to disclose a small inner stage, and
occasionally an upper stage, above that inner stage” (Kernodle , p. ).
Immagini e voci a teatro. Percorsi diversi e obiettivi comuni 

all’epoca di Elisabetta I circa il % della popolazione londinese an-


dasse a teatro almeno una volta alla settimana; sull’altro piatto della
bilancia verrà idealmente collocato, quale “portavoce” più illustre del
teatro accademico italiano di fine Cinquecento, il Teatro Olimpico di
Vicenza.
Oltre che della “poesia della lingua” ci si occuperà della “poesia
dello spazio”, quello cioè che Artaud chiamava “linguaggio fisico del
teatro”, l’insieme delle pratiche che hanno luogo sulla scena e che con-
tribuiscono alla costituzione dell’evento teatrale nel suo complesso,
con la ferma convinzione che nessuna delle due può essere chiamata
teatro a prescindere dall’altra.
Da un lato la vasta produzione testuale, non tutta di sicura attribu-
zione ma comunque sempre attuale , lasciataci in eredità dal Bardo
d’Inghilterra, un vasto insieme di opere che nel corso dei secoli han-
no abbandonato gli affollati e rumorosi cockpits londinesi per i quali
erano state concepite, arrivando a occupare la quasi totalità degli spazi
teatrali conosciuti. Dall’altra parte le polverose vestigia di un sogno
classicheggiante fatto di stucco e mattoni, poco accogliente nei confron-
ti di ospiti a volte inepti anche solo a profferire parola al suo interno o
irrispettosi della sua algida sacralità .

. “Il problema però non era, e non è, se il testo drammatico contenga la scena o
se, al contrario, sia la scena a contenere il testo, ma è accettare e valutare in tutte le sue
implicazioni, il fatto che il testo drammatico e la messa in scena sono i due partners di un
rapporto di collaborazione. [. . . ] Né il testo né la scena singolarmente assunti possono
essere chiamati teatro” (Ruffini , p. ).
. “Possiamo dire che né Shakespeare né i suoi contemporanei conoscevano il “gran-
de Shakespeare” che noi conosciamo oggi. [. . . ] Forse che noi attribuiamo alle opere di
Shakespeare ciò che in esse non c’è, lo modernizziamo, lo snaturiamo? Modernizzazioni e
travisamenti naturalmente ci sono stati e ci saranno; ma non è grazie ad essi che Shakespea-
re è cresciuto. È cresciuto in forza di ciò che effettivamente c’era e c’è nelle sue opere, ma
che né egli stesso né i suoi contemporanei potevano con piena coscienza cogliere e valutare
nel contesto della cultura della loro epoca. I fenomeni semantici possono esistere soltanto
nei contesti culturali–semantici delle epoche successive, favorevoli a questa rivelazione”
(Bachtin , p. ).
. “Certo tanta altezza di risultati, per cui l’Olimpico basta a sé stesso essendo insieme
ambiente e personaggio, involucro e vita animata, si paga sul piano spicciolo della pratica
comune: ogni qual volta si immette in questo singolarissimo “teatro” qualsiasi altra e
diversa volontà “recitante” gli si fa inutile — anche se giustificabile — violenza destinata,
d’altronde, pur con ogni migliore buona volontà, al fallimento sul piano spettacolare.
Perché, a piena intelligenza e godimento di questo spazio, davvero “indicibile”, uno dei
più alti e tormentati e pregnanti espressi dall’uomo nel suo cammino, sembra proprio si
 Stefano Carlucci

Si presenta a questo punto una prima differenza significativa fra


le due concezioni teatrali e all’apertura a significanti spaziali sempre
nuovi nel teatro Elisabettiano si contrappone una sostanziale chiusura
nei confronti di significati testuali diversi dall’Edipo Tiranno di Orsatto
Giustiniani, autore del rifacimento in volgare dell’Edipo Re di Sofocle,
l’opera scelta per la sfavillante e irripetibile Prima dell’Olimpico il 
marzo del .

After the triumphant representation of Oedipus the Tyrant, a silence lasting


for nearly three centuries descended upon the Olympic. The Academy had
to meet expenses that sorely tried its finances. Still, the construction of the
Olympic Theatre had marked the close of a rich experimental period in
which the theatre of the Classical Antiquity had been restored to life, just as
its inaugural performance of Oedipus the Tyrant could be considered both
the climax and the end of two centuries of theatrical experimentation.
(Schiavo , p.)

. Le due Visioni

Elencando le caratteristiche salienti del teatro pubblico Elisabettiano


si è soliti raccontarlo quasi del tutto privo di orpelli e magie sceniche ,
utile in tal senso può essere la descrizione che ne fa Giorgio Melchiori,
il quale appunto sottolinea la totale mancanza di un qualsiasi tentativo
di resa illusoria dello spazio che invece si connota come:

[. . . ] antinaturalista, senza possibilità di mutamenti di scena o di effetti di


luce (la rappresentazione avveniva di giorno), così da privilegiare esclusi-
vamente la parola ed il gesto, ai quali era affidato il compito di orientare
l’attenzione dello spettatore. D’altra parte lo spettatore non era separato dal-
l’attore da alcun diaframma: la comunicazione era immediata, il monologo
e l’aside trasformavano l’ascoltatore non tanto in un anonimo destinatario
di un messaggio fittizio, quanto in interlocutore diretto o addirittura in
confidente.
(Melchiori , pp. –)

addica soltanto il silenzio” (Barbieri , p. –).


. “[. . . ] they were actors’ theatres, depending entirely for their effect on the actors,
with few or no visual aids. In the London public theatres it was the voices of the players
that mattered [. . . ]” (Yates , p. ).
Immagini e voci a teatro. Percorsi diversi e obiettivi comuni 

Ulteriore elemento peculiare di questa forma teatrale è rappresen-


tato dal suo essere in qualche modo svincolata da testi scritti, si pensi
ai bad quartos di Shakespeare :

A Shakespearean play–text is also fundamentally different from poetry and


narrative fiction because it is, as they are not, a script, a code for performance
meant to lead a company of actors — and eventually an audience — to
matters that are not visible on the page.
(Hardison , p. )

Indifferente al rinnovato interesse per le unità aristoteliche, o me-


glio per quelle che ne erano le contrastanti interpretazioni rinascimen-
tali così in voga aldilà della Manica, il teatro pubblico elisabettiano
poteva cambiare più volte ambientazione, alternando interni ad ester-
ni senza che questo comportasse lo spostamento fisico degli attori
recitanti, trasportati convenzionalmente, ad esempio attraverso il di-
spiegamento di un arazzo, in un luogo diverso: “When there was
little or no illusionistic scenery, it was was not so difficult to imagine
this change” (Kernodle , p. ). Immaginazione che, in quanto
“capacità di rappresentare un oggetto, anche senza la sua presenza”
(Kant, trad. it. , p. ), era quindi uno dei cardini del dramma
Elisabettiano, nel quale era appunto necessaria una collaborazione
attiva da parte del pubblico , come questi celebri versi testimoniano:

[. . . ] così lasciate / che noi, semplici zeri in questa immane partita; / ope-
riamo sulla forza della vostra immaginazione / [. . . ] completate le nostre
/ lacune coi vostri pensieri [. . . ] Saranno, infatti, i vostri pensieri a rivesti-
re i re di ricche / vesti, a trasferirli ora qua ora là, saltando le stagioni, /
concentrando anni d’eventi in un giro di clessidra.
(Shakespeare , pp. –)

. Risulta interessante evidenziare una circostanza che in qualche modo accomuna i
due esempi presi in esame anche se su livelli differenti: così come i bad quartos sono delle
testimonianze miracolosamente giunte sino ai giorni nostri (erano, nel migliore dei casi,
canovacci senza la dignità di testo letterario o addirittura copie non autorizzate, destinate
quindi alla distruzione); allo stesso modo, le fragili scene del Teatro Olimpico non erano
originariamente pensate per sopravvivere alla sfarzosa Prima del  (Vedi nota ).
. In questo senso nel teatro di Shakespeare si tenderà a favorire nello spettatore un
processo di gnosis, piuttosto che puntare su una più immediata praxis (cfr Elam , pp.
–).
 Stefano Carlucci

In questa captatio benevolentiae, contenuta nel prologo dell’Enrico V,


la povertà scenica del teatro elisabettiano è messa a nudo.
Nel corso dei secoli successivi si porrà il problema della compatibi-
lità delle opere Elisabettiane con edifici teatrali diversi da quelli per cui
erano state originariamente ideate, eventualità dalla quale nel corso
dei secoli sono scaturiti adattamenti non sempre riusciti:

The domination of the proscenium arch theatre [Teatro Olimpico] has


meant that for the most of their hystory Shakespeare’s plays have been
performed in circumstances radically alien to those within which they were
conceived and first performed — on scenic stages that employ detailed sets
and visual illusion to estabilish place and time rather than on open stages
that rely primarily on what audience hear.
(Mc Guire , p. )

Per un resoconto rappresentativo delle modalità espressive tipiche


del periodo Elisabettiano è comunque necessario chiarire ulterior-
mente come questo tipo di rappresentazioni non fossero in alcun
modo caratterizzate da un contesto freddo ed essenziale:

Surely the idea that Elizabethan public theatres presented a gloomy atmo-
sphere and a barren stage has been exploded. Anyone familiar with the
Elizabethan love of display and exuberance would agree that theatres must
have been as “gorgeuos” as their enemies described them.
(Rothwell , p. )

A ciò si aggiunga il fatto che i costumi, soprattutto quelli degli


attori più importanti, erano tendenzialmente molto elaborati e ri-
specchiavano un gusto accentuato per i particolari, assolutamente agli
antipodi rispetto a rivisitazioni contemporanee in chiave esistenzia-
listica: “the costumes were wonderful and expensive th –century
dresses. . . ” (Mingazzini e Salmoiraghi , p. ).
La succitata preponderanza significativa della parola non doveva
per questo tradursi automaticamente in un totale annullamento di
riferimenti visuali ai luoghi dell’azione drammatica e si può in tal
senso affermare che tesi di questo tipo tendano ingiustamente a so-
vrapporre modalità teatrali antiche e moderne fino a rendere sfuocate
le rispettive singolarità:

The Shakespearean stage was not a blank open platform, on which a lonely
Immagini e voci a teatro. Percorsi diversi e obiettivi comuni 

soul was spotlighted in an empty,insubstantial universe. We have not re-


turned to the Shakespearen stage, but have invented a new form of stage
because we want to say something quite different.
(Kernodle , p.)

Si può inoltre affermare che all’interno del linguaggio evocativo


preponderante nel teatro Elisabettiano sia in qualche modo presente
un indizio minimo di resa illusionistica, che pur non interessando
direttamente il livello della rappresentazione in senso stretto si ritrova
nell’edificio che li contiene se, come riportato nelle note che accompa-
gnano il succitato disegno dello Swan di Johannes de Witt, le colonne
che reggono il palco: “Were of wood so painted in imitation of marble
that the most critical persons would be deceived” (Yates , p. ).
La ricercata illusione di queste colonne costituisce una analogia
strutturale con il Teatro Olimpico che gioca a fare il teatro antico
costituito di nobile marmo, materiale invece quasi completamente
assente, per motivazioni sia economiche che pratiche, all’interno
dell’edificio.
In una sorta di personificazione, integrale per l’Olimpico e appena
accennata per lo Swan, la finzione drammatica oltrepassa le scene per
investire l’interno della sala e far sentire i suoi ospiti, solo nel caso
dell’Olimpico, abitanti eletti di un mondo passato.

. Paradossi spaziali e ristrettezze economiche

Agli occhi di uno studioso di architettura teatrale il Teatro Olimpico


di Vicenza si presenta come la realizzazione im–perfetta ed in scala
ridotta di un teatro antico: è notevolmente più piccolo di un corrispon-
dente greco o romano, non ne possiede la “dignità” architettonica
(facciata monumentale–significante) e non può quindi essere “a place
for seeing” (Barthes , p. ) , essendo chiuso all’interno di un
. Concetto ripreso ed ampliato da Marvin Carlson: “In such impressive developments
of natural sites, the theatre often played a key role becoming a “place for seeing” in a
double sense. In many cities, including Corynth, Priene, and Ephesus, the spectator in the
theatre sees before him not only the performance space, but the magnificent perspective of
the lower city, the rampants, and beyond them, the plain or the sea. Such theatres serve a
double function, like that propounded by Roland Barthes for the Eiffel Tower; they are
cultural monuments in their own right and also mechanisms for presenting to their users
 Stefano Carlucci

guscio medioevale, infine l’incontro fra le sette stradine declinanti e


la minuscola e delicata Tebe/Vicenza lignea che s’intravedono oltre la
scaena frons, riescono solo parzialmente a materializzare realisticamente
la città ideale sognata dai suoi “illuminati” committenti.
Although the desire to construct slavish imitations of Classical theatres
was clear, the primary obstacle to this dream of illusory restoration was
economical. For no prince, town, or Academy had the means to construct
those immense stone theatres whose imposing ruins still dominated the
surrounding buildings.
(Schiavo , p. )

L’Olimpico è in definitiva la materializzazione di un sogno associato


a quei principi di ordine e prestigio che mal si accordano con le
contingenze della realtà quotidiana di una città, la Vicenza di fine
Cinquecento, che ha appena superato una gravissima epidemia di
peste e che dal punto di vista urbanistico risulta ancora molto legata a
un’identità architettonica di tipo medioevale.
In questo contesto sociale un gruppo di umanisti riunitisi in Ac-
cademia , affascinati dai fasti della civiltà classica, decide, dopo aver
organizzato per svariati anni una serie di allestimenti effimeri in occa-
sione di particolari ricorrenze , di costruire un teatro stabile, scrigno
ideale per i propri “esperimenti” teatrali.
A questo riguardo è utile sottolineare che la valenza di un segno
in un dato ambito culturale è collegata alla potenziale percezione
e alla conseguente possibilità interpretativa all’interno del sistema
comunicativo condiviso in quello stesso ambito.
In questo caso particolare l’ambizioso piano degli Accademici
risulta quindi fatalmente destinato al fallimento sin dalla sua messa
in opera: la desiderata dimostrazione di prestigio, quello che nelle
intenzioni originarie doveva diventare l’emblema della nuova guida
a striking panorama of artificial and natural space” (Carlson , p. ).
. L’Accademia Olimpica viene fondata a Vicenza nel  e si distingue da altre
organizzazioni similari dello stesso periodo per il fatto di non essere riservata solo a nobili
di nascita e di accogliere fra i suoi membri persone dalla provenienza più diversa. Lo stesso
Andrea Palladio (Andrea della Gondola) era figlio di uno scalpellino padovano.
. Circa le iniziative più rilevanti dell’Accademia Olimpica si ricordano: la rappresen-
tazione pubblica dell’Andria di Terenzio nel , l’organizzazione dei “Giochi Olimpici”
in onore di Ercole, patrono dell’Accademia stessa, e la messa in scena della Sofonisba di
Giangiorgio Trissino nel .
Immagini e voci a teatro. Percorsi diversi e obiettivi comuni 

politica della città, sarebbe difatti rimasta un’opera incompiuta e poco


rilevante.
A tutt’oggi un ignaro vicentino o anche un distratto turista, intenti a
costeggiare le mura del cortile esterno, non potrebbero lontanamente
immaginare la presenza di un teatro monumentale all’interno del
vecchio castello fluviale: se si eccettua l’insegna in ferro posta sopra
l’arco di ingresso delle mura esterne, di recente installazione, niente
lascia intuire la natura teatrale del complesso architettonico in cui è
contenuto l’Olimpico.
Il sogno classicheggiante voluto da un’élite politicamente ed eco-
nomicamente poco più che marginale si è sempre “mostrato” difatti
come un percorso interpretativo implicito (referente, cfr Ponzio ,
p. ) nel tessuto urbanistico di Vicenza.
Un’arma da utilizzare solo in casi particolarmente importanti, an-
che perché di costosa manutenzione e poco “pratica” come testimo-
niano queste parole:
Il Teatro Olimpico è un teatro sul modello antico ma in piccole proporzioni
ed indicibilmente bello; però in confronto dei nostri mi ha tutta l’aria di un
bimbo di nobili natali, ricco, educato con cura, a fianco a un sapiente uomo
di mondo che, non tanto ricco né tanto educato, sa però quel che può fare
con tutti i suoi mezzi.
(Goethe –, in Tecchi , p. )

Un destino al quale il Teatro Olimpico non potrà mai sottrarsi: al


suo interno potranno ri–vivere occasionalmente le gesta del mitico
Ercole, nella cui idealizzata figura i fortunati ospiti del Teatro potranno
illusoriamente specchiarsi o addirittura riconoscersi , protetti e isolati
dalla realtà esterna grazie alle robuste mura del castello medioevale
che imprigionano il sogno palladiano, avulso da una quotidianità
urbana con cui è quasi del tutto incapace di relazionarsi.
Le stesse scene del Teatro Olimpico, nella loro affascinante e ricer-
cata illusorietà, sono estremamente sensibili agli accadimenti dramma-
tici che si intrecciano da più di quattro secoli davanti al loro cospetto;
affinché Lo inganno de gl’occhi (cfr Anonimo ) che contribuiscono a
perpetuare non sia vanificato, debbono necessariamente respingere —
. Ercole viene scelto quale patrono dai membri dell’Accademia Olimpica, con il
malcelato desiderio di ripeterne metaforicamente le gloriose gesta, impresse sui bassorilievi
che adornano la frons scaenae del Teatro.
 Stefano Carlucci

paradossalmente proprio a causa della loro poco praticabile tridimen-


sionalità — la presenza umana, limitandosi a suggerirla, confermando
così la natura di luogo astratto e mentale, naturalmente separato dal
quotidiano ma anche dall’azione drammatica a cui assiste immobile
da più di quattrocento anni .
Nel complesso rapporto tra immaginazione e visibilità nel Tea-
tro Olimpico di Vicenza si persegue una resa del luogo dell’azione
drammatica improntata alla ricostruzione materiale della Tebe so-
foclea raccontata nell’Edipo Tiranno, il proscenio interpreta l’ideale
rinascimentale di piazza centrale quale punto d’incontro delle strade
principali della città.
Per quanto concerne il Teatro Olimpico, però, lo scarto interpre-
tativo possibile è decisamente limitato da questa ricercata somiglian-
za/identificazione tra luogo dell’azione e scene, se è vero che lo stesso
Ingegneri, corago (regista) della sfarzosa prima del , riconosce nel-
la traboccante personalità architettonica delle stesse un limite a un
utilizzo diversificato del teatro:

Egli è il vero che quello è un apparato più tragico che comico e in niuna guisa
pastorale; tuttavia con mutazioni e aggiunte a proposito potrebbe tornar
bene a tutte le cose. Ma per le tragedie io vi scorgo un convenevolenza
grandissima che quella fronte, la quale secondo l’uso degli antichi, non
vuole figurare altro che un qualche illustre edificio fatto per ornamento di
quella città che si piglia a rappresentare.
(Ingegneri , p. )

Mutazioni e aggiunte che, con l’esclusione di alcuni maldestri ten-


tativi di occultare le scene, non ci sono mai state, lasciando così il
prezioso fiore pietrificato pressoché intatto nel suo guscio e mantenen-
do considerevole lo scarto funzionale rispetto ai teatri elisabettiani,

. “La scena fronte, eseguita secondo il modello del Palladio, espone una fedele sinossi
della norma vitruviana; mentre le prospettive, realizzate dallo Scamozzi in luogo dei periak-
toi, costituiscono un’aggiunta estranea all’originario progetto del palcoscenico. Concepite
come strutture provvisorie in funzione dello spettacolo inaugurale, le prospettive piacquero
e rimasero in loco; ma, pur armonizzandosi alle linee essenziali del monumento, esse
rivelano tutt’altra matrice: ossia quella della “scena di città”, che ci riporta alla componente
romanza, anticlassica, pratico–tecnica degli “apparatori–inventori” di questo tipo di scena.
E non a caso il loro esecutore Scamozzi le riprenderà, senza il diaframma dell’arcoscenico,
nel proprio originale modello di edificio teatrale, il piccolo Olimpico di Sabbioneta” (Zorzi
, p. ).
Immagini e voci a teatro. Percorsi diversi e obiettivi comuni 

contenitori segnici in grado di ospitare in ugual modo rappresentazio-


ni di vario tipo, in conseguenza della loro costituzionale indipendenza
da scene e macchine:

With so many stage spaces, the multiple scenes of Shakespeare’s plays


could played through without interruption for scenery changes. The action
moved from one playing space to another. In many ways it was the most
flexible theatre ever developed.
(“Elizabethan Theatre”, in Encyclopedia Britannica, sub voce)

Per correttezza di analisi non si possono però in alcun modo tra-


scurare le necessità diverse per soddisfare le quali i due tipi di teatro
sono stati concepiti.
Il Teatro Olimpico nasce come luogo celebrativo del prestigio di
una porzione elitaria della società vicentina che, attraverso la cessione
di un terreno da parte delle autorità cittadine seguito da una ripetuta
autotassazione, riesce con difficoltà a portare a termine la sua costru-
zione, realizzando il proprio sogno, onde lasciarlo poi praticamente
inutilizzato pochi anni dopo.
I teatri elisabettiani, da parte loro — fra i quali si ricorda il Theater
di James Burbage, primo esempio documentato di edificio teatrale del
 — nascono in funzione di una fruizione allargata a un pubblico
che è insieme oggetto che fruisce della rappresentazione e soggetto
che la finanzia.
Da questo punto di vista il teatro pubblico inglese è paradossalmen-
te più classico di tutti quei piccoli gioielli architettonici in cui lo spazio
riservato al pubblico delle immense cavee greco–romane aveva solo
la forma ma non le dimensioni .
Il Teatro Olimpico da parte sua si dimostra per molti versi più
vicino agli allestimenti effimeri rinascimentali e alle Maskes di corte,
eventi spettacolari accomunati da una vitalità altra, completamente
disgiunta dal quotidiano.

. “The court theatres of the Renaissance and their architectural successors, the places
of development of the Renaissance literary drama and opera, were, as we have seen, small,
ornate, secluded halls, removed not only from external nature but from the view, indeed
even from the consciousness of all but those selected few who were permitted to enter
them. Nothing could be more unlike such performance spaces than the huge open public
theatres of classical times” (Carlson , pp. –).
 Stefano Carlucci

Ma l’unicità dell’Olimpico risiede proprio nella sua eccezionale


longevità, dovuta anche a un utilizzo poco più che episodico, ma in
misura maggiore alla solidità del suo anonimo guscio: “Son aspect
exterieur ne laisse rien deviner de sa fonction véritable et l’espace
scénique intérieur se dissimule derrière le murs de brique discrets
d’une construction banale” (Beyer , p. ).

. Abitanti di mondi diversi

Nel teatro elisabettiano il rapporto tra attori e pubblico è caratterizzato


da un grado di dialogicità così elevato che le cronache delle prime
rappresentazioni dell’Amleto riportano numerosi scambi di battute tra
attori e pubblico, entità ancora lontane dalla netta separazione di ruoli
che si attuerà nel teatro barocco.
Sovrapposizioni di ruoli di cui erano protagonisti indiscussi i co-
siddetti gallants, chimere teatrali che “recitavano” rimanendo confusi
tra gli altri spettatori; a testimonianza dell’importanza di questa figura
Thomas Dekker ne traccerà un profilo esauriente nel suo Gull’s Horn
Book del .
Col passare del tempo però l’influenza continentale farà in modo
che l’iniziale dialogicità vada gradualmente a estinguersi e già nel
teatro della Restaurazione questi dialoghi diverranno monologhi.
Nel teatro italiano del Cinquecento si inizia invece a delineare
una separazione sempre più marcata e rigorosa tra gli spazi che le
varie componenti dell’evento teatrale devono occupare. A tal propo-
sito ci sono teorie discordanti, e se da una parte si sostiene che in
linea di massima fino a tutto il Rinascimento attori e pubblico fac-
ciano ancora parte dello stesso spazio (Frey , p. ), dall’altra
si evidenzia l’immobilità passiva dello spettatore rinascimentale, già
lontana dalla mobile partecipazione del suo predecessore medioevale
(cfr Kindermann , p. ).
La cesura spazio–performativa qui accennata si realizzerà definiti-
vamente nel teatro Barocco, in cui la scena sarà sempre più assimilata
a un quadro verso il quale il pubblico, diminuito nella funzione di
spettatore, rivolgerà lo sguardo.
Singolare esempio di partecipazione attiva e resa illusoria si verifica
nel  a Firenze a opera di Bernardo Buontalenti che, in occasione
Immagini e voci a teatro. Percorsi diversi e obiettivi comuni 

del matrimonio di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia, allestisce


uno spettacolo che:

Was marked by pomp and splendour characteristic of the Baroque to come,


but the most remarkable novelty was the effect achieved by placing the
spectators on the stage and thus continuing the court in the realm of a
fictious, illusionistic world.
(Bernheimer , p. )

Il cambiamento dell’organizzazione scenica in Inghilterra si sareb-


be incominciato ad attuare già nei teatri privati come il Blackfriars, in
cui si manifesta per la prima volta un tentativo di convivenza tra prin-
cipio unificatore italiano, realizzato con una piazza centrale circondata
da case, e il retaggio medioevale di piccole scene separate posizionate
alle spalle degli attori.
Evoluzione che nel teatro pubblico della Restaurazione si sarebbe
conclusa nella collaborazione immaginativa dello spettatore, con una
sorta di compromesso tra presenza contemporanea di posti diversi
e necessità — assoluta novità per le scene inglesi — di soddisfare il
principio dell’unità di luogo, così come le parole del classicista Crites
evidenziano:

By the variation of painted scenes, the fancy, which in this case will contribu-
te to his own deceit, may sometimes imagine it [the stage] as several places
with some appearence of probability; yet still carries the greater likelihood
of truth if those places be supposed so near each other as in the same town
or city; which may all be comprehended under the larger domination of
one place.
(Dryden , p. )

Da parte sua il Teatro Olimpico si connota anch’esso nell’attuazione


di un compromesso tra elementi formali ed illusionistici unendo a
una frons scaenae architettonicamente imponente — simile a quelle
dei teatri eretti dai Gesuiti nel Cinquecento nella Germania meridio-
nale (cfr Kernodle , p. ) — l’applicazione dei principi della
prospettiva per una ricostruzione illusionistica delle scene .

. Per quanto riguarda il rapporto tra prospettiva e realismo è utile citare la classi-
ficazione operata da Viola Papetti, sulla base delle teorie di Sourieu, in cui il realismo
è appunto, insieme a orientamento e architettura, uno dei tratti distintivi della scatola
 Stefano Carlucci

Raffigurando ambientazioni esterne e applicando il principio di


unità spaziale il Teatro Olimpico si collega ai canoni poi condivisi dagli
altri teatri italiani con scenografie prospettiche, da cui però si allontana
irrimediabilmente per la multi–focalità delle scene e per il carattere
principalmente formale e non illusionistico della frons scaenae che, infatti,
già nel Teatro Ducale di Sabbioneta, di poco posteriore, sarà assente.
Nel suo non essere né un teatro pubblico vero e proprio né la
cartina al tornasole del potere di un’unica persona, l’Olimpico riflette
la sua singolarità proprio nelle scene poli–focali: qui non è applicata la
prospettiva con centro ottico unico, coincidente con il punto di visione
privilegiato del signore di quello spazio, e sebbene ci sia un punto al
centro della cavea da cui è possibile avere un controllo esteso dello
spazio scenico, posto riservato idealmente al principe di Valmarana,
questo controllo non potrà mai essere totale e le sette vie non saranno
mai contemporaneamente visibili.
Gli accademici che hanno ideato e costruito l’Olimpico sono “a
club of equals” (ibidem, p. ), un gruppo scelto di persone teorica-
mente con pari diritti che, più o meno consapevolmente, scelgono di
isolarsi dal mondo circostante, in cui non possono realizzare le proprie
aspirazioni di gloria e prestigio, per esistere episodicamente in un
tempo etereo e fantastico .
L’Olimpico nella sua dimensione drammatica, soggetto urbanistico
non rilevante, non può quindi neanche ritrovarsi esattamente in quel
principio che Foucault mutua dalla tradizione della Grecia antica:

Arithmetic should be the concern of democratic cities, since it teaches


relationships of equality, while geometry should be taught in oligarchies,
since it shows proportions in its inequalitiy.
(Foucault, trad. ingl. , p. )

Questa complessa macchina teatrale rappresenta probabilmente il

illusionistica italiana, detta cubo: “Il realismo, con cui si intende l’essenziale iconicità della
scena prospettica, e di conseguenza dei movimenti e della dizione che possono solo variare
da un maggiore a un minore grado di stilizzazione: “Tout ce qui est délimité par le cube
doit être incarné ou figuré concrètement” (Sourieau , p. )” (Papetti , p. ).
. “L’Olimpico parlava da sé: un ideale di cultura, di più, un’aspirazione, un modello
di vita vi trovavano completa espressione: bastava popolarlo, in alcune precise circostanze,
immettendovi, in fondo, di volta in volta, i fedeli discendenti dei primi continuatori, sempre,
d’altronde, vigilanti dalle loro nicchie” (Barbieri , p. ).
Immagini e voci a teatro. Percorsi diversi e obiettivi comuni 

punto più alto di quella ricerca che, partendo dallo studio dei classici
antichi, Vitruvio in primis, ne supera, non senza fraintendimenti e
imprecisioni, gli insegnamenti, compendiandoli con le nuove scoper-
te sulla prospettiva, riuscendo a miscelare così elementi formali e
illusionistici, per raggiungere un’identità nuova, ma così unicamente
significativa da non potersi adattare alle nuove tendenze drammatur-
giche, destinata perciò a lasciare quasi subito la scena in favore delle
nuove sale barocche.
In conclusione, fra le due risposte diverse alla medesima domanda,
sembra ci siano punti di interferenza non sempre palesi e influenze reci-
proche: dalla potenzialità pressoché illimitata della scena vuota pronta
per essere riempita dalle parole attoriali delle arene di galli inglesi,
alla rigida fissità delle sette strade di una esile Tebe/Vicenza magica-
mente conservata, una esigenza narrativa comune, a cui sembrano
degnamente rispondere le parole di Eugenio Barba:

Che cos’è un teatro? Un edificio? [. . . ] Il teatro sono gli uomini e le donne


che lo fanno. Eppure quando visitiamo i teatri di Drottingholm o di Versail-
les, il Teatro Farnese di Parma o l’Olimpico di Vicenza [. . . ] sperimentiamo
spesso le stesse reazioni cinestetiche che può darci uno spettacolo viven-
te. Quelle pietre e quei mattoni diventano spazio vivo anche se non vi si
rappresenta nulla. Sono anch’essi un modo di pensare e sognare il teatro,
materializzarlo e trasmetterlo per secoli.
(Barba , p.)

Riferimenti Bibliografici

A () Il Corago o vero alcune osservazioni per mettere bene in scena le
composizioni drammatiche (), Il Polifilo, Milano.
A A. () Le Théâtre et son double, Gallimard, Parigi (trad. it. Il teatro
e il suo doppio, Einaudi, Torino, ).
B M.M. () Problemi dell’opera di Dostoevskij, a cura di M. De
Michiel e A. Ponzio, Edizioni dal Sud, Modugno (Bari).
———. (). L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, trad. it. L.
Ponzio, Meltemi, Roma.
B E. () La canoa di carta Il Mulino, Bologna.
 Stefano Carlucci

B F. (). Il Teatro Olimpico: dalla città esistenziale alla città ideale.
“Bollettino del Centro Internazionale di Studi Andrea Palladio”, n. XVI:
–.
B R. () “Diritto negli occhi”, in Id., Essais critiques III. L’obvie et
l’obtus.
B R. () Theatrum Mundi, “Art Bulletin” XXXVIII, Vol. , No.
 (Dec., ), College Art Association, pp. –.
B A. () Le Théatre Olympique. Architecture triumphale pour une société
Humaniste (), trad. fr. Claire de Oliveira, Adam Biro, Parigi.
C M. (). Places of Performance. The Semiotic of Theatre Architecture,
Cornell University Press, Ithaca e Londra.
C D. () The Theatrical Event: a Mythos, a Vocabulary, a Perspective,
Conn. Editions, Middletown.
C S.T. () Biografia Literaria. Or, Biographical Sketches of My Lite-
rary Life and Opinions, Routledge & Kegan Paul, Londra.
D T. () Gull’s Horn Book, De Roos, Utrecht .
D J. () “An Essay of Dramatic Poetry” (), in B.H.Clark (a cura
di), European Theories of Drama, Crown Publications, New York .
E U. () Codice, “Versus”, , pp.–.
E K. () Much Ado about Speech Acts: atti, fatti, effetti e affetti nella
rappresentazione drammatica, “Versus”, , pp. –.
F M. () L’ordine del discorso, trad. it. A. Fontana, Einaudi, Tori-
no.
F D. () Zuscher und Buhne, in “Kunstwisseschftliche Grundfragen”,
pp.–.
G R. (). “Il Linguaggio dell’Illusione. I segni non–verbali nel-
lo Spettacolo Barocco”. Tesi di Dottorato in Teoria del Linguaggio e
Scienze dei Segni, Università degli Studi di Bari, VII ciclo.
G D. () Palladio e Scamozzi: il recupero dell’illusionismo intergra-
le del teatro vitruviano, “Bollettino del Centro Internazionale di Studi
Andrea Palladio”, XVI: –.
H L F. () The History of World Theater from the English
Restoration to the Present, Continuum Ed., New York.
I A. () Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le
favole sceniche (), Panini, Modena.
Immagini e voci a teatro. Percorsi diversi e obiettivi comuni 

J J. (). Le Lieu Théatrale à la Renaissance, Editions du Centre


National de la Recherche Scientifique, Parigi.
K I. () Critica della Ragion Pura (), Laterza, Roma–Bari.
K G.R. () From Art to Theatre, The University of Chicago Press,
Chicago.
———. () The Open Stage: Elizabethan or Existentialist, “Shakespeare
Survey”, : –.
L J.M. () Ricerche semiotiche. Nuove tendenze delle scienze umane
nell’URSS, Einaudi, Torino.
K H. () Theatergeshichte Europas, Muller, Salisburgo.
M F. () Teoria e tecnica dello spazio scenico dal Serlio al Palladio
nella trattatistica rinascimentale, “Bollettino del Centro Internazionale di
Studi Andrea Palladio”, XVI: –.
M G P. () Shakespeare’s Jacobean Plays, Macmillan, Londra e Ba-
singstoke.
M G. (). Shakespeare. Genesi e struttura delle opere, Gius.
Laterza & Figli Editori, Bari.
M R.M. e S L. () A Mirror of the Times, vol. ,
Morano Editore, Milano.
M G. () Introduction à la sémiologie, Les Éditions de Minuit, Parigi.
P E. () La prospettiva come forma simbolica (), trad. it. G. Neri,
Feltrinelli, Milano.
P V. () Lo spazio teatrale nella Londra della Restaurazione, Edizioni
di Storia e Letteratura, Roma.
P P. () Dictionnaire dù théatre, Messidor Editions Sociales, Parigi.
P A. () Linguistica generale, scrittura letteraria e traduzione, Guerra
Edizioni, Perugia.
P M. () Storia della letteratura inglese, Sansoni Editore, Firenze.
R W.F. () Was there a Typical Elizabethan Stage?, “Shakespeare
Survey”, : –.
S R. () A guide to the Olympic Theatre, Accademia Olimpica di
Vicenza Editrice, Vicenza.
S W. () Enrico V (?), Newton Compton Editore, Roma.
 Stefano Carlucci

S E. () “Le Cube et la Sphere”, in Id., Architecture et Dramaturgie,


Flammarion, Parigi.
T B. () Goethe in Italia (e particolarmente a Vicenza). Con le giornate
del soggiorno vicentino, gli appunti per Carlotta Von Stein e una postilla di
Giacomo Zanella, Accademia Olimpica editrice, Vicenza.
Y F. () Theatre of the World, Routledge & Kegan Paul, Londra.
Z L. () Il teatro e la città, Giulio Einaudi Editore, Torino.

Stefano Carlucci
Università di Bari
P V
SPAZI ESPERIENZIALI RELIGIOSI
PART V
RELIGIOUS EXPERIENTIAL SPACES
Lexia. Rivista di semiotica, 9–10
Ambiente, ambientamento, ambientazione
ISBN 978-88-548-4516-9
DOI 10.4399/97888548451691
pag. 313–330 (dicembre 2011)

Lo spazio sacro della Torah


ovvero il topismo ebraico ∗
U V

 : Sacred Spaces of the Torah or the Jewish Culture’s Topism

: This paper proposes a semiotic analysis of some episodes of


the Torah in order to show the most important characters of its idea
of space. The Jewish sacred space is highly standardized, and defined
by formal separation. Spatial delimitation is itself a value: the Hebrew
name for “sacred”, kadosh, also means “separated”. Space is conceived
as hierarchical/upward. Interspaces are thresholds, used as defense of
the border. Steps are strongly marked. In order to be admitted into the
upper space one must be entitled to it. Separation is a value just in its
spatial dimension, but bears always a metaphorical content; it is a source
of meaning for the world and a guide for action. The most important
example to this regard is the land of Israel. The Jewish thinking is never
utopian (without place), but rather “topical” (highly space–sensitive).
It is concerned and in a sense bound to a system of places that has at
its centers the Temple, Jerusalem, Eretz Israel. Its universalism is not
geographical or spatial, but ethical.

: Torah; space; utopia.

Premessa

Senza voler entrare qui in alcun modo nel merito della vastissima
e millenaria discussione filosofica, geometrica o fisica sulla natura
profonda dello spazio (se soggettivo, oggettivo o trascendentale, piatto
o ricurvo, in crescita o stabile ecc.), ci è comunque necessaria qual-
che precisazione terminologica iniziale. Userò in linea di massima
Per Torah, intendo qui in generale l’insegnamento o la Legge ebraica nei suoi vari

sviluppi, ma più specificamente il Pentateuco, i cosidetti cinque libri di Mosè. Per una
discussione, cfr Volli In stampa.


 Ugo Volli

la parola “spazio” per indicare la rete di relazioni di coesistenza degli


enti nella sua forma più generale, cioè la base su cui la geometria
traccia relazioni topologiche e metriche, la fisica individua campi,
onde e particelle, l’evoluzione biologica e la percezione delle spe-
cie animali ricava diversi ambienti (nel senso di von Uexküll ).
È immediatamente chiaro da quel che abbiamo detto che dal punto
di vista semiotico quel che conta è l’ambiente, non lo spazio . Noi infatti
abitiamo e conosciamo un ambiente (Umwelt) già marcato da un’or-
ganizzazione percettiva di natura biologica, che gli dà caratteristiche
topologiche (per esempio sopra/sotto; fra; dentro/fuori), metriche
(grande/piccolo, vicino/lontano), di scala, ecc.; lo caratterizza con
colori, odori e sapori che sono frutto dell’interazione fra i dati naturali
e i nostri recettori, lo qualifica come umido o secco, luminoso o scuro,
caldo o freddo a seconda delle necessità del nostro organismo: tutti
dati che non possiamo ignorare o valutare a piacere perché la loro
pertinenza è iscritta nella nostra struttura fisica e comporta immedia-
te valorizzazioni biologiche, che sono connaturate alla nostra stessa
evoluzione.
In realtà noi non viviamo neppure in questo “semplice” (ma in
realtà assai complesso ed esigente) ambiente biologico, ma sempre in
luoghi marcati culturalmente, delimitati e segnati dalla loro possibilità
d’uso, da loro “essere per”. Luoghi percorribili o scoscesi, coltivabili
o aridi, abitabili o deserti, ameni o sgradevoli, di lavoro e di piacere.
E luoghi del sacro, luoghi in cui si rivela o si invoca la presenza e l’in-
fluenza del trascendente, così com’è concepito dalla società interessata
(e magari non da altre). Il fatto che la steppa appaia vuota e deserta ai
nostri occhi di cittadini (abitanti delle città) occidentali, o che la foresta
tropicale ci sembri così intricata calda e umida da apparirci inabitabile,
mentre una strada trafficata rumorosa e oggettivamente pericolosa
per inquinamento e rischi del traffico ci appaia “normale” dipende
esattamente da questo. Così come la ripartizione di attività fra luoghi
definiti “strade”, “piazze”, “giardini”, “mercati”; “cucine”, “camere da
letto”, “cantine” ecc. dipende da convenzioni culturali profondamente

. In realtà, come vedremo subito, semioticamente pertinente è piuttosto la nozione


culturale di luogo, non quella biologica di ambiente né quella geometrico–filosofica di
spazio. Per ragioni di semplicità, avendola dichiarata esplicitamente, nel seguito di questo
articolo mi permetterò di tralasciare questa distinzione e di parlare di spazi anche nel senso
culturale.
Lo spazio sacro della Torah ovvero il topismo ebraico 

radicate nella nostra identità collettiva. La competenza spaziale relati-


va fa parte dei saperi necessari per il pieno accesso alla condizione di
adulto responsabile. Di questa competenza infine fa parte anche quel
legame continuo fra spazi e narrazioni che permette di qualificare
quelli a seconda del ruolo che svolgono in queste (Caviccioli ,
). Dunque è la competenza sui luoghi del sacro in una specifica
cultura, non sugli spazi o sugli ambienti, che interrogheremo nel
seguito di questo articolo .
Prima di farlo è opportuno considerare però un’altra distinzione
importante: quella fra luoghi reali (ambienti fisici effettivamente con-
figurati in certi modi a seconda della semantica di una certa società),
luoghi virtuali (configurazioni di certe porzioni di ambiente di solito
bidimensionali, che sono percepiti come simulazioni o rappresentazioni
dei luoghi reali — per esempio pitture e fotografie) e spazi astrat-
ti (cioè schemi di coesistenza fra realtà diverse su cui sono definite
relazioni semantiche o anche matematiche — per esempio gli spazi
cartesiani di rappresentazione delle funzioni o gli schemi logici che
rappresentano divisioni e congiunzioni fra certe categorie di enti, co-
me gli alberi di Porfirio, i diagrammi di Venn o alcuni schemi che
saranno usati nel seguito). Nel seguito prenderò in considerazione gli
uni e gli altri.
. Il legame fra la nozione di luogo e l’ambito del sacro non è evi-
dente a prima vista eppure è importante già sul piano etimologico .
Le parole che indicano la santità e/o la sacralità in molte lingue impli-
cano una connotazione di separatezza. Così è certamente in ebraico
(Reymond : –), ma con buona probabilità anche in latino e
in greco . Di fatto il sacro e soprattutto il santo (che nelle lingue neola-
tine ne condivide l’etimologia, ma ha assunto un significato precipuo)
. Anche se qualche volta, dove non vi è possibilità di confusione, accetterò locuzioni
correnti e parlerò anche di spazi sacri.
. “sacred c. , from pp. of obsolete verb sacren “to make holy” (early c.), from
O.Fr. sacrer (c.), from L. sacrare “to make sacred, consecrate”, from sacer (gen. sacri)
“sacred, dedicated, holy, accursed”, from O.L. saceres, which Tucker connects to base *saq–
“bind, restrict, enclose, protect,” explaining that “words for both “oath” & “curse” are regu-
larly words of “binding”; www.etymonline.com/index.php?term=sacred; il riferimento è
a Tucker .
. Vedi nota precedente. Una spiegazione alternativa e contraddittoria “da una
radice *sak — che indica avvincere, aderire, quindi cosa avvinta alla divinità. . . ” (così
Colonna : , ma anche la maggior parte dei dizionari) resta comunque in un asse
 Ugo Volli

non è mai semplicemente identificato con il divino o il numinoso,


ma in qualche modo lo circonda (o piuttosto nelle grandi religioni
ne circonda il contatto) e lo divide dal resto del mondo profano (“pro
fanum”, davanti al tempio).
Fra sacro e profano vi è una soglia, una differenza che spesso è
anche fisica. Naturalmente le forme del sacro possono essere le più
svariate, come diversi i gradi della separazione. A noi interessa qui
che questo sistema ha comunque una natura spaziale, sia perché in-
veste i luoghi e li distingue, sia perché spazializza in un certo senso
anche ciò che non è luogo: che ci siano dei tempi sacri (o, come dice
piuttosto la tradizione ebraica, tempi da santificare, per esempio Es
: ) contribuisce a dare una forma spaziale al tempo, lo toglie alla
dimensione dell’esperienza pura (la durée bergsoniana) per dargli
limiti e dimensioni calcolabili con precisione. Se il “divino” è una pro-
prietà trascendente di un’azione o di una persona, se il “santo” (dove
esso è distinto da “sacro”) è una qualità etica della persona, il “sacro”
comporta sempre una delimitazione spaziotemporale, una topologia
se non proprio una metrica. La sua spazialità deriva dalla distinzione
che la definisce, perché non tutto può essere sacro (se no la nozione
perderebbe ogni densità semantica) e dunque sempre sacro e profano
si contrappongono e si affiancano. È su questa dimensione che lavora il
presente saggio, e in particolare sul modo in cui essa si presenta nella
tradizione ebraica.
Chiunque consideri la vita dei fenomeni religiosi, non può non esse-
re colpito dal modo in cui essi, che pure la nostra sensibilità considera
naturalmente eterni e infiniti, siano invece spazializzati e tempora-
lizzati. La temporalizzazione (storia sacra, cicli religiosi, ricorrenze
varie) è in un certo senso più comprensibile, dato che il tempo è le-
gato, per come lo comprende l’Occidente, al fine e al senso. Una tesi
fondamentale della semiotica vuole che il senso si manifesti sempre
narrativamente, cioè storicamente, temporalmente. A maggior ragio-
ne questo vale per il Senso trascendente della religione. Di fatto le
maggiori religioni sono doppiamente temporalizzate, in quanto storie
sacre (storia della creazione, del destino dell’universo e dell’umanità)

semantico tipicamente spaziale. Per il greco le fonti insistono sulla “separatezza”. Cfr
http://www.wenstrombibleministries.org/downloads/written/word_studies/greek/hagios.pdf
Particolarmente illuminante l’analisi di Emile Benveniste (: –).
Lo spazio sacro della Torah ovvero il topismo ebraico 

e in quanto guide alla storia della salvezza personale del singolo fedele.
La spazialità è ben più problematica, perché ci appare per definizione
esteriore e mondana. E però tutte le “grandi” religioni oltre a tem-
poralizzare, spazializzano, non solo nel senso ovvio di avere dei loro
luoghi sacri, ma anche nel loro schema metafisico della realtà. Vi sono
regioni più o meno sacre, luoghi del mondo od oltre il mondo che
racchiudono un contenuto spirituale; la storia sacra è sempre anche
viaggio, spostamento nello spazio.
. Nel seguito di questo saggio mi occuperò della concezione ebrai-
ca dei rapporti fra spazio e sacralità, che è particolarmente sviluppata
e articolata. Partiamo dal livello più astratto e cioè dal fatto che Maqom
(luogo) è un nome divino particolarmente importante per l’ebraismo.
Nella tradizione biblica e talmudica i nomi non sono strumenti arbi-
trari di referenza, ma descrizioni implicite, affermazioni sulla natura
delle cose (Volli In corso di stampa). Dunque che Dio sia chiamato
“luogo” implica in prima istanza una sua qualche dimensione spaziale
e allo stesso tempo una sacralizzazione dello spazio, almeno nella
sua specifica declinazione come maqom . Nel divino è certamente
presente una dimensione spaziale, che va considerata attentamente.
Una affermazione molto citata del Midrash (il commento rabbinico
antico ai testi biblici), dice infatti che “Dio non ha luogo (maqom)”
cioè non è contenuto da alcun luogo, “ma è il luogo (maqom) di tutto”.
(Midrash Rabbah Berishit :) Dunque il luogo di cui si parla qui è
pensato come “contenitore” o “dimora” (infatti un altro nome divino,
molto meno popolare ma canonico è “bet olam”, dimora del mondo).
Dio è contenitore e non contenuto, apre lo spazio per ogni cosa, ma
non vi è racchiuso. Il commento citato riguarda un luogo biblico parti-
colarmente importante e denso che peraltro sembra dire il contrario,
Gen. :  (Destatosi dal sonno Giacobbe disse: “In questo luogo c’era
proprio Y–H–V–H e io non lo sapevo”). In realtà però tutto il brano,
che riguarda il famoso sogno di Giacobbe della “scala posata in terra la
. È significativo che l’etimologia di maqom lo colleghi al verbo qom, “sollevare”, e
quindi proponga innanzitutto una dimensione verticale del luogo. Vedremo subito che
questo è particolarmente significativo rispetto al luogo biblico canonico della divinità del
luogo.
. Non traduco come si fa di consueto il Tetragramma con Signore; per rispettare il
suo carattere di nome proprio mi limito a traslitterarlo (per una motivazione più completa,
cfr Volli In stampa).
 Ugo Volli

cui cima arrivava in cielo” con gli angeli che la percorrevano (Gn. :
) è fitto di isotopie spaziali del sacro: Giacobbe arriva in un “luogo”
(maqom); prende una pietra da quel luogo (maqom) e se le mette sotto
la testa (: ); nel posto (maqom) c’era Y–H–V–H e lui non lo sapeva
(: ), il posto (maqom) è “terribile” (norah, aggettivo che spesso
si adopera per la divinità), “la casa di Elo–him e la porta del cielo
(shamaym)” (: ); la scala era posata in terra (arez) con la cima (rosh,
testa) in cielo (shamaym) (: ), su cui stava Y–H–V–H (: ) il quale
lo rassicura che sarà con lui in tutte le terre (adamah) dove andrà e lo
riporterà in quella terra (adamah) e gli promette la terra (definita con
un altro vocabolo: aretz ) per la sua discendenza; poi Giacobbe unge
la pietra (il che è considerato la prima allusione messianica del testo
biblico, dato che mashiach, messia, vuol dire letteralmente “unto”,
come erano unti i re e i gran sacerdoti di Israele), la chiama “Bet El”
(casa di El, che è un altro nome divino, legato etimologicamente a
Elo–him, : ) e fa voto che la pietra su cui ha dormito sarà casa di
Elo–him (Bet Elo–him).
Il brano è estremamente complesso, è stato oggetto di numero-
se interpretazioni mistiche e morali (per un’antologia di queste in-
terpretazioni, vedi Kushner ) e non è possibile esaminarlo qui
approfonditamente. Si possono elencare le isotopie principali: quel-
la del luogo, quella dei tre (o quattro con maqom) nomi divini che
si intrecciano; quello della scala, della casa e della porta, elementi
domestici di separazione e congiunzione che confluiscono nel tema
della soglia e tendenzialmente nella verticalità intesa come percorso,
possibilità di accesso, cielo); quello dell’unzione, della consacrazione e
del voto, quello della terra (definita in questo caso come aretz quando
è religiosamente rilevante, come adamah quando corrisponde a luogo,
territorio).
Nel complesso emerge così l’idea di una vocazione sacra di certi
luoghi; non dunque che Dio sia in essi, nel senso di esservi compreso,
ma che sia più facilmente accessibile attraverso questi. La controparte
di questa località è quell’aspetto divino chiamato Shekinah, ovvero

. L’altro principale nome divino lo spezzo con un trattino per rispettare l’uso religioso.
. Si noti che cielo e terra, con gli stessi vocaboli usati qui (shamaym e aretz) com-
pongono l’endiadi che caratterizza la creazione (Volli In corso di stampa). Adamah ha
una connotazione più concreta, è l’argilla di cui è fatto Adamo, dunque il singolo luogo
concreto, il “suolo”.
Lo spazio sacro della Torah ovvero il topismo ebraico 

“presenza divina” concreta (cioè in certi luoghi e circostanze), che ha un


valore importante nell’esoterismo ebraico anche per il suo carattere
femminile (Idel ). Quest’esistenza di una sacralità di certi luoghi
caratterizza fortemente la religiosità e la cultura ebraica verso l’esatto
contrario di qualunque utopia, e cioè un orientamento ai luoghi o
topismo, se mi si concede l’innovazione linguistica.

. Una certa spazialità astratta del divino è comunque presente


nella grande tradizione della mistica ebraica, la Kabbalah. In primo
luogo questa concezione vi si sviluppa in un’idea molto originale del
rapporto fra divino e mondo, che è nota sotto il nome “Tzitzum” o
“contrazione divina”. Questo rapporto appare problematico e biso-
gnoso di spiegazione fin dalla sua origine. Com’è possibile che vi sia
posto per la creatura accanto al creatore? Se Dio è infinito (En sof  ,
letteralmente “senza fine” è il nome divino preferito dai cabalisti),
com’è possibile che vi sia qualcosa che non sia Dio, ovvero un suo
limite, una differenza che lo definisca? Dal nostro punto di vista, la
questione si può porre nei termini di una forte difficoltà a concepire
una spazialità del mondo in cui il divino sia inserito (dunque come un
ente fra gli altri) o escluso (e dunque ridotto a non essere uno degli
enti, a rischio di dover essere pensato come ni–ente). I cabalisti e in
particolare la scuola sviluppatasi a Safed in Galilea nel Cinquecento,
il cui più importante esponente è Isaac Luria (–) , cercarono
di risolvere il problema con un complesso meccanismo, che riprende
e sviluppa temi già in parte diffusi nella Kabbalah precedente, per
esempio nello Zohar (Laitman ). Come scrive Vital:

Know that before emanations were produced and creatures were created,
there was a simple supernal light that filled all existence; and there was no
empty space, like a completely empty space or vacuum, but all was filled
with that simple infinite light (or, light of the Ayn Sof, the Infinite One). It
had no aspect of beginning or end, rather all was one simple light equally
distributed, and this is called the light of the Ayn Sof.
When it arose in [the Ayn Sof ’s] simple will to create worlds and produce
emanations, to bring to light the perfection of [the divine] acts, names,
and designations — which is the purpose of the creation of the worlds,

. Talvolta riportato in grafia inglese come Ayn Sof.


. Che però non scrisse i suoi insegnamenti, essi sono noti dai testi del suo allievo
Hayyim Vital (–), in particolare Etz Hayyim [l’albero della vita] (Vital ).
 Ugo Volli

as is explained by us in Branch  in the first essay — the Ayn Sof then


concentrated (tzimtzem) Itself in the central point in the actual centre of that
light. It concentrated the light and removed it on all sides from around the
central point. Then there was an empty space, a complete vacuum, from
that actual central point, like this.
Now, this withdrawal (tzimtzum) was equal all around that central, emp-
ty point, in such a manner that that empty space was a circle completely
equidistant all around. It was not in the form of a square, with right an-
gles, for the Ayn Sof withdrew Itself in the form of a circle, equidistant on
all sides. And the reason is that since the light of Ayn Sof was completely
equally distributed, it was necessary that It withdraw Itself equidistantly on
all sides, and not withdraw Itself more on one side than on another. It is
well known in mathematics that no other geometric shape [has all its sides]
equidistant [from the centre] like a circle. This is not so of the square with
protruding right angles, nor of the triangle, nor of other shapes. Therefore,
it was necessary that the withdrawal of the Ayn Sof be in the form of a
circle.
[. . . ]
Now, after this aforementioned withdrawal, there remained a com-
pletely empty vacuum in the middle of the actual light of the Ayn Sof, as
mentioned above, and there was now a space in which the things to be ema-
nated (hane’etzalim), created (hanivra’im), formed (hayetzurim), and made
(vena’asim), could exist. Then It drew down from out of the light of Ayn Sof
above a single straight line from Its circular light, which wound down into
that empty space, like this.
The top of this line is derived from the Ayn Sof Itself, and touches It.
However, the end of the line does not touch the light of Ayn Sof, but through
this line the light of Ayn Sof is drawn and spreads downwards. In this empty
space, It emanated, created, formed, and made all of the worlds. This line is
like a fine channel through which (the water of ) the supernal light of Ayn
Sof is drawn and spreads to all the worlds [that will be produced] in that
completely empty space.
(, Gate , Branch )

Anche in questo caso un’analisi minimamente adeguata di questo


testo e delle altre ricchissime descrizioni e teorizzazioni di cui è parte
va oltre i compiti di questo studio. Notiamo solo che l’isotopia domi-
nante è spaziale e dà luogo a una vera e propria metaforica. All’inizio
si pone un principio infinito e indefinito, dunque immateriale, che
non è lecito immaginare spazialmente e che sarebbe la natura propria
del divino. Poi (ma è un poi non temporale) esso produrrebbe una
sua spazializzazione “or en sof ”, la luce dell’infinito, di cui non si sfrut-
ta né qui né specialmente altrove l’aspetto luminoso (per esempio i
Lo spazio sacro della Torah ovvero il topismo ebraico 

valori cromatici, l’idea connessa di una fonte luminosa o di un occhio


percipiente), ma che viene valorizzata semplicemente come campo
energetico infinito, cioè già come una spazializzazione del divino, sia
pur ancora senza forma e confini. La luce riempie lo spazio e non ha
senso senza di esso, mentre l’infinito non ne dipende. Questa spazia-
lizzazione è pensata come una prima contrazione o limitazione del
divino (Tzimtzùm rishòn) ma poi essa stessa si contrarrebbe, lasciando
uno spazio (che viene definito “circolare” e dunque è già geometrico)
vuoto, privo della luce infinita e dunque metaforicamente oscuro e in
un certo senso ateistico, vuoto della presenza divina. Questo avverreb-
be a seguito di una seconda contrazione (Tzimtzum shenì) del divino
in due direzioni, una centripeta, che darebbe luogo a un “punto” di
particolare intensità, e una centrifuga, che insieme lascerebbero libero
uno spazio di esistenza e autonomia per il creato. La creazione avver-
rebbe con la proiezione di un raggio divino in questa vuota oscurità.
Ma sempre nella Kabbalah, ne consegue l’immagine della “rottura dei
vasi” (sheviràt hakelìm), vale a dire che lo spazio creaturale non avreb-
be resistito alla potenza dell’irradiazione divina, sarebbe esploso, e di
esso nel mondo attuale resterebbero solo i cocci (kelippòt), vale a dire
la materia, e le “scintille divine” che vengono dal raggio, mescolate ad
essa, da estrarre e unificare per “riparare il mondo” (Tikkùn Olàm), il
che sarebbe il senso della storia e della religione.
Prima ancora dello stabilirsi della realtà, in questo spazio si tro-
verebbero quattro mondi successivi, di livello decrescente, l’Atzilut
(emanazione), la Beriah (creazione), la Yetzirà (formazione) la Assyah
(azione), quest’ultima corrispondente al nostro mondo. Inoltre tutto
questo spazio sarebbe anche sotto l’influsso di una struttura qua-
si–spaziale delle emanazioni divine: la complessa struttura definita
“albero delle sefirot” (ma la figura che è tracciata spesso somiglia non
casualmente allo schema di un essere umano). Sono dieci entità che si
possono intendere come attributi divini (vi è la giustizia e la saggezza,
la regalità e il sapere ecc.), legati fra loro da rapporti complessi. In que-
sto albero vi è una pertinenza spaziale di sinistra/destra, alto/basso,
collegato/separato ecc., che rimanda per complessi semisimbolismi al
lato femminile e a quello maschile della divinità, alla sua dimensione di
severità o di misericordia, alla vicinanza o alla lontananza dal creato .

. In queste poche frasi riassumo rozzamente una tematica che è stata sviluppata per
 Ugo Volli

Via via che le complicazioni si moltiplicano, non si può fare a


meno di comprendere che la spazialità di cui stiamo parlando è una
schematica, cioè uno spazio astratto nel senso della nostra definizione
iniziale e non un ambiente. Tant’è vero che all’isotopia spaziale se ne
sovrappongono almeno altre due. Una è la figurativizzazione e talvolta
la personificazione delle emanazioni, che sono definite di volta in volta
come “palazzo”, “colori”, “vecchio dei giorni” e anche con nomi più
pittoreschi e personali, tipo “faccia lunga”.
L’altra, molto più diffusa perché permette di tenere sotto controllo
il rischio di fraintendimenti idolatrici, è quella letteralista. Dato che la
creazione già nella Bibbia avviene per mezzo di diciture (per citare
solo la prima: “Elohim disse: “Sia la luce” e la luce fu.” (Gn : )), è chia-
ro che essa ha una sua dimensione linguistica, accennata poi appena
nell’incipit del Vangelo di Giovanni. E dunque vi è una questione di
nomi e soprattutto di lettere in essa e in definitiva in tutta la struttura
dell’universo. Secondo questa metaforica, il gesto della creazione non
consiste tanto in una spazializzazione, quanto in una scrittura, o ancor
meglio in una giustapposizione, combinazione e separazione di let-
tere. Le quali peraltro anch’esse hanno una significativa dimensione
plastica e dunque spaziale, che è sfruttata in numerose speculazioni
cabalistiche.
Resta il fatto assai notevole che l’isotopia fondamentale della me-
tafisica cabalistica (metafisica nel senso etimologico: ciò che sta al di
là delle cose naturali) è fortemente spazializzata e in particolare com-
prende due forti linee isotopiche (che ho potuto solo accennare finora,
ma che potrebbero essere certamente sostenute con esempi e analisi):
quella orizzontale che in semiotica chiameremmo topologia dell’in-
clusione (dentro/fuori) e quella verticale gerarchica dell’alto e del
basso. In generale esse hanno un forte aspetto semisimbolico: ciò che
è “dentro” (spesso incluso in numerose soglie) di solito è sacro, e lo
stesso vale per ciò che è in alto. Entrambe le mosse semisimboliche pe-
raltro sono condivise (o ereditate) abbastanza largamente nella cultura
occidentale. Nel seguito di questo saggio esaminerò qualche esempio,

secoli da scuole mistiche particolarmente ricche di pensiero e di creatività originale; sono


inevitabili quindi semplificazioni e inesattezze. Per un’introduzione alla materia rimando
ai lavori di Scholem e di Idel in bibliografia.
. Su questo vedi Volli In corso di stampa.
Lo spazio sacro della Torah ovvero il topismo ebraico 

non più metafisico ma narrativo tratto dalla Bibbia, di entrambi questi


semisimbolismi e della loro frequente sovrapposizione.

. La storia della Torah è costruita intorno a una geografia molto


particolare. Vi sono tre periferie e un centro. La prima periferia è
quella orientale che possiamo definire dell’origine (la Mesopotamia,
Ur e Charam, le città da cui viene Abramo e in cui suo figlio e i
suoi nipoti vanno a cercar moglie). All’inizio dell’avventura di Israele
Abramo è invitato ad andarsene di lì “verso la terra che ti indicherò”
(Gn : ) e il popolo non vi farà più ritorno, se non molto tardi
nell’esilio (“sui fiumi di Babilonia” del salmo ). Il nome “ebreo”,
ivrì, viene comunemente interpretato nella tradizione biblica come
indicante il “passaggio” oltre il fiume che definisce la Mesopotamia:
ebreo è colui che passa il fiume o il confine, che proviene da un altrove.
L’altra periferia è l’Egitto (in ebraico Mitzraim, di cui spesso è
valorizzata l’etimologia ancora spazializzante che lega questo nome
ai concetti fisici di “ristrettezza” e “oppressione”). In Egitto vanno
sia Abramo che Isacco che Giacobbe per sfuggire a carestie, con la
differenza che i primi due riescono a rientrare, il terzo, portato lì dal
figlio Giuseppe potrà essere riportato in patria solo come salma e la
sua discendenza vi resterà prigioniera per quattrocento anni. L’esodo
dall’Egitto è l’atto di formazione del popolo ebraico a partire dal clan
che vi era arrivato.
Vi è poi una terza periferia non statale, il deserto o la steppa dove
avviene la Rivelazione e dove il popolo soggiorna per quarant’anni,
in attesa di rinnovarsi anche fisicamente, con la scomparsa di tutta le
generazione di coloro che avevano conosciuto la schiavitù.
Al centro fra Egitto, Mesopotamia e deserto vi è Eretz Israel, la terra
di Israele. Andarvi significa metaforicamente (non necessariamente
sul piano geografico) “salire” (ancora oggi in ebraico l’immigrazione
in Israele è una “salita”, alyà), mentre in Egitto si “scende”. La centra-
lità e l’ascensionalità della “Terra Santa” ne confermano il carattere
sacro, che è ulteriormente esaltato, in un certo senso raddoppiato per
Gerusalemme anche per raggiungere questa città dal resto di Israele si
parla di “salita” e i salmi usati per i tre pellegrinaggi annuali obbligatori
sono chiamati shirim ha–maalot (salmi “dei gradini” o “di ascensione”,
dal  al ). Al centro di Gerusalemme sta il Tempio, il quale è a
sua volta suddiviso in tre zone ad accesso differenziato, i cortili (a loro
 Ugo Volli

volta suddivisi in varie aree con diverse limitazioni) la zona “santa”


dei sacrifici, cui possono accedere solo i sacerdoti e il “santo dei santi”
(kodesh hakodashim) in cui poteva entrare solo il grande sacerdote una
volta l’anno (e si racconta che Pompeo Magno che lo violò nel  a.C.
fu molto meravigliato nel trovarlo vuoto).
Più che del Tempio reale, che naturalmente fu oggetto di vicissitu-
dini storiche, ricostruzioni (almeno due principali, quella successiva al
ritorno dall’esilio babilonese e quella di Erode alla vigilia della sua di-
struzione), vale la pena di occuparsi brevemente del suo prototipo nel
deserto, il Tabernacolo o Miskan, minuziosamente descritto in diversi
capitoli dell’Esodo (fra l’altro –, –, –, ) e del Levitico
(–). Non è possibile qui illustrare e interpretare nei particolari il
dettagliatissimo lavoro simbolico del Tabernacolo. Vale solo la pena di
illustrare la gerarchia spaziale che lo circonda e lo struttura all’interno.
Il tabernacolo era al centro di un accampamento strutturato in tre
zone. Vi è il campo, mechané, in cui vi è un luogo stabilito a seconda
dell’orientamento per ciascuna delle  tribù e una zona centrale pre-
sidiata dai leviti, al cui centro sta la tenda o ohel (organizzata a sua volta
in tre spazi concentrici) e fuori l’extracampo o sané. Le regole rituali,
per esempio la modalità di uccisione degli animali sacrificati o cacciati,
variano notevolmente a seconda delle zone; vi sono atti rituali che si
debbono svolgere in una certa zona, altri che vi sono proibiti:
Qualunque figlio d’Israel scanni un bue o un agnello o una capra entro
il campo o fuori del campo senza condurlo all’ingresso della tenda del
convegno per presentarlo come offerta a YHVH davanti alla residenza di
YHVH, sarà considerato colpevole di delitto di sangue: ha sparso il sangue
e questo uomo sarà escluso dal suo popolo.
(Levitico )

Anche l’accesso è definito; le persone affette da certe condizioni


debbono stare in certe zone e non possono entrare in altre: per esem-
pio i malati di lebbra (o scabbia, comunque da una malattia della pelle)
sono confinati nel sané; coloro che sono ritualmente impuri, perché
per esempio sono entrati in contatto con un cadavere o con liquidi
organici, non possono entrare nel recinto dell’ohèl, nella tenda vera e
propria possono accedere solo i sacerdoti. Anche lo spazio dell’ohèl è
organizzato in tre zone, come si diceva: un cortile accessibile a tutti i
membri del popolo di Israel ritualmente puri, un kodesh (“santo”, o
Lo spazio sacro della Torah ovvero il topismo ebraico 

meglio “distinto” ) cui possono accedere solo i sacerdoti in servizio


e un kodesh kodashim (“santissimo” o “distintissimo”) in cui possono
entrare solo Mosè e Aronne (i cui figli vengono fulminati per aver
offerto un “fuoco estraneo”, cioè un sacrificio non richiesto, Lv ) e
poi solo il grande sacerdote nel Giorno dell’espiazione. Nella Torah la
soglia è sempre connessa a comportamenti particolari e al bisogno di
un’autorizzazione per superarla: così per esempio, di fronte al miraco-
lo del roveto ardente, Mosè prima si allontana, poi si copre il volto ed è
invitato a togliersi i calzari, “perché il luogo [ancora maqom] sul quale
stai [omed, la stessa radice di amen e della preghiera ebraica principale,
la amidah] è suolo [adamah] sacro” (Es : ).
Fra gli arredi dell’area santissima vi è “lo spazio dell’apparizione”,
l’arca della testimonianza, una specie di cassapanca di legno di acacia
dorato, che contiene le tavole del Decalogo e la copia originale della
Legge e che è completata sul coperchio dalle statue d’oro di due
cherubini che si fronteggiano e si guardano. L’apparizione divina
parla nello spazio fra i cherubini, un luogo ancora delimitato (spesso
si è commentato: fra due sguardi che si riflettono, fra due possibili
interlocuzioni) all’interno della serie di delimitazioni concentriche
che ho elencato.

. Da questi accenni si vede un primato del centro, che è molto


forte nella liturgia ebraica. Ad esso si contrappone, o piuttosto lo
completa, la Wanderung, l’erranza che è caratteristica del deserto e
dei patriarchi. Tortuoso è il percorso di Abramo (che viene dall’altra
parte, ivrì) e anche dei suoi discendenti; muovendosi per caso “oltre il
deserto” a pascolare il gregge di pecore di suo suocero, Mosè incontra
il roveto ardente (Es : ); per quarant’anni poi guiderà il suo popolo
in un vagabondaggio nel deserto del Sinai, per coprire un percorso di
un paio di centinaia di kilometri, che qualunque carovana copre in una
settimana o poco più. Non si tratta di gesti casuali, l’isotopia è troppo
. È importante sottolineare che in ebraico i due sensi di “santo” e “distinto” (nel senso
di diverso dal contesto, portatore di una differenza) si sovrappongono. Non si comprende
buona parte della Legge ebraica e dei precetti concreti se non si bada al fatto che essi
impongono di differenziare: il sacro dal profano, ciò che si può mangiare e ciò che è
interdetto, perfino la lana dal lino e le diverse specie di coltivazioni, che è proibito mescolare.
Per una riflessione antropologica su questi temi, si vedano le opere di Mary Douglas citate
in bibliografia. Per noi qui è rilevante il rapporto fra santità e distinzione degli ambiti
spaziali.
 Ugo Volli

forte per consentire quest’ipotesi. E in effetti, un punto capitale della


Torah, nella confessione di fede o nel suo proprio riassunto che doveva
pronunciare ogni fedele portando le primizie al Tempio in una delle
feste di pellegrinaggio, inizia con la frase “mio padre [cioè Abramo]
era un arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con
poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa” (Dt
: –). Questo brano, che alcuni filologi dell’Ipotesi Documentaria
identificano addirittura con il nucleo generatore della narrazione
biblica, viene ripetuto nella popolarissima liturgia della cena pasquale
(seder).
L’erranza è però riportata a un obiettivo, che non è possibile rag-
giungere subito, come la Terra promessa (o piuttosto nel testo ebraico
“data”, giacché il verbo usato per definirla è natan, “dare”) per il po-
polo dell’Esodo. Dunque si misura in rapporto a una centralità, che
viene riprodotta nella struttura del Tempio e del Tabernacolo. Vi è
una gerarchia di soglie concentriche che costruisce la “distinzione”
(o santità) dei luoghi. È interessante ribadire che quest’opposizione
fra dentro e fuori (dalla soglia) si congiunge all’opposizione fra alto e
basso.
Lo si vede già nella descrizione del giardino dell’Eden (Gn : –):
vi è l’albero della vita “al centro”, congiunto in qualche modo (vi sono
molte speculazioni mistiche su questo) con l’albero della conoscenza
del bene e del male, vi nascono quattro fiumi (dunque il luogo è ele-
vato), la nozione di giardino implica una delimitazione e una soglia,
tant’è vero che dopo la cacciata di Adamo ed Eva Dio vi colloca “i
cherubini che roteavano la spada fiammeggiante”, “per custodire la
strada che portava all’albero della vita”, ma stranamente solo “a orien-
te”. Abbiamo dunque un luogo delimitato ed elevato al cui centro sta
un albero, cioè il più tipico elemento verticale dell’immaginario ebrai-
co. Il successivo elemento verticale, che alcuni commentatori hanno
visto come una sostituzione di questo, è la Torre di Babele, anch’essa
connessa a una città e dunque a una delimitazione, presumibilmente
a delle mura .
Altri due luoghi canonici della geografia sacra ebraica sono monti,
cioè elementi tipicamente verticali. Il primo è il monte Morià in cui

. Per un’analisi di questo racconto capitale per la concezione ebraica dello spazio, cfr.
Volli In corso di stampa.
Lo spazio sacro della Torah ovvero il topismo ebraico 

(non) avviene il “sacrificio di Isacco” (che il mondo ebraico chiama


invece akedà, “legatura”); esso è identificato dalla tradizione con il
monte Sion, l’altura di Gerusalemme su cui (o accanto a cui, secondo
la toponomastica attuale) sorge il Tempio. Tempio, Gerusalemme,
Monte Morià e l’intera Terra di Israele condividono fra l’altro una stra-
na indicazione, perché si prescrive di recarvisi con la precisazione “vai
al paese (nel luogo, ecc.) che io ti indicherò” (per esempio Gn. : ; :
, ecc.). Il futuro, l’altezza, la sacralità in questo caso vertiginosamente
coincidono.
Il secondo luogo è ancora una montagna, quella chiamata Sinai o
Orev. Leggendo il lungo testo variamente intervallato che descrive la
Rivelazione (Es. –) si è colpiti dal numero di salite e discese che
Mosè fa sul Sinai, quasi l’andare e venire di un ago che tesse fra lo
spazio della trascendenza e quello della vita quotidiana del popolo,
che incontra ostacoli, incomprensioni, lacune. Vi è qui un evidente
rapporto di contrarietà nella somiglianza con la Torre di Babele, che
pretendeva di raggiungere e conquistare il Cielo; e vi è anche una
soglia precisa: nel momento in cui sta per avvenire la Rivelazione Dio
impone a Mosè:
E metterai un segnale di confine intorno al monte, avvertendoli: State
bene attenti di non salire sul monte né di toccarlo all’estremità perché
chiunque lo toccasse ne morrebbe. Nessuna mano lo tocchi, poiché chi lo
toccasse sarebbe lapidato o ucciso a colpi di freccia, sia bestia o uomo, non
sopravvivrebbe.
(Es. : –)

Insomma la verticalità dev’essere tutelata nella maniera più severa


da una soglia che richiede una sorveglianza anche umana (i colpi
di freccia e le pietre della lapidazione). È un regime metaforico che
ha grande capacità di diffusione. Per esempio l’attività legislativa dei
maestri posteriori alla chiusura del canone biblico è normalmente
descritta e giustificata come l’attività di “piantare siepi intorno alla
Torah”, come a proteggerla, marcando una soglia più estesa del suo
preciso dettato.
Si possono citare brevemente qui anche altri indizi fra i numerosi
che indicano la verticalità come valore spaziale dominante: per esem-
pio il termine generico per sacrificio in ebraico è la parola korban, che
significa avvicinamento. Come viene spiegato l’episodio di Caino e
 Ugo Volli

Abele, il sacrificio è bene accetto, o riesce, quando il fumo del dono


bruciato (questo è in concreto il sacrificio ebraico) sale verso il cielo, e
non lo è quando stagna a terra.

. Il rapporto con la Terra di Israele non è utopico, ma al contrario


topico. È solo nel rapporto con quella terra, sempre desiderata, sempre
perduta, che si può realizzare l’identità ebraica. La terra non è pensata
come qualche cosa di ideale o di futuro (come semmai è il messianesi-
mo, che entra tardi nel pensiero ebraico e innanzitutto come progetto
teologico–politico, come restaurazione del regno davidico e dunque
della santità della Terra, profanata dalle invasioni straniere). L’esilio
(golà) è il contrario della redenzione (gheulà). La condizione della
redenzione è il ritorno alla Terra. La preghiera che fu introdotta dopo
il ristabilimento dello Stato di Israele, nel , lo definisce reshit geula-
tenu, “germoglio (o “principio”, è lo stesso vocabolo impiegato come
prima parola della Torah) della nostra redenzione”.
Vi è dunque un topismo di Israele che riguarda non tanto la sacertà
dello spazio, ma nei termini della premessa che ho fatto, quella dei
luoghi. Concludo riassumendone i punti principali:

— Lo spazio del sacro ebraico è fortemente strutturato e normato.


La separazione spaziale è di per sé un valore.
— Lo spazio è gerarchico/ascensionale. Gli interspazi sono soglie,
utili come difese.
— I passaggi sono fortemente marcati, per essere ammessi nello
spazio superiore bisogna averne titolo, si può essere confinati a
uno spazio inferiore.
— La separazione vale anche solo nella sua dimensione spaziale,
non per i contenuti metaforici di cui è portatrice, è fonte di
senso per il mondo e guida per l’azione.
— Lo spazio separato (distinto, kodesh) ha valore come tale e il
primo esempio di ciò è la terra di Israele.
— L’ebraismo non è utopico, ma al contrario topico. È interessato
e in un certo senso vincolato a un sistema di luoghi, che ha al
centro il Tempio, Gerusalemme, Eretz Israel. Il suo universali-
smo non è geografico o spaziale, ma etico.
Lo spazio sacro della Torah ovvero il topismo ebraico 

Riferimenti bibliografici

B E. () Le vocabulaire des institutions indo–européennes, Ed. du


Minuit, Parigi (trad. it. Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi,
Torino ).
C S. (a cura di) () La spazialità: valori, strutture, testi, numero
monografico di Versus, –.
———. () I sensi, lo spazio, gli umori e altri saggi, Bompiani, Milano.
C B. () Dizionario etimologico della lingua italiana, Newton, Ro-
ma.
D M. () In the Wilderness, Oxford University Press, Oxford.
———. () Leviticus as Literature, Oxford University Press, Oxford.
———. () Jacob’s Tears, Oxford University Press, Oxford.
I M. () The Mystical Experience in Abraham Abulafia, SUNY Press,
New York.
———. () Kabbalah and Eros, Yale University Press, New Haven and
London (trad.it. Eros e Qabbalah, Adelphi, Milano ).
K L. () God Was in This Place and I, I Did Not Know, Jewish Lights
Publishing, Woodstock, VT (trad. it. In questo luogo c’era Dio e io non lo
sapevo, Giuntina, Firenze ).
R P. () Dizionario di ebraico e aramaico biblici, Società biblica
britannica e forestiera, Roma.
S G. () Sabbatai Sevi: The Mystical Messiah, Princeton Universi-
ty Press, Princeton, NJ (trad. it. Šabbetay [E?]evi: il messia mistico
(–), Einaudi, Torino ).
———. () On the Kabbalah and its Symbolism, Schocken Books, New
York (trad. it. La kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino ).
S G. (a cura di) () I segreti della creazione, Adelphi, Milano.
T T.G. () Etymological Dictionary of Latin, Ares Publishers, Chica-
go (ed. or. Niemeyer, Halle ).
V H.  J. () The Tree of Life: Chayyim Vital’s Introduction to the
Kabbalah of Isaac Luria – The Palace of Adam Kadmon, trad. ingl., Jason
Aronson, Northwale, N.J. and Jerusalem.
V U J.J. () Umwelt und Innenwelt der Tiere. . verm. u. verb.
Aufl. J. Springer, Berlino (trad. it. Ambienti animali e ambienti umani. Una
 Ugo Volli

passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, Quodlibet, Macerata ).


V U. (in stampa) Domande alla Torah, L’Epos, Palermo.
———. (b) Lezioni di filosofia della comunicazione, Laterza, Roma–Bari.
———. (c) “Separazione e rivelazione – I nomi del santo in Sefer She-
mot”, in N. Dusi e G. Marrone (a cura di) Destini del sacro: Discorso
religioso e semiotica della cultura, Meltemi, Roma.
———. () Ordine dal caos, ovvero metafisica e semiotica dell’agentività,
in M. Leone (a cura di) Attanti, Attori, Agenti, numero monografico di
“Lexia”, /: – .

Ugo Volli
Università di Torino
Lexia. Rivista di semiotica, 9–10
Ambiente, ambientamento, ambientazione
ISBN 978-88-548-4516-9
DOI 10.4399/97888548451692
pag. 331–350 (dicembre 2011)

Des Hommes et des Dieux


Di un film e della sua preghiera

A L

 : Of Gods and Men: a Semiotic Analysis of the Movie and its
Prayer

: Xavier Beauvois  movie Of Gods and Men tells the tragic story
of the monks of Tibhirine, killed in mysterious circumstances in Algeria
in . The movie shows the everyday life of a small monastic commu-
nity: every scene is accompanied by the singing of the prayers that the
monks recite during the celebration of their daily rituals. In the movie,
the acting–singing of prayers has the function to prepare and transform
the processes of adaptation that the monks experience in their environ-
ment. The paper focuses on the texts of these prayers, with the aim to
demonstrate that the processes of adaptation and environmental setting
of experiences are mediated through passions: prayer is a poetical means
of inner transformation, because it is capable of promoting semiotic
processes of meaning attribution to new environments and locations in
the perception of reality.

: Prayer; poetic language; religious fundamentalism; Islam; Chri-


stianity.

Introduzione

Des Hommes et des Dieux di Xavier Beauvois , il film premiato a Cannes


nel  e che ha commosso milioni di spettatori, narra la drammatica
. L’idea del film era stata proposta a Beauvois da Etienne Comar. Profondamente
toccato dalla tragica vicenda dei monaci di Tibhirine, Comar aveva presentato una prima
bozza di sceneggiatura a Xavier Beauvois con la proposta di farne un film. Le ricerche
per giungere a una stesura definitiva della sceneggiatura completa sono durate due anni,
durante i quali Beauvois e Comar hanno soggiornato presso l’Abbaye de Tamié nella Savoia
francese, dove risiede una comunità di monaci cistercensi. Sono inoltre stati consultati i diari
e gli scritti di due dei monaci assassinati, Christian de Chergé e Christophe Lebreton, e i


 Alessandra Luciano

storia dei monaci di Tibhirine. Una vicenda tragica a tutt’oggi avvolta


dal mistero e che il film ripropone in una versione fedele ai fatti. Ma la
forza evocativa di questo testo filmico pare darsi anche attraverso il suo
proporsi come sorta di film–preghiera, o film–meditazione, che tende
a suturare la percezione dello spettatore all’ambiente dell’esperienza
della vita monastica, così com’è rappresentata nel tessuto narrativo,
con un particolare effetto di illusione di realtà.
Ciò accade perché Des Hommes et des Dieux ha la forza di testimonia-
re e rappresentare il vissuto di quel particolare “spazio dell’esperienza”,
indicibile per sua natura, che è il sentire religioso. Il film lo inscrive in
un’area liminare, o di frontiera, che pare essere luogo di mediazione
nel rapporto tra due dimensioni o sfere percettive dell’ambiente: una
concerne le cose del mondo esteriore e si costituisce come un am-
biente del fare; l’altra è una dimensione dell’immaginario, alimentato
dal “sentire” interiore, che conferisce senso alle esperienze vissute
nel mondo esteriore, e si inaugura perciò come un ambiente dell’essere.
Questa due spazi di esperienza sono null’altro che la traduzione del
principio ispiratore della regola benedettina Ora et labora, la quale scor-
ge nel rapporto tra “azione” e “or–azione” l’essenza stessa della vita
religiosa come preghiera continua che si scandisce tra essere e fareNel
film l’ambiente del fare, nel quale operano i monaci, è rappresentato
come uno spazio aperto caratterizzato dal paesaggio naturale e dal
contesto culturale e sociale di una piccola comunità di fede islamica
che subisce la violenza dell’estremismo religioso e l’arroganza di un
potere politico corrotto. È questo il mondo dell’esperienza concreta che
scandisce la drammatica vicenda dei monaci di Tibhirine. L’ambiente
dell’essere è rappresentato invece dallo spazio circoscritto, ma non chiu-
so, del monastero, il quale è luogo fisico e simbolico dell’interiorità.
È questo un mondo del sentire e del senso che i monaci interiorizzano e
fanno proprio attraverso il rito quotidiano di ascolto–meditazione e
canto di testi–preghiera. La preghiera, intesa come interiorizzazione
del testo, elabora l’esperienza vissuta illuminando di senso i difficili e
umani travagli che i monaci vivono, sino a ispirare la difficile decisione
che sarà da loro presa di non abbandonare il monastero.

monaci di Tamié hanno fornito la consulenza per la stesura dei dialoghi e la scelta dei canti.
Prima delle riprese anche gli attori hanno quindi trascorso una settimana di permanenza
presso l’Abbazia per osservare da vicino la vita monastica.
Des Hommes et des Dieux. Di un film e della sua preghiera 

Il presente articolo analizza i testi di alcune delle preghiere che


scandiscono i momenti cruciali del percorso patemico di cui la piccola
comunità monastica fa esperienza. La struttura del film prevede infatti
che ogni scena sia caratterizzata da un canto, recitazione o lettura, di
una preghiera che i monaci compiono durante la celebrazione dei riti
quotidiani. Si tratta di testi autentici, che non sono stati predisposti
appositamente per la narrazione filmica, ma sono stati scelti dal corpus
di preghiere che nei monasteri cistercensi fornisce letture e testi di
meditazione durante la celebrazione dei riti.
Nel film la recitazione–canto di preghiere predispone i processi di
ambientamento e ambientazione dei monaci nei confronti dell’am-
biente esteriore da loro percepito e con il quale interagiscono. È la
pratica della preghiera a trasformare il sentire patemico dei monaci
nei confronti dell’ambiente esterno allo spazio del monastero. Si tratta
di un sentire sospeso contraddittoriamente tra l’amore–compassione
verso il villaggio e i suoi abitanti e la paura dovuta alla minaccia del-
la violenza terroristica e dell’arroganza governativa. Il contrasto tra
sentimenti opposti si pacifica e trasforma via via in profonda determi-
nazione attraverso la decisione di vivere sino in fondo il senso ultimo
della propria missione interiore: quella di non abbandonare la piccola
comunità islamica di cui ci si sente responsabili, quella di testimoniare
la fede in una spiritualità che superi i confini chiusi e invalicabili di
ogni dogmatismo e fondamentalismo religioso.

. Ambientazione della vicenda storica

Il film narra la drammatica vicenda dei nove monaci trappisti apparte-


nenti al monastero di Notre Dame de l’Atlas a Tibhirine, un piccolo
villaggio che sorge nei pressi di Médéa in Algeria. I monaci furono
sequestrati nella notte del  marzo  dalla G.I.A. (Gruppo Islamici
Armati), braccio armato del Fronte Islamico di salvezza, che chiese
alla Francia uno scambio di prigionieri politici per la loro liberazione.
Ma due mesi più tardi, il  maggio , la G.I.A. annunciò di aver
ucciso gli ostaggi e nei giorni seguenti ne fece ritrovare le sole teste
decapitate a conferma dell’avvenuta esecuzione.
In questa sede non approfondirò la questione controversa che gra-
va ancora sul mistero del rapimento e dell’uccisione dei monaci di
 Alessandra Luciano

Tibhirine, che avvenne durante la guerra civile algerina, maturata in


seguito al colpo di stato del . In un primo tempo la responsabilità
dell’eccidio fu attribuita ai fondamentalisti islamici, pur non escluden-
do anche una complicità dei servizi segreti algerini. Un’altra ipotesi
attribuì invece l’uccisione dei monaci a un tentativo non riuscito di
liberazione da parte dell’esercito algerino. Solo recentemente ulterio-
ri indagini avrebbero dimostrato la connivenza di responsabilità del
governo algerino con i gruppi terroristi islamici (Guitton ) per
l’uccisione dei monaci. Il motivo della loro eliminazione sarebbe da
attribuire al fatto che i monaci intrattenevano rapporti di scambio e
pratiche condivise di preghiera con i musulmani Sufi.
Quest’ultima ipotesi ispira anche la narrazione proposta dal film
di Xavier Beauvois, che non si discosta dai fatti realmente accaduti e
propone due principali isotopie di lettura: la più evidente è riferita alla
vicenda storica e al mistero ancora non chiarito circa l’uccisione dei
monaci; la seconda è riferita invece a un modello di spiritualità che si
apre oltre i confini delle appartenenze e delle credenze religiose, in
grado di mettere in luce i valori condivisibili fra Islam e Cristianesimo,
i quali ispirano etica e pratiche comuni di vita e preghiera. Si tratta
per altro di un’esperienza che è stata realmente condivisa dai monaci
trappisti di Tibhirine con i musulmani Sufi attraverso la pratica della
preghiera, aspetto che è ben evidenziato anche nel tessuto narrativo
del film. Le preghiere che sono citate nel susseguirsi delle scene solo
in qualche rara occasione sono riferite a brani estratti dai testi della
tradizione religiosa: Bibbia, Nuovo Testamento e Corano. La maggior
parte delle invocazioni e letture, nonché dei canti che costituiscono la
pratica rituale quotidiana, sono testi scritti da monaci cistercensi e, in
alcuni casi, il regista li accosta con efficacia a invocazioni e preghiere
islamiche. Le preghiere dei monaci di Tibhirine e musulmani Sufi de-
finiscono i confini di uno spazio di esperienza dell’ambiente interiore,
di cui è speculare il sistema di relazioni che i monaci intrattengono
nei confronti dell’ambiente esteriore. Qui i padri trappisti, in abito
civile, condividono rapporti con gli abitanti del villaggio contrasse-
gnati da simpatia, rispetto e da un profondo legame di fiducia. Questo
ambiente esteriore viene turbato dai violenti conflitti di potere tra
organizzazioni terroristiche fondamentaliste e istituzioni governative,
che premono con forza alle porte del monastero, sia fisicamente sia
simbolicamente: i terroristi pretendono medicinali e cure per i loro
Des Hommes et des Dieux. Di un film e della sua preghiera 

feriti; l’esercito algerino perquisisce il monastero perché sospetta che


tra i pazienti in attesa di cure si nascondano anche appartenenti alle
formazioni terroristiche. Del resto il monastero è, anche fisicamente,
luogo di conciliazione e perdono: i monaci curano anche i terroristi,
i quali all’interno delle mura del luogo sacro sono solo uomini che
soffrono. Ma ciò non basta a proteggere i religiosi dalla paura, senti-
mento che oscura la fede ed è causa di profondo travaglio interiore
tra scegliere se andare via o restare al proprio posto.
La decisione di preservare il monastero, e quindi simbolicamente
quell’ambiente interiore di conciliazione, condivisione e pace che i mo-
naci coltivano, sarà cosa che si consoliderà proprio attraverso la pratica
della preghiera: i testi che sono qui proposti in successione scandiscono
infatti le tappe essenziali del percorso di accettazione, comprensione,
trasformazione del sentire di questi uomini. La scelta di restare, ac-
cettando il rischio di essere esposti a violenze, matura attraverso un
processo di ambientamento alla difficile situazione che culminerà in
un’ambientazione nuova o rinnovata della fede e del senso della propria
missione. L’aspetto interessante da esplorare attraverso l’analisi è come
questi processi di ambientamento e ambientazione siano mediati, nella
rappresentazione proposta dal film, attraverso il rapporto dei monaci
con il testo, che la pratica della preghiera pare tradurre, inscrivere e
riscrivere in un’interiorità condivisa, proponendo nuove possibilità di
conferire senso, e creare nuove ambientazioni, agli spazi dell’esperienza
tragica che li coinvolge. Occorre dunque dare ragione della capacità di
efficacia simbolica della preghiera a partire dall’analisi dei testi che, più
che “letti”, sono dai monaci “agiti” attraverso il rito: sono infatti cantati
e in qualche modo tradotti o accompagnati dal movimento del “fare
rituale” e “dall’agire pratico” che costituisce il continuum simbolico tra
officio della celebrazione e vita quotidiana.

. La preghiera come spazio di esperienza

I testi che commentano l’alternarsi delle scene del film sono com-
plessivamente costituiti da un corpus di sette canti , due letture di

. Seigneur Ouvre mes levres, AELF/Joseph Gelinon; Puisqu’il est avec nous, Didier Ri-
mand/Philiph Robert, CNPL (D.R); Voici la nuit, Didier Rimand, Abbaye de Tamié, CNPL
 Alessandra Luciano

meditazione (Chessel ) e una lettera–testamento scritta realmente


da Padre Christian de Chergé (De Chergé Ch. et al. (–)) alcuni
anni prima del drammatico esito della vicenda.
I canti di preghiera che scandiscono la successione delle scene
rappresentano la colonna sonora del film, la quale solo in un’occasione
è costituita da un brano di musica sinfonica: Il lago dei Cigni di Pëtr Il’ič
Čajkovskij. Le preghiere sono salmodiate dai monaci che le cantano a
cappella, cioè senza accompagnamento di strumenti musicali, secondo
l’originale tradizione liturgica del canto gregoriano, monodico e non
polifonico, che prevede un’unica linea melodica.
In realtà la colonna sonora non ha solo la funzione di commentare
con la musica l’evolversi della trama narrativa. Più precisamente il
corpus di preghiere, canti e letture installa un discorso parallelo, anche
se non immediatamente in primo piano, rispetto a quello che si svolge
attraverso la trama narrativa. I canti e le letture dei monaci scandisco-
no il percorso patemico di questi uomini e definiscono lo spazio di
esperienza della loro interiorità. Quindi la fruizione del film nel suo
insieme prevede due livelli di adesione al testo: una cognitiva in grado
di seguire l’evoluzione dei fatti proposti attraverso il susseguirsi delle
scene scorgendone i riferimenti alla vicenda storica; una emozionale
che deve essere in grado in qualche modo di fruire attraverso una
presa estetica (Greimas ) delle poesie–preghiere pronunciate e
cantate.
Un aspetto non secondario da considerare è che le preghiere, i canti
e le letture, ovvero il discorso che si sviluppa attraverso la colonna
sonora, si svolgono sempre nell’ambiente interno al monastero, alter-
nandosi alle scene di azione che scandiscono l’evoluzione degli eventi
al di fuori del monastero. Solo in due momenti i canti–preghiera
sono ambientati nello spazio esterno: durante una meditazione di
Padre Christian sulle rive di un lago e quando i monaci disturbati
durante il rito dal rumore assordante di un elicottero cercanno con la
loro voce–canto di non lasciarsi sopraffare dal frastuono assordante e
minaccioso del velivolo. In questo momento l’ambiente interiore e
quello esterno si sfiorano per entrare in dialettica conflittuale, quasi in
(Studio SM); Nous ne savons pas ton Mystère, C.F.C/Marel Godard, Studio SM; Cantique de
Siméon ( Sauve nous Seigneur), AELF–Lucienne Deiss, Studio SM; P.Saume  (Comme une
terre assoiffée) AELF, Abbaye de Tamié, AELF (DR); O père des Lumières, Didier Rimaud,
Marcel Godard, Abbaye de Tamié.
Des Hommes et des Dieux. Di un film e della sua preghiera 

rapporto di forza: se la violenza e il disordine dell’ambiente esterno


minacciano la pace e l’armonia dell’ambiente interno, il canto all’u-
nisono dei monaci intende diffondersi anche nello spazio fuori dal
monastero per conquistarlo attraverso la sua poesia. Si tratta di una
riconfigurazione della percezione dell’ambiente esterno che si ricom-
pone nell’esperienza estetico–religiosa dei monaci: l’ambiente esterno
al monastero non diventa meno minaccioso, ma se percepito attraver-
so la mediazione dalla poesia–preghiera può essere affrontato con il
coraggio della fede. La preghiera ha avuto il potere di trasformare
non la realtà delle cose, ma la percezione emozionale della realtà delle
cose. La sua efficacia simbolica è stata in grado di sacralizzare lo spazio
attraverso quella che Greimas () chiama “illusione referenziale”
suscitata dal poetico:
En se plaçant du point de vue des effets de sens produits sur l’uditeur, on
pourrait, par extension, considérer comme poétique ce qui pour d’autres
civilisations relève du sacré: hymnes, rituels chantés, mais aussi certains
textes religieux ou philosophiques.
(Greimas , p. )

La poeticità è cioè in grado di produrre un’illusione referenziale che


fa sentire vero il discorso, infondendogli per questo sacralità (ibidem):
Le signifiant sonore — et, dans une moindre mesure, graphique — entre en
jeu pour conjuguer ses articulations avec celles du signifié, en provoquant
de ce fait une illusion référentielle et en nous invitant à assumer comme
vrais les propos tenus par le discours poétique qui voit ainsi sa sacralité
fondée sur sa matérialité.
(Ibidem, p. )

La percezione della verità del discorso poetico dipende quindi dal


gioco di correlazione tra le articolazioni del significante sonoro, o
piano dell’espressione del discorso, ovvero la musicalità della poesia,
con i contenuti del piano del significato.
Nel film il processo di trasformazione degli stati d’animo dei mo-
naci rispetto all’ambiente che si propone come minaccioso avviene
attraverso la pratica dell’orazione, cioè i contenuti veicolati dai testi
di preghiera sono recepiti con particolare effetto di verità, e dunque
sacralità, attraverso il loro manifestarsi poetico. In ciò consiste l’effi-
cacia simbolica della preghiera, che consente di riambientare, in uno
 Alessandra Luciano

spazio di esperienza armonico, anche il vissuto di vicende tragiche


come quelle a cui i monaci accetteranno di esporsi.
In questo testo filmico occorre considerare anche la poetica che
contraddistingue il piano dell’espressione, in particolare per quanto
concerne fotografia e il sonoro, perché a sua volta tende a creare effetti
di senso, attraverso una dimensione semisimbolica, che sovradeter-
minano gli effetti di senso del piano del contenuto. La poesia del film
scaturisce infatti anche dal gioco di corrispondenza delle categorie pla-
stiche, soprattutto cromatiche e sonore, con quelle più propriamente
di contenuto e valoriali che sono proposte dalla narrazione filmica, a
loro volta manifestate attraverso il linguaggio delle preghiere cantate
dai monaci.
Questo gioco di rinvii e semisimbolismi ben esprime quanto da
Floch individuato a proposito delle proprietà dei sistemi semiotici
visivi, i cui cromatismi possono essere considerati vere e proprie
figure del piano dell’espressione che rinviano a effetti di senso del
piano del contenuto:
Il doppio rinvio di significante e significato presente in tali sistemi semisim-
bolici ha la caratteristica di un linguaggio secondo molto simile al linguaggio
poetico. Come il testo poetico, l’immagine dotata di una dimensione plastica
si carica di una significazione specifica.
(Floch , p. )

In Des Hommes et des Dieux una prima categoria espressiva cromatica


è rappresentata dal gioco di luci e ombre che mette in opposizione le
scene di vita monastica (interne o esterne al monastero, filmate come
se la realtà fosse osservata dallo sguardo dei monaci che la percepiscono
come mediata dal loro sentire interiore), con quelle dell’ambiente
esterno al monastero dove si svolgono i conflitti tra fondamentalisti ed
esercito algerino. Le prime sono caratterizzate da cromatismi giocati
sempre su un’illuminazione tenue: se le scene riprendono gli interni
del monastero questi sono contraddistinti da particolari giochi di luce
e ombra che sembrano voler rappresentare un sentire in grado di
procedere oltre opposizioni e radicali fratture; se le scene riprendono
i monaci all’esterno del monastero si tratta di momenti della giornata,
mattino o tardo pomeriggio, nei quali la luce è particolarmente calda
e sfumata e tende ad impastare i colori del paesaggio. Anche i primi
piani sui visi dei monaci sono ripresi valorizzando quanto i giochi
Des Hommes et des Dieux. Di un film e della sua preghiera 

di ombra e luce disegnano sui volti, con una tecnica quasi pittorica
che ricorda i dipinti di Caravaggio o Rembrandt. Non a caso in una
delle ultime scene, I pensieri di Luc, questa si conclude proprio su una
riproduzione del Cristo alla colonna di Caravaggio .
Al contrario, le scene che riprendono i momenti in cui sono rap-
presentate la violenza dei fondamentalisti islamici e il dispotismo del
governo algerino sono sempre spietatamente illuminate e senza giochi
di luce–ombra, contraddistinte da colori assoluti e privi di sfumature.
Anche per quanto concerne le figure sonore sono in gioco i silenzi
e i timbri delle voci degli abitanti del villaggio, i canti modulati solo
sulla voce di monaci e muezzin, con il frastuono assordante di auto ed
elicotteri, nonché con i timbri aspri e imperativi, nonché ironici, degli
ufficiali dell’esercito.
A livello del piano espressione sono quindi soprattutto le figure
cromatiche e sonore ad essere in relazione con i valori messi in gioco
rispetto al piano del contenuto: la luce soffusa e sfumata, metafora
dell’interiorità, di un sentire indefinito e proteso verso la ricerca della
ricomposizione armonica di opposizioni inconciliabili, si contrappone
a un’illuminazione diretta e senza giochi di angolazione e prospettiva,
che diventa altrettanto metafora di quella volontà di sopraffazione e
conflitto che anima le passioni dei guerriglieri e degli ufficiali dell’e-
sercito algerino. Così il timbro delle voci naturali dei monaci e degli
abitanti del villaggio e i suoni della natura (acqua, vento, stormire di
uccelli, ecc.) sono metafora di una tensione verso l’ascolto dell’altro e
della sua voce, mentre il frastuono di auto ed elicotteri, di voci impe-
rative e grida che incitano alla violenza, sono segno di una volontà di
tacitare ogni altra voce che non sia la propria.

. Dispositivi passionali di ambientamento e ambientazione

In queste pagine si renderà conto di come si riconfiguri, attraverso


la poesia dei canti e delle preghiere, la relazione tra spazio dell’espe-
rienza interiore e percezione dell’ambiente esteriore, secondo il senso
che i monaci maturano progressivamente e che promuove i processi
di ambientamento e ambientazione della loro esperienza. Ho indivi-

. C. , olio su tela, , x , cm, Musée des Beaux–Arts, Rouen.
 Alessandra Luciano

duato nel susseguirsi dei testi di canti e letture dei monaci un ritmo
che scandisce il dispiegarsi di un percorso patemico che può effica-
cemente essere rappresentato secondo le fasi previste dallo schema
passionale canonico di disposizione, sensibilizzazione patemizzazione
e moralizzazione (Greimas–Fontainille ). Ho così organizzato la
successione delle preghiere attraverso la scansione di queste quattro
fasi che regoleranno e orienteranno via via anche la trasformazione
del sentire patemico dei monaci nel delicato percorso che li porterà a
decidere di non abbandonare il monastero.

.. La pre–disposizione: lo spazio della preghiera

Il film si apre con l’enunciazione di un verso del Salmo : Io l’ho det-
to: “Voi siete tutti dei, siete tutti figli dell’Altissimo. Eppure morirete
come ogni uomo, cadrete come tutti i potenti” ( Salmi, –). Non
è un caso: il corrispondente ebraico del lessema “salmo”, significa
appunto “preghiera” o “lode”. La citazione installa quindi il regime
del “poetico” come veicolo primario del testo sacro. I due versi del
Salmo  consentono di comprendere anche il senso del titolo ori-
ginale francese del film, Des Hommes et des Dieux, che nella versione
italiana è stato tradotto con un Uomini di Dio non esatto, non solo
linguisticamente.
Trattare degli uomini e degli dei è infatti il tema intorno a cui gravi-
tano le due isotopie di lettura principali che il film propone. Oltre a
narrare la vicenda dei monaci di Tibhirine e a proporre un discorso
sul dialogo con l’Islam, attraverso la scansione dei canti–preghiera
che armonizzano gli spazi di esperienza umana questo film propone
una prospettiva capovolta rispetto al senso che ci si potrebbe aspettare:
non già l’umano deve giungere a trasfondersi e superarsi nel divino,
è al contrario il divino a dover nascere ed infondersi nell’umano.
Le prime due scene del film propongono due momenti di pre-
ghiera: il primo consiste nella celebrazione di un rito all’interno del
monastero, il secondo è un rito di iniziazione al mondo adulto di un
giovane musulmano ed avviene nel villaggio al di fuori del monastero.
A questa festa partecipano i monaci, in abiti civili, ed ascoltano con
rispetto e partecipazione le preghiere cantate durante il rito. Si tratta
di testi speculari sia nell’espressione, o significante sonoro, sia nel
contenuto, a quelli pronunciati dai monaci nell’intimità del monastero.
Des Hommes et des Dieux. Di un film e della sua preghiera 

Entrambe le preghiere, cristiane e musulmane, sono cantate con la


stessa tecnica vocale, sono canti monodici con linea melodica essen-
ziale che fraseggiano lodi e suppliche. Anche a livello del contenuto
entrambe le preghiere invocano un dio che pare essere al di sopra
e oltre il dio dal volto che contraddistingue le rispettive tradizioni
religiose: “Signore apri le mie labbra e la mia bocca proclamerà la tua
lode” , così cantano i monaci all’interno del monastero, con un verso
che installa una prima metafora poetica di forte efficacia simbolica;
l’orazione che schiude le labbra trasforma le parole in lode, in poesia
o, in termini semiotici, in verità–senso.
La preghiera dei musulmani Sufi, più complessa e articolata, recita
invece in un verso:

[. . . ] il Messaggero ha creduto a quello che è stato fatto scendere verso di


lui che veniva dal suo Signore, ed anche i credenti tutti hanno creduto in
Dio, nei suoi angeli, ai suoi libri, ai suoi Messaggeri. Noi non facciamo
alcuna distinzione tra i suoi messaggeri. Hanno detto: Noi abbiamo udito e
obbedito, Signore, noi imploriamo il tuo perdono [. . . ]
(Xavier Beauvois () Des Hommes et des Dieux, sequenza “La festa”)

Le due preghiere, l’una cantata nello spazio chiuso del monastero,


l’altra nello spazio aperto del villaggio, testimoniano un equilibrio
consolidato tra questi due ambienti simbolici del dentro e del fuori,
dell’interiorità e dell’esteriorità, anche per quanto concerne le pratiche.
Si potrebbe definire questo spazio come un ambiente tensivo e della
pre–significazione, nel quale i monaci vivono un’esperienza indistinta
della preghiera, la quale accomuna le due fedi in uno spazio antece-
dente alla definizione di opposizioni e conflitti dovuti all’appartenenza
a due sistemi di credenze differenti.

.. L’ambientamento: una nuova disposizione del sentire

L’equilibrio che regola la vita dei monaci e degli abitanti del villaggio
viene presto sconvolto dal violento massacro di operai croati, perché
cristiani frequentatori del monastero, da parte dei fondamentalisti
islamici. Dopo questo evento, la preghiera che caratterizza il rito quo-
tidiano dei monaci più che invocare protezione e conforto ribadisce e

. Seigneur ouvre mes levres, AELF/ Joseph Gelinon.


 Alessandra Luciano

afferma con determinazione la percezione della vicinanza e presenza


di Dio.
Puisqu’Il est avec nous. Puisqu’il est avec nous / Pour ce temps de violence,
/ Ne rêvons pas qu’Il est partout / Sauf où l’on meurt. . .
Puisqu’Il est avec nous / Comme à l’aube de Pâques, / Ne manquons
pas le rendez–vous / Du sang versé. / Prenons le pain. / Buvons la coupe
du passage: / Accueillons–le qui s’est donné / En nous aimant jusqu’à la
fin!
(Puisqu’il est avec nous, Didier Rimand/Philiph Robert, CNPL (D.R))

In questa preghiera il senso da attribuire alla violenza che ha scon-


volto il mondo esteriore può scaturire dalla pazienza e dalla capacità
di accettare l’incontro con il sangue versato, e bere dal calice del passaggio.
C’è un invito a un sentire che si fondi su un dover–saper essere in
attesa (pazienti), virtù atta a sostenere il sentimento della fede che
deve sostenere la percezione della propria fragilità.
Il momento difficile è occasione infatti per una meditazione sul
sentimento di debolezza e impotenza che i monaci vivono. Lo com-
mentano due letture che accompagnano il pasto successivo al rito :
Accepter notre impuissance et notre pauvreté radicale est une invitation, un
appel pressant à créer avec les autres des relations de non–puissance; recon-
naissant ma faiblesse, je peux accepter celle des autres [. . . ]. La faiblesse, en
soi, n’est pas une vertu ; mais elle est l’expression d’une réalité fondamenta-
le de notre être qui doit sans cesse être façonnée par la foi, l’espérance et
l’amour.
(Chessel , p. )

La lettura apre la quarta scena, “Casa di Pace”, ed è fondamentale


per capire il difficile percorso di trasformazione patemica che i monaci
iniziano a vivere: il testo valorizza nella debolezza lo stato d’animo
attraverso cui è possibile percepire il senso dell’esperienza difficile che
mette alla prova la fede. Si tratta di un “sentire” che rinuncia a misurar-
si con gli altri attraverso relazioni di potere; la percezione della propria
debolezza consente di scorgere una forza interiore di altra natura da
quella espressa attraverso i rapporti di forza. La lettura sancisce anche
. Il testo è una meditazione scritta da Padre Cristhian Chessel, anch’egli assassinato
dai fondamentalisti islamici, qualche anno prima del massacro di Tibhirine, a Tizi–Hozu in
Algeria.
Des Hommes et des Dieux. Di un film e della sua preghiera 

la frattura tra i due ambienti dell’esperienza dei monaci, ambienti che


sono retti da leggi opposte: l’ambiente esterno al monastero è regola-
to da relazioni di affermazione del potere, all’interno del monastero,
invece, la vita si svolge attraverso un sentire paziente e un vivere la
“debolezza” che

[. . . ] n’est ni passivité ni résignation, elle suppose beaucoup de courage


et pousse à s’engager pour la justice et la vérité en dénonçant l’illusoire
séduction de la force et du pouvoir.
(Ibidem, p. )

Ciononostante, la lettura successiva, un passo del Dio che viene di


Carlo Carretto (Carretto ), pone una domanda:

Spesso nella mia vita mi sono chiesto come dio può agire in modo così
strano? Perché resta così a lungo in silenzio? Perché la fede è così amara?
(Carretto , pp.–)

La sequenza successiva è accompagnata dalla preghiera, Voici la


nuit, cantata da un monaco mentre è intento ai preparativi per la
celebrazione del Natale. Il canto installa la figura della notte come
metafora che consente di connettere due isotopie di lettura e due
possibili percorsi di senso: “Questa è la notte, questa è la notte felice
della Palestina” canta un verso della preghiera.
Il quarto canto, Nous ne savons pas ton Mystère, commenta come
colonna sonora, esterna quindi al contesto filmico, la sequenza della
passeggiata di padre Christian nell’ambiente esterno al monastero, un
paesaggio di essenziale bellezza, uno spazio naturale e quieto, descritto
da immagini di delicata poesia: un gregge al pascolo, prati verdi, un
lago montano. Un verso della preghiera di sottofondo recita:

Nous ne savons pas ton mystère / Amour infini; / Mais tu as un coeur, /


Toi qui cherches le fils perdu, / Et tu tiens contre toi / Cet enfant difficile /
Qu’est le monde des humains.
(Nous ne savons pas ton Mystère, C.F.C/ Marel Godard Studio SM)

È una strofa del canto che installa la figura metaforica di un Figlio


perduto o bambino difficile (come il mondo degli umani), da tenere fra
le braccia amorevolmente, da quietare e proteggere. Questa figura
 Alessandra Luciano

evoca il sentimento che deve ispirare la relazione con la difficile situa-


zione, quello di una materna amorevolezza. Questo si accompagna a
quelli già enunciati del vivere la pazienza e la debolezza (come mitez-
za), evocati nel sentire dei monaci dai precedenti canti. Si predispone
attraverso questi passaggi del sentire la nuova fase di sensibilizzazione
verso la nascita di un rinnovato sentimento di amore per la loro missio-
ne: quella di accogliere il bambino difficile, l’umanità contraddittoria
da proteggere e insieme da quietare, che comprende quindi i fragili,
i deboli ma anche gli arroganti, e dunque i terroristi, che non sanno
quel fanno.
La decisione definitiva di restare, nonostante i timori fondati di
poter subire rappresaglie e violenze, si palesa con determinazione
dopo l’incontro decisivo dei monaci con gli abitanti del villaggio. Il
dialogo attraverso cui informano gli abitanti che potrebbero decide-
re di lasciare il monastero si regge su un’altra figura del linguaggio
metaforico di particolare efficacia poetica: “Siamo come gli uccelli sul
ramo, non sappiamo ancora se dovremo partire”, spiegano i monaci.
Ma una donna risponde: “Gli uccelli siamo noi, il ramo siete voi. Se
andate via dove ci poseremo?”

.. L’ambientamento: la sensibilizzazione del sentire

Essere il ramo sul quale possano posarsi gli uccelli erranti della vita
è un’altra metafora di particolare efficacia in grado di conferire un
rinnovato senso alla necessità della presenza dei monaci e del mona-
stero nel villaggio: ecco perché non possono abbandonarlo. Questo
imperativo si modula nel sentire attraverso un dover–essere il ramo,
uno stabile riferimento di protezione e amore per gli abitanti musul-
mani del villaggio, che diventa un dover–voler essere il ramo, che
ancora non è supportato dalla competenza concessa da un saper e
poter essere il ramo. Alcuni monaci sono infatti attanagliati dalla paura
e mossi contraddittoriamente anche dal desiderio di andare via, dalla
convinzione che la disposizione al martirio non sia la strada maestra
per testimoniare la propria vocazione.
Le preghiere che scandiscono questa fase di interiorizzazione della
scelta coraggiosa di rimanere nel monastero promuovono la sensibi-
lizzazione dei monaci verso un sentire che sia pieno sentimento di
amore incondizionato verso il villaggio e verso il proprio compito.
Des Hommes et des Dieux. Di un film e della sua preghiera 

Si tratta di due canti: il primo è una supplica, il secondo è una lode.


Entrambi si costruiscono sulla figura–metafora della tenebra, un buio
che può essere presagio di morte o al contrario manifestarsi come
notte che annuncia la nascita:

Seigneur, entends ma prière; dans ta justice écoute mes appels, dans ta


fidélité réponds–moi. / N’entre pas en jugement avec ton serviteur : aucun
vivant n’est juste devant toi./L’ennemi cherche ma perte, il foule au sol ma
vie ; il me fait habiter les ténèbres avec les morts de jadis. [. . . ]
(Comme une terre assoiffée, AELF, Abbaye de Tamié, AELF,DR)

Ô Père des lumières, / lumière éternelle et source de toute lumière, /


tu fais briller au seuil de la vie / la lumière de ton visage. / Les ténèbres
pour toi ne sont point ténèbres. / Pour toi les nuits sont aussi claires que
le jour. Que nos prières devant toi / s’élèvent comme un encens / et nos
mains comme l’offrande du soir.
(O Père des Lumières, Didier Rimaud, Marcel Godard, Abbaye de Tamié)

Il primo canto contiene il verso: “Il nemico mi fa vivere nelle


tenebre con i morti del passato”, nel secondo canto il verso muta in:
“. . . le tenebre per te non sono tenebre. Per te la notte è chiara come
il giorno”.
L’efficacia della metafora poetica è di suggerire un nuovo significa-
to all’esperienza del buio, quel buio interiore fondato sulla paura della
morte, che paralizza le emozioni dei monaci. Infatti questo passaggio
delicato del sentire è accompagnato da un passo tratto dal Vangelo di
Luca che i monaci leggono durante la funzione religiosa: “Chi cerche-
rà di salvare la propria vita la perderà, e chi la perderà la preserverà”
(Lc , ).
O père des lumières, con quella strofa, quasi un mantra, che ribadisce
come la notte possa essere chiara come il giorno, è il canto preghie-
ra che domina la sequenza più suggestiva di tutto il film: i monaci
cantano a voce sempre più alta la preghiera per contrastare il rumore
assordante di un elicottero dell’esercito algerino che sta perlustrando
il territorio al fine di individuare i terroristi. È una scena importan-
te, anche per il riferimento preciso alla vicenda storica dei monaci
di Tibhirine, e all’ipotesi secondo la quale un elicottero dell’esercito
algerino avrebbe aperto il fuoco sui monaci per errore, durante le
ricerche intraprese in seguito al loro rapimento.
 Alessandra Luciano

La lettura poetica e metaforica dell’inquadratura, e del canto di


preghiera che la sostiene, può essere interpretata invece come l’affer-
marsi dell’ambiente interiore dei monaci, il quale è retto dalla poesia
del canto–preghiera e dalla sua efficacia simbolica di poter pervadere e
trasformare anche l’ambiente esteriore sconvolto dalla violenza cieca,
ovvero senza luce, dei conflitti di potere politico e religioso.

.. L’ambientazione come patemizzazione o incarnazione della passione

La scena successiva ambienta, in un clima di serena convivialità, la cena


di Natale che i monaci consumano in un clima di festa. È uno spazio di
esperienza, di vissuto riconfigurato dall’avvenuta trasformazione patemica
del loro sentire. La poesia del film qui gioca a suturare il senso tragico di
un’ultima cena a quello gioioso di una cena della Natività. La cena pare
tradurre questa simbologia nel vissuto di un’esperienza dell’amore
che s’incarna in un’umanità fragile e debole: quella di un gruppo
di monaci anziani, spaventati e ciononostante determinati a vivere
sino in fondo la propria missione. È un sentimento che nasce dalla
consapevolezza di vivere forse un’ultima cena, con riferimento esplicito
al racconto della passione e crocefissione, che però trasfigura il suo
significato drammatico in quello gioioso di una cena alla vigilia della
natività, evento che annuncia, nella tradizione religiosa cristiana, la
nascita e l’incarnazione di Dio in una natura umana.
La scena è accompagnata dal commento musicale di un brano tratto
da Il lago dei Cigni, il celebre balletto scritto da Pëtr Il’ič Čajkovskij. È
l’unico frammento di musica “profana” proposto dalla colonna sonora
e all’apparenza parrebbe aver ben poco in comune con le atmosfere
dei canti–preghiera intonati sino a quel momento dai monaci. Ac-
compagna un momento di “umanità” ed è per altro un brano che è
enunciato, come tutte le preghiere, nel contesto interno al film: sono
i monaci che decidono di ascoltarlo durante il pasto attraverso una
vecchia radio. In realtà anche questo “ascolto” non è privo di senso:
il brano si riferisce, nel celebre balletto, al momento del presagio di
morte del cigno bianco Odette, ed è conosciuto appunto come il Can-
to del cigno, sinonimo e metafora di “canto di morte”. L’accostamento
della figura del canto del cigno alla morte, a un certo tipo di morte,
è altresì un riferimento alla leggenda antica, già citata da Platone nel
Des Hommes et des Dieux. Di un film e della sua preghiera 

Fedone a proposito della morte di Socrate , secondo la quale il cigno


poco prima di morire intonerebbe il suo canto più bello.
Durante la cena il presentimento della morte e della fine pare infatti
come esser scritto sui volti segnati, ma sereni, dei monaci. La macchi-
na da presa si sofferma con primi piani struggenti sui loro volti. Ma
è questa anche la cena che sancisce la pacificazione di ogni contrasto
interiore in un unico e condiviso sentire che fluisce pacato, silenzio-
so, mesto e senza enfasi nell’attesa della vigilia che è al contempo
consapevole presagio di morte e gioiosa attesa di nascita. La scena
non è commentata dal canto di preghiera, ma preceduta dal discorso
di padre Christian ai monaci, discorso che ricostruisce il senso del
difficile periodo trascorso:

Giorno dopo giorno abbiamo scoperto quello che Gesù Cristo ci invita fare,
cioè nascere. La nostra identità di uomini va da una nascita all’altra e nascita
dopo nascita faremo nascere il figlio di Dio che siamo noi. L’incarnazione
per noi è permettere alla realtà filiale di Gesù di incarnarsi nella nostra
umanità. Il mistero dell’incarnazione dimora in quello che noi andremo
a vivere. Così si radica quello che abbiamo già vissuto qui e quello che
dobbiamo ancora vivere.

Il sentimento espresso appieno, che ora ha trovato una sua defi-


nitiva patemizzazione, si modalizza in questo discorso su un fare e
su un essere che si conciliano in un embrayage enunciativo il quale
inscrive e concilia nel noi (“faremo nascere il figlio di dio che siamo
noi”) quello spazio di esperienza del fare e dell’essere che era così
drammaticamente separato nel sentire dei monaci.
Gli spazi di esperienza interiori ed esteriori trovano qui il loro fluire
reciproco in un’unica esperienza dell’essere, che è sentimento, ma
soprattutto “parola” e quindi “senso” che si è rivelato. Che è un far
nascere e anche un essere ciò che nasce; degli uomini e degli dei: “Des
Hommes et des Dieux”, per l’appunto.

. Nel passo dal Fedone è Socrate che dice: “Però a me sembra che né questi né i cigni
cantino per il dolore ma, poiché, credo, questi ultimi sono sacri ad Apollo, sono indovini, e
cantano prevedendo i beni che troveranno nell’Ade e si rallegrano in quel giorno più che
nel tempo precedente. E anch’io penso di essere compagno di servitù dei cigni e di essere
sacro allo stesso dio e di avere non meno di loro, da parte del mio signore, l’arte divinatoria,
e di non allontanarmi dalla vita con minor gioia di loro” Platone, Fedone o sull’Anima, a cura
di Andrea Tagliapietra, Feltrinelli, Milano , p. .
 Alessandra Luciano

.. La moralizzazione

L’ultimo brano che fa parte del corpus di testi–preghiera considerati


dalla mia analisi è rappresentato dalla lettera–testamento di Padre
Christian che la sua voce fuori campo pronuncia mentre le immagini
scorrono sui paesaggi innevati e sulle croci che attestano il luogo di
sepoltura dei monaci. È una lettera che nel contesto del percorso pate-
mico scandito attraverso i testi delle preghiere rappresenta il discorso
che moralizza positivamente la passione vissuta ambientandola nella
cornice dell’esperienza di incontro dei religiosi con quell’altra fede
diversa ed uguale alla propria che è l’Islam. È un documento prezioso:
la lettera è stata realmente scritta nel  da Padre Christian de Cher-
gé e invita a non cadere nella facile trappola di considerare, secondo
un diffuso pregiudizio, l’Islam come religione del fondamentalismo e
della violenza:

Je ne saurais souhaiter une telle mort. Il me paraît important de le professer.


Je ne vois pas, en effet, comment je pourrais me réjouir que ce peuple
que j’aime soit indistinctement accusé de mon meurtre. . . Je sais aussi les
caricatures de l’Islam qu’encourage un certain idealism [. . . ] L’Algérie et
l’Islam, pour moi, c’est autre chose, c’est un corps et une âme.
(De Chergé , pp. –)

Come sempre accade nei confronti delle morti violente, ci si chiede


“dopo” se queste avrebbero potuto essere evitate con l’esercizio della
prudenza o del buon senso. Di fronte al massacro di Tibhirine non ci
si può non domandare se il sacrificio di vite umane possa giustificarsi
quando è compiuto per testimoniare una fede.
La moralizzazione di un’esperienza vissuta in nome di una passione,
che determina la scelta, implica sempre una sanzione positiva o nega-
tiva. In questo caso gli attanti del giudizio sono collettivi, perché un
sentimento è sempre giustificato, o condannato, attraverso una griglia
di valori che appartengono alle culture. Nella vicenda dei monaci di
Tibhirine gli attanti moralizzatori sono duplici: c’è un attante collettivo
di giudizio che non può che considerare ingenuo il sentimento che
ha ispirato la loro scelta di rimanere, giudizio che implica a sua volta
il pre–giudizio implicito di considerare l’Islam come una religione
violenta.
Des Hommes et des Dieux. Di un film e della sua preghiera 

Attraverso la lettera di Padre Christian si evidenzia un punto di


osservazione della tragica vicenda che discostandosi dall’esperienza
stessa, la moralizza positivamente. Ciò anche se l’assassinio dei mona-
ci ha rappresentato la conseguenza di quanto proprio quella passione
aveva pre–disposto. Perché in realtà la scelta dei monaci, più che essere
sostenuta da un’accettazione del sacrificio finalizzata a testimoniare
la propria fede, è stata mossa dal loro desiderio di non abbandonare
altri esseri umani da sostenere e proteggere. È stato questo l’oggetto
reale della loro passione–preghiera, che non ha inteso elevarsi verso
un Alto dei Cieli, ma discendere verso il Basso di una Terra. . . di corpi
e anime, di affetti ed emozioni, per esaltare non già il Dio, ma la sua
Umanità.
Per questo motivo Des Hommes et des Dieux, un film di preghiera e
sulla preghiera, è a sua volta una preghiera. Così silenziosa ed efficace,
da essere in grado di infilarsi sino nelle pieghe più misteriose del
nostro sentire.

Riferimenti bibliografici

C C. (). Il Dio che viene, Roma, Città Nuova.


C C. () La Mission dans la faiblesse, in Rault C. (a cura di), Missions
dans la faiblesse, numero monografico di “Spiritus”, XXXVII (marzo):
–.
G A.J. () Pour une théorie du discours poétique, Librairie Larousse,
Parigi.
———. () Semiotique des passions, Des états de choses aux états d’âme,
Seuil, Parigi (trad. it. Semiotica delle passioni. Dagli stati di cose agli stati
d’animo, Bompiani, Milano ).
———. () De l’imperfection, Pierre Farlac, Périgueux (trad. it Dell’imper-
fezione, Sellerio editore, Palermo ).
G R. () Si nous nous taisons, Pocket, Parigi.
G J.M. () Io superstite dei monaci di Thiberine, trad. it. di Anna Ma-
ria Brogi, Avvenire,  febbraio , disponibile al sito http://www.avve-
nire.it/Cultura/Tibhirine_.htm, ultimo accesso
il //.
 Alessandra Luciano

D C, C. () “Quand un À–Dieu s’envisage. . . ”, in R. Masson


() Thibirine les veilleurs de l’Altlas, Les Éditions du Cerf, Paris, –.
———. () “Testament”, in Hallelll, pp.–.
———. et al. (–) Più forti dell’odio, Qjqajon, Comunità di Bose, BI
(trad. it. di Sept vies pour l’Algérie, textes recueillis et preséntés par Bruno
Chenu, Bayard, Parigi ).
F J.M. () “Dai colori del mondo al discorso poetico sulle loro qua-
lità. Analisi di Sulle scogliere di marmo”, in Id., Bricolage. Lettera ai semiologi
della terra ferma, Meltemi, Roma, –.
———. () Les formes de l’empreinte, Périgueux, Fanlac (trad. it. Forme
dell’impronta, Roma, Meltemi ).
L M. () “Volti e risvolti del sacro” in N. Dusi e G. Marrone (a cura
di), I destini del sacro, Meltemi, Roma , –.
M M. () “Il discorso della preghiera”, in N. Dusi e G. Marrone
(a cura di), I destini del sacro, Meltemi, Roma, –.

. Filmografia

B X. () Des hommes et des dieux, prodotto da Why Not Produc-
tions, con la collaborazione di Armada Films e France .

Alessandra Luciano
Università di Torino
Lexia. Rivista di semiotica, 9–10
Ambiente, ambientamento, ambientazione
ISBN 978-88-548-4516-9
DOI 10.4399/97888548451693
pag. 351–390 (dicembre 2011)

Lo spazio d’esperienza
delle processioni religiose ∗
M L

 : Experiential Space in Religious Processions

: The present article analyzes the phenomenology and semiotics


of religious processions. On the one hand, these rituals succeed in con-
gregating several individual agencies, thus helping them to obliterate
the frontier between the sacred environment of the place of worship
and the profane environment of the space surrounding it. Consequen-
tly, in religious processions, subjects experience an enlargement of the
environment of the sacred that encourages them to believe in its omni-
presence, in the reassuring belief that their entire existence takes place
(literally and metaphorically) under the protection of transcendence.
On the other hand, “accidents” caused by the persistence of individual
agencies within the collective one constantly “threaten” the symbolic
efficacy of religious processions: the tentative expansion of the sacred
environment into the profane one results in a symmetrical expansion of
the latter into the former. The collective agency of rituals disintegrates
into the individual agencies of routines until subjects not only no longer
believe that transcendence extends its protection also over the profane
environment, but on the contrary, fear that such protection is fragile
in the sacred environment as well. Rituals do not only turn into routi-
nes but collapse into the re–emergence of the insecurity of transition.
Acclimation and tolerance turn into invasion and exile. The profane
invades the sacred, and the believer feels exiled even in the protected
environment of the place of worship.

: Religious processions; phenomenology; semiotics; rituals; routi-


nes.

Presentato il  aprile  nell’ambito degli “Incontri sul Senso” (seminario annuale
di semiotica del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Torino), questo testo è stato
pubblicato in anteprima in E/C, la rivista on–line dell’Associazione Italiana di Studi Semio-
tici. Ringrazio Ugo Volli per i numerosissimi spunti offertimi durante la presentazione
torinese e Gianfranco Marrone per l’ospitalità in E/C.


 Massimo Leone

. Sinossi

Questo articolo analizza i meccanismi fenomenologici e semiotici


della tensione fra rituali e routine, e la dialettica fra la loro efficacia
ed inefficacia simboliche. Attraverso quali processi semiotici i rituali
acquisiscono la capacità di “addomesticare” la frontiera fra un am-
biente di appartenenza e uno di non–appartenenza, dando luogo a un
percorso semantico e a una strategia retorica di acclimatazione e tolle-
ranza, e quindi a un regime di appartenenza sedentaria? Attraverso
quali processi semiotici, al contrario, i rituali perdono questa capacità,
volgendosi così in semplici routine o, peggio, divenendo incapaci di
smussare l’intensità di transizione e l’estensione di distanza implicate
da una frontiera di appartenenza ?
Il presente articolo risponde attraverso un’analisi approfondita della
fenomenologia e della semiotica delle processioni religiose . Da un
lato, questi rituali riescono a congregare diverse agentività individuali
(Leone a), aiutandole così a obliare la frontiera fra l’ambiente
sacro del luogo di culto e quello profano che lo circonda . Di conse-
guenza, nelle processioni religiose i soggetti esperiscono un allarga-
mento dell’ambiente del sacro che li incoraggia a credere nella sua
onnipresenza, nella credenza rassicurante che la loro intera esistenza
ha luogo (letteralmente e metaforicamente) sotto la protezione del-
la trascendenza. Dall’altro lato, “incidenti” causati dalla persistenza
delle agentività individuali all’interno di quella collettiva “minaccia-
no” costantemente l’efficacia simbolica delle processioni religiose:
il tentativo di espansione dell’ambiente sacro in quello profano dà
come risultato paradossale un’espansione simmetrica del secondo nel
primo. L’agentività collettiva dei rituali si disintegra nelle agentività
individuali delle routine fino al punto che i soggetti non soltanto non
credono più che la trascendenza estenda la sua protezione anche so-
pra l’ambiente profano ma, al contrario, temono che tale protezione
sia fragile altresì nell’ambiente sacro. I rituali non solo si volgono in
routine ma collassano nel ri–emergere dell’insicurezza di una transi-
. Questo testo è parte di una riflessione sulla semiotica dell’appartenenza che l’autore
sta conducendo da diversi anni. Per un’introduzione teoretica al progetto, Leone In stampa a.
. Questo testo si basa parzialmente su Leone , a, b, e Leone In stampa b.
. Per una definizione del sacro in termini semiotici, Dusi e Marrone ; Leone e
Solís Zepeda .
Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose 

zione. L’acclimatazione e la tolleranza divengono invasione ed esilio .


Il profano invade il sacro, lo contamina, e il credente si sente esiliato
persino nell’ambiente protetto del luogo di culto.

. Sinestesia e poli–sensorialità nei rituali religiosi

I concetti di sinestesia e poli–sensorialità, così come sono stati in-


ter–definiti nel quadro della semiotica strutturale (Beyaert ) ,
possono essere d’aiuto nel formulare una nuova interpretazione del
rapporto fra liturgia religiosa e religiosità popolare, vale a dire da una
parte il sistema di rituali istituzionalizzati che regolamentano l’inte-
razione fra la trascendenza e una comunità di credenti e, dall’altra
parte, le variazioni idiosincratiche multiformi ed eterodosse le quali,
interferendo con questo insieme più o meno organico, danno luogo
al “folklore religioso” . Le processioni cristiane sono un esempio

. Per una fenomenologia dell’esilio, Trigano ; ringrazio Ugo Volli per questo
suggerimento bibliografico.
. Nella sinestesia, l’attivazione di un canale sensoriale A conduce alla simultanea
attivazione di un altro canale sensoriale B, secondo un codice che introduce un’equivalenza
tra gli elementi sentiti attraverso A e quelli sentiti attraverso B. Per esempio, la visione
di uno stendardo viola durante una processione religiosa quaresimale immediatamen-
te conduce all’esperienza sinestesica dell’odore e del sapore del sangue di Cristo. Nella
poli–sensorialità, al contrario, l’attivazione di un canale sensoriale A e la simultanea attiva-
zione di un canale sensoriale B conducono alla costruzione di un nuovo canale sensoriale
multiplo attraverso cui sia gli elementi di A che quelli di B vengono sentiti. Per esempio, la
visione di uno stendardo viola durante una processione religiosa quaresimale e il simul-
taneo ascolto di un drammatico canto processionale conducono immediatamente a una
percezione multipla in cui la frontiera fra i dati visivi e quelli auditivi si confonde in una
metafora percettiva poli–sensoriale.
. Gli “studi rituali” (“ritual studies”) hanno già manifestato interesse verso lo studio
delle processioni religiose dal punto di vista della sensorialità che esse implicano; per
un’introduzione, Ashley . Secondo Kratz (, p. ): “Le performance cerimoniali
orchestrate in modo complesso introducono la sfida analitica di districare i viluppi, gli
intrecci, e gli effetti di media multipli, eventi multipli, e partecipanti e prospettive multipli”
[“Complexly orchestrated ceremonial performances introduce the analytical challenge of
unraveling the intricacies, interweavings, and effects of multiple media, multiple events,
and multiple participants and perspectives”]. Di conseguenza, molti studiosi hanno adottato
il concetto di sinestesia al fine di spiegare il funzionamento semiotico delle processioni
religiose; cfr Sullivan (, p. ): “L’esperienza simbolica dell’unità dei sensi consente a una
cultura di coltivare l’idea dell’unità del senso” [“The symbolic experience of the unity of
the senses enables a culture to entertain itself with the idea of the unity of meaning”]. Ma
questa è forse una concezione troppo statica delle processioni religiose, alla quale Kathleen
 Massimo Leone

ideale di questo genere di relazione. La coppia di concetti sineste-


sia/poli–sensorialità può essere efficace nell’analisi della struttura
percettiva che le processioni cristiane predispongono nei partecipanti
e negli spettatori così come nella delucidazione del regime di apparte-
nenza religiosa che tale struttura manifesta. Alcuni elementi essenziali
della storia delle processioni cristiane saranno utili al fine di ricostruire
la genealogia della loro struttura semiotica e interpretarla in quanto
strategia retorica.

. La genealogia delle processioni cristiane

Il costume di accompagnare certe fasi della liturgia cristiana con rap-


presentazioni drammatiche è antico (Fledbecker ) . Secondo la
Peregrinatio Etheriæ, un documento del quarto secolo, a quel tempo le
drammatizzazioni che rappresentavano il percorso di Gesù verso il
Calvario erano già parte della liturgia della Chiesa di Gerusalemme

Ashley giustamente obbietta: “La [sua] espressione “l’unità del senso” suggerisce un effetto
statico, ma io enfatizzerei che l’impatto sui sensi è anche capace di produrre movimento,
cambiamento” [“His phrase “the unity of meaning” suggests a static effect, but I would
emphasize that impact on the senses is also capable of producing movement, change”]
(: p. ). Il concetto di poli–sensorialità cerca di fornire un’intelligibilità semiotica a
fronte di questo secondo tipo di fenomeni. Da un lato, l’idea di sinestesia interpreta le
processioni religiose come strategie retoriche che, attraverso la produzione di un’illusoria
“unità dei sensi”, danno luogo a un percorso semantico di acclimatazione/tolleranza e,
di conseguenza, a un regime di appartenenza sedentaria. Dall’altro lato, tuttavia, l’idea di
poli–sensorialità decifra le processioni religiose come strategie retoriche che, attraverso
l’introduzione di variazioni idiosincratiche nell’illusoria “unità dei sensi”, frantuma altresì
l’illusione della “unità del senso”, e con essa il regime di appartenenza sedentaria. In parole
più semplici, attraverso la sinestesia l’unità dei sensi diviene una metafora sensoria dell’unità
dell’ambiente di appartenenza sia sacro che profano; attraverso la poli–sensorialità, invece,
la disunità dei sensi si volge in metafora sensoria del ri–emergere di una frontiera fra il
sacro e il profano. Su questo aspetto delle processioni religiose cfr anche Crawley ;
Buttitta ; e Grimes .
. Sarebbe interessante comparare la genesi delle processioni cristiane con quella del
teatro greco, così come con le tracce di rituali processionali nel testo biblico. In particolare,
sarebbe opportuno partire da un’analisi semiotica di  Samuele , nel quale si racconta
una traslazione “processionale” dell’Arca dell’Alleanza. Significativo soprattutto, ai fini di
una fenomenologia dell’attraversamento processionale della frontiera tra sacro e profano,
l’episodio dell’“incidente” (l’inciampare dei buoi) che conduce alla morte di Uzzah, ucciso
da Dio per aver sostenuto l’Arca. Significativo per altri versi anche l’episodio della danza
“rituale” di David di fronte alla stessa Arca. Ringrazio Ugo Volli per questi spunti.
Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose 

(Itinerarium Egeriæ ). In seguito, altre rappresentazioni drammati-


che furono introdotte nel culto cristiano e, attraverso percorsi storici
ancora tutti da esplorare, si diffusero verso l’Europa occidentale, dove
testi drammatici associati con la liturgia cristiana apparvero perlomeno
a partire dai secoli nono e decimo.
I monasteri francesi, e in particolare quello di San Marziale, gioca-
rono un ruolo centrale nella circolazione di testi drammatici messi in
scena da confraternite di attori nelle chiese in occasione degli eventi
principali dell’anno liturgico cristiano, come la nascita o la morte di
Cristo. Fu probabilmente attraverso l’abbazia di San Marziale a Li-
moges, consacrata all’evangelizzatore del limosino, che, verso la fine
dell’undicesimo secolo, tale costume si diffuse in Spagna, precisamen-
te nel monastero di Ripoll, in Catalogna, dove raggiunse il suo grado
più alto di elaborazione (Felbecker ; Twicross ; Verdi Webster
). Il nucleo centrale delle processioni cattoliche del Medioevo e
della prima modernità si sviluppò a partire da queste rappresentazioni
drammatiche, la cui genesi remota, tuttavia, può essere retrodatata
ai primi secoli dell’era cristiana e alle strategie retoriche che i primi
cristiani adottarono al fine di commemorare gli episodi più importanti
della vita di Gesù.
Storicamente, mentre la struttura fenomenologica e semiotica
delle drammatizzazioni cristiane antiche e medievali s’originò dal-
l’introiezione delle processioni religiose all’aria aperta all’interno del
tempio, la struttura fenomenologica e semiotica delle processioni cat-
toliche dall’epoca moderna in poi emerse, al contrario, dall’espulsione
delle rappresentazioni drammatiche sacre fuori dal tempio (Portello
e Gomez Lara ). Da una parte, all’interno del tempio tali dram-
matizzazioni potevano facilmente dar luogo a situazioni idolatriche o
persino blasfeme; per esempio, i credenti non dovevano confondere i
riti sacramentali — nei quali, secondo il dogma, la rappresentazione
coincide con il rappresentato, il significante con il significato — con
le rappresentazioni drammatiche, in cui i segni non sono altro che
simulacri (De Marinis ).
Dall’altra parte, il clero, e soprattutto gli Ordini mendicanti, deside-
rarono esportare l’efficacia mnemonica e persuasiva del dramma sacro
al di fuori del tempio; le drammatizzazioni erano infatti un dispositivo
retorico efficace per l’evangelizzazione e la conversione. Allo stesso
tempo, la Chiesa intendeva evitare che gli attori, i quali nel Cristiane-
 Massimo Leone

simo medievale e nel Cattolicesimo della prima modernità godevano


spesso della stessa reputazione delle prostitute (Allegri ), dive-
nissero oggetto di attenzione eccessiva e che, peggio, macchiassero
la sacralità dei protagonisti del pantheon cristiano con l’impersonarli
(Gusick e DuBruck ).
La struttura fenomenologica e semiotica principale delle processio-
ni cattoliche moderne deriva dalla tensione fra queste due tendenze:
da un lato, il desiderio di stemperare la frontiera fra l’ambiente di ap-
partenenza del sacro e quello del profano attraverso un’esportazione
delle sacre rappresentazioni drammatiche al di fuori del luogo di culto;
dall’altro lato, il rischio che queste rappresentazioni drammatiche, e il
sacro con esse, venissero “contaminati” dal contatto con l’ambiente
profano.

. La struttura semiotica delle processioni cristiane

Attraverso le strategie analitiche della semiotica testuale, la struttura


fenomenologica delle processioni cristiane può essere descritta in
dettaglio e distinta da quella di fenomeni religiosi analoghi (Marin
; Flanigan ; Del Ninno ). La direzione del movimento del
fedele in relazione al luogo di culto distingue le processioni religiose
dalle circombulazioni rituali (Leone ); mentre le prime implicano
un allontanamento progressivo dal luogo sacro, le seconde compor-
tano meramente un movimento intorno a esso. La distinzione fra
processione e pellegrinaggio è più complicata (Turner e Turner ;
Turner ). Le differenze più evidenti concernono la relazione fra
l’ambiente sacro e quello profano, la distribuzione dei fedeli, il ritmo
del movimento, e la struttura dell’osservazione (“l’attante osserva-
tore”, come direbbero i semiotici). Nelle processioni religiose, un
simulacro della trascendenza, insieme con i fedeli che lo trasportano,
“esplora” lo spazio profano.
Nei pellegrinaggi, al contrario, i fedeli attraversano un ambiente
profano al fine di raggiungere uno spazio sacro, dove solitamente
risiede un simulacro della trascendenza. I pellegrinaggi sono comu-
nemente intrapresi individualmente o in piccoli gruppi, mentre le
processioni sono sempre attività collettive. In generale, i pellegrinaggi
non sono esposti a un pubblico, mentre le processioni sono sempre
Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose 

uno spettacolo per qualcun altro. Nel quadro teoretico esposto nella
sinossi, si potrebbe dire che i pellegrinaggi manifestano un’agentività
individuale, mentre le processioni ne incarnano una collettiva.
Quel particolare genere di strategia retorica chiamata “processio-
ne” può essere poi articolata internamente sulla base di altri elementi
strutturali. Per quel che concerne la qualità temporale, per esempio,
si può distinguere fra processioni straordinarie od occasionali, come
le traslazioni di reliquie, i cortei funebri, o le parate di ringraziamento,
da altre processioni che non sono sporadiche ma cicliche. Per quanto
riguarda la struttura del movimento attraverso lo spazio, le processioni
rituali o cerimoniali normalmente hanno luogo all’interno del luogo
di culto, senza mai valicarne le frontiere: per esempio, nel Cristiane-
simo, l’entrata dei ministri nella liturgia eucaristica, la processione
dei doni il Giovedì Santo, quella del pane consacrato il Venerdì Santo,
la processione delle candele nel rito battesimale, etc. In questi casi,
tuttavia, i liturgisti generalmente ritengono che l’uso del termine
“processione” sia scorretto. Infatti, non vi è di fatto processione finché
un simulacro del sacro, del trascendente, lascia il tempio e si avventura
nell’ambiente immanente, profano (Martimor –).
Tale caratteristica essenziale, insieme con gli altri tratti strutturali
delle processioni, è all’origine dell’ambivalenza con la quale la Chiesa
Cattolica ha generalmente considerato questa evoluzione del dramma
sacro. La natura collettiva delle processioni, la loro relazione con un
pubblico (con la dimensione sociale che ne risulta) e, soprattutto, il
loro funzionare come canale di comunicazione tra l’ambiente sacro e
quello profano — attraverso le frontiere del luogo di culto — hanno
dato luogo a un atteggiamento ambiguo, in una certa misura analogo
a quello che ha caratterizzato la relazione, attraverso i secoli, tra la
Chiesa e le immagini (Leone b). Similmente, le processioni sono,
da un lato, strumenti efficaci di evangelizzazione e pertanto devono
essere difese contro ogni iconoclastia; dall’altro lato, come le imma-
gini, sono anche pericolose, per ragioni che possono essere evocate
attraverso un apologo.
 Massimo Leone

. Incidente I: contaminazione attraverso moltiplicazione delle


agentività

Il  maggio  sessantadue marinai baresi attraccarono al molo del


porto della loro città dopo aver trafugato le sacre spoglie di San Nicola,
loro patrono, dai Saraceni di Mira, in Turchia.
L’ maggio , come ogni anno, un corteo formato da diverse
dozzine di scialuppe trasportava una statua del Santo dalla Basilica epo-
nima verso il porto, invertendo la direzione del viaggio delle reliquie
al fine di commemorare l’episodio di virtuosa pirateria. Laddove nel
Medioevo il furto dei resti mortali di San Nicola e il loro ritorno a Bari
aveva significato l’eliminazione della frontiera che separava il sacro
— prigioniero di una civiltà nemica — dall’ambiente altrettanto sacro
del luogo di culto, nella Bari post–moderna la commemorazione di
quel furto sanciva l’annichilazione di un’altra frontiera, quella tra la
dimora del Santo — l’ambiente sacro del luogo di culto — e la città
attorno ad esso — l’ambiente profano della vita urbana d’ogni giorno
(Leone b). Come la maggior parte delle processioni, anche questa
affermava implicitamente che, a dispetto del passare di così tanti secoli,
San Nicola apparteneva ancora alla città di Bari, proprio come la città
di Bari (e la sua cittadinanza) appartenevano ancora a San Nicola.
L’ maggio , dunque, le scialuppe trasportavano almeno un
migliaio di fedeli, mentre circa ventimila spettatori, in piedi sul lun-
gomare di Bari, ammiravano la processione. Il cielo era terso, la
temperatura piacevole. Secondo la tradizione, una generosa batteria
di fuochi d’artificio, sparati dai moli del porto, doveva segnare l’apice
del viaggio rituale. Tuttavia, per ragioni che sono ancora misteriose,
dopo la prima serie di esplosioni, che inscrissero con successo la gioia
dei fedeli nel cielo della città, gli obici che contenevano la seconda
serie si rovesciarono e cominciarono a sparare i fuochi d’artificio
verso il mare, a pochi metri dalle scialuppe. In seguito, siccome gli
obici delle serie seguenti erano legati ai secondi, essi diressero tutti
le loro bocche verso le scialuppe. La processione religiosa divenne
allora una battaglia navale (Fig. ). Diverse scialuppe furono colpite e
affondate, mentre altre vennero violentemente rovesciate dalle mas-
sicce colonne d’acqua provocate dalle esplosioni. Settanta fedeli, molti
dei quali elegantemente vestiti, furono gettati in acqua, sbattuti dalle
onde, colpiti dai detriti, circondati e soffocati dal fumo, accecati dai
Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose 

bagliori, assordati dagli scoppi, storditi dalle grida degli altri fedeli e
dalle esclamazioni degli spettatori — “è un attacco terrorista!” —, e dai
megafoni dei pompieri.

Figura . Incidente durante la processione marittima in onore di San Nicola a Bari


l’ maggio .

La sinestesia perfettamente orchestrata della processione, nella qua-


le la vista del corteo, il suono dei fuochi d’artificio, l’odore d’incenso,
e gli altri elementi sensoriali dovevano transustanziarsi gli uni negli
altri al fine di volgere il rituale in una perfetta strategia retorica per
riconfermare l’unità dei sensi e di senso che abbracciava la città di Bari
e il suo patrono, bruscamente divenne una cacofonia poli–sensoriale:
l’incidente ruppe l’efficacia simbolica della processione e la sua collet-
tività sacra in agentività individuali interamente assorbite dal compito
piuttosto profano di salvare la pelle. Fortunatamente, il rapido inter-
vento dei pescatori di Bari scongiurò la catastrofe. Tutti i fedeli furono
salvati, alcuni di essi feriti, pochi seriamente. Il priore della Basilica,
rispondendo ai giornalisti sull’incidente, dichiarò: “San Nicola ci ha
fatto la grazia”.
Questa dichiarazione suona vagamente comica in quanto si sforza
di restituire al Santo una sacralità che l’incidente gli ha bruscamente
strappato. L’apologo esemplifica con efficacia il pericolo più serio tra
quelli impliciti nella struttura percettiva delle processioni. Mentre
all’interno del luogo di culto la liturgia regola scrupolosamente la rela-
 Massimo Leone

zione tra la trascendenza e l’immanenza, non appena il simulacro del


sacro abbandona il proprio ambiente di appartenenza e intraprende
il suo viaggio processionale attraverso l’ambiente profano, si espo-
ne a tutti i rischi della contaminazione imprevedibile causata dalla
drammatica moltiplicazione di agentività coinvolte nel rituale.
La Chiesa Cattolica, specialmente a partire dal Concilio di Trento,
ha reagito a questo pericolo cercando di esportare il tempio insie-
me con il simulacro del sacro, vale a dire attraverso una meticolosa
regolamentazione della liturgia delle processioni religiose. Tuttavia,
gli sforzi in questo ambito sono stati meno efficaci di quelli eserci-
tati per disciplinare, ad esempio, l’uso delle immagini sacre (Leone
b). Le processioni religiose essendo create dalla collettività dei
fedeli e non dall’agentività individuale degli artisti, per definizione
sfuggono a un controllo rigido . Malgrado la Chiesa producesse al
riguardo letteratura tecnica come i processionali, la religiosità po-
polare ha continuato a manifestarsi attraverso forme eterodosse, le
cui caratteristiche principali possono essere illustrate da due apologhi
ulteriori.

. Incidenti II e III: contaminazione attraverso personificazione

Il primo di questi due apologhi è tragico. Il  aprile  la parrocchia


di Camerata Nova, un paesino di duecento anime pochi chilometri
fuori Roma, metteva in scena, secondo la tradizione, una sacra rappre-
sentazione della Via Crucis. Come ogni anno, i giovani di Camerata
impersonavano i diversi personaggi della Passione di Cristo. Tutto si
era svolto a perfezione durante le prove, ma il Venerdì Santo, durante
la sacra rappresentazione, si verificò un terribile incidente. Allorché

. Zika () suggerisce che i pellegrinaggi sono tradizionalmente rituali che im-
plicano una dispersione di potere, mentre le processioni sono caratterizzate da controllo
centralizzato. Tuttavia, secondo Ashley (: p. , n. ) “questo autore semplifica ec-
cessivamente la processione assumendo che essa semplicemente enfatizza sempre la
celebrazione da parte della comunità dei suoi oggetti sacri attraverso uno spazio politico
prescritto” [“he oversimplifies the procession by assuming that it always simply emphasizes
the community’s celebration of its sacred objects throughout prescribed political space”].
Come è stato sottolineato attraverso l’apologo di cui sopra, a volte anche le processioni
religiose possono divenire il luogo di una dispersione sensoriale e semantica invece che un
luogo di sinestesia e unità del senso.
Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose 

un ragazzo di ventitre anni che impersonava Giuda saltò con una


corda intorno al collo da uno sgabello di pochi centimetri al fine di
rappresentare il suicidio del traditore, per cause misteriose — forse
la corda era troppo corta, lo sgabello troppo alto, o il salto troppo
vigoroso — si lesionò mortalmente l’aorta. Rimase poi appeso lì dieci
minuti, illuminato dai riflettori e ammirato da tutti gli abitanti del vil-
laggio — a inclusione della famiglia, probabilmente impressionata dal
realismo dell’interpretazione. Sfortunatamente, il tragico malinteso
fu svelato troppo tardi .
Il secondo apologo, per controbilanciare in qualche modo il primo,
è comico. L’autore di tragedie Leonardo de Argensola , che visse in
Spagna alla fine del XVI secolo, racconta che durante una sacra rap-
presentazione della vita della Vergine, messa in scena per le strade di
Siviglia da una confraternita di attori intorno al , egli fu testimone
di uno scandalo. L’attrice che impersonava la Vergine era l’amante
dell’attore che dava il volto a Giuseppe. La loro unione peccamino-
sa era così notoria che al momento della scena dell’Annunciazione,
quando la Vergine stupita doveva rispondere all’angelo che ella non
conosceva uomo alcuno, il pubblico riceveva tale rappresentazione
del dogma della verginità di Maria, uno dei più cari ai Cattolici, con
una sonora risata (Green ) .
Il senso di questi due apologhi dovrebbe essere chiaro: quando
il sacro viene rappresentato dal corpo umano corre il rischio di es-
sere esposto a due pericolose occasioni di dissacrazione: la morte e
il riso. Essi sconvolgono entrambi i meccanismi semiotici attraver-
so i quali il sacro è “esportato” al di fuori delle frontiere del tempio

. Paradossalmente, la vera morte dell’attore che impersona Giuda è un topos del


dramma religioso medievale. Cfr la Chronique de Philippe de Vigneulles, citato in Enders
(: p. ): “En celluy jeux, y olt encore ung aultre prebstre, qui ce appelloit seigneur
Jehan de nissey, qui estoit chappellain de Mairange, lequelle pourtoit le personnaige de
Judas; mais, pour ce qu’il pandit tropt longuement, il fut pareillement transis et causy mort,
car le cuer luy faillit; parquoy il fut bien hastivement despandus, et en fut pourté en aulcuns
lieu prochain pour le frotter de vin aigre et aultre chose pour le reconforter”; l’autore della
cronaca saggiamente conclude: “parte di ogni leggenda è vera” (ibidem).
. Barbasco (Huesca),  — Saragozza, .
. Il film La Passione () di Carlo Mazzacurati sfrutta abilmente l’effetto comico
insito nella personificazione del sacro evocandolo attraverso la vicenda degli abitanti di un
piccolo borgo che cercano di mettere in scena la Via Crucis sotto la guida di un esasperato
regista (Silvio Orlando). Si veda per esempio la sequenza in cui l’attore che impersona
Cristo ride solleticato dal frustino del centurione.
 Massimo Leone

nell’ambiente profano di appartenenza, con il risultato di un’opposta


“importazione” del profano nel sacro. Quando la morte e il riso pene-
trano nell’ambiente della trascendenza, essi diventano un’appendice
di quello dell’immanenza. La processione cessa di essere una strategia
retorica sinestesica di acclimatazione e tolleranza e diviene, almeno
se si adotta la prospettiva della Chiesa come punto di vista del sog-
getto statico, una strategia retorica cacofonica d’invasione ed esilio. Il
sacro è invaso dal profano e il suo simulacro è esiliato nell’ambiente
dell’immanenza.
La trasformazione che, dovuta soprattutto alla moltiplicazione del-
le agentività e alla personificazione del sacro, la liturgia subisce quando
è “esportata” al di fuori del tempio attraverso un rituale processionale
è particolarmente evidente nelle processioni votive, come quelle che
nel Cattolicesimo celebrano i santi, la Vergine, o il sacramento del-
l’Eucaristia. La prossima sezione sarà dedicata a un’analisi dettagliata
del modo in cui i meccanismi semiotici della liturgia mutano nel mo-
mento in cui sono trasposti nelle strategie retoriche delle processioni
del Corpus Domini.

. Processioni del Corpus Domini: dalla sacralizzazione del profa-


no alla profanazione del sacro

Si potrebbe sostenere che l’intera liturgia cristiana è costruita intorno


all’Eucaristia. Il dogma della transustanziazione implica il collasso di
ogni distinzione tra l’Eucaristia come espressione e come contenuto,
e così pure l’illegittimità di concepire questo Sacramento come mera
rappresentazione. Il dogma eucaristico essendo ineffabile, l’evoluzio-
ne della sua liturgia può essere interpretata come sforzo per costruire
un quadro di comunicazione e, quindi, di comunione, intorno a questo
nucleo centrale inesprimibile.
Come lo indica il liturgista francese Aimé–George Martimort, tutti
i segni percettibili che compongono la liturgia cristiana condividono,
secondo una definizione confermata dall’ultimo Concilio Vaticano,
la medesima natura: essi sono sia sacramenti efficaci che segni per-
cepibili. Al fine di comunicare il mistero dell’Eucaristia, in particola-
re, la Chiesa ha adottato mezzi espressivi che s’indirizzano a tutti i
sensi. Simultaneamente, tuttavia, ha sempre cercato di armonizzar-
Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose 

li secondo due principi: la sintesi degli elementi sensibili e la loro


gerarchizzazione.
Per quanto riguarda il primo principio, la Chiesa ha continuamente
cercato di guidare l’evoluzione della liturgia così che essa divenisse la
pura espressione di una realtà trascendente, vale a dire, la presenza
di Cristo e l’azione dello Spirito Santo. Nonostante ciò, a seconda
dei periodi storici e dei contesti socio–culturali, si sono verificate flut-
tuazioni tra una stretta adesione a questo principio — una tendenza
caratteristica soprattutto dei periodi di riforma — e un’interpretazione
più flessibile. A dispetto delle variazioni, tuttavia, tutti i segni della
liturgia sono stati generalmente orchestrati intorno a un singolo pro-
getto comunicativo. Innumerevoli esempi di tale evoluzione possono
essere trovati nella storia della musica sacra, dell’iconografia religiosa,
dei gesti rituali, e così via.
La gerarchizzazione degli elementi sensibili nella liturgia cattolica è
evidente soprattutto nella sua opposizione alla strategia comunicativa
del Protestantesimo. Mentre la ricezione luterana della teologia di
San Paolo enfatizza la relazione tra fede e udito e persino la necessità
di isolare questo senso in relazione agli altri , la Chiesa Cattolica
non ha mai rinunciato alla schiera di possibilità comunicative insite
nella pluralità sensoriale. Eppure, specialmente dopo il Concilio di
Trento, essa ha viepiù imbrigliato tale schiera in una gerarchia in cui
la parola occupa sempre una posizione centrale (Leone b). Gli
altri elementi sensibili (acustici, visivi, tattili, gustativi) sono disposti
attorno alla parola in ordine decrescente d’importanza.
Siffatta organizzazione è particolarmente evidente nella liturgia del-
l’Eucaristia. Sebbene questo sacramento s’indirizzi prevalentemente
al senso del gusto, esso deve essere negato al fine di rendere completa
l’adesione del fedele alla teologia cattolica. A tale scopo, il gusto del
pane e del vino, per esempio, sono situati al centro di una rete senso-
riale che spiritualizza il corpo del fedele proprio mentre ne indirizza
l’attenzione verso la transustanziazione del corpo di Cristo. La parola
del sacerdote guida lo spostamento, al quale tutti gli elementi sensibili
della liturgia eucaristica sono subordinati. Per esempio, persino l’ostia,
disco insipido che si scioglie in saliva non appena è introdotto nella
bocca, aiuta il fedele a vivere l’esperienza di un nutrimento spirituale

. Cfr la posizione di Keréniy .


 Massimo Leone

e a dimenticare la consistenza materiale del pane, massa fibrosa che si


deve invece masticare, schiacciare con i denti e le gengive, muovere
con la lingua, inghiottire, etc.
Conoscere i dati essenziali della fenomenologia e della semiotica
della liturgia eucaristica cattolica è importante al fine di comprendere
le trasformazioni che esse subiscono quando la sintesi e la gerarchiz-
zazione degli elementi sensibili sopra descritte sono proiettate al di
là delle frontiere dell’ambiente sacro di appartenenza, al di fuori del
tempio.
La festività del Corpus Domini, “il corpo del Signore”, fu introdotta
nel  da papa Urbano IV con la bolla Transiturus, la quale intendeva
istituzionalizzare e regolamentare una pratica che era già piuttosto
comune in diverse diocesi, vale a dire, quella di trasportare il viatico
in processione per le vie della città (Rubin ). Agli albori della
modernità, il Rituale Romanum, sorta di manuale della liturgia cattolica
promulgato da papa Paolo V nel , confermò la legittimità delle
processioni eucaristiche e le promosse come occasione nella quale
i fedeli potessero testimoniare pubblicamente, anche al di fuori del
tempio, la loro adesione al dogma eucaristico (sottoposto a critiche
da parte della Riforma Protestante).
Tuttavia, la Chiesa non è stata mai capace di regolamentare piena-
mente questo tipo di processioni. È riuscita a imporre loro un quadro
d’interpretazione teologica, che però non ha impedito la trasforma-
zione della struttura percettiva della liturgia eucaristica allorché essa
viene “esportata” in un ambiente profano. Durante la processione del
Corpus Domini, per esempio, la vista diventa abnormemente predo-
minante. Molti fedeli finiscono per non accostarsi al sacramento né
prima né dopo la processione, perché si accontentano di entrare in
contatto visivo diretto con il Corpo di Cristo, divenuto da oggetto di
transustanziazione oggetto di spettacolo.
Riepilogando, se la processione del Corpus Domini era stata conce-
pita dalla Chiesa come occasione in cui il sacramento potesse essere
riconosciuto come tale non solo nell’ambiente sacro di appartenenza
del tempio, ma anche in quello profano delle strade, tale intenzione
in molte circostanze si rivelò un boomerang: una strategia retorica
di acclimatazione e tolleranza diede luogo a un percorso semantico
opposto d’invasione ed esilio. Una volta nelle strade, la liturgia eu-
caristica non poteva controllare la tendenza eterodossa dei fedeli a
Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose 

trasformare il sacramento in spettacolo, nel quale il potere simbolico


della parola si subordina alla dinamica iconica della visione. Perciò, il
contatto fra un simulacro del sacro e un ambiente profano non risulta
solo nella sacralizzazione del secondo, come la Chiesa auspicava, ma
anche nella profanazione del primo. La sezione seguente estende-
rà le riflessioni fin qui sviluppate a proposito del Corpus Domini alle
processioni religiose in generale.

. La decostruzione della liturgia nelle processioni religiose

Nella maggior parte delle processioni religiose i principi di sinestesia


e gerarchizzazione degli elementi sensibili sono sovvertiti e trasfor-
mati in un nuovo quadro percettivo, caratterizzato da dispersione dei
mezzi espressivi e sovversione della piramide sensoriale. Queste due
dinamiche si manifestano nella forma più spettacolare nella cosiddetta
“religiosità popolare”, per esempio nelle processioni cattoliche spagno-
le. Per quel che riguarda specificatamente la prima dinamica, vale a
dire lo sparpagliamento degli elementi sensibili, si tratta probabilmen-
te di un elemento essenziale di tutte le processioni religiose, poiché la
traslazione del simulacro del sacro fuori del suo ambiente di appar-
tenenza implica una sorta di dispersione dei segni liturgici. Questo
fenomeno è evidente nelle alterazioni che le processioni religiose
implicano per quel che riguarda la struttura percettiva dei fedeli.
Nell’architettura delle chiese cattoliche, per esempio, così come nel
modo in cui la liturgia ne regola l’uso da parte dei fedeli, tale struttura
percettiva è caratterizzata da una topologia simile a quella del teatro
classico: il punto di vista del fedele è opposto a quello del sacerdote,
ma rimane tuttavia sostanzialmente omogeneo. Tale uniformità, al
contrario, è completamente sovvertita nella struttura percettiva delle
processioni religiose.
Un tipo fondamentale di eterogeneità è introdotto dalla duplicazio-
ne dello spazio scenico: mentre la messa non è mai uno spettacolo, le
processioni religiose implicano sempre una distinzione tra un corteo
e un pubblico. Incidentalmente, questa opposizione è anche uno degli
elementi fondamentali della natura (solitamente) ideologicamente
conservativa e conformista delle processioni religiose (Di Nola  e
; Du Toit ). Tale tipo essenziale di diversità percettiva implica
 Massimo Leone

anche un corollario: gli spettatori così come i partecipanti ricevono


una percezione frammentaria del flusso processionale, sebbene queste
due parzialità siano differenti fra loro. Mentre i primi — gli spettatori
— possono ricondurre la poli–sensorialità dell’esperienza percettiva al-
l’unità della liturgia, i secondi — i partecipanti — sono vincolati a una
ricezione parziale della processione dalle coordinate prossemiche che
ne caratterizzano la posizione nel corteo. Infine, persino all’interno di
questi due regimi percettivi, quello degli spettatori e quello dei parte-
cipanti, la natura essenzialmente cinetica delle processioni dà luogo
a variazioni continue (e, di conseguenza, a potenziali decostruzioni)
della struttura percettiva.

. Esempi di decostruzione liturgica: la Semana Santa spagnola

L’analisi della struttura percettiva predisposta dalle processioni della


Semana Santa spagnola esemplifica perfettamente l’interpretazione
sopra proposta, ad esempio per quel che riguarda l’organizzazione
degli elementi acustici . Si possono individuare almeno tre categorie
di suoni. La prima è quella dei suoni puramente ritmici, come i
tamburi e le trombe che scandiscono il movimento dei fedeli. Questi
suoni introducono un certo ordine nel flusso processionale ma non
contribuiscono a unificare l’esperienza percettiva dei partecipanti e
degli astanti, dal momento che scompaiono non appena si manifesta
la seconda categoria, quella dei canti devozionali.
Il Miserere, per esempio, appartiene a questa categoria, così come
le cosiddette saetas, il cui nome letteralmente significa “fulmini”. In
effetti, il loro pattern percettivo è analogo a quello di un fulmine che
fuga l’oscurità: durante le processioni della Semana Santa spagnola,
e soprattutto durante quelle andaluse, improvvisamente il corteo si
ferma, tutti restano in silenzio, e un cantore, normalmente senza
accompagnamento strumentale ovvero con il solo accompagnamento
delle percussioni, indirizza una saeta alla trascendenza e ai suoi simu-

. Sebbene la letteratura sulla Semana Santa sia piuttosto abbondante, un’analisi antro-
pologica, semiotica, e fenomenologica generale di questo fenomeno religioso non è stata
ancora condotta. Tra i contributi accademici più importanti, cfr Mitchell ; Nuñez de
Herrera ; Albaladejo Imbernón ; Jimenez Guerreo ; Perez Valero ; Verdi
Webster ; etc.
Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose 

lacri — per esempio, le statue dei santi e della Vergine. La saeta fuga
l’oscurità e il silenzio dello spazio risuonando attraverso di esso come
un fulmine acustico.
Laddove nelle culture religiose greco–latine il fulmine era un se-
gno dell’ira divina, e in quanto tale lo si immaginava come scagliato
dall’alto verso il basso, nella religiosità popolare spagnola il fulmine
acustico delle saetas è un segno di devozione verso la divinità, e in
quanto tale lo si immagina come indirizzato dal basso verso l’alto. Tut-
tavia, l’isolamento percettivo con il quale questo segno si manifesta,
combinato con la molteplicità dei punti di vista (o meglio, dei “punti di
ascolto”) che lo ricevono, contribuisce a staccare siffatto tipo di suono
dal complesso della liturgia, trasformandolo così in spettacolo. Inoltre,
il virtuosismo del cantore e il ruolo predominante della corporeità
della voce sovvertono il secondo principio fondamentale della liturgia,
vale a dire, la gerarchizzazione degli elementi sensibili: la voce diviene
più importante della parola .
La terza categoria di suoni provoca la sovversione più notevole
nell’ordine liturgico; mentre nel tempio ogni suono è subordinato allo
sviluppo della liturgia, la religiosità popolare delle processioni implica
frequentemente forme acustiche anarchiche che, spesso prodotte dai
fedeli, possono intervenire in qualunque momento del corteo: le
matracas di Castiglia e León, per esempio (Fig. ), oppure le piccole
campane che i bambini fanno suonare durante le processioni pasquali
di Puerto Real, vicino Cadice.
La tendenza a enfatizzare la corporeità della produzione acustica si
manifesta anche nell’adozione di strumenti con forme mostruose o
esuberanti, come i corni giganti utilizzati a Murcia durante il Venerdì
Santo. La reintroduzione della profanità del corpo nella spiritualità
acustica della liturgia è particolarmente impressionante nell’uso dei
tamburi. Durante le processioni religiose della Semana Santa del pic-
colo villaggio di Híjar, vicino Teruel (Aragona, Spagna orientale), per
esempio, i tamburi vengono battuti incessantemente notte e giorno

. Non è un caso che la saeta ricordi l’adhan del muezzin: i legami tra i canti processio-
nali della Semana Santa andalusa e la semiosfera islamica sono strutturalmente evidenti e
storicamente accertati. Alla semiotica tuttavia interessa soprattutto il modo in cui le saetas
reintroducono nella liturgia cristiana una corporeità della voce che ne era stata invece per
molti versi espulsa (ad esempio con l’introduzione delle campane, Leone ), laddove
essa permane, al contrario, nel richiamo islamico alla preghiera.
 Massimo Leone

Figura . Le matracas di Castiglia e León

dal Giovedì Santo fino alla Domenica di Resurrezione. Essi vengono


dunque trasformati da strumenti musicali in strumenti penitenziali e
macchiati con il sangue dei suonatori (Fig. ). Il significato anagogico
della rappresentazione processionale della Passione di Cristo è sosti-
tuito dalla raffigurazione spettacolare della sua corporeità. Il corpo
che la struttura percettiva della liturgia cattolica tende a spiritualizzare
subordinando i sensi, e soprattutto il tatto e il gusto, alla parola e al mi-
racolo della transustanziazione, riappare drammaticamente in quelle
processioni religiose che, specialmente nella Semana Santa spagnola,
sovvertono la gerarchia dei sensi.
Fra le modificazioni di questo genere, una delle più notevoli concer-
ne il ritmo stesso del flusso processionale. Nel villaggio di Villanueva
de la Serena, in Estremadura, a Pasqua i fedeli trasportano una statua
della Vergine fuori dal tempio correndo a perdifiato. Di conseguenza,
la lentezza e il ritmo ordinato, tradizionali della liturgia cattolica, sono
rimpiazzati da un pattern percettivo disordinato e instabile, il quale ma-
nifesta l’euforia e lo sforzo penitenziale dei fedeli, ma presenta anche
uno spettacolo che è indubbiamente poco ieratico. Lo sforzo corpo-
reo e il senso della fatica corporale giocano un ruolo predominante
in numerose processioni religiose spagnole, le quali sovvertono la
Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose 

Figura . Uso penitenziale dei tamburi durante la Semana Santa di Híjar.

spiritualità della liturgia adottando regimi sensoriali che assomigliano


a quelli del gioco.

. Dal rituale al gioco

Quando le processioni religiose si manifestano non come rituali ma


come giochi, sia i partecipanti che gli astanti non hanno più l’im-
pressione — come invece la liturgia li incoraggerebbe a credere —
che l’ambiente profano di appartenenza, sacralizzato dalla visita del
simulacro della trascendenza, si mostri attraverso un senso che non
ammette alternative né cambiamenti (Leone ). Invece, sia i parte-
cipanti che gli astanti hanno l’impressione che, esattamente come in
un gioco, o in quel gioco particolare che è una rappresentazione tea-
trale, essi scelgono di seguire regole che in ogni momento potrebbero
essere modificate, sovvertite, o completamente ignorate. In parole
più semplici, il sentimento di non essere capaci di “saltar fuori” dalla
liturgia, il quale è tipico della sacralizzazione, attraverso rituali, di
un ambiente profano, è sostituito dall’impressione di poter “saltare
dentro e fuori” la liturgia processionale a ogni istante, un’impressione
che è tipica della profanazione dell’ambiente sacro attraverso i giochi
 Massimo Leone

e soprattutto attraverso l’ironia e la parodia. I modi in cui diverse pro-


cessioni religiose nella Semana Santa spagnola sovvertono la struttura
percettiva della liturgia possono essere appropriatamente categorizzati
attraverso la famosa tipologia di giochi elaborata da Caillois ().
Ilinx (vertigine).
La dimensione della vertigine, per cominciare, prevale non solo
nelle corse processionali, le quali implicano anche una dimensione
agonistica , ma anche in altre tradizioni popolari. A Castielfabib,
vicino Valencia, a Pasqua i giovani del piccolo villaggio si aggrappano
a una delle quattro campane del campanile, quella di San Guglielmo, e
oscillano spericolatamente sospesi a diverse dozzine di metri dal suolo
(Fig. ). In questa pratica vertiginosa, l’intrusione della corporeità del
gioco nella spiritualità della liturgia è così evidente che il corpo dei
fedeli arriva persino a sostituire lo strumento liturgico o, perlomeno,
a fondersi con esso (Leone ). Secondo una tradizione orale del
villaggio, una volta il batacchio della campana si staccò proprio al
passaggio della processione, ma fortunatamente San Guglielmo fu
altrettanto efficace di San Nicola nel proteggere i fedeli dall’incidente.
Tuttavia, questo genere di giochi processionali non implica solo un
rischio fisico ma anche uno teologico: quello di trasformare la sacra-
lizzazione dell’ambiente profano di appartenenza in una profanazione
di quello sacro. Il pattern percettivo individuale, contingente, e disor-
dinato offerto dalla vertigine del gioco rituale sostituisce il pattern
percettivo collettivo, essenziale, e ordinato predisposto dalla liturgia
della processione religiosa. Quando nel diciottesimo secolo un prete
illuminato volle vietare la pericolosa pratica votiva di Castelfabib, i
giovani del villaggio continuarono a volteggiare il giorno di Pasqua,
sempre aggrappati alla campana, ma tenendone in mano il batacchio
così che il sacerdote non potesse udirli (e rendendo così il gioco anco-
ra più pericoloso e meno liturgico). L’aneddoto mostra in che misura
un elemento corporale, introdotto nel quadro percettivo di una pro-
cessione religiosa, possa volgersi in pratica puramente ludica, nella
quale una sensazione individuale di vertigine è completamente stacca-
ta dall’equilibrio collettivo del rituale e della sua liturgia. Le campane
. Non bisogna dimenticare che i pasos, i simulacri statuari della Semana Santa spagnola,
possono arrivare a pesare diverse tonnellate. È come se il portare a termine la corsa
segnalasse implicitamente l’intervento miracoloso della divinità nello scongiurare ogni
incidente.
Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose 

Figura . “Volteggiatore” di Castielfabib.

cessano di essere uno strumento acustico per la creazione di un’agen-


tività collettiva e divengono strumento ludico per il divertimento di
un’agentività individuale (e per la costituzione del suo pubblico).
Mimicry (mimetismo).
Un’altra delle categorie di giochi di Caillois, la mimicry o mime-
tismo, caratterizza diverse processioni religiose, la cui genesi, come
è stato indicato in precedenza, è strettamente collegata all’evoluzio-
ne delle sacre rappresentazioni e alla loro transizione dallo spazio
interno del tempio a quello a esso esterno. Laddove la Chiesa ha
cercato di espellere la dimensione corporale della rappresentazione
al di fuori delle processioni, per esempio sostituendo i figuranti in
carne e ossa con statue lignee, l’estetica della religiosità popolare ha
manifestato una tendenza opposta, enfatizzando il corpo e la sua sen-
sualità idiosincratica piuttosto che l’unità della struttura percettiva
della liturgia.
Questa tendenza è rimarchevole, per esempio, nell’evoluzione del-
la scultura processionale spagnola, il cui realismo estremo (i vestiti,
i gioielli, i capelli, l’abbondanza di sangue e ferite, l’espressività de-
gli occhi, etc.) potrebbe essere interpretato come una reazione alla
spiritualizzazione della sacra rappresentazione. La stessa propensio-
ne a reintrodurre il corpo e i suoi sensi nelle processioni religiose,
 Massimo Leone

sovvertendo così i due principi di sinestesia e gerarchizzazione della


struttura percettiva, può essere individuata in molte altre tradizioni
popolari, le quali nella Semana Santa spagnola presentano spesso un
mimetismo estremo e una rimarchevole corporeità sensuale.
Per esempio, a Valverde de la Vera, in Estremadura, la notte del
Giovedì Santo alcune dozzine di abitanti danno luogo al rituale degli
empalaos, letteralmente, “gli impalati”. Nascosti nelle proprie case,
coloro che ne ricevono l’autorizzazione e l’onore dalla confraternita
locale che gestisce questo rituale si fanno legare — assistiti da parenti
e amici — a pesanti tronchi con corde spesse e ruvide, le quali immo-
bilizzano, come le spire di un serpente, le braccia aperte in croce e i
torsi nudi.
Quindi, da mezzanotte in poi, ciascuno per proprio conto, essi
iniziano a dar luogo a una strana processione religiosa (o piuttosto
a un pellegrinaggio) attraverso le strade del villaggio. Scalzi, velati,
una corona di spine sulla testa, alcune pesanti catene attaccate al torso,
due spade in croce appese alla schiena, si aggirano per le ripide e
oscure stradine di Valverde, dando sollievo di quando in quando ai
piedi martoriati immergendoli nell’acqua fredda e sporca che corre
nell’incavo delle strade (Fig. ). Un parente, il cui anonimato è protetto
dalla spessa coperta che ne copre il capo, precede l’empalao con una
lampada da notte, aiutandolo a orientarsi attraverso il villaggio. Alle
donne è assegnato un rituale penitenziale “più leggero”: trasportare
in spalla una pesante croce di legno.
Ogni volta che i penitenti, sia uomini che donne, s’imbattono gli
uni negli altri ovvero nelle croci di pietra disseminate per il villaggio,
oppure nel crocifisso della processione religiosa che pure si aggira per
Valverde dopo la mezzanotte, devono inginocchiarsi. Tale movimento
è reso particolarmente difficile e penoso per gli uomini, che devono
eseguirlo mentre sono legati e, quindi, senza l’ausilio delle braccia. Di
conseguenza, il mimetismo si mescola con la vertigine, trasformando
la rappresentazione del cammino di Gesù verso il Calvario non in un
riferimento anagogico collettivo alla teologia cristiana della salvezza
ma a un gioco d’equilibrio individuale.
La conoscenza dell’origine storica del rituale aggiunge un elemen-
to importante alla sua comprensione. Nonostante l’etiologia degli
empalaos sia incerta, è piuttosto probabile che la tradizione si sia ori-
ginata dopo l’espulsione degli ebrei dalla penisola iberica nel .
Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose 

Figura . Un empalao per le strade di Valverde de la Vera.

Attraverso questo rituale, i conversos (gli ebrei che avevano deciso di


rimanere e convertirsi al Cristianesimo) potevano dimostrare pubbli-
 Massimo Leone

camente la loro adesione alla nuova fede. Dunque, anche dal punto di
vista storico, siffatto rituale appare più come una retorica individuale
attraverso la quale il convertito poteva segnalare la sua appartenen-
za all’ambiente della comunità cristiana, che una retorica collettiva
attraverso la quale la comunità cristiana poteva segnalare la sua appar-
tenenza all’ambiente sacro. In altre parole, nel rituale processionale
degli empalaos non è la comunità religiosa che cerca di persuadere
sé stessa della continuità tra l’ambiente sacro del tempio e quello
profano del villaggio, ma è piuttosto il convertito che cerca di persua-
dere sé stesso e la comunità religiosa della sua appartenenza ad essa
(Leone ). Ciò potrebbe spiegare il forte mimetismo del rituale:
come in un gioco mimetico, il giocatore dichiara continuamente la
sua adesione a un ruolo particolare.
In effetti, negli empalaos la mimicry rituale è piuttosto notevole, per
esempio nel modo in cui essi mimano il calvario di Cristo mettendone
in scena la sofferenza corporale: durante la processione solitaria, la
corda apre piaghe sanguinolente nella carne dei penitenti e rallenta
la circolazione del sangue nel torso e nelle braccia; alla fine del ri-
tuale, vigorose frizioni con l’alcool si rendono necessarie affinché gli
empalaos possano recuperare la sensibilità del busto e degli arti.
L’adozione del corpo umano come mezzo espressivo della rappre-
sentazione sacra implica rischi non solo materiali ma anche simbolici.
Sia la collettività che la visibilità delle processioni religiose sono com-
pletamente sovvertite: come si accennava in precedenza, gli empalaos
danno luogo a processioni individuali e anonime, una sorta di ibrido
tra la processione religiosa e il pellegrinaggio. Il carattere casuale del
loro girovagare attraverso il villaggio produce una struttura percettiva
che meraviglia continuamente lo spettatore e arriva persino a distrar-
lo dalla sua partecipazione al rituale processionale collettivo “vero e
proprio”.
Inoltre, al giorno d’oggi la natura spettacolare e in qualche misura
masochistica della performance attrae un numero sempre più esiguo
di fedeli e un numero sempre crescente di turisti. La massa — ogni
anno più numerosa — di spettatori curiosi che circonda gli empalaos, li
scova per le strade di Valverde, e li insegue lungo le salite del villaggio,
trasforma la struttura percettiva ordinata e armoniosa della liturgia in
un caos sensoriale in cui il focus dell’attenzione è sparpagliato in modo
tale che la sinestesia sensoriale non è rimpiazzata meramente dalla
Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose 

poli–sensorialità ma dalla cacofonia percettiva. Il flash dei fotografi


rivela l’identità dei penitenti e, allo stesso tempo, disfa la sacralità della
loro performance.
Il corpo torturato, ferito, escoriato e sanguinante è al centro di di-
versi rituali della Semana Santa spagnola. La percezione degli spettatori
è situata in uno spazio sensoriale empatico, nel quale i corpi dei fedeli
non sono più spiritualizzati dall’azione sacramentale, come nella litur-
gia ortodossa, ma sollecitati dalla sensualità della tradizione popolare.
Per esempio, nel villaggio di San Vicente de la Sonsierra, nella Rioja,
il Giovedì e il Venerdì Santo i membri della confraternita dei picaos
(letteralmente, “i pizzicati”) si flagellano durante una processione
religiosa: la testa coperta da cappucci, si colpiscono violentemente
con un frustino di canapa (Fig. ). In seguito, i gonfiori così prodotti
sono trasformati in piaghe da un assistente, che spugna le schiene
escoriate dei penitenti con acqua mista a frammenti di vetro. Infine,
il dorso viene pizzicato dodici volte, ogni piaga aperta nella carne
simbolizzando uno degli Apostoli. La pratica penitenziale della flagel-
lazione, che la Chiesa medievale aveva aspramente combattuto (Flynn
), sopravvive nelle processioni religiose di questo piccolo villaggio
spagnolo insieme con il suo eterodosso potenziale di sensualità .
Sebbene la progressiva “secolarizzazione” del pubblico abbia tra-
sformato questa tradizione in evento mediatico e turistico, esso perma-
ne chiaro esempio del modo in cui il mimetismo estremo dei rituali
processionali sovverte la tipica gerarchia sensoriale della liturgia, en-
fatizzando la dimensione sensuale e persino erotica della performance
e, in ultima istanza, qualificandola come gioco mimetico la cui con-
tingenza implicitamente nega l’essenzialità del sacro. In questi rituali,
non è l’ambiente d’appartenenza profano che è eternato dalla visita
del simulacro della trascendenza, ma il simulacro della trascendenza
che, manifestandosi attraverso il corpo umano, è reso contingente
tanto quanto l’ambiente profano di appartenenza .

. Si potrebbe sostenere che tutte queste manifestazioni ludiche (nel senso ampio di
Caillois) sono “macchine semiotiche” per la produzione di esperienza negli astanti della
processione. Questa lettura non contrasta ma convalida l’idea che il rituale processionale,
specie nella sua forma andalusa, comporti una frammentazione dell’uniformità percettiva
tipica della liturgia cristiana e, in definitiva, un “esilio” del sacro nella sua vicenda profana.
. Questa dinamica è stata rappresentata efficacemente nel film di Luis Buñuel La Voie
lactée (“La via lattea”) (), graffiante parodia della religiosità popolare spagnola, così
 Massimo Leone

Figura . I picaos di San Vicente de la Sonsierra.

.. Agon

La struttura percettiva bipolare tipica dei giochi agonistici si manifesta


in quelle processioni religiose in cui una o più confraternite com-
petono per avere l’onore di meglio glorificare Cristo: per esempio,

come da certi passaggi del romanzo di José Saramago Memorial do Convento (). Un’eco
di essa si trova anche ne Le Rouge et le Noir di Stendhal.
Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose 

nella rivalità fra blancos, negros, e morados durante la Semana Santa di


Huércal–Overa, vicino Almeria, quella fra coliblancos e colinegros a
Baena, vicino Cordoba, o la spettacolare competizione tra “bianchi”
e “blu” a Lorca, nella regione di Murcia, reminiscenza della perenne
rivalità fra Francescani e Dominicani.
Allorché predomina, la dimensione agonistica volge anche la per-
cezione della relazione fra trascendenza e male in una sorta di gioco
manicheo, nel quale la teologia cristiana della sofferenza e del male
è completamente obliata. Il male è personificato, trasformato in una
delle parti di un gioco e, di conseguenza, investito di un’ontologia pari
a quella della trascendenza personificata che lo sconfigge.
Per esempio, durante le processioni pasquali di diversi villaggi spa-
gnoli, un pupazzo raffigurante Giuda è “giustiziato” con una perfor-
mance in cui l’immaginazione antropomorfica non solo de–spiritualiz-
za il male ma distorce pure interamente il senso narrativo del tradi-
mento e del suicidio di Giuda. A questo proposito, uno dei rituali più
eterodossi è certamente quello che ha luogo nel villaggio di Aldea
de Cuenca, vicino Cordoba, dove un simulacro del traditore viene
appeso in cima a un alto palo e fucilato dai fedeli, ognuno provvisto
della propria carabina (Fig. ).
Giuda non muore per il rimorso di avere sacrificato Gesù — incar-
nazione della trascendenza — per un pugno di potere immanente —
i trenta pezzi d’argento —, ma perché personifica la parte sconfitta
nella messa in scena agonistica della battaglia cosmica tra bene e male.
Anche in questo caso, la trasformazione della teologia cristiana del
male e della salvezza in gioco agonistico attribuisce un’aura profana
di contingenza ai partecipanti, che sembrano capaci di sbarazzarsi
del problema metafisico del male con la stessa rapidità con cui fanno
fuori Giuda. L’anacronismo dell’usare fucili come strumenti della con-
danna a morte accresce involontariamente l’effetto parodistico della
cerimonia.
A Yepes, nella regione di Toledo, Giuda è trattato in maniera meno
violenta: lo si umilia facendolo rimbalzare su una sorta di tappeto
elastico. Qui l’ilinx (la vertigine) si aggiunge all’agon (la competizione)
nella giocosa rappresentazione della punizione di Giuda. Una morte
violenta per rogo tocca invece a Giuda ad Alfaro, nella Rioja, o in
Estremadura. Qui il pupazzo del traditore spesso mostra i caratteri di
questo o quel personaggio politico “cattivo” (nel , per esempio, il
 Massimo Leone

Figura . Fucilazione di Giuda ad Aldea de Cuenca.

Giuda di Torremenga de la Vera, in Estremadura, aveva il sembiante


di Saddam Hussein). Di nuovo, la contingenza geo–politica della
messa in scena inevitabilmente ne diminuisce l’atemporalità liturgica:
Giuda non è più il simbolo cosmico della tragica scelta con cui gli
uomini rigettano la visita del sacro, ma il capro espiatorio del senso
di appartenenza collettiva degli abitanti del villaggio al loro ambiente
profano (Girard ). Da questo punto di vista, i rituali della messa
a morte di Giuda sono tutti reminiscenti di quelli in cui, in epoca
pre–cristiana, si simbolizzava l’espulsione dell’inverno e, quindi, della
morte, al di fuori del perimetro del villaggio.

.. Alea (caso)

La dimensione ludica dell’alea (caso) sottende ciò che potrebbe essere


definito come “divinazione processionale”: ogni cosa nelle processioni
religiose diviene segno dell’atteggiamento capriccioso della trascen-
denza verso il fedele. Ogni momento del corteo processionale non è
più considerato come elemento dell’economia simbolica complessiva
della liturgia ma come particella di senso staccata dal suo contesto e
trasformata in fondamento di superstizione. Mentre le processioni
religiose mirano a significare la continuità fra l’ambiente sacro di
Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose 

appartenenza del tempio e l’ambiente profano di appartenenza che


lo circonda, la divinazione processionale re–introduce il sentimen-
to di una discontinuità fra l’ambiente sacro e quello profano e, di
conseguenza, la frontiera che li separa.
Gli incidenti che, come è stato mostrato in precedenza, inevita-
bilmente inquinano la liturgia processionale, sono interpretati non
quali effetti dell’ineluttabile diluizione dell’ordine percettivo che la
liturgia subisce ogni volta che viene esportata al di fuori del perimetro
sacro, ma quali segni della vendetta della trascendenza, come invasio-
ne trascendente dell’ambiente profano al fine di castigarlo. In altre
parole, configurando gli incidenti processionali come espressione del-
l’ira della trascendenza, i fedeli inconsciamente negano il senso più
profondo dei rituali processionali, dichiarando implicitamente che la
trascendenza non alberga nel villaggio, ma si limita a visitarlo al fine
di premiarne o punirne gli abitanti secondo una logica più aleatoria
che morale.

. Dal gioco all’arte

Caricaturando la religiosità popolare, l’arte spagnola contemporanea


rivela ed enfatizza insieme la trasformazione che la liturgia subisce
allorché viene esportata in un ambiente profano di appartenenza.
In tale arte, sia la dinamica percettiva della poli–sensorialità che lo
smantellamento della gerarchia sensoriale sono spinti all’estremo,
volgendo così la liturgia prima in parodia e poi in blasfemia. L’opera
dell’artista catalano contemporaneo Carles Santos offre un esempio
perfetto di questa evoluzione della liturgia nell’ambiente profano
(Ruvira ; Santos ; Ruvira ) .

. Carles Santos (Vinaròs, Valencia,  luglio ) cominciò a studiare musica all’età di
cinque anni, sviluppando con i suoni e specialmente con il pianoforte una relazione che ha
caratterizzato l’insieme del suo percorso artistico e creativo. Sebbene durante la sua carriera
lunga e tortuosa Santos abbia esplorato numerose forme espressive, la musica è stata sempre
il filo conduttore della sua opera. Nell’universo immaginario creato da Santos, il pianoforte
gioca un ruolo centrale (sovente incarnato dalla posizione spaziale altrettanto centrale che
questo strumento occupa nelle sue pièce teatrali), evocando tendenze contraddittorie: da un
lato, si manifesta come oggetto che si oppone alla libertà dell’artista; dall’altro lato, diventa
uno strumento di piacere sensuale e persino sessuale. La partecipazione alle attività dell’a-
vanguardia catalana, e particolarmente a quelle del Grup de Treball di Barcellona, frequentato
 Massimo Leone

Nella sua opera teatrale l’artista catalano adotta spesso elemen-


ti espressivi della religiosità popolare cattolica, sottolineando così i
principi semiotici che determinano la trasformazione della liturgia
in spettacolo, vale a dire: l’introduzione del caos percettivo e la pre-
dominanza del corpo. Nell’immaginario religioso di Santos questo
sovvertimento sensoriale dà spesso luogo alla blasfemia, la quale, del
resto, egli rivendica come uno dei motori della sua creazione. Nella
performance Caligaverot, per esempio, creata da Santos nel  e in-
spirata alla Semana Santa catalana, l’artista, accompagnato da un tenore
e da un soprano, recita un testo di fronte a una serie di sei immagini
disposte a formare una croce.
Un’analisi ravvicinata di questa performance mostra il modo in cui
essa non fa che intensificare tendenze semiotiche già presenti nella
religiosità popolare cattolica. Il testo imita la fonetica del Catalano ma
non esprime un significato preciso. Tuttavia, grazie al proferimento di
parole come “Deu”, alla loro ripetizione, alla combinazione dei suoni,
e specialmente grazie all’immagine di sfondo della performance, fini-
sce per evocare un contenuto blasfemo. La parola santa e santificante

anche da Antoni Tápies, è un altro passo importante nell’evoluzione artistica di Carles San-
tos. Negli anni Sessanta, in qualità di direttore del Grup Instrumental Catalá, Santos contribuì
alla diffusione della musica di Boulez, Stochhausen, e Webern. Quindi, influenzato da Fluxus,
dalla body art, e dalle performance di John Cage (con il quale Santos lavorò a New York),
Santos creò opere musicali basate sulla stimolazione poli–sensoriale dello spettatore e sullo
smantellamento dell’armonia percettiva. Approfittando delle oasi di libertà creativa offerte-
gli a Barcellona dagli Istituti culturali tedesco e francese nel deserto musicale conservatore
della Spagna di Franco, Santos diresse opere musicali che trasformavano radicalmente il
ruolo del conduttore. Per esempio, durante l’esecuzione di Water Music di John Cage, Santos
si lavava le mani in una bacinella; durante quella di Visible Music di Dieter Schnebel, nascosto
dietro uno schermo, gonfiava palloncini e faceva esplodere petardi; durante quella di Piraña
di Tomás Marco, tirava dal fondo dell’auditorio una panchina attaccata a una fune; etc. Tra il
 e il  Santos si dedicò al cinema, esplorando la relazione tra i suoni musicali e le
immagini. Uno dei suoi film, per esempio, intitolato Preludio de Chopin n.  Op. , girato nel
, comincia con un’inquadratura statica consistente in una fotografia che rappresenta le
mani di Santos sulla tastiera. Questa inquadratura è seguita da altre , le quali condensano
i movimenti che le mani del pianista devono effettuare al fine di eseguire il preludio. Il
film è muto. Dal  in poi, Santos smise di eseguire musica composta da altri e si dedicò
interamente alle proprie creazioni. Influenzato dal minimalismo americano, e in particolare
da Morton Fieldman, Earle Brown, David Tudor, e Philip Glass, Santos lo trasformò profon-
damente, al punto che alcuni critici definiscono il suo stile come “minimalismo romantico”.
Nelle performance, e in seguito nelle pièce teatrali e nelle opere, l’immaginario di Santos è
divenuto sempre più complesso, ogni nuova fase del suo sviluppo artistico abbracciando
tutti gli elementi creativi elaborati in quelle precedenti.
Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose 

che domina l’orchestrazione sensoriale della liturgia si volge dunque


nel suo opposto, cioè in una parola diabolica che non ha significato
alcuno ma significa attraverso l’enfasi attribuita alla materia espressiva,
alla corporeità della voce dei cantanti. Il contenuto visivo che orienta
la ricezione della performance intensifica la sensualità della Semana
Santa spagnola fino allo scandalo. Il corpo, che la Chiesa ha cercato
costantemente di espellere dalla liturgia e dalla sua estensione proces-
sionale, diventa di nuovo predominante, al punto da frantumare la
sacralità del rituale. Ogni parte della croce nell’immagine di sfondo
viene distorta pornograficamente (Fig. ); la testa di Gesù è sensual-
mente abbracciata da una donna con il volto della Maddalena, mentre
il crocifisso è trasformato in strumento di pratiche sessuali: circondato
da rossetti, nascosto in un paio di slip, usato come attrezzo di sodomia,
o persino come tacco a spillo.
Altre opere di Santos manifestano la stessa tendenza a mescolare
l’immaginario della religiosità popolare cattolica, quello della porno-
grafia, e quello dell’erotismo sadomasochista, la cui origine l’artista
rintraccia nella sua propria educazione musicale. Nell’installazione
grafica La polpa de Santa Percinia de Claviconia, creata nel , i chio-
di della crocifissione diventano notazioni di una partitura musicale,
oppure crocifiggono le mani dell’artista al pentagramma.
L’opera di Santos Ricardo i Elena offre l’interpretazione più compiu-
ta della religiosità popolare cattolica, e specialmente delle processioni
religiose. Si tratta di una pièce complessa, che adotta l’insieme dei
dispositivi espressivi creati dall’artista lungo tutta la carriera al fine di
raccontarne in chiave epica il milieu familiare (“Ricardo” e “Elena”
essendo i nomi dei genitori di Santos) attraverso una schiera variegata
di parole, suoni, colori, forme, e invenzioni sceniche. La dimensione
religiosa gioca un ruolo essenziale in questo universo familiare, che
Santos sceglie di evocare in latino, la lingua della Chiesa Cattolica.
Tuttavia, il latino di Santos non è quello di Cicerone, e neppure quello
di Tommaso, ma un latino maccheronico che egli usa per descrivere
le trivialità della vita quotidiana. Per esempio, la seconda sezione del-
l’opera contiene un assolo assai drammatico di Elena, nel quale ella si
rivolge al marito Ricardo come segue:

Ricarde, prandium confectum est jam. Ricarde, multum deficit ad finien-


dum? Ricarde, circiter hora sexta est. Ricarde, moram faciebis valde? Ricarde,
 Massimo Leone

Figura . Immagine usata nella performance Caligaverot, di Carles Santos.

prandium frigescit. Ricarde, volo loqui telefonice cum Barcinone. Ricarde,


accede in tuorum parentium pharmaciam [. . . ] .

La sequenza successiva evoca la partecipazione di Carles Santos e


dei suoi genitori ai rituali della Semana Santa catalana attraverso una
parodia iperbolica dei suoni, dei gesti, e dei movimenti processionali.
. “Ricardo, la cena è pronta. Ricardo, hai finito o no? Ricardo, sono quasi le due.
Ricardo, quando tempo ti ci vuole? Ricardo, la cena si sta raffreddando. Ricardo, voglio
telefonare a Barcellona. Ricardo, passa dalla farmacia dei tuoi genitori.”
Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose 

La sequenza esemplifica perfettamente l’idea che quando il teatro


contemporaneo s’impadronisce delle forme espressive della religiosità
popolare cattolica non fa che intensificare i meccanismi semiotici che
già sovvertono l’ordine sensoriale della liturgia nella struttura percet-
tiva delle processioni religiose: la giustapposizione poli–sensoriale —
senza né sintesi né sinestesia — di mezzi espressivi disparati, lo sparpa-
gliamento del senso nel caos blasfemo, e soprattutto la predominanza
del corpo sullo spirito. A conferma di tale interpretazione, alla fine
della pseudo–processione messa in scena da Santos, una campana — lo
strumento che la Chiesa ha adottato al fine di comunicare gli elementi
più importanti della struttura della liturgia anche all’ambiente profa-
no al di fuori del tempio — è sostituita da due corpi, quelli di Ricardo
ed Elena, i quali oscillano sul palco vuoto, proprio come le campane
umane di Castielfabib. L’ambiente sacro del tempio estende la sua
presenza al di fuori delle proprie frontiere nell’ambiente profano del
focolare domestico catalano, ma è simultaneamente “profanato” dal
corpo umano, da una sovversione dei principi semiotici della litur-
gia processionale che l’arte contemporanea anticlericale spinge fino
all’estremo.

. Conclusioni teoretiche

Un apologo finale introdurrà le conclusioni teoretiche dell’articolo.


Secondo antica tradizione, un’immagine raffigurante la Vergine fu
rinvenuta a Tepeyac, vicino Guadalupe, in Messico, nel . Prima
immagine miracolosa della Mesoamerica, diede luogo alla nascita e
allo sviluppo del culto della Nostra Signora di Guadalupe. Nel ,
una sontuosa processione religiosa fu organizzata al fine di trasportare
l’icona nella prima cappella mesoamericana costruita in onore della
Vergine. Per celebrare l’eccezionale evento, e secondo la liturgia ceri-
moniale per la traslazione delle reliquie del Cattolicesimo della prima
modernità, i nuovi cristiani della Mesoamerica offrirono alla vergine
uno spettacolo di mitotes, le loro danze rituali tradizionali, simulando
una battaglia tra le popolazioni locali rivali degli Aztechi e dei Chichi-
meca. I capi indossavano vestiti cerimoniali mentre le armate azteche
— i “giaguari” e le “aquile” — sfoggiavano costumi di piume. Essi
presero a danzare in cerchio di fronte alla chiesa, accompagnati dai
 Massimo Leone

canti degli anziani e dal ritmo di due tipi di tamburi. Improvvisamente,


un incidente sconvolse l’armonia della processione: uno dei danzatori
venne accidentalmente ferito da una freccia. Trasportato agonizzante
di fronte a un’icona della Vergine, già situata nella nuova cappella,
guarì miracolosamente.
Una delle immagini più eleganti dell’arte coloniale mesoamerica-
na, eseguita da un pittore anonimo dopo il , narra visivamente
l’incidente e il miracolo (Brown , p. ) (Fig. ).

Figura . Traslazione dell’immagine della Vergine della Guadalupe nella sua prima
cappella e miracolo, anonimo, , olio su tela, cm.  x , collezione Museo de
la Basílica de Guadalupe.

Questo dipinto, in cui l’architettura del nuovo tempio separa net-


tamente il tempo narrativo presente della grazia e quello passato
dell’incidente, sintetizza perfettamente la relazione tra, da un lato,
l’ambiente aperto della religiosità popolare e la sua relazione con le
tradizioni pre–cristiane — uno spazio in cui il rituale processionale
si volge pericolosamente in ludico mimetismo della guerra — e, dal-
l’altro lato, l’ambiente chiuso della liturgia. Quando la processione
trasporta l’immagine santa al di fuori della sua collocazione originale,
le forme non convenzionali e poli–sensoriali adottate per comunicare
la relazione tra il simulacro della trascendenza e l’ambiente profano
che circonda il tempio scatenano il sovvertimento della liturgia e il
riemergere violento di una frontiera tra il sacro e il profano, una fron-
tiera che si manifesta sotto il sembiante dell’incidente e della morte.
Viceversa, è solo nell’ambiente sacro della cappella, dove le tradizioni
popolari e la loro tendenza poli–sensoriale sono sostituiti dall’unità,
Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose 

dall’ordine, e dalla gerarchia della liturgia, incarnata dal personaggio


ieratico del vescovo, che un miracolo — irruzione del sacro nel mondo
profano — può restaurare la perfezione della trascendenza eliminando
gli effetti dell’incidente.
Data l’opposizione tra un ambiente sacro di appartenenza e uno
profano, la quale determina una frontiera che si materializza attra-
verso diversi dispositivi semiotici (per esempio, nel Cristianesimo,
il perimetro murale di una Chiesa), le processioni religiose opera-
no come rituali che addomesticano sia l’intensità della transizione
che l’estensione della distanza caratterizzanti il passaggio tra questi
due ambienti . Se la comunità religiosa si considera come il sog-
getto dinamico di questo passaggio, le processioni religiose possono
essere interpretate come strategie retoriche che, attraverso le sum-
menzionate dinamiche semiotiche di sinestesia sensoriale e gerarchia
logocentrica, veicolano l’idea che la comunità religiosa è capace di
estendere il suo ambiente di appartenenza al di fuori della frontiera
del tempio, e che questa frontiera è in effetti illusoria: quando il simu-
lacro della trascendenza è trasportato attraverso le strade del villaggio,
il villaggio intero diviene il suo tempio.
Tuttavia, poiché il macchinario semiotico della liturgia — a causa
della moltiplicazione e della personificazione delle agentività — non
è in grado di controllare la struttura percettiva dei rituali al di fuori
dell’ambiente chiuso del tempio in modo altrettanto efficace che al
suo interno , incidenti si verificano sotto forma di sovvertimento più

. Sarebbe interessante costruire un parallelo sistematico fra l’espansione della gerar-
chia liturgica fuori dal tempio e quella della gerarchia del potere fuori dal palazzo. Marin
() esplora già questa possibilità, con consueta maestria. La diluizione liturgica del sacro
e quella del potere nella loro traslazione al di fuori dei confini che ne garantiscono la densità
dovrebbero poi essere considerate anche nei loro multipli intrecci (in molte processioni
religiose del Meridione d’Italia, per esempio, i fedeli si contendono il primato religioso e
politico della vicinanza al simulacro del sacro/santo appendendovi un numero crescente
di banconote), ma senza pur tuttavia scadere nel meccanicismo di certe letture marxiste
del flusso processionale, eccessivamente riduttive (Di Nola ).
. Moltiplicazione e personificazione delle agentività non sono gli unici fattori a de-
terminare la decostruzione della liturgia, ma sono forse i principali. A essi si aggiunge
senz’altro la complessità intrinseca di numerosi rituali processionali. Di fondo vi è co-
munque la necessità che la manifestazione immanente del sacro sia mantenuta a un certo
livello di “densità” grazie alla sua “compressione” entro confini ristretti e ben delimitati. La
“decompressione” generata dal movimento processionale ingenera sovente una “diluizione”
del sacro e la sua conseguente contaminazione in incidenti liturgici di vario calibro.
 Massimo Leone

o meno drastico sia della sinestesia che della gerarchia logocentrica ,


le quali finiscono con l’essere rimpiazzate dalle opposte dinamiche
semiotiche della poli–sensorialità e del primato del corpo. Non solo
riappare la frontiera tra l’ambiente sacro e quello profano, volgendo
l’appartenenza sedentaria dei fedeli in straniamento nomadico, ma la
strategia retorica di tolleranza e acclimatazione (il sacro si appropria
del profano) è sostituita, perlomeno dal punto di vista della comunità
religiosa in quanto soggetto dinamico, da un’opposta strategia retorica
di invasione ed esilio (il profano si appropria del sacro). Il simulacro
della trascendenza, il quale era stato trasportato al di fuori del tempio
al fine di sacralizzarne l’intorno, viene da questo profanato, perdendosi
in un ambiente alieno.
In altre parole, la traslazione del sacro si volge nella sua trasgressio-
ne, secondo una dinamica fenomenologica e semiotica che è evidente,
per esempio, nel modo in cui i rituali religiosi diventano routine ludi-
che, sia attraverso il ri–emergere dell’idea di senso come alternativa
sia attraverso la de–spiritualizzazione del corpo; questa, come è chia-
ramente indicato dalle parodie artistiche, fuga la sacralità dei rituali e
la loro efficacia simbolica .
La traslazione del simulacro della trascendenza rivela il carattere
non emendabile della frontiera che la separa dall’immanenza.

. Ovviamente gli incidenti non mancano anche nella liturgia all’interno del tempio,
eppure essi hanno una valenza semantica diversa, inessenziale e contingente, in quanto
immediatamente assorbiti dall’assenza di quella dimensione ludico–spettacolare che carat-
terizza, invece, ogni rituale processionale. Bisognerebbe comunque approfondire la ricerca
sulle dinamiche “riparatorie” che la liturgia prevede esplicitamente in caso d’incidente,
possibilmente in un’ottica comparativa (si sospetta infatti che le culture religiose abbiano
modi molto diversi di trattare gli “incidenti rituali”).
. Due direzioni andrebbero esplorate per completare e precisare la fenomenologia
in chiave semiotica dei rituali processionali: da un lato, sottolineare che il punto di vista
adottato da questo articolo, quello di una liturgia decostruita nella sua esportazione fuori
dal tempio, è in un certo senso arbitrario, nel senso che si potrebbe invece adottare il punto
di vista, tipico di molta antropologia della festa, di una liturgia che si costruisce proprio
irretendo le pulsioni eslegi che esplodono invece nella festa o nella processione. In realtà i
due movimenti di costruzione e decostruzione liturgica andrebbero analizzati nella loro
continua tensione dialettica, sia storica che semiotica.
Lo spazio d’esperienza delle processioni religiose 

Riferimenti bibliografici

A I N.A. (a cura di) () Rito, música y escena en Semana
Santa, Centro de Estudios y Actividades Culturales, Madrid.
A L. () Teatro e spettacolo nel Medioevo, Laterza, Roma–Bari.
A K. () “Introduction: the Moving Subjects of Processional Per-
formance”, in K. Ashley e W. Husken (a cura di), Moving Subjects: Pro-
cessional Performance in the Middle Ages and the Renaissance, Amsterdam,
Rodopi, –.
A K. e W. H, W. (a cura di) () Moving Subjects: Processional
Performance in the Middle Ages and the Renaissance, Amsterdam, Rodopi.
B A. (a cura di) () Dynamiques visuelles, numero monografico di
“Nouveaux Actes Sémiotiques”, –, PULIM, Limoges.
B C. e M. D N (a cura di) () Festa: antropologia e semio-
tica: relazioni presentate al Convegno di studi Forme e pratiche della festa:
Montecatini Terme, – ottobre , Guaraldi, Firenze.
B J. (a cura di) () Los Siglos de Oro en los virreinatos de America:
–, Sociedad Estatal para